Synaxis 21 2 (2003)

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SYNAXIS XXI/2 - 2003

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA



INDICE

Sezione teologico-morale LA PREGHIERA DI GESÙ AL GETSEMANI E IL VANGELO DI GIOVANNI (Attilio Gangemi) . . . . . . . . 1. Gv 6,38 . . . . . . . . 2. Gv 12,27-28a . . . . . . . 3. Gv 14, 30-31 . . . . . . . 4. Gv 16,32 . . . . . . . . 5. Gv 18,11 . . . . . . . . 6. Rilettura sintetica . . . . . . . 7. Conclusione . . . . . . .

215 216 227 253 260 267 274 279

IL PROBLEMA ETICO IN ARISTOTELE E SAN TOMMASO D’AQUINO (Salvatore Muscolino) . . . . . . . 1. Aristotele . . . . . . . 2. San Tommaso d’Aquino . . . . . 3. Conclusione . . . . . .

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283 284 293 302

L’ALTERITÀ (Paul Gilbert sj) 1. Gli Antichi . . 2. I tempi della cristianità 3. Caratteristiche dell’alterità

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309 311 316 321

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Sezione miscellanea LA FILOSOFIA DELLA MENTE: IL “BODY-MIND PROBLEM” NEUROFENOMENOLOGIA COME MODELLO INTEGRATIVO PER LO STUDIO DEI FENOMENI RELIGIOSI

(Francesco Furnari) . . . . . . 1. Introduzione . . . . . 2. Riflessione epistemologica sulla complessità della mente

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325 325 327


3. Neurofenomenologia come modello integrativo di analisi .

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4. Conclusione

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350

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LE ESPRESSIONI DI PIETÀ POPOLARE DEL TRIDUO PASQUALE A RADDUSA TRA ANAMNESI E MIMESI (Mauro Ciurca)

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1. Introduzione

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2. Espressioni di pietà popolare nella celebrazione del Triduo pasquale a Raddusa

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3. Le parole della pietà popolare

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4. Conclusione

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LA DONAZIONE DEL MONASTERO SAN GIOVANNI DI FIUMEFREDDO ALL’ABBAZIA SANT’AGATA DI CATANIA (1103, 1106) (Adolfo Longhitano)

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1. Introduzione

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2. Patrimonio e privilegi dell’abbazia Sant’Agata di Catania in epoca normanna

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3. Il problema dell’autenticità delle due pergamene 4. Identità e ubicazione del monastero San Giovanni di Fiumefreddo o de Psychro

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5. Il vescovo Jacopo e i cristiani di rito greco al tempo .

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6. Conclusione

della conquista normanna della Sicilia .

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Documenti

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L’INTUIZIONE DI DIO SECONDO LUIGI E MARIO STURZO TRADUZIONE E COMMENTO DI UN TESTO IN INGLESE DEL 1941

( Salvatore Latora)

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1. La storia di un saggio

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2. Gli argomenti del saggio: alcuni passaggi essenziali

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3. La fecondità del dialogo con il fratello Mario

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4. Per una ermeneutica sturziana

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Appendice

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Recensioni .

. . . . . . . . 443 M. DONATO, Il volume di privilegi della cittĂ di Aci SS. Antonio e Filippo, Catania 2003 (Adolfo Longhitano); S. AZZARO, Comunismo zoppo. Teoria politica e critica politica nei filosofi del Comunismo europeo, Acireale-Roma 2001 (Salvatore Latora); A. FRANCO, Marie-Dominique Chenu, (Novecento Teologico 9), Brescia 2003 (Antonino Minissale) NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

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Sezione teologico-morale Synaxis XXI/2 (2003) 215-281

LA PREGHIERA DI GESÙ AL GETSEMANI E IL VANGELO DI GIOVANNI

ATTILIO GANGEMI*

È noto che i vangeli sinottici fanno precedere la cattura di Gesù al Getsemani dalla narrazione della sua preghiera, in cui egli chiese al Padre che allontanasse da lui il calice rimettendosi però poi, in maniera incondizionata, alla sua volontà. A tale preghiera gli evangelisti dedicano anche un largo spazio. Matteo vi dedica undici versetti (Mt 26,36-46), Marco pure dedica undici versetti (Mc 14,32-42). Il racconto lucano invece è relativamente più breve: esso è contenuto soltanto i sette versetti (Lc 22,39-46). A differenza dei vangeli sinottici, Giovanni non riferisce tale preghiera. Dopo avere narrato che Gesù si recò con i discepoli in un giardino oltre il torrente Kedron (Gv 18,1), introduce subito la figura di Giuda (v 2), di cui dice che «avendo preso la coorte e servi da parte dei sacerdoti e farisei, viene lì con lanterne, fiaccole ed armi (v 3)». Segue poi, nei vv 4-9, il dialogo tra Gesù e quelli che erano venuti a catturarlo. Riteniamo tuttavia che il quarto evangelista non ignorasse tale preghiera. Ad essa infatti, pur in maniera frammentata, egli sembra alludere in diversi punti del suo vangelo. In questo nostro studio non interessa considerare specificamente la preghiera di Gesù al Getsemani riferita dai vangeli sinottici, né interessa chiarire il senso dei singoli testi giovannei. Al nostro scopo interessa confrontare alcuni passaggi del vangelo di Giovanni con la preghiera di *

Ordinario di Esegesi biblica nello Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Attilio Gangemi

Gesù riferita dai vangeli sinottici ed eventualmente concludere che, pur senza narrarla, il nostro evangelista in realtà non ignorava quella preghiera. Ci riferiamo specificamente ai seguenti testi: Gv 6,38-40 in relazione anche a 4,34 e 5,30; 12,27-28a; 14,30-31; 16,30-31; 18,11. Considereremo prima analiticamente ciascun singolo testo, poi proporremo una rilettura sintetica.

1. GV 6,38 6,38: o$ti katabeébhka a\poè tou% ou\ranou% ou\c i$na poiw% toè qeélhma toè e\moèn a\llaè toé qeélhma tou% peémyantoév me

(sono sceso dal cielo non per fare la mia volontà ma la volontà di colui che mi ha mandato) Il primo testo che prendiamo in considerazione è Gv 6,38, che si colloca nel contesto del vv 36-401. Esso si ricollega al precedente v 37, in quanto contiene la motivazione (o$ti) della precedente dichiarazione di Gesù: «tutto ciò che dà a me il Padre a me viene e colui che viene a me non lo caccerò fuori». Si ricollega poi ai seguenti vv 39-40 in quanto in essi, riprendendo la nozione di qeélhma introdotta già nel v 38, Gesù offre una duplice descrizione della volontà del Padre2. Al nostro scopo però interessa soprattutto il v 383.

1 Gli interpreti ritengono talora questi versi come redazionali e non appartenenti al complesso di tutto il discorso del pane della vita, cfr R. BULTMANN, Das Evangelium des Johannes, Göttingen 197820, 149 che sposta questi versi dopo il v 48; J. SCHNEIDER, Das Evangelium nach Johannes, Berlin 19782,149 ritiene questi versi un ampliamento omiletico; ID., Zur Frage der Komposition von JOH 6,27-58 - die Himmelsbrotrede, in in Memoriam E. Lohmeyer, Stuttgart 1951, 132-142: 137; U. SCHNELLE, Das Evangelium nach Johannes, Leipzig 1998, 126; J. WELLHAUSEN, Das Evangelium Johannis, Berlin 1908. 2 Feuillet vede in 6,26-66 una preparazione alla cena, cfr A. FEUILLET, L’agonie de Gethsémani, Gabalda, Paris 1977, 162. 3 Nel v 39 Gesù dichiara: «questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che tutto ciò che ha dato a me non perda ma resusciti nell’ultimo giorno». Nel v 40 poi aggiunge: «questa infatti è la volontà del Padre mio che chiunque vede il figlio e crede in lui abbia la vita eterna e lo resusciterò nell’ultimo giorno».


La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni

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Nel v 38 Gesù introduce, mediante la particella i$na, lo scopo per cui è disceso dal cielo: egli deve compiere una volontà. Subito contrappone alla sua quella del Padre: la volontà che egli deve compiere non è la sua bensì quella del Padre che lo ha mandato. Tale contrapposizione sorprende e, almeno alla prima lettura, appare anche ingiustificata: nulla infatti nel contesto rivela un possibile conflitto tra la volontà di Gesù e quella del Padre.

1.1. Il testo di Gv 6,38 Dal punto di vista della critica testuale questo testo non presenta, almeno in relazione al nostro scopo, particolari problemi4. Dal punto di vista strutturale invece, nel v 38 possiamo distinguere due parti: una proposizione principale: katabeébhka a\poè tou% ou\ranou%, e una proposizione finale, a sua volta pure in due parti, rispettivamente introdotte dalle due particelle contrapposte ou\c e a\llaé, dipendenti dall’unica particella finale i$na. Le due parti presentano un parallelismo strutturale5, come appare dal seguente schema: ou\c i$na poiw% toè qeélhma toè e\moèn

a\llaè toè qeélhma tou% peèmyantoév me

4 Qualche codice maiuscolo, tra cui il cod ) e i codd L* W D, il minuscolo 1010 ed Eusebio, leggono non il congiuntivo presente poiw% ma il congiuntivo aoristo poihésw. Inoltre i codd Xb D, altri minuscoli come 892 700 1689 71 713 047s 661, i codici latini e a b ff j r, le versioni siriache sinaitica e palestinese, Tertulliano, Atanasio, Basilio aggiungono, dopo l’espressione tou% peémyatoév me, il genitivo tou% patroév. 5 Leon Dufour considera una struttura più ampia ed individua nei vv 36-40 un chiasmo, cfr X. LEON DUFOUR, Trois Chiasmes Johanniques, in NTS 7 (1961) 249-255: 251253, riproposta in Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, II, trad. it., Cinisello Balsamo 1992, 187. Essa però, come lo stesso Leon Dufour nota (cfr ibid., nota 117), è contestata da Aletti, cfr J.N. ALETTI, Le discours sur le Pain de vie (Jean 6). Problèmes de composition et fonction des citations de l’Ancient Testament, in RSR 62(1974) 169-197: 172.


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Attilio Gangemi

1.2. Il testo di 5,30 In un altro testo del vangelo di Giovanni però Gesù contrappone ancora una volta la volontà del Padre alla sua. Si tratta del testo di 5,30, dove egli dichiara: «non posso io fare da me stesso nulla; come ascolto giudico e il mio giudizio è giusto, perché non cerco (ou\ zhtw%) la mia volontà (toè qeélhma toè e\moèn) ma (a\llaé) la volontà (toè qeélhma) di colui che mi ha mandato (tou% peémyantoév me)». L’espressione che più direttamente interessa al nostro scopo si legge nella seconda parte del v 30, in 5,30b. Esso contiene una proposizione causale, introdotta dalla particella o$ti6. I due testi procedono quasi alla lettera7. La sola differenza è che in 5,30b leggiamo il verbo zhteéw che riguarda più una ricerca che interessa soprattutto il piano affettivo interiore; in 6,38 invece leggiamo il verbo poieéw che esprime non più la ricerca bensì l’attuazione pratica. Emerge così un progresso dal testo di 5,30 a quello di 6,38: dalla ricerca si passa all’attuazione pratica. Al nostro scopo però tale progresso interessa meno; interessa invece il fatto che, dal punto di vista della contrapposizione della volontà del Padre a quella di Gesù, i due testi procedono quasi alla lettera8. Dal momento che i due testi in questo aspetto 6 Pure questa espressione, dal punto di vista della critica testuale, presenta un problema uguale a 6,38: dopo l’espressione tou% peémyantoév me alcuni codici e versioni introducono l’espressione patroév. Si tratta più o meno degli stessi codici che introducono patroév dopo tou% peémyantoév me in 6,38. Le edizioni critiche segnalano il maiuscolo Q, i minuscoli 700 892 1241 1424, i codici elencati da Ferrar (f13), molti codici della Koiné, l’antica versione latina, Eusebio, Cirillo. 7 Possiamo mettere a confronto i due testi di 5,30b e di 6,38: 5.30b 6,38

ou\ zhtw% ou\c i$na poiw% toè qeélhma toè qeélhma toè e\moèn toè e\moèn a\llaè a\llaè toè qeélhma toè qeélhma tou% peémyantoév me tou% peémyantoév me. 8 Il verbo poieéw può richiamare il Sal 39 (40),8-9: i\douè h$kw […] tou% poih%sai toè qeélhmaé sou (ecco vengo […] per fare la tua volontà). L’espressione katabeébhka a\poè tou% ou\ranou% però si ricollega meglio all’espressione di Is 55,10 riferita alla pioggia e alla neve,: e\aèn katab+% u|etoèv h! ciwèn e\k tou% ou\ranou%, nel cui contesto (v 11) si legge, riferita a Dio,


La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni

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praticamente coincidono, possiamo allora prescindere da 5,30b e fermarci soltanto a 6,38.

1.3. Il riferimento alla preghiera di Gesù nei vangeli sinottici La contrapposizione della volontà del Padre a quella di Gesù, espressa da lui stesso in questi testi, ci rimanda alla sua preghiera al Getsemani, riferita dai vangeli sinottici9. In Mt 26,39, dopo avere chiesto al Padre che passi il calice, Gesù aggiunge: «però (plhèn) non come (ou\k w|v) io voglio (e\gwè qeélw) ma come tu (a\ll}w|v sué)»: Gesù antepone alla sua la volontà del Padre. Ancora in Mt 26,42, dopo avere constatato che il calice non può passare senza che egli lo beva, Gesù dichiara: «avvenga (genhqhétw) la tua volontà (toè qeélhmaé sou)». In Mc 14,35b, nella sua preghiera espressa in forma dialogica, dopo avere chiesto che passasse il calice, Gesù contrappone ancora la volontà del Padre alla sua: «ma non ciò che (a\ll}ou\ tò) io voglio (e\gwè qeélw) ma (a\llaé) ciò che (tò) tu (sué)». Pur con qualche differenza, l’espressione di Marco è analoga a quella di Matteo. Infine in Lc 22,42, ancora dopo la richiesta che allontani il calice, Gesù dichiara al Padre: «però non (plhèn mhè) la mia volontà (toè qeélhmaé mou) ma la tua (a\llaè toè soèn) sia fatta (gineésqw)». l’espressione o$sa h\qeélhsa: la Parola di Dio che scende dal cielo porterà a compimento (suntelesq+%) quanto Dio ha voluto. Il verbo poieéw può richiamare però anche Is 44,28 dove leggiamo una riflessione di Dio a riguardo di Ciro: paénta taè qelhémataé mou poihései (tutte le mie volontà farà). 9 Gli interpreti che, a riguardo di Gv 6,38, rimandano alla preghiera del Getsemani, sono invero pochi. Possiamo citare tra questi Gnilka che richiama in margine Mt 26,39; Mc 14,36; Lc 22,42, cfr J. GNILKA, Johannesevangelium, Würzburg 1983, 51; G. MAIER, Johannesevangelium, I, Neuhausen - Stuttgart 19892, 278-279, che sottolinea la piena sintonia della volontà di Gesù con quella del Padre; cita Mt 26,39 ma non stabilisce una diretta relazione. Brown osserva che la contrapposizione tra due volontà, quella di Gesù e quella del Padre, si trova solo nel racconto sinottico; benché in Giovanni non ci sia un racconto dell’agonia, ci sono elementi sparsi, cfr R.E. BROWN, Giovanni, Assisi 19793, 348; anche ID., Incidents that Are Units in the Synoptic Gospels but Dispersed in St. John, in CBQ 23 (1961) 143-160: 143-148. Concordiamo con Brown nel fatto che, oltre i racconti sinottici e quelli giovannei su indicati, non troviamo nel NT alcun altro testo dove è espressa tale contrapposizione.


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A riguardo di tale contrapposizione della volontà del Padre a quella di Gesù, troviamo nei racconti dei vangeli sinottici due formule, una espressa con il verbo qeélw, l’altra espressa con il sostantivo qeélhma. La prima formula è usata da Marco, la seconda invece da Luca. Matteo usa entrambe le formule: in 26,39 usa la formula di Marco10, in 26,42 invece quella di Luca11. Dal punto di vista tematico della contrapposizione fatta da Gesù della volontà del Padre alla sua, i nostri testi giovannei concordano con tutti i testi dei vangeli sinottici sopra citati; dal punto di vista letterario però Giovanni concorda con la seconda formula, quella espressa con il termine qeélhma, riferita da Matteo e soprattutto da Luca12. Emergono però quattro differenze tra le espressioni giovannee e le espressioni di Matteo e Luca. Anzitutto in questi evangelisti Gesù si rivolge al Padre, in Giovanni invece egli risponde agli uomini con i quali è in dialogo. Inoltre Giovanni ripete due volte il termine qeélhma, mentre i sinottici lo usano una sola volta. Ancora Giovanni parla del Padre come colui che lo ha mandato (tou% peémyantoév me): ciò non è specificato nei sinottici. Infine sia Luca che Matteo usano il verbo gògnomai, mentre Giovanni usa il verbo poieéw. Questo confronto mostra che, pur con proprie peculiarità, Giovanni fondamentalmente concorda con i sinottici. Ciò induce a concludere che 10

Possiamo stabilire il seguente confronto tra i due evangelisti: plhèn ou\k w|v e\gwè qeélw a\llaè w|v sué Mt 26,39: Mc 14,35b: a\llaè ou\ tié e\gwè qeélw a\llaè tò sué I due evangelisti fondamentalmente concordano. Troviamo soltanto il duplice passaggio di Marco dalla particella plhén a quella più marcatamente avversativa a\llaé, e dall’avverbio comparativo w|v al pronome interrogativo tò. 11 Possiamo stabilire pure il seguente confronto tra i due evangelisti: Mt 26,42 Lc 22,42 genhqhétw

toè qeélhmaé sou

toè qeélhmaé mou allaè toè soén gineésqw.

Le differenze tra i due testi sono evidenti; i due evangelisti però concordano nell’espressione toè qeélhma e nel verbo gògnwmai in una forma imperativa alla terza persona singolare. 12 Ci riferiamo soprattutto a Luca perché Matteo, in questa seconda formulazione, non introduce alcuna contrapposizione.


La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni

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il nostro evangelista, quando scrisse il testo di 6,38, avesse appunto in mente il racconto della preghiera di Gesù al Getsemani, narrata dai vangeli sinottici.

1.4. Gv 6,37-40 e la sua relazione a Gv 18,9 Questa conclusione pare confermata ancora da un altro elemento che sembra emergere dalla considerazione globale dei vv 37-40 dove il nostro testo è inserito. Tutto il brano di Gv 6,37-40 costituisce una unità che si articola in parti corrispondenti ciascuna ai quattro versetti. La prima parte (v 37) contiene una solenne dichiarazione di Gesù: «tutto ciò che dà a me il Padre a me verrà e chi viene a me non lo caccerò fuori». La seconda parte (v 38), il nostro testo, introdotta dalla particella causale o$ti, contiene la motivazione dell’affermazione precedente. La terza e la quarta parte infine, rispettivamente i vv 39 e 40, contengono due sviluppi riguardanti il termine qeélhma13: L’evangelista introduce nei due versi due concreti contenuti della volontà di Dio. Le due descrizioni, nei vv 39 e 40, si articolano poi ciascuna a loro volta in tre parti. La prima introduce il concreto contenuto del termine qeélhma, la seconda, introdotta dalla particella i$na, menziona quelli a cui è riferita la volontà di Dio e il suo specifico contenuto, la terza infine riguarda la resurrezione nell’ultimo giorno. Nella prima parte i due testi, pur con qualche differenza, coincidono14. Pure nella terza parte, pur con qualche più lieve differenza, i

13 Il primo è introdotto mediante la particella deé e il secondo invece mediante la particella gaér. Il secondo appare così come una motivazione del precedente. 14 Possiamo notare l’introduzione quasi uguale delle due espressioni: v 39: tou%to deè e\stin toè qeélhma tou% peémyantoév me v 40: tou%to gaèr e\stin toè qeélhma tou% patroév mou. La sola differenza è che nel v 39 Gesù parla di «colui che lo ha mandato»; nel v 40 invece parla del “Padre”.


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Attilio Gangemi

due testi ancora coincidono15. Divergono invece, pur coincidendo in qualche elemento letterario16 e anche nello sviluppo strutturale17, nella seconda parte. Nella seconda parte del v 39 lo sviluppo è negativo: Gesù dichiara che giammai perderà (mhè a\poleésw) chiunque (o$) il Padre gli ha dato (deédwkeén moi). Nella seconda parte del v 40 invece lo sviluppo è positivo: Gesù dichiara che chiunque vede (o| qewrw%n) il Figlio (toèn ui|oèn) e crede in lui (pisteuéwn ei\v au\toén) ha vita eterna (zwhèn ai\wénion). L’espressione del v 39, i$na pa%n o| deédwkeén moi mhè a\polhésw ex au\tou% (perché tutto ciò che ha dato a me non perda da esso), ha dei paralleli nel vangelo di Giovanni. Il primo parallelo è in 17,12 dove Gesù dichiara: «io li conservavo (e\théroun) nel tuo nome, quelli che hai dato a me (§/ deédwkaév moi) ed ho custodito (kaì e\fuélaxa) e nessuno (ou\deìv) di essi (e\x au\tw%n) è perito (a\pwéleto) se non il figlio della perdizione». Il secondo testo parallelo è Gv 18,9, dove invece leggiamo: «quelli che hai dato a me (ou$v) non ho perduto (ou\k a\pwélesa) di essi (e\x au\tw%n) alcuno (ou\deéna)». Una presentazione sinottica dei tre testi permetterà di cogliere meglio le loro somiglianze e le loro differenze.

15

Possiamo stabilire tra le due espressioni il seguente confronto: v 39: a\llaè a\nasthésw au\toè [e\n] t+% e\scaét+ h|meérç v 40: kaì a\nasthésw au\toèn [e\n] t+% e\scaét+ h|meérç. Le differenze praticamente si riducono a due: la diversa particella iniziale, rispettivamente: avversativa (a\llaé) e di successione (kaò), e il passaggio dal pronome neutro (au\toé) al pronome maschile (au\toén). 16 Gli elementi letterari sono la particella i$na e il pronome pa%v formulato, rispettvamente, al neutro (v 39: pa%n) e al maschile (v 40: pa%v). 17 Dal punto di vista strutturale, dopo la particella i$na, le due espressioni comprendono: un soggetto con l’aggettivo pa%v, un’espressione rispettivamente relativa e participiale, il verbo diretto al congiuntivo: v 39 v 40 pa%n o£ deédwkeén moi mhè a\poleésw e\x au\tou%.

pa%v o| qewrw%n kaì pisteuéwn ei\v au\toèn e\c+ zwhèn ai\wénion


La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni

6,39

17,12

i$na pa%n o| deédwkaév moi

[…] §& deédwkaév moi […] kaì ou\deìv e\x au\tw%n a\pwéleto

mhè a\polhésw e\x au\tou%

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18,9 ou£v deédwkaév moi ou\k a\pwélesa e\x au\tw%n ou\deéna

Questi tre testi presentano degli elementi uguali18: l’espressione deédwkaév moi, l’espressione e\x au\tou% (w%n), il verbo a\poéllumi19. Pur ricollegandosi anche al testo di 17,12, il nostro testo di 6,39 rivela una relazione più diretta a quello di 18,9. Ciò emerge soprattutto da due elementi: la forma attiva del verbo a\poéllumi20 e una particolare relazione strutturale tra i due testi: 6,39. i$na pa%n 18,9.

o| deédwkaév moi mhè a\polhésw e\x au\tou% ou£v deédwkaév moi ou\k a\pwélesa e\x au\tw%n ou\deéna

Al centro troviamo due espressioni quasi identiche; nel primo e quarto elemento troviamo il termine positivo pa%n (chiunque) e quello negativo ou\deéna (nessuno). Possiamo ulteriormente ampliare la relazione tra la nostra descrizione di 6,37-40 e il racconto giovanneo del Getsemani. Mentre il testo di 6,39 richiama quello di 18,9, il testo precedente, 6,38, in cui Gesù antepone la volontà del Padre alla sua, richiama il testo di 18,11b, dove Gesù, in forma di interrogativa retorica dichiara che egli berrà il calice che

18

Il testo di 17,12 è più lungo: possiamo individuare, in base ai verbi, quattro parti: 1. e\gwè ethéroun au\touèv e\n t§% o\noématò sou 2. §/ deédwkaév moi 3. kaì e\fuélaxa 4. Kaì ou\deìv e\x au\tw%n a\pwéleto In comune agli altri testi sono gli elementi della seconda e quarta parte. La prima e la terza parte si richiamano tra di loro tematicamente. 19 In 6,39 e in 18,9 il verbo a\poéllumi è in forma transitiva (perdere), in 17,12 invece è in forma intransitiva. 20 Cfr la relazione: 6,39: mhè a\poleésw – 18,9: ou\k a\pwélesa.


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Attilio Gangemi

il Padre gli ha dato. Possiamo stabilire nei testi giovannei la seguente relazione concentrica: 6,38: katabeébhka a\poè tou% ouranou% ou\c i$na poiw% toè qeélhma toè e\moèn a\llaè toè qeélhma tou% peémyantoév me 6,39: i$na pa%n o| deédwkeén moi mhè a\polhésw e\x au\tou% 18,9: ou£v deédwkaév moi ou\k a\pwélesa e\x au\tw%n ou\deéna 18,11: toè pothérion o$ deédwkeén moi o| Pathér ou\ mhè pòw au\to;é

Sia il testo di 6,38 che quello di 18,11b, come vedremo, si riconducono alla stessa preghiera di Gesù al Getsemani narrata dai vangeli sinottici. Essi, smembrati e relazionati nell’ambito della stessa narrazione giovannea, rimandano entrambi e sono due aspetti dell’unico racconto sinottico della preghiera di Gesù al Getsemani.

1.5. Relazione di 6,38-40 a Gv 3,14.16 Un ultimo elemento sembra confermare l’allusione del testo di 6,3840 ai racconti sinottici della preghiera al Getsemani. In 6,40 l’evangelista scrive: «questa infatti è la volontà del Padre mio che chiunque vede (o| qewrw%n) il figlio (toèn ui|oèn) e crede (kaì pisteuéwn) in lui (ei\v au\toén), abbia vita eterna (e\c+ zwhèn ai\wénion)». L’espressione del v 40 non è unica nel vangelo; analoga, si legge altre due volte nel contesto assai ravvicinato di 3,14.16. Possiamo così istituire un confronto tra le tre espressioni: 3,14 3,16 6,40 i$na pa%v o|

i$na pa%v o|

pisteuéwn e\n au\t§%

pisteuéwn ei\v au\toèn mhè a\poélhtai a\ll} e\c+ zwhèn ai\wénion

e\c+ zwhèn ai\wénion

i$na pa%v o| qewrw%n toèn ui|oèn kaì pisteuéwn ei\v au\toèn

e\c+ zwhèn ai\wénion

Prescindendo da qualche differenza letteraria più marginale, il testo di 3,16 aggiunge l’espressione negativa mhè a\poélhtai che si lega al seguente verbo e\c+ mediante la particella avversativa a\llaé; il testo di 6,40 invece


La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni

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aggiunge l’espressione o| qewrw%n che si lega al seguente verbo pisteuéwn mediante la congiunzione kaò. Troviamo in 6,40 una caratterizzazione concreta della volontà di Dio. Essa costituisce l’aspetto positivo; quello negativo invece è stato descritto già dall’evangelista nel precedente v 3921. Il testo di 3,16 stabilisce però una relazione anche con il testo di 6,39. Tale relazione è determinata da due elementi: dall’espressione negativa con la particella mhé e da una forma al congiuntivo del verbo a\poéllumi22, e dal verbo dòdwmi23. Questi elementi, nei due testi, sono collocati in diversa prospettiva. In 3,16 si parla del dono (e"dwken) dell’Unigenito (toèn monogenh%) al mondo (toèn koésmon) da parte di Dio, perché chiunque crede in lui non perisca (mhè a\poélhtai); in 6,39 invece si tratta di tutto ciò che il Padre ha dato (deédwken) a Gesù, perché egli non perda (mhè a\poleésw) nessuno. La relazione tra 3,16 e 6,39 sopra indicata stabilisce, in maniera concentrica, una relazione più diretta tra 3,14 e 6,40. Possiamo infatti proporre il seguente schema: 1. (3,14): i$na pa%v o| pisteuéwn e\n au\t§% e\c+ zwhèn ai\wénion 2. (3,16): toèn monogenh% e\dwken i$na pa%v o| pisteuéwn ei\v au\toèn mhè a\poélhtai a\ll}e\c+ zwhèn ai\wénion

3. (6,39): i$na pa%n o| deédwkeén moi mhè a\poleésw e\x au\tou% 4. (6,40): i$na pa%v o| qewrw%n toèn ui|oèn kaì pisteuéwn ei\v au\toèn e»c+ zwhèn ai\wénion

Così il testo di 3,16 si relaziona più facilmente a 6,39, mentre il testo di 6,14 si relaziona più facilmente al testo di 6,4024. L’espressione di 3,14 però è preceduta da una affermazione di Gesù: il figlio dell’uomo deve essere innalzato (u|ywqh%nai de_) come Mosè innalzò (u$ywsen) il serpente nel deserto. Egli deve essere innalzato perché, chi crede in lui, abbia la vita eterna. 21

Cfr il v 39: mhè a\poleésw. Cfr 3,16: mhè a\poélhtai e 6,39: mhè a\poleésw. 23 Cfr 3,16: e"dwken e 6,39: deédwken. 24 Non manca però qualche relazione tra 3,16 e 6,40: essa è determinata dal termine toèn ui|oén. In 3,14 però leggiamo l’espressione toèn ui|oèn tou% a\nqrwépou. Sia l’espressione toèn ui|oèn tou% a\nqrwépou di 3,14 sia anche l’espressione toèn ui|oèn au\tou% toèn monogenh% di 3,16 possono convergere nel termine assoluto toèn ui|oén di 6,40. 22


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Attilio Gangemi

Possiamo allora stabilire una certa complementarietà tematica tra 3,14 e 6,40. Il figlio dell’uomo deve essere innalzato (3,14) per diventare così oggetto di contemplazione (6,40) e quindi oggetto di fede25. Emerge così tra i due testi il seguente progresso tematico: il figlio dell’uomo deve essere innalzato, deve diventare oggetto di contemplazione, deve diventare oggetto di fede ed essere così fonte di vita eterna. Tutto ciò concorda bene con la narrazione della passione giovannea, dove nel fatto che a Gesù sulla croce, essendo già morto, non spezzarono le gambe e nel fatto che uno dei soldati aprì il costato e uscì sangue ed acqua, l’evangelista vede realizzate due Scritture: Es 12,46: «osso non spezzerete da esso» e Zc 12,10: «guarderanno (o"yontai) a colui (ei\v o£n) che trafissero (e\xekeénthsan)»26.

1.6. Relazione di 6,38-40 alla narrazione giovannea della passione Tutte queste osservazioni permettono di concludere che in Gv 6,3840, nel testo cioè introdotto dalla particella o$ti, l’evangelista propone uno schema che troverà più ampio sviluppo nella narrazione della passione. Gesù anzitutto dichiara di essere sceso dal cielo non per fare la sua volontà ma la volontà di colui che lo ha mandato (6,38). Questa dichiarazione non è ripresa nella narrazione della passione, ma, in 18,11b, in forma di interrogativa retorica negativa, Gesù mostra a Pietro che egli berrà il calice che il Padre gli ha dato. La volontà del Padre poi è che egli non perda di ciò che egli gli ha

25

Possiamo anche stabilire tra i due testi una certa relazione strutturale: 3,14 6,40 u|ywqh%nai de_ toèn ui|oèn tou% a\nqrwépou i$na pa%v o| pisteuéwn e\n au\t§%

26

Zc 12,10.

i$na pa%v o| qewrw%n toèn ui|oèn kaì pisteuéwn ei\v au\toén.

Prescindiamo in questo studio dal modo come l’evangelista riprenda il testo di


La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni

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dato (6,39). L’evangelista vede realizzate queste parole di Gesù in 18,9 dove Gesù chiede a quelli che sono venuti a catturarlo che i discepoli vadano27. Gesù così va alla croce dove è innalzato. In 6,40 l’evangelista riferisce le parole di Gesù che «chiunque vede il figlio e crede in lui, ha la vita eterna»; in 19,37 l’evangelista vede realizzato nel crocifisso, l’oracolo di Zc 12,10: «guarderanno a colui che hanno trafitto». La relazione che abbiamo stabilito tra Gv 6,38-40 e Gv 3,14.16 e la relazione di questi due testi alla narrazione della passione confermano quanto abbiamo già notato, che anche in 6,38 e, prima ancora, in 5,30, nella contrapposizione cioè della volontà di Gesù a quella del Padre, il nostro evangelista alluda alla preghiera di Gesù riferita dai vangeli sinottici.

2. GV 12,27-28a 12,27: nu%n h| yuché mou tetaéraktai kaì tò ei"pw: paéter, sw%soén me e\k th%v w$rav tauéthv; a\llaè diaè tou%to h/lqon ei\v thèn w$ran tauéthn. 12,28a: paéter, doéxasoén sou toè o"noma

(Adesso la mia anima è stata turbata e che dirò: Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo venni a quest’ora. Padre, glorifica il tuo nome) Dal punto di vista della critica testuale il v 27 non presenta alcun problema. Qualche problema, invero di secondaria importanza, appare invece nel v 28a28. dal punto di vista strutturale i vv 27-28a sono abbastanza 27 Qui l’evangelista reinterpreta un dato riferito soltanto da Matteo e Marco. Secondo questi evangelisti, i discepoli, al momento della cattura, lasciarono tutti Gesù e fuggirono (cfr Mt 26,56; Mc 14,50). 28 Anzitutto, dopo il vocativo paéter, il codice Alessandrino ed alcuni minuscoli (544 826 71c 447 2430) aggiungono l’aggettivo a"gie; si avverte però qui l’influsso di qualche altro passaggio del vangelo dove si legge appunto l’espressione paéter a"gie (Gv 17,11). Inoltre il codice B, prima del termine toè o"noma, sostituisce il pronome di seconda persona singolare sou% con quello di prima persona singolare mou%: evidentemente qualche copista dovette trovare strano il pronome di seconda persona singolare. Ancora alcuni codici e versioni (cfr i codici L Xss, i codici elencati da Lake e da Ferrar, i minuscoli 33s 579 1 118s 826 1187s 317, le versioni Siro heraclense, in lettura marginale, e bohairica, inoltre Cirillo, Origene) sostituiscono l’espressione toè o"noma con l’espressione toèn ui|oén; si avverte in tale mutamento l’influsso di 17,1, dove si legge appunto lo stesso imperativo doéxason seguito dall’oggetto


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semplici. Essi iniziano con una affermazione di Gesù: nu%n h| yuché mou tetaéraktai (adesso la mia anima è stata turbata). Seguono poi sei espressioni gravitanti attorno alle due fondamentali: kaì tò ei"pw (e che cosa dirò) e diaè tou%to h/lqon (per questo venni). Le quattro espressioni, che seguono, a due a due, a ciascuna di esse, sono strutturate secondo uno schema concentrico29. In questo schema emerge al centro l’espressione diaè tou%to h/lqon che indica lo scopo della venuta di Gesù30. Tale scopo induce ad escludere un tipo di preghiera e ad esprimerne un’altra. Emerge un contrasto tra una eventuale preghiera di richiesta di salvezza e lo scopo preciso per cui Gesù è venuto a «quest’ora»31. La duplice menzione dell’ora induce a confrontare più specificamente le due espressioni corrispondenti.

2.1. Posizione degli interpreti A differenza del testo precedente, a riguardo del testo di Gv 12,2728a, quasi tutti gli interpreti ammetto la sua relazione ai racconti sinottici dell’agonia di Gesù.

toèn ui|oén. Infine il codice D, dopo il termine toè o"noma, aggiunge l’espressione e\n t+% doéx+ hn eùcon paraé soi proè tou% koésmou geneésqai; l’influsso di Gv 17,5 è evidente. 29

Emerge allora il seguente schema:

kaì tò ei"pw: paéter, sw%soén me e\k th%v w$rav tauéthv; a\llaè diaè tou%to h/lqon ei\v thèn w$ran tauéthn paéter, doéxasoén sou toè o"noma. 30

Leon Dufour considera ancora un testo più ampio, i vv 23-33, ed individua ancora una struttura chiastica (23/27. 24/31: 25/31. 26/28, ritenendo i vv 29-30 una aggiunta ad uno schema letterario fissato, cfr X. LEON DUFOUR, Trois Chiasmes Johanniques, cit., 249; cfr anche ID., Jesus in Gethsemane. Essai de Lacture syncronique, in ScEsp 31 (1979) 251268: 264. 31 Possiamo notare anche il seguente parallelismo: paéter, sw%soén me e\k th%v w$rav tauéthv

diaè tou%to h/lqon ei\v thèn w$ran tauéthn.


La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni

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Tra gli interpreti, almeno i più recenti, che richiamano il racconto del Getsemani, possiamo citare Armbruster32, Barbour33, Bauer34, Bernard35, Bertrams36, Boman37, Bruce38, Cranfield39, Durand-Huby40, Ellis41, Fabris42, Gnilka43, Knabenbauer44, Kysar45, Lenski46, Leon Dufour47, G. Maier48,

32 Cfr C.J. ARMBRUSTER, The Messianic Significance of the Agony in the Garden, in Script 16 (1964) 111-119: 115. 33 Cfr R.S. BARBOUR, Gethsemane in the Tradition of the Passion, in NTS 16 (196970) 231-251: 241. 34 Cfr W. BAUER, Das Johannesevangelium, Tübingen 19333, 162: Giovanni ha formulato la preghiera in modo tale da adattarsi all’incarnazione del Logos. 35 Cfr J.H. BERNARD, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to S. John, Edinburgh 1928, 556. 36 Cfr G. BERTRAMS, Die Leidensgeschichte Jesu und der Christukult, Göttingen 1922, 48, che però nota una diversità di prospettiva: i sinottici presentano una lotta per l’unità tra la volontà di Gesù e quella del Padre, Giovanni invece presenta una testimonianza di questa unità. 37 Cfr T. BOMAN, Der Gebetskampf Jesu, in NTS 10 (1963-54) 261-273: 265. 38 Cfr F.F. BRUCE, The Gospel of John, Grand Rapids 1984, 265: è il corrispondente giovanneo del Getsemani dei sinottici. 39 Cfr C.E.B. CRANFIELD, The Cup Metaphor in Mark XIV,36 and Parallels, in ExpTim 59 (1947-1948) 137-138: in Giovanni la preghiera si apre verso l’ora escatologica. 40 Cfr A. DURAND - J.HUBY, Évangile selon S. Jean, Paris 193835, 346-347. 41 Cfr P.F. ELLIS, The Genius of John, Collegeville (Minnesota) 19842, 203: Gv 12,2728a è la versione giovannea dell’agonia al Getsemani. 42 Cfr R. FABRIS, Giovanni, Roma 1992, 684. 43 Cfr J. GNILKA, Johannesevangelium, cit., 51, che cita in margine Mt 26,36-46; Mc 14,32-42; Lc 22,45-46. 44 Cfr I. KNABENBAUER, Kommentarius in Evangelium secundum Ioannem, Parisiis 19062 397-398: è la preghiera fatta al Getsemani. 45 Cfr R. KYSAR, John, Minneapolis (Minnesota) 1986, 197-198. 46 Cfr R.C.H. LENSKI, The Interpretation of St. John’s Gospel, Columbus (Ohio) 1942, 1188. 47 Cfr X. LEON DUFOUR, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, II, cit., 584. 48 Cfr G. MAIER, Johannesevangelium, II, Neuhausen - Stuttgart 1986, 37, che cita Mt 26,38.


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Maldonato49, Porsch, Schanz50, Schlatter51, Schneider52, Schwank53, Simoens54, Van den Bussche55, Wilckens56. Feldmeyer57 elenca otto punto di contatto a riguardo tra Giovanni e i sinottici; Schnackenburg invece ne elenca solo sei58. Altri interpreti osservano che Giovanni si ricollega alla tradizione del Getsemani senza però dipendervi direttamente. Così Lindars59, Lohse60, Onuki61, Schnelle62. Altri autori parlano ancora soltanto di tracce in Gv 12,27-28a dell’agonia del Getsemani. In questo senso possiamo citare Barrett63,

49 Cfr G. MALDONATO, Commentarii in quatuor Evangelistas, II: In Lucam et Joannem, Moguntiae 1874, 816, che richiama Agostino e Beda. 50 Cfr P. SCHANZ, Kommentar über das Evangelium des heiligen Johannes, Tübingen 1885, 437. 51 Cfr A. SCHLATTER, Der Evangelist Johannes. Wie er spricht, denkt und glaubt, Stuttgart 1939, 269: si richiama Mt 26,40 e Mc 14,30. 52 Cfr J. SCHNEIDER, Das Evangelium nach Johannes, Berlin 19782, 231. 53 Cfr B. SCHWANK, Evangelium nach Johannes, St. Ottilien 1996, 329: Giovanni riprende qui quello che è narrato dai sinottici. 54 Cfr J. SIMOENS, Selon Jean. 2. Une interprétation, Bruxelles 1997, 491: la somiglianza è chiara tra 12,27 e le parole del Getsemani. 55 Cfr H. VAN DEN BUSSCHE, Giovanni, trad. it., Assisi 1974, 418: secondo cui Giovanni riferisce solo l’essenziale della preghiera del Getsemani. 56 Cfr U. WILCKENS, Das Evangelium nach Johannes, Göttingen 199817, 139: definisce Gv 12,27-28a un concentrato della scena del Getsemani. 57 Cfr R. FELDMEIER, Die Krisis des Gottessohnes. Die Gethsemaneerzählung als Schlüssel der Markuspassion, Tübingen 1987, 39-41: non tutti i punti però sono decisivi. 58 Cfr R. SCHNACKENBURG, Il vangelo secondo Giovanni, II, trad. it., Brescia 1977, 641-642. 59 Cfr B. LINDARS, The Gospel of John, Grand Rapids 1986, 430. 60 Cfr M. LOHSE, Die Geschichte des Leidens und Sterbens Jesu Christi, Gütersloh 1964, 67-68. 61 Cfr T. ONUKI, Die Johanneischen Abschiedsreden und synoptische Tradition, in AJBI 3157-268. 62 Cfr U. SCHNELLE, Das Evangelium nach Johannes, Leipzig 1998, 204. 63 Cfr C.K. BARRETT, The Gospel according to St John, London 19853, 53.294.


La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni

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Buse64, Hänchen65, Strathmann66. Feuillet67 vede Gv 12,27-28a come preludio al Getsemanui; Noack68 ritiene che Giovanni abbia preso una tradizione isolata; Nicholson69 invece esclude la relazione al Getsemani; secondo Plummer70 l’indicazione giovannea dice che l’agonia fu parte di tutta la vita di Gesù.

2.2. L’espressione nu%n h| yuché mou tetaéraktai Con queste parole Gesù dichiara di essere entrato in uno stato di turbamento nel quale tuttora egli permane71. Il verbo taraéssw non è frequente nel NT; complessivamente esso si legge solo 18 volte, di cui sette nel vangelo di Giovanni72. Dei sette usi giovannei73 tre sono riferiti a Gesù, in 11,23; 12,27; 13,21. L’uso del verbo taraéssw nel nostro testo, nel contesto dei tre riferiti a Gesù sopra indicati, si rivela centrale per due elementi. Anzitutto nel primo e terzo, in 11,23 e 13,21, è l’evangelista che narra, nel nostro testo invece è Gesù che parla. Inoltre, ancora nei testi di 11,23 e 13,21, il verbo

64

Cfr S.I. BUSE, St. John and the Marcan Passion Narrative, in NTS 4 (1957-58) 215219: 216. Che nota che la storia marciana del Getsemani trova eco in Gv 12,27; 14,31; 18,11. 65 Cfr E. HÄNCHEN, Das Johannesevangelium. Ein Kommentar, Tübingen 1980, 199. 66 Cfr H.STRATHMANN, Il vangelo secondo Giovanni, trad. it., Brescia 1973, 314. 67 Cfr A. FEUILLET, L’agonie de Gethsémani, Paris 1977 , 162. 68 Cfr B. NOACK, Zur johanneischen Tradition. Beiträge zur literarkritische Exegese des vierten Evangeliums, København 1954, 106. 69 Cfr G.C. NICHOLSON, Death as Departure. The Johannine descent-Ascent schema, Chico (California) 1983, 127-128. 70 Cfr A. PLUMMER, The Gospel according to St. John, Cambridge 1912, 257. 71 Cfr il perfetto tetaéraktai. 72 Gli altri 11 usi sono in Mt 2,3; 14,26; Mc 6,50; Lc 1,12; 24,38; At 15,24; 17,8.13; Gal 1,7; 5,10; 1Pt 3,14. 73 Gli altri quattro usi sono in 5,4.7 e in 14,1.27. L’uso di 5,4 però è criticamente incerto; tutto il v 4 infatti è omesso da diversi codici, tra cui i maiuscoli B S C* D W, i minuscoli 047 0123 0141, alcuni codici della vetus latina, la versione siro curetoriana, la versione armena, la versione sahidica.


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Attilio Gangemi

taraéssw è legato al termine pneu%ma74, nel nostro testo invece esso è legato al termine yuché75.

A riguardo gli interpreti si riferiscono a diversi testi dell’AT. Alcuni richiamano il Sal 6,4 e il Sal 41,776. Altri richiamano soltanto il Sal 677. Altri ancora richiamano diversi testi78. Altri infine sembrano contrari alla mediazione del linguaggio dei salmi79. 74 Direttamente in 13,21: di Gesù l’evangelista infatti dice che e\taraécqh t§% pneuémati (si turbò nello spirito); indirettamente invece in 11,33, dove il termine pneu%ma è legato al verbo e\nebrimhésato (e\nebrimhésato t§% pneuémati), mentre il verbo taraéssw è legato all’oggetto e|autoén (e\taéraxen e|autoén). 75 Il nostro testo risulta centrale non solo in relazione ai tre testi riferiti a Gesù ma anche in relazione a tutti gli usi giovannei del verbo taraéssw. Presupponendo autentico infatti anche l’uso di 5,4, i sette usi del verbo si articolano nel vangelo nel seguente modo: i primi due, 5,4.7, si riferiscono all’acqua della piscina che viene agitata; gli ultimi due, in 14,1.27, si riferiscono al cuore dei discepoli nell’espressione mhè tarasseésqw u|mw%n h| kardòa (non si turbi il vostro cuore). I sette usi si strutturano così secondo uno schema concentrico, dove, al centro risaltano i tre riferiti a Gesù; ancora più centrale appare quello del nostro testo. 5,4.7: toè u$dwr 11,33: t§% pneuémati 12,27: h| yuché mou 13,21: t§% pneuémati 14,1.27: h| kardòa. 76 Cfr A. DURAND - J. HUBY, Évangile selon S. Jean, cit., 346 nota 1; R. FABRIS, Giovanni, cit., 685; E.C. HOSKYNS - F.N. DAVEY, The Fourth Gospel, London 19472, 424425; B. LINDARS, The Gospel of John, cit., 430; U. SCHNELLE, Das Evangelium nach Johannes, cit., 204. Nota Thüsing che l’uso del verbo stabilisce stabilisce un legame stretto con il Sal 42/43, cfr W. THÜSING, Die Erhöhung und Verherlichung Jesu in Johannesevangelium, Münster 1960; cfr anche TH. ZAHN, Das Evangelium des Johannes, Wuppertal 1983 (ristampa dal 1921), 516. 77 Cfr R.A. CULPEPPER, Anatomy of the Fourth Gospel, Philadelphia 1983, 111; G. MAIER, Johannesevangelium, II, Neuhausen - Stuttgart 1986, 38; J.N. SANDERS - B.A. MASTIN, A Commentary on the Gospel according to S. John, London 1968, 294; G. SCHIWY, Das Evangelium nach Johannes. Die Apostelgeschichte, Würzburg 19682, 109. 78 Bauer richiama: Sal 41,6-7; Gen 41,8; Sal 54,6; Lam 2,11, cfr W. BAUER, Das Johannesevangelium, cit., 162; Bultmann richiama Gen 41,8; Sal 30,10 (LXX); 41,6s; 54,5; Lam 2,11, cfr R. BULTMANN, Das Evangelium des Johannes, cit., 327 nota 2; Schlatter richiama: Sal 6,4; Ab 3,2s ma non il Sal 41, cfr A. SCHLATTER, Der Evangelist Johannes, cit., 269. 79 Cfr L. SCHENKE, Studien zur Passionsgeschichte des Markus. Tradition und Redaction in Markus 14,1-42, Würzburg 1971, 544-545; W. SCHRAGE, Bibelarbeit über Markus 14,32-42, in Bibelarbeiten, Bad Godesberg 1967, 27-28; entrambi citati da Brown,


La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni

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Nei LXX il verbo taraéssw è riferito talora alla yuché80. Possiamo indicare in concreto sei testi: Gen 41,8; Gdt 14,19; Sal 6,3; Sal 30(31),10; Sal 41(42),7); Ab 3,281. In Gen 41,8 il verbo è riferito al faraone la cui anima al mattino rimase turbata (e\taraécqh h| yuchè au\tou%), in seguito ai sogni che egli aveva avuto durante la notte. In Gdt 14,19 è riferito ai comandanti dell’esercito assiro i quali, udito l’annunzio della morte di Oloferne, «si stracciarono le vesti e fu turbata la loro anima (e\taraécqh au\tw%n h| yuchè sfoédra)». Nel Sal 6, dopo avere implorato dal Signore la guarigione poiché sono state turbate le sue ossa (e\taraécqh taè o\sta% mou), il salmista nel v 4 prosegue esprimendo pure il turbamento della sua anima: «la mia anima è stata turbata assai (h| yuché mou e\taraécqh sfoédra)». La stessa prospettiva appare anche nel Sal 30(31),10 dove il salmista, dopo avere implorato pietà dal Signore, dichiara il suo totale turbamento82. Nel Sal 41(42),7 il salmista dichiara (LXX): «verso di me stesso (proèv e|mautoén) la mia anima è stata turbata (h| yuché mou e\taraécqh); per questo mi ricorderò di te dal Giordano e dall’Ermon, da un piccolo monte (a\poè o"rouv mikrou%)». Infine in Ab 3,2, all’inizio della sua preghiera, il profeta così si esprime (LXX): «Signore, ho udito il tuo annunzio ed ho temuto […]; nell’essere agitata la mia anima (e\n t§% taracqh%nai thèn yuchén mou) per il furore (e\n o\rg+%), della misericordia ricordati». Ci chiediamo allora se, nell’espressione di 12,27 nu%n h| yuché mou tetaéraktai, il nostro evangelista non possa alludere a qualcuno dei testi sopra citati. Il nostro testo può riferirsi anzitutto al Sal 6, dove il verbo taraéssw è usato con una certa insistenza, quattro volte e con diversi riferimenti: alle ossa (v 3), all’anima (v 4), all’occhio (v 8) del salmista e poi, nel v 11a, anche ai nemici. cfr R.E. BROWN, La morte del Messia. Un commentario dei racconti della passione nei quattro vangeli, cit., 258 nota 17. 80 Nel NT il verbo taraéssw non è mai più usato né in relazione al termine yuché né a riguardo di Gesù. 81 Altre volte è usato in relazione al cuore che è turbato (Est 5,2; Gb 37,1; Sal 37[38],11; 54[55],5; 108[109],22; 142[143],4; Lam 2,11), alle ossa che sono turbate (Sal 6,3), agli occhi (Sal 30[31],10a, alle viscere (Sir 51,25; Lam 1,20). 82 Il verbo taraéssw al passivo (e\taraécqh) è legato a tre soggetti che esprimono la totalità della persona: gli occhi, l’anima (h| yuché mou), le viscere.


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Oltre che per l’uso insistente del verbo taraéssw, l’allusione al Sal 6 può essere suggerita anche dall’uso del verbo s§ézw nel v 5. Nel v 4 leggiamo l’espressione: «la mia anima (h| yuché mou) è stata sconvolta (e\taraécqh) assai, e tu, Signore, fino a quando?»; nel v 5 poi leggiamo l’espressione: «volgiti, Signore, libera (r|u%sai) la mia anima (thèn yuchén mou), salvami (sw%soén me) per la tua misericordia». I due versi sono legati dal termine yuché. Tre elementi letterari relazionano il Sal 6 al nostro testo: il verbo taraéssw nella forma passiva, il termine yuché che è il soggetto passivo del verbo taraéssw, e il verbo s§ézw83. Emerge però una differenza tra il testo del Salmo e il nostro testo: mentre nel Salmo non è indicato un oggetto preciso da cui il salmista chiede di essere salvato, nel nostro testo invece l’oggetto è specificato: «quest’ora». L’allusione al Sal 6 da parte del nostro evangelista in 12,27 è suggerita anche da altri elementi. Nel v 6 il salmista, rivolgendosi a Dio, scrive: «non è nella morte (e\n t§% qanaét§) chi si ricorda di te (o| mnhmoneuéwn sou)». Evidentemente egli si sente minacciato dalla morte e chiede a Dio di liberarlo, perché nella morte non c’è chi si ricordi di lui. Della morte il nostro evangelista parla nel v 24, dove mette in bocca a Gesù le parole: «se il chicco di grano, caduto a terra, non muore (mhè…a\poqaén+), rimane solo, ma se muore (a\poqaén+) porta molto frutto»84. 83

Possiamo stabilire allora tra il Sal 6 e il nostro testo la seguente relazione: Sal 6 Gv 12,27 h| yuché mou e\taraécqh […] r|u%sai thèn yuchén mou sw%soén me

84

h| yuché mou tetaéraktai […]

sw%soén me e\k th%v w$rav tau%thv.

Si determina allora tra i due testi il seguente parallelismo concentrico: Sal 6 Gv 12,24.27

A. h| yuché mou tetaéraktai sfoédra […] B. e\n t§% qanaét§

B. mhè […] a\poqaén+ a\poqaén+ […] A. h\ yuché mou tetaéraktai.


La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni

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Un altro riferimento però è pure possibile, al Sal 41(42),7, dove il salmista, come abbiamo già notato, descrive la sua situazione interiore: «verso di me stesso (proèv e|mautoén) la mia anima (h| yuché mou) è stata turbata (e\taraécqh)»85. L’espressione proèv e|mautoén h| yuché mou e\taraécqh può richiamare quella del nostro testo nu%n h| yuché mou tetaéraktai. Notiamo però che, essendo questo l’unico elemento letterario, almeno esplicito86, la nostra espressione può richiamare ugualmente bene anche gli altri testi sopra indicati, soprattutto il Sal 6. Tuttavia un altro elemento, fuori dal vangelo di Giovanni, rende probabile l’allusione da parte del nostro evangelista al Sal 41(42),7. Ben tre volte, in 41(42),6.12; 42(43),5, il salmista ripete l’espressione identica: «perché triste sei (i$na tò peròlupov eù), anima mia (yuché), perché mi agiti (i$na tò suntaraésseiv meé)? Spera in Dio poiché (o$ti) lo confesserò, salvezza (swthérion) del mio volto e mio Dio». La prima parte, cioè l’espressione i$na tò peròlupov eù yuché, sembra essere stata ripresa dai vangeli di Matteo e Marco nel racconto del Getsemani. In Mt 26,38 e Mc 14,34 leggiamo l’identica espressione peròlupoév e\stin h| yuché mou e$wv qanaétou (la mia anima è triste fino a morte)87. Dai testi dei salmi 41-42 però non dipende l’espressione evangelica e$wv qanaétou (fino a morte)88. 85 Dodd rileva che tutto il Salmo fu considerato una descrizione delle sofferenze del Cristo, cfr C.H. DODD, La tradizione storica nel quarto vangelo, trad. it., Brescia 1983, 55. Secondo Brown la tradizione della preghiera del Getsemani fu espressa con il linguaggio dei salmi, primo tra i quali il Sal 41, cfr R.E. BROWN, La morte del Messia. Un commentario dei racconti della passione nei quattro vangeli, trad. it., Brescia 1999, 268, e anche ID., Giovanni, cit., 612. Per l’uso del salmo nel vangelo di Giovanni cfr J. BEUTLER, Psalm 42/43 im Johannesevangelium, in NTS 25 (1978-79) 34-38: 35-37. 86 Oltre il termine w$ra, nel salmo è assente anche il verbo s§ézw. Tuttavia nei vv 6.12 e 42,5 leggiamo il termine swthérion. 87 Facilmente l’espressione di Matteo e Marco richiama quella dei Salmi citati; si può stabilire infatti tra le due espressioni la seguente relazione: Salmi 41.42 Mt 26,38 e Mc 14,34

i$na tò peròlupov eù yuché

peròlupoév e\stin h| yuché mou.

88 Héring richiama il Sal 41,6 anche per l’espressione di Matteo e Marco: «la mia anima è triste fino a morte, cfr J. HÈRING, Zwei exegetische Probleme in der Perikope von


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Subito dopo il Salmo continua con l’espressione i$na tò suntaraésseiv meé che, nel v 6, precede l’espressione del v 7: proèv e|mautoén h| yuché mou e\taraécqh. L’espressione i$na tò suntaraésseiv me contiene, in forma composta, ancora il verbo taraéssw. Nel Salmo, al centro dei due termini peròlupov e suntaraésseiv, leggiamo il termine yuché. Mettendo insieme sia l’espressione dei vangeli sinottici sia quella di Giovanni e confrontandole con l’espressione dei Salmi, possiamo stabilire la stessa relazione: Sinottici Salmi 41.42 Giovanni peròlupoév e\stin h| yuché mou| e$wv qanaétou

i$na tò peròlupov eù yuché

h| yuché mou

i$na tò suntaraésseiv me

tetaéraktai

Se questa ricostruzione è esatta, i vangeli sinottici e Giovanni avrebbero ripreso ciascuno una parte dell’unica espressione i$na tò peròlupov eù, yuché, i$na tò suntaraésseiv me? I sinottici avrebbero ripreso la prima parte, cioè l’espressione i$na tò peròlupov eù, yuché, Giovanni invece avrebbe ripreso la seconda parte, cioè l’espressione yuché, i$na tò suntaraésseiv me. Più direttamente però il nostro evangelista sembra riprendere l’espressione del v 7, dove leggiamo non il verbo composto suntaraéssw ma il verbo semplice taraéssw. L’espressione dei vangeli sinottici lascia pensare che anche Giovanni, nell’espressione di 12,27, si riferisca ai Salmi 41.42. Tuttavia non si può negare che egli sia stato influenzato anche dal Sal 6 che condivide con i Salmi 41 e 42 l’espressione h| yuché mou e\taraécqh. In particolare la ripresa del Sal 6 avrebbe suggerito poi sia l’uso del verbo s§ézw nel v 2789 sia anche la menzione della morte del chicco di grano nel v 24.

Jesu in Getsemane, in Neotestamentica et Patristica, Fs. O. Cullmann, Leiden 1962, 64-69: 67. Osserva però che l’espressione e$wv qanaétou dipende da altri testi (Gdc 16,16; Sir 37,2). 89 Abbiamo già osservato però che nei Salmi 41,6.12; 42,5 si legge il sostantivo swthérion derivato appunto dal verbo s§ézw.


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2.3. La salvezza da «quest’ora» Dopo avere dichiarato che la sua anima è stata turbata, Gesù continua il suo discorso mediante l’espressione interrogativa potenziale kaì tò ei"pw (e che cosa potrò dire?). Di fronte al turbamento della sua anima, egli si chiede che cosa potrebbe dire; introduce subito dopo delle parole concrete che egli potrebbe eventualmente pronunziare: paéter, sw%soén me e\k th%v w$rav tau%thv (Padre, salvami da quest’ora). Queste ultime parole pongono un problema, se esse cioè siano una domanda o una affermazione. Il problema è suggerito dal fatto che, mentre alcune edizioni critiche, dopo l’espressione e\k th%v w$rav tau%thv pongono un segno interrogativo90, altre91 invece lo omettono92. Pure gli interpreti si dividono a riguardo. Alcuni ritengono l’espressione: «salvami da quest’ora» come una interrogativa93; altri invece una dichiarazione e una richiesta94. In quest’ultima posizione rientra anche l’in90 Cfr K. ALAND - M. BLACK - C.M. MARTINI - B.M. METZGER - A. WIKGREN, The Greek New Testament, Stuttgart 19934, ad locum; E. NESTLE – K.ALAND, Novum Testamentum graece, Stuttgart 199527, ad locum. 91 Cfr K. ALAND, Synopsis quattuor Evangeliorum, Stuttgart 198212, ad locum; E. NESTLE – K.ALAND, Novum Testamentum graece, Stuttgart 196825; A. MERK, Novum Testamentum Graece et latine, Romae 199211, ad locum. 92 Le edizioni di K. ALAND, Synopsis quattuor Evangeliorum, cit., ad locum e di E.NESTLE – K.ALAND, Novum Testamentum graece, Stuttgart 196825, ad locum indicano il cod W che attesta il punto interrogativo. 93 Citiamo, solo in maniera esemplificativa, C.K. BARRETT, The Gospel according to St John, cit., 425; P. BEECKMANN, L’évangile selon S. Jean, d’après les meilleurs auteurs catholiques, Bruges 1951, 276; R.E. BROWN, Giovanni, cit., 605; R. BULTMANN, Das Evangelium des Johannes, cit., 327 (l’interrogativa si spiega a causa del diaè tou%to); R. FABRIS, Giovanni, cit., 684; B. LINDARS, The Passion in the Fourth Gospel, in God’s Christ and His People, Fs. N.A. Dahl, Oslo 1977, 71-86: 79 (Gesù non può eludere la passione); M.J. LAGRANGE, Évangile selon S. Jean, Paris 19487, 333 (l’interrogativa è suggerita dall’espressione precedente; tò ei"pw); A. LOISY, Le quatrième évangile, Paris 19212, 688; G. MAIER, Johannesevangelium, II, cit., 38; L. MORRIS, The Gospel according to John, Grand Rapids 1971, 595; P. SCHANZ, Kommentar über das Evangelium des heiligen Johannes, cit., 437; J. SIMOENS, Selon Jean. 2. Une interprétation, cit., 491; B. WEISS, Das Johannesevangelium, Göttingen 19029, 370; TH. ZAHN, Das Evangelium des Johannes, cit., 516. 94 Citiamo ancora soltanto in maniera esemplificativa: C.J. ARMBRUSTER, The Messianic Significance of the Agony in the Garden, cit., 115; G.R. BEASLEY-MURRAY, John,


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terpretazione di Leon Dufour, secondo cui Gesù chiede al Padre di «passer sain et sauf à travers cette heure»95. La posizione di Leon Dufour è criticata da Feuillet96 e da Simoens97. Emerge così la domanda se Gesù esprime una eventuale preghiera che egli potrebbe pronunziare o se egli realmente formuli quella preghiera98. Il carattere interrogativo dell’espressione è richiesto dalle parole seguenti, introdotte mediante la particella di contrapposizione a\llaé: a\llaè diaè tou%to h&lqon ei\v thèn w$ran tau%thn (ma per questo sono venuto a quest’ora). Ad una eventuale preghiera che egli potrebbe rivolgere al Padre, Gesù contrappone lo scopo concreto (diaè tou%to) della sua venuta che gli impedisce appunto di pronunziare quella preghiera. La preghiera potrebbe essere suggerita dal turbamento di Gesù ed indicherebbe anche la causa per cui la sua anima è turbata: egli si trova di fronte a «quest’ora». In tale turbamento verrebbe spontanea la preghiera di essere salvato da quell’ora, ma Gesù la esclude, considerando appunto lo scopo della sua venuta. Si trovano così a confronto il turbamento dell’anima che suggerisce una preghiera e lo scopo concreto di Gesù che invece la esclude. In realtà, secondo Marco, Gesù pronunziò questa preghiera, che, secondo Giovanni, invece egli esclude. Leggiamo infatti in Mc 14,35b: «Gesù pregava (proseuéceto) che, se è possibile (ei\ duénatoén e\stin), passasse (pareélq+) da lui l’ora (h| w$ra)». L’ora di cui si parla nel testo di Waco (Texas) 1987, 212; Cfr F.F. BRUCE, The Gospel of John, Grand Rapids 1984, 265 (trova meno naturale la duplice domanda); I. KNABENBAUER, Kommentarius in Evangelium secundum Ioannem, cit., 398; G. MALDONATO, Commentarii in quatuor Evangelistas, II: In Lucam et Joannem, cit., 816-817; B.F. WESTCOTT, The Gospel according to St. John, Grand Rapids 1981, 182. 95 Cfr X. LEON DUFOUR, Père, fais-moi passer sain et sauf à travers cette heure (Jn 12,27), in Neues Testament und Geschichte, Zürich 1972, 156-165: 165; cfr ID., Jésus à Gethsémani. Essai de Lecture syncronique, in ScEsp 31 (1979) 251-268: 257. In questa traduzione egli dà alla particella e\k un senso locale. Nel suo commentario però egli ammette un’altra possibilità di lettura: «dès cette Heure», cioè fin da adesso, cfr X. LEON DUFOUR, Lecture de l’évangile selon Jean, II, Paris 1990, 470. 96 Cfr A. FEUILLET, L’agonie de Gethsémani, Paris 1977, 163 nota 3. 97 Cfr J. SIMOENS, Selon Jean. 2. Une interprétation, cit., 491. 98 Gli interpreti che propendono per il carattere interrogativo dell’espressione sembrano più numerosi.


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Marco è certamente quella in cui Gesù deve bere il calice99, l’ora della passione, l’ora del suo cammino che parte dal Getsemani, dal tradimento di Giuda100, e che culmina nella sua morte. Possiamo allora pensare che nell’espressione «Padre, salvami da quest’ora» Giovanni dipenda dalla tradizione sinottica, soprattutto da Marco. Ciò è suggerito da tre elementi: anzitutto dal vocativo Paéter che leggiamo pure nella preghiera di Gesù al Getsemani secondo i sinottici101; inoltre dal termine w$ra, il cui passaggio, benché in forma narrativa, in Mc 14,36 è il diretto oggetto della preghiera di Gesù e che caratterizza nei tre vangeli sinottici il vero inizio della passione102; infine dal fatto che mai 99 Subito dopo, nel v 36, leggiamo la diretta preghiera: }Abbaè o| Pathér, paénta dunataé moi, pareénegke toè pothérion tou%to a\p}e\mou%. Possiamo notare tra le due espressioni sia un

parallelismo strutturale sia anche delle relazioni letterarie: v 35b v 36 proseuéceto

}Abbaè o| Pathér, paénta ei\ duénatoén e\stin duénataé soi, pareélq+ pareénegke a\p}au\tou% toè pothérion tou%to h| w$ra a\p}e$mou%. L’espressione ei\ duénatoén e\stin richiama l’espressione duénataé soi; il verbo pareélq+ (pareércomai) richiama il verbo pareénegke (parafeérw), composti entrambi con la stessa particella paraé; troviamo lo stesso complemento di allontanamento con la particella a\poé (a\p}au\tou% e a\p}e\mou%). Possiamo notare infine nelle due frasi anche una inversione di elementi

che, insieme, determinano uno schema concentrico: a\p}au\tou% toè pothérion tou%to h| w$ra a\p}e\mou%. 100 Cfr Mt 26,45: «ecco, è giunta l’ora (h"ggiken h| w$ra) e il figlio dell’uomo è consegnato in mano dei peccatori», cfr anche v 55: «in quell’ora (e\n e\keòn+ t+% w$rç) disse Gesù alle folle: come ad un ladrone […]»; cfr anche Mc 14,41 parallelo a Mt 26,45; inoltre Lc 22,53: «ma questa è la vostra ora (u|mw%n h| w$ra) e il potere delle tenebre». 101 In Matteo leggiamo due volte l’espressione confidenziale Paéter mou (Mt 26,39.42); in Marco leggiamo l’espressione enfatica aramaica traslitterata in greco, }Abbaé, e la sua traduzione enfatica al nominativo o| Pathér (Mc 14,36); in Luca infine leggiamo il semplice vocativo Paéter. 102 Il termine w$ra nella diretta preghiera di Gesù non si legge né in Matteo né in Luca. Matteo presenta due stadi della preghiera di Gesù; in entrambi si parla dell’allontanamento


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altrove, oltre i racconti sinottici della preghiera al Getsemani, Gesù chiede al Padre di essere liberato da qualcosa. A questi tre elementi se ne può aggiungere un altro, più tematico: il fatto cioè che, sia nei racconti sinottici sia anche nel nostro testo di Giovanni, Gesù in qualsiasi modo supera la sua richiesta al Padre di essere liberato da qualcosa103. Non mancano però le differenze tra i racconti sinottici e il testo di Giovanni. Esse sono specificamente due. La prima riguarda il verbo che Gesù usa nella sua richiesta: nei vangeli sinottici leggiamo i verbi pareércomai104 e parafeérw105 nel vangelo di Giovanni leggiamo invece il verbo s§ézw. La seconda differenza riguarda la diversa prospettiva del superamento della richiesta. Secondo i vangeli sinottici Gesù supera la sua richiesta che passi l’ora o il calice mediante un atto di totale e incondizionata adesione alla volontà del Padre; secondo Giovanni egli supera la richiesta di essere salvato dall’ora evitando semplicemente di esprimerla. Possiamo allora concludere che sia la menzione del turbamento dell’anima di Gesù sia le sue eventuali parole che egli potrebbe rivolgere al Padre, secondo Gv 12,27-28a, rimandano alla preghiera di Gesù secondo i vangeli sinottici. L’espressione nu%n h| yuché mou tetaéraktai rimanda, attraverso i Salmi 41 e 42, riletti alla luce del Sal 6, alle parole di Gesù riferite da Matteo e Marco: peròlupoév e\stin h| yuché mou. I due sinottici e Giovanni si riconducono così allo stesso testo dei Salmi 41.42; Matteo e Marco riprendono la prima parte, i$na tò peròlipoév eà, yuché; Giovanni invece del calice; cfr Mt 26,39: Paéter mou, ei\ dunatoén e\stin, parelqaétw a\p}e\mou% toè pothérion tou%to (Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice); cfr v 42: Paéter mou, ei\ ou\ duénatai tou%to parelqe_n (Padre mio, se non può questo passare). Cfr anche Lc 22,42 che propone una sola preghiera: Paéter ei\ bouélei pareénegke tou%to toè pothérion a\p}e\mou% (Padre, se vuoi allontana da me questo calice). 103 Alcuni interpreti stabiliscono pure una relazione tra l’angelo menzionato in Gv 12,29 e quello in Lc 22,43. Cfr tra altri J.H. BERNARD, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to S. John, cit., 436; G. BERTRAMS, Die Leidensgeschichte Jesu und der Christukult, cit., 48; A. FEUILLET, L’agonie de Gethsémani, cit., 168; A. LOISY, Le quatrième évangile, cit., 689; B. SCHWANK, Evangelium nach Johannes, cit., 329. Simile relazione appare però molto problematica. 104 Cfr Mt 26,39.42; Mc 14,35b. 105 Cfr Mc 14,36; Lc 22,42.


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riprende la seconda parte, i$na tò suntaraésseiv me, formulata però secondo il Sal 41,7. I Salmi 41 e 42 concordano con il vangelo di Giovanni nel fatto del turbamento espresso con il verbo taraéssw. Nel Sal 41,7 (LXX) il verbo taraéssw è formulato all’aoristo (e\taraécqh) ed ha un valore ingressivo: rimanda cioè al momento iniziale in cui il salmista entra nel turbamento. Egli supera turbamento e tristezza (peròlupov) mediante il ricordo del Giordano e dell’Ermon, ma soprattutto mediante la propria fiducia in Dio. In Gv 12,27 il verbo taraéssw è formulato invece al perfetto (tetaéraktai): esso così descrive la situazione dell’anima di Gesù nella quale egli è entrato e nella quale permane. Nello sfondo di tale situazione si colloca una eventuale preghiera di Gesù di essere salvato dall’ora; essa può essere stata suggerita anche da tale situazione. Gesù è entrato nella tristezza e questa gli ha suggerito di chiedere al Padre che lo salvi dall’ora. Egli però esclude questa preghiera. L’evangelista sembra implicitamente insinuare pure che egli ha superato la sua tristezza. Quanto alla relazione tra l’espressione di Matteo e Marco e quella di Giovanni, sembra che le due formulazioni presentino una successione tematica inversa106. Entrambe riguardano l’anima (h| yuché). Mentre però l’espressione giovannea descrive, con il perfetto tetaéraktai, un’azione passiva che, iniziata, permane; l’espressione di Matteo e Marco invece, con il presente stativo e\stòn, descrive una situazione abituale e costante. Giovanni sembra precedere tematicamente i sinottici. L’anima di Gesù è stata turbata ed è entrata in una situazione di tristezza. Giovanni descrive il turbamento che si è determinato nell’anima di Gesù; i sinottici invece presentano la situazione di tristezza che si è verificata in seguito a quel turbamento.

106 Tale successione inversa in certo modo è riscontrabile anche nel testo dei Salmi. Essa appare progressiva nel testo di 41(42),5.12 e 42(43),5; infatti le due espressioni i$na tò peròlupoév eà, yuché e i$na tò suntaraésseiv me si leggono meglio in maniera progressiva: il turbamento dell’anima determina l’agitazione di tutta la persona (meé). Inversa appare invece la relazione tra l’espressione i$na tò peròlupoév eà, yuché del Sal 41(42),5.12 e del Sal 42(43),5, soprattutto del Sal 41(42),5, e quella di 41(42),7: proèv e\mautoèn h| yuché mou e\taraécqh: il turbamento dell’anima (e\taraécqh) determina la condizione (eà) di tristezza (peròlupov).


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Quanto poi alla preghiera, sembra che tra i Sinottici e Giovanni ci sia una contraddizione. Secondo Giovanni Gesù esclude quello che invece nei Sinottici egli afferma. In Giovanni Gesù esclude la richiesta al Padre di essere salvato dall’ora, nei Sinottici invece esplicitamente egli chiede che passi il calice; addirittura, secondo Marco, chiede che passi da lui l’ora. La contraddizione però è solo apparente. La richiesta di Gesù, secondo i Sinottici, è subordinata alla possibilità107 o alla volontà del Padre108. In ogni caso, in tutti e tre i vangeli, Gesù alla sua richiesta antepone la volontà del Padre alla quale egli aderisce. Sul modo e sulla disposizione interiore con cui Gesù aderisce alla volontà del Padre i vangeli sinottici non dicono nulla. C’è da pensare che essa sia stata non semplicemente esteriore e formale ma piena e assoluta, scaturente dal più profondo dall’anima, come appunto suggerisce il contesto di preghiera. Nella preghiera Gesù comprende che il calice non può passare e ancora nella preghiera egli comprende qual è l’epilogo della sua vicenda: il superamento della morte nella resurrezione. In questa prospettiva Giovanni esprimerebbe l’ultimo stadio dell’animo di Gesù, il suo atteggiamento interiore dopo la preghiera nella quale egli ha aderito alla volontà del Padre. Egli è perfettamente cosciente che non può eludere l’ora e che deve bere il calice. Tale coscienza sarebbe espressa da Giovanni mediante le parole che egli mette in bocca a Gesù e che escludono un certo tipo di richiesta. In questo senso il quarto evangelista rappresenterebbe uno stadio di riflessione più avanzata rispetto alla tradizione sinottica. Secondo i sinottici Gesù realmente rivolse al Padre la preghiera di poter eludere il calice, ma poi aderì alla sua volontà. In tale adesione quella preghiera è già superata e non bisogna più formularla. Qui si colloca l’espressione giovannea con la quale Gesù appunto esclude una preghiera di richiesta al Padre di essere salvato dall’ora.

107 Cfr le espressioni ei\ duénatoén e\stin (Mt 26,39; Mc 14,35b), ei\ ou\ duénatai (Mt 26,42), paénta duénataé soi (Mc 14,36). 108 Cfr l’espressione di Lc 22,42: ei\ bouélei.


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Se queste osservazioni sono vere, le espressioni di Gv 12,27 si collocano all’inizio e alla fine di un processo dell’animo di Gesù, le cui fasi intermedie sono indicate dai vangeli sinottici. Mettendo insieme infatti Giovanni e i sinottici, possiamo distinguere quattro fasi: 1. il turbamento dell’anima di Gesù Giovanni 2. la tristezza che assalì Gesù Sinottici 3. la preghiera al Padre Sinottici 4. il superamento della preghiera Giovanni

2.4. Il verbo s§ézw Come abbiamo già notato, Giovanni usa il verbo s§ézw che non si legge nei vangeli sinottici. Esso è facilmente riconducibile all’AT109. Diverse volte infatti si legge qui che Dio operò una salvezza (e"swsen)110. Talora è rivolta a Dio una preghiera perché salvi (swéson)111; oppure si esprime la profonda fiducia che egli salverà112; lui stesso anzi promette di salvare113. Dio poi è presentato, o anche si presenta, come colui che salva (o| s§ézwn)114. Quanto poi all’oggetto da cui Dio salva, esso è diverso nei vari testi dell’AT. Dio salva da quelli che perseguitano115, dai nemici116, dal re

109 Per il verbo s§ézw Leon Dufour evoca una lunga tradizione di salmi: Sall 3,8; 54,3; 69,2; 109,26; 119,94), cfr X. LEON DUFOUR, Père, fais-moi passer sain et sauf à travers cette heure (Jn 12,27), cit., 163. 110 Cfr Gb 33,28; Sal 21(22),6; 56(57),4; 105(106),8.47; 106(107),13.19; 114(116),6; 137(138),7; Sir 51,11; Is 63,9; Ger 38(31),7; Dan 3,88 (LXX TH); 6,21 (LXX).23 (LXX); 2Mc 2,17. 111 Cfr Sal 3,8; 6,5; 7,1; 11(12),2; 21(22),22; 30 (31),7; 53(54),1; 58(59),3; 59(60),7; 68(69),1.15; 85(86),2.16; 105(106), 47; 107(108),7; 108(109),26; 118(119),94.146.171 (tou% sw%sai); Is 37,20; Ger 2,27 (LXX); Ger 17,14. 112 Cfr Sal 17 (18),4 (swqhésomai); 71(72),4 (swései); 75(76),10 (tou% sw%sai); Zc 9,16 (swései); Is 25,9 (LXX) (swései); 33,22 (swései); 35,4 (swései). 113 Is 38,6; Ger 15,20 (tou% s§%zein se); Ger 46(39),17.18; 49(42),11; Ez 34,22; 36,29. 114 Cfr Sal 16(17),7; Is 43,3; 60,16. 115 Cfr Sal 7,1. 116 Cfr Sal 17[18],1; Is 37,20.


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Assiro117, dalla bocca del leone118, da quelli che «scendono nella fossa»119, dagli uomini di sangue120, dalle angustie121, dalla tribolazione122, dalla distruzione123, dalle impurità124, dalla mano della morte125. Nel NT il verbo s§ézw è abbastanza frequente; esso si legge complessivamente 204 volte. Al nostro scopo però interessano soltanto i testi in cui Gesù non è soggetto bensì oggetto di salvezza. In questa prospettiva il suo uso richiama ancora i vangeli sinottici, infatti in questo senso possiamo citare soltanto i testi degli scherni sotto la croce. In Mt 27,40 i «passanti», in tono di scherno, esortano Gesù a salvare se stesso (sw%son seautoén); così anche in Mc 15,30. In Luca tale scherno è rivolto dai soldati (Lc 23,37) e da uno dei due crocifissi con Gesù (Lc 23,39). Matteo e Marco riferiscono inoltre l’osservazione dei sacerdoti e degli scribi che Gesù «salvò (e"swswn) altri: se stesso non può salvare». Luca modifica questa osservazione riferendo non la dichiarazione dell’incapacità di Gesù a salvare se stesso, ma il comando a salvarsi: «altri salvò (e"swsen), salvi (swsaétw) se stesso». Infine in Mt 27,49 e Mc 15,36 si prospetta l’eventualità di una venuta salvifica di Elia: «vediamo se viene Elia a salvarlo (sw%swn e|autoén)»126. Tutti questi testi in parte concordano con il nostro testo di Giovanni ma in parte anche discordano. Concordano nel fatto che presentano Gesù come oggetto di salvezza; discordano invece nel soggetto. Secondo i sinottici il soggetto è lo stesso Gesù: egli deve salvare se stesso. Nel nostro testo invece in soggetto che deve salvare Gesù è il Padre. In questo senso il nostro testo è più vicino ad Eb 5,7 dove l’autore parla di Gesù che rivolse preghiere e suppliche con forte grido e lacrime «a 117

Cfr Is 38,6. Cfr Sal 21[22],22. 119 Cfr Sal 29[30],4. 120 Cfr Sal 58[59],3. 121 Cfr Sal 106[107],13.19. 122 Cfr Is 63,9. 123 Cfr Sir 51,11. 124 Cfr Ez 36,29. 125 Cfr 2Mc 2,17. 126 In questo rimando ad Elia ci può essere l’allusione a Sir 48,5 dove si parla di Elia «che resuscitò (o| e\geòrav) un morto (nekroén) da morte (e\k qanaétou) e dall’Ade (e\x çdou) con la parola dell’Altissimo». 118


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colui che poteva salvarlo (proèv toèn dunaémenon s§ézein) da morte». L’allusione è chiaramente a Dio. In questa prospettiva sia il nostro testo di Gv 12,27 sia anche il testo di Eb 5,7 si collocano sulla linea del Getsemani dove Gesù chiese appunto al Padre che passasse da lui il calice. D’altra parte Gesù non potrà mai salvare se stesso perché, come lui stesso ha dichiarato, salvare la propria anima significa perderla (Mt 16,25; Mc 8,35; 9,24). L’espressione della lettera agli Ebrei s§ézein e\k qanaétou non ha un diretto testo parallelo nel linguaggio della versione greca dei LXX. L’espressione più vicina è quella di Dn 3,88 (LXX-TH): e"swsen h|ma%v e\k ceiroèv qanaétou (ci ha liberato da mano di morte)127, dove però è introdotto il termine ceòr che è assente nel testo della lettera agli Ebrei. I testi però a cui l’espressione di Eb 5,7 può essersi ispirata possono essere diversi. Citiamo così ancora il Sal 6 dove128, nel v 5, leggiamo: «salvami (sw%soén me) per la tua misericordia, poiché non è nella morte (e\n t§% qanaét§) chi si ricorda di te». Inoltre anche Sal 17 (18), 4-6: «invocherò il Signore e dai miei nemici sarò salvato (swqhésomai); mi circondarono dolori di morte (qanaétou) […] mi assalirono angosce di morte (qanaétou); nella mia tribolazione invocai il Signore […]». Ancora Sal 106 (107),13: «nel loro essere tribolati gridarono al Signore e dalle loro angosce li salvò (e"swsen au\touév); li condusse fuori dalle tenebre e dall’ombra di morte (qanaétou) e spezzò le loro catene»129. 127

La versione di Teodozione inverte gli elementi: e\k ceiroèv qanaétou eswsen h|ma%v. Cfr inoltre, benché meno diretti, i Salmi 9,14: «tu che mi sollevi (o| u|yw%n) dalle porte della morte (e\k tw%n pulw%n tou% qanaétou)»; 12(13),4: «abbi misericordia […] perché non mi addormenti (u|pnwésw) nella morte (ei\v qaénaton)»; Sal 29 (30),4: «hai fatto uscire dall’Ade (a\nhégagev e\x ç$dou) la mia vita (thèn yuchén mou), mi hai salvato (eswsaév me)»; 68(69),1: «salvami (sw%soén me) o Dio poiché sono giunte le acque fino all’anima mia (e$$wv yuchév mou)». 129 Possiamo citare, stavolta però con il verbo r|uéomai, ancora altri salmi. Così il Sal 32 (33), 18-19: «per liberare (r|uésasqai) da morte (e\k qanaétou) le loro anime e nutrirli in tempo di fame»; il Sal 55 (56),14: «poiché hai liberato (e\rruésw) la mia anima (thèn yuchén mou) da morte (e\k qanaétou)». Un altro testo, ancora con il verbo r|uéomai, è il Sal 114 (116), dove, nel v 3, leggiamo: «mi circondarono dolori di morte (w|d_nev qanaétou)»; poi, nel v 4, leggiamo: «o Signore, libera la mia anima (r|u%sai thèn yuchén mou)». Nel v 6 leggiamo però il verbo s§ézw: «fui misero (e\tapeinwéqhn) ed egli mi salvò (e"swseén me)». Nei vv 7-8 infine, con il verbo e\xaireéw, leggiamo: «ritorna, anima mia (h| yuché mou), alla tua pace poiché ha liberato (e\xeòlato) la mia anima (thèn yuchén mou) dalla morte (e\k qanaétou), i miei occhi dalle lacrime». Soprattutto possiamo mettere insieme tre espressioni dei vv 6-8: 128


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Tutti questi testi possono costituire bene lo sfondo in cui si colloca l’espressione s§ézein e\k qanaétou della lettera agli Ebrei, ma nessuno di essi costituisce un diretto parallelo; come abbiamo già detto, il testo letterariamente più vicino sembra essere costituito da Dn 3,88. Possiamo però richiamare anche alcuni passaggi del testo del Sal 21(22). Nel v 9 infatti leggiamo: «sperò sul Signore (h"lpisen e\pì Kuérion), lo liberi (r|usaésqw au\toén), lo salvi (swsaétw au\toén) poiché lo vuole (o$ti qeélei au\toén)». Nel v 16, benché in diversa prospettiva, leggiamo il termine qaénatov: «in polvere di morte (ei\v cou%n qanaétou) mi hai deposto». Ancora leggiamo nel v 21: «libera (r|u%sai) dalla spada la mia anima (thèn yuchén) e dalla mano del cane la mia unica». Infine nel v 22 leggiamo la supplica: «salvami (sw%soén me) alla bocca del leone». Questi passaggi possono richiamare anche la scena della crocifissione dove i vangeli sinottici, soprattutto Matteo e Marco, alludono al Sal 21 (22)130. In Mt 27,43 troviamo una allusione più diretta al Sal 21,9: peépoiqen e\pì toèn qeoén, r|usaésqw nu%n ei\ qeélei au\toén (ha confidato nel Signore, lo liberi se lo vuole)131. Nel contesto però è usato anche il verbo s§ézw132. v 6: e\tapeinwéqhn kaì eswseén me v 7: e\pòstreyon h| yuché mou ei\v thèn a\naépausòn sou […] v 8: o$ti e\xeòlato thèn yuchén mou e\k qanaétou Ancora Os 13,14: «dalla mano dell’Ade li libererò e dalla morte (e\k qanaétou) li riscatterò (lutrwésomai au\toév)». Infine Gb 5,20: «nella fame ti libererà (r|uésetai se) (Dio) da morte (e\k qanaétou)». 130 Sia Matteo sia Marco mettono in bocca a Gesù il v 1 del Sal 21: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mt 27,46; Mc 15,34)»; entrambi inoltre hanno l’espressione kinou%ntev taèv kefalaév (scuotendo il capo) (Mt 27,39; Mc 15,29) che richiama il v 8 del Salmo (ekònhsan kefalhén). 131 Non mancano delle differenze tra il testo di Matteo e l’espressione del salmo. Esse sono soprattutto tre: la sostituzione dell’aoristo h"lpisen con il perfetto peépoiqen, l’omissione dell’espressione swsaétw au\toén, la sostituzione della particella o$ti causale con l’espressione ipotetica ei\. 132 Il suo uso però è diverso rispetto a quello del salmo. In quest’ultimo è riferito a Dio, nel racconto evangelico invece è riferito a Gesù in relazione a se stesso. In Matteo e Marco leggiamo espressioni identiche, nello stesso ordine: sw%son seautoén (salva te stesso) – a"llouv e"swsen, e|autoèn ou\ duénatai sw%sai (altri ha salvato, se stesso non può salvare). Entrambi gli evangelisti legano la salvezza alla discesa della croce. Luca concorda parzialmente: concorda nell’espressione a"llouv e"swsen, non parla però, come abbiamo già notato, dell’impossibilità di Gesù di salvare se stesso (e|autoèn ou\ duénatai sw%sai) ma introduce un


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L’espressione della lettera agli Ebrei proèv toèn dunaémenon s§ézein e\k qanaétou sembra richiamare perciò non un testo preciso bensì tutta la serie di testi sopra indicati. Inoltre il verbo s§ézw può richiamare i testi evangelici della crocifissione di Gesù sopra citati. Invece il participio dunaémenon sembra alludere meglio alla narrazione del Getsemani133. Il testo della lettera agli Ebrei rivela però un paradosso: secondo questo autore, Gesù rivolse una preghiera «a colui che poteva salvarlo da morte»; continua l’autore osservando che «fu esaudito». In realtà Gesù non fu esaudito. Egli si rivolse a colui che poteva salvarlo da morte, ma dalla morte non fu salvato: andò invece incontro alla morte. Tuttavia Gesù fu realmente salvato da morte, non eludendola ma affrontandola e superandola nella resurrezione. Continua infatti l’autore che «reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per quanti gli obbediscono (Eb 5,9)». Osserviamo inoltre che l’espressione della lettera agli Ebrei: «a colui che poteva salvarlo da morte» esprime una contrapposizione agli scherni dei giudei increduli sotto la croce134. Questi avevano sfidato Gesù, inchiodato sulla croce, a salvarsi scendendo dalla croce. Ma Gesù non salva se stesso135; lo salva invece Dio, non però facendolo scendere dalla croce, ma lasciandolo in essa fino alla morte, da cui poi lo avrebbe salvato mediante la resurrezione. comando alla terza persona: «salvi se stesso (swsaétw e|autoén)»; inoltre introduce questa espressione al primo posto, mentre in Matteo e Marco l’espressione corrispondente si legge al secondo. Luca poi fa seguire due volte il comando sw%son seautoén che Matteo e Marco pongono invece al primo posto. 133 Cfr Mt 26,39 (ei\ duénatoén e\stin). 42 (ei\ ou\ duénatai); Mc 14,35 (ei\ duénatoén e\stin). 36 (paénta duénataé soi); in Lc 22,42 invece leggiamo l’espressione ei\ bouélei. 134 In Matteo emerge più chiaramente un progresso di incredulità, in tre stadi: sfida a Gesù a salvarsi («salvi se stesso»), conclusione sull’impossibilità di Gesù a salvarsi («ha salvato altri: se stesso non può salvare»), tacita conclusione, mediante le parole del Sal 21, sull’impossibilità di Dio o sulla sua non volontà a salvarlo («ha confidato in Dio: lo salvi se lo vuole»). Marco omette il terzo elemento fermandosi soltanto al secondo, cioè sull’impossibilità di Gesù a salvare se stesso. In Luca invece troviamo solo la pressante sfida a Gesù a salvare se stesso. In questo evangelista infatti troviamo tre scherni gravitanti su questo aspetto: «salvi se stesso» – «salva te stesso» – «salva te stesso». 135 Ciò è in linea con la prospettiva del Sal 21; il salmista, nella sua tribolazione si affida a Dio e da lui spera ogni aiuto; cfr vv 10-12: «sei tu chi mi hai tratto dal grembo […] da me non stare lontano».


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Analoga prospettiva a quella di Eb 5,7 appare nel nostro testo di Gv 12,27. La forma interrogativa dell’espressione paéter, sw%soén me e\k th%v w$rav tauéthv, seguita dalla particella di contrapposizione a\llaé, da una parte mostra che Gesù esclude la preghiera di essere salvato da «quest’ora», dall’altra invece rivela che egli in qualche modo l’abbia pronunziata ed è proteso verso la salvezza dall’«ora». Emerge qui il problema sul senso e sul riferimento dell’espressione diaè tou%to. A riguardo gli interpreti propongono una varietà di sfumature, dedotte però un po’ a senso. Gesù è venuto: per sostenere la morte136, per morire per il mondo137, per affrontare l’ora138, per porre la sua vita139, per liberare dal peccato mediante la morte140 che è salvezza per tutti141, per accettare l’immolazione142, perché il suo ministero doveva compiersi nella passione143, per l’acquisizione della salvezza144, per soffrire prima della glorificazione145, per prendere su di sé ciò per cui l’anima è agitata146. L’espressione diaè tou%to in realtà si riferisce precisamente alla salvezza da «quest’ora»147. Gesù dichiara di essere venuto «a quest’ora» allo scopo preciso di essere salvato da essa. Il riferimento al precedente verbo imperativo sw%son è suggerito da due elementi. Anzitutto da un particolare rapporto strutturale che colloca l’espressione al centro: 136 Cfr P. BEECKMANN, L’évangile selon S. Jean, d’après les meilleurs auteurs catholiques, cit., 276. 137 Cfr R.C.H. LENSKI, The Interpretation of St. John’s Gospel, trad. it., 870; anche E.C. HOSKYNS - F.N. DAVEY, The Fourth Gospel, cit., 425; 138 Cfr R. BULTMANN, Das Evangelium des Johannes, cit., 327 nota 5; MORRIS, The Gospel according to John, cit., 595. 139 Cfr C.K. BARRETT, The Gospel according to St John, cit., 425. 140 Cfr R. KYSAR, John, cit., 197-198; G. MAIER, Johannesevangelium, II, cit., 38. 141 Cfr J. BECKER, Das Evangelium nach Johannes, II, Gütersloh et Würzburg 1981, 388. 142 Cfr F.M. BRAUN, Évangile selon Saint Jean, Paris 19502 (La Sainte Bible, a cura di L. Pirot - A. Clamer, 10), 413. 143 Cfr J.H. BERNARD, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to S. John, cit., 437. 144 Cfr B. LINDARS, The Gospel of John, cit., 431. 145 Cfr TH. ZAHN, Das Evangelium des Johannes, cit., 516. 146 Cfr P. SCHANZ, Kommentar über das Evangelium des heiligen Johannes, cit., 438. 147 Cfr J.H. BERNARD, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to S. John, cit., 435.


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sw%soén me e\k th%v w$rav tauéthv diaè tou%to h/lqon ei\v thèn w$ran tauéthn

Inoltre è suggerito dal fatto che, ripetendo il vocativo paéter davanti all’imperativo doéxason, l’evangelista introduce una certa separazione che rende più difficile riferire l’espressione diaè tou%to al seguente imperativo doéxason. Possiamo allora capire in che senso Gesù escluda la preghiera di essere salvato da «quest’ora» e in che senso invece egli la afferma. La esclude come elusione dell’ora: Gesù andrà incontro alla sua ora ed accetterà tutto ciò che essa implica. La afferma nel senso che proprio accettando la sua «ora» egli è salvato da essa. Emerge subito una domanda: che cos’è «l’ora» dalla quale Gesù da una parte non chiede di essere salvato, mentre dall’altra egli chiede invece di essere salvato? Diversi elementi suggeriscono che con essa Gesù alluda alla sua passione e la morte. Un primo elemento è costituito dall’espressione stessa «quest’ora» con il pronome dimostrativo tauéth. Il termine w$ra si legge diverse volte nel vangelo di Giovanni, in riferimento a Gesù; ma solo in questi due testi di 12,27 leggiamo l’espressione «quest’ora»; con questa espressione Gesù allude al momento presente. Si richiama così l’avverbio di tempo posto all’inizio del v 27: nu%n. Il momento presente è il momento caratterizzato dal turbamento di Gesù. «Quest’ora» perciò è l’ora in cui l’anima di Gesù è entrata e permane in una situazione di turbamento. Un secondo elemento è suggerito dai testi di Gv 7,30 e Gv 8,20. In entrambi l’evangelista riferisce del tentativo dei giudei di sopprimere Gesù. Leggiamo in 7,30: «e nessuno gettò su di lui la mano poiché non ancora era giunta la sua ora»148; in 8,20 poi leggiamo: «nessuno lo catturò poiché non 148

Le due espressioni sono parallele; cambia soltanto la descrizione dell’azione ostile: 7,30 8,20 kaì ou\deìv e\peébalen e\p}au\toèn thèn ce_ra

kaì ou\deìv e\pòasen au\toèn


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ancora era giunta la sua ora». I due testi lasciano intendere che, quando verrà «la sua ora», su Gesù potranno mettere le mani e potranno catturarlo. Un terzo elemento ancora proviene dal testo di 16,21 dove Gesù introduce la metafora della donna: «la donna, quando partorisce, è nella tristezza, poiché è giunta la sua ora (h| w$ra au\th%v)». L’ora della donna coincide con il tempo della sua tristezza, che però viene superata dalla gioia per la nascita del figlio. Gesù poi applica la metafora ai discepoli: essi adesso sono tristi, ma egli li vedrà e il loro cuore gioirà. Ciò significa che «l’ora» di cui si parla è anche l’ora dell’assenza di Gesù, l’ora della passione e della morte, dopo la quale egli si manifesterà ai discepoli e il loro cuore gioirà149. Altri tre elementi, che permettono di identificare la duplice menzione di «quest’ora» in 12,27, emergono ancora dal testo stesso. Il primo elemento proviene ancora dal termine w$ra; esso si legge sia nel v 23 sia anche, due volte, nel v 27. Emerge però subito una differenza: nel v 23 si tratta dell’ora della glorificazione del figlio dell’uomo150, nel v 27 invece «quest’ora» appare distinta da essa151: non si tratta dell’ora della glorificazione bensì dell’ora dalla quale Gesù non chiede di essere salvato ma verso la quale egli è proteso appunto per essere salvato da essa. Il secondo elemento è costituito da una particolare relazione strutturale che è possibile stabilire tra il v 23 e i vv 27-28. Alla menzione della glorificazione nel v 23, segue, nel v 24, la duplice menzione della morte del chicco di grano. Alla menzione della glorificazione del v 28a, precede, nel v 27, la duplice menzione dell’ora. Possiamo stabilire allora il seguente schema concentrico: 1. h| w$ra i$na doxasq+% 2. mhè a\poqaén+ - a\poqaén+

o$ti ou"pw e\lhluéqei h| w$ra au\tou% 149

o$ti ou"pw e\lhluéqei h| w$ra au\tou%.

Cfr Gv 20,20. Cfr l’espressione: h| w£ra i$na doxasq+% o| ui|oèv tou% a\nqrwépou. 151 Abbiamo già osservato che il vocativo paéter, nell’espressione del v 28a doéxasoén sou toè o"noma, determina una separazione dall’espressione precedente paéter, swésoén me e\k th%v w$rav tauéthv. 150


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3. e\k th%v w$rav tauéthv - ei\v thèn w$ran tauéthn 4. doéxasoén sou toè o"noma

In questo schema concentrico stanno in relazione il «morire» e «quest’ora»152. Quest’ultima relazione può essere ulteriormente precisata: possiamo cogliere infatti in essa quattro elementi disposti in maniera abbinata che però suggeriscono anche una relazione alternata: mhè a\poqaén+ a\poqaén+ e\k th%v w$rav tauéthv ei\v thèn w$ran tauéthn

Al non morire sta in relazione la «salvezza (swéson)» da «quest’ora», al morire invece sta in relazione l’andare (h/lqon) verso «quest’ora». Il terzo elemento infine è costituito da un progresso tematico inverso che possiamo cogliere nei vv 27-24, in quattro punti: 1. (v 27): il turbamento di Gesù e l’esclusione di una preghiera che faccia eludere l’ora. 2. (v 26): il cammino di Gesù. Più direttamente la prospettiva è quella della sequela alla quale è chiamato colui che lo vuol servire. Il tema della sequela, suggerisce che anche Gesù è in cammino. 3. (v 25): l’atteggiamento dell’animo nei confronti della propria vita: chi la ama la perde, chi la odia la salva. Tale atteggiamento si comprende bene di fronte ad un dilemma: morire o non morire; dare la propria vita o non darla. 4. (v 24): la duplice possibilità del chicco di grano di morire o non morire. Essa dipende dal duplice atteggiamento dell’anima descritto nel v 25: chi ama la propria vita non muore, chi la odia invece muore153. 152

Alla duplice menzione dell’«ora» corrisponde il duplice uso del verbo

a\poqn+éskw. 153 Possiamo notare tra i due versi il seguente parallelismo alternato: v 24: mhè a\poqaén+ a\poqaén+ v 25: o| filw%n o| misw%n.


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Emerge in questi quattro punti, contenuti nei vv 24-27 letti in maniera inversa, un cammino che parte da una situazione di turbamento, in cui però si esclude un tipo di preghiera, e che culmina nella morte, implicando ovviamente la disponibilità spirituale a dare la propria vita. Si tratta del cammino che parte dal Getsemani e culmina alla croce. Possiamo allora comprendere in che cosa consiste la salvezza da «quest’ora». Essa è contenuta nell’espressione del v 28a che presenta una precisa richiesta al Padre: «Padre, glorifica il tuo nome». Gesù è salvato da «quest’ora» in quanto egli è glorificato; ma per pervenire alla glorificazione egli deve prima passare attraverso «quest’ora», deve cioè morire. Alla morte segue la glorificazione154. Dalla morte egli è salvato in quanto in essa egli è glorificato. Possiamo così concludere che nei vv 23-28a è delineato, all’inverso, il seguente progresso tematico in quattro punti: 1. Il turbamento di Gesù e l’esclusione di un tipo di preghiera 2. Il cammino verso l’ora che attua veramente la salvezza da essa 3. la morte come il chicco di grano 4. La glorificazione155. In questo contesto l’allusione in Gv 12,27-28a alla preghiera di Gesù al Getsemani, riferita dai vangeli sinottici, diventa molto probabile. Il nostro evangelista mostra di conoscere la tradizione secondo la quale Gesù, al Getsemani, pregò e chiese al Padre che passasse da lui il calice ma poi si conformò alla sua volontà. Egli però reinterpreta la preghiera al Getsemani e ci presenta Gesù non nel momento in cui fa la sua richiesta ma nel momento in cui l’ha già superata. Gesù sa bene che la sua salvezza dall’«ora» si attua nella glorificazione, alla quale però egli non perviene se non passando attraverso 154

Ciò è confermato dai precedenti vv 23-24: dopo avere dichiarato che è giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo, Gesù prosegue introducendo la metafora del chicco di grano che, se cade a terra e muore, porta molto frutto. 155 Si può richiamare qui il testo di 17,4: «io ti ho glorificato (e\gwè seè e\doéxasa) sulla terra (e\pì th%v gh%v) avendo compiuto l’opera che mi hai dato da compiere». Gesù ha compiuto un’opera mediante la quale egli ha glorificato il Padre; in conseguenza di ciò egli chiede al Padre che lo glorifichi: «ed ora glorifica (doxaéson) me tu». L’opera con cui Gesù ha glorificato il Padre sulla terra, alla luce di 12,23-24, è la sua morte come il chicco di grano che porta frutto.


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«quest’ora». Per questo, secondo Giovanni, egli non può chiedere al Padre che allontani da lui il calice. Gesù è proteso verso «quest’ora» nella coscienza che da essa sgorga la sua glorificazione. Per questo egli va incontro ad essa, chiedendo però al Padre che lo glorifichi.

3. GV 14, 30-31 14,30: ou\keéti pollaè lalhésw meq}u|mw%n: e"rcetai gaèr o| tou% koésmou a"rcwn kaì e\n e\moì ou\ e"cei ou\deén.

14,31: a\ll}i$na gn§% o| koésmov o$ti a\gapw% toèn pateéra kaì kaqwèv e\neteòlatoé moi o| pathèr ou$twv poiw%, e\geòresqe, a"gwmen e\nteu%qen.

(Non più molte cose dirò con voi; viene infatti il principe del mondo e in me non ha nulla. Ma perché conosca il mondo che amo il Padre e come ha comandato a me il Padre, alzatevi, andiamo da qui) Nei vv 30-31 del c 14, dopo avere parlato ai discepoli, Gesù dichiara che non dirà (lalhésw) più (ou\keéti) molte cose (pollaé) con loro (meq}u|mw%n). Il motivo è contenuto nell’espressione seguente introdotta mediante la particella gaér: sta per venire (e"rcetai) infatti il principe del mondo. Lo scopo per cui viene il principe del mondo dal testo non è esplicitamente indicato; Gesù soltanto afferma che questi «non ha niente in lui», cioè non ha alcun potere su di lui. Subito dopo Gesù continua mediante una lunga proposizione finale, riferita ad una conoscenza da parte del mondo. Tale conoscenza ha due oggetti: che Gesù ama il Padre e che egli fa così come il Padre gli ha comandato. Manca però nel testo la proposizione principale che descriva l’azione che Gesù compie perché il mondo pervenga a quella conoscenza. Segue subito dopo un comando rivolto da Gesù ai discepoli, espresso alla seconda persona singolare: «alzatevi (e\geòresqe)», seguito poi da un congiuntivo esortativo alla prima persona plurale che riguarda sia Gesù sia anche i discepoli: «andiamo (a"gwmen) da qui». Potrebbe essere questa l’azione che Gesù compie perché il mondo pervenga a quella conoscenza. Le edizioni critiche tuttavia introducono in genere un punto tra il


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verbo poiw% e il verbo e\geòresqe. In questo modo i due verbi esortativi e\geòresqe ed a"gwmen sono separati dal discorso precedente ed appaiono così senza alcuna relazione con esso. Inoltre in questo modo il comando di Gesù ai discepoli di alzarsi e l’esortazione seguente ad andare da lì restano inspiegati e pongono diverse domande: perché i discepoli debbono alzarsi? Da dove debbono andare? Perché debbono andare? Dove debbono andare?

3.1. Il testo di 14,30-31 Una più attenta considerazione strutturale del testo suggerisce invece che proprio in quei due verbi esortativi bisogna cercare l’azione principale finalizzata alla conoscenza del mondo. In tutto il brano dei vv 30-31 possiamo distinguere quattro parti. Nella prima parte (v 30a) Gesù annunzia la venuta del principe del mondo: «viene infatti il principe del mondo». Nella seconda parte (v 30b) Gesù definisce la relazione di questo a lui; o meglio, dichiara che costui non ha alcuna relazione con lui e perciò non ha alcun potere su di lui. Nella terza parte (v 31ab) Gesù stabilisce invece la sua relazione al mondo: egli compie una azione che è finalizzata alla conoscenza del mondo. L’azione che Gesù compie però deve mostrare la sua profonda relazione al Padre, che è quella più ampiamente descritta in questa parte156. Da questa

156 Tutta l’espressione si articola in due parti coordinate mediante la congiunzione kaò che esprime anche una conseguenza. La prima parte è costituita da una affermazione di Gesù: a\gapw% toèn pateéra; la seconda parte comprende una proposizione comparativa con due membri di paragone, che scaturisce dall’affermazione precedente. Tutta l’espressione permette di evidenziare, dal punto di vista strutturale, uno schema concentrico:

1. a\gapw% 2. toèn pateéra 3. e\neteòlatoé moi 4. o| pathér 5. ou$twv poiw%

Il primo e quinto elemento descrivono una azione di Gesù; il secondo e quarto elemento contengono la menzione del Padre; al centro risalta l’espressione e\neteòlatoé moi.


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fondamentale relazione di Gesù scaturisce un particolare tipo di relazione al mondo. Nella quarta parte infine (v 31c), mediante i verbi esortativi, è descritto un cammino di Gesù. Tutto il testo di 14,30-31 lascia intuire un dramma: la venuta del principe di questo mondo appare ostile nei confronti di Gesù. Egli però va incontro a questa ostilità non perché il mondo abbia alcun potere o abbia prevalso su di lui157 ma perché questa è la volontà del Padre, perché così il Padre gli ha comandato ed egli obbedisce perché lo ama. Nel fatto che va incontro all’ostilità del mondo Gesù mostra che egli non è succube di esso, ma che aderisce profondamente alla volontà del Padre. Questo il mondo deve conoscere e ciò implicitamente rivela la sua sconfitta.

3.2. Confronto con i vangeli sinottici A riguardo di questa espressione diversi interpreti richiamano l’espressione analoga in Mt 26,46 e Mc 14,42, ancora cioè nel contesto della preghiera al Getsemani158. Bernard rimanda a Mc 14,42 e Mt 26,46, benché 157 Pure a riguardo dell’espressione e\n e\moì ou\k e"cei ou\deén gli interpreti propongono sfumature differenziate di significato. Si rimanda a Strack-Billerbeck che propone l’equivalente ebraico yl( wl }y)w (non ha alcun diritto in me, non ha alcuna rivendicazione su di me), cfr H.L. STRACK - P. BILLERBECK, Kommentar zum neuen Testament aus Talmud und Midrasch, II, München 19562, 563; cfr C.K. BARRETT, The Gospel according to St John, cit., 488; F.M. BRAUN, Évangile selon Saint Jean, cit., 432; G. MAIER, Johannesevangelium, II, cit., 136; R. BULTMANN, Das Evangelium des Johannes, cit., 488; TH. ZAHN, Das Evangelium des Johannes, cit., 575: niente che potrebbe dare inizio ad ostilità. Spiega Bauer che niente potrebbe permettere al diavolo di estendere su Gesù la sua signoria, cfr W. BAUER, Das Johannesevangelium, cit., 188; Schnelle intende che non ha potere su di me, cfr U. SCHNELLE, Das Evangelium nach Johannes, cit., 236; inoltre J.H. BERNARD, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to S. John, cit., 556: non ha motivo nella personalità di Gesù in cui egli può attaccare; J.JEREMIAS, Die Salbungsgeschichte (Mc 14,39), in ZNW 35 (1936) 75-82: 76: non può nulla contro di lui («gegen mich vermag es Nichts»); H. STRATHMANN, Il vangelo secondo Giovanni, cit., 353: Gesù è senza peccato. Schnackenburg richiama Gv 19,11: «non avresti alcun potere su di me», R. SCHNACKENBURG, Il vangelo secondo Giovanni, III, cit., 146. 158 Cfr J. BLINZLER, Giovanni e i Sinottici, trad. it., Brescia 1969, 16 nota 8; B.


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posti in altro contesto159; Brown richiama Mc 14,42160; Gnilka pure cita in margine Mc 14,41161; G. Maier non esclude il senso spirituale: andare incontro al principe di questo mondo162; Moloney però osserva che il rimando al Getsemani non toglie l’incongruenza relazionale ai cc 15-17 del vangelo di Giovanni. Il parallelismo letterario tra Giovanni e i due vangeli sinottici è spiegato da Buse163: Marco e Giovanni usano una fonte comune individuata da Taylor come fonte B164. Secondo Fabris165 l’espressione giovannea è l’eco di una tradizione che ricordava il drammatico arresto di Gesù. In effetti l’espressione e\geòresqe, a"gwmen e\nteu%qen richiama quella analoga di Matteo e Marco nella loro narrazione del Getsemani. In entrambi gli evangelisti infatti leggiamo sia l’imperativo e\geòresqe sia anche il congiuntivo esortativo a"gwmen. Giovanni aggiunge in più l’avverbio e\nteu%qen. Queste parole di Gesù, in Matteo e Marco, sono rivolte da lui ai discepoli nella sua terza venuta. Mentre nella venuta precedente Gesù, avendoli trovati addormentati, li aveva esortati a vegliare e pregare per non cadere in tentazione166, stavolta invece li esorta a dormire e riposare167. LINDARS, The Gospel of John, cit., 486; A. SCHLATTER, Der Evangelist Johannes. Wie er spricht, denkt und glaubt, cit., 303 che richiama Mt 26,46; J. SCHNEIDER, Das Evangelium nach Johannes, cit., 265; U. SCHNELLE, Das Evangelium nach Johannes, cit., 236. 159 Cfr J.H. BERNARD, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to S. John, cit., 556; anche H. VAN DEN BUSSCHE, Giovanni, cit., 486. 160 Cfr R.E. BROWN, Giovanni, cit., 791; anche J.N. SANDERS - B.A. MASTIN, A Commentary on the Gospel according to S. John, cit., 335. 161 Cfr J. GNILKA, Johannesevangelium, cit., 117. 162 Cfr G. MAIER, Johannesevangelium, II, cit., 137. 163 Cfr S.I. BUSE, St. John and the Marcan Passion Narrative, in NTS 4 (1957-58) 215-219. 164 Cfr V. TAYLOR, The Gospel according to St. Mark, London 19662, 658. 165 Cfr R. FABRIS, Giovanni, cit., 785. 166 Tale esortazione nella narrazione di Matteo e Marco è fatta da Gesù alla sua prima venuta verso i discepoli (Mt 26,40-41; Mc 14,37-38). Nella sua seconda venuta (Mt 26,43; Mc 14,40) Gesù, senza dire nulla, si limita soltanto a constatare che i discepoli si erano addormentati (Mt 26,43). Luca (Lc 22,46) riferisce una sola preghiera e un solo viaggio di Gesù; in questo viaggio egli esorta i discepoli ad alzarsi e pregare per non cadere in tentazione. 167 In entrambi gli evangelisti troviamo la stessa espressione: kaqeuédete (toè) loipoèn


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Poi Gesù annunzia che è giunta l’ora168 e il figlio dell’uomo è consegnato in mano ai peccatori. Quindi egli prosegue con la nostra espressione e\geòresqe, a"gwmen, annunziando nello stesso tempo che è giunto (h"ggiken) colui che lo tradisce (o| paradidouév me). Subito dopo gli evangelisti narrano che venne Giuda, uno dei dodici. Matteo e Marco annunziano la venuta dell’«ora» e narrano della venuta del traditore; Giovanni invece parla della venuta (e"rcetai) del principe del mondo (o| tou% koésmou a"rcwn). Circa l’identità del «principe di questo mondo» gli interpreti propongono aspetti differenziati. Egli è Giuda come longa manus di Satana169, Satana che si serve di Giuda170; semplicemente Satana171; semplicemente Giuda172; indifferentemente Satana o Giuda173; tutta intera l’azione del male174. Brown175 richiama Lc 22,53: il potere delle tenebre. Il carattere personale del «principe del mondo» in Giovanni induce a stabilire meglio nei vangeli sinottici una relazione con «colui che mi tradisce», identificato subito dopo con Giuda, che non con la precedente nozione impersonale di «ora». In questo senso possiamo stabilire tra Giovanni e i sinottici la seguente relazione: Sinottici: 1. e\geòresqe, a"gwmen 2. «ecco è giunto colui che mi tradisce» Giovanni: 3. «viene il principe del mondo 4. e\geòresqe, a"gwmen e\nteu%qen kaì a\napauéesqe (dormite per il resto e riposate). Prescindiamo però dal senso di questa

espressione nel contesto della narrazione sinottica. 168 Cfr l’espressione h"ggiken h| w$ra in Mt 26,45; Marco, in 14,41, scrive: h&lqen h| w$ra. 169 Cfr R. FABRIS, Giovanni, cit., 684; U. SCHNELLE, Das Evangelium nach Johannes, cit., 236. 170 Cfr U. WILCKENS, Das Evangelium nach Johannes, cit., 234. 171 Cfr E.S.G. BALDWIN, Gethsemane. The Fulfillment of a Prophecy, in BS 77 (1920) 429-436: 430; W. BAUER, Das Johannesevangelium, cit., 188: R. BULTMANN, Das Evangelium des Johannes, cit., 488. 172 Cfr E. SCHICK, Das Evangelium nach Johannes, Würzburg 1956, 136; H. STRATHMANN, Il vangelo secondo Giovanni, cit., 353. 173 Cfr G. MALDONATO, Commentarii in quatuor Evangelistas, II: In Lucam et Joannem, cit., 882. 174 Cfr J.H. BERNARD, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to S. John, cit., 556; R. KYSAR, John, cit., 234. 175 Cfr R.E. BROWN, Giovanni, cit., 348.


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L’espressione e\geòresqe, a"gwmen, posta, nei vangeli sinottici, tra l’annunzio della venuta dell’ora in cui Gesù è dato in mano ai peccatori e l’annunzio della venuta del traditore, indica che Gesù va incontro a queste realtà. Soprattutto egli va incontro al traditore: infatti segue subito dopo l’espressione i\douè h"ggiken o| paradidouév me. Il traditore è giunto e Gesù esorta ad andargli incontro. Questa determinazione di Gesù non può essere tuttavia separata da tutta la narrazione che precede; ciò permette di rispondere alla domanda: che cosa muove Gesù ad andare incontro al traditore. Ci riferiamo specificatamente alla sua preghiera nella quale Egli ha chiesto al Padre che allontanasse da lui il calice, ma nella quale egli, superando la tentazione, ha aderito alla sua volontà. Possiamo allora concludere che Gesù va incontro al traditore perché è guidato dalla volontà del Padre. Possiamo dire anche che, dicendo le parole e\geòresqe, a"gwmen, Gesù si manifesta non succube degli eventi né in balia del traditore, ma si presenta come colui che ha compreso la volontà del Padre e ad essa liberamente aderisce. Gesù va incontro al traditore non perché questi abbia prevalso su di lui ma perché questa è la volontà del Padre176.

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A riguardo del testo di Gv 14,30-31 gli autori interpretano diversamente il comando di Gesù, in base anche al modo come essi lo relazionano ai seguenti capitoli. Ci limitiamo a riferire soltanto qualche posizione senza entrare direttamente nel problema dei cc 15-17 (cfr nota seguente 180). Alcuni interpretano in senso più materiale: così A. DURAND - J.HUBY, Évangile selon S. Jean, cit., 408: sembra che Gesù e gli altri siano usciti in campagna; F. GODET, Commentaire sur l’évangile de Saint Jean, Neuchâtel 19034, 297: dopo queste parole Gesù uscì e i capitoli seguenti sarebbero stati pronunziati lungo il cammino al Getsemani; A. PLUMMER, The Gospel according to St. John, cit., 282: dopo quelle parole Gesù si sarebbe alzato da tavola e avrebbe pronunziato i capitoli seguenti prima di lasciare la stanza; B.F. WESTCOTT, The Gospel according to St. John, cit., 211: Gesù lasciò la casa e si diresse verso il Getsemani. In questo senso si esprimono anche altri autori, cfr I. KNABENBAUER, Kommentarius in Evangelium secundum Ioannem, cit., 454; P. SCHANZ, Kommentar über das Evangelium des heiligen Johannes, cit., 489. Altri autori interpretano le parole di Gesù in senso più spirituale: cfr R. FABRIS, Giovanni, cit., 785: alludono allo scontro con il principe del mondo; R. KYSAR, John, cit., 234: indicano un movimento spirituale; B. WEISS, Das Johannesevangelium, cit., 418: Gesù va incontro al potere satanico.


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Questa prospettiva, che nei vangeli sinottici appare più implicita, da Giovanni è esplicitata ed approfondita. Gesù va incontro non al traditore ma al principe del mondo e va, non perché questi abbia alcun potere su di lui, ma perché così il Padre ha comandato. Egli ama il Padre e fa così come lui gli ha comandato177. Questa azione di Gesù, come abbiamo già notato, diventa una testimonianza al mondo; esso potrà così conoscere che, nella sua passione, Gesù non è caduto in suo potere, ma che egli l’ha accettata perché ama il Padre. Concludendo178, il nostro evangelista sembra richiamare, in 14,30-31, tre aspetti del racconto sinottico della preghiera di Gesù al Getsemani: anzitutto l’espressione e\geòresqe, a"gwmen che lui amplia mediante l’avverbio en\teu%qen, la venuta del traditore che, nel suo linguaggio, diventa la venuta del «principe del mondo», l’adesione di Gesù alla volontà del Padre che il nostro evangelista ripropone con il suo linguaggio proprio, cioè come un atto di amore verso il Padre che si concretizza nell’agire come egli ha comandato. Il nostro evangelista ripropone gli elementi dei vangeli sinottici in un ordine insieme uguale e diverso. L’ordine uguale è la seguente successione: l’adesione alla volontà di Dio e l’espressione e\geòresqe, a"gwmen; l’ordine 177 In questa relazione di Gesù al Padre emerge lo stesso rapporto che egli indica ai discepoli in 14,15.21.23.24, soprattutto in 14,15.21, nella loro relazione a lui. In 14,15 ai discepoli Gesù dichiara che, se essi lo amano (e\aèn a\gapa%teé me), debbono osservare i suoi comandamenti (taèv e\ntolaèv taèv e\maèv thrhésete); nel v 23 ancora insiste osservando che se qualcuno lo ama (e\aén tiv a\gapç% me), deve osservare la sua parola (toèn loégon mou thrhései). Nel v 21 poi, quasi come controprova, Gesù afferma che «chi ha i suoi comandamenti (o| e"cwn taèv e\ntolaév mou) e li osserva (kaì thrw%n au\taév), questi è colui che lo ama (e\ke_noév e\stin o| a\gapw%n me)»; analogamente, nel v 24, afferma che «chi non lo ama (o| mhè a\gapw%n me), la sua parola (touèv loégouv mou) non custodisce (ou\ thre_)». L’amore di Gesù verso il Padre e, analogamente, l’amore dei discepoli verso Gesù, si traduce nell’osservanza concreta del comandamento. 178 Prescindiamo in questo studio dal problema che il testo di Gv 14,30-31 pone in relazione ai seguenti cc 15-17. Gli interpreti talora intendono questi versi come la fine dei discorsi di addio, cfr tra altri J.H. BERNARD, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to S. John, cit., 556; R. BULTMANN, Das Evangelium des Johannes, cit., 489; C. CLEMEN, Die Entstehung des Johannesevangeliums, Halle 1912, 257; A B. LINDARS, The Gospel of John, cit., 486; SCHLATTER, Der Evangelist Johannes. Wie er spricht, denkt und glaubt, cit., 303; J. SCHNEIDER, Das Evangelium nach Johannes, cit., 149; U. SCHNELLE, Das Evangelium nach Johannes, cit., 236.


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diverso consiste nel fatto che i sinottici menzionano alla fine la venuta del traditore, mentre il nostro evangelista menziona all’inizio la venuta del principe del mondo179.

4. GV 16,32 Un altro testo, utile al nostro confronto, è Gv 16,32, dove Gesù, dopo avere ironizzato sulla dichiarazione di fede del discepoli, afferma: «ecco viene l’ora ed è venuta, in cui vi disperderete (i$na skorpisqh%te) ciascuno nelle proprie cose (e"kastov ei\v taè i"dia) e me (ka\meè) solo (moénov) lascerete (a\fh%te)». Emerge allora la domanda: allude Gesù, o l’evangelista per lui, alla fuga dei discepoli che al suo luogo (18,9) direttamente non descrive ma che egli sembra non ignorare offrendone qui una reinterpretazione?

4.1. Confronto con i vangeli sinottici Della fuga dei discepoli al Getsemani parlano solo due evangelisti, Mt 26,56 e Mc 14,50. Mt 26,56 scrive: «allora i discepoli tutti (paéntev), avendo lasciato (a\feéntev) lui (au\toén), fuggirono (e"fugon)». Mc 14,50 contiene tutti gli elementi essenziali di Matteo; inverte soltanto, secondo i migliori codici, un solo elemento180. 179 Possiamo proporre anche il seguente schema strutturale insieme alternato e concentrico: Sinottici: 1. l’adesione alla volontà di Dio 2 l’espressione e\geòresqe, a»gwmen 3. la venuta del traditore Giovanni: 4. la venuta del principe del mondo 5. l’adesione alla volontà del Padre 6. l’espressione e\geòresqe, a»gwmen 180 In Mc 14,50 è spostato dall’inizio della frase alla fine: Mt 26,56 Mc 14,50

paéntev a\feéntev au\toèn e"fugon

a\feéntev au\toèn e"fugon paéntev.


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Né Luca né Giovanni narrano la fuga dei discepoli al momento della cattura di Gesù al Getsemani. È difficile stabilire se Luca ignorasse questo episodio o se egli abbia deliberatamente omesso di narrarlo. Per quanto riguarda Giovanni invece non si può dire che egli ignorasse quanto accadde al Getsemani. In 18,9 l’evangelista riferisce le parole di Gesù con le quali egli chiede a quelli che erano venuti a catturarlo di lasciare andare i discepoli. È difficile però stabilire se Gesù abbia realmente pronunziato quelle parole o se esse appartengano alla rilettura dell’evangelista. In ogni caso Giovanni non ignora che, al Getsemani, in una maniera o nell’altra, i discepoli lasciarono Gesù. Egli non ignora nemmeno che, nonostante le parole di Gesù, in realtà i discepoli fuggirono181. A questa fuga, esplicitamente narrata da Matteo e Marco, egli sembra alludere appunto in 16,32.

4.2. L’allusione alla fuga dei discepoli Tre elementi suggeriscono che il nostro evangelista abbia in mente, in 16,32, il racconto sinottico della fuga dei discepoli182. Anzitutto il 181 È difficile concordare storicamente l’indicazione di Matteo e Marco, secondo i quali i discepoli fuggirono, con quella di Giovanni, secondo cui Gesù chiese che fossero lasciati andare. Possiamo ipotizzare gli avvenimenti nel seguente modo: i discepoli realmente fuggirono (Matteo e Marco) ma Gesù si oppose al tentativo di inseguirli e catturarli (Giovanni). Tale ricostruzione potrebbe essere confermata anche dall’episodio del giovane con la sindone, in Mc 14,51, che, catturato, lasciò la sindone e fuggì nudo. 182 Alla fuga al Getsemani rimandano quasi unanimemente gli interpreti. È sufficiente citare solo alcuni interpreti: C.K. BARRETT, The Gospel according to St. John, cit., 497, predizione della fuga; W. BAUER, Das Johannesevangelium, cit., 201 (il corrispondente giovanneo del Getsemani); F.F. BRUCE, The Gospel of John, cit., 325; A. DURAND - J. HUBY, Il vangelo secondo Giovanni, cit., 540; P.F. ELLIS, The Genius of John, cit., 238; R. FABRIS, Giovanni, cit., 833, che spiega però che il rischio della dispersione si prolunga nella comunità dei discepoli; J. GNILKA, Johannesevangelium, cit., 127; W. HENDRIKSEN, The Gospel of St.John, cit., 341; E.C. HOSKYNS - F.N. DAVEY, The Fourth Gospel, cit., 488; M.J. LAGRANGE, Évangile selon S. Jean, cit., 433; R.C.H. LENSKI, The Interpretation of St. John’s Gospel, cit., 1110; B. LINDARS, The Gospel of John, cit., 514; A. LOISY, Le quatrième évangile, cit., 795; G. MAIER, Johannesevangelium, II, cit., 201; E. SCHICK, Das Evangelium nach Johannes, cit., 147; J. SCHNEIDER, Das Evangelium nach Johannes, cit., 282;


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richiamo letterario tra i due testi determinato dal verbo a\fòhmi; inoltre un certo parallelismo strutturale che può essere evidenziato tra l’espressione dei vangeli sinottici e quella di Giovanni; infine il fatto che solo in questi testi il verbo a\fòhmi è riferito ai discepoli nel loro rapporto con Gesù. Quanto al primo elemento, i vangeli sinottici scrivono: a\feéntev au\toén; Giovanni invece scrive: ka\meè moénon a\fh%te. Emergono però nel testo giovanneo due differenze: il fatto che è Gesù che parla, e non l’evangelista che narra, e l’introduzione del termine moénov. Le due espressioni, quella dei sinottici e quella di Giovanni, però si integrano a vicenda. Giovanni non dice perché i discepoli hanno lasciato Gesù solo: i sinottici lo spiegano bene: essi sono fuggiti. Al contrario i sinottici non descrivono la situazione di Gesù dopo la fuga dei discepoli; lo indica invece Giovanni: egli è stato lasciato solo. Quanto al secondo elemento, notiamo una somiglianza ed una differenza tra l’espressione dei sinottici e quella di Giovanni. La somiglianza consiste in un dinamismo centrifugo dei discepoli; la differenza invece consiste nel fatto che, mentre i sinottici parlano di fuga (e"fugon), Giovanni parla invece di dispersione nelle proprie cose (i$na skorpisqh%te e"kastov ei\v taè i"dia). Tuttavia tra le due espressioni è possibile stabilire una relazione strutturale concentrica, come possiamo rilevare dal seguente schema: S. SCHULZ, Das Evangelium nach Johannes, cit., 208; F. TILLMANN, Das Johanesevangelium, cit., 232: i discepoli lasciano Gesù solo nella passione; H. VAN DEN BUSSCHE, Giovanni, cit., 516; B. WEISS, Das Johannesevangelium, cit., 454; A. WIKENHAUSER, Il vangelo secondo Giovanni, cit., 408. Altri interpreti, pur senza richiamare esplicitamente la fuga, richiamano in modo più generale l’ora della passione. Cfr R. KYSAR, John, cit., 253; E. FASCHER, Johannes 16,32. Eine Studie zur Geschichte der Schriftauslegung und zur Traditionsgeschichte des Urchristentums, in ZNW 39 (1940) 171-230: 219-220, secondo cui in Gv 16,32 soggiace la stessa tradizione di Mt 26,31 e Mc 14,27 Altri interpreti si esprimono in modo più generico. R.E. BROWN, The Gospel according to John, II, cit., 736-737, tende a negare il riferimento al Getsemani e ritiene il v 32 un esempio di tradizione primitiva conservata nei discorsi di addio, ma privo, nella penna dello scrittore giovanneo, del riferimento al Getsemani. C. DIETZFELBINGER, Die Eschatologische Freude in der Angst der Welt, Jo 16,16-33, in EvTh 40(1980) 420-436: 429 ritiene che in Gv 16,32 è presente ma corretta la tradizione sinottica. X. LEON-DUFOUR, Lecture de L’évangile selon Jean, III, cit., 264, stabilisce un parallelismo con 13,36-38 dove Gesù preannunzia il rinnegamento di Pietro; R. SCHNACKENBURG, Il vangelo secondo Giovanni, III, cit., 263 si limita solo a dire che Gv 16,32 tradisce l’influsso della tradizione sinottica.


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1. a\feéntev au\toèn 2. e"fugon 3. i$na skorpisqh%te […] ei\v taè i"dia 4. ka\meè moénon a\fh%te Questo schema rivela le somiglianze e le peculiarità giovannee: i discepoli fuggirono, secondo Giovanni invece essi lasciarono solo Gesù; i discepoli si allontanarono da Gesù, secondo Giovanni invece essi si sono dispersi nelle loro cose. Quanto al terzo elemento, il verbo a\fòhmi, detto dei discepoli in relazione a Gesù, nel senso cioè che essi lo abbandonano, nei vangeli sinottici si legge solo nei nostri due testi di Mt 26,56 e di Mc 14,50; in Giovanni si legge soltanto in 16,32.

4.3. Relazione a Gv 8,29 Un altro elemento ancora sembra confermare l’allusione da parte di Gv 16,32 alla narrazione sinottica della fuga dei discepoli al Getsemani: la menzione del Padre da parte di Gesù. Dopo avere annunziato infatti che i discepoli si sarebbero dispersi nelle proprie cose e che lo avrebbero lasciato solo, Gesù continua dichiarando di non essere solo: ma che con lui c’è il Padre: «ma io non solo, il Padre (o| Pathén) con me (met’e\mou%) è (e\stin)». Gesù così vuol dire che, nel momento in cui i discepoli lo abbandoneranno, egli non sarà certo abbandonato dal Padre. Questa indicazione richiama il testo di 8,29 dove leggiamo un’altra dichiarazione di Gesù: «colui che mi ha mandato (o| peémyav me) con me (met’e\mou%) è (e\stin) e non mi ha lasciato solo (ou\k a\fh%ken meé moénon), poiché le cose che sono gradite a lui (taè a\restaé au\t§%) faccio sempre». L’espressione di 8,29: «colui che mi ha mandato con me è» richiama quella di 16,32: «il Padre con me è »183. Come pure l’espressione: «non mi ha 183

Possiamo notare tra i due testi il seguente parallelismo: 8,29 16,31 o| peémyaév me met’e\mou% e\stin

o| pathèr met’e\mou% e\stin.


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lasciato solo», riferita al Padre, richiama, in forma di contrapposizione, l’espressione di 16,32, riferita ai discepoli: «e me solo lascerete»184. I due testi di 8,29 e di 16,32 appaiono così complementari. Entrambi concordano nell’affermazione di Gesù che il Padre è con lui. Tale affermazione però in 16,32 è introdotta da Gesù in contrapposizione ai discepoli che lo lasceranno solo; in 8,29 è introdotta invece in sintonia con il Padre che non lo ha lasciato solo185. Fermando la nostra attenzione specificatamente sul testo di 8,29, esso continua uno sviluppo iniziato fin dal v 28. In 8,28 troviamo una dichiarazione di Gesù ai giudei che quando avrebbero innalzato (o$tan u|ywéshte) il figlio dell’uomo, allora sarebbero pervenuti alla conoscenza (toéte gnwésesqe) di Gesù come «io sono (o$ti e\gwé ei\mi)». Abbiamo qui due frasi parallele186 che esprimono un rapporto futuro187 dei Giudei a Gesù, al momento della sua esaltazione. Seguono subito dopo cinque frasi che, per comodità, proponiamo in maniera schematica: 184

Possiamo notare tra i due testi il seguente parallelismo, pur con l’inversione degli

elementi: 8,29:

16,32:

ou\k a\fh%ken meè moénon

ka\meè moénon a\fh%te […].

185

In due testi, 16,31 e 8,29, possono essere ricondotti ad uno schema strutturale comune, insieme concentrico e alternato. Invertendo i testi avremmo allora il seguente schema: ka\meè moénon 16,31:

8,29:

186

a\fh%te o| pathèr met’e\mou% e\stin o| peémyaév me met’e\mou% e\stin ou\k a\fh%ken me moénon.

Possiamo notare il seguente parallelismo tra le due frasi: A B

o$tan u|ywéshte toéte gnwésesqe toèn ui|oèn tou% a\nqrwépou o$ti e\gwé ei\mi. 187 Sia la protesi con o$tan con il congiuntivo (o$tan u|ywéshte) sia l’apodosi con il futuro (toéte gnwésesqe) rimandano appunto ad una azione futura.


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1. kaì a\p’e\mautou% poiw% ou\deén 2. a\llaè kaqwèv e\dòdaxeén me o| pathér tou%to poiw% 3. kaì o| peémyav me met’au\tou% e\stin 4. ou\k a\fh%keén me moénon 5. o$ti e\gwè taè a\restaè au\t§% poiw% paéntote Possiamo scorgere in queste cinque frasi delle diversità di relazioni. Nella prima (1) Gesù esclude una relazione a se stesso; nella seconda (2) invece afferma una relazione al Padre; nella terza (3) e nella quarta (4) la relazione è del Padre a Gesù; nella quinta infine (5) la relazione è ancora di Gesù al Padre188. Nello sfondo di due frasi che descrivono la relazione di Gesù al Padre sono inserite due frasi che descrivono invece la relazione del Padre a Gesù. Sia nelle frasi che descrivono la relazione di Gesù al Padre, sia anche in quelle che descrivono la relazione del Padre a Gesù, possiamo notare un progresso. Le tre frasi che descrivono la relazione di Gesù al Padre presentano un progresso letterariamente discendente189: 1. kaì a\p’e\mautou% poiw% ou\deén 2. a\llaè kaqwèv e\dòdaxeén me o| pathér tou%to poiw% 3. o$ti e\gwè taè a\restaè au\t§% poiw% paéntote Emerge in queste tre frasi un dinamismo progressivo di Gesù verso il Padre: egli esclude di fare (poiw%) alcuna cosa da se stesso (1), dichiara di fare (poiw%) come il Padre gli ha insegnato (kaqwèv e\dòdaxeén me) (2), dichiara di fare (poiw%) le cose che sono gradite (taè a\restaé) al Padre (3). Nelle due frasi che descrivono la relazione di Gesù al Padre, il progresso invece è letterariamente ascendente, inverso190: 188 Prescindendo dalla prima frase in cui Gesù esclude una relazione a se stesso, possiamo cogliere nelle altre quattro una struttura concentrica: 1. Relazione di Gesù al Padre 2. Relazione del Padre a Gesù 3. Relazione del Padre a Gesù 4. Relazione di Gesù al Padre 189 Si può notare come caratteristico in queste tre frasi il verbo poiw% alla prima persona singolare ripetuto tre volte. Il soggetto è Gesù che agisce in un certo modo. 190 Il progresso inverso è suggerito dal fatto che nella prima frase leggiamo un indicativo presente (e\stòn), nella seconda invece leggiamo un indicativo aoristo (a\fh%ken).


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1. kaì o| peémyav me met’au\tou% e\stin 2. ou\k a\fh%keén me moénon In queste due frasi, all’inverso, troviamo un dinamismo progressivo del Padre verso Gesù: il Padre non ha lasciato solo Gesù (2), Il Padre è con Gesù (1). In tutte e cinque le frasi è descritto il dinamismo di un rapporto bilaterale tra Gesù e il Padre. Troviamo così qui sviluppato il tema espresso in 16,32: il Padre è con Gesù. Prescindendo dal senso specifico di Gv 8,28-29 nel contesto del c 8, possiamo stabilire un confronto tematico tra i due testi di Gv 8,28-29 e 16,32. Abbiamo già notato il diverso sfondo in cui si colloca la comune tematica della presenza del Padre in Gesù. Lo sfondo di 16,32 è il fatto che i discepoli si disperdono nelle proprie cose; lo sfondo di 8,28-29 invece è l’esaltazione quando i giudei perverranno ad una conoscenza. Possiamo allora notare il seguente parallelismo tematico tra i due testi: 8,28-29 16,30-31 esaltazione di Gesù i discepoli dispersi nelle proprie cose il Padre non ha lasciato solo Gesù i discepoli hanno lasciato solo Gesù Il Padre è con Gesù Il Padre è con Gesù Possiamo allora concludere che i due testi, messi assieme e letti in maniera inversa, delineano tutto il cammino di Gesù che va dalla dispersione dei discepoli fino alla sua esaltazione. L’esaltazione richiama la morte191. Ciò corrisponde bene a tutto il cammino della passione secondo Matteo e Marco che parte dal momento in cui i discepoli lasciarono solo Gesù e culmina nella sua morte. In questo cammino, secondo Giovanni, Gesù è stato lasciato solo dai discepoli che si sono dispersi nelle proprie cose, ma non è stato lasciato solo dal Padre. In questo cammino Gesù ha fatto come il Padre gli ha comandato ed ha fatto ciò che a lui è gradito. Il Padre da parte sua è stato con lui e, al momento dell’esaltazione, sarà manifesto che il Padre è con Gesù. Tutte queste considerazioni confermano la nostra conclusione che il testo di 16,32 alluda alla fuga dei discepoli. In questo senso esso rappresenta un ulteriore elemento che permette di concludere che il nostro evangelista,

191

Cfr Gv 12,32-33.


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pur senza descriverla direttamente, aveva presente la narrazione sinottica della preghiera al Getsemani.

5. GV 18,11 18,11: eàpen ou/n o| }Ihsou%v t§% Peétr§: baéle thèn maécairan ei\v thèn qhékhn: toè pothérion o| deédwkeén moi o| pathèr ou\ mhè pòw au\toé;

(Disse Gesù a Pietro: poni la spada nel fodero: il calice che il Padre ha dato a me, forse che non lo beva?) Queste parole di Gesù si articolano in due parti; la prima contiene un comando che è anche un rimprovero a Pietro dopo il suo intervento armato al Getsemani: «poni la spada nel fodero»; nella seconda Gesù indica, in forma di interrogativa retorica, il motivo per cui egli rifiuta quel gesto di difesa: « il calice che il Padre ha dato a me, forse che non lo beva?». Le parole di Gesù del v 11b si riferiscono perciò al precedente intervento di Pietro in cui egli recise con la spada l’orecchio del servo del sacerdote.

5.1. Peculiarità giovannee In questo racconto Giovanni in parte concorda e in parte anche diverge dalla tradizione sinottica. Concorda in alcuni elementi, specificamente quattro: l’intervento armato di qualcuno in difesa di Gesù al Getsemani192, il destinatario di tale intervento: «il servo del sacerdote»193, il 192 Tutti e quattro gli evangelisti concordano nel termine maécaira. Divergono però nel verbo che descrive l’estrazione: Matteo usa il verbo composto a\pospaézw, Marco invece usa il verbo semplice spaézw, Luca non indica l’azione di sguainare, Giovanni usa invece il verbo e\lkuéw. Inoltre i quattro evangelisti discordano anche nella descrizione dell’azione con la spada: Matteo e Luca usano il verbo pataéssw, Marco e Giovanni invece usano il verbo paòw. 193 Matteo e Marco scrivono l’espressione toèn dou%lon tou% a\rciereéwv; Luca e Giovanni invece invertono i termini: tou% a\rciereéwv toèn dou%lon, Giovanni però inserisce l’espressione tou% a\rciereéwv tra l’articolo toén e il sostantivo dou%lon (toén tou% a\rciereéwv dou%lon). In tutti i vangeli notiamo la presenza del duplice articolo.


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fatto che questi viene colpito all’orecchio194, la riprovazione di Gesù per quel gesto195. Prescindendo dalla precisazione, comune anche a Luca, che si tratta dell’orecchio destro196, le peculiarità giovannee sono soprattutto tre. Anzitutto l’esatta identificazione del personaggio che intervenne con la spada197. Giovanni invece la identifica esplicitamente: si tratta di «Simon Pietro». Inoltre Giovanni identifica esplicitamente anche il servo del sacerdote. Come abbiamo già notato, tutti gli evangelisti usano un duplice articolo, sia davanti al termine douélov sia anche davanti al termine a\rciereuév198. Evidentemente la tradizione sinottica sapeva che l’intervento armato era avvenuto contro un servo determinato; nemmeno di esso però conservò il nome. Giovanni invece, come ha fatto già con Pietro, identifica anche questo servo: «il suo nome era Malco». La terza peculiarità giovannea riguarda le parole con cui Gesù reprime il gesto di Pietro. Con Matteo Giovanni concorda nel fatto di una reprimenda più articolata; concorda, 194 Prescindiamo dai diversi termini con cui “l’orecchio” è espresso. Notiamo soltanto che Giovanni concorda con Marco nell’uso del termine w\taérion; concorda con Luca nella precisazione che si tratta dell’orecchio «destro (toè dexioén)». 195 Marco però non riferisce alcuna reazione di Gesù. Luca riferisce soltanto una espressione laconica: e\a%te e$wv touétou (fermatevi qui), seguita però dall’azione di Gesù che risana l’orecchio. Giovanni riferisce l’espressione che stiamo considerando. Matteo propone una reazione più lunga di Gesù: egli offre tre motivi del suo comando a rimettere la spada a suo posto: il principio generale che chi prende la spada perisce di spada, la sua possibilità di chiedere l’aiuto del Padre, la necessità che si adempiano le Scritture. 196 La relazione tra Luca e Giovanni per questo testo è indicata da diversi interpreti, cfr per esempio H.D.A MAJOR, The Mission and Message of Jesus, London 1940, 177-178; E. OSTY, Les points de contact entre le récit de la passion dans Saint Luc et dans Saint Jean, in RSR 39 (1951) 146-154: 149. 197 I vangeli sinottici usano a riguardo espressioni diverse: Matteo scrive eàv tw%n metaè }Ihsou% (uno di quelli con Gesù); Marco scrive eùv deé tiv tw%n paresthkoétwn (uno dei presenti), Luca scrive eùv tiv au\tw%n (uno di essi). I tre sinottici concordano nel carattere indeterminato di questa persona e nell’uso del pronome indefinito eùv; Marco e Luca concordano anche nell’uso del pronome indefinito tòv e perciò nell’espressione eùv tiv. Evidentemente tale persona non fu identificata dalla tradizione. 198 Il secondo articolo è comprensibile: si allude con esso al sommo sacerdote in carica, sia egli Caifa o, più in sintonia con Giovanni, Anna. Sorprende invece l’articolo davanti al termine douélov: non si tratta allora di “un servo” del sacerdote, uno tra i tanti che potevano essere lì presenti, ma “del servo” del sacerdote: un servo particolare e specifico, forse incaricato di mansioni particolari, alluso ma non identificato.


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benché con diverse parole, nel comando di rimettere la spada al suo posto199, ma discorda interamente nelle motivazioni di quel comando.

5.2. Le parole di Gesù Fermiamo la nostra attenzione soltanto sull’espressione che più direttamente ci riguarda: toè pothérion o| deédwkeén moi o| pathèr ou\ mhè pòw au\toé;. Osserviamo subito che analoga espressione nei vangeli sinottici non si legge nel contesto dei racconti della cattura di Gesù bensì, al contrario, nel contesto della sua preghiera di Gesù. Dal punto di vista della critica testuale, l’espressione toè pothérion o| deédwkeén moi o| pathèr ou\ mhè pòw au\toé non presenta particolari problemi200. Dal punto di vista strutturale l’espressione si articola secondo uno schema concentrico: toè pothérion o$ deédwkeén moi o| Pathér ou\ mhè pòw au\toé

199

Le espressioni dei due evangelisti presentano anche una certa relazione strutturale, come appare dal seguente schema: Matteo Giovanni toéte leégei au\t§% o| }Ihsou%v a\poéstreyon thèn maécairaén sou ei\v toèn toépon au\th%v. 200

eùpen ou&n o| }Ihsou%v t§% Peétr§ baéle thèn maécairan ei\v thèn qhékhn

Possiamo notare solo poche varianti e non di primaria importanza. I codd maiuscoli D D Q e altri pochi minuscoli leggono non il perfetto deédwka ma l’aoristo e"dwka. Il P66, i minuscoli 69 700, altri pochi e le versioni siro peshitto, siro sinaitica e copta aggiungono il pronome mou% dopo il sostantivo o| pathér. Infine il cod Q, il minuscolo 238 e Taziano aggiungono, riprendendola ovviamente da Mt 26,52, l’espressione paéntev gaèr oi| laboéntev maécairan e\n maécaira a\polou%ntai (tutti quelli che presero spada di spada periranno).


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Alle estremità leggiamo i due oggetti, al secondo e quarto posto leggiamo i due verbi, al centro risalta il termine o| pathér201.

5.3. Confronto con i vangeli sinottici La nostra espressione, come abbiamo già notato, richiama la preghiera di Gesù al Getsemani secondo i vangeli sinottici. Tale richiamo è già indicato dagli interpreti. Essi notano che l’espressione giovannea rimanda e proviene dalla preghiera del Getsemani202. Secondo altri l’espressione si ricollega all’antica tradizione della chiesa primitiva203; oppure Giovanni avrebbe usato una fonte corrispondente

201

Per il termine o| pathér Lenski ne sottolinea l’enfasi e richiama Mc 14,36, cfr R.C.H. LENSKI, The Interpretation of St. John’s Gospel, cit., 1189; cfr anche Columbus (Ohio) 1942, 1188. Cfr anche J.H. BERNARD, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to S. John, cit., 436. 202 Cfr J.H. BERNARD, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel according to S. John, cit., 590; F.M. BRAUN, Évangile selon Saint Jean, cit., 455; A. DURAND - J. HUBY, Évangile selon S. Jean, cit., 464; I. KNABENBAUER, Kommentarius in Evangelium secundum Ioannem, cit., 524: Gesù ricorda la preghiera con cui si è rimesso alla volontà del Padre; F. S. SCHULZ, Das Evangelium nach Johannes, Göttingen 197212; 225. Gardner-Smith osserva che Gesù conobbe la tradizione usata dai sinottici, che mira però a correggere, cfr P. GARDNER-SMITH, St. John and the Synoptic Gospels, Cambridge 1938,59; in questa posizione è anche più o meno B. NOACK, Zur johanneischen Tradition. Beiträge zur literarkritische Exegese des vierten Evangeliums, 106. Inoltre C. CLEMEN, Die Entstehung des Johannesevangeliums, cit., 274; A. LOISY, Le quatrième évangile, cit., 826; G. MAIER, Johannesevangelium, II, cit., 245; U. SCHNELLE, Das Evangelium nach Johannes, cit., 264; D. SENIOR, The Passion of Jesus in the Gospel of John, Collegeville (Minnesota) 1991, 54; J. SIMOENS, Selon Jean. 3. Une interprétation, Bruxelles 1997, 749; H. VAN DEN BUSSCHE, Giovanni, cit., 555; H. WINDISCH, Johannes und die Synoptiker, Leipzig 1926, 94 che però è più incerto. Secondo Tillmann Gesù non è vittima di alcuna forza esterna, ma il calice gli è donato dal Padre, cfr F. TILLMANN. Das Johannesevangelium, Bonn 19314, 243. Westcott osserva che sembra impossibile che le parole di Gesù in Gv 18,11 non contengano la risposta alla preghiera che Giovanni non narra: il calice non è tolto ma dato, cfr B.F. WESTCOTT, The Gospel according to St. John, cit., 254. 203 Cfr J. SCHNEIDER, Das Evangelium nach Johannes, cit., 298; B. WEISS, Das Johannesevangelium, cit., 478; TH. ZAHN, Das Evangelium des Johannes, cit., 621.


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a quella del Getsemani204. Altri interpreti poi parlano di una semplice reminiscenza del Getsemani205. Riferendoci in maniera più particolare a qualche interprete, Beeckmann osserva che le parole di Gesù esprimono il risultato della preghiera: Gesù ha superato la lotta206. Secondo Blinzler207 il testo presuppone che Giovanni conoscesse l’agonia e i lettori siano informati di una situazione al Getsemani quale è narrata da Matteo. Spiega De La Potterie208 che nelle parole di Gesù c’è un’eco della tradizione sinottica, ma in maniera differente: in 18,11 risuonano prontezza e libertà. Secondo Lindars209 Giovanni ha sostituito parole che appartengono alla tradizione dell’agonia: la fraseologia non è giovannea, ma il vocabolario è giovanneo. Altri interpreti infine sembrano escludere una relazione, almeno diretta, alla tradizione della preghiera di Gesù. Così Borgen210 ritiene che Giovanni, per il calice, sia indipendente dai sinottici, benché non escluda, per l’episodio della spada, una dipendenza da Mt 26,52. Secondo Kysar211 il calice sembra provenire da una fonte giovannea che può ricondursi in ultima analisi a quella dei vangeli sinottici, benché rielaborata da Giovanni o da una fonte giovannea.

204

R. BULTMANN, Das Evangelium des Johannes, cit., 493. Cfr C.K. BARRETT, The Gospel according to St John, cit., 431.436 (Giovanni conobbe la preghiera di Gesù); W. BAUER, Das Johannesevangelium, cit., 211; F.M. BRAUN, La Passion de notre Seigneur Jésus Christ d’après Saint Jean, in NRT 60 289-302 (I): 293; G.R. BEASLEY-MURRAY, John, cit., 323; F.F. BRUCE, The Gospel of John, cit., 343; J. FINEGAN, Die Überlieferung der Leidens -und Auferstehungsgeschichte Jesu, Gießen 1934, 44; L. MORRIS, The Gospel according to John, 746; F. PORSCH, Johannes-Evangelium, Stuttgart 1988, 192; Cfr E. SCHICK, Das Evangelium nach Johannes, cit., 155; U. WILCKENS, Das Evangelium nach Johannes, cit., 272. 206 Cfr P. BEECKMANN, L’évangile selon S. Jean, d’après les meilleurs auteurs catholiques, cit., 359. 207 Cfr J. BLINZLER, Giovanni e i sinottici, trad. it., Brescia 1969, 62-63. 208 Cfr I. DE LA POTTERIE, La passion de Jésus selon l’évangile de Jean, Paris 1986, 60-61. 209 Cfr B. LINDARS, The Gospel of John, cit., 543-544. 210 Cfr P. BORGEN, John and the Synoptics in the Passion Narrative, in NTS 5 (195859) 246-259: 251. 211 Cfr R. KYSAR, John, cit., 270. 205


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Quanto poi al senso delle parole di Gesù, gli interpreti propongono pure una varietà di sfumature. Secondo Giblin212 Gesù è venuto a compiere liberamente la volontà del Padre. Godet213 osserva che Gesù con quelle parole ha tracciato alla chiesa la linea di condotta nel tempo di persecuzione. Secondo Kysar214 si tratta del destino riservato da Gesù al Padre. Spiega Leon Dufour215 che nella formula di Giovanni si sottolinea la comunione con il Padre. Spiega Sanders - Mastin216 che, benché la stessa idea appaia anche in Mc 10,30s e Mt 20,22s, le parole di Gesù indicano che egli accetta con fiducia il suo destino. Schwank217 nota la differenza con Lc 22,43, dove è un angelo a confortare Gesù, mentre in Gv 18,11 il calice è donato dal Padre. In Mt 26,39 leggiamo: «Padre mio (paéter mou), se è possibile, passi da me questo calice (toè pothérion), però non come io voglio ma come tu». Nel seguente v 42, nella sua seconda preghiera, Gesù continua: «Padre mio (paéter mou) se questo non può passare senza che io lo beva (pòw), si compia la tua volontà». In questi due versi di Matteo troviamo tre elementi fondamentali nel nostro testo: il termine pathér, il termine toè pothérion e il verbo pònw218. In Mc 14,35 leggiamo: «e pregava che passasse da lui l’ora e diceva: Abbà o Padre (o| Pathér), tutto è possibile a te: allontana questo calice (toè pothérion tou%to) da me, ma non ciò che io voglio ma ciò che tu». In questo testo di Marco troviamo solo due dei tre elementi: manca il verbo pònw.

212

Cfr C.H. GIBLIN, Confrontations in John 18,1-27, in Bib 65 (1984) 210-232: 221. Cfr F. GODET, Commentaire sur l’évangile de Saint Jean, cit., 389. 214 Cfr R. KYSAR, John, cit., 270. 215 Cfr LEON DUFOUR, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, IV, trad. it., Cinisello Balsamo 1998, 56. 216 Cfr J.N. SANDERS - B.A. MASTIN, A Commentary on the Gospel according to S. John, 387. 217 Cfr B. SCHWANK, Evangelium nach Johannes, cit., 428. 218 Si può notare un certo parallelismo strutturale tra i due versi. Entrambi hanno il vocativo paéter, il primo verso mette il risalto il termine toè pothérion, il secondo invece il verbo pònw: 213

paéter mou toè pothérion

paéter mou tou%to pònw.


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Infine in Lc 22,42 leggiamo l’espressione: «Padre (paéter), se vuoi, allontana da me questo calice (tou%to toè pothérion), però non la mia volontà ma la tua avvenga». Come in Marco, anche in questo testo di Luca troviamo soltanto due elementi: manca anche qui il verbo pònw. La relazione più diretta del nostro testo giovanneo sembra essere perciò con il testo di Matteo, dove troviamo appunto i tre elementi: pathér, toè pothérion, pònw. Tuttavia non si può escludere che il nostro evangelista avesse presente anche il testo di Marco; abbiamo già notato infatti che il termine w$ra in Gv 12,27 ci rimanda meglio al vangelo di Marco219. Possiamo citare qualche altro testo dei vangeli sinottici dove troviamo gli elementi di Gv 18,11. Si tratta di Mt 20,22-23 e Mc 10,38-39, dove Gesù interroga i figli di Zebedeo se possono bere il calice che egli sta per bere. Notiamo però due elementi che impediscono una relazione almeno diretta: anzitutto la menzione del Padre non è legata al calice220 ma al dono di sedere alla destra o alla sinistra di Gesù221; inoltre il bere il calice non si riferisce direttamente a Gesù ma ai figli di Zebedeo, interrogati da lui se possono condividere quell’evento222.

219 Possiamo anche notare una inversione di espressioni in Giovanni rispetto al testo di Marco. In Mc 14,35 l’evangelista parla di w$ra, in assoluto, senza alcuna specificazione, poi parla di toè pothérion, in modo relativo, con la determinazione del pronome relativo tou%to. Giovanni, al contrario, parla in 12,27 dell’w$ra in maniera relativa con il pronome dimostrativo femminile au$th e, in 18,11, del toè pothérion, in maniera assoluta senza alcuna determinazione: Giovanni Marco th%v w$rav tau%thv h| w$ra 14,35 12,27: toè pothérion toè pothérion tou%to. 18,11 220 Nei racconti sinottici del Getsemani il Padre è colui al quale Gesù si rivolge perché passi il calice, in Gv 18,11 il Padre è colui che ha dato il calice a Gesù. 221 Il Padre è colui che ha preparato un posto alla destra o alla sinistra di Gesù. Tale precisazione si trova però solo in Matteo che scrive: «quelli per i quali è preparato (oùv h|toòmastai) dal Padre mio (u|poè tou% patroév mou)»; Marco omette la menzione del Padre e scrive: «quelli per i quali è preparato (oùv h|toòmastai)». 222 In Mt 20,22 e Mc 10,38 leggiamo l’espressione quasi identica: «potete bere (duénasqe pòein) il calice (toè pothérion) che io sto per bere (o$ e\gwè meéllw pòein; Marco però scrive: o$ e\gwè pònw: che io bevo)»? Nel verso seguente, in Matteo, Gesù continua: «il mio calice (toè pothérion) berrete (pòesqe)»; Marco introduce una breve modifica, scrive: «il calice (toè pothérion) che io bevo (o$ e\gwè pònw) berrete (pòesqe)».


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Possiamo perciò concludere che la relazione migliore è con la preghiera di Gesù al Getsemani, che ancora una volta il nostro evangelista deve avere conosciuto sia nella forma di Matteo, come appare da 18,11, sia anche nella forma di Marco, come appare da 12,27. Giovanni introduce però nella sua espressione due aspetti fondamentali propri che in questo studio però ci limitiamo soltanto ad indicare. Anzitutto, a differenza dei vangeli sinottici, il Padre non è presentato come colui al quale Gesù chiede che passi il calice ma come colui che ha dato il calice a Gesù. Questo aspetto nei vangeli sinottici può essere sottinteso, contenuto implicitamente nell’adesione di Gesù alla volontà di Dio, ma direttamente non è espresso. Inoltre Gesù, come in 12,27, si esprime in forma di interrogativa retorica223. Possiamo dire che, come in 12,27, anche in 18,11 il nostro evangelista presenta uno stadio più avanzato di riflessione rispetto a quella dei vangeli sinottici. Secondo questi ultimi, Gesù si adegua (Matteo) o contrappone (Marco) alla sua richiesta la volontà del Padre; secondo Giovanni Gesù non può non bere il calice, proprio per il fatto che esso gli è dato dal Padre.

6. RILETTURA SINTETICA Dopo avere considerato i singoli riferimenti del vangelo di Giovanni alla narrazione della preghiera di Gesù nei vangeli sinottici, poniamo adesso il problema se il nostro evangelista introduca queste allusioni nel suo vangelo in maniera casuale o non segua piuttosto un suo particolare schema ordinato.

6.1. Il testo di 6,38-40 Cominciamo dal primo testo che contiene una allusione alla preghiera di Gesù: Gv 6,38-40. In questo testo, come abbiamo già notato, l’evangelista presenta Gesù che antepone alla sua la volontà del Padre. Nel contesto 223 In 12,27 con quell’interrogativa Gesù esclude la richiesta di essere salvato da «quest’ora», in 18,11 esclude che egli non beva il calice.


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dei vv 38-40 il termine qeélhma appare centrale: esso infatti si legge ben quattro volte. Il testo di 6,38-40, soprattutto il v 38, richiama il precedente testo di 5,30, dove Gesù ancora antepone, come oggetto di ricerca (zhteéw), la volontà del Padre alla sua. Prima di 5,30 il termine qeélhma, riferito a Gesù, si legge ancora una volta, in 4,30, dove, ai discepoli che lo avevano esortato a mangiare, egli dichiara: «il mio cibo è di fare (e\moèn brw%ma) la volontà di colui che mi ha mandato (i$na poihésw toè qeélhma tou% peémyantoév me)». L’ultimo uso del termine qeélhma, riferito a Gesù, è in 9,31. In questo testo però il riferimento è indiretto: il cieco nato, che è pervenuto alla vista, dichiara ai giudei che tentavano di allontanarlo da lui, non senza un riferimento a Gesù, che «Dio non ascolta i peccatori; ma se qualcuno è timorato di Dio e fa la sua volontà, questi ascolta». Il ragionamento del cieco pervenuto alla vista è semplice: se Gesù gli ha potuto aprire gli occhi vuol dire che Dio lo ha ascoltato; ma, se Dio lo ha ascoltato, vuol dire che egli è timorato di Dio e fa la sua volontà. Il termine qeélhma nel vangelo di Giovanni si legge così complessivamente 11 volte. Questi usi sono tutti concentrati nei primi nove capitoli224. Il testo di 9,31, che abbiamo sopra citato, è l’ultimo della serie. Otto usi su undici del termine qeélhma, eccetto cioè i due di 1,13225 e quello di 7,17226, sono riferiti a Gesù. In 4,34 Gesù dichiara che il suo cibo è fare la volontà di colui che lo ha mandato. In 5,30 e 6,38-40, soprattutto in 6,38, Gesù antepone alla sua la volontà del Padre. In 9,31 implicitamente il cieco pervenuto alla vista dichiara che Gesù è timorato di Dio e fa la sua volontà. I due testi di 1,13 e 7,17 sono riferiti agli uomini. In 1,13 si esclude per loro un tipo di volontà: quella della carne e dell’uomo; in 7,17 invece si indica un altro tipo di volontà a cui aderire, quella di Dio. Ci sembra di scorgere in tutti gli usi del termine qeélhma nel vangelo di Giovanni una sistemazione secondo uno schema insieme alternato e 224

Cfr 1,13.13; 4,34; 5,30.30; 6,38.38.39.40; 7,17; 9,31. In 1,13.13 l’evangelista parla di coloro che «non da volontà di carne (e\k qelhématov sarkoév) né da volontà di uomo (e\k qelhématov a\ndroév) ma da Dio sono stati generati». 226 In 7,17 ai Giudei Gesù indica il compimento della volontà di Dio (e\aén tiv qeél+ toè qeélhma au\tou% poie_n) come criterio e strada per pervenire alla conoscenza (gnwésetai) se la sua dottrina è da Dio o se egli parla da se stesso. 225


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concentrico. Secondo lo schema concentrico negli usi centrali (5,30 e 6,38) Gesù antepone alla sua la volontà del Padre, Secondo lo schema alternato il primo (1,13) e terzo (7,17) uso sono riferiti agli uomini, per i quali si esclude un tipo di volontà (1,13), quella della carne e dell’uomo, e ne indica un’altra, la volontà di Dio; il secondo (4,34) e il quarto (9,31) uso invece si riferiscono a Gesù, che dichiara che il suo cibo è compiere la volontà di Dio (4,34) e al quale implicitamente il cieco, pervenuto alla luce, rende testimonianza che compie la volontà di Dio. Possiamo allora proporre il seguente schema: A. 1. (1,13): esclusione per gli uomini di un tipo di volontà 2. (4,34): Gesù dichiara di compiere la volontà di Dio B. (5,30): Gesù antepone alla sua la volontà del Padre B. (6,38). Gesù antepone alla sua la volontà del Padre A. 3. (7,17): indicazione per gli uomini della volontà di Dio 4. (9,39): il cieco attesta che Gesù compie la volontà di Dio Al centro risaltano i testi in cui Gesù antepone alla sua la volontà del Padre. Possiamo allora concludere che la prospettiva con cui l’evangelista, almeno nei cc 1-9, allude al racconto sinottico della preghiera al Getsemani è quella di Gesù che aderisce alla volontà di Dio. In tale adesione Gesù ha anteposto alla sua la volontà del Padre. Ciò, secondo i vangeli sinottici, avvenne appunto nella preghiera al Getsemani.

6.2. I testi di 12,27; 14,30-31; 18,11 Diversa invece appare la prospettiva dei testi che abbiamo selezionato nella seconda parte del vangelo, dal c 12 cioè al c 18. In questa parte abbiamo individuato quattro testi: 12,27; 14,30-31; 16,32; 18,11. Prescindendo per ora da 16,32 che non riguarda direttamente Gesù bensì i discepoli nella loro relazione a lui, possiamo cogliere anzitutto negli altri tre testi una analogia tra 12,27 e 18,11. Entrambi contengono parole dirette di Gesù espresse in forma di interrogativa retorica. In 12,27, quasi al termine di un monologo iniziato nel v 23, dopo avere dichiarato il turbamento della sua anima, Gesù, in forma di interrogativa retorica, esclude la richiesta al Padre che lo salvi «da quest’ora»; in 18,11, a Pietro


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che era intervenuto con la spada, sempre in forma di interrogativa retorica, Gesù dichiara che certamente berrà il calice che il Padre gli ha dato. Oltre la formulazione all’interrogativa retorica, questi due testi, riconducibili entrambi, come abbiamo già notato, all’unica preghiera di Gesù al Getsemani, concordano anche nel fatto di essere ambedue all’inizio di uno sviluppo che culmina nella menzione della morte. Lo sviluppo del testo di 12,27 risale fino a 12,24 dove Gesù parla del chicco di grano che, se muore (a\poqaén+), porta molto frutto; lo sviluppo di 18,11, all’inizio della narrazione della passione, scende fino a 19,33 dove l’evangelista riferisce la constatazione dei soldati che Gesù era già morto (teqnhkoéta). Possiamo allora proporre tra i due testi il seguente schema: 1. (12,24): la morte del chicco di grano 2. (12,27): non essere salvato da «quest’ora» 3. (18,11): bere il calice 4. (19,33): Gesù era già morto Emerge da questo schema una tematica unitaria. Gesù non deve essere salvato da «quest’ora», ma deve bere il calice, precisamente quel calice che, secondo i sinottici, chiese che passasse al Getsemani. Egli non deve essere salvato da «quest’ora» ma deve bere il calice ed andare alla morte. La sua morte però è quella del chicco di grano che cade a terra e porta molto frutto. Tra questi due testi si inserisce il testo di 14,30-31, dove Gesù annunzia la venuta del «principe del mondo», incontro al quale egli va, non perché di lui egli è succube, ma perché così ha comandato il Padre. Questo testo indica la prospettiva di fondo e contiene l’anima di tutto il cammino di Gesù. Egli è guidato dall’amore verso il Padre, il cui comandamento egli osserva; per questo va incontro liberamente verso il principe del mondo. In ciò il mondo deve conoscere che egli ama il Padre227. Nella passione può sembrare che Gesù sia caduto in potere del principe del mondo. Gesù stesso 227

Questo aspetto della libertà è presente, benché in maniera più implicita, anche negli altri testi di 12,27 e 18,11. In 12,27 Gesù non chiede di essere salvato «da quest’ora» perché è proprio per questo che egli va incontro ad essa. Si comprende che egli è salvato dall’ora non in quanto la elude ma in quanto la supera: egli è salvato dall’ora in quanto essa culmina nella glorificazione e chiede appunto al Padre che lo glorifichi. In 18,11 poi Gesù dichiara che certamente berrà il calice che il Padre gli ha dato; si sottintende che egli non può non berlo proprio per il fatto che gli è stato dato dal Padre.


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esclude tale possibilità: egli gli va incontro perché così il Padre gli ha comandato e lui fa come il Padre gli ha comandato. Possiamo allora concludere che le allusioni alla preghiera di Gesù al Getsemani non sono introdotte a caso nel vangelo di Giovanni. Il testo di 6,38 si colloca nel contesto in cui l’evangelista presenta Gesù come colui che compie la volontà di Dio; gli altri testi, da 12,27-28a fino a 18,11, si trovano in un contesto in cui l’evangelista indica qual è la volontà di Dio che Gesù deve compiere e il motivo per cui egli deve compierla.

6.3. Relazioni tematiche tra i testi nella sezione di 12,27-18,11 Considerando ancora i testi contenuti nella sezione di 12,27-18,11, incluso anche quello di 16,32, possiamo allora distinguere in essa quattro aspetti corrispondenti ai quattro testi: 1. (12,27): Gesù, almeno ad un certo livello, non deve essere salvato da «quest’ora»; 2. (14,30): Gesù non è vittima del principe del mondo, ma va incontro a lui perché egli ama il Padre e fa come il Padre gli ha comandato; 3. (16,32): Gesù è stato lasciato solo dai discepoli, ma non dal Padre che è con lui 4. (18,11): Gesù deve bere il calice che il Padre gli ha dato. Abbiamo già notato come il primo e il quarto testo presentano una relazione tematica: Gesù non deve essere salvato da «quest’ora» (1) ma deve bere il calice che il Padre gli ha dato (4). Anche in secondo e il terzo testo, in certo modo, debbono pure relazionarsi: entrambi infatti presentano insieme un rapporto, possiamo dire dialogico, tra Gesù e il Padre; Gesù ama il Padre ed ha agito come lui gli ha comandato (2), il Padre non ha lasciato solo Gesù ma è stato ed è con lui (3). Emerge in questi testi un’idea unitaria: nel compimento della volontà di Dio, che consiste nel non eludere «quest’ora» ma nel bere il calice, Gesù è stato abbandonato dai discepoli, ma il Padre non lo ha lasciato solo.


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7. CONCLUSIONE Possiamo proporre allora una duplice conclusione. La prima riguarda il fatto stesso della ripresa del racconto sinottico della preghiera di Gesù al Getsemani da parte del quarto evangelista; la seconda riguarda il modo della sua ripresa. Anzitutto il nostro evangelista, pur senza descriverlo direttamente nel contesto della sua narrazione degli eventi al Getsemani, non ignora il racconto della preghiera di Gesù. Egli sembra conoscerlo secondo la tradizione di Matteo e Marco; questa, a differenza di quella lucana, parte dalla tristezza di Gesù e culmina nella fuga dei discepoli al momento della sua cattura. In particolare egli riprende sei elementi: l’adesione non alla propria volontà ma a quella di Dio (6,38), la tristezza di Gesù e la sua richiesta di essere salvato dall’ora (12,27), il suo cammino verso il traditore (14,32), la fuga dei discepoli (16,32), la sua richiesta che passi il calice (18,11). Più complesso invece è il modo come l’evangelista riprende e ripropone i singoli elementi; egli non li ripropone nel modo come li descrivono i vangeli sinottici e in un racconto unitario, ma li smembra inserendoli, reinterpretati, in diversi contesti. Così il fatto che Gesù antepone la volontà del Padre alla sua, menzionato in 5,30 e soprattutto in 6,38, da Giovanni non è presentato come superamento della richiesta che sia allontanato il calice, ma come lo scopo preciso per cui egli è disceso dal cielo. Della tristezza di Gesù il nostro evangelista parla in 12,27, ma non descrive lo stato di tristezza dell’anima, come Matteo e Marco, bensì il fatto che la sua anima è entrata in maniera stabile in una situazione di turbamento che potrebbe suggerire una certa preghiera. Ancora in 12,27 l’evangelista rivela di non ignorare la richiesta di Gesù riferita da Marco che passasse da lui l’ora. Egli però la reinterpreta: Gesù non chiede che «passi l’ora» ma che «sia salvato dall’ora». Gesù stesso però esclude una salvezza come elusione, ma guarda piuttosto ad una salvezza come superamento nella glorificazione. In sintonia con i vangeli sinottici, anche secondo Giovanni, in 14,30-31, Gesù va incontro al traditore, identificato con il principe del mondo, ma liberamente, determinato soltanto dalla sua adesione alla


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volontà del Padre. Ma, secondo il nostro evangelista, Gesù va ancora oltre: egli specifica che il principe del mondo non ha alcun potere su di lui, ma fa quanto il Padre gli ha comandato perché egli ama il Padre. In 16,32 l’evangelista sembra di non ignorare la fuga dei discepoli nella quale essi hanno lasciato solo Gesù. Ma Gesù stesso, secondo il nostro evangelista, sottolinea, anche alla luce di 8,29, che il Padre nel cammino della sua passione non lo ha lasciato solo e che è con lui. In 18,11 l’evangelista allude alla richiesta di Gesù al Padre. Secondo i vangeli sinottici chiese che allontanasse da lui il calice; secondo il nostro evangelista Gesù non può non bere il calice che il Padre gli ha dato. Le diverse allusioni alla preghiera di Gesù al Getsemani, come abbiamo già notato, sono dislocate così dal nostro evangelista in due sezioni: 4,30 - 9,31 e 12,27 a 18,11. Nella prima sezione egli presenta Gesù come colui che compie la volontà di Dio228. Nella seconda invece sembra che presenti il contenuto della volontà di Dio e il motivo per cui essa deve essere compiuta. Il motivo è perché egli ama il Padre e perciò egli fa quanto il Padre gli ha comandato. In tale compimento egli è stato abbandonato dai discepoli ma il Padre è stato con lui. Rimane infine un duplice problema: Giovanni conobbe i singoli elementi della preghiera prima che fossero redatti insieme dalla tradizione sinottica oppure si riferì ad un racconto della preghiera di Gesù già redatto? In questo secondo caso, il racconto era legato alla più ampia narrazione della passione oppure circolava ancora in maniera autonoma ed indipendente? Non è facile, e forse non è nemmeno possibile, rispondere con certezza a queste domande. Ci limitiamo perciò ad esprimere soltanto qualche impressione. Il fatto che l’evangelista sembra riferirsi più direttamente alla tradizione di Matteo e Marco suggerisce che egli abbia conosciuto un racconto già formato e lo abbia ripreso liberamente, smembrando poi, reinterpretando e inserendo ciascun elemento in un suo contesto specifico.

228 il termine qeélhma infatti, come abbiamo già notato, dopo 9,31, non si legge più in tutto il vangelo Si legge invece il verbo qeélw, che però non caratterizza mai l’adesione di Gesù alla volontà di Dio.


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Il fatto stesso poi che si riferì alla tradizione di Matteo e Marco, più ampliata rispetto a quella di Luca, lascia pensare che Giovanni conobbe e riprese a suo modo la preghiera di Gesù quando questa era già unita a tutta la narrazione della passione.



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IL PROBLEMA ETICO IN ARISTOTELE E SAN TOMMASO D’AQUINO

SALVATORE MUSCOLINO*

Com’è noto, il termine etica è stato introdotto nel gergo filosofico da Aristotele che per primo parla di una “teoria etica” (vedi, ad esempio, Analitici Posteriori 89 b 9), volendo con ciò distinguere un ambito proprio della conoscenza umana riguardante la condotta dell’uomo, i criteri e i principi cui egli deve ispirare il proprio comportamento. In Metafisica a 273, 995 a 14-16 egli parla più precisamente di “filosofia pratica” indicando quella scienza che non si preoccupa, come la filosofia teoretica, di contemplare la verità fine a se stessa, ma di coglierla con un fine ben preciso, l’azione. La filosofia pratica ha come oggetto la prassi umana la quale ha il suo principio nella scelta autonoma dell’uomo che deve realizzare il proprio bene e, visto l’oggetto proprio di questa scienza, essa avrà anche un metodo specifico come spiega lo stesso Aristotele1. Proprio per la rivendicazione di una forma di razionalità pratica distinta da una teoretica, Aristotele continua ancora oggi a suscitare interesse per tutti coloro che si occupano di questioni attinenti l’etica2 e primi fra tutti coloro che, muovendosi all’interno dell’orizzonte cattolico, *

Dottorando in Storia delle dottrine politiche presso l’Università La Sapienza di Roma. Per le questioni relative al metodo della filosofia pratica di Aristotele si può consultare E. BERTI, Il metodo della filosofia pratica secondo Aristotele, in A. Alberti, Studi sull’etica di Aristotele, Napoli 1990, 23-63. Oppure il più recente I. YARZA, La razionalità dell’etica di Aristotele. Uno studio su Etica Nicomachea I, Roma 2001. Infine, per quanto riguarda il sillogismo pratico si veda C. NATALI, La saggezza di Aristotele, Napoli 1989, 143-214. 2 Sull’importanza del pensiero di Aristotele nei vari ambiti della filosofia novecentesca (logica, metafisica, retorica, etica…) si veda S. BROCK (a cura di), L’attualità di Aristotele, Armando 2000; oppure E. BERTI, Aristotele nel Novecento, Bari 1992. 1


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si richiamano alla filosofia di San Tommaso d’Aquino, ossia colui che nel XIII sec. operò la grande sintesi tra aristotelismo e cristianesimo. Quanto la filosofa tomista sia impregnata di aristotelismo è cosa a tutti nota ma spesso ciò che, a nostro modesto avviso, non si sottolinea abbastanza è la differenza tra le due filosofie, limitandosi a far convergere tali differenze nell’assenza, nel sistema aristotelico, del concetto di creazione e di Dio come fine ultimo. Non che questo sia falso o di secondaria importanza, tutt’altro, solo che deve essere collegato ad altre questioni che cercheremo di analizzare nel seguente lavoro. Soffermandoci sul problema etico ci richiameremo ad altri ambiti quali la gnoseologia, l’ontologia o la metafisica solo al fine di esporre le rispettive concezioni etiche nel modo più armonioso possibile con i rispettivi sistemi.

1. ARISTOTELE Per comprendere a fondo il pensiero aristotelico non si può non tenere presente un dato a nostro avviso inequivocabile: il rifiuto della teoria platonica delle idee. Essendo la teoria delle idee il centro della filosofia platonica3 il suo rifiuto da parte di Aristotele non può essere senza conseguenze sul modo di valutare il rapporto tra i due filosofi anche sui problemi da noi affrontati4.

3 È irrilevante ai fini della nostra trattazione l’interpretazione proprugnata dalla scuola di Tubinga e, in Italia, da G. Reale e la scuola di Milano, secondo la quale i dialoghi platonici, cioè le «dottrine scritte», andrebbero necessariamente interpretate in relazione alle «dottrine non scritte», cioè alle lezioni che Platone teneva all’interno dell’Accademia. Secondo tale interpretazione il culmine della filosofia platonica sarebbe costituito più che dalla teoria delle idee, esposta nei dialoghi, dalla teoria dei primi principi (protologia) esposta da Platone proprio in tali lezioni orali (anche se nei dialoghi sarebbero presenti continui rimandi più o meno espliciti a tali principi primi) tra le quali, anche Aristotele ricorda la celebre lezione Sul Bene (Si veda G. REALE, Per una nuova interpretazione di Platone, Milano 199720). 4 Così anche G. BIEN, Die Grundlegung der politischen Philosophie bei Aristoteles, Freiburg/München 1973 (ed. italiana, G. BIEN, La filosofia politica di Aristotele, Trento 2000, 15).


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È noto, ad esempio, che il problema della giustizia trattato nella Repubblica, raggiunge l’apice nel libro VI con la celebre discussione sulla definizione dell’idea del Bene e sul modo di giungere alla sua conoscenza. Tralasciando le complicate divergenze relative alla definizione dell’idea del bene e del suo ruolo nell’economia del sistema platonico5 ciò che a noi interessa è l’esplicito rifiuto da parte di Aristotele di accettare l’esistenza di un bene assoluto e separato come l’idea del Bene platonica. Sia nell’Etica Eudemia che nell’Etica Nicomachea egli sostiene questo rifiuto sebbene lo giustifichi con ragioni diverse. Nell’Eudemia la critica alla teoria platonica viene portata avanti contestando l’idea di fondo che il bene assoluto possa essere un qualcosa di “separato” (cwristhén) e che gli altri beni siano tali per partecipazione o somiglianza (metoché e o\moioéthv) al bene assoluto: «il bene, infatti, si dice in molti sensi, tanti quanti sono quelli dell’essere»6, e visto che l’essere non è qualcosa di unico nelle cose numerate allora anche del bene, come dell’essere, non sarà possibile una scienza unica7. D’altronde, conclude seccamente lo Stagirita, «dire poi che tutti gli esseri aspirano a un solo bene, quale che sia, è cosa non vera: ciascuno infatti desidera un bene proprio, l’occhio la vista, il corpo la salute e così ogni altra cosa un suo bene diverso»8.

Nell’Etica Nicomachea si aggiunge anche una critica mossa da considerazioni di tipo linguistico. Se non c’è differenza nel dire “uomo in sé” e “uomo” poiché il significato è identico, cioè l’essere uomo, allora lo stesso varrà per il bene9. Il problema diventa capire cosa intendiamo quando parliamo di bene: esso è «ciò verso cui ogni cosa tende»10 risponde 5

Per un’introduzione generale al problema si può consultare M VEGETTI, Introduzione alla Repubblica di Platone, Bari 1999, 79-55. 6 ARISTOTELE, Etica Eudemia, ed. italiana a cura di P. Donini, Bari 1999, 21 (ET. EE. A 8 1217b 26). 7 Cfr ibid., 21 (ET. EE. A 8 1217b 32). 8 Ibid., 23 (ET. EE. A 1217b 31). 9 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, ed. italiana a cura di C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 2000, 59 (ET. EN. I, 6, 1096 a 35). 10 Ibid., 51 (ET. EN. 1094a 3).


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Aristotele. Ma verso cosa tende l’uomo? La risposta a questa domanda dipende, a sua volta, da cosa intendiamo per uomo. Com’è noto sono varie le interpretazioni relative al modo in cui Aristotele intenda il rapporto anima/corpo11 essendo quest’ultimi i due elementi costitutivi l’essere umano (senza volere con ciò riprodurre il dualismo platonico), ma è innegabile che, comunque, egli consideri l’anima superiore al corpo e che il problema della immortalità non lo interessa nell’ambito etico perché l’eudamonìa, ossia la felicità, riguarda la vita terrena dell’uomo e non la sua vita ultraterrena. Vediamo allora cosa pensa Aristotele dell’anima nel suo scritto dedicato al problema. Egli considera l’anima come atto del corpo ossia come la forma che fa sì che il corpo, vita in potenza, viva12. L’anima presenta tre funzioni: 1) vegetativa (propria a tutti gli esseri viventi perché attinente alla nutrizione e riproduzione)13 2) sensitiva (anch’essa comune a uomini e animali)14 3) intellettiva (propria dell’uomo). È quest’ultima facoltà quella che ci interessa più direttamente perché è in relazione a questa facoltà che Aristotele indirizza il suo discorso etico. Per prima cosa è bene ricordare che assunto fondamentale di tutta l’etica aristotelica è la sua filosofia del teélov, cioè il principio per cui ogni cosa in natura, compreso l’uomo, aspira al suo compimento perfetto. Se tutto in natura ha in sé il principio del movimento ciò significa che tende verso qualcosa, verso uno stato di perfezione (e\nteleéceia) e il piacere, leggiamo nell’Etica Nicomachea, ha una natura differente dal movimento perché quest’ultimo non è perfetto in ogni suo momento mentre il piacere sì15. La felicità è, quindi, per Aristotele qualcosa di perfetto e autosufficiente che va ricercato di per sé16, è un qualcosa verso cui l’uomo tende per natura: bisogna allora chiedersi quale sia la funzione propria dell’uomo:

11 Fondamentale a riguardo è F. NUYENS, L’Évolution de la psychologie d’Aristote, Lovanio 1948. 12 ARISTOTELE, Anima, ed. italiana a cura di G. Movia, Milano 2001, 115 (ET., De an. B, 1, 412 a 20). 13 Ibid., 133 (B, 4, 415 a 24). 14 Ibid., 127 (B, 2, 414b 35). 15 Cfr ARISTOTELE, Etica Nicomachea, cit., 381 (ET. EN. X, 4, 1174b ). 16 Ibid., 65 (ET. EN. I, 7, 1097b 20).


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«Bisogna dunque escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita [perché comune anche agli animali e alle piante] Dunque rimane la vita intesa come un certo tipo di attività della parte razionale dell’anima»17.

Il tipo di vita che l’uomo deve condurre per raggiungere la felicità, deve essere una vita in qualche modo consona alla funzione intellettiva propria dell’uomo in quanto uomo. Vedremo più avanti in cosa consiste esattamente questa attività. Procedendo con ordine, Aristotele definisce la felicità un’attività secondo virtù18 cioè un qualcosa che abbia una certa durata nel tempo e non sia un qualcosa di sporadico nella vita. Ecco perché i bambini non possono essere definiti felici; la loro vita è stata troppo breve perché possa essere definita “compiutamente” felice19. Se la felicità è un’attività secondo virtù bisogna vedere quali tipi di virtù esistano. Aristotele distingue le virtù etiche o del carattere (coraggio, temperanza, liberalità) che si acquistano con l’abitudine, e le virtù dianoetiche o dell’intelletto (sapienza, giudizio, saggezza) che si acquistano tramite l’insegnamento20. Entrambe, è bene ricordarlo, fanno riferimento all’anima e non al corpo perché solo di queste noi siamo responsabili e solo tramite esse noi realizziamo la nostra vera essenza. Ma quando, allora, l’uomo sarà veramente felice? Com’è noto, la definizione di felicità fornita da Aristotele nelle due etiche è differente: se nell’Eudemia sembra potersi definire felicità «l’attività di una vita perfetta secondo virtù perfetta» dove per virtù perfetta si intende una miscela di virtù etiche e teoremi, nella Nicomachea l’accento si sposta, invece, sull’attività contemplativa. Tutta la questione è complicata dal fatto che le opere esoteriche originariamente erano appunti destinati alle lezioni orali e non alla pubblicazione così che nelle opere come ci appaiono oggi, sono presenti passi ripetuti o difficilmente conciliabili tra loro. Per prima cosa è necessario sottolineare il fatto che per Aristotele non si può parlare di un’etica individuale distinta da una sociale; l’individuo 17

Ibid., 65 (ET. EN. I, 7, 1098 a 2). Ibid., 75 (ET. EN. I, 10, 1100 a 14). 19 Ibid., 73 (ET. EN. I, 9, 1100 a 1). 20 Cfr ibid., 87 (ET. EN. II, 1, 1103a 14). 18


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(zwon politikoèn) raggiunge il suo fine solo all’interno della comunità di appartenenza anche se il cammino verso la felicità resta, comunque, un fatto individuale affidato alle capacità e all’impegno proprio di ognuno. Se ciò che caratterizza l’uomo rispetto agli animali è la presenza del nouév o intelletto diventa decisivo, per comprendere l’etica aristotelica, il modo in cui bisogna intendere il nouév e il modo in cui bisogna rapportarlo al sistema cosmologico aristotelico che culmina con la dottrina del Motore Immobile, pensiero di pensiero. Se l’azione contemplativa è l’unica che permette il rispetto della parte migliore dell’anima, cioè l’intelletto, la felicità deve necessariamente conseguire dall’attività dell’intelletto. Ma cosa è l’intelletto e qual è il suo rapporto con il soggetto nella sua individualità concreta? «Tutto induce a credere che nel suo [di Aristotele] pensiero l’uomo non sia che l’unione della sua anima e del corpo di cui essa è la forma, e che questo intelletto, di cui egli parla, sia un’altra sostanza intellettiva in contatto e comunicazione colla nostra anima separata dal nostro corpo per il fatto stesso che essa non entra nella composizione della nostra individualità concreta, immortale per conseguenza, ma di una immortalità che è sua e non nostra»21.

Le parole sopra riportate trovano conferma diretta nel testo aristotelico: «Ma una vita di questo tipo [pienamente autosufficiente] sarà troppo elevata per l’uomo: infatti non vivrà così in quanto uomo, bensì in quanto c’è in lui qualcosa di divino: e di quanto questo elemento divino eccelle sulla composita natura umana, di tanto la sua attività eccelle sull’attività conforme all’altro tipo di virtù [cioè quelle etiche]. Se dunque, l’intelletto in confronto con l’uomo è una realtà divina, anche l’attività secondo l’intelletto sarà divina in confronto con la vita umana»22.

21 É. GILSON, L’esprit de la philosophie médiévale, Paris 1932 (ed. italiana, É. GILSON, Lo spirito della filosofia medioevale, Brescia 1998, 228). 22 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, cit., 395 (ET. EN. X, 7, 1177b 26).


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Ora l’attività dell’intelletto è divina perché ha a che fare con i primi principi cioè con ciò che è assolutamente stabile e necessario (a differenza della natura umana che è contingente e mutabile). L’attività dell’intelletto eccelle sull’altro tipo di virtù (quella etica) perché riguarda ciò che necessariamente è e non ciò che può anche essere in modo diverso23. La felicità massima per l’uomo consisterebbe nella possibilità di contemplare in maniera continuativa come fa il Motore Immobile, pensiero di pensiero (noéhsiv nohésewv): ma all’uomo ciò non è possibile, può solo realizzarlo temporaneamente. La felicità, come la verità, ha a che fare col necessario, con lo stabile e in questo è possibile capire perché Aristotele nel suo scritto sull’Anima affermi che anche gli animali partecipino al divino, perché essi, riproducendosi, cercano di perpetuare se stessi24. Ci sentiamo d’accordo con Düring nell’affermare che nella conclusione dell’Etica Eudemia il genitivo thén tou% qeou% qewriéan non dovrebbe essere inteso in senso oggettivo come fece Jaeger volendo egli così fornire un’interpretazione teonoma della dottrina esposta da Aristotele in questo passo25. Se intendiamo, invece, l’aggettivo divino come sopra detto26, ne segue che l’attività contemplativa permette il raggiungimento della felicità perché consiste nell’effetto di un’operazione connaturale dell’uomo27 visto in lui la presenza del nouév la cui naturale attività è la contemplazione della verità e dei primi principi28: e che questa sia, di

23

Ibid., 395 Cfr ARISTOTELE, Anima, cit., 133 (ET. De an., B, 4, 415b 3). 25 Cfr I. DÜRING, Aristoteles. Darstellung und Interpretation seines Denkens, Heidelberg 1966 (ed. italiana, I. DÜRING, Aristotele, Milano 1976, 510ss.). 26 Sul significato da attribuire all’aggettivo divino nel gergo aristotelico si vedano le considerazioni di Düring in I. DÜRING, Aristotele, cit., 248. 27 Cfr ARISTOTELE, Etica Nicomachea, cit., 385-387 (ET. EN. X, 5, 1175a 29 – 1176a 3). Da notare che anche San Tommaso porrà alla base della sua etica tale principio (vedi ad esempio La Somma Teologica. I-II, q.31, a.1,ad 1). 28 La conoscenza dei primi principi avviene per Aristotele tramite l’atto noetico. Si veda Analitici posteriori, II, 19, 100b 13. È ovvio che il problema dei primi principi richiederebbe una trattazione molto più esauriente: ci limitiamo a parlarne in relazione alla tematica etica. 24


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conseguenza, la naturale inclinazione dell’uomo Aristotele lo dice molto chiaramente29. La contemplazione consiste, dunque, nell’indagine cosmologicoteologica propria della “filosofia prima” di cui parla il libro L della Metafisica30. Una conoscenza, quella dell’uomo sapiente (e non saggio) che genera piacere non per la semplice osservazione o catalogazione di eventi come avviene nelle scienze particolari; la contemplazione (parliamo della “filosofia prima”) riguarda la totalità contemplata tramite “il vero dei primi principi” il quale “vero” genera in noi un piacere che deriva dall’attività stessa che svolgiamo (cioè la contemplazione). Per comprendere ciò possiamo rifarci a quanto scrive Montesquieu nella prefazione al suo Lo Spirito delle Leggi quando spiega i risultati delle sue ricerche: «Ma non appena ebbi scoperto i principi, ecco, che tutto ciò che cercavo venne a me, e nel corso di vent’anni, vidi la mia opera cominciare a crescere, avanzare, finire [corsivo nostro]»31.

Cosa è per Aristotele il cogliere «il vero dei primi principi»32 se non il piacere che Montesquieu provava nel comprendere i sistemi delle leggi positive? 29 Si vedano i seguenti passi: Etica Eudemia, I, 6; Analitici posteriori, II 19, 99b 31; Metafisica a 1 993a 30-37. 30 Non condividiamo quindi quanto scrive, ad esempio, I. Yarza: «La theorìa proposta da Aristotele come attività massimamente felice non deve essere intesa come l’attività scientifica e il lavoro intellettuale del sapiente […] ma come la contemplazione di Dio; cfr Defourny (1937) e Chroust (1966)» (I. YARZA, La razionalità dell’etica di Aristotele, cit., 186, nota 115). La contemplazione secondo noi non riguarda solo Dio (richiamando così motivi cristiani) ma tutto il sistema cosmologico delineato da Aristotele di cui Dio è una sorta di ingranaggio. La contemplazione è, come già detto, un qualcosa che dovrebbe, piuttosto, eguagliare l’attività del Motore Immobile. 31 MONTESQUIEU, De l’Esprit des Lois, Oeuvres Complètes de Montesquieu a cura di Andrè Massòn, 3 voll., Paris 1950-1955, (ed. italiana MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, Milano 1996, 143). 32 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, cit., 239 (ET. EN. VI, 7, 1141 a 18). In realtà il passo completo recita: «Per conseguenza, bisogna che il sapiente non solo conosca ciò che deriva dai principi, ma anche colga il vero per quanto riguarda i principi stessi». Si potrebbe criticare il paragone se si sostenesse che Montesquieu nella sua prefazione parli più di “ciò che deriva dai primi principi” e non “il vero per quanto riguarda i principi stessi” ma con ciò si


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Tornando al rapporto tra virtù etiche e dianoetiche sembrerebbe da quanto detto che, come attesta soprattutto il libro X della Nicomachea, la vita più felice sarebbe quella che ha i caratteri meno “umani”, perché riferite al divino che, abbiamo visto, essere un qualcosa di diverso e superiore all’“umano”. Le virtù etiche, effettivamente, sembrano giocare un ruolo secondario (anzi Aristotele parla espressamente di virtù seconde) ma non per questo non necessario. Il sapiente, cioè colui che pratica la qewriéan, è pur sempre un membro della comunità politica e come tale deve pur sempre agire. C’è chi, come Bien, per superare la contraddizione apparente, afferma che l’Etica Nicomachea è un «etica per “cittadini”»33 avente per oggetto la vita dell’uomo etico comune (lo spoudai%ov) e i 3 capitoli sulla vita teoretica avrebbero invece funzione protrettica cioè di presentazione della “scuola” alla città34. Ad alcuni35 tale ipotesi sembra insostenibile perché significherebbe da parte di Aristotele un voler svalutare i valori della città ma a noi sembra il contrario in quanto il valore delle virtù etiche della città è salvaguardato da Aristotele con il riconoscimento della necessità delle virtù etiche (necessariamente di una data comunità) che costituiscono una sorta di condizione necessaria ma non sufficiente per il conseguimento della felicità perfetta (che si raggiunge affiancando alle virtù etiche la contemplazione teoretica). Per concludere sull’etica di Aristotele alcune considerazioni sono d’obbligo. Lo Stagirita, come accennato all’inizio, si muove su un orizzonte esattamente opposto a quello platonico. Così Vegetti sintetizza il problema: falserebbe il significato che il pensatore francese attribuisce al concetto di comprensione dello “Spirito” delle leggi. Per cogliere pienamente il significato del termine qewriéa per gli antichi greci leggiamo quanto scrive H. J. Gadamer: «La theoria non va pensata però anzitutto come un modo di determinarsi del soggetto, ma va vista anzitutto in riferimento a ciò che il soggetto contempla. La theoria è partecipazione reale, non un fare ma un patire (pathos), cioè l’esser preso e come rapito dalla contemplazione» (H. G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Tübigen 1960: ed. italiana, H. G. GADAMER, Verità e metodo, Milano 200113, 157). 33 G. BIEN, La filosofia politica di Aristotele, cit., 154. Considerazioni simili sono fatte anche da I. DÜRING, Aristotele, cit., 516. 34 Le differenze quindi tra l’Etica Eudemia e l’Etica Nicomachea non sarebbero quindi da attribuire, come vorrebbe Jaeger, ad un allontanamento progressivo di Aristotele dal platonismo (il che si avvertirebbe, soprattutto, nelle opere mature). 35 M. VEGETTI, L’etica degli antichi, Bari 1989, 207-208.


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Salvatore Muscolino «Il suo [di Aristotele] problema principale è piuttosto quello di rescindere, o meglio, di indebolire progressivamente, i nessi che collegano quelle tesi e quelle definizioni in una unità di senso; di rendere disponibili quei materiali disaggregandone le strutture portanti originarie. In campo etico, ciò che andava innanzitutto scisso o allentato era il vincolo costitutivo fra sapere teorico, pensiero morale e prassi politica; la struttura da disaggregare era quella centrale del platonismo, con la sua unificazione tra ontologia, orizzonte dei valori e senso dell’utopia»36.

Questo è vero, e vale soprattutto per le virtù etiche, ossia le virtù umane propriamente dette. È innegabile poi che sul conseguimento del bene perfetto per l’uomo (e la qewriéa in un certo senso lo è) è presente una vena elitaria di origine platonica. Anche Aristotele, come per il suo maestro, nutre scarse fiducia sulle reali possibilità che tutti possano accedere a questa felicità superiore che consiste nella contemplazione (anzi, a voler essere precisi, nessun uomo può mai realizzarla pienamente); il “sapiente” aristotelico, in fin dei conti, non è poi così diverso dal “filosofo” platonico (sebbene a differenza di quest’ultimo egli non sia un “reggitore” dello stato). La concezione etica che ne segue è, in ultima analisi, una concezione assolutamente antropocentrica e immanente, concentrandosi sulla vita buona e sulla realizzazione dell’uomo sin questa vita tramite l’attività più consona alla propria natura, cioè quella contemplativa. Tutto ciò rientra nel quadro di un sistema filosofico che cerca di spiegare la realtà naturale (è l’uomo in quanto soggetto etico ne fa parte) in sé e per sé senza far riferimento a nient’altro che non sia parte del sistema cosmologico-teologico delineato. Questo è il filo conduttore che guida la riflessione aristotelica in ogni ambito, etica compresa e, di conseguenza, nonostante si parli anche in Aristotele di un Dio o Motore Immobile, «non si troverà mai in esso, per quante acrobazie ermeneutiche si possano compiere, qualcosa che assomigli, sia pur vagamente, alla religiosità fondata su un monoteismo trascendente, creazionistico e sovrannaturale»37.

36

Ibid., 159. ARISTOTELE, Il V libro della metafisica, introduzione e commento di E. Guarneri, Palermo 1987, 43. 37


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È proprio a partire da questo punto che possiamo vedere come San Tommaso faccia sua la filosofia aristotelica ma la modifichi profondamente per far valere le istanze proprie del pensiero cristiano come, ad esempio, la trascendenza del bene assoluto rispetto al creato, principio questo rifiutato da Aristotele ma che era stato invece il centro del sistema platonico38.

2. SAN TOMMASO D’AQUINO Come C. Fabro e altri illustri tomisti hanno dimostrato, l’accusa che Heidegger muove a tutta la tradizione filosofica a lui precedente di aver realizzato un vero e proprio “oblio dell’essere” non tocca minimamente almeno un filosofo cristiano come San Tommaso d’Aquino (e, aggiungeremmo noi, Antonio Rosmini) il quale ha posto al centro della sua metafisica un principio di esse assolutamente originale: l’esse ut actus. Tale concezione è talmente importante nella filosofia tomista che ogni sua parte dalla metafisica, alla gnoseologia, all’etica, ne è permeata. Per usare le parole di Heidegger, se «ogni pensatore non pensa che un unico pensiero»39 San Tommaso è il pensatore che pensa l’esse come atto puro di esistere40.

38 Per un’introduzione generale al problema etico in San Tommaso si può consultare U. GALEAZZI, L’etica filosofica in Tommaso D’Aquino, Roma 19902. 39 M. HEIDEGGER, Was heisst Denken, Tübigen 1954 (ed. italiana, M. HEIDEGGER, Cosa significa pensare, Milano 1978, 63). 40 Il significato del nuovo concetto di esse non è il semplice esistere come fattualità (questo riguarda infatti l’esse comune); esso è un qualcosa di assolutamente diverso e superiore e dal quale dipende la stessa esistenza degli enti. Leggiamo quanto scrive Fabro in proposito: «Il concetto di esse, come ho accennato di sopra, presenta per la nostra mente una duplice convergenza: una come pienezza assoluta di tutte le forme e perfezioni, come esse intensivo formale (nozione a cui si arresta la metafisica di tipo scotista o suareziano); un’altra come atto originario, atto di ogni atto, ecc., e che non si trova quindi sulla linea retta di una mera potenziazione formale ma che esige il «passaggio ad altro», all’ineffabile energia primordiale che ci fa emergere sul nulla, atto che quando è per essenza (e non per partecipazione) è per ciò stesso pienezza assoluta, possesso eminente di tutte le perfezioni […] Ma bisogna conservare questa tensione fra il campo formale reale e quello reale attuale: altrimenti l’esse svapora nella existentia, nel fatto di essere come mera realtà storica in una data situazione spazio temporale» (C. FABRO, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino, Torino 19633, 202-203).


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Per quanto riguarda l’etica è proprio il concetto di esse ut actus (e il relativo concetto di partecipazione che lo accompagna) a differenziare l’etica tomista da quella aristotelica. San Tommaso riprende sì la filosofia aristotelica e la fa propria, ma la innova grazie alla sua dottrina dell’esse intensivo41. Entrando subito nel merito della questione l’Aquinate adotta il principio aristotelico che ogni ente tende ad un fine che dipende dalla “natura” propria dell’ente stesso. Ma qual è il significato del termine natura in Aristotele e il relativo concetto di natura in San Tommaso? Lasciando da parte le varie definizioni espresse da Aristotele e commentate da San Tommaso nel suo Commento alla Metafisica42, possiamo notare che per lo Stagirita il concetto di natura è quello espresso in Metafisica, V, 4, 1015 a 13-19: «… la natura, nel suo senso originario e fondamentale, è la sostanza delle cose che pongono il principio del movimento in sé medesimo per propria essenza»43. San Tommaso fa sua la concezione aristotelica ma, come nota Ghisalberti, «non dà una trattazione sistematica della natura […] in sede ontologica, in rapporto cioè al tema caratteristico della metafisica tomista, quello dell’actus essendi, distinto dall’essenza»44.

Per San Tommaso il fatto che un uomo tenda ad un fine ultimo e che questo fine ultimo sia Dio, deriva dai suoi presupposti ontologici.

41 La differenza tra metafisica tomista e metafisica aristotelica sostenuta da E. Gilson, J. Maritain, C.Fabro…, viene negata da Ralph McInerny soprattutto nel suo Boethius and Aquinas (1990) e nel suo recente saggio Aristotele e il pensiero cristiano: le sostanze aristoteliche esistono?, in S. BROCK (a cura di), L’attualità di Aristotele, cit., 117-126. Sulle varie interpretazioni proposte della metafisica tomista si veda B. MONDIN, La metafisica di San Tommaso e i suoi interpreti, Bologna 2002. 42 Per questo si consulti A. GHISALBERTI, La concezione della natura nel commento di Tommaso alla «Metafisica» di Aristotele, in Rivista di filosofia neoscolastica 66 (1974) 553-540. 43 ARISTOTELE, Metafisica, ed. italiana a cura di G. Reale, Milano 20002 D, 4, 1015a 13-15. 44 A. GHISALBERTI, La concezione della natura nel commento di Tommaso alla «Metafisica» di Aristotele, cit., 540.


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Se tendere verso qualcosa significa passare dalla potenza all’atto, come aveva insegnato Aristotele, in San Tommaso tale dottrina si arricchisce con quella dell’esse intensivo. Nella sua opera fondamentale San Tommaso spiega così il suo concetto di esse. «Fra tutte le cose l’essere è la più perfetta, poiché verso tutte sta in rapporto di atto. Nulla infatti ha l’attualità se non in quanto esiste, perciò l’essere stesso è l’attualità di tute le cose, anche delle stesse forme»45.

Quando l’Aquinate parla del bene lo definisce come ciò che viene desiderato46, e ogni cosa viene desiderata in relazione alla sua perfezione (cioè al suo esse)47. Il passo decisivo è, comunque, il seguente: «Ultimus autem actus est ipsum esse cum enim omnis motus sit exitus de potentia in actum, oportet illud esse ultimum actum in quod tendit omnis motus: et cum motus naturalis in hoc tendat quod est naturaliter desideratum, oportet hoc esse ultimum actum quod omnia desiderant»48.

Per comprendere come il passo sopra riportato entri nel discorso etico bisogna rifarsi alla concezione di uomo che San Tommaso elabora sulla base della sua interpretazione del testo aristotelico. In Aristotele, l’uomo tende verso qualcosa che è confacente alla propria natura ma al tempo stesso il nouév è un qualcosa di estraneo all’individualità propria dell’uomo (individualità che per i cristiani continua dopo la morte). Esattamente l’opposto afferma San Tommaso in un passo per noi fondamentale: «Inoltre l’ultima perfezione dell’anima consiste nella conoscenza della verità, che si attua mediante l’intelletto. Ora, perché l’anima sia messa in grado di conoscere la verità, ha bisogno di essere unita al corpo, poiché 45

SAN TOMMASO, La Somma Teologica, I, q.4, a.1, ad 3, vol. I, Bologna 1996, 64. «Si dice bene ciò che è comunque desiderato, il che implica l’idea di fine: è evidente quindi che il bene presenta il carattere di causa finale. Tuttavia l’idea di bene presuppone l’idea di causa efficiente e quella di causa formale» (ibid., I, q.5, a.4, vol. I, 72). 47 «…Quindi ciò che di per sé è appetibile è l’essere…» (ibid., I , q.5, a.2, ad 3, vol. I , 71). 48 SAN TOMMASO, Compendium Theologiae ad fratrem Reginaldum, I, c.11, n.21. 46


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Salvatore Muscolino pensa mediante le immagini che non ci sono se non c’è il corpo. Dunque bisogna che l’anima sia unita al corpo come forma, e sia qualcosa di concreto»49.

Aristotele dice che l’uomo ha una “naturale” propensione alla verità in quanto in lui c’è un elemento divino (che, ricordiamo, prescinde dall’individualità di ogni uomo) in San Tommaso tale propensione deriva, invece, dall’interno stesso dell’anima in quanto l’intelletto è una sua potenza, non una sua parte separabile come in Aristotele (ci riferiamo, ovviamente, solo all’intelletto poihtikoév). L’anima per l’Aquinate ha un proprio atto d’essere (actus essendi) di cui rende partecipe anche il corpo del quale ha bisogno per svolgere le sue attività; ma l’anima, in quanto forma sostanziale del corpo (cioè ciò che realizza la realtà del corpo) può sopravvivere alla morte di quest’ultimo. San Tommaso, in sostanza, elabora una sua interpretazione della dottrina aristotelica del rapporto anima/corpo assolutamente originale anche rispetto agli altri pensatori cristiani o commentatori arabi del Filosofo. A questo punto è possibile capire che l’uomo tende al suo fine (Dio) per un qualcosa che deriva dalla sua più profonda intimità: «Tutto ciò che tende a una cosa lo fa in quanto ha una certa somiglianza. E non basta quella somiglianza che si ha secondo l’essere spirituale, altrimenti l’animale dovrebbe tendere a tutto ciò che conosce: bisogna invece che sia una somiglianza secondo l’essere naturale»50.

Cosa è, relativamente all’uomo, questa somiglianza di cui parla San Tommaso se non quell’actus essendi che si spinge a ricercare come bene ultimo l’esse ipsum subsistens di cui noi non abbiamo che un partecipazione (tramite, appunto, l’actus essendi)51?

49

ID., De Anima, q.1, ad 2, Bologna 2001, 53. ID., De Veritate, q.22, a.1, ad.3, vol. III, Bologna 2001, 83. 51 Così anche F. BOTTURI, Tommaso: bene, felicità, tendenza. Profilo dell’agatologia di Tommaso d’Aquino, in C. VIGNA (a cura di), La libertà del bene, Milano 1998, 197-198. Sulla teoria del bene in San Tommaso si veda il recente G. S. LODOVICI, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d’Aquino, Milano 2001. 50


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La differenza tra la teoria tomista e quella aristotelica è evidente; in quest’ultima manca quel nesso intimo tra il fine ultimo Dio e l’uomo (inteso come unità sostanziale di anima e corpo) che è l’actus essendi che deriva, ovviamente, dall’atto creativo. Non si vuole rimproverare Aristotele di qualcosa che non poteva conoscere (cioè la Rivelazione), ma è innegabile che la teoria tomista dell’esse come atto puro di esistere permea dal di dentro ogni ambito della vita umana (compreso quello morale) e a partire da esso e possibile cogliere la vera distinzione tra la filosofia dell’esse tomista e quella aristotelica (secondo la quale, invece, l’esse ha una molteplicità di significati che trovano unità nel riferirsi, come significato fondamentale, alla sostanza)52. Ma come può l’uomo comprendere come comportarsi per conseguire il fine ultimo? È vero che siamo inclinati verso di essi, ma non siamo necessitati a farlo. Risponde San Tommaso: «La ragione umana di per sé non è una regola o misura delle cose, però in essa sono innati certi principi che sono regole o misure generali delle azioni che l’uomo deve compiere, e di cui la ragione regola e misura, sebbene non lo sia di quelle cose che derivano dalla natura»53.

Siamo di fronte al problema della legge naturale definita da San Tommaso come «partecipazione della legge eterna nella creatura razionale»54. È questa partecipazione che spinge gli uomini verso i proprio atti e verso il fine ultimo55. Riteniamo di potere affermare che per San Tommaso abbiamo “innati” il principio del bene e del male perché da Dio ci sono stati posti all’atto creativo. Ciò significa che la legge naturale non è, come spesso si afferma, una creazione della ragione pratica a partire dalle inclinazioni naturali56. Le inclinazioni naturali sono piuttosto l’oggetto con cui la ragione pratica si trova a confrontarsi quando l’uomo agisce. Esse costitui52

Cfr ARISTOTELE, Metafisica, cit., G, 2, 1003 a 33-1003b 10. SAN TOMMASO, La Somma Teologica, I-II, q.91, a.3, ad.2, vol. II, 709. 54 Ibid., I-II, q.91, a.2, vol. II, 708. 55 Cfr ibid., I-II, q.91, a.2, vol. II, 707. 56 Tendenza questa diffusa soprattutto in ambiente anglosassone con J. Finnis (si veda il suo volume Natural Law and Natural Rights), e G. Grisez (si veda il suo importante 53


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scono per l’uomo la via per comprendere l’ordine della creazione divina (cioè la volontà di Dio). Sono le inclinazioni a farci comprendere la nostra “natura” (tale comprensione deve essere mediata dalla ragione visti gli effetti del peccato originale su di noi) la quale è questa piuttosto che un’altra perché Dio l’ha voluta in un modo piuttosto che in un altro. Si capisce così come la riflessione sulle inclinazioni naturali (con la quale comprendiamo i precetti della legge naturale) dovrebbe permetterci di cogliere, seppur non in modo perfetto, il piano della Legge Eterna, di cui la legge naturale non è che una partecipazione57. San Tommaso parla di precetti secondari che ricaviamo dai precetti primi o per modum determinationis o per modum conclusionis ma il punto di partenza del raziocinio pratico umano è, senza alcun dubbio, un’intuizione di fondo del bene e del male (cioè i primi precetti) che necessita poi un’applicazione concreta con l’intervento della ragione per adeguare l’intuizione alle contesto in cui l’uomo si trova ad operare58. Lo stesso San Tommaso chiarisce questo punto quando spiega che, nonostante la sua applicazione possa essere variabile da luogo a luogo a causa di fattori contingenti la legge naturale sia, comunque, conosciuta naturalmente da tutti59. Ma che tipo di innatismo è quello di cui parla San Tommaso a proposito dei primi principi? Per chiarire questo punto fondamentale bisogna rifarsi alla distinzione operata da San Tommaso tra conoscenza speculativa e conoscenza pratica (distinzione di chiara origine aristotelica). Entrambi i tipi di conoscenza procedono da principia per se nota, dice l’Aquinate. Concentrandoci sui principi speculativi (siamo quindi nel articolo The First Principle of Pratical Reason: A Commentary on the Summa Theologiae, 1-2, Question 94, Article 2, in Natural Law Forum 10 [1965] 168-210). Per una critica queste posizioni si vedano i seguenti articoli: T. A. FAY, La teoria della legge naturale in San Tommaso. Alcune interpretazioni, in Divus Thomas, XVII/2 (1994) 209-216; F. DI BLASI, I valori fondamentali nella teoria neoclassica della legge naturale, in Rivista internazionale di filosofia del diritto 76/2 (1999) 210-252. 57 La legge naturale non si “fonda” sulle inclinazioni come spesso si afferma. La legge naturale, in realtà, dipende dalla Legge Eterna (di cui è, appunto, una partecipazione) e le inclinazioni naturali ci aiutano a comprendere cosa la Legge Eterna (e naturale) preveda riguardo l’uomo. 58 Che si parli di intuizione si evince chiaramente da SAN TOMMASO, La Somma Teologica, cit., I, q.79, a.8. 59 Cfr ibid., I-II, q.94, a.4, vol. II, 732.


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campo della gnoseologia) il dibattito è molto controverso. Chi rifacendosi ad Aristotele sostiene che per San Tommaso i principi primi li si ricava a contatto con i sensi (tramite l’induzione)60, e chi ha sostenuto, invece, che i principi primi sono innati alla mente61. Noi riteniamo che i testi di San Tommaso, nonostante le apparenti contraddizioni, siano chiari e propendiamo così per questa seconda interpretazione. Vediamo rapidamente alcuni testi: — Per lumen naturale nobis inditum tantum cognoscuntur quaedam principia communia quae sunt naturaliter nota62. — Ad nonum dicendum quod regulae illae quas impii conspiciunt sunt prima principia in agendis, quae conspiciuntur per lumen intellectus agentis a Deo partecipati, sicut etiam prima principia scientiarum speculativarum63. — Sic ergo sunt quedam intelligibiles ueritates ad quas se extendit efficacia intellectus agentis, sicut principia que naturaliter homo cognoscit, et ea que ab his deducuntur; et ad hec cognoscenda non requiritur noua lux intelligibilis, set sufficit lumen naturaliter inditum64. — Ad septimum decimun dicendum quod certitudinem scientiae, ut dictum est, habet aliquis a solo Deo qui nobis lumen rationis indidit per

60 Per tutti citiamo C. Fabro che sostiene questa posizione in tutte le sue opere da La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino (1939) a Introduzione a San Tommaso. La metafisica tomista e il pensiero moderno (1983). 61 Questa interpretazione innatista della gnoseologia tomista è stata inaugurata da A. Rosmini nel suo Nuovo Saggio sull’origine delle idee (1848) ed è stata seguita da tutti coloro che direttamente o indirettamente a lui si rifanno. Anche da parte tomista, recentemente, l’interpretazione rigidamente aristotelica di San Tommaso, per cui la mente debba essere vista come una tabula rasa, va modificandosi. Si veda, ad esempio, B. Mondin il quale ammette che i principi primi siano innati sebbene l’uomo acquisti consapevolezza di essi solo con il concorso dei sensi (B. MONDÌN, Il sistema filosofico di San Tommaso d’Aquino, Milano 1992, 36. Quanto dice Mondin in questa pagina ci sembra assolutamente condivisibile salvo il fatto che pur parlando di innatismo egli non spieghi da dove tali principi provengano: illuminazione, interpretazione trascendentale…?). 62 SAN TOMMASO, La Somma Teologica, II-II, q.8, a.1 63 ID., De spiritualibus creaturis, a.10, ad 9. 64 ID., Super Boetium De Trinitate, q.1, a.1.


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quod principia cognoscimus ex quibus oritur scientiae certitudo; et tamen scientia ab homine etiam causatur in nobis quodam modo, ut dictum est65. — Sic igitur homo ignotorum cognitionem per duo accipit: scilicet per lumen intellectuale et per primas conceptiones per se notas quae comparantur ad istud lumen quod est intellectus agentis sicut instrumenta ad artificem66. A questi passi potremmo aggiungerne tanti altri ma ciò che a noi preme notare e che l’Aquinate definisce inequivocabilmente i primi principi come un lumen, ovviamente, distinto dell’intelletto (agente) umano. Nell’ultimo passo citato San Tommaso dice, addirittura, «istud lumen quod est intellectus agentis»: la chiarezza di questo passo è evidente. Il lumen è distinto (quod est) dall’intelletto (intellectus agentis): esso è, ovviamente, donato da Dio. L’illuminazione di cui parlerebbe San Tommaso non sarebbe, comunque, da intendere come un concorso continuo di Dio (o delle ragioni eterne) durante il processo conoscitivo alla maniera agostiniana o bonaventuriana; la piena autonomia delle cause seconde è garantita perché Dio dona semplicemente la regola della verità (cioè i primi principi), poi è tutto lasciato alla libertà e all’iniziativa umana. Se i primi principi speculativi ci sono donati da Dio, non c’è motivo di non ritenere tali anche quelli pratici e trarre le giuste conseguenze di tale assunzione. In campo pratico l’uomo tommasiano intuisce la volontà di Dio (cioè la legge eterna tramite la legge naturale) e ragionando arriva a coglierla come il fine ultimo più propria per la sua natura più intima67.

65

ID., De Trinitate, q.11, a.1, ad 17. Ibid., q.11,a.3. 67 Che la legge naturale sia frutto della volontà divina (coincidente con la ragione o sapienza divina), San Tommaso lo dice esplicitamente in La Somma Teologica, I-II, q.97, a.3. Non si deve dimenticare il fatto che per San Tommaso la legge divina esprimente la volontà di Dio (cfr La Somma Teologica, I-II, q.100, a.8) è di ausilio alla conoscenza di quella naturale (cfr La Somma Teologica, I-II, q.99, a.2, ad 2) perché identico è il loro oggetto. Ci preme precisare che il richiamo alla volontà di Dio non implica una lettura rigidamente volontaristica della legge naturale tutt’altro. La ragione ha una sua importanza fondamentale in quanto è tramite essa che, per San Tommaso, si passa alla enunciazione dei precetti secondari, per cui la legge naturale non viene avvertita dall’uomo come qualcosa che proviene dall’esterno, dal puro arbitrio del legislatore divino. L’uomo, piuttosto, deve giungere a cogliere la volontà di 66


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In Aristotele non c’è nulla di tutto ciò: nel suo sistema c’è una distinzione netta tra virtù etiche e dianoetiche dove quest’ultime sono quelle veramente importanti non perché siano quelle più proprie dell’uomo, tutt’altro, ma perché si riferiscono a qualcosa che di umano proprio non è, cioè l’eterno e l’incorruttibile. È noto, d’altronde, come lo stesso Aristotele neghi il primato dell’uomo nel cosmo ponendolo in condizione subalterna agli astri68. In San Tommaso, invece, è presente in nuce (come in tutta la filosofa cristiana) una concezione etica che finisce con il porre la “persona” umana (intesa come unità sostanziale di anima e corpo) come il centro di tutto il creato. Rifacendosi alla celebre definizione di Boezio San Tommaso afferma che la persona è il fine proprio della creazione perché partecipa di un divino che si manifesta in tutta la sua ricchezza e infinita potenza proprio nella molteplicità che caratterizza le persone. Non vogliamo affermare che sia presente in San Tommaso una dottrina personalistica vera e propria, ma sicuramente il personalismo ottocentesco di un filosofo come Antonio Rosmini ritrova le sue origini in tutta una tradizione di pensiero che in San Tommaso ha avuto, comunque, il suo esponente più fecondo. E anche nel ’900 ci sono stati pensatori che si sono richiamati alla tradizione tomista per riaffermare il primato della persona. Ci riferiamo, ad esempio, a K. Wojtyla che, soprattutto, nel suo capolavoro Persona e atto, richiamandosi da un lato alla tradizione aristotelico-tomista e dall’altro alla fenomenologia di Max Scheler, ripropone il primato della persona con un vigore tale che si è parlato di una vera e propria “metafisica della persona”69 come paradigma di riferimento: e questo paradigma ha la sua origine nella famosa definizione di persona offerta proprio San Tommaso: «Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura scilicet substantia in rationali natura»70.

Dio come assolutamente razionale (e come tale proveniente dal di dentro dell’uomo): ma ciò è impossibile per la presenza del peccato originale (cfr La Somma Teologica, I-II, q.93, a.6). 68 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, cit., 241. 69 Cfr G. REALE - D. ANTISERI, Quale ragione?, Milano 2001, 79-81. 70 SAN TOMMASO, La Somma Teologica ,I, q.20, a.3.


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3. CONCLUSIONE Quanto scritto ci porta diritti a un problema che da sempre ha interessato gli interpreti: esiste un’etica filosofica in San Tommaso71? La risposta a questo quesito penso dipenda dal modo in cui dobbiamo intendere la ragione umana, se è vero che la filosofia è la ricerca della verità con l’ausilio della sola ragione. Questo problema ne pone un altro cioè quello relativo alla possibilità di esistenza di una filosofia cristiana propriamente detta. Esiste una ragione neutrale? Oggi possiamo, senza indugi, rispondere negativamente sia se intendiamo parlare di una ragione libera da pregiudizi (questo è l’insegnamento dell’ermeneutica), sia se intendiamo parlare di una ragione “forte”, ossia una ragione in grado di raggiungere verità assolute valide per tutti (questo ideale è stato ormai abbandonato anche dalla scienza)72. Ai tempi di San Tommaso la situazione è diversa. Non solo c’è un idea della verità con la V maiuscola, verità che può essere conosciuta, ma soprattutto c’è l’idea che la ragione sia una facoltà identica per tutti gli uomini, per cui la Verità che all’uomo si manifesta (a-letheia heideggeriana), può essere colta da tutti indistintamente. 71 Si veda in proposito S. VANNI ROVIGHI, C’è un’etica filosofica in San Tommaso d’Aquino?, in Rivista di filosofia neoscolastica 66 (1974) 653-670. 72 Si consideri la proposta di D. Antiseri: «Non risulta oggi più seriamente (anche se non esclusivamente) proponibile, nell’àmbito della cultura cattolica, una filosofia di ascendenza kantiana, che coraggiosamente assuma come autentica conquista la consapevolezza dell’impossibilità per la ragione teorica di farsi ambasciatrice dell’al-di-là, e che si apra alla fede sulla via di considerazioni morali?» (D. ANTISERI, Teoria della razionalità e ragioni della fede. Lettera filosofica con risposta teologico-filosofica del card. Camillo Ruini, Milano 1994, 191).La risposta del card. Ruini (contenuta nel testo citato) sottolinea alcune differenze di fondo nel modo di impostare il problema rispetto ad Antiseri (ad esempio il radicale fallibilismo gnoseologico e relativismo etico da questi presupposto è invece rifiutato dal card.). Da parte nostra riteniamo che, se si accetta quanto scrive il card. Ruini (e un cattolico non può non accettarlo) che «la ragione umana non è mai in grado di “fondare” la fede» (ibid., 239) allora il problema tenderebbe a scomparire nella misura in cui esso non sarebbe più un problema di rapporti tra ragione (strumentale sia nella sua visione “debole” o “forte”) e fede ma tra quest’ultima e una “ragione ermeneutica” propria di ogni credente (si noti il richiamo esplicito del card. Ruini all’ermeneutica [cfr ibid., 245-249]). Svilupperemo questo punto nelle pagine seguenti.


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Questo, presso a poco, è il pensiero di Aristotele e questo è l’ideale che San Tommaso, seppur con qualche differenza, cerca di riproporre. La ragione naturale di cui parla l’Aquinate altro non rappresenta se non la convinzione che possa esistere una facoltà umana, la ragione appunto, che senza la contaminazione della fede, possa raggiungere certe verità (naturali) accessibili a tutti in campo speculativo o pratico. Attenzione: San Tommaso non ha mai detto che questo di fatto avvenga; ne è un esempio la dottrina della conoscibilità della legge naturale, come abbiamo visto, o anche la stessa dottrina dell’adequatio rei et intellectus in campo gnoseologico73 per cui c’è un tendere alla verità piuttosto che un raggiungerla pienamente (proprio perché, per San Tommaso, la verità è dell’intelletto “in rapporto alle cose”). Il punto di partenza è però una visione della ragione “strumentale”, oserei dire aristotelica, sebbene, allo stesso tempo, egli ne prenda continuamente le distanze con la sua teoria dell’origine innata dei primi principi speculativi e pratici. È tramite la dottrina dell’origine innata dei primi principi che possiamo collegarci ad un altro problema (che riguarda anche il rapporto Aristotele/San Tommaso) che è quello relativo al rapporto tra naturale e soprannaturale. San Tommaso non ha mai affermato l’assoluta autosufficienza della natura alla maniera aristotelica; non ha mai visto il mondo creato come un qualcosa di chiuso in sé, alla maniera del cosmo aristotelico e la sua metafisica dell’esse ut actus è una continua conferma di ciò: la creatura è sempre dipendente dal creatore sebbene goda di una relativa autonomia74. San Tommaso ha sempre posto la filosofia in condizione subalterna alla teologia, regina delle scienze. Se egli «… ha riconosciuto il diritto astratto della ragione pura di costruire una sua filosofa naturale, si è ben guardato dal costruire, in linea di fatto, tale filosofa naturale, separata, che sarebbe stata la più colossale smentita della sua

73

Cfr SAN TOMMASO, De Veritate, cit., q.1. Per tutte le questioni relative alla filosofia della natura (dalla cosmologia all’antropologia filosofica) di San Tommaso si veda: LEO J. ELDERS S.V.D., De natuurfilosofie van Sint-Thomas van Aquino, Brugge (ed. italiana, LEO J. ELDERS S.V.D., La filosofia della natura di San Tommaso D’Aquino, Città del Vaticano1996). 74


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Salvatore Muscolino santità, la più stolta concessione della inutilità della fede per lo meno per la vita del pensiero…»75.

Il pensatore San Tommaso ha voluto far sua la filosofa aristotelica perché voleva riaffermare il valore della creatura o della natura senza però per questo renderle sufficienti a se stesse se è vero che proprio egli pone i principi primi presenti nella mente umana come partecipazione di una Verità increata superiore alla ragione umana76. Non vogliamo affermare che non esista una filosofia in San Tommaso, ma essa è una filosofia dell’uomo Tommaso77 così come vi è una filosofia dell’uomo Agostino, o dell’uomo Kant, o dell’uomo Heidegger… E cosa sono, d’altronde, i sistemi filosofici se non sistemi elaborati da uomini e che possono essere fatti propri o criticati da altri uomini78? Se una ragione neutrale con i suoi risultati accessibili a tutti, esistesse realmente (come si pensava ai tempi di San Tommaso), il pensiero umano non sarebbe così ricco di soluzioni e prospettive spesso inconciliabili tra di loro79. Questo non vuol dire che propendiamo per una qualche forma di 75

G. BONAFEDE, L’insufficienza della natura in San Tommaso, in G. BONAFEDE, Saggi di filosofia medioevale, Torino 1951, 35. 76 Cfr SAN TOMMASO, La Somma Teologica, cit., I, q.16, a.6, ad 2. 77 Per chiarire meglio questo punto osserviamo che gli interpreti si sono sempre domandati come San Tommaso sia arrivato a elaborare la nozione intensiva di essere. Se è vero quanto afferma Mondin (e ci sembra condivisibile) che essa è stata un’intuizione vera e propria di San Tommaso («attraverso l’esse egli ha colto intuitivamente una improvvisa, radiosa, affascinante luminosa manifestazione della realtà»: B. MONDIN, La metafisica di San Tommaso d’Aquino e i suoi interpreti, Bologna 2002, 210) cosa è questa intuizione se non un’intuizione dell’uomo (e filosofo) Tommaso? 78 «La realtà, dice E. Morin, è il prodotto di una simbiosi tra il razionale e il vissuto» (E. MORIN, La Méthode 5. L’Humanité de l’Humanité. Tome 1: L’Identité humaine, Editions du Seuil 2001, ed. italiana Il metodo 5. L’identità umana, Milano 2002, 105). Se la filosofia è il modo di vedere la realtà proprio di ogni filosofo, la costruzione di tale realtà, come ci spiega Morin, non è prerogativa della sola razionalità. Egli parla di una trinità psichica che guida l’essere umano, composta da razionalità, affettività e pulsioni. Rientrando la fede nel campo dell’affettività leggiamo ancora: «L’evacuazione totale dell’affettività e della soggettività svuoterebbe l’intelletto dell’esistenza per lasciare posto solo a leggi, equazioni, modelli, forme. L’eliminazione dell’affettività toglierebbe sostanza alla realtà» (Ibid., 106). 79 Leggiamo quanto scrive, addirittura, Romano Guardini sul problema della neutralità della ragione: «Si aggiunga poi che la vita dell’umanità occidentale è dovunque


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relativismo, tutt’altro: una Verità esiste (qualunque essa sia) e riteniamo anche che essa possa essere conosciuta progressivamente dall’uomo. La verità, dice Heidegger, è a-letheia, non nascondimento80; essa è, cioè, un qualcosa che l’uomo può e deve cogliere (anzi costituisce per il filosofo tedesco un esistenziale fondamentale)81. Se, d’altronde, la verità non potesse essere colta dagli uomini non ci sarebbe nulla e non sarebbe possibile alcuna comunicazione tra gli uomini stessi. Proprio il fatto che comunichiamo ci mostra come, benché la ragione propria di ognuno sia assolutamente diversa da quella di un altro, dialogare sia, nonostante tutto, possibile: quindi la ragione non può e non deve essere relativista perché tale visione sarebbe smentita dai fatti più elementari. All’eccesso opposto non bisogna però ritenere possibile l’esistenza di una ragione “forte” per non scontrarsi in quello che J. Rawls ha definito “fatto del pluralismo”82. Il problema diventa allora un problema, per prima cosa, individuale. Il filosofo cristiano sarà un filosofo che ragionerà con la “sua” ragione la quale risente, come l’ermeneutica ci insegna, di tutta una serie di influenze (o pre-giudizi) che non la rendono “neutrale”, come siamo invece abituati spesso ad affermare. Il rapporto fede-ragione è un qualcosa che va risolto, come aveva intuito sant’Agostino, con la formula credo ut intelligam83. Il cristiano oggi farà filosofia cristiana alla luce della sua personale esperienza di vita84 (e la influenzata dalla rivelazione al punto che non esiste in assoluto quella coscienza puramente naturale, presupposta da quel tentativo di fondazione puramente filosofica dell’etica» (R. GUARDINI, Ethik. Vorselung an den Universität München (1950-1962), Mainz 1993, ed. italiana, R. GUARDINI, Etica, Brescia 2001, 11). 80 Cfr M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Tübigen 1927 (ed. italiana M. HEIDEGGER, Essere e Tempo, Milano 1976, 270ss). 81 Cfr ibid., 270. 82 J. RALWS, Political Liberalism, Columbia University Press 1993 (ed. italiana J. RALWS, Liberalismo politico, Milano 1994, 6). 83 Soluzione simile viene proposta anche da V. MELCHIORRE, Tra fede cristiana e filosofia: una circolarità ermeneutica, in G. FERRETTI (a cura di), Identità cristiana e filosofia, Torino 2002, 37-57; si veda anche A. RIGOBELLO, Precomprensione cristiana dell’esistenza. Un tema ermeneutico e una questione di sincerità, in Identità cristiana e filosofia, cit., 409422. 84 «Filosofare allora non è imparare una dottrina, ma eseguire un compito. Il compito del pensiero» (U. GALIMBERTI, Heidegger, Jasper e il tramonto dell’Occidente, Milano


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fede vi gioca un ruolo fondamentale), e tutto questo, se risente di agostinismo (e non lo si può negare) non è, a nostro avviso, così lontano dalle intenzioni dello stesso San Tommaso. La sua filosofia è aperta alla storicità sia per l’autonomia concessa alla cause seconde sia perché la sua è una metafisica dell’esse piuttosto che dell’essenza. Per fare un esempio proprio sul problema della legge naturale San Tommaso, com’è noto, ritiene che essa più che essere un qualcosa di estrinseco alla natura umana, è un qualcosa che si fonda in un certo senso su di essa: ma proprio la natura umana è qualcosa che San Tommaso ritiene modificabile con il susseguirsi dei tempi85. Una riflessione su di essa diventa, ovviamente, una riflessione di tipo ermeneutico. Se è vero che l’uomo porta dentro di sé la verità o che la verità si svela a noi (il risultato, alla fine, è lo stesso se neghiamo il relativismo) allora non ci sarà mai un problema di armonia tra fede e ragione. Per tornare al quesito iniziale relativo all’esistenza, nella filosofia tomista, di un’etica filosofica la risposta non può che essere affermativa, ma relativamente a quello che San Tommaso riteneva fosse la filosofia e, dunque, l’etica filosofica. Oggi dobbiamo parlare in termini diversi. Può esistere anche oggi un’etica filosofica, e lo crediamo vivamente, ma non può essere costruita, come diceva San Tommaso, con le forze della sola ragione perché è un discorso che oggi non è più proponibile. La filosofia oggi può e deve valersi di tanti contributi che le possono provenire, ad esempio, dalle scienze umane. Restando in tema, come negare il sostegno indiretto che gli studi di antropologia o etnologia hanno portato ai sostenitori della legge naturale. Certo i risultati raggiunti da queste discipline forniscono un insostituibile contributo per aiutarci a rispondere al quesito fondamentale che rimane la domanda su cosa sia l’uomo, ma questi stessi risultati necessitano di un approfondimento filosofico (che esula ovviamente dal compito di tali discipline) che spetta, invece, al filosofo86. 1996, 15). Tale compito è, per prima cosa, un’esigenza personale (che deriva, ci sembra chiaro, dalla tensione tra l’adesione al dato rivelato e le prerogative proprie della nostra ragione) che necessariamente può e deve diventare patrimonio collettivo. 85 Cfr SAN TOMMASO, La Somma Teologica, I-II, q.106, a.3, ad.2; De Malo, q.2, a.4, ad 14. 86 Su questo si può leggere F. D’AGOSTINO, Filosofia del diritto, Milano 20003, 261ss.


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Per concludere riteniamo che nell’ambito del pensiero cristiano le esigenze della ragione non possono che ricevere dalla fede e dalla vita quotidiana sollecitazioni continue destinate a rimanere senza soluzioni definitive. Ma per questo suo compito il pensiero filosofico (a questo punto possiamo dire cristiano) «si rivela ineludibile e faticoso: ineludibile, perché se non si ricorre ad esso si cade nella peggiore forma di supina accettazione dell’esistente, faticoso perché ad esso non si accompagna nessun criterio di evidenza irricusabile, che possa consentire al filosofo di considerare concluso il suo lavoro e di compiacersi con se stesso per il buon lavoro svolto»87.

Il quale filosofo, ricordiamo, non può essere considerato asetticamente ma all’interno della tradizione in cui si muove perché la verità può e deve essere ricercata all’interno di un orizzonte di senso dal quale non possiamo prescindere: «La tradizione mantiene la sua funzione irrinunciabile, ma essa deve essere sempre di nuovo attualizzata in riferimento al soggetto e al suo cammino verso la verità, accettando la storicità della realtà e della verità, che non esclude una sua assolutezza, ma esige che essa non sia data per scontata e che sia sempre di nuovo formulata, compresa e sottoposta alle sfide delle nuove situazioni e delle nuove conoscenze» (G. L. BRENA, Nuove prospettive fenomenologico-esistenziali, in Identità cristiana e filosofia, cit., 367). 87 Ibid., 277.



Synaxis XXI/2 (2003) 309-323

L’ALTERITÀ*

PAUL GILBERT SJ**

La cultura filosofica contemporanea è più che mai attenta all’alterità. Le ragioni ne saranno verosimilmente molte e in contrasto. Da una parte, all’interno della nostra cultura occidentale, siamo stanchi e inquieti dinanzi alla restrizione dei nostri modi di vivere e di pensare in forme unificate che si impongono ai nostri costumi basilari, ai nostri modi di vestire per esempio (non parlo solo dei jeans, ma anche della giacca e della cravatta), e soprattutto alle nostre opinioni e ai nostri pensieri; nell’era della comunicazione planetaria, non si può più vivere e pensare personalmente; sorge da ciò un sentimento di disagio e una volontà di protesta; diviene essenziale l’esigenza di rivendicare per ciascuno la sua differenza. Da un’altra parte, considerando le culture che stanno fuori dell’Occidente, noi Occidentale non possiamo più rimandare a più tardi il confronto con esse, che d’altronde rivendicano tutte la loro originalità quando entrano in relazione con il nostro modo d’essere. Alcuni diranno forse che solo un aspetto della cultura occidentale sarà quello che spinge in direzione di una uniformazione delle nostre vite, conseguenza della globalizzazione, della nostra capacità di creare degli oggetti scientifici e di modificare il mondo perché divenga più gradevole da vivere; diranno che l’Occidente ha, al di là di questa potenza razionale, un’anima umana, altra e più che scientifica. Ma la nostra capacità di maneggiare il mondo è tanto affascinante che l’Occidente stesso si lascia prendere al suo gioco, si identifica alla potenza del suo modo di essere nel mondo, imponendogli le ragioni del suo funzionamento, le sue determinazioni razionali. Il problema * Testo della disputatio tenuta nello Studio Teologico S. Paolo di Catania il 28 febbraio 2002. ** Ordinario di Metafisica nella Pontificia Università Gregoriana di roma.


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è di sapere se si può distinguere la cultura occidentale dalle scienze. È ovvio che la scienza non è nata fuori di questa cultura. Ma questa ultima sarà il tutto della cultura occidentale? Presentiamo il problema da un altro lato. Adottare la mentalità scientifica non imporrà delle necessarie e profonde modifiche alle culture non occidentali? Tale modifiche disturbano inevitabilmente le relazioni umane, la cui organizzazione costituisce appunto l’essenziale compito delle culture. Perciò il misto di amore e di odio che genera la cultura occidentale quando viene identificata con la scienza che è stata prodotta in essa. L’attenzione all’alterità diviene sempre più essenziale in questo contesto odierno, tanto interno quanto esterno all’Occidente. Gli stranieri che entrano in Europa desiderano molto spesso, e si capisce perché, vivere di ciò che appare loro brillante e ricco di possibilità di successo materiale, ma senza indovinare che il sapere scientifico non è venuto da un niente culturale; accettano difficilmente la cultura da cui proviene il saper-fare degli scienziati, come se questa cultura fosse senza importanza per la scienza. Gli scienziati stessi lo proclamano. Adottare il modo scientifico di vedere e di affrontare il mondo non esige dunque alcun cambiamento fondamentale dei differenti sistemi culturali tradizionali del mondo? Ci sono qui, ovviamente, delle generose ma pericolose ingenuità. È ragionevole sostenere che il modo occidentale di rapportarsi scientificamente e tecnologicamente al mondo non sia culturalmente neutro. Dei conflitti culturali sono perciò minacciosi, e lo saranno sempre di più se non facciamo attenzione a questi problemi, non soltanto nell’Occidente confrontato alle richieste degli emigrati e alla loro tentazione di ghettizzazione, ma soprattutto nelle culture non occidentali che adottano le visioni scientifiche del mondo. La scienza non è il tutto della cultura occidentale, ma non esisterebbe senza di essa. La coscienza che la cultura occidentale non può fare a meno del suo stile profondamente tecnologico-scientifico non impone allo stesso momento l’idea che sia solo scientifica e tecnica, cioè che le forme più visibilmente universali della sua razionalità, vale a dire le scienze, costituiscano l’interezza della sua essenza. In altre parole, l’attenzione della cultura occidentale alle sue particolarità interne fa sì che la filosofia occidentale, nella misura in cui non si accontenta di fondare l’atto scientifico in un intelletto astrattamente universale, può accedere alla coscienza della propria


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particolarità e alla riconciliazione con l’idea di dover escludere la pretesa all’universalità di stampo unicamente tecnologico-scientifico. Tuttavia, la particolarità dell’Occidente così presupposta non può ignorare che la scienza sia nata lì. Certo, si può astrarre la scienza della cultura da dove viene, ma ne risulterà un uno uso molto astratto, e arbitrario, della scienza stessa1. Una simile astrattezza rende possibile l’uso universale della scienza, ma in quanto modo antropologico incompleto di rapportarsi al mondo. L’universalizzazione di una scienza situata in una visione così impoverita o concepita dogmaticamente come se fosse una verità in sé e per sé non potrà non essere pericolosa per l’uomo stesso. La scienza è occidentale, ma non costituisce il tutto dell’Occidente. Nasce dalla cultura nostra, ma non ne definisce la forma completa. La sua situazione culturale non sarà perciò di identità, ma situata in una dialettica di cui è importante scoprire le caratteristiche. Perché la scienza unificatrice nasconde la radicalità dell’alterità e tende spontaneamente verso la globalizzazione, come abbiamo visto, sarà forse il tema dell’alterità che farà percepire il significato reale dell’Occidente. Infatti, la scienza stessa non c’è senza una determinata intelligenza dell’altro, ciò che implica non solo che il «mondo» costituisca una forma di alterità, ma anche che non ci sia scienza senza una discussione, senza un dialogo, quindi senza un’altra persona. L’Occidente è inquieto della forma presa dalla potenza della sua cultura astratta, lontana dalla singolarità delle persone. L’idea di alterità che emerge nel contesto attuale, determinato dall’esperienza pesante di secoli di guerre che miravano al potere economico-scientifico, costituisce una «chance» per l’Occidente, l’occasione di ricordare una delle sue fonti più ricche.

1. GLI ANTICHI L’idea di alterità non è del tutto recente nel vocabolario filosofico, ma la sua evoluzione è assai complessa. I Greci avevano già due forme lingui1 E. HUSSERL, in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, mostra quanto importa situare le scienze tra le modalità intenzionali che sorgono dal «mondo della vita» (J. PIEDADE, «Husserl e le scienze», in Gregorianum 84 [2003] 673-695).


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stiche che indicavano ambedue l’«altro», ma in due modi differenti che si ritrovano in molte lingue contemporanee; la differenza tra questi due modi appartiene forse a qualche struttura essenziale della mente. Eteros significa «altro di due»; allos dice invece «altro» in un modo generico. Eteros si presenta nelle lingue contemporanee sotto la forma di «ambedue» (italiano), «ambos» (spagnolo), «both» (inglese), ecc; eteros rimanda così da sé all’altro con il quale è in relazione reciproca, sistematica. L’alterità che si dice con allos può invece essere caratterizzata quale una «deficienza»; indica infatti un differente che sta al di fuori del gruppo degli «stessi», e perciò in relazione solamente negativa o privativa, deficiente, con questo gruppo2. Eteros e allos possono però essere confusi l’uno con l’altro, l’eteros essendo anche deficiente in quanto privo del suo polo opposto. L’interpretazione filosofica di questa deficienza generale è stata proposta nel Sofista di Platone. L’autore distingue cinque massimi generi o primi principi della filosofia: essere, riposo, movimento, stesso, altro. Si può unire in un medesimo gruppo «essere», «riposo» e «stesso», e opporlo all’altro gruppo «movimento» e «altro», poiché tutto ciò che si muove non rimane lo stesso e cambia sempre sotto qualche punto di vista, spaziale o qualitativo che sia. L’«altro» manca quindi di peso ontologico. «L’altro si dice solamente relativamente ad un altro»3, la relatività essendo una modalità di deficienza, di non-essere. Aristotele accentua la stessa tradizione: eteros appartiene necessariamente al modo della pluralità: «all’uno appartiene lo Stesso, il Simile e l’uguale, e alla pluralità l’Altro, il Dissimile e il Disuguale»4 (Metafisica I, 3); dunque l’altro si trova da sé incomprensibile poiché la comprensione scientifica esige la posizione di una realtà che non si muova, che rimanga sempre la stessa. Vorrei tuttavia sottolineare qui un punto importante: malgrado l’orientamento fondamentale della loro filosofia, i due grandi pensatori di Atene hanno d’ora in poi installato una negazione, l’alterità, in mezzo ai principi massimi della filosofia, e quindi della realtà intelligibile.

2

Cfr F. MIES, De l’«Autre». Essai de typologie, Namur 1992, 14-16. PLATONE, Sofista 255d. Platone scrive qui dell’eteros. 4 ARISTOTELE, Metafisica XIII, 3, 1054a 29-31. 3


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Se l’«altro» non è intelligibile senza lo «stesso», riceve comunque una certa intelligibilità dalla sua relatività, l’intelligibilità della deficienza. Un tale orientamento del pensiero rende però difficile la cognizione esatta dell’altro, che viene sempre rimandato verso lo «stesso» per via di una privazione, una deficienza, o addirittura di una negazione: l’«altro» è il non-medesimo, il non-essere. Ma si devono distinguere i casi. Eteros sarà altro con un riferimento preciso, reperibile, il suo «vis-à-vis»; allos invece si terrà sempre in un’alterità vaga e indiscernibile, minacciosa anzi per l’intelletto. Si deve notare che la tradizione filosofica che definisce la «verità» come «adeguatio dell’intelletto e della realtà», esclude dalla razionalità la possibilità di intendere ogni negazione, la cui forma costituisce l’essenza dell’alterità, eteros o allos che sia; sottomettendosi alla regola di Platone per il quale la pienezza è dell’unico medesimo, impone all’«altro» di essere strutturalmente «inadeguato» e di collocarsi nel gruppo logico degli inintelligibili. L’analisi di alcuni termini contemporanei permette di meglio distinguere eteros e allos. Si parla per esempio di «eteronomia» o di «eterodossia», e di «allegoria» o di «allogeno», ecc. Si riconoscono in questi termini le due forme greche eteros e allos. Altri termini rimandano invece al vocabolario latino, ad alter e alius. Or c’è convergenza tra i termini greci e latini. Alter significa «altro di due», quindi eteros; alius, che significa invece un «altro» senza specificazione, vale a dire in quanto forma puramente negativa, rende allos. Alter si legge in «alterazione» o «alternativa», in cui non si può pretendere di incontrare una pura negazione, ma une relazione di deficienza nella differenza; anche se la relazione d’alterazione sarà concepita spontaneamente quale deficienza dell’essente originario e non in riferimento all’alter, in ogni modo senza questo alter la relazione d’alterazione non sarà comprensibile; alius si ritrova invece nel termine «alienazione», il cui concetto è veramente privativo o distruttivo dell’essente originario; l’essente alienato non è più ciò che dovrebbe essere. L’alterazione è più morbida. Dunque, l’idea di base della distinzione dell’alter (eteros) e dell’alius (allos) rimanda a due modi di esprimere o di intendere l’alterità. Nel caso dell’alter o dell’eteros, l’altro è del tutto definito dal suo «altro», dal suo «vis-à-vis», essendo differente da esso solo a causa della sua opposizione relativa, deficiente in questo senso. L’«altro» di due costituisce dunque con


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il suo «vis-à-vis» un gruppo serrato, in cui ciascuno si distingue dall’altro per una ragione reciproca. Nel caso dell’alius o dell’allos, l’essenza dell’«altro» è escludente in tal modo che l’«altro» rimane senza precisa essenza in sé, e perciò indefinito, puramente negativo. La relazione alter è quindi razionale, positiva; quella allos rimane invece indecisa, senza alcuna positività. Si potrebbe dire perciò che la relazione d’alterità, nel caso dell’eteros, non è indifferente perché positiva malgrado la deficienza della relativa differenza, e che lo è invece nel caso dell’allos. Questa distinzione mostra la sua importanza nel contesto politico della Grecia. La società greca è composta di due classi: quella degli uomini liberi, e quella degli schiavi5. Solo gli uomini liberi possono partecipare alla vita civile, alle attività e all’organizzazione della città, gli schiavi essendone mantenuti fuori. Il gruppo degli schiavi vive una esperienza umana del tipo allos; è tenuto nell’indifferenza da parte degli uomini liberi, senza peso politico né diritto alla parola nei dibattiti pubblici. Il gruppo degli uomini liberi gode invece di queste libertà negli spazi pubblici, nell’agora in cui l’arte della discussione retorica è più pregiata di qualsiasi altro arte. È in questo mondo strutturato dal dibattito con l’etero che emerge la cultura greca, il gruppo degli schiavi essendo invece destinato a rimanere «barbaro», incapace cioè di parlare chiaramente, di esprimere delle idee distinte, articolate, di partecipare al dibattito civile. Con i latini e la loro esperienza politica, i dati greci vengono profondamente cambiati. Si passa da un’alterità democratica ad un’altra imperiale. L’importanza o l’estensione dell’impero romano fa sì che la città di Roma diviene straordinariamente cosmopolita; la saggezza universalista degli stoici vi trova un terreno ideale per il suo sviluppo. In questa situazione originale, il legislatore non può più attenersi alle divisioni ed esclusioni greche. Non può più opporre semplicemente il gruppo degli uomini liberi o cittadini a pieno titolo e quello dei «barbari», stranieri o schiavi, esclusi dalla vita del forum. La nascita non costituisce più l’unica causa della distinzione delle classi sociali. Sappiamo per esempio che san Paolo era di cittadinanza romana, benché nativo di Turchia6. La distinzione eteros – allos diviene perciò insignificante e impraticabile da un punto di vista politico, e 5 6

Vd H. ARENDT, The Human Condition, cap. 2. Vd At 21,39.


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quindi giuridico. Nasce così l’idea di un diritto uguale per tutti, il ius gentium, una legge universale «positiva» (e non solamente «naturale») che impedisce di definire una fetta della popolazione e di respingerla fuori dalla pura razionalità della legge. La legge statale, universale, non esclude più nessuno, non ignora più una parte della popolazione della città. Il popolo romano crea il diritto romano, la cui caratteristica principali è l’universalità, o la formalità capace in principio di inglobare tutti gli uomini, liberi o schiavi che siano, anche se la legge contempla le determinazioni proprie delle differenti classi sociali, ma dal suo interno e sotto la sua protezione. Le differenze si propongono quindi dentro di un sistema giuridico integrativo. Ecco perché, se gli schiavi sono del genere allos per i Greci, accedono al genere eteros con i Romani. Il diritto romano cerca infatti l’integrazione dei vari costumi dei differenti popoli che compongono la città per assicurare la loro organizzazione equilibrata, rispettosa e quindi realmente universale, in una rete di relazioni reciproche. Ma per il fatto stesso, l’universale tende a confondersi con una forma vuota, una esigenza puramente giuridica che si riempie con i particolari, questi essendo significativi non più per loro stessi, ma in seno alla forma sistematica che li inglobava, a causa delle loro relazioni possibili che il sistema della legge rende possibile. Il significato dei particolari diviene quello di uno strumento per la sopravvivenza di tutta la città. È il sistema politico-economico e il diritto romano che presiede alla realtà dei particolari nel congiunto della città. Ogni dimensione di trascendenza viene così progressivamente eliminata o secolarizzata, almeno al livello ufficiale dello Stato, la formalità puramente razionale e senza riposo affettivo della religione pubblica lasciando lo spazio libero alle religioni particolari che accolgono le differenti passioni soggettive. Il diritto romano non può fare niente contro le molteplici religioni a mistero che si moltiplicano a Roma durante i decenni del passaggio all’era cristiana. Lo splendore dello Stato può far finta di essere sacro; il senso religioso autentico si sviluppa fuori di esso, con un senso più radicale dell’alterità.


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2. I TEMPI DELLA CRISTIANITÀ Da un punto di vista storico, si può affermare che il cristianesimo ha potuto svilupparsi grazie a un misto di forma ufficiale, il diritto romano universalizzane, e di affettività che si esprime sopratutto nelle religioni a misteri. L’alterità di Dio viene proclamata e meditata, determinata, posta intelligibilmente dai cristiani in questo contesto. Di un primo tempo, dalle origini romane fino al Medioevo, l’interpretazione odierna del cristianesimo ritiene spesso che questo ha promosso abitualmente una rappresentazione di Dio che era assai influenzata dallo stoicismo, vale a dire dalle forme razionali che la mente romana traeva dalla sua concezione della legge universale7. L’universalità paolina del cristianesimo supera in ciò l’ebraismo monoteista ma esclusivo per motivi estranei all’unicità, e perciò all’universalità di Dio. La legge romana però non riferiva i casi culturali particolari a un insieme dal quale tutti potevano acquisire la loro vitalità, ma a una forma comune in cui ciascuno di essi permaneva in una certa indifferenza reciproca essendo lasciato senza relazioni interne con gli altri. La legge trascendeva in maniera astratta la vita religiosa e le sue differenti forme. La rappresentazione razionale del Dio cristiano si è adattata a un tale orientamento del pensiero, appropriandosi l’idea trascendente della legge, erede romano del logos greco. La fine dell’Antico Testamento andava già in questa direzione chiaramente razionalizzante. Per i testi di saggezza, la creazione costituisce infatti una opera realizzata da Dio mediante il suo logos8, e perciò una opera che la ragione dell’uomo è capace di intendere. C’era perciò il rischio di trasporre le tesi stoiche nel cristianesimo, vale a dire di ridurre la specificità dell’originalità cristiana nelle forme più raffinate del paganesimo. Tuttavia, un simile rischio non era sconosciuto dai teologi cristiani. Ecco perché si è fatta molto importante la negazione da introdurre in ogni affermazione che voglia dire qualcosa di Dio e rispettare la sua trascendenza; questa negazione, inoltre, definisce il dominio stesso del mistico religioso, in contrasto con l’universalità della legge formale. L’analogia, quale strumento della razionalità teologica, non avrà in contesto cristiano una forma solo logica (vedi l’analogia di proporzione o 7 8

Vd per esempio M. SPANNEUT, Le stoïcisme des Pères de l’Église, Paris 1957. Vd Is 40,26; Si 24,3; 39,17; Gv 1,1-4.


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di proporzionalità, non importa per il momento, di origine aristotelica – anche se la metafisica scolastica si fermerà abitualmente a questa considerazione), ma soprattutto una forma mistica di cui si attribuisce l’origine allo Pseudo-Dionigi. L’analogia mistica distingue tre vie successive che le nostre affermazioni su Dio devono disporre l’una dopo l’altra per rimanere rette e convenienti al loro «oggetto»: la via positiva, la via negativa e la via d’eminenza. Il ritmo di questa analogia è ben conosciuta. Diamone un esempio: (1-) Dio è saggio, (2-) Dio non è saggio, (3-) Dio è più di saggio9. La ragionevolezza di queste affermazioni si manifesta alla condizione di accettare la ragionevolezza della trascendenza o della meta-razionalità di Dio; questa trascendenza impone di pensare che la saggezza di Dio è certamente ben più ricca e potente della saggezza di cui l’uomo, finito, è capace; ecco perché Dio non è saggio come l’uomo; ma una tale trascendenza, malgrado i detti del primo Wittgenstein10, non condanna l’intelletto umano al silenzio. Una negazione interviene nel secondo momento del processo dell’analogia mistica. Il motivo di una tale negazione viene dalla coscienza che Dio sia incommensurabile con le caratteristiche dell’uomo. Ora l’incommensurabilità di Dio non ha evidenza per la ragione logica; non nasce da una esigenza puramente razionale che non può non essere proposta dalla e alla ragione stessa. La ragione potrebbe non accettare di riconoscere la razionalità di ciò che non ha le proprie misure e la sorpassa radicalmente, se non venisse indotta a una tale obbedienza. Infatti, tra il Dio della fede biblica e l’uomo, non c’è continuità nel senso di una comunità d’identità formale, essenziale, ma un’alterità radicale. Perciò, non si va direttamente dall’uomo a Dio, ma attraverso una censura della potenza formalizzante della ragione, quindi accettando una certa rinuncia della ragione a se stessa. Questa rinuncia non è ovvia per la ragione. Non segue però da questa censura che, per parlare di Dio, si debba abbandonare ogni affermazione ragionevole o passare nel mondo delle proposizioni irrazionali o fantasiose. La ragione sa infatti che è ragionevole per essa stessa abbandonare i canoni dei suoi procedimenti di auto-produzione o di autosorveglianza. Il processo di analogia mistica viene in realtà dalla coscienza 9

Vd TOMMASO D’AQUINO, Summa teologica, I, q. 13, a. 5, Resp. L. WITTGENSTEIN, Tractatus Logico-Philosophicus, prop. 7, l’ultima del libro.

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che la ragionevolezza dell’affermazione di Dio non proviene dalla sola capacità cognitiva dell’uomo, dal suo logos, ma da una visita di Dio al suo popolo Israel, alla sua Chiesa. Di tale visita, la Scrittura è il testimone privilegiato. Ora, la ragione sa che, in regola generale, non trae da essa stessa la materia sulla quale applica le sue forme razionali; sa quindi che la sua lettura del mondo costituisce solo una interpretazione sua di una realtà che non è sua, che la trascende. L’analogia mistica partecipa del sapere che la ragione ha della necessità di aprirsi a ciò che non commisura originariamente per poter conoscerlo realmente, del sapere cioè che il suo detto sulla realtà non si chiude nelle sue formulazioni prodotte e sorvegliate secondo i suoi soli criteri. La specificità dell’esperienza di Dio alla quale Israel e la Chiesa si sono resi attenti, costituisce l’aspetto più innovativo, dal punto di vista della cultura dell’impero romano, della rivelazione di Dio. La visita di Dio non può essere contemplata né dal diritto romano né dalle religioni a mistero che sono animate dalla sole passioni umane. Il cristianesimo ha sviluppato questo aspetto analogico-mistico durante il Medioevo, ma anche, anzi particolarmente, durante la Modernità, anche se non è consueto riconoscere questo merito alla Modernità. Per i Moderni infatti, Dio non è solamente colui che ha creato il mondo calcolandolo — anche se una tale espressione si trova negli scritti di Leibniz, espressione di una mentalità diffusa alla quale però il filosofo europeo apportava delle sfumature che non possiamo dettagliare qui —, è soprattutto colui che ha voluto tutti gli individui che popolano il nostro mondo, preparando per essi un dominio coerente, logico, ma un dominio che non fa esistere da sé le realtà singolari. L’insieme del mondo dipende dal logos o dal sapere di Dio, il quale organizza il mondo logicamente. Ma gli individui esistenti o reali non risultano da una tale calcolo; esistono grazie alla volontà divina alla quale appartiene di fare che ciascuno sia. Una tale impostazione, anche se di origine araba (vedi le opere di Avicenna), viene accentuata da una nuova prospettiva mentale sorta nel secolo XIV, dal nominalismo, il quale respingeva l’idea che gli universali siano «reali»; solo gli individui esistono, godono di qualche realtà. La ragione calcolante e formalizzante non deve dunque preoccuparsi delle realtà individuali, anzi non lo può e deve farne a meno. La funzione della ragione è puramente formale, e il suo orizzonte l’universale logico, o il


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sistema dei concetti indefinitamente analizzabili, scomponibili. Le realtà sono solamente individuali, che la volontà divina e non il suo logos fa essere; come diceva già Aristotele, l’individuo non è definibile11. La creazione delle realtà singolari è quindi libera, vale a dire meta-razionale, ciò che è conforme a un dato tanto tradizionale quanto essenziale della fede: per la fede, è l’amore che fa esistere. In questo senso, il nominalismo si pone quale perfetto erede della più autentica tradizione biblica. Ne segue una contestazione della ragione romana: gli individui reali non dipendono da una forma generale e razionale in cui dovrebbero essere iscritti necessariamente per essere, ma da un atto di buona volontà divina, di elezione. D’ora in poi, Dio non sarà più il senso intelligibile del cosmo, il riferimento da cui dipendono gli eventi fisici del mondo e in cui ancorarli per accordare un criterio di riconoscimento del loro ordine necessario; Dio sarà piuttosto la vita del mondo, una vita animata da una potenza che non conosce i limiti imposti dalla ragione ai suoi concetti per fissarli e meglio utilizzarli12. L’intelligenza riconosce adesso che Dio è fonte di amore e così creatore degli individui; quanto alla ragionevolezza del mondo, la ragione umana può impossessarsi di essa. L’alterità di Dio prende adesso un significato più immediatamente accessibile. Se prima si diceva che la conoscenza di Dio doveva attraversare un momento negativo, la via negationis per accedere a una dicitura che conviene a Dio stesso, se si doveva limitare la nostra capacità di conoscere scientificamente Dio in nome di una conoscenza superiore, meta-razionale, si sa adesso perché: è la vita divina stessa che è più del sapere, l’amore divino più della logica. La «ragione» della via negationis esprime l’affermazione della prevalenza dell’amore o della volontà sulla ragione da parte di Dio creatore degli individui. Tuttavia, la modernità non avrebbe esaltato la ragione scientifica stessa e, ciò facendo, non si sarebbe posta in contrasto con i dati della fede cristiana? Sì, chiaramente, ma mediante un approfondimento dialettico, che ha prodotto il rovesciamento dell’intenzione iniziale. Le realtà singolari e

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ARISTOTELE, Metafisica VII 15, 1039b 27-28. Per esempio, il razionalismo di Spinosa non può nascondere che la punta più alto della conoscenza è per lui un amore intellettuale. 12


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i dinamismi della vita essendo separati dal mondo della logica e del calcolo, la Modernità si è ritrovata con una ragione formale che nessuno non poteva più limitare né, apparentemente, orientare. Intelletto e volontà erano prima articolati; la Modernità si è impegnata a separali. La ragione calcolante non dipende più dalle realtà, le quali dipendono dall’amore, indicava l’analogia mistica. Ecco perché la ragione moderna, escludendo ogni analogia, ha rivendicato il possesso del mondo intero, la possibilità di scomporre le apparenze razionali degli individui per ricomporle poi in essenti nuovi, utili e interessanti per qualche ulteriore ricerca della ragione. La modernità ha tralasciato l’aspetto volitivo immanente al sapere, e ha messo al suo posto l’interesse della ragione pura. Ha abbandonato il voler-bene agli individui e preferito l’interesse della ragione potente mediante i suoi calcoli. O più esattamente, ha assunto questo interesse senza riconoscere la sua origine meta-razionale. L’illimitato potere del logos è stato così attribuito agli scienziati, i cui progetti non conoscono un limite ultimo, e l’amore che era alla sua origine per gli antichi si è trasmutato, con il nominalismo, in desiderio di fare del mondo un mezzo utile per la ricerca scientifica. Ogni sapere è inevitabilmente ispirato da qualche desiderio. La volontà divina essendo espulsa fuori dalla razionalità, è rimasto nel sapere un desiderio travisato, il proprio desiderio dello scienziato, ma ingenuamente velato e disconosciuto. Mai dire a uno scienziato che è appassionato della sua ricerca! È così che Dio si è ritrovato espulso dall’orizzonte degli interessi speculativi dell’uomo. Il logos originario è divenuto quello dello scienziato organizzatore, e la forza della vita che dà di essere quella dell’interesse dell’uomo per i propri progetti. Se si aggiunge che la scienza moderna è stata capace di fare del nostro pianeta un mondo più umano, meno sottomesso ai pericoli e ai destini di una natura selvaggia, se si osserva che ha potuto far sì che ciascuno di noi sia divenuto più universale essendo informato di tutto ciò che capita sulla superficie della nostra terra, allora si capisce il fascino della ragione sulla nostra umanità ragionevole, fatta per l’universale. L’idea di Dio, del trascendente e dell’alterità, è stata così progressivamente scartata perché obsoleta, svuotata di contenuto per la vita concreta dell’uomo; contemporaneamente, il senso dell’amore e del desiderio si è ristretto nei limiti delle pretese psicologiche dell’uomo.


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L’idea d’alterità, in questo contesto, manca di significato. La si riduce all’interno delle possibilità che la mentalità proiettiva dell’uomo si attribuisce, vale a dire ai progetti in quanto non sono ancora realizzati ma desiderabili. L’alterità è così solo provvisoria. La trascendenza è spostata dall’origine divina alla teleologia umana. Una tale alterità ritrova le caratteristiche conosciute dai Greci; sarà prima di tutto il polo dialettico di una mancanza di pienezza, una negazione dell’essere presente, in casu l’orizzonte del progetto scientifico; sarà ciò che non esiste ancora; e una volta che ci sarà, ci chiederà di creare nuovi progetti. Una tale alterità, in realtà, lascia perdere molti aspetti importanti del suo senso cristiano. È questo senso cristiano che torna oggi, in quanto l’attuale cultura post-moderna non si affida più senza riserva alla scienza moderna, o più esattamente non dà più una cieca fiducia alle sue forme che si pretendono autonome, indipendenti, perfettamente in possesso delle proprie condizioni di futura produzione. Il discorso scientifico moderno costituisce una, e solo una delle possibilità dell’uomo e del suo modo di vivere l’alterità; non si impone senza restrizione o altre aperture. D’altronde, l’alterità di cui si parla in questo articolo è ignorata realmente dalla modernità, che si preoccupa piuttosto di oggettività; ma l’oggettività scientifica non è l’essenza dell’alterità autentica; è solo un polo dialettico per una soggettività che rimane il suo riferimento necessario, che lo ammaestra. La pericolosa alleanza della scienza, delle imprese e dei militari, durante i secoli XIX e XX e ancora molto recentemente come si è visto all’occasione della guerra degli Stati Uniti contro l’Irak, invita a smontare questo potere a tre teste.

3. CARATTERISTICHE DELL’ALTERITÀ La coscienza contemporanea lascia emergere una ricerca nuova dell’alterità. Il personalismo della meta del secolo XX ha costituito un primo sorgere di una tale coscienza. Il personalismo, con le sfumature di un Mounier per esempio, ha messo in evidenza l’esigenza di un impegno propriamente politico e sociale del filosofo critico nella vita della comunità civile, la quale non può essere abbandonata alle potenze fantastiche degli scienziati. Il modello dell’alterità è divenuto l’«altra persona» in quanto fonte di libertà e di concreto impegno responsabile, autonomo e capace di


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rendere ragione delle sue scelte. La fonte cristiana di una tale esigenza non può essere negata. L’amore dell’avversario e del nemico vi è essenziale ed efficace. È quello che ha reso capace la ricostruzione europea negli anni 1950, grazie al da fare di alcuni cristiani come Adenauer, de Gasperi, Schuman, con altri certo non credenti come Monet o Spaak, ma tutti di ispirazione inevitabilmente cristiana. Tuttavia, se l’ideologia che ha sollevato il mondo politico all’indomani della guerra contro il nazismo veniva dalla spiritualità cristiana, lo è meno adesso, la prospettiva politica essendo oggi tornata nei limiti dell’impostazione economico-scientifica dei secoli della modernità. Il pensiero post-moderno, più fedele alla fede cristiana del pensiero moderno, non ha più il successo che gli hanno assicurato le angosce del dopo-guerra mondiale. Alcuni dicono che sia stata una moda, e se ne rallegrano; ma un giudizio di questo tipo è solo un segno inequivocabile della disperazione della cultura moderna di fronte all’individuo irrecuperabile. Si può sperare al contrario che la post-modernità maturi e si presenti di nuovo con più forza e con più esigenza di verità e di rispetto per i singoli, per la negazione che struttura la ragionevolezza ontologica dell’uomo. Malgrado le sue difficoltà, le sue ambiguità e la sua poca accoglienza pubblica, la filosofia contemporanea ha voluto specificare i tratti più autentici dell’alterità. Possiamo proporne tre: la trascendenza, la resistenza e la chiamata13. Il termine «trascendenza» indica ciò che sta al di là, più in alto, e che si raggiunge passando da una piano all’altro; il suo concetto integra l’esigenza di uno sforzo affinché sia superato un status-quo comodo. Abbiamo riconosciuto un momento di trascendenza quando abbiamo parlato della via negationis. Questa via non finisce nel nulla. Ciò che sta al di là della scienza moderna e della stretta ragione non può essere detto un vuoto irrazionale, libero di tutte le condizioni della nostra ragione. La ragione umana si conosce infatti aperta al di là di se stessa. Un indice di questo fatto spirituale, importantissimo per apprezzare correttamente ciò che si intende per «ragione», lo teniamo meditando il significato del termine «infinito». Quel termine sta nel dizionario in compagnia del termine «finito» mediante il quale viene definito. Ogni termine del dizionario si definisce mediante gli altri; tutti hanno perciò 13

Vd F. MIES, De l’altérité, 133-142.


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bisogno degli altri, e a vicenda. Ma nel caso del termine «infinito», la definizione rimanda a un ciò che sta ben al di là di ogni tipo di finitezza, di determinazione limitata, definita. L’altra persona, l’altra libertà, l’Altro è un «infinito» che si «finizza», un orizzonte meta-razionale o ragionevole che entra nei limiti della ragione, che vi si affida e si rende affidabile. Una tale esperienza, largamente paradossale e a lungo meditata da Lévinas14, sta al fondo della meditazione dei filosofi contemporanei che ci interessano di più. L’Altro, libero, quando si presenta a me, non si esaurisce nella sua presentazione. Rimane trascendente benché si presenta. Perciò, si impone a me dalla sua altezza, dalla sua energia interiore e libera sulla quale non posso mettere la mano, salvo violentemente. L’altro si presenta, ma non posso ridurlo nelle mie rappresentazioni, anche se esse gli convengono. Sono incapace de ridurre l’Altro a ciò che mi è spontaneamente accessibile. L’Altro è colui che resiste anche ai miei tentativi di raggiungerlo, di comprenderlo, anche se egli stesso mi offre amabilmente dei segni inequivocabili e accessibili della sua presenza, che devo accogliere umilmente. L’Altro, in questo senso, mi resiste nel momento stesso della sua venuta in mia presenza. Ciò che egli impedisce così, non è di venire in presenza di me in veste di Altro, ma la mia pretesa di poter corrispondere pienamente ed adeguatamente alla sua presentazione. L’Altro rimane sempre misterioso, resistente e trascendente. La relazione esatta con una tale trascendenza non può che essere offerta dal trascendente stesso: ecco perché si parla anche di «chiamata». L’Altro si fa conoscere quale trascendente e resistente prendendo l’iniziativa della sua presentazione; la forma più incisiva della sua iniziativa, la troviamo nell’esperienza della chiamata quando mi chiede: «aiutami», o più semplicemente: «amami», senza che io possa manipolare questa chiamata stessa, ma solo obbedire. La trascendenza che si impone a me, che mi chiede solo l’ascolto e l’obbedienza, non posso ignorarla per rimanere in buona ed esatta relazione con essa. Ecco come si costituisce per me l’alterità irriducibile.

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Vd E. LÉVINAS, Totalité e infini, La Haye 1969, XIV-XV.



Sezione miscellanea Synaxis XXI/2 (2003) 325-351

LA FILOSOFIA DELLA MENTE: IL “BODY-MIND PROBLEM” NEUROFENOMENOLOGIA COME MODELLO INTEGRATIVO PER LO STUDIO DEI FENOMENI RELIGIOSI

FRANCESCO FURNARI*

1. INTRODUZIONE Con queste riflessioni, anche se brevi e non certo esaustive dell’intero panorama scientifico sull’argomento, intendiamo proporre un nuovo approccio metodologico nell’analisi dei fenomeni religiosi, un programma di ricerca basato sull’integrazione delle prospettive fenomenologicocognitive con quelle neurologiche. Tutte e due le prospettive sono necessarie, in quanto , nel campo religioso, abbiamo a che fare con atti coscienti, intenzioni, emozioni, atteggiamenti, narrazioni scritte, visioni del mondo, per cui il solo aspetto fenomenologico-cognitivo , un dato base della coscienza stessa, non basta qualora non si tenga conto anche dei meccanismi neurologici che stanno alla base della attività cosciente. È, pertanto, importante passare in rassegna quei potenziali contributi sull’analisi filosofica e psicologica della natura dei processi mentali, quali la coscienza, le emozioni, i sentimenti,le intenzioni racchiusi nella problematica del rapporto ‘mente-corpo’, così come ci appaiono negli ultimi trent’anni in quell’ampio e ancora poco esplorato terreno degli studi e

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Docente di Psicologia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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ricerche sulla ‘filosofia della mente’, sia di matrice anglosassone, cioè empirica ed analitica, sia continentale, ovvero fenomenologico-esistenziale1. La divergenza tra filosofia analitica o scientifica e filosofia continentale o umanistica, attraverso gli studi sull’intelligenza artificiale, è il modo concreto in cui si è sviluppata la problematica ‘mente-corpo’ nella seconda metà del secolo scorso. Le ragioni del contrasto già si trovavano in Dilthey e Brentano, anche se l’uso delle due categorie risale agli inizi degli anni sessanta. Negli anni ottanta, tra le due tradizioni, pur restando differenze di stile e di riferimenti culturali, e con il riassestamento della filosofia analitica e la ‘svolta ermeneutica’, si è aperta la via di una più generale convergenza. Mentre col Behaviorismo si è manifestata la resistenza alla nozione di coscienza e alla realtà dei contenuti fenomenici (i “qualia”), con le neuroscienze si è andati ormai oltre la negazione della coscienza. Le recenti ricerche ci indicano che lo sviluppo evolutivo delle capacità rappresentative del cervello può spiegarci l’abilità di generare la coscienza fenomenica.

1 Esiste, ormai, una vasta letteratura, soprattutto anglosassone, sul tema della filosofia della mente e del rapporto ‘mente-corpo’. In traduzione italiana o di studiosi italiani, si confrontino: S. SREMASCHI, Filosofia analitica e filosofia continentale, Firenze 1997; F. D’AGOSTINI, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Milano 1997; G. RYLE, Lo spirito come comportamento, trad.it., Roma-Bari 1982; N. MALCOM, Mente, corpo, materia. Da Descartes a Wittgenstein, trad. it., o 1973; J.VON NEUMANN, La filosofia degli automi. Origini dell’intelligenza artificiale, trad. it., Torino 1986; R. CONLAN, La mente biologica. Nuove frontiere tra psicologia e neuroscienze, trad. it., Torino 2001; J. LEDOUX, Il sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diventare quelli che siamo, trad. it., Milano 2002; R. JACKEDOFF, Coscienza e mente computazionale, trad. it., Bologna 1990; PH.N. JOHNSON - LAIRD, Modelli mentali. Verso una scienza cognitiva del linguaggio, dell’inferenza e della coscienza, trad. it., Bologna 1988; A.M. BORHI, T. JACHINI (a cura di), Scienze della mente, Bologna 2002; A. OLIVERIO, Biologia e filosofia della mente, Roma-Bari 1995; H. GARDNER, La nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, Milano 1988; S.P. STICH, Dalla psicologia del senso comune alla scienza cognitiva, Milano 1994; G. GIORELLO, Introduzione alla filosofia della scienza, Milano 1994; W. BECHTEL, Filosofia della scienza e scienza cognitiva, trad. it., Roma-Bari 1995; A. CLARK, Microcognizione. Filosofia, scienza, scienza cognitiva e reti neurali, trad. it., Bologna 1994; M. DI FRANCESCO, Introduzione alla filosofia della mente, Firenze 1996; R. JOSEPH, The limbic system and the soul, in Zygon, The Journal of religion and science 1 (2001) 1-48; R. JOSEPH, The frontal lobes, in Psychiatri 62 (1999) 138-17.


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L’obiettivo di questo studio è quello di porre le basi per la fondazione di uno strumento utile per lo studio dei fenomeni religiosi, con cui si possono coniugare le obiettive spiegazioni neurologiche con le descrizioni fenomenologiche delle percezioni interne, quali la coscienza e gli stati correlati, il pensiero, le emozioni, i sentimenti. Una neurofenomenologia, insomma che, partendo dalla integrazione ‘mente-corpo’ come presenza di sé al mondo o come mondo della presenza. Possa integrare l’approccio comportamentale, quello psicodinamico e cognitivo in quello di una integrazione ermeneutica dei tre approcci, dove l’essere-gettato-nel-mondo (ge-worfenheit), e cioè il passato, non toglie al soggetto, attraverso l’esperienza acquisita, la sua possibilità di progettare, di essere autentico. Pensiamo che, con questo nuovo approccio metodologico, che nasce nell’ambito scientifico della filosofia della mente, possiamo fornire uno strumento scientifico utile alla comprensione del fenomeno religioso, reintroducendo l’importanza della questione dell’anima. Nella prima parte di questo scritto presenteremo una serie di studi, autori e correnti non ancora proprio ricorrenti nel panorama italiano, autori che hanno dato stimolo e lividezza alla nostra riflessione epistemologica, proprio su una delle questioni più antiche, quella dell’anima, o quella della relazione mente-corpo. Nella seconda parte potremmo affronteremo, anche se in modo succinto, le implicanze positive che il metodo neurofenomenologico può avere se considerato come base per una integrazione ermeneutica dell’approccio behaviorista, psicodinamico e cognitivista e l’applicazione alla religione.

2. RIFLESSIONE EPISTEMOLOGICA SULLA COMPLESSITÀ DELLA MENTE 2.1. Excursus sulla problematica della filosofia della mente Un processo di riflessione o di riformulazione dei presupposti delle scienze si è realizzato, negli ultimi trent’anni, sotto l’impulso dell’epistemologia sistemica e sperimentale e degli indirizzi postpositivistici e postempirici in epistemologia e storia della scienza.


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Oggi, al contrario della dispersività moderna teorizzata agli inizi degli anni ottanta da Lyotard2, sembra attuale un meccanismo contrario che è quello della convergenza complessa tra ripartizioni disciplinari. Interdisciplinarietà, dunque, senza integrazione come sembra verificarsi nella nascita della scienza cognitiva come territorio comune in cui il fenomeno cognitivo viene esaminato dai più vari e disparati punti di vista, che vanno da un minimo ad un massimo di scientificità, dalla filosofia della mente di impostazione fenomenologico esistenziale alle scienze neurocomputazionali. L’avere unificato tutto il complesso in e con un unica espressione scienza cognitiva non ha risolto il problema, giacche il dialogo tra i diversi saperi ed approcci ad uno stesso problema deve tenere conto delle diverse premesse cognitive che la preparazione nelle singole discipline e la stessa complessità del linguaggio usata sembrano richiedere. Dialogo che, di fatto, si è trasformato e si trasforma in conflitto tra teorici e avversari dei vari modelli: di quello computazionale, di quello biologico o sociologico, di quello bio sociale o matematico-sistemico, di quello neurale o esistenziale, di quello funzionalista o connessionista, etc. Tra le possibili soluzioni di questa difficoltà, il Gallino3, sulle orme di un celebre testo di Prigogine e Stengers4, ci ha indicato come una competenza preziosa una ripresa «della teoria e della pratica della riflessività» e quella dello sviluppo di certe abilità «sistemico pragmatiche, perché ciascun specialista possa mantenere intatta la capacità di attraversare i conflitti tra un gran numero di scienze e discipline diverse»5. È ancora questo il compito e la collocazione della filosofia nell’ordine dei saperi. La scienza contemporanea sembra,oggi,avanzare alla filosofia una richiesta pressante in ogni senso, non solo nella direzione etico-pratica, ma in quella antropologica e più precisamente in quella ontologica. La filosofia entrerebbe, così, in gioco come forma di sapere dell’essere, di tutto l’essere che la nostra tradizione occidentale non ha mai smesso di praticare, anche se in senso critico e autocritico. 2

Cfr J.-F. LYOTARD, La condizione postmoderna, trad. it., Milano 1980. Cfr L. GALLINO, L’incerta alleanza, Torino 1994. 4 Cfr I. PRIGOGINE, I. STENGERS, La nuova alleanza, Torino 1992. 5 Cfr L. GALLINO, L’incerta alleanza, cit., 9. 3


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Non si tratta qui del problema della rivincita o meno di antiche forme di pensiero, quando l’instaurarsi di un meccanismo ricorsivo-ologrammatico per cui una singola scienza tenterebbe dal suo interno di riprodurre la filosofia stessa o il sapere riflessivo-critico-ontologico da cui proviene ogni scienza medesima. Già con J. Piaget6 si era cercato di tracciare una mappa del pensiero strutturale in ogni ambito del sapere. L’affermarsi di una prospettiva sistemica, che costituisce una alternativa all’epistemologia neopositivistica e analitica, che promuove una visione scientifica della totalità, della vita, si propone, all’insegna della complessità, una prospettiva unitaria, una “nuova alleanza” tra scienze della natura e scienze dello spirito, una “ nuova alleanza” all’interno dello stesso soggetto conoscente nei confronti dell’oggetto della sua ricerca, del suo sapere. Caduto il presupposto naturalistico del ricercatore puro e distaccato si fa avanti l’idea che siamo noi a costruire la realtà prima di farne il teatro delle nostre esperienze. «Ogni descrizione», scrive Von Foerster, «implica colui che la descrive, ogni descrizione è interpretazione»7; ed ancora: «siamo sempre in dialogo», il linguaggio è solo apparentemente solipsistico, di fatto nel dire, nel pensare «siamo tutti insieme»; «senza il concetto di ‘noi’ il linguaggio non esisterebbe»8. Ad una ragione “lineare”,caratteristica della scienza ottocentesca o di emanazione metafisica, subentra una più complessa ragione di tipo circolare-ricorsivo di auto-organizzazione, di chiusura e simultaneamente di apertura dei sistemi. Tra i principali esponenti di questa linea di ricerca possiamo annoverare oltre al cibernetico, biologo e fisico von Foerster, il matematico Von Neumann, autori di importanti ricerche sugli automi autoreferenziali, 6

Cfr J. PIAGET, Lo strutturalismo, Milano 1968; cfr ID., Psicogenesi e storia della scienza, Milano 1985. 7 Cfr H. VON FOERSTER, Sistemi che osservano, trad. it., Roma 1987, 49. 8 Cfr ibid., 48. Ancora sulla problematica dei sistemi e della complessità, si confrontino: L. VON BERTALANFFY, Lineamenti di una teoria generale dei sistemi, trad. it., Milano 1971; R.M. LERNER, Teoria dei sistemi evolutivi, trad. it., Milano 1992; E. MORIN, Introduzione al pensiero complesso, trad. it., Milano 1993; V. DE ANGELIS, La logica della complessità. Introduzione alle teorie dei sistemi, Milano 1996, I. MATTE BLANCO, L’inconscio come insiemi infiniti, Torino 1981.


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i neurofisiologi ed epistemologi Maturana9, Maturana e Varela10, Varela11, il cibernetico ed etologo Bateson12 e il gruppo di psichiatria da lui fondato a Palo Alto e, tra questi, lo psichiatra P. Watzlawick13, e il sociologo dei sistemi Niklas Luhmann14. C’è, dunque, una correlazione tra «le nuove scienze della mente e l’esperienza umana vissuta. Questa interazione circolare passa attraverso l’apertura di uno spazio che è la nostra corporeità, il nostro corpo. È come dire che il corpo è la sede, il radicamento della storia della conoscenza»15. Maturana16 definiva i~vivente come sistema contrassegnato da “un’organizzazione circolare” – ricorsiva con la natura “autoreferenziale” dei processi organici: non è l’ambiente ad agire sull’organizzazione ma l’organizzazione che si autoproduce e genera le proprie stesse trasformazioni. Con Varela17 matura la teoria dei sistemi “autopoietici”, dimostrando, su basi biologiche, l’inadeguatezza del paradigma oggettivistico e della logica lineare: i sistemi rigenerano e realizzano attraverso le loro integrazioni la rete dei processi che le ha prodotti. Le conseguenze di questa logica circolare sono abbastanza evidenti. Non ci sono sistemi o solo aperti o solo chiusi, ma la complementarietà tra loro. I sistemi viventi sono chiusi e quindi ‘sistemi’, in quanto organizzazioni dotate di permanenza e identità, aperti in quanto ‘strutture’, cioè ‘incarnazioni’ di un sistema, che variano secondo le circostanze spazio-temporali. 9 Cfr H. MATURANA, Autopoiesi e cognizione, trad. it., Venezia 1988; cfr ID., Autocoscienza e realtà, trad. it., Milano 1993. 10 Cfr H. MATURANA, F. VARELA, L’albero della conoscenza, Milano 1987. 11 Cfr F. VARELA, E. THOMPSON, E. ROSCH, La via di mezzo della conoscenza, Milano 1992. 12 Cfr G. BATESON, Verso un’ecologia della mente, trad. it., Milano 1976; cfr ID., Mente e natura, trad. it., Milano 1984. 13 Cfr P. WATZLAWICK, La realtà inventata, Milano 1988. 14 Cfr N. LUHMANN, Sistemi sociali, trad. it., Bologna 1990; cfr ID., La scienza della società, trad. it., Bologna 1994; cfr ID., Potere e complessità, trad. it., Milano 1979. 15 Sugli esiti della posizione di Maturana e varala, nell’ambito della epistemologia genetica, si confrontino: M. CERUTI, La danza che crea, Milano 1989; M. CERUTI, L. PRETA, Che cos’è la conoscenza, Roma-Bari 1990. 16 Cfr H. MATURANA, Autopoiesi e cognizione, cit. 17 Cfr H. MATURANA, F. VARELA, L’albero della conoscenza, cit.


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Importanti sono anche le ricerche di von Foerster e dei suoi collaboratori, soprattutto Ashby, uno dei pionieri della cibernetica e, per un certo tempo, Maturana. La tesi centrale è che l’oggetto della biologia è l’attività di un sistema vivente in un ambiente incerto e che tale attività è concepita come calcolo o computazione. L’elaboratore elettronico è, dunque, il modello interpretativo e lo strumento di soluzione dei problemi. La conseguenza di tutto ciò è in linea a quanto aveva accennato il 18 Piaget sul rapporto tra biologia e coscienza: autoreferenzialità e ricorsività di ogni processo di organizzazione. Il computo viene ad inaugurare una visione della vita come processo cognitivo. Il Luhmann19, infine, applica alle scienze sociali le categorie della teoria dei sistemi. La totalità sociale si rivela essere una totalità autoreferenziale in un sistema che contiene qui e là descrizioni di sistema e che è capace di autogenerarsi. Le domande alle quali la filosofia della mente cerca di rispondere sono quelle consegnate alla filosofia del novecento dalla metafisica e dalla gnoseologia dei secoli precedenti: qual è la natura degli stati mentali? Cosa distingue il mentale dal fisico? In che rapporto stanno mente-corpo? Come fa la mente a conoscere il mondo esterno? Qual è la natura dell’esperienza soggettiva? Per il comportamentismo, uno dei principali filoni della psicologia del novecento, lo studio della mente doveva essere sostituito con quello del comportamento osservabile. Le cause mentali delle nostre azioni non sono altro che disposizioni materiali. Lo schema logico è così trascrivibile: ‘io desidero fumare’, significa che ‘se avessi sigarette, fumerei’. Cioè il mentale può anche esistere al massimo come epifenomeno, ma ad esso non si può ascrivere alcun potere di tipo causale ne sul fisico, ne sullo psichico. Per quanto possa sembrare paradossale, un apporto decisivo tanto alla reintroduzione di mente in psicologia, quanto alla rivendicazione della sua autonomia in filosofia venne dalla “computer science”.

18 19

Cfr J. PIAGET, Biologia e conoscenza, trad. it., Torino 1983 Cfr N. LUHMANN, Sistemi sociali, cit.


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A partire dalla metà degli anni cinquanta, l’intelligenza artificiale, data la impronta anticomportamentista di alcuni dei suoi pionieri, Newel, Simon, e specialmente Minsky ,favorì una liberalità nell’uso dei costrutti teorici in psicologia che faceva del mentale un suo proprio oggetto di studio. Nel suo assai indicativo volume su La società della mente20, il Minsky spiega i fallimenti della ‘scienza psicologica’ per avere creato un quadro di leggi per gli eventi mentali, magari in alternativa a quello delle scienze fisiche, non curandosi del fatto che la mente è come una società dove innumerevoli tipi di meccanismi, tra loro diversi, agiscono sulla base di criteri differenti, ma interagiscono in forma speciale, ma pur sempre in modo omogeneo e unitario. Ricondurre tutto a pochi principi chiari e distinti ed universali è una illusione, in quanto «la mente è semplicemente ciò che fa il cervello»21 ed «intelligenza è il nome che diamo a tutti quei processi che ancora non comprendiamo»22. In filosofia della mente, l’intelligenza artificiale ispirò invece nuove proposte di soluzione per alcuni problemi classici del rapporto mente-corpo. Il fatto che uno stesso software per calcolatore potesse essere realizzato da hardware molto diversi suggerì ai filosofi, a Putnam23 in primo luogo, la soluzione funzionalista del problema: gli stati mentali potevano essere realizzati in sistemi fisici diversi, non necessariamente organici, come il cervello, ma anche inorganici, come ad esempio un calcolatore digitale opportunamente programmato. La mente, così, sta al cervello come il software sta all’hardware. Non è importante la materia che attiva le funzioni mentali, ma la forma, il modello di procedimento che regola tali operazioni. Ciò che accomuna software e mente è la considerazione del dispositivo per la computazione, manipolazione di simboli: pensare è calcolare, cosa che già aveva preconizzato Hobbes nel suo Leviathan. 20

Cfr M. MINSKY, La società della mente, Milano 1989. Cfr ibid., 563. 22 Cfr ibid., 135. 23 Cfr H. PUTNAM, Mente, pensiero, linguaggio, Milano 1987, e la codificazione dell’intuizione in P.N. JOHNSON - LAIRD, La mente e il computer. Introduzione alla scienza cognitiva, Bologna 1990; cfr ID., Ragione,verità, storia, Milano 1985; cfr ID., Mente, corpo, mondo, trad. it., Bologna 2003. 21


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La mente non si identificava, dunque, con il cervello, secondo quanto sostenevano i filosofi materialisti e riduzionisti come Feigl, Place, Smart, i quali consegnavano di fatto alla neurologia, piuttosto che alla psicologia, vista come scienza del mentale autonoma da quest’ultima, la soluzione del problema mente-corpo. Un secondo orientamento interno all’Intelligenza Artificiale è quello del connessionismo. Alla domanda se l’intero è la somma delle parti, i connessionisti, Rumehart, McClelland24, Smolensky25, rispondono partendo dalla causalità dal basso verso l’alto (bottom-up). Come il significato delle parole scaturisce dall’accostamento di lettere che, individualmente prese, sono prive di significato, così il pensiero scaturisce dalle interazioni di costituenti fisici pieni di spessore semantico. Il pensiero filosofico moderno è segnato dal dibattito, iniziato con Cartesio, intorno al dualismo tra spirito e materia. La filosofia della mente riporta la problematica dal piano metafisico, dualismo spirito-materia, a quello del mesocosmo, in cui si muove l’uomo, come dualismo animacorpo. Come il monismo metafisico tendeva, per risolvere il problema della connessione tra questi due mondi, a risolvere il problema eliminando uno dei due poli, così l’identitismo cerca di riportare ad unità le due dimensioni con la riduzione dell’anima a componente materiale anche se di singolare specie. La gradualità e il modo con cui diversi indirizzi di filosofia della mente intendono attuare tale processo di riduzione ne evidenzia la differenza: fisicalismo moderato e materialismo eliminativo26. I fisicalisti moderati, soprattutto Feigl27, inaugurano, per affrontare il problema, una neurofisiologia appropriata e oggettiva chiamata fisicalismo, appunto. Per Feigl e altri fisicalisti, l’evento è unico e medesimo: solo i modi descrittivi sono diversi. Versioni più attuali del fisicalismo moderato sono quelli della teoria dell’identità del tipo: tutti gli stati mentali si possono 24 Cfr D. RUMELHART, J. MCCLELLAND, Parallel distributed processing. Es in the microstructures of cognition, Cambridge (Mass.) 1986. 25 Cfr P. SMOLENSKY, Il connessionismo tra simboli e neuroni, trad. it., Genova 1980. 26 Cfr S. MORAVIA, L’enigma della mente. Il “mind-body problem” nel pensiero contemporaneo, Roma-Bari 1991. 27 Cfr H. FEIGL, M. SCRIVEN, G. MAXWELL, Concepts, theories and the Mind-Body problem, in Minnesota studies in the phiosophy of science 2 (1958) 370-497.


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tradurre nel linguaggio delle proprietà neurocerebrali; e quella più tenue teoria dell’identità delle occorrenze: ogni definitivo evento spiritualeinteriore ha una corrispettiva versione neurofisiologica, la quale, anche se mutevole, al ripetersi dello stesso evento interiore, non può non esserci. Il Dennett28 afferma che il materialismo eliminativo è una forma più sfrontata e dissolvente della teoria dell’identità. Per questi autori, in special modo per Rorty29, i quali si possono fregiare dell’attributo di araldi della disappearence theory ,il mentale non è ontologicamente identico al fisico,per cui va eliminato come realtà goffa, ingenua, ingannevole. L’uomo è, per così dire, un pezzo di materia, il resto è mondo abitato da demoni delle antiche cosmologie. Contro la filosofia della mente materialista ed eliminativista, il funzionalismo, nella versione ispirata dall’intelligenza artificiale, rivendicava l’irriducibilità della spiegazione psicologica a quella neurologica, restituendo così un ruolo autonomo allo studio della mente. La critica più nota all’idea funzionalista ,che la mente possa essere studiata mediante programmi per calcolatore, si deve a Searle30. Col suo argomento della ‘camera cinese’, il Searle sembra affermare che il computer e le persone nella stanza cinese agiscono secondo delle regole, cioè secondo una sintassi, ma sono completamente estranei dall’agire secondo un significato, cioè secondo una ‘semantica’. Non bisogna, quindi, adagiarsi sulla falsa analogia tra computer e mente. Altre critiche al funzionalismo sono venute a partire dagli anni ottanta a seguito della n presa tanto del materialismo quanto dell’eliminativismo.

28

Cfr D. DENNETT, Brainstorms. Saggi filosofici sulla mente e la psicologia, Milano

1991. 29 Cfr R. RORTY, Mind-body identità, privacy, and categories, in Review of metaphysics 19 (1965); cfr ID., Scritti filosofici, trad. it., Roma-Bari 1994; cfr ID., La svolta liguistica, trad. it., Milano 1994. 30 Cfr J.R. SEARLE, La riscoperta della mente, trad. it., Torino 1994; cfr ID., Per una tassonomia degli atti illocutori, in A. SBISÀ ( a cura di), Atti linguistici. Aspetti e problemi difilosofia del linguaggio, Milano 1978; cfr ID., Della intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, Milano 1985; cfr ID., Menti, cervelli e programmi, in D.R. HOFSTADTER, D.C. DENNETT, L’io della mente. Riflessioni sul sé e sull’anima, Milano 1985.


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I Churchland31 affermano che la rinnovata attenzione da parte della filosofia della mente materialista verso i più recenti risultati delle neuroscienze si è accompagnata alla rinascita delle reti neurali e del connnessionismo, in polemica con l’intelligenza artificiale e la scienza cognitiva. Rispondendo a Searle, i Churchland32 sostengono che le sue critiche al funzionalismo dell’intelligenza artificiale e della scienza cognitiva non coinvolgono direttamente i modelli della cognizione sviluppata dalle nuove reti neurali. La natura dell’esperienza privata, dei cosiddetti “qualia”, spalanca alla filosofia della mente le porte sulla questione dell’intenzionalità e della coscienza33. Come risultato delle ricerche che vanno dalla teoria della computabilità dell’intelligenza artificiale, diversi processi cognitivi sono stati spiegati come algoritmici (meccanici). La riflessione su questi ultimi risultati ha contribuito alla convinzione di poter studiare tali processi, l’intenzionalità, il significato etc.,indipendentemente dalla coscienza. A cosa serve la coscienza se un’elaborazione dell’informazione perfettamente inconsapevole è capace, in linea di principio, di conseguire tutti i fini per i quali si supponeva che esistesse la mente cosciente? Con questo interrogativo il Dennett ha riassunto polemicamente l’atteggiamento sulla coscienza in intelligenza artificiale e in scienza cognitiva. Tornato così in primo piano, il problema della coscienza è ora oggetto di dibattito molto acceso tra i filosofi e scienziati. A Dennett34 si deve la più vasta rielaborazione personale del tema del ‘mentale’. Uno dei suoi concetti fondamentali è quello di “sistema intenzionale”. Il sistema si compone di atteggiamenti, quali il credere, il desiderare, il temere, etc., che attestano l’esistenza di una istanza che ne dispone e che a buon diritto si può qualificare come mente, coscienza, 31

Cfr P.S. CHURCHLAND, T.J. SEJNOWSKI, Il cervello computazionale, Bologna 1995. Cfr P.M. CHURCHLAND, Il motore della ragione,la sede dell’anima. Viaggio attraverso il cervello umano, trad. it., Milano 1998. 33 Cfr J. HORGAN, Può la scienza spiegare la coscienza?, in Le Scienze. Quaderni 91 (1996) 61-67; Cfr F. CRICK, CH. KOCH, Il problema della coscienza, ibid., 68-73; cfr nella stessa rivista l’articolo di P. BIERI, Il cervello e la coscienza, 82-89. 34 Cfr D. DENNETT, Brainstorms, cit. 32


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anima. Ora, però, per Dennett, questi ‘atteggiamenti intenzionali’ sono inutili teoreticamente e non sussistono ontologicamente. Ma allora che valore hanno? Solamente quello «di un potere previsionale che non possiamo ottenere con nessun altro metodo»35. Quindi, il vissuto interiore intenzionale non necessariamente deve esistere nell’essere umano. In un’altra pubblicazione afferma: «Tutto ciò che si è voluto asserire è che , a volte, un sistema puramente fisico può essere così complesso, e tuttavia così organizzato, che troviamo conveniente, illuminante, e pragmaticamente necessario, a scopi previsionali, trattarlo come se credesse,desiderasse e fosse razionale»36.

Il “come se” sgretola impietosamente tutta l’impalcatura degli atti intenzionali. Il pensiero di Dennett si può considerare come una specie di ateismo ermeneutico, ateismo che percorre la lettura della Scrittura con l’ottica evoluzionistica darwiniana dove la Madre Natura, nel debellare come inconsistente ed inutile l’ipotesi del Dio creatore, rinnega anche alla mente la qualità dell’intelligenza «Perché all’inizio non era il Verbo, non c’è alcun testo che si possa consultare per risolvere le questioni insolute riguardo alla funzione, e dunque riguardo al significato»37.

Ed ancora, mentre per alcuni, la ricerca empirica delle neuroscienze finirà per chiarire la natura dell’esperienza interiore risolvendo quello che Chalmers38 chiama il ‘problema difficile’, altri insistono sull’impossibilità di riuscire a spiegare l’esperienza interiore in termini obiettivi.

35

Cfr ID., L’atteggiamento intenzionale, trad. it., Bologna 1993, 41. Cfr ibid., 57. 37 Cfr ibid., 427. Cfr anche ID., L’idea pericolosa di Darwin. L’evoluzione e i significati della vita, trad. it., Torino 1997. 38 Cfr D.J. CHALMERS, Il mistero dell’esperienza cosciente, in Le Scienze. Quaderni 91 (1996) 74-80. 36


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Un problema non molto meno difficile di quello della coscienza, e che oggi sembra meno scontato che in passato, è quello della emozione, dei sentimenti in cui l’esperienza interiore del soggetto si coinvolge.

2.2. Prospettive Da questo breve, e certo non completo, panorama su una problematica tanto attuale, antica e sempre nuova come quella della filosofia della mente, ci domandiamo se ancora l’anima abbia un posto in questa stessa filosofia e, in maniera ancora più radicale, se dobbiamo infine rinunciare all’anima39. La comunità scientifica sembra diffondere un clima di spaesamento e di scetticismo su un cardine della tradizionale impostazione sia antropologica sia teologica della nostra cultura occidentale40. Anche se con la debita distinzione tra ambito linguistico e ambito ontologico, l’interrogativo sul rinunziare all’anima continuerà, nel prossimo futuro, a risuonare ancora più profondamente interpellando filosofi e teologi a trovare una nuova sintesi antropologica con l’ausilio delle scienze umane. È nell’ambito delle biotecnologie che si giocherà una posta molto importante. Equiparare inconoscibilità ed inesistenza è il peccato di origine percorso da tutti i riduzionismi. Escludendo la dimensione soggettiva nello studio di regno oggettivo fuori dalle nostre menti, sottoposto ai principi della scienza fisica non possiamo, poi, surrettiziamente, farla rientrare dalla finestra per sottoporre il soggettivo, il mentale, l’anima allo stesso metodo e agli stessi principi. Non si può chiudere la dimensione spirituale negli angusti schemi fisico- matematici.

39 Cfr A. VACCARO, Perché rinunziare all’anima? La questione dell’anima nella filosofia della mente e nella teologia, Bologna 2001. 40 Cfr T. NAGEL, Questioni mortali, trad. it., Milano 1986.


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Nagel afferma: «Non abbiamo ancora neanche un embrione di teoria generale che spieghi perché una determinata operazione fisica del sistema nervoso centrale produca un determinato tipo di vita cosciente»41.

Ed ancora: «Accettare in quanto reale solo quello che può essere capito grazie agli attuali metodi scientifici costituisce una sicura condanna alla stagnazione»42.

I filosofi provano più difficoltà, cosa ormai superata dagli scienziati, afferma Popper43, a fare cadere un’ideologia, quella materialista ormai confutata e onorabilmente sepolta. Eventi puramente spirituali quali il pensiero, le intenzioni sono capaci di determinare attività fisiche44. Teoria, questa, che già Popper ed Eccles45 avevano introdotta nel 1963 descrivendo il concetto di “psicone”, cioè una realtà mentale unitaria, capace di suscitare eventi neurali. Afferma Eccles: «L’esistenza della mente è indubbia e negarla costituisce un mero esercizio di autocontrollo»46.

41

Cfr ID., Coscienza e realtà oggettiva, in G. GIORELLO, P. STRATA (a cura di), L’automa spirituale. Menti, cervelli e computer, Bari 1991, 33. 42 Cfr ibid., 36. 43 Cfr K. POPPER, Meccanismi contro invenzione creativa: brevi considerazioni su un problema, in G. GIORELLO, P. STRATA (a cura di), L’automa spirituale, cit.,10. 44 Cfr J. ECCLES, L’interazione mente-cervello: configurazione ultramicrocoscopica e funzione della corteccia cerebrale, ibid., 64-67. 45 Cfr K. POPPER, J. ECCLES, L’io e il suo cervello, trad. it., Torino 1963. 46 Cfr J. ECCLES, L’interazione mente cervello, cit., 64.


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Continuando: «Ritengo essenziale postulare la creazione sovrannaturale di ciascun lo cosciente quale mistero che sfugge alla comprensione scientifica»47.

La parola mistero riecheggia, infine, in Edelman, per il quale «[…] Sarebbe da sciocchi prefigurarsi la forma che la scienza del futuro assumerà. Basti sapere — ed è anche motivo di consolazione — che, qualunque sia la forma assunta, la vita cosciente sarà sempre più ricca della descrizione che ne dà la scienza»48.

La filosofia sembra andare verso la sua “fine”, cioè verso la fine di un suo paradigma tripartito, soggetto-oggetto-metodo, stimolando il ritorno di antiche forme di pensiero, quali l’ontologia, come più sopra abbiamo accennato. Grazie, però, alla scienza e alla tecnica del secolo scorso questo modo ‘altro’ di pensare evidenzia l’affinità con l’antico. Il mistero di cui parla Edelman è qualcosa di ‘altro’, qualcosa di più ampio, ma non contrapposto. Anche nell’epistemologia analitica come in quella continentale di matrice fenomenologico esistenziale c’è in comune e ritrova una certa importanza, in autori come Popper, Goodman,Toulmin, e specialmente con Davidson49 e Putnam, la tematica del soggetto come istanza metafilosofica hanno contribuito alla rinascita delle teorie della ‘mente’ e della ‘intenzionalità’, con l’emergere, dicevamo, del cognitivismo, della psicolinguistica di Chomsky e della pubblicazione degli inediti Wittgensteiniani sulla psicologia, dopo il rifiuto del ‘mentalismo’, visto in contrapposizione con la riflessività e l’autoriflessività, che fu caratteristica dei filosofi di stampo fenomenologico-esistenziale.

47

Cfr ibid., 73. Cfr G. EDELMAN, La materia della mente, trad. it., Milano 1993, 326. 49 Cfr D. DAVIDSON, Azioni ed eventi, trad. it., Bologna 1992. 48


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Alla critica della metafisica, sia nel sapere anglosassone che in quello fenomenologico-esistenziale, succede una sua riabilitazione nello sbocco unanime — come ha rilevato Apel50 — della svolta linguistica. Il soggetto, oggi, non ci parla di un sapere. Esso sembra indebolito51, attraversato dal linguaggio, o dall’essere o dall’inconscio; La metafisica ci racconta, ci parla di una realtà incerta e di un’oggettività non facilmente conquistabile, rifugiandosi nel frammento. Nel nostro clima culturale odierno, il relativismo fa da sfondo e fonda il linguaggio ‘plurale’, la ‘pluralità dell’io’ e dei ‘sé’, la storicità delle acquisizioni teoriche. Un sapere definitivo ed esaustivo e totale è impossibile. A un pensiero ‘assoluto’ subentra quello più umano della ‘relazione’. Un ‘analisi fenomenologica’ della ‘relazionalità’ ci porta alla corporeità come ‘presenza’, come coincidenza di ciò che è e di ciò che si manifesta. Il nostro corpo è l’apertura al mondo e vive per il mondo e non per se stesso52. In questo senso, si è rivelato paradigmatico il concetto biblico di nefes53. L’impronta di Dio è tutt’uno con la vita e con gli atti intenzionali. L’uomo è l’unità organica che sentiamo e percepiamo come animata di vita, sentimenti, emozioni, pensieri e desideri54. Possiamo ancora sperare, se non lasciamo spegnere le fiammelle del pensiero, della coscienza, dell’anima, della riflessività, di potere ricostruire un ‘antropologia che, andando oltre lo ‘psichico’ come ‘fatto’, non possa, per la mancanza di fondamento ontologico, «venire sostituita» dall’inquadramento in una «biologia generale»55. In questo modo, si potranno ancora fornire le basi per potere ricostruire una filosofia e una teologia, con il contributo delle scienze psicologiche, che possano darci una fede rinnovata in questa grande avventura 50 Cfr K.O. APEL, Il logos distintivo della lingua umana, trad. it., Napoli 1989; cfr ID., Etica della comunicazione, Milano 1992. 51 Per la tematica del pensiero ‘debole’, cfr G. VATTIMO, Le avventure della differenza, Milano 1985; ID., La fine della modernità, Milano 1985. 52 Cfr U. GALIMBERTI, Il corpo, Milano 19934. 53 Cfr C. WESTERMANN, Nefes-anima, in E. JENNI, C. WESTERMANN, Dizionario teologico dell’Antico testamento, II, Casale Monferrato 1982, coll. 68-70. 54 Per uno sguardo sul corpo e la corporeità nella religione, sia dal punto di vista cristiano, sia da quello di altre forme religiose, nonché anche al femminile, si confronti R. AMMICHT QUINN, E. TAMEZ ( a cura di), Corpo e religione, in Concilium 2 (2002). 55 Cfr M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Torino 1967, § 10.


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spirituale56 impressa in noi da Dio, convinti che l’incontro con il Dio di Gesù Cristo, pur incarnandosi in un’antropologia, non si chiude né si risolve in essa. Da questi introduttivi presupposti epistemologici di stampo cognitivista, che considerano la complessità della mente e l’unità dinamico-vitale mente-corpo come presenza aperta al mondo, possiamo partire per un’avventura di studio e di ricerca, su basi psicologico-ermeneutiche57, nel campo della religione, e di alcune tematiche connesse58.

3. NEUROFENOMENOLOGIA COME MODELLO INTEGRATIVO DI ANALISI 3.1. L’identità dei processi mentali e neurali La fondamentale comprensione che soggiace allo sforzo di identificare i correlati neurali dell’esperienza cosciente è la conclusione che l’attività del cervello e l’attività neurale sono lo steso evento, sono coestensivi, prendono posto nello stesso spazio, il cervello e sono nella stessa sfera di esistenza fisica giacché sono, in effetti, un’identica cosa. Skarda afferma: «I processi neurofisiologici non causano gli stati mentali, essi sono gli stati mentali a un livello di descrizione neurofisiologica. I fenomeni studiati a differenti livelli descrittivi non sono correlati in modo causale, essi sono identici»59.

56

Cfr J. ECCLES, Il mistero uomo, trad. it., Milano 1981, 275ss. Cfr G. THEISSEN, Psychological aspects of Pauline theology, Edinburgh 1987; Inoltre, si confrontino: M. ALETTI, F. DE NARDI (a cura di), Psicoanalisi e religione, Torino 2002; R. HOOD, B. SPILKA, B. HUNSBERGER, R. GORSUCH, Psicologia della religione. Prospettive psicosociali ed empiriche, Torino 2001. 58 Cfr G. MAZZOCATO, Patire ed agire. L’insuperabile profilo morale dell’io e le aporie della teoria psicologica, Milano 1997; cfr G. BONACCORSO, Il rito e l’altro. La liturgia come tempo, linguaggio e azione, Città del Vaticano 2001. 59 Cfr C. SKARDA, The neurophysiology of consciousness and the unconsciuous, in Behavioral and Brain sciences 13/4 (1990) 625-6; cfr Ache T.CLARK, Function and phenomenology: closing the expatory gap, in Journal of consciousness studies 2,3 (1995) 241-255. 57


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La mentalità soggettiva è, dunque, un processo psicofisico. Da ciò segue inevitabilmente che se la coscienza e l’attività del cervello sono un’unica cosa, di conseguenza la disciplina che cerca di spiegare questa attività deve essere capace di indirizzare su un unico processo integrale sia gli aspetti neurali che fenomenici. A ciò cerca di rispondere la neurofenomenologia che mette insieme due qualità: la capacità di fornire risultati obiettivi di fenomeni soggettivi con quelle della neurologia di generare dati oggettivi su rilevanti aspetti dell’attività cerebrale. Queste due qualità danno insieme un’analisi obiettiva dell’attività neurale e delle manifestazioni della vita cosciente soggettiva in una maniera che sono preservati i benefici di differenti livelli di analisi60 senza compromettere l’integrità ontologica dei dati. Nello studio dei fenomeni coscienti o della coscienza, nelle neuroscienze si assiste a un processo di integrazione di analisi scientifiche con analisi di tipo umanistico, dove etologia, biologia e scienze cognitive sono un unico circolare continuum che si spiegano e intersecano vicendevolmente. In questo ambito, per esempio, il Bowlby61 ha trovato spiegazioni plausibili , biologici e psicologici, del modello dell’attaccamento nel contesto della teoria delle relazioni oggettuali. Questo vuol dire che cognizioni, emozioni, comportamenti, con le teorie sottostanti di tipo neurofisiologico, biologico, psicodinamico e cognitivo devono trovare nella neurofenomenologia una base comune che integra e fa interagire questi modelli teorici ed interpretativi della realtà antropologicamente unitaria del rapporto mente-corpo, anche nel campo del fenomeno religioso. La neurofenomenologia può fornire nuovi insights su un ampio raggio di aree importanti di fenomenologia della religione, includenti: visioni del mondo, miti, riti, misiticismo, guarigioni ed estasi, l’importante questione del genere, etc. Ci soffermiamo solamente, e brevemente, sul senso del soprannaturale in quanto tale, cercandone di rilevare il fondamento psico-fisiologicocognitivo. 60 Cfr R. MCCAULEY, Explanatory pluralism and the co-evolution of theories in science, in R. MCCAULEY (a cura di), The Churchlands and their critics, Cambridge 1996,17-47. 61 Cfr J. BOWLBY, Attaccamento e perdita, I, trad. it., Torino 1969; cfr ID., Una base sicura, trad. it., Milano 1989.


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Recenti ricerche sulla psicologia dello sviluppo ci indicano che il cervello umano può essere descritto da tre “essenze psicologiche”62 che interpretano il mondo degli oggetti in termini di tre regni: quello inanimato (le cose fisiche), quello animato (le cose biologiche) e quello senziente (le cose mentali). Ma queste tre categorie interpretative complesse sono esse stesse funzioni di un campo di rappresentazione pre-operativo, generando esperienze che hanno un’efficacia ed un potere causale così distinto: di tipo dinamico (potere soprannaturale), di tipo vitalistico (energia soprannaturale) e di tipo mentalistico (essere soprannaturale). Si può così arguire che molti se non la maggioranza dei monoteismi hanno , nel tempo, cercato di accomodare tutti e tre questi aspetti soprannaturali in una singola, integrata visione del mondo religioso.

3.2. Psicologia cognitiva, trasferenza e trascendenza Pur privilegiando, visto il nostro assunto di base neurofenomenologico, il punto di vista cogntivista nell’approccio al fenomeno religioso, tuttavia non possiamo nascondere l’utilità del punto di vista psicodinamico, una volta superata ed integrata dalle scuole psicoanalitiche dopo Freud la sua metapsicologia e il suo senso di dogmatismo antiscientifico. Analizzare il transfert significa anche comprendere come le esperienze affettivo-sociali sono assimilati dentro di noi e come funzionano all’interno degli stili caratteristici della persona di produrre significato e di relazionarsi al mondo e di come il comportamento della persona esprime le strutture relazionali interiorizzate della sua personalità.In questo contesto , la religione può essere concettualizzata come una forma di trasferimento nel senso di una relazione interpersonale. Mentre per Freud l’organismo è guidato dall’impulso, dall’istinto e dal bisogno di scaricare energia psichica (libido) su un oggetto, i teorici delle relazioni oggettuali, per esempio, di cui la Klein fu l’antesignana e la caposcuola, considerano il fatto che le persone cercano in modo primario relazioni con i loro oggetti. 62 Cfr H. WELLMAN, S. GELMAN, Cognitive development: foundational theories of core domains, in Annual review of psychology 43 (1992) 337-375.


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Pur mantenendo il concetto di impulso, di energia psichcica, la Klein, correggendo in ciò Freud, pensa che tali impulsi o fattori motivazazionali non sono, in sé e per sé, staccati dall’oggetto, ma sono inerenti e associati ad esso fin dall’inizio e sono, dunque, da essa trattati come forze psicologiche, cioè dell’ego, anziché fisiche. Nel pensiero psicoanalitico c’è. Così, una progressione che comincia con la teoria freudiana della scarica pulsionale, che passa per le relazioni oggettuali, nelle quali un individuo intero cerca relazioni con oggetti (cioè non proprio una persona) fino alla reciprocità tra agente delle cure materne e bambino implicita nella teoria dell’attaccamento di Bowlby, passando per la teoria dell’oggetto transizionale di Winnicott63 e del narcisismo di Kohut64, fino alla recente psicologia della sviluppo. La psicoanalisi dopo Freud, soprattutto quella della scuola kleiniana, mette in risalto il ruolo cruciale della madre o delle figure di accadimento e cura, quali madre e padre, nella crescita e nello sviluppo del bambino e ,quindi, per estensione del ruolo della madre nella religione, che Freud aveva sottovalutato. Possiamo affermare che molti aspetti delle credenze e del comportamento religioso rappresentano manifestazioni reali dei processi di attaccamento in una maniera molto simile alle relazioni che il bambino ha con la madre o con la figura significativa che si prende cura di lui. Per Bowlby, per esempio, l’attaccamento include un sistema motivazionale distinto ma che si affianca alla sessualità e la integra. Non la sessualità, dunque, è importante, ma la sicurezza che fa dell’attaccamento un fatto primario, distinto dalla oralità e che è guidato non solo da fantasia inconsce, ma anche da modelli affettivi, cognitivi e comportamentali. Il discorso che abbiamo fatto sopra a livello introduttivo sulla neurofenomenologia porta ad una integrazione a livello cosciente-mentale degli aspetti cognitivi, affettivi e comportamentali nell’unità della persona umana, nella sua integralità mente-corpo-ambiente. Una psicologia cognitiva prende piede quando tutti i processi interpretativi sono intesi come espressione della attività umana, cioè come 63 Cfr D. WINNICOTT, Sviluppo affettivo e ambiente, trad. it., Roma 1970; cfr ID., Gioco e realtà, trad. it., Roma 1974. 64 Cfr H. KOHUT, Narcisismo e analisi del sé, trad. it., Torino 1976.


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interazione cosciente con l’ambiente e quando essi sono riconosciuti come aventi una tendenza verso la costruzione di un mondo coerentemente interpretato. Cosa, allora, è la religione da un punto di vista della prospettiva della psicologia cognitiva? La religione è la ristrutturazione cognitiva della vita-mondo umano attraverso l’apertura della sua dimensione più profonda. Questa dimensione profonda può trovarsi dentro l’essere umano medesimo, ed allora la religione è un confronto con la dimensioni inconsce dell’esser umano. O può trovarsi nella realtà attorno a noi ed allora la religione è un continuo confronto con la realtà che sta dietro la vita quotidiana. L’apertura verso la dimensione profonda del mondo così come esperito avviene attraverso i processi di attribuzione cognitiva, l’anticipazione, l’autovalutazione, e attraverso l’assunzione dei ruoli prestabiliti entro cui noi cresciamo attraverso l’apprendimento sociale. Nei testi biblici dell’AT la dimensione profonda della vita e del mondo è strutturata attraverso le narrazioni mitiche. Dietro la vita e il mondo stanno, per esempio, gli eventi della creazione o, nell’opposta direzione, quelli del giudizio finale. Nel NT questa dimensione è inserita dentro il mondo medesimo, mondo con cui siamo familiari: il nuovo Adamo, il Cristo, appare nel mezzo di questo mondo. Il Giudizio finale è, ora, nel presente, nel qui ed ora. Quello che i miti protologici ed escatologici riportano su un mondo-vita prima e dopo diventa una forma presente sulla base della quale il mondo quotidiano è visto in una maniera interamento nuova. La vita non è una struttura statica ma un processo dinamico dove la nostra costante occupazione è quella di cercare di ridurre la tensione. Il modello della dissonanza cognitiva , per esempio, ci può servire come un esempio di induzione e riduzione della dissonanza. C’è dissonanza cognitiva, per esempio, quando le nostre aspettative sono rifiutate dal corso degli eventi, le aspettative escatologiche non realizzate sono state un campo di applicazione di tale modello65. La dissonanza cognitiva può spesso essere risolta attraverso la reinterpretazione 65 Cfr L. FESTINGER, Die Lehre von der ‘Kognitiven Dissonanz’, in W. SCHRAMM (a cura di), Grundfragen der kommunikationsforschung, Munich 1964, 27-38.


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di un evento: tutti quegli elementi consonanti con una decisione presa ed una conseguente aspettativa sono rinforzati, mentre quelli dissonanti sono rimossi dalla propria coscienza, dalla propria mente. La religione cerca, costantemente, di ristrutturare situazioni che si presentano persino come estreme sviluppando una elevata tensione, trasformandola in situazioni piene di senso e significato. Nel NT possiamo osservare come persino quelle persone malate, che non hanno speranza, possono essere guarite e come anche la più grande sofferenza «non ci potrà separare dall’amore di Dio»66. Così come le esperienze estatiche, che sembrano meno connesse con la realtà, sono trasformate attraverso una ristrutturazione cognitiva in un impulso per una più profonda esperienza del mondo. Questo è il caso, per esempio, degli studi sulla glossolalia. La religione, dunque, appare come un sistema regolatore la cui funzione consiste nel mantenere un equilibrio dinamico della vita. Quale è il modo attraverso cui una persona procede nel ristrutturare cognitivamente il suo mondo-vita, mantenendo il suo equilibrio dinamico dando alla vita una direzione che ha senso e significato? Vari sono i modi studiati dalla psicologia cognitiva: la attribuzione di causalità, l’anticipazione, l’autovalutazione, l’assunzione dei ruoli. Da rilevare, comunque, che le strategie cognitive sono relate ad alcuni meccanismi di difesa: proiezione, sublimazione, razionalizzazione e identificazione. Ci soffermeremo, brevemente, solo sulla attribuzione di causalità. Ogni giorno siamo costantemente impegnati ad attribuire alle nostre azioni ed esperienze cause differenti67. Ciò che è importante nel nostro discorso non sono solo le cause che noi accertiamo, ma anche quali sono le relazioni che hanno con noi, cioè se sono collocate dentro o fuori di noi. È importante, quindi, non l’attribuzione in quanto tale ma la valutazione che ne facciamo. Possiamo,infatti,ricavare conclusioni differenti se noi attribuiamo un’esperienza infelice alla nostra stupidità o ad una mancanza di impegno (fattori interni: internal locus of control) o a condizioni che non possono essere rimosse o alla semplice 66

Cfr Rom 8,39. Cfr F. FURNARI, Esperienza religiosa e teoria del locus of control, in Synaxis 1 (1983) 187-205. 67


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fortuna (fattori esterni: external locus of control). Da ciò segue che l’abilità di attribuzione ad eventi o azioni fa anche crescere ed allargare il raggio di possibili reazioni. Se noi non siamo impegnati in una particolare attribuzione di causalità, siamo anche non impegnati su particolari conseguenze che ne possono derivare. Queste riflessioni ci fanno incontrare con una delle più grandi funzioni della religione. Le interpretazioni religiose degli eventi e delle azioni sono in fondo ristrutturazioni cognitive di attribuzioni di causalità unilaterale, che dipendono dalla fede68. Per esempio. Uno può valutare un risultato raggiunto attraverso un sacrificio o un impegno come un dono, o il fortuito come non fortuito. Esempi tipici di tali attribuzioni si possono leggere in tutta la Scrittura69.

3.3. L’esperienza relazionale come paradigma dell’esperienza simbolica. L’interiorizzazione trasmutante Dalla psicologia cognitiva apprendiamo che una delle fondamentali capacità della mente umana è quella riconducibile alla dimensione metaforica , distinguere tra vari ambiti di realtà e creare connessioni e collegamenti tra oggetti appartenenti ad ambiti diversi. In questo contesto della funzione metaforica del linguaggio umano rientra anche la caratteristica metaforico-simbolica della conoscenza e del fenomeno di tipo religioso70 e, quindi, anche di quello rituale, dove il simbolo non è altro che un segno con le sue proprie sintattiche, che si è arricchito di significato71. La dimensione cognitiva, metaforico-simbolica deve essere integrata da considerazioni di tipo psicodinamico quali quelle inerenti al modello delle relazioni oggettuali. 68

Cfr ID., Attribuzione cognitiva ed esperienza mistica della conversione, in AA.VV., Mistica e Scienze umane, Napoli 1983, 173-187. 69 Cfr 1Cor 15,10; Rom 7,17; Gal 2,20. 70 Cfr G. LAKOFF, M. JOHNSON, Metafora e vita quotidiana, trad. it., Roma 1982. 71 Cfr C. TOREN, Sign into symbol, symbol as sign. Cognitive aspects of religious symbolism, Cambridge 1993.


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Ci soffermeremo solamente sul concetto di interiorizzazione trasmutante di Kohut72 applicato al rito, all’azione liturgica. L’interiorizzazione trasmutante è un processo di mutamenti interni della personalità, progressivamente più maturi, acquisiti lentamente nella relazione con persone emotivamente significative (oggetti-sé positivi). Tra identificazione e interiorizzazione trasmutante c’è differenza: il primo indica un processo in cui l’altro da sé, spesso idealizzato, viene in un certo senso interiorizzato, nel secondo si interiorizza invece la stessa esperienza relazionale positiva che provoca una trasformazione, il diventare come l’altro, “sé come altro”, cioè è come dire che la funzione dell’oggettosé viene trasmutata in una funzione del sé. Kohut descrive così l’interiorizzazione trasmutante, che è uno dei concetti fondamentali della psicologia del sé: «Noi abbiamo bisogno di una proteina esterna per produrre la nostra proteina. L’essenza della nostra costituzione biologica è la molecola proteica […]. La nostra proteina è molto diversa da quella estranea. Se mangiamo carne di manzo non diventiamo bovini, ma dobbiamo mangiare carne e formaggio o qualunque altro cibo per scomporre queste proteine e ricomporle per i nostri fini. Questa analogia si adatta molto bene all’interiorizzazione trasmutante. Abbiamo bisogno di altri per diventare noi stessi»73.

Per tutto l’intero arco della nostra vita, sentiamo questo bisogno fondamentale della risonanza empatica di un oggetto-sé e di altri oggettisé successivi. Questo mette in moto un processo di tipo circolare che indica un gioco complesso di reciprocità che impronta tutte le forme di interazione tra le persone e i segni simboli e non solamente le relazione con la madre o con le figure significative della nostra vita. Fattore importante di questa reciprocità di scambio è il legame oggettuale empatico, che non è da intendersi come un arelazione diadica, bensì triadica, dove fin dall’inizio opera un terzo, assente-presente, che si chiama oggetto simbolico, che assume la funzione di appoggio per il sé e 72 73

Cfr H. KOHUT, Narcisismo e analisi del sé, cit. Ibid., 56,109,111.


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costituisce interazione ben riuscita, una qualità oggetto-sé, che è poi la qualità della relazione medesima. Ciò suppone la integrazione tra la cognizione, la volizione e l’affetto. Per meglio intendere, a livello psicologico, tutto il processo trasformativi attraverso i segni-simbolo, ci soffermiamo per un attimo sulla presenza della Croce che sovrasta o è posta accanto all’altare. La Croce è il simbolo di un Dio impotente74, che assume dimensioni umane e, quindi, capacità di soffrire e di amare. La realtà teologica che si può leggere nel simbolo della Croce è l’avversione regressiva verso la sofferenza, che può indurre alla fuga dalla realtà per chiudersi nella religione. Il Dio della Croce, invece, offre agli uomini la loro stessa umanità e li avvia all’accettazione della propria mortalità e libertà. Non ci si senti, quindi, di ribellarsi contro un Padre onnipotente e colpevolizzante, ma piuttosto sviluppa un atteggiamento empatico con un Dio sofferente, che ci rende capaci di aprirci all’amore e al dolore. Nel fedele che partecipa alla liturgia della Croce avviene, pertanto, una trasformazione delle proprie fantasia narcisistiche legate al suo sé grandioso e alla sua immagine parentale idealizzata che rappresenta l’onnipotente e ammirato oggetto-sé e che contribuisce a rafforzare la propria autostima. Questo processo corrisponde al nostro bisogno di essere accettati e rispecchiati e ad avere qualcuno vicino a noi che sia forte e onnipotente. Ma se la morte di Dio è un segno della rinuncia al padre edipico, è anche una rinuncia al sé grandioso. Il simbolo di un Dio impotente che ha umiliato se stesso fino alla morte in Croce ci rende capaci deliberarci dall’ansia compulsava di puntellare il debole sé con un ideale dell’io grandioso e, di conseguenza, rende capaci di solidarizzare ed empatizzare con le debolezze altrui e di accettare la finitudine umana, di trasformare, così, il narcisismo in amore oggettuale, in relazione con un A(a)ltro. Quest’altro, però, non è lì prendibile magicamente. È da cercare ed incontrare. È presente ed è assente. L’altare-sepolcro vuoto di un Risorto che vive, ma che non è più qui75 è mistero. La tomba vuota è rottura di ogni 74 Cfr P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni. Saggio su Freud, Milano 1977; cfr anche D. WULFF, Psychology of religion. Classic and contemporary, New York 19972. 75 Cfr Mc 16,6.


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desiderio narcisistico per chi voglia nutrire l’idea di avere un salvatore fatto a sua propria immagine e somiglianza. Eppure l’assenza è piena della presenza silenziosa della Parola che ci indica, nell’ascolto, le condizioni di una trasformazione spirituale della vita.

4. CONCLUSIONE Sembra che, dagli studi e ricerche presentate sia riguardo alla filosofia della mente, sia sulla neurofenomenologia, nel panorama scientifico in questo ultimo decennio sia sorto ed affermato un interesse scientifico sulle ricerche circa i fondamenti neurologici dei fenomeni che sono relati alla coscienza. Sia nel campo strettamente scientifico che in quello delle scienze umane si è fatta avanti l’idea di un modo olistico e non uni-dimensionale di studiare il rapporto mente-corpo nei suoi aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali. E questo, per estensione, anche riguardo allo studio fenomenologico dei fenomeni religiosi. In questo studio, pur nella brevità e nella sinteticità della esposizione di argomenti un po’ ostici al nostro modo di pensare e nuovi nel panorama scientifico italiano, si è messo in evidenza che spiegazioni ed interpretazioni sono i due aspetti del modo come noi facciamo esperienza di noi stessi e della relazione con gli altri. Noi non comprendiamo solamente noi stessi, ma anche cerchiamo di darcene una spiegazione con attribuzioni causali. Nel fare questo, non ci dimentichiamo di cosa sia autenticamente umano; al contrario il tatto umano presuppone l’abilità di rendere intelligibile il comportamento, il pensiero, le attribuzioni, le emozioni e i presupposti su cui noi fondiamo le nostre azioni. Una psicologia che voglia presentarsi come ermeneutica non può che coniugare, del comprendere e dell’interpretare, in maniera reciproca. Partendo dalla epistemologia derivante dagli studi di filosofia della mente, del rapporto mente-corpo, siamo approdati non solo alla riscoperta di un’antropologia unitaria della persona umana, ma anche all’importanza scientifica di ammettere più modelli psicologici, cognitivismo, psicodinamica, che possono concorrere a dare una spiegazione ed una comprensione del comportamento umano. Una coscienza ermeneutica accetta la pluralità — fenomenologica-


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mente parlando — dei punti di vista delle psicologie, giacché i due approcci, i due modelli: cognitivo e psicodinamico, illuminano aspetti parziali della vita umana. Bisogna lavorare, adesso, per affinare gli strumenti metodologici per una neurofenomenologia che voglia presentarsi come comune base dove le diverse spiegazioni ed intepretazioni scientifiche, provenienti dalla pluralità dei modelli teorici ed epistemologici, possono trovare spazio per una più umana e scientifica spiegazione ed interpretazioni delle cognizioni, emozioni e comportamenti anche riguardo al fenomeno religioso.



Synaxis XXI/2 (2003) 353-382

LE ESPRESSIONI DI PIETÀ POPOLARE DEL TRIDUO PASQUALE A RADDUSA TRA ANAMNESI E MIMESI*

MAURO CIURCA**

1. INTRODUZIONE Ciò che caratterizza l’ebraismo e poi il cristianesimo, distinguendoli dalle altre religioni, è il fatto che sono essenzialmente la fede in un evento: Dio è entrato nella storia per attuarvi un piano salvifico che per noi cristiani trova il suo culmine nella morte e risurrezione di Cristo. Atto fondamentale di tale storia è la predestinazione del Cristo come principio e termine di tutta la realtà creata1; Questa salvezza operata da Dio nella storia viene resa presente e operante per gli uomini di tutti i tempi attraverso l’azione liturgica: se l’avvenimento storico è irripetibile di per sé, ciò non può essere detto per l’evento salvifico che in esso si realizza; l’evento salvifico è aperto, deve coinvolgere tutti gli uomini. Cosicché la salvezza, operata da Dio mediante l’evento storico, sarà perpetuata nella Chiesa attraverso l’anamnesi, il memoriale dell’evento salvifico. «L’avvenimento storico nel suo contenuto di salvezza diventa un presente salvifico personale per tutte le generazioni nella festa commemorativa»2.

*

Estratto della tesi di Baccalaureato in Teologia, discussa il 24 gennaio 2003 presso lo Studio Teologico S. Paolo, relatore prof. Giuseppe Federico. ** Baccelliere in Teologia. 1 Cfr Ef 1,4-5. 2 A. BERGAMINI, Cristo festa della chiesa. Storia, teologia, spiritualità, pastorale dell’anno liturgico, Cinisello Balsamo 1991, 68.


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Se la liturgia si concretizza nell’anamnesi dell’evento salvifico, rendendolo presente nella forma dell’annunzio credente e celebrante, la pietà popolare si concretizza nella mimesi, che sulla linea della rappresentatio piega la gestualità umana in direzione dell’evento. Tra l’una e l’altra non c’è opposizione; anzi, se nel primo caso viene riconosciuta la priorità dell’azione divina, la quale fa sì che l’evento salvifico si faccia presente in tutta la sua forza trasformante, nella forma voluta da Dio ed accolta dalla Chiesa nell’annunzio della parola e nel gesto simbolico, nel secondo caso, viene posto un gesto umano da parte della comunità che attraverso le risorse rappresentative del linguaggio umano, verbale e non, manifesta l’intenzionalità verso l’evento originario, in una sorta di contemporaneità evocativa di esso. La riflessione sulla mìmesis, ossia il tentativo dell’uomo di rappresentare Dio, deve necessariamente partire dal fatto che Dio si è presentato all’uomo personalmente, prendendo forma d’uomo e accettando la totale assomiglianza all’uomo fino alla morte, eccetto il peccato. L’incarnazione è il gesto supremo della mìmesis di Dio. È Dio che imitando l’uomo ha reso possibile la sua stessa rappresentabilità.3 Secondo una costante della pietà popolare, portata più a soffermarsi sui misteri dell’umanità di Cristo, nel Triduo pasquale l’attenzione dei fedeli è posta maggiormente sulla passione e morte del Signore. Forte è il coinvolgimento del popolo nei riti della Settimana Santa, riti che provengono loro stessi dall’ambito della pietà popolare. È accaduto tuttavia che si sia prodotta una sorta di parallelismo celebrativo, per cui si hanno quasi due cicli con diversa impostazione: uno rigorosamente liturgico, l’altro caratterizzato da particolari pii esercizi, specialmente processioni4. La celebrazione pasquale in Sicilia presenta un insieme di aspetti

3

Cfr C. SCORDATO, La celebrazione del triduo tra anamnesis e mimesis, in La Settimana Santa: liturgia e pietà popolare, Atti del 4° convegno liturgico-pastorale della Facoltà Teologica di Sicilia San Giovanni Evangelista (Palermo 15-17 marzo 1995), Palermo 1995, 107. 4 Cfr CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Città del Vaticano 2002, 138.


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rituali, espressivi e simbolici non riscontrabili nelle altre festività, e, in qualche caso legate alla cultura e alla tradizione cristiana dell’isola5. Parlando di dramma rituale si vuole indicare l’insieme di rappresentazioni che superano la soglia del teatro. Scopo di tali rappresentazioni è far rivivere all’intera comunità il mistero di salvezza con un processo di identificazione che non riguarda solo i personaggi, ma soprattutto i tempi e i luoghi. Non si tratta di un’esperienza di tipo cognitiva ed emotiva fondata sulla distanza e sulla visione, ma di un’esperienza rituale di coinvolgimento che interessa l’individuo e la collettività. È il passato che si fa presente, non come ripetizione, ma come consapevolezza che ogni epoca, ogni luogo, ogni uomo, sono chiamati ad attuare il mistero di salvezza, a mimare il messaggio evangelico. Ogni città diventa una piccola Gerusalemme, la rappresentazione diventa ri-presentazione che induce i partecipanti non solo a commuoversi, ma a convertirsi6. Componente essenziale della drammatizzazione è l’elemento poetico musicale che quasi sempre l’accompagna. Per cui conoscere le parole dei canti e delle preghiere che caratterizzano il Triduo pasquale, ma anche il tempo quaresimale che lo prepara, significa avere la possibilità di comprendere come la nostra gente è diventata protagonista di una rappresentazione drammatica che si tramanda in maniera orale da secoli. In questi testi è centrale la figura della Vergine Addolorata; essi esprimono più il dolore di Maria di quanto non facciano di quello di Gesù. Il ruolo della Madre è molto utile da un punto di vista funzionale, perché permette di percorrere una via d’accesso sicura al mistero della passione. Maria, madre e discepola, rappresenta quanti si sentono imparentati con Cristo, con il suo destino di sofferenza. In Maria è l’umanità che cerca una risposta alla domanda sulla vita, sul dolore e sulla morte7. Nel mio studio presenterò anzitutto le manifestazioni della pietà popolare nella celebrazione del Triduo pasquale a Raddusa8, un piccolo

5

Cfr R. LA DELFA, La celebrazione della Settimana Santa in Sicilia: per una interpretazione teologica, in La Settimana Santa, cit., 141-142. 6 Cfr ibid., 145. 7 Cfr ibid., 164. 8 Le prime notizie intorno al feudo Raddusa risalgono al 1300. Con dispaccio reale del 12 aprile 1809 il Marchese Francesco Paternò aveva ottenuto dal re di Sicilia Ferdinando


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centro della diocesi di Caltagirone, quindi passerò in rassegna i testi tutt’oggi recitati durante la Quaresima e durante il Triduo pasquale. Per la comprensione dei testi, si tenga presente che la comunità raddusana si formò da coloni provenienti dai paesi circostanti: si tratta quindi di composizioni importate dai loro paesi di origine. Un altro elemento di rilievo è costituito dal fatto che queste composizioni, trasmesse oralmente, sono state trascritte in quaderni dai cantori o dalle donne anziane che usano recitarle e, data la loro minima scolarizzazione, presentano delle storpiature rilevanti che rendono, a volte, incomprensibile il senso di alcuni versi.

2. ESPRESSIONI DI PIETÀ PASQUALE A RADDUSA

POPOLARE NELLA CELEBRAZIONE DEL

TRIDUO

Il sentimento religioso dei raddusani si estrinseca attraverso numerose feste che si svolgono in maniera solenne, coinvolgendo tutta la popolazione. Di esse quella che più di ogni altra mantiene la sua continuità celebrativa con il passato, seppur con qualche variante dovuta alla riforma liturgica di Pio XII e del Vaticano II, è indubbiamente la celebrazione del Triduo pasquale.

III la facoltà di popolare di coloni i feudi di Raddusa e Destra. Come si può dedurre da un documento scritto dal canonico Luciano Palermo, il primo nucleo abitativo risiedeva nel Fondaco delle canne, una contrada a sud del paese, che sarà abbandonato nel 1810 in quanto i contadini si trasferirono nel nuovo abitato di Raddusa. Al fine di poter agevolare la colonizzazione il marchese concesse, in enfiteusi alcuni appezzamenti di terreno a coloro che decidevano di trasferirsi nei suoi feudi; i nuovi coloni giunsero nella terra di Raddusa provenienti dai paesi circostanti che si mescolarono con quei pochi indigeni del feudo, formando una popolazione raccogliticcia. L’immigrazione fu continua e il paese si ingrossò rapidamente accogliendo ogni sorta di gente. Ognuno di loro portò con sé le tradizioni, i dialetti e le usanze dei luoghi di origine; si formò così un’amalgama di costumi e di lingua che si cementò negli anni. La nuova comunità fu aggregata amministrativamente a Ramacca. Con decreto reale datato 22 ottobre 1859, Raddusa, dopo cinquant’anni dalla sua fondazione, veniva elevata a comune autonomo. Cfr R. ALLEGRA, Breve storia di Raddusa, Misterbianco 1986; ID., Raddusa com’era…, Misterbianco 1996.


Le espressioni di pietà popolare del Triduo pasquale a Raddusa

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Il Giovedì Santo, all’interno della messa in Cœna Domini, dopo l’omelia ha luogo la lavanda dei piedi. Dodici uomini rappresentanti gli apostoli seggono intorno alla mensa. Sono riconoscibili dal loro costume: un camice bianco con una stola diaconale viola, tre di loro sono ben riconoscibili: Pietro, per il mazzo di chiavi che porta appese al cingolo, Giovanni, per il libro che porta con sé e Giuda, che non porta la stola. Alla fine della celebrazione il sacerdote dona ad ogni apostolo una forma di pane, simile al pane utilizzato in occasione della festa del patrono san Giuseppe, rotondo con il buco, la cuddura, e un’arancia. Molto probabilmente questa consegna è ciò che rimane di una probabile drammatizzazione dell’ultima cena9. Alla celebrazione segue l’adorazione del Santissimo Sacramento. Una tradizione, legata agli orari celebrativi pre-riforma, voleva che in questo giorno la statua del Cristo morto venisse esposta all’adorazione dei fedeli, i quali per tutta la notte si avvicendavano nella veglia funebre. Nel 1973, il parroco don Alfredo Barbuscia, riuscì, non senza malumori e critiche, a trasferire questa usanza al Venerdì Santo, cercando di ristabilire la cronologia degli eventi10. I riti popolari del Venerdì Santo vedono la partecipazione di una gran folla di fedeli. Da quando con la riforma di Pio XII il ricordo della passione del Signore è collocato nel suo orario naturale, nel primo pomeriggio, a Raddusa ci si riunisce nella chiesa parrocchiale per la celebrazione liturgica. Il parroco entra in chiesa preceduto dagli apostoli compreso Giuda. All’altare mentre il sacerdote si prostra, i Dodici si inginocchiano. Nel rito dell’adorazione della croce saranno i primi a baciare il sacro legno. Terminata la celebrazione liturgica, all’imbrunire, due uomini, che si tramandano questo compito da padre in figlio, prendono sulle braccia la statua del Cristo con arti snodabili per la processione a cui partecipano il sacerdote, gli apostoli, e una grande folla. Appena la gente si muove, si alzano i lamenti della Passione cantati da un gruppo di anziani, i ladanti, di cui due fungono da solisti. Il lamento funebre è un canto polifonico, caratterizzato dal prolungamento di certe note, in particolare nelle finali. Ai testi 9 Cfr R. LA DELFA, La celebrazione della Settimana Santa in Sicilia, cit., 153. Secondo quando ho avuto modo di raccogliere dalla testimonianza di don Alfredo Barbuscia, parroco di Raddusa dal 1968 al 1976, all’inizio del suo ministero a Raddusa gli venne chiesto di poter rappresentare in chiesa l’ultima cena ma egli non diede il permesso. 10 Cfr R. ALLEGRA, Raddusa, cit., 55.


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dei lamenti dedicherò un capitolo apposito. Il corteo si avvia per raggiungere il Calvario, un’altura a nord del paese dove è posta una croce a cui verrà legato il simulacro del Cristo. La parte culminante del monticciolo viene scalato soltanto dal sacerdote, dagli apostoli Pietro e Giovanni e dai due portatori del simulacro. I fedeli restano ai piedi del monte, cosi come gli altri apostoli che, si dispongono su due file, pronti a scattare per dare la caccia a Giuda, fuggito dalla vista dei condiscepoli all’annunzio della morte del Salvatore. È Giovanni a dare il segnale agli altri apostoli di andare alla ricerca alzando il libro del Vangelo aperto e richiudendolo. Gli undici si allontanano cercando il traditore nella zona intorno al Calvario. Dopo un po’ di tempo il parroco, i portatori e i figuranti degli apostoli in corteo tornano in chiesa. La caccia a Giuda sarà ripresa e si concluderà il giorno di Pasqua. Nel frattempo i fedeli si accostano alla croce per baciare e onorare il Crocifisso. Ai piedi del quale, nel passato, restavano le Marie, tre donne vestite di nero, col capo completamente coperto in maniera tale da risultare irriconoscibili. Una seconda processione di indole penitenziale, si snoda dalla chiesa: il parroco, gli apostoli, i ladanti e alcuni fedeli si recano nuovamente al Calvario. È uno dei viaggi a cruci, che sino a qualche anno fa i fedeli facevano durante la notte del Venerdì Santo al luogo della crocifissione. Al ritorno del parroco in chiesa si snoda una terza processione per portare al Calvario la statua dell’Addolorata e l’urna, dove verrà deposto il Cristo. Si compie quindi il rito della deposizione, e inizia la grande processione lungo le vie del paese. Si concluderà in tarda serata in chiesa dove con la veglia funebre che un tempo si prolungava per tutta la notte. Il Sabato Santo non è caratterizzato da riti particolari. Momento culminate delle celebrazioni pasquali è a giunta del giorno di Pasqua, ovvero l’incontro fra il Cristo risorto e la Madre. Nel primo pomeriggio della domenica i due simulacri del Risorto e dell’Addolorata vengono portati processionalmente rispettivamente in via Regina Margherita e in via Mazzini, due vie che si congiungono in Piazza Umberto, piazza principale del Paese. Qui avverrà l’incontro dei due simulacri. In questo giorno un ruolo preminente hanno gli apostoli i quali a due a due fanno la spola tra i simulacri portando a Maria l’annunzio della risurrezione. Il loro procedere dapprima lento, diventa sempre più veloce quando, ormai


Le espressioni di pietà popolare del Triduo pasquale a Raddusa

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sicuri della risurrezione del Cristo, cercano di far ricongiungere la Madre al Figlio. Giuda intanto fugge nascondendosi in mezzo alla folla, ma «gli apostoli afferratolo per i capelli gli chiedono: “Giuda, dov’è il Signore?” e quello nel disperato tentativo di attribuire ad altri la responsabilità del suo tradimento, risponde: “Pietro lo sa”. E Pietro […] a sua volta interrogato, incalza: “Giuda, lo sa”. La scena si ripete per tre volte, alla fine il traditore Giuda viene catturato»11.

Frattanto le due statue procedono dalle due vie; giunti in piazza avviene l’incontro gioioso tra il Cristo e la Madre, che perde il manto nero per la gioia. Segue la processione e durante il tragitto, Giuda, precedentemente catturato, viene esposto su un balcone mentre Pietro e Giovanni con un’ascia lo colpiscono con quasi a volerlo scannare. La figura di Giuda, che tematicamente può essere assimilata alle figure dei diavoli di Prizzi e dei giudei di San Fratello, è l’emblema del tradimento12. La presenza di figure demoniache (i diavoli, la morte, i giudei e la figura di Giuda), si ha in alcuni centri della Sicilia durante la Settimana Santa; predominante, però, è la loro presenza il giorno di Pasqua. Essi raffigurano le forze occulte del male e della morte. «Il tema cosmologico della lotta tra il bene e il male espresso dai riti popolari della Settimana Santa, dal punto di vista teologico e biblico, dobbiamo leggerlo a partire dal mistero della discesa del Cristo agli inferi»13;

il Cristo scendendo agli inferi libera l’umanità dalla schiavitù della morte e del peccato causata dal maligno ormai sconfitto definitivamente mediante la Risurrezione di Cristo. A Raddusa tale vittoria viene rappresentata con la condanna a morte e l’esecuzione di Giuda e dal ballo che i simulacri del Cristo e della Vergine Maria fanno davanti a questi giustiziato. Si può pensare anche al fatto che Giuda, 11

R. ALLEGRA, Raddusa, cit., 51. Cfr A. PLUMARI, Le espressioni di religiosità popolare della Settimana Santa in Sicilia, tesi di dottorato in sacra liturgia n 230, Pontificio Istituto Liturgico, Roma 1996, 201. 13 Ibid., 243. 12


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Mauro Ciurca «nella festa raddusana, viene respinto dalla popolazione perché viene avvertito come un “miasma”, che sconvolge con la sua presenza non solo il corso normale della gioia della festa pasquale di risurrezione, ma anche il corso normale della vita: egli è il criminale, e la macchia della città»14.

Alla celebrazione della Settimana Santa ci si prepara in tutta la quaresima con la pia pratica comune un po’ ovunque della Via Crucis e con la recita di alcune orazioni popolari ispirate alla spiritualità brigidina.

3. LE PAROLE DELLA PIETÀ POPOLARE Nella Quaresima e nel Triduo pasquale del popolo raddusano emerge il suo bisogno di contemplare la passione di Cristo. Tale contemplazione non avviene tramite la Sacra Scrittura ma mediante testi devozionali, alcuni dei quali legati a rivelazioni private. Sono testi che esaltano il dolore di Cristo e della Madre rendendo il fedele partecipe di questo dolore. Potremmo dire che si tratti di una contemplazione cinematografica, una contemplazione che si sofferma ad esaminare minuziosamente i vari momenti della passione. È la contemplazione del volto di Cristo così come appare nell’ora della croce. «Mistero nel mistero, davanti al quale l’essere umano non può che prostrarsi in adorazione»15. È dalla contemplazione delle sofferenze patite da Cristo che deve nascere la contrizione per i peccati commessi e il proposito di non più peccare.

14 V. MALFA, Le tradizioni popolari di Raddusa. Note folcroristiche su Aidone e Valguarnera, Enna 1995, 36. 15 GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Novo Millennio Ineunte, 25.


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3.1. I testi della Quaresima 3.1.1. Orazione a santa Brigida Pricida santa ’ncinucchiuni stava, davanti a un crucifissu ca chianciva. Di ’na manu na torcia addumata, di l’autra manu nu libbru ca liggiva. La morti e passioni cunsidirava, la curuna di spini si mittiva: «salvami Cristu li me’ orazioni, rivelami la morti e passioni». Lu Crucifissu ci rispunniu un’ura cu santa Pricida parrau ci cunta i fracelli ca patiu la morti e passioni ci rivilau. Pricita cascau ’nterra scunuscenti, di lacrimi u pettu si lavau. «Pricita ti perdugnu ca tu mi hai offisu sempri haiu statu di l’omini ‘nnamuratu16, cu si ni penti di li so piccati, iu li pirdunu già chi mi hanno offisu». Centu pugni l’ebrei m’hannu datu E finu all’ortu fui ligatu e offisu. Centu surdati purtavunu a mia, novi voti cascaiu pi la via pirchì era assai pisanti la cruci. ’Na sula cosa a mia mi dispiaci: ca va chiancennu la mè matri duci. I dutturi nun ponu studiari u chiantu e u lamentu di Maria. ’Ni Anna e Caifassu mi purtanu, pi tutta la città mi cunnucinu di tuttu oru ogghiu mi cuprinu

Brigida santa in ginocchio stava, davanti a un crocifisso che piangeva. In una mano una torcia accesa, nell’altra mano un libro che leggeva. La morte e la passione meditava, la corona di spine si metteva: «ascolta o Cristo le mie preghiere, rivelami la morte e la passione». Il Crocifisso le rispose un’ora con santa Brigida parlò; le racconta le sofferenze che ha patito la morte e la passione le ha rivelato. Brigida cadde a terra senza sensi, di lacrime il petto si lavò. «Brigida ti perdono perché tu mi hai offeso sempre sono stato degli uomini innamorato, chi si pente dei suoi peccati, io perdono chi mi ha offeso». Cento pugni gli ebrei mi hanno dato E sino all’orto fui legato e offeso. Cento soldati mi portavano, nove volte sono caduto per la via perché era troppo pesante la croce. Una sola cosa mi dispiace: che va piangendo la mia dolce Madre. I dottori non possono comprendere il pianto e il lamento di Maria. Da Anna e Caifa mi portarono per tutta la città mi trascinarono di tutto oro olio mi coprirono

16 Nelle trascrizioni ho trovato la seguente frase: «Pricita ti perdugnu ca tu mi hai offisu, / sempri ha statu di l’omini innamurata». La costante fedeltà di santa Brigida al suo sposo Ulf non permette però di ritenere corretta questa espressione. Potrebbe essere frutto di una corruzione avvenuta durante la trasmissione orale dell’Orazione.


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strittu di ’na colonna mi taccanu, i capiddi mi scinninu. E da nuttata ca mi fracillanu tri ossa di li spaddi mi niscenu. A dditta nun putiva stari dda matina ch’eru niuru comu u carbuni. E pi parrari me matri mischina eppi seicentuvinti tumbuluni. Di Pilatu mi purtanu a srascicuni cu nu mantellu di sgarrattu finu. Pilatu s’affacciò di lu barconi poi dissi all’ebrei: «ancora vi n’viti a sazziari?» risspunni la trubba cu lu libbru e dici: «di novu a rrinnuvari li martiri pirchì fracelli chiù nun ha campari». Chista orazioni l’aviti a diri quaranta jorni Mai l’ata lassari, di mala morti nun possa mururi, Pricita ci l’avissa rivilari, a mia e a cu l’ha ’ntisu la gloria di lu santu paradisu. Lu ciecu ci scassau u santu latu, cala la testa e subitu finiu. Dicemu un credu e cincu piaghi di Gesù Cristu.

stretto in una colonna mi legarono, i capelli mi scendevano. E quella notte che mi flagellarono tre ossa dalle spalle mi uscirono. In piedi non potevo stare quella mattina che ero nero come il carbone. E per parlare mia madre poverina ebbe seicentoventi schiaffi. Da Pilato mi portarono trascinandomi con un mantello di scarlatto fine. Pilato si affacciò dal balcone poi disse agli ebrei: «ancora non siete appagati?» Risponde la turba col libro e dice: «di nuovo deve rinnovare le sofferenze perché flagelli più non deve vivere». Questa orazione la dovete dire per quaranta giorni, mai la dovete tralasciare, di morte improvvisa non possa morire, Brigida glielo deve rivelare, a me e a che l’ha ascoltata la gloria del santo Paradiso. Il cieco gli trapassa il santo fianco, abbassa la testa e subito spirò. Diciamo un credo alle cinque piaghe di Gesù Cristo.

Questa Orazione, detta di santa Brigida, si rifà alle visioni e rivelazioni che caratterizzarono la vita di santa Brigida di Svevia17; visioni 17

Brigida di Svezia, nacque nel 1302 o 1303 nel castello di Finstad a Uppsala nell’Upland (Svezia) da una nobile famiglia, legata alla casa regnante di Svezia. Nel 1316 sposò Ulf Gudmarsson. Dal matrimonio nacquero otto figli, fra i quali santa Caterina di Svezia. In un primo tempo la sua vita fu divisa tra l’amministrazione dei beni familiari, gli incarichi di corte e i suoi doveri di madre e sposa. Nel 1344, rimasta vedova, lasciò il castello di Ulvasa e prese dimora vicino al monastero di Alvastra, dedicandosi totalmente alla vita ascetica e contemplativa. Fu qui che ricevette la prima di una lunga serie di rivelazioni; in essa Cristo la chiamò a essere sua sposa e a fungere da canale rivelatorio per venire in soccorso a tutti i cristiani. In questi anni Brigida concepì l’idea di fondare un ordine religioso


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e rivelazioni ricevute de Brigida in stato di veglia o di estasi. Spesso aveva visioni corporali e audizioni sensibili. Altre volte udiva voci, senza scorgere chi parlava, ma riconosceva i suoi interlocutori. Talora aveva solo illuminazioni intellettuali, riconoscendo anche allora, ciò che le veniva comunicato per rivelazione. Queste rivelazioni bisogna leggerle e comprenderle alla luce della vita di Brigida; «vita interamente rivolta a Dio, trascorsa nello studio della bibbia, in preghiera e meditazione, in ascesi e penitenze, in un rapporto con Dio costituito da tale semplicità da sentirsi in compagnia, quasi ininterrotta e ispirata, con Cristo e la Vergine Maria»18.

Il fascino per Cristo suscita in Brigida un rapporto tale di convivenza con il suo Sposo celeste che stupisce per l’eccezionalità con cui avviene. Per Brigida l’amore per Gesù non è rivolto ad una persona trascendente, ascesa al cielo, nella gloria eterna del Padre presso il quale intercede per noi; non era una persona da amare unicamente nella contemplazione della mente. «Per lei Gesù era il suo Dio e Signore fattosi uomo, fattosi visibile e sensibile per farsi sentire sempre presente vicino a noi ed accogliere più efficacemente da noi il ricambio del suo amore»19.

Le narrazioni contenute nelle rivelazioni sono costituite da un linguaggio colorito e plastico; sembra che da principio e per lungo tempo ella abbia soltanto udito, successivamente alle voci si uniscono le visioni. misto, per uomini e per donne insieme, dedicato al santo Salvatore. Nel 1350 andò a Roma nella speranza di ottenere l’approvazione papale per il suo progetto monastico e vi rimase sino alla morte, avvenuta il 23 luglio 1373, allontanandosene solo per visitare vari santuari italiani e per fare nel 1372 un pellegrinaggio in Terra Santa. Per maggiori notizie biografiche si possono consultare: I. CECCHETTI, Brigida di Svezia, in Bibliotheca Sanctorum, III, Roma 1990, 439-533; K. E. BORRESEN, Brigida di Svevia, in il Grande libro dei santi, I, Cinisello Balsamo 1998, 344-348; G. JOERGENSEN, Santa Brigida di Svevia, Brescia 1991. 18 Ciò che disse Cristo a santa Brigida. Le Rivelazioni, antologia, traduzione a cura di Roberto Cuomo, Cinisello Balsamo 2002, 19. 19 L. LOZZA, Santa Brigida di Svevia. Maestra di spiritualità, profeta per il terzo millennio, Milano 1991, 25.


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Brigida viene come trasportata in un mondo superiore, nel quale i vari personaggi che incontra parlano e agiscono in modo ben chiaro e determinato. Che cosa vede Brigida? I suoi interlocutori non si mostrano a lei nella loro realtà spirituale ma in corpo umano, perché il suo essere ancora in carne non le permette di vedere coloro che ormai sono spirito: «Tu senti, corporalmente, il mio Spirito nel tuo petto vivente. La visione che tu vedi, non appare così com’è. Se vedessi infatti la spirituale bellezza degli angeli e delle anime sante, il tuo corpo non ne sarebbe capace, ma si spezzerebbe come un vaso rotto e sporco, per il gaudio dell’anima a tale visione. Se poi vedessi i demoni come sono, vivresti con somma pena o moriresti immediatamente alla loro terribile vista. Perciò tu vedi le cose spirituali, come se fossero corporali. Vedi gli angeli e le anime come se fossero uomini, che hanno la vita e l’anima, mentre gli angeli vivono col loro spirito. E i demoni ti sembrano forme destinate alla morte e mortali come forme d’animali e di altre creature. Questi però hanno uno spirito mortale, cosicché, morendo la carne, muore anche lo spirito. Ma i demoni non muoiono nello spirito; muoiono senza fine e senza fine vivono. Le parole spirituali ti sono dette in similitudini, altrimenti non potrebbe capirle il tuo spirito»20.

L’Orazione che stiamo considerando canta di Brigida che, inginocchiata davanti al Crocifisso, contemplava la passione di Cristo. La santa sulla testa portava una corona di spine, in mano teneva un libro sul quale leggeva, e nell’altra una candela accesa. Quello che Brigida legge a lume di candela è una meditazione sulla passione di Cristo. Brigida si intrattiene con Cristo così come si intratteneva con gli apostoli, quale persona viva attualmente presente, a cui ella si rivolge in modo semplice e autentico. Ella vede Gesù come un amico, un vero sposo mistico della sua anima, con il quale familiarizza come familiarizzava con il suo sposo terreno Ulf. È il Cristo stesso che, come tra amici, alla richiesta di Brigida «Ci cunta i fracelli ca patiu; La morti e passioni ci rivilau», narrando i momenti cruciali della via crucis così da rendere Brigida compartecipe della sua sofferenza: «cascau ’nterra scunuscenti, di lacrimi u pettu si lavau». Il colloquio di Brigida con il Crocifisso è entrato come caratterizzante l’iconografia 20

Riv. II-19, 91.


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brigidina. Su di essa certamente ha influito la tradizione secondo cui la santa si sarebbe intrattenuta a colloquio con una statua del crocefisso custodito presso la basilica di san Paolo fuori le mura a Roma21. Un esempio legato al nostro territorio è la pietra affrescata conservata a Caltagirone presso il santuario del Crocifisso del Soccorso. Centrale nell’Orazione che stiamo considerando è l’amore di Cristo per gli uomini: «Pricita ti perdugnu ca tu mi hai offisu / sempri haiu statu di l’omini ‘nnamuratu / cu si ni penti di li so piccati, / iu li pirdunu già chi mi hanno offisu»,

così nelle rivelazioni questa frase suona in bocca a Cristo: «sebbene così disprezzato, io sono tuttavia così misericordioso, che perdono, a quelli che si umiliano, tutto quello che hanno fatto e li libererò dall’antico ladrone»22.

La spiritualità brigidina riveste un aspetto affettivo, semplice, umano. Gesù ha amato gli uomini per ricevere da loro un ricambio di amore con altrettanta semplicità e generosità. Le miserie, i peccati, le debolezze di molti diventano occasione per Cristo di amarli maggiormente e di attirarli al suo cuore. La stessa Brigida è oggetto di questo amore misericordioso, ed è per questo che lei amata riesce ad amare Gesù come una persona a lei cara, come un amico vero. Nelle Rivelazioni della passione di Gesù si hanno soltanto due narrazioni23; la prima riporta il racconto della Vergine Maria a Brigida, la seconda deriva da una visione avuta dalla santa stessa sul Calvario durante il pellegrinaggio in Terra Santa24.

21

Cfr S. RENZI, Breve profilo biografico di S. Brigida di Svezia, Milano 1991, 49. Riv. I-1, 30. 23 Cfr L. LOZZA, Santa Brigida di Svezia, cit., 22. 24 Cfr Riv. VII-15, 177-180. 22


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Negli ultimi versi dell’Orazione vengono elencati i benefici che si possono ottenere dalla sua recita. In particolare la rivelazione del giorno della propria morte: «Chista orazioni l’aviti a diri quaranta jorni, mai l’ata lassari, di mala morti nun possa mururi, Pricita ci l’avissa rivilari, a mia e a cu l’ha ’ntisu, la gloria di lu santu paradisu»25.

3.1.2. Preghiera alla Quarantana Un secondo testo legato alle rivelazioni di santa Brigida è la cosiddetta preghiera alla Quarantana; in essa viene considerato il dolore di Maria, dolore non limitato al solo momento della morte di Cristo ma a tutta la vita del Figlio. Allu primu duluri figghiu fusti quannu ti nutriu e parturiu quannu allu santu tempiu ti prisintaiu accussi cumanna la so santa liggi Si truvau nu vicchiareddu, san Simiuni: «chi duci figghiu chi criau Maria, sarà lu chiovu di la so passioni».

Al primo dolore figlio fosti quando ti ho nutrito e partorito quando al santo tempi ti presentai come comanda la sua santa legge. Li si trovava un vecchio, san Simeone: «che dolce figlio che ha Maria, sarà il chiodo della sua passione».

Rit. O figghiu pi lu vostru duci amuri iu ’ntisi stu rannissimu duluri ’n terra cascaiu tutta scunuscenti chiù di la Matri afflitta e dulurenti. Ora dicemu pi l’amuri vostru ’n’Avi Maria e un Patri Nostru.

Rit. O Figlio per il vostro dolce amore io sentii questo grandissimo dolore a terra sono caduta priva di sensi più della Madre afflitta e addolorata. Ora diciamo per il vostro amore un’Ave Maria e un Padre Nostro.

25 Vittorio Malfa nel suo volume Le tradizioni popolari di Raddusa così scrive: «la Santa godeva in certe zone della Sicilia di un culto particolare e aveva molti devoti, i quali impegnandosi quotidianamente, soprattutto nel periodo quaresimale, nella recita di preghiere in onore della Santa, avevano assicurata la possibilità di sentirsi preannunciare in sogno o mediante una visione il giorno della propria morte. La tradizione di Sicilia della Santa svedese è simile a quella del banshee, spirito di donna che preannunzia la morte, dell’Irlanda e delle Highlands scozzesi. Il fedele […] aveva così il tempo di prepararsi devotamente e piamente ad una santa morte»: V. MALFA, Le tradizioni, cit., 19.


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Allu sucunnu duluri figghiu fusti quannu ‘n Egittu n’amu iutu. U Patri spirituali n’ha ’ncontratu «Maria fuitinni ’n Egittu, Erodi s’ha nisciutu pi li strati e tutti i picciriddi vannu mazzannu u nostru ridinturi Gesù vonu pigghiari». Rit. Allu terzu duluri figghiu fusti quannu pi tri notti e tri iorna ti curvava O chi ci fussi ’n omu o na donna chi mi dava nutizia di tia. Isaiu l’occhi e ti visti sittatu ammenzu li dutturi chi studiavutu t’aiu chiamatu cu na ranni sapienza m’ha rispunnutu cu ranni ubbidienza. Rit. Allu quartu duluri figghiu fusti quannu ’nda muntatedda ca chianasti scausu e nudu e mortu di fami o figghiu nun ti putiva dari aiutu. Rit.

Al secondo dolore figlio fosti quando in Egitto siamo andati. Il Padre spirituale ci ha incontrato26 «Maria fuggi in Egitto, Erode è uscito per le strade e tutti i bambini vanno uccidendo il nostro Redentore Gesù vogliono prendere». Rit. Al terzo dolore figlio fosti quando per tre notti e tre giorni ti cercavo O che ci fosse un uomo o donna che mi sapesse dare tue notizie. Alzai gli occhi e ti vidi seduto Tra i dottori che studiavi Ti ho chiamato con gran sapienza E mi hai risposto con grande obbedienza. Rit. Al quarto dolore figlio fosti quando salisti sulla montagna scalzo, nudo e morto di fame. O figlio non ti potevo dare aiuto! Rit.

Allu quintu duluri figghiu fusti quannu na santa cruci t’hannu purtatu di manu e di pedi t’hannu taccatu. O figghiu nun ti putiva dari aiutu. Rit.

Al quinto dolore figlio fosti quando sulla santa croce ti hanno messo le mani e i piedi ti hanno legato. O figlio non ti potevo dare aiuto! Rit.

Allu sestu duluri figghiu fusti quannu alla santa cruci t’hannu misu di manu e di pedi t’hannu ’nchiuvatu. A lancia no pettu t’hannu tiratu, sancu e acqua ti corriva l’angilu Grabrieli lu ricucchiva cruci di Santu Domini faciva. Rit.

Al sesto dolore figlio fosti quando ti hanno messo sulla santa croce le mani e i piedi ti hanno inchiodato. La lancia nel petto ti hanno tirato, sangue e acqua ti scorreva l’angelo Gabriele lo raccoglieva, faceva la croce del Santo Signore27. Rit.

Allu settimu duluri figghiu fusti

Al settimo dolore figlio fosti

26 Secondo una trascrittrice Padre spirituale è da riferire a Dio Padre, ma il fatto che si parli di Gesù come u nostru ridinturi mi fa pensare che l’espressione sia riferita a Giuseppe, padre putativo di Gesù. 27 L’Angelo fa il segno di croce sul calice col quale aveva raccolto il sangue di Cristo, così come fa il sacerdote al momento della consacrazione.


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quannu ’nda cruci t’hannu scinnutu allu santu munumentu t’hannu purtatu scumpagnatu d’amici e di parenti. Maria va gridannu a auta vuci ca so figghiu è mortu supra a cruci. Rit.

quando dalla croce ti hanno sceso al santo sepolcro ti hanno portato senza la compagnia di amici e parenti. Maria gridava ad alta voce che suo figlio è morto sopra la croce. Rit.

«O Matri chi m’atu dittu e chi m’atu cuntatu? Sti setti duluri iu nun li sapiva. Chi ci fussi un’omu o na donna ca pi quaranta iorna li dicessi o puramenti li facissi diri ci fussi la salvezza di l’anima so».

«O Madre che mi avete detto e che mi avete raccontato? Questi sette dolori non li conoscevo. Se c’è un uomo o una donna che per quaranta giorni li recita o semplicemente li fa recitare ci sarà la salvezza della sua anima».

Rit. Lassatu dittu di la ucca mia pi lu vostru duci amuri matri mia ora si dici pi l’amuri vostru ’n’Avi Maria e un Patri nostru

Rit. Lo lascio detto dalla bocca mia per il vostro dolce amore Madre mia ora si dice per l’amore vostro un’Ave Maria e un Padre Nostro

«Allu sicunnu duluri, figghiu, tu chi ci dassitu?» «Netti e puri di piccati li facissi». Rit.

«Al secondo dolore, figlio, cosa gli daresti?» «Puliti e puri di peccati li renderei». Rit.

«Allu terzu duluri, figghiu, tu chi ci dassitu?» «La paci e la concordia di la casa so». Rit. «Allu quartu duluri, figghiu, tu chi ci dassitu?» «Da li peni do purgatoriu li liberassi». Rit. «Allu quintu duluri figghiu, tu chi ci dassitu?» «Da li peni di lu ’nfernu li libirassi». Rit. «Allu sestu duluri figghiu tu chi ci dassitu?» «La gloria di lu santu Paradisu». Rit.

«Al terzo dolore, figlio, cosa gli daresti?» «La pace e la concordia nella loro casa». Rit. «Al quarto dolore, figlio, cosa gli daresti?» «Dalle pene del purgatorio li libererei». Rit. «Al quinto dolore, figlio, cosa gli daresti?» «Dalle pene dell’inferno Li libere-rei». Rit. «Al sesto dolore, figlio, cosa gli daresti?» «La gloria del santo Paradiso». Rit.

«Allu settimu duluri figghiu tu chi ci dassitu?» «La seggia allato o Patri Onniputenti». Rit.

«Al settimo dolore, figlio, cosa gli daresti?» «Il trono accanto al Padre Onnipotente». Rit.


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L’orazione può essere suddivisa in due parti: nella prima la Vergine Maria narra i dolori provocatele da Gesù durante la sua vita, nella seconda troviamo un colloquio tra Maria e Cristo, nel quale ad ogni dolore della Vergine il figlio lega una promessa. Il mistero della partecipazione della Vergine Madre al dolore patito dal Figlio nella passione e morte, è probabilmente l’evento evangelico che ha trovato una più intensa e vasta risonanza nella pietà popolare. Il dolore della Vergine, pur trovando nel mistero della croce il suo significato primo ed ultimo, è stato colto dalla pietà mariana anche in altri eventi della vita del Figlio a cui la Madre ha partecipato in prima persona. La meditazione cristiana ha colto e codificato sette eventi dolorosi, sette episodi biblici in cui la partecipazione della Madre è esplicitamente attestata o intuita dalla tradizione28. 28 Della devozione ai sette dolori di Maria verso la fine del sec. XIV, abbiamo due testimonianze: quella dell’Officium de compassione e quella dello Speculum humanæ salvationis. Nell’Officium de compassione si trovano sette formule in memoria dei sette dolori sofferti da Maria durante la passione del Figlio, e anche una serie d’invocazioni ai sette dolori (profezia di Simeone, strage degli innocenti, smarrimento al tempio, arresto del Figlio, crocifissione, deposizione e sepoltura) ciascuno dei quali è paragonato ad una spada. Lo Speculum humanæ salvationis, scritto nel 1324, diffusissimo nel medioevo, nei suoi ultimi capitoli (48-45), contiene tre opuscoli paralleli nei quali si tratta, successivamente, delle sette stazioni od ore della passione di Cristo, delle sette tristezze della Madonna (profezia di Simeone, fuga in Egitto, smarrimento nel tempio, arresto di Cristo, crocifissione, deposizione e sopravvivenza). Queste stesse tristezze dello Speculum si trovano nel manoscritto 516 raccolta dovuta a Filippo de Mazière († 1403). Nonostante che nel sec. XIV la devozione ai sette dolori si trovi già affermata, continua anche la devozione ai cinque dolori. Verso la fine del XV secolo il fiammingo Giovanni di Coudenberghe faceva dipingere i sette dolori (profezia di Simeone, fuga in Egitto, smarrimento nel tempio, viaggio al Calvario, crocifissione, deposizione e sepoltura) e da allora rimasero definitivamente fissati. Nel 1598, i Servi di Maria erigevano a Bologna una Confraternita dei sette dolori. Clemente VIII ne approvava gli statuti nel 1604. Paolo V il 14 febbraio 1607, concedeva al Generale dell’ordine la facoltà esclusiva di erigere dovunque la Confraternita dei Sette Dolori Agli inizi del secolo XVII risale, molto probabilmente, la corona dell’Addolorata o dei Sette Dolori, costituita da un Pater e da sette Ave Maria per ciascun dolore, il 19 maggio 1646 il Capitolo Generale Servitano ne stabiliva la forma definitiva, confermata poi nel Capitolo del l652. Verso la fine del XVII secolo incominciava a praticarsi, particolarmente dai Servi di Maria della Spagna, il pio esercizio della Via Matris dolorosæ o più semplicemente Via Matris ad imitazione della Via Crucis, da cui dipende. Verso la fine del XVII secolo sorgeva la pia pratica dei Sette venerdì dell’Addolorata in preparazione alle due feste liturgiche dei Sette dolori. Verso la metà del XVIII secolo veniva già praticato ed indulgenziato il pio esercizio dell’Ora della


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Si ricorda così al primo dolore la salita al tempio di Giuseppe e Maria per presentarvi il bambino Gesù quaranta giorni dopo la nascita29, «Accussi cumanna la so santa liggi», e la relativa profezia di Simeone: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima»30,

spada che nella tradizione sarà assunta quale segno plastico dei dolori sofferti da Maria e quindi raffigurata in numero di sette infisse nel cuore della Vergine. Nel secondo dolore si ricorda la fuga in Egitto31 conseguenza della decisione del re Erode di uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù. Nel terzo dolore si considera lo smarrimento di Gesù in Gerusalemme e la trepida, dolorosa ricerca di Maria e di Giuseppe che si concluderà con il ritrovamento del Figlio nel tempio. Nel quarto dolore si ricordano i quaranta giorni passati da Gesù nel deserto. La pietà popolare ha voluto associare la Madre alle sofferenze di Cristo. Maria soffre perché impotente di fronte alla sofferenza del figlio che nel deserto, che nel nostro testo viene visto come na muntatedda, una collina, si trova «scausu e nudu e mortu di fami». Nel quinto dolore la tradizione ha voluto scorgere nella salita al Calvario di Gesù carico del peso della croce la sintesi del cammino di fede fatto da Maria, e sebbene i vangeli non ne facciano menzione, la pietà popolare scorge nell’incontro tra Gesù e le donne di Gerusalemme32 anche la presenza della Madre.33 Anche qui il dolore è causato dall’impotenza di Maria nel poter soccorrere il figlio che si avvia legato verso il martirio. Desolata il venerdì sera o il sabato sull’imbrunire. Cfr. G. M. ROSCHINI, Addolorata, in Dizionario di mariologia, Roma 1961, 15-16. 29 Cfr Lc 2,22-38. 30 Lc 2,34-35. 31 Cfr Mt 2,13-18. 32 Cfr Lc 23,26-27. 33 Cfr S. MAGGIANI, Addolorata, in Nuovo dizionario di mariologia, Cinisello Balsamo 1985, 4.


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Nel sesto dolore troviamo l’apice dei dolori della Vergine: «stavano presso la croce di Gesù sua Madre, la sorella di sua Madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la Madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla Madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco la tua Madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa»34.

Se Cristo è «l’uomo dei dolori che ben conosce il patire»35, sua Madre può dirsi la donna dei dolori. Ella sta ai piedi del Crocefisso facendo suo il mistero dell’amore di Dio rivelato in Cristo Gesù. Maria sotto la croce rappresenta l’amore materno, che segue il figlio fino all’estremo della sua donazione. Di non facile comprensione è il verso finale di questa strofa: «L’angilu Grabrieli lu ricucchiva, Cruci di Santu Domini faciva». Probabilmente in questa frase si intende che l’arcangelo Gabriele raccoglie il sangue di Cristo in un calice sul quale fa un segno di croce; forse un riferimento al gesto sacerdotale durante la preghiera eucaristica?. Nel settimo dolore viene contemplato la deposizione del corpo di Gesù dalla croce e la sua sepoltura. Il nostro testo quasi plasticamente descrive una processione funebre verso il sepolcro, mettendo in rilievo l’abbandono del Cristo e della sua Madre addolorata da parte dei parenti e degli amici. Inoltre assume notevole rilievo il grido di dolore di Maria. Ogni dolore è intercalato da un ritornello che posto sulla bocca di Brigida diventa partecipazione al dolore della Madre, anzi lo supera: «’n terra cascaiu tutta scunuscenti / chiù di la matri afflitta e dulurenti». La seconda parte di questa Preghiera lega un privilegio concesso da Cristo per l’intercessione e per i dolori sofferti da Maria. Introdotta da un’introduzione in cui Brigida mostra la sua sorpresa nell’esser venuta a conoscenza dei dolori sofferti da Maria, quasi affranta per averli trascurati, invita i devoti a dirli o meglio a contemplarli per la salvezza delle loro anime.

34 35

Gv 19,25-27. Is 53,3.


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Nel ritornello di questa seconda parte Brigida si erge quasi a testimone delle promesse fatte da Cristo per l’amore che nutre verso sua Madre: «Lassatu dittu di la ucca mia / Pi lu vostru duci amuri matri mia».

3.1.3. L’orologgiu di la passioni Cristu un’ura di notti faciva la cena e Giuda lu tirannu l’istanti chi la cena faciva lu tradimentu c’iva facennu avvicinari. A li du’uri li pedi ci lavau. A li tri uri all’apostuli pridicau. A li quattr’uri cuminicanu. A li cinc’uri all’ortu si lu purtanu. A li se’uri un Angilu calau pi cunnurtari lu Cristu veru Diu. A li sett’uri la trumma sunau: Cristu a li so manu s’arrinniu. All’ott’uri ci fu ’na mossa spietata. A li nov’uri fu tuttu maltrattatu. A li deci uri Cristu di pazzu fu trattatu e di biancu fu vistutu. All’unnici uri lu misiru carzaratu. A li dudici uri fu ‘nda casa di Pilatu. A li tridici uri a la colonna fu battutu, cu spini e spini comu un marfatturi. A li quattodici uri l’hannu ’ncurunatu. A li quindici uri di rrussu fu vistutu A li sidici uri si smossi nu ranni rumuri dicennu: cruciffissu, aimè. A li diciassett’uri fu la so cunnanna. A li diciott’uri lu misuru ‘n cruci. A li diciannove uri, ch’era ancora ’cruci, vidennu a so matruzza in tantu affannu sutta u lignu di la santissima cruci: «Donna, ppi figghiu vi lassu Giuanni». A li vint’uri prea a so Patri duci chi pirdunassi a tutti li tiranni. A li vintun’ura ’ddumanna acqua,

Cristo un’ora di notte faceva la cena e Giuda il traditore mentre faceva la cena il tradimento gli faceva avvicinare. Alle due ore i piedi gli lavò. Alle tre agli apostoli predicò. Alle quattro ore comunicarono. Alle cinque ore all’orto lo portarono. Alle sei ore un Angelo scese per confortare il Cristo vero Dio. Alle sette ore la tromba suonò: Cristo alle loro mani si arrese. Alle otto ore gli diedero uno schiaffo spietato. Alle nove ore fu tutto maltrattato. Alle dieci ore Cristo da pazzo fu trattato e di bianco fu vestito. Alle undici ore lo misero in carcere. Alle dodici ore fu nella casa di Pilato. Alle tredici ore alla colonna fu battuto, con spine e spine come un malfattore. Alle quattordici ore l’hanno incoronato. Alle quindici ore di rosso fu vestito. Alle sedici ore si mosse un gran rumore dicendo: sia crocifisso, ahimè. Alle diciassette ore ci fu la sua condanna. Alla diciotto ore lo misero in croce. Alla diciannove ore, che era ancora in croce, vedendo sua Madre in tanto affanno sotto il legno della santissima croce: «Donna, per figlio vi lascio Giovanni». Alle venti ore prega il suo dolce Padre perché perdoni tutti i malfattori. Alle ventuno ore chiede acqua,


Le espressioni di pietà popolare del Triduo pasquale a Raddusa ci desunu acitu e feli, e trapassau. A li vintidu’ura si nutau mortu e na lanciata riciviu. A li vintitrì uri u scinneru da cruci e ’mbrazza di so matruzza ripusau, dicennu: «figghiu miu cu ti cunorta? ti visti vivu e ti vidu mortu». A li vintiquattr’uri a Maria ci ristau un gran duluri. A cu li dici e senti pi devozioni, un credo dicemu a la sò passioni.

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gli diedero aceto e fiele, e trapassò. Alla ventidue ore lo videro morto e un colpo di lancia ricevette. Alla ventitre ore lo scesero dalla croce e nelle braccia di sua Madre riposò, dicendo: «figlio mio chi ti consola? ti vidi vivo e ti vedo morto» Alle ventiquattro ore a Maria rimase un gran dolore. A chi recita o sente per devozione un credo diciamo alla sua passione.

In questo testo, recitato per tutta la Quaresima in quanto associato alle due Orazioni di santa Brigida, si evince la necessità del fedele di seguire Cristo nei momenti cruciali della sua Passione, che viene scandita dal susseguirsi delle ore; si inizia con la cena pasquale e la preparazione del tradimento da parte di Giuda, definito u tirannu, per finire con l’immagine della Madre rimasta sola col dolore per il figlio ormai morto e sepolto. La figura che campeggia è il servo sofferente di Is 53, il Cristo sofferente che, confortato nell’orto dall’angelo, si consegna volontariamente nelle mani dei carnefici. Alla figura del Cristo si contrappone la figura di Giuda e degli ebrei, che con forza gridano la condanna: «A li sidici uri si smossi nu ranni rumuri / dicennu: cruciffissu, aimè». La figura di Giuda è quella del traditore che trama l’uccisione dell’amico mentre questi siede a mensa con lui. Alla figura di Gesù è associata quella di Maria, a so matruzza; in questi versi troviamo la rilettura popolare di Gv 19,26-27: il Figlio vuole colmare il vuoto procurato dalla sua morte nella vita della Madre consegnandole Giovanni.

3.2. I testi del Triduo pasquale 3.2.1. Rosari del Venerdì Santo Sui grani grossi del Rosario: Santissimu Crucifissu semu vinuti davanti a vui.

O santissimo Crocifisso siamo venuti davanti a voi.


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Mauro Ciurca

Pi lu sangu ca spargistivu lu spargistivu pi nui

Per il sangue che avete sparso lo avete sparso per noi.

O cori sacratissimu siti figghiu di Maria. Pirdunati i me piccati mantieniti la menti mia

O cuore sacratissimo siete figlio di Maria. Perdonate i miei peccati mantenete la mia mente.

Sui grani piccoli: Cincu chiai e cincu rosi lu Signori accussi vosi.

Cinque piaghe e cinque rose così ha voluto il Signore.

Pi nuiautri piccauri ’n cruci morsi lu Signuri. Pater Nostro…

Per noi peccatori In croce è morto il Signore. Padre Nostro…

Oppure: Tu voi stu piccaturi misericordia, o Signori!

Tu vuoi questo peccatore misericordia, o Signore!

Misericordia e pietà st’arma mia si salverà Pater Nostro…

Misericordia e pietà questa mia anima si salverà. Padre Nostro…

Questo rosario, cantato a due cori durante i pellegrinaggi verso il luogo della crocifissione, i cosiddetti viaggi a cruci, e durante la veglia funebre del Venerdì notte, vuole ricordare al Crocifisso gli effetti del suo sacrificio: «lu sangu ca spargistivu, / lu spargistivu pi nui», è per questo sacrificio d’amore che l’uomo può presentarsi davanti a Cristo. Nella strofa di risposta troviamo due appellativi riferiti a Gesù: egli è Cori Sacratissimu e Figghiu di Maria. Con la prima espressione si vuole sottolineare l’amore del Padre che nel cuore del suo dilettissimo Figlio ci da la gioia di celebrare le grandi opere del suo amore per gli uomini36; il Cuore di Gesù, trafitto a causa dei nostri peccati e per la nostra salvezza, è 36 Cfr Colletta della messa della solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, in Messale Romano, 288.


Le espressioni di pietà popolare del Triduo pasquale a Raddusa

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considerato il segno e il simbolo principale dell’amore infinito col quale il Redentore incessantemente ama il Padre e tutti gli uomini. Con la seconda espressione si vuole quasi ricordare a Cristo la sua natura umana, come a dire «ricordati che anche tu sei stato come noi uomo e come noi hai sofferto». Per tutto questo l’uomo riconciliato può implorare dal Padre misericordia e pietà per i peccati commessi. Inoltre viene chiesto a Cristo di custodire i propri pensieri e le proprie opere perché non devii mai verso il male: «mantieniti la menti mia». Per quanto riguarda le strofe cantate sui grani piccoli del rosario, troviamo due varianti: nella prima si mette in evidenza l’amore totale di Cristo per l’uomo, amore che porta Cristo a consegnarsi volontariamente alla morte: «Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi»37.

In questa prima variante può essere individuata l’influenza di una certa tendenza iconografica che rappresenta le piaghe di Cristo come fiorite. Nella seconda variante viene sottolineata la volontà salvifica di Cristo; è il Cristo che desidera la conversione del peccatore, ed è per questo che gli viene chiesta misericordia: per mezzo della suo amore misericordioso l’uomo ha la certezza della salvezza. «Durante la processione viene recitato un tradizionale, suggestivo e solenne rosario quasi primitivo»;

così annota una trascrittrice nei suoi appunti che introduce un altro testo recitato il Venerdì Santo. Questa preghiera si pone sulla linea della contemplazione e meditazione e si potrebbe paragonare alla preghiera del cuore della tradizione orientale: attraverso la ripetizione dei numeri il fedele è portato a lodare il Redentore per la sua opera redentrice e a meditare sul mistero della croce. La ripetizione può essere considerata come

37

Rm 5,8.


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Mauro Ciurca «espressione di quell’amore che non si stanca mai di tornare sulla persona amata con effusioni che pur se simili nella manifestazione, sono sempre nuove per il sentimento che le pervade»38.

Da tale meditazione e contemplazione nasce la contrizione dei peccati; tutto l’uomo, compreso fra i termini cori e sciatu è mosso dall’amore di Cristo verso la conversione. Infine nella preghiera si chiede la protezione del Cristo, come frutto della visita. Ecco il testo: E decimila voti ludamu lu ridinturi ludamulu sempri spissu lu santissimu crucifissu. Me Gesù appassiunatu ni la cruci fusti ‘nchiuvatu. Lu me cori, lu me sciatu, si chianci lu me piccatu Iu ti vegnu a visitari me ridinturi nun m’abbannunari. E vintimila voti… E trentamila voti… E quarantamila voti… E cinquantamila voti…

E diecimila volte lodiamo il redentore lodiamolo sempre spesso il santissimo Crocifisso. Mio Gesù appassionato sulla croce foste inchiodato. Il mio cuore, il mio respiro, si piange il mio peccato. Io ti vengo a visitare mio redentore non mi abbandonare E ventimila volte… E trentamila volte… E quarantamila volte… E cinquantamila volte…

3.2.2. I Lamenti «Di luni si ‘ncuminciunu li chianti, e va a finiscia a la simana santa».

Il popolo sente il bisogno di partecipare alle sofferenze di Cristo e della sua dolce Madre addolorata e lo fa attraverso i cosiddetti Lamenti, canti a più voci, anch’essi di tradizione orale, eseguiti durante la processione 38

GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Rosarium Virginis Mariæ, 11.


Le espressioni di pietà popolare del Triduo pasquale a Raddusa

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del Venerdì Santo da un gruppo di cantori maschi specializzati. Musicalmente questi canti vengono eseguiti attraverso la polivocalità ad accordo; essa è data da una melodia svolta da un cantore solista che viene accompagnata da accordi realizzati da un coro costituito da un numero variabile di cantori39. I testi dei Lamenti narrano la passione e morte di Gesù, arricchendola di episodi secondari di grande efficacia simbolica. Il racconto evangelico è esposto nella prospettiva della Madre addolorata, con un’accorata descrizione del dolore della Madre per la morte del Figlio.

3.2.3. Giovedì Santo ‘U Jovi Santo, ‘u jovi matinu, ‘a Matri Santa si misi ‘n caminu. Ppi via ci ‘ncuntrau San Giuanni, ci dissi: «Matri Santa un’è c’a iti». «cha vaiu n’cerca di lu me caru figghiu, cha l’haiu persu e nun ni sacciu nova». «va iti da li casi di Pilatu, cha da ‘u truvireti ‘ncatinatu» Tuppu, tuppi!, «cu è darrè sa porta?» «Forsi è da dulurusa di me matri». «O cara matri, nun vi pozzu aprìri, cha li giudei m’hanu ‘ncatinàtu». «Ora ci criu ca ma figgiu è mortu, cha l’acqua di lu mari è comu l’ogghiu». «Va iti da lu mastru di li chiova mi ni faciti fari un paru a mia. nun tanti longhi nè pungenti l’aviti a fari, c’hanu a pirciari a da carni fini». Rispunna u chiù ranni traditori: «longhi e pungenti ci l’aviti a fari. 39

Il Giovedì Santo, il giovedì mattina, la Madre Santa si mise in cammino. Per via incontra san Giovanni, le chiede: «Madre santa dove andate?» «vado in cerca del mio caro Figlio, perché l’ho perso e non ne ho notizia». «andate nei palazzi di Pilato, la lo troverete incatenato» Toc, toc!, «chi è dietro quella porta?» «Forse è la mia Madre addolorata». «O mia cara Madre, non vi posso aprire, perché i giudei mi hanno incatenato» «Ora ci credo che mio figlio è morto40, perché l’acqua del mare è piatta come l’olio». «Andate da colui che fa i chiodi e ne fate fare un paio per me ne troppo lunghi ne pungenti li dovete fare perché devono forare quelle carni delicate» Risponde il più grande traditore: «lunghi e pungenti li dovete fare.

Cfr I. MACCHIARELLA, Li parti di la Simana Santa, in La Settimana Santa, cit.

200-201. 40

In quanto è già stata decisa la sua condanna.


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Mauro Ciurca

C’hanu a pirciari a di carnazzi amari di lu figgiu amatu di Maria». Maria quannu ‘ntisi stu parrai, fici scurari u celu e a terra. Maria passau di ‘na strata nova; la porta d’un firrarru aperta era: «o caru mastru chi sta fannu a st’ùra», «Fazzu ‘na lancia e tri pungenti chiova. Fazzu ‘na lancia e tri pungenti chiovi, pi lu figghiu amatu di Maria». «O caru mastru nun li fari ora, di novu ti la paiu la mastria». «O cara donna nun lu pozzu fari, ca unna c’è Gesù ci mettunu a mia». «Chiamatimi a Giuanni ca lu vogghiu, quantu m’aiuta a chianciri stu Figghiu. Di niuru mittitimi lu cummogghiu, tu ci perdi lu mastru e iu lu figghiu. Cu nun ci guarda u venniri a ma figghiu, si possa cunsumari comu l’ogghiu». Ludamici lu Santu Sacramentu, viva l’addulurata di Maria, viva la misericordia di Diu.

Perché devono forare le carni ripugnanti del figlio amato di Maria». Appena Maria ebbe udito tali parole fece oscurare il cielo e la terra. Maria passa per una strada nuova; la porta di un fabbro aperta era: «o caro mastro cosa fai a quest’ora?» «Faccio una lancia e tre pungenti chiodi. Faccio una lancia e tre pungenti chiodi, per l’amato figlio di Maria». «O caro Mastro non li fate ora, che di nuovo vi pago la maestria». «O cara donna non lo posso fare, altrimenti al posto di Gesù ci mettono me». «Chiamatemi Giovanni lo voglio qui cosicché mi aiuta a piangere questo mio Figlio. Copritemi con un manto nero, tu perdi il Maestro e io il figlio. Chi il Venerdì non guarda mio figlio, si possa consumare come l’olio». Lodiamo il Santissimo Sacramento, viva Maria addolorata, viva la misericordia di Dio.

In questo testo primeggia la preparazione all’evento della morte; il fedele viene preparato a vivere questo momento seguendo la Madre in cerca del Figlio e il dialogo di questa con gli artigiani incaricati di preparare gli strumenti della passione. Vi è una partecipazione al dolore di Maria, ormai rassegnata per la perdita del Figlio, quando scopre che questi si trova ormai legato nel palazzo di Pilato; Maria cerca di evitare la morte del Figlio contrattando col fabbro: ma questi, pur contro la sua volontà, è costretto a compiere il male. Nella figura del fabbro è possibile scorgere l’immagine dell’uomo rassegnato di fronte al male, quasi impotente davanti a una realtà che sa essere negativa ma che non può evitare se vuole salva la sua vita. Contrapposta a Maria è la figura di Giuda, il traditore, che alla richiesta amorosa della Madre di fare dei chiodi sottili e poco appuntiti perché devono attraversare le carni del suo Figlio, controbatte con un tono beffardo e sadico, chiedendo che i chiodi siano lunghi e appuntiti perché


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devono forare carnazzi amari. La figura di Giuda continua ad essere l’immagine dell’amico traditore, che non pentito della sua azione, impunemente, anche di fronte al dolore della Madre continua a perseverare nel suo peccato. Il tradimento è vissuto dall’uomo siciliano come la negazione dell’onestà, dell’amicizia, dell’amore, valori fondamentali nei rapporti interpersonali. Un’altra figura, che appare questa volta associata al dolore della Madre, è quella di Giovanni, visto come il discepolo che segue il Cristo anche nell’ora della passione e che la stessa Madre associa al suo dolore: «chiamatimi a Giuanni ca lu vogghiu, / quantu mi iuta a chianciri stu Figghiu». In Giovanni ogni uomo, ogni discepolo è chiamato a seguire Cristo nella passione e a piangere la sua morte con Maria. Il testo conclude con un’imprecazione di Maria verso coloro che il Venerdì Santo non contemplano il mistero di passione e di morte di Cristo: la vita di costoro possa consumarsi come si consuma l’olio nelle lucerne.

3.2.4. O Santa Cruci O Santa Cruci ti vegnu a vidiri tutta di sangu ti trovu lavata. Cu fu ss’omu chi vinni a muriri? «Fu Gesù Cristu ca ch’appi na lanciata. Na lancia no petto e u corisquarciatu, do figghiu amatu di Maria. Dumanna acqua e nun ni potti aviri ci desunu a spugna ’ntussicata». ’Ntussicata Maria, povira donna, quannu visti so figghiu da culonna. Na culonna a vista di tutti, ca ‘u battivunu cu na virdi canna. «Faccia, faccia, Maria, to figghiu passa cu na grandi catina longa e rossa, ca tanta è rossa chi ci trapassa l’ossa, lu sangu abbunna e la carni si lassa». «Ora ci cridu ca ma figghiu è mortu, ca l’acqua di lu mari è comu l’ogghiu». Ludamuci lu Santu Sacramentu

O santa Croce ti vengo a visitare tutta di sangue ti trovo lavata. Chi fu quest’uomo che è venuto a morire? «È stato Gesù Cristo che ha avuto una lanciata. Una lanciata nel petto e il cuore squarciato, del figlio amato di Maria. Chiede acqua ma non ne può avere gli diedero una spugna avvelenata». Amareggiata è Maria, povera donna, quando vide suo figlio alla colonna. Una colonna alla presenza di tutti, che lo battevano con una verde canna. «Affaccia, affacia o Maria, tuo figlio passa legato con una catena lunga e grossa, è così grossa che trapassa le ossa, il sangue abbonda e la carnesi lacera». «Ora ci credo che mio figlio è morto, perché l’acqua del mare e piatta come l’olio». Lodiamo il Santissimo Sacramento,


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Mauro Ciurca

viva la dulurusa di Maria viva la misericordia di Dio.

viva Maria addolorata viva la misericordia di Dio.

In questo testo emerge il dialogo tra il fedele e la croce, che ricoperta di sangue suscita la domanda dell’interlocutore; questi chiede chi sia stato l’uomo che su di essa è stato suppliziato. La croce risponde: Gesù Cristo, che ha il petto e il cuore squarciato per il colpo di lancia ricevuto dal centurione, il quale chiedendo acqua ebbe a spugna ‘ntussicata; secondo il vangelo una spugna imbevuta di aceto. Nel linguaggio siciliano il termine ‘ntussicatu si utilizza quando si assapora qualcosa di amaro. A questo punto nel testo si ha un cambiamento di soggetto, non più Cristo ma la Madre; l’amareggiamento di Gesù viene collegato allo sconforto di Maria, che vede il Figlio legato alla colonna; il dolore di Maria è quindi duplice: non solo assiste impotente alla flagellazione del Figlio, ma anche l’umiliazione che tutto questo vien fatto alla vista di tutti. È ancora Maria che viene chiamata ad affacciarsi, perché passa Gesù legato mentre lo conducono al luogo della crocifissione. Il testo quasi in maniera cinematografica descrive la sofferenza di questo momento: la catena che lega il Cristo è così lunga e grossa che penetra le ossa, causando la lacerazione del corpo e la fuoriuscita di molto sangue.

3.2.5. Lamento della passione di Nostro Signore Gesù Cristo. A Simana Santa Di luni si ‘ncuminciunu li chianti, e va a finiscia a la Simana Santa. U marte è san Giuvanni e Maddalena, u merculi è la santa quarantana. U jovi fu traditu Cristu santu, u veneri è di lignu la campana. U sabatu Maria sparma lu mantu, duminica Gesù Cristu in cielu acchiana.

Di lunedì incominciano i pianti, e continuano per tutta la Settimana Santa. Il martedì è san Giovanni e Maddalena, il mercoledì è la santa Quaresima. Il giovedì fu tradito Cristo santo, il venerdì è di legno la campana41. Il sabato Maria distende il manto, domenica Gesù Cristo in cielo ascende.

41 Con campana di legno si vuole indicare a troccula, o battola, tavoletta di legno con maniglia mobile di ferro che, agitata, con il suo rumore richiama i fedeli alle funzioni nei giorni della Settimana Santa in cui è proibito il suono delle campane.


Le espressioni di pietà popolare del Triduo pasquale a Raddusa Ludamuci lu Santu Sacramentu viva l’addulurata di Maria, viva la misericordia di Dio.

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Lodiamo il Santissimo Sacramento, viva Maria addolorata viva la misericordia di Dio.

Il seguente testo collega a ciascun giorno della settimana un evento della passione. Già l’inizio dà il tono a tutta la settimana: è una settimana di pianti che si concluderà nel gaudio pasquale. Il martedì viene legato ai due personaggi che nella passione si trovano stretti intorno al dolore di Maria: Giovanni e Maria Maddalena, compagni ed esempio del fedele che si dispone a contemplare la passione del Signore. Il mercoledì è visto come compimento della Quaresima, secondo la scansione del tempo antecedente alla riforma del Vaticano II, che farà finire il tempo quaresimale con la messa In Cœna Domini. Il giovedì è legato al tradimento di Giuda, mentre il venerdì alla battola per il fatto che dal canto dell’inno del Gloria del Giovedì Santo al Gloria della Veglia pasquale è vietato ogni suono di campana. Il sabato e legato a Maria, che nel suo dolore per la scomparsa del Figlio veste il manto nero, tipico segno di lutto. Alla morte e al dolore segue la gloria della Risurrezione; così la domenica è collegata alla salita in cielo di Gesù.

4. CONCLUSIONE Il popolo raddusano, come altre comunità cristiane dell’isola, vive e manifesta la sua partecipazione al mistero pasquale di Cristo, oltre che nelle celebrazioni liturgiche, attraverso la mimesi della crocifissione il Venerdì Santo e a giunta del giorno di Pasqua; peculiare di Raddusa è il personaggio di Giuda giustiziato dagli apostoli e del ballo dei simulacri del Cristo e della Madonna dinnanzi a lui, dove non è difficile vedere rappresentata la definitiva vittoria di Cristo sulla morte e sul male. Ritengo legittimo affermare che il cammino di integrazione tra le liturgia e pietà è giunto, attraverso un lavorio durato molti anni e costato fatica al clero e al popolo, a una certa armonia. Significativi i testi devozionali in dialetto utilizzati dai fedeli durante la Quaresima e nel Triduo pasquale. tali testi utilizzati in


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Mauro Ciurca

Quaresima, come sono legati alla spiritualità brigidina, testi in origine generici che la tradizione raddusana ha legato, per il loro rapporto con i racconti della passione, al tempo Quaresimale. Gli altri testi appartengono anche al patrimonio di altri comuni della Sicilia; sono testi che cercano di esprimere nel linguaggio del popolo il grande mistero dell’amore del Cristo Crocefisso. Sono cosciente che il mio lavoro lascia aperte alcune questioni, quali ad esempio le modalità con le quali è arrivata a Raddusa la spiritualità brigidina, o come si è diffusa la tradizione di Giuda giustiziato dagli apostoli, presente solo in un altro comune della Sicilia, Longi in provincia di Messina42. Questioni che possono essere motivo di studio di ulteriori studi.

42

Cfr A. PLUMARI, Le espressioni di religiosità popolare, cit., 201.


Synaxis XXI/2 (2003) 383-402

LA DONAZIONE DEL MONASTERO SAN GIOVANNI DI FIUMEFREDDO ALL’ABBAZIA SANT’AGATA DI CATANIA (1103, 1106)

ADOLFO LONGHITANO*

1. INTRODUZIONE Ricorre quest’anno il nono centenario di un documento di epoca normanna che ha suscitato fra gli storici qualche interesse assieme a non pochi interrogativi. Si tratta di una pergamena in lingua greca, conservata presso l’Archivio del Capitolo cattedrale di Catania, con cui un certo Jacopo vescovo, il 20 maggio 1103, in vista della propria morte, faceva atto di donazione ad Angerio — vescovo e abate benedettino di Sant’Agata — del monastero San Giovanni di Fiumefreddo, con l’annessa chiesa, il terreno circostante e le anime cristiane ad esso appartenenti1. Si trattava di beni che il Jacopo dice di aver ricevuto dal Conte Ruggero e che correvano il rischio di essere occupati da uomini malvagi. Jacopo si era deciso a donare questi beni all’abbazia di Sant’Agata per evitare che venisse vanificato il suo lavoro di bonifica e di ampliamento fatto negli anni precedenti. Angerio e i monaci sarebbero venuti in possesso di queste proprietà dopo la sua morte. Tuttavia Jacopo, per dimostrare la sincerità dei propri sentimenti, donava loro immediatamente alcune proprietà, che persone malvagie avevano usurpato per ordine del Conte Ruggero: un mulino, un piccolo podere del recinto antistante al mulino (di cui tentava di impadronirsi Guglielmo Cicala) e anche la terra arabile da tre paia di buoi, situata tra Fiumefreddo e Fiumesecco, senza i suoi poderi. *

Ordinario di Diritto canonico nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. ARCHIVIO DEL CAPITOLO CATTEDRALE DI CATANIA (=ACCC), Pergamene greche, n. 5. Vedi il testo e la traduzione in appendice. 1


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Adolfo Longhitano

Un’altra pergamena in lingua latina, conservata presso lo stesso archivio, riporta l’atto di donazione dello stesso monastero e della chiesa annessa, sottoscritto tre anni dopo, il 3 luglio 1106, dal vescovo di Messina Roberto2. Il donatore scrive che queste proprietà si trovavano nel territorio di Taormina, annesso negli anni precedenti alla sua diocesi. I due documenti offrono diversi spunti di riflessione, che gli storici hanno cercato di utilizzare, dopo essersi posti la domanda di rito sulla loro autenticità3. C’era anzitutto da individuare il monastero San Giovanni di Fiumefreddo con la chiesa e le proprietà annesse. Come mai questi immobili, nel giro di tre anni, furono dati da due donatori diversi all’abbazia di Sant’Agata? Bisognava poi capire chi era Jacopo: era un vescovo greco? di quale sede? Era uno dei pochi vescovi greci che erano riusciti a svolgere il proprio monastero durante la dominazione islamica o era stato scelto dai normanni per la cura pastorale dei cristiani di rito bizantino? La presenza di una comunità di fedeli e di un vescovo di rito bizantino offriva spunti per affermare una certa presenza e vitalità del cristianesimo nella Sicilia orientale durante l’occupazione islamica. 2

ACCC, Pergamene latine, n. 5 (già 3). Vedi il testo e la traduzione in appendice. Le prima pergamena è stata trascritta e annotata da S. CUSA, I diplomi greci ed arabi di Sicilia, Palermo 1868, in «Diplomi della Chiesa di Catania», II, 552-554; G. SCALIA, La pergamena del vescovo Iacopo del 1103 e le sorti della sede vescovile di Catania durante la dominazione araba, in Archivio Storico per la Sicilia Orientale (=ASSO) 51-52 (19551956) 21-46: 42-43; L. R. MÉNAGER, Notes critiques sul quelques diplomes normands de l’Archivio Capitolare di Catania, in Bullettino dell’Archivio Paleografico Italiano, N.S., IIIII, (1956-1957), parte II, 145-174. È stata presa in esame da V. M. AMICO, Catana illustrata, II, Catanae 1741, 22; D. G. LANCIA DI BROLO, Storia della Chiesa in Sicilia nei primi dieci secoli del cristianesimo, II, Palermo 1884, 448-449; L. T. WHITE, jr., Il monachesimo latino nella Sicilia normanna, trad. it., Catania 1984, 170; P. COLLURA, La polemica sui diplomi normanni dell’Archivio Capitolare di Catania, in ASSO 54-55 (19581959) 131-131-139; H. ENZENSBERGER, Fondazione o «rifondazione»? Alcune osservazioni sulla politica ecclesiastica del Conte Ruggero, in Chiesa e società in Sicilia. L’età normanna, Atti del I Convegno internazionale organizzato dall’arcidiocesi di Catania, 2527 nov., 1992, a cura di G. Zito, Torino 1995, 21-49; H. BRESC, Dominio feudale e consistenza patrimoniale e insediamento umano, ibid., 91-107. La seconda pergamena è stata pubblicata in R. PIRRI, Sicilia Sacra, Panormi 17333, 385-386; Collectanea nonnullorum privilegiorum et aliorum spectantium ad Ecclesiam Catanensem […] iussu Illustrissimi et Reverendissimi Domini Fr. D. Michaelis Angeli Bonadies, Episcopi Catanensis, Catanae 1682, 10-11; G. SCALIA, La pergamena, cit., 44. 3


Il monastero San Giovanni di Fiumefreddo

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Le risposte a questi interrogativi, date nel tempo dagli storici, non sono state convergenti; ma ci è sembrato utile passarle in rassegna per ricordare il nono centenario del primo documento. Lo spunto ci è stato dato dalla nuova trascrizione delle due pergamene commissionata dal parroco della chiesa madre di Fiumefreddo, sacerdote Giambattista Rapisarda, al prof. Tommaso Federici, da poco scomparso, che pubblichiamo in appendice4.

2. PATRIMONIO E PRIVILEGI DELL’ABBAZIA SANT’AGATA DI CATANIA IN EPOCA NORMANNA

Non è stato facile per gli storici determinare la particolare situazione patrimoniale e giuridica dell’abbazia Sant’Agata di Catania in epoca normanna. Alla ricchezza del patrimonio e alla singolarità dei privilegi concessi dal Conte Ruggero e dai suoi successori fa riscontro la scarsità e la dubbia autenticità dei documenti su cui essi si fondano5. Le pergamene conservate nell’Archivio del Capitolo cattedrale non sono certamente originali6. Terremoti, eruzioni dell’Etna, guerre hanno provocato la perdita di tutta una documentazione che si è cercato di ricomporre o con il ricorso a copie di cancelleria o attraverso una loro sommaria ricostruzione. È stato possibile risolvere qualche dubbio sulla fondatezza di alcune rivendicazioni con il ricorso agli atti di un processo — conservati nello stesso archivio — intentato dal 1267 al 1270 sotto l’auspicio della curia romana contro la

4 La traduzione italiana della pergamena greca è dello stesso T. Federici; la traduzione di quella latina è di M. Fiume. 5 H. BRESC, Dominio feudale, cit. 6 Fra gli studi più recenti su questo argomento si vedano in particolare: G. SCALIA, La bolla di Urbano del 1091 per la restaurazione dell’episcopato di Catania, in Bollettino ecclesiastico dell’arcidiocesi di Catania 58 (1954) 237-243; ID., La bolla di Urbano II del 9 marzo 1091 e i documenti sincroni del Conte Ruggero I, ibid., 305-308; ID., Il valore storico del documento pergamenaceo n. 1 del Conte Ruggero I (Archivio Capitolare) sincrono della Bolla di Urbano II, ibid., 59 (1955) 21-25; L. R. MÉNAGER, Notes critiques, cit.; P. COLLURA, La polemica, cit.; G. SCALIA, Nuove considerazioni storiche e paleografiche sui documenti dell’Archivio Capitolare di Catania per il ristabilimento della sede vescovile nel 1091, in ASSO 57 (1961) 1-53; H. ENZENSBERGER, Fondazione, cit.


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monarchia angioina7. Se le testimonianze raccolte hanno permesso di attestare la sostanziale veridicità delle concessioni fatte dal Conte Ruggero, non hanno risolto tutti gli interrogativi posti. Il Gran Conte aveva costituito signore della città di Catania il bretone Angerio, abate di Sant’Agata e vescovo, conferendogli una serie di poteri che non hanno riscontro con quelli concessi ad altri vescovi: «A questo abate e a tutti i suoi successori io, mia moglie Adelasia e i miei figli Goffredo e Giordano abbiamo donato la città di Catania con tutte le pertinenze, le proprietà e il patrimonio che la città aveva in quel tempo o aveva avuto in passato, secondo la sua nobile condizione, in terra, in mare, nei monti, nei boschi, nelle pianure, nei fiumi e nei laghi. L’abate e i monaci di questo monastero dovevano avere quella città con tutte le sue pertinenze allo stesso modo con cui l’avevano avuta i saraceni, quando i normanni giunsero per la prima volta in Sicilia. Allo stesso modo abbiamo dato al suddetto abate e ai suoi successori un castello di nome Aci con tutte le sue pertinenze [...]. Inoltre io Conte Ruggero con mia moglie e i miei figli ho concesso all’abate del suddetto monastero e ai suoi successori su tutta la terra del monastero la giurisdizione che si esercita in giudizio dai re e dai principi terreni e tutte le consuetudini terrene. Similmente diedi all’abate e ai suoi successori in tutta la circoscrizione del monastero, nei porti e sulle spiagge del mare, perché le possegga in perpetuo, tutte quelle proprietà terrene che i nostri uomini in Sicilia e in Calabria hanno avuto in concessione, sia che si tratti di schiavi, sia che si tratti di immobili»8.

Alle donazioni del Conte Ruggero si aggiunsero quelle dei suoi successori. Nel 1124 Ruggero II fece dono della città di Mascali e di altri

7

ACCC, Pergamene latine, n. 21 (già 16). L. SORRENTI, La giustizia del vescovo a Catania (secc. XII-XIII), in Chiesa e società in Sicilia. I secoli XII-XVI, Atti del II Convegno internazionale organizzato dall’arcidiocesi di Catania, 25-27 nov., 1993, a cura di G. Zito, Torino 1995, 37-66. 8 Diploma del 9 dicembre 1092. Il testo originale del documento è trascritto in A. LONGHITANO, La parrocchia nella diocesi di Catania prima e dopo il Concilio di Trento, Palermo 1978, 11-12 e inserto con errata corrige. Fra i privilegi concessi al vescovo dai normanni bisogna includere il terzo della dogana e la custodia portus, come leggiamo negli atti del processo 1267/1270, di cui alla nota 5.


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diritti e proprietà minori9. Si trattava di un territorio molto ricco con un porto attivo, da cui partiva il legname dei boschi di Randazzo e dell’Etna e la pece necessaria all’armamento e alla manutenzione del naviglio10. Con queste ed altre concessioni del secolo successivo l’abate/vescovo di Sant’Agata si trovò a gestire un ricco patrimonio e ad esercitare la propria autorità su una circoscrizione molto vasta, che nel secolo XIII comprendeva, oltre la città di Catania, le terre di Aci, Sant’Anastasia, Mascali e Calatabiano11. Ma come si doveva configurare dal punto di vista giuridico l’autorità conferitagli dai normanni? Era una piena giurisdizione feudale esercitata indifferentemente su un vasto territorio, oppure bisognava distinguere fra quella della città di Catania, legata alla sua condizione di signore, e quella conferita a titolo diverso sulle altre terre?12 La situazione non era molto chiara e nel corso dei secoli si ebbe una serie di controversie con esiti diversi fra i vescovi di Catania, le terre sulle quali rivendicavano la loro autorità e la regia curia13. A prescindere dalle diverse ipotesi formulate dagli storici per risolvere il difficile problema del dominio feudale del vescovo/abate, è certo che le proprietà della chiesa di Catania andavano oltre i confini della città e della diocesi, per includere nel secolo XII la terra di Mascali e addentrarsi nel territorio di Messina.

9

Collectanea, cit., 11-12. I. PERI, Uomini, città e campagne in Sicilia dall’XI al XIII secolo, Bari 1978, 17-18. 11 La terra di Aci è inclusa nel diploma del Conte Ruggero del 9 dic. 1092, citato nella nota n. 7. Quella di Sant’Anastasia è indicata nel diploma di Alessandro III del 1168 (Collectanea, cit., 15-17). La terra e il castello di Calatabiano furono donati al vescovo di Catania Gualtiero de Palearis dalla regina Costanza nel 1213 (ibid., 23-25). Significativamente la sentenza del processo conclusosi nel 1267 restituiva al vescovo di Catania fra i beni e i diritti precedentemente usurpati: la terra e il castello di Aci, la giurisdizione sulle cause criminali nelle terre di Sant’Anastasia e Mascali, la custodia del porto di Catania, la terza parte della dogana della città, la città e il castello di Calatabiano con i suoi cittadini, i diritti e le pertinenze (Collectanea, cit., 26-28). 12 L’autorità esercitata dal vescovo/abate sull’ampia circoscrizione indicata negli atti del processo del 1267/1270 non sembra possa configurarsi come feudale in senso stretto. Potrebbe essere intesa come un dominio politico da esercitare sotto il diretto controllo del Conte Ruggero, fondatore e patrono dell’abbazia (H. BRESC, Dominio feudale, cit., 92-93). 13 Le terre di Aci, Sant’Anastasia e Calatabiano non rimasero a lungo sotto la giurisdizione del vescovo/abate. Sulla condizione giuridica di Aci fa notare M. Donato: «Nell’ottica del conte Ruggero l’assegnazione non costituiva un vero e proprio infeuda10


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La donazione del monastero e della chiesa San Giovanni di Fiumefreddo costituisce un esempio di queste proprietà che l’abbazia di Sant’Agata possedeva al di fuori della propria circoscrizione ed era costretta a difendere dai tentativi di usurpazione da parte di privati o di altri enti ecclesiastici.

3. IL PROBLEMA DELL’AUTENTICITÀ DELLE DUE PERGAMENE L’indagine più approfondita sull’autenticità della pergamena di Jacopo fu fatta nella seconda metà del secolo appena trascorso da L. R. Ménager14. Gli altri si mossero sulle sue tracce15. Lo studioso, dopo aver esaminato le pergamene greche e latine conservate nell’Archivio del Capitolo cattedrale di Catania, faceva notare che alcune di esse, sebbene riportassero date diverse, erano state scritte dalla stessa mano e con le stesse caratteristiche grafiche. La pergamena di Jacopo in particolare sembra avere molte analogie con un altro diploma in lingua greca sottoscritto da Ruggero II il 1 gennaio 1125 per venire incontro ad alcune richieste del vescovo Maurizio. È difficile ipotizzare un unico amanuense che svolse il suo lavoro per ventidue anni, mantenendo invariate le caratteristiche della sua grafia. Questo elemento induceva lo studioso ad affermare che non si trattava di documenti originali, ma di copie di cancelleria scritte in epoca successiva per colmare una lacuna, determinata dal terremoto che nel 1168 distrusse la città e l’Archivio del Capitolo cattedrale. Altri rilievi riguardavano il contenuto della pergamena di Jacopo. Era strano che egli, pur qualificandosi vescovo, non indicasse la propria sede. mento, restando Aci terra demaniale nella quale il vescovo avrebbe esercitato alcuni diritti nel nome del re: sottigliezza questa che nel corso dei secoli sarebbe stata fonte di lunghi contrasti. Infatti i vescovi di Catania si sarebbero mossi nel senso di una vera e propria amministrazione di tipo feudale» (M. DONATO, Il volume di privilegi della città di Aci SS. Antonio e Filippo, Catania 2003, 11). 14 L. R. MÉNAGER, Notes critiques, cit., 162-163. 15 G. SCALIA, La pergamena del vescovo Iacopo, cit.; P. COLLURA, La polemica, cit., 135-137. Da notare che G. Scalia scrisse il suo saggio prima della pubblicazione dello studio critico del Ménager. In nota scrive che il noto paleografo francese gli comunicò per lettera alcuni rilievi apparsi nel suo studio.


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Sarebbe possibile chiarire questo dubbio con il ricorso ad altre fonti; ma nessun documento del tempo, greco o latino, attesta l’esistenza di un vescovo con questo nome. Inoltre, a chiusura del documento, nello spazio lasciato libero fra la menzione del sigillo e l’intestatio notarii, troviamo aggiunta una clausola di donazione, particolare che dal punto di vista diplomatico è inammissibile, perché rompe in due la corroboratio. Secondo i più elementari principi diplomatici tutte le clausole dispositive poste fuori dalla dispositio devono essere considerate nulle. La presenza nello stesso archivio di un altro atto di donazione all’abbazia di Sant’Agata della stessa proprietà, fatto a distanza di tre anni dal vescovo di Messina Roberto, più che confermare l’autenticità del primo documento, fa sorgere altri interrogativi. Anzitutto bisogna fare un rilievo di natura paleografica: nella pergamena di Roberto l’anno 1106 non corrisponde all’indizione XI. Se si accetta questa indizione come veritiera, il documento latino risulterebbe scritto nel 1103, a distanza di poco meno di due mesi da quello di Jacopo. La correzione dell’indizione da XI a XIV, che troviamo in alcune trascrizioni del documento, appare arbitraria. Andando ai contenuti, sorprende che il vescovo Roberto non faccia alcun riferimento al vescovo Jacopo e alla sua precedente donazione, ma si limiti a scrivere che il monastero e la chiesa San Giovanni di Fiumefreddo si trovavano nel territorio di Taormina, da poco unito per disposizione delle autorità ecclesiastiche alla diocesi di Messina. Stando a questi rilievi, difficilmente possiamo considerare la donazione del vescovo Roberto come una conferma di quella fatta dal vescovo Jacopo. Qualche autore avanza l’ipotesi che il diploma possa costituire una pezza d’appoggio in lingua latina, confezionato in un periodo di scarsa conoscenza della lingua greca, per difendere i diritti della chiesa di Catania16. In effetti il monastero e la chiesa di San Giovanni di Fiumefreddo (detto in greco “de Psychro”) dal Re Ruggero II nel 1137 furono donati all’archimandritato del Santissimo Salvatore di Messina con i terreni, i vigneti, i mulini ad acqua, i fiumi, i canneti, gli orti, i monti, le ghiande e tutti i suoi dipendenti, compresi i due casali di San Basilio e di Psychro. Nel dono è inclusa la chiesa di Santa Maria la Vena sull’Etna con le terre annesse, comprendenti un vasto comprensorio limitato dal fiume Alcantara, 16

P. COLLURA, La polemica, cit., 136.


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dalla pietra di Mauro, dal castello di Vadalà, Linguaglossa, la cava di Mili, la grotta di Nicodemo e Fiumefreddo17. Nel giugno 1144 si ebbe una controversia fra l’archimandrita Luca e il vescovo eletto di Catania Ivano. L’archimandrita voleva edificare un mulino ad acqua a San Giovanni de Psychro, vicino ad un altro mulino che sorgeva nel territorio di Mascali in una proprietà del vescovo di Catania. Questi in un primo momento si oppose. La controversia fu portata al giudizio del re, che indusse i due contendenti ad una transazione: il vescovo di Catania diede il suo assenso alla costruzione del mulino, a condizione che gli interessi della sua chiesa non venissero lesi18. C’è chi avanza l’ipotesi che le due pergamene di Jacopo e di Roberto siano state approntate per sostenere i diritti del vescovo di Catania in questa controversia19.

4. IDENTITÀ E UBICAZIONE DEL MONASTERO SAN GIOVANNI DI FIUMEFREDDO O DE PSYCHRO I due toponimi “Fiumefreddo” e “Psychro” non sono rari nelle fonti storiche siciliane. Oltre la località alla quale si riferiscono le due pergamene di questo studio, troviamo un altro casale di nome “Fiumefreddo” nei pressi di Lentini20 e un altro “Psychro” nelle Madonie, che sarebbe all’origine del comune di Castelbuono21. Soprattutto quest’ultima località ha determinato qualche incertezza fra gli storici. Quando leggevano San Giovanni di Psychro (con le varianti Psicro, Ipsichro o Sicro) ritenevano che si trattasse dell’equivalente greco di San Giovanni di Fiumefreddo di cui ci occupiamo. 17 M. SCADUTO, Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale. Rinascita e decadenza, sec. XI-XIV, Ristampa anastatica dell’edizione del 1947 con aggiunte e correzioni, Roma 1982, 420. 18 Il documento con cui si compone la controversia è trascritto da L. T. WHITE, jr., Il monachesimo latino, cit., 406-407. 19 H. BRESC, Dominio feudale, cit., 95. 20 Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Sicilia, a cura di P. Sella, Città del Vaticano 1944, n. 1260, 96. Una sua descrizione è data da V. M. AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, tradotto e annotato da G. Dimarzo, Palermo 1855, 463. 21 I. PERI, Uomini, città e campagne, cit., 47; M. SCADUTO, Il monachesimo, cit., 399-400.


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In tal senso furono lette alcune indicazioni che troviamo in Rocco Pirri22, le note dei collettori pontifici delle decime23, e un documento pubblicato da L. T. White in cui, nel febbraio del 1105, Ugo di Creun scambiava alcuni servi e un vigneto a Sichro con l’abate Ambrogio di Lipari, ricevendo compenso a Geraci24. Fatta questa precisazione, che ci permette di chiarire le incertezze del passato, dovremmo acquisire qualche elemento ulteriore per accertare meglio l’identità e l’ubicazione di San Giovanni di Fiumefreddo. Le indicazioni che troviamo nella pergamena di Jacopo non ci aiutano molto: esisteva un monastero con la chiesa, un territorio con case, vigneti e un certo numero di abitanti; c’era inoltre un mulino con un appezzamento di terra antistante. La descrizione che troviamo nell’atto di donazione di re Ruggero II all’archimandrita del Santissimo Salvatore (1137) è più dettagliata e ci mostra una circoscrizione territoriale molto ampia, che aveva come limite nord il fiume Alcantara e a sud si insinuava nel territorio di Mascali, comprendendo Fiumefreddo, Linguaglossa e Vena. La contiguità del suo territorio con quello di Mascali spiega la controversia fra il vescovo di Catania e l’archimandrita nel 1144. Abbiamo l’impressione che la chiesa e il territorio annesso non siano rimasti a lungo in possesso dell’archimandritato del Santissimo Salvatore. Nell’elenco delle sue proprietà, compilato da Giovan Luca Barberi nel 1508, troviamo «Sanctus Ioannes de Psicro», che deve riferirsi alla località delle Madonie25. Vito Amico, che ignora la donazione fatta da re Ruggero II all’archimandrita Luca, si limita ad annotare che la proprietà, dopo essere stata in possesso dell’abbazia di Sant’Agata di Catania, forse al tempo di Federico II era finita in mano di feudatari laici: nel 1408 era signore di Fiumefreddo Zaccaria de Parisi, cui succedettero i figli fino al secolo XVI; quindi subentrarono i nobili messinesi Lazari e infine la famiglia Gravina26. 22

R. PIRRI, Sicilia Sacra, cit. Rationes decimarum, cit., n. 546, 53, n. 704, 60. 24 L. T. WHITE, jr., Il monachesimo latino, cit., 388-389. Fra i testimoni di questo scambio si legge la firma di Serlone, priore di Catania. Si veda il riferimento di P. COLLURA, La polemica, cit., 137 e la rettifica di H. BRESC, Dominio feudale, cit., 106. 25 G. L. BARBERI, Beneficia ecclesiastica, a cura di I. Peri, I, Palermo 1962, 65. 26 V. M. AMICO, Dizionario topografico, cit., 462; cfr F MUGNOS, Teatro genologico delle famiglie del Regno di Sicilia, III, Messina 1670, 3; F. M. EMANUELE E GAETANI DI 23


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Ci sembra ovvio che l’antico monastero San Giovanni e la chiesa annessa debbano essere localizzati nel territorio del comune di Fiumefreddo27. Sono due i principali siti archeologi che troviamo nella sua circoscrizione: ad ovest, nei pressi dello svincolo dell’autostrada MessinaCatania, e a nord-est nella località Liberto-San Biagio, che dall’autostrada scende verso il mare. Nel primo sorge la Torre rossa28; nella stessa zona sono stati rinvenuti i resti di una villa romana e di un edificio termale29. Nel secondo alcuni indizi ci inducono a localizzare i resti del monastero San Giovanni e della chiesa annessa. La via Cuba — un termine di origine araba che indica un edificio a cupola — porta alla località denominata la “Chiesazza”, dove sono visibili i ruderi di una chiesa medievale, per la cui costruzione furono utilizzati anche mattoni di preesistenti edifici romani. Secondo la testimonianza del geometra Vincenzo Torrisi, in alcuni scavi effettuati negli anni Ottanta, vicino a questi ruderi furono rinvenuti due capitelli di pietra arenaria, attualmente collocati come sedili davanti al palazzo Corvaia del quartiere Diana. Solo una campagna di scavi condotta nella zona in modo sistematico potrebbe offrirci gli elementi decisivi per giungere ad una conclusione certa.

VILLABIANCA, Della Sicilia nobile, IV, Palermo 1709, 329. Una più dettagliata indagine sui feudatari di Fiumefreddo è stata condotta da S. MONTANA, Vicende storiche, forme del territorio e della territorialità, in Fiumefreddo di Sicilia. La memoria ritrovata, Caltanissetta 2002, 17-86. Il volume ignora le due pergamene e la discussione storiografica ad esse connessa. 27 Riteniamo poco fondata l’ipotesi formulata dallo Scaduto, che sembra collocare San Giovanni di Psychro nella località Passopisciaro del territorio di Castiglione (M. SCADUTO, Il monachesimo basiliano, cit., 399). 28 Di questi monumenti leggiamo qualche notizia in V. M. AMICO, Dizionario topografico, cit., 462 ed abbiamo un’accurata descrizione da J. HOUEL, Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malte et de Lipari, II, Paris 1785, 59-61. 29 Conferenza del dott. Francesco Privitera, tenuta presso la sala consiliare del comune di Fiumefreddo nel maggio del 1999. Ringrazio la prof. Marinella Fiume per avermi fatto leggere il dattiloscritto.


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5. IL

VESCOVO

JACOPO

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E I CRISTIANI DI RITO GRECO AL TEMPO DELLA

CONQUISTA NORMANNA DELLA SICILIA

Gli interrogativi più pressanti, che gli storici si sono posti studiando la pergamena di Jacopo, riguardano la sua identità, il suo ministero e la comunità cristiana affidata alle sue cure: era un vescovo greco? Di quale diocesi? Aveva svolto il suo ministero durante la dominazione islamica o era stato chiamato dai normanni dopo la conquista? I conquistatori nella Sicilia orientale avevano trovato una fiorente comunità cristiana o uno sparuto numero di sopravvissuti? Una prima risposta a questi interrogativi fu data da Vito Amico, che indica Jacopo come vescovo di Meninge (come diocesi è inesistente), un nome che egli aveva desunto da una trascrizione latina della pergamena di Jacopo, conservata nella Biblioteca Comunale di Palermo30. Nel secolo successivo D. G. Lancia di Brolo affronta il problema in modo più articolato. Secondo lo storico siciliano Jacopo era l’ultimo vescovo greco di Catania: «Questi dunque fu trovato dai normanni, e ben può aggiungersi alla serie dei vescovi di quella sede come l’ultimo dei greci, dopo cui immediatamente cominciano i latini. Se poi egli abbia rinunziato, o non sia stato curato dai normanni a cui premea mettere in tutto vescovi latini, non possiamo conoscere»31.

In tempi a noi più vicini G. Scalia, che sostiene l’autenticità della pergamena di Jacopo, esclude che egli possa essere considerato vescovo di Catania: «A Catania Ruggero non trovò il vescovo, perché la sede arcivescovile, a causa degli avvenimenti, era da qualche tempo estinta. L’ipotesi che fosse in quel tempo vescovo bizantino di Catania Jacopo è del tutto insostenibile, perché non suffragata da alcun documento [...]. Fiumefreddo, appartenente

30

V. M. AMICO, Catana illustrata, cit., 22; L. T. WHITE, jr., Il monachesimo latino,

cit., 170. 31

D. G. LANCIA DI BROLO, Storia della Chiesa in Sicilia, cit., 448.


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Adolfo Longhitano al territorio di Taormina, è sito in una zona lontana dai vasti territori assegnati dal Conte ad Angerio e allargati poi dalle donazioni di Tancredi figlio del Conte Guglielmo, nipote dello stesso Ruggero [...]. L’ipotesi ventilata da qualche studioso moderno, che cioè Jacopo fosse vescovo di Taormina, prima che questa città fosse aggregata alla diocesi di Messina, non è del tutto da rigettarsi, quantunque manchi la documentazione»32.

A queste due ipotesi se ne aggiunse un’altra: «Giacomo o era realmente vescovo di Taormina o fungeva da vescovo ausiliario di rito greco, per i greci nel territorio della diocesi di Catania; fenomeno attestabile, questo, verso la fine del secolo in terra salentina. Qualche anno più tardi saranno vescovi greci provenienti dalla Calabria a soddisfare, nel corso di loro viaggi pastorali, i bisogni liturgico-rituali della popolazione greca, per esempio Luca di Isola nel 1105. Questa data ci ricorda bene i presentimenti della morte vicinissima che Giacomo esprime nel suo testamento»33.

Non si può escludere un’altra congettura: il termine episkopós potrebbe essere un cognome di famiglia senza alcun riferimento all’ufficio ecclesiastico34. Queste risposte ai nostri interrogativi iniziali hanno come presupposto l’autenticità o la sostanziale veridicità della pergamena di Jacopo. Chi ritiene che il documento è tardo, è una copia interpolata con datazione erronea, e considera la pergamena di Roberto sicuramente falsa, non può servirsi degli elementi in essi contenuti per disquisire sulla presenza di una comunità cristiana di rito greco a Catania o sulla vitalità del cristianesimo in Sicilia orientale durante la dominazione islamica35. Lo studio di G. Scalia può conservare una propria validità se si serve della pergamena di Jacopo come spunto per affrontare un argomento di indubbio interesse, oggi destinato a giungere a conclusioni diverse. La tesi 32

G. SCALIA, La pergamena del vescovo Iacopo, cit., 36-39. H. ENZENSBERGER, Fondazione o «rifondazione»?, cit., 33. 34 L. c. 35 H. BRESC, Dominio feudale, cit., 95. 33


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sostenuta da Lancia di Brolo di una prevalenza della popolazione cristiana su quella islamica nel Val di Noto è tutta da dimostrare. A Catania l’islam dominò per circa centosettanta anni36 e le fonti arabe o normanne non ci danno alcun elemento per affermare che al tempo della conquista normanna esistesse in città una cattedrale bizantina37. Durante il lungo periodo del dominio islamico cessò ogni forma di culto pubblico, probabilmente l’antica cattedrale fu adibita ad altri usi e la popolazione cristiana si ridusse ad una sparuta minoranza. La comunità cristiana che il vescovo Angerio presiedeva era costituita più da latini venuti al seguito dei normanni che da greci sopravvissuti a quasi duecento anni di predominio islamico. Un discorso diverso va fatto per il Val Demone, a cui appartenevano Taormina e Fiumefreddo, un territorio montuoso con notevole presenza di monaci basiliani, che riuscì a mantenere una presenza cristiana, sia pure circoscritta e ininfluente nella vita pubblica.

6. CONCLUSIONE La breve rassegna delle opinioni degli storici sulla pergamena greca di Jacopo e su quella latina di Roberto ci hanno dimostrato una varietà di posizioni, che nel tempo sono diventate più prudenti. La paleografica e la diplomatica ci offrono oggi possibilità di analisi dei documenti antichi che in passato erano semplicemente sconosciute. Ciò spiega negli storici più recenti l’esigenza di un maggior rigore scientifico nel formulare ipotesi o nell’utilizzare elementi vaghi e di incerta provenienza. I due diplomi in questione, anche a coloro che li ritengono tardivi e interpolati, offrono elementi storiografici di indubbio interesse, che non abbiamo mancato di 36

Catania fu occupata dagli islamici nel 902 e fu liberata dai normanni nel 1072 (A. LONGHITANO, La parrocchia, cit., 8-9). 37 La chiesa di Sant’Agata la Vetere fu la prima cattedrale di Catania dopo la rifondazione della diocesi ad opera del Conte Ruggero, prima che venisse costruita vicino al mare la nuova cattedrale come ecclesia munita. La primitiva cattedrale sorgeva probabilmente negli antichi quartieri greco-romani, non alla periferia della città o fuori il centro abitato. È da ritenere anacronistica l’ipotesi avanzata dal Romeo di una cattedrale esistente a Catania nel III secolo, prima del martirio di s. Agata, dedicata al Salvatore, agli apostoli o alla Beata Vergine (S. ROMEO, S. Agata V. M. e il suo culto, Catania 1922, 181-187).


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indicare nella nostra breve analisi: si pensi alle condizioni di privilegio in cui si trovava il vescovo e la Chiesa di Catania in epoca normanna sia sul piano del patrimonio immobiliare sia su quello della giurisdizione. L’elemento più sicuro riguarda l’esistenza nel secolo XII del casale di Fiumefreddo, sorto intorno ad un monastero e ad una chiesa dedicati a s. Giovanni nel territorio contiguo alla città di Taormina. Ogni altra riflessione sull’esistenza in zona di un vescovo greco e di una comunità cristiana sopravvissuta al dominio islamico ci sembra non giustificata dai giudizi severi sull’autenticità dei due documenti, formulati negli ultimi decenni da paleografi e da storici di indubbio credito.


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DOCUMENTI

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1103 maggio 20, Fiumefreddo Il vescovo Jacopo dispone di donare alla propria morte ad Angerio e al monastero [Sant’Agata] di Catania il monastero San Giovanni di Fiumefreddo con la chiesa annessa, i terreni e la popolazione cristiana, che egli aveva ricevuti dal Conte Ruggero; inoltre come segno della sincerità dei suoi propositi dona mentre è in vita agli stessi un mulino con il terreno antistante, una proprietà situata fra Fiumefreddo e Fiumesecco, le cantine e altri appezzamenti di terreno. ACCC, Pergamene greche, n. 5. Edizione da questa stessa fonte: S. CUSA, I diplomi greci ed arabi di Sicilia, cit, 552-554; G. SCALIA, La pergamena del vescovo Iacopo, cit., 42-43; L. R. MÉNAGER, Notes critiques, cit., 167-169.

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mon≈n toà ¡g…ou „w£nnou potamoà yucroà s∂n p£shj aÙtÁj diakrat»sewj kaˆ kthm£ton d≥dwka aÙtÁ ™mo‹ proer≥sh e„j t≈n ¡g…an mon≈n kat£nhj kaˆ e„j se tÕn ™p…skopon kaˆ kaqhgÒumenon kÚrion ¢nggerhn kaˆ p©shn to‹j ¢delfo‹j ™n tÁj ™mo‹j kero‹j Øper lÚtrou kaˆ ¢f≥sewj tîn ™mîn ¡martion kaˆ Øper ¢feseoj kaˆ ¡martion kÒmhtoj roger…ou toà dwrhsam≥nou moi t≈n prorhqe‹san ™klhs…an kaˆ p£seaj yucÁj cristianÁj, all' oân de kaˆ e„j tioàton st‹con na ™gë „£kwboj ™p…skopoj ™n p£si tÁ zwe‹ mou t≈n 'eklhs…an toà ¡g…ou „w£nnou s∂n p£shj tÁj diakpat»sewj aÙtÁj kaˆ pr£gmatoj na despÒzw aÙt≈n æj kÚrioj kaˆ aÙq≥nthj ¥cri tÁj ™sc£thj mou ¢nampnoÁj, kaˆ met⁄ t≈n ™m≈n qan≈n æj pro»reite ™c≥tw aÙt≈n t≈n ™kles…an toà ¡g…ou „w£nnou √ ¡g…a toà qeoà ™klhs…a kat£nhj s∂n p©shj tÁj ≠r…oij aÙtÁj èj kaqÕj ™dwris£mhn aÙt≈n k¡gë „£kwboj ™p…skopoj ™n tÁ ™mo‹ zwe‹. PrÕj de p…stwsin ka… ¢lhqhn≈n ¢g£pein Ωn k≥kthmai e„j t≈n ¡g…an toà qeoà ™klhs…an kat£nhj kaˆ e‡j se tÕn ™p…skopon kaˆ kaqeigoÚmenoj kÚriou ¢gg≥rhn kaˆ p©shn to‹j ¢delfo‹j sou d…dwmoi de soi ¢pÕ toà nàn ™n tΩ ™mo‹ zwe‹ dwr≥an tÕn mÚlon Ón ™k prost£xewj toà kÒmhtoj rouker…ou g≥gwnen Øpoboul≈ kakîn ¢nqrèpwn s≈n kaˆ toà cwraf…ou toà proaul…ou toà mÚlou ™kr£th gouli£lmwj tzik£laj, d…dwmoi de kaˆ trion zeugar…on cwr£fhn tÕ Ônta kaˆ diake…menoj m≥son toà potamoà toà yucroà kaˆ xurou ¥neu men ton ™mîn ™rgasiîn. kaˆ di⁄ toàto pepo…hka toà œchn me s∂ ≠ ¡giètatoj ™p…skopoj kaˆ √ ¢delfoˆ e„j t⁄j ag…aj s⁄j eÙc⁄j di⁄ toàto de pneumatikën ¢delfÕj Ømîn ™ghn£mhn; kaˆ ∫ tij oÙ st≥rxh æj k¢gë st≥rgw scà tÕ ¢n£qema par⁄ patrÕj kaˆ uƒoà kaˆ ¡g…ou pneÚmatoj kaˆ tîntih ¡g…on qeofÒrwn paterîn kaˆ e„q' oÛ twj st≥rghn kaˆ ™mm≥nhn tÕ parën cart…on, ™gr£fei de tÕ parÕn sig…llion ™n œtei scia' „ndiktiînoj ia' mhnˆ m£iw e„j t⁄j k' ; ™gr£fh de kaˆ tÁ ™mo‹ shn»qh boÚllh sfragisqen tÁ diamwl…bdw d…dwmoi de ka… su kurî c£rin kellarar…aj cwr£fia ˜nÕj zeugar…ou ™c tÁj diakrat…sewj ton ˜t≥rwn g' p≥rix ton ™mîn ™rgasiîn, e„s≈n de s≈n tîn ¢not≥ron zeugar…on ton prorhq≥nton cwr£fia zeugar…on d' . ™gr£fh de tÕ parÕn cart…on ceirˆ l≥ontoj notar…ou britzian»tou. + „£kwboj ™p…skopoj ™l≥w qeoà m™n oân ge + l≥wn not£rioj ≠ kaˆ ¡giwmhn…thj m£rtur Øp≥graya tÕn t…mion staurÒn.


Il monastero San Giovanni di Fiumefreddo

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+ l…kastoj eØtel≈j presbÚteroj tÁj meg£lhj ™klis…aj kat£nhj m£rtur Øp≥graya „dioce…rwj. + gouli£lmoj tourgoum≥nhj m£rtur Øp≥graya + „w£nnhj not£rioj ≠ ¢neyiëj toà ¢nwt≥rou „akèbou ™piskÒpou m£rtur Øp≥graya + nikÒlaoj k£ithj kat£nhj m£rtur Øp≥graya + scol£rioj uƒÕj ¢ndr≥ou „er≥oj m£rtur Øp≥graya + „w£nnhj k£pouaj ≠ kaˆ gambrÕj kuroà scolar…ou m£rtur Øp≥graya + kalÒkeroj camed≥rhj m£rtur Øp≥grafa + gouli≥lmoj bhskèmhj pÒlewj kat£nhj m£rtur Øp≥graya tÕn t…mion staurÒn + bas…lioj sittas»rhj m£rtur Øp≥graya + maàroj not£rioj prwtopap© m£rtur Øp≥graya.

***

In Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. Sia noto a tutti i cristiani che vedranno e leggeranno la presente carta che il Conte Ruggero, per suo buon ricordo e per la salvezza dell’anima sua, ha donato la chiesa di San Giovanni detto di Fiumefreddo, con dominio su tutte le terre ad essa appartenenti, a me Jacopo vescovo per sua spirituale salvezza, e il frutto e la proprietà di essa. Ed io Jacopo vescovo annettei la chiesa allo stesso monastero, edificai case e piantai vigneti. Ma, temendo la terribile ora della morte, affinché dopo la mia fine la mia fatica non andasse perduta, né potesse venire in potere di qualche uomo malvagio, questo piacque a me Jacopo vescovo, di donare, prima della mia morte, la chiesa di San Giovanni, e tutto ciò che gli appartiene, a un santo monastero, affinché dopo la mia morte non scompaia il presente monastero di San Giovanni, avendo proclamato questo in tal modo, ho donato lo stesso monastero di San Giovanni di Fiumefreddo, con tutti gli annessi diritti e beni, come da me è stato prima detto, al santo monastero di Catania e a te, vescovo pastore e signore Angerio, e a tutti i confratelli che sono nelle mie mani, per espiazione e remissione dei miei peccati e per remissione anche dei peccati del Conte Ruggero, il quale mi aveva fatto donazione della predetta chiesa e di tutte le anime cristiane ad essa appartenenti, ma certamente in tale ordine, che io Jacopo vescovo, durante tutta la mia vita fino all’ultimo respiro, abbia il pieno dominio della chiesa di San Giovanni e di ogni suo diritto e bene come signore e padrone autonomo, e dopo la mia morte, come è stato prima detto, abbia la stessa chiesa di San Giovanni la santa Chiesa di Catania, con tutti i confini ad essa appartenenti, come ne avevo fatto donazione anch’io Jacopo vescovo mentre ero in vita. A prova e veracità dell’amore che ho acquisito verso la


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Adolfo Longhitano

santa Chiesa di Catania e verso di te, vescovo e capo, signore Angerio, e verso tutti i tuoi confratelli, fin da ora mentre sono in vita dono a te un mulino — che la slealtà di uomini malvagi ha proclamato di sua appartenenza per comando del Conte Ruggero — e il poderetto del recinto antistante al mulino, di cui tenta di impadronirsi Guglielmo Cicala e ti dono anche la terra arabile da tre paia di buoi, situata tra Fiumefreddo e Fiumesecco, senza i miei poderi. E ho fatto questo affinché tu, santissimo vescovo, e i confratelli mi abbiate nelle vostre sante preghiere con questo diventassi spiritualmente fratello vostro; e chiunque non rispetti la mia volontà si abbia l’anatema del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo e dei santi Padri teofori e voglia gradire e lasciare così la presente carta. Fu apposto il presente sigillo nell’anno 6611, indizione 11, giorno 20 del mese di maggio. Fu scritta e sigillata col solito mio sigillo di piombo. Dono inoltre e ti metto in possesso delle cantine e terreni per un sol paio di buoi, escluso il dominio sugli altri tre poderi intorno e, oltre al terreno di un paio di buoi anzidetto, appezzamenti per quattro paia di buoi. La presente carta fu scritta per mano del notaro Leone Britzianitòs. + Jacopo vescovo per divina misericordia. + Leon notaro, anche come testimone del sacro atto sottoscrissi il segno della preziosa croce. + Licastro, semplice presbitero della grande Chiesa di Catania, come testimone sottoscrissi di propria mano. + Guglielmo come testimone del fatto sottoscrissi. + Giovanni notaro, cugino del già nominato Jacopo vescovo come testimone sottoscrissi. + Nicola, anche di Catania, testimone sottoscrissi. + Scolario, figlio di Andrea sacerdote, come testimone sottoscrissi. + Giovanni di Capua cognato del signore Scolario come testimone sottoscrissi. + Calogero camerario come testimone sottoscrissi. + Guglielmo, visconte della città di Catania come testimone sottoscrissi il prezioso segno della croce. + Basilio .... come testimone sottoscrissi. + Mauro notaro arcipresbitero come testimone sottoscrissi.


Il monastero San Giovanni di Fiumefreddo

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1106 (?) luglio 3, Messina Il vescovo Roberto di Messina dona al monastero Sant’Agata di Catania la chiesa San Giovanni di Fiumefreddo con tutti i suoi possedimenti; detta chiesa in passato si trovava nel territorio della città di Taormina, che le autorità ecclesiastiche negli anni precedenti avevano annesso alla circoscrizione della diocesi di Messina. ACCC, Pergamene latine, n. 5 (già 3). L’indizione XI non corrisponde all’anno 1106. Edizione da questa stessa fonte: R. PIRRI, Sicilia Sacra, cit., 385-386; Collectanea, cit., 10-11; G. SCALIA, La pergamena, cit., 44.

In nomine sanctae ac individuae Trinitatis. Sciant ac cognoscant omnes Christi fideles qui hanc cartam ad invicem viderint vel ad quorum iudicium ipsa quandoque representata fuerit quod ego Robertus Dei gratia messanensium episcopus pro Dei omnipotentis caritate et pro salute animae meae dedi monasterio sanctae Agathae virginis et martyris quod in civitate cathanensium est ecclesiam sancti Iohannis de Flumine frigido cum omni sua possessione quae ecclesia in territorio Tauromenitanae civitatis sita est. Sed Tauromenitana civitas in nostris temporibus secundum disposicionem sanctae romanae ecclesiae sedis messanensium ecclesiae cum omni sua possessione in parrochia data est. Vere dedi ego Robertus messanensium episcopus monasterio sanctae Agathae virginis et martyris ecclesiam sancti Iohannis de Flumine frigido et omnes illas consuetudines vel omnia illa iura quae de ecclesiis vel de monasteriis videntur pertinere ad episcopum concessi ego Robertus episcopus pro remedio animae meae de memorata ecclesia sancti Iohannis supradicto monasterio sanctae Agathae scilicet ut ecclesia sancti Iohannis de Flumine frigido nemini serviat nisi Deo et monasterio beatissimae virginis Agathae. Igitur hanc cartam feci ego Robertus episcopus anno ab incarnatione domini nostri Iesu Christi millesimo centesimo sexto indictione undecima mensis iulii die tertio et hanc cartam dedi ego Robertus episcopus in praesentia fratrum nostrorum videlicet canonicorum messanensium dilecto fratri Angerio memorati


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Adolfo Longhitano

monasteri sanctae Agathae virginis et martyris abbati. Et haec sunt nomina illorum fratrum quorum consilio vel concessione hanc cartam composuimus. Ego Robertus episcopus in testimonium huius nostrae constitutionis hoc signum sanctae crucis manu mea composui + Signum Odonis decani + Signum Ursionis cantoris + Signum Milonis + Signum Roberti cantoris +

***

Nel nome della santa ed indivisibile Trinità. Sappiano bene tutti i cristiani i quali vedranno a loro volta questo documento o qualora esso sia sottoposto al loro giudizio che io Roberto per grazia di Dio vescovo dei Messinesi, per la carità di Dio onnipotente e per la salvezza della mia anima ho dato al monastero di sant’Agata vergine e martire che si trova nella città di Catania la chiesa di san Giovanni di Fiumefreddo con ogni suo possedimento, chiesa che è situata nel territorio della città di Taormina. Ma la città di Taormina, ai nostri tempi, per disposizione della santa romana chiesa è stata data come parrocchia alla chiesa della sede di Messina con ogni suo possedimento. In verità io Roberto vescovo dei Messinesi ho dato al monastero di sant’Agata vergine e martire la chiesa di san Giovanni di Fiumefreddo e per la salvezza dell’anima mia io Roberto vescovo ho rinunciato a tutti quegli usi o tutti quei diritti, che sulle chiese o sui monasteri sembrano appartenere al vescovo, sulla ricordata chiesa di san Giovanni in favore del sopra detto monastero di sant’Agata, affinché la chiesa di san Giovanni di Fiumefreddo non sia asservita a nessuno se non a Dio e al monastero della beatissima vergine Agata. Pertanto io Roberto vescovo ho stilato questo documento nell’anno 1106 dalla nascita del signore nostro Gesù Cristo l’undicesima indizione giorno tre del mese di luglio e ho consegnato questo documento io Roberto vescovo alla presenza dei nostri confratelli cioè dei canonici messinesi al caro fratello Angerio abate del suddetto monastero di sant’Agata vergine e martire. E questi sono i nomi di quei fratelli per il cui consiglio o concessione noi abbiamo disposto questo documento. Io Roberto vescovo come testimone di questa nostra disposizione ho apposto di mio pugno questo segno della santa croce + Firma del decano Odone + Firma del cantore Ursione + Firma di Milone + Firma del ciantro Roberto +


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L’INTUIZIONE DI DIO SECONDO LUIGI E MARIO STURZO TRADUZIONE E COMMENTO DI UN TESTO IN INGLESE DEL 1941

SALVATORE LATORA*

1. LA STORIA DI UN SAGGIO Nel testo italiano: Problemi spirituali del nostro tempo, IX volume dell’Opera Omnia, pubblicata dalla Zanichelli1, la cui Prefazione è solo in inglese, Luigi Sturzo scrive, che i primi quattro capitoli hanno carattere teoretico, ma anch’essi, come tutti i saggi ivi raccolti, sono il frutto di una lunga esperienza maturata durante un periodo di 50 anni di attività culturale, sociale e politica, in cui si è costantemente arricchito a contatto «con ferventi credenti, credenti tiepidi e non credenti, con gioventù spirituale e mondana, con futuri santi come Giuseppe Toniolo e Vito Necchi, con donne pie e donne lontane dalla fede, con operai, contadini, artigiani e uomini d’affari…»2.

Quel che in apparenza può sorprendere è il fatto che tali meditazioni spirituali sono occasionate da impegni che sembrerebbero molto lontani da esse, perché prevalentemente pratici; ma dalla pratica socio-politica egli ha saputo trarre conseguenze teoretiche, spirituali e filosofiche. Sturzo illustra poi la genesi dei primi quattro saggi e, per quanto riguarda il terzo, che è quello che qui ci interessa, e che alleghiamo in

*

Docente di Cosmologia nello Studio Teologico S. Paolo. L. STURZO, Problemi spirituali del nostro tempo, IX, Bologna 1961: Preface, XI-XIV. 2 Ibid., XI. 1


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Salvatore Latora

copia dall’originale in inglese, seguita dalla nostra traduzione in italiano, precisa che «esso è frutto del dibattito epistolare tra me e mio fratello Mario, Vescovo di Piazza Armerina e delle mie conversazioni con il Dott. Angelo Crespi di Londra sul problema se l’uomo può arrivare all’intuizione di Dio»3.

Il dibattito epistolare fra i due fratelli è riportato nella pubblicazione dell’Istituto Luigi Sturzo, a cura di Gabriele De Rosa4. Il saggio fu pubblicato per la prima volta in inglese, come si diceva, sulla rivista americana: “Thought”5, su cui abbiamo lavorato per la traduzione e l’interpretazione, inserendola nel lungo dibattito che intercorse fra i due fratelli, quando Luigi era in esilio all’estero; con quel “cartolinare”, come essi chiamavano la loro assidua corrispondenza, il Carteggio (più di 2000 tra lettere e cartoline!), che durò sedici anni, fino alla morte del vescovo Mario Sturzo. È chiara la modernità di questo dibattito, che si avvantaggia, oltre che della mente speculativa dei due fratelli, dell’esperienza all’estero di Luigi e del suo costante rapporto con la cultura internazionale, che aveva già intrapreso altri percorsi e metodologie, intuizionistiche, esistenzialistiche, fenomenologiche ed Ermeneutiche, che non sono quelle italiane di Croce e Gentile. Luigi Sturzo, tra le altre attività ed impegni, partecipa al Congresso internazionale filosofico che si tenne ad Oxford nel 1930, e ne scrive un magnifico saggio: Il problema dell’assoluto - Il relativo in funzione dell’assoluto!

3 «The third is fruit of an exchange of letters between myself and my brother Mario, Bishop of Piazza Armerina (Who died in the Lord on November 13,1941), and of my conversations wiith Dr. Angelo Crespi of London on the problem ofwhether man can arrive at the intuition of God»: ibid., XII. 4 L. STURZO-M. STURZO, Carteggio (1924-1940), Edizioni di Storia e Letteratura, IIV, Roma 1985. 5 L. STURZO, The Problem of Knowledge and the Intuition of God, in Thought 6 (1941) 312-324; noi l’abbiamo richiesto e ottenuto da Library della Harvard University, Cambridge, (Boston), Massachusetts, e da questo testo abbiamo operato la traduzione, confrontandola poi con quella riportata da: L. STURZO, Problemi spirituali, cit.


L’intuizione di Dio secondo Luigi e Mario Sturzo

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Ma anche il vescovo Mario, ne Il pensiero dell’avvenire (Trani, 1930), si era avventurato in un progetto filosofico nuovo, rispetto alla scolastica nostrana; gli mancava, forse, l’aggiornamento diretto con i fermenti culturali che andavano sviluppandosi fuori d’Italia; ed è quello che, in qualche modo, gli fornisce il fratello Luigi6.

2. GLI ARGOMENTI DEL SAGGIO: ALCUNI PASSAGGI ESSENZIALI L’occasione del saggio sturziano trae lo spunto dal volume del filosofo e teologo Gabriel Picard (1876-1959) gesuita francese: La saisie immédiate de Dieu dans les états mystìques (Paris 1923), che colpì benevolmente Sturzo, tanto da consigliarne la lettura al fratello, di cui sollecita un competente giudizio (il vescovo Mario, filosofo ha elaborato un suo sistema di pensiero denominandolo: Neo-sintetismo; si era interessato anche di mistica!). La tesi, in sostanza è la seguente: nella conoscenza naturale c’è un’oscura intuizione di Dio presente nell’anima. Il problema è importante sia per la filosofia che per la teologia mistica, e Sturzo lo riprende inquadrandolo nella storia della Gnoseologia a lui contemporanea, ma apportandone alcune fondamentali distinzioni, a nostro parere, di giusto rilievo. L’impostazione tradizionale del problema conoscitivo, scrive Sturzo, si basa sul rapporto tra soggetto e oggetto, e a seconda che si accentui il valore dell’uno o dell’altro, nasce la controversia tra realisti e idealisti; generalmente si tralascia, quindi, ogni riferimento a fattori sociali e all’ambiente, che vengono di solito lasciati al pedagogista, allo psicologo e al sociologo. La proposta di Sturzo è quella di considerare il problema della conoscenza nella sua interezza. Non si può quindi trascurare la genesi, il carattere e le finalità sociali della conoscenza, e poiché essa per essere tale non può non essere che

6 Per il problema filosofico di Mario Sturzo, cfr oltre ai miei volumi e saggi, citati in bibliografia, il recente e ottimo studio di: M. ALEO, Mario Sturzo Filosofo, collana Studi del Centro “A. Cammarata”, Caltanissetta-Roma 2003.


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organizzata e sistematica, richiede necessariamente il riferimento ad un tutto, a un intero. Ma di quale “tutto” si tratta? Riferiamoci ad un’esperienza del senso comune: «Non possiamo guardare l’orizzonte, senza sapere che oltre le montagne ci sono altre terre e altri esseri; come non possiamo ammirare le stelle senza pensare a quelle che non si vedono. Così, come lo spazio si allarga indefinitamente, anche il tempo si allunga nel passato e nel futuro. In mille forme, la conoscenza dei fatti, le idee teoretiche e le stesse ipotesi diventano parte di quell’intero o tutto, di cui non conosciamo i limiti, ma nel quale il nostro essere e quello di tutti gli altri siamo immersi senza essere sommersi»7.

E qui incalza con un’altra domanda: «Il “tutto”, a prima vista indefinito, che si presenta come una situazione cognitiva è antecedente ad ogni pensiero o è un prodotto dell’esperienza?»8.

In altri termini, ci si chiede, se l’idea dell’essere venga prima di ogni attuale conoscenza: la terminologia è quella rosminiana, ma come vedremo Sturzo la porta avanti con un apporto di riflessione originale e nuova; e per svolgere storicamente la problematica , si serve di un articolo tratto dalla Rivista di Filosofia neo-scolastica. «I Neo-scolastici italiani, egli scrive, nelle loro battaglie contro l’idealismo di Croce e ancor più contro l’attualismo di Gentile e dei suoi discepoli, insistono su due punti essenziali del Tomismo: 1) che il “nostro intelletto è fatto per conoscere principalmente il mondo esterno e riflessivamente il proprio atto conoscitivo”, e 2) che “direttamente e immediatamente il nostro intelletto coglie un’essenza in ogni essere esistente e in ogni essenza coglie l’esistenza” (MICHELE FATTA, in Rivista di Filosofia Neoscolastica, novembre 1919, pp. 492-493). Per loro la realtà oggettiva esistente è prioritaria rispetto alla conoscenza, ma nell’atto del conoscere è concomi-

7 L. STURZO, The Problem of Knowledge and the Intuition of God, in Thought 6 (1941) 314. Traduzione dall’originale a cura di Salvatore Latora. 8 Ibid., 315.


L’intuizione di Dio secondo Luigi e Mario Sturzo

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tante al potere astrattivo dell’intelletto ed è conosciuta simultaneamente in ogni essenza astratta dall’oggetto. In tutte e quattro le teorie sopra indicate (Ontologismo, Realismo dogmatico, Cartesianesimo e sue interpretazioni, Realismo Tomistico) non c’è posto per il problema di un “ tutto indefinito” come conoscenza»9.

L’ipotesi di studio da cui Sturzo è partito si va progressivamente precisando in alcune chiare affermazioni: «In ogni atto di conoscenza c’è implicita una situazione cognitiva legata ad un tutto indefinito, che comprende in vari modi il soggetto e l’oggetto»10.

«Comunque ci sembra di essere più vicini alla verità nel descrivere l’intero di cui stiamo parlando come un’intuizione oscura ma diretta della realtà, nel suo insieme indifferenziato, che accompagna ogni atto conoscitivo»11.

«Tuttavia essa è un’intuizione diretta senza mediazione di specie, che non avrebbero occasione per formarsi: può chiamarsi “preconoscenza” (in una veduta ermeneutica, Gadamer la chiamerà “ pre-comprensione!”), che il soggetto attinge in quanto è parte di questo tutto, vive in esso, non potrebbe esistere fuori di esso, lo intuisce come realtà esistente, ma non lo definisce, perché come tutto non può essere definito. Se non fosse così, prima di conoscere dovremmo sentirci in un completo isolamento»12.

Come rispondere allora all’interrogativo iniziale, se il “tutto” sia antecedente ad ogni pensiero o se non sia piuttosto un prodotto dell’esperienza? «Possiamo rispondere, afferma Sturzo, che non è né l’una né l’altra. Non è un antecedente logico, nel senso di un mezzo per conoscere, come l’idea

9

Ibid., 315-316. Ibid., 316. 11 Ibid., 317. 12 Ibid., 318. 10


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Salvatore Latora dell’essere per l’ontologista; né è un antecedente reale nel senso che si dia una intuizione del tutto al di fuori e antecedente ad ogni altro atto di conoscenza. Neppure è un prodotto dell’esperienza, che come tale non è mai oscuro […] Quel dato di fatto da cui siamo partiti, può ora essere definito in maniera più precisa come una intuizione diretta e oscura, presente in ogni atto di conoscenza»13.

Il “tutto” di cui abbiamo l’intuizione è in primo luogo il tutto esistenziale; noi sentiamo attraverso un’intuizione oscura e diretta di partecipare alla realtà cosmica. «Logica e metafisica hanno lo stesso punto di arrivo, ci rappresentano nell’essenza il tutto fisico-cosmico come un sistema coerente di idee e di realtà. Così noi arriviamo ad avere attraverso l’esperienza e la riflessione una immagine logico-metafisica di quella stessa realtà che in ogni atto di conoscenza ci si presenta come un tutto indifferenziato, intuito in maniera oscura»14.

Alla luce di tali considerazioni, Sturzo pone ora la questione finale: nella intuizione diretta e oscura del tutto vi è anche l’intuizione della Causa Prima, dell’Essere infinito, universale e concreto? «Teologi e filosofi concordano sul fatto che Dio è in tutte le cose per essentiam, per potentiam e per praesentiam. San Paolo disse agli Ateniesi: “In Lui viviamo, ci muoviamo e siamo”. In tutte le creature sono realizzati gli archetipi divini, e l’uomo specialmente è stato fatto “a Sua immagine e somiglianza”. Perciò Tertulliano poteva ben parlare di un’anima naturaliter christiana, e S. Agostino poteva rivolgere a Dio quel potente fecisti nos ad Te. Questo però non prova che nella intuizione da noi studiata si attinga la Divinità come Essere Infinito o Causa Prima o come ogni altra idea che noi formuliamo con ragionamenti induttivi o deduttivi. Solo possiamo affermare che il tutto della realtà intuita non è né al di fuori di Dio, né concepibile in sé come un tutto vero»15. 13

Ibid., 319. Ibid., 321-322. 15 Ibid., 322. 14


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Sturzo fa riferimento poi a due interessanti opere di due Autori francesi: di Louis Lavelle, La présence totale; e di Joseph Maréchal, Le point de départ de la Métaphisique (Cahier V, 442). Del primo sottolinea il limite, per non avere distinto il tutto cosmico dal Tutto Infinito, per cui cade in una specie di panteismo; del secondo (di cui è noto lo sforzo di conciliare la filosofia tomista con il trascendentale Kantiano) apprezza l’affermazione che «all’interno di ogni intellezione umana l’elemento di significazione obiettiva presuppone una relazione ontologica all’Assoluto […] e che L’Essere Assoluto, nella nostra coscienza, è implicitamente affermato come noumeno positivo in ogni giudizio»16.

Sturzo apprezza queste affermazioni, perché in consonanza con le conclusioni della sua indagine filosofica. Infatti, egli scrive alla fine del suo saggio: «L’intuizione del tutto, come l’abbiamo spiegato e discussa, è un movimento di necessità interiore verso l’assoluto. Questo assoluto, non chiaramente precisato nei suoi contorni, è il misterioso e solido fondamento del tutto indifferenziato; esso ci si rivela gradualmente, man mano che l’intelletto comprende le realtà particolari nelle loro essenze e individualizzazioni, nelle loro sistemazioni e relazioni: esso rivela se stesso gradualmente man mano che la volontà e l’agire umano realizzano di fatto le verità conosciute. Possiamo concludere quindi che noi abbiamo “naturalmente” una oscura intuizione di Dio come l’Assoluto nella nostra oscura e diretta intuizione del tutto indifferenziato, e conseguentemente in ogni nostro atto conoscitivo»17.

16 17

Ibid., 323. Ibid., 324.


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3. LA FECONDITÀ DEL DIALOGO CON IL FRATELLO MARIO Riferimento costante del pensiero di Luigi Sturzo è stato il sistema filosofico del fratello Mario, che il vescovo intitolò: Neo-sintetismo, oltre, si intende, alla dottrina profusa nelle numerose pastorali e nelle altre opere di letteratura e di poesia; Luigi si può dire è il più profondo conoscitore del pensiero e degli scritti del fratello, di cui si fece, anche all’estero, solerte diffusore. Era di dieci anni più grande ed egli lo stimava come maestro e consigliere, ma soprattutto come interlocutore privilegiato, specialmente durante gli anni dell’esilio, quando per circa sedici anni (1924-1940) si scambiarono quasi giornalmente lettere, ma specialmente cartoline, raccolte ora nei quattro volumi del Carteggio, a cura di Gabriele De Rosa18. Ed è proprio qui che i due fratelli dibattono il problema in questione: sulla base della dottrina della conoscenza essi affrontano l’argomento della intuizione, per rispondere a ciò che il gesuita francese sostiene nell’opuscolo citato e cioè, se in via naturale noi abbiamo la intuizione oscura di Dio e dell’anima. Tale scritto ha avuto larga diffusione in Francia e Luigi Sturzo lo trova di grande interesse, perché lo fa pensare e riflettere, tanto che lo legge nel 1929 e poi ritorna a leggerlo anche dieci anni dopo, nel 1939! Il vescovo non è così entusiasta e ne enuncia i motivi filosofici: «La teoria del Picard, scrive al fratello, non ha fondamento filosofico. Non si può ammettere che accettando l’idealismo […] Il conoscere non è un puro riprodurre l’oggetto, ma un esprimere per nozione l’azione ricevuta, ed esprimerla secondo la natura del soggetto […] Dir dunque che Dio può provocare la cognizione nell’uomo di un oggetto non presente, con la infusione delle specie conoscitive, è dir cosa senza fondamento conoscitivo. Resta quel che tu chiami mia e che è di S. Agostino e di S. Tommaso… Se tu badi alle esperienze e alle dottrine dei grandi mistici, trovi che, in altre parole dicono la stessa cosa. Essi dicono che per godere della esperienza di Dio occorre aver fatto il vuoto nei sensi e nell’intelletto. E ciò è la morte mistica»19. 18

L. STURZO-M. STURZO, Carteggio, cit. Lettera n° 2010, Piazza Armerina, 4 aprile 1939: L. STURZO-M. STURZO, Carteggio, IV, cit., 324. 19


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Luigi risponde che non sarebbe così reciso nel negare ogni fondamento filosofico a quella teoria, perché essa risponde alle tendenze neo-realistiche immediate, che vanno diffondendosi, e penetrano nel campo degli studi cattolici20. Egli aveva già esortato il fratello a continuare l’opera di ammodernamento culturale e filosofico sempre sulla linea del Neo-sintesismo, che è una filosofia nuova, costruita proprio per superare quello che è il difetto principale della cultura moderna, e cioè, l’eccesso di analisi, l’analiticismo, ma d’altra parte intende differenziarsi, dal sintetismo monistico, proprio dell’idealismo, da qui la premessa del “Neo”! È importante quel che da Londra egli scrive: «Io insisto sul problema dell’intuizione, perché è molto diffusa l’influenza dell’Intuizionismo, e merita di essere ben chiarita, utilizzando quel che c’è di buono e rigettando quel che invece nasconde di errore. Oggi si può dire che l’arte e la poesia sono influenzate dall’intuizionismo, mentre la storia è influenzata dall’idealismo e la pedagogia dal positivismo. Il Neo-scolasticismo, non ha, fin oggi, nessun campo di influenza, meno che nella teologia cattolica. Pur troppo è così. Il Neo-sintetismo può essere il passo decisivo del neo-scolasticismo verso le attività extra-filosofiche; cioè per la ripresa di influenza nel pensiero e nella cultura. Ma deve tener conto di tutta la corrente intuizionistica e mistica, non puoi perciò trascurarla. Tu hai una difficoltà pregiudiziale verso l’intuizionismo, cioè che riduci tutti i valori conoscitivi al ragionamento»21.

Il dibattito epistolare è molto fecondo per i due fratelli, che, pur non abbandonando i loro punti di vista, li armonizzano e li riequilibrano, infatti l’uno non accetta per intero la tesi di Picard, ritenendo l’intuizione del tutto, solo un movimento di necessità interiore verso l’assoluto, a cui un apporto di chiarificazione sarà dato dal procedimento razionale; l’altro si sente incoraggiato dal giudizio di valida attualità del suo sistema filosofico e spronato a proseguire l’indagine sul problema mistico.

20 21

cit., 11.

Lettera n° 2011, London, 9 aprile 1939: ibid., 325. Lettera n° 379, London, 19 gennaio 1929: L. STURZO-M. STURZO, Carteggio, II,


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Il Carteggio è uno strumento importante per intendere il pensiero e l’opera dei fratelli Sturzo; esso costituisce il documento scritto del continuo dibattito da cui poi sorgeranno le loro opere maggiori; è come lo Zibaldone, indispensabile per intendere la poesia del Leopardi!

4. PER UNA ERMENEUTICA STURZIANA Anzitutto ci sembra, che a partire da questo saggio, che abbiamo voluto leggere nell’originale e tradurre, considerando anche tutti gli altri del volume, venga smentito lo stereotipo di un Luigi Sturzo, sacerdote, ma prevalentemente uomo politico, fondatore di un partito di cattolici, il PPI; mentre alla base del suo progetto politico, c’è tutta una elaborazione teoretica, filosofica e teologica, di grande valore, organica e ancora attuale, che gli permette di affrontare i: Problemi spirituali del nostro tempo, come indica il titolo del volume! In secondo luogo,è evidente la sua apertura alla modernità (come innovatore è anche il fratello!): mentalità fervida, egli è sensibile alle nuove correnti culturali che vanno sviluppandosi all’estero; alle conquiste delle scienze umane, le quali scoprono che lo spirito umano, prima di essere logico è anche intuitivo. Per questo Luigi cerca di convincere il fratello di non inclinare verso un eccessivo intellettualismo, mentre egli è attento ai risultati dell’intuizionismo di Étienne Gilson, Henri Bergson; legge Henri Bremond (Prière et Poésie e poi anche la famosa Histoire du sentiment religeux) sempre in modo critico e personale, Jacques Maritain e soprattutto Maurice Blondel, a cui dedica l’ultimo paragrafo della sua Chiesa e Stato, che è del 1939; per evitare, com’egli scrive, l’errore moderno del «separatismo del naturale dal soprannaturale»: ma non è questa un’applicazione concreta del Neo-sintetismo? Sturzo insiste sull’importanza delle correnti volontaristiche e mistiche, perché ha a cuore un profondo rinnovamento religioso; scrive infatti al fratello: «Dal punto di vista del pensiero religioso le correnti volontariste e mistiche hanno avuto un valore molto maggiore di quelle puramente intellettualistiche. La ripresa del Tomismo dal sec. XIX in poi, è un effetto a distanza di


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tempo del neo-razionalismo dei sec. XVII e XVIII. Dico neo-razionalismo, perché quella degli scolastici, da Abelardo in poi, fu a modo suo un razionalismo. Il merito del sintetismo è quello di dare il giusto valore alle diverse facoltà e quindi alle diverse esigenze dell’uomo. Ora l’esigenza della conoscenza detta intuitiva, in contrasto alla conoscenza detta nozionale o razionale o discorsiva, è reale nella umana. Non si possono risolvere queste conoscenze l’una nell’altra, senza dissolversi. Le diverse sintesi esistono e debbono spiegarsi. Ecco perché io da tanto tempo insisto con te su questo lato, che vorrei affrontato da te al lume delle tue stesse teorie»22.

Se poi vogliamo allargare il confronto con l’attualità, scopriamo come molti aspetti delle sue indagini prefigurano anche sviluppi futuri. Ne indichiamo alcuni: Viktor Frankl, autore della logoterapia, con cui, pur partendo dalle scoperte della psicoanalisi, ne ribalta il punto di partenza freudiano, ha scritto un’opera:” Dio nell’inconscio” (Brescia, 1975), che sembra proprio per confermare le intuizioni di Sturzo; per quanto riguarda il modo nuovo di impostare il problema gnoseologico, ci limitiamo a ricordare: Merleau Ponty, per l’uso del metodo fenomenologico; Paul Ricoeur e Luigi Pareyson, per la loro ermeneutica dell’esperienza religiosa, Ludovico Wittgenstein, per le sue assserzioni sul Dio inesprimibile! E Marco Vannini, per i numerosi studi sui mistici! Nel secolo della “morte di Dio”, preannunziata da Nietzsche, gli studi dei fratelli Sturzo e quelli prima indicati, fra i tanti, potrebbero essere di grande utilità, per riscoprire il senso del nostro essere al mondo. Luigi Sturzo, come si sa, ha elaborato una dottrina sociologica, che è stata etichettata come “socio- logia storicista”, espressione equivoca, finché non si metta a confronto con l’altra opera sua importante: “La Vera vita – Sociologia del soprannaturale” (1943), e allora ci si renderà conto che la sociologia sturziana si oppone a quella di matrice scientista, perché essa è tutta nel solco del filone italiano e si rifà a Vico, Cattaneo, Pareto, Mosca e al neo-sintetismo del fratello! Per quanto riguarda il vescovo Mario Sturzo, uno dei migliori studi, tra i pochi in verità su questo Autore, è quello recentissimo di Marco Aleo23,

22 23

Lettera n° 420: ibid.,56-57. M. ALEO, Mario Sturzo Filosofo, cit.


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che, pur nell’accurata e continua citazione e aderenza ai testi, sa sollevarsi ad una interpretazione unitaria della filosofia neo-sintetica sottolineandone il valore anche di attualità e facendo chiarezza su tante prevenzioni. Citiamo per tutti questo giudizio che condividiamo in pieno. «Se la nostra ipotesi interpretativa non è errata, ne emerge uno Sturzo “vivo”, liberato da uno schema che tendeva a misurare quanto fosse idealista e quanto no, e la sua originale ripresa del realismo prefigura alcune caratteristiche della coscienza ermeneutica contemporanea all’interno della quale intende porsi in una posizione non disfattista nei confronti della “ragione”, contrariamente a quanto, invece, sta accadendo alla filosofia postmetafisica negli ultimi anni»24.

Lo studio dei fratelli Sturzo in parallelo è sempre fecondo, perché il loro pensiero è complementare in modo creativo, come dimostra il Carteggio, a cui ci siamo continuamente richiamati. In conclusione, notiamo come nell’uno e nell’altro, le varie conquiste che essi raggiungono, ciascuno nel proprio campo, non li riempiono di orgoglio autosufficiente, bensì sono sempre velate dallo stupore che deriva dal limite delle possibilità umane e dal senso del mistero di cui si alimenta la loro profonda fede. «La ricerca della verità, scrive Luigi, nella Preface, non può fermarsi al semplice accertamento dell’esistenza di Dio , come la ricerca del Bene non può fermarsi all’inizio della vita spirituale. Noi andiamo oltre, desideriamo vederLo, amarLo, possederLo e la promessa rivelante di Dio ci assicura che noi Lo vedremo come Egli è»25.

E di rimando il vescovo: «Caro fratello, in Paradiso non ci angustieremo più a sapere come si conosce Dio, perché Lo vedremo nella luce della gloria, e perciò più che cercarne la 24

Ibid., 157. Dalla Preface, che è in lingua inglese, anche nella edizione italiana: L. STURZO, Problemi spirituali, cit., XIII-XIV. 25


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cognizione nei libri, cerchiamola nell’amore, nelle buone opere, affinché Egli nella sua misericordia ci accolga tra i suoi figli nel Paradiso»26.

Ne Il pensiero dell’avvenire (Trani, 1930) c’è tutto un capitolo su: Il problema del mistero. «Il mistero non è l’ignoto che si farà noto, ma il noto del quale è impossibile la comprensione; questo è il problema centrale di tutta la filosofia. Il mistero è l’infinito, l’eterno, l’atto puro, Dio»27.

La intuizione di Dio, non è una semplice nozione seppellita nell’anima, ma un’esperienza vitale da percorrere, ed essi si adoperano con ardimento argomentativo per render palese l’intreccio strettissimo di immanenza e trascendenza. Per queste ragioni crediamo non si possa privare, come purtroppo è accaduto, di queste voci, anticonformiste e innovative, ma sempre sulla linea di conservare innovando, la cultura cattolica contemporanea.

26 27

Lettera del 23 marzo 1939: L. STURZO-M. STURZO, Carteggio, IV, cit., 319. M. STURZO, Il pensiero dell’avvenire, Trani 1930, 224.


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APPENDICE

IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA E DELLA INTUIZIONE DI DIO*

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Gabriel Picard, S.J., nel suo studio sul problema della immediata comprensione di Dio negli stati mistici (La saisie immédiate de Dieu, Paris,1923. L’atto di cogliere intuitivamente Dio) inizia con la tesi che nella conoscenza naturale c’è una oscura intuizione di Dio presente nell’anima, così come c’è una oscura intuizione dell’anima stessa direttamente e non attraverso la specie intellegibile raggiunta per mezzo dell’astrazione. Egli sostiene la tesi servendosi di un passaggio di S. Tommaso (I Sent. d.3. q.4,a.5) che cita anche S. Bonaventura (I Sent. d. 39, q.2). Il problema è importante per la filosofia così come per la teologia mistica. Per chiarire meglio il nostro pensiero, noi non discuteremo direttamente la tesi di Picard né ci chiederemo se c’è un serio fondamento in S. Tommaso. Proveremo un’altra via e vorremmo presentare la nostra spiegazione come una semplice ipotesi di studio.

I Il problema della conoscenza si pone come una relazione: la relazione tra colui che conosce (il soggetto) e la realtà che è conosciuta (l’oggetto). L’epistemologia critica si occupa delle * Traduzione dall’originale (L. STURZO, The Problem of Knowledge and the Intuition of God, in Thought 6 [1941] 312-324) a cura di Salvatore Latora.


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THE PROBLEM OF KNOWLEDGE AND THE INTUITION OF GOD

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facoltà cognitive del soggetto così come delle possibilità che il soggetto ha di conoscere l’oggetto. Da qui la grande controversia moderna tra realisti e idealisti. Mentre il soggetto è sempre definito, L’oggetto “l’altro” è potenzialmente indefinito comprendendo tutta la realtà conoscibile, che, a sua volta, diventa definita solo quando diviene oggetto della conoscenza attuale. Dal momento che ogni individuale atto cognitivo del soggetto è limitato dallo spazio, dal tempo e dalla possibilità della sua propria esperienza, gli oggetti realmente conosciuti sono sempre di meno degli oggetti conoscibili. Tuttavia, ciascuno è capace di costruire per se stesso un mondo di esperienze, un sistema di conoscenze, che, per il momento soddisfano i suoi bisogni impellenti, mentre lo spingono, più o meno fortemente, per tutta la durata della vita, all’acquisizione di ulteriori esperienze. Questo mondo di esperienze e sistema di conoscenze non è mai individuale o singolare. Se lo fosse, sarebbe isolato, sterile e autosufficiente, cioè si esaurirebbe in se stesso. Sebbene ognuno abbia una particolare misura della propria vita interiore (che forma la ricchezza o la povertà del proprio spirito), il sistema è legato a… e ha molto in comune con l’ambiente in cui uno vive. In questo modo le esperienze degli altri, sia passate che presenti, diventano in vari modi esperienze comuni. La conoscenza umana è individualesociale; anche quando è principalmente individuale è sempre intercomunicante, altrimenti non sarebbe vera conoscenza, ma si sarebbe perduta nel fondo dei pensieri vani e non realizzati. L’aspetto sociale dell’esperienza umana influisce sulla genesi della conoscenza, sul suo carattere e sulle sue finalità. Influisce sulla genesi della conoscenza, perché, nella maggior parte dei casi, l’oggetto non perviene al soggetto nella sua entità esistenziale, ma attraverso l’esperienza degli altri e nei termini della vita sociale. Influisce sul carattere della conoscenza, perché i sistemi che dobbiamo costruire per dar loro valore e prospettiva dipendono in gran parte dalla nostra eredità culturale e da quello che ci circonda. Infine, esso influisce sulla finalità della conoscenza, perché essendo essa ordinata alla vita che viviamo, è eminentemente pratica e tende


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ad assimilare e ad arricchire la base sociale, tramite qualunque mezzo la natura e l’arte ci hanno dato. Non c’è scienza, per quanto speculativa — come la metafisica, la matematica, l’astronomia — che non siano ordinate a fini pratici, sia individuali che generali, sia soggettivi che oggettivi. Questa tendenza verso un fine non può mai esaurirsi, e perciò esige un termine assoluto. In filosofia siamo abituati a considerare la critica della conoscenza come una critica del soggetto e dell’oggetto, individualmente e astrattamente, perché tutto quello che può essere riferito a fattori sociali e all’ambiente è lasciato al pedagogista, allo psicologo e al sociologo. La mia proposta è che dobbiamo riconsiderare il problema della conoscenza nella sua interezza, prima di farne materia di analisi speculativa. In concreto non si dà alcuna conoscenza della realtà che non implichi nello stesso tempo la coesistenza di altri esseri che, presi insieme con il soggetto conoscente possono essere considerati come una totalità. Il soggetto, da un canto, sente di essere il centro a cui gli oggetti che lo interessano sono diretti, ma d’altro canto, sente il bisogno di cercare egli stesso qualche centro di orientamento e di unificazione.. Gli elementi della conoscenza si affollano contemporaneamente all’interno del cerchio di un qualche insieme, che per il momento non definiamo, ma che riflette i due stati della mente descritti sopra. La genesi, il carattere e la finalità sociale della conoscenza hanno un ruolo in questa concezione del conoscere. E poiché la conoscenza umana o è sistematica o non è vera conoscenza, non può esserci alcuna sistematizzazione cognitiva senza riferimento al tutto o intero. Ma a quale tutto? Certamente non a quello che cade sotto i nostri sensi. Non possiamo guardare l’orizzonte, senza sapere che oltre le montagne ci sono altre terre e altri esseri; come non possiamo ammirare le stelle senza pensare a quelle che non si vedono. Così, come lo spazio si allarga indefinitamente, anche il tempo si allunga nel passato e nel futuro. In mille forme, la conoscenza dei fatti, le idee teoretiche e le stesse ipotesi diventano parte di quell’intero o tutto, di cui non conosciamo i limiti, ma nel


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quale il nostro essere e quello di tutti gli altri siamo immersi senza essere sommersi. Quello che il soggetto comprende come un tutto nella conoscenza della realtà non è qualcosa di definito, è solo un qualcosa di indefinito, sicché alla prima impressione si presenta come una situazione cognitiva. Il soggetto può considerare il tutto indefinito come l’oggetto della sua esperienza, qualcosa al di fuori di se stesso, anche se non ci può essere totalità, se viene a mancare il soggetto conoscente. Il soggetto può anche considerare se stesso come dentro un insieme indefinito, mentre naturalmente egli rimane definito come soggetto pensante. È questo il dato di fatto, il punto di partenza della presente discussione.

II La nostra prima domanda è questa: il “tutto”, a prima vista indefinito, che si presenta come una situazione cognitiva, è antecedente ad ogni pensiero o è un prodotto dell’esperienza? La domanda può sembrare non nuova, anzi può essere confusa con la questione di altri tempi, volta a stabilire se l’idea dell’essere viene prima di ogni attuale conoscenza. Da questo punto di vista si può arrivare ad uno dei due estremi: o l’idea dell’essere è concepita come un antecedente logico, un mezzo di conoscenza dell’oggetto (ontologismo), oppure viene presentata come l’idea di una realtà affermata a priori, in forma assiomatica e non per mezzo dell’esperienza (realismo dogmatico). Fin dal Cogito cartesiano — sia esso inteso in senso idealistico o solo come strumento critico (come alcuni cattolici francesi sono soliti fare) in senso realistico — si è soliti iniziare dall’esperienza dell’io per arrivare all’esperienza del non-io o “dell’altro” dall’io. L’esperienza dell’io potrebbe essere presa come una sorta di antecedente logico-critico. I Neo-Scolastici italiani, nelle loro battaglie contro l’idealismo di Croce e ancor più contro l’attualismo di Gentile e dei suoi discepoli, insistono su due punti essenziali del Tomismo: 1) che


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il «nostro intelletto è fatto per conoscere principalmente il mondo esterno e riflessivamente il proprio atto cognitivo»; e 2) che «direttamente e immediatamente il nostro intelletto coglie un’essenza in ogni essere esistente e in ogni essenza coglie l’esistenza» (MICHELE FATTA, in Rivista di Filosofia Neoscolastica, Novembre 1919, pp.492-493). Per loro la realtà oggettiva esistente è prioritaria rispetto alla conoscenza, ma nell’atto del conoscere è concomitante al potere astrattivo dell’intelletto ed è conosciuta simultaneamente in ogni essenza astratta dall’oggetto. In tutte e quattro le teorie sopra indicate (Ontologismo, Realismo dogmatico, Cartesianesimo e sue interpretazioni, Realismo Tomistico) non c’è posto per il problema di un “ tutto indefinito” come conoscenza. Tuttavia, ogni individuo, per conoscere deve sentire se stesso come partecipe di tutta la realtà con la quale egli ha affinità e attrazioni naturali; così che conoscendola e realizzandola può trovare se stesso nella realtà comune con tutte le sue facoltà pienamente soddisfatte. Questo sarebbe impossibile, se la nostra conoscenza mancasse del senso del tutto, e se il tutto indefinito, oltre ad essere oggetto di esperienze e definizioni particolari non si rivelasse come orientamento mentale. Le due posizioni cognitive, che sopra abbiamo indicato come un dato di fatto ora ci si presentano come un’esigenza epistemologica. Nella prima posizione (il tutto come oggetto) si prescinde dalla nostra esistenza come soggetto conoscente; nella seconda posizione il tutto è uno con noi e noi siamo uno con il tutto; e a seconda dei nostri differenti sistemi filosofici, o noi cerchiamo di sommergere la nostra personalità nel tutto oppure includiamo il tutto nella nostra personalità. La nostra ipotesi di studio, da cui siamo partiti, ci porta ad una prima affermazione: «in ogni atto di conoscenza c’è implicita una situazione cognitiva legata ad un tutto indefinito, che comprende in vari modi il soggetto e l’oggetto». Si può non essere coscienti di questo dato implicito nell’atto conoscitivo, è possibile non aver riflettuto su di esso, ma una volta accertato, è evidente che sia così; il riferimento ad un tutto indefinito è in ogni atto di conoscenza.


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Analizziamo ora un po’ più da vicino quella che abbiamo chiamato provvisoriamente, una situazione cognitiva. È questa forse una categoria sconosciuta; o un aspetto trascurato della categoria di relazione? La relazione con tutta la realtà può essere predicata di ogni cosa esistente. Da questo punto di vista potrebbe essere detto che la categoria della relazione può indicare la coesistenza simultanea e totale degli esseri, che non potrebbero essere pensati se non in correlazione. Le categorie, comunque, sebbene basate sulla realtà, sono solo modi logici di conoscenza. Il reale può essere considerato in maniera astratta, al di fuori di ogni categoria e sotto un aspetto universale, cioè come entità; oppure le categorie possono essere considerate al di fuori di ogni realtà come accade per le idee di spazio e di tempo. Si può anche considerare la realtà sotto una singola categoria , astraendo dalle altre, come per esempio sotto la categoria di sostanza. In questi atti analitici, pur considerando la realtà astratta, vi troviamo implicitamente la situazione cognitiva del tutto indefinito, ma non vi troviamo la categoria della relazione. Le idee di entità, spazio, tempo, sostanza, sarebbero inconcepibili senza il substrato di un tutto (un insieme o intero) indefinito. Anche se non pensato in atto e in forma riflessiva, esso dà il tono (per usare un termine musicale o medico) al significato dei vari aspetti sotto i quali comprendiamo il reale esistente. Comunque ci sembra di essere più vicini alla verità nel descrivere l’intero di cui stiamo parlando come «un’intuizione oscura ma diretta della realtà, nel suo insieme indifferenziato, che accompagna ogni atto conoscitivo». Cerchiamo di dire questo più chiaramente. La conoscenza intellettiva (secondo gli scolastici) procede per astrazione dal sensibile ed è ottenuta per mezzo delle specie intellegibili; è perciò un processo universalizzante e categorizzante. L’intuizione in questo stadio non è nient’altro che un rapido superamento del processo intellettivo e nell’apprendimento della realtà esistente e nelle esperienze induttive. Il Barone Fatta, nell’articolo appena citato,


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scrive: «Non potremmo dire: “ Quest’ente ha l’esistenza”, se quell’ineffabile e per se stesso luminoso atto che è l’esistere non fosse stato già intuito da noi prima di affermarlo nella forma di un giudizio» (p. 494). Ma queste intuizioni, e altre simili, sono chiare; esse specificano l’oggetto o le qualità e le relazione dell’oggetto intuito, sia esso un dato fisico o un principio di metafisica o di etica. Quando diciamo che l’intuizione del tutto (insieme) indifferenziato è oscura, intendiamo dire che in essa manca sia il giudizio implicito sia l’esperienza induttiva sia quello che Fatta chiama “ atto luminoso, tutti elementi che servono a dare chiarezza alla intuizione.. L’oscurità deriva dal fatto che codesto “tutto” o “insieme” non è definito né differenziato; l’intelletto non riceve alcuna luce da esso né esprime alcun giudizio su di esso. Tuttavia essa è un’intuizione diretta senza mediazione di specie, che non avrebbero occasione per formarsi; può chiamarsi “preconoscenza”, che il soggetto attinge in quanto è parte di questo tutto, vive in esso, non potrebbe esistere fuori di esso, lo intuisce come realtà esistente, ma non lo definisce, perché come tutto non può essere definito. Se non fosse così, prima di conoscere dovremmo sentirci in un completo isolamento; ad ogni atto conoscitivo dovremmo sentirci in contatto esclusivo con l’oggetto percepito; la sintesi cognitiva sarebbe impossibile a causa della discontinuità degli oggetti conosciuti e a causa di ogni correlazione sintetica. Per giunta , ciascun individuo avrebbe un gruppo non ben definito e coerente di conoscenze, e questo renderebbe impossibile la vitale comunicazione riguardo alla comune realtà. Non si creda che queste siano deduzioni arbitrarie, come in un processo assolutamente immaginario per absurdum. Il mondo dell’esperienza è parziale, limitato, discontinuo; il mondo del ragionamento coerente è effetto di tradizione, di studio, di attuazione. Presi insieme ci danno la realtà comune individualizzata. Solo l’intuizione diretta del tutto (dell’insieme) ci dà la realtà comune indifferenziata. Per questa ragione la chiamiamo oscura (in opposizione a chiara e definita), ma nello stesso tempo la diciamo diretta, cioè concreta (in opposizione ad astratta).


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Questo cosciente contatto con la realtà indifferenziata e totale è una presenza in noi come noi siamo coscienti di noi stessi. Ma noi non sentiamo questa presenza, se non nell’atto del comprendere e in tutti gli atti in cui il comprendere è in correlazione con il volere e l’agire. In realtà non si dà mai una pura intellezione che non sia anche associata alla volontà e all’azione; ma nel modo in cui noi analizziamo i nostri atti, possiamo benissimo dire che l’intuizione del tutto indifferenziato è un atto dell’intelletto che ha ripercussioni nel volere e nell’agire. Il volere e l’agire infatti completano la nostra conoscenza, perché la realizzano nel fatto; c’è sempre presente in essa l’oscura e diretta intuizione del tutto. Siamo ora in condizione di poter rispondere alla domanda che ci siamo posti all’inizio, se il tutto, come situazione conoscitiva, sia antecedente ad ogni pensiero o se non sia piuttosto un prodotto dell’esperienza. Possiamo rispondere che non è né l’una né l’altra. Non è un antecedente logico, nel senso di un mezzo per conoscere, come l’idea dell’essere per l’ontologista; né è un antecedente reale nel senso che si dia una intuizione del tutto al di fuori e antecedente ad ogni altro atto di conoscenza. Neppure è un prodotto dell’esperienza, che come tale non è mai oscuro, è solo occasionalmente diretto, non mai il tutto indifferenziato ma un particolare definito. Quel dato di fatto da cui siamo partiti, descritto come una situazione conoscitiva rispetto ad un tutto indifferenziato, può ora essere definito in maniera più precisa come una intuizione diretta e oscura, presente in ogni atto di conoscenza.

III Ci resta ancora da esaminare che cosa sia questo “ tutto” o “intero” intuito direttamente ma in maniera oscura. Più volte nel corso della nostra analisi abbiamo parlato di questo “tutto” come di una realtà. Così volevamo escludere che esso sia un preteso “tutto” “ idealistico” né che sia da intendersi in senso “ fenomenico”. Che


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stiamo trattando di un “tutto reale” potrebbe essere provato in due modi: una prova deriva dalla interpretazione realistica della comprensione della verità, che è ciò che afferma la filosofia tradizionale (e su questo non voglio insistere). L’altra prova si ha per mezzo della conoscenza diretta di se stessi. In entrambe le esperienze la realtà obiettiva balza con evidenza: la prima è la via regia dall’astrazione dal sensibile; l’altra, dalla conoscenza di noi stessi, come realtà interiore; se essa non offrisse alcuna testimonianza della nostra realtà, noi saremmo condannati al solipsismo. Dunque, dal punto di vista della validità della nostra conoscenza, non ci sarebbero obiezioni a priori a che una intuizione diretta, anche se oscura, del tutto, possa attingere la realtà oggettiva. Ma due questioni si pongono: 1) se di fatto l’attinge; 2) se veramente attinge una totalità. Noi siamo indotti a rispondere affermativamente alla prima domanda per tre ragioni: 1) perché non c’è dubbio che questa intuizione includa nel tutto la personalità del soggetto come una realtà; 2) perché quando noi isoliamo il soggetto dal tutto, ci rendiamo conto che questa situazione è mentale ma non reale, analitica e non sintetica; ciò non ostante l’intuizione del tutto rimane come il fondamento realistico della nostra operazione mentale; 3) perché se quel tutto fosse un fatto soggettivo esso sarebbe o una pura fantasia (il che è contraddetto da tutta la nostra analisi), o sarebbe semplicemente una situazione logica, e quindi astratta e chiara, mentre noi assumiamo che la intuizione è oscura e diretta. Infine, la risposta che daremo alla seconda domanda servirà come prova ulteriore per la risposta affermativa che abbiamo dato alla prima domanda. Possiamo guardare il “tutto”, di cui abbiamo l’intuizione, sotto vari aspetti. Esso è in primo luogo, il tutto esistenziale, di cui siamo parte; possiamo chiamarlo il tutto spazio-temporale. La nostra esistenza personale è nello spazio e nel tempo. Non possiamo concepirla altrimenti, perché lo spazio è la stessa realtà continua di cui facciamo parte; il tempo è la stessa realtà continua nel quale processo noi ci moviamo. Come non si dà realtà spaziale che non sia


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anche temporale, così non c’è realtà temporale che non sia anche spaziale. Il tempo è il ritmo (movimento) della sostanza coesistente, così come lo spazio è la coesistenza della sostanza ritmica (che si muove). Con l’esperienza e la scienza possiamo formarci delle idee approssimative di questo mondo coesistente e processuale e dei vari sistemi continui e ritmici fino ai limiti del conosciuto Comunque sia esso concepito in una maniera o in un’altra, secondo le differenti età e culture, noi ne abbiamo l’intuizione come di una realtà indifferenziata. Prima di averne l’esperienza noi sentiamo di partecipare (con posizione e ritmo proprio) alla realtà cosmica, che è una nella sua molteplicità Le idee analitiche illuminano la nostra intuizione oscura e diretta. L’altro tutto — quello del pensiero astratto, degli universali derivati dalla realtà concreta, che denota la realtà noumenica — è un prodotto del nostro pensiero logico, frutto dell’esperienza e della ricerca scientifica. Esso ha come suo fondamento la realtà cosmica, non solo negli individui che la compongono, ma anche nella totalità di tutto ciò che esiste. È l’intelletto che dalla conoscenza limitata di un certo numero di individui ricava i generi e le specie, definisce, categorizza e universalizza; nello stesso tempo l’intuizione del tutto accompagna questa attività intellettuale in tutte le sue forme. Inoltre, la necessità di unificazione ci porta verso due poli opposti: l’io e il tutto. Questo tutto non può essere incoerente, un ammasso di realtà individue o un ammasso di idee slegate; il tutto o è unificato o non è, così nella realtà come nella costruzione della mente. Quando perveniamo al concetto di “ entità”, noi abbiamo trovato la più astratta e nello stesso tempo la più concreta espressione della realtà, il suo punto centrale di unificazione sistematica. Logica e metafisica hanno lo stesso punto di arrivo, ci rappresentano nell’essenza il tutto fisico-cosmico come un sistema coerente di idee e di realtà. Così noi arriviamo ad avere attraverso l’esperienza e la riflessione una immagine logico-metafisica di quella stessa realtà che in ogni atto di conoscenza ci si presenta come un tutto indifferenziato, intuito in maniera oscura.


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IV Ma è questo il “ tutto” ? Il cosmo ci si presenta come concreto, ma causato e contingente; l’essere ci si presenta come universale, ma astratto e indeterminato. Con la nostra ragione arriviamo alla Causa Prima, Universale, Concreta e Infinita. Tutto questo è accettato, e noi lo presupponiamo come dimostrato lungo le linee della filosofia tradizionale. Ciò che ancora ci spinge ad andare avanti nella nostra indagine, è il desiderio di verificare l’ipotesi di G. Picard, a cui ci siamo riferiti all’inizio dell’articolo. Vedendo ora il problema dell’intuizione di Dio in una luce nuova, siamo portati a formulare il seguente quesito: Nella intuizione diretta e oscura del tutto (mondo della concretezza reale e della astrazione universalizzante) vi è anche l’intuizione della Causa Prima, dell’Essere infinito universale e concreto? Teologi e filosofi concordano sul fatto che Dio è in tutte le cose per essentiam, per potentiam et per praesentiam. San Paolo disse agli Ateniesi: «In Lui viviamo, ci muoviamo e siamo». In tutte le creature sono realizzati gli archetipi divini, e l’uomo specialmente è stato fatto «a Sua immagine e somiglianza». Perciò Tertulliano poteva ben parlare di un’anima naturaliter christiana, e Sant’Agostino poteve rivolgere a Dio quel potente fecisti nos ad Te. Questo, però, non prova che nella intuizione da noi studiata si attinga la Divinità come Essere Infinito o Causa Prima o come ogni altra idea che noi formuliamo con ragionamenti induttivi o deduttivi. Solo possiamo affermare che il tutto della realtà intuita non è né al di fuori di Dio, né concepibile in sé come un tutto vero. Queste affermazioni esplicite, che diventano chiare quando definiamo la realtà, si trovano implicite nella comprensione del tutto indifferenziato: Per questa ragione ci sembra che il filosofo francese Lavelle, nel suo interessante lavoro, La Présence totale (Paris, 1934), non avendo indicato bene tale differenza, dà l’impressione di essere incline verso un panteismo che potrebbe essere chiamato “ pre-logico”, e che non è esente da pericoli. L’esperienza stessa della realtà individuata è quella che ci fa


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notare l’intuizione del tutto indifferenziato come concomitante ad ogni nostro atto conoscitivo. Non c’è prelogismo , dunque e nessuna confusione del tutto cosmico con il Tutto Infinito. Se, da un canto, per mezzo della intuizione oscura e diretta della realtà noi attingiamo la realtà indifferenziata, dall’altro canto noi siamo capaci di distinguere ed acquisire il suo significato gradualmente mentre apprendiamo la realtà distinta. Ora, una delle implicazioni inerenti alla nostra conoscenza è la sua relazione essenziale all’Assoluto: «All’interno di ogni intellezione umana (scrive J. Maréchal S.J.) l’elemento di significazione obiettiva presuppone una relazione ontologica all’Assoluto» (J. MARÉCHAL, Le point de départ de la Métaphysique, Cahier V, p. 442). Questa relazione ontologica non potrebbe affatto spiegarsi, se fosse una semplice conseguenza della conoscenza. Invece è intrinseca alla natura stessa del soggetto conoscente e alla natura degli oggetti sia conoscibili che conosciuti: è un fatto che incide sulla conoscenza e le dà un dinamismo inesauribile;la volontà e l’agire umano ne sono permeati: quello che è l’assoluto per l’intelletto, è il bene per la volontà. Anche Maréchal afferma: «Se la relazione dei dati al fine ultimo dell’intelligenza è una condizione a priori intrinsecamente costitutiva di ogni oggetto del nostro pensiero, la conoscenza analogica dell’Essere assoluto, come termine superiore e ineffabile di questa relazione, entra implicitamente nella nostra coscienza immediata di ogni oggetto in quanto oggetto» (p. 425); e poco dopo egli afferma che: «noi troviamo questo, cioè l’Essere assoluto, implicitamente affermato come noumeno positivo in ogni giudizio» (p. 448). Bisogna notare subito che il pensiero di Padre Maréchal esclude ogni tipo di pensiero intuitivo. Quella che per noi è l’intuizione del tutto, per lui è solo «bisogno razionale di totalizzare» (p. 445). Noi lo citiamo qui, perché le sue affermazioni concernenti la relazione intrinseca oggettiva della realtà Cosmica all’assoluto ci interessa per la nostra conclusione. Tale relazione intrinseca è così connaturata al soggetto


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pensante che non può in qualche modo non essere attinta da ogni soggetto nella sua intuizione (o presa di coscienza) di se stesso. In tale atto il soggetto non si forma un’idea distinta né dell’assoluto né del contingente né della loro connessione; ma arriva a comprendere la necessità di una realtà stabile alla quale è legato e della quale in un certo modo partecipa. L’intuizione del tutto, come l’abbiamo spiegato e discussa, è un movimento di necessità interiore verso l’assoluto. Questo assoluto, non chiaramente precisato nei suoi contorni, è il misterioso e solido fondamento del tutto indifferenziato; esso ci si rivela gradualmente, man mano che l’intelletto comprende le realtà particolari nelle loro essenze e individualizzazioni; nelle loro sistemazioni e relazioni; esso rivela se stesso gradualmente, man mano che la volontà e l’agire umano realizzano di fatto le verità conosciute. Possiamo concludere quindi che noi abbiamo “ naturalmente” una oscura intuizione di Dio come l’Assoluto nelle nostra oscura e diretta intuizione del tutto indifferenziato, e conseguentemente in ogni nostro atto conoscitivo.


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Recensioni Synaxis XXI/2 (2003) 443-455

M. DONATO, Il volume di privilegi della città di Aci SS. Antonio e Filippo, Biblioteca della Provincia regionale di Catania, Catania 2003, pp. 722, con 45 illustrazioni fuori testo. Scriveva Rosario Gregorio, il noto storico siciliano del ’700: «Senza fatti non accade di ragionare» (Introduzione al diritto pubblico siciliano, Palermo 1794, 6), cioè senza documenti non si può fare storia. Perciò uno dei primi compiti della storiografia è quello di reperire le fonti necessarie per scrivere la storia di un personaggio, di una città o di un popolo. Il libro di Matteo Donato ci offre la trascrizione di un manoscritto nel quale furono raccolti sia i documenti di natura costitutiva della città di Aci Santi Antonio e Filippo, sia le “scritture importanti” che servivano a regolare il funzionamento degli organi municipali della città. Il volume, perciò, non contiene la storia di questa città, ma raccoglie i documenti necessari per scrivere la sua storia. Sappiamo che la società dell’Antico Regime non era fondata sulla legge, ma sul privilegio; cioè non esisteva un ordinamento comune per gli individui e le città. Le persone erano divise in classi sociali, ognuna delle quali aveva un proprio statuto giuridico, fondato su una serie di privilegi concessi nel tempo dalle autorità e custoditi e tramandati gelosamente dalle persone interessate. Lo stesso si deve dire delle città. Ogni città aveva un proprio ordinamento: dai sovrani aveva ottenuto un particolare modo di scegliere le proprie magistrature, di amministrare la giustizia, di stabilire le competenze fra i diversi componenti la società, di amministrare il proprio patrimonio, ecc. Era cura delle autorità cittadine trascrivere queste privilegi in un apposito registro chiamato “Liber privilegiorum” o “Libro rosso” e di curare ad ogni cambio di sovrano la conferma dei privilegi concessi dai predecessori. Il manoscritto che contiene i privilegi della città di Aci Santi Antonio e Filippo è costituito da 238 documenti dei secoli XVI-XIX, alcuni originali


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altri in copia. Si tratta di un numero così rilevante da far tremare chiunque si fosse prefisso il compito di trascriverli e curarne l’edizione a stampa. A questa prima difficoltà se ne aggiungeva un’altra: in seguito ai bombardamenti del 1941 il manoscritto fu parzialmente incendiato; questo rendeva ancor più difficile la lettura dei documenti in esso contenuti. Chi ha provato a curare l’edizione di manoscritti come questo sa cosa significhi leggere scritture di tempi e di mani diverse, piene di locuzioni e di abbreviazioni allora di uso comune, oggi da interpretare. In più c’era la difficoltà di colmare le lacune derivanti dall’incendio. Matteo Donato, attingendo alla propria esperienza di storico, cercando in altri archivi copie dei documenti mutili, chiedendo com’è prassi comune aiuto ad altri esperti, è riuscito nella quasi totalità dei casi a colmare le lacune esistenti e a darci con un lavoro di sei anni l’edizione di questo manoscritto, che costituisce ormai uno strumento indispensabile per chi vuole scrivere la storia di tutta la terra di Aci, non solo di Aci Santi Antonio e Filippo. L’autore nella introduzione «Costituzione, sviluppo e fine di una civitas policentrica», utilizzando in gran parte i documenti trascritti nel volume, traccia un breve ma denso profilo di questa storia dalla conquista dei normanni al primo ’800. La descrizione del quadro storico della città di Aci inizia con due premesse che vanno tenute presenti per comprendere il successivo sviluppo degli avvenimenti: 1) nessuna provincia d’Italia presenta una serie di sette centri urbani, di cui ben cinque comuni hanno nella loro denominazione composta un unico prefisso identificativo. Aci è il toponimo che accomuna i diversi centri di un’unica città, il cui territorio faceva perno su un imprendibile castello. 2) Fino al ’500 Aci vive in una situazione particolare: manca un centro riconosciuto e riconoscibile e si presenta come una somma di aggregazioni di casali aventi pari dignità. Tali casali costituiscono i quartieri della città di Aci con legami così forti che non verranno meno anche quando, a partire dal ’600, verrà frazionata. Questi due rilievi permettono all’autore di ridimensionare la vexata quaestio del centro abitato primordiale dal quale tutti gli altri sono derivati nel corso dei secoli. Se per un verso non può sottovalutare la presenza e la funzione esercitata dal castello, per un altro verso sa che si tratta di una priorità di scarsa rilevanza, se si considera la facilità con cui sorgevano e si spostavano i diversi nuclei di abitazioni con il mutare delle vicende


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storiche e la coscienza degli abitanti di formare una sola realtà. Dal più consistente nucleo sorto attorno al castello, gli abitanti, per evitare il pericolo delle incursioni corsare e per trovare il sostentamento nella bonifica del bosco, risalirono man mano le colline circostanti in diverse direzioni: prima quella dei mulini che porta ad Aci San Filippo, poi quella che portò alla nascita e allo sviluppo del quartiere di Aquilia. Se la prima appare prioritaria nel tempo, la seconda appare più rilevante per il maggior peso che acquistò sul piano economico ed amministrativo. Al tempo della conquista normanna lo status giuridico della terra di Aci non era molto chiaro. Il Conte Ruggero, nominando nel 1092 vescovo di Catania il benedettino Angerio, gli assegnava fra gli altri il castello di Aci con il suo territorio. Si trattò di un atto di infeudamento? I vescovi lo interpretarono in questo senso, mentre la città si considerava demaniale, direttamente dipendente dal re. Dal XII secolo, in base alle alleanze o agli scontri politici tra chiesa e monarchia si assiste ad una serie di veri e propri passaggi di proprietà della terra di Aci, considerata un bene privato di cui il re o il vescovo potevano disporre a piacimento. Le lotte baronali del ’300 evidenziarono l’importanza strategica del castello (basti ricordare le memorabile battaglia con cui Artale Alagona il 27 maggio 1357 sconfisse gli angioni). L’enfatizzazione del castello a volte mise in ombra la terra di Aci. Oltretutto in un periodo di guerre e di instabilità politica non sarà stata numerosa la popolazione sparsa nella circoscrizione. L’avvento dei Martini con la fine delle guerre baronali portò allo sviluppo economico della città e al progressivo ridimensionamento dell’importanza strategica del castello. Se nel 1398 Martino il Giovane dichiarava solennemente nel parlamento di Siracusa che il castello e la terra di Aci dovevano restare in perpetuo al regio demanio, nel 1420 il re Alfonso non ebbe alcuna remora a concedere in baronia la terra di Aci con il castello a Ferdinando Velasquez. Gli acesi si resero conto che la condizione giuridica di terra feudale avrebbe costituito un freno per lo sviluppo economico della loro città. Perciò nel 1528, facendo leva su una forte coscienza unitaria, raccolsero i 20.000 fiorini richiesti dalla Corona per ridare lo stato giuridico di città demaniale. Il pericolo di perdere l’autonomia era ricorrente e bisognava fare sempre nuove elargizioni per scongiurarlo. Intanto fra i diversi quartieri che formavano la città si era iniziata una pericolosa rivalità: il diverso sviluppo


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di Aci Aquilia nei confronti dei quartieri di più antica tradizione provocò un contrasto fra i due poli che portò alla divisione del 1628. I quartieri di Aci Santi Antonio e Filippo, con un donativo di 2.500 scudi, ottennero di essere elevati a città in contrapposizione ad Aquilia. La nuova città nacque ufficialmente nel 1639 con la promessa dei due procuratori di depositare entro un mese la somma di 20.000 scudi, che di fatto non fu versata. L’insolvenza della città indusse la Corona a venderla nel 1645 per 36.000 scudi al barone di Cefalà. Da parte dei cittadini di Aci Superiore non mancarono i tentativi di riacquistare l’autonomia, ma fu ben presto evidente che sarebbero stati vani; e così nel 1672 ebbe inizio il governo della famiglia Riggio che avrebbe avuto termine con la fine della feudalità. Intanto nel 1645 il banchiere di origini genovese Giovanni Andrea Massa, nel quadro di una compravendita di alcune terre demaniali promossa dalla Corona per impinguare l’esausto erario, assieme a parte degli antichi casali di Catania, aveva acquistato Aci Castello. In tal modo l’antico territorio di Aci si presentava diviso in tre parti: Acireale, Aci Santi Antonio e Filippo, Aci Castello. Di esse solo la prima aveva l’ordinamento di città demaniale, le altre due erano terre feudali. Il volume dei privilegi ora pubblicato riguarda la città costituita dai quartieri di Aci Santi Antonio e Filippo, detta anche Aci Superiore, in contrapposizione ad Aci Aquilia — detta prima Aci Inferiore e poi semplicemente Acireale — e ad Aci Castello. Quando si conclusero le operazioni di compravendita, le tre città che formavano l’antica terra di Aci presero strade diverse, anche se per tanti aspetti contigue. Per quanto distinte dal punto di vista amministrativo, continuarono a mantenere molti punti di contatto dal punto di vista economico e della vita civile. In questa situazione difficilmente si può fare la storia di una senza tener conto della storia dell’altra. Perciò il presente volume offre una preziosa documentazione non solo a chi volesse scrivere la storia della città di Aci Santi Antonio e Filippo, ma anche a coloro che fossero interessati alle vicende delle altre due circoscrizioni nate dalla divisione dell’antica città di Aci. Adolfo Longhitano


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S. AZZARO, Comunismo zoppo. Teoria politica e critica politica nei filosofi del Comunismo europeo, Bonanno Editore, Acireale-Roma 2001, pp. 135 . Dopo la caduta del muro di Berlino e la fine del socialismo reale, è apparsa subito vincente la cultura neo-liberista, divenuta egemone, quasi pensiero unico, con il rischio di omologare le altre culture, disperdendo così il ricco patrimonio di valori e avviando la società verso un diffuso agnosticismo e relativismo etico (cfr Nota su Cattolici e politica. Documento della Congregazione per la dottrina della fede, del 24-11-2002). Sotto questo aspetto ci è parso utile il lavoro di Salvatore Azzaro che ripercorre le vicende del marxismo alla luce della interpretazioni di Del Noce e di Althusser. L’agile volume, costituito da quattro densi capitoli, seguiti da un’utile appendice in cui vengono riportate le trascrizioni degli appunti di otto lezioni di Augusto del Noce, viene definito dall’Autore come una serie di “puntualizzazioni ideali sulla storia o meglio sulla cronaca del comunismo europeo intorno agli anni ’70”; “istantanee intellettuali o album dei ricordi” le chiama inoltre l’A., modestamente. In realtà, l’articolazione degli argomenti si muove su categorie molto più ampie ed interessanti che riguardano, direi, le costanti della filosofia politica, come quelle del rapporto fra teoria politica e critica politica o filosofia politica e interessi pratici e ancora fra filosofia politica e pubblicistica. Comunismo zoppo. L’espressione deriva dalla decisione del Congresso del PCF, che volle cancellare dallo statuto del partito l’espressione “Dittatura del proletariato” e che suscitò le reazioni di Althusser, ma anche del presidente Giscard d’Estaing e dello stesso Antropov, perché «è illogico da un punto di vista marxista mantenere il dogma della lotta di classe rinunciando al suo corollario della dittatura del proletariato» (p. 13) e anche perché uno dei principi fondamentali del comunismo marxista afferma che la dittatura del proletariato può aprire la strada ad una società senza classi. Il teorico Althusser rivolse allora fondate critiche ai sostenitori di quella decisione anche in base alla sua nota interpretazione scientifica di


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Marx, in cui fa rilevare una scientificità particolare legata ad una dottrina e non ad un semplice metodo. Azzaro, sulla scorta degli insegnamenti del suo maestro Del Noce, rintraccia un filo di continuità fra il movimento dei “ cattolici comunisti”, il “Compromesso storico” e l’ “Eurocomunismo”, tentativi assai brevi e fallimentari proprio perché inficiati da quella contraddizione di fondo, per cui «Gramsci e Althusser sarebbero le due gambe filosofiche dell’eurocomunismo richiamantisi, ma nel contempo reciprocamente incapaci di sostenersi» (p. 21). Augusto Del Noce e l’opera di Franco Rodano è l’argomento del capitolo I. Come si sa, Franco Rodano e Felice Balbo teorizzarono la possibilità di una sintesi fra cattolicesimo e comunismo e tentarono di realizzarla con il movimento dei cattolici comunisti. L’importanza della figura di Rodano, che per il Del Noce costituisce un classico, il cui pensiero egli sviscera con sottili analisi sintetizzandolo poi in XVIII tesi, consiste nel fatto che proprio Rodano ricerca la vera politica dei cattolici non nei politici professionali ma in quelli pratici e «insegue questo fenomeno carsico che va da Lamennais e riaffiora in Sturzo e in De Gasperi» (p. 26). Ma qual è la prima intuizione dei cattolici comunisti “ rodaniani”? Per il Del Noce consiste nella «convergenza tra intransigentismo cattolico e filosofia ottocentesca della storia, da una parte, e marxismo filosofico, visto nella sua essenziale componente scientifica, dall’altra» (p. 27). Questa convergenza lo porta a considerare indispensabile l’impostazione di classe per realizzare la nuova rivoluzione; e ciò lo porta a considerare come involuzione rispetto a Lamennais, la stessa dottrina sociale della Rerum Novarum; in sostanza, egli vorrebbe un Lamennais dopo Marx! E qui giustamente il Del Noce ne svela la interna contraddizione: «La volontà di separare a tutti i costi l’idea marxista dello sfruttamento dalla concezione generale materialistica, cui è costretto per mantenere le sue posizioni ideali, lo porta in realtà a perdere il senso stesso, oltre che del cattolicesimo, della interpretazione marxista della storia» (p. 29). In sostanza, con un’operazione rivelatasi poi impossibile (come si sa, quel movimento finì per confluire nel PCI), si voleva separare il marxismo


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dal materialismo, per prendere, per dir così, ciò che c’era di buono e che poteva accomunare tutti nella lotta per la liberazione delle classi subalterne! Ma sarebbe stato mai possibile questo? Gli obiettivi del modello rodaniano sembrano ripresentarsi come lungo un filo rosso nelle iniziative politiche del Compromesso storico e dell’Eurocomunismo e perfino nell’esperienza dei Cristiani per il socialismo1! Anche in tempi successivi, rispetto a quella esperienza dell’immediato dopoguerra, il Rodano ebbe ad indicare come risoluzione della crisi della Democrazia cristiana del 1974 una esplicita proposta di “rifondazione” rifacendosi al modello lamennasiano! Tuttavia il giudizio conclusivo di Del Noce su Rodano è di grande simpatia, perché considera il filosofo-politico un classico, infatti: «frutto di un lavoro più che trentennale, l’opera di Rodano ha un interesse dottrinale reale. È probabilmente il tentativo più rigoroso di inveramento cattolico del marxismo… ed è apprezzabile per il coraggio della coerenza» (p. 41). Del Noce dedica poi magnifiche pagine alle figure di Dossetti e di De Gasperi, anche per un confronto con quegli altri aspetti del progressismo cattolico, mentre sembra mostrare meno interesse per Luigi Sturzo2. Ne Il suicidio della rivoluzione (1978) Del Noce analizza il pensiero di Antonio Gramsci come nell’altra opera Il cattolico comunista (1981) esamina quello di Rodano, per sondare la consistenza e il valore del marxismo come dottrina politica rivoluzionaria; Azzaro ripercorre tale

1 Per tutta questa problematica credo che sia utile tenere presente la lunga introduzione di Giuseppe Ruggieri: G. RUGGIERI - R. ALBANI, Cattolici comunisti? Originalità e contraddizioni di un’esperienza ‘lontana’, Brescia 1978. Oltre alla numerosa bibliografia, tra cui: C. CASULA, Cattolici comunisti e sinistra cristiana, Bologna, 1976; F. MALGERI, Chiesa, cattolici e democrazia da Sturzo a De Gasperi, Brescia 1990, 217-256. 2 Naturalmente non possiamo non provare un certo rammarico per il fatto che, a questo proposito, Del Noce non abbia tenuto presente il pensiero e l’azione del grande politico siciliano, che con il principio di aconfessionalità avrebbe consentito su un piano di legittimità l’azione politica dei cattolici, in linea con le indicazioni della Rerum Novarum; e, d’altra parte, con chiarezza avrebbe rilevato quella impossibile separazione fra materialismo e aspetto scientifico del marxismo, che poi è stata la causa del fallimento del progetto de Il cattolico comunista.


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itinerario delnociano nel capitolo II: Marx e Gramsci nel pensiero di Augusto Del Noce. La novità e la diversità, rispetto a tutte le altre concezioni rivoluzionarie cominciano con le 11 Tesi di Marx su Feuerbach. Per gli altri filosofi politici, scrive Del Noce: «si trattava di una riforma della realtà esistente secondo principi metastorici ( valori assoluti ed eterni); per Marx si tratta invece di associare questa volontà di cambiamento con la negazione più assoluta di valori metastorici… Rivoluzione secondo l’uso corrente significa sostituzione, attraverso una rottura brusca, di una nuova classe dirigente a quella che antecedentemente teneva il potere; per Marx invece, abolizione delle classi e fine della loro lotta» (p. 47). Critico dell’utopia, Marx è nello stesso tempo colui che vuole il compimento di essa! Come venne recepita da Gramsci la dottrina rivoluzionaria del marxismo, anche sull’esempio di quello che era avvenuto in Russia dal 1917 in poi? Qui Del Noce, seguito fedelmente da Azzaro, individua una diversità nel progetto del comunismo gramsciano. In realtà si tratta di una linea tutta italiana che evidenzia elementi compositi come quello nazional-popolare derivante dal rinnovamento letterario propugnato dal De Sanctis, più il francescanesimo, assimilato dal suo maestro di Torino, il Cosmo, oltre allo storicismo assoluto del Croce, emendato però dal suo astrattismo: il tutto organizzato in modo che possa confluire in una filosofia della prassi. Ma proprio per queste ragioni Gramsci, attraverso Croce, ritrova Gentile: la prassi gramsciana è lo svolgimento rivoluzionario dell’attualismo gentiliano ( L’espressione filosofia della prassi è infatti rigorizzata dal Gentile, dopo l’uso del Labriola !). E da questa concezione unitaria e coerente di filosofia della prassi derivano tutti i concetti tipici del pensiero gramsciano, come il concetto di: blocco storico, di intellettuale organico, di egemonia, di partito come moderno principe, in vista della creazione di un ordine nuovo, sulla base del tramonto, per suicidio, del cattolicesimo, ma quasi per nemesi storica avverrà il contrario, e cioè il suicidio della rivoluzione! Per Del Noce infatti tale filosofia diventa ideologia, dissolve la verità della tradizione e perde quella tensione messianica del marxismo sfociando nell’ateismo e nella conseguente deriva della società opulenta, che incarna lo spirito borghese allo stato puro, il quale ha trionfato sui due


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tradizionali avversari: la religione trascendente e il pensiero rivoluzionario; e perciò è avvenuto quello che Del Noce chiama icasticamente il suicidio della rivoluzione! I due capitoli finali, il terzo e il quarto, sono dedicati al pensiero di Althusser: “Leggere e ascoltare: la filosofia marxista in Louis Althusser” e “Althusser critico di Gramsci”. Certamente suscitano ancora interesse le questioni riguardanti il metodo: il problema dell’ascolto e la scoperta della lettura in merito al tema della conoscenza, secondo cui bisogna abbandonare il mito speculare della visione e della lettura immediata e concepire la conoscenza come produzione, però in senso economico e scientifico. Althusser polemizza con tutti coloro che hanno voluto dare una interpretazione umanistica di Marx, e quindi appunta i suoi strali anche su Gramsci, mentre, secondo lui, dopo il 1845, con Le tesi su Feuerbach e l’Ideologia tedesca è avvenuto in Marx una rottura epistemologica (secondo l’espressione di Bachelard, maestro di Althusser), cioè una profonda rivoluzione teorica, a causa della quale vengono abbandonate le varie categorie filosofiche per altre di ordine scientifico, come le forze produttive, i rapporti di produzione etc. Per Althusser «tutta la storia della filosofia occidentale è dominata non dal problema della conoscenza ma dalla soluzione ideologica, cioè imposta a monte da interessi pratici, religiosi, morali e politici, estranei alla realtà della conoscenza, che quel problema doveva ricevere» (p. 80). Nella avversione alla interpretazione umanistica di Marx vengono inevitabilmente coinvolti Gramsci, per il suo storicismo assoluto così come anche i gramsciani e i marxisti italiani: è questa la tesi sviluppata nel capitolo IV del volume. L’Appendice, come si diceva, trascrive gli appunti personali di otto lezioni tenute da Del Noce durante il corso svolto nella facoltà di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma. Sono pagine efficaci, perché riproducono con l’immediatezza propria delle lezioni orali quel ritmo argomentativo stringato, incalzante, che era proprio di Del Noce. In conclusione, ci chiediamo perché riandare a quegli eventi e problemi che sono ormai del tutto passati? Imparare dagli errori è sempre utile altre che necessario! C’è inoltre il fatto, considerato da Azzaro, che


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«l’impatto con il quotidiano della critica politica è stata poi un’esperienza che molti giovani studiosi hanno ritenuto di dover coltivare come una riserva morale, come l’acquisizione di un bagaglio personale di dati e di giudizi che poi il tempo stesso avrebbe potuto decantare e che ha restituito in effetti, nella sua vera dimensione» (p.10). Oltre a questo, che è l’indiscutibile valore dell’esperienza dei classici, riteniamo ancora validi i criteri valutativi di giudizio adoperati da Del Noce, e, primo fra tutti, il valore transpolitico o filosofico degli avvenimenti storici; in altri termini, se la materia dei fatti storici consiste in lotte, in interessi concreti, economici etc., la forma di quei fatti è sempre filosofica ed è precisamente ciò che dà ad essi il senso e il significato! Le conseguenze di quegli avvenimenti e dei fallimenti di allora (Il suicidio della rivoluzione), scandagliate così in profondità dal Del Noce, sono divenute attualità diffusa, come l’altra rivoluzione di costumi e di pensiero, ulteriore a quella marx-leninista che il filosofo toscano ha definito in modo icastico come società opulenta permeata da nichilismo e ateismo. È da Marx, Gentile, Gramsci, per il loro esito fallimentare, e da Sturzo per l’aspetto ricostruttivo, aggiungiamo noi, che bisogna ripartire per continuare a dare una logica alla nuova politica, di cui la società ha estremamente bisogno, oltre la secolarizzazione della teodicea. D’altra parte: «se si prescinde dal tono trionfalistico che anima la filosofia di Gentile, essa può essere vista come una conferma ante litteram della diagnosi di Heidegger sul processo del pensiero occidentale verso il nichilismo» (p.117). In questi Autori, e certamente anche in altri, possiamo trovare gli strumenti ermeneutici della storia italiana contemporanea. Se Gramsci con la filosofia della prassi è la sintesi dello storicismo di Croce e dell’attualismo di Gentile e per parecchi anni è stato il pensatore guida degli uomini di sinistra e non solo di loro; riteniamo ora invece i fratelli Sturzo, così trascurati o sottovalutati (anche dalla cultura politica cattolica!) negli anni precedenti, degni di essere riscoperti perché portatori di un pensiero proteso verso il futuro e tale da dare orientamento e solidità alla risoluzione della crisi profonda, nel disorientamento generale, che stiamo attraversando. E per questo, studi come quelli di Azzaro, sono, oltre che scientificamente corretti, molto utili per riprendere fin dalle origine le


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fila di un discorso che ora si può comprendere con molta più chiarezza, alla guida anche di un maestro di studi di filosofia politica come Del Noce. Abbiamo bisogno di maestri e di guide in campo culturale, di testimoni credibili perché la posta in gioco è grandissima! Ed essi sono i portatori di una profonda rinascita culturale per la nostra epoca. Salvatore Latora

A. FRANCO, Marie-Dominique Chenu (Novecento Teologico 9), Morcelliana, Brescia 2003, pp. 135. Il profilo biografico-intellettuale del domenicano francese M.-D. Chenu (1895-1990) che A. Franco traccia in questo volume si inserisce nella collana “Novecento Teologico”, ancora in fase di realizzazione, dedicata a 22 diversi Autori significativi, dei quali si vuole mettere in evidenza l’apporto originale della loro riflessione sul Mistero cristiano, ognuno di loro considera, con indubbia originalità, da una particolare angolazione culturale e spirituale. Di essi, tredici (includendovi Blondel e Loisy) sono di area cattolica, gli altri di area protestante o ortodossa (solo uno). L’opera di Chenu viene focalizzata su due grandi tematiche, apparentemente distanti tra loro, ma profondamente interconnesse: 1) lo statuto razionale della riflessione teologica, che sulla scia di Tommaso d’Aquino valorizza profondamente la capacità ragionativa dell’uomo che è chiamato a reagire in maniera discorsiva al dono della rivelazione; 2) la potenza feconda dell’incarnazione del Verbo che si prolunga nella storia, rendendola luogo della manifestazione dei “segni dei tempi” che fanno emergere la novità del disegno di Dio sull’uomo, colto nella concretezza delle sue nuove capacità operative e socializzanti (cfr il tema della “teologia del lavoro”). Queste intuizioni di fondo costituiscono i due filoni fondamentali della ricca e feconda riflessione di Chenu, che, come si evince dalla doppia divisione della sua vasta bibliografia posta in fine al volume (pp.121-134), iniziano rispettivamente nel 1923 (la teologia come scienza della fede) e nel 1936 (la storia come luogo teologico). In questo modo si può comprendere come il primo tema sta alla base dello sviluppo del secondo, in quanto è sempre


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l’elemento umano che viene valorizzato, prima a livello riflessivo e poi sul piano della partecipazione cristiana a livello delle emergenze storiche. Il saggio di Chenu, scelto e tradotto come testo emblematico del suo approccio e riportato nelle pagine 87-116, con il significativo titolo “Posizione della teologia” è del 1935 e riassume splendidamente il primo ambito tematico. Con uno stile vigoroso e lucido l’Autore spiega alla sua maniere che cosa significa far teologia, lanciando una via allora insolita e per nulla praticata dai suoi contemporanei che pure continuavano ad appellarsi a Tommaso. Egli, attualizzando la posizione tomista, ribadisce che la teologia presuppone il dono della fede e nel suo porsi in maniera viva di fronte al mistero di Dio che questa le dischiude, essa trova uno stimolo incessante e ardito per la sua riflessione, che non è astratta e soltanto intellettuale, ma coglie la sua efficacia ed attualità nel vissuto dei credenti e negli interrogativi degli uomini del proprio tempo. A. Franco, che ha avuto la fortuna di una lunga frequentazione con l’Autore presentato, verificando personalmente l’ispirazione più profonda del suo pensiero, non indulge affatto al discorso celebrativo ed edificante, ma descrive, appoggiandosi ad una documentazione molto precisa, il suo lungo percorso, che culmina idealmente nel Concilio Vaticano II. In esso Chenu ha portato due qualificanti contributi, prima con l’idea di indirizzare un messaggio di attenzione agli uomini del nostro tempo e poi nella redazione della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes). Questa partecipazione al Concilio è stata una specie di riabilitazione dopo una condanna del S. Ufficio con la quale nel 1942 era stato colpito un suo libro programmatico sui metodi della Scuola che egli aveva diretto e ispirato: Le Saulchoir. Una scuola di teologia del 1937 (pubblicato in traduzione italiana da Marietti nel 1982, e in seconda edizione francese nel 1985). Nella condanna gli veniva contestato il fatto che nell’indirizzo di questa scuola venisse dato troppo rilievo all’esperienza religiosa e ai suoi condizionamenti storici promovendo una teologia di tipo più induttivo che deduttivo. Colpisce come da una scuola che si richiama al tomismo, da noi conosciuto negli anni ’50 ormai snaturato da un eccesso di intellettualismo lontano dalla vita, potesse maturare una testimonianza così vigorosa di accoglienza empatica della realtà umana nelle sue diverse componenti personali e collettive, psicologiche e storiche, nonché aperta alla vita


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spirituale dell’uomo che riflette sulla sua condizione umana e alle responsabilità pastorali della Chiesa. Antonino Minissale



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1. Licenziati in Teologia Morale Hanno conseguito la Licenza il Teologia Morale il 27 giugno 2003: SCHIFANO SILVANA, Per una nuova cultura della vita. Confronto tra: i Vinti di Giovanni Verga e l’Evangelium vitae di Giovanni Paolo II (relatore prof. Mario Cascone) RABBITO ROSARIO, Il “vissuto virtuoso” di Hetty Hillesum (relatore prof. Maurizio Aliotta) GOWA ANDREW ISAYA, Towards the inculturation of the sacrament of marriage for the churc of Tanzania (relatore prof. Maurizio Aliotta) 2. Baccellieri in Teologia Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia il 27 giugno 2003: CATARRASO ORAZIO ANTONIO, La famiglia cellula di rapporti interpersonali (relatore prof. Giuseppe Schillaci) LEOTTA SEBASTIANO ORAZIO ANGELO, Zaccaria Musumeci e la sua opera di promozione e di riforma della musica sacra nella diocesi di Acireale (relatore prof. Giuseppe Federico) BOSCO DANIELA, La musica sacra da Pio X al post-concilio Vaticano II (relatore prof. Giuseppe Federico)


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

FRATANTONIO GIANLUCA, Le citazioni della Scrittura in Gv 19,36-37 (relatore Prof. Attilio Gangemi) CAMPANELLA AUSILIA, L’ateismo di Nietzsche come grido inappagato (relatore prof. Giuseppe Schillaci) SFERRAZZO AMEDEO, Le proprietà essenziali del matrimonio (can. 1056 CIC) (relatore prof. Giuseppe Baturi) ALESCIO PAOLO, La presenza di Cristo nei poveri nel pensiero e nell’azione di Madre Teresa di Calcutta (relatore prof. Corrado Lorefice) MESSINA ALESSIO - M. LORENZO VITTORIO, Paternità e maternità responsabile alla luce della “Humanae vitae” (relatore prof. Mario Cascone) CASSANITI SALVATORE, Significato della malattia e attenzione al malato nei messaggi per la “Giornata mondiale del malato” di Giovanni Paolo II (relatore prof. Salvaore Consoli)

3. Attività complementari Lo Studio Teologico S. Paolo anche quest’anno ha collaborato al terzo ciclo di lezioni filosofico – teologiche del MEIC di Lentini sul tema: “Alla ricerca del corpo perduto: un approccio antropologico fenomenologico e teologico alla corporeità umana”.


Collane di Synaxis «NUMERI MONOGRAFICI DI SYNAXIS»

Synaxis XIII/1 - 1995

«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900 AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XIV/1 - 1996

«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FASULLO, Una religione mafiosa A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgicocelebrative S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XV/2 - 1997

«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero S. VACCA, Società e Cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVI/2 - 1998

«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia C. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVII/1 - 1999

«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVII/2 - 1999

«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna AA. VV., Sezione teologico-morale AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVIII/2 - 2000

«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo) N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia


Synaxis XIX/2 - 2001

«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La Chiesa e gli infedeli


«QUADERNI DI SYNAXIS»

AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito)

AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184

AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito)

AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138

AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito)

AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334

AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264


AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170

AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190

AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136

AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160

AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280

AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427

AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240


«DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS»

G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596

A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288

P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158

A. G ANGEMI , I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,1931), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294

A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524

G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418


A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di GesÚ. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244

A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19)

G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere (in corso di pubblicazione)




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