Synaxis 22 3 (2004)

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SYNAXIS XXII/3 - 2004

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA



INDICE

Sezione teologico-morale LA SACROSANCTUM CONCILIUM E I SUOI PRINCIPI ISPIRATORI A 40 ANNI DALLA PROMULGAZIONE . (Pietro Sorci) 1. La promulgazione della Costituzione liturgica . 2. La preparazione dello schema e il dibattito conciliare 3. Le tematiche fondamentali della Sacrosanctum Concilium Conclusione . . . . . .

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RITO E LITURGIA. A 40 ANNI DA SACROSANCTUM CONCILIUM UNA PICCOLA “CONSIDERAZIONE INATTUALE” SULLA attualità del Movimento Liturgico . . . 25 (Andrea Grillo) 1. Il metodo teologico del Movimento liturgico . . 2. Dal “genus signi et causae” al “genus symboli et ritus” . 3. La prima e la seconda svolta antropologica del xx secolo . 4. Una periodizzazione del Movimento liturgico in prospettiva 5. Due modi di intendere il “ressourcement” . . . 6. Due modi di intendere la Riforma liturgica . . . 7. Piccolo riepilogo nella forma di sette tesi conclusive .

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IL fenomeno della domanda di spiritualità . . . (Giuseppe Buccellato sdb) Premessa . . . . . . 1. C’è ancora una domanda di spiritualità oggi? . 2. Il fenomeno del «bricolage» o sincretismo religioso

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3. Postmodernità e crisi della metafisica . . 4. Religione e religiosità . . . . Conclusione: il coraggio di guardare dentro la tomba . L’IDENTITÀ DELLA SPIRITUALITÀ CRISTIANA . . (Armido Rizzi) 1. La “vita eterna” o il senso ultimo dell’esistenza umana 2. La Legge, o l’amore come strada del senso . . 3. La nuova “prossimità”, o il cuore della spiritualità . 4. Tre livelli di lettura . . . . .

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IL CONSIGLIO PASTORALE COME ESPRESSIONE DI SINODALITÀ (Franco Giulio Brambilla) Brevi divagazioni sulla sinodalità . . . . 1. Guida della Chiesa e discernimento comune . . 2. “Consigliare” nella Chiesa . . . . 3. La formazione di laici corresponsabil . . . Conclusione . . . . . . .

Sezione miscellanea “E ’N LA SUA VOLONTADE È NOSTRA PACE”. AMORE E visione di Piccarda Donati . . . (Francesco Ventorino) Posizione della questione . . . 1. L’amore radice della conoscenza . . 2. La carità radice del merito della vita eterna . 3. I gradi della beatitudine . . . 4. L’ordine del Paradiso e la sua ragione ultima 5. La Madonna, perfetta somiglianza a Cristo .

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FRA LIBERATO AL SECOLO GIROLAMO PALAZZOTTO ARCHITETTO E “SERVO DI DIO” . . . . (Salvo Calogero) Introduzione . . . . . . 1. La famiglia Palazzotto a Catania . . .


2. «Magister Hieronimus Palazzotto» . . 3. La morte prematura di Filippo Palazzotto . 4. La vocazione religiosa di Girolamo Palazzotto 5. Il ritorno di Girolamo Palazzotto a Catania . 6. I contrasti con Giovan Battista Vaccarini . Conclusione . . . . .

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LA RIVISTA SYNAXIS DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO NEL PRIMO VENTENNIO DI PUBBLICAZIONI (Salvatore Latora) . . . . . . .

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Nota

Recensioni .

. . . . . . . . 167 M. TORCIVIA, Il segno di Bose. Con un’intervista a Enzo Bianchi (Giuseppe Buccellato), PIERO VIOTTO – PAOLA VIOTTO, Lo sguardo sul Calvario. Temi pasquali in Michel Ciry (Nunzio Capizzi), NUNZIO BOMBACI, Ebraismo e cristianesimo nel pensiero di Martin Buber (Antonino Minissale), MARIA MARTELLO, Oltre il conflitto. Dalla mediazione alla relazione costruttiva (Antonino Minissale), N. DELL’AGLI, Lectio divina e lectio humana. Un nuovo modello di accompagnamento spirituale (Mario Torcivia), R. NARDIN (ed.), Vivere in Cristo. Per una formazione permanente alla vita monastica (Mario Torcivia) NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

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Sezione teologico-morale Synaxis XXII/3 (2004) 7-23

LA SACROSANCTUM CONCILIUM E I SUOI PRINCIPI ISPIRATORI A 40 ANNI DALLA PROMULGAZIONE*

PIETRO SORCI**

1. LA PROMULGAZIONE DELLA COSTITUZIONE LITURGICA Quando il 4 dicembre 1963 Paolo VI promulgò solennemente la costituzione sulla sacra liturgia tutti notarono la coincidenza del quarto centenario dalla chiusura del concilio di Trento. Quanti operavano nel Movimento liturgico osservarono, forse con un po’ di enfasi, che si chiudeva un’epoca e un’altra se ne apriva. Herman Schimdt, consultore della Commissione preparatoria del Concilio per la liturgia, scrisse che il concilio di Trento, dopo l’esuberanza creativa del periodo gotico, in un tempo di decadenza, di imbarbarimento delle forme religiose e di scissioni, che avevano compromesso l’unità della Chiesa occidentale, con polso fermo aveva voluto ristabilire in una forma più pura la liturgia, garantire e proteggere l’unità liturgica. Pur demandando alla Sede Apostolica l’attuazione della riforma liturgica, aveva emanato quindi prescrizioni rigorose circa l’uniformità del culto affidando a un potere centrale la sorveglianza sulla vita liturgica dei vari paesi.

* Relazione per il Colloquio di Liturgia tenuta l’11 dicembre 2003 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Docente di Liturgia presso la Facoltà Teologica S. Giovanni Evangelista di Palermo.


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Pietro Sorci

Il concilio Vaticano II annunciava una nuova era di fresca e ringiovanita vita liturgica, che senza rinnegare la tradizione, con coraggio e risolutezza va incontro alle esigenze dell’attuale cultura1. Non furono molti invece coloro che ricordarono che il documento aveva ricevuto l’approvazione definitiva nell’aula conciliare il 22 novembre, esattamente nel sessantesimo del motu proprio di Pio X Inter sollicitudines. In effetti esso portava a compimento 60 anni di cammino coraggioso e di lavoro capillare del Movimento liturgico. Questo — con l’opera instancabile di sensibilizzazione e di formazione specialmente del clero di Lambert Beauduin in Belgio, l’impegno pastorale per promozione della vita liturgica nelle parrocchie di Pius Parsch in Austria, l’approfondimento teologico di Odo Casel e di Romano Guardini in Germania, e in Italia con l’opera di movimenti come l’Apostolato liturgico di Giacomo Moglia, l’Opera della Regalità di Agostino Gemelli, il CAL di Adriano Bernareggi promotore delle settimane liturgiche nazionali, con la divulgazione ad opera delle riviste Questions Liturgiques, Rivista Liturgica, La Maison Dieu — aveva fatto proprio il programma di portare i fedeli a quella partecipazione attiva ai sacrosanti misteri, che secondo il motu proprio costituisce la prima e indispensabile fonte da cui i fedeli possono attingere autentico spirito cristiano. Il Concilio aveva affrontato per primo il tema della liturgia — scrisse il cardinale Garrone — perché il papa Giovanni XXIII vi scorse un campo di lavoro meno esposto a discussioni difficili e ad opposizione, essendo stato già prima del concilio oggetto di ricerche più continuate2. Lo stesso cardinale in un’intervista al quotidiano cattolico “L’avvenire d’Italia” del 12 febbraio 1967, rifacendosi alla situazione della Chiesa all’apertura del concilio, affermava: «Si deve riconoscere che all’apertura del concilio le cose erano chiare e confuse a un tempo: chiare nella illuminazione profetica di Giovanni XXIII, e confuse riguardo ai mezzi per realizzare il concilio. Ci volle il coraggio di papa Giovanni XXIII pronto all’ispirazione di Dio e tranquillamente pronto a porsi nelle sue mani senza riserve in ordine alla realizzazione, per dare 1 H. SCHMIDT, La costituzione sulla Sacra Liturgia. Testo, genesi, commento, documentazione, Roma 1966, 192. 2 A. FAVALE (ed.), La Costituzione sulla sacra liturgia, Leumann 1968, 125.


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avvio al concilio. Insieme ci volle la sua fiducia che durante il cammino si sarebbe trovata la strada. Questo coraggio e questa fiducia suggerirono la maniera più intelligente per dare inizio al concilio: la discussione sullo schema della liturgia. Questo testo fu come il cuneo che penetrando fra le resistenze e le oscurità aprì la strada al concilio».

A conclusione della prima sessione, l’8 dicembre 1962 papa Giovanni riconoscerà in questa decisione un intervento provvidenziale di Dio: «Non a caso (il concilio) s’è iniziato con lo schema de sacra liturgia: i rapporti dell’uomo con Dio. Cioè il più alto ordine di rapporti, che occorre stabilire sul solido fondamento della rivelazione e del Magistero apostolico, per procedere in bonum animarum, con quella ampiezza di visioni che nulla vuol mutuare dalla facilità e dalla fretta che — talora — regola i rapporti di semplici uomini tra loro».

A Giovanni XXIII fa eco Paolo VI nel discorso di chiusura della seconda sessione in occasione della promulgazione della Sacrosanctum Concilium: «Non è stata senza frutto l’ardua e intricata discussione su uno dei temi, il primo esaminato ed il primo, in certo senso, nell’eccellenza intrinseca e nell’importanza per la vita della Chiesa, quello sulla sacra liturgia, ed oggi da noi solennemente promulgato. Esulta l’animo nostro per questo risultato. Noi vi ravvisiamo l’ossequio alla scala dei valori e dei doveri: Dio al primo posto; la preghiera prima nostra obbligazione, la liturgia prima fonte della vita divina a noi comunicata, prima scuola della nostra vita spirituale, primo dono che noi possiamo fare al popolo cristiano, con noi credente e orante, e primo invito al mondo perché sciolga in preghiera beata e verace la muta sua lingua e senta l’ineffabile potenza rigeneratrice del cantare con noi le lodi divine e le speranze umane».

Annibale Bugnini, che era stato segretario della Commissione preparatoria de sacra liturgia e sarà il principale artefice della riforma liturgica deliberata dalla SC, così ricorda quel quattro dicembre: «si compivano quattro secoli dacché a Trento, il 4 dicembre, quell’assise conciliare, nell’urgenza di chiudere i lavori, rimetteva alla Santa Sede il


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Pietro Sorci compito di fare una riforma liturgica, da più parti richiesta, ma nell’economia generale del concilio ritenuta di secondario interesse e rimasta infine tra le questioni insolute. Quattro secoli erano passati. Quello che a Trento sembrò un problema marginale era diventato il problema numero uno al Vaticano II e trattato in primo luogo»3.

2. LA PREPARAZIONE DELLO SCHEMA E IL DIBATTITO CONCILIARE Non occorre molta fantasia per immaginare come sarebbe stata diversa la SC, teologicamente più ricca e documentata e pastoralmente più aperta, se fosse stata preceduta dalla LG, dalla DV, dalla AG e dalla UR, per non parlare della GS. La sua discussione all’inizio del concilio in realtà costituì il rodaggio dei lavori conciliari, un rodaggio facilitato dalla maturità del tema, che era stato assimilato dal popolo cristiano per il lavoro del Movimento liturgico, la sua consacrazione da parte del magistero del vescovo di Roma con l’enciclica Mediator Dei di Pio XII, e le riforme liturgiche realizzate sotto il suo pontificato, circa la veglia pasquale (1951), la settimana santa (1956), il digiuno eucaristico (1953), la concessione dei rituali bilingui, la chiarificazione sul sacramento dell’ordine (1947), l’enciclica Musicae sacrae disciplina (1956) e l’Istruzione della Congregazione dei riti sulla musica e la partecipazione alla liturgia (1958). Ed è quanto mai significativo che lo schema preparato dalla commissione preparatoria fu l’unico tra tutti quelli presentati nell’aula conciliare che fu accolto dai padri senza bisogno di essere radicalmente reimpostato. La discussione sulla liturgia inoltre fu come il preludio che anticipò e spianò la strada ai grandi temi che il concilio avrebbe affrontato: quello della Chiesa come sacramento di Cristo, mistero di comunione, popolo sacerdotale presente in un luogo, della parola di Dio fondamento non solo della liturgia, ma anima della teologia e di tutta la vita cristiana, dell’apertura missionaria e dell’inculturazione della fede, dell’attenzione alle

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A. BUGNINI, La riforma liturgica (1948-1975), Roma 1983, 48.


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altre Chiese cristiane con i loro riti, l’apertura al mondo con le sue gioie e i suoi problemi. Anzi secondo il parere di Giuseppe Dossetti l’ecclesiologia della Sacrosanctum Concilium è più lineare unitaria ed equilibrata della stessa Lumen gentium4. È quanto mai interessante osservare che delle 9.348 propositiones presentate dai vescovi di tutto il mondo in risposta alla lettera con cui cardinale Tardini Segretario di Stato il 18 giugno 1959 li invitata ad esporre con assoluta sincerità pareri, consigli e voti che la sollecitudine pastorale e lo zelo per le anime avessero loro suggerito, ben 1.855, ossia quasi il 20%, riguardavano la materia che confluirà nel futuro schema de sacra liturgia. E in genere non si tratta di questioni rubricistiche, ma di problemi radicali di carattere teologico-pastorale. A partire da queste propositiones la Commissione preparatoria a cui esse furono affidate elaborò lo schema de sacra liturgia. Questa commissione constava complessivamente di 65 membri di venticinque diverse nazioni dei cinque continenti, suddivisi in tredici sottocommissioni. Come risulta dall’elenco fornito da Annibale Bugnini, tra essi c’erano eminenti liturgisti, come Bernard Capelle, Bernard Botte, Joseph Jungmann, Antoine Chavasse, Anton Hänggi, Pierre Jounel, Aimon M. Roguet, Theodor Klauser, Ignacio Oñatibia, G. Diekmann, Cipriano Vagaggini, Pierre Gy, Aimé Gorge Martimort, Johannes Wagner, Giuseppe Fallani, Herman Schmidt, Enrico Cattaneo, per citare i più noti, dodici erano vescovi, una decina parroci, parecchi religiosi dei diversi istituti antichi e moderni, alcuni direttori di centri liturgici a carattere pastorale. Tra i membri di questa Commissione, è bene ricordarlo, figura anche mons. Salvatore Famoso cancelliere della arcidiocesi di Catania, nominato l’11 marzo 19615. Anche nel dibattito conciliare il tema fu seguito dai vescovi con estremo interesse e grande partecipazione, a dimostrazione che nella loro convinzione esso riguardava i fondamenti della vita della Chiesa. A provarlo, se non ci fossero gli atti del concilio, c’è la richiesta dei vescovi che si portasse alla discussione il testo approntato dalla 4 G. DOSSETTI, Per una «Chiesa eucaristica». Rilettura della portata dottrinale della Costituzione del Vaticano II. Lezioni del 1965, a cura di G. Alberigo e G. Ruggeri, Bologna 2002, 35-42. 5 A. BUGNINI, La riforma liturgica, cit., 27-28.


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Commissione preparatoria sulla base delle propositiones con le relative declarationes, al posto di quello presentato dalla sottocommissione per l’emendamento degli schemi che intendeva affidare al concilio soltanto gli altiora principia relativi alla riforma generale della liturgia che sarebbe stata riservata ai competenti discasteri della curia Romana. E ci sono soprattutto i numeri del concilio: 15 congregazioni generali dedicate alla discussione, dal 22 ottobre al 13 novembre 1962; 328 interventi in aula, 297 presentati in scritto, per un totale di 625; 2.686 modi o proposte di modifiche; 114 votazioni su 86 emendamenti in 22 congregazioni generali (tra ottobre e novembre 1963). Lo schema, scrive H. Schmidt, aveva saputo trovare il tono in cui il concilio poteva esprimere le proprie istanze pastorali, gettando un ponte tra la dottrina e la pastorale, parlando un linguaggio biblico e patristico, tale da essere compreso senza difficoltà da ogni fedele e anche nel resto del mondo6. Né va taciuto il ruolo che ha avuto per i padri l’esperienza liturgica fatta durante le prime due sessioni conciliari, con la liturgia celebrata nei diversi riti, romano-glagolitico, di Braga, copto, armeno, etiopico, caldeo, siriano, maronita, bizantino, celebrati in arabo e in ucraino, le difficoltà della partecipazione e i tentativi attuati per superarla, che fece loro toccare con mano la cattolicità della Chiesa e la situazione dei fedeli che assistono alla liturgia da essi stessi presieduta7. La votazione definitiva, come s’è detto avvenne il 22 novembre 1963 e la Costituzione fu approvata con soli 20 voti di scarto. Quella voluta da Paolo VI il 4 dicembre, invece ebbe come risultato: placet 2.147, non placet 4. Nessun altro documento conciliare ottenne un consenso simile.

6 Esso corrispondeva all’esortazione di Giovanni XXIII nel discorso di apertura: “Il punctum sapiens di questo concilio non è la discussione di questo o quel tema della dottrina fondamentale della Chiesa […] quele si suppone sempre ben presente e familiare allo spirito […] ,ma della rinnovata serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento della Chiesa nella sua interezza e precisione» (H. SCHMIDT, La Costituzione sulla liturgia, 140s). 7 Cfr H. SCMIDT, La Costituzione sulla Sacra liturgia, cit., 130-136; A. FAVALE, La costituzione sulla Sacra, cit., 191-198; H. LEGRAND, Sacrosanctum Concilium: un approfondissement de la théologie de l’Èglise, in Célébrer 325 (2004), 4.


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3. LE TEMATICHE FONDAMENTALI DELLA SACROSANCTUM CONCILIUM La preoccupazione principale dei Padri al concilio era della partecipazione attiva ai sacrosanti misteri, la cui necessità era stata affermata sin dagli inizi del Movimento liturgico e autorevolmente rilanciata dal motu proprio Inter sollicitudines. Guardini nel 1939 aveva spiegato che: «Partecipare è agire in modo tale che si prende parte all’azione di un altro. In questo caso il sacerdote, che nella liturgia non agisce per se stesso, ma per la comunità. Le parole che egli pronuncia e le azioni che compie, in virtù dei poteri che gli sono stati donati, permettono a Cristo di far esistere qualcosa; ma a questa cosa, tutti, sacerdoti e fedeli, sono chiamati a partecipare. Quando il prete celebra non lo fa per sé, in modo privato, ma per tutti. Tutti sono chiamati ad entrare nel movimento della celebrazione… Ciò che compie il celebrante supera la sua vita personale. La struttura della liturgia è tale che tutti possono e debbono avervi accesso» (La Messe, 39).

L’enciclica Mediator Dei di Pio XII nel 1947 aveva sviluppato il concetto di partecipazione, spiegando che c’è una partecipazione esteriore, il cui scopo è però la partecipazione interiore che consiste nell’unirsi intimamente al sommo sacerdote vittima per noi, e c’è infine una partecipazione sacramentale, sintesi dell’una e dell’altra, che perciò è quella più perfetta. Ma egli aveva limitato il discorso della partecipazione alla celebrazione eucaristica. La partecipazione, inoltre, per il timore che il sacerdozio comune sminuisca il valore e l’importanza del sacerdozio ministeriale, è vista dalla enciclica sulla linea dell’imitazione di Cristo e dei suoi sentimenti, più che in quella misterica dell’essere sacramentalmente presenti all’azione di Cristo attuata nella celebrazione8. Tutti i commentatori della SC concordano nell’affermare che la partecipazione costituisce il fulcro intorno al quale gravita tutta la riflessione del documento conciliare.

8 P. SORCI, Per una partecipazione consapevole attiva e piena all’eucaristia, in ID. (a cura), Celebrare con il Messale del Vaticano II, Caltanissetta – Roma 2003, 248.


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Essa tuttavia non si limita ad enunciare il principio e ad indicare l’’ampiezza e le qualità della partecipazione, ma nel capitolo primo, che come è noto non era presente nello schema iniziale, ma fu aggiunto in un secondo momento dalla Commissione preparatoria (nella bozza del 10 aprile 1961), ne approfondisce i fondamenti. Essi sono: il rapporto tra liturgia e storia della salvezza; la liturgia come attuazione del mistero pasquale; la Chiesa popolo sacerdotale soggetto dell’azione liturgica. Questi temi, insieme a quello della partecipazione, sono le colonne su cui si regge tutta l’impalcatura della costituzione liturgica e la riforma liturgica da essa deliberata.

3.1. Liturgia e storia della salvezza Come è noto, la SC per elaborare la nozione di liturgia, diversamente dalla Mediator Dei che procedeva per via deduttivo-scolastica dalla natura dell’uomo, creatura di Dio, dotato di anima e di corpo ed essere sociale, elevato allo stato soprannaturale, prende le mosse dalla storia della salvezza, tesa a realizzare il progetto di Dio che vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità. Egli ha preparato la sua realizzazione con gli interventi a favore dei padri e con la parola dei profeti, e lo ha portato a compimento in Cristo, Verbo fatto carne, morto e risorto, e lo continua per i singoli uomini con la predicazione del vangelo e con i sacramenti, in vista del compimento universale ed escatologico. La liturgia appare così come il momento in cui la storia della salvezza si compie effettivamente per i credenti. Si intravede qui l’importanza della lettura delle Scritture che evoca, fa risuonare e pone dinanzi agli occhi della comunità radunata la storia della salvezza. Per questo la SC vuole che essa sia proposta con abbondanza, sia varia e meglio scelta, nella messa e nell’Ufficio divino, e venga attualizzata nell’omelia. Per mezzo di essa Dio parla al suo popolo e Cristo stesso, presente in mezzo ai suoi, annunzia il suo vangelo e suscita la risposta di fede e di conversione e di preghiera di popolo radunato. Dalla Scrittura inoltre traggono i contenuti i testi ecologici, ispirazione i canti, in esse trovano fondamento i segni e i simboli della liturgia. Per cui nessuna celebrazione sacramentale ormai è pensabile senza


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liturgia della parola, e la lettura fa parte della struttura anche delle celebrazioni più semplici ed elementari contenute nel Benedizionale. Si trova qui soprattutto la base dei lezionari con i quali complessivamente l’85% della Scrittura viene proclamato nella liturgia, e che a dire di molti costituiscono la novità più importante e promettente di tutta la riforma liturgica, in questo invidiata ed imitata da parecchie Chiese della Riforma. Ma anche il fondamento della struttura di tutti i testi ecologici, in modo particolare delle grandi preghiere sacerdotali, che iniziano evocando le gesta salvifiche di Dio, per chiederne, per l’azione dello Spirito, perfezionatore dell’opera di Cristo e artefice di ogni santificazione, il compimento nell’oggi dell’assemblea celebrante.

3.2. La liturgia attuazione del mistero pasquale La SC applica alla morte-risurrezione-ascensione con cui Cristo ha compiuto la perfetta redenzione e ha inaugurato la pienezza del culto, la categoria di mistero pasquale. Così facendo, ne fa il centro, vertice e ricapitolazione, di tutta la storia salvifica, come lo era la pasqua nell’antica alleanza. E afferma che quell’evento può essere reso presente ad ogni generazione attraverso il memoriale liturgico, in modo che ogni credente possa entrarvi e farlo proprio. La liturgia pertanto non è un’idea, ma un’azione, un’azione simbolica, che evoca e rende presente per l’azione dello Spirito Santo, la pasqua di Cristo, affinché i membri della comunità credente si sentano in essa coinvolti, rendano grazie al datore di ogni dono perfetto e si sentano spinti alla fedeltà, attingano fiducia per il presente e per il futuro, e partecipino ai suoi frutti di santificazione e di glorificazione di Dio Padre. Questo secondo la SC vale per qualsiasi azione liturgica. Per l’eucaristia che ripresenta il mistero pasquale nella sua pienezza; per gli altri sacramenti, che nelle varie situazioni ecclesiali e personali con differenti modalità ci fanno partecipare ai diversi aspetti di esso; per i sacramentali e le benedizioni che estendono ai vari momenti dell’esistenza personale e comunitaria, alle attività dello uomo e alle realtà create i frutti del mistero pasquale. Vale per l’ufficio divino, in cui la Chiesa sposa ed ogni suo membro si unisce alla preghiera di Cristo che nei giorni della sua vita


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mortale offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo dalla morte, ottenendone l’esaudimento per sé e per tutto il corpo, e ora, glorificato presso il Padre, sta continuamente a intercedere a nostro favore. E vale per l’anno liturgico, con al centro la domenica, pasqua della settimana, e il triduo pasquale, nel quale la totalità del mistero viene celebrata nei vari aspetti, momenti e sfaccettature nel corso dell’anno, in modo che i fedeli vengano a contatto con esso. Anche nelle feste della Beata Vergine Maria e dei santi è sempre e solo la pasqua di Cristo in essi compiuta che noi celebriamo, per rendere grazie, attingere fiducia, esempio e fraterna intercessione. Qui trova fondamento la revisione di tutti i riti sacramentali, la riforma del messale, della liturgia delle ore, del benedizionale, che mostrano con chiarezza come in ogni azione liturgica — per dirla con il testo dell’annuncio pasquale della solennità della Epifania —, la Chiesa proclama e celebra la pasqua del suo Signore.

3.3. La Chiesa soggetto dell’azione liturgica La morte e risurrezione di Cristo nella liturgia si compiono per la Chiesa sua sposa e suo corpo. Essa perciò vi è profondamente coinvolta. Mentre sulla croce e nel sepolcro di Cristo i credenti erano rappresentati, nel senso di essere presenti e come contenuti, in Cristo nuovo Adamo, ora essi sono chiamati a partecipare personalmente e coscientemente a tale evento. Perciò la liturgia è congiuntamente azione di Cristo e della Chiesa. Cristo, presente attraverso l’assemblea radunata nel suo nome, attraverso il ministro che agisce come suo luogotenente, attraverso la proclamazione delle Scritture in cui è lui stesso che parla, attraverso le azioni sacramentali, di cui è l’autore, e soprattutto attraverso il pane e il vino dell’eucaristia, vi esercita il suo sacerdozio e associa a sé la Chiesa. Essa per il battesimo è popolo sacerdotale, consacrato al culto di Dio in spirito e verità, per offrire sacrifici spirituali, ossia tutta la propria esistenza vissuta nella ricerca della comunione con Cristo e della conformità a lui per l’azione dello Spirito Santo, e per proclamare le grandi opere di Dio che dalle tenebre ci ha chiamati alla sua splendida luce. Questo culto si esercita in tutta l’esistenza, ma ha il momento


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sacramentale nella liturgia, quando attraverso i simboli rituali ci uniamo alla pasqua di Cristo. La liturgia è quindi azione della Chiesa, di tutta la Chiesa, di tutti coloro che per il battesimo e la confermazione sono costituiti sacerdozio regale. Essa non è mai azione privata, ma appartiene a tutto il corpo ecclesiale, e tutti, ciascuno per la propria parte, seppure a diverso titolo in base al ministero che rivestono, vi sono implicati e coinvolti (SC 26). E la Chiesa, secondo la bella espressione di Yve Congar, è il soggetto integrale di ogni azione liturgica9. Per questo la celebrazione presieduta dal vescovo circondato dal presbiterio e dai ministri con la partecipazione dei fedeli, costituisce una manifestazione privilegiata della Chiesa locale, nella quale è presente il mistero della Chiesa. Ma anche la parrocchia, cui per mandato del vescovo presiede un presbitero rappresenta in certo qual modo la Chiesa visibile stabilita su tutta la terra. Infatti dirà LG 26 che in ogni comunità che si raduna in nome di Cristo per celebrare l’eucaristia, anche se piccola e dispersa, è presente la Chiesa una santa cattolica e apostolica. Ogni assemblea liturgica, chiosa Pierre Gy, rende presente la totalità della Chiesa cattolica. La Chiesa però non è una massa informe, ma è popolo consacrato a Dio, radunato in un luogo e ordinato sotto la guida del vescovo (SC 26), una comunità gerarchicamente strutturata e arricchita dallo Spirito Santo di ministeri e di una molteplicità di carismi, dove ciascuno, ministro o fedele, compie tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito, è di sua competenza. Deriva da ciò la restaurazione della concelebrazione che manifesta l’unità del sacrificio eucaristico, del sacerdozio ministeriale e della Chiesa che nella partecipazione alla unica eucaristia manifesta ed edifica se stessa. Così la liturgia, come è detto nel proemio della Sacrosanctum Concilium, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri non soltanto il mistero di Cristo, ma anche la genuina natura della Chiesa, sacramento scaturito dal costato di Cristo nuovo Adamo addormentato sulla croce, fondata sulla parola e nutrita 9 Y. CONGAR, L’ecclesia ou communauté chrétienne, sujet integrale de l’action liturgique, in La liturgie après Vatican II, Paris 1967, 241-282.


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dell’eucaristia, arricchita dallo Spirito Santo di una molteplicità di ministeri e di carismi, che ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana a divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e pellegrina verso la celeste Gerusalemme (cfr SC 2). Essa è davvero la fonte da cui promana tutta la sua virtù e il culmine a cui tende ogni sua attività e ogni suo impegno (SC 10). Papa Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Dies Domini, parafrasando la Sacrosanctum Concilium 42, potrà affermare che «tra le numerose attività che una parrocchia svolge, nessuna è tanto vitale o formativa della comunità quanto la celebrazione domenicale del giorno del Signore e della sua eucaristia»10.

3.4. La partecipazione alla liturgia Su questi principi della liturgia nel suo rapporto con la storia della salvezza, come attuazione del mistero pasquale e come azione di Cristo e di tutto il suo popolo, la SC fonda il diritto e il dovere di tutti coloro che per il battesimo sono stati resi corpo di Cristo e popolo sacerdotale di partecipare alla sacra liturgia. Il termine partecipare, partecipazione ricorre nella SC ben 25 volte: 13 volte nel I capitolo sui principi generali relativi alla restaurazione e all’incremento della vita liturgica, 5 volte nel capitolo II sul mistero dell’eucaristia, una volta in ciascuno dei capitoli III, IV e V, relativo agli altri Sacramenti e ai Sacramentali, al Divino Ufficio e all’Anno liturgico, tre volte nel sesto capitolo sulla Musica sacra e una volta nel VII sull’Arte sacra. Gli aggettivi adoperati per descriverla sono: attiva, piena, plenaria, consapevole, intelligente, facile, pia, fruttuosa, interna ed esterna, comunitaria, con tutto il cuore. Essa riguarda tutto il popolo, tutto il popolo santo di Dio, tutta l’assemblea, i sacerdoti e tutti gli altri. 10 Lettera apostolica Dies Domini, 35. La stessa affermazione egli l’aveva fatta nel discorso al terzo gruppo di Vescovi degli Stati Uniti il 17 marzo 1998, 4 (L’Osservatore Romano, 18 marzo 1998, 4).


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Deriva dall’enunciazione di questo diritto-dovere la necessità della formazione per i pastori e per i candidati ai sacri ordini che dovranno guidare le comunità alla partecipazione e presiedere le celebrazioni, per cantori e i musicisti, le cui composizioni devono favorire la pia partecipazione di tutti i fedeli presenti. La partecipazione alla liturgia postula una accurata riforma della liturgia, per quanto riguarda le acclamazioni, la salmodia, le antifone, i canti, le azioni, i gesti, gli atteggiamenti del corpo (SC 30), i tempi, i luoghi, coniugando tradizione e innovazione, in maniera che le sante realtà di cui essi sono simbolo siano più chiaramente espresse, i fedeli possano capirne il senso, partecipare con una celebrazione piena attiva e comunitaria. Connesso alla partecipazione è il problema secolare della comunione sotto le due specie, riconosciuta dalla SC a tutti i fedeli in certe situazioni, poche in verità — ma l’importante era aprire la breccia! — la riforma dell’anno liturgico riportato ad una grande linearità, la riforma della liturgia delle ore quanto al numero delle ore e alla loro struttura. Per favorire questa partecipazione i riti devono essere chiari nella loro brevità, senza inutili ripetizioni, adatti alla capacità di comprensione dei fedeli senza bisogno di molte spiegazioni, e devono essere eliminati da essi quegli elementi che fossero penetrati in maniera inopportuna (SC 34). Con ciò viene affermato il principio, in ambito liturgico, e non solo, che l’evoluzione non è sempre e necessariamente un progresso. Si inserisce qui la questione della lingua, lungamente dibattuta nell’aula conciliare e fuori, con grande passione, sia da coloro che facevano del latino il baluardo della unità della Chiesa, sia da coloro che consideravano la possibilità di adottare le lingue vive dei popoli una manifestazione della sua cattolicità e il segno della sua fedeltà al mistero dell’incarnazione e alla missione di portare il vangelo a tutte le genti facendo sue le lingue dei popoli. Alla fine la questione fu risolta con una decisione che, senza scontentare i nostalgici del latino, nel giro di qualche anno ha reso possibile l’adozione totale delle lingue vernacole. Riconosciuta la piena legittimità del latino, l’articolo 36, approvato con soli 44 voti contrari, aggiunge: «Dato che sia nella messa che nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado, l’uso della lingua volgare può riuscire


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Pietro Sorci di grande utilità per il popolo, si possa concedere alla lingua volgare una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti» (SC 36,2).

E oggi, stando ad informazioni provenienti dalla Congregazione del culto, le lingue autorizzate nella liturgia romana, di cui i testi hanno ricevuto l’approvazione, sono circa 400. Dal diritto-dovere di tutti i battezzati alla partecipazione deriva pure l’opportunità di rispettare e di favorire le qualità e le ricchezze culturali dei vari popoli, di adottare nei riti cristiani quanto nei costumi dei popoli non è indissolubilmente legato a superstizioni o errori e di adattare la liturgia alle legittime diversità dei vari gruppi etnici, regioni e popoli. Su questo principio, si fondano i paragrafi relativi all’adattamento contenuti nei vari rituali, e soprattutto l’Istruzione sulla «liturgia romana e l’inculturazione» del 25 gennaio 1994 Varietates legitimae, dove esso ha un ampio sviluppo.

CONCLUSIONE Lo stile e la concretezza del dibattito sulla SC, come s’è detto, ha tracciato la strada, il metodo e la prospettiva per affrontare la discussione nell’aula conciliare. Le tematiche affrontate — scrive nel numero di dicembre della rivista Cèlébrer Hervé Legrand — hanno anticipato i grandi temi del concilio: il mistero della Chiesa popolo di Dio, la sua dimensione teandrica e pellegrinante, la sua cattolicità, il la rivalorizzazione del sacerdozio comune, e della diversità dei ministeri, la specificità del presbiterato, l’importanza fondatrice della parola di Dio, il valore della autentica tradizione, il rapporto con i cristiani delle altre confessioni, l’apertura della Chiesa al mondo11. Soprattutto hanno costituito il programma della riforma liturgica da intraprendere già durante i lavori conciliari, per ciò che riguarda i riti e i testi ecologici dei vari sacramenti, e soprattutto della messa, le introduzioni 11 H. LEGRAND, Sacrosanctum Concilium: un approfondissement de la théologie de l’Èglise, in Célébrer 325 (2004) 4-7.


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teologico-liturgiche ai libri liturgici, la struttura e la consistenza dei lezionari, l’ordinamento dell’anno liturgico, la struttura e gli elementi della liturgia delle ore, i ministeri ordinati e istituiti, i sacramentali. Giovanni Paolo II ha potuto affermare che il rinnovamento liturgico è il frutto più cospicuo di tutta l’opera conciliare e per molti il messaggio del concilio Vaticano II è stato percepito innanzi tutto mediante la riforma liturgica12. Ciò permette di capire anche perché l’opposizione alla riforma liturgica condotta da certi circoli interni ed esterni alla Chiesa nei quattro decenni trascorsi dalla promulgazione della SC e gli attentati alla riforma liturgica in tempi recenti, nascondono, anzi si identificano con l’opposizione al Concilio: non solo alla SC, ma anche alla LG, alla DV, alla UR e alla GS. La celebrazione del quarantesimo è perciò invito a custodire e difendere la riforma liturgica dai rigurgiti di rubricismo privo di anima e di clericalismo, e di farla avanzare, senza lasciarsi prendere dalla rassegnazione e dal pessimismo. Il papa Giovanni Paolo quindici anni fa indicava in quattro punti il cammino per gli anni avvenire: a) Anzitutto la formazione biblica e liturgica del popolo di Dio. Non si può continuare a parlare di cambiamenti come al tempo della pubblicazione del documento, oggi è urgente soprattutto l’approfondimento, l’approfondimento sempre più intenso della liturgia della Chiesa, celebrata secondo i libri attuali e vissuta prima di tutto come un fatto di ordine spirituale. b) Quindi l’adattamento della liturgia alle differenti culture: l’adattamento delle lingue è stato rapido, gli ha fatto seguito l’adattamento dei riti, cosa più delicata ma egualmente necessaria. Resta considerevole lo sforzo di continuare, per radicare la liturgia nelle culture, accogliendo di esse quelle espressioni che possono armonizzarsi con gli aspetti del vero ed autentico spirito della liturgia. c) L’attenzione ai nuovi problemi che si sono posti o hanno assunto nuovo rilievo negli ultimi decenni, quali il diaconato coniugato, i compiti 12 Lettera apostolica Vicesimus quintus annus, 12. Queste espressioni sono mutuale dalla relazione finale dell’assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi (7.12.1985), II, B, b, 1: EV 9,1798.


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liturgici affidati a laici, uomini e donne, le celebrazioni per i ragazzi, i giovani, gli handicappati. d) Infine il rapporto tra la vita liturgica e la pietà popolare, che non può essere ignorata, né disprezzata, tanto meno sostituita alla liturgia, ma deve essere evangelizzata e armonizzata con la liturgia: un’autentica pastorale liturgica saprà appoggiarsi alle ricchezze della pietà popolare, purificarle e orientarle verso la liturgia13. A questo ultimo auspicio risponde il Direttorio su liturgia e pietà popolare pubblicato dalla Congregazione del culto nel marzo 2000. A quindici anni di distanza possiamo sottoscrivere questo programma a lunga scadenza, soprattutto per ciò che riguarda la formazione. È quanto mai necessario, dice il documento dei vescovi italiani Comunicare la fede in un mondo che cambia: «approfondire il senso della festa e della liturgia, della celebrazione comunitaria attorno alla mensa della parola e dell’eucaristia, del cammino di fede costituito dall’anno liturgico»14.

Ma questa formazione esige un’attenzione, presente nella Sacrosanctum Concilium, anche se non sufficientemente sviluppata, ma che appare oggi sempre con maggiore urgenza: scoprire e aiutare i fedeli a scoprire la liturgia come “azione”, azione che coinvolge tutta la persona nella sua totalità: spirito e corpo, con i suoi sensi e i suoi atteggiamenti; azione, dice Paul De Clerck, che si comprende e si impara a compiere, compiendola; per ritus et preces, come dice SC 48, con le preghiere e i gesti rituali, perché, secondo l’espressione di Louis Marie Cauvet, «la liturgia non dice quel che fa, ma fa quel che dice», ossia dice facendo. La liturgia è azione che esige una iniziazione, iniziazione non alla liturgia, ma attraverso la liturgia stessa. È quindi necessario adoperarsi, come auspicano gli Orientamenti dell’episcopato italiano per il primo decennio del duemila,

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Lettera apostolica Vicesimus quintus annus, 15-18. Comunicare la fede in un mondo che cambia, 49.


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ÂŤper una liturgia che insieme seria, semplice e bella, che sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso intelligibile, capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uominiÂť.

Si tratta di un compito urgente, se non vogliamo che il concilio venga affossato e che alla primavera che esso ha rappresentato succeda un melanconico autunno o peggio ancora un gelido inverno.



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RITO E LITURGIA. A 40 ANNI DA SACROSANCTUM CONCILIUM UNA PICCOLA “CONSIDERAZIONE INATTUALE” SULLA ATTUALITÀ DEL MOVIMENTO LITURGICO*

ANDREA GRILLO**

«Sarà un balzo avanti nel settore teologico, verso quel giusto equilibrio tra metafisica e vita, tra astratto e concreto, che è, in fondo, il legittimo e tormentoso assillo del pensiero moderno»1.

Dovremmo ammettere, in via generale, che il mutamento nella considerazione del Movimento liturgico (=ML) costituisce uno dei frutti più preziosi della Riforma Liturgica, che tuttavia induce a ripensare diversamente la stessa Riforma dei riti. In effetti, sullo sfondo del nostro pensare ed agire attuale riappare la questione liturgica e le sue diverse articolazioni sul piano cristologico, ecclesiologico, storico, politico ed ecumenico. Non vi è dubbio, tuttavia, che il ML stia trasformandosi — nella coscienza culturale ed ecclesiale — da semplice preparazione e premessa della Riforma a contenitore e interprete della Riforma stessa. Esso non è più soltanto la premessa di un autorevole *

Lezione di Liturgia tenuta il 16 dicembre 2003 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Docente di Teologia sacramentaria presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. 1 C. VAGAGGINI, Liturgia e pensiero teologico recente. Inaugurazione del Pontificio Istituto Liturgico, Roma 1962, 76. Si tratta della Prolusione accademica che sanciva solennemente l’inizio delle attività di insegnamento del Pontificio Istituto Liturgico di Roma, nel dicembre del 1961, e nella quale, l’allora decano della facoltà teologica di S. Anselmo, Dom Cipriano Vagaggini, chiudeva con le parole citate il suo ampio intervento, mediante una valutazione complessiva dell’impatto degli studi liturgici sulla teologia del futuro.


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cambiamento di testi/gesti, ma è l’ambito che dà significato alla Riforma e ne orienta la recezione. Non si può comprendere il “fenomeno” del Movimento liturgico se non all’interno della particolare temperie culturale che la tarda modernità (successiva alla Rivoluzione Francese) determinò in Europa e da cui nacque un nuovo interesse per la celebrazione cristiana. Una tale intuizione nuova — ad un tempo pratica e teorica e che, ripeto, si spiega solo come risposta alla sfida tardo-moderna — acquisisce nel tempo cosiddetto «postmoderno» una nuova luce e anche un nuovo compito. Se l’età tardo-moderna aveva affrontato la «questione liturgica» sia sul piano di quella forma di rimedio che abbiamo chiamato “Iniziazione al rito”, sia sul livello di quella che abbiamo invece denominato “Riforma del rito”, oggi vediamo che il prevalere della seconda forma sulla prima non è veramente riuscita a condurre a quell’aggiornamento che si sperava. E ciò non dipende — come spesso si ripete troppo frettolosamente — dalla Riforma in quanto tale, quanto piuttosto dalla solitudine in cui si è lasciato cadere il necessario atto riformatore. Di per sé, dobbiamo confessare e ammettere oggi — a quasi quarant’anni dalla promulgazione di Sacrosanctum Concilium — che il modo con cui è stata preparata la Riforma liturgica non è lo stesso con cui la si è recepita. Questa differenza tra preparazione e realizzazione, tra la costruzione di una complessa coscienza circa la necessità di affrontare la questione liturgica nel suo duplice versante originario, e la cosciente assunzione dell’impegno nel procedere ad una Riforma dei riti come momento (importante, ma tutt’altro che esclusivo) di una più ampia soluzione della questione stessa, che comprende necessariamente anche il versante “formativo” e “strutturale”, mi pare l’elemento più rilevante per una piena comprensione di quanto è accaduto nella vicenda del ML dell’ultimo secolo]. Così, come credo, la sua rinnovata attualità dipende dalla preziosa riscoperta di un suo versante inattuale, opaco e poco traducibile in idee chiare e distinte. Esso favorisce la Riforma per il fatto di non essere più immediatamente traducibile e interpretabile in termini di “Riforma”. Diremmo meglio, il senso del ML riappare dal versante non-intellettualistico (ma pur sempre intelligente e sensibile!) della risposta alla questione liturgica e in tal senso vorrei considerarlo in questa mia breve riflessione. Infatti, solo se sappiamo ancora trovare — e riscoprire — tale sua


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inattualità possiamo ancora sperare di presentare il ML come attuale, cioè come capace di farsi atto efficace, di attestare un «passaggio dello Spirito», e non solo di conquistare le prime pagine dei giornali. È evidente, quindi, che il breve percorso che propongo intende offrire una serie di “verità dimenticate” circa il ML, proponendo l’attualità del ml attraverso la scoperta della sua inattualità. Mi occuperò brevemente di 6 punti: il metodo teologico del ML (§.1), dal “genus signi et causae” al “genus symboli et ritus” (§.2), la prima e seconda svolta antropologica del XX secolo (§.3), una ipotesi di nuova periodizzazione del ML (§.4), e infine i due modi di intendere il «ressourcement» e la Riforma liturgica (§§.5-6); cui farò seguire 7 tesi di riepilogo conclusivo.

1. IL METODO TEOLOGICO DEL MOVIMENTO LITURGICO Il ML inaugura un nuovo metodo teologico, per uscire dalle secche del razionalismo (sistematico), senza cadere nelle altre secche del positivismo (storicistico); l’utilizzo arbitrario delle scoperte del ML è stato possibile sia in campo sistematico, sia in campo storico2. Credo che tali letture siano dovute precisamente alla dimenticanza delle peculiarità del metodo teologico specifico di uomini come M. Festugière, O. Casel, R. Guardini. La caratteristica di questo metodo è precisamente il recupero (rispettivamente) di un “realismo liturgico”, di un “pensiero totale”, di una “opposizone polare”, che permetta il superamento della opposizione tra teologia e antropologia. Per tali motivi, credo che si debbano individuare tre fasi del ML, nelle quali la verità del nuovo metodo teologico è andata progressivamente offuscandosi, fino quasi a scomparire; ma questo, curiosamente, ha avuto notevoli ricadute proprio sulla storia del rapporto tra ML e Riforma litrugica. Infatti, la ricostruzione del ML in termini di “preparazione dell Riforma” 2 Ad es. con la teoria curiosa di una “svolta teologica” diversa e antitetica rispetto alla svolta antropologica (M. Kunzler); oppure con l’idea di una sostanziale ispirazione “reazionaria” e “ intransigentista” del ML, contro la novità della modernità (M. Pajano). Epistemologicamente occorre riabilitare la competenza antropologica del ML e la sua valenza altamente innovativa, anche nella esperienza storica della chiesa cattolica del XX secolo.


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sembra quasi avvalorare l’idea — semplicistica e ingenua — secondo cui la risposta alla questione liturgica poteva avvenire soltanto mediante una riforma preparata dal recupero delle fonti antiche. Ciò che oggi appare sotto una nuova luce è che invece la Riforma è solo una tappa intermedia di quel rinnovamento liturgico che — dopo la riforma — deve ritrovare le più autentiche ragioni della sua identità. Potremmo dire che il ML non sta solo prima, ma anche e soiprattutto dopo la Riforma, per preoccuparsi di “formare” ai riti riformati e mediante essi. E ciò non per ragioni estrinseche, ma per una interna dinamica del ML stesso. Tutto questo, tuttavia, può diventare chiaro solo se si accetta di discutere la metodologia teologica del ML con categorie rinnovate. In particolare, uscendo dal luogo comune della contrapposizione tra sapere sistematico e sapere storico, oppure anche dalla contrapposizione tra svolta teologica e svolta antropologica. Sul primo punto, dobbiamo ammettere che già il primo numero dello JLw attesta una accesa discussione circa il metodo della “scienza liturgica”. Di fatto, tuttavia, tutti i grandi litrugisti della I generazione non sono stati né semplici sistematici, né semplici storici, ma hanno usato anche le nuove scienze umane per ricostruire il presupposto rituale dell’atto di fede e della scienza teologica.

2. DAL “GENUS SIGNI ET CAUSAE” AL “GENUS SYMBOLI ET RITUS” Dalla fine del XIX secolo il rito e il simbolo acquisiscono repentinamente il ruolo di protagonisti del senso dell’agire umano. Ne scaturisce inevitabilmente la questione di quale profondo significato abbia questo fatto in ambito liturgico-sacramentale. Forse ancora ci sfugge il mutamento paradigmatico che questa trasformazione ha comportato. Di solito la teologia tende o a non valorizzare questo passaggio, confinandolo in una sorta di “moda pastorale” senza vera incidenza sulla teologia, oppure ad esasperarlo in funzione “antimetafisica”, creando una assoluta differenza qualitativa tra il nuovo corso e la tradizione precedente. A me pare che entrambe queste vie comportino rischi maggiori dei vantaggi che acquisiscono. Mi sembra invece più pertinente considerare il passaggio alla nuova considerazione della liturgia


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nel genere del simbolo e del rito come una forma di riappropriazione da parte della teologia di uno dei presupposti di quella esperienza cristiana del Dio di Gesù Cristo che proprio la riflessione teologica ha il compito di tematizzare e di illustrare. Il modello teorico necessario per pensare questa evoluzione non ha bisogno di “contrapporsi alla ontoteologia”, ma può invece sviluppare una rilettura progressiva del rapporto tra “teologia” e “rito” in cui, storicamente, la rivoluzione delle competenze teologiche intorno al sacramento eucaristico (dalla sacramentaria alla liturgia fino alla teologia fondamentale) rispecchia questo bisogno (che è tanto opportunità quanto tentazione) di recupero del presupposto immediato rispetto alla mediazione teologica3. Una considerazione della presupposizione del rito da parte della teologia classica, di una rimozione/sovradeterminazione del rito da parte della teologia moderna e di una reintegrazione del rito da parte della teologia contemporanea configura l’orizzonte significativo per intendere non soltanto la “storia” della teologia dell’eucaristia, ma anche le competenze necessarie ad una sua delucidazione attuale, in cui comprendere in modo radicale il ruolo del “corpo”. Infatti, se veramente la “teologia classica” poteva semplicemente “presupporre” il rito con tutta la sua corporeità — e questo faceva del tutto legittimamente, limitandosi a problematizzare le questioni relative al suo significato teologico — e se la teologia moderna, continuando con lo stesso stile, si è trovata a non riuscire a dare risposta al problema inedito del rito in un contesto di vita moderno, la teologia contemporanea deve ricorrere a nuovi strumenti per poter restare in continuità con quel discorso. Ha davvero ragione Chauvet quando osserva che “il nostro modo di riconoscerci eredi di una grande tradizione è meditare su ciò che essa esclude e che tuttavia è quello che la rende possibile”4: la possibilità di un chiarimento teologico della eucaristia non può avvenire “nonostante il rito”, ma soltanto “grazie” ad esso. E tuttavia 3 Per uno sviluppo adeguato di questo modello teorico cfr A. GRILLO, Introduzione alla teologia liturgica. Approccio teorico alla liturgia e ai sacramenti cristiani, Padova 1999. Sul tema del rapporto tra immediatezza e mediazione, rimando invece a ID., Teologia fondamentale e liturgia. Il rapporto tra immediatezza e mediazione nella riflessione teologica, (=Caro Salutis Cardo. Studi, 10), Padova 1995. 4 L.-M. CHAUVET, Simbolo e sacramento. Una rilettura sacramentale dell’esistenza cristiana, Leumann [Torino] 1990, 304.


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per questo chiarimento le competenze “semplicemente metafisiche” del passato sono sempre utili, talora necessarie, ma non sono assolutamente più sufficienti. Lo stesso Chauvet — che pure esaspera eccessivamente il rapporto di opposizione rispetto alla scolastica — ha visto bene quando ha scorto che la collocazione dei sacramenti in genere signi ha indirettamente contribuito alla “rimozione del rito” — del “fenomeno” rito — dal fondamento della teologia eucaristica. La impostazione “classica” — secondo questa ricostruzione — mostrerebbe oggi i suoi limiti perché: a) la lex orandi non appariva in essa come “locus theologicus” dell’eucaristia; b) la corporeità rituale non rappresentava un problema per la speculazione, ma piuttosto un “principio acquisito” e perciò non problematico: del tutto significativo è lo scarso rilievo che al “rito di questo sacramento” viene riservato nella raffinata impalcatura Summa Theologiae5. Anche un altro autorevole studioso contemporaneo dell’eucaristia ha giustamente rilevato la medesima tendenza commentando la esposizione che Tommaso offre dell’eucaristia nella sua Summa Theologiae: “Nel sistema di Tommaso si giunge alla natura sacramentale dell’eucaristia con l’analisi metafisica dell’ente applicata al pane e al vino, cosicché la conoscenza del sacramento in quanto sacramento è ottenuto attraverso la distinzione reale tra sostanza e accidenti. Il rito non è ens ma actio. Al rito, dunque, ossia alla celebrazione eucaristica, non può essere applicata l’analisi metafisica dell’ente in termini di sostanza e di accidenti”6. Viene così bene evidenziata la specifica ottica con cui si muove la teologia “classica” dell’eucaristia, presupponendo la ovvietà rituale della dimensione teologica. Ma bisogna qui osservare che il “corpo” — come tema qualificante l’eucaristia — riguarda sia l’essere sia l’azione del sacramento. Per questo sarà necessario, a partire dal XIX secolo, riadeguare la comprensione teologica alla “corporeità” non solo dell’essere, ma anche della azione rituale. Tuttavia, questa “lacuna” tomista — ampiamente giustificata dalla cultura in cui essa è di fatto inserita — si trasforma obiettivamente in una preoccupante carenza quando è assunta e ripetuta sic et simpliciter nella 5

Cfr ID., Editoriale: la liturgia e il corpo, in Concilium 31(1995) 377-381. E. MAZZA, La celebrazione eucaristica. Genesi del rito e sviluppo dell’interpretazione, Cinisello B.1996, 247. 6


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proposta teologica della Neoscolastica, che, riproponendo disinvoltamente lo stile teologico della “presupposizione”, promuove la rimozione e la perdita di senso del rito dalla eucaristia, e quindi anche del “corpo in azione” rispetto al suo fondamento7. Potremmo dire che la coscienza della collocazione della liturgia “in genere ritus” risulta oggi la condicio sine qua non perché tale sacramento possa restare “segno” e “causa” della sua efficacia. E non si tratta di assumere come normativa una “dipendenza antropologica” che rappresenterebbe una compromissione della purezza teologica del sacramento8, quanto piuttosto di comprendere il profondo e inaggirabile valore teologico del rito, nella sua funzione di raccordo di antropologia e teologia, come ha ben intuito il Movimento liturgico e al suo seguito la teologia liturgica contemporanea9. Quando la teologia non comprende la profondità della nuova problematica “antropologica” che è chiamata ad affrontare e si rifugia nella “purezza” di una prospettiva soltanto teologica, allora perde anzitutto la capacità di rendere conto dei sacramenti, e in particolar modo della eucaristia, proprio perché ne elude un aspetto “corporeo” fondamentale. La reazione a questa trasformazione della esperienza rituale da presupposto della teologia eucaristica ad elemento rimosso da parte della teologia è stato in fondo il grande gesto profetico che ha animato il sorgere e il progredire del Movimento Liturgico10.

7 Cfr il grande articolo “Sacramenti” di A. Michel, nel Dictionnaire de Théologie catholique, nel quale — come ricorda L.-M.Chauvet (La liturgia e il corpo, p.377) — su 11.000 righe solo 5 vengono dedicate alla dimensione rituale! 8 In questa direzione si muovono i lavori G. COLOMBO, Teologia sacramentaria, Milano, 1997, e, sebbene meno recisamente, anche A. BOZZOLO, La teologia sacramentaria dopo Rahner (=Biblioteca di Scienze Religiose, 151), Roma 1999. 9 Cfr G. BONACCORSO, Introduzione allo studio della liturgia, (= Caro Salutis Cardo. Sussidi, 1), Padova 1990. 10 Cfr A. GRILLO, L’esperienza rituale come ‘dato’ della teologia fondamentale. Ermeneutica di una rimozione e prospettive teoriche di reintegrazione, in A.N.TERRIN (ed.), Liturgia e incarnazione, Padova 1997, 167-224. Ora anche in A. GRILLO, La nascita nella liturgia nel XX secolo. Saggio sul rapporto tra Movimento Liturgico e (post-)modernità, Assisi 2003.


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3. LA PRIMA E LA SECONDA SVOLTA ANTROPOLOGICA DEL xx SECOLO Nella teologia del XX secolo è stata indicata con il termine “svolta antropologica” una sorta di grande riconciliazione tra il sapere teologico e il sapere antropologico, tra chiesa e modernità. Con il sorgere del sapere antropologico in tutta la sua autonomia, si era creata, a partire dal XIX secolo, una forte contrapposizione tra i due ambiti, tanto che, per salvaguardare le ragioni di una interpretazione teologica del reale, si era costretti ad escludere e a condannare le interpretazioni antropologiche concorrenti. Con la svolta antropologica pareva che si fosse trovato un nuovo equilibrio, senza condanne preconcette tra i due ambiti. Attraverso di essa la riconciliazione tra fede e ragione avveniva riabilitando — in vari modi — il polo soggettivo, interiore, libero, trascendentale, individuale, esperienziale, simbolico, “anonimo” della tradizione. Tutti questi termini cominciavano a non suonare più come sinonimo di tradimento della fede, di declino della chiesa, di errore nella ortodossia, di “modernismo”, ma entravano vitalmente nella espressione migliore e più autentica della vita cristiana. Dobbiamo dire, però, che la scienza liturgico-sacramentale ci riserva a questo proposito una interessante sorpresa. In essa, infatti, possiamo scoprire che — già dagli anni 10-20 del XX secolo — si denotava la presenza di una “seconda svolta antropologica”. Questa svolta — affine alla “prima”, ma diversa per fonti e priorità — recuperava anch’essa il significato antropologico della fede, ma lo faceva riscoprendo il ruolo della esteriorità, della comunità, della alterità, della autorità per la interiorità, per la individualità, per la identità e per la libertà. È anch’essa preoccupata di un raccordo tra “fede” e “ragione”, ma inverte le priorità e cambia le fonti: procede dall’esteriore all’interiore, e si fonda su una tradizione non metafisica, ma orientata dalle nuove scienze umane, religiose e fenomenologiche11.

11 Per questo credo che alla contrapposizione tra “svolta antropologica” e “svolta teologica” (ad es. proposta da M. KUNZLER, La liturgia all’inizio del terzo millennio, in R. FISICHELLA (ed.), Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del giubileo, Roma 2000, 217-231) nello studio della liturgia — che rischia di disattendere questa intenzione originaria del ML — sia bene sostituire la dialettica tra “prima” e “seconda” svolta antropologica. In questo caso, infatti, risulta più chiaro un duplice guadagno. È più facile riconoscere non soltanto che entrambe le svolte sono teologiche, ma che entrambe fanno i


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In essa vediamo le premesse di un fenomeno che, a partire dagli anni 80, ha investito anche altri settori della teologia post-conciliare. Ossia il superamento dei residui intellettualistici che accomunano in modo ancora troppo accentuato la teologia classica e la teologia della prima svolta antropologica. Rispetto a questo intellettualismo fondamentale, la teologia liturgica ha rivendicato un interesse molto più forte per dinamiche “fenomenologiche”, “totali”, “primitive”, che assumono l’uomo non anzitutto come intelletto e come volontà, ma come “ratio et manus”, come “sensus et tactus”, come “animale simbolico e rituale”. Scopriamo, così, che è stata proprio la ricerca promossa dal versante liturgico a portare alla luce gli stessi limiti di una “svolta antropologica” che aveva assunto un modello di uomo (credente e cristiano) ancora troppo dipendente da una stilizzazione intellettualistica della tradizione trascendentale e idealistica. La “seconda svolta antropologica”, invece, assume seriamente la sfida della “svolta linguistica” e l’orientamento “verso le cose stesse” della fenomenologia, utilizzando queste ipotesi per “rileggere” l’esperienza di fede a partire dalla celebrazione liturgica12.

4. UNA PERIODIZZAZIONE DEL MOVIMENTO LITURGICO IN PROSPETTIVA Ogni periodizzazione non guarda mai semplicemente o esclusivamente al passato, ma getta un occhio interessato al presente e al futuro: anzi, essa tende a radicarsi, nel suo punto di osservazione, precisamente in questo presente aperto al futuro. Anche la nostra periodizzazione, dunque, parla anzitutto degli inizi degli anni 2000, non dei primi anni del ’900 o della metà del secolo! Ma con tutto questo, e, anzi, proprio per questo, non possiamo esimerci dal proporla. Addirittura, proprio nell’avanzare un tale conti radicalmente con la antropologia. Nell’altra rappresentazione, invece, si tende a pensare che Rahner sia un “semplice” antropologo e che Casel, invece, sarebbe un “teologo”. Ma questo, come è evidente, risulta non solo ingiusto verso i due teologi, ma anche incapace di cogliere la domanda antropologica con cui la teologia del XX secolo ha dovuto confrontarsi, in modo particolare nel ML. 12 È inutile dire che le attenzioni di Gh. Lafont e L.-M. Chauvet in Francia, A. N. Terrin e G. Bonaccorso in Italia sono volte, sia pure con stili diversi, ad integrare la “svolta linguistica” e “fenomenologica” nella sensibilità liturgica del ML.


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ordinamento dello “sviluppo storico del Movimento liturgico” vorrei proporre — invitabilmente — una riconsiderazione del suo significato e della sua interpretazione. È vero, infatti, che gran parte della storiografia ecclesiastica intorno al Movimento liturgico risulta ancora troppo profondamente segnata da un intento apologetico. Occorre proprio dare ragione a Maria Pajano, quando afferma che, nel trattare il Movimento liturgico, «la storiografia religiosa contemporaneistica si è sinora soffermata soprattutto sulle sue elaborazioni teologiche — per lo più con un approccio apologetico — trascurandone… la collocazione nel più generale sviluppo dei rapporti tra la chiesa e la società nell’ultimo secolo»13.

Ma questo difetto della storiografia del Movimento liturgico non dipende soltanto dalla dimenticanza di quella radicale contrapposizione tra liturgia e spirito moderno che risulta sicuramente una della matrici incontestabili del particolare interesse per la liturgia maturato nel Movimento, quanto piuttosto deriva da una progressiva incomprensione del motivo radicale e profondo che ha attraversato la Chiesa cristiana in tutta la prima metà del XX secolo, per sfociare poi nel Concilio Vaticano II. Tale oblio sulle motivazioni più originali che hanno portato al Concilio, tuttavia, non riguarda soltanto la storiografia ecclesiastica, ma sembra segnare profondamente anche la stessa storiografia laica, la quale, pur avendo riscoperto il prezioso retroterra di politica ecclesiastica e di rapporto tra la chiesa e la modernità, dando così un sicuro contributo all’avanzamento dello studio circa il fenomeno del Movimento liturgico, non ha ancora colto il motivo decisivo che ha fatto del Movimento liturgico stesso un elemento di effettiva Riforma della Chiesa, e non solo di Restaurazione14. L’idea che il Movimento liturgico sia caratterizzato essenzialmente dal progetto volto a far sì che la liturgia rappresenti uno «strumento per preparare il ritorno ad una società cristiana»15, pur scoprendo una 13

PAJANO, Liturgia e società, 5. Interessante la riflessione a questo proposito di A. SCHILSON, Rinnovamento dallo spirito della restaurazione, in Cristianesimo nella Storia 12(1991) 569-602. 15 PAJANO, Liturgia e società, 15. 14


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componente certamente rilevante all’interno della vicenda storica recente, in realtà non riesce a cogliere appieno il centro della sua identità, proprio perché non sa riconoscere in alcun modo quel valore di “fons” che la liturgia rappresenta per l’esperienza cristiana. Non è qui in questione una sorta di “uso politico della liturgia” o una specie di funzionalizzazione del rito cristiano a un nuovo e antico disegno di egemonia, quanto piuttosto la irriducibilità della liturgia ad esercizio di un atto di chi ha già la fede16. Ma se resta pur sempre vero che la liturgia riguarda i credenti e non i non-credenti — e ciò risulta tanto evidente quanto dovuto quasi a priori dalla “correttezza politica” di ogni buona società moderna — è altrettanto vero che la riflessione sulla verità dell’atto liturgico è cominciata proprio dalla messa in discussione non di questa “evidenza politica”, quanto piuttosto con la critica della evidenza teologica secondo cui la fede precede la liturgia o secondo cui, per citare ancora lo studio della Pajano, «la partecipazione alla liturgia richiede già la conversione»: sarebbe proprio questo il punto di arrivo di Sacrosanctum Concilium? E dovremmo quasi aggiungere: tanta fatica per (questo) niente? In realtà, possiamo ancora capovolgere la nostra prospettiva: se è vera e fondata la censura che recenti studi hanno rivolto alla storia ecclesiastica del Movimento liturgico, e se è vero che lo sguardo di questi stessi studi sul Movimento liturgico non giunge a darne una lettura davvero convincente, 16

Scrive infatti la Pajano che il mutamento avvenuto nel secondo dopoguerra in fatto di comprensione dell’azione liturgica sarebbe dovuto ad una «teologia liturgica che sottolineava la centralità del ruolo che la preghiera della chiesa doveva avere soprattutto all’interno della comunità dei credenti, nonché la sua improponibilità a quanti non avessero già la fede» (26). È qui evidente che la teologia liturgica così lungamente attesa sembra proprio ribadire quel primato della fede sul rito (della lex credendi sulla lex supplicandi) che è stato proprio uno degli ostacoli contro cui il ML ha cercato di pensare e operare, e non anzitutto per motivi politici, ma piuttosto per motivi autenticamente teologici, come ho cercato di mostrare in tutti i capitoli precedenti. La presentazione di questo “motivo” viene condotta come se uno dei frutti più dolci del Movimento liturgico non fosse proprio quello di aver contribuito al ripensamento della rivelazione e della fede, radicalmente connettendole all’azione liturgica, non concependo più l’azione del culto come protestatio di una fides già acquisita, ma come parte originaria e irriducibile dello stesso actus fidei. Per un approfondimento di questo rapporto tra intellectus fidei e intellectus ritus nel Movimento liturgico cfr A. GRILLO, “Intellectus fidei” und “intellectus ritus”. Die überraschende Konvergenz von Liturgietheologie, Sakramententheologie und Fundamentaltheologie, in Liturgisches Jahrbuch 50(2000) 143-165.


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dobbiamo dire che per entrambi i fronti il difetto principale consiste nella mancata comprensione della profondità teologica del Movimento liturgico, delle sue più vere e audaci aspirazioni, della sua radicale scoperta della «azione liturgica come fons» della vita ecclesiale. Alla luce di questo rilievo, che ha attraversato tutto il nostro saggio, possiamo allora formulare meglio la prospettiva anche temporale di rilettura del Movimento liturgico. Si potrebbe senz’altro ritenere che il Movimento liturgico abbia già conosciuto, fin qui, due grandi fasi: a) una prima fase, che si estende all’incirca dal 1909 — dall’«evento di Malines» — al 1947, anno della enciclica Mediator Dei, ossia al primo documento che, in tutta la storia della Chiesa, abbia affrontato toto corde la dimensione liturgica della fede come oggetto di insegnamento magisteriale; questi primi quarant’anni del Movimento sono stati segnati da una ricerca intorno alla «questione liturgica», del tutto orientata a darne una soluzione che tenesse conto anzitutto del valore di Iniziazione dei riti, per il quale si scopriva — progressivamente — l’esigenza di Riforma dei riti. Ma, potremmo quasi dire, questa prima fase del Movimento liturgico ha individuato una questione e ne ha prospettato una soluzione duplice, subordinando la Riforma alla Iniziazione. Essa individuava nella Riforma lo strumento per consentire il grande lavoro di nuova accessibilità iniziatica alla logica rituale della fede cristiana. b) una seconda fase, che si estende dal 1947 — dalla Mediator Dei — al 1987, a 25 anni da Sacrosanctum Concilium e più simbolicamente a una generazione dal Concilio — con tutta la dinamica della “Riforma liturgica” che in tale quarantennnio ha concentrato su di sé le maggiori attenzioni della dottrina teologica e della progettazione pastorale; tale fase ha avuto un esito duplice. Da un lato ha predisposto — con un lavoro duro e spesso segnato da grandi segni profetici — una serie di «nuovi rituali» che potessero assicurare la base celebrativa per una nuova stagione ecclesiale. E tuttavia, nel concentrarsi su questo lato della soluzione alla questione liturgica, essa ha indirettamente allentato e alleggerito la urgenza di un forte impegno ecclesiale che si ponesse come obiettivo la Iniziazione alla liturgia. Anzi, uno degli esiti di questa seconda fase — al di là delle stesse intenzioni dei riformatori — è stato quello di aver cambiato gli accenti e le


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priorità: non più la Riforma come strumento della Iniziazione, ma piuttosto la Iniziazione come strumento (spesso addirittura percepito come “eventuale”) per la Riforma. A queste due fasi, tuttavia, se ne deve aggiungere una terza, che è quella ancora largamente aperta, e iniziata solo da poco più di un decennio: c) una terza fase — che comincia grosso modo nel 1987, estendendosi fino all’oggi e al domani — si presenta ancora avvolta da una certa nebbia: essa prospetta una ripresa della attenzione per la dimensione della “Iniziazione alla liturgia”, con tutto ciò che questo comporta. Essa può apparire anzitutto in contraddizione rispetto alla Riforma, quasi come una sua smentita, una sua sconfessione, un tornare indietro, una problematica “riforma della Riforma”17. In questa stessa formula (“riforma della Riforma”) si nota anzitutto l’evidente restringimento della prospettiva di lettura della «questione liturgica» e della possibile risposta in termini di “rinnovamento liturgico”: se tutto ciò che non è riforma diventa negazione della riforma, allora si rischia di cadere nella fittizia contrapposizione: o riformare o tornare al passato. L’«altro problema della Riforma» — profeticamente segnalato da Guardini a Concilio ancora aperto — indica invece che accanto alla Riforma, e in modo non contraddittorio rispetto alla Riforma dei riti e dei testi, si colloca la questione — più originaria e strutturale — della “forma liturgica”, della “liturgia come fons”, che comporta per la chiesa un bisogno originario di educazione, di formazione e di iniziazione all’atto di culto. Per questo, oggi, occorre anzitutto riscoprire “l’altro problema”, l’altra faccia della questione liturgica, riportando alla luce l’inevitabile “iniziazione” cui sono chiamati e tenuti anche i nuovi riti riformati. In altri termini, e programmaticamente, potremmo dire: La riforma dei libri e dei 17 Per una interessante considerazione del rapporto tra “progresso” e “regresso”, non soltanto per la prassi e per la Riforma liturgica, ma anzitutto per il “pensiero liturgico”, rimando all’interessante studio di A. CARDITA, Progreso o retroceso de la teologia liturgica? Elementos para una reflexiòn epistemològica sobre “Liturgie de Source” de Jean Corbon, in Revista catalana de Teologia 26/2(2001) 337-364.


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riti, dei testi e dei gesti, è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per una autentica esperienza della liturgia come «fons». Se con questa espressione siamo riusciti a impostare correttamente lo sviluppo della vicenda, ciò è dovuto al riemergere delle problematiche più originarie del Movimento liturgico, alla pretesa liturgica degli inizi del XX secolo, quando autori come Festugière e Beauduin, Guardini e Casel, scoprivano la vocazione fondamentale e fontale della liturgia, il suo appartenere allo stesso “atto di fede” e la sua collocazione nel cuore stesso della rivelazione cristiana. Credo che una riconsiderazione di questa scansione storica possa essere molto istruttiva, soprattutto per interpretare le tendenze oggi più vivaci e significative nel dibattito liturgico, troppo spesso arroccate su una irragionevole laudatio temporis acti — non importa se del Concilio Vaticano II o del Concilio di Trento —, ma con una certa trascuratezza verso il senso più radicale della questione liturgica. In fondo, la difesa ad oltranza della Riforma, come anche la intenzione di riformare la Riforma, sono tendenze che cadono entrambe nello stesso errore, ossia nella mancata considerazione del delicato equilibrio tra Riforma e Iniziazione, che non può mai essere risolto drasticamente, né riformando senza iniziare, né iniziando senza riformare18.

5. DUE MODI DI INTENDERE IL “RESSOURCEMENT” Alla luce di quanto sopra, ci chiediamo quale senso abbia avuto il grande “ressourcement”, inteso come “ritorno alle fonti” della fede cristiana. Certamente si è trattato di un ritorno alle fonti della liturgia, che tuttavia è stato sempre orientato — almeno nei suoi grandi esordi — alla riscoperta della liturgia come fonte. Poiché la “fonte” di cui è questione non è mai semplicemente un testo scritto, ma un atto di culto. E l’operazione 18

La considerazione di cui abbiamo fatto oggetto il Movimento liturgico in questa conversazione ha teso ad evidenziare precisamente questo intreccio di Iniziazione e Riforma nella radice stessa del Movimento. È la «questione liturgica» come tale a pretendere un tale intreccio e a tale connessione radicale hanno mirato pressoché tutti gli autori della prima fase del Movimento liturgico (ossia Festugière, Beauduin, Casel, Guardini e forse già lo stesso Guéranger).


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teologica che il Movimento liturgico ha meritevolmente “messo in circolo” nella coscienza culturale nel secolo che abbiamo appena abbandonato — il secolo XX — è stata essenzialmente quella di riscoprire l’azione cultuale della liturgia come azione di Dio e dell’uomo e perciò come “fonte” della esperienza di fede e del lavoro teologico. Questa “fonte”, evidentemente, deve essere recuperata mediante “fonti” determinate. Ci sono “fonti” scritte di questa “fonte”, ci sono “fonti liturgiche” di questa “fonte che è la liturgia”. Ma essenzialmente è quest’ultima fonte che deve essere recuperata e ad essa deve tendere il movimento della ricerca. Quando invece confondiamo il livello delle fonti, possiamo correre il rischio di pensare che la “cultura delle fonti” termini a Tertulliano, a Ambrogio o a Agostino (all’enuntiabile), e non invece al nostro atto di culto (alla res) come fonte della fede e della teologia del nostro tempo. Nessuno potrà dire una sola parola contro le parole di Ambrogio o Agostino, purché questa loro parola non voglia e non possa restare l’ultima parola. Come possiamo comprendere, dunque, la qualità di “fonte” della liturgia? Certo con l’aiuto di molte “fonti”, antiche e moderne. Del tutto esemplare è a questo proposito l’itinerario stesso con cui O. Casel ha voluto proporre questo tentativo di “ressourcement”, nel quale alle fonti antiche si accompagnano sempre fonti moderne, in quanto capaci di ristabilire il “pensiero totale”, inteso appunto come la capacità che l’iniziazione della liturgia come fons apra al cristiano una diversa forma di sapere “partecipato”, che Casel chiama “gnosi”, sulla base del pensiero dei padri, ma che ha bisogno di spiegare anche con la filosofia e la antropologia19. In ultima analisi, vorrei ripetere che il “ressourcement” non è semplicemente l’inaugurazione di una rinnovata attenzione per le “fonti”,

19 Giustamente E. Mazza (L’iniziazione cristiana e la tradizione liturgica dei primi secoli, in AA.VV., Il Battesimo dei bambini, 107-142: 111-112) dice che Casel non è rigoroso nell’applicare il metodo storico, poiché è troppo teologo e filosofo. Credo però che occorra anche chiedersi se il metodo storico (quello “corretto”) non trovi nel “dato storico” solo ciò che esso pensa pur sempre come “sistematicamente” fondamentale — per quanto su di un piano implicito e inespresso — quale presupposto e condizione della propria indagine storica. Una riflessione su questo livello della problematica appartiene costitutivamente al Movimento liturgico e alla scienza liturgica.


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ma il faticoso tentativo di “ri-dire” — ancora una volta, ma in modo diverso — in che senso la liturgia è fonte.

6. DUE MODI DI INTENDERE LA RIFORMA LITURGICA Alla luce di quanto detto, comprendiamo anzitutto un sorta di finale inversione dei termini con i quali pensiamo ordinariamente la “riforma liturgica”. Fino ad oggi, in larga parte, abbiamo pensato che una riforma, un aggiornamento della Chiesa comportasse anche una riforma dei riti, che cioè alcune nuove evidenze, nuove idee, nuove consapevolezza, nuove scoperte teologiche, pretendessero dalla chiesa un modo di celebrare il Dio di Gesù Cristo più coerente con questo nuovo orizzonte, più adatto e aggiornato e insieme più fedele ed autentico. Ma che cosa significa l’aggiornamento di cui parla il Concilio? Proprio qui abbiamo ancora da pensare in una direzione diversa. La riforma della Chiesa, di cui il Concilio Vaticano II è stato artefice, comincia con ciò che il culto liturgico fa maturare — in quanto “fons” — nella coscienza di fede ecclesiale. Il nuovo statuto della partecipazione al sacramento — nella sua identità di mediazione simbolico-rituale strutturale — rivela la “riforma liturgica” non anzitutto come necessità di modificare i riti, ma come capacità modificatrice che la celebrazione rituale riserva alla vita della chiesa. La riscoperta della dimensione iniziatica del rito liturgico — con tutte le sue peculiarità di parola e di sacramento — costituisce perciò una “riserva di riforma” ancora largamente inesplorata. In tal senso allora la “riforma liturgica” significa non prima di tutto la riforma che la liturgia subisce (dalla chiesa) nei propri riti, ma la riforma (della chiesa) che la liturgia promuove con i propri riti. Ma per questo occorre maturare una nuova coscienza della natura di “fons” della liturgia e della coscienza “iniziatica” della partecipazione che essa pretende, nelle linee che abbiamo abbozzato e che abbiamo visto stanno apparendo sull’orizzonte della ricerca e della prassi contemporanea. Solo questa inattualità credo sappia rendere il ML sommamente attuale, mentre le diverse forme di attualissima evidenza contribuiscono inevitabilmente ad affossarlo, spingono a “riflussi” nostalgici e irrazionali, portano acqua alle ragioni irragionevoli di una “riforma della riforma” che


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non vuole continuare sul cammino del ML, ma intende azzerarne la realtà. Il coraggio della inattualità è l’unica chiave per restare nella storia e per non fuggire o in un tradizionalismo che è solo la morte della tradizione o in un progressismo che pretenderebbe di ripetere la Riforma liturgica ad ogni generazione, rendendo così vana non solo la Riforma, ma la stessa azione liturgica.

7. PICCOLO RIEPILOGO NELLA FORMA DI SETTE TESI CONCLUSIVE 7.1. Le ML propose et pratique une nouvelle méthode théologique, qui réfuse l’antithèse entre anthropologie et théologie. La structure méme de l’action rituelle chrétienne impose une synthèse, non pas une opposition, entre action de Dieu et action de l’homme. Cela est très clair dans les perspectives (différentes) de M. Festugière, de R. Guardini et de O. Casel. 7.2. On ne peut pas comprendre le ML comme “tournant théologique”, en opposition contre un “tournant anthropologique”: il faut, au contraire, découvrir la présence d’une méthode théologique nouvelle, qu’on peut nommer “théologie du deuxième tournant anthropologique”. Cette méthode fait sa rèférance à l’homme d’une facon pas intellectualiste e utilizza la attenzione al sensibile maturata con la svolta linguistica e fenomenologica. 7.3. Occorre riconoscere che la risposta che il ML ha dato alla questione liturgica, ha attinto ad entrambe queste “svolte antropologiche”, ma con differenze sostanziali: infatti, la 1SA comporta una soluzione ancora essenzialmente intellettualistica della questione liturgica, mentre la 2SA propone una soluzione essenzialmente simbolica, storica, fenomenologica e relazionale. Potremmo dire che la 1SA ispira anzitutto una risposta in termini di Riforma, mentre la 2SA ispira una risposta in termini di Iniziazione 7.4. Il ML si divide in tre grandi fasi: nella prima, l’elemento dominante è stato quello della Iniziazione; nella seconda fase ha invece prevalso l’elemento della Riforma. Nella 3 fase, a Riforma ultimata, occorre ritrovare un nuovo equilibrio, riscoprendo la vocazione alla


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Iniziazione del ML. Per questa prospettiva, la Riforma è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per rimediare alla questione liturgica 7.5. L’attualità del ML consiste, perciò, nella sua inattualità: dovremmo scrivere oggi una Considerazione inattuale Sull’utilità e il danno della Riforma per la liturgia. Potremmo certo essere fraintesi, potremmo essere applauditi da destra o fischiati da sinistra. Ma è certo che, se finora sembrava che Il ML fosse solo una preparazione della Riforma, ora capiamo che la benedetta Riforma è stata solo una preparazione del ML. Il “passaggio dello Spirito” — non dimentichiamolo — rimane il ML prima che la sola Riforma dei riti. 7.6. L’utilità della Riforma è di essere strumento indispensabile perché la liturgia torni ad essere “fons” di tutta l’azione della Chiesa. Il danno consiste invece nel non lasciare spazio ad una iniziazione di cui i riti non siano oggetto ma soggetto. La Riforma è, infatti, una operazione in cui (inevitabilmente) la liturgia è solo oggetto. Mentre la Iniziazione liturgica, di cui la Riforma è strumento, permette di nuovo alla liturgia di essere fons e soggetto. 7.7. Tutto ciò comporta, infine, la scoperta di una più feconda — e originariamente chiara — relazione tra Riforma della liturgia e Riforma della Chiesa. In effetti, noi crediamo che la Riforma liturgica sia essenzialmente quel rinnovamento che ha per soggetto la Chiesa e per oggetto i riti. Ma forse la più profetica intuizione del ML è consistita nella riscoperta che la Riforma liturgica ha per soggetto la liturgia e per oggetto la Chiesa! C’è forse oggi qualcosa di più “inattuale” di questa prospettiva? E perciò non abbiamo forse un urgente bisogno, proprio oggi, di riscoprire anzitutto la inattualità profetica, scomoda e audace del ML, per restare fedeli alla Riforma e per non “scadere” rispetto al suo vero significato?


Synaxis XXII/3 (2004) 43-71

IL FENOMENO DELLA DOMANDA DI SPIRITUALITÀ*

GIUSEPPE BUCCELLATO SDB**

PREMESSA Lo studio del «fenomeno religioso» si presenta, ancora oggi, di grande interesse culturale, soprattutto per le sue differenti implicazioni in ambito economico, politico, sociale, antropologico, psicologico, per i suoi effetti nell’ambito della comunicazione o in relazione ai valori e al rispetto dei diritti umani, come la libertà, la uguale dignità della donna, il diritto ad adeguate opportunità di sviluppo e alla libertà1. Il mutato ambiente culturale richiede però, da parte della comunità ecclesiale e del singolo credente, una rinnovata consapevolezza dell’importanza di riconoscere quei segni o indicatori che rappresentano il punto di partenza di ogni lettura credente della storia. Una nuova forma di religione, probabilmente, ne ha rimpiazzato una vecchia e anche la religiosità presenta caratteri e modalità differenti2. Il mercato si è anche arricchito di nuovi fornitori, anche se, come ha scritto il * Relazione per il Colloquio di Teologia spirituale tenuta il 13 maggio 2004 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Docente di Teologia spirituale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Alla fine dell’anno giubilare, il 7 e l’8 settembre del 2000, la Pontificia Università Urbaniana, il Pontificio Ateneo Antonianum e l’Università Roma Tre hanno realizzato un convegno sul tema Il fenomeno religioso oggi: tradizione, mutamento, negazione. Gli atti del convegno, curati da Roberto Cipriani e da Gaspare Mura, sono stati pubblicati a Roma, con lo stesso titolo, nel 2002. 2 Sul tema del rapporto tra religiosità e religione si può vedere il lungo articolo di R. CORTINOVIS, Religiosità e religioni, in Quaderni di studi e memorie 11 (1993) 23-52.


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sociologo Roberto Cipriani, «non è facile immaginare una strada agevole per il pluralismo religioso in Italia»3. Il nostro studio non ha certamente la pretesa di fornire un quadro esaustivo del fenomeno religioso oggi, ma semmai quello di individuare qualche aspetto dell’attuale contesto religioso, con riferimento ad alcuni studi e ricerche più recenti, per interpretare e orientare l’azione pastorale, ma anche per aiutarci a riconoscere, nella nostra personale esperienza religiosa, alcuni sintomi e alcuni tratti caratteristici della domanda di spiritualità4 del nostro tempo.

1. C’È ANCORA UNA DOMANDA DI SPIRITUALITÀ OGGI? Le previsioni del filosofo Umberto Galimberti, espressa pochi anni fa in un discusso articolo dal titolo Nessun Dio ci può salvare, sono destinate a realizzarsi? «La religione morirà. Non è un auspicio, né tanto meno una profezia. È già un fatto che sta attendendo il suo compimento. Non lasciamoci ingannare dalle folle oceaniche che si radunano intorno al papa e neppure da quelle che 3 R. CIPRIANI, Cattolici e non appartenenti, in Il fenomeno religioso oggi, a cura di R. Cipriani - G. Mura, Roma 2002, 257. Scrive in questo articolo Cipriani, facendo riferimento ai risultati dell’indagine RAMP (Religious and Moral Pluralism): «Non c’è grande pluralismo se si dichiara cattolico il 97,5% e protestante o ebraico o musulmano o buddista o testimone di Geova od altro cristiano o non cristiano appena il 2,5%. La situazione non cambia se si calcola nell’universo di quanti hanno risposto sull’appartenenza religiosa: da una parte c’è il 79,3% che si dice cattolico, dall’altra c’è il 2% circa che risponde con altre opzioni» (p. 259). 4 Non è questo l’ambito in cui affrontare, in modo approfondito, la questione del significato o dei significati del termine «spiritualità». Per correttezza scientifica spieghiamo, però, brevemente la nostra accezione semantica con l’ausilio di una metafora o, meglio, di una proporzione matematica. Diciamo che, per noi, la spiritualità sta alla vita cristiana come un arrangiamento musicale sta allo spartito del compositore. L’unico Vangelo di Cristo è stato interpretato, con diversi accenti e sottolineature, da uomini spirituali o nei diversi periodi storici; questo dice riferimento non soltanto ai particolari contenuti, la cui rilevanza può essere più o meno evidenziata, ma anche ai modi di vivere, alle scelte prioritarie, ai linguaggi, alle forme espressive della religiosità. In queste pagine, inoltre, intendiamo limitare il nostro campo di osservazione al cattolicesimo di questo primo scorcio del nuovo secolo.


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seguono i popolarissimi predicatori televisivi protestanti in America. Non lasciamoci suggestionare dal diffondersi sempre più frequente e talvolta tragico delle sette apocalittiche, né dalle forme più dolci e suasive della new age. Tutto ciò non è, come è stato detto, una “rivincita di Dio”, ma solo l’ultimo lampeggiare del suo tramonto, perché l’ordine del mondo, che un tempo era cadenzato dai suoi comandamenti, ora è regolato dalle ferree leggi della tecnica che a Dio più non si rifanno, perché di Dio hanno perso non solo il nome, ma anche il senso, l’origine e la traccia. […] Ciò significa che, passata la nostra generazione e forse quella dei nostri figli, che ancora si alimentano degli ultimi resti della cultura umanistica che la religione cristiana ha inaugurato ponendo l’uomo al centro dell’universo, nessuno più considererà il bisogno di dare un senso alla vita un problema davvero fondamentale»5.

La tesi di Galimberti scaturisce dalla convinzione che certe forme di «risveglio religioso» siano soltanto un residuo «sintomo» dell’inquietudine dell’uomo contemporaneo che, cresciuto nella consapevolezza che la vera salvezza può derivare solo dalla tecnica, percepisce il permanere di alcuni rischi, come la possibilità di estinzione o di distruzione globale. Ma a partire da tutto questo, si tratta di prenderne coscienza, nessun Dio ci può salvare, perché la tecnica ha ormai portato la religione al suo crepuscolo. La previsione della morte di Dio, come sappiamo, non è nuova nella storia del pensiero occidentale. Quello che appare invece più caratteristico, in questo nostro contesto di postmodernità6, è l’apparente smarrimento della 5

U. GALIMBERTI, Nessun Dio ci può salvare, in MicroMega, 2000, II, 187-188. Il voluminoso numero monografico di MicroMega contiene numerosi contributi sul tema filosofia e religione. Tra gli altri, segnaliamo gli articoli di Norberto Bobbio, di Joseph Ratzinger, di Enzo Bianchi, di Bruno Forte, di Gianni Vattimo, di Manlio Sgalambro, di Franco Volpi. Si veda anche ne La Civiltà Cattolica la «risposta» di Giandomenico Mucci al citato contributo di Galimberti, dal titolo La tecnica prenderà il posto del Dio biblico?, in La Civiltà Cattolica, 2000, III, 351-361. 6 Sul concetto di postmodernità i riferimenti bibliografici possono essere numerosissimi; segnaliamo, tra gli altri, un recente intervento di Padre Innocenzo Gargano alla 50a assemblea nazionale dell’USMI, pubblicata con il titolo Post-modernità e vita spirituale, in Il Regno Documenti 13 (2003) 416- 430; G. VATTIMO, La fine della modernità, Milano 1999; K. KUMAR, Le nuove teorie del mondo contemporaneo. Dalla società post-industriale alla società postmoderna, Torino 2000; G. CHIURAZZI, Il postmoderno. Il pensiero nella società della comunicazione, Milano 2002.


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significatività della «questione Dio» che si inquadra, più in generale, in una perdita dell’interiorità che può essere considerata anche un riflesso degli eccessi della comunicazione multimediale. Un complesso quadro di riferimento fa da cornice all’interpretazione dei dati e delle conclusioni di alcune recenti indagini, che, nel loro insieme, sembrano contraddire le previsioni di Galimberti. Dobbiamo riconoscere, però, la necessità perenne di leggere il fenomeno religioso dentro la storia degli uomini, senza pretendere di riuscire a sradicare sempre la zizzania, per lasciar crescere soltanto il grano, ma con la onestà di distinguere l’una dall’altro e con la chiarezza della Verità, che rimane, oggi e sempre, l’unica credibile profezia della storia.

1.1. L’offuscamento della speranza Il tempo che stiamo vivendo appare, secondo quanto ha affermato l’esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Europa, una stagione di smarrimento7. La perdita della memoria e dell’eredità cristiana, accompagnata da una sorta di «agnosticismo pratico» e di «indifferentismo religioso», sembrano allontanare la possibilità di coniugare, nel continente europeo, il messaggio evangelico con l’esperienza quotidiana. In queste condizioni sembra difficile continuare a sperare. «Alla radice dello smarrimento della speranza sta il tentativo di far prevalere un’antropologia senza Dio e senza Cristo. Questo tipo di pensiero ha portato a considerare l’uomo come “il centro assoluto della realtà, facendogli così artificiosamente occupare il posto di Dio e dimenticando che non è l’uomo cha fa Dio ma Dio che fa l’uomo…”. La cultura europea dà l’impressione di una “apostasia silenziosa” da parte dell’uomo sazio che vive come se Dio non esistesse […]. Siamo di fronte all’emergere di una nuova cultura, in larga parte influenzata dai mass media, dalle caratteristiche e dai contenuti spesso in contrasto con il Vangelo e con la dignità della persona umana. Di tale cultura fa parte

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anche un sempre più diffuso agnosticismo religioso, connesso con un più profondo relativismo morale e giuridico, che affonda le sue radici nello smarrimento della verità dell’uomo come fondamento dei diritti inalienabili di ciascuno»8.

Anche le conclusioni della 51a Assemblea Generale della CEI, dedicata al tema della iniziazione cristiana, che si era svolta nei giorni 1923 maggio del 2003, rappresentano un vero e proprio grido di allarme per la Chiesa italiana. Constatato il fatto che, nella nostra penisola, è «finito lo stato di cristianità», lo stesso presidente della CEI ha osservato che «è continuato a diminuire il numero dei ragazzi, e poi degli adolescenti e dei giovani, che riescono a stabilire con la fede e con la Chiesa un rapporto duraturo e profondo». Oltre alla «debolezza cognitiva» dei non praticanti, occorre riconoscere la medesima debolezza anche tra molti di coloro che frequentano dei gruppi ecclesiali e una sorta di «marginalità» rispetto alle esigenze del Vangelo e alle indicazioni della Chiesa. In molti casi «l’attuale prassi ordinaria di iniziazione cristiana, invece che iniziare, sembra “concludere” il processo di iniziazione cristiana»9. Di fronte a tanta chiarezza, da parte del nostro magistero, possiamo affermare che nessuno ha il diritto di ignorare queste difficoltà o di «sdrammatizzarle», magari con intenti apologetici10. Da una simile analisi scaturisce da un lato la sfida di «spiritualizzare dall’interno» questa civiltà tecnologica, come affermava molti anni fa Augusto Del Noce in un suo contributo sul tema della secolarizzazione11; dall’altro l’urgenza di studiare il fenomeno religioso oggi con la capacità di coglierne quegli elementi trascendenti che nessuna tecnica potrà mai svuotare di significato e, nel medesimo tempo, quelle ambiguità che 8

Ibid., n. 9. Cfr G. MARCHESI, Un grido d’allarme sulla fede in Italia. 51a Assemblea generale della CEI, in La Civiltà Cattolica, 2003, II, 585-594. 10 Su questa posizione ci sembra di dover collocare alcune pagine di Massimo Introvigne, direttore del CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni) e, in particolare, la sua recente pubblicazione: M. INTROVIGNE - R. STARK, Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente, Casale Monferrato 2003. 11 Cfr A. DEL NOCE, Civiltà tecnologica e cristianesimo, in L’epoca della secolarizzazione, a cura di A. Del Noce, Milano 1970, 77-97. 9


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possono nascondersi nella attuale, persistente, ma per certi versi contraddittoria, domanda di spiritualità. Da quest’ultima istanza deriva la necessità di formulare alcune «ipotesi antropologiche» che ci consentano di interpretare l’atteggiamento che l’uomo di oggi assume di fronte all’esperienza religiosa. Un’utile ipotesi di lavoro emerge da un editoriale de La Civiltà Cattolica del giugno del 2002, dal titolo Un nuovo modello di uomo interpella la Chiesa. Proviamo a sintetizzarne, in modo schematico, le conclusioni12. — Il primo carattere dell’uomo «nuovo» messo in evidenza è il suo soggettivismo radicale, individualista e liberatorio. Per questo egli è «schiacciato sul presente», tende a ignorare il passato, così come fugge ogni struttura che sembra ingabbiarlo «per sempre»; — il secondo carattere è il secolarismo, che assume oggi la forma non dell’avversione, ma dell’ignoranza di Dio, del disinteresse, della «disattenzione» al problema di Dio o, anche nel caso di una pratica religiosa, del suo «confinamento» ai margine dell’esistenza; — il terzo carattere dell’uomo di questi ultimi decenni può essere definito nomadismo e si esprime nella ricerca di esperienze sempre nuove. Torneremo su questo aspetto parlando più avanti del sincretismo; — il quarto carattere può essere definito come naturalismo materialista. C’è la tendenza ad ignorare ogni «legge di natura», accettando che l’essere umano è manipolabile e trasformabile con gli strumenti della scienza e della tecnica; — il quinto carattere dell’«uomo nuovo» è la sua dipendenza dai media, che non favoriscono i processi di interiorizzazione, in particolare quelli della fede, e contribuiscono a mutare la percezione dei grandi e immutabili valori della vita13.

12 Cfr Un nuovo modello di uomo interpella la Chiesa. Fede cristiana e realtà italiana, in La Civiltà Cattolica, 2002, II, 523-533. 13 Altrettanto interessanti sono le esemplificazioni di Innocenzo Gargano, nell’articolo già citato Post-modernità e vita spirituale, alle pagine 425-426. L’autore, a proposito delle caratteristiche dell’uomo «postmoderno», parla di: idolatria del denaro, perdita dell’interiorità, disgusto dell’essere, fuga nel soggettivismo, angoscia, rifugio nell’indifferenza, sperimentalismo ad oltranza.


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Queste considerazioni esigerebbero un approfondimento ed un conseguente ripensamento dei metodi e delle forme di evangelizzazione e di catechesi, oltre che della ratio studiorum e dei nostri percorsi formativi14. Rimane da chiedersi, comunque, come e quanto questi indicatori siano effettivamente utili per interpretare l’esperienza religiosa dei praticanti o per spiegare la assenza dei non praticanti. Un cenno alle conclusioni di qualche recente statistica può arricchire il nostro percorso.

1.2. Un rapido sguardo ad alcune recenti statistiche Non è facile interpretare in modo univoco le statistiche più recenti, che studiano il fenomeno religioso in Italia15. La difficoltà principale riguarda, in alcuni casi, le indicazioni, non sempre esaustive, che vengono fornite sulla scelta del campione a cui l’indagine è stata applicata; può accadere, infatti, che anche negli ambienti cattolici che le statistiche siano adoperate come strumento di pressione sociale. Un’altra difficoltà di interpretazione scaturisce dal linguaggio con cui sono scritti i questionari. Siamo infatti in presenza, come ha più volte affermato Umberto Eco, di una «frattura epistemologica», di un diverso rapporto tra le parole e le

14

Il problema della comunicazione, ad esempio, è diventato essenziale nella prassi pastorale, ma è spesso del tutto assente dal curriculum dei candidati al presbiterato. 15 Segnaliamo, tra le altre, quelle che abbiamo avuto la possibilità di consultare: EURISPES, I giovani e Dio, 22 aprile 2004, in http://www.territorioscuola.com/associazioni/giovanifede.pdf; P. LUCÀ TROBETTA, Il bricolage religioso. Sincretismo e nuova religiosità, Bari 2004, 69ss; EURISKO, Gli italiani e la religione, 17-19 giugno 2003, in http://www.agcom.it/sondaggi/dox/2003/Eurisko_11_09_03b.pdf; F. GARELLI, Il volto giovane della ricerca di Dio, Casale Monferrato 2003; F. GARELLI - G. GUZZARDI - E. PACE, Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso degli italiani, Bologna 2003; CENSIS, Giovani lasciati al presente, Milano 2002; RAMP (Religious and moral pluralism), in http://host.uniroma3.it/docenti/cipriani/Religious-and-moral-pluralism.htm; C. BUZZI, A. CAVALLI, A. DE LILLO (ed), Giovani del nuovo secolo. V rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Bologna 2002; G. LO GRANDE - U. ROMEO - G. URSO, Giovani in prospettiva. Vissuto del tempo e religiosità in Sicilia, Messina 2001.


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cose, che rende incomprensibili i contenuti e i modi dell’esperienza religiosa tradizionale, in particolare del suo aspetto cognitivo. Questo problema semantico giustifica alcuni risultati, apparentemente contraddittori, e la perdita di significato di alcuni parametri descrittivi che hanno caratterizzato, dal suo nascere, la sociologia della religione, parametri come credente/non credente, praticante/non praticante. Dai risultati dell’indagine RAMP (Religious and Moral Pluralism), condotta in 11 diversi paesi Europei, Roberto Cipriani, in relazione alla situazione italiana, distingue, in modo analitico, sei gruppi di «cattolici» (il 79,3% del campione), in base al loro orientamento su alcune grandi questioni morali: rigoristi (23%), incerti timorosi (11,4%), tradizionalisti celebrativi (9,2%), radicali aperti (33,5%), praticanti impegnati (10,7%), negativisti (11,4%). Meno articolata è la distinzione introdotta dalla ricerca cui fa riferimento Lucà Trombetta. Nel suo Il bricolage religioso egli distingue quattro tipologie: cattolici regolari (43%), cattolici irregolari (28%), credenti non cattolici (19%), non religiosi (8%). Più recente e, per certi versi, sorprendente è l’indagine condotta dall’EURISKO per conto del gruppo editoriale L’Espresso – La Repubblica. L’87% degli intervistati16 afferma di riconoscersi nella religione cattolica; le altre confessioni religiose giocano un ruolo marginale (5%) e i non credenti ammontano al 6%. Quello degli assidui, cioè di coloro che si recano in Chiesa ogni domenica si è, però, contratto negli ultimi venti anni di circa sette punti (dal 36% al 29%). Il 23% ritiene la religione fondamentale per la propria vita, mentre un altro 38% la valuta, comunque, come importante. Ben il 50% degli italiani dichiara di pregare almeno una volta al giorno anche se la maggior parte con finalità «utilitaristica». Emerge come sia esiguo il numero di coloro che si dichiarano atei o non interessati alla religione; il dato è confermato, con qualche trascurabile 16

Si tratta di 1000 adulti dai 18 anni in su. Il campione è rappresentativo della popolazione italiana, stratificato per aree geografiche ed ampiezza demografica dei centri, con quote pre-assegnate di sesso ed età. Il campione è stato controllato ex post su 6 parametri: area geografica, ampiezza centri, sesso, età, istruzione, professione. Fonte per la distribuzione dei parametri: dati ISTAT (cfr http://www.agcom.it/sondaggi/dox/2003/Eurisko_11_09_03b.pdf).


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differenza nei valori percentuali, da tutte le statistiche che abbiamo avuto modo di consultate. Scrive Pino Lucà Trombetta: «Un altro dato che testimonia delle aspettative religiose è quello sulla diffusione generalizzata dell’esperienza della preghiera a Dio (ma anche alla Madonna o ai morti) che di per sé mostra come la grande maggioranza riconosca una influenza del divino sugli eventi della vita di tutti i giorni. Si tratta di atteggiamenti di attesa e predisposizione allo stupore che emergono anche dalla diffusa credenza che possano darsi guarigioni “miracolose” o anche apparizioni della Madonna o altre entità soprannaturali. In tutti questi casi si ammette che il divino comunichi con noi, interferisca nelle nostre esistenze. Del resto, se escludiamo la quota di coloro che si dicono atei o indifferenti alla religione, quasi il 90% dichiara di “credere”: e non si vede perché non bisognerebbe credere a tali dichiarazioni»17.

Più in generale, però, la crescita del senso religioso tende ad abbinarsi ad una sua declinazione in termini soggettivi. Molte le perplessità manifestate su alcune delle verità di fede. Più di quattro persone su dieci non sono convinte dell’esistenza di una vita oltre la morte (e tra questi il 27% dei praticanti assidui). Il 66% crede nel paradiso ma solo il 50% nell’inferno e il 40% nell’infallibilità del papa. Il 17% crede nell’astrologia, e il 40% le attribuisce un qualche fondamento. Il 19% crede nel malocchio e il 25% nella reincarnazione. Si può constatare, inoltre, una significativa differenziazione nella concezione del «divino», nelle diverse posizioni in ambito «morale», soprattutto in relazione ai grandi temi come la bioetica, l’aborto o l’eutanasia. In alcuni casi, poi, vengono apparentemente mescolati dei contenuti eterogenei o addirittura contraddittori. Anche questo dato è caratteristico del periodo in cui viviamo. Osservando, ad esempio, il gruppo dei cattolici regolari (definiti come coloro che partecipano quasi sempre alla messa domenicale), dall’indagine riferita da Lucà Trombetta risulta che il 49% non esclude la credenza in alcune verità esoteriche, il 4% crede nella reincarnazione, il 9% non crede nell’immortalità dell’anima il 10% consulta un mago e il 25% legge ordinariamente l’oroscopo. 17

P. LUCÀ TROMBETTA, Il bricolage religioso, cit., 13.


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Sarebbe utile, per una migliore valutazione del dato, un confronto con i risultati delle indagini condotte in Europa negli anni ’9018. Il problema fondamentale, ad ogni modo, è chiederci come, quando e quanto siano effettivamente religiosi coloro che si proclamano credenti, quanto sia coerente e conseguente il sistema di convinzioni con la loro vita. In ogni caso, poi, l’aspetto che appare più problematico è quello della rilevanza della esperienza religiosa, in relazione alla vita ordinaria. Puo accadere, infatti, che la «fede» in Dio coesista con una certa «indifferenza» pratica. Leggiamo, in un recente editoriale de La Civiltà Cattolica, dedicato al tema dell’indifferenza religiosa: «In realtà non è in questione la sua esistenza o la sua inesistenza, ma il suo “valore”, cioè la sua rilevanza per la vita dell’uomo. Dio potrebbe anche esistere, ma non significa niente per l’esistenza dell’uomo, il quale può tranquillamente e senza traumi fare a meno di lui e vivere come se egli non esistesse. L’indifferenza religiosa comporta perciò un triplice atteggiamento: un atteggiamento “mentale” di disinteresse e di disattenzione al problema di Dio e alla religione; un atteggiamento “affettivo” di disaffezione e di distacco da Dio e dalla religione; un atteggiamento “pratico” né religioso né antireligioso, ma semplicemente a-religioso, “vuoto” di Dio, nel senso che ogni problematica religiosa è assente, perché priva di valore per l’esistenza»19.

In relazione all’universo giovani i risultati sono, in ogni caso, più incerti e di difficile interpretazione. Da un’indagine del CENSIS20 effettuata su un campione di 1500 «giovani» di età compresa tra i 15 e i 30 anni, i cui risultati sono stati pubblicati nel 2002 con il titolo I giovani lasciati al presente, emerge che il 66% dei ragazzi intervistati non coltiva interessi spirituali, non manifesta

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Citiamo, a titolo di esempio, l’indagine condotta dalla Fondazione Agnelli La religione degli Europei, Torino 1992; V. CESAREO - R. CIPRIANI - F. GARELLI (et alii), La religiosità in Italia, Milano 1995; G. GARELLI - T. OFFI, Fedi di fine secolo: paesi occidentali e orientali a confronto, Milano 1996. 19 L’indifferenza religiosa, in La Civiltà Cattolica, 2003, IV, 313-314. 20 Cfr CENSIS, Giovani lasciati al presente, Milano 2002.


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nessun «bisogno di trascendente». I meno interessati ai problemi spirituali sembrano essere gli adolescenti dai 15 ai 17 anni21. Una recentissima inchiesta dell’EURISPES – TELEFONO AZZURRO contiene invece dati più confortanti, soprattutto in relazione ad un campione di età compresa tra i 7 e gli 11 anni22. La rilevazione sul campo ha riguardato circa 84 scuole italiane di ogni ordine e grado, e ha interessato 5.076 bambini e 5.710 adolescenti. «In conclusione in due terzi dei giovani di oggi non c’è nessun bisogno di Dio, nell’altro terzo c’è una grande varietà di atteggiamenti […]. In questa varietà di atteggiamenti è difficile dire quanto ci sia di autenticamente “religioso” e quanto di vago spiritualismo. Ad ogni modo, è notevole il fatto che il coltivare o il non coltivare interessi spirituali non incida in maniera forte sull’atteggiamento che si assume dinanzi ai problemi esistenziali, come quello della morte, e ai problemi etici, nonché alle scelte di fondo della vita»23.

1.3. Declino della morale? Declino dei valori? Questi due interrogativi sono il titolo di una recente pubblicazione del sociologo francese Raymond Boudon24. Le ottimistiche conclusioni dell’autore25, che non condivide la prospettiva di quanti vedono lo sgretolarsi dei legami e delle credenze 21 G. DE ROSA, «I giovani lasciati al presente». A proposito di un’inchiesta sui giovani italiani, in La Civiltà Cattolica, 2002, III, 492. Accenniamo appena al fatto che l’indagine presentata da Massimo Introvigne nel suo Dio è tornato presenta valori e valutazioni discordanti. Facendo riferimento all’Inchiesta Europea sui Valori, di cui non vengono riferite informazioni relative alla scelta del campione, Introvigne valuta il momento attuale addirittura come un tempo di risveglio religioso, segnalando, ad esempio, l’aumento di coloro che credono in Dio dall’ 83% del 1981 al 94% di oggi (cfr M. INTROVIGNE - R. STARK, Dio è tornato, cit., 128). 22 Cfr http://www.territorioscuola.com/associazioni/giovanifede.pdf. 23 G. DE ROSA, «I giovani lasciati al presente», cit., 493. 24 R. BOUDON, Declino della morale? Declino dei valori, Milano 2003. 25 L’osservazione è di Armando Massarenti in Valori in declino? Mai stati così saldi, in Il Sole 24 Ore, 9.11.2003, 31.


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«forti» nel passaggio dalla modernità alla postmodernità, derivano dalla convinzione che questa sensazione di declino scaturisca dalle analisi iperboliche dei mass-media. I valori tradizionali, come la famiglia, il lavoro, la religione, la capacità di distingure il «bene» dal «male», rimangono invariati anche nel nostro modello sociale. «Occorre notare che la credenza in Dio rimane molto alta: il 51% dei giovani francesi, l’89% dei giovani italiani e l’85% dei giovani canadesi credono in Dio. Tuttavia l’immagine di Dio diviene più astratta: la percentuale di coloro che credono in un Dio personificato è molto inferiore e tende a diminuire tra i giovani […]. Inoltre la religione non è più per i giovani una fonte di spiritualità così importante come lo era per le generazioni precedenti. Sempre nella stessa direzione, anche il senso del peccato diminuisce nei giovani e nelle persone più istruite, probabilmente perché la nozione di “peccato” non può essere separata da quella di “divieto” e non è molto compatibile con la discussione e la deliberazione»26.

Già la Veritatis Splendor aveva manifestato la preoccupazione della Chiesa per il diffondersi di «una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale»27. Sottolinea opportunamente Giuseppe Tofanello: «C’è come una intolleranza della gente alla parola “peccato”: ricorda imposizione, ricatto, legge esteriore… richiama fantasmi di un passato oppressivo in cui l’autorità ecclesiastica ha fatto sentire tutto il suo potere. Una spiritualità che parla di peccato sembra essere una spiritualità di morte»28.

Uno dei fenomeni che caratterizza il comportamento morale dei «giovani», poi, è la difficoltà ad impegnarsi in scelte definitive, conseguenza, secondo alcuni, anche di una più generale fragilità affettiva.

26

R. BOUDON, Declino della morale?, cit., 37.44. GIOVANNI PAOLO II, Veritatis Splendor, n. 32. 28 G. TOFANELLO, La spiritualità in questione: il postmoderno alla ricerca di sé, in Credere oggi 20 (2000), III, 12. 27


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Una vita eccessivamente facile, che non si è misurata con il superamento di nessun serio «ostacolo», non permette alla struttura della personalità di divenire più robusta. Scrive a questo proposito Giacomo Rossi: «Colpisce il gran numero di persone che sembrano incapaci di affrontare il rischio di impegnarsi in scelte di vita definitive, lo spontaneismo di quanti sembrano lasciarsi guidare dal solo sentimento, incapaci di riconoscere e accettare i limiti del reale […]. Chi è stato abituato fin da bambino a veder realizzato ogni suo desiderio sarà poco preparato ad affrontare gli inevitabili conflitti dell’esistenza, a cogliere il valore della rinuncia, delle cosiddette “virtù negative” di fatto necessarie per saper riconoscere ciò che a lungo termine può dar senso alla vita. Ne deriva una fragilità affettiva che può avere gravi conseguenze: lo confermano alcuni fatti di cronaca dove vediamo che motivi in sé relativamente futili, come il fallimento ad un esame o una delusione affettiva, possono essere sufficienti per indurre a gesti disperati e violenti»29.

Può essere interessante notare che, in relazione al vissuto della sessualità nell’ambiente degli adolescenti e dei giovani, secondo una recente indagine condotta da Mario Pollo, non compaiono significative differenze tra la maggioranza degli appartenenti e i non appartenenti30. «Infatti c’ è solo una minoranza di adolescenti appartenenti, specialmente femmine, che si muovono in una direzione diversa da quella da quella indicata dall’attuale cultura dominante. I rapporti sessuali sono vissuti concretamente dalla maggioranza degli intervistati e non sembrano creare loro alcun senso di colpa, anche se hanno una appartenenza ecclesiale stabile e forte […]. Nel caso degli appartenenti spesso c’è una vera e propria dichiarazione di rifiuto di sottomettere la propria sessualità ai principi morali indicati dalla Chiesa […]. Anche tra i giovani si osserva una scarsissima differenza tra gli appartenenti e i non appartenenti»31.

29 G. ROSSI, La teologia morale in un mondo che cambia, in La Civiltà Cattolica, 2001, III, 214. 30 Cfr M. POLLO, L’esperienza religiosa dei giovani e degli adolescenti, in Note di Pastorale Giovanile 38 (2004), IV, 37. 31 ID., L’esperienza religiosa dei giovani e degli adolescenti, cit., 37-38.


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2. IL FENOMENO DEL «BRICOLAGE» O SINCRETISMO RELIGIOSO Uno dei fenomeni più caratteristici della nuova domanda di spiritualità di questi anni è costituito dal cosiddetto bricolage religioso, che può essere definito come «un modo diffuso di vivere la religiosità personale attraverso la costruzione di un universo di significati soprannaturali, ottenuto mescolando elementi delle religioni tradizionali con credenze e simboli attinti dal mercato della spiritualità che caratterizza le società contemporanee»32.

Siamo di fronte ad una forma inedita di soggettivizzazione che consente a ciascuno di sentirsi religioso senza necessariamente aderire ad una «agenzia» totalizzante, senza sacrificare i propri modelli di comportamento e la propria «libertà» di consumatore occasionale. Una delle più caratteristiche espressione di questo atteggiamento, nell’odierno contesto culturale, è il New Age, che, come osserva un editoriale della Civiltà Cattolica del marzo del 2003, si presenta, nel medesimo tempo, come ideologia, come spiritualità, come un insieme di pratiche psicologiche, terapeutiche e alimentari ordinate ad assicurare il benessere psichico e fisico33. «È anzitutto un’ideologia nella quale confluiscono l’astrologia, l’esoterismo ermetico, la gnosi, il monismo panteistico con il rifiuto del dualismo, lo spiritismo di tipo channeling, la psicologia di C.G. Jung, di A. Ma slow e di C. Rogers, il taoismo, l’ecologismo, il femminismo e l’animalismo […]. In secondo luogo il New Age non è una religione, né un movimento religioso, anche se pretende di unificare tutte le religioni in una sola religione universale […]. È invece una spiritualità, cioè un cammino spirituale, interiore, compiuto senza la guida e l’aiuto di una qualsiasi Chiesa, che deve condurre chi lo intraprende a scoprire che, al di là di tutte le differenze e le opposizioni che esistono tra gli esseri viventi e per la terra, c’è una unità profonda nel Tutto divino, nel quale tutte le diversità e le opposizioni sono abolite…, una spiritualità mistica, che pretende di

32 33

P. LUCÀ TROMBETTA, Il bricolage religioso, cit., 5. Cfr La Civiltà Cattolica, 2003, I, 461.


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condurre chi la pratica all’esperienza esaltante, gioiosa e pacificante di immersione nell’oceano di vibrazioni, che è il cosmo, e quindi di fusione della propria individualità con il tutto divino»34.

Le condizioni che hanno favorito la nascita e lo sviluppo del New Age, sono certamente anche di ordine culturale e sociale; in particolare le tensioni e le contrapposizioni che attraversano la società consumistica hanno aumentato, in alcuni, il bisogno di una vita armoniosa, gioiosa, sana e ricca di emozioni spirituali, ma soprattutto priva dei sensi di colpa che derivano dagli obblighi di una dottrina morale imposta dall’esterno. Il fenomeno del sincretismo religioso, poi, sembra essere favorito dalla complessità della nostra società postmoderna, dal numero enorme di informazioni che raggiungono l’uomo di oggi. Un’interessante teoria, comunque, ne spiega, in termini razionali, l’insolito sviluppo.

2.1. La «teoria delle economie religiose» L’espressione «teoria delle economie religiose»35 può dare adito ad alcuni equivoci; non si tratta qui di considerare i rapporti tra religione ed economia, la problematica delle economie solidali o le conseguenze economiche della religione, bensì di tentare, come cercheremo di spiegare, un approccio, una «analisi economica» del comportamento religioso36. 34

Ibid., 461-462. Sul significato di questa espressione si veda, in particolare, il testo di Lucà Trombetta, già citato, alle pagine 21-52. 36 La teoria delle economie religiose è relativamente recente, anche se gli stessi autori che la hanno formulata, agli inizi degli anni ’80, si richiamano ad alcune intuizioni «secolari». Per un approfondimento, i principali riferimenti bibliografici potrebbero essere: R. FINKE - R. STARK, The churching of America 1776-1990. Winners and losers in our religious economy, New Brunswick 1992; L.R. IANNACCONE, The consequences of religious market regulation. Adam Smith and the economics of religion, in Rationality and society 3 (1991) 156-177; W.S. BAINBRIDGE - R. STARK, The future of religion, Berkley 1985; W.S. BAINBRIDGE - R. STARK, A theory of religion, Berna 1987. Per una esposizione sufficientemente approfondita della teoria e per una bibliografia più completa si veda M. INTROVIGNE R. STARK, Dio è tornato, cit., 581-132. 35


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Il principio fondamentale di questa teoria può essere così enunciato: al «funzionamento» del fenomeno religioso possono essere applicate le medesime leggi che presiedono al mercato e ad alcuni modelli economici. Pur non avendo la opportunità di entrare, in modo approfondito, nel merito di questa teoria, proviamo a prenderne in considerazione alcuni elementi essenziali ed alcune suggestive conclusioni: — così come avviene nell’ambito dell’imprenditoria privata, il fine dell’homo religiosus è quello di «massimizzare i guadagni», che qui vanno visti in termini di gratificazioni emotive, morali, sociali o di aspettative ultraterrene. Egli può decidere, in questa prospettiva, di concentrare i suoi investimenti su di una sola «impresa» o di distribuirli verso una pluralità di interlocutori, nella speranza di aumentare i profitti o di diminuire i «rischi»37. — la capacità di «produrre» un’esperienza religiosa redditizia dipende dal capitale accumulato, sotto forma di conoscenza, familiarità con i riti e la dottrina, reti di relazioni e amicizie. Maggiore è il capitale accumulato con un determinato tipo di investimento, maggiore sarà anche la «fedeltà» a quella particolare «impresa»38; — le diverse chiese possono essere viste, appunto, come delle aziende che offrono un determinato «prodotto». Come le imprese commerciali, le chiese mirano a mantenere o a consolidare la loro

37

Un’osservazione di Roger Finke cerca di spiegare, all’interno di questa teoria, anche la diminuzione delle vocazioni alla vita sacerdotale e consacrata. La «modernizzazione» attuata dal Concilio Vaticano II, in particolare in relazione alla riduzione della sacralità, con la conseguente «equiparazione» della dignità dei laici nella Chiesa, renderebbe meno «conveniente» un investimento in cui bisogna sopportare degli alti «costi» (celibato, obbedienza, povertà…) per ottenere dei ricavi che si possono comunque realizzare con un minore investimento di risorse. Cfr R. FINKE, An orderly return of tradition: explaining the recruitment of members in catholic religious orders, in Journal for the Scientific Study of Religion 36 (1997) 2. 38 Scrive, a questo proposito, Lucà Trombetta: «Una forma importante di accumulazione di competenze religiose avviene nella famiglia di origine attraverso l’educazione e può essere misurata dall’intensità dell’esperienza religiosa che il soggetto ha sperimentato da ragazzo… Se prendiamo ad esempio la frequenza della preghiera da ragazzo, notiamo che circa tre quarti di quanti oggi frequentano regolarmente la Chiesa ha avuto un’esperienza intensa da giovane, mentre questa percentuale si riduce a solo un terzo circa fra coloro che oggi si dichiarano “non religiosi” o “indifferenti alla religione”» (P. LUCÀ TROMBETTA, Il bricolage religioso, cit., 70).


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influenza e il loro «controllo sul mercato», per avvantaggiarsi rispetto alle «imprese concorrenti»; — in regime di «monopolio» la qualità del prodotto tende ad abbassarsi; le credenze religiose diventano vaghe, deboli e tendono al sincretismo. Nella misura in cui, invece, il mercato è aperto e pluralista la «competitività» innalza il livello globale delle differenti offerte, creando anche, secondo la logica della società dei consumi, un incremento della domanda; — il regime di monopolio può scaturire solo da un sistema di controllo sociale che sopprime la concorrenza. Un’impresa religiosa che raggiunge tale obiettivo tenderà gradualmente ad esercitare la sua influenza sulle istituzioni, tendendo a ricompensare il potere politico con una sorta di «sacralizzazione». Di contro le Chiese di Stato tendono ad essere controllate da logiche di potere e da uomini «in carriera» con scarse motivazioni religiose39; — la deregulation, al contrario, produce un risveglio della imprenditoria e un aumento delle capacità produttive. Le diverse imprese, stimolate dalla competizione per ottenere il sostegno pubblico, entrano con maggiore vigore nel mercato religioso. Questa «desacralizzazione», che non va interpretata necessariamente come una «secolarizzazione», cioè come un declino generale della religione, può aprire la strada, anche se in tempi lunghi, ad un effettivo pluralismo; — ancora un’ultima suggestione, tra le tante che rendono degna di attenzione questa teoria delle economie religiose. L’attività religiosa può essere interpretata secondo il modello della associazione o cooperativa, o secondo quello sociologico del club. La produttività delle chiese dipende dalle attività dei loro stessi membri, dalla loro capacità imprenditoriale, dalla intensità del loro impegno come pure dalla loro capacità di essere dei buoni venditori. Questo capitale umano è la principale risorsa delle aziende; la eccessiva concentrazione dei poteri, al contrario, e il controllo esercitato da pochi sulla gestione dell’azienda abbassa la qualità delle motivazioni e il rendimento dei soci.

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cit., 112.

L’osservazione è di Rodney Stark in M. INTROVIGNE - R. STARK, Dio è tornato,


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2.2. Linee di valutazione della teoria Il contesto statunitense in cui questa teoria si è sviluppata, fortemente concorrenziale per la presenza di un grande numero di «imprese» religiose, rende ragione di alcuni sue caratteristiche intuizioni. Osserva Pino Lucà Trombetta: «La situazione di forte competizione è probabilmente all’origine degli alti tassi di partecipazione e appartenenza, molto più elevati di quanto si registri nella monopolistica Europa»40.

La vitalità del mercato si presenta dunque, in quel contesto, come la naturale conseguenza della competizione tra le diverse agenzie che si preoccupano di «accaparrarsi» il consenso di tutti quei credenti e appartenenti che sono, per qualche motivo, «insoddisfatti» dell’investimento fatto in termini di risorse umane. Il contesto italiano è diverso. Un vero pluralismo farà fatica ad affermarsi; probabilmente il «costo sociale» che richiede l’adesione ad un’altra fede religiosa è ancora troppo alto. Ciò non toglie che alcune indicazioni della teoria possano diventare degli utili criteri di lettura e, in alcuni casi, mitigare la severità delle nostre valutazioni sul fenomeno religioso oggi. Al di là di tutto, infatti, il bricoleur è un uomo razionale. Gli esseri umani cercano ciò che percepiscono come ricompensa ed evitano ciò che percepiscono come costo. Inoltre, attraverso le sue scelte, il bricoleur ci manifesta i suoi bisogni, le sue esigenze, e dunque ci fornisce delle indicazioni sulla opportunità di riorientare la risposta. Sottolinea ancora, a questo proposito, Lucà Trombetta: «Gli interessi emergenti segnalano nuove direzioni in cui la domanda si orienta, vivacità ed emergenza di bisogni e configurazioni del sacro che non si esprimono più nei canali tradizionali»41.

Una esemplificazione può essere utile. Alcune espressioni della «nuova religiosità» sono caratterizzate da 40 41

P. LUCÀ TROMBETTA, Il bricolage religioso, cit., 27. Ibid., 37.


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una sorta di «misticismo» o da alcune forme rituali e devozionali che, coinvolgendo la sfera emozionale e il sentimento, ci consentono di individuare l’esperienza religiosa come espressione ed attuazione della nostra dimensione affettiva42. Per dirla con Rudolf Otto, si potrebbe affermare che il fondamento di qualunque religione è il «senso del sacro», il numinosum. È possibile che alcuni elementi della pietà liturgica e postconciliare non coinvolgano «tutto l’uomo», o che non rispondano più a questo bisogno di sacralità e di «mistero»; questo potrebbe spiegare, almeno in parte, il ricorso al conforto di altre «agenzie» religiose, che si presentano più ricche di coinvolgenti ritualità. Ci torna alla mente una pagina di Antonio Rosmini, tratta da Delle cinque piaghe della Santa Chiesa: «La predicazione e la liturgia erano ne’ più bei tempi della Chiesa le due grandi scuole del popolo cristiano. La prima ammaestrava i fedeli colle parole, la seconda colle parole insieme e co’ riti […]. Sì l’uno che l’altro di questi ammaestramenti era pieno: non si volgeva solo ad una parte dell’uomo, ma a tutto l’uomo, e il penetrava, come dicemmo, lo conquistava. Non erano delle voci che si facessero intendere alla sola mente, o de’ simboli che non avessero altra potenza che sui sensi; ma sia per la via della mente, sia per quella de’ sensi, le une e gli altri ungevano il cuore, e infondevano nel cristiano un sentimento alto su tutto il creato, misterioso e divino; il qual sentimento era operativo, onnipossente come la grazia che lo costituiva»43.

Continua più avanti «Gli Scolastici avevano abbreviato la cristiana sapienza collo spogliarla di tutto ciò che apparteneva al sentimento e che la rendeva efficace; i discepoli continuarono ad abbreviarla, troncando da lei tutto ciò che vi avea di più profondo, di più intimo, di più sostanziale»44.

42 Sul ruolo della dimensione affettiva nell’esperienza religiosa si veda il contributo di Beatrice Tortrici, Il bisogno di credere. Paura e speranza nel sentimento religioso, in Il fenomeno religioso oggi, cit., 271- 284. 43 A. ROSMINI, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, Milano 1996, 33. 44 Ibid., 59.


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È possibile, allora, che anche le grandi manifestazioni collettive rispondano a una ricerca di emozioni e di coinvolgimento; anche questo entra a far parte del comportamento razionale del «consumatore» ma, nello stesso tempo, rivela un bisogno profondo che non può essere sottovalutato. Un analogo discorso potrebbe essere fatto per le numerose devozioni popolari. Nota Jesus Castellano Cervera: «I sociologi della religione hanno parlato della persistenza della pietà popolare, in quanto capace di toccare, di evocare, esaudire, celebrare, sentire, mettere la persona in contatto con il mistero»45.

Tornando alla teoria delle economie religiose, ci sembra di dover dire che, pur suggerendo degli interessanti criteri di lettura e delle «strategie di futuro», non si presta ad interpretare tutta la complessità del fenomeno religioso, che non può essere letto soltanto a partire da scelte individuali (il miglior profitto possibile), ma che va inquadrato anche in un più ampio contesto culturale che è responsabile sia della qualità e della quantità della «domanda religiosa». Oltre a ciò, non possiamo ignorare, come osserva il sociologo messinese, che in questo particolare «universo economico», che è l’esperienza religiosa, non è possibile distinguere il produttore dal consumatore: «C’è un altro fattore che differenzia i beni religiosi dai prodotti commerciali e consiste nel fatto che nel consumo di quei beni il consumatore è anche il produttore di ciò che consuma attraverso la partecipazione al rituale nel quale è la comunità, e quindi egli stesso, a stabilire come valutarli»46.

L’obiezione più significativa alla teoria delle economie religiose, comunque, ci sembra, sulla linea di quanto abbiamo espresso, lo spostamento di attenzione dalla «domanda» alla «offerta», dal compratore al mercato. Se è vero, infatti, che la risposta del consumatore dipende 45 J. CASTELLANO CERVERA, La vita nello Spirito. La prospettiva spirituale, in Seminarium 65 (2003) 525. Su questo tema si veda anche l’articolo di G. PASQUALE, Risorsa profetica della devozione popolare: tratto simbolico della cultura cristiana, in Rassegna di Teologia 43 (2002) 221-240. 46 P. LUCÀ TROMBETTA, Il bricolage religioso, cit., 54.


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dall’offerta, più o meno accattivante, di un bene, è anche vero che ogni mercato è anche il risultato delle attese, delle preferenze dei consumatori. La «pigrizia» dei compratori, che può essere effetto dei modelli culturali prevalenti (secolarizzazione, postmodernità, …), finisce con il condizionare, inevitabilmente, anche la qualità dell’offerta.

3. POSTMODERNITÀ E CRISI DELLA METAFISICA Il postmoderno ha ereditato dalla modernità la mancanza di «rispetto» per il passato. La storia è concepita come un vortice dove tutto cambia continuamente, come in un infinito processo di rotture e di frammentazioni47. Questa valutazione sostanzialmente positiva del frammentario e dell’episodico comporta il rifiuto di ogni elemento immutabile e l’esclusione di una metateoria in grado di porre in relazione le cose. Scrive Padre Giandomenico Mucci, nel suo recente articolo La modernità come esperienza di frantumazione: «Viene spontanea la domanda: “Ma se non possiamo aspirare ad alcuna rappresentazione unitaria del mondo e se non possiamo descriverlo come una totalità piena di collegamenti e differenziazioni, ma solo come serie di frammenti in perpetuo movimento, allora come possiamo aspirare ad agire in modo coerente nei confronti del mondo?”. La risposta della cultura postmoderna è: “Poiché le azioni e le rappresentazioni coerenti sono repressive oppure illusorie (e quindi destinate ad auto-dissolversi e ad autosconfiggersi) non dovremmo neppure cercare di impegnarci in qualche progetto globale”»48.

In realtà dobbiamo riconoscere con coraggio che il nostro buon vecchio cattolicesimo paga oggi, in misura maggiore di altre confessioni religiose, un prezzo altissimo all’attuale contesto culturale e sociale,

47

Cfr D. HARVEY, La crisi della modernità, Milano 2002, 22-29. G. MUCCI, La modernità come esperienza di frantumazione, in La Civiltà Cattolica, 2003, II, 127. 48


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proprio per la perdita della possibilità di proporre una metafisica come scienza, nel senso moderno del termine49. Viviamo in un contesto in cui la scienza ha rinunciato alle sue certezze50, l’etica alle sue verità e la metafisica ai suoi fondamenti51; questo, secondo alcuni, può rappresentare l’inizio di una «nuova fede», che nascerebbe proprio dalle ceneri della metafisica52. Ha scritto Gianni Vattimo: «L’epoca in cui viviamo oggi, che a giusta ragione si chiama postmoderna, è l’epoca in cui non si può più pensare alla realtà come ad una struttura saldamente ancorata ad un unico fondamento, che la filosofia avrebbe il compito di conoscere e, forse, la religione avrebbe il compito di adorare […]. Il pluralismo postmoderno permette (a me, ma credo anche in generale) di ritrovare la fede cristiana…: proprio perché il Dio-fondamento ultimo, e cioè la struttura metafisica assoluta del reale, non è più sostenibile, per ciò stesso è di nuovo possibile credere in Dio. Certo non nel Dio della metafisica e della scolastica medioevale, che comunque non è il Dio della Bibbia, cioè del libro che proprio la metafisica razionalistica e assolutistica moderna aveva a poco a poco dissolto e negato»53.

Pur senza entrare nel merito della questione, dobbiamo riconoscere la «fatica» che una simile posizione richiede alla nostra impostazione «dogmatista»; eppure, anche nel caso che si ammettesse che la ragione non può pretendere di fondare la fede, ma, semmai, che essa ha solo il compito di aprire alla fede, rimarrebbe comunque più evidente lo spazio per una esaltante scommessa; è la tesi che sostiene Dario Antiseri quando ammette di essere «cristiano perché relativista»: 49 La condizione della falsificabilità delle ipotesi di Popper, che caratterizza l’epistemologia odierna, non è conciliabile con la «pretesa» di una verità metafisica. 50 Si fa qui riferimento, in particolare, alla «crisi» derivante dalla «perdita della certezza», soprattutto nell’ambito della fisica e della matematica, legata ad alcuni enunciati epistemologici come il teorema di Goëdel. 51 Cfr D. ANTISERI, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano, Soneria Mannelli 2003, 7. 52 Ci sembra che, anche se con presupposti e con accenti diversi, questa sia la posizione di Dario Antiseri, nel testo già citato, ma anche quella di Gianni Vattimo nel suo Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Milano 2002. 53 G. VATTIMO, Dopo la cristianità, cit., 8-9.


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«Cristiano perché l’impossibilità di trovare razionalmente una risposta adeguata alla “grande domanda” apre alla possibilità di scelta del messaggio cristiano e dell’etica cristiana»54.

La vera «sconfitta», a parer nostro, quella più gravida di conseguenze non è quella del «pensiero forte» nei confronti del «pensiero debole», ma è quella che deriva dalla (conseguente?) perdita di rilevanza di ogni questione sul significato dell’esistenza. Abbandonando, infatti, le pretese di raggiungere grandi visioni metafisiche, l’uomo di oggi può finire con il giustificare una prassi dove non ha più importanza l’essere «a favore» o l’essere «contro» sul piano teorico o concettuale e che legittima la posizione tiepida del mezzo credente; in campo morale, questo può trasformarsi nella apologia di una vita dove non ha più rilevanza il preoccuparsi di accettare o di rifiutare una qualsiasi etica prescrittiva. Affermava lo stesso Gianni Vattimo in un suo saggio di qualche anno fa, dal significativo titolo di Credere di credere: «Non professo più il disprezzo (I tiepidi saranno vomitati, secondo una frase dell’Apocalísse) che provavo da cattolico militante verso i “mezzo credenti”, appunto quelli che vanno in chiesa solo per matrimoni, battesimi, funerali. Anzi mi pare che tutto quanto ho detto fin qui sia un’apologia della figura del mezzo credente. Il titolo che ho voluto dare a queste pagine intende esprimere proprio questa apologia: e mi gira per la testa fin da quando, in un pomeriggio afoso di molti anni fa, mi capitò di dover telefonare, dal telefono a gettoni di una gelateria di Milano che sta alla fermata dell’Autostradale, al professor Gustavo Bontadini, grande esponente della filosofia cattolica “neoclassíca”, aristotelico-tomista, di cui non condividevo le tesi teoriche, ma a cui ero legato da affetto e ammirazione. La telefonata riguardava un concorso a cattedra in cui eravamo colleghi di commissione, dunque dovevo parlare di “bassa cucina” accademica. Ma Bontadini, con cui non avevo parlato da tempo, volle spostarsi su temi essenziali, domandandomi all’ímprovviso, mentre eravamo ai saluti, se in fondo credevo ancora in Dio. Non so se la mia risposta fosse condizionata dalla paradossale situazione in cui la domanda mi veniva posta: signore accaldate che, sedute ai

54

D. ANTISERI, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano, cit., 10.


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Giuseppe Buccellato SDB tavolini vicini al telefono, mangiavano gelati e bevevano aranciate. Risposi che credevo di credere. Da allora questa mi sembra la migliore formula dei miei rapporti con la religione»55.

Certe forme di nuovo sincretismo religioso e morale, scaturiscono proprio da una scommessa parziale della propria vita, distribuita spesso tra differenti destini, a volte persino in contraddizione tra di loro. È appena il caso di notare il contrasto tra questa religione del pensiero debole e gli esasperati fondamentalismi di alcune confessioni religiose. Mentre, da un lato, le esigenze del Vangelo sembrano appannarsi, dall’altro si delinea un progetto di società che tende addirittura ad inglobare, in una rigida «teocrazia», anche la vita sociale e politica.

4. RELIGIONE E RELIGIOSITÀ Le grandi trasformazioni in atto nella nostra società occidentale hanno mutato gradualmente ma radicalmente la domanda di spiritualità, conferendole dei nuovi «elementi cromatici», ma anche alcune note di ambiguità. Mentre la ricerca di nuove esperienze si muove, spesso, nell’ambito di un recupero di interiorità e di autenticità, il nomadismo religioso, che spesso le accompagna, frammenta e inibisce ogni «appartenenza»; d’altra parte non tutte le appartenenze istituzionali risultano essere il frutto di una relazione consapevole, che scaturisce da una domanda di senso profonda e personale. Franco Garelli, qualche anno fa, in Fedi di fine secolo, parlava di «fede senza appartenenza», per descrivere la religiosità di chi crede in un Essere superiore senza però identificarsi in una confessione religiosa, e di «appartenenza senza fede» nel caso in cui si aderisca ad una religione per motivi culturali o sociali più che per specifiche, personali convinzioni religiose56. Proviamo a mettere a fuoco un po’ meglio questi due diversi rischi.

55 56

G.VATTIMO, Credere di credere, Milano 1996, 69. Cfr F. GARELLI - M. OFFI, Fedi di fine secolo, cit., III ss.


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4.1. Una religiosità senza religione La secolarizzazione, come dimensione tipica della postmodernità, si fonda sulla soggettività nei riferimenti e nella «selezione» dei contenuti dell’esperienza religiosa tradizionale. Questa soggettività rischia di divenire un’autonomia fine a se stessa o di scadere nel narcisismo o nell’autoreferenzialità. Sottolinea Padre Giacomo Rossi: «Se non sono pochi quelli che dicono di credere, non sempre si tratta di una fede veramente personale, capace di incidere sulla vita, di sostenere l’impegno e la costanza nel bene. Si ha a volte l’impressione che tra religiosità e fede si vada creando una scissione che rischia di svuotare l’una e l’altra, di creare una falsa alternativa tra un senso della trascendenza privo di rilevanza esistenziale e una religiosità episodica ed emozionale senza una vera apertura all’alterità, alla storia, alla novità di Dio»57.

La distanza che si è scavata tra religiosità e religione è anche all’origine e, nel medesimo tempo, al termine del processo di «esasperazione» della soggettività del giudizio morale. «Accade così che il fedele si sottrae […] al ricatto della dottrina del peccato, della colpa, della dannazione eterna e si appropria della capacità di innovare ed esperire al di fuori dell’ortodossia e del controllo istituzionale»58.

4.2. Una religione senza religiosità Per completare il quadro fenomenologico della odierna domanda di spiritualità, ci sembra di dover spendere qualche parola sul tema della appartenenza senza fede. Si tratta di un dato che emerge più difficilmente dalle indagini sul fenomeno religioso, perché coinvolge la sfera più intima delle motivazioni, 57 G. ROSSI, La teologia morale in un mondo che cambia, in La Civiltà Cattolica, 2001, III, 216. 58 P. LUCÀ TROMBETTA, Il bricolage religioso, cit., 153.


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e quella ancora più personale dell’esperienza religiosa, ma che ha delle particolari manifestazioni che trovano, con questa chiave di lettura, una loro interpretazione. Alla radice di questa singolare appartenenza possiamo trovare da un lato ragioni di ordine teologico, come la graduale perdita del senso della trascendenza, dall’altro motivi di ordine psicologico o sociale, come il bisogno di appartenenza ad un gruppo, la proiezione di un bisogno di relazione con Dio (padre) o con la Chiesa (madre). Quest’ultima difficoltà non sembra essere una prerogativa del nostro tempo e ha probabilmente attraversato tutta la storia del fenomeno religioso. Alcuni atteggiamenti religiosi possono sfociare, così, nel conformismo e nel tradizionalismo, o persino nella adesione ad un percorso di «speciale consacrazione», senza passare dal vaglio di un’autentica esperienza religiosa, intima e personale. Mario Pollo, nell’articolo di apertura di un recentissimo dossier, dedicato dalla rivista Note di pastorale giovanile al tema Giovani ed esperienza religiosa, mettendo a fuoco quattro trasformazioni che costituiscono il nuovo ambiente in cui si sviluppa l’esperienza religiosa dei giovani di oggi, dopo aver parlato di individualismo, di centralità del corpo, di negazione della distinzione tra l’uomo e Dio, conclude con un paragrafo dedicato al tradizionalismo. «Accanto a queste caratteristiche dell’esperienza religiosa contemporanea prodotte dalla seconda modernità, ne è presente una che sembra andare in direzione contraria. Si tratta di quelle esperienze religiose fondate su una reazione fortissima nei confronti della modernità e della secolarizzazione, e della tendenza del cristianesimo di scendere a patti con queste ultime […]. C’è nei movimenti che manifestano questa reazione l’orgoglio di esibire e di manifestare la differenza che contraddistingue la propria religione dalle altre, soprattutto attraverso segni esteriori, come il vestiario, le grandi assemblee unitarie […], le processioni nel cuore della città, la pubblicizzazione delle conversioni e, infine, l’uso massiccio della comunicazione mediatica»59.

59 M. POLLO, Le trasformazioni culturali nella seconda modernità e l’esperienza religiosa, in Note di Pastorale Giovanile 38 (2004), IV, 8. L’espressione «seconda modernità» è del sociologo tedesco Ulrich Beck.


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Questa forma di reazione, che Pollo definisce «identitaria», proprio perché nascondere un forte bisogno di identità, secondo l’autore può essere promossa sia dal vertice che dalla basa della Chiesa60. Anche molte delle energie personali che vengono rivolte alle attività sociali possono fruttare una gratificante «identità sociale»61. Nuove forme di egocentrismo e di autoreferenzialità possono annidarsi pure in molte esperienze di volontariato. Anche in questo caso è possibile parlare di religione senza religiosità, per lo smarrimento della motivazione autotrascendente e per l’appannamento di una motivazione soprannaturale. Ha scritto Francesco Viola: «Il pericolo maggiore della cristianità contemporanea è quello di perdere il senso della trascendenza e della vita eterna […]. Un cristianesimo senza trascendenza sarebbe un cristianesimo morale e un cristianesimo sociale, ma perderebbe ogni ragione per distinguersi da una concezione secolare»62.

CONCLUSIONE: IL CORAGGIO DI GUARDARE DENTRO LA TOMBA «È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta» (Gaudium et Spes n. 44).

Il Concilio Vaticano II ha affermato con insistenza la necessità di conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sua aspirazioni, le «contrastanti condizioni» in cui è immerso. 60

Cfr ibid. Cfr R. DE VITA, La religione nella società dell’incertezza, in R. DE VITA - F. BERTI, La religione nella società dell’incertezza, cit., 36-37. 62 F. VIOLA, Il ruolo pubblico della religione, in Multiculturalismo e identità, a cura di C. Vigna - S. Zamagni, Milano 2002, 135. 61


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Questo presuppone che il cristiano, mosso dalla fede, divenga sempre più capace di riconoscere, anche nei fatti storici che apparentemente sono in contraddizione con il realizzarsi del Regno di Dio, i segni della sua volontà e «le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane»63. Ha scritto Franco Garelli: «La religione presiede ancora la sfera privata di molti individui, rappresentando una risorsa che contribuisce a risolvere il problema del significato. Ma la ricerca di senso è oggi assai varia e pluralistica, da parte di soggetti più attenti a esigenze immediate di realizzazione che a prospettive più ampie. La difficoltà di regolazione religiosa e culturale delle chiese è del tutto evidente e si manifesta — tra l’altro — nei percorsi religiosi autonomi ed eclettici di molti individui e gruppi […]. La rivalutazione della religione come risorsa di senso sociale non è comunque esente da ambiguità e ambivalenze. Prevale, dunque, un processo di decomposizione e di ricomposizione del quadro religioso, come effetto sia dello stemperarsi — nella modernità avanzata — di forme organizzative e simboliche del passato, Sia dell’affermarsi di nuove produzioni religiose connesse alla stessa esperienza della modernità»64.

I segni dei tempi, così, diventano occasione e strumento della chiamata divina. È per questo che il cristiano deve rimanere aperto alla storia e, soprattutto, alla verità di questi avvenimenti che hanno in compito di dischiudere la sua «vocazione» in questo particolare periodo della storia, senza sterili fughe e senza inutili e anacronistiche apologie. Bisogna avere il coraggio di guardare dentro la tomba perché i nostri occhi possano intravedere «le bende per terra» (cfr Gv 20, 11). Ancora più importante sarà discernere il significato di questi segni per potere continuare ad essere coraggiosi collaboratori del progetto salvifico di Dio.

63

Gaudium et Spes n. 11. F. GARELLI, Religione e ricerca di senso. Per una convivenza solidale in una società multireligiosa, in La religione nella società dell’incertezza, a cura di R. De Vita - F. Berti, Milano 2001, 149-150. 64


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In questo specifico contesto, il compito della teologia acquista una particolare importanza; ma essa potrà tornare a svolgere il suo ruolo profetico nella misura in cui riuscirà a ricucire la distanza che si è venuta a creare tra riflessione teologica e spiritualità e tra spiritualità e vita vissuta. In questo cammino di nuova evangelizzazione, allora, la teologia deve diventare autocritica del «vissuto credente», vivificandosi e verificandosi continuamente nella contemplazione e nella preghiera, e ritornando ad essere, come è accaduto nei primi secoli dell’avventura cristiana, una teologia «che serve»65.

65

Cfr A. STAGLIANÒ, La teologia «che serve», Torino 1996.



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L’IDENTITÀ DELLA SPIRITUALITÀ CRISTIANA*

ARMIDO RIZZI**

Intendo presentare il tema che mi è stato affidato in forma di commento di un testo biblico notissimo; e così offrirò, in qualche modo, un piccolo esempio di teologia narrativa, non nel senso di teologia che narra, ma nel senso di teologia critica all’interno della narrazione evangelica. Il testo è quello della discussione tra Gesù e il dottore della Legge, dentro il quale Gesù narra la parabola del buon samaritano. Svolgerò l’argomento in pochi punti, in modo che andrà disegnandosi quella figura di spiritualità, che io preferisco dire biblica, perché ingloba insieme l’Antico e il Nuovo Testamento nella loro profonda e irrinunciabile unità.

1. LA “VITA ETERNA” O IL SENSO ULTIMO DELL’ESISTENZA UMANA Il primo punto è la domanda che il dottore della legge pone a Gesù: “si alzò per metterlo alla prova” (salterò interamente tutti i riferimenti che Luca fa alla polemica tra Gesù e il dottore della legge, in quanto polemica tra il giudaismo e il cristianesimo primitivo). Un dottore della legge chiede a Gesù: “Maestro che devo fare per ereditare la vita eterna?”. Che vuol dire “ereditare la vita eterna”? Ecco, oserei dire che la formula, propriamente giudaica (del tardo giudaismo) esprime quello che noi chiamiamo il problema del senso della vita, che è poi quel problema che costituisce la ragion d’essere di tutte le religioni. Ogni religione, da quella tribale alla religione cristiana, ha come suo * Relazione per il Colloquio di Teologia spirituale tenuta il 13 maggio 2004 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Teologo, responsabile del Centro S. Apollinare di Fiesole.


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nucleo costitutivo l’affermazione che l’esistenza umana (e l’esistenza del tutto in quanto piattaforma dell’esistenza umana, ha un senso che è dato da Dio o dagli dei dove c’è una pluralità di divinità. Questo “senso” andrebbe scritto con l’iniziale maiuscola per distinguerla da quell’altra accezione della parola “senso” su cui, in fondo, si è tutta articolata la presentazione di don Giuseppe. Il quale ha fatto una eccellente presentazione di quel senso che viene da sentirsi: il sentirsi bene, il benessere. Presupposto quello economico, si cerca il benessere psicologico, il benessere emotivo, e si sfruttano anche le religioni come strumento di questa ricerca del proprio benessere interiore. Di qui il sincretismo, il brigollage… È il fenomeno che viene riconosciuto, mi pare, da tutti i sociologi delle religioni. Ed è lo stesso fenomeno che vale non solo per la religione, ma anche per le scelte etiche. E come tale è un problema che riguarda anche i laici1. I più avveduti se ne stanno accorgendo. Richiamo qui soltanto la preoccupazione che ripete da tre anni il più noto fra i filosofi tedeschi viventi, J. Habermas: che i grandi ideali illuministi della laicità come densità morale, etica ed etico-politica, dei valori del vivere e del convivere, si stiano svuotando, a causa del circolo vizioso tra ricerca scientifica, tecnologia, mercato, pubblicità, desideri individuali. Allora, dice Habermas, dobbiamo tornare ad ascoltare le tradizioni religiose, e più specificamente la tradizione ebraico-cristiana, per alimentare un dibattito pubblico più ampio e più ricco sui valori etici. Il problema del senso non riguarda soltanto il new age religioso, ma anche il new age laico, dove anche l’etica rischia di essere ridotta a espressione e legittimazione della progettualità dei propri desideri. Torniamo al vangelo di Luca. “ereditare la vita eterna” era la formula del tempo per dire quello che noi chiameremmo il senso della vita umana, della mia vita: non il mio benessere psichico, non la riuscita del miei progetti in quanto soddisfazione dei miei desideri, ma il senso scritto — per così dire — nel mio DNA esistenziale, cioè la mia vocazione alla verità dell’essere, il mio fine primo e ultimo. Il senso ontologico, non il senso psicologico. Le religioni sono tutte portatrici dell’annunzio che noi viviamo in un mondo che è dotato di senso. Questa consapevolezza è stata progressiva1 Mi permetto di rimandare al mio saggio: Oltre l’erba voglio. Dal narcisismo postmoderno al soggetto responsabile, Assisi 2003.


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mente cancellata dalla scienza moderna, lasciando il posto a quello che chiamiamo il disincanto del mondo. “In quella infinità priva di senso che è il reale noi riusciamo a scrivere dei frammenti, dei piccoli segmenti di senso con i nostri progetti”: è la definizione che Max Weber dava del disincanto. Le religioni non si rassegnano a questa visione; esse dicono che il darsi del mondo non in-sensato, perché non è frutto del caso ma della benevolenza divina: “e Dio vide che era buono” (Genesi 1), ricco di significato, di bellezza, di una destinazione positiva. Il mondo è dono, nell’accezione radicale del termine. Ma attenzione: questo dono ha dentro di sé le regole d’uso, è un dono che va accolto ma anche lavorato “a regola d’arte”, di quell’arte del vivere che è la sapienza, di cui le religioni, e poi la filosofia, sono state custodi. Allora la dimensione attiva della religione è quella di indicare la strada per relizzare il senso: “Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Che cosa devo fare. Questo fare è l’etica: una intenzionalità che costituisce il fare buono, il fare giusto, il fare vero. Ma in questo fare è anche la spiritualità, come anima dell’etica in quanto risposta al senso annunciato dalla religione. Questo ci porta al secondo punto.

2. LA LEGGE, O L’AMORE COME STRADA DEL SENSO Alla domanda del dottore della legge Gesù risponde: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?” Come a dire: Dovresti sapere che fare per ereditare la vita eterna, perché è scritto nella Legge, è questa la sua ragion d’essere. E qui non posso fare a meno di ripetere cose che dico continuamente: attenzione, se non torniamo all’Antico Testamento non comprendiamo nulla del Nuovo. Cioè: smettiamola, da cattolici, di contrappore alla Legge l’amore, o, da protestanti, di contrapporre alla Legge l’evangelo. La Legge, in quanto dono di Dio che illumina il dono del mondo, è già seme di evangelo, e in quanto suo imperativo, è l’esigenza di vivere l’amore. Certo, dentro la Legge vi sono molti precetti particolari legati alle circostanze o anche a una non sufficiente percezione di quella che è la sostanza della legge stessa. Pensiamo a tutte le pagine di violenza che sono presenti nelle pagine dell’Antico Testamento. E tuttavia, anche questa va letta all’interno della totalità di senso della rivelazione divina nella Alleanza.


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La “collera di Dio”, che scatena prevalentemente (se prescindiamo dall’Esodo) su Israele stesso, è un modo di esprimere la serietà dell’Alleanza proprio come l’orizzonte del senso ontologico, con cui sta o cade la riuscita del popolo di Dio. Questa è una delle grandezze dell’Antico Testamento. Non conosco nessun’altra religione, neppure quella cristiana, nel cui testo fondante vi sia già l’accusa del proprio peccato: non solo di questo o quel peccato, ma di quell’infedeltà quasi consostanziale alla storia di Israele, che sfocia nella rovina della cattività babilonese. Ma torniamo alla Legge. Che cosa dice la Legge? Il dottore risponde a Gesù: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo, cuore, con tutta l’anima, con tutta la tua forza e il prossimo tuo come te stesso”. E qui è il punto fondamentale: la Legge. Il cuore della Legge è amare Dio con tutto il cuore. Ma, evidentemente, si tratta qui di un comandamento; e allora voi capite che c’è qualcosa di stonato se noi leggiamo il cuore come la sede dei nostri desideri, delle nostre emozioni e aspirazioni. Perché, giustamente, si dice che “al cuore non si comanda”. Comandare al cuore è comandare l’amore. Ma l’amore, come abitualmente lo intendiamo, è un dato di fatto: c’è o non c’è. Evidentemente la Legge parla di un altro amore. Diciamo che vi sono due tipi di amore: quello che è fatto di emozioni, di passioni, di sentimenti, e quello che è fatto di responsabilità, di cura e sollecitudine, di fedeltà. Non stanno tra di loro come il male e il bene, ma come l’umano nella sua stoffa mondana e l’umano nell’alleanza con Dio. L’amore di cui parla la Legge (e che la traduzione greca dell’Antico Testamento, e poi soprattutto il Nuovo, chiameranno agápe) è la nuova dimensione che l’Alleanza dischiude nell’uomo, e che vi accende il “cuore” teologale. È anzitutto amore verso Dio. Dio è troppo grande per essere oggetto del nostro desiderio; Dio è il soggetto infinito che ama incondizionatamente e che ci chiede di rispondere al suo amore in quella consegna di sé che è fede (come fiducia, abbandono) e obbedienza attiva. “Amare Dio con tutto il cuore” è prendere la propria vita e consegnarla a lui dicendo: “Sia fatta su di me e attraverso di me la tua volontà”. Come Gesù di fronte alla morte: che non è soltanto morte fisica, ma crollo — così almeno pare, a livello di esperienza — di ciò per cui egli ha vissuto e che ha predicato, e di cui quella morte sembra essere la smentita. Accettare che essa sia la volontà del Padre


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su di lui è il sì dell’obbedienza radicale e della fiducia tanto assoluta quanto è assoluta la volontà del Padre. La volontà del Padre è il valore “ultimo” (cioè quello oltre il quale non ve ne possono essere altri); tutto il resto, compresa la missione terrena di Gesù, è il penultimo, il cui valore sta o cade con il corrispondere a quella volontà.

3. LA NUOVA “PROSSIMITÀ”, O IL CUORE DELLA SPIRITUALITÀ Ma la volontà di Dio, insieme a un “destino” da accettare, è un orientamento di vita da assumere. Fare la volontà di Dio è dire sì a ciò che egli fa (obbedienza di fede) e tradurre in atto ciò che egli chiede (obbedienza d’amore). È questo il cosiddetto “secondo comandamento” (che in realtà è la faccia attiva del primo): amare il prossimo. Non dobbiamo lasciarci ingannare dalla formula “come se stessi”, che intende dare un’indicazione pratica: il mio prossimo ha i miei stessi bisogni (pane e affetto, protezione e consolazione...), e dunque non posso nascondermi dietro una presunta ignoranza di quali essi siano. Il vero problema di fondo non è come amare il prossimo ma chi è il mio rpossimo, cioè chi amare come prossimo. E qui pare che il dottore della Legge ponga la domanda giusta, e che la parabola (o meglio, il raccontino esemplare) che Gesù narra sia la risposta su miusra a questa domanda. Ma questo è vero e non è vero al tempo stesso. Dobbiamo capire bene il senso della domanda, per capire anche il senso autentico della risposta di Gesù. La domanda non è esattamente “chi è il mio prossimo?” (che sembrerebbe richiedere una definizione della prossimità) ma: “chi mi è prossimo” (vedere il greco). La domanda si rifà a una discussione in corso tra i dottori della Legge. Prossimi sono coloro che ci sono vicini, a cui coapparteniamo, sono il “noi” dentro il quale ognuno è come in-corporato: a partire dalle relazioni familiari, di parentela, a quelle di connazionalità, di correligione: tutti questi sono i prossimi. Mentre non lo sono certamente i “goim”: i pagani, gli altri popoli. Ma lo sono anche i samaritani? Lo sono i peccatori, le prostitute, i pubblicani? Costoro sono o non sono prossimi? È questo il senso della domanda del dottore: che Gesù prenda posizione sull’ampiezza da dare alla categoria dei “prossimi”.


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Ma il presupposto di questa domanda è che questa categoria, cioè la “prossimità”, sia un dato di fatto, un dato di partenza, in base al quale distinguere chi è prossimo e chi no, e, di conseguenza, chi amare e chi no. C’è una geografia della prossimità che diventa la geografia del comandamento dell’amore: questi devi amare, gli altri no, sono fuori della logica del comandamento. Quale risposta dà Gesù? Egli non risponde, propriamente, alla domanda, ma la disattiva: nega il presupposto su cui la domanda si basava e cioè che l’amore al prossimo, possa essere limitato a quelli che sono già in partenza i prossimi ed escludere gli altri. La prossimità che conta non è la condizione degli amati ma la dedizione dell’amante: è il “farsi prossimo” a chiunque abbia bisogno della tua presenza, del tuo amore. Gesù non dà una nuova definizione di amore, ma lo riporta alla sua definizione originaria e porta questa alla sua pienezza (includendo tra coloro che devono essere amati, in altri passi, anche i nemici: per esempio Mt 5, 43ss). E non dà questa lezione per via di elaborazione concettuale ma raccontando la piccola storia chiamata del buon samaritano. Alla fine della storia egli pone una contro-domanda: “Chi dei tre (viandanti) si è fatto prossimo di colui che è incappato nei briganti?” Ecco: ciò che conta non è decidere chi è prossimo come condizione di partenza, come condizione di fatto, ma se tu vuoi farti prossimo. La prossimità non è un dato, è una scelta, un atto. La prossimità è l’amore che tu vivi avvicinandoti all’altro, prendendoti cura dell’altro che ha bisogno di te. Ed ecco che l’amore si dilata, viene universalizzato, perché non è più legato alla datità originaria della prossimità. Ma non basta. Non si tratta dello stesso amore allargato a tutti; si tratta di un amore di diversa qualità. Una chiave della parabola è già data dal suo inizio: “Un uomo scendeva… e incappò nei briganti…”. Anthropos tis = un tale: cioè l’anonimo; “incappò”, cioè una vittima (a rischio di morte). Sono solo questi due connotati a definire l’identità di colui che sarà destinatario dell’intervento dettato dall’”amore al prossimo”. Ma per vedere quest’identità ci vogliono occhi speciali. I primi due viandanti “vedono e passano oltre”: non vedono con quegli altri occhi con cui vede il terzo, il samaritano: gli “occhi del cuore”, la com-passione. Qualcuno potrebbe osservare che la compassione è una reazione emotiva, affettiva. L’emotività non va esclusa; ma va evidenziata l’inten-


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zionalità costitutiva di quella compassione. Diversamente, potremmo dire: i primi due avevano sortito da madre natura un cuore più duro, più maschile; il samaritano ha un cuore più tenero, più femminile. Se interpretassimo così, porteremmo all’interno del soggetto amante un tipo di selezione analogo a quello che prima abbiamo escluso tra i destinatari dell’amore. E invece, così come non vi sono coloro che devono essere amati (i “prossimi”) e coloro che possono essere traascurati, non ci sono neppure coloro che sono capaci di amare (perché di indole buona) e coloro che non lo sono. Il “cuore” dove spunta la com-passione non è il luogo delle emozioni e dei sentimenti; è il luogo dove risuona il comandamento dell’amore: dell’amore a Dio (“con tutto il cuore”) presente in ogni essere umano che si trovi nel bisogno di aiuto. Perciò Gesù può dire al dottore (e a ogni lettore del vangelo): “Va e fa anche tu lo stesso”. La com-passione che muove il samaritano è la sostanza stessa della vita etica e spirituale: essa nasce non perché l’altro sia uno dei miei prossimi né perché io sia di natura tenera, ma perché nel suo corpo buttato nella polvere si solleva il grido muto della domanda di soccorso, e in quel grido colgo la voce del Dio Amore e Signore della mia vita e della vita dell’anonima vittima, del malcapitato. Dentro la debolezza estrema di una vita a rischio di morte c’è l’estrema forza dell’appello di Dio. È questo l’amore come comandamento: non una forma di imposizione esterna, ma che dal corpo lacerato dell’altro mi arriva al “cuore”; perché l’altro diventa il luogo della trascendenza (Dio) che si fa immanenza (in me). In quel momento tutti i miei progetti, per quanto belli, buoni, giusti, vengono interrotti, sospesi, e lasciano il posto allora a questo che è il progetto di Dio in cui mi imbatto lungo la mia strada. La mia strada, che nell’agápe (com-passione e servizio) diventa la strada di Dio per me. E poiché questa è l’essenza della vita spirituale, è il pegno per “ereditare la vita eterna”, il seme della realizzazione del senso ultimo dell’esistenza.

4. TRE LIVELLI DI LETTURA Un’ultima osservazione. Nel racconto del samaritano non si parla di Dio, ma la sua presenza è detta nel prologo, nel riferimento alla Legge e al suo contenuto centrale, l’amore di Dio inteso come consegna della


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propria vita a lui. Perciò il racconto è insieme laico e religioso: laico, perché Dio vi è come nascosto, presente in incognito nella com-passione etica, senza necessità di esservi riconosciuto; religioso, perché il contesto esplicita questa presenza come il fondamento della promessa di vita eterna. Fondamento ontologico dunque, senza esservi fondamento gnoseologico, esperienza della Presenza nella sua forza vincolante, non nella sua denominazione. Ma il racconto è pure, dentro il religioso, più specificamente cristologico, se viene letto nel più ampio contesto del vangelo di Luca. Infatti la com-passione fontale è quella divina che si rivela in Gesù: nell’annuncio della sua “visita” (Lc 1, 78: vedi greco), nell’incontro con la vedova di Nain (7, 13) cui Gesù restituisce il figlio morto, nel padre — il Padre — che corre incontro al figlio perduto (15, 20: vedi il greco). La spiritualità dell’agápe è insieme etica, religiosa, cristologica; essa vive in ogni “uomo di buona volontà”, in ogni fedele di una confessione religiosa, in ogni discepolo di Gesù.


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IL CONSIGLIO PASTORALE COME ESPRESSIONE DI SINODALITÀ*

FRANCO GIULIO BRAMBILLA**

BREVI DIVAGAZIONI SULLA SINODALITÀ Il titolo della “Disputatio” affidatami ha il sapore di quelle questioni medievali che gli alunni ponevano al maestro per vedere come se la sarebbe cavata. Se uno ha un po’ di pratica di un consiglio pastorale (diocesano e parrocchiale) vede subito una simpatica tensione tra lo strumento del consiglio pastorale e il valore della sinodalità a cui si allude. Sinodalità è un sostantivo astratto che deriva dal termine “sinodo”, il quale significa “cammino comune” (syn-hodós). Lo strumento del Consiglio pastorale è sovente istituzione incerta e ancor di più ha una pratica malferma, che significa molte cose: riflessione comune su un tema, ricerca comune, discussione più o meno animata, luogo di ratifica di decisione che sembrano prese altrove, passerella delle opinioni… Di qui, da un lato, la necessità di chiarire il termine sinodalità, la sua applicabilità agli organi di partecipazione alla Chiesa locale; e dall’altro, soprattutto l’illustrazione delle condizioni pastorali del consigliare nella Chiesa. Nella relazione mi fermerò soprattutto su questo secondo filone, su cui sento di poter dare un contributo. Sul primo versante, invece, la chiarificazione del senso della “sinodalità” è questione ecclesiologica che esige una breve sosta per precisare il concetto, ma soprattutto la sua dinamica. Come dicevo l’astratto “sinodalità” deriva dal sostantivo “sinodo” e tende ad indicare un affectus, uno stile di esperienza di Chiesa, ma sopratutto uno spirito di conduzione * Relazione per l’annuale «Disputatio» tenuta il 26 febbraio 2004 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Docente di Cristologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale.


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della Chiesa, che trova il suo luogo in qualche modo straordinario nell’evento del “Sinodo”. Ora tale strumento indicava prevalentemente il Sinodo diocesano, regolato nel codice pio-benedettino ai cann. 356-362. Dopo il Vaticano II si introdusse il termine “conciliarità” e/o “collegialità”, ma già Congar nel 1959 nel suo saggio I Concili nella vita della Chiesa1, ricuperava il senso dei concili come la risposta ad un’esigenza profonda della vita della Chiesa. Del resto il dizionario di Teologia di K. Rahner – H. Vorgrimler del 1968, alla voce “Sinodo” rimandava a quella di “Concilio”. Con il cap. III della Lumen Gentium sui compiti del corpo episcopale comincia a diffondersi il termine “collegialità”. Sembra dunque che il vocabolo “sinodalità” sia ricavato sul calco del termine più solenne e giuridicamente più forte di “collegialità”, quasi che non potendo impiegare quello a livello di Chiesa locale, si ripiega su questo di sinodalità. Non si dimentichi che l’esercizio della collegialità trova un suo momento emblematico nel “Sinodo” (dei vescovi) e ancor di più che in latino la parola Concilio è indicata nei testi con l’espressione Sancta Synodos. D’altra parte la parola “sinodo”, almeno nella tradizione occidentale, ha la sua più luminosa tradizione nel “sinodo diocesano”, quale momento legislativo e pastorale della Chiesa locale. La parola “sinodalità” dunque sembra dilatare l’evento del sinodo diocesano nelle strutture quotidiane della Chiesa locale, nel consiglio pastorale (e presbiterale) e nel consiglio parrocchiale2. Il pericolo sta sotto gli occhi di tutti: quando un termine diventa astratto, quando indica un affectus, uno spirito, uno stile diffuso, esso più stemperarsi nel vago e può suscitare quindi aspettative tanto mirabolanti quanto inconcludenti: certo l’idea di un syn – hodós, di un “cammino comune”, di una Chiesa pellegrinante ha una forte carica suggestiva, ma non deve suscitare false attese, miseramente poi deluse dalla pratica di consigli che sono poco più che assemblee di condominio. Naturalmente c’è un senso legittimo dell’uso del termine: sappiamo che il suo principe analogato è l’evento del “sinodo” (della Chiesa locale, 1

Cfr Y. CONGAR, Santa Chiesa. Saggi ecclesiologici, Brescia 1967, 282-301. Si è dedicato a tale questione E. CORECCO, alla voce Sinodalità, in G. BARBAGLIO – S. DIANICH, Nuovo dizionario di teologia, Alba 1977, 1466-1495, chiedendosi se non sia possibile parlare di sinodalità a livello di Chiesa particolare, con riferimento alla partecipazione dei presbiteri (“sinodalità del presbiterio”) e dei fedeli laici. Ci si riferirà a questo studio per ogni ulteriore chiarificazione in proposito. 2


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o dei vescovi), mentre la “sinodalità” dice piuttosto il fatto che la comunione che definisce l’essere stesso della Chiesa si rappresenta in un “cammino comune”, in uno “stile di ricerca”, in strumenti di discernimento e di governo, in una sinodalità diffusa che trova nei consigli il suo momento espressivo. La comunione senza la sinodalità resta un cuore senza volto, la sinodalità senza consigli è un volto senza mani. Ma vale anche l’inverso: i consigli senza uno spirito sinodale sono strumenti senza un sogno comune, e il sogno ecclesiale implica sempre una coscienza di comunione. Ciò che è più importante è preservare questa dinamica. Solo così comprenderemo ciò che diceva Ignazio di Antiochia agli Efesini, che essi sono “synódoi”, “coloro che cammino insieme”, popolo pellegrinante verso il Cristo. Per questo il senso ecclesiale del vocabolo sfocia sul significato cristologico: Cristo è il “compagno di viaggio” e la Chiesa è l’assemblea dei credenti che ha in mezzo a loro Gesù come compagno di strada (Emmaus: “camminava con loro” Lc 24,15). Per questo diceva con espressione lapidaria Giovanni Crisostomo: Ekklesía... synódou estìn ónoma, “il nome del sinodo… dice la Chiesa stessa, il sinodo… è il nome della Chiesa”3! Tanto basti per la spiegazione del termine. La mia relazione ora può distendersi secondo una scansione ternaria in cui cercherò di declinare le condizioni della sinodalità. Essa si articola in tre approfondimenti: 1/ guida della Chiesa e discernimento comune; 2/ consigliare nella Chiesa; 3/ la formazione di laici corresponsabili.

1. GUIDA DELLA CHIESA E DISCERNIMENTO COMUNE La funzione del ministero pastorale arriva ai nostri giorni segnata fortemente dalla stagione postridentina, sia per quanto riguarda la figura del vescovo, sia per quella del prete, in particolare del parroco. Forse è opportuno descrivere il passaggio che sta avvenendo nella figura del parroco, in questo periodo post Vaticano II. Solo ridefinendo la figura del ministero (del Vescovo, del Parroco) sarà possibile lasciare lo spazio a nuove figure di presenza e di corresponsabilità nella Chiesa.

3

G. CRISOSTOMO, Ex. In Psalm. 149,2; PG 55,493.


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1.1. Il ministero nel quadro della cura animarum La funzione riconosciuta al ministero del parroco nella parrocchia, ha peccato piuttosto per eccesso che per difetto, e pare che l’attuale povertà della riflessione costituisca anche un obiettivo ridimensionamento della figura del prete. L’enfasi posta nel postconcilio sul tema della corresponsabilità laicale prima, e la retorica di una Chiesa «tutta ministeriale» poi, ha inteso certamente avere anche questo effetto neppure tanto collaterale. In realtà si sa che è solo ripensando dialetticamente i ministeri nella Chiesa, superando sia l’ottica dell’alternativa, sia quella del contrappeso, che è possibile effettivamente non solo far evolvere le cose, ma consolidarle in comportamenti stabili. Non basta dunque insistere molto sulla corresponsabilità laicale e sui suoi strumenti (consiglio pastorale, ministeri laicali, ecc.), è necessario ripensare vigorosamente lo stesso ministero (del parroco e dei suoi collaboratori). Il titolo di privilegio riconosciuto al ministero rimane, e non solo per la logica insita nel tempo pieno. D’altra parte la stessa riflessione sulla parrocchia non può fare a meno del riferimento al ministero ordinato. L’eccesso di considerazione che il prete aveva (e qualche volta ha) nella teoria e nella prassi pone anche delle questioni pastorali interessanti. Qual è la forma ideale della comunità parrocchiale? Dev’essere a misura di prete? Si deve privilegiare la costituzione di comunità relativamente piccole con un riferimento ad un unico pastore (parrocchie con il solo parroco) oppure si deve scoraggiare questa frammentazione (anche in considerazione della scarsità del clero), favorendo piuttosto un lavoro che prevede molte interazioni sul più ampio territorio? Le domande poste, tuttavia, rimandano ad una questione più fondamentale: quale dev’essere la qualità del rapporto tra ministero e comunità? Quale la funzione del prete in «cura d’anime»? Che cosa si intende con l’espressione che il «parroco è pastore proprio della comunità affidatagli» (can. 519)? Che cosa significa «la cura pastorale della comunità» (can. 519)? Anche solo uno sguardo veloce alla storia del modo di intendere la cura animarum ci rende coscienti della diversità dei modelli che sono storicamente intervenuti4. Basterà ricordare la figura classica del parroco. 4 Cfr T. CITRINI, Il sacerdote in parrocchia, in Chiesa e parrocchia, Torino 1989, 129146: 132-134.


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Rahner ha messo in guardia dalla possibilità di intendere il Pfarrprinzip non solo come «principio della parrocchia», ma anche come «principio del parroco» (cioè un insieme di diritti/doveri propri)5. È noto che esso appartiene alla concezione feudale e poi postridentina della parrocchia. Ciò ha reso possibile certamente un rapporto privilegiato tra il parroco e la comunità, attorno al principio della cura animarum. Si tratta di un concetto importante sotto il profilo della dedizione e della spiritualità del ministero. Esso ha prodotto una lunga serie di «figure ideali» di preti e di vescovi, catalizzando attorno a sé anche una molteplicità di immagini evangeliche, atte a tratteggiare la figura del «pastore». Tuttavia il limite fondamentale di questa immagine è rilevabile nella concezione verticale e individualistica del rapporto del parroco alla comunità, definita significativamente con il plurale di «anime». Di essa ci si interessa più per l’aspetto che riguarda la cura delle anime, che per quello che concerne la formazione di una comunità fraterna. Ciò evidentemente ha a che fare anche con una certa concezione del cristianesimo, incentrato sulla questione della salvezza «eterna» (personale). Sul versante della comprensione di sé del prete, questa visione comporta di pensare il ministero più come soggetto di rapporti direttivi e unidirezionali con le «anime», che come membro di un presbiterio (e di una comunità) di cui condivide in solido (anche se con personale responsabilità) la comune missione. È stato fatto osservare che questa deriva dell’immagine del ministero è solidale con il mutamento della concezione ecclesiologica dal nominalismo in poi, dove il carattere di congregatio non ha più la valenza di comunità (riferita come tale al mistero cristiano), ma considera prevalentemente il suo aspetto visibile e sociologico, non molto differente dalla res publica venetorum aut regnum galliae (Bellarmino). La cura di questo aspetto veniva concentrata nella considerazione delle buone virtù umane e cristiane, mentre fattori civili e culturali esercitavano più che egregiamente la funzione “congregante” del gruppo-Chiesa. Con arguzia si è fatta allusione all’immagine della condotta medica, dove il medico non si 5 Cfr K. RAHNER, Friedliche Erwägungen über das Pfarrprinzip, in Zeitschrift für katholische Theologie 70 (1948), ripreso in Schriften zur Theologie, Einsiedeln, Benziger 1955, II, 299-337, tr. it., Pacifiche considerazioni sul principio parrocchiale, in Saggi sulla Chiesa, Roma 1966, 337-394: 340-341.


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interessa che alla cura della salute individuale, mentre l’attenzione agli aspetti socializzanti avviene per motivi estrinseci, eccetto il caso di epidemie o per altri casi clinicamente rilevanti6. Ciò non significa che tale figura non possa aver motivato una grande professionalità e una indubbia dedizione.

1.2. Il ministero come edificazione della comunità Il passaggio che sta avvenendo è a sua volta determinato dal mutamento dell’immagine di Chiesa: si tratta del «passaggio dal binomio individualismo + verticalità a una pastorale che valorizzi la dimensione comunionale sia dell’ecclesía sia del presbiterio»7. Anche le possibilità che il codice prevede (ad es. quella del coetus sacerdotum), e che restano ancora tali sotto il profilo della prassi odierna, possono contenere promettenti intuizioni. D’altra parte bisogna distinguere tra determinazione giuridica e intenzionalità pastorale: la prima è solo una codificazione, magari anche stimolante, della seconda, cioè di una prassi pastorale, che ha da essere sempre sottoposta alla riflessione critica. Del resto anche l’articolato del nuovo Codice di Diritto Canonico evidenzia sia nella definizione di parrocchia (can. 515) che del parroco (can. 519) il tema della cura pastorale della comunità, concentrandolo attorno all’esercizio dei tria munera8. Tale determinazione incontra la rilettura del ministero ordinato, operata dalla teologia sistematica, attraverso la categoria della «presidenza» e della «carità pastorale». La categoria di presidenza conviene in modo peculiare al parroco (e al collegio dei presbiteri), anche se non definisce esclusivamente il suo ministero. Il codice prevede che egli la eserciti «sotto l’autorità del vescovo diocesano» e «con la collaborazione di altri presbiteri», quindi entro una trama di rapporti di collegialità. Da qui derivano le due coordinate essenziali 6

Cfr T. CITRINI, Il sacerdote in parrocchia, cit.,133-134. Ibid., 134. 8 Sulla figura del parroco nel diritto canonico si veda D. MOGAVERO, Il parroco e i sacerdoti suoi collaboratori, in La parrocchia e le sue strutture, Bologna 1987, 119-146; M. MORGANTE, La parrocchia nel codice di diritto canonico, Cinisello Balsamo 1985, 20ss; E. CAPPELLINI (a cura di), Il Presbiterato: ministerialità sacerdotale e servizio pastorale, in Episcopato, Presbiterato, Diaconato, Cinisello Balsamo 278-323. 7


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per comprendere il lavoro pastorale del prete in parrocchia: il rapporto alla comunità come tale, perché sia il segno che rende presente il mistero di Cristo oggi; la relazione solidale con l’intero presbiterio (in particolare quello con cui ha in cura la parrocchia e/o le parrocchie viciniori) e con il Vescovo e, dunque, con l’intera Chiesa locale. La carità pastorale trova il suo criterio di verità nel buon esercizio del ministero pastorale. È necessario allora precisare in che senso il ministero del parroco in parrocchia può e deve essere “buono”. Esso lo è se rende possibile alla parrocchia di realizzarsi come comunità evangelica. Perciò il discorso sulla parrocchia è prioritario, perché costituisce il senso del ministero stesso del prete, in quanto riferito a tale forma storica di Chiesa, e non ad esempio ad altre figure ecclesiologiche. Le connotazioni peculiari della parrocchia come figura privilegiata di Chiesa che insiste su di un territorio, in ordine a suscitare la fede nelle condizioni della vita quotidiana, normano dall’interno l’esercizio del ministero del parroco e ne dettano le leggi generali. Esiste una corrispondenza specifica tra concreta immagine di Chiesa (nella parrocchia) e figura storica del ministero (del parroco) e ciò giustifica in linea di principio la reciprocità di influssi. Per questo un “buon” esercizio del ministero deve interrogarsi sul problema dell’immagine di Chiesa che si vuole edificare.

1.3. Il ministero come presidenza nel discernimento comune La modalità specifica con cui il prete si relaziona alla comunità, pur senza doversi pensare al di fuori o al di sopra di essa, è la «guida della comunità». Questa può essere indicata ancor meglio come «presidenza nel discernimento». È noto che ambedue le categorie sono controverse. Quella del “discernimento” assume spesso una inclinazione carismatica (intesa come capacità propria di alcune persone particolarmente dotate)9; mentre quella di “presidenza” è categoria dai molti significati: può rivestire una

9 Per una precisazione dei problemi in gioco si veda: G. ANGELINI, La categoria del discernimento e Oltre l’arbitrio e la ripetizione. Le condizioni di una decisione pastorale saggia, in Rivista del clero italiano 57 (1986) 86-98 e 646-656.


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valenza iconica (cristologica), un significato sacramentale-liturgico e una 10 intonazione giuridico-funzionale (di derivazione sociologica) . Anzitutto il funzionamento della presidenza. È diverso dire che il parroco «presiede» la comunità «in nome di Cristo», oppure che egli presiede la liturgia e in particolare l’eucaristia «in persona Christi», o ancora che egli presiede nel senso che possiede alcuni “poteri” giuridicamente statuiti dal diritto in ordine alla guida e organizzazione della comunità. Quando si determini un po’ più da vicino il concetto di «presidenza» ci si accorge che esso muta in base al contesto di riferimento e di funzionamento. Non è detto, ad esempio, che una buona presidenza dell’eucaristia comporti per ciò stesso una corretta presidenza della comunità. Se nella presidenza si sottolinea il momento solenne della ortodossia della fede o della celebrazione sacramentale, ci si accorgerà che la presidenza assumerà valenze piuttosto impegnative; se invece ci si rivolge al compito normale e ordinario di guidare la comunità, la presidenza potrà assumere un significato più generale e diffuso. Ma ogni pastore sa che la Chiesa si costruisce anche nell’umile servizio dell’edificazione della comunità, nella promozione dei ministeri, nel richiamo comunitario e personale all’ascolto della Parola, nel diuturno lavoro di comunicazione della fede, nel contatto personale mediante la celebrazione penitenziale e la guida spirituale, nella visita alle famiglie e nella presenza alle situazioni di sofferenza e di dolore della gente. Qui il concetto di presidenza sembra stemperarsi, ma non è men vero che il modo peculiare con cui il parroco sostiene queste relazioni è quello della «guida della comunità». Quando per «guida» non si intenda solo il suo esercizio, per così dire, «rappresentato» nel momento ufficiale, ma anche tutta quella miriade di interventi, di presenze, di pazienza, di ascolto, di accompagnamenti, che edificano veramente una fraternità evangelica. Si pensi solo alla preziosa e nascosta capacità che è richiesta nell’accompagnare i genitori dei ragazzi dell’iniziazione cristiana senza procedere ad un sottile ricatto in occasione del sacramento; si consideri l’opportunità preziosissima della preparazione al matrimonio dei fidanzati (corso e incontro personale) da non trasformare in un incontro burocratico o fiscale; si provi a pensare alla decisiva figura che si dà della comunità e del 10 Cfr una buona illustrazione in S. DIANICH, I presbiteri che esercitano bene la presidenza (1 Tm 5,17), in Rivista del clero italiano 57 (1986) 246-256: 247-250.


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ministero in presenza della sofferenza e della morte. Si potrebbe a questo punto parlare delle forme «pratiche» della guida della comunità: si dovrebbe in altri termini discorrere dell’indice di una sorta di Liber pastoralis11. Ci si può forse limitare ad un problema: l’azione del sacerdote di fronte alla domanda religiosa, spesso solo convenzionale e in prima istanza piuttosto rigida, si presenta a volte in modo assai abitudinario e scarsamente coinvolgente. Si osserva qui una sorta di burocratizzazione del ministero, un pericolo inevitabile legato alla ripetizione. A volte però esso viene in qualche modo solidificato producendo una sorta di «status», così come avviene oggi per i ruoli nella società complessa. La funzione e il ruolo esigono una certa «professionalità», ma con scarso investimento personale. Mentre poi alla identificazione della persona concorre tutta una trama di relazioni assegnate al momento privato e, nel caso del ministero, tutta una serie di momenti in cui si cerca di ricuperare vivacità, mediante i gruppi (di ascolto, del vangelo o di preghiera), di relazioni e di incontri che inevitabilmente selezionano interessi e persone relativamente omogenee. Ne viene una figura del ministero (del parroco) a due velocità: quella ufficiale del ruolo e della professione, quella intensa ed emotivamente significativa delle relazioni brevi. Quando non succede che per avversione alla seconda non si appiattisca tutto il ministero su standards piuttosto poveri. Bisogna ritornare e ricuperare la originaria possibilità che i gesti della fede hanno di introdurre all’incontro con Cristo e di edificare la Chiesa. A lato dell’eucaristia e della comunicazione del vangelo, a margine di una valorizzazione dei carismi nella conduzione della parrocchia, ecc. non è possibile ricuperare in “altro” modo, con rapporti più o meno intensi, l’insignificanza dei gesti della fede e del cammino ecclesiale.

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Sarebbe interessante offrire una descrizione fenomenologica della guida della comunità: appunto ciò che tradizionalmente va sotto l’indicazione di Liber Pastoralis. Un vasto materiale si può trovare nei sinodi diocesani seguiti al Concilio: se ne veda una descrizione critica in L. MISTÒ, Il sinodo diocesano: evento di Chiesa e momento legislativo, in La Scuola Cattolica 118 (1990) 297-326. Ha intitolato così la raccolta dei suoi interventi il card. G. BIFFI, Liber pastoralis bononiensis. Omaggio al card. Giovanni Colombo nel centenario della sua nascita, Bologna 2002, pp. 872. Si veda anche un esempio caratteristico nella linea della tradizione protestante, ma con accenti del tutto propri, nel testo suggestivo di D. BONHOEFFER, Una pastorale evangelica, Torino 1990.


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Ora diventa chiaro in che senso qui si parla di presidenza nel e del discernimento comune. Il discernimento è l’atto con cui la comunità tutta edifica se stessa, un atto mediante il quale si viene ad esprimere la possibilità di vivere la fede come fraternità evangelica proprio nel mezzo della vita quotidiana. È allora a questa possibilità concreta che deve condurre il ministero del prete nella sua diuturna fatica, fidando dei mezzi «normali», che soli possono introdurre alla fede, perché ne costituiscono originariamente l’espressione e il segno. Questa «concentrazione» aiuterà anche a razionalizzare il ministero del prete sottraendolo a quelle incombenze, che hanno a che fare ben poco con la presidenza, anche se forse indulgono alle capacità manageriali di molti. Per questo la presidenza è certamente una abilità, ma essa deve anche riferirsi ad un modello che rimandi a criteri oggettivi e che perciò sia comunicabile e verificabile. Riferirsi solo ad una particolare abilità risospinge il discorso nella linea di una personale capacità di leadership, facilmente interpretabile nella linea dei bisogni e dei modelli sociologici. Richiamarsi soltanto ad un modello con le sue componenti strutturali può oscurare la necessità di invenzione storica e di mediazione personale. Solo la circolarità di modello e di abilitazione personale consente di svolgere il discorso in modo fisiologico. Per comodità ho inserito l’allegato del testo.

2. “CONSIGLIARE” NELLA CHIESA Il secondo momento della riflessione riguarda direttamente il nostro tema. Se sta cambiando così l’immagine della pastorale e del ministero di guida della comunità, allora diventa necessario sostare per comprendere cosa significa “consigliare” nella Chiesa. Per far comprendere questo rimando a un bel testo di C.M. Martini, con cui spiegava al suo Consiglio Pastorale Diocesano (1989) il tema del consigliare nella Chiesa. Si tratta di una lettura sintetica ed essenziale di STh II-II, qq. 47-52. Dopo aver tratto le ispirazioni generali dal Nuovo Testamento ci poniamo nel solco della tradizione classica, aristotelica, ripresa poi dai primi Padri della Chiesa, da S. Ambrogio nel De officiis, e ampiamente codificata da S. Tommaso. E, per comodità, mi riferisco a quanto scrive S. Tommaso sul dono del consiglio e del consigliare. Il pensiero dell’Aquinate non è del


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tutto semplice ma lo ritengo interessante. Egli parte dall’affermazione che il consiglio, come dono dello Spirito Santo, corrisponde alla virtù cardinale della prudenza. Mi pare utile procedere secondo il seguente ordine: — che cos’è la virtù della prudenza; — il consigliare/consigliarsi come parte della prudenza; — il dono dello Spirito e la beatitudine corrispondente; — il discernimento; — conseguenze per il consigliare nella Chiesa. 1. Per San Tommaso l’atto principale della prudenza è il comandare ragionevolmente. Ci troviamo subito in difficoltà, perché noi crediamo che l’atto principale della prudenza sia il ponderare, direi quasi il dubitare, l’osservare cautamente. Nella visione aristotelico-tomistica, invece, è il decidere. La decisionalità è la caratteristica della prudenza cristiana. E San Tommaso spiega che per giungere a questa capacità di agire ragionevolmente sono necessarie tre attività: — prendere consiglio raccogliendo dati e pareri; — giudicare e valutare i dati (ratio speculativa), quindi discernere; — decidere (ratio pratica), applicare i consigli e le valutazioni emerse all’azione. Questo è l’atto precipuo della prudenza, a cui sono ordinati gli atti precedenti. C’è prudenza solo là dove c’è ascolto, consiglio, riflessione prolungata, applicazione all’agire. Vediamo che si delinea così una figura morale del cristiano molto precisa e forse diversa da quella che intendiamo oggi quando parliamo di prudenza. Poi San Tommaso dice che la prudenza ci porta a comandare in tre grandi ambiti: — l’ambito del bene proprio (perché posso comandare anche a me stesso), ed è la prudenza personale; — l’ambito del bene della propria famiglia, ed è la prudenza domestica; — l’ambito del bene della comunità, ed è la prudenza politica. — Così la prudenza è l’arte di decidere il giusto e il bene per sé, per le realtà che ci sono affidate — comprese quelle della vita economica, sociale, produttiva, culturale — per la comunità. — Senza tale prudenza, non si ha né giustizia né fortezza né temperanza. Essa è il primo gradino dell’agire morale equo e giusto.


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2. Strettamente connessa — prosegue San Tommaso — è la eubolia, la rectitudo consili, cioè la capacità di ben consigliare. Non esiste decisione saggia, prudente, se precedentemente non c’è stato un processo di consiglio. Questo processo implica due cose: la capacità di ben consigliare in coloro che sono chiamati a dare consiglio e la docilità in coloro che devono rendersi disponibili a quanto viene consigliato. L’Aquinate sottolinea l’importanza di questa docilità che è pure parte integrante della prudenza, per chi ha delle responsabilità. Nessuno, infatti, è in grado di avere sempre la conoscenza sufficiente e globale della situazione su cui deve decidere e per questo ha bisogno della collaborazione di persone sperimentate e prudenti che lo aiutino. E poiché, sempre secondo San Tommaso, la prudenza e la capacità di consigliare è propria di tutti i cristiani, anche i nostri Consigli fanno appello a tale capacità di consigliare, per il bene della comunità. 3. Vediamo allora che cos’è il dono del consiglio. Per San Tommaso è il dono corrispondente alla virtù della prudenza, è la prudenza mossa da una grazia particolare dello Spirito Santo, ed è il dono di percepire ciò che va fatto per raggiungere un fine soprannaturale. È interessante notare l’affermazione di San Tommaso secondo la quale la capacità di consigliare, mossa dallo Spirito come dono, rimane anche nella vita eterna. Per questo, egli vede possibile la richiesta, nella preghiera, dei consigli dei Santi. Ricorderete come, in altre occasioni, ho suggerito di entrare in colloquio con i Santi per farci aiutare nelle nostre necessità. Per la dottrina tomista, coloro che godono ormai della visione beata di Dio continuano ad avere il dono del consiglio e ci illuminano quando siamo in difficoltà. Ma c’è di più: “La mente dell’uomo pellegrino su questa terra è mossa da Dio nell’agire, per il fatto che l’ansietà del dubbio che precede la decisione viene calmata”, “per hoc quod sedatur anxietas dubitationis in eis praecedens”. Quando siamo confrontati con decisioni ardue e ci sembra di annegare in un mare di buoni consigli diversi l’uno dall’altro, se è avvenuta una ragionevole inquisizione e un ragionevole ascolto, interviene il dono dello Spirito Santo che calma l’ansietà e permette di decidere con pace. È molto confortante questo passo di S. Tommaso. Un’altra annotazione. S. Tommaso, nella sua trattazione molto schematica, quasi geometrica, dopo aver parlato delle virtù cardinali e dopo


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aver attribuito a ogni virtù un dono dello Spirito Santo, cerca di far corrispondere, alle virtù e ai doni, le beatitudini evangeliche. Non c’è dunque soluzione di continuità tra la ragionevolezza morale delle quattro virtù cardinali, i sette doni dello Spirito Santo e le beatitudini evangeliche; piuttosto, sono innestati gli uni sulle altre. Con mia sorpresa — non ricordavo infatti questo punto della dottrina tomista — la beatitudine corrispondente al dono del consiglio è la misericordia, in quanto le opere di misericordia sono particolarmente indirizzate al fine della salvezza: “convenit dono consilii, non sicut elicienti, sed sicut dirigenti”. Poiché la virtù della prudenza e il dono del consiglio intuiscono il rapporto tra i mezzi di salvezza e il fine, la quinta beatitudine evangelica è la più attinente ad essi. Dal pensiero di San Tommaso traggo due conseguenze: prima, che effettivamente il dono del consigliare nella Chiesa deve essere anzitutto attento ai poveri, alle opere di misericordia. Seconda, che il consigliare stesso è opera di misericordia, di compassione, di bontà, di benignità; non è opera di fredda intelligenza, di intuizione molto elaborata, ma fa parte della comprensione del cuore. 4. Nella vostra premessa avete, giustamente, collegato il discernimento con l’arte del consigliare. Che cos’è il discernimento? San Tommaso cita in proposito una frase di Agostino molto bella e difficile da tradurre in italiano: “Prudentia est amore bene discernens ea quibus adiuvatur ad tendendum in deum ab his quibus impediri potest”, la prudenza è l’amore che fa discernere bene le cose dalle quali siamo aiutati a tendere a Dio, contraddistinguendole da quelle che ce lo impediscono. Il discernimento ha la caratteristica di aggiungere la sensibilità per le cose che possono impedire il fine, mentre il consigliare riguarda, di per sé, i mezzi utili al fine. Non a caso il discernimento nasce, nella tradizione monastica egiziana che poi si consolida in quella patristica e più recentemente nella tradizione ignaziana, dalla riflessione sui movimenti degli spiriti all’interno del cuore. Non tutto ciò che appare bene è da consigliare, ma occorre discernere, ponderare, perché ci sono le ispirazioni dello Spirito Santo e ci sono le mozioni dello spirito del male, della pigrizia, dell’ignavia, dell’indifferenza, dell’ambiguità, che si camuffano sempre con ispirazioni buone.


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Possiamo dire che il discernimento è la prudenza applicata alla valutazione delle mozioni positive o negative, anzitutto interiori, e anche delle mozioni storiche, nella Chiesa e nella società. Quanta della storia immediatamente successiva al Vaticano II è fatta di falsi o troppo rapidi discernimenti, pensando che una certa iniziativa o un certo modo di agire fossero buoni mentre, in realtà, hanno portato a conseguenze negative! Il consigliare diventa così un discernimento molto delicato. Non è semplicemente un dedurre logico basandosi sulla considerazione del bene in assoluto, ma il riflettere sulle complessità e ambiguità storiche, sul misto di bene e di male, di ispirazioni buone e cattive, di strutture di grazia e di peccato che sono strettamente intricate le une nelle altre e tra le quali bisogna discernere la via giusta per ottenere la crescita della fede, speranza, carità. 5. Per il consigliare (e il consigliere) nella comunità, indico, tra le tante, quattro conseguenze. a) La prima la ricavo da ciò che San Tommaso dice sul rapporto tra prudenza, dono del consiglio, beatitudine della misericordia. A mio avviso, il consigliere nella Chiesa deve avere la comprensione amorevole delle complessità della vita in genere e della vita ecclesiastica in specie. I consiglieri e i consigli rigidi, senza misericordia, anche magari sotto il pretesto evangelico — lo richiede il Vangelo, dunque bisogna farlo! —, mancano di questa qualità fondamentale che è la comprensione per la miseria umana, per la gradualità. Il consigliare non è un atto puramente intellettuale; è un atto misericordioso che tenta di guardare con amore l’estrema complessità delle situazioni umane concrete — parrocchie, decanati, Chiesa, società civile, società economica —. Dobbiamo certamente affermare l’esigenza evangelica che però, se è tale, è sempre compassionevole, incoraggiante, buona, umile, umana, filantropica, paziente. Questa caratteristica del consigliare nella Chiesa non la troviamo così di frequente. Talora, al contrario, conosciamo forme di consigliare, o anche di decidere, che mancano del tocco umanistico tipico di Gesù. Gesù sapeva adattarsi con amore alle situazioni, sapeva cogliere il momento giusto. Se c’è l’attitudine misericordiosa, si evitano i tanti pseudo conflitti dei Consigli pastorali parrocchiali — perché a nulla vale il manto della giustizia se non è accompagnato dalla virtù della prudenza — e si fa progredire l’organismo ecclesiastico.


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b) Il consigliere nella comunità deve avere un grande senso del consiglio come dono. Essendo dono, va richiesto nella preghiera e non si può presumere di averlo. Essendo dono, dobbiamo avvicinarci ad esso con distacco, dal momento che non viene da noi ma ci è dato. Il consiglio non è un’arma di cui posso servirmi per mettere al muro altri; è un dono a servizio della comunità, è la misericordia dell’agire di Dio in me. Passa, è vero, per la mia razionalità — la prudenza è razionalità dell’agire —, però passa attraverso la mozione amorosa, rugiadosa, dello Spirito Santo, producendo sensibilità, fiducia, carità. c) Parlando della eubolia, o capacità di ben consigliare, San Tommaso afferma che il consigliare è il momento dell’indagine e della creatività. Bisogna istruire la causa non rapidamente, esprimendo il parere che affiora alla mente, bensì indagando sulle situazioni, condizioni, soluzioni già date in altri luoghi. La creatività e il gusto dell’indagine per l’istruzione della causa sono dunque caratteristiche del consigliare. Parecchi dei nostri Consigli pastorali parrocchiali sbagliano su questo punto: propongono un tema, chiedono il parere dei singoli membri, ciascuno dice la prima idea che gli viene in mente, e poi si vede la maggioranza. Istruire la causa significa domandarsi: qual è il problema? Come lo comprendiamo? Come è stato risolto altrove? Ecc. Nelle Congregazioni romane, ad esempio, che sono organi consigliatori per eccellenza e che vantano una lunghissima tradizione di consiglio al Santo Padre, ogni causa si istruisce accuratamente attraverso la cosiddetta ponenza: vengono incaricate una o più persone per preparare un dossier che serve ad andare a fondo di ciò di cui si tratta — quali le soluzioni già date, quali le possibili, quali le ragioni pro e contro —. Non dunque una semplice raccolta di pareri, ma una istruzione di causa, che richiede indagine e creatività. d) Infine, e concludo, vorrei sottolineare l’importanza della contemplazione del volto di Gesù e del volto della Chiesa a cui si tende. Se il decidere nella Chiesa ha lo scopo di configurare sempre meglio il volto del suo Signore, dobbiamo contemplare il volto di Gesù e poi regolarci in conseguenza per il consigliare. Sarebbe bello richiamare le pagine che hanno fatto storia nella nostra diocesi sul volto fraterno di parrocchia. Le abbiamo proclamate ad


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Assago, come frutto di una delle aree e sono anche risuonate spesso in questo Consiglio pastorale diocesano: l’immagine fraterna di Chiesa che è un riflesso del volto di Gesù, lo scopo di tutto il cammino ecclesiale; costituire una comunione universale di fraternità che rifletta nel mondo il volto del Signore12. Ho riportato questo testo che mi sembrava particolarmente bello e autorevole, per dirvi ciò che può significare oggi “consigliare” nella Chiesa, quale le sue dinamiche, quali gli elementi in gioco. Le sue ricadute pratiche sono abbastanza facili da ricavare…

3. LA FORMAZIONE DI LAICI CORRESPONSABILI La terza e ultima parte di questa relazione si riferisce alla predisposizione oggi della condizione essenziale per il consigliare nella Chiesa: la formazione di laici corresponsabili.

3.1. Curare la qualità testimoniale della fede cristiana I membri dei consigli pastorali e gli operatori pastorali — si sente spesso dire — devono passare da una mentalità di collaborazione a una di corresponsabilità. Di solito, però, questa considerazione si ferma a qualche buona riflessione, ma non tocca la pratica e il vissuto della comunità cristiana. Occorre accorgersi che ciò pone in questione la nostra immagine di Chiesa. Porre in questione l’immagine di Chiesa significa modificarne il suo funzionamento concreto. Ora il punto su cui dovrebbe avvenire il passaggio decisivo potrebbe essere formulato così: occorre curare la forma testimoniale della fede cristiana. È questo un momento remoto e tuttavia decisivo. La forma “ecclesiale” e “testimoniale” rimanda al fatto che appartiene implicitamente ad ogni fede cristiana che essa debba essere contagiosa, debba irradiarsi verso l’esterno, debba espandersi nelle diverse forme della vita quotidiana, possa farsi carico della fede degli altri. Una fede 12 C.M. MARTINI, Il consigliare nella Chiesa, in Consigliare nella Chiesa. Organismi di partecipazione nella diocesi di Milano, Milano 2002, 13-25: 19-25.


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adulta e matura sente che, almeno implicitamente, deve avere quest’intenzione. Le forme pratiche del farsi carico della fede altrui sono variegate. Talune sono legate alla scelta di vita (nella famiglia, nella scuola, nella professione, nel tempo libero e, in genere, nelle forme della vita quotidiana) e queste esprimono prevalentemente la dimensione ecclesiale/testimoniale della fede che appartiene a tutti. Altre sono più indirizzate ai percorsi della comunità cristiana, nel senso che la premura per la fede altrui assume la figura di un “servizio” ecclesiale che ha modalità diverse per tempi, luoghi, destinatari, e differenti forme per come si realizza in modo spontaneo, con un riconoscimento o con un mandato da parte della comunità. La qualità “ecclesiale/testimoniale” della fede si traduce quindi in figure concrete assai differenti: alcune si esprimono in una vita cristiana matura, altre si specificano in un “ministero” a favore di altri. Le prime dovrebbero essere un impegno di tutti, le seconde sono una vocazione (temporanea o stabile) per alcuni. Esiste quindi un rapporto profondo tra la qualità ecclesiale della fede e le figure storiche in cui si presenta. Siccome le figure storiche sono diversificate, non bisogna concludere che la dimensione ecclesiale della fede appartiene ad alcuni e non ad altri. Se la qualità ecclesiale della fede appartiene a tutti, non si può egualmente pensare che si esprime in ciascuno allo stesso modo. Ciò che qui ci interessa suggerire per le comunità cristiane è che la nascita di nuovi “ministeri” ecclesiali non può avvenire per una sorta di accanimento terapeutico su alcuni che vengono quasi precettati per il servizio alla comunità; o, rispettivamente, non può essere attribuita ad altri che comunque sono da sempre presenti nella comunità e appartengono al panorama immutabile di una parrocchia. Fermarsi qui comporta inevitabilmente una concentrazione dei ministeri su poche persone che fanno tutto, riproduce ancora lo schema “direttivo” che attraversa molta parte della pastorale. Intendo per “direttivo” quel modo di procedere nell’agire pastorale (nell’annuncio, nella celebrazione, nella carità) che viene dall’alto e si trasmette ai livelli inferiori: così può avvenire dal centro alla periferia della diocesi, dal sacerdote al laico, ma quasi sempre per delega, per cooptazione, per una decisione pastorale a cui non partecipa chi deve poi tradurla in pratica. Bisogna invertire la rotta e pensare a un modo di procedere “comunionale”, il quale pensa all’agire pastorale come un’opera di discernimento comune di sacerdoti e laici, di istanze superiori e


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periferiche, che si pongono insieme il tema della praticabilità della vita cristiana nel momento presente. L’azione “pastorale” è l’azione volta alla costruzione della comunità, perché sia segno di Cristo per il mondo: questa non può più essere l’opera isolata del “pastore”, ma è l’azione comune di tutto il popolo di Dio, nella varietà dei suoi carismi e ministeri, certo con la presidenza del ministero ordinato (il vescovo, il parroco, il sacerdote). L’azione pastorale esige un’attitudine al discernimento comune e al lavoro insieme: il primo fornisce i criteri, il secondo li mette alla prova del momento attuale. È questo il motivo per cui la pastorale d’insieme (nella parrocchia e tra le parrocchie) oggi non può essere un optional. Per fare questo in modo sensato, senza essere sottoposti all’arbitrio e all’improvvisazione, occorre che tutti si educhino al funzionamento comunionale della Chiesa. Molto si è detto in questi ultimi anni soprattutto nei laboratori che riguardano le unità pastorali. Ma all’origine di tutto occorre una cura della qualità testimoniale della fede cristiana. Questa cura si esprime in molti modi, soprattutto quelli fondamentali, che sono la preghiera comune, l’ascolto prolungato della Parola, una celebrazione sacramentale che educhi alla comunione attraverso il modo stesso con cui si vive il rito, la formazione al senso della Chiesa e della vocazione cristiana, l’aiuto dato alle persone ad appassionarsi alla vita della gente, l’interesse al senso della vita civile e dei problemi sociali. Appartiene a questa cura la scelta (che certo supera le possibilità di una singola parrocchia) di dedicare tempo, risorse, energie, mezzi, non prima di tutto all’abilitazione ad un ministero pastorale, ma alla coscienza cristiana nella sua integralità. Molte persone si tengono lontane da un “servizio” ecclesiale, perché si sentono impreparate. Ciò non può essere inteso subito come un alibi o una scusa, ma come la richiesta di un arricchimento della coscienza cristiana, di un’alimentazione del terreno sul quale possono poi germinare non solo vocazioni generose, ma anche competenti e consolidate. Piacerebbe vedere un corale impegno a promuovere la qualità ecclesiale della fede. Per questo ampio processo di formazione si possono prevedere due livelli. L’uno per così dire nel corpo vivo della pastorale; l’altro più in disparte, con la proposta di una formazione differenziata, intellettuale, spirituale, ecclesiale. In ogni caso questi due livelli dovranno coordinarsi in una cura (diocesana, zonale?) dei ministeri pastorali (un seminario per i laici? un ministero pastorale missionario?).


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3.2. Prevedere la formazione secondo percorsi differenziati Vorrei sostare ora solo sul secondo livello per proporre una formazione differenziata, intellettuale, spirituale, ecclesiale. È necessaria, anzitutto, una formazione fondamentale, di carattere teologico, spirituale, pastorale. L’elaborazione di un programma serio e sufficientemente elastico, l’offerta di possibilità che si rendono presenti almeno a livello zonale, esige una proposta di vasto respiro, coinvolgendo molte competenze, capace di suscitare sul territorio persone (anche e soprattutto tra i laici) che si prendano cura della formazione intellettuale, pastorale, spirituale. Immagino che vi possano essere corsi di formazione biblica e teologica, momenti di incontro spirituale, convivenza e sperimentazione pastorale. Molte istituzioni che hanno una tradizionale competenza in questa direzione possono mettere a disposizione le loro conoscenze e collaborazioni. In secondo luogo, si dovrà pensare ad una formazione specifica. Le Scuole diocesane per operatori pastorali (SDOP) sono il luogo naturale di questo momento formativo che punta ad indirizzare a un ministero ecclesiale e ad affinare un’abilitazione specifica. Esse potranno assumere le molte competenze che la diocesi mette a disposizione, nel campo della liturgia, dell’annuncio della parola, della catechesi, del volontariato, della formazione politica. Inoltre si dovrà pensare non solo ad un’introduzione teorica, ma anche a momenti (settimane, week-end, momenti di sperimentazione) in cui sia messa alla prova e facilitata anche l’abilitazione pratica. In terzo luogo, si dovrà prevedere una formazione ecclesiale/spirituale. L’esperienza delle altre nazioni dice che la mancanza di formazione ecclesiale/spirituale genera figure professionalizzate, ma senza unità personale e senza senso ecclesiale, che non approdano ad una vera autonomia cristiana e pastorale. D’altra parte basterebbe l’analogia con la formazione agli altri ministeri (ordinati) nella Chiesa per accorgersi che anche su questo punto non possono esserci facili sconti. Naturalmente, tutto ciò dovrà avvenire con la coscienza che si tratta di ministeri “laicali”, per i quali bisognerà prevedere un ritmo e modalità diverse rispetto ai percorsi di formazione al sacerdozio.


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3.3. Un “seminario” per la formazione dei laici? Una proposta Tutto quanto detto sinora — lo si vede con naturalezza — esige anche che questa serie di istanze e di attese si concretizzi in uno strumento abbastanza articolato e sciolto che sia come il catalizzatore del percorso fin qui svolto, il suo luogo di mediazione pratica. Si può pensarlo come un “Seminario per la formazione pastorale/ministeriale”? Forse. Con la necessaria precisazione che si tratta di un seminario di tempo, più che di luogo, vale a dire un’opportunità d’incontro che supera le normali possibilità di una comunità parrocchiale e di un decanato. Le modalità con cui pensarlo dovranno far crescere una coscienza ministeriale, mettendo insieme competenze, proposte di percorsi, esperienze comuni condivise, itinerari di formazione spirituale. Gli stessi sacerdoti possono vedere le enormi possibilità contenute in una simile proposta, volta a rendere più oggettivi e autonomi i cammini delle figure ministeriali e delle persone. Il sogno vorrebbe veder nascere una schiera di futuri ministeri (laicali) nella e per la Chiesa, coltivati con grandezza d’animo, capacità di discernimento e profonda sensibilità ecclesiale e spirituale.

CONCLUSIONE Molte altre cose si potrebbero scrivere sulle forme, gli itinerari e gli strumenti della formazione spirituale degli operatori pastorali e dei membri dei consigli pastorali. Queste sono state scritte per rilevare alcune tensioni profonde del momento presente. A mano a mano che le figure di operatori e di ministeri ecclesiale si faranno più nitide, altre cose potranno e dovranno essere dette perché la Chiesa di domani superi la sua immagine monocromatica e uniforme. Mi piace concludere ricordando la profetica espressione di K.A. Möhler: «Non vorremmo morire né asfissiati per estremo centralismo, né assiderati per estremo individualismo. Né uno può pensare di essere tutti, né ciascuno può credere di essere il tutto, ma solo la diversità e l’unità di tutti è una totalità. Questa è l’idea della Chiesa cattolica!».


Sezione miscellanea Synaxis XXII/3 (2004) 101-131

“E ’N LA SUA VOLONTADE È NOSTRA PACE” AMORE E VISIONE DI PICCARDA DONATI

FRANCESCO VENTORINO*

Colei che accoglie Dante in Paradiso è un personaggio ignoto al mondo se non a Dante, perché legato alla vita del poeta, in modo particolare al tempo della sua giovinezza, Piccarda Donati. Non è neanche una santa che ha vissuto eroicamente le virtù cristiane: fattasi suora ancora giovanissima, fu tratta dal fratello Corso con la forza dal convento e data in moglie, per ragioni politiche, a Rossellino della Tosa. Per non aver saputo resistere e aver mancato, sia pure sotto violenza, al suo voto, si trova ora beata nella prima delle sfere celesti, la più bassa. Eppure alcuni critici hanno visto in lei la figura della carità1. A Piccarda Dante si rivolge instaurando questo dialogo, che sarà oggetto della nostra riflessione: «O ben creato spirito, che a’ rai di vita etterna la dolcezza senti che, non gustata, non s’intende mai, grazioso mi fia se mi contenti del nome tuo e della vostra sorte». Ond’ella, pronta e con occhi ridenti:

*

Docente emerito di Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr L. BATTAGLIA RICCI, Piccarda, o della carità: lettura del terzo canto del Paradiso, in Filologia e critica, 14 (1989) 27-67. 1


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Francesco Ventorino «La nostra carità non serra porte a giusta voglia, se non come quella che vuol simile a sé tutta sua corte. I’ fui nel mondo vergine sorella; e se la mente tua ben sé riguarda, non mi ti celerà l’esser più bella, ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda, che, posta qui con questi altri beati, beata son in la spera più tarda. Li nostri affetti, che solo infiammati son del piacer de lo Spirito Santo, letizian del suo ordine formati. E questa sorte che par giù cotanto, però n’è data, perché fuor negletti li nostri voti, e vòti in alcun canto». Ond’io a lei: «Ne’ mirabili aspetti vostri risplende non so che divino che vi trasmuta da’ primi concetti: però non fui a rimembrar festino; ma or m’aiuta ciò che tu mi dici, sì che raffigurar m’è più latino. Ma dimmi: voi che siete qui felici, desiderate voi più alto loco per più vedere e per più farvi amici?». Con quelle altr’ombre pria sorrise un poco; da indi mi rispuose tanto lieta, ch’arder parea d’amor nel primo foco: «Frate, la nostra volontà quïeta virtù di carità, che fa volerne sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta, Se disïassimo esser più superne: foran discordi li nostri disiri dal voler di colui che qui ne cerne; che vedrai non capere in questi giri, s’essere in caritate è qui necesse, e se la sua natura ben rimiri. Anzi è formale ad esto beato esse tenersi dentro alla divina voglia, per ch’una fansi nostre voglie stesse.


Amore e visione di Piccarda Donati

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sì che, come noi sem di soglia in soglia, per questo regno, a tutto il regno piace, com’a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia. E ’n la sua volontade è nostra pace: ell’è quel mare al qual tutto si muove ciò ch’ella crïa e che natura face». Chiaro mi fu allor com’ogni dove in cielo è paradiso, etsi la grazia del sommo ben d’un modo non vi piove2.

POSIZIONE DELLA QUESTIONE La Commedia di Dante, come abbiamo avuto modo di rilevare in un altro saggio3, risente in modo evidente dell’influsso della teologia di Tommaso d’Aquino, secondo la quale l’uomo è desiderio naturale di vedere Dio: al compimento di questo desiderio è legata la sua felicità, che consiste nella visione perfetta di Dio. Il cammino del protagonista, pertanto, raffigura, nella sua eccezionale elezione, il cammino di ogni uomo, che è mosso dall’ardore della conoscenza, quell’ardore che ne costituisce il desiderio più profondo, secondo i noti versi dell’«orazion picciola» rivolta da Ulisse ai suoi compagni:

2

DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, III, vv 43-90. Le citazioni della Commedia vengono prese da DANTE ALIGHIERI, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Milano 1966-1967, Firenze 19942. «Affidato ad una donna, e centrato sull’amore (la donna è per Dante il veicolo, o meglio la figura stessa dell’amore, come Beatrice è stata per lui, e il primo verso del canto lo ricorda), questo discorso di apertura sullo stato delle anime beate ci appare la risposta al quinto canto dell’Inferno, dove il primo dei dannati — e la prima persona in assoluto con cui Dante parla nell’aldilà — è ugualmente una donna, la cui vita è ugualmente contrassegnata dall’amore che la condusse alla morte del corpo e dell’anima. Due diversi amori contrassegnano dunque all’entrata i due diversi regni, i due diversi destini dell’uomo. Solo l’amore infatti muove il cuore dell’uomo, e decide della sua sorte» (A.M. CHIAVACCI LEONARDI, Commento a Dante Alighieri, Commedia, Paradiso, Milano 1997, 77). 3 Cfr F. VENTORINO, Il desiderio naturale di vedere Dio nel pensiero di Tommaso d’Aquino, in Synaxis 20 (2002) 553-560.


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Francesco Ventorino «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza»4.

Anche se queste parole si volessero considerare nel loro aspetto di falsità e ingannevolezza, perché l’uomo non può pretendere di realizzare compiutamente il proprio desiderio di conoscenza con le sole proprie forze senza che dei remi faccia «ali al folle volo»5; tuttavia non si può negare che esse – secondo il racconto dantesco – fecero presa sul cuore di quegli uomini ai quali furono rivolte, proprio perché si appellavano al loro desiderio più profondo e costitutivo. Dante, infatti, afferma nel Convivio: «… acciò che la scienza è ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti»6.

E nel Paradiso dirà: «Io veggio ben che già mai non si sazia nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra, di fuor dal qual nessun vero si spazia. Posasi in esso come fera in lustra, tosto che giunto l’ha; e giugner puollo: se non, ciascun disio sarebbe frustra. Nasce per quello, a guisa di rampollo, a piè del vero il dubbio; ed è natura ch’ al sommo pinge noi di collo in collo»7.

4

DANTE ALIGHIERI, Commedia, Inferno, XXVI, vv 118-120. Ibid., v 125. 6 ID., Convivio, I, I, 1. L’edizione da cui si cita è DANTE ALIGHIERI, Convivio, a cura di F. Brambilla Ageno, Firenze 1995. 7 ID., Commedia, Paradiso, IV, vv 124-32. 5


Amore e visione di Piccarda Donati

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Cosicché, quando sarà giunto finalmente a vedere Dio, dirà di sé: E io ch’al fine di tutt’i disii appropinquava, sì com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii8.

E tuttavia, le parole di Piccarda che abbiamo citato all’inizio sembrano contraddire tutto questo: l’uomo può godere della beatitudine perfetta, senza trovarsi in quell’«alto loco» che gli consentirebbe di vedere meglio, e pertanto di godere di un’amicizia più grande con Dio. È dunque nella visione di Dio il fine ultimo dell’uomo, la sua beatitudine e la sua realizzazione? Oppure nell’obbedienza per la quale partecipa della Sua volontà in carità perfetta? «E ’n la sua volontade è nostra pace:

Ell’è quel mare al qual tutto si muove Ciò ch’ella cria e che natura face».

Che nesso esiste, allora, tra la soddisfazione intellettuale cui l’uomo tende dal profondo del suo cuore e quella perfezione della volontà, che è la carità?

1. L’AMORE RADICE DELLA CONOSCENZA Dante nel Purgatorio aveva già fatto dire a Virgilio: «Né creator né creatura mai […] fu sanza amore o naturale o d’animo; e tu ’l sai»9.

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Ibid., XXXIII, vv 46-48. ID., Commedia, Purgatorio, XVII, vv 91-93.


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Per cui di ogni creatura razionale può dirsi: «Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l’animo, e disira: per che di giugner lui ciascun contende»10.

È evidente anche in questa posizione dantesca l’influenza del pensiero tomista, secondo il quale principio fondamentale dell’agire è la ragionevolezza, che viene data dalla proporzione dell’azione al fine desiderato: «Ogni agente agisce per un fine. Ma il fine non è altro che il bene da ciascuno amato e desiderato. Perciò è evidente che ogni agente, qualunque esso sia, compie qualsiasi atto per un qualche amore»11.

L’amore — secondo l’insegnamento di Virgilio — è un piegarsi dell’animo verso ciò che piace, cioè verso ciò che ne placa il desiderio: «L’animo, ch’è creato ad amar presto, ad ogne cosa è mobile che piace, tosto che dal piacere in atto è desto. Vostra apprensiva da esser verace tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, sì che l’animo ad essa volger face; E se, rivolto, inver’ di lei si piega, quel piegare è amor, quell’è natura che per piacer di novo in voi si lega»12.

Ancora una volta non è difficile trovare riscontro nei testi di Tommaso. Ne citiamo uno per tutti:

10

Ibid., vv 127-29. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 28, a. 6, c. La traduzione italiana della Summa Theologiae è tratta da S. TOMMASO D’AQUINO, La Somma Teologica, a cura di P. Tito e S. Centi, Bologna 1984. 12 DANTE ALIGHIERI, Commedia, Purgatorio, XVIII, vv 19-27. 11


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«La passione [in genere] è l’effetto prodotto dall’agente nel paziente. Ora l’agente fisico, o naturale, produce due effetti nel paziente: prima di tutto produce la forma, e in secondo luogo il moto che da essa deriva; un corpo, per es., dalla causa che lo produce riceve la gravità e il moto che l’accompagna. E la gravità stessa, principio del moto verso il luogo naturale del corpo, in qualche modo si può denominare amore naturale. Allo stesso modo anche l’oggetto appetibile prima dà all’appetito una certa conformazione con esso, e cioè la compiacenza verso l’appetibile; e da quella segue il moto verso di esso. Infatti, come Aristotele fa osservare in 3 De Anima [c. 10, lect. 15], “il moto appetitivo si sviluppa in cerchio”: poiché l’oggetto muove l’appetito, rendendosi presente in qualche modo nell’intenzione di esso; e l’appetito tende a conseguire l’oggetto della realtà, in maniera che il moto finisca là, dove è cominciato. Concludendo, la prima trasformazione prodotta dall’oggetto nell’appetito si chiama amore, e si riduce alla semplice compiacenza per l’oggetto appetibile: e da questa compiacenza segue un moto verso di esso, cioè il desiderio e finalmente la quiete, cioè il gaudio. Consistendo, perciò, l’amore in una trasformazione dell’appetito da parte dell’oggetto, è chiaro che l’amore è una passione: passione in senso stretto, in quanto si trova nel concupiscibile; in senso lato in quanto ha sede nella volontà»13.

Esiste, dunque, una circolarità tra conoscenza, amore e possesso. La realtà si unisce con il soggetto nell’atto della conoscenza: il soggetto conoscente diviene in qualche modo (nell’intenzione, dice Tommaso) l’oggetto conosciuto, perché ne assume in sé, nel proprio intelletto la forma ontologica, che diviene l’idea che egli se ne fa. Attratto poi da questo e liberamente amandolo, tende ad unirsi ad esso realmente. L’amore è un evento “nuziale”, un donarsi vicendevole tra il soggetto conoscente e libero e la realtà conosciuta e amata14. 13

TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 26, a. 2, c. Questa dinamica comune per cui l’amore si identifica con la passione non deve far dimenticare, però, la profonda differenza che passa tra l’appetito naturale o fisico, l’appetito sensitivo e quello intellettivo. Quest’ultimo, volontario e perciò libero, è l’amore propriamente umano (cfr ibid., I-II, q. 26, a. 1, c.). 14 Da questa circolarità della conoscenza e dell’amore segue che l’amore di Dio vale più della sua conoscenza; al contrario la conoscenza delle cose naturali è preferibile al loro amore: «Come già si disse, l’intellezione si verifica per il fatto che la specie della cosa intesa viene a trovarsi nel conoscente; l’atto della volontà invece si compie per il fatto che la


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Francesco Ventorino

Anche l’atto della conoscenza, come ogni azione umana, è mosso dall’amore. Occorre tener presente, infatti, che la conoscenza intellettuale è mossa dall’appetito di quel bene nel quale consiste la sua pienezza, cioè la verità. «Una cosa può causare il movimento in due maniere. Primo, sotto l’aspetto di fine: come quando si dice che il fine muove la causa efficiente. E in questo modo è l’intelletto a muovere la volontà; perché il bene intellettualmente conosciuto è oggetto della volontà e la muove come fine. Secondo, sotto l’aspetto di causa agente; come l’elemento alterante muove quello che viene alterato, e ciò che spinge muove la cosa sospinta. In questo modo la volontà muove l’intelletto e tutte le potenze dell’anima, come dice s. Anselmo nel De similitudinis [c. 2]. E la ragione si è che in una serie di potenze attive ordinate tra loro, quella che mira a un fine universale muove le altre, che mirano a fini particolari. La cosa è evidente anche in campo fisico e in quello politico [...]. L’oggetto del volere sono il bene e il fine nella loro universalità. Invece ogni altra potenza è ordinata a un bene particolare ad essa proporzionato; la vista, per es., è ordinata a percepire il colore, e l’intelletto a conoscere il vero. Perciò la volontà muove, come causa agente, tutte le potenze dell’anima, verso i loro atti; meno che le potenze organiche della vita vegetativa, le quali non sottostanno al nostro arbitrio»15. volontà subisce un’inclinazione verso la cosa, qual è nella sua realtà. Perciò il Filosofo, in 6 Metaphys. [c. 4, lect. 4], dice che “il bene e il male”, oggetto della volontà, “sono nelle cose”; mentre “il vero e il falso”, oggetto dell’intelletto, “sono nella mente”. Quando la cosa dunque, in cui il bene si trova, è più nobile dell’anima stessa, nella quale si trova la sua immagine intellettiva, allora la volontà è più alta dell’intelletto, appunto in rapporto a tale cosa. Quando invece la cosa, in cui si trova il bene, è al di sotto dell’anima, allora anche in rapporto a tale cosa, l’intelletto è superiore alla volontà. L’amore di Dio perciò vale di più della conoscenza di lui: al contrario la conoscenza delle cose naturali è preferibile al loro amore» (TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 82, a. 3, c.). 15 Ibid., I, q. 82, a. 4, c. Da quanto detto segue una conseguenza importante. Sopra è stato affermato che l’intelletto è una facoltà più alta e più nobile della volontà, « infatti la volontà stessa, il suo atto e il suo oggetto, rientrano nei concetti di ente e di vero, che formano l’oggetto dell’intelligenza. […] Ma se si considera la volontà secondo l’universalità del suo oggetto, che è il bene, e l’intelletto invece si considera in quanto è un ente particolare e una particolare potenza, allora rientrano, come singolari, sotto la ragione universale di bene, e l’intelletto, e l’intellezione, e il suo oggetto, cioè il vero, ciascuno dei quali è un bene particolare. Sotto questo aspetto la volontà è più alta dell’intelletto e lo può muovere» (Ibid., I, q. 82, a. 4, ad 1.).


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L’unità dell’essere, in quanto ad un tempo vero e bene, è la radice ultima dell’interazione tra volontà e intelletto, tra amore e conoscenza. «Da qui dunque si rileva la ragione, per cui queste potenze si includono a vicenda con i loro atti; poiché l’intelletto conosce che la volontà vuole; e la volontà vuole che l’intelletto conosca. Analogamente, il bene è incluso nel vero, in quanto è un vero conosciuto dall’intelletto; e il vero è incluso nel bene, in quanto è un bene desiderato»16.

Il desiderio dell’essere come principio di ogni movimento, sia necessario che libero, è presente in tutto il primo canto del Paradiso. Esso costituisce la ragione più profonda dell’andare naturale di Dante verso il cielo, cioè verso Dio: questa, infatti, è la spiegazione che ne riceve da Beatrice: [...] «Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma che l’universo a Dio fa simigliante. Qui veggion l’alte creature l’orma de l’etterno valore, il quale è fine

al quale è fatta la toccata norma. Ne l’ordine ch’io dico sono accline tutte nature, per diverse sorti, più al principio loro e men vicine; onde si muovono a diversi porti per lo gran mar de l’essere, e ciascuna con istinto a lei dato che la porti. Questi ne porta il foco inver’ la luna; questi ne’ cor mortali è permotore; questi la terra a sé stringe e aduna: né pur le creature che son fore d’intelligenza quest’arco saetta ma quelle c’hanno intelletto e amore. […] e ora lì, com’a sito decreto, c’en porta la virtù di quella corda che ciò che scocca drizza in segno lieto. […] 16

Ibid., I, q. 82, a. 4, ad 1.


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Francesco Ventorino Non dei più ammirar, se bene stimo, lo tuo salir, se non come d’un rivo se d’alto monte scende giuso ad imo. Maraviglia sarebbe in te se, privo d’impedimento, giù ti fossi assiso, come a terra quiete in foco vivo»17.

L’essere nella sua unità di verità e bontà è l’oggetto di questo desiderio e la causa di questo moto. «La natura del mondo, che quïeta il mezzo e tutto l’altro intorno move quinci comincia come da sua meta; e questo cielo non ha altro dove che la mente divina, in che s’accende l’amor che ’l volge e la virtù ch’ei piove. Luce e amor d’un cerchio lui comprende, sì come questo li altri; e quel precinto colui che ’l cinge solamente intende»18.

Così Beatrice descrive il nono cielo, il cielo Cristallino o Primo Mobile, quello che contiene e muove il mondo e che, a sua volta, non ha altro luogo che la mente di Dio, dalla quale trae il suo movimento, in forza della luce e dell’amore che da essa vi piove. Qui Beatrice anticipa quella che sarà, nel XXX canto, la definizione dell’Empireo: «[…] pura luce: luce intellettüal, piena d’amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore»19.

17 18 19

DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, I, vv 103-131. Ibid., XXVII, vv 106-114. Ibid., XXX, vv 39-42.


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L’essere creato da Dio è luce e amore: è la ricchezza della verità e insieme del bene, che saziano il cuore dell’uomo. Per questo, la beatitudine dell’uomo, come quella di ogni creatura razionale, consiste nella visione di Dio, cioè di quella fonte dell’essere che, esaurendo il suo desiderio naturale di conoscere la verità, colma nello stesso tempo quel desiderio di ogni bene, che genera e sostiene il desiderio della conoscenza. A questo compimento pertanto aderisce necessariamente la volontà, cioè quella facoltà di amare liberamente il bene, di cui l’uomo è dotato e che in lui costituisce il fondamento di ogni altro desiderio, e in esso trova la sua quiete: «Frate, la nostra volontà quïeta virtù di carità, che fa volerne sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta. […]»20. «La visione dell’essenza divina riempie l’anima di ogni bene, unendola alla fonte di ogni bontà; poiché sta scritto nel Salmo 16, 15: “Mi sazierò della tua gloria”, e in Sap. 7, 11: “Mi vennero poi con essa tutti i beni”, cioè con la contemplazione della [divina] sapienza. E neppure è accompagnata da inconvenienti; poiché sta scritto a proposito della contemplazione della sapienza [increata] in Sap. 8, 16: “Non ha amarezza la sua conversazione, né tedio il convivere con lei”. Da ciò è evidente che un beato non può di volontà propria abbandonare la beatitudine»21.

XXXIII

Alla luce di queste affermazioni si comprendono meglio i versi del canto del Paradiso: «A quella luce cotal si diventa, che volgersi da lei per altro aspetto è impossibil che mai si consenta; però che ’l ben, ch’è del volere obietto, tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella è defettivo ciò ch’è lì perfetto»22.

20 21 22

Ibid., III, vv 70-72. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 5, a. 4, c. DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, XXXIII, vv 100-105.


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In questa adesione necessaria a ciò che supremamente piace, cioè placa il desiderio del cuore, si realizza la facoltà di amare propria dell’uomo, vale a dire la sua libertà, come capacità di aderire al bene conosciuto. Una siffatta necessità non è assolutamente contraddittoria con la libertà, anzi ne è il principio e il fondamento perché, come spiega s. Tommaso23, non esiste contraddizione tra volontario e necessario, quando la necessità riguarda il fine naturale della volontà stessa; anzi è da questa necessità che ogni moto della volontà procede. Per questo possiamo dire che «noi siamo padroni dei nostri atti in quanto possiamo scegliere questa o quella cosa. Ma la scelta non ha per oggetto il fine, ma “i mezzi che portano al fine”, come dice Aristotele in 3 Ethic. [cc. 3, 5, lect. 5, 10]. Perciò l’appetizione dell’ultimo fine non rientra tra le cose di cui siamo padroni»24.

La radice dell’amore, di ogni amore, è questa necessità naturale in forza della quale l’uomo tende al bene. È questa necessità che Dante ha fatto definire a Virgilio con i versi che abbiamo già citato: «L’animo, ch’è creato ad amar presto, ad ogne cosa è mobile che piace, tosto che dal piacere in atto è desto».

Sono versi che hanno trovato già uno splendido anticipo nelle parole di Francesca da Rimini: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona»25, perché anche all’inizio del peccato sta l’amore (un amore disordinato di sé e dell’altro), come all’inizio di ogni atto virtuoso: «Amore,/ acceso di virtù sempre altro accese»26. Sublime compimento sarà raggiunto nel Paradiso: ma già volgeva il mio disio e ’l velle sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle»27. 23 24 25 26 27

Cfr TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 82, a. 1, c. Ibid., I, q. 82, a. 1, ad 3. DANTE ALIGHIERI, Commedia, Inferno, V, v 103. ID., Commedia, Purgatorio, XXII, vv 10-11. ID., Commedia, Paradiso, XXXIII, vv 143-45.


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Avendo visto Dio, il desiderio e il volere del poeta venivano mossi dall’amore di Dio con la stessa necessità con cui esso muove il sole e le stelle. Come è stato osservato, si avvera in lui l’auspicio di Boezio (citato in Mon. I, IX, 2-3) che, dopo aver celebrato l’amore che stringe in armonia l’universo, così esclama: «O felice genere umano, / se i vostri animi fossero governati / da quell’amore che governa il cielo!» (Cons. II, m. VIII, vv. 28-30)28.

2. LA CARITÀ RADICE DEL MERITO DELLA VITA ETERNA Quella necessità, per cui la volontà dell’uomo tende alla sua beatitudine, che solo consiste nella visione di Dio, non toglie all’uomo la libertà di amarlo come l’unico suo bene e di ricercarlo come tale in ogni cosa desiderata e voluta. La libertà di amare Dio, vale a dire la carità, è ciò in cui consiste la grandezza dell’uomo e la sua possibilità di meritare la vita eterna29. La carità, che non è «un qualsiasi amor di Dio, ma è l’amore con il quale si ama Dio quale oggetto della beatitudine»30, è condizione essenziale perché già in questa vita la volontà dell’uomo sia unita al suo fine ultimo che è Dio31. Essa è possibile solo in forza della fede e della speranza. 28

Cfr A. M. CHIAVACCI LEONARDI, cit., 928, nota 145. «L’atto umano desume da due fattori il suo aspetto meritorio: in modo primario e principale dalla preordinazione divina, poiché l’atto si dice meritorio di quel bene al quale l’uomo è ordinato da Dio; secondariamente dal libero arbitrio, in quanto l’uomo, a differenza delle altre creature, ha la padronanza dei propri atti, agendo volontariamente. E in rapporto a queste due cose, il merito principalmente risiede nella carità. Si deve innanzitutto considerare che la vita eterna consiste nella fruizione di Dio. Ora, il moto dell’anima umana verso la fruizione del bene divino è l’atto proprio della carità, col quale tutti gli altri atti delle altre virtù sono ordinati a questo fine, e in forza del cui esercizio tutte le altre virtù sono imperate dalla carità. Perciò il merito della vita eterna appartiene prima di tutto alla carità; e secondariamente alle altre virtù, in quanto i loro atti sono comandati da essa. Così pure è evidente che quanto facciamo per amore, lo facciamo con la massima volontarietà. Perciò, richiedendosi nel merito la volontarietà, è soprattutto alla carità che va attribuito il merito» (TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 114, a. 4, c.). 30 Ibid., I-II, q. 65, a. 5, ad 1. 31 Cfr ID. In II Sententiarum, ds. 38, q. 1, a. 2, sc. 1., traduzione nostra. 29


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La carità, infatti, «non dice soltanto amore di Dio, ma una certa amicizia verso di lui; amicizia che aggiunge all’amare un riamarsi scambievole, con una comunicazione reciproca, come spiega Aristotele in 8 Ethic [c. 2, lect. 2]. E che tale proprietà appartiene alla carità è evidente da quel testo della I Ioan., IV, 16 che dice: “Chi sta nella carità sta in Dio, e Dio in lui”. E san Paolo afferma nella 1ad Cor., 1, 9: “Fedele è Iddio, per opera del quale siete stati chiamati alla società del Figlio suo”. Ora, questa società dell’uomo con Dio, che è un commercio familiare con lui, viene iniziata nella vita presente mediante la grazia, e avrà compimento in futuro mediante la gloria; e queste due cose noi ora le possediamo in forza della fede e della speranza. Perciò, come non è possibile aver amicizia con qualcuno, se non si crede e non si spera di poter avere con lui società o commercio familiare; così non si può avere amicizia con Dio, ossia la carità, senza avere la fede per credere in codesta società e commercio dell’uomo con Dio e senza avere la speranza di appartenere a codesta società. Ecco quindi che in nessun modo la carità può sussistere senza la fede e la speranza»32.

Questa carità, questa familiarità con Dio, che inizia in questa vita e si compie nella vita eterna, non è possibile, dunque, all’uomo se non per la grazia della fede in Cristo, da cui scaturisce la speranza, cioè la certezza di poterla vivere eternamente. Questa grazia ha, dunque, il suo inizio e la sua radice nell’Incarnazione del Figlio di Dio: «Siccome la beatitudine perfetta dell’uomo consiste nel godimento di Dio, fu necessario disporre l’affezione dell’uomo al desiderio di questa divina fruizione, proprio perché vediamo che il desiderio della beatitudine è insito naturalmente nell’uomo. Ora, il desiderio di godere di qualcosa è causato dall’amore verso di essa. Dunque fu necessario che l’uomo, che tende alla beatitudine perfetta, fosse indotto ad amare Dio. Nulla ci conduce talmente ad amare qualcuno quanto l’esperienza del suo amore per noi. Così l’amore di Dio verso l’uomo non si sarebbe potuto dimostrare in modo più efficace che con il fatto che Egli abbia voluto unirsi all’uomo in persona:

32 ID. Summa Theolgiae, I-II, q. 65, a. 5, c. È da notare che san Tommaso è stato il primo teologo che abbia concepito la carità, non come semplice amore, ma come amicizia.


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è, infatti, proprio dell’amore unire l’amante con l’amato fino a quanto è possibile. Fu, dunque, necessario all’uomo, che tende alla beatitudine perfetta, che Dio si facesse uomo»33.

Alla necessità con cui l’uomo tende a unirsi a Dio, come al suo fine naturale, corrisponde un’altra necessità, che è quella per la quale Dio inizia questa unione nell’umanità di Cristo, per mostrarne all’uomo tutta la bellezza e la possibilità di compimento. Mai come in queste affermazioni necessità e libertà si baciano fino a coincidere: si tratta, infatti, della necessità dell’amore. In Dio alla libera elezione dell’uomo ad un destino soprannaturale corrisponde la gratuita scelta di farsi Uomo, per rendere l’uomo capace di raggiungere quella beatitudine perfetta cui il suo cuore naturalmente anela. Dante ha iniziato a parlare di questa necessità dell’Incarnazione e della fede in Cristo in ordine alla salvezza nel Paradiso, ponendosi la domanda circa la giustizia della elezione ad essa: «Un uom nasce alla riva dell’Indo, e quivi non è chi ragioni di Cristo né chi legga né chi scriva; e tutti suoi voleri e atti buoni sono quanto ragione umana vede, sanza peccato in vita o in sermoni. Muore non battezzato e sanza fede: ov’è questa giustizia che ’l condanna? Ov’è la colpa sua, se ei non crede?»34

E la risposta che riceve dall’Aquila, è questa misteriosa sentenza: «A questo regno non salì mai chi non credette ’n Cristo, né pria né poi ch’el si chiavasse al legno. Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”, 33 34

ID., Summa contra Gentiles, 4, c. 54, n. 5., traduzione nostra. DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, XIX, vv 70-78.


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Francesco Ventorino che saranno in giudicio assai men prope a lui, che tal che non conosce Cristo; e tai Cristiani dannerà l’Etiope, quando si partiranno i due collegi, l’uno in etterno ricco, e l’altro inope. Che poran dir li Perse a’ vostri regi, come vedranno quel volume aperto nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?»35

Ancora una volta, la risposta è in profonda consonanza con la teologia di Tommaso d’Aquino. La fede in Cristo è necessaria alla salvezza eterna; ma questa fede nella misteriosa economia di Dio è donata a ciascuno secondo una misura e una modalità che gli è propria. S. Tommaso afferma esplicitamente che, essendo il mistero dell’Incarnazione di Cristo la via attraverso la quale l’uomo può pervenire alla beatitudine, cioè alla soddisfazione piena del desiderio che lo costituisce, è necessario che, in una certa misura, tutti gli uomini di questo mistero abbiano una qualche conoscenza, senza la quale sarebbe impossibile avere una qualche intelligenza del significato della vita, nonché delle esperienze umane fondamentali, quali l’amore, il peccato, il sacrificio, il dolore e la morte. «Perciò era necessario che il mistero dell’incarnazione di Cristo in qualche modo fosse creduto da tutti in tutti i tempi: però diversamente secondo le diversità dei tempi e delle persone»36.

Dello stesso Adamo «si arguisce che prevedeva l’Incarnazione di Cristo dalle parole che disse: “Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre e si stringerà a sua moglie”, come in Gen. 2, 24; parole che secondo l’Apostolo, Ef. 5, 32, stanno a indicare “il grande mistero esistente in Cristo e nella Chiesa”; mistero che non è credibile che il primo uomo abbia ignorato»37. 35 36 37

Ibid., vv 103-114. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, 2, 7, c. L. c.


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Conseguentemente Adamo ha avuto una conoscenza della Incarnazione di Cristo, almeno in quanto questa «era ordinata alla pienezza della gloria, ma non in quanto era ordinata a liberare dal peccato con la passione e con la resurrezione; perché l’uomo non prevedeva il suo peccato»38.

E degli uomini i quali sotto il peccato moltiplicavano i sacrifici per la propria redenzione si dice che era impossibile che lo facessero senza una qualche conoscenza del mistero della Incarnazione, della Passione e della Resurrezione di Cristo39. Della salvezza di quanti hanno creduto nel Cristo venturo Dante parla nel canto XXXII del Paradiso. Entro la rosa paradisiaca descritta da Bernardo, costoro restano divisi da quelli che hanno creduto nel Cristo venuto, eppure godono ugualmente della gloria di Dio, in quel digradare «secondo lo sguardo che fee la fede in Cristo», che costituisce l’ordine del Paradiso stesso: «La piaga che Maria richiuse e unse, quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi è colei che l’aperse e che la punse. Nell’ordine che fanno i terzi sedi, siede Rachel di sotto costei con Beatrice, sì come tu vedi. Sara e Rebecca, Iudít e colei che fu bisava al cantor che per doglia del fallo disse: “Miserere mei”, 38

L. c. «Altrimenti [gli antichi] non avrebbero prefigurato la passione di Cristo con dei sacrifici, sia prima che dopo la promulgazione della legge. E di questi sacrifici i maggiorenti conoscevano esplicitamente il significato ; mentre le persone più semplici ne avevano una conoscenza confusa sotto il velo di quei sacrifici, credendo che essi erano disposti per il Cristo venturo» (l. c.). Prosegue s. Tommaso: «Se alcuni si salvarono senza codeste rivelazioni, non si salvarono senza la fede nel Mediatore. Perché, anche se non ne ebbero una fede esplicita, ebbero però una fede implicita nella divina provvidenza, credendo che Dio sarebbe stato redentore degli uomini nel modo che a lui sarebbe piaciuto e secondo la rivelazione da lui fattta a quei pochi sapienti» (ibid., II-II, 2, 7, ad 3.). 39


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Francesco Ventorino puoi tu veder così di soglia in soglia giù digradar, com’io ch’a proprio nome vo per la rosa giù di foglia in foglia. E dal settimo grado in giù, sì come infino ad esso, succedono Ebree, dirimendo del fior tutte le chiome; perché, secondo lo sguardo che fee la fede in Cristo, queste sono il muro a che si parton le sacre scalee. Da questa parte onde ’l fiore è maturo di tutte le sue foglie, sono assisi quei che credettero in Cristo venturo; dall’altra parte onde sono intercisi di vòti i semicircoli, si stanno quei ch’a Cristo venuto ebber li visi. […] Or mira l’alto proveder divino; ché l’uno e l’altro aspetto della fede igualmente empierà questo giardino. […] Dentro all’ampiezza di questo reame casual punto non puote aver sito, se non come tristizia o sete o fame; ché per etterna legge è stabilito quantunque vedi, sì che giustamente ci si risponde dall’anello al dito. […] Lo rege per cui questo regno pausa in tanto amore ed in tanto diletto, che nulla volontà è di più ausa, le menti tutte nel suo lieto aspetto creando, a suo piacer di grazia dota diversamente; e qui basti l’effetto. […] Riguarda ormai nella faccia che a Cristo più somiglia, ché la sua chiarezza sola ti può disporre a vedere Cristo»40.

40

DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, XXXII, vv 4-27; 37-39; 52-57; 61-66; 85-87.


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3. I GRADI DELLA BEATITUDINE Nel canto IV del Paradiso Beatrice spiega a Dante che tutti i beati hanno la loro sede nell’Empireo, anche se essi si mostrano al poeta distribuiti nelle varie sfere per dargli un’immagine del loro differente grado di beatitudine: «Qui si mostraro, non perché sortita sia questa spera lor, ma per far segno della spiritual c’ha men salita»41.

E questo affinché all’intelletto umano, che non può intendere se non per sensibilia et phantasmata, sia resa intelligibile una realtà di ordine spirituale che riguarda il mistero stesso della visione di Dio: «Così parlar conviensi al vostro ingegno, però che solo da sensato apprende ciò che fa poscia d’intelletto degno»42.

Che la beatitudine sia necessariamente data secondo una certa misura e un grado conseguente è stato sostenuto da san Tommaso nella Summa Theologiae43. È il concetto di sorte che ricorre due volte nel dialogo fra Dante e Piccarda: «grazioso mi fia se mi contenti del nome tuo e della vostra sorte»44; «E questa sorte che par giù cotanto, però n’è data, perché fuor negletti li nostri voti, e vòti in alcun canto»45.

41 42 43 44 45

ID., Commedia, Paradiso, IV, vv 37-39. Ibid., IV, vv 40-42. Cfr TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 62, a. 9, c. DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, III, vv 40-41. Ibid. vv 55-57.


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È su questo concetto che ruota la domanda di Dante e le risposte che riceve prima da Piccarda e dopo da Beatrice. Tommaso aveva ancora insegnato: «I diversi gradi nel conseguimento del fine ultimo vengono denominati “mansioni diverse”(diversae mansiones): cosicché l’unica casa (unitas domus) sta ad indicare la comune e universale beatitudine da parte dell’oggetto; mentre la pluralità delle “mansioni” (mansionum) indica le differenze che nella beatitudine si riscontrano da parte dei beati»46.

Qui vengono affermate due verità. La prima è che il desiderio di tutti i beati è soddisfatto dalla visione di Dio e dalla beatitudine che ne consegue, anche se secondo gradi diversi di perfezione. Dante, infatti, fa dire a Piccarda ripetutamente di sé e degli altri spiriti del cielo della luna, che sono beati, pienamente beati: «che posta qui con quest’altri beati, beata sono in la spera più tarda»47

La seconda verità è che, essendo la carità alla radice del merito della vita eterna, è ragionevole affermare un nesso profondo tra la carità e il grado di beatitudine che in essa si gode. «Quanto più qualcuno è a Dio unito, tanto più è beato. Ma la misura della carità è quella della unità con Dio. Dunque, secondo la differenza nella carità ci sarà differenza nella beatitudine»48.

È per questo che Dante, forse rifacendosi a questa teologia tomista, colloca Piccarda nel più remoto gradino di beatitudine, perché in lei, anche se a causa di una violenza esterna, la carità non raggiunse un grado eroico di fedeltà ai propri voti religiosi.

46 47 48

TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, III, suppl., q. 93, a. 2. c. DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, III, vv 50-51. TOMMASO D’AQUINO, In IV Sententiarum, ds. 49, q. 1, a. 4, s.c. 1., traduzione nostra.


Amore e visione di Piccarda Donati

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Beatrice, infatti, spiega: «Se violenza è quando quel che pate niente conferisce a quel che sforza, non fuor quest’alme per essa scusate; che volontà, se non vuol, non s’ammorza, ma fa come natura face in foco, se mille volte violenza il torza. Per che, s’ella si piega assai o poco, segue la forza; e così queste fero, possendo rifuggir nel santo loco. Se fosse stato lor voler intero, come tenne Lorenzo in su la grada, e fece Muzio alla sua man severo, così l’avrìa ripinte per la strada ond’eran tratte, come fuoro sciolte; ma così salda voglia è troppo rada»49.

E nel canto seguente ne dà la ragione antropologica e teologica: «Lo maggior don che Dio per sua larghezza fesse creando ed alla sua bontate più conformato e quel ch’e’ più apprezza, fu della volontà la libertate; di che le creature intelligenti, e tutte e solo fuoro e son dotate. Or ti parrà, se tu quinci argomenti, l’alto valor del voto, s’è sì fatto che Dio consenta quando tu consenti; ché, nel fermar tra Dio e l’uomo il patto, vittima fassi di questo tesoro, tal quale io dico; e fassi col suo atto»50.

49

DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, IV, vv 73-87. Ibid., V, vv 19-30. «Fare di una monaca smonacata, vittima di una violenza cui la volontà non consente, ma contro neppure lotta inesausta, la figura della virtù della carità permette all’autore, meglio di quanto non potessero fare vissuti umani “perfettamente” compiuti di quella virtù (quello di Chiara, per esempio), di affrontare problemi tipici della 50


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Francesco Ventorino

La salvezza dell’uomo si compie, dunque, dentro il misterioso rapporto tra l’amore di Dio, che elegge e la volontà dell’uomo che risponde nella sua libertà. La gratuità ne è la legge suprema: «Regnum coelorum violenza pate da caldo amore e da viva speranza che vince la divina volontate; non a guisa che l’omo a l’om sobranza, ma vince lei perché vuole esser vinta, e, vinta, vince con sua beninanza»51.

4. L’ORDINE DEL PARADISO E LA SUA RAGIONE ULTIMA Se la carità è grazia, è ultimamente il rapporto con il Cristo, che ciascun uomo ha vissuto secondo il misterioso disegno di Dio, che costituisce, «di foglia in foglia»52, l’ordine della rosa dei beati. In quest’ordine la Madonna è la prima53. È dunque la visione di Dio il fine ultimo dell’uomo e in questa la sua beatitudine e la sua realizzazione? Oppure nell’obbedienza e nella carità per la quale partecipa della Sua volontà? Queste sono le domande dalle quali eravamo partiti iniziando la nostra riflessione sull’incontro di Dante con Piccarda. La risposta che, alla fine della nostra argomentazione, possiamo dare a quelle domande è che il fine ultimo dell’uomo, e quindi la sua beatitudine, è la visione di Dio, secondo il grado gratuitamente assegnato dalla volontà di Dio e liberamente accettato da ciascuno nell’obbedienza, con la quale si aderisce a quella misura di carità che viene data da Cristo. Esiste infatti, come abbiamo visto54, una circolarità tra conoscenza, amore e possesso. E questa si realizza pienamente nella conoscenza trattatistica sull’argomento, come quello del rapporto che corre tra peccato, volontà, violenza e carità» (L. BATTAGLIA RICCI, cit., 59). 51 DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, XX, vv 94-99. 52 Ibid., XXXII, v 15. 53 Ibid., vv 85-87. 54 Cfr nota 1.


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suprema che è quella di Dio. Senza amore perfetto non ci sarebbe conoscenza perfetta e viceversa, perché il rapporto dell’uomo con l’Essere, che in sé racchiude il vero e il bene, implica l’interezza di se stesso e la partecipazione di tutte le sue facoltà. Per questo la misura della carità, secondo quanto insegna Tommaso d’Aquino, è la misura della beatitudine. Senza amore non ci sarebbe dunque conoscenza di Dio. Quello che si è reso sempre più evidente, dunque, nel corso delle nostre riflessioni è il nesso profondo che esiste tra beatitudine, carità e grazia di Cristo. Senza Cristo infatti, come abbiamo detto55, non ci sarebbe salvezza. Il Paradiso è il trionfo della grazia di Cristo e del suo Spirito, di cui la carità e l’obbedienza di Piccarda, che Dante incontra fin dall’ingresso in esso, sono testimonianza: Ond’ella, pronta e con occhi ridenti: «La nostra carità non serra porte a giusta voglia, se non come quella che vuol simile a sé tutta sua corte […]. Li nostri affetti, che solo infiammati son del piacer de lo Spirito Santo letizian del suo ordine formati. […]»56. «Frate, la nostra volontà quïeta virtù di carità, che fa volerne sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta, Se disïassimo esser più superne, foran discordi li nostri disiri dal voler di colui che qui ne cerne; 55

Cfr nota 2. DANTE ALIGHIERI, Commedia,Paradiso, III, vv 42-45; 52-54. Karlheinz Stierle, che si è occupato recentemente di questo canto, ha annotato felicemente: «Nel Paradiso la carità diviene il nuovo principio di comunicazione. Con questo la situazione comunicativa del Paradiso si differenzia sostanzialmente da quella sia dell’Inferno sia del Purgatorio. Nell’Inferno è soprattutto la speranza di gloria e di una fama immortale sulla terra a indurre i dannati (che tra di loro non si parlano) a comunicare con Dante. Nel Purgatorio invece il desiderio dei penitenti di comunicare con Dante deriva soprattutto dal privilegio che i viventi hanno di abbreviare con la loro preghiera il tempo che le anime devono passare nell’Antipurgatorio e nel Purgatorio» (K. STIERLE, Paradiso: Canto III, in L’Alighieri, Rassegna dantesca, XLIII (2002) 69-85, a 75. 56


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Francesco Ventorino che vedrai non capere in questi giri, s’essere in carità è qui necesse, e se la sua natura ben rimiri. Anzi è formale ad esto beato esse tenersi dentro alla divina voglia, per ch’una fansi nostre voglie stesse; sì che, come noi sem di soglia in soglia, per questo regno, a tutto il regno piace, com’a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia. E ’n la sua volontade è nostra pace: ell’è quel mare al qual tutto si muove ciò ch’ella crïa e che natura face»57.

E Dante commenta: Chiaro mi fu allor com’ogni dove in cielo è paradiso, etsi la grazia del sommo ben d’un modo non vi piove58.

È questa la grazia che Dante ha invocato fin dall’inizio del suo cammino, avvistando Virgilio: «Miserere di me» gridai a lui59;

57 DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, III, vv 70-87. «Poiché Piccarda è il primo dei beati incontrati dal pellegrino Dante, si è portati a credere che il suo essere figura caritatis assolva anche ad una precisa funzione narrativa-strutturale». Come Catone, all’inizio del secondo regno, raffigura quella libertà dal peccato che è condizione del percorso purgatoriale, «è probabile che Piccarda raffiguri la virtù che costituisce la conditio sine qua non per l’esperienza propria che si compie in paradiso: la diretta visione di Dio» (L. BATTAGLIA RICCI, cit., 61). 58 DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, III, vv 88-90. La Chiavacci Leonardi ha fatto notare che «proprio ad una creatura debole è stato affidato da Dante il compito di dichiarare la realtà d’amore del Paradiso. Nei deboli infatti più che nei forti risplende e si manifesta il mistero dell’amore di Dio». (A. M. CHIAVACCI LEONARDI, cit., 78). 59 DANTE ALIGHIERI, Commedia, Inferno, I, v 65.


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e che invocherà in modo particolare, quando, giunto al termine, si unisce «con l’affezione» alla preghiera di Bernardo alla Madonna, la Madre della Grazia, perché sia fatto capace di vedere Dio: «Or questi che, che da l’infima lacuna dell’universo infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una, supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi levarsi più alto verso l’ultima salute»60.

È per questa preghiera che il suo cammino non si trasforma nel “folle volo” di Ulisse. Quando poi Dante giungerà a vedere Dio, scorgerà nella profondità del Suo mistero l’umanità di Cristo, che è la fonte della salvezza e la caparra della beatitudine sua e di ogni uomo: Dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che ’l mio viso in lei tutto era messo61.

In Paradiso, dunque, i beati vengono ammessi alla visione di Dio per la grazia di Cristo che li conforma a sé – direbbe san Paolo62 – nella carità e nell’obbedienza. Che la grazia della visione di Dio faccia i beati simili a Lui e in qualche modo in Lui li trasmuti: non è questo, forse, il segreto che comincia a svelarsi a Dante nell’incontro con Piccarda? Ond’io a lei: «Ne’ mirabili aspetti vostri risplende non so che divino che vi trasmuta da’ primi concetti […]»63.

60 61 62 63

ID., Commedia, Paradiso, XXXIII, vv 22-27. Ibid., XXXIII, vv 130-32. Rm 8, 29. DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, III, vv 58-60.


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La grazia della beatitudine sboccia come un fiore dall’obbedienza di Cristo. Tutto il Paradiso apparirà a Dante come il frutto della vittoria di Cristo nel popolo cristiano, di quel popolo nuovo, che vive nella Sua carità e nella Sua pace64: E Beatrice disse: «Ecco le schiere del triünfo di Cristo e tutto il frutto ricolto dal girar di queste spere!»65. In forma dunque di candida rosa mi si mostrava la milizia santa che nel suo sangue Cristo fece sposa; […] Questo sicuro e gaudïoso regno, frequente in gente antica e in novella, viso e amore avea tutto ad un segno. Oh trina luce, che ’n unica stella scintillando a lor vista sì li appaga, guarda qua giuso alla nostra procella!66

Cristo stesso entra a godere con la nostra umanità della vita del Padre perché — come afferma la lettera ai Filippesi — «si è fatto obbediente fino 64 «Egli infatti è la nostra pace, – dice la Lettera agli Efesini – colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. […] Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in solo Spirito» (Ef 2, 14-18). L’inimicizia con Dio e fra gli uomini — secondo san Paolo — nasce dal mettere qualcosa frammezzo, qualcosa cioè che si desidera e che si fa valere di più di Dio stesso. L’obbedienza di Cristo è l’abolizione di questo muro di separazione, e perciò porta la pace, conducendo gli uomini al placarsi del loro desiderio nel suo vero oggetto, in modo che nessuna cosa li divida più da Dio e quindi neanche fra di loro. 65 DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, XXIII, vv 19-21. 66 Ibid., XXXI, vv 1-3; 25-30. Le considerazioni fatte mettono in questione l’assoluta fondatezza di quanto scritto da Hans Urs von Balthasar a proposito dell’assenza di ogni “cristocentrismo” nella Commedia di Dante: «La Divina Commedia è a tal punto una sezione a taglio trasversale attraverso il cosmo che l’evento storico della salvezza del mondo mediante il Cristo, un evento visibile solo in una sezione a taglio longitudinale, vi riceve una valenza troppo scarsa. […] Cristo ha aperto la porta esterna dell’inferno e ha liberato alcune


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alla morte e alla morte di croce»67. Di questa obbedienza vittoriosa, che apre all’umanità le porte del Paradiso, Virgilio aveva già dato testimonianza quando ancora erano nel primo cerchio dell’Inferno, confermando Dante nella fede dell’articolo del “Credo” che ci fa professare la discesa di Cristo dopo la sua morte agli inferi: «Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore», comincia’ io per voler esser certo di quella fede che vince ogni errore: «uscicci mai alcuno, o per suo merto o per altrui, che poi fosse beato?». E quei che ’ntese il mio parlar coverto, rispuose: «Io era nuovo in questo stato, quando ci vidi venire un possente, con segno di vittoria coronato. Trasseci l’ombra del primo parente, d’Abèl suo figlio e quella di Noé di Moïsè legista e ubidiente; Abraàm patriarca e Davìd re, Israèl con lo padre e co’ suoi nati e con Rachele, per cui tanto fé, anime dall’antinferno, la porta interna è rimasta chiusa come sempre. E il solo misero documento del passaggio di Cristo attraverso l’inferno interno è di natura geografica: una montagna franata che Virgilio avverte con stupore perché l’ultima volta che c’era passato la strada era ancora intatta. […] Perciò il viaggio di Dante attraverso l’inferno si svolge al seguito delle orme di Virgilio e non di quelle di Cristo, che sarebbe stata per un cristiano la sola maniera possibile in linea di principio di percorrere un simile “luogo”». Sempre secondo von Balthasar, in questo errore di prospettiva Dante si troverebbe in buona compagnia: «I guasti della immagine del mondo mitologica che è riuscita a inscrivere, senza nèi né cuciture, l’evento della salvezza nel suo cosmo geografico-astronomico — come in modo molto simile aveva fatto Tommaso d’Aquino nella sua grande escatologia del Commento alle Sentenze — emergono a questo punto come guasti teologici. La manchevole penetrazione cristologica dell’Inferno (e quindi anche trinitaria: la iscrizione sulla porta di ingresso non è certo bastevole) ha le sue risonanze anche nel Purgatorio il quale accentua assai più il processo di sanazione etica (kathortôsis) dell’uomo che non la imitazione di Cristo e la inesorabile confrontazione con la sua croce, ed ha anche una risonanza nel Paradiso dove la realtà di Cristo in quanto mediatore universale manca quasi del tutto» (H.U. VON BALTHASAR, Gloria, III, Stili Laicali, trad. it., Milano 1976, 89-90). 67 Fil 2, 5-11.


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Francesco Ventorino e altri molti, e feceli beati. E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi, spiriti umani non eran salvati»68.

Dante può compiere il suo viaggio spirituale che lo porta da «l’infima lacuna» alla visione di Dio solo seguendo quello vittorioso di Cristo: il suo cammino, infatti, si compie nel triduo pasquale. Egli non è un semplice visitatore «delle vite spiritali» dell’universo ma, in forza della grazia di una compagnia ecclesiale (Beatrice), viene nello stesso tempo guidato e trasformato interiormente. Egli fa esperienza di quella conformazione a Cristo nella obbedienza e nella carità, di cui parla Paolo. La conclusione della Commedia è icastica e sublime testimonianza di questa trasformazione: ma già volgeva il mio disio e’l velle sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle69.

5. LA MADONNA, PERFETTA SOMIGLIANZA A CRISTO Nel processo di conformazione a Cristo nell’obbedienza la Madonna raggiunge la somiglianza perfetta. Essa è divenuta la Madre di Cristo per la sua obbedienza, come è già implicato nella scena dell’Annunziazione riproposta da Dante negli intagli della prima cornice purgatoriale: L’angel che venne in terra col decreto de la molt’anni lagrimata pace, ch’aperse il ciel del suo lungo divieto, dinanzi a noi pareva […]. Giurato si sarìa ch’el dicesse «Ave!»; perché iv’era imaginata quella ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;

68 69

DANTE ALIGHIERI, Commedia, Inferno, IV, vv 46-63. ID., Commedia, Paradiso, XXXIII, vv 143-45.


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e avea in atto impressa esta favella «Ecce ancilla Deï» […]70.

Il compimento di questa contemplazione della Vergine si ha nella preghiera di Bernardo: «Tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ’l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura».

Qui viene stabilita una consequenzialità tra il nobilitarsi dell’umano nella Madonna e il farsi uomo di Dio71. Tutta l’umanità, l’«umana natura», è stata nobilitata nell’atto con cui la Madonna ha accolto, con libertà e prontezza, che in sé si compisse ciò che l’Angelo le annunciava. L’atto, infatti, che più di ogni altro nobilita l’uomo, perché lo rende conforme al suo destino, è l’obbedienza. A proposito dell’Annunziazione, infatti, san Tommaso aveva affermato: «Era opportuno che alla Beata Vergine fosse annunziato il concepimento di Cristo. Primo, per salvare il debito ordine nell’unione del Figlio di Dio con la Vergine: in modo che essa prima di concepirlo nella carne lo concepisse nella mente. Per cui s. Agostino nel libro De Virginitate [c. 3] dichiara: “È più beata Maria nel ricevere la fede di Cristo che nel concepire la carne di Cristo”. E poi soggiunge: “L’intimità materna non avrebbe giovato a Maria, se non avesse sentito più gioia di portare Cristo nel cuore che di portarlo nel seno”. Secondo, perché la Vergine potesse essere testimone più consapevole di questo mistero, dopo esserne stata istruita divinamente. Terzo, perché offrisse l’omaggio volontario della sua devozione, come fece

70

ID., Commedia, Purgatorio, X, vv 34-37; 40-44. A proposito di questa consequenzialità Tommaso d’Aquino aveva precisato: «Si dice che la Vergine Santa meritò di portare il Signore nostro Gesù Cristo, non perché meritò che Dio si incarnasse, ma perché con la grazia che le era stata concessa meritò tale grado di purità e di santità, da poter essere degnamente madre di Dio» (TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, III, q. 2, a. 11, ad 3). 71


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Francesco Ventorino con prontezza dicendo: “Ecco l’ancella del Signore”. Quarto, per manifestare l’esistenza di un matrimonio spirituale tra il Figlio di Dio e la natura umana. Cosicché l’annunziazione aveva il compito di chiedere il consenso alla Vergine in nome di tutto il genere umano»72.

Per la sua obbedienza, la Madonna è divenuta la «faccia che a Cristo più somiglia»73,

e pertanto ne è la mediatrice per Dante e per ogni uomo: «ché la sua chiarezza sola ti può disporre a vedere Cristo»74.

Per la sua obbedienza, Essa è divenuta quel luogo umano in cui ha cominciato a fiorire la rosa dei beati. Nella preghiera a favore di Dante, san Bernardo dice alla Madonna: «Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore»75.

Per questo Colei, che fu fatta così somigliante a Cristo da divenire degna di esserne Madre, è motivo di speranza per tutto il popolo cristiano: «Qui se’ a noi meridïana face di caritate, e giuso, intra ’ mortali, se’ di speranza fontana vivace»76.

72 73 74 75 76

Ibid., III, q. 30, a. 1, c. DANTE ALIGHIERI, Commedia, Paradiso, XXXII, vv 85-86. Ibid., XXXII, vv 86-87. Ibid., XXXIII, vv 7-9. Ibid., vv 10-12.


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Il popolo cristiano avverte, infatti, nella Madonna il luogo in cui è più evidente la vittoria di Cristo nella storia. In essa vede l’inizio di quel compimento, promesso nella creazione stessa, del desiderio che costituisce il cuore dell’uomo. Ad essa guarda, dunque, per poter sperare.



Synaxis XXII/3 (2004) 133-161

FRA LIBERATO AL SECOLO GIROLAMO PALAZZOTTO ARCHITETTO E “SERVO DI DIO”

SALVO CALOGERO*

INTRODUZIONE «Dalla famiglia Palazzotto, molto nota ed onorata nella Città di Messina, trass’egli la sua origine, col nome di Girolamo sortogli nel Santo Battesimo, che poi coi suoi genitori, fratelli e sorelle passò ad abitare in Catania, da se stesso parve inclinato all’arte di scarpellino, e molto v’attese con far de’ meravigliosi progressi»1.

Così scriveva nel 1781 padre Andrea da Paternò nella biografia di fra Liberato, al secolo Girolamo Palazzotto. La vita di questo architetto di origine messinese, ma catanese di adozione — se si eccettua lo studio di Domenico Puzzolo Sigillo che ne approfondisce le origini messinesi2 — è stata finora poco attenzionata da parte degli studiosi di storia patria che gli attribuiscono, quasi esclusivamente, il progetto della cattedrale di Catania, distrutta dal terremoto del 1693.

*

Ingegnere specializzato nel restauro di edifici storici e monumentali. A. DA PATERNÒ, Notizie storiche degli uomini illustri per forma di santità e di lettere, che han fiorito nell’Ordine dei FF. Min. Cappuccini della Provincia di Messina in Sicilia ecc., parte II, Messina 1781, 233-237 (trascritto in S. CALÌ, I quattro conventi cappuccini di Catania, Catania 1968, 179-184. L’opera sarà citata da questa trascrizione). 2 D. PUZZOLO SIGILLO, L’architetto Girolamo Palazzotto (Fra Liberato da Messina) 1676-1754, estratto dagli Atti della reale Accademia Peloritana, vol. XXXVII, 1935, parte II, 583-615. 1


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Il presente saggio vuole contribuire alla ricostruzione della vita di questo personaggio, approfondendo quanto riportato nella bibliografia con l’ausilio di documenti di archivio inediti3.

1. LA FAMIGLIA PALAZZOTTO A CATANIA Le prime notizie della famiglia Palazzotto a Catania si hanno a partire dal 19 novembre 1696 quando Francesco Palazzotto, padre di Girolamo, acquistò una «domo terranea» con botteghe e cortile, presso il convento di Sant’Agostino nel quartiere del “Guliseo”4, impegnandosi con i padri agostiniani a versare la «Bulla annuale di tarì 12 pro capitale di onze 8»5. La «domo terranea» presa in enfiteusi da Francesco Palazzotto diventò l’abitazione della sua famiglia. Ciò è confermato dalla «Concessione tarì 12 di Census bollato» richiesto nel 1705 a suor Amans Jesus Statella, sorella del padre Baccillieri del convento di Sant’Agostino, per continuare a pagare il canone6. La casa era ubicata nell’isolato delimitato da via Teatro Greco, via Verginelle, via Vittorio Emanuele e via S. Agostino, e confinava ad est con una casa di proprietà del convento di San Francesco, ad ovest con un cortile privato, a nord con il convento di Sant’Agostino e a sud con la pubblica strada (cioè la strada Reale, successivamente chiamata via del Corso e oggi via Vittorio Emanuele). Quindi la casa dei Palazzotto era posta su via Vittorio Emanuele poco prima dell’angolo con la via Verginelle.

3 Il prof. Vito Librando scrisse che «l’attività di Girolamo Palazzotto è documentata solo a Petralia Sottana nell’ottobre 1725» (V. LIBRANDO, Palazzo Biscari a Catania, Catania 1965, 58). 4 Con il termine “Guliseo” si indicava l’odeon o il teatro, che in quel periodo e fino ai primi del Novecento, erano utilizzati come case di abitazione. 5 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 1° vers., b. 1816, c. 354r-360v — 19 novembre 1696 — notaio Francesco Romano. 6 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 1° vers., b.2270, c. 696r-697r — 15 luglio 1705 — notaio Nicola Coltraro. Tale mutuo, inoltre, è citato «nell’Indice dell’effetti e Renditi annuali attinenti al molto Rev. Padre Baccillieri, Fr. Vincenzo Statella et Giovanni dell’ordine dell’eremiti di Sant’Agostino 1705. Bulla ann. di tarì 12 per capitale di onze 8 dovute da Francesco Palazzotto» (ibid., CC.RR.SS., b. 445, c. n.n.).


Fra Liberato architetto e “servo di Dio”

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Francesco Palazzotto nacque a Messina nel 1662 da Natale e Brigida Inca7. Nel 1682 si sposò con Andreana Grillo e dal loro matrimonio, prima di trasferirsi a Catania, nacquero ben nove figli dei quali due morirono lo stesso anno della loro nascita8. Il rinvenimento di alcuni documenti risalenti al 1714 fa sì che si conoscano i nomi dei figli messinesi trasferitisi con i genitori a Catania, cioè: Angela, «Hieronimus, Philippus, et Antoninus Palazzotto»9; mentre nell’Archivio Storico Diocesano di Catania10 sono state trovate le date di nascita dei figli catanesi: Brigida11 (che diventerà suora assumendo il nome di Rosaria Liberata), Giuseppe12 (il più piccolo dei fratelli Palazzotto) e Giuseppa13 (che diventerà anche lei suora assumendo il nome di Maria Giuseppa). Quindi si può ricostruire il nucleo familiare che, ai primi del Settecento, risultava costituito dai coniugi Palazzotto e da sette figli14. A parte Girolamo, che nacque il 10 novembre 1686, e Filippo, venuto alla luce il 28 ottobre 1692, di Antonio Palazzotto non si conosce la data di nascita. Egli era il più piccolo dei fratelli messinesi, come si deduce dal citato documento del 1714, e considerando che il fratello Filippo nacque il 28 ottobre 1692 si può pensare che egli sia nato successivamente a tale data. Sapendo, inoltre, che la sorella Brigida nacque il 27 febbraio 1698, egli deve essere nato fra la fine del 1693 e l’inizio del 1697. Ma se collochiamo il trasferimento della famiglia Palazzotto nella città etnea successivamente 7

Natale Palazzotto nacque a Messina nel 1639 e morì nella stessa città nel 1699 (D. PUZZOLO SIGILLO, L’architetto, cit., doc VI). 8 Ibid. 9 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 2° vers., b. 1088, c. 657r-v — 6 febbraio 1714 — notaio Vincenzo Arcidiacono senior. 10 La ricerca nel fondo Registri canonici è stata effettuata da Paolo Isaia, dell’Archivio Storico Diocesano di Catania, seguendo le indicazioni del direttore padre Gaetano Zito e dell’autore. 11 Domenica Brigida nacque a Catania il 27 febbraio 1698 e morì nel 1777 (ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI CATANIA, fondo Registri canonici, S. Biagio, battesimi, 1690-1714, f. 14, 2). 12 Salvatore Giuseppe Domenico nacque a Catania il 2 gennaio 1702 e morì il 14 maggio 1764 (ibid., S. Maria dell’Aiuto, battesimi, 1679-1714, f. 15, n. 2). 13 Giuseppa Vincenza Brigida nacque a Catania il 9 marzo 1703 e morì nel 1780. (ibid., f. 22, n. 1). 14 Si deduce che gli altri figli messinesi, elencati nell’albero genealogico riportato dal Puzzolo Sigillo, siano deceduti nel frattempo.


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Salvo Calogero

all’acquisto della loro casa, il cui atto fu stipulato nel novembre 1696, si deduce che egli sia nato nel periodo compreso fra il 1693 e il 1695, in una città diversa da Catania e Messina. Infatti, non essendo stata riscontrata la sua data di nascita dal Puzzolo Sigillo, e non essendo presente neanche nel fondo Registri canonici della curia di Catania, è difficile dire in quale città egli sia nato. Il 6 maggio 1711, nella chiesa di Santa Maria dell’Aiuto, si sposarono maestro Pasquale Serafino e Angela Palazzotto15, dalla cui unione nacquero ben otto figli16, tre maschi e cinque femmine. Al primogenito, insieme a quello del nonno paterno, venne dato il nome Girolamo, testimoniando la stima che avevano per lo zio. Fra i figli di Angela quello che intraprese l’attività del padre fu Giuseppe Serafino, nato a Catania il 25 marzo 1713, il quale lavorò alle dipendenze dello zio Giuseppe Palazzotto arrivando ad assumere la carica di architetto della Deputazione delle Strade17. Il primo lavoro eseguito dalla società composta dai due cognati, Girolamo Palazzotto e Pasquale Serafino, fu quello documentato dal contratto stipulato con don Giulio Tudisco, nel quale si legge che i due si obbligarono «di farli tutto quel lavoro necessario di pietra bianca, giusta la forma del disegno per la fabrica delle botteghe di detto di Tudisco nella contrada della fiera e per insino a quel segno che detto di Tudisco dicto nomine vorrà fabricare, e questo magistralmente conforme richiede l’arte di buon maestro e benvisto detto lavoro al capo mastro delle fabriche di questa città per patto»18, lavoro che doveva essere ultimato entro il mese di agosto 1711. 15 Pasquale Serafino, figlio di Antonino e Francesca Pappalardo, sposò Angela Palazzotto, figlia di Francesco e Andreana Grillo (ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI CATANIA, fondo Registri canonici, S. Maria dell’Aiuto, matrimoni, 1690-1714, f. 14, n. 2). 16 I figli furono: Girolamo Giovanni Battista Antonio (n. 8 marzo 1712), Giuseppe Francesco Nunzio (n. 25 marzo 1713), Mattea Maria Agata (n. 22 settembre 1714), Filippa Francesca Giuseppa (n. 30 giugno 1715), Francesca Grazia Andreana (n. 27 maggio 1718), Vincenza Grazia Andreana (n. 1 marzo 1720), Sicilia Andreana Caterina (n. 22 novembre 1721), Francesco Domenico Giacinto (n. 28 maggio 1723). (ibid., battesimi, 1690/17141715/1744). 17 S. CALOGERO, Documenti inediti sul Palazzo degli Elefanti a Catania, in Tecnica e Ricostruzione 59 (2004) gennaio-febbraio, 24. 18 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 1° vers., b. 2277, c. 340 r-v — 30 maggio 1711 — notaio Giuseppe Capace.


Fra Liberato architetto e “servo di Dio”

2.

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«MAGISTER HIERONIMUS PALAZZOTTO»

In base a quanto scrisse Domenico Puzzolo Sigillo, Francesco Palazzotto svolse il mestiere di “mazzone”19, ma questa sua attività non è documentata a Catania, mentre il figlio maggiore Girolamo, a soli diciotto anni si trova indicato in un atto notarile come «magister Hieronimus Palazzotto»20. Si tramanda che il giovane Girolamo sia stato l’architetto che ricostruì la chiesa di Santa Maria di Gesù a Catania ma, riprendendo la fonte scritta nel 1923 da Saverio Fiducia, si capisce che tale attribuzione non è supportata da documentazione che ne dimostri l’attendibilità. Il Fiducia scrisse: «Dice la targa marmorea poggiata alla trabeazione della porta: OCCIDIT ACCENSI TEMPLUM SUB NUMINIS IRA VIVET ET AETERNO VIRGINIS AUSPICIO ERECTUM ANNO DOMINI MDCCVI POST TERREM. XIII.

Millesettecentosei. Tredici anni dopo il terremoto. Chi fu il ricostruttore? Il nome di esso, come quello del resto di altri ideatori di templi di molto maggiore mole ed importanza architettonica, quale ad esempio S. Benedetto in via Crociferi, è rimasto nel mistero. Ma ove si pensi che in quel torno di tempo o poco dopo, dal 1709 cioè al 1712 sotto la direzione di quel quasi mitico Fra Liberato, risorse la Cattedrale e ove si consideri che il giovane fraticello, tutto preso da Dio e dalla sua arte, abitava l’eremo della 19 «Il “Mazzone” fa parte di una categoria di artigiani che, partendo dall’umile ufficio della lavorazione della pietra grezza, acquistata una sufficiente familiarità nel maneggio della sesta, assurge, talora, alla maturità esperta di Intagliatore, Maestro d’arte, Scultore o Architetto» (D. PUZZOLO SIGILLO, L’architetto, cit., 591). 20 «Obligatio pro Societate Sanctae Mariae de Cava cum magister Hieronimus Palazzotto». Questo contratto, citato nel registro della busta n° 851 alla lettera S, come pure nella relativa giuliana, non si trova trascritto nelle minute della stessa busta. Per cui, probabilmente, fu trascritto nel bastardello che non risulta versato all’Archivio di Stato di Catania. (ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 2° vers., b. 851, c. 14v — 3 gennaio 1705 — notaio Pietro Russo).


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Mecca sito sulla collinetta opposta e poco distante da quella abitata dai Bernardini, non è fuor di luogo supporre che in S. Maria di Gesù egli abbia date le prime prove delle sue virtù»21. L’autore con queste parole dimostra di conoscere lo scritto di padre Andrea da Paternò, il quale fu il primo ad attribuire a Girolamo Palazzotto la ricostruzione della cattedrale di Catania. Infatti, citando padre Andrea: «Quanto a Dio fosse grato tal di lui sistema di vivere, una con la di lui anima, dalla protezion che ne prese facilmente rilievasi; imperciochè infuse in primo luogo si riconoscevano più che acquistate le vaste cognizioni al di sopra di quelle regole apprese del solo scolpire ed intagliare semplicemente le pietre, vale a dire di Geometria, d’Architettura ed Aritmetica, con tal fattasene prova a concorso, che quel Vescovo Monsignor Don Andrea Riggio, dar volendo di mano alla magnifica fabbrica di quella sua Cattedrale, fra molti disegni e modelli, quello del nostro Girolamo fu riconosciuto più esatto col magnifico Prospetto, che in oggi l’adorna, ed alla di lui direzione furono subordinati tutt’i lavoranti, quali per la creazione di quella gran mole impiegati vedeansi; eppur non era egli che molto giovane ancora; onde ciascuno costretto era in lui ad ammirare que’ doni troppo assai scintillanti agl’occhi degl’uomini, com’era ancor l’altro di saper molto ben leggere e scrivere, senza ciò aver appreso d’alcun Maestro»22.

L’architetto Francesco Fichera, nella monografia sul Vaccarini del 1934, pur confermando l’attribuzione della cattedrale a Girolamo Palazzotto, precisò che il «magnifico Prospetto, che oggi l’adorna», attribuitogli da padre Andrea, si doveva invece all’architetto Vaccarini23. Il Fichera trovò i documenti riguardanti la ricostruzione della cattedrale nell’Archivio della Curia catanese, precisamente nella Collettanea di Monsignor Riggio24, e scrisse: 21 S. FIDUCIA, S. Maria di Gesù, in Siciliana (1923) 3, 1-7. Tale attribuzione è stata confermata dal prof. S. Boscarino richiamando lo stesso articolo di Saverio Fiducia (cfr S. BOSCARINO, La chiesa di S. Maria di Gesù, in Quaderno dell’Istituto di Disegno [1967] 2, 65-70). 22 A. DA PATERNÒ, Notizie storiche, cit., 181. 23 F. FICHERA, G. B. Vaccarini e l’architettura del Settecento in Sicilia, Roma 1934, 46. 24 Controllando la Collettanea di Monsignor Riggio non è stato trovato il documento


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«Monsignor Riggio volle ricostruire la nostra [cattedrale] nello stesso posto ove prima sorgeva. Egli indisse un concorso fra i pochi intagliatori, architetti e maestri d’arte sopravvissuti; e fra tutti i disegni presentati venne prescelto quello di Fra Liberato — al secolo Girolamo Palazzotto — a cui fu affidata nel 1709 la esecuzione dell’opera. Ed io son lieto di portare alla luce la figura di questo primo edificatore che passò la umile vita tra penitenze, digiuni, e cilicii: mortificazioni che, insieme alla sua serafica bontà, alla svegliatezza del suo ingegno, alla fama dei suoi miracoli, alla bellezza del suo volto, suscitarono tale aureola, attorno al servo di Dio, da farlo morire in quell’odore di santità in cui ancora sopravvive»25.

Il Fichera trasse le notizie su fra Liberato e sulla sua vita ascetica dal libro di padre Samuele Cultrera26, che aveva rielaborato a sua volta lo scritto di padre Andrea. Che il giovane Palazzotto abbia avuto un ruolo nella ricostruzione della cattedrale di Catania è sostenuto anche da Agostino Gallo che, nel suo manoscritto Notizie intorno agli architetti siciliani, dice: «ebbe commesso il disegno della cattedrale di Catania»27. Girolamo Palazzotto nel 1708 lavorò a Militello in Val di Catania per eseguire a «totale perfezione» il “Cappellone” nella chiesa di San Sebastiano che comportò ai Rettori la spesa di onze 8028. Per “Cappellone” si intendeva l’altare maggiore in pietra bianca di Santa Barbara ancora oggi esistente, il quale nel tempo ha subito delle modifiche che ne hanno stravolto la forma originaria (fig. 1). Questa si può considerare la prima opera documentata del giovane Girolamo che contiene alcuni elementi citato dal Fichera, ma nel frontespizio si legge la parola «2° fascicolo», presupponendo l’esistenza di un 1° fascicolo che oggi manca nell’archivio. 25 L.c. 26 S. CULTRERA, Il Servo di Dio Frate Liberato da Catania, Catania 1911. 27 A. GALLO, Notizie intorno agli architetti siciliani e agli esteri soggiornanti in Sicilia da’ tempi più antichi fino al corrente anno 1838. Raccolte da Agostino Gallo palermitano per farne parte della sua storia delle belle arti in Sicilia (MS. XV. H. 14) trascrizione e note di Angela Mazzè, Palermo 2000, 133). 28 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, Notarile di Militello, b. 885, c. 341r-343v — 26 maggio 1708 — notaio Giovanni Antonio Jancuzzo (citato in S. DI FAZIO, Frammenti, Cronache e storie militellane d’altri tempi, Catania 2004, 22).


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decorativi, come il fregio e il capitello corinzio (fig. 2), presenti nella cattedrale di Catania.

Fig. 1 – Altare principale della chiesa di San Sebastiano in Militello in Val Catania. Nel fastigio si legge: «TERREMOT, /ob coedes /erectio /celsior /MDCCVIII».


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Fig. 2 – Particolari dell’altare maggiore della chiesa di S. Sebastiano

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Lo stesso anno «Mastro Hieronymo Palazzotto Urbis Messanae» stipulò un contratto di enfiteusi per la costruzione di una casa “appalatiata” sul terreno concesso dai padri benedettini di Militello. In questo documento si legge: «Io Mastro Alfio credinzeri restitorio mi sotto scrivo per nome e parti di detto di Palazzotto quale non sa scrivere e di suo ordine confirmo come sopra»29. Quindi nel 1708, all’età di 22 anni, Girolamo Palazzotto non sapeva scrivere, mentre padre Andrea affermava che egli era in grado «di saper molto bene leggere e scrivere». Il 15 marzo 1711 Girolamo stipulò l’«Actus finale ed obligatione»30 con il messinese Placido de Cesare e, nel mese di maggio 1711, ricevette la paga per sua maestria di alcuni capitelli collocati nella cattedrale di Catania31. Il primo marzo 1714, otto giorni prima di compiere undici anni, i genitori e i fratelli Palazzotto sottoscrissero una «donatio irrevocabilis» alla sorella più piccola Giuseppa, con la quale fu nominata usufruttuaria di una «domus appalatiata sita et posita in hac predicta urbe Catanae in contrada Venerabilis Conventus Sancti Augustini confinantes cum domus Artium ed Medicinae Doctoris D. Francisci Marino ex oriente, cum una propria ex meridie, cum cortile comuni ex occidente et cum plano dicti Venerabilis Conventus ex tramontana et aliis confinibus»32. Questo contratto venne sottoscritto dai componenti della famiglia: «Francesco Palazzotto confirmo come sopra e sutto scrivo per parte di mia mogli; Io Gilormo Palazzotto confermo come sopra; Io Filippo Palazzotto; Io D. Giuseppe Strano mi sotto scrivo per nome e parte di Antonino Palazzotto per esso non sapere scrivere di sua volontà confermo ut sopra». Quindi Girolamo Palazzotto appose la sua firma a partire dal 1714, mentre 29 Ibid., b. 987, atto n° 29 — 7 ottobre 1708 — notaio Prospero Antonio Magro (citato in S. DI FAZIO, Frammenti, cit., 22). 30 Ibid., c. 213r-v, 15 marzo 1711. 31 ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO, fondo Trabia, I serie Branciforti, vol. 789, c. 181v, 215v e 194r (cfr. S. CALOGERO, La ricostruzione della cattedrale di Catania dopo il terremoto del 1693, in Synaxis 22 [2004] 113-148). Insieme a Girolamo Palazzotto lavorò nella cattedrale di Catania maestro Antonio Biundo — suocero del maestro Paolo Battaglia e nonno dell’architetto Francesco Battaglia — che probabilmente era parente della famiglia Palazzotto. Infatti nell’albero genealogico costruito dal Puzzolo Sigillo si trova una sorella di Francesco Palazzotto sposata con tal Santo Biundo. 32 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 1° vers., b. 2280, c. 299r-301v — 1 marzo 1714 — notaio Giuseppe Capace.


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prima di questa data non sapeva scrivere; ma questo non implica che non sapesse disegnare. La capacità di Girolamo ad eseguire disegni si intuisce da un atto del 1715, con il quale incaricò maestro Francesco Pulvirenti «di farli et intagliarli n° venti molinelli di pietra nera giusta la misura e modello che l’ha dato detto di Palazzotto»33. Oltre all’attività di «lapidum incisores» che svolse Girolamo, i documenti attestano quella degli altri fratelli, Filippo e Antonino, che li troviamo nell’agosto del 1714 impegnati per fare «una lapide di marmo lunga palmi otto e larga palmi quattro in due pezzi giusta la forma del disegno» da collocare nella città di Mineo34. Girolamo Palazzotto il 21 settembre 1714 partecipò alla gara35 per realizzare il «portone e fenestrone dell’almi studii di questa città di Catania» dove vide aggiudicare l’appalto a mastro Pietro Viviliacqua alias Facciabianca, genero del famoso Antonino Amato, elencato fra i partecipanti alla stessa gara. Il 18 aprile 1713 il vescovo di Catania Andrea Riggio venne espulso dal Regno di Sicilia con decreto emanato a Messina dal viceré Carlo Spinola, marchese di los Balbases36, per cui la diocesi catanese rimase senza pastore fino al 1729. Padre Andrea scrisse in merito: «L’interdetto intanto, che cagionato avea più che altrove in Catania una gran confusione tra le divine ed umane cose, respinge il nostro spirituale Girolamo a diloggiare da quella Città e Diocesi, cuor non avendo di rimirar quel scompiglio»37.

33 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 1° vers., b. 2281, c. 731r-v — 7 marzo 1715 — notaio Giuseppe Capace. 34 Ibid., b. 2280, c. 757r-v — 21 agosto 1714 — notaio Giuseppe Capace. 35 ARCHIVIO UNIVERSITARIO DI CATANIA, vol. 91, foglio volante, 21 settembre 1714 (pubblicato in F. FICHERA, G. B. Vaccarini, cit., doc. c, 230). 36 A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1702-1717), in Synaxis 7 (1989) 417-515: 465. 37 A. DI PATERNÒ, Notizie storiche, cit., 181.


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Nel 1716 lo troviamo impegnato nella chiesa matrice di San Nicola a Melilli per realizzare «quattro pilastroni, quattro pilastri, una cubula, pezzi di cornici e cinque archi» (fig. 3), come documentato, fra l’altro, dal mutuo di pagamento a favore del «capo mastro di scultore Geronimo Palazzotto» approvato lo stesso anno dalla Sacra Congregazione Romana38. Da sottolineare che l’incarico riguardò anche la realizzazione della cupola, costruita nel 1743 da suo fratello Giuseppe, il quale eseguì il disegno degli altari del transetto e l’ordine superiore della navata centrale con il relativo cornicione39.

Fig. 3 – Interno della chiesa madre di Melilli 38

Le notizie tratte dall’archivio della chiesa madre di Melilli, sono state trascritte ai primi del Novecento da mons. Salvatore Scionti (M. RIZZO, Le Chiese di Melilli, Palermo 1997, 32). 39 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 1° vers., b. 8793, c. 61r-64 r — 21 marzo 1735 — notaio Domenico Ronsisvalle (citato da S. CALOGERO, Palazzotto chi?, in Prospettive 19 [2003] 1, 5 gennaio, 7).


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I due portali che oggi immettono nelle cappelle del SS. Sacramento e della Madonna di Lourdes (fig. 4), posti nel transetto della chiesa, costituiscono parte dell’apparato architettonico degli originari altari di S. Filippo Neri e della Strage degli Innocenti. Immaginando i portali nella loro forma originaria, cioè completi degli altari e delle relative “pale” — di forma rettangolare —, veniamo a trovarci di fronte a due capolavori dell’architettura barocca in cui si percepisce la rottura con il passato e il gusto della sperimentazione proprie dell’architetto Giuseppe Palazzotto.

Fig. 4 – Portale nel transetto della matrice di Melilli (foto di F. Formica, 2003)


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A differenza degli altari delle chiese catanesi, realizzati in marmo, nella matrice melillese viene privilegiata la pietra locale esaltandone la sua principale caratteristica che è quella di essere scolpita con maggiore facilità. Il paliotto si può immaginare realizzato con lo stesso materiale e collocato sopra due gradini, la cui altezza corrispondeva complessivamente con quella del basamento del piedistallo. Dovendo esaltare la pietra bianca e non le qualità cromatiche tipiche del marmo, è probabile che il paliotto avesse lo stesso disegno degli altri altari, attualmente pitturati. Infatti, considerato che l’altezza della base della colonna corrisponde a quella dei gradini posti sopra la “mensa”, è verosimile che l’altare eliminato nel 1819 fosse simile a quelli in pietra tuttora esistenti.

Fig. 5 – Porta laterale nella chiesa di San Sebastiano a Melilli


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Nell’archivio della chiesa di San Sebastiano, nella stessa Melilli, alla data del 31 dicembre 1718, si trova la paga di «onze 89, tarì 27 e grani 3, per averli pagato a mastro Geronimo Palazzotto, capo mastro della città di Catania e manuali, per sua maestria et altri mastri e manovali per aver et assettato l’intaglio della cappella; onze 10 e tarì 2 per intaglio rustico à porta di detto a mastro Giuseppe la Bella e mastro Blasio Nicosia di questa, et onze 13 per altri manuali per servitio delli travagli di detta cappella»40. La “cappella” che, come abbiamo visto nella chiesa di San Sebastiano a Militello in Val Catania corrisponde all’originario altare maggiore, è stata sostituita da quello disegnato nel 1788 da don Giovanni Gianforma di Modica, in stile neoclassico. La porta del prospetto laterale nella stessa chiesa, chiamata “porta a mare” (fig. 5), contiene motivi ornamentali presenti negli altari del transetto della matrice, facendo ipotizzare un intervento in quest’altra chiesa dell’architetto Giuseppe Palazzotto. Ancora a Melilli, il nostro Girolamo lavorò nel monastero di San Paolo delle monache benedettine. In questo edificio, oggi sede del palazzo municipale in seguito ad una ristrutturazione ottocentesca che ne ha stravolto l’impianto originario, Girolamo lavorò con i suoi fratelli Filippo e Antonino. I lavori, documentati dal 1720 fino al 1724, furono elencati nella perizia redatta da «Pietro Palumbo, Capo mastro della fabrica della città d’Agosta» il 28 ottobre 1720, cioè: «havendo stimato lo intaglio misurati la fabrica novamente fatta nella Batia di Melilli sopra delli Dormitori antichi. Havendo misurato la fabrica del muro di tramontana che dona nell’orto e la fabrica del muro di mezzogiorno che dona nella strada e la fabrica del muro di levante che dona nella vanella e altri fabrichi di sopra stanzie sopra li mura delle tramezze e sopra lo muro della chiesa e fabrica di dui pilastri con suo pidamento dentro una stanza tutta la sopra fabrica importa canne reale n°144 e palmi 2 […]. Avendo stimato lo intaglio costituente dui cantoneri di trenta tre assise con suoi fregi, e capitelli e una fascietta nello finimento dello frontispicio e un finistrone lavurato con suo finimento e quattro finestri lavorati che donano nell’orto lavorati con suoi pilastri e una porta con suo frigio e cornice e uno archetto 40 Si ringrazia lo storico melillese Andrea Mollica per avere fornito le preziose fotocopie dei mandati di pagamento.


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Salvo Calogero di finestra di sotto e deci pilastri dentro una stanza che importa la detta mastria del suddetto intaglio ectc.»41.

Girolamo lo ritroviamo a Catania nel 1720, incaricato dal principe di Biscari per pagare il lavoro del “muscaloro”, cioè la rosta in ferro battuto, del portale d’ingresso al palazzo della marina42. L’intervento del nostro architetto in questo palazzo potrebbe essere approfondito anche alla luce di quanto finora rinvenuto esaminando ulteriormente i documenti su palazzo Biscari a Catania.

3. LA MORTE PREMATURA DI FILIPPO PALAZZOTTO Nel giugno 1721 Girolamo sottoscrisse l’atto di cessione del «casalenu cum eius fabricis utilibus, terreno et alis, situm et positum in hac clarissima et fidelissima Urbe Catanae et in contrada vocata del Coliseo» 43. Queste case appartenevano al fratello Filippo44, che nel frattempo si era sposato45 il 16 maggio 1717 con Costanza Caponnetto46. Dall’esame del documento si evince che l’abitazione era collocata nello stesso isolato della casa dei genitori, in un palazzo con cortile e terrazzo confinante ad ovest con la strada pubblica (via Verginelle), ad est con un cortile comune, e con due case di abitazione a nord e a sud. 41 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 2° vers., b. 876, c. 325r-327v — 3 maggio 1724 — notaio Pietro Russo. 42 Ibid., 1° vers., b. 1263, c. 331r — 27 novembre 1720 — notaio Vincenzo Russo (pubblicato in V. LIBRANDO, Palazzo Biscari, doc. c, 95). 43 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 1° vers., b. 2287, c. 681r-690v — 19 giugno 1721 — notaio Giuseppe Capace). 44 Ibid., CC.RR.SS., b. 440 — 21 novembre 1720 — vedi anche 1° vers., b. 2287, c. 422r-423v — 17 febbraio 1721 — notaio Giuseppe Capace. 45 Il contratto matrimoniale di Filippo Palazzotto con Costanza Caponnetto venne redatto il 7 maggio 1717 (ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 1° vers., b. 862, c. 383r-388r — 7 maggio 1717 — notaio Pietro Russo), e il 16 maggio 1717 si sposarono (ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI CATANIA, fondo Registri canonici, S. Maria dell’Aiuto, matrimoni — documento citato in G. POLICASTRO, Catania nel Settecento, cit., 256). 46 Costanza Caponnetto era figlia di Antonino Caponnetto e Agata Mignemi, i quali si sposarono nel 1700. Per cui Costanza, quando si sposò con Filippo Palazzotto, non aveva più di sedici anni (ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, CC.RR.SS., b. 445, 20 novembre 1700).


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La giovane coppia, dopo avere avuto una figlia l’8 febbraio 1719, — probabilmente deceduta il 7 luglio dello stesso anno47 — il 30 marzo 1720 concepì l’unico figlio maschio, Antonio Mario Francesco Pasquale48, che venne chiamato con il solo nome del nonno paterno, Francesco, e successivamente, fattosi frate agostiniano, assunse il nome di fra Antonio Palazzotto. Filippo lavorava nel frattempo al completamento degli intagli nel collegio dei gesuiti a Catania, nella cui contabilità, in data 30 gennaio 1718, è riportata la paga assegnata «al suddetto Palazzotto per sua maestria d’intagliatore […] per compiere l’arco del tocco, parte delle finestre della facciata e cantonera, fare una cimasa delli pilastri maggiori della suddetta facciata […] in fare li zoccoli di pietra nera per il portone»49. I contratti di affitto50 e l’acquisto di case da parte di Filippo Palazzotto testimoniano una intensa attività lavorativa che terminò nel giugno del 1721, quando morì prematuramente a soli ventinove anni, lasciando la moglie51 incinta e il figlio Francesco in tenera età. L’accordo per l’adozione del piccolo Francesco e l’impegno a sostenere le spese per il battesimo del nascituro, sono descritte nel citato atto notarile52 del 19 giugno 1721. L’accordo riguardava principalmente la cessione al suocero della terza parte dell’eredità di Costanza Caponnetto e in particolare del palazzo dove abitava Filippo per essere amministrato dal nonno e, probabilmente, dopo la sua morte dallo zio Antonino53. Le cause della morte di Filippo sono sconosciute, ma di certo essa giunse inaspettata sconvolgendo la sua famiglia e, forse, causando l’uscita di senno di Brigida e la decisione di Girolamo di farsi frate. 47 Il battesimo celebrato dal priore dell’ordine di S. Agostino padre Antonino Mignemi con licenza di don Pietro Gravina vicario generale, è segnato in due date distinte, 8 febbraio e 7 luglio 1719. (ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI CATANIA, fondo Registri canonici, S. Maria dell’Aiuto, battesimi, 1714 -1744, f. 3). 48 Ibid, f. 12. 49 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 2° vers. b. 1260, c. 669-671 — 13 giugno 1718 — notaio Vincenzo Russo (pubblicato in G. DATO – G. PAGNANO, L’architettura dei gesuiti a Catania, Milano 1991, 78). 50 Ibid., 1° vers., b. 2287 c. 13v — 7 settembre 1720 — notaio Giuseppe Capace. 51 Costanza Caponnetto l’anno successivo si risposò con Giuseppe Sofia. (ibid., CC.RR.SS., b. 449, 28 giugno 1722). 52 Ibid., 1° vers., b. 2287, c. 681r-690v — 19 giugno 1721 — notaio Giuseppe Capace. 53 Ibid.


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4. LA VOCAZIONE RELIGIOSA DI GIROLAMO PALAZZOTTO La vocazione del giovane Girolamo va oltre la semplice affermazione professionale, infatti scrive padre Andrea: «Più però di qual’era portato per tal mestiere, inclinato vedevasi alla pietà e santità de’ costumi; per tal cagione, aborrendo le vanità del mondo, fuggiva ogni consorzio de’ giovanetti suoi pari, in veder costoro propensi a’ divertimenti e piaceri; e per quel che gl’avanzava di tempo, nel giorno destinato al lavoro e in tutti i giorni festivi, la passava in Chiesa, ritirandosi, per il maggior comodo d’orar quietamente, nella Cappella del Santissimo Crocifisso nella Cattedrale dell’istessa Città di Catania, con andar poi la sera, prima di ritirarsi a casa, a far la Via Sacra su la strada, che conduce alla Chiesa di Santa Maria di Gesù dei Padri Riformati. Non mai lasciando d’ascoltare divotamente ogni giorno la santa Messa e di frequentare con somma edificazione nelle feste i SS. Sacramenti»54.

La propensione religiosa della famiglia Palazzotto era dimostrata anche dalle due sorelle, Giuseppa che diventò «sorore Maria Palazzotto terziaria Ordinis Sancti Francisci», e Brigida diventata «Sorore Rosaria Liberata Palazzotto et Grillo terziaria ordine predicatorum di S. Domenico sotto il titolo di S. Cataerina da Siena». Riguardo a Brigida55, padre Andrea raccontò che: «Uscita fuor di cervello la di lui minore sorella per nome Suor Brigida, dopo averle con le di lui Orazioni ottenuti que’ lucidi intervalli, per quanto non fosse impedita dalla frequenza dei Santissimi Sacramenti, l’assicurò che, seguendo quanto prima già la di lui morte, il Signore l’avrebbe totalmente guarita; e così effettivamente successe»56.

54 A. DA PATERNÒ, Notizie storiche, cit., 180. Negli atti stipulati fino al 1761, Brigida è indicata «Virgine in capillo» (nubile) e, cosa rara per le donne del Settecento, li sottoscrive di proprio pugno. Giuseppa invece si fa aiutare da un procuratore «per essa non sapere scrivere». Il primo documento in cui Brigida risulta suora risale al 13 luglio 1763 (ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA, 1° vers., b. 4305, c. 371r-373v — 13 luglio 1763 — notaio Serafino Politi). 56 A. DA PATERNÒ, Notizie storiche, cit.,183.

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Considerato che Girolamo lavorò nella chiesa madre di Melilli fino al 1723, quando i lavori vennero interrotti dopo avere iniziato la costruzione del “Cappellone”, e nel monastero di San Paolo, i cui lavori sono documentati fino al 1724, si può ipotizzare che Girolamo lasciò la sua famiglia dopo avere avviato il fratello Giuseppe nell’arte dei «lapidum incisores» e a quella di architetto. A tal riguardo padre Andrea scrisse: «Parve quindi a ben più erta mira di perfezione da Dio predisposto, a cui per ordinario nel mondo colpir non si vuole; perciò appena pervenuto ad età di poter di sé risolvere, spiegò la sua propensione di volersi ritirare ne’ Chiostri o in qualch’eremitaggio. La premorienza però del Padre e l’esser tutti di sua casa in assai minor età, e la vedova Madre altra speranza fuor di lui non avendo, fu l’obice troppo giusto e ragionato, che di tanto allora eseguir gl’impedirono. Adorò pertanto un tal divino Volere dal suo spiritual Direttore fattogli noto; e tutto si consacrò al governo della casa co’ suoi travagli, senza lasciar nel suo cuore ed in ogni sua eziandio esteriore condotta, il carattere d’un professore del più rigido, regolar Istituto. A tal’uopo, oltre i sopra espressati spirituali esercizi non mai intermessi, la notte almeno si ritirava a dormire nella vicina divota solitudine, detta la Mecca. Nel riposarsi la notte delle fatiche giornali, sul nudo coprivasi d’una ruvida coperta di lana, e di più aggiungea un pesante sasso sul lato, acciò non la passasse molto a lungo immerso nel sonno, ma tosto si fosse svegliato, per indi passare in orazione il restante»57.

Lo stesso padre Andrea ci racconta che: «Vagando per molte Terre finalmente, ridussesi in Petralia sottana a servir sconosciuto e qual famolo nel Convento de’ Padri Riformati di Santa Maria di Gesù. Trattavasi allora di erigersi il prospetto di quella Chiesa Matrice, e, non essendo di comun gradimento i disegni, che ne correvano, ebbe una interna spinta di fare in quella tale circostanza mostra di sua perizia, fattone il componimento, così colpì d’ogni aspettazione maggiore, che a pieni voti fu prescelto ad eseguirsi con la di lui assistenza. Dopo quella si insigne opera pensavasi da’ que’ Principali e Rettori a qualche gran ricompensa, locchè sentendo l’Architetto Girolamo, si presentò loro innanzi, e scopertosi per quale fosse, non altra ricompensa richiese se non quella che d’impegnassero 57

Ibid., 180.


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Salvo Calogero presso il Ministro della Provincia de’ Padri Cappuccini, per essere ammesso nel di loro Istituto nell’umil condizione di Laico, e dargli non altra somma che quella necessaria fosse per la compera del suo primo vestiario»58.

Questa notizia è confermata dall’atto del 25 ottobre 1725, conservato nell’archivio parrocchiale di Petralia Sottana, con il quale si procedette a pagare «Girolamo Palazzotto architetto della città di Messina ed al presente in questa terra, onze sei e tarì vent’uno, cui se li pagano cioè onze 6 per suo regalo per avere fatto il disegno su carta, ed il modello di gessetto della prospettiva, che dovrà farsi nella suddetta Venerabile Chiesa Madre, tarì 15 per suo mantenimento di vitto domentre scolpì detto modello e tarì sei per prezzo di gissetto»59. La soluzione adottata dall’architetto Palazzotto fu quella di addossare al vecchio prospetto un arco rivestito con pietra bianca, collocato in corrispondenza della navata centrale a mezza altezza, lasciando libero il secondo ordine e le due navate laterali, nelle quali inserì due porte — attualmente murate — sormontate da altrettante finestre, mentre all’interno dell’arco collocò il portale d’ingresso (fig. 6).

Fig. 6 – Particolare della Chiesa madre di Petralia Sottana 58

Ibid., 181-182. ARCHIVIO PARROCCHIALE DI PETRALIA SOTTANA, n. 22 della Giuliana, 59 (pubblicato in D. PUZZOLO SIGILLO, L’architetto, cit., doc. V, 615). 59


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L’ingresso nell’ordine dei Cappuccini avvenne intorno al 1727, eseguendo il noviziato nel convento dei frati cappuccini di Castroreale60. Prima di farsi frate, nei momenti in cui non lavorava, soprattutto nei giorni festivi, il giovane Girolamo Palazzotto cercava di coinvolgere i suoi coetanei negli esercizi spirituali organizzati da lui nel convento dei padri Minoriti, istituendo la «Confraternita segreta», che continuò ad esistere, anche dopo la sua morte, sino alla fine del Settecento. Padre Andrea ci racconta: «Benchè un tal tenore di vita con lo spirito sollevato sempre al Signore confortato lo avesse alquanto nell’ancor rimanere nel secolo per la cagione espressata, in osservar però altri non pochi dell’età sua passarla vanamente, disciolti anzi e scapestrati ne’ vizi, era per lui un continuo martirio, come spesso un tal’affanno con le parole altamente spiegava. Che fece intanto dalla divina Grazia illuminato ed assistito? Si facea, con spezialità ne’ di festivi (in cui osservava in quelli maggior libertà nel divertirsi e trattare) con galbo e destrezza lor capo, invogliando ciascuno a seco lui, per poch’ore, ritirarsi in qualche oratorio, adocchiando a tal’effetto la Venerabile Casa de’ Chierici Minoriti sotto titolo di San Michele, ed, ottenuta da quel Superiore una stanza inferiore ed un Padre, che lor reggesse negl’esercizi spirituali e divoti, fu cagione d’istituirsi la Confraternita segreta, che ivi in oggi fiorisce con proprietà ed edificazione pur troppo nota in quella Città»61.

5. IL RITORNO DI GIROLAMO PALAZZOTTO A CATANIA Nel 1731, dopo i cinque anni passati fra il noviziato e qualche altro convento, durante i quali diventò frate cappuccino con il nome di «fra Liberato», dimorò a Catania nel «Venerabile Convento dei Padri Cappuccini di San Francesco sub titolo della Speranza». La vita di fra Liberato si svolgeva prevalentemente all’interno del convento, facendosi ricordare, dopo la sua morte, come «Servo di Dio». Sempre padre Andrea ci descrive lo svolgimento della sua vita in convento in questo modo: 60 61

D. PUZZOLO SIGILLO, L’architetto, cit., 602. A. DA PATERNÒ, Notizie storiche, cit., 180-181.


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Salvo Calogero «In sentir in sé non spento il fuoco della concupiscenza all’intutto, a reprimere le voglie del senso tutto già s’applicò con magnanime idee e proponimento costante. Imprese perciò quel sistema d’affliggersi, oltre le aspre giornali flagellazioni fino al vivo sangue non mai intermesse, di vietarsi in perpetuo di bere vino e di mangiar carne; quale stabilimento per qualunque sua infermità (che non poche soffersene), e per qualsivoglia consulta de’ Medici giammai mentre visse interruppe. Né altri cibi mai ammise, quando di solo pane ed acqua non digiunasse, fuorchè una sola minestra, e questa, o non condita, o aspersa di cenere, e d’un po’ di pane abbrustolito. Provonne il desiderio prefissosi effetto di non esser più risospinto dal fomite della concupiscenza, come ciò molti attestati de’ di lui Confessori appalesano, ma non per questo l’aspro e penitentissimo suo sistema s’indusse a rallentare per poco, onde ridussesi, quasi d’altro che d’ossa e pelle il suo corpo composto non fosse, sembrando un scheletro ambulante, e non uomo»62.

Il 23 giugno 1754 Girolamo Palazzotto morì e il suo corpo venne sepolto nella chiesa dei Cappuccini Vecchi, annessa al convento dove aveva vissuto da religioso, sotto la cappella della Madonna della Speranza, in cui vi era, prima di demolirla63, una lapide64 che lo ricordava con la seguente scritta: FRA LIBERATO DA MESSINA LAICO PROFESSO CAPPUCCINO DALLA FAMIGLIA PALAZZOTTO, RELIGIOSO DI SINGOLAR VIRTÙ, MORÌ A CATANIA 23 GIUGNO 1754 D’ETA’ 66, DI RELIGIONE 28.

Oltre questa lapide trascritta da Giuseppe Rasà Napoli, ne esiste un’altra nella sua tomba trasferita nella chiesa dei Cappuccini nuovi in via Plebiscito, dove si legge:

62

Ibid., 182. La chiesa di Santa Maria della Speranza dei PP. Cappuccini (Cappuccini vecchi) è stata demolita nel 1929, e al suo posto è stato costruito il palazzo della Borsa. 64 G. RASÀ NAPOLI, Guida alle chiese di Catania, Catania 1900, 220. 63


Fra Liberato architetto e “servo di Dio”

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QUI GIACE IL SERVO DI DIO F. LIBERATO DA CATANIA N.1688 - M.1754

Dall’analisi della scritta incisa in quest’ultima, sotto gli anni di nascita e di morte si nota il disegno di due ramoscelli d’ulivo, che fanno pensare alla sovrapposizione dei numeri ad un preesistente disegno. Forse i frati volendo conservare una lapide preesistente priva degli anni di nascita e di morte, non conoscendole, le hanno ricavate da quelle riportate nella precedente lapide, e una errata lettura del numero 66, invece di 68, li ha portati a scrivere l’anno di nascita 1688 invece del 1686, mentre l’anno di morte è stato trascritto correttamente65. A parte l’errore nella data di nascita riportata nella seconda lapide, è esatta la citazione sugli anni trascorsi da religioso incisa nella prima. Infatti fra Liberato muore nel mese di giugno 1754 e, sottraendo 28 anni, si ricava l’ingresso in convento da collocarsi fra la fine del 1726 e l’inizio del 1727. I biografi di fra Liberato hanno sempre indicato l’ingresso in convento nel 1727, mentre Domenico Puzzolo Sigillo, affermò che Girolamo Palazzotto entrò nel convento dopo aver progettato il prospetto della chiesa madre di Petralia Sottana, indicando, erroneamente, il 1725 come data esatta. Quindi Girolamo Palazzotto entrò in convento nel 1727 e, dopo i cinque anni citati dal Cultrera, nel 1731 ritornò a Catania. La morte di Girolamo fu descritta da padre Andrea in questi termini: «Col medesimo spirito predisse pur la sua morte, mentre ne’ primi di Giugno, andato in casa delle sorelle, fece chiamare tutt’i congiunti e si congedò da essi, come per dover far un lungo viaggio, per cui mai più l’avrebbero veduto. In darsi il segno colla nostra Campana della sua stessa agonia, cominciò il Signore a spander le grazie all’invocazione de’ meriti di questo suo Servo, come sperimento per primo un tal di Condorella ortolano, quale sopraffatto d’un gran dolore di fianco, che davagli alcun momento di requie, come in vicinanza di lui casa al cennato Convento, e sapendo trovarsi 65 Gli stessi errori sono stati ripetuti nella scritta riportata nella parte bassa del ritratto di fra Liberato.


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Salvo Calogero Fra Liberato gravemente infermo, in udire quel segno, comprese d’essere in agonia costituito il medesimo, epperò pregò Iddio per i di lui meriti, che fosse da quel suo spasimo se non sciolto, almen sollevato. In fare questa preghiera ed in non sentire più affanno fu tutto nel tempo istesso; siccome ottenuto un pezzetto del di lui Abito, e posteselo addosso mai più ne fu corretto in appresso. A coerenza del gran concetto, in cui era stato tenuto di Servo di Dio e di gran Santo, grande fu il concorso in quella nostra Chiesa a venerarne il Cadavere, e dacchè a gara ricercavansi le coselle, che fossero state a suo uso a conto di pregiate reliquie, a non trovarglisi cosa alcuna, si divisero in pezzi ed Abito e femorali ed un fazzoletto»66.

Quindi fra Liberato era considerato «Servo di Dio» e «gran Santo», ma non dimenticò il mestiere svolto prima di farsi frate anzi, come scrisse Giovan Battista Vaccarini, «da mastro intagliatore di pietra di xiara pell’abito si pose addosso divenne subito Architetto» 67. Questa frase, scritta dall’architetto palermitano il 26 dicembre 1755, fa pensare che l’ingresso di Girolamo nell’ordine dei cappuccini potrebbe essere stato finalizzato all’acquisizione di questo ambito titolo68. Il nome dell’architetto fra Liberato venne citato ai primi dell’Ottocento dal cavaliere Carlo Castone come autore del disegno delle strade di Catania69. Per cui, anche se il frate cappuccino non si occupò del tracciato delle strade della città, dalla citazione del Castone si percepisce la sua attività di architetto. Inoltre, il fatto che venne citato come fra Liberato e non come Girolamo Palazzotto, fa capire che la sua attività di architetto fu svolta anche dopo il suo ingresso nell’ordine religioso. 66

A. DA PATERNÒ, Notizie storiche, cit., 184. ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, Min. Affari Ecclesiastici, fasc. 745/8 (pubblicato in M. R. NOBILE, «I volti della «Sposa». Le facciate delle chiese madri nella Sicilia del Settecento, Palermo 2000, 42). 68 Altri esempi sono: Angelo Italia, Vincenzo Caffarelli, Guarino Guarini, Giacomo Amato, Giovanni Biagio Amico, Michele La Ferla, che diventarono architetti dopo il loro ingresso in un ordine religioso. 69 «Il Vaccarini fu architetto di Catania, e un cappuccino detto fra Liberale ne disegnò le strade in modo che il sole sempre le batte e ne rende il soggiorno insopportabile nella state» (C. CASTONE, Viaggio della Sicilia, Palermo 1828, 160, nota 1, in A. KRAMER, Il giudizio dei viaggiatori sull’architettura del Settecento in Val di Noto, in Dal tardobarocco ai neostili il quadro europeo e le esperienze siciliane, a cura di G. Pagnano, Messina 2000, 79). 67


Fra Liberato architetto e “servo di Dio”

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Anche Agostino Gallo, nel suo manoscritto scrisse: «Girolamo fu frate cappuccino, e tenuto a’ suoi tempi in opinione di buono architetto ebbe commesso il disegno della cattedrale di Catania ed altri pubblici, e privati edifici»70. Inoltre, osservando il suo ritratto (fig. 7) ci accorgiamo di alcuni particolari che fanno intuire l’indole religiosa di fra Liberato, come la croce tenuta con la mano sinistra poggiata sul petto e il ritratto del Cristo crocifisso sullo sfondo, ma anche la sua attività di architetto indicata dalla sesta tenuta nella mano destra e il compasso poggiato su un foglio di carta da disegno71.

Fig. 7 – ritratto conservato nel convento dei cappuccini nuovi

70

A. GALLO, Notizie, cit., 133. Nella parte bassa del ritratto si legge: «Frater Liberatus a Messana, in saeculo Hieronimus Palazzotto insignis Architectus natus anno 1688./ Ut familiam aleret Religionem, cuius sibi nil deerat praeter vestes, ad annum 1727 ingredi distulit,/ voti compos Evangelicae perfectionis et monasticae disciplinae exemplar. Obiit Catanae XII Kalendas Iulias 1754». 71


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Salvo Calogero

La sua attività di architetto, dal 1731 in poi è totalmente sconosciuta ma, come scrisse il Puzzolo Sigillo: «chi sa se e quante altre opere, pubbliche o private, civili o religiose — di cui gli archivi, inesplorati, serrano i documenti. giustificativi, o i documenti del tempo, consultati, si riferiscono al disegno, tacendone il nome dell’artefice — saranno del nostro Palazzotto […] e gli si potranno, documentalmente, attribuire, in seguito»72. In alcuni documenti, ad esempio, si trova un ignoto Architetto Francescano che dal 1749 al 1752 sovrintende ai lavori di completamento del collegio dei gesuiti a Catania73; ancora, nel gennaio 1744, dopo l’intervento di Vaccarini nell’antirefettorio, refettorio e cucina del nuovo monastero di San Nicola l’Arena, un padre francescano ricevette la paga «per il nuovo disegno dell’altare maggiore e coro della nuova chiesa»74. In questo periodo, in base a quanto documentato dagli studiosi, non sono presenti architetti francescani a Catania per cui non si può escludere che l’architetto francescano coincida con il padre cappuccino.

6. I CONTRASTI CON GIOVAN BATTISTA VACCARINI Il ritorno a Catania dell’architetto fra Liberato Palazzotto è stato finora accostato alle vicende che videro il Senato catanese opporsi alla costruzione del prospetto della cattedrale, progettato dall’architetto Vaccarini75. Quindi è opportuno ripercorrere questi avvenimenti per capire il ruolo assunto dal frate cappuccino. Quando nel 1731 fra Liberato ritornò a Catania, l’architetto palermitano si era già messo a lavoro in qualità di «Architettor prospectus eiusdem Ecclesiae Cathedralis», avendo iniziato i lavori il 27 marzo 1731 con la posa della prima pietra. 72

D. PUZZOLO SIGILLO, L’architetto, cit., 596. G. DATO – G. PAGNANO, L’architettura, cit., 46 e 49. 74 F. FICHERA, G. B. Vaccarini, cit., 186. 75 Quando venne reso noto il proposito del Galletti, di ornare la «facciata rozza ed informe», fra Liberato, ritenendosi il legittimo architetto della cattedrale, avrà approntato, o più probabilmente ripreso dalla primitiva progettazione, disegni e modello, e tentato ogni mezzo per farli accettare. (V. LIBRANDO, Il «Rimarcabile affare del Prospetto» vaccariniano della cattedrale di Catania, in Scritti in onore di Ottavio Morisani, Catania 1982, 390). 73


Fra Liberato architetto e “servo di Dio”

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Prima di iniziare i lavori, Vaccarini realizzò il modello in legno della facciata, mettendolo a confronto con quello fatto da altri, difendendolo pubblicamente alla presenza del vescovo e di persone esperte in architettura, e riportandone l’approvazione con voto unanime76. Considerando il tempo necessario a realizzare un modello di legno, sottoposto nel 1734 all’esame degli accademici di S. Luca, è presumibile che quando si svolsero questi avvenimenti fra Liberato non era ancora ritornato a Catania. Durante il citato confronto dei modelli della facciata probabilmente svoltosi nel 1730, fra i partecipanti, insieme alla lunga lista di «lapidum incisores» che svolgevano anche l’attività di architetto, potrebbe esserci stato Giuseppe Palazzotto che in quello stesso periodo era «capo mastro di scultore e architetto» nella matrice di Melilli per continuare i lavori iniziati dal fratello maggiore. L’arrivo di fra Liberato, avrà rimesso in discussione il progetto del Vaccarini tanto da provocarne l’immediata reazione del vescovo Galletti che, l’8 giugno 1731, senza dare la possibilità di un ulteriore confronto, nominò Vaccarini “unico” architetto della diocesi catanese77. Come afferma il prof. Librando, «quello del Galletti fu un atto rivolto a vari destinatari tramite il quale, con vigorosa e perentoria enunciazione della sua volontà e facendo ricorso al peso dell’autorità vescovile, Galletti tendeva a superare gli impedimenti al progetto definito per la facciata, e ad ammonire nello stesso tempo quanti già s’erano mossi contrastando il suo governo»78.

CONCLUSIONE Queste vicende non devono fare dimenticare lo stile di vita del frate cappuccino che, come ci ricorda il citato padre Andrea: 76 Questi fatti sono raccontati nell’atto di elezione dell’8 giugno 1731, dopo avere iniziato i lavori; il confronto con i modelli fatti da altri risale ad un periodo, non precisato, antecedente al mese di marzo. 77 ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI CATANIA, Notae 1730-31, ff. 75v –77r. 78 V. LIBRANDO, Il rimarcabile, cit., 387.


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Salvo Calogero «Passato era il suo orare a contemplazione profonda, e così parve averne avuto abitualmente il dono, che camminando o mangiando o altra cosa facendo, sembrava in quella immerso, perché vedeasi qual sempre astratto da’ sensi, e quasi non udisse; né accorgevasi di quanto succedea qui in terra ed allo chè eziando intorno a lui si dicea o trattava. Effetto di tal suo contemplare fu reputato un libro da lui composto con versi squarci di Salmi per intendere secondo le diverse vicende del Mondo qual fosse il divino Volere, che spesso avea per le mani in esercitazione del suo spirito e di quanti per spirituali consulte a lui ricorrevano. Fu inoltre adorno dell’estro poetico; onde più divote canzoni da lui composte furono fra i suoi vari Manoscritti trovate. Per quanto poi divenne libero d’ogni provocazione di senso, altrettanto permise il Signore che fosse questo suo Servo dal Demonio molto disturbato in ogni azione, e spesso per fin battuto; come ben sovente se ne udivano dagl’altri Religiosi gli strepiti, e gliene si vedeano i chiarissimi contrassegni, e tal volte, per farlo dagli altri deridere, gl’appendea, sul dorso varie cose; com’altri lo videro colla lucerna della cella molto tenacemente attaccata addietro al suo mantello. Egli non però mostrossene rincresciuto o avvilito unquemai, anzi, reso più coraggioso, spesso insultava i maligni Spiriti a fargliene quanto sapevano e n’avessero da Dio potesta; che con la divina grazia mica le loro insidie ed assalti avrebbe temuto. Fra le molte sue perdizioni vi era quella fatta a due nostri conjugati Terzini in Catania, Don Gaspare lo Presti e Don Felice Fenech, assicurando il primo della sua perseveranza in quella sua santa risoluzione intrapresa, e pronunciando la incostanza dell’altro, come per ciascheduno avverossi; onde sempre più avanzandosi in ogn’edificazione il Terzino lo Presti, il Fenech, passati alquanti mesi, scosse da sé la divota insegna, e quanto lo divisava per tale»79.

Oltre alle virtù di religioso descritte da padre Andrea da Paternò, dal presente studio si vuol fare emergere la necessità di approfondire il ruolo assunto da Girolamo Palazzotto nella ricostruzione di Catania dopo il 1693, soprattutto dopo il suo ritorno a Catania, analizzando nel contempo l’eventuale presenza nel siracusano, come documentato dai lavori eseguiti a Melilli.

79

A. DA PATERNÒ, Notizie storiche, cit., 182-183.


Fra Liberato architetto e “servo di Dio”

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Inoltre, le opere che gli si possono attribuire, attraverso la documentazione rinvenuta, contribuiscono a fare chiarezza sul suo ruolo nella ricostruzione della cattedrale di Catania dopo il 1693. Infatti l’altare maggiore in pietra bianca di Santa Barbara realizzato nel 1708 nella chiesa di San Sebastiano, cioè un anno prima dell’inizio lavori della cattedrale catanese, pone Girolamo fra i probabili ideatori del progetto, dove è documentato il suo intervento come scultore nel 1711. Quindi si può dedurre che la cattedrale di Catania fu edificata, seguendo le indicazioni impartite dal duca di Camastra, sull’impianto planimetrico preesistente al terremoto. Prendendo in parte spunto dagli affreschi del Corradini, Girolamo Palazzotto realizzò il disegno della chiesa (fig. 8) i cui lavori, iniziati da Antonino Amato e dalla sua squadra, furono diretti dal capo maestro catanese Giuseppe Longobardo, al quale il giovane Girolamo era sottoposto come maestro scultore80. Inoltre, l’incarico ricevuto nel 1716 dai rettori della chiesa madre di Melilli per realizzare la cupola81, cioè due anni dopo la costruzione di quella della cattedrale, rafforza ulteriormente l’ipotesi che egli ne sia stato il progettista, o comunque ne abbia avuto un ruolo rilevante nella sua costruzione.

Fig. 8 – Interno della cattedrale di Catania (F. De Roberto, 1900).

80

Cfr. S. CALOGERO, La ricostruzione, cit., 117. Dopo il 1693 gli edifici furono ricostruiti limitando la loro altezza a due elevazioni per paura del terremoto. La costruzione della cupola di una chiesa, quindi, poteva essere affidata ad un capo mastro, o architetto, che aveva avuto altre esperienze simili. 81



Nota Synaxis XXII/3 (2004) 163-165

LA RIVISTA «SYNAXIS» DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO NEL PRIMO VENTENNIO DI PUBBLICAZIONI

SALVATORE LATORA*

La rivista Synaxis con le pubblicazioni a latere ha già compiuto il primo ventennio di vita, essendo nata nel Natale del 1983, per iniziativa comune sia dell’Istituto per la Documentazione e la Ricerca sia dello Studio Teologico S. Paolo di Catania, con lo scopo di «istituire un centro di documentazione per conservare e valorizzare il patrimonio storico, culturale e religioso dell’isola» e questo, com’è nel significato del titolo, di per se stesso indicativo del programma della rivista, si è potuto realizzare mettendo insieme diverse persone e il frutto delle loro ricerche a servizio delle comunità ecclesiali e laiche locali. Con questo termine del latino medievale ma di origine greca veniva indicato, infatti, nella Chiesa delle origini, l’assemblea dei fedeli riuniti per la preghiera, per la lettura dei testi sacri, per la celebrazione della messa. Bisogna ricordare che il S. Paolo è uno Studio Teologico interdiocesano, nato da una convenzione stipulata nell’ottobre del 1969 fra le quattro diocesi di Acireale, Catania, Noto e Siracusa, a cui si sono associate in seguito le diocesi di Nicosia e quella di Caltagirone. Sia lo Studio che la rivista, come quelle consimili di Palermo (Ho Teològos) e di Messina (Itinerarium). sono nati in un periodo storico particolare, in quel clima del Vaticano II, che il Cardinale Pappalardo ritenne trattarsi di «una nuova alba». Le tre riviste infatti rispecchiavano quella *

Catania.

Docente emerito di Storia della Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di


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Salvatore Latora

realtà e si ponevano come strumento di quella rinascita della teologia volta ad interpretare le nuove esigenze che andavano emergendo nel campo ecclesiale e per rispondere alle problematiche dell’uomo contemporaneo, mettendo a disposizione anche dei laici una scuola teologica rinnovata nei contenuti e nei metodi, arricchita anche dal rapporto culturale (una novità nella storia italiana!) con l’Università locale, con quel luogo cioè ove si esprime la cultura laica. Oggi, in base ai risultati conseguiti, ai giudizi lusinghieri espressi nei suoi confronti, ai cambi con numerosissime riviste italiane ed estere, molte di oltre oceano, ma soprattutto per il largo uso che ne fanno i giovani studenti sia dello Studio Teologico S. Paolo che degli altri Istituti religiosi della città e provincia e dei laureandi delle Università statali, si può dire che quelle finalità sono state raggiunte e sono anzi in via di continuo e progressivo sviluppo. Infatti, viene ora stampata non più ad Acireale o a Siracusa, ma dalla Casa Editrice Giunti di Firenze che ne cura anche la diffusione. Le pubblicazioni a latere sono costituite dai numeri monografici (n. 8, finora); dai Quaderni di Synaxis, che raccolgono in genere gli Atti dei Convegni che vengono tenuti quasi annualmente con la locale Università degli studi (sono già di n. 14); e inoltre una collana di Documenti e Studi di vari Autori (9 di numero, attualmente). Sarebbe troppo lungo elencare soltanto i numerosi Autori e i vari contributi che sono stati pubblicati nei vent’anni della rivista; citiamo, a solo titolo esemplificativo: le minuziose ricerche sulle “ relazioni ad limina” di Adolfo Longhitano; i saggi di carattere etico-morale di Salvatore Consoli, quelli storici di Gaetano Zito e di Giuseppe Di Fazio; quelli scritturistici di Attilio Gangemi e Antonino Minissale; quelli filosofici di Francesco Ventorino, di Giuseppe Schillaci, di Enrico Piscione, di Salvatore Latora, etc. Per chi volesse avere un’idea più precisa, anche se sintetica, del percorso ventennale della rivista, proporrei due saggi e un piccolo volume; i due saggi, riportati nel numero della Nuova serie (XVIII / 1-2000) sono, quello di: Francesco Conigliaro: La ricerca teologica in Sicilia e lo Studio Teologico S. Paolo, che riporta il testo della prolusione all’anno accademico 1999-2000 (pp. 51-72); e il saggio di Giuseppe Ruggieri: La teologia in Sicilia alla ricerca del suo contesto (pp. 73-89), che in un’accurata rassegna


Il primo ventennio di pubblicazione di Synaxis

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ripercorre gli apporti più significativi secondo le linee di tendenza delle tre riviste siciliane, e in modo particolare di Synaxis. Il volume che segnaliamo (di ca. 60 pp.) contiene gli indici dei primi dieci anni della rivista e si deve alla competenza ed accuratezza del preside Francesco Capodanno: basta esaminarne la struttura per considerarlo strumento indispensabile ad ogni ricerca su questi studi. Riteniamo sia necessaria la pubblicazione del successivo volume che contenga gli indici degli altri dieci anni della rivista seguendo gli stessi criteri e le stesse voci; ma a questo si sta provvedendo con un unico volume che contenga gli indici di tutti i numeri della rivista, degli argomenti trattati e degli Autori: il tutto potrà essere immesso in un sito internet per un facile utilizzo di tutti gli studiosi. Auspichiamo altresì la istituzione della Giornata di Synaxis, per farla conoscere e diffonderla, affinché tanta ricchezza di contenuti non vada ignorata. Già il filosofo dell’esistenza ci ammoniva che «la vita deve essere capita guardando indietro, mentre deve essere vissuta guardando avanti» (S. Kierkegaard).



Recensioni Synaxis XXII/3 (2004) 167-185

M. TORCIVIA, Il segno di Bose. Con un’intervista a Enzo Bianchi, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2003, prefazione di André Louf, pp. 132. Il volume di Mario Torcivia è il secondo che l’autore dedica al tema delle nuove comunità monastiche italiane. Il precedente volume, pubblicato nel 2001 dalla medesima casa editrice, portava appunto il titolo di Guida alle nuove comunità monastiche italiane, e ospitava un’analisi attenta, anche se necessariamente sintetica, delle esperienze nate in Italia dopo il Vaticano II. Il segno di Bose si presenta, in continuità e come sviluppo del precedente, come uno studio monografico interamente dedicato al nascere e allo svilupparsi dell’esperienza monastica di Bose, piccola frazione di Magnano in provincia di Biella. La conoscenza del fenomeno “monachesimo” consente all’autore, sin dall’introduzione, di mettere in evidenza alcuni elementi comuni a queste nuove comunità religiose e, nel medesimo tempo, di lasciare intravedere quegli elementi specifici che caratterizzano la più nota tra le comunità nate nel dopo Concilio, quella fondata da fr. Enzo Bianchi, proprio alla chiusura del Vaticano II. Il piano dell’opera è chiaro ed essenziale. La vicenda umana e spirituale del fondatore e la storia del nascere e dello svilupparsi della comunità monastica occupa la prima parte del libro; il capitolo centrale è poi dedicato ai tratti essenziali della esperienza di Bose, mentre l’ultima parte è costituita da una intervista o, meglio, da un dialogo a due voci tra l’autore e il monaco piemontese, che ha lo scopo di far risaltare alcuni elementi caratteristici dell’esperienza nel quadro di una visione più globale della cristianità e del monachesimo. In appendice, poi, si può consultare uno schema della giornata monastica, una comoda cartina, una bibliografia essenziale che permette di rinvenire le fonti, i testi per la preghiera e i principali studi sull’esperienza. Il compito di fare da preziosa cornice è affidato alla prefazione di


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Recensioni

André Louf, un tempo abate della comunità monastica di Mont-des-Cats, che “cuce” l’esperienza di Bose alla più antica tradizione monastica, mettendo in evidenza anche gli aspetti di “profezia” accompagnati, come tutte le cose di Dio, da molte prove e incomprensioni, ma anche da frutti sorprendenti ed abbondanti. La storia personale di fr. Enzo Bianchi, tracciata dall’autore con essenziali pennellate nel primo capitolo, raccoglie, uno ad uno, i colori della “tavolozza” che compongono il quadro finale della personalità adulta: la fede della madre, perduta in tenera età, l’educazione religiosa ricevuta da due donne, cui la madre lo affida prima di morire, l’amore allo studio, l’impegno nel sociale, fino alla Fraternità ecumenica di via Piave, che rappresenta negli anni che vanno dal 1963 al 1966 (Enzo Bianchi ha, a quell’epoca, poco più di vent’anni) una sorta di laboratorio dove è possibile riconoscere alcune delle costanti dell’esperienza personale e spirituale del fondatore di Bose: l’ecumenismo, l’amore alla Bibbia, la preghiera in comune. Il tempo della solitudine, che seguirà a quella prima esperienza e preparerà il terreno della futura fondazione, sarà un tempo fecondo, illuminato da guide e riferimenti che confermeranno il giovane monaco, nel cammino intrapreso. L’elenco di questi straordinari consiglieri e ispiratori è lungo; tra tutti l’Abbè Pierre, Athenagoras I, Roger Schutz, Giuseppe Dossetti, Umberto Neri e tanti altri ancora. Decisivo il conforto e la paterna “protezione” del Cardinale Pellegrino di Torino. Nasce così la prima comunità ecumenica e mista (composta da uomini e donne) della storia del cristianesimo; nel 1973, nella festa di Pasqua, i primi membri pronunciano le loro professioni monastiche. Il testo di Torcivia descrive, con ricchezza di particolari, il tempo della fondazione, passando in rassegna anche le tappe principali della crescita e dello sviluppo del nuovo organismo. Smessi gli abiti dello storico, l’autore indossa quelli del teologo, affrontando il capitolo centrale sui tratti costitutivi della esperienza di Bose. Dopo avere tratteggiato la particolare forma monastica, centrata sul “celibato vissuto nella vita comune”, Torcivia passa in rassegna alcuni aspetti particolari dell’esperienza monastica di Bose: la correzione fraterna, l’originale concezione della stabilitas, prospettata più come stabilitas cordis che come stabilitas loci, la prerogativa della interconfessionalità, della laicità e della compresenza di uomini e donne, le carat-


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teristiche figure di “governo”, di ispirazione brasiliana, il rapporto col monachesimo tradizionale e, infine, l’iter formativo dei monaci. La centralità della Parola, nella preghiera personale e liturgica, e la valorizzazione della celebrazione eucaristica (non quotidiana forse proprio perché considerata la “preghiera delle preghiere”), rappresentano i riferimenti sicuri e l’opus del monaco. L’armonico dialogo tra preghiera e lavoro, che peraltro rispetta l’antica tradizione monastica, è presentato anche come segno di un monaco povero che trova nella ospitalità la sua particolare “strategia” per vivere dentro la comunità ecclesiale, senza facili e anacronistiche fughe dal mondo e nella convinzione profonda di un umile, ma importante compito nella chiesa e nel mondo di oggi: quello, sottolineato efficacemente nel titolo dell’opera, di essere segno della bellezza che è Dio. Questa bellezza che, a Bose, avvolge i luoghi, le nuove costruzioni, gli ambienti in cui si vive, le persone, le cose che si fanno, manifesta così, secondo le stesse parole pronunciate dal fondatore durante l’intervista che conclude il libro, l’«urgenza escatologica», quel segno del Regno di Dio che è l’amore reciproco e che costituisce una credibile profezia per il mondo. L’opera di Torcivia ha il pregio, a parer nostro, di cogliere, con un numero di pagine “accessibile” anche ad un lettore poco volenteroso, tutti e soltanto gli elementi essenziali, gli “ingredienti” fondamentali della esperienza di Bose. Le numerose citazioni della Regola, dello Statuto, degli scritti del priore e la sua diretta testimonianza, consentono poi, al lettore più attento, di accostarsi alle fonti e di giustificare e rinvenire, grazie anche alle indicazioni bibliografiche contenute in calce, tutti gli elementi storici e teologici che costituiscono il patrimonio di Bose. Senza venir meno alle esigenze del lavoro scientifico, così, l’opera si presenta attraente e scorrevole, nello stile e nei contenuti. La mancanza di uno sguardo “critico” sull’esperienza o della individuazione di alcune domande aperte, può essere giustificata, dalla convincente efficacia del quadro complessivo, che rivela la autenticità e la coerenza dei tempi della fondazione, e quella bellezza che conferisce al monachesimo di Bose la capacità di anticipare il Regno. Il medesimo metodo di lavoro potrebbe essere applicato per lo studio di altre esperienze, monastiche e non, che caratterizzano il panorama della cristianità postconciliare; è questo il compito che consegniamo all’autore


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che ha mostrato di muoversi con padronanza, con capacità di sintesi e con sensibilità nel panorama attuale della vita consacrata. Giuseppe Buccellato SDB

PIERO VIOTTO – PAOLA VIOTTO, Lo sguardo sul Calvario. Temi pasquali in Michel Ciry, Collana Tra arte e teologia, Ancora, Milano 2004, pp. 95. Il libro, nella sua essenzialità, svela al lettore/spettatore attento una ricchezza di contenuti e di spunti teologici e spirituali, oltre ad aprire numerose piste di riflessione e di approfondimento. Gli autori — Piero Viotto, professore emerito dell’Università Cattolica di Milano, e Paola Viotto, docente di storia dell’arte — si prefiggono di riflettere sul mistero pasquale di Cristo nella sua inscindibile unità di morte e di risurrezione, lasciandosi condurre dai dipinti dell’artista contemporaneo Michel Ciry (1919). Di questi viene tracciato un interessante profilo nelle pagine conclusive del saggio. Nelle opere dell’artista francese, dedicate al mistero pasquale, vengono individuati quattro nuclei tematici, che presentano il cammino di Gesù dalla solitudine nell’orto degli ulivi alla rivelazione luminosa concessa ai discepoli di Emmaus. I nuclei tematici determinano i quattro capitoli, nei quali lo sguardo del lettore/spettatore viene guidato nella contemplazione di 15 tele, per cogliere i momenti cruciali del mistero del Crocifisso – Risorto e il loro risvolto per il destino dell’uomo. I capitoli sono preceduti da una prefazione del Cardinale Godfried Danneels, Arcivescovo di Malines-Bruxelles, e da una preziosa introduzione. In questa, ad alcune parole di presentazione su Ciry, quale artista cristiano che si impegna per un’arte carica di significato, fa seguito la descrizione della struttura dell’opera e, soprattutto, l’indicazione del punto di vista teologico, scelto per la lettura delle tele. In compagnia dei teologi Charles Journet (1891-1973) e Marie-Dominique Philippe (1912), gli autori prediligono una prospettiva cristologica ed ecclesiologica. La struttura dei singoli capitoli è molto lineare e risponde bene allo scopo del libro. Ogni capitolo comincia con un brano del vangelo relativo


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alla tematica illustrata, prosegue con una lettura della tela dal punto di vista artistico e teologico, chiude con una preghiera ripresa dal Journal di Ciry. Il primo capitolo, con tre dipinti, orienta lo sguardo del lettore/spettatore su Gesù che sperimenta la solitudine nel Getsemani e nella salita al Calvario. Nelle due immagini che intendono cogliere il dramma dell’orto degli ulivi, Gesù è solo, nel suo colloquio sofferente con il Padre e nella mancata accoglienza dei suoi discepoli — Pietro, Giacomo e Giovanni — vinti dal sonno. Ma anche questi sono soli. Infatti, gli uomini, quando non riescono ad accogliere Cristo, diventano prigionieri della solitudine e, conseguentemente, si rendono estranei anche ai propri vicini. Nell’oscuro orizzonte della solitudine umana, emerge però la luce della speranza: il Cristo solo si fa incontro ai suoi nel modo di luce che illumina la notte, nel modo di compagno discreto che sostiene e accompagna la loro solitudine. Gesù, nella sua solitudine, si volge pure verso gli uomini per interpellarli silenziosamente, come lascia intendere la tela della salita al Calvario. Di fronte ad essa, senza dubbio, si rimane colpiti dallo sguardo compassionevole del Cristo, solo sul suolo sassoso nel quale è caduto sotto il peso della croce. Nel capitolo secondo, tre quadri permettono inizialmente di puntare lo sguardo del lettore/spettatore sul coinvolgimento di Maria, di Giovanni e di Maria Maddalena nel dramma della morte di Gesù. Il dipinto che rappresenta Maria e Giovanni sotto la croce, in particolare, mostra come la luce e lo sguardo del Crocifisso diano loro la forza per accogliersi e sostenersi, in quell’ora di sofferenza che costituisce pure l’ora della nascita della chiesa, della comunità di quanti sono uniti per il riconoscimento della presenza del Redentore in mezzo a loro. Una quarta tela invita successivamente a meditare sulla conclusione del dramma del Calvario, sulla sepoltura di Gesù. In essa, «come in una natura morta» (46), è rappresentata la pietra spruzzata di sangue, su cui fu composto il corpo di Gesù per la sepoltura, la corona di spine e tre chiodi. Il significato è profondo: il silenzio del sabato santo, l’assenza di qualsiasi presenza umana, in attesa della risurrezione, dell’apparizione di colui che non è più sulla pietra abbandonata. Al Risorto sono dedicate le prime due tele considerate nel terzo capitolo. Una di esse, la risurrezione in rosso, concentra specialmente l’attenzione sul corpo sofferente e glorioso di Cristo e sul legame tra il trionfo dell’Agnello e il suo sacrificio, evidenziato con l’immagine del manto rosso,


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ripresa da Is 63:1-2 e da Ap 19:13. Altri due quadri, presentati nel capitolo, orientano lo sguardo del lettore/spettatore verso Gesù risuscitato, riconosciuto e confessato da Tommaso. Essi non rappresentano il volto di Cristo, ma ambedue, seppure con differenze figurative, danno un ruolo decisivo, oltre che alle mani del Risorto e di Tommaso, allo sguardo di Tommaso e alla luce della fede che illumina il discepolo, prima incredulo. In tale contesto, significativamente, emerge il tema della rivelazione pasquale, sviluppato nel capitolo successivo. Il quarto e ultimo capitolo pone, anzitutto, il lettore/spettatore davanti a tre tele sui discepoli di Emmaus. Queste, nei particolari, mostrano il cammino dei due discepoli dalla desolata solitudine alla missione gioiosa, grazie alla rivelazione del Risorto. Egli, progressivamente, ha illuminato i due viandanti, si è loro rivelato, fino a farli pervenire al suo pieno riconoscimento, nel momento culminante della frazione del pane. Una tela, in particolare, rappresenta uno dei due discepoli sulla porta della locanda, che «illuminato dalla rivelazione avanza verso lo spettatore, entra nel suo spazio d’ombra e porta con sé la luce che lo ha colpito» (77). L’illuminazione dei discepoli di Emmaus può estendersi nel tempo e nello spazio e coinvolgere ogni uomo e ogni donna che, sul fondamento della fede, per mezzo dell’eucaristia e della preghiera contemplativa, va incontro al Signore. Questo è il messaggio conclusivo del capitolo, affidato a un’icona — la quarta del capitolo e la quindicesima del libro — appartenente alla serie di tavole di Ciry, denominata La parte migliore. Si tratta dell’immagine di Maria di Bethania, tutta presa dalla presenza di Gesù e affascinata dalla sua parola. Come è stato già accennato, molti temi teologici che gli autori colgono, e offrono con vivacità e chiarezza espositiva, nella lettura delle tele di Ciry, costituiscono degli elementi preziosi per la riflessione e l’approfondimento. Basta richiamare, ad esempio, le considerazioni sulla rivelazione pasquale, gli spunti sul nostro accesso attuale al Cristo risorto, mediante l’eucaristia o il vissuto cristiano di fede, il cenno sulla comunità ecclesiale, stabilitasi grazie all’unione realizzata con le parole e lo sguardo del Crocifisso. Riteniamo che un ampliamento dell’orizzonte di riferimento teologico avrebbe permesso di porre in maniera diversa alcune questioni teologiche: per esempio, quella inerente la visione beatifica goduta da Gesù nel corso della sua vita mortale (24). Va, poi, corretta l’affermazione secondo la quale il viola è il colore liturgico del venerdì santo (34).


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Il libro costituisce, indubbiamente, un prezioso contributo alla discussione sull’apporto che l’arte può recare al linguaggio teologico. Un dialogo che, nell’ambito teologico italiano, vede particolarmente coinvolti i docenti della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale (Firenze). Nunzio Capizzi

NUNZIO BOMBACI, Ebraismo e cristianesimo nel pensiero di Martin Buber, Prefazione di Paola Ricci Sindoni, Libreria Dante & Descartes. Universitaria, Napoli 2001, pp. 213. Questo lavoro di Nunzio Bombaci analizza l’interpretazione che dà Martin Buber (1878-1965) dell’ebraismo e del cristianesimo nella sua opera apparsa originalmente nel 1950 col titolo Zwei Glaubensweisen (Manesse Verlag, Zürich) e pubblicata in traduzione italiana nel 1995 (Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, a cura di Sergio Sorrentino, con Postfazione di David Flusser, Cinisello Balsamo). Buber sa che altro è parlare dall’interno di una fede condivisa ed altro è parlarne dall’esterno, come accade inevitabilmente quando lui parla del cristianesimo da ebreo. Il titolo stesso dell’opera fa pensare a due tipologie diverse che vengono schematizzate e delineate con dei contorni molto netti, in modo da mettere in evidenza la loro contrapposizione. Ma questa semplificazione non riguarda in Buber solo il cristianesimo, ma anche l’ebraismo, perché ne mette in evidenza solo quello che, secondo la sua filosofia, ne è l’elemento più qualificante. In ogni caso, queste due semplificazioni aiutano la comprensione reciproca nella misura in cui vengono usate con duttilità e simpatia, restando in dialogo. Il dialogo è del resto, nella filosofia di Buber, l’attitudine che meglio qualifica la condizione umana come ben mostra Bombaci nel cap. I del suo libro (“L’orizzonte filosofico dell’opera di Martin Buber”, pp. 13-42). Qui si richiama in particolare lo scritto programmatico di Buber, Ich und Du del 1923 (Io e Tu, trad. it. in Il principio dialogico e altri saggi, con introduzione di Andrea Poma, Cinisello Balsamo 1993, pp. 57-157) , che fornisce la necessaria premessa per affrontare Due tipi di fede. In esso Buber schizza una vera filosofia dialogica che sgorga dalla Bibbia, che egli accosta con una suggestiva immediatezza di carattere esperienziale, anche se filtrata con la


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griglia della sua istanza fondamentale che è insieme filosofica e teologica. La relazione Io-tu è per Buber onnicomprensiva, ed è fondante per ogni “contatto” che l’uomo stabilisce con gli altri, con il mondo, con Dio, fondamento implicito di ogni relazione. A questo proposito vale la pena riportare le stesse parole di Buber che Bombaci ha opportunamente spigolato dai diversi suoi scritti: “ Non ho alcuna dottrina. Solo indico qualcosa. Indico la realtà, indico qualcosa nella realtà che non è stato visto o è stato visto troppo poco. Prendo per mano chi mi ascolta e lo conduco alla finestra. Apro la finestra e indico ciò che vi è fuori. Non ho alcuna dottrina, ma conduco un dialogo”(cit. a p. 13). “In ogni sfera, attraverso ogni cosa che ci si fa presente, lanciamo uno sguardo al margine del Tu eterno, in ognuna ve ne cogliamo un soffio, in ogni tu ci appelliamo al Tu eterno, in ogni sfera secondo il suo modo” (cit. a p. 19s). “Nella relazione con l’Unico il mondo non è rinnegato, ma collocato nel suo fondamento. Non si tratta di restare nel mondo o di allontanarsene, ma di andare verso il Tu portandogli ogni realtà del mondo: Per chi comprende ciò Dio è il ‘totalmente Altro’, ma anche il ‘totalmente Presente’ (cit. a p. 26). “In quanto originariamente consegnato alla sua nuda ipseità di essere ‘indipendente’, l’uomo è capace di ‘stare - di - fronte’ a Dio” (cit. a p. 32). Da queste premesse è facile comprendere la “tendenziosità” con cui Buber caratterizza e contrappone l’ebraismo e il cristianesimo come due differenti tipi di fede nel cap. II (“Ebraismo e cristianesimo, due tipi di fede”, pp. 43-78), che è quello che affronta direttamente il tema di questo libro. L’ebraismo non è visto come una religione istituzionalizzata con dogmi, riti e precetti morali, ma viene focalizzato nell’atteggiamento con cui l’uomo si pone “davanti a Dio’ e da qui assume responsabilmente il mondo nel quale si trova di volta in volta a vivere. Ciò costituisce il punto essenziale della fede nel modello ebraico, alla quale Buber riserva il termine emuna, proprio della lingua ebraica: “Vivere nella fede è dunque per Buber ‘tenersi saldo” (festhalten), ‘reggere, resistere’ (aushalten), ‘perseverare’ al cospetto del Dio vivente. Per qualificare la fede dell’uomo della Bibbia egli usa talora anche il verbo standhalten, ‘tener duro, tenere testa’. Nella fede biblica, per l’Autore, si rinvengono con un’intensità e una purezza non riscontrabili nelle altre religioni storiche gli elementi costitutivi della religiosità autentica” (p. 48). Invece, nel cristianesimo la fede si oggettivizza concettualizzandosi come pistis (è questo il termine greco caratteristico del NT),


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per opera di Giovanni e di Paolo, per i quali essa diventa un credere che Gesù è risorto, diventando così fede in Gesù (cap. IV: “Alle origini della fede in Gesù Cristo”, pp. 113-146). Ma la fede testimoniata da Gesù stesso è una fede di tipo ebraico, vissuta addirittura con un’intensità e una purezza eccezionali, soprattutto quando egli, verso la fine della sua vita, arriva ad identificarsi, davanti a Dio, con il destino del servo sofferente di Is 53 (Cap. III: “La fede di Gesù”, pp. 79-112). Dopo aver ricordato le reazioni dei teologi cristiani (evangelici: G. Ebeling, E. Brunner; cattolici: B. Casper, L. Wachinger, E. Biser, H. U. von Balthasar, W. B. Eckert) e dello studioso ebreo David Flusser nel cap. V (“Due tipi di fede? Alcune letture”, pp. 173190), riconoscendo il contributo positivo dato da Buber al dialogo ebraicocristiano, N.B. ribadisce giustamente questi due punti fondamentali: 1) Il principium individuationis del cristianesimo rispetto all’ebraismo è “la fede in Gesù” (p. 179); 2) “l’impossibilità, in entrambe le direzioni, di operare una comprensione integrale della fede dell’altro” (p. 176). Questo riconoscimento preliminare è importante perché il dialogo interreligioso si ponga in maniera corretta. Ma esso non porta all’incomunicabilità tra le due parti. Ciascuno nel (ri)conoscere l’altro nella sua diversità è spinto a comprendere meglio la sua stessa fede ed identità e a rivitalizzarle. La risposta finale di Bombaci alla provocazione di Buber sottolinea giustamente non solo la discriminante dell’accoglienza o meno del mistero di Gesù, ma ancora più a monte la diversa consapevolezza del “nascondimento di Dio” nella stessa sua rivelazione, quale è riecheggiata nella Bibbia, per lasciarsi guidare infine dall’esemplare posizione cristiana di Pascal: “Per l’ebreo Buber, Dio ‘si nasconde’, il Dio dei cristiani si rivela in Gesù Cristo. Eppure, come sottolinea Pascal, è un Dio ‘nascosto’. Rivelandosi nel Figlio, non tradisce il suo ‘essere nascosto’, poiché la rivelazione non è teofania che possa abbacinare la vista o costringere il cuore a credere, ma infittisce il velo. La libertà dell’uomo non ne esce affatto sminuita: c’è abbastanza luce per chi vuole credere e abbastanza oscurità per chi si ostina a non credere come afferma ancora Pascal” (p. 177). Personalmente ho trovato molto significativa questa raccomandazione di Buber: “Ogni religione ‘deve rinunciare a essere la casa di Dio sulla terra e accontentarsi di essere una casa per gli uomini che, nella stessa intenzione, sono rivolti a Dio’, mettersi in ascolto per cogliere quale sia la volontà di Dio per questa ora e cercare di ‘superare i problemi che la


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contraddizione tra la volontà di Dio e la realtà presente pone’. In tal modo, le religioni si sentiranno unite nell’attesa della redenzione e nella cura per il mondo non redento” (p. 49). In realtà, sarà proprio questa non redenzione del mondo la riserva avanzata da Buber e dall’ebraismo alla messianicità di Gesù. Ma anche i cristiani riconoscono che la sua opera messianica è incompiuta e fa sempre appello al coinvolgimento degli uomini in una responsabilità che non si può mai acquietare. Il libro in esame, oltre alle due opere fondamentali di Buber sopra indicate, attinge a tanti altri scritti di questo Autore fecondo e coerente, riferisce abbondantemente la varie voci che hanno dato vita ad un nutrito dibattito sulle sue posizioni, sia durante la sua vita e sia dopo. Paradossalmente il suo interlocutore cristiano più considerato è stato il teologo evangelico R. Bultmann, che proprio sulla fede doveva essere più vicino alla posizione buberiana, dal momento che entrambi ne sottovalutano l’aspetto noetico; ma il loro disaccordo doveva essere più rilevante nella questione del Gesù storico, insignificante per il teologo luterano, ma molto importante per il filosofo ebreo che vuole recuperare l’ebraicità di Gesù attraverso la sua più concreta umanità. Antonino Minissale

MARIA MARTELLO, Oltre il conflitto. Dalla mediazione alla relazione costruttiva, Presentazione di Salvatore Natoli, McGraw-Hill, Milano – New York ecc., 2003, pp.261. Capita facilmente che anche un non addetto ai lavori, quando si trova a leggere un libro di psicologia, ci provi un vero gusto nella lettura, perché vi ritrova qualcosa di se stesso, e perciò di umano e di universale. Del resto, l’importanza assunta oggi dalla psicologia come orizzonte culturale e come tecnica investigativa e terapeutica, è un segno dei tempi nella nostra epoca ferocemente tecnologica, perché ci ricorda la centralità dell’uomo, non come oggetto, ma come soggetto che si può e si deve autogestire investendo al meglio le sue più profonde potenzialità interiori, che sono latenti, confuse e contraddittorie. L’idea di fondo del libro in esame è che ogni conflitto che disturba il rapporto fra due persone può diventare un’occasione positiva per


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promuovere una conoscenza più vera da parte di ciascuno dei due confliggenti, prima di tutto di se stessi e quindi dell’altro con cui si vive una fastidiosa conflittualità. Come aiuto a che può provocare e sollecitare questa duplice e rinnovata presa di coscienza, la Martello propone l’intervento di un mediatore, che congiunge in sé perspicacia professionale, passione umana e responsabilità etica. Il mediatore deve ascoltare ciascuno dei confliggenti prima separatamente, per aiutarlo, con un ascolto veramente “empatico”, a scoprire dentro di sé le motivazioni inconfessate e rimosse che spingono a rifiutare l’altro nella sua legittima alterità, meritevole di essere riconosciuta ed accettata. L’approccio dell’Autrice al tema della conflittualità che può essere incanalata verso una relazione costruttiva, è nello stesso tempo teorico e pratico. La filosofia soggiacente a tale proposta affiora più volte nel testo e può essere meglio evocata attraverso le sue stesse parole: “Il mediatore deve avere…la sottile, ma ferrea fede, nelle risorse individuali e nella positività della vita” (p. 56) e perciò cerca di “restituire il diritto all’autostima e alla libertà di scelta a quel soggetto che, in un momento di debolezza, tende ad abdicare a se stesso” (p. 42). Da un punto di vista pratico e pedagogico si insiste sulla necessità che il mediatore abbia raggiunto da parte sua una buona “autoconsapevolezza emotiva” nel senso che conoscendo meglio se stesso può evitare di far interferire in maniera fuorviante i propri problemi irrisolti o mal risolti nelle angosce della persona che viene ascoltata nelle diverse sedute. In queste si cerca di far prendere una graduale autocoscienza all’interlocutore in vista della risoluzione del conflitto. Ma il mediatore deve riconoscere i limiti del proprio intervento rispettando il mistero che si cela nella storia di ogni persona. Sull’“autenticità del mediatore” vale la pena ascoltare ancora la stessa Autrice: “I soggetti in conflitto devono nutrire fiducia nei confronti di chi li guida mentre vivono una situazione di grande turbamento… è necessario che egli abbia dato una giusta impostazione alla propria vita, abbia riscattato le proprie frustrazioni e fatto luce nelle proprie zone d’ombra, abbia cercato di oggettivare ciò che più lo ha turbato e lo turba, si sia addestrato magari a osservarlo o a risentirlo nella sua mente, per togliergli incisività, lo abbia metabolizzato. Alcune volte, infatti, la scelta dei valori non è del tutto autentica, ma può essere inconsapevolmente secondaria a delusioni, a fallimenti di vario genere e carica per ciò stesso di sentimenti di revanche che si portano al tavolo della mediazione,


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precludendone gli esiti positivi, specialmente se il conflitto in essere li richiama in qualche modo in vita; possono indurre il mediatore a schierarsi con una delle parti, a non dare lo spazio e il rilievo dovuti al dolore dell’altra parte” (p. 68). Dopo aver distinto gli ambiti di applicazione del metodo in mediazione penale e in mediazione scolastica nelle quali si riflette l’esperienza dell’Autrice come Giudice Onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Milano e come conduttrice di stage di formazione alla mediazione scolastica, penale e sociale, oltre che quella, ventennale, di insegnamento nella scuola secondaria, si considerano pure i vari aspetti della relazione non conflittuale in ambito lavorativo (pp. 157-167), in ambito scolastico (pp. 169-177), nella relazione di coppia (pp. 179-194) e nella relazione con i figli (pp. 195-203). Lo stile e lo spirito del libro lo si coglie bene in alcune osservazioni che mi sembrano piene di saggezza: “Chi guida una comunicazione empatica sarà opportuno che si muova con calma; che pacato sia il tono della sua voce; che abbia una postura del corpo rilassata, che indichi serena accoglienza, intanto che traluce dalla sua persona, per così dire, un po’ dell’imperturbabilità del saggio” (p. 40s). “Non è vero che il solo modo di affrontare un disaccordo, già in essere, è quello di provocarne un altro: questa modalità è certamente devastante e fa perdere un’occasione di evoluzione del proprio Io… Le dispute con gli altri, infatti, sono quasi sempre il riflesso dei nostri intimi conflitti, dei problemi interiori ai quali non abbiamo ancora trovato una soluzione o dei quali non ci siamo ancora reso conto” (p. 53). “Il mediatore, per non essere solo un bravo tecnico, deve essere un disilluso. Nel senso che deve aver considerato con profonda convinzione che il dolore fa parte della vita e aver abbandonato l’illusoria speranza di un mondo abitato da angeli; deve avere ‘le rughe’, nel senso che ha attraversato la vita e ha passato le prove che essa riserva a ciascuno, senza rimanerne schiacciato, affinché possieda il coraggio di lasciare che il dolore sia, di rispettarlo come un mistero offerto alla persona, apparentemente senza un senso, perché solo questa accoglienza permette di svelare la spinta al cambiamento che il dolore porta con sé; affinché, tirato fuori il suo groviglio interiore, possa fare spazio a quello dell’altro, senza insofferenze, fastidi, proiezioni. Deve aver curato le sue ferite al meglio possibile, per ‘proteggersi dal rischio del contagio’ cioè dal pericolo che, se non perfettamente rimarginate, nel contatto che le


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persone portano in seduta, queste possano essere riattivate e divenire più virulente di prima” (p. 55). Il capitolo finale parla della “formazione per saper gestire la relazione” (pp. 207-227). Si tratta di incontri organizzati soprattutto nelle scuole per docenti, alunni e genitore insieme, che scelgono di parteciparvi. La testimonianza di qualche partecipante a questi stage ne coglie bene lo spirito e il metodo: “In fondo, allora, non è vero che tra adulti e adolescenti esistono mondi in opposizione o comunque diversi fra loro. E poi…come, quando e perché si dovrebbe passare da un mondo a un altro? Adesso capisco che non sono altro che i ruoli a separare le schiere di un unico mondo… Avrò sicuramente dimenticato qualcuno, ma la cosa certa è che tutti mi hanno aiutata a crescere e a capire che in fondo sono le emozioni che contano e che solo le emozioni opportunamente governate ci permettono di instaurare buone e belle relazioni… sono convinta che riuscirò a riconoscere le mie emozioni e a stabilire belle relazioni” (p. 217). “Ho imparato finalmente a svolgere con la massima attenzione i compiti che mi sono stati affidati a scuola, in famiglia e negli altri ambiti in cui vivo, accettando con consapevolezza i miei i miei limiti, convincendomi e facendo di essi il trampolino di lancio per sfruttare al meglio le mie potenzialità” (p. 218). Anche da un punto di vista teologico e pastorale sono da accogliere con rispetto e con fiducia gli apporti della psicologia nella ricerca e nelle sue applicazioni. Il Concilio Vaticano II parlando delle caratteristiche della cultura odierna riconosce che “i più recenti studi di psicologia spiegano in profondità l’attività umana” (Gaudium et spes, 54). E l’attività umana non riguarda solo il fare, ma ancor prima l’essere dell’uomo, la sua armonia con se stesso e con gli altri. Antonino Minissale

N. DELL’AGLI, Lectio divina e lectio humana. Un nuovo modello di accompagnamento spirituale, Collana: “Sussidi per l’animazione della vita religiosa” n. 9, a cura della Conferenza Italiana Ministri Provinciali Cappuccini, EDB, Bologna 2004, pp. 305. Il volume che presentiamo (N. DELL’AGLI, Lectio divina e lectio


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humana. Un nuovo modello di accompagnamento spirituale, Collana: “Sussidi per l’animazione della vita religiosa” n. 9, a cura della Conferenza Italiana Ministri Provinciali Cappuccini, EDB, Bologna 2004, pp. 305) ha per oggetto quella importantissima dimensione della vita di fede che già gli antichi denominarono sapientemente “arte delle arti e scienza delle scienze”: l’accompagnamento spirituale. L’Autore (Ragusa, 1960), dottore in teologia e psicoterapeuta, è didatta presso la Scuola Post-Universitaria di Specializzazione in Psicoterapia dell’Istituto di Gestalt-H.C.C., riconosciuta dal Ministero dell’Università (MURST) e docente di psicologia presso la Facoltà di Scienze della Formazione della LUMSA (Sezione di Palermo) e lo Studio Teologico “San Paolo” (Catania). È anche docente invitato di psicologia pastorale presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia “S. Giovanni Evangelista” (Palermo) e il Pontificio Ateneo Antoniano (Roma). Accanto all’attività di docenza, Dell’Agli scrive per alcune riviste di vita spirituale e tiene corsi di accompagnamento spirituale e di formazione per formatori nella vita religiosa. Da un po’ di anni, infine, ha dato vita e guida, nella sua città natale, una piccola fraternità, composta da uomini e donne, di ispirazione francescana. Il testo, rielaborazione della tesi di Laurea in Teologia Pastorale, conseguita presso la summenzionata Pontifica Facoltà Teologica di Sicilia nel 2003, ha come scopo quello di «presentare un modello di accompagnamento spirituale che nasca da una integrazione di contributi teologici e psicologici: esso vuole intendersi come lectio humana sviluppata in profonda analogia con la lectio divina, utilizzando i contributi di quella corrente della teologia pastorale o pratica chiamata pastoral counseling e, nello stesso tempo, affondando le sue radici nella tradizione ebraicochassidica e in quella cristiana delle Chiese d’Oriente, più attente ad una concezione terapeutica della salvezza» (p. 7). Il volume si articola in tre parti. Presentato (Prima parte: pp. 13-119) l’accompagnamento spirituale nel movimento del pastoral counseling, nella tradizione ebraico-chassidica e nella tradizione delle chiese d’Oriente, l’A. espone (Seconda parte: pp. 121-203) il contributo che la psicoterapia apporta all’accompagnamento spirituale - soffermandosi anche, seppur sinteticamente, a presentare cosa sia la psicoterapia e, specificamente, la Psicoterapia della Gestalt - fissando


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anche «in modo sintetico, i punti fondamentali di una teoria della personalità, utilizzabile in campo pastorale» (p. 181) e tracciando «alcune linee essenziali […] di una teologia della guarigione nella Bibbia che servano da retroterra teologico al ministero dell’accompagnamento spirituale come è inteso nel presente lavoro» (p. 192). La Terza parte del lavoro (pp. 205-298) è consacrata, infine, a «presentare il nostro modello di accompagnamento spirituale, definendone obiettivi e linee metodologiche» (p. 205). Non sostiamo volutamente a trattare le pagine della Prima parte del libro per lasciare al lettore la gioia di abbeverarsi direttamente alle sempre fresche acque della sapienza ebraica e dei primi monaci e padri spirituali della chiesa indivisa, acque alle quali attinge la stessa consulenza pastorale (cf. p. 34). Solo un’osservazione a proposito dell’accompagnamento spirituale. L’A. non cita il volume del padre gesuita I. Hausherr, Direction spirituelle en Orient autrefois, Pont. Institutum Orientalium Studiorum, Roma 1955, da cui è stata tratta la vc. — anch’essa non citata — Direction Spirituelle nel Dictionnaire de Spiritualité vol. III (1957). L’opera, riconosciuta dagli stessi cristiani d’Oriente fondamentale in questo campo, è, per altro, alla base di tutti gli studi successivi (ci riferiamo a quelli di ?pidlík ed Allen, solo per fare alcuni nomi citati da Dell’Agli). Rileviamo ancora che il rifarsi al punto 1.3 del volume del Larchet nella sua edizione francese, e non nella recente traduzione italiana, ha fatto sì che la maggior parte delle fonti dall’A. citate, e riportate in nota, abbiano come riferimento volumi in lingua francese. Se fossero state citate, invece, le diverse traduzioni delle fonti patristico-monastiche presenti anche in lingua italiana, il lettore sarebbe stato aiutato nel reperimento delle suddette fonti. Va data lode, di certo, all’A. per avere reso comprensibile anche al lettore poco aduso al discorso strettamente psicologico, la riflessione e l’apporto della psicoterapia contemporanea per la «costruzione del nostro modello di accompagnamento spirituale» (p. 9). Risulta, così, estremamente interessante la lettura — secondo le tre dimensioni di fondo (relazionale, ermeneutico-decisionale ed evolutivo) — che, dal punto di vista psicologico, si può fare dell’esistenza umana (Seconda parte). Nell’ultima parte del volume, sicuramente le pagine più originali, Dell’Agli presenta da una parte gli obiettivi «di un efficace accompagnamento spirituale […] e cioè i] processi di funzionamento interiore e relazionale che permettono la crescita umana e di fede. In altri termini, si


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sta cercando di fissare, come obiettivi, il ripristino e/o l’evoluzione di quelle caratteristiche di funzionamento dell’organismo spirituale umano che sono condizione necessaria per la sua crescita in un orizzonte di fede» (p. 207). Dall’altra espone «la metodologia di intervento attraverso cui raggiungere tali obiettivi. A questo livello, è importante parlare della mentalità, degli atteggiamenti, delle competenze e del metodo necessari ad un accompagnatore spirituale per realizzare il suo ministero, ossia per offrire alle persone che gli chiedono un sostegno adeguato in un orizzonte di fede al fine della loro crescita e guarigione in Cristo» (p. 241). E proprio parlando della “metodologia di intervento” l’A. svela la scelta del titolo del volume. Per Dell’Agli, infatti, risulta «possibile allora ipotizzare che i passaggi da compiere in una lectio divina siamo gli stessi da realizzare in un accompagnamento spirituale inteso come lectio humana: ascoltare cosa l’altro dice; ascoltare cosa l’altro “mi” dice; rispondergli creativamente; assimilare l’incontro ed imparare da esso. Alla base di queste riflessioni sta la convinzione che, pur parlando di ascolto di Dio, attraverso il metodo della lectio divina, e di ascolto dell’uomo, attraverso il metodo della lectio humana, in effetti una è nella persona concreta la capacità di ascoltare sia il Creatore che la creatura: se i contenuti dell’ascolto possono essere diversi a seconda dei contesti, i processi relazionali di ascolto o di non ascolto al fondo sono gli stessi» (p. 242). Non, pertanto, un libro sulla lectio divina, come il titolo in sé potrebbe far pensare, bensì un testo che presenta al lettore la felice intuizione dell’A.: che, cioè, «i passaggi da compiere in una lectio divina siano analoghi a quelli da realizzare in un accompagnamento spirituale inteso come lectio humana» (p. 10). Evidenziamo, ora, alcuni refusi tipografici in vista di una seconda edizione: nell’Indice viene riportato lo stesso titolo nella Seconda e nella Terza parte e al punto 1.3.2.5 viene assegnata la pag. 17 mentre è la pag. 86; nella citazione di opere in lingua francese si nota l’assenza di alcuni accenti. L’A., infine, a nostro parere, avrebbe potuto inserire alcune pagine di Bibliografia che avrebbero aiutato, senza dubbio, il lettore nel reperire gli studi citati nelle più di trecento pagine del libro. Terminiamo, evidenziando che il lavoro del prof. Nello Dell’Agli, come egli stesso afferma, aspira ad essere un «tentativo di una ricomprensione della direzione spirituale» (p. 300) in cui teologia e psicologia


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lavorino di concerto per il bene della persona, così come, ormai quarant’anni or sono, Gaudium et spes 62 — citata dall’A. nell’Introduzione — invitava a fare. Crediamo che il tentativo sia riuscito molto bene e ci associamo all’invito, seppur sotteso, rivolto da Dell’Agli a chi è chiamato a svolgere il ministero di accompagnare spiritualmente i credenti, in ordine all’acquisizione di una sempre maggiore e approfondita competenza. Per questo l’A. conclude la sua fatica augurandosi che «i tempi nella chiesa siano sempre più maturi per la formazione di guide spirituali competenti nel metodo della lectio divina […] nell’arte dell’ascolto empatico-compassionevole […] nell’arte del discernimento spirituale […] nell’arte della relazione pastorale d’aiuto […]» (p. 302). Mario Torcivia

R. NARDIN (ed.), Vivere in Cristo. Per una formazione permanente alla vita monastica, Prefazione di Notker Wolf, Collana: Contributi di Teologia n. 40, Città Nuova, Roma 2004. Dom Notker Wolf, nel fotografare con estrema lucidità la situazione contemporanea di tante comunità monastiche, afferma la necessità per il monaco di un continuo lavoro su di sé per una sempre più profonda maturazione umano-cristiana. Tale opera diuturna produce nel monaco una vera e propria trasformazione, la quale «non risulta semplicemente dalla preghiera e dall’adempimento di regole, bensì richiede una riflessione e una formazione permanente fino alla fine della vita. Include studi teologici e un’informazione sullo sviluppo politico-sociale, una mente sveglia e attenta. La stessa lectio divina s’arricchisce e diventa più concreta in un uomo dotato di una mentalità colta e aperta» (p. 17). L’affermazione dell’Abate Primate della Confederazione benedettina riassume felicemente quanto emerso durante il convegno monastico Vivere in Cristo. Linee per una formazione permanente, celebratosi nell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore (Siena) nei giorni 3-4 settembre 2002. L’assise ha rappresentato la felice occasione d’incontro per un discreto numero di appartenenti al mondo monastico italiano - tradizionale e nuovo - per


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riflettere intorno ad una tematica estremamente importante e attuale non solo per la vita monastica. Gli Atti di questo convegno sono stati ora pubblicati nel volume: R. NARDIN (ed.), Vivere in Cristo. Per una formazione permanente alla vita monastica. Prefazione di Notker Wolf, (Collana: Contributi di Teologia, 40), Città Nuova, Roma 2004, euro 18.00. Il curatore del testo — nonché dell’Introduzione: La formazione permanente. Alcune coordinate, pp. 1937) e della Bibliografia essenziale sulla formazione permanente (pp. 247256) — è monaco della succitata Abbazia benedettina della Congregazione Olivetana (nella quale ricopre l’ufficio di vice maestro di formazione dei giovani monaci) e docente di teologia dogmatica presso la Pontificia Università Lateranense (Roma). Pur trattandosi di un convegno monastico, già l’Indice del volume in questione mostra come le relazioni svolte durante il Convegno si rivolgano non solo a monaci. Certamente ad un pubblico più ampio si possono riferire, infatti, i contributi di mons. Ignazio Sanna (L’antropologia della postmodernità e il messaggio cristiano: sfide e prospettive, pp. 59-105), di p. Bruno Secondin ocarm. (Vita consacrata. Aspetti costitutivi, pp. 107-118) e p. Benito Goya ocd (La formazione permanente nei documenti del Magistero, pp. 139-172), nonché le due meditazioni dettate dall’allora vescovo di Grosseto — oggi Patriarca di Venezia — S. E. Mons. Angelo Scola, ai monaci dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore ed inserite ora nel volume come contributo iniziale della Prima Parte (Evento di Cristo ed enigma dell’uomo, pp. 41-57). Tre, invece, le relazioni di contenuto prettamente monastico: l’esposizione di un profilo storico della Spiritualità monastica (dom Giorgio Picasso osb oliv., pp. 119-136), la presentazione di Un maestro della formazione permanente: dom Jean Leclercq (dom Valerio Cattana osb oliv., pp. 173-183) e, infine, l’individuazione di alcune Linee per una formazione permanente. Punto di partenza e percorso formativo nei monasteri (dom Pius-Ramon Tragan osb, pp. 185-212). Conclude il volume la presentazione di tre esperienze di formazione permanente: due in monasteri tradizionali (Camaldoli e Monte Oliveto Maggiore), l’ultima in una nuova comunità monastica (Bose). Siamo convinti che il testo possa rappresentare per i membri degli Istituti di Vita Consacrata, monastici e non, un buon contributo riguardo


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al tema approfondito nei giorni del Convegno. Infatti, secondo Nardin: «La formazione iniziale e permanente [… ] è una tematica e, ancor più, un’esigenza per la vita consacrata, perché crea le condizioni, garantisce il sussistere e stimola lo sviluppo di tutte quelle valenze che fanno della vita consacrata un peculiare modo di accogliere/servire il Signore, restando con Lui» (p. 19). Mario Torcivia



Synaxis XXII/3 (2004) 187-190

NOTIZIARIO SYNAXIS 2004/3

1. Licenziati in Teologia Morale Ha conseguito la Licenza in Teologia morale il 25 giugno 2004: TOPPO PETER JAMES, The concept and the practice af marriage rite in indian culture “Kharia” with the light of the christian liturgical rite (relatore prof. Maurizio Aliotta) Ha conseguito la licenza in Teologia morale l’8 ottobre 2004: AMBATT JUDE THADEUS, “Vegliate e pregate per non cadere in tentazione (Mt 26,41; Mc 14,38; Lc 22,40.45). La tentazione dei discepoli nel contesto della preghiera di Gesù al Getsemani (relatore prof. Attilio Gangemi).

2. Baccellieri in teologia Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia il 25 giugno 2004: BATTAGLIA GIUSEPPE, I fondamenti dell’unità della famiglia umana in “Gaudium et Spes” 24 (relatore prof. Maurizio Aliotta) GIULIANO FIORENZO, Le citazioni del libro del profeta Isaia contenute nella pericope di Gv 12,37-43 (relatore prof. Attilio Gangemi) PETROLO SALVATORE, Verso il recupero della iniziazione cristiana in Italia. Lettura sintetica delle principali riviste teologiche italiane dell’ultimo ventennio (relatore prof. Salvatore Consoli)


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PULVIRENTI PATRIZIA, Gli amici di Gesù in Gv 15, 12-17 (relatore prof. Attilio Gangemi) SCIUTO GAETANO, Il valore salvifico della risurrezione di Gesù Cristo nella riflessione di Gerald O’Collins S.J. (relatore prof. Nunzio Capizzi) ZITELLI CARLO, La via dell’infanzia spirituale in Teresa di Lisieux (1873-1897) (relatore prof. Mario Torcivia) Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia l’8 ottobre 2004: BUSÀ PAOLO, Le tradizioni veterotestamentarie in Rom 8,2 (relatore prof. Attilio Gangemi) LONGO GIUSEPPE, L’influenza della comunicazione mediatica sul dinamismo culturale. Aspetti antropologici, etici e teologici (relatore prof. Giuseppe Schillaci) MODICA ANTONINO, La vocazione all’amore in Teresa di Lisieux (relatore prof. Alberto Neglia) MACANÒ GIUSEPPINA, Giorgio La Pira: la profezia della pace secondo i convegni internazionali (relatore prof. Giuseppe Schillaci) PAGLIA DAVIDE, Il culto di Maria SS. di Conadomini a Caltagirone (relatore prof. Giuseppe Federico) RIGGIO GIUSEPPE, Gregorio Magno papa della carità (relatore prof. Giovanni Mammino) SPADARO SALVATORE, L’omelia nei libri liturgici post conciliari (relatore prof. Giuseppe Federico) TURCO RICCARDO, Amare troppo. Dall’amore dipendente all’amore maturo (relatore prof. Sebastiano Dell’Agli)


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3. Convegno su Euplo e Lucia In occasione dei 1700 anni dal martirio di Euplo e Lucia, nei giorni 1 e 2 ottobre 2004, si è svolto a Catania e Siracusa il Convegno: Euplo e Lucia 304-2004. Agiografia e tradizioni cultuali in Sicilia. Il Convegno Studi è stato promosso dalle Arcidiocesi di Catania e Siracusa in collaborazione con la Facoltà di Lettere e Filosofia e la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Catania, l’Associazione Internazionale di Studio su Santità e Culti e Agiografia e lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.

4. Necrologio Il 25 ottobre 2004 ha raggiunto, saldo nella fede del Cristo Risorto, la casa del Padre S.E. Mons. Domenico Picchinenna, Arcivescovo emerito di Catania e, a lungo, Moderatore dello Studio Teologico S. Paolo.

5. CeSIFeR In occasione della presentazione del volume Diffusione e differenziazione dei modelli culturali in una metropoli mediterranea. Indagine sui gruppi e i movimenti religiosi non cattolici presenti a Catania, volume 3 di “Quaderni del CeSIFeR”, si è svolto il 27 ottobre 2004 a Catania presso l’Auditorium del Monastero dei Benedettini il colloquio interdisciplinare Catania è ancora Cattolica? Identità religiose tra separatezza e integrazione.

6. Vescovi e Collegio docenti Il 29 ottobre 2004 si è svolto l’annuale incontro tra i Vescovi e il Collegio dei docenti dello Studio Teologico S. Paolo.


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7. Inaugurazione anno accademico Il 29 ottobre 2004 si è tenuta l’inaugurazione del 36° anno accademico dello Studio Teologico S. Paolo. La concelebrazione è stata presieduta dal vescovo di Caltagirone Vincenzo Manzella. Dopo la relazione del Preside, il prof. Giuseppe Buccellato ha tenuto la prolusione accademica su: Il convitto ecclesiatico diocesano di Torino: un modello di formazione presbiterale nell’Ottocento italiano.

8. Chiosco informatico In occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico è stato posto a servizio degli alunni un chiosco informatico che permetterà al più presto la consultazione della banca dati che li riguarda.

9. Master di pastorale sanitaria La lezione introduttiva del corso biennale di formazione in Pastorale sanitaria, Etica sanitaria e Bioetica è stata tenuta il 5 novembre 2004 dal prof. Giovanni Russo su Famiglia e procreazione assistita.


QUADERNI DI SYNAXIS 17

La Bibbia libro di tutti? Atti del Convegno di Studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo e dalle Facoltà di Lettere e Filosofia, Lingue e Letterature straniere dell’Università di Catania (3-4 aprile 2003) a cura di

Giuseppe Ruggieri GIUSEPPE RUGGIERI JEAN-LOUIS SKA ROBERTO ANTONELLI GIUSEPPE RUGGIERI ALBERTO SOMEKH FUAD KABBAZI ANTONINO MINISSALE SERGIO ROSTAGNO BENEDETTO CLAUSI CONCETTO MARTELLO NICOLÒ MINEO GEMMA PERSICO GRAZIA PULVIRENTI GIUSEPPE SCHILLACI

Premessa La bibbia un libro aperto o sigillato? Leggere la Bibbia La Bibbia libro di tutti? La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista dell’ebraismo Il Corano libro esoterico? La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista del cattolicesimo La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista del protestantesimo L’esegesi patristica. Un percorso di lettura Allegorismo e saperi profani nell’esegesi esamerale del XII secolo Lettura dell’ “Inno ai Patriarchi” di Giacomo Leopardi Rivisitazioni bibliche e pratica tipologica nella letteratura vittoriana Apocalisse e utopia nella lirica espressionista tedesca Dirsi nell’umiltà della Parola



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