SYNAXIS XX/2 - 2002
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
INDICE Sezione monografica Convegno di studio «Chiesa locale e istituti di vita consacrata» INTRODUZIONE (Adolfo Longhitano)
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I PRESBITERI “RELIGIOSI” E LA PASTORALE DIOCESANA (Raimondo Frattallone) . . . . . . Premessa . . . . . . . A. Il livello misterico-carismatico . . . . 1. I modelli ecclesiologici di riferimento . . . 2. Il ministero dei vescovi nell’organica comunione ecclesiale 3. La vita consacrata nel mistero della Chiesa “comunione” . B. Il livello pastorale-organizzativo . . . . 1. Il vescovo centro della pastorale diocesana . . . 2. I vescovi e i religiosi nell’unica missione del popolo di Dio 3. Il significato pastorale dell’esenzione . . . C. Problematiche e principi di soluzione . . . 1. Problemi della vita consacrata in quanto tale . . 2. Problemi dei gruppi o delle comunità di vita consacrata . 3. Problemi delle singole persone consacrate . . . Conclusione . . . . . . .
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IL PRESBITERIO: UN MINISTERO PER LA CHIESA LOCALE . . . . . (Francesco Conigliaro) Premessa . . . . . . 1. Il senso del segno del sacramento dell’ordine . 2. Il ministero della Chiesa . . . . 3. Il presbitero e la Chiesa . . . . 4. Un presbiterio unico ed articolato . . . 5. Rilievi conclusivi . . . . .
IL CARISMA DEGLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E DELLE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA NELLA CHIESA LOCALE (Alberto Neglia) . . . . . . . .
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Premesse . . . . . . . . 1. «Una funzione di raccogliemento» . . . . . 2. «Raccogliere… domanda una interiorità sveglia» . . . 3. «Un’apertura senza cedimenti, senza paura, né ripiegamenti selettivi» 4. «La croce è messa là dove Dio e l’uomo si raccolgono» . .
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PARTECIPAZIONE DEI MEMBRI DEGLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E DELLE SOCIETÀ DI VITAAPOSTOLICAAL PROGETTO PASTORALE DIOCESANO (Carmelo Torcivia) . . . . . . . . 325 Premessa . . . . . . . . 325 1. Quale appartenenza per una corretta partecipazione . . . 327 2. Progetto pastorale diocesano e religiosi . . . . 328 3. Modalità di partecipazione . . . . . . 332 4. Chiesa particolare e religiosi: scambio fecondo e rischi . . 335 5. Per una Chiesa madre di figli adulti . . . . . 338
Sezione miscellanea NUNZIO RUSSO DIRETTORE SPIRITUALE. L’EPISTOLARIO CON PAOLINA TURANO (1878-1906)
(Mario Torcivia) . . . . . 1. L’epistolario tra Nunzio Russo e Paolina Turano 2. Paolina Turano . . . . 3. Nunzio Russo direttore spirituale . .
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GESÙ «L’ALFA E L’OMEGA», «IL PRIMO E L’ULTIMO», «IL FONDAMENTO E IL COMPIMENTO» NEL LIBRO DELL’APOCALISSE (Maria Rita Sambataro) . . . . . . . Parte prima: le fonti delle nostre espressioni . . . . 1. Espressioni analoghe nel NT . . . . . 2. Espressioni analoghe nei LXX . . . . . 3. I testi di Is 41,4; 44,6; 48,12 . . . . . 4. Conclusioni sui testi di Isaia . . . . . 5. Confronto letterario con l’Apocalisse . . . . 6. Il testo di Is 41,4 . . . . . . . 7. Il testo di Is 44,6 . . . . . . .
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8. Il testo di Is 48,12 . . . . 9. Conclusioni sui fondamenti veterotestamentari Parte seconda: i testi dell’Apocalisse . . 1. Il testo di Ap 1,8 . . . . 2. Il testo di Ap 1,17 . . . . 3. Il testo di Ap 2,8 . . . . 4. Il testo di Ap 21,6 . . . . 5. Il testo di Ap 22,13 . . . . 6. Conclusioni . . . .
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CONVEGNO ROSMINIANO DI STRESA «IL SACRO E LA STORIA. LE CIVILTÀ ALLA PROVA» (Salvatore Latora) . . . . .
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A PROPOSITO DE “IL CRISTO SICILIANO” (Jean-Pierre Jossua) . . . .
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Presentazione
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Note
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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO
Convegno di studio «Chiesa locale e istituti di vita consacrata»
Synaxis XX/2 (2002) 233-235
INTRODUZIONE
Il rapporto Chiesa locale/istituti di vita consacrata si pone in modo del tutto differente rispetto alla dottrina e alla prassi comuni prima del Concilio Vaticano II. I documenti conciliari, nel delineare un’immagine di Chiesa più rispondente al dato biblico e alle fonti patristiche, hanno permesso di considerare la vita consacrata non più come un elemento accessorio, ma come uno dei carismi fondamentali per comprendere la sua natura e la sua missione. Fin quasi alla vigilia del concilio, quando teologi e canonisti si proponevano di individuare la collocazione dei religiosi nell’ordinamento canonico, si era d’accordo nell’affermare che a questa categoria di battezzati non poteva essere assegnato un posto specifico. Infatti nella concezione della Chiesa come societas inaequalis, strutturata per diritto divino sul binomio chierici-laici (Codice 1917, can. 107), l’elemento strutturale era la gerarchia, costituita dai chierici che, in forza dell’ordine sacro, erano titolari della sacra potestas (Codice 1917, can. 118). I laici, definiti come nonchierici, si trovavano in una posizione subordinata. Era questa subordinazione dei laici ai chierici che conferiva alla Chiesa la specifica giuridicità della societas inaequalis. I religiosi facevano parte dell’ordinamento canonico in quanto chierici o in quanto laici. Esaurito il discorso della struttura dell’ordinamento canonico, stabilita per diritto divino, si cercava di individuare l’identità e la specificità dei religiosi, seguendo un metodo di contrapposizione: i religiosi, a differenza degli altri battezzati che osservavano i precetti comuni, avevano scelto lo stato di perfezione impegnandosi ad osservare i consigli evangelici (Codex 1917, can. 487).
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Adolfo Longhitano
Si trattava di uno schema allo stesso tempo elementare e chiaro, che difficilmente avrebbe potuto dare adito ad ambiguità. Dal punto di vista strutturale la santità e la vita religiosa non avevano alcuna rilevanza, perché prive del riferimento alla sacra potestas conferita da Cristo alla gerarchia. Dal punto di vista della perfezione i chierici e i laici non potevano essere presi in considerazione, a meno che non avessero fatto la professione dei consigli evangelici. Il Concilio Vaticano II nell’affrontare il tema dell’ordinamento della Chiesa seguì un iter del tutto diverso. Prima di trattare della gerarchia approfondì la nozione biblica del popolo di Dio; i fedeli, rigenerati dai sacramenti dell’iniziazione cristiana e investiti dei carismi e dei doni dello Spirito, partecipano alla missione sacerdotale, profetica e regale di Cristo (LG 10-12: EV 1,311-317). Tutti i battezzati sono chiamati alla santità (LG 40: EV 1,338-339): mentre alcuni si impegnano a realizzare questa santità in una dimensione di immanenza nel mondo, altri sono protesi a far risaltare la dimensione della trascendenza e della radicalità evangelica (LG 44: EV 1,406). Fra tutti vige pertanto una fondamentale uguaglianza e corresponsabilità nella edificazione del regno di Dio. Sulla base di questa uguaglianza e corresponsabilità è affermata una diversità proveniente dai carismi dati a ognuno dallo Spirito, per partecipare in modo specificamente diverso all’unica missione della Chiesa (LG 32: EV 1,366). In conclusione si può affermare che il Vaticano II ha inteso definitivamente superare la concezione feudale di una Chiesa fondata sugli status giuridici, per far propria la concezione biblica della Chiesa-comunione, fondata sull’uguaglianza sostanziale derivante dal battesimo e sulla diversità funzionale derivante dai carismi e dai ministeri. Le conseguenze di questa diversa visione sono evidenti: santità e vita religiosa sono considerate elementi strutturali della Chiesa. In tal modo realtà che non sembravano facilmente conciliabili sono ricondotte ad unità: battezzati e perfezione da una parte, struttura della Chiesa e vita consacrata dall’altra. C’era, poi, da affrontare e risolvere il problema del rapporto in cui venivano a trovarsi nella stessa Chiesa locale i presbiteri religiosi e i presbiteri secolari. In una visione di Chiesa in cui gli elementi giuridici erano spesso prevalenti su quelli teologici, l’istituto dell’esenzione metteva in ombra i vincoli profondi che univano i presbiteri in forza del sacramento dell’ordine che tutti avevano ricevuto a servizio della Chiesa. L’unità del
Introduzione
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presbiterio attorno al vescovo, chiaramente affermata dal Vaticano II (LG 28: EV 1,355), ha permesso di completare un quadro dottrinale d’insieme, comunemente accolto e condiviso, che troviamo sotteso ai numerosi documenti promulgati dopo la chiusura del Concilio Vaticano II. A tanta ricchezza di dottrina era necessario far corrispondere una prassi coerente, ricercata con impegno da tutte le componenti la Chiesa locale. Il convegno diocesano sul tema «Chiesa locale e istituti di vita consacrata», promosso dal vicario per la vita consacrata e dallo Studio Teologico San Paolo (Catania, 20 novembre 2001), ha voluto essere un momento di riflessione per un cammino ecclesiale comune da parte della Chiesa che vive ed opera a Catania: fedeli laici, chierici, membri degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica. Le quattro relazioni hanno voluto privilegiare allo stesso tempo aspetti della dottrina e della prassi: 1. Il presbiterio: un ministero per la Chiesa locale (Francesco Conigliaro); 2. I presbiteri “religiosi” e le attività pastorali diocesane (Raimondo Frattallone SdB); 3. Il carisma degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica nella Chiesa locale (Alberto Neglia OC); 4. Partecipazione dei membri degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica al progetto pastorale diocesano (Carmelo Torcivia). La pubblicazione delle quattro relazioni vuole offrire a tutti la possibilità di approfondire la riflessione avviata nel convegno. Adolfo Longhitano
Synaxis XX/2 (2002) 237-261
IL PRESBITERIO: UN MINISTERO PER LA CHIESA LOCALE FRANCESCO CONIGLIARO∗
Premessa La missione affidata dal Cristo alla Chiesa, la missione di generare gli uomini alla vita nuova dei figli di Dio, può essere espressa con la locuzione «funzione materna di generazione». Tale locuzione, mentre mette a tema sinteticamente tutte le caratteristiche della Chiesa, indica le sue molteplici funzioni istitutive ed enuncia il significato del sacramento dell’ordine che essa custodisce e celebra. Conferito nel suo secondo grado, il sacramento dell’ordine pone in essere il ministero del presbiterato, che viene dato al singolo in vista della sua appartenenza ad un collegio presbiterale, il presbiterio, che è presieduto dal vescovo diocesano ed è a servizio della Chiesa locale. Tale appartenenza, però, è articolata. Ci fermeremo a considerare la figura del presbitero secondo il senso che sgorga dal segno del sacramento dell’ordine. Dedicheremo, poi, la nostra attenzione all’unità ed alle differenze che sussistono tra presbiteri diocesani e presbiteri religiosi ed alla presenza di questi ultimi nell’unico presbiterio della Chiesa locale.
1. Il senso del segno del sacramento dell’ordine Per cogliere il senso del segno del sacramento disponiamo di varie possibilità, ma desidero e mi piace approfittare di quella offerta dal rito dell’ordinazione presbiterale. ∗
Docente di Storia della teologia nell’Università di Palermo.
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Francesco Conigliaro
Nella Preghiera di ordinazione il vescovo ordinante esprime, tra gli altri, i seguenti concetti: «Per formare il popolo sacerdotale, tu [Dio] hai disposto in esso in diversi ordini, con la potenza dello Spirito santo, i ministri del Cristo tuo Figlio»; «Nell’alleanza presero forma e figura i vari uffici istituiti per il servizio liturgico. A Mosè e ad Aronne, da te prescelti per reggere e santificare il tuo popolo, associasti collaboratori che li seguivano nel grado e nella dignità»; «Nella pienezza dei tempi, Padre santo, hai mandato nel mondo il tuo Figlio Gesù. […] rese partecipi della sua missione i suoi apostoli consacrandoli nella verità. Tu aggregasti ad essi dei collaboratori nel ministero per annunziare e attuare l’opera della salvezza»; «Dona, Padre onnipotente, a questi tuoi figli, la dignità del presbiterato. […] adempiano fedelmente, o Signore, il ministero del secondo grado sacerdotale da te ricevuto e con il loro esempio guidino tutti a un’integra condotta di vita»; «Siano degni cooperatori dell’ordine episcopale, perché la parola del Vangelo mediante la loro predicazione […] fruttifichi nel cuore degli uomini e raggiunga i confini della terra»; «Siano insieme con noi fedeli dispensatori dei tuoi misteri, perché il tuo popolo sia rinnovato con il lavacro di rigenerazione e nutrito alla mensa del tuo altare, siano riconciliati i peccatori e i malati ricevano sollievo».
Nelle rimanenti parti del rito di ordinazione si nota quanto segue: l’unzione crismale è accompagnata dalla preghiera rivolta al Signore affinché custodisca l’ordinato «per la santificazione del suo popolo e per l’offerta del sacrificio»; la consegna del pane e del vino viene fatta mediante queste parole: «Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico»; l’imposizione delle mani avviene ad opera del vescovo ordinante e di tutti i presbiteri presenti alla celebrazione; l’abbraccio tra neoordinati e presbiteri indica accoglienza sia nel grado, il secondo grado sacerdotale, che nell’identico collegio presbiterale. Il rito dell’ordinazione presbiterale, come è facile notare in seguito al breve richiamo alla memoria dei tratti più significativi di esso, considera quelli che vengono ordinati presbiteri, senza distinzione alcuna, come appartenenti allo stesso secondo grado sacerdotale e come ordinati per la medesima missione di salvezza, implicante la celebrazione dei sacramenti,
Il presbiterio: un ministero per la Chiesa locale
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a partire dall’Eucaristia, di cui sono direttamente e pienamente responsabili, e la multiforme opera di evangelizzazione della Chiesa. In tale contesto, il termine “presbitero” fa riferimento ad un carisma e ad un ministero che hanno una fonte ben precisa, e cioè il sacramento dell’ordine, ed un fine altrettanto chiaro, che è il servizio della comunità. Il ministero ordinato ha, in virtù della sua radice sacramentale propria e peculiare, una funzione costitutiva nei confronti della struttura ecclesiale, fino al punto che la comunità cristiana senza di esso è monca1.
2. Il ministero della Chiesa La fede cristiana insegna che la generazione degli uomini alla figliolanza divina è opera esclusiva di Dio. Pertanto, il compito della Chiesa è da intendere in termini di ministerialità e di strumentalità. È necessario precisare subito che si tratta di ministerialità e di strumentalità confrontabili con l’umanità di Cristo. Questa, in virtù dell’unione personale con la divinità, unione resa e rivelata come piena ed inequivocabile nella gloria della risurrezione-esaltazione, ha nel mondo il compito di porre in essere la nuova creazione e l’assetto escatologico di tutto ciò che esiste. L’umanità di Gesù è condizione di attuazione e di comprensione di diversi fatti: è la dimensione creaturale-umano-storico-cosmica in cui il Padre, spinto dall’amore per le sue creature, trasferisce il suo eterno atto paterno di generazione nel mondo; evoca la situazione esistenziale priva di amore in cui lo Spirito Santo, ponendosi come increato e personale orizzonte comprensivo di amore e di dono, consente al Dio-amore di incominciare ad esistere in modo umano; costituisce per il Figlio eterno, autorivelazione ed autodonazione di Dio in se stesso, la possibilità concreta di consumarsi umanamente di amore e per amore. Nell’umanità di Gesù, quale condizione personale del Figlio incarnato, le tre divine persone, Padre,
1 Cfr S. DIANICH, Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi, in Vivens Homo 11 (2001) 380.
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Francesco Conigliaro
Figlio e Spirito, vivono il mistero pericoretico della loro vita divina in piena solidarietà e condivisione con gli uomini. L’unzione sacerdotale del Cristo, di cui parla ripetutamente la Santa Scrittura nella profezia dell’Antico Testamento e nel compimento del Nuovo, consiste propriamente nel fatto che la sua umanità, resa epifania della divinità per opera dello Spirito, è posta per l’eternità tra Dio e il mondo come mediazione di vita, e di vita eterna. Ed il creato, da parte sua, custodisce l’umanità del Cristo come la possibilità assoluta ricevuta in dono per sempre e da attivare ininterrottamente nel tempo e nello spazio, affinché la rigenerazione di ogni cosa avvenga nella processualità e nella gradualità storiche, secondo il progetto salvifico di Dio rivelato con l’incarnazione del Figlio eterno. La missione del Cristo viene continuata dalla Chiesa, come missione a lei affidata personalmente dal Salvatore, con la stessa potenza istitutiva dell’umanità del Cristo. Pertanto, se la generale capacità generatrice della Chiesa, di cui dicevamo, è la sua stessa vita esplicata nella continua celebrazione dei sacramenti, la componente istitutiva di tale capacità è ciò che, nella logica di queste riflessioni, si intende per sacramento dell’ordine. E, certo, se la potenza istitutiva dell’umanità di Cristo si esplica mediante il rivelarsi di Dio come amore che si consuma in piena solidarietà con l’umanità e con l’intero creato, la capacità istitutiva della Chiesa non può non percorrere lo stesso itinerario. I ministri ordinati, da parte loro, scaturendo dal seno materno della Chiesa e, in ultima analisi, dal cuore del Figlio incarnato ed essendo chiamati a compiti istitutivi, in dipendenza dal Cristo e dalla Chiesa e come Cristo e la Chiesa, non possono non vivere secondo il senso del segno del sacramento dell’ordine.
3. Il presbitero e la Chiesa Dallo stretto legame che congiunge l’opera del Cristo, l’azione della Chiesa e l’attività del presbitero discende una serie di caratteristiche per la vita e la missione di quest’ultimo. E ciò che vale per il singolo presbitero vale anche, senza alcuna distinzione, per l’intero collegio dei presbiteri.
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3.1. Il presbitero testimone della risurrezione La prima di tali caratteristiche concerne il ministero dell’evangelizzazione, che ha al centro del suo contenuto l’annunzio della risurrezione del Signore. Il mistero pasquale, quale evento fontale assoluto ed universale, conferisce il carattere escatologico alla configurazione cristica sia dell’autorivelazione e dell’autodonazione di Dio in se stesso che dell’orientamento e dell’itinerario di risposta dell’uomo a Dio. In quanto tale, esso ha un carattere trascendente e, pertanto, non si lascia circoscrivere e limitare da nessun fatto e da nessun settore di portata parziale, né della teologia né dell’esistenza. La trascendenza, che fa dell’evento pasquale una vera “apocalisse”2 e racchiude l’evento Cristo nel mistero di Dio, non è senza conseguenze nel mondo e nella storia. Certo, esso si conclude nella pienezza della gloria di Dio, ma, additandola come Patria all’intero esistente, esprime, per un verso, il travaglio e, per un altro verso, la gioia dell’autotrascendimento sia del mondo della natura che del mondo degli uomini. L’apostolo Paolo in merito si esprime con un linguaggio pieno di realismo ma anche dotato di grande efficacia evocativa: «Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto»3. Tutto questo ha luogo per il Cristo risorto, il quale, così, si rivela il soggetto assoluto del divenire del creato nella pienezza della trascendenza. San Paolo chiama il Risorto il «primogenito di coloro che risuscitano dai morti»4. E lo fa a ragione per varie motivi: perché il Cristo glorioso trasforma l’esperienza della morte in esperienza della risurrezione5; perché il Cristo è all’origine della configurazione dell’esistenza cristiana secondo il significato della Pasqua6; perché il Cristo invia lo Spirito come Principio attuante della nuova vita di intimità conoscitiva ed amativa che per mezzo
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Cfr Gal 1,12.16. Rm 8,22. 4 Col 1,18. 5 Cfr Col 2,12. 6 Cfr Col 3,1. 3
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di lui il credente conduce nel seno del Padre7; perché in Cristo si attua la possibilità che cielo e terra celebrino insieme la festa dell’eterna armonia8. Per quanto i citati ed indicati testi biblici di contenuto pasquale non implichino in modo particolare ed evidente il tema del presbitero, è sufficiente fermarsi anche brevemente a riflettere su di essi per riscontrarvi elementi di pertinenza sbalorditiva. Di conseguenza, si può dire che tale tema trova piena collocazione, e con tutta la sua specificità, nell’ampio tema della Pasqua. Ma, per rendercene conto, abbiamo bisogno di raccogliere la suggestione di un passo neotestamentario come il seguente: «poi preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: “questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”»9. Nella tradizione cristiana l’espressione «fate questo in memoria di me» è stata intesa con una continuità degna di ogni attenzione nel senso istitutivo del grado presbiterale dell’ordine sacro, e cioè di quel ministero ordinato volto a rendere sempre attuale e contemporaneo in ogni tempo e in ogni luogo il mistero del corpo e sangue del Signore, quale mistero di ringraziamento, di mediazione, di lode, di amore, di immolazione, di condivisione e di perdono. Con altrettanta costanza la tradizione ritiene che l’evento istitutivo sia diventato evento dinamico ed operativo con l’invio dello Spirito Paraclito da parte del Cristo risorto. Lo Spirito Paraclito, mediante il dono permanente (carattere) del sacramento dell’ordine, vivifica gli spiriti delle persone umane che lo ricevono con una nuova azione creatrice, li istituisce secondo una nuova idoneità e conferisce loro la potenza di operare il prodigioso evento della Pasqua nel succedersi dei tempi: rimettere i peccati, celebrare l’Eucaristia ed annunziare, così, la speranza assoluta. Il presbitero, ministro della Chiesa, rende possibile l’evento della solidarietà dell’uomo con il Cristo crocifisso nella sofferenza e con il Cristo risorto nello slancio inarrestabile verso il Novum. L’esercizio del sacramento dell’ordine assolve, per volontà divina, lo straordinario compito di rendere contemporaneo alle vicende della comunità odierna l’evento 7
Cfr Io 16,13ss. Cfr Col 1,19ss. 9 Lc 22,19s. 8
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salvifico assoluto compiutosi a suo tempo con la storia individuale di Gesù di Nazaret. Sull’altare, che è già simbolo del Cristo glorioso che reca per sempre in sé i segni del dolore sofferto per la salvezza del mondo, il prete celebra l’Eucaristia e, nell’evento mistico del sacramento, rende attuale per la comunità, convocata e radunata nella fede e nella carità, il mistero del dolore e della glorificazione del Cristo e le consente di prendervi parte. Lo stesso accade al confessionale ed in ogni dove il presbitero agisce secondo il senso del sacramento dell’ordine in lui attivo. Così, l’Assoluto si situa armonicamente nel relativo e l’Eterno si attua nel categoriale secondo i ritmi del tempo. Ma c’è ancora di più, e cioè la categorialità di cui si parla è la nostra ed i ritmi cui si parla sono quelli del nostro tempo. L’evento dell’incarnazione, che la risurrezione ha reso eterno, mediante l’economia sacramentaria s’intreccia affettivamente con le vicende nostre e con le vicende dell’umanità a noi contemporanea. Nella persona del presbitero tutto questo non è solo evento, ma è anche annunzio: annunzio del valore assoluto della Pasqua, nella quale il Cristo si consuma come gli uomini e diventa il vivente ed il glorioso anche nella sua umanità. Nella Pasqua il Cristo si presenta come storia di vita umana che si dona senza riserve ed opera come spirito vivificante e principio di vita e di risurrezione10, si umilia fino alla morte e viene innalzato al di sopra di tutte le cose per esercitare su di esse la potenza del divino amore salvifico11. Ad un tale poderoso annunzio, che riguarda il Cristo se ne accompagna uno che riguarda l’umanità: Cristo si è reso compagno di cella e di supplizio degli uomini, i quali possono a buon diritto considerarlo uno di loro, ma anche molto di più, e cioè il Figlio che il Padre ha consegnato agli uomini ed ha messo nelle loro mani, perché appassionatamente li amasse e si impegnasse a salvarli, fino a consumarsi nell’autodonazione di se stesso12; in quanto tale, egli non poteva non spezzare le catene tipiche degli uomini (peccato, dolore e morte) e dare inizio ad un’epoca nuova. I
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Cfr 1Cor 15,14; Col 3,4. Cfr Rm 14,9; Phil 2,6-11; 3,21. 12 Cfr Io 3,16. 11
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«nuovi cieli e una terra nuova»13, promessi al tempo degli antichi Padri e garantiti dal Cristo morto e risorto, diventano annunzio e celebrazione per mezzo del ministero del presbitero. Se, da una parte, è vero che in una tale nuova creazione si concentrano tutte le attese e tutte le speranze dell’umanità, dall’altra non è meno vero che il presbitero annunzia il destino di trasformazione di tutto ciò che esiste, mediante la quotidiana celebrazione dell’Eucaristia, in cui frammenti del mondo, per via di una misteriosa trasformazione provocata dalla potenza dello Spirito e dalla ripetizione delle antiche ed immortali parole di Gesù, diventano i segni sacramentali della vera, reale e sostanziale presenza del Signore nel mondo, una presenza traboccante di amore. Ma la presenza del Cristo nell’Eucaristia attesta anche che non si tratta di una trasformazione rimandata alla fine dei tempi, come se nella fase attuale della vita del mondo ogni cosa fosse destinata ad esistere come priva di una benché minima anticipazione del mondo nuovo annunciato e promesso e come caratterizzata dall’incapacità di poterne gustare in qualche maniera le tensioni e le gioie. La consumazione in pienezza e perfezione è certamente rimandata a quando si potrà dire «le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove»14, ma il mondo e la storia nella loro fase attuale custodiscono in sé un’anticipazione di quella pienezza, hanno una “struttura prolettica”, e cioè una struttura prorompente di tensioni dirompenti che anticipano i tempi futuri ed in virtù delle quali è già possibile respirare la perfezione e la gioia della pienezza. Le parole della consacrazione sono come il fiat dei primordi, e non solo per il corpo individuale del Cristo, l’Eucaristia, ma anche per il suo corpo comunitario, la Chiesa, ed infine per il suo corpo cosmico, tutto l’esistente. Il presbitero, annunziando la Pasqua, adempie la missione grandiosa ed esaltante e, nel contempo, tremenda di sostenere l’uomo nella fatica del cammino di ingresso nel mistero del Principio, dove ogni cosa raggiunge il compimento.
13 14
Is 65,17; 66,22; Ap 21,1; 2Pt 3,13. 2Cor 5,17.
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3.2. Il presbitero nella Chiesa La seconda conseguenza del fatto che il presbitero è chiamato a vivere secondo il senso del segno del sacramento dell’ordine è che luogo privilegiato del suo ministero è la Chiesa. La locuzione “essere prete nella Chiesa”, sembra ovvia nell’enunciazione, ma non lo è più appena se ne approfondisce il significato. Infatti, il primo passo di tale approfondimento mette in luce la radicalità cristocentrica e cristologica della vita ecclesiale del presbitero: questi è nella Chiesa per Cristo. Per tutti i cristiani, e per il presbitero in modo particolare, la permanenza nella Chiesa ha la sua esclusiva ragione nel Cristo. La Chiesa, corpo comunitario di Cristo, è il luogo della nostra multiforme esperienza cristica: vi si incontra il Cristo, vi si fa l’esperienza del Cristo nel perdono, nella solidarietà, nella grazia e nella libertà; insomma, nella Chiesa si percepisce il proprio inserimento nel mistero del Cristo, principio e compimento di ogni cosa. La conseguenza più importante di tutto questo è che, per quante esperienze negative si possano fare nella Chiesa15, l’avventura ecclesiale merita di essere vissuta proprio perché, nonostante tutto, al centro di essa s’incontra il Cristo. Il secondo passo ci colloca nella missione della Chiesa quale missione del Cristo: si è preti nella Chiesa perché la Chiesa è il corpo comunitario del Cristo che si dilata sempre più. La Chiesa, in quanto sacramento di Cristo, è l’umanità del Cristo che avanza nel tempo e nello spazio, risplende come segno tra le nazioni e si pone nel mondo come mediazione affinché ogni cosa diventi pienezza cristica16. Il terzo passo, preti con la caritas pastoralis della Chiesa corpo di 15 Ad esempio, cfr Y.M.J. CONGAR, Santa Chiesa. Saggi ecclesiologici, trad. it., Brescia 1967; H.U. VON BALTHASAR, Chi è la chiesa, in ID., Sponsa Verbi. Saggi teologici II, trad. it., Brescia 19722, 139-187; ID., Casta meretrix, in ibid., 189-283; D. BONHÖFFER, Sanctorum communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia della chiesa, trad it., Brescia 1972, 156-161; L. BOFF, Chiesa: carisma e potere.Saggio di ecclesilogia militante, trad. it., Roma 19842; S. DIANICH, La chiesa nella giustificazione fra santità e peccato. Dottrina della giustificazione ed ecclesiologia, in Vivens Homo 6 (1995) 257-278; F. CONIGLIARO, Un gioco senza regole. Chiesa-éschaton, potere-persona, Palermo 1992, 155-219; ID., La libertà. Estasi e tormento, Torino 2001, 128-160. 16 Cfr Eph 1,23.
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Cristo17, ci trasporta direttamente nel mistero insondabile dell’amore di Dio: la caritas pastoralis della Chiesa è la continuazione in coordinate ecclesiali dell’amore con cui Dio ha dato al mondo il suo unico Figlio18. La caritas pastoralis, vera struttura dinamica portante della vita del presbitero, consente di comprendere l’identità del presbitero sia al di fuori dei confini restrittivi e dissolutivi della sacralità e della separatezza, sia secondo il senso offerto dall’idea complessa di accompagnarsi in solidarietà con il popolo cristiano. Del resto, il Cristo, della cui carità la caritas pastoralis è attuazione, in virtù dell’incarnazione si trova situato nel mondo, nella storia e nell’umanità e ne corre interamente il rischio.
3.3. Il presbitero tra la gente La terza conseguenza del fatto che il presbitero è chiamato a vivere secondo il senso del segno del sacramento dell’ordine è che la vita presbiterale non può non essere inscritta all’interno delle coordinate della vita degli uomini. E ciò si verifica in maniera confrontabile con quanto accadde a Gesù. Questi, il sacerdote sommo ed assoluto della nuova ed eterna alleanza, non fu un levita e, dunque, non appartenne alla casta sacerdotale giudaica. Di conseguenza, noi non possiamo ricostituire la casta, ricorrendo alla separatezza. Chi tenta di ricomporre la casta nega in settori importanti il significato autentico dell’incarnazione del Figlio eterno ed afferma quello futile e fuorviante di varie altre ragioni, che finiscono con il rivelarsi ideologiche. Individuate ed interpretate le coordinate della vita degli uomini, il presbitero si situa in esse e vi si situa alla maniera del Cristo, e cioè come prete della Chiesa mediante la forza illuminante dei suoi carismi e la forza creativa della sua genialità. Sicché, il presbitero, che rivive seriamente la solidarietà del Salvatore, per la potenza del sacramento che lo consacra e per gli apporti della sua genialità rende Cristo sacramentalmente presente tra gli uomini. Essere sacramento di Cristo oggi nel mondo significa vibrare all’unisono con la potenza creatrice e salvifica di Dio, fino a rappresentare 17 18
Cfr PO 12 s. Cfr Io 3,16.
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la responsabilità cristiana in un mondo in crisi come il nostro, in cui ancora Caino uccide il fratello, ma in cui tutte le speranze si riaccendono continuamente e, prima fra tutte, quella donata nel Cristo risorto. La vita condotta tra la gente tra l’altro giova al presbitero come “situazione ermeneutica” per cogliere il senso del segno del sacramento dell’ordine che ha ricevuto. Innanzitutto, egli scopre di essere stato ordinato per rendere testimonianza al mistero. Si tratta di una testimonianza molto impegnativa, se si considera il destinatario, e cioè il mondo secolarizzato. La secolarizzazione, tra i tanti aspetti discutibili, ne ha alcuni molto importanti e positivi, quali ad esempio, l’esigenza della presentazione del mistero da credere nella forma più pura e l’esigenza della coerenza linguistica e prassica del discorso religioso-teologico. Il mistero, che il presbitero testimonia, è soprattutto quello di Dio, del Dio rivelatosi come immenso e come misericordioso, come trascendente nel suo essere e come immanente in quanto salvatore, come totalmente altro e come capace di venire incontro all’uomo fino al punto di consegnarsi nelle sue mani. Al mistero di Dio appartiene la scelta della fragilità umana, scelta liberamente fatta da Dio con la missione del Figlio, al fine di compiere nel mondo secondo i ritmi del tempo il grande prodigio dell’Amore eterno. Il presbitero rende testimonianza anche al mistero del mondo: il mondo è pregno della gloria di Dio. In ciò è la sua dimensione più profonda, una dimensione da scoprire e da gustare umilmente con lo stupore, con la meraviglia e con la gioia di vivere. Infine, il presbitero rende testimonianza al mistero dell’uomo: l’uomo è un essere caratterizzato da una capacità infinita di trascendimento e da una capacità di amore incondizionato. Tuttavia, il rischio dello scacco del fallimento e dell’odio ne mette in luce la radicale fragilità e il disperato bisogno di salvezza. La testimonianza resa al Dio misericordioso reca all’evidenza un altro compito del presbitero, e cioè il suo ruolo di operatore di riconciliazione: è stato ordinato per rimettere i peccati. Secondo il Nuovo Testamento, il sacerdote offre sacrifici per i peccati del popolo e propri19. Ciò significa, tra l’altro, che egli, in virtù del sacramento dell’ordine che gliene conferisce l’idoneità, presiede le celebrazioni dell’Eucaristia e della Riconciliazione. 19
Cfr Hebr 5,1.
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E se, per un verso, egli è idoneo a ciò per l’efficacia istitutiva dell’ordine, per un altro verso sembra evidente che è chiamato ad acquisire un altro tipo di idoneità, quello della testimonianza. Con la forza persuasiva della predicazione e con il ruolo trascinante della vita egli deve proporsi come guida di una comunità che ricerca, mediante la pace, la giustizia, la solidarietà ed il rispetto, l’accesso ad un livello autentico di umanità ed alla riconciliazione con Dio. Inoltre, il presbitero è ordinato per annunziare il Vangelo della vita. Il Nuovo Testamento ci dice che il nucleo determinante della Buona Novella è l’annunzio che Cristo è morto ed è risorto, è apparso ai suoi e vive nella gloria come Signore e Salvatore20. Un tale annunzio, legittimato dal Risorto, il quale, così, conferisce un incrollabile fondamento alla fede21, rende convincente il presbitero quando proclama il messaggio più esaltante e più stimolante del Nuovo Testamento: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio quale principio di vita22. Con il suo modo di vivere e con il suo atteggiamento, il presbitero deve rendere evidente l’idea che Cristo si pone accanto al peccatore ancora prima che questi si converta23. Il messaggio che il presbitero annunzia è quello della gratuità assoluta e della piena liberazione. Infine, il presbitero è ordinato per essere nella comunità segno e servitore della comunione. Il primo momento di un tale ruolo consiste nel fatto che egli celebra l’Eucaristia per la comunione della Chiesa. Il presbitero “fa” l’Eucaristia per la potenza dello Spirito che gli viene donata con l’ordine sacro e, nel contempo, “fa” e vivifica la comunità ecclesiale24. Di conseguenza, egli è a diretto servizio della coralità ecclesiale, frutto speciale dello spirito di comunione. Nel secondo momento egli agisce quale guida della comunità. Chi “fa” l’Eucaristia per la vita e per la comunione della comunità è talmente coinvolto in tale ufficio da non potere fare a meno di spendersi per la comunità mediante il servizio divino, che si articola in celebrazione dell’Eucaristia, in servizio della Parola ed in servizio pastorale. 20
Cfr 1Cor 15,3-8. Cfr 1Cor 15,17. 22 Cfr Io 3,16. 23 Cfr Rm 5,8. 24 Cfr 1Cor 10,14-17. 21
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È l’essere servo della comunità secondo tutti questi aspetti che rende il presbitero guida del suo popolo. Ciò discende immediatamente dal fatto che il “fare” l’Eucaristia implica l’“epiclesi”, e cioè l’implorazione allo Spirito affinché continui a compiere tra gli uomini il divino prodigio dell’amore di Dio. Non si tratta, dunque, di un atto di potere, che ne legittima un altro, come si è detto per secoli con la locuzione “chi ha potere sul corpo reale di Cristo ha potere sul suo corpo mistico”25, ma dell’espletamento di una funzione circa il corpo individuale di Cristo (la presenza vera, reale e sostanziale di Cristo sotto le specie eucaristiche) in vista della conservazione e del sano funzionamento della Chiesa, corpo comunitario di Cristo. Il presbitero ha il carisma di conservare, incrementare ed armonizzare i carismi che lo Spirito diffonde con divina generosità nella Chiesa, attuando ininterrottamente in essa la pienezza di Cristo. Egli non assolve questo suo compito dall’esterno o dall’alto, ma come membro del popolo di Dio, badando a non occupare spazio carismatico e a non soffocare lo Spirito e rendendosi disponibile a verificare criticamente e comunitariamente il suo carisma. Il terzo momento impegna il presbitero ad essere compagno di cammino e di ricerca del suo popolo. Certamente, all’interno di tale compagnia di credenti il presbitero è guida. Ma, secondo il senso del segno del sacramento dell’ordine, egli è guida del suo popolo in una maniera confrontabile con il ruolo del direttore di orchestra. Nell’orchestra ciascuno dei componenti è a prescindere dal direttore; tanto è vero che viene chiamato “professore d’orchestra”. Il direttore ha il compito di guidare l’orchestra alla sinfonia del suono. Il presbitero invoca lo Spirito perché attui la pienezza del Cristo nella Chiesa, ma nella Chiesa la sostanza è il Cristo, che è il capo di un corpo vitale in quanto ne è la sorgente della vita ed il principio dell’equilibrio26. Solo agli uffici di Cristo “capo” e “pastore” della Chiesa può essere dato il qualificatore “assoluto”; e, quindi, soltanto da lui il popolo di Dio si lascia condurre in modo assoluto. Il tratto più impegnativo e, nel contempo, più esaltante del cammino del presbitero insieme al suo popolo è quello verso la verità. In un contesto culturale, complicato dagli scontri delle ideologie e delle manovre del potere, il presbitero, per definizione uomo della comunione, vede aprirsi 25 26
Ad esempio, cfr TOMMASO D’AQUINO, In IV Sent., 18, 1, 2 ad 1. Cfr Eph 1,22s; Col 1,18ss.
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alcune piste operative: il possesso della verità non esclude né la ricerca, né la scoperta, ed egli le compie nella Chiesa insieme con il suo popolo; l’impegno per un futuro totalmente libero da ogni forma di esclusione è un imperativo categorico dettato dalla corretta convivenza umana e dal Vangelo della vita: ogni esclusione implica la negazione della verità di Dio, assoluta comunione di verità.
4. Un presbiterio unico ed articolato Se il presbiterato implica quanto sono venuto dicendo — ed è di evidenza palmare che si tratta di dati che riguardano il presbitero come tale, in quanto discendono dal senso del segno del sacramento dell’ordine — le conseguenze per il collegio dei presbiteri, il presbiterio, sono di grande portata sia teoretica che pratica. E un’idea che si afferma tra le prime concerne il presbiterio quale realtà unitaria.
4.1. L’articolazione del presbiterio L’esperienza attuale ci dice che il presbiterio è articolato. E l’articolazione più evidente consiste nella distinzione dei presbiteri in diocesani e religiosi. Il termine “religioso” non fa riferimento ad un ministero ma ad uno stato speciale di vita, che viene chiamato “vita consacrata”27. Ciò ci fa pensare che il religioso di per sé non è nato per essere presbitero, ma per condurre la sua esistenza nel servizio di Dio e del prossimo, seguendo il carisma del fondatore della sua famiglia religiosa di appartenenza28. Si consideri, ad esempio, il monachesimo delle origini, quando il ministero presbiterale veniva affidato solo a qualcuno dei monaci allo scopo di non far mancare la reale memoria pasquale, e cioè l’Eucaristia, alla comunità monastica; o anche il francescanesimo delle origini, volto, nella mente di 27
Cfr LG 43s; PC. Il magistero attuale sembra distinguere tra vocazione religiosa e ministero ordinato (cfr Giovanni Paolo II, De vita consacrata. Adhortatio apostolica post-synodalis, 25 marzo 1996, n. 31: EV 15/531-533). 28
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san Francesco, a raccogliere tra le sue fila soggetti che si sentivano chiamati ad essere “frati minori” nel senso effettivamente letterale del termine. Non è mio compito indagare circa il fenomeno della presbiterizzazione delle varie famiglie religiose. Rilevo soltanto che si tratta della generalizzazione di un aspetto dell’evangelizzazione ad gentes29, un impegno ecclesiale per lungo tempo affidato ai religiosi, e soprattutto ai religiosi preti, i quali, evangelizzando e celebrando l’Eucaristia ed il sacramento della penitenza presso le gentes come collaboratori diretti del vescovo di Roma (papa, Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli), esercitano il loro ministero di costituire la struttura della Chiesa, compito esclusivo del ministero ordinato. La controprova di quanto ho appena finito di dire è nel fatto che tutti gli ordini religiosi debbono destinare alcuni loro membri all’evangelizzazione ad gentes. Non potendo approfondire un tale discorso, mi limito a prendere atto del fatto che ai nostri tempi nell’Occidente cristiano i religiosi sono in massima parte preti. Si riscontrano anche alcune eccezioni, ma si tratta di forme nuove di monachesimo, del tipo, ad esempio, della Comunità di Bose, nella quale neppure il priore, al momento E. Bianchi, è presbitero, anche se la comunità non rifiuta di accogliere presbiteri. In ogni modo, i religiosi presbiteri si trovano nel bel mezzo di due logiche: l’appartenenza al presbiterio della diocesi nella quale operano, cui non si possono sottrarre, e l’appartenenza alla famiglia religiosa, alla cui regole debbono obbedire, in quanto ne debbono attuare il carisma. Per comprendere una tale situazione, non priva di ambiguità, possiamo ritornare al rito di ordinazione, ed esattamente al punto in cui il vescovo ordinante pone all’ordinando la domanda seguente: «Prometti a me ed ai miei successori filiale rispetto ed obbedienza?». Un tempo la formula per i religiosi era un’altra, e cioè: «Promittis praelato tuo ordinario reverentiam et oboedientiam?». Ai nostri tempi si è pervenuti ad una formula compromissoria, che così recita: «Prometti a me ed ai tuoi superiori filiale rispetto ed obbedienza?». Evidentemente, la formula recente, più che risolvere l’ambiguità, l’accentua. Infatti, in pratica fanno riferimento al 29 L’impegno particolare dei religiosi nella missione ad gentes è un fatto tradizionale, che viene confermato anche dall’attuale magistero (cfr Giovanni Paolo II, De vita consacrata, cit., n. 78: EV 15/675-678).
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vescovo diocesano solo quei presbiteri religiosi che ricevono esplicitamente e formalmente incarichi pastorali dalla curia diocesana, ma questo è un fatto successivo all’ordinazione. Si consideri, ad esempio, la questione delle facultates sacerdotales e l’altra, più recente, dell’inserimento dei religiosi nell’Istituto del sostentamento del clero. Di conseguenza, credo che ci si debba porre la domanda: l’abbraccio, che, subito dopo l’ordinazione, i neopresbiteri si scambiano con tutti gli altri presbiteri presenti, per quanto concerne i presbiteri religiosi indica soltanto l’accoglienza nel secondo grado sacerdotale o anche l’accoglienza nell’unico presbiterio? Al di là dell’enfasi comunionale di certi momenti, non escluso quanto si dice nella Presbiterorum ordinis30, la domanda resta, e la questione pratico-pratica dell’inserimento del presbiteri religiosi nell’Istituto del sostentamento del clero la rende ancora più pressante. Il dato indubitabile della doppia appartenenza, nella quale la medesima persona del presbitero religioso si trova presa, pone in essere un intreccio di componenti molteplici e disparate, tra le quali si distingue un duplice totale coinvolgimento: il primo nel particolare stato di esistenza cristiana della famiglia religiosa di appartenenza ed il secondo nella pastorale diocesana. Il Medioevo ha visto la tensione esistente tra vescovi diocesani ed ordini mendicanti, tensioni che con protagonisti differenti e differenziati e con implicazioni non poco variate talora possono essere riscontrate anche ai nostri giorni. Ma io non intendo inoltrarmi per una pista, che per me è letteralmente terreno minato, anche perché ne ignoro completamente il percorso. Ma non credo che tra i presenti ci sia qualcuno che abbia idee chiare circa il problema del rapporto tra presbiteri diocesani e religiosi, appena se ne toccano gli aspetti dell’appartenenza e dell’economia. Da parte mia, desidero rimanere nella pista teologica. Per i presbiteri l’appartenenza deve essere considerata, prima che dal punto di vista giuridico, dal punto di vista teologico. Essi, infatti, nonostante le questioni dell’esenzione31 e della legittimazione (facultates), celebrano i sacramenti, evangelizzano ed operano all’interno della Chiesa locale. Ciò significa che, nonostante le varie limitazioni provenienti dalla storia, tutti i presbiteri 30 31
Cfr PO 8. Cfr LG 45; CD 35.
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appartengono ad un medesimo presbiterio e prendono parte all’unica comunione presbiterale. Per comprendere meglio vediamo di cogliere il significato del termine communio. I percorsi linguistici sono due. Il primo ci conduce alla radice mun, che significa “barriera” e da cui, ad esempio, viene il termine moenia (mura cittadine). Di conseguenza, essere in communio significa trovarsi insieme al riparo di una barriera comune. Il secondo significato di communio ci conduce ancora una volta alla radice mun, ma in quanto essa contribuisce a comporre, ad esempio, termini come munus, che offre senso mediante termini quali compito, servizio, grazia, dono. Ne consegue che è in communio chi mette in comune i doni ricevuti in vista di un mutuo servizio. Il concetto di unità, che deriva dalla duplice offerta di senso del termine communio, è l’unità dei molti che non perdono la loro diversità; anzi, l’unità comunionale consiste proprio nel fatto che i molti prendono parte all’unica realtà, sia che questa li preceda (moenia dentro cui rifugiarsi), sia che li segua (il bonum commune prodotto dalla communio)32. Il presbiterio è communio come la communio ecclesiale e come il “corpo di Cristo”, che si distingue dal corpo individuale di Cristo, l’Eucaristia, e che si offre a tutti come mezzo di relazione, di comunicazione e reciprocità. L’approccio linguistico ci consente di cogliere meglio il senso della Presbiterorum ordinis, là dove così recita: «Tutti i presbiteri, costituiti dall’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti tra di loro da un’intima fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi al cui servizio sono ascritti sotto il proprio vescovo. Infatti, anche se si occupano di mansioni differenti, sempre esercitano un unico ministero sacerdotale in favore degli uomini. [...] Pertanto, è oltremodo necessario che tutti i presbiteri, sia diocesani che religiosi, si aiutino a vicenda in modo da essere sempre cooperatori della verità»33. Da questo testo si deduce che il ministero presbiterale è unico, come unico è il suo fine, ancorché il modo di esercitarlo possa essere molteplice. Ed un tipo di molteplicità è certamente costituito dall’appartenenza religiosa. Questa, a motivo della straordinaria varietà dei carismi, è un vero e proprio universo. Le famiglie religiose, in virtù del carisma che 32 33
Cfr G. GRESHAKE, Il Dio unitrino. Teologia trinitaria, trad. it., Brescia 2000, 195s. PO 8.
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le istituisce e le caratterizza, offrono la loro specificità in dono alla Chiesa, al ministero presbiterale ed al presbiterio, una specificità che arricchisce l’essere e la vita della comunità del presbiterio, indicando con una varietà di prospettive la pienezza del Cristo, il Regno, l’éschaton e la via che ad essi conduce. La specificità del carisma si condensa nella peculiarità della spiritualità. E questa, sgorgando dall’intimità della vita di ogni famiglia religiosa, rende sinfonico l’esercizio del ministero presbiterale e lo stesso collegio presbiterale.
4.2. Contributi delle varie spiritualità religiose all’unico presbiterio Cosa aggiungono le varie spiritualità religiose al ministero presbiterale? Ci fermiamo a raccogliere soltanto alcuni dati.
Spiritualità benedettina All’interno del monachesimo benedettino, pur nella variegata esperienza, che va dalla clausura più rigida all’impegno parrocchiale, all’insegnamento, alla missione, a forme eremitiche di vita, sono riscontrabili tratti comuni, e cioè: il quaerere Deum vissuto con il coinvolgimento totale della persona, e cioè in purezza di cuore, umiltà ed obbedienza; la vita comune, manifestata nella liturgia corale, nel lavoro e nella ricreazione; l’attenzione diuturna, vigile ed orante alla S. Scrittura (lectio divina); l’accoglienza e l’ospitalità nelle forme più ampie.
Spiritualità francescana Il francescano è chiamato ad essere frate, cioè fratello, nell’incontro personale con l’altro; la fraternità con l’altro, inoltre, va vissuta come luogo cardine dell’incontro con Dio. Il Signore è al centro di tutto — da qui l’importanza di una profonda vita di preghiera — che si manifesta “naturalmente” nella misericordia verso i fratelli e verso tutte le forme di vita e di essere. Se il Signore è al centro di tutto, se ne possiede lo Spirito e, quindi,
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non si ha bisogno di nulla. Da qui la povertà. Di conseguenza, non ci si appropria di nulla, neanche degli stessi doni divini, e si vive pronti a restituire tutto a Dio. Le sole cose di cui appropriarsi definitivamente sono le sofferenze a la croce di Gesù. Il francescano vive la perfetta letizia di chi è rifiutato da tutti ed è al di fuori del mondo. La lode ed il rendimento di grazie a Colui che dona tutto (Cantico delle creature), anche attraverso la carità-restituzione concreta al prossimo, è il coronamento della spiritualità francescana.
Spiritualità servita La spiritualità servita propone come regola di vita la fraternità, che consegue alla paternità universale di Dio e si concretizza visibilmente nella comunità di fede, il cui fine è l’unanimità e l’unità di mente e di cuore protesi verso Dio. Lo stile di vita dei serviti è l’apostolicità. Come gli apostoli saldarono la loro vita al vangelo, così fanno i serviti, che costituiscono una “fraternità apostolica”, i cui segni sono: centralità di Gesù, testimonianza del vangelo in comunione fraterna, basilarità delle beatitudini, servizio di Dio e dell’uomo, presenza carismatica e diaconale nella Chiesa locale e universale, predilezione della preghiera liturgica, presenza costante di Maria nella vita della propria comunità come nella comunità degli apostoli. L’impegno di vita del servita si condensa nel servizio. Il servita intende la propria esistenza come diaconia, e cioè come un servizio direttamente animato da motivazioni evangeliche. La diaconia del servizio si concretizza in una serie di atteggiamenti e di modalità di vita, quali la fedeltà alla vocazione, la fede, la preghiera e la devozione alla Vergine Maria. Alla Madonna ci si ispira per il servizio, la disponibilità, la condivisione, l’evangelizzazione, l’insegnamento, la carità, la misericordia, il ministero sacramentale, l’estensione della fraternità agli ultimi ed il lavoro per la costruzione del Regno di Dio a beneficio della Chiesa, nonché del proprio Ordine. La spiritualità dei serviti ha una costante ispirazione mariana, che si attualizza nel servire a Maria e come Maria. La Vergine viene considerata la fondatrice dell’Ordine. Di conseguenza, la spiritualità mariana permea la preghiera, anima il servizio e sorregge la misericordia e
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la solidarietà con i sofferenti. Maria è contemplata come la “gloriosa”, è accompagnata come la “dolorosa” ed è seguita come la via pulchritudinis.
Spiritualità carmelitana La spiritualità carmelitana può essere osservata in tre periodi, ciascuno dei quali ha della caratteristiche peculiari. a) La Regola (sec. XIII): ha una intensa concentrazione cristica. Principio basilare ne è il progetto di vita nell’ossequio e nel fedele servizio di Gesù. Fondamenti vivi della fraternità sono la parola e la preghiera, la fraternità nella comunione dei beni, la verifica periodica della fedeltà, la riconciliazione fraterna, la centralità della memoria pasquale (Eucaristia quotidiana) nella comunità. La fortificazione dell’uomo interiore viene conseguita mediante l’ascesi corporale e la coerenza profonda, che implica la lotta spirituale. La maturità raggiunta viene verificata dal ruolo che la Parola ha in tutti. b) La fraternità mariana e profetica (secc. XIII-XV). La mancanza di un fondatore provocò l’ancoramento del progetto carmelitano a Maria e ad Elia, figure implicite nella storia delle origini. Maria è la “Patrona”, la “Madre”, la “Virgo purissima” e la “Sorella”. Di Elia si condivide la solitudine, la penitenza, lo zelo per il Signore e la fraternità con i “figli dei profeti”. c) La stagione dei grandi mistici (secc. XVI-XVIII). Nonostante le differenze individuali, i mistici carmelitani hanno in comune un intendimento pedagogico, e cioè condurre alla “disponibilità” ed al dono di sé in una temperie di estrema nudità e povertà. A partire dalla stagione dei grandi mistici la tensione mistica contagia l’intera famiglia carmelitana, provocando una trasformazione delle tematiche eliane (solitudine e penitenza) e mariane (scapolare per la salvezza dell’anima). d) Carmelitani teresiani. I tratti della loro spiritualità sono i seguenti: forte richiamo alla vocazione mistica del Carmelo (orazione e contemplazione); esigenze della sequela di Cristo: povertà nella libertà di spirito, comunione fraterna nell’equilibrata amicizia, umiltà nell’obbedienza, distacco materiale e spirituale; accentuazione comunitaria ed umanista, nel senso che la comunità è vista come una famiglia, una fraternità, un gruppo
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di amici costituito nel nome del Signore; particolare dimensione ecclesiale ed apostolica della vita contemplativa, secondo la comprensione che Teresa d’Avila ebbe del valore apostolico della santità e della preghiera, della fecondità della vita contemplativa e della dimensione ecclesiale della scelta della solitudine della clausura; continuità con lo spirito primitivo dell’Ordine mediante la nostalgia per lo spirito eremitico, la comunione con le antiche tradizioni ed i santi dell’Ordine, la devozione a Maria contemplata nella sua vita interiore.
Spiritualità della Compagnia di Gesù La struttura portante della spiritualità dei gesuiti è essere con Gesù per servire Dio, aiutando le anime e legandosi al papa con un rapporto speciale (quarto voto). Essere con Gesù significa attribuire il più alto valore alla sequela ed essere pronti ad affrontare ogni conseguente povertà ed umiliazione; da qui la lotta perseverante contro se stessi sotto lo stendardo della croce. L’amore di servizio si concretizza nella sua esclusività verso Dio. Da qui il discernimento, quale dono dello Spirito, tra le cose, le emozioni, ecc., per piacere solo a Dio, semper maior ed unico Assoluto. La vocazione del gesuita diventa effettiva nel servizio, secondo il ministero affidato a ciascuno, finalizzato alla difesa e propagazione della fede ed alla ricerca del bene delle anime nella vita e nella dottrina cristiane. Lo zelo apostolico non è giustapposto alla santificazione, ma è parte integrante della vocazione. Lo spirito ignaziano, volto a procurare la maggior gloria di Dio, consegue lo scopo nel maggior profitto spirituale del prossimo. In un tale contesto cristico ed ecclesiale si situa l’obbedienza ai superiori, specie al papa.
Spiritualità del Boccone del Povero Le idee che G. Cusmano ha del povero è della carità sono tali da provocare una vera e propria rivoluzione nella vita individuale e comunitaria del missionario servo dei poveri, il religioso bocconista. I poveri, nella mente del Cusmano, vanno amati e serviti in prima istanza
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perché sono sacramento di Cristo, degno di essere amato e servito come Figlio eterno che ci è stato donato quale salvatore, ed in seconda istanza perché sono meritevoli di pietà. Il Cusmano, mettendo insieme i due approcci, dice che nel povero è lo stesso Gesù a soffrire la fame ed il freddo ed fare l’esperienza dell’eclissi dell’humanum e, di conseguenza, il missionario servo dei poveri ama e serve Gesù sofferente dedicandosi ai poveri ed ai sofferenti. L’idea più radicale del Cusmano è quella della “posposizione”, che è una conseguenza diretta del convincimento che il povero, in quanto sacramento di Cristo, ha la precedenza nella comunità cristiana. Ovviamente, una così radicale idea di solidarietà ha come fondamento una intensa spiritualità cristica. L’asse portante della spiritualità cusmaniana è costituita dalla pericoresi tra fides e caritas e si espleta dinamicamente secondo la formula per caritatem ad fidem. La spiritualità cusmaniana è aperta ed inclusiva, in quanto la sua formula portante è proposta all’intera comunità ecclesiale come programma di vita autenticamente cristiana. La contemplazione, la preghiera, la carità, la fraternità, la povertà, la disponibilità, l’oblazione, la tensione escatologica, ecc…, che vengono in special modo all’evidenza in tutti i progetti di vita religiosa, in effetti appartengono alla sequela del Cristo e, dunque, all’esistenza cristiana in quanto tale. Il ministero ordinato, nell’espletare, in forza del sacramento dell’ordine, la sua funzione costitutiva nei confronti della comunità ecclesiale, non può non lasciarsi ispirare e guidare dai principi e dai criteri proposti dal Cristo, il divino fondatore della Chiesa. Non si può non essere grati alle famiglie religiose che custodiscono nella loro genuinità valori evangelici irrinunciabili e, mediante la loro testimonianza, li riversano con sempre rinnovata freschezza nella vita dell’intera Chiesa. Nella Chiesa occorrerebbe prestare una maggiore attenzione alla gerarchia della santità, non contrapposta alla gerarchia dell’istituzione ma collocata accanto ad essa34.
34
Cfr H.U. VON BALTHASAR, Chi è la chiesa?, cit., 156-162.
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5. Rilievi conclusivi Il prete non solo è immerso nel mondo umano, ma, come Cristo, ne è parte. Pertanto, non può pensare di essere separato dai processi storici e dalle tensioni che, in forza delle tendenze che vi operano e delle latenze che vi esercitano ogni sorta di pressioni, si vengono a determinare in esso. Egli è chiamato a vivere il suo essere parte del processo storico, collocando in esso a mo’ di seme ciò che gli è proprio in virtù del fatto di essere personalmente, costitutivamente, dinamicamente e ministerialmente parte del Cristo. A ciò consegue che il prete deve vivere la sua immersione nel processo storico con una serie di modalità: cristicamente: nel suo dinamismo vitale contemplativo e creativo; ecclesialmente: in rapporto con il vescovo, di cui è collaboratore, all’interno del presbiterio, di cui è membro, ed in mezzo al popolo cristiano, per il cui servizio è stato ordinato; storicamente: scrutando i segni dei tempi universali, particolari e personali; cosmicamente: attirando con la sua predicazione e con la sua testimonianza il mondo a Cristo; responsabilmente: impegnandosi con tutti i talenti che ha ricevuto, e cioè sia con i carismi che con la genialità. Nonostante tanta grandezza e tanta responsabilità, il prete è un uomo come tutti gli altri. L’ordine gli dà, secondo il segno del sacramento, un carisma per il servizio divino e per la vita e la missione della Chiesa, ma ciò non toglie che i compiti affidatigli siano infinitamente più grandi di lui. Ed è questa la ragione per la quale nella sua vita spesso viene all’evidenza la debolezza. In tale contesto si comprende magnificamente che la grandezza del presbitero è dono gratuito ed incondizionato di Dio35; e, per un altro verso, si comprende che la sua debolezza è segno e garanzia della gratuità del mistero di Dio che si dona liberamente in se stesso anche per mezzo del suo umile ed inadeguato ministero. Se leggiamo alcuni testi neotestamentari, ci troviamo come lanciati nel cuore di tale mistero, e cioè in Cristo, il Rivelatore assoluto: «[...] nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso 35
Cfr Rm 1,5.
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perfetto, divenne causa di salvezza eterna»36; «Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato a nozze anche Gesù con i suoi discepoli»37. Si tratta di testi che riguardano Gesù, il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, e ce lo mostrano come colui che si mette accanto ai deboli uomini perché, avendo vissuto come propria la loro debolezza, li comprende fino in fondo e dona loro Dio in modo assolutamente gratuito. La quintessenza del dono è l’amore libero, incondizionato e fedele di Dio. La fedeltà di tale amore rimane per sempre, nonostante le apparenze: «Ha salvato gli altri, ma non può salvare se stesso»38. Queste parole sulle bocche dei sommi sacerdoti e degli scribi sono parole di disprezzo e di scherno, ma nella mente dell’evangelista Matteo sono volte a descrivere una situazione di fatto e ad interpretare un’esperienza. Gesù non poté salvare se stesso perché era stato caricato del male dell’intero mondo39 e, così gravato ed infangato, era stato messo dal Padre nelle mani del mondo per esserne il salvatore40. I preti, che sommi non sono, in virtù dell’ordine, che viene loro conferito, sono resi in modo peculiare sacramento di Cristo: del Cristo che si accompagna ai poveri ed ai deboli e li tratta con comprensione e compassione perché ha fatto le loro stesse esperienze41. La divinità del Maestro si rende misteriosamente percepibile nella sua illimitata capacità di rischiare con gli uomini e di averne compassione in ogni caso42. In questo il Salvatore è rivelatore della tenerezza assoluta di Dio nei confronti dell’uomo e del mondo. Il prete, in forza del sacramento dell’ordine, è chiamato nel mondo tra la gente a vivere secondo la logica dell’analogia di proporzionalità: il suo stile di vita deve rendere testimonianza a tale assoluta tenerezza. La forza gli viene dai doni ricevuti. Ma egli è anche un essere debole e fragile. Uno dei doni ricevuti è l’appartenenza al collegio presbiterale. Ad esso ciascun presbitero offre ciò che la natura e la grazia operano in lui, ma 36
Hebr 5,7ss. Io 2,1s. 38 Mt 27,42. 39 Cfr Io 1,29. 40 Cfr Io 3,16. 41 Cfr Hebr 4,15; 5,2.7s. 42 Cfr Rm 5,8. 37
Il presbiterio: un ministero per la Chiesa locale
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da esso egli riceve tutto ciò che gli altri presbiteri, in forza della natura, della grazia ed anche dell’appartenenza, e segnatamente dell’appartenenza religiosa, sono in grado di offrirgli. Sulla base di tutto questo, il presbitero all’interno del presbiterio, oltre che fare la sua esperienza presbiterale, va anche a scuola di collaborazione e di solidarietà. Come si è potuto notare, ho riconosciuto la legittimità della peculiarità dell’appartenenza religiosa e della specificità del particolare stato di esistenza cristiana che essa comporta, ma non posso non mettere in luce l’ambivalenza che si rende evidente nella dissociazione tra integrazione liturgica (celebrazione dell’Eucaristia all’interno del presbiterio in comunione con il vescovo) e ministero esercitato, sulla base dell’esenzione, a prescindere dal vescovo all’interno di coordinate, che si sostiene essere quelle della Chiesa universale. Di fronte all’ambiguità normativa e prassica, ancora non superata, si trova il convincimento che la comunità per la quale il presbitero religioso lavora non è un’équipe de travail, come vuole il Tillard43, ma è il popolo di Dio, che si organizza sulla base delle proprie libere scelte e non in virtù dell’appartenenza religiosa del presbitero, che, in quanto tale e, dunque, in forza del suo carisma sacramentale, non può non appartenere alla comunità.
43 Cfr J.M.R. TILLARD, Devant Dieu et pour le monde. Le projet des religieux, Paris 1974, 192; S. DIANICH, Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi, cit., 397.
Synaxis XX/2 (2002) 263-309
I PRESBITERI “RELIGIOSI” E LA PASTORALE DIOCESANA
RAIMONDO FRATTALLONE SDB*
Premessa Per avere qualche elemento sulla consistenza del problema che tratteremo, diamo uno sguardo ad alcune statistiche, diffuse ancor oggi via internet dalla Congregazione del Clero, sull’andamento del numero dei sacerdoti diocesani e religiosi nel periodo che va dal 1968 al 1997. I presbiteri diocesani, che nel 1968 erano 269.607, raggiungevano nel 1970 il vertice di 274.794. Una progressiva flessione, dovuta anche agli sconvolgimenti seguiti alla contestazione del ’68, raggiungeva nel 1986 il minimo di 253.710 membri. Gli anni seguenti vedono una costante risalita fino al numero di 263.521 nell’anno 1997. Diverso, ed in continuo calo numerico, risulta invece l’andamento del numero dei presbiteri religiosi; dai 167.686 del 1972 (la Congregazione del Clero non fornisce dati per gli anni precedenti) essi diminuiscono fino ai 140.687 del 1997. Va pure ricordato che alla diminuzione numerica si accompagna l’innalzamento dell’età media dei presbiteri1. Al di là delle statistiche, concentriamo la nostra attenzione sui presbiteri religiosi, che, in quanto ministri ordinati, sono (e sono chiamati ad essere!) membra vive nella Chiesa locale. Si tratta, innanzitutto, di determinare la loro identità, avendo come duplice paradigma di riferimento
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Ordinario di Teologia morale nell’Istituto Teologico S. Tommaso di Messina. Cfr il grafico nell’appendice del presente intervento. Pur con un andamento analogo, diversi, e in certo senso più confortanti, sono i dati statistici riguardo alle Ordinazioni Sacerdotali del medesimo periodo. Furono ordinati come Presbiteri diocesani 5156 nel 1968, 4622 nel 1979, 5136 nel 1986, 6357 nel 1997. I Presbiteri religiosi furono nel 3395 nel 1968, 3075 nel 1970, 2073 nel 1986, 2564 nel 1997. 1
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il sacramento dell’ordine sacro e la realtà carismatica della loro vita religiosa. Infatti, in una prospettiva operativa, la compresenza nell’unica comunità ecclesiale diocesana di presbiteri diocesani e presbiteri religiosi, se oggettivamente è una ricchezza ecclesiale che nessuno mette in dubbio, d’altro canto, per i problemi che possono derivarne, esige una chiarificazione che deve fondarsi necessariamente su una solida base teologica che illustri il duplice mistero del sacerdozio ministeriale e della vita consacrata. I risvolti pastorali e giuridici riguardanti il rapporto tra le due categorie di presbiteri (analogamente va detto per i diaconi permanenti) richiedono una solida fondazione teologica sulla identità del duplice modo di incarnare il sacerdozio ministeriale2. Questa premessa dottrinale ci obbliga ad assumere dinanzi al mistero del sacerdozio un’ottica che, rispetto alla visione comune, operi uno spostamento del centro di gravità dall’attività connessa con la missione alla identità sia del presbitero diocesano, sia del presbitero religioso: è quasi una rivoluzione copernicana che ci consente di passare dall’ottica del fare all’ottica dell’essere. Limitandoci, quindi, al settore della vita religiosa, dovremmo porre in primo piano, quindi, non ciò che le persone consacrate (e le rispettive istituzioni) possono o sanno fare, ma comprendere la loro identità carismatica, che fonda il loro essere e il loro agire nella Chiesa e nel mondo. Infatti se osservassimo soltanto “il fare del singolo religioso” (le sue doti personali, i suoi progetti, i suoi risultati, ecc.) non potremmo sapere con certezza se tutto ciò coincida esattamente con “il carisma, lo spirito e lo stile” dell’istituto cui il religioso appartiene. È ad un livello più profondo che si trova l’identità carismatica di una specifica vita religiosa. 2 Nella nostra riflessione daremo una preferenza ai seguenti documenti recenti del magistero ecclesiastico che illustrano sia la natura che la prassi dell’esistenza del presbitero: CONGREGAZIONE PER I RELIGIOSI E GLI ISTITUTI SECOLARI – CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Mutuae relationes (14 maggio 1978) (=MR); GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica postsinodale Vita consecrata (25 marzo 1996), (=VC), in EV 15, 434-775; CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Il presbitero, maestro della parola, ministro dei sacramenti e guida della comunità in vista del terzo millennio cristiano (19 marzo 1999), Città del Vaticano 1999. Faremo inoltre riferimento al decimo sinodo dei vescovi, svoltosi dal 30 Settembre al 27 ottobre 2001, che trattò de Il vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo.
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Rifletteremo sul presbitero religioso secondo questa linea di pensiero: partiremo da una contestualizzazione ecclesiologica, proseguiremo delineando alcune prospettive pastorali-giuridiche, ed infine indicheremo alcuni nodi problematici che nascono nell’inserimento degli Istituti di consacrazione nella vita ecclesiale.
A. Il livello misterico-carismatico Dando per scontata la fondazione cristologica del ministero presbiterale (cfr PO 2), ne illustriamo soltanto gli aspetti misterico-carismatici di natura ecclesiale. La riflessione postconciliare sulla natura e la missione della Chiesa può essere ispirata dai modelli ecclesiologici ad essa sottesi, che ne esprimono la concezione organica e strutturale. Ogni modello accentuerà l’uno o l’altro aspetto sia del ministero episcopale, sia della vita consacrata.
1. I modelli ecclesiologici di riferimento a. Chiesa società perfetta In quanto comunità visibile che condivide determinate finalità (naturali e soprannaturali), la Chiesa possiede una sua natura societaria, a partire dalla quale si identificano e si esercitano i diversi ruoli che, nel loro insieme, rendono visibile e operante la natura gerarchica di ogni comunità ecclesiale. La Lumen Gentium ha dedicato l’intero capitolo terzo (cfr LG 1829) a illustrare la natura gerarchica della Chiesa con particolare attenzione all’episcopato (ai laici dedicherà il capitolo quarto). Prima del Vaticano II tale modello era il più diffuso tra i fedeli3, sia perché corrispondeva all’esperienza quotidiana dell’inserimento della 3 Seguendo il susseguirsi della storia, Sartori, parla di ecclesiologia storico-giuridica: «è quella che ha avuto la storia più lunga, avendo dominato da Costantino, passando per Gregorio VII e Bonifacio VIII, fino al Vaticano I e penetrando perfino nella Mystici Corporis, e la si può definire storico-giuridica» (L. SARTORI, Chiesa, in Nuovo Dizionario di Teologia, Cinisello Balsamo 19947, 128).
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Chiesa nella società civile, con la quale doveva continuamente confrontarsi, sia perché l’insegnamento catechistico (a partire dal catechismo di Pio X4) e l’impostazione del diritto canonico, ne garantivano il consolidamento e l’assimilazione da parte di ogni cristiano. Il limite più vistoso riguardava la comprensione della vita religiosa, considerata ai margini (anche perché collocata in uno spazio ideale di straordinaria ascesi o di sublimi esperienze contemplative) rispetto alle precise determinazioni societarie di ogni comunità ecclesiale ordinaria. Anche la natura e il significato del presbiterato all’interno della vita religiosa non trovava una sufficiente chiarificazione.
b. Chiesa popolo di Dio Il mistero della Chiesa emerge e si rivela nei vari tempi e nei vari luoghi come “popolo di Dio”. È il popolo nuovo, il nuovo Israele che viene convocato da ogni nazione dal disegno salvifico del Padre, viene cementato insieme dal sangue redentore del Cristo e viene riempito di vita nuova dal soffio dello Spirito Santo (cfr LG 9). Al di là di ogni interpretazione populistica l’idea teologica di “popolo di Dio” evidenzia non solo il fatto che la Chiesa cammina nel tempo inserita nello sviluppo dell’umanità, ma che essa riconosce le varie funzioni che, nell’unico popolo di Dio, devono essere svolte dai singoli membri; così modello ecclesiale sfocia e si collega direttamente al modello paolino di Chiesa Corpo di Cristo5. Il modello di Chiesa popolo di Dio richiede ulteriori approfondimenti 4 Alla domanda che cos’è la Chiesa, il Catechismo di Pio X insegnava la seguente risposta: «La Chiesa è la società dei veri cristiani, cioè dei battezzati che professano la fede e dottrina di Gesù Cristo, partecipano ai suoi sacramenti e ubbidiscono ai Pastori stabiliti da Lui». 5 Sono queste le accentuazioni dell’insegnamento odierno della Chiesa: «Nel mistero della Chiesa l’unità in Cristo comporta una mutua comunione di vita tra i membri. Infatti “Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza legame tra loro, ma volle costituirli in popolo” (LG 9). La stessa presenza vivificante dello Spirito Santo (cfr LG 7) costruisce in Cristo l’organica coesione: egli «unifica la Chiesa nella comunione e nel ministero, la coordina e la dirige con diversi doni gerarchici e carismatici e l’abbellisce dei suoi frutti» (LG 4; cfr Ef 4,11-12; 1Cor 12,4; Gal 5,22)» (MR 2).
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per giungere alla visione unitaria del ministero sacerdotale esercitato dai presbiteri diocesani e quello dei presbiteri religiosi. È la riflessione cristologica che può offrire, innanzitutto, una luce teologica valida. Infatti, come nel mistero di Cristo la sua umanità, incarnata nel tempo, nello spazio e nella cultura, viene assunta dal Verbo di Dio, così il popolo di Dio (anche come organismo sociale) è trasformato intimamente perché saldato mistericamente al Cristo, con cui forma un solo Corpo Mistico, di cui Cristo è il Capo e la Chiesa, popolo di Dio, costituisce le membra sparse nel tempo e nello spazio6.
c. Chiesa carismi e ministeri Se si considera la Chiesa nel suo dinamismo di crescita e di inserimento sempre nuovo nelle culture, il modello più adatto è quello della Chiesa tutta carismi e ministeri. Il modello parte dall’azione dello Spirito Santo considerata come una effusione permanente dello Spirito del Cristo Risorto. La specificazione dell’identità e dei ruoli che i singoli credenti svolgono all’interno del Corpo Mistico di Cristo è determinata dai doni che lo Spirito Creatore genera in ogni battezzato per l’edificazione della Chiesa. E se i ministeri elargiti dallo Spirito Santo dicono immediato riferimento alla ministerialità sacramentale propria della Chiesa, i carismi comunicano e rivelano l’azione di Cristo e dello Spirito propria dell’amore infinito salvifico di Dio, che trascende ogni riduzione progettuativa umana e si muove verso gli spazi nuovi e imprevisti propri dell’amore creativo. 6 «Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo… È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo… vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4,4-16).
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Quindi la ministerialità sacerdotale, pur scaturita dall’unica fonte, lo Spirito Santo che elargisce energie di vita per l’edificazione della Chiesa, si specifica in modalità diverse nelle quali il ministero sacerdotale si distingue o perché si incarna nelle attitudini delle singole persone, oppure perché inventa forme nuove di servizio ministeriale a seconda dei bisogni e delle sensibilità che sorgono nella Chiesa e nel mondo7.
d. Chiesa mistero di comunione Il modello della Chiesa come comunione nasce dall’idea che costituisce il nucleo germinale della costituzione dogmatica sulla Chiesa: «La Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima comunione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1). Il ministero presbiterale, visto alla luce della “Chiesa mistero di comunione”, rivela primariamente la sua radicazione trinitaria: ogni presbitero è tale perché e nella misura in cui si inserisce nel disegno salvifico universale del Padre, prolunga la missione del Cristo e comunica l’amore santificante dello Spirito Santo (cfr LG 2-4). La Chiesa, che con la forza dello Spirito del Cristo risorto comunica agli uomini la salvezza e la partecipazione alla vita divina, fa vibrare di comunione sia i carismi delle singole persone, sia i carismi che lo Spirito Santo effonde sulle famiglie di persone consacrate, oppure sui gruppi o movimenti ecclesiali. La comunione salvifica si arricchisce, così, con le molteplici forme della comunione carismatica. Inoltre, la forza unificante della comunione agisce all’interno della Chiesa come molteplicità di rapporti, differenziati fra di loro, ma miranti all’unico scopo della pienezza della vita divina in ogni uomo aperto all’Amore comunionale di Dio8. La Chiesa, depositaria della missione salvifica del Cristo, vive nel 7 Molto suggestiva la riflessione proposta recentemente nel Sinodo della Chiesa africana, a partire dalla concezione della Chiesa come “famiglia di Dio” (cfr GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica «Ecclesia in Africa», (14 settembre 1995), nn. 43; 63; EV 14 3078; 3111-3112). 8 Cfr J.-M. R. TILLARD, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Brescia 1989; per la fondazione biblica neotestamentaria, cfr pure E. FRANCO, Comunione e partecipazione. La koinonia nell’epistolario paolino, Brescia 1986.
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tempo la sua identità di comunione missionaria che la spinge fino ai confini del mondo (cfr AG 1-2), obbedendo al comando del Cristo risorto «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo»(Mt 28,18-20).
È questo l’amore di risposta che la Chiesa dà all’amore preveniente dal Cristo, suo sposo; amore che diventa comunione e tende ad abbracciare ogni popolo fino alla fine del mondo9, e a realizzare contemporaneamente la comunione ecumenica tra le varie professioni di fede nel Cristo10.
2. Il ministero dei vescovi nell’organica comunione ecclesiale a. La duplice forza di comunione del popolo di Dio La comunione ecclesiale, che crea ogni legame anche tra i vari membri del presbiterio locale, deriva da due componenti che si fondono insieme nell’unico Corpo Mistico che è la Chiesa: a) in quanto Corpo del Signore essa deriva dalla forza salvifica 9 «Ora tutto quanto il Signore ha una volta predicato o in lui si è compiuto per la salvezza del genere umano, deve essere annunziato e diffuso fino all’estremità della terra (cfr At 1,8), a cominciare da Gerusalemme (cfr Lc 24,47). In tal modo quanto una volta è stato operato per la salvezza di tutti, si realizza compiutamente in tutti nel corso dei secoli» (AG 3). 10 «L’ecumenismo diventa l’anima della nuova missionarietà: la Chiesa si apre al nuovo, al futuro in tutte le sue dimensioni (non solo di persone, ma anche di culture, di civiltà, di religioni, di “mondi spirituali”), e in atteggiamento di chi sa di poter dare (seminare) e di dover ricevere (raccogliere), per unire insieme, in Cristo e per Cristo, “cose nuove e cose vecchie”, accentuando la stima del nuovo, nella convinzione che l’era ultima della storia, quella inaugurata da Cristo, è appena cominciata, e l’incarnazione della Chiesa deve essere sempre rinnovata, perché il modello finora realizzato nell’area mediterranea occidentale è ancora breve per poterlo considerare l’unico possibile. La comunione, in quest’ultima ecclesiologia, acquista un senso più ampio: camminare insieme con tutti, anche con “quelli di fuori”» (L. SARTORI, Chiesa, cit., 129).
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redentiva del Cristo-Capo e si rende visibile nelle sue manifestazioni gerarchiche11; b) in quanto la Chiesa è il Corpo Mistico che dipende dal soffio di vita divina dello Spirito Santo, la comunione ecclesiale si realizza come dinamismo spirituale e misterioso, così come misteriosa e creatrice è la partecipazione all’amore salvifico di Dio. Luminoso e incisivo è l’insegnamento del Vaticano II al riguardo: «Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr 1Cor 3,16; 6,19) e in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per adozione (cfr Gal 4,6; Rm 8,15-16. 26). Egli introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr Ef 4,11-12; 1Cor 12,4; Gal 5,22). Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: “Vieni” (cfr Ap 22,17)» (LG 4).
b. Cristo-Capo è presente nel ministero episcopale Sia i carismi effusi dallo Spirito Santo, sia i ministeri istituiti da Cristo tendono a sviluppare tutto il Corpo che è la Chiesa. Al ministero episcopale viene attribuito il ruolo di speciale partecipazione alla missione salvifica di Cristo. Il documento descrive la natura e le finalità del ministero dei vescovi sia in riferimento al ministero petrino del sommo pontefice, sia
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Paolo scrivendo ai Colossesi stigmatizza il rischio di sgretolare la compagine del Corpo di Cristo e traccia il paradigma della comunione ecclesiale “in Cristo”: «Nessuno vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda, o riguardo a feste, a noviluni e a sabati: tutte cose queste che sono ombre delle future; ma la realtà invece è Cristo! Nessuno vi impedisca di conseguire il premio, compiacendosi in pratiche di poco conto e nella venerazione degli angeli, seguendo le proprie pretese visioni, gonfio di vano orgoglio nella sua mente carnale, senza essere stretto invece al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo di giunture e legami, realizzando così la crescita secondo il volere di Dio» (Col 2,16-19).
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per l’incremento della vita della Chiesa locale, dove è indispensabile l’armonia tra i vari membri presbiteri: «Il Signore stesso “ha istituto nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo” (LG 18). Tra questi ministeri quello episcopale è fondamento di tutti gli altri. “I vescovi, poi, in comunione gerarchica con il romano pontefice, costituiscono il collegio episcopale, così che esprimono nel loro insieme ed effettuano, nella Chiesa-sacramento, la funzione di Cristo-capo: nella persona dei vescovi, infatti, con i sacerdoti accanto a loro, è presente in mezzo ai credenti il signore Gesù Cristo, pontefice sommo... (I vescovi) sostengono le parti dello stesso Cristo, maestro, pastore e pontefice, e nella persona di lui agiscono” (LG 21; cfr 27 28 PO 1; CD 2; PO 2). Nessun altro, all’infuori del vescovo, svolge nella Chiesa una funzione organica di fecondità (cfr LG 18, 19), di unità (cfr LG 23) e di spirituale potestà (cfr LG 22) così fondamentale, che influisca su tutta l’attività ecclesiale. Sebbene infatti nel popolo di Dio venga variamente ripartita la esplicazione di molteplici altri compiti e iniziative, tuttavia al romano pontefice e ai vescovi compete il ministero di discernere e di armonizzare (cfr LG 21), che comporta l’abbondanza di speciali doni dello Spirito e il peculiare carisma dell’ordinamento dei vari ruoli in intima docilità d’animo verso l’unico Spirito vivificante (cfr LG 12,24, ecc.)» (MR 6).
c. La triplice specificazione dell’unico ministero dei vescovi Cristo prolunga la sua presenza salvifica nel ministero dei vescovi affidando loro un triplice ufficio: il munus docendi, munus sanctificandi, munus regendi. È un potere che si identifica con il triplice servizio che ogni vescovo deve tradurre a vantaggio della comunità cristiana: insegnare, santificare e governare. Le tre funzioni di maestro, di celebrante e di pastore sono intercorrelate fra loro: l’annuncio della parola mira a tenere unita la comunità e a guidarla verso la santificazione sacramentale12; la celebrazione dei divini misteri tende a trasformare l’ascolto della parola in vita vissuta; 12 L’annuncio diventa più urgente in una pastorale basata sulla nuova evangelizzazione. «La nuova evangelizzazione richiede un ardente ministero della Parola, integrale e ben fondato, con chiaro contenuto teologico, spirituale, liturgico e morale, attento alle concrete necessità degli uomini che si devono raggiungere. Non si tratta, evidentemente, di cadere in
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e l’esperienza di trovarsi insieme, al di là di ogni considerazione sociologica, è finalizzata a far percepire la presenza di Dio che parla al suo popolo santo, e a prolungare nel mistero sacramentale l’evento salvifico della pasqua del Cristo che anticipa il gaudio della pasqua eterna. Il vescovo non solo vive personalmente questa triplice funzione legata al suo ministero, ma in quanto responsabile dinanzi a Dio della Chiesa locale, deve curare che gli altri ministri svolgano adeguatamente il loro servizio a vantaggio di tutti i fedeli13. Su questo dato teologico si fonda ogni autentico rapporto tra i vescovi e i membri di vita consacrata. «Il vescovo, quindi, in virtù del suo stesso ministero, è responsabile in modo particolare dell’accrescimento nella santità di tutti i suoi fedeli, in quanto egli è principale dispensatore dei misteri di Dio e perfezionatore del suo gregge secondo la vocazione propria di ciascuno (cfr CD 15); dunque anche, e soprattutto, secondo la vocazione dei religiosi» (MR 7).
Nei confronti dei religiosi presbiteri il ruolo del vescovo si articola in due aspetti: in quanto religiosi inseriti nella comunità ecclesiale essi sono destinatari del servizio pastorale del vescovo; in quanto esercitano un ministero presbiterale, essi sono chiamati ad essere collaboratori attivi e solidali con il cammino dell’intera Chiesa locale.
tentazioni di intellettualismo, che, anzi, potrebbe oscurare anziché illuminare le intelligenze cristiane, ma di svolgere una vera “carità intellettuale” attraverso la permanente e paziente catechesi sulle verità fondamentali della fede e della morale cattoliche, e sul loro influsso nella vita spirituale. L’istruzione cristiana spicca fra le opere spirituali di misericordia: la salvezza avviene nella conoscenza di Cristo, perché “non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati”(Atti 4, 12)» (CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Il presbitero, maestro della parola, ministro dei sacramenti e guida della comunità in vista del terzo millennio cristiano, (19 marzo 1999), Città del Vaticano 1999, 22-23). 13 Per la partecipazione dei presbiteri al ministero della parola, cfr R. FRATTALLONE, Il presbitero uomo della Parola, Una presenza per servire. Il ministero presbiterale nella Sicilia verso il terzo millennio. Atti del 2° Convegno Presbiterale Regionale promosso dalla Conferenza Episcopale Siciliana, Acireale, 15-20 maggio 1988, CESI, Palermo 1989, 187203; G. GRESHAKE, Essere preti. Teologia e spiritualità del ministero sacerdotale, Brescia 1984.
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d. Il compito dell’episcopato verso la vita religiosa Il discernimento che i vescovi devono compiere nei confronti della vita consacrata14, al di là dei livelli e delle modalità secondo le quali esso si compie (diocesano, nazionale, mondiale), ha come obiettivo centrale il discernimento. Tale funzione è particolarmente importante (e spesso ardua da espletare) quando si tratta di riconoscere l’autenticità di un nuovo carisma di fondazione nella Chiesa. Ma anche verificare la fedeltà al carisma di fondazione, secondo le modalità stabilite dal CIC e dalla regola di vita dei singoli istituti di vita consacrata, rientra nei compiti del munus sanctificationis che il vescovo deve svolgere per il bene dei fedeli. È evidente che tale compito presuppone nel vescovo una oculata e docile attenzione all’azione che lo Spirito Santo compie verso ogni istituto di vita consacrata. Con molta chiarezza così si esprime il documento magisteriale sulle mutue relazioni tra vescovi e religiosi: «c) I vescovi, in unione col romano pontefice, ricevono da Cristo-capo il compito (cfr LC 21) di discernere i doni e le competenze, di coordinare le molteplici energie e di guidare tutto il popolo a vivere nel mondo come segno e strumento di salvezza. Ad essi quindi è pure affidato l’ufficio di prendersi cura dei carismi religiosi, tanto più perché la stessa indivisibilità del ministero pastorale li fa perfezionatori di tutto il gregge. In tal modo, promovendo la vita religiosa e proteggendola in conformità delle sue proprie definite caratteristiche, i vescovi adempiono un genuino dovere pastorale. d) I pastori tutti, non dimentichi del monito apostolico di non essere “come padroni tra i fedeli loro affidati, ma come divenuti sincero modello del gregge” (1Pt 5,3), saranno giustamente consapevoli del primato della vita nello Spirito, che esige che siano insieme guide e membri; veramente padri, ma anche fratelli; maestri della fede, ma principalmente condiscepoli davanti al Cristo; perfezionatori, sì, dei fratelli, ma anche veri testimoni della loro personale santificazione» (MR 9).
14 Nel Sinodo sulla vita consacrata si fece una profonda riflessione anche sul ruolo specifico dei vescovi; cfr N. HAUSMAN, La responsabilité des évêques et la vie consacrée. Réflexions en vue du Synode de 1994, in Nouvelle Revue Théologique 116 (1994) 3, 340-352.
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3. La vita consacrata nel mistero della Chiesa “comunione” Nella Chiesa, popolo di Dio, e per il mondo circostante la vita consacrata è un luogo particolare dove si rivela la presenza di Dio come amore salvifico, come forza di comunione e come impegno per l’elevazione dei poveri e dei bisognosi15. L’esortazione apostolica sulla vita consacrata dedica un intero capitolo per descriverne la natura ecclesiale16 e utilizza l’icona della trasfigurazione come paradigma di riferimento dell’esperienza globale di chi con la consacrazione si immerge nell’esperienza di Dio: «Nella scena della trasfigurazione, Pietro parla a nome degli apostoli: “È bello per noi restare qui” (Mt 17, 4). L’esperienza della gloria di Cristo, che pur gli inebria la mente e il cuore, non lo isola, ma al contrario lo lega più profondamente al «noi» dei discepoli. Questa dimensione del “noi” ci porta a considerare il posto che la vita consacrata occupa nel mistero della Chiesa. La riflessione teologica sulla natura della vita consacrata ha approfondito in questi anni le nuove prospettive emerse dalla dottrina del Concilio Vaticano II. Alla sua luce s’è preso atto che la professione dei consigli evangelici appartiene indiscutibilmente alla vita e alla santità della Chiesa (LG 44)… Ciò appare con evidenza dal fatto che la professione dei consigli evangelici è intimamente connessa col mistero di Cristo, avendo il compito
15 Il Vaticano II descrive analiticamente tale funzione della vita di consacrazione: «I religiosi pongano ogni cura, affinché per loro mezzo la Chiesa abbia ogni giorno meglio da presentare Cristo ai fedeli e agli infedeli: sia nella sua contemplazione sul monte, sia nel suo annuncio del regno di Dio alle turbe, sia quando risana i malati e gli infermi e converte a miglior vita i peccatori, sia quando benedice i fanciulli e fa del bene a tutti, sempre obbediente alla volontà del Padre che lo ha mandato… Né pensi alcuno che i religiosi con la loro consacrazione diventino estranei agli uomini o inutili nella città terrestre. Poiché, se anche talora non sono direttamente presenti a fianco dei loro contemporanei, li tengono tuttavia presenti in modo più profondo con la tenerezza di Cristo, e con essi collaborano spiritualmente, affinché la edificazione della città terrena sia sempre fondata nel Signore, e a lui diretta, né avvenga che lavorino invano quelli che la stanno edificando (LG 46)». Cfr pure A. BANDERA, Comunione ecclesiale, in Vita Consacrata 32 (1996) 1, 70-90. 16 «Cap. III. Nella Chiesa e per la Chiesa», nn 29-34; cfr S. DE GIORGI (e altri), La vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo, in Presenza Pastorale 64 (1994) 6, 5-104.
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di rendere in qualche modo presente la forma di vita che Egli prescelse, additandola come valore assoluto ed escatologico. Gesù stesso, chiamando alcune persone ad abbandonare tutto per seguirlo, ha inaugurato questo genere di vita che, sotto l’azione dello Spirito, si svilupperà gradualmente lungo i secoli nelle varie forme della vita consacrata. La concezione di una Chiesa composta unicamente da ministri sacri e da laici non corrisponde, pertanto, alle intenzioni del suo divino Fondatore quali ci risultano dai Vangeli e dagli altri scritti neotestamentari» (VC 29).
a. La natura ecclesiale degli istituti di vita consacrata Il fatto di appartenere all’essenza misterica della Chiesa esige dalle persone consacrate siano in profonda sintonia con la vita della Chiesa (sentire cum Ecclesia). Sia il carisma ricevuto dallo Spirito Santo, sia il dinamismo di comunione che sta all’origine di ogni gruppo di persone consacrate, sono per l’edificazione della Chiesa17. Dal sensus Ecclesiae deriva il donarsi nella/per la Chiesa: «Un grande compito è affidato alla vita consacrata anche alla luce della dottrina sulla Chiesa-comunione, con tanto vigore proposta dal Concilio Vaticano II. Alle persone consacrate si chiede di essere davvero esperte di comunione e di praticarne la spiritualità, come testimoni e artefici di quel progetto di comunione che, sta al vertice della storia dell’uomo secondo Dio. Il senso della comunione ecclesiale, sviluppandosi in spiritualità di comunione, promuove un modo di pensare, parlare ed agire che fa crescere in profondità e in estensione la Chiesa. La vita di comunione, infatti, diventa un segno per il mondo e una forza attrattiva che conduce a credere in Cristo [...]. In tal modo la comunione si apre alla missione, si fa essa stessa missione, anzi la comunione genera comunione e si configura essenzialmente come comunione missionaria» (VC 46).
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Il Sinodo dei vescovi sulla vita consacrata ne ha approfondito gli aspetti teologici, spirituali, ecclesiali e pastorali; cfr J. CASTELLANO CERVERA (e altri), Vita consecrata. Una prima lettura teologica, Milano 1996; Vita religiosa apostolica. Documento dell’Unione Internazionale Superiori Generali e suo commento, Bologna 1984; B. SECONDIN, Una nuova autocoscienza di Chiesa in cammino, in Vita consacrata 6-23; E. SASTRE SANTOS, La vita religiosa nella storia della Chiesa e della società, Milano 1997.
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Nel rispetto del proprio carisma e valorizzando i doni delle singole persone consacrate, la vita consacrata, come parte viva del popolo di Dio, partecipa in maniera attiva e originale alla missione della Chiesa, inserendosi nella pastorale organica delle Chiese locali e collaborando nei vari settori di apostolato18.
b. L’indole propria di ciascun istituto Come il carisma di fondazione di ogni istituto, in quanto esperienza originale dello Spirito Santo, passa al vaglio del discernimento della gerarchia ecclesiastica, così le attività che le persone consacrate svolgono nella Chiesa, richiedono che l’autorità ecclesiale sia attenta alla peculiarità carismatica e offra lo spazio di azione corrispondente al carisma e allo spirito dell’istituto. Infatti è un bene per la Chiesa che venga mantenuta e potenziata la ricchezza dei doni che lo Spirito Santo elargisce attraverso le varie forme di consacrazione19; inoltre è un bene per ogni istituto che il loro carisma non venga vanificato in attività aliene dal dono originale connesso con la fondazione, pena il decadimento dello stesso dono nei singoli membri, con il rischio della totale scomparsa dello stesso istituto20. 18 Cfr J.-M. R. TILLARD, I religiosi nel cuore della Chiesa, Brescia 1968; P. G. CABRA, I consigli evangelici un dono per la missione, in Vita Consacrata 32 (1996) 6, 588601. 19 Cfr R. CANTALAMESSA, Lo Spirito Santo adorna la Chiesa di una moltitudine di carismi, in Vita Consacrata 33 (1997) 3, 300-320; A. RESTA, Fondamento trinitario della vita consacrata, in Vita Consacrata 33 (1997) 3 321-334; A. M. SICARI, Diversità e complementarietà degli stati di vita nella Chiesa, in Communio 23 (maggio-giugno 1994) 8-24; H. U. VON BALTHASAR, Gli stati di vita del cristiano, Milano 1985. 20 «Lo stesso carisma dei fondatori si rivela come un’esperienza dello Spirito trasmessa ai propri discepoli per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente sviluppata in sintonia con il corpo di Cristo in perenne crescita. Per questo la Chiesa difende e sostiene l’indole propria dei vari istituti religiosi (LG 44; cfr CD 33, 35, 1, 35,2, ecc.). Tale indole propria, poi, comporta anche uno stile particolare di santificazione e di apostolato, che stabilisce una sua determinata tradizione in modo tale, che se ne possano convenientemente cogliere gli elementi oggettivi. Pertanto, in quest’epoca di evoluzione culturale e di rinnovamento ecclesiale, è necessario che l’identità di ogni istituto sia conservata con tale sicurezza, che si possa evitare il pericolo di una situazione non sufficientemente definita, per cui i religiosi, senza la dovuta considerazione del particolare stile
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c. Note di un autentico carisma Per distinguere l’autentico dono dello Spirito Santo da altre forme di un vago desiderio personale di far del bene o, addirittura, di illusioni soggettive, diamo un rapido cenno ai connotati di un autentico carisma. «Ogni carisma autentico porta con sé una certa carica di genuina novità nella vita spirituale della Chiesa e di particolare operosa intraprendenza, che nell’ambiente può forse apparire incomoda e può anche sollevare delle difficoltà, poiché non sempre e subito è facile riconoscerne la provenienza dallo Spirito. La nota carismatica propria di qualsivoglia istituto esige, sia nel fondatore che nei suoi discepoli, una continua verifica della fedeltà verso il Signore, della docilità verso il suo Spirito, dell’attenzione intelligente alle circostanze e della visione cautamente rivolta ai segni dei tempi, della volontà d’inserimento nella Chiesa, della coscienza di subordinazione alla sacra gerarchia, dell’ardimento nelle iniziative, della costanza del donarsi, dell’umiltà nel sopportare i contrattempi: il giusto rapporto fra carisma genuino, prospettiva di novità e sofferenza interiore comporta una costante storica di connessione tra carisma e croce, la quale, al di sopra di ogni motivo giustificante le incomprensioni, è sommamente utile a far discernere l’autenticità di una vocazione» (MR 12)21.
d. Il triplice servizio dell’autorità religiosa Ogni comunità di vita consacrata è “chiesa nella Chiesa” e partecipa delle ricchezze del popolo di Dio cui lo Spirito Santo aggiunge il carisma di azione proprio della loro indole, vengano inseriti nella vita della Chiesa in modo vago e ambiguo» (MR 11). 21 Il discernimento va esercitato, dalla competente autorità, anche nei confronti delle doti personali dei singoli religiosi, al fine di valorizzarle nel contesto del carisma e del suo inserimento nella Chiesa locale. Così si esprime il documento Mutuae relationes: «Anche ai singoli religiosi certamente non mancano i doni personali, i quali indubbiamente sogliono provenire dallo Spirito, al fine di arricchire, sviluppare e ringiovanire la vita dell’istituto nella coesione della comunità e nel dare testimonianza di rinnovamento. Il discernimento, però, di tali doni e il retto loro esercizio saranno misurati secondo la congruenza che essi dimostreranno sia con il progetto comunitario dell’istituto sia con le necessità della Chiesa a giudizio della legittima autorità» (MR 12).
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proprio dell’istituto e gli altri doni per l’edificazione sia della Chiesa, sia della singola comunità consacrata. Anche il mandato dei superiori rispecchia, in maniera analoga, il modello ecclesiale per quanto concerne il servizio di autorità che devono esercitare verso i membri di essa. E come ogni battezzato, in quanto membro del popolo di Dio, partecipa al triplice sacerdozio di Cristo (profetico, di santificazione e regale), così i superiori, secondo l’indole, lo spirito e le finalità dell’istituto, ricevono dal Signore e dalla Chiesa l’ufficio di insegnare, di santificare e di governare i membri dell’istituto. In un clima di comunione e di condivisione pastorale il servizio di autorità dei superiori agiranno armonizzando le esigenze proprie dell’istituto con quelle della Chiesa locale; la relativa autonomia dell’istituto nei confronti dell’autorità ecclesiastica non potrà mai degenerare in indipendenza, o peggio ancora, in contrapposizione, a discapito del principio fondamentale «salus animarum suprema lex!». Illuminanti, al riguardo, le indicazioni di MR: «a) Quanto all’ufficio d’insegnare, i superiori religiosi hanno la competenza e l’autorità di maestri di spirito in relazione al progetto evangelico del proprio istituto; in tale ambito, quindi, devono esplicare una vera direzione spirituale dell’intera congregazione e delle singole comunità della medesima, e l’attueranno in sincera concordia con l’autentico magistero della gerarchia, sapendo di dover eseguire un mandato di grave responsabilità nell’area del piano evangelico, voluto dal fondatore. b) Quanto all’ufficio di santificare, è pure spettanza dei superiori una speciale competenza e responsabilità di perfezionare, sia pure con differenziati compiti, in ciò che riguarda l’incremento della vita di carità secondo il progetto dell’istituto, sia circa la formazione, tanto iniziale che continua, dei confratelli, sia circa la fedeltà comunitaria e personale nella pratica dei consigli evangelici secondo la regola. Tale compito, se rettamente adempiuto, verrà considerato dal romano pontefice e dai vescovi qual prezioso sussidio nell’espletamento del loro fondamentale ministero di santificazione. c) Quanto all’ufficio di governare, i superiori devono compiere il servizio di ordinare la vita propria della comunità, di organizzare i membri dell’istituto, di curare e sviluppare la peculiare sua missione e provvedere che venga efficientemente inserito nell’attività ecclesiale sotto la guida dei vescovi. Esiste dunque un ordine interno degli istituti (cfr CD 35,3), che ha un suo
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proprio campo di competenza, a cui spetta una genuina autonomia, anche se questa non può mai, nella Chiesa, ridursi a indipendenza (cfr CD 35,3 e 4). Il giusto grado di tale autonomia e la sua concreta determinazione di competenza sono contenuti nel diritto comune e nelle regole, o costituzioni, di ogni istituto» (MR 13).
B. Il livello pastorale-organizzativo Nel passaggio dall’orizzonte universale a quello della Chiesa particolare la missione ricevuta dal Signore subisce la stessa kenosi del Cristo; e come il Cristo per salvarci dovette abbassarsi e assumere la nostra natura umana nel mistero della incarnazione, così la Chiesa deve rivivere, nel processo di inculturazione, il mistero del granello di grano: esso deve morire e rivivere all’interno della cultura umana affinché l’amore salvifico di Dio diventi annunzio, testimonianza, celebrazione sacramentale, comunione ecclesiale e promozione umana. Anche la vita consacrata, comunità ecclesiale nella Chiesa, opera un analogo processo di incarnazione e di rinascita quando rivive in una determinata zona pastorale22. Ma a differenza della Chiesa, che per sua natura è “cattolica”, cioè destinata a tutte le culture e per tutti i popoli, i carismi propri della vita consacrata rivivono all’interno di un gruppo umano soltanto se e a condizione che essi siano in consonanza con i valori specifici di quella cultura. La programmazione pastorale dovrà prevedere le modalità di personalizzazione della salvezza del Signore; infatti, solo a questa condizione i gesti di salvezza in Cristo previsti per una comunità potranno essere individualizzati e raggiungere le singole persone. In maniera analoga al processo di personalizzazione del piano ecclesiale di salvezza, anche i vari carismi della vita consacrata saranno accolti dai singoli credenti, nella misura in cui le loro doti personali si armonizzano con lo spirito, la natura e lo stile di vita dei vari carismi di fondazione.
22 In questa prospettiva è esatto e utile parlare dei diversi livelli in cui si articola la pastorale ecclesiale (universale, regionale, diocesana, parrocchiale, ecc.).
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1. Il vescovo centro della pastorale diocesana a. La progettazione della pastorale secondo il triplice ufficio Il Vaticano II, riprendendo la riflessione ecclesiologica del Vaticano I, ha approfondito la natura e l’identità dell’episcopato riaffermandone la specifica sacramentalità nei gradi dell’ordine sacro, illustrando il rapporto di collegialità in riferimento al ruolo proprio del sommo pontefice, e ribadendo il senso del suo ministero a partire dalle tre modalità del suo servizio (munus docenti, sanctificandi, regendi) (cfr LG 20-25). All’interno delle singole chiese locali il vescovo, centro propulsore della vita ecclesiale, condivide con gli altri membri del popolo di Dio, il suo ministero episcopale23, che si esprime in maniera organizzata nel progetto della pastorale diocesana. Nell’omelia di chiusura del recente sinodo dei vescovi che studiò il tema de «Il vescovo servitore del vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo», Giovanni Paolo II indicava come i vescovi sono oggi i profeti della speranza: «Il vescovo, buon pastore, trova luce e forza per il suo ministero nella parola di Dio, interpretata nella comunione della Chiesa e annunciata con fedeltà coraggiosa opportune et importune. Maestro di fede, il vescovo promuove tutto ciò che vi è di buono e di positivo nel gregge affidatogli, sostiene e guida quanti sono deboli nella fede, interviene per smascherare le falsificazioni e combattere gli abusi. È importante che il vescovo abbia coscienza delle sfide che oggi la fede in Cristo incontra a causa di una mentalità basata 23 Il Vaticano II afferma il carattere di servizio e di diaconia, del ministero episcopale: «I vescovi, quali successori degli apostoli, ricevono dal Signore, cui è data ogni potestà in cielo e in terra, la missione d’insegnare a tutte le genti e di predicare il Vangelo ad ogni creatura, affinché tutti gli uomini, per mezzo della fede, del battesimo e dell’osservanza dei comandamenti, ottengano la salvezza (cfr Mt 28,18-20; Mc 16,15-16; At 26,17 ss). Per compiere questa missione, Cristo Signore promise agli apostoli lo Spirito Santo e il giorno di Pentecoste lo mandò dal cielo, perché con la sua forza essi gli fossero testimoni fino alla estremità della terra, davanti alle nazioni e ai popoli e ai re (cfr At 1,8; 2,1 ss; 9,15). L’ufficio poi che il Signore affidò ai pastori del suo popolo, è un vero servizio, che nella sacra Scrittura è chiamato significativamente «diaconia», cioè ministero (cfr At 1,17 e 25; 21,19; Rm 11,13; 1Tm 1,12)» (LG 24).
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su criteri umani che, a volte, relativizzano la legge e il disegno di Dio. Soprattutto, egli deve avere il coraggio di annunciare e difendere la sana dottrina, anche quando ciò comporti sofferenze. Il servizio che i vescovi sono chiamati a rendere al loro gregge sarà sorgente di speranza nella misura in cui rispecchierà un’ecclesiologia di comunione e di missione. Negli incontri sinodali di questi giorni, è stata più volte sottolineata la necessità di una spiritualità di comunione. Citando l’Instrumentum laboris, è stato ripetuto che “la forza della Chiesa è la comunione, la sua debolezza è la divisione e la contrapposizione”. Soltanto se sarà chiaramente percepibile una profonda e convinta unità dei pastori fra loro e col successore di Pietro, come pure dei vescovi con i loro sacerdoti, potrà essere data una risposta credibile alle sfide che provengono dall’attuale conteso sociale e culturale»24.
b. La paternità pastorale Per indicare come l’esercizio del ministero episcopale debba ispirarsi alla più genuina carità pastorale l’Instrumentum laboris dell’ultimo sinodo dei vescovi ricorre al concetto di paternità spirituale. Il vescovo, «sacerdote, re e profeta», deve rivestirsi di paternità pastorale sia nei confronti dei presbiteri, suoi immediati collaboratori, sia verso tutto il popolo di Dio; solo così potrà proclamare con convinzione ed efficacia il vangelo della speranza: «Per quanto, però, si consideri questa unità, è necessario anche cogliere l’intenzione del concilio, che nel suo magistero sui tria munera riguardo al vescovo e ai presbiteri preferisce preporre agli altri quello dell’insegnamento. In ciò il Vaticano II riprende idealmente la successione presente nelle parole che il Risorto rivolse ai suoi discepoli: “Mi è stata data ogni potestà in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole... insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,18-20). In questa priorità data al compito episcopale dell’annuncio del Vangelo, che è una caratteristica della ecclesiologia conciliare, ogni vescovo può ritrovare il senso di quella paternità spirituale, che faceva scrivere all’apostolo san Paolo: “Potreste avere anche diecimila pedagoghi
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L’Osservatore Romano, 28 ottobre 2001, 1.
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Raimondo Frattallone in Cristo ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo” (1Cor 4,15)»25.
Il ruolo di “buon pastore” si innesta nel tessuto vivo dell’esistenza quotidiana e dei problemi che investono il popolo di Dio. Il vescovo, quindi, come vero maestro di vita e amico sollecito per le persone amate, a seconda delle situazioni: a) diventa una guida illuminata per quanti ricercano il senso della vita e le verità che portano a salvezza; b) diventa un cuore capace di dare conforto a quanti sono nella sofferenza fisica o morale; c) diventa parola che denuncia il male mirando alla correzione di chi ha sbagliato e ha indotto altri nell’errore; d) diventa forza di riconciliazione per le persone travolte dall’odio o dal peccato; e) diventa, soprattutto, sorgente inesauribile di speranza per quanti vengono travolti dalla disperazione, dalla menzogna o dalle tragedie della vita. «Il vescovo, mandato dal Padre di famiglia a governare la sua famiglia, tenga innanzi agli occhi l’esempio del buon pastore, che è venuto non per essere servito, ma per servire (cfr Mt 20,28; Mc 10,45) e dare la sua vita per le pecore (cfr Gv 10,11). Assunto di mezzo agli uomini e soggetto a debolezze, può benignamente compatire a quelli che peccano, per ignoranza o errore (cfr Eb 5,12). Non rifugga dall’ascoltare i sudditi che cura come veri figli suoi ed esorta a cooperare alacremente con lui. Dovendo render conto a Dio delle loro anime (Eb 13,17), con la preghiera, la predicazione e ogni opera di carità abbia cura di loro, e anche di quelli che non sono ancora dell’unico gregge, e li consideri a sé raccomandati nel Signore» (LG 27).
La paternità spirituale nei confronti delle persone consacrate acquista una particolare incisività per il fatto che il vescovo, praeses charitatis, riconosce in loro il dono che lo Spirito Santo continua ad effondere sull’intera comunità ecclesiale; dono che spetta al vescovo armonizzare con gli altri doni per la crescita della comunione nel popolo di Dio. Nei suoi gesti di carità pastorale si rivela paternità del Padre celeste. 25 SINODO DEI VESCOVI. X ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA, Il vescovo servitore del Vangelo di Cristo per la speranza del mondo. Instrumentum laboris, Città del Vaticano 2001, n 100; cfr pure n 87.
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2. I vescovi e i religiosi nell’unica missione del popolo di Dio a. L’amore salvifico di Dio, unica fonte della missione ecclesiale La missione della Chiesa scaturisce da un’unica fonte, l’amore salvifico di Dio che coinvolge, in maniera misteriosa, le singole persone divine e dal cuore di Dio si comunica alla Chiesa e ad ogni battezzato: il Padre invia il Figlio nel mondo (cfr Gv 10,36); il Cristo compie con la sua pasqua redentrice l’opera di salvezza, scritta fin dall’eternità nel disegno del Padre; lo Spirito Santo è inviato a pentecoste sugli apostoli radunati nel Cenacolo da Gesù Risorto e dal Padre; gli apostoli ricevono la missione di portare l’annuncio di salvezza fino ai confini del mondo, insieme al Padre; ed ogni battezzato, inserito nel dinamismo salvifico della Chiesa, espande, secondo il suo progetto di vita, l’amore salvifico del Padre nel suo ambiente26. In questa prospettiva storico-salvifica ecclesiale «Tutti, e pastori e laici e religiosi, ciascuno secondo la propria vocazione, sono chiamati ad un impegno apostolico, che sgorga dalla carità del Padre; lo Spirito Santo, poi lo alimenta, vivificando, come loro anima, le istituzioni ecclesiastiche ed infondendo nel cuore dei fedeli quel medesimo ardore di missione, da cui era stato spinto Gesù stesso (AG 4)… La missione, infatti, della Chiesa per sua natura altro non è se non la missione dello stesso Cristo continuata nella storia del mondo» (MR 15).
Ne consegue che nella Chiesa nessuno può portare avanti la missione di salvezza senza una profonda e stabile unione con Dio, fonte perenne di ogni gesto salvifico. Staccati dalla loro fonte di vita divina, ogni iniziativa apostolica è «un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna» (1Cor 13,1). Al contrario, l’efficacia di ogni programmazione o fatica apostolica nella
26 L’azione pastorale risulta la sintesi tra l’amore salvifico discendente di Dio e le forme sempre nuove e originali della carità fraterna che partono dal cuore di ogni battezzato; cfr A. FALLICO, Pedagogia Pastorale. Questa sconosciuta. Itinerario di formazione per operatori pastorali presbiteri, religiosi e laici, Catania 2000.
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Chiesa dipende dal grado di preghiera che opera una intima immersione, orante e contemplativa, nel Cuore di Dio. «Per tutti è indubbiamente urgente la necessità di apprezzare la preghiera e di ricorrere ad essa. I vescovi e i loro presbiteri collaboratori (cfr LG 25, 27, 28, 41), “perseveranti nella preghiera e nel ministero della parola” (At 6,4), “dispensatori dei misteri di Dio” (1Cor 4, 1), pongano ogni loro impegno, affinché tutti quelli che sono affidati alle loro cure siano concordi nella preghiera e, ricevendo i sacramenti, crescano nella grazia e siano fedeli testimoni del Signore (cfr CD 15). I religiosi poi, in quanto chiamati ad essere quasi degli “specialisti della preghiera” (Paolo VI, 28-10-1966), “Dio... prima di tutto cerchino ed amino, e in tutte le circostanze s’impegnino ad alimentare la vita nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3), donde scaturisce e riceve impulso l’amore del prossimo” (PC 6)» (MR 16).
Considerando la missione della Chiesa strettamente collegata con l’Amore di Dio, Uno e Trino, la vita di preghiera delle persone consacrate27, ed in particolare di quelle votate alla contemplazione, acquista un valore straordinario28. 27 «La chiamata alla santità è accolta e può essere coltivata solo nel silenzio dell’adorazione davanti all’infinita trascendenza di Dio… Tutti, credenti e non credenti, hanno bisogno di imparare un silenzio che permetta all’Altro di parlare, quando e come vorrà, e a noi di comprendere quella parola. Ciò comporta in concreto una grande fedeltà alla preghiera liturgica e personale, ai tempi dedicati all’adorazione mentale e alla contemplazione, all’adorazione eucaristica, ai ritiri mensili e agli esercizi spirituali» (VC 38). 28 «Particolare attenzione meritano la vita monastica femminile e la clausura delle monache, per l’altissima stima che la comunità cristiana nutre verso questo genere di vita, segno dell’unione esclusiva della Chiesa-Sposa con il suo Signore, sommamente amato. In effetti, la vita delle monache di clausura, impegnate in modo precipuo nella preghiera, nell’ascesi e nel fervido progresso della vita spirituale, non è altro che un tendere alla Gerusalemme celeste, un’anticipazione della Chiesa escatologica, fissa nel possesso e nella contemplazione di Dio… Esse si offrono con Gesù per la salvezza del mondo. La loro offerta, oltre all’aspetto di sacrificio e di espiazione, acquista anche quello di rendimento di grazie al Padre, nella partecipazione all’azione di grazie del Figlio diletto. Radicata in questa tensione spirituale, la clausura non è solo un mezzo ascetico di immenso valore, ma un modo di vivere la Pasqua di Cristo. Da esperienza di «morte» essa diventa sovrabbondanza di “vita”, ponendosi come gioioso annuncio e anticipazione profetica della possibilità offerta ad ogni persona e all’umanità intera di vivere unicamente per Dio, in Cristo Gesù (cfr Rm 6,11)» (VC 59).
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b. Nuove forme di vita consacrata per nuovi bisogni degli uomini Come a livello pastorale la Chiesa aggiorna o crea nuove istituzioni e nuove strutture per venire incontro alle molteplici e sempre nuove esigenze che sorgono nel popolo di Dio e, più genericamente, nella società civile, così, a livello strettamente carismatico, lo Spirito Santo elargisce a singole persone, a gruppi o movimenti ecclesiali, carismi nuovi e genuini per comunicare la vita divina oggi nelle mutate situazioni del tempo; e così la missione salvifica della Chiesa non solo si prolunga lungo i secoli, ma si incarna nel vivo dell’esistenza di tutte le persone29. E se il Decreto conciliare Perfectae Charitatis si soffermava ad indicare i principi e i criteri per il rinnovamento della vita religiosa30, il sinodo sulla vita consacrata allarga gli orizzonti e ipotizza nuove forme di vita consacrata più consone con la cultura e la sensibilità del nostro tempo: «La perenne giovinezza della Chiesa continua a manifestarsi anche oggi: negli ultimi decenni, dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, sono apparse nuove o rinnovate forme di vita consacrata. In molti casi si tratta di Istituti simili a quelli già esistenti, ma nati da nuovi impulsi spirituali ed apostolici… Queste nuove forme di vita consacrata, che s’aggiungono alle antiche, testimoniano della costante attrattiva che la donazione totale al Signore, l’ideale della comunità apostolica, i carismi di fondazione continuano ad esercitare anche sulla presente generazione e sono pure segno della complementarietà dei doni dello Spirito Santo» (VC 12).
Il documento Mutuae relationes fornisce al vescovo, e a quanti devono svolgere il delicato compito di vagliare la autenticità delle nuove 29
Basti pensare al fatto che gli istituti secolari sono sorti nella Chiesa proprio quando espandendosi nella società l’influsso negativo della secolarizzazione, parallelamente sorgeva il bisogno di un supplemento di anima cristiana incarnata in nuove forme di testimonianza e di servizio cristiani. Per gli aspetti giuridici connessi con tali nuove istituzioni che sorgono nella Chiesa, cfr A. NERI, Nuove forme di vita consacrata (can. 605 CIC). I profili giuridici, in Commentarium pro Religiosis et Missionariis 75 (1994) 3-4, 253-308. 30 «Il Concilio intende occuparsi della vita e della disciplina di quegli istituti, i cui membri fanno professione di castità, di povertà e di obbedienza, e insieme provvedere alle loro necessità secondo le odierne esigenze» (PC 1).
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forme di vita consacrata, i criteri di discernimento ecclesiale che offrono la garanzia dell’ispirazione divina del carisma in esame: «La nota carismatica propria di qualsivoglia istituto esige, sia nel fondatore che nei suoi discepoli, una continua verifica della fedeltà verso il Signore, della docilità verso il suo Spirito, dell’attenzione intelligente alle circostanze e della visione cautamente rivolta ai segni dei tempi, della volontà d’inserimento nella Chiesa, della coscienza di subordinazione alla sacra gerarchia, dell’ardimento nelle iniziative, della costanza del donarsi, dell’umiltà nel sopportare i contrattempi: il giusto rapporto fra carisma genuino, prospettiva di novità e sofferenza interiore comporta una costante storica di connessione tra carisma e croce, la quale, al di sopra di ogni motivo giustificante le incomprensioni, è sommamente utile a far discernere l’autenticità di una vocazione» (MR 12).
c. Il reciproco influsso tra i valori di universalità e di particolarità Il cuore della persona consacrata, soprattutto se appartenente ad un istituto di diritto pontificio e quindi potenzialmente aperto agli orizzonti della Chiesa universale, è attraversato da due dinamismi che lo Spirito Santo immette e sviluppa continuamente: il respiro della universalità e l’istanza di incarnazione nell’ambiente immediato e settoriale. Perciò il presbitero religioso, con modalità proprie diverse dal presbitero diocesano, partecipa allo stesso dinamismo di ogni comunità ecclesiale, nella quale vibra tutto il respiro soteriologico della Chiesa universale, ma che sente urgenti e immediati i bisogni dell’ambiente ristretto dove è inserita la Chiesa locale. In questa situazione di duplice tensione, occorre superare sia il rischio di rinchiudersi nel ghetto del proprio ambiente talvolta povero di alcuni valori irrinunciabili, di slancio missionario o di spirito di iniziativa, sia il rischio di disancorarsi dai bisogni reali e urgenti del proprio ambiente pastorale per rifugiarsi, in una maniera illusoria e inefficace, sui grandi problemi o le grandi prospettive offerte dall’orizzonte della universalità della Chiesa. La coniugazione tra i valori della Chiesa universale e i bisogni che emergono dalla situazione della Chiesa locale esige chiarezza sui valori
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cristiani e sulla loro gerarchizzazione, e la capacità di incarnarli e tradurli in progetti validi per il proprio ambiente pastorale31.
d. Coordinamento e collaborazione nei progetti pastorali Quando dal piano dei principi teologici e pastorali si passa al piano della programmazione organica e della esecuzioni dei progetti elaborati, il valore della comunione ecclesiale deve tradursi in coordinamento dei progetti di intervento, delle strutture, degli uffici e dei servizi specifici che ogni persona e ogni gruppo ecclesiale deve eseguire in maniera corresponsabile e solidale con gli altri. Ai vari livelli della vita ecclesiale il coordinamento di ogni attività pastorale esige un duplice dialogo: a) un dialogo verticale tra gli organismi universali della Santa Sede, quelli intermedi delle diocesi (e delle conferenze episcopali regionali), e quelli delle singole comunità ecclesiali (parrocchiali o dei vari movimenti e associazioni); b) un dialogo orizzontale tra le istituzioni che agiscono ai livelli appena indicati. Anche se il coordinamento è un fatto tecnico, il motivo suo ispiratore rimane il dinamismo di amore salvifico che lo Spirito Santo sviluppa all’interno della Chiesa, affinché la carità che si esprime esteriormente come
31 La Chiesa mette in guardia contro i particolarismi, le divisioni e quelle forme deleterie di nazionalismo che offuscano la visione della Chiesa universale e riducono la comunità ecclesiale ad una sterile ed egoistica conventicola (cfr MR 18). L’Instrumentum laboris dell’ultimo Sinodo dei vescovi, sollecitava i vescovi ad aprirsi efficacemente alla comunione sempre più ampia e universale: «Egli potrà così vivere ed animare una spiritualità di comunione con gli operatori della pastorale attraverso l’ascolto, la collaborazione e il responsabile affidamento dei compiti e dei ministeri. Un mezzo speciale per mantenere viva questa spiritualità è la comunione affettiva ed effettiva del vescovo, nella sua preghiera e nei suoi rapporti, con il Papa e gli altri vescovi. Il vescovo non è solo nel suo ministero: deve donare e ricevere quel flusso di carità fraterna che viene dalla relazione con gli altri fratelli nell’episcopato, in un vero esercizio di amore reciproco, come quello chiesto da Gesù ai suoi discepoli (cfr Gv 13,34; 15, 12-13), che diventa anche condivisione di preghiera, di esperienze spirituali e pastorali, di discernimento» (n 51).
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armonia nell’ordine riveli il legame di comunione che circola tra tutti i membri del popolo di Dio32. L’esortazione apostolica sulla vita consacrata illustra come la spiritualità dell’azione, propria soprattutto degli istituti di vita attiva, deve fondarsi su una visione della Chiesa in cui l’azione unica e poliedrica dello Spirito deve rimanere unitaria quando si articola nei molteplici gesti compiuti dai vari membri del Corpo Mistico di Cristo. Nella grande comunità ecclesiale le persone consacrate portano la ricchezza e l’esperienza preziosa della loro vita di comunione fraterna e apostolica: «Tutto dev’esser fatto in comunione e in dialogo con le altre componenti ecclesiali. Le sfide della missione sono tali da non poter essere efficacemente affrontate senza la collaborazione, sia nel discernimento che nell’azione, di tutti i membri della Chiesa. Difficilmente i singoli posseggono la risposta risolutiva: questa può invece scaturire dal confronto e dal dialogo. In particolare, la comunione operativa tra i vari carismi non mancherà di assicurare, oltre che un arricchimento reciproco, una più incisiva efficacia nella missione. L’esperienza di questi anni conferma ampiamente che «il dialogo è il nuovo nome della carità», specie di quella ecclesiale; esso aiuta a vedere i problemi nelle loro reali dimensioni e consente di affrontarli con migliori speranze di successo. La vita consacrata, per il fatto stesso di coltivare il valore della vita fraterna, si propone come esperienza privilegiata di dialogo. Essa pertanto può contribuire a creare un clima di accettazione reciproca, nel quale i vari soggetti ecclesiali, sentendosi valorizzati per quello che sono, convergono in modo più convinto nella comunione ecclesiale, tesa alla grande missione universale» (VC 74).
3. Il significato pastorale dell’esenzione a. La vita consacrata tra universalità e inserimento nell’ambiente particolare Gli antichi ordini religiosi, e gli altri Istituti di vita consacrata di 32 Tale principio è affermato dalle direttive del magistero ecclesiastico: «La Chiesa non è stata istituita al fine di essere un’organizzazione di attività, ma piuttosto quale Corpo vivo di Cristo per dare testimonianza. Esso, tuttavia, necessariamente svolge un lavoro concreto di progettazione e di coordinamento dei molteplici uffici e servizi, affinché insieme convergano in un’azione pastorale unitaria» (MR 20).
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diritto pontificio33, ricevono dallo Spirito Santo un carisma fondazionale che porta in sé l’apertura universale e una sintonia intima con la natura mondiale della Chiesa. Tale riconoscimento diventa un fatto giuridico quando il sommo pontefice concede l’esenzione34. Il decreto conciliare sull’ufficio pastorale dei vescovi, parlando dell’esenzione dei religiosi, precisava la fisionomia della vita religiosa che vive tra l’universalità carismatica e la particolarità dell’ambiente dove opera, e indicava i principi operativi cui si deve ispirare il rapporto con l’autorità diocesana: «L’esenzione, in virtù della quale i religiosi di pendono dal sommo pontefice o da altra autorità ecclesiastica e sono esenti dalla giurisdizione dei ve scovi, riguarda principalmente l’ordine interno degli istituti: il loro fine è che in essi tutte le cose siano tra loro unite e ordinate e concorrano all’incremento ed al perfezionamento della vita religiosa. La medesima esenzione consente al sommo pontefice di disporre dei religiosi, a bene della Chiesa universale e alle altre competenti autorità di servirsi della loro opera a vantaggio delle Chiese sottoposte alla loro giurisdizione. Ma tale esenzione non impedisce che i religiosi nelle singole diocesi siano soggetti alla giurisdizione dei vescovi, a norma del diritto, come richiedono sia il ministero pastorale dei vescovi, sia un’appropriata organizzazione del ministero delle anime» (CD 35).
D’altro canto i religiosi e le altre persone consacrate, anche se il loro istituto è di diritto pontificio, in quanto fedeli inseriti nella Chiesa diocesana, sono soggetti alla giurisdizione dei vescovi, a norma di diritto, come 33 L’istituto di vita consacrata di diritto diocesano, invece, dice riferimento al vescovo diocesano che lo ha eretto (CIC 589). 34 Riportiamo i canoni del Codice di diritto canonico che, nel trattare dell’esenzione, indicano i motivi che la giustificano: «can. 590 – § 1. Gli istituti di vita consacrata, in quanto dediti in modo speciale al servizio di Dio e di tutta la Chiesa, sono per un titolo peculiare soggetti alla suprema autorità della Chiesa stessa. § 2. I singoli membri sono tenuti ad obbedire al Sommo Pontefice, come loro supremo Superiore, anche a motivo del vincolo sacro di obbedienza. Can. 591 – Per meglio provvedere al bene degli istituti e alle necessità dell’apostolato il Sommo Pontefice, in ragione del suo primato sulla Chiesa universale, può esimere gli istituti di vita consacrata dal governo degli Ordinari del luogo e sottoporli soltanto alla propria autorità, o ad altra autorità ecclesiastica, in vista di un vantaggio comune».
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richiedono sia il ministero pastorale dei vescovi, sia un’appropriata cura delle anime (cfr CD 35). Tale rapporto di obbedienza pastorale viene così ulteriormente determinato: «Pertanto gl’istituti religiosi esenti, fedeli alla particolare loro fisionomia e alla propria loro funzione (PC 2b), devono innanzi tutto coltivare una speciale adesione al romano pontefice ai vescovi, rendendo effettivamente e con animo volenteroso, disponibile la propria libertà e alacrità apostolica in conformità dell’obbedienza religiosa; similmente con piena coscienza e zelo s’impegneranno a incarnare e manifestare nella famiglia diocesana anche la specifica testimonianza e la genuina missione del loro istituto; infine stimoleranno sempre quella sensibilità e intraprendenza di apostolato, che sono caratteristiche della loro consacrazione… Questa rinnovata coscienza dell’esenzione, se davvero è condivisa in accordo con i vari collaboratori dell’impegno pastorale, potrà non poco giovare all’incremento dell’inventiva apostolica e dello zelo missionario in ogni Chiesa particolare» (MR 22).
b. Norme pastorali e giuridiche sui rapporti tra i vescovi e gli istituti di vita consacrata Il codice di diritto canonico prevede, all’interno della trattazione sui membri che costituiscono la Chiesa come popolo di Dio, una normativa dettagliata sugli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica (can. 573-746). Il testo non si limita ad offrire fredde norme giuridiche, ma indica i principi teologico-carismatici e gli elementi che dovranno ispirare l’azione pastorale dei vescovi e le attività apostoliche delle persone consacrate. Il can. 576 elenca il ruolo molteplice del vescovo nei confronti delle persone consacrate mediante i consigli evangelici35: a) interpretare i consigli 35 Il documento MR approfondisce la fondazione ecclesiologica e le implicazioni operative dell’azione dei vescovi nei confronti della vita consacrata: «Un’attenta riflessione sulle funzioni e sui doveri del romano pontefice e dei vescovi circa la vita pratica dei religiosi conduce a scoprire con particolare concretezza e chiarezza la sua dimensione ecclesiale, cioè l’indubbio legame della vita religiosa con la vita e la santità della Chiesa (cfr LG 44)… Inoltre
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evangelici (attento al principio della incarnazione-inculturazione)36; b) regolare la prassi relativa ai consigli evangelici con opportune leggi; c) costituire forme stabili di vita consacrata mediante l’approvazione canonica; d) curare, nei limiti delle sue competenze, che gli istituti crescano e si sviluppino secondo lo spirito dei fondatori e le sane tradizioni. Il can. 578 specifica che la responsabilità sulla fedeltà al carisma dei singoli Istituti non è di spettanza esclusiva del vescovo, ma coinvolge l’intera comunità ecclesiale: innanzitutto le singole persone consacrate e i rispettivi organi di governo interno, ed inoltre, quanti nella Chiesa vengono a contatto con la ricchezza carismatica delle singole forme di consacrazione37. Nei rapporti quotidiani tra i vescovi e gli Istituti di vita consacrata emerge lo stile della impostazione pastorale dell’intera Chiesa locale. Senza escludere a priori che, quando occorra, il rapporto debba realizzarsi nelle modalità strettamente giuridiche, ordinariamente dovrebbe prevalere l’impostazione comunionale nella quale la carità pastorale, che mira al bene comune dell’intera ecclesìa, dovrebbe ispirare la prima a l’ultima parola. È questo l’insegnamento di MR:
i vescovi, come membri del collegio episcopale, in armonia con la volontà del sommo pontefice sono solidali in questo: cioè nel regolare sapientemente la pratica dei consigli evangelici (cfr LG 45); nell’approvare autenticamente le regole proposte (cfr LG 45), in modo che sia riconosciuta e conferita agli istituti una missione tipicamente propria, venga in loro promosso l’impegno per la fondazione di nuove chiese (AG 18,27) e siano loro affidati, secondo le circostanze, compiti e mandati specifici; nel garantire con la loro sollecitudine che gl’istituti “abbiano a crescere e fiorire secondo lo spirito dei fondatori, sostenuti dalla loro autorità vigile e protettrice” (LG 45); nel determinare l’esenzione di non pochi istituti “dalla giurisdizione degli ordinari del luogo, in vista della comune utilità” (LG 45) della Chiesa universale “e per meglio provvedere all’incremento e al perfezionamento della vita religiosa” (CD 35,3)» (MR 8). 36 Per il tema della inculturazione applicata alla vita consacrata, cfr M. MIDALI, Inculturare l’identità carismatica e spirituale di un istituto di vita consacrata, in Vita Consacrata 32 (1996) 1, 50-69; G. SCARVAGLIERI, Inculturazione e vita religiosa, in Laurentianum 38 (1997) 1-2, 73-155. 37 «Can. 578. L’intendimento e i progetti dei fondatori, sanciti dalla competente autorità della Chiesa, relativamente alla natura, al fine, allo spirito e all’indole dell’istituto, nonché le sue sane tradizioni, cose tutte che costituiscono il patrimonio dell’istituto, devono essere da tutti fedelmente custoditi».
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Raimondo Frattallone «I pastori tutti, non dimentichi del monito apostolico di non essere “come padroni tra i fedeli loro affidati, ma come divenuti sincero modello del gregge” (1Pt 5,3), saranno giustamente consapevoli del primato della vita nello Spirito, che esige che siano insieme guide e membri; veramente padri, ma anche fratelli; maestri della fede, ma principalmente condiscepoli davanti al Cristo; perfezionatori, sì, dei fratelli, ma anche veri testimoni della loro personale santificazione» (MR 9).
c. Aspetti giuridici della vita consacrata nella Chiesa Le persone di vita consacrata nella misura in cui scoprono di «essere chiesa nella Chiesa», oltre ad affinare la loro coscienza di essere membra vive nel Corpo Mistico di Cristo, e a partecipare alla pastorale organica con la ricchezza dei loro carismi istituzionali e personali, dovranno fare riferimento, anche per vivere il significato e i limiti dell’eventuale loro esenzione giuridica, ad un insieme di leggi relative alla loro consacrazione. In quanto essi scelgono una forma stabile di vita consacrata, riconosciuta dalla Chiesa, una retta impostazione giuridica della loro esistenza deve confrontarsi con il CIC e le altre norme, temporanee o definitive, emanate dagli organi ecclesiali a ciò deputati. È soprattutto nei Capitoli Generali e nel governo centrale che avviene il confronto tra l’identità dell’istituto e il complesso delle norme della Chiesa. In secondo luogo, e immediatamente per ogni persona consacrata, è la regola di vita che delinea l’identità carismatica dell’istituto e il cammino spirituale che i singoli membri devono percorrere per giungere alla perfezione della carità secondo il loro spirito e la loro specifica missione. Inoltre è nella Regola di vita che viene descritta l’identità specificamente ecclesiale dell’istituto a livello di principi teologico-carismatici e di generale missione pastorale. La concretizzazione dei grandi principi espressi nella regola di vita alle situazioni mutevoli (sia all’interno che all’esterno della vita dell’istituto) deve fare riferimento ad altre direttive (Regolamenti dell’istituto, disposizioni dei legittimi superiori, ecc.) che operano il raccordo immediato tra il carisma e la prassi quotidiana per/nella Chiesa locale. Collegando aspetti giuridici e aspetti di identità carismatica la
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presenza della vita consacrata porterà ricchezza nuova e genuina nel cuore della comunità ecclesiale: «In questi nostri tempi in modo particolare si esige dai religiosi quella stessa genuinità carismatica, vivace e ingegnosa nelle sue inventive, che spiccatamente eccelle nei fondatori, affinché meglio e con zelo s’impegnino nel lavoro apostolico della Chiesa tra coloro, che oggi costituiscono di fatto la maggioranza dell’umanità e sono i prediletti del Signore: i piccoli e i poveri (cfr Mt 18, 1-6; Lc 6,20)» (MR 23).
Vale in primo luogo per i presbiteri di vita consacrata quanto afferma con lungimiranza profetica il documento VC: «La vita consacrata fa continuamente emergere nella coscienza del Popolo di Dio l’esigenza di rispondere con la santità della vita all’amore di Dio riversato nei cuori dallo Spirito Santo (cfr Rm 5, 5), rispecchiando nella condotta la consacrazione sacramentale avvenuta per opera di Dio nel Battesimo, nella Cresima o nell’Ordine. Occorre infatti che dalla santità comunicata nei sacramenti si passi alla santità della vita quotidiana. La vita consacrata, con il suo stesso esistere nella Chiesa, si pone al servizio della consacrazione della vita di ogni fedele, laico e chierico. D’altra parte, non si deve dimenticare che i consacrati ricevono anch’essi dalla testimonianza propria delle altre vocazioni un aiuto a vivere integralmente l’adesione al mistero di Cristo e della Chiesa nelle sue molteplici dimensioni. In virtù di tale reciproco arricchimento, diventa più eloquente ed efficace la missione della vita consacrata: indicare come meta agli altri fratelli e sorelle, tenendo fisso lo sguardo sulla pace futura, la beatitudine definitiva che è presso Dio» (VC 33).
C. Problematiche e principi di soluzione Senza voler assolutizzare una visione problematica dell’esistenza, basta la constatazione quotidiana per confermare la verità del detto «dove c’è un uomo, c’è un problema!»38. Per dare una certa organizzazione ai 38 Gli interrogativi fondamentali dell’esistenza costituiscono la trasposizione in termini razionali della problematicità legata all’esistenza dell’uomo. Ma se, dal versante della
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problemi del presbiterato inteso come un dato ecclesiale, ed offrire alcuni principi di soluzione, ci porremo dall’angolo di vista proprio della vita consacrata e ci soffermeremo prima sui problemi che nascono alla vita consacrata per il fatto di inserirsi nella pastorale della Chiesa locale; passeremo in secondo tempo alle problematiche proprie delle comunità o dei singoli gruppi, ed infine accenneremo ai problemi delle singole persone.
1. Problemi della vita consacrata in quanto tale a. Il discernimento del carisma In senso largo il discernimento, secondo la Costituzione pastorale Gaudium et Spes, appartiene a tutto il popolo di Dio: «È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo» (GS 44).
Di fronte ad un nuovo istituto di vita consacrata il Vescovo (analogamente bisogna dire della Congregazione Romana a ciò deputata) svolge un ruolo di particolare importanza a riguardo del discernimento carismaticoecclesiale, soprattutto quando esso prevede la presenza di membri presbiteri o diaconi39.
quotidianità i problemi sono veri ed interpellano la mente umana per ricevere una qualche soluzione, d’altro canto l’individuo sarebbe condannato alla prigione dei suoi interrogativi se non esistesse un varco verso la luce, anche embrionale, della verità che indica il cammino dove c’è la risposta ad ogni interrogativo. 39 È questo il caso delle congregazioni clericali. Infatti, il CIC precisa: «can. 588 – § 1. Lo stato di vita consacrata, per natura sua, non è né clericale né laicale. § 2. Si dice istituto clericale quello che, secondo il fine o il progetto inteso dal fondatore, oppure in forza di una legittima tradizione, è governato da chierici, assume l’esercizio dell’ordine sacro e come tale viene riconosciuto dall’autorità della Chiesa. § 3. Si chiama istituto laicale quello che, riconosciuto come tale dalla Chiesa stessa, in forza della sua natura, dell’indole e del fine, ha un compito specifico, determinato dal fondatore o in base ad una legittima tradizione, che non comporta l’esercizio dell’ordine sacro».
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L’obbligo del discernimento deriva dal fatto che, essendo la vita consacrata un dono dello Spirito Santo per l’edificazione della Chiesa, il Pastore dovrà verificare se e in che modo il carisma effuso dall’Alto sia autentico: «Si nota in alcune regioni una certa alacrità d’iniziative per fondare nuovi istituti religiosi. Coloro che hanno la responsabilità di discernere l’autenticità di ciascuna fondazione, debbono ponderare, con umiltà, certo, ma anche obiettivamente e costantemente e cercando d’intuire a fondo le prospettive di futuro, ogni indizio relativo ad una credibile presenza dello Spirito santo sia “per accoglierne i carismi... con gratitudine e consolazione” (LG 12) sia anche per evitare “che incautamente sorgano istituti inutili o sprovvisti di sufficiente vigore” (PC 19). Quando, infatti, il giudizio sulla nascita di un istituto viene formulato solo in vista della sua utilità e convenienza operativa o semplicemente in base al modo di agire di qualche persona, che sperimenta fenomeni devozionali per se stessi ambigui, allora davvero si dimostra che viene in certo modo distorto il genuino concetto di vita religiosa nella Chiesa» (MR 51).
Un discernimento oculato, aperto alla creatività dello Spirito Santo e prudente faciliterà il riconoscimento dei veri fondatori dai falsi profeti e da quanti non sono mossi da motivazioni spurie o egoistiche40.
b. La formazione iniziale e permanente Un secondo obiettivo, che rientra nei compiti dei pastori verso la vita consacrata in genere, e specialmente per i membri presbiteri, è quello della formazione iniziale e permanente41. Certamente vanno distinti i contenuti, le forme e le strutture a seconda che si tratti della formazione generica delle persone consacrate o di quella specifica dei presbiteri che eserciteranno il 40 Per una visione d’insieme del concetto, cfr M. MARTINEZ FERNANDEZ, Discernimento, in Dizionario teologico della vita consacrata, Milano 1994, 615-638. 41 Il documento MR suggerisce anche principi e modalità concrete in merito alla collaborazione tra vescovi e religiosi per la promozione vocazionale e per seguire le vocazioni che sorgono all’interno della Chiesa locale (cfr MR 39).
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loro ministero fianco a fianco con i presbiteri diocesani e con gli altri religiosi42. Sarà compito dell’autorità ecclesiastica, tenuto conto dei bisogni della Chiesa locale e dei chierici impegnati nell’apostolato, porre in atto, in armonia con quanto i superiori degli istituti di vita consacrata prevedono per i loro membri, predisporre contenuti, tempi, strutture e personale formativo per la formazione iniziale e permanente di tutti i presbiteri43. L’obiettivo della formazione, secondo Giovanni Paolo II, deve essere ben enucleato anche in progetti dettagliati: «I padri sinodali hanno caldamente sollecitato tutti gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica ad elaborare quanto prima una ratio institutionis, cioè un progetto formativo ispirato al carisma istituzionale, nel quale sia presentato in forma chiara e dinamica il cammino da seguire per assimilare appieno la spiritualità del proprio istituto. La ratio risponde oggi a una vera urgenza: da un lato essa indica il modo di trasmettere lo spirito dell’istituto, perché sia vissuto nella sua genuinità dalle nuove generazioni, nella diversità delle culture e delle situazioni geografiche; dall’altro, illustra alle persone consacrate i mezzi per vivere il medesimo spirito nelle varie fasi dell’esistenza progredendo verso la piena maturità della fede in Cristo Gesù» (VC 68).
42 Il CIC precisa sia la formazione dei seminaristi (can. 232-258), sia quella dei diaconi permanenti (can 1032, § 3), sia dei presbiteri (can. 279, 555), sia dei novizi e dei religiosi professi (can. 652, 659-661). Cfr pure J. SARAIVA MARTINS, La formazione sacerdotale oggi nell’insegnamento di Giovanni Paolo II, Città Del Vaticano 1997; B. GOYA, Formazione integrale alla vita consacrata alla luce della esortazione post-sinodale, Dehoniane, Bologna 1997; G. FERRARI, Religiosi e formazione permanente. La crescita umana e spirituale nell’età adulta, Bologna 1997. 43 A riguardo degli organismi di coordinamento, così scrive Giovanni Paolo II: «Un notevole contributo alla comunione può essere dato dalle Conferenze dei Superiori e delle Superiore maggiori e dalle Conferenze degli Istituti secolari. Incoraggiati e regolamentati dal Concilio Vaticano II e da documenti successivi, questi organismi hanno per scopo principale la promozione della vita consacrata inserita nella compagine della missione ecclesiale. Per loro tramite, gli Istituti esprimono la comunione tra loro e cercano i mezzi per rafforzarla, nel rispetto e nella valorizzazione delle specificità dei vari carismi, nei quali si rispecchiano il mistero della Chiesa e la multiforme sapienza di Dio» (VC 53).
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c. La crisi numerica e qualitativa dei singoli Istituti La crisi che colpisce oggi parzialmente la vocazione al presbiterato diocesano, e molto più le diverse forme di vita consacrata44, deve essere considerata come un malessere di tutta la comunità ecclesiale. Nel clima di rinnovamento postconciliare non soltanto gli Istituti di vita consacrata a tutti i livelli (capitoli generali, consigli generali, strutture di governo e di partecipazione provinciali e locali), ma anche i pastori della Chiesa, hanno preso coscienza della gravità del fenomeno e aggiungono a momenti di seria riflessione scientifica, decisioni operative per arginare gli effetti deleteri di tale crisi e per porre in atto rimedi che dovrebbero dare i loro frutti positivi in un futuro prossimo. La diminuzione del numero dei sacerdoti religiosi, soprattutto se è unita all’invecchiamento delle persone consacrate, fa sentire pesantemente le sue conseguenze. I religiosi, che si ritirano dal lavoro parrocchiale o dalle cappellanie, non sempre possono essere sostituiti da altri. Costretti da questa congiuntura e impossibilitati a trovare una facile soluzione, apriamo il Vangelo e mettiamo in pratica il comando del Signore: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate, dunque, il Padrone della messe che mandi operai nella sua messe!» (Mt 9,37-38). La preghiera unita alla testimonianza, diventerà discernimento dei germi di vocazione che lo Spirito Santo continua a diffondere nel cuore dei giovani di oggi, e farà inventare strategie e strutture più consone alla sensibilità del nostro tempo. Una pastorale organica per le vocazioni sacerdotali e di vita consacrata, farà superare agevolmente la tentazione di fare pressioni sui giovani perché si avviino verso i seminari diocesani o verso i noviziati, senza un adeguato discernimento sulle loro disposizioni, attitudini e segni vocazionali; infatti, il rispetto del piano di Dio passa necessariamente attraverso il rispetto della libera scelta degli aspiranti al sacerdozio. L’incoraggiamento a seguire la chiamata del Signore non deve mai degradarsi come costrizione verso ciò che l’animatore vocazionale di turno sogna di realizzare per la sua istituzione. 44 Cfr l’allegato alla fine di questo intervento che confronta la crisi più negativa per gli istituti di vita consacrata.
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Giovanni Paolo II, citando san Bernardo, esorta a far prevalere il sentimento di comunione e di rispetto per i diversi doni con i quali Dio arricchisce la sua Chiesa: «Il fraterno rapporto spirituale e la mutua collaborazione fra i diversi Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica sono sostenuti e alimentati dal senso ecclesiale di comunione… Sono sempre attuali le parole di san Bernardo, a proposito dei diversi Ordini religiosi: “Io li ammiro tutti. Appartengo ad uno di essi con l’osservanza, ma a tutti nella carità. Abbiamo bisogno tutti gli uni degli altri: il bene spirituale che io non ho e non possiedo, lo ricevo dagli altri [...]. In questo esilio la Chiesa è ancora in cammino e, se posso dire così, plurale: è una pluralità unica e una unità plurale. E tutte le nostre diversità, che manifestano la ricchezza dei doni di Dio, sussisteranno nell’unica casa del Padre, che comporta tante dimore. Adesso c’è divisione di grazie: allora ci sarà distinzione di glorie. L’unità, sia qui che là, consiste in una medesima carità”» (VC 52).
2. Problemi dei gruppi o delle comunità di vita consacrata a. Sproporzione tra la comunità dei consacrati e le attività richieste Nell’attività pastorale dei presbiteri religiosi alcuni problemi sorgono dalla sproporzione esistente tra le energie della comunità dei consacrati e le attività richieste dalla comunità ecclesiale circostante. I bisogni del popolo di Dio spaziano dalle attività strettamente legate alla missione apostolica (predicazione, amministrazione dei sacramenti, animazione associativa, pietà popolare, cura degli ammalati, ecc.) e alle iniziative di promozione umana esigite dalle condizioni socio-economiche dell’ambiente. Tale sproporzione diventa occasione di scoraggiamento o di disimpegno quando essa è accresciuta dal fatto che i sacerdoti in cura d’anime sono pochi, avanzati negli anni e senza quel vigore giovanile necessario per affrontare le sfide della società odierna. La soluzione a simili problematiche non può consistere nello sforzo, sempre crescente di mantenere con le stesse persone l’identico fronte di
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lavoro apostolico, ma nel ripensare come ridimensionare la quantità delle attività, dando la giusta priorità a quelle essenziali. Il ridimensionare la responsabilità diretta della gestione potrà coincidere con l’impegno di condividere con i laici molti degli impegni che fino ad oggi sono stati gestiti direttamente dai presbiteri della comunità religiosa. L’impegno di preparare i laici a tale collaborazione coinciderà con la reale promozione del laicato, che potrà allora assumere nella comunità ecclesiale le responsabilità auspicate dal Vaticano II e dai documenti postconciliari45. Chiare e lungimiranti sono le indicazioni magisteriali per la vita di ogni presbitero: «Come Cristo, egli deve farsi a quasi sua trasparenza in mezzo al gregge che gli è affidato, ponendosi in relazione positiva e promovente con i fedeli laici. Riconoscendone la dignità di figli di Dio, ne promuove il ruolo proprio nella Chiesa, e al loro servizio mette tutto il suo ministero sacerdotale e la sua carità pastorale (PO 9). Nella consapevolezza della profonda comunione che lo lega ai fedeli laici e ai religiosi, il sacerdote compirà ogni sforzo per «suscitare e sviluppare la corresponsabilità nella comune e unica missione di salvezza, con la pronta e cordiale valorizzazione di tutti i carismi e i compiti che lo Spirito offre ai credenti per l’edificazione della Chiesa» (PDV 74)»46.
b. Disgregazione della comunione intra-comunitaria Quando i presbiteri religiosi inseriti nella pastorale diocesana appartengono ad una comunità religiosa che, per diversi motivi, è disgregata interiormente e, di conseguenza, non da buona testimonianza ai fedeli (situazione questa che, prima o poi, si rifletterà negativamente anche sul
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Cfr AA 5-22; GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica postsinodale Christifideles laici (30 dicembre 1988), EV 1, 1606-1900; CIC, can. 208-231; cfr pure B. FORTE, I laici nella Chiesa e nella società civile. Comunione, carismi e ministeri, Casale Monferrato 2000; Laici nella ministerialità della Chiesa, Milano, 2000. 46 CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri (31 gennaio 1994), Città del Vaticano 1994, 29.
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servizio pastorale), l’intervento per tentare una soluzione positiva vedrà impegnati non soltanto i Superiori religiosi preoccupati della fedeltà carismatica di comunione dei membri della comunità47, ma anche l’autorità ecclesiastica preoccupata di garantire e di promuovere l’inserimento costruttivo di ogni forma di vita consacrata (e a maggior ragione, di una comunità alla quale sia affidata la cura d’anime di una porzione della diocesi). Nei casi estremi, dove per motivi seri il significato della presenza di una comunità di presbiteri appartenenti alla vita consacrata si sia vanificato48, l’eventuale chiusura dell’opera dovrebbe essere la conclusione di un dialogo sincero, e ispirato a carità pastorale, tra il vescovo e i competenti Superiori di vita consacrata: «I vescovi e i loro immediati collaboratori procurino non solo di avere una conoscenza esatta circa l’indole propria dei singoli istituti, ma d’informarsi anche sul loro stato attuale e sui loro criteri di rinnovamento. A loro volta i superiori religiosi, oltre una più aggiornata visione dottrinale della Chiesa particolare, cerchino anche di tenersi pur essi concretamente informati sullo stato attuale dell’azione pastorale e sul programma apostolico stabilito dalla diocesi, nella quale debbano prestare l’opera loro. Nel caso in cui un istituto venga a trovarsi nella situazione di non poter più sostenere la gestione di un’opera, i superiori di esso manifestino tempestivamente e con fiducia gl’impedimenti a proseguire l’opera stessa, almeno nella forma attuale, soprattutto se ciò fosse per insufficienza di personale; l’ordinario del luogo, da parte sua, consideri benignamente la richiesta di sopprimere tale opera (cfr ES I, 34,3) e di comune accordo con i superiori cerchi la soluzione conveniente» (MR 47). 47 Per un approccio sul piano spirituale e psicologico del tema della comunità, cfr A. CENCINI, «Com’è bello stare insieme». La vita fraterna nella stagione della nuova evangelizzazione, Cinisello Balsamo 1996; L. GUCCINI – G. PECORARO (a cura di), Una comunità per domani, Bologna 2000. 48 Ciò può accadere, per esempio, quando i progetti e le attività dei singoli presbiteri religiosi (oppure le attività pastorali richieste dalla Chiesa locale) non corrispondano alla natura, allo spirito o alle finalità specifiche del carisma proprio di quell’istituto di vita consacrata. L’opera di supplenza che un singolo presbitero religioso (o una comunità) può svolgere temporaneamente a bene della Chiesa locale non può prolungarsi fino a svisare la natura specifica dell’istituto. Infatti, eccezionalmente e solo per un tempo ben determinato si potrebbe affidare una parrocchia ad una comunità di religiosi di vita contemplativa.
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c. Distacco dalla pastorale d’insieme Altri seri problemi pastorali possono nascere quando la comunità dei presbiteri religiosi in cura d’anime ignora, misconosce o esplicitamente non si cura degli orientamenti della pastorale d’insieme della Chiesa locale. La situazione diventa ancora più grave quando il parroco religioso (o l’intera comunità cui egli appartiene) elabora e attua piani pastorali paralleli, e talvolta molto distanti o in disaccordo, con quelli delle altre comunità diocesane. Non basta rifugiarsi nel principio «ma tanto si fa del bene!», perché il minimo di bene che deve realizzare un comunità ecclesiale, che non voglia incamminarsi per la strada della ghettizzazione, è l’assunzione, come punto costante di riferimento, dei principi elaborati dalla pastorale organica diocesana. Le specificazioni e le aggiunte ulteriori, consone al carisma dell’istituto di vita consacrata, non dovranno soppiantare gli elementi portanti della pastorale diocesana. Anche in queste situazioni problematiche l’intervento armonico dell’autorità ecclesiastica e di quella dei superiori di vita consacrata stabilirà le decisioni più opportune del caso. La soluzione migliore sarà sempre quella che, oltre e prima ancora che rifarsi al CIC, metterà a fuoco e armonizzerà sia i principi di una aperta visione pastorale d’insieme, sia le istanze insopprimibili del carisma proprio di quell’istituto di vita consacrata49. 49
Il documento MR dava ottimi suggerimenti, integrati in seguito nel nuovo CIC, per il coordinamento e per l’organizzazione dei rapporti tra autorità ecclesiastiche a tutti i livelli (diocesano, nazionale, universale) e superiori religiosi. Il principio di questo fecondo dialogo intra-ecclesiale è così descritto: «In ogni diocesi il vescovo cerchi di intendere ciò che lo Spirito, anche attraverso il suo gregge e in modo particolare attraverso le persone e le famiglie religiose presenti nella diocesi, vuol manifestare. Perciò è necessario chi egli coltivi rapporti sinceri e familiari con i superiori e le superiore, per compiere meglio il suo ministero di pastore verso i religiosi e le religiose (cfr CD 15,16). E’ infatti suo specifico ufficio difendere la vita consacrata, promuovere e animare la fedeltà e l’autenticità dei religiosi e aiutarli ad inserirsi, secondo la loro propria indole, nella comunione e nell’azione evangelizzatrice della sua Chiesa. Tutto ciò naturalmente il vescovo dovrà compiere in solidale collaborazione con la conferenza episcopale e in sintonia con la voce del capo del collegio apostolico. A loro volta i religiosi considerino il vescovo non solo come pastore di tutta la comunità diocesana, ma anche come garante della loro fedeltà alla propria vocazione nell’a-
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d. Misconoscimento dell’identità carismatica Il sinodo sulla vita consacrata, mettendo in risalto la dimensione ecclesiale dei vari carismi connessi con le diverse forme di consacrazione, ha ribadito la necessità che queste, proprio perché rientrano nel patrimonio spirituale e apostolico della Chiesa, entrino a far parte delle preoccupazioni primarie dei vescovi e di quanti vivono un rapporto filiale con la Chiesa, Madre di Cristo e Madre nostra50. Infatti, sia la nascita di nuove Congregazioni religiose e di Società di vita comune, sia l’espandersi degli Istituti Secolari e di altre forme di vita consacrata, sono un segno evidente della vitalità della comunità ecclesiale a tutti i livelli. L’unità del presbiterio della diocesi, composto di diocesani e di religiosi, obiettivo primario per l’attuazione dei piani pastorali diocesani, ha nel vescovo il suo centro propulsore e come fondamento il riconoscimento dei carismi che le persone consacrate pongono a servizio della comunità: «Nell’intento di ottenere che il presbiterio della diocesi possa esprimere la debita unità e siano meglio promossi i diversi ministeri, il vescovo con ogni sollecitudine esorterà i presbiteri diocesani a voler riconoscere con animo grato l’apporto fruttuoso dei religiosi e delle religiose alla loro Chiesa e ad approvare di buon grado la designazione di essi a svolgere compiti di più ampio responsabilità, che siano in consonanza con la loro vocazione e competenza» (MR 55).
È da bandire ogni atteggiamento che, soprattutto nell’ambito della diocesi o della parrocchia (e ciò vale innanzitutto per i religiosi e gli altri gruppi di diritto diocesano), sappia di assoggettamento della comunità dei consacrati, da parte dell’autorità locale ecclesiastica, a finalità operative distanti o contrarie al carisma e allo spirito dell’istituto. Non va confuso il
dempimento del loro servizio a vantaggio della Chiesa locale. Essi invero “assecondino prontamente e fedelmente le richieste e i desideri del vescovo, perché assumano più ampi incarichi nel ministero dell’umana salvezza, salva l’indole dell’istituto e secondo le costituzioni” (CD 35, 1)» (MR 52). 50 Tra gli orientamenti del documento MR, una delle indicazioni più importanti è quella della nomina del Vicario Episcopale per i Religiosi e le Religiose (cfr MR 54).
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servizio che essi devono prestare alla Chiesa, in funzione del loro essere cristiani arricchiti con i doni spirituali della loro consacrazione, con pretese di servizio o di sudditanza, estranee alla loro identità cristiana e di consacrati, da parte di coloro che esercitano un’autorità ecclesiastica. Il dialogo tra il vescovo, che come paterfamilias mira all’armonia della comunità diocesana, e i superiori garanti del carisma dei rispettivi Istituti e del buon andamento della comunità, troveranno le modalità efficaci perché il rispetto delle persone e dei ruoli si canalizzi verso le forme più fruttuose di condivisione e di collaborazione pastorale51.
3. Problemi delle singole persone consacrate Pur sapendo che i problemi sulla vita consacrata in quanto tale e quelli che coinvolgono una comunità hanno la loro ultima radice nelle singole persone, tuttavia esistono problematiche che sono totalmente legate ai singoli individui e, quindi, richiedono interventi differenti rispetti a quelli già affrontati. È evidente che anche i problemi dei singoli sacerdoti di vita consacrata, prima o poi, si rifletteranno sulla loro comunità di appartenenza e sulla ecclesìa circostante.
a. Crisi vocazionale Le mutue relazioni tra vescovi e Istituti di vita consacrata possono riguardare situazioni di singoli sacerdoti che attraversano una grave crisi di identità vocazionale (sacerdotale e di speciale consacrazione). La crisi può colpire un settore fondamentale o periferico della propria vocazione. La crisi più grave è quella che colpisce i cardini della 51 Preziose le indicazioni di MR a riguardo dell’armonia tra le attività legate ai programmi pastorali e quelle proprie della spiritualità degli Istituti di vita consacrata: «Per favorire una certa stabilità della cooperazione pastorale, si tenga presente la differenza, che intercorre tra opere proprie di un istituto e opere affidate ad un istituto dall’ordinario del luogo. Le prime, infatti, dipendono dai superiori religiosi a norma delle loro costituzioni, anche se sono soggette in fatto di pastorale alla giurisdizione dell’Ordinario del luogo a norma del diritto (cfr Ecclesiae sanctae, I, 29)» (MR 57).
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fede cristiana; essa, che inizia con la freddezza e l’aridità nella vita spirituale, può trascinare fino all’abbandono di ogni forma di rapporto con Dio e all’ateismo pratico. Talvolta la crisi è connessa con la sfera affettiva del sacerdote, che, soffrendo in maniera insopportabile e parossistica la propria solitudine, ricerca forme di compensazione affettiva che lo allontanano sempre più dagli impegni della sua vocazione. Si abbandona il ministero presbiterale e si tenta di ricostruire (con o senza le necessarie dispense canoniche) una vita matrimoniale e familiare che colmi il vuoto dell’animo. Altri presbiteri, pur rimanendo fedeli agli impegni del loro ministero, possono essere colpiti da una crisi che interessa la loro specifica consacrazione (la perdita del significato esistenziale del carisma dell’istituto, uno smarrimento più o meno momentaneo del proprio stato di vita a motivo di una obbedienza gravosa e ritenuta insopportabile, la scoperta della totale inettitudine del proprio temperamento al genere di vita richiesto dalla Regola di vita, ecc.). Ogni crisi troverà la giusta soluzione a due condizioni: 1) che la persona interessata viva la sua prova rimanendo profondamente sincera (con se stessa, con il confessore, con il direttore spirituale e con i superiori religiosi e/o ecclesiastici); 2) che la causa che ha originato il trauma venga analizzata, oltre che dalla persona interessata e dai superiori, anche dagli specialisti di settore (che di volta in volta potrà essere ora un medico, ora uno psicoterapeuta, ora un giurista, ora uno studioso di vita spirituale, ecc.). Dalla convergenza della sincerità della persona con la luce della scienza, si potrà prospettare alla persona in crisi la soluzione più valida (o per lo meno la meno dannosa) per il suo futuro52.
52 Le norme della Chiesa, e quelle interne dell’istituto di vita consacrata, indicano se e come procedere per risolvere la crisi dei presbiteri (cambio di residenza, lungo periodo di riflessione, esclaustrazione, uscita dall’istituto e inserimento in qualche diocesi, riduzione allo stato laicale, ecc.).
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b. Impreparazione o poca attitudine L’impreparazione o la poca attitudine del presbitero religioso al ministero pastorale richiesto dai piani della diocesi, può causare tensioni e problemi che non si risolveranno automaticamente sperando nella buona volontà dei singoli. Ancora una volta, partendo dalla identificazione del problema, il dialogo tra il vescovo e i superiori religiosi indicherà le modalità dell’aggiornamento e della riqualificazione pastorale della persona chiamata dall’obbedienza a svolgere un ruolo superiore alla sua preparazione e/o alle sue attitudini. L’ideale sarà quello di armonizzare la riflessione teorica all’esperienza pastorale incarnata nell’ambiente. Perciò, le strutture e i piani di formazione permanente dei ministri dell’altare, soprattutto se integrati da una profonda comunione e una reale solidarietà tra tutti i presbiteri della diocesi, colmeranno le lacune delle persone impreparate o con poche doti pastorali. A nessuno sfugge l’incidenza e l’efficacia dei centri di studio che promuovano tale qualificazione e riqualificazione dei presbiteri: «Un adeguato rinnovamento della prassi pastorale nelle diocesi richiede una conoscenza più approfondita di tutte quelle realtà, che riguardano in concreto la vita umana e religiosa locale, in modo che da tale base possa scaturire una riflessione teologica oggettiva e appropriata, si possano stabilire delle priorità operative, elaborare un piano d’azione pastorale, esaminare, infine, periodicamente quanto sia stato realizzato. Questo lavoro può richiedere da parte dei vescovi, con la collaborazione di persone competenti, scelte anche tra i religiosi, di costituire e sostenere delle commissioni di studio e dei centri di ricerca. Invero tali iniziative appaiono sempre più necessarie non solo per conseguire una formazione più aggiornata delle persone, ma anche per dare una struttura razionale alla prassi pastorale» (MR 32).
c. Doti straordinarie In una comunità ecclesiale continuamente arricchita di doni dello Spirito Santo può diventare un problema che crea tensioni, polarizzazioni
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o fratture, la presenza di un presbitero convinto in coscienza di aver ricevuto un dono particolare destinato ad incrementare la vita della Chiesa. Il problema richiede una soluzione tanto più urgente, quanto più l’impegno di sviluppare il dono straordinario non si armonizza con gli altri impegni previsti dal servizio pastorale. Potrebbe essere questo il caso di un presbitero religioso, nominato parroco, che si sente chiamato ad impegnarsi nella fondazione di movimenti connessi con la sua famiglia religiosa e che lo impegnano fino a trascurare i servizi del suo ministero parrocchiale. Ipotizziamo un’altra situazione: quella di un parroco che, convinto che deve assumersi responsabilità direttive in un grande movimento di spiritualità che lo impegnano fuori dell’ambito parrocchiale, trascura gli impegni prioritari della catechesi o dell’assistenza agli ammalati della sua parrocchia. Non sempre il dono ricevuto dal singolo parroco può comunicarsi a tutti i membri della comunità parrocchiale, senza creare tensione tra il carisma, aperto oltre l’ambito della parrocchia, e il servizio immediato da prestare all’interno di essa. Nel caso di una tensione, che può rivelarsi come crisi di identità ministeriale nel presbitero, l’intervento coordinato del vescovo e dei Superiori religiosi si concretizzerà in un oculato discernimento che verifichi se si tratta di autentici doni dello Spirito Santo e non di semplici illusioni o manie di grandezza prive di consistenza. Se nel presbitero si riscontrano serenità del cuore, disponibilità al dialogo con i superiori, ricerca mai conclusa della volontà di Dio, superamento di ogni tentazione di appiattimento o di scoraggiamento, ci si trova di fronte a segni che sollecitano una particolare attenzione da parte dei superiori. Il discernimento, che a seconda delle situazioni, dovrà coinvolgere sia il vescovo che i superiori del presbitero, inizia con la constatazione dei fatti e prosegue con l’analisi del fenomeno (confermata, ove occorra, dagli specialisti di settore). Il coinvolgimento dell’autorità, in un clima di dialogo sincero e aperto con l’interessato, si concretizzerà in un primo tempo nella condivisione del progetto carismatico-pastorale come sperimentazione e autenticazione del dono dello Spirito. In seguito, dopo una seria verifica, si potrà giungere al “riconoscimento ufficiale” da parte dei superiori ecclesiastici e religiosi (semplicemente a voce, oppure nelle modalità e nei gradi previsti dalla normativa ecclesiastica).
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d. Obbedienza straordinaria La crisi del presbitero appartenente ad un istituto di vita consacrata può essere causata da un incarico straordinario connesso con gli obblighi, morali e giuridici, del voto di obbedienza. Il presbitero viene a trovarsi in un servizio alla Chiesa locale, pur previsto da accordi intervenuti tra l’ordinario del luogo e il superiore religioso, che per lui è causa di enormi difficoltà che vengono viste come attentati alla propria identità carismatica e ministeriale. A seconda della natura delle difficoltà causate da tale obbedienza straordinaria, la soluzione potrà essere diversa. Se il presbitero ha raggiunto un alto livello di maturazione spirituale, e il mandato ricevuto non contrasta con gli elementi essenziali del carisma di appartenenza, una strada feconda per la persona e per l’intera comunità potrà essere la via della croce. Infatti, l’obbedienza professata mediante il voto mira a introdurre la persona nel mistero della volontà di Dio, mistero che culmina, dietro i passi di Cristo, nella fecondità del mistero pasquale. È questo, un cammino ascetico che libera la persona da ogni forma di egoismo e riconosce che il Signore, presente con la sua forza di risurrezione, prolunga l’espansione della sua salvezza per i fratelli. In altre situazioni occorrerà percorrere la strada del dialogo fraterno pluridirezionale (presbitero, superiore, vescovo) prima di giungere alla soluzione che, pur mantenendo la straordinarietà del mandato ricevuto, garantisca al presbitero la sua duplice identità di persona consacrata e di ministro ordinato per la Chiesa locale. Quando l’obbedienza straordinaria toccasse valori intangibili o dell’identità della consacrazione, oppure del ministero pastorale, si ricorrerà alla via del confronto giuridico; dopo un dialogo chiarificatore tra il Superiore e il presbitero, si stabilirà se e come le mansioni previste dal comando del Superiore potranno essere svolte serenamente, oppure si dovrà modificare il comando dato53. 53 Talvolta la straordinarietà delle mansioni ricevute dal singolo presbitero coinvolge anche i piani pastorali della diocesi; in questo caso ordinariamente si richiederà anche un confronto con il vescovo, prima di giungere a decisioni che, oltre che il singolo presbitero consacrato, possono interessare la stessa permanenza dell’istituto in quella Chiesa locale.
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Conclusione Non può esistere la collaborazione senza una previa mutua conoscenza. E quanto più la collaborazione implica la condivisione profonda del disegno salvifico di Dio, tanto più esige che le persone vivano in profonda comunione di ideali e di progetti. Per tutte le forme di vita consacrata, ma soprattutto per gli Istituti di spiritualità apostolica vale quanto indica l’esortazione apostolica post-sinodale sulla vita consacrata: «Tutto dev’esser fatto in comunione e in dialogo con le altre componenti ecclesiali. Le sfide della missione sono tali da non poter essere efficacemente affrontate senza la collaborazione, sia nel discernimento che nell’azione, di tutti i membri della Chiesa. Difficilmente i singoli posseggono la risposta risolutiva: questa può invece scaturire dal confronto e dal dialogo. In particolare, la comunione operativa tra i vari carismi non mancherà di assicurare, oltre che un arricchimento reciproco, una più incisiva efficacia nella missione. L’esperienza di questi anni conferma ampiamente che «il dialogo è il nuovo nome della carità», specie di quella ecclesiale; esso aiuta a vedere i problemi nelle loro reali dimensioni e consente di affrontarli con migliori speranze di successo. La vita consacrata, per il fatto stesso di coltivare il valore della vita fraterna, si propone come esperienza privilegiata di dialogo. Essa pertanto può contribuire a creare un clima di accettazione reciproca, nel quale i vari soggetti ecclesiali, sentendosi valorizzati per quello che sono, convergono in modo più convinto nella comunione ecclesiale, tesa alla grande missione universale» (VC 74).
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Appendice
Grafico sul numero dei presbiteri dal 1968 al 1997.
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Synaxis XX/2 (2002) 311-323
IL CARISMA DEGLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E DELLE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA NELLA CHIESA LOCALE
ALBERTO NEGLIA O. CARM.*
Premesse Non nascondo che avverto una certa difficoltà ad affrontare l’argomento, per varie ragioni che elenco di seguito: a. Per l’abbondanza delle forme storiche di vita consacrata, suscitate dallo Spirito e tutt’ora presenti nel tessuto ecclesiale. Esse si presentano come una pianta dai molti rami1. Proprio per questo è difficile proporre indicazioni concrete per i singoli rami, e quindi darò indicazioni in ordine all’intera pianta. b. La vita religiosa in Italia sta attraversando una grave crisi, dovuta ai rapidi cambiamenti della società, alla mancanza di vocazioni, all’invecchiamento dei religiosi e al peso delle strutture. Si sta vivendo una sorta di notte oscura. Questa crisi umanamente potrebbe limitare l’aspetto propositivo per non frustrare chi con fatica e con una certa fedeltà gestisce il presente. La vita religiosa, però, ha sempre espresso il meglio di se stessa, e proprio in ragione della sua natura profetica e carismatica, nei periodi di grande crisi e più profonde trasformazioni, nei quali sono necessari appunto nuovi modelli di vita e di comportamento in risposta alle mutate condizioni dei tempi. Perché non potrebbe, e non dovrebbe, essere così anche oggi? Il racconto biblico, ci ricorda che il figlio della promessa arriva
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Docente incaricato di Teologia spirituale nello Studio Teologico S. Paolo di
Catania. 1
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quando impariamo a sorridere con Dio anche sui nostri problemi e sulle nostre paure (Gen 21,6). c. Nell’affrontare l’argomento non possiamo avere come orizzonte l’armonia e i buoni rapporti tra i religiosi e il vescovo e i preti diocesani. Non si tratta di proporre una forma di irenismo che consenta di gestire il presente, ma si tratta di prendere coscienza che siamo tutti chiesa, con carismi e ministeri diversi; ma anche di prendere coscienza che la chiesa non è un assoluto, ma è sacramento per il mondo, perché in esso lieviti il regno. Allora bisogna ripensare i rapporti all’interno della chiesa in vista di questo orizzonte: come, in modo complementare, reciprocamente provocarci, sostenerci perché la chiesa rimanga fedele alla sua vocazione e sia lievito perché fermenti il regno.
1. «Una funzione di raccoglimento» A volte, noi religiosi diamo l’impressione di aver perso il significato della nostra presenza e del nostro ruolo in una chiesa che sembra divenuta più clericale e in una società nella quale i laici fanno ora tante cose che prima erano assicurate per la maggior parte dai religiosi. Con la cresciuta consapevolezza, poi, che la santità non è dono a un gruppo ristretto di privilegiati, ma vocazione di tutti i credenti e che la vocazione al matrimonio, ha pari dignità di quella religiosa, sembra che numerosi religiosi si domandino quale senso abbia oggi la loro vita. Penso che getti luce su queste perplessità, e aiuti a riscoprire il significato della vita religiosa nella chiesa e nel mondo una pagina del Diario di fratel Christophe monaco di Tibhirine assassinato il 21 maggio 1996 assieme ad altri suoi sei fratelli dai guerriglieri del GIA. Egli cosi scrive: «All’omelia ho capito: «La funzione del religiosi nella Chiesa è una funzione di raccoglimento”. Raccogliere tutto ciò che si vive, si prega e passa qui: domanda una interiorità sveglia — quella dell’amico, amico dello Sposo2 — e poi un’apertura senza cedimenti, senza
2 Per capire chi è l’amico dello Sposo e qual è il suo ruolo bisogna tener presente le parole del Battista: «Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo che è presente
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paura né ripiegamenti selettivi. La croce è messa là dove Dio e l’uomo si raccolgono»3. In una società che non trova il tempo per fermarsi e che sembra in fuga, in una chiesa che spesso si perde dietro organigrammi e gestione del sacro; la vita religiosa non è esente da questi influssi e vive anch’essa un momento di profonda crisi, di un “rinnovamento incompiuto” e di grande povertà. In questi decenni del dopo Concilio si è elaborata una buona teologia sulla vita religiosa, ma non si è assimilata, per cui, spesso, a livello comunitario si registra un grande scollamento tra teoria e prassi. In questo contesto, è quanto mai apprezzabile l’intuizione di fratel Christophe: I religiosi sono chiamati a “raccogliere” (a fare in modo, cioè, che la sposa sia posseduta dallo Sposo, accolga il suo abbraccio e il suo respiro che le consenta di vivere), a unificare, per questo i religiosi sono dono alla chiesa e al mondo. In precedenza, sapientemente era stato scritto: Ogni istituto religioso è «dono suscitato dallo Spirito, mediante l’opera di uomini e donne insigni»4, per riportare, in un particolare contesto storico ed ecclesiale, in risposta ad attese particolari inascoltate, il popolo di Dio, gerarchia e fedeli, a una coscienza più chiara di particolari esigenze evangeliche. Se, come religiosi, vogliamo, allora, ritrovare il nostro ruolo nella chiesa, la prima cosa da fare è di ritornare a riascoltare, come comunità, lo Spirito. Siamo sollecitati a ritornare alla fonte, per essere ancora nella chiesa e nel mondo respiro fresco del Padre e del Figlio. È così che possiamo ritrovare la nostra identità carismatica. Il ritorno al carisma è un tuffo nelle fonti per dissetarci, è un ritrovare la freschezza delle origini. Non per fare archeologia, ma per guardare al futuro con radici profonde, con rinnovato slancio e con spirito profetico. La memoria di un respiro, di un dono, se compresa e accolta, è sovversiva, apre l’esistenza alla iniziativa dello Spirito Santo e alla profezia. Questo mi sembra il primo e fondamentale servizio dei religiosi alla e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,29-30), ed anche il salmo 45. 3 Il soffio del dono. Diario di fratel Christophe monaco di Tibhirine, Padova 2001, 28. 4 Mutuae relationes, 11
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chiesa particolare, «spazio storico, nel quale una vocazione si esprime nella realtà ed effettua il suo impegno apostolico»5. Come assolvere a questo compito?
2. «Raccogliere… domanda una interiorità sveglia» Fratel Christophe ricorda che il «raccogliere… domanda una interiorità sveglia». Purtroppo, come annota L. Manicardi, «negli ultimi anni la Chiesa si è venuta nutrendo sempre più di parole politiche, sociali, morali, economiche e ha sempre più posto in secondo piano il suo messaggio spirituale. La pastorale ha fatto sua l’idea che l’esperienza religiosa corrisponde a un impegno nel mondo piuttosto che all’accesso a una relazione personale con Dio innestata su una profonda vita interiore. Il fatto spirituale è stato minimizzato e trasformato in morale sociale. Il cristianesimo si confonde cosi con una qualsiasi pratica a servizio della società; l’importante, si pensa, è amare gli altri, fare dei servizi, essere tolleranti, ma tutto questo rischia, scisso da una vita interiore, di ridursi a prestazione»6 È bene ricordarlo, è l’interiorità sveglia che fa del nostro corpo il tempio dello Spirito (1Cor 6,19). Qui vediamo e gustiamo quanto è buono il Signore (Sal 34,9) e riceviamo il nostro essere noi stessi, da lui, che è in noi più intimo di quanto lo siamo noi. È l’interiorità che ci apre la porta all’essenziale: al mistero di Dio che ci strappa alla nostra superficialità e ci conduce a quel luogo interiore, silenzioso in cui l’informazione fatta di parole è sostituita dall’esperienza di stare davanti al volto di Dio: l’amico dello Sposo è presente e l’ascolta, ci ricorda il Battista (Gv 3,29). Questo rapporto, che ha i connotati dell’innamoramento, ci salva dalla follia e dalle nostre follie. E ci coinvolge in una sapienza che è pazzia e stoltezza per il mondo. Si tratta di incontrare Gesù, ma, finché non giungiamo a innamorarci di Lui, non possiamo dire di averlo incontrato. Forse incontriamo il suo 5 6
Ibid., 23d. L. MANICARDI, La vita interiore oggi, Magnano (Bi) 1999, 10.
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messaggio, la sua dottrina, la sua liturgia, cammini utilissimi, ma non lui. In merito, scriveva con perspicacia C. G. Jung: «Può ben capitare che un cristiano che crea tutte le figure sacre rimanga sottosviluppato e immutato nell’intimo della sua anima, perché tiene del tutto fuori Dio e non lo incontra nella sua anima». E sottolineava ancora: «Effettivamente, dal punto di vista esterno, tutto è lì presente, in immagini e parabole, nella chiesa e nella Bibbia. Ma tutto rimane assente nell’intimo [...] Gli uomini nella loro maggioranza non hanno incontrato Cristo se non esteriormente, e mai nell’intimo dell’anima»7. Ovviamente, l’interiorità non ha nulla a che vedere con l’intimismo, anzi dalla densità di questa vita interiore dipende la qualità della vita personale, delle relazioni affettive e di amicizia, dell’impegno sociale e politico in questo nostro mondo. Questo cammino che porta ad «essere rafforzati dallo Spirito nell’uomo interiore» (Ef 3,16), è più faticoso dell’attraversamento degli oceani, e coinvolge l’uomo in tutte le manifestazioni del suo vissuto e dura tutta la vita. Al punto in cui siamo, allora, il primo problema che si pone oggi per la vita religiosa è quello di una vera e propria riqualificazione spirituale degli istituti. La vita religiosa non può sussistere senza un vigore spirituale, che la porti a prendere il Vangelo come un assoluto in tutta la sua radicalità8 e le faccia prendere sul serio i voti, il combattimento spirituale, la santità. «La vita religiosa di oggi, come scriveva qualche anno fa L. Guccini, ha bisogno di maestri spirituali di “mistagoghi” che la sappiano condurre ai più alti gradi della perfezione evangelica. […] È su questo punto della sua rinascita spirituale che si gioca il futuro della vita religiosa. La sua forza è il radicalismo evangelico, la sua debolezza è la mancanza di profezia, quello 7 C. G. JUNG, Psycologie et alchimie, Paris 1970, citato in REDAZIONE (a cura di), Un rischio oggi frequente. Ci manca la vita interiore, in Testimoni 16 (2001) 25. 8 In questo senso rimane sempre propositiva la testimonianza di Francesco d’Assisi, così come ci è arrivata nel suo testamento: «Poi il Signore mi dette e mi dà tanta fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a causa del loro ordine, che se mi dovessero perseguitare voglio ricorrere ad essi. […]. E dopo che il Signore mi donò dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io con poche parole e semplicemente lo feci scrivere e il signor papa me lo confermò». Testamento, in Fonti Francescane, Padova 1980, 112 e 116.
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che una volta veniva chiamato imborghesimento. […] Viene il sospetto che la crisi che stiamo attraversando sia soprattutto una crisi spirituale, nel senso che il crollo di tante sicurezze esterne ha messo in evidenza un vuoto che c’era dentro. [...] Per questo il primo problema oggi è quello della riqualificazione spirituale delle nostre comunità»9. Come dar vita a questa riqualificazione spirituale? L’icona dell’amico dello sposo ci viene incontro: egli «è presente e ascolta» fino a diventare eco, risonanza di una parola fedele e trasparenza di una presenza. Come lui, allora, bisogna imparare a fare silenzio, ritornare, come comunità, a radicarci nella Parola, costruirci attorno alla Parola, a perdere tempo attorno alla Parola, a pregare la Parola e forse ci capiterà di innamorarci di nuovo, di perdere la testa di nuovo per un volto. Attorno ai pozzi i patriarchi si sono innamorati, ma i pozzi sono il simbolo della parola, se frequenteremo la parola, con lo studio e con una seria lectio divina, capiterà anche a noi di innamoraci di nuovo. Una comunità che si innamora del volto evangelizza, crea negli altri la nostalgia di Dio e poi diventa spazio educativo che introduce altri davanti al volto di Dio. È drammatico che oggi chi chiede di essere aiutato a inoltrarsi nel mistero di Dio, difficilmente trovi spazio nelle nostre comunità. Questo è il lavoro più faticoso, questo è il primo servizio da offrire alla chiesa locale, a prescindere dalle diaconie specifiche. Mi sembra, sottolineava, qualche anno fa, il p. Schaluck, ex superiore generale dei Frati Minori, che non ci sia niente tanto importante quanto l’opzione per il Dio vivo. Il compito principale degli Ordini alle soglie del nuovo millennio non consiste in un’altra cosa che nel creare ambienti e luoghi di esperienza di Dio, di incontro, di qualità di vita, di decisioni assunte alla luce dello Spirito (discernimento). Ma temo che spesse volte ci siamo lasciati portare da opzioni periferiche. Se si vuole che le nostre opzioni abbiano consistenza e producano frutto è necessario che facciamo previa memoria e prendiamo coscienza del fondamento della nostra
9 L. GUCCINI, Problemi di vita religiosa. Un futuro da costruire, in Testimoni 15 (1998) 21-22.
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esistenza. Allora nasceranno opzioni coraggiose, consistenti e durature nell’evangelizzazione delle culture e nella diaconia sociale10.
3. «Un’apertura senza cedimenti, senza paura, né ripiegamenti selettivi» «In questi nostri tempi, è detto nel documento Mutuae relationes, in modo particolare si esige dai religiosi quella stessa genuinità carismatica, vivace e ingegnosa nelle sue inventive, che spiccatamente eccelle nei Fondatori, affinché meglio e con zelo si impegnino nel lavoro apostolico della chiesa tra coloro, che oggi costituiscono di fatto la maggioranza dell’umanità e sono i prediletti del Signore: i piccoli e i poveri»11. Il Dio che incontriamo, nell’ascolto della parola e nelle vicende della vita, è quello che la rivelazione narra per bocca dei giusti, della creazione e del popolo, è un Dio “nudo”, Crocifisso Risorto, più nudo di tutti i defraudati della nostra storia, e non nasconde questa nudità d’amore. Egli nella sua nudità sposa l’umanità nuda. Se vogliamo restare fedeli a questo Dio, che accoglie e condivide, che è paziente, che vive la paradossale solitudine della croce, dobbiamo, assieme a Lui, restare fedeli alla terra, ad un popolo che Lui ama e dobbiamo restarci nella solitudine e nel silenzio. La vita religiose è fedeltà a queste nozze di Dio con l’umanità, e cresce nell’inquieta pace di chi lascia che la sua fede si incarni, che il Verbo si riveli carne della sua carne e sangue del suo sangue e di quello di tutti coloro che camminano in questa terra. «La vita religiosa, come si esprime A. Potente, è oggi la consapevolezza viva di donne e uomini che si sentono chiamati a condividere questa passione d’amore che Dio ha per l’umanità e la creazione. E questa passione comporta la discesa tra il popolo, cosi come è stato per lui»12. In quest’ottica, il regno di Dio non tiene i religiosi lontano dalla realtà 10 Cfr A. D. (a cura di), Vita consacrata e cambio epocale. Creatori non ripetitori, in Testimoni 12 (1998) 25. 11 Mutuae relationes, 23f. 12 A. POTENTE, La spiritualità dell’inserimento, Fuscaldo (Cs) 1992, 12.
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storica e dalla terra che li accoglie e li ospita. La logica del regno non consente, quindi, di coltivare stili di vita separati, anzi attiva nostalgia profonda di recuperare la storia e battezzarsi in essa. Il regno è invito ad entrare dentro a questa realtà assecondandone l’opera dello Spirito in una creazione che geme e soffre (Rm 8,19ss). La vita religiosa è profetica nella misura in cui nella sua carne si lascia profondamente segnare dal mistero di Dio e dalla vita del popolo. La profezia è osare questa unità, osare di diventare una cosa sola; osare riconciliazione.
3.1. Abitare nei Sud del mondo L’amico dello sposo sta e ascolta. Sta davanti a Dio ne conosce il volto e lo ascolta fino a diventarne epifania, eco, risonanza, in modo da creare negli altri la nostalgia di Dio. Ma l’amico dello sposo, fa parte della sposa, è sposa e quindi sta in mezzo alla sposa, senza cedimenti selettivi, certo, ma con la consapevolezza che lo Sposo, nudo, sfigurato, abbraccia la sposa nuda, sfigurata; con la consapevolezza che lo sposo trova finalmente riposo nella casa del “piccolo”, del fallito (Lc 19,1-10). Dove stare, allora, da religiosi? Principalmente dove è presente un’umanità sfigurata, che ha nomi e lineamenti ben precisi. Oggi, questa umanità sfigurata, con una parola la potremmo chiamare Sud, se per i Sud del mondo non indichiamo solamente una posizione geografica, quanto piuttosto una logica, una coordinata storica, è il basso, la profondità, contrariamente a quello che noi reputiamo più importante: l’alto. Il Sud oggi è un battesimo che dobbiamo compiere, perché è grazie alla profondità che qualcosa nasce, non si pianta niente dalla parte più alta, ma dalle radici, è la parte bassa della pianta che alimenta la vita e più questa parte è immersa nel profondo, più la fecondità è vitale13. Questa opzione comporta che i religiosi si educhino alla lettura della realtà e al discernimento, per capire chi è il “basso” oggi. 13
Cfr ibid., 25-26.
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Chi è presente e ascolta Dio, ma anche il territorio, chi non si chiude in un codice di separatezza, ma apre gli occhi sulle sacche di miseria, di emarginazione, di violenza, di povertà, sui sud presenti nella chiesa locale, avverte che c’è un Volto sfigurato che coinvolge a stare con i volti sfigurati, che ripeto, hanno nomi ben precisi. Le congregazioni che scelgono i Sud devono sapere che “perderanno” delle persone, impegnandole in questa fedeltà meno efficientista e più povera; ma il perdere la propria vita di cui parla Gesù non riguarda solo le singole persone, ma anche le istituzioni. Se queste vogliono salvare la vita devono “perdere” delle persone; devono capire che non possono tenere le intelligenze, tutti i carismi e le capacità, raggruppati in un unico luogo, magari nel Nord del mondo, che sembrano garantire una maggior riuscita. Devono lasciare che la vita si consacri in una terra forse meno attraente, ma più assetata e piena di desiderio, dove anche la nostalgia di Dio si è posata. Scegliere secondo questa logica evangelica implica la necessità di mettere in questione le opere e le strutture che a volte soffocano la nostra presenza in un territorio, e questo va fatto senza rimpianti, nella consapevolezza che le strutture, essenziali, semplici, devono essere realtà che esprimono la passione per Dio e per i fratelli. Se diventano rovina estetica o qualcosa che si esibisce come un frammento del passato dell’Istituto, allora esse perdono la trasparenza e si traducono in una forma di narcisismo e di autoesaltazione collettiva. In tal caso, anziché essere un ambito attraverso cui Dio passa e si manifesta, diventa una barriera che nasconde la sua presenza, deforma lo sguardo che cessa di essere contemplativo. L’icona evangelica di Marta che si sovrappone al volto di Gesù, rischiando di fare solo rumore e di soffocare e che viene con pazienza richiamata da lui alla diaconia necessaria dell’ascolto (Lc 10,38-42), dovrebbe sempre illuminare il discernimento sulle opere e sulle strutture.
3.2. Con il Sud di Dio Come abitare nei Sud del mondo? Con il sud di Dio. Esiste, infatti un altro Sud che è quello di Dio. Questo Sud nella Bibbia si chiama misericordia, compassione. Nel lessico ebraico e greco, la misericordia /
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compassione ha a che fare con le viscere che fremono di fronte al dramma dell’umanità, con l’utero materno che si allarga per consentire al figlio che si porta nel grembo di crescere. I religiosi sono coinvolti ad essere in un territorio epifania del sud, della misericordia / compassione di Dio, e di pensare, di pregare, di agire a partire da questo coinvolgimento reale. Dio stesso nella dinamica dell’incarnazione ci svela il modo delicato di stare nella storia con il suo stile. Dio, infatti, per come lo descrive la rivelazione, è il Dio che assomiglia al seminatore, ma anche al seme e alla terra. Ebbene, il seme e la terra si scambiano la vita: non solo il seme dona la sua, ma anche la terra che lo nutre si consuma per realizzarsi nella vita del seme. Questa logica insegna anche a noi a restare umilmente in una reciprocità di vita tra la gente, che non solo ci accoglie, ma ci nutre e condivide la vita. Non esiste più il noi e il loro, ma esiste questo lento crescere insieme, cosi come è lenta la crescita del seme e la fecondità della terra. In essa il seme ci muore dentro per ricevere la vita; l’osmosi è lunga e difficile, l’armonizzarsi del respiro e dei gesti segue ritmi molto lenti. A volte si sentirà tutta l’estraneità della terra: fredda, umida, cosi come la terra soffrirà questo essere abitata con violenza, la presenza di un seme che prima non cera14. Nell’ottica del seme bisogna allora accettare di sentirsi stranieri, anche dopo lunghi anni di vita trascorsi in un luogo, con un popolo; accettarlo senza pretendere di essere riconosciuti come dei loro. L’incarnazione è il delicato rispetto senza pretese: questo confondersi nella compagnia dell’amore, senza molte volte essere riconosciuti. L’incarnazione accetta anche questa vita condivisa nel silenzio e nell’inesprimibile gemito dell’umanità e della creazione, senza vittimismo né eroismo. Se stiamo e ascoltiamo i Sud, allora, impareremo a parlare dal basso, con la logica di chi conosce bene questa dimensione. Accettare di pensare a partire da questi sotterranei dell’umanità dove si nascondono delle cose preziose, dove radici pieni di vita sono state coperte per molto tempo, dove
14
Cfr ibid., 14.
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si sente vibrare la carne per la lunga passione tradita e lasciata in solitudine, significa denunciare e annunciare, che il futuro della storia, come ogni figlio, nasce dal basso, dalle viscere e non dalla testa. Solo se il Sud diventa stile che educa e ritma la vita di chi viene accolto diventa fecondo e portatore di futuro, altrimenti diventa luogo dell’elemosina fatta dall’alto ed è privo di significato. Da questo luogo ermeneutico, carne storica del crocifisso, è possibile smascherare gli idoli, in particolare “il dio mercato” e le sue leggi perverse che innervano la società, costruendo strutture sociali che generano sacche di miseria, di emarginazione, di criminalità organizzata, di morte come sottoprodotto dell’opulenza di pochi. Da questo luogo ermeneutico, le comunità religiose, abbandonando una falsa neutralità o apoliticità, sono chiamate a farsi critiche e non ingenue, attente alle manipolazioni che le classi privilegiate sono sempre pronte ad operare per strumentalizzare le comunità cristiane attivando un assistenzialismo che addormenta le coscienze e crea l’illusione di servire i volti sfigurati. Chi sta, assieme ai piccoli impara a leggere il territorio e le leggi e le logiche con cui è gestito un territorio. Chi in modo concreto sceglie di vivere una condizione storica di nonavere, di non-possedere, di non-potere, chi, cioè, scende nel sotto-mondo, creato dal “mondo”, comprende quanto sia antievangelica la nostra società e come sia del tutto contraddittorio che i credenti vengano ingenuamente, o per interesse, a patti con essa. La comunità religiosa che sta e condivide l’esistenza alienata delle sacche emarginate, ne esce evangelizzata e profeticamente provoca la chiesa di quel territorio, la comunità tutta a liberarsi da relazioni privilegiate e di favore con i poteri locali.
4. «La croce è messa là dove Dio e l’uomo si raccolgono» «Il giusto rapporto fra carisma genuino, prospettiva di novità e sofferenza interiore comporta una costante storica di connessione tra carisma e croce, la quale, al di sopra di ogni motivo giustificante le incom-
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prensioni, è sommamente utile a far discernere l’autenticità di una vocazione»15. La connessione tra carisma e croce prima di evidenziarla, nel suo Diario fratel Cristophe, la sottoponeva alla nostra attenzione e meditazione un documento ufficiale della chiesa, troppo presto, a mio avviso, dimenticato. Certo, ci saremmo aspettato altro come verifica di una vocazione autentica: consenso del vescovo, consenso del popolo, vocazioni, e, invece la croce, come segno di una passione grande, come quella dell’Amato che sta nella storia gratuitamente. La fedeltà alla vocazione spesso introduce nella notte, nel buio, si fa croce. E la cosa strana è che la croce spesso viene provocata non dai lontani, né dai nemici della chiesa, ma da quelli che dovrebbero condividere la tua stessa fede e la tua stessa passione per il vangelo. Questo avviene perché il carismatico vive sempre in tensione coll’istituzione gerarchica, ne sta al margine, è creativo... Se la vita religiosa lascia che la sua mentalità sia assorbita dall’istituzione gerarchica, sarà solo capace di addottrinare e allargare il sistema; se invece si mantiene nella sua identità specifica di mentalità carismatica, cercherà cammini nuovi per il Vangelo, sarà presente là dove non arrivano gli organi ufficiali. Per la sua dimensione carismatica, quindi, la vita religiosa non può essere esattamente inquadrata nelle strutture troppo istituzionali. L’istituzione si regola su una logica diversa da quella del carisma. Il carisma vive di verità, si arrischia in cammini nuovi e l’unico suo potere è la sua testimonianza coraggiosa. Per questo la vita religiosa non è chiamata a collaborare in qualunque modo alla pastorale organizzata e ufficiale. Ci vive dentro, ma allo stesso tempo ne è libera... È chiamata a rendere presente la fede là dove, di solito, la pastorale organizzata non arriva. «Per questa carica di genuina novità … e di particolare operosa intraprendenza..., ci ricorda sempre il documento Mutuae relationes, essa nell’ambiente può apparire incomoda e può anche sollevare delle difficoltà, poiché non sempre e subito è facile riconoscere la provenienza dallo Spirito»16. 15 16
Mutuae relationes, 12. Ibid., 12.
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A conferma di questa connessione tra carisma e croce, vorrei chiudere queste note riportando l’esperienza di p.s. Magdaleine che ispirandosi a C. de Foucauld, nella prima metà del ’900 è certamente innovativa nelle sue intuizioni e nello stile di vita che propone alle Piccole Sorelle. Ebbene, quando nel 1948 ha chiesto alla congregazione di Propaganda Fide l’approvazione delle costituzioni, invece di vederle approvate riceve l’ordine di riscriverle, cambiandole in tre punti ritenuti da lei essenziali. In quell’occasione, il 10 luglio 1948, lei scrivendo a mons. Montini così si esprime: «Rifare le costituzioni mi importerebbe poco, se non si trattasse dell’essenza stessa della nostra vocazione, perché so che i tre punti che non accettano i consultori della congregazione sono: la povertà dell’istituto, senza capitali, né doti né rendite, la vita mescolata e la vita operaia. Se questi tre punti ci vengono rifiutati, la nostra congregazione non ha più ragion d’essere e alle nostre sessanta piccole sorelle non resta che disperdersi. Le scrivo molto semplicemente, come una piccola sorella che non conosce niente delle esigenze del protocollo… Ma le scrivo tutta la mia pena perché credo fermamente che quest’opera è il Signore che me l’ha affidata. Le ho dato tutta la mia vita e tutte le mie forze e credo che sia mio dovere difenderla»17. E, amareggiata per queste incomprensioni con le istituzioni, qualche mese più tardi, confida a P. Voillaume: «Padre, creda che ho sofferto quanto le fondatrici più perseguitate... Prove simili o demoliscono, o temprano alla lotta. E, cosi stanca come sono, mi sento ancora una forza immensa per difendere l’idea che il Signore mi ha affidato»18 .
17 PICCOLA SORELLA MAGDALEINE, Il padrone dell’impossibile, Casale Monferrato (Al) 1994, 175. 18 Ibid., 184.
Synaxis XX/2 (2002) 325-340
PARTECIPAZIONE DEI MEMBRI DEGLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E DELLE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA AL PROGETTO PASTORALE DIOCESANO
CARMELO TORCIVIA*
Premessa La partecipazione dei membri degli istituti di vita consacrata (IVC) e delle società di vita apostolica (SVA) alla vita della diocesi non è mai stato un fatto scontato. A tutt’oggi, infatti, capita di osservare, dopo tutta una serie di documenti ecclesiali inerenti al problemi, quasi una sorta di ping-pong, fatto di richieste e di risposte, di ascolto e d’incomprensioni o reciproche accuse, tra la “diocesi”, termine sintetico che pongo tra virgolette perché usato nel suo senso gergale di insieme di strutture e persone che rappresentano l’istituzione, e i membri degli IVC e delle SVA. Un testo molto significativo sulla vita consacrata1 registra questa situazione. Sono parole scritte nel 1994, eppure conservano ancora una loro validità, le riconosciamo drammaticamente attuali.
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Docente incaricato di Teologia pastorale fondamentale nella Facoltà Teologica di
Palermo. 1 D’ora innanzi useremo il termine “vita consacrata” come termine onnicomprensivo per intendere i religiosi, le società di vita apostolica e gli istituti secolari. Siamo perfettamente avvertiti del dibattito sull’opportunità o meno, da un punto di vista teologico, di utilizzare questo termine e siamo tra quelli che non condividono l’uso del termine, perché ambiguo in riferimento all’unica consacrazione battesimale. Sarebbe, a nostro avviso, più corretto chiamarli con il nome di “celibi” o “nubili” in reciprocità con coloro che sono “sposati”, trovando, poi, ulteriori specificazioni terminologiche sulla base delle già esistenti distinzioni. Crediamo, infatti, ed in questo siamo coscienti di operare una scelta di campo, che sia il
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Carmelo Torcivia «Le difficoltà crescenti della missione e della scarsità di personale, possono tentare d’isolamento sia la comunità religiosa che la Chiesa particolare: il che non favorisce certamente né la comprensione né la collaborazione reciproca. Così da una parte la comunità religiosa rischia di essere presente nella Chiesa particolare senza un legame organico con la sua vita e la sua pastorale, dall’altra si tende a ridurla ai soli compiti pastorali. Ancora: se la vita religiosa tende a sottolineare con forza crescente la propria identità carismatica, la Chiesa particolare avanza spesso richieste pressanti e insistenti di energie, da inserire nella pastorale diocesana o parrocchiale. Il Mutuae relationes è lontano sia dall’isolamento e dall’indipendenza della comunità religiosa nei confronti della Chiesa particolare, sia dal suo pratico assorbimento nell’ambito della Chiesa particolare. Come la comunità religiosa non può agire indipendentemente o in alternativa o meno ancora contro le direttive e la pastorale della Chiesa particolare, così la Chiesa particolare non può disporre a suo piacimento, secondo le sue necessità, della comunità religiosa o di alcuni suoi membri»2.
In questo contesto affrontare questo tema potrebbe, per un verso, sembrare così scontato ed ovvio da risultare banale, se inteso come una semplice ricognizione di quanto detto sul dovere della partecipazione oppure, per altro verso, potrebbe essere inteso come mero oggetto di esortazioni personali e pastorali. Se ben guardiamo, invece, alla realtà ecclesiale, ci accorgiamo che il problema assume connotati così ampi e generali da non potere essere risolto soltanto attraverso una prospettiva meramente ricognitiva e parenetica, ma abbisogna di una seria chiarificazione teorica, che trovi la radice dei nodi pratici ad un livello di enucleazione delle mentalità di fondo. Il percorso che ora compiremo tenterà di tracciare alcuni punti che, si spera, possano essere utili alla comprensione teorica e teologico-pratica di questo nodo. La lettura attenta di alcuni brani tratti da documenti ecclesiali, prodotti nel passato, ci aiuterà per un proficuo ascolto della carisma del celibato il tratto distintivo comune a tutti coloro che scelgono questa vita nella Chiesa e che questo carisma debba essere accompagnato, pur nella doverosa differenza di modi, dal contesto comunitario-fraterno. Malgrado ciò e a malincuore, per attenzione all’uso ecclesiale ufficiale e per l’obiettivo ristretto del presente studio, operiamo questa scelta. 2 CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA, La vita fraterna in comunità, 60 in EV 14, 496-497.
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peculiarità della vita consacrata dentro la più ampia compagine della Chiesa particolare.
1. Quale appartenenza per una corretta partecipazione I motivi, teologici e sociologici, di “un’armoniosa collaborazione pastorale” vengono già ben individuati in una nota del consiglio di presidenza della CEI del 20/01/1970. In essa si sostiene che questi motivi siano: — «la comune finalità della vocazione sacerdotale e religiosa, in quanto servizio alla Chiesa per la salvezza di tutti gli uomini; — l’unità del sacerdozio cattolico; — la natura stessa della “famiglia della diocesi”, che comprende anche i religiosi e le religiose; — la testimonianza dell’unità nella carità cristiana; — la scarsità del clero; — le aumentate necessità apostoliche»3. Si deve notare che la collaborazione pastorale non viene fondata solo 3 CONSIGLIO DI PRESIDENZA DELLA CEI, Collaborazione tra clero diocesano e religiosi, 1 in ECEI 1, 2289. Per quanto riguarda il primo motivo può essere interessante, anche se non totalmente condivisibile J. ESQUERDA BIFET, La “vita consacrata” in relazione con la “vita apostolica” dei presbiteri, in Vita consacrata 30 (1994) 6, 728-733, in cui vi è una rivisitazione del rapporto stretto tra vita consacrata e presbiterio diocesano sulla base di una comune fondazione legata al motivo della “vita apostolica”. La vita consacrata e il presbiterio diocesano sarebbero diverse modalità attuative o “forme” diverse, “religiosa” o “incardinata”, della stessa “vita apostolica” dei Dodici, intesa come “una sequela in fraternità per la missione” (729). Si tratta di una visione forse un po’ troppo organicistica dove le differenze sono molto sfumate a favore di una sostanziale identità. Il problema, che si sta sfiorando e che, in ogni caso, non è qui possibile affrontare compiutamente, è quello della fondazione teologica della vita consacrata in rapporto alla Chiesa e alla consacrazione battesimale. Non c’è, a questo proposito, un’unità di visione. Da parte di molti si denuncia questo disagio, dovuto alla frammentarietà, spesse volte discordante, di una visione teologica. Alcuni, infatti, la considerano come uno dei tre “ordini” costitutivi — assieme al ministero ordinato ed ai laici — della Chiesa comunione; altri, invece, come un’espressione speciale di essere Chiesa, la cui struttura gerarchica resta sempre articolata nelle sole componenti del ministero ordinato e del laicato, che nasce come risposta carismatica ai nuovi bisogni, sociali ed ecclesiali, emergenti; altri ancora come attivazione del polo trascendente
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su motivi sociologici, di opportunità pratica (sono solo gli ultimi due), ma su motivi teologici, che in quanto tali sussisterebbero anche nel caso della scomparsa dei motivi sociologico-pratici. Ci basta affermare questo, anche se meriterebbe uno sviluppo più ampio e particolareggiato, per ricordare la centralità delle istanze teologiche della comunione ecclesiale come punto di partenza di ogni discorso pastorale e teologico-pastorale e per evitare la pericolosa deriva, a tutt’oggi molto presente, di assolutizzare gli ultimi due motivi per giustificare ogni richiesta di collaborazione.
2. Progetto pastorale diocesano e religiosi Se intendiamo il progetto pastorale diocesano (PPD) non come un’esperienza meramente organizzativa, di coordinamento e di strutturazione organica della diocesi4, né, peggio ancora, come un fatto cartaceo o da dischetto da computer, dobbiamo, allora, pensare che si ha il PPD quando della grazia battesimale; ulteriori autori la vedono legata, dentro un radicalismo proprio di tutta la Chiesa, al carisma celibatario da viversi all’interno di un cammino comunitario, etc. Si rinvia, per un primo ragguaglio su questa tematica, a GIOVANNI PAOLO II, Vita consacrata, 29-34 in EV 15, 523-542; A. BANDERA, Da Lumen gentium a Presbiterorum ordinis. Comunione ecclesiale, in Vita consacrata 32 (1996) 1, 70-90; ID., L’identità ecclesiale della vita religiosa, in Vita consacrata 33 (1997) 4, 372-389; E. BIANCHI, Non siamo migliori, in Testimoni 17 (1994) 18, 22-29; L. A. GALLO, Le «ecclesiologie» di riferimento per la vita consacrata, in Vita consacrata 30 (1994) 4, 561-574; C. LAUDAZI, Dalla teologia alla spiritualità. La vita consacrata nella dimensione “ecclesiale”, in Vita consacrata 31 (1995) 4, 430-449; G. POLI, La Chiesa locale luogo «sorgivo» ed «espressivo» della vita religiosa, in Claretianum 30 (1990) 77-114; M. MIDALI, Attuali correnti teologiche, in ID., Il carisma della vita religiosa dono dello Spirito alla Chiesa per il mondo, Milano 1981; TH. MATURA, Il radicalismo evangelico e la vita religiosa, in ID., Il radicalismo evangelico. Alle origini della vita cristiana, Roma 1981, 238-253; B. SECONDIN, Comunità religiosa e comunione ecclesiale, in Vita comunitaria, Milano 1979, 45-80; ID., Vita religiosa. 2. Prospettive attuali della vita religiosa, in A. APARACIO RODRÍGUEZ – J.M. CANALS CASAS (diretto da), Dizionario teologico della vita consacrata, Milano 1994, 1826-1836; ID., La Théologie de la vie consacrée. État présent et perspectives, in Vie Consacrée 66 (1994) 225-270; J.M.R. TILLARD, Davanti a Dio e per il mondo. Il progetto dei religiosi, Alba 1975 ; ID., La vita religiosa nella Chiesa, in Claretianum 26 (1986) 71-95. 4 Se, infatti, il coordinamento e la strutturazione organica possono anche essere un progetto che la diocesi si dà, perché assenti nella propria concreta compagine, tuttavia il fine del progetto non è il coordinamento, che rimane sempre nell’ordine dei mezzi, ma piuttosto
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1) c’è la coscienza e la scelta positiva di appartenere alla Chiesa particolare (atteggiamento interiore fondato su motivazioni teologiche, che rende capaci di scommettersi in forma radicale dentro e favore della propria Chiesa); 2) non ci s’intende adagiare o rassegnare sull’attuale status quo, ma si dirige la propria riflessione ed azione verso una dinamica di cambiamento5. Se gli IVC e le SVA si riconoscono dentro queste due caratteristiche, allora il solo fatto di esistere e, aggiungiamo significativamente, di esistere nella tensione spirituale di un’autenticità di vita religiosa implica la partecipazione al PPD. Un brano del documento La vita fraterna in comunità ci sembra estremamente significativo. «Nella sua presenza missionaria la comunità religiosa si pone in una determinata Chiesa particolare alla quale porta la ricchezza della sua consa-
l’incarnazione viva del messaggio e della vita cristiana nell’hic et nunc della situazione storica. L’eventuale coincidenza, allora, di PPD e piano pastorale diocesano o coordinamento o partecipazione agli organismi diocesani mostra un volto di Chiesa burocratico. Ci sembra utile citare un brano tratto dal documento Mutuae relationes, dove appare con forza la distinzione tra Chiesa ed organizzazione e, nello stesso tempo la necessità di quest’ultima in vista di uno sforzo d’inculturazione della “missione evangelizzatrice” della stessa Chiesa. «La Chiesa non è stata istituita al fine di essere una “organizzazione di attività”, ma piuttosto “quale corpo vivo di Cristo per dar testimonianza”. Essa, tuttavia, necessariamente svolge un lavoro concreto di progettazione e di coordinamento dei molteplici uffici e servizi, affinché insieme convergano in un’azione pastorale unitaria, nella quale si stabiliscono quali siano le scelte da seguire e quali gli impegni apostolici da preporre agli altri (cfr CD 11, 30, 35, 5; AC 22, 29). Oggi infatti bisogna con insistenza provvedere ad avviare, ai vari livelli della vita ecclesiale, un conveniente sistema di ricerca e di realizzazione, affinché si possa esplicare la missione evangelizzatrice nel modo più consentaneo alle diverse situazioni» (CONGREGAZIONE PER I VESCOVI e CONGREGAZIONE PER I RELIGIOSI E GLI ISTITUTI SECOLARI, Mutuae relationes, 20 in EV 6, 632). 5 Ciò assume oggi ancora più importanza del passato perché sembra che il cambiamento non sia più in vista di una futura e — secondo alcuni — auspicabile stabilità, ma piuttosto sia esso stesso permanente, tant’è che si parla di cultura del cambiamento. In questo senso non dirigersi verso queste dinamiche di cambiamento comporterebbe un tagliarsi fuori dall’attuale cultura e negare, così, ogni dinamica d’incarnazione/inculturazione.
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Carmelo Torcivia crazione, della sua vita fraterna e del suo carisma. Con la sua semplice presenza, non solo porta in sé la ricchezza della vita cristiana, ma insieme costituisce un annuncio particolarmente efficace del messaggio cristiano. È, si può dire, una predicazione vivente e continua. Questa condizione obiettiva, che evidentemente responsabilizza i religiosi, impegnandoli ad essere fedeli a questa loro prima missione, correggendo ed eliminando tutto ciò che può attenuare o affievolire l’effetto attraente di questa loro immagine, rende oltre modo ambita e preziosa la loro presenza nella Chiesa particolare, antecedentemente a ogni ulteriore considerazione»6.
Ci troviamo all’interno di una logica di tipo iconica. La vita consacrata è icone di un certo modo di vivere7 l’assolutezza dell’amore di Dio e per Dio, in questo consiste il carisma del celibato o del nubilato, e della gioia che i fratelli e le sorelle stiano insieme, qui vi è la comunità fraterna. Così la vita consacrata diventa, secondo il suo modo proprio8, profezia escatologica. Il servizio, infatti, che essa rende è profondamente ancorato a questa sua natura9 e tutte le opere che pone in essere sono il frutto
6
La vita fraterna in comunità, 60 in EV 14, 494. Tutte le altre vocazioni nella Chiesa hanno il dovere di vivere il radicalismo cristiano. Non esistono vie privilegiate o più perfette. Cfr TH. MATURA, Il radicalismo evangelico. Alle origini della vita cristiana, cit.; E. BIANCHI, Il radicalismo cristiano. Seguire Gesù il Signore, Torino 19895. 8 In questi tempi in cui sembra, a parere di molti, che si sia tornati indietro in diversi ambiti, ecclesiali e teologici, rispetto alle prospettive tracciate dal Vaticano II, giova ulteriormente ricordare questo “secondo il suo modo proprio”, perché ogni vocazione cristiana è profezia escatologica. 9 Alla luce del “modo proprio” possiamo benissimo accettare e valorizzare l’immediatamente seguente riflessione. «La vita religiosa in quanto tale è un sacrum ministerium. Indipendentemente dalle forme adottate, la vita religiosa è un carisma che esercita all’interno della Chiesa una funzione simbolica e rappresentativa estremamente importante. Proprio della vita religiosa è esercitare nella Chiesa un ministerium repraesentationis o ministerium signi escatologici. Questo è il ministero fondamentale dei religiosi: il ministero a partire dal quale acquistano senso e ragione di essere tutti gli altri ministeri, che le diverse forme di vita religiosa realizzano. La stessa Chiesa ha bisogno di questo ministero di significazione, per poter apparire davanti al mondo come portatrice dell’utopia del regno di Dio, come messaggera dell’escatologia» (J.C.R. GARCÍA PAREDES, Ministero. 1. Teologia del ministero, in Dizionario teologico della vita consacrata, cit., 978). 7
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fecondo dell’incontro tra il carisma, di cui il singolo istituto è portatore, e il rapporto concreto con il territorio. Non si tratta, ovviamente, di opporre l’essere al fare, ma di considerare la particolare natura di questo fare, che, in ogni caso, ha sempre una valenza iconica e mai semplicemente incarnazionistica-funzionale. Questo vale, soprattutto, per gli istituti apostolici e diaconici, che, proprio perché considerano l’operare come intrinseco e nativo della loro natura, devono, pertanto, rendere ragione della natura iconica del loro servizio. «I consacrati non sono nella Chiesa locale per esercitare un servizio in più, ma per rendere presente uno specifico dono dello Spirito […]. Le religiose e i religiosi sono nella Chiesa locale, in parrocchia primariamente, non perché sono utili, perché svolgono un servizio caritativo, catechistico, educativo, ma per mostrare un aspetto di quello che la Chiesa deve essere. Non sono in una parrocchia, in una diocesi, in supplenza o in alternativa al clero o ai laici, ma “insieme” nella complementarietà dei carismi e dei ministeri per l’avvento del regno di Dio»10.
Il problema che intendiamo porre è che per percepire il significato della vita consacrata e il suo corretto inserimento nella vita della Chiesa dobbiamo entrare in una logica iconica più che meramente funzionale. Qui, a mio modesto avviso, più che il rapporto dialettico tra carisma ed istituzione (poiché anche la vita consacrata è, a suo modo, istituzione), è il nodo delle incomprensioni tra dicoesi e vita consacrata che interessa. La diocesi, infatti, percepisce la bontà del suo servizio a partire dalle risposte, evangeliche ed ecclesiali, che riesce a dare ai bisogni e alle attese del proprio territorio. La logica che esprime è funzionale, anche se va doverosamente riletta alla luce della categoria teologica dell’incarnazione. La vita consacrata è, invece, un carisma testimoniato, che può o non può incrociare totalmente il tessuto pastorale di una Chiesa particolare, ma che in ogni caso la rinvia ad un certo modo di vivere la sorgente della sua santità. Un testo magisteriale esprime molto bene questa convinzione.
10
6, 66, 55.
G.F. POLI, Dimensione ecclesiale della vita consacrata, in Credere oggi 11 (1991)
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Carmelo Torcivia «Con la stessa intima natura del loro essere si collocano nel dinamismo della Chiesa, assetata dell’Assoluto, che è Dio, chiamata alla santità. Di questa santità essi sono testimoni. Incarnano la Chiesa in quanto desiderosa di abbandonarsi al radicalismo delle beatitudini. Con la loro vita sono il segno della totale disponibilità verso Dio, verso la Chiesa, verso i fratelli. In questo essi rivestono un’importanza speciale nel contesto di una testimonianza che, come abbiamo affermato, è primordiale nell’evangelizzazione. Questa silenziosa testimonianza di povertà e di distacco, di purezza e di trasparenza, di abbandono nell’ubbidienza, può diventare, oltre che una provocazione al mondo e alla Chiesa stessa, anche una predicazione eloquente, capace di impressionare anche i non cristiani di buona volontà, sensibili a certi valori» (Evangelii nuntiandi, 69).
3. Modalità di partecipazione Sulla base di queste considerazioni possono, quindi, essere individuate alcune precise modalità di partecipazione. Le seguenti, individuate alla luce di una lettura di alcuni brani tratti da documenti ecclesiali11, non hanno, certamente, la pretesa di esaurire tutta la possibile gamma d’iniziative di partecipazione, ma possono rappresentare una serie di canali possibili da attivare nella prassi e nella riflessione. • Incontro/scambio fraterno dentro dinamiche di amicizia/comunione. Si tratta di un livello che non implica immediatamente la messa in cantiere d’iniziative, ma che è solida base in termini di condivisione/comunione. Le iniziative che si possono pensare per realizzare questo obiettivo, da un lato, colgono uno dei valori umani più alti, cioè l’amicizia, e la correlano all’esperienza teologale della comunione e, dall’altro lato, permettono la circolarità della testimonianza della vita fraterna, tipica della vita religiosa12. 11 Le note che seguono, infatti, sono per la gran parte citazioni dirette di questi documenti. Si è preferito riportarle per esteso, senza sintetizzarle, per mostrare la ricchezza originale dei vari testi. 12 «Si cerchi di suscitare tra il clero diocesano e le comunità dei religiosi rinnovati vincoli di fraternità e di collaborazione (cfr CD 35, 5). Si dia perciò grande importanza a tutti quei mezzi, anche se semplici né propriamente formali, che giovino ad accrescere la mutua fiducia, la solidarietà apostolica e la “fraterna concordia” (cfr ES I, 28). Ciò servirà davvero non solo a irrobustire una genuina coscienza della Chiesa particolare, bensì anche a stimolare
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• Ruolo mediazionale, tra religiosi/e e vescovo/clero, svolto dai religiosi presbiteri, a motivo dell’unità del presbiterio.13 • Carisma personale del vescovo nell’essere coordinatore delle molteplici iniziative14. • Messa in cantiere d’iniziative comuni a livello di paese, città, vicariato, diocesi. • Collaborazione “in rappresentanza” o “ad personam” agli organismi di partecipazione vicariali e diocesani15. Questo permette che le indicazioni pastorali della diocesi, sotto varia forma espresse, siano il frutto di un reale coinvolgimento di alcuni religiosi/e, evitando anche la semplice sensazione di voler calare le cose dall’alto.
ognuno a rendere e a chiedere servizi con animo lieto, ad alimentare il desiderio di cooperare, nonché ad amare la comunità umana ed ecclesiale, nella cui vita si trova inserito, quasi come patria della propria vocazione» (Mutuae relationes, 37 in EV 6, 667). Si tratta di una dimensione costitutiva dell’essere della vita religiosa. Così, infatti, viene ancora intesa nel documento post-sinodale sulla vita consacrata: «La vita consacrata, per il fatto stesso di coltivare il valore della vita fraterna, si propone come esperienza privilegiata di dialogo. Essa pertanto può contribuire a creare un clima di accettazione reciproca nel quale i vari soggetti ecclesiali, sentendosi valorizzati per quello che sono, convergono in modo più convincente nella comunione ecclesiale, tesa alla grande missione universale» (Vita consecrata, 74a, in EV 15, 667). 13 «I religiosi presbiteri, a motivo della stessa unità del presbiterio (cfr LG 28; CD 28, 11) e in quanto partecipano alla cura delle anime, “sono da considerarsi di appartenere, per un certo reale aspetto, al clero della diocesi” (CD 34); essi possono, perciò, e debbono servire a meglio unire reciprocamente e coordinare in campo operativo i religiosi e le religiose con il clero e i vescovi locali» (Mutuae relationes, 36 in EV 6, 666). 14 «Pertanto sarà opportuno che le molteplici iniziative siano sapientemente coordinate sotto la guida dei vescovi: cioè secondo i compiti che spettano ai parenti e agli educatori, ai religiosi e alle religiose, ai presbiteri e a tutti gli altri, che operano nel campo della pastorale. Perciò quest’impegno dovrà essere assolto in comune e concordemente e con piena dedizione di ognuno; e il vescovo stesso guidi gli sforzi di tutti nella loro convergenza verso il medesimo intento, sempre memore che tali sforzi sono in radice originati dall’impulso dello Spirito. In considerazione di ciò, quindi, urge anche la necessità di promuovere con frequenza iniziative di preghiera» (ibid, 39 in EV 6, 671). Cfr anche A. GEMMA, Comunione e obbedienza verso i pastori, in Vita consacrata 30 (1994) 3, 305-311; L. DE CANDIDO, La vita consacrata nella Chiesa, in Vita consacrata 35 (1999) 6, 590-601, dove, soprattutto alle pp. 592-596, è delineato in forma pratica il rapporto sapienziale che il vescovo deve intrattenere con i religiosi. 15 Cfr Mutuae relationes, 54-56.58 in EV 6, 697-700.704.
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• Per il fatto che ai religiosi è riconosciuta — un’attività pastorale legata al carisma (almeno per quanto riguarda alcuni istituti) e molte volte consolidata da una lunga tradizione, — un’intraprendenza originale di attività, legate ad una risposta creativa ai bisogni del territorio occorre saperle ecclesialmente accogliere, — sia valorizzando la logica di sussidiareità tra la gestione di riflessioni e d’iniziative pastorali messe in circolo dalle parrocchie e dai vicariati e quelle offerte dai religiosi, — che, rispettandone appieno l’esistenza, d’altra parte, come riflessioni ed iniziative anche “fuori coro”, ma rappresentative di un concreto vissuto di vita consacrata ed intenzionalmente progettate per il cambiamento (funzione profetico-critica)16 senza avere immediatamente la preoccupazione di integrarle armonicamente in un progetto generale. • Marginalità, contemplativa e/o critica, in rapporto alla quale la
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«Inoltre, i profondi rivolgimenti delle situazioni, la crescita dei valori umani e le molteplici necessità del mondo contemporaneo (cfr GS 43-44) con sempre maggiore istanza premono, affinché da una parte si abbiano a rinnovare molte attività pastorali di tradizione, dall’altra si cerchino anche nuovi moduli di presenza apostolica. In tale situazione urge la necessità di una certa solerzia apostolica nell’escogitare nuove ingegnose e coraggiose esperienze ecclesiali, sotto l’impulso dello Spirito santo, che è, per sua stessa natura, creatore. E in modo speciale con la natura carismatica della vita religiosa egregiamente si accorda una feconda alacrità d’inventiva e d’intraprendenza (cfr n 12). Infatti lo stesso sommo pontefice Paolo VI questo ha giustamente affermato: “grazie alla loro stessa consacrazione religiosa, essi [i religiosi] sono soprattutto liberi e possono spontaneamente lasciar tutto e recarsi ad annunziare il vangelo sino ai confini del mondo. Essi sono alacri nell’operare; e il loro apostolato spesso eccelle per la genialità dei progetti e delle iniziative, che destano ammirazione in chiunque li osservi” (EN 69)» (ibid., 19, EV 6, 631). Di per sé questa citazione, importante anche perché ne contiene un’altra di EN, non implica immediatamente la capacità critico-profetico. Il rimando interno, però, al n 12 dello stesso documento, Mutuae relationes, ne diviene chiave di lettura. In quel numero, infatti, oltre a legare la «genuina novità della vita spirituale» e la «particolare operosa intraprendenza» ad «ogni carisma autentico», si dice che «nell’ambiente può forse apparire incomoda e può anche sollevare delle difficoltà, poiché non sempre e subito è facile riconoscerne la provenienza dello Spirito». Questo passaggio si rivela estremamente importante, anche per quello che dirà immediatamente a seguire sul rapporto tra carisma autentico e croce, perché dà il senso profetico-critico dell’azione dei religiosi e lo radica nell’orizzonte teologico dello Spirito.
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Chiesa può accettare, sia nell’ordine del non intervento che della valorizzazione, o non accettare, ma mai non tenerne in conto e non interrogarsi.
4. Chiesa particolare e religiosi: scambio fecondo e rischi Cosa la diocesi impara dalla vita e dalle attività apostoliche dei religiosi? Innanzitutto il senso della comunione, con Dio nella preghiera e con i fratelli nella comunità, che come testimonianza specifica ha la prevalenza su ogni attività pastorale. È il valore iconico che ha sempre la meglio su ogni pretesa di possibile e doveroso adeguamento alla contemporaneità. Quando una Chiesa si lascia coinvolgere dalla testimonianza dei religiosi percepisce un’ulteriorità importante rispetto alla sola logica incarnatoria che presiede alla sua azione pastorale. La diocesi, infatti, percepisce, da un lato, l’intensità e la gratuità della preghiera e della comunione e, dall’altro lato, grazie ad alcuni gesti non contemporanei (sia nel senso del passato che del futuro)17, l’ampiezza e la trascendenza di un Dio che supera le semplici coordinate spazio-temporali. I religiosi, poi, con le loro tradizioni, svolte in ordine alla santificazione e all’apostolato18, sono una grande risorsa per la pastorale (nelle due componenti dell’attività spirituale e dell’apostolato) della Chiesa, perché le evitano una sua sempre possibile deriva pragmatistica o di creatività 17
Talvolta si è così abituati a legare la santità sincronicamente con la contemporaneità della cultura e della società che ci si dimentica che la santità può assumere una forma diacronica sia nel senso del passato, di un passato che continua a rendersi presente nel nostro oggi e che magari può anche risultare obsoleto nelle sue manifestazioni, sia nel senso della profezia del futuro, non sempre ben accetta dalla gente e dalla gerarchia. 18 «Per questo “la Chiesa difende e sostiene l’indole propria dei vari istituti religiosi” (LG 44; cfr CD 33, 35, 1, 35, 2, ecc.). Tale indole propria, poi, comporta anche uno stile particolare di santificazione e di apostolato, che stabilisce una sua determinata tradizione in modo tale, che se ne possano convenientemente cogliere gli elementi oggettivi. Pertanto, in quest’epoca di evoluzione culturale e di rinnovamento ecclesiale, è necessario che l’identità di ogni istituto sia conservata con tale sicurezza, che si possa evitare il pericolo di una situazione non sufficientemente definita, per cui i religiosi, senza la dovuta considerazione del particolare stile di azione proprio della loro indole, vengano inseriti nella vita della Chiesa in modo vago ed ambiguo» (ibid., 11, EV 6, 607-608).
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selvaggia (che si dimostra ben presto fuoco di paglia). La diocesi, cioè, impara dai religiosi il legame tra attività pastorale e carisma e spiritualità. Ciò comporta un buon guadagno, perché l’attività pastorale risulta al punto d’incrocio tra espressività del carisma donato da Dio, ormai diventato tradizione, e risposta ai bisogni contemporanei dell’uomo in situazione19. I problemi insorgono quando si dovesse dare un giudizio di sclerotizzazione di tali tradizioni, tanto da doverle considerare ormai concluse, ma a questo punto, soprattutto se queste tradizioni sono profondamente intrinseche al carisma dell’istituto religioso, si rinvia ad una revisione radicale dello stesso istituto e alla possibilità o meno di ricomprendere ermeneuticamente le fonti alla luce delle attuali esigenze. Gli istituti religiosi, come ogni istituzione di origine non divina, sono soggetti alle leggi della vita: nascono, crescono, muoiono. Cosa i religiosi imparano dalla vita e dall’attività pastorale della diocesi? Innanzitutto il senso dell’incarnazione/inculturazione del loro carisma20 e, quindi, la bellezza per chi, a causa della sua vocazione, non ha 19 «Solo se essa [la comunità religiosa] ha una precisa identità carismatica può inserirsi nella “pastorale d’insieme” senza snaturarsi, anzi arricchendola del suo dono. Non bisogna dimenticare che ogni carisma nasce nella Chiesa e per il mondo, va costantemente ricondotto alle sue origini e finalità, ed è vivo nella misura in cui vi è fedele. Chiesa e mondo ne permettono la interpretazione, lo sollecitano e lo stimolano ad una crescente attualità e vitalità. Carisma e Chiesa particolare non sono fatti per confrontarsi ma per sorreggersi e completarsi, specialmente in questo momento in cui emergono non pochi problemi di attualizzazione del carisma e del suo inserimento nella mutata realtà» (La vita fraterna in comunità, 60 in EV 14, 497-498). 20 Si tratta di un’incarnazione/inculturazione che riguarda sia il momento fondativo dell’istituto religioso che quello ministeriale/apostolico. Sul rapporto stretto tra vita religiosa, fondatori e Chiesa locale, pensato non tanto in termini di mera esortazione operativa di collaborazione, ma di chiara visione ecclesiologica che non situa i religiosi immediatamente all’interno della vasta compagine della Chiesa universale, ma piuttosto e teologicamente dentro la Chiesa locale, e sulla necessità di riandare allo stretto legame tra Chiesa locale e carisma di fondazione, ben più vasto rispetto al carisma del fondatore, per ricomprendere ermeneuticamente lo stesso carisma del singolo istituto cfr G. POLI, La Chiesa locale luogo «sorgivo» ed «espressivo», cit. Per quanto riguarda il secondo aspetto rimane sempre valida la seguente affermazione: «La Chiesa particolare costituisce lo spazio storico, nel quale la vocazione si esprime nella realtà ed effettua il suo impegno apostolico; lì infatti, dentro i confini di una determinata cultura, si annunzia e viene accolto il vangelo
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scelto un luogo stabile o vive la stabilitas come permanenza della carità fraterna, di poter vivere l’ospitalità di una terra e il dono delle sorelle e dei fratelli che l’abitano. I religiosi, poi, imparano a non assolutizzare il proprio carisma e, quindi, a non essere auto-referenziali. Lo scambio fecondo e dinamico con gli altri istituti di vita consacrata e con le altre realtà ecclesiali, parrocchie e gruppi laicali, e l’autorità del vescovo li aiuta a cogliere un senso dell’ecclesialità ancora più vasto di quello già esistente.21 Questo permette, inoltre, ai vari istituti religiosi nel loro insieme di fare comunione tra di loro senza scegliere le regole della loro comunione, ma obbedendo al contesto storico-ecclesiale della Chiesa particolare. I problemi insorgono quando, per un verso, la diocesi tenta una forzata omogeneizzazione dei carismi e dei servizi dei religiosi sulla base di reali urgenze pastorali (per es. il problema delle parrocchie scoperte). Un’accondiscendenza prolungata dei religiosi a questa richiesta22 può (cfr EN 19, 20, 29, 32, 35, 40, 62, 63)» (Mutuae relationes, 23 in EV 6, 642). Cfr anche Vita consecrata, 79-80, EV 15, 679-682. 21 Interessante, a tal proposito, la riflessione di Bruno Secondin, che sintetizzando linee di tendenze, scriveva: «La riflessione più recente sul carisma porta a vederlo non soltanto come un dono mediato e incarnato dall’istituto (nel senso carisma = istituto), ma piuttosto come carisma-progetto: vale a dire un progetto ecclesiale di radicalità cristocentrica di cui nella Chiesa tutti sono responsabili, in forma diretta, per una comunione che sia frutto di corresponsabilità. L’istituto, di conseguenza, non sarebbe che una delle possibili forme di realizzazione e di fecondità del carisma: non ne ha il monopolio, ma potrebbe avere la funzione di regia e di sostegno» (B. SECONDIN, Vita religiosa. 2. Prospettive attuali della vita religiosa, cit., 1834). 22 È indicativo, riguardo alla collaborazione da prestare da parte dei superiori religiosi alle richieste dei vescovi di venire in soccorso alla scarsità di clero, quanto già dice il decreto Christus Dominus. Dopo, infatti, aver ricordato che questa collaborazione avvenga nel rispetto della “indole di ciascun istituto”, afferma: «E i superiori religiosi, per quanto possono, favoriscano tale collaborazione accettando anche, sia pure temporaneamente, il governo di parrocchie» (CD, 35 in EV 1, 671). L’avverbio temporaneamente rende ragione del titolo di provvisorietà di tali forme di collaborazione. In maniera ancora più chiara ciò viene confermato in un già citato documento della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, in cui esplicitamente si afferma che «il vasto impegno nella pastorale parrocchiale è fatto, a volte, a detrimento del carisma dell’istituto e della vita comunitaria, fino a far perdere ai fedeli e al clero secolare e anche agli stessi religiosi la percezione della vita religiosa. Le urgenti necessità pastorali non devono far dimenticare che il miglior servizio della comunità religiosa alla Chiesa è quello di essere fedele al suo
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portare a seri danni per lo spirito religioso, la fedeltà al carisma e la creatività apostolica. I religiosi, per altro verso, potrebbero assolutizzare l’esigenza di obbedienza all’autorità del vescovo, di ricerca di consenso e di amicizia con le varie comunità della diocesi e di coordinamento delle attività pastorali, da dimenticare o spegnere la forza profetica che pure li aveva generati.
5. Per una Chiesa madre di figli adulti In conclusione, quanto finora esposto, soprattutto nell’ultima parte, può dare l’impressione che Chiesa particolare e religiosi siano grandezze omogenee che dialogano alla pari. Non è, però, così. I religiosi, infatti, non sono, né storicamente né teologicamente,23 istituzione direttamente promanante dalla struttura della Chiesa particolare, come lo può essere il presbiterio o l’articolazione, seppur storica, delle parrocchie, e quindi hanno, in forza del loro carisma di vita religiosa che precede ogni singolo carisma d’istituto, un riferimento fondante nella relazione particolare con Gesù e nell’icone biblica della comunità dei
carisma. Ciò si riflette anche nell’accettazione e conduzione delle parrocchie: si dovrebbero privilegiare le parrocchie che permettono di vivere in comunità e nelle quali è possibile esprimere il proprio carisma» (La vita fraterna in comunità, 61, EV 14, 500). Su questa linea di chiara ed evidente peculiarità di conduzione delle parrocchie da parte dei religiosi ed, ancora, sul pericolo che ci sia a tutt’oggi una mentalità parrocchialistica che non promuove una diversità, intesa come ricchezza nella logica della complementarietà, si muove L. DE CANDIDO, La vita consacrata, cit., 597-601. Su questo rapporto conviene ancora ricordare i contributi presenti nel volume Vita religiosa e parrocchia, Atti della XXIV Assemblea Generale CISM Collevalenza 12-16 Novembre 1984, Roma 1984. 23 «La storia mostra che, ordinariamente, la vita religiosa sorge nel popolo di Dio non per l’iniziativa della gerarchia, ma partendo dalla base. Lo Spirito suscita un carismatico; altri cristiani riconoscono in lui una figura suggestiva che sollecita la loro chiamata; si mettono sotto la sua direzione e si uniscono a lui per vivere secondo l’ideale che hanno intravisto […]. La vita religiosa, infatti, si rivela a chi cerca di situarla nel complesso del mistero della Chiesa come un frutto dell’attività dello Spirito dipendente da un registro differente da quello di cui la funzione gerarchica è una delle espressioni maggiori» (J.M.R. TILLARD, La vita religiosa nella Chiesa, cit., 75).
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discepoli di Gesù. Per questa loro caratteristica invocano, dentro e mai fuori la comunità dei battezzati, una vocazione profetico-critica, che dà loro titolo ad esprimere esigenze, istanze, modelli di vita, istituzioni che interpellano la Chiesa. Ma sempre da figli, da figli adulti, mai da non pensabile “altra Chiesa”. La Chiesa particolare, d’altra parte, se deve prendere sul serio la possibile dialettica con i religiosi e dare le risposte che possono sembrare più adeguate, senza alcun ombra di paternalismo, non può mai dimenticarsi che è madre e madre accogliente delle persone, innanzitutto, ma anche delle critiche che le vengono rivolte e che possono concretamente farla crescere. Non può, quindi, mettere in atto strategie di marginalizzazione e di misconoscimento nei confronti di comunità religiose o di particolari loro aspetti. Certo questo non la esonera dal grave dovere della vigilanza, che sarà, però, sempre vissuto con logiche “affettive” ed educative. In questo, talvolta, difficile equilibrio si colloca la partecipazione dei membri degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica al progetto pastorale diocesano. Pensare, cioè, di considerarla alla stregua della partecipazione di ogni altro membro della Chiesa è riduttivo, non perché si voglia creare una zona franca, ma perché si vuole ascoltare la coscienza propria di un’esperienza peculiare. Quest’impostazione apre le porte ad una riconsiderazione del significato del servizio e dell’impegno di ogni altro membro o categoria di membri della Chiesa (pensiamo alla tanta invocata, ma non sempre praticata, soggettualità ecclesiale e pastorale delle famiglie, ma anche al ruolo estremamente positivo e critico che potrebbero assumere i movimenti ecclesiali, i catechisti e gli annunziatori della Parola, gli operatori liturgici, etc., nel momento in cui prendessero seriamente coscienza operativa del loro esserci nella Chiesa e non reprimessero con malinteso senso di obbedienza la loro capacità critico-progettuale). La tanto decantata organicità della pastorale non è mai omogeneizzazione e la si fa a partire da identità concrete. I figli che diventano adulti acquistano più coscienza di se stessi e mettono in crisi un rapporto consolidato con la madre, che, però, nella misura in cui sa gestire intelligentemente questo rapporto, cresce con loro e diventa capace di automodificarsi. Ogni stile di autoritarismo e di maternalismo è bandito, a favore del dialogo per la creazione di un progetto, ma anche di giuste autonomie dei figli, che avendo ormai interiorizzato la figura
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materna e, soprattutto, quella paterna di Dio, possono ben gestire l’originalità della propria personalità nella armonica e dialettica scansione di dipendenza ed autonomia, di cose fatte insieme e di cose esplorate, vissute e rischiate nella solitudine della propria responsabilità personale. Un vitale progetto diocesano, che nell’individuazione di linee ed iniziative comuni, valorizzi le giuste autonomie e capacità criticoprofetiche, sapendole riconoscere come espressione della comunione della Chiesa particolare, ma anche come gesti che anticipano il futuro come adventus non può che trovare sintonici i religiosi, ma anche tutte le altre componenti del popolo santo di Dio.
Sezione miscellanea Synaxis XX/2 (2002) 341-376
NUNZIO RUSSO DIRETTORE SPIRITUALE. L’EPISTOLARIO CON PAOLINA TURANO (1878-1906)
MARIO TORCIVIA* a don Salvatore Napoleone (1954-2001) amico fraterno
Il palermitano Nunzio Russo (1841-1906)**, fondatore della Congregazione delle suore Figlie della Croce, costituisce una delle figure più rappresentative del clero siciliano della seconda metà del secolo xix1. Il nostro articolo vuole presentare uno dei tratti ancora poco conosciuti e meno studiati del Russo e, precisamente, uno degli aspetti più fecondi del suo ministero presbiterale: la direzione spirituale. Invero, però, considerate le diverse e variegate modalità di espressione di questa (il ricordo al Signore nella preghiera, il dialogo nell’incontro personale e/o all’interno della celebrazione del sacramento della Riconciliazione, solo per fare alcuni esempi), abbiamo voluto considerare un luogo particolare dell’esercizio di questo prezioso ministero *
Docente invitato di Teologia spirituale nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Sigle presenti nelle fonti citate nelle note: NR: Nunzio Russo; PT: Paolina Turano; ANR: Archivio Nunzio Russo. 1 Per una conoscenza approfondita di Nunzio Russo rimandiamo ai seguenti volumi: F.M. STABILE, Nunzio Russo. Secolarizzazione ed evangelizzazione in Sicilia nella seconda metà dell’Ottocento, Caltanissetta-Roma 1997; M.T. FALZONE, In mezzo al mondo. Consacrazione e apostolato della donna in Nunzio Russo, Centro Studi Cammarata, San Cataldo (CL) 1998 e C. NARO (a cura), Spiritualità e progetto apostolico di Nunzio Russo, Caltanissetta-Roma 2001. Nel 2003 è prevista la pubblicazione, a cura del prof. F. M. Stabile, dell’intero epistolario di Nunzio Russo alle figlie. **
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ecclesiale: lo scambio epistolare intercorso tra il sacerdote palermitano e una giovane, Paolina Turano, nipote del più famoso Domenico, vescovo dell’allora Diocesi di Girgenti2. Profondo fu il legame che esistette tra mons. Turano e Nunzio Russo3. Ne fanno fede le “reciproche” definizioni che qui di seguito presentiamo, espressioni evinte dall’epistolario da noi preso in esame. Così il Russo sul Turano: «illustre e santo Prelato»4 e «carissimo padre, protettore, direttore e guida»; e continua: «Il servire lui personalmente è un servizio più immediato di Dio. Servo delle anime perché servo a lui, perché obbedisco a lui che mi dice di servirle. Mi occupo dell’Associazione del dolcissimo di Sales, perché egli me lo dice. Questo è un servizio indiretto, il servirlo personalmente è un servizio diretto»5. Identica stima troviamo nel vescovo della città dei Templi, il quale, in una lettera indirizzata proprio alla nipote Paolina, così si esprime in ordine al sacerdote palermitano: «Che dice il P. Nunzio, singolarissimo sacerdote? Iddio parlando di Giobbe diceva: Nemo sicut ille, cioè, nessuno come lui! Questo si può dire del P. Nunzio fra’ sacerdoti»6.
Il nostro studio, dopo aver fornito alcune note introduttive sull’epistolario intercorso tra Nunzio Russo e Paolina Turano e delineato per sommi capi determinati aspetti della personalità di quest’ultima, si sofferma a presentare le caratteristiche generali del direttore spirituale, nonché alcune tematiche e mezzi di direzione spirituale, così come si evincono dal suddetto epistolario.
2 Su Domenico Turano (Palermo, 30/03/1814-Agrigento, 02/02/1885) cfr G. BELLOMO, Memorie sulla vita e gli scritti di Mons. Domenico Turano, vescovo di Girgenti, Palermo 1886 e D. DE GREGORIO, Mons. Domenico Turano, vescovo di Agrigento, Boccone del Povero, Palermo 1967. 3 Il Russo fu segretario del Turano nonché suo consigliere nel governo pastorale ad Agrigento negli anni 1872-1874. Per il periodo agrigentino del sacerdote palermitano cfr F.M. STABILE, Nunzio Russo, cit., 77-100. 4 Lettera di NR a PT del 19/06/1886, in ANR, b, 46/13, fasc. 9, ff. 2, pp. 4. 5 Lettera di NR a PT del 25/08/1880, in ANR, b, 46/13, fasc. 3, n. 9, f. 1, p. 1. 6 Lettera di mons. Turano a PT del 7 marzo 1880, in ANR, Lettere di mons. Turano.
Nunzio Russo direttore spirituale
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1. L’epistolario tra Nunzio Russo e Paolina Turano 1.1. Note tecniche Le lettere da noi prese in esame sono custodite nell’Archivio Nunzio Russo. Il loro regesto, ad opera del prof. Stabile, è quasi alla conclusione7. La maggior parte delle epistole reca in testa il luogo e la data; alcune invece ne sono sprovviste. La prima lettera conservata reca la data del 25 marzo 1878 — il Russo ha, allora, 37 anni — l’ultima 26 aprile 1906, sette mesi prima della sua dipartita da questo mondo. È, quindi, un epistolario che copre un considerevole numero di anni, per l’esattezza ventotto, e che la morte del padre spirituale, appena sessantacinquenne, ha interrotto. Ciononostante, a volte, per tanti mesi non abbiamo lettere, forse perché andate perdute. Evidenziamo come, in alcuni casi, Nunzio Russo ha scritto la risposta a Paolina Turano sullo stesso foglio della lettera da lei inviatagli e facciamo notare, inoltre, l’assenza nell’Archivio Nunzio Russo di alcune lettere — sicuramente perse — menzionate in altre presenti nel suddetto archivio. Solitamente il sacerdote palermitano firma le proprie lettere con l’appellativo di «tuo padre» o «tuo padre in G.C.»; Paolina con «sua aff.ma figlia in G.C.» o «sua figlia in G.C.». Anche nel corpo di alcune lettere del Russo alla Turano troviamo l’affermazione: «tu sei la figlia mia, ed io il padre tuo»8 e «Ci credi che sei figlia mia in G.C.?»9. Una notazione finale: come sovente avveniva negli scambi epistolari dell’epoca, alcune volte troviamo delle espressioni in lingua francese10.
7
Riguardo all’apparato critico, le lettere saranno da noi citate secondo il suddetto
regesto. 8
Lettera di NR a PT del 21/09/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, f. 1. Lettera di NR a PT del 29/11/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, f. 1, pp. 2. A questa domanda Paolina così risponde: «Ci credo tanto che sono sua figlia in G.C., che mi abbandono alla sua ubbidienza, come la bambina nelle braccia della madre sua» (Lettera di PT a NR del 02/12/1886, in ANR, Lettere di PT). 10 Cfr, a mo’ di esempio, Lettera di PT a NR del 27/05/1878, in ANR, Lettere di PT e Lettera di NR a PT del 18/01/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 1, ff. 2, p.1. 9
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1.2. Stile confidenziale Tra gli aspetti, a nostro avviso più interessanti, emergenti dallo scambio epistolare tra Nunzio Russo e Paolina Turano v’è quello che riguarda lo stile confidenziale del rapporto tra i due, espresso nello scambio di doni in occasione dei rispettivi onomastici, nell’uso di parole/espressioni tratte dal dialetto siciliano, nell’umorismo di alcune frasi, nella manifestazione delle sofferenze fisiche, finanche nello scrivere di invio di pietanze e ricette culinarie11 o nel parlare di cibo e altro ancora12. Sono cose tutte che rivelano come tra il Russo e la Turano vi fosse un profondo legame che, pur nel rispetto dei ruoli, ha certamente significato per ambedue un aiuto di non poco conto, specie in ordine alla manifestazione di difficoltà e di sofferenze, di stati d’animo, e di quant’altro inerente non solo alla sfera spirituale ma anche a quella umana tout court13. A nostro avviso si può parlare realmente di un rapporto che, pur con tutti gli alti e bassi, le incomprensioni, le difficoltà di relazione14, i silenzi, le liti ma anche il perdono e le rappacificazioni che ogni storia umana comporta15, ha significato un reale reciproco esserci. Esemplifichiamo, ora, quanto testé affermato. 11
Cfr Lettera di NR a PT del 08/11/1897, in ANR, b. 46/13, fasc. 15. Come l’uso, da parte di Nunzio Russo, di carta non listata a lutto subito dopo la morte della madre, cfr la Lettera di NR a PT del 11/09/1879, in ANR, b. 46/13, fasc. 2, n. 7, ff. 2, p. 1. 13 Ci riferiamo, ad esempio, all’aiuto del Russo alla Turano in ordine ad un vitalizio, costituito dallo zio, cfr Lettera di NR a PT del 04/02/1892, in ANR, b. 46/13, fasc. 10, ff. 2 e Lettera di NR a PT del 10/03/1892, in ANR, b. 46/13, fasc. 10, f. 1, ad alcuni contenziosi — cfr Lettera di NR a PT del 05/03/1895, in ANR, b. 46/13, fasc. 13, f. 1, p. 1 — o pignoramenti — cfr Lettera di NR a PT del 18/02/1898, in ANR, b. 46/13, fasc. 16, f. 1 — o alla scelta della casa, dopo l’uscita dal Monastero di Valverde — cfr Lettera di NR a PT del 04/11/[1899], in ANR, b. 46/13, fasc. 18, ff. 2. 14 A proposito di queste ci piace riportare quanto il Russo scrive in una lettera del dicembre 1878: «C’è da perdere il cervello con queste femmine; ora si hanno per la testa, ora per la coda, ora né per la testa né per la coda […] Dunque se pargoleggio scherzando, e non ti avvedi; se mi metto sul serio, e ti esalti. Dimmi come mi devo regolare?» (Lettera di NR a PT del 10/12/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 9, ff. 4, pp. 2). 15 «Il sapere ora che anche la mia cara Paolina è con me, e non è più sciarriata (bisticciata, ndr.), è per me una gran consolazione. Te lo assicuro sono stato scantato (spaventato, ndr.), e non mi sono fatto vivo temendo de’ tuoi nghirri (la tua rissosità, ndr.). 12
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1.2.1. Lo scambio di doni In occasione dell’onomastico del Russo, conoscendo il carattere schivo16 e lo stile di vita sobrio del proprio confessore, così scrive Paolina: «I doni so che non li accetta. Dunque offrirò, ma come di nascosto, un fiore dietro le sue spalle, giacché desso deve andare sulla spalliera della poltrona. Bene inteso che non è questa già la gloria delle sue spalle; la gloria delle sue spalle forse son’io, e son certa d’esser portata collo stesso amore con cui G. C. portava la sua»17. Ancora, in un’altra lettera recante la stessa data, sapendo la priorità accordata dal sacerdote palermitano ai beni spirituali, questo l’augurio di buon onomastico formulatogli: «che posso augurarle? Ricchezze ed onori? Oibò: non son graditi al suo cuore, anzi le farebbe pena il vedermi scendere così basso nei miei desideri. Però ecco un augurio che le piace molto. Le auguro dunque che Iddio la ricolmi di tutti i beni spirituali per l’anima sua, e per tutte le anime che dirige nella via dello spirito, senza escludervi nonpertanto la mia. Questo è un augurio che certamente le fa piacere. Riguardo poi ai beni temporali, di salute, cioè, e di pace, questo lo lascio nella buona volontà del Signore»18.
Questi, invece, due doni di Nunzio Russo a Paolina Turano, sempre in occasione del giorno onomastico: «L’ardentissimo Apostolo della Croce S. Paolo ti ottenga amore e gusto per la tribolazione. Eccoti la Via Crucis che ti mando; essa ti rappresenta la via regia del Paradiso. Ad magna prœmia pervenire non potest nisi per magnos labores»19 e: «Mi farai
Ma ora sono arcicontentissimo» (Lettera di NR a PT del 17/08/1887, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, ff. 4, pp. 2). 16 Aspetto, questo, del carattere che don Nunzio si riconosce bene: «Non credere che nella circostanza onomastica ci sia affollamento; sanno che sono sarvaggiu (selvaggio, ndr.) e non viene nessuno; mi lasciano quieto» (Lettera di NR a PT del 24/03/1898, in ANR, b. 46/13, fasc. 5, ff. 2, p. 1). 17 Lettera di PT a NR del 25/03/1878a, in ANR Lettere di PT. 18 Lettera di PT a NR del 25/03/1878b, in ANR Lettere di PT. 19 Lettera di NR a PT del 30/06/1882, in ANR, b. 46/13, fasc. 5, ff. 2, p. 1.
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cortesia a gradire questa grastetta (piccolo vaso, ndr.) di gelsomino d’Arabia che è in sul fiorire […] I fiorellini ti serviranno pel tuo Diletto»20.
1.2.2. L’uso di termini dialettali A causa dell’incredulità della Turano riguardo ad una notizia comunicatele, così il Russo l’apostrofa: «Oh! picciridda retica nghirriusa e sfirriusa, mancu siddu avissi la cuva o fussi smammata di friscu»21. Ancora, per l’alta stima che la nipote del vescovo di Agrigento ha di sé, fa sua la definizione data alla nipote dallo zio vescovo: «Avea ragione lo zio in parlando di una certa pilucchedda (bimba che si dà troppa importanza, ndr.) che bisogna rischiar la vita per contentarla»22. Conoscendo i voli fantastici di Paolina non appena avesse subodorato una qualunque frase che le avesse fatto credere che il proprio padre l’avrebbe abbandonata, così don Nunzio la definisce: «Pezza di locca (sciocca, ndr.), come mai puoi immaginare ciò? Locca, locca, locca di S. Ninfa»23. A volte Nunzio Russo cita proverbi e/o modi di dire, come, ad esempio, il seguente: «Nun è muttu si nun è tuttu. Di li cosi cuntati cririnni a mitati»24. Anche la Turano, infine, scrive in dialetto siciliano: «Lu gadduzzu è buonu, e pi grazia di Dio ingrassa a d’ura e a puntu; aspetta lu furtunatu mumentu pi essere manciatu di lu mio padre. Oh fortunato momento! E chi non si desidera gadduzzu?»25. 20
Lettera di NR a PT, s.d., in ANR, b. 46/13, fasc. 23, ff. 2. Traduzione: «Oh! bambina impaziente, rissosa e cavillosa, neanche se avessi la covatura o fossi divezzata da poco tempo». Lettera di NR a PT del 12/05/1879, in ANR, b. 46/13, fasc. 2, n. 5, ff. 2, p. 1. 22 Lettera di NR a PT del 23/12/1879, in ANR, b. 46/13, fasc. 2, n. 12, ff. 2, pp. 4. 23 Lettera di NR a PT del 14/01/1894, in ANR, b. 46/13, fasc. 11, f. 1. 24 Traduzione: «Non è proverbio se non è tutto. Delle cose raccontate, ne devi credere la metà». Lettera di NR a PT del 06/03/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 3, ff. 2, p. 1. 25 Traduzione: « Il galletto è buono, e per grazia di Dio ingrassa ottimamente; aspetta il fortunato momento per essere mangiato dal padre mio. Oh fortunato momento. E chi non desidera essere galletto?». Lettera di PT a NR, s.d., in ANR, Lettere di PT. A questo scritto, 21
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1.2.3. Lo humour In occasione del riconoscimento di un torto da parte della propria figlia spirituale — cosa alquanto difficile per la stessa — così le scrive don Nunzio: «La pace è già ritornata perché hai confessato il tuo torto come mi scrisse Monsignore [Turano]. Ed a me basta questo, perché da te non mi posso aspettare miracoli, quantunque il confessarsi rea sia equivalente a miracolo. Sei contenta che ora ti giudico miracolosa e taumaturga in questo senso?»26. Due bigliettini del marzo ’9827 sono, poi, tutti consacrati dal Russo a ringraziare, con tono ilare, e a motteggiare la propria figlia spirituale per il dono di un ferraiolo per il giorno onomastico: «Evviva Paolina, la moralista che mette il manico dove vuole; e interpreta le proibizioni a modo suo. Brava la mia teologhessa dalla manica larga»28. Ancora, in occasione di una richiesta fatta dal sacerdote palermitano alla Turano, così il primo si esprime: «Se mi mandavi uova dovea cominciare la lettera con dirti socialista ribelle che non ti ritiri se non dopo il fuoco. Ma ora no; sei figlia ubbidiente, e ti ringrazio della tua obbedienza»29. Pochi giorni dopo così le riscrive: «Potrei dichiarare lo stato il Russo risponde elevando il livello della discussione: «Poviru gadduzzu! Come ti chianciu, figghiu Marianu. Non ci fari fari mala morti. Lo vedi? È una vita sacrificata per noi, vedi quanto è naturale il sacrifizio della vita che dobbiamo a Dio; se la nostra vita materiale si alimenta a costo di tante vite. Unisci il sacrificio di tua vita a quello di G.C.». (Traduzione: «Povero galletto! Come ti piango, figlio mariano (espressione che manifesta preoccupazione, ndr.). Non fargli fare una cattiva morte». Lettera di NR a PT, s.d.,, in ANR, b. 46/13, fasc. 23). Un’ultima notazione sull’uso di termini dialettali. In ANR, b. 14, fasc. 3, n. 10, f. 1, pp. 2 abbiamo trovato una composizione di Nunzio Russo, in rima, datata 01/05/1899, in cui si narra delle insidie tramate dal diavolo nei riguardi di Paolina Turano. 26 Lettera di NR a PT del 10/12/1880, in ANR, b. 46/13, fasc. 3, n. 12, ff. 2, pp. 3. 27 Uno reca la data del 25/03/1889 e l’altro quella del 26/03/1898. Invero, dall’esame della grafia, dell’inchiostro e, soprattutto, del contenuto di questa seconda lettera – in specie la notizia di un altro scritto sullo stesso argomento recante la data del giorno precedente: «Un’altra come la presente l’avea scritto ieri, e domani la troverai in chiesa; dice la stessa cosa» (Lettera di NR a PT del 26/03/1898, in ANR, b. 46/13, fasc. 16) - arguiamo che il Russo avrà invertito, inavvertitamente, le due ultime cifre dell’anno del primo biglietto, che risulta essere, anch’esso, del 1898. 28 Lettera di NR a PT del 25/03/1889 (invero: 1898), in ANR, b. 46/13, fasc. 10. 29 Lettera di NR a PT del 14/01/1894, in ANR, b. 46/13, fasc. 11, f. 1. Il termine
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di assedio nel tuo pollaio, e pena la fucilazione a que’ polli che fanno uova. Ma mi sembrano pietosi»30. Un fine umorismo Nunzio Russo manifesta quando Paolina Turano riteneva di valutare le forze del proprio padre dalla sua grafia: «P.S. Posso annunziare nel giornale la nuova scoperta di saper conoscere dalla calligrafia la forza di un uomo? Ci sarebbe di fare buoni affari, perché mettendo l’annunzio, da tutte le parti ti pioverebbero pruove di caratteri»31. Divertente, poi, l’accostamento tra la carne di maiale e la bestia immonda: «P.S. La salsiccia può avere il suo merito, stanteché dimostra la vittoria riportata dalle anime pure sulla bestia immonda raffigurata dal porco, che finalmente viene ucciso e se ne fa salsiccia per convertirlo in fango e confondersi con quella terra che fu condannato a mangiare come suo cibo»32. Sempre in tema di animali e di cibi, ascoltiamo il rimprovero che il padre rivolge alla figlia: «Devi prepararti ad una tiratina di orecchie pel gallinaccio di jeri. Gallinaccio? No, gadduzzu (galletto, ndr.) grande. No, gallina. Non si potea distinguere al sapore se era gallo o gallina. Non c’era la cresta. Ma quante cose combini?»33. Un’ultima “chicca” è rappresentata da una divertentissima auto ironia di don Nunzio — autoproclamatosi “farfallone” — che sovente lascia in asso la Turano, quando questa lo aspetta per confessarsi: 1. Considerando quod Confessor Paulinae spissu la chianta non obstante che ci manna l’ambasciata e la littra d’aspettarlu. 2. Considerando quod dda povira picciotta ci passano li jornas cum la speranza di parrarici e nun cci parra. 3. Considerando quod spissu manca a li promissi e che Paulina nun cci cridi cchiù et non facit amplius assignamentu supra li suoi dicti. 4. Considerando chi lo nostrum Regnum di la farfalloneria si cridirria onoratu di ammetteri alla so cittadinanza tam magnum farfallonem. 5. Considerando quod lo dicto confessario è stato perseverante in “socialista” lo ritroviamo pure in Lettera di NR a PT del 15/01/1894, in ANR, b. 46/13, fasc. 11, f. 1. 30 Lettera di NR a PT del 19/01/1894, in ANR, b. 46/13, fasc. 12. 31 Lettera di NR a PT del 17/01/1894, in ANR, b. 46/13, fasc. 12, f. 1. 32 Lettera di NR a PT del 28/[01]/1894, in ANR, b. 46/13, fasc. 12, f. 1. 33 Lettera di NR a PT, s.d., in ANR, b. 46/13, fasc. 23.
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nobilissima nostra arte farfallesca, sicut ne faciunt fidem le farfallas quas Nos mandamus ante adventum ejus. 6. Volentes rimunerare tam preclara merita decretamus hanc praesentem patentem farfalloneriae pro dicto Confessario Paulinae nunc et in perpetuum»34.
1.2.4. La manifestazione delle sofferenze fisiche Nell’epistolario da noi preso in esame troviamo sovente delle descrizioni delle sofferenze in cui versano Nunzio Russo, soprattutto, e Paolina Turano35. Ecco cosa scrive don Nunzio — la cui sofferenza, a volte, lo fa sentire sminuito nel suo essere ministro del Signore36: «Mi trovo a letto […] sono sicuro che, ancorché riconcentrassi l’attenzione a sentire, non capirei cosa alcuna, tanto ho i nervi smossi. Non posso sentire una botta, un frastuono, la testa leggiera. Prega piuttosto che col riposo di stanotte abbia domani a venire col sistema nervoso in calma»37; «sono tre notti che non dormo per la lenta e cupa smanietta delle viscere; poi abbatto al sopravvento della febbre. Mi alzo adesso per la Messa, dopo la quale piglierò un’altra purga e mi metterò a letto»38; «Facciamo la volontà di Dio. Ieri fui di nottata e stamane mi sento malconcio. Oggi ho guardato il letto. Penso che sono in ritardo dal recarti il conforto della santa confessione e dico fiat. Oggi avrei potuto impiegare tutto il dopo pranzo; ma non mi sento la forza di uscire. Così con un giorno di riposo ricupererò le forze e spero domani venire»39.
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Lettera di NR a PT, s.d., in ANR, b. 46/13, fasc. 23, f. 1. Per quest’ultima cfr, ad esempio, le Lettere del 2 e del 25 ottobre 1886, in ANR Lettere di PT. 36 «sto meglio; ma ancora mi proibiscono la recita del Divino Officio, e mi sento sacerdote per tre quarti, non tutto» (Lettera di NR a PT del 01/07/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, ff. 2, pp. 4). 37 Lettera di NR a PT del 29/02/1880, in ANR, b. 46/13, fasc. 3, n. 2, f. 1. 38 Lettera di NR a PT del 20/03/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 5, ff. 2, p. 1. 39 Lettera di NR a PT del 28/03/1882, in ANR, b. 46/13, fasc. 5, ff. 2, p. 1. 35
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In occasione della diffusione del colera nel 1885 il sacerdote palermitano si sofferma ampiamente a parlare delle proprie condizioni: «Ancora dico messa assistito da un altro sacerdote perché vo soggetto a sconcerti, effetto del colpo avuto tre Domeniche addietro all’Epistola della Messa. Quella messa fu agonia; se sospendea la popolazione se ne sarebbe spaventata. Dio mi diede la grazia di finirla e dopo combattemmo nove ore continue per non fare sviluppare il male. I Padri erano tutti chi ad applicare [illeggibile] chi a somministrarmi canfora, bismuto, oppio, elisir, etc., etc. Stetti a letto quasi 12 giorni senza poter dire messa. Attualmente mi sento come il vetro. Ringrazia per me il Signore che pel momento mi preservi dal suo flagello. Io prego che preservi te e codesta Comunità»40.
Questa, poi, la lettura di fede che Nunzio Russo — sempre premuroso nei riguardi della propria figlia41 — fa di una malattia di Paolina: «Stamani erami rallegrato, giacché appena uscito di stanza gittando l’occhio sul tavolo ho veduto una lettera scritta con inchiostro uguale al tuo. Mi affrettai a pigliarla, e fui deluso. La buona Paolina dunque è ancora ammalata! Fiat e sempre Fiat!!! Oh da quanti mali ti ha redento questa malattia! Dio ne sia ringraziato. Non mi dilungo perché l’uomo mi disse che hai di nuovo la febbre e la testa dolente»42.
Tre citazioni, infine, sullo stato d’animo della Turano nel sapere della malattia del proprio padre secondo lo Spirito: «Ieri intesi con sommo dispiacere ch’ella stava nuovamente male; le assicuro che la sua ostinata malattia è la più grande delle mie tribolazioni, sia pel suo soffrire, sia ancora per l’angustia in cui si trova l’anima mia»43. Ancora, rimproverando il Russo perché non le dà notizie della salute: «Sono più giorni che sento dalla serva 40 Lettera di NR a PT del 10/10/1885, in ANR, b. 46/13, fasc. 8, ff. 2. Sempre sulle condizioni di salute del Russo, cfr Lettere di NR a PT del 15 e 16/13/1899, in ANR, b. 46/13, fasc. 17. 41 Cfr Lettera di NR a PT del 24/01/1894, in ANR, b. 46/13, fasc. 12, f. 1 e Lettera di NR a PT del 25/[01]/1894, in ANR, b. 46/13, fasc. 12, f. 1. 42 Lettera di NR a PT del 06/07/1880, in ANR, b. 46/13, fasc. 3, n. 7, ff. 2, pp. 3. 43 Lettera di PT a NR del 21/01/1894, in ANR Lettere di PT.
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che lei sta più male, ed ho pianto ieri tutta la giornata. Ma perché, padre mio, quand’ella mi scrive non darmi notizie della sua salute? Forse ella crede che a me ne importa poco? Lo sa Iddio se non sacrificherei non una volta, ma mille volte la mia vita per fare presto acquistare la sanità al padre mio»44 e: «Ho incominciato un triduo a S. Espedito, e una novena al gran Taumaturgo S. Francesco di Paola per la sua pronta guarigione. Mio Dio che sono tribolata! La sua malattia la sento più delle altre tribolazioni che si aggravano ogni giorno sempre più»45.
1.2.5. L’invio e/o il parlare di cibi Tenero quanto mai verso la propria figlia spirituale si rivela, in questo brano di lettera, don Nunzio: «In tutta confidenza vorrei mandata pria di mezzogiorno la tua domestica per parteciparti una mia pietanza. Tra padre e figli sono libertà consentite»46. In occasione dell’andare a Sciara47 il Russo riceve i biscotti preparati per lui e per i missionari da Paolina. Per questo così le scrive: «Ho detto a mia sorella di combinare i biscotti che mi mandasti nella valigetta di viaggio e li mangerò alla tua salute insieme ad essi […] Veramente i tuoi biscotti non potevano esser meglio impiegati»48 e ancora, quasi un mese dopo: «Iddio ti paghi la carità. Grazie per le caramelle; i missionari faranno festa; io ne farò pure uso»49. Guai, però, ad inviare cibi disobbedendo al dettato del padre spirituale: «Ho ricevuto il tutto, e il mio spirito ne è rimasto conturbato 44
Lettera di PT a NR del 02/02/1894, in ANR Lettere di PT. Lettera di PT a NR del 02/06/1902, in ANR Lettere di PT. 46 Lettera di NR a PT del 28/04/1882, in ANR, b. 46/13, fasc. 5, f. 1, p. 1. 47 Paese della Provincia e dell’Arcidiocesi di Palermo. 48 Lettera di NR a PT del 16/11/1879, in ANR, b. 46/13, fasc. 2, n. 10, ff. 2, pp. 3. 49 Lettera di NR a PT del 13/12/1879, in ANR, b. 46/13, fasc. 2, n. 11, f. 1. Sempre in ordine ai cibi, cfr anche Lettera di NR a PT del 10/10/1885, in ANR, b. 46/13, fasc. 8, ff. 2, Lettera di NR a PT del 01/07/1893, in ANR, b. 46/13, fasc. 11, f. 1, e Lettera di NR a PT del 18/04/1896, in ANR, b. 46/13, fasc. 14 – in quest’ultimo scritto il Russo disapprova la eccessiva raffinatezza di alcuni cibi preparati nel monastero dove vive Paolina, che potrebbero far peccare di gola. 45
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perché facesti cosa contro l’ubbidienza. Poi quanto a’ dolci, ti par cosa regolare il far tu mortificazione e dare al padre occasione di fare atti di gola? […] Tu ti mortifichi, te ne privi e dai occasione al padre di contentare la gola. Bella carità di figlia»50. L’aiuto alimentare — senza dubbio necessario in alcuni casi, personali51 o riguardanti altri52 — non toglie, però, la forma d’ausilio per eccellenza: «Aiuta la missione colla preghiera come l’hai aiutata coi dolci e le caramelle»53.
2. Paolina Turano 2.1. Brevi cenni biografici Su Paola — comunemente chiamata col diminutivo Paolina — Turano sono poche le notizie che abbiamo54. Il prof. Stabile, nel regesto dell’epistolario annota che la direzione spirituale, avvenuta col consenso dello zio vescovo55, interessò gli anni (dal 1876) in
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Lettera di NR a PT del 30/07/1902, in ANR, b. 46/13, fasc. 21, ff. 2. Ci riferiamo, ad esempio, a quanto scritto da Nunzio Russo nella seguente lettera: «ti prego e caldissimamente a sospendere di mandare le uova freschissime che hanno formato la metà del mio nutrimento durante questa malattia, in cui tutte le forze si devono ricevere da brodi e dalle uova. Chi ringrazia, si suol dire, che si leva l’obbligo; ed è perciò che io non ti ringrazio, per restarne sempre obbligato. Ma ora mi devi ubbidire; se avessi bisogno di uova e di galline, te lo direi; quindi ubbidiscimi: te ne do l’ubbidienza […]» (Lettera di NR a PT del 12/01/1894, in ANR, b. 46/13, fasc. 12, ff. 2); cfr anche Lettera di NR a PT del 10/05/1895, in ANR, b. 46/13, fasc. 13. 52 Cfr Lettere di NR a PT del 18.19.21.22.23.26/09/1898, in ANR, b. 46/13, fasc. 16, biglietto, nelle quali don Nunzio chiedeva alla propria figlia spirituale alcuni cibi per mons. Di Giovanni — Presidente regionale dell’Opera dei Congressi e amico carissimo del Russo — che trovavasi malato. 53 Lettera di NR a PT del 23/12/1879, in ANR, b. 46/13, fasc. 2, n. 12, ff. 2, pp. 4. 54 Purtroppo non conosciamo neanche la data di nascita e di morte. 55 Parlando di sé, così il prete palermitano si definisce: «l’unico direttore e padre dell’anima lasciato in perpetuo da un illustre e santo Prelato [Turano]» (Lettera di NR a PT del 19/06/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, ff. 2, pp. 4). La Turano, a sua volta, così definisce 51
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cui la Turano - consacrata di certo al Signore56 - fu ospite/convittrice (?) del Monastero palermitano delle Carmelitane di S. Maria di Valverde57, e il lasso di tempo (dal 1898) quando Paolina andò a vivere da sola, in conseguenza della legge statale sulla soppressione degli Ordini religiosi.
In ordine al carattere, sovente don Nunzio definisce la propria figlia spirituale “capricciosa” — in questo confortato anche dal parere di mons. Turano58 — rissosa e che si dà tanta importanza. Così, poi, si descrive la stessa Paolina in una lettera inviata al Russo: «Ella ancora non conosce bene il mio carattere: sono di natura ritrosa, o per dir meglio salvaggia, e tengo per principio di star sempre al mio posto con dieci passi indietro»59. Nei riguardi del proprio padre spirituale, però, la Turano si mostra alquanto gentile, al punto che, una volta, il Russo deve intimarle: «Tu dammi tue notizie, e promettimi che se verrò non abbi a confondermi colle solite gentilezze. Più di una tazza di caffè, non devi prepararmi. A questa condizione farò di tutto per venire. Non facciamo che prepari altro».60
2.2. Tratti caratteristici della personalità Ne vogliamo evidenziare solo due. Uno è l’avvertire in modo deciso l’esigenza di incontrare il proprio direttore di spirito. il proprio padre spirituale: «l’Angelo che il Signore mi aveva destinato per mezzo dello zio […]» (Lettera di PT a NR del 13/09/1886, in ANR, Lettere di PT). 56 In occasione dell’uscita dal Monastero a causa delle leggi eversive, così il padre spirituale esorta la figlia: «Ti pregherei però a non lasciare la tonachella (il soggolo sì). È il segno della predilezione di Dio e della tua consacrazione a Lui. Dio te ne liberi, cambierai il vestito, il tuo cuore diventerà una cagna incontentabile, e la vita ti passerà nella smania delle vanità, sempre allo specchio» (Lettera di NR a PT del 27/11/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, ff. 2); cfr anche Lettera di NR a PT del 28/11/1901, in ANR, b. 46/13, fasc. 20. 57 Il Russo andava a visitare la propria figlia spirituale, in Monastero – nel quale si trovavano come suore la zia e la sorella (Angelina) di Paolina Turano - il martedì, o, quando questo giorno “saltava”, il venerdì, cfr Lettera di NR a PT del 25/09/1884, in ANR, b. 46/13, fasc. 7, ff. 2, p. 1. 58 Cfr Lettera di NR a PT del 19/06/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, ff. 2, pp. 4. 59 Lettera di PT a NR del 03/07/1899, in ANR, Lettere di PT. 60 Lettera di NR a PT del 09/06/1896, in ANR, b. 46/13, fasc. 14, f. 1.
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Allorquando ciò non può avvenire — per malattia o semplice indisposizione di don Nunzio — Paolina sente forte prostrazione e arriva anche a lagnarsi col proprio padre spirituale perché, secondo lei, l’ha dimenticata! Queste rimostranze, invero, pur accrescendo il dolore nel padre spirituale — «La tua lagnanza di stamane mi ha molto addolorato; quasiché io fossi stato buono e non fossi venuto […] Torno a dirti che sono e sono stato ammalato, i primi giorni ebbi sputi di sangue. Io che colpa ci ho se non vengo?»61 — procurano, altresì, un sano rimprovero da parte dello stesso Russo che cerca in tutti i modi di far tornare ragionevole la figlia spirituale: «Dunque aggiustati la testa; calmati pria; e dopo calmata mi scrivi assicurandomi la tua serenità e poi verrò. Il saperti inasprita non mi spinge a venire; quando sei così ti ho preso a timore. Perciò prega pria per la calma; poi mi scrivi assicurandomi di ciò ed io verrò»62. Una volta, rispondendo alla Madre Vicaria del Monastero in cui si trovava Paolina — lettera in cui la monaca descriveva la condizione di prostrazione in cui la giovane versava perché don Nunzio non era andato a confessarla — così si esprime quest’ultimo: «Lo stato di disperazione in cui versa Paolina come V. R. mi scrive non è prodotto da me […] È vero che io le promisi di venire martedì; ma ella sa che quando non sono venuto, molto più dopo una promessa, non è stato mai per mala volontà; come non fu questi due ultimi giorni, nei quali uscii col proposito di venire. La buona Paolina perde in queste occasioni assai, e sono più le perdite che i guadagni che le verrebbero dalla stessa confessione. Che filo di rassegnazione la potrebbe far tesorizzare pel cielo. E intanto il tempo se ne vola e il Giudice sta alla porta. Bisogna che la buona figlia metta tutto il profitto e di ogni pagliuzza ne faccia una crocettina da intrecciare preziosa colla per l’eternità. Lasci d’imitare gli aspidi che ogni erba convertono in veleno, e pigli a modello l’industriosa apetta che d’ogni erba anche amara sa trarre il miele»63.
Due anni dopo, in un’altra lettera, sempre indirizzata alla Madre 61
Lettera di NR a PT del 06/11/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 4, ff. 2. Lettera di NR a PT del 26/06/1882, in ANR, b. 46/13, fasc. 5, ff. 2, pp. 2,3,4. 63 Lettera di NR alla Madre Vicaria del 12/10/1882, in ANR, b. 46/13, fasc. 5, ff. 4, 62
p. 2.
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Vicaria, Russo invita quest’ultima a rasserenare la Turano: «La colmi colla sua carità e la benedica a nome mio. Sono oscillazioni momentanee; a quest’ora è rimessa, e domani la troverò calma»64. Parecchio tempo dopo, don Nunzio ritorna su quest’argomento scrivendo direttamente alla figlia spirituale: «Non creder che io abbia dimenticato di venire […] io penso a te che stai in pensiero […] Il mio timore è per la tua rassegnazione, temo sempre li trovi antichi ngirri, ghirri (stare in guerra, ndr.), tuttoché da più di un anno sei pacata, e ti vedo convinta che quando manco non è per trascurataggine. Prima di Natale, o vivo o morto, verrò, non per te; ma per serenare me; perché quando vengo mi pare che ho soddisfatto alla missione dell’anima tua»65.
Un altro aspetto della personalità di Paolina è il nutrire una profonda consapevolezza della condizione della propria anima. La Turano non finge con sé e col proprio confessore e non si giudica migliore di altri credenti; anzi è cosciente che «vi sono di quelle [anime] che veramente amano Dio meglio di me che non so amarlo. Come sono stata infedele alla voce del Signore, e come ingrata ed incauta ho rigettato tante ispirazioni interne, dando orecchio al demonio bugiardo […]»66. Ciò non toglie il grande anelito alla santità presente nel cuore di Paolina Turano. Santità che si presenta — secondo un tradizionale modo di pensare della spiritualità cattolica — intimamente legata al desiderio di solitudine: «Sì, io voglio farmi santa; gran santa, e presto santa; ma come udirò la voce dello Sposo Divino in mezzo a tanto frastuono delle passioni agitate? Se voglio farmi santa dovrò divenire solitaria, e imitare la solitudine di Dio coll’allontanarmi dalle creature, coll’innalzare i miei pensieri e i miei desideri verso Lui con continua applicazione a contemplarlo ed amarlo»67. In ultimo, dopo alcuni anni di direzione spirituale, Paolina ha 64
Lettera di NR alla Madre Vicaria del 25/09/1884, in ANR, b. 46/13, fasc. 7, ff. 2,
p. 1. 65
Lettera di NR a PT del 16/12/1895, in ANR, b. 46/13, fasc. 13. Lettera di PT a NR del 27/05/1878, in ANR Lettere di PT. 67 Lettera di PT a NR del 27/05/1878, in ANR Lettere di PT. 66
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compreso bene che «Il Paradiso non è un boccone per poltroni, si deve passare per la via della croce, ch’è la via reggia, la via che ci conduce al cielo. La croce è l’unica nostra speranza; e chi la sa bene abbracciare vivrà eternamente. Questo mio pensiero mi conforta»68. Ha capito pure che non è tanto importante essere la prima tra le figlie dirette dal proprio padre, ma esserlo: «Io son ben persuasa che non sono più la prima nella sua lista, com’ella mi diceva mentr’era vivente lo zio [Turano], ma mi contento di essere l’ultima, purché non ne sia esclusa»69.
3. Nunzio Russo direttore spirituale 3.1. Caratteristiche generali del direttore spirituale Prima di addentrarci nella disamina di alcune caratteristiche generali del padre spirituale emergenti dall’epistolario oggetto del nostro studio, vogliamo presentare un interessante scambio epistolare tra Nunzio Russo e Paolina Turano — avvenuto dalla fine del mese di maggio al mese di settembre del 1886 — perché ci mostra l’intelligenza spirituale di don Nunzio nel riuscire a smascherare le reali motivazioni di un comportamento della stizzosa figlia. Andiamo, però, con ordine. Nella lettera del Russo alla figlia spirituale del maggio 1886 il primo annunzia la sua assenza da Palermo per tre mesi per motivi di salute, rimettendosi al consiglio della zia di Paolina in ordine alla scelta di un confessore70. Una ventina di giorni dopo, ricevuta finalmente una lettera della Turano71, il Russo scrive alla propria figlia col cuore in mano: «Ieri finalmente (!!!!!!!!!!!!!) ricevei la tua del 18. Quasi ogni giorno ho domandato: E Paolina che dice? E nessuno me ne ha dato notizia. Io non ho
68
Lettera di PT a NR del 02/10/1886, in ANR Lettere di PT. Lettera di PT a NR del 13/10/1886, in ANR Lettere di PT. 70 Cfr Lettera di NR a PT del 29/05/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, f. 1. 71 Purtroppo non possediamo tale lettera. 69
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scritto perché il dovere non mi dicea di scrivere quantunque il cuore mi ci spingesse […] Io sono stato con te, sì, con te, dentro l’anima tua. Ho veduto tutto. Cuore volubile e diffidente! Ho misurato le tua agitazioni, ho veduto cogli occhi e toccato con mano le tue stizzette, le tue incredulità, le tue risoluzioni (?!). Tutto, tutto ho veduto, sino alle informazioni prese sul mio conto guardandoti di non farle sapere a me. Io me ne sono afflitto da un lato, ma dall’altro ho riso come suol dirsi sotto il naso: Paolina è quella bambinaccia che è stata sempre»72.
Il primo luglio 1886, sempre dopo aver ricevuto una lettera della figlia spirituale73, don Nunzio risponde, redarguendola: «Avrei desiderato più sincerità nell’ultima tua; mi spiego: avrei accettato assai se tu avessi realmente confessato la tua incredulità e le tue stizzette per la mia malattia. Quanto mi è chiara la chiarezza altrettanto mi dispiace la reticenza. Quella indica un animo grande che è tanto nobile da vedere e detestare le sue mancanze; questa è indizio di animo piccolo e di mente limitata»74.
Due mesi dopo Paolina Turano scrive a Nunzio Russo lamentandosi dell’essere trascorso più tempo dei tre mesi previsti dal padre spirituale nella lettera del maggio. La Turano, nel frattempo, è andata da alcuni confessori rimanendone però alquanto scontenta; per questo chiede consigli al proprio padre spirituale75, il quale risponde, pochi giorni dopo, consigliandole il p. Bova come confessore76. Il 13 settembre 1886 è ancora Paolina ad indirizzare una lettera a don Nunzio ricordandogli l’impegno, assunto dinanzi a mons. Turano, nei suoi riguardi. Tale impegno, scrive la nipote del vescovo agrigentino: «mi fu di grande consolazione, mentre io mi lusingai di un zelo verace per l’anima mia; e mi fu di sollievo le promesse ch’ella fece allo zio, cioè che 72
Lettera di NR a PT del 19/06/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, ff. 2, pp. 4. Purtroppo, non possediamo neanche quest’altra lettera. 74 Lettera di NR a PT del 01/07/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, ff. 2, pp. 4. 75 Cfr Lettera di PT a NR del 04/09/1886, in ANR, Lettere di PT. 76 Cfr Lettera di NR a PT del 09/09/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, ff. 2. 73
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Mario Torcivia avrebbe potuto lasciare qualun[que] altra non già la Paolina, anche supposto il caso di malattia. Ora la sua risposta fu tutt’altra, si dimette dall’assistermi, netto, e senza interpellazione, e mi propone il confessore da sostituire lei. Il p. Bova sarà certamente un ottimo direttore, ma non è l’Angelo che il Signore mi aveva destinato per mezzo dello zio […] che le aveva affidato un campo da coltivare, e moriva tranquillo per averlo bene affidato […] Purnondimeno io non intendo costringerla a continuare la causa dell’anima mia, perché son persuasa che lo zelo non si spreme per forza. Però onde restare perfettamente tranquilla, voglio un’altra lettera da lei decisiva che mi affermi qual’è la volontà di Dio. Per quest’adorabile volontà son pronta a qualunque sacrifizio, e costi quanto si voglia, ma una menoma incertezza su questa adorabile volontà, mi terrebbe inquieta per tutta la vita»77.
La successiva lettera di Nunzio Russo a Paolina Turano rivela la reale intenzione del primo per arrivare a svelare ciò che c’era nel cuore di questa, esigendo con forza quanto segue: «voglio ed è volontà di Dio che a cominciare dall’arrivo della presente apri un conto corrente dell’anima tua scrivendo giorno per giorno ciò che ti passa in ordine all’acquisto della perfezione […] Ogni otto giorni me lo chiuderai in busta e me lo manderai. Ti pare? Sono cinque mesi che sono all’oscuro dell’anima tua. Ed io sono stato a vedere. Ho dato filo, ma finalmente questo è finito ed è venuto il tempo di tirare. Ti pare che sia stato andamento di figlia vera spirituale non iscrivermi nessuna lettera sull’anima tua dopo che io ti scrissi di darmene ragguaglio quando ti occorre? […] ti ho afferrato proprio pe’ capelli per non farti più o sia per non farti scappare; perché il “più” significherebbe che qualche volta mi sei scappata, mentre non mi sei scappata mai. Ringrazia il Signore che si è servito dello stato in cui ti ha posto la solita stizzetta (che si affaccia all’occasione di mie malattie) per elevarti a vita più sistemata e più unita colla guida. Tu ogni dì, e io quando credo necessario ti risponderò. Ma è un gran che il sapere che la guida è al corrente di tutto; è come il far vedere in uno specchio l’anima tua»78.
La risposta della figlia spirituale alla lettera del proprio padre arriva il 23 settembre 1886 e, stavolta, il tono è sincero: 77 78
Lettera di PT a NR del 13/09/1886, in ANR Lettere di PT. Lettera di NR a PT del 21/09/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, f.1.
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«Ha ben ragione, lo confesso, sono stata stizzita fin dal primo giorno della sua assenza, e per non darle alcun sazio (ragione, ndr.) ho fatto sforzi inauditi per manifestarmi calma, e indifferente del suo regolamento verso di me. Mi compatisca, padre mio, perché sono sempre una bambinaccia […] Ma com’è possibile, padre mio, lasciare, o allontanarmi da colui che mi generò nel Signore, e a cui devo la vita spirituale, che vuoldire la eterna? In nessun nome trova pace il mio cuore, tranne del suo, e l’anima mia non riposa che in lei. Lo creda, la pena che ne provai è indicibile, ne piansi amaramente giorno, e notte […] Farò obbedienza in quanto ai rapporti ch’ella vuole scritti sul conto dell’anima mia»79.
Rispondendole, così si esprime il Russo: «Resto contento delle tue disposizioni […] La tua ultima lettera mi ha serenato totalissimamente»80. Evidenziamo, ora, alcune caratteristiche generali del direttore spirituale in sé così come si evincono dalla lettura delle lettere da noi esaminate.
3.1.1. Origine divina Col titolo di questo punto vogliamo evidenziare che è Dio stesso il vero maestro di spirito ed è, altresì, Egli che concede un direttore spirituale umano a chi glielo chiede, nella preghiera, con insistenza. Ma leggiamo quanto lo stesso Nunzio Russo scrive: «Prega il Signore che mi faccia fare la sua volontà. Il vero maestro di spirito è Lui; sa il segreto della santificazione, che è l’abnegazione della propria volontà»81 e cosa, a sua volta, è successo alla propria figlia spirituale: «è Egli
79
Lettera di PT a NR del 23/09/1886, in ANR Lettere di PT. Lettera di NR a PT del 26/09/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9. Certo è stata una vera e propria battaglia quella combattuta da Nunzio Russo per smascherare le autentiche motivazioni soggiacenti alle parole scritte da Paolina. Alla fine, però, non demordendo e sapendo scrivere le giuste parole al tempo opportuno, il padre spirituale è stato capace di far ammettere alla figlia, con tutta sincerità e dolore per le sofferenze arrecate, ciò che realmente albergava nel cuore. 81 Lettera di NR a PT del 20/04/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 8, ff. 2, pp. 4. 80
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stesso che le (don Nunzio, ndr.) ispira tanto zelo per l’anima mia, come ancora Egli stesso mi fece tanta grazia […] cioè di ridonarmi il padre mio spirituale ch’io da tanto tempo anelava con molte lagrime, e preghiere»82.
3.1.2. Dedizione totale, perpetua ed eterna A proposito della dedizione, che sovente comporta anche la debilitazione delle proprie energie fisiche, così leggiamo nella finale di una lettera indirizzata a Paolina, in un giorno di carenza di forze del Russo: «Addio, bastò scrivere questo per esaurire le forze che avea destinato per l’offizio: Fiat!»83. Ancora, dopo aver descritto le proprie non buone condizioni fisiche: «Non dubitare che a prima uscita verrò da te»84 e: «Il primo miglioramento che avrò, verrò a consolare la buona Paolina. Vorrei applicare tre comunioni da te»85 e, infine: «Quando mi rassoderò verrò, tranne che ne abbi urgenza»86. Durante la diffusione del colera nel 1885, nonostante le abbastanza precarie condizioni di salute, così scrive il Russo: «Con tutto questo ti mandai a dire che se, Dio ne liberi, avrai bisogno impellente di me anche di notte, ti do l’obbedienza di mandarmi persona […] Basterà chiamarmi a nome per subito alzarmi e dare voce. Per le solite confessioni ordinarie, se pria non mi consolido, non vengo; ma nel caso impellente aiuterà il Signore»87, e inoltre: «chi sa, ti pare di avere bisogno del Padre, a qualunque ora manda a chiamarmi, né ti tratterrai perché io mi possa trovare indisposto»88. Acme di questa dedizione è l’oblazione totale del padre nei riguardi della persona diretta: «Non dubitare, non un’ora, ma tutto il giorno mi offro
82
Lettera di PT a NR del 28/05/1890, in ANR Lettere di PT. Lettera di NR a PT del 30/11/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 6, ff. 2. 84 Lettera di NR a PT del 20/03/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 5, ff. 2, p. 1. 85 Lettera di NR a PT del 18/08/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 9, ff. 2, p. 1. 86 Lettera di NR a PT del 22-23/01/1899, in ANR, b. 46/13, fasc. 17. 87 Lettera di NR a PT del 10/10/1885, in ANR, b. 46/13, fasc. 8, ff. 2. 88 Lettera di NR a PT, s.d., in ANR, b. 46/13, fasc. 23. 83
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in sacrifizio per l’anima tua in unione a quello che s’immola su tutti gli altari del mondo cattolico»89. D’altronde don Nunzio è il padre spirituale di Paolina: «Quantunque non ti confessi a me, pure non cesserai mai di essermi figlia»90 e: «io anche nell’altro mondo starò sempre con te, come padre tuo, presente al tuo spirito e presentando te ovvero facendo te presente dinanzi il trono di sua Divina Maestà»91.
3.1.3. I salutari rimproveri La totale dedizione del direttore spirituale verso colui/colei che si dirige non lo esime dal dare, se meritati, eventuali rimproveri. Il Russo è convinto, in altre parole, che quando il rimprovero è salutare per l’anima che lo riceve, bisogna darlo anche se porta sofferenza e dispiacere e in modo tale che non sia inficiato da alcuna cosa: «Ricordati che lo zelo dettò la presente [lettera]. Io ti avea promesso di fartela in siciliano; ma avrei potuto farti piangere ridendo; no, è interessante che pianga sullo stato dell’anima tua»92. Ancora, dopo aver smascherato la propria figlia spirituale in ordine alla non volontà di confessarsi ancora con lui, così termina la lettera don Nunzio: «È la carità e lo zelo per l’anima tua che mi dettano in suggello queste parole. Se non avessi zelo ti cullerei come bambina, senza spingerti a mettere un piede a terra. Recita un’Ave per capire il senso vero delle mie parole e per impedire al demonio che t’inasprisca di più»93. Sempre a proposito dei rimproveri del padre nei riguardi della figlia disobbediente, ci sembra interessante far notare come il primo riconosca come giochino alquanto le asperità del proprio carattere. In una lettera del 6 novembre 1878, infatti, se il tono del Russo è molto duro, al punto da terminare lo scritto con la seguente espressione: «Chi ti vuol bene, dice il 89
Lettera di NR a PT del 19/04/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 7, ff. 2, p. 1. Affermazione questa che evidenzia la possibilità della distinzione tra paternità spirituale e celebrazione del sacramento della Riconciliazione, riconoscendo alla prima il primato in ordine al seguire spiritualmente una persona. 91 Lettera di NR a PT del 17/08/1887, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, ff. 4, pp. 2. 92 Lettera di NR a PT del 10/12/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 8, ff. 2, pp. 2. 93 Lettera di NR a PT del 26/06/1882, in ANR, b. 46/13, fasc. 5, ff. 2, pp. 2,3,4. 90
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proverbio, ti fa piangere. Meglio piangere qui, che eternamente all’inferno»94, appena otto giorni dopo è lo stesso don Nunzio a scrivere alla figlia spirituale per dirle che: «intendo mutare in carezze tutte le sgridate, e ciò lo dico davvero protestandomi che intendo ritrattare tutte le parole, le quali furono dette dal mio zelo imperfetto ed amaro. Zelaccio di P. Nunzio!»95.
3.1.4. Alcune qualità 3.1.4.1. Riservatezza Tale qualità resta valida anche se non ci si ritrova nell’ambito della celebrazione del sacramento della Riconciliazione. Un esempio è dato dalla protesta della suddetta riservatezza che Nunzio Russo fa in una lettera inviata a Paolina: «Il carteggio con lui (mons. Turano, ndr.) è stato per affari di coscienza mia. Io non ho scritto nulla che sia relativo a quanto mi scrivesti»96. Venti giorni dopo aggiunge: «Per tua maggiore serenità io non conservo le lettere di coscienza, le lacero subito in minutissimi pezzetti per custodire inviolato il segreto»97.
3.1.4.2. Sincerità È una caratteristica alla quale don Nunzio non ha mai rinunziato, perché parte integrante del proprio carattere: «Mi dirai selvaggio ma parlo col cuore in bocca; approvo ciò che debbo approvare e disapprovo ciò che devo disapprovare»98.
94
Lettera di NR a PT del 06/11/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 4, ff. 2. Lettera di NR a PT del 14/11/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 5, ff. 2, pp. 2. 96 Lettera di NR a PT del 24/02/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 2, ff. 2, p. 1. 97 Lettera di NR a PT del 14/03/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 4, f. 1, p. 1; cfr anche Lettera di NR a PT del 11/10/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, ff. 2. 98 Lettera di NR a PT del 30/07/1902, in ANR, b. 46/13, fasc. 21, ff. 2. 95
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3.1.4.3. Umiltà Parliamo di umiltà in questo paragrafo perché anche il direttore spirituale, in quanto uomo, può sbagliare nel giudicare una persona/un evento. L’importante è saper riconoscerlo e questo fa Nunzio Russo: «Ti assicuro che io ritrattai in me stesso il giudizio che avea fatto intorno a ciò che sai. Te lo dissi l’ultima volta e te lo ripeto ora. Possiamo errare tutti nei giudizii»99.
3.1.5. Il non essere di disturbo e il saper incoraggiare Riguardo al primo aspetto, guai se il padre spirituale — a causa del Maligno - divenisse fonte di malessere spirituale per la persona che segue: «Che il demonio ti disturbi per altre vie lo soffro, ma mi è assai duro il vedere che colle sue menzogne deve farmi causa dei tuoi disturbi»100. Sul saper dare coraggio ascoltiamo ancora una volta il Russo: «Coraggio, coraggio! È così [che] si fanno i Santi […] Le vocazioni più forti stanno a lato delle più forti tentazioni. Quanto più radicato è l’albero così più forte il vento lo batte e tanto meno lo vince. Coraggio!»101. L’incoraggiamento, come anche i consigli, d’altronde, giovano a chi li riceve: «La sua pregiatissima lettera oltre che m’incoraggi molto, fu di balsamo salutare all’anima mia, giacché i suoi saggi consigli posarono sul povero mio cuore come la rugiada del mattino; esso venne confortato dalla sua dolce carità, la quale può ricompensargliela solo Dio […]»102.
3.1.6. La richiesta di preghiere È, questo, un desiderio del Russo, al quale Paolina molto volentieri
99 100 101 102
Lettera di NR a PT del 15/10/1902, in ANR, b. 46/13, fasc. 21. Lettera di NR a PT del 06/03/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 3, ff. 2, p. 1. Lettera di NR a PT del 24/05/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 1, ff. 2. Lettera di PT a NR del 27/05/1878, in ANR Lettere di PT.
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accondiscende: «I giorni son tutti uguali, e tutti son buoni per porgere preci al Signore in pro delle persone che più ci stanno a cuore […]»103. Spesso don Nunzio la invita a pregare per difficoltà personali e/o altrui o in occasione di morti di persone a lui care104 e la Turano si mostra in questo campo molto obbediente: «Spero che il padre mio stia più sereno nello spirito, giacché ieri feci un’ora d’orazione innanzi il S.S. Sacramento secondo la sua intenzione, e lo pregai caldamente per la guarigione del suo spirito. Questa mattina l’ho pregato ancora con più fervore»105.
La preghiera della figlia spirituale reca grande consolazione al Russo: «È gran conforto per me pensare che la mia Paolina prega»106; per questo la ringrazia di vero cuore: «Un milione di benedizioni e di ringraziamenti; stamane ho un po’ respirato. Quante obbligazioni alle tue preghiere. Continua»107. Ancora, in una lettera in cui narra degli ultimi momenti di vita della madre: «Grazie infinite pei conforti che mi doni per le preghiere che hai fatto. Ho pensato a te e mi sono confortato con dire a me stesso: c’è Paolina che prega. Iddio ti benedica figlia mia, e ti ricompensi a mille doppi la carità che sempre mi fai [...] Prega per essa»108, e «tu aiuterai il padre tuo con la preghiera. Io ci ho molta fede. Tutto ciò che fai, tutto ciò che soffri, tutto ciò che offri, fallo con l’intenzione di avvalorare le mie preghiere. Dio è grande e farà cose grandi»109. Da una lettera del 1894 sappiamo anche in che momento il padre esorta la figlia a pregare per lui: «durante il tempo che devi pregare pel
103
Lettera di PT a NR del 25/03/1878b, in ANR Lettere di PT. «Mi preme che tu faccia comunioni e ascolti messe in suffragio di Mons. Di Giovanni» (Lettera di NR a PT del 06/08/1899, in ANR, b. 46/13, fasc. 18, f. 1). 105 Lettera di PT a NR del 21/02/1879, in ANR Lettere di PT. 106 Lettera di NR a PT del 09/09/1879, in ANR, b. 46/13, fasc. 2, n. 6, ff. 2, p. 1. 107 Lettera di NR a PT del 21/02/1879, in ANR, b. 46/13, fasc. 2, n. 4; cf. anche Lettera di NR a PT del 17/10/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 11, ff. 2, p. 1 e Lettera di NR a PT del 28/03/1894, in ANR, b. 46/13, fasc. 12, f. 1. 108 Lettera di NR a PT del 11/09/1879, in ANR, b. 46/13, fasc. 2, n. 7, ff. 2, p. 1. 109 Lettera di NR a PT del 17/08/1887, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, ff. 4, pp. 2. 104
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padre secondo le sue intenzioni, devi stare coll’Ostia in bocca per non alienare il cuore di Dio»110. Sempre in ordine alla preghiera, facciamo notare, infine, l’invito del Russo alla Turano perché ella stessa preghi per sé in ordine alla propria santità: «Mille benedizioni, e prega perché presto ti facessi santa, ma presto, presto»111.
3.1.7. L’invocazione di benedizioni Don Nunzio non solo prega Dio — nel chiuso della propria cella interiore o in altre occasioni112 — per la propria figlia spirituale113, ma anche non cessa di benedirla manifestamente. Spesso, infatti, alla fine delle lettere troviamo l’espressione «Mille benedizioni», che, oltre ad essere una risposta alla continua richiesta della stessa Paolina formulata dal «Mi benedica» presente nella chiusa degli scritti inviati al padre spirituale, manifesta il grande amore spirituale del Nostro nei riguardi della propria figlia nello Spirito, sulla quale non cessa di invocare expressis verbis il favore divino perché ella vi trovi consolazione e conforto114. Ascoltiamo, però, il Russo: «Io ti mando benedizioni fuori conto spesse volte, assai, assai; e quando non posso proferire le parole, col solo segno della croce»115. Benedizioni e sofferenze sono, poi, per Nunzio Russo strettamente congiunte: 110
Lettera di NR a PT del [21/01/1894], in ANR, b. 46/13, fasc. 12, f. 1. Da quanto finora detto, emerge come Nunzio Russo sa molto bene che anche colei che si sta accompagnando sulle vie che conducono al Signore può intercedere, a sua volta, per chi la dirige, perché anche il direttore spirituale ha le proprie difficoltà nella vita spirituale, vive la propria lotta contro le potenze avverse al Signore e la preghiera altrui è senz’altro un aiuto che il Signore concede perché si possa vivere con tenacia e decisione la sequela Christi. 111 Lettera di NR a PT del 06/03/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 3, ff. 2, p. 1. 112 «Mentre avrò il corpo del santo nelle mani ti raccomando a lui […]» (Lettera di NR a PT del 06/10/1880, in ANR, b. 46/13, fasc. 3,f. 1, p. 1). Il corpo di cui si parla – ricaviamo dalla stessa lettera - è quello di san Felice. 113 Ella stessa, d’altra parte, lo richiede: «Nelle sue orazioni, non si dimentichi della povera Paolina» (Lettera di PT a NR del 26/10/1886, in ANR Lettere di PT). 114 Cfr, ad esempio, Lettera di NR a PT del 20/05/1896, in ANR, b. 46/13, fasc. 14. 115 Lettera di NR a PT del 03/02/1899, in ANR, b. 46/13, fasc. 17.
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Mario Torcivia «È il linguaggio della fede quello che hai sempre inteso dal padre tuo; né so interromperlo ora che so del taglio che forse hai patito alla guancia. Le benedizioni di Dio in terra sono le croci. Vedi qual’è l’effetto delle molte benedizioni che qual indegno suo ministro io ti mando? L’immaginetta congiunta al presente biglietto sei tu colla veste intessuta di Croci. Ti mando una specialissima benedizione per la santa ed allegra rassegnazione»116.
La benedizione, infine, diventa a volte richiesta di preghiera: «Ti benedico colla preghiera di raccomandarmi assai, assai al Signore»117.
3.1.8. La programmazione degli incontri Nel colloquio spirituale, nulla è lasciato alla casualità e meno che mai ai tempi liberi e questo fa parte anche dell’“insegnamento” del padre spirituale alla figlia: «Mi sarei guardato dal darti lo scandaloso esempio di superbia col mandarti a dire, in tono, degno solo della superbia del diavolo, che non sto soggetto ad orario, e che vengo quando mi piace»118. Al contempo, però, guai all’attesa spasmodica del padre spirituale perché, come scrive lo stesso don Nunzio a Paolina: «non aspettare altro che la Volontà di Dio, così ogni mia venuta ti sarà sempre nuova e causa di nuovi meriti»119.
3.1.9. Lo svelamento del cuore del diretto ad altri Nell’impossibilità di incontrare di persona la Turano, il Russo le concede il permesso di aprire il proprio cuore alla zia, monaca nel monastero dove la figlia spirituale risiedeva, pur rispettando pienamente la libertà d’azione della diretta: «Se tu ti senti in confidenza verso la zia, potrai sottometterle le mancanze fatte e stare al suo giudizio se hai o no bisogno 116
Lettera di NR a PT del 16/02/1899, in ANR, b. 46/13, fasc. 17. Lettera di NR a PT del 10/12/1880, in ANR, b. 46/13, fasc. 3, n. 12, ff. 2, pp. 3. 118 Lettera di NR a PT del 06/03/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 3, ff. 2, p. 1. 119 Lettera di NR a PT del 11/04/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 6, ff. 2, p. 1. 117
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dell’assoluzione. In ciò ti rimetto a te»120. E ancora: «Se hai bisogno di ricorrerti [consigliarti, ndr.] prenditi l’assoluzione o la benedizione da chi vuole la zia»121. Allorquando, poi, sempre in conseguenza del debole stato di salute, non potrà incontrare per un certo periodo la Turano, è sempre alla zia di questa che don Nunzio si rimette per la scelta di un padre confessore: «Mi rimetto al consiglio della zia per isceglierti un saggio confessore a cui ricorrerti per questi tre mesi. Io suggerirei il padre Rosario Lo Presti; trattandosi di una semplice assoluzione, credo che dirà sì; ma mi rimetto alla zia […] Nei bisogni di tua coscienza potrai farmi capitare le tue lettere con p. Arena»122.
Una notazione, infine, sulla diversità dei direttori di spirito. In ordine a ciò, così si esprime il padre spirituale in una lettera di risposta alla figlia che si lamentava proprio di ciò: «Non ti agitare per la diversità degli spiriti che trovi negli altri direttori di coscienza. Trovatone uno sulla cui parola l’anima dorme in pace, non bisogna lasciarlo. Bisogna contentarsi anche di sentirlo una volta all’anno». Aggiunge, poi: «Quando la guida è da Dio anche il silenzio è rivelazione; anche i rifiuti, anche gli apparenti abbandoni, anche i supposti raffreddamenti […] Quanto al vario modo di dirigere che hai veduto in altri non te ne fare, ti diranno sempre cose che non ti daranno pace a meno che non ti dicono di non iscostarti un ette da P. Nunzio»123.
3.2. Tematiche di direzione spirituale Evidenziamo ora alcune tematiche della direzione spirituale del 120
Lettera di NR a PT del 30/11/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 6, ff. 2. Lettera di NR a PT del 09/09/1879, in ANR, b. 46/13, fasc. 2, n. 6, ff. 2, p. 1. Ci sembra interessante evidenziare come il Russo non avesse un rapporto di stretto possesso con la propria diretta. Anche altre persone, infatti — e, badiamo, in questo caso, non ministri ordinati — possono dire qualcosa di spirituale alla Turano. 122 Lettera di NR a PT del 29/05/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, f.1. 123 Lettera di NR a PT del 01/07/1886, in ANR, b. 46/13, fasc. 9, ff. 2, pp. 4. 121
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sacerdote palermitano nei riguardi della Turano, così come emergono dalle lettere custodite nell’Archivio Nunzio Russo.
3.2.1. Obbedienza Don Nunzio non transige per nulla su questa virtù. La esige in modo assoluto dalla figlia spirituale e spesso proprio la disobbedienza di questa è motivo d’aspro rimprovero e di risoluzioni intraprese da lui per riportare all’obbedienza colei che facilmente recalcitra: «In che fai tu consistere la felicità dei tempi? Ed in che la miseria? La felicità dei tempi è camminar bassa, semplice e obbediente, uniformata alla volontà di Dio, contraddetta nel proprio genio. La miseria è la disobbedienza. Ieri bollettino niente, l’altro giorno ne saltasti uno; e l’obbedienza!!! Paolina mia di nessun anima obbediente si è letto che siasi dannata»124.
Il Russo sa bene che ogni disobbedienza, anche la più piccola, è foriera di sventure maggiori. Per questo impone alla figlia spirituale la continua obbedienza, come, ad esempio, nel caso dello stilare il bollettino125: «Paolina, figlia mia, mi hai disobbedito col sospendere di testa tua l’esame; chi sa di quante altre infedeltà più grosse sarà cagione quella prima? Io me ne sto paziente, aspettando. Meglio morire che disobbedire. Tremo a pensare i tremendi giudizi di Dio. Oh! quante giovanette sono all’inferno per avere dato un primo passo contro l’obbedienza!»126.
L’obbedienza della propria figlia spirituale è motivo di gran gioia per il sacerdote palermitano: «quando obbedisci mi sento legare da mille
124
Lettera di NR a PT del 06/11/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 4, ff. 2. Su questo strumento di direzione spirituale cfr infra, al punto 3.3.1. 126 Lettera di NR a PT del 10/12/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 8, ff. 2, pp. 2. 125
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sentimenti di riconoscenza. Iddio ti benedica e ti faccia Santa. Evviva la docile Paolina […]»127. Una decina d’anni dopo, riottenuta la possibilità di avere don Nunzio quale direttore di spirito, la Turano, maturata ormai nella vita spirituale, fa professione di piena e totale obbedienza: «ora dovrò nuovamente ricalcitrare col disubbidire al padre mio, che vuol dire Dio, e mettere in non cale ciò ch’egli mi dice? No, se pel passato sono stata tale, per l’avvenire spero coll’aiuto di Dio di corrispondere alla divina misericordia coll’obbedire ciecamente a lei padre mio, a costo anche della stessa vita»128.
L’obbedienza, poi, riguarda sia l’ambito prettamente spirituale, che anche le faccende più “terrene” quali i cibi: «L’avrei gradito di più [non sappiamo di quale cibo don Nunzio parli, ndr.] se me ne avessi domandato l’obbedienza. L’affetto ti fa dimenticare tutto. Ad ogni modo ringrazio assai, assai»129 e: «Ieri Mariano mi portò 4 bellissime uova; ma io te l’ho proibito. Che coscienza hai? Se tu fossi moralista, io direi applicandolo a te, che i moralisti mettono il manico dove vogliono»130.
3.2.2. Comunione quotidiana È un cavallo di battaglia della direzione del Russo alla Turano: 127
Lettera di NR a PT del 06/10/1879, in ANR, b. 46/13, fasc. 2, n. 8, ff. 2, p. 3. Lettera di PT a NR del 28/05/1890, in ANR Lettere di PT. La promessa di obbedienza non sempre fu mantenuta dalla Turano. Ne fanno fede le seguenti lettere del Russo: «Dunque non vuoi sentire? Sai qual è la conseguenza? Che mi affretterò ad uscire per venire a farti una sgridata. Tu certo non vuoi questo. Dunque ubbidisci, e ti ringrazio assai, assai» (Lettera di NR a PT del 13/01/1893, in ANR, b. 46/13, fasc. 11, f. 1) e «Dunque? Devi vincere sempre tu? Ti persuadi quanto sei lontana ancora dall’essere ubbidiente? Come debbo fare? Possibile! Non ostante tutte le proibizioni del mondo! Dunque come debbo regolarmi? Ti devo lasciare? Oppure per punire la disubbidienza fare qualche vacanza di qualche paio di mesi? […] Un’altra volta, ogni disubbidienza di simil natura sarà punita con un mese di vacanza» (Lettera di NR a PT del 08/03/1894, in ANR, b. 46/13, fasc. 12, ff. 2). 129 Lettera di NR a PT del 27/08/1891, in ANR, b. 46/13, fasc. 10. 130 Lettera di NR a PT del 24/03/1898, in ANR, b. 46/13, fasc. 16. 128
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«Quanta consolazione per la comunione fatta anche stamani. Così andiamo bene […] il primo patto è di non lasciar languire Gesù d’amore e di desiderio di venire a visitarti. Che scortesia per non dire ingratitudine lasciarlo un giorno!»131 e: «Ad ogni modo non si lasci la comunione; se no sciarra [lite, ndr.] perpetua»132. Ecco svelata la ragione per la quale mai Paolina vi dovrà rinunziare e per questo, anche se malato o impossibilitato, don Nunzio farà di tutto per recarsi a comunicarla: «Per un affare di rilievo […] dovrò trattenermi [a Trabia] tutta questa settimana. Ma temendo che tu lasci la comunione, mercoledì scenderò [a Palermo] per te e ripartirò»133 e: «Se hai lasciato la Comunione, scrivilo subito, che non ostante lo strapazzo del viaggio verrò subito»134. Su questa tematica il Russo è consapevole della serietà della figlia spirituale: «Son sicuro che non hai lasciato la Comunione. Paolina parla una volta, è donna di parola»135. Ciononostante, alcuni anni dopo, è ancora il Russo a ricordare ed esigere l’obbedienza della comunione quotidiana: «Ubbidienza; se no, metterò lo stato di assedio, e dopo tre intime farò fuoco. Addio. Intanto i discorsi sono belli e buoni; ma a me non piace che sii senza Comunione. Un’assoluzione anche dal sacrista, se sia possibile. Purché non si perda il bene infinito della Comunione»136 e: «Tu intanto non lasciare mai mai la Santa Comunione, è il contravveleno delle insidie della bestia puzzolente. Ricevila ogni giorno per viatico»137. Nonostante questa continua insistenza del padre spirituale, Paolina si rivela di dura cervice: «Scrivimi perché hai lasciato la Comunione, se lo puoi scrivere. Tu sei facile a lasciarla»138. Leggiamo, inoltre, cosa scrive il Russo alla Turano che gli comunica
131
Lettera di NR a PT del 27/[01?]/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 2, ff. 2, p. 1, cfr anche Lettera di NR a PT del 16/01/1899, in ANR, b. 46/13, fasc. 17. 132 Lettera di NR a PT del 16/11/1879, in ANR, b. 46/13, fasc. 2, n. 10, ff. 2, pp. 3. 133 Lettera di NR a PT del 03/02/1879, in ANR, b. 46/13, fasc. 2, n. 3, ff. 2, p. 1. 134 Lettera di NR a PT del 05/10/1899, in ANR, b. 46/13, fasc. 18, ff. 2. 135 Lettera di NR a PT del 18/01/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 1, ff. 2, p. 1. 136 Lettera di NR a PT del 14/01/1894, in ANR, b. 46/13, fasc. 11, f. 1. 137 Lettera di NR a PT del 11/10/1899, in ANR, b. 46/13, fasc. 18, ff. 2. 138 Lettera di NR a PT del 03/07/1895, in ANR, b. 46/13, fasc. 11, f. 1, p. 1.
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che fa la comunione, pur nell’incertezza — non sappiamo per quali motivazioni — di poterla fare139: «In nome di Dio, sta’ serena, figlia mia carissima. Altro è sentire, altro è consentire. Ciò che non esce direttamente dalla volontà libera non è peccato. Dio ti vede, Dio lo sa; ciò che si fa dal diavolo in noi e senza di noi, anzi contro di noi, non è peccato; anzi è materia di merito. Raccomandati sempre a Maria, aspergi la stanza e il letto di acqua benedetta; fa spesso la protesta di voler piuttosto calar viva nel fuoco infernale, che acconsentire al demonio. Sta’ serena, ti giuro a nome di Dio che non hai consentito […] Sta calma, continua a comunicarti, e scrivimi»140.
3.2.3. Sacramento della Riconciliazione Sulla celebrazione di questo sacramento, così si esprime don Nunzio rispondendo ad una perentoria domanda della figlia spirituale riguardo al fatto se egli l’avesse voluta ancora confessare: «Quando la penitente domanda al confessore se la vuole confessare ancora è segno che è essa che non si vuole confessare più a lui e non il confessore che non vuole confessarla. Hai capito? Io sarò sempre pronto a farti la carità; e tu devi ricevere con umiltà la mia assistenza. Te l’ho detto, finché durano le pretensioni non potrai progredire di un passo nella via di Dio»141.
139
Cfr Lettera di PT a NR del 21/01/1894, in ANR Lettere di PT. Lettera di NR a PT del [21/01/1894], in ANR, b. 46/13, fasc. 12, f. 1. Alcuni mesi dopo, è ancora don Nunzio a chiarificare la figlia spirituale in ordine a ciò che rende un’azione peccato mortale: «ti pregherei, se è possibile, scrivermi qui stesso la cosa che t’impedisce di comunicarti. Rinfresco la memoria col richiamarti ai principi generali della morale. Per esserci peccato mortale ci vogliono tre cose: 1. Materia grave appresa per tale; 2. Avvertenza del male (ad occhi aperti); 3. Dedizione piena della volontà. E poi, regolandoti come ti ho regolato io in circostanze simili, non potrai sbagliare» (Lettera di NR a PT del 21/09/1894, in ANR, b. 46/13, fasc. 12, f. 1). 141 Lettera di NR a PT del 26/06/1882, in ANR, b. 46/13, fasc. 5, ff. 2, p. 2,3,4. Facciamo notare come in questo brano il Russo si svela profondo conoscitore del cuore dell’umano, riuscendo a smascherare quei tranelli che a volte, più o meno consapevolmente, vengono tesi da chi è diretto al proprio padre secondo lo spirito. 140
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Dopo alcuni giorni di vacanza, il Russo raccomanda la confessione alla Turano: «Grazie senza fine dell’ovo prodigioso. Ma mi sarebbe piaciuto meglio se fossi venuta a confessarti. La villeggiatura ha giovato al corpo, ma nociuto all’anima. Bisogna ripigliare le forze dello spirito come hai ripigliato quelle del corpo»142.
3.2.4. Discernimento Una delle regole inerenti al discernimento è il non prendere mai delle risoluzioni quando non si è sereni interiormente, specie quando sono avvenuti dei fatti che hanno un po’ “sbalestrato” colui che deve fare una scelta. Ma ascoltiamo la risposta del Russo alla determinazione di Paolina di non confessarsi con lui: «È cosa giusta la risoluzione fatta nello stato dello inghirrio [lotta interiore, ndr.] di non pensare più a confessarti? Non è stato l’urto contro il Padre la porta del demonio? Non fu esso che ti fece scrivere che ti confessai forzatamente […]? Il demonio si serve di tutto per gittare sul povero Padre la responsabilità di quanto non va a’ nostri versi. Manca in te la rassegnazione […] Dissi a principio che io rispondeva pigliando sul serio la tua lettera; ma non posso credere che la scrivesti sul serio; mentre la scrivevi la coscienza ritirava la mano. Leggila ora e vedrai; per questo te la rimetto»143.
3.2.5. La Croce come via salvifica In Nunzio Russo stretto è il legame tra sofferenza, croce e salvezza: «Sia fatta l’adorabile volontà di Dio. Io attribuivo al cattivo tempo la tua non venuta; ed intanto ho inteso che alle prime croci se ne sono aggiunte delle
142 143
Lettera di NR a PT del 09/08/1897, in ANR, b. 46/13, fasc. 15. Lettera di NR a PT del 16/12/1899, in ANR, b. 46/13, fasc. 18.
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altre: segno di predestinazione; in cruce salus. In cruce resurrectio et vita […] Fiat! Evviva Gesù, ti vuol bene assai assai»144.
3.2.6. Umiliazione e mortificazione È proprio l’umiliazione, per il sacerdote palermitano, l’atteggiamento che può ridonare la pace interiore. Così, infatti, scrive alla figlia spirituale: «Se vuoi che io venga martedì, assicurami prima di avere ricuperato la calma […] Se non ti calmi prima, non basterà dal conto mio sforzo alcuno; e succederà peggio. Quindi prega la Madonna della pace. Tu hai ragione; ma come si fa a sostenere anche la guerra interna oltre quella esterna che è assai terribile? Questa non puoi evitarla; ma quella sì. È tuo potere riacquistare la pace interna. E come? Umiliandoti dinanzi a Dio»145.
E ancora, in occasione di alcune controversie civili: «Se io venissi domani, ti lascierei più disturbata, perché non debbo essere io che ti devo serenare; ma tu stessa, umiliandoti in faccia a Dio, per l’insulto fatto al Padre, e di cui con tutto il cuore ti perdono […] Prega quindi, umiliati, pensa che in ogni momento possiamo presentarci al tribunale di Dio […]»146.
Sulla mortificazione, infine: «Ho gradito le uova, ma avrei gradito più assai la mortificazione di negarti la volontà di mandarmele, e te ne sarei restato più obbligato, perché ogni piccolissimo atto di mortificazione, ossia di abnegazione della propria volontà è un tocco di maestro a raggiungere la somiglianza di [Gesù]!»147.
144
Lettera di NR a PT del 26/[…]/1900, in ANR, b. 46/13, fasc. 19. Lettera di NR a PT del 09/06/1901, in ANR, b. 46/13, fasc. 20, f. 1. 146 Lettera di NR a PT del 28/11/1901, in ANR, b. 46/13, fasc. 20. 147 Lettera di NR a PT del 13/02/1903, in ANR, b. 46/13, fasc. 22. 145
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3.3. Mezzi di direzione spirituale Alcune considerazioni, infine, sui mezzi usati dal Russo nella direzione spirituale della figlia.
3.3.1. Il “bollettino” Tale strumento148, che don Nunzio vorrebbe ricevere ogni due giorni , si rivelava un mezzo quanto mai utile per il direttore che, soprattutto, per la figlia, “costretta” così ad essere sempre desta e attenta nella propria vita spirituale. Per questo il Russo gioisce nel riceverlo — «Ti ringrazio dell’assiduità del bollettino; la Madonna n’è grata»150 — e si accalora alquanto quando la Turano si mostra riluttante a redigerlo — «Il Bollettino mi riuscì assai caro; le interruzioni sono cattivo segno. Quando il nemico arriva a sospendere le comunicazioni col quartiere generale è segno che sta per guadagnar terreno e per vincere la [battaglia]»151. E ancora: 149
«Ti assicuro che la sospensione del bollettino equivalse ad una rivelazione. Io sono rimasto atterrito e tremo a pensare i tremendi giudizi di Dio. Oh! Quanto sono terribili per le anime infedeli! Oh! Quanto è geloso delle anime sue. Che leggiero battito di cuore che non sia per lui, oh! Come l’indispone!»152.
Certo Paolina non cela la difficoltà al proprio padre spirituale di stilare un bollettino che appaia nuovo almeno per la forma — «Sto torturando il mio cervello per trovare un modo nuovo di fare il bollettino, ma pensa e ripensa non trovo altro che la stessa storia. Dunque mi dia una 148
Un vero e proprio resoconto scritto di tutto ciò che ineriva alla vita spirituale della
149
Cfr Lettera di NR a PT del 02/12/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 7, ff. 2, pp.
figlia. 2. 150
Lettera di NR a PT del 30/11/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 6, ff. 2. Lettera di NR a PT del 23/10/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 3, ff. 2, p. 1. 152 Lettera di NR a PT del 10/12/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 8, ff. 4, pp. 2. 151
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forma nuova ond’io poter variare non il soggetto ch’è sempre lo stesso, ma almeno la forma»153, — ma il Russo sa bene come venire in soccorso alla propria figlia: «Piglia di mira il difetto predominante e proponi “ogni” dì offrire alla Madonna tre atti di mortificazione ossia tre resistenze per evitare tal difetto»154.
3.3.2. Le lettere Proprio queste, oggetto della nostra relazione, per don Nunzio equivalgono alla sua presenza stessa: «Addio, carissima Paolina, così mi sento più contento, perché mi pare che una lettera equivalga ad una visita»155, anche se, rammenta il Russo alla Turano: «Tu sai il sistema che quando sono fuori non ricevo lettere, non avendo tempo né di leggere né di rispondere. Tu ti siddii? No, nun ti siddiare»156.
Conclusione Giunti al termine del nostro articolo crediamo che l’epistolario di Nunzio Russo con Paolina Turano si sia rivelato una vera e propria miniera per ampliare la conoscenza del primo e, soprattutto, perché ha dato la possibilità di incontrarci con il suo modo di intendere e realizzare la direzione delle anime. Riguardo alla conoscenza, gli scritti esaminati ci presentano il sacerdote palermitano realmente padre nei riguardi di una figlia, a volte anche riottosa — quale giovane capricciosa — nell’accogliere e mettere in pratica i suoi consigli. Nonostante, però, la facilità a disobbedire da parte di Paolina, il Russo non cessa mai di prendersene cura.
153
Lettera di PT a NR del 02/12/1878, in ANR Lettere di PT. Lettera di NR a PT del 02/12/1878, in ANR, b. 46/13, fasc. 1, n. 7, ff. 2, pp. 2. Alla fine della lettera troviamo lo schema del bollettino. 155 Lettera di NR a PT del 20/04/1881, in ANR, b. 46/13, fasc. 4, n. 8, ff. 2, pp. 4. 156 Traduzione: «Ti arrabbi? No, non arrabbiarti». Lettera di NR a PT del 20/05/1896, in ANR, b. 46/13, fasc. 14. 154
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Crediamo che questo sia avvenuto non solo per la gran devozione di don Nunzio nei riguardi di mons. Turano, zio di Paolina, ma soprattutto per la profonda conoscenza biblica del Dio di Israele che mai e poi mai, nonostante le infedeltà del suo popolo, ha pensato di non prendersi più cura del suo eletto Giacobbe. Nunzio Russo sa bene che la fedeltà è un attributo fondamentale di Dio, che non potrà mai venire meno, anche se l’uomo decidesse in modo definitivo di allontanarsi da Lui. E l’uomo di Dio che è il padre spirituale, sa perfettamente che a questa caratteristica di Dio deve specchiarsi perché il proprio ministero sia un’autentica concretizzazione, nello spazio e nel tempo, dell’agire divino. La stragrande maggioranza degli scritti del fondatore della Congregazione delle suore Figlie della Croce, inoltre, presenta, sovente, questo prete palermitano oltremodo serio e grave per stile e contenuti. D’altronde, il periodo storico coevo e le difficoltà ecclesiali personali di certo esigevano una profonda serietà di parola e d’azione. L’epistolario da noi preso in esame ci ha fatto scoprire, altresì, un Nunzio Russo gentile nel tratto, abbastanza paterno e confidenziale e altresì scherzoso, ricco di humour e auto ironia. Per quanto concerne il modo di intendere e praticare la direzione spirituale, abbiamo evidenziato la perfetta adesione del Russo con quelli che sono i canoni che la tradizione cristiana ha fissato. È proprio vero che gli uomini e le donne che hanno fatto una reale esperienza del Dio vivente hanno molteplici aspetti che li accomunano e tra questi quella che papa Gregorio Magno chiama l’ars artium: la direzione spirituale.
Synaxis XX/2 (2002) 377-426
GESÙ «L’ALFA E L’OMEGA», «IL PRIMO E L’ULTIMO», «IL FONDAMENTO E IL COMPIMENTO» NEL LIBRO DELL’APOCALISSE*
MARIA RITA SAMBATARO**
Una semplice lettura dell’Apocalisse di Giovanni è sufficiente a cogliere la ricca pluralità di titoli con cui in questo libro Gesù si auto definisce o è definito dall’autore stesso. Tra i tanti le tre definizioni analoghe e diverse: «Io sono l’Alfa e l’omega», «io sono il primo e l’ultimo», «io sono il principio e la fine». Su queste espressioni fermiamo la nostra attenzione in questo studio, alla ricerca del loro fondamento veterotestamentario e del loro significato nel libro dell’Apocalisse. Esse sono introdotte singolarmente qui e lì nel libro; in Ap 22,13 invece esse sono legate insieme in maniera apposizionale. Iniziamo la nostra indagine considerando questo testo. Le tre espressioni, in Ap 22,13, sono: e\gwè toè a"lfa kaì toè w& - o| prw%tov kaì o| e"scatov - h| a\rchè kaì toè teélov. Tutto il v 13, introdotto dal pronome soggetto e\gwé, si ricollega al precedente v 12, dove leggiamo il verbo e"rcomai alla prima persona singolare, e si ricollega anche al v 16 dove leggiamo un altro pronome soggetto e\gwé, riferito a Gesù. Evidentemente si tratta della stessa persona. Lo stesso pronome e\gwé nei vv 12 e 13 è il soggetto di due verbi diversi, rispettivamente il verbo e"rcomai nel v 12 e il verbo ei\mò sottinteso nel v 13. Il verbo e"rcomai esplicito esprime un’azione; il verbo ei\mò
* Estratto della tesi di baccalaureato in Teologia, discussa il 29 giugno 2001 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, relatore prof. Attilio Gangemi. ** Baccelliere in teologia.
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sottinteso invece esprime uno stato. La nostra espressione del v 13 esprime perciò uno stato. In questi due versi non è chiaro il soggetto che parla: l’autore infatti colloca queste espressioni nel testo senza alcuna frase introduttiva. Possiamo però saperlo alla luce prima del v 7, poi del v 16 e infine del v 20. Nel v 7 leggiamo lo stesso annunzio del v 12: i\douè e"rcomai tacué; nel v 20 leggiamo un analogo annunzio: naì, e"rcomai tacué; nel v 16 leggiamo lo stesso pronome e\gwé dei vv 12.13. Nel v 16 il pronome e\gwé è seguito dal nome proprio: }Ihsou%v. Nel v 20 l’annunzio naò, e"rcomai tacu è seguito dall’invocazione: e"rcou Kuérie }Ihsou%. E’ evidente allora, che colui che annunzia questa venuta è il Signore Gesù. In questo sfondo si colloca il nostro testo: è il Signore Gesù che, dopo avere annunziato, nel v 12, la sua venuta, si definisce, nel v 13, come l’«Alfa e l’Omega, il Primo (o| prw%tov) e l’Ultimo (o| e"scatov), Il Principio (h| a\rché) e la Fine (toè teélov)». Queste tre espressioni sono esclusive dell’Apocalisse: mai infatti esse si leggono altrove in tutto il NT. Nell’ambito del libro stesso dell’Apocalisse invece esse si leggono anche altre volte. La prima espressione, toè a"lfa kaì toè w&, nell’ambito dell’Apocalisse si legge ancora altre due volte: in 1,8 e in 21,61. La seconda espressione, o| prw%tov kaì o| e"scatov, sempre nell’ambito del libro dell’Apocalisse2, si legge ancora altre due volte: in 1,17 e in 2,83. La terza espressione infine, h| a\rchè kaì toè teélov, sempre nell’ambito dell’Apocalisse4, si legge ancora soltanto in 21,6 5.
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Così l’espressione si legge complessivamente tre volte: in 1,8, in 21,6 e in 22,13. Nel NT leggiamo però pure il termine prwtoétokov (cfr Lc 2,7; Rm 8,29; Col 1,15.18; Eb 1,6), attestato, in relazione a Gesù, anche nell’Apocalisse (Ap 1,5). 3 Così l’espressione si legge pure in tutto tre volte: 1,17, 2,8; 22,13. 4 Così l’espressione si legge in tutto due volte: 21, 6; 22,13. 5 Il termine a\rch, come definizione di Gesù, si legge da solo, senza cioè il termine teélov anche in Gv 8,25; in Col 1,18, nell’espressione o$v e\stin a\rché, seguito apposizionalmente dall’espressione prwtoétokov e\k tw%n nekrw%n; e in Ap. 3,14 nell’espressione h| a\rchè th%v ktòsewv tou% jeou%. 2
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Possiamo proporre allora il seguente quadro riassuntivo6: 1,8: toè a"lfa kaì toè w& 1,17: o| prw%tov kaì o| e"scatov 2,8: o| prw%tov kaì o| e"scatov 21,6: toè a"lfa kaì toè w& h| a\rchè kaì toè teélov 22,13: toè a"lfa kaì toè w& o| prw%tov kaì o| e"scatov h| a\rchè kaì toè teélov Prescindendo dai testi di 1,17 e 2,8, dove leggiamo soltanto l’espressione o| prw%tov kaì o| e"scatov, gli altri tre testi esprimono un progresso: in 1,8 l’autore introduce una sola frase toè a"lfa kaì toè w&; in 21,6 ne introduce due, aggiungendo all’espressione di 1,8 l’espressione h| a\rchè kaì toè teélov che ancora egli non aveva usato; in 22,13 infine ne introduce tre, aggiungendo alle espressioni di 21,6 l’espressione o| prw%tov kaì o| e"scatov che da sola aveva già introdotta in 1,17 e 2,8. Abbiamo così in 22,13 il compendio di altre espressioni già altrove usate. In particolare, il testo di 22,13 esprime il culmine di un progresso, che parte da 1,8 e passa attraverso 21,6. Le tre espressioni, come abbiamo già notato, presentano un parallelismo: ognuna di esse ha due elementi, introdotti tutti dall’articolo. Inoltre le tre espressioni concordano nel fatto che i due elementi di ognuna esprimono dei punti estremi: nella prima espressione infatti gli elementi a"lfa kaì w& sono rispettivamente la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco; nella seconda espressione i termini «prw%tov kaì
6 Queste espressioni sono state già studiate da W.J.P. BOYD, «I am the Alpha and Omega» (Rev 1,8; 21,6; 22,13), in StudEv 2 (1964) 526-531; J.M. FENASSE, «Terme et debut! Voilà ce que je suis», in BibVieChr, 54 (1963) 43-50; H. KOSMALA, «Anfang, Mitte und Ende», in ASTI 2 (1963) 108-111.
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e"scatov, esprimono rispettivamente il primo di una serie e l’ultimo di una serie; infine nella terza espressione i termini «a\rchè kaì teélov esprimono rispettivamente il fondamento e il compimento. Abbiamo notato come nell’ambito del NT queste espressioni sono esclusive del nostro autore. Rimane però il problema se egli le abbia formate lui stesso o se non le abbia riprese da qualche fonte. Si pone allora il problema delle fonti a cui il nostro autore di Apocalisse può essersi riferito.
PARTE PRIMA: Le fonti delle nostre espressioni Nella ricerca delle fonti a cui può essersi riferito il nostro autore, osserviamo che l’espressione a"lfa kaì w&&, esclusiva dell’Apocalisse nel NT, è assente anche nella versione greca dei LXX; come pure è assente nella Bibbia ebraica l’espressione corrispondente “Aleph - Tau”.
1. Espressioni analoghe nel NT In relazione al binomio a\rché - teélov possiamo richiamare qualche testo del NT dove i due termini appaiono accostati. Possiamo in particolare citare tre testi: Mt 24,8; Mc 13,8; Eb 7,3 ma nessuno dei tre è diretto parallelo al nostro e spiega il nostro. I primi due testi, Mt 24,8 e Mc 13,8, sono paralleli e si trovano entrambi nel contesto dei discorsi escatologici. Gesù prima dichiara che «ancora non è la fine (toè teélov)» poi parla dell’«inizio (a\rché) dei dolori». Questi due testi però sono molto lontani dal binomio dell’Apocalisse. Oltre il fatto che i due termini sono invertiti nell’ordine7 e sono distanti l’uno dall’altro8, essi hanno diversa applicazione: non sono usati per definire una persona ma, in maniera più astratta, rispettivamente si riferiscono, al compimento escatologico (teélov) e al principio dei dolori escatologici (a\rché). 7 8
Prima si parla infatti di compimento (teélov) e poi di principio (a\rché). In Matteo sono separati da 21 parole e in Marco da 15 parole.
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Un altro accostamento dei due termini si ha in Eb 7,3, dove, a riguardo di Melchisedek, si dice che non ha «né inizio (a\rché) di giorni né fine (teélov) di vita». Con questa ed altre caratteristiche prima indicate, Melchisedek, in questo testo della Lettera agli Ebrei, è assimilato al Figlio di Dio. Tuttavia però si può notare che nemmeno in questo testo si tratta di una definizione di persona come nell’Apocalisse, ma della caratterizzazione di una realtà oggettiva: il termine a\rché è riferito ai giorni, il termine teélov è riferito invece alla vita. Possiamo allora concludere che nemmeno il binomio a\rché - teélov, pur in certo modo presente nel NT, ha un reale parallelo con quello presente nell’Apocalisse.
2. Espressioni analoghe nei LXX Anche nei LXX, a riguardo dell’espressione a\rché - teélov, possiamo riferirci solo a qualche raro testo. Possiamo citare in particolare Sap 7,18; Qo 3,11; Is 19,15. In Sap 7,18 l’espressione a\rchè kaì teélov è riferita ai tempi: il sapiente dichiara di avere ricevuto la conoscenza, tra le altre cose, anche del principio (a\rché), della fine (teélov) e del mezzo (mesoéteta) dei tempi (croénwn). In Qo 3,11 l’espressione a\rchè kaì teélov si riferisce all’opera di Dio, la cui totalità è compendiata nell’espressione appunto: a\p}a\rch%v meécri teélouv Si dice che gli uomini non possono comprendere tale opera. In Is 19,15 infine l’espressione è riferita all’Egitto al quale non riuscirà alcuna opera; si dice infatti che «(LXX) agli Egiziani non sarà opera (e"rgon) che farà capo e coda, principio e fine (a\rchèn kaì teélov)9». Il testo vuol dire che gli Egiziani non potranno compiere alcuna opera ma avranno quasi l’esperienza di una paralisi totale.
9 Nel testo ebraico leggiamo l’espressione }owm:ga):w hfPiK che, alla lettera, significa «palma e giunco». I LXX tradussero in greco l’espressione ebraica con a\rchèn kaì teélov.
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Concludendo, nemmeno i LXX offrono all’espressione a\rchè kaì teélov di Apocalisse un reale parallelo. Nei tre testi sopra citati troviamo accostati i due termini a\rché e teélov. Il loro accostamento suggerisce anche l’aspetto della totalità, ma in nessuno di essi la formula appare come predicato di una persona, così come invece appare nei nostri testi di Apocalisse. Diverso invece è il caso della terza espressione di Apocalisse o| prw%tov kaì e"scatov. Questo binomio infatti può richiamare tre testi del Deutero Isaia: Is 41,4; 44,6; 48,1210. In Is 41,4 Dio dichiara di essere (e\gwè qeoév) il primo (prw%tov) e anche di essere orientato verso le cose ultime (ei\v taè e\percoémena e\gwé ei\mi). In Is 44,6 leggiamo una affermazione analoga: Dio dichiara di essere (e\gwé) “il primo (prw%tov)” e di essere anche «dopo queste cose (metaè tau%ta)11. In Is 48,12 infine Dio dichiara di essere (e\gwé ei\mi) “il primo (prw%tov)” e di essere (e\gwé ei\mi) «per sempre (ei\v toèn ai\w%na)12. Questi testi presentano una certa somiglianza con i nostri testi di Apocalisse: da essi perciò partiamo nella nostra ricerca e con essi tentiamo di stabilire un confronto più accurato.
3. I testi di Is 41,4; 44,6; 48,12 Proponiamo il nostro confronto in tre gradi: tra i tre testi secondo il TM, tra il TM e i LXX in ciascuno, tra i tre testi e le espressioni
10 Il rimando ai testi di Isaia è proposto, come semplice indicazione, dai vari commentari dell’Apocalisse. Inoltre cfr J.M. FENASSE, «Terme et debut! Voilà ce que je suis», cit., 46-47; T. HOLTZ, Die Christologie der Apokalypse des Johannes, Berlin 1962, 82. In maniera più accurata il confronto con i testi del Deutero Isaia è proposto da A. GANGEMI, L’utilizzazione del Deutero-Isaia nell’Apocalisse di Giovanni, in EuntDoc, 27 (1974) 109144 (I): 112-113. 11 Così il testo dei LXX: al TM torneremo più avanti. 12 Così ancora il testo dei LXX: pure per questo testo torneremo più avanti al TM.
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dell’Apocalisse. Tra il secondo e terzo confronto proponiamo delle conclusioni riguardanti i tre testi del Deutero Isaia.
3.1. Confronto con il TM Stabiliamo anzitutto un confronto tra i tre testi secondo il testo ebraico; lo schema seguente aiuterà in questo confronto Is 41,4:
)Uh-yinA) {yinorAxa)-te):w }ow$)ir hfwh:iy yinA)
Is 44,6:
}owrAxa) yinA)aw }ow$)ir yinA)
48,12:
}owrAxa) yinA) va) }ow$)ir yinA) )Uh-yinA)
Alla lettera, secondo il TM, le tre espressioni possono essere tradotte nel seguente modo: «io il Signore (sono) il primo e con gli ultimi io sono» (Is 41,4); «io il primo e io l’ultimo» (Is 44,6); «io sono! Io il primo, pure io l’ultimo» (Is 48,12). Le tre espressioni coincidono, dal punto di vista tematico, nel fatto che sono tutte una autopresentazione di Dio; in tutte e tre infatti leggiamo il pronome di prima persona singolare yinA). Questo pronome è usato due volte in ciascun testo. La prima volta, in 41,4, esso è ampliato dal seguente nome proprio hfwh:w; in 44,6 è usato da solo; 48,12 invece è ampliato dall’espressione precedente )Uh-yinA) (io sono). La seconda volta, in 41,4 si legge alla fine dell’espressione, nella formula )Uh-yinA); in 44,6 è usato, come la prima volta, da solo; in 48,12 è pure usato da solo, preceduto però dalla particella rafforzativa vA). Emerge così l’enfasi di questo pronome. Il primo predicato, }ow$)ir (il primo), è identico in tutti e tre i testi: così in tutti Dio si definisce come “il primo”. Il secondo predicato invece, }owraxA) (l’ultimo), è identico solo in 44,6 e in 48,12. In 41,4 invece, pur utilizzando la stessa parola, leggiamo l’espressione {yinoraAxa)-te). In 44,6 e 48,12 Dio si definisce anche “l’ultimo”; in 41,4 invece non si definisce “l’ultimo” ma dichiara di essere «con gli ultimi». La frase più schematica è in 44,6 dove Dio si definisce «il primo» e «l’ultimo».
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3.2. Confronto del TM con i LXX Confrontate reciprocamente le espressioni ebraiche dei tre testi di Isaia, stabiliamo adesso nei singoli testi un confronto tra il TM e la versione dei LXX.
3.2.1. Is 41,4 TM: LXX:
)Uh-yinA) {yinorAxa)-te):w }ow$)ir hfwh:iy yinA)
e\gwè qeoèv prw%tov kaì ei\v taè e\percoémena e\gwè ei\
Il testo greco del primo di Is 41,4 in parte coincide con il TM ma, in parte anche diverge. La concordanza fondamentale, sta nel fatto che i LXX traducono alla lettera il termine }ow$)ir con prw%tov. La discordanza fondamentale, invece, sta nel fatto che traducono l’espressione {yinorx A ) a -te)w: a senso con ei\v taè e\percoémena. Il TM così presenta Dio, che si trova «con gli ultimi», il testo dei LXX invece presenta Dio proteso (ei\v) «verso le cose future» (taè e\percoémena).
3.2.2. Is 44,6 TM: LXX:
}owrAxa) yinA)aw }O<)ir yinA)
e\gwè prw%tov kaì e\gwè metaè tau%ta
Il TM e il testo dei LXX stavolta coincidono alla lettera fino al secondo pronome yinA)aw incluso. Dopo invece si nota un mutamento. La versione greca traduce il termine }owrAxa) non, come sarebbe stato ovvio, con il termine e!scatov ma con l’espressione metaè tau%ta. In questo modo si determina nel testo greco un mutamento di senso. Dio non più si autodefinisce “l’ultimo” ma si presenta come uno che sta metaè tau%ta, cioè «dopo queste cose». Rimane ovviamente il problema di stabilire quali siano «queste cose»
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3.2.3. Is 48,12 TM: LXX:
}owrAxa) yinA) va) }O<)ir yinA) )Uh-yinA)
e\gwé ei\mi prw%tov kaì e\gwé ei\mi ei\v toèn ai\w%na
Nonostante qualche punto in comune, i LXX divergono in diversi elementi rispetto al TM. Anzitutto non è tradotta l’espressione )Uh-yinA). Essa, con il pronome di prima persona strettamente unito ad un pronome di terza persona, può essere definita come una espressione di identità: Dio dichiara di essere «lui, proprio lui egli»13. Inoltre i LXX evitano di tradurre il secondo pronome yinA), compendiando tutto nell’espressione e\gwé ei\mi, introducendo così il verbo ei\mò assente nel TM14. Come pure la particella ebraica enfatica va) (pure) è tradotta con la semplice congiunzione kaò. Il verbo eÁmÀ, assente nel TM, è introdotto pure dopo il secondo e\gwé greco, corrispondente al terzo yinA) ebraico. Ma la differenza maggiore sta nel fatto che l’espressione }owrAxa) (ultimo), è tradotta molto liberamente con l’espressione ei\v toèn ai\w%na (in eterno). Forse i traduttori greci vollero dare maggiore enfasi al termine }owrAxa) dell’ultimo testo, passando dall’aspetto locale a quello temporale.
4. Conclusioni sui testi di Isaia Possiamo allora proporre una duplice conclusione, sia in relazione alle tre espressioni ebraiche, sia in relazione alle tre espressioni greche. Le tre espressioni ebraiche, pur con qualche modifica e qualche elemento di ampliamento proprio, concordano nell’uso dei due termini }owrAxa) e }O$)ir, uniti al pronome di prima persona singolare yinA). Nella prima parte i tre testi sono quasi identici: concordano nell’espressione }O$)ir yinA); soltanto il testo di Is 41,4 aggiunge dopo il
13 L’espressione ebraica alla lettera dovrebbe essere tradotta: «io - esso»; essa però può essere anche tradotta con «io sono». Dio afferma così la sua identità divina. 14 Il pronome )Uh assume però il valore di verbo “essere». È assente il verbo hfyfh.
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pronome yinA) il nome divino hfwh:y e il testo di 48,12 antepone al pronome yinA) l’espressione )Uh-yinA). Nella seconda parte invece le tre espressioni presentano delle divergenze. La divergenza maggiore si nota in 41,4. Infatti, mentre in 44,6 e in 48,12 leggiamo yinA) }owrAxa) (io [sono] l’ultimo), in 41,4 si legge l’espressione {yinorAxa)-te):w (e con gli ultimi), seguito dall’espressione )Uh-yinA) (io esso [sono]). Le tre espressioni greche si articolano pure in tre parti coordinate mediante la particella kaò. Nella prima parte tutte coincidono nella formula e\gwè prw%tov; soltanto Is 41,4 aggiunge il termine qeoév e Is 48,12 aggiunge il verbo ei\mò. Nella seconda parte invece esse presentano formule differenti. In 41,4 leggiamo la formula ei\v taè e\percoémena e\gwé ei\mi; in 44,6 leggiamo invece la formula kaì e\gwè metaè tau%ta; infine in 48,12 leggiamo la formula e\gw ei\mi ei\v toèn ai\w%na. Una lettura più attenta delle tre differenti formule greche rivela tra di esse una connessione ed un’intima coerenza. La loro riproposizione schematica aiuterà a cogliere tale coerenza: Is 41,4: ei\v taè e\percoémena e\gwé ei\mi Is 44,6: kaì e\gwè metaè tau%ta Is 48,12: e\gwé ei\mi ei\v toèn ai\w%na. Le tre formule offrono un progresso molto coerente in senso temporale. Dio è orientato verso le cose che stanno per accadere (Is 41,4), ma è anche dopo di esse (Is 44,6), ed è in eterno (Is 48,12). Le tre espressioni orientano progressivamente verso l’eternità.
5. Confronto letterario con l’Apocalisse Confrontati letterariamente i tre testi del libro di Isaia, passiamo adesso al loro confronto con i testi del libro dell’Apocalisse. Tale confronto permetterà di rispondere a tre domande: se l’autore di Apocalisse nelle sue
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espressioni dipende dai testi di Isaia, come vi dipende e qual è il senso delle espressioni sia in Isaia come anche nell’Apocalisse15. Tra i testi di Isaia e l’Apocalisse è possibile stabilire un confronto diretto soltanto nell’espressione o| prw%tov kaì o| e"scatov, usata, come abbiamo già detto, tre volte, in 1,17; 2,8 e 22,13. Stabiliremo il confronto sia con LXX sia anche con il TM. Cominciando dal testo greco, l’espressione dell’Apocalisse coincide con i tre testi di Isaia secondo i LXX, soltanto nel primo elemento, il termine prw%tov; come appare dal seguente schema: Is 41,4 Is 44,6 Is 48,12 Apocalisse e\gwé e\gwé e\gwé e\gwé qeoèv ei\mi ei\mi prw%tov prw%tov prw%tov prw%tov La coincidenza è soprattutto con i testi di 44,6 e 48,12 per l’uso del verbo ei\mò, assente in 41,4 e 44,616. Uguale coincidenza non si riscontra invece nella seconda parte, caratterizzata dal termine e"scatov che, come abbiamo già notato, non si legge mai nella versione greca di ciascuno dei tre testi. Queste osservazioni ci permettono di concludere che, almeno per questo elemento, l’autore dell’Apocalisse, non segue la versione greca. Ma la conclusione può essere anche ampliata e possiamo dire che l’autore di Apocalisse, riferendosi ai testi di Is 41,4; 44,6; 48,12, non segue del tutto la versione greca: sarebbe infatti strano che egli, riferendosi alla versione greca nella prima parte della sua espressione, da essa poi si distacchi completamente nella seconda parte. Al contrario, il termine e"scatov, costantemente presente in tutti i testi dell’Apocalisse, corrisponde bene al termine ebraico }owrAxa) che leggiamo in tutti e tre i testi di Isaia citati, al plurale costruito con la particella te) in 41,4 e al singolare, ma costruito senza alcuna particella, in 44,6 e in 48,12. 15 La relazione di questa espressione di Apocalisse ai testi di Isaia citati è indicata anche dagli interpreti del Deutero Isaia, cfr K. MARTI, Das Buch Jesaja, cit., 302 e anche C.R. NORTH, Isaiah 40-55, London 19665, 81. 16 L’autore dell’Apocalisse enfatizza il termine prw%tov introducendo l’articolo: colui che attribuisce a sé questa frase è il primo in assoluto.
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Il termine e"scatov di Apocalisse difficilmente però richiama l’espressione {yinorAxa)-te) di Is 41,4: quest’ultima, infatti, significa «con gli ultimi» e non è un predicato di Dio. Richiama bene invece il termine }owrAxa) di Is 44,6 e di Is 48,12, che è al singolare e che nella frase, insieme al termine }ow$)ir, è un predicato con cui Dio si autodefinisce (yin)): “l’ultimo”. Secondo il TM, soprattutto in Is 44,6 e 48,12, Dio si autodefinisce come «il primo e l’ultimo», esattamente come Dio o Cristo si autodefiniscono nell’Apocalisse. Possiamo allora concludere che nell’espressione o| prw%tov kaì o| e"scatov l’autore di Apocalisse si riferisce al TM, riprendendo e traducendo l’espressione }owrAxa) yinA) }O<)ir yinA) di Is 44,6 e di Is 48,1217.
6. Il testo di Is 41,4 Stabilito che il nostro autore di Apocalisse nell’espressione o| prw%tov kaì o| e"scatov si riferisce ai testi di Isaia su indicati, emerge il problema sul senso di tale formula sia nei testi di Isaia sia nei testi di Apocalisse. Consideriamo perciò anzitutto l’espressione nei testi di Isaia, interrogando anche il loro contesto; ciò aiuterà a stabilire il senso della formula nei testi di Apocalisse. Il primo testo, nell’ordine del libro, è Is 41,4. Come abbiamo già indicato, in questo testo Dio di se stesso dichiara: «Io, il Signore, (sono) il primo e con gli ultimi io esso (sono)». L’espressione, nel TM, è strutturata secondo uno schema concentrico: 1. hfwh:iy yinA) 2. }ow$)ir 3. {yinorAxa)-te):w 4. )Uh-yinA)
17 La forma stereotipata o| prw%tov kaì o| e"scatov, usata dal nostro autore di Apocalisse suggerisce la ripresa più diretta, almeno letterariamente, di Is 44,6.
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In questo schema stanno in relazione il termine }ow$)ir (primo) e l’espressione {yinorAxa)-te):w (con gli ultimi). La versione greca mantiene lo stesso schema concentrico: 1. e\gwè qeoèv 2. prw%tov 3. ei\v taè e\rcoémena 4. e\gwé ei\mi Dal punto di vista strutturale la versione greca segue perciò fedelmente il TM. Non altrettanto avviene dal punto di vista letterario e sintattico; abbiamo già notato infatti che la versione greca traduce con ei\v taè e\rcoémena l’espressione ebraica {yinorAxa)-te):w. In tre aspetti la versione greca differisce dal TM. Anzitutto nelle particelle usate: la particella greca ei\v, con l’accusativo, non corrisponde a quella ebraica te). Quest’ultima esprime compagnia, mentre la particella greca ei\v con l’accusativo ha valore di complemento di moto a luogo ed esprime orientamento. Così, secondo il testo ebraico, Dio è «con gli ultimi»; secondo il testo greco invece Dio è «proteso (ei\v) verso le cose che debbono accadere». Inoltre nel genere: nel TM il termine {yinorAxa) è un maschile plurale e dev’essere tradotto: «gli ultimi» e la relazione perciò è stabilita con persone; nel testo greco invece l’espressione taè e\percoémena è un plurale neutro e dev’essere tradotto: «verso le cose che debbono accadere» e la relazione perciò è stabilita con delle cose, con degli eventi. Il terzo aspetto differente infine riguarda il termine }owrAxa) che significa “ultimo” e designa una realtà che sta alla fine; invece il termine e\percoémena, participio presente del verbo e\peércomai, non indica delle realtà che stanno alla fine ma che vengono (e"rcomai) ad aggiungersi (e\pò) a delle altre precedenti. In ogni caso sia il TM sia anche i LXX concordano nell’aspetto di una realtà che sta all’inizio (}ow$)ir - prw%tov). Divergono invece nell’aspetto di una realtà che sta dopo: secondo il testo ebraico questa realtà è l’ultima (}owraxa)); secondo il testo greco è una realtà che segue e si aggiunge alla
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precedente (taè e\percoémena), senza specificare però se essa sia anche l’ultima. Per comprendere poi l’espressione di Is 41,4, è opportuno anche considerare il contesto in cui essa è inserita. Esso è costituito dai vv 1-4. Nel v 1 possiamo individuare anzitutto una strofa dove parla Dio. Egli si sta rivolgendo alle “isole” e alle “nazioni”, alle quali rivolge anche un invito. L’invito rivolto da Dio alle isole è quello di ascoltare in silenzio, mentre alle nazioni egli rivolge l’invito ad attendere davanti a lui18. L’invito, in ultima analisi, è quello di radunarsi per il giudizio; Dio sta lanciando una sfida alle isole e alle nazioni e con esse intende istruire un processo, nel quale la domanda fondamentale è quella di sapere chi è il vero Dio. In questo senso, le “isole” e “le nazioni” richiamano i popoli e più specificatamente le loro divinità. Il contenzioso allora è tra Dio e le divinità dei popoli e il problema è quello di sapere chi è il vero Dio. Chi sfida è Dio; ciò significa che egli è cosciente di essere il vero Dio. In questo processo ognuno deve esibire le prove della sua divinità. Le espressioni interrogative seguenti rivelano che non si tratta soltanto di esibire le prove ma soprattutto di conoscere chi è l’autore di alcune opere: questa è la sfida che Dio lancia. La prima opera è che c’è stato qualcuno che è stato chiamato dall’oriente, al quale è stata messa vittoria sui suoi passi e al quale sono stato consegnati popoli e re gli sono stati assoggettati. Dio lancia la sfida per sapere chi ha compiuto quest’opera. Il testo non dice chi è questo personaggio ma sarà chiaro da Is 45,1 dove, rivolgendosi al suo eletto Ciro, Dio dichiara: «Io l’ho preso per la destra». Si tratta perciò di Ciro, re dei Medi e dei Persiani, orientato da Dio verso Babilonia. L’opera di Dio non si è limitata soltanto a far trovare vittoria a questo personaggio, ma gli ha anche consegnato i popoli e gli ha assoggettato i re votandoli così a totale distruzione. Si dice infatti nei vv 2c-3 che la sua spada li riduce in polvere e il suo arco (li riduce) come paglia dispersa dal vento. Egli anche insegue i fuggiaschi e cammina sicuro, sfiorando appena la strada con i piedi, cioè cammina veloce e senza ostacoli. 18 Così secondo una lettura proposta da Kittel - Kahle (cfr R. KITTEL - P. KAHLE, Biblia Hebraica, Stuttgart 197316, ad locum). Il TM, che scrive axok UpyilaAxay (rinnovate vigore), si rivela più oscuro.
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Nel v 4 Dio ancora insiste sulla sua domanda: chiede chi ha operato e fatto (tutto ciò), chiamando le generazioni19 dal principio. A questa domanda Dio può rispondere benissimo: è stato lui a chiamare Ciro; è stato lui a mettergli in mano i popoli, a dargli schiacciante vittoria e a rendergli spedito il cammino. Ma a questa stessa domanda gli idoli non possono certo rispondere; non lo hanno chiamato loro, di lui anzi, non ne sanno niente. In questa disputa, Dio ha vinto. Possiamo allora tentare di cogliere il senso dell’espressione di Is 41,4. A riguardo gli interpreti hanno tentato di evidenziare diverse sfumature. Quanto all’aspetto del «primo» Duhm20 spiega che Dio è stato prima dei popoli e perciò ne ha la guida. Secondo Koole21 Jahvé sta all’inizio della storia ed è lo stesso che alla fine; è il primo in quanto ha predetto e realizzato l’azione militare di Ciro. Marti22 ritiene che Dio è il primo e l’ultimo non solo nella vita ma anche nel grande divenire della storia. Ancora Mc Kenzie23 ritiene che Jahvè dirige la storia fin da principio; egli solo perciò, e nessun altro Dio, può chiamare Ciro. Secondo Watts24 Dio è il primo in quanto sta alla testa della colonna di marcia nella storia delle generazioni; egli ha il controllo fin dal principio del tempo. Westermann25 infine ritiene che Dio è il primo in quanto sta al di sopra di tutti gli eventi. Quanto poi all’aspetto degli «ultimi» le sfumature proposte dagli interpreti sono pure diverse. É sufficiente riferirci solo a Koole e Watts. Secondo Koole26 gli ultimi sono il popolo dalla nuova epoca che Dio intende restaurare. Watts27 poi dal contesto deduce che, dicendo «gli ultimi», Dio vuol dire che egli è con Ciro, così come lo è stato con i successivi capi fin dall’inizio del tempo.
19 Si propone però di leggere towroQh a (le cose che debbono accadere), cfr R. KITTEL - P. KAHLE, Biblia Hebraica, cit., ad locum. 20 Cfr B. DUHM, Das Buch Jesaia, Göttingen 1914, 276. 21 Cfr J.L. KOOLE, Isaiah, III (cc 40-48), Kampen 1997, 143. 22 Cfr K. MARTI, Das Buch Jesaja, Tübingen 1900, 279. 23 Cfr J.L. Mc KENZIE, Second Isaiah, Garden City - New York 1968, 27. 24 Cfr D.W. WATTS, Jsaiah (34-66), Waco (Texas) 1987, 103. 25 Cfr K. WESTERMANN, Das Buch Jesaja (cc 40-66), Göttingen 1966, 56. 26 Cfr J.L. KOOLE, Isaiah, III (cc 40-48), cit., 143. 27 Cfr D.W. WATTS, Jsaiah (34-66), cit., 103.
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Il senso globale del testo non è difficile. Dio si dichiara il primo nella lista delle divinità; e pure egli si dichiara anche con gli ultimi. Gli “ultimi” sarebbero in questo caso le divinità che stanno alla fine e chiudono l’elenco. Egli perciò è l’unico vero Dio: egli infatti, essendo il primo e trovandosi anche con gli ultimi, può dire di esaurire tutta la lista delle divinità le quali così non hanno alcun posto. Questa conclusione nel testo di Is 41,4 non è espressa ma è tacitamente insinuata: Dio è l’unico vero Dio e fuori di lui non ce ne possono essere altri. Le “isole” e le “nazioni”, con le loro divinità, in nessun modo possono competere con lui, anzi a lui debbono sottomettersi. Sono le stesse opere di Dio a smentirli e sottometterli; per questo egli può concludere nel v 5: «le isole vedono e ne hanno timore; tremano le estremità della terra».
7. Il testo di Is 44,6 La nostra espressione si legge precisamente nel v 6b; essa si trova nel contesto di un oracolo che è introdotto nello stesso v 6a e si conclude nel v 8. Notiamo anzitutto la prima frase introduttiva nel v 6a; essa è molto solenne e Dio è presentato con tre titoli: il re d’Israele, il suo redentore, il Signore degli eserciti. Tenendo conto della loro indole, i primi due titoli “re” e “redentore” sono relazionali: essi concordano nell’esprimere la relazione di Dio a Israele: nei confronti di Israele egli è re e redentore. Il terzo titolo invece direttamente non esprime più una relazione a Israele ma evoca meglio la potenza di Dio. In questo senso, i tre titoli, insieme, indicano che il Dio che sta parlando è il Dio che appartiene ad Israele ed è un Dio potente. Emergono così i due aspetti della potenza e della fedeltà di Dio. Subito dopo, nel v 6b, si introduce la nostra espressione: «Io il primo e io l’ultimo», legata all’altra espressione seguente di indole negativa: «e fuori di me non è Dio». In questa espressione è importante la congiunzione :w accanto al termine yidf(:LaBim, che ha anche un valore consecutivo: dal momento che Dio è “il primo“ e “l’ultimo”, è ovvio che, al di fuori di lui, non ce ne può essere altro.
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Ancora una volta il termine “primo (}ow$)ir)” è un termine relativo: esso presuppone una serie di realtà che seguono alla prima. Pure il termine “ultimo (}owrAxa))» è relativo e presuppone una serie di realtà che sono venture già prima. Dio presuppone perciò come una lista di tutte le divinità. In questa egli, il Dio re di Israele e suo liberatore, occupa il primo posto, sta al di sopra di tutti gli altri dei. Ma egli è anche l’ultimo; cioè conclude tutta questa lista di divinità. Essendo al primo e all’ultimo posto, Dio occupa ed esaurisce tutta la lista delle divinità. La conclusione ancora una volta non può essere che una: fuori di lui non c’è divinità e perciò egli è l’unico Dio. Il Dio re di Israele, quello cioè che appartiene ad Israele, apre e chiude la lista delle divinità. Egli la esaurisce tutta e così è l’unico Dio. Dopo avere affermato che egli è “il primo” e “l’ultimo” e che fuori al di lui non ce n’è altro, Dio lancia come prova una sfida, dalla quale deve apparire la verità o meno della sua affermazione. Giungiamo così al v 7 che si articola in due parti. La prima parte può essere definita, alla maniera di una ipotetica, come una protasi: «chi come me? (yinowmfk-yim)». La conseguenza a questa interrogativa - protasi è espressa subito dopo con alcuni verbi: yil h f k e r : ( : ya w: - h f d e yiGya w: - )frq : yi . Il primo verbo )frq : yi è una forma iussiva qal del verbo )frfq che, in questo caso, ha il senso di “proclamare” e “annunziare” pubblicamente. Il secondo verbo fhedyiGay:w è una forma iussiva hiphil dal verbo dagfn seguito da un pronome di terza persona femminile, con valore neutro; anche questo verbo ha il senso di “annunziare” – “mostrare”. Il terzo verbo yil fhek:r:(ay:w è pure una forma iussiva seguita da un pronome personale, dal verbo |arf( che significa “ordinare” – “preparare”, e perciò “esporre”28. La particella yil (a me), con il pronome di prima persona singolare, posta alla fine, si riferisce praticamente a tutti e tre i verbi: a Dio perciò bisogna annunziare, proclamare ed esporre. Il v 7, dal punto di vista metrico, comprende due semi versi, con due accenti ciascuno29. Dal punto di vista strutturale invece esso presenta tre 28 29
Cfr F. ZORELL, Lexicon Hebraicum et Aramaicum, Roma 1968, sub voce. Possiamo proporre le due parti, nel seguente modo: 1. )fr:qiy yinOmfk-yimU 2. yil fhek:r:(ay:w fhedyiGay:w
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verbi inclusi tra due espressioni pronominali30. Dal punto di vista del senso, i tre verbi, letterariamente diversi, dicono in pratica la stessa cosa31. La loro stessa triadicità sottolinea il carattere di sfida contro chiunque pretende, in qualche modo, di attribuirsi la prerogativa di divinità. L’aspetto della sfida sottolinea ancora, in maniera molto efficace, il fatto che Dio è l’unico Dio e al di fuori di lui non ce ne può essere altri. Il v 7b presenta delle difficoltà testuali. Il TM è il seguente: tOYito):w {flO(-{a( yimU>im; questa espressione, alla lettera, dovrebbe essere tradotta: «Dal mio porre32 un popolo eterno33 e cose future34». I LXX traducono: a\f}ou/ e\poòhsa a"nqrwpon ei\v toèn ai\wéna (Da quanto feci un uomo in eterno). La versione greca cerca di tradurre di peso il testo ebraico offrendo un testo assai oscuro; ma anche il testo ebraico si rivela oscuro nel suo significato. Per questo motivo è proposta una lettura variante: towyito) {flow("m a(yim:$ih yim che, alla lettera, dovrebbe essere tradotta: «Chi ha
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Otteniamo la seguente struttura: espressione pronominale 1. inOmfk-yim: verbo 2. )fr:qiy: verbo 3. fhedyiGay:w: verbo 4. fhek:r:(ay:w: espressione pronominale. 5. yil: 31 I LXX traducono i tre verbi ebraici con: sthétw - kalesaétw - e\toimasaétw. Il : yi : (chiami) è sostituito con il verbo sthétw (stia), ma senza alcuna primo verbo ebraico )frq reale corrispondenza. Il senso letterale del primo verbo ebraico è trasferito al secondo verbo greco kalesaétw. Il secondo verbo ebraico fhedyiGay:w (annunzi) non ha corrispondenza nel testo greco. Il terzo verbo ebraico fhek:r:(ay:w (ordini) è tradotto con il verbo e\toimasaétw (prepari), che un po’ si avvicina al testo ebraico ma che forse rivela anche la difficoltà dei traduttori greci a tradurre questo verbo. La triade verbale del TM esprime così il seguente progresso: «chiami, annunzi, esponga ordinatamente». La triade dei LXX esprime invece il seguente progresso: «stia, chiami, prepari». Queste differenze tra il TM e la versione dei LXX direttamente però non riguardano il nostro lavoro. 32 Il termine yimU>im è un infinito con la particella }im seguito da un suffisso pronominale di prima persona. Il verbo {yi&, significa «porre - collocare». 33 Così bisogna tradurre l’espressione {flO(-{a(. 34 Il termine towyito):w è una formula femminile plurale dalla radice ht), che significa « avvenire – accadere».
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fatto udire fin dall’eternità le cose future?». Simile lettura, che rimane però ipotetica, sembra derivare da una diversa divisione delle lettere35. Segue poi un’altra espressione: Omfl UdyiGay hfn)obfT re$A)aw, che, alla lettera dovrebbe essere tradotta : «E le cose che accadranno, annunzino a lui». Anche questa seconda espressione è alquanto ostica. I LXX, in maniera più libera traducono: kaì taè e\percoémena proè tou% e\lqe_n a\naggeilaétwsan u|m_n (E le cose che debbono accadere, prima che accadano36 annunzino a voi). Nonostante però qualche incertezza del testo, questi due tipi di lettura, quello del TM e quello dei LXX, concordano nel significato di fondo: Dio rivendica a sé l’annunzio già fatto da molto tempo delle cose riguardanti il futuro37. Quanto poi al senso globale del testo, le posizioni degli interpreti sostanzialmente concordano; variano soltanto nelle sfumature. Duhm38 si limita solo a notare che l’espressione sottolinea l’unicità di Dio. Labuscharne39 poi spiega che la formula mostra la singolarità di Jahvè, che si applica ad ogni tempo: idoli e culti sorgono e cadono come ha mostrato la storia babilonese, ma Jahvè sta al di sopra di questo divenire ciclico. Secondo Koole40 il profeta indirettamente si riferisce all’azione di Ciro menzionato poi alla fine del c 44 e all’inizio del c 45: Jahvè prende sempre l’iniziativa degli eventi che servono alla sua regalità potente e liberatrice. Continua poi notando che Dio è l’ultimo in quanto realizza ciò che ha predetto. Marti41 si limita solo a sottolineare l’eternità di Dio; mentre Mc
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La diversa divisione delle lettere sarebbe la seguente: tOoyito):w {lO(-{a( yimU>im twyitO) {flow("m a(yim:$ih yim 36 L’espressione: “prima che accadano” (proè tou% e\lqe_n) non si legge nel testo ebraico ma si tratta probabilmente di un’aggiunta dei LXX. 37 Questo aspetto di Dio, che ha fatto udire da tempo le cose che accadranno, è ripreso nel v 8, dove Dio dice: «Non forse da sempre ti ho fatto udire (!yiT:(am:$ih) e ti ho annunziato (yiT:daGih:w)». 38 Cfr B. DUHM, Das Buch Jesaia, cit., 304. 39 Cfr C.J. LABUSCHARNE, The Incomparability of Jahvè in the Old Testament, Leiden 1966, 123s. 40 Cfr J.L. KOOLE, Isaiah, III (cc 40-48), cit., 370. 41 Cfr K. MARTI, Das Buch Jesaja, cit., 302.
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Kenzie42 osserva che nel testo si sottolinea ancora che Dio solo agisce nella storia di Ciro. Watts43 infine osserva che il v 6, assieme al seguente v 8, afferma l’essenziale della fede di Israele, che Jahvé solo è Dio ed è l’unico. Rileggendo adesso tematicamente in maniera sintetica il testo di Is 44,6-7, possiamo comprendere in che senso Dio si definisce “il primo” e “l’ultimo”. Egli apre ancora un’eventuale lista di divinità e che lui ancora chiude. Lui la esaurisce, per questo egli può dichiarare che fuori di lui non ci sono dei. Nel v 7 poi Dio lancia quasi una sfida ad altre eventuali divinità, se mai ce ne fossero, a presentarsi e a dichiararlo a lui. La prova che Dio porta in favore della sua divinità, consiste nel fatto che da tempo egli ha fatto udire ed ha annunziato le cose che debbono accadere, rivelandosi in questo modo il Signore della storia, che sta al di sopra di essa, e come colui che detiene le sue redini. Nessuno di coloro a cui Dio ha lanciato la sfida deve essersi presentato a contraddire Dio e a smentire così la sua unicità o che sia stato capace come lui di preannunziare le cose future. Egli invece le ha preannunziate e perciò nel v 8 può concludere che il popolo stesso, al quale ha preannunziato gli avvenimenti, può testimoniare che non c’è alcun Dio al di fuori di lui. L’affermazione che Dio è l’unico Dio deve indurre il popolo a guardare soltanto a lui e a porre soltanto in lui la sua fiducia. Per questo Dio conclude (v 8d) chiedendosi se c’è veramente un’altra roccia su cui il popolo può appoggiarsi, dal momento che lui non ne conosce alcuna.
8. Il testo di Is 48,12 Il terzo testo del libro di Isaia, dove Dio dichiara di essere il primo e l’ultimo, è Is 48,12b. Leggiamo infatti l’espressione: «Io sono: il primo e pure io l’ultimo». La frase di 48,12b è molto solenne: in maniera assai efficace Dio ribadisce la sua esclusiva prerogativa divina. Tale efficacia emerge soprattutto dalla triplice ripetizione del pronome yinA) (io). 42 43
Cfr J.L. Mc KENZIE, Second Isaiah, cit., 78. Cfr D.W. WATTS, Jsaiah (34-66), cit., 145.
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Il triplice uso del pronome yinA) divide tutta l’espressione in tre parti: 1.
)Uh-yinA)
2.
}O$)ir yinA)
3.
}owrAxa) yinA) va)
La seconda e la terza parte reciprocamente si richiamano, sia perché i due termini }O$)ir (primo) e }owrAxa) (ultimo), come già negli altri testi, sono correlativi e si relazionano l’un l’altro, sia anche perché la particella va) lega le due espressioni. Tenendo conto di quest’ultimo elemento, possiamo dividere il testo in due parti. La prima parte, rispetto alla seconda, è molto breve ed è costituita soltanto dall’espressione )Uh-yinA) (io esso); La seconda parte invece è molto lunga ed è costituita dall’espressione44: }owrAxa) yinA) va) }O$)ir yinA) (io il primo, pure io l’ultimo). Quest’ultima espressione, sembra costituire lo sviluppo, l’approfondimento e la motivazione dell’espressione precedente. L’espressione )Uh-yinA), indica l’identità divina. Dio afferma di essere proprio lui, di essere il vero Dio; si definisce così come l’unico e vero Dio; la sua entità è quella di essere Dio. Nella seconda espressione, introdotta in maniera apposizionale45: «Io il primo, pure io l’ultimo», Dio sviluppa e motiva quella sua affermazione: egli è l’unico perché nella lista delle divinità risulta il primo, la apre; ma egli anche la chiude, cioè la esaurisce tutta quanta. Può così affermare di essere l’unico Dio e che al di fuori di lui non ce ne può essere altro. Questa dichiarazione di Dio è introdotta in maniera molto enfatica46: «Ascolta a me Giacobbe e Israele mio chiamato». Questa introduzione è
44 Duhm preferisce leggere per motivi metrici non va) ma va):w, cfr B. DUHM, Das Buch Jesaia, cit., 336. 45 Per l’aspetto apposizionale dell’espressione al primo yinA) cfr B. DUHM, l.c. 46 Prescindiamo per 48,12 dalle posizioni degli interpreti; infatti essi ripetono e ribadiscono ciò che hanno indicato per i testi precedenti. Citiamo come esempio solo Koole, secondo cui Dio sta all’inizio con la sua parola e compie con la sua parola il corso degli eventi; cfr J.L. KOOLE, Isaiah, III (cc 40-48), cit., 579.
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solennissima. Dio invita all’ascolto e chiede di essere ascoltato: ciò significa che quello che lui sta per dire è assai importante. Tutta l’espressione comprende due parti. La prima parte: «Ascolta a me Giacobbe» contiene l’esortazione all’ascolto; la seconda parte: «e Israele mio chiamato», contiene la causa per cui Dio desidera essere ascoltato: egli è colui che ha chiamato e, per il fatto che ha chiamato, esige che Israele gli presti ascolto47. La motivazione per cui Dio dichiara di essere Dio e dichiara di essere il primo e pure l’ultimo è contenuta nel v 13. Essa è introdotta dalla particella va) che significa “anche” - “pure”: ciò vuol dire che non è questa la sola opera che Dio esibisce come prova, ma ce ne sono state e ce ne sono anche altre che qui, però, non vengono menzionate. A queste altre se ne aggiunge anche un’altra. Essa è descritta in due parti parallele48: «La mia mano ha fondato la terra e la mia destra ha disteso i cieli». L’opera che Dio esibisce perciò è la totalità della sua creazione49: Dio ha fondato la terra sulle sue basi50ed ha disteso il cielo51. Essa non si limita però soltanto al fatto isolato della creazione ma comprende anche l’esercizio di un potere sopra di essa; nello stesso v 13 Dio continua: «Chiamo io ad essi, stanno insieme»52. Nel v 14 dopo avere invitato nuovamente al raduno e all’ascolto, Dio pone la domanda: «Chi tra essi ha preannunziato queste cose?». L’allusione 47
Tutta l’espressione si articola in uno schema concentrico: verbo 1. yal") (am:$ vocativo 2. boqA(ay vocativo 3. l")fr:&iy:w verbo 4. yi)froq:m In questo schema i due testi appaiono strettamente relazionati. 48 Tale parallelismo emerge dal seguente schema: jere) hfd:safy yidfy {iyfamf$ hfx:Pi+ yinyimyiw Ciascuna parte comprende un soggetto, un verbo e un oggetto. 49 Si può notare la correlazione tra i due termini: “terra” e “cieli”, che esprimono la totalità della creazione (Cfr Gen 1,1). 50 Il tema di Dio che fonda la terra sulle sue basi è presente anche nel Sal 104 (103),5. 51 Il tema di Dio che distende i cieli come una tenda, compare anche nel Sal 104 (103),2. 52 Pure questa espressione, presenta due frasi parallele che iniziano entrambi con i verbi rispettivi: )"roq e Ud:ma(ay .
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probabilmente ancora è agli idoli e Dio, ironicamente, si chiede chi di essi ha preannunziato «tutte queste cose». La risposta è chiaramente: nessuno; nessuno tra gli idoli ha potuto preannunziare le cose future. Subito dopo l’autore descrive un’opera futura: «Colui che io amo farà le mie volontà contro Babilonia»53. L’allusione è ancora una volta a Ciro che agisce contro Babilonia. Pure questa è un’opera che Dio ha preannunziato; per questo, nel v 15, può concludere: «Io, io ho parlato, pure l’ho chiamato, l’ho fatto venire, ho dato prospero successo alle sue vie». Quest’ultima frase è molto enfatica e tale enfasi emerge sia dai due pronomi personali iniziali54, sia anche dai quattro verbi usati55, che descrivono tutta l’opera di Dio nei confronti di Ciro.
9. Conclusioni sui fondamenti veterotestamentari Possiamo proporre adesso qualche conclusione, sia sul piano letterario sia anche sul piano tematico, a riguardo dei tre testi di Isaia che abbiamo considerato. Dal punto di vista letterario possiamo distinguere due aspetti: l’espressione in se stessa, nell’ambito cioè dei tre testi di Isaia, e l’espressione in relazione al nostro testo di Apocalisse. Dal punto di vista letterario le tre espressioni di Is 41,4; 44,6; 48,12 concordano alla lettera nella prima parte della frase, cioè nelle parole
53
Anche questo verso presenta delle difficoltà testuali; seguiamo la lettura proposta nell’apparato critico della Bibbia Ebraica di Kittel - Kahle (cfr R. KITTEL - P. KAHLE, Biblia Hebraica, cit., ad locum). Nel TM leggiamo owb"hA) hfwh:w (il Signore lo ama). Tale lettura però nel contesto non dà senso, si propone di togliere con i LXX hfwh:y e di sostituire il pronome di terza persona con un pronome di prima persona singolare. 54 La duplice ripetizione del pronome yin) A sottolinea ancora una volta che è Dio solo che agisce e nessun altro oltre lui. 55 I quattro verbi usati sono: yiT:raBiD ho parlato wyit)fr:q l’ho chiamato wyito)yibAh l’ho fatto venire OK:raD axyil:cih:w Ho reso prospera la sua via. Questi quattro verbi esprimono un crescendo; Dio sta alla base dell’opera di Ciro: egli lo ha chiamato e lo ha guidato in tutto il suo cammino.
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}O$)ir yinA)56. La seconda parte della frase }owrAxa) yinA) è identica in 44,6 e 48,1257. In 41,4 invece, pur essendoci un termine dalla radice }owrAxa), troviamo una diversa espressione: )Uh yinA) {yinorAxa) te):w. In quest’ul-
tima espressione troviamo una diversità di senso rispetto alle altre: Dio non dice più di essere “l’ultimo”ma di essere con “gli ultimi”. I LXX traducono alla lettera soltanto la prima parte; l’espressione }O$)ir yinA) infatti in tutti e tre i testi è tradotta con l’espressione e\gwè prw%tov. Nella seconda parte della frase i LXX, in tutti e tre i testi, traducono il testo ebraico più liberamente, in un crescendo, come abbiamo già osservato, letterario e teologico che culmina in 48,12, nella menzione dell’eternità di Dio (e\gwé ei\mi ei\v toèn ai\w%na). Secondo i LXX Dio, il primo, è proteso verso le cose che debbono accadere (ei\v taè e\percoémena e\gwé ei\mi) (41,4); è dopo di esse (metaè tau%ta) (44,6); è in eterno (ei\v toèn ai\w%na) (48,12). Dal punto di vista tematico i tre testi presentano uno sfondo comune, quello cioè di una polemica che Dio istituisce contro gli idoli. In un ideale contesto giudiziario, Dio sfida gli idoli dei popoli ad esibire le prove della loro divinità. Essi non ne possono esibire alcuna; Dio invece menziona le sue opere ed esibisce le prove della sua divinità. In questo modo egli si rivela come l’unico Dio. In 41,4 Dio polemizza contro le isole e contro le nazioni (v 1). Egli li sfida a dichiarare chi ha compiuto l’opera di avere chiamato dall’oriente un vincitore che con la sua spada riduce in polvere i popoli e i re. Nessuno può attribuirsi la paternità di quest’opera. Dio che l’ha compiuta può dichiarare invece di essere il primo e di essere anche con gli ultimi. In 44,6 Dio ancora lancia una sfida. Essa riguarda l’annunzio fin dal tempo antico delle cose future. Si allude qui ad un’opera di Dio, anche se concretamente non si specifica quale essa sia. In particolare non si specifica quali siano le opere future che Dio ha annunziato fin dai tempi antichi. In ogni caso nessuno degli idoli può vantare di aver annunziato cose future fin dai tempi antichi. Ancora una volta Dio può concludere di essere lui l’unico Dio, cioè il primo e l’ultimo. 56 L’espressione si legge in questo modo in 44,6. In 41,4 è ampliata da un altro pronome personale )Uh seguito dall’altro pronome personale yinA) 57 In 48,12 si ha però un ampliamento, con il pronome yinA).
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Infine in 48,12 la disputa di Dio verte su due cose: avere creato il cielo e la terra e avere chiamato uno che compirà il suo volere. Si allude alla venuta di Ciro re dei persiani che marcia verso Babilonia. La risposta si profila chiara: nessuno oltre che Dio ha disteso i cieli e fondato la terra e nessuno oltre che lui ha chiamato quel personaggio che compirà il suo volere. I tre testi hanno così un carattere giudiziario; di fronte al suo popolo Dio entra in polemica probabilmente con gli idoli ai quali nel contesto allude l’anonimo profeta Deutero Isaia. Il problema è sapere chi è il vero Dio. Dio esibisce le sue prove: egli ha suscitato dall’Oriente un vincitore (41,4); egli ha predetto le cose future fin dai tempi antichi (44,6); egli ha disteso i cieli e fondato la terra e il suo amico compirà le sue volontà (48,12). Dal momento che nessuno degli idoli può vantare simili opere, la conclusione è ovvia: Dio è l’unico Dio che risulta il primo così nella lista delle divinità ma risulta anche l’ultimo, cioè l’unico. I tre testi considerati si collocano nello sfondo più ampio del Deutero Isaia. Quest’anonimo profeta, che probabilmente profetizza in Babilonia verso la fine dell’esilio, quando già sulla scena storica si profilavano la figura e le conquiste di Ciro, si rivolge al popolo degli esuli che si sente abbandonato dal suo Dio58 e soffre la tentazione di aderire agli idoli. Tra il popolo serpeggia sfiducia e nasce tacita la domanda se il proprio Dio sia in realtà potente a salvare. Egli istituisce un confronto tra Dio e gli idoli. Questi ultimi non possono salvare perché sono opera delle mani dell’uomo59, e infatti non hanno compiuto alcuna delle opere che invece Dio ha compiuto. Dio intende manifestare la sua potenza perché il suo popolo torni ad avere fiducia in lui. Egli è il vero Dio, come lo mostrano le opere meravigliose che ha compiuto. Le opere di Dio celebrate dal Deutero Isaia sono tre: la creazione, l’esodo, la chiamata di Ciro. Egli ha disteso i cieli ed ha fondato la terra60; egli anticamente aprì una strada attraverso il mare ed ora intende aprirne
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Cfr Is 40,27-28; 42,5. Cfr Is 40,18-19; 41,6. 60 Cfr anche Is 40,22.26. 59
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un’altra attraverso il deserto61; egli ha chiamato Ciro ed ha messo la vittoria nel suo cammino, benché questi non lo conoscesse62. Le nostre espressioni sono così quasi il compendio di tutta la teologia del Deutero Isaia. Le sue opere mostrano chiaramente che tra gli Dei Dio è il primo ma è anche l’ultimo. Cioè per le altre divinità non c’è posto; egli è l’unico Dio e solo in lui il popolo può e deve confidare63, perché lui solo è capace di salvare. Vedremo più avanti le diversità di sfumature tra i testi del Deutero Isaia e i testi dell’Apocalisse; al momento interessa soltanto rievocare che l’espressione del Deutero Isaia che più direttamente si relaziona ai testi dell’Apocalisse è o| prw%tov kaì o| e"scatov. Il termine prw%tov si legge in tutte le versioni greche, anche in Aquila, Simmaco e Teodozione, dove è tradotta alla lettera l’espressione ebraica: }ow$)ir yinA). La seconda espressione invece, kaì o| e"scatov, non si legge in nessuna versione greca; queste, come abbiamo già notato, riprendono in maniera assai larga il TM. L’espressione di Apocalisse o| e"scatov riprende perciò e traduce bene alla lettera l’espressione ebraica: }OrAxa) yinA). Possiamo allora concludere che delle tre espressioni dell’Apocalisse: toè a"lfa kaì toè w&, h| a\rchè kaì toè teélov, o| prw%tov kaì o| e"scatov, quella che più direttamente si relaziona ai testi di Isaia è l’ultima: o| prw%tov kaì o| e"scatov, e questa non riprende il testo greco, ma traduce alla lettera il testo ebraico soprattutto quello di Is 44,6 e 48,12.
PARTE SECONDA: I testi dell’Apocalisse Considerati i testi del Deutero Isaia, possiamo passare adesso ai testi di Apocalisse. Specificamente considereremo il testo di Ap 1,8, dove leggiamo l’espressione e\gwé ei\mi toè a"lfa kaì toè w&, il testo di 1,17, in relazione anche a 2,8, dove leggiamo l’espressione o| prw%tov kaì o| e"scatov, il testo di 21,6, dove all’espressione e\gwé ei\mi toè a"lfa kaì toè 61
Cfr Is 43,16-21. Cfr soprattutto Is 45,1-4. 63 Cfr Is 45,15-17. 62
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w& l’autore aggiunge l’espressione h| a\rchè kaì toè teélov; e infine il testo di 22,12b, dove l’autore alle due espressioni di 21,6 aggiunge la terza, o| prw%tov kaì o| e"scatov, ripresa ovviamente da 1,17 e da 2,8. Di ciascun testo interrogheremo il suo contesto, allo scopo di evidenziare la prospettiva con cui l’autore di Apocalisse usa le sue formule riprese dal Deutero Isaia.
1. Il testo di Ap 1,8 In 1,8, come abbiamo già detto, leggiamo l’espressione e\gwé ei\mi toè a"lfa kaì toè w& (Io sono l’Alfa e l’Omega). Questa espressione, insieme alle altre del v 8, suscita sorpresa perché, come dice il pronome iniziale e\gwé, l’autore sta qui introducendo un personaggio che si esprime in maniera diretta e si auto presenta. La sorpresa sta nel fatto che i versi precedenti (vv 4-7) hanno un’indole narrativa: non introducono infatti alcun personaggio che parla, ma costituiscono una descrizione fatta dall’autore stesso. É allora da ricercare il soggetto a cui l’espressione toè a"lfa kaì toè w& è riferita. Poniamo prima di tutto il problema da dove il nostro autore prese la formula toè a"lfa kaì toè w&. Il problema è legittimo perché, come abbiamo già notato, questa espressione non si legge mai altrove nella S. Scrittura, né nell’Antico né nel Nuovo Testamento. A riguardo gli interpreti sono divisi in diverse posizioni. Alcuni pensano ad un’origine ellenistica; altri richiamano una fonte giudaica; altri rimandano sia alla fonte ellenistica sia a quella giudaica; altri infine attribuiscono l’espressione allo stesso autore. A riguardo di un’origine ellenistica possiamo citare solo qualche autore. Così Fenasse64, che fa risalire l’espressione alle speculazioni ellenistiche sulla simbologia dei numeri. Krodel65 poi cita David Aune e spiega, allo stesso modo, che l’espressione a - w risalga meglio all’uso della magia ellenistica. Per l’origine giudaica dell’espressione si cita talora come punto di
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Cfr J.M. FENASSE, «Terme et debut! Voilà ce que je suis», cit., 48. Cfr G.A. KRODEL, Revelation, Minneapolis (Minnesota) 1989, 88.
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partenza il termine teme), che ha all’inizio la lettera ), alla fine la lettera t, e a metà la lettera {66. Secondo Läpple67 a e w sono una traduzione di Is 44,6. Lohse68 ritiene che l’autore dell’Apocalisse avrebbe ripreso da una tradizione giudaica l’uso simbolico delle lettere. Wilcock69 spiega inoltre che a e w sono l’equivalente greco di ) e t. Kosmala70 richiama pure il termine teme) e nota che in Apocalisse è omessa la { perché il tempo presente non è il mezzo ma l’inizio della vita escatologica. Richiama anche la letteratura rabbinica e cita il detto di R. Jisqaq (EsR 3) a Es 3,14: «Io sono colui che ero, che è adesso e che sarà nel futuro». Strack - Billerbeck71, suggeriscono che questa espressione greca richiami un certo uso rabbinico, dove la lettera ), come la prima dell’alfabeto ebraico, serve bene a designare il primo di una serie; mentre la lettera t, come l’ultima lettera dello stesso alfabeto, serve bene a designare l’ultimo della stessa serie. Perciò, l’espressione rabbinica: «da ‘alef a tau», corredata talora anche dalla lettera intermedia { designa una realtà dall’inizio alla fine, senza trascurare i vari punti intermedi72. Ad entrambe le fonti, giudaica ed ellenistica, rimandano infine Lohmeyer73 e Swete74. Soprattutto Allo75 richiama pure il simbolo rabbinico della Shekinah (t-) oppure tm)). Inoltre secondo Allo t-) indicano pure l’aspetto della totalità. In questo senso, secondo Allo, le lettere t-) 66 Cfr W.J. HARRINGTON, The Apocalypse of St. John, London 1969, 76; anche T. HOLTZ, Die Christologie der Apokalypse des Johannes, cit., 150. 67 Cfr A. LÄPPLE, L’Apocalypse de Jean, trad. franc., Paris 1970, 27. 68 Cfr E. LOHSE, L’Apocalisse di Giovanni, trad. it., Brescia 1974, 39. 69 Cfr M. WILCOCK, The Message of Revelation, Leichester 1992, 35 nota 1. 70 Cfr H. KOSMALA, «Anfang, Mitte und Ende», cit., 111. 71 Cfr H. STRACK - P. BILLERBECK, Kommentar zum neuen Testament aus Tamuld und Midrasch, III, München 1969, 789. 72 Questi autori citano GnR 81 (52a): «Che cos’è il sigillo di Dio? [...] R. Bebai ha detto in nome di R. Reuben: “verità”». Ma come (il sigillo) si relaziona ad tm)? R. Laqisch ha detto: «l’alef sta in cima all’alfabeto, mem sta nel mezzo e il tau alla fine; per questo si dice: «io sono il primo e l’ultimo e fuori di me non c’è alcun Dio». Cfr ancora l.c., 789. 73 Cfr E. LOHMEYER, Die Offenbarung des Johannes, Tübingen 19532, 13. 74 Cfr H.B. Swete, The Apocalypse of Saint John, London 1909, 10. 75 Cfr E.B. ALLO, L’Apocalypse, Paris 19333, 8.
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richiamano la mistica delle lettere ellenistiche, come la serie a e h i o u w che, nei papiri magici, significa l’universalità del mondo e la divinità. Quanto poi all’aspetto della totalità, che le due lettere )-t evocano, 76 Swete riprende il trattato rabbinico Jalkut (Rab 17.4): «Adamus totam legem transgressus est ab Aleph usque ad Tau». Alla ricerca di una fonte extrabiblica, Charles77 risale addirittura all’epoca romana e si riferisce a Marziale (V,26), ma cita anche il trattato Jalkut Rab 17.4, indicato anche da Swete e conclude che non è improbabile che l’espressione greca a - w sia una traduzione di una corrispondente espressione ebraica. Secondo Vanni78, l’espressione a - w sarebbe stata formata dallo stesso autore. Vanni però cita anche Kittel79 secondo cui l’autore dell’Apocalisse avrebbe ripreso l’espressione non direttamente dall’ellenismo, ma passando attraverso il pensiero palestinese. In questa pluralità di posizioni osserviamo anzitutto che la formula a"lfa kaì w& letterariamente non dipende, come abbiamo già detto, dall’Antico Testamento, ma ad esso si riconduce attraverso la formula o| prw%tov kaì o| e"scatov; il termine prw%tov infatti, nel senso di “primo”, richiama bene la prima lettera dell’alfabeto greco; il termine e"scatov, nel senso di “ultimo”, richiama bene l’ultima lettera dell’alfabeto greco. Dobbiamo allora pensare che il nostro autore abbia voluto rendere anche in questo modo la formula o| prw%tov kaì o| e"scatov, che direttamente traduce i testi del Secondo Isaia? É difficile rispondere a questa domanda. Può darsi anche il caso che l’autore abbia ripreso un’espressione presente nel linguaggio rabbinico. Ci sembra meno probabile tuttavia, per tutta l’indole giudaica dell’Apocalisse, che l’autore si sia riferito a delle speculazioni ellenistiche. Né abbiamo elementi per valutazioni decisive. In ogni caso possiamo considerare l’espressione toè a"lfa kaì toè w&, come equivalente dell’espressione prw%tov kaì e"scatov. Essa però, rispetto a quest’ultima, sembra contenere una sua sfumatura propria: dal 76
Cfr H.B. SWETE, The Apocalypse of Saint John, cit., 10. Cfr R.H. CHARLES, A Critical and Exegetical Commentary on the Revelation of St. John, I, Edinburgh 1920, 20. 78 Cfr U. VANNI, Apocalisse. Una assemblea liturgica interpreta la storia, Brescia 1979, 269. 79 Cfr R KITTEL, A W, in GLNT, I, 5-11. 77
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momento che Dio, si chiama “alfa” e “omega” e dal momento che “alfa” è la prima lettera dell’alfabeto greco e “omega” è l’ultima, significa che Dio sta sia all’inizio sia anche alla fine di tutte le cose. Quanto poi al soggetto a cui deve essere attribuita l’espressione di 1,8, non è chiaro se sia Dio o Gesù. La relazione al v 480 suggerisce che qui parla Dio; il participio e\rcoémenov dell’espressione incidentale o| w!n kaì o| h&n kaì o| e\rcoémenov, in relazione al verbo e"rcetai del v 7, suggerisce invece che qui parli Gesù81. Riteniamo però più verosimile che l’espressione si riferisca a Dio. Il motivo è perché appare più rilevante la relazione del v 8 al v 4 che non al v 7; infatti le espressioni dei vv 4.8 costituiscono lo sfondo e formano anche una inclusione ad uno sviluppo tematico riferito a Gesù nei vv 5-782. Non interessa però adesso il problema specifico di questi versi. Al nostro scopo è sufficiente notare che il v 8 è collocato tra due parti, rispettivamente i vv 4-7 e i vv 9-11, che iniziano entrambi con il nome proprio }Iwaénnhv. Dal punto di vista dell’indole letteraria possiamo distinguere nel v 8 due parti. La prima parte è costituita dall’espressione: e\gwé ei\mi toè a"lfa kaì toè w& ed è chiaramente di indole dialogica; essa presuppone degli ascoltatori a cui il Signore si auto presenta e che in un certo senso interpella. La seconda parte invece è costituita da una lunga espressione di tre elementi: leégei Kuériov o| qeoév - o| w!n kaì o| h&n kaì o| e\rcoémenov - o| pantokraétwr ed è chiaramente di indole narrativa: l’autore stesso introduce una lunga caratterizzazione di Dio come: «il Signore Dio, colui che è che era e che viene, l’Onnipotente», la cui auto presentazione l’autore ha appena prima introdotto. 80 Nel v 4 leggiamo la stessa espressione del v 8 o| w!n kaì o| h&n kaì o| e\rcoémenov. Essa nel v 4 è riferita chiaramente a Dio; Gesù infatti è menzionato dopo, nel v 5, in maniera indipendente e specifica, dopo la menzione dei sette Spiriti (v 4b). 81 Nel v 7 infatti leggiamo l’espressione: «ecco viene (e"rcetai) con le nubi del cielo». Quest’espressione, ripresa da Dan 7,13 attraverso la tradizione evangelica (cfr Mt 24,30; Mc 13,26; Lc 21,27), deve necessariamente riferirsi a Gesù. 82 Nei vv 5-7 possiamo individuare tre unità con tre elementi ciascuno: v 5: o| maértuv o| pistoév - o| prwtoétokov [...] - o| a"rcwn [...] v 6: t§% a\gapw%nti [...] - kaì luésanti [...] - kaì e\poòhsen [...] v 7: e"rcetai [...] - o"yetai [...] - koéyontai [...] benché la dossologia del v 6b separi il v 6a dal v 7.
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Globalmente tutto il v 8 è una espressione molto lunga. Il Signore Dio si presenta come «l’Alfa e l’Omega»; l’autore invece lo caratterizza come colui che «il Signore Dio, colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente». L’ultima parola o| pantokraétwr (l’Onnipotente) assume nel testo una particolare forza enfatica. Essa è separata dal termine qeoév mediante la lunga espressione o| w!n kaì o| h&n kaì o| e\rcoémenov. Questo sembra l’unico caso nell’Apocalisse in cui il termine qeoév è separato dal termine pantokraétwr83. Tenendo conto di tale separazione e considerando tutto il v 8 nella sua globalità, possiamo evidenziare in questo verso quattro elementi riferiti a Dio: toè a"lfa kaì toè w& - Kuériov o| qeoév - o| w!n kaì o| h&n kaì o| e\rcoémenov - o| pantokraétwr. Tutto il brano inizia così con l’espressione toè a"lfa kaì toè w& e finisce con l’espressione o| pantokraétwr. Nell’ambito di tutte queste espressioni, soprattutto nell’ultima o| pantokraétwr, bisogna perciò cercare il senso dell’espressione toè a"lfa kaì toè w&. Le parole: toè a"lfa kaì toè w& sono la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco. Restando nell’ambito dell’immagine dell’alfabeto greco, colui che si definisce “Alfa” e “Omega” occupa il primo e l’ultimo posto di tutte le lettere intermedie. Egli perciò esaurisce tutta la serie e perciò né accanto a lui né al di fuori di lui vi possono essere altre realtà. Dio perciò sta all’inizio e alla fine di tutte le cose. Ma in che senso egli sta all’inizio e in che senso egli sta anche alla fine? Per riprendere a questa domanda, dobbiamo ancora interrogare il nostro testo di 1,8. Secondo Kiddle84 Dio abbraccia ogni potere e si manifesta nella persona del Messia. Läpple85 ritiene che Dio è chiamato qui l’alfa e l’omega perché egli ha la prima e l’ultima parola. Spiega poi che, come il linguaggio e la scrittura degli uomini hanno bisogno di lettere che si trovano tra a e w, così la storia degli uomini essa stessa è un intermediario; parte infatti da Dio 83 Ciò emerge bene dallo schema che proponiamo di tutti gli altri usi del termine. Il termine pantokraétwr si trova nell’Apocalisse, oltre che in 1,8, anche in 4,8; 11,17; 15,3; 16,7.14; 19,6.15; 21,22. Leggiamo l’espressione kuériov o| qeoèv o| pantokraétwr in 4,8; 11,17; 15,3; 16,7; 19,6; 21,22. In 16,14 e 19,15 troviamo soltanto due elementi: qeoév e pantokraétwr; è assente il termine kuériov. 84 Cfr M. KIDDLE, The Revelation of St. John, London 1940, 10. 85 Cfr A. LÄPPLE, L’Apocalypse de Jean, cit., 27.
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e a lui torna. Secondo Rissi86 l’espressione mira a mettere in relazione prima Dio poi Cristo con il mondo. Come abbiamo già notato, l’autore di Apocalisse smembrò la triade o| kuériov o| qeoèv o| pantokraétwr per inserire nel mezzo l’altra triade o| w!n kaì o| h&n kaì o| e\rcoémenov. Due spiegazioni allora sono possibili: la prima proviene dalla stessa triade: o| kuériov - o| qeoév - o| pantokraétwr. Lo smembramento di questa triade determina la posizione iniziale dell’espressione kuériov o| qeoév e la posizione finale del termine o| pantokraétwr. In questo senso Dio sarebbe l’alfa in quanto è kuériov o| qeoév e perciò, come Dio, sta all’inizio di tutte le cose. Inoltre sarebbe l’omega in quanto è o| pantokraétwr; in quanto cioè egli sorregge tutte le cose, sta alla fine. L’altra spiegazione può essere data alla luce dell’espressione intermedia: o| w!n kaì o| h&n kaì o| e\rcoémenov. L’espressione o| w"n, come participio presente del verbo ei\mò87, facilmente richiama l’essere di Dio per essenza; l’espressione o| h&n richiama meglio invece la sua preesistenza; l’espressione o| e\rcoémenov annunzia meglio la sua venuta futura. In questo senso Dio sarebbe l’alfa in quanto egli è e preesiste ad ogni altra realtà; egli poi è l’omega, in quanto, venendo, sta alla fine di tutte le cose. Riteniamo possibili entrambe le spiegazioni; dobbiamo però riconoscere che il testo non suggerisce di più, né il contesto permette ulteriori precisazioni88. 86 Cfr M. RISSI, Die Zukunft der Welt. Eine exegetische Studie über Johannesoffenbarung, Basel (s.d.), 68 nota 167. 87 Cfr l’espressione di Es 3,14 (LXX): e\gwé ei\mi o| w"n. Per la relazione dell’espressione o| w!n kaì o| h&n kaì o| e\rcoémenov a Es 3,14 e soprattutto al Targum Palestinese di Es 3,14 e Dt 32,39, cfr M. McNAMARA, The New Testament and the Palestinian Targum to the Pentateuch, Rome 1966, 98-112. 88 Il contesto seguente (v 9ss) introduce di nuovo la figura dell’autore, Giovanni, già menzionato nel v 4. Il contesto precedente (vv 5-7), come abbiamo già notato, si riferisce a Gesù. In tutto il brano dei vv 4-9 possiamo evidenziare una struttura concentrica: 1. (v 4a): Giovanni 2. (v 4b): o| w!n kaì o| h&n kaì o| e\rcoémenov 3. (vv 5-7): triadi cristologiche 4. (v 8): o| w!n kaì o| h&n kaì o| e\rcoémenov 5. (v 9): Giovanni
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2. Il testo di Ap 1,17 In Ap 1,17 non troviamo più l’espressione toè a"lfa kaì toè w& ma l’espressione o| prw%tov kaì o\ e"scatov89. Inoltre l’espressione non è più riferita a Dio ma a Gesù, come emerge del fatto che in tutto il contesto, dal v 10 fino al v 20, chi parla non è più Dio ma Gesù. Che poi sia Gesù a parlare appare evidente dal fatto che il contesto dove è inserito il testo di 1,17 è la visione di Gesù glorioso, chiamato nel v 15 «uno simile a Figlio di uomo». Nel v 17 leggiamo appunto le parole con cui Gesù si presenta all’autore, dopo averlo esortato a non temere: e\gwé ei\mi o| prw%tov (Io sono il primo e l’ultimo). Nel v 18, l’autore amplia questa definizione introducendo un terzo elemento: kaì o| zw%n (e il vivente). Questo terzo elemento indica già a che cosa si riconduce la definizione: «il primo e l’ultimo». Gesù è il primo e l’ultimo in quanto è il vivente. Quest’ultima indicazione kaì o| zw%n riceve pure, mediante un ulteriore ampliamento, una spiegazione. Gesù stesso spiega: «Divenni morto ed ecco vivo sono, nei secoli dei secoli». Non è necessaria molta analisi per comprendere come dietro quest’espressione si nasconde il mistero pasquale di Gesù. Anche lui morì, ma, secondo la fede primitiva90, egli poi risorse da morte il terzo giorno. La sua resurrezione non è stato un fatto momentaneo, come possono essere state altre resurrezioni narrate nei Vangeli, in cui i beneficati ovviamente tornarono poi a morivano91. Per Gesù, invece, si tratta di una resurrezione tale da renderlo vivo per sempre. Tale carattere definitivo è espresso dall’autore di Apocalisse con la frase: ei\v touèv ai\w%nav tw%n ai\w%nwn (nei secoli dei secoli). Il carattere definitivo ed eterno della sua resurrezione ha reso Gesù Signore della morte e dell’inferno. Continua infatti ancora il testo di 1,18 con l’espressione: kaì e"cw taèv cle_v tou% qanaétou kaì tou% ç$dou (ed ho Questa struttura però, importante per altri aspetti, al nostro scopo non si rivela direttamente utile. 89 Swete nota che la lettura prwtoétokov anziché prw%tov del Cod A è una semplice reminiscenza di Ap 1,5, cfr H.B. SWETE, The Apocalypse of Saint John, cit., 10. 90 Cfr 1Cor 15, 3- 4. 91 La resurrezione della figlia di Giairo (Mt 9,18-26; Mc 5,21-43; Lc 8,40-56); la resurrezione del figlio della vedova di Nain (Lc 7,11-17); la resurrezione di Lazzaro (Gv 11).
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le chiavi della morte e dell’ade). Avere le chiavi di qualcosa significa avere il potere su qualcosa92: Gesù perciò ha il potere sulla morte e sull’Ade. Ciò significa che egli è superiore alla morte e all’Ade. Tale superiorità gli proviene dal fatto che egli vive in eterno. In lui la morte ha ricevuto così il suo limite93. Pur con diverso linguaggio, il nostro autore, su questo aspetto concorda con Paolo, il quale in Rm 6,9 scrive: «Cristo, risuscitato da morte non muore più; la morte non più domina su di lui»94. Possiamo così individuare nel nostro testo di Apocalisse quattro espressioni che possono aiutarci a comprendere il senso dell’espressione: o| prw%tov kaì o| e"scatov riferita a Gesù. Queste espressioni sono: o| prw%tov kaì o| e"scatov, kaì o| zw%n, kaì e\genoémhn nekroèv kaì i\douè zw%n ei\mi ei\v touèv ai\w%nav tw%n ai\w%nwn, kaì e"cw taèv kle_v tou% qanaétou kaì tou% ç$dou. L’espressione kaì o| zw%n che segue alla prima o| prw%tov kaì o| e"scatov è un participio presente sostantivato dal verbo zaéw. Essa è breve ed assoluta e differisce dalle altre due seguenti che sono molto più lunghe ed hanno un carattere più descrittivo. In particolare, possiamo notare la ripresa subito dopo, pur in diversa maniera95, del participio zw%n. Evidentemente l’autore volle sviluppare e anche giustificare la precedente espressione assoluta o| zw%n, spiegando che egli «divenne morto», ma ora è
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L’immagine delle chiavi è rara nel NT. Delle chiavi della morte e dell’Ade si parla anche in Ap 3,7. L’immagine delle chiavi è usata ancora in 9,1; 20,1. Inoltre si legge anche in Mt 16,19 dove Gesù dà a Pietro le chiavi del regno dei cieli e in Lc 11,52 dove si parla dei farisei che hanno le chiavi della conoscenza. Tale immagine, si ricollega a Is 22,22 dove Dio annunzia a Eliakim, figlio di Chelkia, che gli darà sulle spalle la chiave della casa di Davide, cioè il potere sulla casa di Davide. 93 Il potere della morte e dell’inferno sono così limitati; questo aspetto, apparirà ancora in Ap 20,13-14 dove l’autore scrive che la morte e l’inferno restituirono i loro morti e furono gettati nella fornace di fuoco. In 20,14 infine l’autore descrive la fine della morte o la morte della morte che lui identifica con la morte seconda. In questo modo egli potrà dire poi in 21,4 che nella Gerusalemme celeste non ci sarà più la morte. 94 Che Cristo resuscitato da morte è diventato Signore di tutti è espresso da Paolo ancora in Rm 14,9, dove scrive: «per questo Cristo è morto ed è risorto, per dominare sui vivi e sui morti». La vittoria sulla morte, in forza della quale Cristo è superiore ad essa, è espressa anche in 1Cor 15,26 dove Paolo scrive: «Come ultimo nemico sarà svuotata (katarge_tai) la morte». 95 Senza articolo e seguito dal verbo ei\mò.
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«il vivente nei secoli dei secoli». In questo senso Gesù può essere definito o| zw%n, cioè “il vivente” in assoluto. Collocata dopo l’espressione o| prw%tov kaì o| e"scatov, l’espressione o| zw%n, sembra contenere la motivazione, per cui Gesù è definito il primo e l’ultimo. Possiamo perciò dire che egli è il primo perché è il vivente e anche che egli è l’ultimo perché è il vivente. Rimane però da spiegare il senso di questa affermazione: perché il fatto che egli è il vivente lo costituisce “il primo” il fatto che egli è il vivente lo costituisce anche “l’ultimo”? La risposta a questi due interrogativi sembra essere contenuta nelle altre due espressioni seguenti. La terza espressione gravita attorno all’antitesi: «divenni morto» «ed ecco vivente sono». Questa espressione come abbiamo già detto, è legata alla precedente dal participio zw%n. È legata poi alla seguente, la quarta, solo tematicamente mediante cioè il tema della morte96. Nella terza espressione è chiaramente evocato il mistero pasquale di morte e resurrezione: Gesù morì pure, ma egli superò la morte, divenendo così il vivente in eterno. Egli perciò è il primo in quanto è il primo dei viventi, essendo egli il primo che ha superato la morte nella resurrezione. Di per sé la frase «divenni morto, ed ecco vivente sono nei secoli dei secoli» non necessariamente implica che Gesù sia stato il primo a risorgere; possiamo però notare che in 1,5 egli è chiamato: o| prwtoétokov tw%n nekrw%n (il primogenito dei morti), colui cioè che, per primo tra i morti, come in una nuova generazione, è risorto. Essendo lui il vivente per eccellenza e proprio per questa sua prerogativa di essere il «primogenito dei morti», Gesù può essere definito o| prw%tov. Egli è il primo dei viventi, colui che apre la serie dei viventi. La quarta frase, che presenta Gesù come colui che ha le chiavi della morte e dell’inferno, che cioè domina come Signore su queste realtà, giustifica l’altra affermazione, che egli è l’ultimo (o| e"scatov). Nella serie dei viventi, appunto perché vive nei secoli dei secoli, egli è l’ultimo. Egli cioè è colui che va ancora oltre la morte e l’inferno, i quali così vedono la loro esistenza già accorciata e la loro fine pure stabilita. In 20,14 infatti l’autore dirà che la morte e l’inferno furono gettati nella fornace di fuoco, 96 La terminologia però è diversa. Nella terza espressione troviamo il termine nekroév, aggettivo; nella quarta espressione invece leggiamo il sostantivo qanaétou.
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sperimentando così quella morte seconda che può essere definita la morte della morte. Pure a riguardo del senso di questo testo gli interpreti propongono un florilegio di sfumature. Boyd97 conclude il suo studio spiegando che Cristo è prw%tov in quanto egli predestina e ricrea i figli di Dio. Egli è e"scatov poiché egli è il dono della vita eterna e l’ultima soddisfazione per quelli che si trovano in lui. Nota poi Krodel98 che, come Dio, Gesù è il vivente. Secondo Harrington99 Gesù soltanto si applica ciò che Dio ha detto di sé in 1,18. Secondo Lohse100 invece Cristo, come Dio, è il vero vivente in rapporto agli idoli. Rissi101 spiega che Gesù è colui che ha superato la morte e vive in eterno ed ha potere non solo sulla vita ma anche sulla morte e sull’Ade. In un altro studio102 Rissi spiega che Gesù è il Signore della storia e il salvatore. Per essa è morto e tornerà per portarla a compimento. Possiamo così concludere che Gesù è il primo e l’ultimo in quanto è il vivente per eccellenza. Egli apre la serie dei viventi e lui la chiude e al di fuori di lui non ci può essere vita. Chiunque infatti non è con lui è destinato a non vivere e a sperimentare la morte seconda. Notiamo in questo testo di Apocalisse un mutamento di prospettiva rispetto ai testi del Deutero Isaia. In quei testi Dio era il primo e l’ultimo in quanto lui apriva la lista delle divinità e lui le chiudeva; cioè egli occupava ed esauriva quella lista, cosicché nessun altra divinità trovava un posto in essa. Dio così risultava il primo e l’ultimo, cioè in assoluto risultava l’unico Dio. Gesù invece è il primo e l’ultimo non dal punto di vista della divinità, ma dal punto di vista della vita. Egli è il primo e l’ultimo perché è il vivente; ed è il vivente perché anche lui divenne morto ma è risorto e ora vive nei secoli dei secoli. Gesù così è il Signore della vita, ha ottenuto addirittura il
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Cfr W.J.P. BOYD, «I am the Alpha and Omega» (Rev 1,8; 21,6; 22,13), cit., 531. Cfr G.A. KRODEL, Revelation, cit., 96. Cfr W. J. HARRINGTON, The Apocalypse of St. John, cit., 80. Cfr E. LOHSE, L’Apocalisse di Giovanni, cit., 45. Cfr M. RISSI, Alpha et Omega. Eine Deutung der Johannesoffenbarung, Basel
1966, 34. 102 Cfr Id., Was ist und was geschehen soll danach. Die Zeit- und Geschichtsauffassung der Offenbarung des Johannes, Zürich/Stuttgart 1965, 57.
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potere sulla morte e sull’Ade103 e fuori di lui non ci può essere vita né può essere donata vita.
3. Il testo di Ap 2,8 In Ap 2,8 troviamo la stessa espressione o| prw%tov kaì o| e"scatov che abbiamo trovato in 1,17 e che abbiamo già considerato in relazione a quel contesto. In questo secondo testo, come in 1,17 a cui si ricollega, l’espressione è relazionata al tema della vita. Dal punto di vista letterario tuttavia vi sono delle differenze che però lasciano sostanzialmente intatta la prospettiva. Prescindendo dal passaggio dalla prima persona in 1,17 alla terza persona in 2,8, la differenza fondamentale consiste nel fatto che mentre in 1,17 l’autore utilizza la formula perifrastica zw%n ei\mò (vivente sono), seguita dalla formula di indole liturgica ei\v touèv ai\w%nav tw%n ai\w%nwn (nei secoli dei secoli), in 2,8 utilizza invece soltanto il verbo aoristo e"zhsen104. Le differenze letterarie perciò riguardano specificamente l’aspetto della vita105. Possiamo allora constatare in questo testo la stessa relazione tra l’espressione il primo e l’ultimo e il tema della vita che abbiamo trovato già in 1,17. In questo senso, il nostro testo non aggiunge nulla di più106. Si può perciò passare al problema perché l’autore riprenda l’espressione di 1,17, 103 Avere le chiavi sulla morte e sull’Ade significa avere potere su di esse. Cfr G.A. KRODEL, Revelation, cit., 97, che cita 1Sam 2,6 e Sap 16,13. 104 Il verbo e"zhsen è un aoristo con valore ingressivo. A differenza della formula di 1,17 dove si sottolinea l’aspetto della perennità della vita, al punto che Gesù è definito “il vivente”, in 2,8 invece l’aoristo e"zhsen, con valore ingressivo, sottolinea il fatto che, nonostante che fosse morto, Gesù tornò a vivere e perciò nella morte non è rimasto. Questa differente sottolineatura è dovuta probabilmente a tutto il contesto della Lettera a Smirne dove, come vedremo, la preoccupazione dell’autore è quella di sostenere questa chiesa nella fedeltà nella quale bisogna permanere anche a costo di morire. L’esempio di Gesù rivela che, quando si muore per la fedeltà a lui, nella morte non si rimane. 105 Per quanto riguarda la morte, invece, troviamo la stessa espressione, benché con il passaggio della prima persona singolare in 1,17 (e\genoémhn nekroév), alla terza persona singolare in 2,8 (e\geéneto nekroév). 106 Morris si limita a dire soltanto che «primo e ultimo», come in 1,17, è legato alla resurrezione, ma non spiega di più; cfr L. MORRIS, Revelation, Grand Rapids 19872, 63.
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legata ancora al tema della vita, e la introduca proprio nel contesto della seconda lettera indirizzata a Smirne. In altre parole, ci possiamo chiedere se la ripresa dell’espressione di 1,17 in 2,8 sia soltanto casuale o non abbia un suo particolare significato. Di per sé questo problema supera i limiti del nostro lavoro; una risposta certa infatti esigerebbe la considerazione di tutti i titoli cristologici all’inizio di ogni lettera, in relazione al contenuto della lettera stessa. Possiamo tuttavia tentare una risposta, limitatamente al testo di 2,8 in relazione al contenuto della lettera alla chiesa di Smirne. Nel v 10, per mezzo dell’autore, Gesù esorta la Chiesa di Smirne a permanere107 nella fedeltà a lui fino a morire108, cioè anche a costo di morire. Subito dopo egli promette di dare la corona della vita (tonè steéfanon th%v zwh%v). Nel v 12 poi Gesù promette al vincitore che «non sarà leso dalla morte seconda», cioè dalla morte escatologica. Possiamo così rilevare nel contesto della lettera alla chiesa di Smirne tre aspetti molto significativi: restare fedeli fino alla morte, ricevere la corona della vita, non essere violati da morte seconda. Non interessa in questo studio approfondire il senso di ciascuna di queste frasi. É sufficiente notare soltanto che l’autore esorta qui la Chiesa a non avere paura a morire, perché da quella morte scaturisce la vita. Di ciò, modello e causa è il mistero di Gesù, il quale morì anche lui ma tornò a vivere.
4. Il testo di Ap 21,6 In Ap 21,6 leggiamo una duplice espressione: e\gwé ei\mi toè a"lfa kaì toè w& (io sono l’alfa e l’omega) - h| a\rchè kaì toè teélov (il principio e il compimento). Accanto all’espressione toè a"lfa kaì toè w& l’autore introduce
L’imperativo presente gònou, per il suo stesso valore di presente che esprime azione continua, esorta non ad “essere” ma a “permanere” in quella fedeltà, in cui la Chiesa di Smirne si trova. 108 L’espressione a"cri qanaétou, per l’assenza dell’articolo ha un aspetto non cronologico ma qualitativo intensivo: si tratta di una fedeltà portata alle estreme conseguenze della morte. 107
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anche l’espressione: h| a\rchè kaì toè teélov. Vedremo che, in 22,13 l’autore inserirà tra queste due espressioni anche l’altra o| prw%tov kaì o| e"scatov. In questo modo le espressioni da due passano a tre. In questo paragrafo consideriamo però soltanto il testo di 21,6; il testo di 22,13 sarà considerato nel paragrafo seguente. Tuttavia la loro relazione e anche la loro vicinanza109 inducono a considerare dal punto di vista strutturale tutto il contesto dove essi si trovano. Il contesto di entrambe le espressioni è costituito dai cc 21-22. In 21,2 l’autore narra la sua visione della città santa: «e la città santa Gerusalemme nuova vidi mentre scendeva dal cielo, da Dio». Analoga descrizione si legge in 21,10: «e mi mostrò110 la città santa Gerusalemme mentre scendeva dal cielo da Dio». Le due espressioni sono quasi identiche. Esse introducono due descrizioni della Gerusalemme celeste. La prima è contenuta in 21,15; la seconda è contenuta in 21,9-22,5. Segnaliamo pure un’altra espressione identica nel contesto. In 21,5 leggiamo l’espressione ou&toi oi| loégoi pistoì kaì a\lhqinoò ei\sin (Queste parole degne di fede e veraci sono). La stessa espressione si legge in 22,6. La sola differenza è che in 21,6 c’è il verbo ei\sòn che invece in 22,6 manca. Abbiamo così individuato due serie di espressioni quasi identiche: la prima serie riguarda la visione della Gerusalemme celeste, la seconda invece riguarda l’espressione: «Queste parole degne di fede e veraci»111. Tra 109 Altri usi dell’espressione nel libro dell’Apocalisse sono molto lontani. L’espressione toè a"lfa kaì toè w& si legge soltanto in 1,8 all’inizio del libro. Pure all’espressione o| prw%tov kaì o| e"scatov è usata in contesti molto lontani, in 1,17 e 2,8. 110 21,2: thèn poélin thèn a|gòan }Ierousalhém 21,10: thèn poélin thèn a|gòan }Ierousalhém 21,2: kainhèn eùdon katabaònousan e\k tou% ou\ranou% 21,10: katabaònousan e\k tou% ou\ranou 21,2: a\poè tou% qeou% 21,10: a\poè tou% qeou% Le differenze sono due: anzitutto in 21,2 troviamo il verbo eùdon (vidi), in 21,10 invece troviamo il verbo e"deixen (mostrò). Inoltre in 21,2 la santa Gerusalemme è definita con il termine kainhén (nuova) che invece è assente in 21,10. Prescindiamo dal diverso modo come le due visioni sono introdotte; in 21,2 è l’autore che direttamente “vede”, in 21,10 invece è l’angelo che gli “mostra”. 111 Otteniamo così il seguente schema che per comodità riportiamo in lingua italiana:
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21,2 e 21,6 l’autore inserisce, sullo sfondo dei cieli nuovi e terra nuova menzionati nel v 1, una descrizione della Gerusalemme celeste presentata come una novità che Dio ha attuato112. Tra 21,10 e 22,6 abbiamo un’altra descrizione della città santa, stavolta però non dal punto di vista della novità che Dio crea, ma dal punto di vista dei suoi elementi costitutivi113. Dopo l’espressione del v 5 segue un monologo di Dio che si protrae fino al v 8. In questo monologo non è ripreso alcun elemento della descrizione precedente. Allo stesso modo, in 22,6, dopo la frase: «Queste parole degne di fede di fede e veraci», segue una parte che va fino alla fine, in cui si introducono parole di vari personaggi, ma che, almeno direttamente, non ha relazione con la descrizione precedente della Gerusalemme celeste. Possiamo allora proporre a riguardo dei capitoli 21 e 22 il seguente schema globale:
21,2:
A La città Santa
B 21,10: E mi mostrò la città Santa Gerusalemme
Gerusalemme nuova vidi mentre scendeva mentre scendeva dal cielo, dal cielo da Dio da Dio 21,5: Queste parole 22,6: Queste parole degne di fede degne di fede e veraci e veraci sono. 112 Non interessa al nostro scopo considerare specificatamente questa descrizione. Ci limitiamo soltanto a osservare che essa è inclusa dal termine kainoév. In 21,1 infatti l’autore parla di un cielo nuovo (ou\ranoèn kainoén) e di una terra nuova (gh%n kainhén); in 21,2 parla di Gerusalemme nuova (}Ierousalhèm kainhén) e in 21,5a riferisce le parole di Dio: «Ecco nuove (kainaé) faccio tutte le cose». 113 E infatti l’autore descrive la città nel suo splendore, nel suo muro e nelle sue porte, nelle sue misure, nel suo interno. Ma nemmeno la considerazione di questa descrizione pur assai complessa rientra nel nostro lavoro.
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A Descrizione della Gerusalemme celeste come novità ( 21,1-5a) monologo di Dio (21,5b)
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B Descrizione della Gerusalemme celeste come città (21,10-22,5) dialogo tra diversi personaggi (22,6-21)
Le nostre espressioni si trovano nelle due parti dialogiche. In Ap. 21,6 leggiamo le due espressioni toè a"lfa kaì toè w& - h| a\rchè kaì toè teélov. La seconda espressione è unita alla precedente in maniera apposizionale, senza alcuna congiunzione. Essa perciò mira a chiarire la prima e ad esplicitarla. La prima espressione infatti toè a"lfa kaì toè w& è molto generica: essa, riprendendo la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, è aperta a qualsiasi significato. La seconda espressione invece è più specifica. Il termine a\rché esprime il fondamento; il termine teélov esprime invece il compimento114. La persona di cui si parla nel contesto, in quanto a\rché, è a"lfa, in quanto teélov, è w&. Emerge qui una domanda: a chi si riferiscono queste parole di 21,6? Chi è colui che si definisce l’alfa e l’omega, il fondamento e il compimento? Nel contesto, almeno dal v 1 al v 8, in nessun modo si parla di Cristo e perciò quelle due definizioni non possono essere riferite a lui. Due elementi rivelano che questa auto definizione debba riferirsi a Dio115. Anzitutto la frase iniziale del v 5: «Colui che siede sul trono disse», che introduce la parole fino al v 8 incluso: l’espressione o| kaqhémenov e\pì
114 A riguardo dell’espressione a\rchè kaì teélov, Charles spiega che essa è una formula abbreviata di un antico detto orfico ricordato da Platone (Leg IV,7). Questo detto fu conosciuto nel I secolo dopo Cristo in Palestina, come appare in Filone che, soprattutto in Ant VIII,11.2, ha una espressione molto vicina alla nostra (qeoèn [...] o$v [...] a\rchè kaì teélov tw%n a\paéntwn). In seguito la formula sarebbe stata adottata dai talmudisti nel sec III d.C., soprattutto da Simone b. Lakish, che si sforzò di far derivare il detto da tm). Charles nota però la natura forzata di tale spiegazione; infatti la lettera { non è a metà dell’alfabeto, ma la 13a dall’inizio e la 10a dalla fine, cfr R.H. CHARLES, A Critical and Exegetical Commentary on the Revelation of St. John, II, cit., 220 e anche T. HOLTZ, Die Christologie der Apokalypse des Johannes, cit., 150. 115 Cfr R.H. CHARLES, A Critical and Exegetical Commentary on the Revelation of St. John, II, Edinburgh 1920, 215.
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t§% qroén§ si riferisce a Dio; infatti l’autore altre volte distingue tra colui che siede sul trono e l’Agnello (Ap 5,13). In 19,4 poi Dio è definito: «colui che siede sul trono». Inoltre nel v 7 dove, a riguardo del vincitore, il soggetto stesso che parla nel contesto dichiara: «E sarò a lui Dio ed egli sarà a me Figlio». Emerge qui una domanda: qual è il senso di queste espressioni di 21,6? Per rispondere a questa domanda bisogna interrogare il contesto. A riguardo le posizioni degli interpreti ruotano attorno a diverse sfumature. Spiega Krodel116 che in Dio passato e futuro sono uniti. Egli è non solo il creatore del passato, ma anche il Signore sovrano del futuro e nel suo futuro c’è una nuova creazione, libera dal peccato, dalla morte e dal male. Più o meno in questa stessa prospettiva è Harrington117, secondo cui Dio è detto «Alfa e Omega, inizio e fine», perché è all’origine di tutto e sta alla fine di tutto. Ancora, secondo Kiddle118, Dio solo, come creatore, può decretare la fine a tutte le cose. Lohse119 spiega rimandando a Dio creatore e reggitore dell’universo. Spiega Läpple120 che un arco potente racchiude tutta la creazione dall’inizio alla fine. Dio è la prima e l’ultima parola; con la sua trasfigurazione Cristo ha inaugurato il processo verso le nozze eterne di tutto l’universo. Vanni121, sulla stessa linea dei tre testi di Isaia, ritiene che qui Dio è il primo e l’ultimo in relazione alla storia umana. Egli è così il principio e la conclusione della nostra storia. Prima delle nostre espressioni in 21,6 «Io sono l’alfa e l’omega, il principio e il compimento», leggiamo nel testo tre dichiarazioni: «ecco, nuove faccio tutte le cose», «queste parole sono degne di fede e veraci», «sono accadute (geégonan)». Dopo queste espressioni seguono tre promesse122. La prima promessa riguarda il fatto che Dio darà (dwésw) dalla fonte dell’acqua della vita gratis; la seconda riguarda il fatto che il vincitore «erediterà (klhronomhései) tutte queste cose (tau%ta)» e Dio sarà (e"stai) Padre ed egli, il vincitore (o| nikw%n) sarà (e"stai) figlio; la terza promessa 116
Cfr G.A. KRODEL, Revelation, cit., 349. Cfr W. J. HARRINGTON, The Apocalypse of St. John, cit., 76. 118 Cfr M. KIDDLE, The Revelation of St. John, cit., 419. 119 Cfr E. LOHSE, L’Apocalisse di Giovanni, cit., 186. 120 Cfr A. LÄPPLE, L’Apocalypse de Jean, cit., 228. 121 Cfr U. VANNI, Apocalisse. Una assemblea liturgica interpreta la storia, cit., 269. 122 Il carattere di promessa si deduce dall’uso dei verbi al futuro. 117
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infine è contenuta nel v 8 ed è una promessa negativa che si contrappone alla precedente123. Essa riguarda gli increduli, i fornicatori, gli omicidi, per i quali è riservata la fornace di fuoco e di zolfo, cioè la morte seconda124. Le prime tre dichiarazioni contengono un progressivo restringimento. Nella prima troviamo un verbo al presente, poiw% (faccio), che però è aperto ad un futuro immediato125; nella seconda troviamo ancora un verbo al presente ei\sòn (sono), che esprime una situazione presente; la terza infine è contenuta nel verbo perfetto geégonan, che indica una azione passata che però, in se stessa o nei suoi effetti, continua ancora nel presente126. Questo progressivo restringimento cronologico ci conduce fino al termine a\rché. Possiamo allora proporre il seguente schema: 1. poiw%:
presente con valore di futuro immediato
2. ei\sòn:
presente con valore di presente
3. geégonan: perfetto 4. toè a"lfa [...] h| a\rché Attraverso questo procedimento letterario l’autore arriva all’a\rché che è il fondamento di tutto. Si annunzia un imminente rinnovamento di tutte le cose; in certo modo anzi esso è presente, perché le parole di Dio già al presente sono degne di fede e veraci; anzi esse si sono già realizzate, perché il loro fondamento è Dio stesso che si definisce appunto l’a\rché. Dopo la duplice definizione toè a"lfa kaì toè w& e h| a\rchè kaì toè teélov seguono delle promesse, decisamente proiettate al futuro. Esse, come abbiamo già notato, sono tre, positive, di realtà future, a cui si aggiunge una minaccia. Non interessa al nostro lavoro determinare specificamente Cfr la particella di contrapposizione de é. In questa terza promessa non è introdotto il verbo. La sua assenza sottolinea ancora di il carattere di perentoria minaccia che questa promessa assume. Tuttavia il verbo che dev’essere sottinteso è una forma al futuro e"stai (sarà), quella stessa che troviamo nel v 7. 125 Possiamo tradurre il verbo poiw%: «sto per fare». 126 Possiamo tradurre questa forma al perfetto: «sono accadute». 123 124
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ciascuna di queste promesse; è sufficiente cogliere soltanto la loro indole di promessa futura. A queste promesse perciò possiamo ricollegare la nozione di teélov (compimento). In questo senso possiamo dire che Dio è teélov in quanto porta a compimento la sua opera, attuando quanto nelle sue promesse ha annunziato. Possiamo allora concludere che in 21,6 Dio è a\rché in quanto egli, come il fondamento di tutte le cose, può promettere e può garantire la certezza di quanto annunzia: le cose che egli promette si fondano in lui, da lui scaturiscono e, in certo senso, sono anche realizzate. Inoltre egli è teélov in quanto egli porta a compimento e realizza le cose che annunzia: queste sono finalizzate a lui e trovano in lui il loro compimento. Possiamo inoltre notare che l’annunzio del rinnovamento universale è l’annunzio di una realtà oggettiva; le altre promesse riguardanti il futuro sono invece realtà più soggettive, nel senso che esse sono fatte a persone concrete, a colui che ha sete (t§% diyw%nti) e al vincitore (t§% nikw%nti); esse mirano così a stabilire un rapporto interpersonale che culmina nell’espressione: «egli sarà a lui (al vincitore) Dio e questi sarà a lui figlio». L’autore fonda così sul Dio - a\rché l’annunzio di un rinnovamento oggettivo; ricollega invece al Dio - teélov la promessa di una realtà più personale. In ultima analisi Dio è a\rché in quanto in lui si fonda e da lui parte tutto il rinnovamento cosmico; è inoltre teélov in quanto tutto mira ad un incontro intimo e profondo con lui.
5. Il testo di Ap 22,13 L’ultimo testo che consideriamo è Ap 22,13. Esso ha un carattere di culmine, sia perché l’autore lo inserisce ormai verso la fine del suo libro, sia anche perché in questo testo propone insieme tutte e tre le espressioni che altrove ha introdotto singolarmente: toè a"lfa kaì toè w& (cfr 1,8; 21,6) o| prw%tov kaì toè e"scatov (cfr 1,17; 2,8) h| a\rchè kaì toè teélov (cfr 21,6).
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Il testo di 22,13 è vicino a quello di 21,6; anzi possiamo dire che è vicinissimo, se teniamo conto che l’ultima volta in cui l’autore ha usato un’espressione analoga è in 2,8. Emerge così la sua scelta di voler riservare queste espressioni all’inizio e alla fine del suo libro. La vicinanza con 21,6 permette di stabilire un confronto tra i due testi. Essi presentano due somiglianze e due differenze. Le somiglianze sono rispettivamente strutturale e contenutistica. Dal punto di vista strutturale i due testi si trovano dopo la descrizione della Gerusalemme celeste; in 21,6 si trova dopo la descrizione dei vv 1-5, in 22,13 si trova dopo la descrizione dei vv 21,9-22,5. Dal punto di vista del contenuto poi i due testi condividono due espressioni: toè a"lfa kaì toè w& e h| a\rchè kaì toè teélov. Le differenze sono pure due e riguardano il soggetto e il contenuto. Il soggetto che pronunzia le parole in 22,13 anzitutto non è Dio, come in 21,6, ma dal contesto risulta essere Gesù127. Il diverso contenuto emergerà poi, come vedremo più avanti, dal diverso contesto128. Volendo poi evidenziare il contesto, notiamo anzitutto che l’orientamento globale di tutto il brano, fin dal v 7, è il tema della venuta del Signore129; il testo di 22,13 infatti è preceduto dall’espressione del v 12 i\douè e"rcomai tacué (ecco vengo presto), che, risalendo, si legge anche nel v 7. Nel v 20 poi leggiamo l’espressione naì, e"rcomai tacué (sì, vengo presto). Il soggetto poi che viene è esplicitamente indicato dal testo stesso; nel v 20b, rispondendo e confermando130 l’annunzio del v 20a, la comunità invoca e"rcou, Kuérie }Ihsou% (vieni, Signore Gesù)131. Il soggetto perciò è Gesù. Lo scopo della venuta del Signore, o almeno ciò che la caratterizza, è indicato nel v 12 dove leggiamo: «la mia ricompensa è con me: per dare 127 Swete spiega che, in un senso pregnante, la frase mostra la prerogativa divina del Figlio incarnato. Ma forse, aggiunge, le tre frasi vogliono indicare il posto speciale del Signore nella storia umana. Essa infatti comincia con la creazione dovuta alla parola di Dio ed è portata a compimento nella gloria di Gesù, cfr Cfr H.B. Swete, The Apocalypse of Saint John, cit,, 307. 128 Nota tuttavia Lohse che qui sono attribuiti a Cristo gli stessi titoli che a Dio, cfr E. LOHSE, L’Apocalisse di Giovanni, cit., 307. 129 Per una completa presentazione dell’epilogo dell’Apocalisse, cfr A. GANGEMI, «Si, vengo presto (Ap 22,20). Su Apocalisse 22,6-21, cit., 7-30 (I); 4 (1977) 5-52 (II-III). 130 Cfr nel v 20b la presenza dell’a\mhén. 131 Sembra che l’autore riecheggi l’antica invocazione aramaica )tnyrm. Cfr A. GANGEMI, «Si, vengo presto (Ap 22,20). Su Apocalisse 22,6-21, ibid.,II, 30-31.
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a ciascuno come è la sua opera». Il ritorno del Signore è perciò legato alla ricompensa che egli viene a portare. Prescindiamo dal valore che il tema della ricompensa assume in tutto il libro dell’Apocalisse, dove i santi sono esortati a perseverare in vista di essa132. Interessa invece il legame che si stabilisce nel v 12 tra l’annunzio della venuta del Signore, la menzione della ricompensa e le nostre tre espressioni nel v 13. Quanto al senso delle espressioni, notiamo anzitutto le posizioni degli interpreti. Secondo Comblin133 con queste espressioni Gesù rivendica a sé l’esistenza eterna che era propria di Jahvè134. Secondo Holtz poi le tre espressioni hanno lo stesso senso135. Rissi136 osserva che queste espressioni caratterizzano il Signore potente della storia. Fenasse137 invece distingue le tre espressioni. Spiega poi, concludendo, in maniera sintetica, che Gesù è il principio e la fine di tutto, nell’essere e nella vita; è principio e fine perché è primo ed ultimo, porta cioè un titolo divino e partecipa alla realtà divina. Come principio e fine, egli è l’alfa e l’omega. In tale legame possiamo scorgere il senso della seconda parte delle tre espressioni, rispettivamente w& (omega), e"scatov (ultimo) e teélov (compimento). Gesù è il culmine assoluto (w&) di tutto; egli è l’ultimo di ogni cosa (e"scatov) ed è anche il compimento di ogni cosa (teélov). Tutto ciò però si manifesta nell’evento escatologico della sua venuta, che fin da ora è oggetto di annunzio da parte sua e oggetto di anelito da parte della Sposa. La sua venuta chiude gli avvenimenti della storia umana e chiude anche la serie di uomini e cose, e in questo senso egli è l’e"scatov. Ma la sua venuta è anche il culmine e il punto a cui tutta la storia
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Cfr i sette premi promessi al vincitore delle sette chiese. Cfr J. COMBLIN, Le Christ dans l’Apocalypse, Tournai 1965, 153. 134 In questo senso cita F. STAUFFER, e\gwé, in GLNT , III, coll 41-94: 63-66. 135 Cfr T. HOLTZ, Die Christologie der Apokalypse des Johannes, cit., 82. 136 Cfr M. RISSI, Was ist und was geschehen soll danach. Die Zeit- und Geschichtsauffassung der Offenbarung des Johannes, Zürich/Stuttgart 1965, 57. 137 Cfr J.M. FENASSE, «Terme et debut! Voilà ce que je suis», cit., 43-50. 133
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umana e la creazione stessa tendono, e in questo senso egli è anche il teélov. Quello sarà il momento in cui gli uomini riceveranno la loro ricompensa138. I tre termini w&, e"scatov, teélov, messi insieme, esprimono così in maniera assai efficace il carattere assoluto di questo punto culmine: dopo non si prevede altro se non il giudizio escatologico della grande prostituta e l’avvento della Gerusalemme celeste139. Rimane però ancora da spiegare il senso della prima parte delle tre espressioni: toè a"lfa (l’alfa), o| prw%tov (il primo), h| a\rché (il fondamento). In che senso a Gesù si possono riferire queste prerogative? Nel testo non abbiamo altro elemento a cui riferirci se non l’altra auto definizione del v 16, che, come quella del v 13, inizia ancora con il pronome personale di prima persona e\gwé140. Nel v 16 Gesù si definisce come «la radice (h| r|òza)” e la stirpe (toè geénov) di Davide, la stella (o| a\sthér), quella splendente (o| lamproév), quella mattutina (prwi=noév)». Quest’espressione è densissima ed esegeticamente è anche molto impegnativa. Della radice di Davide l’autore ha parlato già in 5,5, dove, alludendo all’Agnello, menziona il leone della tribù di Giuda, che è appunto dalla radice di Davide, che ha vinto141 ed è divenuto capace di prendere il libro e di aprirne i sigilli142. Della stella splendente mattutina l’autore ha già parlato in 2,28, ma in diversa prospettiva: essa è promessa come dono al vincitore della chiesa di Tiatira.
138 Troviamo la stessa prospettiva delle parabole escatologiche. Cfr per esempio la parabola dei talenti in Mt 25,14-29. 139 Nell’Apocalisse stanno in relazione il giudizio contro la grande prostituta (poérnh) e la venuta della sposa (nuémfh) adorna per il suo sposo; entrambe si relazionano alla venuta del Signore. Cfr 16,15 che richiama i testi di 22,7.12 e 17,1 che richiama 21,9. 140 La relazione tra il v 13 e il v 16 emerge anche da una particolare struttura nel testo: 1. (v 12): i\douè e"rcomai tacué 2. (v 13): e\gwè toè a"lfa [...] 3. (v 16): e\gwé ei\mi h| r|òza [...] 4. (v 20): naì, e"rcomai tacué La relazione tra il v 12 e il v 20 conferma la relazione tra i vv 13.16. Nello sfondo di due menzioni della venuta del Signore si collocano due auto definizioni di Gesù. 141 Cfr quanto l’autore dirà a riguardo dell’Agnello nei vv 7.8. 142 La menzione della «radice di Davide» in 5,5 e in 22,16 costituisce come una grande inclusione a tutta la parte dell’Apocalisse dal c 5 al c 22.
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Dicevamo che l’analisi esegetica di questa immagine è assai impegnativa e la sua specifica considerazione ci porterebbe lontano dal nostro cammino. Per questo sufficiente al nostro scopo riprendere e far nostre le conclusioni a cui è pervenuto A. Gangemi143: la stella del mattino, un simbolo che risale fino a Nm 24,17144, caratterizza nel nostro testo il Signore Gesù nell’evento della sua resurrezione. Nel mattino pasquale Gesù si è manifestato come luce splendente, come quella stella di cui l’AT aveva parlato145. Possiamo allora concludere che, nel contesto del c 22, Gesù è «l’Alfa, il primo, il principio» in relazione al suo mistero pasquale; in esso egli è diventato la radice, la stirpe di Davide, la stella splendente mattutina146. Egli poi è «l’Omega, l’ultimo, il compimento» in relazione alla sua venuta escatologica, quando egli tornerà per portare a ciascuno la sua ricompensa, quando si compirà il giudizio della grande prostituta e quando la Gerusalemme celeste scenderà dal cielo.
6. Conclusioni Le nostre conclusioni riguardano due aspetti: l’aspetto letterario e l’aspetto teologico tematico. Sul piano letterario l’autore dell’Apocalisse ci presenta tre espressioni parallele: «io sono l’Alfa e l’Omega — io sono l’Inizio e il Compimento — io sono il Primo e l’Ultimo». Emerge il problema quale delle tre sia letterariamente la prima, dalla quale l’autore deduce le altre due. Il confronto che abbiamo stabilito con i testi del Deutero Isaia induce a concludere che l’espressione principale sia
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Cfr A. GANGEMI, La stella del mattino (Ap 2,28), in RBibIt 26 (1978) 241-274. Cfr Nm 24,17: «una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele», letto anche alla luce del Targum. 145 L’immagine della stella del mattino di Apocalisse non pare senza relazione alla stella dei Magi di Mt 2,1ss. Cfr A. GANGEMI, La stella del mattino (Ap 2,28), cit., 247 note 15 e 16. 146 L’aspetto pasquale del resto era già emerso nell’espressione o| prw%tov kaì o| e!scatov di 1,17 e 2,8. 144
Gesù nel libro dell'Apocalisse
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quella che costituisce direttamente la traduzione di quei testi. Si tratta cioè dell’espressione: «il Primo e l’Ultimo». Le altre espressioni, benché il nostro autore nella loro formulazione non sia del tutto originale, tuttavia si possono ricondurre a quella fondamentale. Nella formulazione delle altre espressioni il nostro autore non sembra infatti originale, perché, come abbiamo già a suo tempo notato, l’espressione «Alfa e Omega» è riconducibile al linguaggio rabbinico. L’espressione poi «Inizio e Compimento» si trova anche altrove, pur in diversa prospettiva, nel NT (cfr Eb 7,3). Sempre ancora dal punto di vista letterario, il nostro autore, rifacendosi ai testi del Deutero Isaia, riprende secondo il testo ebraico, che egli direttamente traduce. Infatti delle differenze letterarie, nella formulazione dei LXX, sconsigliano di stabilire una diretta dipendenza dal testo greco. Quanto poi all’aspetto tematico-teologico, notiamo anzitutto una differenza di prospettiva nel nostro autore rispetto alla sua fonte, i testi del Deutero Isaia. Nel Deutero Isaia Dio è rappresentato il primo e l’ultimo, non in maniera teorica e astratta ma in maniera concreta ed esperienziale, non in maniera assoluta ma relativa. Dio infatti è il primo e l’ultimo in relazione agli idoli. Il Deutero Isaia concepisce quasi una lista ideale delle divinità, alle quali il popolo del Signore potrebbe essere tentato di aderire. In questa lista il Dio di Israele figura al primo posto. Ma figura anche all’ultimo. In questo modo egli occupa ed esaurisce perciò tutta la lista delle divinità; di modo che in questa lista non c’è alcun posto per altre divinità. Così Dio risulta l’unico Dio e fuori di lui non ce n’è altri. Questo Dio stesso afferma davanti al suo popolo perché esso smetta di confidare negli idoli e ponga tutta la sua fiducia in lui. Questa però non è una pretesa arbitraria di Dio, ma egli stesso dà, per così dire, soddisfazione al suo popolo esibendo tre opere che confermano la sua esclusiva ed assoluta prerogativa divina. Le tre opere sono: la creazione, l’esodo dall’Egitto, la presenza di Ciro nella scena storica. Queste opere le ha fatte lui e solo lui.
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Maria Rita Sambataro
L’autore dell’Apocalisse riprende questa definizione di Dio e la propone, come abbiamo detto, in tre espressioni letterariamente diverse. Notiamo subito due differenze rispetto al Deutero Isaia. Anzitutto la formula non è riferita soltanto a Dio, ma è condivisa anche da Gesù. Ciò significa che Gesù ha ereditato le prerogative divine. Inoltre all’interno di queste espressioni possiamo cogliere una distinzione. La formula «Alfa e Omega» ha un carattere assoluto. Le altre due formule hanno invece un carattere relativo. Cioè Dio o Cristo sono il primo e l’ultimo, l’inizio e il compimento rispetto a delle realtà. Ma possiamo evidenziare ancora altri aspetti. Anzitutto a Dio e a Cristo sono riferite soltanto le espressioni «Alfa e Omega» e «principio e fine». L’espressione «primo e ultimo» invece è esclusiva prerogativa di Gesù. Inoltre, mentre per Dio l’espressione «Alfa e Omega» è legata in 1,8 all’altra espressione «colui che era, che è e che viene», rimandando all’assoluta eternità di Dio, per Gesù invece la stessa espressione, in 22,13, rimanda alla sua prerogativa divina che egli ha ereditato nella glorificazione pasquale, quando diventa «la stella splendente mattutina». L’espressione «primo e ultimo», in 21,6, riferita a Dio, rimanda al fatto che Dio è il fondamento e il compimento della sua opera. In 22,13 invece la stessa espressione ancora rientra nelle prerogative divine che Gesù ha acquisito. Infine l’espressione «primo e ultimo», che è riferita esclusivamente a Gesù, è più direttamente in rapporto con la sua resurrezione. Egli è il primo dei viventi perché «morì e tornò a vivere»; ed è anche l’ultimo nel senso che al di fuori di lui non ci può essere altra fonte di vita. Due ultimi aspetti infine vanno rilevati in questa sintesi conclusiva. Anzitutto l’importanza del testo di 22,13, dove l’autore mette insieme, riferite a Gesù, tutte e tre le espressioni. In questo modo, al termine del libro stesso dell’Apocalisse, Gesù è presentato nella pienezza della sua divinità. Inoltre il titolo «Alfa e Omega» si pone nel contesto del libro dell’Apocalisse; un libro scritto per sostenere i cristiani nella loro travagliata fedeltà. I cristiani debbono sapere che quel Gesù, per il quale lottano e muoiono, è Dio. Egli è la fonte della vita e un giorno tornerà a dare la ricompensa.
Note Synaxis XX/2 (2002) 427-438
IL SACRO E LA STORIA. LE CIVILTÀ ALLA PROVA
SALVATORE LATORA*
Il Terzo Corso dei Simposi Rosminiani, svoltosi a Stresa dal 28 al 31 agosto 2002, ha avuto come tema: «Il sacro e la storia. Le civiltà alla prova»1. Continua così quell’opera di evangelizzazione della cultura, che il Santo Padre, Giovanni Paolo II, ha affidato come compito specifico ai Padri Rosminiani, specialmente ora che sul Grande Roveretano, grande nel pensiero e nella santità di vita, è stata tolta ogni riserva e sono caduti dubbi e perplessità sulla ortodossia del suo pensiero, tanto che nella Fides et ratio viene indicato anche il nome di Antonio Rosmini tra i pensatori più recenti, che con una ricerca coraggiosa hanno reso manifesto il fecondo rapporto tra la filosofia e la parola di Dio2.
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Docente di Filosofia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cosa sono i “Simposi Rosminiani”? Essi sono nati nel 2000 «come continuazione della “Cattedra Rosmini”, la quale, fondata da Michele Federico Sciacca nel 1967, ha svolto brillantemente il compito affidatole di riportare la voce di Rosmini nel dialogo intellettuale del pensiero contemporaneo. Essi si propongono di passare ad una nuova fase, vale a dire di offrire a quelli che Rosmini chiama “amici della verità” e promotori di “carità intellettuale” un luogo, in cui poter approfondire, in piena libertà di spirito e con rispetto delle diversità, la soluzione dei problemi più urgenti che si affacciano sul terzo millennio». (dal Programma, edito a cura del Centro Rosminiano di Stresa). 2 Cfr La Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede, la quale, il 1° luglio 2001, nel centoquarantaseiesimo anniversario della morte di Antonio Rosmini, ha fornito 1
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Salvatore Latora
Il percorso dei Simposi continua, con scadenza annuale, affrontando quest’anno un tema interessante, sia per l’attualità dell’argomento che per l’alto livello dei relatori, ma anche per l’accresciuto numero dei partecipanti. Il nuovo tema, dopo quello su: La filosofia dopo il nichilismo (2000) e quello su: La fine della persona? ( 2001), di cui sono stati già pubblicati gli Atti, ci riporta «a riflettere sull’incidenza delle religioni sia nella storia dei popoli, sia nell’incontro scontro fra diverse civiltà, quando sono costrette a confrontarsi». Il Padre Umberto Muratore, Direttore del Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa, così sintetizza efficacemente il senso dei due precedenti Simposi: « Nell’anno 2000, scegliendo come tema principale di approfondimento la possibilità di una filosofia dopo il nichilismo, volevamo porre l’attenzione su uno dei pilastri del pensiero di tutti i tempi: la fiducia ragionata nell’essere, che trattiene l’intelligenza dallo scivolare verso il nulla di senso e di valori della vita umana. Fiducia “ ragionata”, nel senso che deve essere riconquistata non con un antifilosofico atto di fede, ma dopo aver attraversato con coraggio e ascolto tutto il terreno del nichilismo, il quale dall’Ottocento ai nostri giorni ha scosso e messo in pericolo tale fiducia. L’anno successivo, 2001, scegliendo come tema di incontro il problema della persona, ci si è proposti di esaminare l’altra gamba sulla quale cammina la filosofia, l’essere infatti è l’oggetto che viene da fuori dell’uomo, accende la sua intelligenza e gli permette di intendere e di volere non cose immaginarie ma cose vere; la persona invece è il soggetto che è
precisazioni fondamentali sul modo di intendere il Decreto del 14 dicembre 1887, più precisamente noto come Post obitum, con il quale Decreto del Santo Uffizio ( che ora si chiama Congregazione per la Dottrina della Fede), riguardava quaranta proposizioni estratte dalle opere rosminiane per lo più pubblicate dopo la sua morte, soprattutto dalla Teosofia. La nota vaticana ha cercato di chiudere ogni polemica che la condanna allora suscitò, affermando che le proposizioni rosminiane condannate vanno lette, ora, in un mutato contesto culturale e dottrinale, come un punto di controversia che vide contrapposte diverse letture circa l’intero sistema filosofico e teologico rosminiano, e che culminò con un atto prudenziale, nel quale si ponevano in guardia i fedeli da possibili errori dovuti ad un modo non retto di accostarsi alle opere rosminiane postume (da L’Osservatore Romano, 1 luglio 2001).
Il sacro e la storia. Le civiltà alla prova
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illuminato dall’essere, porta l’essere come oggetto in se stesso e, grazie a questo dono di cui è fruitrice e portatrice, acquista una dignità ed un’autorevolezza che la rende fine rispetto a tutti gli altri soggetti dell’universo. L’essere e la persona, dunque, come due beni intrecciati che si sostengono a vicenda, vivono lo stesso destino, percorrono la stessa strada: dove cade l’uno, l’altra non può reggersi in piedi per molto tempo»3. Come è stato affrontato il tema di quest’anno? In considerazione del carattere di continuità di questi incontri e alla luce delle premesse sopra evidenziate, i temi delle relazioni di quest’anno si possono dividere in tre gruppi. I. Il sacro, la filosofia e la cultura contemporanee. – II. Il sacro e le religioni – III. Il sacro e il pensiero di Rosmini. Dodici sono state le relazioni, compresa la introduzione di Don Muratore, e possono essere divise in misura simmetrica, di quattro per ciascuno dei gruppi individuati, che indichiamo con le lettere dell’alfabeto. A- Dario Antiseri, Filosofia contemporanea e riconquista dello spazio del sacro – Gianfranco Morra, Storia e sacro. Un solo destino – Giuseppe Limone, Il sacro come la contraddizione che fonda. Il paradosso che salva – Giuseppe Riconda, Idea russa e critica dell’Occidente. B- Amos Luzzatto, Il valore del sacro nella storia ebraica - Nicola Gasparro, L’islam e noi – Carlo Cardia, L’utopia della scrittura, le infedeltà delle Chiese – Giuseppe Buttà, Il problema della storia in Reinhold Niebur, teologo americano. C- Umberto Muratore, Introduzione – Giuseppe Cantillo, Natura umana e senso della Storia nel pensiero di Rosmini – Antonio Livi, Il cristianesimo nella filosofia moderna: da Cartesio a Rosmini – Pier Paolo Ottonello, Presentazione dell’edizione critica della Teosofia di Rosmini. ∗∗∗∗ Dario Antiseri, Autore insieme con Giovanni Reale del fortunato manuale di filosofia, tradotto in molte lingue e, ultimamente, anche in russo, passa in rassegna il percorso della filosofia moderna e la interpreta come 3 La fine della persona? Atti del Introduzione, 115,116.
II
Corso dei Simposi Rosminiani, Stresa 2002,
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ispirata ad una certa arroganza della ragione, che l’ha portata ad assolutizzare ora la ragione stessa (Idealismo); ora la scienza (Positivismo); ora la rivoluzione (Marxismo). Ma, seguendo l’analisi critica di Popper, che ci permette di svelare i lati negativi di ogni riduttivismo, Antiseri continua a descrivere la inevitabile caduta degli assolutismi terrestri. Da questa catastrofe desacralizzante e nichilistica, nata dalla presunzione di voler negare ogni realtà trascendente, propria di ogni posizione secolaristica, riemerge ora, secondo l’A., la necessità della riconquista dello spazio del sacro, anche sulla scorta del pensiero di Rosmini. Riemerge quindi la domanda metafisica del perché l’essere piuttosto che il nulla! E soprattutto del perché del dolore umano e della sofferenza degli innocenti! A questo proposito la posizione di Antiseri si pone sulla linea fideistica, perché per lui l’eclisse del sacro è conseguenza dell’eclisse della fede: ripristinata questa, riemergerà il senso del sacro. La filosofia non salva, egli ribadisce, solo Cristo può salvarci! La filosofia tutt’al più potrà introdurci alla fede. In merito a questi dubbi sul ruolo della ragione, svolge la sua relazione Gianfranco Morra, che già in anticipo aveva espresso il suo pensiero in un lungo articolo su “Studi Cattolici” (n° 98 – Luglio-Agosto 2002). Anch’egli accusa la civiltà moderna che ha provato a costruire la storia senza il sacro, andando incontro allo scacco più radicale, perché senza il sacro la storia resta priva di senso e l’uomo si esperimenta amaramente come essere unicamente precario e mortale! Il suo auspicio è verso la luce del ritorno al sacro, che va verso il ripristino della tradizione, della vera Religione e della vera filosofia, che Rosmini cercò di riproporre con una nuova enciclopedia sulla rovina dell’enciclopedismo illuministico; su tale via bisogna proseguire, senza «quei pasticci sincretistici, quelle insalate ermeneutiche, quelle macedonie kerigmatiche di cui il confuso periodo postconciliare ci ha dato prova, insieme con la subalternazione della cultura cattolica alle peggiori ideologie della modernità»4. 4
Studi Cattolici 98 (2002) 505.
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Ma abbiamo chiesto, e ci chiediamo, se sia stato veramente questo il messaggio del pensiero e dell’opera di Antonio Rosmini! Di tutt’altro tenore è stata la relazione di Giuseppe Riconda, Professore di filosofia teoretica dell’Università di Torino, discepolo di Pareyson, Autore di una recente raccolta di saggi dal significativo titolo: “Tradizione e avventura”, in cui propone una restaurazione creatrice per affrontare i problemi contemporanei alla luce di un personalismo ontologico, antinomico, escatologico. Egli ha svolto una interessante ricognizione su alcune figure del pensiero russo come Berdjaev, Solov’ëv, Leont’ev, da cui può venire una critica dell’occidente e una più corretta riacquisizione del senso del sacro. Ma come può avvenire ciò, se non auspicando una nuova sintesi alla luce di una veduta Cristica? Cristo sintesi di oriente ed occidente. E’ questa la grande ed affascinante utopia del futuro! Sulla intrinseca ambiguità del “sacro” indaga la relazione di Giuseppe Limone, la cui valenza positiva o negativa deriva dalla decisione responsabile e quindi rischiosa della libertà. Si diceva che il Simposio, tra le sue finalità, si riprometteva di chiamare in causa le religioni, per vagliare la loro incidenza nella vita dei popoli, avendo come linea conduttrice dell’analisi il concetto del “sacro”. Qui sono stati presenti con le loro relazioni tre autori in rappresentanza, per così dire, delle tre religioni del libro. Amos Luzzatto, medico chirurgo, Presidente della Comunità ebraica, Direttore della Rassegna Mensile della stessa comunità, apprezzato Autore di commenti al libro di Giobbe e ai Salmi, editi dalla Morcelliana, è il primo relatore . Egli con grande competenza esamina il termine: qadosh, che ha un significato duplice, quello di sacro e santo: è di antica origine assira, e indica, luminoso, carico di luce; la luce è vitale, ma la vicinanza eccessiva ad essa è pericolosa! Conferma il suo assunto con delle citazioni puntuali tratte dall’Esodo, dal Pentateuco, dal Levitico e da Isaia. La santità o sacertà richiede alcuni elementi essenziali come la relazione intensa con Dio, la ricerca della purità, la separazione come elemento di distinzione. Ciò che distingue il pensiero ebraico da quello greco è, secondo Luzzatto, che Atene classifica, mentre Gerusalemme narra. Ora, dato che il “sacro” è muto, perché non è Qualcuno, quando gli si chiede, se può il Cristo essere punto di incontro e sintesi fra Ebraismo e
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Cristianesimo (come prima lo si diceva fra oriente ed occidente), egli risponde, che a Gerusalemme, negli ultimi cinquant’anni si moltiplicano gli studi su Cristo, e i risultati, come si spera, certo non mancheranno! Relazione interessante, senza dubbio, ma quando si guarda all’attualità, e ai fatti tragici del quotidiano, anche i discorsi diventano incandescenti e ogni serenità teoretica rivela i propri limiti. E’ il caso delle altre due relazioni, sia quella di Nicola Gasparro, docente di Storia delle religioni, che tratta dell’Islam in rapporto a noi occidentali; sia della relazione di Carlo Cardia, filosofo del diritto, discepolo di Arturo Carlo Jemolo, di cui prosegue l’eredità culturale; egli che ha fatto parte della Commissione incaricata per la Revisione del Concordato è addentro a tutta la problematica ecclesiastica e ci fa cogliere le infedeltà delle chiese nei confronti degli ideali della Scrittura. Come fare interagire e far colloquiare Rosmini, oggi, con questi orientamenti di pensiero, dialoghi interreligiosi e scontri di civiltà? E’ stato questo il ruolo delle altre quattro relazioni, secondo l’ordine sistematico che abbiamo voluto dare con la nostra rilettura dei contenuti del Simposio. Giuseppe Cantillo affronta il problema del senso della storia secondo il pensiero del Rosmini, da cui deriva la critica di ogni perfettismo e del concetto storiografico di progresso. Nell’ultimo giorno ha svolto la sua relazione Antonio Livi, professore di Filosofia della conoscenza nell’Università Lateranense di Roma, autore di una originale e sistematica teoria del “senso comune”, come esperienza originaria nella quale possiamo ritrovare il criterio assoluto della verità logica; una filosofia, dunque, con valore aletico, veritativa, capace di farci superare le ingannevoli pieghe del razionalismo moderno, senza però lasciarci irretire dalle varie forme dello scetticismo post-moderno5. Egli alla luce del Rosmini e della centralità dell’idea dell’essere esamina il concetto di “ sacro” come cifra della trascendenza, da cui partire per una riflessione filosofica, esistenzialmente vissuta, circa il rapporto con il Trascendente. Pier Paolo Ottonello presenta la edizione critica della Teosofia del Rosmini, da lui magistralmente curata in più volumi. E’ questa la grande
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Cfr. A. LIVI, La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica. Roma 2001.
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opera di sintesi di tutto il pensiero del Rosmini, certo il suo capolavoro; e per il nostro simposio l’opera che può portare considerazioni illuminanti anche sul tema del “sacro”. La Teosofia del Rosmini ha per oggetto la costruzione di un sapere totale dell’Essere nella sua triplice forma circolare: reale, ideale e morale, in circuminsessione tra di loro o in circolo solido, entro l’importantissima dottrina del sintesismo ontologico, che ha avuto e potrà ancora avere una molteplicità di applicazioni nei vari ambiti della conoscenza e quindi anche nell’ambito del “sacro”. Ma, purtroppo, non ne abbiamo sentito esplicita menzione nell’ambito del Simposio, e i principi basilari del pensiero rosminiano sono rimasti come in ombra! ∗∗∗∗ Dopo avere partecipato attivamente al Simposio, svolgiamo in sintesi una linea di riflessione personale sul tema tanto coinvolgente, soprattutto perché né la breve cronaca che abbiamo cercato di riportare, e neppure, crediamo, la pubblicazione degli Atti, potranno rendere tutta la ricchezza e la vivacità del dibattito che si è svolto in quei giorni nell’aula “Clemente Rebora” dell’Istituto rosminiano. In un Simposio sul “Sacro e la storia” certo non si può prescindere dall’analisi storica del “sacro”; e se, d’altra parte, il “sacro” è stato considerato come l’idea madre di ogni religione6, un confronto fra le religioni, anche come matrici di civiltà, si impone. Ma, anche dopo questa analisi fenomenologica, si riesce a cogliere l’essenza del Totalmente Altro, di cui il sacro dovrebbe essere naturale epifania? E le civiltà sono messe veramente alla prova di fronte ad esso o lo ignorano totalmente? 6 Secondo Henri Hubert, «l’idea di sacro non è soltanto universale, ma è centrale, è la condizione stessa del pensiero religioso e quello che v’è di più specifico nella religione. E’ l’idea madre della religione. I miti e i dogmi ne fanno a modo loro l’analisi del contenuto, i riti ne utilizzano le proprietà, la moralità religiosa ne deriva, i sacerdozi la incarnano, i santuari, i luoghi sacri, i monumenti religiosi la stabilizzano e la radicano al suolo. La religione è l’amministrazione del sacro» (cit. da H. BOUILLARD, La categoria del sacro nella scienza delle religioni, in Archivio di filosofia, 2-3 (1974) 33.
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Terremo presenti per il nostro discorso alcuni autori guida: Italo Mancini, fra i più apprezzati studiosi italiani di filosofia della religione; un saggio di Henri Bouillard, dell’Institut Catholique di Parigi e alcuni testi dell’opera di Antonio Rosmini, specialmente dalla Teosofia. Secondo Mancini: «sacro va definito come pretesa immediatezza del rapporto con il divino, l’idea di un accesso sentimentale o emotivo privilegiato all’immane potenza di Dio»7. C’è da osservare che del termine “sacro” si hanno diversi significati; esso è simile a quello che Aristotele diceva dell’ “essere”: — dell’essere si può parlare in molti modi! —. Sacro: dal latino sacer, indica ogni realtà sottratta all’uso profano e legata alla divinità (persone, oggetti, luoghi ecc.)8. Come si vede, è questa forse la più antica delle definizioni di “sacro”, quella che lo vuole racchiuso dentro un “ recinto”, fuori del quale sta il “ pro-fanum”, che significa “fuori”, “separato” dal fanum, cioè, oltre il luogo consacrato alla divinità, fuori dal tempio. Il volume Il Sacro (Das Heilege) è ormai un classico sull’argomento, dovuto al teologo protestante Rudolf Otto (1869 - 1937), nel quale egli sostiene l’autonomia del sentimento religioso che si inquadra nella categoria del pre-razionale con un suo aspetto specifico: il “sacro” è caratterizzato dal numinoso, un sentimento ambivalente che comprende qualcosa di terribile e spaventoso ( tremendum) e nello stesso tempo di affascinante ( fascinans). Un autore presente in tale dibattito è il francese Rene’ Girard, il quale nelle sue opere di grande interesse ha rivelato una comune origine fra violenza e sacro: Sacra è prima di tutto la vittima sacrificale, che fa da capro espiatorio, assumendo su di sé la violenza della società primitiva9.
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I. MANCINI, La ragione contro il sacro, in Filosofia al presente, Milano 1999, 6879. Mancini, in una preziosa antologia (ROSMINI, Antologia metafisica, Brescia 1959 ) ha sostenuto la grande importanza della Teosofia, quando ancora non esistevano, oltre quelli di M.F. SCIACCA, gli studi decisivi di M.A. RASCHINI: Studi sulla «Teosofia», Venezia 2000, e l’edizione critica integrale a cura di Pier Paolo Ottonello, con una sua illuminante introduzione. 8 Dal Dizionario del Cristianesimo, Cinisello Balsamo 1995, 155. 9 Per una conoscenza complessiva cfr A. CARRARA, Violenza, sacro, rivelazione biblica, Milano 1985, e C. TUGNOLI, Girard, Dal mito ai Vangeli, Padova 2001.
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È certo, però, che con l’avvento del Cristianesimo e con l’introduzione del principio di creazione, si è dato addio al sacro; tutti gli dei allora, per così dire, sono fuggiti dalla terra. È iniziato quel processo di desacralizzazione da cui, secondo alcuni, proprio con la religione ebraico-cristiana si sono gettate le premesse culturali per il sorgere dell’indagine scientifica della natura, studiata iuxta propria principia, senza intrusione di forze divine; è iniziato quel modo disincantato (Weber) di guardare il mondo da parte degli uomini, ormai liberi da tutti gli assoluti terrestri. «Certo è che per il sacro negli ultimi decenni le campane suonano a morto, afferma Mancini, nel senso che sia la coscienza laica, sia la coscienza più profondamente religiosa, non si riconoscono nel sacro»10; e cita due momenti significativi della speculazione filosofica e teologica del passato, che hanno fatti i conti con il sacro in maniera negativa. Il primo momento si è avuto con Hegel, il quale ha combattuto tutte le forme di immediatezza religiosa come forme di cattiva infinità. Critica, infatti, Schleiermacher, che riteneva il sacro come un sentimento di totale dipendenza dall’assoluto; e ironizza contro di lui dicendo che se stanno così le cose , il miglior cristiano sarebbe il cane, perché nessuno è più fedele e dipendente di esso! L’altro autore è il più noto esponente della “teologia dialettica”, e cioè Karl Barth, che distingue religione dal sacro, considerando quest’ultimo come “ fanghiglia religiosa colorata di erotismo!” D’altra parte, un’analisi storica e semantica ci rivela che, anche nella nostra cultura secolarizzata, post-moderna, il senso del sacro si è imposto come distaccato dal sacro religioso, sebbene da quello avesse avuto origine e spesso con esso conviva. Se prima si consideravano sacre: la patria, la famiglia, la rivelazione, ora sono sacri: i diritti dei lavoratori, il diritto alle ferie, al riposo, al week-end, all’espressione del pensiero, alla vita ecc. Ma bisogna precisare che il Cristianesimo, se ha combattuto il sentimento del sacro non è stato per distruggerlo, ma per purificarlo, quando esso con la pretesa di assorbire tutto il divino era diventato superstizione, magia, idolatria; purificarlo vuol dire spiritualizzarlo e affermare che non
10
I. MANCINI, La ragione contro il sacro, cit. 69.
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ci sono cose sacre e cose profane, perché è solo l’uomo che consacra, è solo l’uomo la misura della sacralità delle cose!11. Nella Chiesa cattolica sacerdote è colui che sacrum facit, che cioè consacra durante il rito; l’espressione ha lo stesso etimo di sacrificium, che assicura la presenza del divino. Per avviarci ad una chiarificazione ulteriore ci serviamo delle riflessioni di Henri Bouillard, il quale precisa che: «Il sacro è un elemento che si specifica in rapporto al profano, nel quale, entro un contesto sociale e storico dato, l’uomo percepisce la risonanza del divino, qualunque sia il modo di concepirlo (dei multipli, Dio unico, trascendenza, totalmente altro ecc.). Nella misura in cui si vuole usare l’idea di sacro ricevuta dalla nostra tradizione occidentale e applicarla come un modello o una categoria per caratterizzare ogni religione, non basta contrapporla al profano, bisogna anche distinguerla dal “divino”; e bisogna capire che il “sacro” è un elemento del profano, che l’uomo riceve come mediazione significativa ed espressiva della sua relazione con il “divino”»12. Per tutta la questione bisogna allora usare uno schema o modello esplicativo di tipo triadico, che comprenda cioè: il divino, il sacro e il profano, come struttura formale di ogni atteggiamento sacrale sia laico che religioso. Se si lascia vuota una di queste tre caselle, avverte il Bouillard, inevitabilmente l’altra componente cerca di assorbirne il contenuto, ma in modo illegittimo. Mancando il sacro, il profano o tende a diventare tutto divino, un divino immanente: tutta la storia allora è sacra come presso gli Ebrei; o, 11 Per questo è significativo un passo di Spinoza, con il quale comunemente viene indicato l’inizio delle filosofia della religione; egli nel cap. XII del Trattato teologico-politico scrive:« Sacro e divino si dice ciò che è destinato all’esercizio della pietà e della religione. Ma una cosa è sacra finché gli uomini la usano religiosamente: quando il loro comportamento cessa di essere pio, nello stesso tempo quella cosa cessa di essere sacra; se poi venga usata per commettere azioni empie, allora ciò che prima era sacro si riduce a qualcosa di immondo e perverso. Così per esempio il Patriarca Giacobbe chiamò un certo luogo “casa di Dio”, perché Dio gli si era rivelato e là egli lo adorava; ma quello stesso posto fu denominato dai profeti “casa delle iniquità”, perché proprio lì gli Israeliti, per ordine di Geroboamo, offrivano di solito sacrifici agli idoli!» (Cfr Amos V, 5 e Osea X, 5). 12 H. BOUILLARD (Institut Catholique di Parigi), La categoria del sacro nella scienza delle religioni, in Atti del Colloquio internazionale su IL SACRO, diretto da Enrico Castelli, Padova 1974, vol. I, 43.
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eliminando il divino, l’immanente assolutizza se stesso e tutto diventa profano. Questo accade in un mondo secolarizzato come il nostro, da dove sembra scomparso ogni riferimento esplicito al divino, ma da dove tuttavia non è assente il bisogno di assolutezza e quindi di salvezza, espresso in mille modi, anche se distorti, e che occorre saper leggere. Il sacro, dunque, nel suo valore di mediazione tra il profano e il divino, essendo non altro, se correttamente inteso, che la risonanza del divino nel profano, costituisce una salvaguardia sia dell’autonomia del profano sia della trascendenza del divino come “totalmente altro”. Mi sembra che questo criterio triadico del “distinguere per unire” e dell’autonomia dei reali, pur nella analogia dei rapporti, sia stata espressa in maniera chiara ed esemplare dal sintesismo di Antonio Rosmini, con quella nuova logica della circolarità o circolo solido, come egli la chiama, nella Teosofia, opera enorme, anche se incompleta, che riassume l’immensa fatica del Roveretano, come si può vedere ora nell’edizione critica e integrale di Pier Paolo Ottonello, e negli studi preliminari di Maria Adelaide Raschini, di Umberto Muratore e di Michele Federico Sciacca, già citati. Il pensiero del Rosmini è utilissimo per il nostro discorso, perché introduce la categoria della santità, portando a concretezza esistenziale il concetto ancora generico di divino; non v’è dubbio che il santo (in senso assoluto è Dio: Uno e Trino), cioè il testimone per eccellenza della Parola, è colui che è capace di manifestare l’extraumano che è nell’uomo! La filosofia del Rosmini ci fa vedere senza ambiguità come il Cristianesimo rivaluta e trasfigura il concetto di “sacro” alla luce del “divino” e del “santo”. Nella parte centrale del I libro della Teosofia egli scrive: «Abbiamo dunque trovato le supreme varietà dell’essere, le Categorie; abbiamo dimostrato, che non si possono ridurre a minor numero di queste tre: subiettività, obiettività, santità; o per dirlo altrimenti: realità, idealità e moralità»13. «Vero è, che solamente per un altro lume, che l’uomo non ha per natura, ma che gli concede la graziosa liberalità di Dio stesso, lume occulto alla ragione naturale, manifestato dalla Religione, può l’uomo comunicare con la stessa realità di Dio, farsi partecipe della divina sostanza, e trovarsi una soprannaturale beatitudine. Questo nuovo ordine soprannaturale 13
Teosofia, vol. I, n 90.
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aggiunge all’uomo un’altra dignità incomparabilmente maggiore, la cui trattazione eccede i confini dell’Etica naturale, e costituisce l’argomento dell’Etica Soprannaturale […] (ma è anche vero che) l’onestà naturale addimandi ed aspetti il compimento di gran lunga maggiore, e oltremodo più sublime, dell’onestà soprannaturale, a cui conviene in proprio il nome di santità»14. Ma Rosmini, sulla base dell’idea dell’essere , che è innata in ogni uomo, e secondo il principio del sintesimo, dimostra come ci sia una continuità, pur nella diversità di livelli, fra natura e soprannatura e cita a conferma S. Girolamo: « V’ha, dice S. Girolamo, negli animi nostri una cotal santità naturale da Dio impressaci, la qual risiedendo nella più eccelsa parte dell’animo, vi esercita il giudizio del pravo e del retto»15. Forse la maggior prova dell’interesse per il problema religioso nella coscienza contemporanea è data dalla sensibilità di fronte alla testimonianza vissuta e all’impegno caritativo; e per questo, la figura del santo e quella del Cristo, in particolare, sono accettati anche in ambito laicistico16, mentre si è meno propensi ad accettare gli aspetti cultuali e devozionali.
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A. ROSMINI, Sistema Comp. Et. n 103. Cfr C. BERGAMASCHI, Grande dizionario del pensiero di A. Rosmini, Roma 2001; le voci: Santità, Santo. 15 In Grande Dizionario,cit, 232,233. 16 Si confronti pure il Messaggio: La vocazione alla santità, di Giovanni Paolo II per la Gionata mondiale di preghiera per le vocazioni, che si è celebrata il 21 aprile 2002, IV Domenica di Pasqua. Il testo ne L’Osservatore Romano, 30 novembre 2001, 8.
Synaxis XX/2 (2002) 439-453
A PROPOSITO DE “IL CRISTO SICILIANO”
JEAN-PIERRE JOSSUA
1. Sul progetto 1.1. La definizione del progetto Se vogliamo afferrare il senso del progetto che sta alla base dell’impresa de Il Cristo siciliano, in assenza di una premessa esplicativa, è necessario ricorrere alla quarta di copertina. Il contributo di Giuseppe Ruggieri precisa tuttavia le cose in maniera sostanziale. Questo progetto, del quale sono stato invitato a valutare la realizzazione concreta, sembra essere il seguente: stabilire se «si dia nella cultura e nella pietà popolare siciliana e nella letteratura che possiamo chiamare siciliana [...] una interpretazione della figura di Gesù Cristo che possiede tratti propri». Ruggieri precisa che particolarità non equivale ad esclusività. Il progetto viene ulteriormente tradotto in moneta attraverso quattro domande: 1. Quale posto riconoscere ad una comprensione del Cristo che nasce fuori dalla chiesa? Con ciò non si vuol dire che questa comprensione sia necessariamente contro la chiesa, ma solo che essa emerge per una sorta di assimilazione, sia nei linguaggi della pietà popolare che gode di una certa autonomia, sia in quelli della letteratura moderna o contemporanea. Ci si chiede al tempo stesso se siano stati questi linguaggi ad allontanarsi dalla chiesa o il contrario. 2. Quale portata attribuire al fatto che, in questi linguaggi, il Cristo emerga soprattutto come un corpo, più che come uno che enuncia parole: un corpo bambino, un corpo sofferente o morto (con la compassione contemplativa che questa accentuazione contiene), un corpo risuscitato,
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legato in tutti questi casi a quello della Madre e più ad essa che al Padre celeste? 3. Quali domande pongono questi tratti particolari a una teologia che vuole evitare di essere disincarnata, astratta cioè dal contesto umano e religioso concreto, incurante dell’apporto che viene dai luoghi situati oltre la frontiera confessionale, ma che potrebbero rappresentare autentici “luoghi teologici”? E tutto questo, in particolare, quando si tratta di una teologia che vorrebbe essere anche narrativa? 4. Questi fenomeni o tendenze rivestono, mutatis mutandis, un significato per tutta l’esperienza cristiana occidentale?
1.2. Due riflessioni sul metodo Si può affermare che, malgrado la prevalenza massiccia della letteratura moderna e contemporanea, sono stati tentati in maniera sufficiente diversi approcci culturali, a titolo di sondaggi significativi nei diversi settori e con qualche eccezione che subito menzionerò: poesia antica con radici popolari, iconografia, predicazione, immagini popolari, riti paraliturgici della Settimana santa, senza dimenticare le rappresentazioni o le pratiche colte dagli scrittori. Ci si può chiedere tuttavia se l’architettura barocca, la canzone contemporanea, il cinema, lo studio delle espressioni dialettali non avessero potuto fornire complementi validi. L’uso dell’aggettivo “siciliano” pone una prima difficoltà metodologica, evocata da Giuseppe Ruggieri: accettiamo questo termine, secondo la sua proposta, in un senso modesto, euristico, aperto. Una seconda difficoltà è legata alla questione della particolarità — anche se siamo d’accordo che questa non equivale a specificità e ancor meno a esclusività — e a quella di una possibile estensione dei risultati della ricerca. Anche questa difficoltà è stata sollevata da Ruggieri, in maniera a dire il vero un po’ teorica, giacché i tre esempi che egli porta sono rappresentazioni teologiche o dogmatiche. Ma, soprattutto, egli non la risolve veramente. È possibile chiudere il dibattito senza punti di raffronto precisi, per esempio del Sud dell’Italia e della Spagna, la Sardegna o la Corsica (nel ventesimo secolo per quel che riguarda la particolarità della cristologia), la Baviera, la Carinzia o la Bretagna (nel diciannovesimo secolo per quel che riguarda l’estensione
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della creatività popolare, giacché il parallelismo con il ventesimo secolo pone qui delle difficoltà a motivo dei diversi tempi di secolarizzazione)?
1.3. Il contributo di Giuseppe Savoca La lettura del volume è aperta da un testo sottile e complesso, una meditazione di grande levatura, che io ritengo di non dover trattare come un’introduzione epistemologica, ma piuttosto come un testo — scritto da un siciliano che evoca un altro — da inserire nel dibattito. A dire il vero si tratta della reazione del secondo, Borgese, alla lettura che un terzo — questa volta un russo: Chestov — fa di un quarto, francese, Pascal, che scrive nel diciassettesimo secolo! Savoca iscrive la sua lettura nel prolungamento di quella di Borgese, ma non per questo sono assenti nell’interpretazione diversi strati su cui discutere. Ignoriamo Chestov, del quale vengono esclusi l’esaltazione e l’irrazionalismo, per fermarci soltanto alla comprensione “esistenziale” di Pascal. Diciamo subito che si tratta di un’interpretazione legittima, a patto di restare consapevoli di un duplice spostamento d’accento, giacché l’ “esistenza” è una categoria del tutto estranea a Pascal e persino la “tragicità della storia” si rapporta ad una nozione di storia che non lo è di meno. Ma resta — ed è questo che qui ci interessa — che Giuseppe Savoca sceglie di aprire questo dibattito ponendolo sotto l’egida di Pascal, cioè di una teologia determinata tra molte possibili e — diciamolo senza sfumature peggiorative — di una teologia dolorista. E di Pascal il nostro amico cita, a preferenza di altri, certi “pensieri” o certi passaggi del testo sul buon uso delle malattie che si riferiscono all’agonia di Gesù e alla sua dimensione metastorica, al valore salvifico della sofferenza del Cristo, al legame delle sue sofferenze e di quelle degli uomini con il completamento che queste apportano a quelle, alla santità che risulta dalla sofferenza e alla gloria che si ottiene attraversandola, alla veglia con il Cristo in agonia che ha tante connotazioni nello stile dell’esistenza umana, alla teologia agostiniana del peccato originale e al dramma della redenzione. Tutto ciò è ben lontano dall’essere affermazione neutrale! Qui debbo sottolineare due scarti alquanto sensibili in rapporto a Pascal, scarti presenti nei passaggi citati di Borgese e non rimessi in questione da Savoca. Anzitutto il “martirio della divinità” e persino il
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“martirio eterno di Dio”, che Savoca sembra riprendere per proprio conto, giacché egli evoca il Deus patiens e una “teologia del dolore di Dio” (mentre Pascal dice “fino alla fine del mondo” e non eternamente, e a lui è del tutto estranea la teologia della sofferenza e della morte di Dio nel Cristo, di cui sappiamo che si danno molte versioni nella storia). In secondo luogo debbo riferirmi all’immagine del sangue di Cristo che dilaga nel mondo; a dire il vero, questa non si ritrova nel commento di Borgese a Pascal, ma altrove nella sua opera, ed è Savoca che fa il raccordo. Aggiungo un altro scarto proprio a quest’ultimo: l’idea che la comunione degli eletti non possa fondarsi che sull’unione alle sofferenze del Cristo. Non si veda critica alcuna in queste annotazioni. Al contrario, siffatte opzioni di lettura rivestono un interesse enorme! Veniamo così calati subito in piena “cristologia siciliana”? Certamente no, nel senso di una particolarità che verrebbe qui proposta, ma sì nel senso di un clima molto significativo. Ed è in questa misura che possiamo dire che il contributo costituisce una magnifica introduzione alla ricerca e al dibattito.
2. I contributi sulla letteratura antica, l’arte e le rappresentazioni popolari Senza preoccuparmi di una coerenza perfetta, raggruppo qui i contributi numerati tre, quattro, cinque, sei e dodici, in maniera tale da poter trattare in un secondo raggruppamento i contributi sulla letteratura moderna e contemporanea. Davanti al contributo di Conigliaro, che sta un po’ a parte, nella misura in cui la poesia di Petru Fudduni (diciassettesimo secolo) è nello stesso tempo letteraria e popolare — soprattutto letteraria, perché l’autore è uomo colto e informato sulla teologia, ma nella sua creazione in dialetto riflette in gran parte una sensibilità estesa, propria del popolo — il lettore a conoscenza della storia della teologia prova una forte sorpresa per le rappresentazioni originali, che restano a metà, se si raffrontano alle ipotesi di partenza. Dico che restano a metà, nel senso che per un verso si tratta essenzialmente del Cristo sofferente, totalmente preso in un destino di morte; di fronte al mondo peccatore che soffre anch’esso, ma o come insensibile, o come pentito e pieno di compassione, e riceve così il perdono; inseparabile
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dai dolori molteplici e senza fine della Madre (la cui figura riprende il modello arcaico della madre siciliana) che fin dall’inizio conosce il destino del Figlio, giacché il suo lamento comincia prima della nascita di Gesù e continua ad ogni tappa della sua vita, per culminare nella passione che viene presentata nei minimi dettagli. Per altro verso, se si guarda bene questo Cristo sofferente, si scopre che la sua funzione essenziale consiste nel rivelare nel suo amore stesso, sul quale si insiste fortemente, il mistero dell’amore di Dio per il mondo; che la redenzione è compresa come liberazione; che è lo stesso amore del Cristo che incita gli uomini ad amare e in essi vince sul peccato; che è già questo amore che porta il Cristo ad incarnarsi per colmare la distanza tra noi e l’inaccessibile , e poi lo porta ancora a calarsi nella notte della croce. Una parentesi: questa morte paradossale della Vita eterna ed immortale sembra andare al di là delle prudenti formule classiche della “comunicazione delle proprietà” — nelle quali si dice che Dio soffre in Cristo perché a soffrire è l’umanità unita al Verbo — per raggiungere un’autentica teologia dell’Unus de Trinitate passus est, teologia simbolica e non teorica, giacché l’espressione “la deità si sfraga” è propriamente impensabile: fine della parentesi. Questa teologia della croce come amore sembra ignorare il sacrificio e l’espiazione oltre che le nozioni giuridiche di soddisfazione e sostituzione (a proposito delle quali Conigliaro dice che il rifiuto di Fudduni è netto). Ora, da un lato, questa opzione teologica è estremamente rara nella teologia occidentale fino al diciannovesimo secolo e personalmente non conosco che Abelardo il quale l’abbia sviluppata con rigore. Dall’altro lato, se si dà un’insistenza massiccia sulla sofferenza del Cristo — e se quindi su questo punto il modello proposto viene verificato —, allora qui non si tratta soltanto del corpo sofferente, perché ciò che è essenzialmente in gioco è il nucleo spirituale e libero della personalità umana di Gesù. Almeno sembra essere questa l’insistenza maggiore, perché è anche presente una menzione ripetuta e un po’ oscura dell’abluzione della terra grazie al sangue di Cristo, autentico diluvio sparso per amore, e una visione della croce come unica sorgente di salvezza — il corpo sacrificato è il sacramento dei sacramenti — e non già biblicamente, come in Abelardo, l’evento indissolubile della morte e della risurrezione. Il secondo contributo storico per il periodo classico, quello di Cosimo Scordato su Giacomo Serpotta e sui suoi putti, si riferisce ad un
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secolo dopo e offre delle buone indicazioni di metodo — il programma merita attenzione, ma non bisogna dimenticare che viene realizzato solo per le forme plastiche — e una retrospettiva iconografica sulla cristologia e sull’infanzia. Ci viene proposto di leggere il putto dentro l’orizzonte del tema evangelico dell’infanzia: importanza del gioco nell’arte dei putti, valore della decorazione in un insieme organico, emergenza sociale dell’attenzione al bambino, arte religiosa gioiosa capace di conferire, su un fondamento cristologico, un’espressione intensamente umana, data in un corpo: quella dell’uomo nella grazia. Nei misteri del rosario dell’oratorio di Santa Cita, i tre putti delle scene costituiscono ad un tempo come l’interpretazione di questi misteri e la traduzione della partecipazione dei fedeli ad essi. Nei misteri gioiosi, il solo accenno discreto alla sofferenza si troverebbe nella circoncisione; nei misteri dolorosi non ci sono particolari accentuazioni rispetto all’iconografia classica: il tono viene anzi abbassato e la madre di Gesù non è presente che nell’ “incontro”; nei misteri gloriosi non vi è memoria della passione. La conclusione insiste sul gioco e sul sorriso. Qui ci troviamo quindi di fronte ad una situazione capovolta rispetto a quella dello studio precedente: importanza della presenza del corpo, ma assenza dell’accentuazione dolorista e mariana. Asteniamoci dal tirare una qualche conclusione, ma costatiamo una delle lacune maggiori del volume: l’assenza di uno studio iconografico dei Cristi sofferenti siciliani, raffrontati alla produzione contemporanea. L’ultimo studio sul periodo anteriore al XIX secolo, quello di Gaetano Zito sull’influsso della predicazione sull’immagine popolare del Cristo nel diciannovesimo secolo, o almeno sull’influsso che ci si proponeva di avere, giacché non abbiamo una valutazione della ricezione. Il saggio presenta anzitutto la congiuntura pastorale e teologica del periodo dei Lumi e la reazione dovozionale e apologetica ad essi. Viene costatata, nelle predicazioni quaresimali e in occasione delle missioni date soprattutto da religiosi o congregazioni missionarie un’accentuazione della devozione all’umanità di Cristo, accompagnata da note emotive e moralizzanti e da una concentrazione sull’infanzia e sulla passione. Lungo il secolo occorre notare il passaggio da uno stile colto, retorico, barocco ad uno stile più semplice ed evangelico. Nella misura in cui è possibile farsi un’idea precisa dei contenuti, accettiamo come acquisita la concentrazione della predicazione sull’umanità di Gesù e, in maniera singolare, sulla passione e la croce con
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una valorizzazione della sofferenza umana, una denunzia del peccato in quanto questo rende più pesanti le pene subite dal Cristo, un appello alla compassione e alla conversione. Tuttavia — fatalità! — ecco l’assenza di un altro elemento dell’ipotesi di partenza: il carattere siciliano. Niente ci permette infatti di dire che la predicazione di questi gesuiti, redentoristi o cappuccini — fossero essi autoctoni o importati — differisca da quella che poteva essere data in qualsiasi altra parte d’Europa. Tre dettagli: 1. Per quanto riguarda l’adorazione degli strumenti della passione, il riferimento concerne tutta l’Italia. 2. Occorre fare eccezione per la processione penitenziale — con flagellazione, etc. — alla fine dei ritiri dei redentoristi? Sembra di no. 3. L’attributo, caratteristico ma non esclusivo, di “Padre”, dato al Cristo, soprattutto nel contesto della passione, ma anche la grande insistenza dei predicatori sulla sua misericordia attiva, non vanno nel senso di una pregnanza accresciuta della presenza propriamente corporea. Nella misura in cui è possibile parlare di “cultura popolare” in maniera precisa, lo studio di Maria Raciti Maugeri ha come oggetto non tanto il punto di vista dell’emissione ecclesiastica o colta, quanto la ricezione della base, con le sue creazioni proprie, a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, e concentra la propria attenzione sull’immagine del Cristo. L’autrice è dell’avviso che occorra tener presenti tre notazioni generali tratte dagli studi su questo periodo: fede generica in Dio e accettazione passiva dei dogmi; vissuto religioso consistente essenzialmente in pratiche cultuali, soprattutto nella loro dimensione di spettacolo, con scarse implicazioni morali; pratiche prevalentemente autonome nelle quali le figure religiose hanno assunto ruoli familiari e distanti dai significati cristiani, o sono state per lo meno diversamente valorizzate: il Cristo è meno importante che la Vergine e i santi, e viene visto quasi esclusivamente come intermediario nella sua umanità. Come esempio di pratiche originali si fa riferimento al carattere centrale della processione dell’urna funebre la sera del Venerdì santo — molto significativa! — lasciando la risurrezione nell’ombra, giacché l’uomo del popolo, maltrattato e disgraziato, si identifica, nella misura in cui la sua sofferenza è senza sbocco, con il Cristo sbeffeggiato e crocifisso; la probabile fonte bizantina del motivo è quindi modificata di molto. L’autrice insiste sul rapporto tra le espressioni originali, i riti, le credenze, le condotte che riguardano il Cristo — e inseparabilmente la Madre amante e sofferente — e una realtà quotidiana di pena e di miseria,
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con la rassegnazione o l’amarezza che possono corrispondervi. Essa ricorda anche le preghiere di scongiuro, di origine magico-religiosa, nelle quali, da solo o con altri personaggi, gioca un ruolo il Cristo, in rapporto a situazione sfavorevoli o insormontabili. Lo studio offre così elementi di spiegazione e segni di radicamento locale convincenti. L’ultimo contributo di questo genere si riferisce al periodo attuale e si poggia su un lavoro di prima mano. È quello di Angelo Plumari sui riti della Settimana santa, che viene a completare il precedente. Alcuni elementi, collocati in una retrospettiva storica, restano attuali e sono molto significativi. Tra i diversi riti di rappresentazione e di memoria l’autore sottolinea la devozione alle immagini del Cristo raffiguranti la passione e l’Addolorata, le processioni devozionali fatte con queste immagini e, in particolare, la Madre alla ricerca del Cristo e il loro incontro (con la sua corrispondenza nel giorno di Pasqua) e, più particolarmente ancora, la processione funebre del Cristo morto, che abbiamo già visto. Si noterà la duplice chiave interpretativa: sofferenza popolare, ma anche importanza della famiglia. Concludiamo questa prima parte, il cui statuto epistemologico è semplice. Rispetto alle questioni iniziali essa dà una risposta soltanto alla seconda (il Cristo sofferente, il Cristo come corpo). Si può affermare, almeno per quanto concerne i secoli decimottavo, decimonono e ventesimo, che, se non si esige una dimostrazione storica rigorosamente differenziata, la rappresentazione del Cristo sofferente è oggetto di una notevole insistenza, in collegamento con la Madre dei dolori. La dimensione del corpo in queste comunicazioni non attira su di sé un’attenzione particolare, salvo il rito molto significativo del Cristo morto e, in Serpotta, il corpo del Bambino. La prima domanda, che riguardava il Cristo esterno alla chiesa, non viene affrontata solo allusivamente per quel che riguarda le pratiche non ufficiali o riprovate dall’autorità ecclesiastica in certi momenti storici. Le ultime due domande (sulla teologia e sull’esperienza cristiana occidentale) non vengono tematizzate, al di là degli interrogativi posti da Giuseppe Ruggieri.
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3. I contributi sulla letteratura moderna e contemporanea Questi contributi sollevano un problema ermeneutico più complesso giacché, se da un determinato punto di vista offrono una testimonianza sulla realtà siciliana — monetizzata con lo scarto della fiction — per altro verso essi rimandano agli atteggiamenti dei loro autori. Tuttavia il primo contributo, quello di Rosalba Galvagno su Luigi Capuana e Il Marchese di Roccaverdina (1901), non sembra sollevare questa difficoltà, giacché il racconto non contiene una presa di posizione avvertibile, antireligiosa in ogni caso, e la semplice e fragile figura del parroco fa pensare piuttosto al prete di Los pasos de Ulloa, che ai personaggi clericali, ridicoli o odiosi, di Salvatore Satta. Quasi in ogni capitolo appare la figura del Cristo, sostanzialmente sofferente, ma anche giudice giusto. E il grande crocifisso che impressiona fino alla pazzia il marchese tirannico, ingiusto e criminale — sul fondo di ricordi d’infanzia terrificanti in rapporto al racconto, ai riti e alle immagini della passione — e che ritornerà sei volte nel seguito del romanzo, è ad un tempo martire e giudice, ma giudice perché crocifisso, corpo sofferente, corpo in agonia ancora capace di una parola accusatrice. Seguono due contributi su Giovanni Verga, di cui il primo, quello di Antonio di Silvestro, parte dal giudizio di Bontempi sulla religiosità del Verga bloccata dall’esperienza del male, sul suo cristianesimo senza Cristo, sulla sopravvivenza in lui di una valorizzazione del dolore. I personaggi della sua opera riflettono un complesso “siciliano” di materialismo, di passioni violente (fortuna, sensualità, colpa), di allontanamento da Dio, di anticlericalismo viscerale, di oscura identificazione al Cristo sofferente e all’Addolorata, il cui destino fallimentare riassume e riscatta — ma senza esito di vita — il fatalismo insulare. Nota più particolare: parecchie figure che implicano un aspetto di trascendenza sembrano negative, demoniache, assimilabili quasi a degli anticristi e questo potrebbe rimandare, sia a una dimensione religiosa la cui positività è percepita come carente, che a un fondo culturale più arcaico. Ne I Malavoglia in particolare si manifesta “questa proteiformità dei volti del Cristo, questo scambio metamorfico e metaforico tra Cristo e anticristo”. È possibile reperire altresì nel testo verghiano una presenza sotterranea di referenze e scene evangeliche, specialmente sulla passione. Questo carattere attivo delle rappresentazioni soggiacenti o capovolte vale per altri punti ancora, e allontana dal nostro
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spirito l’immagine di un Verga parente di Maupassant, e rimanda nuovamente all’idea di una religione laicizzata, nel senso di una visione della condizione umana che non è estranea alle scelte del vangelo. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che questi testi datano da più di cento anni e che queste sopravvivenze non sono eterne. Il lavoro di Maurizio Aliotta sullo stesso ciclo dei vinti ci mostra all’opera la ricerca letteraria di un teologo, dopo l’analisi teologica di un letterato. Apporta essa valutazioni differenti ed elementi complementari? Essa inizia con una riflessione metodologica nella quale, alla dualità ermeneutica da me sottolineata, l’autore aggiunge giudiziosamente un terzo termine: il punto di vista proprio al lettore. Dal punto di vista delle immagini rappresentate dal Verga, prendiamo nota che egli conosceva personalmente la vita religiosa popolare, il mondo ecclesiastico e l’uso sociale dei sacramenti. In questo contesto, l’immagine del Cristo — il Cristo della passione associato alla madre — è essenzialmente “il paragone di ogni vinto”, “lo specchio delle sofferenze dei vinti della storia”, invocato dai personaggi a giusto titolo o in maniera irrisoria. Guardando poi all’intervento proprio all’autore nella rappresentazione, le invenzioni già segnalate da A. Di Silvestro (zio Crocifisso, che ha la bocca piena di riferimenti a Cristo, è un usuraio implacabile) non debbono dissimulare il fatto che le figure maggiormente toccate dal destino avverso sono anche quelle più autenticamente religiose (padron Ntoni). Dall’altra parte coloro che galleggiano, come don Gesualdo, in fin dei conti non sono per questo più felici. Verga non è un ideologo. Abbiamo quindi due punti di vista differenti, un accordo di fondo, sfumature interessanti. La stessa dualità di intervento diversamente qualificato si ritrova a proposito del Pirandello in Antonio Sichera e Nunzio Capizzi. Il primo si concentra sul Cristo di Pirandello. A partire dalle sue dichiarazioni ultime, si dà più di un’interpretazione sul suo rapporto con la fede e con il Cristo: marginale e sovrainterpretato da una parte, centrale e segreto dall’altra. Lo studio delle prime opere, fino al Mattia Pascal escluso, ci mostra che la morte è al centro della prospettiva, la fede è perduta, il mistero delle cose senza spiegazione possibile. Ma si dà anche la memoria di un Eden rustico di pace e di fede, in cui la croce dava senso alle prove più dure ed incomprensibili, perché il Cristo continuava a soffrire nella storia presente, miserabile, degli uomini. Quest’Eden è perduto e lo scrittore rimprovera con
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violenza al Cristo di essere l’emblema delle vite mancate, sacrificate, ossessionate dal peccato, impedite dal ricorso alla comunione con la natura sorgente di salvezza. E tutto questo non senza alcuni slanci di nostalgia di questo passato, al centro della vita moderna così poco amata dal poeta e così priva di scambi veri tra gli esseri. Restano, nell’opera giovanile di Pirandello, la figura ricorrente e strana dell’Ecce homo (“immagine viva dell’uomo che non può appoggiarsi a Dio, che ha perso la guida e il senso dell’esistenza”), nonché alcuni personaggi cristici, a motivo della loro dedizione e della loro fedeltà ad altri sofferenti. Pirandello resta davanti al Cristo morto, in mezzo alla città moderna: ecco una cristologia fuori dalle frontiere, ma, secondo Antonio Sichera, di grande interesse teologico. Come se si dicesse: Cristo scende nella profondità estrema della miseria e della morte, le tocca, qui può essere raggiunto da tutti gli esseri qualunque sia la loro fede. Il secondo contributo, coomplementare per il periodo studiato, si concentra sul Crocifisso in quanto paradosso, nella novella Il Signore della nave (1910) e in un pezzo teatrale Lazzaro (1930), con la preoccupazione di non andare al di là di ciò che nel testo è esplicito. Nella novella si nota il contrasto tra il Cristo sofferente della condizione umana e salvatore degli uomini e la folla grossolana, bisbocciona, presa dal delirio religioso. In Lazzaro si accende una discussione sul significato del crocifisso dipinto sul muro, una figura che deve dare la vita. Quale? La “vita vera di là” della morte”? O la “vita di qua”, offerta anch’essa da Dio? Due personaggi, due risposte. Borgese, già ricordato da Giuseppe Savoca, riappare nella comunicazione di Alida D’Aquino. Il periodo fra le due guerre è segnato da una tensione verso l’assoluto, di cui l’arte per Borgese offre la rappresentazione simbolica. Rubé (1921), opera in parte autobiografica, e Lazzaro (1926) vengono letti in questa prospettiva. Il primo è il romanzo della perdita dell’ideale dannunziano, e quindi di Dio, che ridiviene per Rubé l’oggetto di una ricerca a partire dall’incontro in treno con un viaggiatore sconosciuto, mentre la sua morte accidentale farà di lui un martire, una sorta di figura cristica. Nel pezzo ispirato ai vangeli, Lazzaro gli rassomiglierà, mentre il Cristo pur dominando l’azione resterà invisibile agli spettatori. Lazzaro rifiuta la guarigione e contribuirà involontariamente alla crocifissione, ma alla fine, nella propria vita morale tutta kantiana, accoglierà la vittoria di
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Cristo sulla morte. Con il sangue versato sul Golgota, questi cambia l’esistenza umana: un Cristo all’interno di sé, apollineo, senza affermazione dogmatica. Né questa menzione del sangue, né il “martirio” di Rubé sono privi di un nesso con la confessione di Borgese, secondo cui “mani crudeli” hanno impresso in lui, fin dai “suoi primi anni”, l’ “immagine crudele” di un Dio che si vendica e castiga. Quindi si hanno due contributi su Brancati, ma con un equilibrio differente da quello dei tandem precedenti. Lo studio di Dario Consoli si occupa del “complesso di Cristo” in Brancati narratore. Costui è un anticlericale che si interroga sul peccato e sul senso ultimo dell’esistenza, e i suoi personaggi, tormentati dai loro desideri, vivono una tensione irrisolta tra laicità morale e razionale (insufficiente) da una parte e la preghiera, la confidenza, l’umiltà cristiana (impraticabili - da notare l’assenza di una comunità e di testimoni) dall’altra, tra il Cristo maestro di etica e il Cristo salvatore divino. Il protagonista Paolo dell’ultimo romanzo di Brancati, Paolo il caldo, esita tra il superamento del cristianesimo nella libertà di tutto sperimentare e la presenza di un Cristo assimilato non solo nella cultura, ma molto più profondamente nell’istinto, come vero “complesso”, che reagisce quando viene ferito o ridotto al silenzio. In questa esposizione non c’è traccia di un’insistenza sulla passione, come non ce n’è nella seguente, salvo delle banali allusioni ad una statua del Sacro cuore. Questo subcosciente cristiano, il cui rapporto con Croce — non senza importanti differenze — viene segnalato da Consoli, riappare in maniera più approfondita nello studio di Rosa Maria Monastra che tratta dell’ultimo Brancati e riprende nel titolo la frase di Croce, “Perché non possiamo non dirci cristiani”. Veniamo così riportati in pieno dentro la problematica della prima domanda, sul Cristo extra ecclesiam. Ma la Monastra nota come Brancati abbia criticato e superato, nella sua interrogazione costante e soprattutto nell’ultima fase, il carattere troppo riduttivo dell’affermazione crociana, nella quale Gesù è la figura dell’interiorità e non costituisce affatto uno “scandalo”. Il contributo di Fernando Gioviale verte sul “Cristo impossibile” di Angelo Fiore. I romanzi di Fiore, nei quali è onnipresente l’angoscia dell’uomo, le parodie del discorso religioso e le sottili discussioni teologiche (l’amore di Dio e i dubbi estremi, Dio e Satana più o meno identificati, personificazione di Dio e panteismo vitalista) non contengono che semplici allusioni al Cristo, figura sofferente — in un contesto basflemo — figura
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irrealizzabile e tuttavia indimenticabile. Questo tipo di linguaggio teologico, attribuito per di più a personaggi ambigui, sembra molto difficile da interpretare e, se la distanza culturale non ha ancora prodotto l’oblio, è tuttavia troppo grande, perché in queste tracce di Gesù si possa vedere come un’interpretazione della sua figura, per quanto secolarizzata e indipendente, a differenza del caso di Paolini che Gioviale cita più volte in parallelo con Fiore. Un altro romanziere, Rosso di San Secondo, ha attirato l’attenzione di Maria Cristina Uccellatore. Anche qui all’origine c’è l’angoscia, ma essa suscita una volontà di partenza, di viaggio, di ricerca itinerante della verità. L’espressionismo, l’uso costante dell’antitesi, saranno il frutto di questo spaesamento culturale al quale, negli anni venti, subentrerà un ritorno al cristianesimo. Nella meditazione sul Cristo crocifisso bizantino di Gravedona, si sviluppa un dialogo con lui che non si limita al suo aspetto sofferente, così come l’esperienza cristiana descritta nelle altre novelle non si riduce all’incontro del Crocifisso, anche se è questo che avviene in L’Ammiraglio dell’oceano e Ignazio Trappa. Maria Cristina Uccellatore insiste sulla prevalenza dell’immagine del Risorto, del Cristo re sul Cristo patiens. Confessante, equilibrata nella cristologia, quest’opera non mi sembra rientrare in maniera tipica nella griglia della quale stiamo valutando la pertinenza. Personalmente vedo in Leonardo Sciascia un testimone — di secondo grado, certo — della realtà religiosa siciliana, un testimone impegnato e un critico severo, così lontano dalla fede che è impossibile attendersi da lui una “cristologia dal di fuori”. Il saggio di Luigi Di Franco è una conferma di questa mia idea? Esso mi insegna molte cose sul pensiero, la scrittura, il rapporto con la Sicilia di Sciascia: radicamento e distanza critica. Questa realtà afferisce anche, più di quanto io non lo pensassi, alla vita religiosa, cioè — secondo Luigi Di Franco — al suo fondo naturaliter cristiano, al suo senso di precarietà della vita, alla sua apertura alla presenza di un assoluto vicino al cuore, che se ne sta in disparte, senza far rumore, dalle certezze ideologiche e — ecco ciò che ci interessa — “lungo la nascosta via della passione e della sofferenza”. Attenzione però! I segni dell’esperienza popolare sono presi in conto da Sciascia, non in quanto fede religiosa, ma come attestazione antropologica dell’azione umana nella storia, come esplosione esistenziale accompagnata dalla disgregazione dei valori propria-
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mente cristiani. Nella misura in cui la paura è superata dall’istinto vitale, allora il Cristo appare come “uomo del dolore ma pure Dio della vita”, la cui “passione è il luogo umano del dramma esistenziale di fronte alla morte”. Dramma per il Figlio, per la Madre — soprattutto per lei forse — e per tutti coloro che lo rivivono, ma non dramma di una redenzione o di una qualche trascendenza, bensì del mal vivere e di uno sguardo sulla vita a partire dalla morte. Come accordare la “disgregazione dei valori cristiani” di Sciascia con il “naturaliter cristiano” evocato da Di Franco? Forse limitando ques’ultimo al senso della finitezza e al valore della sofferenza? Come accordare il rifiuto di ogni trascendenza con l’apertura all’assoluta segnalata qua sopra? Forse comprendendo questa in senso puramente vitale? Comunque stiano le cose, al di là della valorizzazione del Cristo sofferente della tradizione popolare — è questo che ci interessa — non vedo come si possa parlare di una cristologia indipendente, propria di Sciascia. L’ultimo contributo, quello di Salvatore Latora, ha come oggetto Il giorno che fui Gesù di Fortunato Pasqualino. La questione verte sul senso della contemporaneità con Gesù, che uno scritto siffatto può nascondere, ma si tratta anche di sapere se questo senso abbia un carattere propriamente siciliano o una portata universale. Il narratore ha letto la Bibbia la sera ai raccoglitori di arance della provincia di Caltanissetta e gli operai si identificavano ai suoi personaggi, scandendo la loro vita con le sue espressioni (come i luterani svedesi descritti nei romanzi di Lindgren). Un giorno, bambino, durante la festa di S. Giuseppe, nel cuore di questa religiosità popolare il cui rapporto con l’istituzione ecclesiastica era teso, Il narratore è stato Gesù, rivestito di poteri carismatici, e ha vissuto come tale le tappe della creazione narrativa tradizionale. L’analisi segue queste tappe, sottolineando il senso metafisico e la distanza umoristica dell’autore, insistendo ancora sul ruolo educativo delle madri nella trasmissione di un senso e di una comprensione cristiana della vita. In breve: vi si ravvisa una “cristologia popolare espressa letterariamente”, ciò che è molto interessante sul versante popolare della nostra domanda sulla possibilità di una teologia narrativa. Per quel che riguarda la predominanza del Christus patiens, non vi si fa allusione che a proposito dell’agnello sgozzato o dei pianti della Madonna. Possiamo concludere la nostra analisi dei contributi letterari del volume, dicendo da una parte che, a proposito della questione sui tratti propri del “Cristo siciliano”, gli autori, in quanto testimoni di questa realtà
A proposito de “Il Cristo siciliano”
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insulare, confermano molto bene quanto è stato affermato negli altri studi su una prevalenza del suo volto sofferente, almeno per quanto concerne Capuana, Verga, Pirandello, Borgese, Sciascia e, se si vuole, Fiore. Quanto al problema di una cristologia extra-muros, oltre a Pasqualino che in gran parte è testimone della pietà popolare (ma non senza una scrittura propriamente letteraria), dobbiamo prendere in considerazione, sul versante delle rappresentazioni proprie agli scrittori, considerandoli cioè non più come testimoni, ma come produttori di un’interpretazione ogni volta differente, ma “siciliana”, degli apporti notevoli come lettura estra-ecclesiali (nel senso normativo, ma non sempre nel senso di una non-appartenenza e ancor meno di una non-riferenza): quelli di Verga, Pirandello, Borgese, Brancati. Sarei invece in difficoltà, anche se per ragioni diverse, a prendere in conto Capuana, Rosso di San Secondo, Fiore o Sciascia. Infine le due ultime piste aperte in partenza, quella del “luogo teologico” della pratica popolare e quella sulla portata più ampia del contesto siciliano, anche qui non sono state percorse eccetto, per la prima, in ciò che concerne Pasqualino. Per finire, sottolineo la notevole collaborazione interdisciplinare che suppone una competenza dei diversi collaboratori nel proprio campo e una grande apertura all’altro. Il meno che si possa dire è che questo non è possibile dappertutto…
Presentazione Synaxis XX/2 (2002) 455-457
GAETANO ZITO, Una scommessa della Provvidenza. Maria Marletta nella Chiesa di Catania, Edizioni Arca, Catania 2001. Quando, nel 1919, la milanese Armida Barelli venne in Sicilia per fondarvi i circoli della Gioventù cattolica femminile fu subito scoraggiata dall’arcivescovo di Palermo Alessandro Lualdi, anch’egli lombardo. “Senta figliola — le disse il porporato — la Gioventù femminile come l’avete pensata a Milano va bene per il Nord, ma per la Sicilia non va proprio; in Sicilia le giovani non escono sole neppure dopo il matrimonio e voi volete mandarle in propaganda nei paesi a fondare le Associazioni?”. La condizione della donna nell’Isola, all’ inizio del XX secolo, non presentava certo caratteri di alta emancipazione. Basta solo scorrere i dati sull’alfabetismo per rendersene conto. Nel 1901 in città come Catania o Messina solo 2 donne su 10 erano in grado di leggere e scrivere. E una maestra patentata come la piemontese Maddalena Morano avrebbe trovato qui — con le sue suore di Maria Ausiliatrice — un terreno di lavoro di proporzioni inimmaginabili nell’educazione delle giovani siciliane. Anche la Morano, in verità, restò colpita, al suo primo impatto con la realtà isolana, da quelle ragazze che “vivono ritiratissime, e dopo i dodici anni non è più loro permesso di uscire da sole senza avere un grande scialle che le ricopra da capo a piedi”. Nel giro dei primi due decenni del secolo XX si attuò, tuttavia, una vera e propria rivoluzione culturale nei costumi delle famiglie siciliane. Per restare a Catania, dopo la prima guerra mondiale, la città ritrovò la sua anima creativa e l’emancipazione della donna passò anche attraverso la fede. Contrariamente alle previsioni del cardinale Lualdi, furono proprio alcune figure femminili a ridare vigore missionario alla Chiesa siciliana e a fondare opere educative, sociali e di carità. Così, mentre la moda entrava a cambiare i costumi e il teatro riempiva le serate mondane, si affermavano
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Presentazione
figure aristocratiche (come Angelina Paternò Castello di Biscari), borghesi (come Marianna Amico Roxas) o popolane (come Lucia Mangano e Maria Marletta) che avrebbero offerto alla società isolana una impronta della creatività femminile cattolica. Maria Marletta, a cui lo storico Gaetano Zito dedica una biografia ricca di documentazione e di analisi critica (G. Zito, Una scommessa della Provvidenza. Maria Marletta nella Chiesa di Catania, Edizioni Arca, Catania 2001), entra a pieno titolo fra le protagoniste di questa rivoluzione del cattolicesimo al femminile. Zito ne ricostruisce la biografia, avvalendosi di una ricca documentazione per lo più inedita e collocando l’opera della Marletta nel contesto storico della Chiesa catanese fra la fine dell’Ottocento e i primi sei decenni del Novecento. Il libro risponde ad una duplice finalità, come l’Autore ricorda in premessa: di tipo divulgativo e, al tempo stesso, scientifico. Un aspetto interessante della ricerca, inoltre, è la descrizione della dialettica, mai conflittuale, fra carisma e istituzione, fra la storia spirituale e personale della protagonista (che per vie singolari ha contribuito alla costruzione dell’esperienza della Chiesa in Sicilia) e le iniziative dei vescovi etnei (che con saggezza e attraverso l’opera di sacerdoti di grande statura spirituale, hanno saputo riconoscere, valorizzare e dare struttura giuridica all’opera nata da un carisma). Di famiglia povera, poco istruita (aveva appena completato le scuole elementari), la Marletta s’era formata all’interno di una religiosità popolare alimentata nella Catania di fine Ottocento dalla frequentazione della Pia Unione delle Figlie di Maria, delle Sacramentine del sacerdote Tullio Allegra e delle Piccole suore dei Poveri. Proprio da questa popolana volitiva, intrisa di una fede solida, sarebbe nata nel 1921 nella zona di Cibali la prima Casa famiglia per fanciulle abbandonate. La Casa avrebbe offerto alle ragazze l’istruzione elementare, l’educazione cristiana, e la possibilità di apprendimento di un lavoro. La Marletta si ritrova come prima benefattrice proprio Angelina Paternò Castello di Biscari, infaticabile animatrice dell’Unione donne cattoliche in Sicilia e figura singolare della società catanese dei primi decenni del XX secolo. Se la Marletta ricalca, per la sua ansia di carità, l’esempio di
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Giuseppina Faro (la “beata” dell’apostolato assistenziale dell’epoca di Dusmet), Angelina Paternò Castello rientra già in un nuovo modello di donna nella Chiesa. Angelina fa conferenze in giro per la Sicilia, fonda circoli femminili, entra in un circuito culturale e spirituale di ampiezza nazionale. Eppure la stessa Marletta, pur coi suoi limiti di formazione, respira quest’aria nuova e ne diviene protagonista, fondando una compagnia di donne di fede dedite alla emancipazione sociale delle ragazze povere. E qui, anzi, la Marletta supera in modernità la sua benefattrice, che avrebbe voluto destinare quelle ragazze al servizio della nobiltà catanese. All’inizio Maria Marletta, secondo la ricostruzione offerta da Zito, non voleva fondare una congregazione religiosa. La Casa famiglia era nata, infatti, come istituzione assolutamente laica, ma proprio questa “forma” destava in Curia non pochi timori. Anche se, proprio in quegli anni, un’altra grande donna di fede, Lucia Mangano, riusciva ad ottenere dal cardinale Francica Nava l’autorizzazione per una nuova “via” all’apostolato femminile: quella della donna consacrata al Signore, che restava nel mondo, impegnandosi in un apostolato di frontiera, senza vestire l’abito religioso, né avere l’obbligo della vita comune. La Provvidenza — cifra ricorrente nell’opera della Marletta, fino ad essere suggellata nel titolo della futura congregazione — volle, comunque, che i sacerdoti incaricati dai vescovi etnei per orientare il cammino della Casa famiglia e la vita spirituale della Marletta e delle sue compagne, fossero personalità di grande spessore religioso (fra questi Domenico Squillaci, Salvatore Nicolosi, Antonino Ferrini e i monsignori Carmelo Scalia e Salvatore Famoso). Così “le ‘mamme’ della casa famiglia vengono mutate in suore per le bambine, a servizio anche delle parrocchie”: ne nasce una congregazione religiosa (Serve della Divina Provvidenza), prima di diritto diocesano, poi di diritto pontificio, che alla morte della Marletta (25 settembre 1966) contava 84 suore e 9 case e ben presto si sarebbe aperta anche alla dimensione missionaria in America Latina. Da quel lontano 1921 in cui venne fondata la prima casa famiglia nella zona di Cibali, sono state migliaia le ragazze povere che hanno trovato nella Marletta e nelle sue seguaci un aiuto al riscatto della propria dignità. Giuseppe Di Fazio
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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO
1. Licenziati in Teologia morale Ha conseguito la Licenza in Teologia morale, il 24 gennaio 2002: DORIA MARIA DOLORES, La spiritualità comunitaria nel Movimento dei focolari. (relatore prof. Giuseppe Alberto Neglia)
2. Baccellieri in Teologia Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia, il 24 gennaio 2002: CASTIGLIONE PATRIZIA, “Io sono la Luce del mondo (Gv 8,12)”. La metafora della Luce nel Vangelo di S. Giovanni. Aspetti strutturali. (relatore prof. Attilio Gangemi) LA MANNA MARIA, “Io sono la porta delle pecore (Gv 10,7)”. La metafora della porta in Gv 10, 1- 10. (relatore prof. Attilio Gangemi) l’11 giugno 2002: GUZZARDI MICHELE, Gli elementi qualificanti dell’area presbiterale della Chiesa. Gli adattamenti post- conciliari nelle chiese parrocchiali di Caltagirone. (relatore prof. Giuseppe Federico) il 28 giugno 2002: AMENTA SEBASTIANO, La tradizione e il culto di S. Lucia a Siracusa. Tentativo di lettura della tradizione popolare alla luce delle fonti. (relatore prof. Salvatore Marino) ANGEMI PAOLO, Le prelature personali dell’ordinamento canonico. (relatore prof. Adolfo Longhitano)
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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo
CANTARELLA SALVATORE, L’impegno pastorale della chiese di Sicilia dagli anni ottanta ai nostri giorni. (relatore prof. Luigi Chiavetta) MONTEROSSO GIUSEPPINA, La configurazione collegiale dello Studio Teologico S. Paolo. Analisi degli statuti e regolamenti. (relatore prof. Salvatore Consoli) 3. Disputatio Il 28 febbraio 2002 si è tenuta allo Studio Teologico San Paolo la disputatio sull’Alterità. A guidarla è stato il prof. Paul Gilbert della Pontificia Università Gregoriana. 4. Attività complementari Docenti e studenti del San Paolo hanno partecipato al seminario su Quale Dio? L’agnosticismo nell’esperienza moderna e contemporanea, organizzato dal CeSIFeR, il Centro Studi Interdisciplinari del Fenomeno Religioso, fondato dall’Arcidiocesi di Catania, dall’Università degli Studi e dal San Paolo. Nell’ambito del servizio alle Chiese locali, in particolare di quelle che aderiscono allo Studio, rispondendo alla richiesta pervenuta dal coordinatore della pastorale diocesana, don Carlo Chiarenza, alcuni docenti dello Studio Teologico hanno dato il loro apporto all’itinerario di formazione per formatori di comunità ecclesiali nella diocesi di Acireale. Su invito del prof. Giambattista Rapisarda, docente incaricato di Liturgia, il 22 marzo 2002 p. Fedele, monaco del Gargano, ha tenuto una lezione agli alunni di terzo anno sulla Liturgia delle Ore. 5. Nomine In data 16 febbraio 2002, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha nominato vescovo di Ragusa mons. Paolo Urso, del clero della Diocesi di Acireale, Docente incaricato di Diritto canonico al S. Paolo. In data 12 aprile 2002, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha nominato
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vescovo di Piazza Armerina mons. Michele Pennisi, del clero della Diocesi di Caltagirone, già Docente incaricato di Teologia dogmatica al S. Paolo. 6. Adesione a convegni Il San Paolo ha aderito e dato il proprio patrocinio: al seminario nazionale Dov’è tuo fratello? La natura della relazione con lo straniero: implicanze teologico-apstorali, psico-socio-educative e politoco-sanitarie nell’ottica delle nuove leggi sul servizio alla persona (ll. 40/98 e 328/2000), organizzato da Pastorale della mobilità umana “Migrantes”, Movimento Cristiano Lavoratori e Comune di Catania, tenutosi nei locali dello Studio il 25 gennaio 2002; alle giornate di studio per il IV Centenario dell’arrivo delle reliquie di San Placido a Biancavilla, organizzato dal Comune di Biancavilla nei giorni 29-30 aprile 2002.
Collane di Synaxis «NUMERI MONOGRAFICI DI SYNAXIS» Synaxis Synaxis Synaxis Synaxis
XIII/1 - 1995: «La fuitina» XIV/1 - 1996: «Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) XV/2 - 1997: «La cultura del clero siciliano» XVI/2 - 1998: «Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» Synaxis XVII/1 - 1999: «Lavoro e tempo libero oggi» Synaxis XVII/2 - 1999: «Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» Synaxis XVIII/2 - 2000: «Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» Synaxis XIX/2 - 2001: «I sinodi diocesani siciliani del ’500»
«QUADERNI DI SYNAXIS» AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito) AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184 AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito) AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138 AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito)
AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334 AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264 AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170 AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190
AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136 AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160 AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280 AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427 AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240
«DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS» G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288 P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,19-31), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524 G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418 A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244 G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere (in corso di pubblicazione)
A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19) (in corso di pubblicazione)