Synaxis 2001 IXX 1

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Nuova serie XIX/1 - 2001

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO & ISTITUTO PER LA DOCUMENTAZIONE ELA RICERCA S. PAOLO CATANIA


Proprietà lelleraria riservata

.1·1a111pu

Tip. Grafica Saturnia - Siracusa Te!. 0931.49 4040- Fax 0931.49 41 41


INDICE VERSIONI ITALIANE DELLA BIBBIA: STORIA E TIPOLOGIA (Antonino Minissale)

7 9 11 12 12 14

S. Girolamo

N. Malenni A. Brucioli M. Lutero G. Diodati

15

A. Martini G. Ugdulena

17 19 23

Il sec XX Conclusione

"DOVRÀ PATIRE MOLTE COSE". UN POSSIBILE SVILUPPO DALLA PROFESSIONE DI FEDE

(Attilio Gange111i) Parte seconda: Altre predizioni ed espressioni analoghe nel NT 1. Le espressioni con il verbo ncXcrxm 2. Le espressioni con il verbo ncxpa8{8wµ1

ALLA NARRAZIONE DELLA PASSIONE

25 25 33

Parte terza: La primitiva predicazione apostolica in At 2,22-24; 5,30-32;

I0,39-40; 13,27-30 I. At 2,22-24

2. At 5,30-32 3. Al 10,39-40 4. At 13,27-30 S. Rilettura sintetica dei testi del libro degli Atti Parte quarta: Un tentativo di ricostruzione 1. Lo sviluppo attorno al verbo

n&a-xw

2. Lo sviluppo attorno al verbo JUY•.pa8{0(J){ll Parte quinta: La resurrezione 1. La menzione della resurrezione in relazione alla passione 2. Le varie formule della resurrezione 3. Riproposizione sintetica dalla professione di fede alla formazione della passione 4. Confronto con quattro schemi della passione 5. La naITazione della passione. 6. Conclusione . 7. Due don1ande e1nergenti

41 41 43 45 45 46 47 48

49 52 53 55

60

63 72 75 76

DIO AFFIDA L'UOMO ALL'UOMO. FONDAMENTI DELL'ACCOMPAGNAMENTO ALL'AMMALATO TERMINALE

Introduzione I. Le cure palliative

(Gaetano Za111111itti)

79 81


2. Le cure palliative come cure "globali"

84 113

Conclusione A PROPOSITO DI SCIENZA E FEDE IN PASCAL (Maria Vita Romeo)

117

EUGENIO IV E LA BOLLA DI FONDAZIONE DELLA "SCUOLA DEI CHIERICI» IN SANT' AGATA LA VETERE A CATANIA (Ado(/ò Longhitano) Introduzione: le scuole vescovili e monastiche per la formazione dci chierici

J. Catania e l'abbazia benedettina di Sant'Agata 2. Chiesa e società a Catania durante il pontificato di Eugenio IV 3. La bolla di erezione della scuola per i chierici nella chiesa di Sant' Agata la Vetcre Conclusione Appendice

137

140 142 152 157

161

CONVENTI E ORDINI REGOLARI MASCHILI A CATANIA NELLA PRIMA METÀ DELL'OTTOCENTO (Antonio Coco - Grazia Sa111peri)

165

A PROPOSITO DI UNA RECENTE TRADUZIONE DELLE CONLATIONES DI GIOVANNI CASSIANO (Ferdinando Raffaele)

187

Recensioni

195 A. V AZQUEZ DE PRADA, Il.fondatore dell'Opus Dei. La biografia del beato .lose111arfa Escrivà (Andrea Bettetini); A. FALLICO, Pedagogia pastorale. Questa sconosciuta (Salvatore Consoli) CONVEGNO ROSMINIANO DI STRESA (Salvatore Lotora)

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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

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Sezione teologico - morale Synaxis XIX/l (2001) 7-23

VERSIONI ITALIANE DELLA BIBBIA: STORIA E TIPOLOGIA**

ANTONINO MINISSALE*

La prerogativa più singolare della Bibbia dal punto di vista umano, è che essa ci mette davanti ad un fenomeno storico, letterario e linguistico, ininterrotto, che abbraccia onnai tremila anni. Se già la sua stessa formazione nelle lingue originali, è un imponente processo dinamico e graduale che occupa i primi mille anni, i successivi due millenni ci presentano un incessante pullulare di versioni in altre lingue, che mettono in contatto il messaggio iniziale con i nuovi destinatari, sempre più diversi e numerosi, raggiunti dalla predicazione cristiana e dalla diaspora ebraica. Già nel lungo millennio della produzione dell' A T si succede in seno allo stesso popolo d'Israele l'uso della lingua ebraica, dell'aramaico e, infine, del greco; poi, per quanto riguarda il NT, il messaggio originario di Gesù predicato nella lingua popolare della Palestina del suo tempo, che era l'aramaico, viene tradotto nel greco cosiddetto della koinè, quale si era sviluppato nell'età ellenistica, in modo che i vangeli e tutto il resto del NT sono stati scritti in greco. La Bibbia si presenta perciò, fin dal suo nascere, come un fenomeno linguistico estremamente ricco e incrociato, che già a livello delle stesse parole che vengono via via utilizzate o anche coniate, rispecchia in qualche modo la vita e la storia dei popoli dell'antichità, come i sumeri e gli assiri, i babilonesi e gli egiziani, i fenici e i persiani, i greci e i romani'. Così la Bibbia risulta essere un crogiolo e un crocevia di quanto di più nobile gli uomini possono via via produrre, vale a dire quelle parole con le quali esprimono i sentimenti e le idee che passano nel loro animo, mentre si

*Ordinario di Antico Testamento nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Testo della Prolusione all'anno accademico 2000-2001 tenuta il 17 novembre

2000. 1

Per una visione d'insieme delle lingue antiche che interessano lo studio dell'Antico NOTH, Die Welt des Alten Tesfan1ents. Einfiihrung indie Grenzgebiete der alttestan1entlichen Wissenschqft, Berlin 1962, 200-209.

Testa1nento si veda ·M.


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Anton;no Minissale

Virgilio e Cicerone, al pnnto da sentire anche il rimorso per l'attrazione che sentiva verso qnesti scrittori pagani'. Solo in seguito scopre la necessità di stndiare l 'ehraico, e per questo si cerca privatamente dei maestri ebrei a pagamento. Egli non sarà un teologo sistematico, ma un erudito, cultore delle tre lingue latina, greca ed ebraica (vir trilingui<') ed inquieto viaggiatore che gira per l'Europa e in Oriente, fino a stabilirsi alla fine a Betlemme, dove passa gli ultimi anni della sua vita, dopo che aveva visitato in lungo e in largo la stessa Palestina. Perciò si mostrerà poi ben informato sulla geografia e sugli usi del paese della Bibbia, consultando per questo anche i rabbini. Proveniente da una famiglia benestante che gli aveva permesso di coltivare i suoi interessi di stndio, fu attratto dall'ideale ascetico e monastico, dotandosi pure di una buona biblioteca di manoscritti, utili per il suo lavoro esegetico. 2) Riguardo al metodo della sua traduzione, si può dire che, sebbene esso non sia costante ma mostri una certa evoluzione da un libro all'altro, l'attenzione minuziosa ad ogni parola dell'originale ebraico non lo rende schiavo della parola, ma mira a rendere soprattntto il senso della frase, espressa in un bel latino". Per quanto può, egli evita di tradurre allo stesso modo un'espressione ebraica che si ripeteva a breve distanza, cercando così di creare una variazione stilistica. Il latino della sua traduzione manifesta la fo1ie tempra dello scrittore capace di rendere il suo testo con eleganza e musicalità. Ci basti riportare il giudizio competente di un grande poeta moderno, Paul Claudel, che ha scritto: «Noi abbiamo la gioia di possedere nella Volgata una traduzione dei libri santi che è un monumento poetico, che io non esiterei personalmente a considerare un capolavoro della lingua latina. Se non è ispirata nel senso teologico, certamente è ispirata nel senso letterario»'. La sua traduzione osteggiata agli inizi, per la novità del suo stile quando l'orecchio era abituato all'Antica Latina, s'impone a fatica e lentamente nelle Chiese d'Occidente, e si guadagna il titolo di Volgata solo nel sec XIII, titolo che prima era riservato alla sua concorrente, l'Antica Latina.

5

F. AUER, Der hl. Hieroni111us ùn Spiegel seiner Vulgata, in Festschrift Landersdorfer, Passau 1953, 11-24. (,Su Girolamo con1e traduttore vedi H.F. SPARKS, }eroine as Bib/;cal Scholar, in The

Ca1nbridge Histo1y ofthe Bible, I, Cambridge 1970, 510-541 e nella Enciclopedia Judaica, Jerusalem, le voci "Bible" (voi IV, c. 857: B. Kedar-Kopfstein) e "Jerome" (vol IX, 1376-78:

D. Flusser). 7 P. CLAUDEL, J'aùne la Bihle, 55, cit. da J. Gribo1nont in Patrologia, Ili, a cura di A. Di Berardino, Torino 1978, 215. 8 Un'ottima sintesi, dal medioevo all'Ottocento, si trova in S. MINOCCHI, Ita/iennes (version.o,) de la Bible, in Dictionnaire de la Bible, III (1909) 1012-1038.


Versioni italiane della Bibbia

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N. Ma/ermi

Ma proprio nel corso del sec XIII si manifesta in Italia per la prima volta l'esigenza di tradnrre dal latino la Bibbia nella nascente lingua italiana, inizialmente solo per le parti che erano usate nella liturgia'. Pezzi di queste antiche traduzioni italiane, nelle quali primeggia il toscano, seguito in alcuni casi dal veneziano, ci sono oggi accessibili grazie ai manoscritti del sec XIV e XV che si conservano a Firenze, Venezia, Siena, Roma e Parigi". Esse derivano dal latino ma fanno trapelare pure un 'influenza delle versioni francesi che le hanno precedute. I traduttori sono anonimi, i libri più tradotti sono i vangeli e i salmi, ma si mostra interesse anche per i libri sapienziali dell 'AT. Sembra che questo interesse alla traduzione della Bibbia nella lingua parlata sia influenzato dai movimenti ereticali, in particolare di origine valdese, che, appellandosi all'autorità della Bibbia, suscitano uno speciale interesse presso 1 laici cattolici, che ciò nonostante non abbandonano la Chiesa. Costoro, nella loro riscope11a della Bibbia, vengono assecondati, specialmente nelle città, dai domenicani e dai francescani. Dopo un certo tempo, i frutti di questa attività di traduzioni parziali della Bibbia, finora anonime, confluiscono nella prima versione completa del Malermi, che venne stampata a Venezia nel!' agosto del 1471 pochi anni dopo l'invenzione della stampa avvenuta nel 1454'". Questo Nicolò Malenni, o Malerbi (c. 1420-1481) è stato abate di diversi monasteri dell'ordine camaldolese a Venezia, e nella prefazione dichiara di aver traducto tutto testo de la Bib/ia, aggiugendovi dei piccoli commenti ricavati dai Padri e dai più celebri teologi. In realtà, sembra piuttosto che egli non abbia fatto una nuova traduzione ma si sia limitato a raccogliere e unificare quelle precedenti, adattando l'ortografia toscana a quella veneziana, e a controllare il tutto sul testo della Volgata".

9

K. FOSTER, Vernacular Scriplures in lta/y, in The Can1bridge Histo1y of the Bib/e, II, Cambridge 1969, 452-543. 10 Biblia digna1nente vulgarizzata per il clarissin10 religioso duon Nicolao de Ma/enni Venetiano. Alla fine del secondo volume si dice: hnpresso ... negli anni M.CCCC.LXXI. in Kalende de Augusto. 11 S. MTNOCCHI, Jtaliennes (versions), cit., 1023.


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Antonino Minissale

A. Brucio/i

Questo doppio registro, cattolico e rifonnato, ancora latente nella Bibbia del Male1mi, diventa più evidente nella traduzione di tutta la Bibbia per opera di Antonio Brucioli (tl566), che si può considerare la Bibbia italiana del sec XVI". Egli era nato e viveva a Firenze, dove era amico di Nicolò Macchiavelli ma anche un dichiarato oppositore dei Medici. Per questa sua insofferenza politica è espulso dalla città e ripara a Lione, dove viene a contatto con le idee luterane penetrate dalla Gennania, subendone l'influsso, ma senza abbandonare la Chiesa cattolica. Trasferitosi poi a Venezia, continua, frequentando i rabbini, l'apprendimento dell'ebraico, già iniziato a Lione. Qui, partecipe della vita culturale della città, diventa amico di Piero Aretino e pubblica nel 1532 la sua Bibbia, giusto due anni prima che fosse pubblicata in Germania da Lutero la prima edizione della sua traduzione completa del 1534". M Lutero

Ci imbattiamo così in Lutero, pur parlando delle versioni italiane della Bibbia, e non possiamo non fare, a questo punto, una digressione su di lui, che come traduttore è senz'altro un altro grande maestro del calibro di san Girolamo. Fra tutti i numerosi scritti dottrinali lasciati da Lutero, la sua traduzione della Bibbia è l'opera nella quale egli ha voluto profondere il suo più zelante e prolungato impegno'". Dopo aver tradotto per primo il NT dal greco, aveva più difficoltà ad affrontare l'ebraico dell'AT, perciò ha costituito un gruppo di lavoro col quale si riuniva periodicamente, avvalendosi dei diversi contributi di chi conosceva meglio l'ebraico e anche di chi lo consigliava sulle sfumature del tedesco". E difatti la sua genialità si manifesta di più nell'espressione tedesca che egli forgia e che contribuirà in modo detenninante alla formazione della lingua nazionale. Vale la pena di 12

Cfr C. CRIVELLI, in Enciclopedia Cattolica, III ( 1949) 130.

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«Il Brucioli era di spiccate tendenze protestanti, sebbene ufficiahnentc no si dalla Chiesa, e la sua versione, divenuta ben presto con1une per i protestanti italiani n1essa all'Indice nel 1559; quanto alla sua indole letteraria, è versione rozza e Fu ristan1pata più volte, anche con cornrnenti del Bruciali in cui più chiaratnente le sue tendenze protestanti>> (G. R1cc10TTI, Bibbia. Versioni 111oder11e, in

staccasse esuli, fù incolta ... appaiono

Enciclopedia Cattolica, II ( 1949) 1556-1563: 1558). 14 La prima edizione della traduzione della Bibbia di Lutero è del 1534, ina l'edizione definitiva è del 1545. 15 Sul metodo di lavoro di Lutero si veda R. GARCIA - VILLOSLADA, Martin Lutero, Il. In lotta contro Ron1a, Milano 1976, 450.


Versioni italiane della Bibbia

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riportare qui qualche osservazione sulla sua esperienza di traduttore. Quanto al linguaggio da adottare nella traduzione, Lutero dice: [«Non si deve chiedere alle lettere della lingua latina come si deve parlare in tedesco ... , ma sì deve domandarlo alla madre di casa, ai ragazzi nella strada, al popolano al mercato, e si deve guardare la loro bocca per sapere come parlano e quindi tradurre in modo confmme. Allora comprendono e si accorgono che parliamo con loro in tedesco»"]. E poi precisa: [«Tuttavia nella mia tt·aduzione non mi sono allontanato troppo liberamente dalla lettera, anzi nell'esame di ogni passo mi sono molto preoccupato, insieme ai miei collaboratori, di rimanere il più possibile aderente al testo, senza discostannene con eccessiva libertà»"]. Altrove dice: [«Sudore ci costa mettere in lingua vernacola i profeti. Dio, che gran lavoro e fatica costringere gli scrittori ebraici a parlare in tedesco! ... È come costringere l'usignolo a dimenticare il suo elegantissimo gorgheggio per imitare il monotono canto del cuculo»'·']. E poi ancora osserva: [«Mi sono molto applicato a tradurre in tedesco puro e chiaro. Mi è capitato ben spesso di cercare e chiedere durante quindici giorni, tre o quattro settimane, una sola parola, senza per il momento poterla trovare. Traducendo il libro di Giobbe, abbiamo lavorato in modo tale che M. Filippo, Aurogallus ed io, abbiamo talvolta pot11to appena tenninare tre righe in quattro giorni: mio caro, ora è tt·adotto in tedesco ed è pronto, chiunque può leggere ed esaminare il testo; lo si può percmrere con gli occhi per tre o quattro pagine senza incontrare alcune difficoltà; non ci si accorge delle grosse pietre e dei ceppi che c'erano prima, perché ora vi si passa sopra come su di una tavola spiallata. Ma abbiamo dovuto sudare e preoccuparci non poco per liberare il cammino da simili pietre e ceppi e renderlo facilmente transitabile»"]. Lutero una volta fece uccidere in sua presenza alcuni agnelli affinché un macellaio tedesco gli indicasse il nome di ogni pmte dell'animale"'. In realtà, da un certo punto di vista, si può osservare una qualche somiglianza tra san Girolamo e Lutero, sia per quanto riguarda il loro temperamento ini.1ente e passionale, certamente più aristocratico nel primo e più popolare nel secondo, e sia perché entrambi, con motivazioni diverse ma analoghe, hanno considerato, ad un certo punto della loro vita, la traduzione della Bibbia come il principale compito a cui dedicare il proprio tempo e le proprie energie. ir, Epistola sull'arte del tradurre e sulla intercessione dei santi, in Scritti religiosi di klartin Lutero, a cura di V. Vinay, Torino 1967, 7Q8. 17 Jbid., 712. 18 Cit. in R. GARCIA- VILLOSLADA, Martin Lutero, cit., 543. 19 t."'pfstola, cit., 707. !OR. GARCJA- VILLOSLADA, Jv!artin Lutero, cit., 545.


Antonù10 Minissale

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Inoltre, entrambi si dimostrano scrittori originali e geniali nelle loro rispettive lingue, il latino del V e il tedesco del XVI secolo. Il testo biblico da loro creato, penetra poi nella musica, per diventare, quello dell'uno, preghiera nelle nitide antifone latine del canto gregoriano, e quello dell'altro, evocazione celebrativa nelle melodie tedesche, ora tenere e ora possenti, del grande Johann Sebastian Bach.

G. Diodati

Ma quella che sarebbe diventata la Bibbia dei protestanti italiani potta lo stampo calvinista e non luterano. È La Bibbia cioè i libri del Vecchio e del Nuovo Testan1ento, 11uova1nente traslati in lingua italiana da Giovanni Diodati di nascita Lucchese, che è stata pubblicata nel 1607 a Ginevra". La sua famiglia, originaria di Lucca, dopo essersi qui convertita al protestantesimo, per la propaganda luterana svoltavi da mercanti tedeschi, era emigrata a Ginevra, considerata allora come la città santa della riforma di Calvino, che offriva rifugio ai convertiti provenienti dai paesi cattolici dell'Europa. Pur essendo nato a Ginevra nel 1576, apprese l'italiano come lingua materna tra le mura domestiche insieme al francese; quindi frequentò l'accademia teologica di Calvino, divenendone, a soli 23 anni, professore di ebraico, forse, come qualcuno ha maliziosamente pensato, per riguardo alla generosità del padre verso la comunità"- Uomo seriamente impegnato negli studi e nell'azione pastorale, Giovanni Diodati voleva prodmTe una traduzione della Bibbia che ricalcasse il più possibile la forma del testo originale. Osserva il Luzzi che ne ha curato la revisione pubblicata nel 1924: «Il vero merito, il merito grande, grandissimo del Diodati consiste in questo: che egli tradusse la Bibbia dagli originali, e con una fedeltà che spesso rasenta lo scrupolo, e lo scrupolo eccessivo ... La sua lingua è spesso dura e qua e là infrancesata, il suo periodare è non di rado intralciato, contorto, faticoso»". L'atmosfera della Ginevra del suo tempo possiamo coglierla da

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Su Diodati ho potuto utilizzare la tesi 1nolto docu1nentata di "R. COISSON", Giovanni Diodati e la sua attività ecc!esiaslica, diss. datti!. Facoltà Valdese di Teologia (rei. Valdo Vinay), Ron1a 1964, che n1i è stata 111essa a disposizione dal dr. Valdo Bertalol, segretario generale della Società Biblica in Italia, Rotna. 22 Jb;d., 33. 21 G. Luzz1, La Bihhia in /fa/;a. L'eco della R!forn1a nella repubblica lucchese. Giovanni Diodat; e la sua versione italiana della Bibbia, Ton·e Pellice s.d., 58, cit. da R. CorssoN, Giovanni Diodati, ciL, l 48s. I! Luzzi ha pubblicato La Sacra Bihhia ossia L'Antico e il Nuovo Testa111en/o. Versione Riveduta, Ron1a l 924. Nel 1995 è stata pubblicata dalla


Versioni italiane della B;bbia

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questa testimonianza del 1858, che è opportuno riportare per ricordare l'ambiente concreto nel quale matura l'opera letteraria e teologica del Diodati: «A quell'epoca il culto pubblico nou era, come oggigiorno, limitato alle questioni puramente religiose; il pulpito diventava una tribuna dove tutte le questioni della vita quotidiana venivano affrontate... i pastori intrattenevano il loro uditorio su tutti gli argomenti che alimentano oggigiorno la stampa quotidiana. Elezioni, tasse, istruzione, beneficenza, scandali vari, questioni di finanze, di pace e di guerra, tutto trovava posto sulla bocca dei predicatori. La censura morale non conosceva nessuna eccezione di persona, e dal sovrano fino al più umile artigiano, tutte le classi della società vi erano inesorabilmente fustigate»''.

A. Martini

Ma un secolo e mezzo dopo la traduzione del Diodati viene pubblicata m campo cattolico la versione dell'abate Antonio Martini, condotta sulla Volgata latina". Nato a Prato nel J 720, a 28 anni si era laureato in lettere all'Università di Pisa, per trasferirsi tre anni dopo a Torino, dove il re Carlo Emanuele Il! lo aveva nominato preside della Congregazione dei 12 sacerdoti addetti alla Basilica di Superga. Qui inizia la sua traduzione cominciando dal NT. Avendo chiesto la dispensa dall'ufficio di preside, particolarmente gravoso per la poca disciplina della comunità, per potersi dedicare alla sua opera, ottiene nel 1765 dal re, con il titolo di consigliere di Stato, una pensione sull'abbazia di S. Giacomo di Bessa. Questa versione, munita di commento, viene pubblicata in più volumi dal 1769 al 1781, anno in cui viene nominato arcivescovo di Firenze, dopo che era stato proposto da Vittorio Amedeo Il! all'episcopato di Bobbio, una piccola città in provincia di Piacenza, celebre per il suo monastero con annessa biblioteca. Morirà a Firenze alla veneranda età di 89 anni nel 1809. Da arcivescovo cura Società Biblica Britannica & Fore$tiera, Roina, La Sacra Bibbia. Versione Nuova Rivedu!a, a cura di B. Corsani, B. Costabcl, S. Rapisarda. 2 .i .I. GABEREL, l!istoire de I 'Eg!ise de Genève depuis le con1111ence1nenl de fa R~fOnnation jusqu 'à nos jo111'.\', Genèvc 1858, 3 voi Il, 20, cit. da R. Co1ssoN, Giovanni Diodati, cit., 16. 25 Cfì· G. PIOVANO, La versione e il co111111e11!0 della Bibbia di Antonio Martini, in La \cuoia Cattolica 67 (1929) Il, 337-347; P. DE AMBROGGI, A1artini Antonio, in Enciclopedia :attolica, Vlll (l 952) 2 IOs.


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Antonino Minissale

l'edizione definitiva della sua opera in 23 volumi, dal 1782 al 1792, cominciando dal Vecchio Testamento. Questa traduzione fu dichiarata "testo di lingua" dall'Accademia della Crusca il 28 luglio del 1885. Ma abbastanza presto, nel 1778-1779 essa era stata stampata proprio a Catania, nella Stamperia del Vescovi! Seminario, con un'edizione in 6 tomi per il Nuovo Testamento'" e, qualche anno dopo, nel 1781-1784 si erano aggiunti ben l l tomi per l'Antico Testamento". A proposito della traduzione del Martini nota il Vaccari nel 1930: essa «è fedele senza servilità, di una discreta eleganza, non vigorosa, ma nel complesso degna del favore che gode per h1tta Italia. Essa contribuì moltissimo a far rivivere fra noi gli studi biblici»". Quasi per due secoli, infatti, la versione del Martini è stata la Bibbia cattolica degli italiani. Da parte sua aggiunge il Ricciotti nel 1949 che il Maiiini «fece opera del tutto nuova e per i suoi tempi degnissima ... Accolta dai più con lode, da taluni con ostilità così accanita che si cercò perfino di farla proibire dalla Chiesa, la versione del Martini fu elogiata da un breve di Pio VI, indirizzato all'autore il 17 maggio l 778; cercarono però d'impadronirsene i giansenisti toscani iniziandone una edizione contraffatta, la quale si limitò al Nuovo Testamento e a minima parte del Vecchio»". Nella prefazione del Martini colpiscono in paiiicolare due idee che egli sottolinea e che sono caratteristiche del suo tempo: da un lato egli è consapevole che la fede è grazia, ma ciò è visto da lui in chiave apologetica per contrapporsi alle "dubbiezze" e agli effori dello spirito umano; dall'altro, egli insiste sulla continuità della storia della salvezza, ma in realtà essa è vista in maniera troppo dottrinale e poco storica. Sul primo punto egli scrive: «(li cristiano) si conoscerà felice (come egli veramente lo è) per essere stato graziato da Dio di un dono sì grande , e con umile cordiale gratitudine offrirà al Donatore celeste i suoi perenni 26 Riporto dall'ese1nplare che si conserva nella Biblioteca del Se1ninario Arcivescovile di Catania: Nuovo Testa1nento del Signor /\'ostro Gesù C'risto secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana e di annotazioni arricchito. Seconda edizione giusta l'esemplare di Torino. To1no I. lo Catania MDCCXXVIII. Nella Stamperia dcl Vescovil Sen1inario. A spese di Giovanni Riscica. E si vende al suo Negozio. Alla grandezza di Monsignor D. Salvatore Venti1niglia, Arcivescovo di Nico111edia, Inquisitore Generale nel Regno di Sicilia, già Vescovadi Catania &c.&c. L'Editore. La Versione Turinese delle divine Scritture uscendo in Sicilia per la prima volta alla luce, pregiasi di portare in fronte il vostro rispettabile nome, Monsignore, per più ragioni. 27 li Pentateuco o sia i cinque libri di A1osè secondo la Volgata Tradotti in lingua italiana e con annotazioni illustrati. Prima edizione Siciliana giusta l'esemplare di Torino. To1no U. In Catania MDCCLXXX[. Nella Stmnpcria di Francesco Pastore con Licenza de' Superiori. A Spese di Giovanni Riscica. 28 A. VACCARI, Bibbia, in Enciclopedia Italiana, VI (1930) 899-903: 902. 29 G. R1cc10TTI, Bibbia. Versioni n1oderne, cit., J560s.


Ve1:\'ioni italiane della Bihhia

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ringraziamenti»"'. Riguardo al secondo tema leggiamo: «Queste verità capitali, per così dire, e sulle quali posa tutta la religione, queste verità annunziate nel Pentateuco di Mosè son ripetute costantemente in tutti i libri dell'antica e della nuova alleanza; e con ammirabil concerto dalla Genesi fino alla Apocalisse tutti i nostri scrittori sacri concordano negli stessi dommi da credere, concordano nelle stesse massime di morale, e negli stessi fatti fondamentali che stabiliscono la religione»". In realtà, le opzioni teologiche del Martini che si esprimono in genere nel commento ci sembrano piuttosto prudenti e tradizionaliste, se si tien conto dei fermenti culturali del suo tempo".

G. Ugdu!ena Nel corso dell'Ottocento la Società Biblica Britannica e Forestiera, un 'istituzione protestante fondata a Londra nel 1804 per la stampa e la diffusione della Bibbia, ha esteso presto la sua attività in Italia alleandosi con i n1ovi1nenti risorgin1entali che aspiravano a cacciare le varie Case regnanti a favore dell'unità d'Italia. ln questo contesto fo facile mettersi anche contro lo Stato pontificio, che impediva la penetrazione della sua propaganda nella città di Roma''. Nel breve intervallo della Repubblica romana (1849), mentre Pio !X si era rifogiato a Gaeta, si stampò un'edizione di 4000 copie del NT

111

Cito dall'edizione più antica che 1ni è stalo possibile reperire, in possesso del Pontificio Istituto Biblico: La Sacra Bihhia o sia Vecchio e 1\111ovo Tcsta1ne11to secondo la Volgata. Tn1duzione cd Annotazioni di Monsignore Antonio Martini Arcivescovo di Firenze, Volun1e pri1110: Genesi, Esodo, Levitico, Milano, Per Cìiovanni Silvestri, M.LCCC.XXVII, p. Xlii.

Jbid., xx. È significativo questo giudizio critico dato da uno storico: «Era prevalso nell'abate pratese il n1ovcntc apologetico antiprotes!antico ... Per calcolo o per istinto il Martin i rifuggiva da tcnninologia religiosa con1une ai rifonnatori a lui coevi. Il suo eloquio toscano, terso, lineare, alquanto freddo, obbediva alle regole della Crusca e preferiva attingere espressioni, oltre che al Deodati, a scrittori dcl '400 e '500 toscano. La visione teologica che presentava, era quella eclettica insegnata a!l'universitò di Torino, tra agostinis1no e to1nisn10; esplicita era la chiusura alle istanze ireniche verso i protestanti. In definitiva, istanze e linguaggio che sono riconoscibili nell'iHun1inisn10 cattolico coevo rurono disattesi, sottaciuti o resi in fOnne evanescenti sia nella versione della Bibbia che nella rin1ancntc produzione letteraria dcl tvlartini» (P. s·1 ELLA, Produzione /ihraria religiosa in C'uttoliccsÌ/110 e L11111i 11el Se!lecenlo italiano, a cura di M. Rosa, Ro111a 1981, 99- ! 25: l 08 e 111. 11 M. C!GNON!, La Bibbia c1 Ro1nu nel RisorgÌl11c11to, in Do111enica della R{/Onna 1993, 5-9; ID., La Diodati: piccola storia di una grande Bibbia, in La Parola 1994, n. 2, Supplen1ento, 6-16. li

'è


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Antonino lvlinissale

nella traduzione del Diodati. Una copia venne consegnata pure a Giuseppe Mazzini dal curatore, il pastore francese Theodore Paul, che aveva preso alloggio nel 1848 in Campidoglio nei locali dell'ambasciata di Prussia presso la Santa Sede. li pastore, un non violento che non condivideva del tutto Mazzini per l'appello alle armi, rilevava compiaciuto che questi aveva «raccomandato fortemente in un discorso al popolo di Roma che si leggesse il Vangelo». Nello stesso 1849, approfittando della cacciata del Granduca Leopoldo II, la Società Biblica fece stampare a Firenze 3000 copie del NT nella traduzione del Martini. Ma al suo ritorno, il sovrano fece sequestrare 2000 copie non ancora distribuite, ordinando di bruciarle. Riguardo alla nostra città, si può ricordare in questo contesto la fondazione della comunità valdese a Catania nel 186P'. Quando invece nel 1870 si ebbe la breccia di Porta Pia, insieme ai bersaglieri entrarono a Roma anche sei colportori (venditori ambulanti) con un ca!Tetto carico di Bibbie e di Nuovi Testamenti nella traduzione del Diodati, che erano stati inviati nella città eterna dall'agenzia toscana della Società Biblica. Ma la convulsa storia del Risorgimento italiano si riflette ancor di più nell'autore della prima traduzione cattolica della Bibbia in italiano eseguita sul testo ebraico". Essa è stata pubblicata a Pale11110 in due volumi nel 1859 dal sacerdote Gregorio Ugdulena. Quest'opera è rimasta incompiuta per le traversie politiche del suo autore, cd abbraccia soltanto i libri del Pentateuco e di Giosuè, Giudici, Samuele, Re. È stata definita, per quanto riguarda gli studi biblici, «l'opera più originale e più grandiosa del sec XIX in Italia»'", e pertanto costituisce una gloria del clero siciliano. Infatti, questo Gregorio Ugdulena è nato nel 1815 a Termini lrnerese e a 28 anni ( 1843) ottiene la cattedra di ebraico e Sacra Scrittura all'Università di Palermo. A causa delle sue idee politiche a sostegno dell'unità d'Italia, partecipò, unendosi ai garibaldini, all'insurrezione contro i Borboni del 1848 e perciò fu confinato per sei anni nell'isola di Favignana, dove il I aprile 1850 dava inizio alla sua traduzione. Per le sue posizioni risorgimentali, insolite nell'ambiente cattolico dcl suo tempo, fu accusato perfino di ateismo, mentre il papa Pio IX aveva addirittura pensato di nominarlo vescovo. Viene eletto per due volte deputato del Regno nel collegio di Marsala e, con il non improbabile 14

G. ZITO, La cura JHISforale a C'atania

negli anni de/l'episcopato Dus111ef (1867-

IH94), Acireale 1987, 30. J:\ La Sacra Scrittura in volgare riscontrata 1111ova111e11te con gli origil1ali ed illustrala con breve co111111ento da Gregorio Ugdulena prete tennitano, Vecchio Testa1nento, I-II, Palenno, dalla Tipografia di Francesco Lao, MDCCCLIX. 36 PLACIDO DA SORTINO, G'regorio Ugdulena orienta/i.Ha e biblista italiano, in Rivista Biblica 14 (1966)159-179: 164.


Versioni italiane della Bihbia

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appoggio della massoneria, diventa prima professore di greco a Firenze nel 1867-1868 e, poi nel 1870, professore di ebraico nella Facoltà di lettere dell'università di Roma. È morto a Roma due anni dopo, a soli 58 anni (1872), si sospetta per avvelenamento. li Ricciotti dà questo giudizio abbastanza equo sulla sua opera: «Questa parte pubblicata è chiara e fedele nella traduzione, nutritissima di scienza filologica e storica nel commento che mira al senso letterale, ed è aggiornata per gli studi più recenti del suo tempo. Lodatissimo da A. Manzoni e incoraggiato da Pio IX, l'Ugdulena si lasciò invece distra!Te dalla politica e abbandonò la sua impresa»". Possiamo concludere il ricordo dell'Ottocento con una nota di campanilismo, forse doverosa, per menzionare, qui cito testuahnente il frontespizio, il "sacerdote Francesco Corsaro, professore della lingua ebraica nel Seminario della città di Catania'', che ha pubblicato nel 1839 una grammatica ebraica, stampata a Napoli "dai torchi di Raffaele Miranda". Con una lettera ridondante di ampollosità tipiche del suo tempo, l'autore dedica i suoi Elementi grammaticali della lingua santa "a Sua Eccelleuza il Signor D. Giuseppe Ferrara, reverendissimo canonico della chiesa cattedrale e rettore del vescovi! seminario di Catania", ma soprattutto nipote dell'arcivescovo Mons. Orlando, da poco defunto, che «aveva eretto la Cattedra, me elegendo a Precettore»Js. li sec XX

Nel corso del sec XX sono ben tredici le nuove traduzioni italiane della Bibbia, di cui solo due vengono ancora eseguite dalla Volgata, mentre le altre dieci si basano sui testi originali. Sono fatte sulla Volgata quella di Eusebio Tintori, edita dalle Edizioni Paoline nel 1931, e quella diretta e commentata da Giuseppe Ricciotti, con la collaborazione di diversi traduttori, edita dalla Salani nel 1940'". D'ora in poi tutte le traduzioni n G. RICCIOTTI, Bibbia. Versioni 111oder11e, cit., 1561. Molto preciso è i! giudizio di VACCARI, Bibbia, cit., 902: «Più che novelle versione essa è una revisione del Diodati sui Lesli originali, con1presi con !a scienza filologica e storica del sec XIX; il pregio principale sta nel co1nn1ento, che per conoscenza di lingue, di storia, degli scrittori più recenti, non è inferiore ai più dotti del suo ten1po». ~ Ele111e111i gra1111naticali della Lingua Santa e.<.posti in tavole sinottiche da apprendersi in ventidue lezioni anche senza precettore ... co1npilati dal Sacerdote Francesco ('orsaro profèssore della lingua ehraica nel Se111i11ario della città di Catania. Ad uso di detto sen1inario, Napoli, Dai torchi di Raililele Miranda, 1939, 4. 31 ' La Sacra Bibbia, Traduzione di G. Bonaccorsi, G. Castoldi, G. (Jiovannozzi, G. Mezzacasa, F. Ran1orino, G. Ricciotti, Ci.M. Zan1pini. Introduzione e note di Giuseppe Riccioti, Firenze ! 940. 3


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Antonino 1\1inissale

pubblicate si vantano di essere eseguite dai testi originali, a partire da quella più popolare e diffusa, pubblicata dalle Ed. Paoline nel 1958"'', e diventata "la Bibbia di mille lire". Una traduzione di più alto livello è invece quella eseguita dal Vaccari e collaboratori, pubblicata in vari volumi presso Salani negli anni 1957-58, c poi riunita anche in un sol volume. Nel 1948 si inizia la grande serie dei commentari della cosiddetta Bibbia del Garofalo, presso l'editrice Marietti, che ha raggiunto i 32 volumi senza essere completata. Ma nel 1960 lo stesso Garofalo ha diretto una edizione completa in tre volumi", con una nuova traduzione e con un co1nn1ento più succinto. Nella pren1essa si dice: «Lo scopo di questi volumi è stato quello di rendere in italiano anche il sapore della lingua originale: si è cercato - per quanto è stato possibile - di essere fedeli non soltanto alle parole ma anche al periodo e allo spirito». Nello stesso anno usciva pure la traduzione di Fulvio Nardoni~'. Frattanto anche le Case editrici laiche si sono preoccupate di avere una nuova traduzione della Bibbia di loro edizione: la UTET (1963)'\ la Garzanti (1964)"\ e la Mondadori (1968)". E quando al seguito dcl Concilio Vaticano li, s'impone la necessità di avere una traduzione italiana per la liturgia, di cui deve farsi carico e garante la Conferenza episcopale nazionale, si sceglie come testo base proprio quello della Bibbia della UTET, perché, debitamente rivisto da una con1missione in vista delle esigenze della procla1nazionc liturgica, si possa avere la prima edizione dcl 1971 della Bibbia della CEI"". Per la verità, questa soluzione è stata un ripiego dopo che era naufì·aga1o l'iniziale progetto di produrre una nuova Bibbia ufficiale in italiano con la 111 La Sacra Bibbia, Traduzione dai testi originali di F. Nardoni, G. Robaldo, (J.C\1stoldi, f. Pasquero, Alba 1958. 41 La Sacra Bihhia tradotta dai testi originali e co1111ne11tata, A cura e sotto la direzione di Mons. Salvatore Garofolo. li /"ecchio Testa111e11to, ! (Pent.-Macc.), Il (Giob.Profeti Min.), III: li 1\111oro Teston11·11ro (Collaboratori: L. Algisi, D. Baldi, G. Castcllino, P. Co!clla, Einanuele da S. f\t1arco, f\1. 1.rbctta, E. Cialbiati, S. GaroL1!0, L. Moralcli, G. Nolli, N. Paltnarini, A. Penna, G. Rinaldi. A. Ro1neo, G. SalclnrinL F. Spadafora, Teodorico da Castel S. Pietro, F. Vati ioni, C. Zedda), Cnsale J'v1onferrato 1960~ 1961. lè La Parola di [Jio scritta in 1'0!11111i detti La Bibbia, Trnduzione di F. Nardoni dai testi originali, firenzc 1960. 41 La Sacra Bihhiu tradotta dai lesti originali e con11ncntata. I; Libri Storici, a cura di E. Galbiati; fl: Libri sapienziali e profetici, a cura di A. Penna; lii: Nuovo Testmnento, n cura di P. Rossano, Torino 2 1964. +i La Sucra Bibbia, tradotta dai testi originali a cura dei professori di S. Scrillura o.f.111., sotto la direzione dcl rcv. P. B. Mariani, Nfilano 1964. 4 i La Bibbia concordata: tradolta dai testi originali con introduzioni e nole a cura della Società Biblica Italiana; l: Pentateuco, Libri storici, Libri poetici; II: Libri profetici, Nuovo Testan1ento, Milano 1968. I collaboratori sono ebrei, cattolici, ortodossi e protestanti. 4 <> La Sacra Bibbia. Conferenza Episcopale Italiana, Ro1na 1971.


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collaborazione dei protestanti, secondo un auspicio che era stato formulato nel Concilio. Ma il lavoro in comune si è allora bloccato nel suo inizio, per la difficoltà di accettare da parte protestante l'espressione "piena di grazia", di Luc 1,28, che, derivata immediatamente dal latino della Volgata, era irrinunciabile per i cattolici. Ma propriamente si ha nel testo solo il participio perfetto passivo "graziata" (kecharilome11e)"'. Ad ogni modo, la Bibbia CEI del 1971 viene recepita nei Lezionari del 1973 e nella Bibbia di Gerusalemme, pubblicala dalle Dehonianc nel 1974"'. Ma già nel 1974 se ne pubblica una seconda edizione, leggermente rivista. Intanto le Edizioni Paoline curavano negli anni 1967-80 la collana "Nuovissi1na Versione della Bibbia" in 46 volumetti, ridotti in un sol volume nel 1983"''. Invece, sul fronte della collaborazione ecumenica, dopo il fallimento di quel primo tentativo, già accennato, non si è rinunciato al progetto di una traduzione fatta insie1ne da cattolici e protestanti, e così una con1n1issione n1ista ha preparato la 7'ralllfzio11e interco11fèssionale in lingua corrente, di cui sono usciti nel 1976 il NT'" e, poi, l'edizione completa nel 1985". In questa traduzione si segue il cosiddetto n1etodo delle "equivalenze dinan1iche"' 2 , che mira a rendere il senso della frase e non quello delle singole parole dell'originale, preferendo invece modi di dire più accessibili ad un pubblico secolarizzato, poco abituato ad un certo linguaggio religioso; perciò si dice nel titolo "in lingua corrente". La difficoltà che si era incontrata in Luc I ,28 viene qui risolta traducendo: "Ti saluto, Maria! li Signore è con te: egli ti ha 7

~ Questo particolare ci veniva riferito si pri111i di scttc1nbrc 1977 nell'a1nbito del se1ninario organÌLLa!o n Ro1na per preparare la futura Traduzione intcrco1?féssinale i11 li11g11a corrente. L 'are. J'vfons. Ezio D' Anioni accenna in 1naniera velata alle difficoltà incontrate con

queste parole: «Fu un 'esperienza interessante, 111a si rivelò faticosa e fece prevedere tcn1pi lunghi: la natura della versione, destinata all'uso liturgico, non consentiva l'accoglienza di alcune richieste in1prescindibili per i protestanti, c l'urgenza di arrivare quanto prin1a possibile alla pubblicazione della Bibbia per predisporre la sta1npa dei Lezionari consigliarono di rinviare ad altro n1on1ento la versione "coinune" o, con1e poi fu chimnata, "in lingua corrente" 1> (1\4otil i e vicende di 1111a iniziativa postconciliare, in BuzzETTf- Cì-1-fl!JELLI, Traduzione della Bibbia, cil., 99-105: 101). 1 ~ Per la precisione, con1e è detto ne!!a Presentazione, La Bibbia di Ger11safe111111e, Bologna 1974, riprende il testo biblico dalla Bibbia CEI del 1971, 1nentre traduce dal francese 1 le introduzioni e le note de!la nuova ediz. de La Bible de Jer11sa/e111, Parigi 1973 (1961 ), preparata dalla "Scuola Biblica" dei don1enicani di Gerusalen11ne. 11 ' La Bibbia, Nuovissin1a versione dai testi originali, con introduzioni e note di A. Girlanda, P. (Jironi, F. Pasquero, G. Ravasi, P. Rossano, S. Virgulin, Ro1na 1983. 11 ' Parola del Signore. Il Nuovo Testa1ne11to. Traduzione interconfessionale in lingua co1Tente, Leu1nann (To) -Ro1na 1976. 51 Parola del Signore. La Bibbia in lingua corrente, Leu1nann (To) - Ro1na 1985. 5 " Questo n1etodo, teorizzato de E. NJDA, Toward a Science c!f' Translatil1g, Leiden 1964, è discusso in C. BuzzETTI, La Parola tradotta, Brescia 1973, 13 7-J 56. 1


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Antonino Minissa/e

colmata di grazia". Questa è stata una soluzione che ha mediato fra la tradizione cattolica e l'istanza degli evangelici; infatti il verbo passivo è reso con l'equivalente attivo, esplicitando con l'aggiunta del pronome il soggetto agente che è Dio". Solo tre anni dopo, nel 1988, paiie dalla CE! il progetto di una revisione della sua Bibbia, che doveva rappresentare la terza edizione. Nel 1997 esce il volume provvisorio del NT'", in attesa delle osservazioni che sarebbero state recepite nell'edizione definitiva, che deve contenere l'Antico e il Nuovo Testamento. Perché si prepara questa nuova edizione? Per una prima risposta che rimane approssimativa, possiamo contentarci di citare qualche indicazione che veniva fornita nella lettera del 15 ottobre 1988, inviata al gruppo dei revisori: «La Bibbia CE! è destinata essenzialmente all'uso liturgico: proclamazione e canto. li suo linguaggio dovrà dunque essere quello di un testo liturgico, indirizzato a persone adulte, di cultura storico-letteraria medio-bassa, che usano frequentare la chiesa. Fare in modo che il testo biblico risulti comprensibile da sé. Evitare espressioni che non appaiiengono alla lingua italiana. Tener presente, infine, l'utilizzazione catechistica. A livello lessicale sono da evitare termini elevati e difficili o troppo bassi. Si abbia cura particolare nella traduzione di termini portanti come 'alleanza', 'terra', 'predicare'. A livello di struttura sintattica, periodi lunghi e complessi sono da spezzare in frasi brevi e più semplici. Le scelte già operate dalla Bibbia CE! allo scopo di maggiore scioltezza, incisività, chiarezza vanno in via di 1nassi1na conservate» 55 . In questa nostra rassegna storica siam partititi da Girolamo e dal XIII sec della storia d'Italia, quando si avviava l'affermazione del toscano come lingua nazionale. Poi abbiamo potuto ricordare una traduzione per ogni secolo, a partire dall'invenzione della stampa: Malerbi (s. XV), Brucioli (sec XVI), Diodati (sec XVII), Martini (sec XVlll), Ugdulena (Sec XIX), e infine la Bibbia CEJ, che fa spicco tra le tante versioni del XX secolo. Se vogliamo ora raccogliere in sintesi i criteri 1netodologici via via en1ersi, possia1no dire che nella traduzione si pone fondamentalmente il problema del rapporto che si stabilisce tra due poli, da un lato il testo di partenza, e dall'altro il testo d'arrivo. Questi due poli non sono per nulla due realtà fisse, perché può migliorare, da un lato, la comprensione del testo originale e, dall'altro, si evolve la lingua nazionale nella quale si vuol tradmTc l'antico testo. Di fatto jJ Cfr C. BuzzETTI, Traducendo KEXap1rmµiv17, in Testùnoniu111 Christi: Scritti in onore di Jacques Dupont, Brescia l 985, I [ 1-116. 5 ~ La Sacra Bibbia. Nuovo Testa111e11to. Conferenza Episcopale Italiana, Ro111a 1997. 55 La lettera porta la fir111a del p. Giuseppe Danieli, segretario della con11nissione dei

revisori.


Versioni italiane della Bibbia

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capita che si oscilla sempre fra la traduzione letterale, che privilegia il testo di partenza, ed una traduzione più o meno libera che tiene conto delle esigenze non solo lessicali, ma anche stilistiche del testo d'mTivo. Per quanto riguarda la Bibbia della CE!, è giusto che una traduzione ufficiale tenga una via di mezzo, soprattutto quando non porta la firma di un solo traduttore, ma è frutto di un lavoro collegiale. C'onclusione

Possiamo concludere a questo punto con una riflessione. Tutto questo lavoro inintenotto di traduzioni della Bibbia, non rimane lettera morta nella caiia, ma si prolunga e si vivifica nella lettura personale e nella proclamazione liturgica della Parola, che rinnova incessantemente il suo appello e apre nuovi orizzonti di vita. La Parola di Dio si fa insieme di parole che entrano in circolazione tra le parole umane, senza che essa perda la sua singolarità e la sua forza, che attrae e trasforma il cuore dell'uomo. TI processo della traduzione continua nell'evento dell'ascolto di fede. Ma in questo evento di fede che fonda la vita della Chiesa è coinvolto pure il traduttore, poiché anche lui prima ascolta e poi riesprime e ricrea il sacro lesto nella lingua del suo tempo e della sua gente. Egli cerca di trasmettere, cioè di tradurre, le vibrazioni e gli echi grandiosi che la parola letta, studiata e meditata, suscitano nella sua mente e nel suo animo. Perciò, anche quello del traduttore è un ministero ecclesiale, che richiede di coltivare senza sosta, con cura e con amore, lo studio dell'ebraico e del greco, restando sempre 111 "piena immersione" nel mondo e nell'orizzonte della Bibbia.



Synaxis XIX/! (2001) 25- 77

"DOVRÀ PATIRE MOLTE COSE" UN POSSIBILE SVILIJPPO DALLA PROFESSIONE DI FEDE ALLA NARRAZIONE DELLA P;\SSIONE

ATTILIO CiANCiElvll'

Parte seconda: ALTRE PREDIZIONI ED ESPRESSIONI ANALOGHE NEL NT** Oltre le tre predizioni dc11a passione sopra considerate, presenti in tutti i tre vangeli sinottici che abbia1110 definito classiche e che scandiscono il can1111ino di Cìcsù verso Gerusale111111e, trovirnno negli stessi vangeli e anche altrove nel NT altre espressioni riconducibili a quelle predizioni. Nei vangeli queste altre espressioni, pronunziate da Gesù, costituiscono anch'esse delle

ulteriori predizioni. Possianìo distinguere queste altre espressioni in due categorie in base ai due nuclei originali sopra indicati. La pri1na categoria gravita attorno al verbo Jr6axrv, che caratterizza la prin1a predizione; la seconda categoria invece gravita attorno al verbo nrxprxi5i8oa8rxt che caratterizza la seconda e terza predizione.

1. Le es11ressioni con il verbo n<XaxOJ

Con il verbo n6axlù possia1no individuare specifican1ente nove testi, di cui sei sono contenuti nei vangeli sinottici' e tre nel libro degli Atti degli Apostoli 2 . Questi testi si classificano ineglio non in base agli Scritti in cui essi sono contenuti, ma in base alla specifica prospettiva di ciascuno, rispettivamente prepasqualc o postpasquale. I testi che sì collocano in prospettiva prepasquale e che essi stessi costituiscono ulteriori predizioni specificamente sono: Ml 17, 12; Mc 9, 12-

* ()rdinario di

Esegesi biblica nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. **La prin1a parte dell'articolo si trova in S"'ynaxis 18 (2000) 7-50. 1 Cfr Mt 17, 12; lvlc 9, 12-13; Le 17,24-25; 22,15; 24,26.46. 2 Cfr At 1,3; 3,18; 17,3.


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Attilio Gangel1'1i

13; Le 17,24-25; 22,15. Quelli che si collocauo mvece in prospettiva postpasquale e che offrono una rilettura degli eventi già accaduti specificamente sono: Le 24,26.46; At 1,3; 3, 18; 17, 12.

I. I. I testi in prospettiva prepasquale (Mt 17, 12; Mc 9, 12-13; Le 17, 25) Ci riferiamo specificamente a tre testi contenuti nella nmTazione evangelica che precede la narrazione della passione e gli eventi post pasquali e caratterizzati ancora dal verbo imeelv. Essi sono posti in bocca a Gesù e perciò possono essere considerati come ulteriori predizioni della passione oltre le tre classiche già considerate. Notiamo anzitutto il diverso contesto dei testi indicati. Quelli di Mt 17,12 e di Mc 9,12-13 si leggono in un contesto analogo 3 : quello che segue l'episodio della trasfigurazione. Mentre scendevano dal monte, i discepoli interrogarono Gesù circa la venuta di Elia; Gesù dichiarò che Elia era già venuto e avevano fatto di lui quello che avevano voluto; la menzione della sorte del precursore provoca un annunzio della passione del figlio dell'uomo 4 . Il testo di Le 17,25 si legge invece nel contesto in cui è annunziata la manifestazione escatologica del figlio dell 'uomo 5 ; nel v 24 Gesù ne paragona lo splendore nel suo giorno alla folgore; nel v 25 però egli precisa che prima (n:pmrov) il figlio dell'uomo deve patire. 1.1.1. Le 17,25

Cominciando la nostra analisi da quest'ultimo testo lucano, in Le 17,25 Gesù annunzia che prima deve (n:pmrov) lui (mlrov: cioè il figlio dell'uomo) molte cose (n:oÀJ.a) patire (n:aeelv) ed essere rifiutato (àn:oo01<1µaaei)vm) da questa generazioue (àm\ ri)ç yeveaç ravrryç). Prescindendo dall'assenza della menzione della resurrezione, probabilmente non idonea al contesto, il testo di Le 17,25 si presenta abbastanza vicino alla prima predizione della passione. Leggiamo infatti lo stesso verbo presente

:ì Secondo H.E. TOor, Der !vfenschensohn in der S..vnoptischen Oherlie.ferung, cit., 157, è da presupporre che Mc 9,12b usò una predizione già fonnata sul figlio de!l'uo1110. 4 Si può notare una differenza tra Matteo e Marco; in Matteo l'annunzio della passione del figlio dell'uon10 segue la menzione della sorte del precursore, in Marco invece la precede. 5 Luca, dopo !'episodio della trasfigurazione (Le 9,28-36), non introduce il problen1a di Elia.


Dovrà patire 1110/te cose

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&Z, un analogo riferimento al figlio dell'uomo 6 , lo stesso oggetto rcoìlìla, lo stesso verbo rca8Elv, lo stesso verbo arcoooKLµauei)vaz e la stessa particella arco. La differenza fondamentale rispetto alla prima predizione sta nel fatto che dopo la particella arco non sono menzionati i giudei distinti in varie categorie, n1a, in n1aniera generica, "questa generazione". Secondo questo testo i patimenti del figlio dell'uomo proverranno non specificamente dalle varie categorie dei giudei ma genericamente "da questa generazione (arco ri)ç )'EVEiXç TctVTl)ç)". Dato il contesto in cui Gesù si proietta negli eventi escatologici, la distinzione tra presente e futuro è opportuna: nel presente, cioè in questa generazione, si verificano i patimenti del figlio dell'uomo; nel futuro si verificherà la sua manifestazione. In questo contesto all'evangelista interessa sottolineare non che 1 patimenti del figlio dell'uomo provengano specificamente dai giudei ma che si verificano in questa generazione e da parte di essa. Riteniamo perciò che nel formulare le parole di Gesù in 17,25 Luca riprende lo schema e gli elementi della prima predizione della passione, omettendo ovviamente la menzione della resuffezione, sostituita dal tema della manifestazione escatologica. ln questa ripresa egli sostituisce la menzione delle varie categorie dei giudei con la menzione più opportuna e più adatta al contesto di "questa generazione", alla quale attribuisce la provenienza dei patimenti del figlio dell'uomo. 1.1.2. Mt 17,12; Mc 9,12-13 Quanto poi ai due testi di Mt 17,12 e di Mc 9,12-13, essi coincidono in tre aspetti, nel contesto in cui essi sono inseriti, nell'uso del verbo rcaaxm, nella menzione del figlio dell'uomo. Emergono pure tra i due testi delle differenze: oltre la sua diversa formulazione', anzitutto in Mt 17,12 il verbo rcauxm è usato in maniera assoluta, senza cioè alcun oggetto, in Mc 9,12 invece ha l'oggetto preciso rcoìlìla, quello stesso che si legge nella prima predizione; inoltre in Mc 9, 12 il verbo rcaen è seguito in maniera coordinata

6 Il prono1ne aVrOv si riferisce appunto al figlio dell'uon10 appena pri1na nel v 24 1nenzionato esplicitan1entc. 7 In Matteo è usato all'infinito presente (n6:crx.s1v) preceduto dal verbo µÉÀÀE1; in Marco è usato al congiuntivo aoristo (:n:cXen) introdolto dalla particella f'va.


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Attilio Gangerni

dal verbo Èl;ov&v17ez) che richiama il verbo an:o8oJCTµo:aei'jvar della prima predizione, in Mt 17,12 invece non segue alcun verbo; infine in Mt 17,12 segue un complemento introdotto dalla particella vn:6 (vn:(ico:vrwv) che richiama la costruzione con an:o della prima predizione, in Mc 9, 12 invece non segue alcun co1nplen1ento. L'espressione di Marco risente di un influsso della formulazione della prima predizione della passione; come nella prima predizione infatti troviamo il verbo m:Xaxw all'aoristo (n:a8!1) legato all'oggetto n:oilila, inoltre il verbo n:ae17 è unito in modo coordinalo ad un altro verbo che però 8 non è il verbo Òmo801CTµo:a8Pjvar ma il verbo i!l;ov&v1)8tf Quest'ultimo verbo significa ritenere un nulla, clisprezzare, svilire. Esso può essere giunto a Marco per un influsso lucano; infatti nel vangelo di Luca esso é usato in Le 23,11 per descrivere l'azione di Erode al quale Pilato aveva inviato Gesù, inoltre esso si legge nel contesto della citazione applicata del Sai 118 (117), 22 in At 4, l l 9 In questa citazione Luca sostituisce il verbo an:o801nµaçw 10 con il verbo E:çov8svÉw . I~' espressione di Marco perciò pare influenzata sia dalla prin1a predizione della passione sia anche da una certa tradizione riconducibile a Luca. Diverso invece è il caso dcl lesto di Matteo che in Ml 17,12 presenta una espressione più breve rispetto a quella di Marco. Con Marco Matteo 8

li verbo iSovOEVÉ(ù, o più precisainente Eçuv8r:v(o;, si legge dodici volte nel N r. Esso è un verbo più propria1nenle paolino: sì legge inDl!ti otto volte in Paolo (Rn1 14,3.10; !Cor 1,26; 6,4; 16,l I, 2Cor 10,10; Cì-<11 4,14; lTs 5,20). Le altre quattro volte si lrov<1 nei vangeli sinollici e negli At!i (ìvlc 9,12; Le 18,9; 23,11; Al 4,J 1). Secondo R. PESCH, Die Passion des 1'fensche11sohnes. E·ine St11die 211 den 1\rfenschensohnsM'Orfen der vonnarkinischen F'assions (;eschichte, ciL., 174, il verbo ÈSov8EvÉo> (che traduce,-,~~ oppure Dt{t~), ritnanda ancora attraverso i Salini 22,6.25; 69,23: 89,39 (Lxx), al giusto sofJ'ercnte; non si può però escludere un richian10 a ls 53,5. 9 L'applicazione è duplice, sia ai giudei ai quali Pietro si rivolge fin dai vv 9-1 O, sia a Cristo. Nell'applicazione ai giudei Pie1ro passa dall'espressione Dv àTCEEoKftuXatxv oi oÌKo8oµof5vrEç del Salino all'espressione O i:çovBEv178Eiç Ùcp'Vµc/5v; nell'applicazione a Cristo introduce l'articolo davanti al tenni ne :l{Boç e n1uta il verbo Èp?vij817 nell'espressione )'FVCiµEvoç. 10 Non è Dici le stabilire cosa abbicl suggerito a Luca tale inutazione. Nei Lxx in I San1 8, 7 Dio dice a Smnuele che il popolo, chiedendo un re, non ha disprezzalo il profe!a 1na ha disprezzato lui, Dio (鵃 içov8cvWKao-1v). Inoltre pure altrove si dice che il popolo ha disprezzato Dio o la sua parola; cfr JSan1 10,19 (iSov8Evr]KCXTé' rOv 8E0v); in lSain 12,10 il ri1nprovero di avere di.!>prezzato il Signore è rivolto a Davide che si è preso in 111oglie la n1oglie di Uria l'Ittita. Ma forse sarebbe più logico pensare a ls 53,3 secondo le versioni di Aquila, Sin11naco e Teodozione che leggono il verbo éSov8EvÉw (içov8EV(ùµÉvoç).

o


[)01 1rcì }Jatire 1110//e cose

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concorda nella menzione del figlio dell'uomo e nell'uso del verbo mfoxw. Dal secondo evangelista Matteo però discorda, come abbiamo già notato, sia nel fatto che introduce il verbo pÉAAE! 11 , sia anche nell'uso assoluto dcl verbo mxaxw. Sorprende verò l'espressione un' avrai!; essa contiene uu certo richiamo alla prima predizione, dove però è usata la particella àn6. Questa diversità di particelle suggerisce che tutta l'espressione vn'avwv non provenga da un influsso della prima predizione della passione ma dalla riflessione stessa dell'evangelista 12 . li testo di Mt 17, 12 tuttavia è importante perché, analoga111entc ai testi prin1a considerati, testi1nonia ancora un uso , I' assoluto del verbo naaxw '. 1.2. I lesti in prospettiva postpasquale (Le 24,26.46; At 1,3; 3,18; 17,12) In questi testi, co111c abbian10 già notato, in atnbito postpasquale sono evocati, in 1naniera più o 1ncno parziale, gli eventi della passione. 1.2.1. Le 24,26.46 11 primo testo è Le 24,26, nel contesto dell'episodio di due discepoli che, dopo gli eventi della passione, tornano nel loro villaggio ad Emmaus. Dopo averli definiti lardi e duri di cuore nel credere a tutto ciò che dissero i profeti, in forn1a di interrogativa retorica negativa Gesù dichiara che doveva (i'!&z) patire (naBETv) il Cristo ( rov Xpwrov) ed entrare nella sua gloria 14 (EÌCYEÀBETv EÌç ri)v ooi;av avroil) . ln questo testo troviamo quattro elementi già individuati nella prima predizione della passione 15 : la necessità della passione stessa espressa con il

11

Abbia1110 qui una certa son1iglianza con la seconda predizione. Si può notare che una espressione con ùnO (1Jq:i'Vp(VV) si legge nella citazione adattata ciel Sal 118 {I !7), 22 in At 4,l l. Ma l'c!c1nento è troppo tenue e vago per stabilire 12

una relazione. 13

Sia nell'espressione di ML 17,12 sia in quella di lvfc 9JJ non è direllan1cntc 1ncnzionata !a resurrezione. Essa però è n1enzionata nel contesto precedente dove Cfcsù co1nanda cli non narrare a nessuno la visione finché il figlio dell'uon10 non sia risorto da 1norle. Cfr Mt 17,9: ÈI< vEKpiàv Èycp8Ff; Mc 9,9: ÈK vt:Kpc'i5v ò:vo:arf7. 14 ()sserva E. K1.0STER!vlt\NN, Das L11ka.1·e1'a11gefit1111, cil., 237, che l'infinito Ei'O'EÀ8Elv ha praticaincntc valore finale. 15 Secondo Vi/. CìRUNDMANN, /Jns Evange/i111n nach L11kas, cit., 452, la [orn1ulazione

di Le 24,46 ha il carattere di una confessione.


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Attiho Gangen1;

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verbo i5El , il verbo n:a8E1v ma con la fondamentale differenza che manca l'oggetto n:oillla, la menzione di Gesù indicato non più con il titolo ro viov av8pwn:ov ma con il titolo TOV Xpwr6v, il superamento della passione indicato non più come resurrezione il terzo giorno ma come ingresso nella gloria. Al nostro scopo l'elemento peculiare che maggiormente interessa è l'uso del verbo n:a8E1v ma stavolta è senza l'oggetto n:o,l,la 17: si afferma così non il fatto di patire molte cose ma il fatto stesso di patire 18 . Si può osservare che è omessa anche l'esplicita menz10ne della morte: evidentemente essa è contenuta nel verbo n:a8ELV. Nello stesso capitolo 24, nel contesto cioè della sua appanz1one ai discepoli (vv 44-45), Gesù evoca loro le Scritture 19 ; dichiara che (ori) cosi è stato scritto (ovrwç yiypan:rm) che patisse (n:a8E1v) il Cristo (rov Xp1ar6v) e risorgesse da morte il terzo giorno (avaarfjvm ix va:pwv rfì TPlrlJ 1)µÉpçx). Questo secondo testo discorda dal precedente in due elementi: anzitutto nel riferimento immediato alle Scritture e nel fatto che non è espressa la necessità con il verbo /!&1 20 ; inoltre nel fatto che stavolta è menzionata direttamente la resurrezione il terzo giorno. Concorda però in tre elementi: anzitutto nel fatto che, come nel precedente, non è menzionato il

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Anche in Le 24,26 si pone tra gli interpreti il proble1na sul fondan1ento di tale necessità. Secondo E.E. ELLIS, The Gospel o_f"Luke, cii., 277, la necessità degli evenli risulta dal sovrano disegno di Dio e dalla inviolabilità della sua parola attraverso gli eventi; per J.A. FJTZMEYER, The Go.'>pel according tu Luke, II, cit., 1566, la necessità richian1a il rnotivo lucano della storìa della salvezza; al piano divino rin1anda pure L.T. JOtlNSON, The Gospel (!I L11kc, cit., 395, osserva però che il targuin di Is 53, benché interpreti in senso n1essianico, non stabilisce alcuna connessione con iI Messia so1Terente, si tratta perciò di una rilettura alla luce dell'esperienza di (Jesù 1norto e risorto; secondo M.J. LAGf{ANGE, /:,"vangile se/on Saint L11c, ciL, 606, fa allusione al decreto divino (con1e i! verbo yÉypanrcn di 24,46, cfr ibid, 615); così anche A. PLUMMER, A C'ritical and E'xegetical C'o1111ne11ta1y on the Gospel according lo S. Luke. cit., 555. 17 Nota H. Sc!!CIRMANN, Das Lukase1Y111geliu111, I, cit., 537 nota 66, che la fonnula senza noÀ.Àtf ha un 'altra origine più antica kerign1atica 18 L'allusione dcl verbo è ancora ad una niorte sofferente; così W. GRUNDMANN, Das Evangeli111n nach l,ukas, cit., 452. 19 Secondo C.A. EVANS, Lula!, Peabody i 990, 358-359, le Scritture a cui allude Gesl1 e che Luca ha in 1nente sono ls 53 (cfr At 8,26-39); Sal 16 (cfr Al 2,27); anche ()s 6,2. 20 Si può tuttavia osservare che l'assenza del verbo {OEl è attestata soltanto da alcuni 75 codici, quali i! P i codd ~ B C* D L; 1nolti altri codici e versioni, tra cui il cod A, C corretto, W G 'P f 1.u, ne attestano invece la presenza. Questo proble1na testuale però nel presente lavoro interessa 1neno; si può tuttavia ritenere che il testo non esige la presenza del verbo EOc1 e che la sua presenza in altri codici sia una arn1onizzazione con il v 26. Nel v 46 così Luca avrebbe soslituito questo verbo con il diretto riferin1ento alla Scrittura.


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figlio de// 'uomo, ma il Cristo; inoltre nel fatto che anche stavolta il verbo n:a8E1v non è unito all'oggetto n:oA,A,a ma è usato in modo assoluto e anche nel fatto che anche stavolta è omessa la menzione della morte.

1.2.2. At 1,3; 3,18; 17,12 In At 1,3 ancora Luca narra che Gesù si presentò ai discepoli vivente

( (mvra) dopo avere patito ( ro n:a8EtV). Troviamo ancora in questo testo il verbo n:a8E1V senza l'oggetto n:OAAa. Dopo il verbo al participio (illvra il verbo n:a8EtV necessariamente include anche la morte. In At 3,18 l'adempimento da parte di Dio di quanto egli per mezzo di tutti i profeti aveva preannunziato è limitato soltanto al fatto dei patimenti del Cristo (n:a8E1v rbv XpwTov avroV). Nel contesto Luca tende a scusare i gindei del fatto che essi hanno rinnegato il Santo preferendogli un omicida e lo hanno ucciso: essi hanno agito per ignoranza e in questo modo Dio ha adempiuto quanto egli stesso aveva preannunziato. Essi hanno ucciso l'autore della vita ma Dio lo ha resuscitato da morte (v 15). Nel verbo n:a8E1v usato in modo assoluto, senza cioè alcun oggetto, facilmente può essere inclusa tutta la rievocazione della passione fatta nei vv 13-15 che va dalla consegna e dal rifiuto di Gesù da parte dei giudei davanti a Pilato, fino al fatto che essi lo hanno ucciso. Infine in At 17 ,3 Luca riferisce il tipo di annunzio proposto da Paolo nella sinagoga dei giudei di Tessalonica. Esso riguarda il fatto che il Cristo ( rov Xpwrov) doveva (f&z) patire (n:a8E1v) e risorgere da morte (àva<Jrf)vm ÈK VEKpiiiv). Questo annunzio richiama sia le parole di Gesù ai due discepoli sulla via di Emmaus in Le 24,26, sia le parole ancora di Gesù a lutti i discepoli in 24,46. Le parole di Gesù in Le 24,26 sono richiamate per l'espressione rov XplCJTOV EOEl n:a8E1v"; le parole di Gesù in Le 24,46 sono richiamate invece per l'espressione àva<Jrf)vaz El< v1xpiii1.l2.

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Si può notare nei due testi anche un ordine inverso degli elen1enti: At 17,3: Le 24,26: ròv XpzcrrOv E8e1 ;rra8t:Tv i'&z raxeeTv ròv Xp1<JrOv 22 In Al 17,3 è on1essa !'indicazione cronologìca rfj rpfrn f,µÉpç..


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l .3. Confronto con la prima predizione Soprat!utto i tre testi di Le 24,26; 24,46; At 17,3 presentano delle analogie con la prima predizione della passione. Troviamo anzitutto espressa la stessa necessità con il verbo &I all'irnpertetto, omessa tuttavia in Le 24,46, dove l'evangelista introduce direttamente la menzione della Scrittura: possiamo anche pensare che Luca abbia sostituito il verbo &I con l'espressione OVWX; yÉyp!XJTTal (così è sfato scrilto), dichiarando così che la necessità della passione di Gesù scaturiva dal fatto che era prevista e quasi decretata dalle Scritture stesse. Inoltre troviamo il termine rov Xpwr6v che richian1a l'espressione rOv viOv roV CxvepdJJCov. Ancora leggian10 lo stesso verbo n:a8Elv privo però dell'oggetto JTOÀÌllr'. Jnfine abbiamo la menzione della resurrezione, sostituita però in le 24,26 dalla menzione nell'ingresso nella gloria. Non sorprendono alcune differenze sopra indicate. Non sorprende anzitutto in Le 24,26 la sostituzione della menzione della resurrezione con quella dell'ingresso nella gloria: essa può essere facilmente attribuita alla riflessione lucana; non sorprende nen1111eno 1'0111issione del verbo bel in Le 24,46: esso, come abbiamo già osservato, può essere stato sostituito dalla menzione delle Scritture; l'omissione dell'espressione rfj rpfr17 1}pépçx in At 17,3 può essere giustificata dal fatto che in quel contesto l'autore non la ritenne necessaria; né infine sorprende il passaggio dall'espressione rov viov àvepwJTOV al termine rov Xpwrov, facilmente comprensibile in contesto postpasquale. Sorprende invece il 1nodo particolare co1ne è utilizzato il verbo JT!X8Elv: esso è usato in maniera assoluta, senza l'oggetto JToìlìla che caratterizza invece la pri1na predizione e senza il verbo àno1<rcfvoJ che caratterizza ancora Ia pri1na predizione deJla passione. Sin1ilc uso assoluto del verbo JT!X8Elv si trova anche negli altri due testi sopra citati di At 1,3 e 3, 18. Così, mentre nella prima predizione della passione nei tre vangeli sinottici leggiamo !'espressione più lunga e articolata JTOÀìla JT!X8Elv [. .. / l((Xl Cc7rOKT!X\!8Fjvm (patire molte cose f. ..} ed essere ucciso), in Le

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2·' f. Sc110Tz, lJer leidende C'hristus. [Jie a11gefòchtc11e Ce111ci11de und das C:lll'is111ske1:i-g11ut der !ukanischen Schrifìen, Stutlgsrt 1969, 28ss, se1nbra li1nilare il verbo nO:crxco, ahneno in Luca, solo al la in orte, cosi anche W. MICHAELIS, ;r6uxlù, cit., col l 025.


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24,26.46; At l ,3; 3,18; l 7,3 leggiamo soltanto il verbo n:a8{1v4 • Un confronto tra l'espressione n:oÀÀa n:a8E1v [ .. ] K:ai an:ox:ravefjvaz della prima predizione e il semplice verbo n:a8Elv dei testi sopra citati rivela una diversa prospettiva. Nei testi in cui è usato in modo assoluto il verbo n:a8E1v, per il fatto che non è seguito dal termine n:oÀÀa e dal verbo an:onEivw, si rivela onnicomprensivo, riferendosi così a tutti gli eventi della passione inclusa la mmte violenta; inoltre, per il fatto che è privo di qualsiasi oggetto, esso sottolinea il fatto stesso della passione. Nella prima predizione invece, dato l'accostamento al verbo an:onEivw, il verbo n:a8E1v è riferito solo agli avvenimenti che precedettero la morte; inoltre, legato all'oggetto n:oÀÀa, esso non sottolinea più il fatto stesso della passione, ma la quantità dei patimenti che precedettero la morte, indicando così che essi furono abbondanti e numerosi. In questa prospettiva la fonnula della prima predizione n:oÀÀa n:a8ElV { .. } KCTÌ an:OKTCTV8fjvm si rivela come una riflessione posteriore ed una esplicitazione rispetto al semplice verbo assoluto ira8E1v. I diversi testi sopra citati rivelano infatti che il verbo ira8E1v fu usato anche senza alcun legame alla menzione esplicita della morte; in questo modo esso includeva tutto, compresa pure la morte. Poi in seguito, quando fu accostato al verbo àirox:rdvw, esso fu delimitato e limitato solo ad esprimere tutti gli avvenimenti che precedettero la morte. In questa nuova prospettiva, data la menzione esplicita della morte, non serviva più sottolineare il fatto stesso della passione, ma serviva bene indicare che la morte di Gesù fu preceduta da una lunga e laboriosa passione. Si unì così al verbo ira8t:1v l'oggetto iroÀÀa che evidenziava bene la grande quantità dei patimenti subiti da Gesù prima di essere ucciso.

2. le espressioni con il verbo irapaì5{15wµz Le espressioni che caratterizzano la passione di Gesù con il verbo irapai5fi5wµ1, oltre la seconda e la terza predizione della passione e oltre i testi in cui questo verbo si riferisce ad una consegna specifica, quale quella di Giuda ai giudei 25 o dei giudei a Pilato 26 , sono meno numerose rispetto a 24

Sin1ile uso assoluto del verbo 1uXo-xmè attestato anche in altri testi del NT: Eb 2,18; 5,8;9,26; 13,12; 1Pt2,21.23;3,18;4,l. 15 Cfr Mt 26,15.16.48; Mc 14,10.11.44; Le 22,4.6; Gv 18,5.36.


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quelli con il verbo iracrxm. Nel contesto delle nanazioni prima della passione possiamo citare Mt 26,2; Mt 26,45; Mc 14,41; nel contesto dei racconti dopo la resurrezione possiamo citare Le 24,7; 24,20; At 3, I 3n 2.1. l testi in prospettiva prepasquale (Mt 26,2; Mt 26,45; Mc 14,41) I testi con il verbo ircxpcxoiomµ1 in prospettiva prepasquale c1 riportano più o meno direttamente nell'imminenza della passione.

2.1.1. Mt 26,2

li testo di Mt 26,2 è molto breve"- Ai discepoli Gesù annunzia che da li a due giorni sarà pasqua e il figlio dell'uomo è consegnato (ircxpcxoioorm) per essere crocifisso ( ro crrcxvpwefjvm). Troviamo qm il verbo ircxpcxoiowµ1 usato in maniera assoluta: non si indica infatti né da chi il figlio dell'uomo è consegnato né a chi. Soltanto é espresso lo scopo della consegna, o anche l\11ti1na conseguenza a cui l'azione di consegnare è finalizzata (E:Ìç), essere cioè crocifisso (ro crrcxvpwefjvmf'. L'azione che il figlio dell'uomo subisce di essere consegnato è finalizzata perciò al suo essere crocifisso, oppure anche in1plicherà una serie di azioni di cui l'ultin1a e il culn1ine sarà quella di essere crocifisso. All'annunzio della consegna non segue quello della resurrezione come nelle due predizioni della passione. Ciò farebbe anche pensare che all'origine, o in bocca a Gesù, l'annunzio della passione fosse staccato da quello della resurrezione 30 . Tuttavia il testo pare insinuare pure la n1enzione

"' Cfr Ml 27,2.18; Mc 15, 1.1 O; Le 20,20; Gv 18,30.35; Al 3, 13. ~ 7 Spiega !.!VI. MARSl-JALL, The Gospel l!f' Luke, cit., 393~394 che !'espressione Eiç

XElprxç non è greca e rappresenta l'arainaico lfrlé. Pure i! tennine vago àv8p<!J1ffùV può richimnare un aran1aico b 'fné 'nasini che stabilisce quasi un gioco di parole con l'espressione iniziale har ''nasha. 2 R H. E. T('JD'r, Der 1\Ie11sclte11soh11 in der Sy11oplische11 l)herliefèr1111g, cit., 139, ritiene possibile supporre che in Mt 26,2 abbian10 una formulazione di .ivlalleo . .?'!Si possono richiatnare espressioni analoghe con il verbo HO:po:8[/5(ùtfl in 2Cr 32, l l (Eiç 86vo:rov); Is 34,2 (Eiç cnp0:yi7v); Ez 21,20 (<Yrp6}'lo: r)oprpo:[o:ç); soprattutto ne! Sa! 117(118),18 (r~V 8o:v6rrp) e in ls 53,12 (EÌç e6vo:rov). Contro T6dt che per il verbo no:prxO[OnJpl richia1na (Jer 33(24), 24, A. fEUJLLET, Les lrois grandes prophéties de la passion et de la Rés11rrectio11 des évangiles .1y1101)tiques, Il, cii., 47, si richian1a a Js 53,6.12. 30 Abbia1no a suo teinpo notato che anche nella seconda predizione di Luca !'annunzio della passione con il verbo no:po:8f8rvp1 non è seguilo dall'annunzio della resurrezione.


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della resurrezione; Gesù infatti, o l'evangelista per lui, legano in un rapporto 31 di successione e di consequenzialità , il fatto che fra due giorni è pasqua e la consegna in vista della crocifissione. Il fatto che fra due giorni è pasqua quasi esige che il figlio dell'uomo sia consegnato per essere crocifisso; si direbbe che in quella pasqua la consegna e la crocifissione di Gesù sono clementi essenziali come la vittima sacrificale richiesta per quella festa. In questa prospettiva la menzione dei due giorni che precedono la pasqua facilmente allude alla resurrezione il terzo giorno. 2.1.2. Mt 26,45 e Mc 14,41 I due testi di Mt 26,45 e Mc 14,41 sono paralleli. In entrambi gli evangelisti, nella sua terza venuta ai discepoli dopo avere pregato al Getsemani, Gesù dichiara che "è giunta l'ora e il figlio dell'uomo è dato in mano di peccatori". L'espressione napao{ooraz EÌç XE1pm; àµaprw?ciì5v è quasi identica nei due evangelisti; soltanto nel testo di Mc 14,41 è introdotto l'articolo davanti ai due termini xETpaç e àµaprwMì5v. In questo modo, soprattutto in relazione al termine àpaprw?Jì5v, Marco rimanda non all'indole delle persone nelle cui mani il figlio dell'uomo è dato, ma a specifiche persone che concretamente sono peccatori. J peccatori sono perciò tutte le persone nelle cui 111ani Gesù passerà fino alla crocifissione; subito dopo infatti in entrambi gli evangelisti segue la narrazione della venuta di Giuda e della folla con lui. ln questi due testi l'espressione Eiç XE!pm; àpaprw?ciì5v richiama l'espressione EÌç XE1paç rxv8pwnWV della seconda predizione della passione. li tenniue àvepwnwv è più vago e generico dcl termine àpaprw?cmv, che invece appare più determinato e più specifico nella sua indole. Possiamo perciò pensare che il termine àpaprw?cmv, nella formula di Mt 26,45 c Mc 14,41, riprenda e specifichi il termine àvepwnwv nella formula della seconda predizione della passione".

~ 1 Si può notare lo stretto !egan1e stabilito dalla particella Kai tra il verbo

verbo

y[VETO:I

e il

JTpaòiOora1.

~ Ne1n111eno questa espressione ha diretti paralleli nell'Ar; essa però può essere stata suggerita da alcuni testi dei Sah11i che parlano dell'ostilità dei peccatori. Cfr Sali 70(71),4: "Dio n1io, liberaini dalla 111a110 dei peccatori"; 81(82),4: "liberate i! debole[ ... ] dalla 111a110 de! peccatore salvatelo"; 96(97), 1O: "i giusti j ... J dalla 111a110 dci peccatori Ii libererà"; 139( l 40),5: "custodiscin1i, Signore, dalla n1a110 del peccatore"; inoltre altri testi ancora in cui il salinisla chiede di essere salvalo dalla 1na110 dei peccatori sono: Sali 35(36), 12; 36(37),40; 3


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2.2. I testi in prospettiva postpasquale (Le 24,7; 24,20; At 3,13) Pure in questi testi con il verbo no;po;o{owµ1, come quelli con il verbo nacrxw, sono evocati e in parte anche reinterpretati in ambito postpasquale gli eventi della passione. 2.2. 1. Le 24, 7 Il testo di Le 24,7 ci riporta nel contesto dell'esperienza pasquale di Gesù. Alle donne che erano andate al sepolcro si presentano due uomini in vesti splendenti: in forma interrogativa a loro rivolgono il rimprovero di cercare il vivente tra i morti, dichiarano poi che non è lì, cioè nel sepolcro, ma che è risorto (ryyÉp81)); evocano infine le parole che Gesù aveva detto a loro quando era in Galilea che il figlio dell'uomo (rov viov ixvepo5nov) deve (&i} essere consegnato (no:po:ooefjvo:z) nelle mani (eiç xETpm;) di uomini peccatori ( ixvepo5nwv lxµo:prw?i.wv), essere crocifisso ( crro:vpwefjvo:z) e resuscitare il terzo g10rno ( rfì rpfrZJ 1)µépçx ixvo:crrfj vo:z )n Il testo di Le 24,7 richiama sia l'espressione di Mt 26,45 e Mc 14,41, sia anche l'espressione della seconda predizione della passione. Quanto all'espressione di Mt 26,45 e Mc 14,41, l'espressione lucana concorda sia nell'uso del verbo no:po:o{owµ1, sia nella fonnula EÌç ràç xelpo:ç, sia nell'uso del termine lxµo:prw?i.wv; discorda invece nel fatto che introduce pure il tennine i'xvepo5nwv34 . Quanto alla seconda predizione della passione, essa è richiamata, soprat!utto nella versione di Matteo e Marco35 , da diversi elementi: il verbo no:po:oiowµ1, ]'espressione eiç xelpo:ç, il genitivo i'xvepo5nwv; inol!re la menzione della mmie e poi la menzione della resurrezione il terzo giorno.

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54(55),3; 57(58),11; 145(146),10. Ma ancora e1ncrge una inversione di prospettiva: Gesl1 è consegnato appunto in 1nano a quei peccatori da cui i! Sal111ista chiede di essere liberato. 33 M. BLACK, The "Son of'A1an" Pass;on Sayings in the Gospel Tradition. in ZNW 60 (1969) 1-8: 3, in relazione a Le 24, 7 critica TOdt che affenna l'esclusiva priorità n1arciana nelle predizioni, senza tener conto di Le 24,7. Black ritiene che Le 24,7 provenga da una fonte non 111arciana di ambiente arainaico. -'~ L'accostan1ento dei due tennini O:vepwnoç e lxµaprwÀ6ç appare nei Lxx assai raro. Cfr Sir 11,32: "I' 1101110 peccatore ( 5v8pwJ[oç ixµaprwA0ç) per sangue tende insidie"; un influsso di un si111ilc testo può essere possibile. 35 Luca nella seconda predizione, co1ne abbiamo già ripetuta1nente notato, non 1nenziona né la 1no1ie né la resurrezione.


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Emergono pure delle differenze: anzitutto nella seconda predizione è indicata, con il verbo µÉAÀ.El, l'imminenza della passione, non la necessità con il verbo &! come in Le 24, 7 e come nella prima predizione; inoltre la morte non è menzionata con il verbo generico e più comune àno1cceivw ma con quello specifico e meno frequente <navp6w, come nella terza predizione secondo Matteo, come in Mt 26,2 e come dopo in Le 24,20; infine all'espressione rfj rpirn f,µépçx è unito non il verbo Èyeipw come nella prima predizione secondo Matteo e Luca, come nella seconda predizione secondo Matteo e nella terza ancora secondo Matteo, ma il verbo àvfrrrryµi come nella terza predizione secondo Luca. Prescindendo dall'ultimo elemento, l'uso del verbo àvfrnryµi, che può essere attribuito alla facilità con cui talora i due verbi àvfoTT1µ1 ed Èydpw sono interscambiati, e prescindendo anche dal più specifico verbo m:avp6w che in un racconto postpasquale, in relazione agli eventi già accaduti, si adatta meglio del più generico àno1aeivw, l'elemento fondamentale che stabilisce una relazione con la seconda predizione è l'espressione napaooefjvaz eÌç xdpaç àvepo5nwv; la differenza fondamentale poi rispetto alla seconda predizione della passione è costituita dal termine àµaprwMi5v che caratterizza e precisa l'indole degli uomini nelle cui mani il figlio dell'uomo è consegnato. Questi uomini sono peccatori. L'uso del termine àvepo5nwv suggerisce per il testo di Le 24,7 una più diretta relazione alla seconda predizione della passione che non ai due testi di Mt 26,45 e Mc 14,41; è più facile infatti supporre che, avendo letto il termine àvepo5nwv, Luca volle specificarlo con il termine àµaprwAii5v, che non, avendo letto il termine àµaprw}.iiiv, ampliarlo con il termine più generico àvepo5n:wv che in assoluto non era necessario. In questo senso il testo di Le 24,7 rappresenta un progresso di riflessione rispetto alla seconda predizione della passione. Rimane però il problema se Luca introdusse il termine àµaprw?Jiiv riflettendo autonomamente su una formula analoga a quella della seconda predizione della passione o se lo aggiunse per influsso di una espressione analoga a quella di Mt 26,45 e Mc 14,41. 2.2.2. Le 24,20 Il testo di Le 24,20 riferisce le parole che i due discepoli, tornando ad Emmaus, dicono allo sconosciuto che si era unito a loro nel cammino. Essi


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riferiscono che lo (Gesù) diedero (rcapÉomK:aV avrov) i sacerdoti (oi OcPXlEp{zç) e i loro capi ( Ol apXOVTEç) ad una sentenza di morte ( EÌç K:pzµa eavawv) e lo crocifissero (Èoravpmaav avrov). Il testo di Le 24,20 è lontano dalla seconda predizione della passione alla quale più direttamente si riconduce il testo di 24,7. É possibile però stabilire un confronto tra il testo di Le 24,20 e quello precedente di Le 24,7. I due testi infatti presentano un movimento strutturale analogo; entrambi hanno il verbo 'rcapaoiomµz 36 ; entrambi hanno un complemento introdotto ' J7 • da czç ; entrambi hanno lo stesso verbo aravpom. Rispetto al testo di 24, 7 il testo di 24,20 esprime due progressi. Anzitutto esso specifica chi sono gli uomini peccatori nelle cui mani il Cristo doveva essere consegnato: questi sono i sacerdoti e i capi 38 • Certo costoro non esauriscono gli uomini peccatori 39 ma rientrano bene in quella categoria. Inoltre esso, mediante l'espressione EÌç l(p{µa eavarnv, dà un contenuto all'espressione generica e vaga Eiç XElpaç ixvepmrcmv ixµaprmJcwv di 24,7. Il progresso globale di 24,20 rispetto a 24,7 emerge bene: il Cristo fu dato in mano di uomini peccatori; questi concretamente sono i sacerdoti e i capi che lo votarono ad una sentenza di condanna e lo crocifissero. In questo senso anche i due usi del verbo rcapao{omµ1 presentano un progresso. Il primo uso, quello del v 7, esprime la consegna in mano ad uomini peccatori, concretamente ai giudei, senza precisare però chi è che consegna; il secondo uso invece, quello del v 20, espri1ne Pazione successiva dei giudei, i quali, dopo averlo ricevuto, lo votarono ad una sentenza capitale e lo uccisero. Possiamo allora concludere che, mentre il testo di 24, 7 riprende e I

36 In diversa forma però; in 24, 7 il verbo nrxpa0{8wµ1 è all'infinito aoristo passivo dipendente dal verbo OeT (OET napa808Pjva1), in 24,20 è invece all'aoristo attivo (napÉ8m1<av): in 24,7 si espri111e la necessità, in 20,20 invece si racconta il fatto accaduto; inoltre in 24,7 il verbo all'infinito aoristo passivo ri111ane vago ne! suo soggetto agente, in 24,20 i! verbo all'aoristo attivo ha un soggetto preciso oi àpx1EpeTç 1<ai of &pxovreç. 7 .> Nell'uso di questa particella notia1no tra i due testi una notevole differenLa. ln 24,7, con l'espressione xelpaç àvepWnwv àpaprmJ...iiJv in relazione a persone, essa indica il tern1ine, il destinatario: i! Cristo doveva essere consegnato alle inani di uonlini peccatori; con l'espressione Kpfµa Bavhrov, essa indica la finalizzazione e la destinazione: i giudei destinarono il Cristo ad una sentenza di niorte. JH Si può notare che in 24,20 gli of ixpx1epeTç KaÌ oi &pxovreç diventano il soggetto dei due verbi rrapa8i8<op1 e crravpOw fonnulati al passivo in 24,7. 39 In At 2,23 ne!l 'espressione Otà xe1pOç àv0µ<ov 1'allusione è ai Ro1nani.


Dovrà patire n10/te cose

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precisa, soprattutto mediante il termine aµaprwJ..ijjv, la seconda predizione della passione, il testo di 24,20 invece riprende, precisa e continua il testo di 24,7. Si può stabilire allora il seguente progresso tematico: gli uomini nelle cui mani il figlio dell'uomo è dato (seconda predizione), sono uomini peccatori (Le 24,7), questi concretamente sono i giudei i quali, avuto Gesù nelle loro mani, lo condannarono a morte (Le 24,20). 2.2.3. At 3,13-15 ll testo di At 3,13-15, al quale torneremo ancora più avanti e che registra un altro uso del verbo rcapaòiòwµ1, si presenta più lungo ed articolato nel suo sviluppo. Il verbo rcapaò{òwµ1, come in Le 24,20, ha un soggetto preciso, i giudei, chiamati stavolta uomini israeliti ( avòpEç 'Iapm7J..Xrm) ai quali Pietro si sta rivolgendo fin dal v 12. A chi i giudei hanno consegnato Gesù espressamente il testo non lo dice, ma è facilmente deducibile dal contesto: essi lo hanno consegnato a Pilato. Tuttavia l'assenza di qualsiasi complemento di tennine non è senza importanza: in questo modo il verbo rcapaò{òwµ1. assume un carattere assoluto. L'accento non poggia sul termine che riceve ma sul soggetto che compie l'azione. I giudei hanno dato Gesù; non importa però a chi, ma importa il fatto che essi lo hanno dato; essi lo hanno alienato e di lui si sono anche disfatti. Questa prospettiva è confennata dal duplice uso del verbo rypvrycmcrBE che determina nei vv 13-14 una divisione in due parti. I due usi del verbo apvÉoµm (rinnegare), che dividono in due patii i vv 13-14, sono legati a due azioni che descrivono in maniera concreta questo rinnega111ento. La pri1na azione è negativa ed è una azione di opposizione, contenuta nell'espressione Kara rcpocrwrcov: i giudei si opposero a Pilato (Kara rcpocrwrcov) quando questi giudicò (Kpivavwç iKdvov) di rimandare libero (arcoÀVElV) Ges(1. La seconda azione invece è positiva ed è una azione di esplicita richiesta (.ryrrycraaBE) che fosse graziato (xapwei)vm) un omicida (avòpa <povÉa). Queste due azioni richiamano la narrazione della passione dove si legge appunto (Le 23,26.18) che alla decisione di Pilato di rimandare libero Gesù ( arcoÀvaw) dopo averlo magari castigato (n:m&vaaç) (v 16), la moltitudine chiese di togliere via Gesù (aipE wvrov) e di dare a loro (i/µlv) libero (an:oÀvaov) Barabba (v 18). Nel v 15 infine è menzionata la morte violenta di Gesù con il verbo tradizionale an:ondvw. ll soggetto è lo stesso del precedente verbo


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Attilio Gangen1i

napEi5r.!n<:rxTE: ancora i giudei. Dopo avere compiuto l'azione negativa di alienare Gesù (napEi5m1<:aTE) rinnegandolo davanti a Pilato e chiedendo a posto suo la liberazione di nn omicida, i giudei compirono l'azione positiva di uccidere Gesù ( àne1<:rdvarE). 2.3. Rilettura sintetica dei testi con napai5{i5wµ1 Rileggendo sinteticamente i testi sopra indicati, tutti caratterizzati dal verbo napai5{i5wµ1, possiamo notare da Mt 26,2 ai vari testi lucani sia del terzo vangelo sia degli Atti degli Apostoli un progressivo approfondimento. Il testo di Mt 26,2 contiene soltanto l'espressione napai5{i5orm Eiç <navpwefjvm. Il verbo napai5{i5orm è molto generale senza alcuna precisazione delle persone che consegnano o di quelle a cui si consegna. <navpw8fjvm contiene l'ultimo scopo della consegna, L'espressione eiç includendo tutti i passaggi intermedi che hanno pennesso concretamente l'attuazione di tale scopo. Nell'espressione napai5{i5orm eiç cnavpwBfjvm può essere inclusa tutta la storia della passione che va dal tradimento di Giuda40 fino alla crocifissione di Gesù. Il testo di Le 24,7, unendo al verbo napai5{i5wµ1 l'espressione eiç XEZpaç àvepo5nwv àµaprw?co5v, segna un progresso rispetto al testo di Mt 26,2, dove il verbo è usato in maniera assoluta senza alcuna ulteriore determinazione. li progresso da Mt 26,2 a Le 24, 7 però non è diretto, ma passa attraverso la seconda predizione. Questa infatti, introducendo l'espressione eiç xezpaç àvepo5nwv dopo il verbo napai5ii5wµ1, determina già un progresso rispetto al testo di Mt 26,2. Le 24,7 però, introducendo poi il termine àµaprwMi5v, determina a sua volta un progresso rispetto alla seconda predizione. In quest'ultima il verbo napai5{i5wµ1 era legato solo all'espressione EÌç XE1paç àvepo5nwv; introducendo il termine àµaprw?cii5v, Le 24, 7 precisa, forse anche per influsso di una formula analoga a quella di Mt 26,45 e Mc 14,41, che gli uomini a cui Gesù è consegnato sono peccatori. Il testo di Le 24,20 stabilisce ancora un ulteriore progresso rispetto al testo precedente nel v 7. É omessa in questo testo la menzione della resurrezione; ciò è ben comprensibile, dal momento che queste parole sono

ro

ro

ro

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Il tradimento di Giuda infatti è indicato nei vangeli appunto con il verbo

n:apa!5i!5wµi. Cfr Mt 10,4; 26,21.23.24.25.46; 27,3.4; Mc 3, 19; 14,18.21.42; Le 22,21.22.48; Gv6,64.71; 12,4; 13,2.11.21; 18,2.


Dovrà patire 1110/te cose

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messe in bocca ai due discepoli che tornano ad Emmaus privi di speranza. Il progresso nel v 20 rispetto al v 7 è duplice: i due verbi napa8o8ijvoa e tn:avpm8ijvoa del v 7 ricevono anzitutto nel v 20 un soggetto esplicito, i sacerdoti e i capi; inoltre l'azione generica di essere dato in 1nano di uomini peccatori trova una precisa applicazione nel fatto che i giudei diedero un giudizio di condanna. Prescindendo dal testo di At 2,23 dove l'espressione xnpoç avoµmv (per mano di empi) sembra riecheggiare l'espressione EÌç XE1paç av8pmnmv aµaprmJcmv (nelle mani di uomini peccatori), il testo di At 3, 13b- l 5 determina poi un ulteriore progresso rispetto al precedente testo di Le 24,20. Il progresso è ancora duplice; anzitutto il verbo napa8i8mµz, usato in At 3,13b in maniera assoluta, non esprime più la destinazione ad una particolare sorte quale la sentenza capitale, ma semplicemente l'allontanamento e l'alienazione da sé; inoltre dalla menzione della condanna a morte evocata in Le 24,20, si passa in At 3, 13b agli avvenimenti del processo davanti a Pilato evocati dalla menzione della reazione alla decisione di liberare Gesù e dalla menzione della richiesta di liberare Barabba. In relazione ai testi caratterizzati dal verbo napa8i8mµz possiamo allora concludere che il testo _di Mt 26,2 trova il suo sviluppo nella seconda predizione della passione. Questa poi trova uno sviluppo progressivo nei testi lucani considerati di Le 24,7; 24,20; At 3,13b-15.

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Parte terza: LA PRIMITIVA PREDICAZIONE APOSTOLICA IN At 2,22-24; 5,30-32; 10,39-40; 13,28-30 Consideriamo infine un'ultima serie di testi privi sia del verbo nacrxm sia anche del verbo napa8i8mµz, ma che tuttavia possono costituire delle testimonianze di una riflessione nella comunità primitiva in vista della fonnazione della narrazione della passione. Ci riferiamo ad alcuni testi degli Atti degli Apostoli, specificamente ad At 2,22-24; 5,30-32; 10,39-40; 13,28-30.

!. At 2,22-24

Il testo di At 2,22-24, al quale abbiamo già accennato e che non è senza relazione, per l'espressione XElpoç avoµmv, al testo di Le 24,7 e,

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Attilio Gange1ni

indirettamente, anche alla seconda predizione della passione, nel contesto del discorso di Pietro caratterizza la passione di Gesù con la frase npomrl)l;avreç àvdilarE (avendo so.17Jeso avete ucciso). li soggetto di queste due azioni sono i giudei ai quali Pietro adesso si sta direttamente . 1gen do 41 . nvo li verbo npo(ml)yvvµ1 (npoanl)l;avreç) significa afjìggere, configgere (nryyvvµ1) a (npoç); il suo uso in At 2,22-24 è unico in tutta la Bibhia greca. Leggiamo invece nei Lxx il verbo semplice m)yvvµ1 42, i cui usi però difficilmente possono avere suggerito il riferimento del verbo npoanl)yvvµ1 all'evento di Gesù43 . Nel testo di At 2,22ss il riferimento non può essere se non alla crocifissione che i giudei hanno attuato per mano di en1pi. Il verbo npoanl)l;avrt:ç è un participio circostanziale del verbo diretto àvefilaTE. li verbo àvmpÉm è tipico lucano44 e in modo specifico proprio degli Atti degli Apostoli 45 . Esso indica l'azione di prendere (aipÉm) con un movimento verso l'alto (àva) ed esprime perciò l'azione di togliere via. Negli usi neotestan1entari quasi sen1pre assun1e il senso di uccidere 46 . Alla morte di Gesù, oltre che nel nostro testo, è riferito anche in At I 0,39 e 13,28. Nel testo di At 2,22-24 sono evocati diversi aspetti. Anzitutto è sottolineata la diretta responsabilità dei giudei nella morte di Gesù: essi sono il soggetto del verbo àve!ilare ed essi perciò hanno ucciso Gesù. Inoltre essi non hanno ucciso 1naterialn1ente Gesù, ma solo forn1almente 47 : si sono infatti serviti" dell'aiuto (òux xe1p6ç) di empi (àv6µmv); l'espressione ò1a 41 In questo annunzio petrina, secondo (i. STÀHLIN, DieAposte/geschichte, CJOttingen 1962, 46, la passione appare voluta sia da Dio sia anche dagli uo111ini. 42 Nel NT si legge solo in Eb 8,2 riferito alla tenda. 43 fl verbo se1nplice 1njyvvµ1 si legge nei Lxx circa 40 volte, spesso riferito all'azione di piantare una tenda (Gen 26,25; 31,25; 35,!6 !21]; Es 33,7; Nn1 24,6; Gs J8,l; (idc 4,11; 2San1 16,22; 1Cr 16, 1; 2Cr 1,4; Sap 11,2); in Is 42,5 è riferito alla creazione. 44 Su 24 usi coinplessivi nel NT ben 21 si leggono nel!' opera lucana. (ili altri tre usi sono in Ml 2, 16; 2Ts 2,8; Eb 10,9. 45 Nel libro degli Atti degli Apostoli si legge ben l 9 volte, 1nentre nei terzo vangelo solo due volte (Le 22,2; 23,32). 16 • In Eb 10,9 ha il senso di abrogare; in At 7,21, nella fonna inedia, significa prendersi via per sé e perciò, dal contesto, significa adottare. 47 E.F. HARRISON, lnterpreting Acts, Grand Rapids !975, 67, sottolinea il rifiuto di Gesù da parte dei giudei. 48 Nota E. Hìi.NCJ-JEN, Die Apostelgeschichte, GOttingen 1977 7, 182 nota 9, che i ro1nani sono scusati perché sono stati sollanto gli esecutori 1nateriali ( 8uX xe1p0ç); cfr anche


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XElpoç àv6µwv facilmente allude in maniera globale al processo davanti a Pilato". Infine il pmticipio aoristo npocrnT,çavrEç, che caratterizza la maniera con cui i giudei hanno ucciso Gesù, nel suo significato fondamentale di affiggere (m)yvvµ1) a (npoc;), non può evocare se non la morte in croce. li verbo crmvp6w ancora riferito ai giudei come soggetto, si legge infatti in At 4,10; ma in questo testo l'autore non offre altra ulteriore specificazione.

2. At 5,30-32 ln At 5,30, a proposito di Gesù che il Dio dei padri ha resuscitato da mmte, l'autore degli Atti pone in bocca a Pietro, riferendosi ancora ai giudei, la seguente espressione: "che ( OV) voi ( vµElç) avete ucciso (/51EXE1p{cracr0E) avendolo appeso (KpEµacravrEç) al legno (im' çv-iov)". Troviamo in questo testo un'altra terminologia. Il verbo OWXElpiçw nel suo significato originale 50 assume il senso di avere tra le 1nani, di agire jJer 1nezzo ciel/e inani, di trattare. In tutta la Bibbia greca esso si legge soltanto nel nostro testo di At 5,30 e in At 26,21; è usato perciò solo da Luca. Il fatto che esso si legge anche nella lingua greca classica 51 porta a concludere che esso non è stato coniato da Luca; il fatto però che esso è usato solo in questi testi lucani pone la domanda se la sua ripresa non sia stata suggerita proprio dall'espressione 81à XELpoç àv6µwv

J. JERVELL, Die Apostelgeschichte, GOttingen 1998, 145; (J. Sc1-JJLLE, Die Aposte!geschichte des Lukas, Berlin 1983, 112. 4 '! In genere gli interpreti idcntificnno gli uo1nini iniqui con i ro1nani; cfr F.F. BRUCF, c~onu11enta1y on the Book (J_{"the Acts. Grand Rnpids 1981 (rist.), 70: sono fuori dalla legge ricevuta da Israele; E. J-IANCHEN, Die Aposte/geschichte, cii., 182 nota 10: gli iivoµo1 sono i pagani che debbono necessarimnente peccare perché non conoscono la legge, specifica1nente qui sono i ron1ani; E.F. HARR!SON, lnterpreting Acts, cit., 67; H.J. HOLTZMANN, Die Apostelgeschichte, TObingen und Leipzig 190 I, 35; J. JERVEl.L, Die Apostelgeschichte, cit., 145: gli iXvoµo1 neg!i scritti giudaici sono i pagani; f. MUBNER, Aposte/geschichte, Stutlgart 1979, 23; 'V./. NEI., Acts. London 1981: per essi la sacra legge non significa niente; G. Sc111J.LE, Die Apostelgeschichte des Lukas, cit., I !2. 50 li verbo 81rxxe1p{t;(tJ è una verbalizzazione dell'espressione 810: xe1piiiv. Esso significa così operare, agire per n1ezzo delle inani. Cfr F. ZORELL, Lexicon graecu111 Navi Testa111e11ti, Parisiis J 961 3 , sub voce. 51 Cfr H.G. LIDDELL - R. ScoTT, A Greek - Eng/ish Lexicon, Oxford ! 985 (rist.), sub voce.


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A I/ilio Gangemi

che leggiamo in At 2,23 52 . Nella forma media il verbo assume anche il significato di uccidere; in tale senso esso è appunto usato nei due testi lucani e tale senso è pure attestano nella grecità classica 53 . Il verbo 8rexeipiaaa1Je è seguito nel nostro testo dal participio circostanziale modale 1<peµaaavreç, che a sua volta è seguito dal complemento di luogo Èn:i çvA.ov. Il verbo 1<peµaw o 1<peµavvvµ1 significa 54 appendere, so.1pendere. Nel NT quattro usi su sette 55 si riferiscono all'azione di appendere specificamente alla croce 56 . In particolare poi in At 5,30; 10,39 e Gal 3,13 leggiamo l'espressione 1<peµavvvµ1 Èn:i çvA.ov riferita alla crocifissione di Gesù 57 . Questa espressione poi è presente nell'AT; Paolo infatti, pur con qualche adattamento 58 , cita in Gal 3,13 il testo di Dt 21,23 59 : Èm1<arapawç n:ii.c; 6 1<peµaµevoç Èn:i çvll.ov (maledetto chiunque pende su un legno ) 60 . Prescindendo dal riferimento che l'espressione 1<peµavvvµ1 i!n:i 52 Simile possibilità, sia per la vicinanza dei due testi sia per il comune riferin1ento a Gesù, non può essere esclusa; tuttavia l'uso di questo verbo in At 26,21 in relazione a Paolo i1npedisce di propendere per una risposta affern1ativa. La don1anda rimane perciò senza risposta. 53 Cfr W. BAUER, W6rterbuch zun1 neuen Testan1ent, Berlin ~New York 1988 6, sub voce; H.G. LIDDELL - R. SCOTT, A Greek - English Lexicon cit., sub voce; L. Rocc1, Vocabolario greco - itaUano, Ro111a 1987, sub voce. 54 Per la sua possibile derivazione dalla radice indogennanica qer cfr G. BERTRA!v1, Kpeµ6.vvvµ1, in GLNT, V, coli 1005-1022: 1005. 55 Gli altri tre usi sono: Mt 18,6; 22,40; At 28,4. In Mt 18,6 il verbo assu1ne il significato più generico di appendere; in At 28,4, al passivo, significa pendere (la vipera che pendeva dalla nlano di Paolo); in Mt 22,40 assun1e invece il senso più metaforico di dipendere e quindi anche di fondarsi: tutta la legge e i profeti si fondano nei due comandamenti di amare Dio e il prossin10. 56 In Le 23,39 si riferisce ad uno dei due crocifissi che "erano stati appesi ( lfpEµaaeivrmv)" in croce con Gesù. 57 In At 13,29 la deposizione dalla croce è descritta con l'espressione KaTEÀ6vreç àn:O roV çVJl.Dv (avendo tolto dal legno); in lPt 2,24 l'espressione ÈtrÌ roV çVJlov si legge in diversa prospettiva: "i nostri peccati egli portò su/ legno". 58 I Lxx scrivono KElfarrypaµivoç Vn:O eeoV nii.ç KpeµéxµEvoç in/ çVÀov: (n'.?'?1? Cl1;'1~~ i:iri: maledetto di Dio il sospeso). . . .,., 59~ Secondo F.F. BRUCE, Con11nenta1y on the Book of the Acts, cit., 12 l, l'espressione richiama Dt 21,22; cfr anche J. DUPONT, Les Actes des Ap6tres, Paris 1964\ 107; l.M. MARSHALL, The Acts ofthe Apost/es, Grand Rapids 1980, 193. 60 Una espressione analoga si legge anche nel precedente v 22 (Lxx: KpEµéxaryre avròv bri çvÀov; TE: yp-?p 'ontt Q''?Ql); inoltre in Gen 40, 19; Gs 10,26.26; Est 5, 14; 6,4; 7,10; 8,7.


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!;vllov aveva nell 'A"r61 e prescindendo anche da ciò che può avere suggerito all'autore degli Atti degli Apostoli la sua ripresa e la sua applicazione a Gesù, possiamo concludere che con essa è indicata nei testi degli Atti la morte in croce: i giudei inflissero a Gesù un tipo di morte che era ritenuto una maledizione dalla loro stessa legge. Essi così, appendendo Gesù ad un legno, lo ritennero un maledetto di Dio (cfr Dt 21,23).

3. At 10,39-40 Il testo di At 10,39-40 dal nostro punto di vista non aggiunge nulla. Parlando in casa del centurione Cornelio, Pietro evoca i fatti di Gesù, partendo dalla Galilea dopo il battesimo di Giovanni. Dopo avere evocato i fatti della Galilea, Pietro evoca quelli della Giudea: i giudei e i gerosolimitani lo (Gesù) uccisero (àvEiAav) avendolo sospeso ad un legno ( KpEµéwavrEç bri !;vllov). Di tutta la storia della passione di Gesù è evocata soltanto la morte in croce. Luca ripete l'espressione Kpeµa(JaVTE<; èni çvllov già usata in 5,30 e riprende anche il verbo àvazpÉm ( àvélllav) già introdotto in At 2,23.

4. At 13,27-30 Più articolato invece appare il testo di At 13,27-30 dove Paolo, nel contesto del discorso ad Antiochia di Pisidia, evoca gli eventi della passione. In particolare egli evoca sia il processo davanti ai giudei sia anche il processo davanti a Pilato, a cui si aggiunge anche la menzione della sepoltura. Il processo davanti ai giudei è evocato nel v 27 mediante il pa1iicipio aoristo KpzvavTE<;: I giudei, avendo istruito il loro processo, hanno portato a compimento gli annunzi profetici che si leggono ogni sabato. Questo processo, secondo Paolo, non giunse ad una concreta positiva conclusione; continua infatti l'apostolo subito dopo nel v 28 osservando che i giudei chiesero a Pilato che Gesù fosse ucciso benché essi non avessero trovato alcun motivo di condanna. Leggiamo appunto nei vangeli sinottici che i giudei cercavano una 61

Probabiln1ente si tratta dell'in1piccagione, co1ne appare sia da Gen 40, 19 sia soprattutto dai testi del libro di Ester.


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falsa testi1nonianza contro Gesù, 1na non ne trovarono benché si fossero presentati molti testimoni 62 . Paolo però non accenna alla falsa testimonianza di due persone 63 o di altt·i indeterminati 64 a riguardo delle parole di Gesù contro il tempio che indusse Caifa a dichiarare che Gesù aveva bestemmiato e tutti gli altt·i a concludere che egli era reo di morte. Il processo davanti a Pilato è evocato subito dopo nell'espressione molto sintetica f/TIJCfaVW illAfxWV Ò:VazpE8ffvaz aVTOV (chiesero a Pilato che lui.fosse ucciso). Simile richiesta corrisponde bene alle narrazioni evangeliche del processo davanti a Pilato dove si legge appunto che i giudei gli chiesero di crocifiggere Gesù 65 . Infine nel v 29, dopo avere evocato la deposizione dalla croce, Paolo parla anche della reposizione di Gesù nel sepolcro. Si può notare che nella predicazione apostolica riferita da Luca nel libro degli Atti solo qui è 1nenzionata la sepoltura di Gesù 66 .

5. Rilettura sintetica dei testi del libro degli Atti Riassumendo, i quattro testi del libro degli Atti che abbiamo sopra considerato presentano anzitutto un elen1ento costante: l'attribuzione ai giudei della diretta responsabilità della 11101te di Gesù. Benché non n1aterialn1ente, in realtà essi for111aln1entc hanno ucciso Gesù. Il testo di At 2,23 richiama per due elementi il testo di At l 3,27ss. Anzitutto per il verbo èxvmpÉ{J) mediante il quale si indica la morte di Gesù; inoltre per la menzione del processo davanti a Pilato. In quest'ultimo aspetto però il testo di At 13,27ss offre un più ampio sviluppo; infatti, mentre in 2,23 quel processo è evocato in n1odo generico n1ediante l'espressione 8u!x xs1pOç àv6µmv, in 13,27ss invece è più chiara1nente indicato con la richiesta dei giudei di uccidere Gesù. Ma il testo di 13,27ss progredisce 6

° Cfr Mt 26,59-60; Mc 14,55-56.

63

Cfr Mt 26,60bss. Cfr Mc l4,57ss. r,s Tale richiesla diventa esplicita soprallutto al 1110111ento in cui Pilato pone la scelta ira Gesù e Barabba. I giudei scelgono Barabba e chiedono che Gesù sia crocifisso; cfr Ml 27,2-23; f\llc J 5, 12-l 4; in Luca tale richiesta appare pili insistente, cfr Le 23,28-23, e ancora più insistente appare in Giovanni, cfr (ìv 19,6-7.12.15. M In At 2, nel contesto del discorso di Pietro nel giorno della Pentecoste, la sepoltura di Gesù è indiretta111ente richian1ata 1nediante !a 1nenzione della sepoltura di Davide, il cui sepolcro è indicato da Pietro con1c tuaora esistente (cfr vv 29-31 ). r,~


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Dovrà )Jafire n1olte cose ---·---

rispetto al testo di 2,23 anche per altri due elementi: l'accenno al processo davanti ai giudei e la menzione della sepoltura. Il testo di At 5,30 poi richiama quello di I 0,39s. Anzitutto questi due testi si li111itano a 1nenzionare soltanto la 1no1ie di Gesù; inoltre essi si richiamano per l'uso dell'espressione KpEµéwavrEç ÈlrÌ çvÀov. Possiamo allora concludere che i quattro testi degli Atti degli Apostoli sopra considerati possono essere strutturati te111atica1nente secondo uno schema concentrico: il primo (2,23) richiama il quarto (13,27ss) e il secondo (5,30) richiama il terzo (I 0,39s). Pur con un linguaggio diverso rispetto a quello usato nelle predizioni della passione e anche nei testi postpasquali, tutti questi testi concordano nella menzione della morte di Gesù. li primo e il quarto poi allargano la prospettiva: il primo (2,23) allude anche al processo davanti a Pilato; il quarto (13,27ss) accenna più chiaramente al processo davanti a Pilato ma richiama anche il processo davanti ai giudei e la sepoltura.

Parte quarta:

lJN TENTATIVO

DI

RICOSTRUZIONE

A questo punto della nostra ricerca, alla luce anche delle conclusioni che n1an 111ano abbian10 proposto, possia1no tentare di delineare le varie tappe progressive nella riflessione che culminano poi nella formazione della narrazione della passione. Abbian10 individuato due nuclei che costituiscono il punto di partenza di uno 67 sviluppo progressivo di riflessione . Il pri1110 nucleo gravita attorno al verbo nO:CJXOJ, il secondo nucleo gravita invece attorno al verbo ncxpaO{OwpI.

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Altri interpreti propongono analoghe divisioni. F. HAllN, C'hristo/ogische ffehcitstitel. lhre (Ìf'schichte iln fi·iihen Christe11t11111, CiOttingcn 1963, 47ss distingue due gruppi a secondo se presentano un ritèri1nento o no alla Scrittura. In questo senso Mc 8,31, con bel e lu citazione i1nplicita del Sai 118,22 si rilèrisce <1lla Scriltur8; gli altri testi invece non contengono alcun riferi1nento. P. HornvrANN, A1k 8,31. Z11r Herk111?ff und nuwkinischen Rezeption einer alten Oberliefèr1111g, cit., 175, distingue pure due gruppi: Mc 8,31 con Mc 9,11.12 e Mc 9,.11; 10,33s; 14,21.41; questi u!tin1i si distinguono dai precedenti per l'uso del ve1·bo 1uxpcxOi8mp1. Infine J-1.E. TODT, Der 1\,fenschensohn in der S)'noptischen Ober!ie_fer1111g, cit., 147, si pone la don11:1nda se le predizioni non si possono distinguere in due gruppi: il prin10 è rappresentato da Mc 8,31 e 10,33s, il secondo da IV1c 9,31 e 14,41, n1a a questa domanda TOdt non offi·e risposta.


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Attilio Gangen1i

1. Lo sviluppo attorno al verbo iraoxw

In relazione al primo nucleo, caratterizzato dal verbo iraoxw, è possibile individuare un triplice stadio di evoluzione e stabilire un progresso di ampliamento. In un primo stadio, il verbo iraoxw fu usato in maniera assoluta, senza alcuna ulteriore specificazione. In questo modo con esso si sottolineava il fatto stesso della passione, a prescindere dai modi concreti come Gesù patì e dalle varie tappe attraverso le quali procedette il suo cammino di passione. Inoltre, legato direttamente alla menzione della resurrezione o della glorificazione, il verbo iraO"XW includeva in sé anche la morte, esprimendo così tutta la passione di Gesù dalla congiura o dal tradimento di Giuda fino alla sua morte. Questo primo stadio è attestato dai testi lucani di Le 24,26; 24,46; At 1,3; 3,18; 17,3 e anche da Mt 17,12 ed è pure confermato da altri testi del NT già a suo tempo citati. ln relazione a Mt 17, 12 rimane per ora aperto il problema se all'origine il verbo iraO"XW era legato dalla menzione della resurrezione. In un secondo stadio il verbo iraO"XW fu accostato alla menzione della morte e fu relazionato al verbo àiro1crc{vw. In questo modo il suo contenuto fu delimitato solo agli avvenimenti che precedettero la morte. In questa delimitazione si volle precisare che quello che Gesù patì prima di morire non fu poco; si aggiunse così al verbo iraO"XW l'oggetto iroÀÀa, mediante il quale si sottolineava che prima di essere ucciso Gesù fo sottoposto ad una lunga e dolorosa passione. L'introduzione dell'oggetto iroÀÀa determinò anche un mutamento di prospettiva: si passò dal fatto stesso della passione espresso dal verbo naO"XW usato in maniera assoluta, alla grande quantità dei patimenti subiti espressa dal verbo iraO"XW con l'oggetto iroÀÀiX. A questo secondo stadio può essere ricondotto un altro ampliamento che può rispondere bene alla domanda perché Gesù fu sottoposto a simili patimenti. La risposta era semplice, suggerita anche dal Sai 118(117),22: egli subì tali patimenti perché fu rifiutato. Fu aggiunto così coordinato al verbo iraO"xw il verbo àiroooTG.µal;w ripreso probabilmente appunto dal Sai 118. li verbo àiroooTG.µai;w esprime così la causa formale della passione: Gesù patì perché fu rifiutato; i molti patimenti da lui subiti hanno concretizzato bene all'esterno l'atteggiamento interiore del rifiuto. A riguardo è illuminante la parabola dei cattivi vignaioli narrata dai tre vangeli sinottici


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dove Gesù cita appunto il Sal 118( l l 7),22s 68 . Questo secondo stadio appare in Mc 9,12s dove però è usato non il verbo dm:oì501aµaçm ma il verbo È/;ov8EvÉm, e probabilmente anche in Le 17,25, dove però è menzionata come soggetto agente del rifiuto: "questa generazione". Jl terzo stadio ulterimmente precisa volendo quasi rispondere alla domanda da parte di chi avvenne il rifiuto e perciò anche le molte tribolazioni che ne seguirono. La precisazione proposta è assai particolareggiata. Si tratta del sinedrio dei giudei, menzionato però non globalmente ma descritto specificamente nei suoi vari componenti: gli anziani, i sacerdoti e gli scribi. La tendenza ad indicare da parte di chi il rifiuto avviene emerge anche negli stadi precedenti; come abbiamo già notato infatti, in Mt 17,12 leggiamo l'espressione vir'avrmv; in Le 17,25 leggiamo poi l'espressione àiro rfjç }'EVEaç TaVTl)ç. Ma anche queste due espressioni ancora sono generiche e vaghe. La specificazione precisa e articolata si legge nella prima predizione della passione, dove sono appunto menzionati gli anziani, i sacerdoti e gli scribi, insinuando così il testo che il rifiuto non si è limitato ad un generico e vago sentimento ma si è tradotto in una precisa azione giudiziaria che si concluse con la condanna a morte, come

appunto sappiamo dalla narrazione della passione. Possiamo allora concludere che nella riflessione primitiva in un primo stadio il verbo iraoxm fu usato da solo a caratterizzare la passione di Gesù. In un secondo stadio esso fu distinto dalla menzione della morte, fu ampliato da un oggetto, iroìlìla, e fu anche unito al verbo àiroì501aµaçm con il quale si volle esprimere la causa fonnale della passione stessa. In un terzo stadio si specificò che tale rifiuto, con la conseguente passione e morte, era venuto da parte di categorie precise di giudei.

2. Lo sviluppo attorno al verbo

irapao{omµz

In relazione poi al secondo nucleo, caratterizzato stavolta dal verbo irapao{omµz, il progresso di riflessione che determina man mano i vari ampliamenti appare più complesso. Possiamo tuttavia individuare anche per questo verbo cinque stadi di riflessione con i relativi ampliamenti e . . .

prec1saz1on1.

Jl primo stadio può essere individuato nella seconda predizione della 68

Cfr Mt 21,33-46; Mc 12, 1-12; Le 20,9-19.


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Attiho Gangen1i

passione dove leggiamo l'espressione ancora generica e vaga rcapai5{i5or:az Eiç xE'ìpaç àvepmrcmv, legata ancora alla menzione della morte e della resurrezione. Il fatto che nella seconda predizione di Luca la formula non è legata alla menzione della morte e restmezione pone il problema se essa all'origine non circolasse senza tale menzione. ln un secondo stadio la formula, soprattutto in relazione al termine àvepmrcmv, fo ulterionnente precisata, ricevendo delle specificazioni la cui relazione non sempre è possibile determinare. Anzit11tto essa fu precisata dall'espressione di Mt 26,45 e Mc 14,41, che presenta un passaggio dal termine àvepmrcmv al termine àµap1wÀiì5v. Da questa formula inoltre più facilmente dipende Le 24, 7 che specifica il termine àv&pmrcmv con il termine àµapr:mÀwv; e anche At 2,23 dove, in una espressione senza il verbo rcapai5{i5mµ1, possiamo individuare un passaggio dal termine più generico àv&pmrcmv a quello più specifico àvoµmv. Più difficile è stabilire una dipendenza nelle espressioni di Mt 26,2, rcapai5{i5or:az Eiç r:o cnavpm&i)vaz, e di Le 24,20, rcapÉi5m1<av [ .. ] Eic; 1<p{µa eavawv, perché in esse si nota il passaggio da persone ad azioni. Tuttavia la particella Eiç legata al verbo rcapai5{i5mµ1, induce a non escludere una relazione di queste espressioni con la formula originale Eiç xElpac; àv&pmrcmv. Possiamo pensare che anche le due formule su indicate derivino da un particolare tipo di riflessione sulla formula originale. Un terzo stadio è rappresentato dalla terza predizione. In essa leggiamo ancora il verbo rcapai5o&ryaera1, legato però al termine l&vEmv. Quest'ulti1no termine è seguito da una serie di azioni particolari che chiaran1ente richia1nano il processo davanti a Pilato; in questo n1odo il 69 ter1nine Eevcatv si riferisce ai ron1ani . Facilmente il ter1nine Eevca1 v si ricollega cd esplicita il termine aveprnrcrov; con esso si volle precisare che "gh urnnini" non sono delle realtà vaghe, n1a hanno una precisa configurazione storica: essi sono i ron1ani, i quali ebbero vera1ncnte Gesù nelle loro mani e fecero di lui quello che vollero. l tre stadi su indicati concordano nell'uso del verbo rcapai5{&vµ1 al passivo (rcapai50&1)aETaz). 11 suo soggetto agente però non è espresso e perciò rimane vago e indeter1ninato. Esso può essere I)io che dà agli uo1nini il suo figlio, può essere Giuda che consegna ai giudei; possono essere i 69 Le 20,20 esplicitainente parla dc!!a consegna di Gesù al potere e all'autorità dcl governatore ( rl'f 11.çovaiçx rofi 1]yeµ6voç). 11 tern1ine 1Jyepciv è riferito in !\!latteo a Pilato; cfr Mt 27,2.11.l l.14.15.21.27;28,14.


Dovrà patù·e 1110/te cose

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giudei che consegnano a Pilato. Nel terzo stadio, dal momento che le persone a cui Gesù è consegnato sono i romani, il soggetto agente del verbo 1Tapaì508ry(JET!Xl facilmente possono essere i giudei: essi infatti hanno consegnato Gesù ai romani. Si può così individuare un quarto stadio di riflessione in cui il soggetto, i giudei, viene chiaramente esplicitato. Esso è rappresentato da Le 24,20 e At 3,13 dove il verbo 1Tapaì5{ì5mµ1 è usato non più all'aoristo passivo (JTapaì5oef,(JETm) ma all'aoristo attivo con chiaro riferimento ai giudei. I due testi però, come abbiamo già notato, sono sviluppati in diversa prospettiva. li primo testo, Le 24,20, descrive la consegna da parte dei giudei non a persone tna ad una destinazione, la condanna a n1orte; il secondo testo, At 3, I 3s, invece non descrive la positiva consegna ma la negativa alienazione: i giudei vollero alienare e disfarsi di Gesù e ciò apparve bene quando lo rinnegarono davanti a Pilato ed optarono per Barabba. Emerge così in questo stadio la responsabilità dei giudei, in due aspetti precisi: la condanna a n1orte con riferimento al processo davanti al Sinedrio e la sconfessione di Gesù con riferimento al processo davanti a Pilato. Un quinto stadio infine mira a sottolineare il ruolo dei giudei, ritenuti i primi responsabili della mo11e di Gesù. Questo stadio appare anzitutto nei vari riferimenti alla passione di Gesù nei discorsi apostolici di Pietro e Paolo in At 2,23s; 4, I O; 5,30-32; I 0,39-40; 13,28-30; appare inoltre negli ampliamenti di Matteo e Marco nella terza predizione. Nei testi At 2,23s; 4,10; 5,30-32; 10,39-40; 13,28-30 ai giudei, con varie espressioni, è attribuita la diretta responsabilità della morte di Gesù; pur servendosi di en1pi 70 , essi lo hanno ucciso. In realtà essi non lo hanno ucciso n1aterialn1ente tna solo fonnahnente, nel senso cioè che contro di lui hanno pronunziato una condanna a n1orte senza tuttavia poterla eseguire. Gli ampliamenti di Matteo e Marco poi nella terza predizione della 71 passione, che richian1ano il testo di Le 24,20 , si riferiscono ad una precisa azione dei giudei, specificamente del Sinedrio, la condanna a morte di Gesù. In questa prospettiva, come a suo tempo abbiamo già notato, il verbo 1Tapaì50Gry(JETCXZ non è più riferito agli levEmv, cioè ai romani, ma ai giudei, specificamente i sacerdoti e gli scribi. Per potere poi introdurre la menzione degli [8vEmv i due evangelisti sono costretti a ripetere, stavolta all'attivo con soggetto i giudei, il verbo JTapaì5{ì5mµz.

°Cfr At 2,23.

7

71

Cfr Mt 20,28; Mc 10,33: 1<ara1<p1voiJcnv aùr0v eì'ç BlXvarov Le 24,20: ez'ç Kp(µa 8av6rov


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Possiamo allora concludere che nella riflessione primitiva in un primo stadio il verbo napai5[i5wµ1 fo usato solo in relazione all'espressione ancora generica e vaga Eiç XElpaç av8pmnwv. In un secondo stadio si specificò il termine av8pmnwv aggiungendo il termine aµapTWÀWV o sostituendolo con il termine più specifico av6µwv. Forse in questo stadio la menzione degli uomini fo sostituita con la menzione delle azioni: napai5[i5orm EÌç rò cn:avpw87jvm (Mt 26,2) e napÉi5w1<:av [ .. ] EÌç 1<:piµa Bavawv (Le 24,20). In un terzo stadio il verbo napai5o8rycrnm fu legato al tennine eBvEmv con lo sviluppo seguente che richiama il processo davanti a Pilato. In un quarto stadio si precisò che il soggetto del verbo napai5{i5wµ1 sono i giudei che consegnarono Gesù ad una sentenza di morte o lo rinnegarono davanti a Pilato. Si sottolineò così che i veri responsabili della morte di Gesù sono i giudei. In un ultimo stadio infine si sottolineò ancora di più la responsabilità dei giudei nella morte di Gesù e si unì la menzione del processo davanti al sinedrio a quella del processo davanti a Pilato. Possiamo allora ulteriormente concludere che la terza predizione della passione, quale è proposta da Matteo e Marco, rappresenta l'ultimo stadio di un progresso di riflessione e specificazione che parte da una formula più antica. Essa infatti contiene gli elementi fondamentali della vicenda di Gesù, il processo davanti ai giudei, il processo davanti a Pilato, la morte. In questa prospettiva il verbo napai5o8rycrerm assume il riferimento più specifico al tradimento di Giuda"- Possiamo così ritenere che la terza predizione della passione tramandata da Matteo e Marco costituisce lo schema più vicino alla narrazione della passione.

Parte quinta: LA RESURREZIONE Gli elementi che abbiamo finora considerato riguardano soltanto la passione e la morte di Gesù. Essi sono apparsi vari e fluttuanti sia nella quantità menzionata sia anche nell'indole di quelli che sono menzionati. Ciò ha permesso il tentativo di ricostruire la storia e il progresso della riflessione in vista della fonnazione della narrazione della passione. Un ultimo aspetto è importante adesso considerare, la menzione della 71

Secondo P. HOFFMANN, Mk 8,31. Zur Herku17fi und 1narkinische11 Rezeption einer alten Oberlie.ferung, cit., 185, il verbo 7rO:po:OiOwµ1 abbraccia tutti gli eventi fino alla 1norte e li pone nel punto di vista della resurrezione.


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resurrezione. A differenza degli elementi riguardanti la passione e la morte, quelli riguardanti la resmTezìone appaiono invece più fissi e più costanti"-

1. La 111enzione della resurrezione in relazione alla passione

Possiamo anzitutto notare che la menzione della resurrezione è introdotta in quasi tutte le predizioni della passione in tutti ì tre vangeli sinottìci 74 . Essa è omessa sol!anto nella seconda predizione dì Luca (Le 9,42) e anche in Mt 26,2 dove, nell'imminenza ormai della pasqua, Gesù dà ancora un annunzio della sua passione 75 . Inoltre essa è menzionata con i due verbi tipici della resurrezione, i!ydpm e àv{arT1µz. Il verbo i!yEipm si legge nella prima predizione di Matteo e Luca 76 ; nella seconda 77 e terza 78 predizione di Matteo e poi anche 73

Secondo J. ROLO!-'F, A11fdnge der soterio!ogischen Deutung des Todes Jesu, in NTS 19 (1972) 38-64: 39-40, la 111enzione della resurrezione è costitutiva dello schen1a delle predizioni. Inoltre W.D. DAVIES- D.C. ALLJSON, The Go.o,pe! according to Saint Matthew, II, cit., 658, notano poi che, benché lo schen1a delle predizioni sia stato al centro della prin1itiva predicazione, non ne segue che il suo Sitz i1n Lebcn sia stato solo ne! periodo postpasqualc, osservano infatti che anche nel JVA vangelo ci sono tre passaggi in cui si parla del figlio dell 'uon10 esaltato (Cfv 3, 14; 8, 18; 12,32-34); ciò potrebbe rispecchiare una tradizione 1no!to antica. Concludono perciò che il fonda1nento delle predizioni deve essere cercato in epoca prepasquale (cfr ibid.. 660). 7 ~ Secondo M. BASTlN, L "a1111011ce de la passion et !es criteres de l 'historicité, in RevScRe!, J, cit., 327, gli annunzi sono influenzati dal Kerig1na, sia nello schen1a (111orte e Resurrezione), sia ne! vocabolario. ()sserva R. PESCll, Die Passion des A1enschensohnes. Eine Studie zu den Arfenschensohnsworten der vonnarkinischen Passions Geschichte, cit., 172 che, nel 1neHere insien1e la profezia della n1orte e resurrezione di Gesù, si ha la più antica disposizione dell'interpretazione della 1no1ie di Gesù. li suo Sitz iin Leben è da ricercare nella contrapposizione della co1nunità cristiana con il giudaisn10 e nel Kerign1a n1issionario per Israele. Gesl1 è visto così co1ne il giusto sotfcrente che aderisce a Dio nel più profondo abbassa1nenlo. 75 É 01ncssa anche in Mt 17, 12 e Mc 9,12, dove, dopo l'episodio della trasfigurazione, Gesù evoca ne! contesto le passioni del precursore aggiungendo anche la 1nenzione di quelle de! figlio dell'uo1110. La resurrezione e evocata però da Gesù stesso che con1anda di non dir nulla della visione pri1na di quel n10111ento (cfr Mt 17,9; Mc 9,9); inoltre la 111cnzione della resurrezione è on1essa anche, in diverso contesto, in Le 17 ,25. A riguardo di Mc 9, 12 osserva infatti R. PESCH, Die Passion des A4enschensohnes. Eine Studie zu den A:fenschensohnsworten der vonnarkinischen Passions Geschichte, cit., 172 che sul iOndan1ento di Mc 9,12 non si può postulare alcuna forn1a breve, perché, accanto a fvfc 9,12 non si può trascurare Mc 9,9. 76 Cfr Mt 16,21; Le 9,22 (Lv. avami)vm). 77 Cfr Mt 17,22 (l.v. àvacrr1Jcrera1). 78 Cfr Mt 20, 19 (Lv. avacrr~onm).


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in At 3,15; 4,10; 5,30; 10,40; 13,30 79 . Il verbo avfrnT)µ1 si legge invece nella prima 80 e seconda81 predizione di Marco; nella terza predizione di Marco e Luca 82 e poi anche in Le 24,7.46; Al 2,24.32; 3,26; 10,41; 13,32.34; 17,3. 31 83 . Il verho che descrive la resunezione poi è distinto ma anche coordinato con il verbo che descrive la passione o la morte. Nella prima predizione della passione il verbo che descrive la resurrezione è coordinato ai verbi naO"XW e ano801CTµa(,w84 ; nella seconda e terza predizione invece è coordinato al verbo anoK:Td vw85 Ancora il verbo della resurrezione è coordinato al verbo JTCTO"XW in Le 24,46; At 17,3; al verbo m:avp6w in Le 24,7 86 . Possiamo pure notare altrove il legame con il verbo anoevf!O"K:W87 o con altre espressioni analoghe 88 . Infine nelle tre predizioni della passione troviamo la menzione della resun·ezione unita all'indicazione cronologica del terzo giorno, sia con l'espressione µEra rpEl'ç 1)µÉpm;89, sia con l'espressione più frequente rfì

rpirn i)µipç( 0 . Tutti questi elementi rivelano un progresso di riflessione nella relazione tra Ja passione e n1011e e la resurrezione di Gesù. La passione e la 79 Leggia1110 il verbo éycipm ancora in Civ 2,22; 21, 14; Rn1 6,4. 9; 7,4; 8, 11.11.34; 10,9; 1Cor 6, 16; 15,4.12.13.14.15. I 6.17.20; 2Cor 4, 14; 5,15. Gal 1, 1; Ef 1,20; Col 2,12; 1Ts 1,10; 2Tim 2,8; 1Pt 1,21. 8 Cfr Mc 8,31. 81 Cfr Mc 9,31. 82 Cfr Mc 10,34; Le 18,33. iu Leggiaino il verbo ò:vi<Jr17µ1 ancora in (ìv 20,9; l Ts 4, 14. 84 Cfr Mt 16,21; Mc 8,3 ! ; Le 9,22. 85 Cfr per la seconda predizione Mt !7,23; Mc 9,31 (Luca nella seconda predizione non 1nenziona la resurrezione); inoltre per la terza cfr Mc 10,34; Le 18,33 (l\ifatteo nella terza predizione usa il verbo crravpOcv; cfr Mt 20, 19). fnollre in fonna di contrapposizione tra l'azione degli uo1nini e quella di Dio, in At 3, 15. 86 In for1na di contrapposizione tra l'azione degli uon1ini e quella di Dio, cfr Al 4,!0. s? Soprattutto in Paolo; cfr l Cor 15,4 (insie1ne a! verbo 80:JrTlù); Rin 8,34; 2Cor 5, J 5; lTs 4,14. 88 Cfr At 5,30 ( 01axe1pit;lo); àva1pécv (At 10,40; anche t\t l 3,28). In f'v1t 26,32 e ivlc 14,28 il verbo della resurrezione è legato al verbo JrarO:aèrco, nel contesto della citazione di Zc 13,7. 89 L'espressione µerc'x rpt:Tç t~µépaçè usata da f\llarco in tutte le Ire predizioni della passione (cfr rvtc 8,31; 9,31; l 0,34). fnoltre anche in lvlt 27,63. 90 L'espressione più frequente rff rpirn 1]µÉpçx è usata invece da Matteo e Luca in tutte le predizioni (cfr Mt 16,21; 17,23; 20,!9; e anche Mt 27,64; Le 9,22; 18,33; e anche Le 24,7.46;At 10,40; lCor 15,4).

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morte sono tnenzionati come un evento specifico al quale segue e letterarian1ente è coordinata la 1nenzione della resurrezione; si precisa a riguardo di quest'ultima anche l'aspetto cronologico: essa avvenne il terzo giorno.

2. Le varie.fòrn1u/e della resurrezione

Tuttavia il NT ci offre ancora diverse formule della resurrezione che è utile adesso considerare. 2.1. La fonnnla Eycipwlavfrrr17µ1 ET< wxpii5v Una formula molto breve è costituita dal verbo della resunezione. éydpw o avfrn:17µ1, a cui è legata l'espressione ET< VET<pwv (dai morti). In questa espressione la 111orte non appare con1e un evento in sé distinto e specifico, pur relazionato alla resurrezione, n1a è indicata soltanto co1ne la circostanza o l'an1bito specifico da cui la resurrezione scaturisce. ln questo caso J'entàsi non è equan1ente distribuita sui due eventi, morte e resutTezione, ma poggia solo sulla resurrezione, caratterizzata così appunto come superamento della morte. La fonnula con il ter111ine VEK:pii5v è quasi se1npre costruita con la particella ir< 1, talora, assai più rara111entc, anche con la particella èor0 92; inoltre essa è legata in genere al verbo i~{pw 93 , talora, più raran1ente, anche al verbo avforryp1 94 ; infine essa è attestata in quasi tutte le parti del NT. Se confrontiamo l'espressione EyEfpw I avfan7p1 El( VEr<pii5v con le altre più ampliate riguardanti la resurrezione, quelle cioè separate dalla n1enzione della tnorte e legate anche all'elen1ento cronologico dei tre giorni, possian10 costatare che essa è più breve e più sintetica. Essa perciò si rivela anche più antica: è più facile intàtti passare dalla generica fonnula ÈK 91

Cfr Mt 17,9; Mc 6, 14; 16, 14 (testo incerto); Le 9,7; Gv 2,22; 21, 14; At 3, ! 5; 4, 1O; 13,30.34; 17,31; Rn1 6,4.9; 7,4; 8, 11. l 1; l 0,9; I C:or 15, 12.20; (Ja! J, l; El' 1,20; Col 2, 12; l Ts 1,10; 2T1112,8: Eb 11,19; IP! 1,21. Cfr Ml 14,2; 27,64: 28,7. 93 Cfr Mt 17,9; Mc 6,14; Le 9,7; Gv 2,22; 21,14; At 3,15; 4,10; !3,30; Rin 6,4.9; 7,4; 8.11Il;10,9; ICor 15,12.20: Gal 1,1; Ef 1,20: Col 2,12; ITs 1,10: 2Trn 2,8; Eb 11.19: IP! 1,21. 9 ~ Cfr Mc 9,9. !O; 12,25; Le 16,3! (l.v. {ye{p(ù); 24,46; (Jv 20,9; At 10,41; 13,34; ! 7,3. 31; Ef 5,14 (riferita al cristiano),

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Attilio Gangenu·

VEKpiiiv, che mira soltanto a sottolineare ancora di più l'evento della' resurrezione, alla diretta formulazione della morte di Gesù come evento specifico e distinto, pur orientato verso la resu1Tezione, che non ridu1Te l'esplicita fonnulazione dell'evento della morte di Gesù ad una semplice menzione subordinata e indiretta. Possiamo perciò ritenere che la formula èyeipw I àv{cm7µ1 EK VEKpiiiv sia appunto la fmmula originale che costituisce il punto di partenza di tutta la riflessione primitiva. Essa praticamente coincide con la primitiva professione di fede 95 e afferma l'evento fondamentale della resmTezione, rafforzato dalla menzione della morte: si vuol così precisare che non si tratta di una resu1Tezione qualsiasi ma esatta1nente della resurrezione da 1norte. 2.2. Dall'espressione EK VEKpwv al verbo ànoevriaKw Benché enfatizzi ancora di più l'evento della resurrezione, tuttavia la formula EK VEKpii5v lascia la morte di Gesù in un piano subordinato, relegandola quasi in una posizione secondaria. In realtà la morte di Gesù non è un fatto di secondaria in1po1ianza: essa perciò non può restare oscurata quasi sottaciuta 1na, assieme alla resu1Tezionc, deve essere anch'essa esplicitamente formulata come un evento specifico del mistero di Gesù. In questa prospettiva perciò, pur continuando ad essere usata la formula ÈK VEKpii5v 96, si sarebbe operato un passaggio al verbo àn:oevz)aKW unito in maniera coordinata ai verbi tipici della resmTezione dye{pw e àv{arryµz. Tale passaggio pare attestato da alcuni testi paolini. In !Ts 4,14 Paolo propone come oggelto di fede il fatto che Gesù morì ( ànÉBavEv) e ( Ka{) risorse ( àvr/or17); in 1Cor 15,3-4 leggiamo ancora i due verbi ànÉ8avEv ed èyr/yeprm 97, benché intercalati dai due verbi ùacp17 (jì1 sepolto) ed wcpe17

95

Cfr Rin 10,9. In Le 24,34 però il verbo È)'f'.fpronon ha la specificazione iK VEKpiìJv; ciò !ascia supporre che all'origine esso fosse privo di tale specificazione e che essa fu aggiunta in un secondo 11101ncnto, n1agari in contrapposizione a chi riteneva che la 1norte di Gesù tOsse solo apparente e che la sua non era una vera resurrezione. 96 Da Paolo la forn1ula f.1< VE1<pii5v è usata anche nelle lettere posteriori; cfr Er 1,20; Co! 2, 12; 2Tn1 2,8; anche Eb 13,20; I Pt ! ,21. 97 11 testo di !Cor 15,3-4 già attesta un progresso di riflessione. La 111enzione della n1orte con il verbo àrcieavEV infatti è a1npliata dalla 1nenzione del valore espiativo della n1orte di Gesù ("per i nostri peccati") e dalla menzione delle Scritture; !a n1enzione della resurrezione con il verbo Èyt{pw è an1plia1a poi con l'indicazione cronologica "il terzo giorno" e ancora con la n1enzione delle Scritture.


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(apparve) 98 ; in 2Cor 5,14-15 il verbo ànÉBavEV è ripetuto in relazione a Gesù, caratterizzato anche con l'espressione àno8av6vn Kai Éycp8Évn (che è morto ed è risorto); ancora in Rm 8,34 in relazione a Gesù Paolo introduce sotto un unico articolo i due participi ànoeavàiv ed Èycp8dç (colui che è morto ... è risorto) 99 • Tutti questi testi sembrano rivelare appunto il passaggio dalla fmmula semplice lx VEKpwv al verbo ànoevncrrn1' 00 .

2.3. La menzione della sepoltura La menzione della motie ricevette poi un ulteriore ampliamento mediante la menzione della sepoltura. Il Gesù di cui si dice che morì fo anche sepolto. La menzione della sepol!ura non sembra appartenere alla primitiva tradizione; essa infatti, pur narrata dai racconti evangelici della passione e riferita anche in At 13,29, raramente nel NT è evocata in relazione alla morte di Gesù 101 . Con la sua menzione si volle probabilmente sottolineare ancora di più il fatto che la morte di Gesù non fu apparente ma ben reale: egli infatti non solo morì ma fo anche sepolto. 2.4. Dalla professione di fede alla menzione della morte e sepoltura Possian10 così tentare, almeno ipotetica1nente, di delineare un progresso dalla professione di fede in Gesù risorto alla menzione esplicita della sua morte e della sua sepol!ura. Il punto di partenza sembra essere costituito appunto dalla professione di fede che Gesù è risorto da morte (ÈK VEKpwv), o addirittura, come Le 24,34 suggerisce, che Gesù è semplicemente risorto, con la seguente specificazione che è risorto da morte. 98

Il testo di I Cor 15,3-4 si presenta ainpliato rispetto al testo di Le 24,34 con cui condivide soltanto !a 1nenzione della resurrezione con il verbo èyc{pm, pur in diversa fonna gra1111naticale, e la 111enzione della apparizione a Pietro con il verbo 6'xp81]. Il testo di I Cor 15,3-4 ha in più la 111enzionc della 111orte ( ànéeavcv) e della sepoltura (Èra<p17). 99 Seguono in questo testo la n1enzione della posizione di Gesù alla destra di Dio e della sua intercessione a nostro favore. 100 Tale passaggio appare pili chiaro in Rin 6,6 dove leggia1no !'espressione È}'Epecìç éK VEKpii5v in un contesto dove è usato il verbo ànoevricrKlù sia in relazione a Gesù sia anche in relazione al cristiano. 101 Il verbo 8ci'.JTT(JJ, nel NT, in relazione alla sepoltura di (Ìesù è usato solo in lCor 15,4; dallo stesso Pao!o è usato poi due volte i! verbo crvv8cXnroµa1 in relazione al cristiano che ha preso pa11e nel battesi in o alla sepoltura di Gesù (cfr RI11 6,4; Col 2, 12).


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Dalla menzione più secondaria e obliqua della morte di Gesù con la formula EK VEKpii5v si passò poi a descrivere direttamente l'evento della morte di Gesù con il verbo diretto àn:oBvriuKW coordinato ai verbi tipici della resurrezione: Gesù così non è soltanto colui che è risorto da m01ie, ma è colui che è morto ed è risorto. Alla menzione della morte infine fo aggiunta la menzione della sepoltura. Il verbo àn:o8vz}uKw, pur sottolineando il fatto che Gesù è morto, rimane tuttavia ancora vago ed incompleto. Non risponde infatti alla domanda se Gesù è n1orto di 1norte naturale o violenta; in ogni caso non dice nulla sulla terribile passione che, come sappiamo, egli subì prima di morire. Della passione e del fatto che egli fu ucciso e, specificamente, fu crocifisso, parlano invece i due processi evolutivi che abbiamo già delineato e che trovano il loro punto di partenza nei due nuclei caratterizzati rispettivamente dal verbo n:auxw e dal verbo n:apaò{òwµz, in un progresso di riflessione che precisa sempre più le varie tappe della passione fino alla croce. Te1natica1nente questi due processi evolutivi possono essere ricondotti

ad una sola tendenza che mira a sviluppare il ca1nn1ino della passione individuando anche i vari responsabili e descrivendo anche le loro opere.

2.5. Le due linee evolutive Emergono così due linee evolutive. La prima parte dai verbi nauxw e napaòiòwµz, gravita attorno agli eventi della passione e ne precisa le varie fasi; la seconda parte dalla professione di fede che Gesù è risorto, precisa anche che è m01io e poi anche che fu sepolto. Co1nc abbia1110 già notato, nelle tre predizioni della passione e anche nei testi evangelici e degli Atti degli Apostoli che evocano quegli eventi, alla 1nenzione della 1no1ie attualincnte segue la 111enzione della resurrezione. Ciò indica che nelle tradizioni che soggiacciono a questi testi le due linee evolutive sopra indicate si erano già incontrate e anche fuse. Tale fusione

determinò quasi uno scambio tra di esse; quella che partiva dalla resurrezione offrì agli eventi della passione il loro ultimo epilogo e fu n1enzionata così la resu1Tezionc; quella che sviluppava la passione precisò che (Jesù prin1a della resurrezione non era sen1plice1ncnte 11101-to, 111a era stato ucciso dopo una dolorosa passione. É difficile però precisare quando le due linee evolutive si siano

incontrale. Forse qui è opportuno distinguere tra i due sviluppi, quello attorno al verbo n:auxw e quello attorno al verbo napaò{òwµz. Quanto al


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primo sviluppo, dal momento che il verbo 1uxaxw é molto ampio e, come abbiamo già visto, facilmente include in sé anche la mmie, la fusione con la tradizione della resurrezione, e quindi la sua sostituzione al verbo àn:oevy)aKw, dovette verificarsi in uno stadio più antico, prima ancora che si sviluppasse una riflessione attorno ad esso. Ciò è confennato da quei testi che legano direttamente a questo verbo la menzione della resrnTezione o . 10'-. g 1ori'f'icaz1one Diverso invece sembra il caso del secondo sviluppo legato al verbo n:apai5fi5wµz. Dal momento che questo verbo non necessariamente implica in sé la morte, la fusione del suo sviluppo con la tradizione della resun·ezione dovette avvenire in seguito, quando si precisò che la consegna di Gesù in mano di uomini era culminata nella morte. Allora fu possibile sostituire la n1enzione della n101ie legata alla resurrezione con la inenzione del fatto che gli uomini, nelle cui mani Gesù era stato consegnato, lo avevano ucciso. Ciò può essere confermato da qualche testo in cui la consegna in inano di uon1ini non è legata né alla ino1ie né alla resurrezione ioJ. 2.6. Conclusione Possiamo allora concludere che i testi che evocano gli eventi della passione di Gesù, seguiti prima dalla menzione della morte e poi da quella della resurrezione, sembrano risultare da due diversi sviluppi di tradizione. Il primo parte dalla prolèssione di fede che Gesù è rismto e risale fino alla tnorte e alla sepoltura; il secondo parte da due nuclei diversi, rispettivan1ente legati ai verbi mfoxw e n:apai5fi5wµ1, e scende fino alla morte, precisando tnan n1ano le varie tappe della passione. li primo sviluppo, quello legato alla resurrezione, pervenne alla sen1plice 1nenzione del fatto che Gesù morì senza precisare il 111odo co111e tale morte fosse avvenuta. Il secondo sviluppo, quello legato ai verbi m:Xaxw e rrapai5fi5wµ1, precisò invece che Gesù morì perché fu ucciso. li punto di incontro dei due sviluppi pare essere costituito dalla menzione della morte; tale incontro pennise anche di precisare che Gesù risorse non dopo una n1orte qualsiasi 1na dopo quella n1orte che gli uon1ini, in seguito ad una lunga passione, gli avevano inflitto.

102 103

Cfr Le 24,26.46; At 1,3; 3, 18; ! 7,3. Cfr Le 9,42 e anche Mt 26,45 e Mc 14,41.


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3. Riproposizione sintetica dalla professione di fede alla formazione della passione

Riproponendo in mamera sintetica quanto già precedentemente abbiamo indicato, possiamo adesso tentare di ricostruire il cammino di riflessione che, attraverso varie tappe, culmina poi nella formazione della nanazione della passione. 3. l. Due linee evolutive Abbiamo pure indicato in questo cammino due linee evolutive nella riflessione primitiva. La prima gravita attorno alla resurrezione e trova il suo punto di partenza nella professione di fede che Gesù è risorto. La seconda gravita attorno alla passione ed ha un dnplice punto di pmtenza, il verbo n:aaxm e il verbo n:apa8{8mµ1, unito poi alla fonnula 1dç raç xeTpaç. 3.1.1. La linea evolutiva dalla professione di fede nella resurrezione La linea evolutiva che gravita attorno alla resurrezione parte dalla professione di fede che Gesù è risorto, espressa sia con il verbo iydpm sia anche con il verbo àviarl']µt; questi verbi forono ampliati poi dalla formula ù: VE1<pii5v, con la quale si volle precisare appunto che la resunezione di Gesù era una resurrezione da n1orte.

Dalla fonnula più marginale ÈT< VE1<pii5v si passò al verbo diretto an:ÉBavEV. Si ottenne una espressione con due verbi coordinati an:ÉBavEV 1<ai aviari'] (EyÉp81']), mediante la quale si precisò che la morte non era una semplice circostanza della resurrezione n1a costituiva un preciso evento con un suo proprio significato nel mistero di Gesù. Forse in questa fase il verbo della resunezione fo ampliato con la connotazione cronologica del terzo giorno.

Prescindendo da altri ampliamenti più soteriologici attestati in I Cor 15,4, insieme alla morte si indicò anche la sepoltura. Giungiamo così a tre aspetti della storia di Gesù: egli morì, fii sepolto, è risorto. 3.1.2. La linea evolutiva dalla menzione della passione La linea evolutiva che gravita attorno alla passione, come abbiamo detto, paite da due nuclei fondamentali che, ali' origine, non dovevano essere


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legati alla menzione della resurrezione, il verbo rcaoxw e il verbo rcapai5{i5wµ1. li verbo rcaaxw all'origine doveva essere usato in maniera assoluta: Cristo patì, includendo in esso non solo la passione ma anche la morte. In un secondo stadio il verbo fu unito alla menzione del rifiuto dei giudei espresso con il verbo àrcoi5oiaµal;w, ricevette un oggetto TCOAAlX e fu distinto dalla morte che fu menzionata in maniera coordinata ed autonoma: si precisò così che prima di essere ucciso Gesù aveva patito molte cose per il fatto che era stato rifiutato. In un terzo stadio, attestato dalla prima predizione della passione, l'espressione con i tre elementi TCOAAlx rca&Elv - àrcoi5oiaµaa8ijvm àrco1aav8ijvm, fu ampliata mediante la menzione delle persone da parte delle quali Gesù aveva patito. La fusione con lo sviluppo gravitante attorno alla resurrezione dovette avvenire già fin nel primo stadio; di Gesù allora si disse che egli patì e risorse.

Quanto poi al verbo rcapai5{i5wµ1, all'origine esso dovette essere usato solo in relazione all'espressione ancora generica e vaga sìc; xslpac; àvepwrcwv. Ma anche l'espressione EÌç xElpac; àv&pwrcwv può essere considerata una specificazione di un uso assoluto del verbo rcapai5{i5wµ1, . . '"' . come appunto suggensce qua lch e testo pao1mo In un secondo stadio poi si specificò il termine àvepwrcwv sia aggiungendo il tennine àµaprwAiiiv sia anche sostituendolo con il semplice tennine àµaprwAiiiv o con il termine più specifico àv6µwv. Abbiamo anche suggerito che forse in questo stadio deve essere avvenuta la sostituzione della menzione degli uomini con la menzione delle azioni quali appaiono in Mt 26,2 (napai5fi5om1 dc; aravpw&ijvm) e Le 24,20 (napÉoWT((XV [... } EÌç Kpfµa 8avawv). In un terzo stadio il verbo napai5o8ryaerm fu legato al te1mine l!evecnv, che ulterionnente specifica sia il termine àµaprwAiiiv sia anche

ro

10

~ Ci rifcrian10 specificainente a Rin 4,25 dove leggimno che Gesù fu dato (nape80817) per i nostri peccati; il testo non specifica a chi Gesù fu dato, 1na lo scopo per cui fu dato. Il testo richian1a Is 53,6 (Lxx). Così pure in Ri11 8,32 dove il soggetto è chiarmnente il Padre che non ha rispanniato il suo figlio ma per tutti noi lo ha dato (n:apÉ8WKEV). A questo aspetto assoluto può essere ricondotto l'uso del verbo in lCor 11,23, nel contesto della rievocazione della Cena e anche nei testi in cui si legge che Gesù diede (n:apÉ8WKEV) se stesso, cfr Gal 2,20; Ef5,2.25. L'uso assoluto del verbo richiaina bene l'analogo uso assoluto in Is 53,6 e soprattutto Is 53, 12 (8tà àµapriaç aVriiJv nape80817).


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àv6µwv. A questo ten11ine fo unito un lungo sviluppo con la menzione di azioni particolari che culminano nella morte di Gesù. In questa descrizione facilmente si scorge l'allusione al processo davanti a Pilato. In un quaiio stadio si volle esplicitamente specificare il soggetto del verbo 7[(Xpai5{i5wµ1: questi sono i giudei che consegnarono Gesù ad una sentenza di morte o lo rinnegarono davanti a Pilato. In questo modo si sottolineò che i veri responsabili della morte di Gesù sono i giudei. In un quinto stadio infine fu sottolineata ancora di più la responsabilità dei giudei nella morte di Gesù; si uni la menzione del processo davanti al sinedrio a quella del processo davanti a Pilato. Questo quinto stadio è rappresentato dalla terza predizione della passione, quale è proposta da Matteo e Marco. La morte di Gesù sarebbe stata cosi esplicitata nel terzo stadio e qui avrebbe potuto avvenire la f·usione con lo sviluppo riguardante la resurrezione.

3 .2. La fosione delle due linee evolutive La fusione delle due linee evolutive, quella sviluppatasi attorno alla passione e quella sviluppatasi attorno alla resurrezione sarebbe stata cosi determinata dalla menzione della morte; questo infatti è l'unico punto in co1nune e in esso perciò era facile incontrarsi. Questa fosione determinò anche un reciproco completamento. La linea evolutiva sviluppatasi attorno alla reswTezione o!fì-ì a quella attorno alla passione la prospettiva appunto della rcswTezione, come il culmine e l'epilogo della storia di Gesù; quella attorno alla passione precisò alla prima che la morte di Gesù era stata una morte violenta dopo una lunga passione. ln tale fusione, co1ne abbian10 già detto, en1erge però una differenza tra il verbo l[(xcrxw e il verbo napai5{i5wµ1. 11 verbo mxcrxw può anche contenere in sé l'aspetto della n1orte e nella fusione non era necessaria l'esplicita 111enzione; si poteva perciò faciln1entc giungere alla fo1111ulazione

attestata da alcuni testi lucani che Gesù patì e risorse. Il verbo napai5{i5rop1, anche ampliato dall'espressione EÌç XE/paç àv8pmnwv, invece non contiene in sé l'aspetto della morte ed era necessaria la sua esplicita formulazione prima della fosione; si giunse così alla formulazione attestata dalla seconda predizione evangelica che Gesù.fìr cfato in 1110110 cli uo111ini, .fii ucciso, risorse. Lo sviluppo della passione attorno al verbo mxcrxw non dovette avere ampia evoluzione e infatti quello più lungo è contenuto nella prima


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predizione della passione. Più ampia evoluzione ebbe invece lo sviluppo attorno al verbo n:o:po:5{5wµ1.: esso infatti permette di introdurre e specificare le varie fasi della passione dove appunto Gesù passa da persone a persone, da Giuda ai giudei, da questi a Pilato. Ciò spiega perché nella più an1pia narrazione della passione soggiace, come vedremo, appunto lo sviluppo attorno al verbo n:o:po:oiowµ1.

4. Con/ionio con quattro schemi della passione Dopo avere tentato di delineare la storia evolutiva delle singole tradizioni, è utile adesso confrontare questa ricostruzione con quattro sche1ni della storia della passione che possiamo individuare nel NT. Ci riferiamo specificamente nell'ordine alla prima predizione della passione secondo i tre vangeli sinottici, ad At 3, 13-15, ad At 10,28-31 e alla terza predizione della passione prin1a secondo i tre vangeli sinottici poi specifican1ente secondo Matteo e Marco 105 . 4. 1. La prima predizione della passione La prima predizione della passione, come attualmente si legge nei tre vangeli sinottici, comprende: il verbo generico n:o:&ElV preceduto dal verbo &! che esprime la necessità e seguito dall'oggetto n:o.:lìla che esprime la quantità dei patimenti, il verbo àn:ol5o1<1µo:C5&fjvm che esprime l'aspetto formale del rifiuto, la menzione dettagliata delle persone da parte delle quali il figlio dell'uomo deve subire il rifiuto, cioè gli anziani, i sacerdoti e gli scribi, la menzione della morte con il verbo àn:oKro:vefjvo:i, e la menzione della resurrezione. ln questa prima predizione la passione è evocata in niodo generico ed è distinta dalla n1orte. Pure la 1nenzione dei giudei, pur descritta in 1naniera dettagliata nei suoi vari componenti, è ancora generica. L'elenco dettagliato infatti lascia pensare al processo di Gesù davanti al Sinedrio, nia non è evocato alcun avvenin1ento particolare di quello stesso processo. li verbo rxn:oo01aµo:C5&fjvm infatti non richiama alcun avvenimento concreto, ma solo la causa formale per cui il figlio dell'uomo patì molte cose; in questo rns !I testo di At 10,37-40, pur offrendo uno scheina del telaio prc evangelico nella duplice distinzione tra n1inistero in Galilea e 1ninistero in Giudea, in relazione agli eventi della passione si li111ita ad evocare soltanto la n1orte in croce e la resurrezione.


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senso esso può richiamare sia la condanna a mmie pronunziata dal sinedrio sia anche la consegna a Pilato inclusa anche la scelta preferenziale di Barabba e la richiesta esplicita della crocifissione. Possiamo perciò concludere che la prima predizione della passione, pur aperta ad una narrazione più a1npia, rin1ane ancora molto generica. 4.2. Lo schema di At 3,13-15 Il testo di At 3, 13-1 5 evoca ancora degli aspetti concreti della passione di Gesù. Pietro si rivolge ai giudei attribuendo a loro dei fatti che essi, almeno materialmente, non hanno certamente compiuto. Infatti i giudei, fino incluso al verbo àm'1crd V<HE nel v 15, che evoca la mo1ie, sono l'unico soggetto, 111a essi materialmente non hanno ucciso Gesù.

Gli elementi di questo testo sono: anzitutto il verbo napd)wKrxTE che, usato in maniera assoluta, come abbiamo già notato, esprime più l'aspetto dell'alienazione e del rifiuto che non quello della positiva consegna ad altri; inoltre il duplice verbo fipvrycmaBE che esprime il rinnegamento di Gesù 106 ed è legato a due aspetti complementari riferiti allo stesso avvenimento, negativamente la reazione dei giudei alla decisione di Pilato di liberare Gesù e positivamente la richiesta di grazia per un uomo omicida; ancora il verbo ànEKTEivrxTE che rimanda alla morte violenta di Gesù e infine la menzione della resurrezione confermata dalla testimonianza apostolica. In questo testo, che pur attribuisce tutti gli avvenimenti ai giudei, in realtà è evocato soltanto il processo davanti a Pilato e non in tutti gli avvenimenti di quel processo ma solo in quelli che servono meglio ad evidenziare il rifiuto di Gesù da parte dei giudei, quali appunto la reazione alla decisione di liberare Gesù 107 e la richiesta di liberazione di Barabba"", l'uomo omicida. La prospettiva globale di At 3,13-15 infatti è quella del rifiuto di Gesù da parte dei giudei 109 . 106

Nota J. OUPONT, Les Actes des Apòtres, cit., 54, che il verbo fipvf,aaa'Be è quello stesso usato in At 7,35 a proposito di Mosè: Mosè è considerato la figura di Cristo rifiutato dai suoi co1npatrioti. 107 Osserva C.H. BARRETT, A CriNcal and E~cegetica/ Co1111nenta1y on the Acts ofthe Apostles, Edinbourgh 1994, 198 che Luca sottolinea più degli altri la riluttanza di Pilato a condannare Gesù. 108 Nota G. SCHJLLE, Die Apostelgeschichte des Lukas, cit., 127, che il verbo xapf!;Ea8a1 era un termine tecnico giuridico per indicare !a concessione di una ainnistia. 109 Si avverte una certa re1niniscenza al Sal 118 (117), 22 al quale più chiaramente si allude in At 4, 11.


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Quanto al processo davanti al Sinedrio, non pare che esso sia richiamato da alcun elemento. Nel verbo napEl5m1ffXTE potrebbe essere allusa la sentenza di morte pronunziata dal Sinedrio 110 ; in realtà esso richiama negativamente più il rifiuto formale, al limite pure la consegna a Pilato, che non positivamente la sentenza di mo11e emessa dal Sinedrio. La stessa osservazione può essere proposta anche per il verbo à.nE1<rdvarE, che potrebbe richiamare la condanna a morte, ma, introdotto dopo l'evocazione del processo davanti a Pilato e immediatamente prima della menzione della resurrezione, non può alludere se non alla morte reale di Gesù. L'attribuzione ai giudei si spiega facilmente perché essi, avendo rifiutato Gesù, sono stati la causa for1nale della sua n1orte dete11ninandone anche la tnorte reale. Possiamo allora concludere che il testo di At 3,13-15, pur riferendo qualche elemento della storia della passione di Gesù, ancora non offre una descrizione co1npleta. J~sso tuttavia può contenere una tradizione e testin1oniare perciò una tendenza verso una co1npleta narrazione della storia della passione di Gesù. 4.3. Lo schema di At 13,27b-31 Gli eventi della passione e della morte di Gesù sono ancora evocati da Paolo in At 13,27b-31, nel contesto del suo discorso ad Antiochia di Pisidia 111 . In questo testo e1nerge la stessa tendenza che era en1ersa già nel testo precedente di At 3, 13-15: l'attribuzione ai giudei della piena

110

Secondo W. DE BooH., Die Apostelgeschichte, Wupperta! 1965, 62, nel verbo rco:po:8fOwµ1 si può intravedere il tradimento di Giuda; E. I-IiiNCI !EN, Die Apostelgeschichfe, cit., 204, si liinita solo a notare che il verbo 1rcxpaO[Owµ1 è un tennine tecnico del Kerigrna priinitivo (I Cor 11,23), n1a in Luca indica la consegna agli uon1ini, cioè ai ron1ani; cfr anche G. SCHILLE, Die Apostelgeschichte des Lukas, cit., 127, secondo cui il verbo è un tenninc tecnico assai antico. L'episodio dì Barabba è accennato con la tendenza lucana a scusare i ron1ani. 111 Paolo evoca nel contesto una più lunga storia di salvezza che parte addirittura dagli eventi dell'esodo fino all'ingresso nella terra di Canaan (vv 17-19); poi evoca l'epoca dci giudici fino a Sn111uele (v 20), poi i! regno di Sau! (v 21), fino a Davide, dal cui sen1c, secondo la pro1nessn (v 23), Dio suscitò coine salvatore Gesù. Nei vv 24-25 Paolo continua evocando l'opera dcl precursore. Poi, senza alcun accenno all'allività intern1edia di Ges1'.i, passa ad evocare i fatti della passione.


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responsabilità negli eventi della passione e della morte di Gesù'" fino addirittura alla sepoltura 113 . All'opera dei giudei però si contrappone l'opera di Dio (v 30) 114 che resuscitò Gesù da morte. Le azioni riferite ai giudei sono diverse, scandite nel testo da quattro verbi diretti: Èn?crypmcmv, fJrl)o-rxvw, ÈrÉÀEoav, e8T)1<av. li primo e il terzo verbo 115 sottolineano l'aspetto più di fondo dell'adempimento delle . 116 . ., . ; 1·1 secon do e 1·1 qua1io verb o 117 invece s1. r11er1scono a due Scr1tture avvenimenti concreti: la richiesta a Pilato di eliminare Gesù e la deposizione nella sepoltura. A questi quattro verbi diretti si uniscono dei participi circostanziali che ulterionnente precisano introducendo la menzione di eventi concreti. li primo verbo, Èn?c1)pmoav, è preceduto da due participi aoristi con valore modale: àyvol)oavrEç e 1<pivavrEç. li primo participio ha chiaramente come oggetto il precedente pronome rovrov: i giudei ignorarono Gesù co1ne colui che l)io aveva suscitato per Israele co111e salvatore. Più difficile è stabilire invece la relazione del secondo participio K:pivavrEç. li parallelismo 118 con il precedente participio e la congiunzione 1<ai avrebbero suggerito che il suo oggetto sia la precedente espressione participiale all'accusativo rixç rpmvaç [ .. ] àvayivmoxoµÉvaç: i giudei avrebbero così giudicato le voci dei profeti che si leggono ogni Sabato. Ma in questo modo, oltre la poca coerenza di senso, il verbo br?cl)pwcmv rimarrebbe senza oggeito. Meglio allora riferire l'oggetto participiale a

112 Si può notare che tutte le azioni descritte nei vv 27b-29, fino cioè alla menzione della resurrezione, sono riferite ad un unico soggetto introdotto nel v 27a: "gli abitanti di (Jerusa!en11ne e i loro capi". iu Nel contesto la n1enzione della sepoltura, dopo la deposizione dalla croce, se1nbra assrnnerc un carattere negativo: essa pone de1ìnitiva111cntc fine a tutta la vicenda di Gesù. 11 ~ Cfr ne! V 30 la particella 5{_ (0 OE ecOç i'jy.s1pEv). 115 Rispettiva1nentc ÈtrAl}pmcrav (ade1npiro110) cd ÈrÉilEcrav (co111pirono ). I li> E1nerge nel pri1no e nel terzo verbo il tcn1a dell'ade1npi1nento delle Scritture che però direttainente non interessa al nostro scopo. 117 Rispettivaincnte ànJcravro (chiesero) cd E8171<av (posero). 118 Dal punto di vista strutturale i v 27 è ben costruito; avrc1111no un soggetto iniziale, due participi preceduti da un oggetto, il verbo principale ÈtrA1jp(ùCJCY.V: oi KCY.TOIKOiIVrEç [... ] soggetto roVrov àyvo1Jcravrcç oggetto - participio rlr.ç <pmvàç [ .. ) KpfvavrEç oggetto - participio ÈHil!jpwCYav verbo principale.


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questo verbo, attribuendo al participio 1<p{vo:vrE1:; un valore assoluto 119 . In questo 1nodo si ottiene un senso più coerente: i giudei, avendo ignorato Gesù e avendo istruito un processo, portarono a compimento le voci dei profeti. Il participio 1<p{vo:vr1x; facilmente evoca così il processo che i giudei istruirono forn1ulando anche una sentenza di 1no1ie 120 . li secondo verbo, nrryao:vro, è preceduto da un solo participio aoristo EVpovrtx:;, con valore avversativo: benché non avesserero trovato alcun motivo di condanna, i giudei chiesero a Pilato che Gesù fosse eliminato (avo:ipt:&i]vo:r). li participio t:vp6vrt:ç esprime l'esito del processo: i giudei non trovarono alcun motivo di condanna. Ciò però concorda solo in parte con le naiTazioni evangeliche; solo Matteo 121 infatti ci infonna che i giudei cercavano una falsa testin1onianza contro Gesù n1a non ne trovarono, benché si fossero presentati molti falsi testimoni. In ogni caso, secondo tutti i tre vangeli sinottici, dal Sinedrio Gesù usci carico di una sentenza di morte per avere egli risposto affermativamente alla domanda se era il Cristo. Di ciò il testo di At 13,28 non dice nulla. li terzo verbo, ÈTÉÀECJO:V, non è legato ad alcun participio; esso stesso infatti ha un valore subordinato, essendo intt·odotto dalla particella Direttamente questo verbo si riferisce alle Scritture: i circostanziale giudei portarono a compimento tutto che era stato scritto (mxvro: dx ycypo:pµÉvo:) a riguardo di Gesù (nepz' o:vroiJ). Esso però è assai allusivo: posto infatti tra la menzione della richiesta dei giudei a Pilato e la menzione della deposizione, richiama tutti gli avvenimenti intermedi che i giudei con la loro richiesta attuarono, portando così a compimento le Scritture. In particolare l'allusione può essere a tutte le sevizie da Gesù 122 subite e

mç.

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H. CONZELMANN, Die Apostelgeschichte, Tiibingen 1972~, 84, nota !a difficoltà della frase, ricollega però l'oggetto rCTç rpmvO:ç al precedente participio e traduce: "haben diesen und die SprUchc der Propheten nicht erkannt [ ... ] und haben sie so durch ihr lJrtei! erfUllt"; cfr anche E. HANCHEN, Die Aposte/geschichte, cii., 394; W. DE BOOR, Die Aposte!geschichte, cit., 62, invece ritiene che il tern1ine rO:ç cpwvO:ç sia oggetto dcl verbo 1CÀ!]p0<1J, e così anche J. JERVELL, [Jie Aposte!geschichte, cit., 357; l-I.J. HOLTZMANN, Die Apostelgeschichte, cit., 35, cerca una via intcnnedia e ritiene che rCTç rpwvO:ç sia pri1na di tullo oggetto del verbo àyvol]ao:\ITEç e poi è da estendere anche al verbo ÈnAt]pwcro:v. 11 Ciò pare confennato anche dal v 28 dove è espresso l'esito di ta!e giudizio: non fu trovato alcun n1otivo di 1norte; cfr anche C.H. BARIU.:lT, A C'ritica/ and Exegetica/ Con1111entlt1y on the Acts t?fthe Apost!es. cii., 640. 121 Cfr Mt 26,60; Marco si lin1ìta soltanto a notare che le false testin1onianze non erano concordi (cfr rvrc 14,56.59); Luca a riguardo non dice nulla. 111 Cfr ls 50,3-7.

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Attilio Gangemi

soprattutto a Il a sua morte PJ - . Infine l'ultimo verbo, EfJT)lfaV, si riferisce alla deposizione del corpo di Gesù nel sepolcro. Esso è preceduto dal participio KO:fJEAOV"ffç riferito alla deposizione dalla croce ( i:bro rov ç'vJcov). Sorprende questa attribuzione ai giudei della deposizione dalla croce. A meno che con l'espressione KO:fJEÀOVTEç TOV ç'vA,ov non si voglia alludere soltanto alla richiesta di Giuseppe di Arimatea 124 a Pilato del corpo di Gesù 125 , ci si può chiedere se siano stati i giudei 126 o non piuttosto i ron1ani a compiere 127 n1aterialn1ente la deposizione . La reposizione nel sepolcro invece può 128 essere facilmente riferita ai giudei ; tutti i vangeli infatti ci infonnano che fo Giuseppe di Arimatea a deporre Gesù nel sepolcro'". Prescindendo dall'osservazione iniziale che gli abitanti di Gerusalemme e i loro capi non conobbero Gesù, gli elementi concreti che emergono nel testo di At 13,27b-3 I in relazione alla passione sono i seguenti: anzitutto il processo davanti al Sinedrio, evocato dal participio Kpfvo:vrEç, che culmina nel fatto che i giudei non trovarono alcun motivo di condanna; inoltre il processo davanti a Pilato, evocato soltanto dalla richiesta dei giudei di eli1ninare Gesù; poi ancora gli scherni e la n1orte, sen1plicen1ente sottintesi nel con1pin1ento di ciò che era stato scritto a riguardo di Gesù; la deposizione dalla croce; la reposizione nel sepolcro; infine, dopo la n1enzione della resurrezione, sono evocate pure le apparizioni

ano

ewcpery) Troviamo perciò evocate nel testo di At 13,27b-3 I, in maniera più o 1neno esplicita quasi tutte la varie f3si della passione: il processo davanti al Sinedrio, il processo davanti a Pilato, gli scherni e la morte, la deposizione 13 =' Cfr !s 52,13-53,12. Che siano stati i giudei a uccidere Gesù secondo G. SCHILLF, Die Apostelgeschichte des Lukas, cìt., 295, en1erge anche dal legarne gramrnaticale. 12 ~ Cfr Mt 27,57-61; Mc ! 5,43-45; Le 23,5 l-52; Gv 19,38. 115 (jiovanni riferisce l'esplicita richiesta dei giudei a Pilato che !Ossero spezzate le gan1be dei crocifissi e fossero tolti via, cfr Gv 19,3 ! . 126 In !vie J 5,46 e Le 23,53 però si legge lo stesso participio Ka8tilcVv (avendolo deposto) riferito appunto a (Jiuseppc. 127 (ìiovanni appunto 1ncnziona csplicitaincntc un intervento dei soldati in questo senso (cfr (iv ! 9,32). 128 Spiega \V. NEL, Acts, ciL, 159, che Giuseppe di Arin1atca e Nicode1no che seppellirono Gesù sono presun1ibi!Jnente visti co1ne rappresentanti dcl g'1udaismo; secondo R. PESCI-I, Die Aposte!geschichte, Il, Zlirich - Einsiede!n - KOln 1986, 37, allribuendo ai Giudei l'opera della sepoltura fa!ta da Giuseppe di Arin1atca, Luca vuole sollolineare ancora di più per contrasto !'opera di Dio. 129 Cfr :tvlt 27,59; !vie 15,46; Le 23,53; Gv 19,42.


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Dovrà patire n1olte cose

dalla croce, la reposizione nel sepolcro 130 , le apparizioni; non si dice nulla né del tradimento di Giuda né della cattura di Gesù. All'interno delle singole parti sono evocati però solo alcuni elementi. Nel processo davanti ai giudei, come abbiamo già notato, non si dice nulla dell 'inte1rngatorio del sommo sacerdote, della dichiarazione di Gesù di essere il Cristo e della conseguente accusa di bestemmia che determina la sentenza di morte. Nel processo davanti a Pilato è evocata soltanto la richiesta dei giudei: tutti gli altri elementi sono sorvolati, allusivamente compendiati nel compimento di ciò che era stato scritto; assume invece maggiore rilievo il particolare della deposizione che da Marco e Luca è solo fugacemente accennato mediante il participio TCa8sÀmv 131 • Possiamo allora concludere che in At 13,27-31 troviamo uno schema quasi completo della storia della passione di Gesù. Sono evocate, come dicevamo, in maniera più o meno esplicita quasi tutte la varie fasi della passione; non sono però menzionati tutti i vari elementi che nella narrazione della passione evangelica caratterizzano ciascuna singola fase. Forse l'autore degli Atti, come in 3, 13-15, preferì riprendere e mettere in bocca a Paolo solo quegli elementi che servivano meglio ad evidenziare il disconoscimento e il rifiuto di Gesù da parte dei giudei fino alla deposizione nel sepolcro dove si sarebbe così definitivamente conclusa la vicenda di Gesù di Nazareth. 4.4. La terza predizione della passione Infine la terza predizione della passione (Mt 20,17-17; Mc 10,32-34; 18,31-33), come la seconda, gravita e propone uno sviluppo attorno al verbo napai5{i5wµi. Prescindendo dai vari elementi ambientali e circostanziali, il punto di pmienza è costituito appunto dal verbo napai5081}crera1, al futuro passivo, con cui Gesù preannunzia la sorte del figlio dell'uomo, cioè di se stesso. Nell'analisi precedente abbiamo distinto due stadi nella terza predizione della passione. Al primo stadio si riferisce direttamente Luca, il secondo stadio, ampliato, è ripreso poi da Matteo e Marco. 130

Spiega J. RoLOff, Die Apostelgeschichte, GOttingen 1981, 206, che il rimando alla sepoltura sottolinea bene la realtà della 1no1ie; secondo G. ScHILLE, Die Apostelgeschfchle des Lukas, cit., 295, la sepoltura di Gesù esercita nel kerigma un ruolo importante perché docuinenta la 1norte. 131

Cfr Mc 15,46; Le 23,45 (cfr At 13,29: m8dovreç

coro roii çvÀ.ov).

scrive solo: "avendo preso (Àaf3illv) il corpo"; cfr anche Gv 19,38 (~pev).40 (EA.af3ov).

Matteo


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Attilio Gange1ni ----

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Il primo stadio lega il verbo napaooery(Jl;rm direttamente a1 w 11; E8Vlxriv. Le azioni seguenti che vengono attribuite a loro, riscontrabili anche nella narrazione della passione, indicano che questi levEm v non sono generici popoli pagani, ma sono specificamente i romani nelle cui mani Gesù fu consegnato dai giudei. Le azioni riferite a loro passano dai generici scherni 132 alla più specifica flagellazione (µm:my6w) e alla ancora più specifica morte violenta (ànoKTEivw) 133 . Questi elementi ci riportano appunto al pretorio di Pilato 134 . Possiamo allora concludere che la terza predizione nel suo primo stadio, riprende alcuni aspetti del processo davanti a Pilato, precisamente i maltrattamenti, che culminano nella morte. Emerge così la seguente tematica: Gesù fu consegnato ai pagani e questi lo hanno maltrattato, flagellato ed ucciso. Il secondo stadio, quello ripreso da Matteo e Marco, ampliando riferisce il verbo napaooerycwrm ai sacerdoti e agli scribi, cioè al Sinedrio. In questo modo con il verbo napaoiowµi non si allude più alla consegna di Gesù a Pilato da parte dei giudei, come nello stadio precedente, ma alla consegna ai giudei logicamente da parte di Giuda. In questo secondo stadio il verbo napaoiowµ1 è ripetuto due volte: la seconda volta, in fonna attiva (napaoo5aovmv), è chiaramente riferito come soggetto ai giudei. Il secondo stadio chiaramente evoca il processo davanti al Sinedrio che si concluse appunto con la condanna a morte di Gesù. Non sono però indicati i motivi per cui i giudei pervennero a quella sentenza: il testo si limita solo ad indicare il giudizio di condanna ovviamente espresso al futuro (KaTaKp1vof5mv). Possiamo allora determinare gli elementi che caratterizzano, nel suo stadio definitivo, la terza predizione della passione. Prescindendo dalla resu1Tezione, essi sono specifica1nente quattro. Il pri1no elemento è costituito anzitutto dal verbo napaooeryanm che, almeno nel secondo stadio, può includere bene anche il tradimento di Giuda; segue poi il processo davanti al Sinedrio, di cui si evoca soltanto la condanna a n1orte; segue poi ancora il

processo davanti a Pilato, di cui si evocano solo gli scherni e la flagellazione; segue infine la morte, presentata come un tutt'uno con gli scherni precedenti, di cui costituisce il naturale epilogo. 131 A riguardo Matteo usa un so!o verbo (rO iµJrafl;ca), Marco due (ȵJTail;ov<J"tV ȵnrV<J"ova1v), Luca tre (éµna1x81/<J"ETa1 - Vf3p1a81]aEra1 - ȵnrva81]aEra1). 133 Matteo introduce i I verbo aravpOw. 134 Non sono accennati però altri aspetti di quel processo, quali il dialogo tra Pilato e i giudei con !a conseguente scelta di Barabba e la richiesta di 1no11e per Gesù.


Dovrà patire 1110/te cose

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La prospettiva di questa terza predizione è quella di un Gesù consegnato che subisce ogni sorta di oltraggi: dalla condanna a morte alla sua esecuzione. Le due parti, il processo davanti al Sinedrio e quello davanti a Pilato, si integrano e si completano. Possiamo dire che nel processo davanti al Sinedrio è pronunziata la sentenza di mmie, nel processo davanti a Pilato è eseguita in un crescendo di patimenti che culminano nella croce. 4.5. Rilettura sintetica Gli schemi di questi quattro testi considerati testimoniano un cammino verso la completa narrazione della storia della passione di Gesù quale è proposta da tutti i vangeli. Gli ultimi due testi, quello di At l 3,27b-3 l e la terza predizione offrono uno schema più completo che comprende il processo davanti al Sinedrio, il processo davanti a Pilato e la mmie. li testo di At l 3,27b-3 l sorvola gli scherni e la morte, insinuandoli nel compimento delle Scritture; aggiunge però la menzione della deposizione dalla croce, della reposizione nel sepolcro e delle apparizioni del Risorto. La terza predizione della passione invece non dice nulla né della deposizione, né della reposizione, né delle apparizioni, ma, almeno nel secondo stadio, insinua anche il tradimento di Giuda di cui, al contrario, At 13,27b-3 I non dice nulla. Quanto poi ai singoli elementi, possiamo dire che ogni testo evoca dei particolari diversi della più ampia storia della passione. Nella caratterizzazione di questi particolari possiamo prescindere dalla prima predizione della passione che non allude a specifici episodi concreti ma soltanto all'aspetto fonnale del rifiuto, anche se operato da paiie del Sinedrio. Gli altri testi invece evocano particolari concreti. li testo di At 3, 13-15 evoca vagamente il rifiuto da parte dei giudei ma specificamente la loro reazione davanti all'intenzione di Pilato di liberare Gesù e la richiesta esplicita di liberare Barabba, l'uomo omicida. Il testo di At 13,27b-3 l evoca nel contesto del processo davanti al Sinedrio il giudizio di condanna nonostante la vana ricerca di 1notivazioni. La terza predizione della passione più esplicitamente evoca la sentenza di morte pronunziata dal Sinedrio e gli scherni nel pretorio di Pilato, in particolare la flagellazione. Possiamo allora concludere che, benché At 13,27b-3 l e la terza predizione si avvicinino di più nello schen1a alla narrazione della passione, nessuno di essi, sia nello sche1na, sia nei particolari ci offre una descrizione completa della storia della passione di Gesù quale invece è proposta nelle specifiche narrazioni evangeliche. In questo senso possiamo dire che la


Attilio Gangen1i

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narrazione evangelica della passione di Gesù rappresenta l'ultimo stadio di un cammino progressivo che parte dalla professione di fede pasquale o anche dalle stesse parole di Gesù.

5. La narrazione della passione Prescindiamo adesso dai problemi sollevati dal confronto tra la nairnzione della passione dei vangeli sinottici e quella del vangelo di Giovanni, riguardanti la preghiera di Gesù al Getsemani e il processo davanti al Sinedrio; è sufficiente notare che Giovanni, pur omettendo questi episodi, certo non li ignora 135 . Fennando la nostra attenzione solo alle narrazioni sinottiche, possiamo costatare che queste contengono in maniera organica e ampliata gli elementi proposti in maniera più frammentaria dai testi che abbiamo considerato. Anzitutto la tradizione a cui direttamente si ricollega la narrazione della passione è quella costituita dal verbo ;r;apao{omµz, che troviamo nella seconda e terza predizione della passione. Questo verbo infatti scandisce le varie tappe del cammino di passione di Gesù; con esso è descritta in assoluto . d't G'1uda 136 . de1·137 , 1a 1oro consegna d'1 I ,azione · , Ia sua consegna d'1 Gesu' a1. g1u 138 Gesù a Pilato , la consegna ancora di Pilato ai giudei 139 . Paradossalmente Giovanni con questo verbo caratterizzerà poi anche il dono dello Spirito 140 . Quanto poi al processo davanti al Sinedrio, il Sinedrio stesso anzitutto, nei suoi vari con1ponenLi, radunatosi per giudicare Gesù, è alluso nell'elenco 135

Alcuni passaggi del vangelo di G·iovanni sembrano alludere appunto a questi episodi. Per la preghiera di Gesù al Getse1nani possia1no citare Gv 6,38-40; Gv 12,27 in relazione soprattutto a Mc 14,35; Gv 18,11 dove Cìesù 111enziona il calice. Per il processo davanti al Sinedrio possian10 citare Gv 2,19-20; 10,23-24; 11,47-53; inoltre la 1ncnzione di Caifa in 18,13.24 tacitainente allude a quel processo. 136 Cfr Ml 26,21.23.24.25.46; 27,3.4; Mc 3,19; 14,18.21.42; Le 22,21.22.48; Gv 6,64. 71; 12,4; 13,2.11.21; 18,2. Tutti i vangeli concorde1nente testimoniano la presenza di Giuda al Getse1nani; i tre sinottici parlano anche del bacio che, secondo N1atteo e Marco, è il segnale convenuto (Mt 26,4 7-50; Mc 14,43-45; 22,4 7-48; Civ 18,3). 137 Cfr Ml 26, 15.16.48; Mc 14,10.11.44; Le 22,4.6; Gv 18,5.36. 138 Cfr Mt 27,2.18; Mc 15, I. I O; Le 20,20; Gv 18,30.35; cfr anche At 3, 13. 139 Cfr Le 23,25: "diede (rcapÉOWKt:V) Gesù alla loro volontà"; Gv 19,16: "lo diede (napÉOWKEV) a loro (aVrolç) perché fosse crocifisso". Matteo e Marco però non 111enzionano i giudei; scrivono solo che Pilato lo diede (napÉOWKEv) perché fosse crocifisso (l'va cmxvpm8ff> (Mt 27,26; Mc 15,15). 14 Cfr Gv 19,30: napÉ8WKEV rO nveiJµa (diede lo Spirito).

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Dovrà patire molte cose

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della prima predizione della passione, dove sono menzionati gli anzwm, 1 sacerdoti e gli scribi. Questi stessi componenti compaiono nel processo davanti al Sinedrio. Mt 26,57 nan-a che, dopo la cattura, Gesù fu condotto 141 dal sacerdote Caifa dove si erano radunati anche gli scribi e gli anziani ; Mc 14,53 parla di tutti "i sacerdoti, gli anziani e gli scribi"; Le 22,66 ancora menziona gli "anziani del popolo, i sacerdoti e gli scribi" 142 . Inoltre l'affermazione assoluta di At 13,28, che i giudei non trovarono in Gesù motivo di condanna, come abbiamo già notato, solo in parte concorda con la nmTazione evangelica. Questa invece con maggiore precisione ci informa che l'accusa di bestemmia e la conseguente condanna a morte fu fonnulata in seguito all'affennazione di Gesù, provocata questa a sua volta dalla domanda di Caifa 143 • Infine la sentenza di condanna allusa ancora in At 13,29 (1<p{vavrEç) ed esplicitamente menzionata da Matteo e Marco nel secondo stadio della terza predizione (1<0:7:0:1<p1vof5cnv avrov eavanp), concorda pure con la nan-azione evangelica. Gli stessi due evangelisti, Matteo e Marco, riferiscono infatti che alla domanda di Caifa tutti risposero che Gesù era reo 144 di morte • Quanto al processo davanti a Pilato, tre elementi emergono nei testi proposti che concordano con le nairnzioni evangeliche: il tentativo di Pilato di liherare Gesù, la reazione dei giudei e la loro richiesta di Barabba, gli schemi tra cui soprattutto la flagellazione. Nel discorso ai giudei in At 3,13 Pietro riferisce del giudizio a cui Pilato era pervenuto di doverlo liberare (1<pivavroç È1<dvov àn:oili.bv). Le narrazioni evangeliche non menzionano esplicitamente tale giudizio ma del suo tentativo di liberare Gesù; ciò ovviamente presuppone una convinzione di innocenza. Tale convinzione di Pilato dell'innocenza di Gesù emerge soprattutto nelle narrazioni di Luca e di Giovanni dove esplicitamente Pilato

Nel seguente v 59 Matteo parlerà dei sacerdoti e di tutto il Sinedrio. Secondo Luca Gesù dopo !a cattura fu condotto nella casa di un sacerdote; non si traila però di un sacerdote qualsiasi n1a "del sacerdote (rofi ixpxzt:pÉwç)'', di cui però l'evangelista evita di riferire il no1ne. 3 l.+ Secondo Matteo e Marco la do1nanda di Caifa segue l'accusa dci due falsi testilnoni circa la distruzione e ricostruzione del te1npio (cfr Mt 26,61; Mc 14,58). 144 Così Mt 26,66 (i:'voxoç 61av6-rov Èariv) e Mc 14,64 (fvoxov eTva1 61av6-rov). Secondo Le 22,71 i sinedriti si li1nitarono a dire soltanto di non avere più bisogno di testi1noni, senza esprin1ere diretlainente una reità di 1norte n1a soltanto alludendola implicitan1ente. l.tl

l.tl


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dichiara di non trovare in lui alcun motivo di condanna'". La reazione dei giudei e soprattutto la richiesta della liberazione di Barabba segue alla scelta tra Gesù e Barabba proposta ai giudei dallo stesso Pilato ed è narrata da tutti i vangeli: esplicitamente i giudei chiesero la liberazione di Barabba 146 ed esplicitamente chiesero la crocifissione di 147 Gesù • Infine gli evangelisti Matteo, Marco e Giovanni nmTano gli scherni e la flagellazione 148 • Prima è narrata la flagellazione ordinata da Pilato 149 poi sono narrati gli scherni compiuti dai soldati' 50 . Nei racconti evangelici seguono poi le narrazioni degli avvenimenti seguenti, specificamente della crocifissione 151 , della sepoltura'" e delle apparizioni 153 • A questi eventi è riservato ampio spazio dagli evangelisti nelle loro stesse nmnzioni. Soprattutto largo spazio è riservato alle narrazioni della crocifissione dove sono inseriti molti elementi che non troviamo in alcuno dei testi evangelici delle predizioni e degli altri testi del NT che abbiamo considerato'". 145

Cfr Le 23,4.14-16.22; soprattulto 23,26: "avendolo castigato lo libererò (Ò:noÀVO'w)" (iv 19,!2: "Pilato cercava di liberarlo (ànolLVcraz)". Mt 27,18 e Mc 15,10 notano che Pilato sapeva che lo avevano consegnato per invidia; inoltre Matteo introduce l'episodio dcl sogno della 1nog!ie di Pilalo che richian1a l'attenzione su "quel giusto (Mt 27,19)" e l'azione si1nbolica di lavarsi le n1ani (Mt 27,24). 146 Il dile111n1a tra (Jesù e Barabba appare esp!icita1nente in Mt 27,21; in i'v1c 15,1 ! e Gv 18,39 Pilato pone la do1nanda 1na orientando l'attenzione verso (icsù; in Le 23,18 Pilato non pOne ne1nn1eno la do1nanda 111a la richiesta di liberare Barabba segue alla sua intenzione di castigare (:rco:10EiJO'o:ç) e liberare (ànolLVO'<») Cìesli. 147 Cfr Mt 27,22.23; Mc 15, 13.14; Le 23,21.23; Gv 19,6.15. l-!S Luca non narra né gli scherni né la flagellazione. Quest'u!ti111a è probabilinente adon1brata, con il duplice uso dcl verbo no:10t:·Vco, nel proposito di Pilato di castigare Gesù per poi liberarlo (cfr Le 23,16.22). Gli scherni, in 111anicra più succinta, sono ritCriti ad Erode (v 11). Infine Luca non narra l'incoronazione di spine. 149 Che la flagellazione sia stata ordinata da Pilato en1erge in Malteo e Marco dall'espressione cppo:~ILÀillO'o:ç no:pé8wKEV i'va aro:vpwBfi (avendolo fatto flagellare lo diede perché.fosse croc{fisso) il cui soggetto è Pilato (cfr Mt 27,26; Mc 15,15 che n1uta l'ordine degli cle1nenti); Giovanni esplicitan1ente narra che Pilato fece flagellare (Fpacn:iycoaev) Gesli (cfr(Jv 19,l). 150 Tra questi scherni è inclusa anche l'incoronazione di spine; cfr Ml 27,27-31; f\llc 15,16-20; Gv 19,2-3. 151 Cfr Mt 27,32-56; Mc 15,20b-41; Le 23,26-49. 151 Cfr Mt 27,57-61; Mc 15,42-47; Le 23,50-56. 153 Cfr Mt 28,1-20; Mc 16,1-20; Le 24,1-53. 154 Quanto alla deposizione dalla croce essa non dovette avere alcun valore nelle narrazioni evangeliche. In l\1arco e Luca essa è accennata con il participio aoristo Ka8é'À(/J\I,


Dovrà patire n10/te cose

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Non interessava in questo studio la considerazione specifica delle narrazioni evangeliche della passione. Al nostro scopo era sufficiente notare che esse contengono, ampiamente sviluppati, pur cou diverse accentuazioni nei vari evangelisti, tutti gli elementi contenuti sia nelle tre predizioni della passione, sia negli altri passaggi evangelici, sia anche nei testi della prima predicazione apostolica che alludono agli eventi della passione di Gesù.

6. Conclusione

Possiamo così concludere che sia le tre predizioni della passione, sia gli altri passaggi evangelici considerati, sia gli altri testi degli Atti degli Apostoli e dell'epistolario paolino nella loro forma scarna e schematica, non riprendono e riassumono un racconto più ampio e già elaborato quale è la narrazione della passione nella forma attuale tramandataci dai vangeli, bensì, al contrario essi stessi testilnoniano la progressiva riflessione e anche il faticoso ca1nmino della pri1nitiva co1nunità verso la formazione di un racconto più ampio, elaborato e completo in tutte le sue parti della passione di Gesù. Partendo dalle più antiche formulazioni sulla passione di Gesù e anche dalla primitiva professione di fede, si giunse man mano ad uno schema completo del mistero di Gesù. li punto di partenza di questo schema è la consegna di Gesù ai giudei da parte di Giuda. Più a monte il punto di partenza può essere anche il fatto che Dio ha dato il suo figlio; questo elemento però può essere contemplato nella fede ma non può essere nanato: per questo, pur potendo costituire la prospettiva di fondo, non può entrare nella narrazione. Gli elementi seguenti sono molteplici. Anzitutto è narrato il processo davanti al Sinedrio che emise la sentenza capitale. Segue poi la consegna di Gesù ai romani con la conseguente richiesta della crocifissione: i vangeli sinottici non spiegano il motivo di tale richiesta; Giovanni lo fa dire dagli stessi giudei i quali dichiarano che a loro non è lecito uccidere alcuno: essi non avevano il potere di eseguire una sentenza capitale. Nel pretorio di Pilato Gesù subì ogni sorta di scherni e in particolare fu flagellato; poi,

riferito con1e soggetto a Giuseppe di Arin1atea (cfr Mc 15,46; Le 23,53). Mt 27,59 scrive solo: "avendo preso (Aaf3ÙJv) ... "; Gv 19,38 usa, ancora con soggetto <3iuseppe d' Arin1atea, invece il verbo 1]pEV ("venne e prese"), riservando poi il verbo Àaµf36.vw ai due sogge!ti: (ì-iuseppe d' Arin1atea e N icoden10.


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Attilio Gangen1;

dietro l'insistenza dei giudei fu ucciso, specificamente con la morte in croce. Dopo la morte fu seppellito: la tradizione evangelica sapeva che fu messo a disposizione di Gesù il sepolcro di un ricco sinedrita, un certo Giuseppe di Arimatea. Alla sepoltura seguì la resunezioue e a questa seguirono le apparizioni. La resurrezione però, fondamentale nella professione dì fede, non può costituire oggetto di narrazione, tanto più che nessuno vide Gesù risorgere e perciò nessuno può raccontare come egli sia risorto. Ciò spiega, diremmo, il vuoto che si determina nelle narrazioni evangeliche tra la sepoltura e le apparizioni; la resurrezione rin1ane un 1nistero nascosto in Dio e le nanazioni evangeliche rispettano tale mistero passando subito dalla sepoltura alle apparizioni. Emerge allora il seguente schema ripreso e sviluppato dalle narrazioni evangeliche: la consegna ai giudei da parte di Giuda e la cattura; il processo davanti ai giudei con la sentenza di morte; il processo davanti a Pilato con la flagellazione, gli schemi e la deliberazione di uccidere Gesù con la pena della croce; la sepoltura; le apparizioni.

7. Due do111ande e111ergenti Emergono qui due domande alle quali, alla luce di quanto ahbiamo man mano proposto, tentiamo di dare una risposta. Quante in realtà sono le predizioni della passioni, una o molteplici come appare dalle narrazioni evangeliche? Che cosa realmente Gesù predisse prima della sua passione? La risposta alla prima domanda in certo senso dipende dalla risposta alla seconda. Quanto alla prima domanda abbiamo a suo tempo individuato due nuclei di partenza nella riflessione primitiva, il primo legato al verbo n:aaxm, il secondo legato al verbo n:apaò{òmµ.z. Abbiamo concluso che dal primo verbo, n:aazm, si sviluppa una riflessione che culmina nella prima predizione della passione; dal secondo verbo n:apaò{òmµz si sviluppa poi una riflessione contenuta nella seconda e ampliata nella terza. Tutte le altre predizioni nel corso della nmrazione evangelica gravitano, come abbiamo già notato, attorno a questi due nuclei fondamentali. Tra questi due nuclei però è difficile stabilire una relazione; forse il secondo, quello gravitante attorno al verbo n:apaòiòmµz, può rivelare un tentativo di ampliare e precisare quello gravitante attorno al verbo n:aaxm.


Dovrà patire 1110/te cose

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In questa prospettiva il problema non è più se Gesù predisse una o più volte la sua passione, ma quante fonne di predizione ci ha tramandato la comunità primitiva. Formulata in questo modo, la domanda trova una più facile risposta: la comunità primitiva ha riflettuto e tramandato due fonne di predizione della passione di Gesù: la prima appunto espressa con il verbo irao-xm, la seconda con il verbo iro:po:owmµi. Delle due forme la seconda si prestò a maggiore approfondimento e sviluppo perché era facile legare ad essa i vari passaggi della passione di Gesù, fino allo schema completo che soggiace alle attuali narrazioni della passione, le cui varie fasi sono caratterizzate, come si è già notato, appunto dal verbo iro:po:ofomµ1. Quanto alla seconda domanda, cosa realmente preannunziò Gesù, la risposta appare ancora più difficile. Come abbian10 già indicato, le varie predizioni della passione, a cui segue la 1nenzione della resurrezione,

risultano probabilmente dalla fì.tsione di formule di predizioni prive della menzione della resurrezione e la primitiva professione di fede. In questa prospettiva è difficile ritenere che le formule quali ci sono state tramandate dalle narrazioni evangeliche contengano le esatte parole di Gesù. Ciò non vuol dire che Gesù non abbia realmente previsto e anche preannunziato la sua passione, 1norte e resurrezione. Se la co1nunità pritnitiva forn1ulò e inise in bocca a Gesù delle predizioni sulla sua passione, morte e resurrezione, è da ritenere che si dava una tradizione appunto in tal senso.

Una testimonianza a riguardo potrebbe essere costituita dal testo di Mt 27,62-66, dove è narrata la richiesta dei giudei a Pilato di far sigillare il sepolcro di Gesù fino al terzo giorno, essendosi ricordati delle sue parole con cui aveva predetto la sua resurrezione: "dopo tre giorni risorgerò (µErfx rp{lç gµÉpo:ç iydpoµm)" (v 63). Subito dopo (v 64) i giudei prevedono cosa i discepoli potrebbero dire al popolo: "è risorto da m011e (ryyÉpel) airo rwv vn:pwv)". li linguaggio utilizzato nelle due espressioni risente della

fonnulazionc della primitiva professione di fede, ma il testo può anche rispecchiare una antica tradizione secondo la quale Gesù predisse che avrebbe patito, che sarebbe 1norto, n1a che poi sarebbe anche risorto.



Synaxis XIX/I (2001) 79-115

DIO AFFIDA L'UOMO ALL'UOMO FONDAMENTI DELL'ACCOMPAGNAMENTO ALL'AMMALATO TERMINALE**

GAETANO ZAMMJTTI*

Introcfuzione

La crescente incidenza di malattie croniche e degenerative, nnita agli attnali trattamenti medici che permettono di rallentarne il processo, fa assistere oggi a un notevole prolungamento del "morire". Per la conseguente dilazione nel ten1po le "prove" che acco1npagnano il 111orire assu1nono un peso molto più grave. Tutto questo si verifica proprio in una cultura, quale quella contemporanea, che si ossessiona a negare la morte. Non avendo più parole capaci di far vivere socialmente la morte, si tende ad affermare nei confronti del malato terminale lo zelo igienista che mai come oggi ha indotto a porre i morenti dietro le quinte della vita per sottrarli alla vista dei vivi. A ciò si aggiunge l'attitudine dell'uomo contemporaneo a controllare la propria morte, espressione dell'estensione della mentalità tecnico-scientifica volta a Ila programmazione e al dominio anche del morire. Oggi, dice Ferdinando Camon, si n1uore con cuore e cervello innestati ai fili, che finiscono in uno strumento registratore. E il personale curante è ormai un'équipe di meccanici impegnati a badare che la flebo sgoccioli e che l'ossigeno arrivi. 1~ la 1norte ù1tubata, segno e deriva dell'impoveri1nento che il morire oggi subisce; un segno che immiserisce la civiltà che l'ha reso possibile'. «Nelle discussioni sull'eutanasia, prevale se111pre più, nonostante il 111ellifluo senlin1enlalis1110, non la tragedia di chi sceglie di porre fine al!a propria vita e al proprio dolore, 1na l'igicnisn10 sociale di chi vuole elin1inarc persone

*Baccelliere in Teologia ** Estratto della tesi di Baccalaureato presentata nello Studio Teologico S. Paolo di Catania nell'anno accadenlico 1999-2000, sotto la direzione del Prof. Salvatore Consoli. 1 Cfr f. C1\MON, Così si speg,ne I '1101110 11u1cchi11a, in C'or!/Ìni. ('apire la 1norte pel" crescere la vita, Ro1na 1996, 12-43.


Gaetano Za1ntn;tti

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inutili e la schifiltosa sensibilità di chi vo1rebbe togliere di 1nezzo chi soffre perché la vista de!Je sue sofferenze gli guasta l'appetito» 2.

La morte in ospedale, gestione di morte tipica della società moderna, finisce per essere una morte "burocratizzata", perché il morire si dissolve in un contesto socio-organizzativo nel quale il fonzionale si sostituisce all'umano. È insieme una morte "tecnicizzata", trattandosi di un morire che tende ad essere sempre più programmato, pianificato, organizzato. Che si tratti di eutanasia o di accanimento terapeutico, la morte, nell'ambito ospedaliero, è trattata come un fenomeno biologico che può essere modellato in virtù del "sapere" e del "potere". La din1ensione urnana è scartata a favore del gesto tecnico che può anticiparla o ritardarla, in sostanza: dominarla. Tuttavia è possibile adottare nei confronti del malato terminale una strategia diversa da quella dell'igienismo sociale e della volontà del dominio. È da questa sfida che nasce l'etica del "accompagnamento" del malato terminale. Patrick Verspieren individua due strategie alternative nella gestione della fase terminale: l. La strategia della negazione e del controllo che consiste nel: a) proteggere ad ogni costo il malato terminale dalla consapevolezza della morte; b) attivare tutti i mezzi capaci di difendere i familiari e il personale sanitario dalla vicinanza della morte; c) prolungare la vita a ogni costo al di là del geuuino significato del rispetto sensato della vita; d) affrettare ed anticipare la morte in nome della s1gnona dell'uomo sul proprio destino. 2. La strategia dell'accompagnamento che consiste nel: a) riconoscere i limiti della medicina decidendo di astenersi da trattamenti sproporzionati; b) spostare gli ohiettivi terapeutici dal "guarire" al "prendersi cura''; orientando gli interventi verso l'allevian1cnto del dolore e il trattamento dei sintomi; e) rispettare il tempo dcl morire senza affrettare la morte, ma vivendo giorno dopo giorno con colui che muore; d) restare vicini al malato te1minale dandogli la possibilità di esprin1ere tutti i suoi sentin1enti 3 • 2

C.

MAGRJS,

Il inalato sco111odo, in Corriere della sera, I O aprile J 988.


D;o

affida l 'uon10 all 'uon10

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Come si vede l'alternativa non è tra accanimento terapeutico ed eutanasia, tra prolungamento arbitrario della vita e decisione di anticiparne attivamente la fine, ma passa attraverso un modo diverso di dominare il morire e di intenderne il controllo. Tale diversità è determinata dal diverso valore simbolico che si attribuisce alla fase te1minale dell'uomo. Valore che è esso stesso frutto di un'opzione etica. Il malato terminale si riduce ad un residuo materiale per cui non c'è più niente da fare, da narcotizzare e abbreviare guanto più possibile, oppure è una persona e in guanto tale capace fino all'ultimo di fare della propria vita un'esperienza di crescita e di "compimento"? Le stesse cure palliative devono fare i conti con questa discriminante di ordine antropologico. Infatti la pratica delle cure palliative può essere sia in continuità con la tendenza al sequestro medicalizzante del morire, oppure esprimere una logica diversa, quella della "socializzazione" del morire che è, in fondo, l'istanza specifica dell'etica dell'accompagnamento'. Sarà questa istanza che prenderò in considerazione nel presente lavoro. La frase del Pontefice: «Dio affida l'uomo all'uomo»', guiderà questo itinerario attraverso la sofferenza dei malati terminali, nella consapevolezza che ogni uomo non vive e non muore da solo, ma tesse le trame della propria esistenza inscindibilmente legate ad altre esistenze. Ogni uomo, compagno di strada dell'uomo, non può esimersi dallo stargli accanto nel momento più critico dell'esistenza.

l. Le cure palliative

La medicalizzazione della sofferenza ha la sua carta programmatica più esplicita nella definizione di salute elaborata dall'OMS: la salute come stato di completo benessere fisico, psichico e sociale. Appare chiaro che, se il contrario della salute è la malattia, rientrano in quest'ultima non solo i malesseri fisici, ma anche quelli psicologici e i disadattamenti sociali. Anche se questi sono disvalori che sia auspicabile vengano eliminati e prevenuti, 3

Cfr P.VERSPIEN,

Eutanasia? Dall 'accanùnento terapeutico a!l 'acco1npagna1nento

dei 1norenti, Milano 1985. 4

Cfr P. BENCTOLINI - C. VIAFORA,

Etica e cure palliative. La jàse tenninale, Ro1na

1998, 63-65. 5

GIOVANNJ PAOLO II, Lettera enciclica sul valore e l'inviolabilità della vita u1nana Evangeli111n Vitae (EvV), in EVIl 4, 19.


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Gaetano Za1n111itti

tuttavia riteniamo non possa essere attribuito alla medicina il compito di contrastare, assieme alla patologia somatica, anche quella sociale. In terna di sofferenza sono palesi le conseguenze più pericolose di tale "iatrogenesi". Disimpegnandosi dalla ricerca di un senso per il patire, si è trasformato il vissuto di dolore in un problema tecnico e si sono così indebolite quelle personali risorse reattive al dolore, che venivano alimentate dai costumi. L'indisponibilità di un senso per il tempo segnato dal dolore va di pari passo col mito di una vita analgesica''. La lotta contro il dolore, se compiuta acritica1nente, rischia di disattendere e rin1uovere quanto vi è di autentico nel timore dell'uomo nei confronti della morte. Tuttavia /'angoscia della morte non è te1rnre o foga, bensì, nella sua profondità, è esperienza della dipendenza dell'uomo. Riconoscere la nostra caducità non significa benedire la devastazione della malattia mortale e i pati1nenti che essa reca con sé. Significa, invece, non rinunciare a cercare un bene che, nella sofferenza e nonostante essa, meriti comunque di essere desideralo e creduto. Accade invece che una grossolana attitudine "analgesica" induca ad eludere genuine domande filosofiche e per converso inerenti la stessa suscettibilità al dolore. «Peraltro l'analgesia non è neppure un obiettivo tnedico assoluto: il 111edico

csprin1c la cura nei confronti di un inalato anche lenendo i dolori, 111a più radicalmente testimoniando con la sua presenza e con1petenza che la vita continua ad avere valore pur in condizioni di sotTerenza l ... _J. Essendo incapace di fornire un senso al patire la n1edicina non può che agire a livello delle cause 111ateriali: il dolore va tolto e se le sue cause prossi111c sono iln111odificabili, non resta che porre fine alla vita stessa che è attraversata dalla 1nalattia algogena. Infatti la causa ren1ota dcl dolore è ulti1na111cnte il fà.tto che si è vivi, 111ortali, vulnerabili [ ... J. La 111cdicina cura, anche togliendo il dolore, ina la salute che la n1edici11a cerca è più della se1nplice assenza di dolore e il toglin1ento del dolore (così con1c, per altro verso, il prolungan1ento della vita) non può effettuarsi ad ogni costo, ad ese111pio non a costo di dar 11101ie per pietà» 7 •

6 Una fainosa rappresentazione letteraria di una collettività incapace cli aiìì·ontare il do!orc cd onnai irrcvcrsibiln1cnte assuefatta all'm1algesia artificialn1ente indotta è quella che si legge in A. HUXLEY, !! inondo nuovo, Milano 1987. 7 P. CATTORINI, La 111orte oiTesa. Espropriazione dcl morire cd ctìca della resistenza al n1ale, Bologna 1996, 48.


Dio affida l 'uon10 al! 'uon10

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Le cure palliative" sembrano essere la risposta attuale più completa che la medicina moderna possa dare lì dove la malattia tenninale segna profondamente il vissuto della persona umana'. L'etica e le scelte delle cure palliative si basano sulla convinzione che anche nella situazione di maggior sconfo110 il malato è una persona e, anche se in questa fase non è più possibile guarire, è ancora possibile curare. I destinatari delle cure palliative possono essere: •malati oncologici, • malati con AIDS conclamato, •malati affetti da patologia degenerativa del sistema centrale e periferico, • n1alati con broncopneumopatie cronico-ostruttive in fase avanzata; •malati affetti da gravi cardiopatie, •inalati con ci1Tosi epatica scon1pensata. Attualmente, per tradizione e purtroppo per carenze di strutture, la maggior parte dei malati a cui vengono rivolte le cure palliative sono quelli affetti da patologia neoplastica avanzata. La diagnosi di tumore evoca lo spettro della sofferenza fisica, tanto che, frequentemente, non è la morte che spaventa, ma il "dolore" prima della morte stessa. Nel malato terminale il termine "dolore" è più ampio rispetto al solo dolore fisico, comprendendo la sofferenza interiore che scaturisce dalla perdita di alcuni valori fondamentali per l'esistenza umana quali la sicurezza del futuro, l'autonomia personale, il ruolo sociale e familiare, sofferenza che viene definita dolore globale'". Ne deriva che, nel prendersi cura di un malato terminale, è indispensabile agire con un'équipe multidisciplinare su molteplici fronti ponendo l'uomo e non la malattia al centro degli interventi. 8 Il "pallio" è il 1nantelto che lenisce le soiTerenze, agendo co1ne un diafrainn1a fra il inalato e la n1a!attia. Ques!a purtroppo avanza, n1a il n1ante!lo i1npedisce che essa devasti la qua!it<Ì del vivere. 9 Le cure palliative sono nate negli anni '60 nel Regno Unito grazie a Cice!y Saunders, con la creazione del pri1110 Hospice. La sua iniziativa fu ripresa negli USA dalla K.Ublcr-Ross, pri1na psicolog<1 che si interessò scientifican1ente del processo del 1norire nei malati oncologici. In Italia si con1incia a parlare di cure palliative nella priina 111età degli anni '80 per inerito del Prof. Vittorio Ventafridda dell'istituto Tun1ori di Milano (cfr Directory S.l.C.P., Realtà f'sistenti e operanti in Italia nel ca111po delle C'ure Palliative, 1995). Nel 1986 si costituisce la Società Italiana di Cure Palliative (S.I.C.P.) e l'annessa Scuo!a llaliana di Medicina e Cure Palliative (S.LM.P.A.), con lo scopo diHOndere la "filosofia'' di questa nuova disciplina. 10 Cfr R. Ci. 1\VYCROSS - S. A. LACK, Sy111pto111 contro! in advanced cancer: pain relie.f, London 1989.


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Gaetano Zanunitti

Tuttavia il primo atto medico, nell'ambito delle cure palliative, dovrà essere il controllo dei vari sintomi fisici riferiti dal paziente per migliorare la sua qualità di vita e, contemporaneamente, intervenire sulla sfera psico-sociale per potenziare le speranze nel foturo. Il sintomo più rivelante e inquietante per il malato e per i familiari è il dolore fisico. Per fronteggiarlo da anni esistono indicazioni e linee guida per il suo trattamento. Attualmente la corretta applicazione delle linee guida dell'OMS, personalizzate per ogni singolo caso, pe1mette il controllo fmmacologico del dolore in circa il 90% dei casi. Solo il rimanente 10% richiede metodiche più o meno invasive e complesse 11 • Esistono, però, molti altri sintomi non meno importanti e invalidanti, per i quali raramente si trovano linee guida o quanto meno indicazioni autorevoli per il loro trattamento e, in questi casi, il medico deve decidere di volta in volta il compo1iamento più appropriato per ottenere il massimo beneficio con il minor rischio. Nelle cure palliative non si tratta solo di scegliere l'antibiotico più appropriato ma di decidere eticamente se "intervenire" oppure non intervenire sul malato. La prognosi infausta a medio-breve termine pone degli interrogativi etici al medico quando deve decidere se intraprendere o meno interventi che in alcuni casi non è dimostrato apportino miglioramenti significativi sulla qualità della vita.

2. Le cure palliative come cure "globali"

Qualsiasi malattia cronica e invalidante pmia ad una situazione di stress che viene vissuta da tutto il nucleo familiare. Questo si evidenzia in modo particolare quando la prognosi è infausta come nel malato terminale, per cui se è fondamentale il trattamento medico, è altrettanto importante garantire un supporto psicologico sia al malato che alla famiglia. Se è importante l'intervento sul malato per attenuare le sue ansie e potenziare la speranza nel futuro, l'intervento psicologico per i familiari più stretti è utile per prepararli adeguatamente al lutto".

11

Cfr J. CLREARY, Trattarnento JGnnacologico del dolore neoplastico, Minuti 1996,

12

Cfr C. BRESSI, La JC11niglia del nia/ato a prognosi infausta, in Quaderni Cure

19-30. Palliative 3 (1993) 205-209.


Dio af/ìda l'uomo all'uomo

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Spesso l'aiuto psicologico è richiesto dagli stessi operatori sanitari medici e infermieri, per liberarsi dall'ansia che comporta il trattare quotidianamente con la morte. Nelle cure palliative l'assistenza sanitaria si embrica con l'assistenza socio-umanitaria, per questo non bisogna dimenticare il contributo essenziale del volontario. Questo, però, deve essere adeguatamente preparato sia praticamente che psicologicamente prima di entrare a far parte integrante dell' équipe". «Le persone i1npegnate nel volontariato offrono un apporto prezioso nel servizio alla vita, quando sanno coniugare capacità professionale e a1nore generoso e gratuito elevando i sentiinenti di se1nplice filantropia all'altezza della carità di Cristo; a riconquistare ogni giorno, tra fatiche e stanchezze, la coscienza della dignità di ogni uotno» 14 •

Per garantire l'assistenza globale al malato terminale dovrebbero essere considerate alcune attività che possiamo collocare tra l'assistenza medico-infermieristica e il supporto psico-sociale: attività ancora poco utilizzate, ma che indubbiamente concoITono a migliorare, se impiegate correttamente, la qualità della vita. Ci riferiamo qui alla riabilitazione fisica e motoria intesa non tanto come ripristino delle funzioni motorie, il più delle volte con1pron1esse irreversibiltnente, ma co1ne aiuto, anche se n1omentaneo, per rinforzare la fiducia nel foturo. In effetti sarebbe più corretto usare la dizione supporto.fisioterapico con l'intento di permettere, dove sia possibile, un parziale recupero fisico ma sopraitutto intensificare il rappm1o pazienteoperatore sanitario 15 • 2.1. Lenire il dolore fisico

Un criterio di approccio fannacologico per la terapia del dolore è quello basato sulle gradualità di impegno di varie classi di fannaci. All'inizio si impiegano farmaci analgesici "non oppioidi", poi si potrà ricoITere all'uso combinato di farmaci "non oppioidi" con "oppioidi" deboli 13

Cfr G. BIANCHI- M. TOMAMICllEL-S. ZONCA, Influenza di 1111 corso difonnazione sulle 1110/ivazioni e aspettative di un gruppo di volontari i111pegnati nell'assistenza di pazienti oncologici: valutazione preli111inare, in Quaderni Cure Palliative 2 (1995) 175-18 ! . 14 EvV 90. 15 Cfr P. BENCIOLINJ - C. VIAFORA, Etica, cit., 14. Nello svolgi1nento del presente lavoro non prenderò in considerazione tali tratta1nenti.


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Gaetano Zan11nitti

ed infine agli "oppioidi" forti da soli o in associazione con farmaci "non oppioidi". Al fine di prevenire l'insorgenza del dolore, i farmaci devono essere somministrati con regolarità a intervalli stabiliti sulla base delle caratteristiche di farmaco-cinetica e durata d'azione, e non al bisogno. La somministrazione saltuaria o aggiuntiva è richiesta nelle situazioni in cui, pur essendo in atto un trattamento cronico, subentrino episodi dolorosi di particolare intensità. La terapia deve essere di facile attuazione, preferibilmente per os", affinché possa essere gestita a domicilio dal paziente o dai familiari. Va inoltre individualizzata e modificata quando lo schema proposto diviene inefficace. Si riconoscono tre categorie principali di farmaci analgesici, in rapporto alle loro caratteristiche farmacologiche e di efficacia analgesica, cioè i non oppioidi, gli oppioidi c gli adiuvanti. 2.1.1.

Problemi etici connessi con la somministrazione di "analgesici"

Una delle questioni che inizialmente caratterizzò la discussione etica all'interno delle cure palliative, e che ancora oggi è motivo di perplessità per gli operatori sanitari, riguarda l'uso di analgesici centrali. T discorsi in cui Pio XII ha trattato l'argomento del dolore e dell'analgesia, costituiscono tutt'oggi il punto di riferimento fondamentale", tanto che anche documenti recenti della Santa Sede" e di qualche episcopato'"' si rifanno esplicitamente ad essi. a) Liceità dell'uso di analgesici per lenire il dolore fisico Non esiste un obbligo generale in relazione al rifiuto dell'analgesia e l'accettazione del dolore fisico per spirito di fede, né tantomeno esiste un obbligo di sottoporsi all'analgesia. La scelta è generalmente lasciata alla responsabilità dei singoli. Vi sono però delle situazioni in cui può essere obbligatorio non sottrarsi al dolore, e sono h1tte quelle in cui ciò è richiesto 16 Tern1ine con cui si inlendc la so1n1ninistrazìonc di 1ànnaci per via orale. 17 Si veda soprattutto: Pio x11, 1Jisco1'.\'0 al LX C'ongresso della Società Italiana di A11estesiologh1, 24 Febbraio 1957, in F, ANGEUNI, Pio Xli. Discorsi ai 1nedici, Ron1a 1960 6,

551- 558. I~ Si veda, ad esen1pio: CONGREGAZlONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, !1tra et Bona, in EV/7, 346-373; PONT!FlC'lO CONSJGLIO Con UNU!vf, Alc11ne questioni etiche relative ai 111alati gravi e ai 111orenti, in EV /7, 1234-128 l; EvV, 2167-2517. 19 Si veda, ad csen1pio: EPISCOPATO FRANCESE, Proble111i etici e pastorali relativi alla 111orte e

a/l'assistenza ai 111orenti, trad. it., 1979, in A1edina e A1orale 30 (1980) 213-229.


Dio qfjìda l'uon10 all'uun10

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dalla fedeltà a Dio, alla coscienza, ai propri doveri, esempio tipico è quello dei martiri. Comunque «il cristiano non è tnai obbligato a volerlo [il dolore] per sé stesso; egli lo considera co1ne un n1ezzo, più o n1eno adatto, secondo le circostanze, al fine che persegue[ ... ]. L'accettazione del dolore fisico non è che un modo, tra gli altri, di significare ciò che è l'essenziale: la volontà di amare Dio e di servirlo in tulle le cose. Nella perfezione della volontà consiste anzitutto il valore della vita cristiana ed il suo eroistno»" 0 •

Siamo dunque ben lontani dal dolorismo che con troppa facilità si addebita a volte alla dottrina ecclesiale. In base all'autentica dottt·ina si possono individuare come moralmente inaccettabili due comportamenti opposti. Da una parte quello, molto diffuso, di rifuggire il dolore, anche 1nini1no o passeggero, se1npre e ad ogni costo; vi è in questo co1nportan1ento, oltre a un abuso di farmaci, una concezione del dolore come male assoluto, c01rendo così il rischio di trovarsi impreparati ad affrontare positivamente situazioni immancabili nella vita, in cui la soppmiazione del dolore fa parte della fedeltà a Dio e ai propri doveri. Dalla paiie opposta si colloca l'estremismo di chi vuol far coincidere l'amore alla croce di Cristo con l'amore al dolore in sé, con la pretesa di stabilire l'obbligo di non sottrarsi mai al dolore. La dottrina formulata da Pio XII si delinea così come profondamente equilibrata; tiene conto sia della realtà umana, sia delle vere esigenze della fedeltà a Cristo. li criterio per la scelta tra l'accettazione del dolore e la sua soppressione, o anche solo attenuazione, è quello ciel vero bene della persona. Si sceglie quello che di volta in volta, nelle circostanze concrete, promuove maggiormente quel bene, correttamente inteso. Resta così ape1ia la via anche a scelte di eroica accettazione del dolore. b) Liceità della somministrazione di analgesici qualora attenuino o facciano perdere la coscienza, o accorcino la vita del malato In base al valore determinante del bene della persona, quando questa richiede tali interventi, nessuna perplessità morale ha ragione di sussistere nel richiederli, nell'accettarli e nell'effettuarli.

20

Pio Xll, Discorso ul JX Congresso, cit., 552. 563. Il Papa ricbimna an1pian1cnte un precedente suo discorso, 8 Gennaio 1956, sul parto indolore(cfr ibid., 434-437).


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«Nei lin1iti indicati e se si osservano le condizioni richieste, la narcosi che con1porta una di1ninuzione o una soppressione della coscienza è pe1111cssa dalla rnorale naturale ed è co1npatibile con lo spirito del Vangelo»" 1•

Spesso l'accettazione della sofferenza senza mitigazione non rappresenta obbligo alcuno e non risponde ad una nonna di perfezione. li dolore quando è intenso e prolungato, porta facilmente a una specie di incapacità di servirsi utilmente delle proprie facoltà, può giungere a suscitare sentimenti di ribellione e di disperazione, a tal punto da spingere a chiedere che venga posta fine alla propria vita. Sarebbe disumano vietare di intervenire per calmare i dolori solo perché si causa una perdita di coscienza, quasi che questa fosse un bene assoluto da tutelare ad ogni costo. Una soppressione della coscienza si ha già naturalmente nel sonno e questo non costituisce problema morale se non quando ci si sottrae in tal modo al compimento dei propri doveri". La questione si complica ulteriormente riguardo ai pazienti in fase terminale. Infatti data la singolare importanza della fase terminale della vita è ovvio chiedersi se è lecito il ricorso ad analgesici, sapendo che sopprimono la coscienza. Se il malato non ha ancora adempiuto a doveri morali gravi e indilazionabili quali la preparazione sacramentale o la regolazione mediante testamento di affari importanti che dipendono da lui, è il bene dell'ammalato a esigere che egli non sia messo nell'impossibilità di adempiere ai suoi doveri. Naturalmente non si tratta di escludere ogni ricorso ad analgesici, ma solo di attuarlo in modo da lasciare spazi di coscienza sufficienti per !'adempimento di quei doveri. Quando, invece, il morente ha già adempiuto ai suoi doveri, resta ancora decisivo il criterio del bene del paziente, per cui si apre la via a soluzioni diverse. Se, al contrario il morente non vuole saperne di adempiere ai gravi problemi, dopo aver tentato di indurlo a compiere i suoi doveri, il medico può tranquillamente somministrare gli aualgesici necessan. L'inadempienza dei doveri non deriva dalla narcosi, ma unicamente dalla volontà ostinata dcl morente. Far diversamente potrebbe rendere ancora più caparbio il soggetto e così far svanire ogni residua possibilità di un pentimento". Il Papa si preoccupa anzitutto di dissipare il facile equivoco che quesl'ultima fase della vita possa essere impreziosita dalla accettazione della sofferenza, come via di crescita nell'amore a Dio e come espressione di un completo abbandono alla sua volontà, e perciò sia almeno da sconsigliare 21 22

23

Cfì· ihid., 574. Cfr ibid., 569. Cfr ibid., 578.


Dio ajfìda / 'uon10 all 'uon10

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il ricorso ad analgesici dato che privano la persona della consapevolezza, o ahneno l'attenuano. «L'au1nento dell'a1nore di Dio e dell'abbandono alla sua volontà non proviene dalla sofferenza acceltata in sé, 1na dalla intenzione volontaria sostenuta dalla grazia, questa intenzione in molti 1noribondi può rafforzarsi e divenire più viva, se si attenuano le loro sofferenze, perché queste aggravano lo stato di debolezza e di esaurimento fisico, ostacolano lo slancio dell'ani1na e logorano le forze inorali, invece di sostenerle. La soppressione del dolore, al contrario, procura una distensione organica e psichica, tàcilita la preghiera e rende possibile un più generoso dono di sé»" 4 •

Per cui in via ordinaria, quando il malato ha già adempiuto i suoi doveri, il ricorso ad analgesici con conseguente perdita di coscienza non solo è lecito, ma è consigliabile, per non dire moralmente obbligatorio. Esiste, però anche la possibilità diversa, sia pure quasi eccezionale: «Se ci sono moribondi che accettano la sofferenza, co1ne 1nezzo di espiazione e sorgente di ineriti per progredire nel I' an1ore di Dio e nel!' abbandono alla sua volontà, non si in1ponga ad essi l'anestesia, si aiutino piuttosto a seguire la propria via>lè 5 •

È il riconoscimento di un particolare dono dello Spirito, di una speciale vocazione, che va rispettata. Non farlo sarebbe un comportamento 1norahnente inan1n1issibile 16 • «Ma sarebbe un errore consigliarlo: Nel caso contrario non sarebbe oppo1iuno suggerire ai 111orenti le considerazioni ascetiche sopra dette, e bisognerà ricordarsi che invece di contribuire alla espiazione e al inerito, il dolore può fotnire l'occasione di nuove colpe»~~'.

Naturalmente in ogni situazioni rimane tassativa la condizione che esistono serie indicazioni mediche all'analgesia e non sì tratti di un intervento dettato solo dall'intento di evitare al malato una fine cosciente. «Non bisogna, senza ragioni gravi, privare il moribondo della coscienza di

24

lbid, 576. Jbid., 575. 26 Cfr I.e. 27 lbid., 576. 25


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sé»". Anche nel caso che accorciasse la vita del malato tenninale, la somministrazione di analgesici è lecita nel quadro del principio dell'azione a duplice effetto'". In questi casi la morte non è ricercata o voluta in alcun modo. Si intende semplicemente lenire il dolore in maniera eflìcace, usando 1 mezzi farmacologici di cui la medicina dispone. «Riepilogando,[ ... ]. La soppressione dcl dolore e della coscienza per 111ezzo dei narcotici, è permessa dalla religione e dalla 111oralc al tnedico e al paziente[ ... J. Se non esistono altri n1ezzi e se, nelle date circostanze, ciò non i111pedisce l'ade1npilnento di altri doveri religiosi e 111orali>r10 .

e) Considerazioni conclusive Quando Pio Xll formulava il suo insegnamento, come rimedio efficace a dolori intensi e prolungati, non si disponeva se non che di narcotici. Perciò ncorso ad analgesici e perdita, o almeno grave attenuazione, della coscienza erano inseparabili"'. Oggi grazie ai progressi compiuti qualcosa è cambiato. L'aspetto moralmente più rilevante di questi progressi è costituito dalla scoperta di mezzi e metodi efficaci contro il dolore senza perdita di coscienza da parte dei pazienti e senza accorciamento della vita. Una tale novità fa venir meno una delle condizioni che legittimano moralmente il ricorso ad analgesici anche in presenza dei ricordati effetti collaterali negativi; la condizione è formulata chiaramente da Pio Xli con le parole: «Se non esistono altri n1ezzi»-1.:' È chiaro che si tratta di una novità che consente un trattamento del malato oppresso dal dolore, veramente rispettoso della sua dignità di persona, cosciente e responsabile.

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29

lbid., 577.

Le quattro condizioni classiche per an1111etterc un'azione a duplice effetto sono: l. !'azione deve essere in sé stessa buona o quanton1eno indiiTerente; 2. l'effetto buono non deve essere causalo da un effi::Ho callivo; 3. Ira effetto buono ed effetto cattivo deve instaurarsi una proporzione tale da giustificare il n1alc prodotto; 4. l'effetto buono deve essere voluto pri111aria1ncnte da chi pone l'atto. 30 Pio Xll, Discorso al IX C'ongresso, cit., 580. 31 Cfr L. C1ccoNE, Salute e n1alaLtia. Questioni di 111orale dc1la vita fisica, II, Milano 1986, I 79. 32 Pio Xli, Discorso al/,'( Congresso, cit., 580.


Dio affida J'uon10 all 'uon10

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Grazie all'espe1ienza accumulata nei vari hospices e nelle unità di cura palliative, gli analgesici possono essere impiegati con estrema sicurezza e senza particolari problemi quando si tratta di agire in modo continuo sul dolore cronico che si manifesta in gran parte dei pazienti terminali''. Altra novità consiste nella presa di coscienza della complessità del dolore cronico, specialmente se legato a malattia inguaribile, e della conseguente complessità dell'intervento a sostegno del paziente, non riducibile a terapie puramente farmacologiche, sia pure moderne e sofisticate. Ne deriva una serie di conseguenze morali: per gli enti pubblici, urge la presa di coscienza della necessità di dotare gli ospedali delle attrezzature e di personale qualificato, capace non solo di servirsi delle più moderne terapie antidol01ifiche, ma di far fronte in modo più adeguato possibile agli aspetti anche non medici del dolore, specialmente quello derivante da mali inguaribili; per i medici e per il personale sanitaiio in genere, si itnpone una specifica riqualificazione sia sul piano tecnico, sia su quello delle relazioni umane con i malati e i loro familiari, in modo da modificare profondamente tutta una prassi consolidata ed estesa che giunge a privare di ogni umanità la relazione con il malato e che riduce la terapia del dolore a una semplice somministrazione di stupefacenti. Tuttavia, anche nella migliore delle ipotesi il cambiamento dell'attuale situazione richiede tempi più o meno lunghi. l malati che hanno la possibilità di godere delle nuove terapie antidolorifiche restano ancora una minoranza, la stessa considerazione vale ancora di più per la terapia multidisciplinare e umanizzata del dolore. Come si è già accennalo, nella misura in cui esistono altri mezzi, diventa moralmente illecita la narcosi. Tuttavia là dove non si riscontrano negligenze chiaramente colpevoli, si può sottoscrivere quanto detto in proposito dall'episcopato francese: «Oggi queste pratiche non dovrebbero essere né legittin1atc, né condannate. Non legittimate, perché le ricerche intraprese in alcuni centri inostrano che dovrebbe essere possibile alleviare la sofferenza del inalato senza giungere a tali decisioni. E neppure condannate, perché oggi, considerata la nlancanza di fOnnazionc del personale curante e \'organizzazione attuale dei centri ospedalieri, la deconnessione resta senza dubbio in certi casi la soluzione nieno disun1ana. D'altro canto, sarebbe n1olto importante che si sviluppassero l ... l le ricerche e le esperienze sulla terapia della sofferenza l ... ]. L'analgesia ha fatto dei progressi, e oggi sarebbe inopportuno invitare il corpo 111edico ad 33

Cfr L. MENECìALDO -- G. Po1J:s, Sinto111i nel inalato oncologico tenninafe, in Giornale Veneto Scienze Jlr!ediche 2 ( 1993) 51-53.


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essere soddisfatto di pratiche che sembrano oggi tanto più insoddisfacenti in quanto sen1brano possibili altri mezzi per alleviare la sofferenza del

malato» 34 .

È invece da contestarsi la riduzione dei malati gravi ali 'incoscienza con il ricorso sistematico alle droghe, molte volte, indubbiamente, per compassione, ma spesso anche più o meno deliberatamente per evitare a quanti si accostano al malato il rapporto sovente così difficile e faticoso con chi è vicino alla morte. Non è più il bene della persona ammalata che in questo caso viene ricercato, bensì un'equivoca protezione dei sani dentro una

società che ha paura e fugge la morte", privando «così il inalato della possibilità di "vivere la propria morte", di arrivare ad un'accettazione serena, alla pace, alla relazione a volte intensa che può crearsi fra un essere un1ano ridotto a una grande povertà e un interlocutore

privilegiato. Lo si priva della possibilità di vivere la n101ie in comunione col Cristo, se il 111orentc è cristiano» 36 .

Al di là degli analgesici si dà il dovere di un aiuto più specificamente umano al malato grave e al morente preso dall'angoscia. Le droghe possono attenuare, ma non eliminare totalmente l'angoscia, la paura di fronte all'ignoto della morte. È richiesta una presenza umana, discreta e attenta, intessuta di sincera solidarietà e di intenso amore cristiano: solo così si può "condividere" con chi soffre e muore il senso del dolore e della mmte. 2.1.2.

Uso proporzionato dei mezzi terapeutici

Sin dai tempi di Pio Xli si parlava di mezzi terapeutici "ordinari" e "straordinari". La direttiva offerta per il loro uso soiiolineava l'obbligo dell'impiego dei mezzi ordinari per il sostegno del morente, mentre si poteva lecitamente rinunciare, con il consenso del paziente, o dietro una richiesta, ai mezzi straordinari, anche se ciò significava accorciare la vita del paziente. Venivano definiti "straordinari" quei mezzi che potevano incrementare la sofferenza, o altamente dispendiosi, o di difficile accesso. Oggi questa distinzione è difficile, in quanto numerosi mezzi, ieri giudicati straordinari, sono diventati ordinari e perché l'uso di mezzi di terapia intensiva ha salvato 34

EPISCOPATO FRANCESE, I'roblend etìci e pastorali, cit., 222. Cfr D. TETTAMANZI, C'ustodi e servitori della vita, Brezzo di Bedero 1985, 401. 36 PONTIFICIO CONSIGLIO CoR UNlJM, Alcune questioni, cit., 4.4. J.5


Dio q{fida l 'uo1no all 'uon1u

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molte vite". Da qui la necessità di un altro criterio di riferimento, non più basato sul "mezzo terapeutico", ma sul "risultato" che da esso si attende. «Alcuni preferiscono parlare di 111ezzi "proporzionati" e "sproporzionati". In ogni caso si potranno valutare bene i inezzi inettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e il rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni del inalato e delle sue forze fisiche e morali. Per facilitare l'applicazione di questi principi generali si possono aggiungere le seguenti precisazioni: a) In tnancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere con il consenso del malato, ai mezzi tnessi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio speri1nentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l'an11nalato potrà anche dare esen1pio di generosità per il bene dell 'un1anità. b) È anche lecito interrotnpere l'applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono- le speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione dcl genere, si dovrà tener conto del giusto desiderio del nlalato e dei suoi familiari, nonché del parere di medici[ ... ]. c) È sen1pre lecito accontentarsi dci nlezzi nonna li che la medicina può offrire. Non si può, quindi, itnpon·e a nessuno l'obbligo di ricorrere a un tipo di cura che per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo onerosa. Il suo rifiuto non equivale al suicidio: significa piuttosto o sc1nplice accettazione della condizione u1nana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo 1nedico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non impon·e oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività. d) Nell'i1nminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia inte1To1npere le cure normali dovute al inalato in simili casi»'tt.

A questo proposito è bene fare una distinzione tra "trattamenti" e "cure". Per trattamenti si intendono tutti gli interventi medici disponibili e appropriati al caso specifico atti a listabilire, per quanto è possibile, la salute del paziente. Mentre per cure si intendono gli aiuti ordinari agli infermi, quali l'alimentazione, l'idratazione, l'aspirazione dei secreti bronchiali, la

37 38

2 SGRECC:lA, A1anuale di bioetica, 2voll., Milano 1994 , I, 651. CONGREGAZIONE PEH LA DOTTRINA DELLA FEDE, lura et Bona, cit., 4.

Cfr E.


Gaetano Zan1111itti

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detersione delle ulcere da decubito, nonché la "compassione" e il sostegno affettivo e spirituale. Attraversare il dolore

2.2.

2.2. I. La comunicazione «C'è un inodo per affì·ontare la sofferenza u1nana, per farne l'esperienza, per utilizzarla e uscirne fuori; un rnodo più 111aturo, più sicuro e acco1npagnato da una graduale con1prensione che Dio non ci n1anda la sofferenza, il dolore con1e una fonna di punizione, 1na ci sottopone a queste prove carne doni per la nostra crescita e co1ne prove da superare. Possian10 in1parare questa lezione soltanto 1nettendoci faccia a faccia con la gente din1enticata che soffre dietro le sbarre delle prigioni, negli ospedali. Questo richiede in1pegno personale, capacità di guardarsi intorno, disponibilità a pagare di persona, ad essere coinvolti profonda1nente, in 111odo personale e vulnerabile. Richiede la capacità di 111eltere ùa parte le proprie "facciate" professionali e i propri ruoli, di aprirsi ad essere disposti a condividere con gli altri le proprie lacri111e, le proprie paure, le proprie speranze, i propri bisogni. Non si tratta di assun1ere il ruolo di chi distribuisce pareri e consigli, ina di dare e ricevere allo stesso te1npo. Offrendo il proprio te1npo, la propria attenzione, il proprio a111ore a quelli che sot'fì·ono, ne riceveren10 inoltre un inscgna111ento sulla sorgente di forza. Essi insegneranno che affrontando le crisi, lottando attraverso il rifiuto, la rabbia, !'angoscia e spesso dopo violente discussioni con Dio, seguite da profondi abbattin1enti, incon1incere1110 a vedere la luce, a capire il senso di tutto quanto. Non lottò forse anche Gesù, dicendo: "Padre se è possibile allontana da n1e questo calice; n1a non la 111ia volontà sia fatta 111a la tua". Poi, alla fine di tutto, fu in grado di accettare questa volontà quando disse: "È finito, nelle tue n1ani affido il 111io spirito"» 3').

Il contesto di sofferenza, nel quale chi assiste il morente è chiamato a vivere e ad operare, richiede un servizio che non è solo tecnico-scientifico, richiede un coinvolgimento "umano". Per il credente, poi, questo contesto di sofferenza è un luogo di incontro con Cristo, che nel sofferente attua una particolare presenza sacran1entale. Per tornire una valida assistenza al morente, ogni operatore nel mondo della sofferenza deve avere sensibilità spirituale, possedere buone capacità di con1unicazione verbale e non verbale, sapersi porre in atteggiainento 39

E. KOBLER-Ross, Soj/Crenza co111111ercializzata contro la sf".!/lèrenza nascosta,

C'oncilil11119 (1976) 53-57:54.

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empatico verso il dramma del morente. Si tratta di un coinvolgimento profondo che è responsabile solo se l'operatore sanitario e pastorale lascia che «la sofferenza parli al suo cuore e si ripercuota nel suo vissuto. Quando sarà arrivato a con1prendcre pienan1ente lo stato d 'anin10 del malato, potrà elaborare un approccio coerente. La sintonia a livello di scntiinenti è produttrice di calore e di vita. Poi, naturaln1ente, ritroverà se stesso, ritornerà alla "sua vita", è un suo diritto e dovere. Ma avrà la benefica sensazione di non essere passato accanto a una situazione di dolore solo superficia ln1ente>rw.

2.2.2. La relazione di aiuto «Ti morente ha bisogno di raccontare la propria storia, ha bisogno di qualcuno che lo ascolta, fino al momento nel quale le parole cessano ed il 1norcnte e chi lo assiste sono uniti in un silenzio sacron 41 • A questa necessità deve rispondere un rapporto assistenziale. Una comunicazione che dovrebbe permettere al grido del morente e al grido di chi condivide di non perdersi nel vuoto e nel buio. TI segreto di una vera comunicazione sta nell'ascolto attento ed empatico, animalo da sensibilità e preparazione, della storia e dei vissuti del morente. Questa consapevolezza però non se1npre 1notiva coloro che assistono i morenti, in quanto spesso indossano sui loro volti una "n1aschera" e inscenano quello che è stato definito il "gioco delle maschere""': •la maschera del medico che agendo "professionalmente": attraverso gesti, co1nportamenti, abbiglian1ento e strun1entazione ben precisi, crea un distacco "professionale"; •la maschera dei parenti e degli amici: pur essendo al corrente della situazione disperata, nascondono il proprio dolore dietro una maschera di sicurezza. Incapaci di dare un valido aiuto, sono essi stessi bisognosi di aiuto;

.w D. CASEHA, Per 1111 vo/011/ariato incisivo. Valutazione critica del proprio operato, Brezzo di Bedero ! 988, 48 . .+I F.\i\/. MAESTRI, Co111fòrt 111y Peoplc, (_lrcen Bay (Wisconsin) 1985, 25 (traduzione propria). 42 M. 80\VEl{S, rv;,. kOnnen 1\'ÌI' Sterhenden heistehen, Mlinche11 1979, 159, in M. PETRIN!, Accanto a! 111ore11te. Prospef!ive etiche e pastorali, Milano 1990, 144.


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2.2.3. Le reazioni davanti al male incurabile La presa di coscienza dell'inevitabilità di una morte vicma, solo eccezionalmente si accompagna a disposizioni gioiose o almeno serene. È vero che la morte ha per il credente il significato dell'incontro col Signore, un andare a stare con Cristo"'. Ma è anche vero che il rifiuto della morte è inscritto profondamente nel cuore di ogni vivente, come aspetto principale dell'istinto di conservazione. La morte si presenta come un passo misterioso verso un n1ondo per tanti aspetti sconosciuto e 1nai sperin1entato e con1e il distacco definitivo da tutto e da tutti, anche dalle persone con le quali si è condivisa la vita. È, inoltre, vero che non appartiene alla maggioranza quella fede che sola può far cogliere la morte nella sua realtà più profonda. Non è dunque strano che l'accettazione non sia, normalmente, la disposizione che si instaura pri1naria111ente e faciln1ente nel n1orente. È anzi nor1nale che egli giunga a questo atteggiamento passando faticosamente e dolorosamente attraverso fasi di rifiuto e di ribellione. Il morire viene vissuto come una grave crisi psichica. La conoscenza di questo processo è indispensabile a chi assiste il morente per capire il suo atteggiamento verso gli altri, che, se non compreso carica di ulteriori sofferenze la tragedia della morte. La guida per tentare una valutazione di questo itinerario è la già citata opera della Dott. Elisabeth Kiibler-Ross, primo studio scientifico sull'argomento". L'autrice individua cinque fasi in questo cammino: a) il rifiuto; b) la collera; c) il compromesso; d) la depressione; e) l'accettazione''.

-"° Fil !, 23. 11 libro contiene la codificazione di circa duecento interviste, frutto di un se1ninario diretto dal 1965 all'ospedale Billings a Chigago e frequentato da circa cinquanta persone tra 1nedici, sociologi, teologi e infennieri. 52 Secondo alcuni aulori, la classificazione della J(L!bler-Ross, pur avendo un notevole valore antropologico, «dal punto di vista scientifico, solleva delle riserve. Essa appare, infatti, piuttosto di ordine intuitivo e ri1nane approssiinativa; pur disponendo della descrizione degli stadi del n1orire, continuiaino ad ignorare con quale frequenza e rappresentatività le diverse fasi sono attraversate»: S. SPJNSANTI, Psicologi incontro ai 111orenti in 1\Iedici11a e 1\4ora/e 112 (1976) 79-96. Si è anche ri1nproverato alla Ktibler-Ross di aver cretto a sisten1a un suo 1nodo di accostarsi alla nimic, tuttavia si è dovuto 1iconoscere «che questa analisi resta di grande interesse perché offre dei punti di riferin1cnto se1nplici al personale curante cd è reahnente riscontrabile nella pratica nelle forn1e analizzate»: C. .IOMAIN, Vil'ere I 'ulrùno istante. lvlorire nella tenerezza, To1ino 1986, 58-59. 51


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a)

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Il rifiuto

Fra gli olh·e duecento ammalati intervistati, all'inizio la maggior paiie è colta da panico e cerca di allontanare la realtà fingendo che nulla sia cambiato nella propria vita. Questo rifiuto iniziale può assumere forme vistose, come il non accettare il refe1io biotico, il convincersi che le radiografie siano state cambiate, il passare da un medico all'altro e da un ospedale all'altro. li rifiuto è provvidenziale, adempiendo ad un'utile funzione: la difesa di sé di fronte ad una notizia scioccante. Una specie di "paracolpo", che permette al paziente di ritrovare il coraggio e di mobilitare le proprie difese. In genere questa fase dura poco. Presto il paziente si isola, rifiuta le convenzionali parole di conforto, trascura le prescrizioni mediche, non parla, forse non pensa ne1nmeno: se1nbra entrato in uno stato di coscienza crepuscolare, con1e in un dorn1iveglia. In questa fase il malato deve essere affrontato con grande semplicità e nah1ralezza, ricordando che egli sarà disposto a dialogare quando sarà in grado di sostenere con realismo la sua situazione. In tal senso ancora più importante del quando è il come informare il paziente, sia per la sua estrema sensibilità sia perché, in certi casi, sente ancora il bisogno di misconoscere la realtà. Quando il malato, aiutato ad esprimersi, a verbalizzare il suo inconscio represso, ad estendere i suoi sentin1enti, paure, angosce, ire, ha trovato un essere umano al quale parlare francamente della sua morte, passa alla seconda fase, fatta di rabbia e di collera. b) La collera L'ammalato, talvolta con profonda tristezza e dishirbi depressivi, più spesso con collera, si interroga sulla propria sorte, confrontando la sua situazione con quella degli altri, "sani", e cancellando dalla mente tutti i progetti divenuti ormai irrealizzabili. La collera diventa uno stile di vita per il 111alato, quasi ad affern1are con veen1enza che non è ancora n1orto e che nessuno si deve dimenticare di lui. È una fase difficile e complessa, perché i malati diventano cattivi, difficili, odiosi, ingrati ed esigenti. Diventano critici spietati. La collera del malato si proietta indiscriminatamente in tulte le direzioni: sull'ambiente, sui medici, sul personale, sui familiari, su Dio. li


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paziente «è spesso un artista nel farci sentire colpevoli e nel farci adirare, provocando così un isolamento e una solitudine maggiori allorché avrebbe più bisogno del nostro aiutm>''. Ma alla sua aggressività non si può, non si deve rispondere con la nostra aggressività. È necessario interrogarci sul perché del suo risentimento. Il malato non è da giudicare, tanto meno da condannare per la sua ira, la sua intemperanza, talvolta per le sue bestemmie. È da comprendere. Un malato rispettato e compreso, cui si dedichi attenzione e tempo, abbasserà presto la voce e diminuirà i suoi rabbiosi reclami: «Saprà di essere un essere umano prezioso, curato, cui si pennette di essere attivo al massimo grado possibile, finché può»". c) Il compromesso Il "mercanteggiamento" è la terza fase. Il paziente viene a patti con la realtà. Sa di avere ormai poche probabilità; è onnai in grado di riconoscere ciò che sta accadendo proprio a lui e cerca di rimandare l'inevitabile con una serie di trattative: con Dio, anche se finora non aveva mai parlato con Dio, con i medici ai quali chiede una piccola proroga di tempo, con i familiari, con se stesso. Il primo desiderio del malato è quasi sempre il prolungamento della vita, anche per portare a termine alcuni affari incompiuti, seguito da quello di essere per alcuni giorni liberato dal dolore e dal disagio fisico. Questa fase, oltremodo difficile, è molto importante non solo per il malato, ma anche per la famiglia ed il personale ospedaliero, in quanto permette agli uni e agli altri di intervenire per sistemare le cose con una certa calma. Purché non si sciupi quest'occasione con menzogne o finzioni. d) La depressione Al mercanteggiamento segue lo scoraggiamento, la fase della depressione. Il corpo segnala l'approssimarsi della fine e il morente spesso sprofonda nel mutismo e nel torpore. Sono distinguibili due forme depressive: una essenzialmente reattiva e l'altra preparatoria. La prima si configura come il risultato di una perdita subita e spesso si accompagna ad un senso irrealistico di vergogna e di colpa. Esso è legato a problemi esistenziali e familiari che il malato si sente incapace di risolvere. Occorre 53

54

E. KOBLER-Ross, La n1orte, cit., 71. Jbid, 65.


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allora intervenire presso il malato perché, rafforzandolo nella stima di sé, mitighi il senso inealistico di vergogna e di colpa. Egli ha bisogno di essere incoraggiato, anche con la presentazione del lato gioioso della vita. Nella seconda forma di depressione il malato vuole isolarsi, non vuol parlare, non gradisce visite. Egli prende in considerazione le perdite che stanno per accadere. In questo stato d'animo, non sente più l'esigenza di comunicare e preferisce il silenzio. Occorre saper accettare questo doloroso silenzio: il malato pensa ormai più alle cose che ha davanti che non alle cose passate, si sta staccando dalla vita. A questo punto il problema riguarda meno il malato e più i familiari e il personale ospedaliero. È bene permettere al malato di rattristarsi, di piangere. Ma le difficoltà sorgono per il personale che non può più sopportare questo e per i familiari che si appiccicano, che vogliono far regredire il tempo: quasi non lasciano morire il malato; e questi comincia a sentirsi in qualche modo colpevole dell'afflizione che la sua morte impone loro. Anche la presenza del visitatore che «cerca di distrarre dai pensieri tetri, in questa fase preparatoria si rivela contraria al bisogno del malato»''. e) L'accettazione Nella quinta fase non ci sono più sgomento e collera, né depressione e lotta, ma il segno di una pace esteriore ed interiore. Non si tratta però di un sentimento di felicità: «È quasi un moto di sentimenti. È come se il dolore se ne sia andato, la lotta sia finita e venga il tempo per il "riposo finale prima del lungo viaggio", come l'ha definito un malato»'". Il paziente in questa fase, desidera essere lasciato in pace, non essere agitato da notizie e problemi del mondo esterno. Un moribondo ha bisogno di "addormentarsi". A11'iva il momento in cui resistere è inutile e sbagliato: «e' è un te1npo per vivere, ma e' è anche un te1npo per morire» 57 • La Kiibler-Ross indica in questa fase l'obiettivo dell'assistenza prestata ai morenti; essa viene chiamata decatexis, cioè graduale distacco dove non c'è più una comunicazione bilaterale. I morenti sembrano scivolare in uno stato che non conosce più la paura né la disperazione, dove il bisogno di cibo diventa minimo e la coscienza dell'ambiente circostante svanisce nell'oscurità. 55 56 57

S. SP!NSANT!, Psicologi incontro, cit., 94. E. KùBLER-Ross, La 1norte, cit., 129. Qo 3, 2; cfr S. ALSOP, In attesa di esecuzione, Milano 1974, 241.


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In questo stadio è importante saper comunicare tacitamente con il malato: basta restare seduti in silenzio e restare soli con lui, stringergli la mano fino a quando sia spirato"'. f)

Importanza delle cinque fasi

Le fasi descritte costituiscono una schematizzazione utile, ma da non assolutizzare. Esse non costituiscono un itinerario obbligatorio e a senso unico: non tutti i morenti le attraversano tutte. Alcuni si fissano a uno stadio, altri possono addirittura regredire a uno precedente. Nemmeno si deve pensare a stacchi netti tra una fase e l'altra: «Si sostituiranno l'uno dopo l'altro o esisteranno contemporaneamente uno accanto ali' altro»'"; e in tal caso la caratterizzazione veITà da quello che si presenterà come la disposizione dominante. «L'unica cosa che generallnenle pennane attraverso tutte queste fasi è la speranza [ .. . ]. È questo barlume di speranza che li 1nanticne in vita per gion1i, settin1ane o n1esi di sofferenza [ ... ]. Essa dà ai inalati inguaribili il senso di una n1issione speciale nella vita, che li aiuta a conservare il coraggio, a sopportare altre analisi quando tutto diventa una dura prova»r.n_ 58

Queste fasi psicologiche indagate dalla KUbler-Ross presuppongono che il inalato sia inforn1ato sulla sua reale situazione, come è in uso negli Stati Uniti. Nei paesi latini, dove questa infonnazione non è abituale, vengono invece individuate queste fasi psicologiche: • non sapere: il inalato non sa alcuna cosa e non si pone alcun problen1a circa la sua nia!attia. Inco1nincia uno stato di incon1unicabilità con la sua stessa fan1iglia, che invece conosce la prognosi infausta; inizia "la cospirazione del silenzio"; • insicurezza: il inalato co111incia ad avvertire una certa insicurezza, rivolge don1ande a coloro che lo circondano, 1na tutti lo rassicurano affern1ando che la sua nialattia non è grave; • negazione iinplicita: ìl inalato percepisce, più o n1eno inconscian1ente, la sua situazione reale, n1a la nega i1nplicitainenle, facendo progelli per !a sua vita e allontanando la sensazione di avere una inalattia a prognosi infausta; • comunicazione della verità: non è possibile occultare siste1natican1ente la verità; se si assiste u11 111urenle, viene il n10111ento di c01nunicarlo: è lui stesso a detenninarlo (Cfr. P. Sporken, Ayudando a 1norir, Santander 1978; M. L. LLANOS DEL Alv1A - S. URRACA MAKTINEZ, A!fede/os sohre /as elapas psicol6sticas del enfenno tenninale, in .!ano 653 [ 1985] 75). Dopo queste fasi, una volta che il paziente viene a sapere la verità, seguono le fasi psicologiche studiate dalla Kiib!cr-Ross. 59 E. KùBLf::l{-Ross, La 111orte, cit., 156. 60 fbid., 156-175.


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Ogni malato ha un suo modo di reagire di fronte alla morte. Ogni individuo ha una sua originalità e di conseguenza ciascuno segue un cammino psicologico che gli è proprio, nella vita quotidiana come nel morire. Vari sono i bisogni, le emozioni, i meccanismi di difesa, che il morente si trova a vivere: lo stoicismo, la rabbia, la colpa, il terrore, l'umiliazione, la paura, la resa, l'egoismo, la dipendenza, il bisogno di controllo, la lotta per l'autonomia e la dignità. Varie e personalizzate le sue reazioni psicologiche. E tuttavia, al di là della sua originalità l'essere umano è profondamente simile all'essere umano. Simile anche se non identico. E per questo si può tentare di descrivere il "cammino" del malato che si avvicina alla morte. Pur con le varianti che derivano dal suo carattere, dalla sua storia e dalle sue aspirazioni, ciascuno passa in qualche modo attraverso gli stadi descritti dalla Kiibler-Ross di cui conviene tener conto, i quali sono dei meccanismi di difesa che l'individuo mette in atto più o meno consciamente per difendersi dalla paura che emerge quando la morte si affaccia improvvisamente e prepotentemente"'. La descrizione dei diversi stadi offre una conoscenza indispensabile se si vuole aiutare il morente in modo consapevole ed efficace. È importante capire bene quale fase egli stia vivendo, per adeguare ad essa il proprio modo di intervenire e per evitare passi falsi, proponendo ad esempio l'accettazione quando il paziente si trova nella fase di rifiuto, o la lotta quando si trova nella fase di depressione. Tale aiuto però non deve essere solo di natura psicologica; va infatti evitata una "psichiatrizzazione" del morire, con la conseguente creazione di una nuova categoria di specialisti ai quali sarebbe demandata l'opera di accompagnamento'''. L accompagnarc il n1oren!e nel suo can11nino è messo in luce anche dall'episcopato tedesco: 1

«Si con1prende [ ... ]che la fase di rifiuto dcl 1norente richiede che colui che l'assiste abbia co1nprensione per le angosce e le resistenze del n1alato, senza per questo chiudere gli occhi sulla realtà, cosicché il 1norente possa poco a poco accettare interiorn1entc di entrare nella inorte. Allora la t:1sc di rifiuto, con la sua ribellione, la sua collera, la sua invidia, la sua acrin1onia non ci spaventa più. Al contrario, in1paria1110 ad accettare queste espressioni e111otive con1e fanne di addio e di rin1pianto. Sentia1110 che è proprio in queste reazioni brutali che si nascondono il distacco e l'esplorazione delia (il Cfr L. SANDRJN, La psicologia del inalato di fronte alla 111orle, in L'assistenza al 111ore11/e. A.'>pelli socio-culturali, 1nedico-assistenzia/i e pastorali, Milano ! 994, 224-225. 62 Cfr S. SP!NSANTl, Etica bio-11u:dica, Milano J 987, 192.


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dura realtà della morte, che devono precedere la tristezza più dolce di quella fase del morire che è caratterizzata dalla depressione e dall' accettazione»63 •

L'obiettivo finale, quando si tratta di credenti, è quello di rendere cosciente e voluta, o meglio, offerta, la propria partecipazione all'agonia e alla morte di Cristo, fino a consegnarsi con Lui al Padre in un atto supremo di amoroso abbandono alla sua volontà e al suo amore. Quando invece si tratta di non credenti l'obiettivo sarà quello di rendere guanto più umano possibile il loro andare incontro alla morte. Certo, la difficoltà è maggiore quando sulla morte viene a mancare la luce della fede. Ma sarà sempre possibile dare comprensione e condivisione carica di vero affetto fraterno; far sentire in tutti i modi possibili una presenza che impedisce al morente di sentirsi solo"'. L'accompagnamento può assumere nel momento supremo l'essenzialità di un gesto come una preghiera, il tenere una mano in silenzio. A una presenza di gnesto tipo allude la Kiibler-Ross: «Se il paziente dice di sì, allora andate avanti e pregate, ma non usate il libro delle preghiere. Ascoltate il vostro cuore, la vostra anima e parlate spontanea1nente, anziché leggere un testo già pronto; una preghiera spontanea e sincera, offerta da un essere umano attento, interessato, può spesso aiutare più di 1nolti calmanti>/''.

Ed ancora, una giovane donna, della quale aveva capito il bisogno di comunicare, malgrado il rifiuto ostinato di ammettere la propria morte, un giorno tenendola per mano, le disse: «Lei ha delle mani così calde. Spero che sarà qui quando diventerò sempre più fredda»''''. È l'estremo modo di presenza dell'altro. È un tenere la mano che ha valore di "sacramento··"'. Accanto al malato morente, entriamo in un gioco relazionale, nel quale tutto guanto facciamo o non facciamo, diventa per lui un messaggio psicologicamente importante. Accanto al morente, tutto, anche il silenzio, diventa parola.

63 CoNF'fJ{J:.NZJ\ Er!SCOPALE DEUA GERMANIA 0cc1DJ-.NJALE, Dichiarazione su 111orte degna del/'11on10 e 111orte Cl'istiana, 20 Nove1nbre 1978, in Medicina e ll1orale 30 (1980) 359-385: 377. 64 Cfr L. C!CCONE, Salute e 111alattia, cit., 137-138.

65 E. KOBLER-Ross, Don1ande e risposte sulla n1orte e il 111orire, Milano 1981, 209. 66 Io., La 111orte, cit., 57. 67 Cfr S. SPINSANTI, Psicologi ù1contro, cit., 96.


Dio affida /'uon10 all'uon10

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2.3. Prospettive pastorali Nella parabola del buon sama1itano", il Signore ha fatto una consegna, quella di farsi prossimi, vicini agli uomini e alle donne che conoscono il mistero della sofferenza, della malattia. In ciascuno di loro egli nasconde e svela la sua presenza fino a confidare: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me»'". Ai piccoli e ai poveri ai quali farsi prossimo, come non unire coloro che si avviano alla morte? L'espressione "terminali" usata oggi non è certo delle migliori, dice con freddezza e rudezza come se tutto si chiudesse nella vicenda umana. Nella fede, invece, fiorisce e matura la speranza della vita eterna e della rismTezione: sulla Parola di Dio e sul mistero della Pasqua di Gesù non guardiamo alla mmte come a un "termine", ma come a un passaggio che dischiude la vita e la introduce nelle braccia di Dio Padre, pur ancora nell'attesa della trasfigurazione del nostro corpo a immagine di quello del Risorto. Tuttavia nessuno può negare che quest'ultimo tratto di strada sulla terra, contrassegnato da sofferenza, ansia, trepidazione, non sia una vera e difficile "via crucis". Cercare qualcuno che dia la mano, che faccia sentire la sua presenza confidente e amica, contare su una vicinanza che è fraterna e dà sicurezza, è un bisogno profondo e vero. Se la solitudine sembra essere il grande male di oggi, lo è sicuramente nell'avvicinarsi della mmte. Chi si incammina verso la morte è uno che non può essere lasciato solo. Lo smarrimento di molti valori umani e spirituali hanno portato ad avere paura della sofferenza e della mmie, perdendo così il senso della vita. Questa sembra valere unicamente quando è in grado di fare, di possedere, di godere, di star bene: prevale l'avere sull'essere; così l'avvicinarsi della malattia, in paiiicolare di malattie gravi, terrorizza, emargina, isola, conduce all'angoscia. Nonostante tutte le scoperte, la medicina riconosce la sua impotenza, le strutture sanitarie rivelano la loro carenza, le famiglie non bastano per un'adeguata assistenza: il mistero della mmie, già di per sé serio e grave, conosce ancor più la solitudine. Adesso c'è anche la grave minaccia dell'eutanasia come illusoria ed egoistica maniera di risolvere il problema. La risposta è un'altra, quella del rispetto e del valore e della promozione della vita, che è sempre da amare, riconoscendo che in ogni stagione essa è 68 69

Cfr Le I O, 29-37. Mt 26, 40b.


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Gaetano Zanun;tt;

sempre capace di esprimere e sprigionare amore. Questa "sapienza del cuore" sulla vita è da recuperare da pmie di tutti: dalla famiglia, dalle istituzioni, dalla scienza, dalla tecnica, dalla medicina, dai mezzi di comunicazione sociale, per una cultura della vita e non per una cultura della morte e del non senso. Ma uno sforzo decisivo, coraggioso, fiducioso e unitario spetta alla comunità cristiana, con l'annuncio e la testimonianza del Vangelo della vita, della carità, della sofferenza e della speranza, senza paura. L'intera co1nunità cristiana, con i suoi diversi carismi e ministeri, è il soggetto della pastorale degli infermi e, in particolare, dei morenti. L'opera della comunità cristiana deve vedere come primi attori gli stessi familiari, deve coinvolgere l'azione professionale degli operatori sanitari e pastorali, e non può considerare il morente solo come oggetto passivo di pastorale. lnfatti l'aiuto al morente comporta anche un arricchimento vicendevole. ll morente ha qualcosa di personale da donare: è testimone della condizione umana e del bisogno che l'uomo ha di Dio. li morente diventa maestro di vita perché educa a vivere nella consapevolezza della fragilità umana. L'offerta di aiuto al sofferente apre a una dimensione di gravità capace di rendere più umani: «Per chi cerca la verità della propria umanità questo è un passaggio obbligatorio: dare se stessi per potersi ritrovare»'". Bisogna avere la buona volontà di fare una evangelizzazione che proclama e testimonia con certezza l'amore di Dio per la vita, per ogni vita, per tutta la vita, per ogni suo momento: amore che diventa tenerissimo e fedelissimo quando la vita si fa debole e povera e s'avvia al suo naturale tramonto. Di fronte al silenzio sulla morte nella nostra società, per i cristiani è doveroso non nascondere la realtà né accettare tale censura di linguaggio e di pensiero, perché la prospettiva della fede in Cristo morto e risorto non solo consente di decifrare la natura e il perché del 1norire, ma «anche di riscattare

lo spegnersi inevitabile dell'uomo dalle categorie dell'angoscia, del buio inelultabile, dello scomparire nel nulla, del dissolversi della comunione con gli uomini e il n1ondo» 71 • «C'è pe11anto tutta una evangelizzazione sul significato della vita, della

n1alattia, della sofferenza e della 70

111011e,

che va ripensata ed espressa in

A, GALIMBERTI, La .fede: una ri.1·orsa per il 111alato e /'i1?fenniere di .fronte alla sqffèrenza e alla 111orte, in ACOS, L 'Ìl?f'ernliere dijl·onte al dolore e alla 111orte, Assisi 1985, 50. 71 F. BROVELLI, La celebrazione della 111orte del Cristiano, in Anilne e C'orpi ! 03 (1982) 455-495: 457.


Dio ajfìda I 'uo1no a// 'uon10

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fedeltà ai dati della rivelazione e alla viva tradizione della Chiesa. Si impone soprattutto che l'annuncio cristiano venga procla1nato in tutta la pienezza e globalità e non sia niutilato in ciò che esso afferma a riguardo della destinazione ultima della vita u1nana, che dal battesin10 fino all'unzione degli infenni è tutta inserita e dina1nicamente ritn1ata sul n1istero pasquale di Cristo sofferente, n101io e risorto» 7è.

Certo, c'è da lottare e combattere con tutte le forze della scienza e della tecnica per guarire la vita, per alleviarne la sofferenza quando è provala dalla malattia e dall'infermità, sempre nel massimo rispetto della vita: ma e 'è da essere accanto alla vita con cuore umano e credente, quando c'è da percorrere l'ultimo tratto di strada. È questa una sfida da accogliere per non cadere nelle trappole della morte garantita da una falsa dignità e pietà, ma per stare dalla parte della vita, nel segno di Dio che della vita è Padre e Creatore con gelosia d'amore. «C'è una luce che Dio ha acceso sulla vita e Cristo ci ha testimoniato con la sua Pasqua: il Regno di Dio.I Se ci 111anca questo coraggio di annunciare il Regno di Dio, la vita con1e la n1orte non trovano il loro senso più autentico» 1-'.

Gesù nel conferire il mandato apostolico ai Dodici, e tramite essi a tutta la Chiesa, affida alla comunità dei credenti la cura degli infermi come mandato inscindibile dell'evangelizzazione e la Chiesa nel corso dei secoli ha fortemente avve1tito il servizio ai malati come parte integrante della sua missione'". Il giusto atteggiamento di fronte alla morte non matura occasionahnente nel processo educativo, ina deve scaturire da un ca1nn1ino catechetico che accompagni la vita dell'uomo al fine di sapere integrare la realtà dolorosa nella propria esistenza. Solo se è stata maturata in precedenza la consapevolezza circa il proprio essere per la morte, è possibile che si instauri un giusto rapporto tra il malato terminale e coloro che lo assistono". L'essere per la morte deve diventare oggetto di consapevolezza durante la vita. Il pensiero della m01ic p01ta l'uomo a una visione realistica della sua vita sottolineandone l 'insufficicnza e la incompiutezza. Tuttavia, ai 72

CONFEREN/.A EPISCOPALE ITALIANA,

Evang(d1Zzazione e sacrtunenti della penitenza

e de!/ 'unzione degli i1?/èn11i, Ron1a 1974. 73 L'assistenza al 111ore11te, cit., 404. 71 ' Cfr GJOVANNJ PAOLO Il,

Dolentil11n Jlon1i11u1n, in EV/9, 1410. 75 Cfr P. MALA VASI, Per una pedagogia della 111orfe, Bologna 1985, 131.


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fini dell'accettazione interiore della morte, è necessario che questa venga vista in una prospettiva di fede, che sola può illuminare il volto ambiguo di questo mistero e schiudere il significato ultimo della vita. Il compito della catechesi al riguardo non è tanto di illustrare la morte di Cristo alla luce del morire umano, quanto di pmiare a comprendere il senso della morte umana a partire da quella di Cristo e qual è il senso umano che essa assume una volta che l'uomo diviene capace di morire "in Lui" e "con Lui". La comunità cristiana deve, quindi, essere per l'uomo sofferente fonte di aiuto nella ricerca di un senso, una ricerca che non è stata facile nemmeno per Gesù: «Anche lui, come ogni uo1no, nell'angoscia della ino1ie ha gridato verso il Padre per essere liberato; 1na nella preghiera, nella contemplazione dell'a1nore del Padre e della esigenza della sua 1nissione ha trovato il coraggio di dire "si" alla volontà dcl Padre; e la sua vita, o 111eglio il dono della sua vita, è stato questo "si"» 76 •

L'uomo nella sofferenza deve conseguire la stessa certezza di Gesù, la speranza della resurrezione rivela il mistero della morte. L'esperienza della fede si fonda sulla speranza nel Risorto. È Gesù che «ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie»". È Lui che ha detto: «venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò»n. La Chiesa nei confronti del morente, quindi, si fa presente alla sofferenza con il dono della grazia e con il servizio della carità, per continuare l'opera del suo Capo, il quale è venuto come «medico del corpo e dello spirito»". 2.4. La dimensione sacramentale 2.4.1. La Riconciliazione Il tempo della malattia e del morire può divenire il tempo della riconciliazione, la quale può essere il risultato di un itinerario spirituale che inizia già con la preghiera. Questa infatti rimedia alla solitudine offrendo una 76 C. GUAR!SE, L'annunzio del 1nessaggio cristiano nelle esperienze negative della vita, in Ani1ne e ('01pi 87 ( l 980) 9-21: l 7. 77

78

79

Mt 8, I7; cfr Is 53, 4. Mtll 8

CROM~Z;O DI AQUILEIA,

('0111111e11/o

al Vangelo di Matteo, Roma l 984, 157.


Dio affida l'uomo a!/ 'uomo

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intimità con Dio ancora prima del sacramento della riconciliazione. La preghiera trasmette la speranza, può portare la consapevolezza che Dio è disponibile e accessibile"'. Anche se non esiste più alcuna prospettiva che il corpo guarisca, si può sperare che la gloria di Dio diventi visibile già ora, nel contesto della malattia". La speranza cristiana, dopotutto, si basa sulla consapevolezza di essere già fin d'ora figli ed eredi di Cristo, protesi verso la piena manifestazione della gloria nella risurrezione. Nella morte la speranza chiede a Dio di compiere tutta la sua opera". La dimensione escatologica può inoltre, di per sé, suscitare un desiderio di riconciliazione". La Chiesa, quale madre, accoglie questo desiderio di riconciliazione e offre la possibilità di esprimere sacramentalmente la propria conversione, una conversione che può dare alla vita, anche in prossimità della morte, un senso alla luce della Parola di Dio". «Così dopo una sofferta maturazione spirituale il morente potrà sentire il conforto dell'azione di Dio, il conforto promesso da Gesù: "Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò" (Mt 11, 28)»''· 2.4.2. L'Unzione degli infermi Spesso si concepiscono erroneamente anima e corpo come due entità diverse, messe insieme. Si conclude quindi che un beneficio utile ad entrambi, deve consistere in due aiuti per sé distinti, paralleli. Questo cartesianismo non corrisponde alla dottrina cristiana sull'uomo, che invece vi vede un 'unità concreta, spirituale e corporale. Ciò che in realtà esiste è l'uomo; in qnesta unità biologia e spirituale gli aspetti anatomico, fisiologico, psicologico e soprannaturale stanno in una continua e mutua interferenza, così che per parlare di uno di essi si deve ricoITere a un'astrazione.

°

8

Cfr L. N. CONRAD, À!:isistenza -'>pirituale per i 111orenti, in L'assistenza il?fennieristica del Nord A1nerica I (1986) 170-176: 173. 81 Cfr M. PETRINJ, Accanto, cit., 175; cfr D. CASERA, li passaggio a//'aflra sponda. Per una presenza "u111c111a" accanto ai inalati in.fase tenninale, Brezzo di Bedcro 1985, 1O. 82 Cfr N. LOllFlNK, Il sapere della .\peranza. Esegesi e Teologia, Casale Monferrato

1989, 99. 83 84

85

Cfr GIOVANNI PAOLO Il, Reconciliatio et Paenitentia,

in EV/9, 22.

Cfr CONFERENZA EPISCOPALE GERI\1ANIA OCCJDENTALE, M. PETRINI,

Accanto, cit., 177.

Dichiarazione, cit., 380.


Gaetano Zan1n1;t1;

110

La grazia sacramentale dell'unzione può essere dunque descritta come un aiuto concesso alla persona intera per vivere intensamente la sua vita soprannaturale nonostante le difficoltà particolari dell'infermità. L'efficacia dell'unzione degli infermi è la configurazione a Cristo morente, e l'aspetto corporale di questa efficacia consiste nel fatto che il corpo dell'infermo partecipa della perfetta sottomissione del corpo di Gesù crocifisso. Da questa partecipazione dolorosa risulta poi la partecipazione gloriosa, l'ordine perfetto del corpo glorioso e dell'anima beata dopo la risurrezione, che sarà di nuovo una somiglianza con Cristo risotio. L'unzione, in ordine all'unione col Cristo sofferente, completa quanto è avvenuto nel battesimo e nella cresima. Rende cioè il credente simile a Cristo, giunto alla glorificazione totale attraverso la sofferenza e la morte. In tale atteggiamento anche il credente potrà fare della propria sofferenza un atto di culto a Dio, di glorificazione di Cristo Al capezzale del malato, Cristo, per mezzo del suo ministro, compie un gesto carico di significati in ordine al sollievo spirituale e corporale di cui quello ha bisogno: un gesto efficace che richiama la ricchissima tematica dell'olio, come segno della presenza e dell'azione dello Spirito. L'uomo infermo, che il battesimo ha unito vitalmente al Cristo sofferente, viene di nuovo unto con l'olio, perché nella presente, attuale e concreta esperienza dolorosa, la sua malattia sia consacrata alle finalità della salvezza propria, della Chiesa e della gloria di Dio. La sacra unzione non deve essere qualcosa di imposto, quando sopraggiunga lo stato di incoscienza del malato, ma deve essere celebrata quando il malato può liberamente richiederla e accettarla'". Inoltre «l'estrema unzione, che può essere chiamala anche, e meglio, unzione degli infermi, non é il sacran1ento di coloro soltanto che sono in fin di vita»-17, 1na di tutti i sofferenti per infermità o per vecchiaia. Infatti, «con la sacra unzione degli infermi e la preghiera dei sacerdoti, tutta la chiesa raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perché alleggerisca le loro pene, e li salvi; anzi li esorta a unirsi spontaneamente alla passione e morte di Cristo, per contribuire così al bene del popolo di Dio»". In questi testi viene indicalo l'orientamento attuale della Chiesa che sottolinea l'aspetto comunitario e personale-dialogico del sacramento: «sarà 86

Cfr Sacra111ento de// 'unzione e cura pastorale degli il?fCnni, Città dei Vaticano

1974, !11trod11zio11e, 36. 87 se 73. 88

LGI1.


111

Dio qffìda l 'uo1110 ali 'uon10 ---"~-----

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,

__________

proprio la sua fede e la fede della Chiesa che salverà l'infermo, quella fede che mentre si riporta alla morte e alla risurrezione di Cristo, da cui il sacramento deriva la sua efficacia, si protende anche verso il regno futuro di cui il sacratnento è pegno e promessa»s9 • Conformemente a quest'insegnamento il nuovo Orda mette in rilievo che l'unzione degli infermi riguarda non solo il malato e il sacerdote, ma tutta la Chiesa. Questa insistenza combatte il processo di privatizzazione che minaccia tutta la cura pastorale degli anziani e dei malati. La sacra unzione è il sacramento di chi, nella gravità della malattia, crede al di là di tutti gli interventi umani, alla misteriosa e soprannaturale efficacia confortatrice della preghiera della fede della Chiesa. L'unzione è un fatto ecclesiale in quanto fa vivere la sofferenza con Cristo. Il malato attua quello che S. Paolo diceva delle proprie sofferenze: «completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore dcl suo corpo che è la Chiesa»'"'. L'unzione non è un rito funebre, 1na un aiuto per vivere cristia11a1nente la malattia. Vivere la malattia deve includere anche l'atto supremo della vita, il morire: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»"'. 2.4.3. Eucaristia e sofferenza Il Vangelo non offre una filosofia della sofferenza e della morte né propriamente una teologia, ma ci presenta una Persona, Cristo, che ha vissuto i drammi del dolore e della morte. Il malato che soffre o il moribondo che sente sfoggirgli la vita è più sensibile all'esempio di Cristo sulla croce che non a considerazioni sottili, anche di ordine morale e religioso"'. Gesù è presente e operante nell'Eucaristia più che altrove, Egli continua a essere fra noi e con noi co1ne vita del tnondo9 -'. Per questo conoscere e partecipare l'Eucaristia sono la via n1aestra per conoscere e vivere la realtà umana del soffrire e del morire. ~ 9 5i'ucra1ne11to de!l't11lzio11e. J111rod11zio11e, cil., 7.

°Col l, 24.

9

91

Le 23, 46; cfr Sai 31, 6. 92 Cfr CONCILIO V/\ rrcANO II, Jvfessaggio ai poveri, agli a111111ulati, a tutti coloro che .w'.ffì·ono, in EV/l, 518~'-528*: 518*. Cfr G. Yl!vJJ-:RCATl, Lafède e il .\·acra111ento della riconciliazione, in Ap;giorna111enti di pastorale ospedaliera 6 (1974) 82. 93 Cfr (iv 6, 51.


Gaetano Zan1n1itti

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L'Eucaristia è centro e forma della comunità ecclesiale, della sua vita e della sua missione. È centro e forma anche di quanti sono colpiti dalla malattia, dalla sofferenza e dalla morte; centro e forma anche della pastorale della sofferenza la quale riceve da essa i suoi contenuti e significati fondamentali". L'Eucaristia è: sacrificio della Croce e della Chiesa, fonte della comunione fraterna, pegno della gloria futura". L'Eucaristia è il "memoriale" del sacrificio di Cristo; la Chiesa chiamata a celebrarla viene intimamente unita a tale sacrificio. Non si compone, quindi, di due offerte separate: lofferta del soffrire di Cristo e quella del soffrire della Chiesa e degli uomini, ma di un'unica offerta iu quanto Cristo "trascina" nella propria offerta quella della sua Chiesa". Chi prende parte all'Eucaristia, memoriale del sacrificio di Cristo, riceve la grazia di vivere la sofferenza con la "novità" che Cristo vi ha inserito: una sofferenza resa segno e luogo di amore ordinato alla gloria del Padre e alla salvezza del mondo. «Poiché c'è un unico pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane»". È questo l'insegnamento ininterrotto della tradizione della Chiesa. L'Eucaristia si presenta, quindi, come "risposta" e "proposta" per il dramma umano dell'isolamento dell'ammalato e del sofferente. li sofferente che crede nell'Eucaristia, ne vive il dono e il comandamento della "comunione fraterna", non è solo, ma unito come fratello a fratelli, e a tt1tti può e deve offrire il suo prezioso e insostituibile servizio: la sua stessa sofferenza, vissuta cristianamente, è amore che glorifica il Signore e salva l'umanità. La Chiesa celebra l'Eucaristia in attesa della "parusia". L'Eucaristia è, dunque, annuncio e anticipo della "vita eterna". Per questo essa è il sacramento della speranza della Chiesa che cammina nel tempo"·'. In quanto sacramento di speranza per la Chiesa, l'Eucaristia è sacramento di speranza per ogni suo membro, in particolare per quelli colpiti dalla malattia e dalla sofferenza e per i morenti.

94

95 96

Cfr D. TETTAl\1ANZ1, Custodi e servitori, cit., 517-519. cfr se 47. Cfr P1ox11, Lettera enciclica A1ystici C'o1poris, Ro1na 29 giugno 1943, in AAS 35,

239. 97 98

1 Cor IO, 17.

Cfr LG 8.


Dio affida l'uomo all'uomo

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Tale speranza è senz'altro la speranza escatologica: «lo sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo gion10» 99 , Co1ne per Cristo, così per il cristiano la mo11e è una "pasqua", un passaggio dalla vita nel tempo alla vita nell'eternità. Così pure le diverse forme di malattia e di sofferenza, in quanto segni e in qualche modo anticipazione della m011e, pai1ecipano del significato pasquale proprio della morte del cristiano: è il significato annunciato e partecipato dall'Eucaristia, in particolare dall'Eucaristia-Viatico'"". Questa è segno della premura materna della Chiesa che, come ha generato nel battesimo l'infenno, così gli sta accanto nel momento in cui conclude il pellegrinaggio te!Teno, lo assiste con la preghiera, ne accoglie l'ultima professione di fede, lo munisce del nutrimento e del pegno pasquale e lo affida alla assemblea della Gerusale1n1ne celeste 101 •

Il Viatico presuppone un'azione pastorale previa nella quale il morente progressivamente sia stato aiutato a leggere la propria storia e il senso che l'ha caratterizzata. Il Viatico diventa per il morente l'estrema occasione di vivere la fede"". Conclusione

È naturale la paura di fronte alla morte. Ma la paura ancora più radicale è la solitudine, nella quale si è lasciati, a volte dalle stesse persone familiari e care. E quando la solitudine sconvolge l'anima e il corpo del malato e del morente, essa prepara il te!Teno alla disperazione. Se poi la speranza crolla, cancellata dall'abbandono dei sani, si diventa capaci di tutto, anche di lasciarsi morire o procurarsi la morte. Alternativa alla solitudine è la "solidarietà''. Se la prima porta alla disperazione, la seconda apre le porte alla speranza. Solidarietà comporta vicinanza, aiuto, "presenza": talvolta può essere il silenzio, purché parli di un amore che non abbandona chi sta per morire. Il contrario della solidarietà è la fuga, la rinuncia, la paura.

99

Gv 6, 51.54.

ioo Cfr CONGREGAZIONE DEI RIT!, Eucharisticz1111 !vfysteriu111, in EV/2, 39. 101

Cfr M. PETRINI, Accanto, cit., 185. Cfr A. DoNGHI - C. DoNGHI, La pastorale dei 1nalati in .fase tern1inale e dei 1norenti, inAnùneecorpi 118 (1985) 179-198: 181. 102


Gaetano Za1111nitti

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Il malato terminale è una sorta di rivelatore, un segno di contraddizione, fra due modi di socialità: c'è chi gli si avvicina dopo aver compreso ed accettato la convivenza e il confronto con il dolore e la morte e c'è chi fogge e si allontana. li malato inguaribile porta in sé il valore della vita che giunge al suo momento di maggiore impegno esistenziale, di maggiore rischio di destrntturazione psicologica oppure di apertura all'ultima maturazione. Da parte delle persone vicine al malato questo momento dovrà diventare catalizzatore di solidarietà e impegno etico maturo, in cui l'amore al fratello si testimonia con il sacrificio e l'oblatività del serviziorn-1 , Assistere un inalato tern1inale significa aiutarlo a restare fino alla fine un uomo con una dignità da rispettare. Il cosiddetto malato tenninale non è più guaribile, 1na è ancora curabile attraverso una serie di atti, di interventi, di comportamenti, miranti ad apportargli quei benefici fisici, psicologici, sociali e spirituali, che gli permettono di sopportare e, se possibile, accettare un'evoluzione fatale della malattia. In quanto esseri finiti, contingenti, mortali, siamo esseri relazionali, bisognosi, per conquistare la nostra identità, dell'essere con l'altro. La nostra dignità si colloca nel nostro essere costitutivamente uniti a tutti gli altri uomini da vincoli che anche volendo non potremmo mai recidere. «Il Dio dell'Alleanza ha affidato la vita di ciascun uomo all'altro uomo suo fratello, secondo la legge della reciprocità del dare e del ricevere, del dono di sé e dell'accoglienza dell'altro»"'". Ecco perché la vita umana, anche quella malata, non può mai perdere di dignità: in quanto resta sempre vita accanto a vite. Qui sì colloca l'immenso valore bioetico delle cure palliative prestate agli ammalati terminali: alleviare i dolori di chi soffre, anche senza per questo potergli garantire la guarigione, porta con sé un significato che va oltre quello rappresentato dalla diminuzione del dolore: diviene un simbolo dcli' essere accanto, di ciò che un malato desidera più di ogni altra cosa. La stessa morte, che ad una frettolosa considerazione può apparire co1ne un'esperienza un1ana e1ninente1nente solipsistica, si rivela proprio a causa del suo essere esperienza znnana, con1e intrinseca1nente "relazionale". È dunque in questa prospettiva,, l'unica antropologicamente corretta, che vanno impostati tutti i problemi bioetici inerenti la fine della vita. Nessun uomo è signore della propria vita, non solo perché questa è dono di Dio, ma 103

Cfr E. SGRECC!A, Il 111a!ato tenninale e l'etica della solidarietà, in Pastorale Sanitaria istanze etiche e cultura/i, Brezzo di Beclero 1987, 419-428. io-t EvV 76.


Dio affida l'uon10 all'uon10

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anche perché la vita umana non è esperienza solipsistica, bensì condivisione cli es11erienzern': «Ogni uomo è "guardiano di suo fratello", perché Dio affida I'uo1no all'uomo» 106 •

105

Cfr F. D'AGOSTJNO, Bioetica. Nella prospelliva dellafìlosqjìa del diriflo, 1996, 178-181. 106 EvVl9.

Torino



Sezione miscellanea con documenti e studi Synaxis XIX/1(2001)117-136

A PROPOSITO DI SCIENZA E FEDE IN PASCAL

MARIA VITA ROMEO'

Accade spesso che di Pascal si considerino le Pensées e Les provincia/es, sottovalutando il valore filosofico insito nell'esperienza matematica, e privilegiando invece la sfera filosofico-religiosa. Anzi, si punta l'attenzione sull'autore delle Pensées, che semhra disprezzare lutto ciò che è n1ondano ed un1ano, n1entre si trascura il Pascal inaten1atico 1• Beninteso, questa nostra considerazione non auspica affatto l'estremo opposto: privilegiare, cioè, in modo unilaterale la riflessione scientifica pascaliana a scapito di quella filosofica, magari per ritrovarsi nuovamente con un Pascal dimidiatus. In verità, qui si avverte l'esigenza di rivalutare ce1ti aspetti del momento scientifico per comprendere meglio quello filosofico, cogliendo in profondità quell'inscindibile nesso che, come il filo

*Dottoranda in Filosofia presso l'Università degli Studi di Catania. 1 A tal proposito, scrive Giancarlo Nonnoi: «L'attività scientifica di Pascal in 111odo particolare non è stata in genere considerata con l'attenzione che n1erita, quasi sì sia trattato di un'attività 1narginale, o di una breve passione giovanile, in un'esistenza quasi lutta assorbita dalla riflessione religiosa ed esistenziale. La letteratura critica su! Pascal scienziato è infatti n1olto esigua a fronte dell'i1nponente letteratura sul Pascal polen1ista, giansenista, tutto grondante spiritualità cristiana che trova espressione nelle Provinciali o nelle Pensées. Eppure Pasca! fu scienziato cli pri1n'ordine, e il suo lascito scientifico in settori che sono divenuti oggi, grazie alle acquisizioni definitive delle sue ricerche, capitoli non più di punta della ricerca fisica e 1naten1atica, non è certo inferiore a quelli di 111olti dei suoi contc1nporanci ben più celebrali. Pascal era inoltre pensatore di straordinaria finezza e lucidità filosofica, caratteri che fanno del suo n1etoclo speri1nenta!e e dcl la riflessione critica che su di esso fu capace di condurre uno dei 111on1enti più alti dell'intera riflessione cpisten10Jogica del secolo»: G. NONNO!, Galileo e Pascal: idee ed e::,perienze, in Filosofìa Scienza Storia. Studi in onore di Alberto Pala. a cura di A. Cadeddu, Milano 1995, 159; cfr E. T. BELL, I grandi 111ate111atici, Firenze 1970, 7.


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Maria Vita Ron1eo

rosso di cui parla Goethe a proposito del diario di Ottilia', percmTe e lega organicamente religione, filosofia e scienza nell'unità del pensiero pascaliano. La personalità di Pascal, infatti, è il frutto di una continua conquista di posizioni sempre nuove a cui egli giunge per gradi, senza mai rinnegare del tutto le esperienze antecedenti, ma mantenendo quest'ultime ed inverandole nei mon1enti successivi 3 • Dal contrasto fra i due modi di vivere dello scienziato e dell'uomo egli giungerà così ad un modus vivendi che è quello del cristiano. I tre ordini risultano distinti, ma tutti si rivolgono alla medesima realtà, che si può cogliere per vie diverse, e che conserva agli occhi del soggetto che la indaga - sia come natura sia come Dio - sempre un alcunché di misterioso, di celato. Questa realtà è pur sempre l'ignoto, cioè l'altro da sé, che ha sue proprie "leggi", ognuna delle quali può essere conosciuta solo da una particolare prospettiva". A tal proposito, distinguendo l'esprit de géométrie dall'esprit de fìnesse, Pascal annota: «È raro che i geometri siano spiriti fini, e che gli spiriti fini siano geometri, per la ragione che i geometri vogliono considerare geometricamente tali cose fini e si rendono ridicoli [ ... ]. E gli spiriti fini, al contrario, essendo tanto abituati a giudicare con un solo sguardo, rimangono così frastornati - quando si presentano loro proposizioni in cui non comprendono nulla e per capire le quali bisogna utilizzare definizioni e principi così sterili, che essi non hanno affatto l'abitudine di prendere in considerazione in modo particolareggiato - che se ne avviliscono e se ne disgustano»'. Da questa fondamentale distinzione deriva, per conseguenza, che esistono diversi tipi di «sens droit», di retto giudizio: quello degli esprits 2 1<Abbia1no sentito dire d'una speciale disposizione della 1narina inglese. Tutti i sartian1i della regia flotta, da! più robusto al più sottile, sono tessuti in n1odo che vi corra intcrnan1cnte un filo rosso, filo che non si può estrarre senza sciogliere tutto quanto, e grazie al quale anche dci più piccoli fra111111enti è possibile riconoscere che appartengono alla corona. Si111iln1ente un filo d'mnore e di devozione percorre il diario di Ottilia e tutto vi collega e ne caratterizza l'insie1ne>>: J. W. GOETHE, Le qffìnità ele11h 1e, traci. it. 1'/L l'v1ila, in Ro111a11zi, Milano 1994~, 655. 3 Cfr F. GENTILE, Pascal, saggio d'interpretazione storica, Bari 1927, 17. "Cfr ibid., 52-55. 5 B. PASCAL, Pen.s)eri, Fr. 21, in Pensieri, O]JUsco!i, Lettere, a cura di A Bausola, Milano 1997 4 , 404-405, (in lingua originale, Pensées, Fr. 466, in rEeuvres co111p/ètes, édition présentée, établie et annotée par M. Le Guern, Paris 1998-2000, t.

Il, 743).


A proposito di scienza e .fede in Pascal

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fìns, abituati à juger d'une seu/e vue, e quello dei géomètres, abituati a ragionare solo dopo aver posseduto i principi nels el grossiers della geometria. «Vi sono dunque - scrive Pascal - due tipi di ingegni; l'uno comprende con vivacità e profondità le conseguenze dei princìpi, ed è il caso dello spirito di giustizia; l'altro comprende un gran numero di princìpi senza confonderli, ed è il caso dello spirito di geometria. L'uno è forza e dirittura di ingegno, l'altro è ampiezza di ingegno. Ora l'uno può essere senza l'altro, potendo l'ingegno essere forte ma limitato, e potendo anche essere ampio e debole»''. Diversi tipi di ingegno, dunque, che esprimono diversi tipi di "retto giudizio" in base al diverso ordine di cose a cui fanno riferimento'. Sicché osserva giustamente Federico Gentile: «Ciascun ordine è chiuso in sé: ma la realtà è sempre una [ ... ]. Di essa ciascun ordine vede quello che essa limita (scienza, filosofia, religione); e ciascun ordine sempre più del precedente, in quanto lo comprende. Ma lo comprende in quanto l'oggetto è lo stesso, la realtà è la stessa, soltanto vista da un'altra altezza, in un più vasto orizzonte, dove l'oggetto dell'ordine precedente riprende il suo vero valore mercé una visione più universale. E poiché corrisponde a questa gradazione d'ordini della realtà una gradazione di facoltà nell'uomo (senso, ragione e volontà), la fede, pur essendo messa nel cuore perché agisca sulla volontà, non fa a meno della ragione, né contraddice ai sensi. Il cristiano rappresenta perciò per Pascal l'uomo completo; il vero essere dell'uomo che attraverso la fede ha raggiunto il senso vivo del valore del reale»'. Scienza, filosofia e religione, nella prospettiva pascaliana, costituiscono dunque le tre indispensabili tappe che permettono all'uomo di conoscere la natura, sé stesso e in ultimo Dio. Se non s'intende tutto questo, «si rischia di rendere incomprensibile una personalità che, come quella di Pascal, è tesa a cogliere la vita nella sua interezza»' D'altronde, il genio matematico del pensatore di Clermont-Ferrand rifulge non solo nelle opere scientifiche, ma anche in molti frammenti dei Pensieri, quale ad ese111pio quello del Pari 111 . 1

6

lbid.. Fr. 22. 406, (lbid., Fr. 465, t. II. 742). <(Diverses sortes de sens droit; !es uns dans un certain ordre dc choscs, et non dans !es autres ordres, où ils extravaguent)) (!bid., Fr. 465, t Il, 741 ). 7

8 9

F. (fFNTlLF,

Pascal, cit.,

324.

V. MARTINO, B. Pascal nel! 'unità del suo JH'IJSÙ?ro, Lecce 1962, 31. 10 Per co111prendere a fondo il suo genio, che si è rnanifcstato sia nel can1po n1atc111atico e tecnico sia nel cainpo teologico, «è opportuno rilevare fin da ora che non c'è antitesi tra !o scienziato e il filosofo cristiano, 1na un'annonica unità, nella quale le scienze


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Maria Vita Ron1eo

Discepolo del matematico Desargues, Pascal si dedica allo studio scientifico sin da giovane. È un enfi:mt prodige: a sedici anni scrive l'Essai pour /es coniques, opera con la quale egli sistema tutta la teoria proiettiva delle coniche sulla base di un teorema che tutt'oggi porta il suo nome. Successivamente, Pascal tenterà di ampliare l'argomento in un trattato di geometria proiettiva, opera purtroppo mai portata a termine, i cui appunti ven-anno in seguito utilizzati da Leibniz per l'elaborazione del calcolo infinitesimale. A diciannove anni, concepisce per la prima volta l'idea di una macchina calcolatrice. Studia inoltre gli integrali, le fi.mzioni e la geometria analitica. Si colloca, tra l'altro, nella storia del pensiero scientifìco come uno dei fondatori della moderna teoria della probabilità e dello studio del calcolo infinitesimale 11 • Rilevanti sono pure i suoi contributi alla fisica: studia i lavori di Torricelli sulla pressione atmosferica, superandoli grazie all'applicazione di quel metodo scientifico che Galilei, maestro di TmTicelli, aveva autorevolmente proposto. Effettua inoltre delle esperienze sul barometro, del quale fornisce l'idea, e dimostra la proprietà allora ignorata della pressione at1nosferica I:'. Nell'arco di tempo che va dal 1646 (prima conversione) al 1654 (seconda conversione), Pascal vive il periodo cosiddetto "mondano", in cui conosce uomini di cultura, alieni e dalla filosofìa sistematica e dalle pratiche religiose: sono uomini di mondo, liberi pensatori, che affermano i diritti dei sensi e della ragione, rifiutando tradizione e superstizione. In questo periodo, u1nane e le religiose si dispongono su due piani, il pri1no subordinato e necessario al secondo,

l'uno strun1ento dell'allro)>: M. F. SCIACCA, Pascal, Palern10 1989, 30. 11 «in n1atc1natica Pascal è forse il più grande fra tutti quelli che avrebbero potuto lasciare il loro no1ne alla storia. Egli ebbe la sfortuna di precedere Nc\vton soltanto di pochi anni e di essere il conte1nporanco di Descartes e di Fern1al, tutti e due più costanti di lui nello studio»: E. T. BELL, I grandi 111ate11u1tici, cit., 74; cfr Cl. PRETJ, Storia del pensiero scient[(ìco,

Milano 1975, 203-204. 12 Sul problen1a dcl vuoto nel XVII secolo e sui relativi contributi di Galileo, Torricelli e Pascal, si ri1nanda ai seguenti studi: G. NONNO!, Galileo e Pascal: idee ed esperienze, cit; In., llorror vacui: G'a!i!eo e il 111uta111enlo di 1111 paradig111a, in Lezioni Galileiane - I - Alle origini della rivoluzione scientifìca, a cura di P. Casini, Ron1a J 99 l, J 55169; ID., G'a!i!eo e la questione del i•11oto tra storia e storiografìa, in Questioni di storia del pensiero jìlosofico e scient[fìco, intr. di S. Tagliagan1be, Annali della Facoltà di Magistero dell'Università di Cagliari, Quaderno 28, Cagliari 1987, 53-102; ID., 11 pelago d'aria. (;a/ileo, Ba!iani, Beeclunan, Ron1a 1988; ID., Evangelista Torricelli. La pressione del! 'aria e gli <<autori de' crepuscolh>, «Torricelliana», Bollettino della Società Torricelliana di Scienza e Lettere, 48 ( 1997) 17-45; ID., Againsl E111ptiness: Descartes's Physics and i\1etaphysics l!l Plenitude, in Studies i11 l-Iisto1y and Phi!osophy (~f Science, February 1994, v 25, I, 81-96.


A ]Jroposito eh scienza e fede in Pascal

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Pascal s'interessa soprattutto alle esperienze umane, che approfondisce nei continui contatti «con i "signori" dalla vita spensierata e gaudente, ed alla luce dei libri dei filosofi, Epitteto e Montaigne»". Queste nuove esperienze diventeranno sempre più continuo oggetto di riflessione, dando vita a quella filosofia che avrà come principale oggetto di studio l'uomo. Pascal comincia così il lungo cammino che, pai1endo dall'uomo, dai suoi limiti, dalla sua miseria esistenziale, condunà a Dio. Tra i /ibertins che egli frequenta, colui che influenza in maniera rilevante il suo pensiero è il cavaliere de Méré, dal quale apprende che il metodo geometrico non è adegualo a giudicare le cose della vita, e dal quale è spinto a riflettere sulla possibile superiorità del sentimento rispetto alla ragione 1 ~.

«Vi resta ancora··· scrive il de Méré nel 1658 a Pascal - un'abitudine che avete preso in questa scienza [la matematica], a non giudicare di alcunché se non attraverso dimostrazioni che il più delle volte sono false. Questi lunghi ragionamenti [ ... ] vi impediscono di entrare subito in conoscenze più alte che non ingannino mai» 1'. Successivamente, egli si rende conto di quanto le scienze astratte siano poco adalle a risolvere i reali problemi dell'uomo, poiché lo "distraggono" dalla sua reale condizione: l'uomo, infatti, studia il "resto" sol perché è incapace di studiare sé stesso o meglio perché preferisce restare ignorante piuttosto che scoprirsi infelice"'. Tuttavia, ciò non comporta per Pascal un abbandono della ricerca scientifica e dei suoi procedimenti. Basti sottolineare il fatto che, proprio durante gli anni cruciali per la sua riflessione religiosa - sia1no intorno al 1657 - egli continua ad interessarsi ai problemi della scienza e compone gli fa·crils sur la grace, gli Eléments de géométrie, destinati alle "Pelites Ecoles" di Port-Royal, e il De l'esprit géométrique. Pur svalutando e disprezzando tutte quelle scienze che si rivolgono alle "verità di fatto", egli continuerà a dare un certo valore alle scienze che riguardano le "verità di ragione", cioè le scienze matematiche.

13

Cfr S. CANDELA, Pascal (pro.fe!a del passaggio dalla scienza e dallajìlosqfìa alla religione cristiana), Napoli 1970, 47. 1 "' Cfì· V.E. ALflERl, li proble1na F'ascal, Milano I 959, 74. 15 Questo brano è riportato da A. BAUSOLA, Introduzione a Pascal, Bari 1992 3, 65-6. l lesti ciel De Méré ripo1iati da Bausola sono citati sulla scorta del Brunschvicg, in particolare nota a p 31 9 di B. PASCAL, Pensées et (Jp11sc11les, a cura di L. Brunschvicg, Paris 1968. 16 Cfr B. PASCAL, Pensieri, cit., Fr. 80, 424-425 (Pensées, cit., Fr. 581, t. Il, 783-784).


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A1aria Vita Ro111eo

Secondo il pensatore di Clermont-FeJTand, infatti, la matematica è "inutile" e "utile" allo stesso tempo: è inutile, perché non potrà mai raggiungere le verità esseuziali, che sono quelle della fede; ma è utile, poiché attraverso i suoi concetti, specie quello di infinito, dimostra l'inadeguatezza e il limite della nostra conoscenza rispetto ad una realtà più profonda e più umana che è accessibile solo al creur. La matematica, quindi, assume un ruolo dialetticamente importante e preparatorio nei confronti dell'indagine filosofico-religiosa". Nel De l'espril géomélrique, Pascal sostiene che la geometria è una scienza valida, poiché è l'unica capace di cogliere la verità con i suoi soli mezzi: «La geometria [ ... ] ha sviluppato l'arte di scoprire tutte le verità sconosciute [ ... ]. Ed io ho scelto questa scienza per riuscirvi, per nessun altro motivo se non perché essa sola conosce le vere regole del ragionamento, e, senza aJTestarsi alle regole del sillogismo che sono così naturali che non si possono ignorare, si fern1a e si fonda sul vero metodo»i.~. Oltre al metodo geometrico, esiste un metodo "ideale", bello, pofelto, ma impossibile, che definirebbe tutti i tennini e proverebbe tutte le proposizioni: «Certamente questo metodo sarebbe bello, ma è del tutto impossibile: perché è evidente che i primi termini che si vorrebbero definire ne supporrebbero altri antecedenti che servirebbero a spiegarli, e che, allo steso modo, le proposizioni prime che si vorrebbero provare ne supporrebbero delle altre che le precedessero; e così è chiaro che non si arriverebbe mai alle prime. Così, spingendo le ricerche sempre più in là, si arriva necessaria1nente a dei no1ni primitivi che non si possono più definire, e a princìpi così chiari che non se ne trovano più altri che servano 111eglio alla loro prova. Dal che appare che gli uomini sono in uno stato di impotenza naturale e i1nn1utabile a realizzare una qualsiasi scienza secondo un ordine

del tutto perfetto. Ma da questo non consegue che si debba abbandonare ogni sorta d'ordine. Ce n'è infatti uno, ed è quello della geometria, che, per la verità, è inferiore, per il fatto che è meno convincente, ma non per il fatto che sia meno certo. Esso non definisce ogni cosa e neppure prova ogni cosa, e in ciò gli è inferiore; ma esso suppone solo cose chiare e sicure secondo il lume naturale, ed è per questo che è perfettamente veritiero))"'.

17

Cfr V. E. ALFIEl<I, !/ prob/e111a Pascal, cit., 1 t 2. B. PASCAL, Lo Spirito geo111etrico, in Pensieri, Opuscoli, /,et/ere, l'esprit géo111étrique, in rE11vres co111plètes, cit., LII, 154-155). 18

l'I

lbid., 336 (lbid., 157).

cii., 332-333 (De


A proposito di scienza e .fede in Pascal

123

Pertanto, la superiorità della geometria rispetto alle altre scienze sta nel rigore del suo metodo, ma anche nella sua limitazione: essa, infatti, ammaestra l'uomo intorno all"mpossibilità di raggiungere verità più alte. Inoltre, è solo grazie al metodo geometrico che l'uomo riconosce lesistenza di una priorità comune a tutte le cose: quella che Pascal chiama «double infinité»:m. «Ma quanti vedranno chiaramente questa verità, - scrive Pascal potranno ammirare la grandezza e la potenza della natura in questa duplice infinità che ci circonda da ogni parte c imparare da questa considerazione 1neravigliosa a conoscere se stessi, vedendosi posti tra una infinità e un niente di estensione, tra una infinità e un niente di nz11nero, tra una infinità e un niente di 111ovilne11to, tra una infinità e un niente di ten1JJO »è 1• Chi s'accosta a questa scienza non può non riconoscere che spazio, tempo, numero e movimento si possono dividere all'infinito, e da ciò dedurre che tutto sta tra due infiniti: !'infinitamente grande e !'infinitamente piccolo. L'uomo, dunque, giungerà a riflessioni molto più feconde e profonde della stessa geometria, poiché imparerà così a valutare sé stesso, la propria 111isère e insie1ne la propria grandeur. ln una lettera a Piene de Fermat, del IO Agosto 1660, egli scrive che lo studio della geometria è «il più bel mestiere del mondo», anche se resta pur sempre "inutile" al problema della salvezza". Bisogna, dunque, cercare la strada della salvezza dentro noi stessi e non lasciarsi affascinare dalle facili verità che lo studio delle scienze astratte ci propone, distraendoci quindi dal nostro primario obiettivo. Tuttavia, anche se inutile al problen1a della salvezza, la geon1etria risulta avere uguahnentc una sua utilità: essa dimostra, mediante il ragiona1nento, che luon10 si trova in 1nezzo tra un "infinito" e un "nulla", e lo spinge pertanto a cercare un punto di riferimento diverso sul quale poter fare affidamento''. ln ogni caso non c'è alcuna sostanziale contrapposizione tra fede e ragione: esse operano bensì su due piani differenti, ma necessitano dell'aiuto

~ 0 ID., Pensées, cit., Fr. 84, 428 (Pensées, cit., Fr. 185, t. II, 610). Su ciò ctì· anche Lo ,\pirilo geo111etrico, cil., 342-3 (De l'esprit géo111étriq11e, cii., t. Il, 162). 21

!bid.. 353 (Jbid., 170). Cfr ID., Lettera a Fel"lnat, Hl agosto 1660, in Pensieri, Op11scoli, Lettere, cii., 221 (Lettre à Fennat, I O aoùt 1660, in <E111 1res co1nplètes, cit., L IL, 43). 23 Cfr V.E. ALFII'.l{I, Il prob/e111a Pascal, cit., 114-129. 22


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Maria Vita Ron1eo 24

reciproco . Infatti, «se si sottopone ogni cosa alla ragione, la nostra religione non avrà nulla di misterioso e di soprannaturale. Se si rifiutano i principi della ragione, la nostra religione sarà assurda e ridicola» 25 . Ovviamente, il pensatore di Clermont-Fen-and ammette una superiorità della fede sulla ragione, poiché questa, essendo limitata, non può argomentare sui problemi "superiori" attinenti unicamente all'ambito della fede, così come la fede non può "ragionare" sugli argomenti scientifici. «La fede - scrive Pascal - è differente dalla dimostrazione: l'una è umana, l'altra è un dono di Dio. Justus ex.fide vivi!: di quella fede che Dio stesso pone nel cuore, di cui la prova è spesso lo strumento,_fides ex auditu; ma questa fede è nel cuore e fa dire non scio, ma credo» "'. A tal riguardo è stato giustamente osservato: «Si può dire che la filosofia pascaliana offra una risposta diversa, poiché conferisce nuovo vigore alla dimensione religiosa, proprio a partire dallo scacco della ragione "assoluta": quell'epistemologia dell'invenzione, che già caratterizza il Pascal matematico, quella razionalità duttile ed articolata, abituata a sondare l'infinito e l'infinitesimale, che già destava scandalo presso ogni intelletto modellato sulla visualizzazione empirica, si esasperano, alimentando, sul piano dell'equilibrio esistenziale, il turbamento e la vertigine. Potremo dire quasi che Pascal ha vissuto gli effetti di una personale "crisi dei fonda1nenti"»n. L'uomo, che ha speso il suo breve tempo a cercare delle risposte foori di sé, ad indagare la natura, ora si scopre ignorante: egli, infatti, non conosce sé stesso; non ha riflettuto sulla sua condizione e sul perché della sua 24

«Gli uonlini - sostiene a tal proposito Pascal - disprezzano la religione; la odiano, e hanno paura che sia vera. Per guarire da tutto questo, bisogna incon1inciare a din1ostrare che la religione non è affatto contraria alla ragione, che è degna di venerazione, bisogna portare ad averne rispetto; poi, bisogna renderla an1abile; fare desiderare dai buoni che essa sia vera; e poi din1ostrare che è vera)); B. PASCAL, Pensieri, cit., Fr.l, 399; (Pensées, cit., Fr. IO, t. Il,

545-546). 25 lhid., Fr. 4, 399 (lbid., Fr. l 62, t. Il, 602). A questa tesi pascaliana sen1bra far eco l'Enciclica f'idr:s et ratio: «L'uon10 con la luce della ragione - scrive Ciiovanni Paolo Il - sa riconoscere la sua strada, 1na la può percorrere in n1aniera spedita, senza ostacoli e fino alla fine, se con ani1no retto inserisce la sua ricerca nell'orizzonte della fede. La ragione e la fede, pertanto, non possono essere separate senza che venga 111cno per l'uo1no la possibilità di conoscere in 1nodo adeguato se stesso, i! 1no11do e Dio. Non ha dunque 111otivo di esistere con1petitività alcuna tra la ragione e la fede: l'una è nell'allra, e ciascuna ha un suo spa;;:io proprio di realizza1:ione»: (i!OVANNI PAOLO n, Lettera enciclica Fide.\· et ratio, II, 16-17. 26 B. PASCAL, Pensieri, cit., Fr. 471, 584 (Fensées, cit., Fr. 5, t. Il, 545). 27 B. s·1 ERJ, Pascal e le (/;Verse str111!11re della te111poralità, nel "dh 1ertisse111enl '', nella "11u;1chi11e" e nella "grace ", in Giornale di !vletajìsica (Nuova Serie), 3 (1981) 549.


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esistenza, e non sa quindi rispondere alle domande primordiali che costituiscono il suo essere nel mondo. L'uomo del Seicento, nell'illusorio convincimento di accrescere la propria conoscenza e di aver definitivamente superato lo scetticismo di Montaigne, in realtà si scopre ignorante: non sa da dove viene, cosi con1e non sa dove va. Si trova precipitato in un infinito, il cui centro è dovunque e la cui circonferenza non è in alcun luogo. «Quando considero la breve durata della mia vita - scrive Pascal assorbita nell'eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che riempio e che vedo, inabissato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento e mi stupisco di vede1mi qui piuttosto che là, perché non vi è motivo perché qui piuttosto che là, perché ora piuttosto che allora. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi mi è stato destinato questo luogo e questo tempo?»". Si apre così la prospettiva di ciò che è stato definito «finitismo tragico»'". L'uomo, infatti, tende a definirsi, a collocarsi, ma si scopre privo di ogni fondamento e di ogni punto di riferimento. La natura non vive affatto in funzione dell'uomo; al contrario, essa è completamente indifferente rispetto al destino umano. Ed è perciò terribile scoprire il freddo silenzio dell'infinitamente grande e provare la sensazione di essere inghiottito, «abimé dans l'infinie immensité des espaces quej'ignore et qui m'ignorent». Egli giunge a questa riflessione probabilmente durante la sua conversione, quando a circa trent'anni decide di respingere i valori mondani con tutto il loro frivolo corteo di relazioni effimere e superficiali. Comincia così a riflettere sulla sua reale condizione, si trova buttato nel mondo senza sapere il perché; si scopre profondamente ignorante su tutte le cose, e si sente circondato da spazi infiniti, oscuri e sconosciuti. Probabilmente, Pascal perviene a queste conclusioni non solo per l'illuminazione della famosa notte di .fiwco'" del 23 novembre 1654, ma B. PASCAL, Pensieri, cit., Fr. 88, 435~6 (Pensées, cit., Fr. 64, t. II, 563). Cfr R. GUARDINI, Pascal, Brescia 1956, 66. 30 Nel 1654 inizia per Pascal un periodo di crisi spirituale che segnerà il suo punto di svolta la notte del 23 novembre, con l'intensa esperienza religiosa testimoniata dal suo lvféinorial, il cui testo egli porterà per se1npre con sé, cucito negli abiti. A tal proposito, Krailshei1ner scrive: «L'intera esperienza durò circa due ore, dalle 10.30 di sera; e dovrebbe essere vista come una sequenza di 1neditazioni, libere n1a intense, centrate sul Cristo, dal quale, [ ... ] egli si era estraniato. Dalla misteriosa annotazione iniziale - "Fuoco" - scritta cotne titolo [nel A1en1oria/e], l'esperienza è detta solitainente "la notte di fuoco". Mentre non si può escludere alcuna supposizione, se1nbra probabile che il Pascal, invece che vedere qualcosa [ ... ], abbia sentito un calore, un fulgore interiore sostituirsi al gelo della separazione. Una tale interpretazione è con·oborata dalla riga più o n1eno centrale: "gioia, gioia, gioia, 28

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anche grazie alla sua riflessione matematica, che gli aveva dimostrato la finitezza della ragione umana e l'esistenza di un infinito inconoscibile. Senza dubbio, ha pure importanza la deludente esperienza mondana che gli aveva rivelato chiaramente la vanità del mondo, permettendogli così di penetrare a fondo nel cuore dell'uomo. Per cui, l'indagine scientifica, l'esperienza mondana e la riflessione filosofica s1 legano indissolubilmente nel dete1minare la "svolta" del pensiero pascaliano. La scienza ci toglie dagli occhi le bende delle illusioni, mostrandoci come stanno realmente le cose, e ci spinge di necessità a intraprendere la strada che porta alla verità ultima". Il filosofo di Clermont-Feinnd si convince sempre più che la ragione umana è limitata: conosciamo, infatti, la natura e l'esistenza del finito, perché siamo finiti ed estesi con1e questo; conosciamo bensì l 'esistenzà dell'infinito, ma ne ignoriamo la "natura", perché l'infinito ha estensione come noi, però non è li1niLato co1ne noi. Ma la nostra ragione non conosce né l'esistenza né la natura di Dio, perché Egli non è né esteso né limitato: «La nostra anima è gettata nel corpo, dove essa trova numero, tempo, dimensioni. Essa vi ragiona sopra e chiama tutto questo natura, necessità e non può credere ad altra cosa. L'unità aggiunta all'infinito non lo accresce di nulla, non più di un piede aggiunto a una misura infinita. li finito si annichila alla presenza dell'infinito, e diventa un puro nulla. [ ... ].Noi sappiamo che vi è un infinito, e ignoriamo la sua natura. Poiché noi sappiamo che è falso che i numeri siano finiti, è vero dunque che vi è un infinito nel numero. Ma noi non sappiamo ciò che esso è: è falso che sia pari, è falso che sia dispari; poiché, aggiungendovi l'unità, esso non cambia di natura; tuttavia è un nu1nero, e ogni numero è pari o pianti di gioia"[ ... ]. Due righe, forse aggiunte qualche anno dopo, sono però ancora legate all'esperienza (di quella notte): "Sotton1issione totale a Gesù Cristo e al 1nio direttore/Eternan1ente in gioia per un giorno di sforzo sulla terra'', e sen1brano prefigurare i tern1ini precisi dell'argo1nentazione della Scon1n1essa»: A. KRAILSHEJMEn, Pascal, trad. it. A. Colo1nbo, Milano 1980, I 03-! 04. 31 «Se non si fosse allontanato da Dio, - scrive a tal proposito lo Sciacca [ .. .] non avrebbe conosciuto per esperienza diretta cosa sia J'uon10 senza Dio, quanta la sua nliseria, ['inquietudine e il disgusto della vita secondo cupidigia, dell'uon10 che an1a solo sé stesso e odia tutto ciò che gli 1nostra il suo vuoto, odia la veritù [ ... ].Il inatenia!ico e lo sperirnentatore si avvede che, oltre alle ligure esatte di cui si cercano le proporzioni, alle provette e a i tubi di vetro, c'è un n1ondo agitalo, inquieto, sconvolto dalle passioni, insoddisfatto, che sì abbandona al divertisse1nent nell'illusione di uccidere la noia e la coscienza dcl nulla; tocca con 111ano che la scoperta dc! vuoto della colonna di n1c1Turio è ben povera rispetto a quella del gran vuoto nel cuore degli uo1nini. Pascal, 1nesso nel 1nodo, scopre l'uo1no, l'unica cosa che valga !a pena di conoscere intera1ncnte, profondan1ente, radicalincnte)): M.F. SCIACCA, Pascal, cit., 36-37.


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dispari (è vero che ciò s'intende di ogni numero finito). Così, si può ben conoscere che vi è un Dio senza sapere che cosa Egli sia. [ ... ]. Noi conosciamo dunque l'esistenza e la natura del finito, perché siamo finiti ed estesi come esso. Noi conosciamo l'esistenza dell'infinito e ignoriamo la sua natura, perché ha estensione con1e noi, ina non ha i Jiiniti con1e noi. Ma noi non conosciamo né l'esistenza, né la natura di Dio, perché Egli non è né esteso né limitato. [ ... ] Dio [ ... ] è infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né parti né limiti, non ha nessun rapporto con noi. Noi siamo dunque incapaci di conoscere ciò che Egli è, né se è»". La ragione, dunque, non può decidere sul problema dell'esistenza di Dio, non può conoscere in fondo la natura umana, e deve quindi lasciare il posto alla fede, e più precisamente alla religione cristiana, l'unica capace di penetrare il mistero dell'uomo e di "conoscere" Dio. Dai frammenti dei Pensieri emerge chiaramente l'oggetto di studio di Pascal: l'uomo. Nella prospettiva pascaliana si consolida la tesi secondo cni, per conoscere la natura umana, è necessaria un'analisi diversa da quella, così esteriore ed incompleta, delle scienze astratte. È il c!J!ur e non la raison, che solleva l'uomo sconfitto, perduto, indirizzandolo verso la strada della verità e della salvezza". È dunque mutato l'oggetto di studio di Pascal; ed è tralasciato il metodo matematico. Non più la natura come oggetto dell'indagine pascaliana, ma l'uomo, la sua esistenza, la sua sorte. Lo stesso metodo geometrico, che malgrado le sue rigide deduzioni si è rivelato incapace di esaminare la vita interiore, risulta insufficiente. Quindi, al ragionamento deduttivo della geometria bisogna contrapporre il sentimento, l'esprit de .fìnesse, cioè la conoscenza che an1mette con1e facoltà superiore il ca:ur, organo di certezza immediata della verità assoluta". «Noi conosciamo la verità, - sostiene Pascal - non solamente con la ragione, n1a anche con il cuore; è in quest'ultin10 n1odo che noi conoscian10 i primi princìpi, ed è invano che il ragionamento, che non vi ha parte, cerca di impugnarli. [ ... ] Ed è [ ... ] inutile o [ ... ] ridicolo che la ragione chieda al cuore prove dei suoi principi, per volervi dare il proprio consenso, quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa din1ostra, per volerle accettare»'-'. 32 B. PASCAL, Pensieri, cit., Fr. 451, 572-574 (Pensées, cit., Fr. 397, t. Il, 676-677).

33 Cfr V. E. ALFIERI,// problen1a Pascal, cit., 142. 3

-t

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Cfr lhid., 31. B. PASCAL, Pensieri, cit., fr. 479, 585-7 (Pensées, ciL, Fr. 101, t. li, 573-574).


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Ecco l'altra faccia di un secolo che non è solo cartesiano e che non si abbandona totalmente all'ottimismo razionalistico: è la "moderna" cifra pascaliana che si legge come filigrana in controluce, facendo risaltare la rivalutazione del sentimento ed i segni del dubbio sul delirio di onnipotenza della ragione. Ed è appunto merito di Pascal aver riaffermato gli insopprimibili diritti del cuore e della religione, ridimensionando bensì, ma non annullando, le pretese della ragione e della scienza. Sicché, nella prospettiva cristiana del pensatore di Clermont-Ferrand, la raison viene certamente valorizzata, ma non sopravvalutata'". D'altronde, come la matematica, così la filosofia è utile ma insufficiente: essa è utile, perché fa cogliere le contraddizioni della nostra esistenza, la nostra n1isère e la nosh·a grandeur; è pur utile, perché ci fa sentire la necessità di un Essere superiore; ma è insufficiente, perché incapace di dirci con assoluta certezza se questo Essere esiste o no. Piuttosto, bisogna dire che brancoliamo e balbettiamo in un mondo di ince1iezza e di insicurezza: «Deridia1no la verità e in noi non trovia1no che incertezza. Ricerchiamo la felicità e non troviamo che miseria e morte. Siamo incapaci di non desiderare la verità e la felicità, e non siamo capaci né di certezza né di felicità. Questo desiderio ci è lasciato, tanto per punirci quanto per farci sentire da dove siamo caduti»". Comunque, pur impegnandosi a fondo nella riflessione sulla salvezza e sulla miseria dell'uomo, Pascal non trascura del tutto i suoi interessi nel campo scientifico: nel 1658, infatti, si dedica con profitto al problema della cicloide. Inoltre, particolarmente imporiante si rivela il suo contributo al mondo scientifico con la teoria matematica delle probabilità. Egli, secondo il Beli, risolve il problema di sottomettere «l'arbitrario apparente del puro caso» al dominio dell'ordine e della regolarità, grazie ad una teoria matematica che influenzerà il cammino della scienza dalla teoria dei quanta fino ali' epistemologia'".

36 «Ciò non vuol dire ·~ scrive a tal proposito l'Alfieri - che la religione abbia per Pascal sostituito co1npletan1ente la scienza e la filosofia, ossia che lo slancio di fede e l'a1nore e la preghiera abbiano preso il posto del pensiero e del ragionan1ento sino ad un esclusione totale.»: V.E. ALFIERI, Il prohle1na Pascal, cit., 29. 37 B. PASCAL, Pensieri, cit., Fr. 270, 499 (Pensées, cit, Fr. 380, t. lI, 672). 38 «Nella sua teoria delle probabilità, Pascal si è posto ed ha risolto un vero proble1na, quello di mettere l'arbitrario apparente del puro caso sotto il do1ninio della legge, dell'ordine, della regolarità, ed oggi questa teoria sottile è alla radice stessa della conoscenza con1e alle basi della fisica. Le sue ra1nificazioni si estendono da per tutto, dalla teoria dei quanta fino all'episte1nologia»: E. T. BELL, I grandi n1ate111atici, cit., 86-87.


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La teoria pascaliana nasce da un quesito che il de Méré pone a Pascal sul problema dei punti: due giocatori hanno concordato di giocare a dadi fino a quando uno dei due vinca tre tiri, e ciascuno ha scommesso 32 monete. Ora, uno ha vinto due tiri e l'altro uno. Se decidono di procedere nel gioco e di fare il quarto tiro, il primo poh·ebbe o vincere, e di conseguenza portare con sé le 64 monete; oppure perdere, determinando in questo caso una condizione di parità. Ma, se i due decidessero di comune accordo di non continuare il gioco, allora come si dovrebbe suddividere la posta tra loro? Il primo giocatore può pretendere le 32 monete che gli sarebbero toccate ugualmente anche se avesse perso; ma le rimanenti 32 monete, essendoci uguale possibilità di vincere e di perdere, dovrebbero essere suddivise egualmente, 16 a ciascuno: sicché alla fine ad uno toccherebbero 48 monete e all'altro 16'". Il numero di punti di ciascun giocatore è dunque dato dal momento in cui essi lasciano il gioco. Pascal, come sappiamo, elabora il calcolo delle probabilità grazie ad una fitta corrispondenza con Femrnt; ed è proprio a Fermat che sottopone il quesito propostogli da de Méré, con la relativa soluzione'". La soluzione quindi non richiede che semplice buon senso, e può essere adattata su qualsiasi numero, e per qualsiasi ente. Attraverso il calcolo delle probabilità possiamo scoprire i diversi modi attraverso cui una certa azione può essere eseguita, o un qualsiasi fatto esattamente specificato può accadere. In rapporto a questi problemi di analisi delle combinazioni, Pascal fa un grande uso del triangolo aritmetico"': 39

Cfr A. KRAILSHEIMER, Pasca/, cit., 26-27. ~o Nella lettera del 29/06/1654 a Fcrn1at, egli scrive: «Voici à peu près co1n1ne je fais pour savoir la valeur de chacunc des parties, quand deux joueurs jouent, par cxen1ple, en trois partics, et chacun a mis 32 pistoles au jeu: Posons que le premier en ait deux et l'autre une; ils jouent n1aintenant une partie, dont le sort est te] quc, si le pren1ier la gagne, il gagne tout l'argent qui est au jeu, savoir, 64 pisto!cs; si l'autre la gagne, ils sont deux partics à deux partics, et par conséquent, s'ils veulent se séparer, il faut qu'ils retirent chacun leur 1nise, savoir, chacun 32 pistoles. Considérez donc, Monsieur, que si le pre1nier gagne, il lui appartieni 64; s'ils perd, il lui appartient 32. Donc s'ils veulent ne point hasarder cette partie et se séparer sans lajouer, le pre1nier doit dire: ".le suis sùr d'avoir 32 pisloles, car la pcrtc 1nèn1c 1ne lcs donne, 1nais pour Ics 32 autres, peut-etre je !es aurai, peut-etre vous lcs aurez; le hasard est égal; partageons donc ces 32 pistoles par la n1oitié et 111e donnez, outre cela, n1es 32 qui 1ne sont sùres". Il aura donc 48 pistoles et l'autre 161>; Lettre à f'ennat, 29 jui/let 1654, in <Euvres co111p/ètes, cit., t. I, 147. 41 Questa figura è ripresa dalla già citata opera del Krailshein1er su Pasca!. È facile notare come il corretto utilizzo di tale triangolo, renda più agevole e più chiara l'applicazione del calcolo della probabilità a tutti i casi possibili.


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«Per motivi tecnici, - afferma a tal proposito il Krailsheimer - si fa questo prendendo la fila orizzontale congiungente i numeri scritti fuori del disegno, corrispondenti all'esponente della potenza richiesta, aumentato di I. [ ... ]. Il numero esterno 4 del disegno [per es.] ci dirà, nella fila corrispondente, 1+3+3+1, cioè 8; il che vuol dire che in un gioco di tesla o croce 3 (4-1) tiri offrono un totale di 8 possibilità, composte di l (3 teste) + 3 (2 teste+ I croce)+ 3 (I testa+ 2 croci)+ I (3 croci). Così l'azzardo può essere espresso con una frazione, il cui deno1ninatore è la son1111a dei nun1eri di una data fila orizzontale, e il numeratore il numero corrispondente ad un risultato specifico; cosicché la probabilità d'un tiro di 3 teste una dopo l'altt·a è 1/8, quella di 4 teste una dopo l'altra è 1/16, e così via»"'.

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Secondo il Krailsheimer, la più nota applicazione di tale metodo si può tòrse trovare nel fì·an1111ento dei Pensieri dedicato alla "scon1n1essa", dove l'incredulo è invitato a scon1n1ettcre pro o contro l'esistenza di Dio e, implicitamente, sulla vita eterna"'. Tale scommessa si basa sul fondamento d'un n1assin10 guadagno possibile, cioè la vita eterna, e di una 111assi111a perdita possibile, cioè il libero uso di una breve vita sulla terra. Agli increduli, a coloro che non si pronunciano sull'esistenza di Dio, Pascal dedica il frammento della scommessa col tentativo di indurli, attraverso quell'unico calcolo utilitario che essi riconoscono, ad an11netterc ~ 2 A. KRAJLSl-lE!fv1ER, [>asca/, cii., 28-29. Su ciò cfr G. BRESCIA, Pre111essa a B. Pascal, Trattato del triangolo arit111etico e tntlfafi connessi, in B. PASCAL, Scritti 1nate111atici, a curs di G. Brescia, Fasano 1991, 34-35 . .u Cli· ID., 29.


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la "possibilità" dell'esistenza di Dio e a condurre una vita adeguata a tale possibile verità: «Per mezzo delle probabilità dovrete darvi pena di cercare la verità; perché se n1orite senza adorare il vero principio, sarete perduto».j.j. Noi non siamo solo ragione calcolante, siamo auche sentimento e volontà; ed è nel sentimento, e uon già nella ragione, che bisogna riporre la fede: «Bisogna dunque mettere la nostra fede nel sentimento; altrimenti essa sarà sempre vacillante».JS. C"est le ca:.ur qui sent Dieu, et 11011 la raison 41'. «Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce; lo si constala in mille cose. Dico che il cuore ama l'essere universale naturalmente e sé stesso naturalmente, a seconda che si attacchi all'uno o all'altro; e si indurisce contro l'uno o contro l'altro, a sua scelta. Voi avete respinto l'uno e conservato l'altro: è forse per ragione che an1ate voi stessi?» 47 • È chiaro che quest'ultima domanda è rivolta ai libertini e agli increduli, che con il loro cuore hanno respinto Dio e scelto il loro moi hai:,.whle. Ma se è "per ragionare" che hanno scelto se stessi anziché Dio, allora Pascal utilizza proprio il caleolo razionale, per indurli a cercare e a scegliere Dio: «Quelli a cui Dio ha dato la religione per sentimeuto del cuore, sono ben fo11unati e ben legittimamente persuasi. Ma a quelli che non l'hanno, noi non possiamo darla che per mezzo del ragionamento, nell 'altesa che Dio gliela doni per sentimento del cuore, senza di che la fede è solan1ente un1ana e inutile per la salvezza».j~. Dunque, con l'argomento del pari, Pascal sì rivolge soltanto ai non credenti, i quali restano ancorati ad una ragione finita che si a1Testa davanti all'infinito. Essi si chiudono in se stessi e fanno di se stessi una nor1na di vita; non rinunciano, infatti, né alla vita spensierata e "libera" che il mondo offre, né ad una ragione che non rivela loro altra realtà se non quella finita e limitata del mondo terreno. L'argomento pascaliano della "scommessa" tiene quindi in considerazione e il ragiona1nento, unico strun1ento riconosciuto dal libertino, e la visione strettamente utilitaria che costui ha della vita. Ma accostia1noci ora al centro del ragionan1cnto pascaliano: «Esaminiamo dunque questo punto e diciamo: "Dio esiste o non esiste". Ma da quale parte inclineremo'? La ragione non vi può determinare nulla; c'è un caos infinito che ci separa. Sì gioca un gioco, all'estremità di questa distanza infinita, in cui uscirà testa o croce. Su cosa scon1n1etterete? Con la ragione, _._.B. PASCAL, Pensieri, cit., Fr. 453, 579 "Ihid., Fr. 470, 583 (ibid., Fr. 671, t. Il, 6 -' !bid., Fr. 481, 588 (ibid., Fr. 397, t. II, 47 !bid., Fr. 477, 585 (ibid., Fr. 397, t. II, 48 !lml., Fr. 479, 588 (ihid., Fr. 101, t. 11,

(Pensées, cit., Fr. 147, t. !I, 599). 819). 679). 679). 574).


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voi non potete fare né l'una né l'altra scelta; con la ragione, non potete sostenere nessuna delle due. Non accusate dunque di errore quelli che hanno fatto una scelta, perché non ne sapete nulla»"". Nel frammento del pari Pascal propone il ragionamento probabilistico, solo per mostrare che la ragione non può negare Dio; qui, infatti, è determinante non tanto la "ragione", quanto piuttosto la "volontà" che accetta. Questo frammento sottolinea la necessità di scegliere: la verità sull'esistenza di Dio, infatti, non ci lascia indifferenti, poiché ci investe tota1mente 00 . All'ipotetico scettico, il quale biasima chi sceglie non tanto per il tipo di scelta ma per il fatto di avere scelto, Pascal risponde che non si può non sco1n1nettere: Oui; 1nais il .faut parier. Cela n est pas vo/ontaire, vous étes embarqué. Il pari non è lasciato al libero volere. Infatti, anche il decidere di non scommettere è uno scommettere: scommettere, cioè, per la vita nel mondo, e non per Dio. Scommettendo come si fa in un gioco, dice Pascal, si hanno «due cose da perdere: il vero e il bene, e due cose da impegnare: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha due cose da fuggire: l'errore e la miseria. La vostra ragione non patisce maggiore offesa se sceglie in un senso o nell'altro, dal momento che bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto risolto. Ma la vostra beatitudine?»". Da buon probabilista, Pascal invita il non credente a pensare al guadagno e alla perdita, puntando croce e scommettendo sull'esistenza di Dio. Valutando entrambi i casi, ecco il suo ragionamento: se si vince, si vince tutto; se si perde, non perdiamo nulla. Da qui l'invito a scommettere 1

senza esitazione su Dio.

Lo scettico trova ammirevole l'argomentazione pascaliana, tuttavia fa presente che sì bisogna scommettere, ma che così si rischia troppo. A questo punto Pascal ribatte: «Poiché vi è uguale possibilità di guadagno e di perdita, se aveste da guadagnare due vite contro una, potreste già scommettere; ma se ce ne fossero da guadagnare tre, dovreste giocare (dal momento che siete nella necessità di giocare), e sarete imprudenti, poiché siete costretti a giocare, a non rischiare la vostr·a vita per guadagnarne tre, a un gioco in cui è uguale la possibilità di perdere e di guadagnare. Ma vi è un'eternità di vita e 49

!hid., Fr. 451. 574 (ibid., Fr. 397, t. li, 677). so Cfr S. CANDELA, Pasca/, cit., 48~49. 51 B. PASCAL, Pensieri, cit., Fr. 451, 575 (Pensées, cit., Fr. 397, L Il, 678).


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di felicità. Stando così le cose, quand'anche ci fosse un'infinità di casi, di cui uno solo favorevole, voi avreste ancora ragione di scommettere uno per averne due; e agireste irragionevolmente se, essendo obbligati a giocare, rifiutaste di giocare una vita contro tre in un gioco in cui fra una infinità di probabilità ve ne fosse una per voi, se ci fosse una infinità di vita infinitamente felice da guadagnare. Ma qui vi è una infinità di vita infinitamente felice da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e ciò che rischiate è finito»". È stato giustamente osservato che alla base dell'argomento pascaliano - anche se solo implicitamente - sta lo stesso principio che fonda le ricerche sul gioco d'azzardo, sul problema delle partis: «li principio, è nella sua elementarità, il seguente: un gioco nel quale io ho una probabilità su due di vincere (es.: testa o croce) non è né vantaggioso né svantaggioso, se la somma che vinco è doppia della mia posta; è vantaggiosa se tale somma è più che doppia. È partendo da questa regola e dai suoi sviluppi che si può arrivare al caso nostro: se, scommettendo per Dio, avessi una probabilità su due di vincere due vite, io potrei scom1nettere o non scon1mettere; se vincessi tre vite, avrei interesse a scom1nettere. Ora, sco1nmettendo per Dio,

se vinco, vinco infinite vite; e allora se io ho una probabilità contro due di vincere, e un premio di infinite vite contro una sola vita, ho evidente interesse a giocare. Ma anche nel caso limite [ ... ] di una sola chance favorevole contro infinite contrarie, in Pascal c'è la risposta; l'infinità del premio infatti è per lui duplice: temporale (premio eterno) e intensiva (infinità di valore della vita paradisiaca), un'infinità orizzontale moltiplicata per una temporale; infinito per infinito, contro un semplice infinito. Sembra allora chiaro, per Pascal, che conviene giocare»''.

Indubbiamente in questo gioco-scommessa non è sicuro che si vincerà, anzi è sicuro solo ciò che si potrà perdere; tuttavia, aggiunge Pascal, «non serve a nulla dire che è incerto se si vincerà, e che è certo che si arrischia, e che l'infinita distanza che c'è tra la certezza di ciò che si rischia, e l'incertezza di ciò che si vincerà, eguaglia il bene finito che si rischia con certezza, all'infinito, che è incerto. Non stanno così le cose; ogni giocatore rischia in 111odo.certo per guadagnare in 1nodo incerto; e nondi1neno arrischia con certezza il finito per vincere il finito con incertezza, senza peccare

contro la ragione[ ... ]. Vi è, in verità, infinità tra la certezza di vincere e la 52

Jbid. A. BAUSOLA, Introduzione a F'ascal, cit., 86. Su ciò cfì· ID., Il «pariJ>. in B. PASCAL, Pensieri, Opuscoli, Lettere, cit., Appendice B. 818-828. 53


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ce1iezza di perdere. Ma l'incertezza della vincita è proporzionale alla ce1iezza di ciò che si rischia, sec011do la proporzione delle probabilità di vincita o di perdita. E da qui deriva che, se vi sono eguali possibilità da una parte come dall'altra, la scommessa è giocata alla pari; e allora la ce1iezza del rischio è uguale alla incertezza della vincita»'". E poi, se alla fine si dovesse perdere, quale male potrebbe accadere? Sicuramente in entrambi i casi lo scommettitore ci guadagnerebbe: sarebbe infatti fedele, onesto, sincero, veritiero; non vivrebbe più nei plaisirs empestés e nella vanagloria. In sostanza, alla fine si renderebbe conto di aver scommesso per una cosa certa infinita, per la quale non ha dato nulla". Vane sono anche le scuse che potrebbero indurre a non scommettere solo per paura di lasciare il certo per l'incerto. Infatti, «se non convenisse far nulla se non per il certo, non si dovrebbe fare nulla per la religione, perché essa non è certa. Ma molte cose si fanno per l'ince1io, i viaggi per mare, le battaglie! [ ... ].Ora, quando si lavora per il domani, e per l'incerto, si opera con ragionevolezza; perché si deve lavorare per l'incerto, per la regola delle probabilità che è stata dimostrata»"'. li pari vuol dunque portare a scommettere per la vita cristiana: qui, è vero, si scomn1ette su Dio; ma non su un Dio qualunque, bensì sul Dio cristiano, un Dio d'amore, di consolazione. Il JJari, insomma, vuole indurre ad assumere una prassi cristiana che ci potrà preparare ad accogliere la fede, la quale è dono esclusivo di Dio". Pascal si rivolge ai libertini ed utilizza il loro linguaggio, non per convertirli, compito che spetta solo alla fede, ma per metterli in una condizione favorevole alla ricezione della fede. D'altronde, l'argomento del pari non è estraneo al disegno dell'Apologia pascaliana, né in concorrenza con esso''. Tale argomento, infatti, non pretende affatto di cond1me direttamente alla fede. li pari serve piuttosto a predisporre l'animo dell'interlocutore all'accettazione di quella prassi cristiana, che certo non è disgiunta dalla fede. Senza dubbio la struttura probabilistica di tale argomento non potrà mai dare la fede. La "probabilità" infatti non dà quella "sicurezza" che solo la fede può dare. Qui però, nel caso dell'incredulo, si richiede l'aiuto della ragione per aprire il cuore ad una dimensione più alta. 54 B. PASCAL, Pensieri, Fr. 451, 576-7 (Pensées, Fr. 397, t. Il, 678-679). 55 Cfr !bid., 578 (Jbid.. 680). 56 B. PASCAL, Pensieri, cii., Fr. 452, 578-9 (Pensées, cii., Fr. 494, L. II, 758). 57 Cfi A. BAUSOLA, Introduzione a Pascal, cit., 83. 58 Su ciò cfr A. ALBERTI, Ancora su Pascal, in Rivista di fì/o.w?fìa 11eo-scolastica, I (1969) 95-108.


A ]Jropos;to di scienza e fCde in Pascal

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La complessità e l'unità del pensiero pascaliano non possono essere trascurate nemmeno da chi, come il Beli, punta l'attenzione sulla genialità matematica di Pascal. Dopo aver descritto dettagliatamente la soluzione che Pascal dà al problema delle parti, il Beli individua l'applicazione del calcolo delle probabilità nel celebre frammento della scommessa: «Pascal ha tuttavia fatto un'applicazione delle probabilità (nei Pensieri) che per il suo tempo era rigorosamente pratica. È la sua celebre scommessa. Nel gioco, la speranza della vittoria è rappresentata dal valore della posta moltiplicato per la probabilità di vincerla. Secondo Pascal, il valore della felicità eterna è infinito: ora egli faceva il seguente ragionamento: anche se la probabilità di guadagnare la felicità eterna, conducendo una vita tutta di religione, è piccolissima, tuttavia, siccome la speranza è infinita (qualunque frazione finita dell'infinito è essa stessa infinita), saremo ricompensati d'aver condotto simile esistenza: e, in ogni modo, prese egli la sua medicina. Ma come per dimostrare di non aver inghiottito anche la bottiglia, scrisse, in un'altra pagina dei Pensieri, questo inte!Togativo perfettamente scettico: «La probabilità è probabile?»'". Nel riportare quest'ultimo interrogativo pascaliano, il Beli insinua il dubbio che il pensatore di Clermont-Ferrand resti prigioniero della contraddizione. In verità, bisogna precisare che il Beli ricorre ad un frammento destinato alle Provincia/es, che poco ha da vedere con l'argo1nento della sco1n1nessa, per la scn1plice ragione che esso rientra e trova la sua giustificazione nell'ambito della polemica pascaliana contro i gesuiti, a proposito di casistica e di probabilità. Infatti, quando Pascal si chiede «Ma è probabile che la probabilità dia sicurezza?»''', non intende affatto riferirsi al calcolo delle probabilità, bensì alla dottrina delle opinioni probabili, secondo la quale potevano coesistere, su uno stesso argomento, diverse e contrastanti tesi di ordine morale, purché ciascuna sostenuta da un clottor grave. Si comprende allora la vis polemica del Pascal "moralista" contro una dottrina che sembrava ricmTere al "probabile" per giustificare il lassismo, l'indifferentismo ed il quietismo delle coscienze. «Non mi accontento del probabile - scrive Pascal nelle Provincilaies - io cerco ciò che è sicuro»"'. 59

E. T. BELL, I grandi 111ate1natici, cit., 88-89. 60 B. PASCAL, Pensieri, cit., Fr. XXVI, 785 (Pensées, cil., fr. 51 I, t. !I, 764). 61 ID., Le Provinciali, tn1d. it. G. Preti, Torino 1983, quinta lettera, 47 (Les Provincia/es, cinquiè1nc lcttre, in CE11vres co111plètes, cit., t. I, 631 ). Per un 'utile distinzione fra il Pascal sostenitore dc! calcolo delle probabilità ed il Pascal critico del probabilisn10 etico, cfr

G. PRETI, /11/roduzione, a B. Pascal, Le Provi11ciali. cit., XIV sgg.


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In realtà, occorrerebbe tener sempre in mente la distinzione che Pascal stesso opera tra i diversi ordini di conoscenza. Infatti, la certezza che sorregge il calcolo delle probabilità, quand'esso è applicato all'ordine "geometrico", si dissolve quando - e solo in questo caso - il calcolo delle probabilità viene applicato all'ordine metafisico-religioso. Tutto ciò conferma che il calcolo delle probabilità se può valere contro gli argomenti degli scettici, non può valere per gli uomini di fede, che pretendono non già il "probabile'', ma quella sicurezza che proviene soltanto dall'autorità delle Scritture. Per Pascal, gli increduli non hanno alcuna possibilità di trovare la strada che conduce alla verità se non attraverso la via della scommessa. Scommettendo, infatti, essi hanno buone probabilità e di vivere cristianamente e di accedere ad una realtà superiore. In altri termini, dedicando la loro vita all'applicazione dei precetti cristiani, gli increduli avranno buone possibilità di ricevere la fede, che è un dono esclusivo di Dio. Il pari, quindi, è in sintonia con tutta la struttura del pensiero pascaliano e, in particolare, con il disegno dell'Apologia. Nell'argomento della scommessa troviamo, infatti, l'accettazione prammatica e il rigore scientifico presenti nell'esprit de géométrie; l'inesauribilità della ricerca psicologica e la convinzione della limitatezza razionale tipici del suo essere filosofo; infine, il suo pathos religioso che illumina a tratti l'intero discorso. «Se questo discorso vi piace scrive Pascal - e vi sembra valido, sappiate che è stato fatto da un uomo che si è messo in ginocchio prima e dopo, per pregare quell'Essere infinito e senza parti, al quale egli sottomette tutto il suo essere, perché sottometta a Sé anche il vostro per il vostro bene e per la sua gloria»'''. Si conclude così l'itinerario pascaliano. Un travagliato itinerario di pensiero e di vita che, partendo dalla scienza e aprendosi alla filosofia, porta in ultimo al Dio cristiano. E questo terzo momento religioso è quello che segna il ridimensionamento dell'intelletto, lo "scacco" delle forze umane e il trionfo di quella "follia" che porta ai piedi della Croce''".

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B. PASCAL, Pensieri, cit., Fr. 451, 578 (Pensécs, cit., Fr. 397, t. Il, 681). Cfr V. MARTINO, B. Pascal nell'unità del suo pensiero, cit. 125.


Synaxis XIX/I (2001) 137-164

EUGENIO IV E LA BOLLA DI FONDAZIONE DELLA «SCUOLA DEI CHIERICI» IN SANT' AGATA LA VETERE A CA TANIA (4 APRILE 1446)** ADOLFO LONGHITANO*

Introduzione: le scuole vescovili e 111onastiche per la.for111azio11e dei chierici La formazione culturale e spirituale dei futuri sacerdoti fin dall'antichità costituì per le comunità cristiane un problema di particolare rilievo. Le funzioni che il ministro deve svolgere sono molteplici: istruire e predicare, presiedere le celebrazioni liturgiche, governare la comunità ... Queste attività richiedono, oltre ad un particolare carisma, la conoscenza della Sacra Scrittura e dei suoi criteri di interpretazione, della teologia, dei riti liturgici, del canto sacro, delle norme canoniche ... Inizialmente i concili si limitavano ad elencare le persone che non potevano ricevere gli ordini sacri 1; inan inano le norme diventarono più precise e diedero indicazioni sulla preparaz10ne dottrinale dei candidati e sulla tipologia degli insegnamenti da assicurare'. Fin dal secolo VI si hanno i primi riferimenti alle case nelle quali venivano accolti i candidati agli ordini sacri per essere istruiti e fmmati'. Nacquero in tal modo le scuole per i chierici presso le

* Ordinario di Diritto canonico nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. **Relazione tenuta all'XJ Congresso inte111azionale di storia dcl diritto canonico n1edievale, pro1nosso dallo «Stcphan Kuttner Institute of Medicval Canon Law» e dalla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Catania, svoltosi a Catania dal 30 luglio al 6 agosto 2000. 1 Le nonne pili antiche, riportate nell'Enchiridion clericoru111, Typìs Polyglottis Vaticanis 1975 (= EC), sono dcl IV secolo e riguardano la proibizione di ordinare i girovaghi, coloro che si erano niacchiati di cri1nini sessuali (111oechia) o che provenivano da gruppi ereticali (n. 3-5). 2 Si accenna ad una verifica da parte di tutto il clero sulla dottrina dei candidati al presbiterato nel Concilio Ro1nano l! del 324 (Ec 12). In alcuni docun1cnti delle chiese aihcane del secolo JV si legge che devono essere ordinati quei chierici che sono istruiti nelle Sacre Scritture (EC 24). Nel secolo V co1ne criterio niinin10 per !'ordinazione dei suddiaconi si richiedeva la capacità di recitare in coro il salterio (EC 33). Alla conoscenza della Scrittura, in questo slesso periodo, si aggiunge quella dei canoni (Ec JS). 3 EC 97, 127, 168.


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parrocchie o le cattedrali: le persone ritenute idonee a ricevere gli ordini sacri venivano fonnate e istruite da uno o più sacerdoti incaricati dal vescovo'. Quando, poi, gli ordini monastici da laicali si trasformarono in clericali, anche per i monasteri e le abbazie si pose il problema di istituire le scuole per rendere i monaci idonei a ricevere ed esercitare gli ordini sacri'. Se si trattava di persone mature che avevano già acquisito una preparazione culturale nelle scuole pubbliche o private, le scuole episcopali o monastiche si limitavano ad integrare la loro formazione, insegnando le discipline specifiche per l'esercizio degli ordini sacri. Se invece si trattava di bambini o di adolescenti, le scuole dovevano anzitutto impartire l'insegnamento di base per poi passare alle discipline richieste per i ministri sacri. L'esistenza e la funzionalità delle scuole per i chierici seguì le sorti delle condizioni economiche, socia! i e culturali delle diverse comunità cristiane e dei singoli monasteri: accanto ai periodi in cui le scuole per i chierici erano fioreuti e assicuravano ai candidati agli ordini una solida formazione umanistica e teologica, troviamo periodi di decadenza, nei guaii le scuole scomparvero o si limitarono a mettere i candidati nelle condizioni 111ini1ne di celebrare il culto: leggere, scrivere, conoscere il canto sacro e i riti liturgici'. Non sappiamo quale soluzione abbiano dato a questo problema le chiese di Sicilia prima della dominazione musulmana, quando erano soggette alla giurisdizione di Bisanzio'. La lunga parentesi della dominazione

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L'obbligo generalizzato della istituzione di scuole per i chierici si ebbe a partire dai secoli Vlll e JX (EC 132, 183, 193~!95, 197-204, 212, 219, 221). A queste nonne dci sinodi diocesani o dei concili particolari bisogna aggiungere quelle dci Concili Lateranense lll dcl 1179 (EC 235) e IV del 1215 (EC 239). 5 EC 145. 6 Per il rapporto iì·a le Chiese italiane e la cultura in genere dalla fine dcll'in1pero ron1ano al '400 si veda: P. RENUCCJ, La cultura, in Storia d'Italia, a cura di Il. Ron1ano e C. Vivanti, 11/2, Torino 1974, 1081-1466: 1081-!269. Sulla scuola: Ci. MANACORDA, Storia della scuola in Italia: il 111edioevo, Firenze 1980; P.F. (..ÌRENDLER, La scuola 11e! ri11asci111ento italia110, lrad. it., Bari 1991. Sul clero in particolare: CJ. LE I3RAS, Le istituzioni ecclesiastiche della cr1:~·tia11ità 111edievale, in Storia della C'hiesa, iniziata da A. fliche e \!. Martin, x11/l, trad. it., Torino 1973, 194-220; R. B1zzocc1n, C'lero e Chiesa nella società italiana allajìne del 1l1edio Evo, in Clero e società ne/l'Italia 111oder11a, a cura di M. Rosa, Bari 1992, 3-44. 7 Sulle condizioni delle Chiese siciliane durante il periodo bizantino si vedano gli studi: Q. CATAUDELLA, La cultura bizantina in Sicilia, in SI o ria della Sicilia, IV, Napoli 1980, 1-56. La Chiesa di Catania durante questo periodo è presa in csan1e da F. GIUNTA, La prilna Chiesa ronu1110-bizanti11a, in Chiesa e società in Sicilia. L'età nor111a1111a. Atti del I convegno


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islamica, che determinò la fine delle strutture ecclesiastiche e del culto pubblico cristiano, non ci permette di stabilire un rapporto di continuità con le comunità cristiane delle origini. Le Chiese nate dopo la conquista normanna acquistano un nuova identità e un nuovo ordinamento sulla base delle scelte fatte dai conquistatori'. Pe1tanto anche il problema marginale di una Chiesa può essere spiegato e compreso solo nel più ampio contesto dell'ordinamento avuto in epoca normanna. Ciò vale soprattutto per la diocesi di Catania, alla quale il conte Ruggero, per alcuni avvenimenti verificatisi al tempo della conquista, conferì particolari privilegi che non trovano riscontro nelle altre Chiese di Sicilia". Dovendo in questa relazione prendere in esame un documento del secolo xv, potrebbe sembrare fuorviante avviare il discorso dalla conquista normanna. Ritengo, tuttavia, che il documento in oggetto per essere compreso ha bisogno di una premessa e di una contestualizzazione: nella premessa delineo brevemente il particolare ordinamento giuridico dato dai normanni alla diocesi di Catania; nella contestualizzazione metto in evidenza le conseguenze derivanti da quell'ordinamento nella società catanese del secolo XV. Pertanto nella trattazione, dopo aver descritto in un primo punto l'insieme dei poteri e del patrimonio immobiliare dati dal conte Ruggero al vescovo di Catania, mi soffermerò ad analizzare le tensioni esistenti fra il vescovo e le magistrature cittadine durante il pontificato di Eugenio IV, per passare poi all'analisi della bolla che istituiva a Catania la scuola per i chierici nella chiesa di Sant' Agata la Vetere.

internazionale organizzalo dall'Arcidiocesi di Catania, 25-27 novcn1bre 1992, a cura di G. Zito, Torino 1995, 3-10. 8 E. CASPAR, Roger Il (1101-1154) und die Griindung der nor.-sicil. A1onarchie, Jnnsbruck 1904, 615. La traduzione italiana di questo volu1nc, curata da Lalerza nel 1999, non riporla l'excursus sulla politica ecclesiastica dc! conte Ruggero. E. JORDAN, La politique ecc/ésiastique de Roger f'r et !es origines de la légation sici!ie1111e, in Le /\4oyen iige, série 11, 24 (1922) 237-273; 25 (1923) 32-65: 250; L.T. W111TE, Il 111011achesi1110 latino nella Sicilia 11or1nc11111a, trad. it., Catania 1984, !63-181; H. EN/.1-:NSBERGER, Fondazione o nfòndazione? Alcune osservazioni sulla politica ecclesiastica del conte Ruggero, in Chiesa e società in Sicilia. L'età nonnanna, cit., 21-49. 9 A. LONGHITANO, La parrocchia nella diocesi di Catania pri111a e dopo il L-,onci/io di Trento, Palern10 1977, 7-15.


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l. Catania e/ 'abbazia benedettina di Sani 'Agata

È noto il particolare ordinamento giuridico dato dai normanni alla città di Catania: per meglio controllare la prevalente popolazione musulmana, che già aveva tentato di ribellarsi, il conte Ruggero affidò ad una persona di fiducia della sua stessa etnia, il monaco benedettino bretone Ansgerio, i tre uffici di abate, vescovo e feudatario"'. L'abbazia Sant' Agata, dotata di un ricco patrimonio e di poteri straordinari per il controllo della città, divenne un centro di primaria importanza per la vita religiosa, per l'attività letteraria in essa prodotta, per le fondazioni monastiche che da essa ebbero origine". Un istituto così fiorente non poteva non avere una scuola per la formazione dei chierici".

°

1 Catania fu conquistata nei 1071. Nel 1081, a dicci anni dalla conquista, si ebbe la ribellione guidata dall'enliro di Siracusa, subito do1nata da Giordano, figlio del conte. L'abbazia fu fondata il 9 dice1nbrc 109 l. I! conte Ruggero si recò personalinente in Calabria per scegliere con1e abate il bretone Ansgerio. La dote dell'abbazia e i poteri dell'abate erano straordinari; la città di Catania con tutte le proprietà e i diritti che aveva durante la do1ninazione saracena; il castello e la città di Aci; i saraceni e i loro figli che erano appartenuti alle città di Catania e di Aci; la giurisdizione che suole essere esercitala dai re e dai principi con le consuetudini terrene nei territori del 1nonastero, nei po11i e sulle spiagge del n1are (CATANIA. ARCHIVIO DEL CAPITOLO CATTEDRALE[= ACC], Perga111ene fatine, 4). Urbano II con la bolla del 9 marzo 1092, ripristinava la diocesi e 1101ninava vescovo l'abate Ansgerio, stabilendo per il futuro che sarebbe stato vescovo della diocesi colui che i 1nonaci avessero eletto coine abate Ubid., 1). Altre 1nunifiche donazioni ebbe l'abbazia dai successori del conte Ruggero: nel 1124, essendo vescovo Maurizio, furono concessi alcuni te1Teni staccati dal territorio di Lentini fra la Giarretta e il Dittaino; fra il n1are e il Galici. La giurisdizione del vescovo fu estesa alla contea di Mascali; inoltre gli si conferì la terza parte della dogana e la custodia del porto di Catania (M. GAUDJOSO, La questione de1naniale in Catania e nei «casa/i)) del bosco etneo, Catania 1971, 7-9; L. SORRENTJ, La giustizia del vescovo a C'atania [secc Xi!-XIli}, in Chiesa e società in Sicilia. I secoli Xll-XVI, Atti dcl J convegno internazionale organizzato dall'Arcidiocesi di Catania, 25-27 nove1nbre 1993, a cura dì G. Zito, Torino 1995, 43). 11 G. FASOL!, Tre secoli di vita cittadina catanese (1092-1392), in Archivio Storico per la Sicilia ()rientale (=Asso) 50(1954)!16-145; L.T. WH!TE, !/ 1J1onachesilno latino, cit., 112; 166-169; E. PISPISA, li vescovo, la città e il regno, in Chiesa e società in Sicilia.l'età nonnanna, in Chiesa e società ù1 Sicilia. I secoli XJJ-XVI, cit., 137-154; G. SPINELLI, !/ 1nonachesùno be11ede!fi110 della Sicilia orientale nella prilna età nonnanna, ibid., 155-167. 12 Ansgerio proveniva dall'abbazia di St. Evroul-sur-()che, nell'antica diocesi di Lisieux. Proprio in quegli anni nei n1onasteri benedettini della Nonnandia si era avuto un fiorire di scuole n1onastiche (P. Rrcnf.:, L 'cnseigne1ne111 des arts libéraux en ltalie et en }<rance a11 xl siècle, in Lanjì·anco di Pavia e l'Europa del secolo Xl nel IX centenario della 111orte [1089-1989}. Atti del convegno inte111azionale di studi [Pavia, Ahno Collegio Borron1eo, 21-24 sette1nbre 1989) Ron1a 1993, 157-166). Pertanto c'è da presu111ere che egli abbia in1portato a Catania il 1nodcllo proprio dell'abbazia in cui era stato 10nnato.


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Tuttavia, a causa delle molteplici attività che era chiamata a svolgere, non mantenne a lungo il fervore e il prestigio acquisiti dopo la sua fondazione". Nel secolo xn l'ufficio di abate non fu più congiunto con quello di vescovo". Questa circostanza determinò una divergenza di interessi fra il vescovo e i monaci, che in diverse occasioni si trovarono su fronti contrapposti non solo per l'amministrazione del comune patrimonio, ma anche per la scelta delle linee di governo pastorale. Se inizialmente la componente religiosa della società catanese di1nostrava una certa unità e coesione, nel ten1po si presentò come una realtà molteplice e variegata: il vescovo, i diversi istituti monastici, gli ordini mendicanti ... Ognuno di essi poteva perseguire finalità proprie e stabilire autonomi rappmii di alleanza nella fonnazione di oligarchie e potentati". Lo stesso ordinamento dato dai normanni alla città di Catania subì nel corso dei secoli alcuni cambiamenti. La scelta del conte Ruggero - di affidare ad una sola persona il governo dell'abbazia, della città e della diocesi - se trovava una giustificazione nelle particolari circostanze della conquista, non poteva essere gradita ai notabili della città, che aspiravano al suo governo e vedevano nella giurisdizione data ai monaci il principale ostacolo per realizzare i propri progetti. 1 contrasti fra i cittadini di Catania e il vescovo -· dettati dall'insofferenza di avere un prelato come amministratore della città -furono un dato costante per tutto il secolo Xll e l'inizio del secolo Xlii'". Durante il governo di Federico Il i catanesi raggiunsero in parte il loro obbiettivo: intorno al 1239 Catania cessò di essere una città feudale soggetta al vescovo e divenne una città demaniale soggetta direttamente al re". Tuttavia, se i cittadini furono liberi di scegliere i giurati-amministratori e se la giurisdizione civile e criminale fu esercitata da giudici e officiali di Considerato che l'abate di Sant'Agata era anche vescovo e i 1nonaci costituivano il capitolo della cattedrale, si può avanzare l'ipotesi che la scuola 111onastica dell'abbazia servisse anche per la formazione del clero secolare, che svolgeva il niinistero nella cattedrale ed esercitava per conto dei 1nonaci la cura delle ani1ne. 13 L.T. WH!TE, li n1onachesi1110 latino, cit., 180. 14 G. SPINELLI, Jl 1nonachesi1110 benedeltino, cit., 166. is A. LONGJJJTANO, Oligarchie .fa1niliari ed ecclesiastiche nella controversia parrocchiale di Catania (s'ecc. XV-À1 1!}, in C'hiesa e società in Sicilia. I secoli X!l-XVJ, cit., 293322. 16 G. FASOLI, Tre secoli di vita cittadina, cit., 120-128; M. GAUDfOSO, La questione de1naniale, cit., 10-12; 13-15; 23; 26-34; B. SAITTA, C'a/ania, in Federico !I e le città italiane, a cura di P. Toubert e A. Paravicini Bag!iani, Palenno 1994, 235-245. 17 L. SORRENTI, La giustizia del vescovo, ciL, 48.


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Adolfo longhilano

nomina regia, non furono chiariti tutti i problemi connessi all'antico esercizio della potestà feudale da parte del vescovo''. Nonostante i cambiamenti verificatisi nell'ordinamento della città di Catania nei secoli XI-Xlii, la situazione rimase molto confusa: il vescovo era convinto di essere stato defraudato dei suoi diritti; perciò faceva di tutto per difendere quelli che ancora esercitava e per riacquistare quelli perduti; la città era cosciente di non avere avuto tutto e lottava per ottenere sia l'esercizio della giurisdizione feudale residua esercitata dal vescovo, sia la gestione dei terreni che allo stesso tempo costituivano il demanio cittadino e il patrimonio dell'abbazia di Sant' Agata e della mensa vescovile.

2. Chiesa e soc;età a Catania durante il jJont{fìcato di Eugenio IV Lo scisma d'Occidente aveva influito negativamente sulla vita religiosa della diocesi di Catania: gli aragonesi si erano schierati con l'uno o l'altro papa secondo un puro disegno politico'"; anche gli istituti monastici e conventuali avevano tàtto scelte diverse; conseguenten1ente si erano avuti più vescovi o più superiori religiosi di diversa obbedienza che pretendevano dai sudditi il riconoscimento della loro autorità'". La situazione se1nbrò avviarsi lentan1ente alla nor1nalità con la no1nina di Martino V ( 1417-1431 ). Il vescovo Giovanni de Podionucis ( 1418-143 I), chiese e ottenne un intervento del papa per recuperare i beni ecclesiastici di cui si erano appropriati negli anni precedenti «i figli d'iniquità»" e la conferma dal re Alfonso dei privilegi concessi dai sovrani ai suoi predecessori''. 18 Nel 1267 la chiesa di Catania avviò un lungo processo per riavere alcuni privilegi perduti al te1npo di Federico 11. La sentenza favorevole al vescovo non ripristinò la sitLrnzionc creata dai norn1anni. L'appello rivoho dal giudice a Carlo d'Angiò per obbligarlo a rispettare alcuni diritti ritenuti fondati, non trovò accoglienza per la diversa situazione politica creatasi dopo la vìttoria di Tagliacozzo e la 1norte di Corradina (ibid, 51 ). 19 G. PlSTOR!O, R{f/essi dello scis111a d'occidente u Catania, in Annuario dell 'Jstit11to 1\1agisfrale T11rrisi Colonnu 1908-1969, Catania 1969, 195-204; B. SA!TTA, Lu Chiesa

catanese tra i A1artini e Affònso il 1\4ugnanilno, in Chiesa e società in Sicilia. I secoli Xfl-.Yl'I, cit., 91-102. 20 A. LONGHITANO, Ciii ordini religiosi a C'atunia ne! '400, in S.Fnaxis 11 (1993) 173224. 21 ACC, Perga111ene latine, 67. Il docu1nen!o è trascrillo da (ì. SCALIA, Il VescoFo Cancelliere de!!o Studio di Catania, in ASSO 30 (1934) 181-234: 226. 22 LB. DE (JROSS!S, Cafona Sacra, Catanac l 654, 189-190; 190-192; 192-193; 193195. Dietro queste fonnulc cnign1atiche non è difficile individuare il conflitto secolare che contrapponeva il vescovo da una parte, i giun1ti con l'aristocrazia dall'altra: si era approfittato


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Alla morte del vescovo Giovanni de Podionucis, il papa Eugenio IV, su presentazione del re Alfonso e con il consenso della città di Catania", nominò il catanese Giovanni Pesce (I 431 ), già provinciale dei frati minori conventuali di Sicilia'". li nuovo vescovo apparteneva ad una delle famiglie più in vista: suo padre Nicolò, noto giurista, era stato giudice a Catania e avvocato del regio fisco a Palermo; il fratello Simone, laureato in utroque iure, dal re Alfonso era stato nominato viceré in Sardegna, dove aveva dato esempio di imparziale applicazione della legge. Tutto fa intendere che il nuovo vescovo godesse della universale stima dei suoi concittadini, e delle autorità civili cd ecclesiastiche. Alfonso, secondo la prassi, dopo la sua nomina confermò i privilegi dei suoi predecessori" e nel I 432 lo nominò responsabile della delegazione regia al Concilio di Basilea''•. L'idillio fra i giurati e il vescovo durò poco e non tardarono a manitèstarsi i contrasti di sempre. Giovanni Pesce, forse perché a corto di denaro liquido o forse perché voleva favorire famiglie amiche, fece ricorso all'abusata consuetudine di dare in enfiteusi perpetua parte dei beni dell'abbazia di Sant'Agata. 1114 ottobre 1432, con un atto firmato assieme ai monaci, concesse al nobile Vinciguerra Paternò il latifondo detto "del Pantano", da sempre rivendicato dalle magistrature catanesi come parte dcl demanio cittadino"; nel 1433 la stessa sorte toccò al cosiddetto "Orto di

dello scis1na e dcl conseguente vuoto di potere per appropriarsi dei beni della Chiesa e per 1àr cessare la residua giurisdizione feudale del vescovo. 23 I giurati catanesi nel 1433, scrivendo al concittadino Nicola Tedeschi che si trovava nella curia ron1ana, nu1nifestano ii loro disappunto per aver contribuito alla non1ina del vescovo Giovanni Pesce: «Elegil11LJS in cpiscopu1n nostrun1 I· .. ] fohannen1 de Piscibus, egisse prudentcr arbitrati; si non successit ìgnoscendu1n est nobis: ad bonun1 finen1 fecin1us» (R. S,\HHADJNI, Storia docu111enfafa della R. Università di Catania, Catania 1898, 72, uota I). Il docun1ento citato fu trascritto da!i'archivio co1nunalc, incendiato nel 1944. ;.J Per un profilo di Giovanni Pesce si veda P11. CAGLIO!.A, Al!nae 5'iciliensis pro1'il1ciue ordini.~· 111ii1or11111 co11ve11t11ali11111 S. Francisci 111a11flf.:statio11es novissùnae / ... },a cura di F. Rotolo, Palenno J 984, I 76-177; LB. Dc GROSSJS, Catana Sacra, cit., 196-204; R. P!RRI, Sicilia Sacra, 1, Panonni 17333, 547-548. I dati riferiti da questi autori vanno correui e inlegrati sulla base degli studi più recenti. 2 s LB. DE GROSSIS, Catana Sacra, cil., 198-199. 26 Jbid., 202; B. SAJTTA, Catania 111edievale, Catania 1996, 276. 27 C. Al{DlZZONJ, Le origini del patrùnonio fòndiario del co11111ne di Catania, Catania 1902, 2J-2.5.


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Catania", una proprietà che l'abbazia di Sant'Agata aveva a Messina, fuori le mura della città". La reazione dei giurati fu immediata: scrissero una lettera al papa, accusando il vescovo di avere alienato il patrimonio della chiesa e un'altra al concittadino Nicola Tedeschi", che si trovava nella curia romana, per dichiararsi pentiti di aver contribuito alla nomiua di una persona indegna per l'ufficio di vescovo'". Non era in discussione solamente l'atteggiamento disinvolto del vescovo, che considerava privati i beni della chiesa ed escludeva che su di essi - in quanto costituivano l'antico demanio della città - potessero avanzare diritti i cittadini e i giurati. C'era da risolvere la solita questione di principio dei diritti feudali residui che il vescovo vantava sulla città. Intanto altri avvenimenti resero la situazione sempre più difficile. I giurati in quegli anni avevano predisposto un piano ambizioso per rilanciare Catania e compensare i contt·accolpi negativi derivati dalla partenza definitiva per Palermo della corte aragonese con il suo personale e i suoi uffici. Il primo punto di questo piano riguardava l'istituzione di uno Studium, che avrebbe obbligato gli studenti di tutta la Sicilia a venire a Catania per frequentare i corsi e conseguire la laurea''. L'attuazione di questo progetto comportava la ricerca di risorse economiche non indifferenti che la città non aveva, visto che i beni che costituivano il suo demanio erano amministrati dal vescovo. Inoltre, per vincere la prevedibile concorrenza delle altre città, era necessaria la massima coesione interna di tutte le componenti cittadine e ottenere il consenso del re Alfonso e del papa Eugenio IV con l'appoggio di personalità influenti. Nel 1434 la città riuscì ad avere il placet del re", ma questo solo non bastava per dar vita allo Studium. Il vescovo Giovanni 28

R. SABBADINI, Storia doc11111e11tata, cit., doc. n. 74, 72, nota 1. La docun1entazione

relativa a questa proprietà e alla controversia sorta fra il vescovo e i giurati si trova in

J\CC,

Priorato di S. Agata in A1essina, Fondo principale, n. 19. 29 Sulla figura del noto giurista catanese Nicola Tedeschi, tneglio conosciuto co1ne Abbas Sicu!us o Abbas Panorn1itanus, si vedano in particolare i saggi: (C. LErEBVRE, F'anonnUain, in Dictionnaire de droit canonique, vr, Paris 1957, 1195-1215; K. PENNJNGTON, Nicolaus de Tudeschis (Panonnitanu.s), in Niccolò Tedeschi (1-bbas I'anonnitann~) e i suoi «Co1111nentaria in Decreta/es», a cura di O. Condorelli, Ro1na 2000, 9-36. 30 R. SABBADJNJ, Storia docun1entata, cit., doc. n. 74, 72, nota 1. 31 M. CATALANO, L'Università di Catania nel Rinascùnento (1434-1600), in Storia dell'Università di Catania dalle origini ai giorni nostri, Catania 1934, 1-98: 8-11. 32 li testo è pubblicato in appendice allo studio di M. BELLOMO, Modelli di università in fra~:fOnnazione: lo «Studiu111 Siciliae Generale» di C'atania tra 1nedioevo ed età 111oderna, in Chiesa e società in Sicilia. I secoli Xli-XVI, cit., 103-121.


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Pesce, sapendo che i giurati miravano ad alcune rendite percepite dalla chiesa per finanziare questa istituzione, assunse fin dall'inizio un atteggiamento di disimpegno, se non proprio di opposizione. Lo stesso Eugenio IV, per latteggiamento filo conciliarista dei delegati siciliani al Concilio di Basilea (Giovanni Pesce e Nicola Tedeschi), non era ben disposto verso il re Alfonso e le richieste dei giurati di Catania. Un fatto nuovo fece aprire uno spiraglio. Nel 1443 venne a predicare la quaresima a Catania il domenicano Pietro Geremian, uno dei protagonisti del movimento dell'osservanza, che da Eugenio IV nel 1439 era stato nominato visitatore apostolico del clero secolare e regolare della Sicilia". La predicazione del Geremia suscitò grande entusiasmo sia nel popolo sia nell'aristocrazia. Attorno a questo personaggio~ che ad un grande carisma univa un buona capacità di mediazione~ si riunirono le diverse componenti della società catanese. Contavano sul suo prestigio per realizzare quei progetti di rilancio della città accantonati negli anni precedenti e per indmTe il vescovo Giovanni Pesce ad assumere un atteggiamento più conciliante e più partecipe. Oltre allo Studio si voleva costruire un molo per offrire alle navi un porto sicuro e favorire i trasporti e il commercio". Inoltre il clero diocesano chiedeva l'istituzione di una collegiata per avere quello sbocco che gli era precluso dalla presenza dei benedettini nel capitolo della cattedrale. C'era, poi, da risolvere il problema della formazione del clero diocesano. L'abbazia di Sant' Agata, per lo stato di decadenza in cui si trovava, non era in grado di assumersi questo compito. Se si fossero trovate le risorse necessarie sarebbe stato possibile istituire altrove una scuola per i chierici, secondo il modello caro a papa Eugenio IV'". All'attuazione di questi progetti sembra del tutto

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Sulla sua figura si vedano gli studi di A.M. CONIGLIONE, Pietro Gere111ia O.P. Santo, apostolo, scrillore, inauguratore della R. Università catanese, Catania 1952; A. BARILARO O.P., Pietro Gere111ia. bnportante docun1ento su gli anni giovanili, Palermo 1992; C. DOLLO, Cultura del Quattrocento in Sicilia. Alle origini del ((Siculorun1 Gy1nnasiu111», in Rinascin1ento 39 ( 1999) 227~292. 34 A.M. CONIGLIONE, Pietro Geren1ia, cit., 105-106; A. BARILARO, Pietro Gere111ia, cit., 45. 35 Il molo avrebbe dovuto essere costruito per rendere più sicuro il porto saraceno, che sorgeva nell'insenatura in cui sboccava a 1nare l'Amcnano (V. CASAGRANDt, Nuove ricerche sulla .fondazione e sulla 0110111astica del castello Ursino di Catania nelle epoche ron1ana, araba, nonnanna, in ASSO 8 [1911] 3-17: 5-6). 36 O. GA!vfBASSI, «Pueri cantoresJJ nelle cattedrali d'Italia tra rnedioevo e età 111oderna. Le scuole eugeniane: scuole di canto annesse alle cappelle 111usica!i, Firenze 1997.


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estraneo il vescovo Giovanni Pesce, mentre assume un molo di primo piano il domenicano Pietro Geremia. 2.1. L'erezione del Siculorum Gymnasium

li superamento dei contrasti fra Eugenio IV e il re Alfonso con il trattato di Terracina del 14 giugno 1443 fece capire ai catanesi che erano maturati i tempi per chiedere al papa la bolla di erezione dello Studium. Una delegazione si recò da Eugenio 1v; di essa facevano parte il benedettino catanese Giovanni de Primo, abate di San Paolo fuori le mura", e quasi certamente Pietro Geremia"'. La bolla di erezione del Sicu!orum Gymnasium porta la data del 18 aprile 1444'" e fu rilasciata in risposta ad un'esplicita domanda «pro parte devotorum filiorum universorum civium civitatis Cataniae nobis nuper exhibita». Giovanni de Primo si recò a Napoli per avere la conferma di Alfonso (28 maggio). li 29 settembre la bolla fu trasmessa da Giovanni de Primo ai giurati di Catania tramite Pietro Geremia e Pietro Speciale"°. li documento ebbe l'exequatur a Palermo dal viceré Lopez Xi men d 'UJTea il 25 ottobre". La formale erezione dello Studium sembrava concludere il difficile cammino, che le diverse componenti della società catanese avevano iniziato dieci anni prima. Avuta in mano la bolla di Eugenio IV, l'approvazione regia e l'esecuzione del viceré, sembrava che tutte le difficoltà fossero state superare e si potesse procedere alla solenne inaugurazione del primo anno accademico e all'inizio dei corsi di laurea. Ma in un documento del 30 agosto 1445 il viceré rimproverava la città di Catania per non essersi 37 L TASSI, Un col/aborutore dell'opera r!fonnalrice dì Eugenio IV: Giovanni de Prùnis, in Be11edictina 2 ( 1948) 3-26; S. fODALE, De Prùnis Giovanni, in Dizionario hiograjìco degli italiani, 39, Ron1a 1991, 89-91. 38 M.A. CONIGLIONE, Pietro Gere111ia, cit., 130-132. Risulta priva di fonda1nento l'ipotesi avanzata da V. Casagrandi su un presunto atteggian1ento contrario di Pielro Gere1nia all'istituzione dello Studio dettato da senti111enti cainpanilìstici: egli che era palennitano non avrebbe visto di buon occhio che un istituto di così grande rilevanza fosse concesso a Catania (V. CASAGRANDI, Di ta/11nifòndatori e prilni /e/fori del ((Sic11/on1111 Gy11111asiu11n>, in ASSO 26

[1930] 216-226). J<) ARCHJVJO SEGRETO VATICANO (=ASV), Reg. Val., 376, !Olr-103r. La sua trascrizione si trova in M. CATALANO, L'Università di C'atania, cit., 13-16 e in G. NJCOLOSl GRASST - A. LONGHITANO, Catania e la sua lJniveJ'.\'ÌfÒ nei secoli XV-XVf/. Il Codice «St11dion11n constitutiones ac privi/egiaN del Capitolo cattedrale, Ron1a 1995, 53-55. 40 R. SABBADJNI, Storia docun1entata, cit., doc. n. 56, 66. ~ 1 G. NICOLOSI Gl{ASSl-A. LONGHITANO, Catania e fa sua Università, cil., 53-55.


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impegnata a rendere operativo lo Studio e fonnulava precise accuse verso alcuni che si erano dimostrati negligenti o avevano frapposto ostacoli". Chi erano le persone alle quali era diretto l'aspro rimprovero del viceré? L'ostacolo maggiore proveniva dal vescovo Giovanni Pesce e riguardava il finanziamento dello Studio. Alfonso aveva fissato come dote un sussidio annuo di 3.000 ducati, che la città avrebbe dovuto prelevare dai dazi di diritto regio sulle merci che uscivano dal po1io di Catania: 1.500 erano destinati allo Studio e 1.500 alla costruzione del molo". Sugli stessi dazi, però, il vescovo vantava alcuni diritti di origine normanna, ai quali non intendeva rinunziare. Per evitare che il suo coinvolgimento nell'erezione e nell'inaugurazione dello Studio venisse interpretato come una rinunzia alle proprie competenze, aveva deciso di ignorare l'avvenimento, se non proprio di ostacolarlo. Questo spiega il silenzio delle fonti sulla sua persona nelle diverse fasi di attuazione del progetto e la sua assenza alla solenne inaugurazione. li viceré, nella lettera del 30 agosto 1445, ingiungeva ai giurati di procedere all'apertura dello Studio e indicava anche i nomi dei primi lettori·''. Lo Studio fu inaugurato il 18 ottobre". Fu affidato a Pietro Geremia il compilo di presiedere la celebrazione eucaristica e di tenere la prolusione, che aveva per titolo: Ser1110 de laude scientiarion sed praesertùn theologiae~r.. li Coniglione scrive che il vescovo - naturale cancelliere dello Studio era assente e Pietro Geremia lo supplì"'. In realtà, sfogliando i registri dcll'Arcllivio Storico Diocesano, risulta che Giovanni Pesce dall'ottobre del 1443 al 19 agosto 1446 è stato regolarmente in sede, finnando gli atti di curia-rn. Forse avrà trovato un pretesto per assentarsi net giorni dell'inaugurazione, onde evitare che la sua presenza in episcopio rendesse troppo manifesto il suo dissenso; ma dai documenti dei mesi successivi risulta chiaro il suo intento. ~ 2 «[ ... ] perceperin1us noviter non sine displicentia quod vos seu aliqui vestntn1 in et circa cxccucione111 pren1issorun1 non tantun1 tepidi cstis el negligentes, ven1n1 etian1 i1npedi1nentu1n apponitis et perturbationetn, de quo si sic est n1erito cogirnur ad1nirari [ ... ])) (R. SABBADINJ, Storia doCl/JJJentata, cit., doc. 11. 62, 68). 43 Jbid, doc. n. 57, 66; doc. n. 58, 67. 44 lhid., doc. n. 62, 68 45 M.A. CoNJULIONE, Pietro Gere1nia, cit., 134. ~ 6 Il testo fu pubblicato nel volu1ne Sanctuari11111 sive sennones de sanctis, edito a Brescia nel 1502 dai fratelli don1enicani Benedetto e Giovanni Britannico (ibid., 134, 193). È riportato in appendice al saggio di C. DOLLO, C'ultura del Quattrocento, cit., 278-292. 47 1\1.A. CoNJULJONE, Pietro Gere1nia, cit., 133. 48 TA 1443-1446.


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lnaugurato lo Studio, Giovanni Pesce-Jlon si rassegnò ad accettare il fatto compiuto e scrisse una lettera ad Alfonso per lamentare la violazione dei diritti della chiesa di Catania da parte delle magistrature cittadine. Il re, che dà l'impressione di non seguire una chiara linea di azione, il 9 giugno 1446 indirizzò alle autorità di Catania un documento di richiamo: la concessione allo Studio di I .500 ducati dai dazi di diritto regio sulle merci che uscivano dal porto di Catania non comportava per il vescovo la perdita dei suoi diritti". Neppure le magistrature catanesi volevano rassegnarsi e replicarono scrivendo al re e al papa. Ad Alfonso chiedevano: voglia «declarari oy providiri et con1andari alu Rev.du Episcopu di Catania [ ... ]» che non dia «molestia et perturbationi né din1andari dirictu alcunu per raxuni di dohana ali foristeri per li extractioni chi si farrano di li tracti ad opus di lu Studiu et Molu [ ... ].

Il re risponse evasivamente il 31 ottobre: «Placet [ ... ] scribere [ ... ] ad episcopu1n quod utatur dieta gratia et charitate erga patria1n sua1n [ ... ]et in casu quod esset renitens vult quod de iustitia provideatun> 50 •

I giurati, scrivendo al papa, lo informarono dell'atteggiamento assunto dal vescovo e, avuta la sua risposta, la citarono in una seconda lettera al re:

49 «[ ... ] Ex querin1onia cora1n nostrae Maiestatis conspectu proposita pro parte venerabilis in Christo patris consiliarii et oratoris nostri devoti Ioanni Episcopi Catanen. nuper accepin1us, quod ratione quia ipsius civitatis Studio generali pro eius subventione concessin1us certas annuas tractas a portu et carricatorio eiusden1 civitatis extrahendas, ab omni solutionis onera liberas et exen1ptas, certa sub forma in nostro privilegio inde facto clarius exarata, Vas ad certum ius dohanae, quod ipsa 1naior ecclesia se1nper habuit atque habet et consequitur super victualibus, guae ab eode1n carricatorio extrahuntur, trahere studetis; de quo, si ita est, cogilnus admirari. Nolentes igitur iura ipsius ecclesiae, propter concessione1n nostran1, in aliquo di1ninutione1n accipere, sed augeri potius, et servari, quibus de intentione nostro non fuit nec est, per verba dicti privilegii, aut ipsa1n gratian1 aliquatenus derogare, vobis et vestru1n cuilibet dicin1us et inanda1nus expresse, de certa nostra scientia, quatenus eide1n ecclesiae de suis consuetis iuribus respondeatis, seu responderi per quos decet faciatis, praedicta nostra gratia et concessione, guae et bona et iura ecclesiae non extenditur nul!atenus derogare[ ... ]» (I.B. DE GROSSlS, Catana sacra, cit., 207). Il docuinento si riferisce a Giovanni Pesce e non a Giovanni de Prin10. 50 R. SABBADINJ, Storia doc111nenlata, cit., doc. n. 70, 70-71.


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«Etian1 hora noviter lu Sanctu patri li hagi scriptu unu brevi exho1iandulu chi si <ligia intramectiri et aiutari et favuriri lu dictu Studiu, lu quali esti grandi honuri et gloria non solu1n di quilla chitati ma etiam utilitati di tuctu lu regno et co1nuni beneficiu» 51 •

Il re Alfonso, dimostrandosi d'accordo anche con i giurati, il 2 novembre 1466 scrisse al vescovo invitandolo a non insistere nella difesa dei suoi diritti: «Si1nu stati informati co1nu vui pretenditi et vuliti exigiri la ragioni de la duhana ti tutti qui lii tracti chi [... ] [Catania] fa extrahiri oy vindi [... ] per sustentationi di lu Studiu et fà.brice di lu Molu [ ... ]. Et Iicet chi super hoc [ ... ] vi baia scriptu et exhortatu lu santu nostru patri, etian1 nui [ ... ] vindi

pregamu [... ]chi[ ... ] voglati desistiri e far desistiri di la dieta dimanda di la dohana [... ]»". Nella lettera del papa c'è un'espressione che merita di essere evidenziata: Eugenio invitava il vescovo a volersi «intramectiri et aiutari et favuriri lu dictu Studiu», quasi a rimproverarlo per il proprio disimpegno dei mesi precedenti. L'invito non fu raccolto e si ebbe il paradosso del primo cancelliere che, con il suo atteggiamento rifiutò, non solo l'ufficio ma la stessa istituzione dello Studio. 2.2. L'erezione della collegiata Santa Maria dell'Elemosina Da pochi mesi si era appena inaugurato lo Studio, quando giunse a Catania un'altra bolla di Eugenio IV, con cui si erigeva una collegiata nella chiesa di Santa Maria dell'Elemosina''. Anche questa iniziativa rientrava nel progetto di rilancio della città. Secondo la mentalità del tempo, era importante offrire all'alto clero la possibilità di una collegiata con le sue gerarchie, le sue prebende, gli abiti propri. La presenza dei benedettini nell'abbazia di Sant'Agata aveva impedito che il clero diocesano potesse accedere al capitolo della cattedrale e questo costituiva una grave lacuna che si voleva colmare.

si L.c. lhid., doc. n. 71, 71. 53 ASV, Reg. Vaf., 378, 99r-10lr. Il testo della bolla è anche riportato, con diversi errori di Lrascrizionc, da !.B. DE GROSSIS, C:atanense Decachord11111, I, Catanae 1642, 108112; V.M. AMICO, Catana illustrata, 11, Catanae 1746, 317-325; V. MESSINA, Monografìa della regia insigne parrocchiale chiesa collegiata di c:atania, Catania 1898, 26-37. 52


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Il documento porta la data del 31 marzo 1446. La nuova collegiata era formata da tre dignità e da diciannove canonici. Le prebende erano costituite dalle rendite dei benefici di molte chiese curate della città e del bosco etneo. In pratica i nuovi canonici traevano il loro sostentamento dalle rendite di molti benefici curati, istituiti per assicurare l'assistenza religiosa ai fedeli di Catania e dei casali etnei'~. li papa nell'istituire questo collegio di sacerdoti diocesani afferma di avere agito «motu proprio, non ad alicuius nobis super hoc oblatae petitionis instantiam sed de mera nostra liberalitate». L'espressione motu proprio nel linguaggio canonico indica una particolare procedura giuridica seguita dall'autorità nel prendere una decisione. Il papa aveva certamente ricevuto una formale richiesta, con un progetto di massima per il reperimento dei fondi necessari a costituire le prebende, e i nomi dei primi canonici. Tuttavia, per dare maggior forza giuridica alla sua decisione e per non sentirsi obbligato a chiedere il parere del vescovo e del capitolo della cattedrale, fondò la collegiata motu proprio, come se fosse stato egli stesso a prendere l'iniziativa. A questo punto ci chiediamo: nella situazione in cui si trovava la città di Catania, chi si adoperò per l'istituzione della collegiata? Chi poteva ostacolare questa iniziativa? La richiesta non fo formulata dalla società catanese in tutte le sue componenti, ma da Pietro Geremia, nella veste di visitatore apostolico del clero secolare e regolare di Sicilia, che si fece interprete della volontà dell'alto clero di Catania. È probabile che di questa iniziativa non siano stati informati né il vescovo Giovanni Pesce, né i benedettini di San!' Agata, né i sacerdoti titolari dei benefici delle chiese sacramentali, scelti per costituire le prebende dei canonici, né le magistrature cittadine imparentate con i benedettini della cattedrale. li 5 giugno 1446, festa di Pentecoste, Pietro Geremia, su esplicito mandato di Eugenio IV, eseguì la bolla nella chiesa dello Spirito Santo di Catania e il giorno successivo diede il possesso canonico alle tre dignità e ai diciannove canonici". Non appena la notizia fo resa di pubblico dominio si manifestarono i primi dissensi: i giurati, raccogliendo il malcontento dei benedettini della cattedrale e di tutti coloro che si erano sentiti danneggiati dall'iniziativa, presentarono ricorso al viceré, chiedendo che fosse ripristinato lo status quo per difetto di esecuzione della bolla da parte del 5

~ Sul teina si veda A.

LONGllJTANO,

35. 55

V. MESSINA, A1onogrqfìa, cit., 34.

La parrocchia nella diocesi di Catania, ciL., 32-


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viceré Lopez Ximen Durrea"'. Questi accettò il ricorso e chiese istruzioni al re Alfonso. Anche i nuovi canonici fecero ricorso al re. Alfonso, in una lettera del 2 agosto 1446 indirizzata a Pien·o Geremia, stabilì che bisognava dare piena attuazione alla bolla pontificia". Nel documento il re non mancava di invitare il vescovo, i suoi vicari, i monaci della cattedrale e le altre persone ecclesiastiche della città a non frapporre ostacoli". Un altro ricorso fo inviato al re dalla prima magistratura cittadina, il patrizio Guttierrez Paternò: chiedeva che si ripristinasse lo status quo «per conservationi di lu statu pacificu di la ditta chitati». Alfonso il 31 ottobre e il 2 novembre confermò la sua decisione di dare esecuzione alla bolla di Eugenio IV". A completare il progetto di rilancio della città era stata chiesta ad Eugenio IV l'erezione di una scuola per i chierici. La bolla fo firmata il 4 aprile 1446'", a distanza di pochi giorni di quella che erigeva la collegiata, ma non fu mai eseguita; quasi certamente non giunse mai a Catania, perché nel frattempo il progetto fu accantonato'''. Esaminiamo il contenuto dcl documento e cerchiamo di individuare le cause della sua mancata esecuzione.

56 AHCI11\110 IJJ STATO. PALERMO (=ASI'), Proto11otaro, 38, l 96v-l 98r. V. MESSINA, Jvfonogrqfìa, cit., 37. 58 «[ .. .] requirentes propterea ac nlonentes Episcopun1, ciusque vicariuin, et n1onacos et alias personas ecc!esiasticas dictae civitatis Catanae [ ... ] quod vobis [. .. / nullatenus obstent» (ibid., 36). 59 lbid., 37-38. 60 ASV, Reg. Vat., 378, 1l64v-66r. Di questo docun1ento aveva dato notizia nel 1948 l. TASSJ, Un collaboratore del/ 'opera r!fònnalrice di Eugenio IV, cit., 8. Personaln1ente 111i fu segnalato dal prof. Osvaldo Gan1bassi, che lo pubblicò nel suo volu111e «Pueri cantore,~·», cit., 265-268. 61 Se1nbra potersi afTen11arc che il docun1cnto non fu spedito, perché di esso non si trova traccia negli archivi siciliani cd è sconosciuto al can. Giovanni Battista De Grossis e al benedellino Vito Ainico, che hanno fatto ricerche accurate nell'archivìo della curia di Catania e negli archivi benedettini. Di esso non si trova traccia negli studiosi che hanno consultato i docun1cnti di questo periodo conservati nell'archivio con1unale di Catania (incendiato nel 1944); lo ignorano gli storici do111cnicani che hanno scritto la vita di Pietro Geren1ia. Il Tassi, sulla base della sola docu1nentazione dell'Archivio Segreto Vaticano, diede per scontato che la bolla fosse slala regolannenle eseguita (f. TASSI, Un collaboratore del/ "opera rifOnnatrice di Eugenio n: cit., 8). 57


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3. La bolla di erezione della scuola per i chierici nella chiesa di Sant'Agata la Vetere

L'abbazia di Sant'Agata, fondata dal conte Ruggero il 9 dicembre 1091, ebbe la prima sede nell'attuale chiesa di Sant'Agata la Vetere'·'. Quando poi fu costruita la nuova chiesa di Sant' Agata, come ecc/esia munita vicina a1 mare, i monaci si trasferirono nei locali annessi e l'antica chiesa fu denominata "la Vetcre". In essa aveva sede un priorato benedettino. Nel secolo XII il vescovo Marziale, avendolo trovato quasi in uno stato di abbandono, vi aveva annesso diversi beni e aveva progettato di istituirvi una comunità di monaci per curare il culto della memoria di S. Agata. Al suo titolare aveva concesso di partecipare con i benedettini della cattedrale all'elezione del vescovo"'. Di fatto la comunità di monaci non vi fu mai istituita, 111a il priorato veniva concesso abituahnente a uno dei n1onaci

dell'abbazia di Sant'Agata. Martino V, con bolla del 20 agosto 1425, aveva concesso il priorato di Sant'Agata la Vetere - assieme a quello di Santa Maria "lu monaco" di Ragusa - al benedettino della cattedrale Federico Farina"", che da Rocco Pini è indicato come appartenente ad una nobile famiglia di Capua'·'. Nella bolla papale si legge che il priorato aveva una rendita di 16 onze l'anno"". Come leggiamo nella bolla, il progetto della creazione di una scuola per i chierici nella chiesa di Sant'Agata la Vetere obbediva a delle reali esigenze e intendeva porre rimedio ad una situazione dolorosa: nella ciltà e nella diocesi di Catania per la mancanza di chierici e di persone disposte a istruirli si conferiscono gli ordini sacri a persone ignoranti e analfabeti; da questa loro ignoranza nel celebrare la messa e gli altri atti di culto sono derivati non pochi inconvenienti e il discredito del sacro ministero".

62

M. (JAUDJOSO, La questione den1anht!e, 8. ACC, Pergan1e11e latine, 40. 6 ~Jbid., 74. 65 R. PJRRI, Sìci/ia Sacra, cit., 1, 572. 66 La bolla di papa Martino ebbe l'exequatur del re Alfonso il 4 111arzo 1428 (ASI', Real C'ancelleria, 61, 80r-v). 67 Si veda il docun1ento in appendice, f. 64v-65r. Sulla cultura e le scuole in Sicilia e a Catania in questo periodo si vedano in particolare: S. TRAMONTANA, Scuola e cultura nella Sicilia trecentesca, in ASSO 60-61 ( 1964-1966) 5-28; M. CATALANO Tnnnro, L'istruzione pubblica in Sicilia nel rinascùnento, Catania 191 l; F. BRUNI, La cultura e la prosa volgare nel '300 e nel '400, in Storia della Sicilia, cit., 179-279; C. DcH.LO, Cultura del Quattrocento in Sicilia, cit. 63


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li procedimento da seguire per realizzare questo progetto era alquanto complesso. La nuova istituzione avrebbe dovuto essere finanziata con le rendite del priorato, le quali, secondo il computo fatto da chi aveva predisposto il progetto, ammontavano a cento fiorini d'oro annui'·". li priorato sarebbe stato secolarizzato, cioè sottratto definitivamente ai monaci della cattedrale"''. Si poneva il problema del suo titolare, il benedettino Federico Farina, che difficilmente avrebbe rinunziato ad una così cospicua rendita. Per invogliarlo gli si prospettava una permuta: era vacante l'abbazia benedettina di San Filippo d'Agira; se avesse rinunziato al priorato di Sant' Agata la Vetere, egli avrebbe avuto la dignità di abate e le rendite molto più ricche dell'abbazia di San Filippo"'. La scuola doveva essere così strutturata: avrebbe accolto dieci o dodici chierici poveri in età compresa fra gli otto e i diciotto anni, originari dalla città, dalla diocesi o da altri luoghi; erano previsti due corsi distinti di gran1matica e di canto 71 • L'insegnan1ento sen1bra fosse aperto ad alunni esterni e aveva per oggetto anche le diverse scienze previste per la formazione dei n1inistri sacri71 • I due maestri avevano l'obbligo della residenza nei locali annessi alla chiesa'' e oltre all'insegnamento e alla formazione dei giovani, avevano la responsabilità del culto e della cura della anime, visto che la chiesa di Sant'Agata la Vetere era sacramentale ma senza confini propri, secondo l'ordinamento della città di Catania". Nella chiesa ogni giorno si dovevano celebrare al mattino una messa cantata e alla sera i vespri". I giovani vi avrebbero partecipato indossando la cotta e procedendo processionalmente in fila per due'".

68

Docun1cnto in appendice, f. 65r. L.c. Jbid., f. 65r-v. Per la consistenza patri1noniale dell'abbazia di San Filippo si veda G.P. S!NOPOLI DI GIUNTA, La badia regia di S. t\4uria Latina in Agira, Acireale 1911, 37-46. 71 Docun1ento in appendice, f. 65r. 72 L.c. 73 lbid, f. 65v. 7 ~ L.c. Per l'ordinan1ento della cura delle ani1ne nella città e nella diocesi di Catania in questo periodo si veda A. LONGIHTANO, La parrocchia nella diocesi di Catania, cit., 2 J -40. 75 Docu1nento in appendice, f. 65v. 76 L.c. 69 70


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La direzione dell'erigenda scuola non veniva affidata ai benedettini dell'abbazia di San!' Agata - da tempo in decadenzan - ma ai snperiori di tre istituti religiosi: gli abati delle abbazie benedettine Santa Maria di Nuovaluce e San Nicola l'Arena; il priore del convento Santa Maria la Grande dei domenicani, che da poco era passato all'osservanza". Spettava a questi tre responsabili l'amministrazione delle rendite del beneficio, la scelta e la dimissione degli alunni e dei maestri'". Nella bolla troviamo qualche punto oscuro di non facile lettura. Improvvisamente fra i responsabili della scuola viene nominato anche il benedettino Federico Farina'". Forse era prevista una fase transitoria, nella quale l'ex titolare del beneficio, in attesa di ricevere il possesso dell'abbazia di San Filippo, avrebbe partecipato alla direzione della scuola. Anche per questa iniziativa dobbiamo interrogarci sui promotori. La bolla non era stata emanata n1otu JJrOJJrio, ma in risposta ad una do1nanda: «pro parte dilectornm filiorum iuratorum, consulum ac crvium cathaniensium nobis nupcr exhibita)). I richiedenti costituiscono la componente laica della società catanese: i giurati, cioè le magistrature cittadine, i consoli, cioè i rappresentanti delle corporazioni di arti e mestieri (alle quali lo stesso re Alfonso il 26 marzo 1445 aveva concesso particolari competenze nell'amministrazione della città"), e i cittadini. Non sono nominati il vescovo, i benedettini dell'abbazia di Sanl' Agata e i numerosi istituti religiosi esistenti in città. Non sembra esserci dubbio sul promotore dell'iniziativa. Pietro Geremia, attuando un progetto caro al papa Eugenio IV, ancora una volta si era assunto il co1npito di coln1are il vuoto di potere lasciato dal vescovo. Questi, prima di essere ricusato dai giurati e dall'aristocrazia, si era autoen1arginato, assun1endo un atteggian1ento di sdegnoso rifiuto a tutte le iniziative promosse in quegli anni per il rilancio della città. Leggendo il testo della bolla, sembra potersi affermare che Pietro Geremia, nel predisporre il progetto della scuola per i chierici, abbia agito d'intesa con i benedettini di San Nicola l'Arena e di Santa Maria di 77 Sulle ultin1c vicende dell'abbazia di Sant'Agala, pri1na della definitiva soppressione del 1571, si veda G. MESSINA, L'archivio del capitolo cattedrale di c--:atania e le 11/tilne vicende de// 'abbazia di Sant 'Agata, in SJ'naxis 6 ( 1988) 243-269. 78 Docu1nento in appendice, f. 65v. 79 L.c. 80 lbid., f. 65v-66r. 81 f. MARLETTA, La costituzione e le pri111e vicende delle 111aesfra11ze di Catania, in ASSO I (1904) 354-358; 2 (1905) 88-103; 224-233.


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Nuovaluce". Nelle intenzioni dei promotori dell'iniziativa, il coinvolgimento dei due monasteri benedettini mirava probabilmente a neutralizzare la prevedibile opposizione dei monaci dell'abbazia di Sant'Agata, che venivano a perdere definitivamente un beneficio di particolare rilievo. Non è facile individuare le cause che detenninarono la mancata spedizione della bolla e il fallimento dell'iniziativa. Le ipotesi più attendibili sono due: a) l'opposizione dei benedettini della cattedrale; b) il mancato trasferimento di Federico Farina all'abbazia di San Filippo d' Agira. L'abbazia di Sant'Agala era quella che subiva il maggior danno dall'istituzione della scuola per i chierici; perciò l'opposizione dei monaci era scontata. Da soli, però, difficilmente sarebbero riusciti a far rientrare un progetto già varato. Era nota, infatti, la decadenza dell'abbazia e la mancanza di disciplina religiosa dei monaci. Questa situazione non li vedeva favoriti nei confronti del papa che, prima di finnare la bolla, avrà tenuto in conto la loro opposizione. Tuttavia, nei giorni precedenti, un'altra bolla di Eugenio IV-· quella con cui erigeva la collegiata - aveva provocato l'aspra reazione degli stessi monaci, che avevano trovato sostegno nei giurati. Come si è visto, ci fu uno strascico di ricorsi e solo l'intervento personale di Alfonso pose termine ad ogni contestazione. È facile che i monaci di Sanl' Agata abbiano fatto leva su questo primo affronto per chiedere di non subirne un secondo ancora più pesante. In sihrnzioni del genere l'unica possibilità che restava per scongiurare l'irreparabile era un intervento presso le n1assiine autorità ecclesiastiche e civili, facendo ricorso ai n1unerosi vincoli religiosi, di parentela e di amicizia. Per l'aspetto religioso i monaci avrebbero potuto chiedere la mediazione del benedettino catanese Giovanni de Primo, abate di San Paolo fuori le mura, nominato cardinale da Eugenio IV il 2 maggio 1444". Trattandosi non di un problema personale, ma istituzionale avrebbero potuto trovare ascolto. Per i vincoli di parentela e di amicizia il problema era ancora più facile, visto che la società del tempo era fondala su un sistema di oligarchie familiari con presenze e appoggi nelle diverse istituzioni ecclesiastiche e cìvilis~. ~ 2 Pietro Gere1nia e l'abate di San Nicola l'Arena nel 1443 avevano raggiunto una 1ne1norabile intesa per la cessione <1i don1enicani di un'arca appartenente alla grangia che l'abbazia benedettina possedeva a Catania, a!lo scopo di ingrandire il convento Santa Maria la Grande e di farlo passare all'osservanza. (M. GAUDIOSO, L'abbazia di S. Nicold l'Arena di ('atonia, in ASSO 25 ll929] 199~243: 210, nota; M.A. CONIGLIONE, Pietro Gere111ia, cit., 127128). 83 C. EUBEL, Hierarchia Cotholica 1\4edii Aevi, 11, Monasterii 1914, 9. 8 _. A. LONGH!TANO, OligarchiefC11ni!iari ed ecclesiastiche, cit.


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Per quanto questa ipotesi possa sembrare plausibile, per spiegare la mancata esecuzione della bolla sembra più fondata la seconda: il mancato passaggio di Federico Farina all'abbazia di San Filippo d'Agira. Per la nomina degli abbati di questo istituto monastico c'era un contenzioso fra le autorità civili ed ecclesiastiche: il re, asserendo che l'abbazia era di regio patronato, riteneva di poter nominare liberamente gli abbati; il papa, trattandosi di un ufficio che comportava l'esercizio della giurisdizione ecclesiastica, rivendicava a sé questo diritto". Il 3 novembre 1445 il re Alfonso aveva nominato abate il benedettino catanese Jayme (o Giacomo) Pate111ÒM'; 1na poiché questi non aveva ancora l'età canonica, la notnina del re non era stata convalidata dalla curia romana. Alfonso nel 1446 diede al Paternò la sola amministrazione dei beni, non i poteri spirituali". Nella bolla di erezione della scuola per i chierici (4 aprile 1446) leggiamo che l'abbazia era priva di titolare'". Questa affennazione o ignorava la nomina fatta da Alfonso alcuni mesi prima o rifletteva il punto di vista ecclesiastico dei religiosi promotori dell'iniziativa e della curia romana, non quello di Jayme Paternò e della regia curia. La notizia della nomina pontificia di Federico Farina all'abbazia di San Filippo avrà suscitato la reazione negativa del Paternò e un suo ricorso al re Alfonso. Eugenio IV, rendendosi conto che l'esecuzione della bolla sulla scuola per i chierici di Catania avrebhe compmiato uno scontro con il re Alfonso e con la potente famiglia dei Paternò, avrà ritenuto opportuno accantonare il progetto. Quale che sia l'ipotesi più verosimile per spiegare la mancata spedizione e attuazione della bolla di Eugenio IV, è certo che Federico Farina

:c;s G.L. BA1U3ERI, Benejìc·ia ecclesiastica, a cura di L Peri, 1, Palern10 1962, J 50-155. 86 ASP, Protonotaro, 37, 82r-v. Su questo personaggio gli storici hanno (allo una certa confusione. Nell'abbazia di San Filippo d'Agira troviaino due abbati con io stesso non1e e cognon1e: il pri1no ebbe questo ufficio ne! 1429, il 21 dice1nbre 1445 fu no1ninato vescovo di Malta e 111orì nel 1447 (C. EUBEL, Jlierarchia Catho!ica A1edii Aevi, ciL, 191-192); il secondo, nipote del prin10, ebbe da Alfonso l'an1111inìstrazione dell'abbazia nel 1445, successivan1ente ricevette dal papa la regolare non1ina di abate e governò fino al 1474. Il secondo Jay1ne era fratello inaggiore di Alvaro Patcrnò, il quale, nel ricordo di questo suo fratello che gli aveva fatto da padre, costruì a San (Ìregorio la chiesa di San Filippo d'Agira (F. PATERNÒ CASTELLO DI CARCACI, L'inventario e il /estc1111e11to di Alvaro Paternò, in ASSO 26 [1930] 67-144). 87 «Licet super regin1ine et gubernationc dictae Abbatiae ad sanctissi111un1 don1inun1 nostrun1 papmn pertineat ctatis venimn concedere atquc dare, quia dieta abbatia de patronatu nostro est nos eanden1 dederin1us vobis et induxeri1nus in possessionc1n I ... j» (G.L. BARBERI, Benefìcia ecclesiastica, 1, 154; R. PrRRI, Sicilia Sacra, . ~ 8 Docun1cnto in appendice, f 65r.

Il,

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non fu nominato abate di San Filippo d'Agira"". Nell'elenco degli abbati risulta che Jayme Paternò governò l'abbazia dal 1445 al 1474"". Il priorato di San!' Agata la Vetere non fu secolarizzato e rimase sotto la giurisdizione dei monaci della cattedrale. Nel 1464 Giovanni Scarfillito, priore dell'abbazia San!' Agata, chiese al papa Nicolò V di istituire nel capitolo la dignità del decano e di trasformare in dignità i due uffici del cantore e del tesoriere. Il papa, accogliendo la richiesta, incaricò l'abate di Santa Maria di Licodia e di San Nicola l'Arena di eseguire la bolla, con facoltà di annettere alcuni benefici alle dignità nuovamente erette"'. L'abate annesse il priorato di San!' Agata la Vetere alla dignità del decano, di cui era titolare frate Antonio Paternò"'. Nel 1467 Paolo II rese definitiva quest'annessione"'. Conclusione

Gli anni di governo di papa Eugenio IV costituiscono per la città di Catania uno dei periodi più vivaci e allo stesso tempo più travagliati della sua storia. Se per un verso si deve evidenziare una buona capacità progettuale, dall'altra non si può non rilevare la frattura insanabile creatasi fra il vescovo e la città. Il processo promosso dai giurati si concluse con la rimozione di Giovanni Pesce"'. Eugenio IV nel concistoro del 3 febbraio 1447 lo nominò vescovo titolare di Filippopoli e gli riservò una pensione annua di 200 fiorini"'. Il IO febbraio, con un'apposita bolla, dichiarò nulle le alienazioni dei beni ecclesiastici da lui fatte durante il suo governo 89 Il suo non1e non risulta in nessun elenco e in nessun docun1ento riguardante l'abbazia San Filippo d'Agira. 90 (J.P. SINOPOLI DI GJUNTA, La badia regia di S. Maria Latina, ciL, 93. La pennancnza del Pate1nò nell'abbazia San Filippo d'Agira fino agli anni Settanta del '400 risulta confern1ata da una serie di contrasti da lui avuti con Guglielmo Rain1011do Neofito de Moncada sull'appartenenza del priorato Sanctì Nicolai de Latina di Sciacca (G.L. BARBERI, Beneficia Ecclesiastica, cit., I, 159-160). 91 ACC, Perga111ene latine, I O1. 92 Da ciò si deduce che Federico Farina era già 1norto. Nel necrologio dcl capitolo della cattedrale non risulta l'anno della sua 1no11e, ina solo i! giorno e il 1nese: 29 giugno (M. LICCIARDELLO - A. LONGHITANO, Il clero di Catania tra Otto e Novecento, Catania 1999, 114). Un monaco di nome Antonio Paten1ò risulta deceduto 1'11ottobre1523 (ibid., 125). 93 ACC, Perga1nene latine, 103. 94 «[ ... ] nos hodie prefatu1n Iohanne1n ex iustis et rationabilibus causis anùnum nostnnn rnoventibus ex certa scientia a regimine et adn1inistratione diete ecc!esie, cui tunc prcerat, realiter a1novi1nus [ ... ]».Bolla di 1101nina de! vescovo Giovanni de Pri1110, trascritta in appendice allo studio di I. TASSI, Un collaboratore, cit., 20-22. 95 C. EUBEL, Hierarchia Catholica, cit., 215.


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episcopale"''. La rimozione non fu accettata né dal Pesce, né dagli ambienti della curia di Catania"'. li papa, in attesa che il clima si rasserenasse, nello stesso concistoro, affidò la diocesi in titolo al cardinale Giovanni de Primo; pe11anto il nuovo vescovo non pensò di farsi consacrare e non prese possesso della sede. Tuttavia fu rilasciata la consueta bolla di nomina con le relative comunicazioni al capitolo della cattedrale, al clero, al popolo di Catania e al re Alfonso". In queste condizioni la diocesi continuò ad essere governata dai vicari generali del vescovo ri1noss099 • Questa soluzione di compromesso non poteva essere gradita ai giurati, che inviarono al re Alfonso, al nuovo papa Nicolò V - succeduto a Eugenio IV il 6 marzo 1447 - e al collegio dei cardinali due ambasciatori: il dottore in diritto canonico Giovanni Massari e il rappresentante delle corporazioni di arti e mestieri Angelo Campochiaro. I due dovevano presentare un memoriale"". Al re Alfonso si chiedeva «di vuliri pennectiri chi lu signuri cardinali nostru 111isser Iohanni Pri1nu haia la possessioni di lu episcopatu di Catania, a lu quali fu pro111ossu per la felichi n1en1oria di papa Eugeniu per la privationi di fratri Ioanni Pixitellu».

Gli inviati della città dovevano «narrari la vita detestabili, lu malu et pessimo regimento di lu episcupu olim, zoè fratri Iohanni Pixitellm>. I giurati davano un attestato di stima verso il nuovo vescovo Giovanni de Primo e nello stesso tempo si dicevano certi che avrebbe dimostrato il suo amore verso la propria città non ostacolando il funzionamento dello Studio e la realizzazione del molo:

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ASV, Reg. Val., 379, l 78v-179r. 97 Nella bolla di non1ina del nuovo vescovo si legge: 1<ipsun1que [lohannen1 dc Piscibus] etian1 invituin a vinculo, quo prelàte ecclesie tencbatur, de fratnnn nostronnn consilio et apostolice postestatis plenitudine absolventes, ad ecclesian1 Philippopolensen1 tunc vacanten1 auctoritate apostolica lranstulinu1s [ ... ] nullusque de ipsius ecclesie provisìone preter nos hae vice se intron1ittere potuit sive potesi, reservatione et decreto obsistentibus supradiclis» (L TASSl, [!11 collaboratore, cit., 21). 98 lbid., 9. Due di questi docun1enti sono conservati nell'antica biblioteca di San Nicola l'Arena (C. ARDIZZONE, I diplo111i esistenti nella Biblioteca co111una!e ai Benedettini. Regesto, Catania 1927, nn. 722-723). 99 Il 22 giugno 1448 ()nofrio de Flore, vicario generale del vescovo Giovanni Pesce, conferiva la chiesa di Sant' Anna nel territorio di Aci a fra Giovanni Scarfil!ito, suo consocio co1ne vicario (Ace, Perga1nene latine, 84). 100 R. SABBADJNJ, Storia doc11111en1ata, cit., doc. n. 74, 71-72.


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«Declarando [ ... ] con1u lu dictu rev.1no cardinali fu et è et cussì serrà fidelissimu a1naturi [ ... ] di quista sua chitati co1nu si vidi per lo Studiu generali et Molu cum li quali speran10 restaurari la dieta chitati».

Infine chiedevano che il papa intervenisse nella soluzione del problema sul quale si era avuto lo scontro finale con il vescovo Giovanni Pesce: l'utilizzazione dei proventi della dogana. Ogni controversia ebbe tennine con la morte del vescovo (novembre 1448). Una sua lettera, spedita da Tivoli il 30 agosto 1447 e indirizzata ai giurati e ai concittadini, ci permette di collocare nella giusta luce la figura e l'operato di questo vescovo"". Egli, dopo aver chiamato Dio come testimone, si augurava il bene dei suoi interlocutori e della città, così come ogni vescovo deve fare. Le avversità subite a Catania dovevano essere considerate un segno delle prove che Dio riserva ai suoi servi e a coloro cbe ama; egli non le aveva mai ritenute frutto di inimicizia da parte di nessuno. Come poteva attestare il capitano, al quale affidava il suo messaggio, augurava che Dio in futuro potesse concedere ogni bene all'amata città di Catania, di cui tutti erano figli. li capitano avrebbe riferito sulla sua situazione di quel periodo. Egli per tutto il resto si dichiarava disponibile a venire incontro ai desideri della città. Aveva atìldato ad altri la chiesa cattedrale e i suoi beni. Faceva voti che tutti potessero godere buona salute per il servizio di Dio e per l'attuazione del bene pubblico. Il 2 dicembre 1448, dopo la morte di Giovanni Pesce, fu emanata una seconda bolla per nominare il cardinale Giovanni de Primo vescovo della sede vacante di Catania'". Si pensò allora alla sua consacrazione episcopale, che forse non ebbe luogo per la sopravvenuta morte (22 gennaio 1449)"". La scomparsa dei vescovi Giovanni Pesce e Giovanni de Primo segnò per Catania la fine di un'epoca: quella dei grandi progetti per il rilancio della città. Pietro Geremia, tornato a Palermo, non ebbe più l'occasione di occuparsi dei problen1i di Catanial(1-1• TI Sic11lorun1 GJ;1nnasiun1, pur svolgendo il compito istituzionale di rendere più facile agli studenti della Sicilia il conseguimento dei gradi accademici, non riuscì ad avere risorse stabili e Jbid., doc. n. 74, 72, nota. C. EUBEL, Jlierarchiu Catholica, cit., 122. 103 I. TASSI, [Jn collaboratore, cil., 9-10. 104 Nel 1451 fu invitato a predicare !'avvento e, a gn1nde richiesta, accettò di predicare anche la quaresi1na; 1na dopo la predica di settuagesi1na le sue condi7.ioni fisiche non gli pcriniscro di continuare e fece ritorno a Palenno, dove rnorì il 3 n1cH"zo 1552 (M.A. CONIGLIONE, Pietro Gere1nia, cit., 161-172). lfJI

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sicure'"'. Il progetto della costruzione dcl molo fu accantonato con la morte del re Alfonso"'". La collegiata, fra tante ambiguità, appagò il sogno dell'alto clero di avere un proprio capitolo. Rimase del tutto insoluto il problema della fonnazione dei chierici. Dopo il Concilio di Trento fu istituito il seminario. Fino a tutto il secolo XVII il numero degli alunni non si discostò da quello previsto dalla bolla di Eugenio IV"".

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La stessa son11na pron1essa dal re non giunse sen1pre Intera e puntualinente (M.

CATALANO, L'università nel Rinascilnento, cit., 23-26).

io 6 Nei secoli successivi i diversi tentativi di costruire un 1110!0 furono resi vani dalle 1nareggiate, che distruggevano le opere compiute (I.B. DE GROSSIS, Catanense Decachordun1, I, Catanae 1642, 227). Non ha fondmnento la tesi di questo autore che colloca ad Ognina il porto principale della città. 107 Il senlinario fu fondato dal vescovo Antonio Faraone il 18 aprile 1572. Nel 1620 contava 12 alunni; nel 1655, 8; nel 1668 15 (Dati desunti dalle relazioni ad lin1ina).


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APPENDICE 1446 aprile 4, Roma V ATJCANO. Reg. Val. 378, ff64v-66r; AA, Arm. 1-XVlll, 1254, ff. 65r-69v. In supretne. Eugenius Episcopus {servus servorum Dei. Ad perpetuarn rei 1nemoria1n}. ln supreme dignitatis specula, licet itnmeriti disponente Domino constituti, circa regionu1n fideliun1 quarumlibet cornmoda et utilitates nostre considerationis intuiturn libenter extendirnus et ut earurn persone, preserti1n ecclesiastice, propulsatis ignorantie tenebris, litteraru1n studijs, per que justitia colitur cultusque divini nominis ampliatur et fides catholica roboratur nec non omnis mundane conditionis prosperitas adaugetur, habilius et com1nodius insistere valeant, ope1n et opera1n quantum cum Deo possu1nus favorabiliter adhibemus. Sane pro parte dilectorum filiorun1 juratorun1, consulu1n ac civiu1n cathaniensiun1 nobis nuper exhibita petitio continebat quod, in civitate et diecesi [fai. 65r] cathaniensibus, propter penuria1n inibi clericorutn et alias instruere volentiu1n, plurimi sacris ordinibus constituti rudes et litteraru1n ignari reperiuntur quodque interdun1, ex eorun1 ignorantia huiusmodi quoad inissarum et aliorum divinorun1 celebrationes, nonnulla inconvenientia etiatn in clericalis ordinis vilipendiun1 hactenus pervenerunt. Et sicut eadem petitio subiungebat si in prioratu Sancte Agathe Veteris cathaniensis, ordinis Sancti Benedicti, qui habitu et non actu conventualis existit, suppressis in eo illius conventuali dignitate ac prefato ordine, decen1 ve! duodeci1n loca pro totiden1 pauperibus clericis necnon una scholastria pro uno gramatice el una cantoria pro uno cantus eorunde1n niagistris crearentur et instituerentur, plures civitatis et diecesis predictarutn ecclesiastice persone presentes et future non solu111 in gramatica et cantu predictis, sed etiam in alijs diversis scientijs erudite evadere, 111ultaque exinde bona et utilia, etiam ad laude1n et glorian1 Allissitni populique devotionis aug1nenturn ac fideliun1 pluri1norun1 anin1aru111 consolationen1, saluten1 et gaudium succedere possent te1npore procedente. Quare pro parte juratonun, consultnn et civiu1n predictorutn nobis fuit hun1iliter supplicatun1 ut in pre1nissis et circa ea opportuna suffragia, favores et gratias i1npendere de benignitate apostolica dignaren1ur. Nos igilur de pren1issis, ex quorunda1n fideliu1n etian1 notabiliutn virorun1 infonnatione1n certan1 notitian1 habentes, ac super eis, prout lene1nur ex debito sunnni pontificatus officij nobis desuper iniuncti, quantu111 cutn Deo possu111us providere volentes, huiusn1odi supplicationibus inclinati, conventualen1 dignitate111 ac ordine1n predictos 11ec 11011 ctiatn omnia et singula in <lieto prioratu instituta perpetua sine cura beneficia ultra duodecin1 numero non existentia, etian1 si plura vel aliqua eorunde1n de jure patronatus laicorun1 existunl et ad hoc illorun1 patroni huiustnodi consensus non accesserit in eoden1 prioratu, auctoritate apostolica, cx certa scientia, penitus suppriinin1us et extinguin1us dictu1ngue prioratun1 in seculare1n ecclesian1 reduci1nus, nec non in ecclesia ipsa unatn scholastrian1 pro uno gra1natice et unan1 cantoria1n pro uno cantus tnagistris ac etia1n duodeci1n loca ARCHIVIO SEGRETO


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perpetua que clericatus nuncupentur, pro totide1n pauperibus pueris clericis, auctoritate et scientia predictis ex nunc instituitnus, sancimus et crean1us, ac prioratus cuius sexaginta nec non beneficiorum predictoru1n omniu1n et singuloru1n, quorum centun1 floreni auri de camera fructus, redditus et proventus secundu1n ratione1n, exti1nationen1, valore1n annuutn ut <lieti exponentes asserunt non excedunt, possessiones, jura, pertinentias atque bona mobilia et iln1nobilia 0111nia et singula 1nense collegiali clericorun1 huius111odi elia1n pro tnagistris predictis, scientia et auctoritate prefatis perpetuo incorporan1us, concedilnus et appropriamus. Ita quod qua111pri1nun1 dilectus filius Federicus Farina, olim prior <lieti prioratus, de cuius persona, rnonasterio Sancti Philippi de Argirione" ordinis et diecesis predictorurn, lune abbatis regiminc destituto, vigore aliarun1 [fo/. 65v J litteran1111 nostraru111 nuper provisu1n fuit possessionen1 rcgin1inis et adn1inistrationis bono1u1n eiusden1 tnonasterij seu 1najoris partis eorun1, obtentu provisionis huius1nodi pacifice adeptus fuerit, seu alias per eius ccssun1 vcl decessun1 aut alian1 din1issione1n dictu1n prioratun1 vacare contingerit, liceat abbatibus et priori inferius non1inatis per se vel {per} aliu1n seu alios corporalen1 posscssionen1 bonorun1, juriuin et pertinentiaru1n predictorum no111ine dicti collegij auctoritate propria libere apprchendere diecesana et cuiuscunque alterius licentia tnini1ne requisita. Et nihilo1ninus quod ad scholastrian1 in gran1atica ac ad cantoriain predictas pro ten1pore eligende persone in cantu prefatis temporibus suarun1 electionun1 huiusn1odi docte atque perite ac alias honeste boneque vite et ad sacerdotium pron1ote, nec non etia1n quod 01nnes et singuli clerici prefati du111 ad loca prcdicta pro te1npore eligentur infì·a octavu111 et deci1num octavum suarun1 etatu111 annos constituti, ac de dictis civitate et diecesi vel earun1 altera oriundi existant, quodque 111agistri predicti apud dicta1n ecclesian1 continuo residere, nec non in ea una1n 1nissan1 ad niinus et etiain vesperas singulis diebus cun1 cantu celebrare, et in certo loco ad id acco1nn1odo et honesto certis horis diei cuiuslìbet videlicet gra1natice in gramatica ac cantus niagistri in cantu huiusn1odi clericos pro te111pore supradictos docere et instruere, et quod clerici predicti, singulis diebus pro n1issa et vesperis celebrandis predictis, de loco prefato ad dictan1 ecclesian1 bini bini cottis tunc induti, una cu1n altero ex prefatis n1agistris devote accedere, nec non n1issis et vesperis ipsis finitis de dieta ecclesia ad locun1 huius111odi simili 1nodo redire, dictique pro tempore 1nagistri curan1 animaru111 parrochianorum ipsius prioratus, qui ta1ncn parrochian1 distincta111 non habet, exercere, et quod ta1n ipsi quam prefati clerici in divinoru1n exhibitione et alias iuxta ordinationes et statuta abbatibus et priore infra no1ninatis prefatis vigore presentiun1 facienda, diete ecclesie servire perpetuis futuris te1nporibus teneantur et ad id obligati existant, ac etian1 quod Sancti Nicolai de Arena et beate Marie Novelucis Cathaniensis diecesis nionasteriorum abbates, nec non don1us de la Grande prope inuros Cathanienses predicti et fratru1n predicatorun1 ordinisb, intcri1n quod nulla regularis observantia vigebat', prior pro tempere existentes etiam perpetuis ten1poribus curan1, regin1en et gubemationem perpetuan1 ecclesie ac incorporatoru1n predictorun1 et aliorum inibi futuroru1n bonoru1n 111obiliu1n et in1mobiliun1 on1niun1 et singulonun habeant, nec non illoru1n on1niu1n


.f'ondazione della "Scuola dei Chierici" a Catania

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fructus, redditus et proventus percipiant, ac in ecclesie nec non pro tempore magistrorum et clericonun predictorun1 usus et utilitatem duintaxat et non alias convertant ac habere, percipere et convertere debeant, quodque electiones singuloruin magistrorum ac clericon.un pro tempore predictorum ad scholastrian1, cantoriam et loca predicta hac pritna vice et successive perpctuis futuris te1nporibus quotiens illa ve! simul, {ve!} successive vacare contingerint ad abbates et sub dieta observantia dcgentem priorem pro te1npore predictos perpetuo spectent atque pe1tineant, et quod ipsi sic pro te1npore [fai. 66r] electi magistri et clerici sacristiam, cantorian1 et loca prefata, ad que si electi fuerint absque suaruin electionu1n huius111odi confinnatione aliqua tenere, et illis gaudere, nec non ab eis ad nutun1 abbatu111, prioris et Federici predictoru1n quotiens eis videbitur a111overi, ac alij loco pro temporc a111otorum huiusmodi alias iuxta forman1 predictan1 deputari valeant, et quod nullus postquan1 decilnu1n octavum sue etatis annum transcenderit alique1n ex locis prefatis valcant obtinere, et quod etiam predicti ac eoru1n successores pro temporc existentes diete civitatis iurati et consules ecclesie t11agistrorun1 et clericoru111 pro ten1pore predictonun protectores et defensores perpetuo existant, quodquc ipsi abbatcs et prior quecutnque, quotcumque et qualiacu111que rationabilia et utilia statuta, ordinationes et inissarun1 et alioru111 divinoru111 celebratione1n in dieta ccclcsia, ncc non illius pro ten1pore fructuun1, rcddituu1n et proventuun1 inter magistros et clcricos pro ten1pore supradictos, ac pro alijs inibi necessarijs distributioncs et dispensationes taciendas, nec 11011 alias bonun1 statutun1 ac salubrcs gubcrnatione1n, directionem et conservatione111 ecclesic magistrorun1 et clericoru111 pro tcmpore prefatoru111 concementia auctoritate prefata edere et condere, ita quod illa perpetuo inviolabiliter observentur, ac etia111 nu111erum clericorun1 huiusn1odi, quandocunque et quotiescungue videbitur expcdire, augere libere et licite possint auctoritate et scientia supradictis tenore presentiu1n statui1nus, dcccrnilnus, concedin1us et ordina111us, non obstantibus constitutionibus et ordinationibus apostolicis ac cathaniensis ecclesie dicti ordinis, a qua ipse prioratus dependet, nec non predictoru1n prioratus et ordinis etia111 juran1ento confinnate, apostolica ve] quacunque firn1itate alia roboratis, statutis et consuetudinibus, ceterisque contrarijs quibuscunque, aut si aliqui super provisionibus sibi faciendis de huius1nodi vel alijs beneficijs ecclesiasticis in illis partibus speciales, ve! generales predicte sedis, ve! legatorun1 eius litteras in1petrarint, etia1n si per eas ad inhibitionc1n, reservationen1, et decretu1n ve! alias quo111odolibet sit processun1 quos quiden1 litteras et processus ad predicta beneficia ve! corun1 aliqua1n volurnus non extendi si nullun1 per hoc eis quoad assecutionen1 bcncficiorun1 aliorum preiudicium gcnerari, et quibuslibet alijs privilcgijs, indulgcntijs et litteris apostolicis spccialibus vel generalibus quoru111cunque tenoru1n existant, per que presentibus non expressa vel totaliter non inserta cffectus caru111de111 irnpediri valeat quon1odolibct ve! differri, et de quibus quoru111que totis tenoribus habenda sit in nostris litteris de verbo ad verbun1 n1entio specialis. Nos eni111 ex nunc irritu111, decernimus et inane si secus super hiis a quoqua111 qua vis auctoritate scienter ve] ignoranter contingerit atte111ptari. Nulli ergo etc. nostre suppressionis, extinctionis, reductionis, institutionis, sanctionis, citationis,


Ado?fo Longhitano

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incorporationis, concession1s, appropriationis, ordinationis etc. Si quis autem etc.

constitutionis,

concess1on1s,

et

Datum Rame apud Sanctu1n Petrum anno etc. inillesimo quadringentesi1no quadragesimo sexto, pridie nonas aprilis, pontificatus nostri anno sextodeci1no. {Eugenius papa quartus)

Collatio: F. Lavesius Gratis de 1nandato do1nini nostri papae

A. de lustanis

" de Argirione] de Argeriano. h

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1

predicalonnn ordinis vigcbat] vigebit. perpetuan1] perpetua.


Synaxis XIX/I (2001) 165-186

CONVENTI E ORDINI REGOLARI MASCHILI A CATANIA NELLA PRIMA METÀ DELL'OTTOCENTO

ANTONIO

coco'" - GRAZIA SAMPERI''

La diocesi di Catania jì·a 111uta111ento e ilnpegno 11astorale

Gli ordini regolari sono al centro della storia e della vita religiosa. I numerosi documenti che attestano lo spessore sociale e religioso, oltre che econon1ico, culturale e politico da essi assunto, ne forniscono una prova oltt·emodo convincente. Lo sviluppo delle loro vicende, che si intrecciano con la storia politica e sociale, locale e nazionale, testimonia inoltre quanto fosse forte e costante il rapporto fra le case religiose e il contesto dove esse si trovavano inserite. li materiale documentario che oggi ci resta consente di seguire le dinamiche della vita di questi depositari della cultura e degli ideali cristiani che anche nei momenti di crisi sono stati i referenti principali del potere spirituale e cli una rilevante organizzazione economica.

In questo lavoro si vogliono analizzare alcuni aspetti dell'impianto e della vita dei conventi maschili in alcuni centri della provincia di Catania per un periodo che coincide con la prima metà del XIX secolo: in particolare il nun1ero, la dislocazione dei conventi e il loro assetto econon1ico studiati attraverso alcune fonti contabili che ci pem1ettono di vedere come era costituita la rendita, e quale fosse l'indirizzo di spesa. Tuttavia è opportuno indicare una scelta fatta a proposito degli ordini che vcnanno presi in considerazione. Si è infatti preferito tralasciare i benedettini che nella storia del regno di Sicilia in generale hanno avuto un molo fondamentale, perché si è ritenuto più opportuno guardare, con una prospettiva complementare, ad organis1ni con una valenza econo1nica e religiosa non indifferente, troppo

Professore associato di Storia n1odcrna presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università degli Studi di Catania. Dottoressa in Lingue e Letterature straniere moderne.


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Antonio Coca - Grazia San1peri

spesso eclissati dall'entità benedettina sulla quale possediamo, peraltro, un'ampia bibliografia'. Per capire, comunque, meglio lo sfondo attorno al quale ruotano le vicende dei monaci è opportuno ricordare taluni aspetti della vita religiosa a Catania nella prima metà dell'Ottocento. Le relazioni ad /imina della diocesi di Catania, dalla fine del '700 a oltre la metà dell'800, consentono di delineare i tratti fondamentali delle istituzioni religiose catanesi e dei vescovi che le hanno guidate. Pochi anni dopo la fine dell'episcopato di Cmrndo Deodato ( 1773-1813), la diocesi subisce una trasfonnazione segnata dalla separazione di diversi comuni che andranno a costituire la nuova diocesi di Piazza Armerina, che con le altre di Nicosia e Caltagirone modificherà, fra 1816 e 1817, la mappa religiosa della provincia di Catania, interessando anche le diocesi di Siracusa e di Messina'. Nel 1844 nascerà, da un ulteriore smembramento, la diocesi di Acireale, cui verranno attribuiti i comuni della parte settentrionale della diocesi catanese e che inizierà comunque la sua vita effettiva solo nel 1872 per la tenace opposizione da parte dei vescovi di Catania e di Messina'. Questo riassetto ampio, che coinvolse pure altre diocesi siciliane, segnala l'importanza del secolo per la ridefinizione degli equilibri istituzionali e religiosi dell'Isola. Gli anni di Deodato sono segnati tra l'altro - dal progetto di rifonna universitaria, la quale, però, una volta promulgata e attuata (I 779), non soddisfece le attese per i cambiamenti previsti nelle materie teologiche che, al contrario, in precedenza avevano un ruolo importante nel!' educazione degli studenti'. Il vescovo si era inoltre preoccupato del rispetto della

1 G. GJARRJZZO, Catania e il suo 1nonastero di S. Nicolò l'Arena, Catania, l 990; G. ZlTO, Il 1nonastero catanese di S. Nicola l'Arena tra il 1675 e il 1719, in Synaxis 5 (1987) 277-338; Io., Il n1011astero catanese di S. Nh·o/ò l'Arena tra il 1719 e il 1735, in Synaxis 7 (1989) 517-561; Io., Il 111onastero catanese di S. J\ficola l'Arena tra il 1738 e il 1759, in Synaxis 7 (1992) 241-3 J 4; ID., La vita del 111onastero catanese S. /'li cola l'Arena dalle inedite disposizioni dell'abate D11sn1et (1858-1866), in Synaxis 4 (1986) 477-534; S. LEONE, Una

ricerca in corso: il patrilnonio rurale dei benedellini di S. Nicolò l'Arena di Catania dalla 111età del secolo XVII alla liquidazione dei beni ecclesiastici. (~onsistenza ed an1111inistrazione, in Archivio Storico per la Sicilia (Jrientale 67, 1971, 35-54. 1 A. LONGlllTANO, Le relazioni "ad lùnina" della diocesi di (~atania (1844-1856), in Synaxis 13 (1995) 439-465. ; Jbid., 441. 4 A. LONGHITANO, La parrocchia nella diocesi di Catania prilna e dopo il Concilio di Trento, Palern10 1977; G. ZITO, Ordina1nento e sconosciuta vitalità della jònnazione


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disciplina dei chierici e dell'ordinamento del seminario, anche se, per il suo carattere remissivo, non sembrava far tanto caso all'abbondanza dei chierici, ma focalizzava maggiormente la sua attenzione sugli obblighi disciplinari: l'abito religioso, la condotta dei sacerdoti, la necessità del loro impegno pastorale, la qualità dell'istt·uzione e della formazione culturale'. Le riforme riprendevano sostanzialmente quelle auspicate dal suo grande predecessore Salvatore Ventimiglia. Tuttavia, il suo governo non sembra aver apportato modifiche sostanziali all'ordinamento della diocesi, anzi, rispetto al Ventimiglia, il Deodata sembra essere stato ostile a un nuovo ordinamento per l'istituzione di più panocchie secondo quanto previsto dal Concilio di Trento che aveva determinato la nomina perpetua dei pmrnci solo dopo concorso. Invece a Catania, i sacerdoti delle chiese non erano altro che vicari del vescovo, unico panoco della città'. Dopo la morte del Deodato, alla guida della diocesi si alternarono alcune figure rimaste in carica per poco tempo: Gabriele Gravina (1816) si dimise due anni dopo della nomina per esser poi trasferito a Palermo; Salvatore Feno Berardi ( 1818) si occupò della diocesi solo per un anno alla fine del quale vi fo un periodo di quattro anni di sede vacante fino alla nomina di Domenico Orlando'. Tutto cambia con la nomina di Felice Regano (1839-1861) che può essere inserita in quella politica di intromissione del governo borbonico nelle questioni ecclesiastiche del regno di Sicilia, in conseguenza delle insmTezioni scoppiate nell'Isola, tra cui quella del'37, che spingevano Ferdinando Il alla nomina di un uomo venuto dal continente di cui potesse fidarsi anche per controllare ed evitare ulteriori disordini. Dal canto loro i catanesi non mostravano entusias1no verso questo personaggio perché sentivano che il nuovo vescovo poteva rappresentare uno strun1ento "borbonico" di repressione 8 • li Regano svolse un'opera meritoria preoccupandosi di selezionare, secondo un vero sentimento di vocazione, i candidati che si apprestavano ad entrare nella vita clericale. Tanto era infatti il bisogno di un clero dedito a una 111issione evangelizzatrice, n1entre altre preoccupazioni nascevano dalla culturale nel sen1inario di Catania nella prùna 111età del secolo ./YIX, in Syna,-ris 2 (1984) 473-· 526. 5 A. LONGHlTANO, La parrocchia, cit., 361 6 Jbid., 369; negli stati italiani era frequente una diversa struttura ecclesiastica che co1nprendcva anche il caso di un solo parroco in grossi centri urbani, G. GRECO, Ecclesiastici e ben~fìci in Pisa alla.fine del/ 'antico regilne, in Società e Storia 3 ( 1980) 299-338. 7 A. LONGHITANO, Le relazioni "ad lilnina ", cit., 441-442. 8 Jbid., 444.


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cura spirituale in seminario, da sempre concepito come luogo avulso da possibili contaminazioni esterne e retto da una severa disciplina sotto cui vivevano in questi anni circa 120 alunni". Riguardo alla cura si pose molta attenzione al sacramento della confessione, compito assai difficile per un giovane sacerdote, per la grande esperienza che questo mm1stero richiedeva'". Il vescovo aveva previsto che l'età adeguata per l'incarico dovesse essere di 40 anni. Regano si interessò anche di iniziative caritatevoli, destinando parte delle somme che pervenivano alla mensa vescovile alla distribuzione del pane e del frumento per i poveri". Ma il Regano è ancora ricordato per il suo aperto schierarsi dalla parte dei 'rivoltosi' durante il'48. Ciò segna la separazione della chiesa dal governo borbonico". In questo contesto la vita religiosa catanese è contrassegnata dalle numerosissime feste che nella città hanno luogo, controllate dall'autorità civile dell'Intendente che stabiliva l'ora e il luogo della processione. Sono occasioni ove appare i1nportante I 'intervento di n1onasteri, conventi e clero regolare, maschile e femminile. Si tratta di manifestazioni in onore dei santi patroni della città, dei santi a cui erano votate le congregazioni o di particolari momenti del calendario liturgico cattolico, come il Natale e la Pasqua, caratterizzati dalla sontuosità dell'organizzazione. Da questo punto di vista si può introdurre una divisione fra la città capoluogo e i centri demaniali maggiori dove come vedremo appare fitta la presenza conventuale, e i piccoli centri abitati dove la mancanza di istituzioni regolari doveva anche comportare una certa deficienza di queste manifestazioni religiose di cui gli ordini erano i principali promotoriu. Le feste continuarono a perdurare nu111erose durante 9

lhid, 452. fbfd. 454. Il fbid. 455. "lbìd., 459. 1·1 A Catania la festa della patrona era tra le pili in1portanti dell'anno ed è oggi ri1nasta per certi versi si1nile a quella celebrata nell'Ottocento: aveva inizio il 2 febbraio e terminava il 5, con la tipica processione e le candelore. Un'altra occasione in1portante era rappresentata dalla solennizzazione del santo Chiodo in settembre, dopo l'appendice estiva della festa di Sant' Agata. I curatori di questa festa erano i benedettini, n1entre la festa di san Francesco di Paola era organizzata dai 1nini1ni che, a! tcrn1ine della processione, benedicevano le i1nbarcazioni. La celebrazione della Pasqua era anch'essa 1ne1norabile per l'allestimento dei sepolcri, tra i quali il più ricordato per la sua 1nagnificenza era quello preparato nel 1nonastero benedettino; 1nentre il venerdì era caratterizzato da una processione di uo1nini che sfilavano col capo cinto di spine e di donne vestite di nero. Cfr C. NASELLI, Ottocento catanese. la vita, in (~atonia: rivista del co11u111e 6 (1934) 151- 161; Io., La festa del Santo chiodo nel 1nonastero dei Benedettini, in Archivio Storico per la Sicilia Orientale 51-52 (1955-56) 47-73. IO


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tutto il primo sessantennio del!' ottocento, tuttavia i processi di trasformazione legati all'unificazione segnarono, anche in questo campo, le abitudini religiose mentre con le soppressioni del '66 Catania assiste al degrado degli edifici conventuali e al conseguente oblio di molte forme di religiosità collettiva. Per il resto, Catania evidenzia altri tratti comuni del vissuto religioso di antico regime, m primo luogo la sua forte istituzionalizzazione. Basti pensare, per esempio, che gli studenti che non erano presenti agli esercizi spirituali e che non frequentavano la cappella dedicata a san Tommaso, apprestata già nel Settecento nell'ateneo, non potevano essere am1nessi all'interno dell'università ed agli esa1ni1-1. Di

conseguenza, la partecipazione alle feste e alle pubbliche occasioni religiose di cui divenne luogo importante la 'marina' ristrutturata nel 1825, diventava un momento di identificazione socio-politica oltre che religiosa. In questo quadro si possono comprendere episodi come quello del maggio del I 822, quando l'Intendente scrive al vicario capitolare, che si era precedentemente lamentato dei marinai che sono soliti disertare "i doveri della religione" e che dimenticavano di osservare i giorni di precetio per antepon-e la pesca ai doveri cristiani, che «nulla può influire la forza nell'animo di quel ceto giacché vogliono esimersi dalle religiose funzioni, sommette tutto ciò per le superiori disposizioni»" facendo palese quanto fosse vana la richiesta del vicario all'intendente di «adoprare la forza contt·o quel ceto marinaresco per frequentare 1 doveri della religione che tt·ascurando malgrado le ammonizioni degli Ecclesiastici e che con continuo scandalo abusano di pescare nei giorni di precetto» 16 •

Una fonte degli anni venti de/I 'Ottocento

La fonte attraverso cui si cercherà di delineare il quadro dei conventi ubicati in un'area dell'odierna provincia di Catania, fu redatta in seguito a

G. POL!CASTRO, Catania nel Settecento, Catania, 1950; A. Coco ~A. LONGHJTANO S. RAFFAELE, La.facoltà di n1edicina e l 'Universitù di Catania, Firenze 2000. 15 AsP, Fondo Ministero e Real segreteria di Stato presso il Luogotenente generale ripartin1ento ecclesiastico, filza 14, Catania 25 Maggio 1822, l'intendente al vicario 11 •

capitolare. Nelle note saranno utilizzate le seguenti abbreviazioni: Asc= Catania. Archivio di Stato; AsIJ= Catania. Archivio storico diocesano; Asp= Palenno. Archivio di Stato. 16 lhid.


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una circolare ministeriale del primo novembre 1820". Il documento fornisce, oltre al titolo e all'ordine di appartenenza del convento, i nomi dei regolari, i rispettivi luoghi di provenienza e le qualità, cioè le varie condizioni del personale residente negli istituti: chierici, preti e laici. Inoltre vengono specificati anche gli eventuali incarichi educativi ricoperti, per esempio i vari lettorati se il convento era anche sede di noviziato. Per i laici viene poi chiarito se essi siano anche professi, se si h·atti di terzini, novizi, educandi, oblati, servi o filmo/i. Le altt·e infmmazioni riguardano la rendita lorda e i pesi annui, cioè gli introiti derivati da fondi rustici ed urbani, da censi, canoni, crediti e quant'altro fosse di pe1iinenza delle case religiose. Per quanto riguarda le spese vengono specificate la designazione delle imposizioni, cioè la tassa fondiaria e quella comunale insieme a tutte le altre uscite annuali. Per ogni chiostro vi sono poi una serie di "osservazioni" che forniscono ulteriori delucidazioni per approfondire le informazioni già presenti nelle sezioni dedicate alle entt·ate e alle uscite, ribadire la situazione del convento e l'utilizzo del reddito o l'eventuale mantenimento attraverso le elemosine alla casa. Il totale dei conventi registrati è pari a 40 case, mancano però le informazioni relative ai monasteri benedettini, che non appaiiengono agli ordini mendicanti, e ai collegi gesuitici durante questo periodo soppressi 18 • La gerarchia della presenza conventuale in quest'area vede una netta prevalenza di case francescane, che rappresentano il 40% dcl totale, 16 su 40; seguono poi i domenicani con sette conventi, i cannelitani e gli agostiniani con sei case per ciascun ordine (tabella 1). Il panorama viene poi completato da un paio di istituti di chierici regolari, altrettanti di crociferi e da un solo convento di minimi e di 111ercedari scalzi. Questa prima descrizione sembra quindi confennare il forte peso della famiglia francescana e, al suo interno, delle esperienze di riforma quattrocinquecentesche nel panorama regolare di quest'area, oltre alla significativa 17

Aso, Fondo Statistiche, carpetta 2, fasc.3, Chiese. clero, corporazioni regolari, benefìci ed altri dati. Si tratta di una documentazione reddituale in due volu1ni, di cui il prin10 è dedicato alla raccolta delle rendite dei conventi di Catania; il secondo ai paesi della diocesi: i dati sono relativi a dicci cornuni oltre la città vescovile; si tratta dei centri di Acireale, Aci san Antonio, Aci SS. Antonio e Filippo (questi ulti1ni due un ten1po uniti in un unico co1nune chian1ato Aci SS. Antonio e Filippo e poi diviso), Adernò (l'attuale Adrano), Belpasso, Centorbi (l'attuale Centuripe), Paternò, Ran1acca, Regalbuto e Trecastagni. Un ringrazian1ento particolare va al Dott. Raflaele Manduca per la preziosa indicazione fornita in 111erito all'esistenza di tale docun1ento. 18 A. NARBONE, Quistione della Con1pagnia di Gesù e;o;posta al popolo, Palenno 1848; F. SCADUTO, Stato e Chiesa nel regno delle due Sicilie, Palern10 1969.


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tenuta, ancora nei primi anni Venti dell'Ottocento, degli altri grandi ordini mendicanti. Per il resto, la scarsa presenza di case, diretta espressione della controriforma, in assenza dei collegi gesuitici, rimanda al forte peso, educativo e di formazione del clero, che questi ultimi avevano avuto nell'isola. Per quanto riguarda, invece, l'ubicazione degli edifici, l'equazione ordini religiosi e spazi urbani, soprattutto costieri, riceve un'ulteriore conferma guardando alle aliquote di presenza nel capoluogo vescovile, il 37,5% e nell'altra importante città demaniale di Acireale il 12,5%, ma anche in al!ri centri come Paternò, che hanno quasi le stesse percentuali di quest'ultima rispeito a una realtà dei centri minori dove la presenza conventuale si limita a una sola o, al massimo, a due case di ordini co1ne i francescani o gli agostiniani. La situazione in quest'area del catanese nei primi anni Venti ripropone il forte legame fra città vescovile e istituzioni ecclesiastiche regolari favorita dalla presenza di famiglie particolannente facoltose o nobiliari disposte a finanziare il convento e a sostenere il mantenimento dell'istituto religioso, 1na anche da un insien1e sociale capace, attraverso lasciti ed elemosine, di farsi carico dei pesi che l'installazione di una casa comportava. Per contro, anche la situazione degli ordini, rivela uno stacco fra campagna e centri maggiori che potrebbe essere espressione di un 'incapacità economica di farsi carico di una varietà più ricca di famiglie religiose. Il numero complessivo di coloro che abitavano nei conventi di Catania e della sua provincia era considerevole, si tratta di 574 individui (tabella 2), ripartiti in 272 unità a Catania e 332 in provincia, con un rappmto rispettivamente di 11147,5'" e 1/205,7'" abitanti. Pure la concentrazione delle residenze comprova il legame fra conventi e spazio urbano notato pri1na, anzi in questo caso siamo a una ripartizione che dà alla città vescovile praticamente lo stesso numero di presenze di quelle registrate negli altri dieci comuni, e lo stesso accade anche se si considera il solo numero dei preti. Per quanto riguarda gli altri luoghi, il numero di personale rivela uno stacco fra la città di Acireale che ha una quantità di regolari pari al 13,9 % del totale e gli altri due centri, Ademò e Patemò, (quattro case il primo, 19 Nel 1819 gli abitanti di Catania erano 40.727, S. BOSCAR!NO, Le vicende urbanistiche in Catania conten1poranea. Cento anni di vita econo111ica, in Annali del Mezzogiorno 16 (1976) 103-143. 20 Nel 1818 gli abitanti dell'area extraurbana presa in esaine erano 60.491. Aso, Fondo Statistiche, Nu1nerazio11e di anilne 1817-19, carp. 6, fase. 7.


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Grazia San1peri

cinque il secondo), che forniscono asilo rispettivamente al 8, 7% e al 6,6% dei regolari. Circostanza, questa, che rende conto anche della positività di uno spazio urbano, provinciale e demaniale, per le case religiose rispetto a centri dove la connotazione cittadina rimane solo un fatto demografico e non soc10-econom1co.

Le presenze umane all'interno dei chiostri rafforzano la coloritura francescana dello spazio regolare catanese: si tratta di 281 unità (79 cappuccini, 115 osservanti, 71 francescani conventuali, 11 minimi e 5 del terz'ordine) e quindi di circa il 48,9% del totale, unifonnando la situazione di quest'area a quanto già notato, per l'insieme dell'isola a metà del Settecento 21 • Per il resto la situazione degli altri ordini ricalca la gerarchia degli edifici che abbiamo visto precedentemente con domenicani (78), carmelitani (39) e agostiniani (59) nelle posizioni successive, cui si aggiungono i chierici regolari minori (50) che dimostrano un fattore di residenzialità alto nelle loro due case al contrario del terz'ordine (5), dei mercedari scalzi e dei minimi ( 11 ). Un ultimo dato importante è relativo all'occupazione delle case che in generale è pari a 13,5 individui per convento, un limite, questo, al di sopra delle disposizioni innocenziane sul numero minimo di persone che dovevano vivere nei cenobi e che rivela una capacità complessiva dell'area di sostenere l'insieme del personale regolare. Emergono però situazioni di sofferenza nel caso di singole famiglie come quelle del terz'ordine dei minimi e dei mercedari dove il limite di 12 individui, voluto dai canoni, non viene raggiunto, co1ne, del resto, pure in qualche convento francescano, cannelitano e do1nenicano, con un rinvio evidente all'incapacità di alcuni piccoli centri di assicurare un ricambio vocazionale sufficiente per mantenere costanti e sufficienti i livelli demografici della famiglia conventuale".

11 R. i\1ANDUCA, Il chiostro e lo spazio clero (conventi e laici in Sicilìa a 111e1à del Settecento}, in // beato F"'elice da Nicosia e il suo te111po, Atti del prin10 convegno di studi storici (Nicosia 27 set1e1nbre 1997), a cura di S. Russo, Nicosia 1998. 11 li nu111ero dei residenti a Catania va da un nlinin10 di cinque, co111e nel caso dei francescani del ierz'ordine, ad un 1nassi1110 di quarantotto, coine ne! caso dei francescani conventuali; nei conventi della provincia, invece, si va da un 1ninitno di cinque, co1ne per i crociferi di Acireale, ad un n1assi1no di ventitré coine i don1enicani dello stesso paese.


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La tipologia del personale conventuale Sebbene la fonte consultata non fornisca nessuna notizia sull'estrazione sociale del personale conventuale, si possono utilizzare alcuni indizi che permettono di avere almeno un'idea della fisionomia dei regolari catanesi in ordine alla tipologia delle figure presenti oltre che dell'attività di formazione svolta all'interno di alcune case. La quantità di preti pari al 42,7% del totale, a cui si debbono sommare altri 44 lettori (7,8%), porta a oltre il 50% il peso di coloro che hanno raggiunto il culmine della carriera ecclesiasiastica (tabella 2). Sembra quindi che negli anni Venti dell'Ottocento nei conventi catanesi la scelta vocazionale regolare non si possa esaurire nella semplice opzione di chi voleva assicurarsi una protezione socio-econo1nica. La ripartizione del dato

mostra anche una maggiore incidenza dei preti nei centri medi e piccoli della provincia rispetto alla città di Catania che rimanda a una particolare predisposizione dei pnm1 nello spmgere vocaz10m finalizzate al conseguimento del presbiterato. Riguardo agli ordini si notano invece delle differenze fra un gruppo (cappuccini, minori osservanti e riformati, conventuali e mercedari) dove i preti costituiscono al massimo il 40% del totale del personale e un altro, domenicani, carmelitani, crociferi dove si oltrepassa il 50. Lo stacco rimanda probabilmente a una funzione differente svolta da queste diverse famiglie - per esempio i domenicani la cui particolare vocazione verso la cultura e l'insegnamento doveva essere particolarmente legala al conseguimento del presbiterato - mentre la funzione assistenziale dei francescani poteva anche essere svolta da soggetti che non avevano conseguito gli ordini n1aggiori.

Proprio dal punto di vista dell'educazione e della formazione spirituale oltre che culturale gli istituti religiosi appaiono pmiicolarmente attrezzati: otto dei quindici conventi di Catania ospitano, infatti, 18 maestri di teologia o filosofia, mentre nella provincia i lettori erano 25. Un probabile motivo della presenza di lettori o maestri di teologia solo presso alcuni istituti religiosi -

cappuccini, n1inori osservanti, chierici regolari n1inori,

domenicani, francescani conventuali, minimi - (tabella 2) è probabilmente connesso proprio alle primarie funzioni assistenziali degli altri (carmelitani riformati; agostiniani; crociferi; terz'ordine di S. Francesco; can11elitani scalzi; agostiniani scalzi, 1nercedari scalzi).

Benché il numero dei maestri di teologia fosse abbastanza cospicuo a Catania e nella provincia, il numero di novizi ed educandi estremamente


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basso potrebbe fare pensare a un momento di crisi del ricambio regolare che andrebbe verificato più da vicino se fosse possibile dispmTe dei libri di enh·ata in religione almeno di alcune di queste famiglie. Per il resto l'incidenza dei laici, e di quelli non professi in particolare, resta un dato importante per definire il senso della presenza all'interno dei chiostri: I 05 a Catania, suddivisi in 60 professi e 45 non professi, 102 nella provincia, ripartiti in 59 laici professi e 43 non professi, (tabella 2). Da questo punto di vista hisogna considerare anche che in passato un ampio raggio di classi sociali era interessato all'ingresso nei chiostri, dagli strati più elevati a quelli più umili". La maggior parte era motivata ed accomunata, più che da interessi spirituali, dal bisogno di mantenimento e sicurezza che il convento poteva darle soprattutto in un periodo dove era facile confondere la vocazione con i bisogni materiali''.

Prilne considerazioni sul patrilnonio dei conventi L'attività agricola dei conventi ricorda quella esistente nel medioevo, basata in gran parte sulla coltivazione dei cereali. Non essendosi ancora pienamente sviluppata l'industria, la Sicilia rimaneva ancorata al sistema feudale e fondava la propria economia sull'agricoltura e la pastorizia". La maggior parte dei terreni non riceveva coltivazione ed un insieme se1npre maggiore di essi, pur di non essere lasciato all'incuria, veniva affittato o concesso in enfiteusi. Il tipo di attività e il futuro guadagno delle case erano soggetti ad una serie di condizioni, come quelle geografiche e climatiche; al convento spettava poi ·· se possedeva terreni coltivabili o bonificabili - assolvere a diversi incarichi necessari per l'ottimizzazione dei terreni e per il loro sfruttamento, ossia dissodare il suolo, disboscare i boschi e incanalare le acque. Dell'enor111e possesso fondiario non se ne occupavano direttamente i monaci n1a i servi a cui venivano assegnati i lavori più umili, necessari al sostentamento di tutto il complesso claustrale.

2

i

R. MANDUCA, li chiostro e lo spazio, cii., I l O.

'"Jbid., 112. 25 G. CHEl{UBINI, La proprietàjòndiaria neì secoli XV-XVI nella storiogrqfta italiana, in Società e storia, l (1978) 9-33; M. VERGA, La "Sicilia dei jèudi" tra "TViistungen" e colonizzazione, in Società e Storia l ( 1996) 563-579.


Conventi e Ordini Regolari a Catania

175

In età moderna, nella penisola in generale, la crisi della proprietà teJTiera dei nobili e dei borghesi non fa che aumentare la crescita della proprietà ecclesiastica"'. Inoltre, la sostituzione della coltivazione del frumento e della tecnica del maggese, l'inserimento di nuove colture (il mais rimpiazza la segale e il miglio), i nuovi metodi di irrigazione e drenaggio delle terre costituiscono un avanzamento parallelo sia della proprietà ecclesiastica che di quella laicale". Per questa ragione non si riscontra una rilevante differenza nella qualità gestionale produttiva di una vasta quantità di teJTa lavorata per mezzo della mezzadria'". li clero incarna ormai una nuova realtà economica: le fondamentali necessità dei conventi sono ora l'accun1ulazione di capitale 29 , garantire il fabbisogno continuo dei monaci (per la maggior parte con i profitti dei raccolti e con l'esazione dei canoni, censi e crediti), ottin1izzare le entrate per soddisfare le esigenze e le tipologie di spese, estinguere i debiti che gravano sul convento per motivi giuridici o tributari, infine restaurare i propri edifici'". La vastità delle terre appartenenti ai conventi sottolinea la trasformazione dei metodi gestionali e l'abilità di adeguarsi alle nuove leggi di mercato. La proprietà laica e la proprietà ecclesiastica sembrano rilevare gli stessi esiti redditizi e gli stessi sistemi amministrativi su vasti teJTitori, riuscendo a raggiungere un'invariabilità nel trend reddituale". Proiettato ormai in questa nuova dimensione economica, il clero diviene oggetto di attacchi e di critica, considerato arra1npicatore e materialista. Ancora nella prima metà del XIX secolo, in Sicilia, elementi fondamentali come la natura del suolo e la mutabilità climatica incidono in maniera considerevole sulla scarsa produttività, specialmente se i loro effetti si uniscono a mezzi di produzione scadenti, a retrograde tecniche dì coltivazione e ad un'economia di mercato di carattere feudale". Ciononostante, le aree disposte a concepire la necessità di una radicale svolta sono quelle zone costiere o centri abitati, con1e Catania, in cui si for1ncrà :!(, F. LANDI, li paradiso dei n1011aci. Accu11111/azione e dissoluzione dei patrùnoni del clero regolare ìn età 111oder11a, Firenze 1996. 7 c. lhid., 11. 18 A. PETJNO, A5~Jetti e tendenze del! "agricoltura siciliana del prùno ()ttocento, in Annali del A1ezzogiorno 15(1975)l1-109. 29 f. LANDJ, Il paradiso dei 111onaci, cit., 19. 30 /bid., IO-Il. 31 Jhid., 31. 2 " G. PETJNO, Aspetti e tendenze cit., l 8; S. ScuDER!, Dissertazioni agrarie riguardanti il Regno di Sic;/ia, Catania, 1812; G. CIVILE, Eco110111ia e società nel /i.1ezzogiorno tra la Restaurazione e l 'UnUà, in Società e Storia 3 {1980) 705-713.


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Antonio C'oco - Grazia San1peri

effettivamente la proprietà privata frazionata che agevolerà un tipo di coltura differenziata". Tut!avia, la siccità, la mancanza di strutture irrigue e l'assenza di rotazioni tra il grano e altre piante (che possano costituire il sostentamento del bestiame) costt·ingevano i contadini ad un uso deficitario della te1n". Questo il contesto in cui operavano i conventi che, comunque, riuscivano a ricavare il necessario per il loro fabbisogno. La viticoltura, invece, si sviluppa agli inizi dell'Ottocento, soprattutto nella zona costiera catanese, che, non di 1neno, era se1npre soggetta a condizioni pmiicolari per la riuscita del raccolto: altitudine, agenti at1nosferici, esposizione del ten·itorio, natura del suolo, 1netodi e mezzi utilizzatÌ 35 •

Patrin1oni e rendite dei conventi in provincia di Catania L'inchiesta cui abbiamo già fatto riferimento, che risulta utile per guardare alla situazione econo1nica dei conventi, e l'integrazione del documento del 1820 con i libri contabili degli ordini conservati nell'Archivio di Stato di Catania, consentono di analizzare più dettagliatamente alcune dinamiche delle entrate e delle spese delle case. Sulla base di una suddivisione per argomento operata dagli stessi redat!ori del documento, possiamo separare la contabilità in due gruppi di entrate differenziate, i cui introiti sono espressi in denaro e poche volte in natura, assieme a due tipi di uscite distinte tra spese tt·ibutarie e spese personali. I beni dei conventi erano rappresentati da fondi rustici - costituiti da case, te1Teni, vigne, giardini, orti, n1ulini - e da fondi urbani, cioè fondaci, catoi, botteghe, magazzini, locande e panetterie. Le loro entrate erano quindi costituite dagli introiti del raccolto, dagli affitti di case, botteghe e terreni, o da lasciti e donazioni che erano frequenti e consistenti. Rare volte viene indicata la quantità del raccolto venduto, mentre i dati sul numero dei fondi rustici posseduti dal convento sono abbastanza soddisfacenti, anche se non si n1enziona 1nai la loro estensione, e talvolta si fa riferimento all'ubicazione esatta degli stessi riportando il nome dell'antica contrada. Proprio l'analisi di questo tipo di inforn1azioni rivelano una

'' CJ. PETINO, Aspeffi e tendenze, cit., 26. fbid.; C. (ì-El'vfELLARO, (~enno sullo stato defl'agricolt11ra in Sicilia, Catania 1838; F. RENDA, La Sicilia nel 1812, Palenno 1963. 35 A. P.t:TJNO, Aspetti e tendenze cii., 20. 14


C'onventi e Ordini Regolari a Catania

177

frammentazione, se non quantitativa, almeno geografica della proprietà terriera dei regolari. Essa é prevalentemente dislocata nel territorio dei centri dove sorge il convento, anche se in qualche caso si nota un allontanamento dei fondi, soprattutto nel caso dei conventi della città di Catania. Sebbene non quantificahile, il patrimonio fondiario dei regolari catanesi doveva quindi essere ancora di un certo rilievo, anche se sembra emergere pure una certa dispersione che potrebbe avere comportato difficoltà di gestione e di coltivazione in conseguenza delle differenti taglie degli appezzamenti, ma anche della diversa fertilità dei fondi. I libri contabili di alcune famiglie, conservati presso l'Archivio di Stato di Catania, rendono evidente come l'agricoltura rappresentasse uno tt·a i più importanti canali per la sopravvivenza e il benessere dei conventi. Il frumento era il cereale più coltivato dai monaci e veniva raccolto e conservato per essere venduto nei vari mesi dell'anno o, date le quantità raccolte, veniva messo da parte per poi essere macinato e lavorato per il sostentamento collettivo, costituendo sia la "pittanza" quotidiana (la polenta, il pane, l'amido o altt·e paste alimentari) che il foraggio per il bestiame. Scarse sono invece le voci che interessano il metodo relativo alla coltivazione del frumento, si accenna solo alle spese per i mezzi («corda tarì 4.10»; «canne tarì 15»; «accetta tarì 4.5»; «tinigghia tarì 3.10»)" e quasi mai alle quantità vendute, ma dai ricavati, come nel caso degli agostiniani di Catania che incassano 125.4 onze nel mese di ottobre del 1801", possiamo supporre che il raccolto in certi casi era abbondante e di buona qualità e che, quindi, la produzione era portata avanti in terreni di non piccole dimensioni. Diverse sono invece le infonnazioni sulla viticoltura. La coltivazione era lenta, pedissequa e accurata. Dai libri delle spese si evince che si trattava di una lunga procedura che interessava anch'essa tutti i mesi dell'anno con una costanza di lavoro ciclica: innestare i filari, «raccogliere e trasportare sermenti»,'" piantare le propaggini, irrigare, aspettare la crescita dei grappoli, «putare le vigne» 39 , vende1nmiare, «stappare e trasportare le botti»-w e tutto

questo con mezzi come l'accetta e il vomere per tagliare e potare, la corda

36

Asc, Fondo Co1porazio11i religiose soppresse, busta 396.

n lhid., busta 393.

lhid., busta 392. lhid ~o lbid. _iR

19


178

Antonio Coca - Grazia Sa1nperi

per legare i filari, ed ancora lo «zappone»" e la «balduccia» per la lavorazione del te1Teno". Per la realizzazione dei lavori di innesto delle vigne, ma anche per la semina e le varie operazioni di raccolta, i monaci si avvalevano della collaborazione di molteplici persone: dal garzone, che abitualmente pagavano per la quotidiana disponibilità con la mesata ( 1O tarì), al maestro d'ascia, a un gmppo di braccianti il cui pagamento andava sotto la voce di «n1ani di legami per seminati» 43 , al «bottaro»·M, incaricato di trasportare e stappare le botti, ai vendemmiatori cui pagavano non solo la giornata lavorativa ( onze 1.3), ma che venivano rifocillati con tari I. I O di cibo, ai «pestatori dell'uva» e ai «trasportatori di mosto»"'. li trend delle spese è molto fluttuante di mese in mese e di anno in anno. Settembre o i primi mesi dell'anno come gennaio e febbraio sono tra i periodi maggiormente dispendiosi, soprattutto per gli ordini che basano gran parte delle entrate sulla rendita agricola francescani, carmelitani, agostiniani - che, quindi, dovevano sostenere pure le spese per la vendemmia, per la lavorazione del mosto, per il pagamento dei garzoni e ricon1inciare ciclicamente, col sopraggiungere del nuovo anno, a ri1nuovere

il te1Teno e piantare le propaggini; mentre per i cereali come il grano e l'orzo, i mesi più gravosi erano quelli della mietitura, giugno e luglio, e si pagavano i "seminari" e la pesatura del frumento o delle gregne ad onze 3.646 • I 111esi ri1nanenti incidevano 1nolto poco sull'uscita annua. Per quanto riguarda l'organizzazione del lavoro le fonti consultate non registrano nessuna partecipazione dei frati, cosa che non ha alcuna importanza dal momento che il lavoro degli stessi appartenenti agli ordini non veniva retribuito e registrato. I regolari, tuttavia, incaricavano un

baccelliere di trascrivere attentamente le spese per ogni tipo di lavoro". Per alleggerire i lavori pesanti i garzoni erano aiutati dai bovini di proprietà del convento e il loro mantenimento non era certo poco costoso: «ferro per la bestiame a onze 4.15», «stallonaggio a tarì 16», «cinghia a tarì 17.10», «fieno a onze 1.29»". I suini, invece, comprati nelle fiere a tarì 24, 41

lhid. lbid. 43 Ibid. H fbid. 15 Ibid. 46 lbid., busta 395. 42

47 48

Jbid., busta 392. lbid.


Conventi e Ordini Regolari a Catania

179

dopo essere stati allevati con una salma di ghiande del valore di un'onza servivano poi come nutrimento dei monaci. Il macello degli animali era eseguito da un macellaio incaricato - mai da un frate - che guadagnava così tarì 5; poi con «conze ed aro1ni» si serviva la salsiccia e il

sanguinaccio'". Il loro regime alimentare rinvia al tipo di economia di Catania e della Sicilia in generale nell'SOO. La pietanza tipica del convento era infatti a base di cereali, specchio di un sistema economico arretrato e imprigionato in un regime dietetico di tradizione. Il frumento, che non si inserisce tra i cibi più costosi, era l'elemento che costituiva da tempo il loro cibo quotidiano, la loro solita economica pittanza e il cereale più facilmente vendibile perché più richiesto (la maggior parte dei cittadini era solita comprare beni di prima necessità e solo saltuariamente concedersi cibi costosi

50

).

La monotonia di questa dieta veniva spezzata, dopo un periodo di penitenza, da festività religiose (« [ ... ] il convento solennizza la festa del Ssmo Rosario [ ... ] di più solennizza la festa dell'epifania e del SS. Sacramento con processione e quella di S. Domenico, S. Vincenzo, S. Pietro[ ... ] a benedizione ogni mattina e per tutte le feste dell'anno nel doppio pranzo»"). A Catania la festa era un momento particolare anche per il regime dietetico. Durante questi giorni difatti i regolari si concedevano cibi elaborati, particolari e inconsueti: «biscottini per la cioccolata e sorbetti onze 2.3.8»; «compra dello zucchero e del caffè tarì 17»" e alimenti costosi come la carne di vitello e la carne bianca, il pesce, il fonnaggio, il vino; in ogni caso, partecipare al banchetto significava celebrare l'eccezionalità in modo degno. L'intensità dei legan1i econo1nici tra il convento e il inondo esterno è,

invece, sottolineata dal mercato di fondi urbani, in particolare di fondachi, botteghe e catoi. Sebbene inferiore a quello agricolo, tale mercato era abbastanza redditizio e talvolta per gli istituti che non avevano fondi rustici (minori osservanti e carmelitani scalzi di S. Teresa di Catania) gli affitti costituivano l'unica sorgente di reddito disponibile". Un ulteriore cespite delle case regolari proveniva dal ricavato dei canoni d'affitto di case e te1reni o da crediti. A Catania l'aumento di nuove coltivazioni aveva reso possibile un miglioramento nei rapporti di 19

Jbid., busta 392. LANDI, Il paradiso, cit., 155 e segg. Aso, Chiesa, clero.. Stato del convento di s. Domenico di Adernò. Asc, Corporazioni religiose soppresse, busta 889. Aso, Chiesa, clero ... Stato de! convento di s. Don1enico di Adernò.

° F.

5

51 51 53


Antonio Coca - Grazia San1peri

180

produzione nell'attività fondiaria, alimentando, 111 tal modo, la moltiplicazione di fondi rustici ed urbani. I criteri di stipula dei contratti di beni dei regolari sono abbastanza comuni a quelli praticati in quest'epoca. I monaci affittavano per alcuni anni le loro possessioni in cambio di un canone fisso in denaro. Inoltre ci si avvaleva dell'enfiteusi, che rappresentava un elemento di stimolo per il miglioramento del processo di privatizzazione delle tene". I contratti presentavano diverse postille e clausole che prevedevano da parte dell'affittuario non solo un pagamento in denaro, ma un anche compenso di derrate o una trasformazione e miglioramento delle tene" (si sarebbero dovuti tenere i fondi in buone condizioni, effettuare i pagamenti ad una precisa scadenza e non subaffittarle senza previo consenso del concedente"). Nei terreni a gestione latifondistica, l'affitto dei fondi era per la maggior pm1e imperniato su un tipo di coltivazione tradizionale con uno sfruttamento primitivo della terra tramite strumenti rudimentali. Ma il periodo di affitto era tt·oppo breve - in genere da uno a quattro anni perché alla terra fossero apportate le giuste migliorie, tanto che l'affittuario non era stimolato ad operare una vera bonifica che, te1minata la locazione, avrebbe fatto gli interessi solo del proprietario, nel nostt·o caso i conventi, cui il terreno apparteneva, e che probabilmente non lo avrebbe riconcesso alla stessa persona". Succedeva, però, che le scadenze dei pagamenti non venissero rispettate, come nel caso dei minori osservanti di Catania («non sempre si riscuotono le pigioni delle case perché alcuni fuggono altri non hanno la possibilità di pagarle»'") o nel caso dei domenicani che si lamentano di censi anetrati non pagati («[ ... ] giacché a causa d'esser mancata l'esigenza di Palermo e di altri censi per più anni attrassati [... ]»)'". La struttura conventuale allora doveva farsi carico di spese legali per riuscire a riscattare le somme ad essa dovute. I carmelitani di Catania, ad esempio, ottennero 3 onze «dal B.ne della Bruca per le spese fatte dal Con.to per la recuperazione del Censo degli anni precedenti»"°.

'" G. PETINO, Aspetti e tendenze, cit. 27. 55 56

Ibid. lbid.

57 S. CoRLEO, Storia degli enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia, Palermo 1871; «Carnaggi sopra la tenuta del Galice per saldo di sua rata di anni due». Asc:, Fondo Corporazioni Religiose Soppresse, busta 393. 58 Aso, Fondo Statistiche: Chiese, clero. 59 lbid. 60 Asc, Co1porazioni religiose soppresse, busta 890.


Conventi e Ordini Regolari a Catania

181

La varietà delle entrate testimonia la loro dinamicità e la competenza e abilità nello sfruttare anche questo tipo di potenziale risorsa. Il patrimonio dei conventi non era però dipendente solo dalle risorse fondiarie o finanziarie ma faceva anche riferimento a condizioni direttamente dipendenti dalla pietà religiosa. Per comprendere meglio questo aspetto della vita dei monaci dobbiamo far riferimento al rapporto tra potere locale e case religiose che si estrinseca in donazioni, elen1osine, lasciti, fidecom1nessi, ecc. e che costituisce un modo per continuare, da parte delle famiglie nobiliari, un potere politico effettivo non solo sul convento, ma anche sulla comunità che ne osserva i compmiamenti. Gli istituti religiosi, in definitiva, costituivano il luogo verso cui tendevano donazioni e lasciti più o meno ingenti, sia di personaggi illustri catanesi, ma pure di quelli provenienti da eredità di cittadini devoti come il principe di Manganelli, Giuseppe Gioeni, il principe di Catenanuova, i quali venivano ricambiati attraverso l'espletamento di alcuni servizi, come la celebrazione di messe, quotidiane o per anniversari, recitate o cantate.

Le spese

Oltre alle spese agricole, altre voci sono presenti fra le spese del convento: si tratta di tributi, di spese personali e di quelle necessarie per il culto. Le prime venivano affrontate da tutte le case che detenevano fondi rustici e urbani per i quali dovevano versare una so1nn1a al co1nune (dazio comunale), un altro prelievo era costituito dal consumo rurale quando i possedimenti erano dislocati nelle aree extraurbane. Le imposizioni incidevano in modo diverso e il tasso non era sempre stabilito per tutte le voci: la fondiaria del 12Y,%, il dazio regio del 12%; il IOY,% e il 7Y,% rispettivamente sui censi di proprietà e su quelli bollati; il consumo rurale sulle proprietà al di fuori della città, sulla macina, sull'immissione dei vini, sulla rendita urbana, sulle donazioni e infine una somma da destinare all'erario nazionale. Naturalmente i conventi presso i quali non esisteva rendita da fondi rustici non affrontavano spese di imposizioni fondiarie ma erano soggetti ad altri tipi di pagamento (i minori osservanti pagavano al Capitolo della Collegiata tarì 7.10, alla mensa vescovile onze 4 e al Capitolo della Cattedrale onze 14, mentre per interessi su un capitale pagavano onze 3.24).


182

Antonio Coca - Grazia San1peri

I regolari impiegavano spesso pmte dei loro introiti in beneficenza. E' il caso dei chierici regolari minori di Catania che destinavano all'incirca 83 onze alla mensa vescovile e al reclusorio della Santa Concezione. Non mancano neppure le elargizioni a beneficio di vedove, ospedali, quelli di Santa Marta e di San Marco o ad altri conventi: i francescani del terz'ordine ai minorili, ali' Albergo dei Poveri, sebbene questo tipo di spese influisca molto poco sull'uscita complessiva. Parte delle spese erano inoltre riservate alla cura personale di ciascun membro della famiglia religiosa. Tra le maggiori uscite, a parte quelle per il culto che, si può dire, rappresentassero la voce più imponente, i monaci indirizzavano una certa quantità di denaro alla salute personale, all'acquisto di medicinali, alla cura estetica e all'igiene di cui si occupava una lavandaia. Per esempio nella documentazione del'20 si fa distinzione fra le spese per il «medico» e altre per il «medico chirurgo», dove, probabilmente, la prima voce lascia intendere una semplice visita di controllo, mentre la seconda un possibile intervento chirurgico. Inoltre la spesa per il barbiere strettamente connessa alle precedenti non indica solo la cura personale cui certamente i n1onaci si sottoponevano, ma evidenzia gli usi del tempo legati ancora alla figura del barbiere come flebotomo e dentista o di persona a cui veniva affidato il compito di fare salassi e medicazioni. Le liti e le questioni giuridiche che il convento affrontava o per l'impossibilità di esigere i canoni o per la contesa di eredità incideva pure sulle finanze conventuali. li convento catanese nel quale tali spese pesavano maggiormente, nei primi anni Venti dell'Ottocento, era quello degli agostiniani che spendevano a questo scopo 328.29 onze; per il resto dei conventi la media generale si aggirava, invece, intorno alle 30 onze. L'allestimento di processioni in occasione delle feste comportava, infine, l'affrontare spese per cera, olio e musica. Quelle, invece, per il culto non si riducono solo alle processioni popolari, ma interessano anche tutte quelle attività connesse con la celebrazione liturgica (per messe quotidiane e commemorative): lampade e torcioni, cera, olio, organista e oratore per la tnessa. ln quest'ultimo settore possia1no anche far rientrare le uscite legate agli acconci e ripari che erano eseguiti negli edifici conventuali e nelle chiese o dopo la naturale degradazione per il trasconere degli anni oppure in conseguenza di devastazioni prodotte dai terremoti. Per esempio, il convento dei minimi lamenta la diminuzione della rendita dovuta alle spese per il pagamento di «fabbricatori che ripararono i danni» e della perdita di <<Varie casette poste alla riva del mare che producevano tanto in ogni anno


Conventi e Ordini Regolari a Catania

183

quanto bastava alle riparazioni»'", i domenicani di Acireale spendevano 225 onze «per i danni del terremoto del 20 Febbraro 1818 e per quelli provocati da un fulmine che distrusse molte cose della chiesa»"'. Il lavoro era lento, graduale e dispendioso - ristrutturazione della chiesa e del campanile, acquisto di suppellettili, argento da fondere per abbellire l'altare - e sottraeva al convento gran parte della sua rendita. Nel complesso l'attività dei conventi di quest'area del catanese appare di una certa rilevanza, l'insieme delle entrate sfiora le 17000 onze annuali rispetto a circa 12500 di uscite (tabella 3). Il saldo positivo finale rinforza l'impressione, ricavata dall'analisi dei libri contabili di alcuni conventi, di un clero regolare attento amministratore delle proprie sostanze, intento a far quadrare i bilanci, giustificando le spese e, nello stesso tempo preoccupato del mantenimento delle tradizioni popolari e dei bisogni della chiesa di cui è a1n1ninistratore.

Certo si notano pure aree di sofferenza in alcune famiglie come i n1inin1i il cui bilancio annuale appare passivo, in altre come i minori

riformati dove le spese e le entrate si equivalgono, mentre per i mercedari scalzi, i carn1elitani scalzi e il terz'ordine, l'avanzo è netta1nente inferiore alle 100. Nel complesso l'impressione è quella di un impianto capace di

stare positivamente nel contesto locale. In certi casi anzi i conventi più abbienti - chierici regolari minori di san Michele Arcangelo, domenicani, agostiniani, carmelitani riforn1ati e francescani conventuali non solo erano in grado di garantire il 111antenin1ento dei religiosi, ina anche di

conservare quello che nelle osservazioni in calce alla documentazione del 1820 viene chiamato dippiù, di notevole entità, che rivela quanto ancora questi organismi fossero vitali dal punto di vista economico oltre che cultuale. Infine, occorre ribadire come anche la situazione economica delle case riveli una situazione fortemente dicoto1nica fra il maggiore centro

dell'area e le restanti entità demografiche. Con le quasi 12000 onze di entrate, infatti, i conventi della città episcopale at!irano verso di loro la maggior parte delle risorse dell'area, lasciando appena il 30% del totale di introito ai conventi della provincia (tabella 3). Un'ulteriore prova di quanto fosse valido ancora nell'Ot!ocento il legame che, dal Medioevo, ha unito lo spazio urbano e la presenza del clero regolare.

61 (,

1

Aso, Fondo Statistiche: Chiese, clero, .. convento di s. Don1cnico di Acireale. lbid., 34.


tabella l Conventi maschili della diocesi di Catania nel 1820 Ordine

j Catania Acireale

Paternò

Regalbuto

Adernò

I ~stinianì

I

Domenicani Cappuccini Francescani conventuali Minori osservanti Carmelitani Chierici reg. 1ninori Crociferi Agostiniani Scalzi Carn1elitani Riformati Francescani terzo ordine Mere. Se. 1 S. Don1enico Mini1ni

2 1 1

1

2 1 2

1

1

1

totale %

2

1 1 1

I

1 1

2

I

1

1 1

Aci S. Antonio

I

Aci S~. - Belpasso Antonio e Filippo

Trecastagni

Ran1acca

I I

1 1

I 1

'

'

'

1

1

l 5 12.5

5 12,5

5 6 5 3

2

1

15 37,5

%

2 1 3

1

'

1

totale

6 3 2

1

1

1

Centorbì

1

4

4

10

10

2 5

1 2.5

1 2,5

1 2,5

1

2,5

1 2,5

40 ' 100 100

I


tabella 2 Personale residente all'interno dei conventi nei vari centri della diocesi i

ordine

I

Cappuccini Minori osservanti Chierici regolari \ I minori i Do1nenicani Carmelitani A[!.ostiniani Francescani conv. Crociferi Francescani terzo ordine Carmelitani scalzi Minimi Mercedari se. Domenico ~stiniani scalzi

s.

preti

lettori

33

4 IO 3

15 28 11

32 23 26 28

14 3 3

8 3

I

46 19

10 4 2

4

laici laici non -.E!:ofessi ___Q_!:Ofessi

terzini

servi

18 22 11

5 5

1

5

8

4

2

5

4

3

22 19

6 3 4

1

ĂŹ

novizi

educandi

oblati

scrivi enti

famoli

laici servi

79 115 51

9

3

I I

2

8

3

I

2

4 1

2

3

13

i

I

\

2

1 I

8

3

21

2 2

3

IO Il

6

3

8

242

78 39 68 71 13 5

I

13

2

I Totale

totale

44

122

88

27

.l

4

9

24

3

1

9

1

I

I I

574


tabella 3 Entrate ed uscite dei conventi di Catania e della sua diocesi personale

ordine

chierici regolari n1inori domenicani francescani agostiniani canne!itani crociferi osservanti ~ostiniani scalzi i Cappuccini Minimi terz'ordine carmelitani scalzi marcedari scalzi

50

I

78 71 59 39 13 117 13 79 li 5 21 11

I totale

I

574

i

s-

onze

tari

onze

tarĂŹ

A'

o

2803

20

973

IO

80,4

20,7

2647 2606 2355 1145 727 764 380 340 248 183 1468 81

13 7 24 7

1961 2296 1793 782 527 574 255 167 328 109 749 35

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685 310 592 362 201 190 124 173 -79 74 619 45

23 5 4 12 12

40.1 37,2 34,1 31,8 55,9 6,5 29,2 4,4 22,5 36.6 58,7 7,4

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Synaxis XIX/I (2001) 187-194

A PROPOSITO DI UNA RECENTE TRADUZIONE DELLE CONLATIONES DI GIOVANNI CASSIANO

FERDINANDO RAFFAELE*

1. Da iempo annunziata, ha visto la luce, nella collana «Testi Patristici» dell'editore Città Nuova con il titolo di Conjèrenze ai monaci, la traduzione delle Conlationes Patrum di Giovanni Cassiano', trattato di capitale importanza nella sioria del pensiero monastico latino. È stata realizzata da Lorenzo Dattrino - apprezzato studioso di Cassiano, del quale ha già tradotto le Jnstitutiones' ed il De incarnatione Domini contra Nestorium' - e costituisce la seconda versione italiana moderna, dopo quella di Ovidio Lari pubblicata nel 1967'. Fino a questa data, per fruire in italiano del testo cassianeo occmTeva ricorrere o alla cinquecentesca versione del camaldolese Benedetto Buffr o alla stampa di un anonimo volgarizzamento

* Professore di lettere nell'Istituto Professionale per I 'Industria e l'Artigianato E. Fermi di Catania. GIOVANNI CASSIANO, C'onferenze ai nJonaci, 2 voli, IZ01na 2000, 424 [(«Collana di Testi Patristici» 155-156)] 2 ID., Le istituzioni cenobitiche, Bresseo di Teolo (PD) 1989. Una parte, quella relativa ai libri V-XII e nota sotto il titolo di De octo princ1j1a/iun1 vitiorzon ren1ediis, era stata edita nel volu1ne L. DATTRINO, Il prilno 1nonachesù110, Ro1na l 984, cfr la recensione di L. Crippa in Benedictina 37 (1990) 217-219. 3 GIOVANNI CASSIANO, L'incarnazione del Signore, Ron1a 1991. 1 ID., C'onferenze ,<,pil·ituali, 3 voll, Ro1na 1967. Su di essa, peraltro, grava qualche perplessità. I. Colosio, ad esen1pio, non la ritiene ricavata direttan1ente dal testo latino, bensì dalla traduzione francese di E. Pichery (JEAN CASSIEN, C'o11férences, par E. Pichery, 3 voll, Paris 1955, «Sources Chrétiennes» 42, 54, 64), si veda Esan1e critico della prilna echzione 1noderna in italiano delle «Co11/èrenze;J di Cassiano e osservazioni sopra una tesi di «Studi C'attolici» a riguardo della facilità della conlen1plazione n1istica ]Jer i laici, in Rivista di Ascetica e _Mistica 12 (1966) 78-84: 79. 5 OjJera di Giovanni C'assiano delle costitvtioni et origine de n1onachi et de ren1ed{j el cause de lutti li 1dtij. Dove si recitano uentiquattro ragionconenti de i nostri antiqui padri, non 111eno dotti et belli, che utili et necessarU a sapere. 1


Ferdinando Raffi1ele

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primo-trecentesco, edito a metà Ottocento in tiratura limitata dall'erudito lucchese Telesforo Bini'. La traduzione del Dattrino - che si colloca nel contesto di un rinnovato interesse per Cassiano, confermato fra l'altro dalla recentissima pubblicazione di alcuni saggi' e della traduzione delle Conlationes IX e X', rappresenta un prezioso strumento per la divulgazione del pensiero di un autore il quale, pur non brillando in originalità dottrinaria, ha il grande merito storico di aver consegnato ed adattato al mondo monastico della Gallia meridionale e, per conseguenza, a tutta la tradizione cristiana latina il prezioso deposito del monachesimo egiziano ed orientale". Le lnstitutiones e Tradotta per fi·a Benedetto Buffi Here111ita, dell'ordine di Can1aldoli, di latino in uo!gare, Venezia 1563. 6 Volgarizzan1ento delle C'ol/azioni dei SS. Padri del venerahile Giovanni Cassiano. Te.sfo di Lingua Inedito, Lucca 1854. Ma si veda anche la drastica revisione di V. NANNUCCI, Rivista delle (~al/azioni dei SS. Padri n1andate alla luce dal C'an. Tele~foro Bini, Firenze 1856. 7 Si vedano le segnalazioni riportate ai nn 456-461 del Bulle/in de ~piritualité 1nonastique, contenuto 111 Collectanea C'istercensia. Revue de SJ_Jiritualité n1onastique 59 (1997), alle quali si aggiunga C. STEWART, Cassian the Monk,

Oxford 1998. 8

GIOVANNI CASSIANO, Abba cos'è la preghiera?, a cura di M. Degli Innocenti, Magnano (BJ) 2000. Il curatore propone la versione delle Con/ationes IX e X, che hanno per protagonista l'abate Isacco e sono dedicate al teina della preghiera. Nell'introduzione dichiara di aver proceduto alla trasposizione attenendosi alla «n1aggiorc fedeltà possibile al testo)), al fine di «1nelterc chiunque in condizione di usare per la propria preghiera il testo di questo antico 1nacstro, 1na senza sconti e senza sen1plificazioni»: Jbid., 10. L'opzione di estrapolare le due conlationes dal contesto originario ha un recentissin10 precedente nel volu1ne JEAN CASSIEN, Entreliens avec l 'abhé fsaac sur la prière, préface Adalbcrt dc VogUé, Bouèrc 1996 e uno 1nolto più antico in un nianoscritto in volgare toscano, il XLVIII del fondo Palatino della Biblioteca Nazionale di Firenze risalente al XV secolo; anche l'un1anista fiorentino Girola1no Benivieni, che tradusse una silloge di testi cassianei per le monache di un convento fiorentino, collocò le Conlath;nes IX e X al centro del suo lavoro, su quest'ultitno testo rinvio al 1nio Girohuno Benivieni traduttore di Giovanni Cassiano, in Atti del V Congresso inten1azionale della Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana, Catania 15-17 ottobre 1998, in corso di sta111pa. 9 Sul ruolo delle opere di Cassiano nel contesto della letteratura religiosa latina si veda aln1cno C. MoRESCHINI, J JJadri, in Lo spazio letterario del Medioevo. I. Il Medioevo latino, voi 1, La produzione del testo, I, Roma 1992, 572; cfr G. PENCO, Il n1onachesùno nel passaggio dal n1ondo antico a quello 1nedievale, ora in


Una recente traduzione di Cassiano

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le Conlationes, insieme a note traduzioni dal greco come la Vita Antonii di Atanasio, l'Historia Lausiaca, le Vitae patrum, hanno infatti rappresentato fondamentali elementi di coagulo per le espenenze monastiche prebenedettine". D'altronde, la stessa Regula di s. Benedetto attinge così largamente ai trattati monastici di Cassiano da consentire ad uno dei più autorevoli studiosi del monachesimo medievale, Owen Chadwick, di affennare che Benedetto costruì il suo edificio spirituale attraverso l'utilizzo dei materiali fornitigli dall'opera di Cassiano". Già da solo, quest'ultimo esempio è sufficiente a ribadire l'importanza del pensiero di Cassiano nel suo irradiarsi attraverso i secoli.

2. La traduzione del Dat!rino è divisa in due volumi contenenti, rispettivamente, il primo le conferenze I-X, il secondo le conferenze XlXXIV. Nella ripartizione interna il curatore ha riprodotto la scansione delineata da Cassiano (e seguita dalla gran parte della tradizione manoscritta del testo), in ordine alla quale le Con!ationes risultano disposte in tre parti indipendenti fra loro coordinate". Le Conferenze sono introdotte da una presentazione generale che agevola il lettore, specie se ignaro di materia monastica, nell'accesso all'opera e al pensiero di Cassiano. Essa si compone di un succinto profilo biografico; di una descrizione dell'ambiente monastico egiziano e delle fonti letterarie dalle quali Cassiano ha attinto; di alcune notazioni dedicate alla

ID., Medioevo n1011astico, IZoma 1988, 22 secondo cui Cassiano è un «anello impo1iantissimo per l'ulteriore divulgazione degli ideali dei padri del deserto»: definizione condivisibile, ma tuttavia riduttiva. 10 Cfr la sintetica disa1nina di A. DE VOGO(:, li n1onachesùno prùna di San Benedetto, trad. il., Seregno 1998, 110-112. 11 (). CHADWICK, John Cassian. A Study in Prin1itive Monasticis1n, Cambridge 19682, 5; cfr A. DE VOGOÉ, les 1nentions des oeuvres de Cassien chez Benoft et ses conte1nporains, in Studia Monastica 20 (1978) 275-285, ora in ID., De saint Pach6n1e à Jean Cassien. Études littéraires et doclrinales sur le n1onachisn1e égyptien à ses débuts, Roma 1996, 345-357. 11 Le Cunlaliones sono ventiquattro, quelle della prilna parte (I-X) sono indirizzate al vescovo di Fréjus, Leonzio, ed all'eremita Elladio; quelle della seconda paite (XI-XVII) ad Onorato, fondatore del monastero di Lérins e poi vescovo di Arles, e ad Eucherio, tnonaco di Lérins e infine vescovo di Lione; quelle della terza parte (XVlll-XXlV) a Gioviniano, Minervio, Leonzio e Teodoro abati delle comunità n1onastiche operanti sulle isole Hyères.


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fortuna riscossa nel tempo dalle sue dottrine", con particolare attenzione alla questione del "semipelagianesimo" a lui attribuito. Ciascuna conferenza, inoltre, è preceduta da un breve prospetto illustrativo ed è provvista di note esplicative che chiariscono il significato di parole afferenti al lessico monastico e informano il lettore sulla biografia dei personaggi menzionati. Cmredano infine il lavoro le indicazioni, poste a piè pagina, dei luoghi della Scrittura citati nel testo, nonché un indice scritturistico ed uno delle cose notevoli, collocati alla fine del secondo volume. Sebbene nella sua disamina non fornisca nuovi contributi critici, il Dattrino ha il merito di aver delineato un prospetto interpretativo chiaro, nel quale sono collocati storicamente l'autore e i caposaldi della sua spiritualità. Nell'esa1ninare quest'ultima, si nota co1ne egli sia stato interessato a ribadirne l'ortodossia, oggetto in vari frangenti storici di acceso dibattito'', la cui messa in dubbio ha in passato rappresentato una remora per una serena fruizione delle opere di Cassiano. 3. Passando all'esame dei criteri seguiti dal Dattrino per la stesura della traduzione, occon-e preliminarmente ricordare come il testo latino da lui adoperato sia quello edito da E. Pichery, a sua volta dipendente dall'edizione critica di M. Petschenig". Questa è stata la prima edizione moderna delle Conlationes, sulla quale il Pichery è intervenuto solo con qualche lieve aggiustamento e senza comunque delineare una nuova classificazione dei numerosi testimoni manoscrit!i del trattato. L'edizione del Petschenig è stata però redatta secondo il metodo, ora rigettato nella pratica filologica, del codex vetustissimus, in ordine al quale l'editore, dopo aver individuato il manoscritto più antico, considerato in 13 Argo1nento, questo, che purtroppo ancora manca di un studio specifico, che risulterebbe senz'altro utile alla con1prensione di talune caratteristiche della spiritualità tnonastica latina; si auspicava già tale lavoro in C. LEONARDI, Alle

origin; della cristianità n1edieva/e. Giovanni Cassiano e Salviano di Marsiglia, in Studi Medievali 18 (1977) 1057-1174: 1108-1109. 1 ~ È noto, infàtti, con1e Cassiano, per le riserve espresse sulle dottrine di sant'Agostino in 1nateria di grazia e libero arbitrio, si sia attirato gli strali pole111ici di Prospero d'Aquitania, autore, inton10 al 433-434, del De grafia et libero arbitrio

contra collotorem (cfr PL 51, coll 213-276). All'epoca della Riforma cattolica, fu in particolare la Conlatio XIII a essere posta sotto accusa, venendo anche inclusa nell'Indice dei libri proibiti ed espunta da alcune stampe del trattato. 15 JOANNES CASSIANUS, Opera, ed. Corpus Scriptorum Ecclesiaticonnn

Latinorum, 2 voll, Vienna 1886-1888.


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forza dell'età il più attendibile, lo ha adoperato come base dell'edizione, emendandolo in qualche luogo soltanto, attraverso il confronto con allli manoscritti scelti anch'essi per la loro antichità. Nella fattispecie, i manoscritti selezionati dal Petschenig sono anteriori al secolo Xl, mentre la non considerazione dei successivi (oltre un centinaio), ha escluso la possibilità di attingere, almeno ipoteticamente, ad una lezione più prossima a quanto vergato dalla penna di Cassiano". In più di un punto, perciò, il testo utilizzato dal Dattrino potrebbe rivelarsi di incerta originalità, risultato di arbitrarie correzioni o di interpolazioni; sicché il suo lavoro si fonda su un testo che ulteriori e più approfonditi riscontri potrebbero modificare". È un'incertezza, questa, che grava senza dubbio sulla traduzione (a differenza di tante altre presenti nella stessa collana, invece fondate su sicure edizioni critiche), anche se l'unica responsabilità del suo autore consiste nel non avere adeguatamente evidenziato al lettore siffatto limite. Non rimane, del resto, che auspicare una nuova edizione delle Conlationes. Tornando al valore intrinseco della traduzione, torna conto rilevare quanto lo stesso Dattrino afferma allorché dichiara di discostarsi dall'esempio del Pichery per adottare, al contrario, una forma traspositiva più vicina alla lettera del testo latino. Mentre, infalli, «il Pichery, e anche altri, si sono attenuti al criterio libero», egli si prefigge di seguirne uno «letterale, a costo di lasciarne derivare quelle difficoltà di interpretazione che in non poche pagine dell'originale latino rimangono purtroppo evidenti» (p 15), sicché, se i precedenti traduttori hanno «spezzato i periodi lunghi e complessi del latino di Cassiano in tanti piccoli membri grammaticalmente indipendenti», egli rivendica per sé il fatto di aver conservato «l'unicità della struttura originale, anche se la resa che ne deriva risulta meno rapida e meno scorrevole» (p. 15). Tale premessa suscita qualche perplessità. Ciascuna tipologia di testi (ma in special modo quelli religiosi e letterari), ricorda autorevolmente Roman Jakobson, richiede all'atto della traduzione scelte che chiamano in causa la creatività del traduttore, al quale spetta il compito di rendere

Sull'edizione già si espresse negativa1ncnte P. Lejay, con una recensione su Revue critique d'hisloire et de litlérature, 2 (1889) 24-27, cui replicò il Petschcnig in Zur ha11dscl11jis Ueberlief Cassians, in Wiener Studien 12 (1890) 151-153. 17 Una proposta di verifica e d'integrazione è stata avanzata da U. BETTI, le CollaNones di Cassiano in un 111anoscriflo del1a Verna, in Sacris Erudiri, XXI (1972-73) 81-107. 16


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innanzitutto intellegibili i valori conoscitivi di quanto tradotto". Ciò vale, a maggior ragione, per un trattato teologico-morale come le Conlationes, ove il lessico dei monaci del deserto implica sfumature peculiarissime che richiedono al lettore moderno interpretazioni talvolta ardue'". Molto opportunamente, però, il Dattrino si discosta nella pratica da una rigida applicazione delle sue stesse premesse teoriche. Lo fa sul piano sintattico, spezzando a volte i periodi troppo lunghi della prosa di Cassiano oppure, più raramente, ricomponendoli in unita più vaste; lo fa sul piano lessicale trasponendo lo spirito che anima il testo di Cassiano oltre i vincoli della lettera: «ad requiem [ ... ] vestri corporis», ad esempio, è reso con «al ristoro delle vostre persone» (p. IO I). Nell'insieme, l'autore interpreta apprezzabilmente il testo cassianeo; anche se non sempre mostra di aver soppesato con adeguata attenzione le opzioni semantiche che gli si sono proposte. Il dubbio più significativo proviene dalla trasposizione della parola conia/io in "conferenza"'". Tale termine ricoJTe nel titolo dell'opera, sebbene altrove sia stato tradotto diversamente ("trattenimento", "incontro", ecc.). L'idea rappresentata è quella del colloquio tra due "allievi" - cioè lo stesso Cassiano e il suo sodale di anacoresi, Gennano, desiderosi di progredire nella vita monastica - e alcuni abati del deserto. Ogni dialogo nasce da una petizione, su uno specifico argomento, rivolta ad un abate il quale poi risponde alle domande postegli. La dialogicità prospetta un confronto diretto, collocato tuttavia in un orizzonte non paritario che rispecchia una inequivoea gerarchia di carismi. Ben si nota, invece, con1e oggi "conferenza" non possieda analogo valore semantico: nell'accezione comune intende, infatti, l'esposizione effettuata da un oratore dinanzi ad un pubblico che è soltanto ricettore del pensiero di chi parla. Con tale opzione il Dattrino segue i titoli delle traduzioni di Pichery" e di Lari. Altri termini, in effetti, avrebbero potuto essere adoperati - ragionamento (già usato dal Buffi), riflessione, consiglio, discorso, colloquio, conversazione senza tuttavia perven1re ad rn R. JAKOBSON, Aspetti linguistici della traduzione, in ID., Saggi di linguistica generale, !rad. it., Milano l 966, 56-64: 63. 19 Sull'argomento si vedano M. PIERRE, Lessico del deserto, Magnano 1998, e le nu111erose voci sparse in vari dizionari di teologia e spiritualità. 10 Per i significati di colla/io si veda almeno il Thesaurus linguae latinae, III, Leipzig 1906-1912, coli l 577-1580; cfr Lexikon jiir Theologie und Kirche, 3, Freiburg 1959, 3. 11 Ma pure della voce «conférences spirituelles)>, curata da M. Olphe C-ìalliard, in Dictionnaire de Spiritua/ité, Il, Paris 1953, 1389-1405.


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un'esauriente trasposizione se1nantica. A 1nio avviso, invece, sarebbe stato 111eglio ricon·ere al latinis1no "collazione", già adoperato nelle traduzioni in antico italiano ed oggi di uso solamente specialistico": tale termine avrebbe comunque imposto al lettore un accertamento attraverso il quale sarebbe pervenuto ad una migliore approssimazione di significato. Riesce, infatti, più efficace il titolo dato dal Leloup ad una silloge di taglio divulgativo ricavata sul testo del Pichery: les Collations de Jean Cassien", perché recupera una peculiare figura dell'antico pensiero monastico. Al di là delle considerazioni fin qui annotate, va ancora sottolineato come la pubblicazione delle Conferenze ai monaci confenni il valore di un testo che, per i suoi riflessi sulla spiritualità cristiana, costituisce senz'altro un "classico". Gli autorevolissimi giudizi di valore su di esso espressi e soprattutto l'uso fattone da teologi e padri.fondatori - oltre a s. Benedetto, occorre aln1eno far 1nenzione di Cassiodoro, s. Gregorio inagno, s. _Don1enico di Guzman, s. Tommaso d'Aquino con tanti altri en1inenti esponenti dell'Ordine domenicano, s. Ignazio di Loyola" - garantiscono la continuità di un insegnamento che è anche fonte d'ispirazione dell'odierno magistero della Chiesa". Com'è noto, il pensiero di Cassiano si formò in una fase cruciale della storia della cristianità: dopo la pace costantiniana, andava profilandosi per i cristiani un nuovo pericolo all'esercizio della fede non più proveniente dalla persecuzione fisica, bensì dall'appiattimento su modi di vita abitudinari ed intrinsecamente distanti dalla dottrina morale. Il monachesimo, secondo lo

n Cfr Grande Dizionario della lingua italiana, a cura di S. Battaglia, III, Torino 1964, 283-284. Si ricordi anche l'etimo di colazione che rimanda proprio alle C'ollationes, ctì· L. L-AZZERJNJ, Nota su Pa111ber. Una ricostruzione sen1antica, in Studi di.filologia illllillna 34 (1976) 401-409: 408 e L. MOUl.IN, la vita quotidiana dei n1onaci nel Medioevo, trad. it., Milano 1988, 56. les Collations de Jean Cassien ou I 'unité des sources. Textes choises et présentés par Jean-Yves Leloup, Paris 1992. 21 -

21 -

Per un succinto prospetto delle "influenze" dcl pensiero cassianeo cfr la voce ['assien, curata da M. Cappuyns, del Dictionnaire d 'Histoù·e et de Gèogra]Jhie Ecclésiastiques, Xl, Paris 1949, 1319-1348: 1325-1326. 5 " Se c=assiano è citato una volta soltanto nel nuovo catcchis1no cattolico, cfr l'edizione italiana C'atechisn10 della C~hiesa C'attolica, Città dcl Vaticano 1992, 675, viene però talvolta 111enzionato negli interventi ufficiali di papa Giovanni Paolo Il (ad ese111pio: nei saluti pronunziati all'acreoporto di Bucarest il 1 7 1naggio 1999 e all'Udienza generale del 4 aprile 2001).


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spinto di Cassiano, costitui una coerente risposta a tale preoccupazione~\ perché rappresentò, al di là del momento storico in cui vide la luce, un anelito spirituale inconciliabile con una pratica di vita tendenzialmente compromissoria rispetto ai valori mondani dominanti. li fatto che oggi si registri una rifioritura delPinteresse verso i filoni più gno1nici e misticheggianti della patristica e verso gli scritti dei Padri del deserto, come confermano non soltanto le molte edizioni di raccolte di "detti" e "fatti" dei Padri del deserto", ma anche le biografie e i racconti dedicati alle vite degli ere111iti 28 ed il successo di autori che, legando insien1e sapienza, sacro e poesia, appunto a queste fonti attingono, rappresenta un fenomeno culturale che certa1nente inerita attenzione. Del resto, ogni età rilegge gli autori secondo prospettive peculiari, così, a proposito dci Padri dcl deserto, è evidente con1e fra i inotivi di attrazione da essi esercitati sul lettore inoderno sia da annoverare il fascino per scelte di vita radicali in un mondo, quello attuale, nel quale il centro dell'esistenza della persona risulta spesso staccato da essenziali valori di vita2 '1•

('fr (~.

LEONARDI, Alfe origini della cristùn1ità 1nedr'eva/e, cit. Fra quelle che hanno ricevuto il n1aggior consenso di critica va data 111enzione di Delti e jèttN dei padri del deserto, a cura di C. Can1po e P. Draghi, Milano 20002. "s Solo per fare un cscn1pio, si ricordi il recentissi1110 G. ERMACORA, La voce de!!e ]Jietre. VUa di Abbà Pq/Ì1unzio, Cinisello Balsa1110 2000. 19 Sull'opera di c:assiano co1ne fonte d'ispirazione della letteratura spirituale conte111poranca, si veda A. DI-: VOGO(, De Jean Cassien à John A1ain. R4/lexions sur la 1néditatio11 chrétienne, in C~ollectanea Cistercensia. Revue de spirilua!ité 111onastique, 47 (1985) 179-191, ora in ID., De saint Pachòtne à Jean C~assien, cit., 507-522. 21 '

n


Recensioni Synaxis XIX/I (200 I) 195-202

A. VÀZQUEZ DE PRADA, l/fimdatore dell'Opus Dei. la biografia del beato Josemaria Escriva, voi I, Leonardo, Milano 1999, pp. 687.

Per chi legge la realtà della Chiesa con senso critico, appare evidente che storia e dogmatica appaiono posizioni scientifiche inscindibili, due differenti forme dello stesso fenomeno conoscitivo di apprensione del mondo circostante. La storicità non è dunque e semplicemente un fattore accidentale secondario. È elemento costitutivo dell'istrnzione. L'analizzare un feno1neno nel suo essere e darsi in un contesto temporale, e la vita di chi il fenomeno attualizza e con questo per certi aspetti si identifica, non significa, nella Chiesa, valutarne solamente la portata sociale alla luce di taluni precedenti, ma non di rado implica un "qualcosa" di pili che non si dà nella società civile o secolare che dir si voglia: la valutazione e il discernimento, anche alla luce del fattore-tempo, del carisma, dell'idea fonda111entaln1ente divina trasn1essa agli uon1ini per cui e da cui sorge un'istituzione che quell'idea inca111a. La Chiesa non è invero atta a regolare relazioni fra puri spiriti o angeliche, n1a nella sua soprannaturale e redentrice finalizzazione è rivolta all'uomo e per l'uomo; e il soprannaturale irrompe nel mondo in modo naturale, normale mi piacerebbe dire. Il figlio di Dio si è incarnato nel seno di una Donna) e quivi è ri1nasto nove 1nesi, come ognuno di noi, pri1na di nascere. Un dono divino fatto agli uomini e a vantaggio degli uomini, quale il caris1na, è un dono che Dio innanzitutto fa a una persona, o a più persone nella loro specificità, e a queste compete l'onore di trasmetterlo con le parole e con la vita nella sua fedeltà originale e originaria. Non è un'azione

invisibile dello Spirito, ma una sua invisibile manifestazione che si serve, per ciò, delle parole, dei gesti, del pensiero di un uomo o di una donna. Quasi che Dio prenda questi a prestito per manifestarsi in modo a tutti accessibile. Si attua a pieno titolo in questa linea lo studio biografico di Andrés Vitzquez de Prada, li fondatore dell'Opus Dei. la biografìa del beato .Josen1arfa Escrivò. Già questo rapporto tra titolo e sottotitolo molto ci dice, quando ci n1ette quasi sul preavviso che la ricerca parlerà sì di un uo1no, e di un uo1110

dichiarato beato dalla Chiesa. Ma che se l'agiografo ne parla, e, azzardiamo a dire, se la Chiesa ne ha riconosciuto la santità, non è solo per l'eroicità


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cristiana con cui ha vissuto le virtù, ma soprattutto per la fedeltà con cui ha saputo disce111ere, incarnare, istituzionalizzare, tras1nettere l'azione invisibile dello Spirito nella sua anima quando "vide" (come lui stesso diceva) il 2 ottobre 1928, data di fondazione dell'Opus Dei: la chiamata universale alla santità, il fatto che tutti i cristiani possono essere santi nel loro lavoro professionale, qualunque esso sia, e nelle circostanze ordinarie della vita, offrendole a Dio, impegnandosi quindi a realizzare il bene, con perfezione, e svolgendo al contempo un intenso apostolato con i colleghi di studio, di lavoro, di professione, nella propria famiglia. 11 libro si basa su attente ricerche storiche in grado di ripresentare efficacemente il contesto politico, sociale, ecclesiale che accompagnarono la vita di Josemarfa Escriva (si lamenta solo la mancanza di qualche riferimento bibliografico pili recente sulla situazione politica spagnola degli anni Trenta). E ciò lo studio riesce a fare anche grazie al ricorso ad abbondanti fonti autobiografiche e testimonianze non poche delle quali inedite, e conservate nell'archivio della Pretura dell'Opus Dei. In particolare, l'autore utilizza buona parte degli Appunti intimi del fondatore dell'Opus Dei, quaderni manoscritti riportanti note personali il cui contenuto registra da un lato lo sviluppo della vita interiore dcl beato a cominciare dal 1930, dall'altro chiarisce le circostanze della nascita e dell'iniziale sviluppo dell'Opus Dei. È questa un'indubbia novità, che pennette anche di superare una, più che tradizionale direi vecchia, mentalità agiografica, tale per cui il santo è sempre, e da sempre, "dalla nascita", perfetto. Qui si vedono "dal vivo" i difetti di Escriva, si percepisce la lotta per superare tali limiti con vittorie e sconfitte. Si nota anche l'indubbia "simpatia" con cui l'Autore guarda al protagonista. Eppure si tratta di una simpatia, di un affetto "intelligenti", non accecati dalla luminosità irraggiungibile di un modello disincarnato, ma atlratti da un esempio non immaginato ad arte dagli uomini, ma proposto da Dio ai suoi figli perché sappiamo trovare la strada che li conduce alla casa nella e attraverso la loro vita. Come diceva con bella espressione S. Agostino con riferimento ai santi: «Se questo e quello, perché non io?». Se un uomo, una donna, vi sono riusciti, perché non posso farcela anch'io? Co1ne permettere dunque che la luce di Dio penetri nella mia vita? A questo riguardo nel nostro volume (p. 31 O) è riportata un'interessante espressione autografa del medesimo fondatore. Pochi anni dopo (tre per la precisione) da che aveva ricevuto la grazia carismatica fondazionale, poteva scrivere nei suoi Appunti intimi ricordando quel momento: «Ricevetti l'illuminazione su tutta l'Opera [ ... ]. Commosso mi inginocchiai [ ... ] resi grazie al Signore, e ricordo con emozione il suono delle campane della pmTocchia di Nostra Signora degli Angeli». Era a


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Madrid. Stava seguendo un ritiro spirituale, e questo bagliore tutto interiore lo colse nell'atto di rileggere alcuni appunti sparsi che aveva preso nel corso degli anni precedenti. E Vazquez de Prada, commenta (ibid.): «Sotto la luce potente e ineffabile della grazia gli fo mostrata l'Opera nel suo insieme; "vidi" è questa la parola che usava sempre quando parlava di quanto accaduto. L'inattesa visione soprannaturale assorbiva in sé tutte le parziali ispirazioni e illuminazioni del passato, distribuite sui foglietti che stava leggendo, e le proiettava verso il futuro, con una nuova pienezza di significato». Vide dunque "tutta" la sua Opera, e le singole persone che quest'Opera avrebbero realizzato nei secoli, che il suo carisma avrebbero tras1ncsso a condizione, e condizione fonda111cntale, che lui stesso avesse saputo personificare questa grazia, e modellarla in forme anche istituzionali che, senza soffocarla, l'avessero però resa stabile, riconoscibile, plastica1nente i1nitabile. Mi se1nbra suggestiva una nuova illun1inazione, una grazia specifica che come lui stesso nmrn ricevette il 7 agosto del 1931. Una grazia che confermava il passaggio del 2 ottobre 1928, sottolineando il valore del lavoro professionale all'interno della spiritualità dell'Opus Dei, con1e 111ezzo di santificazione e di apostolato, e che al conten1po risaltava la funzione del lavoro nell'economia della Redenzione, quasi un eco del «ricapitolare tutte le cose in Cristo» di cui scrive san Paolo nella lettera agli Efcsini (!,IO} Diceva dunque il beato Josemarfa (p. 402): «Giunse il momento della Consacrazione: nell'alzare la Sacra Ostia, senza perdere il dovuto raccoglimento, senza distrarn1i - avevo appena fatto n1entalmente l'offerta all'Amore misericordioso - si presentò al mio pensiero con forza e chiarezza straordinarie, quel passo della Scrittura: "et s; exa!tatus .fl1ero a terra, on111ia lrahan1 ad n1e f]Jsznn" (Gv 12, 32). In genere di fronte al soprannaturale) ho paura. Poi viene il "ne tilneas! sono Io". E co1npresi che saranno gli uo111i11i e le donne di Dio ad innalzare la Croce con la dottrina di Cristo sul pinnacolo di tutte le attività [ ... ] e vidi il Signore trionfare e attrarre a sé tutte le cose». Questo era dunque il messaggio ricevuto. Questo quello che aveva di trasn1ettere in tutta la sua integrità e purezza agli uon1ini. li fondatore ebbe sempre molto chiaro che la missione specifica dell'Opus Dei era qualcosa di intrinsecan1cnte relativo alla vocazione universale alla santità, a quella pienezza di vita cristiana cui tutti nella Chiesa sono chian1ati. La vocazione all'Opus Dei co111portava cioè, come co1nporta, non una nuova consacrazione a Dio in aggiunta a quella del Battesi1no, 111a costituisce uno specifico n1odo di essere e di vivere la comune vocazione alla santità. In una lettera del 15 agosto 1953 (n 35), il beato Josemaria poteva dire: «Voialtri, figli e figlie mie - consacrati a Dio,


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con1e tutti i cristiani, per mezzo del Battesimo, con una consacrazione che è stata poi rinnovata con il sacramento della Confermazione, che vi ha resi milires Chrisli, soldati di Cristo - avete liberamente e volontariamente rinnovato una volta ancora la vostra dedizione a Dio dicendo di sì alla vocazione specifica con la quale sia1no stati chiamati, affinché cerchian10 nell'Opera di raggiungere la santità ed esercitare l'apostolato». E ancor pièr chiaramente già in un testo del 1930 (lettera dell' 11 marzo 1930, n 2) quando in un ce1io senso, e ben lo si evince dalla lettura del libro di Vazquez de Prada, l'Opus Dei era il fondatore, questi diceva, riferendosi alla sua n1issione carismatica: «Sia1no venuti a dire, con rumiltà di chi si sa peccatore e ben poca cosa [ ... ] ma con la fede di chi si lascia guidare dalla tnano di Dio, che la santità non è una cosa riservata ai privilegiati: che il Signore ci chiama tutti, che da tutti si aspetta amore: da tutti, in qualunque posto si trovino; da tutti, quale che sia il loro stato, la loro professione o il loro n1estiere. Perché questa vita ordinaria, senza spettacolarità, può essere un n1ezzo di santità: non è necessario abbandonare il proprio stato nel inondo per cercare Dio [ ... ] giacché tutti i cammini della terra possono essere occasione di incontro con Cristo». Il bealo Josemaria ha definito tutto ciò con un'espressione che con1pare fi·equente1nente nei suoi testi scritti e nella sua predicazione orale: unità di vita. Con ciò egli non intende indicare solan1ente un i111pegno ascetico che si attualizza in raccogli1nento interiore, sforzo per evitare la dissipazione e per orientare affetti e pensieri verso un valore don1inante; n1a anche, e direi soprattutto egli vuole significare una realtà dotata sì di riflessi esistenziali e collegata all'in1pegno ascetico, 1na fondata essenziahnentc su una di1nensione ontologica, sulla reale comunione con Dio resa possibile dalla Grazia. Se così nei suoi scritti, quali evinciamo anche dalle note interiori autobiografiche riportate in questo volun1e, non 111ancano certo i riferi1nenti alla lotta ascetica, ciò che tuttavia predomina è un urgente appello a far sì che la fe'!le informi l'intelligenza, e cli conseguenza anche il cuore e il mondo degli affetti, finendo per incidere su ogni dimensione dell'esistenza, comprese quelle profane o secolari. Insomma, l'impegno del cristiano deve essere tutto orientato a non condurre una sorta di doppia vita: da un lato la vita di relazione con Dio, dall'altra quella con gli altri e con il 111ondo professionale, sociale, fan1iliare, ecc. Si affern1a così l'ideale di una unitarietà funzionale dell'esistenza che include anche e soprattutto le realtà "secolari", laicali. Ma vi è al riguardo un altro testo, che mi pare significativo perché lo traggo da una delle sue Istruzioni più risalenti del 19 marzo 1934 (n 33): «unire il lavoro professionale con la lotta ascetica e con la contemplazione - cosa che può sen1brare iinpossibile 1na che invece è necessaria per contribuire a


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riconciliare il mondo con Dio - e trasfo11nare il lavoro ordinario in 1nczzo di santificazione personale e di apostolato: non è forse questo un ideale nobile e grande per il quale vale la pena spendere la vita?>>. Questo era dunque il messaggio, il carisma che il beato Josemaria ricevette il 2 ottobre 1928, quando "vide" l'Opus Dci. Ed era questo l'insegnamento che avrebbe dovuto trasmettere nella sua limpidezza originaria lungo il corso del te1npo. E se «è proprio dei santi restare 1nisteriosa1nente conten1poranei di ogni generazione)), quale «conseguenza del loro profondo radicarsi nell'eterno presente di Dia» (Giovanni Paolo Il, lett. ap. Operosam diem), ci pare indubbio che questa non prima e non ultima biografia del fondatore dell'Opus Dei persegua queste indicazioni.

Andrea Bettetini

A. FALLIC<), Pellago?,ia Pastorale. Questa sconosciuta. Itinerario di formazione per operatori pastorali presbiteri, religiosi e laici, Edizioni Chiesa-Mondo, Catania 2000, pp. 580. Solita1ncntc gli ecclesiastici, anziché riconoscere la propria inadeguatezza nel proporre il n1essaggio evangelico, attribuiscono la colpa agli uon1ini generican1ente giudicati con1c 1lontani 1 e 1dìstratti 1 : Fallico, convinto della inadeguatezza pedagogica e n1etodologica degli operatori della pastorale, si chiede: «si stanno allontanando oppure ci stian10 allontanando noi operatori pastorali dalle loro esigenze di fede? Non può essere che sian10 noi [ ... ] a non essere capaci di offrire risposte adeguate alle loro richieste di speranza?» (332). Con questo volu1nc dedicato alla pedagogia pastorale intende offrire un contributo perché il ministero possa essere qualificato pedagogican1ente, evitando così la frustrante esperienza del fallimento pastorale. 11 volun1e nasce dalla constatazione che i «principi» e la «dottrina» bibilico-teologico-1norale pur essendo necessari sono tuttavia insufficienti, donde la necessità della «pedagogia pastorale» quale «elaborazione prospettica e propositiva sui processi educativi pastorali, perché siano capaci di trasforn1are gli enunciati della fede in vissuti ecclesiali, e i vissuti ecclesiali in veri e propri annunci di fede [ ... ] un vero itinerario educativo [ ... ] idoneo anche a tradurre tali verità [ ... ] in comporta1nenti concreti, in stile di vita, in cultura)) ( 12): come è iuseparabile la teologia dalla pastorale così lo è la pastorale dalla pedagogia. L'Autore chiarisce ulteriormente il suo pensiero quando presenta la pedagogia pastorale quale «ponte tra la dottrina


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appresa negli anni di studio e la vita concreta - personale e familiare, professionale e sociale - degli uomini a cui annunciarla e comunicarla per farla vivere» (20). Essa nel momento in cui aiuta a superare la prassi «dell'arrangiamento» (cfr 235, 321) fa anche evitare il rischio del fallimento, della delusione e dello scoraggiamento ( cfr 233 ). Fallico vede la necessità di una conveniente preparazione anche a pai1ire dal diritto di ogni persona ad una adeguata educazione; la sua indicazione è precisa: «Occorre parlare all'uomo contemporaneo [ ... ] proponendo messaggi salvifici capaci - cosi come del resto li propone il vangelo - di coinvolgere e pron1uovere tutti gli uo1nini e tutto !1uon10: spirito e 1nateria, eternità e te1npo, persona e società, quotidianità, a1nbiente, educazione, sentin1enti, salute, cultura» ( 131 ). Bisogna evitare il rischio sia dì parlare ad una umanità astratta sia di usare un linguaggio estraneo al1 1uon10 d'oggi: Gesù per annunciare il 1nessaggio e per entrare nel cuore della gente ha utilizzato il linguaggio degli uomini del suo tempo, facendo riferi1nento al loro n1ondo culturale, particolarn1ente al niondo dell'agricoltura, della pastorizia e della pesca ( cfr 417). A tal fine sono di grande aiuto le scienze u111ane e soprattutto la pedagogia ( cfr 223-224, 419): «non si può eflìcacemente evangelizzare se non si conosce la gente a cui il vangelo va annunciato» (419). Da qui le sagge insistenze sul fatto che operatori pastorali non si nasce 1na ]o si diventa ( cfr 313) e che l'operatore deve educarsi a rivolgersi all'aliro in quanto persona concreta ( cfr 318 ). Il volume stabilisce un chiaro rapporto dialettico tra il «quid» e il «quon1odo»: «non basta sapere cosa fare È necessario saper anche con1e faren. J_,e 1nodalità di azione sono intin1a1nente legate alla riuscita di un progetto da realizzare. Pena il fallimento del progetto stesso» (337). Non basta la dottrina, la pedagogia pastorale insegna il 11 con1e 11 la Parola deve essere co1nunicata ed indica 11 con1e 11 far penetrare il vangelo nei criteri, nei valori e nelle linee di pensiero dell'uomo d'oggi ( cfr 205, 41 O). 11

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Fallico presenta la pedagogia cristiana quale «scienza della educazione pastorale» ( 199), precisando che si tratta della «scienza della formazione alla pastoralità o alla missione pastorale» (ibid.). Chiarisce ulteriorn1ente il pensiero quando affern1a che la pedagogia pastorale «si pone con1c ponte, con1e tran1ite, co1ne inezzo che lega la teologia alla vita, ossia la dottrina alla prassi» (203 ). Il volume stabilisce un rapporto stretto tra pedagogia e cultura - aiuta infatti a tener conto della cultura o delle culture


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diverse -, come pure tra pedagogia e metodi - aiuta a trovare quelli pertinenti e più adatti caso per caso (cfr 248). L'Autore trova un ancoraggio sicuro per la sua tesi nella «Incarnazione» che, oltre ad essere un dog1na, è «una inetodologia, uno stile di vita, un criterio di comportamento» ( 191 ): la salvezza che penetra dal di dentro; un lievito che fermenta. Fallico opportunamente indugia nel presentare Gesù co1ne «pedagogo» che con1unica verità e inessaggi difficili «con parole e concetti semplici, con immagini ed esempi alla portata di tutti» (306) perché presi dal mondo proprio dei suoi uditori e che incarna il messaggio nel linguaggio della gente che incontra (cfr 418). Profonde e suggestive le annotazioni dell'Autore sull'atteggiamento pedagogico di Gesù nell'incontro con la Samaritana (cfr 271ss), con Zaccheo (cfr 277ss), con l'adultera (cfr 282ss), e molto significativi gli insegnamenti di tipo pedagogico che raccoglie dalla parabola del figlio prodigo (cfr 286ss) e del buon samaritano (cfr 295ss): descrive concretamente cosa è stata per Gesù l «incarnazione>1 e cosa deve essere per la Chiesa e per gli operatori pastorali". Ricco e illuminante il «decalogo pedagogico» dell'operatore pastorale che Fallico ricava e tratteggia sul modello cli Gesù «buon pastore» (cfr 314332). La preoccupazione soggiacente, che diventa poi il n1essaggio dell'Autore, si trova espressa nel cuore del volun1e: «operatore pastorale non si nasce. Ci si diventa. E c1 si diventa per qual(ficazione oltre che per vocazione. Occorrono anni di paziente, costante, progressiva for1nazione» (313). Giacché la Chiesa prolunga l'opera di Cristo-pastore attraverso tutti i membri battezzati (cfr 29, 38, 314-315), ciascun discepolo è chiamato al servizio pastorale: oltre che alla conoscenza del n1cssaggio, a ciascuno spetta il dovere di una adeguata preparazione pedagogica per essere in grado di proporre e trasn1ettere il vangelo e la salvezza con i n1etodi e i inezzi più idonei (cfr 336). Fallico ricorda con insistenza che è proprio della pedagogia pastorale fornire «le metodologie adeguate, richieste di tempo in tempo e di luogo in luogo» (558). 11

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Volendo offrire alcune valutazioni conclusive, ritengo innanzitutto opportuno e pedagogicamente significativo l1aver n1esso quale icona centrale per tutto il discorso la «lncarnazione». Inoltre, certamente in sintonia con la ecclesiologia della Lumen Genthnn e con la riflessione teologica del dopo Concilio è l attribuzione di operatore pastorale' a tutti coloro che hanno ricevuto l'iniziazione cristiana: 1

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al pieno inserin1ento dei laici nella Chiesa fa seguito la "pastoralità" del laicato. Ritengo, ancora, che avvedutamente Fallico conduce il discorso sulla pedagogia pastorale in questo periodo ricco di ricerche e di approfondimenti sulla «teologia pastorale» e sulla «pastorale»: quest'ulti1na, infatti, per assolvere bene la sua funzione deve saper fruire del «ponte» necessario che è la «pedagogia». L'Autore, inoltre, sviluppa e approfondisce la sua tesi in sintonia e con l'ausilio del Magistero e della migliore letteratura teologica e pastorale. Trovo, infine, pertinenti e responsabili le non poche osservazioni critiche, di cui è dissen1inato iJ volun1e, riguardo alla preparazione non sempre adeguata che le Chiese locali danno ai futuri presbiteri. Fallico con i corsi e i seminari di pedagogia pastorale che, ormai da anni, tiene allo Studio Teologico S. Paolo ha cetiamente aiutato le Chiese locali che vi aderiscono a superare tale manchevolezza. Questo a1npio saggio è ccrtan1ente frutto di intelligenza 111a anche di amore e di responsabilità verso la Chiesa: l'Autore intende dare il suo contributo perché la Chiesa sia se1npre più e incglio «stru1nento» di salvezza. Mentre diversi ecclesiastici sembra che ripetano per un dovere di opportunità e in n1odo acritico e stanco l1 indicazione di Giovanni Paolo Il sulla evangelizzazione da rendere 11 nuova 11 nei n1etodi e nel linguaggio, questo volu1ne costituisce un aiuto concreto a risolvere il problen1a del 1netodo e del linguaggio. TI volume risente sia della grande passione e dell'attenta didattica che il professore ha profuso nei corsi tenuti allo Studio S. Paolo sia della ricca vitalità della «Missione Chiesa-Mondo» di cui Fallico è promotore e responsabile 1na anche beneficiario.

Salvatore Consoli


CONVEGNO ROSMJNTANO Dl STRESA

Ora che studiare Rosn1ini non è più un'operazione non lecita, dal punto di vista ecclesiale, essendo caduta la condanna delle quaranta proposizioni, nei "Nuovi Simposi" organizzati dal Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa, si è potuto confrontare il pensiero del grande roveretano con le problematiche più attuali della filosofia contemporanea, senza più la preoccupazione di din1ostrarne l'ortodossia 1• È ormai nota la decisione della Congregazione per la Dottrina della Fede, in data l luglio 2001: anche di recente ne ha già scritto don Piero Sapienza, apprezzato autore di studi rosn1iniani, tra cui ricordian10 l'ultima sua opera: Ros111i11i, 1111 profeta scomodo. Ma già nella Fide.1· et Ratio, 1998, n 74, Giovanni Paolo fI ci esorta a seguire questo n1aestro coraggioso, l'unico italiano citato, insie111e con S. Ton11naso d'Aquino, e gli altri che hanno confrontato il pensiero filosofico con i dati della fede: «li fecondo rappmio tra filosofia e parola di l)io, scrive il Papa, si n1anifesta anche nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori più recenti, tra i quali 1ni piace tnenzionare, per l'an1bito occidentale, personalità con1e John Henry Nevvn1an, Antonio Rosn1ini, Jacques Maritain, E1ienne Gilson, Edith Stein) ecc. Una cosa è certa: l'attenzione all'itinerario spirituale di questi n1aestri non potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità e nell'utilizzo al servizio del!' uon10 dei risultati conseguiti». Nella magnifica cittadina di Stresa, sede del Centro ln!ernazionale Rosminiano durante il li Corso dci Simposi Rosminiani (29 agosto-! setten1bre 200 I y, con autorevoli studiosi con1e: CJiovannì Reale, Josef Scifert, Giuseppe Sermonti, Giuseppe Longo, Antimo Negri, Giuseppe 1

Ricordiaino che nel 1955, nel centenario della 1norte di Rosn1ini, l'Università Callolica non aderisce alle celebrazioni di Stresa, per 1n "convinzione profonda" che le idee di Ros111i11i fossero errnte e che, perciò, non sarebbe stato possibile aderirvi! ~ Fu ide<-l del sicilim10 IV!ichele Federico Sciacca istituire la "Cattedra Rosrnini", per far conoscere l'autentico pensiero del filosofo crisliano, per dissipare dubbi e incertezze interpretative; ora che essi sono supernti, i "Siinposi Rosininiani", chiarisce padre Un1berto jvJuratorc, iniziano una nuova fase degli incontri, per offrire agli conici della verità e pron1otori di carità intelleffuafe «un luogo, in cui polere approfondire, in piena libertà di spirito e con rispetto delle diversità, la soluzione dei proble111i pili urgenti che si affacciano sul terzo n1illennio».


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Convegno Ros1niniano di Stresa

Lorizio, Giuseppe Goisis, Giorgio Campanini cd altri, ci si è confrontati sul tema, problematico nella sua formulazione: La .fine della persona? , che è voluto essere «allo stesso tempo, un invito a meditare sul concetto classico della persona umana e sulla consistenza delle obiezioni che ad essa rivolge il pensiero conteinporaneo». Quale lettura si può dare dei risultati, ancor prima della pubblicazione degli Atti ? La relazione, per dir così, fondante in senso classico, dopo l'introduzione al Convegno di padre Muratore, è stata quella del Prof Giovanni Reale, il quale ha esplicitato, con la sua consueta chiarezza, la fonnulazione un po' sibillina di "terzo paradig111a"; essa recitava precisamente così: «Il concetto della persona nel terzo paradigma>>. Che cos'è questo: terzo paradign1a? Il pensiero greco, a cui si deve la creazione della metafisica occidentale come risposta al problema dell'intero, ha elaborato almeno due paradigmi, in risposta a tale problema: quello henologico (Platone - Plotino), secondo cui alla base del tutto ci sta l'Uno; e l'altro ontologico, secondo cui alla base dcl tutto sta l'Essere. La filosofia metafisica ha come oggetto "l'essere in quanto essere", cioè l'Intero, inentre le varie scienze c1 danno conoscenze parziali dell'Essere. Secondo Aristotele, l'Essere e l'Uno coincidono. Come si vede, in questi due paradigmi interpretativi non c'è posto per un concetto esplicito di persona; tutt'al più essa è un momento dell'Intero, e non un intero essa stessa! Un concetto adeguato di persona è, invece, rivelazione specifica del pensiero cristiano, che ha elaborato il terzo paradig1na. Il concetto integrale di "persona" richiede la indicazione di alineno tre aspetti essenziali, spiega il Relatore: I- Un aspetto interpersonale: l'io non può realizzarsi, se non in rappoiio a un ''tu". 2- L)aspctto fondativo dell'io si instaura solo in rapporto con Dio. (Dio però non può darsi in ten11ini puran1ente concettuali, perché inevitabilmente antropomorfici!), 3- La "persona" si esprin1c ncll'a1norc. L'an1ore cristiano, con1e òga11e, carUa.s, capovolge, per il suo specifico aspetto donativo, il concetto classico di eros. Ma l'uomo d'oggi ha perduto il senso della persona, e perciò il Papa Karol Wojtyla, citato dal Reale, ritiene che occorra una nuova sintesi sempre più aggiornata della persona, adatta ai nostri ten1pi !


Tracce per una spiritualità della pace in ,Sicilia

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Le tematiche inquietanti della nostra epoca emergono dalla relazione del Prof. Giuseppe Longo, ordinario di Teoria dell'informazione nell'Università di Trieste, secondo cui «è sempre più evidente l'importanza che ha la tecnologia nel definire la creatura-uomo: le macchine si connettono tra loro e con noi, ci assediano, ci invadono, ci pensano, forse ci spiano!». Sono queste le caratteristiche dell'Homo /echnologicus, ibrido di uomo e macchina, integrato nella rete, probabile protagonista di un futuro artificiale e vi1tuale? Ma possiamo aiTenderci alle prospettive inquietanti dell'era tecnologica? Nelle altre relazioni si sono prospettate gli aspetti ricostruttivi che incombono come dovere per gli uomini del nuovo millennio! Ci soffermiamo solo su alcune di esse. Il teologo Giuseppe Lorizio, nell'affrontare il tema: La persona nel jJensiero teologico lh A. Rosn1ù1i, si chiede se e come la poderosa lezione del grande roveretano possa essere istruttiva anche per il nostro te1npo segnato dalla postmodernilà, cercando soprattullo di evitare il rischio di una semplice riproposta pedissequa e scolastica, che cristallizza in formule quel pensiero così ricco e originale. Egli ritiene pertanto, che il principio di persona può risultare ancora fecondo, secondo una ripresa dell'Ontologia Trinitaria nella prospettiva rosminiana della Metafisica della Carità; e sottolinea la triplice direzione: dell'alterità, dell'interiorità e della gratuità, che sono sostanzialmente in corrispondenza con quelli che sono i tre modi in cui per il Rosmini si specifica l'Essere come: Ideale, Morale, Reale. «Si chiama persona un individuo sostanziale intelligente, in quanto contiene un principio attivo, supre1110, ed inco1nunicabile; essa è diritto sussistente». Su un tema rosminiano trascurato o non sufficiente1nente approfondito si diffonde la relazione (che abbiamo potuto solo leggere in anteprima, data l'assenza dell'Autore, al Convegno) di Giorgio Campanini: Rosmini: Persona e Amore. Rileggendo la " Filosofia del diritto". In effetti, nell'ultimo ventennio, la riflessione su Rosmini si è soffermata prevalentemente sul pensiero filosofico nel suo complesso e sull'aspetto politico-sociale, in particolare, trascurando la sua profonda concezione dell'atnore. In che senso una tale lettura può oggi giovare agli uomini del XXI secolo 9 La ripresa del pensiero rosminiano sembra al Campanini fondamentale per una «rifondazione culturale del! 'amore». Egli parte dall'analisi del Fromm (L ·arte di amare, pp. 107-108) e di quella del sociologo Ardigò


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Convegno Rosn1iniano di Stresa

(Per una sociologia del post-moderno, Laterza, Bari 1980), secondo cui, nella nostra società si vive una totale disintegrazione dell'amore; nella società della globalizzazione si sta verificando una scissione fra amore e sessualità, dopo la separazione fra sessualità e procreazione, obliando quel felice passaggio intuito dal Vico, necessario al sorgere di ogni civiltà: Dal dì che nozze e tribunali ed are/ diero alle umane belve esser pietose/ di se stesse e d'altrui .. Si sta avvicinando la fine del tempo dell'amore e dunque inevitabilmente, la fine della persona, data ehe strettissima è la relazione fra l'uno e l'altra. Un confronto in parallelo fra le coordinate indicate dal Rosmini e quelle prevalenti nell'uomo post-moderno, risulterà estremamente significativo!

Per Rosmini l'amore (e la sessualità) è atto dell'anima e il n1atrin1onio, arricchi1nento personale di perfetti an1atori, che richiede il tempo lungo dell'amore fatto di fedeltà. La società post-moderna, invece, appare popolata da amatori imperfetti, per i quali il sesso è l'incontro di due solitudini e il tempo breve e mutabile non richiede impegno costante e durevole. Per Rosmini l'amore umano deriva da quello divino, da ciò la sacralità dell'unione coniugale; il fine del matrimonio è la pienezza dell'unione o appagamento, come superamento dell'incompletezza costitutiva dei singoli. Qui Rosmini è rivoluzionario e precorre i tempi del Vaticano Il, opponendosi ad ogni visione contrattualistica del matrimonio, tipica degli illuministi, 111a facendo cadere anche l'antica tradizione canonistica, che considerava la procreazione fine primario. Per il filosofo roveretano, la spiritualità coniugale, al fondamento della quale sta l'amore e la tenerezza, è co111e una sorta di regale "via alla perfezione", alla cui base sta l'aspirazione all'incontro con L'Essere infinito: in questo senso ogni a1nore un1ano

implica la presenza di Dio, quasi terzo nella loro relazione. Quanto Rosmini affermava oltre 150 anni fa può rappresentare oggi un interessante punto di partenza per la piena acquisizione del senso spirituale e morale del matrimonio avviata dal Concilio Vaticano Il. In un passaggio interessante della relazione, il Campanini cita il nostro don Giuseppe Cristaldi, per alcune fini e profonde notazioni sulla spiritualità del 111atri1nonio) che) a suo parere, andrebbero riprese (Te111i rosn1iniani,

Stresa 1996 ). E a tal proposito, abbiamo sottolineato al Convegno, che proprio in Sicilia c'è stata tutta una fioritura di pensatori rosn1iniani, a con1inc1are

dall'antesignano Michele Federico Sciacca, a Giuseppe Pellegrino, ad


Tracce per una spù-;tualità de!fa pace ù1 Sicilia

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Angelina Lanza, a Giuseppe Rizzo, a Vincenzo La Via, e ai filosofi che operarono sulla sua scia, con1e : Francesco Mercadante, Mario Manno, Mariano Cristaldi, Antonio Brancaforte, Giuseppe Catalfamo, Filippo Bartolonc, Carmelo Amato, Rosario Vittorio Cristaldi, e potremmo continuare) non tralasciando don Piero Sapienza e i suoi pregevoli lavori: Rosn1i11i e la crisi lici/e ilieologie uloJJistiche. Per una lettura etico-JJO!itica ( 1990) e, Anion io Rosmini. Un profeta scomodo ( 1999). Di loro ci ripron1ettia1no di trattare in altra occasione. '-Salvatore Latora



Synaxis XVIII/! (2001) 209-211

NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO

1.

Licenziati in Teologia n1orale

Ha conseguito la Licenza in teologia morale, il 29 giugno 200 l: La clonazione umana. Aspetti scientifici ed etici

DI LEO CAOLOGERO,

(relatore prof. Mario Cascone) 2. Baccellieri in Teologia Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia, il 19 gennaio 200 l: AGOSTA GIUSEPPE, Edith Stein: approccio fenomenologico al problema dell'essere (relatore prof. Giuseppe Schillaci) SCIATÀ LUCIANA,

Il concetto di ragione nel/ 'Enciclica "Fides et

ratio" di Giovanni Paolo Il (relatore prof. Francesco Venturino) il 29 giugno 200 l: Lo VECCHIO SANTA CLAUDIA,

Lucia Mangano: un 'e.1perienza di

intensa vita teologale

(relatore prof. Salvatore Consoli) MUSUMECI MAURIZIO, li battistero e il.fonte spazio liturgico pasquale del battesimo. Storia e teologia (relatore prof. Giuseppe Federico) SAMBATARO MARIA RITA, L 'autodefìnizione di Dio e di Gesù: "lo sono I 'aijà e l'omega" nel libro dell'Apocalisse. Aspetti letterari e teologici (relatore prof. Attilio Gangemi) VITALI

PALMA

GIUSEPPINA,

Posizione

stru/lura/e

ed analisi

esegetico-teologica di Cv 1, 14 (relatore prof. Attilio Gangemi)


Notiziario dello Studio S. Paolo

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3. Lectio con1n1unis Questi gli incontri interdisciplinari tenuti:

Il Propedeutico S. Latora - G. Schillaci: Sul rapportofì!osofia scienza Triennio III e IV anno S. Consoli" - M. Aliotta - A. Crimaldi: L'uomo immagine di Dio: dalla teologia all'etica Vanno B. Forte - N. Capizzi: Questioni di ecclesiologia

4. Il convegno con /'Università Si è tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Catania, nei giorni 5 - 6 aprile 200 I, il Convegno di stndi "Cultura della vita e cultnra della morte nella Sicilia del '900". Il Convegno si inserisce nell'ormai tradizionale collaborazione biennale dello Studio Teologico S. Paolo con l'Università degli Studi di Catania.

5. Riconoscimento della personalità giuridica e civile Sabato 28 aprile 2001 lo Studio Teologico ha ricevuto, direttamente dalle mani del Ministro dcli 'Interno Enzo Bianco, il decreto di riconoscimento della personalità giuridico civile del S. Paolo da lui firmato il 24 aprile 200 I.

6. Incontri allo Studio

Gli alunni e i docenti dello Studio Teologico S. Paolo hanno incontrato il 14 dicembre 2000 Gad Lerner giornalista; il 28 aprile 2001 Ettore Bernabei presidente della Lux - Vile già presidente della RAI; il 17 marzo 2001 Suor Nancy Pereira salesiana.


Notiziario dello Studio S. Paolo

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7. Spiritualità del Vaticano Il

TI 6 giugno 2001 si è svolto in fonna seminariale l'incontro che ha coinvolto gran parte dei docenti del San Paolo sul tema: "Esiste una spiritualità del Vaticano II?".



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