LA POLIS: FORME DEI LEGAMI E LIBERTÀ TRA COSCIENZA PERSONALE E COSCIENZA CIVILE
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LA POLIS: FORME DEI LEGAMI E LIBERTÀ TRA COSCIENZA PERSONALE E COSCIENZA CIVILE
Finito di stampare nel settembre 2016 da Grafiser s.r.l. 94018 Troina (En) Tel. 0935 657 813 - Fax 0935 653 438
QUADERNI DI SYNAXIS NUMERO SPECIALE 6
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QUADERNI DI SYNAXIS NUMERO SPECIALE 6
In copertina: ritratto di Antonio Rosmini Serbati
LA POLIS: FORME DEI LEGAMI E LIBERTA’ TRA COSCIENZA PERSONALE E COSCIENZA CIVILE Atti del VI Colloquio Rosmini svoltosi presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania il 28 aprile 2016 a cura di Piero Sapienza
Studio Teologico S. Paolo - Catania Edizioni Grafiser - Troina 2016
SOMMARIO INTRODUZIONE
(Piero Sapienza) Nel proporre l’iniziativa dei “Colloqui Rosmini”, lo Studio Teologico S. Paolo intende entrare in dialogo con altre istituzioni culturali e accademiche. Ciò avviene nello spirito di apertura di Rosmini, il quale animato da una vera “carità intellettuale” non rifuggiva il confronto con la modernità. Egli, pertanto, puntava al rinnovamento del sapere filosofico e teologico con categorie capaci di rispondere alle sfide della modernità: ma, purtroppo, non sempre fu compreso. Anzi, come è noto, fu osteggiato. In proposing the project of the”Rosmini Conversations” Studio Teologico S. Paolo means to start talking with other cultural and academic institutions. This occurs in the spirit of the opening of Rosmini who, inspired by a true “intellectual charity”, did not escape from the meeting with modernity. As a matter of fact he aimed at renewing the philosophical and theological knowledge through categories able to respond to the challenges of modernity: but unfortunately he was not always appreciated. Actually, as we all know, he was even obstructed. LA “POLIS” FORMA DEI LEGAMI DI LIBERTÀ TRA COSCIENZA PERSONALE COSCIENZA CIVILE
(Fernando Bellelli) Questo contributo enuclea la struttura portante tra il tema della polis costituita da legami che hanno molteplici forme, e della polis come intreccio tra la libertà della coscienza personale e di quella civile. Si mostra il contributo della riflessione di Rosmini al tema, mostrando come e perché la teologia filosofica di Rosmini contribuisce a tutto ciò,
proprio mediante il superamento della modernità, anche rispetto alla quale concorre a definire non un’epoca di passaggio, quanto piuttosto un passaggio d’epoca. This essay highlights the fundamental structure between the theme of the polis made up of connections which have multiple forms and of the polis as the interweaving between the freedom of the individual conscience and the civil conscience. The author underlines the contribution given by Rosmini’s thought on this theme showing in which way and why Rosmini’s philosophical theology contributes to all this just through the overcoming of modernity also in regards to which it concurs to define it not an age of passage but rather a passage of an age. Rosmini e il passaggio dalla fenomenologia rovesciata del simbolico alla svolta affettiva della metafisica (Carla Canullo) Questo articolo indaga l’intuizione rosminiana a proposito di un originario e radicale intreccio dell’essere e dell’affezione, attraverso un confronto con il pensiero di Michel Henry. Formula l’auspicio che si realizzi una ricerca nuova, inedita e peculiarmente italiana, indagando l’aggettivo “fondamentale” con cui Rosmini definisce il “sentimento” della coscienza nell’intrinseca apertura che la coscienza vive per l’impronta che intenzionalmente la conduce oltre sé. This article investigates about the Rosminian intuition concerning an original and radical interweaving of the being and of the emotions through the comparison with Michel Henry’s thought.It formulates the auspice that a new unpublished and uniquely Italian research may be carried out through investigating the adjective “fundamental” by which Rosmini defines the “feeling” of the conscience in the intrinsic opening the conscience experiments for the imprinting which purposely leads it over itself.
ROSMINI E LA LIBERTÀ ONTOLOGICA, PERSONALE E POLITICA
(Gian Pietro Soliani) Il tema della libertà nel pensiero di Rosmini dev’essere affrontato partendo dall’organismo dell’essere. Da questo punto di osservazione privilegiato, sarà possibile ritrovare nelle opere del filosofo di Rovereto una vera e propria metafisica della libertà, declinata in modo analogico come libertà creante e libertà creata. The theme of freedom in Rosmini’s thought must be afforded starting by the organism of the being. From this privileged point of view it will be possible to discover in Rovereto philosopher’s works a complete metaphysics of freedom expressed in analogical way as both the creating freedom and the created one. LA DIMENSIONE POLITICA DELL’ETICA FILOSOFICA E TEOLOGICA DELLA VERITA’ SECONDO ROSMINI
(Cristian Vecchiet) Questo contributo vuole dimostrare la strutturale dimensione politica dell’etica teologica e filosofica nel pensiero di Rosmini. In pari tempo si intende far emergere che non solo tra teologia ed etica ma, per certi versi, prima ancora, tra filosofia ed etica vi sia un rapporto di implicazione necessaria. Si vuole così dimostrare che il vettore politico si innesta in quello antropologico e in quello ontologico, perché la politica richiede una fondazione che da se stessa non può derivare e l’antropologia e l’ontologia esigono una estrinsecazione ulteriore. This essay aims at demonstrating the political structural dimension of the theological and philosophical ethics in Rosmini’s thought.At the same time it means to underline that not only between theology and ethics there is undoubtedly a relation of necessary implication.This
way it wants to demonstrate that the political vector is inserted in the anthropological vector and in the ontological one as politics requires a foundation which cannot arise from itself and anthropology and ontology demand a further explanation. DIMENSIONE ANTROPO-TEOLOGICA NEUROSCIENZE
DETERMINATA
DALLE
(Leonardo Paris) Il contributo mostra le sfide che le neuroscienze pongono alla teologia. Pone particolare attenzione all’ipotesi dell’auto fondazione dell’antropologico sul biologico, in quanto sufficiente a dare conto della sua libertà. This article shows the provocations that neurosciences pose to theology. It pays specific attention to hypothesis of self foundation of anthropological on biological, as it is sufficient to explaine its freedom.
INTRODUZIONE La polis: forme dei legami e libertà tra coscienza personale e coscienza civile.
PierO Sapienza1
La polis: forme dei legami e libertà tra coscienza personale e coscienza civile,è l’argomento che sarà trattato in questa quarta edizione dei “Colloqui Rosmini”. Ci sembra opportuno ricordare il percorso compiuto in questi anni. I precedenti tre “Colloqui” hanno affrontato la questione antropologica: Crisi antropologica oggi? La lezione di A. Rosmini (2010); la problematica politica: La politica di A. Rosmini (2012); la formazione liturgica: Rosmini: educare alla fede nello spirito della liturgia (2014). Su questi temi si sono confrontati docenti dello Studio Teologico S. Paolo, docenti delle Università di Catania, Palermo, Roma, studiosi del Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa e del Rosmini Institute di Lugano. Gli Atti dei due primi “Colloqui” sono già stati pubblicati dallo Studio Teologico S. Paolo nei “Quaderni di Synaxis”[XXX/1 – 2012]. Nel proporre l’iniziativa dei “Colloqui Rosmini”, lo Studio Teologico S. Paolo intendeva entrare in dialogo con altre istituzioni culturali e accademiche. Ciò avviene nello spirito di apertura di Rosmini, il quale animato da una vera “carità intellettuale” non rifuggiva il confronto con la modernità; il suo costante “pensare in grande”, infatti, non gli faceva erigere steccati, barriere, che egli giudicava comportamenti di “teste piccole”, di menti grette. Docente di Dottrina sociale della Chiesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania 1
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Egli, pertanto, puntava al rinnovamento del sapere filosofico e teologico con categorie capaci di rispondere alle sfide della modernità: ma, purtroppo, non sempre fu compreso. Anzi, come è noto, fu osteggiato. Bisogna osservare che accanto ai “Colloqui”, che hanno avuto cadenza biennale, lo Studio Teologico ha voluto proporre per ogni anno accademico, per gli studenti del primo e secondo anno, un seminario sul pensiero di Rosmini: e così negli anni precedenti è stato approfondito il tema dell’educazione, del rapporto etica – antropologia, della felicità, delle “Cinque piaghe della Chiesa”. Il motivo di questa iniziativa? Per tanti anni il pensiero di Rosmini è stato emarginato, scartato dal pensiero ufficiale cattolico (come sopra accennato). Sappiamo che già durante la sua vita ha dovuto affrontare molte tempeste, suscitate da coloro che non capivano le sue aperture, che preferivano restare fermi in certi territori piuttosto che avventurarsi a cercare nuove strade, che non vedevano di buon occhio una “Chiesa in uscita” (come direbbe oggi papa Francesco). Per questo, Rosmini, di volta in volta, fu accusato di essere “ontologista”, “panteista”, o anche insultato: “volpe giansenista”. Il Roveretano, quindi, durante la sua vita (1797-1855) fu costretto a dover difendere il suo pensiero filosofico, teologico, morale, politico, pedagogico, giuridico (la sua produzione è stata enciclopedica) da attacchi, che il più delle volte venivano da parte gesuita. In diverse occasioni, le opere esaminate dal S. Uffizio, vennero dichiarate esenti da qualsiasi eresia, altre volte fu imposto il silenzio sia a Rosmini come pure ai suoi avversari. Ma si arrivò, ugualmente, alla condanna di due opere del Roveretano: “Le Cinque piaghe della Santa Chiesa” e “La Costituzione secondo giustizia sociale” (1849), che furono messe all’Indice. Questo periodo costituisce quello che oggi gli studiosi rosminiani denominano la prima fase. Il punto culminante di questa ostilità nei confronti del pensiero di Rosmini si ebbe, stranamente, a più di trenta anni dopo la
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sua morte, allorchè nel 1888, con il decreto Post obitum, il S. Uffizio dichiarò “haud consonae veritati catholicae” 40 proposizioni, tratte dalle opere del nostro. Contemporaneamente una circolare della Santa Sede, inviata a tutti i vescovi, proibì l’insegnamento delle dottrine di Rosmini nei seminari e nelle facoltà teologiche, proponendo l’insegnamento ufficiale del pensiero di S. Tommaso D’Aquino. Da quel momento il ricco e vasto pensiero del Roveretano si inabissò nel mare magnum della Storia e rimase sconosciuto negli ambienti culturali cattolici, non solo ma in alcuni manuali di teologia Rosmini veniva annoverato tra gli eretici. Con il risultato che, in mano a degli idealisti come Giovanni Gentile, il pensiero di Rosmini fu valorizzato, ma anche travisato al punto che il nostro arrivò ad essere definito “il Kant italiano” (Gentile): siamo così alla seconda fase. La terza fase degli studi rosminiani, che ha visto la diffusione e la riabilitazione del pensiero del roveretano, si avvia grazie a un filosofo siciliano, discepolo attento di Gentile e suo collaboratore all’Università “Federico II” di Napoli. Ci riferiamo a Michele Federico Sciacca, il quale studiando Rosmini si distaccò dal suo maestro, non solo, ma ritornò alla fede cristiana. Sciacca, in occasione del 100 anniversario della morte di Rosmini (1855-1955) organizzò il I Congresso internazionale su Rosmini. Fu l’occasione per rilanciare sulla scena mondiale il pensiero di Rosmini. Sciacca, all’Università di Genova, dove insegnava, riuscì a creare una sorta di cenacolo, ovvero una scuola di pensiero dove molti illustri suoi discepoli si formarono al pensiero di Rosmini. Inoltre, organizzò e promosse la “Cattedra Rosmini” per diffondere il pensiero di Rosmini. La Cattedra per cir venti anni si teneva ogni anno a Stresa per formare giovani studiosi al pensiero del roveretano. Gli studi rosminiani sono giunti ormai a quella che gli studiosi definiscono quarta fase: quella, cioè, dell’approfondimento del pensiero di Rosmini, in dialogo con i maggiori pensatori della Storia. I “Simposi” rosminiani, che si tengono ogni anno a Stresa, hanno questo scopo. Ma, intanto, ci sembra interessante notare che gli atteggiamenti
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dei pontefici nei riguardi di Rosmini, a partire da Giovanni XXIII, sono stati di apprezzamento. Papa Roncalli, nel suo ritiro a Castelgandolfo (per i suoi 80 anni, 10-15/8/1961), si imbattè in un libro, La perfezione cristiana, a cura di M.F. Sciacca, che raccoglie testi di ascetica di Rosmini. Il Pontefice riporta nel suo Giornale dell’anima, la pagina che espone l’argomento: “In che consiste la santità”. Alla fine, annota: “Con mia edificazione queste sono le applicazioni ordinarie del mio motto caratteristico preso dal Baronio: “Oboedientia et pax”2. Il secondo giorno di ritiro, il Papa cita ancora Rosmini, a proposito degli Esercizi di S. Ignazio 3. E, infine, il 13 agosto, riflettendo sulla “prudenza del Papa e dei vescovi”, Giovanni XXIII ricopia interamente la lettera che Rosmini aveva scritto, il 23 novembre 1848, al vescovo di Montepulciano, Mons. Claudio Samuelli, il quale gli aveva chiesto consiglio sulla condotta che avrebbe dovuto tenere un vescovo “nelle gravissime circostanze” del suo tempo. Il roveretano scriveva che un vescovo non deve anteporre nulla alla predicazione del Vangelo e osservava che un “intralcio” a tale “missione divina” “può sorgere soprattutto dalle opinioni umane in materia politica”. Il “compito sublime” di un vescovo, invece, consiste nel predicare a tutti “la giustizia, la carità, l’umiltà, la mansuetudine, la dolcezza e le altre virtù evangeliche, difendendo con garbo i diritti della Chiesa, dove venissero violati o compromessi”. E, infine, il Pastore potrà essere veramente utile al suo popolo, anche sul piano dei problemi temporali, con la “preghiera più assidua ed intensa”, promuovendo il culto divino, la frequenza ai sacramenti e la formazione religiosa4. E papa Giovanni, a conclusione della sua meditazione sul testo rosminiano, commenta: “E questo è il mio pensiero e la mia sollecitudine pastorale, che deve essere di oggi e di sempre”5. Nel Concilio Vaticano II si possono rintracciare molte Giovanni XXIII, Il Giornale dell’anima, Roma 1964, 309. Ibid., 311. 4 Ibid., 313-314. 5 Ibid., 314. 2 3
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delle istanze emerse nel libro Delle Cinque piaghe della Santa Chiesa. Paolo VI tolse l’opera dall’Indice e la regalò ai suoi collaboratori, nel Natale del 1966. Giovanni Paolo II, ricevendo il Capitolo generale dell’Istituto della Carità, il 10 novembre 1988, riconosce l’impegno culturale del roveretano “tutto proteso a far conoscere il Vangelo”, nella continua e costante ricerca dell’armonia tra fede e ragione, “per ricercare i modi sempre più adatti di comunicare la dottrina cristiana agli uomini, specialmente al mondo della cultura e del sapere (...)”6 . E nella Fides et ratio (n. 74), lo stesso Pontefice cita Rosmini insieme a J. H. Newman, J. Maritain, E. Gilson, E. Stein, come esempi recenti, per l’ambito occidentale, di pensatori che hanno dimostrato, “ la loro ricerca coraggiosa”, “il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio”. E si arriva così nel luglio del 2001, allorchè la Congregazione per la dottrina della fede, presieduta dall’allora Card. J. Ratzinger, emanò una Nota in cui si affermava: “ […] tenendo presenti i risultati emergenti dalla storiografia e dalla ricerca scientifica e teoretica degli ultimi decenni [...] si possono attualmente considerare ormai superati i motivi di preoccupazione e di difficoltà dottrinali e prudenziali, che hanno determinato la promulgazione del Decreto Post obitum […]”7 . La Nota riconosce che l’impresa speculativa di Rosmini fu “caratterizzata da grande audacia e coraggio, anche se non priva di una certa rischiosa arditezza, specialmente in alcune formulazioni nel tentativo di offrire nuove opportunità alla dottrina cattolica in rapporto alle sfide del pensiero moderno, si è svolta in un orizzonte ascetico e spirituale, riconosciuto anche dai suoi più accaniti avversari, e ha trovato espressione nelle opere che hanno accompagnato la fondazione dell’Istituto della Carità 6
322.
Giovanni Paolo II, Messaggio ai Padri rosminiani, in Charitas 12 1988,
Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota sul valore dei decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere del Rev.do Sacerdote Antonio Rosmini Serbati, 1/7/2001, n.7. 7
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e quella delle Suore della Divina Provvidenza”8. Antonio Rosmini è stato proclamato “beato” il 18 novembre del 2007. La Chiesa ce lo propone come modello non solo per la sua sincera ricerca della verità, per la sua passione per far arrivare anche ai più lontani il Vangelo, ma anche come modello di pastore, “con l’odore delle pecore”: fu parroco a Rovereto dall’ottobre del 1834 fino all’anno successivo, allorchè il suo vescovo lo rimosse dall’incarico dietro pressione del governo austriaco. Le sue attività pastorali si intrecciavano tra la cura per gli ultimi, l’amministrazione dei sacramenti, l’oratorio serale per gli artigiani, le scuole, la catechesi permanente per gli adulti (le lezioni sono state poi pubblicate). Il giorno della beatificazione, durante l’Angelus, Benedetto XVI così ricordò Rosmini: egli “testimoniò la virtù della carità in tutte le sue dimensioni ad alto livello, ma ciò che lo rese maggiormente noto fu il generoso impegno per quella che egli chiamava “carità intellettuale”, vale a dire la riconciliazione della ragione con la fede”9 .
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21.
Ibid., n. 9 Benedetto XVI, Angelus del 18.11.2007, in Avvenire (20.11.2007),
La “polis” forma dei legami di libertà tra coscienza personale E coscienza civile: Rosmini e la postmodernita’
Fernando Bellelli1
In questo contributo a me compete la responsabilità di enucleare la struttura portante, nell’ottica trasversale di questo IV Colloquio Rosmini, in continuità con i precedenti2, tra il tema della polis, che è costituita da legami che hanno molteplici forme, e “della polis in quanto intreccio” tra la libertà della coscienza personale e di quella civile e, su entrambi i plessi, quello della polis e della coscienza, mia ulteriore responsabilità è quella di offrire un possibile contributo della riflessione di Rosmini al tema, mostrando come e perché la teologia filosofica di Rosmini contribuisce a tutto ciò, proprio mediante il superamento della modernità, anche rispetto alla quale concorre a definire non un’epoca di passaggio, quanto piuttosto un passaggio d’epoca3. Relativamente al plesso della polis occorre focalizzare l’attenzione su alcuni snodi teoretici, che consentono di articolare in seconda istanza le loro implicazioni pratiche. Tra tali snodi teoretici indichiamo in primis l’originaria struttura metafisico-affettivoDottore in Teologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale a Milano e libero cultore della materia presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Modena e Reggio Emiia 2 Cfr. P. Sapienza (ed.), Colloqui Rosmini I-II. I. Crisi antropologica oggi? La lezione di Antonio Rosmini (2010) II. La politica di Antonio Rosmini (2012), in “Quaderni di Synaxis 28”, Synaxis XXX/1 (2012). Il 6 maggio 2014 è intervenuto p. Gianni Picenardi, del Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa, sul tema “Educare alla fede nello spirito della liturgia. La lezione di Antonio Rosmini”. 3 Papa Francesco, discorso al Convegno ecclesiale di Firenze, reperibile qui: http://www.firenze2015.it/ecce-homo/. 1
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simbolica della coscienza credente4. È in particolar modo il confronto con la prospettiva fenomenologica, elaborata nella teoresi della prof. ssa C. Canullo, a poter dare ulteriore risonanza all’orizzonte teoretico delineato, proprio nel passaggio dalla fenomenologia rovesciata del simbolico alla svolta affettiva della metafisica. In questo senso sono molto grato agli organizzatori per aver propiziato questa possibilità che ci permette, in questo contesto accademico qualificato, di coniugare didattica e ricerca in una sintesi originale e proiettata verso ulteriori sviluppi. In base alle ricostruzioni storico-storiografiche, che hanno condotto alla Nota del 1 luglio 2001, il motivo principale delle incomprensioni di Rosmini, in particolare dal punto di vista teologico e filosofico, risiede proprio nel fatto che la innovazione teoretica che ha proposto è di una novità tale che ci troviamo, ancor oggi, a riscoprirne l’attualità e la genialità; essa è di una eccellenza e di una profondità tale che attende ancora di essere recepita nella sua pienezza. Tutto ciò in virtù del fatto che Rosmini davvero si trova al crocevia di orizzonti speculativi e di approcci teoretici ai problemi, che corrispondono a dei veri e propri filoni di ricerca della filosofia in Europa, e non solo. Coscienza personale e coscienza civile: perché si è scelto questo legame, tra i molti legami5 possibili riguardo alla coscienza? Tra le possibili configurazioni di legami che si possono considerare: ne segnaliamo, per esempio, tra i molteplici, altri tre, quali il legame della coscienza con se stessa, e quello della coscienza interpersonale, in particolare, oltre a quello filosofico-teologico dell’intersoggettività, a partire da quello che potremmo definire il paradigma sociologico. Si è scelto di considerare il legame particolare tra la coscienza personale e quella civile, perché è questo rapporto che costituisce il risvolto della interiorità e della esteriorità della soggettività. Il soggetto-persona ha molte facce, direbbe Pirandello molte maschere, ha una molteplicità di sfaccettature, caratterizzazioni e identificazioni. Dal nostro punto Ci permettiamo su questo punto di rimandare al nostro F. Bellelli, Etica originaria e assoluto affettivo. La coscienza e il superamento della modernità nella teologia filosofica di Antonio Rosmini, Milano 2014, in particolare 317-322. 5 Cfr. S. Zanardo, Il legame del dono, Milano 2007 e Id., Nelle trame del dono. Forme di vita e legami sociali, Bologna 2013. 4
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di vista, ciò di cui, insieme ad ulteriori problematiche, soffre la nostra cultura contemporanea è l’idiosincrasia tra una interiorità che, vittima di un individualismo solipsistico e narcisistico, rende l’uomo un’isola (contrariamente a quanto afferma Thomas Merton), ed una visibilizzazione, in questa società dell’immagine, che restituisce l’esteriorità del soggetto in una virtualità di relazioni invisibili, che sembrano irreali; pensiamo alle amicizie e ai legami virtuali dei social network6, tra risorsa e spersonalizzazione. È come che l’esteriorità della soggettività fosse un’identità che non ha nulla a che fare con l’interiorità. Si tratta di una coscienza non civile, che potremmo definire, in un certo senso, pubblica: una coscienza pubblica in-civile, precisamente in quanto il divario tra il pubblico ed il civile consiste essenzialmente nella mancanza di assunzione di quella responsabilità fraterna e comunitaria che sta alla base dell’impegno politico, inteso come impegno per la polis, impegno del e per il bene comune. Per sviluppare una corretta educazione della coscienza civile rispetto ai legami sociali, occorre, in prima ed ultima istanza, concentrarsi sulle dinamiche della coscienza personale, per recepire ed educare in essa una autentica libertà. Da più parti, infatti, autorevoli studiosi affermano che non c’è mai stata una civiltà come la nostra nella quale non si è mai stati così poco liberi senza sapere di esserlo. È un paradosso: la civiltà europea non è mai stata così priva di libertà come oggi, che siamo nell’epoca del mercato globale e della liberalizzazione di tutto7. Oggi le ricerche su Rosmini mirano a mettersi in rete. Pensiamo, in queste terre, a Michele Federico Sciacca, ma anche ai fratelli Sturzo, e non solo: la Sicilia vanta numerosi studi su Rosmini e anche questo IV Colloquio vuole essere una tappa per porre in rete ulteriormente le istituzioni culturali che si occupano di Rosmini. Per quanto ci riguarda, come Cenacolo Rosminiano Emiliano-Romagnolo, intendiamo anche noi tentare di offrire il nostro contributo8: lo sfondo su cui si muove la Cfr. A. Spadaro, Cyberteologia, Milano 2012. Cfr. P. Sequeri, L’ombra di Pietro. Legami buoni e altre beatitudini, Milano 2006, 126-127. 8 Cfr. a tal riguardo due delle recenti pubblicazioni del Cenacolo R. E-R: F. Bellelli-E. Pili (ed.), Ontologia, fenomenologia, nuovo umanesimo. Rosmini ri 6 7
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riflessione del Cenacolo R. E-R ha nella coscienza uno dei suoi temi principali, oltre a quello del nuovo umanesimo in Cristo, nel cammino comune della Chiesa italiana anche dopo il Convegno di Firenze. Alla luce anche di questi percorsi in che cosa possiamo identificare uno dei principali ed innovativi ed imprescindibili contributi di Rosmini? Su questi temi è cruciale la riflessione sulla questione metafisica e ontologica: uno dei principali motivi di fraintendimento di Rosmini, ora risolto, è stato, infatti, l’attribuzione al Roveretano di un’interpretazione “eterodossa” di Tommaso d’Aquino. Una delle critiche più serrate su questo punto a Rosmini è venuta proprio da Modena9, ed ha contestato, in particolare il Trattato della coscienza morale, alcune proposizioni del quale sono state successivamente poste nelle XL proposizioni messe all’Indice. A proposito del rapporto tra teologia e filosofia, oggi di urgente e scottante attualità, abbiamo l’Enciclica Fides et ratio di San Giovanni Paolo II che ha offerto delle linee su questo punto specifico, in un quadro che, allo stato attuale, generativo, Roma 2016; F. Bellelli-G. Gabbi (ed.), Profezia e attualità di Antonio Rosmini, Stresa 2016. 9 Oltre che alla curatela alla quale ci permettiamo di rimandare F. Bellelli (ed.), Tommaso e Rosmini: il sapere dell’uomo e di Dio fra due epoche, numero monografico, Divus Thomas, (1/2011), tale questione, anche nella realtà locale modenese, ci sembra risolta, nel senso di precisare che l’ermeneutica che Rosmini fa di Tommaso è più che corretta, come segnala lo stesso Direttore del Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa, in U. Muratore, Cinquant’anni di passione. Vita del Centro Rosminiano di Stresa, Stresa 2016, 248-250. Tutto ciò, segnatamente, in due circostanze, verificatesi entrambe a Modena: a) l’evento dell’inaugurazione del Cenacolo Rosminiano E-R, del 18 novembre 2011, disponibile, insieme ad altre attività culturali, sul canale you tube dell’associazione “Spei lumen”, al link https://www.youtube.com/channel/UC8YVc8zoFz48SX3tSmfxNlg e sul sito nel Cenacolo stesso, in corso di realizzazione, all’indirizzo www. cenacolorosmianiano.emiliaromagna.it; b) sempre a Modena, il 18 novembre 2011, presso la Camera di Commercio, l’intervento, all’interno della presentazione del numero monografico su Tommaso e Rosmini, di G. Barzaghi, Intrecci di verità, su www.cattedrarosmini.org, all’indirizzo http://www.cattedrarosmini.org/site/view/ view.php?cmd=view&id=148&menu1=m2&menu2=m6&menu3=m59.
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ci consegna un pluralismo a volte confuso e disorientato riguardo al rapporto che ci dovrebbe essere tra filosofia e teologia e riguardo a quale filosofia si debba offrire ai teologi che vogliono riflettere sulla Rivelazione cristologica. La filosofia è essenziale alla teologia, ed il pluralismo filosofico in teologia, che ha ratificato e propiziato l’enciclica Fides et ratio, che, al n. 74, cita, tra gli altri autori, anche A. Rosmini (nel ’98 non ancora beatificato), intende affermare, ovviamente, non tanto un relativismo filosofico, quanto piuttosto la necessità, avvalendoci delle parole dello stesso Rosmini, di elaborare un “sistema aperto della verità” che, nell’Introduzione alla filosofia il Roveretano afferma debba essere uno degli scopi, uno dei fini per i quali esiste la filosofia, a sua volta ricavata dalle viscere del cristianesimo: essere un solido e valido fondamento per la teologia. C’è una grande querelle, sia filosofica sia teologica, su questi argomenti, dopo la grande riemersione di Duns Scoto nel Novecento, basti solo rimandare su questi temi a M. Heidegger. Le domande di fondo che ci si pone sono: “Dobbiamo dire che la filosofia è solo ancilla theologiae? Quindi una scienza subalterna alla teologia, che è scientia Dei et beatorum? Oppure dobbiamo dire, con Duns Scoto, che c’è una correlazione e una reciprocità tra sapere filosofico e teologico?”. Il falso dilemma della scelta tra Tommaso e Duns Scoto è già stato risolto da Rosmini, il quale, in particolare nel suo Epistolario e nella Teosofia, afferma chiaramente, anzitutto, che Tommaso è il riferimento teologico principale della sua elaborazione teoretica e, in secondo luogo, afferma che tra Tommaso d’Aquino e Duns Scoto c’è più convergenza che divergenza e che le loro prospettive sono più che componibili dal punto di vista metafisico. In base a questo esempio il metodo che ci consegna Rosmini è un metodo che assume la prospettiva moderna, diremmo quanto di meglio si trova proprio nella prospettiva illuministica: «Esaminare ogni cosa e tenere ciò che è buono» (1Ts 5,21). È un metodo filosofico-teologico di verifica, di ascolto, di dialogo, di accoglienza, di tutte le istanze filosofiche che possano venire in una concezione cattolica della verità, cioè in una concezione universale della verità. Questo, sul tema della coscienza, è estremamente importante: per Rosmini la coscienza è giudizio speculativo di un giudizio pratico,
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almeno del secondo ordine di riflessione. Che cosa intende affermare Rosmini con questa definizione? In questa definizione Rosmini intende giungere ad una sintesi tra la filosofia classico-medioevale e la filosofia moderna: in questa definizione si trova Tommaso, oltre che Aristotele, Kant e l’idealismo tedesco. In questa definizione di sintesi prospettica Rosmini esprime anche il fatto di essere un proto-fenomenologo, un anticipatore della fenomenologia di Husserl, in una prospettiva tale per cui la fenomenologia stessa non si costituisce senza o contro la metafisica e, viceversa, in una prospettiva tale per cui la metafisica stessa viene (auto-)compresa in modo non incompatibile con un confronto ermeneutico-epistemologico con la fenomenologia. Giudizio speculativo di un giudizio pratico, infatti, costituisce l’incontro della Critica della ragion pura e della Critica della ragion pratica di Kant: tale incontro è reso possibile dal fatto che Rosmini re-imposta in modo non inconciliabile il rapporto tra fenomeno e noumeno, proprio a partire dal sintesismo delle tre forme dell’essere, segnatamente nel Nuovo saggio sull’origine delle idee e nell’Antropologia in servizio della scienza morale. L’originalità, dal nostro punto di vista, di questa definizione teoretica della coscienza sta nel secondo ordine di riflessione. Che cosa si intende per secondo ordine di riflessione? Si intende che la moralità del soggetto non è compiuta nel momento in cui ha la consapevolezza del senso etico. Affinché il soggetto-persona abbia la consapevolezza del senso etico, afferma Rosmini, occorre anzitutto che sia chiara la differenza teoretica tra il senso morale, che fa parte ontologicamente della struttura umana, insieme alla consapevolezza di questo senso morale (che costituisce la intrinseca riflessività dell’essere, e dell’essere che è originariamente personale) ed il secondo ordine di riflessione, che, per Rosmini, è la consapevolezza di questa consapevolezza, la quale è almeno del secondo ordine di riflessione. Questa tipologia di consapevolezza rimanda al confronto teoretico con le sintesi passive di Husserl10, ed è una consapevolezza che, per essere minimale, ha bisogno È riscontrabile questa attenzione precipua nelle attività proposte dal Centro di Studi e Ricerche “A. Rosmini” dell’Università di Trento (al quale afferisce anche la rivista «Rosmini Studies»), tra le quali segnaliamo in particolare il Ciclo di 10
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di essere consapevolezza di consapevolezza, e tuttavia può arrivare ad una grandissima profondità, pensiamo alla figura di Santa E. Stein, che arriva alla consapevolezza di una consapevolezza che, nella mancanza di consapevolezza di un regime totalitarista come quello nazista, il gesto più importante che può fare è quello di essere solidale con il popolo ebraico immolandosi, quale cattolica consacrata al Signore con la regola del Carmelo, nella camera a gas nei primi d’agosto del 1943 (presumibilmente il giorno 2). È in questo luogo teoretico che, a nostro avviso, si colloca in Rosmini l’anticipazione di tutta la tematica di M.Foucault11 relativamente alla questione del soggetto e della soggettività: ciò significa che per Rosmini il massimo dell’ontologico si dà in quello che, dal punto di vista strettamente teoretico-classico, sembrerebbe essere il luogo dove c’è il meno ontologico dell’ontologico. Nell’esercizio del secondo ordine di riflessione, per Rosmini, in questa specifica riflessività del soggetto emerge e si trova quanto di più ontologico sia dato nell’ordine dell’essere triadico-trinitario. L’evanescenza dello spirito della soggettività è un atto riflesso che non sembra essere determinabile in senso oggettivistico dal versante metafisico, ed invece è quanto di più ontologico-metafisico sia dato, in quanto esprime al meglio la libertà del soggetto. Infatti giudizio speculativo di un giudizio pratico, dal punto di vista platonico aristotelico-tomista, è l’incontro tra l’intelletto agente e l’intelletto possibile, nella modalità del superamento dell’intellettualismo e del volontarismo, in virtù del sintesismo rosminiano delle tre forme dell’essere. A proposito di ciò è visibile conferenze “Rosmini e la fenomenologia”, a.a. 2015-16, all’interno del quale ciclo, sono intervenuti, tra gli altri, le prof.sse A. Ales Bello e la stessa C. Canullo. Le implicazioni tra Rosmini e la fenomenologia ci sembrano estremamente interessanti e da approfondire, anche nei termini della rigenerazione di tematiche quali l’educazione e la politica, nell’ottica di propiziare trasformazioni culturali. 11 Sulla possibile elaborazione di un’etica teologica della verità ci permettiamo di rimandare a F. Bellelli, Etica originaria e assoluto affettivo. La coscienza e il superamento della modernità nella teologia filosofica di Antonio Rosmini, cit., 259265. In quest’ottica ci sembra possa essere interpretato il contributo di C. Vecchiet nella presente curatela.
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come e perché Rosmini preferirebbe dire che, da questo punto di vista, è meglio Platone. Il motivo di ciò risiede nel fatto che Rosmini prende sul serio la terza navigazione di Platone, a proposito della chora. Al termine di tutta la sua speculazione filosofica Platone afferma che bisognerebbe che noi andassimo in questa direzione, la terza navigazione, che non è né l’idea dell’essere né la materia che imprigiona le idee nella forma reale dell’essere, ma questa navigazione è troppo pericolosa, cosicchè per la speculazione è meglio fermarsi all’essere reale e all’essere ideale. Rosmini percorre la terza navigazione ponendosi la domanda se la chora, dal punto di vista teoretico, abbia un’identità formale. L’alternativa non è tra l’essere ideale e l’essere reale, con i due possibili esiti che l’uno sia ricondotto all’altro e per arrivare a dire chi dei due “si mangia” l’altro. Senza smentire il principio di non contraddizione Rosmini afferma che tertium datur: si tratta della terza forma dell’essere, l’essere morale, il quale ha una costitutività teologica. Si afferma che Rosmini non ha compreso la teoresi di Tommaso d’Aquino perché si sono affermati: a) quello che viene definito il realismo metafisico proprio del tomismo e del neo-tomismo, che conosce oggi la declinazione e ridefinizione del tomismo analitico; b) il realismo critico, che a sua volta anticipa il realismo trascendentale, in base ai quali occorre affermare che l’idea ha, in un certo senso, per alcuni autori, la precedenza sulla realtà. A proposito di ciò la nascita del tomismo trascendentale si colloca al cuore di questa querelle12. Nella storia della filosofia questa posizione precede l’idealismo trascendentale e conosce un ressourcement dialettico, sia filosofico, sia teologico, rispetto all’idealismo medesimo, che passa per una rilettura che di Husserl viene proposta da Heidegger, e, attraverso Heidegger stesso, fino ai fenomenologi contemporanei. Tra tutti i fenomenologi, per E. Levinas, mentre per la filosofia classica l’etica è, semplificando al limite della mistificazione, un La prospettiva di Rosmini non ci sembra sovrapponibile con la terza navigazione prospettata da V. Possenti, Nichilismo e metafisica: terza navigazione, Roma 2004. A proposito del tomismo trascendentale suggeriamo di rileggere, nel quadro teoretico qui prospettato, la critica di C. Fabro a K. Rahner, in C. Fabro, La svolta antropologica di Karl Rahner, Segni 2011, alla luce del contributo di M. Krienke, Rosmini e il tomismo trascendentale, in F. Bellelli (ed.), Tommaso e Rosmini, cit., 341-388. 12
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derivato dell’ontologia, la vera forma dell’ontologia è l’etica. È il primato dell’etico ad essere fondativo di tutta la teoresi. Ebbene Rosmini vede, in anticipo rispetto a Levinas, che questa prospettiva si trova già in Platone. Mentre Levinas afferma che non si può dare forma teoretica all’intuizione dell’etica come ontologicamente originaria, Rosmini afferma invece il contrario: la terza navigazione può esser fatta con successo: si tratta della forma morale dell’essere. La forma morale dell’essere si esperisce proprio nella coscienza come giudizio speculativo di un giudizio pratico almeno del secondo ordine di riflessione: questa è la forma teoreticamente compiuta della forma morale dell’essere13. Ci sono pertanto tre forme dell’essere, e questo orizzonte teoretico rosminiano sposta tutte le coordinate dell’idealismo e della metafisica classica, del rapporto tra teologia e filosofia. È in questo quadro teoretico di riferimento che Rosmini rilegge Tommaso, reperendo in Tommaso stesso le coordinate teoretiche della prospettiva delle tre forme dell’essere14. Sciacca porta all’evidenza teoretica come per Rosmini la struttura della riflessione si fondi sull’essere triadico e trinitario. Le scuole teologico-filosofiche che stanno elaborando anche per altre vie l’ontologia trinitaria stanno individuando in Rosmini un interlocutore imprescindibile ed insostituibile15. I motivi della necessità della distinzione e della correlazione tra essere triadico e trinitario sono molteplici, e tra essi uno è di particolare importanza, perché il suo fraintendimento è stata una della cause dell’incomprensione di Rosmini, che ha condotto all’errore di averlo accusato di anticipare il Piero Sapienza, in modo particolare, anche con le sue pubblicazioni sulle attività della pastorale sociale dell’Arcidiocesi di Catania e sull’educazione, nel complesso dell’attenzione di vari studiosi siciliani al pensiero politico-educativo di Rosmini, mostra una linea pratica di applicazione di questa prospettiva. 14 Su questo tema, tra tutti, si veda F. Percivale, Da Tommaso a Rosmini. Indagine sull’innatismo con l’ausilio dell’esplorazione elettronica dei testi, Venezia 2003. 15 Si veda in particolare su questo il contributo del teologo don Piero Coda, Preside dell’Istituto Universitario Sophia, afferente al movimento ecclesiale dei Focolari, e quello della Comunità di San Leolino, fondata da don Carmelo Mezzasalma. 13
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modernismo16: se, infatti, non si riconosce la sproporzione, la massima dissimilitudo tra l’essere triadico e trinitario si scade nel modernismo, si viene condotti, cioè, ad affermare che Dio è un prodotto del soggetto umano e non che è il soggetto umano ad essere creato e redento da Cristo, che, nella teologia di Rosmini, si rivela soprannaturalmente non nell’ordine dell’essere ideale, bensì nell’ordine dell’essere reale. Per Rosmini, al contrario, nell’analogia, che è uno degli altissimi strumenti teoretici di cui si avvale il Concilio Lateranense IV, vige la maior dissimilitudo nel rapporto tra la natura umana e divina di Cristo, rileggendo il dogma di Calcedonia. Questo principio teologico, che ha un valore metafisico-filosofico, Rosmini lo applica al discorso tra l’essere triadico e trinitario. E specifica in molte parti della sue opere, specialmente nella Teosofia, che l’essere morale nell’ordine creatotriadico non è lo Spirito Santo, mentre l’essere morale nell’ordine increato-trinitario è lo Spirito Santo. Nell’idealismo tedesco, dove lo spirito assoluto è la coscienza che il soggetto ha di se stesso, in modo tale che l’autocoscienza che l’assoluto ha di se stesso coincide con Dio, manca il rigore teoretico di Rosmini. Rosmini, in ogni caso, si misura anche con l’idealismo, e lo rilegge precisamente mediante questo dispositivo teoretico, compiendo questa operazione nell’ottica della maior dissimilitudo, giungendo ad affermare che la coscienza personale umana è un riflesso partecipato dello Spirito Santo: nello stesso tempo, al contrario, né la coscienza personale umana è lo Spirito Santo né lo Spirito Santo è la coscienza personale umana17. È in particolare il prof. S. Latora ad aver approfondito queste tematiche, specialmente in terra siciliana ed in riferimento ai fratelli Sturzo. L’orizzonte filosofico che resta da approfondire, anche in merito alle tematiche politiche ed educative, è quello del rapporto teoretico tra la prospettiva di Vincenzo La Via e A. Rosmini, che attraversa tutte le fasi degli studi rosminiani. 17 Con la prospettiva teologica di Conigliaro dialoga M. Salvioli, Rosmini dopo Milbank: riflessioni sul tema della grazia nell’antropologia soprannaturale, in F. Bellelli-E. Pili (edd.), Ontologia, fenomenologia e nuovo umanesimo, cit., 77-95. Oltre ai proff. G. Lorizio e A. Staglianò, affronta la prospettiva teologica di Rosmini, sul versante della teologia naturale-razionale S. F. Tadini, Il problema di Dio nella metafisica rosminiana, Milano 2015. Ci sembra che la prospettiva delineata 16
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In che cosa consiste, quindi, la libertà in ottica teologicofenomenologico-metafisica? La libertà consiste nel rapporto tra la forma morale in ambito triadico e la forma morale in abito trinitario. Nel vangelo di Giovanni Gesù afferma che è lo Spirito che dà la vita, lo Spirito guiderà i credenti alla verità tutta intera, che è Cristo stesso, lui che di sé afferma: «Io sono la Via la Verità e la vita» (Gv 14,6) e la Verità che ci rende liberi18. Tutta la questione della modernità di Rosmini può passare attraverso questa linea di pensiero interpretativo. Rosmini è per un cristianesimo della responsabilità del soggetto, un cristianesimo della coscienza intesa come adesione libera della volontà personale della verità dell’essere, che si rivela in Cristo. Quello di Rosmini, quindi, da un lato, non è un cristianesimo oggettivistico della legge per la legge, e, dall’altro lato, non è neanche un cristianesimo soggettivistico, cioè un soggetto che si mangia la legge e che diventa legge di se stesso, che non ha bisogno di nessun tipo di oggettività. Tutto ciò, a nostro avviso, manifesta un’attualità straordinaria di Rosmini. Come Rosmini, al suo tempo, è stato accusato di ontologismo e di panteismo, oggi, dopo la parabola nichilistica dei totalitarismi, potrebbe essere accusato di relativismo, di soggettivismo, di mancanza di oggettività: è precisamente vero il contrario. Rosmini elabora una sintesi perfetta tra l’esteriorità e l’interiorità. L’esteriorità assoluta per il soggetto umano secondo Rosmini è l’oggettività dello Spirito Santo che prenderà ciò che è del Verbo e ce lo annuncerà-comunicherà. L’interiorità è l’appropriazione che il soggetto umano fa della comunicazione della verità di Dio. L’ultimo punto del quale vogliamo trattare è la svolta affettiva della metafisica. L’essere ideale indica la verità, l’essere morale indica il bene, l’essere reale indica il sentimento, indica, in un certo senso, l’amore. Si potrebbe obiettare che l’amore appartiene specificamente alla forma morale. La prospettiva che Rosmini elabora è un prospettiva in cui per conoscere la verità occorre amarla. Come Pascal, sulla nel convegno che soggiace a questa curatela propizi un allargamento dei confronti, che inserisce variabili ed ermeneutiche che si aggiungono a quelle già consolidate. 18 Su questo tema del rapporto tra libertà umana e libertà divina si veda l’originale contributo di G.P. Soliani in questa curatela.
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scorta di S. Francesco di Sales, anche Rosmini afferma che ci sono ragioni del cuore, che la ragione non può conoscere, mentre il cuore non può conoscere le ragioni della ragione, se ci si limita all’essere triadico. Cartesio afferma che tra la res cogitans e la res extensa ci sono differenze incommensurabili nell’ordine dell’essere: il protocollo del cartesianesimo è che la verità è anaffettiva, da cui, per ottenere l’oggettività della verità, il protocollo epistemologico prevede che si debba prescindere dalla soggettività del sentimento. Tutta la scienza moderna si definisce e nasce da questa divaricazione che, per Rosmini, è la causa remota del razionalismo teologico: una delle opere che scrive Rosmini è proprio Il razionalismo teologico. Il Vaticano II ha voluto, tra le altre finalità, correggere la teologia proprio dal rischio del razionalismo teologico, che fa proprio il protocollo cartesiano, così sintetizzabile, in una formulazione volutamente estremizzata per esprimere la paradossalità intrinseca al cartesianesimo (ed incompatibile con la struttura della verità cristiana, per la quale chi non ama non conosce): se si vuole conoscere occorre smettere di amare, la verità che si raggiunge dal punto di vista della sperimentabilità scientifica deve essere priva di qualsiasi componente affettiva. Le neuroscienze, oggi, rischiano di definirsi proprio con la tentazione di dire che l’oggettività anaffettiva della indagine neuroscientifica è il criterio prioritario per la conoscenza dell’essere umano19. Rosmini proprio su questo porta una critica radicale e pertinente e dice: l’oggettività della verità è completa se e solo se si tiene conto del fatto che l’esperienza empirica non può mai prescindere, per essere compresa nell’intero della sua datità, dal sentimento. Rosmini, in particolare, denomina questo dispositivo ontologico-teoretico “affezione”: l’affezione è l’imprimersi nell’essere reale del soggetto della struttura reale dell’essere oggettivo. Riprendendo la definizione Per una corretta ed ampia impostazione della questione epistemologica delle neuroscienze in rapporto agli altri saperi, in particolare quelli filosofico-teologico si veda: L. Paris, Sulla libertà. Prospettive di teologia trinitaria tra neuroscienze e filosofia, Roma 2012, senz’altro da mettere in dialogo con G. Picenardi (ed.), Uomini, animali o macchine. Scienze, filosofia e teologia per un “nuovo umanesimo”, Stresa 2015. 19
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di persona che offrono Boezio e Tommaso, Rosmini, dando una definizione triadico-trinitaria della persona, afferma che l’uomo non è dato solo da due principi essenziali, quali anima e corpo: l’uomo è dato da tre principi, che sono un unico principio, sia della persona divina in teologia, sia della persona umana in antropologia: il principio dell’essere ideale è il principio intellettivo, il principio dell’essere reale è il principio senziente e il principio dell’essere morale è il principio volitivo. Per Rosmini, quindi, la persona è un co-principio intellettivo-senziente-volitivo. A partire da questo, ri-comprendendo, tra l’altro, che la scienza moderna nasce dal francescanesimo, come evidenzia la Laudato si’ di Papa Francesco, è la scienza stessa che può trarre profitto da un’epistemologia teologico-antropologica che ricomprende il cartesianesimo e rende comprensibile il valore empiricosperimentale dell’elemento teoretico dell’affezione, anche nell’ambito delle neuroscienze. È la pro-affezione ad essere originaria rispetto all’auto-affezione: questo dato fenomenologico, ricavabile dalla lettura di Rosmini alla luce della quarta fase, col quale può esser riletto il pensiero di M. Henry, come afferma C. Canullo20, può propiziare vie fenomenologiche teoreticamente nuove, anche in dialogo con E. Falque. Questa ci sembra una linea di ricerca estremamente interessante. Si potrebbe obiettare che la verità è definita in modo esaustivo anche solo con il principio oggettivo intellettivo e con il principio morale. In questo modo, tuttavia, tralasciando la parte senziente, si avrà una verità oggettivistica e, dal punto di vista etico, un soggettivismo da cui non si riesce ad uscire. Come risolvere, allora, questa contrapposizione storicamente insanabile tra l’oggettività della verità intellettualistica, scientifica e la soggettività etica del principio morale? Rosmini afferma che è il criterio affettivo che ripristina l’equilibrio antropologico tra l’esteriorità e l’interiorità21. È il principio senziente che dice che l’emotività, la componente sensitiva senziente, la “sensibilità per il senso”, come afferma Sequeri, è un criterio metafisico Orientativo in questo senso C. Canullo, La fenomenologia rovesciata. Percorsi tentati in Jean-Luc Marion, Michel Henry e Jean-Louis Chrétien, Torino 2004. 21 Su questo tema dell’interiorità/esteriorità in ambito politico si veda anche il contributo di C. Vecchiet in questa curatela. 20
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e fenomenologico, che si esprime principalmente nel valore ontologico del simbolo. Questa questione fa emergere sullo sfondo un’altra questione, quella del peccato originale. La teologia cattolica afferma che se viene affermato che il principio senziente è un criterio di verità, tale affermazione deve essere composta con ciò che inerisce al peccato. Si pensi a tutta l’antropologia di San Paolo, la quale, in una certa ermeneutica, è stata travisata: la carne che è la causa del peccato non è la carne qua talis, bensì soma e non sarx. Occorre sviluppare un’antropologia del fatto che il Verbo si è fatto carne e non si è fatto soma, per distruggere soma con la risurrezione del suo vero corpo. La tradizione cristiana (occidentale) sembra troppo impaurita della presunta pericolosità della carne-sarx, in un vero e proprio pessimismo antropologico che rischia di essere una mancanza di fede nella capacità del Creatore di essere più forte delle forze del male, oltre che di svilire il principio dell’Incarnazione del Verbum-caro e del criterio teologicosalvifico della caro salutis cardo: Rosmini non aveva questa paura, in quanto aveva la fiducia antropologica che l’uomo creato da Dio è tutto buono e, quindi, la carne, intesa come pro-affezione, prima di essere tentatrice e causa che porta fuori dalla verità, prima di tutto dona l’ontologia della verità. Qui ci sarebbero altri due addentellati da introdurre e sviluppare: a) il primo addentellato sarebbe la “teologia della donna”, auspicata da papa Francesco, perché, se abbiamo una visione positiva della corporeità, allora dobbiamo superare, circa, più di un millennio di storia, più o meno vulgata, di cristianesimo, che, esemplificativamente, ci dice, erroneamente, che prima di tutto la donna è tentatrice; b) l’altra questione è la sacramentaria, cioè la rilettura in chiave sacramentale, in particolare eucaristica, che può venire da questa considerazione. Rosmini offre una teoresi sulla coscienza personale, che, nella ritrovata interiorità, è in grado di esprimere un’esteriorità tale per cui la libertà responsabile della persona diventa il legame che porta a edificare la polis, nel perseguimento dei sui fini, primo ed ultimo dei quali è il vero bene comune del retto giudizio, speculativo e pratico, almeno del secondo ordine di riflessione, della coscienza politico-sociale, e naturale-soprannaturale.
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1. Il rovesciamento è realmente possibile? Chiedere se il rovesciamento sia realmente possibile è una domanda non poco provocatoria, soprattutto dopo aver riflettuto sul possibile rovesciamento della fenomenologia2. Infatti che cosa mette in atto, un rovesciamento, che non sia già stato fatto? E, soprattutto, non rischia di essere la variazione in un’altra, se non addirittura ennesima, formalità metodologica? Due questioni che inviterebbero, d’acchito, a desistere dal proseguire in una strada incerta. Eppure, proprio il tema che ci convoca, La polis: forme dei legami e libertà tra coscienza personale e coscienza civile, insieme al libro di Fernando Bellelli che mette questo motivo alla prova del pensiero di Antonio Rosmini3, rappresenta la possibilità di pensare il rovesciamento. E forse, essendo quest’ultimo un capovolgimento per cui ciò che d’acchito non è visibile si manifesta col compiersi di questo “gesto”, proprio la radice affettiva del legame, radice invista ma che genera i legami stessi, potrà darsi e farsi cogliere nella sua realtà irriducibile. Perciò, chiedendo se qualcosa sia realmente possibile, chiediamo se una qualche determinazione possa produrre o meno un “effetto”, Docente di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata Ci permettiamo di segnalare, ma soltanto per motivare la provocazione della questione, il nostro La fenomenologia rovesciata. Percorsi tentati in Jean-Luc Marion, Michel Henry e Jean-Louis Chrétien, Torino 2004. 3 Cfr. F. Bellelli, Etica originaria e assoluto affettivo. La coscienza e il superamento della modernità nella teologia filosofica di Antonio Rosmini, Milano 2014. 1 2
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sia reale e non soltanto vera per l’adeguamento con le capacità conoscitive del soggetto senza tuttavia rinunciare a una qualche universalità. E una risposta affermativa, che conferma la non occasionalità e, per certi versi, l’universalità di questo gesto filosofico, sta nel fatto che esso si dà e si è già dato nella storia della filosofia in modi universalmente attestabili, nei diversi paradigmi filosofici che si sono avvicendati. Si obietterà che più che di rovesciamento si è parlato di parricidio, Platone nei riguardi Parmenide, Aristotele nei riguardi Platone e via via fino ai nostri giorni. Non si è trattato, però, di inconsueti atti di violenza ma, a ben vedere, si è trattato di un’indagine partita sempre dalle “cose stesse” lette attraverso un’ipotesi altra e nuova ma pur sempre maturata “al seguito di”, ossia compiendo una di quelle azioni che il greco e il latino indicavano con i verbi dalla forma media, esprimenti un significato attivo in forma passiva; azione che, nel caso de rovesciamento, è espressa dal verbo epomai/sequor. Ovvero: ci si mette “al seguito di” (accezione attiva del verbo epomai/sequor) senza sapere dove effettivamente si potrà arrivare (accezione passiva del verbo epomai/sequor). Questo è il rovesciamento: si segue fino in fondo un pensiero che, se è stato animato da un germe di verità e di autenticità, conduce a una novità che celava al suo fondo. Posto che la storia della filosofia conferma il fatto che il rovesciamento è realmente possibile, come possiamo intenderlo? Se andiamo a vedere la storia di questi rovesciamenti, notiamo che essi presentano un tratto indubbiamente tematico che consiste nel cambiamento del punto di vista, come René Descartes scriveva nel 1640 a Marin Mersenne dicendo di voler rovesciare l’ordine delle conoscenze non partendo, per la sua metafisica, da Dio e dall’essere ma da ciò che per primo si conosce filosofando, e dunque la certezza inconcussa dell’“ego sum, ego existo”. Questo rovesciamento tematico, che potremmo indicare con il termine tedesco Umkehrung, svolta, si accompagna a un’altra accezione di rovesciamento, da intendersi come filosofico, il quale è la messa in luce del rovescio invisto ma che il gesto del rovesciare fa apparire, come quando una busta viene aperta o qualcosa viene “rivoltato”. In questo senso si tratta di rovesciamento come Umschlag, rovescio “di” qualcosa ma anche busta e involucro che pro-
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tegge la novità che costudisce per consegnarla alla generatività sempre nuova del pensiero. 2. Riscoprire ciò che si conosce Il rovesciamento non inventa niente ma, ponendosi in continuità, ri-scopre la generatività di cui un pensiero non cessa di essere capace. Generatività di cui parla Umberto Muratore nella Postfazione del volume Ontologia, fenomenologia e nuovo umanesimo, edito da Fernando Bellelli ed Emanuele Pili4, sottolineando come il cambiamento del metodo nell’approccio al pensiero rosminiano sia foriero anche di una nuova generatività dei contenuti del filosofo di Rovereto. In queste pagine, tale generatività sarà interrogata alla luce della possibile svolta (affettiva) che, attraverso il tratto simbolico del rovesciamento, arreca un possibile rinnovamento della metafisica. Parliamo di tratto simbolico perché il rovescio è rigorosamente tale. Infatti, esso si conosce e si dà soltanto in una co-rispondenza originaria, ovvero in quanto è arrecato dal lato, per così dire, diritto, come il rovescio di un tappeto o di un ricamo sono ciò che rendono visibile il lato esposto, ciò che si vede. Quando, infatti, queste trame vengono rovesciate, stupisce il fatto che il lato visibile, il disegno, si forma effettivamente nel rovescio. Ma affinché ciò si dia occorre un interstizio, sebbene minimo, tra i due lati. Se tra diritto e rovescio vi fosse una continuità senza soluzione, vedremmo e capiremmo sempre la stessa cosa e non coglieremmo mai la differenza. Invece, la tela bianca che viene ricamata, è l’interstizio tra il disegno visibile e la trama non direttamente visibile ma che permette di vedere il visibile stesso. Si dirà che questo vale per il ricamo ma non per il tappeto, il quale non preesiste alla trama dei fili. Eppure, anche l’apparente semplicità di questo “oggetto” è interrotta perché l’intreccio dei fili non dispone solo un “disegno” ma anche un’intelaiatura che rompe la continuità dei lati facendosi contiguo. Un tappeto è un disegno che si dà in una trama di fili, con la quale nasce e che lo arreca e preserva, secondo la complessa natura del rovescio. 4
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Ora, proprio questo legame dichiara l’inevitabile ricorso al simbolico, ossia l’interstizialità che domanda legami. Di fatti, là dove c’è contiguità e non insolubilità, si dà possibilità di un legame che si istituisce “per le cose stesse”. Il che, tuttavia, non ci esime dal chiedere quale sia la cosa stessa che “si lega” – e dunque quale rovescio possa creare legami reali. Per rispondere, partiremo dal modo in cui in fenomenologia si è di recente parlato di affettività per coglierne la ricchezza ma anche i problemi che pone e, dopo ciò, indagheremo le implicazioni che si aprono non già per le questioni poste ma in vista delle questioni non poste. 3. L’affettività a partire da Michel Henry Tra i tanti autori che, in filosofia, hanno parlato di affettività c’è Michel Henry, il quale ha affrontato la questione soprattutto ne L’essence de la manifestation. L’insistenza con cui il filosofo indaga l’immanenza dell’affezione non esclude la trascendenza ma anzi, attraverso l’affezione del patire si ripensano proprio immanenza e trascendenza. Volendo definire tale senso henryen di immanenza, lo si potrebbe indicare come intensivo nel senso dell’intensus latino, ossia ciò che è vivo, forte, che si incrementa e, incrementandosi e pulsando, cresce. In pagine molto note nelle quali egli interroga l’essenza della manifestazione e contesta che questa sia opera della trascendenza, Henry scrive: «Non essere l’opera della trascendenza significa, per una manifestazione, sorgere e compiersi indipendentemente dal movimento col quale l’essenza si slancia e si proietta in avanti nella forma di un orizzonte; sorgere, compiersi e mantenersi indipendentemente dal processo ontologico di oggettivazione, ossia in assenza di ogni trascendenza». Ma, ed ecco la nuova lettura della trascendenza, «la manifestazione che si produce in assenza di ogni trascendenza è tuttavia la manifestazione della trascendenza stessa. Che una manifestazione, la manifestazione dell’essenza intesa come trascendenza, si produca in assenza di ogni trascendenza, significa quindi: l’atto originario della trascendenza si rivela indipendentemente dal movimento attraverso il quale si slancia in
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avanti spingendosi fuori di sé. L’atto che si rivela indipendentemente dal movimento con quale si proietta fuori di sé, si rivela in se stesso in modo tale che questo “in se stesso” significa: senza andare oltre sé, senza uscire da sé. Ciò che non va oltre se stesso, ciò che non si slancia fuori di sé ma rimane in se stesso senza abbandonare sé o uscire da sé è, nella sua essenza, immanenza. L’immanenza è il modo originario nel quale si compie la rivelazione della trascendenza, e come tale, l’essenza originale della rivelazione»5. Il passo, più che letto come rovesciamento del presupposto della rivelazione, può essere inteso come rovesciamento della coppia trascendenza/immanenza che si uniscono senza confondersi, facendosi ossimoro la cui potenza è capacità della manifestazione stessa. Al di là dell’opposizione – cui la filosofia ci ha resi sensibili – dell’una e dell’altra, nell’essenza della rivelazione trascendenza e immanenza sono insieme senza essere separate né confuse; a dire che i termini si dichiarano nella loro differenza sullo sfondo della loro unione e non a prescindere da ciò che li salda. E il concetto chiave che li salda è quello della ricettività (réceptivité). Ricevere è possibile perché «l’essenza della ricettività originaria che assicura la ricezione della trascendenza è l’immanenza»6. La suggestione di quanto detto non riduce però la forza di un’obiezione: sarà mai possibile pensare un’alterità irriducibile? Domanda che per certi versi anche Henry pone, chiedendo in che modo qualcosa di altro si riveli e manifesti: «Dove risiede la realtà di un contenuto ontologico puro che non sia esteriore all’essenza alla quale appartiene, in che cosa consiste la realtà ontologica di questo contenuto se essa non è separata né differente dalla realtà ontologica dell’essenza stessa? Il contenuto ontologico puro dell’essenza dell’immanenza è costituito da questa stessa»7. Obiettare che così si corra il rischio di perdere la differenza resta legittimo. Ma se il problema non fosse la differenza di immanenza e trascendenza e fosse, invece, la pensabilità stessa della differenza? Se la differenza, cioè, non fosse quello che già M. Henry, L’Essence de la manifestation, Paris 19902, 279-280. Ibid., 281. 7 Ibid., 287.
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distingue immanenza e trascendenza ma fosse ciò che si produce, ponendoci così al di qua di ogni pensiero che parta dalla differenza? La quale c’è, in Henry, anche nella forma di differenza tra ontico e ontologico, ma non è il punto sorgivo, non è la radice da cui il resto dell’albero si sviluppa. Radice che è l’immanenza riletta, però, a prescindere dalla localizzazione, ossia de-localizzata. Se immanenza e trascendenza sono pensate a partire da ciò il cui movimento è in sé o fuori di sé, esse continuano a essere pensate attraverso la localizzazione “dentro-fuori”, interno esterno; in luogo, cioè, di essere pensate in sé, sono pensate “in contrapposizione a”. Ecco, allora, ciò cui conduce l’ossimorica unione di immanenza e trascendenza: essa è tentata per pensare l’interno di un’immanenza non separata dal suo contenuto, dove «non essere separata dal proprio contenuto per l’essenza dell’immanenza significa non porre tale contenuto davanti a sé, non riceverlo come qualcosa di altro, come qualcosa di differente»8. L’accento posto sulla ricettività porta la questione dell’immanenza al di qua della localizzazione perché non legge l’in-sistere dell’immanenza come ciò che resta in sé contro una trascendenza che esce da sé; al contrario, la legge come un in-sistere retroverso. La ricezione (réception), cioè, non è un ricevere dentro ma è un intensificarsi in profondità dell’immanenza, un ritornare dell’in-sistere in sé nel quale si scopre la possibilità stessa che altro sia accolto e riconosciuto come effettivamente altro. Non v’è dubbio che un contenuto sia, per definizione, contenuto, ma la possibilità che sia riconosciuto come tale, come contenuto, non gli appartiene; così, «ciò che l’essenza originaria della ricettività riceve è se stessa»9, affermazione che Henry precisa subito in questo modo: «Ricevere un contenuto è essere modificati, affetti (affecté) da esso»10. Quello che chiamiamo in-sistere retroverso che scava, che erode, è forse intravisto da Henry come «retro-refenza dell’atto di apparire nei riguardi di se stesso»11. Non stupisce leggere ancora che l’essenza della trascendenza è l’immanenza, che l’immanenza della trascendenza è la sua rivelazione Ibid. Ibid. 10 Ibid., 288. 11 Ibid., 289. 8 9
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o che la rivelazione della trascendenza è una rivelazione immanente12. Dove, se non nell’immanenza, qualcosa ci è dato? Ma possiamo essere certi di sapere come l’immanenza sia, e di non sapere invece soltanto che cosa sia l’aggettivo immanente con cui indichiamo un contenuto? Se restiamo in un pensiero che parte dalla differenza localizzata e localizzante il caso è, piuttosto, il secondo. Ma se non pensiamo l’opposizione e la pensiamo come la Chora di cui Bellelli parla proprio nelle pagine dedicate all’affezione e alla svolta affettiva per la metafisica13, comprendiamo diversamente anche il pensiero di Henry. Se accettiamo di compiere questa svolta, si apre la possibilità che l’immanenza sia riletta uscendo dalla concezione localizzante della stessa verso il suo individuarsi nella progressiva erosione che la scopre come ciò in cui si in-siste, o meglio: un in-sistere che retro-verte. Retro-vertendo, tale in-sistere scopre altro, si scopre come capace di ricevere. La differenza tra trascendenza e immanenza non è, allora, precedente, ma si genera nel e per l’intensificarsi di ciò che riceve perché e nella misura in cui si fa capace di ricevere, capacità resa possibile dal fatto che l’in-sistere retroverso non è un’entrata o uscita dall’immanenza ma un intensificarsi. Se, allora, l’affettività si scopre nella sua più autentica capacità di istituire in-sistendo, perché non arrestarsi a questo punto? Che cosa manca? La domanda può essere posta ad Henry soltanto indirettamente, o meglio, solo avendo presente la produzione successiva a L’essence de la manifestation. L’affettività così intesa, infatti, può andare in due direzioni. O immanentizzarsi fino a sclerotizzare l’in-sistere in sé come esclusivo coincidere e stare in sé, oppure aprire l’indagine della trascendenza come il rovescio dell’immanenza che rende quest’ultima, per così dire, ciò che è. Invece, a partire da C’est moi la vérité Henry ha contrapposto la verità della vita immanente alla verità del mondo trascendente, ripetendo a livelli diversi questa contrapposizione drastica, soprattutto nell’ormai celebre contrapposizione tra carne e corpo, delegittimando quest’ultimo con l’intenderlo esclusivo appannaggio dell’apparire del Cfr. ibid., 312-313. Si veda a tal proposito Bellelli, Etica originaria e assoluto affettivo, cit., 290 ss. 12 13
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mondo. E, vorremmo aggiungere, perdendo proprio quell’efficacia simbolica del rovescio da cui si era partiti, giungendo inconsapevolmente a confermare lo “Strano Anello” di Douglas Hofstadter: «Il fenomeno dello “Strano Anello” consiste nel fatto di ritrovarsi inaspettatamente, salendo o scendendo lungo i gradini di qualche sistema gerarchico, al punto di partenza […]. Qualche volta sarà nascosto. Altre volte palese; qualche volta sarà sul diritto, altre volte sul rovescio del lavoro o sarà esposto a ritroso. “Quaerendo invenietis” è la mia avvertenza al lettore»14. Che cosa perde, allora, l’affezione henryenne? Essa perde ciò che teme, ossia la realtà del legame con altro, con ciò che è effettivamente trascendente e non soltanto guadagnato perché immanente. E se per un verso Michel Henry si è spinto più di altri nell’indagine paziente e insistente dell’affettività, a mancare è proprio l’interstizialità che invece abbiamo individuato nella simbolicità che lega il diritto e il rovescio. 4. Interstizialità, distanza che fa vedere L’interstizialità non è accidentale ma è necessaria, in quanto è quella minima distanza che permette di vedere. Dove ritrovarla, tuttavia? Forse, proprio nel prefisso meta della metafisica. Infatti, il prefisso che precede le cose della fisica è preposizione che, con l’accusativo assume sia il significato di “dopo” che dell’andare “oltre, verso”. Il termine greco ha però anche un uso avverbiale, significando “tra”, “insieme”, “in mezzo”. Questo “tra” non va inteso come riaffermazione della debolezza della metafisica, è esattamente il contrario e permette di ripensare quel fondamento che la fenomenologia contemporanea ha temuto perché troppo debitore di una concezione ontologica formulata dalla metafisica moderna. Tuttavia, il fondamento “temuto” e rifiutato da una certa fenomenologia, è il fondamento che esclude ogni fecondo rinvio ad D.R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante trad. it. di B. Veit, G. Trautter, S. Termini, B. Garofalo, a cura di G. Trautteur, Milano 20017 11. 14
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Altro, nello specifico il fondamento soggettivo – ossia l’inconcussum quid – cartesiano. Andando oltre Henry, senza rinunciare alla feconda via dell’affezione, o “via affettiva”, possiamo incrociare un altro senso di metafisica che tenga salda la fecondità della distanza: e che, con ciò, renda possibile proprio il rinvio ad Altro? Forse, su questa strada incontriamo proprio la via della metafisica affettiva riletta di recente a partire dall’opera di Rosmini15. Infatti, se il pensiero di Henry, pur non rinunciando alla trascendenza, riconduce il radicamento di quest’ultima all’immanenza caratterizzantesi, almeno nell’ultima parte del suo pensiero, come Vita nella quale ogni distanza minima della creaturalità si perde perdendosi al contempo ogni senso dell’intelligenza che non sia auto-affezione, tale distanza differenziante si mantiene se sensibilità affettiva e intelligenza sono ri-trattate e ri-pensate per far risaltare una costellazione di temi capace di mostrare che «il suo equilibrio può essere trovato soltanto se si sviluppa una dottrina della sensibilità per il senso come ontologia dell’essere spirituale, che comprende non soltanto la sua onticità metafisica ma la qualità metafisica dell’affezione, di questo elemento indispensabile che è la qualità dell’essere spirituale, che è intelligente, individuale, comunitaria, libera, che non si comprende se non nel registro dell’affezione»16. Se in Henry manca la dimensione ontica che non gli permette di cogliere la distanza tra la Vita e la vita, con il controcanto rosminiano proprio tale distanza feconda, da intendersi come la scoperta di un’accezione ontologica non moderna e che permette di “vedere altrimenti” l’essere stesso, tornerebbe al centro della questione filosofica. E lo farebbe attraverso una questione che Henry non affronta per la sua concezione dell’affezione. In Rosmini, si tratta della centralità dell’essere morale colto «nel sintesismo che ha nell’idea dell’essere il suo elemento portante»17. O anche: «Rosmini ha percepito il limite dell’ontologia Come propone Bellelli nel libro più volte citato. Bellelli, Etica originaria e assoluto affettivo, cit., 203. 17 Ibid., 312.
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classica e l’ha portato […] dentro a una vera e propria elaborazione dell’ontologia, cioè fin sulle soglie dell’autocritica platonica e ha detto che anche la differenza tra l’essere materiale e l’essere spirituale, che pur nel lessico di base si comprende e va assicurata, tuttavia non può essere l’ultima parola perché, appunto, c’è qualcosa che sfugge a questa alternativa e che invece è centrale sia per la comprensione di Dio che dello spirito umano: e tutto ciò è l’essere morale»18. Una volta che è stato detto, allora, ciò che in Henry si dà e ciò che in questo pensiero radicale dell’affettività manca, una volta che è stato detto che cosa Rosmini gli potrebbe fornire, resta un altro passo da fare, il quale consiste nelle prospettive che attraverso questi due guadagni si aprono. 5. Prospettive edite e inedite Quest’“apertura rosminiana” della fenomenologia, rimette in discussione l’horror metaphysicae di tanta fenomenologia contemporanea, horror per tanti versi dovuto all’interpretazione dell’essere come “semplice presenza” (secondo l’eredità mai discussa della linea Heidegger-Derrida). Abbiamo invece cercato di mostrare come il recupero della differenza in quanto distanza che fa vedere, renderebbe possibile anche il ripensamento simbolico del legame tra trascendenza e immanenza. Di più, se l’affettività è pensata per non giustapporre ciò che rende possibile il sentire e l’affettività stessa; se, ancora, anche l’opposizione materiale-spirituale, quando è riletta alla luce di Rosmini, è imprigionante e mostra i suoi limiti e la necessità del suo superamento quando «cominciamo a pensare l’essere spirituale come relazione e forma del rapporto con Dio nella forma dell’affezione, della charitas, dell’agape»19, allo stesso modo le giustapposizioni tra mondo e Vita, tra Vita e le vite, diventano meno rigide e irrigidenti se aperte nella prospettiva di un altro pensiero dell’essere, o meglio: un pensiero altro da quello ereditato dalla modernità. Un primo guadagno che in tal senso potremmo ottenere, concerne al 18 19
Ibid., 298. Ibid., 299.
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lora un altro senso di “presenza” pensabile alla luce del “sintesismo” rosminiano. Soprattutto, si potrebbe ripensare l’affettività henryenne e il pathos che la caratterizza come attività nel pathos e del pathos, dove pathos è il nome dell’affettivo, della capacità di sentire, della com-presenza del senso (attivo) e dell’affezione. Presente, allora, non sarà soltanto ciò che sta sotto mano ma anche quel rovescio che si coglie come radice affettiva e, con ciò, è fondamento che rende possibile ogni sentire e affetto. Si tratterà, certo, di un fondamento speciale, ossia di un fondamento che fonda mentre dà Vita e di una vita che si coglie mentre vive in quanto in-siste nel fondamento. Si tratterà, inoltre, del fondamento che co-risponde alla svolta metafisica dell’affezione indagata in Rosmini e alla svolta affettiva per la metafisica. Perciò, non soltanto la relazione e il legame si danno per un movimento che “viene dall’alto/ altro”, ma addirittura scopriremmo un rovescio che è esso stesso relazione “affettiva” che si vive e scopre soltanto per la medesima vita e assoluto affettivo che si dà e comunica in “vista di e per” (dunque pro-affettiva). Con ciò, per un verso il pensiero di Michel Henry opererebbe un rovesciamento che ritratta il simbolico, per altro verso il suo ampliamento attraverso il pensiero di Rosmini permetterebbe anche un rovesciamento che, in questa ri-trattazione, ripete in modo inedito il rapporto tra una metafisica del fondamento e il legame con altro, legame che in Henry, invece, manca e che esso potrebbe ricevere da una metafisica pro-affettiva. Accadrebbe, con ciò, l’inedita manifestazione di una relazione (simbolica) tra diritto e rovescio, dove al lato diritto della metafisica pro-affettiva risponde il rovescio di un pathos che non si comprende e conosce se, in-sistendo in sé, non scopre altro di sé e il suo aver-da-essere affettività per altro. È questo pathos in quanto fondamento affettivo non per sé ma per altro che risponde simbolicamente e adeguatamente alla pro-affezione che si carica di significato morale (nell’essere morale rosminiano), il nuovo senso di “presenza” che potrebbe essere inaugurato. Si tratterà, cioè, di una presenza non intesa al modo ontico ma al modo generativo che la svolta affettiva rende pensabile. E se il linguaggio ontico della modernità è contestato da Henry, esso lo è per le medesime ragioni per cui lo avrebbe contestato
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Rosmini: l’essere non può essere ricondotto alla sua coestensione con l’intelligibilità20 ma è un “vivente” che si presenta accadendo. Si dirà che con Henry possiamo giungere soltanto a una concezione della Vita del vivente e non a una nuova ontologia. Se però andiamo a leggere una bella definizione rosminiana dell’essere morale, vedremo in essa l’apertura di un’ermeneutica diversa anche di Michel Henry. Scrive Rosmini: «L’essere morale è sentimento regolato dalla verità, è l’amore stesso puro, passivo e attivo […]. Nelle scritture è chiamato carità. Questo è dunque il vincolo più sublime, il più squisito cemento delle umane volontà, che colliga, perfeziona, consuma tutti gli altri», passo che Bellelli commenta scrivendo che «l’affezione, in quanto dinamismo e relazione, è una pro-affezione che è sia struttura antropologica, sia struttura della rivelazione, che riconosce alla moralità una ontologicità che oltrepassa l’onticità in modo incontrovertibile»21, cosa che Henry non avrebbe rifiutato. Non soltanto, allora, qualcosa manca nel pensiero di Henry che una metafisica affettiva vi “aggiunge” rispondendo adeguatamente o simbolicamente a una sua esigenza, ma addirittura qualcosa si scopre meglio di questo stesso pensiero, ossia l’idea dell’essere che è al di là del passivo e dell’attivo perché è agire che accade in grazia di ciò in cui si radica. Ancora, si scopre un modo nuovo di in-sistere, ossia di stare in ciò per cui si è e che si manifesta (o si dà) non che prima di modo del “conatus essendi” spinoziano ma in grazia di ciò che prima di (lo) fa vivere. In questo esser fatto vivere in-sistendo affettivamente nella Vita sta l’apertura affettiva della metafisica che, dopo la fenomenologia di Henry, possiamo pensare. Una metafisica della radice o del fondamento che è tale per l’affettività che apre. 6. Essere e affezione, insieme Scrive Sequeri che «l’intuizione rosminiana a proposito di un originario e radicale intreccio dell’essere e dell’affezione ha di che apSecondo l’accezione di Johannes Clauberg, che egli afferma di formulare a partire dalle Meditationes de prima philosophia di Descartes (cfr. J. Clauberg, Ontosophia, Groningen 1647). 21 Bellelli, Etica originaria e assoluto affettivo, cit., 307. 20
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parire […] come un novum da mettere seriamente al lavoro. Novum dal punto di vista della storia del pensiero, nel momento in cui scopriamo che di questo intreccio dell’affezione e del logos non esiste soltanto la versione di Spinoza […]. Esiste la versione di Rosmini, che vi ha adombrato il fondamento ontologico della decisione»22. Ma potremmo anche dire che rispondendo perfettamente al fondamento affettivo fenomenologico di Henry, la metafisica affettiva si fa possibile chiave ermeneutica del pensiero henryen (non mostrandone soltanto la radice autoaffettiva) e soprattutto volgendo la sua passione teologica non soltanto verso una ripetizione della fenomenologia ma verso un completamento del significato stesso di affettivo. Attraverso Rosmini, perciò, anche un novum dell’affettività emerge, novum perché recupera non soltanto l’affettività del pathos come struttura radicale di ogni affezione ma anche perché scopre che la medesima struttura simbolica, come il lato diritto di un rovescio, sta al fondamento della decisione. Perciò esso è «novum dal punto di vista di una possibilità alternativa per l’iscrizione della relazione teologale nell’attuazione stessa della riflessività etico-affettiva – ossia della coscienza tout court – che istituisce il nesso dell’essere dato e dell’essere dovuto della libertà»23. Con un nota bene: con Rosmini questo novum affettivo e libero non è la ripetizione di un potere ma la provocazione di una libertà che non rinuncia alla verità. Inoltre, con Rosmini si consegna, attraverso l’affezione patica del fondamento, un senso dell’essere diverso, non appiattito sulla riflessione onto-teo-logica e sulla metafisica della presenza, nuovo senso che Henry non conosceva ma che avrebbe certamente amato, come aveva amato il sentimento fondamentale della corporeità in Maine de Biran24. Allora realmente diventa possibile pensare la libertà del fondamento fuori dall’orizzonte del mondo e nell’orizzonte della Vita. E, soprattutto, diventa possibile recuperare non soltanto l’astrattezza della vita ma l’individuazione della stessa in P. Sequeri, in ibid., XII Ibid. 24 Cui aveva dedicato Philosophie et phénoménologie du corps. Essai sur l’ontologie biranienne, Paris 1965. 22 23
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quella che Bellelli affronta come questione della “coscienza credente”, a partire da Rosmini ma anche leggendo Sequeri e altri autori. Qui possiamo rivolgerci a una generazione ancora più recenti di autori, tra i quali Emmanuel Falque. In particolare, a proposito della coscienza credente e della sua struttura metafisico-simbolica, si troverebbe consonanza soprattutto con il primo libro del suo cosiddetto trittico, Le Passeur de Gethsémani. Angoisse, souffrance et mort. Lecture existentielle et phénoménologique25, dove la consonanza sta nella possibile declinazione della “coscienza credente” nell’approfondimento della via ante-categoriale. Difatti nell’uomo v’è, scrive Falque, «quell’immagine di Dio in cui si coglie fin da ora e nella totalità (la) nostra natura»26. Quest’immagine pre-cedente la coscienza credente permette che l’esistenza sia attraversata in modo autenticamente umano. Soltanto se l’attraversamento paziente dell’esistenza è possibile le questioni che la trapassano assumono quel peso che le rende ineludibilmente umane. Ineludibili perché caratterizzanti in proprio, “autenticamente” l’umano esistere al punto da essere momenti in cui la forma umana, l’immagine che l’uomo è, riaccade e si compie. È per questo motivo che, scrive Falque, «Cristo ci insegna a essere uomini – ossia a non fuggire la nostra finitezza – fino a insegnarci il modo in cui possiamo “abbandonarci” nella morte»27. Perciò in un capitolo quanto mai denso28, Falque insiste sul momento del “patire il mondo” per “passare al Padre”. Cristo, cioè, passando da questo mondo al Padre, s’en fait le gué, passa il guado facendo passare, al contempo, il suo dolore al Padre. Dolore che, precisa il nostro autore, non è l’esito di un’esperienza di peccato, ma è esperienza naturale29. Perciò, «soffrendo questo mondo (patire) il Figlio trasmette al Padre (passaggio) il peso della finitezza provata nella morte», fino a implorarlo di infrangere il dolore30. Paris 1999. Ibid., 31. 27 Ibid. 28 Si tratta del IX capitolo dell’opera, intitolato Du dessaisissement de soi à l’entrée dans la chair, ibid., 123-139. 29 Cfr. ibid., 129. 30 Ibid., 130.
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Ma dove, se non nel sentimento fondamentale corporeo, si inscrive questa pre-cedenza, questo ante-categoriale? E da qui, una ricerca nuova, inedita e peculiarmente italiana potrebbe ripartire, indagando l’aggettivo “fondamentale” con cui Rosmini definisce il “sentimento” della coscienza nell’intrinseca apertura che la coscienza vive per l’impronta che intenzionalmente la conduce oltre sé. Apertura che, infine, s’inscrive nel corpo e nella sofferenza che soltanto in esso si traccia. Scrive ancora Falque: «Cristo non soffre e muore al mio posto […]. Come un Passeur che si fa carico di colui che passa, così Cristo converte fin da subito il senso della mia sofferenza perché io ne faccia, con lui, la modalità della mia vita: come luogo di ricezione di un altrove o di un altro dalla mia vita»31. Il che fa scoprire – nella finitezza e, soprattutto, nella finitezza sofferente – l’apertura intima dell’esistenza, dove «la sofferenza resta […] ciò che, quanto più mi lacera, tanto più mi rivela a me stesso […]»32, rivelando l’alterità radicale che mi abita; “altro” di fronte al quale si schiude l’alternativa dell’esistenza, che può sempre accogliere o rifiutare «la presenza in realtà quotidiana di questo altro da me»33. Altro da me che mi precede per farmi esistere sempre e di nuovo rigenerando incessantemente la coscienza; rigenerazione simbolicamente estesa a ogni coscienza e che traccia quella radicale possibilità di legame che paticamente si estende a ogni coscienza radicandosi nella struttura affettiva per la quale ogni vita è vivente.
Ibid., 168. Ibid., 171. 33 Ibid. 31 32
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Gian Pietro Soliani1
Il tema della libertà nel pensiero di Rosmini dev’essere affrontato partendo dall’organismo dell’essere. Da questo punto di osservazione privilegiato, sarà possibile ritrovare nelle opere del filosofo di Rovereto una vera e propria metafisica della libertà, declinata in modo analogico come libertà creante e libertà creata. 1. La libertà divina Rosmini pone esplicitamente il tema della creazione libera da parte di Dio in diverse pagine della Teosofia. Dire che l’atto divino è libero non significa sostenerne la contingenza, considerando Dio come perfettamente indifferente rispetto a ipotetiche alternative da soppesare, secondo il paradigma leibniziano2. La libertà di Dio non è libertas indifferentiae o «libertà bilaterale»3. Quest’ultima, infatti, è la capacità – tipica dell’homo viator, ma non di Dio – di compiere il bene o il male, senza che il soggetto sia necessitato verso una delle due alternative4. 1
lia
Docente di Storia della Filosofia e Metafisica presso lo STI di Reggio Emi-
Rosmini critica proprio la posizione leibniziana. Cfr. A. Rosmini, Teodicea, a cura di U. Muratore, Roma 1977, nn. 652-653. 3 Si veda A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, a cura di F. Evain, Roma , 1954, nn. 606-611. 4 Cfr. ibi, n. 598. 2
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La libertà divina, invece, è propria di ciò che è insieme principio e causa del proprio del agire5. Dio non trova fuori di sé un motivo per il quale creare, non essendovi alcunchè che originariamente lo fronteggi dall’eternità. Dio è pura autodeterminazione. Secondo un’argomentazione scotista, che Rosmini riprende, Dio non è mosso a creare dal bisogno degli oggetti creati, pena la contraddizione. Diversamente, infatti, l’Immutabile sarebbe costituito dal mutabile6. Ma vi è anche un altro motivo risalente ad Agostino. Se Dio creasse necessariamente, l’ente finito sarebbe contraddittoriamente compimento dell’Ente infinito e assoluto7. Per queste ragioni, quella di Dio è una libertà eminente. Dio pensando alle cose create pensa a qualcosa che gli è inessenziale, dunque, non può che pensare le creature liberamente, sebbene le conosca secondo necessità. Tale libertà è essenziale al concetto della Causa prima, e questo perché, dal punto di vista logico, il creato precede l’atto intellettivo per il quale Dio necessariamente lo conosce8. L’atto creatore, seppur libero, è, sotto un diverso aspetto, necessario. In primo luogo, perchè in Dio l’atto è identico all’essenza e, in secondo luogo, perché il mondo possiede una convenienza per la quale Dio si determina a crearlo, pena il patir difetto. Questo non contraddice né la libertà dell’atto creatore, né l’affermazione secondo la quale Dio è l’unico principio e causa della creazione. Si potrebbe obiettare, però, che, se l’atto creatore coincide con la stessa natura divina, esso è una perfezione, senza la quale Dio non sarebbe se stesso. Rosmini accetta che si dica che l’atto creatore coincide con l’essenza divina e che questo atto sia una perfezione. Si rifiuta, però, di concedere che tale atto debba essere metafisicamente necessario. Questo, infatti, escluderebbe del tutto la libertà dell’Assoluto che, invece, va tenuta ferma per due motivi. Il primo, già sviluppato, è il trattare contraddittoriamente l’Assoluto come dipendente dall’altro Rosmini trae la definizione di libera volontà da Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, II, 24. Cfr. A. Rosmini, Teosofia, a cura di M. A. Raschini – P. P. Ottonello, Roma 1998, Il problema dell’ontologia, n. 51. 6 Cfr. ibi, II, n. 454; ibi, III, 1042. 7 Cfr. ibi, III, n. 1024. 8 Cfr. ibi, III, n. 1360.
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a sé9. Il secondo motivo è che la questione va affrontata ribaltando il punto di vista e considerando che l’Assoluto non potrebbe creare se non fosse già di per sé essenzialmente perfetto, cioè Ente infinito10. Si tratta, per Rosmini, di pensare a Dio come a «una potenza indeterminata volontariamente determinata»: indeterminazione e determinazione che stanno in identità in Dio, ma che noi possiamo astrarre analiticamente con la nostra mente, senza che questo implichi una qualche falsità11. In secondo luogo, Dio è l’Essere infinito attuato, e tutto ciò che non è infinito non appartiene alla sua costituzione essenziale. L’Essere infinito possiede, come perfezione, una potenza indeterminata di creare, ma insieme determinata dalla propria volontà. Negare questi caratteri dell’Assoluto vorrebbe dire introdurvi l’imperfezione12. Riprendendo il linguaggio gesuitico e poi leibniziano, Rosmini parla di una necessità morale per la quale Dio crea il mondo. Si tratta di una necessità propria dell’ordine morale, la quale prescrive un effetto che non sempre riesce a indurre, poiché è relata essenzialmente al libero arbitrio. Se non che, nell’Essere perfettissimo, questa necessità induce sempre l’effetto che essa prescrive, poiché la creazione del mondo che conosciamo si addice moralmente – è conveniente –alla natura divina. Negli enti liberi creati, invece, la necessità morale non induce sempre l’effetto che prescrive, poiché quelli sono dotati di libertà bilaterale e non sempre scelgono ciò che la necessità morale prescrive13. Nella Filosofia del diritto, Rosmini definisce la necessità morale come «la necessità che una persona ha di operare in un certo modo per non rendersi difettosa», precisando che tale necessità è la stessa necessità dell’essere14. Ma Rosmini dice anche di più. Afferma, infatti, che il principio di Cfr. ibi, III, n. 1362. Ibidem: «L’essenza divina esige, che il subietto divino emetta liberamente di spontaneità primitiva, l’atto della creazione. Ma questo subietto non potrebbe movere se stesso con ispontaneità primitiva, se egli non esistesse come perfetto subietto, come Ente infinito». 11 Cfr. ibi, III, n. 1363. 12 Cfr. ibi, III, n. 1364. 13 Cfr. ibi, I, Il problema dell’ontologia, n. 51. 14 Cfr. A. Rosmini, Filosofia del diritto, M. Nicoletti – F. Ghia, Roma 20132015, Sistema morale, t. I, p. 129. 9
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identità è il punto di convergenza del reale e necessario col morale e volontario15. La necessità morale e la necessità logica vanno viste, sintesisticamente, come due lati astratti dell’essere nella sua concretezza. Dio crea per l’amore che porta a se stesso, per evitare di rendersi moralmente difettoso. Egli che è l’Amato sussistente vede che può essere amato e, dunque, essere fine ultimo di altri enti diversi da Lui. Quella di Dio è una «spontaneità libera e primitiva» che precede logicamente la possibilità ideale delle creature. Infatti, Dio “prima” di conoscersi come causa è costituito nella sua natura per la quale il creare è inessenziale16. Di passaggio annotiamo che la libertà essenziale dell’Assoluto non va pensata come autofondantesi, pena un esito autocontraddittorio. Secondo Rosmini, Plotino ed Hegel sono, in modi diversi, i campioni di questa posizione. L’Assoluto in questa prospettiva sarebbe Colui che esiste perché si vuole e si fa17, esistendo prima di esistere. L’opera della libertà creatrice, invece, è quella che Rosmini chiama “esemplare del mondo”. Si tratta del risultato di un atto di intelligenza amativa per il quale l’Essere, intendendo e insieme amando se stesso, intende e ama nel «mare dell’essere» tutti i modi finiti nei quali l’essere è amabile18. Questa intelligenza e, soprattutto, questo amore coincidono con l’atto creatore19. Si deve precisare, quindi, che il termine dell’intelletto divino è un reale; diversamente Dio contemplerebbe un termine falso, perché non sussistente. Le creature, infatti, non esistono in Dio idealmente prima di essere create come reali. Rimane vero, dunque, che scientia Dei est causa rerum. Ipotizzare una situazione opposta a quella appena descritta implicherebbe un’autocontraddittoria distinzione reale in Dio 15 Ibi, Sistema morale, sez. I, V, t. I, p. 126: «Vedesi dunque fondata nel principio d’identità la strettissima unione dell’ordine reale e necessario col morale e volontario; esso è il punto dove quasi convenendo insieme questi due ordini, l’uno finisce e l’altro incomincia». 16 Cfr. A. Rosmini, Teosofia, cit., III, n. 1361. 17 Cfr. ibi, I, nn. 161-163. 18 Cfr. ibi, III, n. 462. 19 Cfr. ibi, III, n. 461.
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di intelletto e volontà. Se non che, l’atto creatore rimane avvolto nel mistero. Ci è noto, infatti, il “che” dell’atto creatore, ma non il “come” di questo “che”20. A questo proposito, Rosmini precisa che il mistero non è l’assurdo, cioè l’incomprensibile, ma piuttosto ciò che non si finisce più di comprendere21. L’atto creatore è certo una perfezione, ma una «perfezione di ridondanza» e non una «perfezione di natura». Queste due perfezioni si distinguono mentalmente, ma nella realtà sono uno. Occorre, dunque, mantenere come veri entrambi i lati di quella che appare a prima vista come un’antinomia in senso classico di necessità e libertà, e che trova risoluzione nel modo sopra esposto22. Si tratta di quella che Rosmini chiama «questione metafisica della libera volontà», risolvibile ammettendo per necessità logica una ragione sufficiente dell’agire di Dio23. A nostro avviso, ciò che concilia l’antinomia tra necessità e libertà dell’atto creatore è il carattere infinito dell’Assoluto, come Rosmini mette in luce. Del resto, la necessità e la libertà sono due lati innegabili dell’essere che godono di uno statuto elenchico. Negare l’essere significa infatti porre qualcosa nell’essere, mentre negare la libertà significa doverla implicare nell’atto del negarla: l’atto del negare è qualcosa di posto nell’essere e insieme qualcosa di liberamente voluto. 2. Ragion sufficiente e libertà Rosmini descrive la Causa prima come una «potenza di dare altrui pensando l’essere», ma per pensare l’essere bisogna che la Causa prima sia illimitata quanto l’essere. Considerando l’atto creatore dalla parte dell’effetto, Rosmini afferma che il contingente, in quanto correlativo della libertà creatrice, è essere morale. Libertà e contingenza appartengono all’ordine morale. Contingente, quindi, non è, per Rosmini, soltanto ciò che può essere o non essere (contingenza ontologica), ma Cfr. ibi, III, n. 462. Cfr. ibidem. 22 Cfr. ibi, III, n. 1364. 23 Cfr. ibi, III, 1366. 20 21
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anche ciò che è posto da una libera volontà creatrice (contingenza metafisica)24. Tale contingenza può essere guadagnata soltanto attraverso la dialettica trascendentale integrante e non attraverso la percezione intellettiva. Quest’ultima, infatti, fa apparire soltanto un reale finito; e nel confronto con l’infinità dell’essere ideale nasce l’esigenza di ricostruire le relazioni trascendentali che legano l’ente finito all’essere. Si risolve così l’equazione tra sapere intuitivo e sapere predicativo – tra essere ideale ed essere reale –, integrando ciò che manca a entrambi i membri dell’equazione. Nel caso dell’essere ideale, manca la realtà infinita che l’intùito non fa apparire, mentre nel caso dell’ente reale finito non appare la ragione sufficiente della sua esistenza. D’altra parte, se il percepito appare come qualcosa che può essere o non essere, la sua possibilità o idealità è tuttavia necessaria. Anche questa dissimmetria di ideale e reale deve essere risolta per la «legge di ragion sufficiente»25. Questa legge è quella necessità logica per la quale l’essere reale deve adeguarsi all’ordine ideale che risplende nella mente di Dio. Se non che, l’essere si dà anche nella forma morale, sintesi di realtà e idealità. Il corrispettivo della legge di ragion sufficiente, per l’ordine morale, è la legge della libertà. Questa indica la necessità morale che l’ordine reale adegui l’ordine ideale, ma non entra in contraddizione con la necessità logica espressa dalla legge di ragion sufficiente. La legge della libertà è innanzitutto quell’esigenza sentita dall’Essere perfettissimo di realizzare quell’ordine che risplende nell’ideale. Trovata la causa del reale finito, dunque, bisogna poi considerare che la somma perfezione di tale causa consiste nell’amare ciò che produce e, dunque, nel produrlo liberamente26. 3. La libertà umana Nell’Antropologia in servizio della scienza morale, Rosmini aveva definito la volontà umana come la potenza di eleggere. Essa è Cfr. ibi, III, n. 1723. Cfr. ibi, V, n. 1896-1897. 26 Cfr. ibi, V, n. 1899-1900. Si veda anche A. Rosmini, Teodicea, cit., III, nn. 384-416. 24
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sempre un conato verso l’elezione, poiché è atto d’amore per la propria essenza. L’elezione è tensione verso il bene, che si presenta come tale, e come tale viene scelto. Nel caso in cui le si presentino più beni, la volontà dovrà soppesarli e, infine, dovrà scegliere, esercitando la libertà bilaterale27. Ora, una tale libertà prevede una stretta relazione con il merito. Essa, infatti, è la libertà che, se esercitata correttamente, ci permette di prendere parte alla visione beatifica e, quindi, alla felicità piena28. Tale libertà non è propria di Dio, il quale è originariamente felice. La libertà bilaterale, infatti, è propria di colui il cui bene soggettivo può entrare in contrasto col bene oggettivo29. La libertà meritoria o bilaterale non coincide con la libertà morale, sebbene – annota Rosmini – alcuni moderni abbiano sostenuto la tesi opposta, contro l’uso antico e comune. Il riferimento è alla linea volontarista, inaugurata da Guglielmo di Ockham, che passa per Cartesio e giunge fino a Schelling. Rosmini fa notare che la libertà non è originariamente libertà meritoria, poiché questa prevede un soggetto chiamato a partecipare di qualcosa che non possiede, dunque non può essere né la libertà propria dell’Assoluto, né la libertà propria dei beati. La libertà meritoria «è un ramo della libertà morale», ma non è tutta la libertà morale30. La libertà meritoria o bilaterale è propria di una soggetto intellettivo e volitivo finito. Ogni finito, infatti, è composto di positivo e negativo. Il negativo è il limite – diverso dal male –, e ogni limitazione dev’essere sempre accompagnata dalla libertà che la pone nell’essere. Se in ogni creatura non vi fosse il positivo e il negativo, non vi sarebbe possibilità per la volontà umana di scegliere il bene o il male morali. L’elemento negativo è necessario alla libertà bilaterale, ma non ne è la forma31: non è il limite il termine proprio della libertà, ma è piuttosto un elemento ineliminabile degli oggetti eleggibili creati. Cfr. A. Rosmini, Teosofia, cit., III, n. 1365. “Merito” deriva dal greco μέρος che significa “parte”. Meritare, dunque, significa “prendere parte”. 29 Cfr. A. Rosmini, Teosofia, cit., III, n. 1366. 30 Cfr. A. Rosmini, Teodicea, cit., III, n. 389, nota 9. 31 Cfr. A. Rosmini, Teosofia, cit., VI, n. 2334. 27 28
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La limitazione dell’uomo libero consiste nel non aderire per propria natura all’ordine morale, cioè al bene perfettamente dispiegato; ma egli non sarebbe libero nemmeno se aderisse indefettibilmente all’ordine morale. La libertà bilaterale è media tra la perfezione somma e l’imperfezione somma32. La libertà propriamente umana è l’elezione che determina la volontà all’atto buono o cattivo. A questa elezione consegue, poi, l’adesione della volontà all’oggetto scelto33. La libertà è, per Rosmini, una facoltà superiore rispetto alla volontà. Essa è la capacità di eleggere tra più volizioni. Senza libertà, la volontà si lascerebbe trascinare dalle sensazioni, senza poter aderire al bene con un «consenso personale»34. Mentre la volontà – intesa come adpetitus intellectivus sive rationalis – riguarda due «dilettazioni contrarie che esercitano il dominio sull’appetito umano a seconda della loro forza»35. La libertà, in quanto non si dà senza intelletto36, trascende il dominio degli appetiti. Se è vero che la volontà è la tensione verso il bene37, è la libertà che discerne, tra i finiti, quale tensione sia da perseguire per aderire al vero bene. 4. Moralità e coscienza morale La vita morale dell’uomo si dispiega secondo una serie di scansioni temporali che coinvolgono la persona umana integralmente in tutte le sue facoltà. Il sentimento è la forma reale dell’essere, ma l’uomo non potrebbe vedere la consistenza ontologica delle sensazioni senza l’intuizione dell’essere ideale38. Il sentimento è la tendenza dell’uomo Cfr. ibi, VI, n. 2336. Cfr. ibi, VI, n. 2337. 34 Cfr. A. Rosmini, Il razionalismo teologico, a cura di G. Lorizio, Roma 1992, n. 242. 35 Cfr. ibi, n. 303. 36 Cfr. A. Rosmini, Teosofia, cit., VI, 2315. 37 Cfr. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, cit., n. 587: «Noi definiamo la volontà “quell’appetito che tende al bene conosciuto”». 38 Cfr. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V. Sala, Roma 1988, I, n. 75 e ss. 32 33
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ad ampliarsi, diversa da quella tendenza verso l’essere che è l’intùito39. È noto che, secondo Rosmini, della sensazione si può parlare soltanto quando è divenuta termine della percezione intellettiva, ovvero quando è già entrata nell’orizzonte della presenza. Il sentimento e il sentito non sono, dunque, rispettivamente giudizio e ente40. La percezione intellettiva, invece, appartiene alle operazioni dell’intelletto e della ragione speculativa. Infine, la volontà si occupa di riconoscere l’oggetto. Si tratta, infatti, «della parte attiva del soggetto intelligente. Quella virtù che ha il soggetto di aderire ad una entità conosciuta»41, dove l’adesione è un riconoscimento della quantità di bene che compete all’oggetto. Il riconoscimento è l’atto della volontà mediante il quale non si diminuisce e non si esagera nell’apprezzare l’oggetto conosciuto. Si tratta di un compiacersi dell’entità conosciuta da parte del soggetto42. La volontà è quella dimensione dell’anima umana mediante la quale il soggetto intellettivo tende verso il proprio bene e, quindi, verso il proprio perfezionamento. Se non che, l’uomo è anche sentire, come si diceva. La facoltà che esprime la sintesi di sentire e intendere è, per Rosmini, la ragione43. Tuttavia, tra il sentire e l’intendere non sempre si dà armonia. Quando l’uomo opera a causa di una prevalenza del sentimento, tenta di ingannare se stesso con l’intelligenza, considerando le cose più buone di quello che sono e cercando di distorcere l’ordine dell’essere; in questo consiste l’arbitrio della volontà44. Questa è capace di volere seguendo soltanto la pressione del sentimento e rinunciando a riconoscere come stanno realmente le cose. Si tratta qui di un riconoscimento «torto e menzognero», dove il sentimento e l’affetto seducono la volontà45. Il riconoscimento è un atto riflessivo, al contrario dell’atto conoscitivo, ed è buono soltanto quando si riconosce nell’oggetto tutto Cfr. A. Rosmini, Teosofia, cit., III, n. 1043. Cfr. A. Rosmini, Psicologia, cit., I, n. 78. 41 Cfr. ibi, t. II, n. 1102. 42 Cfr. ibi, t. II, n. 1102; ibi, t. III, nn. 1405-1406. 43 Cfr. ibi, t. II, n. 1122. 44 Cfr. ibi, t. II, n. 1104, Id., Teosofia, cit., III, n. 1043. 45 Cfr. A. Rosmini, Psicologia, cit., t. II, n. 1104. 39 40
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ciò che vi è da riconoscere, mentre è cattivo quando la volontà lavora per riconoscimento astraente, torcendo mentalmente l’oggetto e cercando di farlo apparire diverso da quello che è46. Dal riconoscimento, attuato dalla volontà, scaturiscono due risultati: 1) il decreto della volontà, che nasce quando il bene è mancante e la volontà decide di ottenerlo; e 2) l’affetto per la cosa conosciuta, che nasce quando la volontà già possiede un bene e intende goderne maggiormente47. Rosmini fa notare che mentre gli scolastici indagarono soprattutto i decreti della volontà, i moderni hanno posto l’attenzione innanzitutto sulla dimensione affettiva dell’atto di volontà, riducendo l’atto morale a sentimento48. La libertà bilaterale o meritoria si situa precisamente a quel punto nel quale la volontà, da un lato, è lusingata dal sentimento e, dall’altro lato, è richiamata dall’intelletto a riconoscere l’oggetto per quello che è. Essa è «l’energia stessa della volontà», per la quale il volere si determina verso un oggetto e non ne è determinato. In questo modo, l’homo viator inizia a meritare, cioè a prendere parte consapevolmente all’ordine morale49, cioè alla felicità. Mentre l’atto teoretico che si rivolge al suo oggetto è sempre recettivo, l’atto volontario è attivo: è un atto di adesione a e di appropriazione dell’ente conosciuto che coinvolge tutta la razionalità del soggetto, sia essa teoretica o pratica50. Inoltre, come l’atto conoscitivo, rivolto all’ente reale finito, è sempre misurato dall’essere ideale intuìto ed è propedeutico all’affezione, così quest’ultima, in quanto atto della ragion pratica, deve essere sempre proporzionata e adeguata al grado di essere dell’ente percepito, la cui misura è l’infinito. Diversamente, non si avrà un atto morale, ma nemmeno un atto propriamente libero51. L’atto morale è di natura infinita perché ha sempre per oggetto l’infinito. L’oggetto della ragion pratica non si ferma al semplice finito, ma sporge rispetto ad esso sull’infinito. È per questo che l’ente finito è costituito Cfr. ibi, t. III, n. 1424-1426. Cfr. ibi, t. II, n. 1106. 48 Cfr. ibi, t. II, n. 1105, nota 24. 49 Cfr. ibi, t. II, n. 1112. 50 Cfr. ibi, t. III, n. 1403-1405. 51 Cfr. ibi, t. III, n. 1420. 46 47
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dal soggetto come proprio bene. Si può aderire affettivamente e con verità all’ente finito soltanto secondo la regola dell’infinito52. Il carattere essenziale di ciò che è morale è «di abbracciare sempre il tutto dell’essere» e terminare in questo tutto e regolare i propri atti secondo questo tutto. Nell’atto morale il bene finito partecipa dei caratteri dell’infinito, diventa cioè un bene morale, e non soltanto un “bene eudemonologico”, ovvero un bene finito separato dalla propria destinazione infinita. Si può, dunque, aderire propriamente al bene finito soltanto aderendo previamente «all’ideale infinito che misura e determina la quantità di adesione a quello dovuta»53. La persona è, dunque, definita da Rosmini come la «potenza di affermare tutto l’essere» – il che implica anche un compiacersene e un parteciparne. Questa necessità è imposta dalla stessa natura dell’essere. Il non affermare l’essere per quello che è comporta una degradazione morale della persona stessa54. Il meritare – il partecipare dell’essere competentemente – è, quindi, imposto da una necessità morale. Nell’ente reale finito si manifesta la norma e la regola del bene che è l’ideale infinito. Se, poi, si ipotizzasse l’esistenza di un reale infinito, l’infinità riguarderebbe, non solo la regola di tale oggetto, ma l’oggetto stesso. Ci si troverebbe, dunque, al cospetto dell’Essere infinito55. In questo caso, la libertà non verrebbe meno, ma non potrebbe dar prova della propria forza, poiché si troverebbe ad avere a che fare con un oggetto di elezione senza limiti che oscurerebbe completamente qualunque altro possibile oggetto di elezione56. Ebbene, anche per l’uomo si ripropone una legge della ragione teoretica e una legge della ragion pratica, guidate rispettivamente da una necessità logica e da una necessità morale. La necessità morale non si oppone al libero arbitrio, il quale può sempre essere utilizzato contro il riconoscimento dell’ordine morale dell’essere. In questo caso, il conoscere, guidato dalla necessità logica, è messo in diretto contrasto con la ragion pratica, che intende alterare la misura e la stima adeguata
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Cfr. ibi, t. III, n. 1421. Cfr. ibi, t. III, n. 1422. 54 Cfr. A. Rosmini, Filosofia del diritto, cit., Sistema morale, t. I, p. 129. 55 Cfr. A. Rosmini, Psicologia, cit., t. III, n. 1423. 56 Cfr. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, cit., n. 661. 53
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degli enti. La ragion pratica dovrebbe, invece, valutare l’ente indipendentemente dall’azione che esso compie sul sentimento del soggetto, per rivolgersi all’essere ideale: la misura propria delle cose57. In questo consiste il bene oggettivo e insieme il vero bene soggettivo. Il bene personale, dunque, trova necessariamente la sua dimora nell’abbraccio col bene oggettivo, e il bene morale non potrà che consistere nell’unione di bene soggettivo e bene oggettivo58. La distinzione di sentimento e intelletto ha come conseguenza un aspetto rilevantissimo quanto all’impostazione del problema morale. Il sentimento è un termine finito, un «rudimento di ente». Esso non può essere l’ultimo termine adeguato della ragion pratica. Allo stesso modo, il principio senziente non può essere termine adeguato della ragion pratica, anch’esso ente soltanto incoativamente. Termine adeguato della ragion pratica sarà soltanto un ente reale che abbia a che fare con l’infinito: la persona di Dio in primis e, in seconda battuta, la persona finita, che pure ha come proprio riferimento ideale l’essere infinito. In virtù del fatto che gli enti intellettivi finiti sono creati dall’Essere infinito, se si vorrà agire moralmente verso di essi, occorrerà aderirvi riferendoli costantemente al loro Principio,59. Se il primo atto della moralità consiste nell’atto di riconoscimento da parte della volontà, la coscienza morale sorge al secondo ordine di riflessione60. La moralità, spiega Rosmini, consiste in una certa Cfr. A. Rosmini, Psicologia, cit., t. III, n. 1425-1429. Cfr. A. Rosmini, Filosofia del diritto, cit., Sistema morale, t. I, p. 129: «Ma io ho già dimostrato, che il bene morale è il punto dove il bene soggettivo e il bene oggettivo si toccano, si abbracciano e si mescolano in uno». Si veda anche A. Rosmini, La società e il suo fine, Lib. IV, cap. VI, in Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Roma 1997. 59 Cfr. A. Rosmini, Psicologia, cit., t. III, nn. 1442-1443. 60 Cfr. A. Rosmini, Trattato della coscienza morale, a cura di U. Muratore – S. F. Tadini, Roma 2012, n. 30: «Ora la moralità delle azioni, come in propria sede e radice giace nel giudizio pratico, appartenente al primo ordine di riflessioni. Se dunque la coscienza giudica della moralità, e se per giudicare è uopo riflettere su ciò che si giudica, convien dire che la coscienza importa necessariamente una riflessione sul primo ordine di riflessioni a cui la moralità appartiene. Il giudizio dunque della Coscienza è una riflessione più elevata di quella della moralità, una riflessione almeno di second’ordine».
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relazione tra volontà e legge61. Ora, l’essenza della legge naturale consiste nel riconoscimento adeguato che il soggetto personale deve alle cose. La legge naturale è, infatti, detta anche «esigenza delle idee»62. È sempre l’ordine ideale che deve guidare l’agire morale, e nel combattimento tra le seduzioni del sentimento e il richiamo dell’ordine ideale «ha tutto il suo sviluppamento la libertà umana»63. Il male non può essere, quindi, propriamente voluto, secondo Rosmini. Nell’atto cattivo, infatti, la volontà si ritrae e lascia corso all’appetito animale64. La coscienza morale è formulazione di un giudizio speculativo (secondo ordine di riflessione) su quel giudizio pratico (primo ordine di riflessione) che è il riconoscimento. Fin dal Nuovo Saggio, Rosmini aveva sostenuto che “libero arbitrio” e “libera volontà” sono lo stesso. Arbitrium, spiega il nostro autore, significa capacità di giudicare liberamente riguardo a qualcosa65. La libertà formula un giudizio pratico e la coscienza morale è colei che si incarica di confrontare quel giudizio pratico con l’ordine delle idee, cioè con la legge morale, emettendo un giudizio speculativo66. L’adesione della volontà agli enti e la libertà sono soltanto l’inizio della vita morale. Essa, infatti, attende continuamente di essere vagliata alla prova della Volontà infinita. Per questi motivi, Rosmini può dire che la filosofia morale è una scienza speculativa67. 5. La libertà politica Corollario di ciò che si è detto in queste pagine è la libertà politica. La persona è il diritto sussistente, perché è essenzialmente libera, cioè rapporto costitutivo con l’essere. Quindi, «niente può stare sopra al Cfr. ibi, n. 74. Si veda anche A. Rosmini, Principi della scienza morale, a cura di U. Muratore, Roma 1990, cap. VII, p. 147. 62 Cfr. A. Rosmini, Trattato della coscienza morale, cit., nn. 39, 67. 63 Cfr. ibi, n. 67. 64 Cfr. ibi, n. 69. 65 Cfr. A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, a cura di G. Messina, Roma 2003-2005, t. III, n. 1283. 66 Cfr. A. Rosmini, Trattato della coscienza morale, cit., n. 19. 67 Cfr. ibi, n. 20. 61
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principio personale, niente può stare sopra a quel principio che opera di sua natura dietro un Maestro e Signore di dignità infinita». E ancora: «la persona è il principio naturalmente supremo, di maniera che nessuno ha diritto di comandare a quello che sta ai comandi dell’infinito»68. I rapporti di dominio sono, dunque, antigiuridici69. Si può parlare di società e, quindi di polis soltanto laddove tutte le persone sono rispettate come fini e mai come mezzi70. Tra le persone, poi, bisogna considerare anche la Coscienza infinita, se non si vuole che la società diventi ingiusta71. Dunque, Dio vanta dei diritti nella società. Del resto, il diritto di proprietà è sempre un diritto a usare delle cose e non un diritto sulle cose, il quale spetta unicamente a Dio: l’unico capace di mantenere le cose nell’essere col Suo atto creatore72. La persona umana è anche relazione. Da questo fatto sorge il problema di garantire all’uomo il diritto di proprietà. Le cose sono tali soltanto quando entrano nell’orizzonte della presenza ed è nel rapporto con esse che l’uomo vi aderisce affettivamente, appropriandosene. In questa adesione l’uomo si perfeziona, potenziando la propria libertà. Per questo, negare il diritto di proprietà significa negare alla persona il dispiegamento della libertà di perfezione – il primo e più nobile significato di libertà –, limitandone la legittima attività73.
Cfr. A. Rosmini, Filosofia del diritto, cit., t. II, n. 52. Cfr. ibidem. 70 Cfr. A. Rosmini, Filosofia del diritto, cit., t. II, n. 130; Id., La società e il suo fine, cit., p. 131. 71 Cfr. A. Rosmini, La società e il suo fine, cit., p. 136: «Vero è, che quando si concepisce l’universalità di una società a rigore, niun essere intelligente e personale si può da essa escludere; ella deve abbracciare Dio stesso; perocché se ne venisse esclusa la suprema e massima intelligenza, certamente ella potrebbe avere un fine inonesto, rimanendosi fuor della sua sfera una persona la cui dignità potrebbe violarsi». 72 Cfr. A. Rosmini, Filosofia del diritto, cit. t. IV, n. 1905; ibi, t. IV, n. 1926. 73 Cfr. ibi, t. II, nn. 52, 63, 67, 89. 68 69
La dimensione politica dell’etica filosofica e teologica della verità secondo Rosmini
Cristian Vecchiet1
L’obiettivo del presente lavoro consiste nel dimostrare la strutturale dimensione politica (potremmo dire più in generale sociale) dell’etica teologica e filosofica nel pensiero di Rosmini. Tra ontologia, etica e politica vi è un rapporto di implicazione e rimando reciproci: questo è necessariamente vero per qualunque sistema di pensiero di impronta cristiana e lo è segnatamente per il pensiero del Roveretano. In pari tempo si intende far emergere che non solo tra teologia ed etica ma, per certi versi, prima ancora, tra filosofia ed etica vi sia un nesso di implicazione necessaria. Il pensiero di Rosmini infatti rigetta infatti il duplex ordo, ossia il concetto di “filosofia separata”: il sistema filosofico non è giustapposto a quello teologico ma lo richiama come piano definitivo di giustificazione e di compimento, pur sempre nella distinzione. L’obiettivo che ci si prefigge consiste nel dimostrare che il vettore politico si innesta in quello antropologico e in quello ontologico, perché la politica richiede una fondazione che da se stessa non può derivare e l’antropologia e l’ontologia esigono una estrinsecazione ulteriore. Si indicano qui di seguito le quattro sezioni in cui suddivido il presente lavoro: 1. la prospettiva rosminiana dell’etica (filosofica e teologica) della verità. 2. La dimensione politica dell’etica filosofica della verità. 3. La dimensione politica dell’etica teologica della verità. 4. Risvolti politici e conseguenze decisionali dell’etica filosofica e teologica della verità. Conclusioni. 1
Docente di Pedagogia presso lo IUSVE di Venezia
La dimensione politica dell’etica
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1. La prospettiva rosminiana dell’etica (filosofica e teologica) della verità Il primo passo del nostro itinerario consiste nel delineare l’etica filosofica e teologica della verità nel pensiero di Rosmini. Precisiamo innanzitutto cosa si intende per etica filosofica e teologica della verità. Per etica della verità si intende la natura ontologica dell’etica, ovvero il modo giusto del manifestarsi della verità e il modo giusto di percepire e trattare la verità. Per etica teologica della verità si intende sia il modo in cui si esprime la libertà di Dio quando agisce verso di noi sia come siamo chiamati a rispondere noi eticamente di fronte al Dio che si rivela. L’uomo credente onora l’amore per la giustizia obbedendo ai comandi di Dio. Da questa premessa consegue che bisogna innanzitutto vedere perché la verità possiede una intrinseca implicazione etica, ossia perché l’ontologia rimanda all’etica e perché l’etica presuppone una visione ontologica. Per entrare nella questione è necessario affrontare dall’interno la prospettiva rosminiana del “sintesismo ontologico” e, prima ancora, del “sintesismo del sintesismo”, ossia del rimando reciproco di intellezione, affezione e volizione dell’antropologia di Rosmini che rinvia al sintesismo delle tre forme dell’essere, oggettiva, soggettiva e morale2. Il punto di partenza del sistema filosofico rosminiano è dato dall’idea dell’essere. L’essere si dà a vedere nella sua essenza ideale. L’essere da sé si affida alla visione della sua natura ideale. L’essere costituisce nella sua idealità l’unico oggetto di intuizione e di visione diretta. A intuire l’essere ideale è il soggetto il quale non ha natura ideale ma reale. L’idea dell’essere è intuita e nell’atto di intuizione si genera il sentimento intuente. L’autodonazione dell’essere rappresenta la radice della coscienza personale. L’essere personale si percepisce e si conosce nell’essere intuito. Tra l’essere, che si offre all’intuizione, e il sentimento soggettivo nasce la prima forma di inoggettivazione, Cfr. F. Bellelli, Etica originaria e assoluto affettivo. La coscienza e il superamento della modernità nella teologia filosofica di Antonio Rosmini, Milano 2014, pp. 113-131. 2
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cioè l’inoggettivazione pura. Tra idea dell’essere e sentimento intuente si dà un legame originario e questo legame originario rappresenta l’intenzionalità strutturante la coscienza personale, che è, nella sua compiutezza riflessa, la forma morale dell’essere. La coscienza è data a se stessa nell’essere che si dona e che, donandosi, spalanca la soggettività umana a tutto ciò che è. È nello spalancare la soggettività umana a tutto ciò che è che la coscienza è data a se stessa. Si deduce che l’essere è in quanto è essere sintesisticamente dato e che l’essere è intrinsecamente personale. Da queste premesse antropologiche derivano, tra le altre, almeno tre considerazioni di carattere ontologico: l’alterità è fondante e cooriginaria rispetto alla soggettività, la donazione costituisce la grammatica interna dell’essere, la possibilità dell’esistenza del Donatore e dell’Altro assoluto è inscritta in forma implicita ed inevidente nella struttura originaria della realtà. Queste conseguenze esplicitano l’unità e il carattere costitutivamente sintesistico del reale. Detto altrimenti, sebbene in termini meno precisi, tutto ciò che è – in quanto è – è intrinsecamente relato ad altro da sé e tutto ciò che è possiede un significato che va scoperto nel legame con il resto della realtà. Tutto ha un senso che va al di là di sé. Vediamo nel dettaglio. 1.1 Apertura radicale all’alterità L’essere si dà nella sua idealità ad essere intuito dal soggetto. Ne deriva che il soggetto è dato a se stesso nell’apertura radicale all’essere in tutta la sua inizialità, possibilità estrinsecativa e virtualità. È l’apertura radicale ed originaria all’essere a costituire l’alveo sorgivo della soggettività. L’essere a cui il soggetto è aperto è radicalmente altro rispetto alla soggettività individuale. L’alterità è data dalla natura dell’essere che è ideale e indeterminato, ossia irriducibile alla natura stessa del sentimento antropologico, che in se stesso è soggettività determinata, particolare e limitata, a sua volta aperta alla subiettività dell’essere reale, che, nella pienezza della sua forma è a sua volta assoluto, ed in quest’assolutezza, antropologicamente indeterminabile.
La dimensione politica dell’etica
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L’apertura all’essere è l’apertura originaria all’alterità. Il soggetto personale è costituito ontologicamente come soggetto aperto all’alterità, sia ideale, sia reale, e, per questo, anche morale. Anzi è l’alterità stessa a costituire la soggettività personale. A risvegliare nella coscienza personale la consapevolezza dell’alterità e delle sue profondità è l’incontro con la realtà altra da sé e in particolar modo l’incontro con l’altro e simile a sé, il volto d’Altri. È l’incontro con l’altro che risveglia nel soggetto personale la profondità della sua stessa coscienza e della sua stessa natura. Nella natura della coscienza si scopre che l’Altro ha una precedenza sulla soggettività personale. L’altro consente di scorgere che il suo volto rimanda ad un infinito non possedibile, irriducibile alle proprie categorie e infinitamente altro rispetto alla propria soggettività. Il volto d’Altri è manifestazione di una giustificazione dell’esistenza di sé e della realtà che sfugge alla possibilità di presa. Il volto d’Altri apre alla persona la possibilità di scoprire l’originario che trascende il soggetto umano e che lo costituisce. Non solo. Il volto d’Altri è premessa necessaria per la strutturazione e la crescita della soggettività umana proprio anche nella sua dimensione propriamente ontologica, perché ontologicamente la persona è data a sé nell’alterità e nell’apertura all’altro. La persona ha una natura intrinsecamente dialogica e questa strutturalità è data innanzitutto sul piano ontologico. L’incontro col volto d’Altri apre la soggettività personale all’alterità dell’altro. Nel volto d’Altri la soggettività personale è aperta alla profondità dell’essere e alla sua impossedibilità. Nell’alterità dell’altro la coscienza personale scopre la propria profondità, il proprio mistero e la propria impossedibilità. Nell’alterità dell’altro l’uomo è aperto alla radicalità di ogni alterità. Nell’incontro con l’altro la soggettività è spalancata di fronte alle profondità sconfinate dell’essere. Il volto d’Altri ri-vela l’essere. L’essere è riconosciuto nel volto d’Altri in modo e misura che le realtà non umane non sono in grado di manifestare. Il volto d’Altri svela e vela l’Infinito, svela e vela una dimensione radicalmente altra da sé e da qualunque altro sé, perché irriducibilmente
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trascendente e radicalmente sconfinante rispetto ad ogni tentativo di presa e di possedimento del sé. Anzi, è esattamente questa dimensione impossedibile ed irriducibilmente trascendente a fondare il sé ed ogni sé e a dar vita alla strutturale autotrascendenza teocentrica di ogni soggettività umana. L’essere cui l’Altro dà l’accesso mediante lo sguardo orientato verso il suo volto manifesta, insieme con la dignità del volto d’Altri, anche la sua esigenza di un rapporto etico. Il volto nello svelare e velare l’Infinito costituisce un appello alla responsabilità personale assunta in prima persona. Nell’apertura originaria all’altro da sé il soggetto scorge la dignità dell’altro e la dignità propria, dignità che trova la propria radice nell’apertura ad un originario non riducibile a sé, non possedibile e inderogabilmente trascendente. La coscienza soggettiva è data dall’apertura all’originario, un originario che la fonda e la giustifica. La coscienza soggettiva coglie la dignità dell’altro attraverso l’incontro tra i volti e scorge l’appello all’eticità intrinseco alla dignità della persona. La coscienza rappresenta lo spazio del riconoscimento della posta in gioca. La posta in gioco è data dall’originario cui il volto dà accesso. Originario che manifesta, nel proprio offrirsi, l’appello all’eticità della prassi. La verità ha una dimensione irriducibilmente etica. La coscienza è lo spazio dell’incontro e del riconoscimento dell’Originario. L’incontro col volto d’Altri è apertura al riconoscimento dell’etero-costituzione. Il soggetto umano non si dà da se stesso ma è dato a se stesso. L’incontro col volto d’Altri è riconoscimento eminente che il soggetto non si dà da sé e non ex-siste senza l’altro. Nell’incontro con l’Altro il soggetto riconosce la propria dipendenza radicale dall’altro e la dipendenza dell’altro da sé. Nell’altro scorge che la sua soggettività e dignità è dipendente da altro da sé e scopre l’originarietà e la radicale costitutività del Noi nella propria natura ontologica3. 3 A proposito del confronto tra A. Rosmini ed E. Levinas si veda in particolare: F. Bellelli, Etica originaria e assoluto affettivo. La coscienza e il superamento della modernità nella teologia filosofica di Antonio Rosmini, cit., pp. 155-220.
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1.2 L’originarietà e l’antecedenza ontologica e costitutiva della donazione L’essere è ed in quanto “è” offre se stesso alla visione della propria essenza. L’essere ideale si dona, si offre. Caratteristica intrinseca dell’essere ideale è la struttura donativa. Il soggetto vede se stesso e acquista la coscienza di sé nell’essere oggettivo. Nell’essere il soggetto vede che da sé la sua soggettività non può darsi, autocostituirsi. Il soggetto è dato a se stesso ed è dato a se stesso nell’essere oggettivo. Nella donazione dell’essere oggettivo e nella percezione del sentimento originario della propria soggettività è data la coscienza che non è costituita dal soggetto pensante ma è data al soggetto nell’atto dell’essere costituito. Come si vede da questo seppur celere sguardo fenomenologico, tutto l’essere si dà e si dà nelle sue tre forme. L’essere segue la logica del donarsi e del donarsi nelle sue tre forme. L’essere pertanto ha natura donativa. In virtù della regola della “insidenza” delle tre forme, la originarietà della natura donativa dell’essere è inscritta in tutte le tre forme, ossia in tutto l’essere. Il sintesismo dell’essere ci dice che tutto l’essere (forma oggettiva ma anche soggettiva e morale) si regge ed esprime la logica e la grammatica della donazione. La donazione è grammatica perché ci dice la logica interna a tutto l’essere. La donazione costituisce la norma interna dell’essere, il nomos del logos. La donazione poi implica strutturalmente il legame. La donazione è connotata da una legge interna di ricerca di legame. La donazione è legame. La donazione esprime una norma comunionale. Il carattere donativo e comunionale del reale viene scorto nell’incontro dell’uomo col volto d’Altri. Il volto d’Altri manifesta alla coscienza l’essere nella sua eminenza. Il soggetto riconosce il valore morale dell’essere nell’incontro concreto e storico col volto d’Altri. Il volto vela e svela l’infinito. È su questo piano, all’interno e in virtù di questo e-vento, che la persona scopre che la realtà nella sua natura più profonda è e le viene offerta come impossedibile, e impossedibile perché radicalmente trascendente.
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La persona è aperta al reale e nella propria apertura scopre che il reale le si dona. Anzi è la donazione a rappresentare il fenomeno primo. Meglio ancora, la fenomenicità coincide con la donazione. La coscienza è data a se stessa nella propria apertura alla donazione. La donazione manifesta la consistenza e la profondità dei fenomeni. La coscienza riconosce la fenomenicità dei fenomeni ovvero la loro consistenza e il loro valore nella donazione che esprimono di se stessi. In forma eminente la fenomenicità si manifesta nel volto dell’altro, nell’e-vento che l’altro costituisce. L’altro si destina in forma eminente e tale autodestinazione si radica in una dignità che l’altro non si dà da se stesso ma gli è data. Il riconoscimento etico viene a corrispondere con il riconoscimento del valore della fenomenicità del fenomeno. Il riconoscimento è riconoscimento della capacità donativa. E la dinamica donativa della realtà manifesta la natura donativa della stessa. La qualità ontologica di ciò che è riposa nella donazione. Ed è la donazione che rappresenta una istanza alla responsabilità etica personale e collettiva. La donazione è la dinamica dell’essere. La donazione è il nomos del logos. Più radicalmente possiamo dire che il nomos del logos è la koinonia. Tra Logos e logos sussiste quell’unità nella distinzione che sussiste tra l’essere triadico e l’essere trinitario. Nel Logos tutto è stato pensato e creato. Nel Logos tutto è stato creato e pensato redimibile. Tutto esprime l’intenzionalità creante e redentrice del Padre nel Verbo. Tutto parla non solo dell’intenzionalità creante di Dio ma anche dell’affezione creante di Dio e della responsabilità che Dio ha verso di noi, quale paradigma della responsabilità personale dell’uomo verso Dio. Tutto l’essere è intrinsecamente relato. Il che vuol dire che il reale ha una natura relata e questo vale eminentemente per l’essere personale. La persona è relatio subsistens a somiglianza di Dio. In forma sublime esprime Rosmini la natura originaria e fondante della relazionalità nell’essere personale: «Il nome persona non significa né meramente sostanza, né meramente una relazione, ma una relazione
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sostanziale, cioè una relazione che si trova nell’intrinseco ordine dell’essere di una sostanza»4. La persona è “sintesismo nel sintesismo”, ovvero sintesismo di intellezione – affezione – volizione (oggettività, soggettività, eticità). L’affezione e il logos si danno e si legano nel vincolo inoggettivante che origina la persona e la comunità. Nel vincolo in-oggettivante l’uomo è originato nella donazione di sé a sé ed è aperto all’autodonazione di tutto l’essere5. 1.3 L’apertura radicale alla possibilità di Dio L’uomo è dato a se stesso nella propria apertura strutturale alla donazione. Nella donazione, possiamo dire con J.-L. Marion, è epochizzato il dono, il donatore, il donatario. L’uomo è soggetto desiderante in forma radicale. L’apertura radicale all’essere è apertura alla possibilità di Dio. L’essere ideale è “astratto divino”, frutto dell’“astrazione discendente” che il Subietto assoluto opera nell’Obietto assoluto. Il Logos è legame, nesso, vincolo. Da qui la similitudine di Dio: l’essere ideale è forma dell’intelligenza. Non solo: da qui la possibilità della grazia di generare nell’uomo l’immagine di Dio, cioè la congiunzione reale. 2. La dimensione politica dell’etica filosofica della verità L’etica della verità ha una dimensione strutturalmente sociale e quindi anche politica. Il motivo è a se stesso intrinseco: non si dà etica - e quindi non si dà politica e tanto meno etica teologica - senza un rapporto intrinseco con la verità intesa in senso eminentemente 4
50.
A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, Roma, nota n.
Ci permettiamo su questo punto di rimandare al nostro C. Vecchiet, Donazione ed essere. Tratti di una rilettura fenomenologica dell’apertura originaria all’infinito, in F. Bellelli-E. Pili (ed.), Ontologia, fenomenologia, nuovo umanesimo. Rosmini ri-generativo, Roma 2016, pp. 127-149.
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ontologico. Qui di seguito vengono proposti alcuni tratti essenziali della dimensione politica dell’etica della verità secondo Rosmini. 2.1 La salvaguardia della sostanza su cui si regge la società La prima sollecitudine, cui richiama Rosmini, consiste nel curare uno sguardo e una intenzionalità politiche che sappiano porre in essere azioni e pratiche atte a conservare e potenziare la ragion d’essere della società. La società è costituita da un proprio originario ubi consistam che rappresenta la sostanza della stessa e che richiede di essere tutelato. Il corpo sociale è un corpus in cui sono i socii nel loro legarsi reciproco a rappresentare la societas. Ne Della sommaria cagione per la quale stanno o rovinano le umane società, Rosmini sostiene che: «In ogni società vi dee essere un che per lo quale la società o esiste, e un altro che per lo quale la società si sviluppa e si compie. Ora egli è evidente, che venendo a mancare alla società quel che sul quale si regge, essa dee irreparabilmente cadere, come mole a cui sieno sottratte le fondamenta; ed al contrario, durando ferma quella cosa che la sostiene, dee durare la società, foss’ella priva de’ suoi accessorii, e di tutti i suoi accidentali adornamenti»6. Rosmini distingue pertanto tra sostanza ed accidente. Nel corpus sociale e politico vi è una dimensione sostanziale da tutelare e promuovere. Egli prosegue: «E ciò stabilito, noi possiamo subito determinare la prima di tutte le regole di un buon governo; possiamo fissare qual sia il primo criterio, secondo il quale convenga misurare il valore de’ mezzi onde si pretende di governare una società qualsivoglia: perocché questa prima regola e questo primo criterio sarà fuor d’ogni dubbio la massima seguente: Si miri a conservare e fortificare ciò che costituisce l’esistenza o sostanza della società anche a costo di dover trascurare ciò che ne forma l’accidentale finimento»7. A. Rosmini (S. Cotta ed.), La società ed il suo fine. Filosofia della Politica, Milano, 1985, p. 77. 7 Ivi, p. 79. 6
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Secondo Rosmini è il passaggio dalla tutela della dimensione sostanziale alla centratura alla dimensione accidentale a causare la caduta delle società. La prima questione che un politico deve porsi è pertanto: qual è la dimensione sostanziale della società? E di conseguenza: com’è possibile tutelare, promuovere tale dimensione sostanziale? Si tratta della «regola della sostanza e dell’accidente [che] si trasforma qui nella regola che prescrive a’ savi governi di avere una mente complessiva, che “tenga in veduta il bene del tutto. E non solo quello della parte”»8. 2.2 La fedeltà al fine che orienta e sostiene la società La seconda attenzione è centrata sulla causalità finale, che risulta strutturalmente connessa con la dimensione sostanziale. La sostanza della società è conservata e sostenuta solo se l’intenzionalità e la prassi politica rispettano il fine intrinseco della società. Rosmini ne La società e il suo fine afferma che «Il fine di ogni società dee essere un bene vero ed umano»9. E prosegue: «Il bene vero, a cui dee intendere una società di uomini, dee essere il bene umano, quello che è definitivamente bene per la natura umana, quello che è consentaneo a tutte le esigenze di questa natura, […] Il vero bene umano non è altro se non la virtù morale, e tutti que’ beni che possono stare insieme colla virtù. Conviene conchiudere oltracciò, che ogni qualvolta un bene di qualsivoglia specie non può stare insieme colla virtù, egli cessa dall’essere bene umano, perché niente è bene umano di ciò che esclude la virtù»10. La questione pertanto è: qual è il vero bene umano? La tutela e la promozione della sostanza si traducono nella tutela e nella promozione del vero bene umano. La questione socio-politica trova radicamento e giustificazione nella prospettiva antropologica ed etica. La prima domanda che il politico deve porsi è: chi è l’uomo? E di conseguenza: qual è il suo bene? Il vero bene umano coincide con l’umanizzazione dell’uomo come singolo e come comunità. Ivi, p. 113. Ivi, p. 242. 10 Ivi, p. 248. 8 9
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2.3 La cura dei legami invisibili e sostanziali La terza attenzione è data dalla cura dei legami sociali, quale connotato intrinseco e definitorio della identità e della natura ontologica della persona. Rosmini sostiene che «come l’uomo, elemento della società, ha una parte interna ed invisibile, e una parte esterna e visibile; così due sono pure le parti di ogni umana società, l’invisibile e la visibile, l’interna e l’esterna. […] Riconosciamo dunque per legge costituente della società fra gli uomini questa, “la società esterna dee essere una rappresentazione della loro società interna”. La conseguenza che da ciò procede si è, che “la società esterna tanto meglio è costituita, quanto gli esterni vincoli degli uomini sono più sinceri e più fedelmente rispondono ad altrettanti vincoli, o ad altrettante affezioni de’ loro animi”; e per lo contrario, che “se all’esterno e al materiale della società non corrisponde qualche cosa d’interno e di spirituale, quanto apparisce della società al di fuori non è che una finzione, la quale non può avere durevolezza: essendo cosa contraria alla natura, che quello che è finto duri: egli è un’ombra vana senza corpo, una legger tela dipinta senza consistenza e solidità, perché senza verità”»11. La società si basa su rapporti di coappartenenza e di mutua cooperazione. La dimensione esteriore della socialità si radica ed è espressione della dimensione interiore dei legami di appartenenza sociale. La dimensione esteriore deve essere espressione di quella interiore. La pratica di socialità visibile deve essere pensata al fine di rafforzare i legami intrinseci tra i coappartenenti. 3. La dimensione politica dell’etica teologica della verità La rivelazione di Dio Trinità d’Amore nel Signore Gesù morto e risorto non si pone come un piano giustapposto rispetto alle verità naturali “stesse” ma come il completamento e la piena giustificazione delle verità naturali, senza estrinsecistico duplex ordo, e senza 11
Ivi, pp. 228-229.
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ontologismo né panteismo di matrice (post/neo)-modernistica12. Le prospettive filosofiche più sopra evidenziate trovano pertanto esplicitazione ulteriore nella prospettiva teologica. Se ne prospettano qui di seguito alcuni aspetti essenziali. 3.1 La fraternità Come si è visto finora, l’alterità dell’altro costituisce la soggettività individuale: l’altro è parte di me. Non solo: tra il singolo e l’altro vi è un rapporto di intima e reciproca appartenenza. La coscienza personale e la vita concreta possiedono una natura costitutivamente sociale. La relazione con l’altro si colloca all’origine dell’esperienza morale. La specificità della vita morale è data dal rapporto con l’altro. La responsabilità morale si estrinseca nella concretezza delle relazioni. La vita morale ha una dimensione costitutivamente sociale. La libertà personale e comunitaria è definita dal contenuto valoriale a cui si aderisce e pertanto si esplicita e si realizza nell’esercizio della responsabilità verso l’altro. L’essere persona non si costituisce a partire dalla mera soggettività individuale ma a partire dall’interpersonalità. L’uomo realizza se stesso solo se la propria libertà diviene spazio di generazione di fraternità. È l’esercizio della libertà verso l’altro che rivela se l’umanità è realizzata o negata. Come afferma S. Bastianel: «L’orizzonte di senso di tutto ciò che appartiene all’ambito della moralità ha un suo centro focale: una relazionalità qualificata dal gratuito, dall’accoglienza, dalla fraternità. La consapevolezza interna all’esperienza della libertà chiede una relazione liberante, quella di chi assume la propria libertà come responsabilità per la vita, per la libertà, per il bene dell’altro. L’unità interiore di consapevolezza, libertà e responsabilità (cioè la persona come coscienza Cfr. C. Vecchiet-F. Bellelli, Fenomenologia e metafisica. Questioni introduttive, in F. Bellelli-E. Pili (ed.), Ontologia, fenomenologia, nuovo umanesimo, cit., pp. 99-109. 12
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morale) si attua positivamente come creazione di umanità»13.La natura dell’uomo e della realtà tutta esprime l’intenzionalità creante e redentrice di Dio. Dio è in se stesso Trinità d’Amore e nell’azione creatrice, redentrice e salvifica esprime la propria natura comunionale. L’intenzionalità creante e redentrice di Dio trova il proprio ubi consistam nella fraternità. Sempre Bastianel sostiene: «L’intenzionalità di comunione regge e spiega l’operare di Dio in tutti i suoi interventi, dalla parola creatrice alla parola che si fa carne, dall’alleanza mosaica alla nuova alleanza in Gesù Cristo. Questa sua intenzionalità fa essere gli uomini capaci di comunione e li ricostituisce tali dalla condizione di peccatori. All’uomo Dio chiede di riconoscere l’intenzionalità del suo operare e di assumerlo nel suo operare, in propria libera responsabilità»14. L’intenzionalità che regge l’azione politica del cristiano credente ha come causa motrice l’amore comunionale di Dio e come causa finale il bene comune che è rappresentato in ultima istanza dalla comunione fraterna. L’uomo è chiamato alla comunione, a generare logica di comunione nella concretezza delle relazioni umane. Tutta la realtà è pensata e voluta da Dio secondo la logica di comunione. Il cristiano è chiamato ad accogliere Dio e a concedere che il Signore dia alla sua intenzionalità di comunione lo spessore della storicità. In ultima istanza la coscienza morale nel cristiano si traduce nella carità. La carità assurge a criterio guida nell’interpretazione della realtà, della storia e nell’orientamento di ogni gesto e dell’esistenza umana e sociale. 3.2 La preferenza dei deboli Accogliere la logica di Dio nel proprio cuore e nella propria vita vuol dire accogliere la logica intima del cuore di Dio Trinità che corrisponde all’amore gratuito, grato e comunionale. L’amore di Dio è senza riserve e non chiede nulla in cambio. È l’amore stesso in quanto S. Bastianel, Moralità personale nella storia. Temi di morale sociale, Trapani 2011, p. 34. 14 Ivi, p. 43. 13
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tale a fare appello alla libertà responsabile di ciascuno e di tutti. È un appello senza costrizioni. L’amore di Dio si esprime massimamente là dove l’esigenza di amore sovrabbonda, ossia nella debolezza e nel peccato. Il paradigma antropologico ed etico è rappresentato da Gesù che accoglie la croce nella logica dell’amore comunionale. Da qui deriva la predilezione dei deboli e di chi vive in condizioni di fragilità da parte del Vangelo. L’oggettività dell’amore di Dio si esprime della donazione di sé senza riserve a chi più ne ha bisogno e che meno ha da dare in cambio, proprio nella modalità descritte nel servo sofferente: (cfr. Isaia 52,13-53,12): nella non-forma della de-formazione della bellezza umana, che è la povertà in tutte le sue forme, si dona quella bellezza divina ed eterna che non può essere espressa da nessuna forma umana. La de-formazione della bellezza umana diventa luogo di coincidentia oppositorum: della bellezza divina e della povertà umana, che dall’Incarnazione viene eletta a luogo d’incontro redentivo con la ricchezza che non ha prezzo e che non si compra: la salvifica bellezza divina donata a tutti dalla misericordia di Dio. 4. Risvolti politici e conseguenze decisionali dell’etica filosofica e teologica della verità Si delineano ora alcuni possibili risvolti pratici delle premesse antropologico-etico-teologiche che sono state più sopra esplicitate, ossia alcune linee di decisione politica. Si tratta di linee che possono demarcare la specificità della cultura e della prassi politica dei cattolici e che i cattolici possono sostenere in alleanza con quanti possono condividere le medesime letture della realtà e iniziative. Chiaramente hanno un carattere meramente esemplificativo. - Difendere la libertà di coscienza e di decisione pratica. Il sacrario della persona è rappresentato dalla sua coscienza, spazio intimo di rappresentazione della realtà, di percezione delle evidenze e di assunzione delle decisioni vitali più rilevanti. È necessario proteggere la capacità di giudicare e di guardare al mondo in modo critico. Questo
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vuol dire investire in modo significativo sulle agenzie educative e sulle pratiche educative. Si pensi all’accesso ai new media da parte dei bambini o alla devastazione delle coscienze operata dalle pubblicità nella società opulenta. È necessario proteggere la capacità di far domande della coscienza ed evitare il “divieto di far domande” che caratterizza per Eric Voegelin15 il pensiero rivoluzionario e segna il passaggio del pensiero filosofico al pensiero ideologico. - Promuovere un’antropologia filiale (della dipendenza) e un’etica dei legami. La politica ha l’obbligo morale di salvaguardare e promuovere la dimensione sociale della persona, l’etica dell’alterità. La promozione dell’altro è decisiva per la maturazione della percezione delle evidenze etiche: l’altro mi precede e senza l’altro non esisto. Da qui deriva altresì il principio per cui è il diritto ad essere fondato (e preceduto dal) sul dovere e non viceversa. Da qui si deduce altresì che il desiderio personale o collettivo non necessariamente è ragion sufficiente per dar vita a istituti giuridici. - Rilanciare e sostenere il gratuito nel socio-politico. È quanto mai opportuno sostenere le iniziative volte a difendere la dimensione della gratuità anche sul piano sociale. Esempi evidenti sono il sostegno al volontariato e alla sussidiarietà sia verticale che orizzontale. - Rileggere le questioni socio-politiche a partire dagli ultimi e attivare pratiche conseguenti. È necessario costruire una visione sociale e politica che sappia partire dagli ultimi e privilegiare i deboli. In questo i cattolici devono per statuto loro proprio essere pionieri. La specificità dell’etica teologica della verità infatti passa attraverso la predilezione (pro-affezione16) per i poveri. - Promuovere una pastorale degli ultimi. È doveroso promuovere la pastorale della carità quale canale di sostegno della fede incarnata in opere dense di pro-affezione verso i poveri. La pro-affezione è promozione di stile di vita ed è comunicazione di verità. Cfr. E. Voegelin, Il mito del mondo nuovo, Milano, 1970, pp. 89 e ss.. Su questo tema si veda F. Bellelli, Etica originaria e assoluto affettivo. La coscienza e il superamento della modernità nella teologia filosofica di Antonio Rosmini, cit., pp. 255-315, che è il capitolo relativo a “Coscienza e struttura originaria”.
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Conclusione L’esperienza morale è decisiva nella vita di ciascuna persona, nella sua individualità e nella vita della comunità. La moralità coincide con il compimento ontologico della persona e della comunità. È la dimensione etica dell’esistenza che delinea la qualità della vita di un uomo e di una comunità. Questo vale in misura e forma eminente per chi aderisce al Vangelo. L’etica si qualifica pertanto come etica della verità e come etica teologica della verità. Inoltre va rimarcato che non solo l’esperienza morale deriva dalla verità ma l’esperienza morale introduce ed educa alla verità. Verità e morale esprimono l’essere e il suo valore che trova espressione nella soggettività individuale e comunitaria. Bene esprime Bellelli questi passaggi teoretici: «La peculiarità della fede cristiana nell’universale coscienza credente mette in evidenza che la riflessione sulla verità tout court (e) antropologica, in Rosmini, si esprime nella riflessione sulla forma dell’essere morale, configurabile, simultaneamente ed originariamente, come etica e come etica teologica della verità. È, infatti, il sentimento fondamentale (naturale e soprannaturale) a determinare il valore teologico dell’esperienza morale dell’uomo, proprio in virtù del fatto che il sintesismo tra l’essere morale e l’essere reale ri-significa cristologicamente il sintesismo con l’essere ideale e, pertanto, il senso della verità stessa, radicalmente percepibile, in questa prospettiva, come generatrice della sua propria etica teologica»17.
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Ivi, p. 265.
Dimensione antropo-teologica determinata dalle neuroscienze
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Il presente contributo ha lo scopo di costituire uno sguardo laterale, rispetto a quello fenomenologico che caratterizza i presenti contributi. Si tratterà di mettere a tema e far valere le pretese di una prospettiva differente, animata dal confronto con alcune provocazioni neuroscientifiche contemporanee. 1. La sfida delle neuroscienze La sfida che le neuroscienze attuali pongono alla teologia, per l’aspetto che vuole qui essere affrontato, può essere sinteticamente strutturata come segue: l’ipotesi dell’autofondazione dell’antropologico nel biologico in quanto sufficiente a dare conto della sua libertà. Si tratta di confrontarsi con l’idea che dal biologico possa darsi una fondazione sufficiente della libertà. In primo luogo va notato che l’ipotesi ritiene di essere sufficiente. Molte proposte neuroscientifiche avanzano modelli di spiegazione – e non solo di negazione come talvolta si suppone in ambito teologico – del fenomeno della libertà. Tuttavia tali modelli inquadrano spesso una libertà sufficiente, non esaustiva dell’umano e non assoluta, e che tuttavia basta per dare conto del nostro comportamento libero. Questa pretesa Docente di Teologia e Scienze Umane presso lo Studio Teologico Accademico di Trento 1
Dimensione Antropo-Teologica determinata dalle neuroscienze 75 minimale potrebbe contribuire a tenere aperta una porta verso il Trascendente che porterebbe a compimento tale libertà minimale e ne costituirebbe il senso. Non è questo tuttavia il suo effetto: serve piuttosto a confermare il carattere malsano, innaturale di pretese di compimento della libertà umana – nel Bene, nella Verità, nella Libertà – che sembrano avere esiti più che altro nefasti nella storia del ‘900. Laddove gli uomini credono di poter pervenire a un compimento gli esiti sembrano tragici. Il secondo luogo va notato che la pretesa è quella di dare conto della libertà. Non di negarla. Una posizione semplicemente eliminativista o epifenomenista – come spesso attribuita alla scienza in genere – risulta per molti versi più facile da affrontare in quanto si tratta di un posizione difficile da sostenere in modo integrale e coerente. La negazione totale della libertà, pur essendo una posizione assai radicale, lo è però tanto da essere un interlocutore facile per il teologo, che semplicemente può ignorarlo o contrastarlo senza riconoscimento. La brutale negazione della libertà spesso contrastata con meccanismi logici di tipo ricorsivo che ottengono il duplice effetto di troncare la discussione e di lasciare un senso di insoddisfazione; come se il senso reale della provocazione non fosse stato colto, la bomba non disinnescata2. La pretesa avanzata invece è quella di leggere la libertà come dato biologico ed evolutivo. Non di negare la libertà ma di affermare che è fatta di terra. Un quadro antropologico che non ha bisogno di altro che dell’animale per fondarsi e che non cerca di ignorare le specificità della coscienza e della libertà umane ma di spiegarle in modo adeguato attraverso i suoi strumenti. Il quadro che ne nasce è perciò di provocazione tanto per il neuroscienziato quanto per il teologo. Sul versante scientifico infatti è tutt’altro che facile riuscire a pervenire a modelli teorici che diano conto della coscienza e della libertà umane in modo sufficientemente consistente, e non può essere fatto se non rivedendo profondamente i Cf. H.D. Mutschler, Fede nella creazione e scienze della natura, in Kehl M., «E Dio vide che era cosa buona». Una teologia della creazione, Brescia 2009, 361-386 (ed. orig., Und Gott sah, dass es gut war. Eine Theologie der Schöpfung, Freiburg i. Br. 2006). 2
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presupposti epistemologici all’interno dei quali si muovono molte delle discipline che se ne occupano. Sul fronte teologico la provocazione è forte. Di fronte ad un uomo che non ha bisogno di niente più che della terra per dare conto delle dimensioni più elevate del proprio essere sarà compito del teologo verificare se un tale presupposto non sia da rigettare in toto, ma non potrà farlo senza aver prima preso molto sul serio la domanda, ed essersi interrogato sulla possibilità di ritrovare la presenza di Dio e la dignità dell’uomo in questo panorama mutato. Ciò che rischia di andare perduto infatti sono proprio questi due aspetti; l’uno antropologico – ovvero la dignità dell’uomo che gli deriva dal percepirsi, proprio grazie alla sua anima spirituale «più che soltanto una particella della natura o un elemento anonimo della città umana» (GS 14) – l’altro teologico – ovvero la possibilità dell’uomo di ritrovare nella sua stessa costituzione antropologica il rimando alla presenza e al volto di Dio3. Ma come è possibile affrontare coscienza e libertà umane in prospettiva biologica senza negarle e ridurle a tal punto da non essere più riconoscibili? Naturalmente vi sono vari proposte ma vorrei provare a suggerire una pista possibile nel confronto fra neuroscienze e psicologia psicodinamica. 2. Il Proto-se Secondo alcuni autori alla base della nostra coscienza vi sono meccanismi neuroscientifici, e in particolare una mappatura degli aspetti più stabili del nostro organismo, che costituisce il nucleo di quel sentimento di fondo che costituisce il nostro sé. Ciò che percepiamo dall’esterno infatti è evidentemente molto variabile e non potrebbe essere usato per dare appoggio al senso primordiale di se stessi. Ciò che invece percepiamo come stabile non è l’esterno ma il nostro stesso corpo, e in particolare una serie di parametri biochimici e di mappe enterocettive, relative cioè alla percezione degli organi interni4. Tutto questo viene Basti pensare al cammino del De trinitate agostiniano che fa della costituzione antropologica lo specchio della conoscenza del Dio trinitario. 4 Cf. A. Damasio, Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, Milano 2012, 230-263 (ed. orig., Self Comes to Mind. Constructing the Conscious Brain, New York 2010). 3
Dimensione Antropo-Teologica determinata dalle neuroscienze 77 mappato nella parte più antica del nostro cervello, in una serie di nuclei integrativi del tronco encefalico e costituisce per così dire il foglio bianco rispetto al quale possiamo poi percepire i colori e i tratti di ciò che accade attorno a noi. Si tratta di una funzione cerebrale molto arcaica che ci accomuna con animali molto più semplici di noi. In fondo anche un animale, per poter connotare in senso positivo o negativo le percezioni denotative dei suoi organi di senso, dovrà riferirsi ad un proprio stato “zero” rispetto al quale poter discriminare miglioramenti o peggioramenti. Perché l’“esterno” possa fare la differenza bisogna che vi sia un “interno” sufficientemente stabile che permetta di apprezzarla. Viene individuato qui un “sentimento fondamentale di sé” che si distingue da quanto proposto da Rosmini in quanto si colloca ad un livello esclusivamente biologico e animale. Non è tanto il cervello ad essere protagonista quanto piuttosto il corpo; è il corpo, la concretezza della carne che garantisce al cervello la base solida su cui costruire il senso di sé e, a partire da qui, l’appoggio per le funzioni psichiche superiori. Una tale prospettiva può pertanto essere un valido banco di prova per una teologia che voglia riconoscere alla dimensione del corpo e della biologia una qualche consistenza antropologica propria. Qui il biologico si prende il fondamento del concetto di valore e con esso il fondamento stesso della costituzione individuale. Ciò che caratterizza il valore infatti è la capacità che l’animale ha di connotare gli avvenimenti attraverso meccanismi edonici filogenenticamente molto antichi, attribuendo loro un valore positivo o negativo rispetto all’interesse che ogni vita ha per se stessa. Questo pone una serie di problemi alla teologia ma offre anche una serie di luci. Si tratta infatti di un valore che non ha a che fare né con la verità né con la logica e va dunque inteso in senso pre-morale e pre-razionale. Se lo si concede, anche solo parzialmente, si dovrà poi spiegare da un punto di vista teologico come questo si accordi con l’apparire del valore morale, logico, antropologico e teologico. Due sono le caratteristiche di questo valore fondato biologicamente che meritano di essere messe in luce. La prima è che un tale valore non è uno ma sono molti. L’animale infatti per garantire la propria sopravvivenza e la sopravvivenza della propria specie deve porre attenzione ad una serie piuttosto ampia di parametri.
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In altri termini il suo proto-sé dovrà reagire connotando negativamente (o positivamente) non una sola condizione (poniamo affamato-sazio) ma molte (piacere-dolore; caldo-freddo; inquieto-soddisfatto sessualmente; tranquillo-spaventato; al sicuro-in pericolo, ecc.). La seconda caratteristica è che rispetto ad un tale incontro-scontro di valori non è pensabile trovare un ottimale. Non esiste un criterio unico, un valore guida, un equilibrio garante e garantito. La vita si confronta con i propri valori tramite esperimenti, tentativi, rischi. Ogni pensiero teologico che pretenda di prendere in considerazione una fenomenologia basilare dell’umano, soprattutto laddove questa intenda cogliere i nessi che ci legano agli animali, si dovrà scontrare con questo triplice dilemma: dove collocare questo fondo pre-morale di valore senza rifiutarlo? Come accogliere una tale pluralità valoriale fondamentale irrisolta e irrisolvibile? Come comportarsi rispetto all’assenza di un ottimale? Cercando di imporne uno dall’esterno o accettandone il carattere evolutivo-dinamico? 3. Specchio di desiderio Naturalmente il proto-sé non fornisce gli strumenti teorici esaustivi per affrontare la coscienza umana. È ancora lungo il cammino di un cervello animale affinché si possa parlare di senso del sé in senso umano5. È infatti soltanto laddove, tramite il contributo degli strumenti sociali del pensiero e del linguaggio, emerge un senso di sé tale da poter essere definito autobiografico6 che si può parlare di coscienza e di libertà in senso umano. La differenza fondamentale non sta nella possibilità di scegliere. Anche gli animali infatti scelgono. Nella realtà l’asino di 5 Cf. G.M. Edelman – G. Tononi, Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione, Torino 2000 (ed. orig., A Universe of Consciousness. How Matter Becomes Imagination, New York 2000). 6 Cf. A. Damasio, Il sé viene alla mente La costruzione del cervello cosciente, Milano 2012, 270-300 (ed. orig., Self Comes to Mind. Constructing the Conscious Brain, New York 2010).
Dimensione Antropo-Teologica determinata dalle neuroscienze 79 Buridano non muore ma sceglie uno dei due mucchi di paglia e mangia. Ciò che distingue gli animali dall’uomo non è pertanto la scelta ma ciò rispetto a cui scegliamo. L’animale infatti sceglie rispetto alla realtà esterna ma non possiede uno sviluppo concettuale e linguistico tale da permettergli di scegliere rispetto a se stesso. È cosa nota che sono molto pochi gli animali in grado di riconoscere se stessi nella propria immagine riflessa allo specchio. Non si tratta di scarsa intelligenza ma di qualcosa di simile a quanto accade per la nostra incapacità di percepire i movimenti del nostro cuore o del nostro intestino. Semplicemente non è previsto che vi sia una percezione o un controllo cosciente su questi aspetti, pur così importanti, della realtà. E di fatto tutto funziona abbastanza bene anche così, per noi. Analogamente la maggior parte degli animali non ha un controllo diretto sulla percezione di se stessi come un tutto. Si tratta di una funzione molto dispendiosa in termini di complessità e di comportamento. Una volta che si comincia non solo a percepire esplicitamente la realtà esterna e implicitamente se stessi, ma anche esplicitamente se stessi, non si torna più indietro. Significa trovarsi nella condizione di decidere non solo delle cose o delle azioni ma di implicare costantemente se stessi in queste decisioni. Facendo altro decido di me. La domanda che si pone a questo punto però è la seguente: rispetto a cosa decido quando decido di me? Quando infatti si decide rispetto alla realtà è sempre abbastanza chiaro rispetto a che cosa lo si fa: scappo o mi difendo, mangio o scappo, mi avvicino o mi allontano. Tutte scelte che gli animali fanno altrettanto bene come noi. Ma decidere di sé? La domanda suona più o meno: decido di essere me stesso o un altro? Qui emerge una caratteristica essenziale per elaborare una teoria della coscienza e della libertà a fondamento biologico. Per poter decidere di me stesso ho bisogno che al posto dello specchio ci sia qualcun altro che costituisca l’alternativa concreta rispetto alla quale scegliere. Si potrebbe così dire che è l’altro che – offrendomi un’alternativa reale all’essere me stesso – mi libera dl rapporto immediato con me in favore di un rapporto mediato – dagli strumenti del pensiero e del linguaggio. (a) Specchio. In termini neuroscientifici questo può essere interpretato attraverso la chiave di lettura gli studi del team di Parma relativi ai
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neuroni specchio7. La caratteristica di questi neuroni, o meglio di queste aree cerebrali, è quella di essere neuroni motori che si attivano però non soltanto quando compio un’azione ma anche quando vedo qualcuno compierla. L’unica differenza è quella di non attivare a propria volta i neuroni che inviano il segnale al midollo spinale per compiere concretamente l’azione, o di farlo solo in modo minimale, microattivando le zone coinvolte. Guardare un altro compiere un’azione, in questa prospettiva, significa riprodurre internamente questa stessa azione. Capire un’azione complessa per questo gruppo di ricerca significa perciò non tanto immaginare cosa sia compiere quell’azione o quali conseguenze ed emozioni essa comporti – con un procedimento analitico connotato intellettivamente –, quanto piuttosto simulare nel proprio cervello e nel proprio corpo l’azione osservata – con un procedimento sintetico connotato emotivamente. Ancor più precisamente si può dire che comprendere sia proiettare il proprio corpo nell’azione altrui e da lì dentro leggere la situazione, “come se”8 quell’azione la stessi compiendo io. Tale meccanismo non ha nulla di magico ma si può spiegare attraverso percorsi evolutivi, almeno sotto due differenti aspetti. In primo luogo per quanto concerne la fluidità dei movimenti; infatti questo approccio sintetico ed emotivo all’azione permette di leggere le azioni altrui e vivere le proprie come azioni complesse, come un insieme non scomposto ma unitario – il che favorisce la scioltezza del movimento. Ma soprattutto una cognizione basata sulla simulazione permette di valutare le conseguenze dell’azione iniziata in quanto, essendo l’azione concepita come un tutto, se ne possono già percepire gli esiti possibili. Quando qualcuno alza la mano sopra di noi, noi non percepiamo mai il gesto come tale, ma sempre come parte di un’azione complessa che può essere “dare una sberla”, “dare una carezza”, “benedire”, “rubare il cappello”, ecc. questo ci permette risposte adeguate alla situazione, il che risulta di vitale importanCf. G Rizzolatti. – C Sinigaglia., So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano 2006; M. Ammaniti – V. Gallese, La nascita della intersoggettività. Lo sviluppo del sé tra psicodinamica e neurobiologia, Milano 2014. 8 Il meccanismo del “come se” ha un importanza centrale nella riflessione svolta nel XIX e XX secolo sui meccanismi dell’empatia in ambito fenomenologico (Cf. V. Costa, Alterità, Bologna, 2011, 109-128). 7
Dimensione Antropo-Teologica determinata dalle neuroscienze 81 za per noi ma anche per gli animali e per la loro possibilità di interpretare l’ambiente che li circonda e comportarsi in modo adattivo. L’ipotesi che alla base della cognizione vi sia un meccanismo di questo tipo significa dare alla cognizione una base corporea ed emotiva. Alla base della cognizione ci sarebbe perciò non l’«io penso» ma il «noi sentiamo». Si tratta naturalmente solo della base della cognizione, che non esclude minimamente meccanismi più complessi legati agli strumenti del pensiero e del linguaggio, e che non deve essere estesa oltre misura, come talvolta viene fatto. Offre tuttavia un fondamento neuroscientifico alle intuizioni psicodinamiche sul ruolo che le relazioni hanno nella formazione del soggetto. In questo caso danno fondamento all’ipotesi che noi interiorizziamo le azioni degli altri e ancor più le relazioni con loro, ed è per questo che possiamo scegliere. Simulando in me l’azione, lo stile, il gesto complesso dell’altro io posso comparare il mio modo di essere con il suo, la mia azione concreta con la sua e, di fronte a questa alternativa, decidere. Negli animali, controintuitivamente, ciò che manca non è la capacità di percepire l’altro e la sua azione, ma la capacità di percepire se stessi come termini di paragone dell’azione dell’altro. Per essi l’altro è simulato e compreso ma non diviene termine di paragone offerto al proprio modo di essere. Rimane un altro, non diventa un’ipotesi di sé. In questa prospettiva l’altro mi offe la possibilità di scegliere chi sono, in quanto mi offre un’alternativa all’essere immediatamente me stesso e così facendo, in quanto detentore concreto delle mie ipotesi, mi limita. Tutto ciò porta a ridefinire la prospettiva sulla libertà in quanto non si tratta prima di tutto di iniziare qualcosa di nuovo ma di scegliere, riassemblando pezzi di azioni e ipotesi di realizzazioni che si incontrano. L’aspetto più interessante di questa ipotesi è che offre una prospettiva che non ha bisogno di nient’altro che della concretezza di un cervello e un corpo biologici in grado di simulare la azioni degli altri che vengono visti e incontrati. (b) Desiderio. In termini psicodinamici la stessa ipotesi può essere declinata attraverso la categoria del desiderio. Essa esprime infatti la dinamica con cui il soggetto si rivolge a qualcuno/qualcosa per coinvolgerlo nella costruzione di sé. Particolarmente in ambito lacaniano –
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laddove si riprende l’eredità di Hegel - Kojeve - Sartre, rispetto a questo concetto – l’assioma psicodinamico che vede nella relazione il centro della soggettivazione viene declinato in modo radicale9. Il soggetto nasce vuoto, nasce come grido e mancanza ed è l’altro che gli offre di che costruire se stesso, attraverso l’offerta del suo desidero e della sua persona. Tuttavia proprio in quanto gli offre la vita lo assoggetta anche allo stesso tempo alla propria presenza e alle proprie strutture – linguistiche, concettuali, affettive, ecc. In entrambi i casi – neuroni specchio o desiderio – quello che si presenta al teologo sono proposte culturalmente raffinate e scientificamente consistenti di dare conto della complessità delle funzioni psichiche superiori, compresa la libertà, attraverso impostazioni che possono prescindere da tutto ciò che non si “terra”. Naturalmente questo pone una sfida con domande inquietanti; viene così spezzato il nesso esperienzialmente misterioso e metafisicamente chiaro che univa la coscienza e la libertà umane immediate all’azione di Dio? Va perduto il concetto di anima e la sua realtà? E se così fosse cosa realmente andrebbe perduto? E come potrebbe essere salvato altrimenti? E ancora: forse che la libertà umana può rinunciare ad una prospettiva di compimento, di assoluto, allorquando il fondamento – biologico – non abbia in sé nulla di trascendente? Può limitarsi ad essere una scelta fra ipotesi sparse e a rigore scarsamente distinguibili? O forse il nesso fra fondamento e compimento va pensato in modo più dialettico, più spiazzato rispetto al circolo exitus-reditus classico? O forse ancora il concetto stesso di compimento deve essere fortemente demitologizzato per essere adeguato alla concretezza dell’essere umano? Vi sono però anche dei guadagni che la provocazione neuroscientifica di un essere umano così legato alla biologia può proporre alla teologia. Se non altro quello di offrire uno zoccolo biologico alla nostra relazione con gli altri. Questo non permette di saltare indebitamente al piano etico e tuttavia dà sostegno ad una visione della persona strutturalmente relazionale. Al tempo stesso offre strumenti – così come Cf. J. Butler, Soggetti di desiderio, Roma - Bari 2009 (ed. orig., Subjects of Desire. Hegelian Reflections in twentieth-century France, New York 1987); M. Recalcati, Jacques Lacan, I. Desiderio, godimento e soggettivazione, Milano 2012. 9
Dimensione Antropo-Teologica determinata dalle neuroscienze 83 fa la psicologia in generale – per pensare queste relazioni in modo meno ideologico e superficiale. E cioè piste per un’ipotesi di fenomenologia della libertà più realistica ed autonoma. L’elemento teologico potrà essere coinvolto, ma si troverà di fronte una fenomenologia della libertà umana relativamente sufficiente e consistente, rispetto alla quale si porrà la sfida di una articolazione e coordinazione complessa delle due libertà in gioco. A titolo esemplificativo si può considerare l’effetto che una tale prospettiva ha sul tradizionale concetto di anima, che attraversa oggi alterne fortune nell’utilizzo pastorale, teologico accademico e teologico divulgativo. 4. Il Verbo si è fatto carne Il confronto con le istanze di una proposta antropologica che fonda la coscienza e la libertà in una biologia capace di relazioni mette a tema le problematicità del concetto di «anima». Affrontare tali problematicità non ha semplicemente lo scopo di rispondere alle provocazioni del milieu culturale contemporaneo. Non è solo una reazione a difficoltà che provengono dal contesto in cui la teologia opera. Tale confronto è soprattutto la reazione ad alcuni rischi che, nel contesto culturale attuale, la parola teologica corre anche suo malgrado. Il mutare del contesto infatti fa sì che la stessa parola assuma significati differenti in base alla struttura generale delle parole che la circondano. Uno è in particolare il rischio da temere nell’utilizzo del concetto di anima senza il confronto con una sua possibile naturalizzazione. Si tratta di un rischio di ordine antropologico e metafisico. La domanda potrebbe essere così formulata: dove e come Dio incontra la persona umana? Certamente si può rispondere: nell’anima, nel cuore, nell’interiorità, nella dimensione trascendente della persona. Tuttavia l’accentuazione di questi luoghi – che possono essere sussunti sotto il termine «anima» rischia di creare una distorsione della prospettiva. La specificità del ruolo dell’anima per la gestione della grammatica dell’incontro fra Dio e l’uomo rischia infatti di subire pesan-
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temente gli effetti di una naturalizzazione del mondo in genere e del mondo umano in particolare. In una prospettiva tradizionale l’anima era certamente un luogo privilegiato dell’incontro con Dio ma soltanto uno, fra molti altri possibili e presenti. Nel cono di luce di una prospettiva scientifica invece rischia che l’anima resti il solo luogo di incontro. Con l’aggravante che resta tale solo nella misura in cui l’anima e le sue funzioni – memoria, intelligenza, volontà affetti – non vengono a sua volta naturalizzate, con la situazione per cui ad ogni nuova scoperta sul cervello e il suo funzionamento sembra ridursi lo spazio di incontro fra Dio e l’uomo. Si imposta un gioco in cui lo spazio di Dio è aggredito dalle scienze del cervello. Gli effetti sono gravi in particolare per la prospettiva teologica, più ancora che per quella antropologica. Un Dio espunto dalla maggior parte degli ambiti del reale si fa presente così solo in qualche evento straordinario e in un luogo indefinito, l’anima, che si caratterizza proprio per non essere come tutto il resto della realtà. Questo Dio spirituale ha a che fare con le anime delle persone in fondo proprio perché non sono corpo, proprio per ciò che non sono. Si tratta evidentemente di un effetto non voluto, che tuttavia rimanda ad una tentazione costante del cristianesimo, quella di cercare delle attenuazioni, delle interpolazioni allo scandalo del Verbo che si fa carne. Non anima, non interiorità, non sussurro al cuore dell’essere umano nel profondo della coscienza – non solo. Ma carne, storia, concretezza. Le provocazioni di un mondo che pretende di essere fatto tutto di carne hanno il vantaggio di rendere chiara la sfida, una sfida che non dovrebbe suonare strana per lo spirito cristiano, ovvero quella di dare conto di come è possibile che Dio abbia a che fare, intervenga, si coinvolga senza mediazioni con la concretezza del reale. Si potrebbe dire che o la teologia trova un posto per Dio nella semplicità di un mondo naturalizzato oppure troverà un posto astratto per un Dio astratto. Si tratta di una sfida piuttosto ampia e di cui non vi è risposta facile o soluzione univoca. Naturalmente non bisogna nemmeno commettere l’errore di proiettare semplicemente questa sfida su altre epoche che, operando in
Dimensione Antropo-Teologica determinata dalle neuroscienze 85 un contesto culturale differente potevano evitare per altre vie tale rischio e rispondere in altro modo alla sfida della concretezza cristiana. Tuttavia può essere importante cogliere che, nella naturalizzazione neuroscientifica delle dimensioni più personali dell’essere umano – la sua coscienza e la sua libertà – non vi è solo la sfida della negazione, ma anche un appello affinché l’unicità, la storicità, la bellezza, la dignità dell’essere umano, così come la sua possibilità di conoscere in questa vita e in questo corpo il Dio vivente, siano pensate in modo più rigoroso e adeguato alla concretezza del messaggio cristiano.
INDICE Sommario......................................................................5 INTRODUZIONE (Piero Sapienza) ..................................................................................9 LA “POLIS” FORMA DEI LEGAMI DI LIBERTÀ TRA COSCIENZA PERSONALE COSCIENZA CIVILE (Ferdinando Bellelli)...........................................................................15 ROSMINI E IL PASSAGGIO DALLA FENOMENOLOGIA ROVESCIATA DEL SIMBOLICO ALLA SVOLTA AFFETTIVA DELLA METAFISICA (Carla Canullo) ................................................................................ 29 1. Il riconoscimento è realmente possibile ................................... 29 2. Riscoprire ciò che si conosce .................................................... .31 3. L’Affettività a partire da Michel Henry ................................ 32 4. Interstizialità, distanza che fa vedere .................................... 36 5. Prospettive edite e inedite .......................................................... 38 6. Essere e affezione insieme ...................................................... .....40 ROSMINI E LA LIBERTÀ ONTOLOGICA, PERSONALE E POLITICA (Gian Pietro Soliani) ........................................................................ 44 1. La libertà divina ...........................................................................44 2. Ragione sufficiente e libertà ..................................................... 48 3. La libertà umana .......................................................................... 49 4. Moralità e coscienza morale .................................................... 51 5. La libertà politica....................................................................... 56
LA DIMENSIONE POLITICA DELL’ETICA FILOSOFICA E TEOLOGICA DELLA VERITA’ SECONDO ROSMINI (Cristian Vecchiet) ..............................................................................58 1. La prospettiva Rosminiana dell’etica (filosofica e teologica) della verità ......................................... 59 1.1 Apertura radicale alla verità ...................................... .60 1.2 L’originarietà e l’antecedenza ontologica e costitutiva della donazione...................................................63 1.3 L’apertura radicale alla possibilità di Dio................... 65 2. La dimensione politica dell’etica filosofica della verità.. .. 65 2.1. La salvaguardia della sostanza su cui si regge la società. ........................................................66 2.2. La fedeltà al fine che orienta e sostiene la società .................................................................67 2.3. La cura dei legami invisibili e sostanziali .....................68 3. La dimensione politica e teologica dell’etica della verità ..............................................................................68 3.1.La fraternità........................................................................69 3.2.La preferenza dei deboli ...................................................70 4. Risvolti politici e conseguenze decisionali ll’etica filosofica e teologica della verità .................................................................71 Conclusioni................................................................................73 DIMENSIONE ANTROPO-TOLOGICA DETERMINATA DALLE NEUROSCIENZE (Leonardo Paris) ......................................................................... 74 1. La sfida delle neuroscienze ................................................74 2. Il Proto–Se.............................................................................76 3. Specchio di desiderio.............................................................78 4. Il Verbo si è fatto carne ........................................................83 Indice.............................................................................................. 86
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