Synaxis 22 1 (2004)

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SYNAXIS XXII/1 - 2004

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA



INDICE

Sezione teologio-morale SUBORDINAZIONE E RECIPROCITÀ NELLA RELAZIONE TRA DONNA E UOMO (Maurizio Aliotta) . . . . . . Premessa . . . . . . 1. L’esperienza originaria . . . . 2. La reciprocità donna uomo . . . .

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LA REDAZIONE DEL CAPITOLO V DELLA LUMEN GENTIUM E IL MOVIMENTO PRO SANCTITATE (Cristina Parasiliti Caprino) . . . . . Introduzione . . . . . . 1. Dagli «stati di perfezione» alla «vocazione alla santità» 2. Il lavoro della commissione dottrinale . . 3. Il Movimento Pro Sanctitate . . . Conclusioni . . . . . .

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LA SPIRITUALITÀ PRESBITERALE DEL SERVO DI DIO DON NUNZIO RUSSO (Mario Torcivia) . . . . . . 1. Il presbitero per Nunzio Russo . . . 2. Gli scritti di Nunzio Russo sulla spiritualità presbiterale Conclusione . . . . . .

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LE CELLULE STAMINALI UNA NUOVA VIA IN CAMPO BIOMEDICO, UN DIBATTITO APERTO TRA SCIENZA ED ETICA (Antonino Sapuppo) . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . I. Le Cellule Staminali e le loro Applicazioni Terapeutiche . .

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1. Definizione . . . . . . . 68 2. Classificazione . . . . . . . 70 3. Origine e caratteristiche delle cellule staminali umane . . 72 4. Le applicazioni terapeutiche delle cellule staminali . . 82 II. Il dibattito etico sulle cellule staminali e le indicazioni dell’etica cristiana 87 1. Il dibattito etico-giuridico . . . . . 87 2. La posizione della Chiesa cattolica. . . . . 92 3. Il dibattito sulle cellule staminali da tessuto adulto . . 97 Conclusioni . . . . . . . . 108

Sezione miscellanea LA RICOSTRUZIONE DELLA CATTEDRALE DI CATANIA DOPO IL TERREMOTO DEL 1693 (Salvo Calogero) . . . . . . Introduzione . . . . . . 1. L’avvio dei lavori di ricostruzione . . . 2. La cupola primitiva . . . . . 3. La vicenda del prospetto . . . . 4. La nuova cupola e il campanile . . . Conclusione . . . . . .

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RATIO STUDIORUM, STATUTI E REGOLAMENTI DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO. Un contributo per una sua configurazione (Matteo Malgioglio – Giuseppina Monterosso) Introduzione . . . . 1. Le varie Ratio Studiorum . . 2. Gli Statuti . . . . 3. I Regolamenti . . . Conclusione . . . .

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Nota LA PIRA E STURZO. Una vecchia polemica alla luce di un nuovo criterio storiografico (Salvatore Latora) . . . . . .


Recensioni .

. . . . . . . . 191 M. TORCIVIA, Il segno di Bose. Con un’intervista a Enzo Bianchi, Casale Monferrato (AL) 2003, (Giuseppe Buccellato); ASSOCIAZIONE ARCHIVISTICA ECCLESIASTICA,

Consegnare la memoria. Manuale di archivistica ecclesiastica, a cura di Emanuele Boaga – Salvatore Palese – Gaetano Zito, Firenze 2003 (Rita Cosma). NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

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Sezione teologico-morale Synaxis XXII/1 (2004) 7-18

SUBORDINAZIONE E RECIPROCITÀ NELLA RELAZIONE TRA DONNA E UOMO

MAURIZIO ALIOTTA*

PREMESSA Considererò le relazioni di subordinazione e reciprocità nel rapporto tra donna e uomo alla luce della tradizione ebraico cristiana e di qualcuno dei suoi sviluppi attuali. I termini della questione indicano due modi di comprendere il rapporto donna uomo, al di là del loro legame affettivo e/o giuridico che si può stabilire in un modo del tutto peculiare (per esempio nel matrimonio). I termini indicano, poi, l’esperienza originaria a cui rimanda la comprensione del rapporto tra donna e uomo: il legame tra sesso e potere. Che i rapporti tra donna e uomo siano caratterizzati da un esercizio di potere che si traduce in un dominio dell’uno sull’altra è un fatto innegabile. In questa sede interessa considerare le ragioni teologiche addotte e che hanno giustificato per secoli la subordinazione della donna all’uomo e come si sia passati ad una progressiva mutazione della coscienza e del vissuto.

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Catania.

Ordinario di Antropologia soprannaturale nello Studio Teologico S. Paolo di


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Maurizio Aliotta

1. L’ESPERIENZA ORIGINARIA Da cui partire e facilmente costatabile è quella della dipendenza. “Dipendenza” è l’esperienza di ciò senza di cui non ci sarebbe nulla1. Vi sono, però, molti tipi di dipendenza: — la dipendenza del neonato dalla madre: dipendenza fisica totale per il nutrimento e gli altri bisogni fondamentali; — la dipendenza emozionale e psicologica dei bambini e dei ragazzi dagli adulti (genitori o altre figure significative); — la dipendenza economica delle famiglie (e sovente della singola donna) dai datori di lavoro – per i disoccupati e disabili dall’assistenza pubblica; — la dipendenza di soggetti o interi paesi in situazione di oppressione; — la dipendenza dei prigionieri dai loro carcerieri o dei torturati dai torturatori; — la dipendenza emozionale, psicologica e sessuale degli sposi, degli amanti e, in maniera alquanto differente, di chi è infatuato; — la dipendenza mentale … ; — la dipendenza da droghe (di qualsiasi genere); — la dipendenza a cui siamo soggetti in eventi fuori dal nostro controllo; — la dipendenza dagli altri in caso di malattia, handicap o disturbi mentali; — la dipendenza, in fine, dalla morte. In questa scala, alcune dipendenze sono “naturalmente” necessarie, condizioni di esistenza della persona umana. Altre no, anzi costituiscono condizioni di negazione della persona. Vi è poi, per la coscienza credente, una dipendenza senza la quale nessun’altra è possibile: la dipendenza creaturale, che ha generato atteggiamenti diversi e ha giustificato, tra l’altro, la dipendenza della donna dall’uomo. Tommaso d’Aquino esprimeva la dipendenza creaturale nei termini di exitus e reditus: «L’anima umana viene direttamente da Dio e perciò trova 1 «That-without-which-there-would-be-nothing-at-all» (S. COAKLEY, Powers and Submissions. Spirituality, Philosophy and Gender, Oxford 2002, 56).


Subordinazione e reciprocità nella relazione tra donna e uomo

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la sua felicità nel ritorno a Dio»2. Nonostante che la dipendenza da Dio sia unica e non assimilabile ad altre forme di dipendenza, in un contesto patriarcale essa è assurta a fondamento delle subordinazione femminile. Il problema è stato posto da D. Soelle in questi termini: «Cosa significa antropologicamente essere dipendente? Cosa significa nella vita sociale? […] Questa dipendenza è solo un’identità repressiva del passato o è parte del semplice fatto che siamo creati?»3. Dall’unicità della dipendenza da Dio deriverebbe logicamente la prima risposta. Tuttavia non è stato così. Dio è inafferrabile, pena ridurlo ad un ente, e verso di Lui la creatura tende (di-pende) con un “cuore inquieto” o un desiderio inappagato di natura simile al desiderio erotico. La teologia antica e la mistica conoscono bene la relazione tra desiderio sessuale e desiderio contemplativo di Dio. Questo desiderio di Dio costituisce un ambito in cui si sperimenta una forma di “dipendenza” e le sue possibili conseguenze antropologiche. Accanto ad esso vi è un altro ambito che è quello del desiderio di un aiuto “simile”, nel senso di un ausilio per i propri bisogni. A questi due ambiti volgo brevemente la mia attenzione. a. Nei Commenti al Cantico dei cantici, da Origene a San Giovanni della Croce4 si mostra chiaramente la relazione tra desiderio sessuale e desiderio contemplativo di Dio. S. Coakley ha osservato che l’antinomia irrisolta tra il desiderio erotico del divino, da una parte, e le relazioni reali tra persone di sesso diverso, dall’altro, è qui ancora più forte degli scritti platonici, di cui sono in parte eredi5. La teologia femminista si è soffermata sulla metafora ricorrente dell’ascensione all’intimità divina6. Dal punto di 2 «Et quia anima immediate facta est a Deo, ideo beata esse non poterit nisi immediate videat Deum» (X Quodlibetale, VIII, I, in Quaestiones quodlibetales, a cura di R. Spiazzi, O.P., Casale Monferrato 19569, 210). 3 in J.-B. METZ e E. SCHILLEBEECKX (eds.), God as Father?, Edimburgh – New York 1981, 73-74. 4 Cfr D. TURNER, Eros and Allegory. Medieval Exegeis of the Song of Songs, Kalamazoo 1995. 5 Cfr Simposio, il discorso di Diotima, in particolare 210 a ss. 6 Si ritrova in autori diversi per collocazione geografica ed epoca storica; per esempio in Gregorio di Nissa (“sensi spirituali”), Bernardo di Chiaravalle (“bacio della bocca”).


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Maurizio Aliotta

vista femminista è una metafora del potere e della gerarchia7. Se la dottrina trinitaria dei Cappadoci annuncia da una parte l’assoluta uguaglianza delle “persone” secondo il principio dell’homoousia, quando descrive l’incorporazione dell’anima alla vita divina mediante la preghiera, emerge la radice subordinazionista neoplatonica8. Nell’Occidente medievale la stessa tendenza al “dominio”9 è associata ad un particolare stereotipo negativo di “misticismo femminile” che sorge dalla ricerca della mistica maschile di trasformare la propria energia sessuale in ricerca di Dio. Ricercando la perfezione creaturale dipendente dalla sua anima (“femminile”), il contemplativo proietta nella donna concreta tutti gli aspetti negativi dei suoi desideri inappagati. La valutazione delle testimonianze scritte sulla reciprocità tra donna e uomo degli autori medievali non tiene conto sovente della complessità di quell’epoca e resta prigioniera a sua votla di stereotipi duri a morire. A proposito si confrontino le opinioni di S. Coakley su Bernardo di Chiaravalle e alcuni testi di questo grande medievale. La studiosa inglese riprende l’ammonimento di Bernardo rivolto ai suoi monaci circa l’impossibilità di avere relazioni “normali” con la donna senza giungere a relazioni sessuali illecite, ma trascura testi in cui si mostra l’amicizia dello stesso Barnardo con alcune donne10.

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S. COAKLEY, Powers and Submissions, cit., 57. Cfr BASILIO DI CESAREA, Sullo Spirito santo, 3, 23. 9 Citando Agostino e Ambrogio, YVO DI CHARTRES afferma: «Se v’è discordia fra marito e moglie, il marito domi la moglie e la moglie domata sia soggetta all’uomo. La soggezione della donna all’uomo crea la pace nella casa»; il motivo scritturistico del dominio dell’uomo sulla donna è visto già in Genesi: «poiché Adamo fu indotto in tentazione da Eva e non Eva da Adamo, è giusto che l’uomo assuma il governo della donna» (Panormia, cit. in G. DUBY, Il cavaliere la donna il prete, Bari 1983, 147). 10 Un esempio per tutti: «Se tu potessi leggere nel mio cuore questo amore per te che Dio s’è degnato di scrivere col suo dito, capiresti certamente che né la lingua né la penna basterebbero ad esprimere ciò che lo spirito di Dio ha potuto imprimere nel mio più intimo midollo! Anche adesso ti sono vicino in spirito, anche se assente col corpo. Non dipende né da te né da me che io ti sia effettivamente presente; ma c’è nel più profondo di te un mezzo per indovinarmi se non sai ancora quello che ti dico: entra nel tuo cuore, vi vedrai il mio, e concedimi tanto amore verso di te quanto sentirai di provare verso di me» (BERNARDO DI CHIARAVALLE, Epistolario, in M. D’ELIA ANGIOLILLO, L’epistolario femminile di S. Bernardo, Analecta ordinis cisterciensis, f. XV, 1959, 23 – 55). I testi di San Bernardo 8


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Comunque è vero che in molti testi la donna è vista come intrinsecamente “corporea”, di conseguenza come tentatrice, oppure in lei si vede un tipo di santo “femminile”, pure corporeo, emozionale, “isterico”. L’idea di una inadeguatezza del corpo femminile ad “ascendere al cielo” e alla santità non era nuova. Forse è poco noto il passaggio degli Atti del martirio delle Sante Perpetua e Felicita — e per questo è opportuno ricordarlo — della trasformazione del corpo della martire Perpetua che ella stessa contempla in una visione prima del martirio. Perpetua vede se stessa condotta in mezzo all’arena non per combattere contro le fiere, ma contro «un certo egiziano, brutto di aspetto, con i suoi aiutanti. Ma vengono verso di me [di Perpetua] anche dei fanciulli belli, miei aiutanti e sostenitori. Mi spogliai e divenni un maschio. E i miei aiutanti incominciarono a massaggiarmi con olio come si è soliti fare per il combattimento»11. Perpetua vince il combattimento; quando cessa la visione capisce che non avrebbe «combattuto con le fiere, ma contro il diavolo»12. b. Nella tradizione ebraica (conseguentemente in quella occidentale in forme più evolute, ma sostanzialmente in continuità con quella) vi è fin dall’antichità l’idea di poter usufruire dell’opera di un antropoide come aiuto all’uomo: è nota la tradizione del Golem. Senza entrare nei dettagli e nel merito del significato del Golem13, è interessante notare che si poneva il problema dell’identificazione sessuale di un tale antropoide, antesignano dei moderni robot. Il termine aramaico utilizzato dagli editori di Sanhédrin per designare un antropoide è gavra, letteralmente “uomo” e più specificamente “persona di sesso maschile”14. In ebraico, d’altra parte, una donna non sposata è considerata come un essere imperfetto e i testi classici le applicano l’etichetta di Golem. Questa designazione si riferisce al suo carattere sono stati esaminati criticamente da J. LECLERCQ, La figura della donna nel Medioevo, Milano 1994, passim. 11 Martirio delle sante Felicita e perpetua, in G. DEGLI AGOSTI, Martiri sotto processo. Scelta dei testi autentici tradotti e commentati, Milano 1986, 117.119. 12 Ibid., 119. 13 Cfr M. IDEL, Le Golem, Paris 1992. 14 Cfr M. JASTROW, A Dictionary of the Targumim, the Talmud Babli and Yerushalmi and the Midraschic Literature, 1986, t. I, 208-209.


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imperfetto di entità ilica che precede il suo momento in cui diventa un ricettacolo (keli) per suo marito e in cui giunge alla perfezione essenziale della donna15. L’affinità tra golem e keli appare anche nelle speculazioni teosofiche ulteriori che riferiscono il Golem all’Uomo celeste in quanto egli è il ricettacolo dell’influsso divino. Alla luce delle tradizioni sul Golem, sembra che il termine serva ad indicare un essere umano che non ha ancora raggiunto la perfezione ultima. Di più, il rapporto che unisce la donna concepita come Golem al processo che la trasforma in un ricettacolo, keli, cioè a dire nella sua finalità “naturale” ricalca un’altra discussione talmudica dove la parola golem indica la forma non finita di un certo recipiente che non divine recipiente se non quando gli si appone l’ultimo tocco16. La penetrazione dell’ago è posta in parallelo con l’idea talmudica che vede nello sposo colui che “fa” la sua sposa (bo’alaikh ‘osaikh)17. Presupposto fondamentale di tale concezione è poter definire in modo chiaro la “natura” dell’uomo e della donna, con le conseguenti finalità da perseguire. La donna è per sua natura “ricettiva” e passiva, suo compito è accogliere e dunque rimanda all’idea di imperfezione. L’uomo è per natura sua attivo ed ha il compito di completare e perfezionare la donna. Non è difficile comprendere perché questa concezione ha potuto offrire le basi teoretiche per l’affermazione della subordinazione della donna all’uomo. Offre pure, però, le basi per un apparente superamento della subordinazione, nei termini di una complementarità tra donna e uomo. La donna è complementare all’uomo e viceversa, in modo strumentale, nel senso che l’uno è ritenuto necessario all’altro per il suo perfezionamento. Si tratta di una forma solo apparente di superamento della subordinazione, perché vi si nasconde una modalità di strumentalizzazione dell’altro. In fondo si resta ancora prigionieri della concezione di identità e ontologia, che fu assunta e sistematizzata dalla scolastica. Nella scolastica, infatti, l’identità nasce dalla negazione dell’altro in quanto la differenza specifica costituisce l’individuazione del genere, di ciò 15

Sanhédrin 22b. Cfr per es. TB Houllin 25 ab. 17 M. IDEL, Le Golem, cit., 299. In ambito cristiano, Isidoro di Siviglia nelle sue Etimologie, da parte sua afferma: «Matrimonium quasi matris munium, i.e. officium quod dat mulieribus esse matrem» (Etymol. IX, 8, 19: PL 82, 366). 16


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che è comune ai vari individui. La comunicazione avviene in ciò che è universale, il genere appunto. L’ontologia è il sistema che esalta questa concezione della diversità. Qui, in definitiva, la diversità è mediata sempre da ciò che è comune. Ontologicamente è regolata secondo un principio dell’analogia, declinato nel senso della continuità e della convergenza.

2. LA RECIPROCITÀ DONNA UOMO Quando si ripensano in modo nuovo identità e differenza si opera un cambiamento nella maniera di concepire le relazioni tra donna e uomo. Tale ripensamento non è avvenuto per una dinamica interna, ma – nella cultura occidentale per lo meno – è causato soprattutto, se non esclusivamente, da fattori di cambiamento esterni. Tra di essi vi è, ovviamente, l’autocoscienza della donna di essere soggetto e non meramente oggetto di diritti, di piacere, di quant’altro. Una spinta di non poco conto in questa direzione è venuta dall’introduzione e dalla pratica su vasta scala della contraccezione18. La separazione, non solo in linea di principio, ma di fatto, della sessualità dalla procreazione e conseguentemente dal matrimonio, ha operato una profonda modificazione della mentalità e dei costumi. La contraccezione ha consentito a molte donne di poter “gestire” autonomamente la propria corporeità, sottraendosi così al potere di controllo che la società aveva fino ad allora esercitato sulla maternità e sul copro femminile19. “Reciprocità” è diventata la parola chiave per indicare il cambiamento, anche se non è in realtà semplice definire cosa esattamente si intenda con essa. Si tratta, in ogni caso, del tentativo di attribuire alla persona, maschio e femmina, «il mistero della convivenza di unicità e relazionalità, uguaglianza e differenza, comunione e distanza, dimensioni la cui 18 Fin dall’antichità si sono cercati espedienti per impedire il concepimento, ma solo in epoca recente le metodiche si sono sviluppate su scala industriale. 19 Per i presupposti antropologici della contraccezione, mi permetto rinviare a M. ALIOTTA, Il matrimonio, Brescia 2002, 153 – 166. Poca attenzione all’incidenza determinante sulla condizione femminile avuta dalla contraccezione sembra mostrare la pubblicistica cattolica, come per es. in G. DI NICOLA – A. DANESE, Lei & Lui. Comunicazione e reciprocità, Torino 2001.


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apparente contraddittorietà rimanda appunto all’essere immagini di qualcos’altro e non realtà autonome e autosufficienti. L’indefinibilità del concetto di reciprocità è evidente per lo stesso rimando analogico al Dio trinitario»20. Il fondamento teologico della reciprocità è visto sia in questo riferimento analogico alla Trinità, sia allo stesso atto creatore di Dio: «Bisogna ritornare all’intuizione prima secondo la quale Dio creò l’uomo a sua immagine, maschio e femmina lo creò. Ciascuno dei due è pienezza di umanità e nello stesso tempo nessuno dei due può ammettere questa pienezza a suo profitto ed escludere l’altro, riducendolo(la) alla sua appartenenza sessuale. Mantenere questa complessità a qualsiasi prezzo significa restare nel paradosso del Simile e dell’Altro. Si tratta di conservare contemporaneamente quello che ci rende simili e quello che ci rende diversi»21. Rispetto al modello di relazione donna uomo espresso dalla categoria di complementarità, la reciprocità esprime contemporaneamente la consapevolezza della parzialità e della pienezza. La reciprocità, in effetti, ci aiuta a comprendere la persona umana, nella sua differenza sessuale, come realtà inestricabilmente parziale e completa, capace di uscire da sé per un incontro, orientato non solo al completamento di sé mediante l’incorporazione dell’altro, ma orientato al riconoscimento dell’altro mediante il dono di sé. In questo secondo caso, la differenza non si definisce a partire dall’identità, ma a partire da essa stessa. Nella relazione di reciprocità i due soggetti donna e uomo né si annullano né si fondono, ma giungono alla relazione di conoscenza e comunione. La reciprocità ci aiuta, altresì, a non 20

G. DI NICOLA – A. DANESE, Lei & Lui, cit., 111. A. GOMBAULT, maschile e femminile nella simbolica e nell’immaginario religioso, LI Corso di studi cristiani, Assisi 23-28 agosto 1993, cit. in T. BUCCHERI, La Chiesa il papa e le donne, Alba 1996, 78. Il duplice riferimento, alla Trinità e alla creazione, è contenuto esplicitamente in un passaggio della Mulieris dignitatem 7: «L’uomo non può esistere “solo” (cfr Gen 2,28); può esistere soltanto come “unità dei due”, e dunque in relazione a un’altra persona umana. Si tratta di una relazione reciproca: dell’uomo verso la donna e della donna verso l’uomo. Essere persona a immagine e somiglianza di Dio comporta, quindi, anche un esistere in relazione, in rapporto all’altro “io”. […] Dio […] è unità nella Trinità: è unità nella comunione. […] In base al principio del reciproco essere “per” l’altro, nella “comunione” interpersonale, si sviluppa in questa storia l’integrazione nell’umanità stessa, voluta da Dio, di ciò che è “maschile” e di ciò che è “femminile”». In questo modo il Papa vede la somiglianza con Dio legata alla personalità che è relazione e che include l’orientamento alla comunione e quindi il rimando alla Dio unitrino. 21


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avere una visione “ingenua”, idealizzata della relazione tra i sessi. Come ha osservato da par suo E. Lévinas, «occorreva [all’origine] una differenza che non compromettesse l’equità: una differenza di sesso, e, da qui, una certa preminenza dell’uomo, una donna venuta più tardi, e, in quanto donna, un’appendice dell’umano. Ne compendiamo adesso la lezione. L’umanità non è pensabile a partire da due principi complementari diversi. Bisognava che ci fosse uno stesso comune a codesti altri: la donna è stata prelevata dall’uomo, ma è venuta dopo di lui; proprio la femminilità della donna è in questo iniziale dopo. […] L’umanità reale non ammette un’uguaglianza astratta senza alcuna subordinazione dei suoi elementi. Che razza di scenate domestiche sarebbero scoppiate tra i partners della prima coppia di perfetti uguali! Ci voleva subordinazione e trauma, ci voleva un dolore per unire pari e impari»22. Tutto questo non avviene necessariamente nello scambio corporeo dell’unione sessuale, bensì nella corporeità che caratterizza la nostra esistenza che va oltre la sola unione sessuale genitale, coinvolgendo ogni espressione della persona umana. Un esempio di tale reciprocità ci è offerto dall’antropologia biblica. L’antropologia biblica propone il modello ideale di rapporto reciproco tra donna e uomo. Il racconto della creazione della coppia umana, contenuto in Gen 2, mostra che la differenza sessuale è voluta dal Creatore stesso come costitutiva dell’essere persona. La “similarità” di cui parla il testo biblico è, in realtà, uno “star di fronte”, un essere-per che diventa essere-con. Il termine ebraico kenegdô significa, infatti, letteralmente «come un suo dirimpetto»23, che la versione latina della Vulgata rese con similem sui. Il testo biblico, perciò, non esprime l’idea di due realtà che sono “simili” perché uguali, ma precisamente perché stanno faccia a faccia: ciò che mi sta di fronte è un vero “aiuto”, non ciò che in qualche modo si confonde in una unità indistinta. Un’interpretazione del testo biblico, divenuta tradizionale, vede in questo secondo capitolo la duplice creazione

22

E. LÉVINAS, Dal sacro al santo. Cinque nuove letture talmudiche, Roma 1985,

127-128. 23

Cfr A. SOGGIN, Genesi 1–11, Genova 1991, 69.


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dell’uomo, prima, e della donna, successivamente. Tuttavia il testo si può leggere anche diversamente24. Il primo tentativo di creazione non è ben riuscito: l’umanità indifferenziata non corrisponde al piano di Dio. Non vi è nessun aiuto “simile”: la persona umana che dà il nome alle cose e agli animali le “possiede”, ma non entra in una vera relazione con essi. Solo la creazione di un’umanità differenziata in maschio e femmina corrisponde al piano di Dio. La conseguenza è che la differenza sessuale è voluta dal Creatore e non è conseguenza di un evento successivo all’atto creatore. Sul piano antropologico questo significa che la “differenza” non è il negativo da superare, ma il positivo da realizzare. L’attrazione dei sessi non si spiega dunque come la nostalgia dell’unità paradisiaca perduta, ma come la spinta ad attuare l’incontro con ciò che “sta di fronte”. In questo incontro la reciprocità significa il riconoscimento dell’alterità e il valore della differenza che non deve essere annullata, ma semplicemente riconosciuta ed accolta. Il peccato, descritto nel capitolo terzo di Genesi, introduce nella creazione sette volte buona/bella il disordine che consiste precisamente nella negazione di ogni differenza. Il serpente inganna Eva affermando e mentendo, che non vi è differenza alcuna tra persona umana e Dio, tra persona umana e animali, tra vita e morte. La tentazione del serpente consiste proprio in questo, negare le differenze ed affermare un principio totalitario che riconduca tutto all’ordine che nega ogni differenza25. All’interno di questa negazione l’io umano si erge ad assoluto, si fa dio, relativizzando di conseguenza ogni altra realtà, ridotta a nero oggetto d’uso. Anche i rapporti interpersonali vengono ricondotti a questa logica: «il tuo desiderio si volgerà verso tuo marito ed egli dominerà su di te!» (Gen 3, 16). Si instaura la logica dell’annientamento o dell’assorbimento. Il poema biblico che canta l’amore tra donna e uomo, come segno dell’amore di Dio per il suo popolo, il Cantico dei cantici, riporta le cose al progetto originario di Dio. L’amore umano è inserito nel contesto del dialogo e della reciprocità. La protagonista del Cantico si esprime in termini 24

Cfr C. DI SANTE, Parola e terra. Per una teologia dell’ebraismo, Genova 1990. Cfr E. VAN WOLDE, Words become Worlds. Semantic Studies of genesis 1 – 11, Leiden 1994. 25


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che sono stati definiti “canto della piena reciprocità”26: “Il mio tesoro è mio e io sono sua” (2, 16), e viceversa: “Io sono del mio tesoro e il mio tesoro è mio” (6, 3). «La dignità della donna raggiunge il culmine quando lei dice: “Io sono del mio tesoro e verso di me è la sua passione” (7, 11), frase che rovescia la condanna di Dio a Eva dopo il peccato: “Verso tuo marito sarà la tua passione ed egli dominerà su di te” (Gn 3, 16). Questa perfetta reciprocità, liberata da ogni sopraffazione e volontà di dominio, fa sì che lei si senta “la pacificata” (8, 10). Ha trovato il suo shalóm (pace e benessere) in un rapporto d’amore pienamente reciproco e liberante. Perciò chiede di essere posta come “sigillo” sul braccio e sul cuore dell’amato (8, 6). Vorrebbe stare sempre con lui, come il sigillo che lo identifica, presente nel pensiero e nell’azione»27. La prima formula che esprime la reciprocità tra donna e uomo (“Il mio tesoro è mio e io sono sua”), merita una particolare attenzione. In ebraico è espressa da sole quattro parole, dodí li waaní lo. «Quasi un soffio, un sospiro d’amore, ripetuto tre volte e sempre da lei (vedi 6, 3 e 7, 11). Una riedizione femminile del primo canto d’amore pronunciato dall’uomo nel giardino dell’Eden: “carne della mia carne, osso delle mie ossa” (Gn 2, 23). Gioia di essere pienamente l’uno per l’altra, senza violenza o sopraffazione. La terza occorrenza di questa formula ribalterà la situazione dichiarata in Gn 3, 16 quale conseguenza del peccato: “verso il tuo uomo sarà la tua passione, e lui ti dominerà”. Infatti la donna del Cantico può affermare con soddisfazione che “verso di lei è la passione di lui” (7, 11), e ciò non darà adito a nuova sopraffazione perché se lui è “Salomone” lei è la “Sulammita” (7, 1), colei che ha trovato e dona “pace” (8, 10)»28. Nel Nuovo Testamento, al di là del contesto generale del rapporto tra Gesù e le donne che entrano a far parte a pieno titolo della cerchia dei suoi, vi è un testo particolare di Paolo che esprime questa reciprocità: «La moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma lo è la moglie» (1 Cor 7, 4).

26

E. BOSETTI, Cantico dei cantici. «Tu che il mio cuore ama», Cinisello Balsamo

2001, 21. 27 28

L. c. Ibid., 46.


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Maurizio Aliotta

In conclusione, la Bibbia opera una relativizzazione della differenza sessuale (come di ogni altra differenza), sulla linea paolina che in Cristo non ci sono né maschio né femmina, né giudeo né greco, per istituire una più radicale differenza che non è la reciprocità ma la irreciprocità o grazia che di ogni reciprocità — anche quella femminile e maschile, sia nella figura matrimoniale sia in quella verginale — diventa la radice nascosta che genera e rigenera.


Synaxis XXII/1 (2004) 19-51

LA REDAZIONE DEL CAPITOLO V DELLA LUMEN GENTIUM E IL MOVIMENTO PRO SANCTITATE*

CRISTINA PARASILITI CAPRINO**

INTRODUZIONE Negli ultimi decenni sembra che il tema della universale vocazione alla santità sia entrato nel sentire comune dei cristiani. Il Papa ne parla nelle lettere e nelle omelie, i vescovi lo ripetono ai loro fedeli, i teologi scrivono libri e articoli sull’argomento, diversi movimenti ne hanno fatto uno dei punti fondamentali della loro spiritualità. Sembra, quindi, quasi impossibile pensare che quarant’anni fa, all’inizio del Concilio, la situazione fosse diversa, a tal punto che il tema della universale vocazione alla santità sarebbe stata oggetto di un vivace dibattito nell’assemblea conciliare. L’annuncio del Concilio aveva suscitato varie attese, tra i cristiani e non solo. «Nel Concilio si parlerà dei vescovi e dei laici: queste parole, alla vigilia della prima sessione, riassumono la speranza di numerosi osservatori.[…] Intorno al tema dei laici si sarebbero irradiati quelli del “Popolo di Dio”, della vocazione universale alla santità e, infine, del dialogo della Chiesa con il mondo contemporaneo»1.

Proprio nei decenni precedenti il Concilio, la riflessione sul ruolo dei laici nella Chiesa e sulla loro vocazione e missione in essa, aveva visto uno * Estratto della tesi di Baccalaureato in Teologia, discussa il 24 gennaio 2003 presso lo Studio Teologico S. Paolo, relatore prof. Gaetano Zito. ** Baccelliere in Teologia. 1 C. MOELLER, Il fermento delle idee nella elaborazione della Costituzione, in La Chiesa del Vaticano II, a cura di G. Barauña, Firenze 1966, 155-189: 155-156.


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sviluppo notevole, grazie anche al contributo del rinnovamento attuato dal movimento biblico e liturgico, alla rivalutazione del concetto di sacerdozio universale dei fedeli, ai congressi per l’apostolato dei laici2, all’affermarsi di associazioni e movimenti impegnati a promuovere, nei laici stessi, una maggiore consapevolezza del loro ruolo nella Chiesa e nel mondo. Tutto ciò può essere considerato come il risultato di un certo rinnovamento della spiritualità avvenuto tra l’Ottocento e il Novecento, periodo durante il quale si assiste anche ad una maggiore responsabilizzazione del laicato cattolico, sia nelle attività che nella spiritualità della Chiesa. Alcune figure particolarmente significative di laici cattolici impegnati professionalmente e socialmente, incarnano la «volontà e il coraggio della cristianità a manifestare la propria responsabilità storica nella Chiesa, nella profonda convinzione del credo cattolico, attraverso un’esistenza “ecclesiale” esemplare. Esse sono inseparabili dal sorgere dei movimenti cattolici, che presto si moltiplicano come espressioni caratteristiche del crescente bisogno dei laici di ritrovarsi in associazioni, al fine di assumere in comune un medesimo impegno religioso e sociale, tenendo conto delle particolari situazioni storico - politiche e differenze nazionali»3.

Proprio l’attività di questo genere di associazioni è all’origine di un rinnovamento del laicato, teso a restituirgli il suo posto nel popolo di Dio, a ricordare come le esigenze di perfezione della vita cristiana non sono rivolte solo ai religiosi, ma riguardano tutti i cristiani. Parlare della vita religiosa come “stato di perfezione” ha fatto sì che sorgesse un certo equivoco tra i fedeli, sia nella concezione della vita cristiana come anche a proposito della possibilità di pervenire alla santificazione personale.

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Svoltisi a Roma nel 1951 e nel 1957: cfr l. c. L. BORRIELLO – G. DELLA CROCE – B. SECONDIN, La spiritualità cristiana nell’età contemporanea, Città di Castello 1985, 134. In Italia, per esempio, è significativa l’opera e la testimonianza di Giuseppe Toniolo (sociologo ed economista), Contardo Ferrini (professore universitario), Giuseppe Moscati (medico) e Giuseppe Tovini (avvocato e politico), uomini che hanno coniugato vita interiore profonda ed impegno professionale nella società. 3


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La rinnovata riflessione sul laicato condurrà alla correzione di questa tendenza, recuperando l’idea della chiamata alla santità come esplicitazione della vocazione battesimale e perciò rivolta ad ogni cristiano, idea presente nell’antico e nel nuovo Testamento e patrimonio consolidato della tradizione della Chiesa, in particolare nell’epoca patristica. Il cristiano in quanto battezzato è chiamato a rendere visibile con la sua vita la santità di Dio, a prescindere dal suo stato. La riflessione sui laici coinvolge, quindi, la vita religiosa in un dibattito che emergerà anche al Concilio, nel corso della discussione sul capitolo IV dello schema De Ecclesia, rielaborato dopo la prima sessione. In questo testo, infatti, la trattazione sui religiosi è presentata come una specificazione della chiamata alla santità di tutti i cristiani Nel nostro studio, osserveremo lo svolgersi di tale dibattito in Concilio, cercando di ricostruire il percorso che ha portato all’inserimento del tema della universale vocazione alla santità nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa, distinguendola dalla trattazione sulla vita religiosa. Per ricostruire l’iter redazionale del capitolo V della Lumen Gentium abbiamo consultato gli atti del Concilio Vaticano II, relativamente al dibattito svolto in assemblea conciliare. Sono stati esaminati gli interventi presentati dai padri nel corso della prima sessione del Concilio (ottobredicembre 1962), in merito alla discussione in aula del De Ecclesia, come anche gli interventi inviati per iscritto alla segreteria del Concilio nell’intervallo tra la prima e la seconda sessione. Più attenzione è stata dedicata agli interventi dei padri presentati nel corso della seconda sessione (ottobredicembre 1963), in riferimento al capitolo IV De vocatione ad sanctitatem in Ecclesia, del secondo schema De Ecclesia. Ci siamo poi soffermati sul lavoro della commissione dottrinale e della sottocommissione, che nel corso della prima intersessione (gennaio-maggio 1963) si è occupata di elaborare un nuovo schema per la costituzione sulla Chiesa. Infine, accenneremo brevemente all’attività svolta dal Movimento Pro Sanctitate negli anni precedenti il Concilio, per offrire un esempio del clima di riflessione nel quale si innesta l’evento del Concilio, in particolare in merito al tema della vocazione universale alla santità.


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1. DAGLI «STATI DI PERFEZIONE» ALLA «VOCAZIONE ALLA SANTITÀ» 1.1. Il testo originario Lo schema De Ecclesia, elaborato dalla commissione preparatoria e consegnato ai padri conciliari all’inizio del Concilio nell’ottobre ’62, non conteneva il tema della vocazione alla santità di tutti i fedeli. Di conseguenza, gli interventi fatti dai padri nel corso della prima sessione non affrontano tale questione. Troviamo solo due accenni al nostro argomento, presentati tra i numerosi interventi scritti: — un gruppo di vescovi giapponesi4 suggerisce che la trattazione sugli stati di perfezione sia introdotta da un discorso più generale sulla perfezione cristiana5 e sul compito della Chiesa di guidare i suoi figli alla santità6; — Corboy, vescovo della Rhodesia, osserva che nello schema non è trattato il tema della «Chiesa santa» e che la santità della Chiesa è la santità dei singoli membri, che ad essa sono chiamati7. Alla chiusura della prima sessione, nel dicembre ’62, i padri avevano ancora molto da dire sul De Ecclesia: così hanno inviato alla segreteria del Concilio le loro osservazioni. Ritornati alle proprie sedi e lontano dai tempi incalzanti delle sedute conciliari, i padri hanno l’opportunità di riflettere con più pacatezza e preparare interventi più elaborati, completi, ampi. Sul nostro tema troviamo varie proposte, che vengono inviate alla segreteria del Concilio, alcune delle quali avranno seguito nella rielaborazione del testo. Baudoux, vescovo di San Bonifacio (Canada), suggerisce che, nel capitolo De vocatione ad perfectionem in Christo, si affermi esplicitamente 4 Si tratta di: Tatsuo Doi (Tokyo), Yamaguchi (Nagasaki), Fukaori (Fukuoka), Tomiozawa (Sapporo), Furuya (Kyoto), Arai (Yokohama), Kobayashi (Sendai), Noguchi (Hiroshima), Hirata (Oita) e Ito (Niigata): cfr Acta synodalia Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani Secundi, I/4, Roma 1969, 397 (in seguito citeremo AS, specificando volume e tomo). 5 Le espressioni “stati di perfezione” e “perfezione”, usate rispettivamente per indicare i religiosi e quanti in genere professano i consigli evangelici e la santità, progressivamente saranno sostituite da altre espressioni, come per esempio “religiosi – vita religiosa” e “santità”, considerate meno ambigue. 6 Cfr AS I/4, 401. 7 Cfr AS I/4, 444-445.


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che tutti gli uomini sono chiamati alla perfezione evangelica in Cristo. Vi sono alcuni, poi, sacerdoti o laici, chiamati da Dio a tendere a questa perfezione con mezzi riconosciuti dalla Chiesa8. De Cambourg, vescovo ausiliare di Bourges (Francia), propone che l’esposizione sugli stati di perfezione sia più breve e suddivisa in tre parti: l’universale vocazione alla perfezione, i consigli evangelici, i rapporti tra i membri degli istituti religiosi e gli ordinari locali9. Gurdipe Beope, vescovo di Bilbao (Spagna), scrive che l’esigenza di una vita perfetta è rivolta sia ai ministri che ai laici; perciò lo stato di perfezione evangelica non costituisce una terza classe di cristiani, ma tutti possono raggiungere tale stato10. Secondo Hidalgo Ibanez, vescovo di Jaca (Spagna), l’argomento principale del capitolo dovrebbe essere quello dei consigli evangelici. All’inizio dovrebbe esserci un’introduzione sulla vocazione di tutti i cristiani alla perfezione, fondata sul battesimo. Si passerebbe poi a trattare dei consigli evangelici, professati nella forma canonica stabilita dalla Chiesa. In alternativa, il tema del capitolo potrebbe essere la vocazione generale alla perfezione, mentre i consigli evangelici verrebbero presentati come una maniera peculiare di vivere questa perfezione. Il titolo del capitolo potrebbe essere cambiato in De sanctitate in Ecclesia oppure De perfectione christiana11. Mc Grath, vescovo di Panama, osserva come sia necessario apportare delle modifiche al testo, affinché appaia chiaramente che la perfezione è vocazione di tutti i cristiani. Propone quindi che si scriva un paragrafo sulla universale vocazione alla perfezione, nel quale si potranno citare diversi testi della Sacra Scrittura nel loro senso esatto. Nel testo originario del De Ecclesia, infatti, venivano citati alcuni testi, ma in maniera impropria, perché si applicavano in maniera esclusiva ai religiosi dei testi che potevano essere riferiti anche a quanti non professano i consigli evangelici. Successivamente verrebbe inserito un paragrafo sui consigli evangelici, in

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AS II/1,

480. 496. 10 AS II/1, 533. 11 AS II/1, 541.


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modo da farne meglio comprendere il senso e la dignità, senza tuttavia escludere gli altri dalla perfezione. Mc Grath conclude affermando che occorre anche specificare che i consigli evangelici sono dei mezzi per raggiungere la perfezione, distinguendo gli “stati”, intesi come mezzi, dalla perfezione stessa12. Satoshi Nagae, vescovo di Urawa (Giappone), nelle osservazioni sul capitolo De statibus perfectionis, afferma che non ritiene opportuno che vi sia un capitolo a sé che tratti dei religiosi. Occorre invece che vi sia una esposizione sulla perfezione cristiana in genere, che spetta sia ai chierici che ai laici, perfezione che consiste nella carità perfetta. In seguito si potranno specificare i consigli evangelici, proposti, ai chierici come ai laici, come mezzi in sé migliori, ma non assoluti13. Da questi interventi si può notare che il tema della vocazione alla santità di tutti i cristiani non ha ancora una fisionomia ben delineata ed è ancora strettamente legata, anche nella terminologia, agli «stati di perfezione», cioè ai religiosi e alla professione dei consigli evangelici. Emerge la necessità di situare meglio la posizione dei religiosi nella Chiesa, di comprendere meglio il loro ruolo e la loro vocazione in essa e in relazione alla gerarchia e ai laici. Non si vuole fare di loro una classe a sé, separata dal resto del popolo di Dio, superando l’idea, insita nell’espressione «stati di perfezione», che la perfezione cristiana sia raggiungibile solo da quanti professano i consigli evangelici14. Il testo originario del De Ecclesia viene rielaborato, tra gennaio e maggio ’63, dalla commissione dottrinale, che prepara un nuovo schema in quattro capitoli. Per comprendere meglio il profondo lavoro di revisione della commissione, basta osservare la struttura delle due redazioni:

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AS II/1,

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AS II/1,

544ss. 565. 14 A riguardo della redazione del capitolo VI della Lumen Gentium, sui religiosi, si può consultare: P. MOLINARI – V. GUMPEL, Il capitolo VI «De Religiosis» della Costituzione dogmatica sulla Chiesa. Genesi e contenuto dottrinale alla luce dei documenti ufficiali, Milano 1985.


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Progetto originario (1962) 1 2 3 4 5 6 7 8

Il mistero della Chiesa I membri della Chiesa L’episcopato I vescovi residenziali Gli stati di perfezione I laici Il magistero della Chiesa Autorità e obbedienza nella Chiesa 9 Relazione tra Chiesa e Stato 10 Necessità per la Chiesa dell’annuncio del Vangelo 11 L’ecumenismo

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Secondo progetto (1963) 1 Il mistero della Chiesa 2 La struttura gerarchica della Chiesa, in particolare l’episcopato 3 Il popolo di Dio, specialmente i laici 4 La vocazione alla santità nella Chiesa

In questa nuova redazione del testo, il capitolo sugli stati di perfezione subisce una significativa trasformazione, diventando De vocatione ad sanctitatem in Ecclesia. Questo cambiamento trova la sua motivazione nelle diverse osservazioni dei padri, che precedentemente abbiamo riportato: presentare la vita secondo i consigli evangelici nel più ampio contesto della vocazione battesimale alla santità, superare la divisione tripartita del popolo di Dio (chierici, laici, religiosi), inserire pienamente i religiosi e la loro vocazione e missione nella Chiesa, affermando esplicitamente che la professione dei consigli evangelici non crea una categoria superiore di cristiani, ma costituisce un mezzo per raggiungere la santità, al pari degli altri stati di vita. Il nuovo schema approvato dalla commissione di coordinamento inverte l’ordine degli argomenti rispetto al progetto originario: il capitolo sui laici, infatti, precede quello sui religiosi. Non si tratta di un cambiamento formale, ma racchiude una concezione ben precisa sulla struttura della Chiesa stessa. Abitualmente si considerava una divisione tripartita dei fedeli: chierici, religiosi e laici. Si tratta di una divisione che


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Cristina Parasiliti Caprino «fa sovrapporre tra di loro due punti di vista indubbiamente complementari, ma non uguali: la divisione tra chierici e laici si riallaccia alle strutture della Chiesa, mentre quella fra religiosi e non religiosi si riallaccia alle strutture nella Chiesa; in altre parole, in ecclesiologia non ci deve essere un’unica divisione tripartita (che, del resto, ancora una volta relega i laici in secondo piano), ma due visioni bipartite: pastori e laici, religiosi e non religiosi. Con ciò si liberava una dimensione importante del De Ecclesia. La chiamata alla santità, sotto forma di vita religiosa o meno, concerne tutti i battezzati, siano essi pastori o laici. Accanto alle strutture gerarchiche della Chiesa, stanno le strutture carismatiche nella Chiesa» 15.

Questo cambio di prospettiva era già stato proposto dal cardinale Suenens, vescovo di Bruxelles. Egli, nella riunione della commissione di coordinamento tenutasi nel marzo ’63, dopo aver presentato i primi due capitoli del De Ecclesia, già rielaborati da un’apposita sottocommissione, dice, a proposito dei due capitoli in preparazione, che: «Sarebbe utile sviluppare il capitolo IV16 in una prospettiva più ampia che tratti della santità nella Chiesa: questo capitolo descriverebbe la vocazione alla santità rivolta a tutti i cristiani; in seguito verrebbe specificato il proprium degli stati di perfezione. In questo modo si eliminerebbe l’impressione che la perfezione e la santità siano quasi un monopolio riservato ai religiosi. Con questo cambiamento, sarebbe inutile trattare della santità del popolo cristiano nel capitolo sui laici»17.

15 C. MOELLER, Il fermento delle idee nella elaborazione della Costituzione, in La Chiesa del Vaticano II, cit., 155-189: 171. «La seconda divisione bipartita sarebbe apparsa più chiaramente nel corso delle discussioni sul IV capitolo, perché si sarebbe arrivati a suddividerlo in due sezioni, una delle quali avrebbe trattato della vocazione universale alla santità, e l’altra di quella particolare forma di vita votata alla santità che si realizza nella professione religiosa dei consigli evangelici. Si sarebbe pure visto più chiaramente che, se i religiosi si separano dal mondo, non si separano dal “popolo di Dio”: non sono infatti dei “professionisti” della santità»: ibid. cfr anche G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, Milano 1975, 43-44. 16 Capitolo che avrebbe dovuto trattare degli stati di perfezione. 17 Cfr AS V/1, 463-464.


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Le osservazioni sul IV capitolo inviate dai padri prima dell’apertura della seconda sessione sono pochissime18. Esprimono generale apprezzamento per il nuovo testo, non chiedono modifiche sostanziali, ma diversi padri notano la povertà dei riferimenti biblici, che determina una debole fondazione del tema della santità. Quest’ultima osservazione sarà ripresa da diversi padri nel corso della discussione in aula del capitolo IV, i quali chiedono che le citazioni bibliche siano scelte più accuratamente, evitando di forzare il significato di alcuni testi, non riferendo esclusivamente ai religiosi quanto è invece rivolto a tutti i cristiani. Auspicano, inoltre, che sia inserita nel testo una chiara definizione della santità, che prenda spunto dalla santità di Dio, origine e causa di ogni santità.

1.2. Il capitolo IV: «De vocatione ad sanctitatem in Ecclesia» Il nuovo titolo del capitolo IV annuncia una importante novità: il testo non parla più dei religiosi in maniera specifica, ma in quanto parte di un argomento più ampio. L’attenzione dei padri è così richiamata su un tema che da alcuni avrebbe potuto essere considerato fuori posto, non adatto per essere inserito in un testo dottrinale. Pochi, infatti, hanno notato l’assenza, nel testo originario, di una qualsiasi menzione della chiamata alla santità di tutti i cristiani e ne hanno chiesto una esplicita affermazione19. Ciononostante, il capitolo sulla universale vocazione alla santità troverà un terreno piuttosto favorevole, anche se la sua collocazione susciterà qualche discussione. Uno dei primi interventi sulla santità si ha già durante la discussione sullo schema in generale. D’Avack, vescovo di Camerino, nel corso della XLI congregazione generale del 4 ottobre ’63, dice che occorre sottolineare l’importanza della vita intima della Chiesa, evidenziando il suo compito di far fluire la santità, che le viene da Cristo, nei suoi singoli membri, ciascuno per il proprio stato di vita20. 18 Il nuovo testo fu inviato ai padri solo nel mese di agosto dello stesso anno, a soli due mesi dall’inizio della seconda sessione del Concilio. 19 Vedi quanto abbiamo già riferito nelle pagine precedenti. 20 Cfr AS II/2, 77-79.


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Dalla LVI alla LIX congregazione generale si discute il IV capitolo e si hanno numerosi interventi21. La nuova redazione del testo è accolta favorevolmente dai padri, i quali condividono la scelta di una trattazione specifica del tema della vocazione alla santità di tutti i fedeli, all’interno della quale è stata inserita l’esposizione sui religiosi. La nuova contestualizzazione dei religiosi è apprezzata perché così emerge che la santità non è a loro riservata. Non è considerato corretto, quindi, usare l’espressione «stati di perfezione» riferendosi solo ai religiosi, poiché la perfezione è una vocazione comune a tutti i cristiani. Gli stessi consigli evangelici sono rivolti a tutti e non si limitano ai tre voti professati dai religiosi, ma comprendono molte altre virtù: umiltà, mansuetudine, misericordia, pazienza. La santità dovrebbe essere, quindi, il culmine del capitolo, dopo aver descritto le diverse vie per raggiungerla, soffermandosi in particolare sui religiosi22. In diversi interventi viene fatto notare che nel testo manca una descrizione della santità, che, partendo dalla rivelazione contenuta nella Scrittura, la presenti non tanto come perfezione morale o come insieme di azioni da compiere, ma piuttosto come dono di Dio, evidenziandone l’aspetto dinamico e ontologico, come tensione dei battezzati alla perfezione escatologica23. Il linguaggio utilizzato è considerato troppo complicato e si chiede una descrizione più concreta della santità: essa deve essere presentata come adesione alla volontà di Dio, da attuare secondo il proprio stato di vita, facendo emergere anche la correlazione con le virtù teologali24. L’universalità della vocazione alla santità sarebbe meglio esposta con una trattazione più ampia della santità dei laici, che essi devono attuare non 21 Per quanto diremo in seguito: cfr AS II/3 e AS II/4, dove sono contenuti i verbali delle suddette congregazioni generali e i testi degli interventi pronunciati in aula dai padri e dai quali abbiamo desunto le informazioni riportate. 22 Si esprimono così: Silva Henriquez, vescovo di Santiago del Cile, che parla anche a nome di 50 vescovi dell’America Latina; Urtasun, vescovo di Avignone (Francia); Léger, vescovo di Montreal (Canada). 23 Evidenziano questa lacuna: Silva Henriquez; Quiroga y Palacios, vescovo di Santiago de Compostela (Spagna); Schoemaker, vescovo di Purwokerto (Indonesia), a nome dei vescovi della sua conferenza episcopale e di altri 30 padri; Vuccino (vescovo titolare). 24 Di questo avviso sono: Ruffini, Palermo; Quiroga y Palacios; Schoemaker; Gilroy, vescovo di Sidney (Australia).


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solo nel matrimonio, ma in ogni stato e condizione di vita. Occorrerebbe quindi mettere in risalto l’opera di quanti esercitano la santità nel mondo, inseriti nella vita economica, sociale, politica e culturale, facendo menzione esplicita dei diversi stati di vita e accennando al tema già nel capitolo sui laici. Si suggerisce anche di far conoscere meglio lo stato di vita o l’occupazione nella quale i santi raggiunsero la santità25. Santità per i laici, dunque, ma anche per i vescovi, che devono promuovere e alimentare la santità dei fedeli, e per i sacerdoti, che dovrebbero essere esortati a ricordare frequentemente ai fedeli il loro dovere di rispondere alla vocazione alla santità26. Un’altra lacuna che viene evidenziata è la povertà e l’imprecisione delle citazioni bibliche. Inoltre, tra i mezzi per raggiungere la santità, dovrebbero essere indicati: i sacramenti, la parola di Dio27, l’esercizio delle virtù, la preghiera e l’amore fraterno. Qualcuno considera sproporzionata, troppo ampia la parte sui religiosi, dei quali non viene precisato il ruolo nella edificazione della Chiesa 28. Alcuni interventi sono piuttosto significativi e offrono un interessante approfondimento del tema.

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Posizione sostenuta da: Gonçalves Cerejeira, vescovo di Lisbona (Portogallo); Ruffini; Léger; Cento, Italia (membro di diverse Congregazioni: Concistoriale, per la Chiesa Orientale, Concilio, Religiosi, Propaganda Fide, Riti). 26 Sottolineatura di: Gonzalez Martin, vescovo di Astorga (Spagna); Gilroy; De Barros Camara, vescovo di Rio de Janeiro, a nome di 121 vescovi brasiliani; Morstabilini, vescovo di Frosinone. 27 A questo proposito, Iparraguirre, commentando il capitolo V della Lumen Gentium, afferma che uno dei pregi della costituzione sta nell’importanza data alla lettura della Bibbia, quale mezzo di santificazione. Aggiunge che questa novità è stata resa possibile grazie al movimento biblico, iniziato più dagli esegeti che dagli autori spirituali. Qui cita, come esempio, Thils, il quale nella sua opera di teologia spirituale Santità Cristiana, non parla esplicitamente della Sacra Scrittura come mezzo per raggiungere la santità. Il biblista George Auzou, invece, dedica un intero capitolo a ciò che chiama «sacramento della parola»: cfr I. IPARRAGUIRRE, Natura della santità e mezzi per conseguirla, in La Chiesa del Vaticano II, cit., 1045-1062: 1053-1054. 28 Così si esprimono: Fernandes, vescovo coadiutore di Delhi (India); Klepaz, vescovo di Lodz (Polonia), a nome dei vescovi polacchi.


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Charue, vescovo di Namur (Belgio), ritiene opportuno non modificare la struttura del capitolo29, in quanto ha una precisa motivazione teologica: anzitutto perché la struttura della Chiesa è costituita da chierici e laici e la distinzione religiosi - non religiosi è da fare su un altro piano, quello cioè dei mezzi per raggiungere la santità. Inoltre, in questo modo saranno evitate ulteriori separazioni tra fedeli e religiosi a proposito della santità30. Un secondo intervento particolarmente interessante e ben articolato è quello del cardinale Döpfner, arcivescovo di Monaco (Germania). Apprezza che si parli dei religiosi nel contesto più ampio del popolo di Dio ed in particolare della vocazione alla santità di tutti i fedeli, poiché in tal modo è superata l’errata visione dei religiosi come una classe superiore privilegiata. Non ritiene opportuno, quindi, separare il tema dell’universale vocazione alla santità dalla trattazione della speciale chiamata alla vita secondo i consigli evangelici. In questo modo, infatti, è meglio evidenziata la dignità della vita religiosa, quale dono particolare nella Chiesa. Sostiene, inoltre, che occorre sottolineare il primato della grazia e l’indole cristologica della santità, che deve essere presentata meno come perfezione morale e più come partecipazione alla santità di Cristo. Bisogna distinguere tra la santità che tutti, giustificati per il battesimo, ricevono, e la santità personale, che è attuazione della santità battesimale. Infine, invita a citare in maniera più accurata i testi biblici, tenendo conto del contesto dal quale vengono tratti31. Il cardinale Cento suggerisce di parlare, nel proemio del capitolo, della «Chiesa santa» e di fare un discorso più completo sulla santità: Cristo è il solo santo e la Chiesa, sua sposa, è santa e custodisce il deposito della dottrina evangelica, dispensa i sacramenti, media la grazia e genera i santi. Per evidenziare che la santità è una vocazione di tutti i cristiani, sollecita la Congregazione dei Riti, competente per le cause di canonizzazione, di 29 Alcuni padri avevano proposto di spostare i paragrafi sulla santità al capitolo sul Popolo di Dio e di trattare nel capitolo V solo dei religiosi. Nel dibattito in aula questa proposta sarà fatta da Sépinski, nel corso della LIX congregazione generale e poi ribadita nella LXII, negli interventi supplementari. Il fatto che se ne faccia riferimento prima potrebbe far supporre che si tratta di un’idea che circolava già tra i padri. 30 Intervento pronunciato il 25 ottobre ’63, nel corso della LVI congregazione generale: AS II/3, 382-384. 31 Intervento del 29 ottobre ’63, LVII congregazione generale: AS II/3, 603ss.


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occuparsi più spesso di canonizzazioni di laici che condussero la loro vita nelle ordinarie condizioni, poiché questo potrebbe servire da incitamento al popolo cristiano. Nel corso del suo intervento, il cardinale rivolge un elogio alle associazioni che perseguono questo preciso fine, di stimolare cioè la coscienza dell’universale vocazione alla santità. Riferisce di associazioni di questo genere diffuse a Roma, in Belgio e in alcune altre nazioni di lingua spagnola, auspicando che la loro attività sia sempre feconda e si diffonda ovunque32. Un ultimo intervento è di Van Lierde33, vescovo belga, che parla anche a nome di 15 padri di 8 diverse nazioni. Segnala diverse lacune nel testo, a partire dal completo silenzio sulla necessità di promuovere la santità: nella costituzione dovrebbe essere presente il principio teologico di questa promozione. Ciò potrebbe essere fatto secondo un duplice aspetto: da un lato, per coloro che proseguono in questo cammino, dall’altro per il mondo odierno, affinché conosca questa vocazione. È quindi necessario che la Chiesa, madre e maestra, si adoperi per far conoscere pienamente il Vangelo di Cristo in tutto il mondo. A maggior regione dovrebbe fare ciò per promuovere la santità e per l’apostolato della vita interiore, in quanto l’apostolato non presuppone solamente la santità, ma può anche suscitarla. Questa promozione deve impegnare ogni azione ministeriale e apostolica, secondo la vocazione personale di ciascuno, e deve evidenziare l’aspetto dottrinale, teologico, ascetico e mistico, cioè tutto ciò che appartiene ai venti secoli di tradizione cristiana. La promozione della santità, o apostolato ascetico, deve avere un’organizzazione concreta e

32 Intervento del 30 ottobre ’63, LVIII congregazione generale: AS II/3, 636-638. Occorre ricordare che il cardinale Cento è, in questo periodo, il presidente del Movimento Pro Sanctitate, fondato a Roma nel 1947 da mons. Guglielmo Giaquinta. Inoltre, fino al 1953 il cardinale è stato nunzio apostolico in Belgio: in quel periodo ha seguito, sostenuto ed incoraggiato la nascita e la diffusione del Movimento per la santificazione universale, fondato da p. Léon Soete sempre nel 1947. Nel paragrafo III.3 riferiremo del contributo dei due fondatori per la sollecitazione di questo intervento. 33 Van Lierde è il presidente del Centro di Apostolato Ascetico di Sestri Levante, che promuove corsi di esercizi spirituali e di apostolato ascetico per sacerdoti, laici, famiglie, e per quanti sono impegnati nella politica e nel campo sociale.


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pratica: corsi e studi, congressi, pubblicazioni, ma anche case e centri che siano per tutti aiuto per la scienza e la prassi della santità. Per Van Lierde sarebbe dunque auspicabile che nella costituzione si facesse esplicito riferimento alla promozione della santità e all’apostolato ascetico e che negli schemi De cura animarum e De clericis vi fosse una sezione che esorti alla diffusione e all’incremento dell’apostolato ascetico34. Ma il testo non è stato da tutti ben accolto. Una delle critiche più aspre è stata fatta da Sépinski, ministro generale dei frati minori, che parla anche a nome di altri 20 padri e superiori generali35. Egli sostiene che c’è incongruenza tra il titolo ed il contenuto, giudica insufficiente la trattazione sui religiosi e, come portavoce dei superiori generali degli ordini religiosi, chiede che la parte sulla vocazione alla santità venga spostata al capitolo sul popolo di Dio, riservando questo capitolo V ai religiosi e formando una commissione mista che si occupi di rivedere il testo36. Con la LIX congregazione generale del 31 ottobre ’63 si chiude ufficialmente la discussione sul capitolo IV e sul De Ecclesia. I padri, però, avevano ancora qualcosa da dire. Nella LXII congregazione generale del 7 novembre ’63, vengono presentati degli interventi supplementari sul IV capitolo37, esposti sinteticamente all’assemblea conciliare dal relatore Döpfner: — un primo gruppo approva la struttura del testo, ma suggerisce di mettere in maggiore evidenza l’unione con Cristo, di spiegare più chiaramente l’indole del dovere della santità per i non religiosi, di definire la santità in modo più corrispondente alla Sacra Scrittura e ai Padri

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Intervento del 31 ottobre ’63, LIX congregazione generale: AS II/4, 38-41. Intervento del 31 ottobre ’63, LIX congregazione generale: AS II/4, 71-75. 36 Il testo presentato all’inizio della seconda sessione avrebbe dovuto essere preparato proprio da una commissione mista, che però sembra non abbia mai effettivamente lavorato, suscitando le proteste dei religiosi, non coinvolti nel lavoro di rielaborazione. A questo proposito, cfr J. GROOTAERS, Il concilio si gioca nell’intervallo. La «seconda preparazione» e i suoi avversari, in Storia del Concilio Vaticano II, a cura di G. Alberigo, II, Bologna 1996, 440ss. 37 In AS II/4, 554-555. 35


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orientali, di sviluppare più accuratamente il concetto di carità e parlare in maniera più adeguata della verginità consacrata a Dio38; — il secondo gruppo, invece, critica duramente la struttura del testo, chiede di spostare tutta la parte sulla santità al capitolo «Il popolo di Dio» e di spiegare meglio e più diffusamente i consigli evangelici e la vita religiosa39.

2. IL LAVORO DELLA COMMISSIONE DOTTRINALE Alla fine della seconda sessione, nel dicembre ’63, il lavoro che si presenta alla commissione dottrinale è imponente: esaminare oltre 500 pagine di interventi, sia scritti che orali, presentati dai padri nel corso del dibattito in assemblea sul IV capitolo. All’inizio della suddetta sessione, nell’ottobre ’63, erano state costituite delle sottocommissioni, ciascuna con il compito di rivedere un singolo capitolo del De Ecclesia, secondo le osservazioni che sarebbero state presentate dai padri. La sottocommissione sul capitolo IV era formata da cinque membri della commissione dottrinale e cinque membri della commissione dei religiosi40. Questa sottocommissione mista ha il compito di esaminare le osservazioni dei padri, presentate oralmente o per iscritto, singolarmente o

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Sostengono questa posizione: Rugambwa (Buboka, Tanganyika), Lucey (Cork e Ross, Irlanda), Helmsinh (Kansas City, Stati Uniti), Tawil (Mira dei Melchiti, Siria), Kozlowiecki (Lusaka, North Rhodesia) e Reuss (Mainz, Germania). 39 Questo gruppo è formato da: Dechâtelets (superiore generale degli oblati di Maria Immacolata, Canada), van Hees (maestro generale dei crocigeri, Olanda), Hage (superiore generale dei basiliani di san Giovanni Battista, Libano), Zoa (Yaoundé, Camerun), Janssens (preposito generale della Compagnia di Gesù), Compagnone (Anagni, Italia), Corboy (Monze, Rhodesia), Patroni (Calicut, India), Kleiner (abate generale dei cistercensi), De Hornado (Perù) e Guilly (Georgetown, Guyana). 40 Si tratta di: Browne, presidente, Charue, S‹eper, Gut, Butler e Fernandez per la commissione dottrinale; Compagnone, Sipovic, Stein, Kleiner e Sepinski per la commissione dei religiosi. Questi padri erano coadiuvati da dodici periti: Abellan, Beniamino della SS. Trinità, Boyer, Gambari, Gagnebet, Labourdette, Lio, Philipon, Rahner, Tascon, Thils e Verardo.


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in gruppo, e cercare di trasformarle in parte del testo conciliare, ovvero di rendere conto di eventuali risposte negative 41. È alquanto significativa la scelta di costituire una commissione mista per questo testo. Una prima indicazione in tal senso era stata fatta dal cardinale Döpfner. Egli aveva l’incarico di relatore dello schema sui religiosi nella commissione di coordinamento e nella riunione del gennaio ’63, la prima dopo la chiusura della prima sessione del Concilio, aveva appunto auspicato che il capitolo sui religiosi, contenuto nel De Ecclesia, fosse rivisto da una commissione mista. La proposta fu accolta favorevolmente. Infatti, la rielaborazione dello schema sulla Chiesa era stata ripartita in modo che il IV capitolo fosse affidato ad una sottocommissione mista. Sembra però che questa sottocommissione non si sia mai riunita e che il testo sia stato preparato da alcuni membri della commissione dottrinale. Secondo la ricostruzione cronistorica di Umberto Betti42, nella seduta plenaria della commissione dottrinale del maggio ’63, durante i lavori di revisione del testo, vi fu una vivace discussione sul capitolo IV, proprio perché il testo era stato preparato senza rispettare quanto concordato con i membri della commissione dei religiosi. Il testo rischiava quindi di rimanere arenato. Ma venne “improvvisata” una nuova équipe, che modifica sostanzialmente il testo. Probabilmente è questo il momento in cui Charue, Mc Grath e Fernadez propongono un testo preparato da Thils, dal titolo De vocatione ad sanctitatem in Ecclesia, come prima parte del capitolo, riservando la seconda al tema dei religiosi43. Secondo quanto riferisce Betti, il testo non ritornò alla commissione dottrinale per l’approvazione, ma fu inviato alla commissione di coordinamento, che lo approvò nella seduta di luglio ’63. Gli effetti di questa turbolenta elaborazione emergeranno nel dibattito in aula.

41 La commissione dottrinale ha preparato diverse relazioni nelle quali riferisce dettagliatamente sia delle correzioni accolte, come anche delle osservazioni respinte. Si possono trovare in Constitutionis Dogmaticae «Lumen Gentium». Synopsis historica, a cura di G. Alberigo – F. Magistretti, Bologna 1975, 472-475; 544-548. 42 U. BETTI, Cronistoria della Costituzione, in La Chiesa del Vaticano II, cit., 131154: 137. 43 Cfr anche Storia del Concilio Vaticano II, cit., II, 440ss.


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2.1. La revisione del testo I numerosi interventi dei padri richiedevano una profonda revisione del testo. Questo lavoro è affidato alla sottocommissione mista, che si riunirà ben undici volte, tra gennaio e luglio ’64, per rivedere il testo e presentare una nuova redazione. Il lavoro per giungere a questo risultato fu piuttosto impegnativo e vide diverse fasi. Fu riesaminata tutta la materia del capitolo De vocatione ad sanctitatem in Ecclesia, sia quanto si riferiva alla universale vocazione alla santità, sia quanto riguardava i religiosi. Anzitutto furono raccolti tutti gli interventi dei padri. In base a questi furono preparate, dai periti della sottocommissione mista, tre relazioni44: la prima sulle osservazioni in generale, la seconda raccoglieva le osservazioni sulla universale vocazione alla santità, l’ultima sulle proposte specifiche per la parte sui religiosi. Analizzeremo più dettagliatamente le prime due, mentre tralasciamo la terza, in quanto esula dalla nostra trattazione. L’elevato numero di osservazioni e contestazioni, talvolta discordanti, impose di dare precedenza alle questioni fondamentali. Nei limiti del possibile, mantenendo l’integrità e la correttezza dei contenuti, si cercò una via media tra le diverse posizioni. La prima relazione, preparata da Lio, riguarda le osservazioni generali sul capitolo. Come abbiamo più volte constatato, molti padri hanno approvato, nella sostanza, il testo, salvo alcuni punti. Ma altri, in numero considerevole, hanno manifestato gravi difficoltà, sia riguardo alla disposizione della materia, che al contenuto. Spesso si riscontravano notevoli divergenze tra le varie posizioni, anche sugli stessi giudizi generici. Bisognava anche considerare che i padri avevano approvato il testo della costituzione De Ecclesia quale base della discussione, nel corso della assemblea conciliare del 30 settembre ’63, perciò non si potevano apportare modifiche sostanziali al contenuto del capitolo. Un’altra questione riguardava la collocazione del testo: mantenendo la disposizione degli argomenti dello schema precedente, il capitolo avrebbe potuto essere diviso in due, spostando il tema della universale vocazione alla santità in un’altra parte della costituzione, così da avere un capitolo distinto 44

Sono state elaborate e presentate rispettivamente da: Lio, Thils e Philipon.


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sui religiosi. Non pochi padri, esplicitamente o implicitamente, approvavano, con varie argomentazioni, la nuova disposizione degli argomenti. Ma è pur vero che molti altri, esplicitamente e formalmente, chiedevano di spostare tutti i paragrafi sulla santità al capitolo De populo Dei, in modo da poter avere un capitolo riservato al solo tema dei religiosi45. Tale richiesta creò difficoltà alla sottocommissione mista. Dopo una lunga discussione, si giunse ad una mediazione che metteva tutti d’accordo su due punti: — qualcosa sulla santità universale venisse detto nel capitolo sul Popolo di Dio, come anticipazione di una più diffusa trattazione in altro luogo; — distinzione netta tra le due parti, quella sulla universale vocazione alla santità e quella sui religiosi. Non tutti invece erano d’accordo su un terzo punto, se avere cioè due capitoli distinti, oppure se mantenere un solo capitolo, diviso in due sezioni. Su questo punto, il presidente della sottocommissione mista, Browne, chiese la votazione dei padri, con il seguente esito: quattro votarono per avere un capitolo in due sezioni, una per l’universale vocazione alla santità e una sui religiosi; sette, invece, per avere due distinti capitolo, uno dei quali per i religiosi46. La questione fu discussa anche da una piccola sottocommissione della commissione dottrinale, composta da Charue, Garrone e Florit: nonostante questi fossero favorevoli ad avere due sezioni in un unico capitolo, rimisero la decisione alla commissione dottrinale plenaria. Nella seduta svoltasi nel marzo ’64, la questione avrebbe dovuto essere definita dopo l’approvazione del testo. Tuttavia, sia per mancanza di tempo, sia, come notava il presidente Browne, perché alcuni chiedevano che la questione venisse esaminata nella sessione plenaria mista, non venne affrontata. Lo stesso presidente, quindi, rinviava la soluzione alla successiva riunione di giugno. Ma neanche in quella riunione fu definita e non fu

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Un documento sottoscritto da 679 padri fu presentato al Papa e alla commissione dottrinale; in esso veniva chiesto di rivedere la questione del contenuto del capitolo IV; vedi AS II/4, 355-359. Ne parleremo più diffusamente in seguito, a proposito della distribuzione degli argomenti. 46 Charue, S‹eper, Stein e Butler votarono per la prima opzione; Browne, Compagnone, Sipovic, Gut. Fernandez, Sepinski e Kleiner per la seconda.


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neppure presentata alla commissione plenaria mista. La decisione verrà infine rinviata alla assemblea conciliare. Riguardo alla questione del titolo, infine, vi era consenso unanime che, in ogni caso, la parte riservata a coloro che hanno professato i voti religiosi, sarebbe stata chiamata semplicemente De Religiosis. La relazione sulla universale vocazione alla santità, preparata da Thils, riporta sinteticamente le osservazioni presentate dai padri durante l’assemblea conciliare o consegnati alla segreteria del Concilio, su questo tema, indicando anche, in alcuni casi, le modifiche apportate al testo come risposta a tali suggerimenti. Tutti i padri approvavano che nello schema fosse esposto il principio della universale vocazione alla santità. Nella revisione del testo, quindi, si mantenne questa parte. Tuttavia fu stabilito che, nello stesso proemio del capitolo, venisse aggiunta qualcosa sulla santità della Chiesa stessa, come chiesto da alcuni. Numerosi chiesero che si affermasse chiaramente che vi è un’unica santità, partecipata però secondo diversi gradi, in base alla vocazione propria di ciascuno47. Tale proposta fu solo parzialmente accolta nel nuovo testo, poiché si mantenne l’affermazione esplicita di un’unica santità, sebbene ne venga riconosciuta la diversità secondo la vocazione propria di ciascuno48. La parte sulla vocazione religiosa, nella nuova redazione, è stata maggiormente distinta e propriamente descritta, evidenziando la natura e l’importanza dello stato religioso nella Chiesa49. Molti padri chiesero che venisse spiegata la nozione e la natura della santità50. Ciò è stato fatto non ricorrendo a qualche descrizione scolastica, ma mediante i vari elementi presenti nei testi della Sacra Scrittura. Così

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Cfr il documento sottoscritto da 679 padri: AS II/4, 355; ma anche altri interventi, come quello di Ruffini. 48 Cfr il numero 39 della Lumen Gentium: «questa santità della Chiesa […] si esprime in varie forme in ciascuno di quelli che tendono alla carità perfetta nella linea della propria vita ed edificano gli altri; e in un modo tutto suo proprio si manifesta nella pratica dei consigli che si sogliono chiamare evangelici». 49 Cfr il numero 44 della Lumen Gentium, che nel testo finale farà parte del capitolo VI sui religiosi. 50 Vedi nota 23.


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facendo si è messa in luce la stessa natura della santità, nel suo aspetto ontologico e dinamico, considerandone le vie e i mezzi per raggiungerla. In risposta a quanti avevano chiesto che venisse evidenziata la relazione tra santità ed esercizio delle virtù, nel nuovo testo si parla della carità, e si fa anche esplicito riferimento alla fede e alla speranza, affermando che tutte le virtù teologali sono esplicitamente legate all’esercizio della santità51. Inoltre, è stato espressamente inserito qualche accenno ai consigli evangelici e a quanti conseguono la perfezione della carità in questo stato di vita. Così si tenta di superare il pregiudizio che la stessa perfezione e santità siano considerate un monopolio dei religiosi52. Alcuni padri chiesero che si insistesse sulla imitazione di Cristo, della Vergine Maria e dei santi, e, tra gli altri mezzi per raggiungere la santità, venissero indicati i sacramenti e in particolare l’Eucarestia. Queste richieste sono state accolte dicendo di Cristo, al n. 40: «maestro e modello di ogni perfezione»; e nel corso del testo si parla più volte di imitazione e di sequela. Tra i mezzi per raggiungere la santità è espressamente menzionata l’Eucarestia. Viene detto qualcosa anche della storia dei santi e, per i sacerdoti, viene proposto di seguire l’esempio di buoni sacerdoti. Diversi padri chiesero di parlare anche dei membri peccatori della Chiesa, onde evitare che la sua santità venisse descritta in maniera astratta e generica, e di richiamare anche la santità alla quale devono tendere tutti i membri della Chiesa (vescovi, sacerdoti, ministri, coniugi, operai…), attendendo ciascuno alla propria attività. Tutti questi sono stati menzionati nella nuova redazione del n. 41. 51 Più esplicitamente, al n. 41 della nuova redazione si legge: «ognuno, secondo i propri doni e compiti, deve senza indugi avanzare per la via della fede viva, che accende la speranza e opera nella carità». Per le altre virtù e gli altri precetti, al n. 42 è detto, come principio generale, che ogni fedele, «affinché […] il buon seme della carità cresca e fruttifichi», deve «applicarsi nell’esercizio costante di ogni virtù». Così è evitato l’eccesso di separare la carità dall’esercizio di tutte le altre virtù, ricordando che la vita virtuosa ha una necessaria correlazione con i precetti e i consigli. Pertanto vengono ricordate alcune particolari virtù morali, come misericordia, benevolenza, umiltà, modestia, pazienza, ecc… 52 «La santità della Chiesa è favorita in modo speciale dai molteplici consigli che il Signore nel Vangelo propone all’osservanza dei suoi discepoli. Tra essi eccelle il prezioso dono della grazia divina, dato dal Padre ad alcuni, di consacrarsi più facilmente e senza divisione del cuore a Dio solo nella verginità o nel celibato»: Lumen Gentium 42.


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Per quanto riguarda la condizione di peccatori dei membri della Chiesa, è detto semplicemente, al n. 40: «Poiché tutti commettiamo molti sbagli, abbiamo continuamente bisogno della misericordia di Dio e dobbiamo pregare ogni giorno: Rimetti a noi i nostri debiti». Come chiesto dai padri, si fece attenzione affinché non solo il testo «Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione» (1Ts 4,3), venisse indicato come principio fondamentale, e venisse ricordata anche la necessità della conformazione alla volontà di Dio per conseguire la santità. Infatti, nella nuova redazione è detto: «cooperando con la divina volontà» (LG 41), tutti i fedeli sono chiamati a «compiere con le opere la sua volontà, con l’aiuto della sua grazia» (LG 42). La stessa interiorità della santità cristiana è messa in luce in tutto il testo. È affermato, infatti, che i fedeli non sono semplicemente chiamati da Dio alla santità, ma sono già effettivamente santi; essi devono mantenere questa santità ed in essa devono crescere. Così apparirà che la santità nella Chiesa non è solo qualcosa di statico o ideale, ma è una realtà mistica e dinamica, che permane e cresce nell’interiorità dell’anima, con l’aiuto della grazia di Cristo.

2.2. La disposizione degli argomenti Le proposte dei padri viste fin qui e le relative risposte della sottocommissione mista, si riferiscono a questioni limitate, si tratta di precisazioni singole. Vi è però una questione di ordine generale, che riguarda tutto il contenuto del capitolo, cioè la presenza in uno stesso capitolo di due temi: l’universale vocazione alla santità e la trattazione sui religiosi. Per capire l’evoluzione dello schema De Ecclesia nel corso della seconda sessione del Concilio (ottobre-dicembre ’63), osserviamone la disposizione dei capitoli:


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Ottobre ’63

Dicembre ’63

1 Il mistero della Chiesa 2 La struttura gerarchica della Chiesa, in particolare l’episcopato 3 Il popolo di Dio, specialmente i laici 4 La vocazione alla santità nella Chiesa

1 Il mistero della Chiesa 2 Il popolo di Dio 3 La struttura gerarchica della Chiesa, in particolare l’episcopato 4 I laici A. La vocazione alla santità nella Chiesa B. I religiosi

Come abbiamo già detto in precedenza, ciò è frutto di una scelta precisa: inserire il discorso sui religiosi in un contesto ecclesiale, mostrando, allo stesso tempo, l’universalità della vocazione alla santità. Tuttavia questa scelta non è stata condivisa da tutti, in particolare dai rappresentanti degli ordini religiosi. Chiari segni di disapprovazione si erano avuti nel corso del dibattito in assemblea sul IV capitolo, durante il quale diversi padri hanno espresso il loro disappunto perché, nel nuovo De Ecclesia i religiosi venivano considerati solo marginalmente, al punto che non vi era più un singolo capitolo sugli «Stati di perfezione», e si trattava dei consigli evangelici solo nel discorso generale sulla vocazione alla santità di tutti i fedeli. Oltre ai vota dei singoli padri conciliari, vi è un documento, sottoscritto da 679 padri e consegnato al Papa e alla commissione dottrinale. In esso veniva chiesto che il capitolo V, sull’universale vocazione alla santità, fosse diviso in due, in modo da avere un capitolo specifico sui religiosi. A questi 679, si aggiunsero altri padri53. Dall’altra parte, furono molti ad esprimere la loro preferenza per una trattazione unitaria della vocazione alla santità e dei religiosi. In questo senso si sono esplicitamente pronunciati 254 padri, e molti altri volevano 53 Il numero complessivo dei padri conciliari è di circa 2200; questi 679 rappresentano quindi più del 30% dell’assemblea conciliare.


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mantenere il testo approvato in aula come base della discussione. Il numero complessivo di questi probabilmente supera i 50054. La commissione dottrinale ha raccolto sommariamente le motivazioni per entrambe le proposte in una relazione55. Nel documento presentato dai 679 padri, le motivazioni generali per un capitolo distinto sui religiosi, sono: per avere, nella costituzione sulla Chiesa, una trattazione specifica; per la grande importanza della presenza dei religiosi nella Chiesa e per il loro specifico ruolo in essa; perché in questo capitolo sarebbero meglio esposti tutti gli aspetti della presenza nella Chiesa di coloro che sono chiamati a professare perfettamente i consigli evangelici. Inoltre, nello stesso documento e in altri interventi, sono state presentate delle motivazioni particolari. Esponendo in uno stesso capitolo i due temi della santità speciale e della santità comune si ottiene una trattazione poco chiara dei due argomenti (Larraona, Argaya Goicoechea). L’ordine logico esige che prima ci si occupi del fine o santità del popolo di Dio e dopo dei diversi doni e stati di vita (De Provenchères). Infatti, anche dei laici ci si occupa in un apposito capitolo, e ragioni storiche ed ecumeniche esigono che si faccia lo stesso per i religiosi (Sépinski). Mentre i laici, con la loro presenza e attività cristiana, attuano la “consacrazione del mondo”, i religiosi, rinunciando effettivamente alle cose del mondo, pubblicamente e non solo in privato, manifestano il Regno di Dio, che non è di questo mondo (Philippe). La realtà della vita religiosa non può essere limitata all’unico aspetto della vocazione alla santità, tantomeno le vocazioni religiose ne diminuiscono l’importanza (Compagnone). Pertanto, per evitare confusione, viene chiesto che se ne tratti separatamente dalla vita consacrata, in conformità alla tradizione (Lalande). I consigli evangelici non sono solamente mezzi per raggiungere la santità, ma mezzi per il regno dei cieli, che viene incrementato in ogni luogo. Tale considerazione, viene fatto notare, non è sufficientemente indicata in una sola dimensione della santità, ma include la missione della Chiesa in tutta la sua ampiezza (Kleiner). 54

Si tratta del 25% circa dei padri conciliari. Pubblicata in Constitutionis Dogmaticae «Lumen Gentium». Synopsis historica, cit., 482-484. Per la nostra esposizione seguiremo l’impostazione di detta relazione, indicando, tra parentesi, gli interventi dai quali sono state desunte le osservazioni. 55


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Un unico capitolo per i due argomenti darebbe quasi l’impressione che la Chiesa odierna non abbia una considerazione molto alta della vita religiosa. Da questo ne deriverebbe un grave danno per la Chiesa stessa, in particolare nei confronti dei fratelli separati (Janssens). Si teme anche una svalutazione dello stato di perfezione e si richiama alla grande stima che gli orientali hanno per la vita monastica (Serrano Pastor). Il discorso sui religiosi non è da fare indirettamente e quasi per inciso: in questo capitolo sulla santità in generale, il tema dei religiosi è visto come da lontano (Hage, Fernandez). Contro il diritto riconosciuto dei religiosi nella Chiesa, non si deve alimentare una loro minore stima (Schweiger, Corboy). Tantomeno saranno messi in cattiva luce se ne viene evidenziato l’alto valore (Modrego y Casáus, Spanedda). Si cominci, dunque, parlando in modo proprio, aperto ed esplicito della fruttuosa attività dei religiosi a favore della vita della Chiesa, come dimostra anche il loro considerevole numero (Schütte). Da diversi secoli i religiosi costituiscono uno “stato” nella Chiesa, e anche se non si può considerare di istituzione divina, tuttavia esso appartiene essenzialmente alla vita della Chiesa e costituisce un elemento della sua nota di santità (De Hornedo Correa). È una duplice vocazione, poiché edifica nel bene sia i religiosi, che la Chiesa stessa (Des Rosiers). Lo stato religioso non è accidentale nella Chiesa, ma, si specifica, è come complementare allo stato dei laici (Deschâtelets). Santità comune e santità dei religiosi possono essere semplicisticamente considerate uguali, tuttavia differiscono di grado. Altrimenti, se così non fosse, viene detto che diminuirebbe l’attrattiva per abbracciare lo stato religioso o per considerarne il prestigio (Bortignon). La scelta di mantenere i due argomenti in un unico capitolo, non è considerata pedagogica, perché minimizza e oscura lo stato religioso e non mostra la caratteristica specifica e teologica di tale stato (Cibrián Fernandez). Lo stato di perfezione può essere sostanzialmente considerato di istituzione divina, certo non riconducibile ad una volontà esplicita di Cristo, ma da Lui consigliata. Nella Chiesa c’è distinzione tra i membri, non in relazione alla posizione gerarchica, ma in un ordine spirituale, in riferimento alla santità (Serrano Pastor). Oltre alla divisione tra gerarchia e laici, vi è anche, per volontà di Cristo, una duplice categoria: quelli che sono chiamati alla prassi effettiva e totale dei consigli, e gli altri (Perantoni). Come luogo proprio, nel quale la parte sulla santità universale deve


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essere posta, nel documento dei 679 padri, si suggerisce il capitolo De Populo Dei oppure il De Mysterio Ecclesiae. La stessa richiesta è fatta anche da altri padri, intervenuti singolarmente sul tema. Complessivamente, sono circa 750 i padri che chiedono che il tema della universale vocazione alla santità venga separato dalla trattazione sui religiosi e inserito in un altro dei capitoli già esistenti56. Per l’esposizione in un unico capitolo, anche se distinto in due parti, sono state presentate le seguenti motivazioni, in singoli interventi spesso presentati a nome di più padri. È apprezzato che si parli della vita secondo i consigli nel contesto ecclesiale, unitamente alla universale vocazione alla santità, perché tra i fedeli vi è la convinzione che la santità sia riservata ai soli religiosi e ai sacerdoti; ciò non è senza conseguenze negative sulla vita cristiana dei fedeli. Con questa impostazione la vita dei consigli apparirebbe meglio come carisma che offre una testimonianza escatologica alla comunità cristiana. Lo stato religioso non sarà così mostrato come qualcosa di giuridico, ma piuttosto come vita carismatica esistente da sempre nella vita della Chiesa e appartenente alla sua essenza (Silva Henriquez, a nome di 58 padri; Djajasepoetra a nome di 30 padri). Teologicamente, la distinzione tra chierici e laici riguarda la struttura costitutiva della Chiesa ed è di diritto divino, mentre i religiosi costituiscono una struttura nella Chiesa e non la Chiesa stessa. Pastoralmente, è necessario che sia eliminata l’impressione che la perfezione e la santità siano quasi un monopolio riservato ai religiosi; perciò è molto utile che la vita religiosa sia esposta nella prospettiva della vocazione universale alla santità. Ecumenicamente, i capi della riforma protestante, nel XVI secolo, volevano distruggere il muro che era considerato fosse stato posto dalla Chiesa, tra i fedeli e i religiosi, quasi questi ultimi fossero chiamati ad una più alta e propria santità, mentre gli altri semplicemente alla salvezza. Questa erronea interpretazione verrebbe prudentemente corretta da questa impostazione unitaria del capitolo (Charue). È apprezzato che i consigli evangelici e la loro professione siano considerati nel contesto teologico di tutto il popolo di Dio. Parlando della vocazione di tutti i fedeli alla santità verrebbe efficacemente smentita la 56

Si tratta del 35% circa dei padri conciliari.


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falsa opinione di coloro che propongono una dottrina ascetica secondo la quale si avrebbero nella Chiesa due classi di cristiani, che, in base al loro stato, si trovano in una maggiore o minore perfezione (Quiroga y Palacios). Da queste considerazioni, altri giungono alla dimostrazione che i religiosi non hanno il monopolio della perfezione (Van Dodewaard). Tantomeno essi costituiscono una aristocrazia (Hasler) o sono separati dagli altri membri della Chiesa per la loro “ideale” perfezione (Schoemaker). Se questa parte verrà spostata al capitolo sul popolo di Dio, molti, di conseguenza, saranno indotti in confusione; così, per esempio, nel testo si tratterà due volte dei consigli: per quelli che li esercitano privatamente e per coloro che ne fanno professione pubblica. Si considera che sarebbe opportuno che il perseguimento della santità apparisse come il culmine di tutto lo schema; perciò è stato chiesto che i vari modi e le diverse vie per raggiungere la santità siano esposte in un capitolo unico, che tratti dei diversi stati e, in modo particolare, dei religiosi. Infatti, se in questa trattazione i religiosi saranno separati dagli altri membri della Chiesa, il loro significato in essa non apparirà debitamente e ampiamente. C’è quasi l’impressione che essi stessi costituiscano una qualche specie non sufficientemente unita al popolo dei fedeli, e diminuirebbe molto la manifestazione istituzionale della santità. Diversamente, se sarà posta nel contesto letterario e dottrinale di tutta la Chiesa, si può sperare che aumenti il numero delle vocazioni e la perseveranza dei candidati (Morstabilini). Quello dei religiosi è da considerare un dono che rimanda e testimonia il regno di Dio, la vita nuova in Cristo: è questo il senso da sottolineare nello schema. In modo più che conveniente, questo può essere descritto nel capitolo sulla vocazione universale alla santità, non a danno dei religiosi, ma in loro favore (Leiprecht). Quanti sostenevano la necessità di una trattazione bipartita dei due argomenti, chiedevano di farne menzione nel titolo, scrivendo: «L’universale vocazione alla santità e in particolare i religiosi». Altri, per la seconda parte, proponevano come titolo: «coloro che professano i consigli evangelici», oppure: «Gli stati di perfezione». Tuttavia, la sottocommissione e la commissione plenaria scelgono di dire semplicemente «I religiosi», senza entrare in controversie teologiche sulla più profonda essenza dello stato religioso, del quale si sarebbe trattato più diffusamente nel decreto sulla vita religiosa.


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2.3. La conclusione del dibattito Stando così le cose, nella riunione della sottocommissione mista, del 28 gennaio ’64, fu proposta una soluzione intermedia, che fu approvata nella sessione plenaria della commissione dottrinale, tenuta a marzo. Fu dunque stabilito che, in ogni caso, l’esposizione sulla santità e sui religiosi sarebbe stata divisa in due parti, o due capitoli (V e VI), o due sezioni di un solo capitolo (V.A e V.B). La soluzione di quest’ultima questione fu lasciata all’assemblea conciliare. Dalla consultazione provvisoria fatta tra i membri della sottocommissione mista, la maggior parte di essi era propensa per avere due capitoli, mentre la minoranza per due sezioni (7 contro 4)57. Tutti giunsero concordemente alla decisione che l’ordine dell’esposizione di tutta la materia non si dovesse cambiare, avendo notato che la trasposizione della sezione sulla santità al capitolo De populo Dei, sarebbe stata possibile solo con grande disagio e ingente lavoro, poiché la maggior parte del testo era già stata approvata dall’assemblea del Concilio, nella forma in cui era stato nuovamente redatto. Allo stesso modo piacque che nel capitolo V si trattasse del principio della vocazione universale alla santità, e nel capitolo VI della speciale vocazione allo stato religioso. Tuttavia, fu deciso di inserire nel capitolo De populo Dei qualche accenno, come anticipazione, sia sulla vocazione dei fedeli di ogni stato e condizione alla perfezione58, come sui vari ordini tra i membri nella Chiesa, distinti sia secondo i diversi uffici (chierici – laici), sia secondo la diversità di condizioni e stati di vita59. La scelta di mantenere questa disposizione degli argomenti non ha fatto venire meno la logicità dell’esposizione. Ha contribuito, invece, a chiarire che la distinzione costitutiva nella Chiesa è quella tra chierici e laici, ed entrambi possono appartenere allo stato religioso. La distinzione tra religiosi e non religiosi nasce dalla diversità tra la vocazione universale e la vocazione particolare, secondo la via che ognuno, in base al proprio dono, deve percorrere per la santità. 57

Cfr quanto già detto nella nota 46, su questa votazione. Cfr Lumen Gentium 11. 59 Cfr Lumen Gentium 13. 58


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Quindi, come al capitolo che descrive la costituzione gerarchica della Chiesa corrisponde il capitolo sui laici, così alla esposizione sulla universale vocazione alla santità corrisponde la speciale via dello stato religioso. La questione della disposizione dei due argomenti troverà la sua soluzione definitiva il 30 settembre ’64. Durante la XCI congregazione generale del Concilio, viene posta all’assemblea conciliare la domanda se si vuole istituire un apposito capitolo sui religiosi distinto da un capitolo sulla universale vocazione alla santità. La votazione ebbe il seguente esito: su 2210 votanti, vi furono 1505 sì, 698 no, 7 nulli60. Da questo momento, dunque, i paragrafi 39-42 dello schema De Ecclesia, con il titolo «La universale vocazione alla santità nella Chiesa» costituiscono il capitolo V della Lumen Gentium, approvato dall’assemblea conciliare nella stessa seduta. Il testo definitivo della costituzione dogmatica sulla Chiesa sarà così costituito: 1. Il mistero della Chiesa; 2. Il popolo di Dio; 3. La costituzione gerarchica della Chiesa; 4. I laici; 5. L’universale vocazione alla santità nella Chiesa; 6. I religiosi; 7. Indole escatologica della Chiesa peregrinante; 8. La Beata Vergine Maria, madre di Dio nel mistero di Cristo e della Chiesa.

3. IL MOVIMENTO PRO SANCTITATE Abbiamo già detto, nell’introduzione, della preparazione remota che ha prodotto una certa sensibilità verso alcuni temi di spiritualità, già dalla seconda metà dell’Ottocento. Certamente è stata ancora più diretta e rilevante l’azione di alcuni «apostoli della santità»61 nei decenni che hanno preceduto il Concilio. La vocazione universale alla santità, già prima del Concilio, era diventata oggetto della riflessione e dell’apostolato di molte 60

Esito riportato nella relazione della commissione dottrinale sui singoli numeri del testo, corretto in base alle richieste dei padri: in Constitutionis Dogmaticae «Lumen Gentium». Synopsis historica, cit., 544. 61 Espressione usata in Segnalatore Ascetico 11 (1963) 12, per indicare alcune persone che si sono impegnate particolarmente nella diffusione della chiamata universale alla santità.


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persone, sempre più frequentemente organizzate in associazioni nate con il fine di impegnarsi attivamente per vivere, diffondere e promuovere, soprattutto tra i cristiani, l’annuncio della divina chiamata alla santità, da realizzare in ogni stato di vita. Un esempio di tale clima ecclesiale può essere considerato il Movimento Pro Sanctitate, fondato a Roma nel 1947 da mons. Guglielmo Giaquinta62, con l’intento di impegnarsi nell’apostolato della vita interiore e per la promozione della chiamata universale alla santità. Tale impegno si è concretizzato, nel corso degli anni, in numerose iniziative: pubblicazioni, incontri, convegni, ritiri, alcune delle quali di particolare rilievo. Sinteticamente ricordiamo alcune iniziative più significative che sono state realizzate nel corso dei primi venti anni di attività del Movimento.

3.1. La Giornata della Santificazione Universale Nel 1957 viene lanciata la prima Giornata della Santificazione Universale, che costituisce, fino ad oggi, una delle più significative iniziative apostoliche del Movimento Pro Sanctitate. Come data della celebrazione viene scelta la III domenica dopo Pentecoste, cioè la domenica successiva alla festa del Sacro Cuore, giornata dedicata alla santificazione sacerdotale, con la seguente motivazione: è dalla santità del sacerdote che deve scaturire la santità dei laici63. Dal 1957 al 1967 la celebrazione di tale Giornata è preceduta da una serie di conferenze64, che illustrano i diversi aspetti della santità, offrendo 62 Sacerdote della diocesi di Roma, ordinato nel 1939, mons. Giaquinta è stato viceparroco nella parrocchia Madonna dei Monti e, in seguito, rettore della chiesa Madonna di Loreto; ricopre diversi uffici presso il Vicariato di Roma e, dal 1961, ne sarà anche segretario. Nel 1968 viene nominato amministratore apostolico della diocesi di Tivoli, della quale diviene vescovo titolare nel 1972. Lungo il suo ministero, dà vita a diverse realtà apostoliche: l’associazione Animatori sociali, l’istituto secolare delle Oblate apostoliche, l’istituto secolare sacerdotale degli Apostolici Sodales, il Movimento Pro Sanctitate, l’organizzazione fraternità sociale e la corrente di spiritualità sacerdotale del Cenacolo: cfr M. MAZZEI, Apostolo della santità. Mons. Guglielmo Giaquinta, Roma 1996; ID., Evangelizzare la santità. Storia e profezia, Roma 1997. 63 Cfr M. MAZZEI, Evangelizzare la santità, cit., 47. 64 Le relazioni tenute nel corso di tali conferenze sono state pubblicate dal centro


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anche un contributo significativo per l’approfondimento dell’argomento dal punto di vista teologico, sociologico, sociale, familiare e pedagogico. Non è possibile ricostruire ed individuare se e in che misura questa iniziativa abbia inciso sulla diffusione della coscienza della universale chiamata alla santità. Si può dire che queste conferenze sono «una presentazione dell’ambiente spirituale, psicologico e dottrinale in cui il pensiero del Vaticano II ha avuto la sua maturazione»65.

Per parlare dei diversi aspetti della santità, vengono chiamati autorevoli conferenzieri: non solo teologi, come Raimondo Spiazzi o Paolo Molinari, ma anche illustri rappresentanti della gerarchia, come Cento e Felici, scienziati, uomini della cultura e del mondo politico, come Enrico Medi, Giorgio La Pira, Italo Borzi, Bruno Callieri. La notorietà dei relatori, unita ad una intensa propaganda, fanno sì che le conferenze siano sempre seguite da un uditorio numeroso e vario. È da notare anche la sede scelta: per diversi anni le conferenze vengono tenute presso la sala Borromini, all’interno della chiesa dell’Oratorio di s. Filippo Neri; altre, invece, si svolgono presso la Pontificia Università Gregoriana.

3.2. Durante il Concilio Un evento straordinario come il Concilio Ecumenico, però, meritava certamente più di un’attenzione. Il 3 ottobre ’63, alla vigilia dell’inizio della discussione dello schema sulla Chiesa, L’Osservatore Romano informa sulla struttura dello schema: con grande sorpresa, il nuovo capitolo IV si intitola «La vocazione alla santità nella Chiesa». La notizia viene riportata sul Segnalatore Ascetico66, rivista del Movimento Pro Sanctitate, che annuncia la pubblicazione di un numero speciale che presenterà, sotto l’aspetto editoriale Pro Sanctitate in tre volumi: Conferenze in preparazione alla giornata della santificazione universale, a cura dei Gruppi Pro Sanctitate, Roma 1965; Santità e problemi d’oggi, a cura dei Gruppi Pro Sanctitate, Roma 1966; Vaticano II, concilio di santità, a cura dei Gruppi Pro Sanctitate, Roma 1967. 65 Vaticano II, Concilio di santità, a cura dei Gruppi Pro Sanctitate, Roma 1967, VI. 66 La santità nella Chiesa oggi, in Segnalatore Ascetico 10 (1963) 16.


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teologico e dottrinale, il principio della universale vocazione alla santità. Il numero successivo, infatti, è una piccola summa sanctitatis, un’edizione monografica sulla vocazione universale alla santità. Questi i temi trattati nell’opuscolo67, distribuito anche ai padri conciliari: Il mistero della Chiesa; La vocazione alla santità negli scritti biblico–apostolici; Tradizione e santità; Gli argomenti teologici della dimostrazione della vocazione universale alla santità; Il Magistero della Chiesa; Consensi; La nota della santità; Lo Spirito Santo, fonte di santità; Maria, Mater Sanctitatis; Unità e molteplicità dei santi; I Patroni della santità; Gli apostoli della santità68; Le attività apostoliche per la santità69. Nel numero di gennaio del 1964 del Segnalatore Ascetico, sono riportati degli stralci di lettere che alcuni vescovi hanno scritto al Movimento, dopo aver ricevuto e letto il numero speciale sulla vocazione alla santità, per incoraggiarne l’attività ed esprimendo il desiderio di diffondere nelle loro diocesi il Movimento70.

3.3. Giaquinta, Soete e l’intervento del Cardinale Cento al Concilio La distribuzione del numero speciale del Segnalatore Ascetico è stata un’iniziativa che certamente ha attirato l’attenzione dei padri conciliari sull’importanza del tema della vocazione universale alla santità. Ma tale 67

Segnalatore Ascetico 11 (1963) 1. È riportato un elenco di sacerdoti che si sono impegnati per l’apostolato specifico della vita interiore: p. Gabriele di S. Maria Maddalena, don Giustino Russolillo, p. Léon Soete, mons. Guglielmo Giaquinta, p. Enrico Mauri: cfr ibid., 26-27. 69 Vengono indicate alcune organizzazioni che hanno come scopo primario l’apostolato della universale vocazione alla santità. Si tratta delle seguenti associazioni: Apostolato della santificazione universale, fondato in Belgio da p. Soete; Opera “Madonnina del Grappa”, promosso dal p. Mauri con sede a Sestri Levante (Ge); Organizzazione “Pro Sanctitate”, distinta in quattro rami: Movimento, Gruppi, Volontarie e Sacerdoti Amici: cfr ibid., 28-31. 70 Hanno scritto i vescovi italiani di Tivoli, Guastalla, Ozieri, Pesaro e Pozzuoli. I vescovi stranieri delle seguenti diocesi: Jalapa (Guatemale), Santos e Teofilo Otoni (Brasile), Chilapsa e Zacatecas (Messico), Buenos Aires e Villa Maria (Argentina), Antofagasta (Cile), Mangalore (India), Ibiza (Spagna), Kindu (Congo), Köln (Germania), Beirut (Libano), Segou (Africa occidentale), Salisburgo (Austria): cfr Segnalatore Ascetico 1 (1964) 4. 68


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iniziativa era stata preceduta da un episodio significativo, che coinvolge mons. Giaquinta, p. Leon Soete e il cardinale Cento. Padre Soete racconta, in una sua autobiografia71, che, durante la discussione in assemblea conciliare del capitolo IV del De Ecclesia, ovvero la prima redazione del futuro capitolo sulla vocazione alla santità, incontra a Roma monsignor Matthias, arcivescovo di Madras, India, il quale gli consegna lo schema segreto dei padri conciliari, invitandolo a studiarlo insieme a mons. Giaquinta in vista della preparazione di una mozione da presentare in aula sul tema della santità. Così dopo qualche giorno, Soete e Giaquinta vanno dal vescovo e discutono dell’argomento. Mons. Giaquinta racconta di questo incontro ai membri del Movimento Pro Sanctitate, in occasione del loro raduno nazionale del 1979: «In una riunione a tre — il p. Soete, questo vescovo indiano ed io — cercammo di pensare ad un modo per poter agire sui padri conciliari. E l’unica idea che ci venne — oltre al fatto che il vescovo indiano potesse parlare — fu che fosse il cardinal Cento, il quale era contemporaneamente il presidente del Movimento di p. Soete e del nostro, a parlare in Concilio. E difatti, il 30 ottobre del 1963, il cardinal Cento fece un intervento…»72.

È un piccolo episodio, sicuramente uno dei tanti, ma dimostra che il Concilio non è stato fatto solo dai padri conciliari, ma questi sono stati anche recettori degli impulsi e dei carismi suscitati dallo Spirito nella Chiesa.

CONCLUSIONI Non è esagerato affermare che il Concilio Vaticano II sia stato un “evento”. È vero che, da un punto di vista dogmatico, il Concilio deve identificarsi con i documenti che in esso sono stati elaborati e poi promulgati. Ma il percorso che ha condotto alla stesura definitiva di ciascuno dei documenti è stato lungo, travagliato, articolato in diverse fasi, talvolta molto animate. 71 72

L. SOETE, Le Seigneur m’a conduit, Roma 1981. Movimento Pro Sanctitate, pro manuscripto, Roma 1997, 26.


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Noi abbiamo visto solo quanto riguarda il capitolo V della Lumen Gentium. In questa piccola storia abbiamo potuto notare come sia semplicistico limitare la comprensione del Concilio allo studio dei documenti definitivamente approvati. Il tema della universale vocazione alla santità non era uno degli argomenti contenuto negli schemi preparatori, né tantomeno era considerato come possibile capitolo di un testo dogmatico come la costituzione sulla Chiesa. Come abbiamo visto, venne inserito solo nella seconda redazione dello schema, elaborato durante la prima intersessione. Questa novità della seconda redazione fu accolta con favore dai padri; le loro obiezioni vertevano maggiormente sulla sua collocazione all’interno dello schema e sulla relazione con gli altri argomenti, in particolare con i paragrafi sui laici, sul popolo di Dio e sulla vita religiosa. Presentando alcune iniziative promosse dal Movimento Pro Sanctitate nei suoi primi venti anni, abbiamo voluto offrire un esempio del clima ecclesiale nel quale si è sviluppata la riflessione sulla universale vocazione alla santità. Quanto è stato fatto per questo scopo: conferenze, pubblicazioni, contatti personali, realizzati sia dal Movimento Pro Sanctitate che da numerose altre realtà, ha fatto sì che in alcuni padri conciliari (per es.: Cento, Van Lierde, D’Avack, Suenens) fosse già presente una certa sensibilità per l’idea della vocazione alla santità di tutti i cristiani. Così, quando hanno letto il nuovo testo del De Ecclesia, che al capitolo IV inaspettatamente parlava della vocazione alla santità nella Chiesa, hanno fatto emergere le lacune della prima stesura, rilevando la necessità di parlare della vocazione di tutti i cristiani alla santità a partire dalla sua origine, la santità di Dio, e dal suo fondamento rivelato, la Sacra Scrittura, ed evidenziando che in ogni stato di vita tale chiamata può e deve essere realizzata.



Synaxis XXII/1 (2004) 53-66

LA SPIRITUALITÀ PRESBITERALE DEL SERVO DI DIO DON NUNZIO RUSSO

MARIO TORCIVIA*

Il presente studio si prefigge di far conoscere la riflessione spirituale di don Nunzio Russo (1841-1906)**, fondatore della Congregazione delle Figlie della Croce, sul ministero sacerdotale1. Divideremo l’articolo in due parti. Nella prima evidenzieremo il pensiero di NR sul sacerdozio così come si evince da un’omelia da lui tenuta in occasione della prima messa di un prete novello; nella seconda enucleeremo dai suoi scritti specifici sulla spiritualità sacerdotale — invero pochi — quanto inerente alla tematica oggetto della nostra disamina.

1. IL PRESBITERO PER NUNZIO RUSSO Per conoscere la riflessione sul sacerdote di NR, ci serviremo di un discorso da lui pronunciato nel paesino di Sciara2 il 25 dicembre 1869 per la festa del sacerdote novello don Giuseppe La Rocca3. Pur consapevoli del genere letterario “discorso da prima Messa”, tale eloquio, a nostro avviso, si rivela epifanico del sentire di NR su questo ministero ecclesiale. *

Docente incaricato di Teologia spirituale nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Legenda: NR=Nunzio Russo; ANR=Archivio Nunzio Russo. 1 Per la conoscenza di NR, del quale è in corso la Causa per la Beatificazione, rimandiamo alla bibliografia presentata nella nota 1 del nostro precedente articolo su questa figura del presbiterio palermitano: Nunzio Russo direttore spirituale. L’epistolario con Paolina Turano (1878-1906), in Synaxis XX/2 (2002) 341-376. 2 Provincia e Arcidiocesi di Palermo. 3 Cfr ANR, b, 19A, fasc. 1, n. 4, ff. 19, pp. 35 (pubblicato — con alcune correzioni stilistiche per rendere più scorrevole il testo — col titolo I salvatori del mondo, Palermo 1907). **


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In quel Natale di più di cento anni fa, il futuro fondatore delle Figlie della Croce tessé le lodi della dignità dei sacerdoti: «gli uomini predestinati a continuare insieme con G.C. la salvazione del genere umano — G.C. si ripete in ciascuno di essi — Essi sono i nuovi salvatori del mondo» (f. 4). L’espressione “i nuovi salvatori del mondo” dice bene l’identità e la funzione dei sacerdoti perché continuano — “altrettanti Cristi” (f. 5) — l’opera di riconciliazione del Cristo: «Ecco ciò che solleva il concetto del sacerdozio cattolico alla dignità stessa del sacerdozio di G.C. con cui non forma che una cosa sola. Il sacerdote è G.C. stesso che si perpetua in mezzo ai fedeli; è lo strumento di cui servisi G.C. per continuare ad operare la redenzione del genere umano» (f. 5). E questo dove si realizza per NR? Sugli altari: «Poche parole che essi dicono, e già si ripete lo stesso prodigio avvenuto a Nazaret. Il Verbo s’incarna di nuovo nelle loro mani come nel seno di Maria, nasce nel cuore dei fedeli come alla grotta di Betlem» (f. 6). Per questo, secondo il prete palermitano, che mutua un’espressione di san Bernardo abate, i sacerdoti sono parentes Christi perché, qualora «non ci fossero più sacerdoti sulla terra, allora per operarsi la salute degli uomini ci sarebbe bisogno che il Verbo scendesse di nuovo ad incarnarsi, ci sarebbe bisogno che fosse un’altra volta crocifisso, ci sarebbe bisogno che fosse per tutta la terra predicato, ci sarebbe bisogno insomma di incominciare da capo. Ora la presenza di un solo sacerdote basta a tutto questo. Poche parole ch’ei pronunzia, e già ha rinnovato la grand’opera. Egli lo fa rinascere come a Betlem; lo rende presente in mezzo agli uomini come quando era nella sua carne mortale; gli fa dispensare i tesori di sua bontà, come quando passeggiava per la Giudea e Galilea facendo bene e sanando tutti» (f. 7).

NR prosegue il discorso spiegando al popolo le varie fasi della celebrazioni eucaristica riguardanti il sacerdote: «Sino all’Orate fratres [prima dell’orazione super oblata] si può dire che esso [il sacerdote] è rimasto quasi mescolato col popolo; ma eccolo in procinto di lasciare i fedeli per internarsi nel penetrali del santuario e per salire, novello Mosé, la formidabile montagna. Ma prima si congeda dal popolo con un solenne addio: Orate fratres. Poi si volta, né farà vedere più la sua faccia sino a tanto che si sono consumati i divini misteri» (f. 9).


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Il Nostro si sofferma poi a trattare di alcuni momenti della celebrazione eucaristica (Prefazio, Sanctus, preghiera consacratoria sui doni dell’altare) e dei connessi gesti del sacerdote — quasi una catechesi mistagogica relativa al sacerdote quando presiede l’Eucaristia. Trattando della preghiera consacratoria, volendo far somigliare a qualcuno il sacerdote che compie simile azione, NR non trova altro modello cui guardare che Maria. Infatti: «Poche parole dette da essa fecero scendere il Verbo nel suo seno, e poche parole dette da te rinnovano quel miracolo. Ma Maria lo operò una sola volta, tu ogni giorno. Maria gli diede una vita passibile, tu impassibile e gloriosa. La potestà di Maria è potestà di intercessione, la tua di giurisdizione. Sì, c.m., il sacerdozio fu posto da Dio sopra Maria SS. Oh! Che cosa si può dire di più grande. E qual potestà potrà paragonarsi a quella del sacerdote la quale è come quella della Trinità, potestas sacerdotis sicut potestas divinarum personarum. Egli ne produce il Verbo col disporre di tutte le grazie della redenzione col Figlio, santifica le anime collo S.S.» (ff. 13-14).

Ecco spiegato il motivo, continua NR, del perché i grandi santi rifuggivano l’ordinazione sacerdotale: perché se ne reputavano indegni. Nella seconda parte del discorso, il SdD adduce un’altra motivazione — accanto a quella dell’essere coloro che rinnovano l’opera redentrice del Cristo. I sacerdoti sono, infatti, i nuovi salvatori della terra: «perché continuano essi stessi l’opera di G.C. Dalla culla alla tomba essi sono sempre i salvatori degli uomini» (f. 15). Segue la descrizione di come il sacerdote, attraverso l’amministrazione dei sacramenti, accompagna/si rende presente da salvatore in momenti particolari della vita di un credente: quando egli nasce (il Battesimo), quando commette un peccato (la Confessione), quando è in procinto di morire (l’Estrema Unzione). Il sacerdote è salvatore dell’uomo, infine, anche per le continue preghiere — novello Mosé — innalzate a Dio perché plachi la sua vendetta per i peccati e le malefatte degli uomini, per l’istruzione catechistica che dirada le nebbie dell’errore e per l’amore manifestato verso le situazioni di sofferenza e dolore che attanagliano la condizione umana. NR menziona, allora, alcune delle innumerevoli opere (ospedali, orfanotrofi, ecc.) realizzate dai sacerdoti.


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2. GLI SCRITTI DI NUNZIO RUSSO SULLA SPIRITUALITÀ PRESBITERALE Esposto il pensiero di NR sul sacerdozio, secondo la particolare prospettiva fornita dal genere letterario “discorso da prima Messa”, desideriamo focalizzare ora l’attenzione su alcuni scritti di questo presbitero palermitano sulla spiritualità sacerdotale4.

2.1. Le lettere ai presbiteri e ai chierici Rispondendo il 24/02/1870 ad una lettera del p. gesuita Giuseppe Ferrigno indirizzatagli da Malta il 15/12/1869 — lettera nella quale quest’ultimo invitava il confratello nel sacerdozio a diventare gesuita5 — NR, pur manifestando la propria inclinazione verso la Compagnia di Gesù, riafferma la scelta di restare un evangelizzatore della propria terra siciliana: «Diceva [al confessore] che ho sempre avuto inclinazione alla Compagnia, ma che mi sentivo più inclinato a ridestare la fede qui in Sicilia con tante opere e associazioni di cui sino a quest’ora sono stato se non al centro, ciò che sarebbe falso, uno almeno dei principali promotori […]». E continua in ordine al discernimento da operare: «La mia coscienza interrogata più volte risponde, che è vero che la vocazione si misura dalla inclinazione ed affetto che uno ha verso una cosa, ma l’una non è l’altra; mi spiego, può essersi inclinato ad una cosa senza esservi chiamato, così tempi addietro sperimentavo grande stima ed affetto ai certosini, ai francescani, ecc., si può dire perciò che era chiamato? Nol posso dirlo. Nel mio cuore non vi sono che due inclinazioni, una alla 4 Il numero di tali testi, rispetto ai numerosissimi scritti di NR su altri argomenti, è esiguo. Nelle pagine che seguono evidenzieremo cronologicamente alcuni aspetti della spiritualità sacerdotale del fondatore delle Figlie della Croce. 5 Riportiamo di seguito un’espressione di Ferrigno che tanto colpì NR da riscriverla nella lettera inviata da quest’ultimo il 06/02/1871 a colui che sarebbe diventato pochi anni dopo prete della chiesa di Palermo e rettore del locale Seminario: «Perché restringere la cerchia delle sue idee in Palermo? Allarghi, allarghi il cuore; e prenda a campo delle sue fatiche il mondo tutto. Ma prima venga a Malta, si metta in noviziato, si nasconda agli occhi di tutti, si seppellisca. Il granello messo sottoterra diventerà grande arbore» (ANR, b 47/1, fasc. 5, ff. 4).


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Compagnia, l’altra a proseguire in più larghe proporzioni le cose già incominciate. Mi rapisce l’idea della Compagnia e mi rapisce ancora la funesta realtà di questa chiesa di Sicilia. Ho cercato di ponderare l’una e l’altra inclinazione e da qualunque lato le considero trovo sempre prevalente l’ultima ma non in modo da perdere di vista la prima. Le pietre del santuario disperse, il tempio desolato, le vergini dissipate, i monaci spersi, il culto di Dio venuto meno, la mancanza di operai, tante opere nascenti che hanno bisogno di assistenza, ecco ciò che dà pabulo ai miei pensieri e dove vedo preponderare il mio cuore. Questo affermo dinanzi a Dio. Più sento io il bisogno di appiccicare il fuoco per ogni dove; sperimento in me stesso una spinta la quale non ha altra mira che la Sicilia. Pregate per ciò, mio caro fratello in Gesù Cristo. Di qui a pochi anni dovranno risorgere i templi caduti, rifiorire i gesuiti, i monaci, le vergini, il clero, i fedeli»6.

Di questa lettera ci piace far risaltare due tratti utili per comprendere l’animo sacerdotale di NR. Innanzitutto la profonda onestà nel non tacere le varie inclinazioni presenti nel cuore in ordine alla scelta vocazionale. Il secondo: l’amore profondo per la propria terra che versa in gravi condizioni spirituali e che si presenta, pertanto, particolarmente bisognosa di sacerdoti che si dedichino corpo e anima all’evangelizzazione perché la Sicilia risorga. Quello che ci preme evidenziare è che la volontà di NR di restare in Sicilia non nasce solo dall’amore campanilistico per la propria terra, quanto dalla consapevolezza della evidente condizione di prostrazione religiosa in cui essa versa. La scelta operata da NR è, pertanto, quella di andare incontro alla situazione di “ultimità”, al bisogno più bisogno, consapevole che tutto questo comporta il porre in secondo piano la spinta evangelizzatrice universale, presente anch’essa nel suo cuore. L’amore al sacerdozio spinge NR ad essere un infaticabile propulsore perché chi è in cammino non si fermi ma progredisca alacremente per ricevere quanto prima l’ordinazione presbiterale. Eco di quanto testé detto troviamo nella seguente lettera inviata da NR il 09/05/1872 da Agrigento7 ad un chierico — di cui conosciamo solo il nome: Luigino — che ci presenta tre aspetti interessanti del pensiero di NR sul sacerdozio: il

6 7

ANR, b 46/1, fasc. 3. In tale città e diocesi NR svolgeva il servizio di segretario del vescovo mons. Turano.


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caricarsi di tribolazione perché il diretto ne sia liberato; il tenace invito alla santità in quanto “massaio” che sta dinanzi alla porta della chiesa; la fremente attesa dell’ordinazione presbiterale di Luigino per ricevere la “sacramentale rigenerazione” dello spirito: «Figlio mio, non so quel che fare. L’acquisto dell’anima tua è per me riguardato come lo acquisto del Regno di Dio. Oh! potessi veder regnare l’amore di Gesù nel tuo cuore! Io non ho altro desiderio, e non vi è cosa che mi tiene legato in questa terra tranne che lo zelo che sento per le anime. Che ne vuoi? Cerco di compensare così una vita di peccati e di infedeltà, con lo spingere gli altri a far quello che non faccio io, a farsi cioè santi. Voglio sostener nella Chiesa l’ufficio del massaio, il quale se ne sta dinanzi la porta e fa grida enormi per fare entrare gli altri, ed egli intanto se ne sta fuori. Spero però che coloro che da me saranno spinti ad entrare nella casa di Dio mercé una vita giusta e santa, quando si troveranno dinanzi Sua Divina Maestà si ricorderanno di me, e così mi accordino la grazia di farmi santo. Questa sola speranza io ho; perciò il far fare santi gli altri si può per me riguardare come una santa industria per negoziare bene l’affare dell’anima mia. Dunque, Luigino mio, ci ha del mio interesse nella santificazione dell’anima tua. Fatti santo, figlio mio; così solo potrai impegnare qualche parola a favore di me. Desidero quanto prima vederti sacerdote con la potestà del corpo reale e mistico di Gesù Cristo. Io non ho avuto mai lacrime di vera contrizione in vita mia. Ma spero di averle; e sai qual è la mia speranza? Quando sarai sacerdote; oh! che consolazione sarà per me il vedermi prostrato ai Tuoi piedi e domandarti nelle lacrime la sacramentale rigenerazione del mio spirito. Io aspetto quel giorno come si può aspettare da un viandante lo spuntar dell’aurora, o come si può desiderare da un cieco un raggio di luce. Che piacere sarà allora per il mio cuore vedere inchinata la Tua carità a versare il balsamo della Tua compassione sulle piaghe profonde che mi ha lasciato il peccato! Che gioia non sarà per me il sentirmi rinnovare interiormente lo spirito al senso delle Tue parole che saranno dolci e temprate all’ardore dello Spirito Santo! Figlio mio, quando, quando sarà mai questo giorno in cui potrò cambiar questo nome con quell’altro non meno tenero di Padre dell’anima mia? Oh! caro Luigino del mio cuore, se tu sapessi la miseria mia bruceresti di zelo per redirmene. Ordinati dunque presto, ottieni dispensa d’età, d’interstizii, di tutto per potere arrivare presto a rigenerarmi nel tuo zelo a Gesù Cristo. Ubbidisci alla voce di cotesto mio buono confessore; ubbidisci senza esitare. Chi ubbidisce, rende Dio stesso garante, non è più responsabile degli atti suoi. Ubbidisci senza esitare,


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confermati presto; ubbidisci, abbassa il capo e senza esaminare corri ad ordinarti, io ne ho bisogno»8.

Una lettera del 03/01/1874 a p. Gabriele Sala, ex frate agostiniano scalzo di S. Margherita del Belice9 — desideroso di ricevere una raccomandazione per divenire canonico — ci presenta il seguente tratto della personalità di NR: «Il posto in cui sono [segretario del vescovo di Agrigento, ndr] deve dare a tutti testimonianza di disinteresse e d’imparzialità, diversamente actum esset del bene che si desidera di farsi». Ecco manifestate le qualità di un ottimo segretario di vescovo e di chiunque occupi un determinato posto e svolga delle specifiche funzioni nella comunità ecclesiale: disinteresse e imparzialità, specie in ordine ai favoritismi e alle segnalazioni. Ma ascoltiamo ancora NR nella stessa lettera: «le raccomandazioni fatte o in nome proprio o per mezzo altrui in questa segreteria si rimandano agli archivii; se ne piglia quello che se ne deve pigliare, cioè la sete dei posti dominante in quasi tutti ed il niuno distacco dalle preminenze e dalle cose passeggiere. Ma siccome son tutti che domandano, quindi se dovesse eligersi sopra il criterio delle suddette raccomandazioni, quelli sarebbero più degni che si trovassero meno pretendenti. Ciò però qui non ha corso»10.

Per meglio realizzare l’opera missionaria dell’annuncio evangelico, NR raggruppò inoltre alcuni preti, ai quali non fece mai mancare l’aiuto umano e spirituale. Scrivendo il 21/05/1881 al gesuita missionario apostolico p. Vincenzo Basile, NR gli ricorda come questi «sa che il fondo della stamperia è destinato per la muta di esercizi annuali che tutti i padri, dispersi durante l’anno in tutta l’isola, verrebbero a ricevere qui in Palermo. Così ogni anno si avrebbe il bene di ritemprare lo spirito di loro vocazione; e quello stare insieme per otto giorni alla stessa mensa, sullo stesso altare e sotto lo stesso tetto sarebbe come un convegno di famiglia che darebbe a tutti unità di spirito e di movimento»11. 8

ANR, b 46/1, fasc. 6, ff. 2, pp. 4. Paese della provincia di Trapani e della diocesi di Mazara del Vallo. 10 ANR, b 46/1, fasc. 7, ff. 2, pp. 4. 11 ANR, b 46/1, fasc. 12, ff. 2. 9


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Pur essendo un prete profondamente siciliano, NR non ha remore ad evidenziare quando la cultura di appartenenza mal si coniuga con la tradizione cattolica. Leggiamo infatti così in una lettera del 28/05/1896 inviata ad un sacerdote di Gratteri12 il quale, per manifestare il lutto nei riguardi della propria mamma non vuole celebrare per tre giorni l’Eucaristia: «Con dolore intesi che la S.V. si è privata del sacrifizio. Tamquam minus sapiens io le umilierei di non privare di tanto suffragio l’anima di mamà, uscendo a dire la messa nella chiesa vicina. Altro è quando lo stesso figlio offre a Dio il sacrificio. Mi dissero che dai sacerdoti si osserva il lutto privandosi tre giorni dal dire la santa Messa. Ma che sorta di rispetto è questo mai pei parenti morti? Essi aspettano i suffragi dei figli e si ritardano? La prego quindi di non ritardare di tre giorni il sacrifizio suo. È un pregiudizio stupido, contro le anime sante; e dobbiamo combatterlo coll’esempio»13.

Anche qui ci piace sottolineare l’attualità della lettera per ciò che concerne la necessità di combattere quelle tradizioni culturali — purtroppo ancora molto presenti in tanti paesi della Sicilia e in diverse borgate o nei centri storici delle grandi città isolane — che non sono evangeliche. L’ultima lettera sulla quale ci soffermiamo — indirizzata al Ben. Paolino Domante e recante la data del 09/03/1894 — rivela l’eleganza dell’animo e il rispetto per le persone che caratterizzano NR: «La tua letterina mi fa vedere il lavorio interno che la grazia ha cominciato in te. Pare che l’amore che hai avuto sinora alle piante e ai fiori materiali te lo voglia donare a quello delle anime, che sono piante e fiori di un altro ordine più nobile assai delle cose materiali. È’ un nuovo orizzonte in cui la bellezza di ciascun anima arresterà il tuo sguardo meglio assai di quando passavi intere ore a contemplare un fiore, una foglia, un filo d’erba. Flos est ille ecclesiastici germinis, se non erro, mi pare che è S. Agostino o S. Cipriano che con queste parole indica le anime verginali. Esse sono appunto

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Paese della provincia di Palermo e della diocesi di Cefalù. ANR, b 46/1, fasc. 20, f. 1, pp. 2.


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quei bellissimi fiori che mi facesti vedere, con somma mia sorpresa e meraviglia, galleggianti sull’acquario»14.

2.2. Discorsi vari In un discorso, NR prende spunto da un’espressione di san Bernardo abate — ma cita anche san Giovanni Crisostomo, Riccardo di san Vittore e Guerrico d’Igny — per ricordare ai confratelli nel sacerdozio la necessità di parlare di cose divine e di detestare le vane curiosità secolari: «S. Bernardo fingendosi nella casa di Nazaret presente ai saluti dell’Arcangelo, disse a Maria: si tu cum facies audire vocem tuam, ipse te faciet videre salutem nostram. Responde verbum et suscipe Verbum. Profer tuum et concipe divinum. Io pure esclamo: eletti alunni del santuario, se bramate di avere il Signore sempre con voi nei fervori dell’orazione, negli ardori della conversazione, nell’intelligenza delle Scritture, nella chiarezza e sodezza delle dottrine, parlate frequentemente e amorosamente di lui, e indubitatamente lo godrete. Responde verbum et suscipe Verbum. Sarei quasi per non ricercare esercizio veruno fra voi o di mortificazione o di bontà, quando fossi sicuro che infaticabilmente ragionaste di Dio; perché sarei certo unirsi in voi al fuoco delle voci gli ardori delle opere. Si querelavano alcuni con S. G. Crisostomo che il prezzo della virtù fosse o troppo rigoroso o troppo alto; ma il santo, rinfacciandoli dal pergamo di Bisanzio, “siete in errore” diceva, e “troppo aggravate la soavità e la leggerezza del giogo cristiano. È si facile l’acquisto della perfezione evangelica, che potrete ottenerla, o ricreandovi nelle vostre ville, o desinando nelle vostre case; purché tra voi, detestati i ragionamenti curiosi, vani, secolari, ponderiate con serietà di parole le azioni di santi, gli oracoli di profeti, l’immensità della vita futura”. In ore tuo salutis est causa. Tra lo Spirito di Dio e la parola di Dio vi ha una mutua causalità, una scambievole produzione. Lo Spirito Santo scese sopra i primi cristiani mentre parlava S. Pietro. Adhuc loquente Petro verba hae. S. Bernardo rapito in estasi a contemplare le prerogative dei beati non altro desidera che gli si disponga la lingua a’ suoni che sentiva ne’ beati. Perché, diceva, quando io arrivi a ben parlare della divinità e dell’eternità sarò santo e renderò arcangeli, quanti monaci meco salmeggiano in questo 14

ANR, b. 46/1, fasc. 21, ff. 2, pp. 2.


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Mario Torcivia coro. L’istesso farete voi, se arriverete a parlare bene ai vostri compagni della divinità e dell’eternità. Lo Spirito Santo scenderà su di essi, come a’ discorsi di Pietro. Io non desidero altro di voi che arriviate a parlar bene di Dio fra di voi; e la ragione si è, perché essendo la vita clericale ripugnantissima al mondo, sostenuta unicamente da speranze di beni invisibili, fatta segno a molti ludibrii e persecuzioni, se non ci animiamo con vive ricordanze della fede, a dispregiare ciò che passa e ad abbracciare ciò che dura, è forza che l’Egitto abbandonato ci richiami ai suoi mattoni e alle sue cipolle. Tal forma di vivere ci fa scendere dal Calvario, ove non è animato da’ discorsi di Dio. Riccardo di S. Vittore commentata quella sentenza Justus meus ex fide vivit, rivoltossi ai suoi canonici, scongiurandoli a ragionare di Dio se non voleano nojarsi della perfezione professata. “Né ciò è tutto, fratelli miei, se non facciamo della parola di Dio il nostro intrattenimento, Gesù Cristo perderà la vita in noi”. La sua parola è la sostanza e il cibo, per cui vive nei suoi servi. Mira res, sed vera dice Guerrico, Verbum pascitur de Verbo, Filius vivit de seipso. Alimentatelo quindi coi discorsi di spirito; esso crescerà in voi a proporzione dell’alimento che gli somministrerete. Senza di lui, il mare sbatte, la nave pericola. Pietro annega. Con lui fugge il demonio, Lazzaro risuscita, Zaccheo e Matteo si convertono. Sappiate che il cibo di lui sono i discorsi della sua vita, dei suoi dogmi, del suo regno; dove non è pasciuto ei non vuol vivere e morrà in chi non parla di lui. E come vivo santifica chi l’accoglie, così, ove per mancanza di nutrimento sparisce da voi, sperimenterete gravi tempeste, sommergimenti pericolosi, morti non reparabili. Vi guardi Iddio da tanta perdizione per vanità di parole»15.

Del discorso quattro sono le tematiche a nostro avviso particolarmente interessanti per rintracciare la riflessione spirituale di NR sul sacerdote: la saggezza spirituale del Responde verbum et suscipe Verbum; la santità di chi parla di Dio che si trasfonde in quanti vivono con lui; l’insistenza sui beni eterni, sulle realtà invisibili che deve caratterizzare i sacerdoti, proprio perché disprezzati dal mondo; l’insistenza sulla parola di Dio quale cibo dei preti perché così il Figlio pasce se stesso crescendo e santificando il sacerdote che l’accoglie. Un altro discorso di commento al vs 1,7 — erroneamente citato da NR come 1,6 — del Cantico dei Cantici («Segui le orme del gregge»16) dà 15 16

ANR, b. 19/1, fasc. 1, n. 6. Nella Vulgata: «Egredere, et abi post vestigia gregum tuorum».


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modo a NR di evidenziare come il sacerdote incontri Gesù Cristo pascendo il gregge affidatogli: «La sacra sposa dei Cantici domanda al suo diletto: Indica mihi ubi pascas, ubi nubes in meridie? 1.6. La risposta che ne ha è la seguente: Egredere, et abi post vestigia gregum tuorum. Ecco la risposta che vien data all’anima del sacerdote che va cercando G.C.: Bisogna uscire fuori di te stesso, non è dentro di te il luogo ove trovarlo; bisogna andar dietro le vestigia del gregge; bisogna pascerlo. Ecco il luogo dove si fa trovare G.C.: le anime che gli sono confidate. Agli altri è detto di guardare alla creazione visibile per trovarlo: Invisibilia Dei per ea quae facta sunt. Ma al sacerdote è detta ben altra cosa. A lui si dice invece di non guardare questa creazione visibile. Si dice di uscire di essa: Egredere. Ma dove deve andare? Ecco dove deve andare; esso è chiamato ad entrare in un mondo invisibile, il mondo interiore delle anime; è invitato a seguire le vestigia del gregge di Cristo; è ammesso a contemplare le invisibili creazioni che va facendo lo Spirito Santo. Qui non solo gli è dato di vedere la nobile fisionomia del diletto, che era la ragione per cui avea domandato: Indica mihi, ubi pascas, ubi cubes in meridie? ma gli è dato a vedere più di quanto desiderava; gli è dato vedere il Regno invisibile di G.C. nelle anime, le norme che regolano la dispensazione della sua grazia, le arcane operazioni di essa, la sublimità del contrasto col nemico del genere umano, e la sua dolce fisionomia che vede ripetersi in varie guise nelle anime. Oh! bontà di Dio infinita che fa trovare in mezzo all’operatura quasi più di quanto può trovarsi nel silenzio della contemplazione! Ma per far questo bisogna uscire: Egredere; cioè bisogna distaccarci di tutto, anche della sua propria volontà; bisogna stare in ubbidienza, bisogna uscire di se stesso: Egredere. E quanto più si faticherà colle anime tanto più si troverà, si conoscerà, si amerà G.C. L’apostolo non cerca mai riposo perché sa che il riposo è la morte di questo suo progresso nello spirito. Non c’è uomo che più di Paolo fosse acceso e pieno di G. C. perché non ci fu chi più di lui avesse lavorato per le anime […] Non vi è stato mai sacerdote che nei primi fervori della sacra ordinazione, nei primi anni del Sacerdozio, non abbia desiderato la solitudine per trovare Gesù Cristo, per essere da lui pasciuto, per riposarsi con lui nelle dolci estasi del suo amore: Indica mihi ubi pascas, ubi cubes in meridie? Ma G.C. l’invita ad uscire: Egredere et abi»17.

17

ANR, 19/1, fasc. 2, n. 4, ff. 6, pp. 11.


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Anche qui ci piace soffermare il lettore su alcuni pensieri del Russo: la lettura “sacerdotale” — cioè: riferita all’anima del sacerdote — della sposa del Cantico; il mondo interiore delle persone affidate come il luogo per incontrare Dio e contemplare le opere che là compie lo Spirito Santo; l’affermazione che nell’apostolato, nella vita attiva si trova Dio “quasi più di quanto può trovarsi nel silenzio della contemplazione!”; l’identificazione dell’uscita da se stessi con il distacco da tutto per un’obbedienza assoluta. La conoscenza della viticoltura e del danno che la filossera — insetto microscopico — arreca ai tralci, offre infine l’occasione a NR per trattare del male che la divisione dei presbiteri di una stessa parrocchia comporta. Ma ascoltiamo dalla viva voce del prete palermitano l’applicazione ecclesiale da lui fatta di quanto inerente alla filossera: «Ego sum vitis, vos palmites. Ogni sacerdote è tralcio di questa vite: perché questo tralcio produca bisogna essere attaccato alla madre e essere sano. Or tra le viti ve ne ha una che è refrattaria alla azione del funesto parassita, ed è la vite americana; vi può essere quindi una vite sana è incapace di essere filosserata, e può avere allo stesso tempo tralci filosserati. Questa vite eccezionale è G.C. Questi tralci siamo noi; e l’essere attaccati a lui non ci rendi indenni; possiamo anche noi essere filosserati. Or che cosa è mai questa filossera di cui intendo parlare? Questo micidiale parassita che da morte alla campa e converte in aridi deserti le vigne più verdeggianti? Ce lo dica la stessa figura che presenta sotto la lente microscopica. Un tralcio filosserato comparisce come seminato di tanti punti piccoli e in apparenza insignificanti. Che cosa rappresentano mai questi punti? Rappresentano i male detti puntigli che sorgono in mezzo a’ sacerdoti. Son cose da nulla all’apparenza, sfuggono per così dire all’osservazione; eppure gli effetti sono funestissimi. Esaminati col microscopio sono come tante ulceri, che sradicano di marcio. E che cosa è questa piccola proboscide con cui mentre da un lato fora il corpo del tralcio lo inaridisce? È la mala lingua, è la mormorazione, è la diffamazione, la quale mentre da un lato perfora in mille punti il corpo mistico di G.C., che sono i tralci attaccati alla vite, comunica dall’altro il rio veleno, per cui viene impedita la comunicazione alle anime del sangue di G.C. (Qual’è lo spettacolo che presenta una parrocchia, in cui i sacerdoti sono divisi). Le ferite producono le galle, cioè rigonfiamenti o bolle vuote. Che cosa significano mai queste galle? Sono gli effetti della mancanza dello spirito nei sacerdoti; non circola più in essi l’umore vitale dello zelo ecclesiastico, nomen habent quod vivent sed mortui sunt; sono tralci secchi, foglie


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inaridite, e quel che è peggio sono gonfi di sé stessi per lo spirito di superbia, van colla testa alta come le spighe vuote; sono bolle vuote che vi si aggirano nell’aria […] La similitudine calza a pennello. Qual’è mai lo spettacolo che presenta una parrocchia in cui il clero è diviso da’ puntigli? Né più né meno che quello di una vigna filosserata. Qual’è il raccolto spirituale che si ricava dai fedeli? Nessuno. Il ceppo sta li in mezzo a’ tralci, pronto a comunicare gli umori della sua grazia a’ fedeli; ma intanto quel terribile impedisce loro di nutrirsene perché i puntigli li privano di tutto il ministero evangelico, cioè della parola di Dio, della meditazione, della frequenza de’ sacramenti, di tutte le opere buone. Qual’è l’effetto ultimo della filossera? È la disorganizzazione de’ tessuti dell’apparato nutritizio e respiratorio. Il fedele è nutrito dalla parola di Dio e dai Sacramenti; ciò forma il suo nutrimento. Or questo è distrutto. Ma non basta il nutrimento, è richiesta ancora la respirazione, la quale è compimento della nutrizione, questa principia la vita, quella la compie. Or la respirazione de’ fedeli è l’esempio dei sacerdoti. Qual’è mai l’esempio che essi ricevono, quando li vedono accapigliarsi fra di loro? Così venuto meno il nutrimento, resa impossibile la nutrizione, languiscono i fedeli e piange la chiesa. Al rimedio ora. In quel di Modica succedeva il seguente fatto: in un trappeto dopo la torchiatura delle ulive casualmente fu gittata l’acqua residuale di quella posta sopra alcune viti. Or bene l’effetto fu felicissimo, poiché quel liquido amaro di umori antisettici distrusse il male. Ecco il rimedio; il torchio è la mortificazione delle proprie passioni; ma ciò non basta; ci voglion ancora le lagrime della contrizione, si vuole che questa acqua amara ma preziosa, che quest’acqua rara e prodotta solo dalla torchiatura sia versata sopra ogni tralcio. I fedeli devono accorgersi di questo mutamento; la respirazione qui deve prendere il nutrimento; e allora rigogliosi getteranno i tralci, buono e ubertoso ne sarà il raccolto, le tinaie saranno ripiene, e i fedeli si moltiplicheranno formando la vostra delizia, e la consolazione della Chiesa, in adempimento dell’oracolo: A fructu frumenti, vini et olei sui multiplicati sunt»18.

Crediamo che a tutti risuoni evidente l’attualità di quanto detto da NR perché ancor oggi nelle nostre parrocchie di città o di paese — qualora vi sia ancora la fortuna di avere più di un sacerdote — non sempre la convivenza tra preti si presenta facile. Preziosa poi, a nostro avviso, si rivela la parte finale dello scritto sulla necessità nei preti della mortificazione delle 18

ANR, b. 19/1, fasc. 1, n. 7.


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passioni e delle lacrime della contrizione perché i fedeli si possano accorgere del mutamento avvenuto.

CONCLUSIONE Solo una riflessione a conclusione del nostro articolo. Siamo tutti consapevoli che NR è un prete del XIX secolo pienamente aderente alla teologia e alle pronunce magisteriali dell’epoca sul ministero ordinato. Tale contestualizzazione spiega, pertanto — ci riferiamo specificamente all’omelia esaminata nel primo punto del nostro studio — la focalizzazione dell’identità del sacerdote rifacendosi solo alla seconda parte della celebrazione eucaristica, il confronto con Maria e il discorso sulla potestas jurisdictionis, come pure la totale assenza del ruolo di tutti i credenti nella missione ecclesiale. Riteniamo comunque che il sentire sacerdotale di NR possa risultare attuale per la comunità ecclesiale e particolarmente per i ministri ordinati. NR è stato infatti un prete della chiesa di Palermo che si è interamente speso per l’evangelizzazione degli uomini e delle donne del suo tempo, combattendo tutto ciò che poteva allontanarli dalla verità di Cristo. La sua ansia missionaria, la ricerca di mezzi apostolici — quali la stampa di opuscoli e libri e l’attività giornalistica — la fondazione di congregazioni e associazioni religiose volte all’evangelizzazione, la direzione spirituale, non ultimo l’attaccamento alla sua terra, restano dati oggettivi per affermare, a nostro avviso, la contemporaneità del messaggio di questa luminosa figura del presbiterio palermitano.


Synaxis XXII/1 (2004) 67-112

LE CELLULE STAMINALI UNA NUOVA VIA IN CAMPO BIOMEDICO, UN DIBATTITO APERTO TRA SCIENZA ED ETICA*

ANTONINO SAPUPPO**

INTRODUZIONE Moltiplicazione e differenziamento sono processi fondamentali che contribuiscono in modo determinante alla formazione degli organismi multicellulari. Attraverso questi processi viene a definirsi e a conservarsi nel tempo la diversificazione delle cellule nei vari tessuti con una definita specificazione morfo-funzionale. In questo scenario biomolecolare dalle multiformi specie, in cui i termini sviluppo, crescita e maturazione sono parziali espressioni della parola vita, si inseriscono le cellule staminali: cellule non specializzate che presentano peculiari proprietà. Negli ultimi anni la ricerca biomedica e lo sviluppo delle biotecnologie si sono mossi con passi da gigante e le loro applicazioni hanno dato risultati considerevoli, facendo intravedere prospettive interessanti, affascinanti e ricche di speranza soprattutto in ambito biomedico. Tuttavia, nonostante i benefici ottenuti dall’introduzione di nuovi farmaci e dalle terapie a base biotecnologica siano innumerevoli, ancora oggi patologie devastanti come quelle cardiache, il diabete, il cancro e le malattie neurodegenerative (Parkinson, Alzheimer, etc.) continuano a minacciare la vita ed il benessere dell’uomo. * Estratto della tesi di Baccalaureato in Teologia, discussa il 3 ottobre 2003 presso lo Studio Teologico S. Paolo, relatore prof. Salvatore Consoli, correlatrice la prof.ssa Marcella Renis della Facoltà di Farmacia dell’Università di Catania. ** Baccelliere in Teologia.


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Un interesse particolare hanno perciò suscitato e continuano a suscitare l’isolamento, la produzione e l’utilizzo delle cellule staminali (stem cells) la cui scoperta, consentendo di sviluppare nuove metodologie e produrre nuove “opportunità terapeutiche”, ha assunto un’importanza “epocale”. L’idea di poter utilizzare cellule dello stesso corpo umano per curare disfunzioni organiche, che sembrano incurabili, ha rivoluzionato la medicina e la ricerca ed ha avviato, nel mondo scientifico e bioetico, un acceso dibattito che ha fortemente attratto l’attenzione dell’opinione pubblica. La questione sulle stem cells è tra gli argomenti di attualità quello più interessante e controverso. L’ottimismo destato da questa ricerca si è scontrato con un serio problema bioetico legato all’utilizzo degli embrioni umani per la sperimentazione; infatti la loro manipolazione e distruzione ha sollevato una forte opposizione sia in ambiente etico che civile. Si tratta di tematiche in cui scienza e fede si illuminano a vicenda per avere sempre più chiara la questione e poter intervenire nel modo più opportuno, secondo la tipica prospettiva cristiana sub luce Evangelii et sub luce humanae experientiae. La trattazione segue uno schema largamente condiviso, per il quale ad una analitica esposizione dei dati scientifici corrisponde una riflessione etica, che si avvale oltre che dei documenti magisteriali anche degli interventi di alcuni moralisti e scienziati su tale argomento.

I. LE CELLULE STAMINALI E LE LORO APPLICAZIONI TERAPEUTICHE 1. Definizione La conoscenza delle cellule staminali e delle loro potenziali applicazioni si è sviluppata negli ultimi 30 anni. Negli anni 60 fu scoperto che alcune cellule di topo avevano la capacità di formare un sistema tissutale; dopo l’eco straordinario generato in tutto il mondo scientifico da questa notizia, la ricerca condusse solo nel 1971 alla scoperta delle cellule staminali1. 1 Cfr G. SICA, Le biotecnologie e l’uomo: il caso delle cellule staminali umane, in M. L. DI PIETRO – E. SGRECCIA, Biotenologie e futuro dell’uomo, Milano 2003, 320.


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Il 6 novembre 1998 un gruppo di ricercatori della Wisconsin University a Madison negli Stati Uniti pubblicò un lavoro in cui si dimostrava la possibilità di ottenere, dalle cellule dell’embrioblasto di embrioni umani allo stadio di blastociste, opportunamente stimolate, cellule totipotenti non ancora differenziate2. Etimologicamente l’aggettivo “staminale” deriva da “stame”, dal latino stamen, letteralmente “l’ordito del telaio”, che per gli antichi era verticale con l’ordito che pendeva da una sorta di palo. Il termine greco sthmwn ci porta alla radice di “stare”, nel senso di essere ritto, in linea verticale, così come è la tela che pende da un’asse orizzontale. La parola stem in inglese indica, in prima istanza, la parte che in una pianta forma l’asse centrale, che produce e supporta ramificazioni secondarie, foglie e fiori. I concetti espressi suggeriscono che l’aggettivo “staminale” stia a significare qualcosa che è prima, “ancestrale”. Nel caso specifico delle cellule, il termine vuole indicare che precede gli altri elementi cellulari. Nel corso dello sviluppo le cellule, che nel tempo hanno acquisito determinate caratteristiche, riducono progressivamente la loro capacità di differenziamento divenendo così meno abili a trasformarsi in tipi cellulari diversi. Pertanto quando una cellula matura differenziata si divide può dare origine solo allo stesso tipo di cellula. Le cellule staminali si inseriscono in questo dinamismo naturale e presentano diverse caratteristiche. Sono capaci di dividersi proliferando in modo illimitato o prolungato, cioè si riproducono a lungo, diversamente dalle cellule muscolari, del sangue e da quelle nervose, che normalmente non si auto-replicano. I fattori specifici e le condizioni che permettono alle cellule staminali di rimanere indifferenziate sono oggetto al tempo stesso di grande impegno e di grande curiosità tra gli scienziati, un impegno che incontra non poche difficoltà. È importante riuscire a decodificare i segnali che consentono in un organo maturo ad una popolazione cellulare di proliferare restando non

2 Cfr J. A. THOMSON – J. ITSKOVITZ-ELDOR – S. S. SHAPIRO, Embryonic stem cells lines derived from human blastocyst, in Science 283 (1998) 1145-1147.


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specializzata sino al momento in cui le cellule sono necessarie per riparare un dato tessuto. Le cellule staminali non sono differenziate, esse non possiedono alcuna struttura specifica tissutale che permetta loro di eseguire delle funzioni specifiche. Tuttavia queste cellule possono dare origine a cellule differenziate, che siano cellule del muscolo cardiaco, del sangue o del sistema nervoso. Esse possono dare origine a cellule progenitrici dalle quali derivano linee cellulari differenziate di circa 250 tipi (muscolari, nervose, epatiche, ecc.) presenti nei diversi tessuti ed organi3. Quando le cellule staminali non differenziate danno vita a cellule differenziate, il processo dicesi differenziazione. Gli studiosi stanno cercando di capire nel dettaglio i segnali interni ed esterni alle cellule che innescano il processo di differenziazione cellulare. Acquisire tali conoscenze può essere molto utile ai ricercatori per predisporre specifici protocolli sperimentali e per ottenere cellule o tessuti a scopi terapeutici. L’idea sottesa alla terapia con cellule staminali è infatti proprio quella di isolare cellule, moltiplicarle ed utilizzarle per riparare un tessuto danneggiato, per interventi di chirurgia plastica, per sostituire parte di un organo anziché l’organo nella sua totalità, per curare patologie croniche debilitanti (Parkinson, diabete, sclerosi multipla, etc).

2. Classificazione Le cellule staminali sono state classificate in base alla loro plasticità, cioè alla capacità che hanno di generare da un tessuto cellule differenziate di un tessuto diverso come (figura 1): Multipotenti: cellule capaci di moltiplicarsi e mantenersi in coltura, ma incapaci di rinnovarsi illimitatamente. Questo tipo cellulare è stato identificato sia nei feti sia negli adulti, ma in numero limitato. Un particolare tipo di cellule staminali multipotenti sono le cellule staminali mesenchimali che danno vita a: ossa, cartilagine, muscoli, tessuto adiposo ed altri tessuti connettivi. 3

Cfr D. VAN DER KOOY, S. WEISS, Why stem cells?, in Science 287 (2000) 1439-1441.


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Totipotenti: cellule in grado di dare origine a tutte le popolazioni cellulari dell’organismo necessarie a formare l’embrione. Esse sono presenti allo stadio di morula o di blastocisti (prima settimana di sviluppo). Pluripotenti: sono cellule flessibili, capaci di dare origine a più popolazioni cellulari, in generale a tutte quelle di un tessuto (per esempio il midollo osseo). Sono presenti allo stadio di blastocisti con 20-30 cellule (fra la prima e la seconda settimana di sviluppo), hanno la potenzialità di differenziarsi in ogni tipo di cellula ma non di dare origine all’embrione. Ricercatori di Argonne4 hanno messo a punto, recentemente, una tecnica per produrre cellule staminali adulte del sangue offrendo così una valida alternativa all’uso di cellule staminali embrionali. Le cellule adulte del sangue possono così differenziarsi in cellule del tessuto nervoso, del sistema immunitario, del fegato etc. Germinali: cellule staminali pluripotenti isolate, precursori dei gameti presenti dalla terza settimana di sviluppo, possono produrre cellule pluripotenti dette Embryonic Germinal Germ in grado di differenziarsi in numerosi tipi cellulari. Unipotenti: cellule staminali che danno luogo ad un unico tipo cellulare. Questa importante classificazione permette di evidenziare le differenti vie di sviluppo che le cellule staminali possono seguire nella funzionalità di un organismo, limitandone le potenzialità lì dove queste cellule presentano un campo più ristretto di applicazione.

Figura 1 – Coltivazione di cellule staminali 4

Cfr www.anl.gov.


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3. Origine e caratteristiche delle cellule staminali umane È comprensibile come la tecnologia delle cellule staminali, in particolare di quelle umane, abbia rivoluzionato la biologia moderna ed abbia fornito un nuovo modello per lo studio dei processi di differenziamento utile anche ai fini della comprensione delle anomalie dello sviluppo. Le nuove conoscenze biotecnologiche hanno quindi aperto la strada a diverse linee di ricerca grazie alla identificazione delle origini delle cellule staminali che, allo stato attuale, sembrano essere principalmente di quattro tipi: — embrionali — fetali — adulte — da cordone ombelicale

3.1. Cellule staminali embrionali umane La maggior parte dei dati sperimentali sulle cellule staminali embrionali (ES) che derivano dalla massa embrionale sono frutto delle ricerche eseguite sui topi5, il cui studio è iniziato da ben 20 anni. Le ricerche sull’uomo6 si muovono partendo dai risultati ottenuti sul topo e sono iniziate solo da cinque anni. Le cellule staminali embrionali sono preziose scientificamente poiché in esse si combinano tre proprietà che non ritroviamo in altre linee cellulari: a) possono vivere a lungo e riprodursi in gran numero senza andare incontro al processo dell’ invecchiamento e morte o a mutazioni geniche. In tal modo si possono considerare fonti preziose di cellule capaci di conservare nel tempo caratteristiche specifiche; b) sono cromosomicamente nella norma come dimostrato da una serie di tests genetici e dalla creazione di topi con patrimonio genetico interamente derivato dalle cellule staminali embrionali. Nei topi queste 5 Cfr A. SMITH, Embrionic stem cells, in D. R. MARSHAK, R. L. GARDNER, D. GOTTLIEB, Stem Cell Biology, New York 2001, 205-230. 6 Cfr M. LOEFFLER, C. S. POTTEN, Stem cells and cellular pedigrees- a conceptual introduction, in C. S. POTTEN, Stem Cells, London 1997, 1-27.


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cellule sono infatti totipotenti, quando si inseriscono in un altro embrione esse danno vita ad un topo normale, dato che hanno differenziato e creato ogni singola cellula del corpo del topo (tale proprietà conferisce a queste cellule il nome di “cellule staminali del corpo”); c) si possono differenziare, in determinate condizioni, in diversi tipi cellulari dando vita a neuroni, cellule del sangue, cellule cardiache e della muscolatura scheletrica. Un embrione normale possiede circa 100 cellule con le proprietà delle cellule staminali embrionali. Esse hanno un’emivita (durata della vita) di un giorno e si differenziano nelle diverse cellule del corpo. L’isolamento e la crescita di queste cellule permettono agli scienziati di ottenere milioni delle stesse, utili e preziose per la ricerca e lo studio delle cellule staminali7. 7 La cellula staminale per eccellenza è lo zigote. Esso deriva dalla fecondazione della cellula uovo da parte dello spermatozoo e dà vita, dividendosi dopo 24-30 ore, a due cellule figlie (blastomeri), che, a distanza di circa 10 ore, vanno incontro ad una ulteriore divisione. Le mitosi si succedono rapidamente, allo stadio di 8-16 blastomeri ci troviamo di fronte ad un insieme di cellule aggregate, i cui confini sono facilmente identificabili, la morula. Verso il terzo giorno si osserva un cambiamento morfologico sostanziale della morula: essa va soggetta alla “compattazione”. Lo strato più esterno è destinato a costituire il trofoblasto, il quale si impegnerà nella parete uterina e deve, quindi, essere dotato di compattezza. Il trofoblasto contribuirà a formare il corion e la placenta, mentre le cellule collocate all’interno formeranno sia l’embrione che tessuti extra-embrionali. Fino allo stadio di 8 cellule, ciascun elemento cellulare possiede una straordinaria peculiarità: è capace di dare inizio ad una nuova segmentazione e quindi produrre tutto ciò che serve al successivo sviluppo dell’individuo e cioè sia i tessuti embrionali sia quelli extra-embrionali (totipotenza del germe). La capacità di formare tutti i tessuti embrionali (totipotenza embrionale) viene conservata più a lungo dalla massa cellulare interna, allo stadio di blastocisti. Nel corso della seconda settimana, l’embrioblasto, cioè la massa cellulare interna della blastocisti, si organizza a formare i primi due foglietti embrionali: l’ectoderma e l’entoderma, fra i due strati si forma una membrana basale. Durante la terza settimana il disco germinativo bilaminare si trasforma in una struttura trilaminare mediante un processo di gestrulazione e cioè di invaginazione e trasferimento in profondità di cellule situate nelle pareti laterali e la formazione di un solco che compare tra il 15° ed il 17° giorno sulla superficie dell’ectoderma lungo la linea mediana, la linea primitiva, in tal modo tra l’ectoderma ed entoderma si forma il terzo foglietto embrionale, il mesoderma. La linea primitiva rappresenta l’asse di simmetria bilaterale dell’embrione, consente l’identificazione dell’asse cefalo-caudale, delle superfici dorsale e ventrale. Nella costituzione dei tre foglietti si verificano dei processi di crescita cellulare, producono un aumento della massa totale, successivamente si instaurano delle differenze citologiche, istologiche e funzionali tra


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L’attenzione pubblica e scientifica è stata enormemente sollecitata dalla produzione in vitro di cellule staminali embrionali umane e dalle potenzialità insite nella loro differenziazione, pertanto è importante sottolineare due aspetti essenziali: 1. La produzione delle cellule staminali embrionali necessita di embrioni umani prodotti in vitro o di quelli in sovrannumero ottenuti con i trattamenti di fecondazione in vitro effettuati nelle pratiche di riproduzione tecnicamente assistita (crioconservati o meno). Gli embrioni devono essere allo stadio di sviluppo di blastocisti (circa 60-120 cellule). Da queste cellule si effettua un prelievo — circa 30-40 cellule — che costituisce l’embrioblasto o massa cellulare interna (ICM). Tale operazione porta, ovviamente, all’arresto dello sviluppo embrionale e quindi alla distruzione dell’embrione. J. A. Thomson e i suoi collaboratori nel 1998 erano riusciti a preparare, al momento della pubblicazione del primo lavoro, cinque linee cellulari8. Questa scoperta ebbe, all’epoca, risvolti politici e commerciali9, che amplificati da esaltanti interventi dei mass media ha avviato una profonda riflessione ed un intenso dibattito tra scienziati e teologi. G. Keller e H. R. Snoddgrass, si sono così espressi: «È evidente che la tecnologia delle cellule staminali embrionali ha rivoluzionato la biologia moderna, ed offre opportunità uniche per comprendere i meccanismi che controllano processi biologici fondamentali. Lo sviluppo delle cellule staminali embrionali e germinali umane è una importante pietra miliare verso l’applicazione delle potenzialità di questa tecnologia al trattamento diretto delle malattie umane. […]. Saranno necessarie ulteriori significative ricerche per capitalizzare il potenziale terapeutico totale di queste cellule, ma le nuove terapie che si otterranno rendono più che giusto lo sforzo»10. i vari gruppi di cellule che conducono alla formazione dei diversi tessuti che entrano nell’architettura degli organi e dei sistemi. In sintesi si può affermare che lo sviluppo embrionale vede tre momenti: crescita, differenziamento e morfogenesi. 8 Cfr J. A. THOMSON – J. ITSKOVITZ-ELDOR – S. S. SHAPIRO , Embryonic stem cells, cit., 1146. 9 Cfr E. MARSHALL, The busuness of stem cells, in Science 287 (2000) 1419-1421. 10 G. KELLER, H. R. SNODGRASS, Human embryonic stem cells: the future is now, in Nature Medicine 5 (1999) 151-152.


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2. La differenziazione delle cellule staminali embrionali. Le cellule staminali embrionali sono riconosciute come popolazioni di cellule omogenee, indifferenziate e pluripotenti, la cui espansione può, in poche settimane, raggiungere l’ordine di 103 cellule senza che si manifesti alcun segno di differenziazione. Queste cellule si dovrebbero utilizzare per la preparazione di cellule differenziate desiderate, ossia di cellule dotate di determinate caratteristiche morfologiche e fisiologiche quali, ad esempio, cellule muscolari, nervose, epiteliali, ematiche e mesenchimatiche. Già J. A. Thomson11 e i suoi collaboratori, infatti, avevano notato che la inoculazione delle cellule staminali embrionali umane in topi immunodeficenti era seguita da sviluppo di teratomi (neoformazioni complesse avente origine da cellule indifferenziate). Inoltre la coltura in vitro, in adatti terreni, dava spontaneamente origine a cellule differenziate simili a quelle che deriverebbero, nello sviluppo normale, dai tre diversi foglietti embrionali: epitelio intestinale (dall’endoderma); cartilagine, osso, muscolo liscio e striato (dal mesoderma); ed epitelio neurale ed epitelio squamoso (dall’esoderma). Recentemente parziali ma promettenti risultati, relativi alle eventuali capacità terapeutiche di queste cellule si sono ottenuti in alcune mirate sperimentazioni precliniche, in generale sul topo, ne ricordiamo alcune: a) J. W. McDonald e collaboratori hanno dimostrato che cellule staminali embrionali di topo differenziate in cellule nervose se trapiantate nel midollo spinale di un ratto di nove giorni dopo un evento traumatico, a 2-5 settimane dall’impianto non solo sopravvivevano ma si differenziavano in astrociti, oligodendrociti e neuroni e migravano fino a 8 mm dalla lesione, esitando nell’animale un buon miglioramento posturale e del coordinamento dei movimenti12; b) B. Soria ha successivamente dimostrato che da cellule staminali embrionali, attraverso un processo a tre tappe che include l’espressione di un notevole numero di fattori di trascrizione e di fattori extracellulari, si possono ottenere cellule produttrici di insulina. Queste, trapiantate in topi 11 Cfr J. A. THOMSON – J. ITSKOVITZ-ELDOR – S. S. SHAPIRO , Embryonic stem cells, cit., 1147. 12 Cfr J. W. MCDONALD – X-Z LIU – YUN QU, Transplanted enbryonic stem cells survive, differentiate and promote recovery in injured rat spinal cord, in Nature Medicine 12 (1999) 1410-1412.


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diabetici, hanno normalizzato il livello di glucosio nel sangue e hanno permesso di curare il diabete per oltre un anno13; c) J. Hopkins ha recentemente dimostrato che ES possono crescere in laboratorio con l’aiuto di cellule speciali di tessuto adiposo che possono essere ottenute routinariamente. Questo vuol dire che si possono produrre nuove cellule umane senza utilizzare cellule di topo. Inoltre utilizzare cellule umane per supportare la crescita di ES potrebbe essere utile per comprendere molto presto i segnali che inducono cellule primitive a modificarsi14. Queste conoscenze hanno spianato il cammino ad ulteriori studi sulle cellule staminali embrionali umane. Tre anni dopo averle scoperte, lo stesso J. A. Thomson e i suoi collaboratori scrivono: «Le cellule staminali embrionali umane hanno un notevole potenziale proliferativo a lungo termine, offrendo la possibilità di una illimitata espansione in coltura. Inoltre esse possono differenziarsi nei diversi strati germinali embrionali quando sono trasferite in un ambiente in vivo. Stanno ora emergendo dati che dimostrano come le cellule staminali embrionali umane possano in vitro differenziarsi in diversi tipi cellulari. Pertanto è verosimile che le stesse offriranno un utile sistema di differenziazione in coltura per lo studio dei meccanismi che sottostanno ai molti aspetti dello sviluppo umano. Dato che esse possiedono la doppia capacità di proliferare indefinitamente e di differenziarsi in molteplici tipi di tessuto, potrebbero rappresentare una illimitata fonte di tessuti per trapianti umani nella cura di un notevole numero di malattie. Molti ostacoli, tuttavia, rimangono ancora sulla via verso una sperimentazione clinica affidabile»15.

Oggi, sempre più, è evidente la grande plasticità delle cellule staminali embrionali umane, nonostante sia ancora limitata la comprensione

13 Cfr B. SORIA, In-vitro differentiation of pancreatic beta-cells, in Differentiation 68 (2001) 205-219. 14 Cfr www.eurekalert.org. 15 J. S. ODORICO – D. S. KAUFMAN – J. A. THOMSON, Multilineage differentiation from human embryonic stem cell lines, in Stem Cells 19 (2001) 193-204.


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del controllo della loro crescita e della loro differenziazione, complicata spesso da notevole instabilità di origine epigenetica16. Alcune riflessioni di esperti del settore circoscrivono l’entusiasmo intorno alle cellule staminali embrionali umane nei limiti che la ricerca ha delineato. G. Vogel scrive: «Sebbene le cellule staminali embrionali siano note da più di due anni, il lavoro per ottenerle è stato lento e frustrante; in realtà, soltanto pochi ricercatori hanno pubblicato qualche risultato su di esse. Queste cellule, infatti, non solo sono esigenti per le loro condizioni di crescita, ma tendono anche a differenziarsi spontaneamente in una serie di tipi diversi da quello desiderato, se non sono sottoposte a condizioni altamente controllate»17.

Gli stessi ricercatori della Geron Co., che hanno sostenuto la ricerca per la produzione di cellule staminali e ottenuto la licenza esclusiva per il loro uso commerciale, pur dichiarando che linee cellulari derivate da una singola cellula staminale embrionale hanno continuato a replicarsi in coltura per 250 generazioni, riconoscono di essere lontani dal traguardo finale. La ricerca, infatti, molto da scoprire per quanto concerne i processi molecolari sottesi alle “prestazioni” delle cellule staminali18.

3.2. Cellule staminali fetali umane Le cellule staminali fetali derivano dalle cellule germinali primordiali presenti nel tessuto fetale durante le molteplici fasi dello sviluppo. Diversamente dagli studi sulle cellule staminali embrionali, gli esperimenti sulle cellule embrionali germinali sono limitati. Nel novembre del 1998 sono stati condotti alcuni studi ottenendo l’isolamento, la coltura e la parziale caratterizzazione di queste cellule provenienti dalle gonadi di un 16 Cfr D. HUMPHERIS – K. EGGAN – R. JAENISCH, Epigenetic instability in ES cells and cloned myce, in Science 293 (2001) 95-97. 17 G. VOGEL, The hottest stem cells are also the toughest, in Science 292 (2001) 429. 18 Cfr ID., Stem cell: New excitment, Persistent questions, in Science 290 (2000) 1674.


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tessuto umano ottenuto da un aborto19. Questi esperimenti mostrano che le cellule staminali fetali sono capaci di formare i tre foglietti embrionali che danno vita a tutti gli specifici organi del corpo. Si ritiene che le potenziali applicazioni delle cellule fetali siano relativamente più limitate rispetto a quelle delle cellule staminali embrionali, poiché le prime sono più avanzate nello sviluppo (5-9 settimane) rispetto alle seconde (5 giorni). Il tessuto fetale può, tuttavia, essere fonte dei precursori neuronali, anche se è discutibile l’uso e l’applicazione di prodotti cellulari da esso derivati. La vita di queste cellule in vivo non è ben conosciuta, occorrono numerose ricerche per evitare risultati non desiderati, come l’induzione di tumori o altri processi patologici20. Oggi, le cellule staminali fetali si ricavano da materiale abortivo (59 settimane), ad esse vengono riconosciute caratteristiche intermedie fra quelle embrionali e quelle adulte; sono, generalmente, pluripotenti e deputate all’accrescimento dei tessuti. Un numero ridotto di studi finora disponibili non consente di trarre conclusioni definitive sulle loro capacità di crescita, differenziamento ed integrazione funzionale nei vari tessuti21.

3.3. Cellule staminali adulte umane Dopo lo sviluppo post-embrionale attraverso i processi biologici naturali di ogni organismo, alcuni tessuti del corpo umano richiedono cellule staminali per il normale turnover ed il riparo di cellule danneggiate. Le cellule staminali, che si trovano in un tessuto già sviluppato, vengono definite cellule staminali adulte, alcuni ricercatori usano il termine cellule staminali somatiche.

19 Cfr M. J. SHAMBLOTT – J. AXELMAN – S. WANG – E. M. BUGG – J. W. DONOVAN, Derivation of pluripotent stem cells from cultured human primordial germ cells, in Proceeding of the National Academy of Sciences 95 (1998) 13726-13731. 20 Cfr Y. KATO – W. M. RIDEOUT – K. HILTON – S. C. BARTON – Y. TSUNODA, Developmental potential of mouse primordial germ cells, in Development 126 (1999) 1823-1832. 21 Cfr P. CARINCI – G. BAGNARA, Cellule staminali e rinnovamento tissutale, in Bioetica 11/1 (2003) 27-31.


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Le ricerche su queste cellule hanno recentemente generato molto clamore. Infatti sono state individuate cellule staminali adulte in molti più tessuti di quanto si pensasse. Questa scoperta ha spinto i ricercatori a domandarsi se queste cellule potessero essere usate o meno per i trapianti. La storia della ricerca sulle cellule staminali adulte ha avuto inizio 40 anni fa, quando, negli anni 60, le ricerche hanno condotto alla identificazione nel midollo osseo di due tipi diversi di cellule staminali: a) cellule staminali emapoietiche, che formano tutti i tipi di cellule del sangue; b) cellule stromali del midollo osseo (cellule staminali mesenchimatiche), importanti per il mantenimento fisiologico del midollo osseo, dei muscoli, delle cartilagini, del tessuto adiposo e di molti altri tessuti22, dato che sono capaci di differenziarsi in essi. Negli anni 90 fu dimostrato che un cervello adulto contiene cellule staminali che sono capaci di generare tre classi di cellule: astrociti, oligodendrociti, che non sono cellule neuronali, e cellule nervose. Quindi è stato provato che le cellule staminali adulte hanno la capacità di formare cellule specializzate di altri tessuti, proprietà che è conosciuta con il nome di transdifferenziazione o plasticità. In un animale vivente le cellule staminali adulte possono dividersi per un lungo periodo e dare vita a cellule mature che presentano una forma caratteristica, con strutture e funzioni specifiche di un particolare tessuto. Un gran numero di esperimenti in laboratorio hanno confermato che anche alcune cellule staminali adulte sono pluripotenti, cioè hanno la capacità di differenziarsi (plasticità) in molteplici tipi cellulari: — le cellule staminali ematopoietiche possono differenziarsi nelle tre maggiori categorie di cellule cerebrali (neuroni, oligodendrociti ed astrociti), nelle cellule del tessuto muscolare scheletrico, nelle cellule del muscolo cardiaco e nelle cellule epatiche; — le cellule stromali del midollo osseo si differenziano nelle cellule del miocardio e del tessuto muscolare scheletrico;

22 Cfr M. F. PITTENGER – A. M. MACKAY – S. C. BECK – R. K. JAISWAL – R. DOUGLAS – J. MOSCA, Multilineage potential of mesenchymal stem cells, in Science 284 (1999) 143-147.


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— le cellule staminali del cervello possono differenziarsi nelle cellule del sangue e del tessuto muscolare scheletrico. L’attuale ricerca è finalizzata a determinare i meccanismi che sottostanno alla plasticità delle cellule staminali adulte, infatti la conoscenza dei processi biochimici di tali sistemi permetterà ad un tessuto malato la ripopolazione delle cellule danneggiate ed il conseguente riparo dell’intero tessuto (figura 2).

Figura 2 – Plasticità delle cellule staminali adulte

Le cellule staminali adulte, almeno teoricamente, offrono l’opportunità di utilizzare ridotte quantità di tessuto per ottenere un’iniziale coltura di cellule di un malato necessaria per un impianto (questo è chiamato trapianto autologo). Questo processo eviterebbe ogni problematica etica o legale, ma soprattutto proteggerebbe il malato da infezioni virali e batteriche provenienti da altri individui. Non si possono escludere per importanza le cellule staminali ottenute da un donatore (cellule staminali adulte allogeniche), che, attraverso opportuni controlli e tests, possono essere comunque utilizzati. D’altro canto i trapianti autologi ed allogenici o eterologhi delle cellule staminali ematopoietiche, isolate con anticorpi selettivi dal midollo osseo, sono già dei metodi in uso in campo clinico.


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3.4. Cellule staminali da cordone ombelicale Il Sangue del Cordone Ombelicale (SCO), detto anche Sangue Placentare o Sangue Cordonale, considerato spesso materiale a perdere, raccolto subito dopo l’espulsione fetale dalla circolazione residua placentare, rappresenta oggi una nuova ed importante sorgente di cellule staminali ematopoietiche che, rispetto al midollo osseo, ha dimostrato possedere significativi vantaggi in termini di capacità proliferativa e reattività immunologica23. In questi ultimi anni è stata anche valutata nel SCO la presenza di cellule staminali mesenchimali che rappresentano dei precursori multipotenti capaci di differenziarsi in cellule non-ematopoietiche come gli osteoblasti, i condrociti, gli adipociti ed i mioblasti, e di agire come cellule di supporto nella differenziazione e crescita delle cellule staminali ematopoietiche24. Nel corso dell’ontogenesi (l’insieme dei fenomeni che portano allo sviluppo dell’embrione di un organismo, dalla cellula uovo all’individuo adulto) si assiste ad un’ordinata e prevedibile successione del processo dell’ematopoiesi in diversi organi (processo di formazione degli elementi cellulari del sangue: globuli rossi, globuli bianchi, piastrine). Nell’embrione umano, l’ematopoiesi ha inizio nel sacco vitellino intorno alla IV-V settimana di gestazione e passa al fegato e alla milza intorno alla VI-VII settimana. Questa funzione viene svolta gradualmente dal midollo osseo, in particolare da quello delle ossa piatte quali sterno, vertebre, coste e ali iliache, che rappresenta il tessuto predominante nel quale l’ematopoiesi continuerà per tutta la vita. Numerosi studi morfologici suggeriscono che lo spostamento della sede dell’ematopoiesi è conseguente alla migrazione di cellule staminali ematopoietiche da un organo all’altro attraverso il circolo ematico, ma non

23 Cfr S. G. EMERSON, Ex vivo expansion of hemapoietic precursor, progenitors and stem cells: the next generation of cellular therapeutics, in Blood 87 (1996) 3082. 24 Cfr A. ERICES – P. CONGET – J. MINGUELL, Mesenchimal progenitor cells in human umbilical cord blood, in British Journal of Haematology 109 (2000) 235-242.


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si esclude l’origine delle cellule staminali direttamente negli organi sede della ematopoiesi25. I dati della letteratura dimostrano che sino ad oggi sono stati effettuati più di 1800 trapianti e i pazienti che hanno ricevuto le cellule staminali ematopoietiche dal sangue placentare hanno una sopravvivenza, dopo due anni, superiore al 65%. Questo è un dato importante perché, nella maggioranza dei casi, questi pazienti, non avendo un donatore compatibile, erano destinati ad esiti infausti. Oggi, il limite principale per l’applicabilità su larga scala del trapianto di sangue cordonale è rappresentato dalla ridotta quantità di quest’ultimo ottenibile con un solo prelievo (in media 80 ml) e dal ridotto numero di cellule staminali presenti in ogni sua unità. Questo comporta che, per ripristinare l’emopoiesi, la possibilità di trapianto riguarda esclusivamente pazienti pediatrici o comunque individui con un peso corporeo non superiore ai 50 Kg. Notevole impegno viene profuso per la messa a punto di tecniche che consentano di ottenere da un piccolo numero di cellule staminali una adeguata quantità di progenitori, senza compromettere la capacità di differenziazione e di autoreplicazione proprie di tali cellule. Le suddette tecniche consistono in una serie di manipolazioni ex-vivo cui viene sottoposta una parte dell’unità di sangue placentare da trapiantare. La possibilità di utilizzare il sangue placentare ha permesso la nascita di appositi centri in ogni parte del mondo denominati Banche del Sangue del Cordone Ombelicale.

4. Le applicazioni terapeutiche delle cellule staminali L’impatto socio-sanitario, psicologico ed economico, che soggiace in tutte quelle malattie acute, croniche e degenerative che debilitano l’uomo, è talmente forte da rendere accesa la ricerca scientifica. Le scoperte inerenti le cellule staminali hanno aperto diverse linee di studio, che 25 Cfr M. TASSAVOLI, Embryonic and fetal hemopoiesis: an overview, in Blood Cells 1 (1991) 269-281.


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consentono la possibilità di applicare tali cellule in campo clinico per curare alcune malattie spesso intrattabili attraverso le terapie di uso corrente. Si possono considerare due vie di applicazione terapeutica delle cellule staminali, che sono indicate schematicamente nella figura 3: — Tecnica del trasferimento nucleare Consiste nel fare un prelievo di una parte del tessuto di un paziente e, attraverso un trasferimento nucleare, riprogrammare una cellula adulta in un embrione che viene utilizzato per ottenere le cellule staminali embrionali. Le cellule staminali ottenute con questa tecnica presentano lo stesso patrimonio genetico del paziente, se la causa di una malattia è localizzata a livello genetico è possibile correggere il difetto nelle cellule staminali prima che queste vengano reinserite nell’organismo del paziente. — Differenziazione di un tipo di stem cells in un altro In questo caso un tipo di cellule staminali isolato potrebbe essere riprogrammato in un altro tipo affinché questo si utilizzi per curare una determinata patologia. Nella figura 3 si fa anche l’esempio delle cellule staminali del sangue che potrebbero essere differenziate in cellule nervose specifiche per la cura del morbo di Parkinson. Diverse sono le patologie che possono essere curate ricorrendo alle cellule staminali: il diabete, le malattie del sistema nervoso centrale (morbo di Parkinson), le malattie dell’immunodeficienza primaria, delle ossa e delle cartilagini, il cancro, le malattie cardiache.

Figura 3 – Possibili vie di applicazione delle cellule staminali


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4.1. I trapianti di cellule staminali: stato dell’arte Le cellule staminali pluripotenti potrebbero essere utilizzate per creare un illimitato approvvigionamento di cellule, tessuti o parti di organi che potrebbero essere usati per restaurare funzioni senza l’utilizzo di immunosoppressori tossici e senza considerare i problemi di istocompatibilità (il rigetto). Quindi cellule di questo tipo potrebbero essere adatte per donazioni “universali”, data la loro versatilità e capacità nel differenziarsi. Tra i diversi tipi di cellule staminali quelle ematopoietiche hanno un maggiore impatto sulla sicurezza, sul costo e sulla disponibilità per il trapianto. Inoltre l’attuale utilizzo di queste cellule estratte dallo stesso paziente permette un miglioramento delle malattie autoimmuni. Jon Odorico e collaboratori hanno dimostrato che le linee cellulari derivate dalle cellule embrionali sono meno sensibili alla reazione immunitaria rispetto a quelle delle cellule adulte: un dato importante per la scelta selettiva di cellule staminali da utilizzare per il trapianto26. Comunque le cellule staminali ematopoietiche, sia da sangue del cordone ombelicale sia da midollo osseo, possiedono una potenzialità limitata rispetto alle cellule staminali embrionali pluripotenti, essendo presenti in culture differenziate sia da cellule staminali embrionali che fetali27. Uno dei rischi che riguarda l’utilizzo di cellule staminali ematopoietiche provenienti da un donatore è la reazione immunitaria delle cellule trapiantate, qualora queste non fossero riconosciute dall’organismo. Tale rischio è di gran lunga ridotto quando si utilizzano cellule staminali embrionali.

26

Cfr J. S. ODORICO – D. S. KAUFMAN – J. A. THOMSON, Embryonic stem cells,

cit., 200. 27 Cfr M. J. SHAMBLOTT – J. AXELMAN – J. W. LITTLEFIELD – P. D. BLUMENTHAL – G. R. HUGGINS – Y. CUI – L. CHENG – J. D. GEARHART, Human embryonic germ cell derivatives express a broad range of developmentally distinct markers and proliferate extensively in vitro, in Proceeding of the National Academy of Sciences 98 (2000) 113-118.


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La sfida è infatti alta; basti pensare alla possibilità di trapiantare cellule staminali ematopoietiche per curare la sclerosi multipla. Recenti dati affermano questa possibilità28. Questi dati sperimentali fanno comunque intravedere nuove opportunità per le strategie di rimielinizzazione al fine di avviare una seria lotta alla sclerosi multipla. Un’altra importante scoperta è stata fatta per le patologie vascolari con uno studio condotto su un paziente affetto da un’arterosclerosi obliterante periferica con cui è stato dimostrato che il trapianto autologo di cellule staminali del sangue ha migliorato il flusso sanguigno ed ha ridotto le ulcere presenti29. L’isolamento e lo studio delle cellule staminali ha diversi vantaggi. Vale la pena citare che sin dal 1994 è iniziato lo studio per esaminare i difetti della spermatogenesi (processo di formazione degli spermatozoi) e comprendere i meccanismi che portano all’infertilità maschile, trapiantando cellule di testicolo di topo. Le cellule staminali spermatogoniali sono le sole cellule in un animale che presentano la capacità di auto-rigenerarsi per tutte la vita e trasmettono i geni alle generazioni successive. Inoltre, la possibilità di crioconservare, mettere in coltura, trapiantare queste cellule rappresenta un valido sistema per studiare la biologia delle cellule staminali30. Il trapianto di cellule staminali ha mostrato la sua efficacia anche nella malattia di Crohn, che in genere ha bisogno di un trattamento con corticosteroidi ed antibiotici. È stato dimostrato che il trattamento con chemioterapici unito con il trapianto autologo di cellule staminali del sangue porta ad ottimi risultati esitando minimi segni di infiammazione in un paziente ormai asintomatico31. 28

Cfr J. S. ODORICO – D. S. KAUFMAN – J. A. THOMSON, Embryonic stem cells,

cit., 203. 29 Cfr P. P. HUANG – S. Z. LI – M. Z. HAN – Z. J. XIAO – R. C. YANG – L. G. QIU, Transplantion of autologous peripheral blood stem cells for the treatment of lower limb arteriosclerosis obliterans, in Zhonghua Xue Ye Xue Za Zhi 24 (2003) 308-311. 30 Cfr R. L. BRINSTER, Germline stem cell transplantatio and transgenesis, in Science 296 (2002) 2174-75. 31 Cfr W. KREISEL – K. POTTHOFF – H. BERTZ – A. SCHMITT–GRAEFF – G. RUF – J. FINKE, Complete remission of Crohn’s disease after high-dose cyclophosphamide and autologous stem cell transplantation, in Bone Marrow Transplantion 32 (2003) 337-340.


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Il trapianto di cellule staminali è quindi considerato come il trattamento elettivo per diverse malattie dalla prognosi ineluttabilmente fatale e viene eseguito con il concetto assoluto di Restitutio ad Integrum.

4.2. La medicina alternativa Possiamo aggiungere qualche informazione su quanto, anche sulle cellule staminali, viene detto dai sostenitori della cosidetta “medicina alternativa”. In questo ultimo anno i bioinformatici della medicina complementare e alternativa estendono la genomica iniziata da Watson e Crick 50 anni or sono, sino ad arrivare alle nuove discipline della genomica psicosociale e culturale. Numerosi ed avvalorati dati sperimentali hanno dimostrato che ogni tipo di stress, biotico o abiotico, induce una modulazione dell’espressione genica in una data cellula e quindi modifica la formazione di proteine e la funzione fisiologica32. Partendo da tali dati alcuni ricercatori hanno dimostrato che anche l’esperienza psicologica ha la sua influenza sull’espressione genica33. I messaggeri molecolari generati dallo stress, i danni biologici e la malattia sono fattori che possono attivare alcuni geni anche nelle cellule staminali, così che in queste vengono sintetizzate proteine che differenziano le cellule staminali in un tessuto ben preciso. La terapia ottenuta dalle arricchenti esperienze della vita, durante momenti creativi che riguardano l’arte, la musica, la danza, la letteratura, la poesia e la spiritualità così come le diverse fasi della vita (la nascita, la pubertà, il matrimonio, la malattia, la salute e la morte), sembra che possano ottimizzare la coscienza, le relazioni interpersonali e giungere perfino a permettere la guarigione da una malattia34.

32

Cfr M. RENIS – V. CARDILE – S. GRASSO – M. PALUMBO – C. SCIFO, Switching off HSP70 and iNOS to study their role in normal and H O stressed human fibroblasts, in Life Science (2003), accettato per la pubblicazione. 33 Cfr E. ROSSI, The bioinformatics of psychosocial genomics in alternative and complementary medicine, in Forsch komplementarmed Klass Naturheilkd 10 (2003) 143-150. 34 Ibid., 148.


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La ricerca sulle cellule staminali è veramente interessante, ma la loro sperimentazione è largamente indirizzata all’uso delle cellule embrionali, che promettono grandi vantaggi e grandi benefici per la salute.

II. IL DIBATTITO ETICO SULLE CELLULE STAMINALI E LE INDICAZIONI DELL’ETICA CRISTIANA

Quando pensiamo alle scienze e alle grandi conquiste biotecnologiche la prima reazione non può essere che di meraviglia e ammirazione per le capacità che l’uomo possiede nello scrutare la natura ed i meccanismi che la regolano. Si può affermare che le conoscenze scientifiche mostrano la grandezza di Dio, manifestata in ogni singola creatura, e dell’uomo, della sua intelligenza e trascendenza rispetto al mondo circostante. Gli permette di aprire nuove strade alla ricerca e di vedere lontano, oltre quei limiti che la malattia e la sofferenza determinano nell’esistenza di ciascuno. La scienza, arricchita da nuovi esperimenti e applicazioni tecnologiche, ha apportato nel tempo sempre maggiori cambiamenti nella vita degli uomini ed ha permesso di acquisire nuove conoscenze ed invenzioni. La scoperta dello straordinario potenziale terapeutico che, come abbiamo visto, appartiene alle cellule staminali è frutto di un’intensa ricerca scientifica nel campo della genetica e della biologia molecolare. Queste conoscenze e l’uso che ne possiamo fare ci pongono, però, un numero rilevante di problemi etici. Infatti le motivazioni che alimentano il progresso scientifico, lo sviluppo economico, le aspettative di salute non possono prevaricare sul riconoscimento di tutelare la dignità dell’essere umano in qualunque situazione esistenziale si trovi.

1. Il dibattito etico-giuridico La ricerca sulle cellule staminali ha determinato un acceso dibattito sia scientifico che etico-giuridico in cui i termini della questione riguardano


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quasi esclusivamente l’utilizzo degli embrioni umani come fonte delle cellule staminali per un fine terapeutico che comunque è largamente condiviso. L’attenzione posta sulla produzione e l’utilizzo delle cellule staminali è stata oggetto sia della comunità scientifica che politica, ne sono testimonianza i diversi documenti pubblicati nel nostro paese e all’estero che rendono noto lo sforzo degli studiosi di razionalizzare l’entusiasmo che desta lo straordinario potenziale terapeutico di queste cellule. Questo dibattito ha assunto un’importanza notevole dopo la pubblicazione di un articolo in cui venivano riportati i risultati di due linee di sperimentazione che si riferivano alla produzione di embrioni umani attraverso la tecnica del trasferimento nucleare e mediante partenogenesi35. Gli embrioni ottenuti sono stati distrutti precocemente rispetto al tempo richiesto per il raggiungimento dello stadio di blastociste con 150 cellule, per cui non si sono ottenuti i risultati desiderati. Tutti abbiamo il diritto di sognare e di sperare in un futuro migliore, ma i sogni devono essere rispettosi della realtà. Infatti la questione riguarda il rapporto rischio/beneficio sulla vita di un embrione, per cui i sogni devono acquistare il peso dovuto senza superare i limiti del reale. Di solito si corre il pericolo di andare incontro ad un ragionamento comune per il quale più i rischi vengono minimizzati, più si esaltano i benefici, più è necessario armarsi di prudenza e di rigore intellettuale per esaminare con oggettività l’intera problematica. Occorre puntualizzare che gli embrioni utilizzati come fonte di cellule staminali vengono prodotti in vitro o perché finalizzati alla riproduzione, in tal modo si sperimenta su embrioni in eccesso o “soprannumerari”, oppure solo per la ricerca. Si tratta di una distinzione importante dato che in molti documenti si approva un uso a discapito dell’altro. A tale riguardo ci sembra appropriato riproporre le speranze e le promesse di alcuni testi che hanno segnato, in modo particolare, l’attuale dibattito giuridico sulla sperimentazione con le cellule staminali36. 35 Cfr J. B. CIBELLI – A. A. KIESSLING – K. CUNNIFF, Somatic cell nuclear transfer in human: pronuslear and early embryonic development, in The Journal of Regenerative Medicine 2 (2001) 25-31. 36 Cfr M. L. DI PIETRO – M. CASINI, Riflessione etico-giuridica sulla produzione e sull’utilizzo delle cellule staminali: un’analisi alla luce dei documenti nazionali e interna-


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Sotto le forti pressioni di scienziati, medici ed opinione pubblica, in Gran Bretagna si istituì nel 1999 la Commissione Donaldson per esaminare se fosse possibile creare nuove aree di ricerca che riguardano gli embrioni umani, capaci di condurre a più ampie conoscenze su tessuti o organi malati. Si approvò nel gennaio del 2001 un documento che acconsentì all’utilizzo di embrioni sia “soprannumerari” sia prodotti appositamente come fonte delle cellule staminali. Si aprì, ancora di più, la strada all’utilizzo dell’embrione come strumento tecnologico. La statunitense National Bioethics Advisory Commission vietò nel 1999 la creazione di embrioni al solo scopo di ricerca e con questa disposizione negò l’impiego di fondi federali a tale fine, ma il divieto non riguardava l’utilizzo di embrioni residui da altre tecniche, per cui la sperimentazione avente come fonte cellule embrionali continuò imperterrita. Il quest’ultimo documento fa emergere un ampio consenso tra gli scienziati che propongono di usare le cellule staminali embrionali per produrre tessuti specializzati e per capire i misteri dello sviluppo embrionale. Nell’attuale dibattito pubblico italiano ha destato particolare interesse la riflessione del Comitato nazionale per la Bioetica, ed in particolare la “Commissione Dulbecco”. Nel settembre del 2000 fu istituita dal Ministro della Sanità Umberto Veronesi una Commissione ministeriale per lo studio dell’utilizzazione delle cellule staminali, fu designato come presidente il prof. Dulbecco. L’analisi delle diverse argomentazioni ci porta a puntualizzare come in realtà la stessa Commissione ministeriale non voglia mettere in discussione il principio generale della libertà della ricerca scientifica, ma la valutazione etica riguarda le finalità e le metodologie di derivazione delle cellule staminali. Infatti le finalità della ricerca e della sperimentazione sulle cellule staminali coincidono con i fini fondamentali della medicina, cioè guarire gli esseri umani nel modo più efficace possibile, ne consegue che mentre le finalità non sono oggetto di disaccordo morale, le metodologie di derivazione delle cellule staminali aprono la strada a parecchie controversie etiche. zionali, in M. L. DI PIETRO – E. SGRECCIA, Biotecnologie e futuro dell’uomo, Milano 2003, 109-147.


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Si ribadisce come dal punto di vista etico la distinzione tra cellule staminali tissutali o adulte e cellule staminali embrionali sia rilevante. Il prelievo di materiale biologico da adulto non comporta alcun rischio per l’integrità fisica e la vita del donatore, rimarrebbe solamente l’esigenza di valutare ogni singolo protocollo di ricerca per garantire la correttezza sotto il profilo metodologico, etico e giuridico. La questione riguarda il prelievo delle cellule embrionali per lo studio delle cellule staminali, dato che questo atto determina un danno per il donatore, l’embrione umano. In particolare per quegli embrioni non impiantati in utero, prodotti appositamente per uso sperimentale oppure in soprannumero dalla tecnica di procreazione assistita. In questi casi si crea un “malessere” etico, sociale e giuridico di non facile soluzione, che abbraccia problematiche di diversa natura anche se la radice del problema rimane sempre il valore da dare all’embrione umano. La società moderna, democratica e pluralista, porta avanti un principio largamente condiviso per il quale tra i componenti della specie umana non ci sono soggetti di prima e di seconda categoria, per cui i diritti fondamentali dell’uomo appartengono a tutti e per tutto l’arco della vita. La risposta alla questione della liceità della manipolazione di embrioni umani per lo studio delle cellule staminali e quindi per le sperimentazioni scientifiche cambia secondo i principi che vengono proposti nel dibattito e che in realtà muovono le fila di tutta la trattazione etica. Infatti la Commissione ministeriale puntando sull’aspetto filosoficoantropologico si muove su due affermazioni fondamentali37: — l’embrione è un essere umano con potenzialità di sviluppo (e non un essere umano potenziale); — l’embrione come essere umano ha diritto alla vita. In questa prospettiva antropologica, il legame tra embrione e persona deve essere letto nell’economia di un processo unitario, dinamico e continuo che appartiene a ciascuno di noi sin dalle prime fasi del concepimento, per cui il rispetto che va portato alla persona umana riguarda tutte le fasi della vita dell’uomo. Le argomentazioni a favore della sperimenta37 Cfr A. BOMPIANI, Il dibattito in bioetica II. I lavori della Commissione ministeriale per lo studio della utilizzazione delle cellule staminali, in Medicina e Morale 2 (2001) 299-339: 324.


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zione degli embrioni “soprannumerari” sono diverse: alcuni pensano che il sacrificio di questi embrioni sia proporzionato ai vantaggi sperati, così come la loro utilizzazione viene considerata un male minore rispetto alla loro distruzione ed inoltre si considera come la giusta soluzione al conflitto tra il diritto alla vita di questo embrione e il diritto del malato a essere curato. Si può parlare di un’altra “etica” che vede la questione delle cellule embrionali sotto l’aspetto tecnico-strumentale e non più antropologico, per cui l’embrione non viene considerato come soggetto umano ed è finalizzato a chi viene riconosciuto come tale. Le argomentazioni che proibiscono moralmente di creare embrioni per la sperimentazione, valgono anche per la proibizione dell’utilizzo di quelli già esistenti, ai quali però potrebbe essere quanto meno offerta la possibilità di un’adozione. È interessante notare gli aspetti etici inerenti alle cellule staminali che sono esposti nel Rapporto Dulbecco38, che dimostrano come sia inscindibile la considerazione etica dagli aspetti tecnico-scientifici. Si possono considerare esenti da problematiche etiche: — l’uso delle cellule staminali adulte e da cordone ombelicale, sotto il consenso informato del donatore ed in modo che la sua salute non ne venga sottomessa; — l’uso di cellule staminali da materiale abortivo; — l’uso di cellule staminali da trasferimento nucleare, che vengono ottenute mediante le tecniche di ingegneria genetica per trasferimento di nuclei di cellule somatiche in citoplasmi artificiali umani o animali, purché non comporti lo sviluppo di embrioni umani. Il dibattito è ancora aperto per l’uso degli embrioni “soprannumerari”, includendo il problema degli embrioni congelati, di quelli non congelati ma non impiantati e di quelli che non vengono valutati idonei per l’impianto per motivi morfologici o di integrità.

38

Ibid., 332.


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2. La posizione della Chiesa cattolica La Chiesa cattolica ha espresso la sua posizione rispetto alla sperimentazione sulle cellule staminali embrionali (ES) umane attraverso una dichiarazione della Pontificia Accademia per la Vita, pubblicata il 25 agosto 2000, dal titolo Dichiarazione sulla produzione e sull’uso scientifico e terapeutico delle cellule staminali embrionali umane39. Questo documento si inserisce nel dibattito etico inerente alle cellule staminali embrionali, portando un contributo che vuole chiarire i termini scientifici e morali sulla loro applicazione e sperimentazione. Infatti la prima parte sviluppa gli aspetti scientifici e le potenzialità terapeutiche, nella seconda parte affronta i problemi etici dando risposta ai quesiti emersi dalle nuove tecnologie e mettendo in evidenza i punti fondamentali che ledono la dignità ed i diritti del soggetto umano. Si vuole dare una risposta a tutti quegli scienziati che percorrono le vie della ricerca sulle cellule staminali a partire dalle cellule embrionali: la loro manipolazione e conseguente distruzione indica che tali studiosi negano la verità oggettiva dell’embrione umano, poiché lo considerano solo uno strumento sotto i bisturi della sperimentazione. L’embrione, non essendo valutato come un soggetto umano, viene considerato un individuo in fieri, il cui valore è inferiore al bene che il suo utilizzo potrebbe determinare per la ricerca. Inoltre sono molti i ricercatori che fanno uso di ES ottenuti da produttori industriali, che negano o considerano irrilevante la stretta e diretta correlazione tra le cellule staminali e la loro origine. La Pontificia Accademia per la Vita dichiara moralmente illecito: la produzione e/o l’utilizzo di embrioni umani viventi per la preparazione di ES; l’esecuzione della tecnica, denominata “clonazione terapeutica”, attraverso cui, con la produzione di embrioni umani e la loro successiva distruzione, si ottengono le ES; l’utilizzo di ES fornite da altri ricercatori o reperibili in commercio.

39 Cfr PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA, Dichiarazione sulla produzione e l’uso scientifico e terapeutico delle cellule staminali embrionali, in L’Osservatore Romano, 25 agosto 2000, 6.


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Le motivazioni etico-antropologiche che stanno alla base di questo documento sono diverse. Si parte dal presupposto, attraverso una completa analisi biologica e filosofico-antropologica, che: «[…] l’embrione umano vivente è, a partire dalla fusione dei gameti, un soggetto umano con una sua definita identità, il quale incomincia da quel punto il suo proprio coordinato, continuo e graduale sviluppo, tale che in nessun stadio ulteriore può essere considerato come un semplice accumulo di cellule»40.

Ne consegue che l’embrione umano come “individuo” «ha diritto alla sua propria vita; e, perciò, ogni intervento che non sia a favore dello stesso embrione, si costituisce come atto lesivo di tale diritto»41.

Ogni tipo di manipolazione al blastociste, come di solito avviene per le cellule staminali, che inevitabilmente interrompe lo sviluppo dell’embrione, «è un atto gravemente illecito»42. Si ribadisce il concetto che un fine buono non rende buona un’azione in se stessa cattiva. Infatti utilizzare le cellule staminali per fini terapeutici è un atto lodevole, ma percorrere la via delle cellule embrionali come fonte per il loro ottenimento è una pratica considerata illecita. Il Magistero della Chiesa insegna che «L’essere umano va rispettato e trattato come una persona sin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita»43.

40

PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA, Dichiarazione sulla produzione e l’uso scientifico e terapeutico delle cellule staminali embrionali, cit., l.c. 41 L. c. 42 L. c. 43 GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica sul valore e l’inviolabilità della vita umana Evangelium Vitae, 60.


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Non si tratta di limiti che la Chiesa cattolica impone per ostacolare lo sviluppo scientifico, bensì è un intervento «[…] ispirato all’amore che essa deve all’uomo aiutandolo a riconoscere e rispettare i suoi diritti e i suoi doveri»44.

Giovanni Paolo II richiama, in un discorso rivolto alla Pontificia Accademia per la Vita, l’attenzione sull’impegno degli scienziati nella ricerca biomedica e sulla collaborazione che spesso si è instaurata con il Magistero per la risoluzione di problemi etici delicati45. In questa occasione sottolinea: «Rinnovo un sentito appello affinché la ricerca scientifica e biomedica, evitando ogni tentazione di manipolazione dell’uomo, si dedichi ad esplorare vie e risorse per il sostegno della vita umana […] la Chiesa ricorda che non solo gli scopi, ma anche i metodi e i mezzi della ricerca devono essere sempre rispettosi della dignità di ogni essere umano in qualsiasi stadio del suo sviluppo e in ogni fase della sperimentazione»46.

La Chiesa, attraverso gli occhi della fede e della ragione, vuole illuminare il lavoro dell’uomo in cui facilmente si superano i limiti invalicabili, oltre i quali viene lesa la dignità umana. Giovanni Paolo II in un suo intervento al “Congresso Internazionale sui Trapianti” afferma che nella ricerca biotecnologica ci sono alcuni punti critici che richiedono di essere esaminati nella prospettiva di una valutazione etica che trova il suo fondamento nella difesa e promozione del bene della persona umana secondo la sua peculiare dignità47.

44 CONGREGAZIOINE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione su il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione Donum Vitae, Introduzione. 45 Cfr GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti alla IX Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita, in L’Osservatore Romano, 24-25 febbraio 2003, 5. 46 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti alla IX Assemblea, cit., l. c. 47 Cfr GIOVANNI PAOLO II, Discorso al XVIII Congresso Internazionale sui Trapianti, in L’Osservatore Romano, 30 agosto 2000, 4.


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Il papa, richiamando l’attenzione sull’uso delle cellule staminali, continua: «Occorrerà evitare quei sentieri che non rispettano la dignità ed il valore della persona; penso a progetti e tentativi […] che implicano la manipolazione e la distruzione degli embrioni umani, non sono moralmente accettabili, neanche se finalizzati ad un fine a sé buono. La scienza lascia intravedere altre vie di intervento terapeutico, bastando a tale scopo l’utilizzazione di cellule staminali adulte. Su questa strada dovrà avanzare la ricerca, se vuole essere rispettosa della dignità di ogni essere umano anche allo stadio embrionale»48.

La Pontificia Accademia per la Vita, dopo un’attenta analisi scientifica, propone un’alternativa che la stessa ricerca sta approfondendo: la possibilità di utilizzare cellule adulte prelevate da un individuo già sviluppato senza la necessità di distruggere gli embrioni. Si tratta di fare una scelta operativa: focalizzare tutte le potenzialità economiche e tecniche verso quella fonte di cellule staminali che non determina problemi etici e trova il favore di molti scienziati. La Pontificia Accademia per la Vita saluta la fonte di cellule staminali da tessuto adulto come «[…] la via più ragionevole ed umana da percorrere per un corretto e valido progresso in questo nuovo campo che si apre alla ricerca e a promettenti applicazioni terapeutiche»49.

Si fa appello alla ragione dell’uomo, alle sue capacità di discernimento e quindi di decisione, a colui che riflette su se stesso e sulle sue azioni, esprimendone le proprie responsabilità50. L’uomo è chiamato ad essere responsabile delle proprie opere, non secondo le leggi del guadagno e dell’egoismo ma secondo la legge 48

GIOVANNI PAOLO II, Discorso al XVIII Congresso, cit., 6. PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA, Dichiarazione sulla produzione e l’uso scientifico e terapeutico delle cellule staminali embrionali, cit., 5. 50 Cfr A. SERRA, L’uomo-embrione il grande misconosciuto, Siena 2003, 104. 49


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cristiana dell’amore che lo spinge verso il bene e lo rende abile a rispondere (responsabile). Il principio della responsabilità richiama a ciascuno il dovere di tutelare tutti coloro che dipendono dalle nostre azioni. Si tratta di uno dei passaggi fondamentali della sfera dei diritti e dei doveri morali di ogni essere umano: il bisogno di avere cura dell’altro. Nelle biotecnologie risulta evidente questa profonda trasformazione e dilatazione delle capacità di dominio sulla realtà, che possono essere sempre meglio asservite agli interessi e alle esigenze dell’uomo. Con la prassi di procreazione extracorporea, con il diffondersi delle tecniche dei trapianti di organi, tessuti, cellule, con la possibilità di produrre animali transgenici e di modificare geneticamente ed in modo irreversibile sia le piante che gli animali (e, quindi, potenzialmente anche l’uomo), inizia il processo di arbitrarietà più radicale che interessa i vincoli biologici, i vincoli della specie, i vincoli del rapporto natura-ambiente. Infatti oggi si parla di un imperativo tecnologico per il quale ogni scoperta scientifica deve essere necessariamente applicata e realizzata tecnicamente per un beneficio economico; ciascun scienziato, in funzione dei dati acquisiti dalla ricerca biotecnologica, potenzialmente può realizzare un esperimento in laboratorio ma ciò non significa che lo debba realizzare ad ogni costo. Il Magistero in un suo intervento sulla dignità della procreazione afferma: «Ciò che è tecnicamente possibile, non è per ciò stesso moralmente ammissibile»51.

Occorre seguire dei criteri di responsabilità che permettano alle biotecnologie di essere espressione autentica della ragione. Viste le possibili applicazioni terapeutiche per curare o migliorare la salute dell’uomo, diventa un obbligo morale favorire tutte quelle ricerche dirette a realizzare tali trattamenti senza ledere i valori fondamentali della vita. Siamo dinanzi ad una delle più alte espressioni dell’intelligenza umana: scrutare la natura per scoprire il patrimonio biologico che Dio ha 51

CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione, cit., 4.


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donato all’essere umano e dal quale possiamo ricavare i mezzi per arginare le patologie organiche. L’unica via percorribile, moralmente lecita per un cattolico, resta quella di utilizzare le cellule multipotenti contenute nel sangue del cordone ombelicale, nei tessuti dell’adulto o nei tessuti embriofetali derivati da aborti. È veramente una via alternativa alle cellule staminali embrionali?

3. Il dibattito sulle cellule staminali da tessuto adulto La letteratura scientifica internazionale presenta un elenco di studi sulle cellule staminali adulte che mostrano, con sempre maggiore ricchezza di evidenze sperimentali, la plasticità intra-germinale di queste cellule (la pluripotenzialità differenziativa verso linee cellulari dello stesso foglietto germinale), la loro insospettata capacità di transdifferenziazione intergerminale (la derivazione di linee cellulari appartenenti a foglietti germinali diversi), la possibilità di coltivarle in vitro e in vivo, di modificarle geneticamente (inserimento di un gene mediante vettore virale) e la loro disposizione ad innestarsi nei tessuti danneggiati di un organo. La trattazione scientifica su tale argomento è largamente sviluppata nella prima parte di questo lavoro, ne vogliamo solamente riprendere alcuni aspetti, riportando gli interventi di alcuni ricercatori, pubblicati nelle riviste scientifiche più affermate. La scelta di cellule adulte per la ricerca delle cellule staminali appare scientificamente valida e competitiva, per molti studiosi ma non per tutti, sia dal punto di vista clinico che sperimentale. In tal modo si avvalora sia la posizione di Giovanni Paolo II, quando afferma che la ricerca deve avanzare su queste vie se vuole essere rispettosa della dignità di ogni essere umano52, sia la linea indicata dalla Pontificia Accademia per la Vita nella Dichiarazione sull’uso e la produzione delle cellule staminali umane. La competitività delle cellule staminali da tessuto adulto rispetto a quelle embrionali è espressa in molti lavori, che mostrano come le cellule staminali mesenchimali umane, isolate dal midollo osseo di adulti e già 52 Cfr GIOVANNI PAOLO Trapianti, cit., 5.

II ,

Discorso al

XVIII

Congresso Internazionale sui


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caratterizzate come capaci di differenziarsi in vitro e in vivo a dare vari tessuti, sono in grado di innestarsi in diverse sedi dell’organismo e di andare incontro a differenziazioni sito-specifiche53. Molti ricercatori salutano con soddisfacente ottimismo le cellule staminali adulte. A. I. Vescovi, esperto delle cellule staminali, sostiene che: «L’uso di cellule staminali nervose adulte nei trapianti può virtualmente eliminare la necessità di usare tessuti fetali primari. Eventualmente, potranno essere usate cellule staminali embrionali in altre aree. Ma, per quanto riguarda il cervello, questo non è il caso. Come scienziato, io non vedo la necessità a questo punto, di ricorrere a cellule staminali embrionali per terapie di trapianto in disordini neurologici»54.

M. Antoniou, uno studioso impegnato al Guy’s Hospital di Londra, contesto in cui la Commissione Donaldson ha liberalizzato la ricerca sulle cellule staminali embrionali, afferma con chiara enfasi: «Nonostante il voto del Governo favorevole alla concessione della ricerca sulle cellule staminali embrionali e sulla clonazione terapeutica, il dibattito e le obiezioni sono prevalenti qui come in quelle nazioni che sono ancora indecise su quali vie prendere»55.

Il dibattito pubblico risulta acceso perché spesso non si conoscono i termini della questione o si vogliono veicolare i dati acquisiti per fini economici, infatti si gioca molto sui termini (pre-embrione, materiale biologico) per calmare la preoccupazione dell’opinione pubblica, per dare delle apparenti sicurezze frutto più di uno stratagemma semantico che di un dibattito responsabile. 53 K. W. LIECHTY, Human mesenchymal stem cells engraft and demonstrate sitespecific differentation after in utero transplantation in sheep, in Nature Medicine 6 (2000) 1282-1286. 54 A. I. VESCOVI, Neural stem cells, in G. MIRANDA, The Stem Cell Dilemma, International Colloquium, Roma 2002, 42. 55 M. ANTONIOU, Embryonic stem cell research: the case against, in Nature Medicine 7 (2001) 399.


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Il rapporto dei National Institutes of Health (NIH) americani riconosce la difficoltà di determinare quale sia la fonte di cellule staminali più idonea, anche se espone una serie di motivazioni che limitano l’uso delle cellule staminali di adulto per lasciare via libera alla ricerca con le cellule embrionali. È interessante comprendere i termini che vengono proposti perché la loro posizione ha un’influenza notevole sull’opinione pubblica americana e, di riflesso, internazionale. Nella relazione finale si legge: «In umani adulti cellule staminali per ogni tipo di tessuti. In concreto non sono state trovate cellule staminali primo luogo, ancora non sono state trovate negli esseri cardiache né pancreatiche. In secondo luogo, le cellule staminali di adulto si presentavano frequentemente in piccole quantità, sono difficili da isolare e purificare e il loro numero decresce con l’età […] In terzo luogo, in disturbi causati da un difetto genetico, l’errore genetico probabilmente starebbe anche nelle cellule staminali del paziente, rendendole inadeguate ad un trapianto […] In quarto luogo, vi sono indizi per cui le cellule staminali di adulto possono non avere la stessa capacità proliferativa di cellule più giovani. Queste potenziali debolezze potrebbero limitare l’utilità delle cellule staminali di adulto»56.

Queste dichiarazioni devono necessariamente essere valutate con estrema prudenza, perché entrano in gioco degli strani equilibri tra scienza, politica ed economia. Infatti si vuole convincere della necessità delle cellule staminali embrionali su quelle da tessuto adulto con delle motivazioni che sembrano insormontabili ma che in realtà sono frutto di una ricerca ancora in sviluppo. Il NIH afferma che non sono state ancora trovate cellule staminali cardiache e pancreatiche umane, si tratta di una fase della sperimentazione che appartiene anche alle cellule embrionali ma che si apre a nuove prospettive. Un recente studio ha identificato cellule staminali del pancreas in ratti, in cui è stato indotto il diabete, le cellule scoperte sono state

56

NIH, DEPARTMENT OF HEALTH AND HUMAN SERVICES, PUBLIC HEALTH SERVICE, in

WWW.nih.gov/news/stemcell.htm.


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impiegate per curare la patologia indotta57. A tal proposito diversi scienziati considerano questa linea di ricerca sulle cellule pancreatiche come una delle più vantaggiose per la terapia del diabete e per altre malattie grazie alla caratteristica pluripotenzialità che le cellule da tessuto adulto dimostrano di possedere58. Il rapporto del NIH afferma altri limiti che sono costituiti dal basso numero di cellule reperibili, le quali diminuiscono progressivamente con l’età, e dalla concezione che le cellule staminali da adulto siano portatrici di malattie genetiche non conclamate nell’individuo, per cui potrebbero essere trasmesse al paziente in cui tali cellule verrebbero impiantate. In entrambi i casi le ultime sperimentazioni hanno condotto a dei risultati che dimostrano perfettamente il contrario. Davor Colter dimostra che le cellule staminali di adulto si possono moltiplicare facilmente ed in poco tempo59. In Francia si è condotto un esperimento su due neonati affetti da un difetto genetico, da cui sono state prelevate cellule staminali di midollo osseo. Il danno genetico è stato arginato e risolto con le tecniche di ingegneria genetica, le cellule staminali sono state trasferite nei due bambini, che sono guariti. La ricerca sulle cellule staminali da tessuto adulto è in continua evoluzione ed ha bisogno ancora di tempo per poter essere un’ottima alternativa alle cellule embrionali, con sicurezza si può affermare che è smentita l’ipotesi per la quale la ricerca con embrioni costituisca un passo necessario per godere degli effetti terapeutici delle cellule staminali. Spesso la mancanza di trasparenza per giustificare secondi fini prende il sopravvento sui dati scientificamente provati e crea nell’ambiente scientifico e bioetico un “malessere” difficilmente superabile. Non tutti gli scienziati italiani hanno risposto in modo positivo alle indicazioni della Pontificia Accademia per la Vita sulla sperimentazione 57 Cfr A. PECK – V. R. RAMIYA – M. MARAIST, Reversal of the insulin-dependent diabetes using islets generated in vitro from pancreatic stem cell, in Nature Medicine 6 (2000) 278-282. 58 Cfr A. BERGER, Transplanted pancreatic stem cell can reverse diabetes in mice, in British Medical Journal 320 (2000) 736. 59 Cfr D. COLTER – R. CLASS – C. M. DI GIROLAMO, Rapid expansion of recycling stem cells in cultures of plastic-adherent cells from hunam bone marrow, in Proceeding of the National Academy of Science 97 (2000) 3213-3218.


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delle cellule staminali, questo è il risultato di una multiforme presenza di “etiche” soggettive, spesso aziendali, che trovano le loro motivazioni nella ricerca del benessere per l’uomo. Quando si parla di benessere si intende il bene che un individuo deve possedere per diritto, il quale deve essere tutelato da chi è competente e da chi ha per le mani la vita di un altro, tutto ciò perché ogni essere umano possa mantenere un bene che riguardi l’integrità di tutta la sua persona. Giovanni Paolo II, a tal riguardo, sostiene: «La scienza in generale e la scienza medica è giustificata e diventa uno strumento di riflesso, liberazione e felicità solo nella misura in cui serve il benessere integrale dell’uomo»60.

Gli agenti terapeutici costituiscono un bene per l’uomo, ma le tecniche che ci portano ad essi spesso non sono in sintonia con la salvaguardia della vita umana. Il pericolo che oggi gli scienziati percorrono è quello di vedere il fine senza un’attenzione pratica ai mezzi necessari per raggiungerlo. Per questo motivo ci sembra opportuno riportare due posizioni differenti che oggi la letteratura bioetica italiana riporta sulla ricerca delle cellule staminali da tessuto adulto. Una posizione italiana più critica rispetto alla linea percorsa dalla Pontificia Accademia per la Vita è data da alcuni studiosi, fra cui il prof. Demetrio Neri, docente di Bioetica dell’Università di Messina. Egli sostiene che nel dibattito sulle proprietà e sulle applicazioni terapeutiche delle cellule staminali si parla di una terza via, che consiste nel limitare la ricerca alle cellule staminali da tessuto adulto. Le motivazioni che sostengono questa alternativa sono molteplici: dal punto di vista terapeutico esiste una equivalenza tra cellule staminali adulte e cellule staminali embrionali, si evitano controversie morali connesse alla speri-

60 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti al Congresso di Neuro-psichiatria, in L’Osservatore Romano, 13 aprile 1986, 5.


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mentazione sugli embrioni e si configurerebbe come una via europea, rispettosa della dignità dell’uomo61. In realtà, si va sempre più diffondendo la tesi dell’equivalenza tra le cellule staminali adulte e quelle embrionali, la quale dichiara che la ricerca sulle cellule staminali embrionali è moralmente viziata e risulta non necessaria in quanto gli stessi risultati si possono ottenere con le cellule adulte. Dato che la ricerca che utilizza gli embrioni desta importanti obiezioni morali, si preferisce indirizzare tutti gli sforzi verso questa alternativa che trova il plauso di molti scienziati e dell’opinione pubblica. Questo quadro totalmente condiviso dalla Chiesa, secondo il prof. Neri, è frutto di dati falsati e di una non corretta concezione della scienza. Infatti, il documento della Pontificia Accademia per la Vita è ricco di omissioni, errori e forzature linguistiche per avallare la tesi dell’equivalenza62. Nella sua riflessione lo studioso si rifà ai dati esposti dal rapporto del NIH americano, che abbiamo precedentemente considerato. Infatti sottolinea che il termine «pluripotente», utilizzato per le cellule staminali embrionali, è improprio e sarebbe stato più giusto utilizzare «multipotente», per sottolineare che solo certi tipi di cellule staminali adulte mostrano una maggiore versatilità di quella finora attribuita. Si accusa di fornire dati non esatti sulla reperibilità e sul loro isolamento e purificazione, così come si sottolinea di citare il pensiero e gli studi di alcuni scienziati omettendo ciò che non conviene dire63. È il caso di un gruppo di ricercatori, il cui articolo è stato già precedentemente commentato64, che per dimostrare la versatilità delle cellule staminali neuronali le ha coltivate insieme a corpi embrioidi, cioè a colonie cellulari ottenute coltivando le cellule prelevate dall’embrione nella fase di blastociste. Secondo la posizione del prof. Neri, gli attuali dati scientifici ci conducono a studiare le cellule staminali adulte attraverso il passaggio della coltura in corpi embrioidi, fase che implica la distruzione degli embrioni e che sembra essere indispensabile per la sperimentazione. 61

Cfr D. NERI, La ricerca sulle cellule staminali: una terza via? Quale terza via?, in Bioetica 8/3 (2000) 479-484. 62 Ibid., 481. 63 Ibid., 482. 64 Cfr D. L. CLARKE – C. B. JOHANSSON – L. FRISEN, Generalized potential of adult neural stem cells, in Science 287 (2000) 1663.


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La linea percorsa dalla Pontificia Accademia per la Vita, in tal modo, si trova in antitesi con la stessa scienza: «Il modo migliore di fare un confronto tra la Chiesa e la scienza è quello di favorire la più ampia apertura possibile dell’ambito della ricerca, in modo da poter mettere a confronto i dati scientifici e stabilire così quale tipo di linea cellulare sia più adatto a questo o quel tipo di malattia o di paziente»65.

A questa tesi sembra sottostare una concezione della ricerca scientifica che sia ad ampio raggio, per la quale non si può immaginare un campo così nuovo, come le cellule staminali, limitato solo su certi settori. Questo tipo di sperimentazione, per esprimere al massimo le potenzialità che tali cellule possiedono, deve procedere a tutto campo, sostiene che: «Gli scienziati hanno bisogno di conoscere e utilizzare i risultati dei loro colleghi, per poter confrontare le differenti proprietà delle differenti linee di cellule staminali, anche in relazione ai differenti impieghi terapeutici»66.

La ricerca, secondo questa “etica” scientista, ha il dovere di esplorare tutte le possibilità per poter arrivare in poco tempo alle nuove armi della medicina contro le malattie e la sofferenza. Si può utilizzare l’immagine degli esploratori che alla base di una montagna vogliono raggiungere la vetta, ma non sanno quali sentieri percorrere perché si arrivi nel modo più sicuro e rapido possibile, la soluzione è quella di dividersi in squadre in modo da esplorare tutte le possibilità ed arrivare alla vetta67. Trasponendo questa immagine alla ricerca delle cellule staminali si vuole favorire la sinergia tra i diversi gruppi per un costante scambio di conoscenze e di dati, tutto il resto li considera resistenze e chiusure fondate su preclusioni di ordine ideologico68.

65 66

D. NERI, La ricerca sulle cellule staminali: una terza via? Quale terza via?, cit., 483. ID., La ricerca sulle cellule staminali tra etica e politica in Bioetica 11/1 (2003)

50-66. 67 68

Cfr ID., La ricerca sulle cellule staminali tra etica e politica, cit., 60. Ibid., 61.


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La trattazione finora esposta, che segue le idee predominanti del pensiero del prof. Neri e che per un’analisi oggettiva della questione ci sembra importante considerare, mette ancora di più in evidenza il “malessere etico” che la ricerca sulle cellule staminali alimenta. Questa posizione, infatti, è condivisa da diversi scienziati a livello internazionale. Il prof. R. Winston, padre tecnico di numerosi figli in provetta, scrive in una prestigiosa rivista scientifica: «Gli scienziati non stanno incamminandosi su una discesa sdrucciolevole per lo scalzamento dei valori umani. Coloro che fanno questo lavoro sanno bene che il suo fine è di proteggere e promuovere la vita non distruggerla. L’ampio voto in favore della ricerca sulle cellule staminali embrionali sotto stretta sorveglianza e regolamenti fu un voto a favore della capacità della nostra società di autoregolarsi. Fu pure un massiccio e benvenuto voto di confidenza nella onestà dei medici e scienziati, e un importante passo nei nostri tentativi di alleviare la sofferenza umana»69.

La capacità di autoregolarsi è fondamentale in una società evoluta, ma è anche necessario comprendere dove iniziano i limiti della liceità e finiscono quelli della sperimentazione, per avere chiari i principi essenziali della dignità dell’uomo. Quando questi elementi vengono a mancare si arriva a delle sconvolgenti affermazioni anche da parte dei “grandi cervelli” che hanno dato un apporto significativo, spesso epocale, alla ricerca scientifica. Una lettera di plauso alle nuove tecniche che fanno uso delle cellule staminali embrionali, firmata da 67 premi Nobel, è stata pubblicata nella prestigiosa rivista Science: «Noi ci uniamo con altre organizzazioni scientifiche e gruppi di pazienti nel ritenere che l’attuale posizione è lodevole e previdente. Essa contribuisce a proteggere la santità della vita umana senza impedire la ricerca biomedica, che potrebbe essere veramente importante per la comprensione e il trattamento di malattie umane»70. 69 R. WINSTON, Embryonic stem cell research: the case for, in Nature Medicine 7 (2001) 397. 70 67 NOBEL PRIZERS’ LETTER, Science over Politics, in Science 283 (1999) 1849.


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Si vuole proteggere e salvare la vita distruggendo quella già esistente, in nome della ricerca biomedica e della santità della vita umana. Ci sembra che nelle parole di questi uomini sia presente un miscuglio di sacro e profano che ad ogni costo vuole difendere le proprie idee a discapito della vita degli altri. Si utilizzano termini come santità senza però comprenderne il valore, che essa ha nella vita di ciascuno compresa la loro, né tanto meno lo sforzo necessario per raggiungerla. Un documento dell’Università Cattolica del S. Cuore, dal titolo Sviluppo scientifico e rispetto dell’uomo, firmato da molti studiosi, scienziati e bioeticisti cattolici, chiarisce la loro posizione dinanzi al dibattito bioetico che le cellule staminali stanno alimentando. «Come scienziati e come uomini di cultura non possiamo accettare che il dibattito in corso […] si riduca ad una contrapposizione fede/scienza; o fede/ragione; o cattolici/laici […] siamo convinti che il problema interroghi prima di tutto la ragione»71,

così esordisce l’intervento italiano puntando l’attenzione sull’aspetto antropologico del problema. Il riconoscimento dell’embrione umano come individuo è frutto della ragione umana, che segue una riflessione filosofica di natura antropologica ed etica e dei risultati scientifici, empiricamente dimostrati. Il documento ribadisce l’importanza delle motivazioni morali che si uguagliano con quelle scientifiche: «La prima ragione morale consiste nel bene oggettivo dell’essere umano, a cominciare da quell’essere umano su cui si fa la ricerca»72.

Il bene dell’uomo predomina su ogni tipo di riflessione addotta, perché questa ha sempre in primo piano la salvaguardia della dignità dell’embrione. Infatti il documento continua:

71 AA. V.v., Sviluppo Scientifico e rispetto dell’uomo. A proposito dell’utilizzo degli embrioni umani nella ricerca sulle cellule staminali, in Medicina e morale 6 (2000) 212. 72 Ibid., 213.


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Antonino Sapuppo «La ragione, sia nella sua dimensione scientifica sia in quella filosofica, non può decidere arbitrariamente l’identità dell’embrione umano secondo l’uso che se ne intende fare e in vista degli scopi che gli adulti si prefiggono […]. Il riconoscimento della dignità dell’uomo, e di ogni uomo, non consente di sacrificare l’essere umano vivente per la terapia di un altro essere umano malato»73.

Siamo in presenza di due diritti che spesso vengono comparati: il diritto dei malati ad essere curati ed il diritto degli embrioni alla vita, l’uno non si contrappone all’altro ma il riconoscimento della dignità dell’embrione come individuo umano pone il malato e l’embrione ad una parità sia etica che giuridica. Secondo i firmatari del documento occorre percorrere la strada delle cellule staminali da tessuto adulto (o da cordone ombelicale o da tessuto fetale proveniente da aborto), l’unica priva di questioni etiche, infatti sostengono: «[…] è la strada rispettosa insieme delle aspettative dei malati e dell’incondizionata dignità dell’uomo»74.

È pur vero che l’uomo, senza voler giustificare tale posizione che va contro ogni ragionevole tesi, è spinto dalla speranza di poter superare le difficoltà incontrate fino adesso nella ricerca per debellare le malattie che tanto lo affliggono. Il problema ricade sempre nella sfera filosofico-antropologica, in cui questa speranza ha un compito, quello di rendere possibile un futuro per l’umanità, attraverso quelle capacità che Dio ha concesso a ciascun uomo. Però la questione della speranza e, connessa ad essa, quella del futuro assumono dei connotati più ampi tanto da diventare la questione del senso della vita in questo mondo.

73 74

Ibid., 214. L. c.


Le cellule staminali: un dibattito aperto tra scienza ed etica

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Nell’ambito delle biotecnologie la ricerca e gli scienziati, che la portano avanti, non escono fuori di questa prospettiva, infatti se è vero che la sperimentazione segue dei protocolli tecnici ben prefissati non si può negare che anche in laboratorio ci sono delle scelte di ordine morale da fare. La speranza è tradita quando si rinviano o si negano totalmente le domande di giustizia, di pace e di salvaguardia dell’uomo e del creato75. I molteplici e devastanti abusi sulla persona non annullano né oscurano una maggiore consapevolezza del riconoscimento della sua dignità e dei diritti umani, da parte di chi è sensibile a tenere alto il rispetto per l’uomo. I proff. Neri e Winston, che con tanto entusiasmo accolgono la ricerca delle cellule staminali embrionali, sembra che abbiano abbandonato questa importante dimensione morale che riguarda l’uomo nella sua più profonda identità, per lasciare spazio all’accentuato pluralismo delle proprie visioni etiche al fine di un benessere comune, che di bene ha solo il profumo del denaro. Il bene comune viene inteso come necessità di assicurare il massimo grado di libertà e di decisionalità al singolo tanto che vengono giustificate tutte le tecniche che potranno portare al massimo grado di soddisfazione personale. Ma, se l’etica può essere intesa come attenzione all’altro, la bioetica assume delle sfumature più intense perché si deve fondare sulla capacità di amare di ciascuno, per cui occorre anteporre il primato dell’altro alle proprie scelte. Purtroppo, per molti scienziati e bioeticisti il concetto di vita è ancora in discussione, ma non come problema veramente sentito quanto solo un mezzo per evitare un ostacolo bioetico insormontabile, con il quale non tutti si vogliono confrontare. Se leggessimo la realtà con gli occhi ottimisti della fede troveremmo come le luci e le ombre della ricerca sulle cellule staminali possiedono la risoluzione del “malessere etico” nella natura stessa dell’uomo.

75 Cfr L. LORENZETTI, Si può parlare di speranza umana?, in Rivista di teologia morale 136 (2002) 533.


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Così come ogni singola cellula, che nella propria diversificazione, si definisce e conserva, il corpo umano nella sua unità e diversità tende a fare lo stesso attraverso un mirabile equilibrio che permette di normalizzare o ridurre le possibili deficienze ed anomalie organiche. La natura attraverso le cellule staminali permette all’organismo di definirsi e conservarsi nella sua integrità, per cui l’uomo deve imparare dalla stessa natura, riuscendo a scoprire ciò che essa già impone con le sue mirabili leggi. Se ci poniamo nella prospettiva che la natura stessa viene in soccorso all’uomo attraverso le cellule staminali adulte, si può focalizza l’attenzione solo su cellule da tessuto adulto senza distruggere la vita sin dalle sue prime fasi. Percorrendo questa strada la ricerca non sarà privata di alcuna conoscenza né si limiteranno le applicazioni terapeutiche, bensì si permetterà ancora di più all’intelligenza dell’uomo di trionfare non come costruttrice di una Torre di Babele, fonte di confusione e separazione ma artefice di un’Arca di salvezza per il bene di tutti e di ciascuno.

CONCLUSIONI Le biotecnologie hanno condotto alla scoperta di tecniche che sono offerte all’uomo per migliorare la propria vita, aumentandone la qualità e la durata. Questo campo di ricerca si avvale spesso di mezzi per la sperimentazione che rappresentano vere sfide per l’etica e sollevano anche un acceso dibattito civile. Ritengo utile ricapitolare la presente trattazione sulle cellule staminali con le seguenti proposizioni conclusive. 1. La vita, in senso genericamente organico, è una proprietà sistemica, cioè una qualità che può essere attribuita soltanto ad un sistema organizzato, il quale ha delle proprietà: il metabolismo, la capacità di cambiamento di forma, di reazione a stimoli e di attività autonoma, l’autoriproduzione come anche la capacità di feed-back per reagire a perturbazioni che provengono sia dall’esterno che dall’interno del corpo umano. Le caratteristiche tipiche dell’essere umano sono concretizzate in modo tanto particolare che, in funzione del suo essere, ciascun sistema è dotato di autonomia e di un determinato programma genetico.


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La ricerca scientifica ha sempre permesso di raggiungere nuove mete nell’ambito della medicina; l’uso delle cellule staminali permette di curare le patologie organiche utilizzando lo stesso patrimonio cellulare che ciascun uomo possiede. 2. Le cellule staminali rappresentano il serbatoio endogeno cellulare che, grazie alla loro capacità di differenziarsi in diverse cellule del corpo umano, permettono di rigenerare i tessuti danneggiati da patologie spesso irreversibili e di comprendere i meccanismi biochimici che regolano la vita umana. Siamo dinanzi ad una delle più affascinanti espressioni della armoniosa dinamica della vita che, seguendo il principio naturale di autoconservazione, tende a mantenere in un stato di ottimale equilibrio dinamico-fisiologico l’intero organismo. È la natura che va in soccorso all’uomo senza passare per i prodotti farmaceutici di sintesi che, sebbene importanti per la cura delle malattie, risultano essere sempre meno selettivi per i targets biologici. La ricerca pubblica e privata sulle cellule staminali è incoraggiata dai molteplici risultati scientifici, acquisiti dai laboratori di tutto il mondo, che ne evidenziano le potenzialità biologiche e terapeutiche. Soprattutto si pensa di applicarla in quelle patologie spesso incurabili attraverso le terapie comunemente utilizzate, come il diabete, le malattie del sistema immunitario, del sistema nervoso e del cuore, oppure per arginare i problemi di rigetto dovuti a ad un trapianto d’organo. 3. La scoperta delle cellule staminali, se da una parte apre nuove strade alla ricerca biomedica ed alle applicazioni terapeutiche, dall’altra solleva gravi problemi etici, in particolare per le cellule staminali di origine embrionale. Nel mondo scientifico internazionale la diffusa convinzione esistente, che per far progredire il settore delle cellule staminali nel suo complesso non è possibile fare a meno dei dati e delle conoscenze sui meccanismi biologici di base acquisibili con la ricerca sulle cellule staminali embrionali, sta lasciando spazio alle promettenti sperimentazioni sulle cellule staminali adulte. La questione sull’uso degli embrioni per la ricerca delle cellule staminali rimane ancora aperta. Infatti, vi sono importanti interessi


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scientifici che non si possono distaccare dai forti interessi industriali che muovono il sistema della ricerca e il suo sviluppo. Spesso per seguire e realizzare la politica del guadagno si trascurano sia la visione ontologica delle cellule embrionali, sia tutte quelle soluzioni alternative che potrebbero superare il malessere “etico” destato, ma che si escludono perché considerate di impedimento per la ricerca. 4. L’attenzione posta sulla produzione e l’utilizzo delle cellule staminali è stata oggetto anche del mondo politico italiano ed internazionale. È presente una controversa posizione politica nei confronti della sperimentazione sugli embrioni, infatti si porta avanti la distinzione tra le cellule embrionali ottenute per la riproduzione e quelle finalizzate solo per la ricerca. In molti documenti si approva un uso a discapito dell’altro. In particolare, in Italia manca una legislazione che regolamenta questo tipo di sperimentazione, lasciando spesso via libera alle iniziative degli scienziati. 5. La posizione che sembra chiara e lineare è quella espressa in un comunicato della Presidenza della Pontificia Accademia per la Vita, che sostiene come unica via, moralmente lecita per un cattolico, sia quella di sperimentare con le cellule multipotenti e/o monopotenti contenute nel sangue del cordone ombelicale, nei tessuti dell’adulto o nei tessuti embriofetali, derivati da aborti spontanei. Ogni altra modalità di acquisizione di cellule staminali rispetto a queste urta contro i principi della dignità umana e del rispetto integrale per la vita anche embrionale, e denota una strumentalizzazione dell’essere umano da parte di un uomo sull’altro. La ricerca e la sperimentazione in campo biomedico, inclusa quella che prevede l’uomo come soggetto, non è un optional di cui si possa fare a meno, ma una vera e autentica condizione sine qua non per un presente e soprattutto per un futuro migliore. Questo bene in mano allo scienziato deve essere utilizzato nel rispetto dell’uomo e della sua dignità, con la consapevolezza che i risultati ottenuti dal lavoro di pochi hanno un effetto sulla vita e la salute dell’intera umanità. 6. Una valutazione complessiva dei benefici di tale ricerca sull’uomo supera il principio precauzionale, per il quale, in assenza di una oggettiva presenza del rischio, si opta in favore della tutela del soggetto, interpre-


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tando l’assenza di prove scientifiche di una probabilità di danno come prova a favore. La questione delle cellule staminali embrionali è molto più chiara di quanto un principio bioetico possa esprimere, dato che la sperimentazione scientifica fa uso quotidianamente di embrioni crioconservati o provenienti da aborti, spesso illeciti. La distruzione di centinaia di embrioni non è più un rischio, paventato dai moralisti, ma un procedimento realizzato concretamente perché è una pratica accertata e seguita dai laboratori del “settore ricerca e sviluppo” delle industrie di tutto il mondo. 7. La terza via, così viene chiamata la ricerca sulle cellule staminali di origine adulta, supera la questione morale delle fonti delle cellule staminali embrionali e trova il favore dell’opinione pubblica che ha reagito alle nuove sperimentazioni biotecnologiche con grande interesse, data la possibilità di salvaguardare la dignità ed i diritti dell’uomo. Non si nasconde che questa per i ricercatori sia la via più lunga e difficile rispetto ad altre di più facile percorso, ma la linea sostenuta dall’etica cristiana, che tutela l’integrità della persona, esige che qualsiasi tipo di sperimentazione fatta sull’uomo avvenga nel rispetto della sua dignità. L’uso delle cellule staminali adulte non rappresenta un limite alla ricerca scientifica ma un trionfo della ragione umana, che discerne il bene dell’uomo attraverso gli occhi della fede. Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Novo Millennio Ineunte, saluta il nuovo millennio con parole di speranza e di fiducia. Questi sentimenti si possono estendere anche alla ricerca sulle cellule staminali, che avendo già interessato circa un trentennio del millennio precedente si proietta nel nuovo con la prospettiva di epocali e promettenti conquiste per la salute ed il benessere dell’uomo. A tal riguardo le seguenti parole del papa sembrano coronare con saggezza la trattazione che ci siamo proposti di sviluppare: «Un impegno speciale deve riguardare alcuni aspetti della radicalità evangelica che sono spesso meno compresi, fino a rendere impopolare l’intervento della Chiesa, ma che non possono per questo essere meno presenti nell’agenda ecclesiale della carità. Mi riferisco al dovere di impegnarsi per il rispetto della vita di ciascuno essere umano dal concepimento fino al


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Antonino Sapuppo tramonto […]. Per l’efficacia della testimonianza cristiana, specie in questi ambiti delicati e controversi è importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente i motivi della posizione della Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell’essere umano»76.

76

GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Novo Millennio Ineunte, 51.


Sezione miscellanea Synaxis XXII/1 (2004) 113-148

LA RICOSTRUZIONE DELLA CATTEDRALE DI CATANIA DOPO IL TERREMOTO DEL 1693

SALVO CALOGERO*

INTRODUZIONE Per capire la consistenza dell’intervento di ricostruzione nella cattedrale di Catania, crollata in seguito all’evento sismico del 1693, è opportuno aprire una parentesi ricordando la forma della stessa prima del terremoto e le cause che ne hanno determinato il crollo. Prima del 1693 la cattedrale etnea aveva lo stesso orientamento di quella attuale, come si evince dalla veduta a volo d’uccello firmata da Antonio Stizzia nel 15921. A nord, quasi allineato con la facciata2, era collocato il campanile costruito nel 1388 dal vescovo Simone del Pozzo, la cui forma è riportata in una veduta di Tiburzio Spanocchi nel 15783. *

Ingegnere specializzato nel restauro di edifici storici e monumentali. G. DATO, La città di Catania. Forma e struttura 1693-1833, Roma 1983, 16. 2 Guglielmo Policastro scrive che il campanile era posto sopra la cappella del SS. Crocifisso, ma tale affermazione, basata su un documento che indicava la costruzione di una torre sopra la suddetta cappella (G. POLICASTRO, Catania prima del 1693, Catania 1952, 69), contrasta con tutta la cartografia esistente, e con le indagini effettuate nel sagrato dall’architetto Raffaele Leone nel 1957 (S. BOTTARI, La Cattedrale di Catania, in Rivista del Comune, n. 2-3, 1958, 56). 3 La carta è stata pubblicata per la prima volta da A. MAZZAMUTO, Architettura e Stato nella Sicilia del ’500, in Atlante di storia urbanistica siciliana, n. 8, Palermo 1986, 42, e da G. PAGNANO, Il disegno delle difese, Catania 1992, 24, scheda 2. 1


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A pianta quadrata, con lato di circa 14 metri (54 palmi siciliani), era alto circa 70 metri (272 palmi). Nel 1622 fu aggiunto un ulteriore ordine e nel 1630 si completò la torre con la guglia, raggiungendo l’altezza di circa 90 metri (350 palmi). La forma completa del campanile si può osservare in un disegno di Willelm Schellinks realizzato tra il 1669 e il 16784. Durante l’evento sismico dell’11 gennaio 1693 l’altissima torre campanaria ribaltò sulle navate della cattedrale, causando la morte dei catanesi che vi si erano radunati dopo la prima scossa del 9 gennaio. Il crollo lasciò illese le strutture absidali del presbiterio, il transetto, la sacrestia e le cappelle annesse al transetto che, dopo tre anni, furono liberate dalle macerie per consentire al vescovo Riggio di celebrare la prima messa il 6 marzo 16965.

1. L’AVVIO DEI LAVORI DI RICOSTRUZIONE Le modalità di ricostruzione della cattedrale furono impartite dal duca di Camastra, con un documento del 28 giugno 1694, in cui troviamo la decisione di non cambiare il sito della città e di ricostruire il «Duomo di Sant’Agata» riutilizzando le vecchie strutture risparmiate dal terremoto, in modo da rifarlo «nella sontuosità primera con non tanto grande interesse quando per farsi da pedamenti com’era ci volevano dei milioni»6. Nel 1705 il vescovo fece realizzare il proprio monumento sepolcrale, da mastro Antonino Amato, all’interno della cappella della patrona S. Agata, iniziativa che provocò la protesta dei senatori catanesi7. Ma nel mese di 4 L’immagine è stata pubblicata per la prima volta da C. AUSSEER, Città e paesaggi dell’antico reame delle Due Sicilie. Le illustrazioni di un antico e prezioso atlante, in Le vie d’Italia, 36, n. 7, 1930, 536-537. Un ingrandimento fotografico di questa immagine si trova presso il museo civico del castello Ursino, n. 7783; fra i vari autori che lo hanno pubblicato si segnala G. PAGNANO, Il disegno, cit., 54-55, scheda 15. 5 F. FERRARA, Storia di Catania sino alla fine del secolo XVIII, Catania 1829, 219. 6 Consiglio ed istruzioni fatte dal Vicario Generale Duca, che fu di Camastra, col voto dell’Ill.mo Senato, e corpo Ecclesiastico, per la nuova reedificazione della città di Catania, in F. FICHERA, G. B. Vaccarini e l’architettura del Settecento in Sicilia, Roma 1934, doc. A, 217. 7 G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, Catania 1950, 287.


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giugno dello stesso anno intervenne il duca d’Olburn che comunicò al Riggio: «abbiam incaricato codesto Illustre Senato a non darvi molestia alcuna per l’erezione del tumulo che intendete fare in detta Cappella lasciandovi perfezionare detta opera»8. In un quadro che ritrae la città di Catania nel 1708, si vede la cattedrale con le absidi e il transetto complete di copertura per consentire la celebrazione delle funzioni religiose, mentre le navate e la facciate sono dirute9. Il 6 novembre 1709 il vescovo Riggio, nella relazione sullo stato della diocesi indirizzata al Papa, scriveva in merito alla cattedrale: «dopo aver comprato una grande quantità di calce e di altro materiale necessario, ho iniziato a riedificare dalle fondamenta, con una nuova e più elegante forma architettonica e in un sito più grande, un tempio che era il maggiore della Sicilia»10.

Quanto scritto dal Riggio è confermato dagli atti di vendita11 di “calcina” e “agliara”, che servono per la costruzione della chiesa. Il depositario dell’opera grande della cattedrale (detta anche “maramma”), don Bartolo Chiarenza, che si occupava della gestione dei finanziamenti relativi alla fabbrica della chiesa, fu eletto con atto notarile del 29 settembre 170812; nello stesso atto si evince il nome del maestro dell’opera grande, don Giambattista Paternò e Abatelli, barone di Ficarazzi, il quale, l’anno successivo, in occasione della nomina del nuovo depositario don Girolamo Sapuppo13, fu destituito dalla carica e al suo posto fu nominato don Francesco Gravina. Le incomprensioni fra il barone di Ficarazzi e il vescovo Riggio sono abbastanza note e culmineranno nella 8 ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI CATANIA, Episcopati, «Libbro Rosso di mons. Riggio», carp. 4, c. 77r. 9 Grande quadro a pittura dell’ing. Carmelo Sciuto Patti di proprietà della N. D. Antonietta Sciuto Patti Francica Nava (G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, cit., tav. I, 137). 10 A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1702-1717), in Synaxis 7 (1989) 417-515: 483. 11 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 1° vers., b. 1036, c. 802r, 20 giugno 1709, notaio F. Pappalardo; ibid., c. 803r-v. – 21 giugno 1709. 12 Ibid., c. 81r-v, 29 settembre 1708, notaio F. Pappalardo. 13 Ibid., c. 804r-v, 22 giugno 1709, notaio F. Pappalardo.


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scomunica emessa contro di lui il 2 ottobre 170914. Questo episodio, assieme alla controversia liparitana, costituirà il movente del decreto di espulsione dal regno del vescovo Riggio15. La prima pietra fu posta dal vescovo Riggio il 19 giugno 170916; dirigeva i lavori il capo mastro Giuseppe Longobardo. La scelta del duca di Camastra di riutilizzare le strutture rimaste illese dal crollo del campanile, obbligò il capo mastro a riprendere l’orientamento della vecchia cattedrale. In alcuni documenti del mese di settembre troviamo gli incaricati17 «magistri Vincentius Vivilacqua alias Facciabianca, magistri Antonius Biundo et Magistri Paulus Battaglia lapido incisores» per scolpire la pietra e altre forniture di materiale18. Qualche giorno dopo intervenne nel cantiere il «magister» Antonino Amato, con i figli Andrea e Tommaso, incaricati «di intagliarci la pietra bianca da dove incomincia lo bianco fino alli cullarini delli pilastri con tutti l’archi». Questi si impegnavano «con incominciare dallo 30 dello istante mese di settembre innanzi, con essere detto servizzo benvisto a mastro Giuseppe Longobardo capo mastro delle fabriche di questa suddetta città per patto», mentre i deputati dell’opera grande, a loro volta, consegnavano «alli detti Amato tutta la pietra necessaria»19. Contemporaneamente si provvedeva alla fornitura di pietra di Siracusa, anche questa «benvista però, detta pietra bianca, non solamente a mastro Giuseppe Longobardo capo mastro di questa suddetta città, ma ancora a mastro Antonino d’Amato intagliatore»20. Quest’ultimo cedette a mastro Paolo Battaglia «terzia parte et portione ut del sopra detto servizzo per detto di Amato preso a staglio assieme con detti suoi figli»21.

14 Le cause che determinarono la rottura dei rapporti fra il capitano di giustizia Giambattista Paternò e il vescovo Andrea Riggio con i fatti che furono all’origine della controversia liparitana sono esposti da A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina», cit., 449-470. 15 Ibid., 465. 16 F. FERRARA, Storia di Catania, cit., 222. 17 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 2° vers., b. 1080, c. 11r, 3 settembre 1709, notaio V. Arcidiacono senior. 18 Ibid., c. 11 v, 3 settembre 1709, notaio V. Arcidiacono senior; ibid., c. 12 r-v, 3 settembre 1709, notaio V. Arcidiacono senior. 19 Ibid., 1° vers., b. 1037, c. 80 r-v, 27 settembre 1709, notaio F. Pappalardo. 20 Ibid., 2° vers., b. 1080, c.100r-103r, 7 ottobre 1709, notaio V. Arcidiacono senior. 21 Ibid., c. 119r-120v, 9 ottobre 1709, notaio V. Arcidiacono senior.


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Il 2 maggio 1711 nella contabilità dei lavori22 si trovano i mastri Antonio Biondo e Girolamo Palazzotto23, coadiuvati da mastro Giuseppe Rizzari, che provvidero personalmente a completare i capitelli e gli angoli, mentre per le altre opere in pietra bianca — paraste e il cornicione — vennero impiegati semplici intagliatori non citati nella contabilità. Per pagare gli operai il vescovo chiese il mutuo di 500 onze al «Rev. Sac. D. Francisco Tudisco abbati priori Sanctae Mariae de Cava huius predectae urbis», impegnandosi a restituirlo entro il primo agosto 1712, e nel frattempo nominò «depositarium operae magnae dictae novae fabricae dictae Catthedralis Ecclesiae» il reverendo sacerdote don Carlo Moresca, canonico secondario della cattedrale24. Durante le forniture di calce, agliara, pomice, gesso, ecc. prestò l’assistenza il «Rev. D. Geronimo Di Filippo», deputato dell’opera grande25, che insieme al capo mastro effettuò il controllo del materiale consegnato. Il 13 maggio si versò la «caparra di 2000 tavule per servigio del dammuso della Cattedrale» che doveva essere «benvista al nostro capo mastro»; dopo due giorni si pagò la «caparra delli pumici» e alla fine del mese risultano «onze 2 pagate al capo mastro Giuseppe Longobardo». La pietra bianca di Siracusa, fornita da mastro Luciano Condurella (Cannarella), era misurata dal capo mastro, che ricevette 8 onze il 19 luglio, e altre 4 il 22 agosto, «quali se li pagano di ordine di Monsignor Illustrissimo per conto dell’assistenza fatta alla fabrica della Cattedrale». Nel mese di agosto si completò la volta in pomice e gesso, per la cui realizzazione furono acquistate 2500 pomici, e si lavorò alla demolizione del vecchio campanile, come si evince dalle paghe agli operai per 22 ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO, Fondo Trabia, I serie Branciforti, vol. 789, c. 178 r-244 r. L’esistenza del fondo è segnalata da L. DUFOUR, 1693. Catania: rinascita di una città, Catania 1992, 161, nota 64. 23 Fra maggio e giugno, mastro Antonio Biondo e Girolamo Palazzotto, vengono pagati per avere realizzato quattro capitelli ciascuno, mentre il Biondo realizza pure i mezzi capitelli d’angolo (l. c.). I lapidum incisores non si limitano ad eseguire l’opera, ma realizzano i disegni che, come nel caso della cattedrale, devono essere benvisti al Capo Mastro della fabbrica, che rimane l’unico responsabile dell’opera (G. PAGNANO, L’architettura, cit., 78). 24 ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO, Fondo Trabia, I serie Branciforti, vol. 789, c. 174r-177 v. 25 In alcuni pagamenti è citato il «Rev. D. Luciano di Filippo» (ibid., c. 205r).


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«sfabricare il Campanaro» e «sterrare sotto il Campanaro». Quest’ultima nota conferma che la vecchia torre campanaria non poteva essere posta sopra la cappella del SS. Crocifisso, dove nel frattempo si celebravano le funzioni religiose, ma era allineata con la facciata della chiesa. Fra le spese sostenute si leggono anche quelle assegnate «al cl. D. Agatino Geremia scrivano di notaro Domenico Zappalà26 per copia, e registro del mandato di onze 617.23.3.3 carte 92 tra originale, e registro» e «per consare il riposto, dove sta Agatuzza, ed il solaro della credenza, e le stanze del Priorato». La contabilità, sottoscritta dal vescovo, dall’«abbate Gravina priore e D. Ignazio Abatelli Paternò mastro d’opera grande», si chiuse il 13 ottobre 1711. Il 12 settembre 1712, nella relazione sullo stato della diocesi, il vescovo comunicò al Santo Padre: «Il tempio, che prima delle rovine del terremoto era considerato per ampiezza il maggiore della Sicilia, essendo stato distrutto dalle fondamenta, sollecitò e sostenne a tal punto la mia preoccupazione pastorale, da farmi sentire stretto da angustie e apprensioni. Pur trovandomi privo di ogni aiuto umano, ma confidando nella provvidenza del Creatore dell’universo, nello spazio di tre anni l’ho fatto ricostruire con grande perizia tecnica, in uno spazio più ampio e in forme architettoniche più belle. Consultando i registri e i mandati di pagamento, si è constatato che la spesa complessiva ha raggiunto i 50.000 scudi»27.

In questa stessa relazione il vescovo scrisse che «la cattedrale ha diciotto cappelle laterali, delle quali la maggiore è quella dedicata a Gesù Crocifisso». Confrontando le piante di Francesco Negro28 del 1637 (fig. 1) e di Sebastiano Ittar29 del 1832 (fig. 2), si nota una perfetta corrispondenza delle planimetrie rilevate dai due disegnatori. 26 Gli atti del notaio Domenico Zappalà non si trovano fra quelli conservati nell’Archivio di Stato di Catania. 27 A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina», cit., 485. 28 N. ARICÒ, L’atlante di città e fortezza di Francesco Negro, Messina 1992; G. PAGNANO, Il disegno, cit., 32, scheda 5. 29 La stampa fu prodotta come foglio sciolto. L’esemplare qui mostrato si conserva al Museo civico di castello Ursino di Catania, n. 65/3. Il museo conserva anche la lastra di


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Fig. 1 – Pianta di F. Negro 1637

rame. Questo esemplare è conservato intatto, mentre il più noto, esistente presso le Biblioteche Riunite Civica e Ursino Recupero, è colorato sul costruito di acquarello rosso che, coprendo i numeri di riferimento e altri segni, rende illeggibile molte parti della pianta. La pianta di Ittar è la base per una serie di carte semplificate in uso fin alla fine del secolo XIX (G. PAGNANO, Il disegno, cit., 120, scheda 22).


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Fig. 2 – Pianta di Sebastiano Ittar del 1832

Inoltre, la muratura in pietra lavica squadrata nel retro della stessa facciata, dove sono ubicati gli ingressi delle scale a chiocciola, ci indica chiaramente che la facciata della vecchia chiesa sia stata risparmiata dal terremoto, per lo meno nella parte bassa, dove era collocata l’antica porta «marmorea scolpita d’antichissimi periti»30. Nelle relazioni inviate al papa, il vescovo scrisse che la chiesa fu rifatta «in uno spazio più ampio» per cui, essendo rimasta invariata la forma planimetrica della chiesa, dobbiamo capire come fu ampliato lo spazio. Confrontando le stesse piante di Francesco Negro e di Sebastiano Ittar, è evidente il differente tessuto urbano in cui è inserito l’edificio. Nella prima, davanti al prospetto della cattedrale, si vede ubicata la loggia 30

G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, cit., 264.


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senatoria e una piazza di modeste dimensioni; nella seconda, la loggia è spostata a nord consentendo la realizzazione della via San Filippo (oggi via Garibaldi) in asse con la cattedrale. In questo modo si ottiene una visuale tipicamente barocca in cui la strada, cioè lo spazio urbano, è pensata in funzione dell’edificio che viene valorizzato dalle diverse visuali prospettiche, ottenendo urbanisticamente l’ampliamento del sito. Lo stesso vescovo nel 1713 diede al seminario dei chierici il terreno a lato della facciata della cattedrale, ad oriente del primo tratto della strada Uzeda (dove oggi è ubicato il museo diocesano), a condizione che venga demolita la fabbrica, già costruita, che sporge verso nord sull’attuale piazza Duomo31. La motivazione fu la seguente: «quod nova plancta dictae Domus impediebat prospectum ianue parvae dictae Cathedralis Ecclesiae ex latere sinistro». Infatti il Riggio scrisse: «quel terreno e fabbriche antiche si disposero per havere io ordinato si ritirasse il Seminario da tramontana afinché restasse libero e ampliato il Piano per maggior magnificenza della mia Chiesa Cattedrale». La stima dell’area fu eseguita dallo stesso Giuseppe Longobardo, nel frattempo impegnato nella ricostruzione della cattedrale32 e del palazzo senatorio33. A ragione poteva scrivere nel secolo successivo il Ferrara: «Con sorpresa universale, e con la spesa di più di centomila scudi la portò a fine nel 1712 nella forma, e sito dell’antica»34. Nella ricostruzione furono utilizzate le strutture normanne, riproponendo l’impianto basilicale a tre navate divise da pilastri, della dimensione di metri quattro per due e mezzo, e al loro interno furono in parte inglobate le antiche strutture, testimoniando la preoccupazione di realizzare una struttura solida, in grado di resistere ad eventuali ulteriori terremoti. Il professore Salvatore Boscarino scrisse che i pilastri realizzati nella cattedrale sostituirono le antiche colonne35. 31 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 1° vers., b. 2293, c. 441r-450r, 15 febbraio 1725, notaio G. Capace). 32 ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO, Fondo Trabia, I serie Branciforti, vol. 789. 33 M. GAUDIOSO, Origini e vicende del Palazzo Senatorio di Catania, in Archivio Storico per la Sicilia Orientale [=ASSO] 71 (1975) 287-324. 34 F. FERRARA, Storia di Catania, cit., 222. 35 «La utilizzazione delle absidi e del transetto del duomo normanno di Catania, che avevano resistito al terremoto del 1693, veniva inserita nel programma di ricostruzione


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A questo proposito è opportuno fare delle considerazioni: la vecchia cattedrale non crollò direttamente per la forza d’urto del terremoto, ma in seguito al collassamento dell’altissima torre campanaria, che si ribaltò sulle navate della chiesa nella seconda scossa dell’11 gennaio, lasciando illesi il corpo absidale e parte della facciata. Durante i lavori di rifacimento del pavimento, eseguiti su progetto dell’architetto Raffaele Leone, furono rinvenute le fondazioni dei pilastri e, addossate a queste, le basi di colonne in marmo collocate circa un metro sotto la quota del pavimento, a livello del piano d’imposta delle fondazioni dei vecchi pilastri. Si deduce che le navate della vecchia cattedrale erano divise da grossi pilastri, di cui esistono ancora le fondazioni, ai quali si addossavano le colonne, in parte annegate nel pavimento36, ed entrambe, colonna e pilastro, sorreggevano la copertura a tetto. Troviamo una conferma di tutto ciò nel volume di Francesco Privitera del 169037. Egli descrisse la cattedrale «ornata di colonne marmoree egitie, che attaccate alla magnificenza de’ pilastri intermedi sostenevano la gran mole del tetto», e prima ancora, nel 1672, Alfred Jouvin ci informa del loro numero: «l’interno della Cattedrale […] è sostenuta da dieci colonne di granito così grosse che due uomini non riescono ad abbracciarne una»38.

(1709) formulato dall’architetto messinese fra Liberato, al secolo Girolamo Palazzotto (1686-1754). Il nuovo impianto, in asse con l’abside centrale e quindi leggermente ruotato rispetto all’orientamento della piazza che costituiva il cuore del nuovo piano urbanistico, sostituiva, nel clima della cautela statica, le colonne delle navate con grossi pilastri e lasciava sia all’interno che all’esterno le antiche strutture sulle quali non aggiungeva la cupola, realizzata posteriormente nel 1805 da C. Battaglia» (S. Boscarino, Sicilia barocca, architettura e città 1610-1760, Roma 1981, 132). 36 R. LEONE, Duomo, in Enciclopedia di Catania, a cura di V. Consoli, Catania 1987, I, 291. 37 F. PRIVITERA, Annuario Catanese, Catania 1690, 118. 38 A. JOUVIN, Voyage d’Italie et de Malthe, Parigi 1672, 642 (pubblicato in G. PAGNANO, Il disegno, cit., 165).


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2. LA CUPOLA PRIMITIVA Andrea Riggio, il 10 settembre 1714 durante il suo esilio romano39, presentò personalmente la relazione sullo stato della diocesi nella quale scriveva: «che la costruzione della cupola nella chiesa cattedrale, iniziata quando io ero in sede, è stata ora portata a compimento»40. Da quanto visto finora, si iniziò a costruire la cupola fra l’ottobre 1712 e il mese di aprile 1713 e fu ultimata nel settembre 1714. Quindi i tre anni impiegati riguardavano essenzialmente le strutture delle navate, rifatte dalle fondamenta e l’apparato decorativo in pietra d’intaglio bianco, che la orna «con bellezza ed ogni genere d’artifici», ma lasciarono incompiuti il pavimento marmoreo, collocato dopo la morte del vescovo, e la facciata che, come ricorda nel 1752 il regio visitatore monsignor Francesco Testa: «per la morte di un si degno Pastore restò la facciata rozza ed informe»41. L’abate Vito Maria Amico descrive la cupola rivestita con lastre di piombo ed alzata dal pavimento della basilica di circa metri 38,70 (150 palmi) 42. Una stampa di Antonio Zacco43 pubblicata nel 1780 (fig. 3), ritrae la cattedrale prima della costruzione della nuova cupola, nella quale si vede quella vecchia costituita da un tamburo cilindrico, contornato superiormente da una balaustra e da una calotta semisferica scandita da costoloni che si uniscono superiormente alla lanterna. Da quanto visto si può affermare che la prima cupola costruita a Catania dopo il terremoto del 1693 fu quella realizzata nella cattedrale nel 1714.

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Il vescovo Riggio era stato espulso dal regno di Sicilia il 18 aprile 1713 (F. FERRARA, Storia di Catania, cit., 223). 40 A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina», cit., 497. 41 V. LIBRANDO, Il «rimarcabile affare del Prospetto» vaccariniano della cattedrale di Catania, in Scritti in onore di Ottavio Morisani, Catania 1982, 379-414: 390. 42 «Tholus autem tabulis plumbeis contectus palmis CL totiusque basilicae […] elevatur» (V. M. AMICO, Catania Illustrata, III, Catania 1741, 101). L’altezza di 150 palmi è relativa all’altezza del tamburo, dal quale si innalzava la superficie semisferica della calotta. 43 G. DATO, La città di Catania, forma e struttura 1693-1833, Roma 1983, 51.


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Fig. 3 – Stampa di Antonino Zacco del 1780

È possibile apprezzare l’interno della cattedrale in un disegno di Jean Houel realizzato prima della sostituzione della primitiva cupola. Lo stesso Houel scrisse: 44

«Davanti al coro è stato posto l’altare maggiore, coperto durante la festa da un grande baldacchino, al di sopra del quale si innalza la cupola, sormontata all’esterno da un cupolino che segna il centro della chiesa»45.

Anche Von Riedesel visitando Catania nella primavera del 1767 scrisse che «Il Duomo di Catania è la chiesa più grande e più bella della Sicilia […] è dotata di una bella cupola e si presenta come una maestosa costruzione»46. 44

Jean Houel, fra il 1776 e il 1779, ottenuta una gratifica dal governo francese, dimorò in Sicilia dove incise le 264 tavole del Voyage pittoresque. 45 J. HOUEL, Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malte et de Lipari, Parigi 17821787 (traduzione di A. De Somma, Palermo 1998, 65). 46 J. H. VON RIEDESEL, Viaggio in Sicilia, (traduzione di G. Christmann Scoglio, Caltanissetta 1997, 79).


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Il primo agosto 1717, «da quattro anni espulso con un vergognoso esilio dalla città di Catania e dal regno di Sicilia», il vescovo comunicò che «da pochi giorni era stata ultimata la costruzione del magnifico tempio della cattedrale. Per portarlo a compimento mancava solo il pavimento di marmo; avevo lasciato tutto il marmo predisposto perché venisse collocato». La morte lo colse a distanza di pochi mesi47. L’indicazione che la cattedrale era stata ultimata dal vescovo Riggio, viene anche dal suo successore Galletti, che nella relazione del 30 ottobre 1730 e nell’altra del 31 luglio 1737 tende ad evidenziare il suo personale impegno ad arricchire un tempio ultimato nelle strutture ma ancora spoglio negli ornamenti: «Ho trovato alcuni altari privi dell’immagine del titolare, altri talmente indecenti da non sembrare opportuno consentirvi la celebrazione della messa; inoltre molti vasi sacri non avevano la pulizia richiesta e c’erano, infine, altri innumerevoli inconvenienti del genere. Per portare immediatamente gli opportuni rimedi a tutto questo ho provveduto, a mie spese, all’acquisto immediato di quadri artisticamente dipinti, baldacchini e altri ornamenti adatti alle chiese»48

«Questo massimo tempio, notissimo in tutto il Regno, fu ricostruito dalle fondamenta dal Vescovo mio predecessore D. Andrea Riggio, ma negli altari era privo di ornamenti»49.

Nel 1715 magister Antonino Amato fu incaricato «di fare due fonti d’acqua benedetta di marmo bianco di Genova per servigio di detta chiesa Cattedrale tutti di Commiso di Giallo di Venezia e pietra di Trapani […] e

47 Andrea Riggio morì il 17 dicembre 1717. La sua salma, dopo una sepoltura temporanea a Roma, fu traslata a Catania il 30 aprile 1727 e collocata il 12 maggio nel monumento fatto costruire in cattedrale nel 1705 (A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina», cit., 498). 48 ID., Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1730-1751), in Synaxis 9 (1991) 127-288: 166. 49 Ibid., 205.


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giusta il disegno ad questo effetto fatto»50, e, l’anno successivo, mastro Antonio Biundo con suo genero Paolo Battaglia collocarono il pavimento in marmo rosso e palombino51, del quale si vedono alcune tracce nelle foto scattate durante i restauri diretti da Raffaele Leone nel 195752.

3. LA VICENDA DEL PROSPETTO Dopo il 1717 la costruzione della cattedrale era stata completata in tutte le sue parti, ad esclusione della facciata, che fu realizzata su iniziativa del vescovo Galletti a partire dal 1730. Il 27 agosto 1729 il re presentò al papa, per la nomina a vescovo di Catania, il palermitano Pietro Galletti; il 28 novembre dello stesso anno fu scritta la bolla di nomina53 nella quale, tra l’altro, si raccomandava al nuovo vescovo di impegnarsi ad ultimare la costruzione dell’episcopio54. Il 18 novembre 1729, il nuovo vescovo fece immatricolare nell’università di Catania un giovane architetto palermitano, il sacerdote don Giambattista Vaccarini55, al quale nel 1730 conferì l’incarico della soprintendenza dell’almo Studio56 e di preparare i disegni del prospetto della cattedrale. 50 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 2° vers., b. 1091, c. 319r-v, 20 novembre 1715, notaio V. Arcidiacono senior. 51 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 1° vers., b. 2282, c. 732r, 17 luglio 1716, notaio G. Capace. 52 G. LEONE, I lavori di restauro del Duomo di Catania, in Rivista del Comune, n. 4, 1957, 106 e 112. 53 Prima del suo arrivo a Catania nominò vicario generale don Giovanni Rizzari, che prese in suo nome il possesso canonico in data 28 dicembre 1729; il 18 gennaio 1730 il nuovo vescovo entrò a Catania (A. LONGHITANO, Le relazioni [1730-1751], cit., 133). 54 In realtà l’episcopio fu ultimato, durante il governo di Andrea Reggio, su disegno dell’architetto Alonzo di Benedetto (ibid., 132). 55 Biagio Giovanni Battista Michele Vaccarini, figlio di Gerlando e Francesca Mangialardo, nacque il 3 febbraio 1702 nella parrocchia di S. Antonio Abate di Palermo dove nel 1703 verrà nominato parroco Pietro Galletti di Fiumesalato. (A. GIULIANA ALAJMO, L’architetto della Catania settecentesca G. B. Vaccarini e le sconosciute vicende della sua vita, Palermo 1950, 5). 56 Il giovane Vaccarini venne a Catania insieme al padre Gerlando, abile scultore di legno, forse su indicazione del Galletti stesso. Infatti il vescovo per garantirgli il sostentamento, il giorno successivo al suo ingresso in diocesi (19 gennaio 1730) gli conferì la


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La soluzione proposta dal giovane architetto per la facciata della cattedrale era determinata dalla collocazione planimetrica di questa rispetto agli spazi urbani. La facciata era in asse con la via San Filippo, ma inclinata rispetto alla via Uzeda (oggi via Etnea), per cui — forse per staccarsi dalla facciata del seminario dei chierici — Vaccarini ruotò l’asse dei pilastri, ottenendo una disposizione più dinamica che consentiva alla facciata di avere più punti di vista, tali da concentrare l’attenzione sui portali d’ingresso alla chiesa. Nel mese di marzo del 1731 Vaccarini diede inizio ai lavori57 in qualità di «Architettor prospectus eiusdem Ecclesiae Cathedralis», ma tale incarico trovò l’immediata opposizione del senato catanese: le vicende relative alla sua costruzione, che dureranno dal 1731 al 1761, sono definite dai contemporanei il «rimarcabile affare del Prospetto»58. I rapporti tra il vescovo e il senato catanese si rivelarono precari per cui il Galletti, per imporre la sua autorità, l’8 giugno 1731 nominò Vaccarini commissario, prefetto dei lavori, e architetto del vescovo, del prospetto della cattedrale, e delle fabbriche che si dovessero fare nelle chiese, sia di suore che di regolari, e di tutta la diocesi: le cui spese saranno approvate solo se accompagnate da relazione sottoscritta da Vaccarini59.

prebenda di canonico secondario della cattedrale e nel tempo gli affidò diversi incarichi: il 12 aprile dello stesso anno lo nominò soprintendente a vita dell’almo Studio (università) e il 19 dicembre soprintendente dell’orologio del duomo. Il 15 maggio 1730, in qualità di soprintendente dell’almo Studio, Vaccarini sottoscrisse un contratto per la costruzione di un mezzanino attiguo al portone d’ingresso e il 7 agosto dello stesso anno curò i preparativi per la festa di S. Agata, mentre il primo atto di «estaglio del portico di levante dell’almo Studio» risale al 15 Settembre del 1730 (S. BOSCARINO, Studi e rilievi di architettura siciliana, Messina 1961, 117). 57 «Con la prima pietra fu murata una medaglia d’argento d’oncie due e mezzo coll’immagine di S. Agata da una parte e dall’altra la seguente iscrizione: «Regnantibus Clemente XII / Carolo in VII Impero et Sicilie rege / in honorem Divae Agathae Petrus Galletti / Galletti Episcopus Cathanensis / Hec fundamenta fecit dies 27 Martii 1731» (G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, cit., 263). 58 V. LIBRANDO, Il «rimarcabile affare del Prospetto», cit., 409. 59 «[...] Suae vitae durante in Nostrum et dicti prospectus constructione, sive fabrica commissarium praefectum operarum et Architettum constituimus, deputamus, eligimus et electum volemus, nec non omnium et singularum fabricarum forte faciendarum in Ecclesiis tam monialium, quam secularium Nobis per totam diocesim subiectis [...]» (ibid., 410).


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I contrasti fra le due istituzioni, religiosa e civile, crebbero a tal punto da richiedere l’intervento del Re che, il 2 aprile 1732, da Vienna nominò regio visitatore il benedettino Domenico Brancati per provvedere in merito allo stato spirituale della diocesi e per riordinare l’amministrazione della mensa vescovile, dalla quale venivano prelevate anche le somme necessarie per la fabbrica e i ripari della cattedrale. Il Galletti cercò di impedire la visita del Brancati, o di limitarne l’incarico, e a tale scopo effettuò diversi ricorsi alle autorità competenti, facendo accelerare nel frattempo i lavori del prospetto60. Dopo la realizzazione delle fondazioni e dei piedistalli, in seguito alle continue critiche del senato catanese, il Vaccarini tentò un percorso inedito, che ebbe un’incalcolabile ricaduta nell’ambiente catanese e siciliano: inviò il modello del prospetto a Roma per sottoporlo al giudizio degli accademici di San Luca61. Il 5 giugno 1734 gli accademici di San Luca, tra i quali l’architetto Luigi Vanvitelli, approvarono il progetto chiedendo che vi fossero apportate alcune modifiche62. Lo stesso Vanvitelli, nella relazione del 1753, scrisse che gli accademici di San Luca:

60 Il cantiere incominciava ad organizzarsi, come risulta dai documenti del 1732, nei quali si legge che: «si affrettava ordinare a don Pietro Amato 12 serre lisce e senza denti a serrare marmi», che erano arrivati via mare, e il 27 ottobre «Mastro di Blasi Jacono di questa città si obbliga verso G. Vaccarini, sovraintendente del frontespizio della cattedrale, di apparecchiare 12 pezzi di pietra nera della Trizza di palmi 5 ed once 7 e sette larghi palmi ed once sette di grossezza da lavorarli nella Trizza». (G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, 264). 61 Il ricorso all’Accademia di San Luca intendeva naturalmente spiazzare gli avversari del progetto, ma probabilmente ambiva anche a una consacrazione professionale, che nessun altro architetto siciliano del tempo possedeva. (M. R. NOBILE, I volti della «Sposa». Le facciate delle chiese Madri nella Sicilia del Settecento, Palermo 2000, 39). 62 La motivazione dell’approvazione è riportata nel relativo verbale, nel quale si legge: quello esaminato è il «Modello d’una facciata di Chiesa a due ordini con varie colonne e statue […] per un’Opera Magnifica, e regolato secondo le regole dell’Architettura. Come anche essendosi veduta la tessitura, con la quale sono contesti li piedistalli delle colonne, sembra composta in modo assai forte, e capace di sostenere il peso sopra posto» (V. LIBRANDO, Il «rimarcabile affare del Prospetto», cit.,fig. 233 b, 393).


La ricostruzione della cattedrale di Catania dopo il terremoto del 1693 129 «avendolo senza passione esaminato, vi riconobbero molto spirito e molta bizzarria, la quale forsi in Roma non sarebbe stata da tutti abbracciata, come in altre parti ove questa piace più che la rigorosa sodezza nell’Architettura»63.

Quindi la principale opposizione dei senatori catanesi fu di tipo statico sulla capacità delle colonne di sopportare il carico soprastante, e sulla «bizzarria» dell’architettura che contrastava con la «rigorosa sodezza» dell’architettura romana. Dopo l’approvazione dell’Accademia di San Luca, il senato di Catania, volendo farsi perdonare delle opposizioni rivolte al vescovo e al suo protetto64, con atto del 28 novembre 1735 conferì a Vaccarini il titolo di architetto della città65, consentendogli la ripresa dei lavori fino al completamento del portale maggiore della facciata66.

63

Ibid., 391. Nel 1735 il governo passò dagli austriaci ai borboni, per cui il senato di Catania, città demaniale alle dipendenze del viceré, non poteva mettersi in cattiva luce di fronte al nuovo regnante. La nomina di Vaccarini consentiva di placare gli animi e nel contempo assicurava il prestigio di avere un architetto che aveva avuto un progetto approvato dall’Accademia romana. 65 Prima del suo arrivo a Catania, il giovane Vaccarini, non aveva mai ricevuto incarichi professionali; quindi tali nomine sono frutto di una fiducia sulle sue capacità teoriche da parte del suo ex parroco Pietro Galletti, che contava sull’aiuto tecnico che gli poteva fornire il padre Gerlando (S. BOSCARINO, Vaccarini architetto, Catania 1992, 71). Nella delibera sono elencati i lavori eseguiti fino a quel momento dall’architetto palermitano e cioè: la facciata della cattedrale, il prospetto di mezzogiorno del palazzo Senatorio (affidato nel 1732) e la fontana dell’elefante, il cui atto di liberazione è del 4 settembre 1735; tutte opere iniziate dal Vaccarini e non compiute. 66 La porta maggiore fu ultimata nel 1736, come è testimoniato dalla data incisa insieme al nome del Vaccarini nell’architrave: ANNO DOMINI / MDCCXXXVI / ARCHITECTO / D. IOANNE BAPTISTA VACCARINI. In questa occasione il Vaccarini donò al Senato «la porta marmorea scolpita d’antichissimi periti» rimossa dal vecchio prospetto della cattedrale. (G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, cit., 264). 64


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Nel frattempo, il 12 maggio 1736, il Vaccarini concluse gli studi universitari laureandosi in arti o filosofia67 e si trovò nelle condizioni di dedicarsi maggiormente alla sua attività di architetto68. I lavori del prospetto della cattedrale furono di nuovo interrotti dopo la nomina del vescovo Galletti ad inquisitore generale del regno e il suo trasferimento a Palermo. Non furono ripresi neanche dopo il suo ritorno a Catania (1742), in seguito alla revoca dalla suddetta carica69. Nel 1741 l’abate Vito Amico scrisse che erano stati completati i piedistalli e la porta maggiore utilizzando materiali locali, come la pietra lavica e il marmo bianco ligure70.

67 Il suo nome è incluso negli elenchi di laureati trascritti da Adolfo Longhitano in La facoltà di medicina e l’università di Catania, a cura di A. Coco, Firenze 2000, 111. «L’elogio dottorale» pronunziato dal protomedico Agostino Giuffrida nella cerimonia di laurea di G. B. Vaccarini è stato pubblicato in una traduzione italiana da F. FICHERA, Una città settecentesca, Roma 1925, 72-73. 68 Alcune delle opere realizzate in questo periodo sono: la chiesa di Santa Maria di Loreto, nella quale lavorò l’anziano Antonino Amato (ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 1° vers., b. 2304, c. 643r, 7 agosto 1736, notaio Giuseppe Capace), il palazzo Villermosa, demolito è sostituito alla fine dell’Ottocento con l’attuale palazzo del Toscano (V. LIBRANDO, G. B. Vaccarini: il palazzo Villarmosa, in Cronache di Archeologia e Storia dell’arte, Catania 1962) e la piccola badia del monastero di S. Benedetto (ibid., 1° vers., b. 8796, c. 334r-336v, 3 giugno 1740, notaio Domenico Ronsisvalle). Dopo i suddetti lavori nel 1738 fu affidato a Vaccarini l’incarico di redigere un nuovo progetto per il refettorio dei benedettini, dal momento che quello predisposto da Francesco Battaglia e approvato da architetti palermitani era stato accantonato dai monaci per degli errori riscontrati nel tracciamento. In questa opera Vaccarini prestò la sua opera sino al gennaio 1743 (V. LIBRANDO, Francesco Battaglia architetto del XVIII secolo, in Aspetti dell’architettura barocca nella Sicilia orientale, Catania 1971, 12). 69 V. LIBRANDO, Il «rimarcabile affare del Prospetto», cit., 395. 70 «Prospectus ex albo Liguro, et rubro Tauromenitano marmore, ac Catanensi lapide, qui artis industria perpolitus nigrum imitatur marmor, columnis sex maioribus, ac minoribus octo Aegyptii lapidis, Granito vulgariter appellati, instruitur, cuius tamen hodie nonnisi Stylobatae, ac Porta maior Petri Galletti Catanensis etiam Antistis opera axtant, quo curante brevi opus evectum speramus» (V. M. AMICO, Catania Illustrata, cit., 101).


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Le condizioni di stasi dei lavori della cattedrale furono notati dal regio visitatore De Ciocchis, giunto a Catania nel gennaio del 174371. Egli ritenne intollerabile che il prospetto fosse ancora informe e decretò che, a spese della mensa vescovile, fosse reso «nobilior» da una degna composizione architettonica e da ornamenti, in relazione alla grandezza del tempio e alle rendite del ricchissimo vescovado, «iuxta schema» che doveva essere approvato dal viceré. Oltre alle opere di architettura, Vaccarini realizzò diverse opere di meccanica e di idraulica72, che lo portarono nel 1745 a vincere il concorso di lettore di matematica all’università di Catania73. A partire dal 1747 il Vaccarini, in seguito ad invito della Deputazione del Regno, si trasferì a Palermo in una casa di sua proprietà nel quartiere popolare del Capo74, e nel

71 G. A. DE CIOCCHIS, Sacrae Regiae Visitationis per Siciliam, [...] acta decretaque omnia, III, Palermo 1836, 156. 72 Nel 1745 per l’università realizza uno strumento meccanico che sarà stimato dal sac. Natale Agnese. Inoltre Agostino Gallo nel suo manoscritto del 1838 ci informa che alcuni parenti di Vaccarini gli comunicano che: «Essendo egli dotato d’un talento meccanico, costruì un automa di legno rappresentante uno schiavo, che si moveva, e versava dell’acqua allorché si avvicinasse a’ convitati d’un banchetto. Questa macchina fu da lui donata al marchese Brancaccio, il quale ne fece un presente al re Ferdinando, allora giovanetto, senza manifestargli d’essere stata eseguita in Sicilia, per darle forse maggior pregio, qual cosa lavorata nell’estero. Or avvenne ch’essendo essa di continuo maneggiata, e messa in esercizio si guastò, né trovossi in Napoli chi sapeva bene accomodarla. Fu allora che il Re chiese al marchese Brancaccio dell’autore di essa, ed essendone informato ebbe ordine di farlo venire in Napoli sul mentovato oggetto. Questa causa fu il cominciamento della fortuna del Vaccarini, il quale si portò bentosto in quella città, e ristorato avendo il suo automa, fu conosciuto, estimato particolarmente da S. M. che gli fè conferire la piccola abbadia di S. Filippo di Melazzo, poi quella maggiore del S. Salvatore» (A. GALLO, Notizie intorno agli architetti siciliani e agli esteri soggiornanti in Sicilia da’ tempi più antichi fino al corrente anno 1838. Raccolte diligentemente da Agostino Gallo palermitano per formar parte della sua Storia delle Belle Arti in Sicilia, Palermo, 2000, 214). Questo avvenimento porta Vaccarini a diventare amico dell’architetto Luigi Vanvitelli e a collaborare con lui nella scelta dei marmi per la reggia di Caserta. 73 Il suo nome risulta nell’elenco dei lettori di matematica degli anni 1746-1751 (La facoltà di medicina, cit. 110). 74 A. GIULIANA ALAJMO, L’architetto, cit., 8.


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1749 ricevette l’incarico di ingegnere del Tribunale del Real Patrimonio, per cui non ritornò a Catania se non saltuariamente75. In questa nuova situazione, a parte una breve parentesi in cui i lavori per il prospetto della cattedrale di Catania furono ripresi e si giunse al completamento del portale principale (1736), i pensieri dell’architetto palermitano erano indirizzati ad una più proficua affermazione professionale a Palermo76. Del resto lo stesso vescovo Galletti nella citata relazione del 1737 non fece alcun cenno ai lavori della cattedrale, considerandola ultimata dal Riggio. Nel 1752 la ripresa dei lavori nella cattedrale fu sollecitata dal regio visitatore mons. Francesco Testa, forse nominato dal re su richiesta di Vaccarini; ma il senato, riscontrando difetti nella costruzione, chiese che fosse il re a risolvere il problema. Il visitatore, nell’ottobre del 1752, scriveva che era riuscito a convincere il Galletti ad ultimare i lavori della facciata, «di una spesa considerabile». Lo stesso ci informa che «la riferita facciata trovasi cominciata, ma vi sono molti dispareri intorno al disegno e intorno alla materia con cui debba costruirsi»77. I nuovi elaborati furono inviati nel 1753 a Napoli ad insaputa del Vaccarini. Questi nell’aprile dello stesso anno si recò personalmente al cospetto del re, che prese la decisione definitiva. Dopo aver ricevuto i giudizi dei suoi due architetti — negativo quello di Ferdinando Fuga e positivo quello successivo del Vanvitelli — ordinò con real dispaccio del 14

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Soprattutto è impegnato, come architetto della deputazione del regno, per la riparazione dei danni subiti a Palermo a causa del terremoto del 1751. Diventato abate del SS. Salvatore della Placa di Francavilla e di San Filippo della piana di Milazzo, morì a Palermo l’11 marzo 1768 e fu tumulato nella chiesa dei Crociferi in via Maqueda accanto alle tombe di Paolo e Giacomo Amato (ibid., 10). 76 Nell’aprile del 1745 Vaccarini redasse il progetto per l’albergo dei poveri, manifestando l’intenzione di trasferirsi nella sua città natale, chiedendo l’appoggio del Galletti, ma lamenta l’impossibilità di «piantare architettura» nella natia Palermo, quantunque avesse già fatto una dozzina di progetti. Questo progetto fu eseguito da Vaccarini «previa condizione di doversi i modelli trasmettere in Roma», con la chiara intenzione di sottrarre la competizione professionale dall’ambiente locale che a lui non era favorevole, ma suo malgrado, svolgendosi il giudizio a Palermo, il suo progetto fu bocciato (Lettera del 28 agosto 1745 citata da S. BOSCARINO, Vaccarini, cit. 72). 77 V. LIBRANDO, Il «rimarcabile affare del Prospetto», cit., 404.


La ricostruzione della cattedrale di Catania dopo il terremoto del 1693 133

luglio 1753 la ripresa dei lavori «secondo il disegno del Vaccarini […] non trovando sussistenti le opposizioni, anzi riconoscendovi dello spirito e della bizzarria nella invenzione, un ottima proporzione del tutto insieme»78. Nell’agosto 1753 il regio visitatore sollecitò la ripresa dei lavori, che dovevano svolgersi «sotto però la soprintendenza del Vescovo e una deputazione particolare», di almeno sei membri, che comprendeva il vicario generale, un canonico, il patrizio, il sindaco e «qualche titolato, come sarebbe il sig.r Principe di Biscari». Inoltre lo stesso Testa, in una lettera del 10 ottobre 1753, diede istruzioni ai deputati dell’opera grande scrivendo: «Poiché s’è riconosciuto coll’esperienza di non reggere al tempo la pietra, che dicesi sciara, che trovasi adoperata nel principio d’esso prospetto, e dovendosi perciò togliere, e sostituirsi in luogo di essa marmo bianco, o altra sorte di pietra debbono prima d’ogni cosa i Deputati deliberare su questo punto intendendone il giudizio de’ Periti»79.

L’accordo raggiunto prevedeva il ritorno di Vaccarini a Catania; ma essendo egli impegnato nella scelta dei marmi da fornire al Vanvitelli per la Reggia di Caserta, nel mese di ottobre 1755 nominò un suo sostituto nella direzione dei lavori. Fra le varie critiche fatte dal senato catanese all’architetto palermitano si legge: «Gli errori sono inescusabili, ma promette il sostituto in nome del principale Vaccarini di riparar tutto. È il sostituto un di lui dipendente, che da fabro intagliatore è passato senz’altro a far d’Architetto»80.

Il 31 ottobre Vaccarini rispose per le rime: «molto bene il mio sostituto assicura in mio nome, che il tutto anderà a dovere eseguendo quanto li prescrissi, ed a bocca li comunicai. Che puoi da fabro abbii pasato a far d’Architetto, di grazia tutti coloro, che sono nel

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E. RUFFINI, Vaccarini e Vanvitelli: spigolature d’archivio, in Palladio 1961, 181. V. LIBRANDO, Il «rimarcabile affare del Prospetto», cit., 413. 80 M. R. NOBILE, I volti della «Sposa», cit., 135. 79


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Salvo Calogero Paese, che la fanno d’Architetti tutti non sono che maestri intagliatori di pietre, né prima del mio arrivo in Catania s’intese mai questo titulo, del resto egli è il migliore, che disegni, che abbii fatto delle opere più proporzionate, e che discorra più d’ogni altro, e così quando la deputazione, ed io scelsimo il più abile pare d’avere operato sagiamente. Che oggi venghi anche questo sdileggiato ben si vede, che si fa per farci correre l’istessa sorte del Principale»81.

La firma dell’architetto Francesco Battaglia in diverse relazioni sulla fabbrica del prospetto82, non lascia dubbi sul nome del sostituto del Vaccarini che, «per dare sodisfazione al publico e per chiudere la bocca a tanti pappagalli», realizzò un modello in cartapesta scala 1:1 dei pilastri e colonne. Battaglia fu scelto dal Vaccarini con il consenso dei deputati83 dell’opera grande e fu descritto dall’architetto palermitano come «il migliore, che disegni, che abbi fatto delle opere più proporzionate». La nomina di Francesco Battaglia quale sostituto nella fabbrica del prospetto, arrivò nel momento più critico della sua attività84, cioè quando, nel mese di settembre del 1755, crollò parzialmente il fianco di tramontana 81

L. c. La notizia è stata comunicata, gentilmente, da Marco Rosario Nobile, il quale ha consultato le suddette relazioni nell’Archivio di Stato di Napoli. 83 L’atto di nomina fu spiegato da Vaccarini in questo modo: «d’ordine dell’ill.mi Signori Deputati, ed astretto dalla necessità di portarmi al travaglio del Real servigio, abbii fatto il detto atto di sustituzione, e rendere così publiche le istruzioni concernenti alla sodezza dell’opera, e responsabile insieme il detto sustituto con averli pria segnata in grande pianta delli retropilastri, e tutti le modinature, e disegno delle porte piccole, e datone anche lo staglio delle dette Porte, ecco le parole dello stesso atto. Presentibus ad haec omnia, et singula in praesenti actu substitutionis dicti Architetti contenta, declarata, et expressata ill.mo, et rev.mo Domino D. Pietro Galletti Dei, et Apostolicae Sedis gratia episcopo huius praedictae uti magistro Operae Magnae, et ill.mo rev.mo D. Joanni Baptista Riccioli canonico dictae Cattedralis ecclesiae in spiritualibus, et temporalibus Vicario Generali huius Urbis, eiusdemque diocesis uti deputato fabricae dicti Prospectus Cattedralis ecclesiae praesentibus cognitis, et de supra dicta substitutione se contantibus, eorumque assensus, pariter et consensus praestantibus, et tribuentibus omni meliori modo etc. et non aliter» (M. R. NOBILE, I volti della «Sposa», cit., 135). 84 Francesco Battaglia diresse i lavori del monastero dei benedettini a partire dal 1732, prendendo il posto di Giuseppe Palazzotto, fino al 1738, quando, per un errore nel trac82


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della chiesa di San Nicolò l’Arena85, evento che avrebbe stroncato l’attività di qualsiasi architetto; tuttavia grazie all’aiuto dell’amico Vaccarini, gli fu data una ulteriore possibilità non accettata volentieri dal senato catanese che scriveva: «Appunto nell’andato mese sono crollati dui pilastri maggiori del Tempio de’ Benedettini, che erano stati dal riferito sostituto del Vaccarini assicurati per solidi, con aver tratto seco a rovina le volte, e gl’archi eretti per di lui direzione sopra li medesimi, e con aver fracassato le altre volte, e mura della superior parte dell’ala dritta: considerevole danno che assorbisce la somma di ventimila scudi circa. Questo successo agumenta la paura del publico a segno, che molti si protestano di astenersi dall’entrare nel duomo da che sarà alzato, e rappezzato nella disposta forma il Prospetto»86.

Dopo il real dispaccio del 26 marzo 1757, che ordinava l’esecuzione del prospetto, il 6 aprile morì il vescovo Galletti e nel luglio dello stesso anno il viceré, marchese Fogliani, comunicava a Testa che doveva continuare «la cura e l’ulteriore corso della fabrica»87.

ciamento del refettorio, fu sostituito da Giovan Battista Vaccarini, che forse fece da paciere, per chiudere ogni strascico litigioso. Nel dicembre del ’42 risulta un pagamento «a don Francesco Battaglia per lustrare e lavorare le boffette di marmo per li refettori», mentre i lavori, conclusi da Vaccarini nel 1743, saranno continuati dallo stesso Battaglia nel 1747. A riprova dei rapporti, affettuosi anzi fraterni, tra i due aggiungiamo che Vaccarini «volens spiritualem affinitatem inhire cum D. Francesco Battaglia civitatis Cathanae» e dimorando a Palermo, nel 1753 nominò un suo procuratore per il battesimo del nascituro dell’amico catanese. (V. LIBRANDO, Francesco Battaglia, cit., 15). Inoltre Battaglia ricevette, nel febbraio del 1759, la nomina di sostituto alla soprintendenza dell’università, al posto dell’altro architetto catanese Giuseppe Palazzotto (l. c.), il quale, probabilmente, insieme al canonico don Bernardo D’Amico e al chirurgo Domenico Di Stefano, fu fra i principali oppositori del progetto di Vaccarini (relazione del 31 ottobre 1755, in M. R. NOBILE, I volti della «Sposa», cit, 43). 85 Al posto di Battaglia nel gennaio 1756 i padri benedettini nominarono Giuseppe Palazzotto architetto della fabbrica, incarico che mantenne fino al mese di luglio 1763 (F. FICHERA, G. B. Vaccarini, cit., 151-153). 86 M. R. NOBILE, I volti della «Sposa», cit., 136. 87 V. LIBRANDO, Il «rimarcabile affare del Prospetto», cit., 406.


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Salvo Calogero

Il nuovo vescovo, mons. Salvatore Ventimiglia, anche lui palermitano, dopo avere fatto il suo ingresso nella diocesi catanese88, il 14 maggio 1758, «nel breve giro di pochi giorni», come gli aveva comunicato il viceré, era «già riuscito di comporre con soddisfacimento universale di tutta codesta città le contenzioni, che erano eccitate intorno al rimarcabile affare del Prospetto». Il vescovo Ventimiglia ha il merito, quindi, di avere portato a compimento la facciata che, nel 1761, «è ridotta a buon termine» e, a spese dello stesso vescovo, «perfezionata colla scultura», come documentato da una incisione del Gramignani (fig. 4) la quale chiarisce i tempi e le modifiche apportate al progetto originario89. Come spiega Vito Librando «questa severa incisione, più corretta nel determinare i chiaroscuri ed efficace nel rendere il movimento delle strutture, manifesta una ben diversa impostazione grafica, del tutto fedele al disegno, anche per consentire la valutazione delle misure delle singole parti del prospetto. Con essa recuperiamo, pertanto, sia pure ridotto nel segno incisorio, il primo disegno architettonico di Vaccarini, che nell’iscrizione esplicitamente dichiara l’incisione conforme al progetto di cui nel 1757 venne ordinata l’esecuzione, già approvato nel 1753 dallo stesso re Carlo — che sin da allora era desideroso di rendere giustizia all’architetto siciliano che si prodigava nel fornire marmi, estratti dalle cave di Castronuovo di Sicilia, per la reggia di Caserta — dopo aver consultati i due più valenti architetti, Vanvitelli e Fuga»90.

88 A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1762), in Synaxis 10 (1992) 315-418: 333. 89 «Pianta, ed elevatione geometrica del marmoreo prospetto nella real matrice della chiarissima e fedelissima Città di Catania, ordinato dal fu Ill.mo Mon.r Galletti l’anno 1733 approvato in Roma dall’Accademia di S. Luca, e dagl’architetti dell’Aug.mo Monarca Carlo Borbone, che con suo real dispaccio sotto li 26 marzo 1757 ne ordinò l’esecutione, ed ora adornato dall’Ill.mo Mon.r Ventimiglia, al quale l’Abbate D.r D. Giovanni Battista Vaccarini architetto dedica e consacra: poiché se è un grand’onore ordinare una gran fabrica, egli però è massimo l’haverla a sue spese perfettionata colla scultura» (V. LIBRANDO, Il «rimarcabile affare del Prospetto», cit., 382). 90 L. c.


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Fig. 4 – Stampa disegnata dal Gramignani nel 1761

Nella relazione scritta dal vescovo Ventimiglia il 12 maggio 1762, si chiarisce lo stato dei lavori: «Il prospetto principale del tempio, che è volto verso occidente, dalla base fino al frontone è ricoperto di marmo di Carrara e di Sicilia; si fa ammirare per la bellezza dell’architettura e, soprattutto, per le colonne egiziane che vi sono collocate. Perché sia completato occorre sistemare ventidue statue di marmo, che io stesso ho cominciato a realizzare; due di esse sono state


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Salvo Calogero ultimate e collocate al loro posto, la terza sarà ammirata fra breve, le altre sono state commissionate agli scultori»91.

Per capire le opposizioni del senato e degli architetti catanesi al progetto del Vaccarini, si devono immaginare i materiali utilizzati il cui effetto cromatico è stato ripristinato da un recente restauro. Francesco Fichera scrive nel 1934: «Il Vaccarini non poteva se non produrre quell’opera fredda e impersonale che noi vediamo, dove l’obbligo dell’uso delle antiche e assai diverse colonne — tratte dall’antico teatro e da altre opere romane —, produsse quello squilibrio tra ordine e ordine che è la più grave menda della composizione, insieme ad una certa vivacità decorativa di seconda mano [… Contro il quale congiurò anche il colore del materiale, che va dal grigio cupo del granito delle colonne al grigio chiaro degli intagli in marmo di Carrara, al grigio medio del liguorino dei fondi»92.

Di sicuro il progetto di Vaccarini richiama molti elementi presenti nell’architettura romana, come si evince dal confronto fra una stampa della fabbrica di San Pietro93 (fig. 5) e il motivo decorativo inserito in uno dei due pilastri del prospetto della cattedrale di Catania (fig. 6).

91 «La chiesa cattedrale fu costruita a gloria di Dio ottimo massimo dal vescovo Angerio e dal conte Ruggero, sotto il titolo dell’illustrissima martire di Cristo e vergine Sant’Agata; essendo stata distrutta due volte dai terremoti, per due volte è stata ricostruita. Poiché nel 1693 essa fu quasi rasa al suolo, il vescovo Andrea Riggio la riedificò con ingenti spese e con incredibile celerità. Per l’ampiezza e per la finezza delle opere d’arte questa cattedrale supera di gran lunga le altre chiese di Sicilia: è ricoperta di marmi, ha idonee cappelle, un’ampia volta e un’altissima cupola e da ogni parte riceve una luce che rincuora. Presso l’altare maggiore si trovano gli stalli del coro scolpiti con maestria. Conserva anche i sepolcri dei re aragonesi di Sicilia» (A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» 1762, cit., 376). 92 F. FICHERA, G. B. Vaccarini, cit., 116. 93 A. MENICHELLA, Sicilia barocca, in Patrimonio artistico italiano, Milano 2002, 34.


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Fig. 5 – Particolare di San Pietro a Roma

Fig. 6 – Particolare del prospetto della cattedrale di Catania


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Salvo Calogero

Il prospetto di tramontana della chiesa, per quanto riguarda le paraste binate con capitello composito del primo ordine che delimitano le finestre bugnate e il portale di Giandomenico Mazzolo del 1577, e il soprastante cornicione, si può pensare sia stato realizzato dopo l’intervento del Vaccarini, forse dal suo sostituto. Nella relazione inviata al papa nel 1779, il vescovo Corrado Maria Deodato, scrisse: «La cattedrale per due volte è stata riedificata dopo essere stata distrutta dal terremoto. Nel 1693 fu quasi rasa al suolo ma il vescovo Andrea Riggio la ricostruì con straordinaria celerità e impiegando ingenti capitali. Per la grandiosità della costruzione, per l’eleganza, la luce, gli altari, l’alta cupola, i rivestimenti di marmo, supera le altre chiese della Sicilia. I seggi del coro, presso l’altare maggiore, splendidamente e artisticamente scolpiti, riportano la storia del martirio di S. Agata. Nella cattedrale sono custoditi i sepolcri dei re aragonesi. Il prospetto occidentale della cattedrale, costruito con marmi siciliani e di Carrara a spese e per iniziativa del vescovo Pietro Galletti, è ammirevole per le eleganti forme architettoniche e per le colonne che i catanesi anticamente avevano asportato dall’Egitto. Le due statue di S. Berillo e di S. Euplo, diacono e martire catanese, furono collocate in alto dal vescovo Ventimiglia; ne restano da collocare altre due fra le colonne del primo ordine; sono ancora disponibili alcune somme di denaro lasciate dal vescovo Galletti, che saranno impiegate al più presto per costruire l’atrio con lo stesso tipo di marmo»94.

94 A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1779-1807), in Synaxis 12 (1994) 351-436: 385.


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4. LA NUOVA CUPOLA E IL CAMPANILE Nel 1793 il vescovo Deodato fece demolire95 la cupola realizzata nel 1714 e diede il via ai lavori di costruzione di quella nuova su disegno dell’ingegnere Carmelo Battaglia96, ultimata solo nel 1800. La costruzione della cupola è descritta nel Libro di conti della cupola della Santa Cattedrale Chiesa, conservato nell’Archivio del capitolo cattedrale di Catania. I lavori ebbero inizio il 14 gennaio 1795 con la stipula dell’atto di «obbligazione dell’intaglio bianco» e la demolizione della vecchia cupola della quale si prevedeva, in un primo momento, di lasciare parte del piedritto da utilizzare come soglia della finestre97. Il 12 febbraio 1795 si pagarono i manovali per «armare ponti, forchette, e tutto il bisognevole per detta cupola», e il 25 ottobre 1795 furono acquistati i «pezzi di misura neri per archi dell’8 finestroni». I lavori della cupola comportavano anche il rifacimento degli archi di sostegno del presbiterio, della navata centrale e del transetto e, per realizzarli, il 21 luglio 1795 furono assegnate le paghe «Alli mastri intagliatori di pietra nera per aver intagliato pezzi n. 387: per li archi di n. 6, cioè cappellone, nave, e 4 vele stimati per mastro Cosmo Mignemi e mastro Antonino Di Stefano capi mastri della fabrica». Il 19 settembre 1795 si acquistò il legno «pel coverto del cappellone ed altri» con il quale si realizzarono «costere, borrelli, puntali», e nel mese di novembre furono ultimate le coperture con l’acquisto di 1385 «canaloni per il coverto della cappella e cappellone e nave».

95 «Ho fatto demolire la cupola della cattedrale che era pericolante e ne ho fatto costruire a mie spese un’altra molto più grande e più degna dell’antichità della chiesa» (ibid., 403). 96 Carmelo Maria Battaglia et Santangelo, figlio di Domenico, era nipote dell’architetto Francesco Battaglia. 97 «E siccome il D. Carmine Battaglia ordinò il diroccamento del muro a’ torno del piede dritto remasto sotto il soglio delle fenestre non compreso nello staglio del diroccamento del piede dritto vecchio» (ARCHIVIO DEL CAPITOLO CATTEDRALE DI CATANIA, Burrone, seu petazzo del libro di conti della cupola della Santa Cattedrale Chiesa, 15 febbraio 1795, c. 71r).


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La pietra bianca di Siracusa fu consegnata in diverse partite e, già il 3 settembre 1797, si stipulò l’atto di «liberazione dello staglio delli pezzi di giorgiolena e di pietra di Siracusa» per realizzare «l’ordine bastardo, volta, collare, cupolino, piramide, fiamme e tutt’altro». Nel mese di ottobre è annotata la spesa98 del «ferro comprato per rinforzo del cornicione vicino la scala a lumaca dentro il piede dritto, per non restare li pezzi in detto a manno», e il 20 gennaio 1796 si trova quella per «n. 4 barre di ferro di detta qualità fatto comprare dal detto Battaglia per il cerchio del cupolino». Per sagomare i conci di pietra giurgiulena con i quali si realizza la calotta della cupola, chiamata anche “vortice”, si acquistano appositi cartoni disegnati dall’ingegnere e, il 5 novembre 1797, «si fa esito delle onze 12:12:12: pagate di conto alli staglianti delli pezzi di giorgiolena e Siracusa in virtù de’ certificati del detto Battaglia». La calotta è costruita sull’esempio di quella di San Nicolò l’Arena progettata dall’architetto polacco Stefano Ittar99, genero di Francesco Battaglia100. Il cupolino fu ultimato nel 1798, con il montaggio della sfera, e si trova annotata la paga «a mastro Domenico Lattuca per maestria della Palla cossì come accordato col detto Battaglia» e la spesa «per impiombarsi li ferramenti nel cupolino», compreso il «fumo di cartaro per tingersi la barconata del cupolino». La balaustra di coronamento della vecchia cupola fu riutilizzata nella nuova “barconata”, aggiungendo altri pezzi della stessa forma101, disegnata da Antonino Battaglia per il prospetto di tramontana della chiesa. 98 Ma il 20 gennaio 1796 si legge «fatto conto con Mastro Domenico Tricomi delle 6 barre di ferro di Svezia compreso l’ordine del suddetto Battaglia per situarsi sotto li spiconi del cornicione vicino la scala di lumaca del piede dritto per non restare li pezzi, ut dicitur a manno» (ibid., 20 gennaio 1796, c. 161r). 99 Relazione per i lavori della cupola della cattedrale (ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI CATANIA, Capitolo cattedrale, carpetta 10, fascicolo 10, c. s. n.). 100 G. DATO – G. PAGNANO, Stefano Ittar, un architetto polacco a Catania, in Lembasi, Caltagirone 1995, 85-104. 101 «A 23 Agosto 1798. Più balaustri per la barconata n. 56: novi con otto perni e viti […] oltre li n. 52 vecchi» e «più per maestria in situare nelli cerchi li balaustri novi e vecchi in n. 108, e fare li pertuggi novi per sopra e sotto nelli suddetti cerchi, e chiodi al n. di 216, nec non per riparare, e riformare li 4 palocchi vecchi, e se refecero n. 8» (Burrone, cit., c. 190v. e c. 192r).


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Alla fine del 1798 si eseguirono i lavori di impermeabilizzazione, come risulta dalla spesa registrata il 30 settembre «per travaglio della intera settimana scorsa di mastri, manuali, e picciotti per la battume in parte delli piconi di detta sotto li finestroni del piede dritto» e il 3 ottobre quella per «rossa comprata da mastro Domenico Pulvirenti in molte partite per la battume del suolo sotto li finistroni grandi all’intorno, nec non per la battume che devesi fare sopra il piede dritto». Nello stesso periodo risultano eseguiti i lavori di intonacatura interna della cupola102, il montaggio della scala addossata alla calotta103 e degli «intagliatori per la balata sopra la cagnolata di levante, e li ante, e retro sogli delli finestroni dello piede dritto». La stuccatura dentro la cupola fu eseguita da nastro Salvatore Arangio, mentre il 22 gennaio 1799 si pagò il «Mastro Stagnataro per situare li 96: mezzi vitroni in dette vetrate del cupolino nelli telari, e carrette». La cupola fu ultimata nel mese di dicembre 1799 sotto la direzione dell’ingegnere Antonino Battaglia104, il quale certificò la qualità del cocciopesto dopo aver «pestato la rossa di mattoni antichi». La contabilità riporta anche la spesa effettuata «per un pezzo di legno di sorba stagionato per farsi li n. 12: mazzacane per battere la nuova battume da farsi alla cupola e di essere larghe oncie dieci, lunghe palmo uno oltre il manico secondo l’ordine dell’ingegnere». Infine, venne inserita la croce nella palla del cupolino e nel 1801 si applica lo stucco interno alla chiesa, nascondendo l’originaria pietra 102

«A primo ottobre 1798. Per un due mondelli per misurare la polvere di marmo per il bianco di dentro la cupola». «A 16 detto ottobre 1798. Agliara sottile nera per il ribucco». «A di detto (23) pagati a Mastro Francesco Russo genero, ed incombensato d’arangio per arrizzarsi li due delfini di fabrica, e tutto il muro, che guarda il levante, ed un delfino che guarda il mezzogiorno». «A 14 detto (novembre). A 3 manuali per consegnare (+ e misurare) alli novi staglianti del rustico del di dentro della cupola la calce, ed agliara grossa e sottile». «A 3 gennaio 1799. Polvere di marmo remasta di tutta quella comprata, consegnata a mastro Salvatore Arangio per lo stucco di dentro della cupola» (ibid., c. 199v. e c. 206r). 103 «A 17 settembre 1798: Ferro per 3 scaloni adagiati alla scala di ferro nella parte di sopra per sopravanzare il collare». «Per fare li nuovi pertuggi alla suddetta scala situata, e per detta aggiunta delli 3 scaloni s’ebbe la necessità cambiare le scaline per più invitare per semplice maestria» (ibid., c. 197v). 104 Antonino Maria Battaglia et Amato, figlio di Francesco, era cugino di Carmelo Battaglia.


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d’intaglio attualmente liberata grazie al restauro dell’architetto Raffaele Leone. Nel 1802 il vescovo scrisse: «Come ho riferito nella relazione del precedente triennio, avevo provveduto a costruire con magnificenza nella mia cattedrale la nuova cupola, dopo aver demolito la vecchia che era pericolante. Negli anni scorsi ho pensato a rivestire con stucchi le pareti interne»105.

La demolizione dell’originaria cupola deve avere provocato la protesta dei catanesi e la motivazione «che era pericolante» sembra un pretesto per consentire al vescovo di ammodernare la cattedrale al nuovo stile neoclassico106. Infatti, Domenico Privitera scrisse nella lettera del 1804 ad un amico: «Quella cupola innalzata dal Reggio sino a centocinquanta palmi, come l’ab. Amico rapporta, ma un po’ inelegante e bassa, si è diggiù demolita dal coraggio di Deodato, e si erige in sua vece una Cupola di molto più sublime, più elegante, e regolare di pietra viva sopra un piede variato in pietra di Siracusa d’ordine Corintio, e di finestroni terminanti in piccolo frontespizio checchè dica il citato Sig. Milizia all’art. Cupola»107.

Nel 1807, dopo avere eseguito la recinzione attorno alla cattedrale con balaustre in pietra di Taormina, l’architetto Antonino Battaglia realizza l’«opera marmorea consistente la cancellata dell’altare maggiore della insigne Cattedrale Chiesa»108.

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A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» (1779-1807), cit., 407. «[…[ il tempo aveva di già sparse le sue tenebre sopra gli ornamenti che l’architettura di quell’età (del Riggio) aveva impiegati per abbellire la Casa del Signore e un non so che di tenebroso e di ruvido parea di regnare ove tutto debb’essere luce e bellezza. Corrado non tarda a riparare questo danno: […] e il tempio di Catania si vede sorgere più maestoso e più bello di nuova Cupola, e di ornamenti novelli» (F. STRANO, Elogio di Mons. Deodato [...], Catania 1814, 16). 107 D. PRIVITERA, Lettera ad un amico [...], Catania 1804, 10. La lettera porta la data del 18 agosto 1804. 108 ARCHIVIO DEL CAPITOLO CATTEDRALE DI CATANIA, Opera Grande 1771-1845. 106


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Francesco Ferrara sintetizzò questi avvenimenti nella sua storia di Catania, nella quale si legge: «Riggio che la rifece con stupore di tutti in due anni cambiò quasi tutto. Le colonne furono tolte via, e la grande navata venne sostenuta da doppi pilastri sui quali si eleva la lunga volta. Galletti dopo avere abbellito l’interno cominciò il prospetto nel quale dopo la sua morte, ma a sue spese furono messe sei delle grosse colonne granitiche che Riggio tolto avea dall’interno, e molte delle piccole, in alto avendo il prospetto più ordini sebbene l’interno non ne abbia che uno. Ventimiglia vi aggiunse le statue di marmo. Galletti non volle più l’antica porta, e ve ne pose una nuova facendo il prospetto nel 1734; fu essa posta alla entrata della Loggia, ma anche ne venne tolta allorché si migliorò quell’edificio nel 1750, e fu data alla chiesa delle sante Carceri»109.

Nel 1852, su incarico del vescovo Felice Regano, l’ingegnere Carmelo Sciuto Patti progettò il campanile da costruirsi sopra la cappella del SS. Crocifisso della cattedrale. I lavori furono ultimati il 20 settembre 1857, e sono descritti in una dettagliata relazione sottoscritta dallo stesso ingegnere110. Dalla citata relazione si evincono i «lavori da eseguirsi per la costruzione del campanile nella Venerabile Chiesa Cattedrale di Catania, non che per portare a compimento la decorazione de’ lati di ponente e tramontana del transetto destro di detta Chiesa». In particolare l’«attico e balaustrata sopra l’aula capitolare» devono essere costituiti da una «cornice di pietra bianca in detta balaustrata in continuazione della esistente sopra le

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F. FERRARA, Storia di Catania, cit., 526. «Relazione sull’ammontare di lavori di fabbrica, legname, ferro ed altro eseguiti da Domenico Costantino ed Onofrio Finocchiaro, quali appaltatori delle opere per la costruzione del campanile nella Santa Chiesa Cattedrale di Catania, e dell’attico a balaustri sopra il fabbricato della Aula Capitolare, giusta il progetto da me redatto sotto il giorno otto marzo 1852 approvato da S. E. Rev.ma Monsignor Felice Regano, ed ai termini dell’atto d’appalto rogato da questo Notaio Signor Don Antonino Russo Contremoli sotto il giorno ventotto giugno 18cinquantasei, registrato in Catania al n. 18307 lib.1, vol. 747, fog. 95, cas.1. Quale relazione viene da me sottoscritto Ingegnere compilata giusta il n. 9 del cennato atto d’appalto» (ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI CATANIA, Capitolo cattedrale, Carpetta 10, fascicolo 10, c. s. n.). 110


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navate minori della Chiesa con la stessa forma e dimensione», e i «balaustri in detto di forma e dimensioni simili agli esistenti di numero ottanta». Quindi, tralasciando la descrizione del sistema costruttivo del campanile che merita una discussione più ampia ed approfondita, dalla relazione di Sciuto Patti si evince che il completamento dei prospetti dell’aula capitolare fu eseguito in questo periodo proseguendo il disegno del prospetto di tramontana della chiesa.

CONCLUSIONE Gli ultimi lavori eseguiti nella cattedrale risalgono al 1957, durante i quali l’architetto Raffaele Leone, dopo un’accurata indagine delle strutture, liberò la muratura e i pilastri dagli stucchi collocati dal Battaglia, evidenziando la stratificazione degli interventi susseguitisi nel tempo. Dalla documentazione esaminata si evincono i nomi degli architetti che hanno contribuito alla costruzione della cattedrale. Il capo mastro Giuseppe Longobardo dirige i lavori di ricostruzione sotto il vescovado di monsignor Riggio, seguendo le indicazioni impartite da don Giuseppe Lanza duca di Camastra nelle istruzioni del 1694; l’architetto Giambattista Vaccarini progetta il prospetto principale e, insieme a Francesco Battaglia, ne dirige i lavori; l’ingegnere Carmelo Battaglia progetta la cupola e ne dirige i lavori, continuati dopo la sua morte dal cugino Antonino Battaglia; l’ingegnere Carmelo Sciuto Patti progetta il campanile e ne dirige pure i lavori; e infine l’architetto Raffaele Leone interviene nel 1959 con un restauro di tipo conservativo. Non si conosce il nome del progettista della prima cupola, ultimata nel 1714 sotto il governo del vescovo Riggio. Rosario Pennisi, attingendo dalla bibliografia che attribuisce il progetto della cattedrale di Catania a fra Liberato, al secolo Girolamo Palazzotto, commenta così quest’opera: «Nell’ispirazione del buon frate non ebbe presa il fastoso barocco degli arbori del Settecento, ed egli ci regalò, invece, un’arte ingenua consona ai sentimenti dell’anima sua e alla maestà della Casa di Dio […] Staccossi, è vero, dalla sveltezza ed agilità delle arcate ogivali e dal fascino


La ricostruzione della cattedrale di Catania dopo il terremoto del 1693 147 seducente dell’antica decorazione, ma sta di fatto che l’interno del tempio, così come fu progettato dal Palazzotto, per la sua grandiosità sempre s’impone e si ammira»111.

Come si evince dalla contabilità, Girolamo Palazzotto lavorò nella cattedrale come scultore, insieme ad Antonio Biondo (Biundo), sotto la direzione del capo mastro della fabbrica, Giuseppe Longobardo. Quindi, non essendo l’architetto della cattedrale, per lo meno nelle parti di cui è stato possibile esaminare la contabilità, è opportuno esaminare le fonti bibliografiche che gli attribuiscono il progetto. Nel 1781 nella biografia di Girolamo Palazzotto padre Andrea da Paternò scrisse: «fattasene prova a concorso, che quel Vescovo Monsignor Don Andrea Riggio, dar volendo di mano alla magnifica fabbrica di quella sua Cattedrale, fra i molti disegni e modelli, quello del nostro Girolamo fu riconosciuto più esatto col magnifico superbo Prospetto, che oggi l’adorna, ed alla di lui direzione furono subordinati tutt’i lavoranti»112.

Il prospetto «che oggi l’adorna» fu progettato da Vaccarini e non da Girolamo Palazzotto. Per cui, essendo frequenti in quel periodo i concorsi per l’esecuzione delle facciate nelle cattedrali o nelle chiese madri, si può formulare l’ipotesi — da confermare con l’ausilio di idonea documentazione — che il concorso indetto dal Riggio abbia riguardato il progetto del prospetto della cattedrale il quale, non essendo stato realizzato a causa del suo esilio, venne messo da parte dal suo successore Galletti per farne eseguire uno nuovo al Vaccarini. Oppure il giovane Girolamo Palazzotto vinse il concorso per la realizzazione della cattedrale nel 1709, il cui progetto comprendeva la

111 R. PENNISI, Notizie storiche sulla Cattedrale di Catania e sull’affresco della grande abside, in ASSO 23-24 (1927) 249-296: 277-278. 112 P. ANDREA DA PATERNÒ, Notizie storiche degli uomini illustri per fama di Santità e di lettere che han fiorito nell’Ordine de’ FF. Min. Cappuccini della Provincia di Messina in Sicilia, Catania 1781, vol. II, 231-233.


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primitiva cupola, ma i lavori furono diretti dal capo mastro Giuseppe Longobardo, contraddicendo quanto scritto da padre Andrea da Paternò. Concludendo, sarebbe opportuno approfondire gli aspetti inediti della vita di Girolamo Palazzotto, definito dai suoi contemporanei «Servo di Dio e Insigne Architetto», per fare luce sul progettista della prima fase della ricostruzione della cattedrale catanese e sulla prima cupola costruita nella Sicilia Orientale dopo l’evento sismico del 1693.


Synaxis XXII/1 (2004) 149-183

RATIO STUDIORUM, STATUTI E REGOLAMENTI DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO. Un contributo per una sua configurazione*

MATTEO MALGIOGLIO** GIUSEPPINA MONTEROSSO***

INTRODUZIONE Il presente contributo intende far emergere le preoccupazioni e le costanti pedagogiche che soggiacciono alle Ratio studiorum dello Studio Teologico S. Paolo di Catania, nonché presentare, attraverso l’analisi degli Statuti e dei Regolamenti scolastici, i criteri di configurazione degli organismi collegiali che lo strutturano e disciplinano. Il lavoro non ha pretese di essere esaustivo, e ciò per una scelta di partenza: infatti, le fonti utilizzate per il presente studio sono limitate e in maggioranza inedite. Si tratta dei verbali delle riunioni degli organismi del S. Paolo, quali l’Assemblea generale, il Consiglio dello Studio, il Consiglio di presidenza, dei discorsi pronunziati dal preside all’apertura degli anni accademici e degli annuari dello Studio. A scanso di equivoci, quelle prese in considerazione in questo articolo rientrano nella categoria di fonti pubbliche o pubblicate, per questa ragione presentiamo il lavoro con la serenità di non aver violato il rispetto e la giusta riservatezza delle persone coinvolte, di tutti coloro che a proprio modo hanno contribuito alla nascita e alla crescita di questa

* Estratto delle tesi di Baccalaureato in Teologia, discusse il 5 ottobre 2001 e il 28 giugno 2002 presso lo Studio Teologico S. Paolo, relatore prof. Salvatore Consoli. ** Baccelliere in Teologia. *** Baccelliere in Teologia.


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giovane creatura che è il S. Paolo di Catania. L’analisi, infatti, ha interessato solo i documenti e non l’azione o il ruolo delle persone. L’esserci occupati dell’agire delle persone solo in relazione alle decisioni ultime e ufficiali, così come si trovano sui documenti, ha comportato, ai fini del raggiungimento dell’obiettivo di partenza, un ulteriore limite, ossia l’esclusione di un altro gruppo di fonti: le lettere. Nell’analisi delle costanti e delle preoccupazioni pedagogiche delle Ratio studiorum e dei Regolamenti scolastici, come dei principi degli Statuti, sarebbe stato importante effettuare un confronto con quelli di altri istituti teologici, specie di Sicilia, e con i documenti del Magistero. Se ciò non è accaduto lo si deve ai limiti del saggio stesso. Tuttavia, si è comunque accennato, laddove era necessariamente richiesto, alle risposte che i vari documenti della Congregazione di volta in volta hanno suscitato in seno ai dibattiti degli organismi dello Studio, ai fini della strutturazione e revisione di Ratio studiorum, Statuti e Regolamenti.

1. LE VARIE RATIO STUDIORUM 1.1. Fondazione del S. Paolo e prima Ratio studiorum Il 13 ottobre 1969, le diocesi di Acireale, Catania, Noto e Siracusa inaugurano lo “Studio Filosofico-Teologico Interdiocesano S. Paolo” con sede a Catania presso il Seminario Arcivescovile dei Chierici. L’iniziativa nasce come risposta al rinnovamento degli studi ecclesiastici voluto dal Concilio Vaticano II per assicurare ai presbiteri una formazione teologica rispondente alle esigenze del mondo contemporaneo. Queste Chiese, pur restando in linea con le direttive proposte dal Concilio Vaticano II nel decreto Optatam Totius1, ne superano i suggerimenti: infatti non danno vita ad un Seminario interdiocesano ma ad uno Studio interdiocesano2.

1 2

1970, 7.

Cfr Optatam Totius, 7. Statuto 1969, art.11, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1969-70, Acireale


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Già nel primo discorso inaugurale dell’anno accademico 1969-70, il preside Reginaldo Cambareri auspica un condiviso spirito di apertura e di corresponsabilità in vista di future modifiche, riconoscendo altresì l’importanza del risultato raggiunto: la convergenza di energie da diocesi diverse per una causa comune3. La nascita dello Studio è subito avvertita come un fatto di grande portata4. Rispondendo al desiderio espresso da più parti, al suo secondo anno di vita, lo Studio apre ai laici5 e alle religiose. All’inizio lo Studio ha una struttura semplice: lo Statuto, composto di 11 articoli, e la Ratio studiorum che si ispira alle indicazioni della Optatam Totius, riguardo al contenuto, ai metodi e alla organicità delle varie discipline. Statuto e Ratio studiorum sono approvati ad experimentum per un anno. Due anni dopo la sua fondazione, lo Studio viene affiliato alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e abilitato a rilasciare il grado accademico del Baccalaureato in Teologia6. Nel 1990, invece, sarà aggregato alla Facoltà Teologica di Sicilia, e abilitato a rilasciare il secondo grado accademico della Licenza in Teologia, con specializzazione in Teologia morale. La prima Ratio studiorum, sulla quale fu impostato l’inse-gnamento dell’anno accademico 1969-70, fu approvata ad experimentum per un anno (rimase tuttavia in vigore anche negli anni accademici 1970-71 e 1971-72), e ciò perché si attendeva la promulgazione da parte della S. Congregazione per l’Educazione Cattolica della Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis con le relative indicazioni sugli studi ecclesiastici.

3

Cfr Discorso inaugurale anno accademico 1969-70. Cfr M. PENNISI, Una preparazione teologica secondo lo spirito del Concilio Vaticano II, in L’Osservatore Romano, 13 aprile 1991, 8. 5 Con il termine laico qui si intende “studente non candidato al sacerdozio”. Per la complessa nozione di laico cfr L. NAVARRO, Il fedele laico, in Il Diritto nel mistero della Chiesa, II, Roma 19902, 142-170. 6 Cfr Prot. 469/71/5, decreto che verrà rinnovato ad quadriennium. 4


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La prima Ratio s’ispirava alle indicazioni del decreto Optatam Totius quanto ai contenuti e ai principi relativi all’unità d’insegnamento7. La Ratio infatti era suddivisa in unità tematiche distribuite per anno di corso8. In seguito alla pubblicazione della Ratio fundamentalis, il 6 gennaio 1970, fu poi avviato il lavoro di rielaborazione della Ratio studiorum provvisoria9. Il lavoro di revisione della prima Ratio fu articolato e complesso10, in particolare si cercò di far convergere nel nuovo piano di studi tutte le istanze e le preoccupazioni pedagogiche che erano scaturite dalla sua analisi critica, tra le quali, in primo luogo, l’aggiornamento nei metodi d’insegnamento11. In secondo luogo, nella strutturazione della nuova Ratio si tenne conto dei criteri indicati dai numeri 78-80 della Ratio fundamentalis12. Quindi si lasciò 7

Cfr Optatam Totius, 17. Le unità tematiche della prima Ratio erano: «La condizione dell’uomo di fronte alla Parola» per il primo corso; «La Parola» per il secondo corso; «La Rivelazione di Dio in Cristo» per il terzo corso; «Il Cristo nella Chiesa e nei Sacramenti» per il quarto corso; «L’uomo redento» (antropologia soprannaturale) per il quinto corso; «La Pastorale» per il sesto anno di corso (cfr STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1969-70, Acireale 1970, 10-12). 9 Cfr STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1970-71, Acireale 1971, 3. 10 Già con il secondo anno accademico, 1970-71, erano state apportate delle lievi modifiche alla divisione delle unità tematiche: al quarto anno si aveva, anziché «Il Cristo nella Chiesa e nei Sacramenti», «L’uomo redento» (Antropologia soprannaturale), prima collocata al quinto anno, e al quinto anno «Il compimento di tutte le cose in Dio». Spariva secondo questa Ratio, ancora in fase di rielaborazione, il sesto anno, quello destinato alla pastorale (cfr STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1970-71, Acireale 1971, 20-22). 11 Cfr S. CONSOLI, Lo Studio Teologico S. Paolo, in Per un bilancio di fine secolo Catania nel novecento, Atti del III Convegno di studio (1951-1980), a cura di C. Dollo, Catania, 306. 12 Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, 78: «La sacra scrittura è come l’anima di tutta la teologia e deve informare tutte le discipline teologiche […]». Ibid., 79: «La sacra liturgia deve essere ora considerata una delle discipline principali […]. La teologia dogmatica sia insegnata integralmente ed ordinatamente […]. Anche la teologia morale dovrà essere ancorata alla sacra scrittura. Illustrerà la vocazione cristiana dei fedeli fondata sulla carità, esponendo in modo scientifico i loro obblighi […]. Questa dottrina morale ha il suo completamento nella teologia spirituale […]. La teologia pastorale dovrà illustrare i principi teologici dell’azione con cui la volontà salvifica di Dio può essere portata ad effetto nella chiesa di oggi per mezzo di diversi ministeri e istituzioni […]. La storia ecclesiastica deve illustrare l’origine e lo sviluppo della chiesa come popolo di Dio che si diffonde nel tempo e nello spazio, esaminando scientificamente le fonti storiche […]. Il diritto canonico sia insegnato tenendo conto del mistero della chiesa, dal concilio Vaticano II più profondamente scrutato». 8


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ulteriore spazio alle istanze che erano venute man mano maturando dall’interno. Tra queste, quella di dare ampio spazio allo studio delle discipline filosofiche. Inoltre, secondo le indicazioni di Optatam Totius, un elemento su cui si insiste è rappresentato dalla riduzione delle discipline13. Le proposte per la strutturazione della nuova Ratio non furono comunque soltanto il frutto della riflessione del gruppo dei docenti e degli altri responsabili della vita dello Studio14, ma anche dell’Assemblea degli studenti15. Secondo le preoccupazioni degli studenti, infatti, la chiamata al ministero sacerdotale deve essere maturata attraverso un’esperienza di Chiesa che non prescinda dalla dimensione pastorale16. Le proposte presentate dagli studenti furono molto costruttive, dopo la denuncia della situazione in cui versava lo Studio S. Paolo: l’unità tematica, sviluppata in un semestre, deve avere l’obiettivo di affrontare uno stesso tema nella prospettiva e col contributo delle diverse discipline; si richiede la presenza operativa di professori a tempo pieno; va favorita una sintesi personale tra disciplina insegnata ed esperienza pastorale condotta17. Appare evidente, pertanto, quanto l’ansia pastorale fosse sentita dagli studenti e con quanta passione partecipassero alla vita dello Studio per apportare il proprio contributo alla sua crescita, sentita come collegata alla maturazione personale di ciascuno.

13 Optatam Totius, 18: «Si curino diligentemente l’unità e la sodezza di tutto l’insegnamento, evitando l’eccessivo numero di materie e di lezioni e omettendo quelle questioni che non hanno più alcuna importanza o che devono lasciarsi agli studi accademici superiori». 14 Cfr Statuto 1969, artt. 6-8, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1969-70, Acireale 1970, 6-7. 15 Sin dal primo anno di vita, gli studenti sentirono il bisogno di creare un loro organismo di partecipazione alla vita dello Studio, l’Assemblea degli studenti, di cui redassero lo statuto, approvato ad experimentum per un anno (cfr Statuto dell’Assemblea degli studenti, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1969-70, 13-15). L’Assemblea degli studenti nasce come «espressione di libertà, di responsabilità e di dialogo» con lo scopo di «discutere e di avviare a soluzione i problemi inerenti allo “Studio”, in collaborazione con l’Assemblea dei professori» (ibid. 13). 16 Documento degli studenti all’Assemblea generale, 12/4/1972, 1. 17 Ibid., 2.


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1.2. La Ratio studiorum del 1972 La nuova Ratio, che entrò in vigore con l’anno accademico 1972-73, appare come il punto di arrivo della riflessione sull’esperienza d’insegnamento degli anni precedenti, e una risposta all’esigenza di sintesi e di crescita globale avvertita dagli studenti. In essa emerge il principio di superare l’iniziazione alle singole discipline come fatto autonomo, e la proposta di una loro reciproca correlazione, in modo da rendere possibile, mediante l’integrazione di tutti gli apporti, una effettiva sintesi culturale18. Nella Ratio le discipline sono ordinate in unità tematiche da svilupparsi nell’arco di un semestre, ciò pertanto ne determina una maggiore concentrazione e coordinazione. La Ratio, in sostanza, presenta tutte le materie in dieci semestri autonomi, in modo da consentire all’alunno di frequentarli tutti nel corso di cinque anni accademici19. La nuova Ratio prevede, quale struttura portante, l’insegnamento in comune, nel quale siano coinvolti docenti e alunni come protagonisti dello svolgimento della stessa unità tematica20. Pertanto, non viene indicato nel piano il numero di ore delle singole materie, ma si lascia all’impegno comune di docenti e alunni, all’interno di ogni semestre, stabilire l’avvicendarsi degli insegnanti e delle lezioni, secondo il modo che sarà di volta in volta ritenuto «più significante e didatticamente più efficace»21. Tuttavia, per ogni unità tematica è previsto un numero di ore che può oscillare dalle quindici alle diciotto settimanali22. Esigenza fondamentale è quella di non programmare tutto in una riunione d’inizio anno, ma di lasciare piuttosto tutto lo spazio a una «tensione costante a ricerche, confronti, revisioni comuni, così da dare vita a una vera unità dinamica»23.

18 Ratio studiorum ’72, Note esplicative, 1, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1972-73, Acireale 1973, 14. 19 Cfr Ratio studiorum ’72, Note esplicative, 2. 6, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1972-73, Acireale 1973, 14-15. 20 Cfr Ratio studiorum ’72, Note esplicative, 3, in ibid., 14. 21 Cfr Ratio studiorum ’72, Note esplicative, 4, in l.c. 22 Vd l. c. 23 Ratio studiorum ’72, Note esplicative, 5, in l. c.


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1.2.1. Modifiche alla Ratio studiorum del 1972 A breve distanza dall’entrata in vigore della nuova Ratio, cominciarono a farsi avanti alcune proposte di modifica della stessa: la possibilità di aggiungere nuove materie, come l’ascetica (o teologia spirituale), la patristica, la catechetica, la missiologia; così come si pensò di provvedere, congiuntamente alla revisione dello Statuto e della Ratio, alla impostazione del problematico sesto anno24. Successivamente furono avanzate altre proposte: aggiungere la teologia spirituale, la metodologia generale e la teologia pastorale; l’istituzione di un biennio esclusivamente filosofico e di un quadriennio teologico. Giudizio complessivo è che l’alternativa alla nuova Ratio può scaturire solo da una maggiore efficacia delle unità tematiche, frutto dell’armo-nizzazione delle singole materie25. Il 29 maggio 1974, l’Assemblea generale approvò gli emendamenti presentati dall’apposita commissione di docenti incaricata della revisione26, e questi vennero inseriti nella Ratio con il titolo di Aggiunte alle Note esplicative27. Secondo questi emendamenti, lo svolgimento della Ratio esige che gli alunni siano forniti di alcuni strumenti di lavoro ritenuti indispensabili per la ricerca, ossia l’introduzione di discipline quali: greco biblico, lingua ebraica, storia della filosofia, metodologia generale, lingue moderne28. Nel discorso inaugurale dell’anno accademico 1974-75, pronunciato il 16 ottobre 1974 in S. Maria Ammalati, il preside Salvatore Consoli espresse compiacimento per l’approvazione degli emendamenti alla nuova Ratio. Il suo giudizio complessivo è positivo, anche se ravvisa la necessità

24 Cfr Verbale del Consiglio di presidenza del 22/11/1973 (d’ora in poi abbr. Verbale Cp), prot. 230/bis. 25 Cfr Verbale del Collegio dei professori del 12/12/1973, prot. 233/73. 26 Cfr Verbale dell’Assemblea generale del 29/5/1974 (d’ora in poi abbr. Verbale Ag), prot. 273/74. 27 Ratio studiorum ’72, Aggiunte alle Note esplicative, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1974-75, Acireale1975, 17. 28 Cfr l. c.


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di garantire meglio l’insegnamento in comune che coinvolga docenti e alunni, grazie all’impegno comune permanente durante il semestre29. Tuttavia, ad anno accademico avviato, nella riunione dell’Assemblea generale del 4 dicembre 1974, si levarono ulteriori lamentele sulla presente Ratio. Da parte di alcuni furono rilevate carenze di dialogo tra le unità tematiche, per cui si propose la costituzione di una commissione, eletta dall’Assemblea, con l’incarico di trovare gli strumenti e le modalità attraverso cui realizzare tale dialogo. Giudizio comune era che la logica e le finalità della Ratio erano in un certo senso svilite dalla situazione dello Studio, che versava in condizioni di frammentarietà e soffriva carenze strutturali ed economiche30. Per far fronte alla crisi si decise, in quella sede, di affidare ai vescovi delle diocesi le sorti dello Studio. Il 29 gennaio 1975 si tenne, pertanto, una riunione straordinaria dell’Assemblea generale con la partecipazione dei vescovi, nella quale si discusse dei problemi dello Studio, in base al foglio di lavoro redatto dalla commissione costituita dai professori Gozzo e Minissale. Si possono ricondurre sostanzialmente a due le istanze presentate dalla commissione Gozzo-Minissale. Il primo sottolinea l’esigenza di un insegnamento più qualificato e regolare, il quale potrebbe essere garantito da una continuità di presenza e da una maggiore disponibilità dei professori a dedicarsi alla vita dello Studio. Il secondo fa notare l’importanza delle Chiese locali e la possibilità di non rinunciare ad avere nel S. Paolo un centro di studio e di ricerca teologica qualificata. Anch’esso, per altro, ritiene che l’ossatura dello Studio debba essere composta da professori impegnati a tempo pieno31. Si chiede allora di avanzare proposte di soluzioni concrete, a partire dall’analisi della Ratio, della sua funzionalità e della capacità di contribuire realmente alla formazione dello studente. Alla fine la polemica trovò un punto di composizione nella valutazione generale espressa dai vescovi, cui era stato demandato il 29

Cfr Discorso inaugurale anno accademico 1974-75. Cfr Verbale Ag del 4/12/1974, prot. 294/74. 31 Cfr Verbale Ag straordinaria del 29/1/1975, prot. 301/75. 30


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compito di decidere delle sorti dello Studio. A giudizio dei vescovi, il problema della presenza di professori a tempo pieno, e dell’insegnamento di materie di prima e seconda categoria, rientra nella natura dello Studio, in quanto è la stessa Ratio che prevede lo studio di materie fondamentali e di materie ausiliarie, per cui è normale che ci siano professori più consacrati alla vita dello Studio e altri meno. Importante è allora approfondire i legami tra vescovi, docenti e alunni, per tenere sveglia l’attenzione sui problemi concreti dello Studio in modo da non perdere mai di vista l’obiettivo principale che deve essere sempre e per tutti il suo bene32.

1.3. La Ratio studiorum del 1980 1.3.1. Il lavoro preparatorio della Ratio del 1980 Nel discorso inaugurale dell’anno accademico 1975-76, il preside Consoli evidenziava alcune inadempienze nell’attuazione della nuova Ratio studiorum. Lo Statuto e la Ratio, infatti, anche se avevano permesso di compiere i passi fondamentali alla vita dello Studio, cominciavano a rivelarsi degli strumenti insufficienti, se non addirittura degli ostacoli alla rivitalizzazione dello Studio, richiedendo una necessaria revisione. Nel corso di quell’anno accademico, diverse furono le iniziative avviate per rispondere all’esigenza di rivitalizzazione dello Studio. Queste furono concretizzate e fatte convergere nel lavoro preparatorio del Consiglio di presidenza e della Commissione dei vescovi, non senza il contributo dell’Assemblea degli studenti. Si individua nelle potenzialità stesse della Ratio studiorum l’elemento chiave di una ripresa di vivacità e funzionalità nella vita didattica dello Studio, attraverso l’unitarietà di insegnamento, che potrebbe essere garantita da un frequente incontro e dialogo d’intesa tra i docenti e i docenti e gli alunni, come anche da una intelligente distribuzione delle ore di insegnamento.

32

Cfr ibid.


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Secondo la riflessione del Consiglio di presidenza, inoltre, è ritenuta necessaria la presenza di docenti impegnati «a tempo pieno»33; tali docenti devono essere come il punto di riferimento di tutto il lavoro formativo dello Studio, assumendosi la responsabilità di garantire la continuità e l’unitarietà dell’insegnamento34. L’Assemblea degli studenti, invece, in vista della riunione del Consiglio di presidenza del 19 gennaio, preparò un elaborato, da presentare allo stesso Consiglio, in cui veniva presentata una lettura della situazione di disagio dello Studio, e insieme a una lista di carenze anche un elenco di proposte. Gli studenti si sono trovati a vivere una specie di «scompenso metodologico»35 dovuto alla diversità delle metodologie adottate dai professori all’interno delle stesse unità tematiche. La sintesi culturale poi, a loro giudizio, non è stata mai raggiunta, perché è mancato un chiaro lavoro di équipe tra i professori. In sostanza, vengono rilevate nello Studio tre forme di carenze: di tipo oggettivo, nei professori, negli alunni. Le proposte di soluzione degli studenti si muovono su tre piani. Innanzitutto la disponibilità di professori a tempo pieno; quindi una più fruttuosa frequenza delle unità tematiche. Per questo si chiede ai professori di offrire la disponibilità minima richiesta per uno svolgimento «onesto» dei temi fondamentali delle varie discipline, preparando previamente tra di loro le unità tematiche per essere in grado di fornire in tempo utile la bibliografia agli studenti; si chiede inoltre la garanzia di almeno tre lezioni comuni. Infine, si propone la costituzione di una commissione, formata da membri presi fra tutte le componenti dello Studio, perché ripensi a una migliore strutturazione delle unità tematiche per superare il frazionamento dell’insegnamento dovuto alle numerosissime discipline36.

33 Con questa espressione s’intendeva indicare la disponibilità di un docente ad essere presente allo Studio in orario scolastico, in due giorni stabiliti della settimana, indipendentemente dalle sue ore di lezione (cfr Proposta del Consiglio di presidenza alla Commissione dei vescovi per rivitalizzare lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, 10/1/1976, prot. 337/76). 34 Cfr ibid. 35 Cfr Elaborato dell’Assemblea degli studenti del 16/1/1976. 36 Cfr l. c.


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Gli studenti con quest’ultimo rilievo fecero emergere uno dei limiti cronici degli studi ecclesiastici, cioè la tensione tra due contrapposte esigenze: quella di fornire agli studenti una visione unitaria del sapere teologico e quella di garantire invece un approccio analitico ai suoi diversi aspetti. Da qui la forte dialettica tra unitarietà e frammentarietà dell’insegnamento teologico37. All’apertura del successivo anno accademico, con saggio spirito realista, il preside Consoli, ammetteva che la Ratio studiorum necessitava di una revisione, che avrebbe dovuto tenere conto di nuove indicazioni della S. Sede e pensare alla preparazione di base degli studenti, sempre meno adeguata; restando valido, tuttavia, il principio dell’insegnamento in comune. Questo, come struttura fondamentale di una effettiva sintesi culturale, doveva costituire il vero obiettivo, il quale poteva essere agevolato dall’impegno speciale dei professori a tempo pieno38.

1.3.2. La strutturazione della Ratio del 1980 Nel 1978, l’Assemblea generale avvia il lavoro di ristrutturazione della Ratio, riuscendo però nello stesso anno ad approntare solo il biennio propedeutico. Il lavoro di ristrutturazione continua per tutto l’anno 1979 e si protrae fino al 21 maggio 1980, quando viene approvata la Ratio, eccetto il sesto anno o anno di pastorale. Il dibattito fu aperto con l’Assemblea generale del 12 aprile 1978, in essa, venne stabilito il criterio della separazione del biennio filosofico dal quadriennio teologico, operando la scelta del definitivo abbandono dell’impianto della Ratio in unità tematiche indivise. 37

Cfr sul tema i saggi: I. ALFARO, Unitas institutionis theologicæ iuxta Vaticanum II, in Seminarium 11 (1971) 219-239; S. CIPRIANI, La formazione pastorale e l’unità dell’insegnamento teologico, in ibid. 430-433; C. COLOMBO, L’unità della teologia nella sacra scrittura, in ibid. 362-371; A. LONGHITANO, La legislazione sull’insegnamento della teologia, pro manuscripto, gennaio 2000; R. MORETTI, La formazione spirituale e l’unità dell’insegnamneto teologico, in Seminarium 11 (1971) 405-429; Unità d’insegnamento teologico e orientamento pastorale, a cura dello Studio Teologico “S. Zeno” di Verona, in Seminarium 10 (1970) 924-941. 38 Cfr Discorso inaugurale anno accademico 1976-77.


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Il biennio viene concepito come ciclo di studi fondamentale per tutti gli studenti che entrano allo Studio. Avendo pertanto un carattere prevalentemente filosofico, al biennio, nell’insegnamento della storia della filosofia, si suggerisce di privilegiare quegli autori che interessano particolarmente lo studio della teologia, con una impostazione di metodo di tipo monografico universitario. Quanto all’insegnamento del latino e del greco, le lingue classiche necessarie alla comprensione del linguaggio e dei testi della teologia, gli alunni saranno avviati alla conoscenza della lingua soprattutto attraverso esercitazioni pratiche di traduzione di testi dei Padri e del Magistero. Si discute infine della revisione delle materie all’interno delle unità tematiche39. Il dibattito fu ripreso nell’Assemblea del 17 maggio. La ristrutturazione, tuttavia, fu elaborata soprattutto nella riunione dell’Assemblea generale del 12 giugno: in quella sede si sottolineò il carattere introduttorio del biennio e, quanto ai contenuti, il carattere prevalentemente teologico del quadriennio. In questa linea, si pensò di privilegiare al biennio l’inserimento delle storie, in particolare quella della Chiesa e quella della filosofia: giudizio di qualcuno era infatti che gli studenti, non essendo abituati all’astrazione, hanno bisogno di essere collocati nel concreto della storia per comprendere i fenomeni. Seguì il dibattito sulle lingue antiche, e l’Assemblea si espresse positivamente in merito al loro necessario inserimento. Tuttavia, è in discussione anche il metodo con cui queste discipline devono essere insegnate: il loro insegnamento deve consistere in esercitazioni di lettura e traduzione di testi della Bibbia e delle fonti teologiche. Si rimette in discussione lo studio della storia della Chiesa al solo biennio, in quanto gli studenti ancora mancano della conoscenza di molte nozioni di teologia, spesso richieste per la comprensione delle stesse problematiche storico-ecclesiastiche. Si propone, quindi, di portare al biennio tutta l’unità tematica sull’ermeneutica e di trasferire al quadriennio la storia della Chiesa, secondo il numero 89 del documento della S. Congregazione per l’Educazione Cattolica, La formazione teologica dei futuri sacerdoti, del 22 febbraio 1976, in cui si sottolinea la necessità della

39

Cfr Verbale Ag del 12/4/ 1978, prot. 617/78.


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contemporaneità di insegnamento della teologia dogmatica, della sacra scrittura e la storia della Chiesa40. Infine si decide in questa direzione. Viene dunque approvato il biennio con tutte le modifiche volute dall’Assemblea, da far entrare in vigore già con l’anno accademico 1978-7941. Alla fine dell’anno accademico 1978-79, in seguito agli esiti cui si era pervenuti, l’Assemblea generale ritenne di dovere rivedere il biennio propedeutico in alcuni punti, in particolare due: la proposta di separare la critica dall’ermeneutica; il problema dell’introduzione della linguistica o di materie affini. L’Assemblea si espresse secondo i seguenti orientamenti: demandare all’équipe dei professori interessati e al Consiglio di presidenza il problema dell’applicazione dell’una e dell’altra ipotesi tecnica riguardanti le lingue e la storia della filosofia, una volta vista la formazione di base della scolaresca; demandare inoltre ai professori di teologia e di filosofia il problema della separazione dell’ermeneutica dalla critica e della sua collocazione, come anche della collocazione dell’erme-neutica teologica42.

1.3.3. La revisione del quadriennio teologico Nel discorso inaugurale del nuovo anno accademico 1979-80, il preside illustrò il lavoro in atto dell’Assemblea generale, la quale nel corso dell’anno avrebbe avuto il compito non facile di ristrutturare il quadriennio della Ratio studiorum. Annunciò che in questo lavoro tanto delicato sarebbe stato punto di riferimento e guida la nuova costituzione apostolica Sapientia 40 «Il metodo genetico descritto per la teologia dogmatica dal Concilio Vaticano II, articolato nelle cinque tappe dalla sacra scrittura, della tradizione patristica e della storia, della speculazione, della vita liturgica, della vita della chiesa, con applicazione ai problemi d’oggi, garantisce un insegnamento ancorato ai dati rivelati, unificato nella storia della salvezza, sistematizzato e integrato in una visione completa della fede, aperto alle esigenze pastorali, grazie all’attenzione che si dà ai problemi dei nostri tempi» (La formazione teologica dei futuri sacerdoti, 89). 41 Cfr Verbale Ag del 12/6/1978, prot. 625/78. Approvato dalla Commissione dei vescovi l’11 settembre 1978, ad experimentum et ad biennium, il biennio entra in vigore con l’anno accademico 1978-79, e il resto gradualmente negli anni successivi: per il testo cfr STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1978-79, Catania 1979, 19-20. Di questo biennio si ha subito il plauso della S. Sede (cfr S. CONSOLI, Lo Studio Teologico S. Paolo, cit., 313). 42 Cfr Verbale Ag del 27/6/1979, prot. 720/79.


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Christiana43, e le relative “Norme applicative” della S. Congregazione per l’Educazione Cattolica 44. Il lavoro di ristrutturazione comincia in seno all’Assemblea generale del 21 novembre. Qui viene ribadita la validità del biennio così come strutturato, e ci si orienta verso la suddivisione del quadriennio in un primo ciclo di tre anni, cui aggiungere un sesto anno riservato ad argomenti di teologia pastorale. Ancora sul sesto anno, qualcuno propone di non farne l’anno di chiusura del quadriennio, ma un anno complementare da aggiungere all’ultimo del triennio che, invece, chiuderebbe il ciclo di studi teologici con il conseguimento del Baccalaureato, secondo l’uso in vigore in altre facoltà teologiche45. Intanto l’Assemblea viene invitata a riflettere e a pronunciarsi sulla base di un foglio di lavoro, preparato da un’apposita commissione. Si enuncia il criterio di proporzionalità, tra formazione teologica e formazione al ministero, e si propongono due schemi per strutturare la divisione dei cicli. Il primo schema prevede un biennio, cui seguirebbe un triennio completato da un ulteriore sesto anno, proposta che salvaguarda la dimensione pastorale e conclusiva del sesto anno. Il secondo schema invece prevede tre cicli formati rispettivamente da due anni ciascuno, il che salverebbe l’ordine logico delle discipline ed eviterebbe il dislivello culturale tra gli alunni del secondo ciclo della prima ipotesi46. Successivamente invece, nell’Assemblea generale, del 27 febbraio 1980, relativamente alla divisione della Ratio in unità tematiche, emerge con forza un radicale cambio di orientamento. Si prende atto del fallimento di questo schema e se ne decide il definitivo abbandono. Pertanto, si pensa di affidare il lavoro comune non alla convergenza dei temi da trattare nelle singole discipline, ma al dovere da parte dei professori di tenere periodicamente la lezione comune (lectio communis).

43 GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica sulle Università e Facoltà ecclesiastiche Sapientia Christiana (1979), in EV 6/1330-1527. 44 Cfr Discorso inaugurale anno accademico 1979-80. 45 Cfr Verbale Ag del 21/11/1979, prot. 743/79. 46 Cfr Allegato 3 al Verbale Ag del 21/11/1979, prot. 743/79.


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Si precisa altresì che una Ratio studiorum deve presupporre una ipotesi didattica prima di essere strutturata: che cosa e come insegnare, una gerarchia, un destinatario, delle priorità. Non sono in pochi infine a suggerire di ripensare all’impostazione del sesto anno, ritenuto un «anno perso», in quanto caratterizzato dallo insegnamento di materie poco impegnative47. Nella riunione del 21 maggio 1980, l’Assemblea generale fu chiamata a esprimere il proprio voto sulla bozza del triennio della nuova Ratio. Secondo questa bozza, le unità tematiche in certo modo restano, anche se la loro durata è di un anno, e la convergenza dei temi riguarda soprattutto tre grandi branche della teologia: la dogmatica, la morale e la liturgia48. Le discipline sono state ridotte a quelle che dai documenti risultano essenziali, e sono state disposte in modo tale che alla fine del quinquennio possa essere completato il ciclo istituzionale e si possa conseguire il grado accademico del Baccalaureato. Il sesto anno viene solo abbozzato perché la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale desidera che esso venga strutturato d’intesa fra tutti gli istituti ad essa affiliati. Dopo un dibattito su alcune osservazioni e proposte di piccole modifiche, il triennio della Ratio, a maggioranza, viene approvato49.

1.4. Integrazioni alla Ratio del 1980 Dal gennaio 1983 fu avviato l’iter per la strutturazione del sesto anno o anno di pastorale. Il dibattito riguardò soprattutto la forma didattica che il sesto anno avrebbe dovuto assumere, se nella sua strutturazione privilegiare la forma del seminario o quella del corso magistrale. 47

Cfr Verbale Ag del 27/2/1980, prot. 760/80. Le unità tematiche vengono distribuite nell’arco di tre anni, secondo uno schema trinitario ciclico che vede sviluppare dapprima il tema relativo a «Dio Padre e la Creazione» quindi quello su «Gesù Cristo Redentore dell’uomo» e infine «Lo Spirito Santificatore della Chiesa», vd Note esplicative 3-4, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1980-81, Catania 1980, 12. 49 Cfr Verbale Ag del 21/5/1980, prot. 768/80. Per il testo della Ratio cfr STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1980-81, Catania 1981, 11-12. 48


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Di fronte al dubbio sulle reali possibilità di frequenza ai corsi da parte dei chierici50, l’Assemblea pervenne alle seguenti proposte operative: chiedere ai vescovi in che cosa intendono impegnare gli alunni che frequenteranno il corso; comunicare ai vescovi che, in linea di massima, le materie, dopo alcune lezioni magistrali, avranno il carattere di seminario; proporre infine ai vescovi di collocare in sole due intere giornate alla settimana lo svolgimento del corso51. Ma, sostanzialmente la discussione si concentrò su un punto: la riduzione delle materie52. Finalmente, nell’Assemblea generale del 18 maggio 1983, dopo un ulteriore dibattito su alcune eventuali modifiche da apportare alla bozza del sesto anno, la maggioranza approvò ad experimentum per un biennio il piano di studi dell’anno pastorale. In quella stessa sede, si decise anche della ristrutturazione del biennio propedeutico.

1.5. La revisione della Ratio studiorum in vista dell’aggregazione dello Studio S. Paolo alla Facoltà Teologica di Sicilia 1.5.1. La Ratio del II ciclo In vista dell’aggregazione, si preparò una Ratio studiorum per il biennio di Licenza in Teologia con specializzazione in Teologia morale53. I lavori furono portati avanti anche chiedendo pareri alla Congregazione e ad Atenei romani54. Aspetto caratteristico di questa Ratio è la strutturazione dell’unica specializzazione in Teologia morale in dipartimenti, i quali, oltre a rispondere alle molteplici esigenze e inclinazioni degli alunni, consentono l’approfondimento di uno dei tre settori operativi, quali matrimonio e famiglia, problemi socio-politici e spiritualità. 50

Cfr Verbale Ag del 26/1/1983, prot. 22/83. Vd ibid. 52 Cfr ibid. 53 Il Consiglio di presidenza comincia a lavorarvi a partire dalla riunione dell’11 dicembre 1986 (cfr Verbale Cp dell’11/12/1986, prot. 140/86). 54 Cfr Discorso inaugurale anno accademico 1989-90. 51


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Questa Ratio viene rivista nel 2000, in occasione del secondo rinnovo dell’aggregazione. Nella revisione si opera una riduzione soprattutto delle discipline affini e si stabilisce un maggiore coordinamento tra i vari insegnamenti55. In concreto, due aspetti trovano attuazione: l’unificazione dei corsi sistematici fondamentali e sistematici speciali, lasciando spazio ai corsi dei dipartimenti. Viene adottata pertanto la strategia didattica di tenere la denominazione del corso quale “contenitore” (la denominazione ufficiale della materia), all’interno del quale annualmente inserire un “contenuto” (la denominazione di fatto per quell’anno), determinato all’interno di una visione unitaria ruotante attorno ad un tema di approfondimento, scelto di anno in anno per tutti gli alunni. D’altronde, al II ciclo non si poteva avere la preoccupazione di dire tutto, come al I ciclo, quanto piuttosto di cogliere un aspetto nodale del corso per trasmettere contenuti e metodo di approfondimento specifico56. Questa impostazione non poteva procedere autonomamente, chiedeva un coordinatore. Così è stata istituita la figura del tutor: un professore di area teologico-etica che si fa carico di guidare gli alunni di un corso. Ciò, in sostanza, per ribadire il principio dell’importanza della persona, cui lo Studio viene incontro rispondendo alle sue particolari esigenze57.

1.5.2. La Ratio del I ciclo La Ratio del I ciclo subisce una prima modifica al punto del non superamento degli esami58, e diverse altre in vista del rinnovo dell’aggregazione, anche in base a nuove indicazioni pervenute e a esigenze avvertite

55

Cfr Verbale del Consiglio dello Studio del 27/1/2000 (d’ora in poi abbr. Verbale Cs), prot. 471/2000. 56 Cfr Verbale Cs del 17/3/2000, prot. 486/2000. Per il testo cfr Ratio studiorum del II Ciclo, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 2001-02, Catania 2001, 32-37. 57 Cfr Ratio studiorum del II ciclo, cit., 33. 58 Cfr Verbale Cs del 10/6/1994, prot. 26/94.


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da più parti59. Indicazioni di maggior peso furono quelle discusse in seno alla riunione del Consiglio dello Studio del 24 marzo del 1995. In seguito ad ampia discussione, vengono approvate alcune modifiche strutturali alla bozza di revisione. Per rispondere al problema avvertito da professori e alunni, circa l’eccessivo numero di discipline e di esami, viene approvata all’una-nimità la mozione, da inserire nelle Note esplicative, secondo cui le modalità delle prove d’esame, con gli eventuali accorpamenti di discipline, verranno stabilite annualmente e separatamente dai docenti del biennio propedeutico e del triennio teologico con la partecipazione dei rappresentanti di classe. Accogliendo l’istanza di voler collegare i corsi di sociologia generale e psicologia generale con la teologia pastorale nel triennio teologico e, possibilmente nel terzo anno, Lo Spirito santificatore della Chiesa, il Consiglio redige la seguente norma operativa: storia della Chiesa I e introduzione ai Padri vanno collocate al primo anno propedeutico, anticipazione questa, a seguire, degli altri corsi di storia della Chiesa60. La nuova Ratio, approvata dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica con il rinnovo dell’aggregazione alla Facoltà Teologica di Sicilia, in data 15 luglio 199561, verrà attuata progressivamente a partire dall’anno accademico 1996-9762.

2. GLI STATUTI 2.1. Il primo Statuto Quando venne elaborato il primo Statuto, al primo anno di vita del S. Paolo, fu concepito volutamente semplice, di soli 11 articoli, perché rimanesse aperto a ulteriori sviluppi e configurazioni, adatte di volta in volta

59

Cfr ibid. Per il testo definitivo cfr Ratio studiorum ’95, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1995-96, Catania 1996, 67-74. 60 Cfr Verbale Cs del 24/3/1995, prot. 90/95. 61 L’aggregazione fu rinnovata con decreto della Congregazione per l’Educazione Cattolica del 15/7/1995, prot. 648/85/37. 62 Cfr STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1995-96, Catania 1996, 67.


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alle nuove situazioni di vita e di lavoro dello Studio63. Lo Statuto pone lo Studio sotto la responsabilità dei vescovi delle diocesi interessate che designano tra loro un moderatore; la caratteristica della interdiocesaneità si rispecchia poi anche nella configurazione del Collegio dei Professori e nella distribuzione delle cariche64. Con l’affiliazione alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale del 1971, lo Statuto viene modificato e ampliato, composto quindi di 13 titoli e 74 articoli.

2.2. Il Collegio dei Professori Nel primo anno di vita il Collegio dei Professori è composto da 26 docenti, sacerdoti provenienti dalle varie diocesi, religiosi e un laico. La caratteristica dell’interdiocesaneità è molto sentita e si riflette non solo nel Collegio ma anche nelle cariche, per meglio sottolineare la collaborazione e il senso di comunione che intercorre fra le varie diocesi65. Il raggiungimento di tale meta costituirà sempre un problema vivo. Sin dall’inizio si è cercato di mantenere un clima e uno stile di comunione all’interno del Collegio, ci si è sempre adoperati affinché i professori avessero coscienza di formare un unico organismo66. Già nel discorso inaugurale dell’Anno Accademico 1970-71, il preside Cambareri insiste su questo punto: «fino a quando non raggiungeremo questa meta di un autentico Collegio dei professori, il nostro Studio non sarà in grado di rispondere alle vere ed essenziali esigenze formative dei futuri sacerdoti, come la Chiesa e la realtà del momento d’oggi richiedono»67.

63

Cfr Discorso inaugurale anno accademico 1969-70. Statuto 1969, art.3, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1969-70, cit., 6. 65 Il moderatore è G. Bonfiglioli, arcivescovo di Siracusa; preside è R. Cambareri, domenicano; segretario S. Consoli, dell’arcidiocesi di Catania; amministratore è F. Cutuli, della diocesi di Acireale. Al Consiglio di presidenza è presente un rappresentante di ciascuna diocesi: cfr Annuario 1969-70, cit., 18. 66 Ratio studiorum ’72, Note esplicative, 9, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1972-73, Acireale 1973, 15. 67 Cfr Discorso inaugurale anno accademico 1970-71. 64


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Il Collegio dei Professori, intanto si arricchisce non solo quantitativamente, per il numero dei componenti, ma anche qualitativamente grazie a titoli accademici e pubblicazioni.

2.2.1. La figura dei professori “ospiti” Presto si pose il problema di configurare meglio il rapporto tra il Consiglio di presidenza e i professori che avevano scelto il servizio a “tempo pieno”. Nella riunione del 15 luglio 1976, si rilevò la necessità di coinvolgere questi professori per affrontare problemi culturali e didattici, pur mantenendo il Consiglio di presidenza i poteri decisionali previsti dallo Statuto. Si prevede pertanto che i professori a “tempo pieno” possano essere invitati alle riunioni del Consiglio dei professori quando la natura dei problemi e il contesto dei rapporti lo richiedano. Il Consiglio, inoltre, in quella stessa sede, esaminata la concreta situazione, ritenne necessario coprire alcuni insegnamenti che sarebbero rimasti scoperti l’anno successivo, e vide l’urgenza di invitare altri docenti; a quel punto si presentò la difficoltà della natura giuridica del “professore invitato”, non prevista dallo Statuto68. Di questo problema ci si occupò espressamente nella riunione congiunta dei vescovi, del Consiglio di Presidenza e dei Professori a “tempo pieno”, il 6 settembre1976, nei locali del Centro Studi G. M. Genuardi in S. Maria Ammalati. Per coprire gli insegnamenti scoperti, in quella sede si propone di introdurre la figura del professore hospes. La proposta è del professore Ruggieri che ricorda la prassi delle altre Università, dove questa figura non fa parte del Collegio dei professori a livello giuridico, ma viene di volta in volta chiamato a tenere un corso. Opinione contraria esprime il professore Longhitano, per il quale invece potrebbe essere quella del professore “incaricato”, prevista dallo Statuto, la figura giuridica attraverso cui qualificare i professori da invitare.

68

Cfr Verbale Cp del 15/7/1976, prot. 390/76.


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Dopo ampia discussione69, la richiesta venne accolta perché la figura del professore hospes, pur non essendo contemplata nello Statuto, non era contraria a nessuna delle sue norme. I professori hospites, pur non essendo membri del Collegio dei professori70, potranno dunque essere invitati, secondo la richiesta della Presidenza, ad impartire determinati insegnamenti, in base anche alle indicazioni delle équipes delle varie unità tematiche.

2.3. L’attenzione allo spirito comunitario Nel corso degli anni, l’atteggiamento di collaborazione continua a caratterizzare i rapporti tra i vari organismi dello Studio, nonostante le difficoltà che a volte si presentano. Il dialogo coi vescovi e il responsabile atteggiamento critico da parte di tutti saranno sempre i criteri per individuare le soluzioni più rispondenti alle varie esigenze del momento. Si cerca sempre di rimanere nello spirito dello Statuto, pur nella consapevolezza dei limiti che questo a volte presenta. Il preside Consoli li individua, ad esempio, nella dualità di competenze dell’Assemblea e della Presidenza. Questi auspica che l’Assemblea diventi responsabilmente il soggetto critico della vita dello Studio e il luogo in cui effettuare una serena verifica di quanto man mano si fa; inoltre spera che la Presidenza, come organo esecutivo dello Studio, faccia in modo che le iniziative, dopo essere state debitamente studiate, trovino un’adeguata attuazione71. Ribadisce ancora, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 1977-78: «La messa in atto dei criteri di disponibilità dati dai Vescovi nella lettera del 1 giugno 1976, oltre a far superare l’increscioso problema delle assenze, ha reso presenti i professori nello Studio. La presenza dei professori è un fatto da non sottovalutare: ha consentito agli alunni di incontrarli; ha dato la possibilità agli stessi professori di un aiuto reciproco e alle varie unità tematiche di attuare più incontri comuni»72. 69 Cfr Verbale della riunione dei Vescovi col Cp e i professori a tempo pieno del 6/9/1976, prot. 405/76. 70 Cfr Lettera del Moderatore al Preside del 7/9/1976, prot. 400/76. 71 Cfr Discorso inaugurale anno accademico 1976-77. 72 L. c.


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A dieci anni dalla fondazione dello Studio, si rilevano ancora dei problemi aperti, quali una migliore configurazione del Collegio dei professori, a livello delle varie specializzazioni e a livello di disponibilità. Tutto presuppone un’adesione sempre più aperta e disponibile delle varie diocesi, e la soluzione di altri problemi come quello concernente la retribuzione e la presenza di strumenti di lavoro. Da parte dei vescovi si nota un maggior interessamento, concretizzato nella proposta del moderatore di incontrarsi due volte l’anno per uno scambio di vedute73.

2.4. L’Aggregazione e lo Statuto del 1990 2.4.1. L’iter per l’Aggregazione Il Consiglio di presidenza, già il 15 febbraio 1974, aveva manifestato la convinzione che sarebbe stato meglio per tutti gli alunni arrivare alla Licenza, onde superare l’ambigua situazione delle due categorie di preti, quelli con il titolo accademico e quelli senza; pertanto lo Studio si mosse in questa direzione, tenendo conto del fatto che anche le autorità della Pontificia Facoltà dell’Italia Meridionale si erano mostrate sempre favorevoli a tale prospettiva74. Lo Studio approfondisce il problema e, dopo i primi contatti, il 3 aprile 1986 riceve finalmente l’autorizzazione della Commissione dei vescovi a intraprendere ufficialmente l’iter dell’aggregazione75. Il 20 ottobre 1987 viene presentata alla Facoltà Teologica di Sicilia la documentazione richiesta, e il Consiglio di Facoltà, dopo averla esaminata, nelle riunioni del 16 marzo e del 6 aprile 1990, si pronuncia positivamente per l’aggregazione, che avverrà il 14 settembre1990 con decreto della Congregazione per l’Educazione Cattolica.

73

Cfr Discorso inaugurale anno accademico 1978-79. Cfr Verbale Cp del 15/2/1974, prot. 242/74. 75 Cfr S. CONSOLI, Lo Studio Teologico S. Paolo, cit., 332. 74


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2.4.2. Lo Statuto In vista dell’aggregazione si prepara un nuovo Statuto, il Consiglio di Presidenza comincia a lavorarvi a partire dalla riunione dell’11 dicembre 198676. Nella bozza lo Statuto consta di 12 Titoli e 67 articoli, che nella redazione finale saranno ridotti a 58, più un’appendice concernente le osservazioni allo Statuto da parte della Congregazione per l’Educazione Cattolica.

2.5. Le modifiche allo Statuto in occasione del rinnovo dell’aggregazione 2.5.1. Iter preparatorio alle modifiche A seguito dell’assestamento giuridico avvenuto con l’aggre-gazione, inizia per lo Studio Teologico un nuovo periodo di organizzazione, richiesto dalla mutata situazione accademica, in attuazione dello Statuto approvato dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica. Innanzitutto, è necessario costituire il nuovo soggetto giuridico responsabile: il Consiglio dello Studio. A tal fine si è dovuto procedere alla nomina del primo gruppo di docenti stabili, e successivamente dei docenti incaricati e delle altre cariche statutarie. Anche se man mano si sono precisate sempre meglio le competenze dei vari organismi voluti dallo Statuto, ciò che si è salvaguardato è stata la gestione comunitaria dello Studio, caratteristica specifica del S. Paolo in tutti i suoi 25 anni di vita. In tale spirito va collocata la proposta di istituzionalizzare gli incontri periodici dello Studio con i vescovi e i superiori dei Seminari e degli Istituti religiosi77.

76 77

Cfr Verbale Cp del 11/12/1986, prot. 140/86. Cfr Discorso inaugurale anno accademico 1993-94.


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2.5.2. Le modifiche allo Statuto Tenendo conto delle osservazioni fatte dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica in occasione dell’aggregazione, vengono approntate delle modifiche sia a livello contenutistico che a livello formale in vista del rinnovo dell’aggregazione nel 199578. Il 29 marzo 1996, il Consiglio dello Studio si riunisce in seduta straordinaria, per urgente richiesta del moderatore e del preside della Facoltà Teologica di Sicilia, per modificare l’articolo 13 dello Statuto. All’unanimità la norma viene così modificata: «Il Preside è nominato dal Gran Cancelliere, nel rispetto di quanto stabilito dagli artt.7 e 10 del presente Statuto, dopo aver ottenuto il nulla osta della Congregazione per l’Educazione Cattolica»79. Nel gennaio 2000, il Consiglio dello Studio si riunisce per discutere sulle modifiche da apportare allo Statuto, in vista del rinnovo dell’aggregazione: modifiche che fra l’altro si rendono necessarie per rispondere alle prescrizioni canoniche e civili, avendo lo Studio ottenuta la personalità giuridica canonica e chiesta quella civile. Il Consiglio presenta varie osservazioni, sottolineando la necessità di rispettare la storia e la fisionomia del S. Paolo. Si puntualizza la necessità di distinguere tra il compito di consulenza del Consiglio degli affari economici, prima non contemplato nello Statuto, ma che deve essere costituito per tutti gli enti ecclesiastici a norma del Codice di Diritto Canonico (can.1280), e il compito di deliberare del Consiglio dello Studio, al quale va pure affidata la competenza di approvare il bilancio preventivo e consuntivo. Si sottolinea infatti, che è il Consiglio dello Studio l’unico organo superiore che determina l’attività scientifica e la politica del S. Paolo80. Il Consiglio dello Studio si riunisce in seduta straordinaria il 17 marzo 2000 per procedere all’approvazione degli articoli modificati o aggiunti. 78 L’aggregazione fu rinnovata con decreto della Congregazione per l’Educazione Cattolica del 15/7/95, prot. 648/85/37. 79 Cfr Verbale Cs del 29/03/1996, prot. 155/96. 80 Cfr Verbale Cs del 27/01/2000, prot. 471/2000 con attenzione all’Allegato 4 per le proposte di modifiche.


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2.6. Gli organi dello Studio 2.6.1. Il Collegio dei Professori Negli incontri che vengono fatti in preparazione e in vista dell’aggregazione emerge con chiarezza che condizione indispensabile è la presenza di un congruo numero di professori stabili che abbiano una seria qualifica accademica, pubblicazioni e disponibilità per lo Studio e per gli alunni81. Il problema della disponibilità è però da sempre legato alla serenità economica82, che però in questo periodo trova una certa soluzione nell’introduzione del sistema dell’Istituto Sostentamento Clero. Nel discorso inaugurale dell’anno accademico 1988-89, il preside Consoli ribadiva: «per dedicarsi sempre più alla ricerca i professori hanno bisogno di maggior tempo e, quindi, di maggiore serenità economica. C’è da auspicare che il nuovo sistema di sostentamento del clero garantisca tale serenità. Se la categoria dei professori di teologia dovesse restare ancora una classe debole e svantaggiata, ciò non solo sarebbe segno della inefficienza

81

Cfr Verbale Cp, prot. 74/86 e prot. 117/86. Già nella riunione con i vescovi del 6 settembre 1976 (prot. 405/76) il preside chiede ai vescovi quale potrebbe essere la retribuzione per i professori a tempo pieno perché si possano dedicare a questo lavoro con serenità, e inoltre che la retribuzione sia uguale per tutti tenendo presente il fatto che il prof. Cambareri è un religioso. Nel discorso inaugurale dell’anno accademico 1978-79 leggiamo: «Il Collegio dei professori necessita di una migliore configurazione, […] ciò naturalmente presuppone un’adesione sempre più aperta e disponibile delle varie diocesi aderenti come pure la soluzione di altri problemi quale ad es. la retribuzione…». Durante la riunione dei vescovi con il collegio dei professori il 19 giugno 1979 il prof. Zappalà in merito alla discussione sulla situazione e definizione del collegio dei professori e professori invitati rileva che c’era un gruppo di professori che avrebbe voluto dedicare più tempo allo Studio dietro una certa retribuzione economica che li rendesse liberi da impegni esterni quindi ritiene indispensabile aggiornare tale retribuzione. Cfr Verbale della riunione dei vescovi con il collegio dei professori del 19/06/1976, prot. 719/79. Ancora nel Discorso inaugurale anno accademico 1980-81 leggiamo: «La realtà che necessita di attenzione e cura particolare è il collegio dei professori. Urge coprire i vuoti, urge che più persone scelgano lo Studio S. Paolo come campo prioritario di lavoro e che si consacrino ad esso , ma perché ciò avvenga urge ripensare radicalmente il problema economico». 82


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del nuovo sistema ma sarebbe un riscontro molto negativo al tanto discutere che oggi si sta facendo nelle nostre Chiese su comunione e comunità»83. L’anno successivo ritorna sull’argomento aggiungendo che: «l’auspicio e l’invito per tutti, vecchi e nuovi, è che l’impegno per il S. Paolo sia considerato primario: peraltro penso che il nuovo regime di sostentamento abbia dato una maggiore serenità che, non credo, sia necessario cercare in altri impegni, ad esempio l’insegnamento della religione»84. Un gesto significativo si è avuto nel ventennale dello Studio, quando sei ex-alunni vengono invitati a collaborare nell’insegnamento e nella condizione dei seminari di ricerca85. Con l’aggregazione è stata introdotta la figura del professore stabile, si cerca di studiare e definire i criteri di disponibilità e stabilire la relativa norma operativa. Nell’Assemblea generale del 12 giugno 1991, si discute sugli orientamenti per la composizione del Collegio dei docenti. Dopo un’ampia discussione si arriva alle seguenti conclusioni sui criteri di disponibilità e sul numero dei professori stabili: questi devono mettere a completa disposizione dello Studio quattro mezze giornate, tra le quali un pomeriggio per le attività comuni, nella determinazione di esse bisogna naturalmente tenere conto delle esigenze del II ciclo. Dovendo coprire le cattedre delle materie principali e, tenendo conto che potranno essere coadiuvati da docenti incaricati, si ritiene che il numero deve essere contenuto tra un minimo di dieci e un massimo di dodici ore86. In vista dell’attivazione del Consiglio dello Studio si costituisce il Collegio dei docenti, composto, a norma dell’aricolo12 dello Statuto, dai professori stabili e incaricati.

83

Cfr Discorso inaugurale anno accademico 1988-89. Cfr Discorso inaugurale anno accademico 1989-90. 85 «L’aver chiamato ad insegnare, anche se a vario titolo, ex-alunni è stato per il S. Paolo un modo significativo e gioioso di celebrare il proprio ventennale: la capacità di trasmettere la vita e, poi di lasciarsi rigenerare è la maniera migliore di celebrare la vita stessa. Mi corre l’obbligo di dare atto alla saggezza, alla generosità e al distacco con cui i professori hanno voluto in corsi da loro precedentemente tenuti l’inserimento delle nuove leve». Cfr Discorso inaugurale anno accademico 1989-90 86 Cfr Verbale Ag del12/06/91, prot. 81/91. 84


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L’iter attivato si conclude con la nomina dei professori stabili e con la prima qualifica di straordinari da parte del gran cancelliere, il 5 novembre 1992, e dei professori incaricati da parte del preside, il 10 novembre 199287. Il criterio dell’interdiocesaneità continua ad essere mantenuto, fin dal primo anno dell’aggregazione, infatti, sono stati chiamati ad insegnare nel biennio di specializzazione docenti provenienti da varie Chiese locali o Congregazioni religiose come pure qualche laico.

2.6.2. I professori stabili L’assestamento giuridico dello Studio, dovuto all’aggregazione, ha fatto sì che si approfondisse la figura istituzionale del professore stabile e il suo ruolo di primaria importanza per la vita accademica dello Studio. Il professore Longhitano, nella riunione dei docenti stabili del 29 gennaio 1993, relaziona sulla figura istituzionale del docente stabile. Dalla discussione sulla medesima relazione emerge la seguente linea operativa: proporre delle modifiche allo Statuto sulla figura dei docenti stabili tenendo presenti la cooptazione, la programmazione di attività scientifiche e di ricerca, la determinazione degli indirizzi della biblioteca e le pubblicazioni scientifiche dello Studio88. Nella riunione dei docenti stabili del 24 marzo 1993 viene quindi approvata la proposta di modifica dello Statuto.

2.6.3. Il Consiglio dello Studio Con l’aggregazione, e la conseguente approvazione del nuovo Statuto da parte della Congregazione, lo Studio si trova in uno stato di transizione, dovuto al passaggio dal vecchio al nuovo Statuto. Il nuovo organo deliberativo è ora il Consiglio dello Studio. La difficoltà principale per la sua attivazione è data dal fatto che il 87

Cfr Lettera circolare, prot. 176/92. Cfr Verbale unitario e sintetico delle riunioni dei docenti stabili dell’a.a.1992-93 II sem., prot. 227/93. 88


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Collegio dei professori, sua componente principale, non può essere tempestivamente costituito per le difficoltà connesse con la definizione dello status giuridico dei professori. Il moderatore chiederà e otterrà allora dalla Congregazione la proroga per un biennio degli organismi previsti dal vecchio Statuto, Assemblea generale e Consiglio di presidenza89. Costituito il Collegio dei docenti, nasce il Consiglio dello Studio90, che si riunisce per la prima volta il 4 dicembre 1992. Ma l’attenzione sempre presente al criterio della collegialità è ancora in discussione, ed emerge il problema di come creare, nell’ambito dello Studio, un’attiva comunità scientifica. A tal proposito l’intervento del professore Ruggieri, al Consiglio dello Studio del gennaio 1993, è risolutivo. Il docente sottolinea che non può esistere una siffatta comunità senza un lavoro comune, indirizzato verso la realizzazione di una rivista scientifica, seminari comuni, dibattiti ecc.91. Ribadisce ancora che la gestione di siffatte iniziative deve essere collegiale, per evitare il disinteresse di tutti coloro che non sono coinvolti nelle decisioni92.

3. I REGOLAMENTI 3.1. Il primo Regolamento Già al suo primo anno di vita, allo Studio era avvertita da tutti l’esigenza di regolarizzare l’ammissione degli alunni, i gruppi di studio e i corsi speciali, gli esami, le assemblee degli studenti, così il 21 gennaio 1970 fu approvato, ad experimentum per un anno, il Regolamento scolastico93. 89

Cfr prot. 67/91; prot. 72/91 L’assestamento giuridico, che avrebbe dovuto concludersi nel mese di maggio 1993, viene portato a compimento con un semestre d’anticipo. Cfr Verbale Cp, prot. 175/92; Lettera circolare prot. 176/92; Discorso inaugurale anno accademico 1992-93. 91 Cfr Verbale unitario e sintetico delle riunioni dei docenti stabili dell’a.a.1992-93 II sem., prot. 227/93. 92 L.c. 93 Cfr Regolamento 1970, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1969-70, Acireale 1970, 8-9. 90


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Anche il Regolamento scolastico, insieme alla Ratio studiorum, è stato voluto come importante strumento pedagogico, in quanto attraverso le scelte normative in esso proposte si è sempre fatto passare un messaggio, una istanza, un obiettivo formativo. In esso emergono con forza alcune linee pedagogiche. Una di queste è rappresentata dalla volontà di fare raggiungere all’alunno l’acquisizione di un autonomo metodo di ricerca scientifica, e ciò attraverso lo strumento didattico del “gruppo di studio”: ossia una realtà in cui un numero limitato di studenti vive l’esperienza della ricerca, aiutato dal professore e animato dagli stimoli e dalla collaborazione dei colleghi. Lo studente, alla fine della ricerca, deve presentare per iscritto i frutti del suo lavoro ed esporre oralmente di fronte agli altri i contenuti della propria ricerca, favorendo anche la discussione di gruppo sul tema. Qui è chiaramente rispettata l’esigenza da tutti sentita di collaborazione e corresponsabilità. Ciascun alunno è tenuto quindi a partecipare a tutte le riunioni del gruppo di studio in modo che la ricerca e il lavoro siano veramente d’équipe94. Quanto poi al Regolamento degli esami, si delineano delle norme di cui alcune, per la loro forte valenza pedagogica, saranno mantenute in modo costante nel corso di tutta la storia del S. Paolo. Viene affermato, con priorità assoluta, il principio secondo cui chi non ha regolarmente frequentato un corso non può accedere a quello ad esso superiore; e l’altro per il quale l’ammissione ad un esame viene condizionata dalla regolare frequenza alle lezioni della rispettiva materia95. Si ravvisa, infatti, nella frequenza alle lezioni da parte degli studenti una imprescindibile occasione di crescita e di formazione, a diretto contatto con il docente, il quale non svolge un ruolo meramente istituzionale e burocratico, ma assolve innanzitutto al compito di annunciare la fede a partire dalla propria esperienza, prima ancora che dal dato scientifico dei manuali96. 94

Cfr Regolamento 1970, art. 3, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1969-70, cit., 8. 95 Cfr ibid., 9. 96 Cfr Ratio studiorum ’72, Note esplicative, 10, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1972-73, Acireale 1973, 16: «In questo ambito acquista maggior valore e impegno la frequenza più assidua possibile alle lezioni».


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3.2. Il Regolamento del 1977 Nel corso degli anni si sente l’esigenza di aggiornare il Regolamento, soprattutto riguardo alle norme concernenti gli esami, sia a motivo dell’esperienza acquisita che per rispondere alle esigenze che di volta in volta si presentano. Già lo Statuto del 1971 inserisce tra i suoi titoli alcuni degli articoli del Regolamento, anche se l’articolo 66 rimanda pur sempre ad esso per la determinazione di particolari norme tecniche; nello stesso anno si fissarono tre sessioni di esami, che nel 1974 vengono ritoccate e rimangono in vigore fino al 1977. Un’importante ristrutturazione del Regolamento avverrà, appunto, nel 1977, quando l’Assemblea generale, nella riunione del 27 aprile, propone di rivedere le modalità dell’esame di Baccalaureato. Dopo un lungo dibattito si decide che il Baccalaureato sarà dato alla fine del quinquennio istituzionale, un relatore guiderà la tesina, sulla quale verterà l’esame finale, che sarà esaminata da un correlatore; compito della segreteria sarà studiare il modo attraverso cui lo studente potrà scegliere per tempo il tema della sua ricerca e il professore. L’Assemblea si occupa anche della revisione del Regolamento degli esami. Si ribadisce che lo Statuto prevede un ampia possibilità di forme per la valutazione di ogni studente, che ogni materia ha caratteristiche sue proprie per cui è difficile stabilire un criterio valido per tutte le materie; si tende inoltre, a salvaguardare la libertà dei docenti e delle équipes delle unità tematiche97.

97

Cfr Verbale Ag del 27/04/1977, prot. 498/77.


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3.3. Il Regolamento del 1983 Il Regolamento in base all’esperienza acquisita, sarà ancora modificato in un clima di non facile dialogo fra gli studenti, la Presidenza e l’Assemblea generale98. La riforma del Regolamento degli esami elaborata dalla Presidenza non è accolta favorevolmente dagli studenti che astenendosi dalle lezioni, il 9 marzo 1983, si riuniscono in assemblea straordinaria. Nel corso di quella seduta gli studenti sintetizzano in una lettera, all’attenzione del preside Consoli, le loro esigenze e rimostranze99. Contestano la normativa della Presidenza secondo cui a partire dal secondo semestre dell’anno accademico gli esami si possono sostenere solo nelle sessioni riconosciute e non più, come era consuetudine, anche durante l’anno100. Le richieste degli studenti sono accolte in minima parte, in quanto, nella riunione del Consiglio di presidenza del 23 marzo 1983, si stabilsce che solo gli alunni che si trovano in situazioni «veramente difficoltose», dopo che la segreteria avrà preso opportuni accordi col professore interessato, possono essere autorizzati dal preside a sostenere esami fuori sessione101. Il Regolamento viene definito nell’Assemblea generale del 18 maggio 1983. Si stabilisce pertanto che i giorni di esame non devono coincidere con quelli di lezione; in ogni sessione ordinaria i professori concordano con gli alunni la data degli esami e il numero degli appelli; i fuori corso o gli alunni in situazioni eccezionalmente gravi, potranno essere ammessi a sostenere esami solo dopo che la segreteria avrà preso opportuni accordi con il professore; in certi casi, a richiesta del professore o dell’alunno, ad esaminare sia una commissione e non il solo docente102.

98 Cfr Lettera circolare del Preside del 2/3/1983, prot. 9/83; Lettera circolare del Preside del 5/5/1983, prot. 8/83. 99 Cfr Lettera del Presidente degli studenti S. Raciti al Preside S. Consoli, Catania 9/3/1983. 100 Cfr Lettera di convocazione dell’Ag del 20/12/1982, prot. 974/82. 101 Cfr Verbale Cp del 23/3/1983, prot. 23/83. 102 Cfr Verbale Ag del 18/5/1983, prot. 30/83; per il testo completo cfr Regolamento degli esami, 3, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1983-84, Catania 1984, 77.


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3.4. Le modifiche del Regolamento in seguito all’aggregazione L’aggregazione alla Facoltà Teologica di Sicilia consente allo Studio di conferire il secondo grado accademico della Licenza, si rende pertanto necessario fissare le Norme per l’esame di Licenza103 e rivedere le Norme per l’esame di Baccalaureato104. Delle indicazioni in merito al Regolamento scolastico erano già state elaborate dal Consiglio di presidenza, nella relazione sulla preparazione dei piani per l’aggregazione alla Facoltà Teologica di Sicilia105. Il 18 gennaio 1991, il vicepreside Gaetano Zito, invia una circolare ai professori del primo semestre, in cui vengono ribaditi i punti fondamentali del Regolamento degli esami: possibilità per gli alunni di concordare con i professori la data degli esami e il numero di appelli; possibilità di sostenere esami fuori dalle sessioni previste solo per i fuori corso o per gli alunni in situazioni eccezionalmente gravi; possibilità di essere esaminati da una commissione e non dal solo docente106. Il 26 febbraio 1993 sempre ad opera del vicepreside viene presentata al Consiglio dei docenti stabili la bozza di Regolamento per gli esami di Baccalaureato in attuazione di quanto disposto nello Statuto agli articoli 47-48107. Il Consiglio dello Studio il 10 giugno 1994 riformula l’articolo 7 delle norme esplicative della Ratio, cercando una soluzione al problema circa l’insuccesso reiterato agli esami. Tenendo presente lo spirito di collegialità, caratteristica dello Studio, l’articolo riformulato recita: «Chi non supera lo stesso esame alla seconda prova dovrà sostenerlo dinanzi ad una commissione nominata dal Preside, debitamente informata sul caso 103 Cfr per il testo Norme per l’esame di Licenza, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1991-92, Catania 1992, 147-149. 104 Cfr Verbale della riunione dei docenti stabili del 29/1/1993, prot. 227/93; per il testo cfr Norme per l’esame di Baccalaureato, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 1992-93, Catania 1993, 153-154. 105 Cfr Verbale Cp del 11/12/1986, prot. 140/86. 106 Cfr Lettera circolare del Vicepreside G. Zito del 18/01/1991 ai professori del primo semestre, prot. 37/91. 107 Cfr Verbale unitario e sintetico delle riunioni dei docenti stabili a.a.1992-93, prot. 227/93.


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specifico. In caso di terzo insuccesso l’alunno sarà considerato dimesso da questo Studio Teologico e ne verrà data comunicazione scritta all’interessato e, se seminarista, al suo Ordinario»108. Nel corso degli anni, l’esigenza di dare un assestamento definitivo alle norme sugli esami è fortemente sentita, anche a fronte dei problemi pratici che man mano si presentano.

3.5. La revisione del Regolamento degli esami del 2001 A partire dalla riunione del 27 gennaio 2000, il Consiglio dello Studio ha ritenuto di dover rivedere una norma del Regolamento d’esami, quella relativa ai “fuori corso”. Questa modifica, secondo il Consiglio, si è resa necessaria dal momento che spesso accade che gli studenti fuori corso, pur avendo più tempo a disposizione per studiare, non si presentano agli esami; pertanto si è voluto intervenire in maniera risoluta per uscire da una situazione di stallo e rilassamento che non contribuisce ad altro che ad impantanare la stessa attività didattica dello Studio Si discute sulla eventualità di determinare il numero delle sezioni d’esame a cui lo studente può accedere dopo aver frequentato il corso, e si dà incarico ad una commissione straordinaria di studiare il problema e di esporre i risultati in Consiglio109. Nella riunione del 17 marzo, il professore Schillaci presenta il risultato del lavoro svolto dalla commissione, sottolineando il disagio che vivono gli studenti al momento di sostenere gli esami, ma di fatto non si riesce a trovare una soluzione al problema110. Infine, dopo lunghe tergiversazioni e accesi dibattiti tra la presidenza degli studenti e il Consiglio dello Studio, nella riunione del Consiglio dello Studio del 25 maggio 2001, viene finalmente approvata la revisione del numero 3 del Regolamento per gli esami, relativo ai “fuori corso”. Vengono messe ai voti le due proposte seguenti: «Il contenuto su cui verte l’esame corrisponde all’ultimo programma insegnato dal professore in carica» e 108

Cfr Verbale Cs del 10/06/1994, prot. 26/94. Cfr Verbale Cs del 27/01/2000, prot. 471/2000. 110 Cfr Verbale della riunione straordinaria del Cs del 17/03/2000, prot. 486/2000. 109


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«L’esame si sostiene sul programma e con il professore che ha tenuto il corso frequentato. Nel caso in cui il docente non insegna più allo Studio o cambia il programma, l’alunno è tenuto a concordare con il docente che succede nell’insegnamento il programma dell’esame»; in seguito alla votazione viene approvata, a maggioranza, la prima proposta, perché ritenuta dalla maggior parte dei membri del Consiglio, e da qualche professore in particolare, una norma più pedagogica111. Tale norma, infatti, salvaguarda, ancora una volta, il principio della necessità della frequenza, perché gli studenti sono così più stimolati a sostenere l’esame nelle sessioni ordinarie immediatamente successive al corso tenuto dal professore, in modo da aggiungere alla preparazione manualistica tutto il beneficio ricavato da una frequenza diretta del corso ancora vicina.

CONCLUSIONI A conclusione di questo articolo, riteniamo opportuno esprimere qualche valutazione sullo spirito che ha animato le continue strutturazioni e revisioni di Ratio studiorum, Statuti e Regolamenti scolastici. Certamente nei primi anni di vita del S. Paolo la discussione sulle revisioni ebbe una particolare vivacità, dal momento che si era ancora agli inizi, le indicazioni della Congregazione mancavano o non erano molto chiare, e le proposte muovevano dalla riflessione sull’esperienza d’insegnamento e dalle esigenze degli studenti. Più in là con gli anni, il dibattito acquistò un significato diverso, perché dalla S. Sede arrivarono direttive sempre più chiare di cui bisognava tenere conto in fase di strutturazione e revisione, fatto che tuttavia determinò la creazione di correnti diverse. Tutto questo fin quando non fu necessario accettare da parte di tutti i criteri dati per l’aggregazione e si dovette sottoporre al giudizio della Congregazione l’approvazione di tutta la Ratio studiorum, come si dovette anche accettare la sostituzione 111 Vd Verbale Cs del 25/5/2001, prot. 593/2001. Per il testo definitivo vd Regolamento per gli esami, 3, in STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO, Annuario 2001-02, Catania 2001, 112.


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dell’Assemblea generale, organo vitale dello Studio, col nuovo organo del Consiglio dello Studio. C’erano poi gli alunni, che in molti casi assunsero un atteggiamento autonomo, partendo da esigenze pratiche: quelle dello studio e degli esami. Questo confronto aperto, tra il soggetto docente e quello discente, a volte non privo anche di momenti di tensione, ha contribuito non poco alla crescita complessiva di tutta la comunità accademica e a una revisione critica dei suoi strumenti educativi. Infatti, se da un lato lo Studio era attento alle indicazioni della Congregazione, dall’altro non chiudeva l’orecchio alle istanze degli studenti, operando una politica di adeguamento alla loro preparazione e alle loro esigenze, non certo per sterile condiscendenza ma per far raggiungere e poter garantire, grazie all’aggancio di studio e vita, un sempre più alto livello di preparazione e in primo luogo di formazione. Emerge, pertanto, con forza, nello Studio Teologico S. Paolo, lo spirito comunitario che anima i suoi organismi, e lo spirito di vera corresponsabilità tra tutte le forze in campo, sempre adeguatamente e proporzionatamente rappresentate, chiamate ciascuna a portare il proprio contributo per la crescita di tutti. Pertanto, alla luce di quanto è stato fatto emergere, appare con estrema chiarezza quanto lo Studio Teologico S. Paolo di Catania sia un istituto che guarda al futuro con occhi aperti alla speranza, che non si lascia cristallizzare una volta per sempre ma riesce sempre a rinnovarsi, adeguandosi di volta in volta alle sfide e alle sollecitazioni del mondo d’oggi, e in particolare della realtà siciliana in cui è inserito e che lo ha generato.



Nota Synaxis XXII/1 (2004) 185-189

LA PIRA E STURZO. Una vecchia polemica alla luce di un nuovo criterio storiografico

SALVATORE LATORA*

Quando ci si ferma agli stereotipi e non si va a fondo nella analisi degli avvenimenti e nello studio del carattere dei protagonisti, si rischia di sovvertire la realtà e, in tal caso, è facile ogni strumentalizzazione ideologica; e così si tradisce la verità che non è ideologia. Ideologia, infatti, è un insieme strutturato di idee a fini prevalentemente pratici, mentre ciò che interessa lo storico è in primo luogo la ricerca della verità, che potremmo definire di natura filosofica, distinta per grado e qualità, rispetto alla prima. Donde deriva l’etichetta che poi è diventata uno stereotipo di “La Pira statalista e Sturzo liberista”? Partiamo da due scritti indicativi a questo riguardo, pubblicati su “Il Focolare”, umile foglio nato per le esigenze di evangelizzazione di una parrocchia fiorentina «posta tra la città del dolore (Carreggi con i suoi ospedali) e la città del lavoro (Nuovo Pignone – Galilei)» e ora raccolti i volume dal titolo: GIORGIO LA PIRA, Il fondamento e il progetto di ogni speranza, AVE, Roma 1992. I due articoli riportati opportunamente uno dopo l’altro, per un illuminante confronto, sono intitolati: LUIGI STURZO, Statalista La Pira? (pp.35-38) (già pubblicato sul Giornale d’Italia); e l’altro del sindaco di Firenze: Scendere da cavallo (Risposta a Don Luigi Sturzo) (pp. 28-35). Gli scritti sono del maggio 1954. *

Catania.

Professore emerito di Storia della filosofia nello Studio Teologico S. Paolo di


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Salvatore Latora

Due siciliani a confronto, dunque! Siciliani, ma cittadini del mondo, con grande esperienza di amministrazione comunale e di vita politica intensa, due grandi operatori di pace, e sulla via della beatificazione entrambi! Sturzo prende lo spunto da un lettera che La Pira aveva scritto al Presidente della Confindustria, Dottor Costa e così la interpreta con qualche cautela: «Se mal non ne interpreto il pensiero, La Pira crede che il problema da risolvere sarebbe quello di arrivare alla totalità del sistema finanziario in mano allo Stato, togliendo quel piccolo quasi che egli vi ha premesso; e di abolire il quarto del sistema produttivo che ancora sarebbe in mano ai privati per potere avere fortuna (o sfortuna) di una economia tutta statale. In sostanza si tratterebbe di instaurare in Italia un socialismo di Stato al cento per cento». Usa poi parole più pesanti e immeritate, data la figura integerrima e carismatica del suo interlocutore: «Mi pare di sentire l’eco del motto mussoliniano, Tutto per lo Stato e nello Stato; nulla sopra, fuori e contro lo Stato»! E continua: «Questo io chiamo statalismo e contro questo dogma io voglio levare la mia voce senza stancarmi, finché il Signore mi darà fiato; perché sono convinto che in questo fatto si annidi l’errore di fare dello Stato l’idolo: Moloch o Leviathan che sia». Quali erano i fatti che avevano scatenato tale reazione? Nel novembre del 1953 La Pira, in qualità di sindaco di Firenze, si oppone alla chiusura dello Stabilimento del Pignone; si trattava di licenziare 1750 operai ai quali si aggiungevano gli altri numerosi disoccupati (della Richard-Ginori con 950 licenziamenti, e altri in atto nella Manetti e Roberts!). Il sindaco La Pira quindi non esita a dar loro pubblicamente tutta la sua solidarietà, fino ad approvare l’occupazione stessa della fabbrica! Ma non si limita solo a questo gesto: chiama in causa lo Stato, invoca l’appoggio della gerarchia ecclesiastica, e non si dà pace finché non riesce a convincere l’ENI di Mattei ad assumere lo stabilimento che diventerà il “Nuovo Pignone” che avrà un futuro brillante! Di fronte alla frase offensiva, viene facile a La Pira ribattere con pari vivacità: «Non si allarmi, caro don Sturzo: la frase di Mussolini fu da noi amaramente sperimentata durante gli ultimi anni di tirannia del regime fascista. Lei forse non lo sa: noi si prese posizione pubblicamente — anche


La Pira e Sturzo

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con una rivista scritta quasi tutta in latino e greco (Principi) e soppressa proprio quando uscì il numero sulla libertà: gennaio 1942! — contro questo Stato tutto di hegeliana fattura. Pensi, quindi, se non conosciamo per esperienza e per sofferenza amara cosa sia lo Stato totalitario! Lei era in America, in esilio, e certo soffriva; ma consentirà che Le dica che le nostre pene non erano più piccole delle Sue: quali e quante! Stia tranquillo! Siamo ben vaccinati! Lei è contro lo Stato totalitario sovratutto per persuasione: noi lo siamo in virtù di una persuasione autenticata da una terrificante esperienza che ci brucia ancora!». E poi continua con una punta di sarcasmo. «Scusi: davanti a tutti questi “feriti”, buttati a terra dai “ladroni” — come dice la parabola del Samaritano (Lc 10,30ss) — cosa deve fare il sindaco, cioè il capo ed in certo modo il padre ed il responsabile della comune famiglia cittadina? Può lavarsi le mani dicendo a tutti: — scusate, non posso interessarmi di voi perché non sono uno statalista ma un interclassista e anticomunista? La Parabola del Samaritano — sola norma umana! — non dice questo: dice, anzi, che il Samaritano, contrariamente al fariseo e allo scriba della parabola, scese da cavallo, prese il ferito (un nemico, un giudeo), gli somministrò le prime cure, lo portò dal farmacista al quale disse: “Curalo, tornerò domani e pagherò le spese”». È una vera gigantomachia di due grandi che si differenziano, se non andiamo errati, nella applicazione di problemi contingenti, pur fondandosi su principi, ispirazioni e finalità comuni! Sturzo, d’altra parte, non è quel liberale-liberista che si vuol far passare; egli infatti prosegue: «Non nego la necessità di interventi statali di eccezione per casi eccezionali, interventi temporanei e adeguati […] Si dice che l’economia libera (da non confondere con quella liberale di cento anni fa) reca vantaggio solo ai “borghesi” e non ai “lavoratori”; non mi piace questo fraseggio di lotta e odio di classe, mentre occorre seguire l’insegnamento cattolico-sociale della coesistenza e cooperazione fra le classi […] Intanto, fissiamo bene le idee: La Pira da buon cristiano non vuole altro dio fuori del vero Dio. Per lui, come per me, lo Stato è un mezzo, non un fine, neppure il fine. Egli è lo statalista della povera gente; ed è arrivato, attraverso la povera gente, a pensare che lo Stato, tenendo in mano l’economia, possa assicurare a ciascun cittadino il suo minimo vitale».


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Salvatore Latora

D’altra parte neppure a La Pira può adattarsi l’epiteto di “Statalista”, egli che è stato uno dei padri fondatori della Costituzione, in un magnifico saggio pubblicato su Cronache sociali, si chiedeva se ci fosse nella nostra Costituzione un principio che la finalizzasse rendendola organica, nonostante alcune deficienze, e lo riscontra nel principio affermato dall’articolo 2, per cui la nostra Costituzione «si differenzia nettamente tanto dalle costituzioni di destra quanto da quelle di sinistra: e se ne differenzia proprio in virtù di quel principio organico, pluralista che dà il dovuto rilievo giuridico e costituzionale alla persona, allo Stato, ed ai gruppi intermedi che si pongono fra la persona e lo Stato. Lo statalismo, per un verso, e l’individualismo, per l’altro verso, sono qui parimenti impediti per via della crescenza di quei corpi intermedi che si pongono fra la persona e lo Stato». Come si risolve allora la questione? Non certo in termini banali secondo cui: ha ragione l’uno e torto l’altro o viceversa! Si può fare discriminazione, quando è ormai accertato che entrambi siano stati testimoni autentici del Vangelo? Come non vedere la loro sorprendente attualità, anche su problemi di questi giorni: Sturzo, con le proposte, fondate su precisi concetti storico-giuridici, per l’abolizione della guerra; e La Pira che, evocando il “Sentiero di Isaia” proponeva, per la pace in Medio Oriente una trattativa triangolare, tra israeliani, palestinesi e arabi, e non si stancava di perseguire il suo progetto, oltre che con numerose lettere ai capi di Stato (più di 1500 si trovano nel suo archivio!) anche con i Convegni Per la pace e la civiltà cristiana e poi con i Colloqui mediterranei! Il criterio storiografico da cui guardare in modo equilibrato e corretto il problema, ci sembra sia quello ecclesiale, alla luce cioè della Dottrina sociale della Chiesa: La Pira infatti riporta nell’articolo, da cui abbiamo preso lo spunto, quasi tutto il paragrafo 37 della Quadragesimo anno, che riguarda il Principio direttivo dell’economia; e, d’altra parte, tutta la concezione politica di Sturzo si ispira alla Rerum Novarum, in cui c’è l’affermazione fondamentale e rivoluzionaria che il lavoro non è una merce e quindi non può essere sottoposto alla esclusiva contrattazione del mercato, alla legge della domanda e dell’offerta! Sono pertanto semplici etichette improprie quelle di La Pira Keynesiano e di Sturzo: un liberista fuori stagione! In una rapida sintesi, quali sono le indicazioni della Dottrina Sociale della Chiesa in qualità di “esperta in umanità”? In primo


La Pira e Sturzo

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luogo, il concetto di persona integralmente intesa, che deve essere il fine supremo di ogni organizzazione sociale e politica; poi il concetto di bene comune, che implica la pace, la stabilità e la sicurezza di un ordine giusto; e il principio di sussidiarietà, al fine di evitare ogni assolutismo statalista, per una democrazia moderna e pluralista, integrata nelle organizzazioni mondiali. Per quanto riguarda gli aspetti economici, si afferma il principio della destinazione universale dei beni. Nella Centesimus annus (34) si leggono queste affermazioni: «la regolazione dell’economia mediante la sola pianificazione centralizzata perverte i legami sociali alla base; la sua regolazione mediante la sola legge del mercato non può attuare la giustizia sociale, perché “ esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato». E ancora nel Catechismo della Chiesa Cattolica, nel n° 2425 si ribadisce: «La Chiesa ha rifiutato le ideologie totalitarie e atee associate, nei tempi moderni, al comunismo o al socialismo. Peraltro essa ha pure rifiutato, nella pratica del capitalismo, l’individualismo e il primato assoluto della legge del mercato sul lavoro umano,… (pertanto) è necessario favorire una ragionevole regolazione del mercato e delle iniziative economiche, secondo una giusta gerarchia dei valori e in vista del bene comune». In rapporto a questi principi fondamentali riscontriamo puntualmente una consonanza con i motivi ispiratori dell’azione politica e sociale, teoretica e pratica dei due protagonisti, Sturzo e La Pira, della storia del nostro paese, in un particolare momento difficile del suo percorso. Essi ci hanno tracciato itinerari distinti ma complementari per la costruzione di una società e di uno stato in un mondo nuovo ad ispirazione cristiana. E in fine, per ultimo, ma non meno importante, Essi ci hanno dato un esempio significativo di quella che deve essere la via laica alla santità.



Recensioni Synaxis XXII/1 (2004) 191-196

M. TORCIVIA, Il segno di Bose. Con un’intervista a Enzo Bianchi, prefazione di André Louf, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2003, 132 pp. Il volume di Mario Torcivia è il secondo che l’autore dedica al tema delle nuove comunità monastiche italiane. Il precedente volume, pubblicato nel 2001 dalla medesima casa editrice, portava appunto il titolo di Guida alle nuove comunità monastiche italiane, e ospitava un’analisi attenta, anche se necessariamente sintetica, delle esperienze nate in Italia dopo il Vaticano II. Il segno di Bose si presenta, in continuità e come sviluppo del precedente, come uno studio monografico interamente dedicato al nascere e allo svilupparsi dell’esperienza monastica di Bose, piccola frazione di Magnano in provincia di Biella. La conoscenza del fenomeno “monachesimo” consente all’autore, sin dall’introduzione, di mettere in evidenza alcuni elementi comuni a queste nuove comunità religiose e, nel medesimo tempo, di lasciare intravedere quegli elementi specifici che caratterizzano la più nota tra le comunità nate nel dopo Concilio, quella fondata da fr. Enzo Bianchi, proprio alla chiusura del Vaticano II. Il piano dell’opera è chiaro ed essenziale. La vicenda umana e spirituale del fondatore e la storia del nascere e dello svilupparsi della comunità monastica occupa la prima parte del libro; il capitolo centrale è poi dedicato ai tratti essenziali della esperienza di Bose, mentre l’ultima parte è costituita da una intervista o, meglio, da un dialogo a due voci tra l’autore e il monaco piemontese, che ha lo scopo di far risaltare alcuni elementi caratteristici dell’esperienza nel quadro di una visione più globale della cristianità e del monachesimo. In appendice, poi, si può consultare uno schema della giornata monastica, una comoda cartina, una bibliografia essenziale che permette di rinvenire le fonti, i testi per la preghiera e i principali studi sull’esperienza.


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Il compito di fare da preziosa cornice è affidato alla prefazione di André Louf, un tempo abate della comunità monastica di Mont-des-Cats, che “cuce” l’esperienza di Bose alla più antica tradizione monastica, mettendo in evidenza anche gli aspetti di “profezia” accompagnati, come tutte le cose di Dio, da molte prove e incomprensioni, ma anche da frutti sorprendenti ed abbondanti. La storia personale di fr. Enzo Bianchi, tracciata dall’autore con essenziali pennellate nel primo capitolo, raccoglie, uno ad uno, i colori della “tavolozza” che compongono il quadro finale della personalità adulta: la fede della madre, perduta in tenera età, l’educazione religiosa ricevuta da due donne, cui la madre lo affida prima di morire, l’amore allo studio, l’impegno nel sociale, fino alla Fraternità ecumenica di via Piave, che rappresenta negli anni che vanno dal 1963 al 1966 (Enzo Bianchi ha, a quell’epoca, poco più di vent’anni) una sorta di laboratorio dove è possibile riconoscere alcune delle costanti dell’esperienza personale e spirituale del fondatore di Bose: l’ecumenismo, l’amore alla Bibbia, la preghiera in comune. Il tempo della solitudine, che seguirà a quella prima esperienza e preparerà il terreno della futura fondazione, sarà un tempo fecondo, illuminato da guide e riferimenti che confermeranno il giovane monaco, nel cammino intrapreso. L’elenco di questi straordinari consiglieri e ispiratori è lungo; tra tutti l’Abbè Pierre, Athenagoras I, Roger Schutz, Giuseppe Dossetti, Umberto Neri e tanti altri ancora. Decisivo il conforto e la paterna "protezione" del Cardinale Pellegrino di Torino. Nasce così la prima comunità ecumenica e mista (composta da uomini e donne) della storia del cristianesimo; nel 1973, nella festa di Pasqua, i primi membri pronunciano le loro professioni monastiche. Il testo di Torcivia descrive, con ricchezza di particolari, il tempo della fondazione, passando in rassegna anche le tappe principali della crescita e dello sviluppo del nuovo organismo. Smessi gli abiti dello storico, l’autore indossa quelli del teologo, affrontando il capitolo centrale sui tratti costitutivi della esperienza di Bose. Dopo avere tratteggiato la particolare forma monastica, centrata sul “celibato vissuto nella vita comune”, Torcivia passa in rassegna alcuni aspetti particolari dell’esperienza monastica di Bose: la correzione fraterna, l’originale concezione della stabilitas, prospettata più come stabilitas cordis che come stabilitas loci, la prerogativa della interconfessionalità,


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della laicità e della compresenza di uomini e donne, le caratteristiche figure di “governo”, di ispirazione brasiliana, il rapporto col monachesimo tradizionale e, infine, l’iter formativo dei monaci. La centralità della Parola, nella preghiera personale e liturgica, e la valorizzazione della celebrazione eucaristica (non quotidiana forse proprio perché considerata la “preghiera delle preghiere”), rappresentano i riferimenti sicuri e l’opus del monaco. L’armonico dialogo tra preghiera e lavoro, che peraltro rispetta l’antica tradizione monastica, è presentato anche come segno di un monaco povero che trova nella ospitalità la sua particolare “strategia” per vivere dentro la comunità ecclesiale, senza facili e anacronistiche fughe dal mondo e nella convinzione profonda di un umile, ma importante compito nella chiesa e nel mondo di oggi: quello, sottolineato efficacemente nel titolo dell’opera, di essere segno della bellezza che è Dio. Questa bellezza che, a Bose, avvolge i luoghi, le nuove costruzioni, gli ambienti in cui si vive, le persone, le cose che si fanno, manifesta così, secondo le stesse parole pronunciate dal fondatore durante l’intervista che conclude il libro, l’«urgenza escatologica», quel segno del Regno di Dio che è l’amore reciproco e che costituisce una credibile profezia per il mondo. L’opera di Torcivia ha il pregio, a parer nostro, di cogliere, con un numero di pagine “accessibile” anche ad un lettore poco volenteroso, tutti e soltanto gli elementi essenziali, gli “ingredienti” fondamentali della esperienza di Bose. Le numerose citazioni della Regola, dello Statuto, degli scritti del priore e la sua diretta testimonianza, consentono poi, al lettore più attento, di accostarsi alle fonti e di giustificare e rinvenire, grazie anche alle indicazioni bibliografiche contenute in calce, tutti gli elementi storici e teologici che costituiscono il patrimonio di Bose. Senza venir meno alle esigenze del lavoro scientifico, così, l’opera si presenta attraente e scorrevole, nello stile e nei contenuti. La mancanza di uno sguardo “critico” sull’esperienza o della individuazione di alcune domande aperte, può essere giustificata, dalla convincente efficacia del quadro complessivo, che rivela la autenticità e la coerenza dei tempi della fondazione, e quella bellezza che conferisce al monachesimo di Bose la capacità di anticipare il Regno. Il medesimo metodo di lavoro potrebbe essere applicato per lo studio di altre esperienze, monastiche e non, che caratterizzano il panorama della cristianità postconciliare; è questo il compito che consegniamo all’autore


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che ha mostrato di muoversi con padronanza, con capacità di sintesi e con sensibilità nel panorama attuale della vita consacrata. Giuseppe Buccellato SDB

ASSOCIAZIONE ARCHIVISTICA ECCLESIASTICA, Consegnare la memoria. Manuale di archivistica ecclesiastica, a cura di Emanuele Boaga – Salvatore Palese – Gaetano Zito, Giunti, Firenze 2003, 352 pp. Il titolo del manuale di Archivistica ecclesiastica Consegnare la memoria, recentemente apparso a cura di Emanuele Boaga, Salvatore Palese e Gaetano Zito, ha la capacità di esprimere con efficacia l’obiettivo primo di coloro che operano in questo campo, conservare cioè nei modi opportuni il contenuto degli archivi ecclesiastici, per garantirne la trasmissione alle future generazioni: merito non trascurabile dell’Associazione Archivistica Ecclesiastica è averne patrocinato la realizzazione. In questo lavoro, reso in certa misura necessario proprio dalla distanza che lo separa dall’edizione dell’ultimo manuale di carattere generale, risalente ormai a vent’anni fa, confluiscono vari filoni di studi, che pure sono stati presi singolarmente in esame — e in buona parte proprio in convegni curati dalla stessa Associazione — anche con connotazioni di ampiezza e di accuratezza, ma pur sempre senza confluire in un’esposizione ed in una trattazione che li comprendesse e li componesse organicamente. Nel caso del presente volume, invece, ci troviamo di fronte ad una impostazione unitaria che nasce proprio dall’obiettivo di conservare e valorizzare il patrimonio documentario di tutte le istituzioni ecclesiastiche, a partire dalle parrocchie, dalle fondazioni monastiche, dai capitoli delle cattedrali, dalle confraternite, per arrivare alla Curia romana con i suoi uffici e la sua centralizzazione. Il volume è opportunamente diviso in tre parti, tutte di considerevole peso ed importanza: una prima che illustra l’evoluzione delle istituzioni ecclesiastiche e tratteggia una archivistica speciale; una seconda dedicata ad una ragionata sintesi di teoria e gestione archivistica — non senza che vi intervengano nozioni e considerazioni di altre materie del settore —; una


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terza, infine, diretta alla descrizione degli archivi centrali della Chiesa e agli archivi civili cui essi sono necessariamente collegati; completano poi il lavoro, rendendone più facile e completa la fruizione, varie appendici e un indice generale. La prima parte è dovuta a Salvatore Palese, che, dopo aver delineato la storia delle istituzioni ecclesiastiche dalle origini ai nostri giorni, passa ad una descrizione delle tipologie dei luoghi di conservazione dei documenti ed all’esposizione di quel settore della dottrina archivistica specificamente mirato alle necessità di chi opera proprio in quegli archivi e su quella documentazione; seguono poi i contributi di due collaboratori, Carlo Chenis e Giorgio Feliciani, rispettivamente dedicati il primo alla natura di bene culturale degli archivi nel rapporto con il territorio e il secondo alla legislazione canonica, opportunamente distinta tra normativa unilaterale e normativa pattizia. La seconda parte è frutto del lavoro congiunto di Emanuele Boaga e Gaetano Zito: in essa si affrontano i problemi della gestione dell’archivio corrente e, accanto, quelli — pur assai diversi — dell’archivio storico; si forniscono elementi di Diplomatica generale e di Diplomatica speciale, di Cronologia, di Archivistica applicata, di Informatica, di Archiveconomia; si illustrano esempi di documentazione pontificia, tratteggiando in buona sostanza il quadro complessivo degli strumenti teorici e pratici di cui devono attrezzarsi ordinatori e fruitori di questi beni. La terza parte è stata curata da Luis Manuel Cuna Ramos e da Francesco de Luca, i quali descrivono l’uno la Curia romana con le Congregazioni, i Tribunali e i Pontifici consigli nonché l’Archivio Segreto Vaticano, l’altro gli archivi civili italiani, nei quali una ragguardevole quota di documentazione risulta in strettissimo rapporto con quella degli archivi ecclesiastici. Il quadro delle istituzioni curiali assolve un’indubbia ed efficace funzione di orientamento, ma, proprio per la sua importanza, stimola altri desideri e lo si vorrebbe ulteriormente corredato da più concrete indicazioni sugli archivi dei singoli dicasteri, magari con qualche riferimento bibliografico specifico. È chiaro che le esigenze editoriali determinano in gran parte l’ampiezza delle sinple parti e tuttavia il sacrificio di taluni aspetti meriterebbe di essere, almeno in futuro, risarcito: è il caso dell’esposizione relativa all’Archivio SegretoVaticano, nella quale, accanto al riferimento a


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guide come quella del Boyle e dei Pàsztor o a pubblicazioni quali Archivi e Archivistica a Roma dopo l’Unità, troverebbero utilissima segnalazione taluni fondi che più strettamente sono in relazione con gli enti ecclesiastici periferici e risultano perciò ricchi di notizie importanti per la storia locale (Processi concistoriali, Lettere dei Vescovi, Relazioni ad limina…). In conclusione non si deve tacere delle appendici e dell’indice, che costituiscono un prezioso corredo attraverso il quale si accede con facilità alla fondamentale terminologia dell’archivistica ecclesiastica, al complesso delle norme canoniche che riguardano gli archivi, alla normativa italiana ed europea; accanto ad una ricca bibliografia è presente anche un elenco di siti internet che, senza avere la pretesa di essere esaustivi forniscono però l’indicazione dei diversi tipi di servizi che vi si possono trovare, ed infine il catalogo storico di arcidiocesi, diocesi, prelature e abbazie, nel quale il nome italiano è assai utilmente accompagnato dall’indicazione di quello latino e seguito poi da una brevissima storia, quando sia intervenuta un’evoluzione. Rita Cosma


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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

1. Licenziati in Teologia Morale Hanno conseguito la Licenza il Teologia Morale il 3 ottobre 2003: LA PAGLIA ANTONINO, Chi fa la volontà di Dio rimane in eterno. Lettura esegetico-spirituale di 1Gv 2,17 (relatore prof. Attilio Gangemi) ROVELLO ALESSANDRO, La morale sessuale per i giovani nell’età post-moderna. Linee per un’educazione dei giovani alla sessualità secondo le indicazioni di alcuni documenti del Magistero (relatore prof. Mario Cascone) VISALLI ALBERTO, Cura pastorale del malato. Il dono della presenza e l’offerta di significati (relatore prof. Salvatore Consoli) Hanno conseguito la Licenza in Teologia Morale, il 16 gennaio 2004: LAURIA COSTANTINO, L’attività terapeutica della Chiesa. Breve analisi a partire dai riferimenti della “Istruzione circa le Preghiere per ottenere da Dio la guarigione”. (relatore prof. Salvatore Consoli) GIOENI ANNA ROSARIA, “Chi mi vuol servire mi segua” La Diakonia a Gesù e la sua sequela. Lettura esegetico-tologica di Gv 12,26. (relatore prof. Attilio Gangemi)

2. Baccellieri in Teologia Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia il 3 ottobre 2003: FORTUNATO SANTO, Dal silenzio autentico una parola utile. La comunicazione terapeutica nei padri del deserto (relatore prof. Sebastiano Dell’Agli)


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

LOMBARDO ANGELO, I poveri oppressi nella cristologia “Gesù Cristo liberatore” di Jon Sobrino (relatore prof. Nunzio Capizzi) NDIKUMAGENGE CASSIEN, “L’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato”. Analisi esegeticoteologica di Rm 5,5 (relatore prof. Attilio Gangemi) RANDONE NUCCIO, “E asciugherà Dio ogni lacrima dai loro occhi”. Analisi esegetico teologica di Ap 21,4a (relatore prof. Attilio Gangemi) SAPUPPO ANTONINO, Le cellule staminali. Una nuova via in campo biomedico, un dibattito aperto tra scienza ed etica (relatore prof. Salvatore Consoli) SORTINO PIETRO, Il dono della vita e la cultura della donazione (relatore prof. Mario Cascone) Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia, il 16 gennaio 2004: BARA KULDEEP, Constant Lievens e le missioni tra le tribù aborigene Munda, Oraon e Kharia nel Chotanagpur (India nord-est) (relatore prof. Gaetano Zito) BLANCO SALVATORE, «… outwv uywqhnai dei ton uion tou anqrwpou (Gv 3,14) L’esaltazione di Gesù nel vangelo di S. Giovanni (relatore prof. Attilio Gangemi) CAMACHO HENRY, L’Eucaristia e i poveri: due “luoghi” per incontrare Cristo. La riflessione Teologico–spirituale di alcuni fondatori siciliani di Istituti di Vita Consacrata. (relatore prof. Mario Torcivia) FARINA MARINA LAURA FRANCESCA, “Exultet iam angelica turba coelorum”. Iconografia del Rotolo dell’Exultet 1 della Cattedrale di Bari (relatore prof. Giuseppe Federico) FINOCCHIARO CARMELO, Il Sal 69 (68) e la sua utilizzazione nel NT (relatore prof. Attilio Gangemi) FRESTA MARIO, «… kai to fwv eén th sktia faiénei kai h sktia auto ou katelabeu (Gv1,5). La vittoria della luce sulla tenebra. Lettura esegeticoteologica di Gv 1,5 (relatore prof. Attilio Gangemi)


Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

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NICOLOSI GIUSEPPE, Dio, la Chiesa, la preghiera nella canzone d’autore dagli anni ’70 ad oggi. Approccio teologico alla cultura contemporanea (relatore prof. Giuseppe Schillaci) TIGGA ADEEP, La sofferenza e la morte in Rabindranath Tagore e il oro compimento in Cristo (relatore prof. Giuseppe Schillaci) TIRENDI PLACIDO, La partecipazione dei fedeli all’assemblea liturgica (relatore prof. Giuseppe Federico)

3. Inaugurazione anno accademico Il 7 novembre 2003 si è tenuta l’inaugurazione del 35° anno accademico del S. Paolo. La concelebrazione è stata presieduta da S.E. Mons. Salvatore Pappalardo vescovo di Nicosia. Dopo la relazione del Preside, il prof. Maurizio Aliotta ha tenuto la prolusione accademica sul tema: Subordinazione e reciprocità nella relazione sponsale.

4. Convegno di liturgia In occasione del centenario del motu proprio di Pio X Inter sollicitudines e dei 40 anni della costituzione liturgica del Vaticano II Sacrosanctum Concilium, i professori di liturgia dello Studio Teologico S. Paolo, l’11 dicembre 2003, hanno organizzato un colloquio che ha visto la partecipazione, come relatori, del prof. Pietro Sorci della Facoltà teologica di Sicilia e del Maestro di Cappella della Sistina Giuseppe Liberto.

5. Lezione di liturgia Il prof. Andrea Grillo, il 16 dicembre 2003, ha tenuto una lezione dal titolo: La liturgia come azione simbolico-rituale. A 40 anni da Sacrosanctum Concilium una piccola “considerazione inattuale” sull’attualità del movimento liturgico.


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

6. Disputatio In vista del convegno con l’Università di Catania che avrà come oggetto la Sinodalità, presso lo Studio Teologico S. Paolo il 26 febbraio 2004 si è tenuto l’atto conclusivo della disputatio sul tema Il consiglio pastorale come espressione di sinodalità. Ha guidato questo momento il prof. F.G. Brambilla docente di Cristologia e Antropologia alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale.

7. Incontro con l’Arcivescovo di Catania L’arcivescovo di Catania, moderatore dello Studio, mons. S. Gristina il 10 marzo 2004 ha tenuto agli Alunni dello Studio Teologico S. Paolo una lezione sulla natura e la missione del servizio episcopale.

8. Colloquio di Spiritualità I professori di Spiritualità dello Studio Teologico S. Paolo il 13 maggio 2004 hanno organizzato un colloquio di teologia spirituale dal titolo: La domanda di spiritualità oggi. Ambiguità e prospettive. Hanno partecipato come relatori G. Buccellato e A. Rizzi. Alla tavola rotonda su Spiritualità e incarnazione hanno preso parte: A. Neglia, G. Gliozzo, Suor L. Viti, M. Assenza.

9. Rusticatio Lo Studio Teologico S. Paolo, il 6 maggio 2004, ha tenuto la tradizionale rusticatio che quest’anno ha avuto come meta Piazza Armerina con la visita dei famosi mosaici della villa del Casale ed ha vissuto il suo momento culminante nella celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo del luogo mons. Michele Pennisi.



QUADERNI DI SYNAXIS 15

Cultura della vita e della morte nel ’900 Atti del Convegno di studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo e dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania (4-5 aprile 2001) a cura di

Salvatore Consoli e Maurizio Aliotta ATTILIO GANGEMI MAURIZIO ALIOTTA

La morte e il dono della vita nelle Scritture Teologia della vita e teologia della morte

SALVATORE CONSOLI

La teologia tra vangelo della nonviolenza e cedimento alle istituzioni di violenza

SALVATORE AMATO

Il sacrificio della vita all’origine dell’esperienza giuridica

TOMMASO AULETTA FRANCESCO FURNARI GIACOMO PACE COSIMO SCORDATO

L’evoluzione nel contenuto dei rapporti giuridici familiari del ’900 Eros e thanatos nelle dipendenze da droghe La violenza dei minori Sopravvivenza quotidiana: osservazioni sulla vita di un quartiere popolare

FRANCESCO MIGLIORINO Bonifica umana: il manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto GIUSEPPE SPECIALE ANGELO PLUMARI

L’identità violata: gli ebrei in Sicilia Per grazia ricevuta: vita e morte negli ex voto siciliani


QUADERNI DI SYNAXIS 16

Magia, superstizione e cristianesimo Seminario interdisciplinare dei docenti dello Studio Teologico S. Paolo per l’anno accademico 2002-2003 a cura di

Salvatore Consoli – Egidio Palumbo – Mario Torcivia GIOVANNI MAMMINO SALVATORE MARINO F. SAMBATARO - F. FURNARI GIUSEPPE RANIOLO ROSARIO GISANA PASQUALE BUSCEMI FRANCESCO FURNARI ATTILIO GANGEMI MAURIZIO ALIOTTA GIANBATTISTA RAPISARDA

CORRADO LOREFICE ALBERTO NEGLIA EGIDIO PALUMBO

Magia e superstizione in Sicilia al tempo di Gregorio Magno Superstizione e magia nelle preghiere siciliane del siracusano La superstizione e le patologie psichiche Superstizione e magia Dio e i maghi: quale sovranità? Pietà popolare: domanda religiosa ed istanze morali nella cultura siciliana Fiducia nel Dio di Gesù Cristo e modelli di attaccamento Alleanza Magia, superstizione e Cristianesimo. Punto di vista dogmatico Magia, superstizione e cristianesimo. Indicazione del Magistero e della liturgia del Vaticano II Ripensare il significato della vita: dalla propiziazione all’invocazione, dal possesso al dono Itinerario di fede che aiuta a riscoprire il senso del dono Nel segno umile della bellezza di Dio. Per una rilettura della devozione dello Scapolare del Carmine


QUADERNI DI SYNAXIS 17

La Bibbia libro di tutti? Atti del Convegno di Studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo e dalle Facoltà di Lettere e Filosofia, Lingue e Letterature straniere dell’Università di Catania (3-4 aprile 2003) a cura di

Giuseppe Ruggieri GIUSEPPE RUGGIERI JEAN-LOUIS SKA ROBERTO ANTONELLI GIUSEPPE RUGGIERI ALBERTO SOMEKH FUAD KABBAZI ANTONINO MINISSALE SERGIO ROSTAGNO BENEDETTO CLAUSI CONCETTO MARTELLO NICOLÒ MINEO GEMMA PERSICO GRAZIA PULVIRENTI GIUSEPPE SCHILLACI

Premessa La bibbia un libro aperto o sigillato? Leggere la Bibbia La Bibbia libro di tutti? La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista dell’ebraismo Il Corano libro esoterico? La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista del cattolicesimo La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista del protestantesimo L’esegesi patristica. Un percorso di lettura Allegorismo e saperi profani nell’esegesi esamerale del XII secolo Lettura dell’ “Inno ai Patriarchi” di Giacomo Leopardi Rivisitazioni bibliche e pratica tipologica nella letteratura vittoriana Apocalisse e utopia nella lirica espressionista tedesca Dirsi nell’umiltà della Parola (in corso di pubblicazione)


Collane di Synaxis

«NUMERI MONOGRAFICI DI SYNAXIS»

Synaxis XIII/1 - 1995

«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900 AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XIV/1 - 1996

«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FASULLO, Una religione mafiosa A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgicocelebrative S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XV/2 - 1997

«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero S. VACCA, Società e Cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVI/2 - 1998

«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia C. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVII/1 - 1999

«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVII/2 - 1999

«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna AA. VV., Sezione teologico-morale AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVIII/2 - 2000

«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo) N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia


Synaxis XIX/2 - 2001

«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La Chiesa e gli infedeli


«QUADERNI DI SYNAXIS»

AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito) AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184 AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito) AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138 AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito) AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334 AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264 AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170 AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190


AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità , Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136 AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160 AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280 AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427 AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240 AA. VV., Magia, superstizione e cristianesimo, Giunti, Firenze 2004, pp. 240


«DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS»

G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596

A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288

P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158

A. G ANGEMI , I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,1931), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294

A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524


G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418

A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244

A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19), Edizioni Arca, Catania 2003, pp. 1032

G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere (in corso di pubblicazione)


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