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MEMORIA CONCILIARE: LE SCELTE DEL VATICANO II MEMORIA CONCILIARE: LE SCELTE DEL VATICANO II
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a cura di Maurizio Aliotta
SYNAXIS Quadrimestrale dello Studio Teologico S. Paolo Catania Comitato scientifico: Francesco Aleo, Maurizio Aliotta, Francesco Brancato, Giuseppe Buccellato, Nunzio Capizzi, Attilio Gangemi, G. Alberto Neglia, Giuseppe Schillaci, Mario Torcivia, Gaetano Zito Comitato di redazione: Francesco Aleo, Nunzio Capizzi, Guglielmo Giombanco, Rosario Gisana, Salvatore Magrì, Vittorio Rocca, Giuseppe Schillaci, Mario Torcivia, Gaetano Zito
QUADERNI DI SYNAXIS
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QUADERNI DI SYNAXIS NUMERO SPECIALE 3
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EDIZIONI GRAFISER TROINA
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
Direttore: Maurizio Aliotta Direttore responsabile: Salvatore Consoli Coordinatore di redazione: Francesco Aleo Segretario di redazione: Giuseppe Spedalieri
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QUADERNI DI SYNAXIS NUMERO SPECIALE 3
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In copertina: foto del Concilio Vaticano II
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MEMORIA CONCILIARE: LE SCELTE DEL VATICANO II Atti dei Seminari interdisciplinari svolti presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania l’1 aprile 2011 e il 16 febbraio 2012
a cura di Maurizio Aliotta
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO – CATANIA EDIZIONI GRAFISER – TROINA 2014
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SOMMARIO
INTRODUZIONE .
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PER UN’ANTROPOLOGIA CRITICA: APPUNTI (Giuseppe Ruggieri) . . . . . . . . 19 La comprensione teologica della recezione del Concilio Vaticano II va misurata sulla comprensione del concilio stesso. È indubbio che vi è stata la ripresa di una concezione della chiesa più tradizionale, centrata sulla liturgia come azione comune dell’assemblea, legata alla tradizione patristica con una presa di distanza critica dall’ecclesiologia controversista e societaria posttridentina Inoltre, un altro tratto caratteristico del concilio fu il nuovo rapporto con la storia degli uomini, anzi con la storia del nostro tempo. The theological understanding of the Vatican Council II is measured by the understanding of this council. Certainly, today there is a revival of an idea of church most traditional. An idea of church centred on the liturgy as assembly’s common action, connected with patristic tradition and critically far from the controversialist and corporate posttridentine ecclesiology. An other council’s peculiarity was the new relation with human history, rather, with the history of our age. LA RICEZIONE ECCLESIOLOGICA DELLA LUMEN GENTIUM (Hervé Legrand) . . . . . . . . 45 Secondo l’A., numerose valutazioni sul Concilio Vaticano II, anche di teologi “autorizzati”, interpretano i testi conciliari senza averli letti secondo i criteri metodologici e dottrinali richiesti. Così nella recezione di LG, non sono considerate le correzioni di traiettoria inerenti alla sua struttura d’enunciazione, si minimizza l’annotazione, e talora si vuol determinare un senso letterale senza riferirsi all’expansio modorum. Notiamo inoltre che questa recezione, non può essere dissociata da quella dei decreti di cui LG ha determinato l’orientamento, con degli effetti importanti (ecumenismo, dialogo con gli Ebrei e le religioni non cristiane) o modesti (vita religiosa, sacerdoti e laicato). La lettura attenta del progetto centrale di LG [correggere gli orientamenti emersi dal Concilio Vaticano I con la rivalutazione dell’Episcopato e delle Chiese
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locali], induce a pensare che LG non ha ricevuto una piena recezione nel CIC e nelle misure disciplinari degli anni 1992- 2003. Tranne in qualche dettaglio, l’ecclesiologia universalista preconciliare è ripresa, e talora rinforzata, come nello statuto attuale del vescovo diocesano. Many evaluations about Vatican Council II of “only personnel” theologians interpretes the counciliar texts without a reading on the basis of methodological and doctrinal required. Thus, in reception of LG isn’t important his statement’s structure, his annotation and sometimes his literal meaning not corresponds with expansio modorum. This reception cannot be dissociate by other counciliar texts, dependent on LG (about ecumenism, dialogue with Hebrews and not Christian religions, religious life, priests and lay state). A careful reading of LG’s core [revaluation of episcopacy and local church] suggests that LG wasn’t completely received in CIC and in rules on the years 1992-2003. Except some details, is taken again the universalist pre-council ecclesiology and sometimes, is strengthned, as in actual statement of bishop.
Seminario interdisciplinare dell’1 aprile 2011 “Nodi emergenti di alcuni temi della costituzione conciliare Lumen Gentium” NODI DELL’AUTORITÀ NELLA CHIESA (Francesco Conigliaro) . . .
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I membri della comunità ecclesiale sono anche membri della comunità politica. Questo fatto ci fa scoprire le forti analogie che esistono tra le due comunità sia dal punto di vista delle regole che dal punto di vista dei problemi della convivenza. L’argomento viene svolto su uno sfondo così delineato: i contributi del Vaticano II sull’autorità nella Chiesa; lo stile di Gesù di Nazareth, che con la sua incarnazione kenotica, con la sua morte e con la sua risurrezione, delinea lo stile della vita ecclesiale; alcuni interrogativi seri, quale, ad esempio, quello concernente i diritti dei christifideles; le esigenze dei fedeli, come, ad esempio, quella che riguarda il nesso inscindibile tra “principi” e “ consenso”. Il problema dell’autorità nella Chiesa oggi assume una particolare configurazione perché il popolo di Dio, abituato a rifiutare ogni forma di arroganza del potere politico, non è disposto a tollerare nella comunità ecclesiale l’uso inflazionato e nominalistico di termini, di per sé gravidi di senso, come “comunione” e “servizio”. Vengono considerati alcuni fenomeni di potere nella chiesa: l’esistenza di anti-carismi, l’eccesso di istituzionalizzazione, l’imporsi del centro sulla periferia, la tensione irrisolta tra verità proposizionale e verità esistenziale. Quanto agli anti-carismi, l’attenzione è rivolta a quanto segue: il percorso ecclesiastico al potere, il ricorso a strategie di immunizzazione, l’identificazione tra legittimità e legittimazione, la ripresentazione di problemi di potere e di convivenza come problemi di verità e di fede. Alla domanda circa la possibilità della riconfigurazione del potere nella Chiesa, si risponde proponendo il ricorso a tre mezzi:
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l’“ironia” pascaliana, quale dispositivo per smascherare il “re nudo” del potere; il “consenso”, volto all’accettazione dei ruoli e delle decisioni dei leaders, anche perché senza “riconoscimento” la legittimità è problematica; la riforma istituzionale, come strumento per superare le varie forme di “indurimento istituzionale” che turbano la convivenza ecclesiale. The members of the ecclesial community are also members of the political community. This fact allows us to discover the strong similarities that exist between the two communities and from the point of view of the rules from the point of view of the problems of coexistence. The argument is carried on a background so outlined: the contributions of Vatican II on authority in the Church; the style of Jesus of Nazareth, who with his kenotic incarnation, with his death and his resurrection, outlines the style of church life; some serious questions, such as, for example, that concerning the rights of christifideles; the needs of the faithful, as, for example, the one about the inseparable link between “principles” and “consent”. The problem of authority in the Church today has a particular configuration because the people of God, used to reject any form of arrogance of political power, is not willing to tolerate in the ecclesial community use inflated and nominalistic terms, in itself pregnant sense, as “communion” and “service”. They are considered some of the phenomena of power in the church: the existence of anti-charisma, the excess of institutionalization, the rise of the center on the outskirts, the unresolved tension between propositional truth and existential truth. As for the anti-charisma, the focus is on the following: the path to the ecclesiastical power, the use of immunization strategies, the identification between legality and legitimacy, the resubmission of the problems of power and coexistence as problems of truth and of faith. The question about the possibility of reconfiguration of power in the Church, is answered by proposing the use of three mediums: “Pascal’s irony”, which device for exposing the “naked king” of power; “consent”, face to the acceptance of roles and decisions of leaders, this is because without “recognition” legitimacy is problematic; institutional reform, as a tool to overcome various forms of “institutional hardening” that disturb the coexistence Church. I LAICI NELLA CHIESA (Salvatore Millesoli) . . . . . . . . 141 Il contributo tenta di affrontare la problematica legata alla figura e al ruolo dei “laici” nella Chiesa e pone a grandi linee lo Status Questionis sulla figura del laico nella Chiesa nel Concilio Vaticano II, a partire dalla genesi della Costituzione dogmatica Lumen Gentium, soffermandosi in particolare sul Capitolo IV. Con attenzione ai punti nodali della odierna discussione teologico-pastorale, si intende rilevare la figura da protagonista del laico nella Chiesa e l’urgenza di un appropriato itinerario spirituale. The contribution attempts to deal with the problems linked to the figure and the role of the “laity” in the Church and puts roughly “Status questionis” on the figure of the
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laity in the Church in the Second Vatican Council, from the genesis of the Dogmatic Constitution Lumen Gentium, dwelling particular Chapter IV. With attention to the key points of today’s discussion pastoral-theological means, to detect the leading figure of the laity in the Church and the urgency of an appropriate spiritual journey. LA PROSPETTIVA CONCILIARE DELLA VITA CONSACRATA. Verso una nuova comprensione teologico-spirituale (Egidio Palumbo o.carm) . . . . . . . 165 Il Concilio Vaticano II tratta della vita consacrata sia nel cap. VI di Lumen gentium, in prospettiva teologica, sia nel decreto Perfectae caritatis, in prospettiva teologicopastorale al fine di favorire un adeguato rinnovamento. Per comprendere i “semi” di novità emergenti nel cap. VI di Lumen gentium, nonostante i limiti di una visione perfezionista della vita consacrata ancora ivi presenti, è necessario leggere questo capitolo integrandolo con Perfectae caritatis e alla luce dei mutamenti teologici suscitati nel post-concilio. Soffermandosi solo su alcune tematiche fondamentali, il presente studio evidenzia come la teologia della vita consacrata, a partire dal Concilio, abbia maturato una prospettiva teologica più in sintonia con lo spirito del Concilio e con il contesto socio-culturale emergente, garantendo alla vita consacrata uno statuto ecclesiologico più coerente, riconoscendo la sua dimensione carismatica e di conseguenza, la sua particolare sequela Christi e il suo essere segno profetico nella Chiesa e nel mondo. The Vatican Council II deals with the consecrated life, both in the sixth chapter of “Lumen gentium”, in a theological perspective, and in the decree “Perfectae Caritatis”, in a theological-pastoral perspective, with the purpose to promote a suitable renewal. If we want to understand the “seeds” of rising innovations in the sixth chapter of “Lumen gentium” despite the perfectionist idea of consecrated life, you anticipate there, it is still necessary to read this chapter integrating it with “Perfectae Caritatis” and in light of provoked theological changes in the post-council. Focusing only on some fundamental issues, this study anticipates evidences like the theology of the consecrated life, since the The Vatican Council II, has gained a theological perspective more in tune with the spirit of The Vatican Council II and with the emerged socio-cultural context, ensuring the consecrated life a more coherent ecclesiological charter recognizing its charismatic dimension and, consequently, its particular “sequela Christi” and its being a prophetic sign in the Church and in the world. GESÙ E LA CHIESA (Nunzio Capizzi) . . . . . . . . 183 Il contributo, nel dialogo con l'esegeta Thomas Söding, propone una lettura teologico-fondamentale della relazione tra Gesù e la Chiesa, sulla base della predicazione del Regno di Dio, fatta da Gesù di Nazaret. Prendendo le mosse dai numeri 3 e 5 della costituzione Lumen gentium, le riflessioni si concentrano su un esame di
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coscienza che, ultimamente, verte sulla fede, la speranza e la carità. Le tre virtù, infatti, costituiscono il nucleo per una verifica che il popolo del Regno di Dio è continuamente chiamato a fare, per non correre il rischio di anteporre altro al Fondamento posto da Dio (cfr. 1Cor 3,11-15). The present contribution, in dialogue with the exegete Thomas Söding, suggests a fundamental theological reading of the connection between Jesus and Church on the basis of the Kingdom’s preaching made by Jesus of Nazareth. Beginning from LG 3 and 5, the considerations look at the examination of one’ conscience that recently concern Faith, Hope and Charity. The three virtues, in fact, are the core for an exam made necessarily by the God’s people, because exists alone a Foundation laid by God (cfr. 1Cor 3,11-15). MARIA NEL MISTERO DI CRISTO E DELLA CHIESA. IL CAPITOLO VIII DELLA LUMEN GENTIUM (Dionisio Candido) . . . . . .
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Il presente articolo ha come oggetto il cap. VIII della Costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano II, dedicato alla Vergine Madre di Dio. Erede della riflessione teologica del suo tempo, il Concilio ha saputo offrire una prospettiva nuova al discorso su Maria, considerata in rapporto al Cristo ma anche in relazione alla Chiesa. Pertanto, dopo uno sguardo sulla mariologia pre-conciliare, si indicano i tratti salienti dei nn. 52-69 di Lumen gentium. Infine, si indicano alcuni sentieri che la mariologia post-conciliare ha già percorso o è ancora chiamata a percorrere. The study focuses on chapter VIII of the Dogmatic Constitution Lumen Gentium, that Second Vatican Council devotes to the Virgin Mother of God. Heir to the theological reflection of its own time, the Council was able to express a new perspective on Mary, in relation not only with Christ but also with the Church. Therefore, after an overview on pre-conciliar Mariology, the article deals with the main points of Lumen gentium nn. 52-69. At last, it shows some of the paths that post-conciliar Mariology has already fulfilled or has still to accomplish. CHIESA LOCALE E CHIESA UNIVERSALE (Adolfo Longhitano) . . . . . . . 215 Nella diversa impostazione del tema “Chiesa locale – Chiesa universale” si è in parte concretizzata la “rivoluzione copernicana” ecclesiologica del Vaticano II. Il concilio si è limitato a offrire alcuni spunti con un linguaggio non sempre coerente; i teologi hanno elaborato una trattazione sistematica in un rapporto a volte dialettico con il magistero ecclesiastico. In the different formulation of the relation between the local Church and the universal Church, it has been partly put in concrete form the Copernican ecclesiolo-
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gical revolution of Vatican II. The Council just limited its offer to some hints with a not always consistent language; theologians have elaborated a systematic treatment in a sometimes dialectic relation with the ecclesiastical teaching. LE PROVOCAZIONI INASCOLTATE DELLA GAUDIUM ET SPES (Severino Dianich) . . . . . . . . 245 Soprattutto è l’impostazione teologica fondamentale della GS, con il suo superamento della dottrina della scolastica moderna del dualismo dei fini e il riconoscimento di una economia di grazia, che avvolge tutta la storia, che chiede ancora di essere assunta e costantemente rimeditata. Solo così la chiesa può trovare la via per potersi inserire, con atteggiamenti nuovi, dentro la società attuale pluralista, liberale e democraticamente governata. La chiesa in Italia mostra la fatica di dover rinunciare alla vecchia posizione di egemonia nella società, per collocarsi fra gli uomini nella posizione evangelicamente umile del dialogo e della collaborazione. Above all, the theological statement of GS, with the overcoming of modern scholastic doctrine, having the dualism of aims and the acknowledgement of a mercy’s economy, wraping all history, still requires to be assumed and remedited. Only thus, the church can find the way to stand into actual society liberal and democratic with pluralism and new attitudes. The church in Italy shows the trouble to give up the ancient egemony into society, to set among the men with evangelic dialogue and humble collaboration. “L’UOMO VIA FONDAMENTALE DELLA CHIESA” (RH 13) IL RAPPORTO CHIESA E MONDO SECONDO GAUDIUM ET SPES (Francesco Scanziani) . . . . . . . 257 Il contributo offre una ripresa panoramica del messaggio di Gaudium et spes per indagare le ragioni della Speranza del concilio nel rapporto “Chiesa e mondo” e le forme con cui viene testimoniata. Si torna così all’immagine di Chiesa e di mondo, frutto del rinnovamento conciliare (LG, in particolare) che dà fondamento teologico a quella rivoluzione copernicana nei confronti del mondo e che la costituzione pastorale declina come “dialogo, solidarietà, servizio”, sino alla reciprocità. L’ascolto di tale fonte può offrire nuovi stimoli e una bussola al cammino della Chiesa nel terzo millennio. This paper offers a panoramic view of the message of Gaudium et spes, in order to study the reasons of the hope of the Council in the relationship between Church and World, and the forms under which it is witnessed. So here is again the image of the Church and of the world as they arise from the conciliar renewal (LG in particular), which gives a theological basis to the Copernican revolution of the world and that the pastoral constitution defines as «dialogue, solidarity, service and even reciprocity». Listening to this research can give a new stimulus to the reflection of the Church during the 3th millennium.
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Seminario interdisciplinare del 16 febbraio 2012 “Nodi emergenti dei grandi temi della costituzione conciliare Gaudium et spes” SUL DIALOGO TRA CHIESA E MONDO CONTEMPORANEO (Francesco Conigliaro) . . . . . .
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Nel corso della storia ci sono stati momenti in cui la chiesa ha rifiutato di dare ospitalità alla modernità, come, ad esempio, al tempo del Syllabus di Pio IX e della Pascendi di Pio X. Eppure, essa è in grado di offrire una tale ospitalità, e ne è prova lo spirito che ha animato il Vaticano II. La più importante delle ragioni per concedere ospitalità alla modernità è Gesù di Nazareth, l’uomo-per-gli-altri, e cioè per il Padre, di cui è inviato e rivelatore, e per gli uomini e la creazione, di cui è compagno di viaggio e salvatore. Come il Maestro, la chiesa si mette accanto agli uomini per collaborare con loro nella fatica e nella gioia della ricerca. Tra chiesa e modernità ci sono tanti motivi di tensione, ed il primo consiste in una caratteristica peculiare dell’uomo contemporaneo, e cioè la grande esigenza di razionalità. Vengono proposti degli esempi di ambiti problematici nei quali la chiesa s’interroga circa l’opportunità di dare ospitalità alle istanze della modernità. Il primo è costituito dall’ecologia, e la chiesa ci riesce abbastanza bene. Altri esempi sono gli ambiti della verità, della natura, della persona e della storia. In essi le difficoltà dell’incontro e del dialogo sono molte e grandi. Dalla storia la chiesa impara che la verità, ricercata e difesa per se stessa e come valore originario, fatalmente dà vita a processi di intolleranza. Non per nulla san Paolo non ebbe alcuna esitazione nel conferire il primato alla carità (1Cor 13,13), che è anche criterio per verificare l’esistenza e la qualità del dialogo della chiesa con il mondo contemporaneo. Throughout history there have been times when the church refused to give hospitality to modernity, as, for example, at the time of the Syllabus of Pius IX and Pascendi of Pius X. Yet, it is able to offer such hospitality, and the proof is the spirit that animated the II Vatican. The most important reasons for granting hospitality to modernity is Jesus of Nazareth, the man-for-others, and that is because of the Father, of whom is sent, and revelator, and for men and creation, which is companion travel and savior. As the Master, the church puts alongside people to collaborate with them in effort and joy of research. Between church and modernity there are so many sources of tension, and the first is a characteristic feature of modern man, and that is the great need for rationality. Are proposed examples of problem areas in which the church is uncertain about the opportunity to offer hospitality to the demands of modernity. The first is from ecology, and the church succeeds quite well. Other examples are the areas of truth, the nature of the person and history. In the difficulties they encounter and dialogue are many and great. From history the church learns the truth, and sought to defend herself and as original value, inevitably gives rise to processes of intolerance. Not for nothing that St. Paul had no hesitation in giving primacy to
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charity (1 Cor 13,13), who is also the criterion to verify the existence and quality of the dialogue of the Church with the contemporary world. L’IMPIANTO BIBLICO DELLA GAUDIUM ET SPES (Carmelo Raspa) . . . . . . . . 315 L’impianto biblico della GS è sapientemente strutturato già nei suoi presupposti metodologici: la Scrittura è intesa come chiave di comprensione dell’uomo e del mondo, non come dicta probantia o assiomi da imporre. I passi biblici citati, specialmente la Lettera ai Romani, sono adotti perché si ritiene che essi rendano ragione del mistero dell’uomo e della complessità del mondo. The biblical outline of GS is cleverly structured already in its methodological assumptions: Scripture is seen as key to understanding man and the world, not as dicta probantia or axioms to be imposed. The biblical passages cited, especially the Letter to the Romans, have to adopt because it is believed that they explain of the mystery of man and the complexity of the world. UNA CHIESA POVERA PER IL MONDO CONTEMPORANEO. Gli esiti di una prospettiva nella Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II (Corrado Lorefice) . . . . . . . . 321 Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes del concilio Vaticano II troviamo traccia di un’esigenza sbocciata all’inizio dei lavori conciliari e cioè del rapporto della chiesa con i poveri e, conseguentemente, dello scottante capitolo del potere della chiesa e del suo essere povera nel mondo contemporaneo segnato profondamente da povertà endemiche e indotte. Tale accentuazione ha poi trovato la sua codificazione più nitida in Ad gentes 5 e Lumen gentium 8, gli unici testi del Vaticano II che riconoscono in forma esplicita la vocazione della Chiesa alla povertà sulle orme di Cristo. Qui la povertà, per usare un linguaggio caro a Dossetti, è un «trascendentale cristiano» che tocca e rivela il divino, «per cui tradire su questo punto è qualche cosa di più che mancare ad una responsabilità sociale, ma indubbiamente investe il problema della fede e della manifestazione di Dio nella storia, attraverso la Chiesa». The Pastoral Constitution Gaudium et spes of the Vatican II stresses immediately the need to focus its attention on the relationship between Church and poor men which is also related to the controversial theme about the power of the Church and its necessity to be poor in our contemporary world deeply marked by endemic and generated poverty. This emphasis, furthermore, founds its clearer codification in Ad gentes 5 and in Lumen gentium 8, only Vatican II’s texts that identify the Church’s vocation to poverty on footsteps of Jesus Christ. The poverty — as Dossetti loved to say — is a “Christian transcendental” able to reveal God, «whereby betray on this point is something more to fail to a social responsibility, undoubtedly it invests the problem of faith and of God’s revelation in history through the Church».
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DOPO LA GAUDIUM ET SPES È ANCORA POSSIBILE UNA DOTTRINA SOCIALE? (Piero Sapienza) . . . . . . . . 345 L'autore, superando le critiche mosse verso la Dottrina sociale della Chiesa dopo la Gaudium et spes, ne dimostra l'attualità e il valore per affrontare le sfide socio-politiche ed economiche provenienti dal mondo globalizzato. The author, overcoming the criticism towards the Social Doctrine of the Church after the “Gaudium et spes”, demonstrates the relevance and value to address the socio- political and economic challenges coming from the globalized world. IL DIALOGO INTERCULTURALE ALLA LUCE DI GAUDIUM ET SPES (Adriano Minardo) . . . . . . . . 363 Attraverso questo contributo si è delineato, nella prima parte, il fondamento dell’opportunità del dialogo tra fede e culture alla luce della Costituzione Pastorale Gaudium et spes; nella seconda parte, si sono esplicitati i campi semantici delle nuove categorie (inculturazione, interculturalità) che rimandano alla modalità con cui attuare questo dialogo. Si conclude sottolineando l’urgenza di un compito che faccia dell’incontro dialogico un segno permanente della presenza e della missione della Chiesa nel mondo. In the first part of this article, we have outlined the fundamental principle of opportunity for dialogue between faith and cultures in the Pastoral Constitution Gaudium et spes; in the second part, we have explained the meaning of new categories (inculturation, interculturality) referring to the manner of implementing this dialogue. At the end, we have emphasized the important task that makes dialogue a permanent sign of the Church’s presence and mission in the world. L’AMORE CONIUGALE: DALLA GAUDIUM ET SPES ALLA FAMILIARIS CONSORTIO (Salvatore Consoli) . . . . . . . . 391 La Gaudium et spes, collocandosi nella visione personalista, presenta gli atti sessuali come segno, espressione e rafforzamento dell’amore coniugale; nella stessa linea la Familiaris consortio vede in intima relazione l’amore e le espressioni corporee proprie della sessualità. La GS parla della fecondità come uno dei fini del matrimonio recuperandola come “procreazione”, cioè collaborazione al Dio della vita, e non semplicemente come “riproduzione”; la FC colloca la dignità della procreazione nel fatto che è frutto dell’atto coniugale e termine dell’amore sponsale. La fecondità coniugale per la GS consiste anche nell’essere «scuola» di umanità completa e di virtù sociali; la FC presenta il diritto-dovere educativo dei genitori quale partecipazione all’opera creatrice di Dio e insiste sulla fecondità sociale che porta all’ospitalità, all’affido, all’adozione e all’impegno per lo sviluppo di tutto l’uomo e di ogni uomo.
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Per la GS l’amore sacramentale, partecipazione all’amore sponsale di Cristo, ne diventa segno e imitazione; per la FC il sacramento, rendendo il matrimonio memoriale e profezia del rapporto sponsale e salvifico di Cristo, fonda e rende possibile la morale coniugale quale etica di amore e di donazione fino al sacrificio di sé. Nel contesto sacramentale la FC presenta la «chiesa domestica» e il compito educativo quale «ministero» come pure il matrimonio quale «vocazione» alla santità da realizzare vivendo in pienezza l’amore e addita i doveri coniugali quale «via» per la santificazione. Gaudium et spes, in accordance to the personalist view, presents sexual acts as a sign, expression and reinforcement of conjugal love; at the same way Familiaris Consortio sees love in close relationship with the body expressions which are typical of sexuality. GS defines fecundity as one of the aims of marriage, identifying it with “procreation” and then a form of collaboration with God, the Lord of life, and not only with a procedure of “reproduction”. FC founds the dignity of procreation just on the assumption that it is the fruit of the conjugal act and objective of the marital love. According to GS, conjugal fecundity also consists in being a “school” of whole humanity and social virtues; at the same way FC speaks about the formative rightobligation of parents, who take part in the divine creative work and, it focuses on the idea of social fecundity flowing into hospitality, foster care, adoption and into the engagement for the development of the human being and of each human being. GS defines sacramental love as a participation in Christ’s marital love, of which it becomes a sign and imitation; FC maintains that the sacrament, as it makes marriage a memorial and prophecy of Christ’s marital and saving relationship, founds and makes conjugal morality possible as an ethic of love and donation until the self sacrifice. In the sacramental context FC introduces the “domestic church” and its formative task, seen as a “minister”, as well as marriage is defined as a “vocation” to holiness, which is possible through a full love and, conjugal duties are shown as a “way” to sanctification. INDICE
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INTRODUZIONE
Gli articoli raccolti nel presente volume sono i contributi che i docenti dello Studio Teologico S. Paolo hanno offerto ai loro studenti in occasione dei seminari interdisciplinari che scandiscono annualmente l’itinerario formativo del ciclo istituzionale approfondendo questioni di particolare attuale rilevanza. In previsione del cinquantesimo anniversario della conclusione del concilio Vaticano II sembrò naturale dedicare un quadriennio di ricerche sulle quattro Costituzioni che in concilio furono promulgate e che hanno segnato la vita della Chiesa in questo quarto di secolo che ormai volge al suo termine. Ora si vuole mettere a disposizione di tutti coloro che avranno la ventura di prendere in mano questo libro il frutto di quella ricerca precisamente sulla Lumen gentium e la Gaudium et spes (rispettivamente il seminario del 2011 e il seminario del 2012), a cui seguiranno in un successivo numero speciale della nostra rivista Sacrosanctum concilium e Dei verbum. Gli articoli sulla Lumen gentium toccano aspetti particolari della Costituzione, ma non sono semplici commentari, piuttosto mettono in evidenza i nodi che furono affrontati e talvolta sciolti, talaltra no, così che si collocano all’interno delle prospettive aperte dal concilio. Si può concordare sul fatto che il Vaticano II fu un «Concilio di aggiornamento verso il futuro piuttosto che di messa a punto dell’esistente. Concilio — infine — che ha espresso indicazioni per la vita del cristianesimo, ma non ha dettato norme tassative»1. D’altronde lo stesso Giovanni XXIII aveva parlato di “balzo in avanti”, usando così
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G. ALBERIGO, Il Vaticano II e la sua storia, in Concilium 50 (2005) 4, 30.
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Introduzione
una immagine che orienta al futuro non certo a fermare lo sguardo in modo nostalgico al passato che non c’è più. Nel tempo trascorso dallo svolgimento dei seminari ad oggi avvenimenti cruciali per la vita della Chiesa cattolica sono accaduti: la rinuncia di Benedetto XVI e l’elezione di Francesco hanno segnato in modo (forse) irreversibile il cammino ecclesiale. Si ha l’impressione di una ripresa del concilio nelle sue motivazioni profonde e si intravvede una volontà di portare a compimento il rinnovamento da esso avviato e finora incompiuto. Parole e gesti di papa Francesco sembrano quasi confermare quanto nelle relazioni veniva in qualche modo auspicato. Senza nessuna presunzione potremmo dire che il ritardo della pubblicazione è una felix culpa. Gli avvenimenti imprevisti ci confortano nello sforzo di contribuire, seppure nella modestia delle nostre forze, a riandare alla freschezza del Vangelo di Gesù Cristo, unica via per un rinnovamento vero e una fedeltà al suo Signore e Maestro della Chiesa. In una prima sezione sono raccolti i contributi sulla Lumen gentium, sono introdotti da Capizzi che, ripercorrendo le considerazioni di T. Söding, propone una riflessione sul rapporto tra Gesù e la Chiesa, alla luce di LG I. Si evidenzia il rapporto costitutivo tra Gesù e la Chiesa e quindi la necessità di un “esame di coscienza” di quest’ultima in relazione al suo fondamento. Nella prospettiva dell’esame di coscienza si può leggere la relazione di Conigliaro. Con la sua relazione sull’esercizio del potere nella Chiesa ci pone di fronte al rischio sempre presente di “mondanizzare” la missione della Chiesa in uno degli aspetti più seducenti della vicenda umana: l’uso del potere. La concezione dell’esercizio del potere come “autorità” a servizio della comunità ecclesiale, come servizio tout court all’interno del popolo di Dio si scontra evidentemente con le prassi non sempre buone. Suppone una ecclesiologia che superi la visione della Chiesa divisa in “superiori” e “sudditi”. In questa direzione si muovono i contributi che sviluppano la riflessione sui fedeli laici (Millesoli) e sui religiosi (Palumbo). Chiudono questa prima sezione i contributi sul rapporto tra Chiesa locale e Chiesa universale (Longhitano) e su Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa (Candido). Nella seconda sezione vengono presentati gli articoli sulla Gaudium et spes. Inevitabilmente essi si intrecciano con quelli della Lumen
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Introduzione
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gentium. A mo’ di introduzione il saggio di Conigliaro delinea il contesto culturale e teologico entro cui si inserisce il proposito del concilio di dialogare con il mondo contemporaneo, con la modernità. Segue il breve articolo di Raspa, che descrive l’impianto biblico della Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Si succedono poi quattro interventi che prendono in considerazione le “quattro questioni urgenti” affrontate dalla seconda parte della Costituzione, anche in questo caso gli autori non si limitano ad un mero commento del testo conciliare, ma ne scrutano i nodi problematici e gli sviluppi possibili. In primo piano si colloca il contributo sugli esiti attuali della prospettiva di Chiesa povera per il mondo contemporaneo accennata nella Gaudium et spes, che non seppe sviluppare appieno quanto affermato in LG 8 (Lorefice). Seguono nell’ordine un articolo sulle vicende che hanno portato da una apparente negazione conciliare della necessità della dottrina sociale della Chiesa alla sua ridefinizione (Sapienza); un contributo sullo sviluppo dell’affermazione della necessità del dialogo con la pluralità culturale che contraddistingue la nostra epoca non come possibilità teorica, ma come dato di fatto concretamente sperimentabile analizza le tappe che portano a preferire la categoria di dialogo interculturale a quella di inculturazione per esprimere correttamente il rapporto tra fede e culture (Minardo); l’ultimo contributo descrive lo sviluppo della dottrina sul matrimonio nel suo passaggio dalla Gaudium et spes alla Familiaris consortio (Consoli). Le due sezioni sono precedute rispettivamente da due contributi frutto di diversi momenti della vita dello Studio Teologico S. Paolo anch’essi dedicati ad una ripresa dell’evento conciliare. La prima sezione è preceduta da un testo di Giuseppe Ruggieri e uno di Hervé Legrand. Ruggieri si interroga sulla recezione del Concilio Vaticano II, che si misura sulla stessa comprensione del concilio. Un tratto caratteristico del concilio fu il nuovo rapporto con la storia del nostro tempo. Questa apertura conciliare alla storia non ha trovato però, secondo l’autore, negli anni del dopo concilio un adeguato sviluppo capace di considerarne le conseguenze antropologiche. La conclusione a cui si giunge è l’auspicio di una teologia capace di ricondurre la Chiesa ad avere sull’umanità lo stesso sguardo compassionevole di Gesù. Anche il contributo di Hervé Legrand verte sulla recezione, in particolare
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Introduzione
della Lumen gentium. La verifica di tale recezione (felice) è condotta innanzi tutto attraverso quella dei documenti conciliari che l’esplicitano; vi è poi la recezione (infelice) nei documenti canonici e nei testi di tipo disciplinare che la giustificano; si considerano poi una serie di documenti che hanno posto dei limiti alla rivalorizzazione dell’episcopato e delle Chiese locali in seguito alla Communionis Notio (1992). Infine si sottolinea la sottovalutazione dello statuto dell’episcopato e delle conferenze episcopali in Apostolos suos (1998). La seconda sezione è preceduta dai contributi di Severino Dianich e Francesco Scanziani. Dianich riflette sulle provocazioni inascoltate della Gaudium et spes. La disamina dell’autore individua come prima provocazione inascoltata il superamento della dottrina, tipica della scolastica moderna, del dualismo dei fini. Percorrendo il cammino iniziato con Surnaturel del P. De Lubac 1947, con Uditori della parola di K. Rahner 1941 e Abbattere i bastioni di Von Balthasar 1952 Dianich mostra come da “questo nuovo quadro dottrinale il concilio derivava il bisogno di una svolta nell’atteggiamento della prassi ecclesiale: dalle discussioni sul potere diretto e indiretto della Chiesa sulla società civile si passava alla ricerca delle virtualità, dei rapporti, delle presenze di grazia che la storia come tale è in grado di rivelare nei confronti della storia della salvezza”. Scanziani considera il rapporto Chiesa e mondo secondo Gaudium et spes. Anche in questo contributo si sottolinea l’atteggiamento prevalente del concilio come apertura al mondo, con il passaggio dalla separazione alla condivisione col mondo; dalla distanza al dialogo. “Si trattò di speranza o illusione, di ingenuità o realismo?”. Nell’immediato dopo concilio non mancarono gli accenti critici a questo proposito. L’autore ritiene che le indicazioni di metodo offerte da Gaudium et spes non hanno perso di attualità. In definitiva la Gaudium et spes è il risultato del cammino intrapreso con Lumen gentium con cui i Padri avevano recuperato la visione misterica di Chiesa, intesa come segno e strumento della comunione di Dio con gli uomini e di tutti gli uomini tra di loro. Maurizio Aliotta2 2
Preside dello Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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PER UN’ANTROPOLOGIA CRITICA: APPUNTI*
GIUSEPPE RUGGIERI**
Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo. (Sal 89, 10)
E due versetti dopo il salmista continua: insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo la saggezza del cuore. I miei anni sono stati e continuano a essere pieni di fatica, ma per fortuna sul dolore ha prevalso la gioia. Ma, nonostante questo disaccordo col salmista, volentieri faccio mia la sua preghiera. Anch’io vorrei avere in dono dal Signore il discernimento dei giorni passati e di quelli che mi restano. A 70 anni compiuti, di cui 51 passati sulla teologia, cioè sul sapere che ha sempre accompagnato l’esperienza credente dei cristiani, da Paolo fino ad oggi, la preghiera si concretizza in una domanda: quali sono i giorni della teologia che mi è toccato di vivere? Giacché posso sperare la saggezza del cuore solo se saprò contare questi giorni, se riuscirò ad apprendere il senso di un cammino che mi ha coinvolto e se a partire da questa conta saprò muovere i passi che il buon Dio mi concederà ancora di fare. *
Testo della prolusione all’anno accademico 2010-2011, pronunciata da Giuseppe Ruggieri a conclusione del suo insegnamento (1969-2010) presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Docente emerito di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Giuseppe Ruggieri
1. Permettetemi quindi come premessa a questa prolusione, alcune note personali. Non ricordo esattamente quando, ma agli inizi degli anni ’80 del secolo passato, Giuseppe Alberigo mi passò un inedito di Giuseppe Dossetti, con la preghiera di annotarlo. Si trattava della trascrizione di una conferenza tenuta il 14 settembre 1966 presso l’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna, pubblicata poi con il titolo di “Appunti per un’antropologia critica o del profondo” in L’«officina BOLOGNESE» 1953-2003, a cura dello stesso Alberigo1. Di quella conferenza non ebbi un’impressione positiva. Stesi per dovere di amicizia alcune note sobrie, poi riprese integralmente da Alberigo nell’edizione del testo, ma gli espressi anche la mia insoddisfazione e il mio giudizio netto: quel testo era a mio avviso molto debole e non andava pubblicato. Infatti se a me risultava convincente la denuncia che Dossetti vi faceva di una carenza antropologica della costituzione Gaudium et spes, giudizio già espresso del resto anche da Congar nella sua introduzione a La vie selon l’Esprit, condition du chrétien, una raccolta di saggi di I. De la Potterie e St. Lyonnet pubblicati nel 1965 nella gloriosa collana Unam Sanctam, sbrigativa mi sembrava invece la riflessione positiva di Dossetti. Questa ignorava semplicemente tutta la produzione novecentesca sull’antropologia teologica, quella che per intenderci aveva preso l’avvio dalla recezione di Blondel nella teologia cattolica, che poi aveva tuttavia percorso strade diverse come quelle di De Lubac da una parte e di Rahner dall’altra parte. Per me l’episodio si chiuse lì, o meglio si chiuse provvisoriamente. Giacché le vicende del postconcilio nella chiesa cattolica richiedevano e richiedono, almeno da parte dei teologi, un tentativo di comprensione e di discernimento, sono queste vicende, la conta dei giorni che viviamo, dalla fine del concilio fino ad oggi, che mi hanno imposto di ritornare a quel testo. Mi sono accorto del solito sbaglio nei confronti di Dossetti. Infatti, quando taceva, spesso non ignorava, ma dissentiva.
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Bologna 2004.
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Per un’antropologia critica: appunti
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A differenza del Tridentino, la cui recezione fu guidata e controllata dalla Curia romana, mediante l’istituzione ad hoc della Congregazione pro executione et interpretatione concilii Tridentini, con la secretazione secolare delle carte conciliari, la recezione del Vaticano II vive di una sana dialettica tra curia romana, chiese locali, teologi, storici e studiosi del concilio stesso. Merito di questo va attribuito in gran parte alla decisione di Paolo VI di non secretare le carte e di stabilire per l’archivio del Vaticano II regole diverse da quelle vigenti per gli altri archivi ecclesiastici e per l’Archivio Segreto Vaticano in particolare. A tutt’oggi, anche dopo l’integrazione dell’Archivio conciliare nell’Archivio Segreto, la sua volontà è stata rispettata. Si aggiunga a questo la conoscenza delle fonti presenti altrove e le quali come massa superano ampiamente quelle raccolte a Roma2. Questa possibilità di accedere alle fonti consegna per così dire il concilio nelle mani di tutti e permette di misurare la portata stessa della recezione dell’evento conciliare. La comprensione teologica della recezione del concilio va misurata infatti sulla comprensione del concilio stesso. Ora è indubbio che, a parte la ripresa di una concezione della chiesa più tradizionale, centrata sulla liturgia come azione comune dell’assemblea, concezione questa legata alla tradizione patristica e con una presa di distanza critica al tempo stesso dall’ecclesiologia controversista e societaria dell’epoca postridentina (emblematica la bocciatura dello schema preparatorio sulla chiesa3), a parte ancora la riproposizione anch’essa tradizionale della centralità della Scrittura e della sovranità della Parola di Dio nella chiesa, un altro tratto caratteristico del concilio fu il nuovo rapporto con la storia degli uomini, anzi con la storia del nostro tempo. Solo così si spiegano la Dichiarazione sulla libertà religiosa, il nuovo approccio alle religioni non cristiane, l’ecumenismo come scelta irreversibile della chiesa cattolica. “Aggiornamento” e “pastorale”, nel programma che Giovanni XXIII consegnò al concilio 2
G. TURBANTI – M. Faggioli, Il concilio inedito . Fonti del Vaticano II, Bologna 2001. 3 G. RUGGIERI, Il difficile abbandono dell’ecclesiologia controversista, in G. Alberigo (dir.), Storia del concilio Vaticano II, 2, Leuven-Bologna 1996, 259-293.
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mediante l’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia, furono le cifre di questo nuovo rapporto. Stando alle sue parole, la sostanza viva del vangelo deve assumere forme sempre nuove perché il vangelo appaia agli uomini in tutta la sua freschezza. Questo compito appartiene soprattutto al magistero, la cui natura è preminentemente pastorale. Nel linguaggio di papa Giovanni il termine “pastorale” perdeva il suo significato di “applicazione” concreta dei principi dottrinali. Piuttosto, con il duplice rimando alla figura del buon pastore del IV vangelo e alla figura di Carlo Borromeo, traduceva la preoccupazione di non far mancare il nutrimento vivo al gregge, e quindi indicava il programma di un’ermeneutica sempre rinnovata della parola del vangelo, superando le forme letterarie dei suoi rivestimenti passati. Occorrerebbe fare qui tutta un’analisi accurata dell’arcaico linguaggio roncalliano4 per liberarlo dalle incomprensioni superficiali di quanti non hanno mai afferrato la portata dottrinale del suo magistero. Ma almeno una cosa va aggiunta per comprendere il senso dell’aggiornamento: la sua visione positiva della storia. Superando la concezione che fino allora aveva dominato, a partire da Gregorio XVI, il magistero romano e che aveva trovato la sua espressione autorevole nel proemio della costituzione Dei Filius del Vaticano I, concezione secondo cui la storia moderna era una sequela progressiva di errori determinata dalla negazione dell’autorità della chiesa, papa Giovanni vedeva invece nella storia concreta la continua presenza vittoriosa del Cristo e definiva i giudizi di quanti vedono solo prevaricazione e rovina nei tempi moderni «insinuazioni di anime pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante e di misura» (Gaudet Mater Ecclesia, 8). In questa storia concreta occorreva invece cogliere i segni dei tempi5, le tracce della presenza del Regno. E papa
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Io ho tentato di farla soprattutto in due saggi: Appunti per una teologia in papa Roncalli, in G. ALBERIGO (cur.), Papa Giovanni, Roma-Bari 1987, 245-271; Esiste una teologia di papa Giovanni?, in FONDAZIONE PER LE SCIENZE RELIGIOSE GIOVANNI XXIII DI BOLOGNA (cur.),Un cristiano sul trono di Pietro. Studi storici su Giovanni XXIII, Bergamo 2003, 253-274. 5 Per il significato di questa espressione, vedi G. RUGGIERI, La verità crocifissa. Il pensiero cristiano di fronte all’alterità, Roma 2007, 81-114.
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Giovanni lasciò un esempio eloquente di questo atteggiamento nella Pacem in terris, vera premessa al riconoscimento della libertà di coscienza, anche in campo religioso, che poi la Dignitatis humanae avrebbe fatta sua anche se nei limiti di una visione prevalentemente giuridica. E allora: la sostanza viva del vangelo va ogni volta scoperta, riassimilata, in un discernimento della storia concreta degli uomini alla luce del Regno che viene. Emerge così una figura del credente che si avvicina molto alla sentinella di Isaia (21, 11-12) o al giusto che vive della fede/emunah del profeta Abacuc (2, 4). Colui che nella speranza attende il Regno e si immerge nella storia per discernerne i segni, poggia sulla emunah, sulla stabilità della promessa, senza cedere alla banalità, senza prendere sul serio le proprie sofferenze, ma prendendo sul serio le sofferenze di Dio nel mondo (Bonhoeffer), vegliando con Cristo nel Getsemani fino alla fine del mondo (Pascal + Bonhoeffer)6. Se guardiamo all’oggi della chiesa questo appare tuttavia un orizzonte lontano. Questa visione della storia e l’antropologia corrispondente, ripensata a partire da Gesù di Nazaret e dal suo annuncio della vicinanza del Regno, risulta infatti estranea rispetto ad una predicazione oggi dominante che, soprattutto nelle voci più autorevoli della gerarchia cattolica, sembra ritornare ai vecchi tempi della restaurazione e dell’intransigentismo. Nella visione negativa della storia di ottocentesca memoria, l’evoluzione delle società moderne veniva condannata in quanto perversione del diritto naturale, la cui conoscenza deriva dalla retta ragione, di cui a sua volta è ultimamente custode il magistero ecclesiastico. Per riprendere il controllo sulla società, perduto dopo la Rivoluzione francese, non potendo imporre la visione evangelica della vita, che per definizione è dono di Dio, la chiesa infatti rivendicava la propria competenza sulla conoscenza della natura nel disegno del Creatore, conoscenza che ormai, a causa del peccato, non era pienamente accessibile all’uomo fuori dalla rivelazione soprannaturale di cui la chiesa è depositaria. Chi volesse
6 D. BONHOEFFER, Resistenza e Resa. Lettere e altri scritti dal carcere (Opere di D. Bonhoeffer, 8), Brescia 2002, 503-505.
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comprendere la logica di questo giudizio non ha che da rileggersi la Quanta cura di Pio IX, l’enciclica che accompagna il Sillabo, dove il papa si fa avvocato della «nozione autentica della giustizia e del diritto umano, oscurata e perduta laddove dalla società civile fu rimossa la religione e ripudiato l’insegnamento e l’autorità della divina rivelazione» (Denzinger-Schönmetzer: 2890). Nel mutare dei tempi, appare quindi strano risentire la stessa logica nei vari appelli che oggi vengono fatti alla morale naturale, con uno spirito polemico nei confronti della storia presente. E questo non perché la storia non contenga gli errori denunciati, ma perché non si ascolta più il saggio consiglio di papa Giovanni: la storia stessa correggerà i suoi errori, mentre sta a noi cercare prima il Regno di Dio e la sua giustizia (Gaudet Mater Ecclesia, 8-12). Invece, nella temperie attuale, il magistero cattolico, soprattutto in Italia, preferisce usare due pesi e due misure: la predicazione del vangelo è per così dire riservata al destinatario intraecclesiale, mentre verso l’esterno ritorna il vecchio linguaggio del rimando alla legge morale naturale. La sensibilità del vecchio pastore che, superando il regime delle condanne, ebbe il coraggio di indire un concilio di aggiornamento per la chiesa cattolica come condizione per la testimonianza del vangelo agli uomini tutti, appare oggi desueta. Non è qui il luogo di documentare questo ritorno all’indietro, ma basterà citare un solo esempio recente, come l’appello che il Presidente della CEI ha rivolto in occasione del recente Consiglio permanente della Conferenza episcopale: «Ricorrente è, nella nostra cultura pubblica, un certo interrogarsi sui cattolici: dove sono, come si pongono, cosa fanno. Anche nell’ultima estate queste domande sono ritornate. Risposte, magari interessanti, suonano spesso unilaterali, condizionate fatalmente dal punto di osservazione. Ebbene, vorremmo che fosse il bene comune la bandiera che nel cuore si serve, la divisa che consente di identificare là dove sono i cattolici, ma — ripeto — non solo loro. Non dimentichiamo, infatti, che “la ragione è capace” di distinguere “ciò che è bene fare e ciò che è bene non fare per il conseguimento di quella felicità che sta a cuore a ciascuno, e che impone anche una responsabilità verso gli altri” (Benedetto XVI, All’Udienza generale, 5 agosto 2010). È proprio l’esperienza condotta dal di dentro delle cose, in nome della ragione
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e quindi della morale naturale, che diventa il giudizio più evidente sul relativismo secondo cui non ci sarebbero riferimenti etici da privilegiare né alcuna gerarchia di valore». (Prolusione del Card. Bagnasco al Consiglio permanente della CEI del 27-30 settembre scorso). Dall’altra parte, quello che mi piace chiamare il progressismo cattolico, sembra propugnare una scelta per l’umano in quanto tale, così come esso si configura nelle correnti più avanzate della storia di oggi: democrazia, solidarismo, ecologia e difesa della terra, diritti umani, soprattutto della donna e delle minoranze. Lungi da me il criticare questi valori. Essi, laddove si parla del solidarismo e della difesa della terra, nonché dei diritti dei più deboli, sono oltre tutto comuni alle preoccupazioni più vive del magistero ufficiale. Ma spesso ciò che appare difficile cogliere negli uni e negli altri è l’orizzonte dell’annuncio di Gesù, nella sua diversità, per dirla con le parole dei sinottici, rispetto alla logica che domina l’agire dei “governanti delle nazioni”. La prospettiva qui presente è quella di una costruzione dal basso del Regno di Dio, che richiama molto la filosofia della storia di Immanuel Kant. 2. Di fronte a questi atteggiamenti predominanti, l’ermeneutica conciliare della storia e la visione dell’uomo in essa implicita sembrano così essere finite in un binario morto, senza più futuro. A dire il vero, alcuni segni del disagio erano apparsi già nell’ultima fase del concilio, durante la preparazione della costituzione della Chiesa nel mondo contemporaneo, la Gaudium et spes7. Erano in molti infatti che, come base di una considerazione della chiesa nel mondo, postulavano una riflessione sull’antropologia cristiana. La soluzione adottata, quella che adesso è depositata nel cap. I, fu approvata in mancanza di meglio8. Dove stava la difficoltà? Questa, a mio avviso, stava in una scarsa maturazione teologica della nuova problematica 7 Cfr. G. RUGGIERI, Delusioni alla fine del Concilio. Qualche atteggiamento nell’ambiente cattolico francese, in J. DORÉ – A. MELLONI (cur.), Volti di fine concilio. Studi di storia e teologia sulla conclusione del Vaticano II, Bologna 2000, 193-224. 8 G. TURBANTI, Un concilio per il mondo moderno. La redazione della costituzione pastorale «Gaudium et spes» del Vaticano II, Bologna 2000.
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che si apriva con la desueta apertura al mondo inaugurata da papa Giovanni. La teologia della prima metà del Novecento aveva recuperato per così dire il gap che la separava dall’antropologia della modernità, costruendo delle antropologie dinamiche e aperte, nelle quali la rivelazione cristiana non si imponeva dall’esterno, ma rispondeva al desiderio più profondo della creatura (De Lubac e Rahner, e i loro seguaci, per vie diverse avevano fatto proprio questo). Ma la riflessione teologica si era fermata qui. La storia concreta degli uomini restava nelle varie antropologie dell’immanenza fuori dall’orizzonte e per ciò stesso restava fuori dal loro orizzonte la stessa antropologia biblica, quella che per intenderci è depositata nel cap. 8 della lettera ai Romani, dove il gemito della creazione tutta è legata all’attesa della liberazione dei figli di Dio. Lo stesso De Lubac aveva in qualche modo tradito le premesse poste nel suo capolavoro, quel Catholicisme (1938) dove venivano enucleate le dimensioni sociali del dogma. Le Surnaturel (1946), quanto mai inviso a Roma, ma per motivi diversi da quelli qui ricordati, rappresentava in questo senso un restringimento personalistico dell’orizzonte. Se la premessa antropologica alla Gaudium et spes era quindi incapace di supportare un’ermeneutica cristiana della storia, le cause risalivano a prima del concilio. E aveva sostanzialmente ragione J.B. Metz quando, dopo avere già scritto un libro sull’antropocentrismo cristiano, frutto del suo lavoro di dottorato presso Rahner (1962)9, poi nel suo manifesto programmatico della “nuova” teologia politica10 denunciava la “tendenza al privato” presente nella teologia trascendentale del suo maestro, come nell’interpretazione esistenziale del grande lume della teologia protestante di quel momento, R. Bultmann. Metz supportava la sua visione con il primato biblico dell’escatologia, con il motivo della memoria pericolosa della croce di Cristo e di tutte le vittime della storia e con il richiamo al correttivo dell’apocalittica contro ogni riduzione evoluzionistica della storia della
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J.B. METZ, Christliche Anthropozentrik, München 1962. Adesso in J.B. METZ, Sulla teologia del mondo, Brescia 1971, 105-122. (Or. ted. 1965). 10
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salvezza. In dialettica amica con lui, di lì a poco i teologi latino americani della liberazione avrebbero messo al centro della riflessione il tema dei poveri. In modo vario veniva ripreso in questo modo il tema dei poveri come “asse della storia” che invano Lercaro aveva cercato di far passare in Concilio come programma del concilio stesso, che lo aveva recepito sì in un capoverso (il capoverso 3 del cap. 8 della Lumen Gentium), ma che lo aveva disatteso nel suo valore programmatico, preparando così, anche se involontariamente, l’inefficacia sostanziale di quel motivo nel magistero successivo e soprattutto nella prassi delle chiese occidentali. L’accusa di marxismo contro i teologi della liberazione, con il tempo, si è dimostrato, se non strumentale, per lo meno evanescente e non vale a surrogare la loro ispirazione fondamentale, che (va sottolineato) fu quella condivisa dalla maggioranza dei vescovi e delle chiese latino americane tra gli anni settanta e ottanta del secolo passato, lo slogan vulgato, che suona letterario, dell’opzione privilegiata per i poveri. Un’opzione è appunto una scelta, non è un elemento costitutivo dell’identità cristiana. Ma il vangelo annunciato da Gesù per sua natura stessa appartiene ai poveri e la fede in questo vangelo non può quindi prescindere da questo suo codice genetico (Mc 1,15: convertitevi e credete al vangelo!) In questo contesto la costruzione di un’antropologia della sentinella credente, del giusto che vive della fede/emunah nella promessa del Regno, dei figli di Dio che attendono la liberazione e la gloria condividendo il gemito della creazione sottomessa contro voglia alla caducità, giacendo assieme ad essa nel travaglio del parto (synodinein è il verbo usato da Paolo), vegliando con Gesù nel Getsemani fino alla fine del mondo, incorre nelle stesse difficoltà in cui si dibatterono i padri conciliari. Era quindi nel giusto Dossetti quando denunciava la carenza di un’antropologia teologica critica o del profondo. Per lui questa antropologia non si poteva limitare all’ovvio o alla rincorsa verso gli ideali della modernità, ma si sarebbe dovuta fondare nel mantenimento della prospettiva escatologica come base dell’esistenza cristiana e nel dispiegamento di tutte le valenze storiche dell’amore di Dio per l’uomo.
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3. Non è mia intenzione riprendere qui quel saggio di Dossetti. Nonostante la mia rivalutazione postuma, esso mi sembra condizionato da una lettura eccessivamente sincronica della Bibbia, poco attenta ad una lettura storica che coglie la varietà delle prospettive, la loro evoluzione e il loro intreccio. Preferisco partire invece da un dato limitato, che è oggetto di consenso comune per lo meno tra gli esegeti, ma che attende a mio avviso di essere sviluppato in tutta la sua portata teologica. Il dato è la riscoperta del Gesù storico, distinto sia dalla cultura religiosa giudaica del suo tempo che dall’interpretazione credente delle primitive comunità cristiane. Dopo la conferenza programmatica di Käsemann nel 195311, l’esegesi critica, sia cattolica che protestante, ha progressivamente delineato i tratti di questo Gesù. Il grosso lavoro in 4 volumi del gesuita americano John P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, permette oggi di avere una visione comprensiva dei risultati di queste ricerche, non sempre identici, ma tali da delineare un consenso di fondo. Elemento comune a tutte queste ricerche, intravisto già da alcuni studiosi tra fine dell’Ottocento e inizi del Novecento (J. Weiss, A. Schweitzer), è la costatazione che il centro della predicazione di Gesù è costituito dal Regno di Dio che deve venire, ma con una collocazione assolutamente originale nel contesto religioso del suo tempo, soprattutto per la pretesa centrale di Gesù, che assegnava alla sua vicenda personale la funzione decisiva della venuta del Regno stesso. La natura di questo Regno è descritta nelle Beatitudini, come promessa di un mutamento della condizione dei vari poveri della storia, dei miti, degli assetati di giustizia e via dicendo. Per questo la predicazione di Gesù è rivolta ai peccatori, agli emarginati di ogni genere che “passano” (al tempo presente: Mt 21, 31) avanti a tutti gli altri nel Regno dei cieli. Una spiritualizzazione di questo Regno nel dominio interiore dell’uomo, è semplicemente impossibile. Tuttavia, per quanto riguarda il suo rapporto con i tempi della storia umana, la collocazione di questo Regno nella predicazione di
11 E. KÄSEMANN, Das Problem des historischen Jesu, adesso in Exegetische Versuche und Besinnungen 1, Göttingen 1964, 187-214.
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Gesù appare, per usare il termine impiegato dal già citato Meier, paradossale. Per un verso infatti Gesù aspettava come imminente una venuta futura del regno di Dio, e ciò fino alla fine della sua vita12. «Solo un’esegesi contorta può eliminare l’escatologia futura dalla predicazione di Gesù, riflessa nell’unica preghiera che egli ha insegnato ai suoi discepoli»13. Per altro verso, e sta qui il paradosso, Gesù ha predicato anche la presenza di questo Regno nella sua attività di taumaturgo. Che Gesù sia stato infatti un guaritore, anche se è difficile definire esattamente la portata delle guarigioni operate, è un dato che nessun esegeta critico oggi mette in discussione. Meier si rifiuta di risolvere il paradosso in maniera sistematica. Egli si limita a dire che, quali che siano i termini che noi impieghiamo per stabilire il nesso tra la presenza attuale del Regno e la sua dimensione futura, «il punto importante, […] è che Gesù scelse intenzionalmente di indicare che la potenza miracolosa del suo ministero costituiva una realizzazione parziale e preliminare del dominio regale di Dio, che si sarebbe presto manifestato nella sua pienezza»14. Fin qui l’esegeta. Ma il teologo non può considerarsi soddisfatto. Se Gesù aspettava la venuta imminente del Regno e se questo d’altra parte non si è realizzato, resta allora da concludere che egli si sia illuso? Questa fu soprattutto la conseguenza che tirarono molti esegeti protestanti all’inizio del Novecento, proprio quelli che avevano per così dire scoperto il carattere radicalmente escatologico del messaggio di Gesù. E la loro conclusione aleggia, anche quando non viene dichiarata come tale, in tante analisi esegetiche contemporanee, sia protestanti che cattoliche. Ma così viene messa radicalmente in crisi l’immagine antropologica della sentinella cristiana, costretta a indicare sempre e soltanto delle anticipazioni del Regno che non si realizzerà mai. Dobbiamo dire allora che l’antropologia cristiana sia compiutamente espressa da quei versetti della lettera agli Ebrei che indicano come modello del
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J.P. MEIER, Un ebreo marginale, 2, Brescia 2002, 368. Cit. 369. 14 Cit. 589. 13
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credente la figura dei patriarchi, i quali «tutti morirono nella fede, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Infatti, chi dice così dimostra di cercare una patria; e se avessero avuto a cuore quella da cui erano usciti, certo avrebbero avuto tempo di ritornarvi! Ma ora ne desiderano una migliore, cioè quella celeste; perciò Dio non si vergogna di essere chiamato il loro Dio, poiché ha preparato loro una città». (Eb 11, 13-16)? A mio avviso questo è insufficiente, anche se ritengo che questo testo sia importante, se non lo si legge tuttavia in modo riduttivo (dimenticando cioè che l’orizzonte della Lettera agli Ebrei è la sequela di Gesù “che è autore e realizzatore perfetto della fede”). Per sfuggire comunque alla difficoltà, nel cristianesimo, con il passare dei tempi, sono sorti molti surrogati all’attesa imminente del Regno, un Regno che si rendeva presente tuttavia nell’attività di Gesù. Questi surrogati hanno per così dire un binomio costitutivo: per un verso i cristiani hanno sempre ritenuto che anch’essi pregustano nella loro vita a imitazione di Gesù la presenza del Regno che deve venire. La chiesa stessa cos’è, se non il luogo in cui il Regno viene anticipato? Per altro verso hanno tuttavia ridotto l’attesa imminente del Regno futuro alla sua dimensione individualistica e interiore, rimandando al futuro assoluto di Dio il compimento dell’attesa imminente. Ma in questo modo il significato del Regno per la storia degli uomini diventa evanescente. La riduzione privatistica del messaggio cristiano denunciata da Metz si mostra così con chiara evidenza. E nemmeno risulta soddisfacente la riduzione ecclesiale del messaggio, quasi che la chiesa sia la realizzazione piena del Regno nella storia. Nonostante tutte le imprese apologetiche in tal senso la storia smentisce questa pretesa. E soprattutto si perde di vista l’asse fondamentale della Bibbia tutta e del Nuovo Testamento, che non è nello stato beato del singolo dopo la morte, o nella creazione di uno spazio beato su questa terra, ma nell’interpellazione della storia a partire dalla promessa di Dio che, in Gesù, non fu un sì e un no, ma il sì definitivo di Dio all’umanità (2Cor 1, 19-22). E appare ancora non plausibile la riduzione del messaggio pubblico del cristianesimo al richiamo alla legge naturale, mentre i cristiani, come Paolo, non
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dovrebbero conoscere altro in mezzo agli uomini e alle donne del loro tempo, se con Gesù Cristo, e Cristo crocifisso (cfr. 1Cor 2, 2). E se Gesù (e con lui Paolo) invece non si fosse illuso? Se il senso dell’attesa imminente del Regno non verte sul momento e l’ora che nessuno conosce, nemmeno il Figlio, ma in qualcosa d’altro? Prima di rispondere a questa domanda è necessario sottolineare ancora due carenze nella discussione attuale. Per un verso la riscoperta del Gesù storico sembra essere diventata solo appannaggio degli esegeti. I teologi si limitano a prenderne atto. Purtroppo pesa da questo punto di vista un presupposto, creato anch’esso alla fine dell’Ottocento e cioè che il Gesù storico non abbia diritto ad esistenza propria, separata dalla fede della chiesa (la vecchia tesi di Kähler15) e che quindi il Gesù storico sia solo la premessa presupposta, ma non conosciuta, della lettura credente. Per la logica dell’incarnazione stessa bisogna invece ribadire che Gesù, nella sua umanità concreta, trascende ogni interpretazione credente e che bisogna quindi sempre ritornare a lui. La cristologia classica dei grandi concili, la cristologia esistenziale dei moderni, ma anche le cristologie di Paolo, dei Sinottici e di Giovanni sono attualizzazione limitata e parziale del mistero dell’uomo Gesù nel quale abita, secondo la convinzione dei credenti, tutta la pienezza della divinità. Noi, per comprendere ulteriormente e di nuovo, dobbiamo sempre ritornare a lui, alla sua umanità di predicatore, taumaturgo, amico compassionevole degli uomini e delle donne del suo tempo, soprattutto dei peccatori, condannato al supplizio per essere rimasto fedele alla missione ricevuta dal Padre. La seconda carenza sta nel considerare con un certo fastidio l’orizzonte apocalittico della predicazione storica di Gesù. Si preferisce l’astratto “escatologia”. Si veda ad esempio come persino un esegeta della portata di J. Dunn liquidi il problema, dopo una disamina veloce di alcuni studi recenti sull’apocalittica: «L’uso più comune (anche al di fuori di ambienti teologici) dell’aggettivo ‘apocalittico’ per indicare
15 M. KÄHLER, Der sogenannte historische Jesus und der geschichtliche biblische Christus , Leipzig 1892.
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uno scenario futuro di interventi soprannaturali nella storia umana, accompagnati da scene di orrori e violenze inaudite e senza precedenti, dovrebbe essere accuratamente evitato. Molto più appropriato è invece l’aggettivo ‘escatologico’, benché ci si ritrovi davanti alla scarsa chiarezza di cui sopra»16. Ma Gesù si è espresso in quel linguaggio, che quindi va attentamente esaminato, ha impiegato quelle immagini ed è il senso di queste che occorre indagare per penetrare il senso esatto della sua predicazione e la sua stessa messianità. Noi lo proclamiamo come Cristo, Messia, ma non comprendiamo più che cosa questo attributo voglia veramente dire. E quindi non siamo in grado di afferrare il senso particolare del messianismo di Gesù e l’esistenza messianica di coloro che si mettono alla sua sequela per vivere anch’essi quella che possiamo chiamare un’esistenza messianica, fino a quando non sia perfetta in essi la “forma” del Messia Gesù. 4. A questo punto potrei anche fermarmi. Perché ciò che resta da dire in gran parte lo debbo ancora imparare, appartiene ai passi che mi restano da compiere. Ho cominciato a intravedere tuttavia appena alcune stazioni fondamentali del cammino. Ne enumero tre. 4.1. Una premessa per l’interpretazione coerente della predicazione di Gesù è la comprensione del linguaggio apocalittico17. La 16
J. DUNN, Gli albori del cristianesimo. 1, La memoria di Gesù. 2 La missione di Gesù, Brescia 2006, 442. 17 Questo resta purtroppo un campo sostanzialmente inesplorato da un punto di vista squisitamente teologico. Si veda ad esempio la reazione nervosa dei discepoli di Bultmann alla tesi dell’altro grande discepolo dello stesso maestro E. Käsemann, sull’apocalittica come madre di ogni teologia cristiana, nel presupposto che l’apocalittica introdurrebbe un dualismo inaccettabile tra l’aldiquà e l’aldilà per questa discussione cfr. K. KOCH, Difficoltà dell’Apocalittica. Scritto polemico su d’un settore trascurato dalla scienza biblica, Brescia 1977, 91-105 (or. ted.: Gütersloh 1970). E che il Gesù “apocalittico” sia un rospo difficile da digerire è ben documentato dalla rassegna sugli studi del Novecento in proposito: ibid., 71-120. Il tentativo recente di G. TAXACHER, Apokalyptische Vernunft. Das biblische Geschichtsdenken und seine Konsequenzen, Darmstadt 2010, è insoddisfacente, soprattutto per due motivi: il rifiuto programmatico di analizzare la letteratura apocalittica estracanonica e l’ignoranza di quello che costituisce il centro di ogni “apocalisse”, che non è solo una
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recente rassegna di Berndt, peraltro utilissima, dà l’impressione di un ultimo limite al quale gli esegeti arrivano. Essi cioè riescono a valicare la pura critica letteraria per ricostruire in qualche modo il Sitz im Leben dei gruppi portatori delle attese apocalittiche, il loro rifiuto del presente, la crisi di identità, l’attesa di un mutamento radicale etc18. Ma una penetrazione effettiva, capace di arrivare a una comprensione dell’eidos, di ciò che costituisce l’essenza colta nel linguaggio apocalittico, resta ancora da fare19. L’affermazione sopra citata di Dunn mostra come sia possibile una sua banalizzazione. Se effettivamente il significato dell’immaginario apocalittico fosse quello di «indicare uno scenario futuro di interventi soprannaturali nella storia umana, accompagnati da scene di orrori e violenze inaudite e senza precedenti», allora occorrerebbe concludere all’impossibilità attuale di far nostro questo aspetto della predicazione di Gesù. Così fece il grande Albert Schweitzer, che pose alla base della sua vita solo l’etica interinale del Cristo e l’unione mistica con lui e coerentemente passò il resto della sua vita con i lebbrosi africani20. Il primo e fino adesso quasi solitario interprete sistematico-teologico del linguaggio apocalittico è stato Jakob Taubes. Taubes era un ebreo21. La sua fu un’impresa giovanile, che si irrobustì tuttavia man
concezione della storia a partire dalla sua fine prevista da Dio, ma una concezione della fine del male e della contraddizione che domina la storia, fine che solo Dio può operare. 18 S. BERNDT, Apokalyptik – Versuch einer systematischen Definition, in Theologie der Gegenwart 52 (2009) 219-236. 19 Provocatorio, ricchissimo di intuizioni, ma carente nella sua sinteticità di un’effettiva analisi dell’apocalittica, resta il saggio di J.B. METZ, Hoffnung als Naherwartung oder der Kampf um die verlorene Zeit. Unzeitgemässe Thesen zur Apokalyptik, in Glaube in Geschichte und Gesellschaft, Mainz 1977, 149-158, 20 A. SCHWEITZER, Von Reimarus zu Wrede. Eine Geschichte der Leben-JesuForschung, Tübingen 1906 (seconda edizione nel 1913, ripresa nella VI del 1950 e trad. in it. da F. Coppellotti: Storia della ricerca sulla vita di Gesù , Brescia 1986); ID., Die Mystik des Apostel Paulus, mit e. Einf. von Werner Georg Kümmel. – Neudr. d. 1. Aufl. von 1930. – Tübingen: Mohr, 1981. 21 Di lui vanno almeno ricordate due opere: la tesi di dottorato Escatologia occidentale, pubblicata nel 1947 (l’edizione italiana, con un’introduzione a mio avviso riduttiva di M. Ranchetti, è della Garzanti nel 1997) e il dibattito con Carl Schmitt,
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mano nel dialogo critico condotto con G. Scholem22. Il suo tentativo contiene a mio avviso intuizioni feconde, anche se la preoccupazione dominante di una rilettura critica del pensiero occidentale alla luce del pensiero apocalittico, gli impedisce a volte di cogliere nella loro completezza le intenzioni dei gruppi storicamente portatori della concezione apocalittica della storia. Senza la pretesa di assolvere compiutamente questo compito, mi limito qui a introdurre alcune considerazioni elementari, tratte dalle fonti cristiane23. pubblicato postumo e tratto dalla registrazione di un seminario, La teologia politica di San Paolo. Lezioni tenute dal 23 al 27 febbraio 1987 alla Forschungstätte della Evangelische Studiengemeinschaft di Heidelberg, edito in Italia da Adelphi nel 1997; cfr. il mio saggio su Jacob Taubes: Il messianismo apocalittico di Jacob Taubes, in G. RUGGIERI (cur.), Questo mondo, il male, l’apocalisse, Troina-Catania 2011, 151-170. 22 J. TAUBES, Il prezzo del messianesimo, Macerata 2000. Cfr. Th. MACHO, Der intellektuelle Bruch zwischen Gershom Scholem un Jacob Taubes. Zur Frage nach dem Preis des Messianismus, in R. FABER – E. GOODMAN-THAU – Th MACHO (HRSG.), Abendländische Eschatologie. Ad Jacob Taubes, Würzburg 2001, 531-543; G. Bonola, Taubes contro Scholem. Una diatriba sul messianismo ebraico, in Humanitas XL (2005) 1-2, 122-152. 23 La discussione fra gli esegeti, inaugurata dal libro di Klaus Koch citato sopra, non si è arrestata. Vedi la rassegna sopra citata di Berndt. Una bibliografia ampia con le voci principali di questa discussione si trova in P. SACCHI (cur.), Apocrifi dell’Antico Testamento 2 voll., Torino 2006, sia in coda all’introduzione generale che prima di ogni singolo libro. Ma cfr. dello stesso P. SACCHI, L’apocalittica giudaica e la sua storia, Brescia 1990. Per ciò che riguarda l’età coeva al NT cfr. in particolare la bibliografia citata da J.J. COLLINS, L’Apocalittica nei Rotoli del Mar Morto, Milano 1999 (or. ingl. 1997), 218-222. Una buona sintesi di questa discussione si trova nell’introduzione all’edizione italiana di D.S. RUSSEL, L’apocalittica giudaica (200 a.C. – 100 d.C.), Brescia 1991, 7-20. Insostituibile per un’introduzione generale alla problematica resta la voce Apokalyptik-Apokalypsen, TRE Bd. 3., 189-289 Berlin – New York 1978. E last but not least occorre ricordare il ruolo che ha avuto, per la riflessione teologica, E. Käsemann, Die Anfänge der christlichen Theologie, nella ZThK del 1960 e ripreso nel II volume di Exegetische Versuche und Besinnungen Göttingen 1964, 82104 (cfr. sopra nota 17). Eppure, a mio modesto avviso, in tutta questa letteratura si è troppo enfatizzata l’oggettività degli enunciati apocalittici senza chiedersi ulteriormente quale fosse il riferimento soggettivo ultimo di questi enunciati. Il “registro” del linguaggio apocalittico invece viene colto solo se si chiarisce questo nesso. Detto in termini elementari: gli enunciati apocalittici non vogliono dire soprattutto “qualcosa”, ma vogliono esprimere in primo luogo un sentimento e un giudizio sulla realtà vissuta dal veggente. La demitizzazione invocata da Bultmann e discepoli dovrebbe,
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Il punto centrale della preoccupazione del veggente/narratore apocalittico è il desiderio/affermazione della fine di questo mondo. L’apocalittica cioè è un genere letterario appropriato ad esprimere un’esperienza fondamentale dell’essere dell’uomo nel mondo. Il fuoco della narrazione apocalittica non sta tanto nella rivelazione del momento della fine (che nella ripresa neotestamentaria dell’apocalittica nessuno conosce, nemmeno gli angeli e nemmeno il Figlio, ma solo Dio: Mc 13, 32). E nemmeno la percezione della “crisi”, che è certamente il motore di tanto linguaggio apocalittico, può essere ridotta a una “crisi di identità” del singolo o del gruppo, come parecchi esegeti sembrano suggerire24. A volte avviene esattamente il contrario: è la consapevolezza forte della propria identità che si ribella e genera uno stato d’animo d’impazienza e negazione dell’assetto attuale di questo mondo. Nei termini di Paolo, si tratta di una apokaradokia, di un’attesa sincera e forte della creazione tutta che aspetta la liberazione dei figli di Dio, perché è stata sottomessa controvoglia alla caducità (Rom 8, 16-25). I giusti attendono che questo mondo finisca. Quando si parla di una fine di questo mondo, occorre ancora notare che il mondo è da intendere anzitutto come Lebenswelt, mondo vissuto dall’uomo. Giacché non bisogna necessariamente pensare alla distruzione di questo mondo. E nemmeno, nel senso in cui la possono intendere i fisici nostri contemporanei, come eventuale cessazione della vita biologica in seguito al progressivo raffreddamento dell’universo, come fine quindi determinata dalle leggi stesse che presiedono alla materia. Infatti la fine a cui pensano i veggenti apocalittici è frutto di un intervento diretto di Dio, finalizzato alla sottomissione della potenza del male che rende disumana la nostra vita. Non a caso il senso originario del termine “satana” è quello dell’avversario (dell’uomo e di Dio). Il senso della fine del mondo è allora la distruzione della potenza nemica dell’uomo, la distruzione del Satana. ma fuori da un contesto personalistico soltanto e comprensivo invece della dimensione della storia, essere fatta valere anche in riferimento al linguaggio apocalittico. 24 Cfr. la rassegna di S. Berndt, Apokalyptik – Versuch einer systematischen Definition, cit.
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La conclusione apocalittica potrebbe apparire paradossale: se il mondo ha un senso, garantito dal suo Creatore, allora questo mondo deve avere una fine e il tempo che ci resta è abbreviato, perché passa la “figura” di questo mondo (cfr. 1Cor 7, 31). L’intenzione di Dio sul mondo, cioè il senso del mondo, può essere salvaguardata solo a patto che Dio distrugga questo mondo! Non siamo ai limiti del paranoico? La logica del racconto apocalittico infatti ha il suo presupposto nel postulato che Dio non ha voluto il male che domina il mondo, ma resta pur sempre il creatore di quelle potenze che introducono il male nel mondo. Il paradosso invece scompare, o perde almeno la sua asprezza, non appena poniamo attenzione al fatto che il vero soggetto storico e al tempo l’oggetto proprio della narrazione è il giusto, oppresso dal male del mondo. C’è un meraviglioso testo di Tertulliano che ci spiega la vera molla delle varie narrazioni apocalittiche, una molla che non arretra davanti al “ritardo di Dio”. Il testo si trova nel suo De oratione, 5, come commento alla richiesta del Padre nostro, “Venga il tuo regno”: «Come mai alcuni chiedono un prolungamento del tempo, dal momento che il regno di Dio, per il cui avvento preghiamo, tende alla consumazione del tempo? Desideriamo di regnare al più presto e di non servire più a lungo. Ma anche se non fosse stato prescritto nella preghiera di chiedere l’avvento del regno, pronunceremmo spontaneamente quelle parole per affrettarci all’abbraccio della nostra speranza. Le anime dei martiri sotto l’altare gridano al Signore disonorandolo25: Fino a quando, o Signore, non vendicherai il nostro sangue sugli abitanti della terra? La loro vendetta infatti è regolata a partire dalla fine del mondo». Il testo di Tertulliano riprende, forzandolo con il termine “invidia=disonore”, il testo dell’Apocalisse 6, 9-11: «Quando l’Agnello
25 Corsivo mio con cui traduco il latino invidia, nell’espressione “clamant ad Dominum inuidia animae martyrum”, su suggerimento di A. BLAISE, Dictionnaire Latin-Français des Auteurs Chrétiens, Turnhout 1954, 471, ad vocem. Blaise tuttavia tende ad attenuare il senso della vergogna gridata a Dio da parte dei martiri, aggiungendo un “semblant”: semblant lui faire honte. Ma l’addolcimento dell’espressione è assente nel testo di Tertulliano.
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aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?”. Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro». Ma si potrebbe ricordare Lc 18, 1-8. Sta in questo testo dell’Apocalisse, ripreso e forzato ai limiti della bestemmia nel testo di Tertulliano, la ragione ultima del racconto apocalittico: esso è il racconto delle vittime per amore della giustizia, che esigono “vendetta” da Dio. Il senso del racconto apocalittico è il suo soggetto, la massa delle vittime del male, che anche se vinte e scomparse dalla scena di “questo” mondo non si rassegnano a scomparire dalla memoria di Dio e degli uomini. E chi racconta la fine del mondo lo fa per assumere il loro punto di vista e vive ormai in un “tempo abbreviato”, per usare l’espressione di Paolo (ho kairos synestalmenos estin: 1Cor 7, 29)26. Ormai si vive nell’impazienza, e si aspetta un “altro mondo”. È un’impazienza che è nutrita dalla memoria della sofferenza. «È noto che agli Ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruiscono invece nella rammemorazione. Ciò liberava per loro dall’incantesimo il futuro, quel futuro di cui sono succubi quanti cercano responsi presso gli indovini. Ma non perciò il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia»27. E questo vale anche per i cristiani, per coloro che credono alla vittoria di Cristo sul male di questo mondo che è già avvenuta. Infatti per essi vale che Cristo ha sconfitto le potenze, ma non le ha distrutte 26 G. AGAMBEN, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Torino 2000, 29, traduce l’espressione di Paolo con “Il tempo si è contratto”. 27 È questa un formulazione che Benjamin voleva apporre alla tesi XI della sua riflessione sulla storia: W. BENJAMIN, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola – M. Ranchetti, Torino 1997, 56-57.
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e queste continuano quindi ad operare ancora, secondo l’analogia di quell’immagine suggestiva creata da Oscar Cullmann, che scriveva a ridosso dell’esperienza del maquis contro i nazisti, per cui anche nella Resistenza si continuava a combattere nonostante la battaglia decisiva fosse stata già vinta28. 4.2. In questo contesto occorre situare la messianità di Gesù. Egli ha fatto sua l’impazienza del mondo. Gli studiosi del NT si sono concentrati su aspetti che ultimamente risultano secondari per la comprensione di Gesù Messia. Per loro resta primaria la risposta alla domanda che si chiede se Gesù si sia considerato Messia o meno. Più importante mi sembra un’altra questione: a quale concezione del Messia (perché ce n’erano diverse nel giudaismo del tempo) egli si sia eventualmente riferito e/o in quale senso la prima comunità giudeo-cristiana ha inteso questa messianità. Il Magnificat, il cantico socialmente più eversivo di tutto il NT, qui è abbastanza eloquente. Il contesto è cioè quello di un innalzamento degli umili e di un rovesciamento dei potenti dai troni. Si impone allora la grande strada del dialogo con il pensiero ebraico contemporaneo, sia quello teologico che quello storico: da W. Benjamin a F. Rosenzweig, da G. Scholem a M. Idel, per non citare che i più significativi. Ritengo che solo questi interpreti della tradizione ebraica ci permettano di “sentire” la sensibilità del popolo della prima Alleanza sull’attesa del Messia. Fa parte di questa sensibilità il motivo di un messia sofferente per il “suo” popolo. E i vangeli ci offrono un tratto dell’agire terreno di Gesù che ruota attorno al motivo della compassione. Come ha ben chiarito Scholem, il grande storico del giudaismo, «nell’apocalittica messianica, le antiche promesse e tradizioni e i nuovi motivi, interpretazioni e reinterpretazioni che le confermano, si ordinano in maniera quasi spontanea secondo quelle due facce che l’idea messianica assume ora e manterrà sempre 28
O. CULLMANN, Christ et le temps, Neuchâtel 1957 (prima edizione 1945), 137150. Quell’importantissimo libro è tuttavia inficiato da una grave omissione: l’assenza di qualsiasi riferimento alla prospettiva apocalittica nella quale sono storicamente situate la predicazione e l’attività di Gesù.
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per la coscienza ebraica. Questi due aspetti, che in fondo già le parole dei profeti presentavano in maniera più o meno evidente, riguardano da un lato la natura catastrofica e distruttiva della redenzione, e dall’altro il carattere utopico del contenuto delle tradizioni messianiche […] Gli elementi catastrofici e le visioni di rovina trovano singolare dispiego all’interno della visione messianica. Essi vengono riferiti da un lato all’idea di trapasso o di distruzione in cui viene a nascita la redenzione messianica — è per tale periodo che l’ebraismo usa il concetto di ‘doglie messianiche’ —, dall’altro agli orrori del giudizio finale, che in molte di queste rappresentazioni conclude l’epoca messianica anziché accompagnarne l’esordio. Così agli occhi dell’autore apocalittico l’utopia messianica si presenta sovente sotto un duplice aspetto. Il nuovo eone e i giorni del Messia non costituiscono più (come in alcuni scritti di questa letteratura) un tempo unico, bensì configurano due periodi, di cui l’uno — il regno del Messia — propriamente appartiene ancora a questo mondo, mentre l’altro fa parte già completamente del nuovo eone che comincia col giudizio finale»29. Gesù si è collocato in maniera originale dentro questa corrente di pensiero. Progressivamente egli ha preso coscienza della sua fine e del suo fallimento storico, ma è vissuto sempre in una partecipazione sofferente alla condizione del suo popolo, di quelle pecore perdute della casa di Israele a cui si è sentito inviato. Se cioè l’orizzonte di Gesù è stato quello dell’attesa apocalittica, è stato d’altra parte tipico della sua azione il fatto che egli abbia teso ad anticipare il carattere non catastrofico, ma positivo della venuta del Regno. Per questo è inscindibile nella sua predicazione l’annuncio del Regno che viene con l’azione della cacciata dei demoni e della guarigione dalle malattie. Il vangelo predicato da Gesù è infatti una parola di liberazione e di riammissione nella convivenza umana. Nella risposta agli inviati del Battista, Gesù sottolinea che è venuto per adempiere la profezia di Isaia sui ciechi che ricuperano la vista, gli storpi che camminano e i poveri a cui è annunciata la buona
29
G. SCHOLEM, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Genova 1986, 114-115.
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novella (Mt 11, 2-6); ugualmente nel discorso nella sinagoga di Nazaret egli si presenta come colui che adempie la promessa di liberazione di Is 61 (Lc 4, 16-20). Questo annuncio e quest’attività di liberazione dal male che opprime l’uomo, nell’uomo Gesù è originato ancora, e questo ai fini dell’antropologia messianica è fondamentale, da una partecipazione alla sofferenza umana che dobbiamo chiamare “fisica”, “corporea”. Il termine che usano i vangeli per designare questa partecipazione alla sofferenza umana da parte di Gesù è infatti quello del verbo splanchnizomai (alla lettera: commozione delle viscere; in siciliano: si ci sbutaru i uredda), applicato esclusivamente a Gesù (con pochissime eccezioni che confermano l’uso cristologico). Ricordo velocemente le occorrenze del termine, reso dai traduttori italiani con un innocuo aver pietà, aver compassione: Mt 9, 36 (par Mc 6, 34): Vedendo le folle, ne ebbe compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Mt 14, 14: Gesù, smontato dalla barca, vide una gran folla; ne ebbe compassione e ne guarì gli ammalati. Mt 15, 32 (par Mc 8, 2): Gesù, chiamati a sé i suoi discepoli, disse: «Io ho compassione di questa folla; perché già da tre giorni sta con me e non ha da mangiare; non voglio rimandarli digiuni, affinché non vengano meno per strada». Mt 18, 27: Il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Mt 20, 34: Allora Gesù, commosso, toccò i loro occhi e in quell’istante ricuperarono la vista e lo seguirono (i 2 ciechi di Gerico). Mc 1, 41: Gesù, impietositosi, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio; sii purificato!» (episodio del lebbroso già letto sopra). Mc 9, 22, nell’episodio della guarigione dell’indemoniato che i discepoli non hanno potuto guarire, il padre dell’ossesso chiede compassione a Gesù: «Ma tu, se puoi fare qualcosa, abbi compassione di noi e aiutaci». Lc 7, 13: 11 Poco dopo egli si avviò verso una città chiamata Nain, e i suoi discepoli e una gran folla andavano con lui. 12 Quando fu vicino alla porta della città, ecco che si portava alla sepoltura un morto, figlio unico di sua madre, che era vedova; e molta gente della
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città era con lei. 13 Il Signore, vedutala, ebbe compassione di lei e le disse: «Non piangere!». Lc 10, 33: Ma un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione; avvicinatosi, fasciò le sue piaghe, versandovi sopra olio e vino; poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui. Lc 15, 20: Egli dunque si alzò e tornò da suo padre; ma mentre egli era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione: corse, gli si gettò al collo, lo baciò. Il quadro apocalittico messianico è così modificato da Gesù, ma non annullato. Gesù attende ancora l’evento finale che comporterà la distruzione di questo mondo. Inequivocabili sono le sue parole sul Figlio dell’uomo che verrà sulle nubi per giudicare il mondo (immagine ripresa da Daniele). Ma egli sposa la visione del messianismo apocalittico in due tempi: la venuta del Messia non coincide con il momento finale, ma introduce un periodo penultimo e anticipatore, dove la sua compassione, la sua commozione viscerale per la sofferenza dell’uomo, si traduce in prassi di liberazione. L’attesa imminente della venuta del Regno è allora solo il risvolto linguistico della sua partecipazione “viscerale” alla sofferenza umana. Gesù non si è illuso, ma ha partecipato con tutto se stesso, fin nelle viscere, all’attesa della creazione sottomessa controvoglia alla vanità. 4.3. Un’antropologia messianica, immersa nella storia degli uomini ha quindi un suo orizzonte, quello stesso del Gesù storico, dove al peccatore si annuncia la misericordia, al povero la buona novella, al sofferente la liberazione, alla vittima la fine del mondo che l’ha cancellata dalla faccia della terra. Il suo orizzonte non è quello etico, ma quello del vangelo. Non già che ignori l’ingiustizia, ma al contrario si oppone ad essa tramite la partecipazione al dolore degli uomini che ne sono oppressi. Un’adeguata descrizione di questa antropologia, che è un’ermeneutica critica della storia tutta posta sotto il dominio del peccato, è quella di Rom 8,16-29. Mi si permetta per finire una brevissima e sommaria interpretazione di questo brano. La partecipazione alla gloria del Cristo, da parte dei figli di Dio e
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coeredi quindi del Cristo, è condizionata dalla partecipazione delle sue sofferenze: se patiamo con lui (sympaschomen): cfr. v. 17. Ma al v. 18 Paolo non parla delle sofferenze del Cristo, della sua morte etc. Apparentemente egli cambia argomento, perché parla invece delle sofferenze della creazione e degli stessi figli di Dio. Che la sofferenza dei figli di Dio possa essere intesa solo come il conpatire dei credenti con Cristo, forse è possibile, ma questo non può valere della sofferenza della creazione, delle sofferenze del momento presente. Infatti la creazione non soffre per partecipare alle sofferenze di Cristo, ma perché è stata sottomessa controvoglia — per il volere di un misterioso “colui” che l’ha sottomessa (ma si tratta di Adamo o, secondo altre tradizioni presenti anch’esse nella Bibbia, degli angeli stessi che, con il loro peccato hanno consegnato la creazione alla caducità). Si tratta di una sofferenza subita, della sofferenza apocalittica per le conseguenze della caduta iniziale. Ma allora qui si parla della sofferenza del mondo. I vangeli, come abbiamo visto, ci parlano del Cristo come di colui che non solo patisce per salvare il mondo, per redimerlo, ma che anzitutto patisce con il mondo, fin nelle viscere. Quando Paolo specifica il senso di questa compassione comune, si serve di due verbi che si trovano in questo brano soltanto in tutto il NT: systenazein, synodinein (gemere assieme, giacere assieme nelle doglie). L’idea è quella di una fecondità della compassione. Si comprende così l’atteggiamento messianico di Gesù, il motivo per cui gli autori del NT lo abbiano considerato come il Messia sofferente. Gesù ha portato vicino a noi il Regno di Dio perché, partecipando alla sofferenza del mondo, ne ha reso possibile la liberazione: questo è il senso del guarire come momento essenziale del suo annuncio, assieme alla liberazione da Satana e al perdono dei peccati, con un potere di cui ci ha reso partecipi. Egli dimostra questo potere nell’episodio relativo alla guarigione del paralitico di Cafarnao (Mt 9, 1-7 parr.), ma questo potere di rimettere i peccati è anche dato ai discepoli tutti in Mt 18, 18, a conclusione della descrizione della prassi della comunità nell’ammettere il peccatore. Quest’ultimo brano forse non appartiene al Gesù storico, ma è una testimonianza eloquente dell’autoconsapevolezza dei primi discepoli.
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Per un’antropologia critica: appunti
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Conclusione L’apertura conciliare alla storia è la grande novità della chiesa cattolica dopo quella catastrofe che fu la II guerra mondiale e il suo esito nella contrapposizione dei due blocchi. Per impulso di papa Giovanni i padri conciliari, in un’esperienza che qualcuno ha definito teologale30, si misero davanti alla storia del loro tempo, cercando di guardarla non con gli occhi della dottrina sociale della chiesa, della quale evitarono accuratamente persino il nome, elaborata attorno ai principi della sana ragione, ma con la sovranità misericordiosa del vangelo. Non poterono, per una carente elaborazione teologica, sviluppare tutte le conseguenze antropologiche di quello sguardo antico e nuovo al tempo stesso: antico come Gesù, come Gregorio, come Francesco, ma desueto in tempi più recenti. Quello sguardo nel postconcilio si è appannato nel succedersi di avvenimenti sconvolgenti e nuovi: la cosiddetta globalizzazione del mercato (ammesso che si debba chiamare così), la fine della contrapposizione fra i due blocchi nel 1989 con la caduta del muro di Berlino, l’esasperazione del pluralismo culturale ed etico all’interno dell’Occidente, le nuove sfide della biologia e dell’ingegneria genetica, il dissesto ecologico del pianeta. Alcuni di questi avvenimenti, sono tali da “secolarizzare” per così dire la concezione apocalittica. Essi infatti fanno intravedere, come operatore della fine della storia, non Dio, ma l’uomo stesso capace di distruggere l’opera stessa di Dio31. Sono avvenimenti che suscitano paura, impongono scelte, esigono una riflessione critica. Il compito dei cristiani dovrebbe essere quello di partecipare ancora adesso alle sofferenze della creazione tutta con la commozione di
30 M. FÉDOU, Le concile Vatican II: un enjeu d’interprétation, in Vatican II sous le regard des historiens. Colloque du 23 septembre 2005. Centre Sèvres – Facultés jésuites de Paris, sous la direction de Chr. Teobald, s. l. 2006, 137-157. Ma cfr. soprattutto di CH. THEOBALD, La réception du concile Vatican II. 1: Accéder à la source, Paris 2009, 49-273. 31 La riflessione su questa “secolarizzazione” dell’apocalittica è solo agli inizi. Su una tale prospettiva è ad esempio basato il libretto di R. GIRARD – J.-P. DUPUY, Prima dell’apocalisse, Massa 2010.
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Gesù. Il compito umile del teologare dovrebbe invece consistere nell’interpretazione della storia umana, sempre nuova, e dell’esistenza credente impegnata in essa, sempre piena di sfide, alla luce della conoscenza di Gesù Messia e Messia crocifisso, ma proprio per questo elevato alla destra del Padre. Un’antropologia critica non può che essere allora un’antropologia della compassione32.
32 Il tema della compassione come risvolto di una concezione apocalittica del tempo emerge nella XXVIII e nella XXVIII delle “tesi inattuali sull’apocalittica di J.B. METZ, Glaube in Geschichte und Gegenwart, cit. 156.
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LA RICEZIONE ECCLESIOLOGICA DELLA LUMEN GENTIUM Riflessioni criteriologiche per un primo bilancio*
HERVÉ LEGRAND**
Presentare a degli studenti di teologia, in un’unica conferenza, un bilancio della ricezione della Lumen Gentium (d’ora in poi LG), rientra nel campo delle “missioni impossibili”. Tanto più che questi stessi studenti, probabilmente ancora poco familiarizzati con l’esegesi tecnica della LG, non ignorano nulla dei conflitti di interpretazione che essa continua a sollevare cinquant’anni dopo la sua promulgazione1. La scommessa non sarebbe minore se la conferenza si indirizzasse soltanto a degli specialisti. Perciò vorrei porre l’accento, in questa relazione, innanzitutto sui criteri che determinano tale valutazione. Questa scelta, frustrante a prima vista, dovrebbe rivelarsi la più fruttuosa secondo la saggezza del proverbio cinese così spesso citato: “Se qualcuno ti domanda un pesce, non darglielo; insegnagli invece a pescare”. Ogni *
Disputatio tenuta il 24 febbraio 2011 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Questo testo, tradotto da Lisa Cremaschi, riprende, considerevolmente aumentata, la lezione fatta allo Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Docente emerito di Teologia presso l’Institut Catholique de Paris. 1 Si troverà rapido accesso al dibattito internazionale in A. MELLONI – G. RUGGIERI (curr.), Chi ha paura del Vaticano II?, Roma 2009. Cosciente di questi conflitti, M. BÖHNKE (Wieder die falschen Alternativen. Zur Hermeneutik des Zweiten Vatikanischen Konzils, in Catholica 65 [2011] 169) sottolinea il bisogno di un’“ermeneutica di orientamento storico e sistematico, che si sottometta alla verità”. Cercheremo in questo saggio di contribuirvi in modo limitato, ma non senza preoccupazione di rigore, a rischio di dispiacere.
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formazione teologica non ha per scopo, di fatto, di procurare un’autonomia di giudizio grazie all’acquisizione dei metodi richiesti? La difficoltà di valutare la ricezione della LG concerne innanzitutto il gran numero di temi, spesso assai complessi, sui quali questa Costituzione ha voluto prendere una posizione dottrinale. Sono rari i singoli teologi in grado di dominare un campo così vasto del programma di un concilio generale o ecumenico2. Per cominciare si sottolinerà che la ricezione della LG non può limitarsi al solo esame del suo testo, perché tale ricezione è strettamente collegata a quella di altri testi conciliari che essa ha direttamente influenzato. In un primo momento ci concentreremo, dunque, sulla ricezione indiretta della LG per la quale si può procedere senza grande sofisticazione metodologica (1.); in un secondo momento ci si sforzerà di mettere a punto, con un po’ più di tecnicismo, un certo numero di criteri ermeneutici che permettono di valutare la ricezione diretta della LG nei suoi obiettivi centrali (2.). A quel punto saremo attrezzati per valutare la ricezione effettiva, nella dottrina e nel diritto, dei punti più specifici della LG, come pure cio’ che resta da recepire o ancora da pensare (3.). 1. LA RICEZIONE INDIRETTA DELLA LUMEN GENTIUM NELLA PROSPETTIVA DEI DOCUMENTI CHE ESSA HA INFLUENZATO IN QUANTO
COSTITUZIONE PERNO DEL VATICANO II
La LG occupa un posto particolare tra tutti i testi promulgati dal Vaticano II. Questo proviene dalla sua anteriorità cronologica in 2 Si osserverà, perché a mia conoscenza non lo si è mai osservato, che la Costituzione dogmatica stessa non qualifica il Vaticano II come concilio ecumenico. Si tratta di un’astensione intenzionale? Non si potrebbe affermarlo. Tuttavia questo silenzio potrebbe essere felice nella misura in cui mostra, da una parte, l’assenza di una lista ufficiale di concili ecumenici nella Chiesa cattolica e, dall’altra, la possibilità di gerarchizzare tra loro i concili chiamati abitualmente ecumenici. Se ne vede immediatamente la portata per il nostro dialogo con la Chiesa ortodossa come lo illustra la Lettera di Paolo VI al Cardinal Willebrands in occasione del centenario del concilio di Lione II, che egli qualifica “concilio generale svoltosi in Occidente” [alterum generale concilium], cfr. AAS 66 (1974) 620-625. Cfr. La Documentation Catholique (= DC) 72 (1975) 63. Paolo VI poteva sentirsi autorizzato a questo dal lavoro storico di V.
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rapporto ad altri testi — soltanto la Costituzione sulla santa liturgia gli è anteriore — e più ancora dal suo statuto di Costituzione dogmatica. Giustamente, fin dalla prima riga del suo commento, mons. Gérard Philips, il suo principale redattore, qualifica questa Costituzione come “pietra angolare di tutti i decreti pubblicati”3. Di conseguenza, bisogna impadronirsi della LG come di un elemento decisivo dell’intero corpo conciliare. Nel tempo che abbiamo a disposizione non potremmo riuscirvi, ma si potrà almeno consacrare tutta la nostra prima parte alla ricezione indiretta della LG, passando in rassegna quella dei documenti conciliari che ne costituiscono il prolungamento. Vista l’ampiezza della materia, questo bilancio sarà certamente sommario. Però avrà il vantaggio di offrire agli studenti una visione generale delle recezioni fruttuose e meno fruttuose della LG, non troppo errata, si spera, al modo di un manuale di storia. 1.1. La felice ricezione dei temi della Lumen Gentium attraverso quella dei documenti conciliari che l’esplicitano 1.1.1. Lumen Gentium 15 e Unitatis Redintegratio: l’ecumenismo Gli enunciati della LG 15 sui legami della Chiesa con i cristiani non cattolici sono stati sviluppati dall’Unitatis Redintegratio. Nonostante alcuni incidenti di percorso, il bilancio dell’impegno ecumenico della chiesa cattolica è già molto considerevole. Si è
PERI, I concili ecumenici e le Chiese. Ricerca storica sulla tradizione d’universalità dei sinodi ecumenici, Roma 1965. Il cardinal W. BRANDMÜLLER propone una tipologia per distinguere tra concili ecumenici e concili generali e resta esitante nel collocare il Vaticano II (Zum Problem der Ökumenizität der Konzilien, in Annuarium Historiae Conciliorum 41 [2009] 275-312). 3 Cfr. G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero nel Concilio Vaticano II. Storia, testo e commento della Costituzione Lumen Gentium I, Milano 1969, 11: «Nessuno contesterà che la Costituzione del Vaticano II ‘sulla Chiesa’ sia da considerare come la pietra angolare di tutti i decreti pubblicati. Gli altri testi, anche il documento sulla liturgia che cronologicamente la precede, si appoggiano direttamente o indirettamente su di essa […] non sono altro che l’applicazione di principi dogmatici della Lumen Gentium».
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smesso di designare le altre Chiese soltanto sotto l’angolazione dello scisma o dell’eresia; le si riconosce ormai come vie di salvezza e si considerano i loro membri come fratelli in un solo battesimo4. All’apologetica e al proselitismo, mai liberati di tratti polemici, si è sostituito il dialogo “da pari a pari”5. In cinquant’anni si sono fatti più progressi che nei cinque secoli precedenti6. Nei riguardi della Chiesa ortodossa la dichiarazione di Balamand (1993) ha permesso di aprire nuove vie sulle quali camminare insieme. Si rinuncia a un uniatismo, che aveva notevolmente inasprito le nostre relazioni, e si sconfessa questo “metodo di apostolato missionario”, e anche il suo scopo7. Si dichiara in comune che l’unità futura non si farà né alle condizioni dei cattolici, né a quelle degli ortodossi, ma tra Chiese sorelle, cosa che Giovanni Paolo II accoglie nel 1995, citando nella sua enciclica Ut unum sint i termini forti di UR 148.
4 Cfr. Unitatis Redintegratio 3: «Giustificati nel battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo e perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani e dai figli della chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti come fratelli nel Signore». Trattandosi di «chiese e comunità […] si devono dire atte ad aprire l’ingresso nella comunione della salvezza […] Lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza». 5 UR 9: par cum pari. 6 Abbiamo tratteggiato questo bilancio con maggiori dettagli in H. LEGRAND, Où en est l’œcuménisme ? Quarante ans après la promulgation d’Unitatis Redintegratio, in Istina 50 (2005) 353- 384. 7 Cfr. la Dichiarazione di Balamand 12: «Questa forma di apostolato missionario […], chiamata uniatismo, non può più essere accettata né in quanto metodo da seguire né in quanto modello dell’unità cercata dalle nostre Chiese»; cfr. anche ibid. 14: «La Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa si riconoscono mutualmente come Chiese sorelle, responsabili insieme del mantenimento della Chiesa di Dio nella fedeltà al disegno divino». 8 Ut unum sint 95: «Per un millennio i cristiani erano uniti ‘dalla fraterna comunione della fede e della vita sacramentale, intervenendo per comune consenso la sede romana, qualora fossero sorti fra loro dissensi circa la fede e la disciplina’ (UR 14)» (Enchiridion Vaticanum 14. Documenti ufficiali della Santa Sede 1994-1995, Bologna 1997, n. 2867. Lo stesso papa aveva legittimato il contenuto della Dichiarazione di Balamand dichiarando nella cattedrale ortodossa di Bialystock: «Oggi vediamo meglio e più chiaramente che le nostre Chiese sono Chiese sorelle. Il
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Questi passi fondamentali dovrebbero permettere di superare le incomprensioni e le resistenze che si manifestano di tanto in tanto9. Nei riguardi delle Chiese della Riforma, la sottoscrizione, ad Augusta, nel 1999, della Dichiarazione comune sulla giustificazione con tutte le Chiese luterane del mondo, rappresenta anch’essa un passo storico, perché la Riforma si è cristallizzata dottrinalmente sull’interpretazione di quest’articolo di fede con il quale “la Chiesa crolla o si rialza”, e che permette anche di “giudicare tutti gli articoli di fede”, secondo le parole di Lutero10. In seguito, anche il Consiglio metodista mondiale ha sottoscritto questo accordo, facendo forse da precursore alle altre Chiese sorte alla Riforma. 1.1.2. Lumen Gentium 6 e Nostra Aetate: il dialogo interreligioso Questi testi sono entrati nella vita della Chiesa in modo molto fruttuoso come ha manifestato l’incontro di Assisi, di cui Giovanni Paolo II aveva preso l’iniziativa e che Benedetto XVI ha ripreso nel 2011. Senza questo nuovo atteggiamento, Giovanni Paolo II avrebbe potuto indirizzarsi ai settantamila giovani musulmani nello stadio di Casablanca su invito del re del Marocco, capo dei credenti? E un domani, come potranno i cattolici del mondo arabo coabitare con i musulmani se la Chiesa, nel suo insieme, non coltiva relazioni pacifiche
fatto di dire Chiese sorelle non è soltanto una frase di circostanza, ma una categoria ecumenica fondamentale d’ecclesiologia», DC 88 (1991) 689-690. 9 Un esempio basterà, in contrasto con la nota precedente: dieci giorni prima dell’incontro della Commissione di dialogo nel 2000, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (= SCDF) ha inviato a ciascun vescovo cattolico una Lettera segreta, — cosa che le garantiva una grande pubblicità —, per ricordare che la Chiesa cattolica, una e unica, e madre di tutte le Chiese, non poteva considerare la Chiesa ortodossa come Chiesa sorella. 10 Sulla portata di tale sottoscrizione si veda: H. LEGRAND, La légitimité d’une pluralité de ‘formes de pensée’ (Denkformen) en dogmatique catholique. Retour sur la thèse d’un précurseur: O. H. Pesch, in La responsabilité des théologiens. Mélanges en l’honneur de Joseph Doré, Paris 2002. O, più accessibile, ID., Le consensus différencié sur la doctrine de la Justification (Augsbourg 1999). Quelques remarques sur la nouveauté d’une méthode, in Nouvelle Revue Théologique 124 (2002) 30-56.
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tra tutte le religioni, contribuendo così a scongiurare la profezia di S. Hungtinton sullo scontro delle civiltà? 1.1.3. Lumen Gentium 16 e le relazioni con il popolo ebraico La posizione presa dalla LG a proposito del popolo ebraico ha portato anch’essa frutti notevoli, tanto più attesi dal momento che è in paesi cristiani che sono stati uccisi sei milioni di ebrei, nel silenzio controverso del papa dell’epoca. Questo sullo sfondo non di un antisemitismo, ma di un antigiudaismo cristiano, millenario e sconcertante, così presente tra i padri della chiesa riconosciuti come grandi santi11. Qui ancora, i gesti di Giovanni Paolo II hanno assicurato la ricezione dei testi. Non è forse stato il primo papa in duemila anni ad attraversare il Tevere per salutare il suo “fratello maggiore”, il rabbino di Roma? Facendo scivolare un foglietto contenente la sua preghiera nelle fessure del Muro del Pianto — un’immagine che ha fatto il giro del mondo — ha fatto ben più di migliaia di scritti teologici per migliorare un clima tanto più pesante in quanto il contenzioso era d’antica data12. In coerenza con la volontà di dialogo della Lumen Gentium, la Dichiarazione sulla libertà religiosa, nonostante le resistenze di mons. Lefebvre su questo punto, come sui tre precedenti, è stata perfettamente recepita nella Chiesa cattolica, sia come richiesta evangelica sia come una necessità del mondo attuale. Nella situazione attuale, come non reclamare questa libertà nei paesi musulmani e in Cina? Come essere credibili, del resto, nel dialogo ecumenico finché resta in vigore, per esempio, il concordato con la Spagna, fortemente discriminatorio nei confronti dei protestanti, firmato nel 1953 tra papa Pio XII e il generale Franco, e abolito soltanto nel 1980?
11 Su questo punto l’opera decisiva è: M. SIMON, Verus Israel: les relations entre chrétiens et juifs dans l’empire romain, Paris 19481, 19642, 19833; questa tesi che ha avuto tre edizioni (!), analizza gli atteggiamenti dei principali Padri: Cipriano, Ambrogio, Crisostomo, Gregorio di Nissa, ecc. 12 Per cogliere il mutamento di questo clima nell’insieme della diaspora si leggerà l’articolo molto informato di M. FOURCADE, Le Moment Lustiger, in Nova et Vetera 86 (2011) 267-296.
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Concludiamo: in materia d’ecumenismo, di dialogo interreligioso, di riavvicinamento con il popolo ebraico, di libertà religiosa sul piano civile, la Lumen Gentium ha conosciuto una buona ricezione nelle società umane, ma anche nell’insieme della Chiesa che avrebbe potuto essere più reticente davanti a questi cambiamenti di accento a volte notevoli in rapporto al magistero ancora recente dei papi. 1.2. Alcune ricezioni relativamente infruttuose della Lumen Gentium attraverso quella dei documenti che ha influenzato 1.2.1. Lumen Gentium 28 e 29 e Presbyterorum Ordinis: Presbiteri e diaconi LG 28 non aveva realmente saputo sintetizzare teologicamente il ministero presbiterale, accontentandosi di giustapporre le categorie sacerdotali, pastorali e missionarie senza andare al di là di una descrizione. La diagnosi migliore, a questo proposito, sembra essere stata data dal futuro cardinale Paul Josef Cordes che scrive: «Al documento conciliare manca quella forza di convinzione che scaturirebbe da una sintesi acquisita a partire dal suo oggetto. I suoi enunciati danno spesso l’impressione di non essere stati portati a maturità e di mancare di omogeneità; conducono così da se stessi a interpretazioni eclettiche. Non è un caso, dunque, se, dopo il concilio, le posizioni teologiche relative al ministero presbiterale sono andate in tutte le direzioni»13.
Concretamente, questo decreto, abbinato a quello della formazione dei presbiteri, ha ripreso un modello universale che, di anno in anno, si rivela sempre più inadeguato nella maggior parte delle Chiese d’Occidente, come è attestato inesorabilmente dalla curva delle ordinazioni. Troppo spesso questa evoluzione è attribuita alla “secolarizzazione” e alla decadenza dei costumi, senza nessun altra analisi, cosicché la sola prospettiva proposta è di fare meglio quello che si è 13 P. J. CORDES, Sendung zum Dienst. Exegetisch-historische und systematische Studien zum Konzilsdekret. “Vom Dienst und Leben der Priester”, Frankfurt a. M. 1972 (Frankfurter Theologische Studien 9), 307.
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sempre fatto e di pregare. Non ci si interroga praticamente sul concetto di vocazione, più pietista che teologico, che continua a ispirare la prassi14, così che le diocesi non hanno più la possibilità di chiamare i presbiteri di cui hanno bisogno. Riguardo ai diaconi, LG 29 ha innovato con un ritorno alla tradizione, senza tuttavia approfondire la teologia di questo ministero15. In pratica, quando i vescovi hanno coscienza che spetta a loro “assegnare gli incarichi”, come si legge in Ippolito di Roma16, si constata che in certi anni, accade loro, per esempio in Francia, di ordinare più diaconi che presbiteri. 1.2.2. Lumen Gentium 2 e 4 e Apostolicam Actuositatem: popolo di Dio e laicato Si è molto inneggiato alla riscoperta del popolo di Dio nella Lumen Gentium17, e giustamente, poiché si smetteva di considerare la Chiesa come una società gerarchica di disuguali e la si comprendeva ormai come popolo di Dio in cammino nella storia, corpo di Cristo e tempio dello Spirito santo. Ma questa dottrina tradizionale era così dimenticata all’epoca, salvo che nelle orazioni del Messale romano, che anche la sua ricezione intraconciliare fu assai modesta. Trattando del laicato, i padri conciliari pensavano, probabilmente, di parlare del popolo di Dio. Non è un’ipotesi irriverente, considerato il lapsus teologico di Paolo VI il quale, nella sua enciclica Mysterium Fidei
14 Come contributo alla valorizzazione di una concezione tradizionale della vocazione, si potrà leggere: H. LEGRAND, La théologie de la vocation aux ministères ordonnés: vocation ou appel?, in La Vie Spirituelle 78 (1998) 621-640. 15 Si veda su questo punto: H. LEGRAND, Le diaconat dans sa relation à la théologie de l’Église et des ministères : réception et devenir du diaconat depuis Vatican II, in Diaconat XXIe siècle, Bruxelles 1997, 13-41. 16 PSEUDO-IPPOLITO, Tradizione apostolica 3, a cura di E. Peretto, Roma 1996, 107: «di assegnare gli incarichi secondo il tuo ordine» (preghiera di ordinazione del vescovo). 17 Cfr., ad es., Y. CONGAR, La Chiesa come Popolo di Dio, in Concilium 1 (1965) 19-43.
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pubblicata subito dopo il Vaticano II, afferma che «il Cristo presente assiste la sua Chiesa che dirige e governa il popolo di Dio?»18. Questa quasi non-ricezione della realtà teologica del popolo di Dio spiega come i diritti legati alla comunione cristiana (iura communionis) in seno al popolo di Dio non abbiano ricevuto traduzione solida né nel Codice del 1983 né nella legislazione post-conciliare19. È così che i laici non possono intervenire strutturalmente nel cammino della loro parrocchia e che, in seno al sinodo diocesano (che è veramente una rappresentazione del popolo di Dio, poiché il vescovo lo presiede e i membri del clero vi siedono a pieno diritto con una maggioranza di laici eletti), non possono neppure esprimere dei semplici desideri di veder cambiare la legislazione in vigore, anche quando non è implicata la fede20. Ancora meno, ordinariamente, possono esprimere il desiderio, se non privatamente, sul profilo dei loro futuri ministri (presbiteri o vescovi). In compenso, la teologia del laicato, che non è quella del popolo di Dio, ha avuto una larga ricezione nella prospettiva della grande estensione del diritto di associazione — un prestito al diritto secolare e non al diritto di comunione — estensione già prevista dall’Apostolicam Actuositatem21. Questo si è tradotto molto concretamente nel largo sostegno accordato ai nuovi movimenti da Giovanni Paolo II22 e dal cardinal Ratzinger23. Questi movimenti, preziosi per tutta la Chiesa, specialmente per l’evangelizzazione dei giovani, rientrano nel campo del carisma e non direttamente del dispiegamento fondamentale della teologia del popolo di Dio. 18 AAS 57 (1965) 763: «Christus praesens adest Ecclesiae Suae populum Dei regenti et gubernanti». 19 Si vedano su questo tema le riflessioni di L. ORSY, Il popolo di Dio. Sull’impossibilità di una teologia del laicato, in Il Regno 54 (2009) 706-727. 20 Instructio de synodis agendis IV, 4 in AAS 89 (1997) 706 -727. 21 Particolarmente Apostolicam Actuositatem 19. 22 Redemptoris Missio 72: «I movimenti rappresentano un vero dono di Dio […] Raccomando, quindi, di diffonderli e di avvalersene» (Enchiridion Vaticanum 12. Documenti ufficiali della Santa Sede 1990, Bologna 1992, n. 688). 23 Li ha collocati prioritariamente dal lato della Chiesa universale, come gli ordini religiosi tradizionali che si erano appoggiati sul papa e ricevevano in cambio il suo sostegno per stimolare la riforma della Chiesa: J. RATZINGER, Les mouvements ecclé-
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1.2.3. Lumen Gentium 6 e Optatam Totius: la vita religiosa Le risoluzioni relative alla vita religiosa non hanno portato frutti. Il declino della vita religiosa femminile è continuato in tutto l’Occidente, mentre essa continua ad esercitare un’attrattiva su molte donne del Terzo Mondo. Ci si trova davanti a un riflesso dell’evoluzione accelerata dello statuto delle donne in Occidente nell’ultimo mezzo secolo? Gaudium et Spes aveva intuito la sua ampiezza24, ma poi, l’ha affrontata in maniera teologicamente convincente? 1.3. Un primo bilancio della ricezione indiretta della Lumen Gentium La trattazione che ha preceduto è ben lontana dall’aver analizzato esaustivamente la ricezione della LG che si è attuata attraverso la sua ricezione intraconciliare. Si sarebbe dovuto in particolare osservare in che modo l’Ad Gentes ha fatto progredire la teologia delle Chiese locali e della cattolicità tracciata dalla LG, o ancora la definizione della Chiesa diocesana attraverso Christus Dominus 11. Non si è nemmeno tentato di domandarsi perché questa ricezione è stata abbastanza diversificata: è dovuta alla qualità intrinseca degli orientamenti proposti? ai mutamenti storici che sopraggiungono tra le decisioni e la loro realizzazione? ad altre ragioni? Infine, lo studio della ricezione avrebbe dovuto condurre anche a quello della non-ricezione: essa ha condotto i lefevriani a una deriva di tipo settario di cui ci si domanda se la chiave principale non sia più politica che ecclesiologica25. Quest’ultima constatazione suggerisce al teologo di trattare la ricezione della Lumen Gentium in maniera pluridisciplinare: la sociologia e la storia sarebbero preziose per spiesiaux et leur lieu théologique, in Faire route avec Dieu. L’Église comme communion, Paris 2003, 163-183. 24 Specialmente Gaudium et Spes 8, 9, 60. 25 È la diagnosi proposta da M. FAGGIOLI, La réception politique de Vatican II, in Spiritus 196 (2009) 263-269. Il vescovo lefevrista Williamson è un vescovo difensore del negazionismo.
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gare le divergenze di interpretazione che non hanno la loro unica fonte nella pura teologia. Senza ignorare questo, ci concentreremo tuttavia d’ora in poi sulla teologia. 2. LA RICEZIONE DIRETTA DELLA LUMEN GENTIUM E I SUOI CRITERI TEOLOGICI PROPRI
2.1. La ricezione come realtà tradizionale nella vita della chiesa Assolutamente biblico e tradizionale, il concetto di ricezione, quasi dimenticato nei tempi moderni, è stato riscoperto l’indomani del Vaticano II dai teologi sotto l’influenza degli storici del diritto e degli specialisti della letteratura. I primi teologi cattolici a trattarne formalmente, Alois Grillmeier26 e Yves Congar27 si sono ispirati, diversamente del resto, all’opera pioneristica, divenuta classica in questo campo, di Franz Wieacker che ha elaborato questo concetto per rendere conto della progressiva penetrazione del diritto romano in quello germanico28. Più recentemente, i teologi hanno beneficiato di un’altra elaborazione di questo concetto, più congeniale al nostro tema, ad opera di Hans Robert Jauss e dalla scuola di Costanza, che hanno mostrato come il senso di un’opera letteraria non può essere ridotto all’intenzione del suo autore, perché questo senso è condizionato dall’orizzonte d’attesa del gruppo-lettore29. 26 A. GRILLMEIER, Konzil und Rezeption. Methodische Bemerkungen zu einem Thema der ökumenischen Diskussion, in Theologie und Philosophie 45 (1970) 321372. 27 Y. CONGAR, La ‘réception’ comme réalité ecclésiologique, in Revue des sciences philosophiques et théologiques 56 (1972) 309-403. 28 F. WIEACKER, Privatrechtsgeschichte der Neuzeit unter besonderer Berücksichtigung der deutschen Entwicklung, Göttigen, 19521, 19672. In Francia, senza utilizzare il termine, anche P. Legendre ha studiato questo genere di fenomeno nella sua tesi: La pénétration du droit romain dans le droit canonique classique, Paris 1964. 29 Si veda il suo lavoro classico Literaturgeschichte als Provokation, Frankfurt a. M. 1974, tradotto in francese con altri saggi sotto il titolo: L’esthétique de la réception, Paris 19781, 19902.
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Per quanto stimolanti, questi prestiti alle scienze umane si sono rivelati inadeguati in quanto tali per cogliere l’essenza della ricezione ecclesiale. Il concetto di Wieacker presupponeva una troppo grande eterogeneità tra gli attori della ricezione di un concilio, come Congar ha fatto notare30. Quanto all’attività essenziale del “gruppo-lettore” nella ricezione secondo Jauss, aveva l’inconveniente teologico maggiore di dare al polo della ricezione un ruolo preponderante in rapporto al polo della tradizione e di non tener conto dell’autonomia del testo in rapporto alle intenzioni del redattore31. Questa assenza stessa di riflessione teologica sulla ricezione, in un’epoca ancora recente, si verifica facilmente con la constatazione dell’assenza del termine stesso in tutti i dizionari di teologia cattolica32. Un simile occultamento si spiega sia con gli irrigidimenti posttridentini sia con l’ecclesiologia del XIX secolo, elaborata all’insegna dell’autorità gerarchica, un’ecclesiologia troppo spesso ridotta a una “gerarcologia”, secondo l’espressione di Congar33, nel cui quadro la ricezione di un concilio si ridurrà alla sua applicazione nell’obbedienza dovuta alla gerarchia. Eppure la tradizione cattolica parla un linguaggio diverso: il canone delle Scritture si è costituito attraverso la ricezione, così come sono stati oggetto di ricezione i simboli di fede, i credo, i canoni apostolici, i formulari liturgici34, i concili generali, e anche certi sinodi molto
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Cfr. Y. CONGAR, La ‘réception’ comme réalité ecclésiologique, cit., 369-370. Per mezzo dell’expansio modorum l’intenzione dei padri diventa la lettera del testo, ma questa lettera deve essere chiarita attraverso le discussioni che hanno portato alla sua formulazione. 32 L’articolo è assente nel Dictionnaire de théologie catholique (che ha tuttavia un articolo, negativo, sull’accettazione delle leggi), nell’Enciclopedia cattolica, nel dizionario Catholicisme, nella New Catholic Encyclopedia (però del l967), nel Dictionnaire de Spiritualité, nel Lexikon für Theologie und Kirche, dove non appare prima dell’edizione del 1993. 33 Se ne troverà un approccio globale in Y. CONGAR, L’ecclésiologie, de la Révolution française au concile du Vatican, sous le signe de l’affirmation de l’autorité, in L’ecclésiologie au XIXe siècle, Paris 1960, 77-144 (Unam sanctam 34). 34 In date diverse, ricezione della liturgia romana in Spagna al tempo di Gregorio VII, o in Francia nella metà del XIX secolo. 31
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locali, come quello di Orange, sono stati accolti dalla Chiesa intera. Il diritto in vigore prevede sempre la ricezione dei ministri, almeno nel caso dei presbiteri in servizio nella parrocchia35. Lo stesso accade per le diversità liturgiche e disciplinari recepite nelle Chiese particolari in seno alla Chiesa cattolica; lo testimonia il Vaticano II trattando delle Chiese orientali cattoliche36. Tuttavia l’ethos cattolico attuale, tanto quello dei teologi quanto quello della gerarchia, recalcitra davanti al fatto che la ricezione dei testi conciliari prenda tanto tempo e sia diversificata; l’ermeneutica dotta, quella dei teologi, non coincide sempre con l’ermeneutica magisteriale, e queste due non sono necessariamente in accordo con l’ermeneutica credente non dotta, che si costituisce senza aver abitualmente letto i testi37. Tuttavia, nel processo di ricezione, il corpo tutto intero è all’opera e qui si applica quello che Pio XII diceva in tutt’altro contesto: «La Chiesa è un corpo vivente e difetterebbe qualcosa alla sua vita se le mancasse l’opinione pubblica»38. Vi sarebbe certamente un qualche pericolo nell’ignorare quello che i fedeli pensano della riforma liturgica, del futuro del ministero presbiterale e anche dei problemi morali39.
35 Il contenuto del canone 2147, 2, 2° del Codice de 1917 è stato ripreso in quello del 1983 nel canone 1740. 36 Un solo esempio; il Decreto sui presbiteri fa così l’elogio «dei preti cattolici sposati che si consacrano totalmente al popolo che è loro affidato» (PO 16). Eppure non si accettano preti sposati nel rito latino se non con parsimonia, parsimonia che si ritrova nell’accettazione del diritto consuetudinario; se si fosse accettato il suo ruolo in campo liturgico, che si è voluto regolare con decreti, ci si sarebbe indubbiamente risparmiati molti conflitti a partire dal Vaticano II. 37 Molto giudiziosamente L. Villemin nota su questo tema «che a separare questi tre tipi di ermeneutica, si corre il rischio di vedere questi tre discorsi ignorarsi mutualmente o di vedere l’uno dei tre schiacciare gli altri due» (L’herméneutique de Vatican II. Enjeux d’avenir, in Ph. BORDEYNE – L. VILLEMIN (curr.) Vatican II et la théologie, Paris 2006, 256-257 [Cogitatio Fidei 254]). 38 PIO XII, La presse catholique et l’opinion publique, in DC 47 (1950) 327 (AAS 42 [1950] 256). 39 LG 37 insegna che «i pastori [=i vescovi], aiutati dall’esperienza dei laici, possono dare un giudizio più chiaro e più opportuno (distinctius et aptius) sia in materia spirituale che temporale».
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Tuttavia, la ricezione di un testo conciliare, pur costituendo un processo ed essendo diversificato, obbedisce nondimeno a richieste specifiche che occorre enumerare, tanto sono lontane dall’essere sempre rispettate. 2.2. Tre momenti richiesti nella ricezione dei testi conciliari Tre momenti sono richiesti ai credenti nella ricezione dei testi conciliari: un atteggiamento di accoglienza, che non è richiesto davanti ad altri testi; una grande attenzione alla loro struttura di enunciazione che può includere correzioni di traiettoria, e il rifiuto di ogni commento senza lettura previa. 2.2.1. Un primo atteggiamento di ascolto Mentre si dovrebbe coltivare un’ermeneutica fiduciosa d’adesione a dei testi conciliari, non sempre questo è accaduto, come si constata, non senza qualche perplessità, nelle Conclusioni del Sinodo straordinario del 1985, consacrato al Vaticano II. Vi si legge: «Unanimamente e con gioia abbiamo verificato che il concilio Vaticano II è un’espressione legittima e valida, e un’interpretazione del deposito della fede tale quale si trova nella santa Scrittura e nella Tradizione vivente della Chiesa»40.
Una simile retorica è certamente l’eco, all’epoca, di un sospetto nei confronti del Vaticano II. Tale espressione dichiara in maniera maldestra di aver voluto verificare la legittimità della fede enunciata da un concilio ecumenico confermato dal papa. Questo non può essere di competenza se non di un altro concilio generale. Questo sinodo dichiara di aderirvi con gioia e ugualmente tutti i cattolici sono chiamati a fare lo stesso.
40 Sinodo Straordinario. Celebrazione del Vaticano II, Paris 1986, 550. I corsivi sono nostri. Il testo è del Cardinal Godfried Danneels, segretario speciale del Sinodo.
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2.2.2. L’importanza delle strutture di enunciazione per riconoscere le correzioni di traiettoria dottrinale nella ricezione Tener conto della struttura di enunciazione di un testo conciliare può sembrare un truismo, ma non lo è in tema di storia della ricezione dei concili. Così, poiché la Santa Sede aveva proibito di pubblicare gli Atti di Trento41, questo concilio è stato recepito a partire da una somma di enunciati dottrinali e di norme disciplinari distaccate dalla struttura d’enunciazione che le aveva portate e che dava loro senso. È così che, secondo la formula di Giuseppe Alberigo “Trento aveva dato nascita al tridentinismo”42. Il pericolo di un “vaticanismo” dopo il Vaticano II è meno minaccioso perché i suoi Acta sono stati rapidamente pubblicati. Occorre tuttavia andare al di là della loro semplice lettura per accedere all’interpretazione corretta dei suoi enunciati, perché il loro senso è ancora determinato dalla struttura di enunciazione che li ingloba43. Ma già la lettura degli Acta Synodalia mostra quanto la struttura d’enunciazione della LG fu discussa perché è già nella programmazione del suo piano che il Vaticano II intraprese la correzione di un certo numero di traiettorie dottrinali, correzioni che una lettura pedissequa non rivela44. Illustriamo questo punto confrontando il piano attuale della LG al suo piano primitivo che fu respinto e considerevolmente rimaneggiato. Ecco l’elenco dei capitoli secondo il piano primitivo: 1) La Chiesa 41
La Görres-Gesellschaft ha iniziato l’edizione soltanto a partire dal 1901. Cfr. G. ALBERIGO, La réception du concile de Trente par l’Église catholique romaine, in Irénikon 58 (1985) 311-337. 43 Questo vale allo stesso modo per i titoli successivi di un documento: quale teologo serio troverà dottrinalmente insignificante che il documento consacrato ai presbiteri si sia intitolato originariamente De clericis, poi De sacerdotibus, poi De Vita et ministerio sacerdotum, che diventa successivamente De vita et ministerio presbyterorum, mentre il titolo finale adottato dal concilio è l’attuale Presbyterorum Ordinis? Ne conseguirà per lui, a quanto pare, la necessità di non trattare più i presbiteri come un clero, o come “il sacerdozio”, ma nella fedeltà alla tradizione più antica come costitutivi dell’ordine dei presbiteri. 44 Questi arbitrati a volte furono difficili: 1114 voti a favore dell’integrazione dello schema mariale in LG, 1074 contro. 42
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militante e la sua natura; 2) I membri della Chiesa; 3) L’episcopato, grado supremo del sacramento dell’ordine e del sacerdozio; 4) I vescovi diocesani 5) I religiosi; 6) I laici; 7) Il magistero; 8) L’autorità e l’obbedienza; 9) La Chiesa, lo Stato e la tolleranza religiosa; 10) L’evangelizzazione; 11) L’ecumenismo. Un capitolo a parte, integrato tardivamente nella LG, era consacrato a Maria, madre di Dio e madre degli uomini45. Già ridotto a quattro capitoli, lo schema fu presentato ai padri secondo il seguente piano, che rifletteva sempre un’ecclesiologia di società perfetta e gerarchica: 1) Il mistero della Chiesa; 2) La gerarchia; 3) Il popolo di Dio, i laici; 4) La santità. Il piano definitivo volge le spalle a tali prospettive. Invece di cominciare con la Chiesa militante sulla terra, si comincia nel capitolo primo con il mistero della Chiesa, nel suo radicamento trinitario n. 1, secondo la sequenza seguente: n. 2 Il disegno del Padre, n. 3 La missione del Figlio, n. 4 Lo Spirito santificatore, n. 5 Il regno di Dio. La correzione di traiettoria dà come matrice della trattazione teologica della Chiesa questo radicamento nel mistero di un Dio Padre, Figlio e Spirito santo e nella sua relazione con il Regno di Dio; è notevole, perché a partire dalla seconda metà del XIX secolo, i trattati di diritto pubblico ecclesiastico che presentavano la Chiesa come alter ego dello Stato, modellavano l’ecclesiologia. L’inversione nell’ordine dei capitoli 2 e 3 della Costituzione ha parimenti costituito una correzione di traiettoria altrettanto notevole, immediatamente commentata. La gerarchia non era più presentata come anteriore o superiore ai laici, dal momento che il binomio gerarchia/laicato era riassorbito nell’elemento comune a tutti, il popolo di Dio. Questo ritorno alla Tradizione, diversamente recepito nel linguaggio, lo è stato molto poco nel diritto: l’esercizio dei diritti di comunione resta molto poco sviluppato sia nel quadro parrocchiale come anche nel quadro diocesano. Il popolo di Dio è confuso con il
45
Acta et documenta concilio oecumenico Vaticano II apparando, series II, Volumen
III, Pars I, Città del Vaticano 1969, 135-231.
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laicato. La non-ricezione del Vaticano II su questo punto costituisce un tema di seria preoccupazione pastorale46 ed ecumenica47. Terza correzione di traiettoria significativa: il capitolo concernente i laici precede ormai quello consacrato ai religiosi nello schema primitivo; la correzione è ancor più accentuata quando la trattazione della vita religiosa è collocata dopo l’appello alla santità per tutti. Infine, la prospettiva escatologica comune a tutti rinnova molto sensibilmente il culto dei santi (c. 7), prima che la LG si concluda sulla figura escatologica del primo membro della Chiesa, Maria (c. 8). Qui, ancora una volta, la correzione di traiettoria è considerevole. Anche con sviluppi identici, il Vaticano II non avrebbe evidentemente insegnato la stessa cosa se avesse consacrato uno schema indipendente alla persona di Maria (come richiedeva la metà dei Padri), invece di integrarlo nello schema sulla Chiesa48. Tutte e ciascuna di queste correzioni di traiettoria che abbiamo evidenziato illustrano quanto si debbano tenere in gran conto le strutture di enunciazione della LG per giudicare la sua ricezione, perché è in esse che si ritrovano le opzioni dottrinali più meditate del concilio. A titolo di esempio, questo permette di valutare la ricezione del nuovo orientamento della mariologia. Essa è stata buona nella riforma liturgica49 e notevole nella Marialis Cultus, in cui Paolo VI 46 Difatti, se i laici continuassero a considerarsi nella Chiesa come cristiani governati e istruiti da chierici che celebrano per loro, non potranno se non difficilmente essere testimoni qualificati della loro fede nelle società occidentali. 47 Il codice di diritto canonico successivo al Vaticano II ha conservato una forma monarchica per il registro delle parrocchie, delle diocesi e della Chiesa intera, mentre tutte le altre Chiese articolano le responsabilità tra tutti e alcuni, come testimonia il Documento di Fede e Costituzione, intitolato Battesimo, eucarestia e ministero, approvato a Lima, nel 1982, anche dai delegati cattolici. La forma “monarchica” si giustifica pienamente davanti alla messa in guardia di Melantone: «Non si deve trasferire alla (sola) gerarchia quello che è detto di tutta la Chiesa [nel Vangelo]»? (Apologie de la Confession d’Augsbourg 188, in La foi des Églises luthériennes. Confessions et catéchismes, Paris 1991, 189). 48 Si consulti su questo tema: E. TONIOLO, La Beata Maria Vergine nel Concilio Vaticano II. Cronistoria del Capitolo VIII della Costituzione Dogmatica “Lumen Gentium” e sinossi di tutte le redazioni, Roma 2004. 49 Cfr. P. JOUNEL, Le culte de Marie dans la liturgie romaine rénovée, in ID., La liturgie expression de la foi, Roma 1986, 159-178.
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presenta Maria come «modello di tutti i credenti»50, uomini e donne. Ma la ricezione è meno netta in Giovanni Paolo II quando parla alle donne della «femminilità vissuta sul modello sublime della Madre di Dio»51 rispetto a quando, nel 1995, rifiuterà di dar corso alla supplica di 540 vescovi e 45 cardinali (tra cui il cardinal Lustiger), che gli chiedevano di proclamare tre nuovi dogmi: quello di Maria corredentrice, di Maria mediatrice universale e avvocata (parakletos, uno dei titoli dello Spirito santo)52. Con la sua fedeltà alla LG53, Giovanni Paolo II manterrà, su questo punto, l’orientamento ecclesiotipico della mariologia, mentre tanti cardinali perseveravano in un orientamento cristotipico di cui non misuravano la fragilità dogmatica, irritante da un punto di vista ecumenico. Questa mediocre ricezione della LG 8, trent’anni dopo il Vaticano II, illustra quanto tale processo possa richiedere del tempo. 2.2.3. Non commentare mai il testo senza prima averlo letto personalmente Questa regola è una delle prime che si inculcano ai nostri studenti. Giustamente, perché si constata che anche teologi di fama la trasgrediscono tranquillamente. Dei commentatori che non hanno letto i testi creano così polemiche sterili che annebbiano i dibattiti sulla ricezione. Si illustrerà questo punto con tre esempi che mettono in causa la giusta ricezione della LG e che hanno origine in diversi esperti ufficiali del Vaticano II. 50 «Modello di tutta la Chiesa nell’esercizio del culto divino, Maria è anche, evidentemente, maestra di vita spirituale per i singoli cristiani» (Marialis Cultus 21, in Enchiridion Vaticanum 5. Documenti ufficiali della Santa Sede 1974-1976, Bologna 1979, n. 47). 51 Lettre aux femmes 11, in DC 92 (1995) 720. 52 Cfr. H. MUNSTERMAN, Marie corédemptrice? Débat sur un titre marial controversé, Paris 2006, 9. 53 «Non si deve abbandonare la linea teologica seguita dal Vaticano II», in Osservatore Romano, 4 giugno 1997. Si consolida cosi il passaggio da una mariologia cristotipica a una mariologia ecclesiotipica, correzione ecumenicamente molto importante.
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2.2.3.1. Primo esempio: Lumen Gentium ha insegnato che si deve comprendere la Chiesa come sacramento fondamentale? La seconda frase della LG in latino si enuncia come segue: Cum ecclesia sit in Christo veluti sacramentum seu signum et instrumentum intimae cum Deo unionis totiusque humani generis humani unitatis. Tre esperti vi hanno visto un enunciato di teologia sacramentaria, cioè l’adozione da parte della LG dell’idea della Chiesa come sacramento fondamentale o sacramento-fonte (Ur- o Wurzelsakrament), da cui emanerebbero i sette sacramenti, idea abbastanza in voga alla vigilia del concilio. Ma questo insegnamento, senza dubbio legittimo, è divenuto una dottrina conciliare? Secondo tre “periti” del Vaticano II54, sì. Jan L. Witte sottolinea «l’accento messo sul carattere sacramentale della Chiesa», nella quale «i sette sacramenti sono una specificazione ulteriore del sacramento dell’unità che è la Chiesa»55. Peter Smulders intitola senza scrupoli un sottotitolo del suo contributo come segue: «La Chiesa come sacramento primordiale»56. Queste citazioni mostrano che degli esperti possono proiettare le loro opinioni private su dei testi ufficiali che dicono tutt’altra cosa. L’interpretazione dello stesso testo data da Cipriano Vagaggini sorprende a tal punto che si può vederne un caso esemplificativo per la nostra dimostrazione: «Cristo è il sacramento primo e primordiale da cui deriva il sacramento generale che è la Chiesa nel suo insieme, che si esprime a sua volta principalmente nel sacramento nel senso più ristretto che è tutta la liturgia e che sono in maniera particolare i sette riti maggiori, che nella nostra terminologia attuale chiamiamo per l’appunto i sette sacramenti»57.
54 Vaggagini e Witte sono stati esperti in tutte le sessioni, Smulders nelle ultime tre; cfr. Acta Synodalia, Indices, 947-949. 55 J.L. WITTE, L’Église ‘sacramentum unitatis’ du cosmos et du genre humain, in G. BARAÚNA, L’Église de Vatican II, Paris 1966, 461, 463 e passim (Unam sanctam 51b), ed. ita., Firenze 195, 496. 56 L. SMULDERS, L’Église sacrement du salut, in ibid., 328, ed. ita, in ibid., 377. 57 C. VAGAGGINI, Ideas fundamentales de la Constitucion, in G. BARAÚNA , La Sagrada Liturgia renovada por el concilio, Madrid, 1965, 158 e passim; a p. 171 si fa l’eco del suo fallimento nel far passare questa idea nella costituzione: «È sufficientemente indicato nella costituzione, anche se il testo non ha la perfetta chiarezza auspi-
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È quanto meno increscioso vedere questi tre esperti presentare la loro propria dottrina come insegnamento conciliare: privilegiano in questo modo l’assioma secondo il quale “la Chiesa fa i sacramenti” a detrimento dell’assioma più fondamentale secondo il quale “i sacramenti fanno la Chiesa”, al punto di ipostatizzare quest’ultima come una realtà platonica, che si tiene come terzo tra Dio e i credenti. Questo ci allontanerà, senza motivo, dai cristiani della Riforma58. Una lettura di prima mano degli Acta synodalia, con il ricorso ai testi paralleli della Commissione conciliare sulla liturgia nelle sue fasi ante-preparatorie e preparatorie, in particolare alle deliberazioni della sottocommissione presieduta da mons. Martimort, permette di ritrovare diversi tentativi da parte di Jungmann e di Vagaggini (che si appoggiavano già su Semmelroth e Rahner) per introdurre l’idea di Ursakrament in questa Costituzione, ma permette anche di constatare il loro completo fallimento. Quello che le fonti stampate permettono già di stabilire è corroborato con particolare chiarezza dagli archivi di mons. Martimort che rifiuta i suggerimenti dei suoi dotti colleghi liturgisti nei termini seguenti: «L’idea della Chiesa come Ursakrament è un’idea interessante, forse giusta, ma non è che un’opinione teologica che potete insegnare nei vostri corsi. Ma non potete far assumere le vostre idee personali a un concilio ecumenico»59.
Questo lavoro sulle fonti permette di comprendere l’enunciato come instaurante un paragone (veluti) tra la Chiesa e il sacramento in ciò che essi hanno in comune, cioè di essere “segno e strumento”. L’enunciato in questione non attiene al registro sacramentario ma al cabile, perché se ne sono eliminate felici espressioni che la descrivevano [come sacramento fondamentale] nelle redazioni anteriori» (sic). 58 Si veda su questo tema l’opera del dogmatico luterano A. BIRMELÉ, Le Salut en Jésus Christ dans les dialogues œcuméniques, Paris 1986, sezione 4, c. III, (Cogitatio Fidei 141) dove tratta della strumentalità della Chiesa nella salvezza. 59 Si troveranno tutti i riferimenti agli Acta antepreparatoria e agli archivi in H. LEGRAND, La sacramentalité de l’Église selon Vatican II. Le salut en Jésus Christ d’André Birmelé revisité vingt-cinq ans après, in Positions luthériennes 57 (2009) 206208.
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registro missionario ed escatologico. Nella globalizzazione che già si annunciava a quell’epoca, la vocazione della Chiesa, di essere un segno e uno strumento di unità, innalzato da Dio contro le divisioni peccaminose dell’umanità, diventa più urgente: si tratta per lei di essere questo strumento dinamico che istituisce un rapporto tra il desiderio di unità di tutta l’umanità e il segno che è l’unità cattolica della Chiesa60. Da questa analisi consegue che non leggendo il testo non si coglie il senso più interessante — in questo caso la dimensione missionaria ed escatologica — e soprattutto si giunge anche a presentare come conciliare un’opinione teologica rifiutata dal concilio, che per giunta crea gratuitamente un problema ecumenico. 2.2.3.2. Un secondo esempio: Lumen Gentium può essere compresa senza il riferimento alle fonti? Karl Rahner, anche lui un esperto conciliare, attribuisce alla LG di aver adottato la propria teologia della Chiesa come Ursakrament nel commento che dà della LG nel Lexikon für Theologie und Kirche61. Ma il metodo stesso con il quale legge i numeri da 18 a 27 della LG, relativi al collegio dei vescovi, pone un problema ben più grave per la ricezione della LG. Questi numeri comportano 61 note, generalmente d’ordine patristico e liturgico; soltanto 14 rinviano direttamente o indirettamente al Vaticano I. Non soltanto Rahner non dice nulla della genesi di questi testi, ma soprattutto non tiene in nessun conto la loro annotazione; ma come credere che si accolgono questi testi se si presta a queste note un valore puramente decorativo? Li si priva così dell’orizzonte di interpretazione che i Padri del concilio hanno voluto dargli. Appoggiandosi sul rinnovamento patristico e su quello liturgico, hanno voluto riequilibrare il Vaticano I — uno dei più grandi disegni del Vaticano II —
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Cosa che la critica interna conferma: i sostantivi unio e unitas ricorrono 54 volte nei primi due capitoli della LG, senza tener conto delle forme verbali o aggettivali, mentre non si trova alcuna menzione della Chiesa come sacramento. 61 Cfr. Lexikon für Theologie und Kirche. Das Zweite Vatikanische Konzil I. Freiburg-Basel-Wien 1966, 210.
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appoggiandosi su un’ermeneutica della continuità con la Tradizione antica. Il testo di Rahner comporta 52 note: nessuna rinvia al contenuto delle note dei testi che commenta! Si ferma esclusivamente alle questioni canonico-speculative sorte dal Vaticano I e discusse dai canonisti della curia, del genere: ci sono uno o due soggetti di potere supremo nella Chiesa? Si diventa membri del collegio in quanto vescovo di una Chiesa locale o si è a capo di una Chiesa locale perché si è fatto prima parte del collegio? Sono tutti problemi ignorati dalla grande Tradizione e non trattati nel concilio. Dal momento che questi testi non erano letti nel loro reale spessore semantico che dà accesso alla Tradizione, non si è sorpresi dalla stupefacente diagnosi portata da Rahner sulla LG: «La Costituzione non porta nulla di nuovo»62, cosa che Joseph Ratzinger contesterà vivacemente63. Con grande acume, egli vide immediatamente il carattere discutibile di questo tipo di interpretazione dei testi, al punto di scrivere “qui appare la grave responsabilità dei commentatori, ed essa è di una portata difficile da prevedere”64. Pensa al punto di partenza di Rahner, l’idea di collegio universale, “mentre nei primi cinque secoli, ai quali rinvia LG 3, si cercherebbe invano l’idea di un collegio episcopale, successore in sé del corpo apostolico”65. Si ritornerà sull’ermeneutica di Joseph Ratzinger, a nostro avviso fondamentale, perché sorta dalla lettura stessa di testi e coerente con la Tradizione.
62 K. RAHNER, Lexikon, cit., 210-211: «Ciò che viene detto non è nuovo né costituisce, rispetto alla situazione attuale, un progresso molto significativo dal punto di vista della storia dei dogmi». 63 Cfr. J. RATZINGER, La collégialité épiscopale, développement théologique, in G. BARAÚNA, Vatican II, Paris 1966 (Unam sanctam 51c), 767; tale testo è stato ripreso immutato in Das neue Volk Gottes. Entwürfe zur Ekklesiologie, Düsseldorf 1966, 175. 64 Cfr. J. RATZINGER, La collégialité, 778; Das neue Volk Gottes, cit., 187. 65 J. RATZINGER, La collégialité, cit., 776, con la nota 1, che evidenzia l’epistemologia non sempre coerente di Rahner; Das neue Volk Gottes, 185, n. 27.
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2.2.3.3. Un terzo esempio: nessuna opinione di un esperto, anche se molto diffusa, non può prevalere sui testi stessi L’opinione secondo la quale le ordinazioni delle Chiese della Riforma sono nulle e così pure le loro eucarestie, è molto diffusa e corroborata dalla pratica della ri-ordinazione dei loro pastori. È questo che deve spiegare il fatto che si trovi tale opinione, qualificata giudizio di fede, tanto sotto la penna del cardinal Jäger66, che nel Lexikon für Theologie und Kirche firmato dal prof. Johannes Feiner67, quando commentano Unitatis Redintegratio 22. In modo inspiegabile, ma con gravi conseguenze, tutti e due hanno tradotto l’espressione latina credamus come implicante un tale giudizio di fede. Credamus diventa wir glauben (è la nostra fede) sotto la loro penna, mentre bisognava tradurre wir meinen (è nostra opinione). Questa opzione è richiesta dalla filologia68 e, in ogni caso, attraverso l’expansio modorum, se il primo argomento apparisse insufficiente69. È increscioso, anche in questo caso, attribuire al Vaticano II una decisione di fede su questo tema (sarebbe del resto l’unico!), al di là della prudenza osservata da Trento70, e anche al di là della pratica canonica certa71. 66
L. JÄGER, Die Konzilsdekrete. Über den Œkumenismus, Münster 1965, 49. Zweite Vatikanische Konzil Bd II, Freiburg i. B. 1967, commento del n. 22 (di J. Feiner), 118: «Il testo evidenzia innanzitutto — e ciò costituisce ancora una volta un giudizio di fede (quamvis credamus) — che l’essenza originale e piena del mistero eucaristico non sia conservato nelle Chiese della Riforma». 68 Rinviamo ai dizionari tedeschi, il Thesaurus Linguae Latinae (Teubner, Leipzig), IV, 1134 e al Mittellateinisches Wörterbuch Bd II, 2, 1995-1998, che danno come equivalenti meinen e glauben, e, dal momento che il testo è stato redatto a Roma, cfr. anche il F. CALONGHI, Dizionario latino-italiano, Torino 1950, 1972 e il L. CASTIGLIONI – S. MARIOTTI, Vocabolario della lingua latina, Torino 19963. 69 Si troverà una lista di questi modi tradotti in Discerner le corps du Christ, communion eucharistique et communion ecclésiale, Paris 2009, 88-94 (nostra redazione personale). 70 Il concilio di Trento si accontenta di colpire di illegittimità le ordinazioni dei riformati, cfr. G. ALBERIGO, Les conciles œcuméniques, cit., 1513. 71 Diamo un esempio di tale pratica: nonostante la bolla Apostolicae curae, che dichiara le ordinazioni anglicane «assolutamente nulle e completamente inefficaci» («absolutely null and utterly void»), il 27 gennaio 1968, il cardinal Höffner (arcivescovo di Colonia, a lungo presidente della conferenza episcopale tedesca) non ha 67
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Infatti non si tratta che di un’opinione teologica ancora libera. Ciò si arguisce chiaramente della testimonianza autorizzata del futuro cardinal Jérôme Hamer, uno dei redattori di questo testo; è anche dell’opinione più recente del cardinal Joseph Ratzinger72. Dopo questi esempi, gli studenti troveranno forse meno penosa la nostra insistenza sulla regola d’oro del ricorso al testo, perché essi mostrano che la ricezione della LG è carica di interpretazioni inesatte e conflittuali, provenienti dal semplice fatto che i protagonisti non hanno letto i testi73! 3. LA RICEZIONE DELL’INTENTO CENTRALE DELLA LUMEN GENTIUM: LA COLLEGIALITÀ EPISCOPALE E LE SUE CORRELAZIONI NELLA TEOLOGIA DELLA
CHIESA LOCALE E DELLE CHIESE PARTICOLARI
Per valutare la ricezione dell’intento centrale della LG faremo agire i criteri che la Costituzione stessa ci dà (3.1). In questa luce leggeremo i testi — abitualmente di tipo disciplinare e canonico — che ne sono una ricezione guidata dalla Curia romana (3.2).
riordinato il prete anglicano John Jay Hughes, diventato cattolico, ma ha adoperato il rituale dell’ordinazione sotto condizione; cfr. Herder-Korrespondenz 22 (1978) 113115. Tutte le ordinazioni delle Chiese della Riforma non sono dunque sempre sicuramente invalide. 72 Cfr. J. HAMER, Die ekklesiologische Terminologie des Vatikanums II und die protestantische Ämter, in Catholica 26, (1972) 146-153. Sulla prudenza richiesta alle asserzioni in questo campo, si vedrà J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Faire route avec Dieu. L’Église comme communion, Paris 2005, 233 che riproduce la lettera di Ratzinger al vescovo luterano Hanselmann: «Annovero tra i risultati del dialogo ecumenico precisamente il fatto che la questione dell’eucarestia non sia ridotta al problema della ‘validità’. Una teologia che si fonda sulla nozione di ‘successsione’, così come avviene nella Chiesa cattolica e nella Chiesa ortodossa, non nega forzatamente la presenza salvifica del Signore nella Cena protestante». 73 Non siamo i primi a notare questa tendenza assai diffusa; cfr. ad es.: F. NAULT, Comment parler des textes sans les avoir lus?, in G. ROUTHIER – G. JOBIN (curr.), L’autorité et les autorités. L’herméneutique théologique de Vatican II, Paris 2010, 229246.
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3.1. Determinazione dei criteri ermeneutici propri della Lumen Gentium 3.1.1. La Lumen Gentium va compresa a partire dal suo intento: completare il Vaticano I e ri-orientare la sua ricezione Si sa che, convocando un concilio generale di portata ecumenica74, Giovanni XXIII aveva annunciato simultaneamente un sinodo per la sua diocesi di Roma e una riforma generale del diritto canonico. Secondo il parere generale, uno dei principali obiettivi dottrinali assegnati al Vaticano II sarebbe dunque quello di completare l’ecclesiologia del Vaticano I, trattando della natura e del ruolo dell’episcopato nella Chiesa75. L’aggiornamento desiderato doveva rimediare gli squilibri dottrinali e pastorali risultati dall’interruzione del Vaticano I, e poi dalla sua interpretazione massimalista, la quale aveva condotto a un estremo assoggettamento dei vescovi alla Santa Sede76, che molti di loro sentivano come un handicap pastorale e missionario e una pietra di inciampo ecumenica77. Non vi è da stupirsi dunque che,
74 Osservatore romano dei giorni 26-27 gennaio 1959: «Il concilio non ha per fine soltanto il bene del popolo cristiano [...], vuole essere anche un invito alle comunità separate per la ricerca dell’unità». 75 Cfr. J. RATZINGER, Die bischöfliche Kollegialität, cit., 17, che si apre con la frase seguente: «Uno degli scopi fondamentali che il concilio Vaticano II si propose, fin dall’inizio, fu di completare la dottrina del primato definito dal Vaticano I con una dottrina corrispondente dell’episcopato». 76 A titolo d’esempio, fino al motu proprio Pastorale munus (AAS 56 [1964] 5-12) un vescovo cattolico, pure direttamente scelto dal papa nel 98 % dei casi, non si vedeva accreditato della capacità di decidere da se stesso se uno dei suoi preti di domenica poteva celebrare la messa due volte in caso di necessità pastorale; per questo gli occorreva il permesso della Santa Sede che glielo accordava solamente per cinque anni, anche se è vero che erano rinnovabili. Tra gli altri quarantasette poteri concessi da questo motu proprio ai successori degli apostoli, si trova anche quello di autorizzare «donne pie a lavare i purificatoi» (p. 10), e di «conservare il Santissimo Sacramento nella sua cappella privata» (p. 12). 77 Paolo VI, il papa del concilio, ne aveva coscienza quando confessava che «il papa, ben lo sappiamo, è l’ostacolo più grave sulla via dell’ecumenismo» (Allocuzione al Segretariato per l’unità dei cristiani, in AAS 59 [1967] 98).
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tra tutti i dibattiti del Vaticano II, fosse quello sulla collegialità a suscitare il più gran numero di interventi78, ottenendo una decisione che Yves Congar commentò come segue: «Il Vaticano II ha equilibrato il Vaticano I […] con una maggioranza che non è mai scesa al di sotto dell’87%”. [Lo scopo era raggiunto]: “Dare maggiore importanza e iniziativa all’episcopato nel regime concreto della Chiesa, attualmente dominato da un certo esercizio del primato papale, quello che comporta il sistema della Curia e la centralizzazione romana” [sistema attuale] “sono di inciampo a tutte le altre Chiese che si rappresentano il potere papale come assolutista e monarchico»79.
Da buon storico delle istituzioni egli modificò tuttavia questo ottimismo generale80, già l’anno seguente: «Soltanto l’avvenire e la prassi diranno quello che questa dottrina della collegialità apporterà tanto alle possibilità del dialogo ecumenico che all’equilibrio delle funzioni papale ed episcopale all’interno della Chiesa cattolica. Diranno anche se un abbozzo di una teologia delle Chiese locali contenuta nella Lumen Gentium e ripresa nell’Ad Gentes avrà trovato un’eco nella vita della Chiesa e con quale impatto ecumenico»81.
Una lettura attenta dei testi che hanno orientato la ricezione della LG, durante la seconda metà del pontificato di Giovanni Paolo II,
dovrebbe consentire di verificare in che misura i timori di Congar erano fondati o meno e ciò che ne è stato della messa in guardia del card. Ratzinger.
78
Dopo quello su Maria. Citazioni tra virgolette in Y. CONGAR, Le concile au jour le jour. Troisième session, Paris 1964, 44, 37 e ibid., 1963, 18. 80 U. Betti (futuro cardinale) vi rilevò «la spina dorsale di tutto il concilio» e A. Wenger «il centro di gravità del Vaticano II », citato dal cardinale P. EYT, La collégialité épiscopale, in Le deuxième concile du Vatican 1959-1965, Rome 1989, 541 (Coll. de l’École française de Rome, 113). 81 Y. CONGAR, Le concile au jour le jour. Quatrième session, Paris 1966, 134. 79
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3.1.2. La Lumen Gentium completa il Vaticano I e vuole restituire all’episcopato il suo vero posto nella Chiesa Il processo di ricezione del Vaticano I dal Vaticano II, entra pienamente nella tradizione dei concili generali82, secondo il quale un nuovo concilio riceve i precedenti, senza vietarsi riformulazioni; così, vent’anni dopo Efeso che attribuiva a Cristo una natura (mia physis), Calcedonia riconosce in Lui due nature (ek dyo physesin). La correzione di traiettoria della LG in rapporto al Vaticano I è molto meno sorprendente, ma è quanto mai reale relativamente allo statuto dell’episcopato nella Chiesa. LG 22 insegna, in effetti, che tutti i vescovi insieme, quello di Roma incluso, costituiscono un solo collegio che ha un potere supremo e plenario su tutta la Chiesa83, un’affermazione non tematizzata dal concilio precedente. Poi, attraverso una serie di enunciati successivi, LG modifica questa prospettiva universalista ricevuta dal Vaticano I per far apparire che la comunione della Chiesa è sempre una comunione di Chiese. Elenchiamo questi enunciati che sono poco attenzionati. Primo enunciato: LG 26 situa l’origine del potere di ciascun vescovo nella sua ordinazione sacramentale. La dottrina tomista che vedeva nell’episcopato una dignità e non un sacramento viene così corretta84, così come il magistero di Pio XII che aveva insegnato, ripetutamente, che i vescovi ricevevano la loro giurisdizione dal papa85. La LG fa così 82
Il primo atto di un concilio è la ricezione del concilio che l’ha preceduto; si veda su questo tema: H.J. SIEBEN, Vom Apostelkonzil zum Ersten Vatikanum. Studien zur Geschichte der Konzilsidee, Paderborn 1996, 73-74. 83 Suprema in universam Ecclesiam potestas qua istud Collegium pollet, sollemni modo in concilio oecumenico exercetur […]. Eadem potestas collegialis una cum Papa exerceri potest ab episcopis in orbe terrarum degentibus. 84 TOMMASO D’AQUINO, Comm. in Sent. IV dist. VII qu.3 art.1, qa 2, ad 3um. 85 Cfr. quatro testi almeno: Mystici Corporis, in AAS 35 (1943) 211-212; Ad Sinarum Gentem, in ibid. 47 (1955) 9 e Ad Apostolos Principis, in ibid. 50 (1958) 618. L’anno precedente la sua morte, rifiuta ancora la sacramentalità dell’episcopato accordando a un laico eletto papa «il potere di insegnare e di governare, così come il
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percepire che la scissione tra ordine e giurisdizione nell’episcopato è un’anomalia86, del resto senza fondamento nella tradizione87, che si percepisce ancora oggi nell’attribuzione di una Chiesa scomparsa ai vescovi privi di sede. Teologicamente potere e comunione non devono essere dissociati. Secondo enunciato: LG 27 afferma con chiarezza che bisogna vedere nei vescovi «vicari e ambasciatori di Cristo […] non devono essere considerati vicari dei romani pontefici», cosa che ben corrisponde al posto del vescovo diocesano nell’ecclesiologia cattolica (così come nell’ecclesiologia ortodossa), e corregge la ricezione, almeno canonica, del Vaticano I. Il Codice del 1983 sostituirà dunque il sistema della delegazione papale dei propri poteri ai vescovi con il sistema della riserva di certi poteri al papa in funzione del bene comune, riforma fondamentale sul piano dei principi e dal punto di vista ecumenico88. Terzo enunciato: per assicurare in profondità il passaggio da una ecclesiologia massicciamente universale89 a un’ecclesiologia della comunione di Chiese, la LG attribuisce alle diocesi, a tre riprese in carisma dell’infallibilità […] dal momento della sua elezione, perfino prima della sua ordinazione», in Sono passati sei anni, in ibid., 49 (1967) 924. 86 La menzione della “hierarchica communio” in Lumen Gentium 21 e 22 non significa la negazione dell’unità della sacra potestas, adottata dal Codice del 1983 e accettata dall’insieme dei teologi, cfr. E. CORECCO, La réception de Vatican II dans le Code de Droit canonique, in G. ALBERIGO – J-.P. JOSSUA, (curr.), La réception de Vatican II, Paris 1985, 380-388. La tesi di G. GHIRLANDA, ‘Hierarchica communio’. Significato della formula nella Lumen Gentium, Roma 1980, che sostiene la posizione contraria è stata accolta con riserve; cfr. specialmente la recensione di Y. CONGAR, RSPT 66 (1982) 93-97. Sulla questione di fondo, si veda L. VILLEMIN, Pouvoir d’ordre et pouvoir de juridiction: histoire théologique de leur distinction, Paris 2006. 87 Nella fedeltà alla LG, il rituale romano rinnovato prescrive ormai che l’eletto non-vescovo “sia immediatamente ordinato”, prima di assumere la carica. 88 Codice di diritto canonico, can. 381. I suoi effetti pratici si faranno sentire soprattutto nella semplificazione dell’amministrazione diocesana. 89 Ha talmente influenzato le mentalità che nella sua traduzione di LG (Concile oecuménique Vatican II. Constitutions, décrets, déclarations, Paris 1967), il cardinal Garrone, prefetto della Congregazione per i seminari e le università, traduce con il solo termine “universale” i termini universus e universalis, benché in latino siano
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questo contesto, di essere porzioni della Chiesa intera90, cosa che sarà ripresa nella definizione della diocesi attraverso L’incarico pastorale dei vescovi n. 11. Una porzione possiede, infatti, tutte le qualità del tutto e l’addizione delle porzioni non fa numero; non è il caso della parte che non può esistere al di fuori della sua relazione con il tutto e gli è subordinata91. Da questo punto di vista la tesi della maternità della Chiesa universale in rapporto alle Chiese particolari diocesane, sviluppata durante il pontificato di Giovanni Paolo II, si allontana dalla dottrina tradizionale ritrovata attraverso la LG. Quarto enunciato molto esplicito: LG 23 insegna che «in esse e a partire da esse [le chiese particolari] esiste l’una e unica chiesa cattolica»; l’aggettivo particolare rinvia qui a una chiesa locale diocesana. Questo mutamento di prospettiva si riallaccia all’ecclesiologia tradizionale: la comunione dei vescovi tra di loro è un’espressione della comunione delle Chiese tra di loro. Per il Vaticano II, il collegium episcoporum non saprebbe essere dissociato dalla communio ecclesiarum, percezione teologica capitale, assente dall’orizzonte del Vaticano I per il quale la comunione della Chiesa è sempre al singolare92. Quinto enunciato: tutto quello che precede porta LG 23 a valorizzare queste Chiese «costituite in molti gruppi organicamente uniti, i quali […] godono di una propria disciplina, di una propria consuetudine liturgica, di un patrimonio teologico e spirituale proprio». Questi distinti, e anche l’aggettivo totus, non senza conseguenze teologiche per la cattolicità della Chiesa. 90 In LG 23 due volte, e una volta in LG 28. 91 Illustriamo con un’immagine questa differenza: una porzione di dolce, qualunque sia la sua forma o la sua misura, ha in se stessa l’essenza del dolce; l’essenza di un’automobile, invece, non si ritrova in nessuna delle sue parti. 92 Il Proemio della Pastor Aeternus attribuisce come scopo al primato romano di servire «l’unione stretta e reciproca dei vescovi, perché la moltitudine dei credenti sia conservata nell’unità della fede e della comunione», come se i fedeli costituissero un’unità immediata in quello che sarebbe l’immensa diocesi del papa: la Chiesa universale.
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gruppi (che, ad es., hanno attualmente la forma di patriarcato) potrebbero anche prendere quella delle conferenze episcopali, come dice questo stesso numero, perché la responsabilità di ogni vescovo di fronte alla Chiesa intera si esercita dapprima nei confronti delle Chiese della propria regione. Così fondate, le conferenze episcopali evocate in questo contesto, saranno rese obbligatorie in Christus Dominus 38, mentre sono incoraggiati i loro raggruppamenti regionali o continentali (ibid. 38,5). 3.1.3. Portata criteriologica di questi complementi correttivi delle traiettorie recenti Karl Rahner, stando alle sue parole già citate, non ha osservato le correzioni di traiettoria che si sono elencate, e tanto meno ha colto la portata delle annotazioni che specificavano il quadro tradizionale, liturgico ed ecclesiologico, nel quale interpretare gli enunciati della LG. Sarebbe irriverente pensare che abbia commentato questo capitolo 3 della LG “senza averlo letto”? Ne sia giudice il lettore, leggendo la portata criteriologica che Joseph Ratzinger accorda a questi stessi elementi, nelle stesse date, in discussione con Rahner. Ecco come si esprime: «Quattro termini [comunione, collegio, capo e membra] circoscrivono in Lumen Gentium 22 l’appartenenza al collegio […]; essi rinviano alla pluralità di Chiese (locali, episcopali) ed escludono la possibilità di determinare l’unità con la sola relazione al capo del collegio. Al contrario, si esige qui che il collegio rappresenti strutturalmente le Chiese diocesane e le relazioni che esse hanno le une con le altre. La Costituzione riprende così la struttura della Chiesa antica, e lo dice esplicitamente attraverso queste espressioni che le permettono di chiarire e di fondare l’essenza della collegialità attraverso la concezione che aveva della Chiesa dei Padri»93.
Per questo, contrariamente a Rahner che non coglieva alcun mutamento su questo punto, Joseph Ratzinger nota
93
J. RATZINGER, Das neue Volk Gottes, cit., 177.
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«un duplice cambiamento: appare, senza ambiguità possibile, che non si può vedere nel collegio episcopale una creazione del papa, perché esso ha la sua radice nella realtà sacramentale; costituisce un postulato imprescrittibile della struttura della Chiesa nell’essenza stessa di cui il Signore l’ha dotata […] ordine e giurisdizione devono essere considerati sotto una luce nuova o piuttosto alla luce originale della teologia patristica, temporaneamente velata da evoluzioni moderne»94.
Ci sembra disporre così di criteri teologici sicuri per tentare una valutazione della ricezione della LG sul punto preciso della collegialità e del suo radicamento nella comunione della Chiesa che è sempre, nello stesso tempo, una comunione di Chiese. 3.2. La ricezione del cap. III della Lumen Gentium attraverso i documenti canonici e i testi di tipo disciplinare che la giustificano Per mancanza di spazio non si analizzerà qui la prima ricezione post-conciliare della LG che ha rivalorizzato l’episcopato e le Chiese locali95. Seguendo la cronologia, si analizzerà dapprima la ricezione canonica della LG nel Codice di diritto canonico (CIC) del 1983, e nel Codice dei canoni delle Chiese orientali (CCEO). Ci si concentrerà, in seguito, su diversi documenti canonico-disciplinari di genere letterario e di autorità formale variabili, che si appoggiano tutti sull’Istruzione del 1992 Communionis notio (CN) della Congregazione per la dottrina della Fede, decisiva per l’orientamento dell’ultima parte del pontificato di Giovanni Paolo II in questo campo. 3.2.1. La ricezione della Lumen Gentium nel diritto canonico Tra l’ecclesiologia “teoricamente” professata dal Vaticano II e la sua realizzazione concreta, la mediazione è istituzionale: è dunque indispensabile analizzare con cura la ricezione canonica della LG.
94 95
L.c. Per una rapida analisi, si veda: H. LEGRAND, Du gouvernement de l’Église
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3.2.1.1. Il Codice del 1983 La scelta di sistematica, operata dal Codice del 1983, rivela che esso è rimasto estraneo alle prospettive tradizionali riscoperte dalla LG, riassunte da Joseph Ratzinger. Certo, il secondo libro del Codice ha per titolo “Il Popolo di Dio”, ma questa ricezione resta materiale. Ne è prova il fatto che stabilisce che cosa sono i laici e i chierici, un papa e il collegio dei vescovi, un concilio ecumenico, il sinodo dei vescovi, il collegio dei cardinali, la curia romana così come i nunzi, prima di aver stabilito che cos’è una chiesa locale! Simile scelta sistematica96 non consente più di pensare la Chiesa come comunione di Chiese e porta con sé una dissociazione tra la comunione dei vescovi e la comunione delle Chiese, e con uno stesso movimento, riconduce le impasse pastorali ed ecumeniche che il Vaticano II aveva cercato di ridurre. La scelta di designare la diocesi esclusivamente con il neologismo “Chiesa particolare” mostra in seguito che il Codice è rimasto estraneo all’insegnamento della LG, secondo la quale la Chiesa locale è una porzione della Chiesa. La scelta dell’aggettivo particolare (molto vicino a pars) che è, inoltre, antonimico di “universale” in tutte le lingue latine, come pure in tedesco e in inglese, rischia di indurre, con la sola forza del linguaggio97, una comprensione teologicamente inadeguata dell’articolazione tra le diocesi e la Chiesa intera98, come se esse depuis Vatican II, in Lumière et Vie, oct.-déc. (2010) 47-50. Riprendiamo nel seguito numerose osservazioni già fatte in questo contributo. 96 W.F. Rothe analizza lucidamente questa scelta sistematica: «Essa implica la priorità del concetto di Chiesa particolare su quello di Chiesa diocesana, dell’episcopato di successione apostolica sull’episcopato diocesano e infine della Chiesa universale sulla Chiesa particolare», in Kanonistische Anmerkungen zum Verhältnis von Universalkirche und Partikularkirche, in Forum Katholische Theologie 18 (2002) 224-232. 97 Questo trabocchetto del linguaggio è così poco illusorio che un teologo tanto eminente come il cardinal Dulles sj può esprimersi come segue, in un documento di circostanza, per la verità: «La priorità ontologica della Chiesa universale mi pare vada da sé con evidenza, poiché il concetto stesso di Chiesa particolare presuppone una Chiesa universale, alla quale essa appartiene, mentre il concetto di Chiesa universale non implica che essa sia fatta di Chiese particolari distinte», in Inside The Vatican 20 june 4 (2001) 13. 98 Il termine particolare aveva fatto il suo ingresso nel titolo della Christus
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fossero delle parti subordinate al tutto, una visione che esclude LG 23 (in quibus et ex quibus), ma che sarà più facile interpretare diversamente come fa la Communionis Notio, come si vedrà in seguito. Altra scelta significativa, secondo LG 27, i vescovi sono “vicari e ambasciatori di Cristo” e “non devono essere considerati vicari dei romani pontefici”. Il Codice riserva il titolo al “capo del collegio dei vescovi, Vicario di Cristo e pastore della Chiesa intera” (can. 331), e conserva il silenzio su questo titolo dei vescovi rendendo più plausibile la dipendenza stretta dei vescovi di fronte al papa, secondo i termini del loro Giuramento di fedeltà a partire dal 198799 e secondo le nuove disposizioni disciplinari. Del resto il Codice attribuiva già al papa “la cura quotidiana di governare la Chiesa intera”100, cosa che non era nemmeno nello spirito del Vaticano I. 3.2.1.2. Il Codice dei canoni delle chiese orientali (1990) Se la ripresa dell’ecclesiologia tradizionale e il rispetto della pluralità delle Chiese sono dei criteri della ricezione della LG, non li si riscontra affatto in questo Codice, come si vede da tre sue caratteriDominus, senza implicare la minima presa di posizione sui rapporti tra Chiese locali e Chiesa intera, ma perché il termine diocesi, «d’origine imperiale e di natura amministrativa», veicolava un’ideologia troppo secolare secondo 57 Padri conciliari che si auguravano di sostituirla con “Chiesa particolare”. La cosa fu accettata nei seguenti termini: «Secondo la decisione della Commissione, la diocesi sarà generalmente designata come ‘Chiesa particolare’, ma bisogna inserire nel titolo ‘o diocesi’ per mostrare che si tratta di quelle Chiese particolari che oggi si chiamano diocesi» (Acta Synodalia III, VI, 172-163). Ma questo è restato senza effetto: non si trovano che 12 utilizzi d’ecclesia particularis in questo senso per 183 impieghi dell’antico vocabolario ! 12 altri impieghi dell’espressione designano altri tipi di Chiese. 99 Vi si legge: «Giuro di restare sempre fedele alla Chiesa cattolica e a […] il suo pastore supremo, al vicario di Gesù Cristo e al successore di Pietro nel primato così che a capo del collegio dei vescovi […]. Obbedirò al libero esercizio del potere primaziale del papa su tutta la Chiesa, mi sforzerò di promuovere e di difendere i suoi diritti e la sua autorità. Riconoscerò e rispetterò le prerogative e l’esercizio del ministero degli inviati del papa, che lo rappresentano. […] Renderò conto del mio mandato pastorale alla Sede apostolica a date precedentemente fissate o in occasioni determinate e molto volentieri accetterò i suoi mandati o i suoi consigli e li attuerò con sollecitudine». 100 Cfr. Codice di diritto canonico, can. 350 § 1: cura cotidiana universae ecclesiae.
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stiche: è stato redatto in latino, una lingua che non è quella di nessuna di queste chiese; amalgama tradizioni canoniche così eterogenee come quelle di Bisanzio e dell’Etiopia o dell’Armenia e dell’India siriaca; infine, il papa l’ha promulgato da solo, senza associarvi i capi di queste Chiese101, e alcune delle sue disposizioni allargano ulteriormente il suo potere primaziale102. 3.2.2. In seguito alla Communionis Notio (1992), una serie di documenti soprattutto disciplinari hanno posto dei limiti alla rivalorizzazione dell’episcopato e delle Chiese locali Questa lettera esprime un orientamento perseguito durante tutta la seconda parte del pontificato di Giovanni Paolo II. Essa ben riconosce che “in maniera analogica si può comprendere la Chiesa universale come comunione di Chiese” (CN 8), ma il suo scopo è quello di affermare la priorità ontologica e cronologica della Chiesa universale sulle Chiese particolari e soprattutto la sua maternità nei loro confronti. Questa sorta di assioma ecclesiologico consentirà di giustificare la riduzione dello statuto delle conferenze episcopali, la loro privazione abituale di magistero autentico, di limitare la portata dei sinodi diocesani, di prendere le distanze dalla Dichiarazione di Balamand103 e da
101 Un teologo ortodosso rumeno vi vide il sintomo del fatto che il Codice dei canoni delle Chiese orientali volta le spalle all’autorità sinodale del tempo dei padri per sostituirla con quella del Santo Padre; cfr. R. PREDA, Des Saints Pères au Saint Père. L’ecclésiologie du Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium (CCEO) reflétée dans le processus de codification et dans l’acte de promulgation”, in Inter 2 (2008) 252278. 102 Secondo il can. 1008, § 1: «Il Pontefice romano è l’amministratore e il dispensatore supremo di tutti i beni temporali della Chiesa», cosa che viene precisata al § 2: «Quanto al diritto di proprietà dei beni temporali della Chiesa, è sotto l’autorità suprema del Pontefice romano, che esso appartiene alla persona giuridica che li ha legittimamente acquistati». Ricordiamo che si tratta di Chiese orientali. Che ne avranno pensato gli ortodossi? 103 Così la nota segreta della SCDF a tutti i vescovi cattolici, che rifiuta alla Chiesa ortodossa il titolo di Chiesa sorella della nostra Chiesa, dirà al n. 10: «anche quando l’espressione Chiese sorelle è utilizzata in senso proprio [tra diocesi cattoliche e
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altre misure analoghe ma meno significative per meritare di essere specificate. Sono le tesi quelle che meritano attenzione. 3.2.2.1. Gli enunciati della Communionis Notio Primo enunciato: Priorità ontologica e cronologica della Chiesa universale sulle Chiese particolari. LG 23 enuncia che “in esse e a partire da esse [le Chiese particolari] esiste l’una e unica Chiesa cattolica”, cosa che richiede di considerarla come una comunione di Chiese, proposta di grande interesse pastorale ed ecumenico. CN sminuisce questa prospettiva in molti modi. La prima sarà di affermare come tesi che “la Chiesa universale è una realtà ontologicamente e cronologicamente preliminare a ogni Chiesa particolare”, cosa che è certamente vera se con questo si vuol dire che nessuna Chiesa può dirsi cattolica al di fuori della comunione della Chiesa intera, al di fuori della rete di traditio-receptio che costituisce la Catholica attraverso lo spazio e il tempo104. Ma il seguito del testo è meno convincente: «Ontologicamente […] La Chiesa, una e unica, secondo i Padri, precede la creazione, e dà nascita alle Chiese particolari come a proprie figlie; si esprime in esse, è madre e non prodotto delle Chiese particolari […]. Nascendo nella Chiesa e dalla Chiesa universale, è da essa e in essa che le Chiese locali hanno la loro ecclesialità. Di conseguenza, la formula del concilio Vaticano II: “in esse e a partire da esse [le Chiese particolari]” (ecclesia in et ex ecclesiis, LG 23) è inseparabile da quest’altra formula: “le Chiese in e a partire dalla Chiesa” (ecclesiae in et ex ecclesia) (CN 9)».
Ma, in verità, è difficile comprendere come la Chiesa universale potrebbe esistere preliminarmente ai processi concreti, confessanti e sacramentali che l’istituiscono, e indipendentemente da quegli stessi processi, una Chiesa priva di credenti e dei sacramenti della fede.
ortodosse?], la Chiesa universale non è la sorella ma la madre di tutte le Chiese particolari» (DC 97 [2000] 824-825). 104 Cosa che non significa che la Chiesa universale sia il risultato del riconoscimento reciproco delle Chiese.
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Una Chiesa simile sarà “un ente di ragione”105, che niente obbliga a postulare, nemmeno la preesistenza della Chiesa nel disegno di Dio che potrebbe includere la simultaneità della Chiesa e delle Chiese. Di fatto questa tesi non ha trovato accoglienza tra gli ecclesiologi106 ed è scomparsa dai testi della Curia dopo l’elezione di Benedetto XVI107. Secondo enunciato: maternità della Chiesa universale nei confronti delle Chiese particolari. Certamente la maternità della Chiesa in rapporto alla fede dei fedeli è ben attestata nella tradizione108, così come la maternità di una Chiesa fondatrice di fronte a quella che ha fondato. In compenso, l’idea della maternità della Chiesa universale nei confronti di tutte le Chiese locali non sembra essere mai stata formulata né prima109 né durante il Vaticano II. Terzo enunciato: il ministero di Pietro appartiene dall’interno all’essenza di ciascuna Chiesa particolare (CN 13). Per quanto la comunione necessaria con il vescovo di Roma sia sottolineata da LG, è invano che si troverebbe questa espressione. Del resto, in questo modo si farebbe
105 Secondo il cardinal de Lubac: «Una Chiesa universale, anteriore o supposta come esistente al di fuori di tutte le Chiese particolari, non è altro che un ente di ragione», in Les Églises particulières dans l’Église universelle, Paris 1971, 54. Si è visto approvare, per esempio, dai cardinali Congar e Kasper. 106 Su più di una trentina di ecclesiologi che si sono espressi sul tema, uno solo si mostra convinto, senza dirne il motivo; lista stabilita da A. CATTANEO, La priorità della Chiesa universale sulla Chiesa particolare, in Antonianum 77 (2002) 503-539; l’abbiamo completata in RSPT 88 (2004) 495-496. 107 Si cita di nuovo LG 23 senza riserve nelle conclusioni del sinodo sull’Eucaristia: «Questa unità del corpo di Cristo si manifesta nelle comunità cristiane e si rinnova nell’atto eucaristico che le unisce e le differenzia in Chiese particolari, “in esse e a partire da esse esiste l’una e unica Chiesa cattolica” (LG 23)» 108 Cfr. K. DELAHAYE, Ecclesia mater chez les Pères des trois premiers siècles, Paris 1964 (Unam Sanctam 46). 109 Il titolo di mater et magistra di tutti i fedeli significa altro (cfr. Laterano IV, cc. 2,4,5,236 e Lione II c. 1). Soltanto Clemente VI di Avignone (1342-1352) affermò che «la Chiesa romana istituì tutte le Chiese patriarcali, metropolitane, cattedrali e tutte le dignità di ogni ordine esistenti nel loro seno. Al suo pastore e maestro, il pontefice romano, spetta la piena disponibilità di tutte le Chiese, dignità, uffici e benefici ecclesiastici» (RINALDI, Annales 25, 350).
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del papa una specie di vescovo universale, cosa che Pio IX rifiutava con tutta la sua autorità apostolica dopo il Vaticano I110. In una corrispondenza pubblica con il vescovo luterano della Baviera, il card. Ratzinger scrive: «La Congregazione non ha l’autorità di cambiare le dottrine e ancora meno di “correggere” un concilio, essa non può che esplicitare e chiarire una dottrina già esistente […]. La lettera presuppone il concilio e deve essere letta nel quadro dei suoi testi»111.
Il peso dottrinale della Communionis Notio non è dunque tale da obbligare a riconoscere che ciascuna delle sue esplicitazioni possa essere manifestamente attribuita al Vaticano II. In compenso, bisogna prendere in seria considerazione la sua messa in guardia contro una possibile autonomizzazione delle Chiese locali. Le misure disciplinari che seguiranno, pur attenendosi al medesimo registro, mostrano bene che la Santa Sede prenderà numerose misure di governo per lottare contro il pericolo che percepisce. 3.2.2.2. Apostolos suos (1998): sottovalutazione del modesto statuto dell’episcopato e delle conferenze episcopali Per Apostolos suos, lo statuto delle conferenze episcopali fa di esse delle creazioni della Santa Sede che le istituisce e determina i loro poteri (nn. 13 e 20112), uno statuto senza rapporto con i sinodi regionali della Chiesa antica, che si tenevano due volte all’anno in ogni provincia. Si toglie loro il magistero autentico che esse esercitavano secondo il can. 753 del Codice latino113, tranne il fatto che devono essere unanimi
110
DENZINGER-HÜNERMANN n. 3117. J. RATZINGER/Benedetto XVI, Faire route, cit., 232. 112 Secondo Apostolos suos III, 20, perché l’esercizio congiunto del loro ministero pastorale in conferenza “sia legittimo e obbligante per i singoli vescovi, occorre l’intervento della suprema autorità della Chiesa che, mediante la legge universale o speciali mandati affida determinate questioni alla delibera della Conferenza episcopale” (Documenti della Santa Sede 55, Bologna 1998, 20). 113 Can. 753: «I vescovi […] riuniti nelle Conferenze Episcopali […] sono autentici 111
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o richiedere la recognitio romana114. La Santa Sede è stata indotta a prendere questa misura restrittiva molto probabilmente perché prevedeva i problemi che sarebbero sorti dalle prese di posizioni divergenti delle conferenze sia tra di loro sia con la Santa Sede, soprattutto in una società mediatica come la nostra115. Dalle conferenze si attende che siano il ripetitore degli insegnamenti della Santa Sede e che “vigilino soprattutto a seguire il magistero della Chiesa universale e a farlo conoscere opportunamente al popolo che è loro affidato” (n. 21). Nello stesso spirito sono apportate delle restrizioni alle responsabilità liturgiche delle conferenze concernenti le traduzioni liturgiche nelle loro aree linguistiche attraverso Liturgiam authenticam e, più recentemente, attraverso Summorum Pontificum, alla responsabilità liturgica propria del vescovo nella sua diocesi perché questo motu proprio prevede all’art. 5, § 1 che spetta «al presbitero di discernere da se stesso” se bisogna accogliere le domande dei fedeli legati all’antico rito»116. Qui ci si è allontanati sia dalla lettera del Vaticano II come anche dalla tradizione.
dottori e maestri della fede […]; a tale magistero autentico dei propri vescovi i fedeli sono tenuti ad aderire con religioso ossequio dell’animo» (Codice di diritto canonico. Testo ufficiale e versione italiana sotto il patrocinio della Pontificia Università Lateranense e della Pontificia Università Salesiana, Roma 1997, 563). 114 Apostolos suos IV,1: «Perché le dichiarazioni dottrinali della Conferenza dei vescovi […] costituiscano un magistero autentico e possano essere pubblicate a nome della Conferenza stessa, è necessario che siano approvate all’unanimità dai membri vescovi [unica esigenza di unanimità nel diritto in vigore] – oppure che, approvate nella riunione plenaria almeno dai due terzi dei presuli che appartengono alla Conferenza con voto deliberativo, ottengano la revisione (recognitio) della Sede apostolica» (Documenti della Santa Sede 5, cit., 24). Questa recognitio vigilerà che “la risposta dottrinale” dei vescovi “non pregiudichi, bensì prepari, eventuali interventi del magistero universale” (Apostolos suos III, 22, cit., 22). 115 L’occasione prossima dovette essere la presa di posizione progettata dalla conferenza episcopale degli Stati Uniti sul disarmo nucleare e probabilmente anche il ricordo delle critiche dell’Humanae Vitae espresse da numerose conferenze. 116 Per l’analisi ecclesiologica di questi due documenti, si vedrà L. VILLEMIN, L’autorité des conférences épiscopales en matière de liturgie. Interprétations initiales et réinterprétations récentes, in G. ROUTHIER – G. JOBIN (curr.), L’autorité et les autorités. L’herméneutique théologique de Vatican II, Paris 2010, 151-165: 161-163.
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Questo stesso allontanamento è verificabile da chiunque relativamente alla teologia dell’episcopato quando Apostolos suos, nel n. 11 afferma che «il Collegio episcopale […] è una realtà anteriore all’ufficio di essere a capo di una Chiesa particolare» e fonda la correttezza di tale asserzione con la nota 54 «come a tutti è evidente, vi sono molti vescovi che, pur esercitando compiti propriamente episcopali, non sono a capo di una Chiesa particolare»117. Non si può più chiaramente e più profondamente dissociare il collegio dei vescovi dalla comunione delle Chiese che tutta la tradizione attesta. Apostolos suos ha reso manifesta l’erosione costante dopo il Vaticano II dello statuto delle diocesi come Chiese locali. Tale erosione è cominciata dalla trasformazione dei vicariati militari in quasidiocesi118, in seguito tutte le circoscrizioni ecclesiastiche territoriali sono state, a loro volta, equiparate giuridicamente alle diocesi119, e mentre si creava la prelatura personale120, e recentemente l’amministrazione apostolica personale affidata, in una diocesi esistente, a un vescovo diverso dal vescovo diocesano121 mentre si moltiplicano gli ordinariati per i cattolici orientali122 e ora per le ex fedeli anglicane123. Si tratta di misure empiriche che non meritano alcuna attenzione? Non ne siamo convinti constatando che il primo vero dizionario di
117 Costituiscono il 47% dell’episcopato, tra i quali il 18% sono emeriti. Questo malgrado il can. 6 di Calcedonia che considera nulle le ordinazioni assolute di preti, perché quella di vescovi di questo genere è inconcepibile nella tradizione. Si constata anche che dei cardinali più che ottuagenari non esitano a farsi ordinare vescovi. 118 Questa trasformazione è anteriore al Codice del 1983, cfr. la Costituzione apostolica Spirituali militum curae, in AAS 72 (1980) 47. 119 CIC c. 368 che vale per le prelature e le abbazie territoriali, per vicariati e prefetture apostoliche, e per l’amministrazione apostolica costituita in maniera permanente. 120 CIC cc. 294- 297, la prelatura dell’ Opus Dei per adesso è l’unico esempio. 121 Per la Lettera Ecclesiae Unitas, in AAS 94 (2002) 267- 268. 122 Cfr. H. LEGRAND, Les catholiques orientaux dans les diocèses latins: un texte pour la catholicité de l’Eglise?, in L’Année canonique, 52 (2011). 123 Cfr. H. LEGRAND, Épiscopat, episcopè, Église locale et communion des Églises dans la Constitution apostolique Anglicanorum coetibus, in Cristianesimo nella storia 32 (2011) 2, 405- 423.
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ecclesiologia mai pubblicato prima , non ha preso in considerazione il termine diocesi, mentre consacra tre voci alle circoscrizioni ecclesiastiche, divise in tre categorie: orientali, personali, territoriali124. E anche la voce Chiesa locale non prende in considerazione specificamente la diocesi. E già questo un sintomo che le categorie tradizionali della comunione delle Chiese sarebbero sul punto di soccombere di fronte a quelle (del territorio) della Chiesa universale affidata a una cartografia sacra, — burocratica e moderna125 — già accolta nel Codice dei canoni delle Chiese orientali? 126. Riassumiamo: la ricezione canonica della LG non ha contribuito a rivalorizzare né l’episcopato né la sua teologia. Nel diritto in vigore, lo statuto di un vescovo diocesano dinanzi al papa equivale a quello di un vicario generale dinanzi al suo vescovo. Questa è la conclusione della tesi di abilitazione di Georg Bier che, salvo meliori judicio, è stata accettata come esatta dall’insieme delle recensioni fatte da altri canonisti, di cui abbiamo potuto prendere visione127. Ciò non impedisce loro di constatare che questa non-ricezione della LG non è teologica-
124
G. CALABRESE – P. GOYRET – O.F. PIAZZA (curr.), Dizionario di ecclesiologia, Roma 2010. 125 Essa ha la sua origine nella richiesta di Napoleone I di rifare interamente la carta geografica delle diocesi della Chiesa di Francia per farla coincidere, per quanto possibile, con quella dei dipartimenti. Niente sfugge a questa cartografia, come se ne è reso conto il grande pubblico quando essa ha attribuito al vescovo polacco d’Irkoutsk l’amministrazione apostolica delle Isole Sakhaline con loro nome di Karafuto dal tempo della loro occupazione da parte dei Giapponesi; ciò ha avuto come esito une crisi diplomatica con la Russia e il rientro di questo vescovo in Polonia. 126 Cfr. il can. 57, §1 del CCEO secondo il quale: «i patriarcati possono essere creati, ristabiliti, modificati, soppressi» dal papa o dal concilio ecumenico. 127 Cfr. G. BIER, Die Rechtsstellung des Diözesanbischofs nach dem Codex Iuris Canonici von 1983, Würzburg 2001, 376 (Forschungen zum Kirchenrechtswissenschaft, Bd 32). Il can. 480 prevede: «Il Vicario generale e il Vicario episcopale devono riferire al Vescovo diocesano sulle principali attività programmate e attuate e inoltre non agiscano mai contro la sua volontà e il suo intendimento» (Codice di diritto canonico, cit., 385). Abbiamo letto undici recensioni del lavoro ad opera di altri canonisti, tutti di lingua tedesca, a eccezione di A. de la Hera, spagnolo che scrive in tedesco.
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mente giusta. Così dunque tutti gli sforzi della LG per rivalorizzare la figura del vescovo avrebbero portato alla degradazione del suo statuto. Una tale ricezione canonica, effettiva, è veramente in accordo con il principio ermeneutico stabilito sopra: vi si ritrovano i «Quattro termini [comunione, collegio, capo e membra] circoscrivono in Lumen Gentium 22 l’appartenenza al collegio […]; essi rinviano alla pluralità di Chiese (locali, episcopali) ed escludono la possibilità di determinare l’unità con la sola relazione al capo del collegio»? 3.2.2.3. Limitazione della parola dei sinodi diocesani (1997) L’Istruzione sui sinodi diocesani, comune alle Congregazioni per i Vescovi e per l’Evangelizzazione dei popoli, proibisce loro di formulare “una proposta da trasmettere alla Santa Sede”, se diverge “dalle tesi o dalle posizioni [tenute dalla] dottrina perpetua della Chiesa o il Magistero pontificio o concernente materie disciplinari riservate all’autorità ecclesiastica superiore o a un’altra”. Anche in campo disciplinare, in cui molte materie sono libere, le Chiese locali non devono formulare semplici proposte ma coltivare la conformità alla “Chiesa universale”128. Qui si pone la questione della ricezione della teologia del popolo di Dio. Un tale statuto del sinodo diocesano, che raduna il popolo di Dio sotto la presidenza del vescovo, mostra che quest’ultimo non ha reale libertà di parola nella Chiesa. È soltanto in quanto membri giustapposti di questo popolo che i suoi membri possono, individualmente e privatamente, prendere la parola. Questo traduce il diritto di comunione? Il diritto di associazione, importato dalla società secolare, compensa quello che manca? 3.2.2.4. Valutazioni sussidiarie della ricezione della Lumen Gentium 3 L’insieme dei testi di ricezione che sono stati passati in rassegna argomentano con il binomio concettuale Chiesa particolare/Chiesa universale, adottato in maniera arbitraria dal Codice del 1983, come si è segnalato. Questo vocabolario ha connotazioni inevitabilmente poco favorevoli a una teologia della comunione della Chiesa concepita
128
Instructio de Synodis diocesanis agendis, IV, 4, in AAS 89 (1997) 706-727.
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come comunione di Chiese; favorisce dunque un’ecclesiologia universalista129 che per sé stessa rende plausibile nuovamente la centralizzazione secondo il modello legale-burocratico130. Questo binomio concettuale ha un altro grave inconveniente nella ricezione della LG; là dove ci si aspetterebbe di leggere “Chiesa intera” o “Chiesa cattolica”, si trova costantemente “Chiesa universale”. È l’indice di una non-ricezione di LG 13 e del suo sviluppo nell’Ad Gentes: la cattolicità sembra di nuovo esprimersi come universalità uniformatrice e non attraverso la capacità della Chiesa di parlare tutte le lingue131, di coniugare unità e diversità, rinforzando così la deriva moderna e infelice della nota di cattolicità in luogo di rettificarla con il ritorno alle fonti, promosso dalla LG132. 129 Questo vocabolario unificato è stato scelto per caso? È poco probabile dato che è così adatto al fine perseguito. Se ne ha forse un indice nel fatto che CN 9 chiede di considerare le Chiese particolari “prima di tutto come parti dell’unica Chiesa di Cristo”, fondandosi sull’unico passo del Vaticano II che considererebbe le diocesi come parti della Chiesa; cfr. Christus Dominus 6, 3 dove in effetti pars significa “regione”, come in partibus infidelium, e non “parte”. 130 Prendiamo l’espressione nel senso weberiano, pertinente in questa sede quando si constata che il Consiglio pontificio per l’interpretazione dei testi legislativi, in luogo di rinviare un parroco tedesco al suo discernimento pastorale (o a quello dei suoi superiori immediati), accetta di trattare la questione di sapere se le bambine potrebbero servire la messa come i loro fratellini. La risposta è formulata in tre tappe, di cui le due prime sono del 1992 e del 1994 (cfr. AAS 86 [1994] 86-87). Questa stessa centralizzazione si constata nel fatto che i dicasteri romani si mettono essi stessi a risolvere questioni storiche: così l’Istruzione sulla collaborazione dei fedeli laici al ministero dei presbiteri (1997), comune a otto dicasteri, afferma «la dottrina teologicamente sicura e la pratica secolare della Chiesa secondo le quali l’unico ministro valido [dell’unzione dei malati] è il presbitero» (art. 9 § 2). Secondo A. Chavasse (Étude sur l’onction des infirmes dans l’Église latine du 3e siècle à la réforme carolingienne, Lyon 1942), essa veniva spesso impartita da un membro della famiglia, con un olio benedetto dal vescovo. Parallelamente l’insegnamento papale aumenta di volume; gli Insegnamenti di Giovanni Paolo II raggiungevano ogni anno tra le 4000 (1982) e le 5000 pagine (1988). 131 Cfr. Ad Gentes 4: «Fu prefigurata l’unione dei popoli nella cattolicità della fede attraverso la Chiesa della nuova alleanza, che parla tutte le lingue e tutte le lingue nell’amore intende e comprende». 132 La riduzione della cattolicità all’universalità geografica e quantitativa in numerosi autori moderni è chiaramente descritta da G. THILS, Les notes de l’Église dans l’apologétique catholique depuis la Réforme, Gembloux 1937, 214-254.
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Segnaliamo, infine, due lacune importanti della nostra valutazione: non si è trattata l’inserzione nella LG 10 di una frase di Pio XII sul sacerdozio comune e il sacerdozio gerarchico, e la loro differenza essenziale; frase circostanziale che ha nuociuto, sia ai i cattolici come anche ai i protestanti, alla comprensione del cambiamento di traiettoria che si ritrova nei titoli successivi di Presbyterorum ordinis, segnalati prima133. Non è stata neanche analizzata l’interpretazione dell’espressione subsistit in nella LG 8. La formulazione iniziale proposta ai Padri era la seguente: «Il corpo mistico del Cristo è la Chiesa cattolica romana […] soltanto quella che è cattolica romana ha il diritto di essere chiamata Chiesa», formulazione che rinviava all’enciclica Humani Generis di Pio XII134. Una simile identificazione pura e semplice, ed esclusiva, fu respinta energicamente fin dalla prima sessione particolarmente dal cardinal Liénart135, che domandò che il testo fosse interamente rimaneggiato e il Concilio acconsentì. È così che est fu sostituito da subsistit in. L’Istruzione Dominus Jesus (2000) che affermava che questo cambiamento non aveva alcuna portata dottrinale136 non ha convinto i teologi che hanno familiarità con gli Atti del concilio137, e neppure Le risposte a questioni riguardanti 133 Per esempio Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis ricorre quattro volte più spesso al vocabolario sacerdotale che al vocabolario presbiterale quando parla di presbiteri, cosa che non facilita la chiarificazione di questo vocabolario impermeabile per la tradizione protestante; si veda, ad es., l’art. Amt/Ämter della Theologische Realenzyklopädie (1991) 611 («C’è nel cattolicesimo un differenza di essenza tra il fedele e il detentore del ministero [LG 10], ciò che non avviene nelle concezioni protestanti del ministero»). Nell’Encyclopédie du Protestantisme (Paris 1995), anche P.-L. Dubied scrive anche nell’articolo Prêtre: «Degli aspetti della figura del prete della chiesa romana del XVI secolo restano inclusi fino al concilio Vaticano II (cfr. la differenza di essenza legata al ministero ordinato)». 134 Humani Generis, in AAS 42 (1950) 571: «Il Corpo mistico del Cristo e la Chiesa cattolica romana sono una sola e medesima cosa (unum idem esse)». 135 Membro del Consiglio di presidenza di cardinali, dichiarò: «Domando espressamente che si sopprima l’articolo 7 che equipara in maniera assoluta la Chiesa cattolica e il Corpo mistico e che questo schema sia interamente rivisto» (Acta Synodalia I, IV, 127). 136 Cfr. AAS 92 (2000) 756-759. 137 Si potrà vedere su questo tema: H. LEGRAND, La théologie des Églises soeurs.
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la dottrina della Chiesa (2007) sono riuscite a chiarire la questione138. Anche qui ci sembra che bisogna seguire la Congregazione quando tende a eliminare errori piuttosto che esigere da essa un’esegesi scientifica rigorosa. Infine la ricezione di LG 29 che ha reintrodotto il diaconato come ministero permanente meriterebbe al tempo stesso di essere valutata perché orienta i cristiani verso una dimensione essenziale della loro vita e perché permette creatività nel campo dei ministeri, un bisogno universalmente sentito in Occidente139. CONCLUSIONE GENERALE Al termine di questa ricerca, gli studenti di teologia proveranno abbastanza naturalmente sentimenti ambivalenti. Il fatto che dei teologi patentati, cioè delle autorità, possano commentare dei testi di un concilio “senza averli letti”, per riprendere la formula di François Nault, non permette di esaltare, senza riserve, la corporazione di quelli che fanno professione di teologia. Ma non vi è qui un avvertimento salutare per ogni studente chiamato a un servizio qualificato della fede? Tale servizio non implica soltanto un apprendimento rigoroso dei metodi; esige anzitutto, e ci sarebbe piaciuto non doverlo dire, un’etica di costante onestà intellettuale che comincia dall’imparare a leggere140. Réflexions ecclésiologiques autour de la Déclaration de Balamand, in Revue des sciences philosophiques et théologiques 88 (2004) 461-496, 481-486. Più recentemente F.A. SULLIVAN, The Meaning of ‘subsistit in’ as explained by the Congregation for the Doctrine of the Faith, in Theological Studies 69 (2008) 116-114 (L’Autore ha insegnato a lungo ecclesiologia alla Gregoriana); K. SCHELKENS, Lumen Gentium’s ‘subsistit in’ revisited: the Catholic Church and Christian Unity after Vatican II, in ibid. 69 (2008) 875-893. 138 F.A. SULLIVAN conclude il suo articolo Further Thoughts on subsistit, in Theological Studies 71 (2010) 147 esprimendo il giudizio che le spiegazioni di Dominus Jesus sono più soddisfacenti di quelle delle Risposte alle domande. 139 Il can. 1008 che attribuiva erroneamente ai diaconi di essere dei pastori è stato felicemente corretto dal motu proprio Omnium in mentem, in AAS 102 (2010) 10. 140 Questa esigenza vale anche per i non-teologi: come pretendere di scrivere una storia del Vaticano II senza una adeguata formazione teologica? R. DE MATTEI, Il
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Ciò invita a ritornare alla pluralità dei metodi di lettura. C’è la lettura di un concilio in termini di evento, come ha preconizzato Giuseppe Alberigo141; in termini di cambiamento retorico come John W. O’Malley ha saputo fare142, e naturalmente molti altri. Questi metodi si rivelano preziosi strumenti euristici per il teologo e non soltanto per lo storico. Non li abbiamo utilizzati perché per il teologo il metodo di lettura dottrinale dei testi che si è messo in atto143 resterà tanto più necessario dal momento che i documenti del Vaticano II costituiscono già un corpus al quale l’insegnamento teologico fa attualmente riferimento e continuerà a farlo144. Altre due lezioni si possono trarre dalle peripezie della ricezione della LG. La prima concerne il posto del diritto canonico nell’ecclesiologia cattolica. I Padri conciliari che avevano visto nei voti favorevoli alla collegialità la spina dorsale del Vaticano II si sono sbagliati perché non avevano preso nessuna disposizione canonica che traducesse le loro convinzioni ecclesiologiche al di là dei loro discorsi, cioè nella realtà. Per questa ragione LG è stata recepita attraverso una matrice dell’istituzione profondamente secolarizzata, imposta dal Codice del 1917, dove essa è ridotta al suo aspetto legale- burocratico (Max Weber). Si spera che la nuova generazione teologica si dedicherà a riflettere sullo statuto teologico ed epistemologico del diritto canoconcilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Torino 2011 ne offre un esempio. Benché si dica tradizionalista, non cita un solo Padre della Chiesa (soltanto Agostino come personaggio) quando l’indice del libro comporta, se abbiamo contato bene, 48 rinvii a Pio X, 114 a Pio XII, 33 a Plinio Corrêa, il fondatore brasiliano di Lavoro, Famiglia e Patria. 141 Per una discussione del concetto si veda: J. KOMONCHAK, Riflessioni storiografiche sul Vaticano II come evento, in M.T. FATTORI – A. MELLONI (curr.), L’evento e le decisioni. Studi sulle dinamiche del concilio Vaticano II, Bologna 1997, 417-439. 142 J.W. O’MALLEY, What happened at Vatican II?, Harvard 2008. 143 Su questo punto cfr. H. LEGRAND, Quelques réflexions ecclésiologiques sur l’Histoire de Vatican II de G. Alberigo, in Revue des sciences philosophiques et théologiques 90 (2006) 495-520. 144 Al corpus costituito da Trento e dal Vaticano I, al quale l’insegnamento teologico faceva riferimento cinquant’anni fa, si è già sostituito quello del Vaticano II. Con il rischio di restringere l’ampiezza della tradizione, rischio al quale non sfuggivano i due concili precedenti.
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Hervé Legrand
nico; questo punto costituisce già la grande debolezza del lavoro conciliare e non soltanto della sua ricezione. Si può trarre con chiarezza una seconda lezione: la continuità con la tradizione passava, per il Vaticano II, attraverso la rottura con un passato recente, cosa che si è illustrata con l’espressione “correzione di traiettoria”. La vera tradizione esige la riforma, la ripetizione la rifiuta. Il cardinale Joseph Ratzinger ha ben descritto questo movimento nella sua vita personale confidando a Peter Seewald: «Per il concorso di circostanze in cui mi venni a trovare […] erano cambiati e maturati taluni accenti del mio pensiero, tuttavia il mio intento di fondo, particolarmente durante il concilio, è sempre stato quello di liberare dalle incrostazioni il vero nocciolo della fede, restituendogli energia e dinamismo. Questo impulso è la vera costante della mia vita»145.
“Liberare dalle incrostazioni il vero nocciolo della fede”: è proprio quello che dovrebbe fare la ricezione del Vaticano II, ed è ciò a cui ogni teologo ben formato dovrebbe contribuire commentando i testi dopo averli veramente letti.
145 J. RATZINGER, Il sale della terra. Un nuovo rapporto sulla fede in un colloquio con Peter Seewald, Cinisello Balsamo (MI) 1997, 91.
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Seminario interdisciplinare 1 aprile 2011 “Nodi emergenti di alcuni temi della costituzione conciliare Lumen Gentium”
NODI DELL’AUTORITÀ NELLA CHIESA
FRANCESCO CONIGLIARO*
PREMESSA a) Nel tentativo di individuare e trattare i nodi dell’autorità, cercherò di mettere in tensione categorie ecclesiologiche e categorie politologiche. Certo, la comunità ecclesiale e la comunità politica sono convivenze molto diverse, in particolare nell’origine, nel fine, nei mezzi e nelle regole del gioco, ma preciso subito che la diversità non solo non elimina le numerose e forti analogie ma consente, addirittura, di metterle in evidenza. Le ragioni delle analogie sono almeno le due seguenti: la prima consiste nel fatto che le due comunità in questione sono composte da individui di specie umana, e l’humanum, antropologicamente e sociologicamente, si attiva allo stesso modo sia nei membri della società civile che nei membri della chiesa; la seconda ci avverte che la dimensione carismatica, che fa del ministero apostolico un dato indisponibile ed irrinunciabile, non impedisce che nella comunità ecclesiale si producano dinamiche che funzionano e sono interpretabili alla stregua delle dimensioni sociale e politica; anzi, la dimensione carismatica, se vuole conseguire storicità e concretezza, non può prescindere dalle dinamiche dette. b) Il titolo proposto parla di “autorità” e non di “potere”. Il che fa
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Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Francesco Conigliaro
pensare che chi ha concepito l’argomento ha un’idea molto positiva, magari idilliaca e, forse, anche ingenua del potere nella Chiesa. In ambito politologico si distingue tra autorità e potere e, mentre della prima si pensa che si tratti di una forma di potere qualificata e caratterizzata dalla legalità e dalla legittimità, del secondo se ne parla secondo tutte le tipologie note a livello sia nozionale che esperienziale, tipologie che vanno dalla forma più positiva, qual è appunto l’autorità, alle forme più negative, come le dittature. c) Mi rendo conto del fatto che occuparsi di tematiche ecclesiologiche sotto il profilo del potere-autorità possa mettere un po’ a disagio, in quanto che le figure linguistiche adottate non sono quelle tipiche del gergo ecclesiastico, che è solito privilegiare termini come “servizio” e “comunione”, ma penso che nella Chiesa ci debba pur essere un tempo per misurarsi con un linguaggio non gradito. Per la serenità di tutti aggiungo che nella Chiesa, in mezzo ai numerosi fenomeni di potere, lo spirito di “servizio” è talmente attivo e diffuso da rendere immediatamente percepibile la presenza di Cristo Buon Pastore e rivelatore della tenerezza di Dio Padre. Infatti, nella Chiesa, e mi riferisco soltanto all’epoca inaugurata dal Vaticano II, ha avuto luogo un progresso gigantesco in varie direzioni: la Caritas è stata istituzionalizzata in modo generalizzato ed opera dovunque con grande ed effettivo impegno; l’inculturazione della fede, uno degli aspetti più importanti e più delicati dell’evangelizzazione, è considerata, nonostante le numerose contraddizioni, con sempre maggiore attenzione; il superamento dell’eurocentrismo del cristianesimo vede impegnata, ancorché le ambiguità siano molte, l’intera comunità cristiana; i rapporti interecclesiali si fanno sempre più fraterni; i vescovi, salvo casi particolari, hanno uno stile molto più disadorno che nel passato. d) Ritengo che oggi, come in ogni altra epoca, si possa affermare che nella Chiesa, quando tutto va bene, si ha la felice opportunità di gustare il “paradiso in terra”. A completamento di ciò, si deve dire che, nella medesima Chiesa, appena ci si viene a trovare di fronte a situazioni problematiche o a questioni delicate, il paradiso svanisce. Le situazioni maggiormente problematiche e le questioni più delicate, nell’ambito aperto dal nostro argomento, sorgono a causa della tensione che si viene a determinare fra tre fattori estremamente
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complessi: il popolo di Dio, che è unico; la missione, che è anch’essa unica; i ministeri, che sono vari. 1. LO SFONDO DEL TEMA TRATTATO Sullo sfondo del mio discorso terrò costantemente quattro cespugli di dati: il contributo del Vaticano II, lo stile e l’insegnamento di Gesù di Nazareth, alcuni interrogativi seri, l’appartenenza dei membri della comunità cristiana alla nostra epoca. 1.1. Il contributo del Vaticano II Diamo la precedenza al magistero del Vaticano II perché la ragione del nostro presente comune lavoro è costituita dalla “Costituzione dogmatica Lumen Gentium sulla Chiesa”. Date le caratteristiche del presente lavoro, presentiamo i dati, senza alcun riferimento alla storia del testo. LG 9: Dio ha voluto salvare gli uomini riunendoli come popolo (populus Dei); LG 18: per pascere ed incrementare il suo popolo, Dio ha istituito nella sua Chiesa vari ministeri (ministeria); i ministeri sono stati istituiti da Cristo per il bene dell’intera comunità ecclesiale; i ministeri, rivestiti di potestà, sono destinati al servizio (inserviunt); LG 19: il Signore Gesù ha scelto i Dodici affinché questi, partecipi della sua autorità (potestas), evangelizzassero, santificassero e governassero (gubernare) tutti i popoli e così diffondessero la Chiesa e, sotto la guida del Signore e servendo, ne fossero i pastori (ministrando pascerent); LG 20: gli apostoli costituirono una società ordinata gerarchicamente scegliendo dei successori ed istituendo vari ministeri (ministeria), tra i quali ha il primo posto l’episcopato; i vescovi ricevono il ministero della comunità (communitatis ministerium) per esercitarlo insieme ai presbiteri ed ai diaconi, loro collaboratori; LG 22: i vescovi costituiscono il collegio apostolico insieme al papa, che ne è il capo; esercitano l’autorità (potestas) sul loro gregge
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e su tutta la chiesa, ma rispettando il primato e la preminenza del loro capo, cui compete la suprema autorità (potestas); LG 23: i vescovi esercitano il loro governo pastorale (regimen pastorale) sulle chiese particolari; il papa è fondamento dell’unità sia dei vescovi che della massa dei fedeli (fidelium multitudinis); LG 24: i vescovi ricevono dal Signore la potestà d’insegnare e di predicare; l’ufficio (munus) affidato dal Signore ai pastori è un “vero servizio” (verum servitium), chiamato nella Scrittura diaconia, cioè ministero (ministerium); LG 27: i vescovi reggono (regunt) le chiese particolari con il consiglio, la persuasione, l’esempio e con l’autorità (auctoritate) e la sacra potestà (sacra potestate), ma solo per edificare il gregge, ricordandosi che chi è più grande deve farsi come il più piccolo (sicut minor) e chi è capo come colui che serve (sicut ministrator) ed avendo come esempio il Buon Pastore, che è venuto non per essere servito ma per servire (non ministrari sed ministrare); i vescovi hanno diritto di dare leggi ai loro sudditi (suos subditos). CD 16: i vescovi, padri e pastori, sono come coloro che servono (sicut qui ministrant); i vescovi siano buoni pastori che conoscono il gregge; i vescovi siano disposti a qualsiasi buona opera, sopportino tutto per amore degli eletti, rispondano alle esigenze dei tempi; CD 19: i vescovi abbiano la possibilità di comunicare con la Santa Sede, con le altre autorità ecclesiastiche e con i loro sudditi (suis subditis); CD 28: le relazioni tra vescovi e presbiteri debbono avere come base principalmente il legame della carità soprannaturale (supernaturalis caritatis); AA 2: nella Chiesa c’è diversità di ministero, ma unità di missione (missio). Ai dati conciliari appena ricordati ne aggiungiamo altri: la costituzione dogmatica LG al n. 7 afferma che Cristo, Figlio di Dio incarnato, ha istituito la Chiesa, che considera sua e, quale capo, tiene unita a sé come il proprio corpo; la medesima costituzione LG ai nn. 18-27 ed il decreto CD ai nn. 1-16 fermano la loro attenzione sulla struttura gerarchica della Chiesa, che ha al vertice il collegio episcopale unito al suo capo, il vescovo di Roma, sui compiti dei vescovi, tra i quali si
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trova quello di governare, quali vicari e legati di Cristo, le chiese particolari; il decreto PO al n. 2 dice che i presbiteri sono idonei ad agire in nome di Cristo, Capo della Chiesa, sono cooperatori dell’ordine episcopale e partecipano anch’essi, ma in quanto rimangono strettamente vincolati a tale ordine, all’autorità (auctoritatem) di Cristo di fare crescere, santificare e governare (regit). I dati appena esposti ci fanno comprendere che ciò che nei testi conciliari viene chiamato ora auctoritas, ora potestas, ora regimen, ora ministerium, ora munus, ora servitium è l’autorità, che ha un’origine carismatica. Per esprimere l’idea di governare si ricorre a forme verbali diverse: regere, gubernare, ministrare, servire, pascere. Anche i destinatari dell’azione di governo vengono designati con lemmi diversi: populus, fidelis, communitas, subditus, multitudo. La diversità dei termini usati per identificare l’autorità ed il suo esercizio, da una parte, ed i suoi destinatari, dall’altra, rende evidente sia la struttura polisemica del lemma autorità, sia la prospettiva assunta nel contesto in cui viene usato, sia, infine, la visione di Chiesa che, prevalendo sulle altre, vi si attiva1. Secondo la LG, l’origine della Chiesa è il Padre, che la fonda mediante la missione del Figlio e la missione dello Spirito2. Il Figlio con la sua incarnazione, con la sua morte e risurrezione e con il dono del suo Spirito, riunisce nella Chiesa, e cioè in un unico corpo di cui egli è il Capo, gli “eletti”3. 1.2. Lo stile e l’insegnamento di Gesù di Nazareth Desideriamo approfondire il già ricordato titolo di “Capo” attribuito al Cristo. Inserito in ambito ecclesiologico, esso evoca indubbiamente il ruolo del titolare dell’autorità, ma è chiaro che, per intenderne compiutamente il senso, occorre attingere alla Scrittura. Tra i testi biblici, nei quali è presente l’idea di Capo, si distinguono 1 A questo proposito ricordo un volume, ormai classico: A. ACERBI, Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella “Lumen gentium”, Bologna 1975. 2 Cfr. LG 1-4. 3 Cfr. LG 7.
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le lettere agli Efesini ed ai Colossesi, che appartengono al gruppo delle lettere della prigionia. In Eph 1,3-23 ed in Col 1,15-20 il rapporto tra Cristo e la Chiesa è compreso e spiegato da Paolo come rapporto tra kefalhé e sw%ma. L’unità dei cristiani è vista come quella di un “corpo”, in quanto esprime direttamente la realtà della Chiesa come comunione, ed è chiamata “corpo di Cristo”, perché l’intima unione che c’è tra i cristiani è fondata e sostenuta dal rapporto reale e non solo morale che essi hanno con il Cristo, loro Capo. Si deve, dunque, dire che il Cristo è la comunità e che la comunità è nel Cristo in virtù del ruolo e della funzione che lo stesso Cristo, in quanto Capo, esercita nella comunità ecclesiale. Ma c’è di più perché San Paolo, a motivo del fatto che nella comunità di Colosse si tendeva a dare alle potenze celesti un ruolo direttivo che comprometteva il primato di Cristo, ha l’esigenza di dire che Cristo, quale Capo, è al di sopra della Chiesa e al di sopra delle potenze. Cristo ha dunque, nel senso semitico del termine, il primato sulla Chiesa e sul mondo in senso gerarchico: essendo Capo, egli ha nei confronti della Chiesa e del mondo il ruolo di principio e di autorità. Al significato semitico di kefalhé va aggiunto il significato ellenistico, secondo cui il Cristo ha, sempre nei confronti della Chiesa e del mondo, il ruolo di principio vitale. Così, la funzione di Cristo kefalhé, che ha certamente una finalità ecclesiale, va al di là dei confini ecclesiali non perché li elimina ma perché il rapporto tra Cristo e mondo, che viene esercitato attraverso il suo rapporto con la Chiesa, svela le dimensioni cosmiche ed universali del mistero del Cristo. Si tratta di una funzione salvifica, che ha il suo principio in Cristokefalhé, il quale trascende tutto perché su tutto esercita la signoria e tutto vivifica. Questi dati, però, non sono sufficienti per cogliere l’intero senso biblico concernente la funzione di Cristo-Capo. Occorre unire ad essi altri dati, tra i quali preziosissimo è uno proveniente dalla Lettera agli Ebrei: «Conveniva infatti che Dio — per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria — rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo [a\rchgoén] che guida alla salvezza»4. Il lemma a\rchgoév aggiunge alla
4
Hebr 2,10.
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struttura concettuale di kefalhé, precedentemente presentata (autorità e principio vitale), l’idea di capo-guida. Secondo l’autore di questa lettera, Cristo non è diventato mediatore perfetto tra Dio e l’umanità in seguito alla sola incarnazione, e cioè in seguito alla mera “assunzione della natura umana”, bensì a causa della passione, e cioè grazie alle conseguenze della sua alienazione nella concretezza della condizione umana. La medesima lettera in un capitolo successivo dice che le sofferenze, che fanno parte della condizione umana, erano necessarie a Gesù perché conseguisse la perfezione. Egli fu reso perfetto e, conseguentemente, ricevette la gloria e poté espletare il ruolo di salvatore mediante il dolore patito e sopportato in piena solidarietà con quelli che soffrono5. La perfezione del Figlio incarnato si mostra nella gloria e negli uffici assoluti da lui espletati, e tale è quello di “salvatore”, ma passa per la passione e per la morte. Il senso biblico dell’incarnazione implica molto più dell’“assunzione della natura umana”, come non perspicuamente, ancorché correttamente, ha tramandato la tradizione cristiana a partire dal Concilio di Calcedonia del 451, perché implica le condizioni esistenziali di essa. Possiamo, dunque, pensare che Cristo è kefalhé innanzitutto e fondamentalmente perché viene innalzato sulla croce. Avendo trascinato sull’alto della croce il peccato del mondo per consumarlo mentre consumava se stesso, il Cristo si è rivelato in senso vero e compiuto kefalhé. L’aveva pure profetizzato, quando, parlando del suo innalzamento sulla croce, aveva detto che dall’alto di essa avrebbe attirato tutti a sé6. L’autore della Prima Lettera di Pietro collega efficacemente Cristo che trascina sulla croce il peccato ed il suo ufficio assoluto di salvatore: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siamo stati guariti»7. Questo passo attesta che nella comprensione di fede della primitiva comunità cristiana era andata
5 Cfr. Hebr 5,7-10. Cfr. anche A. VANHOYE, Gesù Cristo il mediatore nella lettera agli ebrei, tr. it., Assisi 2007, 82 ss. 6 Cfr. Io 12,32 s. 7 1Pet 2,24.
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maturando, anche per merito della riflessione paolina, l’idea che il Cristo, e proprio mentre il suo corpo viene innalzato sulla croce, porta, egli stesso, su nell’alto della croce, quale altare del sacrificio, il suo corpo gravato dal peccato e da tutti i dolori conseguenti e considerato, in quanto tale, compimento di tutte le profezie che riguardano la sofferenza del Messia. Venantius Fortunatus nel secolo VI nell’inno in onore della Santa Croce scriveva opportunamente: regnavit a ligno Deus. Ciò ci induce a dire che Cristo è kefalhé, e lo è certamente perché è il Kuériov vivente e glorioso, ma, come abbiamo già affermato, innanzitutto e fondamentalmente lo è in quanto innalzato sulla croce. L’inizio e la chiave di ogni autentico discorso cristologico è la condizione esistenziale dell’incarnazione. Le condizioni esistenziali dell’incarnazione, presentate soprattutto dal Corpus paulinum, ci mostrano la profondità della penetrazione del Figlio eterno nella storia concreta degli uomini e la forza con cui egli ha intrecciato la sua vicenda con le loro. La Lettera ai Filippesi, proponendo il tema dell’incarnazione kenotica, dà indicazioni eloquenti circa la completa collocazione del Figlio incarnato nelle concrete coordinate creaturali della debolezza, della fatica, del dolore e della morte8. La Lettera ai Romani ci spiega che la “carne”, che il Figlio ha scelto come propria effettiva dimensione creaturale e storico-concreta, è quella profondamente segnata e corrotta dal peccato, con annesse tutte le conseguenze che ne derivano9. La Seconda Lettera ai Corinzi porta l’immedesimazione del Cristo con gli uomini e con la loro effettiva situazione fino alla sua immedesimazione con il peccato, e cioè con l’opposto di Dio10. La Lettera ai Galati attesta l’impegno salvifico del Cristo nei nostri confronti parlando sia della sua immedesimazione con la maledizione, al fine di liberare noi dalle conseguenze nefaste di essa, sia della sua immedesimazione con noi mediante la partecipazione della sua identità di Figlio e del suo stesso dinamismo filiale11. La 8
Cfr. Phil 2, 5-11. Cfr. Rm 8, 3 s. 10 Cfr. 2 Cor 5, 21. 11 Cfr. Gal 3, 13; 4, 4 s. 9
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Lettera agli Ebrei ci esorta a confidare assolutamente in Cristo perché egli, essendo stato sottoposto alle nostre stesse prove, ad eccezione del peccato, può comprenderci pienamente ed essere solidale con noi12. Egli, per essere esaudito, ha elevato a Dio, come tutti gli uomini, il gemito della preghiera e del lamento della vita offesa; e, per conseguire la perfezione ed essere, così, il salvatore del mondo, è passato per la scuola dell’obbedienza e del dolore13. Il Vangelo secondo Giovanni, da parte sua, insegna che il Lógos eterno si fa carne, e cioè si fa esistente storico-concreto, ed anche rivelatore di Dio, in quanto, dall’intimità del Padre, sul cui seno riposa per l’eternità, viene a vivere la sua vita filiale nella condizione-situazione di uomo come colui che compie la fatica continua di montare e smontare la sua tenda tra gli uomini, che, da parte loro, montano e smontano le proprie in tutte le circostanze di luogo, di tempo, di condizione e di situazione14. Parlando della salvezza nella kénosis di Cristo nell’alterità da Dio ci imbattiamo nel tema particolare dell’esperienza umana di Cristo. Egli ha fatto esperienza di tutti i livelli dell’esistenza umana, vivendoli tutti e diventando in ogni cosa come gli uomini, allo scopo di condividere con essi in totale solidarietà non solo la natura umana ma anche la concretezza dell’esistenza e dei suoi eventi. Il noto inno cristologico della Lettera ai Filippesi15 chiarisce l’estensione, le dimensioni, le modalità e le conseguenze di quell’evento che, con terminologia cristologica evoluta, possiamo chiamare l’incarnazione kenotica del Figlio eterno. L’originario input tematico del giusto sofferente, che riceve la ricompensa da Dio, viene sviluppato come tema cristologico con al centro la kénosis, in virtù della quale Cristo abbandona la condizione gloriosa, propria della divinità, e, operando diversamente rispetto ad Adamo ed in conformità al “servo di Jahwé” 16, si aliena 12
Cfr. Hebr 4, 15. Cfr. Hebr 5, 7 s. 14 Cfr. Io 1, 14.18. 15 Phil 2,5-11. 16 È noto che di Phil 2,6 sono possibili diverse traduzioni. Una considera Cristo in riferimento al “Servo di Jahwé”: «Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio essere come Dio»; un’altra lo considera mettendolo a confronto 13
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nell’alterità del servo e dell’uomo, fino alla morte di croce. Ma, Dio premia la sua obbedienza assoluta, con un dono altrettanto assoluto, e cioè esaltandolo ed attribuendogli un titolo, quello di Kuériov, al semplice risuonare del quale, tutto ciò che esiste nei cieli e sulla terra piega le ginocchia. Il conseguimento della perfezione compiuta dà al Capo la possibilità di operare la salvezza. Il compimento della perfezione è nella morte di croce, che così diventa morte salvifica. Il Nuovo Testamento presenta, quale contenuto e dimostrazione dell’amore compassionevole di Dio, la morte salvifica di Cristo. Il testo più eloquente è certamente Rm 5,8: «Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Letto nel contesto, questo passo mette in luce il paradosso dell’amore di Dio nei confronti dei peccatori17. Innanzitutto, viene all’evidenza il paradosso dell’amore di Dio per l’umanità: mentre è difficile trovare qualcuno che offra la propria vita per un uomo giusto, Cristo è morto per noi, che non siamo giusti. Inoltre, l’attenzione viene concentrata sull’acme del paradosso: Cristo è morto per noi per il fatto che siamo peccatori e proprio mentre lo siamo. Se Cristo fosse morto per il peccatore pentito, tutto sommato sarebbe morto per il giusto (diventato giusto), ed il paradosso si dissolverebbe. Si aggiunga che la morte di Cristo per noi non è, contrariamente a quanto ha sostenuto e sostiene una certa tradizione, una morte vicaria, in quanto non è volta a placare l’ira di Dio, ma è un evento di rivelazione, perché rivela l’amore di Dio. Infine, l’evento ed il modo in cui l’amore misericordioso di Dio arriva agli uomini è la morte di Cristo: non c’è distinzione tra l’amore di Dio e l’amore di Cristo, perché l’amore divino si rivela e si dona esclusivamente in prospettiva e con dinamica trinitaria; sicché, l’autodonarsi e l’autorivelarsi dell’amore di Dio Padre s’identifica con l’amore di Cristo che muore sulla croce ed ha la stessa carica appassionata di Cristo che morendo si consuma di con Adamo: «[…], non ha considerato come una preda da cogliere di essere uguale a Dio». Dal punto di vista teologico, entrambe le traduzioni sono cariche di senso ed offrono un contributo alla comprensione del mistero della Kénosis. 17 Ad esempio, cfr. A. PITTA, Lettera ai Romani, Milano 2001, 226.
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amore per gli uomini; la morte e la modalità della morte di Cristo, che hanno luogo nell’economia, rivelano la trascendenza del mistero divino, eterno ed assoluto. Insistiamo su questo concetto per evitare ogni equivoco: l’amore di Dio e l’amore di Cristo sono l’unico ed identico amore divino in virtù del carattere trinitario di esso; sicché, nei confronti di un tale amore il Padre è principio senza principio ed il Figlio ne è anch’egli principio, ma in quanto ha origine nel Padre. La salvezza ci viene donata da Dio mediante la kénosis di Cristo nell’alterità più completa. Il testo biblico, che esprime in maniera sconvolgente tutto questo, è 2 Cor 5,21: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio». Nel fare Cristo peccato, Dio intende operare una sorta di identificazione personale del peccato, al fine di poterlo combattere come il proprio contrario personificato. In tal modo, il Cristo, il Figlio amato18, viene identificato con il peccato, e cioè con ciò che è nel senso più pieno l’altro da Dio. Neppure la morte ha, rispetto a Dio, una carica di alterità paragonabile con il peccato. Sennonché, la Scrittura, che dichiara la condivisione completa della nostra condizione e della nostra situazione da parte di Cristo, esclude che essa includa il peccato: «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato»19. Ciò significa che egli è assolutamente innocente. Ma, tale affermazione può benissimo, benché ossimoricamente, stare insieme all’altra seguente: Cristo si è situato nel peccato, identificandosi addirittura con esso. La ragione di possibilità della coesistenza delle due precedenti affermazioni, consiste nel fatto che Cristo è stato inviato nel mondo per rivelare, mediante la sua completa solidarietà con noi, l’amore compassionevole di Dio. Il Cristo ha voluto non semplicemente tirar fuori il peccatore dal pantano del male, ma ha voluto riemergere con lui: la redenzione è una vera e propria nascita. Per fare questo nel modo più completo, Cristo ha voluto innanzitutto
18 19
Cfr. Mt 3,17. Hebr 4,15.
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cogliere, in piena solidarietà, i palpiti del cuore umano tormentato e, comunque, sfigurato dall’allontanamento da Dio. Nel fare Cristo peccato, Dio compie un gesto con cui l’ossimoro si trasferisce dal livello linguistico al livello operativo: nel Cristo, che è il più grande peccatore, perché è identificato con il peccato in quanto tale, l’identità di peccatore si inscrive nello spazio semantico di salvatore, ed entrambi congiuntamente in quello dell’amore compassionevole di Dio, l’unico “grembo” in cui l’aborrita alterità del peccato, in quanto appartiene ai tratti caratteristici del Figlio unigenito incarnato e di tutti gli altri figli, suscita compassione, può essere accolta e, senza ulteriori procedure e mediazioni, annientata. Perché questo fosse possibile, era necessario che il Figlio vivesse una esistenza nella “carne del peccato”, e cioè un’esistenza umana storico-concreta: «Ciò che era impossibile alla legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito»20. Riteniamo che gli interpreti siano poco coraggiosi nell’analisi di questi testi: essi per lo più si fermano alla funzione vicaria di Cristo e parlano di condanna del peccato nella carne, e cioè nell’umanità di Cristo, che è quella stessa degli uomini, peccatori senza eccezione21. A noi sembra che il pieno senso teologico dei testi in questione possa e debba essere colto mediante l’accostamento tra la “giustizia compiuta della legge” e la giustizia di Dio sul peccato realizzata per mezzo della morte di Cristo sulla croce. In entrambi i casi la “giustizia” consiste nell’amore. Infatti, l’atto di giustizia di Dio sulla carne di peccato ha fatto sì che la “giustizia della legge fosse compiuta”, ma, come risulta dal Nuovo Testamento, il vero compimento della legge è l’amore22. Per di più, la morte di Cristo sulla croce, con cui il peccato
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Rm 8,3 s. Cfr. A. PITTA, Lettera ai Romani, cit., 289; F. MANZI, Seconda lettera ai Corinzi, Milano 2002, 212 s. 22 Cfr. Mt 22, 34-40; Mc 12,28-34; Lc 10,25-28. 21
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viene giustiziato nella carne, è giustizia di Dio innanzitutto e fondamentalmente perché è l’espressione culminante della rivelazione dell’amore compassionevole di Dio. Temi così carichi di tensioni esperienziali e sgorganti da testi biblico-cristologici tanto concreti indicano che la storia di Gesù di Nazareth offre, tra l’altro, sia le coordinate ermeneutiche per la corretta comprensione dei numerosi antropomorfismi ed antropopatismi mediante i quali nell’Antico Testamento vengono presentati Dio ed i suoi liberi modi di agire, sia le coordinate operative per programmare correttamente ogni stile ecclesiale. 1.3. Interrogativi seri I termini più appariscenti presenti nei testi conciliari supra ricordati sono “autorità”, potestà” e “servizio”. Essi hanno pregnanze semantiche diverse. Infatti, i lemmi “autorità” e “potestà” sono comprensibili nello stesso spazio semantico del lemma “potere”, la cui offerta di senso implica il “sapere” e, come spiega L. Wittgenstein, è comprensibile lungo un percorso semantico fatto di giochi linguistici imparentati tra di loro: “sapere”, “potere”, “essere in grado”, “comprendere”, “padroneggiare”23. Il senso del lemma “servizio” viene compreso mediante l’accostamento a locuzioni quali “piegarsi davanti a…”, “mettersi a disposizione di…”, “collegare i propri fini con i fini di…”, “prestare i propri servigi a…”, ecc. Nella Chiesa, ed in particolar modo ai nostri tempi, si tende ad inscrivere i lemmi considerati, che per semplificare in questo momento riduciamo soltanto a due “potere” e “servizio”, l’uno nello spazio semantico dell’altro o, almeno, a porli e a mantenerli in tensione costruttiva e positiva. Lo scopo è di indurre i membri della Chiesa e gli eventuali osservatori al convincimento che la struttura piramidale della Chiesa, ancorché innegabile, non è volta al potere, bensì al servizio24.
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Cfr. L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, tr. it., Torino 1967, I, 150. Cfr. C. BURKE, Autorità e libertà nella Chiesa, tr. it., Milano 1989, 150 s, 160 s.
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I termini in questione, proprio per la tensione semantica da essi implicata, ci pongono di fronte ad interrogativi seri. Ne formuliamo alcuni: quali implicazioni semantiche ed operative ha il concetto di autorità nella Chiesa? Quali implicazioni semantiche ed operative ha il concetto di servizio nella Chiesa? Ci sono nella Chiesa problemi di libertà, di diritti umani e di tensione tra semplici christifideles ed autorità? Può accadere nella Chiesa che i problemi di potere vengano riproposti come problemi di verità ed i problemi di convivenza come problemi di fede? Può accadere nella Chiesa che si verifichino casi di lamento della vita offesa, che il “grande” sia anche il “forte” e che la legge canonica venga applicata a discrezione dell’autorità ed intuitu personae? Questi interrogativi danno origine ad altri interrogativi, che investono la dimensione teologica della Chiesa: come si realizza la comunione? Come si vive l’intersoggettività? Che senso hanno termini come uguaglianza, solidarietà e corresponsabilità? Quali sono e debbono essere i rapporti tra gli organi ed i soggetti che costituiscono e rendono dinamica la Chiesa? Si può parlare di consenso? Qual è la portata pratica di locuzioni tradizionali, quali sensus fidelium e consensus fidelium? Altri interrogativi ancora toccano la dimensione giuridica della Chiesa: qual è la natura ed il significato dell’ordinamento giuridico della Chiesa? Si tratta di ordinamento effettivo o soltanto apparente? Qual è il valore delle leggi ecclesiastiche? È applicabile nella Chiesa, in analogia al principio vigente nell’antica Roma salus reipublicae suprema lex, il principio salus Ecclesiae suprema lex, se nel lemma Chiesa vengono implicati, oltre che il concetto di “corpo comunitario di Cristo”, anche gli aspetti meramente storici dell’istituzione e se la salus Ecclesiae, ed in particolare di questi suoi ultimi aspetti, richiede il disconoscimento dei diritti del christifidelis? Ovviamente, mi rendo conto del fatto che orecchie pie, tali effettivamente o anche per posa, possano esprimere stupore di fronte a discorsi che mettono a tema, e proprio a proposito della Chiesa, questioni come potere, libertà, diritti umani, ecc.
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1.4. I membri della comunità cristiana sono figli della loro epoca L’epoca storica nella quale viviamo è caratterizzata da idee programmatiche come giustizia, uguaglianza, partecipazione, corresponsabilità, sinergia, ecc. Se tentiamo di approfondire a livello appena iniziale ciascuna di queste idee, vediamo aprirsi ambiti tematici e problematici sconfinati. Volendo fare questo tentativo per una sola di queste idee, ad esempio per l’idea di uguaglianza, ci troviamo immediatamente di fronte ad una problematica articolata e complessa, in quanto l’iniziale idea di uguaglianza si sfaccetta in civile, sociale, politica, giuridica, religiosa, sessuale, ecc. L’uomo moderno, che vive nella presente epoca culturale e che sente intensamente i problemi sociali e politici della comunità politica a cui appartiene e per il cui benessere è fortemente impegnato, ha anche uno spiccato senso della propria individualità e, di conseguenza, non si riconosce più, come nel passato, quale parte dipendente da un tutto, rivendica i suoi diritti ignorando il tutto o anche contrapponendosi ad esso, afferma il proprio diritto al controllo ed alla critica dei titolari e delle forme del potere25. I christifideles, essendo cittadini della città degli uomini, nella quale le idee precedenti sono quotidiano e normale oggetto di studio, di programmazione e di discussione, non si rassegnano a restare privi nella Chiesa, nella quale essi vogliono vivere per ottenere la grazia della salvezza e della perfezione piena, di diritti e di responsabilità individuali e sociali e di ruoli precisi nell’esercizio e nella critica del potere e nei processi di formazione delle idee e di decisione. Oggi per i cittadini della città degli uomini uno spazio sociale buono è solo quello dove sono operative la condivisione e la corresponsabilità. In esso il momento oggettivo (mondo dei principi) ed il momento soggettivo (mondo del consenso) della partecipazione sono inseparabili. Di conseguenza, risultano in ogni senso fortemente problematici modelli di vita ecclesiale come quelli gelasiano e gregoriano, per quel che concerne la posizione del papa nella Chiesa
25 Cfr. P. VALADIER, Ridiscutere la secolarizzazione, in AA. VV., Chiesa in Italia, Annale de Il Regno, Bologna 2008, 26.
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universale, e come quello feudale, per quanto concerne la posizione del vescovo nella diocesi. Tali modelli arcaici sono stati adottati, in modo chiaro, fino a Leone XIII e Pio X, ed in modo velato fino a Pio XII. Leone XIII diceva che nella Chiesa si trovano due categorie di persone, che costituiscono due ordini natura sua distinti: pastorem et gregem, id est rectores et multitudo26; Pio X, da parte sua, parlava di societas inaequalis: natura sua, secondo le Scritture ed i Padri della Chiesa; il che significa che per natura e per volontà di Dio, la Chiesa è divisa in gradi e livelli irriducibili: pastores, hierarchia, rectores, da una parte, e grex e multitudo, dall’altra27; Pio XII, nonostante le tante aperture del suo pontificato, ebbe una visione “significativamente unilaterale” della Chiesa28. Ai nostri tempi nessun papa e nessun vescovo oserebbero ricorrere ad una terminologia di questo genere. Anzi, a partire dal Vaticano II, dove pure, a motivo delle varie visioni ecclesiologiche che vi si trovano, non mancano gli svarioni, come quello già visto «massa dei fedeli (fidelium multitudinis)»29, si tende ad inscrivere i termini autorità, potestà e potere all’interno del termine servizio. E, certo, il linguaggio e le sue variazioni hanno una portata non indifferente nella convivenza e nella comunicazione. Anche se non è fuori luogo osservare che al tempo dei papi Gelasio, Gregorio VII, Innocenzo III, Bonifacio VIII, Leone XIII e Pio X, e fin dal pontificato di Gregorio Magno, il pontefice romano usava definirsi Servus servorum Dei. Il problema, dunque, non è semplicemente di linguaggio, ma anche di configurazione istituzionale. La Chiesa dovrebbe essere istituzionalmente configurata in modo tale da interdire il rigurgito di vecchi modelli ecclesiastici di convivenza. A nostro modesto avviso, i modelli ecclesiastici istituzionali vecchi sono sempre in agguato e sempre pronti a ripresentarsi sotto altra forma. Infatti, chi potrebbe negare la loro presenza effettiva nella
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LEONE XIII, Lettera al vescovo di Tour del 17/12/1888. PIO X, Vehementer nos, lettera enciclica dell’11/02/1906. 28 Cfr. H.J. POTTMEYER, Uniti dal Concilio, in Il Regno 53 (2008) 1043, 643. 29 LG 23. 27
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Chiesa? Sennonché, i modelli vecchi, mentre in passato non facevano sorgere il dubbio circa il fatto che il papa ed il vescovo fossero successori degli apostoli, ai nostri giorni i dubbi sorgono e vengono tematizzati ampiamente e lungamente e da porzioni sempre più significative, sia quantitativamente che qualitativamente, di fedeli. In ogni caso, val la pena ricordare che i modelli vecchi d’esercizio dell’autorità ecclesiale presentano il papa ed il vescovo più come signori del palazzo che come pastori del gregge di Cristo. 2. IL POTERE NELLA CHIESA, OGGI Nella nostra epoca l’appartenenza effettiva alla Chiesa ci consente di fare sia l’esperienza positiva di una vita ecclesiale-comunitaria caratterizzata da una tensione comunionale forte e feconda e dalla presenza di vescovi veramente padri e pastori30, sia l’esperienza negativa dell’esercizio della sacra potestas in modo autoritario, arbitrario ed arrogante. Mentre si fa questo secondo tipo di esperienza, si è costretti a prendere atto dell’uso inflattivo dei termini “comunione” e “servizio”, talché non si riesce a sfuggire alla sensazione di vivere in un contesto di nominalismo e, dunque, di qualunquismo linguistico e concettuale. Oltretutto, i segni di una effettiva societas inaequalium sono ben visibili: ci sono fenomeni di accentramento, di verticizzazione, di emarginazione e di inferiorizzazione, mediante fenomeni di polarizzazione dal basso verso l’alto e di ubbidienza-assoggettamento. Una domanda è inevitabile: nella Chiesa si può parlare di potere nel senso vero e proprio del termine? La domanda non ha ancora finito di risuonare che è già pronta una risposta: non è possibile che nel corpo comunitario di Cristo si insinui il potere! Ma questa, e lo si comprende immediatamente, è una risposta di tipo fondamentalistico. Sappiamo, però, che la Chiesa, corpo comunitario di Cristo, vive nel mondo e nella storia nelle stesse situazioni e con gli stessi ritmi del suo fondatore. Solo che, mentre il Cristo ha corso, a motivo dell’incarnazione e della kénosis, tutti i rischi che si pongono davanti all’esistenza
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Cfr. CD 16.
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aperta di ogni uomo, ad eccezione del rischio del peccato, in quanto è il Figlio inviato nel mondo per la salvezza dell’umanità e dell’intera creazione, la Chiesa corre tutti i medesimi rischi, incluso quello del peccato, perché è fatta di uomini, che sono chiamati ad essere figli e lo sono già a livello iniziale, ma hanno ancora molta strada da percorrere e numerosi pericoli da superare prima di raggiungere il compimento e la perfezione dell’identità e del dinamismo dei figli di Dio. In una tale situazione, niente di ciò che è umano è lontano da noi uomini, e neppure dalla Chiesa. Della prossimità della Chiesa alla fragilità degli uomini menzionerò soltanto qualche dato significativo. Innanzitutto, la Chiesa ha subito la pressione della storia, di fronte alla quale ha reagito in maniera diversa rispetto alla maniera in cui ha reagito Gesù di Nazareth. Di tale pressione ricordo soltanto un frammento: quello che concerne il pontefice romano. Mi sembra opportuno premettere la dichiarazione seguente: mentre affermiamo che nella Chiesa il carisma apostolico è grazia, è indisponibile ed è irrinunciabile, osserviamo che esso arriva fino a noi gravato da numerose e pesanti sovrastrutture. L’attuale forma e figura del pontificato romano assomma in sé una serie di fattori: il carisma apostolico, e precisamente petrino, appena ricordato; l’assunzione delle funzioni e dei simboli imperiali; il balzo del pontificato romano ai vertici del potere mondiale in seguito alla vittoria del papato sull’impero, in occasione delle lotte per le in vestiture al tempo di Gregorio VII e di Enrico IV; la verticizzazione del potere papale con Gregorio VII, Innocenzo III e Bonifacio VIII, scalfita appena dal cosiddetto “schiaffo” di Anagni; la configurazione assolutistica del potere papale all’epoca dell’assolutismo; la definizione dogmatica del primato e dell’infallibilità del pontefice romano nel 1870 ad opera del Concilio Vaticano I; in seguito alla perdita del potere temporale nel corso del secolo XIX, il papato, vedendosi minacciato nella sua stessa esistenza, ha avviato «una concentrazione difensiva di tutti i propri mezzi di potere»31, un processo che ai nostri giorni sembra in continuo
31 K. GABRIEL, I tentativi di guadagnare autorità nel mondo contemporaneo da parte del papa, in Concilium 44 (2008) 3, 562.
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aumento; infatti, a partire dal Vaticano II, nella Chiesa sono entrate in circolo tensioni e speranze varie, ma le stratificazioni del potere, rese certamente più disadorne, nella sostanza sono rimaste immutate. Il carisma petrino, su cui stiamo fermando la nostra attenzione, è stato formulato in tanti modi, anche nel seguente: a Deo pontifex; a pontifice lex; pontifex super legem. In questo cespuglio di formule è possibile scorgere non soltanto l’antico e venerando principio: Prima sedes a nemine iudicatur, ma anche l’irresponsabilità, che è una prerogativa del monarca assoluto. Inoltre, nella Chiesa come nella società, sia nella vita dei singoli che nella vita dei gruppi, vengono all’evidenza tanti segni di debolezza, di interessi e di volontà di potere. Non c’è chi non si renda conto del fatto che non si può procedere serenamente nell’analisi circa il potere nella Chiesa se non si risponde ad una domanda che si fa sempre più ineludibile: i rischi incorsi toccano la Chiesa soltanto nei suoi membri oppure anche nella sua struttura istituzionale? La nostra risposta consiste nel richiamare un confronto tra due grandi protagonisti della teologia del secolo XX, Ch. Journet ed Y. Congar. Il Journet, assumendo una prospettiva apologetica e fondamentalista, esclude che uno stesso organismo, la Chiesa, possa implicare la santità nel capo ed il peccato nel corpo32 e, di conseguenza, distingue tra la Chiesa, che è santa in quanto è alimentata dall’azione di Cristo ed è animata dallo Spirito, ed i cristiani, le azioni dei quali, se sono buone, vengono assunte come proprie dalla Chiesa e, se non lo sono, vengono scartate33. Per Ch. Journet, qualsiasi infedeltà non è della Chiesa ma solo dei peccatori, i quali, in quanto tali, sono nella Chiesa solo in vista della conversione, ma non le appartengono. Di ben altra opinione è Y. Congar, il quale, facendo riferimento al Journet, così si esprime: «in complesso, io sottoscriverei la formula di Mons. Journet (la Chiesa è santa, benché fatta di peccatori), ma completandola con la considerazione di questo ordine delle miserie o degli errori storici sui quali, del resto, ai nostri
32 Cfr. Ch. JOURNET, L’Église du Verbe Incarné, Paris-Bruges 19623, XIV; ID., L’Église du Verbe Incarné. Essai de théologie speculative, II, Paris-Bruges 1962, 220. 33 Cfr. ibid., 911-914.
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giorni vertono in modo particolare le critiche e talvolta si appunta lo scandalo. Essi toccano la Chiesa? La Chiesa ne è il soggetto? Si, essi toccano, hanno per soggetto ciò che noi chiamiamo la Chiesa»34. L’esigenza, che sorge in una tale situazione, è quella della riforma delle strutture ecclesiastiche. Al riguardo, J. Werbick così si esprime: «Tali strutture vanno intese come peccaminose nel senso che non solo esigono la conversione personale di molti singoli, bensì un cambiamento delle strutture secondo lo spirito di Gesù Cristo, una “conversione delle strutture”»35. Condividiamo l’opinione del Congar e del Werbik, in quanto anche noi, come questi due teologi, siamo del parere che, mentre il corpo comunitario di Cristo è garantito dalle promesse del Salvatore, la configurazione storica di esso, beneficiando delle stesse promesse proporzionatamente alla sua idoneità ad esserne traduzione concreta, effettiva e credibile, è soggetta, per logica conseguenza, a rischi ed a corruzione. 3. FENOMENI DI POTERE NELLA CHIESA Per capacitarci ancora più e meglio di questo fatto desideriamo fermare la nostra attenzione su alcuni fenomeni di potere nella Chiesa. 3.1. Carismi ed anti-carismi Nella Chiesa tutto è grazia, ogni cosa sgorga dal seno del Padre e si realizza mediante la missione del Figlio e la missione dello Spirito36. 34 Cfr. Y. CONGAR, Santa Chiesa. Saggi ecclesiologici, tr. it., Brescia 1967, 137. Benedetto XVI, nella conversazione avuta nell’estate del 2010 a Castel Gandolfo con P. Seewald, parla di miseria della Chiesa: «Proprio in questo tempo segnato dagli scandali, abbiamo fatto esperienza di questa sensazione di venir meno, di quanto misera sia la Chiesa e di quanto falliscano i suoi membri nella sequela di Gesù Cristo» (BENEDETTO XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi, Città del Vaticano 2010, 241). 35 J. WERBICK, La chiesa. Un progetto ecclesiologico per lo studio e per la prassi, tr. it., Brescia 1998, 277. 36 Cfr. LG 1-3.
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Anche il processo di istituzionalizzazione, se è autentico e puro, ha la stessa origine della realtà carismatica della Chiesa. Se fosse sempre così, l’istituzionalizzazione si identificherebbe immediatamente con la realizzazione dell’organismo del corpo comunitario di Cristo. Sennonché, nella Chiesa si verificano fenomeni di anti-carisma. Ne esaminiamo brevemente alcuni. a) Percorso ecclesiastico del potere Nella Chiesa, come ci sono stati e ci sono quelli che rifiutano il potere per varie ragioni e, talora, anche per amor di Dio, così ci sono stati e ci sono quelli che si lasciano trascinare dalla potente attrazione da esso esercitata, fino a seguire quello che può essere chiamato “il percorso ecclesiastico del potere”. Si tratta di un percorso piuttosto facile, in quanto basta volerlo percorrere ed attivare e praticare tutti i dispositivi idonei, e cioè basta avere e tenere i contatti giusti ed introdursi negli ingranaggi giusti. Del resto, nella Chiesa non ci sono concorsi e non si danno possibilità di verifiche e di divieti comunitari. L’elezione viene fatta per cooptazione sulla base di una valutazione ex formata conscientia. A formare la coscienza di chi firma le nomine può essere sufficiente quello che per i corridoi curiali romani viene chiamato “il diavolo che ti porti”. Ma sempre efficace è il percorso privilegiatissimo che, a detta di Maurice de La Chatre, fu scelto da colui che sarebbe diventato il famoso cardinale Giulio Alberoni37. b) Strategie di immunizzazione Ne indico due, che tuttavia hanno molti elementi in comune: i modelli ecclesiastici di legalità-legittimità e di legittimità-legittimazione. Prendo le mosse dall’uso politologico di tali concetti. In ambito politico la legalità, requisito essenziale dell’esercizio del potere sovrano, consiste nella perfezione formale di una legge o di un atto, 37 Nel 1706 a Parma l’Alberoni fece un balzo in avanti nella sua gloriosa carriera ecclesiastica in seguito all’esclamazione «Oh, culo d’angelo!», da lui pronunciata mentre, con gesto intrepido, baciava il deretano ignudo che Luigi Giuseppe di Borbone duca di Vendôme gli mostrava nell’atto di alzarsi dal cantero (cfr. M. DE LA CHATRE, Histoire des Papes, 1857, Kessinger Lagacy Reprints 2009).
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posti in essere da una figura istituzionale legittima. La legittimità, che conferisce all’autorità il titolo legittimo del diritto di comando, consiste nella corrispondenza di una legge o di un atto di governo o alla carta costituzionale, o ai diritti umani, o al diritto naturale, o al consenso. In politica ciò che è legale non sempre è legittimo. Ad esempio, in democrazia atti formalmente compiuti, se non tengono conto del consenso, sono illegittimi. E non è soltanto problema di mera legittimità giuridica; infatti, molti atti, giuridicamente legittimi, vengono meno ad una legittimità più profonda, qual è, ad esempio, quella che sgorga dall’ampio ambito dei diritti umani38. In questo caso i diritti umani assolvono il ruolo della “terzietà”, e cioè della vox diversa da chi esercita l’autorità e da chi ne è il destinatario. Nella Chiesa il potere è legittimo, e cioè ha titolo per essere considerato partecipazione dell’autorità di Cristo, se il titolo del possesso di esso è conferito in maniera conforme al Vangelo e se viene esercitato nella fede. Nella prassi ecclesiastica ciò viene ritenuto un dato di fatto, se il conferimento del titolo in questione ha luogo nel rispetto delle norme stabilite dal Codex Iuris Canonici. Quanto al rapporto tra legalità e legittimità nella Chiesa, è sufficiente annotare sia che ciò che è legale è sempre giuridicamente legittimo, sia che quanto è legittimo dal punto di vista giuridico, lo è anche da ogni altro punto di vista. Infatti, nella Chiesa è generalmente diffuso il convincimento che ciò che è secondo il codice canonico nel contempo è anche legale e legittimo. A tale proposito è interessante l’articolata argomentazione di tipo teologico messa in circolazione a partire dal 1978, anno della promulgazione del nuovo Codex Iuris Canonici da parte del pontefice Giovanni Paolo II: nel Codex Iuris Canonici si trova la traduzione giuridica del Concilio Vaticano II; atqui, nel Concilio Vaticano II è operante lo Spirito Santo; ergo, nel codice è operante lo stesso Spirito. Nella Chiesa legalità e legittimità tendono a coincidere perché hanno la stessa fonte. Le ultime considerazioni ci fanno subito concludere che nella
38 Cfr. V. MURA, Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, Torino 1997, p. 171.
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Chiesa la fonte prima di ogni legittimità è lo Spirito Santo in persona. E, se si trae in maniera aproblematica e senza enfasi un’altra conclusione, e cioè che un tale criterio di legittimità è valido per l’intera Chiesa, per ogni ministero, per ogni organo e per ogni membro, non si ha difficoltà a ritrovarsi tutti d’accordo. Le difficoltà si presentano immediatamente e si rivelano subito insormontabili, quando si vuole trarre la seguente ulteriore conclusione: se lo Spirito Santo ha nella Chiesa l’ultima parola in campo di legittimità, perché non affidarsi, pur nel rispetto della distribuzione gerarchica dei ministeri, alla luce che egli dà ad ogni christifidelis e non raccogliere i doni che, mediante tale procedura pneumatica, possono essere offerti all’intera comunità cristiana? A tale conclusione, presentata sotto forma di domanda, si dà una risposta irriducibilmente negativa: si incorrerebbe nel rischio di trovarsi impantanati nei problemi dell’“ecclesiologia dal basso”, nelle aberrazioni delle “comunità di base” e nelle complicazioni dell’estensione teorica e pratica della democrazia alla Chiesa. Ma, in tal modo, il christifidelis non viene destituito di soggettività individuale, libera e creativa e non viene disperso nella multitudo bruta, amorfa, incapace e, perché no, anche pericolosa? La legittimazione nella Chiesa, in analogia a quanto si dice per la società civile, dovrebbe consistere nell’accettazione, da parte del popolo cristiano, dell’autorità, e non soltanto sulla base di un documento autentico proveniente dalla cancelleria papale o episcopale, bensì anche sulla base della credibilità, della fiducia e dell’attendibilità e sulla base della risposta dell’autorità alla domanda circa la coincidenza tra i fini propri della Chiesa e le aspettative legittime dei membri di essa39. Ora, mentre si può sostenere che nella Chiesa non c’è crisi di legittimità per ragioni dirette, la crisi di legittimazione è innegabile e, per di più, è un fenomeno in continuo sviluppo. Essa ha la sua base e la sua forza nella tensione che si viene a determinare tra aspettative e delusioni e nella sfiducia nei confronti della Chiesa istituzione e delle gerarchie ecclesiastiche. Da un lato, è molto forte la
39 Cfr. P. GRANFIELD, Legittimazione e burocratizzazione del potere ecclesiastico, in Concilium 24 (1988) 463.
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delusione delle aspettative di partecipazione effettiva nei processi di riflessione e di decisione. Da un altro lato, si valuta come arbitraria la pretesa da parte dell’istituzione di attribuire a sé ogni competenza e come priva di credibilità l’autorità quando si dimostra antipluralistica ed antimoderna, sospettosa e repressiva. Da un altro lato ancora, non si tollera la non curanza delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti del lamento della vita offesa che si eleva all’interno della stessa Chiesa a causa della violazione non infrequente persino di diritti umani elementari. La crisi di legittimazione genera la crisi di consenso e determina la decisione di non pochi christifideles, che, per altro, non sono disposti per nessuna ragione a rinunziare alla loro fede in Cristo, di delineare personalmente un proprio itinerario di vita cristiana e di stabilire autonomamente le norme in ambiti importanti della credenza e della pratica. In queste situazioni sempre più diffuse, la reazione dell’autorità ecclesiastica non perviene mai all’opzione dell’autocritica ma a quella dell’accusa di crisi di fede nei cristiani che la pensano in questo modo ed agiscono di conseguenza, a quella della conferma delle proprie posizioni e dei propri criteri ed a quella dell’attesa di tempi migliori. Non sempre è un buona scelta l’adozione del principio melior est condicio possidentis, ben noto nel mondo ecclesiastico, che induce ad affrontare i problemi adottando la strategia dell’inerte attesa di tempi migliori, la cui realizzazione viene affidata al mutamento delle situazioni e delle esigenze e, finanche, al transito generazionale. L’inerzia non è mai una buona consigliera. In passato K. Rahner ha teorizzato con profondo acume il “tuziorismo del rischio”, che in tempi di forti tensioni e di grandi attese assume evidenti caratteri di eroicità, soprattutto i caratteri dell’esperienza salvifica della conversione40. Il potere ecclesiastico tende ad identificare la legittimità con la legalità, affermando, senza alcuna esitazione, che il Codex Iuris Canonici nelle parti istituzionali ripropone il diritto divino, ed a ridurre la legittimazione alla legittimità, sostenendo con la medesima
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Cfr. K. RAHNER, Sollecitudine per la Chiesa. Nuovi saggi, VIII, tr. it., Roma 1982,
IV Futuro della Chiesa, 341-520.
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sicurezza che l’elezione delle gerarchie ecclesiastiche è compiuta da Dio mediante l’intervento esclusivo dei gerarchi già in carica. Se la legittimità è identica alla legalità e la legittimazione alla legittimità, si aprono, tra le tante, anche le seguenti due linee operative: l’esclusione della multitudo e del suo consenso dagli atti decisionali rilevanti e la rivendicazione dell’origine divina anche di “prodotti” ecclesiastici esclusivamente storici. In tal modo, le gerarchie ecclesiastiche conseguono l’esito di erigere una muraglia di immunizzazione attorno al loro mondo ed alle loro decisioni. Da tutto questo noi non riusciamo che a trarre conclusioni sconsolanti: nella Chiesa, in cui legalità e legittimità tendono a coincidere per la ragione che hanno la stessa fonte, mancano perfino le condizioni minime perché si attivi la terzietà. Là dove carisma e potere non vengono adeguatamente distinti ciò è fatale. E fatale è anche la seguente sentenza: l’ordinamento giuridico della Chiesa è apparente. c) Ripresentazione dei problemi di potere e di convivenza rispettivamente come problemi di verità e di fede. Circa le numerose questioni concernenti la bioetica, la famiglia, la sessualità non pochi buoni cristiani dei nostri giorni sono turbati e tormentati per problemi personali e familiari, per le difficoltà che riscontrano all’interno della comunità, ma soprattutto per il timore di doversi trovare di fronte ad un nuovo caso Galileo. La Chiesa ufficiale, infatti, rispetto al mondo contemporaneo ed alle sue tensioni si pone come un fronte contrapposto, non apre nessuno spazio di dialogo, comunica con un interlocutore, che, più che un soggetto storicoconcreto, sembra un soggetto colto nella sua essenza astratta, parla continuamente di crisi sui fronti del secolarismo, del laicismo, del relativismo, dell’edonismo, del populismo, dell’effimero, ecc. e, guardando al suo interno, tende a denunciare una grave crisi di fede. Quindi, i problemi del singolo e della comunità, se sorgono in tensione con l’istituzione ecclesiastica, attestano, secondo l’interpretazione datane dalle gerarchie ecclesiastiche, allontanamento dalla verità, proposta dal magistero e, di conseguenza, allontanamento dallo stesso Gesù Cristo, di cui i titolari dell’attività magisteriale sono i vicari. Eppure, sappiamo che la verità cristiana non sempre è vittoriosa, anzi
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è crocifissa41, e cioè è sempre in atteggiamento di supporto alla fatica dell’uomo in ricerca, ed è sempre in rapporto al tempo. E non perché ha la sua origine in esso, ma perché in esso si viene a creare quella comunione dialogante in cui la verità si può manifestare in maniera originaria42. Chi assume una prospettiva fondamentalistica è dell’opinione contraria. Ma, se ci si lascia condurre da un tale atteggiamento, soprattutto quando si leggono i “testi fondatori”, e se ne traggono conseguenze pratiche, si finisce con il porre in essere le condizioni perché si verifichino altri casi Galileo43. E così il caso Galileo del lontano secolo XVII, un caso che segnò l’inizio dell’allontanamento della Chiesa e del suo sapere dalla scienza, si trasforma in simbolo di un’oscurità temuta e da evitare, per alcuni, e di un modello da realizzare sotto altra forma, per altri. Nessuno ai nostri giorni, a meno che non sia un fondamentalista indurito, si avventura a sostenere che la Chiesa conosce ed interpreta infallibilmente il diritto naturale, dichiarato valido per tutti gli uomini e, dunque, anche per i non cristiani, ma l’attuale continua insistenza del magistero, soprattutto pontificio, sulla legge naturale e sulla razionalità e ragionevolezza delle argomentazioni che ne discendono, non pure non elimina i dubbi ed i sospetti circa un progetto della Chiesa di imporsi come maestra universale di moralità, ma li rafforza. Infatti, ogni volta che la Chiesa interviene su temi etici, argomentando a partire dal diritto naturale, la massima parte delle reazioni, e consideriamo soltanto quelle italiane, ne denunciano l’arretratezza delle concezioni, l’ingerenza nelle questioni che riguardano la vita pubblica italiana, la volontà di esercitare la solita egemonia nella medesima vita pubblica. Ciò significa che gli effetti, che, in seguito agli interventi in questione, si vengono a determinare nell’opinione pubblica, il più delle volte sono contrari a quelli desiderati, che fondamentalmente consistono nel tentativo di individuare una piattaforma 41
Cfr. G. RUGGIERI, La verità crocifissa. Il pensiero cristiano di fronte all’alterità, Roma 2007. 42 Cfr. B. CASPER, Rosenzweig e Heidegger. Essere ed evento, tr. it., Brescia 2008, 100 s. 43 Cfr. Cl. GEFFRÉ, Il futuro della fede cristiana e la sfida del pluralismo, in AA. VV., Chiesa in Italia, cit., 125.
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di dialogo, libera dai condizionamenti della fede. Alcuni pensano che il ricorso della Chiesa alla legge naturale risponda ad una esigenza di inculturazione, ma lo stile democratico, che implica sempre gli apporti della soggettività e della libertà ed a cui l’Occidente si è abituato da più di sessant’anni, non è favorevole ad argomentazioni che si reggono su dati im-personali, qual è ritenuto il diritto naturale. Le conseguenze per la chiesa e la sua azione sono serie: essa non è né capita né ascoltata; il tentativo di suscitare fiducia genera altra diffidenza; il terreno di dialogo proposto si trasforma in un nuovo spazio di conflitto; l’annuncio del Vangelo viene ulteriormente compromesso44. In genere il fondamentalismo tende a trattare la realtà attribuendole un significato ed un ordine alla luce di criteri, i propri, che pretende che sgorghino dai fondamenti della realtà. Bastano già questi pochi elementi per capacitarsi del carattere ideologico del fondamentalismo. Ma tale convincimento si rafforza immediatamente non appena ci si rende conto del fatto che le realtà, che ne sono caratterizzate, tendono a diffondere la loro prospettiva insinuando il sospetto nei confronti delle alterità e facendo sorgere il bisogno di procedere alla loro eliminazione, come se si trattasse di fenomeni avversi e pericolosi. Sono fondamentalisti, ad esempio, quei gruppi e quei movimenti che vivono all’interno di comunanze ideologiche e sono spinti da esigenze caratterizzanti in senso prettamente ideologico, come, ad esempio, la coesione del gruppo, il timore della perdita del controllo e della sicurezza, l’intolleranza verso ogni originalità sia interna che esterna, la strategia della criminalizzazione di ogni proposta alternativa, l’espansione della propria prospettiva e della propria metodologia quali strumenti di riduzione dell’altro al “medesimo”. Il movimentismo contemporaneo di orientamento religioso, incluso quello cattolico, nel cui seno abitano le più varie forme di fondamentalismo, può cadere nell’integralismo e addirittura, dimenticando che Gesù ha definitivamente chiuso l’epoca della violenza del sacro, in una sorta di totalitarismo religioso45.
44 45
Cfr. S. DIANICH, Chiesa, che fare?, in Il Regno 55 (2010) 1089, 717. Cfr. O. VON NELL-BREUNING, Integralismus, in LthK2, V, 718.
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I movimenti ecclesiali, che fin troppo spesso amano autodefinirsi conciliari e proclamarsi gli eredi autentici del Concilio Vaticano II, in realtà sono fenomeni post-conciliari, perché, più che per l’assunzione della problematicità come metodo, del dialogo aperto con il mondo moderno e dell’accoglienza delle alterità, valutati anzi come pratiche destabilizzanti, hanno optato per un discorso monodico, per il mantenimento di un legame fortissimo con il leader, per la pratica dell’obbedienza all’istituzione e per la disponibilità nei confronti del papa e della sua curia. In tal modo, hanno evitato la cosiddetta crisi postconciliare, ma si sono trovati a vivere in un mondo praticamente esoterico, separato e chiuso ed a coalizzarsi con tutte le altre forze conservatrici e tendenti ad invertire i percorsi tracciati del Vaticano II. In particolare, il loro rapporto con le chiese particolari è sempre stato più o meno larvatamente conflittuale ed è stato caratterizzato da una consapevolezza di superiorità motivata dal convincimento dell’inadeguatezza della Chiesa particolare a compiere la propria missione ed a vivere l’autenticità evangelica46. La richiesta di un “vescovo per i movimenti” fatta da Comunione e Liberazione nel 1982, nella fase immediatamente precedente la pubblicazione dell’ultima edizione del Codex Iuris Canonici, ha portato allo scoperto il progetto di fornire i movimenti di una figura ecclesiale di vertice di rango episcopale, al fine di dotare di una sicura tutela la loro peculiare visione ecclesiologica. Al sinodo dei vescovi del 1987, prelati autorevoli, come i cardinali C.M. Martini e A. Lorscheider, hanno parlato del rischio incombente sulle Chiese locali di dover essere costrette a misurarsi nel loro stesso territorio con chiese parallele. Certo, il particolare può essere via all’universale, ma a condizione che non si lasci condurre da logiche elitarie boriose e volte a separare ed escludere47 e, in definitiva, ad accentrare. A questo punto, però, si rende dramma-
46
Cfr. K. LEHMANN, I nuovi movimenti ecclesiali, in Regno-doc 32 (1987) 564, 2731; S. DIANICH, Le nuove comunità e la “grande Chiesa”: un problema ecclesiologico, in La Scuola Cattolica 116 (1988) 512-529; cfr. anche M. FAGGIOLI, I movimenti ecclesiali. Intransigenza e slancio postconciliare, in AA. VV., Chiesa in Italia, cit., 89. 47 Cfr. M. Faggioli, I movimenti ecclesiali, cit., 83-97.
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ticamente evidente un dato: «la traduzione storica di un carisma può sfociare esattamente nell’opposto della sua nativa intenzionalità»48. A questo punto, non si può tacere circa il sospetto insorto che la pratica dell’obbedienza all’istituzione e la continuamente dichiarata disponibilità nei confronti del papa e della sua curia, ricordate un po’ supra, non raramente siano strumentali. 3.2. Istituzionalizzazione Nella Chiesa ci sono fatti strutturanti, come la Parola di Dio, i sacramenti ed i ministeri, ed altri che appartengono alla dimensione storico-prassica contingente. La custodia dei fatti strutturanti è necessaria e doverosa, e fa parte dell’obbedienza della fede. Al riguardo, però, occorre precisare che una tale custodia è attuata ad opera di soggetti storici e non di soggetti astratti e, quindi, nel contesto degli eventi, dei problemi e delle domande che si pongono nello spazio della convivenza della comunità cristiana. Il che significa che è parte integrante della doverosità della custodia dei fatti strutturanti il loro mantenimento nella condizione più pura possibile, al fine di poterli riattivare liberi da condizionamenti superflui. Nei confronti dei fatti storico-prassico-contingenti la libertà della comunità cristiana è infinitamente più grande e, se non la si esercitasse, si cadrebbe nella contraddizione tra libertà del Vangelo ed assoggettamento alla legge. Nella Chiesa si assiste al tentativo costante di estendere a determinati dati di origine storica l’intangibilità attribuita ai fatti strutturanti, e cioè si assiste al tentativo di porre i medesimi dati di origine storica sotto la garanzia del diritto divino. In pratica ciò significa che l’istituzione rivendica a sé i ruoli direttivi, creativi e valutativi soprattutto in campi quali l’insegnamento, la liturgia, la diaconia, l’ordinamento comunitario. E l’organizzazione è vertiginosamente verticistica, nel senso che la rivendicazione in questione è fatta da Roma. Si tratta di un vero e proprio fenomeno di monopolizzazione che ci mette di
48 Cfr. P. Coda, Associazioni e movimenti. Conformismo e rinnovamento, in Aa. Vv., Chiesa in Italia, cit., 103.
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fronte a situazioni problematiche: la vita ecclesiale si trova sottoposta ad un processo di istituzionalizzazione, fino all’“indurimento istituzionale”. Quando ci si viene a trovare di fronte ad una situazione di questo genere, le domande sul perché e sul come esse si possano verificare sono più che ovvie. Una Chiesa eccessivamente preoccupata della propria struttura cade in una forma particolare di narcisismo49, che, con linguaggio diverso ma abbastanza noto, può essere chiamato feticismo istituzionale. È allora che ci si rende veramente conto dell’insostenibilità della posizione di Ch. Journet, in quanto il discorso sul peccato nella Chiesa è non pure un discorso sul peccato dei cristiani, ma anche un discorso sulle nostre miserie, che, come diceva Y. Congar, toccano la stessa Chiesa, e sui non pochi fattori peccaminosi che, penetrando nella sua struttura, s’intrecciano con i ben più numerosi fattori santi che la animano. 3.3. Centro-periferia La figura centro-periferia richiama la distanza territoriale e/o sociale, e/o culturale, e/o politica che intercorre tra il punto focale e gli altri punti di un sistema di convivenza organizzata. Il centro è un sistema, che consta di sottosistemi, ciascuno dei quali si rapporta con la periferia e penetra in essa mediante infrastrutture idonee. Il centro può operare in modo costruttivo, ma, se si lascia condurre da idee di superiorità e tende a dominare la periferia e ad amministrarla con criteri generalizzati e standardizzati, il suo ruolo può determinare una situazione catastrofica, in quanto può causare nella periferia l’estinzione di ogni tensione creativa e di ogni originalità. La comunità ecclesiale è un tipo di convivenza paragonabile a quella testé descritta e, quindi, è anch’essa idonea a conseguire i medesimi successi ed a correre i medesimi rischi. Non può sfuggire a nessuno l’incremento continuo della centralità della Chiesa di Roma.
49 Cfr. J.B. METZ, Wir sind die Kirche, Herder, Freiburg i.B. 1996; Id., Questions sur Dieu adressèes au chrétiens d’aujourd’hui, in «Istina» 52 (1997) 7-10.
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Si tratta di una crescente concentrazione delle prerogative ecclesiali nelle mani della curia romana o di una transignificazione di eventi ecclesiali periferici in eventi curiali, come accade con la prassi recentemente instaurata della celebrazione di sinodi nazionali e continentali a Roma. Inoltre, il continuo echeggiare a dimensione planetaria della voce del pontefice romano, il quale, per forza di cose, parla non discutendo e confrontandosi ma assumendo toni oracolari, finisce con il ridurre lo spazio ecclesiale ad una cassa di risonanza delle sue parole. Dicendo ciò, non si intende per nulla disconoscere l’importanza del magistero pontificio, ma non si può tacere sui rischi impliciti nell’elefantiasi del fenomeno testé indicato. Ci sembra che si faccia pressione, in maniera più o meno evidente, sui vescovi perché siano suoi ripetitori, sui teologi perché siano suoi commentatori e sul popolo di Dio perché sia esecutore delle sue direttive. In un tale contesto, acquistano forza sempre maggiore i movimenti ecclesiali, i quali approfittano del fatto che, come è accaduto soprattutto durante il pontificato di Giovanni Paolo II, sono diventati interlocutori privilegiati del papato, a danno sia dei vescovi, ed in particolar modo delle conferenze episcopali, sia del clero e del “laicato sfuso”, che non assumono le logiche comunitariste e movimentiste. L’esito è quello dell’imporsi nella Chiesa di «una dinamica che sembra riecheggiare le strategie del papato dell’età gregoriana del secolo XI, più che l’ecclesiologia del Vaticano II»50. Nella Chiesa non trova applicazione effettiva ed efficace il principio di sussidiarietà51, che essa, per altro, suggerisce come un criterio prezioso alla società civile mediante la sua dottrina sociale. A ciò consegue, ad esempio, che il pontefice romano, con l’autorità di cui dispone, può riservare a sé qualsiasi materia e sottoporla ad una decisione della sua curia, cosa che accade continuamente e sistematica-
50
M. FAGGIOLI, I movimenti ecclesiali, cit., 90. Il fatto che il principio di sussidiarietà non trovi adeguata applicazione all’interno della comunità ecclesiale non significa che non sia stato teorizzato per la vita di essa (ad esempio, cfr. Pio XII, Ai partecipanti al II Congresso mondiale per l’apostolato dei laici, in ID., Atti e discorsi di Pio XII, vol. XIX, 2, 1957, Roma 1958, 231; GS 86). 51
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mente, con conseguenze serie. Tra quelle più gravi ed appariscenti ricordiamo la dilatazione ed il sovraccarico dell’autorità papale52 e la fatale eliminazione della periferia. Naturalmente, secondo i casi e le competenze, lo stesso discorso va fatto per l’autorità del vescovo diocesano nei confronti della diocesi. Se in una tale visione centralizzata, nella quale, soprattutto in riferimento al papa — e ciò si è verificato con intensità crescente da Pio IX a Benedetto XVI —, la carismatizzazione dell’ufficio è forte, l’autorità amministrativo-formale (governo) si fonde con una forma di autorità funzionale (ad esempio, la scienza), il pericolo gravissimo di una “regolazione del sistema scientifico” è incombente. Il fenomeno deve essere considerato allarmante con il pontificato di Benedetto XVI, il quale, purtroppo, non ha rinunciato a fare il professore ed il teologo e, di conseguenza, tiene lezioni (Ratisbona, Roma, ecc.) e scrive libri (Gesù di Nazaret), senza smettere di fare, come il predecessore l’opinionista (Luce del mondo). In un siffatto clima di deficit di distinzione, per non dire di confusione, le strutture ufficiali e formali ed i processi decisionali centralizzati, senza perdere nulla della loro forza, finiscono con lo scomparire dietro una figura papale sovraccarica in termini carismatici53, per ricomparire, quando le circostanze lo richiedono, vistosamente contaminati di carismaticità papale e, quindi, più forti che mai. Si può anche venire a determinare, a motivo della confusione oggettiva e della limitatezza soggettiva, l’attribuzione di una valenza magisteriale e pastorale a ciò che non lo è e non può esserlo, come accade con i due recenti libri dell’attuale pontefice Gesù di Nazaret54. 52 Cfr. K. GABRIEL, I tentativi di guadagnare autorità nel mondo contemporaneo da parte del papa, cit., 154 s. 53 Cfr. ibid., 155. 54 Nel giugno 2008 ha avuto luogo nella Cattedrale di Palermo un incontro di livello diocesano per la presentazione del libro di Benedetto XVI Gesù di Nazaret. Nel corso dell’adunanza dovevano essere proposte, secondo le indicazioni date dall’arcivescovo P. Romeo, linee teologiche corrette al fine di potersi orientare bene nel problematico ambito cristologico contemporaneo. In realtà, il relatore, J. Carrón, attuale presidente del movimento “Comunione e liberazione”, ha tenuto una relazione, nella quale i riferimenti al libro del papa consistevano soltanto in frasi sul
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3.4. Verità proposizionale e verità esistenziale Nella comunità civile e politica i problemi di verità sono prevalentemente di tipo esistenziale e sono fondamentalmente riconducibili a problemi di giustizia. È sempre così, salvo che non si tratti di problemi scientifici, ma in tal caso la competenza è della scienza e non della società e neppure della politica, o del problema della fedeltà alla costituzione, quando la competenza è dell’organo istituzionale preposto a questioni di questo genere, o della corrispondenza tra discorsi, opinioni e fatti, ed allora i sentieri da percorrere sono attraversati dal fluttuare del linguaggio politico e dell’opinione pubblica. Nella Chiesa la verità proposizionale è fatta oggetto di una vigilanza insonne ed affannosa. Di contro, la verità esistenziale è pressoché completamente trascurata. Per verità esistenziale in questa circostanza intendiamo la domanda di verità che emerge dai casi di vita offesa nella Chiesa. La doverosità della verità esistenziale viene fatta oggetto, da parte della Chiesa, di proclamazione continua al mondo: ad esempio, non finirà mai di stupire la forza e l’insistenza con cui Giovanni Paolo II ha parlato a tutti gli uomini di libertà, di dignità e di diritti. All’interno della Chiesa, invece, anziché le parole libertà, dignità e diritti, si sentono risuonare le domande sugli stessi identici concetti, ora per lamentarne la mancata attuazione, ora per rivendicarne la realizzazione. Nel medeCristo storico, tratte dall’introduzione, estrapolate ed utilizzate per svolgere una tesi di cristologia apologetica tipica degli anni ’40 del secolo XX, ideologica, per nulla teologica ed aggressiva nei confronti dei teologi di altro orientamento. Alla fine del discorso, l’arcivescovo ha preso la parola per ringraziare il relatore per l’interessante lezione, per dire che la relazione non era stata una presentazione del libro del papa, cosa che avrebbe potuto rivelarsi un “fatto riduttivo”, ma una opportuna e feconda introduzione alla lettura del medesimo libro, per spiegare che il libro Gesù di Nazaret contiene le idee di J. Ratzinger (sic) sul Cristo, idee sulle quali l’autore ha riflettuto a lungo, e per precisare che il libro Gesù di Nazaret è un prezioso ausilio perché contiene il pensiero del papa, il quale, a differenza di noi, non può sbagliare. Con parole di questo genere l’arcivescovo Romeo è caduto nell’equivoco, pericolosissimo dal punto di vista sia magisteriale che pastorale, di presentare come magistero del papa e, per di più infallibile (il papa non può sbagliare), un libro che lo stesso Benedetto XVI, che ne è l’autore, ritiene lo scritto di un teologo, che può essere discusso e criticato come lo scritto di qualsiasi altro teologo.
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simo campo, per quel che concerne le cose marginali e secondarie, non c’è nulla da lamentare e nulla da rivendicare; per quel che concerne le cose importanti, invece, c’è molto da lamentare e da rivendicare, in quanto per esse scatta il dispositivo di potere già ricordato, e cioè il disagio esistenziale viene trasferito dall’ambito della convivenza all’ambito della fede e della verità, e si parla subito di crisi su entrambi i fronti. Insomma, appena nella Chiesa sorge una domanda di verità esistenziale, tutto fatalmente si oscura. La Chiesa, che sa difendersi dagli “errori proposizionali”, ora serenamente ed ora affannosamente, non sa difendersi dagli errori legati al potere. Purtroppo, essa è strutturata in modo tale da non riuscire o, peggio, da non sapere difendere né se stessa né i propri membri da figure machiavelliche. Anzi, finisce fin troppo spesso con il favorire l’affermazione di tali figure. Il fatto è che essa ha ancora una concezione primordiale del potere al suo interno: lo vive secondo il modello causa-effetto e lo concepisce secondo lo stesso modello; al superiore viene attribuito il ruolo causale e, quindi, il compito di comandare; all’inferiore viene attribuito il ruolo di effetto e, quindi, il compito di ubbidire. La Chiesa, quando si occupa del potere al suo esterno, mostra di averne una concezione piuttosto adeguata, ma, quando lo considera al suo interno, non riesce ad andare oltre il modello antiquato appena ricordato e, di conseguenza, ignora o vuole ignorare che anche nel suo seno possono rendersi operative tutte le forme trasversali e camaleontiche del potere, che sfuggono a chi conosce, comprende ed indaga il fenomeno del potere soltanto secondo il modello primordiale causa-effetto. 4. DATI PER UNA RICONFIGURAZIONE DEL POTERE NELLA CHIESA In quanto convivenza organizzata, la Chiesa ha bisogno di una struttura istituzionale, di norme, di uffici e di ruoli. Il problema dell’autorità e del suo esercizio si pone in tale contesto. Se a questi dati si aggiunge che la Chiesa ha un’origine carismatica, è innegabile che anche l’autorità ecclesiastica abbia, tra gli altri, pure caratteri carismatici, che si aggiungono a quelli che le derivano dai contingenti eventi storici. L’equilibrio tra i due tipi di caratteri del potere eccle-
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siastico non è facile da realizzare, in quanto il modello storico del “regnare” implica il “potere”, a differenza del suo modello evangelico, che implica il “servire”. Per altro, nell’ambito del potere, spogliarsi del contingente per consentire al necessario di attivarsi pienamente è utopia. Nella Chiesa l’ideale ed il progetto del servizio sono sempre insidiati dalla tentazione del potere nel senso forte di dominio. La tentazione, anche se molto resistente ed insistente, può essere vinta. Un tale esito è innanzitutto e fondamentalmente grazia, ma i christifideles possono fare la loro parte. Gesù di Nazareth si rese conto che anche il piccolo gruppo dei suoi apostoli poteva essere tentato dal potere e non esitò a distinguere radicalmente il ruolo e la responsabilità che avrebbe loro affidato dalle mansioni dei titolari di potere: ad essi, in un momento in cui erano impegnati a confrontarsi sul fronte della grandezza personale, il Maestro spiegò che la vera grandezza è servizio, e di sé disse: «io sto in mezzo a voi come colui che serve»55. 4.1. Ironia Partiamo da un dispositivo marginale, almeno di primo acchito, e cioè dall’ironia. B. Pascal56 in merito ha molto da insegnare, anche alla Chiesa. L’ironia è uno strumento per misurare l’autosufficienza degli uomini di potere ed il carattere autoritario del potere e, nel contempo, anche per tenerli sotto controllo. Quando i livelli di questi due dati sono alti, il ricorso all’ironia rivela aspetti non immediatamente evidenti dei titolari del potere e del loro entourage: non si sentono presi sul serio, anzi si sentono trascesi e, di conseguenza, reagiscono esercitando ancora più pesantemente il loro potere, specialmente nei confronti di chi ha posto in essere l’ironia. Il problema si fa ancora più delicato quando il potere è interessato da fenomeni di sacralizzazione. In tal caso l’ironia viene interpretata e trattata come una profanazione. E se, invece, si trattasse di una forma di liberazione? 55 56
110 s.
Lc 22,27. Cfr. Mt 20,25 ss; Mc 10,42-45; Lc 9,46 ss. Cfr. B. PASCAL, Pensieri, 310, 327, tr. it., a cura di P. Serini, Milano 1976, 107,
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Bastano questi pochi e brevi accenni per rendersi conto del fatto che l’ironia nella convivenza organizzata, quale che sia, è tutt’altro che un dato secondario; è un dispositivo a servizio della persona, della libertà e della razionalità ed ha lo scopo di smascherare il “re nudo” del potere. 4.2. Consenso In politica il consenso può essere trattato secondo due prospettive. Secondo la prima, sociologica, il consenso consiste nella condivisione di valori comuni, in cui la comunità trova le ragioni dell’aggregazione e della coesione sociale. Secondo l’altra prospettiva, politica, il consenso concerne i governati, i quali, riconoscendo la legittimità dei governanti e sentendosi legati ad essi dall’obbligo politico, ne accettano i ruoli e le decisioni. Nella Chiesa la legittimità dell’autorità viene spiegata con il ricorso alla volontà di Cristo e ad ogni altro evento di mediazione istituzionale, a partire da quelli di tipo sacramentale, di tipo giuridico e di tipo prassico. Abbiamo già visto che la legittimazione viene spiegata sistematicamente in forza degli stessi fattori. Riuscendoci difficile accettare una tale situazione, ci poniamo la seguente domanda: il consenso ha una parte nel discorso circa la legittimità-legittimazione del potere nella Chiesa? Fermiamo la nostra attenzione su due momenti, tra i tanti della storia della Chiesa, nei quali il problema emerge: Cipriano di Cartagine nel III secolo esorta il vescovo a non prendere decisioni importanti senza avere prima consultato il suo popolo: nihil sine consilio vestro et consensu plebis57; il Concilio Vaticano I nel 1870 definisce l’infallibilità del pontefice romano ex sese, non autem ex consensu Ecclesiae, ma, contestualmente, dice che lo stesso pontefice fruisce ea infallibilitate qua il divino fondatore dotò la sua Chiesa58. I due esempi, differenti sotto vari profili, attestano che il vescovo
57
Cfr. CIPRIANO, Epistulae, 14, 4: PL 4, p. 1049. Cfr. CONCILIUM VATICANUM I, Constitutio dogmatica I Pastor aeternus de Ecclesia Christi, Cap. IV De Romani Pontificis infallibili magisterio: DH 3074. 58
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ed il pontefice romano, sia nell’insegnare che nell’operare, non possono procedere lasciandosi guidare da una logica estrinseca alla comunità ecclesiale. S’impone subito una domanda: l’idea di procedere lasciandosi guidare da una logica intrinseca alla comunità ecclesiale è riconducibile all’idea di consenso e, quindi, al consenso dato dalla comunità cristiana all’agire ed all’insegnamento del vescovo e del papa? Il consenso è certamente messo a tema in entrambi i casi: in Cipriano per essere incluso; nel Vaticano I per essere escluso. Sennonché, il Vaticano I, anche se esclude il consenso formalmente giuridico, parla di fruizione da parte del papa della stessa infallibilità di cui il Cristo ha dotato la Chiesa nell’atto della sua fondazione. La locuzione ea infallibilitate qua è da intendere sia nel senso di infallibilità specificamente identica, sia soprattutto nel senso di infallibilità numericamente identica. Il papa, dunque, si esprime come organo strutturalmente congiunto con l’intero organismo ecclesiale. Per di più, il Concilio Vaticano II, che nella sua Constitutio Dogmatica “Lumen gentium” de Ecclesia riprende alcune affermazioni-chiave già ricordate del Vaticano I59, non si limita a fare delle citazioni, ma inserisce queste ultime nel suo più ampio discorso sulla Chiesa quale populus Dei e communio60. Il consenso, allora, è implicito nella sinergia-comunione ecclesiale, che ha a che fare sia con il sensus fidei che con il sensus fidelium. La comunità cristiana è protagonista nella fede: è dotata di un istinto e di un tatto, tipicamente cristiani, che conducono alla vera fede. Questo fatto, che si chiama, a livello individuale, sensus fidei e, a livello comunitario generale, sensus fidelium, è il luogo teologico per la determinazione della fede della Chiesa nel corso dei tempi. Ad esso attingono e di esso sono esplicitazione, ovviamente in virtù della luce dello Spirito Santo, tutte le altre forme di determinazione ecclesiale della fede. Nel suo livello comunitario generale il sensus fidelium si chiama anche consensus fidelium. Il sensus fidelium, che è il sensus fidei del popolo cristiano, non è dissol-
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Cfr. LG 25. Cfr. LG cap. II, 9-17; P. WALTER, Dimenticare il futuro? Libertà e spirito del Concilio, in AA. VV., Chiesa in Italia, cit., 35. 60
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vibile in un sensus «sotto la guida del magistero», come sembra suggerire l’istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1990, Vocazione ecclesiale del teologo61, in quanto si trova sotto lo Spirito di verità, come dice la Costituzione dogmatica Lumen Gentium, a cui l’istruzione citata si riferisce: è lo Spirito che lo suscita e lo alimenta ed il magistero, cui la Lumen Gentium riconosce un ruolo importante, si trova all’interno di questo processo, in cui il ruolo determinante dalla stessa Costituzione dogmatica viene attribuito allo Spirito62. La presenza dello Spirito fa sì che il popolo cristiano con il suo sensus fidei aderisca indefettibilmente alla fede trasmessa ai santi63. Nel secolo XIX un teologo palermitano, Salvatore Di Bartolo, parlava di infallibilità del sensus fidelium, distinta dall’infallibilità della gerarchia ed identificata con il fluire della vitalità della Chiesa, alimentata dalla rivelazione e dalla grazia64. La distinzione di cui parla il Di Bartolo riguarda non il contenuto dell’infallibilità, bensì l’organo che la esprime: l’infallibilità del sensus fidelium non è separabile da quella del magistero, e neppure è riconducibile ad essa, in quanto è dono diretto dello Spirito, ma insieme ad essa è riconducibile all’infallibilità della Chiesa, con la quale, come quella del magistero, è specificamente e numericamente identica. Se il sensus fidelium è l’organo basilare della fedeltà del popolo cristiano al Dio che si è rivelato e si è donato in Cristo, ci possono essere difficoltà a parlare di consenso e ad attribuirgli il compito di esprimersi esplicitamente nelle questioni concernenti almeno le regole del gioco della vita comunitaria? La risposta a tale domanda dovrebbe essere agevole, ma non è così, in quanto nella Chiesa, al di là delle parole, c’è diffidenza da parte delle gerarchie nei confronti delle altre componenti della comunità: il popolo cristiano ideale è il buon popolo obbediente e pronto a realizzare quanto viene deciso in alto loco. 61 Cfr. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Vocazione ecclesiale del teologo, Città del Vaticano 1990, 13. 62 Cfr. LG 12; cf. anche DV 10. 63 Cfr. LG 12. 64 Cfr. S. DI BARTOLO, I Criteri teologici. La storia del dogma e la libertà delle affermazioni, Torino 1988,119.
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Che questo modo di procedere discenda dall’adozione di un modello di convivenza di tipo paternalistico non costituisce problema. Infatti, la logica dell’inferiorizzazione, che non è mai stata del tutto abbandonata, è sempre in agguato e tende a fare del buon popolo cristiano una multitudo amorfa. La diffidenza non ha origine nel fondatore della Chiesa e neppure nei fattori strutturanti l’istituzione, come la parola di Dio, i sacramenti ed i ministeri, ma è un fattore, foriero di tensioni caotiche, immanente nella pretesa del potere di essere “creatore di forme”65 e di ritenere i destinatari della sua azione dei temibili e pericolosi concorrenti. Il magistero, purtroppo, non prende neppure in considerazione l’effetto del “riconoscimento” da parte del popolo cristiano circa il suo insegnamento, sortendo, così, due esiti negativi, e cioè sia la mancata appropriazione del popolo cristiano della parola magisteriale mediante una valutazione responsabile di essa, sia il fallimento del ruolo magisteriale66. È utopia pensare che la convivenza organizzata possa liberarsi dalla pretesa del potere testé indicata e da tutte le asimmetrie che la attraversano? La comunità politica, sulla base delle pressioni provenienti dalle domande di giustizia e di uguaglianza, ci prova ininterrottamente, cambiando continuamente le regole del gioco, al fine di renderle sempre più idonee al perseguimento di tale scopo. Lo Stato di diritto non può fare altrimenti. Nella Chiesa manca l’equivalente del concetto “Stato di diritto”. Le conseguenze di tutto ciò vengono all’evidenza non appena si esamina la dinamica della vita ecclesiastica: societas inaequalium, inferiorizzazione della multitudo, possibilità di percorso ecclesiastico per le carriere, rispetto delle regole secondo la logica della precedenza, assenza di tribunali di appello, salvo che per le cause matrimoniali e le cause amministrative. La conseguenza più grave di tutto questo è che il grandioso ordinamento giuridico ecclesiastico si rivela un ordinamento apparente. Cfr. M. FOUCAULT, Microfisica del potere. Interventi politici, Torino 19773. Questa opinione è stata espressa da P. Valadier nel corso della seconda Tavola Rotonda tra teologi moralisti (cfr. F. COMPAGNONI, «Sensus fidelium» e discernimento morale, in PAUL VALADIER [Francia], GIUSEPPE ANGELINI [Italia], NATHANÏËL YAOVI SOEDE [Costa d’Avorio], in RTM [2006] n. 152, 534 s.). 65 66
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Sostengo ciò non perché gerarcofobo o perché spinto da un atteggiamento antinormativo, ma in forza della considerazione della capacità oggettiva dei titolari del potere nella Chiesa, una capacità fondata sull’ordinamento giuridico ecclesiastico, di sfuggire, senza possibilità di appello, alla pressione, proveniente dall’interno della chiesa, delle domande di giustizia, di diritti umani e di verità esistenziale e di spacciare le questioni di potere come questioni di verità e le questioni di convivenza come questioni di fede. 4.3. Riforma istituzionale La società civile, che ha vissuto buona parte delle possibili esperienze di asservimento e di liberazione e che, dunque, ha conosciuto molte e varie forme di indurimento istituzionale originatesi nei palazzi del potere e riversatesi nello spazio della convivenza, conosce anche principi e norme per attuare la “riforma costituzionale”. Ciò che per la comunità politica è, fin dalle fasi remote della sua storia, una prassi utile, per la Chiesa può essere una novità preziosa. Di fronte all’indurimento istituzionale della Chiesa, il Congar propone, in analogia alla riforma costituzionale della comunità politica, una “riforma istituzionale”67. Il Werbick, da parte sua, mantenendo un linguaggio maggiormente ispirato ai moduli religioso-teologici, parla di “conversione” istituzionale68. Il contesto del nostro discorso apre immediatamente uno spazio di riflessione, e cioè quello della democrazia nella Chiesa. Infatti, quale altra direzione potrebbero prendere le auspicate riforma e conversione in una Chiesa caratterizzata dall’indurimento istituzionale? In una tale situazione solo la partecipazione, la sinergia e la corresponsabilità possono fare ben sperare. Dopo tutto, l’uomo moderno vive con speranza nella società solo a queste condizioni. Personalmente non ho alcun timore di parlare di democrazia nella Chiesa, anche perché l’accoglienza di essa sarebbe un segno impor-
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Cfr. Y. CONGAR, Santa Chiesa, cit., 123-144. Cfr. J. WERBICK, La chiesa, cit., 277.
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tante della decisione presa dalla Chiesa sia di rinunciare ad un atteggiamento negativo troppo a lungo tenuto nei confronti della contemporaneità, e cioè il fronteggiamento, sia di assumere un nuovo atteggiamento, e cioè l’inabitazione, unitamente al progetto di costruire, anche mediante la fecondità del mutato rapporto, nuove forme e nuovi linguaggi69. Intendiamoci: da una parte, anch’io credo che il modello della democrazia rappresentativa non sia direttamente trasferibile nella Chiesa, in quanto in quest’ultima c’è una effettiva dimensione carismatica anche in ambito istituzionale, che è doveroso custodire; dall’altra, sostenere che l’adozione del modello democratico implica di per sé e necessariamente il travisamento della realtà e del significato della comunità cristiana è produrre «materiale per lo psicanalista»70; per altro, nessun modello di organizzazione e di convivenza può essere trasferito senza i necessari ed utili adattamenti. Pertanto, bisogna intendersi su tante cose, e su alcune in particolare. a) Il primo dato sul quale intendersi è l’idea teoreticamente più rilevante del progetto democratico: si tratta della persona, alla quale anche la Chiesa Cattolica tiene moltissimo, fino al punto da ritenerla fonte di pretensione etica e di pretensione giuridica, degna di rispetto originario ed intangibile. A tale proposito, possiamo ricordare uno dei più recenti interventi delle gerarchie ecclesiastiche: il pontefice Benedetto XVI, nel discorso all’ONU del 18 aprile 2008, tra gli ostacoli che impediscono alle Nazioni Unite di svolgere pienamente il proprio ruolo, pone la tematizzazione insistente dei diritti umani «come l’esclusivo risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative prese dalle varie agenzie di coloro che sono al potere»71. Sennonché, alla struttura concettuale e dinamica della persona appartengono non solo l’inalienabile “identità naturale”, di cui papa 69 Cfr. P. SEQUERI, Rileggendo l’Apostolicam actuositatem, in AA. VV., Chiesa in Italia, cit., 135. 70 Così si esprimeva il neoempirista Ayer nella sua critica ironica e demolitrice del linguaggio religioso-teologico (A.J. AYER, Linguaggio, verità e logica e Dio, Milano 1961, 158). 71 Cfr. BENEDETTO XVI, Diritti umani e giustizia. Discorso alle Nazioni Unite, in Il Regno 53 (2008) 1034, 272.
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Benedetto ha parlato all’ONU, ma anche l’intersoggettività, la relazionalità e la simmetria intersoggettiva. Anche queste sono inalienabili. A quest’altro proposito, però, le parole di Y. Congar ci sembrano drammaticamente attuali: «Il cattolicesimo, a causa di una sopravvalutazione del ruolo dell’autorità e di una tendenza giuridica pronta a ricondurre l’ordine alla regola imposta e l’unità all’uniformità, ha diffidato, almeno nell’epoca moderna, delle espressioni del principio personale. Ha sviluppato un sistema di sorveglianza che ha avuto la sua efficacia nel mantenere una linea e un quadro di ortodossia, ma questo è avvenuto a prezzo di una emarginazione di persone che sono spesso state ridotte al silenzio ed all’inazione mentre avevano qualcosa da dire. Talvolta lo hanno detto nonostante tutto, ma in condizioni ingrate, per non dire irregolari»72. Ad integrazione di quanto lamenta il Congar, si deve dire che nella Chiesa, di fronte alle durezze burocratiche ed al rifiuto e all’ostinazione di un gerarca, il soggetto singolo rimane impotente. Se, poi, le durezze burocratiche e gerarchiche sono quelle della curia romana, abituata a ricevere forza dalla sua capacità di mimetizzarsi dietro la figura papale sovraccarica di carismaticità, le speranze del singolo si dissolvono come neve al sole. Ciò significa che il soggetto singolo, ancorché sotto il profilo ontologico sia ritenuto persona, dal punto di vista esistenziale viene pensato secondo una logica di inferiorizzazione, e cioè viene collocato al di fuori del reale spazio personale. In una tale situazione s’impongono una considerazione ed una domanda. La considerazione è molto amara: la comunione, tanto enfaticamente proclamata e celebrata nella Chiesa Cattolica, se non riesce a trovare la via della concretezza, si dissolve nella tragicità del nominalismo. La domanda reca all’evidenza il dramma esistenziale del credente: perché mai alla parzialità dell’appartenenza ecclesiale, imposta dall’alto, non deve poter essere opposta una parzialità di appartenenza frutto di una libera scelta?73. b) Il secondo dato da chiarire è lo scopo della democrazia. Riteniamo che esso sia esprimibile mediante i dati precedentemente
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Y. CONGAR, Credo nello Spirito Santo, tr. it., Brescia 1998, 215. Cfr. J. WERBICK, La chiesa, cit., 415-416.
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indicati come fattori determinanti della struttura concettuale e dinamica della persona, e cioè l’intersoggettività, la relazionalità e la simmetria intersoggettiva, cui adesso aggiungiamo la sinergia e la solidarietà. c) Il terzo dato sul quale intendersi è la gradualità. Da più parti, anche da parte di chi potrebbe essere favorevole ad una riforma della Chiesa in senso democratico, ci si interroga sulle conseguenze di un affrettato ed incontrollato transito della struttura ecclesiastica dall’organizzazione verticale e piramidale all’organizzazione orizzontale e circolare. La gradualità esiste proprio per evitare ogni possibile trauma. Per capacitarsi di ciò riteniamo che basti fermare l’attenzione su un’ipotesi di riforma in senso democratico della procedura dell’elezione del vescovo diocesano. Inizialmente, potrebbe essere seriamente preso in considerazione il parere dei consigli presbiterale e pastorale della diocesi; in seguito, quello dell’intero presbiterio, del diaconio e dei consigli pastorali delle comunità parrocchiali; poi ancora, si potrebbe procedere con la presentazione, da parte dei medesimi organismi, di una terna di nomi alla conferenza episcopale della regione conciliare ed al papa; infine, la comunità diocesana potrebbe essere considerata matura perché, operando mediante gli stessi organismi, presenti ai vescovi della regione conciliare ed al papa il candidato da ordinare vescovo della propria diocesi74. Inoltre, con 74
Quanto abbiamo detto a proposito della nomina dei vescovi sostanzialmente corrisponde alla proposta di A. Rosmini, il quale nella sua famosa opera Delle cinque piaghe della santa Chiesa si occupa di una serie di problemi della Chiesa e, parlando della quarta piaga, quella del piede destro, che concerne “la nomina de’ Vescovi abbandonata al potere laicale”, ci suggerisce idee interessanti sulla nomina dei vescovi. Il Roveretano ha l’intenzione di difendere la libertà della chiesa dal potere civile nella nomina dei vescovi ed argomenta richiamando l’antica tradizione, ma, facendo ciò, si espone alle critiche della parte ecclesiastica, che vede dei gravi rischi nei criteri da lui ripresi e ribaditi per l’elezione dei vescovi. Il Rosmini esamina una serie di dati e fa una serie di considerazioni, ma noi riportiamo soltanto qualche frammento concernente il ruolo che il popolo deve avere nell’elezione del vescovo. Suo compito non è di essere giudice nell’evento dell’elezione, ma di concorrere ad esso con l’esercizio dei seguenti diritti: rendere buona testimonianza sulla virtù e sull’idoneità del candidato; desiderare e chiedere come pastore colui sulla cui idoneità rende testimonianza; ricusare l’eletto, a condizione, però, che la ricusazione
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periodicità quinquennale, il gradimento del vescovo diocesano potrebbe essere sottoposto a verifica. Che procedure di questo genere possano togliere qualcosa al ministero del vescovo quale vicario di Cristo nella Chiesa particolare e successore degli apostoli, non è dato capire. Ciò che, invece, è dato capire è che verrebbero a prodursi dei mutamenti circa il modo di concepire e di esercitare l’autorità nella Chiesa. Ma questo è proprio quello che le gerarchie ecclesiastiche dei nostri tempi sembrano temere più di ogni altra cosa. A questo punto non si può non dire che le vere motivazioni dell’opposizione delle gerarchie ecclesiastiche all’introduzione di procedure democratiche nella Chiesa si riducono a questioni di potere e, dunque, sono ben diverse da quella che viene comunemente presentata, e cioè la fedeltà al Vangelo ed alla Tradizione della Chiesa. La verità è che la Chiesa (più precisamente: gli ecclesiastici) ha
venga dalla parte maggioritaria e “sana” dei diocesani. A sostegno delle sue idee il Roveretano cita vari autori della tradizione cristiana. Uno di essi è papa Celestino, il quale così si esprime: nullus invitis detur Episcopus, ed aggiunge una sua personale considerazione: «il che è una specie di veto che la Chiesa riconosce qual diritto della cristiana plebe» (A. ROSMINI, Lettere sopra le elezioni vescovili a clero e popolo, in ID., Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, a cura di C. Riva, Brescia 19714, Lettera III, 421). Un altro antico maestro citato è Leone Magno, autore di una grande massima: Qui praefuturus est omnibus, ab omnibus eligatur. Dopo di ciò il Rosmini elenca quelli che, secondo lui, debbono essere gli elettori del vescovo: «1. La plebe cristiana e pia della diocesi, 2. Il Clero della diocesi stessa, 3. I vescovi comprovinciali presieduti dal loro Metropolitano, 4. Il Romano Pontefice come giudice e come definitore supremo» (ibid., 424). Come è facile notare, la proposta del Rosmini è molto prudente: egli colloca l’azione del clero e del popolo non solo accanto a quella dei vescovi della provincia ecclesiastica, cui appartiene la diocesi che è in attesa del nuovo vescovo, ma anche la sottopone al supremo giudizio ed alla suprema decisione del papa. Il vescovo di Roma ed i vescovi della provincia ecclesiastica hanno, dunque, un ruolo determinante nell’elezione del nuovo vescovo diocesano. Cosa si potrebbe ragionevolmente pretendere di più? L’ipotesi rosminiana, che è nello stesso tempo critica e propositiva, rappresentando un’esigenza legittima della comunità cristiana, aveva tutti i titoli per essere considerata seriamente e per essere presa in considerazione. Eppure, la semplice formulazione dell’ipotesi di dare voce al clero ed al popolo, prassi, per altro, rispettata per un millennio e raccomandata da papi, vescovi e teologi del passato, all’epoca del Rosmini è stata considerata ben più che offensiva piarum auricularum; infatti, è stata censurata dalla curia romana.
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paura del laicato. P. Sequeri sostiene che la Lumen gentium aveva fatto “balenare” l’idea di una ecclesiologia quadripartita: vescovi, clero, religiosi e laici, ma è mancato un “affondo” teologico deciso perché i laici, dal livello tradizionale di “gregge” e di “non-clero”, assurgessero al livello di figura istituzionale sia nella dimensione che nei compiti. Di conseguenza, nella costituzione ecclesiastica manca un anello, e tale mancanza rende fragile ed insicuro l’assetto ecclesiale di fronte alla missione. Da parte sua, l’Apostolicam actuositatem, che si fonda sulla Lumen gentium, tenta di precisare la posizione ed il ruolo dei laici nella Chiesa, parlando specificamente dell’apostolato dei laici. Questo discorso viene sviluppato, così precisa il Sequeri, come una sorta di tentativo di fare resistenza e di cercare un contrappeso al discorso conciliare sulla diversità dei ministeri. Le precisazioni fatte dall’Apostolicam actuositatem sono due: se nella Chiesa c’è diversità di ministeri, c’è anche unità di missione ed è ovvio che, di fronte all’unità della missione, la diversità dei ministeri è tutto sommato relativa; la coscienza cristiana è unica ed è il luogo in cui tutto ciò che nella Chiesa è in forma distinta e diversa trova l’armonia e la sintesi. In ogni modo, sembra a P. Sequeri ed anche a me, che il discorso teologico fin qui fatto sul laicato abbia soltanto carattere congiunturale75. Ciò che si richiede è un vero affondo teologico, in maniera che, partendo dall’unità della missione nella Chiesa, il laicato, sia pure in un contesto di diversità di ministeri, possa avere compiti, ruoli e responsabilità istituzionali. Le conseguenze di ciò potrebbero essere straordinarie: l’istanza magisteriale avrebbe un riconoscimento adeguato e diventerebbe sempre espressione del consensus fidelium76. d) Il quarto dato sul quale intendersi è costituito dalle regole del gioco della vita della comunità cristiana. L’ordine di una convivenza organizzata non dipende dalla sua organizzazione gerarchica, che potrebbe anche consentire e legittimare ogni tipo di abuso, bensì dall’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Anche in questo caso si 75
Cfr. P. SEQUERI, Rileggendo l’Apostolicam actuositatem, cit., 137-142. Cfr. B. SEBOÜÉ, Le sensus fidelium en morale à la lumière de Vatican II, in Le Supplèment 181 (1992) 153-166; F. Compagnoni, «Sensus fidelium» e discernimento morale, cit., 538 s. 76
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possono dare e si danno abusi di ogni genere, ma in esso i dati che entrano in gioco sono le persone e le leggi, a differenza del caso precedente, in cui i dati che entrano in gioco sono le persone, le leggi e l’ordine delle precedenze, oggettivo o soggettivo che sia. Ovviamente faremo soltanto qualche esemplificazione. a) I membri della comunità cristiana, tutti e ciascuno, debbono essere ugualmente sottoposti alla legge. Di conseguenza, nessuno, neppure il papa, può essere considerato super legem o extra legem. b) Anche nella Chiesa è necessaria la distinzione dei poteri. Si tratta della distinzione teorizzata lucidamente dal Montesquieu in un momento particolare della storia delle istituzioni politiche del continente europeo77. Con essa il suo autore si proponeva soprattutto di distinguere la potestà di governo in organi istituzionali dalle competenze ben differenziate e, conseguentemente, di impedire la concentrazione del potere in un solo organo e la sua degenerazione in assolutismo. Il can. 135 del CIC del 1983 sembra lasciarsi condurre dalla sensibilità moderna, molto attenta alla questione delicata della separazione dei poteri, ma si tratta soltanto di una iniziale impressione, in quanto alla fine il legislatore ecclesiastico riconduce le tre sezioni del potere, di cui parla, agli stessi organi istituzionali, e cioè al vescovo diocesano, per quel che riguarda la diocesi, ed al papa, per quel che riguarda l’intera Chiesa Cattolica78. Se la potestà esercitata in ciascuna delle tre sezioni del potere fosse quella della Chiesa, il discorso avrebbe titolo per essere approfondito anche nel senso della separazione dei poteri, ma non è così per la semplice ragione che la potestà in questione è potestà delegata, secondo i livelli, del papa o del vescovo diocesano. Se si dovesse arrivare , per così dire, alla resa dei conti tra pontefice romano e vescovo diocesano, anche la potestà di quest’ultimo, ancorché la si faccia risalire agli apostoli, verrebbe trattata come potestà delegata del papa. Stando così le cose, nella Chiesa vige il regime di monarchia assoluta e non esiste alcuna effettiva separazione dei poteri. g) Dell’opportunità 77 Cfr. Ch. DE SÉCONDAT BAR. DE MONTÉSQUIEU, L’esprit des lois, tr. it., Lo spirito delle leggi, Torino 1952, XI, 4 ss. 78 Cfr. R. TORFS, Auctoritas – potestas – iurisdictio – facultas – officium – munus. Un’analisi dei termini, in Concilium 24 (1988) 3, 437.
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dell’elezione del vescovo diocesano e della periodica consultazione a livello diocesano circa il gradimento della sua opera e l’utilità della continuazione del suo ministero abbiamo già parlato. Adesso ci preme sostenere la necessità della sua responsabilità, oltre che di fronte a Dio (in termini di coscienza) ed alla curia romana (in termini istituzionali), anche di fronte alla sua Chiesa. Mancando quest’ultimo livello di verifica, la responsabilità nella Chiesa non sarebbe tematizzata adeguatamente ed i termini del suo discorso non sarebbero pienamente ecclesiali. d) È necessario definire lo “stato giuridico” di alcuni soggetti. Nella Chiesa di fatto ha diritto alla parola colui che è “grande” e che, quindi, dispone di potere. Gli altri parlano a discrezione di quest’ultimo. Il loro parere può anche non essere preso in considerazione, perché è in ogni caso consultivo. Una tale situazione provoca in modo crescente nel popolo cristiano diffidenza e modi differenziati di appartenenza ecclesiale. La teologia ha proposto la feconda dottrina dei Loci theologici. Oltre la Scrittura, i Padri della Chiesa, il Magistero, ecc., bisognerebbe imparare a trattare come luoghi teologici, anche perché lo sono effettivamente, sia il popolo cristiano, che essendo impegnato nelle varie forme di vita e facendo esperienze vitali specifiche, è in grado di comprendere con una particolare competenza la luce che lo Spirito invia alla sua Chiesa, in merito a ciascuna delle particolari forme di vita in questione, sia i teologi, che hanno il compito di riflettere, dal punto di vista della teologia come scienza, sulle varie forme di esperienza del popolo cristiano. Essendo drammaticamente incombente nella Chiesa il rischio di non prendere sul serio le varie e concrete forme di esperienza del popolo cristiano e la riflessione dei teologi, ci sembra opportuno garantire il diritto alla parola di ciascuno di quelli che, a motivo della particolare forma di vita, di esperienza e di competenza, hanno qualcosa di originale da dire, mediante una figura giuridica, che per altro la società civile conosce bene, e cioè mediante lo “stato giuridico”. Nella Chiesa sembra che soltanto le gerarchie ecclesiastiche abbiano uno “stato giuridico”, e cioè operano garantiti dalla legittimità e dalla competenza scaturenti dall’ufficio e dal ruolo. Si tratta di dati incontestabili. Ma altrettanto incontestabile dovrebbe essere la legittimità del diritto di ogni altro membro del popolo
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cristiano, a partire dai teologi, di mettere in circolo nelle comunità ecclesiali i frutti (problemi e soluzioni) della propria peculiare ed originale esperienza. È ovvio che anche il magistero ha titolo, e proprio in virtù del suo stato giuridico, di intervenire sulle medesime questioni, ma, in caso di diversità di pensiero, dovrebbe evitare ogni condanna ed ogni esclusione e dovrebbe limitarsi ad invitare gli interlocutori particolari e l’intera comunità ecclesiale a tornare ad impegnarsi nella ricerca e nella riflessione, al fine di pervenire anche al conseguimento del consenso dei pastori. Se la comunità politica scopre il fondamento dello “stato giuridico” delle persone nella carta costituzionale, che considera tutti i cittadini uguali davanti alla legge ed è la legge fondamentale di riferimento, perché la Chiesa non dovrebbe trovarlo nel Vangelo, che dichiara indistintamente tutti i seguaci di Cristo “figli di Dio” ed è in senso assoluto e trascendente la Magna Charta dell’intera vita ecclesiale? CONCLUSIONE Concludo con alcune annotazioni. La prima, in sintonia di pensieri con P. Valadier, concerne la legittimazione nella Chiesa: il magistero, purtroppo, non prende neppure in considerazione l’effetto del “riconoscimento” da parte del popolo cristiano circa il suo insegnamento, sortendo, così, due esiti negativi, e cioè sia la mancata appropriazione del popolo cristiano della parola magisteriale mediante una valutazione responsabile di essa, sia il fallimento del ruolo magisteriale79. La seconda concerne un recupero istituzionale: pensiamo a ciò che, come abbiamo già visto, P. Sequeri chiama l’“affondo” teologico decisivo80. Esso è mancato nella Costituzione dogmatica Lumen gentium, ma potrebbe ancora essere attuato seriamente e coerente-
79 Questa opinione è stata espressa da P. Valadier nel corso della seconda Tavola Rotonda tra teologi moralisti (cfr. F. COMPAGNONI, «Sensus fidelium» e discernimento morale, cit., 534 s.). 80 Cfr. P. SEQUERI, Rileggendo l’Apostolicam actuositatem, cit., 137-142.
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mente. Anche tenendo conto della diversità dei ministeri, si potrebbe, sulla base dell’unità della missione, chiamare i christifideles laici a compiti, ruoli e responsabilità istituzionali. Sono convinto che si tratti di una chance per la Chiesa cattolica e, in particolare, di una garanzia per il transito dalla logica del “potere” a quella del “servizio” e dalla logica della ricchezza del “palazzo” a quella della condivisione della “piazza”, che è l’inizio dello spazio comunitario.
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I LAICI NELLA CHIESA
MILLESOLI SALVATORE*
PREMESSA In questa sede non abbiamo certamente nessuna pretesa di affrontare tutta la problematica legata alla figura e al ruolo dei “laici” nella Chiesa, ma si vorrebbe delineare, anche se a grandi linee, lo Status Questionis circa le tematiche inerenti alla figura del laico nella Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II, con un’attenzione particolare ai punti nodali della odierna discussione teologico-pastorale. Soprattutto cercheremo di capire a che punto si trova il processo iniziato appunto col Concilio verso la composizione di una definizione teologica del laico, il quale, riscattato da una certa definizione “in negativo”, quella di “non-chierico”, lo vuole portare sempre più alla scoperta e alla valorizzazione del suo “proprium”, sia dal punto di vista teologico, sia dal punto di vista pastorale. Non si può mettere in dubbio che la riflessione sui laici sia stata veramente importante nel Vaticano II, come dimostra l’oggetto del nostro tema, il capitolo IV della Lumen Gentium (LG), dedicato completamente ai laici, orizzonte che si allarga sempre di più se teniamo in considerazione anche la riflessione della costituzione pastorale Gaudium et Spes (GS), e il decreto specifico sull’apostolato dei laici, la Apostolicam actuositatem (AA). Così, a partire dalla definizione di Chiesa quale “popolo di Dio”, il laicato passa da “oggetto suddito” a “soggetto-protagonista” della * Già docente di Teologia spirituale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Chiesa. Viene, così, affermata la dignità comune di tutti i membri del Popolo di Dio in forza del Battesimo, e viene anche messa in rilievo la missione “secolare” più specifica, quella cioè di essere per sua natura, Chiesa nel mondo. E, in particolare, due elementi vengono a qualificare il laico in questo necessario rapporto con la missione nel mondo1: - l’ecclesialità: non solo il laico appartiene alla Chiesa ma è la Chiesa, e il suo farsi presente al mondo non è altro che il farsi presente della Chiesa al mondo. Si supera decisamente il concetto di laico che fa da ponte, da delegato della Chiesa nei rapporti con il mondo. Come scrive il P. Chenu: “Il laico non è più intermediario, ma è la Chiesa stessa ‘nel’ mondo, nel mondo profano”2. - la secolarità: cioè il laico è chiamato a vivere la sua ecclesialità, in maniera secolare, nell’ambito cosiddetto temporale, dove egli è impegnato nella costruzione del regno di Dio. “Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”3. Osserviamo tuttavia che questa ricezione positiva iniziale — che situava il tema del laicato dentro un contesto ecclesiologico globale — ha comportato un progressivo sbiadimento del concetto di laicato a vantaggio di una sempre più marcata sottolineatura del concetto più ampio di “Popolo di Dio”, dando sempre più spazio alla visione ecclesiologica di “comunione” che costituirà l’asse portante di tutta la ri-comprensione della Chiesa del Vaticano II. Dobbiamo aspettare oltre vent’anni, perchè questo tema venga ripreso, grazie al Sinodo dei Vescovi sui Laici del 1987, e alla relativa Esortazione Apostolica postsinodale Christifideles Laici (ChL) del 1988. Questo evento provocò un certo rilancio della teologia del laicato cui contribuirono anche le interpellazioni motivate da due fatti postconciliari nuovi:
1 U. SARTORIO, Linee del dibattito sui laici nel postconcilio italiano, il “Sinodo ‘87 e la Christifideles laici” in Credere oggi 3 (1994) 48. 2 M.D. CHENU, I laici e la consecratio mundi. 3 LG 31.
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- l’apparizione, sulla scena pastorale, dei movimenti ecclesiali, a carattere fortemente laicale; - la problematica circa i ministeri laicali rilanciati dalla riforma liturgica e disciplinati dalla normativa del nuovo Codice di Diritto Canonico del 1983. Ma tenendo presente quanto abbiamo brevemente abbozzato, non si può negare che ad un’analisi attenta dell’evoluzione recente della teologia del laicato emerge una certa situazione di difficoltà a livello ecclesiologico sia teorico sia pratico. Riporto solo qualche suggestione tratta dai titoli di alcune riflessioni recenti sull’argomento: Uno studio apparso nella rivista Orientamenti Pastorali nell’ottobre del 2009 intitolato: “I laici nella Chiesa, tra delusione e speranze” (R. REZZAGHI in, LVII, n. 10, ottobre 2009, 5-13). Anche quattro anni prima il commento nel libro della FUCI sul Concilio con questo titolo interrogativo: “Vocazione e missione dei cristiani laici: un incompiuto del Vaticano II?” (P. SCABINI in, Il Concilio davanti a voi, Roma 2005, 93- 102). I vescovi italiani riflettendo sul cammino ecclesiale degli ultimi anni affermano: “non possiamo ritenerci soddisfatti” (n. 44 nel documento, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia). È vero, pertanto, che il Concilio Vaticano II ha dato grande rilievo al laicato, prendendo atto della significativa riflessione precedente sulla teologia del laicato, ma è anche vero che da questa scelta si attendeva un maggior contributo all’evangelizzazione della nostra società, che di fatto però non è stato corrispondente alle attese. Alla luce di questa premessa andiamo avanti nella nostra riflessione ponendoci alcune domande: - che cosa non è stato capito e vissuto anche rispetto a ciò che aveva insegnato il Vaticano II? - e che cosa è da rivedere? - è ancora attuale l’insegnamento del capitolo IV della Lumen Gentium?
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2. IL CAP. IV DELLA LG: LA STORIA DEL TESTO Credo sia utile un breve cenno sui momenti principali che hanno portato alla redazione del testo, che partendo da un sostanziale confronto di opinioni, vede, per giungere alla sua edizione finale, due tagli e due aggiunte. Mi soffermo su questa parte perché uno dei tagli al testo riguardò proprio la riflessione sui laici. 2.1. Due prime bozze respinte dai padri La bozza di testo che fu presentato alla discussione dei padri nel Vaticano I proveniva da professori gesuiti (Franzelin e Schrader) del Collegio Romano (la «Gregoriana» di oggi) e si apriva con un capitolo (su quindici) dedicato all’aspetto mistico della chiesa. Quella proposta fu bocciata, perché i padri ritenevano che allora fosse necessario e urgente chiarire gli aspetti «visibili-istituzionali» della Chiesa. Una nuova bozza di lavoro fu presentata da un teologo gesuita della Gregoriana (P. Tromp), e iniziava col tema della «chiesa militante»; e anche questa volta la bozza fu respinta, ma per un motivo opposto: ai padri interessava trattare soprattutto del «mistero» della chiesa. 2.2. Da quattro a otto capitoli Caduta quella bozza, restavano in piedi quattro temi, sui quali i padri conciliari concordavano: - la Chiesa come mistero; - l’episcopato (al fine di completare il discorso del Vaticano I che potè trattare solo del papato); - il laicato (tema ormai maturo dopo un secolo di risveglio nell’apostolato dei laici e nella teologia del laicato); - la santità (come dono-impegno di tutti i cristiani). Da questo schema di partenza si procedette apportando due tagli che scindono in due il primo e il quarto capitolo e due aggiunte che porteranno a due capitoli nuovi. I due tagli riguardano il capitolo sui laici e il capitolo sulla santità:
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* Se i laici — si è pensato — sono solo una parte del popolo di Dio, vuol dire che questa categoria è generale e ingloba tutti, anche il clero, la gerarchia, di cui nel precedente capitolo sull’episcopato; allora questo tema va anticipato! Conseguenza: per dare autonomia al tema dei laici, si passò ad estrapolare la parte generale che riguardava il popolo di Dio, per offrire così una dottrina abbastanza completa e armonica. Il nuovo capitolo — Il popolo di Dio — quindi diventa secondo, e precede quello sull’episcopato; il capitolo sui laici diventa quarto. Dunque «i laici ci hanno donato il popolo di Dio!». L’operazione è stata salutata da molti come un «evento»; alcuni hanno parlato di «rivoluzione copernicana»: se prima sembrava che chiesa fosse quasi l’equivalente di gerarchia e che tutta la realtà ecclesiale girasse attorno al clero (vescovi-papa) come il sole attorno alla terra, adesso scopriamo che anche i ministeri più importanti girano attorno al popolo di Dio. * L’altro taglio riguarda il capitolo sulla santità; L’abate Benno Gut di Einsiedeln, a nome dei religiosi vescovi presenti in concilio, fece richiesta di evidenziare i religiosi e la proposta fu accettata, anche perché in tal modo poteva apparire più chiaro che la santità è impegno e dono rivolto a tutti e non è monopolio dei religiosi. Non furono necessari aggiustamenti particolari; bastò tagliare in due il capitolo, i primi quattro numeri rimasero a formare l’attuale capitolo sulla santità, gli altri cinque passarono sotto il titolo «I religiosi». Le due aggiunte riguardano i due ultimi capitoli di indole escatologica (i Santi e Maria). * Per i santi, al posto di trattare della devozione loro dovuta, si diede risalto alla realtà della «chiesa celeste» (o «chiesa trionfante», secondo la dizione del catechismo classico). Diventò così l’attuale capitolo VII che sottolinea il momento escatologico della chiesa e inserisce in esso il tema dei rapporti tra chiesa pellegrinante e chiesa celeste. * In concilio fin dagli inizi esisteva la proposta di un testo sulla Madonna che fu preparato come corpo a sé. Una parte però ne chiese una integrazione in altri documenti per non favorire devozioni esclusive. La questione fu posta ai voti e vinse di misura la proposta di integrarlo nel testo sulla Chiesa. Grazie a questo passaggio, la mariologia inizia una nuova stagione: se finora ha predominato la
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prospettiva «cristotipica» (Maria nella luce di Cristo), ora deve essere accentuata quella «ecclesiotipica» (Maria nella luce della chiesa). 3. IL CAPITOLO IV DELLA LUMEN GENTIUM: IL CONTENUTO 3.1. Lo schema Il Capitolo IV va letto in continuità con il Cap. II (il popolo di Dio) e con il Cap. III (i vescovi) e comprende nove paragrafi (nn. 30-38), che possono essere raggruppati in tre parti: 1. Una premessa in cui si motiva il discorso sui laici (LG 30). 2. Un corpo discorsivo, in cui partendo dalla definizione di laico, si mostra la sua funzione sia nella Chiesa come anche al di fuori di lei (LG 31-36). - il n. 31 cerca di individuare le peculiarità dei laici; - nn. 32-33 esprimono il valore della condizione laicale; - nn. 34-36 si soffermano sulle tre funzioni (sacerdotale, profetica e regale); 3. Una conclusione, che sintetizza la figura e l’azione del laico in ordine al tipo di relazione che deve avere con gli altri membri della Chiesa. 3.2. Esame del testo - Il n. 30 dà una prima definizione di laici, lasciando intuire che si tratta di uno “stato” e che i laici sono chiamati a “cooperare” con i sacri pastori. L’idea che viene solleticata è quella di una chiesa costituita dai tre stati fondamentali (clero, religiosi e laici). - Il n. 31 è il numero più interessante ed è un po’ il cuore del capitolo. Si prova a dare una definizione più precisa di laici, ma ancora in termini “negativi”: si dice ciò che “essi non sono”. Ma subito dopo fa ingresso la fortunata espressione di “indole secolare”: essa precisa meglio l’identità dei laici, che hanno la “vocazione di cercare il regno di Dio, trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”.
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- Il n. 32 parte dalla constatazione che nella chiesa c’è una “mirabile varietà”, chiamata però all’unità di tutte le parti. Si sottolinea infatti che dignità, grazia e vocazione, sono comuni. Non c’è dunque alcuna “ineguaglianza” all’interno della Chiesa. Verrebbe da dire che non c’è ineguaglianza tra membri del popolo di Dio: clero, religiosi, laici. La distinzione, che pur esiste tra preti e laici, spinge nella direzione della “collaborazione” degli uni con gli altri. I laici sono chiamati a vedere nei pastori dei “fratelli”. - Il n. 33 mette in evidenza il modo in cui i laici portano avanti il disegno di Dio nel mondo. Si parla dell’apostolato dei laici, inteso come partecipazione alla missione salvifica della Chiesa. Questo apostolato prende avvio dai sacramenti del battesimo, cresima ed eucaristia. Soprattutto i laici devono essere testimoni lì dove i sacri ministri non giungono. Ciò non toglie che i laici possano collaborare più direttamente anche con la gerarchia, esercitando alcuni uffici ecclesiastici. I tre numeri successivi esplicitano come si realizza l’apostolato dei laici, in riferimento alla triplice funzione di Cristo. - Il n. 34 riguarda l’ufficio sacerdotale. Si sofferma soprattutto sull’offerta della vita. C’è un riferimento alla partecipazione attiva all’eucaristia. Ma non di più. - Il n. 35 sviluppa la missione profetica dei laici. A immagine di Cristo e dei pastori, anche i laici possono diventare “araldi della fede” “nelle strutture della vita secolare”, con la testimonianza e la parola. Un ruolo speciale circa l’apostolato dei laici e la propria santificazione assume il matrimonio cristiano. Si chiude il n. 35 con un riferimento alla priorità dell’apostolato dei laici: se pure suppliscono a uffici sacri, per vari motivi, essi devono cercare l’incremento del regno di Cristo nel mondo. - Il n. 36 prende in considerazione l’ufficio regale dei laici. È l’ampio
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mare dell’azione temporale dei laici. I fedeli laici sono chiamati ad agire nel mondo di modo che esso sia guadagnato al regno di Dio. - In Conclusione i nn. 37-38 si soffermano sui rapporti tra laici e pastori, chiamati ad essere fraterni! Vediamo, ora, di evidenziare i temi portanti della teologia del laicato che il testo conciliare ci propone, per dare spazio, poi, ad alcune riflessioni critiche mosse da alcuni esponenti, tra i più illustri, della teologia cattolica contemporanea. Questi i temi: - identità del laico; - il laico protagonista della vita ecclesiale; - la secolarità. 4. L’IDENTITÀ E LA DIGNITÀ DEL LAICO 4.1. La natura del laico: ovvero circa l’identità Dal Concilio Vaticano II in poi, la Chiesa ha preso sempre più coscienza della necessità di elaborare teologicamente l’identità del cristiano laico e, col significativo contributo dato dal Sinodo dei Vescovi del 1987, e dal magistero di Giovanni Paolo II, soprattutto con l’Esortazione Apostolica Christifideles Laici, possiamo tracciarne le linee principali che si precisano su 4 direttrici: A) SALVIFICA: il laico è un battezzato: affermare questo vuol dire soprattutto mettere l’accento su un processo nel quale Dio, volendo salvare tutta l’umanità, offre all’uomo la possibilità di venire alla fede e di entrare in comunione con Lui; e in cui la persona umana, da parte sua, si sente coinvolta in questo processo che lo porterà gradualmente a rendersi conto di ciò che il Battesimo ha operato nella sua vita e a fare proprie tutte le qualità del discepolo di Cristo, prima fra tutte il Comandamento dell’Amore. B) CRISTOLOGICA: il laico è incorporato a Cristo: questa affermazione sottolinea che la natura del battezzato va ricercata nella novità apportata dall’effetto battesimale, che è anche quella di essere divenuto figlio di Dio nel suo Figlio Gesù.
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C) ECCLESIOLOGICA: il laico è membro del Popolo di Dio: l’essere parte del nuovo Popolo di Dio fa di lui un ‘eletto’ da Dio con il fine preciso di ricordare, con la sua identità, prima ancora che con la sua missione, a tutti gli uomini che Dio si rende presente nella loro storia per salvarli mediante anche la risposta di chi accetta di essere convocato per formare “l’Ecclesia”. D) MISSIONARIA: il laico si differenzia dai ministri ordinati: il laico è colui che vive la propria vocazione battesimale edificando il Regno di Dio mediante una vita protesa verso la perfezione evangelica ed espleta il suo impegno di evangelizzazione nei confronti del mondo, facendosi carico delle complesse problematiche della realtà secolare, essendo tra esse quale segno dall’attenzione misericordiosa e salvatrice di Dio. Il ministero ordinato, invece è quella realtà voluta dal Maestro perché il nuovo Popolo di Dio abbia negli Apostoli delle persone illuminate nello Spirito, capaci di discernere i carismi suscitati da Dio nel Popolo e di promuoverli a favore della comunità. L’identità del laico è diversa da quella dei religiosi e dei ministri ordinati, ma non per questo inferiore; semplicemente diversa, sia nel modo di appartenere al sacerdozio di Cristo per la missione all’interno del popolo di Dio e per la sua composizione, sia per il suo impegno nel mondo. 4.2. Partecipe dei “tria munera” di Cristo: ovvero circa la dignità Sempre grazie al Battesimo, il laico approfondisce questa sua dignità, venendo così a condividere la ‘diaconia’ di Gesù, Servo del Signore, realizzando e partecipando, per sua parte, nella realtà contingente, ai tria munera Christi, le tre ‘funzioni’ di Gesù: sacerdotale, profetica e regale. a) Partecipazione all‘ufficio sacerdotale di Cristo: il Concilio afferma che essendo il laico, con il Battesimo, intimamente unito alla vita e alla missione di Cristo, ne viene anche a partecipare del suo ufficio sacerdotale. Come Cristo ha saputo donare se stesso divenendo offerta gradita al Padre per la rappacificazione tra Dio e l’uomo, così il laico deve guardare e finalizzare
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la realtà secolare, instaurando nella sua vita una profonda comunione con lo Spirito, che gli permetterà di rendere ‘sacro’ – cioè accetto a Dio – il suo lavoro, la sua gioia, la sua sofferenza, la sua preghiera. Quindi, l’impegno sacerdotale del laico è quello di trasfondere nelle realtà dove egli vive e opera la dimensione dello spirituale, dando senso e significato a quell’attesa inconscia che l’animo umano sente e prova nelle diverse situazioni della vita. Il laico partecipa all’ufficio sacerdotale di Cristo quando compie le sue opere nell’ottica evangelica e le offre al Padre, quale segno di lode e di amore. b) Partecipazione all‘ufficio profetico di Cristo: riflettendo sul dettato conciliare, il Papa indica anche come questa dignità nel laico diviene fonte di abilitazione e di operatività: “La partecipazione all’ufficio profetico di Cristo… abilita e impegna i fedeli laici ad accogliere nella fede il Vangelo e ad annunciarlo con le parole e con le opere, non esitando a denunciare coraggiosamente il male. Uniti a Cristo, il ‘grande profeta’ (Luca 7,16) e costituiti nello Spirito ‘testimoni’ di Cristo risorto, i fedeli laici sono resi partecipi sia del senso di fede soprannaturale della Chiesa che non può sbagliarsi nel credere sia della grazia della parola (Atti 2, 17-18; Apocalisse 19,10); sono altresì chiamati a far risplendere la novità e la forza del Vangelo nella loro vita quotidiana, familiare e sociale come pure ad esprimere, con pazienza e coraggio nelle contraddizioni dell’epoca presente la loro speranza nella gloria anche attraverso le strutture della vita secolare”4. Essere partecipe della dignità profetica di Cristo impone al laico principalmente di vivere ciò che egli è: testimone del Vangelo. c) Partecipazione all‘ufficio regale di Cristo: il Concilio così delinea la funzione regale di Cristo e la partecipazione dei credenti a tale ufficio: ”Cristo facendosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre entrò nella gloria del suo Regno; a Lui sono sottomesse tutte le cose, finché egli sottometta al
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Padre se stesso e tutte le creature, affinché Dio sia tutto in tutti. Questa potestà Egli l’ha comunicata ai discepoli, perché anch’essi siano costituiti nella libertà regale”5. Il Papa riprende questo concetto e afferma: ”Per la loro appartenenza a Cristo Signore e re dell’universo i fedeli laici partecipano al suo ufficio regale e sono da Lui chiamati al servizio del regno di Dio e alla sua diffusione nella storia. Essi vivono la regalità cristiana, anzitutto mediante il combattimento spirituale per vincere in se stessi il regno del peccato (Rm 6,12), e poi mediante il dono di sé per servire, nella carità e nella giustizia, Gesù stesso presente in tutti i fratelli, soprattutto nei più piccoli (Mt 25,40)”. Il laico può, quindi, incarnare e realizzare la ministerialità regale di Cristo secondo un triplice modo: vincendo in sé il regno del peccato; portando i fratelli al Regno di Cristo; instaurando tutte le cose in Cristo. Il fondamento teologico del laico è dunque il battesimo, con l’incorporazione a Cristo e la partecipazione ai tria munera Christi. 5. RIFLESSIONI CRITICHE DELLA TEOLOGIA CONTEMPORANEA A partire dalla dottrina del Concilio possiamo giungere a definire il laico come “il cristiano secolare”, dove il sostantivo “cristiano” connota l’appartenenza del laico all’unico corpo ecclesiale, mentre l’aggettivo “secolare” ne specifica in qualche modo una funzione, che seppur non esclusiva, risulta almeno “distintiva”, in ordine alla missionarietà della Chiesa tutta. Ma questa definizione ha dato origine ad un dibattito ancora aperto circa la necessità di un superamento. Vediamo alcune posizioni tra le più rappresentative del dibattito dell’immediato post-concilio: 1) H. Holstein: nella prefazione ad un volume di P. Guilmot, afferma che il Cap. IV della LG ribadendo il concetto più vasto di “popolo di Dio” in qualche modo abolisce il termine equivoco e alquanto spiacevole di “laicato”6. 5 6
LG 36.
H.HOLSTEIN, prefazione al libro di Guilmot: Fin d’une église cléricale?, Paris 1969, 10.
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2) Y. Congar: nella sua riflessione teologica sulla Chiesa, matura un’evoluzione importante che rintracciamo nell’interspazio delle due opere: - Jalons pour une téologie du laicat del 1953, - e Ministéres et Communion ecclésiale del 1971. La posizione del primo scritto citato è quella di una ecclesiologia fondata soprattutto su “schemi giuridici e puramente gerarcologici” (Ministéres, p. 12) fondando la partecipazione del cristiano ai tria munera Christi su due diversi presupposti: - titolo di dignità, comune a tutti; - titolo d’autorità, proprio dei pastori, e quindi ponendoli in uno stato di superiorità. Nell’evoluzione del pensiero, che porterà al secondo degli scritti citati, Congar sostiene di aver “corretto una visione che era stata principalmente ed istintivamente clericale” (Ministéres, p. 21), concludendo che: “il battesimo appare come costitutivo di tutta la dignità cristiana, principio della coscienza missionaria come di quella delle responsabilità cristiane nel mondo. La chiesa è una comunità costruita da un gran numero di servizi… Non è più il laico che ha bisogno di definizione, ma il sacerdote… Da questo momento essi si domandano qual è il loro posto e anche chi sono esattamente”. (Ministéres, p. 22) 3) Anche Von Balthasar, in un articolo di “Communio” del 1979, si chiede: “vi sono laici nella Chiesa?” e propone di sostituire il termine laico con quello di cristiano, onde evitare l’accezione negativa che accompagna inesorabilmente il termine laico7. Per quanto riguarda la riflessione attuale mi limiterò, per questioni di tempo, alla posizione di due tra i teologi più rappresentativi della discussione teologica italiana. 1) S. Dianich. Partendo dal dato scritturistico neotestamentario che non permette più la netta separazione tra spazi sacri e spazi profani dell’agire, e ribadisce che lo stesso Cristo il “sommo sacerdote”, stando alla legge ebraica era un laico, per cui il suo
7 A.U. VON BALTHASAR, Faut-il des laics dans l’église?, in Communio, marzoaprile 1979.
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sacerdozio si attua, più che nei riti religiosi, nella vita quotidiana, e in modo supremo nella sua stessa morte. Per cui la chiesa intera, chierici e laici, deve contaminarsi con la secolarità, e non può presumere di potersi salvare dal rischio della contingenza e della fallibilità8. 2) B. Forte. Rifacendosi alla posizione di Congar, sostituisce al binomio “gerarchia-laicato”, il binomio “comunità-diversi carismi e ministeri”. L’Ecclesiologia “totale” che fa da sfondo a questa posizione, può essere sintetizzata in tre passaggi9: a) Il concetto di laicato Il Laico è un cristiano che si distingue non tanto negativamente per il non essere un ministro ordinato “in sacris”, ma per lo specifico dei doni e carismi che gli sono stati conferiti “per l’utilità comune”, che lo abilitano ad esercitare il suo ruolo nel mondo. b) Il ruolo specifico del ministero ordinato Al ministro ordinato compete, non essere il tuttofare della comunità, ma servirla con il compito specifico di discernimento, di coordinamento e di promozione, realizzando quell’unità del corpo voluta da Cristo. c) La laicità come dimensione di tutta la chiesa Forte esprime questo concetto riferendosi all’insegnamento di Paolo VI il quale nel 1972 così parla della dimensione secolare di tutta la chiesa: “La chiesa ha un’autentica dimensione secolare, inerente alla sua intima natura e missione, la cui radice affonda nel mistero del Verbo incarnato, e che si è realizzata in forme diverse per i suoi membri, sacerdoti e laici, secondo il proprio carisma”10. Sinteticamente possiamo dire che Forte sostiene un superamento della categoria di laicato in ecclesiologia, allargando lo sguardo sulla categoria di laicità come dimensione di tutta la chiesa11. 8
S. DIANICH, Laicità: tesi a confronto, in Il Regno-Attualità, 16(1985), 459-460. B. FORTE, Laicità…, cit., 460-461. 10 PAOLO VI, Discorso nel XXV della Provvida mater, del 2 febbraio 1972, n. 7. 11 Cfr. B. FORTE, Laicato e laicità, Genova 1986, 39-65. 9
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6. IL RICUPERO DEL PROTAGONISMO ECCLESIALE Una delle conseguenze del rinnovamento ecclesiologico operato dal Vaticano II fu, come abbiamo in qualche modo già accennato, il superamento della divisione tra gerarchia e laicato. Ambedue i blocchi ne furono interessati, anche se in modo differente: - La gerarchia, in quanto sollecitata ad accogliere il co-protagonismo dei laici nella vita e nella missione della Chiesa (LG 37); - I laici, in quanto riconosciuti come soggetti a pieno titolo in essa. Ci occuperemo ora particolarmente di questi ultimi, data la novità dell’impostazione conciliare nell’affrontare la loro condizione ecclesiale, cercando di riflettere sui tre elementi emergenti e comuni a tutte le posizioni fino ad ora presentate: - Il protagonismo del laico nella Chiesa - Secondo il modo della “secolarità” - Un itinerario spirituale proprio 6.1. Da cristiani di seconda categoria ad avanguardia della Chiesa Sarebbe disonesto negare che i cristiani laici — uomini e donne — siano stati considerati, e si sono essi stessi considerati, quali cristiani di seconda categoria nella Chiesa. Erano identificati «negativamente», e cioè come quelli che non appartenevano alla gerarchia e agli ordini o congregazioni religiose. In certo senso erano ritenuti e si ritenevano quali minorenni, dipendenti dai loro fratelli maggiori. I motivi storici per cui si è arrivati a tale situazione sono già stati ricordati precedentemente. Nel Vaticano II questa prospettiva venne superata. Anzitutto, proponendo un’altra identificazione di questi cristiani, che costituiscono la maggioranza dei membri della Chiesa. Infatti, nella Costituzione Lumen Gentium la loro identità venne tracciata nei seguenti termini: sono i fedeli, che, «dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio, e nella loro misura, resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano» (n. 31). Come si vede, una descri-
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zione altamente positiva. Si potrebbe dire che venne riconosciuta la loro appartenenza «a pieno titolo» alla Chiesa. Cristiani di prima categoria, quindi, come i membri dell’ordine e dello stato religioso, a cui si fa riferimento nello stesso testo della Costituzione, e non di seconda. Il contesto di tale riconoscimento fu quello proprio della svolta comunionale del Concilio nella sua prima tappa di ripensamento ecclesiologico. Ma, oltre a questo primo passo, la sua seconda tappa portò a un altro, che contribuì a rinforzare ancora maggiormente l’identità propria dei laici. Nella Costituzione Gaudium et Spes, infatti, più nello spirito che nella lettera stessa, si delineò la figura del laicato cristiano quale avanguardia della Chiesa, di una Chiesa cioè interamente protesa al servizio evangelico dell’umanità (cfr. n. 43). «Dai sacerdoti — si specifica in effetti nel testo — i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità». Si è così molto lontani da quella impostazione plurisecolare che aveva rilegato la grande «maggioranza silenziosa» della Chiesa nella sua periferia. Si produsse una grande innovazione, la cui attuazione concreta, ancora non pienamente riuscita, è chiamata a produrre copiosi frutti per la vita stessa della Chiesa. 6.2. Il protagonismo dei laici nella missione della Chiesa Nella nuova impostazione ecclesiologica del Vaticano II, come si disse, l’ecclesiocentrismo precedente lasciò il posto ad un decentramento radicale: non più il mondo al servizio della Chiesa, ma viceversa la Chiesa al servizio del mondo. Ciò portò a far venire in primo piano la missione della Chiesa, una missione che deve configurare anche la sua vita interna. Ora, il mondo al quale la Chiesa è inviata in questa sua missione di salvezza, non è un’astrazione bensì una realtà molto concreta. Nella prospettiva della costituzione Gaudium et Spes, è l’umanità con tutte le
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sue gioie e speranze, con tutte le sue tristezze e angosce (GS 1). Su questo fronte è chiamata a svolgersi principalmente l’azione dei cristiani laici. Sono situazioni e problematiche che hanno a che vedere direttamente con le realtà cosiddette secolari, in mezzo alle quali essi vivono giorno per giorno la loro vita. Chi è autentico membro laico della Chiesa di Gesù Cristo, uomo o donna che sia, è chiamato a prendere sul serio ciò che accade nel mondo reale. Nel grande mondo dei rapporti socio-politici, dove si elaborano le grandi decisioni che interessano direttamente o indirettamente l’intera umanità e i suoi singoli membri, e nel piccolo mondo dei rapporti interpersonali, dove tali decisioni si ripercuotono in mille modi diversi. Lì, a contatto con tali situazioni, è sollecitato a svolgere il suo servizio evangelico, collaborando dall’interno, «a modo di fermento», secondo l’espressione della Lumen Gentium (n. 31), nella trasformazione della convivenza umana. Seguaci di Gesù Cristo, i laici e le laiche sono invogliati a realizzare questo servizio evangelico al mondo, stando alla tipica tripartita caratterizzazione conciliare, da profeti, sacerdoti e signori. La loro profezia è chiamata ad attuarsi nel mondo principalmente mediante lo sforzo di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo (GS 4a) o, in altre parole ancora, di discernere, in ciò che avviene in esso, i segni veri della presenza o del disegno di Dio (GS 11a). Un discernimento mirato ad annunciare a voce alta quanto vi trovano di positivo, riconoscendo una manifestazione del progetto di Dio, e a denunciare coraggiosamente quanto vi scoprono di negativo, come contrario a tale progetto. Ma un discernimento mirato soprattutto a provocare il proprio impegno di azione nella direzione del discernimento fatto. Anche la loro liturgia è chiamata a svolgersi in mezzo al mondo, ad offrire cioè in esso quel «culto spirituale» di cui parla la lettera di Paolo ai cristiani di Roma (Rom 12,1-2), e che la costituzione Lumen Gentium ha collegato strettamente con l’esistenza prevalentemente secolare condotta da essi. Una liturgia e un sacerdozio vissuti nell’impegno serio e responsabile in tutto ciò di cui tale esistenza è intessuta, e che poi vengono celebrati specialmente nell’Eucaristia (LG 34b). Infine, come Gesù Cristo, il Signore, anche i suoi discepoli laici e
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laiche sono invitati ad impegnarsi nel rendere effettiva la loro signoria nei confronti delle realtà del mondo (LG 36). Tale impegno richiederà da loro il non lasciarsi rendere schiavi da esse, e il collaborare affinché neanche gli altri si lascino rendere schiavi. E, inoltre, il mettere in atto una gestione tale delle realtà del mondo, che li abiliti a contribuire sempre più alla vita e alla maturità degli uomini, e non alla loro morte. È proprio qui che il servizio laicale è più che mai urgente, data la situazione del mondo attuale. I cristiani-laici e le cristiane-laiche sono chiamati a contribuire con tutte le loro capacità e competenze a fare in modo che la convivenza umana diventi sempre meno inumana e sempre più consona con la dignità dell’uomo. Nel portare avanti questo loro impegno, avverte il Concilio, dovranno essere consapevoli che non sono soli al mondo, che molti altri uomini e donne, i quali non si ispirano al Vangelo di Gesù Cristo ma ad altre proposte, stanno portando avanti un impegno simile, con tanto o alle volte con ancora maggior entusiasmo di essi. «Daranno volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità», dice la Gaudium et Spes (n.43b) riferendosi precisamente a loro. Nessun atteggiamento di superiorità o di competitività dovrebbe quindi ispirare il loro impegno. 6.3. Il protagonismo dei laici nella vita della Chiesa Ma i laici sono solo cristiani nel cuore del mondo? È una domanda che potrebbe sorgere spontanea dopo quanto si è detto. Torniamo così alla concezione di prima del Concilio, secondo la quale ai ministri e ai religiosi spettavano «le cose della Chiesa», mentre ai laici corrispondevano «le cose del mondo»? Secondo il pensiero del Vaticano II, questa classica spartizione va decisamente scartata. Bisogna ribadirlo con forza: nella comunità ecclesiale a tutti, senza eccezione, spettano tutte e due le cose. In modo diverso, certamente, a seconda della vocazione di ciascuno. Tuttavia, se nel modo proprio di vivere dei cristiani-laici l’accento viene posto sulle realtà del mondo, ciò non significa che essi siano sprovvisti di protagonismo nella Chiesa stessa. Anzitutto va detto che, diversamente da ciò che si è a volte pensato
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e detto, la Chiesa non si divide in due parti, una «Chiesa che insegna» e una «Chiesa che impara», la prima costituita dalla gerarchia con il potere di ammaestrare, e la seconda dai laici con il dovere solo di imparare. Tutta la Chiesa è invece l’una e l’altra cosa, anche se in modi e misure diverse. La ragione ultima di ciò si trova nel fatto che la Parola di Dio è stata consegnata all’intera comunità ecclesiale (DV 10a), e non ad alcuni soltanto. Di qui la necessità che sia tutta la comunità ad approfondirla e annunciarla, anche se in essa alcuni sono chiamati a presiedere tale impegno e altri a collaborarvi responsabilmente, senza presiederlo. E poiché la Parola viva di Dio si manifesta in forma storica in avvenimenti e situazioni umane (DV 2; GS 11a), si capisce l’importanza insostituibile e peculiare del contributo dei cristiani e delle cristiane laici nel suo discernimento, dal momento che essi, per il fatto di vivere più vicini alla realtà storica, la possono cogliere meglio e con maggior realismo. In questo contesto la Lumen Gentium sostiene che i pastori, «aiutati dall’esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, sostenuta da tutti i suoi membri, compie con maggior efficacia la sua missione per la vita del mondo» (n. 37d). D’altronde, dall’attività profetica svolta nel seno della comunità ecclesiale, i laici possono trarre profitto per la loro vita e azione personale nel mondo. Possono imparare cioè a scoprire, insieme agli altri fratelli e sorelle nella fede, il senso ultimo delle realtà tra le quali vivono, e trovare anche il modo più concreto per annunciare il Vangelo a coloro con i quali convivono ogni giorno nel mondo. In secondo luogo, come è stato ricordato, la Lumen Gentium nel parlare del culto spirituale afferma che tutto ciò che i laici fanno nello Spirito si converte in sacrificio spirituale che, nella celebrazione dell’eucaristia, con l’oblazione del Corpo di Cristo, essi offrono al Padre (n. 34b). Ciò che essi vivono nella loro vita ordinaria e quotidiana, e che è già di per sé «culto spirituale», lo celebrano nella comunità ecclesiale nei momenti liturgici. Questi sono occasioni speciali dell’esercizio del loro sacerdozio. Si tratta quindi di una autentica concelebrazione, nella quale tutti i membri della comunità partecipano attivamente, e nella quale si manifesta anche la varietà di servizi in
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essa esistente. Su questa base la costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium ha insistito sulla partecipazione attiva di tutti i fedeli nelle celebrazioni liturgiche, che non sono mai celebrazioni private, ma sempre celebrazioni della comunità (n. 26a). I ministri, in forza della loro ordinazione, sono chiamati a prestarvi un servizio di presidenza; ma non per questo gli altri partecipanti sono da considerare come semplici e passivi beneficiari di ciò che essi fanno. Al contrario, tutti sono sollecitati a sentirsi — perché di fatto lo sono — corresponsabili della celebrazione, e di conseguenza a contribuire con tutta la loro capacità nella sua realizzazione. È importante rilevare ancora il contributo proprio e peculiare dei laici e laiche nella liturgia. Se questa è espressione di una Chiesa tutta protesa al servizio del mondo, la sua liturgia dovrà essere necessariamente permeata da quelle sollecitazioni che vengono alla fede da ciò che succede nel mondo. Altrimenti sarebbe una liturgia alienata. Si intravede così quale sia il contributo tipico che possono apportarvi i cristiani e le cristiane laici, che vivono gomito a gomito con gli altri uomini e donne del mondo le situazioni gioiose o problematiche che lo segnano: quello di farle entrare quale materia della celebrazione. Infine, ogni cristiano laico o laica è chiamato ad essere «signore», ossia «servo», secondo il pensiero del Vangelo, all’interno della stessa Chiesa (GS 32). Anche fuori delle celebrazioni cultuali la vita della comunità ecclesiale ha bisogno di determinati servizi: organizzazione, presidenza, insegnamento, assistenza… Quanto più fraternamente si svolge la vita di una comunità, tanta maggior disponibilità richiede dai suoi membri. Lo si vede già nelle prime comunità cristiane, stando alle svariate testimonianze tramandate dagli scritti neotestamentari. In questo contesto è utile ricordare ciò che disse il Vaticano II circa il rapporto tra laici e pastori. Un criterio orientativo venne fornito, nello stesso capitolo dedicato ai laici, dalla Lumen Gentium: «Se quindi nella Chiesa non tutti camminano per la stessa via, tutti però sono chiamati alla santità ed hanno avuto ugualmente in sorte la stessa fede in virtù della giustizia di Dio. Quantunque alcuni per volontà di Cristo sono costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità» (n. 32b).
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Si sottolinea, in questo modo, un aspetto molto importante della vita e dell’organizzazione ecclesiale: non esiste nella Chiesa nessuna scala di dignità, poiché tutti i suoi membri sono uguali da tale punto di vista, e nessuno è al di sopra degli altri. Dopo aver enunciato questo principio fondamentale, il testo citato continua dicendo: «I laici, quindi, come per degnazione divina hanno per fratello Cristo […], così anche hanno per fratelli coloro che, posti nel sacro ministero, insegnando e santificando e reggendo per autorità di Cristo, pascono la famiglia di Dio, in modo che sia da tutti adempito il nuovo precetto della carità» (n. 32d). Il primo e fondamentale rapporto, quello dell’uguaglianza fraterna, non elimina quindi questo secondo rapporto complementare: la diversità nella responsabilità, una diversità che deve però sempre essere permeata di quella stessa fraternità. In forza di ciò la Lumen Gentium insiste sulla corresponsabilità dei cristiani laici nella vita e nel cammino della comunità: «Nella misura della scienza, competenza e prestigio di cui godono, [i laici] hanno la facoltà, anzi, talora il dovere di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa» (n. 37a). E invita i pastori a riconoscere e promuovere la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa. 7. LA SECOLARITÀ Il laico, allora, vive — ontologicamente — la stessa dignità comune a tutti i christifideles. Ma quale è la modalità che lo distingue, senza separarlo dal presbitero, dalla religiosa (e dal religioso)? Il Concilio Vaticano II12 ha indicato la modalità nell’indole secolare. Affermazione apparentemente semplice, ma non semplicistica e per cogliere la quale è necessario rammentare la portata teologica dell’indole secolare alla luce del disegno salvifico di Dio e del mistero della Chiesa. La Chiesa ha un’autentica dimensione secolare, inerente alla sua intima natura e missione: vive infatti nel mondo ed è mandata a
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CHL 14.
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continuare l’opera redentrice di Gesù Cristo. Tutti i suoi membri sono partecipi della dimensione secolare; ma lo sono in forme diverse. Se il fondamento teologico è comune a tutto il popolo di Dio, la condizione secolare — sebbene comune anch’essa a tutta la Chiesa in quanto è nel mondo — è per il laico (su un piano diverso da quello ontologico) fondamento di una peculiarità positiva e distintiva rispetto al clero e ai religiosi. Il Concilio descrive la condizione secolare dei laici indicandola come il luogo nel quale viene loro rivolta la chiamata di Dio: “Ivi sono da Dio chiamati”. Il “posto” della loro chiamata non è semplicemente un dato esteriore e ambientale (quindi un luogo solamente sociologico), ma è una realtà destinata a trovare in Gesù Cristo la pienezza del suo significato (quindi un luogo principalmente teologico). È il posto “così sublime, che non è lecito abbandonare”, come si legge nella A Diogneto ove il termine per indicare posto è taxis ed è desunto dal linguaggio militare per indicare il posto del soldato in battaglia. Lasciare quel posto significherebbe tradire. Qualora si dovesse offrire una definizione particolareggiata dell’impegno secolare dovremmo elencare tutti i singoli doveri e le attività del mondo di cui è intessuta la vita dell’uomo a partire dal lavoro sino a comprendere la politica, le realtà sociali, dell’economia, delle arti, della cultura, degli strumenti della comunicazione sociale, ecc. In sintesi si potrebbe dire che l’impegno secolare è tutto ciò che l’uomo compie in esecuzione del comando divino: assoggettare la terra. Ma ‘assoggettare la terra’ equivale a ‘ordinare le cose secondo Dio’. E ordinare le cose secondo Dio vuol dire: tenuto conto di ciò che le cose sono in se stesse, valorizzarle secondo la loro natura sino al punto più alto, cioè, condurre alla pienezza di significato la verità interna alle cose. Questo perché la verità interna alle cose (agli esseri) è espressione della volontà divina (l’Essere supremo). Entrando nel concreto, esemplificando, ordinare le cose secondo Dio vuol dire: - vivere e intendere la sessualità nel suo intimo valore e significato: liberare l’uomo dalla solitudine e renderlo capace di generare la vita;
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- vivere e intendere la socievolezza sino al suo punto più alto: la fraternità, la compagnia; - vivere e intendere il lavoro come perfezionamento di se stessi e della società tutta; - vivere e intendere lo studio come mezzo per giungere alla verità delle cose; - vivere e intendere il gioco come momento di autentica liberazione. Applichiamo quanto detto agli altri luoghi dell’impegno secolare e allora vedremo quale grande spazio è aperto alla vita del laico cristiano. Condotte alla pienezza del loro significato queste realtà mondane si aprono ‘oltre se stesse’ e si relativizzano rispetto alla massima aspirazione che l’uomo si porta dentro: Dio. Dunque, in virtù del battesimo i fedeli laici: “sono chiamati (a cosa?) a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo (come?) mediante l’esercizio della loro funzione propria e sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a rendere visibile Cristo agli altri, (come?) principalmente con la testimonianza della loro vita e con il fulgore della fede, della speranza, della carità”13. Infatti è nella loro situazione intramondana che Dio manifesta il suo disegno e comunica la particolare vocazione di cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. 8. LA COSTRUZIONE DI UN ITINERARIO SPIRITUALE APPROPRIATO Santificarsi e santificare, tra l’ecclesialità e la secolarità, non è dunque cosa facile. Per questo il discepolato e la sequela del Signore Gesù richiedono per il laico una “spiritualità appropriata, l’urgenza di una formazione profonda e permanente, l’indispensabilità, per lui, come per tutti gli altri, dell’Eucaristia e della Penitenza”. (34) Anche per il laico, dunque, quello spirituale è un itinerario che
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parte dalla trasformazione della coscienza con gli usuali e comuni mezzi della santità: - la preghiera e la meditazione della Parola; - la Riconciliazione sacramentale e l’Eucaristia; - la ricerca di un accompagnamento spirituale teso non ad annegare la specificità laicale, ma a responsabilizzarne la genuinità. Ma non è tutto. La dimensione tipica della secolarità del fedele laico è l’ordinario e il quotidiano della vita familiare, sociale, professionale ed ecclesiale. Pertanto una spiritualità per lui appropriata non può non essere intessuta di ordinario e di quotidiano. La luce del Vangelo, il rapporto personale con Cristo filtra, per il discepolo laico, nella vicenda quotidiana. Allora: - il Vangelo viene proclamato nella testimonianza di vita; - la vita si santifica e assume la sua dimensione spirituale nella “celebrazione” della verità e della giustizia, e la Parola, così annunciata, diviene fermento, provocazione, speranza… L’apostolato “del simile verso il simile” nel quale “completano la testimonianza della vita con la testimonianza della parola” (35) è esso stesso parte determinante dell’itinerario spirituale del fedele laico. Per la verità una spiritualità appropriata per il laico è ancora da studiare specie sotto forma di un’adeguata sussidiazione. Come già detto, se si vuole aiutare il fedele laico ad essere nella storia della salvezza restando dentro la storia degli uomini, nella fedeltà a Dio e all’uomo, bisogna riscoprire la centralità della coscienza. La sua dignità, il suo primato, il suo essere il luogo della identità personale, del discernimento operoso, della elaborazione delle scelte morali, dei conseguenti comportamenti. La luce di Cristo — che la comunità cristiana riceve e diffonde nel mondo — deve raggiungere la coscienza del laico. Il Sinodo del 1987 ebbe a richiamare una serie di momenti costitutivi ed essenziali per un permanente itinerario educativo del fedele laico: - un appropriato approfondimento che lo inserisca sempre più e sempre meglio nel mistero di Cristo e della Chiesa; - la preparazione catechistico-teologica e l’affinamento culturale;
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- l’elaborazione di idee e valori in grado di incarnare nella storia contemporanea i valori e la luce del Vangelo offrendo all’umanità veri e profondi significati, mete di alta eticità; - comportamenti personali conseguenti e attuativi di una coscienza plasmata dalla Parola di Dio e percettiva della grandezza-debolezza dell’uomo. Essenziali sono pure la cura della dimensione sociale e politica nella coscienza. Il cristiano — e il laico in particolare — nella linea e nello spirito del mistero dell’Incarnazione non può non camminare con l’umanità e con l’uomo contemporaneo. Il Sinodo del 1987 ebbe a ricordare che è peccato contro Dio abbandonare l’uomo nella sua vicenda sociale. Certo la Chiesa ha risposte che vanno al di là del contingente, ma incontra l’uomo nel suo vissuto. Ed intravide questo vissuto nei luoghi e nelle situazioni di violenza, di carestia, di fame, di guerre, di odio razziale; nella famiglia, nel lavoro, nell’economia, nella scuola, nel mondo della cultura e delle comunicazioni sociali, nelle strutture di partecipazione sociale e nelle istituzioni politiche. Queste situazioni delle quali è intessuta l’umanità contemporanea e queste forme attraverso le quali si attua la instaurazione dell’ordine temporale sono proprio i luoghi nei quali il fedele laico è chiamato a fare sintesi tra fede e vita. Sostenere il laico in questa “battaglia” richiede una ulteriore formazione accurata e proporzionata alle responsabilità presenti e future. Il compito dunque non è facile; anzi, molto difficile da realizzare. Tanto arduo che non resta altro che chiedere nella preghiera quel di più che serve per ordinare le cose secondo Dio, come l’agiografo faceva dire a Salomone quando, intento nelle opere di governo proprie di un re (quindi di un laico politico), invocava da Dio la ‘sapienza’ con questa stupenda preghiera: “Inviala dai cieli santi, mandala dal tuo trono glorioso, perché mi assista e mi affianchi nella mia fatica ed io sappia ciò che ti è gradito” (Sap 9,10).
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LA PROSPETTIVA CONCILIARE DELLA VITA CONSACRATA. Verso una nuova comprensione teologico-spirituale
EGIDIO PALUMBO O.CARM*
PREMESSA Il Concilio Vaticano II tratta della vita consacrata nel cap. VI della costituzione dogmatica Lumen Gentium, nn. 43-47, intitolato “De Religiosis”1. È fondamentalmente un approccio teologico che il Concilio offre a questa forma di vita cristiana nella Chiesa. Il Concilio, fedele al suo mandato e al suo spirito, ha voluto che si trattasse anche del rinnovamento della vita consacrata in un documento a parte: e così fu elaborato il decreto Perfectae caritatis2, approvato il 28 ottobre 1965, undici mesi dopo l’approvazione definitiva di Lumen Gentium, la quale fu approvata il 21 novembre 19643. Quello di Perfectae caritatis, in continuità con il cap. VI di LG, costituisce non solo un approccio teologico, ma anche spirituale e pastorale alla vita consacrata, ponendola nell’alveo di quel cammino di rinnovamento e di adattamento, ovvero di approfondimento di quel modo di essere, di
* Docente di Teologia della vita consacrata e di Spiritualità presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen Gentium (21.11.1964), in EV, 1/402-414. 2 Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. sul rinnovamento della vita religiosa Perfectae caritatis (28.10.1965), in EV, 1/702-770. 3 Nel 2014 ricorreranno i 50 anni di Lumen Gentium, nel 2015 quelli di Perfectae caritatis.
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quella forma di vita che rispondesse meglio alle esigenze del nostro tempo; ricerca che il Concilio propone all’intera vita ecclesiale, consapevole — sotto l’impulso del principio di pastoralità indicato da Giovanni XXIII4, principio costitutivo della trasmissione della dottrina — che è necessario attivare una feconda “circolarità” la tra verità di fede e il modo di annunciarla e di comunicarla, tra la “sostanza viva” del vangelo e la forma esistenziale più adeguata per viverla oggi. A motivo di tale “circolarità”, non estranea allo spirito del Concilio, riteniamo che la lettura del cap. VI “De Religiosis” vada integrata con Perfectae caritatis: da qui apparirà evidente quale prospettiva teologica e quali cammini spirituali-esistenziali il Concilio ha voluto proporre alla vita consacrata. È questo l’intento che muove il presente contributo. 1. IL CONTESTO PRIMA E DURANTE IL CONCILIO Prima di accostarci al cap. VI “De Religiosis” di Lumen Gentium, dobbiamo rilevare che per la prima volta in un concilio ecumenico la Chiesa tratta della vita consacrata principalmente dal punto di vista teologico, ecclesiologico, spirituale e pastorale o vitale; nei concili precedenti di solito l’interesse prevalente muoveva su questioni di 4 Così Giovanni XXIII si espresse nel discorso di apertura del Concilio dell’11 ottobre 1962: «Dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento della Chiesa nella sua interezza e precisione, quale ancora splende negli atti conciliari da Trento al Vaticano I, lo spirito cristiano, cattolico ed apostolico del mondo intero, attende un balzo in avanti verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze; è necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo modo e, se sarà necessario, elaborarlo con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale» (GIOVANNI XXIII, Discorso per l’apertura del Concilio Gaudet Mater Ecclesia, in EV, 1/55*); cfr. Ch. THEOBALD, La recezione del Vaticano II. 1. Tornare alla sorgente, Bologna 2011, 223-283; G. RUGGIERI, Ritrovare il concilio, Torino 2012, 26-28.
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natura ascetica, pratica e giuridica. Questo, di per sé, è già un fatto significativo. Certo, lo dobbiamo riconoscere, il Concilio non ci ha lasciato in eredità una teologia della vita consacrata ben articolata, compiuta e aggiornata in tutte le sue parti: non era nemmeno il suo intento5; né, considerando il contesto storico, la visione della vita consacrata sistematicamente elaborata, trasmessa e vissuta negli anni che precedettero il Concilio era all’altezza di predisporre alla scrittura di una tale teologia. Infatti, non va dimenticato che in quegli anni la vita consacrata si studiava e si concepiva, saldamente ancorata alla riflessione tomista6, prevalentemente come “stato di perfezione” spiritualmente autarchico rispetto alla Chiesa locale ed elitario rispetto agli altri stati di vita cristiana, in particolare al matrimonio7. La visione prettamente ascetica e giuridica, inoltre, favoriva una vita comunitaria più articolata sulla sacralizzazione delle osservanze che sulla dimensione teologale, più impostata sull’uniformità imposta dal Codice di diritto canonico piuttosto che sulla identità carismatica e profetica della propria famiglia religiosa e di conseguenza sulla sana creatività ed equilibrata adattabilità alle nuove esigenze della missione, al cambiamento e alla rinnovamento dello stile di vita. Tale visione, piuttosto statica e rigorista, favoriva anche un esercizio dell’autorità marcatamente paternalistico, autoritario e poco rispettoso della persona, come pure accentuava la scandalosa discrimina5 Cfr. J. AUBRY, Teologia della vita consacrata, in AA. VV., Vita consacrata, un dono del Signore alla sua Chiesa, Torino-Leumann 1993, 132; E. VILANOVA, Història de la teologia cristiana. III. Segles XVIII, XIX i XX, Barcelona 1989, 675-678. 6 Cfr. J. AUMANN, s.v. Perfezione. III. La Chiesa latina. E) San Tommaso, in DIP, 6, 1469-1474; G. ROCCA, s.v. Perfezione. III. La Chiesa latina. F) Da San Tommaso ai nostri giorni, in ivi, 1474-1478. 7 Esemplari al riguardo, assieme ad altri autori, gli scritti del teologo domenicano A. ROYO MARÍN, Teología de la perfección cristiana, Madrid 1954; ID., La vida religiosa, Madrid 1965; e del teologo gesuita R. CARPENTIER, Témoins de la Cité de Dieu, Paris-Bruxelles 1956 (trattato rivisto alla luce del Concilio nell’edizione del 1966). Una prospettiva teologica diversa e minoritaria già cominciavano a seguire H.U. von Balthasar, il gesuita K. Ranher e il benedettino R. Schulte.
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zione di stampo clericale e classista tra religiosi presbiteri e religiosi conversi, tra suore coriste e suore non-coriste8. Nel contempo, però, va riconosciuto che, pur dentro questa mentalità e prassi dominanti, quegli anni furono i più floridi per la vita consacrata, non solo riguardo alla crescita numerica di vocazioni e di nuove fondazioni, ma soprattutto alla qualità inventiva e innovatrice di non poche congregazioni, maschili e femminili, la maggior parte nate con una diaconia specifica rispondente profeticamente ai bisogni del tempo, che testimonia in maniera esemplare la dedizione gratuita nel servizio della promozione umana e dell’evangelizzazione, in particolare dei lontani, degli impoveriti e degli emarginati della società9. Si pensi, ad esempio, alle molteplici congregazioni missionarie (Comboniani, Saveriani, Scalabriniani, ecc.) finalizzate per l’evangelizzazione dei nuovi continenti (Africa, America Latina, Asia, Oceania); alla Pia Società S. Paolo (Paolini) e alla Pia Società delle Figlie di S. Paolo (Paoline), fondate da Don Giacomo Alberione per l’evangelizzazione attraverso i mezzi di comunicazione sociale; alla Pia Società Salesiana (Salesiani) fondata da S. Giovanni Bosco e all’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice fondato da Maria Domenica Mazzarello per l’educazione della gioventù emarginata; si pensi ancora ai Piccoli Fratelli di Gesù, ai Piccoli Fratelli del Vangelo e alle Piccole Sorelle di Gesù nati dall’assimilazione e “rilettura” del carisma di Ch. de Faucauld come presenza contemplativa e povera tra la gente, assumendo i loro lavori più umili; si pensi, infine, alle Missionarie della Carità e i Frateli Missionari della Carità fondati da Madre Teresa di Calcutta con lo scopo di assistere e dare ospitalità ai malati abbandonati. È solo un breve elenco esemplificativo che ci mostra come lo Spirito del Signore, che è Soffio creatore e creativo, sa, nonostante
8 Cfr. G. LOPARCO, La vita religiosa alla vigilia del Concilio, in S. GONZÁLEZ SILVA (ed.), I frutti del cambiamento. A 40 anni dal “Perfectae Caritatis”, Milano 2006, 10-33. 9 Cfr. J. A. GÓMEZ, La Vida Religiosa ante los retos de la historia, Madrid 1979, 151-156.
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tutto, ispirare e scrivere pagine esistenziali di profezia evangelica anche sulle righe storte e complesse della storia umana. E d’altronde, negli anni ’50 si cominciavano già ad avvertire con più evidenza segni di impazienza evangelica, di disagio e di irrequietezza per la rigidità e l’immobilismo in cui si era installata la vita consacrata10. Lo attesta il primo congresso internazionale sugli Stati di Perfezione organizzato dalla Congregazione per i Religiosi, celebratosi a Roma nel 1950 dal 26 novembre all’8 Dicembre, il quale, pur esprimendo risultati modesti, mise allo studio l’attenzione da prestare ai fondatori, l’aggiornamento dello stile di vita, della formazione e dell’apostolato dei religiosi (le religiose furono invitate solo come uditrici e oranti…). Due anni dopo, nel 1952, furono convocate anche le religiose, le quali illustrarono la realtà della vita consacrata nelle varie aree geografiche del mondo e le sfide che stavano emergendo dal cambiamento culturale in atto; a sua volta la Congregazione precisò che “aggiornamento” non vuol dire “riforma” anche se il progresso è sempre possibile, e sottolineò che è importante sapere non semplicemente quello che fecero i fondatori, ma, molto di più, quello che farebbero se vivessero oggi e si trovassero di fronte ai problemi che minacciano l’apostolato della Chiesa11. Tematiche che ritroveremo, formulate in modo diverso, nel decreto Perfectae caritatis. Nel periodo immediatamente prima del Concilio e durante il suo svolgimento religiosi e religiose, in particolare quelli più sensibili, seguirono con vivo interesse e vero entusiasmo le tracce di rinnovamento teologico e pastorale che con fatica si stavano approntando. Si ha però l’impressione che non percepirono subito la “scossa” che tale rinnovamento avrebbe ben presto provocato sulla loro vita e le loro istituzioni. Non erano molto attratti dalla discussione sulla tematica della vita consacrata, tematica che li riguardava direttamente, ma sulla quale erano per lo più impreparati; lo dimostra anche il fatto
10 Cfr. P. G. CABRA, Tempo di prova e di speranza. Il cammino della vita consacrata dal Vaticano II ad oggi, Milano 2005, 7-61. 11 Cfr. G. LOPARCO, La vita religiosa, cit., 21-22.
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che i grandi teologi religiosi europei del Novecento, non pochi dei quali presenti al Concilio, nelle loro opere più significative non avevano trattato direttamente di teologia della vita consacrata, ma di S. Scrittura, patrologia, ecclesiologia, liturgia, morale, ecc.: si pensi ai domenicani Y. Congar, M-D. Chenu, E. Schillebeeckx, ai gesuiti K. Ranher, H. De Lubac, J. Danielou, al già gesuita H.U. von Balthasar, al redentorista B. Häring, e ad altri. Quello che più attraeva i religiosi e le religiose, invece, era il progetto di rinnovamento generale del Concilio, ovvero la progressiva apertura al senso della ecclesialità e della cattolicità, lo sguardo positivo alla società contemporanea con l’esigenza di discernere i “segni dei tempi” e lo stile meno giuridico e più evangelico del genere letterario dei primi discorsi e documenti. È certamente con il decreto Perfectae caritatis – il documento che traccia le linee del rinnovamento facendo convergere dentro di sé le grande istanze del Concilio espresse nei documenti nel frattempo elaborati – che i religiosi e le religiose iniziarono a prendere consapevolezza del reale influsso del Concilio sulla vita consacrata; ma tale consapevolezza emerse ancora di più con la lettura delle quattro grandi Costituzioni e con l’interesse rivolto all’evento stesso del Concilio e al suo stile e al suo modo di procedere12. 2. L’ITER REDAZIONALE DEL CAP. VI DI LUMEN GENTIUM Se questo è il contesto prima e durante il Concilio, possiamo più facilmente comprendere come sia stato abbastanza tormentato il processo redazionale del cap. VI sui Religiosi13. Vediamolo in sintesi.
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Cfr. F. CIARDI, Il concilio Vaticano II interpella la vita consacrata, in Claretianum
ITVC, 53 (2013) 48; 57-61. 13 Per un’analisi puntuale e dettagliata dell’iter redazionale del cap. VI, cfr. P. MOLINARI-P. GUMPEL, Il capitolo VI della Costituzione Dogmatica sulla Chiesa. Genesi e contenuto dottrinale alla luce dei documenti ufficiali, Milano 1985. C’è da notare che non meno tormentato fu l’iter redazionale del decreto Perfectae caritatis: furono elaborati ben cinque schemi prima di arrivare all’appovazione definitiva: cfr. A. LE BOURGEOIS, Introduzione storica al Decreto, in J. M: R. TILLARD-J. CONGAR
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Sappiamo che sia nella fase preparatoria, sia durante la celebrazione del Concilio vi erano posizioni favorevoli ad elaborare un documento a se stante sulla vita consacrata, vista nella tradizionale prospettiva perfezionista accennata sopra, ovvero come stato di vita che realizza, in un modo più eminente di tutti nella Chiesa, la perfezione evangelica, quasi che la vita consacrata avesse il “monopolio” della santità. Tanto è vero che nella prima bozza dello schema generale De Ecclesia, composto di 11 capitoli dove si presentava la Chiesa più dal punto di vista militante e istituzionale e meno dal punto di vista del “mistero”, aspetto che invece interessava di più ai padri conciliari, bozza proposta dalla commissione preparatoria e decisamente respinta dall’assemblea nella prima sessione del Concilio, tra gli 11 capitoli il 5° era dedicato alla vita consacrata con il titolo “De statibus evangelicae acquirendae perfectionis”, espressione eloquente della visione perfezionista. Nella elaborazione di un nuovo schema, articolato in 4 capitoli, il 4° trattava della santità nella Chiesa come dono e impegno che appartiene a tutti i cristiani, ma di fatto per una buona metà parlava dei Religiosi, come a voler riaffermare che solo tale stato di vita nella Chiesa era da considerare la via privilegiata verso la santità. Questa posizione non ebbe largo consenso tra i padri conciliari. Attraverso dialoghi e discussioni nelle varie commissioni di studio e sessioni generali, si andò elaborando un nuovo schema, dove i paragrafi che trattavano della santità come vocazione universale di tutti i cristiani andranno a formare il cap. V, mentre i paragrafi che trattavano dei Religiosi andranno a comporre, senza ulteriori aggiustamenti, il cap. VI “De Religiosis”; a seguire il cap. VII sulla dimensione escatologica della Chiesa e il cap. VIII sulla Madre di Dio. Al riguardo, nel suo commento alla Lumen Gentium il teologo italiano Luigi Sartori, farà questa battuta intelligente: «Si dirà: “I Religiosi ci hanno regalato la santità! Sono diventati più poveri loro, (edd.), Il rinnovamento della vita religiosa. Studi e commenti intorno al Decreto “Perfectae Caritatis”, Firenze 1968, 43-60; E. FOGLIASSO, Il decreto “Perfectae caritatis” sul rinnovamento della vita religiosa in rispondenza alle odierne circostanze, Leumann (TO) 1967, 13-68.
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o più ricchi tutti gli altri?”»14. Possiamo senz’altro rispondere che aver voluto mantenere un capitolo distinto sulla vita consacrata, significativamente collocato tra l’universale vocazione alla santità e la dimensione escatologica della Chiesa, è stata una scelta opportuna, la quale ha arricchito tutta la Chiesa e quindi anche la vita consacrata, che di essa fa parte. Considerando nel suo insieme la disposizione dei capitoli V-VIII, rileviamo questa articolazione: - i capitoli V-VI trattano della santità e dei soggetti ecclesiali che in vario modo sono chiamati a viverla, con una particolare considerazione dei religiosi e delle religiose; - i capitoli VII-VIII trattano del pieno compimento del cammino di santità del popolo di Dio (dimensione escatologica), del quale la Vergine Maria, Madre di Dio, è il modello più perfetto, poiché membro eminente e, nel contempo, immagine e modello della Chiesa. Si può obiettare che, con il capitolo a se stante sui Religiosi, in questa disposizione rimane accentuata la posizione elitaria della vita consacrata in rapporto alla santità degli altri soggetti ecclesiali. L’obiezione è pertinente, ma se teniamo presente, come abbiamo sottolineato, della insufficiente comprensione teologica della vita consacrata prima del Concilio, possiamo dire che i padri conciliari più di questo non potevano offrirci, se non ripresentare sostanzialmente la dottrina classica, non riuscendo a staccarsi dalla riflessione tomista sulla vita religiosa15. D’altronde il cap. VI, che riprende il testo contenuto nello schema De Ecclesia (cap. V: “De statibus evangelicae acquirendae perfectionis”), ha avuto poche revisioni e rimaneggiamenti nelle varie sessioni del Concilio, e lo si nota anche dal punto di vista testuale: esso è composto di solo cinque paragrafi (nn. 43-47), l’ultimo consiste solo di un capo-
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L. SARTORI, La “Lumen Gentium”. Traccia di studio, Padova 1994, 24. Cfr. J. C. R. GARCÍA PAREDES, Teologia della vita religiosa, Cinisello Balsamo (MI) 2004, 89. 15
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verso; e poi il capitolo si apre senza una vera introduzione, rendendo visibile il “taglio” redazionale dal capitolo precedente. Detto questo, tuttavia riconosciamo che non pochi sono i “semi” fecondi di novità presenti nel testo conciliare: essi, anche se il cammino di ricerca e di rinnovamento è tuttora ancora aperto, hanno fatto compiere al magistero, alla riflessione teologica e al vissuto della vita consacrata un “balzo in avanti” verso nuovi orizzonti. È quello che ora ci proponiamo di esaminare. 3. “SEMI” FECONDI DI NOVITÀ PER UN “BALZO IN AVANTI”16 3.1. Per un autentico statuto ecclesiologico della vita consacrata È innegabile: con il Concilio la vita consacrata viene considerata una forma di vita non più autarchica ma pienamente inserita all’interno della vita e della santità della Chiesa. È questo il primo “seme” di novità. La semplice scelta dei padri conciliari — che in realtà semplice non fu — di aver voluto inserire la trattazione teologica sui Religiosi all’interno e non a parte, come alcuni volevano, della costituzione dogmatica sulla Chiesa, è eloquente di per sé dell’intenzione di voler ricollocare i religiosi e le religiose nel contesto vivo e dinamico della vita ecclesiale. Per questo Lumen Gentium al n. 44 afferma: «Lo stato di vita, dunque, costituito dalla professione dei consigli evangelici, pur non
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Per la comprensione teologica del cap. VI di Lumen Gentium e del decreto Perfectae caritatis riviamo ai seguenti studi: R. SCHULTE, La vita religiosa come segno, in G. BARAÚNA (ed.), La Chiesa del Vaticano II. Studi e commenti intorno alla Costituzione dommatica “Lumen Gentium”, Firenze 1965, 1063-1092; J. DANIÉLOU, I religiosi nella struttura della Chiesa, in ivi, 1093-1100; G. HUYGHE, I rapporti tra i vescovi e i religiosi, in ivi, 1101-1109; P. MOLINARI-P. GUMPEL, Il capitolo VI della costituzione dogmatica, cit.; P. MOLINARI, Il pensiero della LG sulla vita religiosa, in DIP, 9, 1751-1756; L. SARTORI, La “Lumen Gentium”, cit., 102; N. TELLO INGELMO, s.v. Concilio Vaticano II, in Dizionario Teologico della Vita Consacrata, A. APARICIO RODRÍGUEZ – J. M. CANALS CASAS (dir.), Milano 1994, 382-388; M: R. TILLARD-J. CONGAR (edd.), Il rinnovamento della vita religiosa, cit.; E. FOGLIASSO, Il decreto “Perfectae caritatis”, cit.; S. GONZÁLEZ SILVA (ed.), I frutti del cambiamento, cit.
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concernendo la struttura gerarchica della Chiesa, appartiene tuttavia indiscutibilmente (inconcusse) alla sua vita e alla sua santità». Quell’“indiscutibilmente” (inconcusse), tradotto anche con “fermamente” o “essenzialmente” o “inseparabilmente”, dice che l’appartenenza alla Chiesa è un’appartenenza stabile, duratura e matura. Questo significa che oggi non si può trattare teologicamente della realtà misterica e comunionale della Chiesa senza trattare teologicamente anche della vita consacrata come soggetto ecclesiale accanto e assieme, anzi diciamo di più, in comunione con altri soggetti ecclesiali, famiglia compresa in quanto “chiesa domestica”. Il cap. VI di Lumen Gentium, pur nei suoi limiti, tuttavia ha conferito un autentico statuto ecclesiologico alla vita consacrata. Ma duole constatare che ancora pochissime sono oggi le ecclesiologie che trattano di questa forma di vita nella Chiesa, e nel contempo non molti sono i corsi di teologia della vita consacrata programmati nelle facoltà teologiche, nei seminari per la formazione dei presbiteri (tra i quali alcuni saranno futuri vescovi) e istituti di scienze religiose; raccomandazione che troviamo di frequente nel magistero post-conciliare17. Inoltre, l’appartenenza stabile, duratura e matura alla vita e alla santità della Chiesa significa, per la vita consacrata, l’impegno a rinnovare la propria volontà e ad affinare la propria capacità di inserimento nella vita della Chiesa universale e della Chiesa locale, non abitualmente con forme di supplenze nella pastorale ordinaria, ma con l’inventiva, la creatività profetica dei carismi che identificano ogni famiglia religiosa; carismi che la stessa Chiesa ha accolto, valutato con discernimento e approvato, e sui quali sempre è chiamata a vigilare affinché siano vissuti con autenticità — oggi il magistero postconciliare ama dire con “fedeltà creativa o dinamica”18 — per l’edificazione del Corpo di Cristo (cfr. LG 45).
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Cfr. CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI Criteri direttivi sui rapporti tra vescovi e religiosi nella Chiesa (14.10.1978) Mutuae relationes (14.10.1978), n. 30 b; ID., La vita fraterna in comunità (2.02.1994), n. 60; GIOVANNI PAOLO II, Es. apost. (25.03.1996) Vita consecrata, n. 50. 18 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Vita consecrata, n. 37; CONGREGAZIONE PER GLI VITA APOSTOLICA,
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È quanto chiede Lumen Gentium al n. 44, dove afferma che la vita spirituale dei religiosi e delle religiose «deve pure essere consacrata al bene di tutta la Chiesa», ognuno lavorando con dedizione «secondo la forma della propria vocazione (formam propriae vocationis)» — ovvero il proprio carisma, al fine di «radicare e consolidare il Regno di Cristo e a dilatarlo in ogni parte della terra». Anche in Perfectae caritatis al n. 2 c, il Concilio indica la partecipazione alla vita della Chiesa come terzo principio di rinnovamento della vita consacrata, la quale, secondo l’indole — ovvero l’indole carismatica — di ogni famiglia religiosa, viene chiamata ad assumere e a sostenere le iniziative ecclesiali «nei vari campi, come in quello biblico, liturgico, dogmatico, pastorale, ecumenico, missionario e sociale». Come si può notare i campi di presenza attiva qui indicati per la vita consacrata non vanno nella prospettiva della supplenza nella pastorale ordinaria, ma nella qualificazione della vita ecclesiale. Queste di Lumen Gentium e di Perfectae caritatis sono indicazioni preziose e fondamentali per la vita consacrata, perché, detto in altro modo, chiedono ad essa la capacità di testimoniare, con la sua presenza carismatica, un duplice “sentire”: sentire la Chiesa e sentire con la Chiesa. Sentire la Chiesa: ovvero sentirla come madre, come la propria famiglia di appartenenza19, dalla quale si riceve il pane della Parola e del corpo del Signore e la riconciliazione20; perciò ogni religioso e religiosa è esortato ad «amare la comunità umana ed ecclesiale nella cui vita si trova inserito quasi come la patria della propria vocazione»21, divenendo sempre più consapevole che non è indifferente
ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA, Istruzione (19.05.2002) Ripartire da Cristo, n. 20. 19 Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Decr. sull’ufficio pastorale dei vescovi (28.10.1965) Christus Dominus, n. 34; CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA, Mutuae relationes, n. 18b. 20 Cfr. CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA, Direttive sulla formazione negli Istituti Religiosi (2.02.1990) Potissimum institutioni, n. 22. 21 ID., Mutuae relationes, n. 37; cfr. anche n. 23d.
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vivere al nord o al sud, all’est o all’ovest di questo nostro mondo, perché anche il “luogo” dove si abita ha una sua peculiare “vocazione”, una sua particolare cultura che va rispettata, accolta nei suoi valori più genuini e fecondata dall’evangelo. Sentire con la Chiesa: ovvero sentirla come maestra nell’ascolto attento del magistero e del sensus fidei del popolo di Dio, da vivere nell’ottica di una autentica spiritualità di comunione22, e nell’ascolto attento e premuroso degli impoveriti, dei deboli e dei senza voce, da vivere nell’ottica preferenziale dei poveri23. Tale duplice sentire, però, richiede, nell’ambito delle relazioni fra soggetti ecclesiali — ovvero tra vocazioni, carismi e ministeri —, un cambio di paradigma: dalla ambigua complementarietà alla sana e buona reciprocità24. Nella prospettiva della Chiesa comunione, icona vivente della comunione trinitaria, vivere la complementarietà fra soggetti ecclesiali, come spesso si auspica anche in non pochi documenti del magistero, non ha senso, poiché significa continuare ad alimentare quella insipiente e poco evangelica mentalità perfezionista dei “comparativi”25, la quale pensa che nella Chiesa, a motivo del “dono” ricevuto (vocazione, carisma, ministero), alcuni hanno avuto “meno”, altri hanno avuto “di più”, altri ancora sono ormai “più completi” rispetto a tutti gli altri. Vale la pena notare che una sana
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Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Vita consecrata, n. 46; CONGREGAZIONE PER GLI Potissimum institutioni, n. 22. 23 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Vita consecrata, n. 82. 24 Cfr. C. VALENZIANO, “Reciprocità” cioè interpersonalità, in AA. VV., La reciprocità verginità-matrimonio profezia di comunione nella Chiesa Sposa, Siena 2000, 3774; A. DANESE-G. P. Di NICOLA, Lei & Lui. Comunicazione e reciprocità, Torino 2001; M. MIDALI, Teologia pratica. 3. Verso una effettiva reciprocità tra uomini e donne nella società e nella chiesa, Roma 2002; R. MANCINI, La buona reciprocità. Famiglia, educazione, scuola, Assisi (PG) 2008; M. ALIOTTA, Reciprocità di genere. Temi, storia, teologia, Assisi (PG) 2012. 25 Cfr. LG 42: «Più facilmente […] si donino solo a Dio» — « seguono [il Signore] più da vicino» — «conformarsi più pienamente a Cristo»; LG 44: «è consacrato più intimamente»; PC 1: «imitarlo [Cristo] più da vicino» — «il superiore valore della vita consacrata». ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA,
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antropologia ci insegna che complementarietà si dice per le “cose” (due mezze mele si completano l’una con l’altra, i corsi di teologia si completano l’uno con l’altro, ecc.), mentre reciprocità si dice per le persone, le quali non si “completano” tra loro, poiché ogni persona è unica e originale, ed è già “completa” in sé, anche se sempre perfettibile di crescita e di maturazione. Nella relazione di reciprocità ciascuno, in tutta la sua peculiarità e diversità, in tutto quello che è, che sa, che sente e che ha, è riconosciuto come un dono “pieno” (non “svuotato” a metà o a tre quarti…) per l’altro, come l’altro, nella sua peculiarità e diversità, è un dono “pieno” per lui. Si ha relazione di reciprocità, ovvero “pienezza” di relazione, quando tra persone, che entrano in un vero rapporto dialogico tra loro, c’è compresenza e “scambio di doni”, c’è mutua condivisione del proprio “dono” come presenza preziosa per l’altro e per l’umanizzazione e la maturazione dell’altro. È in questo cambiamento di paradigma, del quale il Concilio aveva già posto il “seme”26, che andrebbero comprese e vissute le relazioni tra i soggetti ecclesiali e tra le varie forme di vita cristiana nella Chiesa, ciascuno riconosciuto per la particolarità del suo “dono” per l’edificazione dell’intera comunità ecclesiale, la quale, va riconosciuto, dal Concilio fino ad oggi, contemplando l’icona della Trinità, è andata sempre più maturando una ecclesiologia di comunione e una spiritualità di comunione, dove spesso si accenna significativamente alla relazione di reciprocità (a volte purtroppo associata alla complementarietà), alla compresenza e allo “scambio di doni”27.
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Nell’affermare l’universale vocazione alla santità nella Chiesa, Lumen Gentium scrive al n 39 che la santità della Chiesa «costantemente si manifesta e si deve manifestare nei frutti della grazia che lo Spirito produce nei fedeli; si esprime in varie forme presso i singoli, i quali nel loro grado di vita tendono alla perfezione della carità ed edificano gli altri» (n. 39); e ancora: «tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità» (n. 40); cfr. anche il n. 41. 27 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Es. apost. (30.12.1988) Christifideles laici, n. 20; ID., Vita consecrata, nn. 47; 54; 85; 101; CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA, Ripartire da Cristo, nn. 7; 16; 30; 31; 32; 44.
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3.2. Carisma, sequela, profezia Abbiamo più volte accennato al carisma che caratterizza e qualifica le varie forme di vita consacrata nella Chiesa, sottointendendo il carisma dei fondatori o il carisma fondazionale, locuzioni mai usate dal Concilio, invece emergenti nel post-concilio28 man mano che su questo tema fondamentale andava maturando la riflessione teologica e quella del magistero. Ma è indubbio che il Concilio anche qui ha voluto porre un altro “seme” fecondo, avviando una rinnovata comprensione della dimensione pneumatica o carismatica della vita consacrata, quando in Lumen Gentium afferma che questa forma di vita manifesta «l’infinita potenza dello Spirito, mirabilmente operante nella Chiesa» (n. 44), e, intendendo fare riferimento al carisma delle varie famiglie religiose, parla della «forma della propria vocazione» (ivi), dell’«indole propria dei vari Istituti religiosi» (ivi) e dello «spirito dei fondatori» (n. 45). Nondimeno anche Perfectae caritatis rinvia alla dimensione carismatica della vita consacrata, quando fa riferimento all’«impulso dello Spirito Santo» il quale ha ispirato coloro che «vissero una vita solitaria o fondarono famiglie religiose» (n. 1), arricchendo così la Chiesa di una meravigliosa «varietà di doni» (ivi); oppure quando esorta sia a ritornare «allo spirito primitivo degli Istituti» (n. 2), sia ad interpretare ed osservare «lo spirito e le finalità proprie dei Fondatori» (n. 2 b) — posto come secondo principio del rinnovamento della vita consacrata; o ancora quando esorta a tralasciare quelle opere apostoliche «che oggi non corrispondono più allo spirito e all’indole propria dell’Istituto» (n. 20). È una visione che ha esercitato un grande influsso nel postconcilio29 e che colloca chiaramente la vita consacrata tra i carismi 28 Il primo ad usare la locuzione “carisma del fondatore” sembra sia stato J. Famrée, dei Fratelli delle Scuole Cristiane, in una tesi di laurea nel 1966; nel magistero il primo a parlare del “carisma dei fondatori” e del “carisma della vita religiosa” fu Paolo VI nella Es. apost. (29.06.1971) Evangelica testificatio al n. 11. 29 Cfr. F. CIARDI, I Fondatori uomini dello Spirito. Per una teologia del carisma di Fondatore, Roma 1982; A. ROMANO, I Fondatori profezia della storia, Milano 1989;
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che lo Spirito dona per l’edificazione della Chiesa e la crescita del Regno di Dio nel mondo. Dicendo “tra i carismi” non vogliamo minimamente sminuire il valore carismatico di questa forma di vita cristiana, ma, sia concessa la precisazione, neppure sopravvalutarla con “comparativi” e “superlativi” poco evangelici; vogliamo, invece, porla accanto e in comunione e in relazione di buona reciprocità con gli altri carismi che adornano “esteticamente” — dal punto di vista esistenziale e spirituale (cfr. PC 1) — la Bellezza della santità della Chiesa-Sposa di Cristo (cfr. Ap 21,2) e che manifestano la multiforme sapienza di Dio (cfr. Ef 3,10). D’altronde, gli stessi fondatori, uomini e donne, hanno vissuto tale senso di comunione nella Chiesa, non con senso di superiorità, ma come umile verifica della docilità allo Spirito ed evangelico discernimento dell’autenticità della loro vocazione e del loro carisma. Come affermano i criteri direttivi Mutuae relationes al n. 12: «La nota carismatica propria di qualsivoglia istituto esige, sia nel fondatore che nei suoi discepoli, una continua verifica della fedeltà verso il Signore, della docilità verso il suo Spirito, dell’attenzione intelligente alle circostanze e della visione cautamente rivolta ai segni dei tempi, della volontà d’inserimento nella chiesa, della coscienza di subordinazione alla sacra gerarchia, dell’ardimento nelle iniziative, della costanza del donarsi, dell’umiltà nel sopportare i contrattempi: il giusto rapporto fra carisma genuino, prospettiva di novità e sofferenza interiore comporta una costante storica di connessione tra carisma e croce, la quale, al di sopra di ogni motivo giustificante le incomprensioni, è sommamente utile a far discernere l’autenticità di una vocazione.»
Ma come va inteso il carisma dei fondatori e delle fondatrici? La migliore definizione descrittiva ce la offre lo stesso documento Mutuae relationes al n. 11, ripresa poi dall’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Vita consecrata al n. 48 nel contesto del contributo che i ID., s.v. Carisma, in Dizionario Teologico della Vita Consacrata, cit., 169-184; J.M. LOZANO NIETO, s.v. Fondatore, in ivi, 756-767; M. MIDALI, Teologia pratica. 4: Identità carismatica e spirituale degli istituti di vita consacrata, Roma 2002; J.C.R. GARCÍA PAREDES, Teologia della vita religiosa, cit., 187-219.
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carismi della vita consacrata possono dare all’edificazione della carità nella Chiesa particolare. Scrive Mutuae relationes: «Lo stesso carisma dei fondatori si rivela come un’esperienza dello Spirito, trasmessa ai propri discepoli per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente sviluppata in sintonia con il corpo di Cristo in perenne crescita. [...] Tale indole propria, poi, comporta anche uno stile particolare di santificazione e di apostolato, che stabilisce una sua determinata tradizione in modo tale che se ne possano convenientemente cogliere gli elementi oggettivi».
Come qualificare qui l’esperienza dello Spirito? Essa è contraddistinta dalla forza di attrazione verso un aspetto particolare del mistero di Cristo, che coinvolge personalmente i fondatori/fondatrici e li chiama alla sequela di Cristo secondo quel suo particolare modo di vivere, di essere e di agire. I fondatori/fondatrici sperimentano nel proprio vissuto la presenza illuminante, orientatrice e creativa dello Spirito, il quale, secondo la promessa di Gesù, guiderà i credenti «a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future» (Gv 16,13): è questa l’esperienza della memoria-attualizzazione della persona di Cristo — colui che è la Verità (cfr. Gv 14,6) — nel vissuto di quei credenti che si lasciano condurre dallo Spirito del Signore nell’ascolto del suo vangelo; un ascolto duplice: quello meditato nella lettura delle S. Scritture e quello riconosciuto, dopo attento discernimento, nei “segni dei tempi” e negli eventi della storia. Giustamente scrive J.C.R. García Paredes: «All’origine delle varie forme di vita cristiana, nella motivazione vocazionale, c’è certamente un capo, un carismatico, Gesù di Nazaret. Tuttavia lo Spirito lo ha fatto arrivare fino a noi attraverso una persona o un gruppo, grazie ai quali percepiamo il suo magnetismo. Nell’intero fenomeno di identificazione con Cristo, la grande forza agente è lo Spirito Santo, che è colui che ci ricorda il Signore (“vi ricorderà”, diceva Gesù), colui che conduce fino alla verità completa»30.
30
J. C. R. GARCÍA PAREDES, Teologia della vita religiosa, cit., 208.
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Carisma e sequela Christi, quindi, appaiono strettamente connessi, poiché, come afferma il decreto Parfectae caritatis al n. 2 a, la sequela di Cristo è la «norma fondamentale», è la «regola suprema» della vita consacrata, come pure lo è della vita cristiana in quanto tale. In obbedienza a tale norma fondamentale, i fondatori/fondatrici, specialmente quelle personalità più spiritualmente intuitive e profetiche che hanno “generato” forme originali di vita consacrata (si pensi, ai padri del deserto, a Pacomio, Benedetto, Francesco, Ignazio di Loyola, Charles de Foucauld, piccola sorella Magdeleine, p. Agostino Gemelli e Armida Barelli per gli Istituti Secolari), sono stati capaci di reinterpretare ermeneuticamente e di rimodulare in modo nuovo, secondo quella loro particolare prospettiva carismatica, tutti gli aspetti riguardanti la vita consacrata: l’ascolto orante della Parola, la preghiera personale e liturgica, la vita fraterna in comunità, i consigli evangelici (castità povertà e obbedienza), il modo di governare, lo stile della missione e di presenza in un territorio, la diaconia specifica, la formazione. Non solo, quella loro particolare prospettiva carismatica, spesso ha permesso loro di guardare alla Chiesa, al mondo e alla storia in maniera differente, ovvero in modo evangelicamente profetico. È per questo che nel corso dei secoli, specialmente quando le comunità religiose seppero ritornare in maniera intelligente alle fonti del loro carisma e della loro spiritualità, vediamo la vita consacrata svolgere nella comunità ecclesiale e nel territorio una presenza correttiva e nel contempo innovatrice. Una presenza correttiva: quando la Chiesa si adagiava e si adattava troppo al mondo, il monachesimo la richiamava all’ “unico necessario”, all’escatologia, a puntare lo sguardo al Cristo Veniente che relativizza ogni “conquista” e ci rimette in cammino come pellegrini verso la Patria; quando la Chiesa si identificava troppo con la società dei mercanti, i frati “mendicanti” la richiamavano alla povertà e alla vicinanza con il popolo; quando la Chiesa si chiudeva troppo al nuovo umanesimo e alla modernità, le congregazioni apostoliche o diaconali la richiamavano al modo concreto di occuparsi del mondo e dei bisogni dei poveri. Una presenza innovatrice: ogni forma di vita consacrata ha immesso vari elementi di novità nella vita della Chiesa, ad esempio, attraverso
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l’elaborazione di itinerari di spiritualità (pensiamo alla lectio divina della spiritualità monastica; alla spiritualità molto diversificata dei frati “mendicanti”: dalla spiritualità francescana a quella carmelitana; alla spiritualità dell’azione apostolica delle congregazioni diaconali), o attraverso la proposta di uno stile di vita diverso (gestione più “democratica” o “centralizzata”, sobrietà, dignità del lavoro manuale), o attraverso un’azione diaconale più attenta alla persona e al sociale (progetto educativo preventivo, assistenza sanitaria, solidarietà con gli impoveriti e gli emarginati, inserimento nelle periferie, missione ad gentes), o, infine, attraverso la promozione della cultura. «Ogni carisma autentico — ci ricorda Mutuae relationes al n. 12 — porta con sé una certa carica di genuina novità nella vita della Chiesa e di particolare operosa intraprendenza». Perciò la Chiesa, a partire dal Concilio, ha chiesto e chiede un adeguato rinnovamento alla vita consacrata, non per inseguire le mode del tempo, ma per essere segno profetico (e non “archeologico”), finalizzato ad «attirare efficacemente tutti i membri della Chiesa a compiere con slancio i doveri della vocazione cristiana» (LG 44). E tale segno sarà leggibile dai contemporanei se la vita consacrata sarà capace di essere, con il proprio stile di vita semplice ed essenziale, presenza “sacramentale” della «forma di vita che il Figlio di Dio abbracciò quando venne nel mondo per fare la volontà del Padre, e che propose ai discepoli che lo seguivano» (LG 44; cfr. anche il n. 8). CONCLUSIONE Vi sarebbero altri “semi” fecondi da sottolineare e valorizzare, riguardanti, ad esempio, la relazione battesimo-vita consacrata, la dimensione teologale della vita fraterna in comunità, la laicità della vita consacrata, ecc.. Ma quelli sui quali abbiamo scelto di orientare la nostra riflessione, li avvertiamo come i più fondamentali per proseguire nel rinnovamento del vissuto e della riflessione teologico-spirituale della vita consacrata. Essa, liberata dalla visione perfezionista e collocata in una relazione di autentica comunione e di sana reciprocità con le altre forme di vita cristiana nella Chiesa, mostrerà tutta la sua autenticità nel farsi umile segno di dono e di gratuità.
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GESÙ E LA CHIESA
NUNZIO CAPIZZI*
1. PER UN ESAME DI COSCIENZA Il presente contributo, in senso ampio, riguarda il primo capitolo della Lumen gentium (LG I), dedicato al mistero della Chiesa. In senso stretto, quindi più precisamente, esso concerne la relazione tra Gesù e la Chiesa, sulla base di un solo spunto del capitolo primo della costituzione conciliare, che sarà indicato di seguito. Si potrebbe avanzare, immediatamente, un interrogativo sulla scelta fatta ovvero sulla motivazione di una lettura di LG I dal punto di vista della relazione tra Gesù e la Chiesa e non da altri. La domanda sorge in modo spontaneo, anche perché il capitolo potrebbe fare pensare subito a quella grande novità costituita dai suoi numeri 2-4, dedicati alla relazione tra la Chiesa e le tre persone divine. In tal senso, la domanda si preciserebbe nei termini seguenti: perché non parlare della relazione tra la Trinità e la Chiesa? Questa domanda, inoltre, troverebbe sostegno nel fatto che, nella Facoltà teologica di Napoli, i professori della sezione San Luigi, per il loro seminario interdisciplinare dell’anno 2005, hanno messo a tema esattamente la relazione tra la Trinità e la Chiesa1. La questione diventa ancora più complessa se, all’ultima domanda sollevata, si aggiunge quella inerente il punto di vista da cui presentare
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Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr. O.F. PIAZZA (ed.), La Trinità e la Chiesa. In dialogo con Giacomo Canobbio, Cinisello Balsamo 2006. 1
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Nunzio Capizzi
la relazione tra Gesù e la Chiesa. Ad esempio, ci si potrebbe porre nella prospettiva storica del passaggio da un orizzonte apologetico e giuridico a uno teologico. Infatti, il problema fondamentale che ha condizionato la tradizione teologica dopo il concilio di Trento è stata la legittimazione della Chiesa come struttura di autorità, dapprima nei confronti della Riforma e poi, nel periodo dell’Illuminismo, davanti alle pretese dello stato laico. Nel contesto, la dimostrazione storica di una diretta fondazione della Chiesa, da parte di Gesù, è stata una componente decisiva di tutto il sistema dell’apologetica neoscolastica. Dal punto di vista indicato, però, ci sono diversi studi che affrontano la questione e non è il caso di cimentarsi in una nuova ricerca2. Rimane aperta, pertanto, la domanda sulla prospettiva in cui collocarsi per presentare la relazione tra Gesù e la Chiesa. Fino a questo momento, ho sollevato tre domande: perché leggere LG I dal punto di vista della relazione tra Gesù e la Chiesa? Perché non trattare la relazione tra la Trinità e la Chiesa invece di quella tra Gesù e la Chiesa? In quale prospettiva presentare la relazione tra Gesù e la Chiesa? Tenendo presenti le domande indicate, passo a precisare lo scopo del mio intervento, cominciando con una risposta alla terza domanda. Per Thomas Söding, professore di Nuovo Testamento nella Facoltà di teologia cattolica di Bochum, una prospettiva rilevante per il tema in questione è quella teologico-fondamentale, secondo cui la Chiesa dovrebbe sentirsi invitata a ripensare la propria relazione con Gesù di Nazaret in un esame di coscienza, fatto nella luce del Nuovo Testamento3. Ultimamente, la Chiesa dovrebbe verificarsi a partire da quanto scrive Paolo in 1Cor 3:10-11, riguardo al fondamento
2 Cfr., ad esempio, S. PIÉ-NINOT, La teologia fondamentale. «Rendere ragione della speranza» (1Pt 3,15), Brescia 20145, 493-511; molto utili sono i suggerimenti bibliografici del testo e delle note. 3 Cfr. T. SÖDING, Gesù e la Chiesa. Che cosa dice il Nuovo Testamento?, Brescia 2008. Per una lettura del volume di Söding, mi permetto di rimandare al mio studio «Pensare la relazione tra Gesù e la Chiesa. Riflessioni sulla recente ricerca di Thomas Söding», in Rassegna di Teologia 52 (2011) 133-145.
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posto da Dio, che è Gesù Cristo. Commentando il testo paolino, Söding spiega: «per l’edilizia antica il fondamento dell’edificio comprendeva pure la pianta e la statica dell’intera costruzione. Il ‘fondamento’ non solo supportava la struttura ma pure la connotava. Esso non dispensava da ulteriori interventi, ma anzi li prevedeva, li esigeva e li prescriveva. La figura architettonica traduce l’idea di fondo. Gesù non si limita a essere la causa per cui la Chiesa esiste. Nella simbologia del fondamento, Paolo intende piuttosto esprimere il concetto che la base su cui la costruzione poggia è destinata a durare nel tempo, deve continuare a supportare e a condizionare il tutto […]. Il progetto delineato da Paolo […] fa vedere chiaramente i due aspetti della Chiesa edificata su Gesù Cristo nel loro nesso reciproco e indissolubile: il fatto di esistere e il modo in cui essa esiste […]. Se è Gesù il fondamento della Chiesa, si pone immediatamente il problema del modo in cui egli lo. È la questione dei criteri: in base a che cosa si può distinguere la Chiesa vera da quella falsa, la Chiesa benedetta da quella peccatrice, la Chiesa autentica dall’inautentica? Che la Chiesa si renda infedele alla causa di Gesù purtroppo è un’esperienza dolorosa che tutte le generazioni hanno fatto e che tante voci hanno messo criticamente in evidenza»4.
L’esame di coscienza, nella direzione detta, permette di cogliere una tensione fra l’istanza di Gesù e il vissuto della Chiesa. Una tensione che, nel passato, ad esempio, hanno compreso gli ordini mendicanti di Francesco d’Assisi (1181/82-1226) e Domenico di Guzmán (1170-1221) o anche i riformatori come Martin Lutero (1483-1546). Pensando a loro e ad altri, Söding afferma che «il discorso della montagna ha rappresentato sempre una spina nel fianco e ha ispirato i criteri della reazione critica. Ma l’alternativa non fu mai quella della contrapposizione di fondo alla Chiesa, l’ideale prospettato non fu mai quello di un Gesù senza Chiesa», dal momento che «la Chiesa vagheggiata era sempre una Chiesa migliore […], più vicina a Gesù, più fedele al vangelo, più credibile agli uomini»5.
4 5
T. SÖDING, Gesù e la Chiesa, cit., 51-52. Ibid., 52.
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Tornerò dopo sulla prospettiva dell’esame di coscienza. Intanto, vorrei fare qualche considerazione sulla seconda delle mie tre domande, inerente il rapporto tra la Trinità e la Chiesa. A proposito, in continuità con il contributo di Domenico Marafioti nel seminario interdisciplinare di Napoli, vorrei sottolineare la rilevanza del mistero di Cristo per la vita ecclesiale. Giustamente, secondo Marafioti, «nessuno può separare la Chiesa dalla Trinità, perché nessuno può separare Cristo dalla Trinità, né Cristo dalla Chiesa, perché è il suo corpo […]. La Trinità forma la Chiesa per mezzo di Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo. Perciò […] come la cristologia è indispensabile per ogni teologia trinitaria, così il riferimento cristologico [… è] primario in ogni riflessione ecclesiologica»6. Desidero, con ciò, ribadire la priorità del riferimento cristologico in una riflessione sulla Chiesa che voglia pure collocarsi in un orizzonte trinitario. Tale priorità muove la mia riflessione e, quindi, la mia lettura di LG I. Tornando alla prospettiva dell’esame di coscienza, al di là delle questioni di facile richiamo, accompagnato da un atteggiamento di umiltà, esso «dovrà investire aspetti più generali ed essenziali», quali «perché Gesù e il suo messaggio assumono un carattere normativo per la Chiesa? E quale responsabilità deriva dal fatto che questa mantiene vivo il ricordo di Gesù e lo attualizza in forme sempre nuove?»; nel modo più decisivo, l’interrogativo suona: «che cosa intende per Chiesa Gesù e che cosa intende per Gesù la Chiesa?»7. Gli «aspetti generali ed essenziali», relativi all’esame di coscienza, possono essere colti in LG I, che ha l’indubbio merito di aver dato un impianto teologico — invece che apologetico e giuridico — alla relazione originaria e fondante di Gesù con la Chiesa8.
6 D. MARAFIOTI, Specificità e precedenza del riferimento cristologico nel rapporto Trinità-Chiesa, in O.F. PIAZZA (ed.), La Trinità e la Chiesa, cit., 188-189. 7 T. SÖDING, Gesù e la Chiesa, cit., 54-55. 8 Una lettura del capitolo, in tal senso, potrebbe avvalersi dell’aiuto dei commentari della costituzione. Fra questi, si vedano in particolare: P. HÜNERMANN, Theologischer Kommentar zur Dogmatischen Konstitution über die Kirche Lumen Gentium, in P. HÜNERMANN – B.J. HILBERATH (ed.), Herders Theologischer Kommentar zum Zweiten Vatikanischen Konzil, Freiburg – Basel – Wien 2004; G.
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Dal punto di vista accennato, nei limiti propri di questo contributo, non farò una lettura completa di LG I, ma, nel dialogo con Söding, mi limiterò soltanto a cogliere qualche spunto, per dare un esempio concreto di come pensare la relazione di Gesù di Nazaret con la Chiesa. 2. LA SEQUELA DEL POPOLO DEL REGNO DI DIO Per riflettere sul legame tra Gesù e la Chiesa, nella prospettiva dell’esame di coscienza, sarebbero utili molti passi di LG I. Fra questi, il riferimento alla Chiesa nata dal costato aperto di Gesù crocifisso (LG 3) oppure quello inerente l’obbligo che essa ha di seguire la via Jesu (LG 8). Di seguito, prendo spunto soltanto dal legame tra la Chiesa e la predicazione del Regno di Dio, fatta da Gesù. A riguardo, sono decisivi due passi di LG I. Anzitutto, LG 3 afferma: «Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il Regno dei cieli e ce ne ha rivelato il mistero, e con la sua obbedienza ha operato la redenzione. La Chiesa, ossia il Regno di Cristo già presente in mistero, per la potenza di Dio cresce visibilmente nel mondo». Il secondo passo è LG 5. Questo, prima, dice ciò che Gesù ha fatto per la Chiesa: «il mistero della santa Chiesa si manifesta nella sua fondazione. Il Signore Gesù, infatti, diede inizio alla sua Chiesa predicando la buona novella, cioè la venuta del Regno di Dio da secoli promesso nella Scrittura: “il tempo è compiuto, e vicino è il Regno di Dio” (Mc 1,15; cfr. Mt 4,17). Questo Regno si manifesta chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di Cristo». Successivamente, porta l’attenzione sul risvolto che l’opera di Gesù ha per la missione e per la vita della Chiesa: questa «fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il Regno di Cristo e di Dio, e di questo Regno costituisce in terra il germe e l’inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al Regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria». a) Anzitutto, con l’aiuto delle riflessioni bibliche di Söding, vorrei
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riflettere in modo ampio sui due passi della costituzione da un punto di vista biblico — che tiene conto anche dei testi evangelici menzionati nel passo di LG 5 appena citato —, al fine di cogliere gli elementi fondamentali del Regno e della sequela, ad esso connessa. Söding dà rilievo alla dimensione sociale legata al Regno. Il popolo di Dio vive del primato assoluto della Signoria divina, nel senso che trova la propria origine nella venuta di essa e si prodiga perché altri vivano in essa. Ciò significa che «da un lato Dio afferma la sua sovranità mediante Gesù (Mc 1,15), costituendo in Israele la cellula del suo Regno escatologico, dall’altro la comunità dei discepoli vive in funzione di questo Regno, che essa annuncia e attua al fine di riunire l’Israele disperso, nel raggio dunque dell’azione escatologica di Dio»9. Approfondendo, giustamente, Söding fa risaltare come quanto detto indichi in modo chiaro che «è il Regno di Dio a produrre la Chiesa, non viceversa»10 e che questa, pertanto, è un effetto salvifico della Signoria divina. In altri termini, il Regno di Dio è una realtà creatrice, perché Dio, che viene a realizzare la sua signoria, è il creatore, mentre la Chiesa è un’opera creata. Ne consegue che «il Regno di Dio è infinitamente più grande della Chiesa, e non perché nella comunità di fede non si darebbe vera grazia, fede autentica e salvezza redentrice, ma perché le possibilità di Dio sono infinitamente più grandi di tutto ciò che di bene gli uomini sono in grado di produrre con l’aiuto divino»11. Posto che il popolo di Dio esiste in quanto legato con la Signoria divina, va fatta una sottolineatura relativa al significato ecclesiologico dei detti e dei racconti della sequela (cfr. per esempio: Mc 1,16-18; Gv 1,38-39). A questa Gesù ha chiamato i discepoli, scelti per un rapporto di comunione e di condivisione con lui, in vista di mandarli per l’annuncio del vangelo, quale sale della terra e luce del mondo PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero. Storia, testo e commento della Lumen Gentium, Milano 1993 (rist.); D. VITALI, Lumen Gentium. Storia / Commento / Recezione, Roma 2012. 9 T. SÖDING, Gesù e la Chiesa, cit., 84. 10 Ibid., 93. 11 Ibid., 97.
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(cfr. Mt 5,13-16). La chiamata alla sequela caratterizza specialmente i Dodici, cerchia più intima del gruppo dei discepoli. Essi sono «uno specchio d’Israele, popolo delle dodici tribù» ed «esprimono, nelle loro persone, l’intero Israele cui Gesù intende rivolgersi»: in particolare «incarnano la speranza di un nuovo inizio, di una nuova creazione del popolo di Dio nell’imminenza dell’avvento del suo Regno»12. Il popolo della sequela, dunque, nel segno del Regno di Dio, è strutturato intorno a Gesù. Tale comunione, però, corre sempre il rischio di essere compromessa. Meditando sul vissuto dei discepoli, si può pensare, ad esempio, al pericolo costituito dalla tentazione del potere (cfr. ad es.: Mc 9,33-37) oppure a quello della mancata condivisione della sua croce (cfr. Mc 8,32-33). Le riflessioni bibliche appena fatte, nelle righe seguenti, si integreranno in una prospettiva più ampia, teologico-fondamentale, al fine di indicare meglio alcuni punti per l’esame di coscienza. b) Il primo elemento fondamentale della riflessione è la collocazione della Chiesa nell’orizzonte del Regno di Dio e, precisamente, dentro il legame, già segnalato, che corre tra il Regno di Dio, il Figlio di Dio e il popolo di Dio. Il legame, anzitutto, pone in evidenza la speranza, fondata sull’annuncio del vangelo di Dio compiuto da Gesù nella forza dello Spirito Santo (cfr. Lc 4,18). Il popolo del Regno di Dio, raccolto intorno a Gesù, dopo la sua risurrezione e il dono dello Spirito Santo, si caratterizza per il rapporto con gli apostoli, la fede vissuta insieme, la celebrazione della cena del Signore — nella quale si realizza come comunità che si radica nell’offerta che Gesù ha fatto della sua vita — e la preghiera (cfr. At 2,42). L’essere comunità orante, mediante la celebrazione liturgica e la preghiera, specialmente il Padre nostro, testimonia in modo eminente la speranza che l’attesa dell’avvento del Regno, promessa da Gesù, non deluderà. In tal modo, la Chiesa si trova rimandata al Regno di Dio, posta al suo servizio, con il compito preciso di «attestare questa eccedenza del Regno di Dio, e non soltanto in relazione al compimento degli ultimi tempi, quando Dio “sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28), ma anche
12
Ibid., 185.
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rispetto alla realtà presente, dove le vie di Dio sono infinitamente più spaziose e più varie di quelle della Chiesa»13. Dopo la speranza, nell’orizzonte del Regno, emerge l’importanza della fede in Gesù Cristo. Una fede che conserva e trasmette il ricordo credente di Gesù, mediante la predicazione del vangelo, la celebrazione dei sacramenti e il vissuto caritatevole e che, al tempo stesso, soprattutto nella celebrazione eucaristica, rende testimonianza al Crocifisso risorto, «primogenito di coloro che risuscitano dai morti» (Col 1,18). Una testimonianza, tuttavia, che sarà credibile solo se la Chiesa seguirà l’esempio di Gesù. Se, come dice LG 5, «fornita dei doni del suo fondatore», osserverà, «fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione». In altre parole, la testimonianza ecclesiale sarà credibile se la Chiesa seguirà Gesù che «ha fatto lunghi giri per arrivare ai poveri, agli affamati e agli afflitti, agli ammalati e agli ossessi, ai duri di mente e ai duri di cuore, agli empi e ai persecutori»14. Il tutto nella tensione della Chiesa verso il mondo, nella sua consapevolezza cioè di essere stata inviata fino agli estremi confini della terra, per ammaestrare le genti (cfr Mt 28:18-20). La comunità dei credenti in Gesù Cristo, in quanto inviata a tutte le genti, si trova oggi a dover affrontare, con atteggiamento di fede e di speranza, alcune sfide cruciali. Fra queste, se ne possono evidenziare due. Una riguarda la riflessione teologica, dal momento che si tratta di «elaborare un sapere teologico di tipo universale e pluralistico, capace però di capire le religioni partendo non da una relativizzazione socioculturale di Israele, di Gesù e della Chiesa, ma dallo stesso messaggio di Gesù, come già abbozzato nelle Scritture di Israele e sviluppato poi nella teologia neotestamentaria»15. L’altra tocca un punto nodale della vita concreta della Chiesa, specialmente in occidente: la missione. A proposito, in maniera provocatoria, per i cristiani, Söding nota che «se questo spirito missionario manca, manca pure la consapevolezza della propria capacità e dovere di rendere testimo-
13
Ibid., 308. Ibid., 314. 15 Ibid., 322. 14
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nianza della propria fede»; al tempo stesso, nella speranza che deriva dalla fede, egli osserva: «si può essere missionari nello spirito di Gesù solo se si è convinti che Gesù e i suoi discepoli non operano in una specie di deserto religioso, ma in un mondo […], sul quale lo Spirito di Dio ha, in un modo o nell’altro, già influito»16. L’essere per gli altri, nella comunione con Gesù e per mandato di lui, costituisce la forza della Chiesa e implica che essa si faccia piccola e grande al contempo, nel senso cioè che rimanga fedele sia al mistero della croce e sia alla sua destinazione universale. c) La sequela, dopo il Regno di Dio, costituisce il secondo elemento fondamentale che caratterizza l’identità della Chiesa. Söding la presenta nei suoi tratti strutturali, impressi da Gesù — «che devono animare le stesse istituzioni storiche, chiamate a svolgere un proprio ministero salvifico in tutta concretezza e attualità»17 — e nel contesto di alcuni problemi attuali ad essa connessi. Il primo dei tratti strutturali è il primato assoluto di Gesù, «Maestro e Signore» (Gv 13,13), inviato da Dio. Conseguentemente, chiarisce Söding, l’autorità della Chiesa deve presentarsi «nella sua reale sostanza, quindi come autorità di Gesù, del suo Signore»; tuttavia — constata con amarezza — che proprio ciò «è quello che spesso, troppo spesso, non avviene», perché «il ministero (o il ministro) viene posto al centro», con il risvolto negativo che, in tal caso, esso «ha già smarrito la sua stessa ragion d’essere, e la sua parola diventa insignificante»18. Il secondo tratto strutturale è la partecipazione dei discepoli al potere e alla missione di Gesù, nella condivisione della sua sofferenza. Le riflessioni di Söding sulla prassi della sequela, animata dalla fede, mettono a fuoco alcuni problemi attuali. Il primo riguarda la libertà. Posto che «sequela significa sentirsi vincolati a un’autorità che si riconosce per tale: quell’unica vera autorità che è Cristo», Söding osserva che «forse la paura d’impegnarsi
16
Ibid., 324. Ibid.,331-332. 18 Ibid., 334-335. 17
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nella sequela sta nel timore di perdere la propria libertà»19. Le parole di Paolo, secondo cui «Cristo ci ha liberati per la libertà» (Gal 5,1), costituiscono un richiamo alla responsabilità della Chiesa, nel senso che essa, proprio per essere fedele a Gesù, «deve essere anche il luogo in cui la libertà viene vissuta e difesa, e non solo la libertà della fede ma anche la libertà nella fede […] mai dissociata dalla legge»20. La Chiesa vivrà autenticamente la propria responsabilità, nella misura in cui riconoscerà la signoria di Gesù, ossia la sua superiorità su ogni legge, e vivificherà le lettere della legge con la forza dello Spirito Santo. A proposito, emerge, quale chiamata decisiva per la teologia nel dibattito contemporaneo, che «il compito più importante che oggi siamo chiamati ad assolvere è quello di conciliare insieme il concetto biblico di libertà e il concetto moderno di autonomia», nella convinzione di fondo che «soltanto la verità libera»21. Il secondo problema attiene la «disponibilità all’autocritica, a tutto vantaggio per lo stesso cristianesimo, che comunque acquista in umanità»22. La verifica su Gesù Cristo, fondamento posto da Dio — di cui si è parlato all’inizio — comporta, secondo Söding, anche un attento esame alla luce delle tre buone opere dell’elemosina, della preghiera e del digiuno, suggerite da Mt 6,1-6. L’ultimo problema connesso alla sequela riguarda la sua attualità. Per i vangeli, infatti, al di là del tempo trascorso in Galilea e a Gerusalemme, «sequela significa una vita di fede da vivere in conformità a Cristo, rispondendo alle continue sollecitazioni della realtà presente»23. Vivere oggi, nel discernimento, la sequela — come imitazione di Gesù Cristo, ascolto dei suoi insegnamenti e accettazione della croce — implica, come mostra bene Söding pensando su uno sfondo neotestamentario, un confronto con la “sfida decisiva” e, al tempo stesso, uno stile preciso per la missione:
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Ibid., 347. L.c. 21 Ibid., 348. 22 Ibid., 349. 23 Ibid., 354. 20
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«la stessa attività missionaria impone ai discepoli di uscire dai confini d’Israele e inoltrarsi in spazi affatto nuovi, ad andare nelle città e nei paesi dei greci e dei romani, dove vivere la propria fede, ma in modo nuovo. La sfida decisiva qui viene dal mondo, da un contesto nel quale convivono insieme tanti dèi, tanti culti e tante religioni, e dove si deve conservare la fede nell’unico Dio insieme alla fede nell’unico Signore (1Cor 8,6). La cultura ellenistica può favorire il rischio di cadere nel sincretismo, ma offre la chance di reinventare il linguaggio del vangelo, dischiudere nuove dimensioni in cui comprendere la fede in modi nuovi […]. Ciò che soprattutto ora importa è la capacità di attrazione che sono capaci di esercitare le comunità locali. La missione si afferma per fascinazione: ma sempre nella misura in cui alla base sta uno stile di vita coerente, la chiara consapevolezza del comandamento dell’amore per Dio e per il prossimo, l’ideale di una sequela di Gesù vissuta nello spirito del dopo Pasqua»24.
3. AVERE INCONDIZIONATAMENTE GESÙ CRISTO COME FONDAMENTO I punti di riferimento per l’esame di coscienza, colti nei passaggi sull’annuncio del Regno di Dio nella predicazione di Gesù, ultimamente — come è stato detto in altro modo nelle righe introduttive — hanno quale punto nodale l’invito a una verifica inerente la relazione con Gesù Cristo, fondamento posto da Dio. A riguardo, Joseph Ratzinger ha segnalato la riflessione di Agostino su una necessità della Chiesa in quanto casa di Dio: Christum habere in fundamento25. Ratzinger ha spiegato come, per Agostino, la comprensione del Cristo come fundamentum rende possibile una duplice designazione per la Chiesa: quella della civitas, della città che si innalza sul fondamento, e quella della domus. L’aggancio biblico è il passo, già prima menzionato, di 1Cor 3,1115: «nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce 24
Ibid., 355-356. Per le considerazioni che verranno fatte di seguito, mi riferisco alla lettura che J. Ratzinger fa dei passi del De Civitate Dei XXI, 21 e 26.2 in Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, Milano 1971, 253-256. 25
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con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito; tuttavia egli si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco». Di questo testo paolino si era impadronita una tendenza teologica, gli Origenisti misericordiosi. Secondo tale tendenza, ogni cattolico ha Cristo come fondamento, in opposizione agli eretici separati dall’unità della Chiesa. Chi è nella catholica ha, per ciò stesso la retta fede e, quindi, il Cristo come fondamento. Nell’elenco che discende dall’oro alla paglia è espressa l’intera gradazione all’interno della catholica che, andando dal santo fino all’ultimo peccatore, abbraccia ogni tipo di uomini. La tesi dei suddetti teologi sostiene, di conseguenza, che con la cattolicità è posto insieme il fondamento che è Cristo. Ogni cattolico, poi, è salvato indipendentemente dal suo modo di vivere, soltanto sul fondamento della sua appartenenza alla catholica. Il castigo di peccati personali di ogni tipo riguarda solo uno stadio di passaggio, non una dannazione eterna. Scrive Agostino: «affermano dunque che il cristiano cattolico, di qualsiasi tenore di vita, ha Cristo per fondamento. Nessuna eresia, troncata dall’unità del suo corpo, ha questo fondamento. Pertanto sulla base di questo fondamento, anche se il cristiano cattolico fosse di cattiva condotta perché vi avrebbe costruito sopra opere di legno, di fieno e di paglia, egli, ritengono essi, avrà la salvezza mediante il fuoco, cioè sarà liberato dopo le pene di quel fuoco col quale nell’ultimo giudizio saranno puniti i dannati»26.
Se la premessa che Cristo è fondamento soltanto mediante la retta fede, fosse stata vera, questa argomentazione sarebbe stata incontestabile. Così Agostino si sentì costretto a sottoporre questa asserzione a un nuovo esame. Partendo da una fenomenologia del fondamento, spiegò che per una cosa il fondamento è ciò a cui null’altro si ante26 AGOSTINO, La Città di Dio, III, testo latino dell’edizione maurina confrontato con il Corpus Christianorum, introduzione, traduzione e note di D. Gentili, Roma 1991, 265.
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pone. Cristo, dunque, è fondamento solo per coloro che non vi antepongono null’altro: «apprenderemo chi si può salvare mediante il fuoco se prima apprendiamo che cosa significa avere il Cristo come fondamento. Per cogliere quanto prima tale significato dall’analogia stessa, riflettiamo: nessuna struttura nell’edificio è anteposta al fondamento; quindi chiunque ha nel cuore il Cristo, in modo tale che non gli antepone gli ideali della terra e del tempo e neanche quelli che sono leciti e di consiglio, ha il Cristo come fondamento; se li antepone, quantunque sembri che abbia la fede in Cristo, non v’è tuttavia in lui il Cristo come fondamento perché gli si antepongono quegli ideali; a più forte ragione se, trascurando i comandamenti della salvezza, commette azioni immorali, si può rimproverargli che non ha anteposto ma posposto il Cristo, perché ha gettato alle spalle il suo comandamento o il suo consiglio»27.
Significativamente, Ratzinger ha concluso la segnalazione della riflessione di Agostino, notando: «si mise in evidenza che la vera comunità di Cristo non è delimitata esclusivamente dalla fede, ma che essa si dimostra veramente appartenente a Cristo solo nell’amore. Ciò che precedentemente […] era stato spiegato in modo piuttosto sacramentale, ora veniva reso visibile mettendo l’accento più fortemente sull’aspetto etico-personale anche all’interno dello stesso ambito cattolico»28. L’amore per il Signore Gesù, vissuto praticamente, insieme alla fede e alla speranza, accennate in precedenza, costituisce il nucleo per un autentico esame di coscienza che il popolo della sequela del Regno di Dio è chiamato a fare, per non correre il rischio di anteporre altro al Fondamento posto da Dio.
27 28
AGOSTINO, La Città di Dio, cit., 285. J. RATZINGER, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, cit., 254.
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MARIA NEL MISTERO DI CRISTO E DELLA CHIESA. IL CAPITOLO VIII DELLA LUMEN GENTIUM
DIONISIO CANDIDO*
INTRODUZIONE Il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) ha dedicato alla considerazione specifica della persona di Maria di Nazaret, la Madre di Dio, l’ultimo capitolo (cap. VIII) della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, promulgata il 21 novembre 1964. Qui il discorso mariologico si colloca sullo sfondo della riflessione teologica sul Figlio di Dio, Gesù Cristo nostro Salvatore, e sulla Chiesa, sacramento universale di salvezza (LG 48), ma si pone anche in dialogo con le novità culturali fuori e dentro la Chiesa emerse nella prima metà del Novecento. In questa sede, si intende indicare brevemente alcuni elementi che hanno preparato la riflessione conciliare, alcuni punti salienti di LG VIII e alcuni sentieri che il post-Concilio ha già percorso o deve ancora percorrere1. 1. LA MARIOLOGIA PRE-CONCILIARE Per non andare troppo lontano, si può cominciare a delineare alcuni segni distintivi della Mariologia pre-conciliare2 considerando *
Docente di Esegesi biblica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Per una visione sintetica ma completa, cfr. S. DE FIORES, Concilio Vaticano II, in Maria. Nuovissimo Dizionario, vol. I, Bologna 2006, 323-358. 2 Cfr. ID., Maria Madre di Gesù. Sintesi storico-salvifica, Bologna 1992, 166-187. 1
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due modelli culturali: il modello romantico dell’Ottocento e il modello antropologico del Novecento. 1.1. L’Ottocento A dispetto delle sue straordinarie promesse civili, la Rivoluzione Francese (1789) aveva lasciato strascichi di orrori terribili. Lo stesso Impero di Napoleone si rese protagonista del ritorno ad una forma di dispotismo, che sembrava fare piazza pulita degli ideali illuministici. Poco più tardi il Congresso di Vienna (1814-1815) fece ripiombare l’Europa nell’Ancien Régime. La reazione all’Illuminismo portò ad un’esaltazione del sentimento: è l’epoca del Romanticismo. In linea con la cultura di questo tempo, la Mariologia sottolinea la condizione singolare e dunque i priviliegi unici della Madre di Dio. Nel cuore dell’Ottocento si colloca poi anche la definizione del dogma dell’Immacolata concezione di Maria con la bolla di Pio IX Ineffabilis Deus (8 dicembre 1854): si evidenzia così l’unicità del ruolo giocato da Maria all’interno del piano salvifico di Dio. Intanto, la forte dimensione sentimentale presente nel culto ispira una moltiplicazione di feste e preghiere dedicate alla Madre di Dio. Non si può del resto dimenticare che l’Ottocento europeo conosce anche la comparsa di un fenomeno mariologico importante come quello delle apparizioni di Lourdes nel 1858. In ambito teologico, l’enciclica di Leone XIII Aeterni Patris (4 agosto 1879) favorisce il recupero di un’impostazione teologica neoscolastica, mentre il trattato su Maria viene ridimensionato e inserito all’interno del discorso principale sull’incarnazione del Verbo3. 1.2. Il Novecento Il Novecento è segnato a livello filosofico e culturale dalla sottoli3
Tommaso (1227-1274) dedicava a Maria undici quaestiones della Summa theologiae (Pars Tertia, qq 27-37), all’interno della trattazione cristologica sull’incarnazione. Ne emergeva la figura della “Madre di Dio”, “semprevergine”, “piena di grazia”, ma anche “non immune da peccato originale”.
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neatura del soggetto, con le sue potenzialità creative ma anche con i suoi drammi esistenziali. È infatti il secolo che ha conosciuto, tra l’altro, la tragedia di due terribili Guerre mondiali. La manualistica mariologica perpetua uno stile comune ai manuali delle discipline teologiche: la Scrittura viene citata a supporto di tesi previamente affermate. La Mariologia si sviluppa attraverso ragionamenti logici e non grazie allo scavo paziente e rispettoso della Parola di Dio. Il punto iniziale da cui si fa scaturire l’intera riflessione è la “maternità divina” di Maria: da qui in poi, il ragionamento procede secondo i principi di convenienza, di eminenza e di analogia. «Il principio di convenienza stabilisce che occorre attribuire alla Madre di Dio tutte le perfezioni che convengono alla sua dignità e al suo compito. Il principio di eminenza dichiara che bisogna concedere a Maria in modo eminente tutti i privilegi concessi ai santi. Il principio di analogia o somiglianza con Cristo dichiara che in Maria si trovano i privilegi dell’umanità di Cristo, non in modo identico, ma simile»4.
Pertanto, il dato della maternità divina — che peraltro gode di un saldo fondamento scritturistico (cfr. Mt 2,11; Lc 2,1-20) — viene letto soprattutto in vista dello status singolare della Madre di Dio. A questo proposito, non si può dimenticare la costituzione apostolica Munificentissimus Deus (1 novembre 1950) con cui Pio XII pronulga il dogma dell’Assunzione di Maria in cielo in anima e corpo5. Anche questa presa di posizione del magistero pontificio contribuisce a far sviluppare un grande fervore mariano soprattutto a livello devozionale. Inoltre, è questo il periodo in cui divengono pressanti le richieste avanzate alla Santa Sede per la definizione dogmatica di altri titoli riguardanti Maria6.
4
S. DE FIORES, Maria Madre di Gesù, cit., 174-175. Cfr. A.G. AIELLO, Sviluppo del dogma e tradizione. A proposito della definizione dell’Assunzione di Maria, Roma 1979. 6 Cfr. C. JOURNET, Maria corredentrice, Milano 1989; e i contributi presenti all’interno del volume collettivo Mary Co-Redemptrix. Doctrinal Issues Today, Goleta (CA) 2002. 5
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Di fatto, però, nel frattempo passano in secondo piano altri aspetti importanti come la storicità concreta di Maria di Nazaret ed il suo inserimento nella comunità dei discepoli. 1.3. I movimenti innovatori pre-conciliari Il pre-Concilio è stato segnato da alcune importanti spinte innovatrici7. La rinnovata centralità dell’uomo, tipica del Novecento, ha una ricaduta anche nel campo delle discipline teologiche. Nello specifico, la teologia del Novecento è anche caratterizzata da alcuni movimenti che, mentre tendono a mostrare i limiti della teologia classica, cominciano lentamente a suggerire nuove piste di riflessione. Nell’ambito degli studi biblici si mette in evidenza la fragilità di un’impostazione teologica che si serve della Bibbia, invece di fondarsi su di essa. L’esegesi critica — sostenuta da importanti documenti magisteriali come la Divino afflante Spiritu (1943) di Pio XII — indaga con rigore i testi biblici mariologici, nonché quelli cosiddetti “anti-mariologici” (cfr. Mc 3,20-21.31-35): ne emerge una figura di Maria più definita dal punto di vista storico, discepola fedele del figlio Gesù e inserita nella primitiva comunità credente. Ma anche il movimento liturgico, dal suo punto di vista, preme per una riforma invitando a tornare ad inserire Maria all’interno dell’annuncio di salvezza celebrato nella liturgia. Si richiede quindi non solo una maggiore sobrietà nel culto, ma anche che questo sia ben fondato nella tradizione liturgica. Infine, il movimento ecumenico tenta di affrontare con franchezza le spinose questioni che dividono le chiese cristiane, senza rinunciare a trattare i nodi che riguardano la Mariologia. In realtà, su questo piano la Chiesa cattolica è fatta oggetto di aspre critiche soprattutto da parte dei Protestanti. Alla Mariologia cattolica si rimprovera di essere frutto della teologia naturale, razionale; di essere troppo dipendente dalla Tradizione, giudicata come poco radicata nel dato scrittu-
7 Per una visione sintetica cfr. S. DE FIORES, Maria nella teologia contemporanea, Roma 1991, 38-107.
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ristico; e di tendere a non distinguere con sufficiente chiarezza la creatura Maria da Dio. 2. L’ELABORAZIONE DI LG VIII Le novità culturali della prima metà del Novecento e la pressione dei movimenti intra-ecclesiali si riversano più o meno consapevolmente nel Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). In particolare, nella fase preparatoria dei documenti, si registra un forte dibattito sulla corretta impostazione del discorso mariologico. Il titolo iniziale dello schema relativo al documento sulla Madre di Dio era De beata Maria virgine matre Dei et matre hominum. Approntato dalla Commissione teologica presieduta dal card. Alfredo Ottaviani e presentato ai padri conciliari il 23 novembre 1962, era stato pensato come parte integrante dello schema più ampio sul deposito della fede. Il secondo schema, pensato questa volta all’interno della trattazione sulla Chiesa, ha per titolo De Ecclesia et de beata Maria Virgine. Si contano almeno altri quattro titoli, per altrettante redazioni. «La breve discussione avvenuta sul tema della Chiesa nel primo periodo del Concilio consigliò di effettuare, più che una serie di ritocchi, una vera e propria rielaborazione. Papa Giovanni diede, il 5 dicembre 1962, alcune direttive, e la Commisione dottrinale, sotto la vigilanza della Commissione di coordinamento, istituita dal Papa il 17 dicembre dello stesso anno, si mise a lavoro. […] La Pontificia Commissione cardinalizia di coordinamento si riunì nei giorni 21-27 gennaio 1963, appunto per un esame comparativo dei vari schemi. La commissione, dopo aver discusso quanto aveva relazione con il De Ecclesia, affermò essere suo intendimento che lo schema mariano venisse trattato indipendentemente dallo schema sulla Chiesa»8.
Il 3 giugno 1963 Giovanni XXIII muore. Sarà il neoeletto pontefice, Paolo VI, a far riprendere i lavori del Concilio il 29 settembre dello stesso anno. Nella discussione dei giorni immediatamente successivi
8 G.M. BESUTTI, Lo schema mariano al Concilio Vaticano II. Documentazione e note di cronaca, Roma 1966, 43.
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molti padri conciliari — tra cui il card. Joseph Frings — mostrano il proprio dissenso per la decisione della Commissione teologica di rendere lo schema autonomo. Altri padri, tuttavia, si dicono favorevoli. Dal 22 ottobre 1963 inizia quella che fu definita “la settimana calda”, con conferenze, interventi pubblici e privati per orientare l’elettorato. Venne affidato ai cardinali Rufino Santos e Franz König di esporre le tesi pro e contro l’inserimento della trattazione su Maria all’interno del documento sulla Chiesa9. Finalmente, la votazione del 29 ottobre 1963 stabilì che il discorso su Maria venisse inserito nella trattazione sulla Chiesa. Ma al momento della votazione la vittoria dei favorevoli fu risicata: 1114 placet, 1074 non placet. L’iter del testo, tuttavia, non era ancora finito. Al testo lavorano anzitutto i padri Gérard Philips e Carlo Balic, ma bisogna passare nuovamente dalla Commissione teologica e dall’aula. Un anno dopo, il 29 ottobre 1964, si va al voto del textus emedatus: questa volta 1559 sono i voti positivi, 521 i voti favorevoli con riserva, solo 10 voti contrari e uno nullo10. Le correzioni richieste vengono recepite e il testo definitivo viene votato il 19 novembre 1964, con il seguente risultato: 2096 favorevoli, 23 contrari, 1 nullo. 3. LUMEN GENTIUM CAP. VIII Le prime parole della Costituzione dogmatica sulla Chiesa sono fondamentali anche per il discorso mariologico che verrà più tardi (cap. VIII, nn. 52-69). LG 2-4 spiega anzitutto come intendere la Storia della Salvezza: «L’eterno Padre, con liberissimo e arcano disegno di sapienza e di bontà, creò l’universo; decise di elevare gli uomini alla partecipazione della sua vita divina» (LG 2). Questo 9
Cfr. ibid., 85-92. «Il textus promulgatus tiene conto delle modifiche proposte e viene votato il 19 novembre: 2.096 placet, contro 23 non placet. I voti negativi diventano 5 il giorno della promulgazione, il 21 novembre 1964, quando Paolo VI approvando definitivamente il capitolo VIII proclama pure Maria Madre della Chiesa» (S. DE FIORES, Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa, Roma 1995, 24; cfr. anche 17 e 21-26). 10
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avviene mediante la missione del Figlio incarnato per opera dello Spirito santo (LG 3) e la santificazione della Chiesa operata dallo Spirito (LG 4). Dunque, si tratta del progetto di salvezza della Trinità a vantaggio degli uomini. Non a caso, il cap. VIII inizia — e finisce (cfr. LG 65) — con un riferimento alla Trinità: «Volendo Dio misericordiosissimo e sapientissimo compiere la redenzione del mondo, “quando venne la pienezza dei tempi, mandò il suo Figlio, nato da una donna... per fare di noi dei figli adottivi” (Gal 4,4-5), “Egli per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso dal cielo e si è incarnato per opera dello Spirito Santo da Maria vergine”11» (LG 52). La persona di Maria si inserisce da protagonista in quello che la Scrittura chiama “mistero”, cioè nella storia salvifica12 voluta dal Padre e che vede impegnata tutta la Trinità. Dopo il Proemio (LG 52-54), in cui Maria è posta in relazione a Cristo e alla Chiesa, il Concilio presenta la Storia della Salvezza in chiave mariologica secondo quattro epoche o fasi successive: il tempo dell’antica alleanza (LG 55); la pienezza dei tempi (LG 56-59); il tempo della Chiesa (LG 60-65); i tempi ultimi (LG 68-69). Senza dimenticare, peraltro, la questione pastorale del culto reso a Maria (LG 66-67). 3.1. Il tempo dell’antica alleanza L’Antico Testamento viene letto nel suo insieme alla luce dell’intera Storia della Salvezza (LG 55): è l’epoca della promessa, il tempo della preparazione alla venuta del Messia, che si incarna nel grembo della Vergine (cfr. Is 7,14; Mt 1,22-23). Dio si era scelto un popolo, a cui ha fatto conoscere le promesse e richiesto un comportamento all’altezza dell’elezione. In questo senso,
11
Simbolo Costantinopolitano (cfr. MANSI, III, 566). Cfr. J.C REY GARCÍA PAREDES, Maria nella comunità del Regno. Sintesi di Mariologia, Città del Vaticano 1997, 287-303; A. CONTRI, Santa Maria scrigno dello Spirito Santo. La Mariologia nel contesto della Storia della salvezza, Leumann (TO) 2004, 73-85. 12
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Maria è da riconoscere come l’eccelsa figlia di Sion, perfettamente inserita nella storia d’Israele, la capofila fra coloro che attendono umilmente la venuta del Salvatore. «Essa primeggia tra quegli umili e quei poveri del Signore che con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza. E infine con lei, la figlia di Sion per eccellenza, dopo la lunga attesa della promessa, si compiono i tempi e si instaura la nuova “economia”, quando il Figlio di Dio assunse da lei la natura umana per liberare l’uomo dal peccato coi misteri della sua carne» (LG 55).
3.2. La pienezza dei tempi Quando giunge la pienezza dei tempi (cfr. Gal 4,4) la promessa antica si realizza e il Figlio di Dio si fa uomo. Questo tempo vede Maria protagonista non solo per il suo “sì” nell’Annunciazione (LG 56), ma anche durante l’infanzia (LG 57) e nel tempo della vita pubblica del Figlio (LG 58). Il Concilio spiega che è Cristo a operare la salvezza: è lui l’unico e il solo Salvatore. Maria gli è intimamente unita come mater, (generosa) socia et humilis ancilla (cfr. LG 61): Maria è unita a lui, a partire dal momento della concezione verginale di Cristo fino alla morte di lui (LG 57). Chiamandola “ancella del Signore” (LG 56 e 61), il Concilio la riconosce come serva della redenzione operata dal Figlio. Questa sua condizione la mette sul piano dei fedeli che si impegnano nella missione di diffondere il Regno, anche se, quale Madre del Redentore, Maria precede di gran lunga tutte le creature (LG 53). 3.3. Dopo l’ascensione Dopo l’ascensione di Gesù, nella Pentecoste Maria si trova insieme con gli apostoli al momento di ricevere il dono dello Spirito Santo (cfr. At 1,14): torna protagonista quello Spirito conosciuto nell’Annunciazione (cfr. Lc 1,26-38). Ora, Maria può condividere definitivamente la sorte del Figlio Risorto. «La Vergine immacolata, preservata immune da ogni macchia di colpa
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originale13, finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria in anima e corpo14 e dal Signore esaltata quale regina dell’universo per essere così più pienamente conforme al figlio suo, Signore dei signori (cfr. Ap 19,16) e vincitore del peccato e della morte»15 (LG 59).
3.4. Il tempo della Chiesa Dopo aver trattato nella prima parte di LG VIII del rapporto tra Maria e il Figlio Gesù in chiave biblica, il Concilio sposta l’attenzione sul rapporto tra Maria e la Chiesa (LG 60-65). La Chiesa è la comunità dei credenti nel Crocifisso-Risorto, chiamata a vivere in piena comunione con lui e a diffonderne l’opera di salvezza. Nasce così il parallelismo tra la Chiesa e Maria, che viene considerata come madre, figura e modello della Chiesa16. Il Concilio chiarisce subito che sebbene Maria svolga una preziosa funzione materna nei confronti degli uomini (cfr. Gv 19,26), l’unica mediazione di salvezza operata da Cristo non viene affatto messa in discussione nè oscurata (LG 60). In realtà, Maria è nostra “madre nell’ordine della grazia” (LG 61), perché è stata intimamente unita al Figlio e sua disponibile collaboratrice. «La beata Vergine, predestinata fino dall’eternità, all’interno del disegno d’incarnazione del Verbo, per essere la madre di Dio, per disposizione della divina Provvidenza fu su questa terra l’alma madre del divino Redentore, generosamente associata alla sua opera a un titolo assolutamente unico, e umile ancella del Signore, concependo Cristo, generandolo, nutrendolo, presentandolo al Padre nel tempio, soffrendo col Figlio suo morente in croce, ella cooperò in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, con l’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è diventata per noi madre nell’ordine della grazia» (LG 61).
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Cfr. PIO IX, Bolla Ineffabilis, 8 dicembre 1854. Cfr. PIO XII, Cost. Apost. Munificentissimus Deus, 1° novembre 1950. 15 Cfr. PIO XII, Encicl. Ad coeli Reginam, 11 ottobre 1954. 16 Cfr. S. DE FIORES, Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa, cit., 99. 14
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Pertanto, la Chiesa invita continuamente i fedeli a porsi sotto la sua cura materna, che non è certo terminata con l’Assunzione al cielo (LG 62). Oltre che madre, Maria è anche tipo della Chiesa in chiave mistica: avendola preceduta nel tempo, ora in lei la Chiesa può specchiarsi (LG 63). «La Chiesa contemplando la santità misteriosa della Vergine, imitandone la carità e adempiendo fedelmente la volontà del Padre, per mezzo della parola di Dio accolta con fedeltà diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio. Essa pure è vergine, che custodisce integra e pura la fede data allo sposo; imitando la madre del suo Signore, con la virtù dello Spirito Santo conserva verginalmente integra la fede, salda la speranza, sincera la carità» (LG 64).
Infine, Maria è modello della Chiesa, esempio da imitare: «Maria rifulge come modello di virtù davanti a tutta la comunità degli eletti» (LG 65). Costituisce cioè un riferimento a cui tutti i fedeli cristiani possono conformare la propria vita di fede. In altri termini, all’aspetto mistico corrisponde anche quello morale di impegno concreto. Tutte queste linee di riflessione sul mistero mariologico convergono nell’ambito della liturgia celebrata dalla Chiesa. Maria è oggetto di un culto del tutto singolare, seppure sostanzialmente differente dall’adorazione che si deve al Cristo (LG 66). Pertanto, il Concilio «esorta tutti i figli della Chiesa, perché generosamente promuovano il culto, specialmente liturgico, verso la beata Vergine» (LG 67). Il culto mariano, nel contesto liturgico, è indicato come una via preferenziale per la pastorale del popolo cristiano chiamato in defintiva a glorificare la Trinità. 3.5. I tempi ultimi I tempi ultimi sono quelli del ritorno del Signore Gesù nella gloria. Maria è l’unica creatura già glorificata nell’anima e nel corpo, secondo quanto viene affermato con il dogma dell’Assunzione: per questo, è
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segno di sicura speranza e di consolazione per la Chiesa che continua a camminare nei tempi penultimi (LG 68). Ma Maria non è solo una lontana figura confortante: pur nella sua condizione beata, continua ad interessarsi dei fratelli del suo Figlio. È questa la ragione per cui il Concilio chiude la sua trattazione su Maria invocandone l’intercessione per il bene di tutti gli uomini, credenti e non credenti. «Tutti i fedeli effondano insistenti preghiere alla madre di Dio e madre degli uomini, perché, dopo aver assistito con le sue preghiere la Chiesa nascente, anche ora, esaltata in cielo sopra tutti i beati e gli angeli, nella comunione dei santi interceda presso il Figlio suo, fin tanto che tutte le famiglie di popoli, sia quelle insignite del nome cristiano, sia quelle che ancora ignorano il loro Salvatore, in pace e concordia siano felicemente riunite in un solo popolo di Dio, a gloria della santissima e indivisibile Trinità» (LG 69).
4. SGUARDO GLOBALE SU LUMEN GENTIUM CAP. VIII Il Concilio ha scelto di non definire alcun nuovo dogma riguardante la persona di Maria: tuttavia, ha saputo raccogliere la migliore tradizione dottrinale per rilanciare una pastorale più in linea con le legittime istanze del tempo attuale17. Il Concilio non ha preteso nemmeno di trattare la dottrina mariologica in modo esauriente, ma ha voluto offrire in modo nuovo e solenne una sintesi della coscienza della Chiesa sull’argomento: «È evidente che la Mariologia conciliare rappresenta un vero “progresso” in confronto ai contenuti della Mariologia precedente. In realtà, sia partendo dalla prospettiva biblica e patristica, sia da quella cristocentrica ed ecclesiologica, da quella liturgica e della storia della salvezza, come pure da quella antropologica e da una particolare sensibilità ecumenica, il testo finale del cap. VIII della Lumen gentium rappresenta un innegabile
17 Cfr. S. MEO, Concilio Vaticano II, in S. DE FIORES – S. MEO (curr.), Nuovo Dizionario di Mariologia, Cinisello Balsamo (MI) 31988, 379-394, spec. 393.
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progresso nella concezione teologica, nello stile e nello stesso linguaggio usato»18.
In questo modo il Concilio mostra di prendere le distanze dall’impostazione manualistica precedente, sentita come insufficiente e inadeguata, ed esorta ad acquisire un’impostazione più squisitamente ecclesiologica. Non ha cercato di esporre nuovi dati su Maria, ma ha voluto che il discorso mariologico fosse chiaramente inserito nel quadro della Storia della Salvezza. Il titolo stesso di LG VIII è emblematico in tal senso: “La Beata Maria Vergine nel mistero di Cristo e della Chiesa”. Si ripristina così la giusta posizione di Maria nei confronti del Cristo, senza cedere ad eccessi che finivano per collocare la Madre di Dio quasi alla stregua del Redentore. Inoltre LG VIII adotta un modello storico-salvifico che riesce a sottrarre Maria dall’isolamento e dall’astrattezza in cui era stata relegata per secoli: non è un oggetto solitario e lontano di venerazione, ma una persona viva inserita appunto “nel mistero di Cristo e nel mistero della Chiesa”. In questi due “luoghi teologici” della Storia della Salvezza, cioè del libero disegno salvifico di Dio per l’umanità, è possibile ritrovare l’immagine più genuina della Madre di Dio. 5. OSSERVAZIONE SUL POST-CONCILIO 5.1. Passi avanti In ambito mariologico, il Concilio ha aperto un’epoca di grande fermento in varie direzioni: biblica, teologica, ecumenica, spirituale, etc19. Basti pensare al nuovo sfondo ecclesiologico di una Chiesa intesa non tanto come gerarchia, ma come “popolo di Dio” (cfr. LG II). La dottrina mariana di LG VIII si è quindi inserita perfetta18 B.A.M. CALERO, La Vergine Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa. Saggio di mariologia, Leumann (TO) 1995, 147. 19 Cfr. i diversi contributi contenuti nel volume collettivo Prospettive attuali di Mariologia (Supplemento a Theotokos 2001/1), Roma 2001.
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mente nella rinnovata trattazione ecclesiologica20: la Chiesa si specchia in Maria21 per comprendere il suo ruolo di Madre, ma anche di discepola di Cristo Signore. «Questo capitolo [LG VIII] non è semplicemente l’ultimo, quasi un’aggiunta tardiva a un discorso ormai costruito e non più ripensato; nemmeno ne è il vertice, quasi il coronamento o il compimento. Si deve piuttosto parlare di sintonia profonda tra il discorso ecclesiologico e quello mariano: per il concilio, infatti, la Chiesa non è un’organizzazione e non si esaurisce nella sua struttura o nella sua attività: stabilita in un rapporto di grazia e di santità con il suo Signore, la Chiesa è una con lui al tempo stesso che si comprende come radicalmente differente da lui. In forza della sua fede, la Chiesa è comunità che ha senso solo in relazione a quel Signore con il quale tuttavia, non può mai confondersi. È a questo livello che si può intuire la profondità di rapporti tra Maria e la Chiesa: Maria è il tipo della Chiesa, è la Chiesa nella sua fisionomia personale»22.
Per il Concilio, Maria è dono di Dio per facilitare e rendere più intima la comunione degli uomini con Dio. Per questo, dopo il Concilio, anche l’azione pastorale della Chiesa non può non tenerne conto23. In un’ottica più equilibrata e serena, il post-Concilio ha visto una sorta di ripresa della riflessione teologica sulla figura di Maria in chiave ecumenica24, soprattutto tra le confessioni cattolica e prote-
20 «Dobbiamo nuovamente imparare a vedere Maria nella Chiesa e la Chiesa in Maria, perché i due misteri della nostra fede sono strettamente uniti e solo quando saremo scesi nelle profondità di questi misteri cristiani potremo felicemente conoscere in che cosa consistano il dono ricevuto e la nostra vita religiosa» (K. RAHNER, Maria e la Chiesa, Milano 1974, 12). 21 Cfr. H.U. von BALTHASAR, Maria icona della Chiesa, Cinisello Balsamo (MI) 1998. 22 G. COLZANI, Maria. Mistero e grazia di fede, Cinisello Balsamo (MI) 1996, 15. 23 Cfr. G. SPERMÀN, La vicenda postconciliare della devozione mariana: dalla ‘Marialis Cultus’ all’anno del rosario, in Credere oggi 24 (2004) 4, 7-23. 24 Cfr. S.M. PERRELLA, Non temere di prendere con te Maria (Matteo 1,20). Maria e l’ecumenismo nel post-moderno, Cinisello Balsamo (MI) 2004. Cfr. anche i diversi
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stante come nel caso del cosiddetto “Gruppo di Dombes”25. Maria ha smesso di essere motivo di divisioni aspre e costituisce oggi una occasione di dibattito più sereno e franco. «Le critiche da parte evagelica e quelle da parte ortodossa, pur muovendosi negli stessi ambiti, vanno in direzioni opposte: se per gli uni i dogmi mariani recenti dicono troppo dell’azione dell’uomo in ordine alla sua salvezza ed esaltano il ruolo della Chiesa, per gli altri essi rischiano di dire troppo poco sulla libertà umana e di mortificare con una definizione formale un patrimonio, che la Chiesa in maniera ricchissima sperimenta e celebra nella liturgia e nella spiritualità. A serena apologia della posizione cattolica si può rilevare come essa si muova tra gli estremi opposti per obbedire, anche in campo antropologico, alla verità del nucleo centrale della fede cristiana: la verità su Cristo, vero Dio e vero uomo, nell’unità della persona divina del Verbo Incarnato, unico mediatore fra Dio e gli uomini»26.
Anche gli studi esegetici, condotti insieme soprattutto da Cattolici e Protestanti sono serviti a creare un clima di collaborazione e hanno consentito di sviluppare indagini comuni su temi specifici come quelli del discepolato di Maria, della serva del Signore, dei poveri di Jhwh27. Da una Mariologia elaborata in termini razionali e poi avvalorata da alcuni testi biblici si è passati ad una Mariologia decisamente meglio
contributi del numero monografico di Concilium 1983/3 dal titolo “Maria nelle chiese”. 25 GRUPPO DI DOMBES, Maria nel disegno di Dio e nella comunione dei santi, Magnano (BI) 1998. Cfr. anche G. BRUNI, Maria nel disegno di Dio e nella comunione dei santi”. Introduzione al Documento del Gruppo di Dombes, in Theotokos 6 (1998) 223-250; J.M. HENNAUX, Le Document du Groupe des Dombes sur la Vierge Marie, in Nouvelle Revue Théologique 121 (1999) 41-58; B. SESBOÜÉ, La doctrine de l’Immaculée conception dans le Dialogue œcuménique (Groupe des Dombes et Accord LuthéroCatholique de 1999), in E. TONIOLO (cur.), Il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria. Problemi attuali e tentativi di ricomprensione. Atti del XIV Simposio Internazionale Mariologico, Roma 7-10 ottobre 2003, Roma 2004, 395-414. 26 B. FORTE, Maria, la donna del mistero. Saggio di mariologia simbolico-narrativa, Cinisello Balsamo (MI) 1989, 147. 27 Cfr. R. BERTALOT, Ecco la serva del Signore. Una voce protestante, Roma 2002.
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fondata sulla Sacra Scrittura. Non a caso la prima parte di LG VIII è dedicata a mostrare la figura di Maria in rapporto alla Bibbia, dall’Antico (n. 55) al Nuovo Testamento (nn. 56-59). Inoltre, il Concilio ha suggerito di presentare le verità — anche quelle mariologiche — credute dalla fede, sempre rispettando la gerarchia delle verità e con una metodologia di carità28. Così, la nuova sensibilità ratificata dal Concilio ha anche consentito il fiorire di pubblicazioni di Mariologia di rinnovato valore teologico in ambito cattolico29. 5.2. Sentieri aperti Quella del post-Concilio non può tuttavia definirsi un’epoca univoca: ci sono stati esempi di accelerazione sull’onda dell’entusiasmo iniziale, esempi di legittima cautela, ed esempi persino in cui sembrava prevalere la nostalgia dei laudatores temporis acti. Non si può nascondere che LG VIII sia un testo di compromesso tra la vecchia tendenza manualistica e la nuova tendenza più sensibile alle acquisizioni e alle istanze della cultura e della teologia del Novecento.
28 «La fede cattolica va spiegata con maggior profondità ed esattezza, con un modo di esposizione e un linguaggio che possano essere compresi anche dai fratelli separati. Inoltre nel dialogo ecumenico i teologi cattolici, fedeli alla dottrina della Chiesa, nell’investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con amore della verità, con carità e umiltà. Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, in ragione del loro rapporto differente col fondamento della fede cristiana. Così si preparerà la via nella quale, per mezzo di questa fraterna emulazione, tutti saranno spinti verso una più profonda cognizione e più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo (Ef 3,8)» (Unitatis Redintegratio, 17). 29 Nella manualistica teologica basti citare il caso del Mysterium salutis, che distribuisce la trattatazione mariologica tra il contributo sull’evento Cristo di A. Müller e quello sulla Chiesa di R. Laurentin. Di quest’ultimo è interessante notare il lavoro di integrazione tra la quarta edizione del 1959 e la quinta edizione del 1968 del Court Traité sur la Vierge Marie (trad. italiana, Breve trattato su la Vergine Maria, Cinisello Balsamo [MI] 71987); così come non si può non menzionare il volume La Vergine Maria. Mariologia post-conciliare, Cinisello Balsamo (MI) 1970.
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Dionisio Candido
Per questo, non sono mancati mariologi che hanno giustamente rilevato alcune piste di ulteriore sviluppo: «Si tratta almeno di tre lacune: quella pneumatologica, ossia di non piena valorizzazione dell’opera dello Spirito santo […], quella teologica, in quanto il capitolo VIII non svilupperebbe il rapporto di Maria con il Padre, e infine quella antropologico-culturale. Quest’ultima lacuna è dovuta al fatto che “lo spirito della Gaudium et spes con la sua apertura al mondo contemporaneo non ha impregnato la Lumen Gentium”, essendo la LG del 1964 e la GS dell’anno seguente»30.
Quest’ultimo aspetto sarà importante perché il mondo cattolico, pur entusiasta della nuova Mariologia emergente da LG VIII, non riuscirà a farsi a pieno interprete del cambiamento culturale della fine degli anni Sessanta, che comportava tra l’altro una rilettura del tutto nuova della figura della donna. Certamente, però, la Mariologia del terzo millennio non potrà non muovere i suoi passi dalle fondamenta gettate dal testo conciliare31. Inoltre, i decenni a venire hanno indicato una serie di piste di riflessione che sono andate ben al di là di quello che il Concilio poteva prevedere: si pensi ad esempio alla riflessione estetica della teologia contemporanea, declinata come via pulchritudinis in ambito mariologico32. All’interno della Chiesa, poi, ci si può chiedere se veramente la lettera e lo spirito di LG VIII siano filtrati nella prassi pastorale o se quest’ultima in realtà non stia ancora perpetuando alcuni cliché preconciliari nell’ambito mariologico. In questo senso, forse paradossal-
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S. DE FIORES, Maria Madre di Gesù, cit., 243. Cfr. PONTIFICIA ACADEMIA MARIANA INTERNATIONALIS, La Madre del Signore. Memoria presenza speranza. Alcune questioni attuali sulla figura e la missione della b. Vergine Maria, Città del Vaticano 2000. 32 Cfr. A. LANGELLA (cur.), Via pulchritudinis & Mariologia. Atti del II e III Convegno dell’Associazione Mariologica Interdisciplinare Italiana (AMI), S. Marinella (Roma) 3-4 novembre 2001; Roma 18-21 settembre 2002, Roma 2003; P. VANZAN, La ‘via pulchritudinis’ nella mariologia recente, in La Civiltà Cattolica 154 (2003) 3, 138144: F. MANZI, La bellezza di Maria. Riflessioni bibliche, Milano 2005. 31
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Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa
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mente, il magistero pontificio può apparire molto più conciliare e avanzato rispetto alla prassi pastorale stessa. È il caso della Marialis Cultus (2 febbraio 1974) di Paolo VI e della Redemptoris Mater (25 marzo 1987) di Giovanni Paolo II. Da una parte, la Marialis cultus riprende la qualità liturgica del culto mariano e rilancia anche una chiara attenzione antropologica; dall’altra, la Redemptoris Mater torna sul tema biblico della peregrinatio fidei di Maria di LG 58 e chiarisce la “dimensione mariana della vita dei discepoli di Cristo” (RM 45).
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CHIESA LOCALE E CHIESA UNIVERSALE
ADOLFO LONGHITANO*
Fra i principali nodi ecclesiologici che il Vaticano II era chiamato a risolvere, quello del rapporto “Chiesa locale – Chiesa universale” si presentava fra i più intricati. Com’è noto, l’ecclesiologia preconciliare era riconducibile alla concezione elaborata dalla scuola del diritto pubblico ecclesiastico, che definiva la Chiesa come una società perfetta ed ineguale, considerata in modo universalistico sul modello degli Stati: un grande territorio governato dal papa, diviso in circoscrizioni minori governati dai vescovi come suoi delegati1. Le modifiche che gli interventi dei padri conciliari avevano sollecitato nello schema presentato dalla commissione riguardavano: 1) il ricorso a categorie bibliche e patristiche per spiegare la natura e la missione della Chiesa; 2) la definizione dello statuto dei laici; 3) la ridefinizione della natura dell’episcopato e della sua potestà, tema strettamente collegato alla definizione del rapporto “Chiesa locale – Chiesa universale”2. *
Docente emerito di Diritto canonico presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catana. 1 Per lo sviluppo storico di questa concezione ecclesiologica si vedano: Y. CONGAR, Dalla comunione delle Chiese ad una ecclesiologia della Chiesa universale, in Y. CONGAR – B.D. DUPUY (cur.), L’episcopato e la Chiesa universale, trad. it., Roma 1965, 279-322; ID., L’Eglise de saint Augustin à l’époque moderne, Paris 1970; G. ALBERIGO, La Chiesa nella storia, Brescia 1988. 2 I tre progetti della costituzione sulla Chiesa sono illustrati da: G. ALBERIGO – F. MAGISTRETTI, Constitutionis dogmaticae «Lumen Gentium» synopsis historica, Bologna 1975. Una prima esposizione delle premesse storico-teologiche della Lumen
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Conosciamo le difficoltà incontrate dallo schema sulla Chiesa fin dalla sua prima presentazione (1° dicembre 1962) e il difficile travaglio che portò alla sua definitiva approvazione (21 novembre 1964)3. A fronte delle pesanti critiche rivolte da diversi settori dell’aula conciliare, apparve inevitabile redigere un nuovo schema sul quale avviare la discussione. Il testo definitivo promulgato da Paolo VI, come tutti i documenti redatti non da un soggetto individuale ma da un organismo numeroso e composito, risente dei contrasti, delle tensioni e dei compromessi raggiunti per arrivare alla sua approvazione4. Se fu particolarmente difficile il lavoro dei redattori della Lumen Gentium non presentò minori difficoltà quello degli interpreti. Il rischio maggiore, al quale andavano incontro i primi commentatori che avevano contribuito alla sua redazione, era quello di cercare nel testo conciliare la conferma delle proprie elaborazioni dottrinali. Solo con il passare degli anni fu possibile un paziente lavoro di analisi del documento, per evidenziarne gli elementi di continuità e di novità, le contraddizioni e le incongruenze, tenendo conto non solo degli Acta Synodalia, ma anche delle numerosi fonti che man mano veni-
Gentium è contenuta nel volume di G. BARAÚNA (cur,), La Chiesa del Vaticano II, trad. it., Firenze 1965, 111-274. 3 Il percorso dello schema dalla sua presentazione alla definitiva approvazione è tracciato in G. ALBERIGO (cur.), Storia del Concilio Vaticano II, II, Bologna 1996; III, Bologna 1998; IV, Bologna 1999. 4 Scrive a tal proposito K. Lehmann: «Un testo conciliare non è l’elaborato di uno studioso o di uno scienziato. Una dichiarazione conciliare ha quasi sempre di fatto un carattere compromissorio. Quantomeno, la maggior parte delle affermazioni esce da un simile processo e porta in sé le tracce del loro passaggio attraverso di esso. Si tratta spesso di compromessi anche quando ne sono seguite votazioni unanimi. In questo, risultano essere più chiare e determinate a loro modo le affermazioni e proposte avanzate da singoli esperti o da gruppi di lavoro scientifici. Ciò non rappresenta un difetto dei testi magisteriali e, specialmente, dei testi conciliari; piuttosto ne mostra, in primo luogo, la specifica particolarità — che può essere anche un punto di forza —, ma proprio per questa ragione i testi del concilio necessitano di una loro propria ermeneutica. Deve essere ben chiaro il processo attraverso il quale sono stati prodotti e sono giunti in porto e come i diversi orizzonti si sono fusi insieme» (K. LEHMANN, Concilio ecumenico Vaticano II (1962-2002): il quarto tempo, in Il Regno attualità 47 (2002) 18, 632-639.
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vano reperite: appunti, diari, corrispondenza, cronache... In definitiva si trattava del consueto lavoro critico di ricerca e di interpretazione necessario per spiegare il significato di un documento abbastanza complesso5. Gli elementi emersi da questo lavoro di ricerca e di interpretazione hanno dato un valido contributo per individuare nella Lumen Gentium gli spunti di novità introdotti dal Vaticano II e di avviare una trattazione ecclesiologica sistematica che il concilio non poteva offrire6. 1. QUALE IMMAGINE BIBLICA O CATEGORIA TEOLOGICA PER DEFINIRE LA CHIESA? La Lumen Gentium non manca di indicare e sviluppare immagini bibliche e categorie teologiche7 per facilitare una più corretta
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«In quest’ermeneutica si tratta in primo luogo di leggere i testi conciliari, e in particolare proprio quelli del concilio Vaticano II, all’interno della più ampia complessità in cui essi sono incastonati. Una ricerca e valutazione dei testi condotte solo sulla base di determinati interessi diviene, all’interno di un simile orizzonte, quasi necessariamente eclettica. Spesso i cosiddetti progressisti o conservatori citano solo frammenti e schegge di un testo. Sovente le omissioni non vengono apertamente dichiarate. Aggiunte, o anche paralleli con nuove accentuazioni, non sono tenuti in debita considerazione. In questo modo, vengono utilizzate solo affermazioni parziali, che in fin dei conti servono solo da base di appoggio per idee preconcette» (l.c.). 6 «Un concilio non può dare una soluzione sufficiente a molte delle questioni teologiche che affiorano al momento. In tutta onestà, bisogna riconoscere che questo è dovuto anche allo stato in cui si trova la teologia in ogni stagione. Per questo il concilio di Trento non fu in grado, ad esempio, di dare forma a elementi decisivi di una teologia dell’episcopato. Ma tale “limite” non può essere posto a discredito dei concili, perché questa elaborazione non è loro compito immediato, soprattutto per quanto riguarda la differenziazione fra funzione di magistero e teologia così come essa è oggi possibile e necessaria. La teologia, però, dovrebbe farsi carico con coraggio dei compiti rimasti ancora inevasi, assumendoli come responsabilità che le compete, per portarli verso una loro soluzione — come è avvenuto in ampi settori dopo il concilio Vaticano II. Per quanto riguarda tale punto, la teologia deve in parte andare oltre i testi conciliari» (l. c.). 7 L. CERFAUX, Le immagini simboliche della Chiesa nel Nuovo Testamento, in G. BARAÚNA, La Chiesa del Vaticano II, cit., 299-313; S. MAZZOLINI, Immagini, in
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comprensione della Chiesa, dopo le critiche alla nozione di societas, responsabile a giudizio della maggioranza dei padri conciliari di avere ignorato gli aspetti invisibili per evidenziare solo quelli visibili. Nelle prime battute del documento troviamo il ricorso ad una categoria teologica: «La Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). Proseguendo la trattazione, sono riferite una serie di “figure”, utili a spiegare «la rivelazione del regno»: «la Chiesa è ovile… È pure il gregge, di cui Dio stesso ha preannunziato che sarebbe il pastore… È il podere o campo di Dio… È l’edificio di Dio… La Chiesa che è chiamata “Gerusalemme che è in alto” e “madre nostra” viene pure descritta come l’immacolata sposa che Cristo ha amato…» (LG 6). Uno sviluppo maggiore viene dato ad altre immagini bibliche o patristiche: corpo di Cristo (LG 7), realtà visibile e spirituale che «formano una sola complessa realtà... per una non debole analogia paragonata al mistero del Verbo incarnato» (LG 8), popolo di Dio (LG 9-17). Non manca tuttavia il ricorso alla nozione di società: «La società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo… non si devono considerare come due realtà, ma formano una sola complessa realtà risultante di un elemento umano e di un elemento divino... Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica» (LG 8). Yve Congar, durante i lavori di preparazione del concilio, si era posto l’interrogativo: «Si può definire la Chiesa?»8. Preliminarmente faceva notare che difficilmente si poteva trovare una definizione reale per spiegare il significato del nome o per esprimere l’essenza del definito. «Più di un teologo, dopo essersi addentrato nella questione, ha concluso che la Chiesa non può definirsi se non in maniera descrittiva». Fatta questa premessa, prendeva in esame gli G. CALABRESE – PH. GOYRET – O. F. PIAZZA (cur.), Dizionario di ecclesiologia, Roma 2010, 692-704. 8 Y. CONGAR, Santa Chiesa, trad. it., Brescia 1967, 19-41. Il tema in modo molto più approfondito fu trattato a partire dal 1974 da A. DULLES, Modelli di Chiesa, trad. it., Padova 2004.
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elementi offerti da quattro nozioni elaborate dai teologi, per individuare quella che consentiva una descrizione il più possibile esaustiva: popolo di Dio, Corpo di Cristo, società, comunione. In queste quattro nozioni non troviamo quella di “sacramento di salvezza”, formulata dalla teologia di aria germanica fin dal secolo XIX9, che la Lumen Gentium menziona per prima. In sostanza la Lumen Gentium dal punto di vista metodologico sembra condividere i criteri indicati dal Congar: rinunziare ad una definizione per indicare una serie di immagini bibliche e categorie teologiche utili a descrivere la ricca e complessa realtà della Chiesa. Lo sviluppo di queste immagini non sempre è stato lineare e coerente: il concilio ha dato degli spunti, ha indicato dei percorsi; che i teologi avrebbero dovuto seguire ed elaborare in modo sistematico. La risposta alle sollecitazioni del Vaticano II fu pronta e allo stesso tempo molto articolata: gli ecclesiologi che avevano seguito il dibattito nell’aula conciliare e la revisione della costituzione incominciarono a riformulare un’immagine di Chiesa più aderente alle direttive del concilio10. Tenendo conto dell’ultima redazione della Lumen Gentium, la nozione biblica che sembrò richiamare maggiormente l’attenzione degli ecclesiologi fu quella di “popolo di Dio”, non solo per il suo riferimento biblico, ma soprattutto perché metteva in evidenza la dimensione storica ed escatologica della Chiesa: l’immagine statica di “società” era sostituita dall’immagine dinamica di un popolo, chiamato da Dio, che cammina nella storia per giungere alla salvezza11. Non mancò, tuttavia, chi fece notare che si trattava di 9
J. H. OSWALD, Die dogmatische Lehere von den heiligen Sakramenten der katholischen Kirche, Münster 18942, O. SEMMELROTH, Die Kirche als Ursakrament, Francoforte s. M. 1953, E. SCHILLEBEECKX, Christus sacrament van de Godsontmoeting, Bilthoven 1959. 10 Fra i testi elaborati da coloro che avevano contribuito alla stesura della Lumen Gentium si vedano: G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, trad. it., 2 vol., Milano 1969; G. BARAÚNA (cur.), La Chiesa del Vaticano II, cit. 11 Sulla nozione biblica e sull’approfondimento di «popolo di Dio» esiste una letteratura molto ampia. Ci limitiamo a dare qualche indicazione degli studi più significativi e più accessibili: R. SCHNACKENBURG, La Chiesa nel Nuovo Testamento, trad. it., Roma 1968, 160-168; Y. CONGAR, La Chiesa come popolo di Dio, in Concilium
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una visione per molti aspetti analoga a quella di societas, che evidenziava gli aspetti umani e visibili a scapito di quelli divini e invisibili e proponeva di integrarla con le nozioni bibliche “corpo di Cristo” o “tempio dello Spirito”12. L’allegoria “corpo di Cristo”, che nel 1943 aveva offerto lo spunto a Pio XII per l’enciclica Mystici Corporis, non fu trascurata dagli ecclesiologi13, che tuttavia si resero conto dell’ottica diversa con cui 1 (1965) 1,19-43; O. SEMMELROTH, La Chiesa nuovo popolo di Dio, in G. BARAÚNA (cur.), La Chiesa del Vaticano II, cit., 439-452; P. MOLINARI, L’indole escatologica della Chiesa peregrinante e i suoi rapporti con la Chiesa celeste, ibid., 1113-1133; J. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, trad. it., Brescia 1971; J. HOFFMANN, Ecclesiologia, in Iniziazione alla pratica della teologia, trad. it., II, Brescia 1986, 129-134; J. WERBICK, La Chiesa. Un progetto ecclesiologico per lo studio e per la prassi, trad. it., Brescia 1998, 109-209; S. PIÉ-NINOT, Ecclesiologia. La sacramentalità della comunione cristiana, trad. it., Brescia 2008, 156-161; W. KASPER, Chiesa cattolica: essenza, realtà, mistero, trad. it., Brescia 2012, 196-207. Le discussioni verificatesi durante il concilio sull’opportunità di recepire questa nozione nella Lumen Gentium e le vicende per la formulazione del testo sono riportate in A. ACERBI, Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella «Lumen Gentium», Bologna 1975, 216-238. 12 Giustamente fa notare il Ratzinger: «Il concilio ha ripreso e ripetutamente sottolineato il concetto di popolo di Dio. Benché l’insieme dei primi due capitoli della Lumen Gentium costituisca una sintesi accuratamente equilibrata dei fondamentali elementi ecclesiologici [...] già lì non è stato sufficientemente messo in luce l’imprescindibile, intimo rapporto del concetto di popolo di Dio con quello di Corpo di Cristo. Nella pubblicistica conciliare, poi, la nuova strutturazione del testo, formatasi con l’incorporazione del secondo capitolo, apparve quasi una completa disdetta del concetto di Corpo di Cristo e quindi come il passaggio ad una concezione non più cristologica, ma ampiamente sociologica. La crescita sproporzionata di singoli elementi culturali più rispondenti alla coscienza comune ha portato, quindi, negli anni seguenti al concilio, al quasi totale soffocamento dell’aspetto cristologico nella comprensione della Chiesa. È prevalsa una banalizzazione del concetto del popolo di Dio, opporsi alla quale può sembrare oggi pressoché impossibile» (J. RATZINGER, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, trad. it., Milano 1971, XV). Per la trattazione sistematica della sua concezione ecclesiologica si veda J. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, cit. 13 G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, cit., I, 99-106; L. BOUYER, La Chiesa di Dio corpo di Cristo e tempio dello Spirito, trad. it., Assisi 1971, 317-352; J. WERBICK, La Chiesa, cit., 329-376; S. PIÉ-NINOT, Ecclesiologia, cit., 162-168; W. KASPER, Chiesa cattolica, cit., 207-215.
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era stata presentata dal concilio: «L’immagine paolina del corpo di Cristo — tanto ambiguamente enfatizzata in precedenza — è utilizzata anche dal Vaticano II, ma nel contesto della ricca e complessa articolazione delle immagini bibliche della Chiesa, che ne esaltano la varietà di aspetti e di componenti»14. Alla categoria teologica “sacramento di salvezza” fu prestata una particolare attenzione15, perché ritenuta idonea a spiegare il nesso esistente fra gli aspetti visibili e invisibili e perché all’interno della categoria teologica del “sacramento” consentiva di leggere in modo unitario — ma con accentuazioni diverse — il mistero di Cristo, la Chiesa e gli strumenti a lei affidati per continuare la sua opera di salvezza. Non fu sottovalutata la nozione biblico-teologica di communio16, soprattutto in occasione del sinodo straordinario dei vescovi del 1985, nella cui relazione finale si legge: «L’ecclesiologia di comunione è l’idea centrale e fondamentale nei documenti del concilio»17. Il Vaticano II non ha abbandonato del tutto la nozione di societas18. 14
G. ALBERIGO (cur.), Storia del Concilio Vaticano II, IV, Bologna 1999, 649-650. P. SMULDERS, La Chiesa come sacramento di salvezza, in G. BARAÚNA (cur.), La Chiesa del Vaticano II, 363-683; G. CANOBBIO, La Chiesa come sacramento di salvezza: una categoria dimenticata?, in M. VERGOTTINI (cur.), La Chiesa e il Vaticano II. Problemi di ermeneutica e riflessione conciliare, Milano 2005, 115-181; S. PIÉ-NINOT, Sacramentalità, in Dizionario di ecclesiologia, cit., 1243-1255. 16 P. C. BORI, Koinonia. L’idea della comunione nell’ecclesiologia recente e nel Nuovo Testamento, Brescia 1972;Y. CONGAR, Diversità e comunione, trad. it., Assisi 1983; S. PIÉ-NINOT, Ecclesiologia, cit., 269-303; W. KASPER, Chiesa cattolica, cit., 318461; G. CALABRESE, Comunione, in Dizionario di ecclesiologia, cit., 268-288. 17 SINODO DEI VESCOVI, La Chiesa, nella parola di Dio, celebra i misteri di Cristo per la salvezza del mondo, in EV 9/1779-1818: 1800; G. COLOMBO, La rilettura del Concilio Vaticano II: il sinodo 1985, in S. NOCETI – G. CIOLI – G. CANOBBIO (cur.), «Ecclesiam intelligere». Studi in onore di Severino Dianich, Bologna 2012, 251-264. 18 LG 8: «La società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale […] formano una sola complessa realtà». «Questa Chiesa, in questo mondo costituita come una società, sussiste nella Chiesa cattolica […]». LG 14: «Sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano integra la sua struttura e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti [...]». LG 20: «Per questo gli apostoli, in questa società gerarchicamente ordinata, ebbero cura di costituirsi dei successori». 15
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Nelle trattazioni del post concilio non mancano i nostalgici che prendono spunto da alcuni passaggi della Lumen Gentium per sostenere la validità dell’ecclesiologia societaria del diritto pubblico ecclesiastico19. Altri invece vedono nella socialità della Chiesa l’elemento che permette al mistero di Cristo di manifestarsi visibilmente e storicamente20. Di solito chi ha accolto l’invito del concilio a sviluppare una ecclesiologia più aderente al dato biblico e patristico mostra di essere consapevole che nessuna immagine di Chiesa da sola può spiegare pienamente il suo mistero. Si nota, perciò, la tendenza a non lasciarsi condizionare eccessivamente da una sola categoria formale per poter cogliere le molteplici suggestioni derivanti dalla Scrittura, dai Padri e dalla tradizione. Nella valutazione delle novità introdotte in ecclesiologia dal Concilio Vaticano II più volte è stata adoperata l’espressione “rivoluzione copernicana”21. Questo giudizio non poteva riferirsi alle immagini bibliche e patristiche proposte dalla Lumen Gentium nel capitolo primo. Si tratta di spunti in grado di aprire nuove prospettive, ma non di provocare un capovolgimento nella dottrina corrente. Infatti alcuni autori nei propri scritti di ecclesiologia si limitarono a citare le immagini della costituzione senza coglierne la spinta innovativa. Ritengo invece che un vero capovolgimento si sia verificato riguardo a due decisioni: a) la trattazione del tema «Il popolo di Dio» nel secondo
19
U.E. LATTANZI De Ecclesia societate atque mysterio, Roma 1969. S. PIÉ-NINOT, Ecclesiologia, cit., 587-601. 21 «Ho anticipato gli avvenimenti per illustrare quella specie di rivoluzione copernicana che fu introdotta nel testo quando collegialità e sacramentalità furono collegate fra loro in modo esplicito» (C. MOELLER, Il fermento delle idee nella elaborazione della costituzione, in G. BARAÚNA [cur.], cit., 155-189: 170). «On a dit que se texte [SC 41] était révolutinnaire; qu’il avait opéré une révolution copernicienne, puisque désormais ce n’est plus l’Église locale qui gravite autour de l’Église universelle, mais l’Église unique de Dieu en Jésus-Christ qui se trouve présente dans chaque célébration de l’Église locale par l’action continuelle de l’Esprit Saint» (E. LANNE, L’Église locale et l’Église universelle, in Irénikon, 43 [1970] 481-511: 490). La considerazione di Lanne è ripresa e fatta propria da Y. CONGAR, Implicazioni cristologiche e pneumatologiche dell’ecclesiologia del Vaticano II, in G. ALBERIGO (cur.), L’ecclesiologia del Vaticano II: dinamismi e prospettive, Bologna 1981, 97-110: 104. 20
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capitolo, prima di sviluppare nel terzo quello sulla gerarchia; b) la decisione — maturata durante la discussione sulla collegialità episcopale e sulla natura della potestà dei vescovi — di far proprie alcune suggestioni dell’ecclesiologia eucaristica, che hanno permesso di affermare la piena manifestazione del mistero di Cristo nella Chiesa locale. 2. «VIGE FRA TUTTI UNA VERA UGUAGLIANZA RIGUARDO ALLA DIGNITÀ E ALL’AZIONE COMUNE A TUTTI I FEDELI PER L’EDIFICAZIONE DEL CORPO DI CRISTO» La scelta di invertire i temi contenuti nel secondo e nel terzo capitolo non fu dettata da considerazione di natura formale, ma da una precisa motivazione teologica22. Se la scuola del diritto pubblico ecclesiastico partendo dalla gerarchia, costituita dal sacramento dell’ordine, poteva affermare come principio di natura costituzionale che la Chiesa è una società perfetta e ineguale, perché formata dalla gerarchia che dispone della potestà e dai laici che le sono sottomessi23, Lumen Gentium 32, partendo dai fedeli cristiani che entrano a far parte del popolo di Dio con il battesimo, poteva introdurre il principio dell’uguaglianza sostanziale di tutti i battezzati, riguardo alla dignità e all’azione comune, e della diversità funzionale derivante dai carismi e dai ministeri24.
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«L’utilità di trattare il tema del Populus Dei prima di quello della gerarchia si rivelò chiaramente solo dopo che fu accettato il titolo del capitolo sui laici: “Del popolo di Dio e specialmente dei laici”. La scelta del titolo “Il popolo di Dio, etc.” fece vedere abbastanza presto che in questo popolo convocato da Dio sono compresi tutti i battezzati, chierici e laici; ricompariva così una nuova dimensione ecclesiologica, forse la più antica dal punto di vista biblico» (C. MOELLER, Il fermento delle idee, cit., 175). 23 A. OTTAVIANI, Institutiones iuris publici ecclesiastici, I, Typis Poliglottis Vaticanis 1958, 1-27; 39-70; 347-357; E. CORECCO, Il rinnovo metodologico del diritto canonico, in La Scuola Cattolica 94 (1966) 3-35. 24 E. HAMEL, Aequalitas fundamentalis omnium christifidelium in Ecclesia secundum Concilium Vaticanum II, in Periodica 56 (1967) 246-266; P.J., VILADRICH, La distinzione essenziale: sacerdozio comune – sacerdozio ministeriale e i princìpi di uguaglianza e di diversità nel diritto costituzionale canonico moderno, in Il Diritto
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O. Rousseau, scrivendo su questo argomento subito dopo la promulgazione della Lumen Gentium, faceva notare: «L’aver fatto precedere il capitolo della gerarchia da quello relativo al popolo di Dio, è un indice importante del desiderio di riequilibrare le diverse categorie dei fedeli, poiché tutti, in virtù del loro battesimo, fanno parte fondamentalmente del popolo di Dio, prima ancora di partecipare ad ogni altro grado. Allineamento molto chiaro della dottrina su ciò che si è convenuto di chiamare, nelle tendenze contemporanee, col termine un po’ duro di “sclericalizzazione”»25.
Dal superamento della concezione della Chiesa come società ineguale deriva un’altra conseguenza particolarmente rilevante: il diritto canonico non si fonda sull’imperium, che solo l’autorità ecclesiastica può esercitare sui laici. Si tratta di una concezione più vicina al positivismo giuridico che alla dottrina scolastica del diritto naturale26. Se la Chiesa è concepita come comunità di fedeli, nei quali l’uguaglianza sostanziale nella dignità e nell’azione si coniuga con la diversità funzionale dei carismi e degli uffici, il diritto appare come un “ordine necessario”, costitutivo della stessa comunità ecclesiale. Giovanni Paolo II nel 1983, promulgando il Codice di diritto canonico, invita a ricerca il diritto nella natura stessa della Chiesa, così com’è stata delineata dal Concilio Vaticano II27.
Ecclesiastico 83 (1972) 119-157; F. RETAMAL, La igualdad fundamental de los fieles en la Iglesia según la constitución dogmática «Lumen gentium», Santiago de Chile 1980; BONNET P.A., Il «christifidelis» recuperato protagonista umano nella Chiesa, in R. LATOURELLE (cur.), Vaticano II: bilancio e prospettive venticinque anni dopo 19621987, I, Assisi 1987, 471-492; J. FORNÉS, El principio de igualdad en el ordenamiento canónico, in Fidelium Iura 2 (1992) 113-144. 25 O. ROUSSEAU, La Costituzione nel quadro dei movimenti rinnovatori di teologia e di pastorale degli ultimi decenni, in G. BARAÚNA (cur.), La Chiesa del Vaticano II, cit., 111-130: 117. 26 A. LONGHITANO, Il diritto nella realtà ecclesiale, in GRUPPO ITALIANO DOCENTI DI DIRITTO CANONICO, Il diritto nel mistero della Chiesa, I, Roma 1995, 79-150. 27 «Se la Chiesa-corpo di Cristo è compagine organizzata, se comprende in sé detta diversità di membra e di funzioni, se “si riproduce” nella molteplicità delle Chiese particolari, allora tanto fitta è in essa la trama delle relazioni che il diritto c’è
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3. DALL’APPROFONDIMENTO DELLA NATURA DELL’EPISCOPATO ALLA RISCOPERTA DELLA TRADIZIONE PATRISTICA SU CHIESA LOCALE E CHIESA UNIVERSALE Dall’esame dei vari schemi della costituzione De Ecclesia, che si sono succeduti durante la celebrazione del Vaticano II, si deduce che non era prevista una trattazione autonoma della Chiesa locale28. Il rapporto “Chiesa locale – Chiesa universale” è affrontato all’interno del tema della collegialità episcopale per determinare la natura della potestà dei vescovi in relazione a quella del papa. Perciò leggiamo in LG 23: «I vescovi, singolarmente presi, sono il principio visibile e il fondamento dell’unità nelle loro Chiese particolari, formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali e a partire dalle quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica. Perciò i singoli vescovi rappresentano la propria Chiesa, e tutti insieme col Papa rappresentano tutta la Chiesa nel vincolo di pace, di amore e di unità».
Sempre all’interno del cap. III della Lumen Gentium, al n. 26, quando si affronta il tema della funzione di santificare del vescovo, troviamo un altro brano che illustra il rapporto “Chiesa locale – Chiesa universale” con un linguaggio desunto dalla ecclesiologia eucaristica: «Questa Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime assemblee locali di fedeli, le quali, aderendo ai loro pastori, sono anch’esse chiamate Chiese nel Nuovo Testamento. Esse infatti sono, nella loro sede, il popolo nuovo chiamato da Dio, nello Spirito Santo e in una totale
già, non può non esserci. Parlo del diritto inteso nella sua globalità ed essenzialità, prima ancora delle specificazioni, derivazioni o applicazioni di ordine propriamente canonico. Il diritto, pertanto , non va concepito come un corpo estraneo, né come una sovrastruttura ormai inutile, né come un residuo di presunte pretese temporalistiche» (Nuntia [1983], 17, 85). 28 B. NEUNHEUSER, Chiesa universale e Chiesa locale, in G. BARAÚNA (cur.), La Chiesa del Vaticano II, cit., 616-642; A. ACERBI, Due ecclesiologie, cit., 361-404; G. ALBERIGO – F. MAGISTRETTI, Constitutionis dogmaticae, cit.
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pienezza (cfr. 1 Ts 1,5)… In queste comunità, sebbene spesso piccole e povere o che vivono nella dispersione, è presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Infatti “la partecipazione del corpo e del sangue di Cristo altro non fa, se non che ci mutiamo in ciò che prendiamo”».
Per avere una visione completa degli interventi del Vaticano II sull’argomento non possiamo ignorare Sacrosanctum Concilium 41, che prelude a LG 26: «La principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dal suo presbiterio e dai ministri»,
e la definizione di Chiesa locale che troviamo in Christus Dominus 11: «La diocesi è una porzione del popolo di Dio, che è affidata alle cure pastorali del vescovo coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore e da lui unita per mezzo del vangelo e della Eucaristia nello Spirito santo, costituisca una chiesa particolare, nella quale è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica».
In questi brani dei documenti conciliari è possibile individuare gli elementi che serviranno a tratteggiare una nuova concezione della Chiesa locale e della Chiesa universale, in grado di superare la visione universalistica, affermatasi con il processo di centralizzazione romana a partire dalla crisi feudale e teorizzata successivamente dalla scuola del diritto pubblico ecclesiastico29. a) La Chiesa locale La definizione di Christus Dominus 11 ci presenta la diocesi (o
29
Y. CONGAR, L’Eglise de saint Augustin à l’époque moderne, cit., 90-122; 455-458.
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Chiesa locale) come una «porzione del popolo di Dio». Mentre nella prima stesura del testo conciliare si diceva semplicemente: «la diocesi è una parte del popolo di Dio», in seguito alle osservazioni dei padri si preferì il termine “porzione”, che a prima vista potrebbe essere ritenuto sinonimo di “parte”; esso, invece, è stato introdotto per escludere l’idea di frammentazione, in sintonia con LG 2330. Inoltre il termine va spiegato nel contesto di tutta la definizione di diocesi: se si afferma che in questa porzione del popolo di Dio «veramente e pienamente opera l’unica, santa, cattolica e apostolica Chiesa di Cristo» è chiaro che non si tratta di una frammentazione, perché in realtà in essa c’è il mistero nella sua pienezza. Il brano di Christus Dominus nella sua definizione di Chiesa locale contiene aspetti dinamici e aspetti statici. Inizialmente viene indicato un percorso che fa diventare “di Dio” il popolo che costituisce la comunità: è stato riunito da un pastore per mezzo del Vangelo, nello Spirito Santo, mediante l’Eucaristia. Questo percorso sembra chiudersi con un’immagine statica della comunità: la porzione di popolo di Dio, che condivide ormai i “beni” di una comunione umana e divina, è affidata alle cure pastorali di un vescovo coadiuvato dal suo presbiterio. Riprende però l’aspetto dinamico, perché il popolo nella
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Nel primo schema del decreto Christus Dominus così veniva definita la diocesi: «Dioecesis est pars quaedam dominici gregis quae Episcopo concreditur, cum adiutorio sui presbyterii pascenda eum in finem ut supernaturaliter ipsa vivat, crescat atque fructificet, imaginem referens unius sanctae catholicae et apostolicae Christi Ecclesiae» (Acta synodalia sacrosancti Concilii oecumenici Vaticani II, III/II, Typis Polyglottis Vaticanis 1974, 26). Questa definizione a molti sembrò alquanto povera di contenuti e inadeguata per esprimere la realtà della Chiesa particolare. Anzitutto si fece notare che l’espressione «pars quaedam dominici gregis» poteva far credere che la Chiesa particolare fosse un frazionamento quantitativo della Chiesa universale. Inoltre la mancanza di riferimenti agli elementi divini che la costituiscono poteva perpetuare l’immagine della Chiesa-società che differisce da analoghe realtà umane solo per il fine soprannaturale che si prefigge (vedi in questo stesso volume degli Acta synodalia gli interventi alle pagine 228, 245, 248-249, 273-274, 386, 413, 414-417, 439, 458). Il nuovo testo preparato dalla commissione, che con qualche variante sarà quello definitivo, deve essere interpretato alla luce delle modifiche suggerite dai padri conciliari e secondo le indicazioni contenute nella relazione con cui è presentato all’assemblea.
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logica della comunione deve aderire al suo pastore in modo che sia veramente presente, si manifesti e agisca la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica31. Gli elementi che costituiscono la Chiesa locale non sono tutti indicati in modo esplicito nel testo conciliare. Il concetto di “popolo di Dio” presume delle persone, che vivono in un territorio e sono contraddistinti da una determinata cultura. Cultura e fede in questo necessario rapporto non si identificano, ma insieme danno vita alla particolare esperienza di fede di una comunità cristiana32. La Chiesa locale così configurata ha una propria identità e si presenta in un luogo come il soggetto dell’azione salvifica di Cristo. La nozione di soggetto ci richiama quella di persona e indica allo stesso tempo: un’autonomia aperta alla relazione interpersonale, un centro di imputazione e di responsabilità che, pur distinguendosi dagli altri, deve rapportarsi con gli altri. La Chiesa locale, in quanto assemblea di fedeli riuniti per formare nello Spirito il Corpo di Cristo
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E. LANNE, Chiesa locale, in S. GAROFALO (cur.), Dizionario del Concilio ecumenico Vaticano Secondo, Roma 1969, 796-826; J.J. VON ALLMEN, L’Église locale parmi les autres Églises locales, in Irenikon 43 (1970) 512-537; H. M. LEGRAND, Nature de l’Église particulière et rôle de l’évêque dans l’Église, in La charge pastorale des évêques, Paris 1969, 103-113; ID., La realizzazione della Chiesa in un luogo, in B. LAURET – F. REFOULÉ (cur.), Iniziazione alla pratica della teologia, trad. it., II, Brescia 1986, 147-185; O. GONZÁLEZ DE CARDEDAL, Genesi di una teologia della Chiesa locale dal Concilio Vaticano I al Concilio Vaticano II, in H. M. LÉGRAND – J. MANZANARES – A. GARCÍA Y GARCÍA (cur.), Chiese locali e cattolicità. Atti del Colloquio internazionale di Salamanca (2-7 aprile 1991), trad. it., Bologna 1994 2761; M. SEMERARO, Chiesa locale, in Dizionario di ecclesiologia, cit., 2010, 145-158. 32 C. MOELLER, La promozione della cultura, in G. BARAÚNA (cur.) La Chiesa nel mondo di oggi, Firenze 1966, 372-427; I. MANCINI – G. RUGGIERI, Fede e cultura, Torino 1979; D. VALENTINI, Il nuovo popolo di Dio in cammino. Punti nodali per una ecclesiologia attuale, Roma 1984, 49-68. Sul tema acquista una particolare rilevanza il documento della COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Fede e inculturazione del 1988 (EV 11/1347-1424), che parte da due considerazioni fondamentali: 1. La trascendenza della rivelazione in rapporto alle culture nelle quali essa si manifesta; 2. l’urgenza dell’evangelizzazione delle culture. Si veda inoltre il numero di Concilium 30 (1994) 1, che affronta il tema: «Cristianesimo e culture: un arricchimento reciproco?».
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ha una propria soggettività, che deve essere intesa nelle due dimensioni dell’autonomia e della comunione33. b) La Chiesa universale Poiché la Chiesa iniziò a Gerusalemme (At 1-2), ma trovò nuove adesioni in Giudea, in Samaria, ad Antiochia e «fino ai confini della terra» (At 1, 8), è necessario spiegare il senso di questo avvenimento che accade contemporaneamente in diversi luoghi. Nel singolo luogo infatti è sempre lo stesso mistero di Cristo che si rende visibile nella storia; si moltiplicano solo le manifestazioni esterne. Nonostante le distanze, le diversità di linguaggio e di cultura, tutti i credenti in Cristo formano un solo corpo. Si pone così una distinzione fra la Chiesa che manifesta lo stesso mistero di Cristo in un determinato luogo e la Chiesa nel suo insieme, che comprende tutti i battezzati e deve manifestare nel mondo il mistero di Cristo. Fra queste due nozioni di Chiesa troviamo punti di convergenza e diversità: ma si tratta sempre dell’unico evento di salvezza che si manifesta nella storia dell’uomo. Il ricorso alle categorie proprie dell’ecclesiologia eucaristica, che troviamo in SC 41 e in LG 26, ci aiuta a comprendere questa duplice nozione di Chiesa. Ogni comunità eucaristica, qualunque sia il luogo in cui si riunisce, non manifesta solo una parte ma la totalità del mistero di Cristo; pertanto nel singolo luogo si ha una concretizzazione dell’universale. “Locale” e “universale” non possono essere considerati due termini contrapposti in senso quantitativo, perché entrambi si riferiscono al mistero di Cristo nella sua pienezza. La reciproca inerenza delle due realtà si deduce invece da LG 23: «nelle quali e dalle quali sussiste la sola e unica Chiesa cattolica». Nessuno dei due elementi dell’espressione usata dal concilio — «nelle
33 Y. CONGAR, L’«Ecclesia» ou communauté chrétienne, sujet intégral de l’action liturgique, in La liturgie après Vatican II, Paris 1967, 16-282; G. THILS, La communauté ecclésiale sujet d’action et sujet de droit, in Revue Theologique de Louvain 4 (1973) 443-468; H. M. LEGRAND, Lo sviluppo di Chiese-soggetto: un’istanza del Vaticano II. Fondamenti teologici e riflessioni istituzionali, in G. ALBERIGO (cur.), L’ecclesiologia del Vaticano II, cit., 129-163.
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quali» e «dalle quali» — da solo può rendere ragione del mistero della Chiesa. Se considerassimo solo «nelle quali» la singola Chiesa locale esaurirebbe il mistero di Cristo e la Chiesa universale diventerebbe o una realtà evanescente o una federazione di Chiese particolari, che si unificano consensualmente in un secondo momento entro una struttura universale. Se considerassimo, invece, solo «dalle quali» la Chiesa locale verrebbe a perdere ogni consistenza per essere ritenuta una circoscrizione amministrativa della Chiesa, concepita come una grande e unica diocesi. Il concilio ci invita, pertanto, a considerare contemporaneamente i due elementi: la sola e unica Chiesa cattolica per un verso è il risultato della comunione delle singole Chiese locali, per un altro verso sussiste in ciascuna di esse. Proprio perché la singola comunità realizza il mistero di Cristo nella sua apertura universale, essa dice legame essenziale a tutte le altre realizzazioni dello stesso mistero. È un’esigenza costitutiva della sua stessa natura, allora, realizzare la comunione con le altre comunità esistenti nel mondo (LG 13). Da ciò la qualifica di “cattolica” data anche alla singola Chiesa locale che, senza esaurire il mistero di Cristo, lo rappresenta, tuttavia, “secondo il tutto”. Questa dottrina, che possiamo dedurre dai documenti conciliari citati, ci permette allo stesso tempo di superare sia la concezione di una Chiesa locale concepita come parte di un tutto, sia quella di una Chiesa universale intesa come somma o confederazione di Chiese locali. Il ricorso al vincolo di comunione che unisce tutte le Chiese è in grado di farci comprendere che cos’è la Chiesa universale e come si deve concepire il suo rapporto con le Chiese locali34. 34 B. NEUNHEUSER, Chiesa universale e Chiesa locale, cit.; E. LANNE, L’Église locale et l’Église universelle, cit.; A. NOCENT, La Chiesa locale, realizzazione dell’«Ecclesia Christi» e sede dell’Eucaristia, in G. Alberigo – J. P. Jossua (cur.), Il Vaticano II e la Chiesa, Brescia 1985, 289-307; G. J. BÉKÉS, L’Eucaristia fa la Chiesa, in R. LATOURELLE (cur.), Vaticano II, cit., II, 825-838; J. M. R. TILLARD, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Brescia 1989; D. VALENTINI, Chiesa universale e Chiesa locale: un’armonia raggiunta?, in M. VERGOTTINI (cur.), La Chiesa e il Vaticano II, cit., 183-239; D. VITALI, Chiesa universale e Chiesa locale: un’armonia raggiunta?, ibid., 241-278; M. SEMERARO, Chiesa universale, in Dizionario di ecclesiologia, cit., 168-181; C. GIRAUDO, Eucaristia e Chiesa, ibid., 644-659. Il confronto critico fra lo sviluppo
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Come si è visto, riflettendo sulla svolta ecclesiologica del Concilio Vaticano II in tema di Chiesa locale e di Chiesa universale, alcuni autori hanno ritenuto di trovarsi dinanzi ad una “rivoluzione copernicana”. Il rilievo va riferito più allo sviluppo potenziale dei testi presi in esame, che all’immagine di Chiesa sottesa nei documenti del concilio. Nel Vaticano II prevale una concezione universalistica della Chiesa, ma gli elementi di novità introdotti durante la revisione degli schemi erano in grado di capovolgere l’ecclesiologia tradizionale. Il testo più significativo di LG 26 fu inserito nell’ultima redazione della costituzione e i padri conciliari non sembra abbiano compreso la sua forza innovativa; a giudizio di Acerbi «appare un masso erratico in un capitolo dominato da una considerazione universalistica dell’episcopato»35. Per avviare una trattazione sistematica sulla Chiesa locale e la Chiesa universale, più che ai documenti del Concilio Vaticano II gli autori hanno attinto agli scritti dei padri e alla ecclesiologia orientale che da tempo aveva approfondito questo tema. Non sono mancate le analisi del linguaggio adoperato dai testi conciliari, che hanno messo in evidenza discontinuità e contraddizioni; per questo motivo gli stessi documenti del magistero e il Codice di diritto canonico, che a volte citano il Vaticano II in modo acritico, non sempre aiutano a fare chiarezza. 4. ALLA RICERCA DI UN LINGUAGGIO COERENTE Il problema di adoperare un linguaggio adeguato e coerente per indicare con il nome di “Chiesa” sia l’assemblea di fedeli che si riunisce in un luogo, sia l’insieme delle comunità sparse per il mondo
ecclesiologico di Lumen Gentium, che sembra privilegiare categorie sociologiche, e quello di Sacrosanctum Concilium, che preferisce un linguaggio sacramentale, è illustrato da G. DOSSETTI, Per una «Chiesa eucaristica». Rilettura della portata dottrinale della Costituzione liturgica del Vaticano II. Lezioni del 1965, a cura di G. Alberigo e G. Ruggieri, Bologna 2002. 35 A. ACERBI, Due ecclesiologie, cit., 402; G. ALBERIGO – F. MAGISTRETTI, Constitutionis dogmaticae, cit., 136.
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fu posto da K. Rhaner prima del concilio36. Quando cominciò a profilarsi la transizione dalla concezione universalistica a quella di una comunione delle Chiese, gli aggettivi “particolare” e “universale” riferiti alla Chiesa locale e all’insieme delle Chiese furono ritenuti inadeguati. Se bisognava superare l’idea di una Chiesa concepita come unica grande diocesi sparsa per il mondo, divisa in parti territoriali, era necessario abbandonare l’aggettivo “particolare”, che ha la stessa radice linguistica di “parte” e rischia di perpetuare l’idea di un tutto diviso in parti. Strettamente collegato al mutamento della concezione universalistica della Chiesa c’era un problema di priorità logica e cronologica: il Nuovo Testamento più volte descrive il mistero della Chiesa presente ab aeterno nel disegno di salvezza preordinato da Dio. È doveroso chiedersi se si tratta della Chiesa universale, che in tal modo diventerebbe origine e modello di tutte le Chiese locali. Per entrambi i problemi il Concilio Vaticano II non offre elementi chiari di soluzione, anzi sembra contribuire a perpetuare la confusione perché non adopera un linguaggio univoco e costante37. Il perito conciliare H. De Lubac, subito dopo il concilio, faceva notare che i termini “particolare” o “locale”, riferiti alla Chiesa che si riunisce in un luogo, non erano adoperati sempre con lo stesso significato nella Lumen Gentium: nei nn. 23 e 27 l’espressione “Chiese particolari” per 4 volte indica le comunità governate da un vescovo e nello stesso n. 23 con l’espressione “Chiese locali” sono indicati i raggruppamenti di diverse Chiese (particolari); ma al n. 26 quella che altrove è chiamata “Chiesa particolare” è denominata congregatio
36 K. RAHNER, Qualche riflessione sui principi costituzionali della Chiesa, in Y. CONGAR – B. D. DUPUY (cur.), L’episcopato e la Chiesa universale, trad. it., Roma 1965, 669-695. 37 R. REPOLE, Le categorie di universale e particolare nell’ecclesiologia del Vaticano II e nella riflessione successiva, in GRUPPO ITALIANO DOCENTI DI DIRITTO CANONICO, Il diritto della Chiesa tra universale e particolare, XXXIX Incontro di studio, Borca di Cadore, 2-6 luglio 2012, Milano 2013, 11-32.
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localis. Se poi ci spostiamo al decreto sulle Chiese orientali cattoliche “Chiese particolari” sono i patriarcati38. Non è minore la varietà del linguaggio adoperato per indicare l’insieme delle Chiese locali, cioè la Chiesa universale. Legrand ha fatto notare che per 45 volte si usa l’espressione “Chiesa cattolica”, 25 “Chiesa universale” e 23 “Chiesa universa”39. Considerando che il termine “universale” è naturalmente correlato con “particolare”, i teologi di aria francofona hanno proposto di sostituire entrambi i termini: “particolare” con “locale” e “universale” con “cattolica”. Oltretutto l’aggettivo “cattolica” ha un significato molto più ricco di “universale”, che richiama piuttosto il diffuso modello di una multinazionale e le sue molteplici succursali40. Se si accetta questa proposta, l’espressione “Chiesa locale – Chiesa cattolica” aiuterebbe ad eliminare definitivamente qualsiasi riferimento alla partizione di un tutto. Si fa notare, infine, che lo stesso aggettivo “universale” non sempre è adoperato dal Vaticano II con lo stesso significato: in LG 2 “Chiesa universale” si riferisce al disegno salvifico precedente la stessa creazione del mondo, indicato a volte nella tradizione teologica con l’espressione Ecclesia ab Abel. È evidente che in questo contesto l’espressione “Chiesa universale” non può designare un soggetto storico, fa riferimento piuttosto alla concezione tipicamente paolina del mistero, ripresa nella patristica41. Invece la stessa espressione “Chiesa universale” che troviamo in LG 23, 25, 28 indica chiaramente la Chiesa storica, presente con estensione universale, che ha nel papa il principio visibile di unità. La mancanza di coerenza e di continuità nell’uso dell’espressione
38 H. DE LUBAC, Les Églises particulières dans l’Église universelle: suivi de «La maternité de l’Église» et d’un interview recuillie par G. Jarczyk, Paris 1971, 35-41. 39 H. M. LEGRAND, La realizzazione della Chiesa in un luogo, cit., 149-150. 40 J. M.-R. TILLARD, Église catholique ou église universelle?, in Cristianesimo nella storia 16 (1995) 341-359; H. M. LEGRAND, La Théologie des Églises soeurs. Réflexions ecclésiologiques autour de la déclaration de Balamand, in Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques 88 (2004) 461-496. 41 S. PIÉ-NINOT, Ecclesiologia, cit., 149-151; S. NOCETI, «Ecclesia ab Abel», in Dizionario di ecclesiologia, cit., 467-472.
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“Chiesa universale” che troviamo nei documenti conciliari e negli autori comporta la necessità di chiarire volta per volta il significato specifico in cui viene adoperato; soprattutto quando si parla del rapporto “Chiesa locale – Chiesa universale” occorre indicare quale sia il referente concreto della “Chiesa particolare”: è la comunione delle Chiesa che storicamente vive e opera fra gli uomini oppure è la Chiesa-mistero di cui scrive S. Paolo nelle sue lettere? 5. LE SCELTE NON SEMPRE UNIVOCHE E COERENTI DEI DOCUMENTI MAGISTERIALI
Era prevedibile che l’uso non sempre coerente del linguaggio adoperato nei documenti del Vaticano II si perpetuasse nei documenti del magistero. Andremmo al di là dei limiti di questa relazione se volessimo fare un’indagine sulla terminologia adoperata dal magistero per indicare la Chiesa locale e la Chiesa universale nei documenti promulgati negli anni del post concilio. Ci limitiamo solamente a prendere in esame tre casi che riteniamo emblematici: i due codici di diritto canonico, latino e orientale, e la lettera Communionis notio inviata ai vescovi dalla Congregazione per la dottrina della fede il 28 maggio 199242. a) Il Codice di diritto canonico latino La commissione di riforma del Codice di diritto canonico latino durante i suoi lavori fu obbligata ad affrontare il problema della terminologia per indicare in modo uniforme e coerente la Chiesa locale, la Chiesa universale e gli altri raggruppamenti di Chiese. Nel 1970 il coetus della Lex Ecclesiae Fundamentalis, dopo aver costatato che il Vaticano II nei suoi documenti aveva adoperato un linguaggio non sempre uniforme e chiaro, decise in un primo momento di usare la seguente terminologia: 1) la porzione del popolo di Dio che è affidata al Vescovo con l’aiuto del suo presbiterio doveva essere chiamata «Chiesa particolare»; se poi essa era circoscritta con il criterio territo-
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EV 13/1774-1807.
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riale poteva essere chiamata anche «Chiesa locale»; 2) la Chiesa o un gruppo di Chiese di un determinato rito sarebbe stata chiamata «Chiesa peculiare»43. L’argomento fu ripreso nel 1974, quando si esaminò lo schema in cui apparivano le espressioni “Chiese particolari” per indicare le diocesi e “Chiese peculiari” per indicare le chiese particolari distinte con il criterio del rito. Uno dei presenti, a nome dei consultori orientali, fece notare che la terminologia usata creava difficoltà alla commissione di revisione del codice orientale, perché in contrasto con un voto specifico della prima assemblea plenaria: si doveva concordare una terminologia comune tra le due commissioni per la revisione dei codici e la sede più idonea era il coetus della LEF. Il presidente card. Felici, in risposta al quesito, disse che la scelta di indicare la diocesi con l’espressione “Chiesa particolare” era stata già fatta dalla commissione di riforma del codice latino. Si trattava di una decisione conforme ai testi conciliari e già approvata da tutti i vescovi della Chiesa, interpellati sul primo schema della LEF. La motivazione di questa scelta veniva indicata da un fatto nuovo: dopo il Concilio Vaticano II la diocesi poteva essere distinta o con il criterio territoriale o con il criterio personale (diocesi rituali). In questa situazione diventava riduttiva l’espressione “Chiesa locale” per indicare entrambe le tipologie di diocesi esistenti. Restava ancora aperto il problema della scelta della commissione di riforma del codice orientale; l’argomento era stato affrontato nella plenaria, ma non si era giunti a una conclusione44. b) Il Codice di diritto canonico orientale La commissione di riforma del codice orientale negli schemi che riportano i canoni sui vescovi preferisce il ricorso ad una terminologia più aderente alle proprie tradizioni. Nello schema redatto nel 1978 la diocesi è denominata “eparchia”; la sua definizione ricalca quella che riporterà il can. 369 del codice latino, ma notiamo qualche variazione:
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Communicationes 2 (1970) 86-87. Communicationes 8 (1976) 80-82.
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invece di “Ecclesiam particularem constituat», leggiamo: «Ecclesiam singularem constituat». Il coetus si riunì il 15 gennaio 1979 per esaminarlo e proporre eventuali modifiche. Nella discussione i consultori avanzarono molte riserve sul termine singularem. Si fece notare che in alternativa si poteva sostituire con particularem, adoperato da Christus Dominus 11; ma questa scelta sarebbe stata in contrasto con il decreto Orientalium Ecclesiarum 2, dove la “Chiesa particolare” è sinonimo di “rito” e indica un’intera Chiesa orientale. La proposta di sostituire singularem con particularem fu messa ai voti il 24 gennaio, ma ottenne un solo placet; fu deciso pertanto di lasciare invariato il testo proposto nello schema45. Nel 1984, quando il codice latino era stato già promulgato, il testo del canone fu sottoposto all’esame delle gerarchie delle Chiese orientali e degli altri organi di consultazione. Nello schema del 1986, che riporta i canoni modificati in seguito alle osservazioni ricevute, l’aggettivo singularem diventa particularem: la commissione aveva deciso di uniformarsi al codice latino. Le motivazioni di una scelta sofferta, che presuppone un certo travaglio nella commissione, sono così illustrate: «La parola particularem ha sostituito il termine singularem del testo dello schema. Ciò è stato fatto, non solo per accogliere le proposte di sei organi di consultazione, ma anche pro bono pacis, perché l’espressione Ecclesia particularis in tutta la Chiesa cattolica abbia lo stesso significato giuridico, e designi pertanto unicamente le diocesi/eparchie e circoscrizioni ecclesiastiche a queste equiparate (cc. 368-374 del CIC; canoni de exarchiis nello schema), nonostante la preferenza mostrata dagli orientali e dalla stessa commissione in favore del significato attribuito a detta espressione dal decreto conciliare Orientalium Ecclesiarum e nonostante altre possibili espressioni p. e. Ecclesia localis. Questa ultima espressione, pur essendo tradizionale nell’Oriente cristiano, soprattutto molto in uso tra le Chiese ortodosse, e pur essendo stata proposta da due organi di consultazione, tuttavia non è stata accettata, perché difficilmente compatibile con la definizione populi Dei portio che si dà, nello schema, dell’eparchia e che non è connessa necessariamente con un locus o terri-
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Nuntia (1979) 9, 3-6.
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torium. Con l’introduzione del suddetto emendamento e con l’aggiunta della parola Christi, richiesta da due organi di consultazione, il testo del § 1 del canone è risultato del tutto conforme a quello del n. 11 del decreto conciliare Christus Dominus»46.
La decisione di uniformarsi alla terminologia del codice latino non fu applicata all’espressione correlata Ecclesia universalis. Fin dai primi schemi la commissione sceglie Ecclesia universa, che nella traduzione italiana diventerà “Chiesa universale”. Chi prende in mano il Codice dei canoni delle Chiese orientali, promulgato nel 1990, trova una sostanziale convergenza con le scelte fatte in antecedenza dal Codice di diritto canonico: il can. 177, che descrive la nozione giuridica di diocesi, è sostanzialmente identico al can. 369 del Codice di diritto canonico; l’unica variazione riguarda il termine “eparchia” che sostituisce quello di “diocesi”; l’espressione Ecclesia universalis è sostituita con Ecclesia universa. In sostanza le due commissioni nella scelta della terminologia, invece di farsi guidare da un criterio teologico, preferirono quello pragmatico. Questo ha comportato una diversità di linguaggio fra teologi e canonisti: mentre i primi indicano la diocesi con l’espressioni “Chiesa locale” per mettere in evidenza gli elementi legati al luogo, che contribuiscono a caratterizzare una determinata comunità di fedeli, i canonisti sono obbligati ad uniformarsi alle scelte del legislatore. Questo non esclude la necessità di spiegare per un verso che il termine “particolare” non indica la parte di un tutto e di dare per un altro verso la giusta rilevanza a tutti gli elementi legati al territorio in cui la comunità cristiana vive ed opera47. La stessa chiesa rituale, distinta con il criterio personale, si riunisce sempre in un luogo e deve manifestare il mistero di Cristo nelle modalità proprio di un territorio e di una cultura determinati.
46 47
Nuntia (1986) 23, 4.
H. M. LEGRAND, La délimitation des diocèses, in La charge pastorale, cit., 177219; ID., La realizzazione della Chiesa in un luogo, cit., 160-185; S. PIÉ-NINOT, Ecclesiologia, cit., 359-364.
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c) La lettera Communionis notio della Congregazione per la dottrina della fede Il titolo del documento e l’avvio della trattazione del tema potrebbero far credere che si voglia aiutare il lettore alla comprensione della Chiesa mediante la categoria teologica della comunione. In realtà nel secondo capitolo il discorso si orienta verso una diversa direzione: ribadire la concezione universalistica della Chiesa e arginare l’indirizzo prevalente in ecclesiologia di avviare la trattazione partendo dalla Chiesa locale. Fin dall’inizio del secondo capitolo leggiamo un’affermazione che manifesta con chiarezza la tesi che si intende sostenere: «La Chiesa di Cristo, che nel simbolo confessiamo una, santa, cattolica e apostolica, è la Chiesa universale, vale a dire l’universale comunità dei discepoli del Signore, che si fa presente e operante nella particolarità e diversità di persone, gruppi, tempi e luoghi [...]. La Chiesa universale è perciò il corpo delle Chiese, per cui è possibile applicare in modo analogico il concetto di comunione anche all’unione tra le Chiese particolari, e intendere la Chiesa universale come una comunione di Chiese»48.
Il documento continua riconoscendo che l’esistenza di Chiese particolari è attestata fin dall’epoca apostolica, ma queste comunità sono considerate Chiese perché in esse si fa presente la Chiesa universale con tutti i suoi elementi essenziali. Si afferma esplicitamente il rapporto di mutua interiorità esistente fra la Chiesa universale e le Chiese particolari che non permette di concepire la Chiesa universale come la somma delle Chiese particolari né come una federazione di Chiese particolari. A una concezione ecclesiologica, che il documento intende presentare come normativa, si contrappone una dottrina considerata in evidente contrasto con le affermazioni del Concilio Vaticano II: «A volte l’idea di “comunione di Chiese particolari”, è presentata in modo da indebolire, sul piano visibile e istituzionale, la concezione dell’unità della Chiesa. Si giunge così ad affermare che una Chiesa parti48
EV 13/1784-1785.
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colare è un soggetto in se stesso completo e che la Chiesa universale risulta dal riconoscimento reciproco delle Chiese particolari. Questa unilateralità ecclesiologica, riduttiva non solo del concetto di Chiesa universale, ma anche di quella di Chiesa particolare, manifesta un’insufficiente comprensione del concetto di comunione. Come la stessa storia dimostra, quando una Chiesa particolare ha cercato di raggiungere la propria autosufficienza, indebolendo la sua reale comunione con la Chiesa universale e con il suo centro vitale e visibile, è venuta meno anche la sua unità interna e, inoltre, si è vista in pericolo di perdere la propria libertà di fronte alle forze più diverse di asservimento e di sfruttamento»49.
Per evitare i rischi descritti in questo ipotetico scenario, il documento indica un percorso e fa delle affermazioni sorprendenti che vanno in senso contrario agli sviluppi dell’ecclesiologia post conciliare: la Chiesa universale «è una realtà ontologicamente e temporalmente previa ad ogni singola Chiesa particolare»50. Nella storia del dialogo fra teologi e magistero difficilmente si trova un rifiuto così fermo e generalizzato della dottrina esposta in un documento ufficiale, come quello che si è verificato dopo la promulgazione di Communionis notio. Lo stesso firmatario del documento, l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede card. Joseph Ratzinger, nel 2000, in occasione di un convegno sul Vaticano II, riconosceva non senza una vena di ironia: «Una raffica di critiche si è abbattuta [...] sulla frase secondo la quale la Chiesa universale sarebbe, nel suo mistero essenziale, una realtà che precede ontologicamente e cronologicamente le singole Chiese particolari»51.
Com’è facile intuire, alla base delle affermazioni del documento c’è la pretesa di identificare due realtà diverse: la Chiesa intesa come progetto di salvezza predisposto da Dio fin dalla creazione, e
49 50 51
EV 13/1785-1786. EV 13/1787.
L’Osservatore Romano, 4 marzo 2000, 6.
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la Chiesa storica istituita negli ultimi tempi che si è manifestata con l’effusione dello Spirito Santo. In LG 2 troviamo descritte entrambe queste realtà; ma al n. 23 leggiamo un’affermazione che potrebbe essere letta come conferma della tesi di Communionis notio: le Chiese particolari sono «formate a immagine della Chiesa universale». Tuttavia, nonostante l’uso di un linguaggio non sempre costante e coerente dei testi conciliari, le affermazioni di LG 23 e 26 offrivano le premesse per capovolgere la concezione ecclesiologica incentrata sulla Chiesa universale e riaffermare la rilevanza della Chiesa locale. Le puntuali osservazioni critiche fatte al documento della Congregazione per la dottrina della fede ci aiutano a comprendere l’importanza del problema che si intendeva affrontare e definire. Anzitutto si faceva notare che i pericoli descritti dal documento per giustificare le nuove affermazioni dottrinali sono semplici ipotesi di scuola: nessun teologo cattolico ha mai preteso di affermare che la Chiesa locale è un soggetto autosufficiente e che la Chiesa universale è una federazione di diocesi, quasi il risultato della loro comunione. Affermare che la Chiesa particolare manifesta pienamente il mistero di Cristo, non equivale a dire che è la Chiesa di Dio, perché anche le altre Chiese particolari manifestano pienamente lo stesso mistero. Inoltre ogni Chiesa locale è definita “cattolica” perché è aperta alla comunione con le altre Chiese; rompere questa comunione comporta uno scisma. Ogni Chiesa locale è inserita nella rete di una traditioreceptio diacronica e non solamente sincronica e geografica. Una precedenza cronologica e ontologica in ecclesiologia può essere riconosciuta solo alla regola della fede e alla comunione di ogni Chiesa locale con la Chiesa cattolica. La dottrina ecclesiologica che la Congregazione per la dottrina della fede voleva imporre, più che finalizzata ad evitare ipotetici scenari di divisione e di contrapposizione appariva come un maldestro tentativo di ritorno al passato. Hervé Legrand, comparando il linguaggio usato nella Communionis notio con quello dei documenti della curia romana, ha potuto formulare l’ipotesi di un piano accuratamente predisposto per riproporre la concezione universalistica della Chiesa e per accreditare l’equivoco di far coincidere la Chiesa
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universale con la Chiesa di Roma52. Alberto Melloni, analizzando il lessico adoperato da Communionis notio, lo trova più affine alla «Nota esplicativa previa» che alla Lumen Gentium53. Nel dibattito avviato dopo la promulgazione di Communionis notio, principale antagonista del card. Ratzinger fu il teologo Walter Kasper, prima vescovo di Rottenburg-Stuttgart e poi presidente del pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. I due più volte intervennero in difesa del proprio punto di vista in un dialogo, a tratti aspro, che diede un notevole contributo per mettere a fuoco la dottrina ecclesiologica del Concilio Vaticano II54. Kasper, a proposito della preesistenza temporale della Chiesa universale, fondandosi sulle considerazioni esegetiche di Michael Theobald, faceva notare che la concezione dei Padri fatta propria da Ratzinger, non corrisponde a quella espressa da Luca negli Atti. La cosiddetta tavola dei popoli di Atti 2 non rappresenta, come pensa Ratzinger, la presenza delle nazioni alla festa di Pentecoste, ma quella dei giudei della Diaspora, con l’intenzione di fare tutto Israele testimone dell’evento di Pentecoste. Ma che anche i pagani appartengano alla Chiesa non è mostrato dalla prima Pentecoste, bensì dalla seconda che accade in casa di Cornelio e viene descritta in At 10. Il programma per la missione ai pagani viene poi messo in atto ad Antiochia (At 11), in un’altra chiesa locale, ed esso viene ratificato con una intesa tra due chiese locali, Antiochia e Gerusalemme (cfr. Gal 2 e Rom 15, 27). In sostanza secondo Luca la Chiesa è diventata tale tra Gerusalemme e Roma e perciò per l’evangelista riveste forza normativa non tanto la prima Pentecoste (At 2), ma il cammino che porta al di là dei confini di Israele nella sua totalità. Trovare, perciò, negli Atti l’affermazione di una precedenza temporale della chiesa universale sulle chiese particolari non ha alcun fondamento. 52
H. M. LEGRAND, La Théologie des Églises soeurs, cit., 471-474. A. MELLONI, Note sul lessico della «Communionis notio», in Cristianesimo nella storia, cit, 307-319. 54 Il succedersi degli interventi dei due interlocutori nel dibattito è descritto da P. WALTER, «Lumen Gentium»: retrospettiva e prospettiva, in Il Regno – attualità 47 (2002) 18, 639-645. Una sintesi si trova anche in W. KASPER, Chiesa cattolica, cit., 439443. 53
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La risposta di Kasper diventa particolarmente stimolante quando egli si colloca nella prospettiva di vescovo, che deve porsi in ascolto della propria Chiesa locale, nella difficoltà della prassi sacramentale ed ecumenica, ad esempio nel caso dell’ammissione dei divorziati risposati alla comunione o dell’ospitalità eucaristica per componenti di altre confessioni: «Un vescovo non può star a guardare senza far niente. Ma egli si trova in una situazione difficile. Come vescovo egli ha il ministero dell’unità. In quanto membro dell’episcopato per un verso partecipa della responsabilità universale della Chiesa in solidarietà con il papa e gli altri vescovi. Per altro verso, come pastore della sua Chiesa locale è solidale con il suo clero e con i problemi, attese, bisogni dei fedeli a lui affidati. E il Vaticano II fa obbligo (LG 27, 37; CD 16) al vescovo di prestar ascolto al proprio clero e ai propri fedeli».
Secondo Kasper il vescovo può venire a capo delle situazioni difficili solo se vede riconosciuto un proprio campo di responsabilità. Le regole previste in tal senso dalla tradizione (l’epikeia, l’equità canonica, la possibilità della dispensa, il principio orientale dell’economia ecc.) possono essere impiegate solo se la Chiesa locale non viene vista come una provincia amministrata dal centro55. Ratzinger nei suoi interventi diede l’impressione di non volere insistere sul problema della precedenza temporale, ma di non cedere su quello della precedenza ontologica56. A conclusione del dibattito si può affermare che, pur riconoscendo legittima e necessaria la preoccupazione di Ratzinger, occorre mantenere il carattere di mistero dell’evento ecclesiale e non pensare che l’unità della Chiesa sia una sommatoria, il prodotto successivo ad un accordo fra le Chiese locali. Dall’altra non è necessario esprimere questo in un rapporto di prece55 W. KASPER, Das Verhältnis von Universalkirche und Ortskirche. Freundschaftliche Auseinandersetzung mit Kritik von Joseph Kardinal Ratzinger, in Stimmen der Zeit 218 (200) 795-804. 56 Si veda il capitolo «Die Ekklesiologie der Konstitution Lumen Gentium», in J. RATZINGER, Weggemeinscaft des Glaubens, Kirche als «Communio». Festgabe zum 75. Geburstag, Augsburg 2002, 107-131.
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denza, comunque la si voglia intendere, della Chiesa universale sulle Chiese locali. Il rilievo che H. De Lubac faceva nel 1974 resta sempre valido: «Una Chiesa universale che esistesse antecedentemente o che uno si immaginasse come esistente in sé al di fuori di tutte le singole Chiese, è solo un’astrazione»57. Al quale si può aggiungere quello di Kasper: «La Chiesa non è una sorta di città platonica, ma una realtà divina e umana esistente nella storia»58; nella storia, però, la Chiesa nasce in un luogo determinato, mostrandosi allo stesso tempo nella sua duplice dimensione locale e universale. CONCLUSIONE La breve e necessariamente concisa analisi di un particolare tema ecclesiologico nel suo sviluppo dal Concilio Vaticano II ai nostri giorni ci mostra le difficoltà incontrate dalla dottrina nel cammino percorso durante i cinquant’anni che ci separano dall’inizio dei lavori conciliari. Si ha l’impressione che il dibattito avviato nell’aula del concilio non si sia mai interrotto, coinvolgendo i protagonisti di sempre: il magistero, nelle sue diverse articolazioni, e i teologi. Gli itinerari e il linguaggio scelti dai dialoganti per certi aspetti sembra riproporre schemi ripetitivi, per altri invece riserva elementi di novità che vanno evidenziati. La Congregazione per la dottrina della fede, anche se i suoi rappresentanti sono cambiati, ripromettendosi di svolgere il suo compito di vigilanza, a volte dà l’impressione di volere invertire il corso della storia. Partendo dall’analisi dei testi conciliari sulla Chiesa locale e la Chiesa universale, si è potuto costatare uno sviluppo costante e coerente della dottrina. Le conclusioni degli esperti che li avevano
57 H. DE LUBAC, Einzelkirche und Ortskirche, in Quellen kirchlicher Einheit, Einsiedeln 1974, 52. 58 W. Kasper, «On the Church», Tablet, (23 giugno 2001) 930. Un interessante contributo al dibattito è stato dato dalla teologia ortodossa. Si veda lo studio dell’archimandrita A. MILTOS, Le Chiese locali e la Chiesa universale, in Il Regno 58 (2013) 17, 568-576.
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redatti non sempre coincidono con le acquisizioni dell’ecclesiologia di questi ultimi anni59. È ovvio che non possiamo semplificare eccessivamente lo schema dei partecipanti al dibattito, visto che la dottrina non sempre giunge a conclusioni uniformi. Il rilievo appare scontato se si tiene conto della natura dei documenti conciliari e delle difficoltà che fino ad oggi si incontrano nella loro interpretazione. A parte l’inusuale vivacità che il dibattito può assumere a motivo di particolari circostanze, il bilancio finale appare positivo, come scrive uno dei teologi che lo hanno seguito in tutti i suoi risvolti: «Questo dibattito, nonostante i toni talvolta eccessivi, va accolto benevolmente nel suo merito. In primo luogo perché fa vedere, al più alto dei livelli ecclesiali, una disponibilità alla disputa teologica anche dura, che già solo per questo — ossia per amore della res del contendere — sarebbe da salutare con letizia: perché nella teologia e nella Chiesa, sia questo per una necessità di armonia oppure per timore e paura delle conseguenze di affermazioni impopolari, si fa troppo sovente silenzio proprio là dove la parresia cristiana imporrebbe il coraggio di una parola. Però, l’esito dello scontro che si staglia all’orizzonte e poco più che minimo. Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede alla fin fine non si è smosso per nulla in quella che è la sua emarginazione dell’elemento locale della Chiesa (come essa era già stata constatata da Routhier per precedenti pubblicazioni di Ratzinger) [...]. Ma soprattutto deludente è l’esito del dibattito in riferimento ai gravamina indicati fin dal primo articolo da Kasper, e che egli non ha mai cessato di richiamare all’attenzione»60.
59 Solo per citare qualche esempio, si vedano le nette affermazioni di Y. Congar su Cristo fondatore della Chiesa: «Certo, egli è il fondatore. Ha fondato la Chiesa come un organismo sociale (LG 8); ha istituito i Dodici come un gruppo stabile, principio del corpo o collegio dei vescovi (cf. Mc 3, 13); ha disposto i ministeri: Inviando gli apostoli con Pietro alla loro testa, il Cristo ha stabilito le forme del potere pastorale nella Chiesa, continuato nel collegio dei vescovi con il Romano pontefice alla sua testa (LG 18; 22; 27 e Nota previa § 2). È una fondazione della Chiesa da parte di Cristo nella carne» (Y. CONGAR, Implicazioni cristologiche, cit., 98). Diverse sono le conclusioni alle quali oggi pervengono gli ecclesiologi: W. KASPER, Chiesa cattolica, cit., 146-150; S. PIÉ-NINOT, Cristo fondatore e fondamento della Chiesa, in Dizionario di ecclesiologia, cit., 381-394. 60 P. WALTER, «Lumen Gentium», cit., 642-643.
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LE PROVOCAZIONI INASCOLTATE DELLA GAUDIUM ET SPES *
SEVERINO DIANICH**
PREMESSA Al di sopra delle discussioni sul rapporto fra il carattere dottrinale e quello pastorale della GS non va dimenticato l’asserto di GS 91: «Quanto viene proposto da questo santo Sinodo fa parte del tesoro dottrinale della Chiesa». Paolo VI nel Discorso di chiusura del concilio: «E non solo l’immagine della Chiesa manda ai posteri questo Concilio, ma il patrimonio altresì della sua dottrina e dei suoi comandamenti, il «deposito» ricevuto da Cristo e nei secoli meditato, vissuto ed espresso, ed ora in tante sue parti chiarito, stabilito e ordinato nella sua integrità».
Una delle obiezioni più frequenti alla GS è che i Padri si sarebbero lasciati coinvolgere in un particolare clima di ottimismo determinato da alcune vicende del momento storico. Non vedeva così Paolo VI che è ben consapevole degli aspetti drammatici del tempo, che egli descrive come:
* Appunti del relatore per la prolusione tenuta in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Accademico dello Studio Teologico S. Paolo di Catania il 28 ottobre 2012. ** Docente emerito di Ecclesiologia presso la Facoltà di Teologia dell’Italia Centrale di Firenze.
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«[…] un tempo, che ognuno riconosce come rivolto alla conquista del regno della terra piuttosto che al regno dei cieli; un tempo, in cui la dimenticanza di Dio si fa abituale e sembra, a torto, suggerita dal progresso scientifico; un tempo, in cui l’atto fondamentale della personalità umana, resa più cosciente di sé e della sua libertà, tende a pronunciarsi per la propria autonomia assoluta, affrancandosi da ogni legge trascendente; un tempo, in cui il laicismo sembra la conseguenza legittima del pensiero moderno e la saggezza ultima dell’ordinamento temporale della società; un tempo, inoltre, nel quale le espressioni dello spirito raggiungono vertici d’irrazionalità e di desolazione».
Una seconda obiezione vuole che la GS presenti dei cedimenti al secolarismo e al relativismo. Paolo VI già la conosceva e riconosceva che il concilio «è stato vivamente interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento. Questo atteggiamento […] è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio, fino al punto da suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone ed atti del Sinodo ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio medesimo».
La sua risposta è netta e dà la motivazione più alta: l’ispirazione della carità: «Noi non crediamo che questo malanno si debba ad esso imputare nelle sue vere e profonde intenzioni e nelle sue autentiche manifestazioni. Vogliamo piuttosto notare come la religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità; […] Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo».
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Infine, i Padri si rendevano conto che il loro documento toccava argomenti sottoposti a una continua e rapida evoluzione. Non per questo ritennero che il loro pensiero avrebbe dovuto essere rapidamente superato e abbandonato «Certo dinanzi alla immensa varietà delle situazioni e delle forme di civiltà, questa presentazione non ha volutamente, in numerosi punti, che un carattere del tutto generale; anzi, quantunque venga presentata una dottrina già comune nella Chiesa, siccome non raramente si tratta di realtà soggette a continua evoluzione, l’insegnamento presentato qui dovrà essere continuato ed ampliato»1.
1. LA PRIMA E FONDAMENTALE PROVOCAZIONE INASCOLTATA Più che di varie provocazioni inascoltate, mi pare che ce ne sia una fondamentale di natura strettamente teologica, ma non per questo meno carica di esigenze di rinnovamento nella prassi della Chiesa: è il superamento della dottrina, tipica della scolastica moderna, del dualismo dei fini. L’attribuzione al mondo e alla storia di un fine naturale e di un fine soprannaturale fu per secoli il supporto dell’impostazione dei rapporti fra la Chiesa e il mondo. La formula dei due fini permetteva, in nome di una supposta ordinazione del mondo a un fine naturale di determinare una certa autonomia del temporale nel suo ambito. La convinzione di fede, però, che la natura è corrotta e non è in grado di raggiungere il suo fine senza la grazia, produceva una visione del mondo come massa di peccato o come vuoto reale di valori, che poteva essere redento solo dalla rivelazione veicolata dalla Chiesa, dalla sua predicazione e dai suoi sacramenti, venendo così a fondare la dottrina del potere indiretto della Chiesa sulla società civile e lo stato, perché di fatto impotenti a sanare la situazione umana e permetterle il raggiungimento del suo fine.
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Surnaturel del P. De Lubac 1947, Uditori della parola di K. Rahner 1941l2, Abbattere i bastioni di Von Balthasar 1952 avevano aperto una via diversa. La riscoperta del desiderium videndi Deum (Tommaso) insito nel cuore di ogni uomo e di una dimensione obedienziale della natura umana (Rahner: il trascendentale in Uditori della Parola) nei confronti dell’elevazione soprannaturale dell’uomo comportavano il recupero della dimensione universale del dono salvifico della grazia che sfocerà in LG 2: se per la volontà salvifica universale del Padre la grazia di Dio è operante dovunque la Chiesa non può pensarsi esistente esclusivamente dentro le sue mura, ma presente in mistero in tutta la storia, fino a quando «tutti i giusti, a partire da Adamo, “dal giusto Abele fino all’ultimo eletto”, saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale». Questo riconoscimento di una economia di grazia che avvolge tutta la storia comporta una visione del mondo come destinato ad un unico fine «[…] la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale»2.
Da questo nuovo quadro dottrinale il concilio derivava il bisogno di una svolta nell’atteggiamento della prassi ecclesiale: dalle discussioni sul potere diretto e indiretto della Chiesa sulla società civile si passava alla ricerca delle virtualità, dei rapporti, delle presenze di grazia che la storia come tale è in grado di rivelare nei confronti della storia della salvezza. «Essendo Dio Padre principio e fine di tutti, siamo tutti chiamati ad essere fratelli. E perciò, chiamati a una sola e identica vocazione umana e divina, senza violenza e senza inganno, possiamo e dobbiamo lavorare insieme alla costruzione del mondo nella vera pace»3.
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Ibid., 22. Ibid., 91.
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Tutto questo ha comportato nella GS uno sguardo nuovo sul mondo, da non considerare solo come umanità deviante né come un vuoto di valori, ma come l’interlocutore naturale della Chiesa al quale essa offre la ricchezza della sua fede, e dal quale essa riceve valori e stimoli presenti nella sua storia e nelle diverse culture. 2. DALLA GS ALLA PROBLEMATICA ATTUALE Dal concilio ad oggi, nei paesi di antica tradizione cristiana, il fattore evolutivo più rilevante sembra essere stato l’avvento di una società culturalmente e religiosamente pluralista, non solo per l’immigrazione di persone di altra religione, ma anche per la diminuzione del battesimo dei bambini e per il rilevante flusso di uscita dalle chiese e/o di abbandono della fede. La nuova situazione sta producendo un’accelerazione dei processi di laicizzazione dello stato e di tutte le strutture pubbliche, una progressiva erosione del residuo esercizio di quel tanto di potere indiretto sulla società civile che ancora persiste, una delegittimazione della posizione tradizionalmente privilegiata della Chiesa nei confronti delle altre religioni e una diminuzione effettiva del consenso sociale nei confronti dei pronunciamenti del magistero sui problemi in discussione. Contemporaneamente, soprattutto per l’approdare nelle sedi legislative dei numerosi e gravi problemi suscitati dalle nuove biotecnologie e per le corrispettive prese di posizione della Chiesa sta crescendo l’antagonismo fra la Chiesa, la cultura diffusa e molte agenzie socio-politiche protagoniste del dibattito. Quanto più la presa di posizione dell’autorità ecclesiastica tende, al di là della proclamazione di principio, a determinare la decisione in sede legislativa tanto più la sua azione viene assimilata ad una nuova forma di esercizio di un potere indiretto sullo stato. Ne derivano nell’opinione pubblica diffuse correnti di diffidenza verso tutta la missione della Chiesa che producono inevitabilmente un blocco alla sua stessa possibilità di annunciare il Vangelo e comunicare la fede. Di questo GS 76 esplicitamente si era preoccupata, fino a proget-
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tare l’atteggiamento per il quale la Chiesa «rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza». Perché «la sincerità della testimonianza» da rendere a Cristo non risulti offuscata è necessario riferirsi alla apostolica vivendi forma «Gli apostoli e i loro successori con i propri collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli uomini il Cristo Salvatore del mondo, nell’esercizio del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di Dio, che molto spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni. Bisogna che tutti quelli che si dedicano al ministero della parola di Dio, utilizzino le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in molti punti dai mezzi propri della città terrestre».
Ora, la Chiesa non può rinunciare a dare il suo contributo alla società proponendole i valori morali in cui crede «Ma sempre e dovunque, e con vera libertà, è suo diritto predicare la fede e insegnare la propria dottrina sociale, esercitare senza ostacoli la propria missione tra gli uomini e dare il proprio giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime»4.
Ora, «le vie e i mezzi propri del Vangelo» non sono quelli dell’acquisizione e dell’esercizio di un potere, sia pure di quello da acquisire attraverso il più legittimo dei mezzi, la raccolta democratica del consenso. La forma evangelii è la forma Christi, e Gesù nella sua vita pubblica ha sempre rifiutato di scegliere la via del potere. Nel colloquio con Pilato (Gv 18, 28-40) egli esplicita la forma della sua missione messianica: «Il mio regno non è di questo mondo». Egli non intende dire che il suo regno non ha nulla a che fare con i problemi “di questo mondo”, ma nega la provenienza del suo potere da questo mondo (ouk éstin ek tou˘ kósmou toútou) e quindi ne indica una qualità diversa, preferendo all’uso della sua exousìa di fronte ai
4
Ibid., 76.
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poteri mondani l’atteggiamento dell’inermità: «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei». Abbiamo quindi nei vangeli una testimonianza della prassi di Gesù nei confronti del potere che fa testo per la prassi della Chiesa. Gli strumenti del potere, infatti, per legittimi che siano, mettono a repentaglio di fronte al mondo «la sincerità della sua testimonianza». La sua non fu la via del vincere, visto che Gesù si è costantemente inibito di percorrerla, ma la via del convincere. 3. PROPOSTA DI VALORI UMANI E PROPOSTA DEL VANGELO Dalla dottrina su Cristo come unico fine della storia umana i Padri coerentemente derivano una impostazione del dialogo della Chiesa con il mondo che comporti dalla parte della Chiesa soprattutto la proposta della fede nel Vangelo di Gesù. GS 3 ritiene che la Chiesa debba operare «instaurando con questa un dialogo sui vari problemi sopra accennati, arrecando la luce che viene dal Vangelo». La missione della Chiesa è chiamata ad affidarsi più che all’elaborazione di tutte le sue capacità argomentative, alla forza della testimonianza della sua fede. GS 12 ritiene che di fronte ai grandi problemi dell’uomo la Chiesa «può dare una risposta che le viene dall’insegnamento della divina Rivelazione». Agli atei stessi i Padri conciliari non temono di rivolgere l’invito «a volere prendere in considerazione il Vangelo di Cristo con animo aperto»5. Non solo non si nutre il timore che se «la missione della Chiesa si mostra di natura religiosa»6, essa non riesca ad offrire una vasta gamma di valori umani, ma al contrario si ritiene che proprio in tal modo essa si mostrerà «per ciò stesso profondamente umana».
5 6
Ibid., 21. Ibid., 11.
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GS 33 piuttosto pensa che la Chiesa debba, «anche se non ha sempre pronta la soluzione per ogni singola questione […] unire la luce della Rivelazione alla competenza di tutti allo scopo di illuminare la strada sulla quale si è messa da poco l’umanità». Se ne deriva l’osservazione che «con quanta maggiore umanità e amore penetreremo nei loro modi di vedere», tanto più potremo fruttuosamente dialogare con «coloro che pensano od operano diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose». Con ciò il concilio non propone affatto una rinuncia alla proposta al mondo della verità, ma che «è l’amore stesso che spinge i discepoli di Cristo ad annunziare a tutti gli uomini la verità che salva». Per cui «occorre distinguere tra errore, sempre da rifiutarsi, ed errante, che conserva sempre la dignità di persona, anche quando è macchiato da false o insufficienti nozioni religiose»7. GS, pur non disdegnando il riferimento al dialogo sulla base della ragione e della legge naturale8 mai pare voler favorire l’idea che l’unica base possibile per interloquire con la società secolarizzata sia quella dell’argomentazione razionale e dei diritti dell’uomo universalmente sanciti, quasi che si dovessero delineare nella missione due percorsi separati. Sarebbe quello della pura predicazione del Vangelo, destinato solo a chiamare alla fede e alla conversione personale e quello della proposta di principi e di valori desumibili dalla sola ragione che, proprio per questo, si presume dovrebbero essere condivisi da tutti. Aver affermato che «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo»9. Ha voluto dire che ogni uomo, anche se non ne riconosce la natura e la missione divina, trova in lui valori fondamentali di umanità. La sua vicenda umana, del resto, fa parte della storia di tutti gli uomini, e si propone ad ogni uomo non solo nell’imponenza della sua condizione divina, ma anche nella ricchezza della sua umanità.
7
Ibid., 52. Cfr. ibid., 74, 79, 89. 9 Ibid., 22. 8
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Scriveva Henry De Lubac: «Se infatti il cristianesimo è divino, tutto divino, è anche in un certo senso umano, tutto umano, ed è venuto a trasformare l’uomo e rinnovare la faccia della terra, insinuandosi, senza lacerarlo, nel fitto tessuto della storia umana»10.
Per questo GS 42 ritiene che «la forza che la Chiesa riesce a immettere nella società umana contemporanea consiste in quella fede e carità effettivamente vissute, e non in una qualche sovranità esteriore esercitata con mezzi puramente umani».
E in GS 40 la Chiesa del concilio «crede di poter contribuire molto a umanizzare di più la famiglia degli uomini e la sua storia» proprio in forza della «fede e carità effettivamente vissute» perché «Nessuna legge umana è in grado di assicurare la dignità personale e la libertà dell’uomo, quanto il Vangelo di Cristo»11. 4. PER UN NUOVO EQUILIBRIO ALL’INTERNO DELLA CHIESA La difficoltà di conciliare la responsabilità della Chiesa nei confronti della sviluppo della società e al servizio del bene comune con la necessità di esercitarla non sulla via del potere ma in forma evangelica sollecita la Chiesa a ricostituire un nuovo equilibrio all’interno dei diversi carismi che sostengono la sua missione. GS 43 traccia una linea che in realtà attende ancora di essere attuata: «Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali». In questo campo non si pensa affatto a dei compiti esecutivi rispetto a quello dei pastori «Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena».
10 11
H. DE LUBAC, Cattolicesimo. Gli aspetti sociali del dogma, Roma 1964, 250. Gaudium et Spes, 41.
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Nel compimento del loro compito nella “città terrena”, dai loro pastori «i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione».
Resta il compito del magistero di definire la “dottrina”, che implica i principi morali ai quali attenersi nell’affrontare i problemi, mentre per la loro attuazione ai laici si raccomanda: «assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero». Proprio in quanto l’applicazione dei principi dottrinali nella concreta situazione socio-politica in genere non compromette la fede, se «Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia, altri fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso […] in tali casi ricordino essi che nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa».
CONCLUSIONE I padri conciliari, con la GS, hanno lasciato alla Chiesa dei nostri tempi un insegnamento che «dovrà essere continuato ed ampliato»12. È la fatica della Chiesa di oggi nel prosieguo vorticoso dell’evoluzione della società. I padri conciliari ne hanno visto la dimensione profonda ed ampia che Paolo VI così descriveva «L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa
12
Ibid., 91.
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Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio».
Questo non è solo il paradigma della spiritualità del Concilio che resta consegnato alla storia. È lo stile che il concilio ha consegnato alla Chiesa perché la sua missione possa sempre brillare per la sua forma evangelica.
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1. “GAUDIUM ET SPES”: UNA LEZIONE DI STILE «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’ oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore».
«Con queste parole, il 7 dicembre 1965, la Chiesa planava dai cieli della sua disincarnata grandezza e sceglieva di collocare definitivamente il suo domicilio sul cuore della terra». Così esordiva don Tonino Bello in un efficace commento all’incipit di Gaudium et spes. E con la sua verve calorosa continuava: «Si direbbe che vi abbiano posto mano i poeti più che i teologi, e che la prima stesura sia stata scritta non sulle carte severe degli esperti di scienze divine, ma sulle agili righe di un pentagramma musicale. […] È come se avesse annullato di colpo la barriera di secolari distanze, accettando di diventare coinquilina degli stessi condomini abitati dai comuni mortali. Ha rinunciato spontaneamente per sempre a quella zona di rispetto creatale da antichi prestigi: non per timore della sua solitudine, ma preoccupata della solitudine degli uomini. […] Grazie, perché, riscoprendo la legge dell’incarnazione che condusse il Maestro ad abitare in *
Disputatio tenuta l’1 marzo 2012 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Docente di Antropologia teologica presso il Seminario Arcivescovile di Milano e la Facoltà di Teologia dell’Italia settentrionale di Milano. **
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mezzo a noi, ti sei decisa a vivere con gli uomini una condiscendenza a tutto campo1».
Un ingresso entusiasta, che lascia trasparire il clima effettivo della costituzione: dalla separazione alla condivisione col mondo; dalla distanza al dialogo2. Ecco il capovolgimento di atteggiamento che conclude il cammino del concilio, non per chiuderlo, semmai per spalancare le porte della chiesa all’intera umanità! Un simile slancio era già stato anticipato dall’intuizione di Giovanni XXIII e trovava eco anche nelle parole del principale interprete del cammino conciliare, Paolo VI, che apriva così la seconda sessione: «Noi guardiamo al nostro tempo e alle sue varie e contraddittorie manifestazioni con immensa simpatia e con immenso desiderio di offrire agli uomini di oggi il messaggio di amicizia, di salvezza e di speranza che Cristo ha recato nel mondo: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17). Lo sappia il mondo: la chiesa guarda ad esso con profonda comprensione, con sincera ammirazione e con schietto proposito non di dominarlo 1 TONINO BELLO, Cirenei della gioia, in Scritti mariani, Lettere ai catechisti, Visite pastorali, Preghiere, Molfetta 1995 (Scritti di mons. Antonio Bello 3), 228, n. 151. 2 Cfr. il giudizio di L. SARTORI, La Chiesa nel mondo contemporaneo: Introduzione alla Gaudium et Spes, Padova 1995. Per una introduzione allla costituzione pastorale, tra i tanti, segnaliamo i commentari classici: La Chiesa e il mondo contemporaneo: Costituzione pastorale “Gaudium et spes”, introduzione, testo, note, indice analitico, Roma 1966 (Studi e documenti 8); La Chiesa nel mondo contemporaneo: commento alla costituzione pastorale “Gaudium et spes”, Brescia 19662; La Chiesa nel mondo di oggi: studi e commenti intorno alla Costituzione pastorale “Gaudium et Spes”, Firenze 1966; L’Église dans le monde de ce temps: Constitution “Gaudium et Spes”, commentaires du schèma 13, Tours 1967; L’Église dans le monde de ce temps: Constitution pastorale “Gaudium et spes”, Paris 1967, vol. 2 (Unam Sanctam, 65b); E. CHIAVACCI, La costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Gaudium et spes, Roma 1967. Si vedano inoltre i numeri monografici di alcune riviste: Ripensare la «Gaudium et Spes». Credere oggi. Dossier di orientamento e aggiornamento teologico 85/1 (1985); Concilio Vaticano 2: “Lumen Gentium” y “Gaudium et spes”, in Burgense 48 (2007); Vaticano II: un futuro dimenticato, in Concilium 41 (2005); Futuro mancato di un documento rivoluzionario? A quarant’anni dalla Gaudium et spes, in Salesianum 68 (2008).
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ma di servirlo, non di disprezzarlo ma di accrescerne la dignità, non di condannarlo ma di offrirgli conforto e salvezza» (Discorso di apertura della seconda sessione 189*-190*, 29-09.1963).
Speranza o illusione? Proprio questo tono di fondo è stato motivo e oggetto di profonda critica: ingenuità o realismo? Frutto del clima del tempo — i favolosi anni sessanta — o autentica virtù ecclesiale? Ci si è chiesti se fosse biblico l’ottimismo di GS3? O se debba essere considerata non tanto l’epilogo del Vaticano II quanto il frutto acerbo di una stagione? Il prodotto di un compromesso — critica che registra anche Benedetto XVI4 — o l’esito compiuto di un complesso percorso di chiesa? Le domande si sprecano e i tentativi di risposta restano aperti. Forse più di ogni altro questo documento rimane nel “conflitto delle interpretazioni”. C. Molari sottolinea che «La GS è stata la costituzione che ha trovato le maggiori difficoltà nella ricezione, per cui la sua incidenza nella vita ecclesiale non è stata molto rilevante. E Borgman ha parlato del “futuro mancato di un documento rivoluzionario”». Si noti che «la principale ragione risiede nelle profonde innovazioni di metodo e dottrina che essa contiene. […] Per questo nel futuro la GS sarà presumibilmente il documento dalle maggiori possibilità di applicazione»5.
Obiettivo della presente ricerca è di apprendere le ragioni di tanta 3 V. FUSCO, È biblico l’ottimismo della Gaudium et spes?, in N. GALANTINO (ed.), Il Concilio venti anni dopo. 3: Il rapporto chiesa-mondo, Roma 1986 (Saggi 25). Ad es., Colozzi, docente di sociologia, segnala la linea di pensiero che denuncia come limite di GS «un atteggiamento troppo positivo verso la modernità», criticandola perché richiama «la preoccupazione fondamentale dei padri» del passaggio da un «atteggiamento di condanna della modernità a un atteggiamento di discernimento» (I. COLOZZI, È adeguato il sistema con cui la Gaudium et spes ha osservato il mondo contemporaneo?, in SERVIZIO NAZIONALE PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CEI, A quarant’anni dal Concilio, VI Forum del Progetto Culturale, Bologna 2005, (179). 4 BENEDETTO XVI, Il concilio Vaticano II quarant’anni dopo, Città del Vaticano 2006, 12. 5 C. MOLARI, La Chiesa dopo Gaudium et spes, 447-448 (corsivi nostri).
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speranza. Riteniamo si possa fare — in una corretta ermeneutica del concilio6 — stando in fedele ascolto del testo, inserito nel contesto che lo ha generato. Così ci troveremo in dialogo — attento e critico — non tanto con un documento del passato, ma ci porrà in contatto con un singolare momento di Chiesa. A distanza di 50 anni ci invita non ad una generica speranza nel rapporto Chiesa-mondo, o alla ripetizione di alcuni contenuti, ma ci indica la strada, il metodo, per arrivarvi. O, se vogliamo, ci offre una “lezione di stile” ecclesiale che rimane come “bussola per il terzo millennio”, come ha additato Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte (n. 57). Più precisamente, nella Novo Millennio Adveniente (n. 36) ha sottolineato: «Una domanda vitale deve riguardare anche lo stile dei rapporti tra Chiesa e mondo. Le direttive conciliari — offerte nella Gaudium et spes e in altri documenti — di un dialogo aperto, rispettoso e cordiale, accompagnato tuttavia da un attento discernimento e dalla coraggiosa testimonianza della verità, restano valide e ci chiamano a un impegno ulteriore».
È una lezione di “stile ecclesiale” di cui vogliamo evidenziare almeno quattro provocazioni. 2. LA STORIA DEL DOCUMENTO: COMPROMESSO O ACCORDO? «Il processo è il risultato»: è la provocatoria tesi di O.H. Pesch. Infatti, precisamente «nel corso dell’elaborazione della costituzione pastorale si verificò l’“apertura al mondo” che in essa doveva essere documentata»7. Se vale questa interpretazione, prima ancora di
6 Cfr. per una introduzione all’ermeneutica del Vaticano II il nostro: L’evento e lo spirito. Approcci interpretativi al Vaticano II, in La Scuola Cattolica, 2013, I, 89-114. 7 O.H. PESCH, Il Concilio Vaticano secondo. Preistoria, svolgimento, risultati, storia post-conciliare, Brescia 2005 (Biblioteca di Teologia Contemporanea 131), 369. «Ho presentato la storia del testo in maniera così esaustiva perché essa è quasi più importante dello stesso prodotto finale. […] L’apertura della chiesa al mondo si verificò nel processo stesso dei lavori intorno al testo sull’apertura della chiesa di massa per
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entrare nei contenuti del testo è della sua complessa genesi che occorre mettersi in ascolto per comprenderlo e raccoglierne la prima significativa lezione di metodo. Ciò costituisce il necessario preambolo interpretativo che si dovrebbe articolare almeno in tre passaggi: la conoscenza del contesto storico-culturale8, la genesi del documento9 e la sua lettura in unità con tutto il concilio10. Si tratta di criteri ermeneutici essenziali per una corretta interpretazione del testo. Non basta prendere in mano il documento e leggerlo. La genesi del testo approvato in aula11 è quasi la “biografia” del documento che permette di comprendere l’intenzione dei padri: accenti, silenzi, picchi o ristagni del discorso, novità e compromessi. Come in
mutuare uno slogan che viene applicato ai mezzi di comunicazione di massa, si potrebbe dire che “il mezzo è il messaggio”. Il processo rappresenta il risultato. L’elaborazione del testo è l’apertura, perché non si limita ad esporre un’apertura già raggiunta in precedenza». 8 Rimandiamo, ad esempio, a A. RIVA, Attualità della “Gaudium et Spes”, in Rivista del Clero Italiano, 2002, V, 342-358, che presenta il contesto teologico e culturale in cui è nato. Sullo sfondo originario emergono con più forza le novità introdotte così come si comprendono legami ed eredità del passato. Ciò permette di apprezzare la portata del messaggio conciliare, il suo valore epocale, ma, inevitabilmente, anche i limiti connessi. 9 Per una ricostruzione storica si veda: G. TURBANTI, Un concilio per il mondo moderno: la redazione della costituzione pastorale “Gaudium et spes” del Vaticano II, Bologna 2000. 10 “Leggere il concilio con il concilio”: con questo slogan possiamo sintetizzare i criteri puntualizzati nella Relazione finale del secondo sinodo straordinario. 9 dicembre 1985, nn. 18-19 e la recente indicazione di papa BENEDETTO XVI, Il concilio Vaticano II quarant’anni dopo, Città del Vaticano 2006, 11-22; che distingue tra “ermeneutica della discontinuità e della rottura” da una “ermeneutica della riforma”, “del rinnovamento nella continuità”. Non si tratta, dunque, di una contrapposizione tra continuità e discontinuità (questa lettura semplificante ha portato a una interpretazione del messaggio del papa nella direzione di una “riduzione” del concilio entro il passato, in un’ottica tradizionalista). 11 J. GROOTAERS, Dal Concilio Vaticano II a Giovanni Paolo II. Una grande svolta della Chiesa Cattolica, Casale Monferrato 1982, 140-147. Per uno studio aggiornato cfr. G. TURBANTI, Un concilio per il mondo moderno: la redazione della costituzione pastorale “Gaudium et spes” del Vaticano II, Bologna 2000 (Testi e ricerche di scienze religiose. Nuova serie 24).
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uno spartito musicale, finché non sono eseguiti possono non essere notati ma sono indispensabili. Non ha un intento storico-archeologico, ma permette di leggere il testo in tutte le sue dimensioni, cogliendo attraverso i cambiamenti e le tensioni interne, dove punti “l’intenzione dei padri”. Potremmo dire che il testo da una lettura “piana” passa a una visione “tridimensionale”, o semplicemente integrale. Rimandando agli ottimi studi di G. Turbanti, va ricordato almeno che la redazione del testo attraversò tutta la durata del concilio (e probabilmente sarebbe continuata se ce ne fosse stato tempo). Dunque, un arco molto ampio e complesso che vide diversi schemi, con impostazioni differenti, e persino un cambio della commissione stessa, con la nascita di un gruppo ad hoc: la commissione mista, nel maggio 1963, formata da membri della commissione Teologica e dell’Apostolato dei Laici, che dopo 5 mesi elaborò il cosiddetto “Schema 17”. Da simili premesse si comprende che il risultato fu un testo di compromesso. Da questa vicenda possiamo evidenziate una triplice lezione: 1. Il tempo di preparazione: una condizione necessaria — e non scontata — per la maturazione di un discernimento ecclesiale. 2. Il metodo di lavoro: la scelta di collaborazione tra tutti i soggetti ecclesiali. 3. Il compromesso finale: non una meta inferiore, ma l’ostinata ricerca di un accordo. In particolare, lo sguardo storico porta a ricordare che la formazione di un discernimento esige tempo ed implica la collaborazione di molteplici voci. Non si può improvvisare, tantomeno può venire dall’impulso di un momento o dall’intuizione di un singolo. Si tratta di un evento ecclesiale, che implica delle condizioni di ricerca e un itinerario di lavoro comune che il concilio ha mostrato in atto. In questo orizzonte, risulta comprensibile l’accettazione di un inevitabile compromesso. Il termine è pregiudicato e suona negativo. La costatazione di una dose di compromesso va mantenuta, ma correttamente interpretata nei suoi limiti ed anche nei pregi. Sono evidenti le incongruenze tra dichiarazioni di principio e declinazioni contenutistiche. La storia della redazione ha mostrato «con chiarezza la fretta e a tratti l’improvvisazione con cui il testo è stato elabo-
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rato»12. Una lettura non ideologica del documento supporta la critica di G. Colombo, secondo cui la costituzione «lascia il suo progetto in mezzo al guado»13. Tuttavia, a mio giudizio, non ne inficia il valore e chiede di essere criticamente interpretato. Infatti, una pluralità di elementi, pur non negando i reali compromessi, spiega le ragioni di questo esito14. Ne indicherei almeno quattro. In primo luogo, la consapevolezza che se negli anni ’60 si impone il cristocentrismo, tuttavia, il suo recupero resta ancora iniziale. Prima che la teologia si rinnovi occorre tempo per assimilare linguaggi e metodi. Semmai, è già un merito l’aver riconosciuto tale apporto da parte dei padri. Inoltre, occorre tenere presente l’obiettivo pastorale del testo — si veda il criterio interpretativo offerto dalla nota 1 — e la ricerca di dialogo con il mondo: non giustifica, ma rende comprensibile gli sforzi di mediazione messi in campo. In terzo luogo, vale la pena richiamare il genere proprio di un testo magisteriale che non ha la preoccupazione di offrire una sintesi sistematica — propria, invece, della teologia. Si deve dunque evitare di “chiedere troppo” al documento stesso. Non ultimo, l’indicazione esplicita di Paolo VI che, nella votazione, chiedeva la maggior unanimità possibile, anche a costo di compromessi15. Se il termine, dunque, risulta pregiudicato, si potrebbe parlare musicalmente della ricerca di un “accordo”, in cui la diversità delle note non è tolta, ma trova armonia nel rispettoso sintonizzarsi con le altre. Si percepisce che nasce da un intento di sintesi, anzi di comunione, che i padri hanno cercato di esercitare nel loro stesso lavoro. Questa consapevolezza, semmai, apre lo spazio alla responsabilità 12
F.G. BRAMBILLA, Il concilio Vaticano II e l’antropologia teologica, 668. G. COLOMBO, La teologia della “Gaudium et Spes” e l’esercizio del magistero ecclesiastico, in La Scuola Cattolica, 1970, VI, 477-511. Forse lo studio più critico tra tutti. Chirurgico come sempre e, in questo, coerente fino in fondo. A nostro giudizio risente di una valutazione ancora “a ridosso” del documento. 14 Cfr. A. SCOLA, Gaudium et Spes: dialogo e discernimento, 95-97. 15 Ibid., 95, nota 56. 13
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della recezione postconciliare, chiamata a comprendere e continuare quello stile. 3. “LA CONDIZIONE DELL’UOMO NEL MONDO CONTEMPORANEO”: ANALISI SOCIOLOGICA O DISCERNIMENTO ECCLESIALE? Una seconda lezione dello stile di GS può venire dall’esposizione introduttiva (GS 4-11) su «la condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo» che delinea «le caratteristiche più rilevanti del mondo» d’oggi: speranze ed angosce (n. 4), profonde mutazioni (n. 5), mutamenti sociali (n. 6), mutamenti psicologici, morali e religiosi (n. 7), squilibri del mondo contemporaneo (n. 8), le aspirazioni più diffuse dell’umanità (n. 9), fino agli interrogativi più profondi dell’uomo (n. 10). Ne esce uno sguardo panoramico sulla situazione dell’epoca che elenca «i segni dei tempi», una sorta di fenomenologia che riguarda tutti, credenti e non. Vero è che essendo una lettura sociologica di quella stagione risulta inevitabilmente contingente e superata, quasi la fotografia di un tempo passato. A mio giudizio, comunque, un simile approccio rimane istruttivo per il modo in cui la chiesa si ferma ad osservare il mondo. Ne evidenziamo almeno quattro tratti. 3.1. Un approccio induttivo: i “Segni dei tempi” Al fine di instaurare un dialogo costruttivo col mondo, il concilio parte da una lettura attenta del tempo presente: da un “ascolto” della situazione. È l’assunzione del metodo induttivo, che muove dalla lettura dei “segni dei tempi”, autorevolmente indicata da Giovanni XXIII nell’Humanae salutis. In particolare offre i nodi fondamentali da visualizzare per comprendere anche la condizione religiosa del tempo. GS non parte da una fotografia “ad intra” e ripiegata su se stessa, magari preoccupata dei numeri dei partecipanti o di quanto avviene nel cortile parrocchiale. Piuttosto colloca la vicenda ecclesiale entro il quadro complessivo della società del tempo, ponendosi seriamente — e rispettosamente — in ascolto di come vive il mondo: le trasformazioni sociali, il cambiamento di mentalità e di intelligenza
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ormai “scientifica” (5), il mutamento economico e lavorativo (6), la società ormai industriale e il fenomeno dell’urbanizzazione. Cambiano cioè il tipo di formazione, il lavoro, i luoghi di vita: di conseguenza muta anche la vita religiosa (7) e i valori connessi (8). Per quanto da adattare al presente, se non altro offre una traccia esemplare degli elementi da approfondire e, soprattutto, invita a considerare anzitutto il contesto entro cui collocare e comprendere la situazione ecclesiale. Come la chiesa, anche oggi, può imparare a guardare il suo mondo? 3.2. La collaborazione di un laico Non è casuale che, per fare questo, i padri abbiano chiesto l’aiuto di un sociologo (il francese F. Houtart). Per la prima volta un testo magisteriale assume un testo scritto da un laico: sottolineando ulteriormente la necessità di una strumentazione scientifica adeguata per una lettura critica della situazione (non parziale o ripetitiva di “luoghi comuni”, non utili né alla comprensione del mondo né all’annuncio del vangelo). Dal punto di vista scientifico, introduce la via dell’interdisciplinarità, con la valorizzazione delle varie competenze. Ma ancor di più, è il riconoscimento del ruolo attivo dei laici, accolti nella specificità e per la necessità del loro contributo. In questo senso ha ragione Pesch: il risultato è già nel processo. Più che teorizzarlo, il concilio ha concretizzato il loro apporto. 3.3. Il metodo di lettura: vedere-giudicare-agire Un’ulteriore precisazione riguardo al concreto rapporto tra Chiesa e mondo è data da GS 4. Un’indicazione celebre: «Per svolgere questo compito, è dovere permanente della chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche» (GS 4).
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È il ritmo ternario vedere-giudicare-agire, secondo la formula della JOC, autorevolmente assunta da Giovanni XXIII nell’enciclica Mater et Magistra. Il magistero, come di solito, opta per una voluta differenziazione terminologica per non consacrare un modello specifico: scrutare, interpretare alla luce del Vangelo, rispondere in modo adatto. Un metodo quanto meno articolato, che non presume di avere già le risposte pronte, ma si fa carico pazientemente del dialogo tra le vicende del tempo e la novità del vangelo. 3.4. I mutamenti Infine, un ultimo tratto ci pare istruttivo. Nella descrizione panoramica del mondo, con le sue varie sfaccettature (sociali, culturali, economiche e religiose), il testo presenta i dati secondo la categoria di mutamenti16. È la cifra trasversale che unifica la complessità dei cambiamenti avvenuti nell’epoca recente. La categoria è aperta: non esprime un giudizio, né positivo né negativo. Rimane rispettosa e in ascolto. Ancor di più se si entra nel contenuto. Ogni mutamento (culturale, sociale, economico, psicologico, morale e persino religioso) è riconosciuto nella sua complessità, ma costantemente descritto su due versanti: presenta problemi nuovi, ma anche apre possibilità inedite; offre apporti e risorse urgenti ma impone interrogativi inattesi. La descrizione cerca così di tenere insieme sia aspetti positivi che negativi. Ne sia un esempio il n. 7, riguardo i mutamenti della vita religiosa: Anche la vita religiosa, infine, è sotto l’influsso delle nuove situazioni. Da un lato un più acuto senso critico la purifica da ogni concezione magica del mondo e dalle sopravvivenze superstiziose ed esige sempre più una adesione più personale e attiva alla fede; numerosi sono perciò coloro che 16 Mi distanzio, qui, dal giudizio negativo di Colozzi, poiché attribuisce a questa lettura della realtà — che pure può essere non sufficiente e perfettibile — posizioni «culturalmente e politicamente moderniste e secolarizzate». Mi pare che la critica sia eccessiva, in quanto retroproietta sul testo eventi successivi, che si susseguono non in forma del tutto di causa-effetto, tantomeno in maniera così deterministica.
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giungono a un più acuto senso di Dio. D’altro canto però moltitudini crescenti praticamente si staccano dalla religione. A differenza dei tempi passati, negare Dio o la religione o farne praticamente a meno, non è più un fatto insolito e individuale».
L’approccio tende a cogliere in unità i due lati del mutamento: possibilità e problemi. Entrambi i versanti. Sempre. Anzi, normalmente sottolineando prima il positivo del negativo. Non sarà un caso in un concilio che non ha voluto condannare ma ascoltare, conoscere e non solo insegnare. 4. LA CHIESA NEL MONDO CONTEMPORANEO: UNA RIVOLUZIONE COPERNICANA
Evidentemente la lezione principale è data dalla novità del rapporto Chiesa-mondo, efficacemente evocata dall’incipit della costituzione. «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (GS 1).
“Quod in corde eorum resonet”: ecco la presentazione di una chiesa che lascia risuonare dentro di sé le note della storia e vi si fa compagna, anzi che danza al ritmo del tempo. GS esordisce evocando la felice immagine “musicale” di Giovanni XIII all’Indizione del concilio: «sarà questa una dimostrazione della Chiesa, sempre vivente e sempre giovane, che sente il ritmo del tempo che in ogni secolo si orna di nuovo splendore, irraggia nuove luci, realizza nuove conquiste, pur restando sempre identica a se stessa, fedele alla immagine divina impressa sul suo volto dallo Sposo, che l’ama protegge, Cristo Gesù» (Humanae salutis 7*, 25 dicembre 1961)». Innovativa l’immagine di una Chiesa “danzante” al ritmo del tempo. Le ragioni di tanta speranza più che da uno sguardo sulla storia (i favolosi anni sessanta) provengono dall’interno: dal desiderio di unità e di diffusione del Vangelo. È la natura stessa della Chiesa a stimolare la speranza, anzi, è il segno della sua giovinezza.
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Vediamo la novità di questo stile voluto dai padri, sintetizzato dal titolo stesso della costituzione17. 4.1. Il titolo: la Chiesa nel mondo contemporaneo Il nuovo modo di porsi della comunità cristiana di fronte al mondo è espresso sinteticamente dal titolo “de ecclesia in mundo huius temporis”. Una vera e propria “rivoluzione copernicana”. Schematicamente, ma con efficacia — così lo descrive Sartori — il rapporto tra la Chiesa e il mondo è pensato: «non in contrapposizione: aut… aut; né in coesistenza: et… et; bensì in relazione: ecclesia in mundo!»18.
Dunque, la Chiesa si pensa dentro il mondo, in relazione ad esso, con le conseguenze che ne derivano19. Affermare dall’inizio, anzi, programmaticamente e con enfasi sin dal titolo, che la Chiesa si pensa nel mondo, significa anzitutto riconoscere la “relazione” tra Chiesa e mondo come qualcosa di costitutivo ed originario e non di secondario e successivo. La Chiesa si trova già nel mondo, non è un’entità separata da esso che gli si contrappone frontalmente. Si tratta della “chiesa nel mondo contemporaneo” e non tanto del rapporto “chiesa e mondo”. La sfumatura non è di poco conto, ma acquisisce consistenza se posta sullo sfondo della storia precedente. Infatti, dice immediatamente il cambiamento di 17 Per un approfondimento rimandiamo ai nostri: La chiesa nel mondo. Attualità di alcuni principi ispiratori della Gaudium et Spes, in La Rivista del clero italiano, 2003, X, 701-722; Gesù risorto speranza del mondo. Speranza cristiana e forme di testimonianza in Gaudium et spes, in La Scuola Cattolica, 2006, II, 355-373. 18 Cfr. F. MASSAGRANDE, La vicenda “esemplare” del testo, 13. Interessante confrontare i titoli delle precedenti edizioni: 28 marzo 1963: Constitutio de ecclesiae praesentia et atione in mundo hodierno; luglio 1963: de praesentia efficaci ecclesiae in mundo odierno. 19 P. VANZAN, I rapporti Chiesa-mondo nel cap. IV della “Gaudium et Spes”, 57, n. 4.
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atteggiamento da parte della Chiesa e il superamento del dualismo, della separazione tipica dell’epoca moderna tra Chiesa e Mondo, Teologia e Filosofia, Fede e Ragione. Si passa dalla contrapposizione (aut… aut: “chiesa o mondo”, oppure “chiesa di fronte al mondo” o peggio ancora “contro di esso”), senza arrivare alla giustapposizione, pur conciliante (et… et), bensì ad una relazione originaria: «la chiesa non si considera dirimpettaia, tanto meno contro, rispetto al mondo, ma sua parte, dentro di esso»20. La novità è evidente. Il titolo rifiuta pregiudizialmente la separazione tra Chiesa e mondo, dichiarando come punto di partenza del dialogo la relazione che già esiste e che va assunta ed attuata criticamente. Come è possibile questo? Debolezza o strategia? Semplicemente è il frutto del cammino del concilio. Esso si radica nell’ecclesiologia maturata sin lì in ottemperanza al progetto di Paolo VI. Tutto ciò è sintetizzato nella nuova comprensione dei due protagonisti in gioco — la Chiesa e il mondo — che ha portato a una nuova elaborazione del loro rapporto. Vediamoli con gli occhi del concilio: chi è la Chiesa? Chi è il mondo? Quale rapporto ne consegue? 4.2. Chi è la Chiesa? (LG 1) Il primo protagonista è la Chiesa. GS si fonda consapevolmente nell’ecclesiogia maturata nel concilio ed espressa in LG (cfr. GS 2a: dopo aver «penetrato più a fondo il mistero della Chiesa». Analogicamente in GS 40a: «In questo capitolo, pertanto, presupponendo tutto ciò che il concilio ha già promulgato circa il mistero della chiesa, si viene a prendere in considerazione la medesima chiesa in quanto si trova nel mondo e insieme con esso vive e agisce»). Cosa la chiesa ha compreso di sé in LG? Si veda il fondamento: «Cristo è la luce delle genti, e questo sacro concilio, adunato nello Spirito santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della chiesa, illumini tutti gli uomini annunziando il vangelo a ogni creatura 20
L. SARTORI, La Chiesa nel mondo contemporaneo, 27.
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(cfr. Mc. 16,15). E siccome la chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, continuando l’insegnamento dei precedenti concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la sua natura e la sua missione universale» (LG 1).
Con LG I i padri han recuperato la visione misterica di Chiesa, intesa come segno e strumento della comunione di Dio con gli uomini e di tutti gli uomini tra di loro. La Chiesa è colta entro il “mysterium salutis”, in quel dinamismo di comunione che parte dalla Trinità (cfr. LG 2-4//AG 2-4, DV 2-5), nel disegno del Padre di chiamare gli uomini alla partecipazione della sua vita, che si attua nella ricapitolazione di tutti in Cristo, attraverso il dono dello Spirito. Se il piano divino è questo mistero di comunione di Dio con gli uomini e degli uomini tra di loro — che la teologia esplicita nella tesi della predestinazione in Cristo (Col 115; Rm 8,29 citati in LG 2; Ef 1,4s citato in LG 3) declinando tali relazioni nella filiazione adottiva e nella fraternità universale —, si comprende il ruolo della Chiesa nella storia del mondo: “annunciare il Regno di Dio e di Cristo e di instaurarlo fra tutte le genti; di questo regno costituisce sulla terra il germe e l’inizio” (LG 5). Qui si comprende nel suo principio teologico il rapporto Chiesamondo: essa si colloca nell’intreccio tra la comunione, che potremmo dire “verticale, con Dio e quella “orizzontale”, con gli uomini, come “germe validissimo di unità” (LG 9). Precisamente questa “collocazione” riporta la Chiesa stessa al suo fondamento ultimo, Cristo, centro del mistero salvifico. La radice ultima dell’atteggiamento di GS nasce dalla natura della chiesa, ripensata nel suo fondamento cristologico (e non sociologico: societas perfecta). È la prima grande consegna di GS. Insistita e voluta, per quanto ancora limitata: il riferimento a Gesù compare solo al n. 10. Poi, torna alla fine del capitolo sull’uomo (il celebre n. 22), e di nuovo solo al termine dei capitoli sulla comunità degli uomini (n. 32) e sull’attività umana nell’universo mondo (n. 38). Certo solo un dato strutturale che apre uno squarcio per ricordare un elemento di fondo: GS detta con insistenza una linea, qua cristo-
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centrica, pur non riuscendo ad eseguirla. Ma questa è la direzione che ci è consegnata. A sua volta, però, questo fondamento collega la comunità cristiana immediatamente all’intera umanità: «la Chiesa non può chiudersi in se stessa, in quanto “ex hominibus propter homines costituta” (mons. E. Guano, il 30 settembre 1964). Per questo è proprio l’approfondimento della natura della Chiesa ad averla portata verso il mondo. Ecco il fondamento teologico — e non sociologico! — del nuovo rapporto col mondo! Il programma ecclesiologico tracciato da Paolo VI nel Discorso di apertura del 2° periodo del Concilio (29 settembre 1963, 148*)21 e nell’enciclica Ecclesiam suam (06/06/1964) – è stato definito di «panecclesiocentrismo»22, all’opposto di un ripiegamento ecclesiocentrico ha portato al cristocentrismo, ossia riscoprire Cristo come centro della propria vita. Questa base fonda l’apertura alle altre religioni e il dialogo col mondo. In questo senso, l’approfondimento della natura della Chiesa ha fondato teologicamente l’apertura al mondo. In questo senso, GS è da pensare come il frutto — pur ancora da maturare — dell’intero itinerario del concilio. 4.3. Chi è il Mondo? (GS 2a) Ma di fronte a questa chiesa resta la domanda: dove sta il mondo? O meglio chi è23?
21
Discorso di apertura del 2° periodo del Concilio, 29 settembre 1963. Tale linea viene autorevolmente ripresa e confermata dal Sinodo n° 1: «è necessario quindi comprendere la realtà profonda della chiesa e di conseguenza evitare le cattive interpretazioni sociologiche o politiche sulla natura della chiesa. In questo modo proseguiremo, senza soste, il nostro lavoro, nella fede e nella speranza, per l’unità dei cristiani… attraverso questa chiesa, Dio offre un’anticipazione e una promessa della comunione a cui chiama tutta l’umanità» (Messaggio dei padri sinodali al popolo di Dio, 7 dicembre 1985, 10-11). 23 Cfr. Y. M.-J. CONGAR, Église et monde dans la perspective de Vatican II, in Vatican II. L’Église dans le monde de ce temps. Tome III réflexions et perspectives, Paris 1967 (Unam Sanctam 65c), 15-41: 38-41. 22
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L’interrogativo, tutt’altro che peregrino, era stato sollevato al concilio stesso, sia nella discussione in aula conciliare che nei dibattiti teologici (Rahner, Maritain) e ancora oggi non mancano letture critiche sull’uso ma, a nostro giudizio, frettolosamente parziali. Il suo contenuto non può esser dato per scontato. Di nuovo ci poniamo in ascolto del testo. Il concilio presenta autorevolmente ciò che intende per mondo con cui dialogare: «Esso ha presente perciò il mondo degli uomini ossia l’intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive; il mondo, che è teatro della storia del genere umano e reca i segni degli sforzi suoi, delle sue sconfitte e delle sue vittorie, il mondo che i cristiani credono
1. creato e conservato nell’esistenza dall’amore del Creatore, 2. mondo certamente posto sotto la schiavitù del peccato, 3. ma dal Cristo crocifisso e risorto, con la sconfitta del maligno, liberato 4. e destinato, secondo il proposito divino, a trasformarsi e a giungere al suo compimento (GS 2)».
Il mondo, semplicemente, è l’umanità, il genere umano intero! Per questo, ha un’accezione positiva, al di là di ogni pregiudiziale: non si tratta di un nemico da conquistare e/o combattere La visione cristiana di mondo risulta un concetto articolato se colto dentro le tappe della storia della salvezza, ossia in riferimento alla creazione, in seguito segnato dal peccato, ma anche raggiunto dalla Redenzione di Cristo e in cammino vero il suo pieno compimento escatologico. Questa quadripartizione — che coglie il ritmo della storia della salvezza: creazione-peccato-redenzione-escatologia — rievoca sinteticamente il ritmo dello svolgimento del mysterion divino in Paolo (cfr. il dinamismo descritto negli inni di Col 1, Ef 1 o in Rom 8,30). In altri termini, se ne deve concludere che anche il “mondo” è definito, pensato, colto, dentro il piano divino: non al di fuori di questo. Tantomeno contro di esso! Il concilio, in definitiva, offre una visione articolata del mondo: non un’immagine idealistica, irenica, ma neppure quella diametralmente opposta, tragica e peccaminosa. Piuttosto, intende fornire un’interpretazione realista, proprio in
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quanto teologica: perché alla luce della rivelazione coglie, fino in fondo, luci ed ombre24. 4.4. “Nel”: le possibili declinazioni del nesso Una volta compresi i “protagonisti” in gioco, nella loro originaria relazione, occorre declinare concretamente il loro rapporto25. Il concilio offre diversi modelli per descrivere il rapporto Chiesamondo. Nel solo proemio si parla progressivamente di “solidarietà” (n.1 n. 3), “dialogo” e “cooperazione” (n. 3) sino al servizio (n. 3)26. La svolta copernicana della Chiesa verso il mondo non si limita a un livello teorico, ma si declina anche nel concreto, arrivando a descrivere varie forme. Ci limitiamo ad uno sguardo panoramico per invitare, poi, a ulteriori approfondimenti27. a. Dialogo «La Chiesa ha dovuto porsi sulla difensiva ed è stata quasi costretta ad aggravare il distanziamento e la separazione nei confronti del “mondo moderno”. Ma con il concilio è giunta finalmente l’ora del dialogo»28.
Dalla separazione al dialogo: questa categoria, espressione del tentativo di superare la frattura propria dell’epoca moderna, si è imposta come cifra sintetica del rapporto tra Chiesa e mondo o 24
P. FIETTA, Chiesa diakonia della salvezza. Lineamenti di Ecclesiologia, Padova 1993, 332 che cita a sua volta: W. KASPER, Ruolo soteriologica della Chiesa, 103. 25 F. SCANZIANI, Gesù risorto speranza del mondo. Speranza cristiana e forme di testimonianza in Gaudium et spes, in La Scuola Cattolica, 2006, II, 364-371. 26 «Completerà su questo punto il rinnovamento conciliare Paolo VI, che nella sua prima grande enciclica sociale, la Popolorum progressio (1967), delineerà il volto di una chiesa “Esperta in umanità” (13) e posta, in nome del vangelo stesso, “al servizio degli uomini”» (1), in ARCIDIOCESI DI MILANO, I cristiani nella città: per dare forma a un segno, Milano 2005, 70. 27 Cfr. il nostro Gesù risorto speranza del mondo. Speranza cristiana e forme di testimonianza in Gaudium et spes, in La Scuola Cattolica, 2006, II, 366-373. 28 L. SARTORI, La Chiesa nel mondo contemporaneo, 11. La categoria di dialogo ricorre in GS 3, 21, 23, 25, 28, 40, 43, 56, 85, 92.
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almeno è quella che ha avuto maggior eco esponendosi, però, anche ad aspre critiche e incorrendo nel rischio di diventare, nel tempo, abusata e, persino, ambigua. Il fatto stesso che non sia l’unica utilizzata da GS lascia intuire che un dibattito unilateralmente centrato su di essa potrebbe penalizzare le altre e limitare la descrizione di un rapporto complesso e non riducibile a una sola forma storica. In effetti, parecchi son stati gli equivoci di cui è stato caricato tale atteggiamento: per esecuzioni parziali o scorrette interpretazioni. Da un lato il dialogo è stato visto con sospetto per il pericolo di perdere lo specifico cristiano o come un segno di debolezza e cedimento al mondo; dall’altra si è caduti nell’eccesso opposto di un’enfasi ridondante che non ha cercato la rigorosità di un metodo di lavoro29. Rispetto alle possibili derive assumiamo nuovamente il concilio come riferimento chiarificante: «Per questo il concilio, testimoniando e proponendo la fede di tutto intero il popolo di Dio, riunito da Cristo, non può dare dimostrazione più eloquente della solidarietà, del rispetto e dell’amore di esso nei riguardi della intera famiglia umana, dentro la quale è inserito, che instaurando con questa un dialogo sui vari problemi sopra accennati, arrecando la luce che viene dal vangelo e mettendo a disposizione degli uomini le energie di salvezza che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito santo, riceve dal suo fondatore» (GS 3b).
In primo luogo la cifra del dialogo esprime la novità di un rapporto che da negativo diviene positivo, secondo l’intento di Giovanni XXIII: «Oggi — diceva — la sposa di Cristo preferisce ricorrere al rimedio della misericordia, piuttosto che brandire le armi della severità; invece di condannare, ritiene di rispondere meglio ai bisogni della nostra epoca mettendo in più grande evidenza le ricchezze della sua dottrina»30. 29 «Rimane forte il rischio di una comunità cristiana sovraesposta, tentata di assumersi ruoli che obiettivamente debordano dalla propria missione, o viceversa, tentata di isolarsi, di “privatizzarsi”, di rinchiudersi entro identità ristrette, rinunciando così al proprio, originalissimo apporto a servizio dell’uomo» (ARCIDIOCESI DI MILANO, I cristiani nella città, 62). 30 GIOVANNI XXIII, Discorso di apertura, nn. 16-17. Cfr. anche il radiomessaggio dell’11 settembre 1962.
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Ma ancor più fu una categoria «esplicitamente approfondita dal magistero di Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam suam» che ne ha fatto la chiave di volta per un diverso sguardo sulla realtà31. «Nella sua cura di andare incontro agli uomini e di rispondere alla loro attesa, la Chiesa adotta oggi di preferenza il linguaggio dell’amicizia, dell’invito al dialogo. […] Questo non significa certo che la Chiesa sia ormai indifferente agli errori ed ignori l’ambiguità dei valori del mondo moderno. Conosce gli equivoci, le minacce e i pericoli che possono contenere; ma preferisce fermare la sua considerazione sugli aspetti positivi di questi valori, su quanto racchiudono di prezioso per la costruzione di una società migliore o più giusta. Vorrebbe aiutare a riunire tutte le buone volontà per risolvere gli immensi problemi che il nostro secolo deve affrontare»32.
Il dialogo esprime un rinnovato atteggiamento di disponibilità, di “amicizia”, “simpatia” come amava dire Paolo VI. Questo, però, vivendo del confronto schietto tra i due interlocutori, implica un cammino e una dialettica reale33. Ne è un efficace esempio lì dove si parla della cultura (AG 9 e LG 17) in cui si ribadisce, in negativo, che nulla va perduto dei “semi di verità”, ma nel contempo richiede un percorso articolato34: «quanto di bene si trova seminato nel cuore degli uomini o nei riti particolari e nelle culture dei popoli, non solo non va perduto, ma viene sanato, elevato e perfezionato per la gloria 31 A. SCOLA, Gaudium et Spes: dialogo e discernimento nella testimonianza della verità, in Il Concilio Vaticano II. Ricezione e attualità alla luce del Giubileo, Cinisello B. (MI) 2000, 82-114: 83, n. 6; G. PANTEGHINI, Il Vaticano II: il concilio del dialogo, in Credere Oggi 16 (1983) 4, 88-99. 32 PAOLO VI, Discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (8 gennaio 1966), in L’Osservatore Romano, 9 gennaio 1966 (cit. in: S. QUADRI, 635637). 33 «Il dialogo è quella parola (logos) che prende corpo in-e-attraverso (dià) due parole (logoi) che amichevolmente, ma schiettamente si fronteggiano, si testimoniano, si confrontano» (A. RIVA, Attualità della “Gaudium et Spes”, La Rivista del Clero Italiano 83 [2002] 5, 342-358, 356). Su tale dialettica cfr. H. DE LUBAC, La rivelazione divina e il senso dell’uomo, 199-205. 34 ARCIDIOCESI DI MILANO, I cristiani nella città, 74.
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di Dio». Ma, soprattutto, scaturisce dalla natura della Chiesa e corrisponde al suo fine: «La Chiesa, in forza della missione che ha di illuminare tutto il mondo con il messaggio evangelico e di radunare in un solo Spirito tutti gli uomini di qualunque nazione, razza e civiltà, diventa segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo» (GS 92).
Potremmo dire: «il dialogo nasce dall’annuncio»35, perché — secondo mons. Guano — «il dialogo è lo stile con cui la Chiesa si rapporta con gli uomini, per i quali è costituita»36. Precisamente da tale radicamento è possibile «designare i contorni di un ethos del dialogo, i cui requisiti fondamentali sono l’ascolto, la simpatia, la proposta, il discernimento, la collaborazione», fino a descrivere «il volto cristiano del dialogo»37. In definitiva, la scelta del dialogo non si propone come “nuova strategia” (astuta e mascherata) di conquista del mondo, bensì come via privilegiata per comprenderlo; anzi, persino perché la Chiesa comprenda se stessa! Del resto non è lo stile delle rivelazione di Dio che «per il suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 2)? Per questo mantiene un orizzonte universale, declinato (cfr. GS 92) in un «dialogo sempre più fecondo fra tutti coloro che formano l’unico popolo di Dio»; «un dialogo fiducioso» con «tutti coloro che credono in Dio» — e si noti: non anzitutto per convincerli di qualcosa, bensì «augurandoci che possa condurre tutti noi ad accettare con fedeltà gli impulsi dello Spirito e a portarli a compimento con alacrità» —; fino ad essere un dialogo che «ispirato dal solo amore della verità e condotto con la opportuna prudenza, non esclude nessuno: né coloro che hanno il culto di alti valori umani, benché non ne riconoscano ancora l’autore, né coloro che si oppongono alla Chiesa e la perseguitano in diverse maniere».
35
A. RIVA, Attualità della “Gaudium et Spes”, 353. F. MASSAGRANDE, La vicenda ‘esemplare’ del testo, 14. 37 A. RIVA, Attualità della “Gaudium et Spes”, 356-357. 36
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b. Collaborazione – cooperazione – solidarietà Un secondo tratto significativo, insistentemente ripetuto, è la solidarietà che descrive un atteggiamento positivamente fattivo nei confronti del mondo, in collaborazione e «cooperazione sincera della Chiesa al fine di stabilire quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione» (GS 3c). Va precisato che tale insistenza non vuol attenuare minimamente le rispettive diversità38. Anzitutto, perché «la missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è d’ordine politico, economico e sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è d’ordine religioso» (GS 46). Ma a maggior ragione per «l’autonomia delle realtà terrene» che costituisce «una esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche è conforme al volere del Creatore» (GS 36). Il concilio deplora esplicitamente sia un rigido dualismo che separa — sino a contrapporre — «le attività professionali e sociali da una parte, e la vita religiosa dall’altra»; ma pure quell’equivoca unificazione che perde l’identità, che assorbe l’altro in sé (foss’anche la Chiesa a vincere), che non costituisce comunione, ma fusione o, peggio, confusione. Piuttosto, le differenze, legittime, anzi da mantenere, sono esattamente la premessa per la «sana collaborazione»(GS 76). Ma è lo scopo per cui è inviata la Chiesa a spingerla a cercare la collaborazione, per poter attuare quella “fraternità universale” che corrisponde al progetto divino. «Essendo Dio Padre principio e fine di tutti, siamo tutti chiamati ad essere fratelli. E perciò, chiamati a una sola e identica vocazione umana e divina, senza violenza e senza inganno, possiamo e dobbiamo lavorare insieme alla costruzione del mondo nella vera pace» (GS 92).
Nuovamente, la radice ultima non va ricercata in ragioni di opportunità o calcolo saggio e prudenziale, ma sgorga con coerenza dal mysterium salutis che tende alla ricapitolazione di tutti gli uomini: «La Chiesa è pertanto solidale con il mondo per ragioni scaturenti dalla sua 38
ARCIDIOCESI DI MILANO, I cristiani nella città, 72-73.
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stessa fede: il vincolo ineliminabile di ogni uomo con Cristo, fosse anche in aperta avversione, alla Chiesa. Di questo uomo e di questa umanità, non idealmente ma storicamente esistente […] la Chiesa intende farsi carico, ben sapendo che proprio di questa umanità è anzitutto partecipe»39.
c. Servizio Quasi in un climax ascendente nel declinare l’atteggiamento nuovo col mondo, al vertice del proemio il concilio arriva a dichiarare: «Non è mossa la Chiesa da alcuna ambizione terrena; essa mira a questo solo: a continuare, sotto la guida dello Spirito Paraclito, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito» (GS 3d).
Così i padri portano alle estreme conseguenze la loro interpretazione del dialogo tra Chiesa e mondo precisandolo addirittura come servizio all’uomo e alla storia. Per quale ragione? Solo perché «Cristo è venuto per servire e non per essere servito». Non ci si limita a un’operazione di maquillage ecclesiastico né a un’astuta strategia pastorale, volta a ricercare nuovi consensi, bensì conduce sino a quel servizio che la Chiesa rende al mondo e alla storia a imitazione del suo Maestro. Appartiene alla sua identità e alla sua missione, che si radica in Cristo stesso40! Solo su simili basi si comprende l’ardire dei padri che hanno osato porre la Chiesa in atteggiamento di servizio. Serva: come Cristo che è venuto non per essere servito, ma per servire! Serva, non asservita al mondo: solo imitatrice di Cristo. Ecco cos’ha da fare la Chiesa nel mondo! Ecco la sua identità: a servizio dell’uomo e della comunione con Dio. Tale stile non si mutua a partire da modelli mondani, né per reazione a questi. Nessun altro parametro è dato se non seguire la stessa strada di Cristo: la via della povertà, dell’obbedienza, del servizio (AG 5; LG 8). 39
Ibid., 71-72. Analogamente il Compendio della dottrina sociale della Chiesa: «La Chiesa cammina insieme a tutta l’umanità lungo le strade della storia. Essa vive nel mondo e, pur non essendo del mondo (Gv 17,14-16), è chiamata a servirlo seguendo la propria intima vocazione» (18). 40
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Contro le accuse di ecclesiocentrismo, l’approfondimento della natura della Chiesa l’ha aperta al mondo, attuando uno degli scopi del concilio: «tutta questa ricchezza dottrinale è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità. La Chiesa si è quasi dichiarata ancella dell’umanità, proprio nel momento in cui maggiore splendore e maggior vigore ha assunto, mediante la solennità conciliare, sia il suo magistero ecclesiastico, sia il suo pastorale governo: l’idea di ministero ha occupato un posto centrale» (460*).
In che modo? Proclamando la verità dell’uomo e realizzando quella fraternità universale che corrisponde al piano divino: «la Chiesa quale ‘sacramento universale di salvezza’ va intesa nel senso che Dio si serve di essa come dello strumento per attuare nella storia la salvezza di tutti gli uomini, anche di quelli che, pur non appartenendo a essa, sono comunque chiamati al regno»41. Quale altro compito possiede? «Solo nella missione si vede con chiarezza che cosa è la Chiesa: servizio al mistero dell’unità»42. È così che non teme di dialogare con il mondo, continuando sotto la guida dello Spirito Santo l’opera di “servizio” di Cristo stesso (GS 39), fino a che «si compia il disegno del Creatore» e tutti gli uomini possano arrivare a dire: “Padre nostro” (AG 7). Non stupirà, pertanto, ritrovare questa medesima dichiarazione di intenti dall’inizio alla fine della costituzione, in una felice inclusione: «I cristiani, ricordando le parole del Signore, “in questo conosceranno tutti che siete i miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri” (Gv 13,35), niente possono desiderare più ardentemente che servire con sempre maggiore generosità ed efficacia gli uomini del mondo contemporaneo. […] Perché il Padre vuole che in tutti gli uomini noi riconosciamo ed efficacemente amiamo Cristo fratello, con la parola e con l’azione, rendendo così testimonianza alla verità, e comunichiamo agli altri il mistero dell’amore del Padre celeste. Così facendo, risveglieremo in tutti gli 41 42
P. FIETTA, Chiesa diakonia della salvezza, 331. J. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 114.
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uomini della terra una viva speranza, dono dello Spirito santo, affinché finalmente un giorno essi vengano assunti nella pace e felicità somma, nella patria che risplende della gloria del Signore» (GS 93).
d. Reciprocità Infine, oltre alla positività del rapporto, GS osa un passo ulteriore, riconoscendo quanto la Chiesa stessa riceve del mondo: «[la Chiesa cattolica] è persuasa che molto e in svariati modi può essere aiutata nella preparazione del vangelo dal mondo, sia dai singoli uomini, sia dalla società umana, con le loro doti e la loro operosità. Allo scopo di promuovere debitamente tale mutuo scambio e aiuto, nelle materie che in qualche modo sono comuni alla Chiesa e al mondo, vengono qui esposti alcuni principi generali» (GS 40). Il rapporto tra Chiesa e mondo, dunque, è pensato in termini di reciprocità. Proprio al vertice della prima parte la Chiesa ha il coraggio di riconoscere un rapporto di dare-ricevere. «Come è importante per il mondo che esso riconosca la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento così pure la Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano» (GS 44).
La comunità cristiana riconosce di arricchirsi nel contatto vivo con le altre culture e tradizioni: persino di «ricevere molto» (GS 44), sia perché può conoscere «più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità»; sia perché permette «di adattare il vangelo». Anzi, «tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione». La Chiesa dimostra gratitudine per tanti aiuti. «Anzi, la Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire dalla stessa opposizione di quanti la avversano o la perseguitano» (GS 44). Vanzan non nasconde la «sorpresa» e la novità di tale scelta, secondo cui la relazione non è pensata “a senso unico”, bensì in forma biunivoca. Anche se il passaggio risulta ancora parziale e incompiuto43
43
L. SARTORI, La Chiesa nel mondo contemporaneo, 33.
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— poiché obiettivamente non si può negare che ben tre paragrafi su quattro son dedicati a «ciò che la Chiesa dà riguardo la persona,e la comunità degli uomini e il lavoro” (sintetizzando così i capp. 1-3) e un solo paragrafo concerne ciò che riceve — tuttavia, il passo compiuto ha una sua forza innovativa innegabile e ancora feconda. Il dialogo, di sua natura, esige la reciprocità: altrimenti diviene uno sterile monologo. Implica ascolto, esige di riconoscere le ragioni dell’altro. Lo stesso annuncio del vangelo non equivale ad affermarlo, ma nasce dal desiderio che la Buona Notizia raggiunga ogni uomo. È “la Carità di Cristo a spingerci” (2Cor 5,14). Essere riflesso della Luce delle Genti più che difesa della propria identità è ricerca del bene comune, di quella fraternità universale a cui Dio chiama tutti gli uomini. Ma soprattutto colpisce che, nel fare questo, la Chiesa comprende ancora meglio il Vangelo e la propria identità: «si deve stare bene attenti: i concetti e le lingue dei diversi popoli, la sapienza dei filosofi, l’umana esperienza in genere non sono utili alla Chiesa per esporre il Vangelo in maniera comprensibile e accettabile ad altri, ma sono del tutto necessari alla Chiesa per comprendere meglio il Vangelo essa stessa. Non si tratta, cioè, di un accorgimento tattico, di astuzia missionaria, ma di cogliere sempre nuove possibilità di camminare alla scoperta della verità»44. In definitiva, la scelta del dialogo non si propone come strategia di conquista del mondo, bensì come via privilegiata per comprenderlo; anzi, perché la Chiesa comprenda se stessa! 5. LA MISSIONE DELLA CHIESA NEL MONDO CONTEMPORANEO (CAP. IV): L’UOMO VIA FONDAMENTALE DELLA CHIESA (GIOVANNI PAOLO II) L’ultima lezione che vogliamo evidenziare può essere la scelta della mediazione antropologica. Per trovare l’esecuzione del nesso Chiesa-mondo, programmaticamente additato sin dal titolo, occorre attendere il cap. IV di GS: un capitolo sintetico che mostra il senso del
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E. CHIAVACCI, La Teologia della ‘Gaudium et Spes’, 31.
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percorso compiuto. Come mai tanto spazio? Ciò fa ricadere l’attenzione sui tre capitoli intermedi: cuore di una sezione — la prima — che prepara quella in cui si affrontano “le questioni di urgente attualità” (p. II). Il capitolo primo riguarda la persona, il secondo la comunità degli uomini, il terzo la missione dell’uomo nel mondo. Si vede in filigrana la traccia di una antropologia cristiana. Non si pretenda di retroproiettarvi una visione sistematica e compiuta (sarebbe un anacronismo che sovra determina l’intenzione dei padri, attribuendo loro domande che neppure si ponevano ancora45). Tuttavia resta legittimo chiedersi perché tra la dichiarazione nitida del titolo e la sua esecuzione — al cap. IV — si passi per una riflessione tanto ampia. Il lavoro dei padri consegna una duplice lezione. 5.1. L’antropologia cristiana in dialogo con gli umanesimi moderni La prima lezione viene dalla rilettura di L. Sartori che interpreta i capp. 1-3 come il tentativo del concilio di mettere la visione cristiana dell’uomo a confronto coi vari umanesimi, nell’intento di recepire la svolta antropologica e dialogare con la cultura contemporanea. «Possiamo leggere i tre capitoli nello specchio dei tre principali umanesimi laici emersi nel mondo moderno: — quello che fa appello alla rivoluzione liberale (francese o delle libertà individuali); dall’individuo alla persona — quello che ha preso forza con la successiva rivoluzione socialista (o collettivista; o meglio della giustizia sociale e della prospettiva comunitaria); dal collettivismo alla comunità e quello più recente (vissuto di fatto e massificato più che non teorizzato da specifiche ideologie) della rivoluzione scientifico-tecnica»46.
Tale chiave interpretativa ci pare rispettosa delle domande dei 45 F. BRANCACCIO, Antropologia di comunione. L’attualità della Gaudium et Spes, Soneria Mannelli 2006. 46 L. SARTORI, La Chiesa nel mondo contemporaneo, 36.
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padri (non dunque nella pretesa di estrapolarvi una antropologia particolare). Piuttosto cerca di dialogare con le antropologie (o umanesimi) dell’epoca moderna. Di qui il confronto con le tre grandi prospettive. Prima dei contenuti — dato che sono istanze storiche superabili e che, i commentatori confermano l’acerbità dei capitoli 2 e 3 e l’insufficienza cristologica di tutti, dato che il riferimento a Cristo compare solo nell’ultimo numero —, ci pare istruttivo lo stile in atto. La chiesa parte dalle concrete immagini di uomo impostesi nell’epoca moderna. L’atteggiamento è di ascolto: assume il dato e si confronta con esso. Non muove dunque dall’alto, dalla frenesia di una soluzione previa da portare o di una verità già data da proporre all’interlocutore. Semmai si mostra interessata a quanto ha. Tale confronto, oltretutto, è eseguito non nella forma della condanna o della critica: vi si può riconoscere un’assunzione della prospettiva che diventa stimolo per una riflessione cristiana. Ad es., nota Sartori sul cap. 1, alla rivendicazione dei diritti individuali dell’illuminismo, la tradizione cristiana risponde definendo l’uomo come persona, portando a frutto la riflessione moderna del “Personalismo cristiano” di Maritain e Mounier. Alla visione opposta che passa dall’individualismo al collettivismo, quasi dissolvendo o confondendo il singolo nella massa, i padri rispondono recuperando la sua dimensione comunitaria, che apre la persona alla comunione ma senza perderne l’indissolubile singolarità. Si può riconoscere cioè che il dialogo diventa occasione e stimolo per rilanciare l’annuncio cristiano non nella forma contrappositiva, ma in una relazione che non nega la singolarità cristiana — semmai la pone in risalto. E nel contempo mostra già eventuali agganci. Insomma, il concilio assume la prospettiva della cultura del tempo, ne coglie la provocazione e la porta avanti, approfondendola con l’annuncio cristiano. Non nella forma della condanna (cfr. GIOVANNI XXIII, Discorso di apertura, nn. 16-17); neppure del giudizio, bensì del dialogo e dell’approfondimento. Cosa potremmo fare noi col post-moderno? Certo, l’approccio esige miglioramenti, se non altro nell’esecuzione: è critica comune denunciare l’insufficienza cristologica nel rileggere i
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temi poiché il rimando a Cristo arrivi ancora “dopo” (secondo l’impostazione dualistica). Inoltre, diversi di questi temi risentono di una riflessione cristiana ancora germinale (in particolare sul rapporto uomo-mondo, il confronto con le scienze moderne, ecc.). Tuttavia, ci pare significativo dal punto di vista metodologico, poiché con tale sforzo, la GS cerca di recepire il contributo della cosiddetta “svolta antropologica” entrando in dialogo con la cultura, anche se diversa o, talvolta, persino avversa. Inoltre cerca di seguire un metodo induttivo, come sottolinea Sartori: «si propone di affermare l’umanesimo cristiano ma non sovrapponendolo o peggio imponendolo nella sua differenza e distanza, bensì facendolo per così dire emergere dal di dentro dei principali umanesimi contemporanei; dagli aspetti “comuni”, quindi, vuole arrivare a dare evidenza a quelli specifici o sottolineati particolarmente dalla fede cristiana. Antropologia cristiana dentro gli umanesimi… umani»47.
Una simile lettura pare aderente al testo e alla sua genesi, chiarisce meglio l’intenzione dei padri, coerente con il contesto dell’epoca. Conferma una certa “occasionalità” dei capitoli, legati alla contingenza dei modelli culturali più che non volti a delineare una visione sistematica e organica di uomo. Il nesso tra i tre passaggi, o meglio tra le tre dimensioni costitutive dell’antropologia, viene consegnata alla teologia come compito da attuare. In questo senso, veniamo istruiti a continuare lo studio del concilio nella raccolta di un’eredità che indica la direzione ma che chiede ancora di essere portata a pieno sviluppo. 5.2. La visione cristiana di uomo: base del dialogo (PARTE II) La seconda lezione, più globale, ci pare il senso che questa ampia riflessione antropologica comporti nell’economia del testo. Perché parlare tanto dell’uomo (GS 3. 11.12.22 ecc.)? Per GS l’antropologia costituisce il fondamento del dialogo Chiesamondo (GS 40). È l’indicazione metodologica preziosa di GS: l’antro-
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L. SARTORI, La Chiesa nel mondo contemporaneo, 36.
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pologia è posta come la base su cui costruire il rapporto col mondo e affrontare le varie questioni etiche, come avverrà nella seconda sezione. Tutto ciò conferma l’importanza della visione antropologica del documento e ne indica le prospettive di sviluppo. È il concilio stesso, dal suo interno, a chiarirci il senso dei primi tre capitoli. In quella sintesi offertaci dal cap. IV i padri esplicitano: Tutto quello che abbiamo detto a proposito della dignità della persona umana, della comunità degli uomini, del significato profondo della attività umana, costituisce il fondamento del rapporto tra chiesa e mondo, come pure la base del dialogo fra loro (GS 40a).
Precisamente l’obiettivo del dialogo pare suggerire le ragioni della riflessione antropologica di GS, pur nelle sue incompiutezze48. È il tema principale della costituzione sintetizzato nel titolo, come si è argomentato in precedenza. Solo in stretto legame con questa previa visione antropologica si fonda l’analisi di “alcuni problemi più urgenti” nella seconda parte della costituzione: matrimonio e famiglia, cultura, vita economicosociale, politica, pace. Non potendo ora dedicare uno spazio adeguato alle singole questioni che non perdono di attualità, riteniamo decisivo registrare che vengono affrontate a partire dalla visione cristiana di uomo, previamente argomentata. Il cristianesimo si mette in dialogo con il mondo precisamente a partire dall’antropologia. Per questo GS, prima di entrare nel merito delle questioni più urgenti (parte II) dedica un’intera parte (la prima, quella più teologico-speculativa) ad esplicitare l’antropologia cristiana. Questo 48 Cfr. L. LADARIA, L’uomo alla luce di Cristo nel Vaticano II, in Vaticano II. Bilancio e prospettive. Venticinque anni dopo: 1962-1987, Assisi 1987, 939-951; F.G. BRAMBILLA, Il Concilio Vaticano II e l’antropologia teologica, in La Scuola Cattolica 114 (1986) 663-676; G. COLZANI, Cristocentrismo e umanesimo cristiano nella ‘Gaudium et spes’, in Rivista del Clero Italiano 75 (1994) 339-354; P. CODA, L’uomo nel mistero di Cristo e della Trinità. L’antropologia della “Gaudium et spes”, in Lateranum (1988) 164-194; P. MICCOLI, L’antropologia cristiana alla luce dei documenti del Concilio Vaticano II, Fasano di Puglia 1972; F. SCANZIANI, L’antropologia sottesa a Gaudium et Spes. Invito alla lettura, in La Scuola Cattolica 135 (2007) 4, 625-652.
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percorso suggerisce un prezioso metodo di lavoro per la teologia e per la prassi della chiesa. Tale rapporto tra fondamento antropologico e suo sviluppo nei vari temi di Dottrina sociale è autorevolmente indicato anche dalla Nota iniziale che, precisando il valore pastorale della costituzione, esplicita il nesso tra le due parti. Questo modello sviluppa il metodo precedentemente indicato: vedere-giudicare-agire e venne indicato anche da Paolo VI nella sua prima enciclica sociale, Popolorum Progressio (1967), dove una chiesa esperta in umanità (PP 13) si pone al servizio degli uomini (PP 1). Ma ancor di più Giovanni Paolo II — attivamente presente nella redazione di GS — che, indicando «l’uomo come via fondamentale della Chiesa» (RH 13-14), offre alla dottrina Sociale della Chiesa il metodo della mediazione antropologica, che potremmo sintetizzare schematicamente nei seguenti passaggi: fede-antropologia-eticasocietà49. L’antropologia, cioè, si propone come “tavolo comune” per un confronto con gli uomini sulle questioni di morale sociale. Ciò evita alla chiesa sia la tentazione di isolarsi che di sovraesporsi, indicando piuttosto la strada di un discernimento ecclesiale che chiede gradualità, dialogo e rispetto reciproco. Ciò conferma l’attualità della GS: se non per i contenuti — che evidentemente risentono dei cambiamenti storici —, sicuramente per il metodo. CONCLUSIONE Attraverso le indicazioni di metodo offerte da Gaudium et spes — che, a nostro giudizio, non perdono di attualità — siamo condotti alla forza profetica delle parole di Paolo VI: «Come la Chiesa deve premunirsi dal pericolo d’un relativismo che intacchi la sua fedeltà dogmatica e morale? Ma come insieme farsi idonea a tutti avvicinare per tutti salvare? Non si salva il mondo dal di
49 Cfr. ARCIDIOCESI DI MILANO, I cristiani nella città, Milano 2005; E. COMBI - E. MONTI, Fede e società. Introduzione all’etica sociale, Milano 2005, 99-105.
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fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere […] se si vuole essere ascoltati e compresi. Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi il servizio. Tutto questo dovremo ricordare e studiarci di praticare secondo l’esempio e il precetto che Cristo ci lasciò (Gv 14)» (ES 49).
Proprio qui ritroviamo la linea guida della Dottrina sociale di Giovanni Paolo II, sin dagli inizi del suo magistero: L’uomo via fondamentale della chiesa (Redemptor Hominis). Da tale fondamento proviene la forza del suo slancio, racchiuso in quell’annuncio iniziale: «Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo»50. Questa lezione, squisitamente conciliare, non può ancora guidare la Chiesa nel terzo millennio?
50
GIOVANNI PAOLO II, Omelia per l’inizio del pontificato, 22 ottobre 1978.
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Seminario interdisciplinare 16 febbraio 2012 “Nodi emergenti dei grandi temi della costituzione conciliare Gaudium et spes”
SUL DIALOGO TRA CHIESA E MONDO CONTEMPORANEO
FRANCESCO CONIGLIARO*
PREMESSA a) Ritengo che una riflessione circa la condizione attuale del dialogo tra chiesa e mondo contemporaneo richieda previamente alcune brevissime precisazioni sul Cristo, di cui la chiesa è corpo, e sulla chiesa, come comunità dei seguaci del Cristo peregrinante nel mondo e nella storia. A queste precisazioni occorre aggiungerne altre, anch’esse molto brevi, tratte dal Discorso di apertura del Concilio Vaticano II del papa Giovanni XXIII e dalla Costituzione Pastorale Gaudium et Spes. Tutte queste precisazioni ci consentono di pensare che la chiesa è, quale corpo di Cristo, costitutivamente e strutturalmente capace di ascoltare le domande che si partono dal mondo. Il Cristo è rivelatore di Dio e salvatore del mondo non perché folgora il mondo con la luce inestinguibile che egli, per altro, è e con cui irradia l’intera creazione, ma vivendo nel mondo come Gesù di Nazareth, l’“uomo per gli altri”. Con l’incarnazione, la comprensione dell’assolutezza e della trascendenza di Dio ed ogni discorso teologico che le riguarda non possono aver luogo se non osservando Gesù di Nazareth: Dio è assoluto e trascendente in Gesù di Nazareth e nel
*
Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Francesco Conigliaro
modo in cui la vicenda terrena di quest’ultimo indica. Ciò significa, innanzitutto, che l’ék-stasis trinitaria, in virtù della quale le tre divine persone vivono in dinamismo pericoretico cedendosi l’una all’altra, arriva a noi in Gesù di Nazareth, la cui storia, così, è storia dell’ékstasis divina, storia della filiazione e storia della salvezza; inoltre, che in Gesù di Nazareth la “pienezza della divinità”, che abita in lui corporalmente (Col 2,9), è segnata da tutte le debolezze dell’uomo concreto ad eccezione del peccato (Hebr 4,15); ed infine, che l’Amore divino, pur vibrando con le corde del cuore umano di Gesù, ha la potenza dell’Eterno stesso ed arriva all’uomo nella e secondo la debolezza tutta umana della “carne” di Gesù di Nazareth1. Ciò è quanto di più sovversivo si possa pensare in ambito teologico! La chiesa, “sacramento di Cristo e dell’unità del genere umano” (LG 1), con la predicazione, con la celebrazione dei sacramenti e con la vita di carità rende testimonianza a Cristo nel mondo. La chiesa è chiamata ad essere accogliente, ospitale e solidale nei confronti di tutti gli uomini. Solo che essa oggi vive una grande crisi nel suo rapporto con il mondo. La vera ragione di ciò, come sostiene J.B. Metz2, è che oggi la chiesa vive la crisi di Dio. E ne è prova il modo in cui essa ne parla: ne parla più o meno come un presupposto. Il fatto è che la chiesa è troppo preoccupata della propria struttura e, assumendo questo atteggiamento ed agendo di conseguenza, resta intrappolata in una sorta di narcisismo. In conseguenza di ciò, il suo orientamento dottrinale ed il suo comportamento hanno spesso esiti fondamentalisti3. Questo fatto dimostra sia che i credenti in genere e 1
Per comprendere il mistero che si è compiuto nella “carne” di Gesù di Nazareth possono essere utili alcune pregnanti parole del Kasper: «“E il Verbo si fece carne (saérx) e venne ad abitare in mezzo a noi” (Io 1,14). Nella Scrittura “carne” significa l’uomo colto dal punto di vista della sua meschinità, fragilità, debolezza e vita di ogni giorno. Ciò che si intende affermare, dunque, è che il Verbo di Dio è penetrato interamente nella nostra condizione di esseri umani, fin nella banalità quotidiana, nella caducità, fallimento e vacuità» (W. KASPER, Gesù il Cristo, tr. it., Brescia 1975, 272). 2 Cf. J.B. METZ, Wir sind die Kirche, Freiburg i.B. 1996; Id., Questions sur Dieu adressés aux chrétiens d’aujourd’hui, in Istina 42 (1997/1) 7-10. 3 Cf. J.A. ESTRADA, Dios como problema en la sociedad contemporánea, in Isidorianum 7 (1998) 9-26.
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le strutture ecclesiastiche in specie non sempre sono buoni osservatori dei fenomeni storici, a partire dal fenomeno religioso, sia che nella chiesa la potenza della “lettera” e la potenza dello Spirito sono inversamente proporzionali. Infatti, quanto minore è l’esperienza dello Spirito tanto maggiore è la forza della lettera della tradizione, in cui si pensa di trovare sicurezza. Sappiamo bene, però, che il criterio fondamentale del cristianesimo è il Dio che si fa ascoltare nelle parole di Gesù di Nazareth e si lascia osservare nel suo agire e nel suo operare. Con il Dio di Gesù, che è essenzialmente destabilizzatore, tutto può cambiare. Tra i punti più salienti del discorso di apertura del Concilio Vaticano II del pontefice Giovanni XXIII si trovano i seguenti: il Concilio si rivolge a tutti gli uomini, tenendo conto non solo degli errori che si trovano nel mondo contemporaneo, ma anche delle esigenze che esso presenta e delle opportunità che offre4; contro tutti i profeti di sventura, che giudicano l’età contemporanea peggiore delle precedenti, è necessario tenere presente la lezione della storia, che è maestra di vita e che reca all’evidenza senza differenze le luci e le ombre di ogni epoca5; la chiesa è stretta tra due necessità: quella di non abbandonare la tradizione e quella di tener conto anche del 4 «Nell’indire questa grandiosa assemblea, il più recente e umile Successore del Principe degli Apostoli, che vi parla, si è proposto di riaffermare ancora una volta il Magistero Ecclesiastico, che non viene mai meno e perdura sino alla fine dei tempi; Magistero che con questo Concilio si presenta in modo straordinario a tutti gli uomini che sono nel mondo, tenendo conto delle deviazioni, delle esigenze, delle opportunità dell’età contemporanea» (GIOVANNI XXIII, Discorso di apertura del Concilio Vaticano II, 11 Ottobre 1962, 2). 5 «Spesso infatti avviene, come abbiamo sperimentato nell’adempiere il quotidiano ministero apostolico, che, non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa. A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di
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Francesco Conigliaro
presente, gravido di novità nelle situazioni e nei modi di vivere e fecondo di itinerari di apostolato non ancora esplorati6; nella conclusione del suo discorso di apertura Giovanni XXIII esorta i Padri conciliari a lavorare in modo tale da soddisfare abbondantemente tutte le aspettative della chiesa e del mondo7. Nel proemio della Costituzione pastorale Gaudium et spes così leggiamo: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. [… ] Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (GS 1). Le esperienze “genuinamente” umane, di cui parla la Gaudium et spes, non sono soltanto le esperienze positive, e cioè le esperienze più o meno esaltanti dell’uomo, che sono fonti di gioia, ma anche quelle negative, che sono cause di angoscia. Ciò significa che i cristiani sono impegnati ad immergersi nell’intera storia umana ed a mettersi accanto agli uomini per aiutarli a trovare la soluzione dei numerosi problemi che li turbano e li sconvolgono o, almeno, a portarne il peso. Nel dire questo, il Concilio è guidato da una duplice consapevolezza: quella di non avere pronta la soluzione di ogni problema e quella di essere chiamato a «cooperare nella ricerca di una soluzione ai principali problemi del nostro tempo» (GS 10). Di primo acchito, può sembrare che la duplice consapevolezza riduca a poca cosa la missione della chiesa, ma, a ben vedere, si tratta
sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo» (ibid., 8). 6 «Ma perché tale dottrina raggiunga i molteplici campi dell’attività umana, che toccano le persone singole, le famiglie e la vita sociale, è necessario prima di tutto che la Chiesa non distolga mai gli occhi dal sacro patrimonio della verità ricevuto dagli antichi; ed insieme ha bisogno di guardare anche al presente, che ha comportato nuove situazioni e nuovi modi di vivere, ed ha aperto nuove vie all’apostolato cattolico» (ibid., 12). 7 «Che il vostro impegno e il vostro lavoro, ai quali sono rivolti non solo gli occhi dei popoli, ma anche le speranze del mondo intero, corrispondano largamente alle attese» (ibid., 22).
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della stessa missione di Gesù di Nazareth, il Figlio eterno che si è incarnato per farsi compagno di viaggio di ogni uomo. Se vogliamo fare delle annotazioni, che siano in grado di esprimere la quintessenza dei dati contenuti nelle precisazioni che precedono e le istanze più pressanti ed impegnative che ne sgorgano, possiamo dire quanto segue: ogni discorso teologico parte da Gesù di Nazareth, l’uomo-per-gli-altri, e cioè per il Padre, di cui è inviato e rivelatore, e per gli uomini e la creazione, di cui è compagno di viaggio e salvatore; la chiesa, consapevole di non avere tutte le soluzioni, si mette accanto agli uomini per collaborare con loro nella fatica e nella gioia della ricerca. b) L’ambito tematico e problematico del nostro argomento è enorme in ogni senso. Di conseguenza, il mio discorso continua tenendo sullo sfondo le precisazioni appena esposte e facendo una selezione di temi, circa i quali verificare l’esistenza e la qualità del dialogo tra chiesa e mondo contemporaneo. Ma prima ritengo opportuno muovere alcuni passi. Il primo consiste in alcune puntualizzazioni: 1) dai dati fin qui proposti risulta che ci sono ragioni enormi perché la chiesa sia ospitale nei confronti della modernità, senza della quale non si comprende il presente e non ci si prepara adeguatamente al futuro; 2) ci sono stati momenti nel corso della storia in cui la chiesa ha rifiutato tale ospitalità, come ad esempio, al tempo del Syllabus di Pio IX (1864) e della Pascendi di Pio X (1907); e da più parti si pensa che ancora oggi abbiano luogo frequenti rifiuti di tale ospitalità; 3) la chiesa, che si è resa e si rende responsabile di questi casi di rifiuto dell’ospitalità alla modernità, invece, è in grado di offrirla; e lo spirito che ha animato il Vaticano II ne è una prova inconfutabile. Il secondo passo intende individuare una prospettiva sistematica generale all’interno della quale collocare e considerare i temi selezionati, circa i quali verificare l’esistenza e la qualità del dialogo tra chiesa e mondo contemporaneo. Una tale importante prospettiva può essere formulata nel modo seguente: la tensione tra la ragione classica e la ragione moderna. Mi sembra opportuno dire che l’approfondimento di tale prospettiva ci pone nel bel mezzo del nostro argomento.
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1. RAGIONE CLASSICA E RAGIONE MODERNA L’uomo contemporaneo ha una grande esigenza di razionalità, ma bisogna subito precisare che si tratta di una esigenza multiforme, perché implica la razionalità e nel contempo la critica della ragione. Potrebbe sembrare di trovarsi di fronte ad atteggiamenti contraddittori, ma non è così, in quanto la ragione che oggi viene fatta oggetto di critica non è la ragione in quanto tale, bensì la ragione aggettivata come “classica”, quindi solo un particolare tipo di ragione, di razionalità e di razionalizzazione. La ragione classica è concepita come l’organo assoluto, universale ed infallibile della razionalità, dell’oggettività e della moralità. Lo storico della filosofia P. Henrici, nel corso di un recente Congresso internazionale su L’uomo dell’età moderna e la Chiesa, tenuto presso la Pontificia Università Gregoriana nel novembre 2011, ha detto ciò che segue: «Tanto il platonismo quanto l’aristotelismo e lo stoicismo, come anche i loro derivati cristiani avevano sempre considerato l’universale, l’idea platonica, l’ordine cosmico o le idee divine come fondamentali e primarie. L’universale è l’oggetto principale della mente umana, la quale si impegna a comprenderlo, costituendo la scienza e le scienze, che saranno sempre scienza dell’universale»8. Sulla base di questo modello di razionalità, non solo è concepibile attingere l’oggettività, l’assetto normativo assoluto e l’universo dei valori, ma è anche possibile ipotizzare l’unità culturale e la riduzione dei linguaggi ad un unico linguaggio. In tal modo, la ragione classica presenta i connotati di una struttura naturale necessitante ed apriorica e risulta dotata di assolutismo ontologico. L’utilizzazione del modello classico di razionalità ha delle conseguenze notevoli nei vari settori dello scibile e della prassi9. Del settore dello scibile ricordiamo le procedure della conoscenza: la ragione 8
P. HENRICI, La filosofia moderna, l’uomo moderno e la Chiesa, in Il Regno 57 (2012), n. 1114, 11. 9 Cf. A.G. GARGANI (ed.), Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, Torino 19792; G. CAFARO – M. MESSORI, La teoria del valore e l’altro, Milano 1980.
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classica ha esteso in modo incontrollato e pervasivo la comprensione e l’applicazione di leggi, norme e regole, originariamente usate in modo corretto in ambiti limitati di fenomeni, dando loro una validità universale ed una applicabilità a tutto lo scibile; del settore della prassi ricordiamo che la suprema legge dell’armonia classica ha legittimato poteri assoluti e disuguaglianze. Il “luogo” storico di questa ideologia dell’universalismo è stato l’Occidente con la sua pretesa di esprimere un modello di civiltà valido per ogni possibile società. Sennonché, la via moderna della razionalità, che poi è anche la via cristiana, proclama il primato del singolo e ne fa il prototipo dell’essere come tale10. Su questa base e secondo questa logica, in seguito si sono verificati alcuni fenomeni che hanno assunto il ruolo di fattori determinanti nella nostra epoca culturale, quali la crisi del soggetto del sapere classico, la scoperta del rimosso, che ha fatto irruzione nel campo della razionalità11, la teoria einsteiniana della relatività, che ha permesso di definire alcune nozioni fisiche solo in relazione a sistemi fisici locali, l’imporsi del linguaggio scientifico-matematico come unico linguaggio sensato al Wiener Kreis12 e del linguaggio ordinario nella Cambridge-Oxford Philosophy13 e l’affermazione della razionalità scientifica come la razionalità dominante che ai nostri giorni ha
10
Cfr. P. HENRICI, La filosofia moderna, loc. cit. Si pensi soprattutto a S. Freud (Metapsicologia, tr. it., in Opere 1915-1917, vol. VIII, Torino 1976; L’Io e l’Es, tr. it., in Opere 1917-1923, vol. IX, Torino 1977), a F. Nietzsche (La nascita della tragedia, in Opere, vol. III/1, Milano 1972; Così parlò Zarathustra, in Opere, vol. VI/1, Milano 1968; Genealogia della morale, in Opere, vol. VI/2, Milano 1968), M. Foucault (Le parole e le cose, tr. it., Milano 19703; L’ordine del discorso, tr. it., Torino 19723; L’archeologia del sapere, tr. it., Milano 1971; Nascita della clinica, tr. it., Torino2; Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, tr. it., Torino 19765). 12 Cfr. L. WITTGENSTEIN, Tractatus Logico-philisophicus; tr. it., Torino 19682; R. CARNAP, Sintassi logica del linguaggio, tr.it., Milano 19662; M. SCHLICK, Gesammelte Aufsätze 1926-1936, Wien 1938; O. NEURATH, Il Circolo di Vienna e l’avvenire dell’empirismo logico, tr. it., Roma 1977. 13 Cfr. L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, tr. it., Torino 1967; ID., Osservazioni filosofiche, tr. it., Torino 1976; F. Waismann, I principi della filosofia libguistica, Roma 1969. 11
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configurato tipologicamente la razionalità ed il suo esercizio14. Questi fattori hanno intaccato in modo irreversibile la pretesa di assolutezza universale ed onni-inclusiva della ragione classica e l’hanno fatta cadere in crisi: una crisi che si rivela sempre più seria15. La nostra epoca culturale ci ha abituati a fenomeni e ad esperienze che sono, in parte, conseguenza della situazione testé presentata e, in parte, una sorta di cabrata ideologica della crisi della ragione classica. L’esito non può essere che l’approdo ad una nuova totalità, una totalità di segno opposto16, che s’impone con tutte le caratteristiche della totalità a cui subentra e con altre ancora, che sono il frutto dell’itinerario particolarissimo da essa percorso. Tra queste caratteristiche ricordiamo: la metafisicità, la miticità, l’utopicità, la teologicità e l’illusorietà idealistica. Un’attenta riflessione sulla nuova totalità e sulle sue caratteristiche ci conduce direttamente ad una considerazione molto importante, e cioè: l’abbandono del linguaggio universale della ragione classica non ha come esito la divisione del linguaggio in settori, l’autonomia e la permanenza di ciascuno di essi nel suo ambito, ma l’affermazione di pretese universalistiche di linguaggi settoriali, i quali, essendo formalmente e strutturalmente “deboli”, a motivo del loro status semantico, grammaticale e logico, pretendono di imporsi come linguaggi “forti” mediante inclusioni ed esclusioni, che non fanno seguito ad analisi adeguate e neppure a controlli compiuti di ipotesi e teorie. La nuova totalità ha origini non-cognitive, la ragione unitaria ad essa collegata è fondamentalmente dogmatica e si distingue dalla ragione classica perché è di segno opposto ed anche perché ha un assetto logico formalmente a-logico. L’assolutezza di una totalità negativa, non cognitiva, dogmatica ed a-logica porta all’assolutizzazione mitica dell’altro, con conseguenti immobilità e conflittualità.
14 Cfr. F. EUVÉ, Théologie et sciences de la nature en conversation critique, in RTL 39 (2008) 209. 15 Cfr. F. CONIGLIARO, Evoluzione e creazione. Saggio su una quaestio disputata del nostro tempo, Palermo 2011. 16 Cfr. F. RELLA, Il mito dell’altro. Lacan, Deleuze, Foucault, Milano 1978, 10.
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Un esempio di questo fenomeno è M. Foucault, il quale si irrigidisce sui miti dell’altro e dell’antiscienza. Di ben altra temperie sono i vecchi grandi maestri della “teoria critica” della Scuola di Francoforte (T.W. Adorno, M. Horkheimer, H. Marcuse), i quali, ancorché esprimano un energico rifiuto dell’ordine esistente, dimostrano speranza nella sopravvivenza della libertà, nel recupero della razionalità, nel cambiamento della direzione del progresso e nel rifiuto della giustificazione della violenza sul piano assoluto17. La razionalità classica e l’alterità assolutizzata si trovano contenutisticamente contrapposte, in quanto la prima si fonda sul soggetto umano, dotato di autocoscienza, di autopossesso e della potenza della ragione, e la seconda sull’alterità assolutizzata, e metodologicamente solidali, in quanto entrambe si ritengono punti di partenza e giudici — e dicendo questo riprendo una nota figura linguistica foucaultiana —, almeno dell’ordine del loro discorso. Ma, come si può capire, questa è la posizione della ragione classica. Solo che è stata conquistata non dal soggetto autocosciente e libero, bensì dal suo opposto, e cioè dal soggetto freudianamente e nietzscheanamente inteso e, quindi, dal desiderio indomabile, il quale, come la razionalità classica dà spazio alla dialettica in termini meramente nominalistici, assorbe il particolare deducendo dalla premessa universale e, così facendo, riduce enormemente o cancella completamente la novità del processo storico: con metodo deduttivo scandisce i ritmi del particolare e con presunzione profetica traccia gli itinerari del futuro. Vediamo imporsi una domanda: la nostra epoca dispone di teorie, di approcci, di strumenti, di messaggi idonei all’infrangimento o, almeno, al contenimento della ragione classica in tutte le sue figure e delle sue pretese? Vediamo emergere anche delle risposte: la prima consiste nell’imporsi delle esigenze della ragione, ma non della ragione soddisfatta di sé e, in ultima analisi, affetta da narcisismo, qual è la ragione classica di tutte le guise, ma della ragione critica, che tiene conto delle alterità, senza, tuttavia, assolutizzarle; la seconda consiste
17 Cfr. H. MARCUSE, Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, tr. it., Torino 19694.
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nel cristianesimo, non tanto per gli assetti culturali e talora ideologici che si è dato nelle varie epoche culturali, assetti tutti più o meno riconducibili alla razionalità classica, quanto piuttosto per il suo nucleo originario, che implica la storicità, perché si pone nella storicità e si lascia conoscere ed accostare nella storicità, andando incontro al processo inarrestabile di novità e di creazione da parte dell’uomo e fluendo al suo interno. Così procedendo, i due itinerari di risposta ricordati sono sovversivi tanto quanto basta per intaccare la forza della prevaricazione dei due tipi di ragione assolutizzante considerati, ma, per il resto, procedono in modo dialogico, è cioè offrendo quello che hanno ed accettando criticamente ciò che viene loro offerto. 2. LA “RAGIONE” NELLA CHIESA Nel mondo contemporaneo e nella comunità cristiana sono presenti ed operanti tutti i tipi considerati di ragione e di razionalità. Li riassumiamo: ragione classica nelle due forme, ragione critica, ragione che attinge al nucleo originario del cristianesimo. Sarò estremamente sintetico nell’indicare quelli del mondo contemporaneo: insieme alle dittature di varie forme di scientismo, di naturalismo, di ideologie e di sistemi di governo, che paradossalmente si configurano secondo le esigenze della ragione classica, riscontriamo la critica delle ideologie, la ragione procedurale, le utopie, la filosofia della speranza, la verità come ricerca, l’attenzione alle categorie del singolo, le varie proposte del personalismo, la democrazia, la dimensione planetaria dell’umanità, che, andando ben oltre le esigenze della globalizzazione, propone l’incontro e la solidarietà tra i popoli sulla base di una logica di co-originarietà. Ci fermeremo di più sul cristianesimo, e precisamente sul cattolicesimo. Esso manifesta un duplice volto: da un lato, si mostra capace di esprimere istanze vive mediante la vita e l’opera del popolo cristiano, dei teologi e del magistero, istanze che sono vive sia perché sono in continuità con l’insegnamento, l’opera e lo stile di Gesù di Nazareth, sia perché prestano attenzione alle domande che sorgono nella storia ed al bisogno di risposte che si parte da essa; dall’altro lato, esso procede lasciandosi guidare prevalentemente dalla ragione
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classica e dal metodo che ne discende, non raramente turbando l’uomo che vive nella storia e che fatica ad affrontare i problemi della vita. Ovviamente, all’affermarsi della ragione classica nella chiesa contribuiscono l’opera di una parte dei teologi e le opzioni di una parte del popolo cristiano, ma è indubbio che il contributo più significativo sia dato da certe posizioni del magistero. Ritengo che le ragioni sia della critica che della controproposta rispetto alla ragione classica ed alle sue conseguenze possano essere correttamente valutate se si mettono in rapporto con il nucleo originale e fondante del cristianesimo, che è Gesù di Nazareth, e con il ruolo determinante che esso non può non avere. Di conseguenza, occorre pure che la chiesa e la teologia ricordino che il loro compito è di celebrare la “grandezza” di Dio salvatore e che «Non si rende Dio più grande rimpicciolendo l’uomo»18 e le istanze che emergono dalla sua storia. Non si tratta di essere copia di ogni cultura umana, ma di essere “ricordo provocante” ed “orientamento critico verso il futuro” leggendo sapienzialmente in Gesù l’esperienza umana19. Procederò fermando, a mo’ di esempio, l’attenzione su alcuni ambiti problematici nei quali la chiesa s’interroga circa l’opportunità di dare ospitalità alle istanze della modernità. Nel primo esempio: ci riesce abbastanza bene; negli altri: incontra grandi difficoltà. 2.1. Armonia tra chiesa e mondo contemporaneo: ecologia Innanzitutto, desidero fermare l’attenzione su un argomento circa il quale la posizione della chiesa e della teologia non è lontana dalla posizione del mondo contemporaneo. Si tratta della nuova sensibilità ecologica, alla quale la chiesa ha dedicato una serie notevole di documenti. Ci sembra che per il cristianesimo sia acquisito che il mondo della natura abbia tutti i titoli per entrare, sia globalmente che con tutti i singoli suoi componenti, nella comunità degli esistenti e per
18
E. SCHILLEBEECKX, Il Cristo. La storia di una nuova prassi, tr. it., Brescia 1980,
972. 19
Cfr. l. c.
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sedere nel loro consesso. Una tale meta viene raggiunta quando tra gli esistenti si riesce ad instaurare, a seconda dei casi, una coesistenza ed una convivenza armonica. Ovviamente, la sinfonia di cui parliamo non significa e non può significare livellamento. E non può significarlo né nel senso di un egualitarismo tanto generalizzato quanto ideologico, né nel senso dell’altrettanto ideologico specismo, affermato dalle varie forme di arrogante potere antropocentrico. Di questa nuova sensibilità ecologica mi sembra che, tra i tanti, possa essere recato all’evidenza l’aspetto importante della tecnologia. Si tratta di un campo in cui è urgente incominciare ad atteggiarsi con una nuova sensibilità etica. Infatti, il problema del mondo della natura non è la tecnologia, ma la caduta dell’etica. È la scissione del progresso dall’etica e dalla responsabilità e non il progresso in se stesso all’origine di alcune catastrofi ecologiche20. La soluzione non può essere trovata né nella sconfessione e nel rifiuto delle conquiste fatte dalla scienza, né in una strategia antitecnologica, né nel disprezzo del benessere. Operazioni di tal fatta sarebbero anacronistiche, oltre che fuorvianti e mistificatorie21. Il livello di progresso raggiunto dall’umanità non è frutto esclusivo di tecnologie, ma è frutto soprattutto di tensioni spirituali che hanno prodotto sensibilità, valori e categorie idonee ad avvalorare gli esiti tecnologici. L’accantonamento del sapere tecnologico non significherebbe soltanto privarsi della tecnica in senso stretto ma anche ripudiare le grandi tensioni culturali che ne costituiscono la base di riferimento nella modernità; e questo sarebbe un regresso innanzitutto spirituale dell’umanità. A questo proposito, non può non meravigliare che M. Heidegger22, filosofo per molti aspetti geniale e dotato anche di una buona sensibilità ecologica, abbia potuto pensare di risolvere i 20 Cfr. G. MATTAI, Problema ecologico, rischio nucleare e implicazioni morali, in AA. VV., Teologia ed ecologia, Roma 1992, 17-20. 21 Cfr. A. AUTIERO, Essere nel mondo. Ecologia del bisogno, in T. GOFFI – G. PIANA (edd.), Corso di morale, Brescia 1983, II, 97-125; R. PANIKKAR, Il «daimon» della politica: agonia e speranza, tr. it., Bologna 1994, 92. 22 Cfr. M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, tr. it., Firenze 1968, 71-101; ID., Die Technik und die Kehre, Pfullingen 19825, 5-36; ID., Die Frage nach der Technik,
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problemi della natura separando la scienza dalla filosofia e bloccando la prima per favorire soltanto il progresso della seconda. A parte l’assurdità culturale dell’operazione ed il pericolo sicuro di regressione spirituale in essa implicito, la salvezza della natura non consiste nella negazione della scienza e, in fondo, della razionalità umana, ma nella loro trasformazione. L’interpretazione della tecnica come una progettazione messa in opera dai mitici giganti, al fine di invadere il mondo con invenzioni inquietanti, di farlo approdare a nuove forme di barbarie e di abbandonarlo all’oscurità del caos, è un mero dispositivo ideologico e mitico23. Per millenni l’umanità ha lottato contro le afflizioni causate dal bisogno e dall’impossibilità di placarlo, ed ora che, grazie alla tecnologia ed al benessere, è parzialmente riuscita nei suoi intenti rimuovendo, almeno in alcune regioni del pianeta, le sofferenze provocate dalla malnutrizione, dalle malattie e dall’ignoranza, darebbe evidenti segni di insensatezza se intraprendesse il cammino della regressione. Come abbiamo già rilevato, è la scissione del progresso dall’etica e dalla responsabilità e non il progresso in se stesso all’origine di alcune catastrofi ecologiche. Posta l’irreversibilità della scelta del progresso, anche tecnologico, il criterio di valutazione della sua correttezza viene dato dall’intensità dello sforzo fatto dall’uomo nel verificare costantemente le finalità dei suoi interventi sulla natura alla luce della ragione e, se credente, della rivelazione24. Un teologo sensibilissimo come A. Rizzi ci sembra molto convincente quando dice che tali interventi sono legittimi, se vengono compiuti in virtù del sapere tecnologico, che, collocandosi tra l’insufficienza della natura ed il bisogno dell’uomo, guida il caos verso il kósmos e fa godere la condivisione nella carità. E d’altronde non potrebbe essere diversa-
Pfullingen 1954; ID., Zum Seinsfrage, Frankfurt a.M. 1955; V. HÖSLE, Filosofia della crisi ecologica, tr. it., Torino 1992, 10, 72. 23 Cfr. E. BENVENUTO, L’uomo, la tecnica e Dio, in M. BALDINI – E. BENVENUTO – K. NEUFELD (edd.), L’uomo, la tecnica e Dio (Atti del Convegno tenuto a Trento il 46 dicembre 1991), Bologna 1992, 26-30. 24 Cfr. E. CHIAVACCI, Considerazioni etiche, in G. COLZANI (ed.), Creazione e male del cosmo. Scandalo per l’uomo e sfida per il credente, Padova 1995, 95.
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mente, se è vero che biblicamente lo sviluppo è visto come benedizione e come missione25. 2.2. Tensione tra chiesa e mondo contemporaneo Desidero fermare l’attenzione su tematiche circa le quali la chiesa ha grosse difficoltà a dialogare con il mondo contemporaneo. La radice di una tale situazione si trova nel fatto che le tematiche in questione, mentre nella chiesa sono state sempre trattate secondo la logica della ragione classica, nel mondo contemporaneo vengono trattate con una razionalità che si esprime attivandosi nel singolo e con modalità procedurali. Le tematiche selezionate sono le seguenti: “verità”, “natura”, “persona” e “storia-divenire”. Il rapporto tra “verità” e “natura”, da una parte, e “storia” e “divenire”, dall’altra, è stato vissuto dalla chiesa per lo più con angoscia. Addirittura, in certi momenti della storia della chiesa, “storia” e “divenire” sono stati considerati categorie moderniste, tali, cioè, da mettere in pericolo l’universalità e l’immutabilità della verità e della legge naturale. In particolar modo si è pensato che la categoria “storia”, che ha quale protagonista l’uomo come soggetto e “persona”, potesse scatenare una sorta di reazione a catena, fatta di divenire, soggettivismo e relativismo. 2.2.1. Verità La concezione della verità come statica ed immutabile risponde al modo neoscolastico di concepirla, che riprende l’antica dottrina della adaequatio e riduce il Mistero cristiano a misteri e la verità di fede a proposizioni irreformabili. Tale modello di verità non solo è del tutto diverso da quello che il mondo propone ai nostri giorni, sia in campo scientifico che in campo filosofico, secondo cui progresso, ricerca continua ed incessante e proceduralità, — e in questo momento
25 Cfr. P. TRIGO, Creazione e storia nel processo di liberazione, tr. it., Assisi 1991, 144-147.
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penso, solo a mo’ di esempio, ad A. Einstein ed a Th. Kuhn, per la scienza, ed a K. Popper e J. Habermas, per la filosofia e la politologia, — ma è anche in forte attrito con dati certamente non secondari, custoditi dalla tradizione cristiana. La verità cristiana è concentrata su Cristo rivelatore e salvatore, che è un evento; un evento appena sfiorato dalle tante asserzioni di fede della comunità credente che, in ogni caso, esercitano il ruolo fecondo di “regolamentazione linguistica”, come, ad esempio, la storia della cristologia ci insegna. Si tratta di un evento ancora incompiuto e che ci riserva l’ultima sorpresa nell’éschaton: quali possano essere i tratti del Cristo, che sarà insieme glorioso ed agnello immolato, non lo sappiamo (Ap 5,6-13); cosa significhi che alla fine di tutto il Figlio prenderà il regno, e cioè l’intera creazione che ha vissuto tutte le sue vicende sino al compimento, e lo consegnerà al Padre (1Cor 15,24 ) non lo sappiamo; cosa possa significare vedere Dio faccia faccia (1Cor 13,12) non lo sappiamo. La comunità credente deve tenere sempre conto dell’inadeguatezza delle sue formule, non perché siano errate, ma perché sono inadeguate: soltanto nell’éschaton i nostri lógoi si identificheranno con il Lógos; ma, proprio allora, appena tenteremo di aprire la bocca per esprimere la verità, il nostro linguaggio si sgretolerà e la verità sarà il Vivente, l’evento eterno, di cui Gesù di Nazareth è la più potente e sicura profezia. La comunità cristiana, dunque, deve sempre annunciare la verità, la verità del Vangelo, ma sempre con il massimo di umiltà. Credo che si possa sostenere che la nostra vita di speranza è, tra l’altro, avanzamento verso quella meta in cui non avremo altra possibilità che quella di lasciarci stupire dall’ultima, suprema ed assoluta sorpresa. 2.2.2. Natura Quanto alla concezione della natura, come è attinta dalla ragione nella sua immutabilità, osserviamo che risponde anch’essa al metodo neoscolastico, reso ancora più restrittivo nei primi lustri del secolo XX. La natura è stata concepita come una struttura compiuta in se stessa, immutabile e fonte di leggi immutabili: si è parlato di immutabilità in forza della legge naturale. L’uomo moderno è contrario ad
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una tale concezione di natura perché considera ogni livello del mondo ed ogni realtà che in esso si trova in evoluzione. In particolare, la comprensione della natura non ha mai assunto forme univoche. Tra l’altro, «si consideri che ogni specie vivente, inclusa la specie umana, è sempre in via di mutazioni genetiche: si pensi alle varie specie homo che si sono sviluppate (ed estinte) prima dell’homo sapiens, che da alcune di esse in qualche modo deriva. Nessuno può prevedere il futuro della natura umana»26. Eppure, non si è avvertita alcuna difficoltà nello sviluppare il discorso della natura, come ho già osservato, quale fonte immutabile di norme immutabili. In questo settore può essere interessante osservare il percorso fatto dall’autorità ecclesiastica e verificato da E. Chiavacci: quando, a partire dal secolo XVII, iniziarono le dispute sui sistemi morali, i teologi, soprattutto i più significativi, assunsero orientamenti diversi. L’autorità magisteriale, quando è intervenuta, ha condannato le posizioni estreme, e cioè il lassismo ed il rigorismo. Ancora alla fine del secolo XIX la Penitenzeria apostolica a vescovi e confessori, che presentavano quesiti, rispondeva orator consulat probatos auctores. Il secolo XX, prima in occasione della crisi modernistica ed in seguito con la Casti Connubi di papa Pio XI, conobbe un magistero morale così a-problematicamente orientato da soffocare ogni discussione anche tra i teologi e da mettere a rischio la credibilità della legge naturale, che è e resta una cosa seria27. Una legge naturale dedotta da una natura astratta è una concezione illuministica e non può conseguire un consenso universale specialmente in un’epoca in cui la realtà, e soprattutto la natura, si pongono lungo un processo evolutivo graduale ed inarrestabile. Aggiungo una preziosa considerazione di E. Chiavacci: «Esiste certamente una natura umana, ma oggi sappiamo che sulla base della comune natura ci sono, a vari livelli, diversità profonde di organizzazione cerebrale, indipendenti dalla volontà del singolo individuo:
26 E. CHIAVACCI, La legge naturale: strumento necessario e urgente ma difficile da maneggiare, in RTM 159 (2008) 336. 27 Cfr. ID., La legge naturale, cit., 334 s.
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basti pensare al caso dei mancini. Quando dunque si parla di natura, e per conseguenza di legge naturale, occorre sempre tenere presente che la natura non è un dato fisso e immutabile, valido per tutti e per sempre: è un dato che varia, e varia per due motivi. Varia costantemente, anche se in modo impercettibile, con l’evoluzione continua della specie nelle varie aree ambientali e culturali in cui la specie umana sussiste. Varia però anche da individuo a individuo nelle complesse strutture cerebrali e nella loro interazione che oggi — e solo da poco più di un secolo — la scienza comincia a comprendere e a indagare. L’appellarsi alla legge naturale come norma etica di singoli specifici comportamenti deve tenere conto di ciò che oggi la scienza può offrire, anche se resta un appello valido per i grandi principi della convivenza umana»28. Il Chiavacci, fa le considerazioni precedenti dopo aver detto quanto segue: «Ma la riflessione etica [sull’omosessualità] deve tener presente anche un terzo elemento: una certezza scientifica assai recente, riconosciuta dalle Organizzazioni mediche fin dal 1993, quando la condizione omosessuale è stata ufficialmente tolta dall’elenco delle psicopatologie. Si è definitivamente riconosciuto che l’omosessualità non deriva da influssi di qualsiasi genere indotti dalla prima infanzia. La condizione omosessuale non è una patologia, ma una condizione innata nella complessa realtà cerebrale, e quindi per sua natura irreversibile (salvo rari casi particolari sempre possibili)»29. Portando questo ambito tematico nel campo della ricerca scientifica, si assiste all’evolversi del “diritto naturale” in “diritti umani” ed all’ancoraggio di essi non nella natura bensì nella persona30, e cioè in diritti che sono tali non perché legati ad una natura immutabile bensì alla persona umana, che è vivente e libera nel suo situarsi nella storia e nel suo relazionarsi con gli altri, anche con Dio. 28
ID., Omosessualità. Un tema da ristudiare, in RTM 167 (2010) 474. ID., Omosessualità, cit., ibid. 30 Ad esempio, cfr. F. BOTTURI – F. TOTARO (edd.), Universalismo ed etica pubblica, Milano 2006 (fascicolo monografico di Annuario di etica 3 (2006); F. BOTTURI – R. MORDACI (edd.), Natura in etica, Milano 2009 (fascicolo monografico di Annuario di etica 6 [2009]). 29
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Un fatto così importante ci rende attenti a dati significativi, che appartengono alla sensibilità del mondo contemporaneo e che la chiesa con la Gaudium et Spes ha espresso con il proprio linguaggio. Tali dati ci rendono, ove possibile, ancora più convinti sia del fatto che la ragione classica non è un modello di ragione adeguato alla visione del mondo ed al sentire dell’uomo della nostra epoca culturale, sia della pericolosità di certa sua utilizzazione. 2.2.3. Persona Circa il carattere supremo della persona, la sua dignità ineguagliabile e l’inviolabilità e l’universalità dei suoi diritti, il Vaticano II ha idee molto chiare. Esso, infatti, afferma: «cresce la coscienza dell’eminente dignità della persona umana, superiore a tutte le cose e i cui diritti e doveri sono universali e inviolabili. […] l’ordine delle cose deve essere subordinato all’ordine delle persone e non l’inverso, secondo quanto suggerisce il Signore stesso quando dice che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (GS 26); «La tutela, infatti dei diritti della persona è condizione necessaria perché i cittadini, individualmente o in gruppo, possano partecipare attivamente alla vita e al governo della cosa pubblica» (GS 73). Con ciò il Concilio riconosce alla persona ed ai suoi diritti la precedenza all’interno di tutti gli altri valori sia della comunità politica, sia della comunità religiosa, come attesta la superiorità dell’uomo sul sabato, che costituisce uno dei punti più sacri della legislazione religiosa giudaica. Il più fine diritto dell’uomo, direttamente riconosciuto dal Vangelo, si esprime nella dignità e nella libertà della coscienza umana: «Nessuna legge umana è in grado di assicurare la dignità personale e la libertà dell’uomo, quanto il Vangelo di Cristo, affidato alla Chiesa. Questo Vangelo, infatti, annunzia e proclama la libertà dei figli di Dio, respinge ogni schiavitù che deriva in ultima analisi dal peccato (Rm 8,14-17), onora come sacra la dignità della coscienza e la sua libera decisione, ammonisce senza posa a raddoppiare tutti i talenti umani a servizio di Dio e per il bene degli uomini, infine raccomanda tutti alla carità di tutti (Mt 22,39). Ciò corrisponde alla legge fondamentale della economia cristiana. Benché, infatti, il Dio Salvatore e il Dio
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Creatore siano sempre lo stesso Dio, e così pure si identifichino il Signore della storia umana e il Signore della storia della salvezza, tuttavia in questo stesso ordine divino la giusta autonomia della creatura, specialmente dell’uomo, lungi dall’essere soppressa, viene piuttosto restituita alla sua dignità e in essa consolidata» (GS 41). Di fronte a queste affermazioni, stupisce la disinvoltura con cui, in questi ultimi decenni, ora l’alta dirigenza della CEI ora la Santa Sede hanno affermato la loro pretesa di intervento nella “cosa pubblica” italiana al fine di orientarla in un certo modo. Siffatti interventi sono stati percepiti come attentato all’autonomia della comunità politica ed hanno provocato risentimento non solo nelle forze politiche e negli strati della popolazione tradizionalmente avversi alla chiesa, ma anche in una parte non indifferente, per quantità e per qualità, del popolo cristiano vivente in Italia. Le recenti polemiche concernenti la configurazione e la denominazione della più comune convivenza solidale che è la famiglia, — e dico questo considerando non tanto le questioni di merito quanto le questioni di metodo e, nel caso, quelle concernenti la tipologia degli interventi ecclesiastici — ci fanno percepire la grandezza sia dei condizionamenti esercitati sulla dirigenza ecclesiastica dal modello classico di razionalità, precedentemente presentato, sia della distanza che in certe questioni separa chiesa e mondo contemporaneo. 2.2.4. Storia a) La storia in quanto tale non è stata oggetto del lavoro del Vaticano II ma l’esistenza storica dell’uomo e, dunque, la sua esperienza storica è stata considerata un luogo teologico fondamentale. Per orientarci, riportiamo un testo notevole della GS: «Come è importante per il mondo che esso riconosca la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento, così pure la Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dall’evoluzione del genere umano. L’esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa. Essa,
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infatti, fin dagli inizi della sua storia, imparò ad esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; inoltre si sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi: e ciò allo scopo di adattare il Vangelo, nei limiti convenienti, sia alla comprensione di tutti, sia alle esigenze dei sapienti. E tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere la legge di ogni evangelizzazione. […] La Chiesa, avendo una struttura sociale visibile, che è appunto segno della sua unità in Cristo, può essere arricchita, e lo è effettivamente, dallo sviluppo della vita sociale umana non perché manchi qualcosa nella costituzione datale da Cristo, ma per conoscere questa più profondamente, per meglio esprimerla e per adattarla con più successo ai nostri tempi» (GS 44). Si comprende subito che l’ambito tematico di questo testo del Concilio è ecclesiologico, ma le idee in esso espresse, se vengono considerate, come in effetti sono, evocatrici di quell’importante luogo teologico che è la storia, hanno una fecondità generale nella vita della chiesa e nella riflessione teologica. Nella storia non solo accadono i fatti, ma anche hanno luogo il divenire ed il progresso, si verificano le esperienze umane, vengono formulati i progetti, vengono espressi desideri, ansie, speranze e nostalgie, risuonano i lamenti della vita offesa ed i gemiti dell’umanità, trovano eco le benedizioni e le maledizioni che si partono dal cuore umano, sorgono domande, vengono richieste risposte, accade il superamento del vecchio, si aprono le prospettive verso il futuro, vengono scoperte ed applicate le regole del senso, l’uomo ed il credente vi vivono e vi muovono tutti i loro passi. Ovviamente, la categoria storicità implica riferimento a fatti realmente accaduti e documentabili mediante fonti monumentali, epigrafiche, letterarie, archivistiche. Certo, un dittatore può trasformare un’invenzione in fatto considerato dall’opinione comune, almeno espressa, storico; ma, in un caso di questo genere, di effettivamente storico c’è soltanto un mero e rude fenomeno di potere. b) Gli approcci ideologici alle vicende umane hanno molto spesso spacciato per storici delle pure invenzioni. Si pensi al Decretum Gratiani: secondo quanto riferiscono gli storici, il settanta per cento circa dei documenti in esso contenuti risultano creati dal nulla. Eppure, su di essi, si regge buona parte dell’attuale configurazione
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storica del ministero petrino. Spacciare per storico ciò che non lo è, almeno è prevaricazione. Mi fermo a ricordare un fatto, verificatosi al tempo di Giovanni Paolo II, quando l’alto ministero petrino, reso più fragile dall’età avanzata del suo titolare, si trovò accerchiato da certa logica curiale infallibilista. Il cardinale T. Bertone, già Segretario di Stato di sua Santità e, praticamente, già numero due della gerarchia cattolica, nel 1996, e cioè al tempo in cui era ancora segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, sostenne addirittura che il papa crea la tradizione. Infatti, così scriveva l’allora monsignor Bertone: «Quanto poi alla natura peculiare di un insegnamento del Magistero pontificio che intenda semplicemente confermare o riproporre una certezza di fede già vissuta consapevolmente dalla Chiesa o affermata dall’insegnamento universale dell’intero corpo episcopale, essa si può vedere non di per sé nell’insegnamento della dottrina stessa, ma nel fatto di dichiarare formalmente da parte del Romano Pontefice che si tratta di una dottrina che già appartiene alla fede della Chiesa ed è insegnata infallibilmente dal Magistero ordinario e universale come divinamente rivelata o come da tenersi in modo definitivo»31. E non si tratta di una svista, perché l’allora monsignore del Sant’Uffizio passa dall’approccio teorico al riscontro pratico: «Infine, con speciale riferimento all’insegnamento circa l’ordinazione sacerdotale da riservare soltanto agli uomini, occorre ricordare che la Lettera Apostolica “Ordinatio Sacerdotalis” ha confermato che tale dottrina è conservata dalla costante e universale Tradizione della Chiesa ed è stata insegnata con fermezza dal Magistero nei documenti più recenti»32. Ora, a me sembra che la conoscenza della tradizione sia un problema ora della patrologia, ora della storia del dogma, ora della storia della teologia, e cioè di discipline che obbediscono allo statuto epistemologico della storiografia e della storiografia teologica, in particolare; inoltre, che la 31
T. BERTONE, A proposito della recezione dei Documenti del Magistero e del dissenso pubblico, in Osservatore Romano, 20 dicembre 1996, 5; ID., Magistero della Chiesa e Professio fidei, in G. COFFELE (ed.), Dilexit Ecclesiam. Studi in onore del prof. Donato Valentini, Roma 1999, 469. 32 L. c.
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tradizione attesti o meno un fatto, una dottrina ed una verità è questione di documenti. Se essi non li contengono, non si vede come un papa possa legittimamente affermare il contrario; viceversa, se i documenti li contengono, il pronunciamento del papa non accresce in alcunché né la loro consistenza né la loro credibilità dal punto di vista storiografico. Il pronunciamento del papa non può incidere sulla loro plausibilità storiografica. T. Bertone sembra ignorare, tra l’altro, il fatto che la storiografia non è riuscita ad accertare se Pio IX abbia effettivamente pronunziato la nota frase «La tradizione sono io!»33. In ogni caso, una tale espressione non potrebbe avere maggiore forza di una cabrata retorica. Cosa tanto più chiara in quanto si tratta, oltre tutto, di una affermazione tramandata più che attestata. c) La persona umana e la storicità sono le realtà e, di conseguenza, le categorie più anticlassiche e più sovversive che esistano, e non tanto per le rivolte che possono scatenare, ma per gli sconvolgimenti cui possono dare vita per il solo fatto di esserci e di imporsi. La persona è un soggetto originario, autocosciente, libero, autosostentatesi, a sé affidato, creatore del suo destino, esistente nella relazione ma libero di scegliere i suoi partners relazionali e dialogici, inserito in un flusso di esistenza, di vita e di esperienze ma titolare del diritto di essere co-protagonista e co-originario in tutti gli eventi della comunità umana e della comunità cristiana. La storicità è l’alveo di vita e di esperienza in cui affiorano i prodotti belli e brutti della vita e dell’esperienza dell’umanità, che, proprio perché sono e comunque sono, pongono domande ed attendono risposte, e chi è chiamato a prestare ascolto ed a dare risposte non ne può prescindere. Le formidabili ed irreversibili acquisizioni che si inscrivono nelle categorie di persona e di storia, fanno della persona il luogo privilegiato ed il protagonista intrepido del rivelarsi e dell’attivarsi del postulato dell’humanun e del suo ergersi contro i potentati di ogni genere, che in modo evidente o criptico, spadroneggiano nel mondo. La persona oggi è e vuole essere ciò che ho detto un po’ supra, anche
33 Cfr. J.P. BOYLE, Ad tuendam fidem on the regula fidei and the papal magisterium, in Cr St 21 (2000) 154.
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nella chiesa. Questo fatto da molti nella chiesa è percepito, nonostante le affermazioni che si fanno e la rivendicazione costante dei diritti della persona in campo economico, sociale e politico, come un fatto preoccupante. Se ne ha paura! Prometeo e Dioniso fanno paura! Solo che le caratteristiche della persona appena esposte, non sono né quelle del titano Prometeo né quelle del dio Dioniso, più semplicemente sono quelle proprie di un comune essere personale. Tutti dovrebbero riconoscere la persona e le sue caratteristiche. 2.2.3. Non-receptio Può succedere che una soggettività forte, qual è la persona umana, sia in quanto tale sia per il riconoscimento che le è dovuto, entri in tensione con istituzioni forti come lo Stato e come la Chiesa. Preciso subito che desidero fare riferimento ai tanti fatti di non-receptio di pronunciamento del magistero che si registrano ai nostri tempi all’interno della comunità cristiana. Aggiungo che intendo la non-receptio non in senso tecnico ma in senso più profondo, e cioè nel senso che il popolo cristiano talora ha difficoltà a vivere e, ancora di più, a capire le ragioni del magistero in una serie di questioni di bruciante attualità e di importanza capitale. Ritengo che i casi di non-receptio debbano essere più prudentemente e più cristianamente interpretati, in prima istanza, come casi di crisi, se non proprio della proposta della chiesa, almeno del modo di presentare la proposta e, solo in seconda istanza, quale crisi dei protagonisti della non-receptio. Certo, se la persona, così come l’abbiamo descritta, si ergesse contro qual novello Prometeo e qual novello Dioniso, ci metterebbe di fronte ad un ennesimo caso di ragione classica e, conseguentemente, non si potrebbe non trarne le dovute conseguenze. Di fatto, ciò si verifica raramente. Di solito, accade che la ragione classica, a cui le gerarchie ecclesiastiche amano comunemente ispirarsi, che il Concilio Vaticano II ha tentato di superare e qualche volta con successo e che è un modello arcaico di pensare e di formulare i discorsi, mette in difficoltà l’uomo contemporaneo, il quale, come abbiamo già rilevato, si attiva quale postulato dell’humanum, si erge contro e progetta e costruisce itinerari autonomi di comportamento.
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Anche a proposito di questo tema, facciamo un esempio: T. Bertone, ancora una volta al tempo in cui era ancora il segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, parlando del dissenso pubblico venutosi a determinare nella chiesa in seguito alla pubblicazione di documenti come le encicliche Veritatis Splendor ed Evangelium vitae, la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis, il Responsum ad dubium della Congregazione per la Dottrina della Fede e la lettera della medesima congregazione Circa la recezione della comunione eucaristica da parte dei fedeli divorziati risposati, si è espresso nel modo seguente: «Non si può tralasciare il dato di fondo, che appare certamente primario: la vera e profonda radice del dissenso è la crisi della fede. […] La crisi spirituale di fede comporta come una delle sue prime manifestazioni la crisi dell’autorità del Magistero, che è crisi nell’autorità della Chiesa fondata sul volere divino. Si contrappone artificiosamente l’autorità e la libertà, staccandole dalla questione della verità. […] Vorrei attirare l’attenzione sul fatto che la vera tensione non è tra la difesa del diritto del singolo e la difesa del diritto della comunità, ma tra chi difende il diritto dei più forti e potenti culturalmente e il diritto di chi è più debole e indifeso di fronte alle tendenze corrosive antiecclesiali. […] L’urgenza di formare un’opinione pubblica ecclesiale conforme all’identità cattolica, libera dalla sudditanza all’opinione pubblica laicista che si riflette nei mass-media»34. Questo non è il momento opportuno per entrare nel merito delle dottrine contenute nei documenti appena citati, ma lo è certamente per osservare che non può non stupire che le gerarchie ecclesiastiche non riescano a vedere nelle difficoltà e anche nel dissenso dei teologi, costituenti nel loro insieme un fondamentale organo della chiesa, crisi di fede, artificiosa contrapposizione tra autorità e libertà ed arrogante difesa dei più forti e più potenti culturalmente, ed in un’opinione pubblica ecclesiale non allineata un’opinione pubblica asservita al laicismo: il fatto che le gerarchie
34 T. BERTONE, A proposito della recezione dei Documenti del Magistero e del dissenso pubblico, cit., 5; tali concetti vengono riproposti in ID., Magistero della Chiesa e Professio fidei, cit., 465-476.
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ecclesiastiche trattino teologi, cui debbono prestare attenzione, e popolo cristiano, di cui fanno parte, come nemici di Cristo e della chiesa, in linguaggio politologico corrente può essere espresso come un fenomeno di “arroganza del potere“. Mi sembra che causa di grande turbamento sia il fatto che ancora nella nostra epoca i casi di non-receptio nella chiesa vengono trattati come crisi di fede e di obbedienza. CONCLUSIONE La chiesa, che vuole essere fedele e, nel contempo, creatrice di forme e figure sempre nuove ed attuali, dispone di due tesori inestinguibili: lo stile di Gesù di Nazareth, il Vangelo e la Tradizione, da una parte, e le domande che si partono dall’esperienza storica dell’uomo, dall’altra. Per attingere a piene mani a questi tesori essa deve uscire dal modello arcaico, fin troppo spesso adottato, di comprendere Dio, se stessa, l’uomo ed il mondo, come abbiamo precisato nella premessa. I frutti maggiori dell’adozione di un paradigma nuovo si possono raccogliere nel settore fondamentale della concezione cristiana della ragione e della verità. Da questi frutti si può sperare nell’uscita della chiesa dal mondo arcaico in cui sembra che alcuni vogliono condurla. Secondo G. Ruggieri, il fatto che Dio sia, tutto sommato, altro ed estraneo rispetto a qualsiasi mediazione umana, inclusa la chiesa, appartiene all’esperienza cristiana35. Non si tratta di parlare di Dio sotto il profilo della teologia negativa, né sotto il profilo della trascendenza divina, né in considerazione della presenza del peccato nel mondo e nella chiesa, bensì nella prospettiva dell’inadeguatezza giuridico-teologica della chiesa all’alterità. È quest’ultima che rende evidente l’essere straniero di Dio nella chiesa. Il punto essenziale della riflessione del Ruggieri è il seguente: l’altro deve essere riconosciuto in base alla gratuità e non in base all’utilità. Ciò significa che deve essere non solo tollerato, ma deve essere accolto, riconosciuto
35 Cfr. G. RUGGIERI, Dio: straniero nella chiesa?, in Protestantesimo 52 (1997) 2-3, 99-117.
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come altro e garantito nel suo diritto di essere quello che è e di esprimersi pubblicamente. Il Nuovo Testamento attesta l’accoglienza dell’altro da parte di Gesù e la propone come norma assoluta. Tra i testi biblici che propongono l’originalità del rapporto di Dio con l’altro si staglia con forza Rm 5,8, in cui l’altro per eccellenza, il peccatore, viene considerato esclusivamente alla luce dell’amore di Dio che si consuma per lui in Cristo che muore sulla croce. La ragione teologica non è la “ragione vittoriosa”, bensì l’accoglienza gratuita dell’altro. La verità cristiana non è mai adeguata dalle asserzioni con le quali viene formulata. Inoltre, l’istituzione che storicamente se ne è fatta garante, fino al punto di definirsi “maestra di verità”, e cioè la chiesa, è in cammino, insieme al creato, al mondo, alla storia ed all’uomo, verso il compimento dell’éschaton, che è la tappa e la dimensione in cui il suo lógos si identificherà con il Lógos eterno. Infine, essa, come sostiene Ruggieri, deve acquisire il convincimento di essere “crocifissa”, e cioè di essere sostanzialmente lo stesso Gesù di Nazareth che offre la sua vita per liberare il mondo dal peso di ogni male e per sostenerlo, con la potenza di tale dono, nei suoi vari percorsi36. Gesù di Nazareth, la verità crocifissa, è di monito a coloro i quali affermano a cuor leggero il primato della verità: la verità, ricercata e difesa per se stessa e come valore originario, fatalmente dà vita a processi di intolleranza. Non per nulla san Paolo non ebbe alcuna esitazione nel conferire il primato alla carità (1Cor 13,13), che è anche criterio per verificare l’esistenza e la qualità del dialogo della chiesa con il mondo contemporaneo.
36
2007.
Cfr. ID., La verità crocifissa. Il pensiero cristiano di fronte all’alterità, Roma
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L’IMPIANTO BIBLICO DELLA GAUDIUM ET SPES
CARMELO RASPA*
L’impianto biblico di quella che è definita l’enciclica della speranza appare di notevole spessore, anzitutto per ciò che concerne le motivazioni metodologiche che i Padri conciliari hanno adottato in ordine alla Scrittura per descrivere il rapporto tra la Chiesa e l’uomo contemporaneo. Nel Proemio, consapevoli che il popolo di Dio è inserito nella famiglia umana, affermano la volontà di dialogare con quest’ultima «arrecando la luce del vangelo». La parola evangelica non è, tuttavia, proiettata dall’alto sul mondo: i padri riconoscono, al contrario, che «è dovere permanente della chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo», il quale non costituisce, pertanto, una serie di dicta probantia di una dottrina che s’impone, ma la chiave ermeneutica per comprendere il senso dell’uomo e della sua presenza nel mondo. Un’ulteriore indicazione di metodo è fornita dai Padri al n. 13, laddove, analizzando le molteplici risposte date dall’uomo alla domanda sulla sua identità, dichiarano: «Queste difficoltà la chiesa le sente profondamente e ad esse può dare una risposta che le viene dall’insegnamento della divina rivelazione, risposta che descrive la vera condizione dell’uomo, dà una ragione delle sue miserie, e insieme aiuta a riconoscere giustamente la sua dignità e vocazione». Il capoverso successivo a quello ora citato si apre con un Sacrae enim Litterae, inducendo, in tal modo, il lettore ad accostare e ad identificare la divina rivelazione alla Scrittura. A conclusione della costituzione al n. 91 i Padri scrivono: «Confidiamo che le molte cose che abbiamo esposto,
*
Docente di Esegesi biblica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Carmelo Raspa
basandoci sulla parola di Dio e sullo spirito del vangelo, possano portare un valido aiuto a tutti», sottolineando ancora come la Costituzione sia stata stilata tenendo presente il mondo e la Parola di Dio come orizzonte interpretativo della sua storia1. La prima istanza da indagare è rappresentata per i Padri conciliari dall’ «uomo singolo integrale, nell’unità di corpo ed anima, di cuore e di coscienza, di intelletto e volontà» (n.4): la Costituzione al n. 12 cita i capitoli 1 e 2 del libro di Genesi, unitamente alla rilettura sapienziale che dei racconti della creazione fa il Sal 8, per disegnare la natura dell’uomo, scaturita dalle mani di Dio come molto buona (cfr Gen 1,31). Il peccato, al n. 13, è inteso come una corruzione della giustizia originaria dell’uomo a causa della tentazione del maligno, che esaspera, in tal modo, il concetto di libertà nell’uomo medesimo, inducendolo ad abusarne. L’espressione concreta dell’essere peccatore dell’uomo è ravvisata dai Padri nell’idolatria: la Costituzione parafrasa, difatti, al n. 13 il passo di Rm 1,21-25 per descrivere l’uomo in stato di peccato: «essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen». Al n. 10 «la causa degli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo» è individuata nel disordine che attanaglia il cuore dell’uomo, il quale si muove tra i suoi limiti e le sue aspirazioni sconfinate. Anche in questo caso si allude esplicitamente al passo di Rm 7,14-23: «Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Io non riesco a capire
1 Cfr H. DE LUBAC, La Rivelazione divina e il senso dell’uomo. Commento alle Costituzioni conciliari «Dei Verbum» e «Gaudium et Spes», Milano 1985.
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L’impianto biblico della Gaudium et spes
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neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra». In entrambi i numeri manca un riferimento al testo di Gen 3, assente pure al n. 18, quando la Costituzione tratta della morte. I Padri affermano che la morte corporale non sarebbe esistita se l’uomo non avesse peccato: in questo riprendono una tradizione biblica che a ragione non è contenuta nei capitoli 1-3 del libro di Genesi, in quanto in essi non sembra che si affermi una perennità dell’uomo prima del peccato. I Padri alludono implicitamente, di contro, ad una probabile interpretazione del testo di Gen 3 o ad altre spiegazioni di senso sulla realtà della morte opposte ad esso come Sap 1,13; 2,23-24; Rm 5,21; 6,23; Gc 1,15. Un’ennesima citazione della Lettera ai Romani si ha al n. 16, che affronta il delicato problema del rapporto tra coscienza e legge. Il testo di Rm 2,14-16 è giudicato come la descrizione di una fenomenologia dell’agire umano nel momento in cui l’uomo scopre in sé una legge che non è lui a darsi, alla quale deve obbedire e che è ritenuta dai Padri conciliari scritta da Dio dentro al suo cuore, allo stesso modo in cui l’Apostolo descrive i pagani, i quali, pur non conoscendo la legge, si comportano secondo i suoi dettami. In realtà, l’esegesi odierna del passo biblico in questione registra progressi sia sul campo della precisazione dei termini, tra i quali fondamentale rimane il lessema nomos, che traduce l’ebraico Torah, riferendosi forse ad una realtà comunque più ampia del Pentateuco2, sia per ciò che concerne
2
Per lo studio della questione cfr. I. CARDELLINI – E. MANICARDI (curr.), Torah e
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il pensiero paolino, a cavallo tra la fede ebraica e quella cristiana (non è da escludersi che Paolo possa alludere alle leggi noachiche nei vv. sopra esposti) e, sotto il versante dell’antropologia culturale e della sociologia, aperto a più mondi (ebraico, greco, romano)3. Conclude la riflessione sulla natura dell’uomo la collazione di passi biblici al n. 22 con cui si afferma che “in realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo” e del cristiano, tratteggiato nel quarto capoverso dello stesso numero. Il n. 22 si lega in tal modo a quanto affermato in precedenza dai Padri al n. 10, lì dove espressamente si afferma la fede della Chiesa, la quale “crede ugualmente di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana”. Citando il discorso di Paolo all’Aeropago di Atene di At 17,26, la Costituzione al n. 24 concepisce la comunità umana come una sola famiglia di membri creati a immagine e somiglianza di Dio dal primo uomo: si sottolinea, in tal modo, l’identità e la comunanza di natura. La solidarietà umana scaturisce dal comandamento di amare il prossimo come se stessi, che la Costituzione pare presupporre essere naturalmente nell’uomo, in virtù della legge scritta da Dio nel cuore degli uomini e della costituzione ad essere sociale dell’uomo medesimo, salvo a registrarne poi il tradimento della sua osservanza a causa dell’egoismo e della superbia (cfr n. 25), e che si coniuga come un ordine di verità, di giustizia, di libertà e di amore (cfr n. 26). La citazione di Mt 25,40: «Quanto avete fatto ad uno di questi minimi miei fratelli, l’avete fatto a me» può valere come principio assiomatico atto ad ispirare in ogni uomo, anche non credente, il rispetto concreto per l’altro? La necessità di una testimonianza cristiana, che inglobi tensione escatologica ed impegno nel mondo, è ribadita, comunque, fortemente al n. 43, dove, attraverso una sapiente collazione di diversi passi
kerygma: dinamiche della tradizione nella Bibbia, in Ricerche Storico – Bibliche 1-2 (2004). 3 Cfr F. WATSON, Paul, Judaism and Gentiles: beyond the new perspective, Grand Rapids 2007.
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biblici inerenti al pellegrinaggio verso la patria eterna e alla vocazione di ciascuno durante la permanenza in quella terrena, al di là di ogni separazione, i Padri concludono: «Il cristiano, che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso». Tra gli impegni temporali i Padri avvertono urgente quello per la pace, ammonendo al n. 78: «tutti i cristiani sono pressantemente chiamati a “praticare la verità nell’amore” (Ef 4,15), e a unirsi agli uomini sinceramente amanti della pace per implorarla e per attuarla». Una verità che risiede nell’amore, contrariamente ad un amore che è fatto sussistere sull’ordine di verità imposte, può essere il segno di una perennità dell’assumersi da parte dei cristiani del senso del mondo, interpretato, come chiede la Costituzione, alla luce della Parola.
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UNA CHIESA POVERA PER IL MONDO CONTEMPORANEO. GLI ESITI DI UNA PROSPETTIVA NELLA COSTITUZIONE PASTORALE DEL CONCILIO VATICANO II
CORRADO LOREFICE*
Hervé Legrand durante la Disputatio sulla Lumen gentium, tenuta il 24 febbraio 2011 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, evidenziava un’esigenza metodologica nell’accompagnamento teologico della ricezione del Vaticano II: «È proprio della responsabilità del teologo leggere i testi in maniera rigorosamente storica sia (in negativo) per mettere da parte le interpretazioni erronee o arbitrarie, e (in positivo) per mettere in luce con precisione il loro contesto e la loro intenzione»1.
Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes del concilio Vaticano II troviamo depositato il guizzo di una questione e di una accentu-
azione evangelica che balenò nel cielo grigio dei primi passi del dibattito sulla chiesa accesosi durante le Congregazioni Generali (CG) all’imbrunire della I sessione: il rapporto della chiesa con i poveri, e, conseguentemente, lo scottante capitolo del potere e della povertà della chiesa nel mondo contemporaneo. In GS 88 — senza tralasciare l’incipit della Costituzione pastorale *
Docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. H. LEGRAND, La ricezione del Concilio Vaticano II: qualche riflessione metodologica, Appunti dattiloscritti per la Disputatio sulla Lumen gentium tenuta il 24 febbraio 2011 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, 1; cfr. ID., La ricezione ecclesiologica della Lumen gentium. Riflessioni criteriologiche per un primo bilancio, in Synaxis 3 (2011) 7-51. 1
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conciliare dove si afferma che «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo»2, — parlando del compito dei cristiani nell’aiuto ai paesi in via di sviluppo, si legge: «[…] la maggior parte del mondo soffre di una miseria così grande che sembra quasi intendere nei poveri l’appello del Cristo che reclama la carità dei suoi discepoli. Si eviti questo scandalo: […]. Lo spirito di povertà e d’amore è infatti la gloria e il segno della Chiesa di Cristo»3.
Nel capitolo III che la Costituzione pastorale dedica alla vita economica, lo spirito delle beatitudini, in particolare la povertà, deve guidare l’impegno personale e comunitario dei cristiani nel campo economico-sociale, della giustizia e della carità: «[i cristiani]… mentre svolgono le attività terrestri conservino una giusta gerarchia di valori, rimanendo fedeli a Cristo e al suo Vangelo, cosicché tutta la loro vita, individuale e sociale, sia compenetrata dello spirito delle beatitudini, specialmente dello spirito di povertà. Chi segue fedelmente Cristo cerca anzitutto il regno di Dio e vi trova un più valido e puro amore per aiutare i suoi fratelli e per realizzare, con l’ispirazione della carità, le opere della giustizia»4.
E in GS 76, pur non ricorrendo il termine povertà, allorquando si enuncia il concetto che il Vangelo per essere annunciato necessita di mezzi deboli, in sintonia con il suo stesso contenuto, vale a dire la potenza della stoltezza della croce di Cristo, si rimanda allo stile povero e debole della Chiesa: «Gli apostoli e i loro successori con i propri collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli uomini il Cristo Salvatore del mondo, nell’esercizio del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di Dio, che molto spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni. Tutti quelli 2
GS 1, in EV, 1/1319, 773. GS 88, in EV, 1/1628, 957. 4 GS 72, in EV, 1/1560-1561, 919-921. 3
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che si dedicano al ministero della parola di Dio, bisogna che utilizzino le vie e i mezzi propri del vangelo, che, in molti punti, differiscono dai mezzi propri della città terrestre. Certo, le cose terrene e quelle che, nella condizione umana, superano questo mondo, sono strettamente unite, e la chiesa stessa si serve delle cose temporali nella misura che la propria missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni»5.
Per G. Mazzillo ci troviamo di fronte — specialmente nell’incipit della Costituzione pastorale — ad una irreversibile «assunzione ecclesiale […] del tema dei poveri, le cui speranze e angosce sono “in primo luogo” recepite dalla coscienza ecclesiale»6. Ma cosa ci sta dietro questi testi e che valenza hanno per l’oggi della vita della chiesa? 1. LA QUESTIONE ECCLESIOLOGICA NELLA PRIMA SESSIONE DEL CONCILIO Già prima della diffusione dello schema De Ecclesia, avvenuta solo il 23 novembre 1962, molti padri ed interi episcopati avevano manifestato la loro trepidazione per la questione ecclesiologica, così delicata e così scottante, motivo fondamentale e nerbo forte dell’intera economia conciliare. Sebbene vi fosse ancora disorientamento e confusione, cresceva gradualmente la consapevolezza e l’assunzione di responsabilità da parte dell’assemblea sempre più arricchita dalla variegata sensibilità dei paesi di origine dei vescovi che via via intervenivano al dibattito conciliare. «Nonostante — scrive Melloni — questo testo finale dello schema de Ecclesia venga prodotto dalla Tipografia vaticana solo dopo il 10
5 6
GS 76, in EV, 1/1582-1583, 931.
Poveri, in G. BARBAGLIO – G. BOF – S. DIANICH (curr.), Teologia (I dizionari S. Paolo), Cinisello Balsamo 2002, 1180-1188: 1183.
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novembre 1962, tuttavia il problema del de Ecclesia agita le discussioni a cavallo della apertura stessa delle assisi conciliari, giacché a differenza di Tromp ed Ottaviani, la gran parte dei teologi e dei padri conciliari considerano il de Ecclesia come il documento chiave del Vaticano II; e da quel poco che si sa del testo e dei suoi contenuti (aggiornati ancora alla versione di maggio, ma comunque inequivocamente deludenti) le ragioni di allarme sono molte»7.
Qualcosa era trapelato. Le prospettive non erano rosee. Ci si muoveva in ogni caso sulla scia del De fontibus8. Ma ormai il muro 7 A. MELLONI, Ecclesiologie al Vaticano II (autunno 1962 – estate 1963), in M. LAMBERIGTS – CL. SOETENS – J. GROOTAERS (éd.), Les Commissions Conciliaires à Vatican II , Leuven 1996, 91-179: 101-102. Di tale preoccupazione si trova traccia nel secondo incontro, tenuto nel tardo pomeriggio del 13 novembre 1962 presso la “Domus Mariae”, a cui partecipano i rappresentanti delle conferenze episcopali dei diversi continenti, animato dal brasiliano mons. H. Camara, ideatore di tali incontri unitamente a mons. R. Etchegaray, segretario della conferenza episcopale francese, e al covicepresidente (insieme allo stesso Camara) del CELAM, il cileno mons. Emmanuel Larraín Erràzuriz: «Nella riunione del 13 novembre non si discute solo del De fontibus. I vescovi esprimono soprattutto le loro preoccupazioni per il documento ecclesiologico, che ancora non conoscono, e prestano attenzione al lavoro che il gruppo della chiesa dei poveri sta svolgendo presso il collegio belga» [(G. RUGGIERI, Il primo conflitto dottrinale, in Storia del concilio Vaticano II, diretta da G. Alberigo, 2, Bologna-Leuven 1996, 274) da ora SV/ seguito dal numero del volume ]. Sulla complessa stesura dello schema preparatorio e il ritardo della sua consegna ai padri conciliari cfr. J. KOMONCHAK, La lotta per il concilio durante la preparazione, in SV/1, cit., BolognaLeuven 1995, 305-307; A. ACERBI, Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella “Lumen gentium”, Bologna 1975, 107-149. 8 La storiografia ha fatto luce su questo primo e decisivo conflitto dottrinale che, a motivo della scelta della pastoralità della dottrina, finì col vedere l’intervento straordinario del papa stesso per superare l’impasse in cui si era cacciato il Concilio dopo l’esito della votazione del 20 novembre avente per quesito se la discussione sul De fontibus dovesse essere interrotta viste le reazioni e i contrasti che lo schema presentato dalla commissione dottrinale aveva suscitato. Pur essendosi delineata una netta maggioranza non si raggiunse il quorum richiesto dei 2/3 per soli 105 voti. «Si imponeva quindi di liberare lo schema da quei difetti che impedivano il formarsi di una “conclusione desiderata”. Perciò il papa, tenuto conto dei motivi che suscitavano la preoccupazione e “aderendo al desiderio di molti”, stabiliva di rimandare la questione ad una commissione mista composta da alcuni membri sia della commissione teologica che del segretariato per l’unità. Sarà compito di questa commissione
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era stato abbattuto, la diga era crollata sotto l’effluvio incontenibile di questa crescente risoluta volontà, maturata dai Vescovi — nonostante il minoritario ma caparbio fronte di opposizione — di prendere in mano i lavori e contribuire a scrivere quel non placet che avrebbe permesso di riannodare la loro assemblea alla fiorente tradizione conciliare della Chiesa. Si voleva cominciare a mettere per iscritto il placet all’aggiornamento voluto e indicato da Giovanni XXIII nell’allocuzione inaugurale Gaudet Mater Ecclesia9. Si nutrivano pertanto consone irrefrenabili aspettative per l’auspicato rinnovamento. La volontà di respingere anche questo schema e di approntare una nuova redazione era già nell’aria. «Difatti — come afferma G. Ruggieri — il dibattito partirà da questo implicito presupposto, che comunque lo schema dovesse essere rifatto»10. Il Concilio doveva portare a un rinnovamento della Chiesa: questo era sempre più chiaro; non altrettanto la via che doveva percorrere per approdare a tale buon fine. È in questo clima che svetta la prospettiva di una chiesa povera per il mondo contemporaneo, anche grazie all’arguta riflessione e all’opera instancabile del card. Giacomo Lercaro, supportata dal suo
“emendare lo schema, renderlo più breve, redigerlo in maniera più consona, insistendo soprattutto sui principi più generali”. E a questo proposito il papa ribadiva il Leitmotiv che andava da tempo ripetendo e che la ormai delineata minoranza tendeva invece ad ignorare: il concilio di Trento e il Vaticano I hanno già esposto la dottrina presente nello schema. Si tratta quindi, ma questo il papa non lo esplicitava e lo lasciava concludere agli altri, di presentare questa dottrina per il mondo di oggi. Nei pochi giorni che restavano, continuava il papa, ci sarà tempo “per prendere in considerazione, o almeno saggiare (delibandi) anche gli altri schemi”. Il suggerimento è cioè chiaro: il “delibare” qui sta ad indicare una presa di posizione sui caratteri generali» (G. RUGGIERI, Il primo conflitto dottrinale, cit., 292). 9 Gaudet Mater Ecclesia, Allocutio in solemni Ss. Concilii inauguratione, 11.10.1962, in AAS, 54 (1962) 785-795 e in EV, 1/26*-69*. 10 G. RUGGIERI, Il difficile abbandono dell’ecclesiologia controversistica, in SV/2, cit., 355. Sulle diverse iniziative intraprese per manifestare il disappunto nei confronti degli schemi preparatori, in particolare sulla supplica rivolta al papa da diversi cardinali capeggiati da Léger, e sul “progetto” per il Concilio sottoposto al papa dal cardinale Suenens cfr. A. MELLONI, Ecclesiologie al Vaticano II, cit., 103.
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perito privato don Giuseppe Dossetti11, e di tanti altri vescovi e teologi che si riunivano al Collegio Belga, il combattivo gruppo “Chiesa dei poveri”12. Qui ci riferiamo in particolare al peculiare e originale intervento di Lercaro del 6 dicembre 1962, tenuto nel corso della 35a CG. Il discorso dell’arcivescovo di Bologna è successivo agli interventi de card. L.-J. Suenens e del card. G.B. Montini, e vi fa riferimento. Risulta pertanto utile inquadrare brevemente le linee di fondo di questi due interventi che si ponevano in alternativa al già desueto e contestato testo arrivato nelle mani dei vescovi e che, assieme a quello di Lercaro, avranno delle ripercussioni non solo sulla LG ma anche sulla stesura di un documento atipico per un Concilio come la GS. 2. L’INTERVENTO DI SUENENS Il primate del Belgio aveva presentato al papa sin dal maggio 1962 un progetto — non ancora definitivo visto che, a suo stesso dire, conoscerà lo stadio finale nel luglio del medesimo anno — per dare
11 È quanto dimostra C. LOREFICE, Dossetti e Lercaro. La Chiesa povera e dei poveri nella prospettiva del Concilio Vaticano II, Milano 2011. 12 Il gruppo della “Chiesa dei poveri” «denunciava e si proponeva di colmare la rottura tra la chiesa e i poveri (non solo quelli del terzo mondo, ma anche quelli del mondo occidentale industrializzato), rottura che ritenevano fosse imputabile al fatto che la chiesa aveva accettato di venire a patti con il sistema capitalista» (H. RAGUER, Fisionomia iniziale dell’assemblea, in SV/2, cit., 193-258: 227). Per il leader indiscusso del “Gruppo del Collegio belga”, P. Gauthier, «“Les pauvres ne sont pas évangélisés” – ce mot du Père Chevrier reste vrai», una lapidaria ed efficace descrizione della relazione della Chiesa con i poveri [Sintesi dell’intervento di Paul Gauthier alla prima riunione del gruppo “Chiesa dei poveri”, in Compte-rendu d’une réunion tenue au Collège Belge, 26.10.62, in FL XXII/380, cicl., ff. 4r + 1r (non numerato): f.1.]. Sulla “Chiesa dei poveri” cfr. G. ALBERIGO, “Église des pauvres” selon Jean XXIII et le concile Vatican II, in M.-A. VANNIER – O. WERMELINGER – G. WURST (éd.), Anthropos laïkos. Mélanges Alexandre Faivre à l’occasion de ses 30 ans d’enseignement, Fribourg 2000, 13-31; D. PELLETIER, Une marginalité engagée: le groupe «Jésus, l’Église et les Pauvres», in M. LAMBERIGTS – CL. SOETENS – J. GROOTAERS (éd.), Les Commissions Conciliaires à Vatican II, cit., 63-89; M.-T. LACAZE, La fine delle terre promesse, Lecce 1982, 51-54.
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un “ordine del giorno” e una prospettiva unitaria al Concilio13. Muovendo da una più solida fondazione ecclesiologica a partire dal “mistero” della Chiesa (De Ecclesiae Christi mysterio), il Concilio, per Suenens, avrebbe dovuto trattare della Ecclesia ad intra e della Ecclesia ad extra14. Questa distinzione della doppia vitalità della Chiesa formulata dal cardinal Suenens determinerà durante i lavori Conciliari la stesura non poco controversa di uno schema, cosa del tutto imprevista, sulla Chiesa e alcuni gravi e urgenti problemi del mondo contemporaneo (lo schema XVII, in seguito schema XIII, infine Gaudium et spes)15. 13 Suenens stesso ha offerto, assieme alla relativa documentazione, una ricostruzione degli antecedenti che lo portarono a preparare privatamente un articolato e organico programma per i lavori conciliari da offrire a Giovanni XXIII [Cfr. L.J. SUENENS, Aux origines du concile Vatican II, in Nouvelle Revue Théologique 117 (1985) 3-21; ID., Ricordi e speranze, Paoline, Cinisello Balsamo 1993, 76-97. 14 Il cardinale pensava per prima cosa ad una ricomprensione della Chiesa a partire dalla sua natura misterica e conseguentemente a «un gruppo di schemi che avevano a che fare con la Ecclesia ad intra, considerata nel suo compito di evangelizzare, insegnare, santificare e celebrare il culto, con una sezione finale sulla Ecclesia ad extra che sarebbe andata incontro alle attese del mondo per le risposte conciliari alle questioni sociali» (J. KOMONCHAK, La lotta per il concilio durante la preparazione, in SV/1, cit., 366). 15 « Nessuno dei 16 testi promulgati dal Vaticano II ha conosciuto uno sviluppo tanto lento, tanto lungo e tanto diversificato quanto lo schema che nel gennaio del 1963 si trovava all’ultimo posto della lista all’ordine del giorno della commissione di coordinamento e per questo motivo veniva chiamato diciassettesimo. (Nella primavera del 1964 diventerà il tredicesimo ma sempre in fondo alla lista). Questa maniera curiosa di dargli una denominazione numerica attesta già di per sé una sorta di anonimato, che ha caratterizzato un progetto di cui una parte del concilio, per lungo tempo, ha rifiutato l’esame. Non sarà scritto nell’agenda dell’assemblea plenaria che nell’autunno 1964 e ciò avverrà solo dopo lunghe esitazioni di Paolo VI. […] Notiamo infine che il carattere relativamente omogeneo di ciò che si è convenuto chiamare la “maggioranza” non è alla fine riuscito a resistere alla disparità di prospettive teologiche relative allo schema XIII del 1965. È chiaro che questa disparità ha potuto pesare già a partire dai lavori del 1963» (J. GROOTAERS, Il concilio si gioca nell’intervallo. La “seconda preparazione” e i suoi avversari, in SV/2, 445-446). Sullo schema che poi diventerà la Costituzione pastorale Gaudium et spes, cfr. anche E. VILANOVA, L’intersessione (1963-1964), in SV/3, cit., Bologna-Leuven 1998, 422-436 e soprattutto G. TURBANTI, Un concilio per il mondo moderno. La redazione della costituzione pastorale «Gaudium et spes» del Vaticano II, Bologna 2000.
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Il 4 dicembre, durante l’ultima settimana del primo periodo dedicata per l’appunto al dibattito sul De Ecclesia, lo stesso progetto, forte del consenso del papa16, veniva prospettato dal porporato belga ai padri conciliari riuniti nella Basilica di S. Pietro nel corso della 33a CG. La proposta era chiara: lo scopo e l’argomento centrale del Concilio doveva essere quello ecclesiologico. Gli tornava dunque utile fare riferimento al radiomessaggio del papa dell’11 settembre 196217 più che alla allocuzione iniziale poiché conteneva già in qualche modo la “sua” impostazione di fondo: un De Ecclesia ad intra ove si esponeva la vera natura della Chiesa «utpote mysterium Christi viventis in suo Corpore Mystico»18 e da dove, applicando l’adagio 16 «[…] Suenens, colui che aveva invocato e ispirato l’idea d’uno schema-cornice propedeutico a uno schema-contenuti alternativo, va a cercare la “copertura” nell’avallo del papa prima di esibire in aula il suo progetto» (A. MELLONI, Ecclesiologie al Vaticano II, cit., 123). È lo stesso Suenens a raccontare di aver inviato a Giovanni XXIII il testo del suo intervento prima di pronunciarlo: «[…] monsignor Dell’Acqua mi invitò a recarmi in Vaticano e mi disse che Giovanni XXIII non solo era pienamente d’accordo con il mio scritto, bensì che lo aveva letto e annotato, aggiungendo in margine alcune riflessioni in italiano. Domandai a monsignor Dell’Acqua di prendersi cura di far trascrivere in latino queste aggiunte pontificie per assicurarmi di non tradire il pensiero del Santo Padre, ed è quindi con la coscienza tranquilla che in aula pronunciai il discorso del 4 dicembre 1962 nel quale proposi il tema centrale che fu accolto dal concilio. L’adesione fu unanime tanto più che il giorno seguente il cardinale Montini, piuttosto riservato durante la prima sessione, si pronunciò calorosamente in favore della mia proposta insieme al cardinale Lercaro» (L.-J. SUENENS, Ricordi e speranze, cit., 84). L’intervento di Suenens ripropone la struttura e i contenuti del progetto proposto a Papa Giovanni XXIII pubblicato dal cardinale belga in Nouvelle Revue Théologique 117 (1985) 11-18 e in Ricordi e speranze, cit., 85-96. 17 «In hac expositione mea programmatis Concilii nihil dixi quod non explicite vel implicite contineatur in sermone dilectissimi nostri Summi Pontificis, quem Deus servet incolumem, die 11 septembris» (L.-J. SUENENS, Intervento, Congregatio Generalis 33a, 4 decembris 1962, in Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani Secundi, I/4, Città del Vaticano 1971, 224. Da ora AS). Nel radiomessaggio il papa aveva affermato: «In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri» (Radiomessaggio ai fedeli di tutto il mondo un mese prima dell’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano, in EV, 1/25*l). 18 «Rogamus ergo ab Ecclesia: Quid dicis de teipsa?» (ibid., 223). Nelle
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«operatio sequitur esse», si faceva scaturire, secondo le parole di Gesù, l’azione di una rinnovata pastorale nel mondo odierno e cioè il mandato di evangelizzare, ammaestrare, santificare, pregare19; e un De Ecclesia ad extra per la realizzazione del dialogo intraecclesiale e con il mondo. Tra gli ambiti di confronto e di impegno della Chiesa con gli uomini del nostro tempo («Mundus autem exspectat ut Ecclesia solvat quaestiones maioris momenti, quas ei proponit […]»20), Suenens, indicava il riconoscimento della dignità della persona umana e i problemi planetari della giustizia sociale, soprattutto il diritto alla proprietà privata e alla divisione del «superfluo»: «Moralistae tot et tanta volumina scripserunt “de sexto”, ita ut nihil fere inexploratum remaneat, sed quasi muti fiunt ubi sermo agitur de munere sociali proprietatis privatae concrete determinando; immo mirandae illae Litterae Encyclicae sociales in scholis atque in libris de hoc argumento non ita diffuse — ut oporteret — exponuntur. Et quomodo definiendum est superfluum illud nostrum quod pauperibus debitum est? Item, quodnam est officium theoreticum et practicum nationum, quae divitiis gaudent, erga “tertium mundum” vel erga nationes, quae fame afficiuntur?»21.
Inoltre assieme al dramma delle guerre e alle attese di pace, annoverava anche l’assunzione del compito di evangelizzare i poveri. Occorreva rispondere alla domanda: «Quaenam dicendi habeat Ecclesia de ipsa evangelizatione pauperum et de condicionibus ex
Adnotationes additae, Suenens scriveva: «Initium sumamus a natura Ecclesiae, quae est Populus Dei et Corpus Christi Mysticum. Hic petimus expositionem explicite biblicam, simplicem, bene ponderatam, directe fundatam in textibus inspiratis, sine disputatione, et memoratis ut fundamento non tantum Petro sed etiam apostolis, quorum sumus successores, ita ut omnes qui Scripturam agnoscunt, de doctrina exposita convenire possint» (ibid., 225). 19 Suenens cita Mt 28, 19: «Euntes ergo docete omnes gentes, baptizantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti», da dove estrapola questi quattro mandati. 20 L.c. Il corsivo è mio. 21 Ibid., 224.
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parte nostra requisitis ut nostrum testimonium ad eos perveniat, et ab ipsis accipiatur?»22. Va evidenziato il fatto che la problematica della povertà anche per il card. Suenens, ancorché presente all’interno dell’istanza ecclesiologica e del suo mandato testimoniale, era tuttavia una “questione da risolvere” tra le altre, concernente la Chiesa ad extra. Non riguardava direttamente la sua natura, non rispondeva alla domanda «Quid dicis de teipsa?». Quella della povertà dunque non era realtà riguardante specificamente e costitutivamente l’esse della Chiesa. Suenens pur avendo consapevolezza del mandato della Chiesa di evangelizzare i poveri non arrivava a focalizzarne il fondamento biblico-teologico (“rivelativo”) e a “dedurre” le “massime” conseguenze ecclesiologiche: attribuiva il mandato “universale” di evangelizzare all’esse della Chiesa (ad intra) (giustamente l’actio scaturisce dall’esse) ma non vi includeva il mandato “particolare-prioritario” ai poveri relegandolo invece nella seconda parte (ad extra), tra i punti di dialogo con il mondo ove si pongono gravi “problemi”. Un aspetto questo che, come vedremo, inquadrerà da lì a poco nel suo intervento, il cardinale di Bologna, forte della riflessione e dell’afflato ecclesiologico del suo “teologo” personale don G. Dossetti. Il discorso di Suenens in ogni caso fu abbastanza apprezzato. «Teologicamente non molto rigoroso, — come sostiene G. Ruggieri — aveva tuttavia il vantaggio di offrire una prospettiva di lavoro con i vari capitoli e i vari paragrafi. Da questo punto di vista era rassicurante, soprattutto per quanti, perduta la sicurezza nell’equilibrio antico, vedevano qui qualcosa di visibile che entrava nel loro schema mentale. Inoltre il vantaggio che esso offriva era di non lasciare nulla “fuori”»23.
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L.c. G. RUGGIERI, Il difficile abbandono dell’ecclesiologia controversistica, cit., 368. L’intervento di Suenens si chiudeva con la richiesta «Ut votum a Concilio emittatur de opportunitate creandi secretariatum pro problematibus mundi hodierni» (AS I/4, 224). 23
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3. L’INTERVENTO DI MONTINI «Soltanto dopo aver misurato il successo del porporato belga, il cardinal Montini, dopo sette settimane di relativa freddezza, s’associa al progetto Suenens»24, con un intervento pronunciato il 5 dicembre durante la 34a CG. Il giudizio di insufficienza proferito dal cardinale di Milano sullo schema De Ecclesia, documento perno di tutta l’impostazione del Concilio, esprimeva, da parte di un personaggio così autorevole su cui sempre più si stava concentrando l’attenzione dei padri conciliari, una presa di distanza dall’apparato curiale e dall’ecclesiologia riduttiva da esso prodotta: «Tacere autem nequeo id non sufficere; quam ob rem optandum est ut argumentum magis enucleetur et perficiatur, atque adeo schema finibus Concilii propositis plane respondeat»25.
Anche per Montini il lavoro conciliare doveva avere come asse portante quello ecclesiologico. Pertanto esprimeva l’esigenza di una riconsiderazione del piano ontologico profondo della Chiesa e dunque di una trattazione del De Ecclesia a partire dalla categoria mistero, ancorata su una cristologia capace di guardare creativamente ai multiformi aspetti del mistero di Cristo. La Chiesa doveva essere considerata in rapporto a Cristo poiché solo a partire da questa chiara relazione prendeva luce e consistenza il suo essere e il suo agire. «Ecclesia enim est continuatio Iesu Christi, a quo vita eius manat, et qui est finis in quem vita eius tendit. Imago, mens, spiritus Christi hoc schemate, ut mihi videtur, aptius exprimi debent. Eodem schemate primaria 24 A. MELLONI, Ecclesiologie al Vaticano II, cit., 123. L’arcivescovo di Milano così esordiva: «Officii mei esse censeo vos rogare ut peculiari diligentia consideretis ea, quae em.mus card. Suenens heri tam perspicue exposuit de fine huic universali Synodo proposito et de ordine logico et congruenti argumentorum in ea tractandorum» (G. B. MONTINI, Intervento, Congregatio Generalis 34a, 5 decembris 1962, in AS I/4, 291). 25 G. B. MONTINI, Intervento, in AS I/4, 292.
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elementa iuris ecclesiastici exhibentur; non tamen veritates satis exponuntur, quae apertius referuntur ad “mysterium Ecclesiae”, ad eius vitam mysticam et moralem, quibus efficitur Ecclesiae vita quae vere proprieque dicitur. Deinde maiore cum vi doctrina proferenda est, quae agit de relationibus quae inter Ecclesiam et Christum habentur. Dici debet omnibusque magis innotescere Ecclesiam prorsus scire se nihil posse ex se, sed omnia accipere a Iesu Christo, et operari eo quod Iesus Christus in eadem sit praesens et agens: Ecclesia non est solum societas seu communitas a Christo Domino condita, sed est instrumentum in quo ipse arcane praesens est ut salutem humani generis procuret doctrina, sanctificatione sacramentali, cura pastorali, quae alatur spiritu eius, qui est Pastor Bonus animarum»26.
Risiede proprio nella sottolineatura cristologica il perno più significativo del «tanto atteso» discorso pronunziato dall’arcivescovo di Milano alla fine della prima sessione. «Ora quel discorso — dirà Dossetti nel 1966 — fu un discorso vero, ma la cui profondità e verità non furono forse percepite fino in fondo. Infatti, se era vero che si doveva affrontare l’ecclesiologia, era altrettanto vero che ci doveva essere almeno una seconda fase in cui il discorso ritornasse alla teologia»27.
Inoltre nel suo intervento, l’ex pro-segretario di Stato, metteva in risalto l’urgenza di trattare, «mentem et voluntatem Iesu Christi», la sacramentalità dell’ufficio episcopale e di rivalutare il collegio episcopale in quanto successore del collegio apostolico. A suo avviso occorreva superare l’“indebolimento” del magistero e dell’autorità dei vescovi e chiarire, considerato anche il rilevante risvolto ecumenico28, la relazione che intercorre tra il primato del Romano Pontefice e l’episcopato.
26
L.c. G. DOSSETTI, Per una valutazione globale del magistero del Vaticano II, in ID., Il Vaticano II. Frammenti di una riflessione, a cura di F. Margiotta Broglio, Bologna 1996, 43. 28 «Huius modi exponendi ratio non solum rebus a Iesu Domino gestis aptius 27
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In fondo l’idea di Montini era quella di superare l’accentuazione della visione giuridica e societaria della Chiesa per dare rilevanza ai suoi aspetti spirituali, al suo compito profetico, al suo mandato di annunciare il Vangelo. Perciò proponeva di affrontare tale costitutivo compito della Chiesa nella trattazione sul magistero (VII capitolo) e non tra i diritti della Chiesa che gli Stati dovevano riconoscere. L’ambito proprio dei diritti doveva essere esposto nel capitolo riguardante i rapporti tra Chiesa e Stato (il IX). L’intervento di Montini, pur non facendo riferimento al tema della povertà della e nella Chiesa e della priorità dell’evangelizzazione dei poveri, prospettava un primato dell’Evangelo che la Chiesa era chiamata a servire e a incarnare nella sua missione tra gli uomini29. Contribuiva perciò, assieme all’intervento di Suenens, a mantenere la discussione ecclesiologica del Vaticano II sulla tonalità del rinnovamento e a offrire alcune irrevocabili prospettive per il lavoro dell’intersessione. 4. L’INTERVENTO DI LERCARO È importante mettere in rilievo la peculiare nota di novità che contraddistingue il discorso lercariano, considerato e definito da P. Gauthier un «testo capitale»30. Pur invocando come tanti altri interventi uno scopo primario, un principio unificatore e vivificante per il Concilio, e avendolo individuato anche lui nella prospettiva ecclesiologica, indicava però nella concreta problematica della povertà che affliggeva la stragrande maggioranza dell’umanità — letta con acribia alla luce dell’Evangelo del Regno, il cui avvento si distingue dal fatto che i miseri sono evangelizzati, e della prorompente affermazione di Giovanni XXIII: «chiesa respondet, sed etiam facilior est, certior, et ut ita dicam, magis oecumenica» (G. B. MONTINI, Intervento, in AS I/4, 293). 29 «[…] quomodo scilicet passim comprehendi et accipi possit Ecclesiae ius Evangelium praedicandi hominibus nostrae aetatis, quorum, proh dolor!, pars originem divinam Ecclesiae eiusque iura non agnoscit» (AS I/4, 294). 30 P. GAUTHIER, La Chiesa dei Poveri e il Concilio, Firenze 1965, nota 1.
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di tutti, ed in particolare [come] chiesa dei poveri»31 — il luogo teologico obbligante e la chiave di volta della ricomprensione e del rinnovamento della Chiesa in quella precisa congiuntura storica, il motivo della sua modificazione sostanziale nel rendersi presente al mondo. Raggiunta dalla luce del Cristo povero e dal mistero di Cristo nel povero, una Chiesa povera avrebbe definitivamente rimosso l’ostacolo che la rendeva distante dal mondo moderno, e soprattutto dai miseri e dai lavoratori. La Chiesa, chiamata ad attestare l’Evangelo in faccia agli uomini del nostro tempo, doveva riflettere e “rappresentare” il volto del Cristo povero. L’enunciato lercariano storicizza l’attualità del problema della povertà, secondo una lucida e sapiente lettura di un fenomeno di dimensione epocale, prendendo le distanze da una visione spiritualistica disincarnata e atemporale, e riconoscendolo, alla luce della rivelazione biblica, come un inequivocabile segno dei tempi che la Chiesa è chiamata a comprendere e ad assumere nell’accompagnare la vicenda storica degli uomini del nostro tempo verso il compimento del Regno di Dio. Il discorso di Lercaro non si colloca però come una mera esortazione ad una nuova presenza sociale dei credenti nel mondo in virtù della conoscenza della miseria e dell’oppressione di intere popolazioni. Delinea invece una teologia della povertà. La povertà ritorna ad essere un “luogo teologico”, rivelativo del Dio che il Nazareno crocifisso e risorto ha reso visibile e “incarnato” nella vicenda storica degli uomini. Essa costituisce una dimensione essenziale e imprescindibile del mistero di Cristo che l’ha scelta come segno e modo preferenziale della sua missione. Gesù di Nazaret, perché così è piaciuto a Dio, inaugura il Regno messianico evangelizzando i poveri, primi e diretti destinatari della storia della salvezza. Conseguentemente Lercaro, applica tale prospettiva all’intera 31 Lercaro, riprendendo il radiomessaggio in italiano dell’11 settembre 1962 di Giovanni XXIII nel suo intervento del 6 dicembre 1962 dirà, «Ecclesia quidem est omnium, at praesertim est Ecclesia pauperum» (AS I/4, 328). Formulazione che ritroveremo rimaneggiata nell’incipit della GS: «dei poveri soprattutto [pauperum praesertim] e di tutti coloro che soffrono».
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fraternità dei discepoli di Cristo, tratteggiando così una visione ecclesiologica della povertà: su tale fondamento cristologico considera la povertà “forma”, modo di essere costitutivo del mistero della Chiesa e, in risposta alle gravi istanze che presentano e affliggono gli uomini del nostro tempo specialmente nei paesi più poveri, fattore propulsivo del suo rinnovamento. La ripresa del tema della povertà avrebbe aiutato la Chiesa a non perdere di vista la necessaria continuità con l’evento Gesù di Nazaret e a far sì che, fiduciosa nella guida dello Spirito del Risorto, la sua forma storica nel mondo, secondo le cangianti esigenze dei tempi, obbedisse alla kenosi e alla forma Christi. La scelta di essere Chiesa povera e dei poveri nei discorsi lercariani diviene, oltre che un motivo di fedeltà alla sequela Christi, anche un segno messianico per tutti gli uomini. Nei poveri evangelizzati si rende visibile a tutti, nonché credibile, il mistero di Dio. A tal proposito Lercaro individua un’intrinseca connessione ontologica tra la presenza di Cristo nell’eucaristia, che fonda e costituisce la Chiesa, nella gerarchia, che ordina e ammaestra la compagine ecclesiale, e nei poveri, che la “pro-vocano”. Nel discorso lercariano questi ultimi sono un “sacramento” di Cristo povero che la Chiesa deve riconoscere, onorare e servire con una prassi di condivisione e di liberazione. La povertà cristiana nei discorsi conciliari di Lercaro presenta così una consistenza cristologica ed ecclesiologica. Non è un semplice mezzo per l’ascesi personale, ma una chiamata alla conversione che riguarda l’identità stessa della testimonianza della fraternità cristiana nel mondo, inviata dal suo Signore e Maestro, che da ricco si fece povero per arricchire noi uomini (cfr. 2Cor 8,9), ad evangelizzare i poveri e a condividerne le fatiche e le attese di riscatto e di liberazione, seguendo le sue orme. Per questo motivo Lercaro chiedeva che il De Ecclesia venisse scritto di nuovo a partire dal mistero del Cristo povero e che quello della povertà della Chiesa fosse il tema di tutto il Concilio. Un disegno del tutto differente rispetto allo schema preparatorio, ma anche dalle accreditate proposte inoltrate in quei giorni dai cardinali Suenens e Montini. Come anche “differente”, e più “matura” era la prospettiva di lettura della stessa povertà. Nel rapporto presentato
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a Paolo VI alla fine del 1964, Appunti sul tema della povertà nella Chiesa, il cardinal Lercaro, che ancora una volta si era avvalso della collaborazione di Dossetti32, facendo riferimento agli stessi contributi dei lavori conciliari delle prime sessioni, non farà mistero di questa “diversità sostanziale”: «I numerosi libri e articoli pubblicati negli ultimissimi anni, gli elaborati predisposti — durante le tre sessioni conciliari — dai diversi gruppi di iniziativa e di studio, gli stessi apporti in seno al concilio in occasione sia degli schemi dommatici sia dello schema XIII, tutti rivelano nel complesso una spiccata immaturità. Il problema della povertà evangelica nel nostro tempo è posto, l’aspirazione si diffonde e si approfondisce; il numero di coloro tra i vescovi, che desiderano passare dalle parole agli atti si accresce di giorno in giorno. Ma, sia sul piano dottrinale sia sul piano delle proposte pratiche, sfuggono ancora alla presa i punti nodali: si sente che manca ancora qualche cosa per arrivare a conclusioni immediate, capaci di un’incidenza concreta. Ciò è doloroso quanto sintomatico»33.
Mario Gozzini, nell’introdurre l’edizione italiana del libro di P. Gauthier “Consolez mon peuple”. Le Concile et “L’Église des pauvres”, facendo riferimento all’intervento pronunciato alla fine della prima sessione dal cardinal Lercaro, lo definirà «“ardito e rivoluzionario”, […] che fece definitivamente emergere il tema della
32 Il cardinal Lercaro in data 19.11.64 scrive a Dossetti un biglietto: «Le sarei grato se facesse: a) ribattere da presentare al S. Padre il testo rimessomi [del rapporto], che va bene, ne tenga copia […]. c) Se all’uscita della Congregazione tutto fosse pronto, lo invierei a S. E. il Card. Cicognani con la lettera di cui accludo il testo, pregandola di farne fare copia da tenere come minuta […]» (FD II/102, ms., f.1r/v). In FL XXII/448, datt., ff. 13r, si trova il testo del rapporto richiestogli da Paolo VI Appunti sul tema della povertà nella Chiesa, testo che ha recepito le correzioni manoscritte di Dossetti, come si evince dalla copia conservata in FD IV/426, datt., ff. 18r. Inoltre la sua mano si riconosce anche da alcune idee e dall’utilizzo di certi termini: p. es. l’interpretazione del marxismo; la combinazione dei termini affettivo/effettivo, ecc. 33 Appunti sul tema della povertà nella Chiesa in G. LERCARO, Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del card. Giacomo Lercaro, a cura dell’ISR, Bologna 1984, 157-158.
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povertà e suscitò straordinaria risonanza quale autentica voce dello Spirito»34. In ogni caso, con questi interventi, il Concilio andava all’intersessione con una ritrovata prospettiva di lavoro e l’umanità, in particolare le moltitudini dei poveri, con una rinnovata speranza. 5. UNA CONSEGNA E UNA DISATTESA Lo stesso Lercaro durante il dibattito sullo schema XIII si rese conto che la sua istanza di una reformatio ecclesiae a partire dai poveri suscitava problemi e disagio nella stessa maggioranza. Tra l’altro non mancava di avanzare le sue perplessità e le sue critiche allo stesso schema: «È giusto e doveroso che noi ci accingiamo a questo compito sapendo che esso è uno dei nostri doveri indispensabili nell’ora presente: ma è anche necessario che noi lo facciamo sapendo e dicendo agli uomini che non è solo né principalmente da questo schema che può venire il contributo della chiesa ai problemi dell’esistenza umana oggi. Si è forse progressivamente determinata nella stampa e nell’opinione pubblica un’aspettazione un po’ ingenua e miracolistica nelle virtù di questo schema, che noi non dobbiamo alimentare né diffondere. […] Inoltre noi non possiamo credere e lasciar credere che questo schema sia la massima e più valida risposta della chiesa e il suo più efficace aiuto al mondo contemporaneo. Ma soprattutto noi non possiamo dimenticare né lasciare dimenticare che il modo più proprio e certamente più efficace per la chiesa di comprendere e illuminare le necessità più intime del mondo odierno, è che la chiesa oltre che approfondire (come ha già fatto nella costituzione sulla chiesa) la conoscenza del proprio mistero, anche attui il rinnovamento e l’adeguazione coraggiosa delle proprie istituzioni: e questo è invece compito che il nostro concilio ha soltanto iniziato, ma non ancora portato molto avanti (ieri la votazione sullo schema De sacerdotibus lo ha a ragione dimostrato). Affrontando ora questo tredicesimo schema che vorrebbe rispondere alla indicazione giovannea Ecclesia lumen gentium, la chiesa 34 M. GOZZINI, Una linea che porta lontano, in P. GAUTHIER, La Chiesa dei Poveri e il Concilio, Firenze 1965, XII (tit. orig.: Consolez mon peuple. Le Concilie et l’Eglise des pauvres, Paris 1965).
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oltre tutto si impegna di nuovo e ancora più a un rinnovamento interno più incisivo e più luminoso, a un ringiovanimento cioè di tutti i propri organi (che io auspicavo alla fine della prima sessione), ‘soprattutto sotto l’aspetto della semplicità e povertà evangelica, per meglio proporzionarli alle trasformazioni e alle esigenze espresse dai signa temporis che vorremmo diagnosticare. E anche ciò — come è ovvio — addita per il nostro concilio un cammino ancora non facile e non breve e coglie la inscindibilità e coerenza delle diverse parti di un lavoro che ci resta ancora da fare, denuncia il condizionamento reciproco dei diversi problemi per così dire ad intra e ad extra che la chiesa oggi deve con pari risolutezza e tempestività affrontare»35.
Nella GS la prospettiva lercariana, della chiesa povera e dei poveri, come precisa Menozzi, non solo «vi compariva in maniera marginale e assai meno pregnante di quanto il cardinale aveva auspicato, ma gli orientamenti della maggioranza si sviluppavano in una direzione chiaramente contrastante con la sua impostazione teologica. Nel definire infatti il rapporto della chiesa col mondo contemporaneo, non si teneva tanto ad una presentazione delle risposte evangeliche ai bisogni del tempo, quanto piuttosto ad aggiornare la chiesa nel senso di un adeguamento della sua dottrina alle istanze dell’uomo d’oggi: più che bandire il Vangelo in forme adeguate alla storia del momento, la chiesa sembrava voler cercare “consensi naturali e umani”»36. E di questo disagio la GS porterà il segno. È l’appunto che lo stesso Dossetti muoverà alla Costituzione pastorale e, particolarmente, in riferimento alla mancata presa di posizione evangelica sul tema della pace, e, di riflesso, anche alla disattesa prospettiva del discorso della chiesa povera. Per Dossetti questi temi sensibili pongono la fondamentale questione del
35 G. LERCARO, La chiesa nel mondo, in ID., Per la forza dello Spirito, cit., 222. Le redazioni di questo intervento del 20 ottobre 1964, pronunziato nel corso della CG 105a, si trovano in FL XIX/363b, ms ff. 3r; FD II/206, ms. di Dossetti ff. 7r + f.1r/v + datt. ff. 19 e FD VII/564, ms. ff. 4r/v + f. 1r; FD VII/565, datt. con corr. ms., ff. 6r. 36 D. MENOZZI, Un nuovo contributo alla biografia del card. Lercaro. I discorsi conciliari (1986), in Rivista di storia e letteratura religiosa 23/1 (1986) 89-101, 98.
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«rapporto tra l’Evangelo e la grazia, da un lato, e tra il mondo e la storia, dall’altro. Noi stiamo torturandoci, e giustamente, intorno al problema di una presenza efficace della Rivelazione, della grazia, del cristiano come fermento nella pasta dell’umanità e della storia. E noi sappiamo che esso nasce dalla nostra fedeltà alla fede del Verbo fatto carne, morto, risorto e glorificato. […] Ora la Gaudium et Spes, con il suo ultimo capitolo, ha fatto una scelta: nell’atto in cui pone come suo tema proprio quello della presenza del cristiano nel mondo, ha eluso questa presenza, o almeno, ha eluso quel tipo di presenza che era evidentemente la vera presenza cristiana, la più autentica, la più evangelica. Certo quel testo nasce dalla preoccupazione di tener conto di tutto quel che è la situazione presente e di essere quindi presenti in modo da non rompere con nessuno, in apparenza, degli ambienti circostanti. Ma questo tipo di presenza, in fondo, finisce col non dire l’unica parola evangelica che doveva essere detta proprio per suo mezzo, finisce insomma per essere una presenza che non è presenza, che invece di mettere veramente il Vangelo dentro, lo caccia fuori. Indubbiamente questa mancata presenza si ricollega al problema del rapporto Chiesa-potere, in quanto in gran parte è dipesa da una considerazione preminente, consapevole o inconsapevole, di tale rapporto. […] c’è un modo attraverso il quale si rivela il cristianesimo nella storia e nel mondo; questo modo è quello adottato da Cristo e narrato nel capitolo II dell’epistola ai Filippesi; nell’inno cristologico di quel testo ci sono mille strade attraverso le quali la Chiesa può tentare di rendere il suo servizio al mondo ed essere presente nella storia, ma queste mille strade devono finire inevitabilmente sempre in quel modo con cui si è rivelato il Cristo, cioè il crocifisso: l’obbedienza, la purezza, la povertà, la pace, l’amore del Padre. […] Sono quelle categorie nelle quali, in un certo senso, la via della ragione e del mondo diverge dalla via di Cristo, perché non sarà mai possibile rendere ragionevole la crocifissione, come non potrà mai essere ragionevole la povertà […]»37.
6. DUE TESTI CONCILIARI COMPLEMENTARI: AG 5 E LG 8,3 Ci sono due testi conciliari che rendono ragione alla prospettiva della chiesa povera e dei poveri: AG 5 e, soprattutto, LG 8,3. Testi che
37
G. DOSSETTI, Il Vaticano II. Frammenti di una riflessione, cit., 98-100.
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possono servire non poco, — anche perché risentono di quel dibattito e di quella intuizione originaria lercariana e di quanti da ogni dove manifestavano una larga presa di coscienza del problema — a ricostruire il contesto profetico e lungimirante di quel flebile eco di una chiesa povera per il mondo contemporaneo presente nella Costituzione pastorale. Qui la povertà, per usare un linguaggio caro a Dossetti, è un «trascendentale cristiano» che tocca e rivela il divino e la relazione dei cristiani con la povertà è in stretto rapporto con l’atteggiamento rispetto a Dio e agli altri, «E quindi è o non è un’epifania del divino nella realtà, per cui tradire su questo punto — come sostiene ancora il monaco di Monte Sole — è qualche cosa di più che mancare ad una responsabilità sociale, ma indubbiamente investe il problema della fede e della manifestazione di Dio nella storia, attraverso la Chiesa»38. LG 8,3: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo “che era di condizione divina... spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo” (Fil 2,6-7) e per noi “da ricco che era si fece povero” (2Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione. Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre “ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito” (Lc 4,18), “a cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo»39.
La costituzione conciliare sulla Chiesa LG, in questo testo, supera la visione che riduceva la povertà ad una scelta del singolo cristiano o, tutt’al più, di un gruppo. C’è una vocazione alla quale tutta la
38 39
Ibid., 99-100. LG 8, in EV, 1/306, 135.
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comunità dei credenti deve rispondere: la chiamata alla povertà. Come Cristo ha scelto la povertà e l’abbassamento, e non la ricchezza e il potere per attuare la redenzione, così la Chiesa, nel suo essere e nel suo agire nel mondo, è chiamata a percorrere la stessa via40, a rispondere al suo Signore percorrendo le vie battute dai poveri senza indugiare nei crocevia frequentati dai “notabili” di questo mondo in cerca del riconoscimento degli uomini e della gloria terrena. AG 5. La prospettiva di LG 8,3, di una Chiesa povera che utilizza mezzi poveri per essere conforme al suo Signore, in ostensione ai poveri della sua forza e della sua virtù, secondo una felice espressione di don Dossetti, la ritroviamo, seppur nel parziale “capitolo” della missio ad gentes, nello specifico decreto conciliare: in AG 3, per l’impianto cristologico fondato sul dato neotestamentario, ma soprattutto nel par. 5 dove si recita: «Poiché questa missione continua e sviluppa nel corso della storia la missione del Cristo stesso, inviato a portare la buona novella ai poveri, la chiesa, sotto l’influsso dello Spirito di Cristo deve procedere per la stessa strada seguita dal Cristo, la strada cioè della povertà, dell’obbedienza, del servizio e del sacrificio di se stesso, fino alla morte, da cui uscì vincitore»41.
CONCLUDENDO Da questa rapida analisi possiamo asserire che nella Costituzione pastorale GS troviamo traccia di quella esigenza fiorita all’inizio del Concilio di una chiesa povera nel mondo contemporaneo e che ha 40
Ruggieri a commento del termine «via» utilizzato da LG 8 precisa: «[…] nel NT possiede una densità particolare, giacché nei Sinottici indica piuttosto la via del Cristo che lo porta a Gerusalemme, mentre in Atti, con un prestito probabile da Qumran, costituisce l’autodefinizione della comunità primitiva in polemica con la qualifica di “setta” ricevuto dall’esterno. […] Lo stile della povertà qui è chiamato “strada” comune a Cristo e alla chiesa» [G. RUGGIERI, Evangelizzazione e stili ecclesiali: Lumen Gentium 8,3, in D. VITALI (cur.), Annuncio del Vangelo, forma Ecclesiae, Relazioni del XVIII Congresso dell’Associazione Teologica Italiana, Anagni, 8-12 Settembre 2003, Cinisello Balsamo 2005, 225-256: 229]. 41 AG 5, in EV, 1/1097, 619.
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trovato la sua codificazione più nitida in AG 5 e LG 8,3, gli unici testi del Vaticano II che riconoscono in forma esplicita la vocazione della Chiesa alla povertà sulle orme di Cristo. Con don Pino Ruggieri riteniamo che: «non sia arbitrario interpretare il dettato di LG 8,3 come un’irruzione di autentica profezia (nel senso anticotestamentario dei grandi profeti per cui la parola che essi pronunciano rivela una distanza tra il popolo e la volontà di Dio). Se infatti poniamo attenzione al contesto e agli ambienti che furono i protagonisti di quel testo (gli ambienti francofoni che avevano vissuto sulla propria pelle la crisi della Missione di Francia e dei preti operai, gli ambienti latino-americani, la riflessione teologico-spirituale di un Lercaro (Dossetti) con sulle spalle l’esperienza pastorale in un ambiente “rosso”, uomini come Paul Gauthier etc.), non possiamo non avvertirvi l’esigenza profetica di un radicale rinnovamento della struttura ecclesiale in risposta al fatto centrale — almeno nella prospettiva del Regno — della nostra storia: la povertà»42.
Siamo convinti che il concilio Vaticano II resti un imprescindibile punto di riferimento per la Chiesa e gli uomini del nostro tempo, con il suo forte appello ad un vissuto discepolare ed ecclesiale che rifletta e testimoni la via, la verità, e la vita di Gesù di Nazaret, il Cristo, l’Unto di Dio venuto ad annunziare la buona novella ai poveri. Eppure, quello del «mistero» dei poveri e della povertà della Chiesa risulta essere un tema conciliare ancora marginale nei pronunciamenti magisteriali della Chiesa, nell’evangelizzazione e nella predicazione cristiana e nella riflessione teologica prodotta nelle Chiese occidentali.
42
G. RUGGIERI, Evangelizzazione e stili ecclesiali, cit., 255. Lo stesso Dossetti nel 1991 preciserà che «queste tesi lercariane ebbero modesti risultati sui documenti del Concilio (tutto si riduce al paragrafo 8 della Lumen gentium e al paragrafo 5 del decreto Ad gentes sulle missioni). Però si può ora meglio valutare che ebbero l’effetto di un vero e proprio manifesto e conseguenze protratte di grande rilievo soprattutto nelle Chiese giovani del terzo mondo, più in particolare ancora contribuirono in misura notevolissima alle grandi assisi latino-americane di Meddelin e di Puebla e ne influenzano ancora gli ulteriori sviluppi» (G. DOSSETTI, Il Vaticano II. Frammenti di una riflessione, cit., 118).
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Per questo opportunamente il priore della comunità monastica di Bose E. Bianchi, nella premessa al volume Seguire Gesù povero, scrive che «la stagione in cui larghi strati del popolo di Dio ed eminenti esponenti dell’episcopato cattolico si sono lasciati affascinare dalla bellezza del Cristo povero sembra ormai sfiorita»43. Nel frattempo sembrano sorgere i primi spiragli di una inversione di tendenza. Francesco, l’attuale vescovo di Roma, ha rimesso in gioco con efficacia di segni e di parola tale intuizione prospettica evocata dal Concilio, come si può evincere da numerosi discorsi e interventi omiletici e, ultimamente, nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium: «Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro “la sua prima misericordia”. Questa preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere “gli stessi sentimenti di Gesù” (Fil 2,5). Ispirata da essa, la Chiesa ha fatto una opzione per i poveri intesa come una “forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa”. Questa opzione — insegnava Benedetto XVI — “è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante la sua povertà”. Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro»44.
43
E. BIANCHI, Premessa, in J. DUPONT – A. HAMMAN – G. MICCOLI, Seguire Gesù povero, Magnano 1984, 3. 44 FRANCESCO, Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, Città del Vaticano 2013, n.198, 156157.
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DOPO LA GAUDIUM ET SPES È ANCORA POSSIBILE UNA DOTTRINA SOCIALE?
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1. ECCLESIOLOGIA DEL VATICANO II E SUPERAMENTO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA? Quali sono stati i motivi per cui molti hanno ritenuto che la Dottrina sociale fosse stata superata dopo la Gaudium et Spes (7.12.1965)? Per comprendere il senso e la portata della questione posta nel presente contributo, bisogna tenere sullo sfondo la nuova ecclesiologia elaborata con il Vaticano II (ricordiamo le domande: Chiesa chi sei? Cosa dici di te stessa?). Il Concilio ha puntualizzato l’identità e la missione della Chiesa stessa; si veda, in particolare, la visione delineata dalla Lumen Gentium. Occorre, allora, avere presente la concezione di una chiesacomunione, popolo di Dio, impegnata nella missione di annunciare il vangelo, di cui è debitrice nei confronti di tutta l’umanità; una chiesa che avverte l’esigenza di entrare in dialogo con il mondo e la cultura moderna, dalla quale è consapevole di potere ricevere qualcosa che l’arricchisca, proprio in vista della missione evangelizzatrice e di salvezza che le è propria (si veda, appunto, la Gaudium et Spes). L’immagine di Chiesa che ci consegna il Vaticano II, pertanto, non è più quella di una Chiesa chiusa in se stessa, autoreferenziale, in atteggiamento difensivo di fronte ad ogni novità, che guarda il mondo con sospetto prendendone a priori le distanze, che condanna tutte le espres-
* Docente di Dottrina sociale della Chiesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Piero Sapienza
sioni della modernità (si pensi al Sillabo di Pio IX del 1864 o all’enciclica Pascendi di Pio X del 1907). A partire dalla nuova visione ecclesiologica conciliare, è nata una “corrente” ovvero un movimento di pensiero, per così dire, che ha rimesso in discussione lo stesso valore o il senso stesso della Dottrina sociale della Chiesa. Su queste posizioni spicca, tra gli altri, il nome del domenicano M. D. Chenu, che aveva partecipato in qualità di perito ai lavori del Concilio. Le sue tesi sull’argomento sono esposte nella sua opera La dottrina sociale della Chiesa. Origini e sviluppo (1891-1971), Queriniana, Brescia 1977. Su questa stessa scia, inoltre, troviamo i teologi della Teologia della liberazione, i quali ritenevano che le categorie di pensiero occidentali, che avevano costituito, fino a quel momento, l’impalcatura filosofico-culturale della Dottrina sociale della Chiesa, non potevano più rispondere alle sfide della società del Terzo mondo. Infatti, non risultavano adeguate alle esigenze, ben diverse, delle situazioni socio- economiche, politiche e culturali di quei Paesi. Lo sviluppo e la diffusione di queste riflessioni, pertanto, fecero sì che il patrimonio, che si era andato costituendo a cominciare dalla Rerum Novarum (1891) di Leone XIII, venisse messo fortemente in crisi, e anzi del tutto accantonato. Ma per comprendere meglio i motivi per cui si era ritenuto che la Dottrina sociale della Chiesa fosse stata superata dal Vaticano II, è significativo leggere quanto G. Alberigo scriveva a proposito: «Con la teologia del popolo di Dio, introdotta come secondo capitolo della Lumen Gentium, si è verificata la rivoluzione copernicana dell’ecclesiologia cristiana contemporanea. In tal modo si è ridato spazio e dinamica a tutta la riflessione sulla chiesa ponendola in una prospettiva storica e di comunione. È su tale base che si è aperta la reale possibilità, anzi l’urgenza, di superare la fase della dottrina sociale cristiana, per impostare una riflessione sul rapporto fra storia della salvezza e storia umana, abbandonando tutte le tentazioni competitive rispetto alle società civili e la pretesa di impegnarsi in un discorso tecnico sui vari problemi dello sviluppo e dell’equilibrio sociale»1.
1 G.ALBERIGO, “La Costituzione Gaudium et Spes in rapporto al magistero globale del concilio”, in La Chiesa nel mondo di oggi, Firenze 1967, 190.
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Queste tesi venivano avvalorate dal fatto (certo non indifferente) che, nell’elaborazione del testo della Gaudium et Spes, era stato chiesto di eliminare il termine “dottrina sociale” (introdotto, a suo tempo, da Pio XI) e di sostituirlo con “insegnamento cristiano sulla società”. Così sarebbe dovuto essere al capitolo II, La comunità degli uomini, n. 23, e poi al capitolo IV, La vita della comunità politica, n. 76. Ma, stranamente, dopo la promulgazione del testo, il tradizionale termine precedente venne reintrodotto al n. 76, dove si legge: è diritto della Chiesa «predicare la fede e insegnare la sua dottrina sociale […]». Mentre al n. 23 si usa l’espressione “dottrina cristiana circa l’umana società”! Con il passare degli anni, invece di “dottrina sociale” si è preferito dire: insegnamento sociale del Vangelo, magistero sociale o insegnamento sociale della chiesa. Oggi i termini sono usati senza problema insieme a quello di dottrina sociale della Chiesa. Ma, come sostiene padre B. Sorge, dati i molteplici pronunciamenti dei pontefici e delle varie conferenze episcopali, sarebbe più opportuno usare l’espressione discorso sociale della chiesa, per indicare una sua legittima fluidità e un adattamento concreto alle diverse e mutevoli condizioni storiche2. Comunque, è opportuno notare che non si tratta solo di una questione semantica, ma occorre tenere ben presente ciò che sta dietro alla contestazione del termine “dottrina sociale”. Ad esempio, Chenu afferma che la «Gaudium et Spes non è un semplice restauro della dottrina sociale; essa è un elemento decisivo dell’inversione di tendenza rispetto allo schema che comandava la dottrina sociale»3. E allora, ci chiediamo, quali sono le novità della Gaudium et Spes, che, secondo gli autori citati, hanno determinato la conclusione della stagione della Dottrina sociale della Chiesa? In primo luogo, il riferimento all’evangelizzazione, come missione fondamentale della Chiesa. Pertanto, la lotta per la giustizia, l’impegno per il riconoscimento dei diritti fondamentali umani, sono parte costitutiva dell’annuncio del vangelo e della missione della Chiesa. Vediamo alcuni riferimenti.
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Cfr. B. SORGE, Introduzione alla dottrina sociale della Chiesa, Brescia 2006, 27. M. D.CHENU, La dottrina sociale della Chiesa. Origini e sviluppo (1891-1971), Brescia 1977, 4. 3
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Nel capitolo IV, illustrando la missione della Chiesa nel mondo contemporaneo, viene sottolineato sia l’aiuto che la Chiesa offre agli uomini e alla società come pure quello che da loro riceve (così dal n. 41 fino al n. 45), evidenziando che Cristo è colui che realizza la salvezza dell’umanità. E ancora al n.76: «è suo [della Chiesa n.d.r.] diritto predicare la fede e insegnare la sua dottrina sociale […] e dare il suo giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime. E questo farà utilizzando tutti e soli quei mezzi che sono conformi al Vangelo e al bene di tutti, secondo la diversità dei tempi e delle situazioni». Paolo VI, dieci anni dopo, nella Evangelii Nuntiandi (8.12.1975), affermerà che bisogna «rendere la chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunciare il Vangelo all’umanità del XX secolo» (n. 2). E, sempre la Evangelii Nuntiandi, al n. 38 afferma: la Chiesa collabora «alla liberazione degli uomini […] in maniera propria, fondamentalmente evangelica». Essa offre ai cristiani “liberatori” «una ispirazione di fede, una motivazione di amore fraterno, un insegnamento sociale al quale il vero cristiano non può non essere attento, ma che deve porre alla base della sua sapienza, della sua esperienza per tradurlo concretamente in categorie di azione, di partecipazione e di impegno». Ma, a mio avviso, per inquadrare correttamente le osservazioni precedenti con le loro giuste istanze, bisogna ricordare che in realtà già prima della Gaudium et Spes, Giovanni XXIII aveva iniziato una nuova stagione della Dottrina sociale della Chiesa, nella Mater et Magistra (1961) e, poi ancora, nella Pacem in terris (1963), come vedremo più avanti. Intanto, però, dobbiamo registrare che dopo la Gaudium et Spes (7.12.1965) e fino alla metà degli anni ’80, la Dottrina sociale della Chiesa venne emarginata e subì una sorta di ostracismo culturale, nella comunità ecclesiale e negli Istituti teologici, dove si aveva quasi una sorta di pudore solo a pronunciarne il nome. Forse, occorre notare, questa linea culturale ha avuto anche una sua ricaduta negativa sul piano pratico, contribuendo, fra l’altro, a creare una sorta di disaffezione e ad abbassare l’interesse dei laici cristiani nei confronti dell’impegno sociale e politico. E infatti, come nota Crepaldi: «La lunga, estenuante, ideologica critica rivolta alla dottrina sociale della Chiesa, nello
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spirito di evitare un presunto integralismo cristiano, ha reso talora insignificante il valore pubblico della nostra fede, secondo due modalità, opposte nelle motivazioni, ma convergenti nell’esito: o ponendola al seguito di messianismi terreni, di ‘profetismo senza Dio’, oppure relegandola nella personale vita religiosa, accettando nella sostanza l’idea di una laicità come neutralità»4. Giovanni Paolo II, già nella Conferenza di Puebla (28 gennaio 1979), aveva affermato l’importanza della Dottrina sociale, sottolineando che essa «costituisce un ricco e complesso patrimonio», che la Evangelii Nuntiandi di Paolo VI denomina appunto «dottrina sociale o insegnamento sociale della Chiesa». E il Papa spiega come si costituisce questo patrimonio: esso «nasce alla luce della Parola di Dio e del Magistero autentico, della presenza dei cristiani in seno alle mutevoli situazioni del mondo, a contatto con le sfide che da queste provengono». Gli elementi fondamentali sono quindi: parola di Dio e Magistero, ma anche (da notare) l’esperienza dei cristiani immersi nelle condizioni storiche del mondo. Pertanto, la conclusione è che la Dottrina sociale comporta «principi di riflessione», ma «anche norme di giudizio e direttrici di azione» (cf Octogesima Adveniens, n. 4). E rispondendo a quanti pensavano che fosse chiusa ormai la stagione della Dottrina sociale, Giovanni Paolo II dice con ferma determinazione: «Confidare responsabilmente in questa dottrina sociale, quantunque alcuni cerchino di seminare dubbi e diffidenze su di essa, studiarla con serietà, procurarsi di applicarla, insegnarla, esserle fedeli è, in un figlio della Chiesa, garanzia dell’autenticità del suo impegno nei delicati ed esigenti doveri sociali, e dei suoi sforzi in favore della liberazione e della promozione dei suoi fratelli»5.
4 G. P. CREPALDI, Bene comune e dottrina sociale della Chiesa, in COMITATO SCIENTIFICO E ORGANIZZATORE DELLE SETTIMANE SOCIALI DEI CATTOLICI ITALIANI, Bene comune e dottrina sociale della Chiesa in Italia. Dal Vaticano II a Benedetto XVI. Atti del primo seminario preparatorio del Centenario delle Settimane Sociali, Bologna 2007, 7-16, 9. 5 GIOVANNI PAOLO II, Discorso per l’inaugurazione della III Conferenza generale del CELAM, Puebla, 28.1.1979.
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2. QUALI LE CRITICHE MOSSE ALLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA? COSA C’È DIETRO ALLA CONTESTAZIONE DEL TERMINE? Bisogna osservare, innanzitutto, che si tratta di obiezioni che riguardano soprattutto il suo statuto epistemologico. La critica si appunta, innanzitutto, sul fatto che la Dottrina sociale si presenta come una ideologia. Si sostiene che essa, con il suo metodo deduttivo, ha un impianto ideologico: infatti, partendo da principi astratti, deduce modelli socio-politici, che intendono avere una patente di universalità, con la conseguente pretesa di applicare rigidamente tali schemi ad ogni società, senza guardare le complesse e diversificate condizioni locali che caratterizzano i vari Paesi. La Dottrina sociale della Chiesa, si afferma, ritiene di potersi ancorare a questa sua impostazione e di poterla giustificare perché la fonda sulla legge morale naturale e sul diritto naturale, più che sul Vangelo, presumendo che si tratti di un terreno comune, dove tutti gli uomini si possano incontrare e riconoscere6. Ma questo presunto fondamento sembrava che non avesse una reale e solida consistenza, tenendo conto anche del fatto che, soprattutto negli anni ’70, la legge morale naturale era fortemente contestata e messa in crisi. Tuttavia, mi sembra opportuno osservare che la stessa Gaudium et Spes, per il dialogo con il mondo, da cui la chiesa recepisce arricchimento, sottolinea al n. 44 l’importanza dell’apporto che proviene dalla “sapienza dei filosofi”. Inoltre, per completare il quadro, occorre aggiungere che coloro i quali negano la legittimità della Dottrina sociale affermano che essa non sfugge alla tentazione integralista, inseguendo un suo utopico progetto di società alternativa, che vuole porsi in competizione con gli altri modelli sociali. In particolare, essa si propone come “terza via” tra socialismo marxista e capitalismo liberistico. Da queste posizioni, è breve il passo all’idea di Stato cattolico, di Societas christiana, che dalla fine dell’Ottocento fino al Concilio ha fatto capolino nei documenti della Dottrina sociale. Mentre, al contrario, la Gaudium et
6 Cfr. S. DIANICH, Chiesa e laicità dello Stato. La questione teologica, Cinisello Balsamo (MI) 2011, 46-48.
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Spes ci consegna una visione del rapporto Chiesa-mondo del tutto differente, in quanto la Chiesa non è interessata al predominio mondano. Infatti « […] La forza che la Chiesa riesce a immettere nella società umana contemporanea consiste in quella fede e carità portate ad efficacia di vita, e non esercitando con mezzi puramente umani un qualche dominio esteriore» (n. 42). E ancora, sostiene la critica, la Chiesa, con la sua Dottrina sociale, vuole risolvere le questioni sociali, economiche, finanziarie, politiche, dettando le soluzioni strettamente tecniche, che non le competono ed esulano dalla sua missione. In definitiva, la Dottrina sociale della Chiesa viene accusata di genericità, di prolissità, di scarsa incidenza pratica, di contingenza storica, e si nota che tutti questi elementi sono fortemente in contrasto con il carattere di assolutezza che dovrebbe essere proprio di una “dottrina”. E appunto per questi motivi, si afferma, la Dottrina sociale della Chiesa non è riuscita a mettere in crisi tutte quelle prassi di ingiustizia e di oppressione, lesive della dignità delle persone umane, e pertanto non è stata capace di rispondere alle sfide dei tempi. In altre parole, alla prova della Storia, si è potuto registrare che la Dottrina sociale non serve. Allora sarebbe coerente, anzi opportuno, che oggi venisse abbandonata, come una sorta di reperto archeologico7. Sulla scia conciliare, sostengono i critici della Dottrina sociale, bisogna che la comunità cristiana sia formata ad un serio discernimento per poter leggere i “segni dei tempi” e stare dentro la Storia, in ascolto attento di quanto accade. Notiamo, però, che queste esigenze erano state già recepite nella Mater et Magistra, dove Giovanni XXIII propone per la Dottrina sociale della Chiesa il metodo induttivo, che si articola nei tre momenti: vedere, giudicare e agire (cfr. n. 217).
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Cfr. F. FELICE, Lo sviluppo umano nel nostro tempo, in AA.VV., Amore e verità. Commento e guida alla lettura dell’Enciclica Caritas in Veritate, Milano 2009, 40. Per una sintesi di queste problematiche si rimanda a G. CAMPANINI, La dottrina sociale della Chiesa: le acquisizioni e le nuove sfide, Bologna 2007, 34 ss. Sullo statuto epistemologico cfr. F. FELICE – P. ASOLAN, Appunti di Dottrina sociale della Chiesa. I cantieri aperti della pastorale sociale, Soveria Mannelli 2008, 27 ss. Cfr. E. GRINGIANI, Utopia o fallimento della Dottrina sociale della Chiesa?, 1966.
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3. QUAL È IL CRITERIO ERMENEUTICO CHE RENDE RAGIONE ANCORA OGGI DELLA VALIDITÀ DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA? Anche su questo punto della questione, le varie posizioni non sono dissimili da quelle che interpretano il Vaticano II come rottura con il passato oppure come innovazione ovvero rinnovamento nel solco della tradizione. In tal caso, dalla Rerum Novarum in poi, il Magistero sociale, sollecitato dalle nuove situazioni storiche, avrebbe offerto i suoi apporti sempre nuovi, per cui la dottrina si è andata sviluppando sprigionando le sue potenzialità interiori. A tal proposito, Benedetto XVI afferma che la Dottrina sociale costituisce un unico corpus dottrinale, che si è andato sviluppando organicamente dalla Rerum novarum (1891) di Leone XIII fino ad oggi, con la Caritas in veritate (2009), raccogliendo, di volta in volta, le sfide che emergevano dagli scenari della Storia. C’è un legame profondo tra la Populorum progressio (1967) di Paolo VI, gli altri documenti sociali dei suoi predecessori e il Concilio Vaticano II. Non è corretto, per Benedetto XVI, parlare di «una cesura tra il Magistero sociale di Paolo VI e quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il Concilio costituisce un approfondimento di tale magistero nella continuità della vita della Chiesa». Pertanto, avverte il Pontefice, «non contribuiscono a fare chiarezza certe astratte suddivisioni della dottrina sociale della Chiesa che applicano all’insegnamento sociale pontificio categorie ad esso estranee». E infatti, «non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo». La linea dell’unica Dottrina sociale, fondata sulla «Tradizione della fede apostolica» (Caritas in Veritate, n.10), si coniuga con la lettura dei «segni dei tempi» per inserirsi nel solco delle concrete questioni storiche. Per questo motivo, nota ancora Benedetto XVI, «è giusto rilevare le peculiarità dell’una o dell’altra Enciclica, dell’insegnamento dell’uno o dell’altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell’intero corpus dottrinale» (ibid., n. 12). E il Pontefice chiarisce cosa intende con “coerenza”, introducendo il concetto di “fedeltà dinamica”: «Coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta. La dottrina sociale
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della Chiesa illumina con una luce che non muta i problemi sempre nuovi che emergono. Ciò salvaguarda il carattere sia permanente che storico di questo “patrimonio” dottrinale che, con le sue specifiche caratteristiche, fa parte della Tradizione sempre vitale della Chiesa» (l. c.). Secondo B. Sorge, è importante sottolineare l’espressione “fedeltà dinamica”, la quale esclude la chiusura, la sclerotizzazione di certe formule, ma al contrario implica l’inserimento “coerente” nell’intero corpus dottrinale dalla Rerum Novarum ad oggi. È legittimo, perciò, parlare di “svolta” o “balzo in avanti” (secondo l’espressione che Giovanni XXIII usò per la Chiesa che si apprestava a iniziare il Vaticano II) compiuto dalla Dottrina sociale della Chiesa con la Gaudium et Spes, pur nella continuità del tragitto8. In questa ottica, mi sembra opportuno osservare che, nella Caritas in Veritate (n. 11), si riconosce (citando la Sollicitudo rei socialis [1987] di Giovanni Paolo II) che esiste un “fecondo rapporto” tra la Populorum Progressio e la Gaudium et Spes. E per rafforzare l’idea della “fedeltà dinamica”, si arriva addirittura ad una nuova definizione (o piuttosto una sottolineatura) di Dottrina sociale: «Essa è caritas in veritate in re sociali: annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società. Tale dottrina è servizio della carità, ma nella verità. La verità preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia» (Caritas in Veritate, n. 5). E ancora: «Caritas in veritate è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi dell’azione morale». Ci sembra importante, allora, rilevare il dinamismo che caratterizza la Dottrina sociale, la quale cala e situa nei contesti storici, economici, politici, sociali, culturali la luce immutabile dei principi fondamentali (la suprema dignità della persona umana [che è imago Dei], il bene comune, la solidarietà e la sussidiarietà). Si tratta, appunto, di una “fedeltà dinamica”, come la Storia dimostra. Così, ad esempio, la questione operaia, affrontata nella Rerum Novarum, è stata per antonomasia la questione sociale, nel pieno sviluppo dell’industrializza-
8 Cfr. B. SORGE, “Caritas in Veritate”, in AA.VV., Amore e verità. Commento e guida alla lettura dell’Enciclica Caritas in Veritate, Milano 2009, 33.
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zione, con l’affacciarsi del movimento operaio, e prima con la pubblicazione de “Il Manifesto del partito comunista” di Marx ed Engels (1848). Oggi, la questione sociale ha un nome nuovo, è la questione antropologica: «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell’uomo» (Caritas in Veritate, n. 75). Ed è appunto attorno a tale questione che si intrecciano gli altri grandi problemi. 4. IL RILANCIO E LA COLLOCAZIONE DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA NELLA TEOLOGIA MORALE In questa ermeneutica, in cui si coniugano “coerenza” e “fedeltà dinamica”, ci sembra di poter cogliere l’evoluzione della Dottrina sociale della Chiesa, a partire dall’esigenza fondamentale di annuncio del Vangelo che troviamo nella Gaudium et Spes. È ben noto che la dottrina sociale della Chiesa (ovvero insegnamento sociale della chiesa), è stata rilanciata da Giovanni Paolo II con la Sollicitudo rei socialis e, in seguito, hanno rafforzato questo rilancio, nel 1991, sia le celebrazioni per il centenario della Rerum Novarum, sia la pubblicazione, nel maggio dello stesso anno, della Centesimus annus. Giovanni Paolo II, superando le obiezioni sopra elencate, sgombra il campo da ogni possibile equivoco, affermando che bisogna tenere presente che la dottrina sociale della chiesa «non è “una terza via” tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé». E il Papa continua chiarendo che non si tratta nemmeno di «un’ideologia», bensì di una «accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale»9. Da queste affermazioni si comprende, allora, che l’insegnamento sociale della Chiesa viene
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GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, n. 41.
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elaborato seguendo il metodo induttivo, che si scandisce in tre momenti legati tra loro: vedere, giudicare, agire. In primo luogo, bisogna analizzare e prendere atto della situazione concreta. Infatti «il vedere è percezione e studio dei problemi reali e delle loro cause, la cui analisi però spetta alle scienze umane e sociali»10. E su questo punto si concretizza quanto detto sopra, e cioè che la Dottrina sociale accoglie gli apporti provenienti dalle altre discipline. Inoltre, questa realtà deve essere “giudicata”, cioè vagliata, interpretata, alla luce della Parola di Dio e delle altre fonti della Dottrina sociale della Chiesa. Da questi precisi punti di riferimento scaturisce «il giudizio che si pronuncia sui fenomeni sociali e le loro implicanze etiche»11. È questo ancorarsi alla scala dei valori evangelici, che qualifica l’insegnamento sociale della Chiesa e lo distingue profondamente da qualsiasi filosofia o ideologia di parte. In questa seconda fase, la Chiesa esercita il suo specifico magistero sociale offrendo «quello che esso ha di proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità»12. Infine, l’agire. Il terzo momento è finalizzato ad offrire orientamenti per la prassi cristiana e quindi è «volto all’attuazione delle scelte»13. Al laico cristiano spetta, con la sua autonomia e responsabilità, far tesoro del patrimonio della Dottrina sociale della Chiesa e metterla «alla base della sua sapienza, della sua esperienza per tradurla concretamente in categorie di azione, di partecipazione e di impegno»14. Possiamo, allora, dire che «l’insegnamento sociale della Chiesa trae la sua origine dall’incontro del messaggio evangelico e delle sue esigenze etiche con i problemi che sorgono nella vita sociale»15. Infatti, il Vangelo non può essere scollato dalla vita. I complicati nodi delle 10 CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Orientamenti per lo studio e l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa nella formazione sacerdotale, n. 7. 11 L.c. 12 PAOLO VI, Lett. enc. Populorum progressio, n. 13. 13 CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Orientamenti…, cit., n. 7 14 PAOLO VI, Esort. apost. Evangelii nuntiandi, n. 38. 15 CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Orientamenti …, cit., n. 3
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situazioni create dalle vecchie e nuove povertà, le ingiustizie, i mali sociali, interpellano la comunità cristiana, che deve dare risposte concrete e orientare la prassi dei credenti e degli uomini di buona volontà alla luce che emana dal Vangelo. A sottolineare il valore che la Dottrina sociale assume per la «nuova evangelizzazione», sono le parole stesse di Giovanni Paolo II che, nella Centesimus annus, scrive: «Per la Chiesa insegnare e diffondere la dottrina sociale appartiene alla sua missione evangelizzatrice e fa parte del messaggio cristiano, perché tale dottrina ne propone le dirette conseguenze nella vita della società e inquadra il lavoro quotidiano e le lotte per la giustizia nella testimonianza a Cristo salvatore»16. Pertanto, la Chiesa, attraverso la sua Dottrina sociale non intende affermare una sorta di «privilegio», né vuole effettuare «una digressione» mettendo da parte i suoi compiti principali inerenti alla sua missione di evangelizzazione, né pensa di andare alla ricerca di qualche «convenienza» nè, tanto meno, si prefigge di attuare alcuna indebita «ingerenza»17 o invasione di campo nell’ambito della vita sociale e politica. Molto più semplicemente, bisogna dire che la Chiesa si propone di restare fedele alla sua missione fondamentale, che è quella di annunciare il Vangelo, con cui deve permeare tutto il tessuto delle molteplici e svariate attività umane. E di fronte alle obiezioni di possibili ingerenze tecniche da parte della Dottrina sociale, bisogna anche ricordare che la Chiesa è consapevole di non possedere tutto lo scibile umano, riconosce i suoi limiti, sa di non avere tutte le necessarie competenze tecniche e scientifiche per offrire le soluzioni adeguate alle scottanti e delicate questioni, che si affacciano sulla scena della vita socio-economica e politica, con la novità delle loro svariate sfaccettature, come ce le presenta la Storia. Con molta sobrietà, però, la Chiesa può affermare di avere «una parola da dire […] intorno alla natura, alle condizioni, esigenze e finalità dell’autentico sviluppo ed agli ostacoli, altresì, che vi si oppongono», in quanto dà il suo apporto mettendo sullo sfondo «la
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GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, n. 5. PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano 2004, n. 70. 17
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verità su Cristo, su se stessa e sull’uomo»18. Infatti, la Dottrina sociale si proietta sugli aspetti etici della vita, non trascurando di illuminare gli aspetti tecnici, senza tuttavia pretendere di offrire soluzioni su questo piano. L’aspetto tecnico, infatti (come abbiamo rilevato sopra), non riguarda il compito della Chiesa, perché essa, come puntualizza e ribadisce Giovanni Paolo II, «non ha soluzioni tecniche da offrire, [… ] non propone sistemi o programmi economici e politici, né manifesta preferenze per gli uni o per gli altri, purchè la dignità dell’uomo sia debitamente rispettata e promossa […]»19. Notiamo, allora, che la Chiesa non pretende di possedere tutte le parole che si possono dire attorno ad una questione, parole specifiche che spetta ad altri pronunciare (ad esempio, alle scienze economiche o sociali), ma si limita a voler proporre “una parola”, quella che le appartiene in proprio e che ha una valenza fondamentale perché «è la parola che essa attinge dalla sua fede, una parola che non è alternativa ad altre “parole”, cioè ad altre competenze, ma che a esse si offre per rispondere pienamente all’esigenze dell’uomo. Si tratta di una parola che si pronuncia, dunque, con una propria competenza, su tutti i problemi e le realtà dell’uomo, della società, e della storia». Ma, si badi bene, questa parola «ha bisogno di essere concordata con altre parole, per un “discorso” compiuto sul bene dell’uomo»20. In altri termini, la Chiesa ritiene necessario il dialogo e la collaborazione con le altre discipline umane e scientifiche, per rispondere alle sfide sociali cercando il vero bene umano. La Dottrina sociale è capace di entrare «in dialogo con le varie discipline che si occupano dell’uomo», e «ne integra in sé gli apporti», senza escludere nessun sapere «per la parte di verità di cui è portatore»21. In definitiva, nell’elaborazione della Dottrina sociale si istituisce un proficuo e fecondo rapporto tra fede e ragione. Da questo scambio e dalla conseguente attenzione e apertura ai contributi 18
GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, n. 41. L.c. 20 P. DONI, Dottrina sociale della chiesa, in Dizionario delle idee politiche, a cura di E. Berti e G. Campanini, Roma 1993, 229-246, 232. 21 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio…, cit., n. 76 e n. 78. 19
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che provengono dai diversi ambiti delle scienze umane e sociali la Dottrina sociale della Chiesa acquisisce «competenze, concretezza e attualità», che le permettono una comprensione più precisa e profonda dell’uomo, all’interno del contesto socio-culturale e della dimensione storica in cui egli vive, per fermentare con il lievito evangelico la società. Possiamo dire, quindi, che la dottrina sociale ha un carattere interdisciplinare, che le è proprio ed indispensabile22. In particolare, il Compendio si sofferma ad evidenziare l’apporto specifico e originale che viene dalla filosofia, sia perché è vista come «strumento idoneo e indispensabile» per una corretta e adeguata comprensione dei concetti che stanno alla base dell’insegnamento sociale, sia perché essa fa «risaltare la plausibilità razionale della luce che il Vangelo proietta sulla società», e quindi è in grado di «sollecitare l’apertura e l’assenso alla verità di ogni intelligenza e coscienza»23. Per questi motivi l’insegnamento sociale della Chiesa «può trovare accoglienza e condivisione da parte di tutti» gli uomini di buona volontà, liberi da qualsiasi forma di pregiudizio24. Da quanto adesso sottolineato, si evince la dimensione universalistica della dottrina sociale della Chiesa: essa può essere considerata come un terreno comune in cui gli uomini si incontrano e insieme possono scoprire valori condivisibili sul piano umano e razionale. Essa, perciò, può costituire una piattaforma su cui si può convenire da parte degli uomini di buona volontà, a prescindere dalla fede professata, per gettare le basi di una società più giusta e fraterna, a misura d’uomo. È questo taglio che qualifica la Dottrina sociale della Chiesa e le dà una fisionomia che la fa distinguere “dalla sociologia”, costringendoci «a trovare, senza sotterfugi su questa o quella realtà sociale, o sulle problematiche che ne derivano, il mistero del quale siamo testimoni e portatori. È alla luce della Rivelazione e del Vangelo che vogliamo pronunciarci»25. In tal modo, insegnamento sociale ed evangelizzazione si integrano e la Chiesa adempie la sua missione propria. 22
Cfr. l. c. Ibid., n. 77. 24 Ibid., n. 75. 25 J. MEJIA, Temi di Dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano 1996, 55. 23
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La conseguenza di quanto adesso illustrato è che per la Chiesa evangelizzare il sociale è un diritto, che non le può essere contestato. Essa, infatti, è chiamata a «far risuonare la parola liberante del Vangelo nel complesso mondo della produzione, del lavoro, dell’imprenditoria, della finanza, della cultura, delle comunicazioni sociali, in cui vive l’uomo»26. Ma c’è di più. A questo diritto, per la Chiesa, corrisponde, come l’altra faccia della medaglia, un preciso dovere. Infatti, a causa degli «effetti perversi dell’ingiustizia», essa «non può restare indifferente alle vicende sociali»27, perchè «la società con tutto ciò che in essa si compie, riguarda l’uomo», che è «la prima fondamentale via della Chiesa»28. In definitiva, con la Dottrina sociale, la Chiesa pratica il suo diritto-dovere di «fecondare e fermentare la società stessa» con il lievito evangelico»29, perché «si preoccupa della vita umana nella società, nella consapevolezza che dalla qualità del vissuto sociale, ossia dalle relazioni di giustizia e d’amore che lo intessono, dipende in modo decisivo la tutela e la promozione delle persone, per le quali ogni comunità è costituita»30. L’attenzione e la cura pastorale della Chiesa per il campo sociale e politico non devono essere confuse e scambiate con una ipotetica pretesa da parte della Chiesa di disegnare modelli di strutture e di sistemi socio-politici o di indicare soluzioni tecniche sul piano istituzionale, infatti essa «non persegue fini di strutturazione e organizzazione della società, ma di sollecitazione, indirizzo e formazione delle coscienze»31. La sua specifica missione, infatti, «non è d’ordine politico, economico o sociale»32. Piuttosto bisogna evidenziare che con la Dottrina sociale, la Chiesa, di fronte ai problemi umani e sociali, realizza il duplice compito di annuncio e di denuncia, a cui non può rinunciare senza tradire la sua 26
PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio …, cit., n.
70. 27
Ibid., n. 71. Ibid., n. 62. 29 L. c. 30 Ibid., n. 81. 31 L. c. 32 Ibid., n. 68. 28
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missione evangelizzatrice. E innanzitutto, la Chiesa offre l’annuncio di «una visione globale dell’uomo e dell’umanità», sia sul piano teorico come su quello pratico. Infatti, la dottrina sociale «non offre soltanto significati, valori e criteri di giudizio, ma anche le norme e le direttive di azione che ne derivano»33. In altri termini, dalla concezione antropologica che la Chiesa propone scaturiscono punti di riferimento precisi per rinnovare e migliorare la prassi sociale e politica a favore dell’uomo. Si tratta, ci sembra opportuno notare, di un contributo importante di fronte alla crisi antropologica, che segna il nostro mondo contemporaneo. Inoltre, e come conseguenza di quanto adesso detto, la Chiesa ha il dovere della denuncia. Essa non può tacere, per comodità o per interesse o per paura, di fronte all’ingiustizia, alla violenza e a tutto ciò che offende e opprime l’uomo, calpestandone i suoi diritti naturali. La sua voce si deve levare più forte e insistente, e quindi il suo dovere della denuncia (che possiamo definire profetico) diventa più cogente, quando ci si trova di fronte a quelle che, in determinati frangenti storici, si strutturano come le grandi questioni sociali, che coinvolgono intere categorie di persone rendendone precaria e scadente la qualità della vita, a causa, ad esempio, delle oppressive condizioni di lavoro, oppure per la disoccupazione, la povertà, le disumane situazioni sanitarie ecc…34. Tuttavia, bisogna sottolineare che «l’annuncio è sempre più importante della denuncia, e questa non può prescindere da quello, che le offre la vera solidità e la forza della motivazione più alta»35. Si comprende così che la denuncia non deve essere intesa mai come una sterile protesta fine a se stessa, ma, fondata sul valore positivo dell’annuncio, si deve trasformare in difesa appassionata dei diritti dei più poveri ed emarginati, delineando proposte di autentica promozione umana. E a questo punto si configura il terzo compito che spetta alla dottrina sociale della Chiesa: dare il proprio contributo per puntare al miglioramento della società. Da quanto detto emerge che la Dottrina sociale ha una sua precisa
33
L. c. Ibid., n. 81. 35 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, n. 41. 34
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Dopo la Gaudium et spes è ancora possibile una dottrina sociale? 361
indole teologica, che si esprime nella sua finalità pastorale di servizio all’uomo e al mondo. Essa, infatti, tende «a stimolare la promozione integrale dell’uomo mediante la prassi della liberazione cristiana, nella sua prospettiva terrena e trascendente»36. A conclusione della nostra panoramica, riteniamo opportuno citare quanto scrive G. Campanini, perché ci sembra che sintetizzi molto bene la lenta evoluzione compiuta dalla Dottrina sociale della Chiesa in questi ultimi 45 anni: «È terminata, se mai vi è stata, l’epoca di un insegnamento sociale come deposito di soluzioni precostituite, delle quali rimanevano ai credenti i soli compiti dell’interpretazione e dell’applicazione; ed è iniziata, soprattutto a partire da Giovanni XXIII, la fase di un magistero sociale, forse meno puntuale e particolareggiato, ma certamente più dotato di forza profetica. Luogo in qualche modo necessario di questa profezia è una società in cambiamento, all’interno della quale i credenti sono sollecitati a quell’autentico esercizio di laicità che è rappresentato dall’individuazione — in ogni luogo, in ogni tempo, in ogni situazione — degli strumenti conoscitivi e operativi necessari per costruire un mondo più vicino, o meno lontano dagli ideali evangelici. Qui l’ambito della “dottrina” finisce e qui si aprono vasti spazi all’inventività e alla fantasia creatrice di coloro che, da credenti, operano nella società per trasformarla a misura d’uomo»37.
36
CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Orientamenti …, cit., n. 5. G. CAMPANINI, La dottrina sociale della Chiesa: le acquisizioni e le nuove sfide, Bologna 2007, 37. 37
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IL DIALOGO INTERCULTURALE ALLA LUCE DI GAUDIUM ET SPES
ADRIANO MINARDO*
È persuasione comune che il Concilio Vaticano II abbia segnato una svolta epocale nella vita della Chiesa. Che tale svolta sia da interpretare lungo la linea ermeneutica della continuità o della discontinuità (o, nondimeno, della riforma) oppure, in altre parole, che questa svolta sia stata recepita in alcuni ambienti come un travisamento della più pura tradizione ecclesiale, mentre in altri sia stata salutata con favore, quale occasione di risveglio e di respiro, a pieni polmoni, di un nuovo spirito rigenerante, tutto ciò nulla toglie al dato oggettivo e storico che il Concilio abbia voluto corrispondere alla chiarissima istanza di aggiornamento auspicata da papa Roncalli1. *
Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Su questo dibattito, oggetto oramai di una nutrita letteratura, cfr. i vari contributi presenti in G. ALBERIGO (ed.), Storia del concilio Vaticano II. 1959-1965, 5 tomi, Bologna 1995-2001; A. MARCHETTO, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, Città del Vaticano 2005; ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, La Chiesa e il Vaticano II. Problemi di ermeneutica e di recezione conciliare, Milano 2005; P. HÜNERMANN (ed.), Das zweite Vatikanische Konzil und die Zeichen der Zeit heute, Freiburg 2006; G. ROUTHIER, Il Concilio Vaticano II. Recezione ed ermeneutica, Milano 2007; A. MELLONI – G. RUGGIERI, Chi ha paura del Vaticano II?, Roma 2009; J.W. O’ MALLEY, Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano 2010; CH. THEOBALD, La recezione del Vaticano II. 1. Tornare alla sorgente, Bologna 2011, 389-541; F. MANDREOLI, Appunti sul Vaticano II. Un modello di discernimento, Reggio Emilia 2010; U. CASALE, Il Concilio Vaticano II. Eventi, documenti, attualità, Torino 2012. Sull’interpretazione e la recezione del Concilio era intervenuto anche papa J. Ratzinger; cfr. BENEDETTO XVI, Le ermeneutiche del Vaticano II, in Il RegnoDocumenti 1 (2006), 5-11. 1
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Non è casuale, quindi, che l’allocuzione inaugurale di Giovanni XXIII, la Gaudet Mater Ecclesia, pronunciata l’11 ottobre 1962, alla
solenne apertura del Concilio, condensi ed esprima inequivocabilmente il mutamento di prospettiva desiderato da questo papa ed orientato verso un’improcrastinabile apertura nei confronti del mondo. Esattamente il dialogo — ancora in nuce e almeno intenzionalmente — diventa agli occhi del pontefice, nel ripensare la presenza della Chiesa nel mondo, l’esercizio concreto e propizio della missione ecclesiale, l’integrale decisivo e l’elemento conduttore per cui la Chiesa può svolgere — all’insegna di un nuovo sguardo sulla realtà, intercettati e interpretati gli odierni segni dei tempi2 — il compito di annunciare il vangelo e trasmettere la verità che essa custodisce. Il papa Giovanni XXIII sembra dunque aver voluto dare avvio ad una rivoluzione di vedute, attraverso uno spostamento del punto di osservazione, frapponendo una lente ed un filtro nuovi nell’occhio dell’osservatore romano. Memorabili le parole, dalla valenza profetica, con le quali il pontefice auspicava non semplicemente il mutamento di una prassi, ma l’impressione di un vero e proprio stile di presenza mediante un preciso metodo pastorale: «Non c’è nessun tempo in cui la Chiesa non si sia opposta a questi errori [le incerte opinioni degli uomini sulla verità]; spesso li ha anche condannati, e talvolta con la massima severità. Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore (placet misericordiae medicinam adhibere, potius quam severitatis arma suscipere); pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando. [...] la Chiesa Cattolica, mentre con questo Concilio Ecumenico innalza la fiaccola della verità cattolica, vuole mostrarsi madre amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e da bontà verso i figli da lei separati»3.
2
Cfr. GIOVANNI XXIII, Humanae salutis, Documento di indizione del Concilio ecumenico Vaticano II (25.12.1961), in Enchiridion Vaticanum (= EV), 1/1*-23*: 4*. 3 GIOVANNI XXIII, Gaudet Mater Ecclesia, Discorso all’apertura del Concilio (11.10.1962), in EV, 1/26*-98*: 57*. Ben altro è dunque lo spirito che ha animato papa Roncalli rispetto alla visione ecclesiologica, alle circostanze storiche e alla modalità
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Il papa buono (ma più acuto e perspicace di quanto allora si ritenesse) vira dunque la barca della Chiesa, indicandole la rotta di nuovi orizzonti. Nel complesso, traspare una Chiesa che, forse per la prima volta dopo secoli, intende comprendere se stessa e la propria presenza nel mondo alla luce di una nuova istanza. Vi si legge il tentativo di scorgersi con uno sguardo dall’esterno, ossia di vedersi da fuori con occhio estraneo/altro4, quasi tralasciando una consolidata e plurisecolare autoreferenzialità autoritativa. In questo senso, i documenti ufficiali del Concilio Vaticano II, ed in particolare le costituzioni, hanno voluto assegnare una fisionomia come profetica a questo cambiamento di prospettiva. Proprio nelle quattro costituzioni si trovano teologicamente incastonate, oltreché pastoralmente auspicate e promosse, le prime svolte all’interno della Chiesa: dall’isolamento di una Chiesa eurocentrica ad un ampliamento di orizzonti verso la Chiesa mondiale, come pure dalla visione geometrica piramidale-gerarchica ad una visione circolare del popolo di Dio (Lumen gentium); ancora: da un sistema moraleggiante-puritano proibitivo ad una concezione che insiste sulla promozione della dignità dell’uomo e della sua coscienza (Gaudium et spes); inoltre: da un sistema di rappresentazione simbolico-sacrale di una liturgia inattingibile ad un’azione compartecipata e consapevole (Sacrosanctum concilium). Così il Concilio si annuncia al mondo,
controversistica di reprimere gli errori di 130 anni prima — evidentemente protratte fino alla vigilia del Vaticano II — che potevano fare scrivere al pontefice Gregorio XVI: «appare chiaro quanto sia assurdo e sommamente oltraggioso per la stessa chiesa il proporre una certa restaurazione e rigenerazione come necessaria per provvedere alla sua salvezza e ai suoi progressi, quasi che si potesse ritenerla soggetta a difetto, o ad oscuramento, o ad altri inconvenienti del genere» (GREGORIO XVI, Lettera Enciclica Mirari vos (15.8.1832), in Enchiridion delle Encicliche (= EE), 2/24-47: 33). In questa enciclica, peraltro, si propone di biasimare e condannare gli errori del tempo con le armi (spirituali) di cui la Chiesa legittimamente dispone (virga compescere); cfr. Ibid., in EE, 2/25. 4 Cfr. E. SALMANN, Radiografie della nostra condizione spirituale postconciliare, in ID., Passi e passaggi nel cristianesimo. Piccola mistagogia verso il mondo della fede, Assisi 2009, 26-46: 26 ss.
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fondamentalmente, come un evento storico per il quale la Chiesa intende recuperare i tesori della Scrittura e della Tradizione (Dei Verbum), cercando e creando legami con le altre confessioni cristiane e con le altre religioni (Unitatis redintegratio, Nostra aetate), ma più in generale — facendo eco a Gaudium et spes 1 — aprendosi alle attese, alle gioie e alle speranze, alle tristezze e alle angosce degli uomini del nostro tempo. La Chiesa ha pertanto inteso riconsiderare alcuni principi consolidati della modernità (la tolleranza, la libertà di coscienza, la democrazia, i diritti dei lavoratori, i diritti delle donne, etc.) con più benevolenza, senza più risentimento e ostilità, sebbene — come notano alcuni osservatori — con circa due secoli di ritardo e, soprattutto, con il rischio di vedersi di nuovo superata da altri movimenti culturali e correnti di pensiero che essa fatica a concepire e/o raggiungere (il Sessantotto, la rivoluzione dei costumi, il ruolo della donna, le mode e i nuovi linguaggi, il postmoderno, la concezione del corpo e della vita, etc.)5. Tali questioni sono, oramai, all’ordine del giorno dei numerosi dibattiti che si interrogano su quanto i testi conciliari abbiano inciso nella prassi sia a livello romano-istituzionale sia a livello di chiese locali e su quanto attualmente sia possibile interloquire con una modernità che, nel frattempo, è stata superata dal suo precipitato cosiddetto postmoderno, distinto non solo da una nuova forma di sapere ma, soprattutto, da una nuova condizione di vita
5
Come si è espresso E. Salmann: «Spesso accoglie dalla modernità proprio quelle cose che i contemporanei lasciano andare o che giudicano equivoche. Si veda per esempio il recente pathos ecclesiale della scienza. Dopo sospetti e battaglie di ritirata durati secoli, il mondo ecclesiale festeggia il progresso della scienza proprio nel momento in cui a tutti noi è divenuto chiaro quanto ambigua sia la scienza. O che il Concilio accolga posizioni dell’Illuminismo – in ogni caso a livello più basso (diritti dell’uomo, tolleranza, lingua natale, ecc.) – nel tempo in cui l’Illuminismo appare in sé ambiguo» (ibid., 29). Inoltre cfr. M.P. GALLAGHER, Fede e cultura. Un rapporto cruciale e conflittuale, Cinisello Balsamo (MI) 1999, 97. Su alcune riduzioni di apertura che il Concilio aveva comunque mostrato nei confronti del mondo moderno, cfr. invece S. XERES – G. CAMPANINI, Manca il respiro. Un prete e un laico riflettono sulla Chiesa italiana, Milano 2011, 18-29.
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segnata, a sua volta, dalla complessità e dalla problematicità della cultura del frammentario, dell’episodico, del momentaneo6. Tuttavia, al di là di ogni legittima discussione sull’effettiva recezione e attuazione del dettato conciliare7, senza che queste significhino condiscendenza e assimilazione acritiche ad ogni possibile risultante mondana, resta ferma l’intenzione magisteriale del pontificato di Giovanni XXIII di ratificare le istanze di aggiornamento e di rinnovamento sia intra- sia extra-ecclesiali — maturate già da tempo e da più fronti (biblico, patristico, liturgico, teologico) — pienamente confluite al Concilio. Soprattutto la costituzione pastorale Gaudium et spes, promulgata il 7 dicembre 19658, ha intercettato i segnali positivi del cambiamento, indicando lungo la direttrice del dialogo la possibilità del riorientamento e della riconfigurazione del rapporto tra Chiesa e mondo contemporaneo o, se preferiamo, tra fede e cultura. Rapporto che, 6 Tra le numerose pubblicazioni inerenti al rapporto tra fede cristiana e cultura postmoderna, cfr. E. SALMANN, Presenza di Spirito. Il cristianesimo come gesto e pensiero, Padova 2000; ID., Passi e passaggi nel cristianesimo, cit.; C. DOTOLO, Un cristianesimo possibile. Tra postmodernità e ricerca religiosa, Brescia 2007; A. MATTEO, Presenza infranta. Il disagio postmoderno del cristianesimo, Assisi 2008; F. COSENTINO, Immaginare Dio. Provocazioni postmoderne al cristianesimo, Assisi 2010. Sul fenomeno variegato e multiprospettico dell’epoca postmoderna, resta di capitale importanza il classico J.-F. LYOTARD, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano 1985 (originale 1979); mentre sull’ambiguità degli effetti che denotano quest’atmosfera culturale, cfr. A. RIGOBELLO, Il «post-moderno»: itinerari ed esiti diversi, in F.L. MARCOLUNGO (ed.), Provocazioni del pensiero post-moderno, Torino 2000, 58 ss. 7 La storia dei concili, d’altronde, insegna che i tempi della recezione sono piuttosto lunghi e travagliati. Come ci ricorda Y. Congar, il fenomeno della crisi è «una costante per avvenimenti del genere». È accaduto con il concilio di Nicea che, pur avendo definito la divinità del Figlio, fu seguito da sessant’anni di arianesimo o di semi-arianesimo; è accaduto con il concilio di Calcedonia che, pur avendo definito le due nature di Cristo, fu seguito da «un larvato monofisismo che durò fino ai concili del 649 e del 681» (Y. M.-J. CONGAR, La Tradizione e la vita della Chiesa, Cinisello Balsamo [MI] 1983, 5). 8 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes (7.12.1965), in EV, 1 /1319-1644 (d’ora in poi abbreviato in GS).
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inevitabilmente, passa per la “conoscenza” e la “comprensione” del mondo in cui la Chiesa vive e opera. Come si legge in GS 4: «Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico».
Ora, alla luce di questa premessa, con la quale si sono delineati i contorni e lo sfondo storico ove collocare la nouvelle théologie del dialogo, svilupperemo il seguente contributo attraverso due passaggi. Con il primo, tenteremo di cogliere il fondamento dell’opportunità del dialogo tra fede e mondo e, dunque, tra fede e culture, alla luce di Gaudium et spes, beninteso che del lessico della costituzione non fanno parte termini — oggi prevalenti — come “inculturazione” o “interculturalità”. Quest’ultima notazione, giustifica il secondo passaggio, più articolato nella sua fisionomia espositivo-fenomenologica, attraverso il quale si proverà ad esplicitare i campi semantici delle nuove categorie che rimandano alla modalità con cui attuare questo dialogo. Tenteremo, pertanto, di cogliere valori e limiti di parole come adattamento, inculturazione, interculturalità, al fine di evidenziare l’urgenza di un compito che faccia dell’apertura e dell’incontro dialogico un segno permanente della presenza e dell’azione della Chiesa nel mondo. 1. LA CHIESA E IL RAPPORTO FEDE-CULTURA Si accennava sopra al fatto che l’istanza di aggiornamento auspicato dal Concilio sia stata promossa da un rinnovato rapporto tra fede e cultura, all’insegna di un paradigma ispirato al dialogo tra le parti e non più alla polemica, alla contrapposizione o al reciproco sospetto tipici dell’epoca controversistica. Il principio regolatore di questo paradigma suona: se la Chiesa nel mondo intende proporsi
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come Chiesa per il mondo, essa non può ignorare o glissare sulla conoscenza dei fenomeni culturali che in questo mondo si danno9. Ora, i padri conciliari si sono occupati esplicitamente del vasto ambito della cultura in particolare all’interno della costituzione pastorale Gaudium et spes10. Come ha notato M. P. Gallagher, per la prima volta nella storia della Chiesa un’assise ecumenica ha dedicato così ampio spazio al tema “cultura”11. Tuttavia il Concilio, come per tener fede al suo fine e al suo stile pastorale, omette di offrire una sua propria “definizione” di cultura, preferendo una descrizione fenomenica di ciò che essa è ed implica12. Alla precisazione intellettuale della 9 GS 40: «presupponendo tutto ciò che il Concilio ha già insegnato circa il mistero della Chiesa, si viene a prendere in considerazione la medesima Chiesa in quanto si trova nel mondo e insieme con esso vive ed agisce. […] Ma la Chiesa, perseguendo il suo proprio fine di salvezza, non solo comunica all’uomo la vita divina; essa diffonde anche in qualche modo sopra tutto il mondo la luce che questa vita divina irradia, e lo fa specialmente per il fatto che risana ed eleva la dignità della persona umana, consolida la compagine della umana società e conferisce al lavoro quotidiano degli uomini un più profondo senso e significato. Così la Chiesa, con i singoli suoi membri e con tutta intera la sua comunità, crede di poter contribuire molto a umanizzare di più la famiglia degli uomini e la sua storia». 10 La costituzione pastorale ha affrontato in particolare il tema della promozione culturale nel II capitolo della II parte (“Alcuni problemi più urgenti”), nei nn. 53-62; tuttavia i riferimenti all’urgenza di un dialogo con il mondo della cultura sono disseminati ovunque in tutto il documento. 11 Cfr. M.P. GALLAGHER, Fede e cultura, cit., 56. All’indomani del Concilio, la Chiesa ha mostrato una sensibilità crescente verso l’urgente evangelizzazione delle culture sia con documenti magisteriali inaugurati dall’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI del 1975, sia con iniziative pastorali e teologiche di rilancio del dialogo promosse dal Pontificio Consiglio per la Cultura istituito da Giovanni Paolo II nel 1982. 12 Cfr. A.F. BEDNARSKI, La cultura. Riflessione teologica, Casale Monferrato (Al) 1981, 85; P. ROSSANO, La fede pensata. Sul dialogo tra Vangelo e cultura, Milano 1988, 5. Sotto questo profilo, il Concilio sembra aver optato per una via alternativa alle descrizioni di cultura riconducibili sostanzialmente alle opere di Matthew Arnold (che pubblicò nel 1869 Culture and Anarchy) e di Edward Burnett Tylor (che pubblicò nel 1871 Primitive culture). Tali definizioni, rispettivamente, sintetizzano le due versioni fondamentali dell’interpretazione della cultura che hanno fatto scuola per tutto il XX secolo, ossia la versione elitaria-intellettuale, legata alle espressioni più sublimi dello spirito creativo umano, e la versione antropologico-sociologica,
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nozione ha così anteposto una lettura morfologica del dato culturale, sottolineandone l’intimo collegamento con la dignità di una libertà pienamente ed autenticamente umana. Così si legge nella costituzione conciliare al n. 53: «Con il termine generico di “cultura” si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina e sviluppa le molteplici capacità della sua anima e del suo corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale, sia nella famiglia che in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l’andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano».
Senza negare che la cultura sia espressione delle più elevate capacità spirituali dell’uomo, il Concilio ritiene di dover integrare altre dimensioni che meglio approfondiscono il senso della cultura sulla base delle modalità e dei luoghi dove la vita delle persone, storicamente prese, si svolge. Si delinea pertanto un profilo umanistico, empirico e locale che rimanda, tra l’altro, ad una constatazione fondamentale, pure non esplicitata nel documento: la storia e la geografia specifiche di ogni comunità umana non solo confermano che non esistono società prive di cultura ma sentenziano decaduta per principio la presunta superiorità di una sulle altre. Proprio perché la configurazione della realtà culturale dipende dalle coordinate e dalle categorie dello spazio e del tempo, il Concilio non può non ammettere l’esistenza di una “pluralità delle culture”, scaturite dal diverso patrimonio di “usanze tradizionali” che ogni gruppo umano forma in ordine alla religione, ai costumi, all’amministrazione della giustizia, come anche in ordine alla formalizzazione delle scienze, delle arti, alla “coltivazione” del bello, dando così una incastonatura identificabile ed intellegibile ai “diversi stili di vita e
legata al più generico modo di vivere di popoli secondo prassi, costumi e tradizioni loro tipici.
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alle diverse scale di valori” (cfr. GS 53). Tale riconoscimento — detto qui en passant — a fronte di una tendenza, già rinvenibile negli anni ’60 del secolo scorso, ad una riduzione omologante di modi di vivere e di costumi, resa possibile da una più capillare e fitta circolazione di idee, di conoscenze e di mode13. Dinanzi a questa oggettiva e innegabile diversità che contraddistingue l’umanità, la Chiesa riconosce alla cultura una legittimità ed una rispettabilità che si fondano sulla dignità della persona stessa, dignità che ultimamente diviene la ragione di ogni possibilità di dialogo14. Di più. Dal momento che essa scaturisce dalla “natura ragionevole e sociale” dell’uomo, la Chiesa le attribuisce una certa “inviolabilità” — termine solitamente utilizzato per la coscienza — «salvi evidentemente i diritti della persona e della comunità, sia particolare sia universale, entro i limiti del bene comune» (GS 59). Sono poste, dunque, tutte le premesse e le condizioni per le quali la Chiesa può meglio definire il rapporto con la cultura nelle sue pluriformi declinazioni, chiarito che essa «non è legata in modo esclusivo e indissolubile a nessuna razza o nazione, a nessun particolare modo di vivere, a nessuna consuetudine antica o recente» (GS 58), né «ad alcuna particolare forma di cultura umana o sistema politico, economico, o sociale» (GS 42)15. 13 GS 54: «lo sviluppo dei rapporti fra le varie nazioni e le classi sociali rivela più ampiamente a tutti e a ciascuno i tesori delle diverse forme di cultura, e così poco a poco si prepara una forma di cultura umana più universale, la quale tanto più promuove ed esprime l’unità del genere umano, quanto meglio rispetta le particolarità delle diverse culture». 14 GS 40: «Tutto quello che abbiamo detto a proposito della dignità della persona umana, della comunità degli uomini, del significato profondo della attività umana, costituisce il fondamento del rapporto tra Chiesa e mondo, come pure la base del dialogo fra loro». Ed ancora GS 59: «Il sacro Concilio, richiamando ciò che insegnò il Concilio Vaticano I, dichiara che “esistono due ordini di conoscenza” distinti, cioè quello della fede e quello della ragione, e che la Chiesa non vieta che “le arti e le discipline umane […] si servano, nell’ambito proprio a ciascuna, di propri principi e di un proprio metodo”; perciò, “riconoscendo questa giusta libertà”, la Chiesa afferma la legittima autonomia della cultura e specialmente delle scienze». 15 La ragione per cui la Chiesa non può legarsi ad un regime monoculturale sembra risalire alla stessa libertà di Dio, il quale «rivelandosi al suo popolo fino alla
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Sembra che questa affermazione faccia eco al vibrantissimo discorso del cardinal Lercaro, tenuto durante il dibattito conciliare, sulla povertà della Chiesa. La Chiesa — sosteneva il presule — per ritrovare nuova credibilità e forza profetica non avrebbe dovuto temere di rinunciare alle glorie di un tempo che fu, sposando piuttosto una certa povertà culturale quale evangelico lasciapassare verso il nuovo linguaggio delle culture contemporanee16. Il Concilio, comunque, avrebbe in qualche modo precisato che l’apertura verso questi nuovi orizzonti culturali non è fine a se stessa. Essa presuppone l’obbedienza al mandato divino della missione quale ragione prima ed ultima di ogni rapporto dialogico con il mondo. Detto altrimenti, nella visione conciliare il dialogo è intrinsecamente legato alla finalità missionaria della Chiesa, mai avulso da essa. Ora, i padri conciliari — tenuto conto della chiara indicazione di Paolo VI, secondo cui «la Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio»17 — hanno espresso il rapporto del vangelo
piena manifestazione di sé nel Figlio incarnato, ha parlato secondo il tipo di cultura proprio delle diverse epoche storiche» (GS 58). 16 Così si esprimeva: «Pregiudizialmente la Chiesa deve riconoscersi culturalmente povera e volere essere coerentemente sempre più povera. Non parlo qui della povertà materiale, ma di una speciale applicazione della povertà evangelica proprio al campo della cultura ecclesiastica. Anche in questo campo — come in quello dei beni e delle istituzioni patrimoniali — la Chiesa conserva tuttora certe ricchezze di un passato glorioso ma forse anacronistiche (sistemi scolastici di filosofia e di teologia, istituzioni educative e accademiche, metodi di insegnamento universitario e di ricerca). La Chiesa deve avere il coraggio, se è necessario, di rinunziare a queste ricchezze o almeno di non presumere troppo di esse, di non vantarsene e di confidarvi sempre più cautamente: possono non porre sul candelabro, ma nascondere sotto il moggio, la lampada del messaggio evangelico e possono impedire alla Chiesa di aprirsi ai valori veri della nuova cultura o delle culture antiche non cristiane, limitare l’universalità del suo linguaggio, dividere anzi che unire, escludere molti più uomini di quanti non ne attirino e ne convincano». Citato da C. LOREFICE, Dossetti e Lercaro. La Chiesa povera e dei poveri nella prospettiva del Concilio Vaticano II, Milano 2011, 231. 17 PAOLO VI, Lettera enciclica Ecclesiam suam (6.8.1964), in EE, 7/713-830: 777.
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nei confronti delle diverse culture nei termini di un adattamento, non certo di una imposizione. Così si legge nel n. 44 di Gaudium et spes: «[la Chiesa] fin dagli inizi della sua storia, imparò ad esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; inoltre si sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi: e ciò allo scopo di adattare il Vangelo, nei limiti convenienti, sia alla comprensione di tutti, sia alle esigenze dei sapienti. E tale adattamento della predicazione (accomodata praedicatio) della parola rivelata deve rimanere la legge di ogni evangelizzazione».
Il primo elemento che emerge da questo numero di Gaudium et spes è che tale adattamento deve intendersi strettamente funzionale alla missione; in particolare, esso assurge a norma di ogni evangelizzazione. Il secondo elemento che emerge riguarda, invece, il campo semantico della parola “adattamento”; questa sembra anticipare o prefigurare la categoria di “inculturazione”, entrata nel lessico magisteriale e teologico tempo dopo18. In buona sostanza, questa parte della costituzione sembra fissare, nel dialogo o nel rapporto con le culture, la clausola più o meno implicita in base alla quale la Chiesa non può sottovalutare e rinunciare al motivo per cui esiste: la proclamazione del vangelo. Si suppone — leggendo GS 42 — che «la Chiesa per questa sua universalità [derivante dalla sua libertà da ogni
Quanto la costituzione conciliare abbia recepito l’influsso della prima enciclica di Paolo VI, Ecclesiam suam, promulgata il 6 agosto 1964, ossia tra la seconda e la terza sessione conciliare, è elemento notato da molti commentatori. Con questa enciclica, la categoria del dialogo fa il suo esordio nei documenti ufficiali della Chiesa. Qui Paolo VI distingue quattro cerchi concentrici all’interno dei quali si dà lo spazio del dialogo: il primo riguarda l’umanità in quanto tale, il secondo i credenti delle altre religioni, il terzo gli altri cristiani e l’ultimo riguarda lo spazio del dialogo intraecclesiale. L’elencazione dei quattro cerchi concentrici verrà poi ripresa da GS 92 sebbene secondo l’ordine inverso. 18 Cfr. E. RIPARELLI, Dalla inculturazione alla interculturalità. I. Valore e limiti della categoria di inculturazione, in Studia Patavina 57 (2010), 593-617: 595 ss.
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vincolo predeterminato di qualsivoglia sistema culturale] può costituire un legame strettissimo tra le diverse comunità umane e nazioni, purché queste abbiano fiducia in lei e le riconoscano di fatto una vera libertà per il compimento della sua missione».
Sebbene questa richiesta di riconoscimento di principio possa apparire unilaterale, la costituzione parla espressamente di uno scambio vitale tra la Chiesa e le diverse culture dei popoli19, da promuovere e da favorire soprattutto con «l’apporto di coloro che, vivendo nel mondo, ne conoscono le diverse istituzioni e discipline e ne capiscono la mentalità, si tratti di credenti o di non credenti» (GS 44). Tale è il terreno di coltura del dialogo, concepito all’interno di una più ampia opera evangelizzatrice che impegna la Chiesa non solo sul versante testimoniale, ma anche su quello missionario, includendo un compito di promozione umana e sociale ispirata alla verità cristiana. Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, si legge in GS 58: «Il Vangelo di Cristo rinnova continuamente la vita e la cultura dell’uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori e i mali derivanti dalla sempre minacciosa seduzione del peccato. Continuamente purifica ed eleva la moralità dei popoli. […] dà il suo contributo alla cultura umana e civile e, mediante la sua azione, anche liturgica, educa l’uomo alla libertà interiore»20.
Se, dunque, qualche riga prima i Padri conciliari avevano riconosciuto come un valore aggiunto il reciproco arricchimento tra la Chiesa e le culture quando entrano in comunione, qui ricordano, in fondo, che essa non può non offrire il suo contributo per purificare ed elevare tutto ciò che contraddice la dignità di una libertà pienamente 19 «Fedele alla propria tradizione e nello stesso tempo cosciente dell’universalità della sua missione, può entrare in comunione con le diverse forme di cultura; tale comunione arricchisce tanto la Chiesa stessa quanto le varie culture» (GS 58). 20 La Chiesa, pertanto, intende contribuire affinché la cultura umana si sviluppi «in modo da perfezionare con giusto ordine la persona umana nella sua integrità» (GS 56).
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umana, ossia cristiana. Possiamo trarre da questo assunto due considerazioni. La prima considerazione verte sull’esistenza di una distanza (da colmare) tra vangelo e cultura. Dacché esiste il vangelo, esso si è posto sempre nella sua differenza specifica rispetto al mondo (inteso nella sua accezione giovannea). Esiste una differenza congenita nel vangelo che è il fondamento dell’appello alla conversione continua, a cominciare dalla Chiesa in quanto di mondano essa manifesta per essere trovata fedele ad una Parola che essa ascolta prima di proclamare21. Ciò estende i confini del dialogo oltre una mera conoscenza dell’altro. Di qui segue la seconda considerazione, che richiama quanto oramai appare come evidenza: la disposizione al dialogo si accompagna e si dischiude alla proposta di un contenuto, quello appunto del vangelo. Subito dopo il Concilio, il magistero di Paolo VI, tracciando una radiografia della situazione contemporanea, chiarisce come ovviare al dramma della distanza che egli non esita a definire una vera e propria rottura: «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture. Esse devono essere rigenerate mediante l’incontro con la Buona Novella. Ma questo incontro non si produrrà, se la Buona Novella non è proclamata»22.
21
Se la Chiesa tutta, e non solo la gerarchia, è chiamata alla continua conversione al vangelo, occorre qui precisare che una responsabilità peculiare riguarda l’ufficio magisteriale affidato ai pastori. Sotto questo aspetto è chiara l’istruzione di Dei Verbum 10: il magistero «non è al di sopra della parola di Dio ma ad essa serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato, e con l’assistenza dello Spirito santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio». Riguardo al precipuo compito di custodire, interpretare e trasmettere il deposito della fede mi permetto di rimandare al mio A. MINARDO, La dimensione pneumatologica dell’annuncio, in Phôs 5 (2013), 60-83: 75-79. 22 PAOLO VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8.12.1975), 20, in EV, 5/1588-1716: 1612. Cfr. anche GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica Redemptoris
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Ecco, dunque, tracciato il programma della missione della Chiesa post-conciliare che, per essere eseguito, richiede studio e impegno, nei pastori e nei fedeli laici, «in strettissima unione con gli uomini del loro tempo, [perché] si sforzino di penetrare perfettamente il loro modo di pensare e di sentire, quali si esprimono mediante la cultura» (GS 62)23. 2. DALL’ADATTAMENTO ALL’INTERCULTURALITÀ Il Concilio, pertanto, compie una precisa scelta terminologica nell’utilizzare il vocabolo “adattamento” (accomodata praedicatio) che, secondo la visione di Paolo VI, va inteso nel senso dell’evangelizzazione delle culture e non certo alla stregua di un adeguamento annacquato dell’annuncio cristiano. Pare sia stato papa Pio XII, nel 1952, ad utilizzare la parola “adattamento” in ordine al rapporto vangelo-cultura24. Il pontefice aveva indicato, nell’enciclica Evangelii praecones del 1951, quale norma la Chiesa avesse seguito nella sua missione evangelizzatrice: «È stata norma sapientissima, costantemente seguita dalla chiesa, dalle origini ai nostri giorni, che l’evangelo non dovesse distruggere né soffocare ciò che vi fosse di buono, di onesto e di bello nell’indole e nei costumi dei vari popoli che lo avevano abbracciato. La chiesa nel condurre i popoli a una civiltà più elevata sotto l’influsso della religione cristiana,
missio (7.12.1990), 37, in EE, 8/1026-1299: 1143-1144, lì dove il papa — parlando dei molti areopaghi verso cui orientare l’attività missionaria della chiesa (il vastissimo areopago della cultura, della ricerca scientifica, dei rapporti internazionali) — raccomanda un’attenzione e un impegno adeguati a “queste istanze moderne”. 23 Inoltre: «Con lo studio assiduo [i pastori] si rendano capaci di assumere la propria responsabilità nel dialogo col mondo e con gli uomini di qualsiasi opinione» (GS 43). Ed ancora: «Coloro che si applicano alle scienze teologiche nei seminari e nelle università si studino di collaborare con gli uomini che eccellono nelle altre scienze, mettendo in comune le loro forze e opinioni. La ricerca teologica, mentre persegue la conoscenza profonda della verità rivelata, non trascuri il contatto con il proprio tempo, per poter aiutare gli uomini competenti nelle varie branche del sapere ad acquistare una più piena conoscenza della fede» (GS 62). 24 Cfr. E. RIPARELLI, Dalla inculturazione alla interculturalità, cit., 593.
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non si comporta come chi senza alcuna distinzione taglia, abbatte e distrugge una selva lussureggiante, ma piuttosto come chi innesta nuovi sani virgulti sui vecchi ceppi, affinché possano a loro tempo produrre e maturare frutti più squisiti e delicati»25.
L’adattamento di cui parla il Concilio, quindi, andrebbe letto secondo l’immagine dell’innesto utilizzata da Pio XII. Eppure, come notano alcuni osservatori, l’idea dell’adattamento non ha evitato, nell’incontro con le culture di altri popoli, l’impressione di esportare un modello preconfezionato di marca europea da imporre senza negoziazioni26. In verità il Concilio non ha canonizzato la pertinenza di questo termine. Aveva piuttosto assunto, per esempio nel decreto Ad gentes, la categoria di “incarnazione”, intendendo replicare con essa il movimento mediante cui Cristo «si legò a quel certo ambiente socio-culturale degli uomini in mezzo ai quali visse» (AG 10). Sarà invece la parola “inculturazione” a sostituire, nel successivo lessico ecclesiale, la categoria ambigua di “adattamento”, con l’intento di tradurre meglio l’idea dell’incarnazione applicata all’evangelizzazione. Si tratta di un neologismo che trova la sua origine in altre discipline e branche del sapere (antropologia, sociologia, etnologia, etc.), entrato poi in uso nella letteratura post-conciliare sia del magistero sia della teologia27.
25
PIO XII, Lettera Enciclica Evangelii Praecones (2.6.1951), 12, in EE, 6/807. Nel testo il corsivo è mio. Questa indicazione di metodo pastorale, trova un suo precedente in un documento romano del 1659, stilato dalla Congregazione di Propaganda della Fede per i missionari in partenza per la Cina: «Non cercate di indurre quei popoli a cambiare le loro maniere, costumi e usanze, a meno che esse siano chiaramente contrarie alla religione e alla moralità. Non v’è nulla di più assurdo che voler esportare la Francia, o la Spagna, o l’Italia o qualche altra parte dell’Europa in Cina. Non portate là questo, ma portate piuttosto la fede, che non disprezza e non distrugge i modi di vivere e i costumi di alcun popolo, quando essi non sono cattivi. Al contrario, la fede desidera che tali tradizioni siano conservate e protette»; citato da M.P. GALLAGHER, Fede e cultura, cit., 142. 26 Cfr. E. RIPARELLI, Dalla inculturazione alla interculturalità, cit., 594; B. CHENU, Teologie cristiane dei terzi mondi, Brescia 1988, 206 ss. 27 Cfr. N. STANDAERT, L’histoire d’un néologisme, in Nouvelle Revue Théologique
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Così definisce l’inculturazione G. Collet: «Con inculturazione si deve intendere quel processo permanente nel quale il vangelo viene comunicato in una determinata situazione sociopolitica e religioso-culturale in maniera tale che esso non soltanto venga espresso utilizzando gli elementi di questa situazione (per esempio, nella liturgia e nella dottrina), ma ne divenga anche la forza ispiratrice, determinante e trasformante»28.
Si tratta, in altre parole, di quel processo mediante il quale il messaggio del vangelo viene integrato nella cultura di un dato gruppo, o compagine o sistema sociale. Tuttavia, perché possa essere proponibile anche ad extra, ovvero nei confronti di altre culture, l’inculturazione — osservano in molti — dovrà avvenire anzitutto a livello intraecclesiale. Sotto questo profilo, per attenerci al rapporto Chiesa universale — chiesa locale, sottolinea G. Collet: «una inculturazione del vangelo ‘al plurale’ è pertanto anche la condizione decisiva affinché una chiesa europea, che finora si è presentata in maniera prevalentemente monoculturale, intraprenda la strada verso una chiesa mondiale culturalmente policentrica, nella quale possa risuonare ed essere ascoltata la molteplicità delle sue voci»29.
Evidentemente ciò vale non solo per ridisegnare su scala mondiale una cartografia del cattolicesimo in specie, quanto per indicare un metodo nell’attuazione dell’inculturazione. Tra le righe della citazione si legge che, in questo processo di inculturazione, è il vangelo a dover essere normativo, non un modello di Chiesa risalente, nella fattispecie, 110 (1988) 555-570. All’autore risulta che sia stato Giovanni Paolo II ad impiegare per la prima volta il termine “inculturazione” in un discorso ai membri della Pontificia Commissione Biblica e poi nell’Esortazione apostolica Catechesi Tradendae nel 1979. Inoltre, cfr. M.P. GALLAGHER, Fede e cultura, cit., 142 ss; A. PEELMAN, L’inculturazione. La Chiesa e le culture, Brescia 1993, 110 ss. 28 G. COLLET, Inculturazione, in P. EICHER (ed.), I concetti fondamentali della teologia, 2, E-L, Brescia 2008, 471-485: 484. Altre definizioni teologiche dell’inculturazione si possono agevolmente consultare in A. PEELMAN, L’inculturazione, cit., 113-115. 29 G. COLLET, Inculturazione, cit., 479.
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al centralismo romano-occidentale. Il soggetto dell’inculturazione — sottolinea G. Collet — è «la singola chiesa locale nella sua totalità, e precisamente nel suo compito di testimoniare in loco il vangelo agli uomini»30. Ad extra, invece, l’inculturazione si inserisce metodologicamente nel circuito di quei fenomeni di cambiamento, ancora in corso ed in evoluzione (migrazione di popoli, globalizzazione, etc.), che hanno comportato la trasformazione delle società (almeno in occidente) da monoculturali a pluriculturali, plurietniche e plurireligiose e hanno, tendenzialmente, reso più labili i confini tra le stesse culture31. Ma proprio la ragione del pluralismo — si ammette da più parti — non può vedere imposto un solo modello di inculturazione a dispetto del legittimo diritto democratico di ciascuno di poter fare altrettanto nei confronti delle culture circostanti. L’attuale configurazione plurale sembra dunque bandire ogni ipotesi di un nuovo colonialismo intellettuale, di costumi, di consuetudini, di tradizioni, di schemi di pensiero una volta considerati egemoni. Così molti hanno finito per considerare la categoria di inculturazione alquanto problematica sia negli effetti sia, ancor prima, nella sua equiparazione alla dinamica dell’incarnazione32. Ci soffermiamo brevemente su questi due elementi. Gli effetti paventati rischiano, infatti, di mutare l’inculturazione in una forma di “acculturazione”, dove emerge la tendenza ad un confor-
30
Ibid., 482. Cfr. C. DOTOLO, Cristianesimo e interculturalità. Dialogo, ospitalità, ethos, Assisi 2011, 71. Il processo di globalizzazione culturale è favorito, peraltro, dal proliferare di social networks che mantengono collegate tra di loro persone in una piazza comune virtuale (dunque su scala mondiale), dove è possibile condividere pensieri, idee, persino stati d’animo ed emozioni, sperimentando nuove forme di legami amicali, lavorativi, sociali, etc. Su questo argomento, cfr. E. MENDUNI – G. NENCIONI – M. PANNOZZO, Social network. Facebook, Twitter, Youtube e gli altri: relazioni sociali, estetica, emozioni, Milano 2011. 32 Cfr. E. RIPARELLI, Dalla inculturazione alla interculturalità, cit., 603; A.N. TERRIN, Cultura, acculturazione, inculturazione, in ID. (ed.), Liturgia e inculturazione, Padova 2009, 90. 31
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mismo omologante che priva di contenuto l’identità dell’altro, ovvero del più debole33. Così: «Le differenze e le singolarità culturali vengono allora frettolosamente accantonate o percepite come ‘anomalie’. In questo modo, l’inculturazione può portare ad integrare le altre culture nella propria (ritenuta superiore)»34.
Concretamente avviene — a seguito di una manovra attuata ancorché inconsapevolmente — ciò che i sociologi chiamano l’azione del one-up one-down culturale. Questa operazione può condurre all’instaurazione di relazioni asimmetriche che obbediscono alla dinamica del vincente-perdente o — per esprimerci icasticamente — alla ragione del gatto sul topo. Tutto ciò, con molta evidenza, denuncia la mistificazione di un dialogo che, di fatto, non può avvenire. E ciò, ovviamente, vale anche per l’annuncio del vangelo e il dialogo della fede35, se non si coglie l’opportunità critica dell’auto-relativizzazione non in ordine al contenuto (che dipende dall’unico assoluto divino) ma in ordine alla forma (che dipende dalla scelta contestuale della Chiesa di come annunciare il vangelo). Certo, tutti riconoscono oramai che il cristianesimo, per sé, non può vantare l’adesione ad una forma culturale perenne da imporre agli altri, se non altro, per la forza di gravità della sua lunga storia. Questa libertà di potersi affrancare da una forma culturale monolitica,
33 Come afferma A. Peelman: «La Chiesa può essere ostacolo o via per l’inculturazione del Vangelo. Ostacolo: quando la sua universalità, rimane qualcosa di astratto e quando l’uniformità diventa la strategia esclusiva per garantire la sua unità e la sua cattolicità. Via: quando la sua universalità, divenuta concreta, osa affermare il suo legame esclusivo con tutte le culture secondo la forma cristica della kenosi» (A. PEELMAN, L’inculturazione, cit., 125) 34 G. COLLET, Inculturazione, cit., 482. 35 Di volta in volta allora — come nota E. Riparelli — «piuttosto che di parlare di dialogo tra fede e cultura, in realtà si dovrebbe più precisamente trattare di dialogo tra cultura cristiana e cultura autoctona», senza rinchiudere il cristianesimo in un modello culturale preconfezionato, statico, immobile, come fosse “ispirato”, ritenuto vincente o migliore rispetto ad un altro (E. RIPARELLI, Dalla inculturazione alla interculturalità, cit., 600).
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deriva dal fatto che esso si è sempre espresso attingendo alla fonte dei dati culturali del tempo che via via ha attraversato. Si tratta di un fatto storico ammesso da tutti e richiamato dallo stesso Concilio36. Non esiste, allora, un cristianesimo neutro, unico ed assoluto che occorre rivestire con un sistema culturale universalmente valido. In quanto evento storico, il cristianesimo è in grado di innervare tout court la cultura del tempo, di ogni tempo, persino (almeno teoricamente) nelle sue più imprevedibili variabili; cosicché la cultura diventa il luogo ermeneutico dove vivere e fare esperienza del cristianesimo. Il cristianesimo peraltro — a proposito della necessaria versione plurale della sua verità da non poter definitivamente ancorare a schemi di pensiero immutabili — è nato come evento interpretato da una molteplicità di letture, compiacendosi del concorso di diverse prospettive atte ad esprimere la sua novità. Si presenta, sappiamo, con quattro racconti dell’unico vangelo, ovvero quattro versioni per annunciare e trasmettere l’unico evento fondante della fede. Così, per esempio, pure all’interno degli scritti neotestamentari, non vi è una sola cristologia, quanto piuttosto quella declinazione che differenzia e accosta la cristologia dall’alto e dal basso, ascendente e discendente, del logos e della sarx, di Paolo e di Giovanni, etc. Il cristianesimo si auto-comprende, dunque, secondo una pluralità che pure è fondata nell’unico evento cristico. Questo fenomeno di approvvigionamento culturale, del resto, ha interessato anche l’antico Israele: è accertato come i circoli religiosi, spirituali e sapienziali, per la formulazione e la redazione dei libri sacri, non abbiano esitato a rielaborare tradizioni religiose e mitiche delle culture dei popoli limitrofi. Si può concludere, quindi, che l’esperienza di fede di ogni tempo ha conosciuto più approcci e più linguaggi dipendenti da diversi altri elementi (identità spirituale, sensibilità, esperienze di vita, contesti sociali, etc.), senza che questi accostamenti, aprioristicamente, possano essere valutati come perniciosi o estranei alla comprensione o alla mediazione della verità di fede. Raccontare e rappresentare il nucleo della propria fede o della propria esperienza spirituale con le categorie
36
Cfr. sopra la nota 15, dove si cita GS 58.
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culturali del tempo appartiene, dunque, alla storia dell’ebraismo e del cristianesimo. Ciò significa che il dialogo, soggiacente pure alla missione, è aperto senza pregiudizio alla diversità dell’altro, sapendo di poter cogliere dalla sua espressività culturale mediazioni di significato, di linguaggio, di simboli come proficue occasioni di annuncio. Saper poi inverare e permanentemente rimodulare, nel contesto dialogico con un’altra cultura, questo linguaggio di fede (nei riti e nei segni, nella dottrina e nella morale), richiede come presupposto imprescindibile una elevata dose di intelligenza creativa e illuminata, critica e rispettosa, capace di saper entrare in una relazione che diventa, essa stessa, riflesso luminoso della costitutiva e continua disposizione divina ad entrare in relazione con l’altro da sé (a cominciare dall’alterità intratrinitaria)37. Ciononostante, il rischio strutturale di trasmutare l’inculturazione in acculturazione — a detta dei più critici — non è stato del tutto eliminato. Del resto, come si accennava sopra, emergono altre criticità concernenti l’analogia della categoria di inculturazione al modello dell’incarnazione38. Tra le difficoltà avanzate al riguardo, segnaliamo appena la considerazione del teologo J.B Metz, per il quale il parallelismo semantico tra incarnazione e inculturazione risulta non pertinente,
37 Cfr. E. SALMANN, Il dialogo come evento della verità, in ID., Presenza di Spirito, cit., 41-52: 47-50. 38 N. STANDAERT, L’histoire d’un néologisme, cit., 561: «Quand on parle de l’Incarnation du Christ, on évoque une relation entre une personne — celle du Christ — et une culture — la culture juive-araméenne. On souligne en outre l’aspect actif de cet événement: c’est Dieu qui s’incarne; il se fait chair et accepte de vivre cette Incarnation jusqu’au bout: “il s’est dépouillé… il s’est abaissé” (Ph 2,7-8). Le Christ a voulu prendre part au sang et à la chair pour partager la condition des hommes (cf. He 2, 14) […]. Le terme d’inculturation par contre suppose une relation entre une religion (le christianisme, l’Évangile, la vie chrétienne…) et une culture déterminée. Avant sa naissance, le Christ n’appartenait, en un certain sens, à aucune culture, tandis que le christianisme, l’Évangile, la vie chrétienne, avant même de se propager, intègrent nécessairement les éléments d’une culture. Par rapport à “inculturation”, “incarnation” signifie prendre une nouvelle chair dans l’autre culture, avec tout ce que ceci implique de croissance».
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poiché «la chiesa è sempre già chiesa inculturata, mentre il Logos divino possiede, secondo la dottrina ecclesiastica, un’essenza che preesiste alla storia e alla cultura»39. In altre parole, non si può dare vera analogia tra incarnazione e inculturazione, perché il Logos si è “incarnato” una sola volta, instaurando una relazione unica e irripetibile con l’umanità, mentre il cristianesimo — come richiamato — richiede tanti processi di inveramento quante sono le culture dei popoli cui intende rivolgersi40. Emergono, pertanto, talune riserve sull’uso del termine, in base alle quali si preferisce alla categoria di inculturazione quella di interculturalità41. Quest’ultima indicherebbe meglio la relazione tra culture, consapevoli del fatto che non si tratta semplicemente di riconoscere la molteplicità di monoculture (cosa che alla fine potrebbe condurre all’incomunicabilità se non alla conflittualità tra di esse42), ma di cogliere ciascuna come un’identità risultante «da processi di scambi, di intrecci, di confronti e di contaminazioni tra culture diverse»43. A tal proposito J. Ratzinger ha affermato: «non dovremmo più parlare propriamente di inculturazione ma di incontro delle culture o [...] di interculturalità. Infatti inculturazione presuppone che una fede, per così dire, culturalmente spoglia si trasponga in una cultura religiosamente indifferente. [...] Ora, questa rappresentazione è artificiosa e irreale, perché [...] non si riesce a vedere come due
39
J.B. METZ, Memoria passionis. Un ricordo provocatorio nella società pluralista, Brescia 2009, 221. 40 Cfr. G. COLLET, Fino agli estremi confini della terra. Questioni fondamentali di teologia della missione, Brescia 2004, 212. 41 Cfr. E. RIPARELLI, Dalla inculturazione alla interculturalità, cit., 608-613. Inoltre, cfr. V. CESAREO (ed.), Per un dialogo interculturale, Milano 2001; G. COCCOLINI (ed.), Interculturalità come sfida. Filosofi e teologi a confronto, Bologna 2008; G. CACCIATORE – G. D’ANNA, Interculturalità, Roma 2010, M. GHILARDI, Filosofia dell’interculturalità, Brescia 2012. 42 Cfr. S. P. HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano 2000 (originale del 1996). 43 G. PASQUALOTTO, Prefazione a M. GHILARDI, Filosofia dell’interculturalità, cit., 6.
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organismi in sé totalmente estranei l’uno all’altro, possano tutto d’un tratto diventare una totalità vitale»44.
Rimane pertanto il dubbio che l’inculturazione non vada al di là di un mero accostamento tra realtà costitutivamente diverse, senza alcuna interazione effettivamente bilaterale. L’interculturalità, invece, offrirebbe un’occasione in più in ordine ad un reale dialogo tra alterità originarie, proprio alla luce di quell’apertura auspicata dalla Gaudium et spes, per cui si può apprendere e guadagnare qualcosa di arricchente anche dall’altro (cfr. GS 58)45. Il dialogo, infatti, prescrive per sé una bi-direzionalità: nella fattispecie, dalla Chiesa al mondo e dal mondo alla Chiesa. Il dialogo è tale non solo se all’altro ci si rivolge e si parla, ma anche se si ascolta e si crede nell’opportunità di cogliere una verità dal diverso punto di vista o dal diverso pensiero tipico dell’interlocutore, sia quest’altro una persona individualmente presa sia piuttosto rappresentativo di un più ampio sistema culturale. La tanto attesa «nuova evangelizzazione» non può dunque non tenere conto di questa bilateralità, a rischio di veicolare o imporre dottrine e sistemi irriducibili alle tradizioni, ai costumi e alla morale che si vorrebbero vedere subito convertiti. Tanto più nel mare magnum di un contesto, quale quello postmoderno, che se da una parte registra l’emergere di un mondo globale, paradossalmente registra anche l’emergere delle singolarità e/o delle minoranze di gruppi, di etnie, di sistemi di pensiero che: 1) non intendono uniformarsi ad un modello superiore o imperante; 2) proprio
44 J. RATZINGER, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Siena 2003, 66; sul dialogo interculturale, come dimensione necessaria del confronto sulle questioni essenziali dell’essere umano, cfr. J. HABERMAS – J. RATZINGER, Ragione e fede in dialogo, Venezia 2005, 76. 45 Sostiene M. Dhavamony: «se è vero che Cristo trasforma le altre culture, è altrettanto vero che anche le altre culture e religioni mettono in evidenza caratteristiche utili per la comprensione del mistero di Cristo» (M. DHAVAMONY, Inculturazione. Riflessioni sistematiche di antropologia sociale e di teologia cristiana, Cinisello Balsamo (Mi) 2000, 103).
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nella dilagante cultura planetaria, intendono essere riconosciute e localizzate in situ nella loro individualità e specificità. Viviamo nel tempo della glocalizzazione (R. Robertson, Z. Bauman), per cui anche le minoranze esigono che la loro voce sia accolta ed ascoltata in capitolo, come chance di riscatto dal loro stato di minorità ed essere così accolte alla stregua delle altre realtà o istanze più diffuse, per il semplice fatto di esserci. A volte, tale rivendicazione assume non solo connotati di tipo morale e/o culturale, ma anche pretese di tipo giuridico perché, sotto ogni profilo, vengano tutelate le identità che specificamente le differenziano dagli altri. Ora, la missione della Chiesa e, all’interno di essa, il dialogo possono procedere in questo mondo non semplicemente appurando l’esistenza del multiculturalismo46, ma impegnandosi in un più convinto processo interculturale: se il primo attesta l’accostamento di mondi culturali paralleli47, la sfida dell’interculturalità intende mettere in relazione questi mondi. Occorre pertanto rimodulare un metodo comunicativo che sia in grado anzitutto di leggere i nuovi segni dei tempi. La difficoltà del dialogo, in un mondo in continuo cambiamento, deve tener conto — per ragioni evidenti che sono sotto gli occhi di tutti — che il cristianesimo stesso è diventato una minoranza e che, pertanto, anche i cristiani non possono (più) ritenersi, né invero sono ritenuti, gli unici o i primi, ma sono da annoverare semplicemente come altri per gli altri48. La Chiesa cioè, in un’epoca ormai postcristiana, non è più nelle condizioni di vantare una maggioranza (come evidente nel passato storico di una societas perfecta), supponendo velleitariamente di poter ingiungere un sistema morale valido
46
Per una consultazione agevole dei documenti magisteriali sull’argomento cfr. P. AROLDI – P. BRANCA – A. COLOMBO – M. SANTERINI (edd.), Il magistero della Chiesa sulla multiculturalità, Milano 2001. 47 Come osserva il sociologo e filosofo P. Donati: «il limite intrinseco del multiculturalismo, sotto ogni punto di vista (epistemologico, morale e politico), è la mancanza di relazionalità fra le culture che esso istituzionalizza» (P. DONATI, Oltre il multiculturalismo. La ragione relazionale per un mondo comune, Roma-Bari 2008, 30). 48 Cfr. A. N. TERRIN, Le religioni sono «altre» dalla nostra religione come noi siamo altri dagli altri, in Studia Patavina 58 (2011), 149-171.
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per tutti. Essa deve correre ripetutamente il rischio di potersi sentire dire «ti ascolteremo su questo un’altra volta» (At 17,32), senza la presunzione di mostrare risentimento, rivendicare privilegi o comminare scomuniche. Tutto ciò per conservare intatta, contro ogni apparenza di disfatta, la possibilità di rimanere nello spazio pubblico agonale-dialettico del dialogo con l’altro da sé. Tale dialogo presuppone, del resto, alcune condizioni (centrate su un’umile capacità di autocritica) e alcuni passaggi, primo fra tutti il passaggio dai segni del potere al potere dei segni. Se i segni del potere, infatti, legittimano una presenza forte e radicata nel mondo, impositiva e autoritaria, il potere dei segni rimanda, invece, al soggiorno dei cristiani in questo mondo nella qualità di stranieri, come forestieri49. Il tempo della Chiesa, ovvero la storicità della Chiesa e la modalità concreta con cui essa si svolge, viene d’altronde definito da 1Pt 1,17 come il tempo del pellegrinaggio o dell’estraneità50. Così, il passaggio al potere dei segni, oltre che rendere più accorti sulla capacità di leggere i segni del Regno in questa storia, potrebbe sollecitare il ritorno ad un cristianesimo più umile e proponibile, dunque effettivamente accolto esso stesso come partner dialogico interessante e degno di attenzione51. Del resto proprio perché la Chiesa, nella sua missione, non è legata ad alcuna particolare forma di cultura (cfr. GS 42), essa può essere aperta al dialogo-incontro con ogni cultura se, di volta in volta, riesce a mediare la narrazione dell’evento fondante attraverso i diversi registri comunicativi e linguistici, improntati allo stile della kenosi evangelica. Come afferma J.B. Metz: «la chiesa dalla sua origine, costituisce una comunità di memoria e narrazione radunata intorno all’eucaristia nell’unanime sequela di Gesù. 49 È quanto mai opportuno citare la A Diogneto 5,9 dove si legge espressamente che i cristiani hanno per dimora la terra, ma la abitano da cittadini del cielo (nuova traduzione a cura di R. GISANA – A. SICHERA, Milano 2008). 50 Cfr. G. AGAMBEN, La Chiesa e il Regno, Roma 2010, 6. 51 Cfr. E. SALMANN, Il neopaganesimo agnostico e le ragioni di una fede rinnovata, in ID., Passi e passaggi nel cristianesimo, cit., 89-103: 96-101. Sull’estraneità del cristianesimo come occasione per riscoprire la carica profetica del vangelo cfr. A. MATTEO, Come forestieri, Soveria Mannelli (Cz) 2008, 62 ss.
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Proprio come tale essa sembra in larga misura essere interculturalmente comunicativa [...] Una premessa che, secondo me, si lascia convalidare empiricamente suona infatti: le narrazioni negli scambi produttivi tra culture diverse sono più comunicative del linguaggio argomentativo asoggettuale proprio della metafisica classica, e sono più comunicative rispetto al linguaggio scientifico della razionalità occidentale, entrambi considerati specificamente eurocentrici»52.
Ora, al di là delle riserve che si possono contestare al sistema eurocentrico, comunque insopprimibile nella sua propria identità, è evidente che l’argomento “dialogo” necessita di continue verifiche sul campo; sia perché richiede la precisazione dell’obiettivo che si vuole raggiungere di volta in volta, sia perché deve permanente differenziarsi dalle mistificazioni del dialogo, ossia distinguersi da ciò che sotto le mentite spoglie di un incontro, al dialogo in fondo non conduce. Una cosa è parlare di tolleranza o di rispetto, altra cosa di melting pot, altro di salad bowl 53. È quanto accade nei sobborghi delle metropoli occidentali, nelle periferie newyorkesi o londinesi o nelle banlieues parigine, dove si tenta una convivenza tra culture ed etnie diverse all’insegna di mescolanze, di fusioni, di meticciati, insomma di ibridi il cui risvolto, tuttavia, è il lampante smarrimento 52
J.B. METZ, Memoria passionis, cit., 223. Cfr. inoltre R. PANIKKAR, Pluralismo e interculturalità. 6/1. Culture e religioni in dialogo, Milano 2009. 53 Si tratta di immagini concettuali che i sociologi hanno inventato per significare il rapporto di convivenza tra diverse culture negli stessi spazi vitali; nella fattispecie, mentre il melting pot indicherebbe una fusione tra diverse culture, così come avviene in un variopinto minestrone, il salad bowl richiamerebbe la grande insalata americana, dove ogni ingrediente non si confonde con gli altri e conserva il suo sapore specifico. Accanto a queste esperienze di convivenza, più o meno riuscite, i sociologi notano tuttavia il lato oscuro del salad bowl, ossia di quanti, ostili agli effetti della mescolanza, mantengono una sorta di separazione ghettizzata che si risolve, spesso, in fenomeni di emarginazione o addirittura di violenza; cfr. U. MELOTTI, voce Melting pot, in G. BOLAFFI – S. GINDRO – T. TENTORI (edd.), Dizionario delle diversità. Le parole dell’immigrazione, del razzismo e della xenofobia, Firenze 1998, 180-181. Né si può sottacere la negazione di qualsiasi dialogo tra culture diverse e distanti, soprattutto a partire dall’attentato alle Twin Towers di New York dell’11 settembre, marchiato come sigillo di un vero e proprio conflitto tra civiltà.
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dell’identità originaria54. Altro, ancora, è parlare di integrazione, di convivialità delle differenze, che sociologi e fenomenologi non cessano di osservare e descrivere come passi in avanti del «tortuoso cammino verso l’umanità condivisa»55. E che dire di altre forme di dialogo inclini, piuttosto, al sincretismo o all’eclettismo? Parole arcaiche tanto scongiurate quanto temute, soprattutto nel complesso ambito del dialogo interreligioso, per il rischio reale delle contaminazioni indiscriminate e caotiche che esse celano56. Come si nota, il fenomeno è complesso e richiede la fatica della riflessione e della ricerca che la recente “teologia interculturale”, intende assumere, sulla convinzione che la costitutiva natura del cristianesimo non può non riflettere quel dinamismo grazioso e gratuito con cui Dio stesso si è offerto all’uomo, ad ogni uomo, culturalmente già collocato nel suo contesto vitale57. 54 Come sottolinea acutamente P. Gomarasca non bisogna trasformare l’incontro tra culture in posizioni ideologiche estreme; non bisogna cioè ritenere che il differenzialismo tra culture impedisca il transito verso l’altro (con l’effetto di costituire identità senza flussi, cioè identità chiuse), né auspicare un ibridismo indiscriminato (che condurrebbe a flussi tra culture senza identità); cfr. P. GOMARASCA, Meticciato: convivenza o confusione?, Venezia 2009. 55 Z. BAUMAN, Il disagio della postmodernità, Milano 2002, 37. Sociologi ed antropologi adducono come esempio positivo di questa pacifica convivenza, quale inizio di una progressiva integrazione, ciò che accade a Mazara del Vallo, tra siciliani e tunisini, da quarant’anni a questa parte; cfr. E. PACE, Mazara del Vallo: the most Arab city in Italy, in D. TURTON – J. GONZALEZ (edd.), Ethnic Diversity in Europe: Challenges to the Nation State, Bilbao 2000, 111-118; K. HANNACHI, Gli immigrati tunisini a Mazara del Vallo, Gibellina 1998. 56 Sotto questo profilo il dialogo interculturale rimane la base di ogni possibile dialogo interreligioso; come scrive la COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Il cristianesimo e le religioni, Città del Vaticano 1997, 26: «Si costata che la religione è il cuore di ogni cultura, come istanza di senso ultimo e forza strutturante fondamentale. In tal modo l’inculturazione della fede non può prescindere dall’incontro con le religioni, che dovrebbe realizzarsi soprattutto attraverso il dialogo interreligioso». Cfr. anche ID., Fede e inculturazione, in Civiltà Cattolica 140 (1989), 158-177. 57 Sullo statuto controverso di una possibile teologia interculturale (se ritenerla una disciplina autonoma o considerarla solo come un metodo o intenderla in sostituzione della missiologia o, ancora, pensarla come un ramo dello studio comparato delle religioni), cfr. E. RIPARELLI, Dalla inculturazione alla interculturalità. II. Per una teologia interculturale, in Studia Patavina 58 (2011), 115-148: 128-136.
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Tuttavia, prima ancora di poter formulare una pertinente teoria sul dialogo interculturale, come scambio effettivo di contenuti e non di mere informazioni (tenuto conto dell’effettiva ed anti-ideologica irriducibilità e incomponibilità delle identitarie differenze specifiche di ciascuna cultura), il cristianesimo sa di poter investire sulla qualità della relazione con l’altro da sé, sullo stile della qualità inter-relazionale che il Maestro ha intessuto con il suo prossimo, chiunque fosse, pure straniero e di altra religione58. La Chiesa, in tal senso, godrebbe della grande opportunità di realizzare la sua cattolicità attraverso un pieno coinvolgimento nel dialogo interculturale, compiacendosi di elevare il valore della qualità relazionale a criterio ermeneutico decisivo e determinante rispetto a quello quantitativo del proselitismo fine a se stesso.
58 Esemplari gli incontri e i dialoghi di Gesù con il centurione (Mt 8, 5-13; Lc 7, 110) o funzionario del re (Gv 4, 46-54), con la Samaritana al pozzo di Giacobbe (Gv 4, 5ss.), con la donna cananea (Mt 15, 21-28; Mc 7, 24-30), attraverso cui le diversità culturali, etniche e religiose non rimangono un ostacolo, ma risultano occasione propizia di una circolarità relazionale foriera di novità imprevedibili, liberanti e feconde.
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L’AMORE CONIUGALE: DALLA GAUDIUM ET SPES ALLA FAMILIARIS CONSORTIO
SALVATORE CONSOLI*
PREMESSE 1. I Padri conciliari, nella seconda parte della Gaudium et Spes, nel considerare i problemi piuttosto complessi e impegnativi che vivono gli uomini contemporanei, pongono la loro attenzione in modo particolare sul tema del matrimonio e della famiglia, argomento che desta l’interesse di tutti, e dichiarano di farlo «alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana»1. 2. Ma lo stesso documento, a conclusione dei lavori, ha coscienza che bisogna continuare ad approfondire i temi affrontati e ciò perché «…si tratta di realtà soggette a continua evoluzione, l’insegnamento presentato qui dovrà essere continuato ed ampliato»2, cosa che accade già con la Familiaris Consortio a meno di venti anni dal Concilio. 3. Dell’amore coniugale il Concilio presenta tre aspetti profondamente integrati tra di loro: l’aspetto sessuale, quello fecondo e quello sacramentale.
* Docente emerito di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 GS, n. 46. 2 GS, n. 91.
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1. AMORE SESSUALE 1.1. Qualche premessa 1. Non si può negare che per molto tempo e fino a non molto tempo fa i moralisti consideravano la sessualità come fonte di turbamento e come minaccia alla moralità e la carne come il luogo dell’incarnazione del male: «bisogna riconoscere in realtà che la tradizione teologica cristiana ha considerato per lo più il corpo come la sorgente del peccato e il nemico da domare. E poiché l’espressione essenziale della sessualità è corporea, essa fu inglobata in tale riserva, in questo disprezzo e in questo rifiuto. Un panorama del pensiero patristico è quanto mai sintomatico al riguardo»3. Radice di tale atteggiamento è la concezione dicotomica dell’uomo: lungo la storia sono apparse sempre delle correnti eretiche che stabilivano un dualismo radicale tra carne e spirito, identificando la prima con il male e il secondo con il bene. La sessualità, a motivo del suo prevalente aspetto carnale, veniva considerata come l’espressione per eccellenza del male. E non si può negare che la teologia, mentre dal punto di vista dogmatico ha difeso l’unità sostanziale dell’uomo anima-corpo, dal punto di vista morale ha subito l’influenza di tale dualismo, quasi come ferite ricevute in battaglia. 2. L’erotismo assolutizza il godimento sessuale e sostiene che la soddisfazione è buona qualunque sia il modo di ottenerla: la sessualità, essendo una forza irresistibile e un bisogno vitale, ammette come unica legge quella della soddisfazione.4 Esso continua a far fortuna, e, a motivo dei mass media, è diventato un prodotto di consumo: essendo riuscito ad essere dappertutto, bisogna ormai considerarlo più come un clima “culturale” vincente che come espressione di un determinato atteggiamento dell’uomo5. 3
R. GRIMM, Amore e sessualità, Torino 19688, 48. Cfr. P.-E. CHARBONNEAU, Amore e libertà, Assisi 1970, 123-167. 5 Cfr V. MORIN- J. MAJAULT, Un mito moderno: l’erotismo, Roma 1969. 4
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L’amore coniugale: dalla Gaudium et Spes alla Familiaris Consortio
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1.2. La Gaudium et Spes 1. Nell’aula conciliare emergono due atteggiamenti antitetici che si possono vedere attraverso gli interventi dei rispettivi principali esponenti il 30 ottobre 1964. Da un lato troviamo i cardinali E. Ruffini, A. Ottavini e M. Browne che, mantenendosi sulla linea tradizionale, ribadiscono la dottrina dei fini del matrimonio. Ad esempio quest’ultimo dice: «l’amore coniugale, che deve intercorrere tra i coniugi è innanzitutto quello di amicizia (agape); l’altro (eros) non è proibito, ma bisogna badare bene che, se non si sta attenti, esso non vada contro il primo e non riduca all’egoismo»6. Dall’altro si trovano i cardinali P. Lèger, L.-J. Suenens, Maximos IV e il vescovo J.-M. Reuss che, muovendosi sulla linea personalista, vedono l’amore sessuale come un fine del matrimonio. Ad esempio Lèger dice: «bisogna proporre l’amore coniugale (corpo e anima) come un vero fine del matrimonio… Bisogna affermare che l’unione intima degli sposi trova il suo fine legittimo in se stessa, anche quando non è ordinata alla procreazione»7 e lamenta che lo schema trascura di presentare come fine del matrimonio le manifestazioni proprie di questo amore e ribadisce che ogni singolo atto è per l’amore e non per la fecondità. Reuss in modo esplicito afferma che «la sessualità umana non deve essere considerata soltanto sul piano biologico»8. Nella seduta del 30 settembre 1965 emergono gli stessi atteggiamenti. Si distingue la sottolineatura di Lèger che «il matrimonio è una comunità di vita e d’amore»9. 2. La dottrina conciliare supera, innanzitutto, la tradizionale gerarchia dei fini, affermando chiaramente che il matrimonio è dotato di molteplici fini ugualmente importanti per la specie umana e per il progresso personale dei membri della famiglia: 6
G. CAPRILE, Il Concilio Vaticano II, IV, Roma 1965, 306. Ibid., 300. 8 Ibid., 307. 9 G. CAPRILE, Il Concilio…, cit., V, 127. 7
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«l’intima comunità di vita e d’amore coniugale… dotata di molteplici valori e fini: tutti quanti di somma importanza per la continuità del genere umano, il progresso personale e la sorte eterna di ciascuno dei membri della famiglia, per la dignità, la stabilità, la pace e la prosperità della stessa famiglia e di tutta la società umana»10.
3. Il documento precisa ulteriormente che l’amore tra i coniugi è un vero fine ed ha un valore in sé: «il matrimonio tuttavia non è stato istituito soltanto per la procreazione; il carattere stesso di alleanza indissolubile tra persone e il bene dei figli esigono che anche il mutuo amore dei coniugi abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità. E perciò anche se la prole, molto spesso tanto vivamente desiderata, non c’è, il matrimonio perdura come comunità e comunione di tutta la vita e conserva il suo valore e la sua indissolubilità»11.
L’amore coniugale, costituendo un fine, richiede di essere sviluppato e portato a maturità attraverso le necessarie manifestazioni. Tale amore, pertanto, dà senso pieno alla comunità coniugale anche quando mancassero i figli, cosa che non si riusciva a motivare pienamente nella visione tradizionale del matrimonio finalizzato alla procreazione. 4. L’amore coniugale viene definito in termini personalistici, riferito a tutta la vita dei partner e alla loro intersoggettività: «proprio perché atto eminentemente umano, essendo diretto da persona a persona con un sentimento che nasce dalla volontà, quell’amore abbraccia il bene di tutta la persona; perciò ha la possibilità di arricchire di particolare dignità le espressioni del corpo e della vita psichica e di nobilitarle come elementi e segni speciali dell’amicizia coniugale»12.
10
N. 48. N. 50. 12 N. 49. 11
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L’amore coniugale: dalla Gaudium et Spes alla Familiaris Consortio
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In questo testo appare chiara la naturale e necessaria integrazione tra razionalità, affettività e corporeità. Il tutto viene esplicitato e rafforzato con la seguente chiara sottolineatura sull’integrazione tra amore e atto coniugale: «questo amore è espresso e sviluppato in maniera tutta particolare dall’esercizio degli atti che sono propri del matrimonio. Ne consegue che gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità sono onesti e degni; compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevolmente nella gioia e nella gratitudine gli sposi stessi»13.
Gli atti sessuali sono, pertanto, per gli sposi un modo privilegiato per esprimersi l’amore e la mutua donazione e, se autentici, ne favoriscono la crescita. Il testo conciliare, convinto del valore dell’atto coniugale per la vita coniugale e familiare, afferma conseguentemente che: «là dove, infatti, è interrotta l’intimità della vita coniugale, non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli…»14.
5. La Gaudium et Spes ha consacrato la visione personalista dell’amore coniugale; insegna che le espressioni affettive e corporali fanno parte dell’amore coniugale; essendone segno, lo esprimono, lo rafforzano e lo promuovono: «l’approfondimento della natura dell’amore coniugale ha portato al superamento del dualismo, giungendo così al riconoscimento dell’amore umano che è insieme spirituale e corporeo»15. Il personalismo ha messo in sufficiente rilievo che la corporeità è un elemento dell’amore coniugale, pertanto «l’atto coniugale riceve un significato specifico nell’alleanza d’amore: l’unione dei corpi, in
13
L .c. N. 51. 15 L. LORENZETTI, Concilio e Humanae Vitae, Bologna 1969, 56. 14
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virtù del suo significato intrinseco, esprime e promuove l’amore coniugale»16. La teologia, nel presentare la visione personalista della sessualità, evidenzia la mediazione del corpo, dato che l’uomo, secondo l’insegnamento della stessa costituzione pastorale, è tutt’intero «unità di anima e di corpo»17. Nello studio delle relazioni interpersonali è chiaramente emerso che la comunicazione fra persone avviene attraverso il corpo e adopera tanto il gesto, il simbolo, quanto la parola e «l’unione sessuale è uno di questi gesti, anzi un gesto privilegiato, che supera di molto la soddisfazione di alcuni istinti e il funzionamento di alcune ghiandole, per diventare conoscenza (ancora un termine biblico), amicizia, dono reciproco, comunicazione degli esseri»18. Si può concludere affermando che, alla luce della visione personalista della Gaudium et Spes, «l’atto coniugale non è… soltanto per la procreazione o per il piacere, ma è da considerarsi come espressione e incarnazione tipica dell’amore coniugale. Resta così superato decisamente il pessimismo circa l’atto coniugale e il piacere inerente ad esso, così pure la concezione egoistica ed edonistica della sessualità»19. 1.3. La Humanae Vitae Paolo VI nell’encilclica Humanae Vitae, fedele all’insegnamento della Gaudium et Spes, riconosce ed afferma chiaramente la componente sessuale dell’amore coniugale. Parlando delle caratteristiche e delle esigenze dell’amore coniugale, dice che «è prima di tutto amore pienamente umano, vale a dire sensibile e spirituale»20. 16 L. JANSSENS, Le grandi tappe della morale cristiana del matrimonio, in Alle sorgenti della morale cristiana, Assisi 1968, 119. 17 GS, n. 14. 18 PH. DELHAYE, La comunità coniugale e familiare nel Vaticano II, in Alle sorgenti della morale cristiana, cit., 123. 19 L. LORENZETTI, Concilio e Humanae Vitae, cit., 66. 20 N. 9.
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L’enciclica descrive l’amore coniugale in termini personalistici e, data la natura umana, ne evidenzia sia l’aspetto sensibile, cioè sessuale, sia l’aspetto esistenziale. E, sulla linea della Gaudium et Spes, evidenzia nell’atto coniugale l’inseparabilità dell’aspetto unitivo da quello procreativo, sottolineando inoltre che l’uomo non può rompere di sua iniziativa la connessione inscindibile tra i due significati dell’atto coniugale, il significato unitivo e il significato procreativo, e ciò perché: «… per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna. Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l’atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore ed il suo ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo alla paternità»21.
1.4. La Familiaris Consortio La Familiaris Consortio parlando dell’amore come fondamentale e nativa vocazione di ogni uomo, a motivo del suo essere ad immagine di Dio che è amore, afferma: «in quanto spirito incarnato, cioè anima che si esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito immortale, l’uomo è chiamato all’amore in questa sua totalità unificata. L’amore abbraccia anche il corpo umano e il corpo è reso partecipe dell’amore spirituale…Di conseguenza la sessualità, mediante la quale l’uomo e la donna si donano l’uno all’altra con gli atti propri ed esclusivi degli sposi, non è affatto qualcosa di puramente biologico, ma riguarda l’intimo nucleo della persona umana come tale. Essa si realizza in modo veramente umano, solo se è parte integrale dell’amore con cui l’uomo e la donna si impegnano totalmente l’uno verso l’altra fino alla morte. La donazione fisica totale sarebbe menzogna se non fosse segno e frutto della donazione personale totale, nella quale tutta la persona, anche nella sua dimensione temporale, è presente: se la
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persona si riservasse qualcosa o la possibilità di decidere altrimenti per il futuro, già per questo essa non si donerebbe totalmente»22.
La sessualità è presentata in intima relazione con l’amore, e le espressioni corporee, proprie della sessualità, fanno parte della verità del suo essere: l’amore anche nella sua espressione fisica è un principio e una forza necessaria per mantenere e sviluppare la comunione coniugale. La comunione coniugale, che affonda le sue radici nella naturale complementarietà che esiste tra l’uomo e la donna, deve crescere ogni giorno a tutti i livelli, compreso quello corporeo: «si alimenta mediante la volontà personale degli sposi di condividere l’intero progetto di vita, ciò che hanno e ciò che sono: perciò tale comunione è il frutto e il segno di una esigenza profondamente umana […] Il dono dello Spirito è comandamento di vita per gli sposi cristiani, ed insieme stimolante impulso affinché ogni giorno progrediscano verso una sempre più ricca unione tra loro a tutti i livelli — dei corpi, dei caratteri, dei cuori, delle intelligenze, delle volontà, delle anime…»23.
L’Esortazione post-sinodale, in contrasto con la cultura di oggi che, sradicandola dal suo essenziale riferimento alla persona, deforma la sessualità umana, insiste nel presentarla «come valore e compito di tutta la persona creata, maschio e femmina, ad immagine di Dio»24. Pertanto, collocandola nella visione integrale dell’uomo e della sua vocazione, ne fa emergere tutti gli aspetti e tutte le dimensioni e ne evidenzia soprattutto l’aspetto personale: «in questo contesto la coppia fa l’esperienza che la comunione coniugale viene arricchita di quei valori di tenerezza e di affettività, i quali costituiscono l’anima profonda della sessualità umana, anche nella sua dimensione fisica. In tal modo la sessualità viene rispettata e promossa nella sua dimensione veramente e pienamente umana, non mai invece “usata”
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N. 11. N. 19. 24 N. 32. 23
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come un “oggetto” che, dissolvendo l’unità personale di anima e corpo, colpisce la stessa creazione di Dio nell’intreccio più intimo tra natura e persona»25.
Il documento, conseguentemente, parla anche della necessaria educazione all’autocontrollo nelle manifestazioni sessuali della vita coniugale a salvaguardia dall’egoismo, vero nemico del vero amore; e in tale contesto recupera il senso e il valore della castità coniugale: «la castità non significa affatto né rifiuto né disistima della sessualità umana: significa piuttosto energia spirituale, che sa difendere l’amore dai pericoli dell’egoismo e dell’aggressività e sa promuoverlo verso la sua piena realizzazione»26.
2. AMORE FECONDO La Gaudium et Spes e la Familiaris Consortio presentano la fecondità dell’amore coniugale in modo ampio, oltre che nell’aspetto biologico anche in quello morale e sociale. 2.1. La fecondità fisica 1. La Gaudium et Spes chiaramente insegna che: «per la sua stessa natura l’istituto del matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento»27.
E continua precisando il pensiero: «il matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati per loro natura alla 25
L. c. N. 33. 27 GS, n. 48. 26
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procreazione ed educazione della prole. I figli infatti sono il dono più eccellente del matrimonio e contribuiscono grandemente al bene dei genitori stessi…I coniugi sappiano di essere cooperatori dell’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla; ciò deve essere considerato come missione loro propria. E perciò adempiranno il loro dovere con umana e cristiana responsabilità e, con docile riverenza verso Dio, di comune accordo e con sforzo comune, si formeranno un retto giudizio…Tale legge divina manifesta il significato pieno dell’amore coniugale, lo protegge e lo conduce verso la sua perfezione veramente umana. Così quando gli sposi cristiani, fidando nella divina Provvidenza e coltivando lo spirito di sacrificio, svolgono il loro ruolo procreatore e si assumono generosamente le loro responsabilità umane e cristiane, glorificano il Creatore e tendono alla perfezione cristiana»28.
Innanzitutto bisogna annotare che il testo recupera la visione della “pro-creazione” con la sottolineatura del fatto che i coniugi sono collaboratori di Dio creatore e che essere trasmettitori della vita è una missione loro propria. Tale sottolineatura è quanto mai opportuna per un’epoca nella quale «l’uomo e la donna del nostro tempo non si sentono più collaboratori di Dio, per cui il loro generare è pensato solo all’interno delle aspirazioni personali, svincolate da una fecondità più alta. Ciò comporta la riduzione della “pro-creazione” a “riproduzione”: da un atto di responsabile collaborazione con Dio, essa decade ad atto finalizzato alla continuazione della specie o al prolungamento di sé. I genitori, anziché contribuire a formare (nel senso complessivo di generare ed educare) creature a immagine e somiglianza di Dio, “producono” esseri (intesi più come cose di cui disporre che come persone) fatti a loro immagine e somiglianza o per loro uso e consumo»29. 2. La Familiaris Consortio afferma chiaramente il senso e il valore
28 29
GS, n. 50.
F. COSTA – C. GIULIODORI, Essere genitori nella pastorale, in AA. VV., Maschiofemmina. Nuovi padri e nuove madri, Cinisello Balsamo 1992, 177.
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teologico della trasmissione della vita dato che Dio si serve dell’uomo e della donna creati a sua immagine e somiglianza, e in quanto tali: «… Egli li chiama ad una speciale partecipazione del suo amore ed insieme del suo potere di Creatore e di Padre, mediante la loro libera e responsabile cooperazione a trasmettere il dono della vita umana […] La fecondità è il frutto e il segno dell’amore coniugale, la testimonianza viva della piena donazione reciproca degli sposi»30.
L’Esortazione apostolica approfondisce l’insegnamento conciliare affermando che la trasmissione della vita è un servizio alla vita che i coniugi sono chiamati a prestare a motivo della loro partecipazione all’amore e al potere di Dio Creatore e Padre. E ribadisce che la procreazione è frutto e segno dell’amore coniugale. Nella visione della Gaudium et Spes e della Familiaris Consortio è il mutuo dono totale di se stessi fino a diventare «una carne sola» che rende gli sposi capaci di donare la vita ad una persona umana : gli sposi si impegnano a diventare padre e madre soltanto l’uno attraverso l’altro31. La Familiaris Consortio, grazie all’approfondimento fatto da Humanae Vitae, sottolinea la connessione inscindibile tra il significato unitivo e quello procreativo dell’atto coniugale: esso mentre li unisce con e in profondo amore, rende gli sposi atti alla generazione di una nuova vita. Il senso e la dignità della procreazione sta nel fatto che è il frutto dell’atto coniugale e il termine dell’amore sponsale32. L’accoglienza degna della persona umana è nel gesto di unione e di amore dei genitori: l’atto coniugale, espressione della donazione reciproca dei genitori, è l’unico «luogo» degno della procreazione in quanto cooperazione umana all’opera dell’Amore del Creatore. L’uomo, immagine di Dio-Amore, non può che essere “frutto” 30 31
FC, n. 28.
Ne consegue che il ricorso ai gameti (sperma e/o ovulo) di una terza persona, come avviene nella fecondazione artificiale eterologa, costituisce una violazione di questo impegno e un attentato all’unità del matrimonio. 32 Pertanto la fecondazione artificiale omologa, separando i due significati dell’atto coniugale, persegue una procreazione che non è frutto dell’atto coniugale.
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dell’amore: non può, quindi, essere voluto né concepito come il prodotto di un intervento tecnico; sarebbe ridurlo ad oggetto della tecnologia33. 2.2. La fecondità morale attraverso l’educazione 1. La fecondità dell’amore coniugale non si riduce alla sola procreazione dei figli, ma deve estendersi alla loro educazione e formazione morale, sociale e spirituale. Il Concilio, innanzitutto, insegna che «la famiglia è una scuola di umanità più completa e più ricca»34. La persona ha la vocazione alla crescita e allo sviluppo: la paternità e la maternità consistono nell’aiutarla a raggiungere e a vivere una vita pienamente umana. La genitorialità non si limita a dare l’esistenza, ma attraverso l’educazione favorisce un cammino educativo che comunica ai figli la loro maturità umana. La Gaudium et Spes è profondamente convinta che «il bene della persona e della società umana e cristiana è strettamente connesso con una felice situazione della comunità coniugale e familiare»35, e affida ai coniugi il compito educativo sottolineando che essi sono cooperatori dell’amore di Dio Creatore nel compito «di trasmettere la vita umana e di educarla; ciò deve essere considerato come missione loro propria»36. Il Concilio, altrove, insiste nel presentare la famiglia come «prima e vitale cellula della società»37: il dono di sé che ispira l’agire da coniugi e da genitori diventa, infatti, norma e modello del dono di sé che deve attuarsi nei rapporti sociali. E vede la genitorialità quale capacità di essere «scuola di virtù sociali»38: è necessario ed urgente, 33 Il dominio della tecnica all’origine della persona umana, che certamente avrà delle conseguenze sul suo destino, è contrario alla dignità dell’uomo e all’uguaglianza che dev’essere comune a genitori e figli e agli uomini tra di loro: cfr Istruzione Donum Vitae. 34 GS, n. 52. 35 GS, n. 47. 36 GS, n. 50. 37 Apostolicam Actuositatem, n. 11. 38 Gravissimum Educationis, n. 3.
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pertanto, che la paternità e la maternità vengano comprese e vissute come ruoli che impegnano ad educare alla vita sociale trasmettendone i valori basilari. 2. La Familiaris Consortio approfondisce e amplia il discorso conciliare, affermando che la fecondità dell’amore coniugale non si restringe alla sola procreazione dei figli, sia pure intesa nella sua dimensione specificamente umana, ma «si allarga e si arricchisce di tutti quei frutti di vita morale, spirituale e soprannaturale che il padre e la madre sono chiamati a donare ai figli e, mediante i figli, alla Chiesa e al mondo»39.
Per l’antropologia cristiana, infatti, la dimensione relazionale è costitutiva dell’uomo creato ad “immagine”del Dio-Trinità; ne segue, pertanto, che l’educazione implica necessariamente la dimensione sociale. L’opera educativa è destinata a formare l’uomo nella pienezza della sua dignità personale e, quindi, anche della sua nativa dimensione sociale. La Familiaris Consortio approfondisce la convinzione conciliare della famiglia prima e vitale cellula della società e, per conseguenza, insiste sul suo impegno alla partecipazione allo sviluppo della società: «“poiché il Creatore di tutte le cose ha costituito il matrimonio quale principio e fondamento dell’umana società”, la famiglia è divenuta la “prima e vitale cellula della società”. La famiglia possiede vincoli vitali e organici con la società, perché ne costituisce il fondamento e l’alimento continuo mediante il suo compito di servizio alla vita: dalla famiglia infatti nascono i cittadini e nella famiglia essi trovano la prima scuola di quelle virtù sociali, che sono l’anima della vita e dello sviluppo della società stessa. Così in forza della sua natura e vocazione, lungi dal rinchiudersi in se stessa, la famiglia si apre alle altre famiglie e alla società, assumendo il suo compito sociale»40.
39 40
FC, n. 28. FC, n. 42.
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Familiaris Consortio, sviluppando il pensiero conciliare, presenta il diritto-dovere educativo dei genitori quale partecipazione all’opera creatrice di Dio: «il compito dell’educazione affonda le radici nella primordiale vocazione dei coniugi a partecipare all’opera creatrice di Dio: generando nell’amore e per amore una nuova persona, che in sé ha la vocazione alla crescita ed allo sviluppo, i genitori si assumono perciò stesso il compito di aiutarla efficacemente a vivere una vita pienamente umana […] Tocca infatti ai genitori creare in seno alla famiglia quell’atmosfera vivificata dall’amore e dalla pietà verso Dio e verso gli uomini, che favorisce l’educazione completa dei figli in senso personale e sociale […] Il diritto-dovere educativo dei genitori si qualifica come essenziale, connesso com’è con la trasmissione della vita umana; come originale e primario, rispetto al compito educativo di altri, per l’unicità del rapporto d’amore che sussiste tra genitori e figli; come insostituibile ed inalienabile, e che pertanto non può essere totalmente delegato ad altri, né da altri usurpato. La famiglia è la prima e fondamentale scuola di socialità: in quanto comunità di amore, essa trova nel dono di sé la legge che la guida e la fa crescere. Il dono di sé, che ispira l’amore dei coniugi tra di loro, si pone come modello e norma del dono di sé quale deve attuarsi nei rapporti […] nel più ampio orizzonte della società»41.
Da notare da un lato la convinzione che senza amore non può esserci autentica vita sociale, e dall’altra che l’elemento più radicale che qualifica il compito educativo dei genitori è l’amore paterno e materno: «l’amore dei genitori da sorgente diventa anima e pertanto norma, che ispira e guida tutta l’azione educativa concreta, arricchendola di quei valori di dolcezza, costanza, bontà, servizio, disinteresse, spirito di sacrificio, che sono il più prezioso frutto dell’amore»42.
Il testo evidenzia che i coniugi debbono e possono educare ai valori essenziali della vita umana e della vita sociale con l’amore che testimoniano e che esprimono nel loro rapporto genitoriale. 41 42
FC, nn. 36-37. FC, n. 36.
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La Familiaris Consortio, forte della convinzione conciliare che nella famiglia «nascono i nuovi cittadini della società civile»43, chiarisce come educare significa comunicare alcuni valori fondamentali — quali una giusta libertà di fronte ai beni materiali, il rispetto dell’altro, il senso della giustizia, l’accoglienza cordiale, il dialogo, la disponibilità disinteressata, il servizio generoso, la solidarietà profonda — che soli possono concorrere a far crescere uomini veri, giusti, generosi, forti e buoni, i quali costituiscono il tesoro più prezioso e la garanzia più autentica di ogni società. 2.3. La fecondità sociale 1. La Familiaris Consortio presenta l’amore come principio e forza per formare una comunità di persone, innanzitutto, all’interno della famiglia: «la famiglia fondata e vivificata dall’amore, è una comunità di persone: dell’uomo e della donna sposi, dei genitori e dei figli, dei parenti. Suo primo compito è di vivere fedelmente la realtà della comunione nell’impegno costante di sviluppare un’autentica comunità di persone. Il principio interiore, la forza permanente e la meta ultima di tale compito è l’amore: come, senza l’amore, la famiglia non è una comunità di persone, così senza l’amore, la famiglia non può vivere, crescere e perfezionarsi come comunità di persone»44.
L’amore tra l’uomo e la donna nel matrimonio e, in forma derivata ed allargata, l’amore tra i membri della stessa famiglia - tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, tra parenti e familiari - conduce la famiglia ad una comunione sempre più profonda ed intensa, fondamento e anima oltre che della comunità coniugale e familiare anche della comunità sociale e politica. 2. Familiaris Consortio assegna alla famiglia il compito di una
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Lumen Gentium, n.11. FC, n. 18.
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comunione più ampia, che va oltre quella che si radica nei legami naturali, assegnando ad essa il dovere dell’ospitalità in senso più ampio: «è da rilevare l’importanza sempre più grande che nella nostra società assume l’ospitalità, in tutte le sue forme, dall’aprire la porta della propria casa e ancor più del proprio cuore alle richieste dei fratelli, all’impegno concreto di assicurare ad ogni famiglia la sua casa, come ambiente naturale che la conserva e la fa crescere»45.
3. Come altro campo prioritario dell’impegno sociale le vengono indicati l’affido e l’adozione. I bambini abbandonati e orfani hanno sempre costituito una preoccupazione per la pastorale della Chiesa, che non si è mai limitata a dare ad essi un tozzo di pane, ma ha cercato di garantire loro una adeguata educazione e una professione perché in maniera autonoma e qualificata si potessero inserire nella società. Questa pastorale, che nel passato è stata delegata agli istituti di assistenza — generalmente gestiti da religiosi — da un certo tempo ha cominciato gradualmente a cedere il posto all’adozione e all’affido familiare, oggi ritenuti più vantaggiosi per il minore: il clima familiare ha più calore e risponde meglio al bisogno di affetto e di comprensione che il bambino avverte, soprattutto nei primi anni di vita; gli offre le figure materna e paterna, indispensabili per lo sviluppo delle potenzialità personali. Il bimbo abbandonato per diventare uomo maturo ha bisogno di vivere in un intreccio di relazioni che solo l’adozione o l’affido gli consentono. Dal Concilio in poi la fecondità dell’amore coniugale ha visto dischiudersi un orizzonte più ampio della generazione ed educazione della propria prole e i genitori cristiani vengono invitati «ad allargare il loro amore al di là dei vincoli della carne e del sangue»46 in un servizio molteplice alla vita che spesso oggi deve diventare «servizio concreto ai figli di altre famiglie»47. 45 46 47
FC, n. 44. FC, n. 41.
L. c.
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È proprio dell’amore, che di per sé è creativo, essere storico: scopre cioè le nuove necessità e i bisogni della società e si adopera a darvi una risposta. In tale contesto diventa un dovere «storico» per le famiglie cristiane coltivare «una maggiore disponibilità verso l’adozione e l’affidamento di quei figli che sono privati dei genitori o da essi abbandonati»48.Questi bambini infatti, essendo figli del Padre comune, debbono essere amati non come estranei ma come membri dell’unica famiglia di Dio. Oggi urge dilatare l’orizzonte della paternità e della maternità anzi della famiglia intera, in obbedienza alla parola evangelica «chi accoglie anche uno solo di questi bambini, accoglie me»49. 4. La solidarietà, oggi, non può non diventare «collaborazione allo sviluppo di tutto l’uomo e di ogni uomo»50: la Familiaris Consortio impegna esplicitamente la famiglia cristiana a porsi a servizio dell’uomo e del mondo per realizzare quella «promozione umana» che a partire dal Vaticano II è un dovere sempre maggiormente avvertito: «animata e sostenuta dal comandamento nuovo dell’amore, la famiglia cristiana vive l’accoglienza, il rispetto, il servizio verso ogni uomo, considerato sempre nella sua dignità di persona e di figlio di Dio […] La carità va oltre i propri fratelli di fede, perché “ogni uomo è mio fratello”; in ciascuno, soprattutto se povero, debole, sofferente e ingiustamente trattato, la carità sa scoprire il volto di Cristo e un fratello da amare e da servire[…] La famiglia cristiana, mentre nella carità edifica la Chiesa, si pone al servizio dell’uomo e del mondo, attuando veramente quella “promozione umana”, il cui contenuto è stato sintetizzato nel Messaggio del Sinodo alle famiglie: “Un altro compito della famiglia è quello di formare gli uomini all’amore e di praticare l’amore in ogni rapporto con gli altri…”» 51.
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L. c. Mt 18,5. 50 Sollicitudo Rei Socialis, n. 32. 51 FC, n. 64. 49
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3. AMORE SACRAMENTALE L’amore sacramentale, essendo partecipazione all’amore sponsale di Cristo, viene presentato in modo ampio come ministero e come via di santità. 3.1. Segno e partecipazione dell’amore sponsale di Cristo 1. La Gaudium et Spes presenta l’amore coniugale quale segno dell’amore sponsale di Cristo e partecipazione ad esso, afferma infatti che è «sgorgato dalla fonte della divina carità e strutturato sul modello della sua unione con la Chiesa […] rimane con loro [gli sposi] perché, come egli stesso ha amato la Chiesa e si è dato per essa così anche i coniugi possano amarsi l’un l’altro fedelmente, per sempre, con mutua dedizione. L’autentico amore coniugale è assunto nell’amore divino ed è sostenuto e arricchito dalla forza redentiva del Cristo e dalla azione salvifica della Chiesa»52.
L’alleanza o patto degli sposi è segno della grande alleanza di Cristo con la Chiesa che sceglie come sposa e che riscatta con il suo sangue: la coppia cristiana ha la vocazione di riprodurre e di vivere ogni giorno l’unione di Cristo con la Chiesa, ed ha conseguentemente la missione di far risplendere di fronte al mondo il mistero di amore e di fedeltà della “nuova” alleanza. Grazie al sacramento l’amore coniugale trova origine e modello in quello di Cristo ed essendone partecipazione deve esserne una imitazione. Il matrimonio cristiano è una realizzazione particolare dell’alleanza stabilita tra Cristo e gli uomini, ed è, pertanto, il “luogo” dell’esperienza dell’amore di Cristo e del Padre. La sacramentalità innesta il matrimonio nel patto di amore e di fedeltà Cristo Sposo-Chiesa sposa; ed è l’amore umano ad essere sacramentalizzato:
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GS, n. 48.
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«Il Signore si è degnato di sanare, fortificare ed elevare questo amore con uno speciale dono di grazia e di carità»53.
2. La Familiaris Consortio approfondisce la sacramentalità del matrimonio presentandola, innanzitutto, quale significativa espressione della comunione d’amore tra Dio e gli uomini: «la comunione d’amore tra Dio e gli uomini, contenuto fondamentale della Rivelazione e dell’esperienza di fede di Israele, trova una significativa espressione nell’alleanza sponsale, che si instaura tra l’uomo e la donna […] E lo stesso peccato, che può ferire il patto coniugale diventa immagine dell’infedeltà del popolo al suo Dio […] Ma l’infedeltà di Israele non distrugge la fedeltà eterna del Signore e, pertanto, l’amore sempre fedele di Dio si pone come esemplare delle relazioni di amore fedele che devono esistere tra gli sposi»54.
L’essere segno dell’amore di Dio impegna i coniugi all’amore reciproco che deve essere esistenziale, concreto e fedele. La stessa esortazione apostolica presenta, inoltre, il matrimonio quale memoriale, attualizzazione e profezia del rapporto sponsale e salvifico che vige tra Cristo e la Chiesa: «la comunione tra Dio e gli uomini trova il suo compimento definitivo in Gesù Cristo, lo Sposo che ama e si dona come Salvatore dell’umanità, unendola a Sé come suo corpo […] Questa rivelazione raggiunge la sua pienezza definitiva nel dono d’amore che il Verbo di Dio fa all’umanità assumendo la natura umana, e nel sacrificio che Gesù Cristo fa di se stesso sulla Croce per la sua Sposa, la Chiesa […] il matrimonio dei battezzati diviene così il simbolo reale della nuova ed eterna Alleanza, sancita nel sangue di Cristo. Lo Spirito, che il Signore effonde, dona un cuore nuovo e rende l’uomo e la donna capaci di amarsi, come Cristo ci ha amati […] In virtù della sacramentalità del loro matrimonio, gli sposi sono vincolati l’uno all’altra nella maniera più profondamente indissolubile. La loro reciproca appartenenza è la rappresentazione reale, per il tramite del segno sacramentale, del rapporto stesso di Cristo con la 53 54
GS, n. 49. FC, n. 12.
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Chiesa. Gli sposi sono pertanto il richiamo permanente per la Chiesa di ciò che è accaduto sulla Croce…»55.
La sacramentalità, appunto perché segno e partecipazione dell’amore sponsale di Cristo, fonda, motiva e rende possibile l’etica coniugale quale etica di amore, di donazione fino al sacrificio di sé. 3.2. Ministero ecclesiale 1. La Lumen Gentium presenta la famiglia come «chiesa domestica», innanzitutto, perché in essa «i genitori devono essere per i figli i primi maestri della fede»56. E, poi, perché in essa si svolgono i compiti che caratterizzano la missione della Chiesa: «l’esercizio e scuola per eccellenza di apostolato dei laici si ha là dove la religione cristiana permea tutta l’organizzazione della vita e ogni giorno più la trasforma. Là i coniugi hanno la propria vocazione: essere l’uno all’altro e ai figli testimoni della fede e dell’amore di Cristo. La famiglia cristiana proclama ad alta voce allo stesso tempo le virtù presenti del regno di Dio e la speranza della vita beata. Così, col suo esempio e con la sua testimonianza, accusa il mondo di peccato e illumina quelli che cercano la verità»57.
La costituzione dogmatica ne sottolinea opportunamente la forza, che proviene dal sacramento del matrimonio. 2. La Familiaris Consortio riprende il tema della «chiesa domestica» e lo approfondisce presentando il compito educativo cristiano dei genitori come «ministero» della Chiesa: «dal sacramento del matrimonio il compito educativo riceve la dignità e la vocazione di essere un vero e proprio “ministero” della Chiesa al
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FC, n. 13. LG, n. 11. 57 LG, n. 35. 56
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servizio della edificazione dei suoi membri. Tale è la grandezza e lo splendore del ministero educativo dei genitori cristiani, che san Tommaso non esita a paragonarlo al ministero dei sacerdoti […] La coscienza viva e vigile della missione ricevuta col sacramento del matrimonio aiuterà i genitori cristiani a porsi con grande serenità e fiducia al servizio educativo dei figli e, nello stesso tempo, con senso di responsabilità di fronte a Dio che li chiama e li manda ad edificare la Chiesa nei figli. Così la famiglia dei battezzati, convocata quale chiesa domestica dalla Parola e dal Sacramento, diventa insieme, come la grande Chiesa, maestra e madre»58.
La Familiaris Consortio presenta il compito educativo dei genitori come indicazione di un itinerario di fede e come scuola di discepolato e così, oltre che genitori, essi diventano generatori di vita cristiana: «… la consapevolezza che il Signore affida loro la crescita di un figlio di Dio, di un fratello di Cristo, di un tempio dello Spirito Santo, di un membro della Chiesa, sorreggerà i genitori cristiani nel loro compito di rafforzare nell’anima dei figli il dono della grazia divina […] Anche il Sinodo, riprendendo e sviluppando le linee conciliari, ha presentato la missione educativa della famiglia cristiana come un vero ministero, per mezzo del quale viene trasmesso e irradiato il Vangelo, al punto che la stessa vita di famiglia diventa itinerario di fede e in qualche modo iniziazione cristiana e scuola della sequela di Cristo…In forza del mistero dell’educazione i genitori mediante la testimonianza della vita, sono i primi araldi del Vangelo presso i figli. Di più, pregando con i figli, dedicandosi con essi alla lettura della Parola di Dio ed inserendoli nell’intimo del Corpo — eucaristico ed ecclesiale — di Cristo mediante l’iniziazione cristiana, diventano pienamente genitori generatori cioè non solo della vita carnale, ma anche di quella che, mediante la rinnovazione dello Spirito, scaturisce dalla Croce e risurrezione di Cristo»59.
La Familiaris Consortio riprende la dottrina dei coniugi e dei genitori cristiani quali «testimoni e cooperatori della fecondità della Madre Chiesa»60 e l’approfondisce. Sempre alla luce del sacramento,
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FC, n. 38. FC, n. 39. 60 LG, n. 41. 59
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presenta la genitorialità quale simbolo, testimonianza e partecipazione della maternità della Chiesa: «é anzitutto la Chiesa Madre che genera, educa, edifica la famiglia cristiana, mettendo in opera nei suoi riguardi la missione di salvezza che ha ricevuto dal suo Signore […] A sua volta la famiglia cristiana è inserita a tal punto nel mistero della Chiesa da diventare partecipe, a suo modo, della missione di salvezza propria di questa […] In tal modo, mentre è frutto e segno della fecondità soprannaturale della Chiesa, la famiglia cristiana è resa simbolo, testimonianza, partecipazione della maternità della Chiesa»61.
Il ministero coniugale, però, deve essere esercitato con una modalità propria e originale, cioè ponendosi e agendo in quanto coppia e in quanto famiglia: «la famiglia cristiana è chiamata a prendere parte viva e responsabile alla missione della Chiesa in modo proprio e originale, ponendo cioè al servizio della Chiesa e della società se stessa nel suo essere ed agire, in quanto intima comunità di vita e di amore […] la sua partecipazione alla missione della Chiesa deve avvenire secondo una modalità comunitaria: insieme, dunque, i coniugi in quanto coppia, i genitori e i figli in quanto famiglia, devono vivere il loro servizio alla Chiesa e al mondo…è allora nell’amore coniugale e familiare — vissuto nella sua straordinaria ricchezza di valori ed esigenze di totalità, unicità, fedeltà e fecondità — che si esprime e si realizza la partecipazione della famiglia cristiana alla missione profetica, sacerdotale e regale di Gesù Cristo e della sua Chiesa: l’amore e la vita costituiscono pertanto il nucleo della missione salvifica della famiglia cristiana nella Chiesa e per la Chiesa»62.
«La futura evangelizzazione dipende in gran parte dalla Chiesa domestica»63: questa missione dei coniugi, radicata nel battesimo, è rafforzata dal sacramento del matrimonio, da cui deriva il compito di
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FC, n. 49. FC, n. 50. 63 FC, n. 52. 62
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trasmettere la fede nell’attuale società; urge, pertanto, che i ruoli paterno e materno siano ricompresi anche in quanto ministero di evangelizzazione e di catechesi su cui oggi si riflette abbastanza. Familiaris Consortio considera anche l’affido e l’ adozione come compito specifico per il ministero coniugale e familiare. Quello dell’adozione e dell’affido è uno dei campi specifici e propri del ministero coniugale, oggetto di grande riflessione all’interno della Chiesa, particolarmente attenta oggi all’aspetto ministeriale. Tale ministero, infatti, rendendo attuale ai bambini l’«esperienza dell’amorevole c provvida paternità di Dio»64, diventa un segno di Dio e di Cristo giacché per mezzo dei genitori cristiani «il Signore Gesù continua ad avere ‘compassione’ delle folle»65. La famiglia che adotta o a cui è affidato un bambino è segno della maternità della Chiesa che, tramite l’amore dei coniugi, diventa accogliente ed ospitale. È questa disponibilità a dare amore che deve costituire il cammino spirituale della coppia desiderosa di fare una scelta adottiva o affidataria: soltanto il vincolo d’amore consentirà un rapporto vero tra genitori e figli adottati o affidati. 3.3. Via di santità 1. La Lumen Gentium afferma con chiarezza che la fecondità dell’amore coniugale diventa aiuto a raggiungere la santità sia nella vita coniugale che in quella familiare: «i coniugi cristiani, in virtù del sacramento del matrimonio, col quale significano e partecipano il mistero di unità e di fecondo amore che intercorre tra Cristo e la Chiesa, si aiutano a vicenda per raggiungere la santità nella vita coniugale…»66.
Il matrimonio è vocazione e via alla santità con l’aiuto che l’uno dà all’altro ed ambedue ai figli. 64
FC, n. 41.
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L. c. LG, n. 11.
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E in modo ancora più chiaro afferma che «i coniugi e i genitori cristiani, seguendo la loro propria via, devono sostenersi a vicenda nella fedeltà dell’amore con l’aiuto della grazia per tutta la vita, e istruire nella dottrina cristiana e nelle virtù evangeliche la prole, che hanno amorosamente accettata da Dio»67.
Questa via di santità si caratterizza per il sostegno reciproco che si danno e che danno, frutto dell’amore che è partecipazione all’amore sponsale con cui Cristo santifica la sposa Chiesa. La Gaudium et Spes sintetizza l’insegnamento della Lumen Gentium e afferma: «per tener fede costantemente agli impegni di questa vocazione cristiana si richiede una virtù fuori del comune; è per questo che i coniugi, resi forti dalla grazia per una vita santa, coltiveranno assiduamente la fermezza dell’amore, la grandezza d’animo, lo spirito di sacrificio e li domanderanno nella loro preghiera»68.
Il matrimonio è una vocazione alla santità da realizzare vivendo in pienezza l’amore che lo caratterizza, con l’aiuto della grazia che viene dal sacramento, e con il sostegno della preghiera. L’amore coniugale è inquietamente proteso verso la sua espressione perfetta: aspira a perfezionarsi ogni giorno di più, suscitando così una via di santità. 2. La Familiaris Consortio insiste nel dire che la vita coniugale è vita di amore e, quindi, di santità: «nel disegno di Dio Creatore e Redentore la famiglia scopre non solo la sua “identità”, ciò che essa “è”, ma anche la sua “missione”, ciò che essa può e deve “fare”. I compiti, che la famiglia è chiamata da Dio a svolgere nella storia, scaturiscono dal suo stesso essere e ne rappresentano lo sviluppo dinamico ed esistenziale. Ogni famiglia scopre e trova in se stessa l’appello insopprimibile, che definisce ad un tempo la sua dignità e
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LG, n. 41. GS, n. 49.
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la sua responsabilità: famiglia, “diventa” ciò che “sei” […] la famiglia ha la missione di diventare sempre più quello che è, ossia comunità di vita e di amore, in una tensione che, come per ogni realtà creata e redenta troverà il suo componimento nel Regno di Dio…la famiglia riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare l’amore, quale riflesso vivo e reale partecipazione dell’amore di Dio per l’umanità e dell’amore di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa. Ogni compito particolare della famiglia è l’espressione e l’attuazione concreta di tale missione fondamentale»69.
Caratteristica dell’amore coniugale è assumere la “ferialità” fatta dalle piccole cose della vita quotidiana. Gli sposi «sono chiamati a crescere continuamente nella loro comunione attraverso la fedeltà quotidiana alla promessa matrimoniale del reciproco dono totale […] in Cristo Signore, Dio assume questa esigenza umana, la conferma, la purifica e la eleva, conducendola a perfezione col sacramento del matrimonio…Il dono dello Spirito è comandamento di vita per gli sposi cristiani, ed insieme stimolante impulso affinché ogni giorno progrediscano verso una sempre più ricca unione tra loro a tutti i livelli…»70.
Nella carità si possono ricondurre ad unità la dualità delle persone e tutte le spinte o tentazioni centrifughe. I doveri coniugali dalla Familiaris Consortio vengono additati quale «via» per la santificazione e per la testimonianza, perché, grazie all’amore, la famiglia fa crescere in quanto persone i membri che la compongono: «la famiglia fondata e vivificata dall’amore, è una comunità di persone… suo primo compito è di vivere fedelmente la realtà della comunione nell’impegno costante di sviluppare un’autentica comunità di persone. Il principio interiore, la forza permanente e la meta ultima di tale compito è l’amore: come, senza l’amore, la famiglia non è una comunità di persone, così senza l’amore, la famiglia non può vivere, crescere e perfezionarsi…»71.
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Tutti nella famiglia — coniugi e figli — devono perfezionarsi in quanto persone e in quanto cristiani vivendo appieno l’amore reciproco e comunitario. La bipolarità è un elemento essenziale: lo stare insieme deve essere finalizzato al crescere delle persone. CONCLUSIONI 1. Il Concilio di Trento ha dato forma ad un modello di matrimonio inteso come istituzione per il bene della specie umana con l’esercizio della funzione procreativa. La fecondità si è praticamente identificata con la procreatività, a motivo del rilievo eccessivo dato all’aspetto biologico: la paternità e la maternità mancano di fatto ad esempio di una apertura sociale72. 2. Le scienze umane e la riflessione filosofica moderne, oltre ad aver prestato grande attenzione ai rapporti intersoggettivi, hanno approfondito l’amore. Il Concilio Vaticano II e la riflessione teologica che l’ha preceduto sono stati certamente influenzati da questi orientamenti: la Gaudium et Spes presenta significativamente il matrimonio «comunità di vita e d’amore» e al posto di “contratto” fa subentrare il termine biblico «patto»; per conseguenza gli aspetti interni e relazionali vengono privilegiati rispetto a quelli giuridico-istituzionali. La fecondità dall’aspetto puramente biologico ha subito un processo di dilatazione: viene concepita come espressione dell’amore che porta in sé l’esigenza dell’apertura agli altri. La coppia oltre alla fecondità procreativa è chiamata a vivere altre forme di fecondità a livello spirituale e sociale: la paternità e la maternità rappresentano un compito non semplicemente di natura fisica ma anche spirituale e sociale. La chiara conquista della centralità dell’amore nel rapporto coniugale e genitoriale ha reso più complessi e difficili i ruoli della paternità e della maternità: restano aperte prospettive inedite per una nuova 72 Cfr. G. PIANA, Paternità e maternità nella tradizione cattolica, in AA.VV., Maschio-femmina…, cit., 200-201.
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figura della genitorialità. La Chiesa dovrebbe essere un ambito operativo per un esercizio fecondo della paternità e della maternità in tutte le sue valenze. La Familiaris Consortio richiede per l’oggi la dilatazione della paternità e della maternità: perché ciò avvenga è necessario attivare nei luoghi pedagogici la creatività propria dell’amore: «la fecondità delle famiglie deve conoscere una sua incessante “creatività”, frutto meraviglioso dello Spirito di Dio che spalanca gli occhi del cuore per scoprire le nuove necessità e sofferenze della nostra società, e che infonde coraggio per assumerle e darvi risposta. In questo quadro si presenta alle famiglie un vastissimo campo d’azione: infatti, ancor più preoccupante dell’abbandono dei bambini è oggi il fenomeno dell’emarginazione sociale e culturale, che duramente colpisce anziani, ammalati, handicappati, tossicodipendenti, ex carcerati, ecc.»73.
3. La Gaudium et Spes e la Familiaris Consortio si inseriscono nel passaggio epocale da una concezione giuridico-istituzionale ad una concezione personalista, da una famiglia come “comunità sociologica” ad una famiglia come “comunità di amore”, evidenziando che il fondamento e il sostegno ne è l’amore. Ambedue i documenti offrono il loro contributo per salvare il matrimonio e la famiglia, facendo leva non tanto sul diritto ma sull’amore, che trova origine e modello nell’amore di Dio che si è rivelato nella vita e nell’insegnamento di Cristo. La dottrina conciliare approfondita dai lavori del sinodo e dalla relativa esortazione postsinodale presenta un modello affascinante di matrimonio che riuscirà ad incidere nella cultura odierna nella misura in cui sarà vissuto non come frutto di strutture giuridiche ma di quell’amore autentico che si modella sull’amore di Cristo Sposo. 4. Nella visione della Gaudium et Spes e della Familiaris Consortio la procreazione della persona umana deve essere frutto dell’amore degli sposi che si esprime nell’atto coniugale e non un prodotto di un
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intervento tecnico che lo ridurrebbe ad essere oggetto della tecnologia bio-medica. La morale cattolica, alla luce della Gaudium et Spes e della Familiaris Consortio, in tema di fecondazione artificiale, innanzitutto s’impegna a ridire solennemente un «si» al “bene” che sono sia il matrimonio che l’atto coniugale e a proclamare la dignità sia della procreazione come pure della vita umana nascente e poi, per conseguenza, dice «no» alla fecondazione artificiale eterologa e omologa. La fecondazione assistita, pertanto, viene negata non perché “artificiale”, ma perché contrasta con la dignità della procreazione e i diritti del figlio. La tecnica si giustifica fino a quando si configura come “aiuto”, non quando diventa “sostituzione” dell’atto coniugale: si tratta, come ben si vede, di salvaguardare la “umanizzazione” dell’origine della vita umana contro il pericolo della sua “tecnicizzazione”. 5. I coniugi sono chiamati ad esprimere la carità come coniugi, ad essere in quanto coppia imitazione e memoria di Cristo nella Chiesa e per la Chiesa, nel mondo e per il mondo: è questa la testimonianza di spiritualità o santità che in forza del sacramento sono chiamati a dare. Dalla Gaudium et Spes e dalla Familiaris Consortio emerge il matrimonio quale «vocazione», chiamata alla santità coniugale, alla quale la coppia in quanto tale deve e può dare la risposta. La chiamata ovviamente passa attraverso il sacramento nel quale Dio chiama i coniugi a prendere parte all’amore unitivo e fecondo di Cristo.
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INDICE
SOMMARIO.
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INTRODUZIONE .
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PER UN’ANTROPOLOGIA CRITICA: APPUNTI (Giuseppe Ruggieri) . . . . .
LA RICEZIONE ECCLESIOLOGICA DELLA LUMEN GENTIUM (Hervé Legrand) . . . . . . . . 1. La ricezione indiretta della Lumen Gentium nella prospettiva dei documenti che essa ha influenzato in quanto Costituzione perno . . . . . . . del Vaticano II . 1.1. La felice ricezione dei temi della Lumen Gentium attraverso quella dei documenti conciliari che l’esplicitano . . . 1.1.1. Lumen Gentium 15 e Unitatis Redintegratio: l’ecumenismo . 1.1.2. Lumen Gentium 6 e Nostra Aetate: il dialogo interreligioso . 1.1.3. Lumen Gentium 16 e le relazioni con il popolo ebraico . 1.2. Alcune ricezioni relativamente infruttuose della Lumen Gentium attraverso quella dei documenti che ha influenzato . . 1.2.1. Lumen Gentium 28 e 29 e Presbyterorum Ordinis: Presbiteri e diaconi . . . . . . . . 1.2.2. Lumen Gentium 2 e 4 e Apostolicam Actuositatem: popolo di Dio e laicato . . . . . . . 1.2.3. Lumen Gentium 6 e Optatam Totius: la vita religiosa . . 1.3. Un primo bilancio della ricezione indiretta della Lumen Gentium 2. La ricezione diretta della Lumen Gentium e i suoi criteri teologici propri . . . . . . . . . 2.1. La ricezione come realtà tradizionale nella vita della chiesa .
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2.2. Tre momenti richiesti nella ricezione dei testi conciliari . 2.2.1. Un primo atteggiamento di ascolto . . . . 2.2.2. L’importanza delle strutture di enunciazione per riconoscere le correzioni di traiettoria dottrinale nella ricezione . . 2.2.3. Non commentare mai il testo senza prima averlo letto personalmente . . . . . . . 2.2.3.1. Primo esempio: Lumen Gentium ha insegnato che si deve comprendere la Chiesa come sacramento fondamentale? . 2.2.3.2. Un secondo esempio: Lumen Gentium può essere compresa senza il riferimento alle fonti? . . . . 2.2.3.3. Un terzo esempio: nessuna opinione di un esperto, anche se molto diffusa, non può prevalere sui testi stessi . . 3. La ricezione dell’intento centrale della Lumen Gentium: la collegialità episcopale e le sue correlazioni nella teologia della Chiesa locale e delle Chiese particolari . . . . . 3.1. Determinazione dei criteri ermeneutici propri della Lumen Gentium . . . . . . . . 3.1.1. La Lumen Gentium va compresa a partire dal suo intento: completare il Vaticano I e ri-orientare la sua ricezione . 3.1.2. La Lumen Gentium completa il Vaticano I e vuole restituire all’episcopato il suo vero posto nella Chiesa . . . 3.1.3. Portata criteriologica di questi complementi correttivi delle traiettorie recenti . . . . . . 3.2. La ricezione del cap. III della Lumen Gentium attraverso i documenti canonici e i testi di tipo disciplinare che la giustificano . 3.2.1. La ricezione della Lumen Gentium nel diritto canonico . 3.2.1.1. Il Codice del 1983 . . . . . . 3.2.1.2. Il Codice dei canoni delle chiese orientali (1990) . . 3.2.2. In seguito alla Communionis Notio (1992), una serie di documenti soprattutto disciplinari hanno posto dei limiti alla rivalorizzazione dell’episcopato e delle Chiese locali . . 3.2.2.1. Gli enunciati della Communionis Notio . . . 3.2.2.2. Apostolos suos (1998): sottovalutazione del modesto statuto statuto dell’episcopato e delle conferenze episcopali . 3.2.2.3. Limitazione della parola dei sinodi diocesani (1997) . 3.2.2.4. Valutazioni sussidiarie della ricezione della Lumen Gentium 3 Conclusione generale . . . . . . .
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Seminario interdisciplinare dell’1 aprile 2011 “Nodi emergenti di alcuni temi della costituzione conciliare Lumen Gentium” NODI DELL’AUTORITÀ NELLA CHIESA (Francesco Conigliaro) . . . . . . Premessa . . . . . . . . 1. Lo sfondo del tema trattato . . . . . . . . . 1.1. Il contributo del Vaticano II 1.2. Lo stile e l’insegnamento di Gesù di Nazareth . . 1.3. Interrogativi seri . . . . . . 1.4. I membri della comunità cristiana sono figli della loro epoca 2. Il potere nella Chiesa, oggi . . . . . 3. Fenomeni di potere nella Chiesa . . . . 3.1. Carismi ed anti-carismi . . . . . 3.2. Istituzionalizzazione . . . . . 3.3. Centro-periferia . . . . . . 3.4. Verità proposizionale e verità esistenziale . . 4. Dati per una riconfigurazione del potere nella Chiesa . 4.1. Ironia . . . . . . . 4.2. Consenso . . . . . . . 4.3. Riforma istituzionale . . . . . Conclusione . . . . . . .
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I LAICI NELLA CHIESA (Millesoli Salvatore) . . . . . . . Premessa . . . . . . . . . . . 2. Il cap. IV della LG: la storia del testo . 2.1. Due prime bozze respinte dai padri . . . 2.2. Da quattro a otto capitoli . . . . . . 3. Il capitolo IV della Lumen Gentium: il contenuto . 3.1. Lo schema . . . . . . . 3.2. Esame del testo . . . . . . 4. L’identità e la dignità del laico . . . . 4.1. La natura del laico: ovvero circa l’identità . . 4.2. Partecipe dei “tria munera” di Cristo: ovvero circa la dignità
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5. Riflessioni critiche della teologia contemporanea . . 6. Il ricupero del protagonismo ecclesiale . . . 6.1. Da cristiani di seconda categoria ad avanguardia della Chiesa 6.2. Il protagonismo dei laici nella missione della Chiesa . 6.3. Il protagonismo dei laici nella vita della Chiesa . . 7. La secolarità . . . . . . . 8. La costruzione di un itinerario spirituale appropriato .
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LA PROSPETTIVA CONCILIARE DELLA VITA CONSACRATA. Verso una nuova comprensione teologico-spirituale (Egidio Palumbo o.carm) . . . . . . Premessa . . . . . . . . 1. Il contesto prima e durante il Concilio . . . 2. L’iter redazionale del cap. VI di Lumen Gentium . . 3. “Semi” fecondi di novità per un “balzo in avanti” . . 3.1. Per un autentico statuto ecclesiologico della vita consacrata 3.2. Carisma, sequela, profezia . . . . Conclusione . . . . . . .
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GESÙ E LA CHIESA (Nunzio Capizzi) . . . . . . . 1. Per un esame di coscienza . . . . . 2. La sequela del popolo del Regno di Dio . . . 3. Avere incondizionatamente Gesù Cristo come fondamento
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MARIA NEL MISTERO DI CRISTO E DELLA CHIESA. IL CAPITOLO VIII DELLA LUMEN GENTIUM (Dionisio Candido) . . . . . . Introduzione . . . . . . 1. La Mariologia pre-conciliare . . . . 1.1. L’Ottocento . . . . . 1.2. Il Novecento . . . . . 1.3. I movimenti innovatori pre-conciliari . . 2. L’elaborazione di LG VIII . . . . 3. Lumen Gentium cap. VIII . . . . 3.1. Il tempo dell’antica alleanza . . . 3.2. La pienezza dei tempi . . . .
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3.3. Dopo l’ascensione . . . . 3.4. Il tempo della Chiesa . . . 3.5. I tempi ultimi . . . . 4. Sguardo globale su Lumen Gentium cap. VIII 5. Osservazione sul post-Concilio . . 5.1. Passi avanti . . . . 5.2. Sentieri aperti . . . .
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CHIESA LOCALE E CHIESA UNIVERSALE (Adolfo Longhitano) . . . . . . . . 1. Quale immagine biblica o categoria teologica per definire la Chiesa? 2. «Vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli per l’edificazione del corpo di Cristo» . 3. Dall’approfondimento della natura dell’episcopato alla riscoperta della tradizione patristica su Chiesa locale e Chiesa universale . 4. Alla ricerca di un linguaggio coerente . . . . 5. Le scelte non sempre univoche e coerenti dei documenti magisteriali Conclusione . . . . . . . . LE PROVOCAZIONI INASCOLTATE DELLA GAUDIUM ET SPES (Severino Dianich) . . . . . . . . Premessa . . . . . . . . . 1. La prima e fondamentale provocazione inascoltata . . . 2. Dalla GS alla problematica attuale . . . . . 3. Proposta di valori umani e proposta del Vangelo . . . 4. Per un nuovo equilibrio all’interno della Chiesa . . . Conclusione . . . . . . . . “L’UOMO VIA FONDAMENTALE DELLA CHIESA” (RH 13) IL RAPPORTO CHIESA E MONDO SECONDO GAUDIUM ET SPES (Francesco Scanziani) . . . . . . . 1. “Gaudium et spes”: una lezione di stile . . . . 2. La storia del documento: compromesso o accordo? . . . 3. “La condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo”: analisi sociologica o discernimento ecclesiale? . . . . . 3.1. Un approccio induttivo: i “Segni dei tempi” . . . 3.2. La collaborazione di un laico . . . . .
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3.3. Il metodo di lettura: vedere-giudicare-agire . . . 3.4. I mutamenti . . . . . . . 4. La Chiesa nel mondo contemporaneo: una rivoluzione copernicana 4.1. Il titolo: la Chiesa nel mondo contemporaneo . . . . . . . . 4.2. Chi è la Chiesa? (LG 1) . . . . . . 4.3. Chi è il Mondo? (GS 2a) . 4.4. “Nel”: le possibili declinazioni del nesso . . . . 5. La missione della chiesa nel mondo contemporaneo (Cap. IV): . L’uomo via fondamentale della Chiesa (Giovanni Paolo II) 5.1. L’antropologia cristiana in dialogo con gli umanesimi moderni . 5.2. La visione cristiana di uomo: base del dialogo (PARTE II) Conclusione . . . . . . . .
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Seminario interdisciplinare del 16 febbraio 2012 “Nodi emergenti dei grandi temi della costituzione conciliare Gaudium et spes” SUL DIALOGO TRA CHIESA E MONDO CONTEMPORANEO (Francesco Conigliaro) . . . . . . Premessa . . . . . . . 1. Ragione classica e ragione moderna . . . . 2. La “ragione” nella chiesa . . . . . 2.1. Armonia tra chiesa e mondo contemporaneo: ecologia 2.2. Tensione tra chiesa e mondo contemporaneo . . 2.2.1. Verità . . . . . . 2.2.2. Natura . . . . . . 2.2.3. Persona . . . . . . 2.2.4. Storia . . . . . . 2.2.3. Non-receptio . . . . . Conclusione . . . . . . .
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L’IMPIANTO BIBLICO DELLA GAUDIUM ET SPES (Carmelo Raspa) . . . . . .
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UNA CHIESA POVERA PER IL MONDO CONTEMPORANEO. Gli esiti di una prospettiva nella Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II (Corrado Lorefice) . . . . . . . .
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1. La questione ecclesiologica nella prima sessione del Concilio 2. L’intervento di Suenens . . . . . 3. L’intervento di Montini . . . . . 4. L’intervento di Lercaro . . . . . 5. Una consegna e una disattesa . . . . 6. Due testi conciliari complementari: AG 5 e LG 8,3 . . Concludendo . . . . . . .
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DOPO LA GAUDIUM ET SPES È ANCORA POSSIBILE UNA DOTTRINA SOCIALE? (Piero Sapienza) . . . . . . . . 1. Ecclesiologia del Vaticano II e superamento della Dottrina sociale della Chiesa? . . . . . . . . 2. Quali le critiche mosse alla Dottrina sociale della Chiesa? Cosa c’è dietro alla contestazione del termine? . . . . 3. Qual è il criterio ermeneutico che rende ragione ancora oggi della validità della Dottrina sociale della Chiesa? . . . . 4. Il rilancio e la collocazione della Dottrina Sociale della Chiesa nella Teologia morale . . . . . . .
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IL DIALOGO INTERCULTURALE ALLA LUCE DI GAUDIUM ET SPES (Adriano Minardo) . . . . . . . . 1. La Chiesa e il rapporto fede-cultura . . . . . 2. Dall’adattamento all’interculturalità . . . . .
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L’AMORE CONIUGALE: DALLA GAUDIUM ET SPES ALLA FAMILAIRIS CONSORTIO (Salvatore Consoli) . . . . . . . . Premesse . . . . . . . . . 1. Amore sessuale . . . . . . . 1.1. Qualche premessa . . . . . . . 1.2. La Gaudium et Spes . . . . . . 1.3. La Humanae Vitae . . . . . . 1.4. La Familiaris Consortio . . . . . . 2. Amore fecondo . . . . . . . 2.1. La fecondità fisica . . . . . . .
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2.2. La fecondità morale attraverso l’educazione . 2.3. La fecondità sociale . . . . 3. Amore sacramentale . . . . . 3.1. Segno e partecipazione dell’amore sponsale di Cristo 3.2. Ministero ecclesiale . . . . 3.3. Via di santità . . . . . Conclusioni . . . . . . INDICE
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