QUADERNI DI SYNAXIS 19 SYNAXIS XXIV/2 - 2006
QUADERNI DEL CeSIFeR 4 CENTRO DI STUDI INTERDISCIPLINARI DEL FENOMENO RELIGIOSO
STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA
Immagine di copertina: Rubin Reuven (1893-1974), On the Road to Tiberias, 1926 Olio su tela, The Bialik House, Tel Aviv. Che abbiamo partorito? Sciagure e granate. Stanno ancora una volta sotto gli occhi dell’Angelo di un uomo trafitto dalla paura, al confine con la Spagna. Ci è sembrata la scelta migliore, la più difficile, questa irreale e sognata strada per Tiberiade, gravida di vigne e di frutti, di colori e di venti, di sguardi umani non visti per la calura e la forza di una luce assordante. Al modo dei vaneggiamenti di Isaia. Al modo di Theodor Wiesengrund Adorno, verrebbe da dire che la possibilità dell’impossibile è l’unica risorsa che ha il vivente per sfuggire al cerchio di fuoco dell’esistenza, per provare a pensare come e fino a che punto la speranza possa sottrarsi alla realtà negandola, sospinta e incoraggiata dall’impercettibile vento messianico che — ad ogni istante — ne mette a nudo fratture e crepe, deformazioni e manchevolezze.
IO SONO L’ALTRO DEGLI ALTRI L’ebraismo e il destino dell’Occidente
a cura di Giuseppe Ruggieri
INDICE
IO SONO L’ALTRO DEGLI ALTRI: INTRODUZIONE ALLA LETTURA (Giuseppe Ruggieri) . . . . . . .
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LE PRESCRIZIONI ALIMENTARI EBRAICHE (Marco Moriggi) . . . .
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GERARCHIE E IDENTITÀ RELIGIOSE NEI PRIMI SECOLI DELL’ERA CRISTIANA: CRISTIANESIMO E EBRAISMO (Teresa Sardella) . . . . . . . .
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LA QABBALAH DI ELIA BENAMOZEGH, UN MAESTRO DELL’EBRAISMO SEFARDITA E ITALIANO (Marco Morselli) . . . . . .
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UNA SMORFIA GROTTESCA NELLA VIENNA EBRAICA (Grazia Pulvirenti) . . . . . .
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L’EBREO NELLA LETTERATURA ITALIANA: APPUNTI IN MARGINE A DUE TESTI DI METÀ OTTOCENTO (Rosa Maria Monastra) . . . . . . .
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SCRITTURA E TEOLOGIA. IL “CASO KAFKA” NEL CONFRONTO SCHOLEM-BENJAMIN(1933-1938) (Barnaba Maj) . . . . . . . 1. Preliminari . . . . . . 2. Il “nulla della rivelazione” . . . . . 3. Il “presente segreto” di Kafka . . . . 4. L’ebraismo di Kafka e il “”caso Brod” . . . 5. Appendice: Brief an den Vater . . . .
UNA FIGURA PARADOSSALE DELLA LEGGE:IL DIRITTO RAZZISTA (Ernesto de Cristofaro) . . . . . . .
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GIUDICI E RAZZA NEGLI ANNI DELLA DISCRIMINAZIONE. VOCI DALLE SENTENZE (1938-1942) (Giuseppe Speciale) . . . . . . 1. I giudici e la razza . . . . . 2. Fonti . . . . . . 3. Coordinate: tra eroismo e normalità . . 4. Voci dalle sentenze . . . . 5. Due ultime voci al di là di quel tempo . .
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“UN VIVO CHE PASSA”. NOZIONI E IMPLICAZIONI SU SHOAH E CINEMA (A PROPOSITO DI POLANSKI) (Fernando Gioviale) . . . . . . . . 173 RAZIONALITÀ FILOSOFICA, MITO RELIGIOSO, ESPERIENZA UMANA IN HERMANN COHEN (Roberto Osculati) . . . . . . 1. Etica e religione . . . . . 2. Sistema della filosofia e concetto di religione . 3. Fonti dell’ebraismo e razionalità universale .
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L’ESSENZA DEL GIUDAISMO SECONDO FRANZ ROSENZWEIG (Giuseppe Ruggieri) . . . . . . . 1. Note biografiche . . . . . . 2. Il formalismo del sistema . . . . . 3. Giudaismo e cristianesimo . . . . . 4. La specificità del popolo giudaico . . . . 5. Creazione . . . . . . . 6. Rivelazione . . . . . . 7. Redenzione . . . . . . 8. Teologia politica . . . . . .
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EBRAISMO E CRISTIANESIMO IN EMMANUEL LEVINAS (Giuseppe Schillaci) . . . . . .
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1. 2. 3. 4.
Atene o Gerusalemme? . . . Il comandamento (Amare la Toràh più di Dio) Kenosi di Dio e messianismo . . Conclusione . . . .
DI UNA POSTFAZIONE AFFIDATA ALLE SCRITTURE SAPIENTI DI FRANZ ROSENZWEIG (Francesco Migliorino) . . . .
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IO SONO L’ALTRO DEGLI ALTRI: INTRODUZIONE ALLA LETTURA
GIUSEPPE RUGGIERI*
Nella prima di copertina di questo libro abbiamo consapevolmente riprodotto un quadro del pittore Reuven: la strada per Tiberiade. E nella didascalia al quadro che abbiamo apposto in seconda pagina ci chiedevamo se possa esistere davvero una strada di pace per Tiberiade. Il nome di Tiberiade ricorda il lago attorno al quale un ebreo, Gesù di Nazaret, svolse gran parte della sua attività pubblica annunciando un regno di pace, dove l’altro è accolto senza condizioni. Il quadro di Reuven descrive così la volontà di riflettere e pensare, senza ignorare i morti e le guerre che ancora oggi la storia del popolo ebraico produce. In una parete della sala di lettura dell’Archiginnasio di Bologna è raffigurato Irnerio, il giurista vissuto a cavallo tra XI e XII secolo, mentre seduto al tavolo da lavoro scrive sullo sfondo di eserciti che si combattono. Ogni lavoro intellettuale, degno di questo nome, può essere solo un contributo, scritto davanti allo spettacolo dell’inimicizia che segna il destino del mondo, perché esso venga sostituito dalla contemplazione del lago di Tiberiade. I contributi raccolti in questo volume sono solo una parte, anche se cospicua, delle comunicazioni presentate e discusse al seminario condotto dagli amici del CeSIFeR (Centro di Studi Interdisciplinari del Fenomeno Religioso di Catania) dal gennaio 2005 al marzo 2006, un pomeriggio al mese, con la sola interruzione dei mesi estivi. L’ipotesi di lavoro era quella di studiare alcuni aspetti della presenza dell’ebraismo nella cultura dell’Occidente, con l’intento di cogliere cosa ci sta dietro quel rapporto
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Docente di Teologia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.
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Giuseppe Ruggieri
complesso che ha legato l’Europa alla tradizione ebraica: sia nella ghettizzazione e nell’eliminazione anche fisica; sia nella ricezione profonda anche se mediata da figure che non è facile collocare tout court all’interno della cultura ebraica: Spinoza, Marx, Freud (tanto per nominare i “classici”); ma anche in quella radicale coappartenenza alle più fervide correnti del Novecento di intellettuali come Adorno, Arendt, Benjamin, Bloch, Buber, Horkheimer, Löwith, Rosenzweig, Taubes. Nella formulazione di quella ipotesi non c’era affatto la presunzione di sciogliere i nodi: troppo cangianti erano infatti le figure del rapporto bimillenario. Molto più umilmente ci proponevamo invece di analizzare frammenti, figure persino marginali, nella fiducia tuttavia che così sarebbe stato possibile intravedere alcuni tratti non secondari della forma in perpetuo movimento. Avevamo davanti uno dei fotogrammi in cui Franz Rosenzweig aveva fissato il rapporto: «Davanti a Dio dunque, entrambi ebreo e cristiano, sono lavoratori intenti alla stessa opera. Egli non può fare a meno di nessuno dei due. Tra i due egli ha posto inimicizia in ogni tempo e tuttavia li ha legati l’uno all’altro reciprocamente nel modo più stretto. A noi egli diede vita eterna, accendendo nel nostro cuore il fuoco della stella della sua verità. I cristiani li ha posti sulla via eterna, facendoli inseguire i raggi di quella stella della sua verità in ogni tempo fino alla fine eterna. Noi la contempliamo nel nostro cuore, la fedele immagine della verità, ma in cambio ci distogliamo dalla vita nel tempo e la vita del tempo si distoglie da noi. Loro invece camminano seguendo la corrente del tempo, ma hanno la verità soltanto alle loro spalle; vengono, è vero, guidati da essa, poiché seguono i suoi raggi, ma non la vedono coi loro occhi. La verità, la verità intera, non appartiene quindi né a loro né a noi, se la vogliamo però vedere, dobbiamo tuffare lo sguardo innanzitutto nel nostro intimo, e qui noi vediamo, sì, la stella, ma non i raggi».
Ma non eravamo sicuri che questo fotogramma potesse costituire la scena finale. Lo abbiamo posto in esergo alla formulazione iniziale dell’ipotesi di lavoro, nella convinzione tuttavia che restava da determinare cosa sia stato e sia in concreto quel “resto” che la coscienza europea (sia occidentale che orientale) non riesce a far suo e di cui tuttavia sente il bisogno.
Introduzione alla lettura
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Il momento iniziale del lavoro fu costituito dallo studio delle prescrizioni alimentari ebraiche, affidato a Marco Moriggi. Dal testo della Toràh, al Talmud, fino ai prontuari più recenti, l’halakàh (la tradizione legale ebraica sia orale che scritta) ha riservato particolare attenzione alle norme alimentari. Esse riguardano in primis le specie animali e vegetali adatte (kashèr) ai fini alimentari e le procedure per preparare correttamente queste specie perché siano consumate. La storia dell’ebraismo europeo è anche segnata dal confronto delle norme alimentari con le pratiche in voga nel vecchio continente, un confronto che si esercita sul piano della distinzione tra cultura materiale degli ebrei e cultura materiale delle altre culture europee, nonché sui tentativi di armonizzazione delle varie tradizioni ebraiche del continente, che spesso affiancano e accettano consuetudini differenti e reciprocamente alternative. In una panoramica storica che presenta a grandi linee lo sviluppo della normativa rabbinica si può cogliere la vitalità della tradizione ebraica europea per ciò che concerne le prescrizioni alimentari, parte dell’halakàh così significativa da aver conservato uno spazio di rilievo ancora oggi sulle mense feriali e soprattutto festive delle comunità e delle famiglie ebraiche. Nate come parte di una normativa tendente a distinguere gli ebrei esiliati da quelli rimasti in patria durante la cattività babilonese, le regole alimentari hanno per secoli segnato il confine di una identità, ergendo non solo una barriera intorno alla Legge (Toràh), ma anche intorno alla cultura materiale del giudaismo europeo. Con la fine dei ghetti e il lento ma sempre più ampio abbandono della pratica religiosa, le norme alimentari non sono venute meno come ci si sarebbe aspettato. Esse si sono infatti guadagnate uno spazio nella tradizione tanto importante quanto indipendente e ancora oggi caratterizzano la vita di molte comunità europee e americane. All’affermazione dell’identità ebraica corrisponde specularmente l’affermazione dell’identità cristiana. Solo che, nel caso dell’identità cristiana, prevale un aspetto che non emerge in quella ebraica. L’ebreo ha bisogno di differenziarsi rispetto ai popoli della terra. Il cristianesimo, figlio dell’ebraismo, ha bisogno in primo luogo di differenziarsi rispetto all’ebraismo. Del resto lo prova lo stesso conio del termine astratto “cristianesimo”, che per la prima volta appare in Ignazio di Antiochia e ha la funzione precisa di delimitare la novità cristiana rispetto al passato ebraico. È vero
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Giuseppe Ruggieri
che Ignazio non dimentica di sottolineare la continuità, ma nel senso che il giudaismo sfocia nel cristianesimo, mentre non vale il contrario. E così egli sottolinea che «il giudaismo ha creduto nel cristianesimo» (Magn. 10,3), ma questo sta solo a significare che il cristianesimo adempie alle attese del giudaismo. C’è quindi in lui il timore del «giudaizzare» (ivi, cfr Filad. 6,1)), del pericolo cioè che si annulli la differenza e la novità, ma c’è l’uguale consapevolezza della continuità. Lo studio di Teresa Sardella si ferma ad analizzare i meccanismi dell’affermazione identitaria cristiana in rapporto polemico con l’ebraismo nei primi secoli del cristianesimo, tramite l’analisi di alcuni documenti riguardanti l’autocomprensione del sacerdozio cristiano per opposizione a quello giudaico. Ciò che si mette in atto, da parte cristiana, è quella che potrebbe definirsi una ‘teologia del potere’. Un potere che, per i sacerdoti dei Giudei, è ridotto a un supposto, meglio ancora a un preteso potere di guarigione, in base al quale il sacerdote dell’ebraismo è quasi ridotto al rango di mago guaritore. Per il sacerdote cristiano il potere è spirituale perché riguarda non il corpo, ma l’anima, ed è reale, perchè la guarigione spirituale avviene veramente. È un potere non solo maggiore, rispetto a quello dei sacerdoti ebrei. Infatti, esso ha anche una diversa funzione, trasforma i sacerdoti cristiani in genitori spirituali, datori e rigeneratori di vita. È anche un potere di riconciliazione col potere: tanto maggiore in quanto la forma di potere con cui i sacerdoti cristiani sono in grado di operare una riconciliazione non è quello dei potenti della terra, ma quello dell’onnipotente divino. Se questo è l’atteggiamento dei teologi/sacerdoti cristiani, più sfumato appare l’atteggiamento del potere civile. Fosse vero o meno il rischio che il giudaismo potesse esercitare ancora un’attrazione nei confronti dei cristiani, questa era, comunque, la lettura che l’autorità imperiale dava sui possibili spostamenti tra le due religioni. La religione giudaica (chiamata indifferentemente secta, superstitio e anche religio) con la sua organizzazione, e il suo sistema autoritativo e gerarchico, operante verso un proselitismo pericoloso per il cristianesimo, andava arginata. E, per questo, andavano sottolineati i confini tra cristianesimo ed ebraismo. Un mezzo era anche quello di operare una vera e propria equiparazione, in termini di trattamento e di privilegi, tra i vari livelli gerarchici del clero cristiano e i capi della religione giudaica.
Introduzione alla lettura
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Identità cristiana e identità ebraica resteranno comunque dirimpettaie. Con qualche differenza: se l’identità ebraica lungo i secoli appare soprattutto un’identità di “difesa”, l’identità cristiana tende ad essere più aggressiva. Se quindi ciò che le prescrizioni alimentari ebraiche mettono in luce è l’esigenza di identità, in una netta differenziazione dal costume e dalla cultura degli altri, è altrettanto vero che lungo i secoli l’attività “missionaria”, oltre tutto sempre marginale, degli ebrei non si è mai proposta un’integrazione piena dell’altro. Il “proselito”, cioè il convertito all’ebraismo, era sì considerato un “figlio di Abramo”, ma una piena eguaglianza veniva raggiunta solo alla terza generazione. Come mai questa “diffidenza” tradizionale all’integrazione dell’altro? L’esempio di Elia Benamozegh (1823-1900), studiato da Morselli, ci rivela come la differenza ebraica non sia negativa. Per un verso egli cercò di rafforzare — anticipando di ben tre generazioni le intuizioni di Scholem e dopo di lui di tanti altri — questa differenza/identità tramite il recupero della tradizione qabbalistica. Ma dall’altra parte al cattolico Pallière che aveva deciso di convertirsi all’ebraismo e venne per questo indirizzato a lui, propone di diventare un “noachide”: «Per essere nostro fratello, come desiderate, non avete bisogno di abbracciare l’ebraismo nella maniera che credete, cioè sottomettendovi al giogo della nostra Legge. Noi ebrei siamo depositari della religione destinata all’intero genere umano, la sola religione cui i gentili siano assoggettati, e per cui sono salvi e veramente nella grazia di Dio. La religione dell’umanità non è altro che il noachismo».
Che cos’è il noachismo? «La legge di Noè non ha niente da invidiare, per nobiltà e santità, alla legge di Mosè. È stata non solo la legge di Adamo, di Noè e di tutti i Patriarchi prima di Abramo, ma anche quella di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, di tutti i loro figli e discendenti e dello stesso Mosè prima della rivelazione del Sinai».
Il goy (il non ebreo) che si converte diventa un ger toshav e si impegna a rispettare sette comandamenti: 1) istituzione di tribunali 2)
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divieto di blasfemia 3) divieto di idolatria 4) divieto di adulterio 5) divieto di omicidio 6) divieto di furto 7) divieto di mangiare una parte di un animale che sia stata strappata mentre è vivo (ossia divieto di crudeltà nei confronti degli animali). Rispettando questi comandamenti, il noachide entrerà nel mondo a venire, avrà parte alla vita eterna. La differenza ebraica si proietta così, in maniera mite, verso un universalismo umano del quale si pone come strumento. Ma questa offerta, che non è del solo Benamozegh e ha tutta una storia nella tradizione ebraica, resta per lo più un’offerta non accolta. Analizzando un frammento di questa storia del rifiuto, Rosa Maria Monastra, punta l’attenzione sulle posizioni assunte nell’Ottocento da due intellettuali per molti versi antitetici: l’anziano Antonio Bresciani, gesuita e legittimista, e il giovane Ippolito Nievo, laico e liberale. I due testi presi in esame sono il romanzo L’ebreo di Verona (del primo) e la commedia Emanuele (del secondo). Lo sfondo su cui tali testi vengono letti implica da una parte una dimensione europea (per quel che concerne i riferimenti al mito dell’ebreo errante e al cliché dell’ebreo usuraio), dall’altra parte una dimensione locale (collocandosi i due scrittori, rispettivamente, nella Roma del ghetto e nel Lombardo-Veneto cautamente emancipazionista). Il paternalismo reazionario di Bresciani (che scriveva per diretto incarico di Pio IX) ben documenta il clima dello Stato pontificio postquarantottesco, dove la rigida difesa dell’ortodossia religiosa si coniugava con la ripresa autoritaria, si praticava una durissima discriminazione e si riteneva lecito qualunque mezzo per ottenere la conversione, e dove più in generale il pregiudizio antisemita si alimentava di ragioni politiche a causa del sostegno fornito dagli ebrei alle recenti rivoluzioni. La battaglia di Nievo contro il pregiudizio anitisemita appare in armonia con le sue posizioni progressiste, e d’altro canto mette anche in evidenza un limite comune a molta tolleranza occidentale, disposta a incontrarsi con l’altro solo su un terreno che in qualche modo le appartiene. La «filantropia» naturale a sfondo evangelico, proposta da Nievo in funzione di una completa assimilazione degli ebrei, denuncia infatti la presenza di una ferita che a tutt’oggi non si è ancora richiusa: perché mai, si è chiesta recentemente Elena Loewenthal, si continua a rimproverare agli ebrei il loro attaccamento alla tradizione, perché si pretende da loro che diventino «come tutti gli altri»? Un interrogativo, questo, che potrebbe non riguardare solo il rapporto tra cristiani ed ebrei.
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La Vienna ebraica, analizzata in alcune sue figure tra Ottocento e Novecento da Grazia Pulvirenti, vede la declinazione di questo interrogativo, da parte ebraica, in una forma che assume lineamenti drammatici o, se si vuole, grotteschi. La misteriosa e, in fondo, inafferrabile specificità della cultura viennese di fine secolo, così densa di contrasti e contraddizioni, può essere ricondotta ad un singolare fenomeno di intima commistione della componente culturale ebraica con quella più specificamente viennese. Hans Tietze, grande storico dell’arte e intellettuale della Vienna ai primi del Novecento, definisce tale fenomeno nel suo libro apparso nel 1933 Die Juden Wiens, nei termini di una miscela feconda. Secondo lui l’essenza ebraica e quella viennese sono confluite in una unità che si nutre di entrambe tali componenti: l’essere viennese che è per sua natura ebraico, e l’ebraismo che è viennese. Di questa straordinaria peculiarità, a cui hanno condotto secoli di vita in comune, molti autori ebrei hanno mostrato di avere una profonda consapevolezza, come dimostra il caso di Schnitzler, che ha tentato di proporre la soluzione viennese al problema della ricerca delle radici, nutrendo, come molti, toni viennesi. Ma la loro Vienna non nasce nel terreno austriaco, ma un po’ più in là, in una realtà europea. Sono troppo raffinati per odorare di terra, il loro suolo è semmai l’asfalto del centro di Vienna, con un bel pezzo di bosco viennese come giardinetto. E all’interno del proprio campo limitato, la loro propensione a trapanare e sezionare, la loro versatilità nell’adoperare l’apparentemente insignificante, ha rintracciato e portato alla luce realtà che sarebbero sfuggite a quanti avevano radici ben più solide. Come un tempo gli ebrei del ghetto, hanno raccolto ricchezze da immondizie. E più oltre, nello stesso scritto, Tietze osserva come la stessa mistica di Buber sia l’ultimo grande portato dell’ebraismo viennese, la cui singolarità consisterebbe, secondo lo stesso Tietze, nella dimensione multiculturale di una vicenda antichissima. Questa peculiarità consiste nel fatto che tale cultura da tempo sarebbe tramontata se l’Oriente non l’avesse trattenuta e che si sarebbe ripiegata su se stessa se l’Occidente non l’avesse fecondata. È partecipe di tutte le problematiche della cultura viennese, con la cui linfa vitale la sua da tempo si mescola. L’ebraismo viennese, presente dai tempi più antichi dell’esistenza della città, nell’ultimo secolo cresciuto quanto a dimensioni e influenza all’interno della sua vita, è una parte integrale di Vienna. La percezione della diversità della minoranza svolge una duplice funzione: da una parte essa consente di elaborare
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nuovi modelli culturali, in un processo di recupero delle proprie più antiche tradizioni, dall’altra consente, attraverso la sua carica ironica di deformazione grottesca, di destrutturate sin nei suoi cardini l’architettura della cultura occidentale, vissuta come altra, e quindi estranea e demistificabile, nella prospettiva di questa doppia alterità, che è quella del rapporto ebreoasutriaco. Ancora ai nostri giorni la prospettiva della doppia alterità risulta determinante per la comprensione delle dinamiche in atto nel rapporto fra le due etnie. Robert Schindler, che si autodefinisce «per l’anagrafe un austriaco, altrimenti un ebreo di Vienna» scrive: «Io sono l’altro degli altri». Di questa dialettica tra l’assimilazione che sfocia in una ancora più drammatica alterità da una parte e l’attingere alla tradizione ebraica, Kafka certamente rappresenta una figura esemplare. Ne fa fede l’accurato studio di Barnaba Maj sul carteggio intercorso tra Walter Benjamin e Gershom Scholem a proposito dell’interpretazione di Kafka. Ciò che in questa interpretazione di Kafka è ultimamente in gioco è la misura del suo ebraismo. L’analisi di Maj è molto articolata e qui ci si può limitare a riportarne un particolare. Scholem aveva insistito nell’interpretare la figura kafkiana del guardiano della legge come quella di un “rigoroso” halakhista. Benjamin gli si oppone frontalmente e vede nella tensione tra l’elemento halakhico (la legge) e la tradizione narrativa (haggadah) della storia di Israele, l’ironia peculiare di Kafka. La tensione non è superabile e porta al fallimento della saggezza (elemento questo che Benjamin tende a riportare alla più generale crisi della trasmissione della verità). Scholem accetta, ma con notevoli prese di distanza, la posizione di Benjamin. Val la pena citare quasi per intero un brano di Scholem riportato da Maj. Il brano è prezioso non solo per cogliere il senso dell’opera kafkiana, ma perché illumina ad un tempo e il tranquillo possesso della propria identità in Scholem e la drammatica tensione (forse mai risolta) tra il radicamento ebraico e la partecipazione alla vicenda culturale e politica del Novecento europeo di Benjamin (quella tensione che qui, mutuando il detto di Robert Schindler, abbiamo chiamato “l’altro dell’altro”): «Ma vorrei capire che cosa tu intenda, quando parli del fallimento fondamentale di Kafka — che collochi virtualmente al centro delle tue nuove considerazioni. Sembra che intenda infine qualcosa di inatteso, mentre la
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semplice verità ‹è› che il fallimento fu l’oggetto di sforzi che, se riescono, naturalmente falliscono. Ma tu non puoi intendere questo. Ha espresso ciò che voleva dire? Ma certamente. L’antinomia dell’haggadico, di cui parli, non è propria soltanto della Haggadah kafkiana, ma si fonda sulla stessa natura dell’Haggadah. Quest’opera rappresenta [darstellt] realmente una “malattia della tradizione” nel tuo senso? Direi che questa malattia è insita nella natura della stessa tradizione mistica: che la trasmissibilità della tradizione soltanto resti conservata come ciò che ha di vivo, è solo e semplicemente naturale nella decadenza della tradizione, nelle creste delle sue onde. […] Non so quanti anni fa devo avere annotato osservazioni intorno a questi problemi della pura trasmissibilità in connessione con i miei studi — annotazioni che ora mi piacerebbe riprendere: mi pare che essa rientri nel contesto del problema del “santo” nella decadenza del misticismo ebraico. — Che la saggezza sia un bene, un retaggio della tradizione è verissimo, naturalmente: a ben vedere è intrinsecamente, costitutivamente non costruibile, come tutti i beni tradizionali. Sì, è la saggezza, che, dove riflette, non conosce, ma commenta. Se riuscissi a presentare il caso-limite della saggezza — che ora Kafka effettivamente rappresenta [darstellt] — come crisi delle pura trasmissibilità della verità, avresti ottenuto un risultato davvero grandioso. Questo commentatore ha sì delle sacre scritture, ma le ha smarrite. Dunque ci chiediamo: che cosa può commentare? Suppongo che saresti in grado di rispondere a queste domande, nelle prospettive da te esposte. Ma perché parlare di un “fallimento” — quando egli ha veramente commentato, non fosse che il nulla della verità, o che altro potrebbe risultare? E così concludo il discorso kafkiano».
Se sul versante ebraico l’incontro con l’altro si dimostra, in un tragitto plurisecolare, un’offerta sia pure sofferta, è anche vero che dall’altra parte ha prevalso, almeno fino ai terribili anni della Shoah, il rigetto. Un caso eloquente di questo rigetto è quello che si è verificato nel campo del diritto. Ernesto De Cristofaro ci presenta il caso italiano. Come scrive Alexis De Tocqueville: «Se si studiasse attentamente ciò che è successo nel mondo da quando gli uomini serbano il ricordo degli avvenimenti, si scoprirebbe senza fatica che, in tutti i paesi civili, a fianco a un despota che comanda, si trova quasi sempre un giurista che legalizza e dà sistema alle volontà arbitrarie e incoerenti del primo».
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L’analisi del diritto razzista nell’Italia fascista, permette di ascriverla al novero dei paesi di cui parla Tocqueville. Qui, infatti, una vasta legislazione si occupò, non semplicemente, di abbassare i residenti ebrei al rango di cittadini discriminati, escludendoli dalle forme primarie della socializzazione, le scuole e l’Università e colpendoli nelle espressioni più elementari della libertà personale: l’autonomia degli affetti attraverso il divieto di matrimoni misti e l’autosufficienza economica attraverso l’inibizione di attività imprenditoriali e carriere professionali; ma, in questa operazione di marginalizzazione, il regime si avvalse anche dello zelo teorico di illustri giuristi, solerti nel fornire al “principe” la migliore cornice dottrinale in cui inserire le sue scelte. Questo è il caso di professori di gran fama che vedono nella presenza ebraica una minaccia all’integrità nazionale, fondata sulla comune radice biologica e esposta all’indebolimento provocato da presenze contaminanti. Come è il caso di giornalisti, studiosi, magistrati riuniti intorno ad una rivista, Il Diritto razzista, che usa la questione razziale come la pietra angolare su cui fondare il nuovo ordine giuridico dell’Europa nazifascista e che ospita tra i suoi autori alcuni tra i più eminenti giuristi tedeschi, a sottolineare il carattere destinale che l’impresa assume per i due regimi impegnati ad abbattere il vecchio ordine fondato sulle libertà individuali e costruire uno spazio delle razze e comunità di sangue. Ma, al di là delle teorizzazioni de Il Diritto razzista, risulta ricco di indicazioni lo studio della stessa pratica giurisprudenziale. Al fondo la legislazione razziale rappresenta una ferita inferta alla stessa tradizione giuridica moderna, fondata sull’eguaglianza del cittadino. Giuseppe Speciale punta quindi la sua attenzione sulle reazioni dell’ordine giuridico all’introduzione delle leggi razziali, per constatare il grado di plasticità, la resistenza, che i dogmi, le forme, le esperienze su cui si fondava l’ordine giuridico, opponevano alle nuove regole razziali. A suo avviso infatti l’espressione «plasticità dei dogmi» riassume l’intima contraddittorietà di quelle leggi rispetto ai cardini e alle radici più intime dell’ordine giuridico. Nella conclusione del suo lavoro, con le parole di una recente sentenza della Corte dei Conti si costata come, «le concrete e individuali misure di attuazione della normativa antiebraica […] non solo realizzarono in via immediata la lesione della dignità della
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persona nei suoi fondamentali diritti […] ma racchiudevano in loro lo scopo, mediato e tuttavia immanente ed essenziale, di annientare completamente e sotto ogni possibile profilo della vita civile e di relazione — in quanto costituente “minaccia per la purezza e l’integrità della razza italiana” — l’ancor più presupposto diritto naturale dei cittadini appartenenti alla minoranza ebraica alla loro identità socio-culturale, preesistente alla stessa formazione dello Stato ed essenziale per qualsiasi comunità civile».
Secondo Speciale il richiamo, qui fatto, al diritto naturale segna il valore, e il limite del valore, dell’interpretazione dei giudici che applicarono la legislazione razziale. All’interno del quadro legislativo e ordinamentale dell’Italia fascista in cui esercitarono la giurisdizione i giudici non gridarono — se lo avessero fatto sarebbero stati degli eroi — l’abiezione di quelle norme, pur legittimamente poste; le applicarono, invece, perché legittimamente poste, limitando, per quanto possibile, la deformazione e lo stravolgimento che esse producevano sulle forme, sui dogmi, sulle esperienze su cui sino a quel momento si era fondato l’ordine giuridico. E le applicarono proprio rifacendosi a quelle forme, a quei dogmi, a quelle esperienze. La Shoah rappresentò, non sul piano dei libri e delle opere, e neppure delle pure sentenze, ma su quello dei corpi e delle anime, l’esito tragico del rifiuto dell’altro. Nel nostro seminario l’analisi della Shoah, condotta da Fernando Gioviale, è stata affidata alla mediazione cinematografica e porta il titolo di “Un vivo che passa”. Shoah e cinema, a proposito di Polanski. L’intitolazione non riguarda Roman Polanski e The Pianist (Il pianista, 2002), ma riconduce a un film-documentario di Claude Lanzmann, Un vivant qui passe (1997), incalzante intervista a Maurice Rossel, che rievoca le sue visite a Theresienstadt e ad Auschwitz, nel 1944, come rappresentante della Croce Rossa. Lanzmann, nel 1985, ci aveva dato la summa sul tema della Distruzione con Shoah, film-documento di 570 minuti costruito con interviste e immagini di quelli che furono i luoghi di sterminio. La vicenda raccontata dall’ebreo polacco Polanski nasce dal romanzo-testimonianza di Wladislaw Szpilman, il pianista che fortunosamente ‘passa’ per i tragici avvenimenti del suo tempo, restando vivo per la sua tenacia e per l’aiuto di un ufficiale tedesco che, mentre Varsavia sta per essere liberata dalle truppe sovietiche, lo scopre e lo salva dopo averlo indotto a suonare al pianoforte
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Chopin, simbolo massimo dell’identità nazionale polacca e, insieme, di uno spirito europeo che accomuna nel bello. Il pianista, turbato antieroe a fronte di tanti caduti, si è così conservato per tornare a vivere in nome, ancora, di Chopin. L’opera forse più alta sulla persecuzione, nello sfondo dello sterminio, fa di un libro importante ma senza ambizioni letterarie lo strumento tematico per costruire uno stilizzato e maturo romanzo cinematografico, dove l’ebraismo è vita civile e familiare, comunità e identità, cultura e appartenenza, e altresì vicissitudine e divisione, sofferenza e opportunismo, persecuzione e collaborazionismo; motivate fenomenologie di una popolazione che rimase unita nel destino dello sterminio, ancorché marginalmente lacerata da chi volle dominarla per annientarla: vedi l’indugio sulle funzioni di polizia affidate agli stessi ebrei: donde contrasti e risentimenti, ma pure l’occasione di salvezza per il nostro pianista, sottratto da un poliziotto amico al destino di morte dei suoi cari. Se questa è l’‘altra faccia’ dello Sterminio, ancora da un polacco, Andrzej Munk, ci giungeva, nel 1963, l’incompiuto Pasazerka (La passeggera), un film rigoroso e sconvolgente sulla realtà del Lager e sulle sue dinamiche umane, sull’atroce dialettica ideologico-razziale e su una salvezza ancora possibile, forse soltanto attraverso i ricordi e le memorie che redimono il nostro passato. Il tema del campo di sterminio avrebbe raggiunto acme di spettacolarità nel rinomato Schindler’s List (1993) dell’ebreo statunitense Steven Spielberg. Sarebbe ingiusto ricondurre il megafilm a quella che un altro ebreo statunitense, Norman Finkelstein, ha definito «l’industria dell’olocausto», ma resta vero che le sue virtù anche figurative rischiano qualche soffocamento per eccesso di romanzesco e di patetismo: eppure la sequenza del rastrellamento nel ghetto resta da antologia. Polanski avrebbe restituito quel momento di storia alle sofferte spiritualità dell’individuo di mezzo agli abbrutimenti ed esaltazioni della corporeità; e il suo film, con opere pressoché coeve come Kedma del maggior regista israeliano, Amos Gitai (sul primo arrivo in Palestina di ebrei scampati, una settimana prima della proclamazione dello Stato di Israele), induce a porsi, laicamente e religiosamente, talune domande su vita e destino, elezione e persecuzione, salvezza profetica e condanna terrena: sul “concetto di Dio dopo Auschwitz”, potremmo concludere con l’accorata serenità ebraica di Hans Jonas, protesa verso un Dio così intrinsecamente buono da non potersi immaginare onnipotente dinanzi ai mali del mondo.
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Un blocco a sé stante, nel nostro seminario, infine è costituito dall’analisi di tre autori del Novecento preoccupati di definire l’identità ebraica, ma dentro lo scambio fecondo con la cultura europea: di Herman Cohen (a cura di Osculati), di Franz Rosenzweig (a cura di Ruggieri) e di Emmanuel Levinas (a cura di Schillaci). Li lega un filo comune, giacché si tratta di una vera e propria filiera, ma le figure che ne risultano sono abbastanza diverse. Hermann Cohen, come è risaputo, è un grande rappresentante del “ritorno a Kant”. L’evoluzione della filosofia moderna conduce il pensiero oltre l’obiettività metafisica dell’essere e l’empirismo della materia e dell’esperienza immediata. Platone e Kant insegnano a liberare la ricerca intellettuale da un presunto riferimento posto al di fuori del pensiero e dell’attività della coscienza. L’io ritrova nel più profondo di se stesso le sue ragioni più elevate, universali e necessarie. Il trascendentale è la condizione essenziale della verità, che vi ritrova le sue condizioni più autentiche, libere ed aperte. La scienza matematico-fisica, il diritto e l’estetica, quali prodotti più elevati della storia umana, in particolare di quella moderna, costituiscono la base di un sapere filosofico che ne percepisce le ragioni estreme ed universali, oltre ogni realizzazione empirica. La scienza si eleva alla nozione della verità pura, quale orizzonte universale e necessario del sapere, quale base primordiale di ogni ricerca. La verità non è un oggetto, ma una disposizione dello spirito umano ed indica la sua apertura infinita verso un mondo puro ed assoluto. Essa è sempre il risultato di una catarsi dell’esperienza da tutti i suoi contenuti parziali e determinati. Le scienze particolari devono essere sempre superate in questo anelito platonico verso un mondo ideale. Alla base dell’etica filosofica stanno l’esperienza e la storia del diritto, quale tentativi di realizzare il bene comune. L’ordina-mento dello stato ne è il prodotto più universale. Così la progressiva eliminazione di ogni diseguaglianza tra gli esseri, il rispecchiamento dell’io e del tu nell’identità dei diritti e dei doveri nella vita pubblica conduce verso il bene assoluto al di sopra di ogni sua realizzazione progressiva e parziale. Altrettanto deve dirsi dell’esperienza estetica quale movimento incessante verso una bellezza che non può mai essere monopolizzata ed espressa in modo definitivo. La realtà umana appare così come un movimento incessante di universalizzazione, di idealizzazione e di comunione. La storia concreta e le culture diverse sono
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analizzate in rapporto all’empito di razionalità, giustizia e bellezza che costituisce il carattere più elevato dello spirito umano, che non può mai essere spento dalle deviazioni, dagli errori, dalle meschinità dell’esistenza concreta. Gli ideali si pongono all’orizzonte delle scienze dello spirito e della vita umana. Di fronte a questa prospettiva elaborata sulla scorta della filosofia platonica e della critica kantiana, Cohen pone continuamente il problema religioso, quale è posto soprattutto dall’ebraismo e dal cristianesimo. Il pensiero mitico caratteristico della religione d’Israele e delle chiese cristiane esprime a suo modo le tensioni dello spirito umano verso la verità, la giustizia, la bellezza. In particolare il filosofo riprende e discute l’etica della profezia ebraica. La nozione del divino vi assume un carattere sperimentale, storico e pragmatico, quale esame critico delle vicende storiche d’Israele. Ma in questo rivestimento temporale si rivela continuamente una concezione universale, positiva, egualitaria, libera e pura dell’umanità. L’incontro dell’uomo con l’uomo nel comune desiderio di pace, di sincerità, di rispetto, di giustizia condivisa da tutti conduce la profezia ebraica fuori dalla ristretta visione delle sorti d’Israele e mette in luce un’etica concreta, dinamica, coinvolgente. Anche il cristianesimo, pur con il suo retaggio mitico ed ecclesiastico, aspira al un vero, ad un bene, ad un bello che tutti redima ed accomuni. In particolare la figura di Gesù, considerata nella prospettiva dei canti del servo di Iahweh, aggiunge alla considerazione ideale dell’umano un tratto nuovo: la compassione. L’essere umano, accanto alla sua natura ideale, è pure cosciente della sua miseria, fragilità e peccaminosità. È soggetto alla legge della sofferenza e della morte. Accanto al vero, al giusto e al bello, il giusto sottoposto alla tortura insegna così a porre l’esigenza della compatimento per la comune debolezza e il desiderio della redenzione. La corona di spine diventa simbolo di un’umanità bisognosa di misericordia e di soccorso, quale dovunque la si incontra. Le aspirazioni intellettuali, morali ed emotive dello spirito ebraico e cristiano si accompagnano così all’arduo pensiero filosofico e lo completano con i loro accenti appassionati, vivi e coinvolgenti. La Bibbia ebraica e cristiana può essere letta come continua esigenza di compimento ultimo dell’essere umano oltre ogni limite dell’esperienza e della storia, come una vicenda che continuamente si ripete nell’intimo di ogni spirito. L’ebraismo di Cohen si muove così tra due poli opposti e sempre attraentesi: la scienza,
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la società e la cultura del mondo delle genti e l’elezione spirituale d’Israele. Il filosofo neokantiano della Belle époque rimane pur sempre un animo commosso dalla profezia ebraica e dall’evangelo cristiano. Rosenzweig conobbe e si confrontò con Cohen, dal quale ricevette personalmente il manoscritto di quello che sarebbe uscito postumo con il titolo di La religione della ragione dalle fonti del giudaismo. E anche per Rosenzweig l’identità del giudaismo si definisce nella sua correlazione con il cistianesimo. Ma Rosenzweig fu un ebreo “convertito” dal rito, proprio dopo aver pensato di convertirsi al cristianesimo. L’esperienza rituale fece esplodere al tempo stesso in Rosenzweig la sua rilettura della cultura occidentale che, in Hegel e in ogni analogo sistema della totalità, tende ad un assorbimento della realtà nel sapere. Essere ebrei invece per Rosenzweig significa scoprire la irriducibile dignità dell’altro, che il sapere non riesce ad integrare dentro di sé. Per ciò stesso l’affermazione dell’identità non può coincidere con l’affermazione della propria assolutezza, ma della trascendenza della verità della storia come “punto di fuga” verso cui convergono le varie modalità dell’esperienza umana, soprattutto quelle (giudaica e cristiana) che fanno della verità l’intento immanente della vita. La propria identità viene così compresa come specificità di un contributo al cammino della storia dell’esistenza umana. Giudaismo e cristianesimo sono quindi vicendevolmente irriducibili, ma convergono utopicamente. Rosenzweig oppone chiaramente da una parte il tempo cronologico e il progresso di questo tempo, a favore, dall’altra parte, di un tempo che durerà, un tempo immobile, ma che è possibile sperimentare da una parte come esistenza giudaica e dall’altra come esistenza cristiana. Il giudeo lo fa separandosi dalla storia delle nazioni con la loro cultura e la loro politica, per organizzare la propria vita attorno alla Torah immutabile e ricadendo per ciò stesso nella particolarità. Il cristiano procede invece alla sospensione del mondo mutevole lavorando all’interno della storia, per innalzarla al di sopra di se stessa, mediante l’espansione della confessione cristiana: la vita eterna viene resa presente nella separatezza giudaica, la via eterna nella conversione cristiana. Il cristianesimo tende all’universalità. È lo stesso Levinas a confessare il suo debito nei confronti di Rosenzweig. Il rapporto tra ebraismo e cristianesimo nel pensiero di
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Levinas va inquadrato anzitutto tenendo conto dell’interesse complessivo della sua opera che rimane essenzialmente filosofica. Un pensiero speculativo che tuttavia non nasconde l’impronta religiosa ebraica. La sua riflessione si dibatte tra Atene e Gerusalemme. La tradizione ebraica sollecita la tradizione greco-occidentale. Non si ottiene così una fusione delle due tradizioni ma un riconoscimento di alterità. L’incontro ebraismo cristianesimo è colto in un continuo rinvio, nell’oltre. L’orizzonte dentro cui pensare il rapporto ebraismo cristianesimo non può prescindere naturalmente dal dramma della Shoah. Il rifiuto di una identità, l’esperienza della passione e del dolore di un popolo, sono il necessario scenario e parametro a cui riferirsi per capire un rapporto molto complesso. Dal monoteismo, che mostra una radicale trascendenza di Dio, al comandamento inscritto nel volto del prossimo, possono essere colti i tratti fondamentali attraverso cui passa il rapporto con il cristianesimo nel pensiero di Levinas. L’affermazione della trascendenza di Dio è la garanzia della libertà dell’uomo. Il non poter dire nulla di Dio rinvia all’imperativo che mi giunge dall’incontro dell’altro. La trascendenza di Dio si coglie quindi nella Torah. Amare la legge più di Dio è la via alla libertà. Non una libertà dalla legge ma una libertà che passa attraverso la legge, attraverso l’impossibilità di sottrarsi al comandamento. Dio si mostra cancellandosi. Un Dio che lascia la sua traccia obbligandomi verso gli altri. La trascendenza di Dio è il suo stesso abbassamento. Il prossimo passa prima dell’eterno. Nella kenosi di Dio si può cogliere un tratto non indifferente del rapporto tra giudaismo e cristianesimo, in quanto ci troviamo dinanzi ad un’allusione della figura del Messia. Ma proprio su questo punto sembra però aprirsi uno scarto insormontabile. La figura del Messia Levinas la scorge in ogni uomo poiché ognuno è chiamato ad agire nella sua unicità. Tale è la struttura stessa della soggettività umana. Il soggetto è unico quanto più è responsabile di tutto e di tutti. Giudaismo e cristianesimo si incontrano e si parlano come fanno due persone intime ma senza pretendere di ridurre l’uno all’altro. Un io che si svuota di sé per diventare responsabile dell’altro fino alla sostituzione: questo è l’orizzonte dentro cui è possibile far incontrare e parlare due modalità concrete dell’Amore di Dio di raggiungere l’uomo. Basta la pace della speculazione filosofica per riconciliare l’alterità, anche quando questa si configura, nella tensione insopprimibile, come
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ulteriore alterità, come l’altro dell’altro? È la domanda che Franco Migliorino implicitamente solleva in quella che, per sua decisione, non è diventata una postfazione vera e propria, ma l’affidamento di una postfazione alle pagine di Rosenzweig.
LE PRESCRIZIONI ALIMENTARI EBRAICHE*
MARCO MORIGGI**
L’origine delle prescrizioni alimentari ebraiche si rintraccia in numerosi passi del Pentateuco (Toràh = Legge), che la tradizione ebraica ritiene sia stato affidato a Mosè sul Monte Sinai come suggello del Patto tra Dio e il suo popolo. Il dibattito scientifico ha già da tempo chiarito la natura di questo gruppo di libri, identificandolo con la pietra angolare di una nuova identità ebraica scaturita dalle deportazioni in Babilonia (597 e 586 a. C.) che misero gli israeliti in una pericolosa prossimità con l’assimilazione e la fusione con popoli di altre culture e tradizioni1. La necessità di distinguersi dai vicini e soprattutto da quegli ebrei che, rimasti in Palestina, potevano costituire una seria minaccia al ritorno degli esiliati produsse un proliferare di codificazioni confluite poi nel testo della Toràh. Tra queste ultime assunsero particolare rilievo le prescrizioni alimentari. La loro assoluta rilevanza è riscontrabile dalla frequenza con cui l’elemento alimentare compare nell’enunciazione biblica: la stessa Terra Promessa è «un paese dove scorre latte e miele»2. * L’autore ringrazia Padre Giuseppe Ruggieri e i colleghi del seminario sull’ebraismo e la cultura europea (CeSIFeR, Catania 2004-2006) per l’ospitalità e gli spunti di riflessione. Un ringraziamento particolare spetta inoltre a Giorgio Hillel Millerba, amico e guida insostituibile nelle vaste distese del sapere ebraico. Le sigle e le citazioni bibliche si riferiscono a La Bibbia di Gerusalemme, a cura di F. Vattioni et al., Bologna 200017. ** Docente di Filologia semitica presso la Facoltà di Lingue dell’Università degli Studi di Catania – Sede di Ragusa. 1 Cfr M. MORIGGI, Recensione di J. TEIXIDOR, Mon père, l’Araméen errant, Paris 2003, in Rivista di Storia e Letteratura Religiosa 40.2 (2004), 408-412. 2 Es 3,8; J. SOLER, Le ragioni della Bibbia: le norme alimentari ebraiche, in Storia dell’alimentazione, a cura di J.L. Flandrin – M. Montanari, Roma-Bari 1997, 46-55: 46.
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Le prescrizioni alimentari riguardano la possibilità di consumare certi cibi (categorie permesso / non-permesso) e i trattamenti cui vanno sottoposti i cibi permessi per essere consumati. È stato individuato nel Pentateuco un inventario di cibi leciti che considera con particolare attenzione gli animali e le loro carni (Lv 11; Dt 14). Gli animali permessi devono avere l’unghia fessa ed essere ruminanti, cioè erbivori; oppure, qualora si tratti di pesci, avere le squame e le pinne. Non esistono criteri precisi per i volatili. Jean Soler ha evidenziato una serie di caratteristiche legate a questo tipo di partizione: oltre ai vegetali (in generale permessi al consumo)3, gli animali leciti devono muoversi, non solo, devono muoversi ciascuno nell’ambiente per cui sono stati creati. Infatti gli animali che hanno perduto o alterato il legame col loro ambiente non possono essere consumati, com’è il caso degli struzzi o di tutti gli anfibi. Un rapporto ambiguo con l’ambiente caratterizza anche i rettili e gli insetti, per non parlare degli animali che vivono sottoterra4. L’animale che più si ricorda come non-permesso per gli ebrei nella cultura europea è il maiale, che in realtà il testo biblico non pone in grande rilievo; d’altronde il maiale ha l’unghia bipartita, ma esso «non rumina»5. La suddivisione degli animali in permessi / non-permessi (a sua volta emanazione delle categorie di puro / impuro) è quindi basata sulla possibilità di osservarne la struttura ed il comportamento. È facile stabilire se un animale abbia l’unghia divisa in due poiché l’osservazione può essere compiuta anche su di una carcassa. Più complicato è stabilire se rumini; tant’è vero che la lepre, osservata da lontano, ha tratto in inganno l’autore biblico, che lo pone tra i ruminanti (Lv 11,6). Il concetto di permesso / non-permesso (puro / impuro) informa tutto il sistema di idee dell’ebraismo post-esilico (giudaismo)6, sempre in funzione della risistemazione in Palestina degli esiliati babilonesi e dell’imporsi della loro egemonia. In questo ambito le prescrizioni alimentari 3 H. RABINOWICZ, Dietary laws, in Encyclopaedia Judaica, VI, Jerusalem 1972, coll. 26-45: 26. 4 J. SOLER, Le ragioni della Bibbia: le norme alimentari ebraiche, cit., 48-49. 5 Lv 11,7; Dt 14,8. 6 Si adottano in questo contributo le scansioni cronologiche proposte da P. SACCHI, Il giudaismo del Secondo Tempio, in Ebraismo, a cura di G. Filoramo, Roma-Bari 20042, 53123: 54.
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elencate nella Bibbia diventano veri e propri articoli della legge di Dio (= legge dello Stato)7. Con la caduta del secondo Tempio (70 d. C.) gli ebrei si aggrapparono alla Legge per salvare la loro identità dalla dispersione e dall’assimilazione. In questa nuova temperie la Legge divenne oggetto delle speculazioni dei rabbini o h¢akamìm (saggi), il cui interesse volse presto a «trovare un sistema di vita regolato fin nei dettagli dall’osservanza della legislazione rivelata»8.
Le prescrizioni alimentari entrarono nel dibattito in quanto considerate una delle componenti più importanti della condotta di vita dell’ebreo. Non va inoltre dimenticato che gli ebrei avevano ormai fondato numerose comunità lontane dalla Palestina e dalla Babilonia e quindi si erano trovati di fronte a nuove consuetudini alimentari spesso difficili da conciliare con la pratica della Legge. Nella Mishnàh (“ripetizione, insegnamento”) di Yehudah ha-nasì (fine II – inizio III sec. d. C.), che si impose su tutte le altre raccolte di norme, sentenze e prese di posizione legali derivate dalla discussione rabbinica, molto spazio viene dedicato alle problematiche alimentari, alla liceità dei cibi e al loro trattamento. Com’è noto la Mishnàh costituisce la base di partenza delle argomentazioni talmudiche, raccolte nella Ghemarà (aram. “completamento”), di conseguenza sia nel Talmud palestinese che nel più esteso e autorevole Talmud babilonese vengono affrontate una lunga serie di problematiche inerenti l’alimentazione e i veti ad essa connessi. Non per nulla è stato scritto che: «The halakhah on problems concerning dietary laws is discussed at great length in the Hulin tractate of the Talmud, but the wider theoretical aspects, which touch on many areas of halakhah, are to be found in almost every tractate of the Talmud»9.
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Cfr M. MORIGGI, Recensione di J. TEIXIDOR, Mon père, l’Araméen errant, 412. G. TAMANI, Il giudaismo nell’età tardo-antica, in Ebraismo, a cura di G. Filoramo, cit., 125-154: 126. 9 A. STEINSALTZ, The essential Talmud, [s.l.] 1976, 192. 8
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Nella halakàh il ruolo delle prescrizioni alimentari è molto più rilevante che nella Toràh, nella misura in cui la prima enfatizza, amplia e circostanzia i divieti e le indicazioni della seconda10. A livello storico il processo di spinta alla separazione tra ebrei e non-ebrei, cui è così attenta la halakàh talmudica, potrebbe aver avuto origine già nel periodo maccabaico (II sec. a. C.), quando più violenti furono i tentativi di rendere il processo di assimilazione degli ebrei definitivo e irreversibile11. Rimasti gli unici rappresentanti ufficiali dell’ebraismo dopo il venir meno delle altre autorità (re, sommo sacerdote, sinedrio) i rabbini delle accademie talmudiche di Palestina e di Babilonia si diedero alla costruzione di una “barriera” per proteggere la Legge e la sua applicazione. Questa “barriera” venne intesa come un insieme di norme minuziose che regolassero la vita dell’ebreo nei minimi dettagli. Le prescrizioni alimentari furono per questo motivo non soltanto analizzate, ma anche arricchite e codificate in molteplici categorie. In questa forma esse arrivarono in Europa, dove non cessarono di evolversi e di arricchirsi in seguito agli stimoli che le diverse culture del continente portarono al pensiero ebraico. La Toràh considera l’animale permesso come t¢ahòr (“pulito, puro”), quello non-permesso come t¢amè’ (“sporco, impuro”)12. Detta suddivisione riguarda tutte le specie di animali, sia quadrupedi che volatili o pesci. In questo settore, tra gli altri argomenti, ciò che preoccupa le diverse generazioni di studiosi e giurisperiti della halakàh è ad esempio precisare con la maggiore attenzione possibile le caratteristiche che rendono nonpermesse certe specie di uccelli (su questi ultimi la Toràh è evasiva e di difficile interpretazione). Basti considerare che se il Levitico elenca 20 tipi di uccelli non-permessi e il Deuteronomio 21, i talmudisti ne presentano 24 (Talmud babilonese, trattato H¢ullìn, 63a-b); nel tentativo di colmare la lacuna della Toràh che, non elencando le specie permesse, crea una serie di problemi interpretativi che vengono risolti in base alla tradizione. Sono da considerarsi permessi i volatili che la tradizione riconosce da sempre come 10
Halakàh è la parola ebraica per “via” o “condotta” e indica anche un codice di leggi e in senso stretto una sola legge, un insegnamento giuridico che procede dalla legge, un precetto che regola il comportamento. G. TAMANI, Il giudaismo nell’età tardo-antica, 144. 11 K. KOHLER, Dietary Laws, in The Jewish Encyclopedia, New York-London 1904, 598a-600b: 600a. 12 H. RABINOWICZ, Dietary laws, in Encyclopaedia Judaica, VI, cit., col. 27.
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tali, gli altri, anche in presenza di opinioni autorevoli, devono essere scartati13. In questo come in molti altri casi il risultato è che si limita la liceità agli animali domestici o simili ad essi. L’animale permesso deve essere consumato previa l’applicazione di una serie di procedure di cui la più rilevante è la macellazione rituale (sheh¢it¢àh). La sheh¢it¢àhriveste una tale importanza che la sua effettuazione è demandata ad uno specialista (shoh¢èt¢) che viene stipendiato dalla comunità di appartenenza. Sebbene si possa ipotizzare l’esistenza della figura dello shoh¢èt¢ già nell’antichità, le prime testimonianze certe della sua presenza e della sua attività in seno alle comunità ebraiche d’Europa risalgono al Medioevo14. Dopo aver sgozzato l’animale secondo precise modalità che includono un’analisi dettagliatissima del coltello da macellazione, a sua volta soggetto al rispetto di norme precise che ne riguardano la foggia, la lunghezza, ecc., l’animale viene liberato dal sangue (su cui vige l’interdetto già imposto a Noè: «non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue», Gen 9,4) e viene quindi esaminato (bediqàh). La bediqàh (“esame”) è svolta dallo shoh¢èt¢, che può essere assistito da un rabbino, e mira a rilevare eventuali difetti fisici o segni patologici elencati con precisione e discussi nel Talmud e nella successiva letteratura normativa. Si tenga presente che soltanto per il polmone sono presentati 14 difetti o segni. Qualora non vi siano segni o difetti la carne macellata è kashèr (“adatta” al consumo) e può essere cucinata. In caso contrario è t¢erefàh (lett. “bestia sbranata”, inadatta al consumo) e non può essere consumata. La carne delle carogne e di tutti gli animali morti di morte naturale o non macellati correttamente appartiene sempre alla categoria delle carni non ammesse ma viene detta nebelàh (“cadavere”). È evidente che tutto il dettato talmudico non può essere padroneggiato facilmente da chi non abbia il tempo e i mezzi (si pensi alla necessità di conoscere l’ebraico e l’aramaico) per studiarlo. A causa di queste difficoltà la tradizione ebraica europea ha prodotto dei prontuari che rendono più lineare e più facile da consultare il quadro dei precetti, con una attenzione particolare per quelli alimentari. 13 14
L. c. A. STEINSALTZ, The essential Talmud, cit., 188.
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Le figure più significative di questo fase di compilazione di manuali halakici comprendono Yishaq Alfasi (1013-1103), Mosè Maimonide (11381204) e Joseph Caro (1488-1575)15. Nel 1170 Maimonide compose in arabo il “Libro dei Precetti”, poi tradotto in ebraico come Sèfer ha-mis¢wòt. In quest’opera egli raccolse una nuova classificazione dei 613 precetti della vita ebraica distinguendo quelli di ascendenza biblica da quelli di ascendenza rabbinica. Dieci anni dopo egli completò la sua opera con un nuovo testo, il Mishnèh Toràh (“ripetizione della Legge”), che è molto più circostanziato del primo ed esaurisce una serie di argomenti toccati solo marginalmente in precedenza. Nel quinto libro del Mishnèh Toràh (Sèfer qedushàh “il libro della santità”), si tratta anche delle norme alimentari, la cui osservanza distingue gli ebrei dai non-ebrei. Nel Medioevo europeo le norme alimentari sono il fattore di distinzione più evidente tra ebrei e non-ebrei. La loro importanza è cresciuta fino a farne un fattore di identità insostituibile. Si spiegano così le ampie trattazioni al riguardo comprese nell’ordine Yorè de àh (“Maestro di sapienza”) del compendio normativo intitolato Arba àh T¢urìm (“I quattro ordini”) di Yaqob ben Asher (1270 circa – 1340). Il lavoro di Yaqob ben Asher cerca per quanto possibile di riportare tutte le tradizioni ashkenazite e sefardite riguardo ai diversi articoli o prescrizioni citati. L’importanza dell’opera di Yaqob ben Asher venne accresciuta dal fatto che, a partire dalla metà del XVI sec., la Chiesa mise all’Indice il Talmud e ne ordinò la distruzione col fuoco. Una situazione che favorì il diffondersi dell’Arba àh T¢urìm e altri lavori dello stesso tipo, indispensabili per la salvaguardia e la corretta applicazione del patrimonio giuridico ebraico in cui ormai le norme alimentari avevano assunto un ruolo preminente. La spinta vitale del dibattito tra studiosi e giurisperiti cominciò però a venir meno, causando una sclerosi della casistica che, nella sua minuziosità, creava problemi di interpretazione, vale a dire di comprensione di quale dovesse essere considerata l’opinione o la tradizione vincolante per la prassi. A questo si aggiunga lo spostamento dell’asse culturale dell’ebraismo europeo dall’area sefardita (svuotata dalle espulsioni) all’area ashkenazita, con il conseguente imporsi di quest’ultima tradizione sull’altra. 15 Cfr G. TAMANI, Il giudasimo nell’età medievale, in Ebraismo, a cura di G. Filoramo, Roma-Bari 20042, 155-185: 173-178.
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Il codice che informa la normativa di vita e quindi di alimentazione dell’ebraismo moderno fu compilato da Joseph Caro, un esule spagnolo che morì in Palestina nel 157516. Sefardita, il Caro utilizzò i codici a lui antecedenti fornendo però l’indicazione di una posizione vincolante ricavata col criterio del consenso tra gli studiosi o della prevalenza della maggioranza. Il Shulh¢àn arùk (“Tavola imbandita”) presentava le norme alimentari secondo la tradizione sefardita e soltanto con l’integrazione (Mappàh “Tovaglia”) di Mosè Isserles (Cracovia 1520 circa – 1572) divenne uno strumento in grado di soddisfare le esigenze dell’ebraismo di tutta la Diaspora. Sin dai titoli si coglie l’interesse di questi codici per le norme alimentari, che vi vengono codificate nel modo più accurato possibile. È il caso del divieto di consumare carne e latte (compresi i suoi derivati) nel corso dello stesso pasto. Il divieto biblico «non cuocerai il capretto nel latte di sua madre» (Es 23,19; 34,26; Dt 14,21) era già stato rielaborato in sede talmudica nei seguenti tre ordini di prescrizioni: 1) divieto di cuocere carne con latte; 2) divieto di mangiare carne e latte nello stesso pasto; 3) divieto di derivare qualsiasi beneficio dalla mescolanza di carne e latte (Talmud babilonese, trattato H¢ullìn, 115b). “Latte” fu inteso nel senso più lato del termine a comprenderne ogni più remoto derivato e in senso altrettanto lato ogni sorta di contatto tra latte e carne. Partendo da questa base talmudica che già aggiunge contenuti e precisazioni al testo biblico si arrivò nei codici a stabilire l’obbligo della separazione totale di latte e carne in qualsiasi situazione. Nacquero così normative specifiche su dove conservare e come conservare separatamente i due alimenti, su quali stoviglie ed utensili adoperare per cucinare e servire (sempre separatamente) i due cibi, su come procedere al lavaggio separato delle stoviglie, alla loro asciugatura con appositi panni, alla loro separazione all’interno delle credenze. Allo stesso modo si stabilirono intervalli di tempo tra pasti in cui si servivano latticini e altri in cui si serviva carne. Inoltre si tenga sempre presente che per la stessa norma esistevano e potevano avere validità equipollente una serie di tradizioni attuative legate alle singole comunità o a gruppi di comunità nazionali. Nelle comu16 Cfr G. TAMANI, Il giudaismo nell’età moderna e contemporanea, in Ebraismo, a cura di G. Filoramo, Roma-Bari 20042, 187-220: 192-194.
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nità olandesi ad esempio si doveva attendere un’ora tra il consumo di carne e di latticini, in molte altre comunità europee invece se ne dovevano attendere tre17. Un’ulteriore difficoltà venne dalla conoscenza sempre più approssimativa della lingua ebraica da parte dei fruitori dei codici. Dal canto loro le lingue d’uso si adeguarono assorbendo la casistica delle norme. È questo il caso dello yiddisch, che indica con gli aggettivi milchig e fleishig le stoviglie destinate rispettivamente ai latticini e alla carne. Nacque dunque una fiorente editoria di opuscoli in numerose lingue europee, che si presentavano come strumenti di rapida consultazione per l’ebreo desideroso di rispettare le norme alimentari ma incapace di usufruire direttamente della normativa in ebraico. È questo il caso del manualetto intitolato h+yx# ynyd ossia Rituale per l’immolazione de’ quadrupedi e de’ volatili di Giuseppe Emanuel Levi, edito a Torino nel 1856 «per soddisfare al voto di alcuni giovanetti desiderosi d’iniziarsi nelle regole dell’immolazione con brevità e chiarezza, senza aver mestieri di ricorrere a’ libri di sacra teologia, scritti nell’Ebraica favella»18.
Nate come parte di una normativa tendente a distinguere gli ebrei esiliati da quelli rimasti in patria durante la cattività babilonese, le regole alimentari hanno per secoli segnato il confine di una identità, ergendo non solo una barriera intorno alla Legge (Toràh), ma anche intorno alla cultura materiale del giudaismo europeo. Con la fine dei ghetti e il lento ma sempre più ampio abbandono della pratica religiosa, le norme alimentari non sono venute meno come ci si sarebbe aspettato. Esse si sono infatti guadagnate uno spazio nella tradizione tanto importante quanto indipendente e ancora oggi caratterizzano la vita di molte comunità europee e americane19. Molto spesso all’interno della medesima famiglia si osservano prese di posizione che vanno dalla assoluta inosservanza all’attenta sollecitudine nei confronti 17
H. RABINOWICZ, Dietary laws, in Encyclopaedia Judaica, VI, cit., col. 40. G.E. LEVI, h+yx# ynyd ossia Rituale per l’immolazione de’ quadrupedi e de’ volatili, Torino 1856, 7. 19 Si vedano a questo proposito gli aggiornamenti delle norme alimentari in R. DI SEGNI, Guida alle regole alimentari ebraiche, Roma 19963, con l’interessante Appendice commerciale su additivi, coloranti, ecc. 18
Le prescrizioni alimentari ebraiche
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delle norme alimentari; più in generale si può rilevare un atteggiamento di rispetto, che porta ad osservarle nei periodi più importanti dell’anno, come quello pasquale, magari in relazione a specifiche consuetudini famigliari o comunitarie. In sostanza, fatta eccezione per qualche gruppo molto conservatore, non sembra più così diffusa quella attenzione spasmodica per le prescrizioni alimentari che faceva dire a Samuel Portnoy, bambino ebreo americano degli anni Cinquanta: «Cos’altro rappresentavano, Le chiedo, tutte quelle proibizioni e regole alimentari se non un’abitudine alla repressione per noialtri bambini ebrei? […] Perché […] i due servizi di piatti? Perché […] il sapone e il sale kasher? Perché, Le chiedo, se non per ricordarci tre volte al giorno che la vita non è altro se non limitazione e restrizione, centinaia di migliaia di piccole regole elaborate da nessun altro che Nessun Altro, regole che, o rispetti senza domandare […] o trasgredisci, molto probabilmente in nome del buon senso oltraggiato»20.
Nonostante reazioni come queste o prese di posizioni ufficiali (come quelle dell’ebraismo riformato), le norme alimentari rivestono ancora un ruolo, che viene loro riconosciuto in omaggio alla funzione espletata in tempi antichi, quando permisero agli ebrei di conservare la loro identità.
20
PH. ROTH, Lamento di Portnoy, Torino 2000, 67.
GERARCHIE E IDENTITÀ RELIGIOSE NEI PRIMI SECOLI DELL’ERA CRISTIANA: CRISTIANESIMO E EBRAISMO TERESA SARDELLA*
In ambito religioso, una classe sacerdotale, organizzata o no in forma gerarchica, è, comunque, garanzia di uniformità e continuità, di controllo sulla trasmissione delle dottrine e del pensiero religioso. Così, la storia di una religione dipende anche dall’esistenza o meno di tale classe sacerdotale: in altri termini, da come questa classe si organizza al suo interno e si relaziona all’esterno. Non diciamo nulla di nuovo, dunque, quando asseriamo che questa dialettica esprime non solo le diverse sorti delle religioni, e in particolare di quelle monoteistiche, ma anche la storia delle varie confessioni cristiane. Ciò che riguarda la classe sacerdotale, quando governata da un gruppo di potere a essa intrinseco — in termini di dati organizzativi interni e di relazioni con l’esterno, cioè con tutti gli altri fedeli —, chiama in causa il concetto di “gerarchia” (ierarkìa). Nato in ambito cristiano greco, esso indicava la struttura di amministrazione delle cose sacre, in quanto questa comportava un ordine scalare, e l’ordine stesso. Nel diritto canonico cristiano, la gerarchia ecclesiastica indica l’ordinamento dei gradi e delle funzioni nella chiesa e il principio stesso della subordinazione delle autorità inferiori alle superiori. Da lì, esso è passato a indicare non solo il complesso degli ordini angelici, raggruppati in tre gerarchie scalari1, ma anche i rapporti di subordinazione e supremazia che uniscono tra loro gli organi del potere civile. * Docente di Storia del cristianesimo antico presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Catania. 1 Suddivisione ispirata da Paolo, e opera dello Pseudo-Dionigi: serafini, cherubini, troni; dominazioni, virtù, potestà; principati, arcangeli, angeli.
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Guida queste riflessioni un’ottica orientata a ricostruire, attraverso il percorso di formazione dell’istituzione-chiesa e dei suoi organi di potere, il processo di formazione dell’identità cristiana. E, in tema di definizione identitaria dell’organismo istituzionale del cristianesimo, sono due i fronti rispetto ai quali esso si definisce: quello interno, riferito agli altri fedeli cristiani e rispetto al quale nei secoli IV-V si prefigura la netta frattura di una società medievale suddivisa in laici ed ecclesiastici; e quello esterno, riferibile ai corpi sacerdotali dell’ebraismo e del paganesimo, che segue una propria via di definizione. Molto sfocato appare il rapporto con i sacerdoti pagani. Più stretto e problematico è il rapporto con il sacerdozio ebraico. Tra i problemi posti dal patrimonio del giudaismo, vi è il rapporto del sacerdozio cristiano rispetto alla classe sacerdotale ebraica. Esso di rado costituisce un punto nevralgico nell’elaborazione della dottrina ministeriale in funzione dell’organizzazione delle istituzioni. Rapporti interni al sacerdozio ebraico e relazioni esterne, rispetto agli altri fedeli, consentono di chiamare in causa parametri concettuali riconducibili alla nozione gerarchica. Ma poca attenzione tale rapporto ha riscosso nella storiografia. Nel sistema sacerdotale ebraico dei primi sei secoli dell’era volgare, tra elementi di continuità e di discontinuità rispetto alla religione ebraica antica, permane anche dopo la caduta del Tempio di Gerusalemme, nel 70, un sistema di potere religioso accorpato in una casta sacerdotale di esperti in Sacra Scrittura, che, imponendo la propria supremazia alla guida del popolo ebraico2, concretizza un ruolo primaziale rispetto agli altri fedeli. Tra sacerdozio ebraico e sacerdozio cristiano gli elementi di continuità e discontinuità si incrociano variamente. Antico e Nuovo Testamento registrano una diversa posizione in merito al sacerdozio. Nel mondo antico, anche quello greco e romano, e nell’AT il sacerdote è una figura eminentemente sacra. Nel primo, è aureolato di una sacralità personale religiosa e separato dalla profanità comune, funge da mediatore tra gli uomini e la divinità, operando con azioni sacre, consacrate alla divinità. Questa descrizione vale, sostanzialmente, anche per il sacerdozio di Israele: il sacerdozio assume nei tempi più remoti un aspetto divinatorio, poi la 2
108.
G. TAMANI, Il giudaismo nell’età tardo-antica, in Storia delle religioni, II, Bari 1995,
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funzione di predicazione della legge di Dio, e, al fine, nell’epoca postesilica, sacerdote è una figura di servitore dell’altare nel tempio. Nel Nuovo Testamento scompaiono tutti questi elementi di sacralità. Manca un sacerdozio specifico o una casta di persone particolarmente sacre; tutti i fedeli costituiscono il popolo sacerdotale. Mancano specialmente i mediatori per il semplice fatto che tramite il Cristo e in Cristo tutti gli uomini hanno direttamente accesso al Padre. Mancano le famiglie e le tribù sacerdotali; tutti possono essere chiamati carismaticamente alla diaconia ecclesiale. Mancano i luoghi sacri: il tempio è Cristo, il cielo, i fedeli; il mondo intero è il luogo a cui devono rivolgersi tutti i servitori del vangelo, per invitarlo all’obbedienza della fede. Mancano speciali azioni sacre rituali. Nel Nuovo Testamento manca una nomenclatura sacerdotale per i ministri del vangelo. La gerarchia sacerdotale non esiste né in termini di organizzazione interna, né quale gruppo di mediazione tra Dio e gli uomini. Anzi, proprio questa assenza di un gruppo specializzato che eserciti un potere sacrale è uno degli elementi che, lungo i secoli della storia cristiana, è stato più denso di problematicità, arrivando a determinare anche fratture confessionali. Data la situazione neotestamentaria, in relazione a quello che è chiamato il sacerdozio comune dei fedeli, connesso all’assenza di una classe sacerdotale, la pretesa continuità neotestamentaria nel sacerdozio cristiano acquista importanza soprattutto come portato storico dei dibattiti teologici e confessionali. Sta tutto all’interno di specifiche problematiche della Tarda Antichità, invece, il tema della continuità dal sacerdozio ebraico a quello cristiano. Esso non appartiene agli elementi portanti e costitutivi, in termini di ideazione positiva, dell’elaborazione del sacerdozio cristiano. Piuttosto in esso si esprime la possibilità di ritrovare, nel richiamo al sacerdozio ebraico, almeno per come esso viene inteso da alcuni gruppi cristiani (su questo vedasi più avanti la lettera di Siricio), atteggiamenti devianti di gruppi ereticali. Ponendoci, dunque, il problema di definire come il cristianesimo dei primi secoli, in ragione della definizione della propria gerarchia, si rapporti al sacerdozio ebraico, abbiamo scelto di analizzare alcuni documenti di varia natura, da quelli canonici a quelli letterari a quelli giuridici appartenenti tutti a una fase cruciale — tra IV e V secolo — sia della definizione della gerarchia cristiana, anche in rapporto ai mutati rapporti con l’impero, sia della correlata riflessione o definizione dei rapporti con il sacerdozio ebraico.
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Un breve excursus, relativo ai primi secoli dell’era cristiana, serve a ricordare soltanto che la strutturazione gerarchica, dopo l’afasia gerarchicosacerdotale neotestamentaria, si sviluppa già nella prima fase della costruzione dell’identità cristiana. Tra i secoli secondo e terzo, tale strutturazione fu stimolata da problemi interni al cristianesimo stesso: le forze centrifughe dei movimenti dottrinali dichiarati eterodossi, perché in conflitto con le chiese di derivazione apostolica, avevano dettato la necessità di fare riferimento a una classe sacerdotale dotata di forza e autorevolezza istituzionale e solidamente arroccata entro parametri teologici definiti e condivisi, una classe salvaguardata da una organizzazione verticistica e tendenzialmente sempre più monocratica. Le più antiche collezioni canoniche, dalla Tradizione apostolica, ai Canoni di Ippolito, alle Costituzioni apostoliche fino alle Costituzioni ecclesiastiche degli apostoli, degli inizi del IV secolo, definiscono già una struttura gerarchica con una precisa e specifica identità, che possiamo così sintetizzare: una gerarchia dell’ordine dai connotati sacrali, introdotta dal rito dell’ordinazione, consistente nell’imposizione delle mani, preposta agli spazi della santità divina (liturgia), riservata esclusivamente agli individui di sesso maschile, nettamente separata dal resto dei fedeli — che costituiscono la massa dei laici — anche attraverso una gerarchia della perfezione morale che trova il più evidente riflesso nella preferenza (dalla Didascalia alle Costituzioni apostoliche) per un clero continente, meglio ancora se celibe. Tra IV e V secolo, con gli Statuta Ecclesiae Antiqua, si stabilisce solidamente anche la gerarchia degli ordini inferiori in relazione alla strutturazione di un apparato organizzativo e liturgico sempre più complesso e articolato, dipendente, però, dai bisogni e dalle possibilità delle chiese locali3. Agli inizi del IV secolo, dalla letteratura conciliare, già ad Ancira, Neocesarea e Nicea, si rileva che le nozioni di ordine e di rango sono ben radicate nella mentalità giurisdizionale e sociale. Tra varie oscillazioni interpretative, alla fine del IV secolo, si può individuare una frontiera sociologica, di netta separazione, con attribuzioni e limiti delle funzioni agli ordini inferiori (esplicite e diffuse informazioni sono nei testi della cosiddetta collezione di Laodicea). Le Costituzioni Apostoliche potrebbero anche costituire l’eccezione dovuta a un ambiente 3
A. FAIVRE, Naissance d’une hiérarchie, Paris 1977, 199.
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riformatore in cui si accorda al clero inferiore una valorizzazione delle funzioni ad esso relative. Ma, nel complesso e fino a Calcedonia, gli ordini superiori tendono a rigettare nell’ombra quelli inferiori. Dalla Didascalia alle Costituzioni apostoliche si operano, dunque, mutamenti evidenti nei diversi aspetti dell’organizzazione ecclesiastica. Solo nel primo documento, la Didascalia, appare un riferimento indiretto al contesto sacerdotale ebraico. Esso è là dove, in un primo elenco riguardante le funzioni, l’autore esorta il popolo a onorare i suoi ministri, come faceva altrove il popolo dell’AT4. Decisivi per l’analisi del rapporto tra strutturazione gerarchica e identità di un cristianesimo in crescita istituzionale, questi documenti non presentano, di fatto, riscontri relativi al confronto con il sacerdozio giudaico. Né quest’ultimo appare quale referente costante nei successivi testi cristiani che si riferiscono al sacerdozio. Né è la natura dei testi a predisporre le condizioni perché sia presente il confronto con la tipologia vetero-testamentaria. La trattatistica, nonostante il carattere di elaborazione concettuale, spesso non offre nulla in tal senso. Mentre un testo come il codice teodosiano, la cui natura normativa lo renderebbe poco consono a fornire elementi in materia, si rivela denso di spunti utili. La varietà di approccio al sacerdozio ebraico in relazione alla definizione di quello cristiano, dunque, non è legata alla tipologia del documento. Le opere letterarie che offrono spunti sull’argomento non sono molte. Rare volte attestano una specifica attenzione all’argomento, a proposito di un rapporto di derivazione del sacerdozio cristiano da quello giudaico, sia pure solo in termini di brevi riflessioni o cenni. Nel IV secolo, gli scritti che presentano uno stretto legame di contenuti in materia di sacerdozio non sono molti: la seconda orazione di Gregorio di Nazianzo (= De fuga) (362)5, Il sacerdozio di Giovanni
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Didasc. 2,28,5 (Funk, 108-109; Nau, 84). Apologeticum seu De fuga (= Dial. 2), in GRÉGOIRE DE NAZIANZE, Discours 1-3, ed. J. Bernardi, SCh 247, Paris 1978. 5
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Crisostomo (dopo 386)6, I doveri dei ministri di Ambrogio (391)7, la Lettera a Nepoziano di Gerolamo (394)8. Scritto in una piccola città della Cappadocia9, il De fuga di Gregorio di Nazianzo è segnato dalla vicenda biografico-culturale del suo autore. Questi era giunto impreparato — non aveva ancora pubblicato nulla — e ancora giovane alla cattedra vescovile della sua città. Ma non era uno sconosciuto, perché figlio del vescovo della città10. Gregorio vedrà costantemente in suo padre i tratti del patriarca Abramo: pater familias e vescovo insieme. La stessa espressione ricorre in più testi a distanza di anni11. È su questa linea che possiamo allacciare un rapporto tra sacerdozio ebraico e sacerdozio cristiano. Si tratta di una linea di continuità che passa attraverso la figura di «questo patriarca, questa testa preziosa e rispettabile, questo asilo di tutte le qualità, questa regola di virtù, questa perfetta realizzazione del sacerdozio»12.
Al di fuori di questo ideale piuttosto personalizzato, in quanto esclusivamente riconducibile alla figura paterna, questa continuità non è presente in quello che è lo scritto più specifico di Gregorio in materia di riflessione teologica e rielaborazione dottrinale sul sacerdozio, il De fuga. Qui, molti sono i passi in cui sono presenti riferimenti veterotestamentari, diversa-
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Ed. A.-M. MALINGREY, SCh 272, Paris 1980. AMBR. De officiis, edd. I.G. Krabinger – G. Banterle, Mediolani-Romae 1977. 8 Ep. 52, ed. J. Labourt, Paris 1951, 172 ss. 9 In una regione centrale della Turchia, che si estende attorno alla moderna Kayserie, erede della Cesarea di Basilio. 10 Lui pure di nome Gregorio, un grande proprietario, arrivato a cinquanta anni al cristianesimo e dopo qualche anno divenuto vescovo. 11 Orat. 1,7, ma anche 43,37 e, ancora, 8,4 e 18,41. D’altra parte il padre Gregorio, nato — sembra — nel 275, intorno al 372, e, dunque, quasi centenario, avrà ancora la forza di portarsi a Cesarea per sostenere l’elezione di Basilio di fronte a vescovi esitanti e divisi. E, dunque, doveva essere un uomo pieno di energia, tale da richiamare mitici esempi biblici di forza e sopravvivenza. 12 1,7, ed. cit., p. 80. 7
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mente riconducibili all’area del sacerdozio ebraico13. Nell’inevitabile distinzione tra profeti e sacerdoti, questi ultimi sono assimilati ai primi se appartengono al mondo veterotestamentario14. Ma, non è su di loro che l’A. si fonda per definire una teologia del sacerdozio cristiano. Infatti, per circoscrivere il carisma, utile al governo del popolo di Dio, e che deve essere esercitato con il gesto e con la parola, bisogna ricorrere alla figura di Pietro e, soprattutto, a quello che ha scritto e detto Paolo15: è a questi due apostoli, che hanno ricevuto la missione di indirizzare in modo corretto e di correggere gli errori, che bisogna volgersi per lasciarci ben governare16. Non vi sono elementi che possano ricondurre al sacerdozio ebraico e stabilire una continuità da esso a quello cristiano o definire l’esemplarità del primo rispetto al secondo. Profeti e sacerdoti veterotestamentari vanno lasciati da parte e vanno prese «a testimonianza le parole del solo Paolo». Contro ogni forma di sostanziale continuità dal sacerdozio ebraico, un tema ricorrente è la perversità dei capi degli ebrei, di cui si trova traccia nelle stesse Scritture17. Domina, rispetto al sacerdozio ebraico, la volontà di escluderlo dal panorama e dagli orizzonti del mondo cristiano e dalla possibilità di farne un modello. «Ma perché parlare di quello che è antico?»18: farisei e scribi incarnano il tipo del sacerdote ebreo, da cui rifuggire, allontanandosene per poterli superare in virtù19. Alla ricerca spasmodica, logorante e tormentata del modo migliore di esercitare l’autorità20, poco resta di quanto la Legge indicava al sacerdozio ebraico: forse solo la necessità di una perfezione del sacerdote, la cui natura, però, il cristianesimo deve stravolgere, e trasformare, a partire dal significato fisico che tale perfezione aveva nell’ebraismo, in senso spirituale21. 13
Orat. 2,52; 2,57; 2,58; 2,59; 2,60; 2,61; 2,62; 2,63; 2,64; 2,65; 2,66; 2,67; 2,68;
2,114. 14
Significativo, soprattutto, dopo le critiche dei paragrafi precedenti, il recupero degli antichi che viene fatto in 2,114. 15 2,51-52, pp. 158 ss. 16 2,52, pp. 158-160. 17 2,61, p. 172; 2,62, p. 174; 2,65, pp. 176-178; 2,67, p. 180. 18 2,69, p. 182. 19 2,70, p. 182. 20 2,71, pp. 182 ss. 21 2,94, p. 212.
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Gregorio potrebbe essere stato modello letterario, almeno per l’ispirazione profonda, per il De sacerdotio di Crisostomo. E, questo, nonostante il primo testo sia un’orazione, il secondo un dialogo che, pur con tutti i problemi di interpretazione che pone, appare come lo scritto più organico alla materia trattata. Non approfondiamo il dibattuto tema dei loro rapporti22: definiti dalle analoghe situazioni, che presentano la stessa concezione del sacerdozio, la stessa convinzione profonda di indegnità da parte dei protagonisti, la stessa fuga di fronte a un peso ritenuto insostenibile. Questi stessi rapporti sono contenuti nelle relazioni sicuramente esistenti tra le vicine diocesi di Cappadocia e di Siria. Inoltre, l’eco degli argomenti è possibile che dipenda anche da una comunanza di stima e di pensiero che i cristiani avevano nei confronti del sacerdozio piuttosto che da una dipendenza. Con tutto ciò, e oltre i numerosi possibili confronti, l’opera di Crisostomo attesta una personalità vigorosa, oltre a una personale interpretazione del problema qui trattato. L’A. traccia il suo ideale di sacerdote ministeriale in una forma concreta, senza indulgere a speculazioni teoriche. Tutta la Sacra Scrittura è considerata in funzione del Cristo. In tal senso, Crisostomo prosegue una tradizione, che va da Ignazio di Antiochia23 a Policarpo24, al Pastore di Erma25, che indica nel sacerdote un modello esemplare. Ma, per quanto concerne i misteri, non c’è differenza tra il sacerdote e i fedeli. Tutti sono partecipi di essi. Alle molte riflessioni, sia pur negative, presenti in Gregorio, fa da contraltare il vuoto di attenzione in Crisostomo. Tra le varie questioni presenti26, a quella dei rapporti tra sacerdozio ebraico e cristiano, pur tra le numerose citazioni veterotestamentarie, è lasciato lo spazio di un solo parallelismo. «I sacerdoti dei Giudei avevano solo il potere di liberare il corpo dalla lebbra, o meglio non di liberare ma di riconoscere i guariti, e sai come il 22
Per una breve disamina, cfr ed. cit., p. 21. Efes. 4,1, ed. T. Camelot, SCh 10, p. 60; Magn. 3,1, cit., p. 82; Filad. 4, cit., p. 122. 24 6,1, cit., p. 184. 25 13,5,1, ed. R. Joly 53bis, pp. 110-112. 26 Su queste cfr H. DE LUBAC, Le Dialogue sur le sacerdoce de saint Jean Chrysostome, in Nouvelle Revue thèologique 100 (1978) 822-831. 23
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potere dei sacerdoti allora era ambìto. Questi, invece, hanno ricevuto il potere non di liberare la lebbra del corpo ma l’impurità dell’anima, e non di riconoscere la guarigione, ma di guarire completamente. A disprezzarli si sarebbe molto più empi di quelli di Datan e degni di pena più dura. Sebbene pretendessero un’autorità non dovuta, l’avevano però in gran conto e lo dimostravano ambendola con molto ardore […] Non solo nel punire, ma anche nel beneficare, Dio ha dato ai sacerdoti una potenza maggiore che ai genitori naturali. E tanta è la differenza fra gli uni e gli altri, quanta tra la vita presente e la futura. Gli uni generano a questa, gli altri a quella. Quelli non potrebbero allontanare dai figli la morte corporale, né respingere il male che assale, questi, invece, hanno spesso salvato l’anima inferma e vicina a perdersi, agli uni rendendo più lieve la punizione, agli altri impedendo sin dall’inizio di cadere, non soltanto con l’insegnare e con l’ammonire, ma anche con l’aiuto delle preghiere. Non solo quando ci rigenerano, ma inoltre anche dopo possono assolverci dai peccati […] Inoltre i genitori naturali, se i figli hanno offeso le autorità e i potenti, in nulla possono aiutarli. I sacerdoti, invece, riconciliarono non i potenti, non i re, ma lo stesso Dio più volte con loro adirato»27.
Qui, il confronto tra sacerdozio ebraico e cristiano è giocato su quella che potrebbe definirsi una “teologia del potere”. Un potere che, per i sacerdoti dei Giudei, è ridotto a un supposto, meglio ancora a un preteso, potere di guarigione, in base al quale il sacerdote dell’ebraismo è quasi ridotto al rango di mago guaritore. Per il sacerdote cristiano il potere è spirituale perché riguarda non il corpo, ma l’anima, ed è reale, perchè la guarigione spirituale avviene veramente. È un potere non solo maggiore, rispetto a quello dei sacerdoti ebrei. Infatti, esso ha anche una diversa funzione, perché li trasforma in genitori spirituali, datori e rigeneratori di vita. È anche un potere di riconciliazione col potere: tanto maggiore in quanto la forma di potere con cui i sacerdoti cristiani sono in grado di operare una riconciliazione non è quello dei potenti della terra, ma quello dell’onnipotente divino. Si direbbe che nulla abbia da dire il sacerdozio ebraico a quello cristiano, che nulla in esso fosse degno di essere ereditato e ripreso dal cristianesimo, né a esso additato come esemplare. Vi è quasi una sottova27 Giovanni Crisostomo, ‘Il sacerdozio’, trad., introd. e note a cura di A. Quacquarelli, Roma 1980, 65-66.
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lutazione del ruolo del sacerdote ebreo: rispetto alla sua funzione, ma anche rispetto alla sua reale capacità di incidere, financo alla sua pericolosità, in termini che riguardano la sfera della sua azione magistrale. Come non pensare a un collegamento con quanto sappiamo dall’Adv. Iudeos dello stesso Crisostomo28? Qui Crisostomo non dice mai che gli ebrei — inevitabile pensare soprattutto ai loro sacerdoti — facciano proselitismo presso i cristiani, mentre afferma chiaramente che sono questi ultimi a rivolgersi ai primi29. Forse è possibile interpretare la sostanzialmente inesistente relazione tra sacerdozio ebraico e cristiano, nel De fuga, non tanto come una censura critica nei confronti del sacerdozio ebraico, quanto come la registrazione di dati storici: e, questo indipendentemente dall’esistenza o meno di un attivo proselitismo giudaico30. Il progetto del De officiis di Ambrogio in qualche modo spiega l’assenza di qualunque rapporto di derivazione, esemplarità o altro del sacerdozio ebraico rispetto a quello cristiano. L’opera, scritta tra il 389 e il 390, non si rivolge a un pubblico di soli ecclesiastici31. Raccolta di norme per il cristiano — laico o ecclesiastico che fosse —, comunque ispirato all’ideale dell’orator ciceroniano, il De officiis richiama modelli classici (Aristotele, Cicerone, Diodoro di Tiro e altri ancora), modelli veterotestamentari o della storia giudaica (Abimelec, Abramo, Acar, Antioco, Assalonne, Caleb, Donec, Elia, Eliseo e altri), e neotestamentari (tra cui Barnaba)32. E i protagonisti assurgono a personaggi esemplari nel campo di un’etica a sfondo filosofico piuttosto che sacramentale e religioso, e meno ancora sacerdotale. Nella preminente ottica stoica dell’opera la sacralità sacerdotale poco può dire a un ideale cristiano che appare particolarmente attratto verso le tematiche filosofiche dell’honestum, dell’utile e del loro confronto, anche se, tranne poche eccezioni, sostituisce con esempi tratti dalla Bibbia quelli ricavati dalla storia greco-romana. 28
Adv. Iudeos 4,1. R.L. WILKEN, John Chrysostom and the Jews. Rethoric and Reality in the Late 4th Century, Berkeley-Los Angeles-London 1983, 91. 30 Su questo argomento cfr A. MONACI CASTAGNO, I giudaizzanti di Antiochia: bilancio e nuove prospettive di ricerca, in G. FILORAMO – C. GIANOTTO, Verus Israel, Brescia 2001, soprattutto 204 ss. 31 Cfr G. BANTERLE, Introd. a Sant’Ambrogio, Opere morali, I, I doveri, Roma 1977, 9 ss. 32 Cfr 1,25,118; 1,26,122; 1,28,131-132. 29
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Un’alterità assoluta tra le due sfere sacerdotali è in Gerolamo. Il tema del sacerdozio ebraico e dell’esemplarità negativa — e opposta rispetto ai valori cristiani — che esso rappresenta comprende l’uso dei paramenti liturgici, la prassi sacrificale, i riti di purificazione33. La ricchezza del Tempio e dei suoi arredi; le vittime immolate e il loro sangue versato per purificare i peccati rappresentano la prassi sacerdotale ebraica. Il senso letterale dell’AT parla di sacerdoti che devono sposare vergini34, di esclusione dal sacerdozio, in caso di menomazione, difetti fisici35 o malattie deturpanti come la lebbra, ma non di esclusione in caso di vizi morali36. Tutto ciò sembra significare il rifiuto in blocco dei Giudei e di tutto ciò che essi affermano37. Una testimonianza particolarmente interessante è una decretale papale che attesta un uso concreto delle pratiche sacerdotali ebraiche in ambito cristiano. Si tratta di una lettera, di poco precedente a quella di Gerolamo, del febbraio 38538: illuminante rispetto alle problematiche che potevano innestarsi in relazione al rapporto tra sacerdozio ebraico e sacerdozio cristiano. Scritta da Siricio, quando egli era appena salito al soglio pontificio, in seguito all’appello del vescovo spagnolo, Imerio di Terragona, l’epistola contiene la risposta ad alcuni fondamentali quesiti di etica religiosa e comportamentale, emersi in relazione alle pratiche di vita dei vertici ecclesiastici di molte chiese spagnole39. I vescovi di queste chiese, appellandosi proprio alle tradizioni veterotestamentarie e alla prassi matrimoniale in uso tra i sacerdoti del AT40, rivendicavano la legittimità di tali comportamenti sessuali anche per se stessi, sacerdoti cristiani. Nel contesto dell’estremismo ascetico, di stampo priscillianista, in cui si dibattevano tali questioni, la dinamica di questo conflitto rinvia a una 33
Ep. 52,10-11. Cfr Lv 21,13. 35 Lv 21,17-23. 36 Lv 13. 37 Ier. ep. 52,10, ed. J. Labourt, Paris 1951, 186: sic intellegamus ut Dominus quoque noster intellexit et interpretatus est sabbatum aut aurum repudiemus cum ceteris superstionibus Iudaeorum aut, si aurum placet, placeant et Iudaei quos cum auro aut probare nobis necesse est aut damnare. 38 Siric. ep. 1, PL 13, coll. 1131-1147. 39 Siric. ep. 1,7,8. 40 Siric. ep. 1,7,9. 34
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posizione agli antipodi eterodossi rispetto al priscillianismo, ed altrettanto lontana dalle posizioni più contenute, in fatto di ascetismo, quali esse erano sostenute dalla chiesa istituzionale. Infine, su tutt’altro fronte, un passo del De civitate Dei (17, 5, 2-3-5)41 dimostra come, in una prospettiva complessiva di continuità, il tema del sacerdozio ebraico rientri pienamente in una dinamica storica, dove il concetto di gerarchia sacerdotale, intesa come gerarchia dello spirito, appare incarnato, nella sua piena estensione, nella vicenda neotestamentaria. Un profeta di Dio va dal sacerdote Eli, figlio di Aronne, il primo grande sacerdote biblico, nominato tale da Dio durante la schiavitù degli Ebrei in Egitto. Dio non era stato onorato da lui e la profezia gli annuncia che la sua discendenza sarà allontanata. I suoi figli moriranno in un sol giorno. E un nuovo sacerdote, a Dio fedele, lo rimpiazzerà. Egli sarà sostituito da Samuele42. Ma, la profezia del cambiamento dell’antico sacerdozio non si può considerare avverata con questa sostituzione, perché anche Samuele «non era di una tribù diversa da quella che era stata incaricata dal Signore al ministero dell’altare, tuttavia non era dei discendenti di Aronne, la cui stirpe era stata designata perché da essa si eleggessero i sacerdoti. Perciò anche in questo avvenimento è stato simboleggiato vagamente il cambiamento che doveva avvenire mediante Cristo Gesù […] vi furono in seguito dei sacerdoti della stirpe di Aronne […] e altri dopo, prima che giungesse il tempo in cui dovevano avverarsi nel Cristo i fatti che erano stati preannunziati molto prima sul cambiamento del sacerdozio. Ma chi esamina i fatti con l’occhio della fede avverte che essi si sono avverati quando non rimasero né tenda né tempio né altare né sacrificio e quindi neanche alcun sacerdote per i Giudei, sebbene nella Legge di Dio era prescritto che egli fosse scelto per loro dalla discendenza di Aronne. I giorni che sono stati preannunciati sono giunti43. Non v’è più un sacerdote secondo l’ordine di Aronne […] Quindi il fatto di abolire il sacerdozio dalla casa di questo individuo è divenuto un simbolo, difatti con esso è stato simboleggiato che doveva essere abolito il sacerdozio dalla casa di Aronne. La morte dei figli di Eli ha simboleggiato la morte non di uomini, ma dello stesso sacerdozio 41 42 43
Vd anche 17,5,5; 17,6,1; 17,17 e 20,21,3. 17,4,1. 17,5,2.
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dei discendenti di Aronne. Ciò che segue pertanto riguarda già quel sacerdote, di cui Samuele, succedendo ad Eli, rappresentò l’allegoria. Quindi i concetti che seguono riguardano Gesù Cristo, vero sacerdote della Nuova Alleanza»44.
Dall’allegoria del sacerdozio giudaico in umbra et in figura, proiettato nel sacerdozio di Cristo, il passo successivo, richiamandosi a 1Re 2,36 e Sal 83,11, attribuisce il sacerdozio al popolo stesso, di cui sacerdote è il mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Cristo Gesù (1Tim 2,5)45. Questo parallelismo tra i sacerdoti ebrei e Cristo, vero sacerdote della Nuova Alleanza, lascia ancora fuori dalla concreta dimensione organizzativa religiosa il rapporto tra sacerdozio ebraico e sacerdozio cristiano in senso istituzionale e gerarchico. In sostanza, il confronto si risolve in una frattura che sottolinea la discontinuità. Nel momento dell’elaborazione teorico-teologica, dunque, il tema del rapporto tra sacerdozio ebraico e sacerdozio cristiano appare piuttosto marginale. Poco presente, quando non del tutto assente, è risolto in termini di sostanziale discontinuità, fino a definire i due sistemi come apertamente in contrasto tra loro. Un rapporto più strutturale e di continuità tra sacerdozio ebraico e sacerdozio cristiano si presenta, invece, proprio forse là dove era meno facile immaginare poterlo trovare. E cioè nel Codice Teodosiano. Trattandosi di un testo non di diritto canonico, infatti, è sorprendente la quantità di notizie da esso ricavabili rispetto al nostro tema. Come noto, il libro sedicesimo del codice di Teodosio II, del 438, dedicato alle questioni di carattere religioso, contiene tituli specifici, in materia di organizzazione non solo del cristianesimo, ma anche di altre fedi o movimenti religiosi e ereticali. Alle questioni di carattere organizzativo nel cristianesimo è dedicato il titulus secondo: De Episcopis, ecclesiis et clericis46, mentre alla religione ebraica è dedicato il titulus ottavo: De 44 Civ. Dei 17,5,3, II, p. 582-587 ss. Cfr anche 17,6,1, p. 590 s., in cui si afferma che il sacerdozio di Aronne è simbolo del futuro. 45 17,5,5. 46 CTh 16,2: De episcopis, ecclesiis et clericis, pp. 17-105.
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Iudaeis, coelicolis et samaritanis47. Logica e inevitabile questa distinzione non solo per la separatezza delle fedi religiose, ma anche perché il codice emana da un organismo istituzionalmente rappresentativo, anche sul piano civile, della religione cristiana come dell’unica religione ufficialmente ammessa e, dunque, un’istituzione poco propensa a confondere la condizione della religione di stato con le altre. La natura giuridica del documento poco si presta ad offrire elementi concettuali, più o meno espliciti, o riflessioni, sul rapporto in chiave di continuità e discontinuità tra classe sacerdotale ebraica e cristiana. Eppure, anche in presenza di questa netta distinzione di spazi, e in assenza di indicazioni esplicite, esistono elementi fruibili, atti a chiarire il tema in oggetto. Certo, le leggi raccolte dal titulus secondo, evidenziano, per quanto riguarda il cristianesimo, una attenzione specifica per il clero. Tituli specifici riguardano anche altri gruppi cristiani, quali i monaci, gli eretici e gli apostati; e, ancora, in una società ormai largamente cristianizzata, anche i pagani e gli ebrei. Per questi ultimi due, nell’unico titulus a ciascuno di loro dedicato, classe sacerdotale e fedeli sono trattati indistintamente. Il titulus secondo, dunque, raccoglie leggi che, riferite ai vari ordini e gradi ecclesiastici, contestualmente ne indicano il trattamento ad essi riservato da parte dell’autorità imperiale, in ragione non tanto di una differenziazione della funzione e del ruolo religioso, o della collocazione gerarchica, quanto della sola e semplice appartenenza all’organismo ecclesiastico. Le prime esenzioni dai munera risalgono già al 313. Furono stabilite da Costantino e Licinio48, che nel 319 ribadirono tali privilegi per coloro che attendevano nel culto divino ai ministeri religiosi, cioè per gli ecclesiastici degli ordini superiori49. Ma, le leggi in materia religiosa non riflettono solo un favore crescente nei confronti del cristianesimo, quanto un più complesso sistema di relazioni interne diversificato nell’ambito della stessa società cristiana. 47
16,8: De Iudaeis, coelicolis et samaritanis, pp. 234-270. 16,2,1, p. 22. 49 16,2,2, p. 24: Qui divino cultui ministeria Religionis inpendunt (id est, hi qui Clerici appellantur)… 48
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Il progressivo avvicinamento di Costantino alla chiesa cattolica, il rafforzamento, dunque, delle relazioni tra cristianesimo e impero e dell’identità religiosa cristiana con l’identità istituzionale si riflette già nel 330 con l’assimilazione di tutti gli ecclesiastici, di ogni ordine e grado, anche quelli degli ordini inferiori (lettori, sottodiaconi e altri ecclesiastici), cui si estende il privilegio dell’immunità dai munera curiali50. Anche nel 377, Graziano conferma l’equiparazione di tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica (presbiteri, diaconi, suddiaconi e esorcisti, lettori, ostiari) conferendo a tutti i munera personali51. In una crescita progressiva dell’appoggio imperiale al cristianesimo, dell’arroccamento del cristianesimo all’interno della società, del rafforzamento dei vertici istituzionali, ma anche della demarcazione dei poteri e dei ruoli ecclesiastici rispetto al complesso della società cristiana, nel 349 viene ribadita l’esenzione dai munera curiali e dalle funzioni civili per tutti gli ecclesiastici. E anche i figli degli ecclesiastici possono restare nella Chiesa solo se non sono soggetti alla Curia, cioè se non sono nati quando il padre era curiale52. L’incompatibilità tra Curia ed ecclesiastici viene sottolineata soprattutto per quanto riguarda l’oriente. Così, si intende contrastare la tendenza di molti curiali a orientarsi verso il clericato53. Una partecipazione attiva degli imperatori a indirizzare le condizioni del clero in senso platealmente elitario, dal punto di vista sociale, non solo in termini di privilegi fiscali, la si ha nel 364, con Valentiniano e Valente. Questi, infatti, stabiliscono il divieto di ordinare plebei ricchi al clericato54. Il riconoscimento della crescita e dello sviluppo dell’istituzione ecclesiastica da parte dell’autorità civile, sempre più coinvolta nei rapporti con il cristianesimo e con i suoi rappresentanti istituzionali, sfocia in un contributo a fare della gerarchia ecclesiastica un gruppo socialmente rilevante, distinto e distinguibile anche sul piano economico.
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16,2,7, p. 34. 16,2,24, p. 62: Graziano, 377. 52 16,2,9, p. 37. 53 16,2,19: Si sancisce l’inamovibilità nel caso siano passati dieci anni, senza che la condizione sia stata contestata. 54 16,2,17,a. 364, p. 50. 51
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Ma, per certi aspetti, appare ancor più significativa la sezione De Iudeis, che non dedica ai vertici e ai responsabili religiosi della religione ebraica una sezione specifica, come lo stesso Codex fa, invece, per il clero cristiano. Sono riunite, invece, in quest’unica sezione, le leggi relative al popolo e a coloro che lo guidano. Ricordiamo che, dopo la distruzione del Tempio, la scomparsa della liturgia e della classe sacerdotale ad esso collegate, e dopo la sostituzione del Tempio con la Sacra Scrittura, erano conseguite da un lato l’eliminazione della distinzione tra sacro e profano a favore della santità di tutto il popolo, e dall’altro la nascita di una nuova casta, quella degli esperti in Sacra Scrittura, che aveva imposto la propria supremazia alla guida del popolo ebraico. Nel IV e V secolo, nonostante l’organizzazione del materiale nel Codice, che accorpa in un unico titolo le leggi sugli ebrei, anche l’impero romano-cristiano registra la distinzione tra i sacerdoti e il resto dei fedeli. Il titulus si apre con una legge indirizzata a Iudaeis et maioribus eorum et Patriarchis e stabilisce una netta parità di trattamento nei confronti di ebrei e cristiani e li salvaguarda entrambi e reciprocamente contro ogni atto di violenza perpetrato a danno di rappresentanti e luoghi di culto55. Questo atteggiamento è particolarmente significativo soprattutto se messo a confronto con quello — più diffidente e meno protettivo — tenuto nei confronti dei culti e dei riti pagani, oltre che delle relative rappresentanze sacerdotali. La legge apre comunque la questione per noi di maggiore interesse in merito a come specificamente interpretare e distinguere tra Iudaeis et Maioribus et Patriarchis. Prendendo, peraltro, in considerazione solo le leggi riferite a quelle che possiamo definire le figure guida nella religione ebraica, si rileva una parificazione di trattamento con il clero cristiano. E, in particolare, nel 330, una legge precisa, che, per praesidentes legi Iudaicae, debba restare in vigore la legge, evidentemente precedente, che stabiliva per essi l’esenzione dai munera sia personali che civili56. 55
16,8,1, p. 237 (Costantino e Licinio), del 315. 16,8,2, p. 240, emanata a Costantinopoli sotto i consoli Gallicano e Simmaco: Qui devotione tota Synagogis Iudaeorum, Patriarchis, vel Presbyteris se dederunt, et in memorata secta degentes legi ipsi praesident, inmunes ab omnibus, tam personalibus, quam civilibus muneribus perseverent. 56
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Nel 331, ancora Costantino stabilisce che debbano essere esenti da tutti i munera corporali Hiereos, et Archisynagogos et Patres Synagogarum et ceteros qui Synagogis deserviunt57. Significativo che, dopo la svolta teodosiana che pure aveva dichiarato, nel 380, il cristianesimo religione di Stato, nel 393, una legge ricordava e ribadiva che nessuna legge proibiva la sectam Iudaeorum e per di più per coloro che, sotto il pretesto di difendere il cristianesimo, si fossero avventurati in atti di violenza antigiudaica erano previste pene molto severe58. Difesa e salvaguardia dei giudei vengono ripetute successivamente con articolazioni legislative di varia natura59. Ora, le leggi a difesa del giudaismo, da Costantino e fino a Teodosio possono essere anche spiegate, come facevano i commentatori antichi, in ragione della convinzione che il giudaismo non potesse essere estirpato60. Tutto questo, aggiungiamo noi, sta però all’interno di un discorso più complesso, e che passa attraverso la condanna dell’apostasia, che sottende il rischio di passaggi al giudaismo da parte dei cristiani: in particolare, tale preoccupazione è registrata da una legge di Costante, del 35761, che, condannando appunto l’apostasia, rivela il timore della forza di attrazione che il giudaismo esercitava nei confronti del cristianesimo, forza di attrazione che, possiamo immaginare, avvenisse sulla spinta della predicazione dei maestri di Scrittura. O, almeno, questo non si può del tutto escludere. Anche se, abbiamo visto, per quanto riguarda Antiochia, in base alla testimonianza di Gregorio, proprio questa interpretazione pare da escludere. In ogni caso, si registra, qui, indipendentemente dal proselitismo dei sacerdoti ebrei, o dall’attrazione spontaneamente esercitata dal giudaismo sui cristiani, una oggettiva situazione religiosa — e cioè l’apostasia di cristiani verso la religione giudaica —. Questa era, comunque, la lettura che l’autorità imperiale dava dei possibili spostamenti tra le due religioni. La religione giudaica (chiamata, indifferentemente secta, superstitio e anche religio) con la sua organizzazione, e il suo sistema autoritativo operante verso un proselitismo pericoloso per il cristianesimo, andava arginata. E, per 57 58 59 60 61
8,4, p. 243, emanata a Costantinopoli, sotto i consoli Basso e Ablavio. 8,9, p. 246 s. 8,11 e 8,12. Commentarius, p. 237. 8,7, p. 244.
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questo, andavano sottolineati i confini tra cristianesimo ed ebraismo. Un mezzo era anche quello di operare una vera e propria equiparazione, in termini di trattamento e di privilegi, tra i vari livelli gerarchici del clero cristiano e i capi della religione giudaica. Fino al 397, questo parallelismo di trattamento è deducibile da dati oggettivi, che parlano di esenzioni dai munera per il clero cristiano e per Hiereos, et Archisynagogos et Patres Synagogarum et ceteros qui Synagogis deserviunt. Nel 397, una costituzione di Arcadio, richiama, a proposito dell’esenzione dai munera curiali, l’esenzione di cui godeva il clero cristiano. Ed è la prima volta, che, in modo esplicito, l’esenzione dai munera a favore del clero cristiano degli ordini superiori — cioè vescovi, presbiteri e diaconi —, è equiparata a quella stessa prevista per i giudei62. La legge ritiene vincolante la netta separazione religiosa e liturgica e impone anche ai giudei di attenersi esclusivamente ai loro riti. Al contempo richiama il rapporto tra gerarchia ecclesiastica cristiana e la “gerarchia” giudaica: tale rapporto è considerato su una linea di netta continuità rispetto alle leggi precedenti. Arcadio, infatti, si appella ai precedenti di Costantino, Costante, Valentiniano e Valente, ribadisce più volte la conferma di questi privilegi per coloro che sono subiecti alla ditio degli illustri Patriarchi e specifica che tale esenzione vale per Archisynagogi, Patriarchi, presbiteri e gli altri che si dedicano al Sacramento della loro religione. Si tratta di una classificazione in senso gerarchico del corpo sacerdotale del giudaismo dei primi secoli dell’era volgare, che, in forma speculare rispetto a quella del clero cristiano, così appare allo sguardo del legislatore romano.
62 8,13, p. 249: Iudaei sint obstricti caerimoniis suis: Nos interea in conservandis eorum privilegiis Veteres imitemur e, quorum sanctionibus definitum est, et privilegia his, qui inlustrium Patriarcharum ditioni subiecti sunt, (archisynagogis, Patriarchisque, ac Presbyteris, caeterisque, qui in eius religionis Sacramento versantur) nutu Nostri Numinis perseverent ea, quae venerandae Christianae legis primis Clericis, sanctimonia deferuntur. Id enim et Divi Principes, Constantinus et Constantius, Valentinianus et Valens, divino arbitrio decreverant. Sint igitur etiam a Curialibus muneribus alieni, pareantque legibus suis. Commentarius, p. 250.
LA QABBALAH DI ELIA BENAMOZEGH, UN MAESTRO DELL’EBRAISMO SEFARDITA E ITALIANO
MARCO MORSELLI*
Rav Elia Benamozegh è una delle maggiori figure dell’ebraismo italiano e sefardita dell’Ottocento. Nasce a Livorno nel 1823 da una famiglia originaria di Fez, in Marocco. Perde ben presto il padre, Avraham, e viene allevato dalla madre Clara e dallo zio materno Yehudah Coriat, rabbino e cabalista. Nelle lunghe notte invernali, alla fioca luce di una candela leggono insieme lo Zohar, il principale testo della Qabbalah. A 16 anni Elia vede stampate le sue prime pagine: la prefazione al Waor waShemesh, un’opera cabbalistica. Qualche anno dopo viene ordinato rabbino e inizia insegnare nell’allora prestigioso Collegio Rabbinico. A Livorno rimane fedele per il resto dei suoi giorni, conducendovi una vita interamente dedicata agli studi, alla scrittura, all’attività tipografica e editoriale, all’insegnamento, in compagnia della moglie, dei figli, degli allievi. Da liberale segue con partecipazione il Risorgimento e saluta con entusiasmo l’emancipazione degli ebrei e i nuovi orizzonti che essa apre. Scrive in ebraico, in italiano, in francese. Del 1865 è la Storia degli esseni, del 1867 Morale juive et morale chrétienne. Verranno pubblicate postume le sue opere maggiori: nel 1914 Israël et l’humanité e solo nel 2002 L’origine dei dogmi cristiani. Molte sue pagine sono tuttora inedite, molte sono andate perdute, altre sue opere attendono di essere ripubblicate, tradotte, studiate. Benamozegh ritiene che la Qabbalah costituisca la tradizione filosofico-teologica dell’ebraismo, come la Mishnah e il Talmud ne costi*
Docente di Filosofia ebraica presso il Collegio Rabbinico Italiano.
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tuiscono invece la tradizione pratico-rituale. Pertanto la tradizione talmudica e la tradizione cabbalistica devono andare di pari passo. L’una costituisce la teoria, l’altra la prassi. Egli riteneva inoltre che, avendo il cristianesimo un’origine cabbalistica, solo facendo ritorno alla dottrina originaria sarebbe stata possibile una riforma di quella religione «che ha contato e conterà nelle sorti dell’umanità». La Torah orale precede ed accompagna la Torah scritta. La Bibbia diventa incomprensibile se la si isola dalla Tradizione. Tre generazioni prima di Gershom Scholem, Benamozegh tenta di presentare agli europei la tradizione esoterica ebraica, ritenuta però non di origine medievale, ma risalente a Mosè e tramandata da bocca a bocca in una catena ininterrotta di generazioni. Egli ha inoltre riscoperto la dimensione universalistica dell’ebraismo. Per millenni esso è stato accusato di essere una religione particolaristica. Benamozegh ha voluto dimostrare l’infondatezza di tale accusa. Come sarebbe mai possibile che da tale particolarismo siano nate due religioni universali (o meglio: aspiranti all’universalità) come il cristianesimo e l’islamismo? Vi è nell’ebraismo una duplice struttura, particolare-universale, articolata in mosaismo e noachismo. Con l’avvicinarsi dell’era messianica si assisterà ad una progressiva purificazione delle diverse tradizioni religiose che porterà addirittura, al di fuori delle religioni abramitiche, alla conciliazione tra monoteismo e politeismo. Nel 1885 Aimé Pallière (1868-1949), un giovane cattolico francese, entra “per caso” nella Sinagoga di Lione il giorno di Kippur. L’impressione che ne riceve è tale da trasformare completamente la sua esistenza. Inizia a studiare l’ebraico e, tramite l’Historia de’ riti ebraici di Leone Modena, scopre il modo in cui gli ebrei attraverso Shabbat e i moadim (le feste, o meglio: le sacre convocazioni, i tempi in cui Israele incontra il Signore) santificano il tempo. Si procura un Siddur, un libro di preghiere, e inizia a pregare tre volte al giorno. Incomincia a osservare le mitzwot, quella parte dei 613 comandamenti che è possibile osservare durante il periodo della distruzione del Tempio. L’incontro con l’ebraismo, anzi con il popolo ebraico, provoca in Pallière una radicale crisi religiosa. Eppure tale crisi non si trasformò mai in una crisi di fede: la emunah in D. non gli venne mai a mancare. Anzi,
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proprio il radicarsi nella fede d’Israele gli permise di attraversare la crisi modernista, dalla quale tanti altri furono travolti. In quella fase della sua vita Pallière aveva deciso di convertirsi all’ebraismo. Viene indirizzato a Rav Elia Benamozegh di Livorno. Nel 1889 egli dunque è a Livorno per la festa di Rosh haShanah, il Capodanno ebraico, ma Benamozegh è malato e non può riceverlo. Inizia però tra loro una corrispondenza nella quale Benamozegh gli propone di diventare un noachide: «Per essere nostro fratello, come desiderate, non avete bisogno di abbracciare l’ebraismo nella maniera che credete, cioè sottomettendovi al giogo della nostra Legge. Noi ebrei siamo depositari della religione destinata all’intero genere umano, la sola religione cui i gentili siano assoggettati, e per cui sono salvi e veramente nella grazia di D. La religione dell’umanità non è altro che il noachismo».
Del noachismo Pallière non aveva mai sentito parlare e la proposta non gli sembrò né chiara né convincente. Maestro e discepolo si incontrarono solo una volta (nel 1898) e la loro corrispondenza terminò poco dopo. Nel 1900 Benamozegh lascia questo mondo. L’anno successivo Pallière si reca sulla sua tomba e, come scrive, «è a partire da quel momento che ho cominciato a comprendere Elia Benamozegh e la dottrina che mi aveva esposto. È a iniziare da quell’ora che mi sono veramente sentito suo discepolo».
Che cos’è il noachismo? Lasciamo che sia lo stesso Benamozegh a presentarlo: «La legge di Noè non ha niente da invidiare, per nobiltà e santità, alla legge di Mosè. È stata non solo la legge di Adamo, di Noè e di tutti i Patriarchi prima di Abramo, ma anche quella di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, di tutti i loro figli e discendenti e dello stesso Mosè prima della rivelazione del Sinai».
Il goy (il non ebreo) che si convertiva doveva presentarsi davanti a tre rabbini e alla loro presenza doveva dichiarare la sua intenzione di voler
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appartenere alla religione noachide. È probabile che la conversione fosse accompagnata dal battesimo, ossia dall’immersione nelle acque del miqweh, come avveniva e avviene per le conversioni all’ebraismo “mosaico”. Con la conversione il goy diventa un ger toshav e si impegna a rispettare sette comandamenti: 1) istituzione di tribunali 2) divieto di blasfemia 3) divieto di idolatria 4) divieto di adulterio 5) divieto di omicidio 6) divieto di furto 7) divieto di mangiare una parte di un animale che sia strappata mentre è vivo (ossia divieto di crudeltà nei confronti degli animali). Rispettando questi comandamenti, il noachide entrerà nel mondo a venire, avrà parte alla vita eterna. Benamozegh sperava dunque che con Pallière avrebbe avuto inizio il moderno movimento noachide. Il che vuol dire anche che egli riteneva ormai prossimi i tempi messianici, dal momento che il noachismo viene visto come la religione dell’umanità messianica. Tuttavia, se esaminiamo la vita di Pallière successiva alla rivelazione nei pressi della tomba, possiamo tranquillamente affermare che non solo non diede vita al movimento noachide, ma in fondo non fu neppure lui stesso un noachide. Egli si dedica a organizzare incontri ecumenici (con salutisti, battisti, metodisti, avventisti) e anche interreligiosi (fu amico di un sufi), finché la Pascendi di Pio X nel 1907 non pose fine a tale genere di attività. Dedica lunghi anni all’edizione e riscrittura di quello che è considerato il capolavoro di Benamozegh: Israël et l’humanité (pubblicato a Parigi nel 1914). Si convince che la sua vocazione sia quella di predicare agli ebrei la fedeltà alla Torah e alla Terra d’Israele. Dirige movimenti giovanili ebraici, educa al sionismo, collabora con il Keren Kajemet, insegna la lingua ebraica, riorganizza il culto nella Sinagoga riformata o liberale di rue Copernic a Parigi. Influenzato, o in sintonia con il suo amico italiano Rav Alfonso Pacifici vuole aiutare gli ebrei a riscoprire l’ebraismo integrale e favorire l’incontro tra Am, Torah, Eretz. Come si vede, un programma lodevole e affatto straordinario, ma diverso da quello preconizzato da colui che lui considerava il proprio maestro. Nel 1942 Pallière ritorna alla pratica dei sacramenti cattolici. Vive gli anni della Shoah nascosto e cercando di aiutare per quel che può i suoi amici
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perseguitati. Assiste alla nascita dello Stato d’Israele, ossia al risorgere di una sovranità ebraica dopo 19 secoli di asservimento. Chiude i suoi giorni nei pressi di un’Abbazia, considerato dai monaci come «un cristiano che viveva in modo ebraico». Nell’epistolario Benamozegh scrive che il noachismo è la religione dell’umanità convertita al culto del vero D., di cui i Profeti hanno annunciato il trionfo nei tempi messianici. Si può continuare a chiamarlo cristianesimo, egli aggiunge, purché venga “liberato” della dottrina della Trinità e dell’Incarnazione. Ora, si può ben capire che per un cristiano questo discorso sia inaccettabile. Cosa rimane mai del cristianesimo una volta che sia stato “liberato” dei suoi dogmi centrali? Bisogna però ricordare che a tali questioni Benamozegh aveva dedicato un’opera di centinaia di pagine: L’origine des dogmes du christianisme, che potrà essere pubblicata solo un secolo dopo la sua morte. In tale opera egli riconduceva le dottrine della Trinità e dell’Incarnazione alla loro origine cabbalistica. Si tratterebbe dunque non di eliminare, ma di riformulare tali dogmi, in modo più conforme alla loro origine ebraica. L’altro punto sul quale si è determinato lo scisma tra cristianesimo e ebraismo riguarda l’abolizione della Torah, e qui Benamozegh ha buon gioco nel dimostrare che tale abolizione non risale a Rav Yeshua ben Yosef e neppure ai suoi primi discepoli. Si pensi anche solo a Matteo 5,17-19 o a Atti 15. Pallière non ha voluto quindi abbandonare il suo cristianesimo: ha voluto essere un diverso tipo di cristiano. Ha abbandonato la teologia della sostituzione e l’insegnamento del disprezzo. Ha amato Israele, la sua spiritualità, la sua storia, le sue feste, le sue preghiere. Ha compreso la dialettica tra esilio e ritorno. Ha ritenuto che il suo essere seguace di Yeshua non lo ponesse affatto in opposizione a Israele, ma anzi gli consentisse di farne in qualche modo parte, di esserne affiliato. Israele è la radice santa sulla quale sono stati innestati i goyim. Per quale ragione in fondo Benamozegh non è riuscito a essere più chiaro e a spiegare meglio al suo discepolo quale fosse il suo pensiero?
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Per rispondere a questa domanda dobbiamo affrontare un’altra questione, apparentemente il maggior motivo di dissenso tra ebrei e cristiani. Rav Yeshua ben Yosef è il Messia oppure no? Se si risponde sì, si è cristiani, se si risponde no, non lo si è. È segno della grande saggezza di Rav Elia Benamozegh che tale questione non sia mai affrontata direttamente. Non è questa la questione che può essere affrontata in via preliminare in un dialogo tra ebrei e cristiani. Se lo si fa, non ci si può che trovare di fronte a un sì e un no, oltre i quali, da entrambe le parti, si aprono gli abissi dell’apostasia. «Il Messia non è venuto, né verrà, ma sta venendo»: questo detto di Benamozegh è in linea con il pensiero dei grandi maestri d’Israele come Yehudah haLewi o Mosheh ben Maimon, i quali considerano cristianesimo e islamismo come preparazioni messianiche. Se degli ebrei nel I secolo non avessero elaborato una teoria messianica concernente Rav Yeshua ben Yosef, il cristianesimo non sarebbe nato. Tale dottrina, al pari di tante altre, ha subito nel corso dei secoli, e in special modo nel corso dei primi tre, dei profondi cambiamenti. È però forse ancora possibile restaurare la dottrina originaria? L’attesa messianica unisce ebrei e cristiani. Entrambi, sia pure in modo diverso, vivono tra un già e un non ancora. Purché il Messia compia le opere del Messia, è poi così grande la differenza tra una prima e una seconda venuta? Se, a partire dalla hebraica veritas sul Messia, i cristiani decideranno di ridivenire messianici, allora forse veramente non saranno lontani i passi del Messia.
UNA SMORFIA GROTTESCA NELLA VIENNA EBRAICA
GRAZIA PULVIRENTI*
La cultura tedesca è attraversata da componenti provenienti dal mondo ebraico, che nel corso dei secoli interagiscono con essa in maniera disparata, registrando momenti di maggiore o minore rilievo. Da tale nesso interculturale sono caratterizzati contesti e momenti specifici come quello oggetto di questa riflessione, il mondo austriaco di fine secolo. Assai ambivalente e denso di contrasti e tensioni è il rapporto fra l’etnia egemone e la componente ebraica in Austria. Ambivalente anche, o meglio soprattutto, se si circoscrive l’indagine alla cultura di fine secolo e dei primi decenni del Novecento, periodo caratterizzato da una strabiliante presenza di artisti e intellettuali di origine ebraica, ciascuno, per altro, su posizioni divergenti in merito alla propria identità ebraica. Una rapida elencazione dei protagonisti attivi sulla scena della cultura ebraica nell’Austria fin de siècle: Martin Buber, Alfred Adler, Sigmund Freud, Hugo von Hofmannsthal, Arthur Schnitzler, Karl Kraus, Peter Altenberg, Gustav Mahler, e ancora Otto Weininger, Ludwig Wittgenstein, Egon Friedell, tralasciando interamente l’ambito praghese, da Kafka, ai vari Gustav Meyrink, Franz Werfel, Max Brod, Ernst Weiß, etc. È necessario inoltre ricordare i numerosi scrittori attivi all’interno di quel fenomeno poco indagato rappresentato dall’espressionismo austriaco: Simon Kronberg, Rudolf Fuchs, Eugen Hoeflich, Uriel Birnbaum, Arnolt Bronnen, Berthold Viertel, e tanti altri ancora, di cui si è occupato nella sua purtroppo breve, ma intensissima ricerca lo studioso austriaco Armin Wallas. All’interno del macrofenomeno mitteleuropeo è bene circoscrivere la specifica realtà viennese, distinguendo le particolarità che la cultura ebraica * Docente di Letteratura tedesca presso la facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università degli Studi di Catania.
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assume nella capitale da quelle, per esempio, che contraddistinguono l’enclave praghese. Con un paradosso potremmo dire che il fine secolo austriaco nasce nel ghetto. Ovviamente in senso figurato, dal momento che la reclusione nel ghetto viennese era stata sospesa con l’editto di tolleranza emanato da Giuseppe II il 13 ottobre 1781, atto in realtà abbastanza formale ai fini di un processo di integrazione, che si può far risalire solo al 1849, quando furono riconosciuti i diritti elettorali e di possesso di beni immobili. Le posizioni assunte rispetto alla propria identità e in relazione alla cultura di appartenenza oscillano fra un estremo di odio rivolto contro il mondo ebraico di un Otto Weininger, fondato su una teoria biologica dell’essere ebreo come sinonimo di incapacità a relazionarsi con il reale esistente, a quelle di una appassionata ricerca delle proprie origini di Rudolf Fuchs1, fino alle posizioni di un sionismo estremo sostenute da Max Brod, rese pubbliche, in una serie di scritti molto discussi nel 1918, sulla rivista viennese «Der Friede», luogo di un acceso di battito fra le due anime dell’ebraismo viennese, lo spirito nazionalista e quello cosmopolita. Il recupero delle proprie origini precedentemente negate si configura come percorso di superamento della scissura fra io e mondo nella poesia di Simon Kronberg2, mentre altrove la riconquista della propria identità passa attraverso il superamento della dimenzione nazionalista, come nella prospettiva panasiatica di Eugen Hoeflich3. La misteriosa e, in fondo, inafferrabile specificità della cultura viennese di fine secolo, così densa di contrasti e contraddizioni, credo possa venir ricondotta ad un singolare fenomeno di intima commistione della componente culturale ebraica con quella più specificamente viennese. Così Hans Tietze, grande storico dell’arte e intellettuale della Vienna ai 1 Cfr R. FUCHS, Der Meteor. Gedichte, Heidelberg 1913; Karawane, Leipzig 1919; Die Prager Aposteluhr. Gedichte. Prosa. Briefe, a cura di I. Seehase, Halle-Leipzig 1985. 2 S. KRONBERG, Werke, a cura di A.A. Wallas, München 1993. 3 E. HOEFLICH (Moshe Ya’akov Ben-Gavriêl), Der rote Mond, Leipzig-Wien-Zürich 1920; Feuer im Osten, Leipzig-Wien-Zürich 1920. Si vedano in merito a questo scrittore gli importanti contributi di A.A. WALLAS, Der Pförtner des Ostens. Eugen Hoeflich-Panasiat und Expressionist, in Von Franzos zu Canetti. Jüdische Autoren aus Österreich. Neue Studien, a cura di M.H. Gelber et alii, Tübingen 1996, 305-344; ID., Mythos Osten. Die Suche nach den orientalischen Grundlagen jüdischer Identität zu Beginn des 20. Jahrhunderts, in Geschichtliche Mythen in den Literaturen und Kulturen Ostmittel- und Südosteuropas, a cura di E. Behring et alii, Stuttgart 1999, 117-137.
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primi del Novecento definisce tale fenomeno nel suo libro apparso nel 1933 Die Juden Wiens4 [Gli ebrei di Vienna]: «L’essenza ebraica e quella viennese sono confluite in una unità che si nutre di entrambe tali componenti: l’essere viennese che è per sua natura ebraico, e l’ebraismo che è viennese. Di questa straordinaria peculiarità, a cui hanno condotto secoli di vita in comune, molti autori ebrei hanno mostrato di avere una profonda consapevolezza, come dimostra il caso di Schnitzler, che ha tentato di proporre la soluzione viennese al problema della ricerca delle radici, nutrendo, come molti, toni viennesi. Ma la loro Vienna non nasce nel terreno austriaco, ma un po’ più in là, in una realtà europea. Sono troppo raffinati per odorare di terra, il loro suolo è semmai l’asfalto del centro di Vienna, con un bel pezzo di bosco viennese come giardinetto. E all’interno del proprio campo limitato, la loro propensione a trapanare e sezionare, la loro versatilità nell’adoperare l’apparentemente insignificante, ha rintracciato e portato alla luce realtà che sarebbero sfuggite a quanti avevano radici ben più solide. Come un tempo gli ebrei del ghetto […] hanno raccolto ricchezze da immondizie»5.
E più oltre, nello stesso scritto, Tietze osserva come la stessa mistica di Buber sia l’ultimo grande portato dell’ebraismo viennese, la cui singolarità consisterebbe, secondo lo stesso Tietze, nella dimensione multiculturale di una vicenda antichissima:
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H. TIETZE, Die Juden Wiens, Wien 1933 (rist. Wien 1987). Cit. in Wien, Stadt der Juden. Die Welt der Tante Jolesch, a cura di J. Riedl, Wien 2004, 17. [Jüdisches und wienerisches Wesen verfließt zu einer aus beiden Sphären gespeisten Einheit – Wienertum, das jüdisch, Judentum, das wienerisch ist. Für dieses Sonderbare, zu dem im Lauf hundertjährigen Zusammenlebens verdichtete Fäden führen, haben jene jüdische Autoren, die gleich Schnitzler die wienerische Lösung ihres Heimatproblems versucht haben, viel Verständnis gezeigt: die meisten haben eine wienerische Note angelegentlich gepflegt. Aber ihr Wien wächst nicht aus dem Österreichischen, sondern liegt unmittelbar im Europäischen. Sie sind zu verfeinert, um nach Erde zu riechen, ihr Boden ist vielmehr der Asphalt der Inneren Stadt mit einem zugehörigen Stück wohl gehegten Wienerwalds als Liebesgarten; aber innerhalb ihres eingeschränkten Feldes hat ihre Fähigkeit zu bohren und zu zergliedern, ihre Gabe, das Unauffällige zu verwerten, manches gefunden und zutage gefördert, was den Bodenständigeren entgangen war. Wie einst die Ghettojuden […] haben sie aus Abfällen Reichtümer gesammelt.]. 5
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Grazia Pulvirenti «Questa peculiarità consiste nel fatto che [tale cultura] da tempo sarebbe tramontata se l’Oriente non l’avesse trattenuta e che si sarebbe ripiegata su se stessa, se l’Occidente non l’avesse fecondata. È partecipe di tutte le problematiche della cultura viennese, con la cui linfa vitale la sua da tempo si mescola. L’ebraismo viennese, presente dai tempi più antichi dell’esistenza della città, nell’ultimo secolo cresciuto quanto a dimensioni e influenza all’interno della vita della città, è una parte integrale di Vienna»6.
La cultura ebraica di Vienna si caratterizza, grosso modo, nell’antitesi fra sionismo e assimilazione, rappresentate in maniera assai perspicua da Schnitzler in Verso la libertà (Der Weg ins Freie) secondo una strategia che Giuseppe Farese acutamente descrive come «tecnica della contrapposizione dialettica di entità caratterologiche antitetiche»7 a cui le comunità presenti nei paesi orientali erano andate incontro, fra innumerevoli crisi e conflitti ideologici ed esistenziali, provocate dall’abbandono dell’ortodossia antica. La percezione della diversità della minoranza svolge una duplice funzione: da una parte essa consente di elaborare nuovi modelli culturali, in un processo di recupero delle proprie più antiche tradizioni, dall’altra permette, attraverso la sua carica ironica di deformazione grottesca, di destrutturare sin nei suoi cardini l’architettura della cultura occidentale, vissuta come altra, e quindi estranea e demistificabile, nella prospettiva di questa doppia alterità, che è quella del rapporto ebreo-austriaco. Ancora ai nostri giorni la prospettiva della doppia alterità credo sia determinante per la comprensione delle dinamiche in atto nel rapporto fra le due etnie. Robert Schindler, che si autodefinisce «per l’anagrafe un austriaco, altrimenti un ebreo di Vienna» scrive: «Io sono l’altro degli altri»8. 6 Ibid., 17-18. [Diese Besonderheit ist, daß es längst untergangen wäre, wenn es der Osten nicht gehalten, daß es längst verkümmert wäre, wenn es der Westen nicht befruchtet hätte; es hat teil an aller Problematik des Judentums überhaupt; aber es hat auch teil an allen Problematiken des Wienerischen, mit dessen Saft sich der seine seit so langen Zeiten vermischt. Wiener Judentum, das von den ältesten Zeiten der Stadt in irgend einem Maß da war und seit hundert Jahren an Menge und Einfluß zu einem beträchtlichen Faktor in ihrem Dasein wuchs, ist ein Stück von Wien.]. 7 G. FARESE, Individuo e società nel romanzo «Der Weg ins Freie» di Arthur Schnitzler, Roma 1969, 61. 8 R. SCHINDEL, Gebirtigs Bitterkeit, in «Die Welt», 2. 4. 1992, cit. in Mosaici. Nuove configurazioni dell’identità ebraica in Germania, in Dopo la Shoah. Nuove identità ebraiche nella letteratura, a cura di R. Calabrese, Pisa 2005, 15-34: 17.
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Di questa doppia alterità l’opera di Franz Kafka è uno degli esempi più eloquenti. È anche un caso paradigmatico dell’affermarsi di una peculiarissima forma di scrittura, e cioè il grottesco quale surrealistica raffigurazione della realtà attraverso modalità di rappresentazione mimetica, ma dagli esiti fortemente visionari. Le figure kafkiane sono fisicamente vive, dotate di un corpo reale, che si impone e sconvolge per la propria rilevanza fisica, eppure sono grottesche caricature di quella realtà imperscrutabile che è il mondo. Il mondo è descritto nei termini di un lucido e minuto realismo, ma al tempo stesso si staglia come la parodistica rappresentazione di se stesso. Le azioni culminano nei momenti di climax in pantomime grottesche, come, per citare un solo esempio, l’esecuzione capitale nel Prozess. La scrittura di Kafka crea architetture e figure metafisiche che lasciano affiorare, ma ormai sfocate ed evanescenti, immagini e motivi la cui origine affonda nel terreno fertilissimo delle proprie origini ebraiche. Un singolare processo di metamorfosi delle proprie origini, che appaiono invece con tutti gli odori e sapori del ghetto, accade nella scrittura di un altro interessantissimo «ebreo di Vienna», Albert Ehrenstein (1886-1950). In lui assistiamo a quella straordinaria sintesi di spirito ebraico e viennese, quella sintesi che non si configura come trasfigurazione di un elemento nell’altro, o come sommatoria, ma come potenziamento di tali componenti in una nuova dimensione: la dimensione ebraica e quella viennese si assolutizzano e trasfigurano nella realizzazione paradossale di una grottesca caricatura del dramma metafisico dell’uomo moderno. La pena di cui è interprete l’animo ebraico di Ehrenstein, attribuibile all’esperienza della diaspora e del ghetto — l’estraneità al mondo che lo circonda, la solitudine, l’erranza, l’isolamento, lo sradicamento — confluisce nella tragedia vissuta dalla cultura viennese, pervasa dal sentimento dell’alienazione (si pensi solo a certe poesie di Georg Trakl), del crollo di un mondo intero, come lo hanno rappresentato sotto forme e con valenze diverse Freud o Schnitzler, o, con altri toni, Kraus, e dal collasso del principio di individualità, nella scissura fra io e mondo tematizzata da Musil e Hofmannsthal: «Pensare alla Vienna distrutta: le mura in rovina, il corpo più intimo della città denudato, le ferite ricoperte da grovigli inestricabili di erbacce, su tutto le chiome degli alberi di un verde chiaro, silenzio, acqua appena smossa, ogni forma di vita morta; che vista straordinaria in lontananza e in
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Grazia Pulvirenti profondità! Essere guardiano delle colonne di Traiano davanti alla Chiesa di San Carlo, ancora intatta, e con i pensieri, che qui nessuno più comprende, vagare fra le rovine. [13 maggio 1894]»9.
In Albert Ehrenstein, la percezione della fine, presente nelle raccolte poetiche giovanili10, diviene come ha evidenziato un autore contemporaneo, ebreo di Praga, Ernst Weiß nel 1922 profetica intuizione della catastrofe dei tempi: «L’erede di un popolo non più eroico che si estingue dietro la tomba del proprio splendore, sente la putredine incipiente, lo stato di morte ormai avanzata del mondo austriaco, del mondo imperial-regio, del mondo viennese»11.
Ciò si traduce nella rappresentazione dell’uomo alla fine dei tempi, dell’uomo senza tempo, senza futuro, per il quale la memoria del passato si cancella nella percezione di una immobilità metafisica sospesa sulla soglia del nulla. La coincidenza di una doppia ottica, quella dell’ebreo errante e quella dello sradicato viennese confluiscono, passando attraverso il filtro dello spirito anarchico-rivoluzionario e del rifiuto del sionismo, nel progetto cosmopolita antinazionalistico di una Europa dei popoli. La rinuncia alla stanzialità, il destino storico della diaspora vengono trasformati nella prefigurazione di una dimensione esistenziale supernazionale da percorrere e raggiungere attraverso l’azione rivoluzionaria, nella lotta per la giustizia 9 H. VON HOFMANNSTHAL, Aufzeichnungen aus dem Nachlaß, in ID., Gesammelte Werke in zehn Einzelbänden, a cura di B. Schoeller con la consulenza di R. Hirsch, Frankfurt am Main 1979-80, 311-595: 383. [Das zerstörte Wien zu denken: alle Mauern verfallen, der innere Leib der Stadt bloßgelegt, die Wunden mit unendlichem Schlingkraut übersponnen, überall lichtgrüne Baumwipfel, Stille, plätscherndes Wasser, alles Leben tot; welch wundervolle Fern — und Durchsichten! Und Wächter zu sein in einem der Trajanstürme vor der Karlskirche, der noch aufrecht steht und mit Gedanken, die hier keiner mehr versteht, zwischen den Ruinen herumgehen. 13. Mai 1894]. 10 Cfr Die Weiße Zeit, München 1914; Der Mensch schreit, Leipzig 1916; Die rote Zeit, Berlin 1917. 11 E. WEIß, Albert Ehrenstein, in Juden in der deutschen Literatur. Essays über zeitgenössische Schriftsteller, a cura di G. Krojanker, Berlin 1922, 63-70: 63.
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sociale e la democrazia. La componente ebraica rappresenta all’interno dell’Europa una sorta di «esplosivo detonante»12. Essa è essenziale al costituirsi di una entità sopranazionale, mentre perirebbe se si realizzassero le condizioni per la creazione di quello che egli definisce un «parco nazionale giudaico»13. Dal destino della diaspora, l’europeo del primo tragico dopoguerra dovrebbe apprendere l’unico modello di vita proponibile nel futuro, un modello di utopica erranza nel segno della libertà e del diritto alla coesistenza supernazionale dei popoli. Il battesimo poetico di Albert Ehrenstein risale al 18 febbraio 1910, data di pubblicazione del numero 296/297 della «Fackel» di Karl Kraus, in cui apparve la prima lirica di quel ragazzo che, destinato dai genitori, appartenenti al proletariato del distretto operaio di Ottakring, al mestiere di dentista, pubblicò, ventitreenne, la sua prima poesia, di evidente memoria goethiana Wanderers Lied. Meine Freunde sind schwank wie Rohr, auf ihren Lippen sitzt ihr Herz, Keuschheit kennen sie nicht; tanzen möchte ich auf ihren Häuptern. Mädchen, das ich liebe, Seele der Seelen du, auserwählte, lichtgeschaffene, nie sahst du mich an, dein Schoß war nicht bereit, zu Asche brannte mein Herz. Ich kenne die Zähne der Hunde, in der Wind-ins-Gesicht-Gasse wohne ich. Ein Sieb-Dach ist über meinem Haupte, Schimmel freut sich an den Wänden, gute Ritzen sind für den Regen da.
12 13
A. EHRENSTEIN, Zionismus, in ID., Menschen und Affen, Berlin 1926, 44-51: 47. Ibid., 46.
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Grazia Pulvirenti «Töte dich!» spricht mein Messer zu mir. Im Kote liege ich; hoch über mir, in Karossen befahren meine Feinde den Mondregenbogen14.
Nelle strofe della lirica si tramuta la valenza della figura del viandante così come essa viveva nell’immaginario letterario: non più immagine della conoscenza e della mistica unione con la natura, ma interprete dell’isolamento e della negazione di senso, della rinuncia e del fallimento. La constatazione del male s’intreccia all’istanza autodistruttiva e alla deriva esistenziale intesa come destino ineluttabile. Appare in questa lirica la figura di Ahasver, quell’ebreo errante della modernità, che mescola la propria all’altrui sofferenza, isolato però in una dimensione di autoesclusione dalla vita e dal consorzio umano. Al disegno di quest’animo si dedica l’autore in un racconto del 1907 lungo 51 pagine nell’edizione apparsa per i tipi di Jahoda & Siegel nel 1911, corredata da 12 incisioni di Oskar Kokoschka. Karl Tubutsch è l’antieroe, il protagonista in negativo di un moderna epopea metropolitana senza nostos. Il racconto, che demistifica le stesse funzioni narrative, facendole deflagrare dal loro interno, è la radiografia di un animo e al tempo stesso dell’uomo tout court del XX secolo. La sua genesi vede intrecciarsi componenti autobiografiche (pensiamo alla evidenziazione di tale aspetto mediante quel disegno di Kokoschka che è un ritratto di Ehrenstein con penna in mano e uno scheletrino a ornamento), quella singolare mistura scaturente dalla confluenza dello sradicamento dell’ebreo, che identifica la propria identità-non identità nella figura di un eterno Ahasver senza patria, l’immagine dell’apolide mitteleuropeo che avverte su di sé il crollo del mondo dei padri, dell’universo ben ordinato del secolo passato. La disillusa ironia di Tubutsch consente una presa d’atto della 14 A. EHRENSTEIN, Gedichte und Prosa, a cura di K. Otten, Neuwied am Rhein-BerlinSpandau 1961, 57. [I miei amici sono come canne al vento, / sulle labbra hanno il cuore, / non conoscono pudore, / vorrei ballare sulle loro teste. // Fanciulla amata, / anima delle anime, tu, / o prescelta, creatura di luce, / mai mi hai rivolto lo sguardo / il tuo grembo non mi ha mai accolto, / il mio cuore era cenere. // Conosco le zanne dei lupi, / abito nel vicolo del vento nel volto, / un colabrodo sul mio capo, / putredine sulle mura / crepe per la pioggia. // «Ucciditi!» mi dice il coltello, / giaccio nel fango / in alto su di me percorrono in carrozza / i miei nemici l’arcobaleno lunare.].
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disperata condizione dell’uomo novecentesco, una sua spietata radiografia che conduce alla visione di un mondo ormai alla fine. La conquista della consapevolezza della vacuità di ogni ideale e di ogni sogno consolatorio appare come l’unica forma di salvezza nel naufragio di quel mondo. E questa salvezza è data solo a chi è in grado di procedere incessante nella più spietata e disincantata analisi del proprio mondo e del proprio io. «Il mio nome è Tubutsch, Karl Tubutsch. Ne faccio cenno sol perché, al di là del mio nome, possiedo poche cose […] Non è affatto la malinconia, o quella certa amarezza dell’autunno, non il compimento di una grande impresa, né la spossatezza di chi esausto si risveglia da una grave malattia, no, non so proprio come io sia precipitato in questo stato. In me, intorno a me, solo il vuoto, la desolazione, sono svuotato e non so da cosa»15.
Ecco che l’esperienza della privazione diviene presupposto per un viaggio nel proprio io che si articola mediante le tappe dell’erranza nella metropoli austriaca, che assume i tratti di un grottesco assurdo esistenziale di sapore kafkiano: «Solo vagabondo per le vie della grande città. Nessuno presta attenzione a me. Al massimo, di tanto in tanto, dal tettuccio di una vettura di servizio, un cane impaurito, si rivolge a me abbaiando. E spesso mi prende la voglia di rispondergli abbaiando»16.
I “vagabondaggi” [Streifgängen, p. 38] di questo flanêur del grottesco capovolgono le osservazioni dei dettagli più banali del quotidiano in indizi di un qualche mistero cosmico insolubile [Welträtsel sind schwer zu lösen, 15 A. EHRENSTEIN, Tubutsch, in Werke, a cura di H. Mittelmann, München, Boer, 1991, 36-58: 36. [Mein Name ist Tubutsch, Karl Tubutsch. Ich erwähne das nur deswegen, weil ich außer meinem Namen nur wenige Dinge besitze […] Es ist nicht die Melancholie und Bitterkeit des Herbstes, nicht die Vollendung einer größeren Arbeit, nicht die Benommenheit des aus langer, schwerer Krankheit dumpf Erwachenden, ich verstehe überhaupt nicht, wie ich in diesen Zustand versunken bin. Um mich, in mir herrscht die Leere, die Öde, ich bin ausgehölt und weiß nicht wovon.]. 16 Ibid., 40-41. [Allein irre ich in der großen Stadt umher. Niemand schenkt mir Beachtung. Höchstens hie und da ein auf dem Dache eines vorbeifahrenden Geschäftswagens ängstlich herumlaufenden Pintscher, der bellt mich an. Ich hätte oft Lust zurückzubellen.].
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p. 38]: il singolare profumo di rosa emanato da un poliziotto, lo strano comportamento di una ortolana che tollera la presenza di un passero avido dei suoi piselli, l’insegna con due leoni di un calzolaio adatta a un oste piuttosto che di un serio artigiano, etc… In una operazione di rigoroso capovolgimento di senso il banale viene a coincidere con il mistero cosmico, nullificandolo in una prospettiva di vuoto esistenziale in cui neanche la morte si carica di valenze metafisiche o comunque liberatorie: «Non immagino la morte come il cavaliere nero; si avvicina nei panni del maestro, oppure come un clown, esce la lingua e questa cresce, cresce all’infinito e mi trafigge […] vedo la morte come un controllore che oblitera il mio biglietto, ma questo gli sembra già usato e mi vuol far scendere senza attendere la fermata successiva, con parole che non nascondono un accento ceco […] la vedo nei panni di un ragazzaccio che crocifigge pipistrelli, di uno studente che spegne i lampioni, di un ministro che scioglie il parlamento, e, di recente, di un conducente: “All’autista è vietato parlare con i passeggeri”. La rispondenza è sorprendente»17.
Queste brevissime sequenze denotano, nella loro apparente illogicità, nella trama di pensieri assurdi e bizzarre associazioni mentali e di situazioni irreali, spesso di una amara comicità, l’inconsistenza del reale, dietro la cui apparente normalità e abitudine si cela la negatività dell’essere, l’assurdo, il paradosso. L’acutissima ironia di Ehrenstein serve da una parte e rendere paradossali le cose, le azioni più normali — adoperare una penna stilografica, scoprire due mosche morte in un calamaio, passeggiare — dall’altra a presentare come normali e inconfutabilmente logiche le circostanze e i ragionamenti più paradossali — disquisire sulla ragione per cui un poliziotto emani profumo di rose, appassionarsi alla battaglia fra due galli per il 17 Ibid., 58. [Ich sehe ihn [den Tod] nicht als schwarzen Ritter, er kommt als nahender Meister oder ein Clown tritt auf, steckt die Zunge heraus, sie wächst ins Unendliche und durchsticht mich… ich sehe ihn als Kondukteur, der meinen Fahrschein einzwickt, für ausgenützt erklärt, nicht warten will bis zur nächsten Haltestelle, mich zum Aussteigen drängt… mit eines tschechischen Akzentes nicht entbehrenden Worten… ich sehe ihn als rohen Jungen, Fledermäuse annagelnd, als Laternen auslöschenden Studenten, Reichstag auflösenden Minister und jüngst sah ich ihn gar als Motorführer. «Dem Wagenführer ist es verboten, mit den Fahrgästen zu sprechen.» Die Übereinstimmung ist auffallend…].
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dominio di un letamaio, discutere con il proprio tirastivali, la cui anima trasmigrerà per certo in America, etc. L’“irrealismo” della narrazione, nutrita di perspicui dettagli realisticamente presentati, finisce per annullare i confini fra la dimensione di senso creata dall’uomo con i valori attribuiti arbitrariamente alle cose, e l’insensatezza, l’inanità dell’esistenza che si consuma attimo dopo attimo. Il racconto si articola in 45 sequenze, fra le quali predominano quelle a carattere riflessivo, a cui si alternano delle analessi, con episodi della vita di Tubutsch (del tutto privi di un particolare interesse), e delle narrazioni metadiegetiche, a volte tematicamente connesse alla sequenza precedente, a volte del tutto irrelate. La mancanza di rapporti tematici o di una contiguità logica fra le varie sequenze, determina uno scardinamento della struttura narrativa, cui contribuisce la negazione del tempo, tanto della «erzählte Zeit», quanto della «Erzählzeit», creando un senso di ciclicità che è ritorno dell’uguale, fino alla constatazione, senza via d’uscita, «invano vivo per secoli». Nella percezione di tale inanità che tutto avvolge, si consuma la negazione di ogni senso alto, di ogni istanza soggettiva, del personaggio stesso, infine del narratore e della narrazione, che riflette nel suo aspetto formale il processo di dissoluzione del soggetto. Una peculiarità della scrittura di Ehrenstein e della deformazione grottesca è la distruzione dell’atto della scrittura tramite la scrittura stessa: l’istanza narrativa del tu, e cioè del destinatario, viene abolita a priori. Ci troviamo di fronte a un racconto in prima persona che non presuppone quale strategia comunicativa alcun destinatario del messaggio, ma la cui narrazione si muove nei binari di una «comunicazione io-io» o di «autocomunicazione» per adoperare una categoria introdotta da Lotmann, e da lui così esposta: «[il narratore] trasmettendo a se stesso … riorienta interiormente la propria essenza, giacché l’essenza della personalità può venir trattata come un assortimento individuale di codici socialmente significativi»18. Scrivere è solo il tentativo di riempire il vuoto abissale della propria esistenza:
18 J. LOTMANN, I due modelli della comunicazione nel sistema della cultura, in J. LOTMAN – B.A. USPENSKIJ, Tipologia della cultura, Milano 1975, 114.
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Grazia Pulvirenti «E se anche fossi poeta, cosa saresti se non un imitatore di voci animali? E se anche fossi un abile maestro della parola, uno che ha trovato tutte le parole possibili, piene come l’urlo di un toro: sei solo un mendicante e fai risuonare, imitandola, la voce del principe dei cavalli, e quella di una farfalla che vola verso la luce, liberata dalla sua nera crisalide, se non addirittura quella di un altro poeta […] fai risuonare tutte le voci, o imitatore di voci animali, per assordare il tuo vuoto, la mancanza di una tua propria voce»19.
E forse, Ehrenstein, in paradossale opposizione al dettato della sua scrittura, dà prova di una propria voce, autentica e inconfondibile, la voce della demistificante ironia, un’ironia del disincanto, che dalla risata sull’assurdo dell’esistenza fa levare una nuova consapevolezza e accende il desiderio della liberazione della farfalla dalla sua nera crisalide, che vola in alto, verso la luce.
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Ibid., 55-56. [Und bist du ein Meister des Wortes, der Worte fand voll wie das Brüllen des Stieres: ein Bettler bist du und läßt nachahmend aus dir erschallen die Stimme des über Pferde herrschenden Fürsten, und jene des aus einer schwarzen Puppe sich aufwärts, lichtwärts schwingenden Schmetterlings, wenn es nicht gar die Stimme eines anderen Dichters ist — alle Stimmen lässt du aus dir erschellen, o Tierstimmenimitator, um die eigene Leere zu übertönen, deinen Mangel an einer eigenen Stimme…].
SCRITTURA E TEOLOGIA. IL “CASO KAFKA” NEL CONFRONTO SCHOLEM-BENJAMIN (1933-1938)
BARNABA MAJ*
1. PRELIMINARI Dieci anni dopo la morte di Kafka, in Germania è già in atto la “nazificazione”. Nel 1934, Benjamin gli dedica il suo celebre saggio, della cui gestazione e motivi discute in un fitto scambio con l’amico Scholem, che da tempo è emigrato in Palestina: von Berlin nach Jerusalem. La “patria” di Benjamin, che pure viaggia molto, è invece diventata Parigi. Tra i due, chi ha più affinità con Kafka sembrerebbe Benjamin. È un ebreo occidentale, nato nella metropoli tedesca nel 1892, nove anni dopo Kafka. A differenza di Kafka, non imparerà mai l’ebraico. Arendt racconta che nel dopoguerra, a sapere chi fosse Benjamin non erano più di cinque persone. Sia Kafka che Benjamin sono due autori “postumi”. La discussione tra Scholem e Benjamin su Kafka inizia nel 1933 e finisce nel 1939. È un documento storico e una fonte cruciale per la questione dell’interpretazione teologica dell’opera di Kafka. Il volume del loro carteggio curato da Scholem rappresenta un anticipo del piano di pubblicazione ora in atto dell’edizione generale dei Briefe di Benjamin. In Italia, è apparso con il titolo Teologia e utopia. Come vedremo, nella prefazione Scholem stesso si rammarica che il testo di una sua lettera, in cui parlava diffusamente di Kafka, è sfortunatamente andato perduto. * Docente di Filosofia della storia presso la Facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Università degli Studi di Bologna e di Teorie della conoscenza storica presso la Facoltà di Lettere e filosofia – Biennio specialistico “Storia d’Europa” dell’Università degli Studi di Bologna.
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Barnaba Maj
Il primo accenno a Kafka è in una lettera scritta da Benjamin a Scholem, datata Berlino 28 febbraio 1933, interessante anche come documento storico. Vi si accenna alla caduta immediata di qualsiasi fermezza nella risposta al nazismo da parte dello stesso ambiente da lui frequentato, all’aria già irrespirabile, alla situazione di radio e giornali, agli scritti del periodo. Nella chiusa, Benjamin sottolinea che è importante dare il colpo di grazia a coloro che intendono introdurre la teologia protestante all’interno dell’ebraismo: «Ma ciò significa ancora poco, a confronto con le determinazioni della rivelazione che hai enucleato tu, e che tengo in grande onore. “Dopo tutto l’assolutamente concreto è ciò che non può mai essere compiuto” — queste parole (a prescindere dalla prospettiva teologica) dicono, a proposito di Kafka, più di quanto questo Schoeps sarà in grado di capire fino alla fine dei suoi giorni. Max Brod lo può capire altrettanto poco, e ho trovato qui una delle tesi che forse stanno più precocemente e più profondamente alla base delle tue riflessioni».
Di Schoeps e dei tentativi teologici di “protestantizzazione” dell’ebraismo, Scholem aveva parlato in un saggio apparso sul (Bayerisches) Israelitisches Gemeindeblatt, da cui trae spunto la lettera. In effetti, Schoeps e Brod hanno poi curato insieme l’edizione di testi kafkiani e scritto un volume di dialogo su Kafka. Come spiega Scholem, le «determinazioni della rivelazione» di cui parla Benjamin sono quelle poi rifluite in Über einige Grundbegriffe des Judentums, a loro volta basate sulla ben posteriore Conferenza-Eranos del 1964. La citazione, peraltro assai “consonante” con lo spirito di Benjamin, dà indicazione sulla prospettiva della sua interpretazione kafkiana. L’intuizione è giusta. Lo spirito di Kafka è davvero «l’assolutamente concreto» e la consapevolezza che questo è proprio ciò che mai potrà essere compiuto. Nel poscritto a questa lettera, Benjamin scrive: non ho ancora scritto il mio saggio su Kafka, per due motivi, tra cui l’attesa dell’uscita del saggio su Kafka annunciato da Schoeps: «Mi aspetto che esso codifichi tutte le opinioni errate che nascono dall’interpretazione strettamente praghese di Kafka (c. m.), e tu sai che questi libri mi hanno sempre ispirato. Ma l’uscita del volume non è priva d’importanza
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anche per un secondo motivo. Poiché è ovvio che potrei lavorare a un saggio del genere solo se ne fossi incaricato. E tale incarico non può cadere dal cielo. A meno che tu non me lo offra in Palestina. In Germania una cosa del genere sarà ancora possibile soprattutto nella forma di una recensione di Schoeps. Ma non so se si possa contare sulla pubblicazione del libro».
Scholem attesta che il libro non uscì, mentre lui stesso procurò l’incarico del saggio kafkiano a Benjamin per la rivista Jüdische Rundschau di Berlino, organo ufficiale dei sionisti tedeschi. Il caporedattore era Robert Weltsch, originario di Praga, amico di Max Brod e dello stesso Kafka. Su Schoeps, Scholem si diffonde piuttosto lungamente, in una lettera inviata da Gerusalemme in data (circa) 20 marzo 1933. Qui accenna alla vicenda dell’arresto del fratello Werner, militante comunista, e all’atmosfera politica tedesca: un tema che appare naturalmente con ben altro rilievo nell’importante carteggio tra Gerusalemme e la mamma rimasta a Berlino. Conferma che, a suo avviso, Benjamin non può contare sulla pubblicazione del libro di Schoeps: «Il giovanotto — ti avevo anche scritto che a Berlino avevo fatto la sua conoscenza personale, che non mi auguro di approfondire, scoppia di vanità e del desiderio che si parli di lui — è troppo impegnato nell’impresa di farsi accettare a ogni costo dal fascismo tedesco, e sans phrase, perché possa trovare il tempo di occuparsi d’altro, nel prossimo futuro. Per il momento c’è un libro inimmaginabile che non è inutile leggere, un carteggio fra il suddetto Schoeps e la nostra vecchia conoscenza (Hans) Blüher, dove il primo si presenta come un conservatore prussiano di religione ebraica che cerca di affermarsi contro l’ideologia di un antisemitismo più colto; è uno spettacolo spregevole, e — se si accetta il livello immanente della discussione — la cosa edificante e giusta è che in questa discussione la logica migliore e il contegno più dignitoso siano ancora quelli dell’antisemita, nonostante tutta la sua miseria morale. Devo ammettere che non mi sarei aspettato che il curatore dell’opera postuma di Kafka desse questo spettacolo, sebbene sia un giovanotto ventitreenne che il defunto scrittore non è andato certo a cercarsi. Il libercolo s’intitola Streit um Israel [Lotta per Israele]».
La qualifica di «curatore» attribuita ad Hans Joachim Schoeps si deve al fatto già accennato che, insieme a Brod, nel 1931 aveva curato l’edizione di Beim Bau der chinesischen Mauer. Degna di menzione la circostanza che
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gli scritti con cui cercava «di farsi accettare a ogni costo dal fascismo tedesco» furono ripubblicati da Schoeps addirittura nel 1970 a Berlino: Bereit für Deutschland… 1930-1939. Hans Blüher, l’esponente dell’“antisemitismo più fine e colto”, aveva pubblicato nel 1922 la Secessio Judaica e nel 1930 la Erhebung Israels gegen die christlichen Güter. La risposta di Benjamin, inviata da San Antonio, Ibiza (Baleari) Fonda Miramar il 19 aprile 1933, è assai puntuale. Scrive che l’informazione sulla discussione Schoeps-Blüher gli è stata assai preziosa e di attendere perciò l’uscita del libro di Schoeps, «con un’impazienza raddoppiata. Poiché cosa potrebbe essere più congeniale all’angelo che veglia sulla parte distrutta delle opere di Kafka, che nascondere la loro chiave sotto un mucchio di letame? Non so se si possano attendere chiarimenti analoghi dall’ultimo saggio su Kafka. Si trova nel numero di aprile della “Nouvelle Revue Française”, ed è opera di Bernhard Groethuysen».
Evidentemente Benjamin si attende elementi importanti per la sua interpretazione proprio dal fronte cui attribuisce la più totale incomprensione di Kafka, alla «parte distrutta» della cui opera attribuisce grande rilievo. La complicità dell’angelo che veglia su questa parte non è un’immagine, Benjamin ne parla sul serio. Nuovi interessanti elementi appaiono nella lettera di Benjamin scritta da Paris VI, rue de Four, Palace Hôtel il 18 gennaio 1834. Vi si parla inizialmente con entusiasmo delle opere di Samuel Joseph Agnon. Un apprezzamento particolare è riservato a La grande sinagoga («un grosso capolavoro») e alla storia del custode della biblioteca: «Ogni testo di Agnon è esemplare, e se fossi diventato “maestro a Israele” (ma con la stessa facilità sarei potuto diventare un formicaleone) non avrei rinunciato a tenere un discorso su Agnon e Kafka».
Questo confronto risale in realtà a uno spunto di Scholem che, purtroppo senza precisare esattamente dove e quando, aveva scritto che nei testi di Agnon «si tratta della revisione del Processo» di Kafka. In quel periodo, Benjamin aveva subito un furto di libri e in questa lettera lamenta che se mai ne rientrasse in possesso vi mancherebbe proprio il Processo, che
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gli era stato rubato parecchio tempo prima. In questo stesso contesto, Benjamin accenna all’«altro libro indimenticabile — la prima edizione della Hauspostille di Brecht». Notoriamente, l’amicizia e l’apprezzamento benjaminiano nei confronti di Brecht suscitò le convergenti perplessità di Scholem e del gruppo francofortese (per il resto assai divergenti, anzi dal lato di Scholem si può parlare di rapporti “freddi”, anche se con una netta distinzione sul piano umano tra Adorno e Horkheimer). Ma, va ricordato, proprio contro Lukács l’antimanniano Brecht si schierò sempre dalla parte di Kafka — come vedremo, più tardi Scholem si accorgerà della simpatia brechtiana per Kafka. Benjamin accenna poi al fatto di avere incontrato Werner Kraft alla Bibliothèque Nationale, il quale poi gli ha scritto una lettera, e di avere cominciato a frequentarlo, sia pure con distacco. Cosa in lui rara, aggiunge: «Fui sorpreso di leggere alcuni suoi lavori a cui non posso negare né consenso né rispetto. Due di essi sono tentativi di commentare brevi scritti di Kafka, riservati, cauti e tutt’altro che sconsigliati. Senza alcun dubbio Kraft ha capito Kafka molto più di Max Brod».
I lavori cui si riferisce Benjamin sono i commenti Über Franz Kafkas «Elf Söhne» e Der neue Advokat, che Kraft ha poi ripubblicato nell’edizione del 1968 del suo Franz Kafka. Proseguendo, Benjamin accenna poi ad alcune vicende editoriali che lo condussero a un contatto con Brod e, indirettamente, con Willy Haas, da cui traspare la sua evidente antipatia personale e diffidenza verso Brod. Un brevissimo accenno di Benjamin nella lettera inviata dallo stesso luogo in data 3 marzo 1934 è di grande interesse. Sempre alla ricerca di qualche occasione di guadagno — un miracolo, dice lui stesso — accenna alla possibilità di tenere un ciclo di conferenze in un piccolo locale e con un gruppo di sottoscrittori francesi dal titolo l’Avantgarde allemande. L’intenzione di Benjamin era di parlare insieme di Kafka, Ernst Bloch e Brecht: un affascinante accostamento. Con la lettera di Scholem, inviata da Gerusalemme in data 19 aprile 1934, ci avviciniamo al contesto storico della pubblicazione del saggio kafkiano di Benjamin. Scholem dice di avere incontrato a Gerusalemme Robert Weltsch, citato redattore capo della Jüdische Rundschau e che la diffusione di questa rivista è intorno alle 40000 copie:
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Barnaba Maj «L’unico suggerimento concreto che ho potuto dargli è questo: chiedere a te e a nessun altro un articolo per il decimo anniversario della morte di Franz Kafka, che cade a giugno o a luglio, e che induce la “Jr” a occuparsi intensamente di K».
Weltsch assicurò che avrebbe scritto a Benjamin, appena rientrato a Berlino. Poi chiese se Benjamin era già «nella lista nera degli autori proibiti a priori»: Scholem rispose parzialmente, facendo riferimento a un saggio apparso sulla Frankfurter Zeitung con uno pseudonimo (Detlef Holz). Confermò che avrebbe pubblicato Benjamin, a meno che non avesse ricevuto un divieto esplicito e diretto, cosa che gli appariva improbabile a causa del suo «stile esoterico», o che Benjamin non collaborasse apertamente con riviste o giornali politici pubblicati da emigrati. Quanto al resto, non poteva che pubblicare Benjamin saltuariamente, poiché «neanche uno» dei suoi lettori lo avrebbe capito e, dunque, la pubblicazione di questi testi avrebbe interessato solo un esiguo numero di persone, davvero impegnate sul piano linguistico e intellettuale. Scholem lo lasciò dire. In una nota al passo, rievoca però una circostanza commovente: nel 1946, quando ebbe il compito di accertare le rimanenze di biblioteche ebraiche pubbliche e private in Germania per questioni di assegnazioni giuridiche, trovò «chiare prove dell’esistenza di questi lettori di Benjamin. Vidi ritagli della “Jüdische Rundschau” accuratamente conservati, che contenevano il saggio di W. B. su Kafka. Io stesso mi sono riservato una copia di questo scritto, in memoria, e lo possiedo ancora oggi».
La lettera conclude così: «È molto maggiore la difficoltà del tema, in caso di emergenza, poiché la “Rundschau” è obbligata “dalla censura” a trattare solo argomenti ebraici. Vorrei credere che un saggio veramente bello su Kafka in questa sede ti potrebbe essere molto utile. Ma non potrai evitare di fare riferimento all’ebraismo, con formulazioni chiare ed esplicite (c. m.)».
Nella lettera datata 6 maggio 1934, inviata da Paris XIV, 28, place Denfert-Rocherau Hôtel Floridor, Benjamin chiarisce a Scholem le ragioni
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della sua personale adesione al comunismo, uno degli argomenti più in discussione tra i due amici. Il punto qui rilevante è che si riconosce al comunismo la legittimità di assumere tutte le forme pratiche e fruttuose che vuole, tranne «quella non pratica e infruttuosa della professione di fede». Questa prassi scientifica lascia una libertà infinitamente maggiore di quanto immaginano i marxisti stessi. Il passo che segue va letto con attenzione: «Purtroppo in questo caso sembri approvare la loro mancanza d’immaginazione. Mi costringi a dire esplicitamente che quelle alternative che stanno evidentemente alla base della tua preoccupazione per me non possiedono neanche un’ombra di vita. Queste alternative possono essere di moda — non nego a un partito il diritto di proclamarle —, ma nulla può indurmi a riconoscerle. Se invece c’è qualcosa che caratterizza l’importanza che possiede per me l’opera di Brecht — a cui tu alludi, ma sulla quale non ti sei mai pronunciato, che io sappia — , ebbene, è proprio il fatto che non proponga una di quelle alternative di cui non m’importa nulla. E se è certo che l’opera di Kafka possiede per me un’importanza non minore, ciò è dovuto non da ultimo al fatto che egli non sposi nessuna delle posizioni che il comunismo giustamente combatte».
La lettera prosegue con l’espressione del gradimento per l’eventuale incarico di scrivere su Kafka da parte della «Jr». Weltsch tuttavia non si è ancora fatto vivo. In ogni caso, «Se dovessi trattare esplicitamente della sua posizione in seno all’ebraismo, mi sarebbero certamente indispensabili indicazioni da altra fonte. Qui non posso incoraggiare la mia ignoranza a improvvisare».
Il passo precedente era preceduto da un richiamo a un bellissimo scritto di Kraus, apparso su Die Fackel n. 554, novembre 1920, 6-12, in replica allo scritto Antwort an Rosa Luxemburg von einer Unsentimentalen, una sorta di perorazione del comunismo come «male minore». L’idea della libertà della prassi scientifica, liberata dagli standard e dalla routine attuali, è decisiva. Nella rivendicazione di questa libertà è il nucleo del comunismo di Benjamin, anche contro i marxisti. È qui un punto di contatto con il comunismo di Brecht (influenzato da Karl Korsch), che è appunto caratterizzato da un senso di libertà della prassi artistica e di studio, ignota alla
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(raffinata) ortodossia lukácsiana. Ma è anche interessante che, con un dettaglio nuovo, torni l’accostamento a Kafka. È difficile dare una definizione categorialmente precisa dell’atteggiamento e della posizione politica di Kafka. Il messianismo politico gli è estraneo, come il messianismo “forte” tout court. Un suo testo esplicitamente politico non esiste. Tuttavia è ingenuo pensare a Kafka come a uno scrittore con una debole coscienza storica. Se Anders è caduto in questo errore, lo stesso Benjamin non è ne del tutto esente, come vedremo. Il passo prima citato, tratto da Josefine, die Sängerin, contiene una chiara illusione ironica alla trascuratezza per gli studi storici, a quegli storici che di fronte ai sacrifici e alle vittime della storia (ebraica) sono paralizzati dall’orrore (e terrore). Nei Diari troviamo improvvisamente passi ove si ricostruisce la “battaglia sul Tagliamento” sul fronte italiano e altri riferimenti alla Grande Guerra. Nel 1914, le manifestazioni nazionalistiche per l’ingresso in guerra sul Graben sono viste con raccapriccio. A fine giugno 1922 risalgono osservazioni importanti, che prendono spunto dall’assassinio di Walter Rathenau, evento considerato nell’ordine così naturale della cose che a Praga la notizia (falsa) della sua morte si era diffusa già due mesi prima. La stessa maturazione interna delle sue posizioni, che ha particolare riscontro in Das Schloß, parla di una propensione verso la costituzione della comunità — del gruppo —, che tuttavia non sacrifichi la libertà individuale. Comunque, qui con la sua caratterizzazione “negativa” o per esclusione, Benjamin ha ragione nell’osservare che Kafka non sta mai in una di quelle posizioni che, con riferimento alle condizioni di esistenza e di produzione — questo è anche il periodo in cui Benjamin scrive Der Autor als Produzent — vengono combattute dal comunismo. Nove giorni dopo, dallo stesso indirizzo, in data 15 maggio 1934, Benjamin scrive a Scholem poche righe in gran fretta per annunciare l’arrivo dell’atteso invito di Weltsch. In una lettera a Weltsch — pubblicata in Briefe II, 607-608 —, Benjamin gli fece presente per lealtà che la sua interpretazione di Kafka divergeva da quella di Brod. Chiede l’aiuto di Sholem per il reperimento materiale di testi di Kafka che gli mancano. Chiarisce da dove si attende l’aiuto per potere sviluppare il problema della posizione di Kafka entro l’ebraismo: «Ma d’altro lato — come credo di avere già accennato nell’ultima lettera — le idee particolari che hai sviluppato intorno a Kafka, e che concernono
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gli elementi ebraici della sua opera, sarebbero per me di un’importanza estrema — per non dire quasi indispensabili. Potresti dirmi qualcosa in merito?».
Diciassette giorni dopo, stesso indirizzo, data del 2 giugno 1934, Benjamin “raffredda” la sua richiesta, per non procurare imbarazzo all’amico: «Naturalmente le tue osservazioni relative a Kafka avrebbero per me un valore immenso. Ma d’altro lato voglio comunicarti che il mio lavoro virtualmente è quasi concluso. In effetti devo ringraziarti per l’occasione che mi hai offerto di scriverlo. Non a caso me l’ero proposto da anni. Quello che è un vantaggio per la cosa stessa è peraltro uno svantaggio per l’occasione. Infatti il saggio promette di diventare molto ampio, cosicché è assolutamente improbabile che la “Jüdische Rundschau” l’accetti in blocco. Ma spero — non senza un lieve senso di disperazione — di riuscire a mettere insieme una redazione che comprenda un terzo circa della sua vera estensione».
Nell’Apparato relativo alle opere complete di Benjamin (GS II, 11901270), Hermann Schweppenhäuser ha pubblicato una larga parte di questo materiale, costituito da un vasto complesso di appunti. Nel finale della lettera, Benjamin accenna anche alla notizia datagli da Weltsch: la Schocken Bücherei propone un’edizione completa delle opere di Kafka. Questa edizione, il cui primo volume è in realtà del 1934, uscì in 6 volumi tra il 1935 e il 1937.
2. IL “NULLA DELLA RIVELAZIONE” Tre lettere consecutive di Benjamin restarono senza risposta. A questo piccolo blocco, quindi, Scholem risponde in data 20 giugno 1934. Espressa la sua gioia per l’imminente pubblicazione del saggio, aggiunge subito: «non vedo nessuna possibilità di esprimermi io stesso in merito nel corso di queste settimane. Sicuramente tu puoi seguire nel modo migliore la tua linea senza i pregiudizi mistici i quali soltanto sono in grado di spargere, e inoltre
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Barnaba Maj puoi essere certo che il tuo lavoro avrà una grande risonanza tra i lettori della “Rundschau”».
L’ottimismo di Scholem si spinge a prevedere che non ci sarà ostacolo nel pubblicare la versione completa del suo saggio a puntate. Come aveva annunciato in precedenza, nel luglio del 1934 Benjamin si trova in Danimarca, ospite di Brecht. Da qui — Skovbostrand per Svedenborg, Danimarca presso signora Raahange — il 9 luglio 1934 torna all’attacco: «non temo di ripeterti la preghiera di comunicarmi qualcosa intorno alle tue riflessioni su Kafka, nonostante il tuo ultimo rifiuto. Questa preghiera è tanto più fondata, in quanto ora hai di fronte a te le mie considerazioni su questo argomento. Anche se sono state esposte nei loro tratti fondamentali, dopo essere arrivato in Danimarca ho continuato a occuparmene, e se non m’inganno questo lavoro resterà attuale ancora per un certo tempo. Tale lavoro è stato suggerito indirettamente da te; non vedo un altro argomento per la nostra comunicazione che sia più naturale di questa. E non mi pare che tu possa respingere la mia preghiera».
A questo proposito, Scholem fa importanti precisazioni. Alcune di queste riflessioni, scrive, le avevo già esposte nella mia lettera a Benjamin dell’1 agosto 1931, che egli conservava a Parigi tra le sua “carte kafkiane”, ma che doveva essergli uscita di mente. Il testo di questa lettera è stato riprodotto in Walter Benjamin. Geschichte einer Freundschaft (212-213). Come sappiamo dai suoi Appunti su Kafka (GS II, 1190), già nel 1928 Benjamin aveva deciso di «dedicare a Gerhard Scholem» il lavoro progettato su Kafka. A questo punto, Scholem aggiunge che all’ultima preghiera di Benjamin «risposi con la poesia unita alla lettera n. 57, e allora inedita, che avevo scritto all’inizio del 1933». Abbiamo dunque il testo di una poesia scritta nel 1933 e che Scholem riprodusse nella lettera di risposta all’ultima lettera citata di Benjamin (la n. 56, nell’ordine del carteggio), risalente al 1012 luglio 1934. Si tratta appunto della lettera non più ritrovata, di cui Scholem è stato in grado di riprodurre solo l’ultima parte. Manca il primo foglio, andato perduto o (si spera) non ancora ritrovato nell’Archivio
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Benjamin dell’Accademia delle arti della ex-Berlino Est. La lettera accusava ricevuta del manoscritto del saggio kafkiano ed esprimeva una prima reazione al riguardo. In ogni caso, nello scambio tra Scholem e Benjamin, la poesia di Scholem riprodotta in calce all’ultima parte della lettera, diventa un testo di riferimento. La lettera inizia con un importante rilievo critico: «per me molto problematico, problematico in quegli ultimi punti che qui sono decisivi. Vorrei dire che è chiaro per il 98%, però manca la sigla, e te ne sei accorto tu stesso, poiché hai abbandonato quel livello con l’interpretazione della vergogna (dove hai colto perfettamente nel segno) e con quella della legge (dove ti sei messo nei pasticci!). L’esistenza della legge segreta manda all’aria la tua interpretazione: essa non potrebbe esistere, in un mondo premitico di chimerica promiscuità, per tacere interamente della maniera così particolare in cui addirittura annuncia la sua esistenza. Qui la tua esclusione della teologia è andata troppo in là, e con l’acqua sporca hai gettato via anche il bambino».
A parte la semioscurità dell’accenno iniziale, l’osservazione è chiara. L’interpretazione che Benjamin dà della vergogna (Scham) nel finale del Processo — «Wie ein Hund!», sagte er, es war, als sollte die Scham ihn überleben — è accolta. Non così l’interpretazione del tema della legge. Obiezioni: la legge non potrebbe esistere in un mondo che addirittura precede il mito; essa annuncia la sua esistenza in un modo particolare (chiaro che Scholem si riferisce al testo del Processo). La sua esistenza segreta fa perciò saltare l’interpretazione benjaminiana. Nel capoverso finale, Scholem scrive: «E una domanda: qual è esattamente la fonte di tutte queste storie? Ernst Bloch le ha sentite da te, o tu da lui? Il grande rabbino che pronuncia la profonda sentenza sul regno messianico, e che compare anche in Bloch — sono io stesso; è così che si acquista gloria! È stata una delle mie prime idee sulla Kabbalah».
Nelle note, è lo stesso Scholem a spiegare che in Spuren di Bloch «un rabbino veramente cabbalistico» cita lo stesso detto che Benjamin attribuisce a un «gran rabbino» (GS II, 432 — Angelus Novus, 299). Ora, già nel
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1932 Benjamin lo aveva inserito nel testo di In der Sonne, citandolo in modo letteralmente esatto dalla formulazione di Scholem: «Tutto sarà come qui — solo cambiato di pochissimo» e lo aveva presentato come una «sentenza dei hasidim del mondo futuro». In allegato alla lettera, su un foglio a parte, con una copia del Processo di Kafka, è riportato il testo poetico: Sind wir ganz von dir geschieden? Ist uns, Gott, in solcher Nacht nicht ein Hauch von deinem Frieden, deiner Botschaft zugedacht? Kann dein Wort denn so verklungen in der Leere Zions sein — oder gar nicht eingedrungen in dies Zauberreich aus Schein? Schier vollendet bis zum Dache ist der grosse Weltbetrug. Gib denn, Gott, dass er erwache, den dein Nichts durchschlug. So allein strahlt Offenbarung in die Zeit, die dich verwarf. Nur dein Nichts ist die Erfahrung, die sie von dir haben darf. So allein tritt ins Gedächtnis Lehre, die den Schein durchbricht: das gewisseste Vermächtnis vom verborgenen Gericht. Haargenau auf Hiobs Wage ward gemessen unser Stand, trostlos wie am jüngsten Tage sind wir durch und durch erkannt. In unendlichen Instanzen reflektiert sich, was wir sind.
Scrittura e Teologia Niemand kennt den Weg im ganzen, Jedes Stück schon macht uns blind. Keinem kann Erlösung frommen, dieser Stern steht viel zu hoch, wärst du auch dort angekommen, stündts du selbst im Weg dir noch. Preisgegeben an Gewalten, die Beschwörung nicht mehr zwingt, kann kein Leben sich entfalten, das nicht in sich selbst versinkt. Aus dem Zentrum der Vernichtung bricht zu Zeiten wohl ein Strahl, aber keiner weist die Richtung, die uns das Gesetz befahl. Seit dies trauervolle Wissen unantastbar vor uns steht, ist ein Schleier jäh zerrissen, Gott, vor deiner Majestät. Dein Prozess begann auf Erden; endet er vor deinem Thron? Du kannst nicht verteidigt werden, hier gilt keine Illusion. Wer ist hier der Angeklagte? Du oder die Kreatur? Wenn dich einer drum befragte, du versänkst in Schweigen nur. Kann solche Frage sich erheben? Ist die Antwort unbestimmt? Ach, wir müssen dennoch leben, bis uns dein Gericht vernimmt.
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Vediamo la successione dei motivi in queste 14 stanze. 1: la domanda è se siamo del tutto separati da te, Dio. In questa separazione — in questa notte —, non è destinato a noi un respiro della tua pace, del tuo annuncio? 2: La tua parola, infatti, può essersi così affievolita nel vuoto di Sion — oppure essere per nulla penetrata in questo regno magico di parvenza? 3: La grande menzogna universale è pressoché compiuta, fino al tetto. Fa allora, Dio, che si risvegli colui che il tuo nulla passò da parte a parte. 4: Solo così s’irradia la rivelazione, nel tempo che ti ha cacciato. Solo il nulla è l’esperienza che questo tempo può avere di te. 5: Solo così risale nella memoria, la dottrina che spezza le parvenza: il lascito più certo del tribunale nascosto. 6: Fino al capello sulla bilancia di Giobbe sarà misurato il nostro stato, da parte a parte saremo riconosciuti, inconsolabili come nel giorno del giudizio. 7: Ciò che noi siamo, si riflette in istanze infinite. Nessuno conosce la via per intero, ogni suo pezzo ci rende già ciechi. 8: A nessuno può servire la redenzione, questa stella è posta troppo in alto, anche si vi fossi arrivato, tu stesso saresti ancora il tuo ostacolo. 9: Vittima di violenti poteri che scongiuro non piega più, nessuna vita può svilupparsi che non sprofondi in se stessa. 10: Dal centro dell’annientamento irrompe certo talvolta un raggio, ma nessuno ci indica la direzione che la legge ci prescrisse. 11: Da quando questo sapere luttuoso sta intangibile davanti a noi, d’improvviso un velo è squarciato, Dio, davanti alla tua maestà. 12: Il tuo processo iniziò sulla terra; finirà davanti al tuo trono? Tu non puoi essere difeso, su ciò non vale illusione di sorta. 13: Chi è l’accusato? Tu o la creatura? Se qualcuno ti chiese di ciò, ti sprofondasti solo nel silenzio. 14: Può insorgere questa domanda? La risposta è indeterminata? Ah, noi dobbiamo vivere comunque, fino a che il tuo tribunale non ci interrogherà. Il punto-chiave è nella stanze 10-11. Il fatto inviolabile, intoccabile che sta innanzi a noi è proprio questo sapere luttuoso — trauervoll è più di traurig o triste: è sapere del lutto, del dolore — del centro dell’annientamento. Il raggio che proviene da questo centro non è più una traccia sicura del comando della legge. È questa consapevolezza che squarcia però il velo innanzi alla maestà di Dio. Il processo di Dio non prevede nessun difensore di Dio. Perciò non si sa chi è l’imputato. Il testo di Scholem è un commento al Processo di Kafka, condotto a partire dal celebre passo dei Diari, che tuttavia Scholem non poteva conoscere:
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«Io ho potentemente assunto il negativo del mio tempo che mi è certo assai vicino e che io non ho il diritto di combattere, ma, in certo modo di rappresentare. Né al pochissimo di positivo né al negativo estremo che si rovescia in positivo, io ho partecipato in alcun modo. Io non stato introdotto nella vita, come Kierkegaard, dalla mano già cadente del cristianesimo, e neppure ho afferrato, come i sionisti, l’ultimo lembo del mantello ebraico da preghiera che già volava via. Io sono una fine o un principio».
Il chiaro dissenso da Benjamin, dunque, riguarda l’«esistenza» della legge segreta. Se questa lettera perduta nella sua parte iniziale risale al 10-12 luglio, solo pochissimi giorni dopo — il 17 luglio — Scholem torna in argomento. Innanzi tutto, parla della morte di Chajim Nachman Bialik, di cui descrive la figura e il ruolo spirituale in Palestina, rievocando il saggio Halakhah und Aggadah che egli stesso aveva tradotto dall’ebraico in tedesco per Der Jude (IV) 1919 (125-130) e a cui Benjamin farà frequente riferimento, in particolare nella lettera del 12 giugno 1938. Su Kafka, entra decisamente in merito: «Il mondo di Kafka è il mondo della rivelazione (Offenbarung), certo in quella prospettiva in cui viene ricondotto al proprio nulla (Nichts). Non posso affatto condividere la tua negazione di questo aspetto — se devo considerarla veramente come una negazione, e se non si tratta solo di un malinteso che è provocato dalla tua polemica contro Schoepsen e Bröder [id est: Schoeps e Brod]. L’ineseguibilità di ciò che è rivelato è il punto in cui una teologia rettamente intesa (quale la concepisco io; è quella teologia calata nella mia Kabbalah a cui ho dato un’espressione discretamente responsabile proprio in quella lettera aperta contro Schoeps che tu conosci) da un lato, e dall’altro ciò che fornisce la chiave per accedere al mondo di Kafka, coincidono nel modo più esatto».
La coincidenza tra questo passo e il testo poetico è evidente. Se il mondo di Kafka è quello della rivelazione, allora la rivelazione c’è. Solo che Kafka la vede dalla prospettiva del suo nulla. Partendo dalla nostra separazione da Dio, anche il testo di Scholem dice che la rivelazione s’irradia in un tempo che lo ha cacciato. È il tempo del nulla o dell’annientamento, è anche un tempo di violenze che non si lascia piegare — il verbo
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usato da Scholem è zwingen (costringere) — da nessuno scongiuro (nel senso di preghiera: ti scongiuro di…). Dal centro dell’annientamento irrompono talvolta raggi, che tuttavia non indicano più la direzione che la legge ci ha prescritto. Questo è quanto qui viene chiamato ineseguibilità. Ma in questo c’è una coincidenza con la teologia che Scholem ricava appunto dalla sua interpretazione della Kabbalah. Di qui, l’ulteriore critica: «No, caro Walter, il suo problema non è la sua assenza [ovvero: l’assenza di ciò che è rivelato] in un mondo preanimistico, ma la sua ineseguibilità. Su questo ci dovremo intendere. Quegli studenti di cui tu parli alla fine non sono tanto scolari che hanno smarrito la scrittura (e del resto anche in questo caso un mondo in cui può capitare una cosa del genere non è molto bachhofeniano!), quanto piuttosto scolari che non possono decifrarla. E che un mondo in cui le cose sono concrete in una forma così strana, sinistra e inquietante, e ogni passo diventa così ineseguibile, presenti un aspetto non idillico, ma reietto, mi pare una conseguenza necessaria ed evidente. (Mentre tu — non capisco come — sembri pensare che sia questa un’obiezione contro l’interpretazione “teologica”, quando chiedi, sbalordito, quando mai un tribunale dell’”ordine” superiore si è presentato come quello che è riunito in soffitta)».
La critica di Scholem si riferisce con tutta evidenza all’interpretazione del Processo. La scrittura non può essere smarrita. Il rovesciamento della prospettiva teologica seguito da Kafka, è letto da Benjamin come una confutazione dell’interpretazione teologica stessa. Scholem considera invece perfetta la caratterizzazione benjaminiana dei personaggi: «D’altro lato hai ampiamente ragione, naturalmente, con la tua analisi dei personaggi i quali soltanto possono affermarsi in questo modo; non intendo affatto negarlo, c’è qualcosa dello strato “eterico”, e tu l’hai messo in luce con una maestria semplicemente incredibile».
Scholem dice poi di non avere capito alcuni passaggi del saggio, in particolare la citazione da Werner Kraft, «e di volere perciò studiare ancora più attentamente il manoscritto, anche e specialmente per quanto concerne l’elemento “ebraico”, che tu, come Haas,
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vai a cercare negli angoli più nascosti, mentre occupa una posizione centrale e perfettamente visibile, tanto che il tuo silenzio su questo punto appare davvero enigmatico; l’elemento ebraico è presente nella terminologia della legge, che ti ostini a considerare solo dal suo lato più profano. E per questo non era necessario uno Haas! Il mondo morale della Halakhah, i suoi abissi e la sua dialettica stavano direttamente davanti ai tuoi occhi».
Questa critica, direttamente dipendente dalla precedente, è spiegata dallo stesso Scholem con un riferimento alla parabola Vor dem Gesetz e alle interpretazione contraddittorie fornite dallo stesso religioso. Scrive Scholem: «Ritenevo che il religioso del duomo fosse un halakhista cifrato (c. m.), un rabbino, che sapeva tramandare, seppure non la “legge” stessa, tuttavia le tradizioni che erano rappresentate da una parabola su di essa. Non per nulla questo cappellano del carcere era pur sempre un ufficiale del “tribunale”, che dopotutto ha qualcosa a che fare con la “legge”, comunque si vogliano intendere questi concetti».
Da Skovbostrand per Svendborg c/o Helene Weigel, la risposta di Benjamin è di soli tre giorni dopo, il 20 luglio 1934. È di eccezionale interesse. Benjamin si richiama subito al testo poetico di Scholem e sostiene di avere ampiamente sviluppato il lato teologico dell’interpretazione di Kafka, tenendolo si direbbe volutamente in ombra, in polemica con la lettura teologica corrente (sottinteso: in particolare quella di Brod): «Relativamente semplice è solo la questione dell’“interpretazione teologica”. Non solo riconosco francamente a questa poesia il diritto di esprimere la possibilità teologica in quanto tale, ma affermo che anche il mio lavoro ha un ampio lato teologico (seppure in ombra). Ho preso posizione contro il gesto insopportabile del teologo professionista, che (non vorrai negarlo) finora ha dominato su tutta la linea nell’interpretazione di Kafka, e per giunta non ci ha risparmiato le sue manifestazioni più presuntuose».
È evidente che, in tal modo, Benjamin prende l’impegno di spiegare in che cosa consista l’«ampio lato teologico». Ma intanto prende posizione sul testo poetico di Scholem:
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Barnaba Maj «Per accennare non troppo superficialmente alla mia posizione relativa alla tua poesia (che dal punto di vista linguistico non è inferiore a quella sull’“Angelus Novus”, che io tanto apprezzo), voglio solo indicare le strofe che faccio mie senza alcuna riserva. Sono le strofe 7-13. Alcune precedenti. L’ultima solleva il problema del modo in cui debba essere concepita la proiezione del giudizio universale nel corso del mondo, dal punto di vista di Kafka. Questa proiezione trasforma forse il giudice nell’imputato? Il processo nella pena? Il processo ha il compito di elevare la legge, o di sotterrarla?».
Benjamin dunque accetta in pieno tutta la sequenza che va da «In unendlichen Instanzen» a «du versänkst in Schweigen nur»: ciò che noi esseri umani siamo, si riflette in istanze infinite — se qualcuno ti chiede, Dio, chi è l’accusato, tu stesso o la creatura?, ti limiti a sprofondare nel silenzio. Ma il riferimento benjaminiano al «giorno del giudizio» suscita perplessità: la strofa 6 dice con chiarezza che il nostro stato sarà misurato “al capello” sulla bilancia di Giobbe; desolati come nel giorno del giudizio, veniamo riconosciuti “da parte a parte”. La bilancia di Giobbe è la bilancia della fede. Certamente, il Processo di Kafka ha a che fare con le parole di Giobbe: «Se vorrò giustificarmi, la mia bocca mi condannerà. Se mi dimostrerò innocente, Egli mi convincerà che sono colpevole». Nel testo di Scholem, qual è l’unico retaggio certo «del tribunale nascosto», ovvero l’unico modo in cui la dottrina che squarcia la parvenza delle cose risale alla memoria? La risposta è quanto viene detto nella strofa 4: la rivelazione s’irradia nel tempo che ha allontanato Dio — perciò solo il «nulla di Dio» è l’esperienza che esso (questo tempo) può fare di Dio stesso. In che senso allora, come dice Benjamin, la proiezione del giudizio universale trasforma il giudice nell’imputato, il processo nella pena? La domanda-chiave sembra essere piuttosto: in che senso ci si può chiedere «chi è qui l’accusato? Tu o la creatura?». In altre parole: in che senso Dio può essere accusato? Nel momento in cui si pone questo quesito, l’ultima domanda di Benjamin cade: la legge e il tribunale non sono in discussione, non possono cadere. L’eventuale rovesciamento delle parti — cosa che, secondo il testo di Scholem, può accadere solo quando nel tribunale si procederà all’interrogatorio (l’ultimo verbo: vernimmt allude proprio a questo) — non significa che la legge cade. La legge è fuori discussione. Si
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tratterà allora solo di vedere se, rispetto alla legge stessa, Dio non possa essere accusato. Di che cosa? Di avere lasciato che la separazione dall’essere umano divenisse per così dire l’abisso dell’annientamento, quello appunto dal cui centro emanano di tanto in tanto ancora dei raggi, che tuttavia non sono in grado di indicare la direzione che la legge ci prescrisse. Di nuovo, la strofa 10 risulta centrale. In questa lettura, diventa però essenziale il suo rapporto con la strofa 4, poiché Gedächtnis — termine che indica la memoria sia come facoltà che come “archivio dei ricordi” — è certamente qualità squisitamente umana. Nella memoria umana, la traccia della rivelazione e della legge si è indebolita al punto di divenire oscura, ombra del nulla. Ma è impossibile leggere la strofa 4 senza risalire alla 3, cui è strettamente legata — il nulla è anche (per lo meno “anche”) — il prodotto di un tempo che ha “cacciato” Dio. Nella tradizione linguistica tedesca, il verbo verwerfen è tipicamente biblico, è il verbo della “cacciata” dal giardino dell’Eden. Dunque, qui è il tempo umano — un tempo indubitabilmente anche storico, altrimenti non capiremmo le allusioni ai “poteri violenti” (Gewalten) di strofa 9 — che ha “cacciato” Dio. Ha Dio qualche responsabilità in ciò? Il processo che inizia sulla terra e forse finisce davanti al trono di Dio non può certo seppellire la legge. Ma nessuno può difendere Dio: è la sua parola che potrà spiegare. Ma l’interruzione del silenzio di Dio, ciò che potrà spiegare anche la legittimità della domanda umana, avverrà solo davanti al tribunale di Dio stesso. Il tribunale nascosto c’è e paradossalmente sappiamo che c’è proprio perché sperimentiamo il suo nulla. Perciò Benjamin è ovviamente portato a identificare le sue domande con quelle di Kafka e a credere che Kafka non abbia saputo rispondere: «A queste domande Kafka non ha dato una risposta, credo. Ma la forma in cui se le pone, e che cercai di determinare con le mie analisi relative alla funzione svolta dall’elemento scenico e gestuale nei suoi libri, contiene accenni a uno stato del mondo in cui tali domande non hanno più posto, poiché le loro risposte, lungi dal fornire le informazioni richieste, sopprimono le domande stesse. La struttura di questa risposta che elimina la domanda è ciò che Kafka ha cercato, e talvolta ha afferrato come a volo o in sogno. Comunque non si può dire che l’abbia trovata. E quindi mi pare che la comprensione della sua produzione sia legata, tra l’altro, al semplice riconoscimento del fatto che egli è fallito. “Nessuno conosce la via per intero, già ogni singolo tratto ci acceca”. Ma quando scrivi: “Solo il tuo nulla
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Barnaba Maj è l’esperienza che può avere di te”, ebbene, proprio a queste parole posso collegare il mio tentativo d’interpretazione: ho tentato di mostrare come Kafka abbia cercato a tastoni la redenzione nel rovescio di questo “nulla”, nella sua federa, se posso usare quest’immagine. Ed è perciò che ogni forma di superamento di questo nulla, concepito alla maniera degli interpreti teologici che fanno capo a Brod, lo avrebbe inorridito ‹!›».
Sull’ultimo punto non c’è molto da discutere. La via “facile” scelta da Brod nell’interpretazione di Kafka — quello che lo ha portato per esempio a identificare nel “castello” un simbolo della grazia — è sicuramente fuori dalla mappa e totalmente estranea a Kafka. Ma anche Benjamin sbaglia nel pensare che Kafka abbia cercato, sia pure a tastoni, «la redenzione nel rovescio di questo nulla». I versi di strofa 8 dicono chiaramente: Keinem kann Erlösung frommen, / dieser Stern steht viel zu hoch, / wärst du auch dort angekommen, / stündst du selbst im Weg dir noch (nei primi due sembra richiamato il titolo del celebre saggio di Rosenzweig). Insieme a Nichts e a varianti di Niemand e kein, la parola Weg (via, cammino), è l’unica che ricorre due volte in questo testo e in due strofe consecutive. Nella 7, infatti, Niemand kennt den Weg im ganzen, / Jedes Stück schon macht uns blind: sono i versi citati qui anche da Benjamin. In questa strofa, Weg sta in verso 3 (dispari), in strofa 8 sta in verso 4 e in posizione di chiusura. In quest’ultimo verso però Weg è in un sintagma di complemento, cioè nella locuzione in Weg stehen, che vuole dire “essere d’intralcio, di ostacolo, di impedimento”, alla lettera: essere di traverso nel cammino. Dunque: «nessuno conosce la via per intero, già ogni singolo tratto ci acceca» e poi: «a nessuno può servire la redenzione, questa stella sta troppo in alto». Non c’è dunque una stella della redenzione che illumini il cammino e, anche ammesso che tu possa arrivarci, tu stesso sei d’intralcio a te. La successione metrico-strofica scelta da Scholem è a base 4 e, quindi, sempre pari. Perciò, anche se si leggono in successione, le due strofe non hanno nessun verso in posizione centrale. Erlösung non ha un peso “maggiore” degli altri termini. L’attenzione rivolta «all’elemento scenico e gestuale» sarebbe precisamente il «lato teologico» (tenuto in ombra) dell’analisi. Ma la premessa è che Benjamin attribuisce a Kafka il suo quesito fondamentale. Con ciò si colloca “alla pari” con Kafka, come se si trattasse di un puro confronto intel-
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lettuale. Il che non va. Scholem si rivolge a Dio parlando del «tuo annuncio» (deiner Botschaft). La frase benjaminiana, secondo cui «la comprensione della sua produzione sia legata… al semplice riconoscimento del fatto che egli è fallito», ha qualcosa di offensivo. La disposizione kafkiana di bruciare tutte le sue carte non è l’ultimo dei misteri del suo annuncio. L’affermazione di Benjamin getta in una luce ambigua anche i precedenti accostamenti a Brecht. Forse ciò ha a che fare proprio con le riflessioni sulle condizioni esistenziali con cui ha spiegato la sua scelta del comunismo. Benjamin ha conosciuto Brecht, ma non ha conosciuto Kafka. E commette l’errore di dire qualcosa che riguarda comunque la personalità di Kafka, mentre è riduttivo limitarsi sempre e solo a giudizi linguisticointellettuali, per riprendere un’espressione di Weltsch. È singolare che Benjamin non si renda conta di chi è Kafka e non veda perciò la distanza abissale che lo separa da Brecht. Il suo giudizio manca di “pietas” (quella di un Murnau o, inconfondibilmente, di Kracauer). Parlare di “fallimento” per Kafka significa presumere di comprendere intellettualmente tutto, ma senza lasciare spazio alla corda della sensibilità, che non è meno dotata di facoltà di comprensione. “Sentire” Kafka, infatti, come più a fondo di chiunque altro ha saputo fare Milena Jesenská, significa anche capire la sua terribile solitudine, la scrittura notturna, l’angoscia di una malattia mortale. L’uomo che si rifiuta al matrimonio perché si sente tutt’uno con la letteratura, condanna a morte la sua scrittura. È più radicale di Manzoni o Tolstoij, che pure giungono a condannare l’arte. Ma Kafka è al di là della sua stessa condanna dell’estetismo. La dimenticatissima Dora Dymant ha narrato l’episodio di Kafka e una bambina, accaduto nel giardino di Potsdam dove andavano a passeggiare. Ricordiamolo: Kafka incontra una bambina che piange disperatamente. Si ferma a chiederle. La bambina per un attimo diffida, poi tra le lacrime gli dice che ha perso la sua bambola. Kafka allora le risponde: ma non l’hai persa, è semplicemente partita. L’ho incontrata mentre andava via, mi ha incaricato di dirtelo. La bambina appare un po’ rincuorata: Davvero? E davvero l’hai incontrata? Sì, certo, e mi ha detto che ti scriverà presto. Quando?, chiede la bimba. Domani ti arriverà la lettera. Così l’indomani la bambina ebbe la lettera dalla sua bambola: Mi dispiace, cara padroncina. Ieri mi è successa una cosa strana e meravigliosa: ho avuto un colpo di fulmine. Mi sono innamorata, così, all’istante. Ma il mio innamorato doveva
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partire, così in fretta che non ho avuto tempo neppure di avvertirti. Ma ti chiedo perdono e per dimostrartelo ti racconterò di tutte le città che dovremo visitare. Così le lettere successive narrarono delle meravigliose città visitate dalla bambola. Fino all’ultima lettera, in cui la bambola chiedeva ancora perdono alla sua padroncina, perché in futuro non avrebbe più potuto scriverle, stava per sposarsi e certo avrebbe avuto dei figli di cui occuparsi e il tempo le sarebbe mancato. Ma, le assicurava, ti porterò sempre nel mio cuore. Chi è l’uomo che fa questo? Chi ha incontrato Kafka, di persona o attraverso i suoi testi, ha incontrato un angelo con cui non deve lottare, ma che è in lotta. Più vicino all’angelo di Frank Capra, che a quello di Wenders.
3. IL “PRESENTE SEGRETO” DI KAFKA In questa stessa lettera, Benjamin aggiunge che il lavoro è ancora in corso e la versione che Scholem ha in mano non è ancora il manoscritto definitivo. Lo prega perciò di restituirglielo, assicurandogli la spedizione del manoscritto definitivo, da collocare tra le “carte Benjamin” dell’archivio Benjamin tenuto da Scholem. Il che accadde puntualmente. Scholem però assicura di non avere più ritrovate tracce di tale spedizione, cercata dopo la pubblicazione delle Schriften (1955) che segnano la “riscoperta” di Benjamin in Germania. Il che lo induce plausibilmente a pensare che in realtà non ci furono più varianti. Tuttavia, nella lettera del 26 luglio, Scholem scrive: «Avrai ricevuto le due lettere dove parlo di Kafka. Intendo ancora fare altre osservazioni». Lo stesso giorno, Benjamin gli aveva scritto in particolare: «A questo punto ti prego nuovamente di rispedirmi il Kafka; subito dopo ti manderò il saggio definitivo, che presenta cambiamenti molteplici ‹!›. A questo proposito Weltsch non mi ha ancora detto nulla di definitivo, purtroppo». Sul punto, ritorna nella successiva lettera del 4 agosto 1934, ove lamenta che Weltsch lo lascia ancora nell’incertezza, non sulla pubblicazione ma sulla sua integralità, e sulla richiesta di avere indietro il manoscritto anche da lui, «per poterlo portare al suo livello attuale». È con la lettera dell’11 agosto 1934, che finalmente Benjamin risponde a ulteriori rilievi di Scholem. In essa, dice di voler rispondere «esplicitamente», poiché implicitamente lo ha già fatto nella «nuova
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stesura» del saggio. Inoltre, chiede a Scholem copia del citato saggio di Bialik. La risposta alle obiezioni è articolata in sette punti. La preparazione del testo è stata assai meditata e disponiamo di appunti preparatori, che si trovano nel volume degli scritti postumi (GS III, 1245-1246). Purtroppo alcune osservazioni si riferiscono ancora alla famosa prima parte mancante della lettera n. 57. Vediamo i punti: «1) Vorrei tentare di esprimere in questi termini il rapporto fra il mio lavoro e la tua poesia: tu prendi le mosse dal “nulla della rivelazione” (cfr sotto, punto 7), dalla storia sacra [Heilsgeschichte] come prospettiva della procedura prestabilita. Io muovo dalla speranza piccola, assurda, nonché dalle creature a cui da un lato si riferisce questa speranza, e in cui, dall’altro, si rispecchia questo controsenso».
Il passo è prezioso per comprendere il ruolo della prospettiva “creaturale” nel pensiero di Benjamin, le cui radici risalgono al nucleo espressionista della sua riflessione sulla letteratura e sull’arte. Ci riferiamo in particolare alla possibilità di leggere in chiave “creaturale” la sezione sull’allegoria dell’Ursprung des deutschen Trauerspiels. Nello specifico, la contrapposizione non appare così netta. Il piano heilsgeschichtlich — il termine di per sé andrebbe distinto dalla historia sacra — , attribuito a Scholem, non può che prevedere la “cooperazione” creaturale. Il «nulla della rivelazione» non è un controsenso, è una diagnosi sul tempo storico. «2) Se individuo nella vergogna la reazione più forte di Kafka, ciò non contraddice affatto al resto della mia interpretazione. Anzi, il mondo preistorico — il presente segreto di Kafka — è l’indicatore storicofilosofico che solleva questa reazione dalla sfera della condizione privata. Infatti l’opera della Torah è stata vanificata — se ci atteniamo all’esposizione di Kafka».
In nota Scholem ricorda che negli appunti veniva qui una frase non riportata nella lettera: «E tutto ciò che un tempo fu compiuto da Mosé dovrebbe essere ricuperato nell’età del mondo in cui viviamo».
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Il mondo teologico di Kafka non è riferibile solo all’esodo. Risale ancora più indietro, alla creazione, al rapporto tra uomo e Dio, al Giardino terrestre, alla caduta. Ma muove dal presente storico. «3) Con questo punto è connessa la questione della scrittura. Che gli scolari l’abbiano smarrita o che non sappiano decifrarla è infine la stessa cosa, poiché la scrittura senza la sua chiave non è scrittura, è vita. Vita quale viene condotta nel villaggio ai piedi del monte dove sorge il castello. Nel tentativo di trasformare la vita in scrittura vedo il senso dell’”inversione” a cui tendono numerose allegorie kafkiane — tra cui ho scelto Il prossimo villaggio e il Cavaliere. L’esistenza di Sancio Panza è esemplare, poiché consiste, in verità, nella rilettura della propria esistenza, seppure stravagante e donchisciottesca».
Qui Benjamin fa riferimento all’ultima sezione del suo saggio, intitolata appunto Sancio Pancia. I riferimenti kafkiani di questa sezione sono numerosi. Due sono indicati nella lettera. Due altri, assai importanti, riguardano Castello e Amerika, in particolare il capitolo su Il teatro naturale dell’Oklahoma. Queste storie sono definite da Benjamin allegorie. L’exemplum per eccellenza è appunto Die Wahrhei über Sancho Pansa, un testo il cui titolo risale a Max Brod e che fa parte dell’Oktavheft G, in probabile collegamento diretto con Eine alltägliche Verwirrung. Risale dunque al periodo dell’ottobre 1917: «Sancho Pansa, der sich übrigens dessen nie gerühmt hat, gelang es im Laufe der Jahre, in den Abend- und Nachtstunden, durch Beistellung einer Menge Ritter- und Räuberromane seinen Teufel, dem er später den Namen Don Quichote gab, derart von sich abzulenken, daß dieser dann haltlos die verrücktesten Taten ausführte, die aber mangels ihres vorbestimmten Gegenstandes, der eben Sancho Pansa hätte sein sollen, niemandem schadeten. Sancho Pansa, ein freier Mann, folgte gleichmütig, vielleicht aus einem gewissen Verantwortlichkeitsgefühl dem Don Quichote auf seinen Zügen und hatte davon eine große und nützliche Unterhaltung bis an sein Ende».
Nell’edizione critica delle Erzählungen kafkiane, questo testo è seguito dal celebre Das Schweigen der Sirenen. Nell’indicare un esempio
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di «inversione» kafkiana, Benjamin non poteva fare scelta migliore. È certo che Kafka stesso le considerava Gleichnisse. Ciò merita attenzione. Nelle traduzioni correnti Gleichnis è reso con “similitudine”. Nella letteratura critica su Kafka, l’uso di questa categoria è tutt’altro che rigoroso e l’accostamento alla metafora e all’allegoria assai frequente. Il dizionario Duden spiega che si tratta di Lehnübersetzung dal latino Parabola e rimanda al calco tedesco Parabel; quindi spiega così: «kurze bildhafte Erzählung, die einen abstrakten Gedanken oder Vorgang durch Vergleich mit einer anschaulichen, konkreten Handlung [mit belehrender Absicht] verständlich machen will» e dà un esempio celeberrimo, come la parabola del figlio perduto (prodigo). D’altra parte, è indubbio che l’inversione è un tratto costitutivo dell’ironia, messo in luce già dalle definizioni dei primi retori e grammatici greci, così come è storicamente noto che tra le matrici dell’ironia romantica c’è una riflessione sulla struttura del Don Chisciotte. In questa prospettiva, la parabola kafkiana diventa ironica nei confronti della lettura romantica. Ma, in generale, le parabole kafkiane ci narrano per esempio che ancora più pericoloso del canto delle sirene era il loro silenzio, che la ferita di Prometeo lentamente si richiuse, la sua leggenda si affievolì fino a che anche di questa non rimase neppure il ricordo, che appunto Sancio Panza riuscì a deviare il suo demone, cui dette il nome di Don Chisciotte, nel mondo dei romanzi di cavalleria e brigantaggio di cui aveva ampia scorta, ma privandolo dell’oggetto predestinato che era lui stesso. La definizione di Gleichnis o Parabel data dal Duden vi corrisponde per un lato essenziale. Si tratta effettivamente di narrazioni brevi e immaginose, che hanno per contenuto un’azione concreta e viva (evidente, ben visibile). Se ciò esclude che possano essere definite allegorie in senso tecnico, è indubbio che contengono una forma di ironia che mira a rovesciare in modo puntuale la relazione strutturale costitutiva del topos narrativo o mitico: il silenzio in luogo del canto, don Chisciotte al servizio di Sancho, la ferita e la montagna che si richiudono. Questo conferma che Kafka si pone tra i due estremi del tempo storico presente e della narrazione primaria. Mentre Benjamin sta nel libro dell’Esodo, cioè nella costellazione messianica, Kafka risale più indietro. È questa la differenza teologica, che viene alla luce nella sua discussione con Scholem. Benjamin ha ragione nel registrare l’inversione kafkiana, non nel chiamare «allegorie» queste narrazioni. Kafka non è un allegorista. E questo è un punto non eludibile di
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distanza dall’espressionismo. Ma da cosa trae origine l’inversione kafkiana? Il tema era stato colto in altra prospettiva anche da Günter Anders, che parla di «inversione» tra al di qua e al di là o tra colpa e pena. Come ha scritto Celan in un suo testo poetico e poi nel discorso-Büchner del 1960, se si cammina sulle mani «il cielo si apre sotto di noi come abisso». Se spingi molto forte sull’altalena distendendoti con il corpo, andando in avanti vai verso il cielo, quando torni indietro il cielo ti appare come abisso. Nei Diari, Kafka parla di questa sua esperienza. In un passo di una lettera a Milena, Kafka parla della sua necessità di andare verso sinistra, contro il moto della terra, per recuperare il suo passato. L’alto diventa abisso — la destra sinistra. Ma la differenza teologica non dipende dalla interpretazione del passato originario — o meglio: di ciò che sta all’origine del passato umano e della sua memoria. Dipende dall’interpretazione del presente storico. Kafka sta in una linea che da Büchner passa attraverso Alban Berg e giunge a Celan. Non è per nulla un caso che, negli ultimi anni di vita, Celan in certo senso “lascia” Benjamin e si volge a Kafka. Una delle più brevi parabole kafkiane riguarda… le parabole e, quindi, proprio il rapporto tra vita e scrittura, di cui parla Benjamin. Uno dei suoi motivi riguarda lo scopo delle parabole: portare «al di là», cioè dal visibile all’invisibile e a quel senso nascosto che sta appunto «al di là». Ma il concetto di «al di là» viene rovesciato. Se per esempio vado «al di là» della strada, in realtà sono solo in un nuovo «al di qua», rispetto al quale diventa «al di là» ciò che era il mio precedente «al di qua». Si può scommettere però che anche questa è una parabola. La scommessa verrebbe vinta, ma ancora una volta “nella” parabola, mentre nella realtà si è “perso”. In ogni caso, non c’è un «al di là» trascendente, quale è presupposto dall’allegoria. Le parabole non parlano di ”altro”. Kafka fa anche ironia sulle o attraverso le parabole, ma continua a usarle, e questo è un aspetto illuminante del suo mondo. Ciò contrasta però con la tesi che tra smarrire o non saper più decifrare la legge non c’è poi differenza. Il presente segreto di Kafka è del tutto storico e si basa su una acutissima percezione del presente storico attraverso la diagnosi sul suo tempo storico — il tempo della sua Westjüdischezeit, con la sua mancanza di passato. A ragione nel punto 1) Benjamin ha parlato delle «creature». Ma è proprio il diverso “senso creaturale” ciò che marca la differenza tra lui e Kafka. La lingua di Kafka è rigorosamente metonimica. La lingua del rigore metonimico è la
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lingua della creatura. La teoria benjaminiana dell’allegoria ha un nucleo creaturale, ma non consapevolmente sviluppato. Per questo il «creaturale» in Benjamin ha un andamento “oscillante” e “carsico”, non coerente. Deriva da qui anche l’accostamento Kafka e Brecht, reso possibile da una teoria dell’arte di avanguardia, che non tiene conto della diversità di lingua e scrittura dei due mondi e, quindi, del fatto che, rifiutando il tragico, Brecht ha chiuso l’orizzonte del creaturale. Se Büchner è der Dichter der Kreatur (Celan), Kafka gli può essere accostato, non Brecht. Brecht liquida l’espressionismo. Ma se l’espressionismo ha un nucleo creaturale segreto, il suo nome è “riscoperta” di Büchner, Berg e, soprattutto, Kafka. Anche l’identificazione benjaminiana fra Kafka e i suoi personaggi è spinta all’eccesso, come nel caso del Processo, ove la «vergogna» di Josef K. è intesa come cifra diretta di Kafka. Questa identificazione opera poi in modo rovesciato nei successivi tre punti esposti da Benjamin. Il che sembra vanificare lo stesso accordo con il testo poetico di Scholem, dichiarato in precedenza. È bene chiarire subito. Per Benjamin — vedremo il passo alla lettera —, il punto morto dell’opera di Kafka è proprio l’insistenza sulla legge. L’identificazione tra personaggi e Kafka è tale che la «vergogna» di Josef K. diventa quella di Kafka. Qui, ove il riferimento alla vita e al mondo spirituale di Kafka è decisivo, essa diventa il «punto morto». Tutta l’esistenza di Kafka ruota invece intorno alla legge. La frase di Benjamin «la scrittura senza la sua chiave non è scrittura, è vita» inverte clamorosamente il rapporto tra Scrittura, scrittura e vita. Ciò che rende impossibile la vita di Kafka — è questa la cifra più profonda della sua angoscia — è la scrittura, che si frappone fra lui e la Scrittura. L’adesione alla Scrittura è la vita che aderisce alla Scrittura. Nessuno più di Kafka ha sentito l’angoscia dell’identità tra vita e letteratura e dell’opposizione tra vita e scrittura. Al contrario, la tesi benjaminiana suggerisce che la scrittura la quale non ha la chiave per decifrare la Scrittura, «non è scrittura, ma vita». È proprio il contrario. Ciò che Kafka vuole con tutte le sue forze è la vita nella Legge. Ecco gli ulteriori punti: «4) Che gli scolari — “che hanno smarrito la scrittura” — non appartengano al mondo eterico, l’ho sottolineato fin dall’inizio, quando, al pari degli assistenti, li ho situati tra le creature per cui, secondo le parole di Kafka, è data “una speranza infinita”.
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Barnaba Maj 5) Io non nego affatto, per l’opera di Kafka, l’aspetto della rivelazione; lo prova già il fatto che la dichiari “stravolta”, e quindi le riconosca l’aspetto messianico. La categoria messianica di Kafka è l’“inversione” o lo “studio”. Hai ragione di supporre che io non intenda sbarrare la strada all’interpretazione teologica in quanto tale (dopo tutto la pratico io stesso), ma solo a quella sfacciata e frivola che ha luogo a Praga (c. m.). Ho eliminato io stesso l’argomentazione basata sul comportamento dei giudici, perché insostenibile (prima ancora di leggere le tue considerazioni). 6) Ritengo che la continua insistenza di Kafka sulla legge sia il punto morto della sua opera — e con questo voglio dire semplicemente che, a mio avviso, l’interpretazione di Kafka non deve muovere di lì. Ma in realtà non voglio trattare esplicitamente questo concetto. 7) Ti prego di voler chiarire la locuzione secondo cui Kafka rappresenta “il mondo della rivelazione in quella prospettiva in cui esso è ricondotto al proprio nulla”».
Nella nota al punto 6), Scholem opportunamente richiama la più dettagliata esposizione degli appunti: «Anche se essa ‹l’energia con cui Kafka sottolinea continuamente “la legge”› ha tuttavia una funzione nell’opera di Kafka (questione su cui non mi pronuncio), vi approderà anche un’interpretazione che parte dalle immagini — come la mia».
La «categoria messianica» è di Benjamin, non di Kafka. Accettare la «interpretazione teologica» e considerare l’insistenza sulla legge come il «punto morto» è contraddittorio. Nella lettera del 14 agosto 1934, Scholem risponde in realtà alla lettera di Benjamin del 4 agosto. Il tema-Kafka ritorna, ma soprattutto con suggerimenti editoriali, non con una vera discussione di merito. Il giudizio più favorevole di Scholem va al primo capitolo e all’esposizione sul teatro naturale. C’è anche il suggerimento di pensare, soprattutto in occasione dell’edizione Schocken delle opere di Kafka, a una piccola monografia, ma con un’aggiunta essenziale: «Certamente in questo caso non potrebbe mancare un capitolo sulla riflessione halachiana e talmudica, quale compare nel Guardiano della
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legge, in una forma così perentoria. Del resto i richiami a Kraft sono del tutto incomprensibili, purtroppo, e non sono stimolanti; forse lo diventerebbero se li sviluppassi più dettagliatamente».
La parabola Vor dem Gesetz è qui citata secondo un perentorio richiamo alla tradizione. Il dissenso dalla tesi del riferimento alla legge come «punto morto» non potrebbe essere più manifesto. Del resto, qui Scholem ha anche un’altra intuizione, che purtroppo ha poi lasciato cadere e che Benjamin non ha raccolto: «Del resto tutti coloro che hanno conosciuto Kafka personalmente riferiscono che in effetti suo padre era un personaggio come quello che compare nel Giudizio [das Urteil]. Dev’essere stato un uomo particolarmente crudele, che opprimeva indicibilmente la sua famiglia. Forse la cosa ti interessa».
Nella parabola si parla di una “soglia” (Schwelle) spaziale e temporale, che, come vedremo, si può porre utilmente in parallelo con quanto in Brief an den Vater (1919) Kafka scrive di sé bambino e del padre durante la visita al tempio. Il padre porta con sé il bambino, come in un rituale vuoto e senza spiegargli nulla. Ma poi mostra di conoscere, e avere memoria delle, formule del rito, senza però metterne a parte il bambino. Lo lascia così “sulla” soglia. “Ora” non puoi entrare. “Più tardi” è possibile. “Più tardi” è “tutta la vita”. Nella lettera del 15 settembre 1934, Benjamin appare deluso dalla mancata risposta di Scholem ai suoi 7 punti. Tornando al suo saggio, annuncia di volerlo ancora rimpolpare alla luce della lettera aperta di Scholem a Schoeps, con particolare riferimento a questo passaggio: «“[…] in riferimento al tempo storico, nulla abbisogna di una concretizzazione più dell’[…] ‘assoluta concretezza’ della parola rivelata. Dopo tutto l’assolutamente concreto è ciò che non può mai essere compiuto”. Queste parole esprimono una verità che vale incondizionatamente per Kafka, e quindi aprono anche una prospettiva in cui l’aspetto storico del suo fallimento diventa più che mai percettibile. Ma dovrà ancora passare qualche tempo, prima che queste riflessioni e altre connesse trovino una forma che le renda definitivamente comunicabili. E tu lo potrai capire tanto meglio, in quanto la lettura ripetuta del mio lavoro e anche dei miei appunti
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Barnaba Maj epistolari in merito ti avranno fatto toccare con mano che proprio questo argomento è fatto apposta per situarsi al punto d’incrocio delle vie del mio pensiero. Del resto potrò svilupparlo in una forma più precisa, netta e radicale solo se disporrò del saggio di Bialik».
4. L’EBRAISMO DI KAFKA E IL “”CASO BROD” Nella lettera del 20 settembre 1934, Scholem accenna alle difficoltà della «Jr», che poi pubblicò il saggio di Benjamin il 21 dicembre 1934, e alla lettura di un saggio di Bernhard Rang — figlio di Florens Christian Rang, amico di Benjamin — apparso su Die Schildgenossen, XII (1934), n. 2-3, 107-119, intitolato Franz Kafka. La reazione di Scholem è indignata. Ne deriva una prima, importante collocazione storica dell’interpretazione benjaminiana: «La tua interpretazione diventerà la pietra angolare di una discussione ragionevole, se mai è possibile. In parecchi punti ne sono veramente illuminato e istruito, sebbene trovi confermata e rafforzata la mia impossibilità di accettare un indebolimento così sostanziale del nerbo ebraico dell’opera kafkiana come quello che cotesta interpretazione comporta (c. m.). Non puoi fare a meno di ricorrere a violenze flagranti (c.m.), devi continuamente interpretare contro le testimonianze kafkiane (c. m.), non solo per quanto concerne la legge (su questo punto ti ho già scritto), ma anche, ad esempio, a proposito delle donne, la cui funzione tu determini esclusivamente dal punto di vista bachofeniano, in una maniera certamente grandiosa, ma del tutto unilaterale, e contro le testimonianze più evidenti, laddove esse portano con sé anche altre sigle, su cui ti soffermi troppo poco. Il castello o l’autorità, con cui sono in un rapporto orrendamente indefinibile, eppure preciso, per l’appunto non è solo il tuo mondo preistorico (se mai lo è) — poiché in questo caso dove sarebbe mai il mistero di quel rapporto delle donne con essa, tutto sarebbe chiaro, mentre è vero proprio il contrario, ed è estremamente sconcertante la loro relazione con un’autorità che per giunta mette ancora in guardia contro di loro (per esempio con le parole del cappellano!) — è qualcosa a cui il “mondo preistorico” deve prima essere riferito».
Qui, per la prima volta, è posto in primo piano il misterioso ruolo delle donne nei racconti e soprattutto nei romanzi kafkiani. Scholem si
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riferisce al Castello e al Processo, ma lo stesso vale per Amerika. Il punto davvero decisivo è però esposto nella seconda parte della lettera, che riassume con precisione quanto si è detto fin qui: «Chiedi che cosa intendo con l’espressione “il nulla della rivelazione”. Intendo uno stadio in cui essa appare vuota di significato, in cui afferma ancora se stessa, in cui vige, ma non significa. Dove viene meno la ricchezza del significato, e ciò che si manifesta [das Erscheinende] è come ridotto a un punto zero del proprio contenuto, eppure non scompare (e la rivelazione è qualcosa che si manifesta), in questo caso emerge il suo nulla. Si capisce che nel senso della religione si tratta di una caso limite, di cui è molto dubbio che possa essere effettivamente realizzato. Non posso condividere la tua opinione secondo cui è la stessa cosa, che gli scolari abbiano smarrito la “scrittura” oppure non possano decifrarla, e anzi, mi pare l’errore più grave in cui potessi incorrere. Proprio la differenza tra questi due stadi è ciò a cui mi riferisco, quando parlo del nulla della rivelazione».
La lettera da Skovbostrand per Svendborg del 17 ottobre 1934 rivela la ragione dell’oscillazione di Benjamin. Sui temi non aggiunge nulla, ma dopo l’espressione di gratitudine per le nuove osservazioni di Scholem, confessa: «Se potrò tendere l’arco in modo da scoccare la freccia si vedrà solo in futuro, naturalmente. Ma mentre gli altri miei lavori avevano raggiunto presto il momento in cui mi congedavo da essi, quest’ultimo mi impegnerà più a lungo. Perché, lo suggerisce l’immagine dell’arco: qui ho a che fare contemporaneamente con due capi, quello politico e quello mistico (c. m.)».
Questa confessione porta alla luce il sospetto che Benjamin ha tentato di legare prospettiva teologica (mistica) e prospettiva politica nella sua lettura di Kafka. Ma, per “riempire” Kafka di contenuti politici (che restano deboli), occorre “svuotare” la prospettiva teologica. Come vedremo, del resto Benjamin in seguito ha abbozzato solo qualche elemento di un’interpretazione “sociologica”, non politica. Anche questo getta luce sull’insistenza a proposito del “fallimento” di Kafka. Di nuovo, determinante è l’idea benjaminiana dell’avanguardia artistica. Ma è impossibile far rientrare Kafka nella prospettiva della “politicizzazione dell’arte”.
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Dalla lettera di Benjamin da San Remo, Villa Verde 22 febbraio 1935, ricaviamo solo la notizia che appunto in questo periodo egli rimaneggiò il quarto capitolo del manoscritto: notizia utile per la datazione degli appunti poi pubblicati nelle GS. Si salta così al 1938. In una lettera da Paris XV, 10, rue Dombasle 14 aprile, Benjamin riferisce di avere guardato alcune pagine della biografia di Kafka di Max Brod e ne dà un giudizio pieno di disprezzo. Nella risposta di Scholem, datata New York, Hotel Paris 6 maggio 1938, vi si accenna, chiedendo ulteriori elementi. La risposta di Benjamin, stesso luogo, in data 12 giugno 1938 non è solo una “recensione” di Brod, è anche un supplemento al saggio kafkiano. È il testo della “lettera Brod-Kafka”: «poiché me lo chiedi, ti scrivo piuttosto diffusamente che cosa penso del Kafka di Brod; troverai anche alcune mie riflessioni personali intorno a Kafka».
È una stroncatura, perfetta nel suo genere. C’è una contraddizione basilare tra la tesi dell’autore e il suo atteggiamento. La tesi è che Kafka si è trovato sulla via della santità (65). Perciò l’autore ha un’intonazione di completa bonhommie. L’atteggiamento è quello di chi si trova in intimità con il sacro da lui stesso proclamato, per esempio presentando una fotografia con la locuzione il «nostro Franz». Questa intimità con il sacro nella storia della religione ha una precisa segnatura: il pietismo. L’atteggiamento pietistico di un’intimità ostentata è il più impietoso che si possa pensare. In secondo luogo, la scrittura risente della routine giornalistica. Affermare che «La categoria della santità […] è infine l’unica valida ai fini della conoscenza della vita e dell’opera di Kafka», significa dimenticare che santità è un ordine di considerazioni riservato alla vita, in cui il creare non c’entra per nulla. Inoltre, al di fuori di una concezione religiosa fondata sulla tradizione, il predicato della santità non è altro che un fiore retorico. Brod è privo della «benché minima sensibilità per il rigore pragmatico che è d’obbligo in una prima biografia di Kafka». Parla con mancanza di tatto di cose che richiederebbero un certo contegno. Per la prima volta, qui Benjamin allude anche esplicitamente alla vita di Kafka. A Brod è «rimasta preclusa ogni intuizione autentica e originaria della vita di Kafka». Questa incapacità di essere all’altezza della cosa stessa, diventa scandalosa, quando
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Brod viene a parlare della disposizione testamentaria con cui Kafka lo incaricò di distruggere il suo lascito letterario (242): «Qui più che mai sarebbe stato il caso di sviluppare aspetti fondamentali dell’esistenza di Kafka. (Evidentemente Kafka non voleva assumersi di fronte ai posteri la responsabilità di un’opera di cui pure conosceva la grandezza)».
Il problema è stato ampiamente discusso dopo la morte di Kafka, prosegue Benjamin. Era naturale che il biografo ci ritornasse. Ma ciò doveva indurlo a riflettere su se stesso: «Con ogni probabilità Kafka dovette affidare il suo lascito a colui che non avrebbe voluto esaudire la sua ultima volontà. E questo modo di considerare le cose non nuocerebbe né al testante né al suo biografo. Ma presupporrebbe la capacità di misurare le tensioni di cui fu solcata la vita di Kafka».
Proprio di questa capacità è privo Brod. I passi dove cerca di spiegare l’opera e lo stile di Kafka sono dilettantistici. Le stravaganze della natura di Kafka non sono solo apparenti, né contribuisce alla comprensione dire che sono «solo e semplicemente vere» (68). A ragione, Benjamin constata gli errori di prospettiva di Brod: «Tali digressioni sull’opera di Kafka sono tali da screditare a priori l’interpretazione brodiana della sua visione del mondo. Per esempio, quando Brod dice che Kafka si situa sulla linea di Buber (241), cerca la farfalla nella rete dove svolazzando getta la sua ombra. L’interpretazione “per così dire realistico-ebraica” del Castello sopprime i tratti repellenti e orribili che caratterizzano il mondo superiore di Kafka, a favore di un’interpretazione edificante che dovrebbe essere sospetta proprio al sionista».
Che Kafka non possa essere ricondotto alla “linea Buber” è fuori discussione. Ma questo riferimento è spia vistosa di quanto nel dibattito tra Benjamin e Scholem manchi la percezione della polarità tra Westjüdischezeit e Ostjudentum come il luogo della tensione kafkiana tra vita e letteratura, scrittura e legge. L’immagine cui Benjamin ricorre in seguito, per illustrare le sue nuove riflessioni su Kafka, lo dimostra chiaramente.
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Benjamin rileva ancora che Brod liquida l’interesse dei surrealisti per Kafka, così come le analisi di Werner Kraft sulle prose minori di Kafka, prendendo così posizione anche contro la critica kafkiana futura: un evidente sintomo di debolezza. E, di nuovo, sul rapporto tra scrittura e vita, osserva: «Che le “numerose, accidentali carenze e sofferenze private di Kafka” contribuiscano alla comprensione della sua opera più delle “costruzioni teologiche” (213), sono parole che comunque non si sentono volentieri da colui che è abbastanza deciso da accingersi a esporre la vita di Kafka evocando il concetto della santità».
La chiusura di Brod verso altre linee di interpretazione e il primato da lui attribuito all’indagine esistenziale rispetto alle stesse «categorie teologiche», alla fine produce un singolare accostamento letterario: «Brod tributa lo stesso gesto di disprezzo a tutto ciò che sembra disturbare la sua intimità con Kafka — alla psicoanalisi come alla teologia dialettica. Esso gli permette di confrontare lo stile di Kafka con la “mendace esattezza” di Balzac (69) — dove non ha in mente che quelle spacconate trasparenti che sono inseparabili dall’opera di Balzac e dalla sua grandezza».
L’accostamento di Kafka a Balzac è davvero singolare e anche riduttivo. La prosa di Kafka è un fenomeno unico. Ma, se si vuole procedere comparativamente, altri sono allora i nomi cui pensare, a cominciare da Flaubert. A parte il fatto che questa scrittura ha radici anche boeme del tutto trascurate, ci sono per esempio motivi dickensiani oppure possibilità di confronto con Stifter e, soprattutto, con Gogol. Ma la dura “requisitoria” di Benjamin non si ferma qui, ecco il colpo finale: «Tutto ciò non ha nulla a che vedere con lo spirito di Kafka. Troppo spesso mancano a Brod quella padronanza di sé, quella pacatezza che lo contraddistinsero. Non c’è nessuno che non si potrebbe conquistare con un’opinione misurata, dice Joseph de Maistre. Il libro di Brod non conquista. Supera la misura sia nel modo in cui rende omaggio a Kafka, che nella confidenza con cui lo tratta. Il preludio di entrambi gli atteggiamenti si trova nel romanzo che
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prende lo spunto dall’amicizia con Kafka. L’averne tratto citazioni non è il minore degli errori di questa biografia. Che persone estranee abbiano potuto vedere, in questo romanzo, una mancanza di quella pietà che è dovuta al defunto, è un fatto che stupisce l’autore, come ammette egli stesso. “Anche questo viene frainteso, come tutto il resto… Si dimentica che in maniera analoga, ma molto più ampia, Platone per tutta la vita aveva strappato alla morte il suo maestro e amico Socrate, che continuò a vivere, a operare, a partecipare della vita e del pensiero del discepolo che fece di lui l’eroe di quasi tutti i dialoghi scritti dopo la morte di Socrate” (82). Ci sono poche probabilità che un giorno il Kafka di Brod possa comparire tra le biografie di poeti grandi e fondamentali quali sono lo Hölderlin di Schwab o il Keller di Bächthold. Tanto più vale riflettere su di esso come testimonianza di un’amicizia che forse non è tra gli enigmi minori della vita di Kafka».
Il romanzo di Brod cui qui si fa riferimento risale al 1928: Zauberreich der Liebe. Il nodo dell’amicizia Kafka-Brod è indubbiamente complesso, ma la frase finale di Benjamin è troppo dura. Sappiamo per certo per esempio che intorno al 1915 Brod considerava l’isolatissimo Kafka come uno dei più grandi maestri nella costellazione dell’ebraismo moderno e dopo la guerra lo riteneva in grado di parlare dei più universali problemi, riguardanti appunto l’interpretazione e la comprensione del mondo moderno. Da Kurt Wolff, sappiamo che Kafka delegò Brod a “rappresentarlo” nelle faccende editoriali. Quanto Brod ha fatto e scritto dopo la morte di Kafka segnala indubbiamente un grande scarto. Tuttavia, è Kafka ad avere “scelto” Brod e se questo è un mistero, non si può liquidarlo semplicemente liquidando Brod. In realtà, Benjamin non conosce a fondo Kafka, né le vicende spirituali, politiche, letterarie e storiche del particolare ebraismo di Praga. I frequenti accenni alla “teologia praghese” o al “realismo ebraico” di matrice praghese — la “perifericità” di Praga —, rivelano un inconscio presupposto negativo, non un tema da approfondire. Una conseguenza è subito constatabile. Ora Benjamin viene a Kafka stesso: «Da quanto ho scritto puoi vedere, caro Gerhard, perché non mi pare che un esame della biografia di Brod possa contribuire a indicare qual è la mia immagine di Kafka — fosse pure soltanto in forma polemica. Naturalmente non sono certo che gli appunti seguenti riescano a disegnare quest’immagine
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Barnaba Maj in abbozzo. In ogni modo ti suggeriranno un aspetto nuovo, più o meno indipendente dalle mie riflessioni precedenti».
Sono passati quattro anni dal fitto scambio del 1934. Benjamin annuncia qualcosa che certamente non smentisce la sua precedente interpretazione, ma si basa comunque sulla scoperta di un «aspetto nuovo». Poiché da un accenno precedente sappiamo che Benjamin possedeva l’opera di Kafka nella citata edizione Schocken — nella cui intricata vicenda svolse un ruolo non marginale e alla fine negativo Klaus Mann (lo sappiamo da una lettera di Scholem) —, ma gli mancava ancora l’ultimo volume dei Tagebücher und Briefe (1937: si trattava di una selezione), potremmo attenderci che questo aspetto sia il risultato di un’analisi delle prose di questi testi. Invece, non è così: «L’opera di Kafka è un’ellisse con due fuochi molto distanti tra loro, che sono determinati rispettivamente dall’esperienza mistica (che è anzitutto l’esperienza della tradizione) [nella nota sul punto Scholem osserva che qui Benjamin identifica la tradizione con la Kabbalah] e dall’esperienza dell’uomo che vive nella grande città moderna».
Questa formulazione abbastanza nota e molto bella pecca di una certa genericità: perché mai «esperienza dell’uomo che vive nella grande città moderna» e non «esperienza dell’uomo che vive nella (relativamente) grande città moderna di nome Praga»? In certi casi, la fonte della conoscenza kafkiana delle forme di vita nelle grandi metropoli è descrittiva, come mostra il secondo capitolo di Amerika. In effetti, non è Praga a interessare Benjamin. La frase serve solo da premessa alla sua svolta, chiaramente sociologica: «Quando uso quest’espressione mi riferisco a diverse cose. Parlo da un lato del cittadino moderno che sa di essere in balia di un apparato burocratico impenetrabile la cui funzione è diretta da istanze che non sono chiare agli stessi organi esecutivi, per tacere di coloro che subiscono passivamente. (È noto che è questo uno degli strati del significato dei romanzi, specialmente del Processo). D’altro lato l’espressione “uomo che vive nella grande città moderna” si riferisce al contemporaneo dei fisici attuali. Se si legge il
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seguente passo dell’Immagine del mondo fisico di Eddington, si ha l’impressione di sentire Kafka».
Segue la lunga citazione di un passo, ove Eddington descrive in modo impressionante quali e quante difficoltà rappresenti per un fisico a conoscenza di tutte le nuove scoperte della sua disciplina intorno alla struttura della materia, il semplice ingresso in una stanza. Benjamin commenta: «Non conosco, nella letteratura, un passo che abbia un piglio altrettanto kafkiano».
Il passo merita due commenti distinti. È curioso che un critico di tale levatura intellettuale cada in “sociologemi” così superficiali, non ricordi che il Processo è stato scritto nel 1914-1915, durante l’amministrazione absburgica di Praga e che la critica della burocrazia è cosa già gogoliana, dunque non necessariamente connotata dal legame con la «grande città moderna». Che questo sia «uno degli strati del significato dei romanzi» è un luogo comune, non a caso diventato il veicolo dell’uso più ovvio dell’aggettivo “kafkiano” nella lingua quotidiana. È evidente che si tratta solo di un “dispositivo di superficie” della scrittura kafkiana. Quanto alla seconda indicazione, la somiglianza tra il passo di Eddington e certi passaggi — addirittura di valore tematico — di Kafka non toglie che questo accostamento non è del tutto pertinente. Il concetto fisico più “corrispondente” al mondo di Kafka è piuttosto l’entropia. Il secondo capitolo di Amerika in particolare — ma in questa direzione si può anche pensare alla chiusa di Das Urteil —, mostra che Kafka sa benissimo che la nuova civiltà delle macchine e il conseguente ritmo della vita metropolitana sono caratterizzati dalla velocità. La prosa di Kafka sa combinare la velocità del ritmo narrativo con un tale accumulo di gesti che, per coglierne la sequenza, occorre tornare indietro, ricorrere al ralenti, se non al “fermo-immagine”. Ma su tutto aleggia un senso di finale entropia. Il rischio della “svolta sociologica” è di dimenticare l’interpretazione teologica. Pochi come Kafka — se si cerca un parallelo storico bisogna forse risalire al dramma raciniano e al ruolo in esso svolto dallo sguardo di Dio — hanno sentito, a partire dalla loro stessa vita, l’enorme peso — valore
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e responsabilità — di ogni nostro gesto, parola, azione o sentimento. Se ogni atto umano risponde a leggi fisiche e chimiche, si inserisce d’altra parte in una rete pressoché infinita di schemi di valore, norme e significati. Ciò che in Kafka unisce il tema dell’entropia al quadro “normativo” è il problemachiave della comunicazione. Benjamin stesso sembra peraltro rendersi conto che deve in parte ritornare sui suoi passi: «Quasi tutti i punti di quest’aporia fisica potrebbero accompagnarsi senza difficoltà a brani della prosa kafkiana, e ci sono buoni motivi per credere che troverebbero posto molti di quelli “più incomprensibili”. Dunque se si dice — come ho fatto io — che le corrispondenti esperienze di Kafka stavano in enorme tensione con quelle mistiche, si dice solo una mezza verità. Ciò che Kafka ha di veramente folle — folle nel senso preciso del termine —, è il fatto che a questo mondo recentissimo, ultimissimo, gli abbia aperto l’accesso proprio la tradizione mistica».
Il che, con le riserve fatte sopra, è perfetto. E lo sarebbe ancora di più, se si potesse aggiungere: la complementarità dei tempi narrativi è parallela alla percezione dei differenti tempi storici. Con ciò, si rafforzerebbe ulteriormente il passo successivo — lucidissimo, come tutte le volte in cui Benjamin parla del nesso tra tecnica moderna e guerra —, che è forse il più penetrante tra le cose scritte da Benjamin su Kafka: «Naturalmente ciò non è stato possibile senza processi devastanti (di cui parlerò subito), all’interno di questa tradizione. La sostanza della cosa è che evidentemente si doveva fare appello a niente di meno che alle forze di questa tradizione, perché un singolo (che si chiamava “Franz Kafka”) potesse essere confrontato con la realtà che è la nostra, e che trova la sua proiezione teoretica per esempio nella fisica moderna, e la sua proiezione pratica nella tecnica della guerra. Voglio dire che il singolo non può quasi più esperire questa realtà, e che il mondo di Kafka, spesso così sereno e popolato di angeli, è l’esatto complemento della sua epoca, che si accinge a sopprimere grandi masse degli abitanti di questo pianeta. Non è escluso che l’esperienza che corrisponde a quella dell’uomo privato Kafka sarà fatta da grandi masse soltanto in occasione di questa loro eliminazione (c. m.)».
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Questo scrive Benjamin il 12 giugno 1938, ben prima di quando scriveranno George Steiner o Franco Fortini, che però insisteranno su una capacità “profetica” che Benjamin esplicitamente esclude. Ma non poche riserve si possono avanzare di nuovo su quanto Benjamin aggiunge subito dopo: «Kafka vive in un mondo complementare. (Qui è strettamente affine a Klee, la cui opera è sostanzialmente isolata, nell’ambito della pittura, allo stesso modo che quella di Kafka è isolata nella letteratura). Kafka percepì il complemento, senza percepire ciò che lo circondava».
Mentre l’accostamento a Klee è pertinente e entusiasmante — e non si tratta solo di «isolamento», ma della “rigorosa purezza” e del “puro rigore” che caratterizza i due “poeti” —, la chiusa appare sbagliata: se Kafka percepì il complemento, fu proprio perché percepiva ciò che lo circondava. Benjamin trascura indicazioni profonde, contenute nelle stesse narrazioni kafkiane. L’allegorismo attribuito a Kafka gli ha impedito di vedere la metonimicità della sua lingua. È assurdo pensare che Kafka abbia prodigiose capacità di proiezione future, senza attribuirgli una reale percezione del presente e, quindi, del passato. Come nel saggio Benjamin pensava a un «mondo preistorico», qui è portato a pensare che ciò sia il prodotto di qualcosa che risale molto indietro nel tempo, nel mondo della «tradizione». Ciò è vero, ma in un senso molto diverso. È nella realtà storica del presente di Praga e del presente dell’Impero di cui la città è periferia, nella realtà storica del particolarissimo ebraismo di Praga che Kafka percepisce la compresenza di differenti tempi storici: la contemporaneità del non-contemporaneo e la noncontemporaneità del contemporaneo, per utilizzare la formula herderiana. Kafka ha percepito la vitalità del mondo jiddisch dell’ebraismo orientale come una forma di vita che ha un presente in stretta relazione con un passato. È un mondo dove la tradizione vive. Altri che hanno guardato a questo mondo, come per esempio Buber, vi hanno visto solo un modello, non una forma di vita con un suo tempo storico. È dal confronto tra il mondo occidentale dell’assimilazione — la Westjüdischezeit — e il tempo storico dell’ebraismo orientale che nasce la «complementarità» kafkiana. A ciò corrisponde l’incrocio tra velocità narrativa e accumulazione. Benjamin appesantisce la sua interpretazione, quando aggiunge:
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Barnaba Maj «Se si dice che si avvide del futuro sena avvedersi della realtà presente, si deve precisare che se ne avvide sostanzialmente come il singolo che ne è colpito. I suoi gesti di terrore beneficiano dello spazio magnifico che la catastrofe non conoscerà. Ma alla base della sua esperienza stava esclusivamente la tradizione, a cui Kafka si votò; nessuna lungimiranza, e neanche un “dono profetico”, e chi ascolta con sforzo e fatica non vede».
Come sempre, Benjamin vede Kafka nella categoria dell’inversione, il che nella sua interpretazione significa «studio». Ma Kafka non legge e vede soltanto, ascolta. L’isolamento di Kafka viene scambiato per estraniazione dalla realtà presente e “sprofondamento” mistico nella tradizione. Il che è fattualmente falso. Se si è fatto raccontare l’America dagli emigrati, non ha ascoltato storie della Guerra? Kafka aveva orecchi per capire cosa c’era dentro queste storie e in quale costellazione storica andavano collocate. Se lo Zauberberg è il grande romanzo “ideologico” sulla Guerra, In der Strafkolonie è il racconto condensato della sua esperienza. Stando eccezionalmente dentro la tradizione, Kafka ascolta il presente. A ragione, Auden ha osservato che, come Dante, Shakespeare e Goethe, Kafka era come nessun altro vicino allo spirito del suo tempo. Kafka ascolta in der Nacht, come dice la prima strofa di Scholem —, ascolta nel silenzio della notte. A questo proposito, Benjamin si lancia in un territorio assai scivoloso, in cui le sue certezze appaiono debolmente argomentate: «Questo ascoltare è faticoso soprattutto perché ciò che percepisce chi ascolta è assolutamente vago e confuso. Non c’è una dottrina che si potrebbe apprendere, né un sapere che si potrebbe preservare. Le cose che vogliono essere afferrate al volo non sono destinate ad alcun orecchio. Ciò implica uno stato di cose che caratterizza rigorosamente l’opera di Kafka nel suo aspetto negativo. (Probabilmente la sua caratterizzazione negativa sarà sempre più fruttuosa di quella positiva). L’opera di Kafka rappresenta [darstellt] una malattia della tradizione (c. m.). È accaduto che la saggezza fosse definita come il lato epico della verità. In questo modo la saggezza viene a configurarsi come un retaggio della tradizione; è la verità nella sua consistenza haggadica».
La definizione della saggezza qui citata risale a Benjamin stesso, nel noto saggio Der Erzähler (GS II, 442 — Angelus Novus, 251). Benjamin
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applica piuttosto disinvoltamente note distinzioni di Bialik. Certamente è giusto che la caratterizzazione “negativa” di Kafka sarà sempre più fruttuosa di quella positiva: lo pensava Kafka stesso. L’espressione «malattia della tradizione» richiede però di essere ulteriromente spiegata: «È questa consistenza della verità che è andata perduta. Kafka non fu affatto il primo ad affrontare questo stato di fatto. Molti gli si erano adeguati, attenendosi alla verità o a ciò che di volta in volta avevano ritenuto tale — e rinunciando alla sua trasmissibilità, a malincuore o anche a cuor leggero. Il tratto veramente geniale di Kafka fu che egli sperimentasse qualcosa di completamente nuovo; sacrificò la verità, per non rinunciare alla trasmissibilità, all’elemento haggadico. Le poesie di Kafka sono costitutivamente allegoriche (c. m.). Ma la loro sventura e la loro bellezza è che dovessero diventare più che allegoriche. Non si prostrano semplicemente ai piedi della dottrina, come la Haggadah al cospetto della Halachah. Una volta accucciate le dànno improvvisamente una grossa zampata».
Nello scambio del 1934, Scholem ha interpreta la figura del guardiano della legge come un “rigoroso” halakhista. Qui Benjamin di fatto gli si oppone quasi frontalmente. È la tradizione haggadica a rendere costitutivamente allegoriche le poesie kafkiane. L’assunto va rovesciato: l’elemento di “lacerazione” che si riflette nella distanza ironica, rende le poesie di Kafka costitutivamente paraboliche — anche se confermano che la distanza è incolmabile. Esattamente come ha scritto Scholem, restano perciò nell’elemento halachico o meglio mantengono la relazione tra halachah e haggadah. Non a caso, Scholem risponderà proprio su questo punto. Questa posizione, secondo Benjamin alla fine disgrega anche la saggezza: «Per questo in Kafka non si parla più di saggezza. Restano solo i prodotti della sua disgregazione. Sono due: da un lato la diceria delle cose vere (una sorta di giornale teologico dove si sussurra del malfamato e dell’obsoleto); l’altro prodotto di questa diatesi è la follia, che certo ha dissipato interamente il contenuto proprio della saggezza, ma in compenso serba quell’elemento gentile e pacato di cui la diceria è sempre priva. La follia è l’essenza delle creature predilette da Kafka: da don Chischiotte agli assistenti e fino agli animali. (Probabilmente per lui essere animale significava solo aver rinunciato alla figura e saggezza umane, per una sorta di pudore, di vergogna. Come un signore distinto che è capitato in una bettola e che
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Barnaba Maj rinuncia a pulire il suo bicchiere, per pudore). Kafka aveva certamente alcune convinzioni fermissime: in primo luogo, uno, per aiutare, deve essere folle; in secondo luogo, solo l’aiuto di un folle è veramente tale. Incerto è solo un punto: giova ancora all’uomo? Forse giova piuttosto agli angeli (cfr il passo VII, 209, sugli angeli a cui si dà qualcosa da fare [vol. VII edizione kafkiana = biografia Brod]), per i quali potrebbe anche andare altrimenti. Come dice Kafka, è data una quantità infinita di speranza, solo non per noi. Questa frase racchiude veramente la speranza di Kafka. È la fonte della sua radiosa serenità».
La saggezza si dissolve e lascia il passo alla follia. Ma da dove Benjamin ricavi la certezza che ciò rientra nelle «convinzioni fermissime» di Kafka è un mistero. Benjamin chiude la sua «lettera Brod-Kafka», lasciando a Scholem il compito di intendere ove queste osservazioni si raccordino con il suo saggio del 1934. Sul quale torna: «Il tratto di questo lavoro che oggi mi disturba di più è l’intento apologetico che gli era intrinseco e costitutivo. Per rendere giustizia alla figura di Kafka nella sua purezza e nella sua peculiare bellezza, non si deve dimenticare che è quella di un fallito (c. m.). Le circostanze di questo fallimento sono molteplici. Si potrebbe dire: una volta che fu certo dello scacco finale, tutto per via gli riuscì come un sogno».
Con sicurezza Benjamin afferma «una volta che fu certo dello scacco finale…». Ma da dove, come e quando il critico ricava questa certezza? Sembra che Benjamin lo sappia: «Nulla è più degno di riflessione del fervore con cui Kafka ha sottolineato il suo fallimento».
Alla fine, la prova è che Kafka si è scelto il suo “curatore fallimentare”: «Secondo me la sua amicizia con Brod è anzitutto un punto interrogativo che egli ha voluto tracciare in margine ai propri giorni».
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Benjamin ha un’autentica ossessione-Brod. Come si è accennato, a partire dalla metà degli anni ’60, Celan si distaccò progressivamente da Benjamin, per avvicinarsi sempre più a Kafka. Ma Celan conosceva perfettamente il saggio kafkiano di Benjamin. Staccarsi da Benjamin significa allora anche staccarsi dalla sua lettura di Kafka. È un movimento complementare. Alla fine, infatti, si tratta di decidere che non è più il caso di leggere Kafka con Benjamin, ma anzi la lettura benjaminiana di Kafka pone l’alternativa: Benjamin o Kafka? In una seconda lettera dello stesso giorno, Benjamin dichiara di essersi addentrato nel complesso Kafka tanto profondamente quanto gli è possibile in quel momento. Ma lo ritiene uno sviluppo importante, perché gli chiede se può dare in lettura il suo testo all’editore Schocken. Nella lettera del 27 giugno 1938, Scholem rinvia la risposta ad altra occasione e questa arriva da Gerusalemme in data 6-8 novembre 1938. Scholem approva la nuova strada interpretativa scelta da Benjamin, accenna di avere parlato del testo all’editore Schocken e giudica perfetta la sezione critica riservata a Brod. Avanza tuttavia due obiezioni: «Ma vorrei capire che cosa tu intenda, quando parli del fallimento fondamentale di Kafka — che collochi virtualmente al centro delle tue nuove considerazioni. Sembra che intenda infine qualcosa di inatteso, mentre la semplice verità ‹è› che il fallimento fu l’oggetto di sforzi che, se riescono, naturalmente falliscono. Ma tu non puoi intendere questo. Ha espresso ciò che voleva dire? Ma certamente. L’antinomia dell’haggadico, di cui parli, non è propria soltanto della Haggadah kafkiana, ma si fonda sulla stessa natura dell’Haggadah. Quest’opera rappresenta [darstellt] realmente una “malattia della tradizione” nel tuo senso? Direi che questa malattia è insita nella natura della stessa tradizione mistica: che la trasmissibilità della tradizione soltanto resti conservata come ciò che ha di vivo, è solo e semplicemente naturale nella decadenza della tradizione, nelle creste delle sue onde. […] Non so quanti anni fa devo avere annotato osservazioni intorno a questi problemi della pura trasmissibilità in connessione con i miei studi — annotazioni che ora mi piacerebbe riprendere: mi pare che essa rientri nel contesto del problema del “santo” nella decadenza del misticismo ebraico. — Che la saggezza sia un bene, un retaggio della tradizione è verissimo, naturalmente: a ben vedere è intrinsecamente, costitutivamente non costruibile, come tutti i beni tradizionali. Sì, è la saggezza, che, dove riflette, non conosce, ma commenta. Se riuscissi a presentare il caso-limite
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Barnaba Maj della saggezza — che ora Kafka effettivamente rappresenta [darstellt] — come crisi delle pura trasmissibilità della verità, avresti ottenuto un risultato davvero grandioso. Questo commentatore ha sì delle sacre scritture, ma le ha smarrite. Dunque ci chiediamo: che cosa può commentare? Suppongo che saresti in grado di rispondere a queste domande, nelle prospettive da te esposte. Ma perché parlare di un “fallimento” — quando egli ha veramente commentato, non fosse che il nulla della verità, o che altro potrebbe risultare? E così concludo il discorso kafkiano (a proposito, ho scoperto con stupore che è fedele discepolo di Kafka il tuo amico Brecht, nell’ultimo capitolo del Romanzo da tre soldi, che ho letto in Svizzera)».
In nessun altro punto Scholem ha raggiunto questa precisione: la saggezza è consapevolezza della crisi della pura trasmissibilità della verità. La saggezza non conosce, ma commenta — come nel dialogo tra der Geistliche e Josepf K., a commento della parabola Vor dem Gesetz. Nella lettera del 25 gennaio 1939 (da 28, Abarbanel Road), Scholem si limita a comunicare di avere conosciuto Heinz Politzer, l’ultimo curatore degli scritti di Kafka. Nella lettera di Benjamin a Scholem da Paris XV (10. rue Dombasle) del 4 febbraio 1939 si narra tra l’altro dell’incontro con la vedova di estov, che a suo tempo Scholem gli aveva raccomandato di conoscere. C’è un giudizio di lettura su Atene e Gerusalemme, fondamentalmente lusinghiero. Qui, all’improvviso, ricompare Kafka: «La via da estov a Kafka è breve, per colui che si fosse deciso a prescindere dall’essenziale. Questo elemento essenziale di Kafka è l’humour — ne sono sempre più convinto. Naturalmente Kafka non fu un umorista. Piuttosto, era destinato a incontrare dovunque persone che dell’umorismo facevano una professione: clown. Specialmente America è una grande clownerie. E per quanto concerne l’amicizia con Brod, ho la sensazione di non essere lontano dalla verità, se dico: Kafka, come Laurel, sentì l’obbligo molesto di cercare il suo Hardy — che fu Brod. Comunque sia — penso che troverebbe la chiave per capire Kafka, chi riuscisse a scoprire gli aspetti comici della teologia ebraica. Qualcuno lo ha fatto? O saresti in grado di farlo tu?».
Nel postscriptum Benjamin chiede a Scholem di precisare in che senso ritiene kafkiana la conclusione del Romanzo da tre soldi. Un’unica glossa a questo testo. Benjamin non è ben informato: l’idea di far lavorare insieme Stan Laurel e Oliver (Ollie “Babe”) Hardy fu di Leo McCarey,
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degli Hal Roach Studios. Che Laurel sentì l’obbligo molesto di cercare il suo Hardy è pura fantasia. Il fastidio che Benjamin prova per Hardy è pura idiosincrasia. L’ultimo richiamo a Kafka è nella lettera del 20 febbraio 1939, stesso luogo. Benjamin si limita a chiedere a Scholem se ha fatto in tempo a fare avere a Schocken la sua critica al libro di Brod.
5. APPENDICE: BRIEF AN DEN VATER Manca in questo carteggio la conoscenza della particolare condizione storico-spirituale dell’ebraismo praghese, la sua posizione centrale nel confronto tra ebraismo occidentale e orientale. Manca in sostanza anche una conoscenza approfondita dello sfondo familiare, sociale e storico della vita e della scrittura di Kafka. Ciò si riflette soprattutto nelle posizioni di Benjamin, mentre Scholem ha spesso intuizioni non solo teoriche ma critiche, come quella che l’ha condotto ad accostare per un attimo il padre di Kafka alle figure del Guardiano della legge o del padre in Das Urteil. Nell’ultima discussione in particolare — originata dalla «lettera BrodKafka» del 12 giugno 1938 —, è evidente l’importanza che avrebbe assunto la conoscenza del Brief an den Vater. Questo testo sconvolgente, destinato alla scrittura e non alla lettura, scritto di getto nel novembre 1919 e il cui manoscritto “non presenta nessuna cancellatura”, contiene alcuni passaggichiave sul rapporto tra Kafka e l’ebraismo, sotto l’angolo d’inclinazione del suo rapporto con il padre. In ogni caso, essi mostrano quanto in genere siano le osservazioni di Scholem a cogliere nel segno: «Ebensowenig Rettung vor Dir fand ich im Judentum. Hier wäre ja an sich Rettung denkbar gewesen, aber noch mehr, es wäre denkbar gewesen, daß wir uns beide im Judentum gefunden hätten oder daß wir gar von dort einig ausgegangen wären. Aber was war das für Judentum, das ich von Dir bekam! Ich habe im Laufe der Jahre etwa auf dreierlei Art mich dazu gestellt».
In accordo con te, da bambino mi rimproveravo di non andare abbastanza al tempio, di non digiunare e così via. Credevo con ciò di fare torto non a me ma a te, e la coscienza della colpa, sempre in agguato, mi pervadeva. In seguito, da ragazzo, non capivo come tu, con quel giudaismo
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Barnaba Maj
da nulla di cui disponevi — mit dem Nichts von Judentum, über das Du verfügtest — potessi rimproverarmi perché non mi sforzavo (almeno per un senso di rispetto [Pietät], come tu ti esprimevi) di eseguire un nulla analogo. Per quello che potevo vedere, era davvero un “nulla”, uno scherzo, neppure uno scherzo. Kafka coglie la situazione di una Übergangsgeneration, una generazione di trapasso in una società di transizione. Il padre frequentava la sinagoga quattro volte all’anno e appariva più vicino agli indifferenti, che ai fedeli autentici. Benché sbrigasse con pazienza tutte le formalità, spesso tuttavia stupiva il figlio, indicando il passo che si stava recitando e rivelando una conoscenza linguistica e religiosa sorprendente. Il retaggio della tradizione era dunque ancora vivo in lui, ma non lo trasmetteva al figlio. In tal modo, le formule delle preghiere diventavano suoni misteriosi. Un passo successivo chiarisce una delle radici dell’humour kafkiano. Si riferisce al momento solenne dell’apertura dell’arca, che talvolta gli sembrava simile alla baracca del tiro a segno. Anche in quel caso, se si colpiva il nero, si apriva lo sportello di una cassa. Solo che ad uscire era qualcosa di davvero interessante, mentre qui «nur immer wieder die alten Puppen ohne Köpfe». Queste bambole senza testa erano i rotoli della Torah. Franz, che già molto prima ha confessato di essere stato ein ängstliches Kind, dice che in quei momenti aveva anche una gran paura, non solo e non tanto della gran folla accalcata nel tempio, quanto soprattutto del fatto che il padre gli aveva detto «daß auch ich zur Thora aufgerufen werden könne. Davor zitterte ich jahrelang» (c. m.). Ciò rievoca la situazione di Mosè in colloquio di fronte a Dio sul Monte Sinai, di cui narrano certi Midrashim. Il racconto Zur Frage der Gesetze, databile 30 agosto 1920, si apre così: «Unsere Gesezte sind leider nicht allgemein bekannt, sie sind Geheimnis der kleinen Adelsgruppe, welche uns beherrscht».
Dio si è allontanato dal mondo e non vi compare, ma la legge domina sul mondo. La responsabilità del padre, dunque, è precisa. Non avendo saputo o voluto trasmettergli il retaggio della tradizione, ha irrimediabilmente allontanato il bambino dalla legge. Le categorie che articolano questo allontanamento e senso di inavvicinabilità sono teologico-metafisiche, non psicologiche.
Scrittura e Teologia
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Tuttavia — questa è una constatazione universale — in tutti i racconti e i romanzi di Kafka, cioè in tutti i testi destinati a un’eventuale circolazione pubblica, non compaiono mai parole come Jude, Judentum, jüdisch. Esattamente come nella poesia di Celan non c’è mai un solo riferimento diretto a nomi o categorie che designino la Shoah. Ciò non dipende però da procedimenti di metaforizzazione o di allegorizzazione del trauma. È esattamente il contrario. La forza di questi due mondi e di queste due lingue sta invece nel non allontanarsi dal trauma, nel non trasfigurarlo. È la forza che, in dissenso anche da Benjamin che pure l’ha parzialmente intuita, va definita come direttamente metonimica — è la forza creaturale. Come Celan dopo di lui, Kafka permane al centro di questo trauma, di questa lacerazione. Il mistero dei suoi racconti e romanzi è lo stesso per cui il metonimico — ovvero il fondo della corporeità — lascia intatto il non detto del nucleo del dolore. In ciò, c’è una connessione con l’idea del tragico nella sua formulazione più dura e compatta, meno dialettica: Eschilo. Kafka rinuncia alle Eumenidi — in ciò è più spietato di Eschilo —, ma conserva uno sguardo sofocleo. Come in Celan, la “crudeltà” che caratterizza Kafka è la cifra per non tradire la rivelazione della crudeltà reale.
L’EBREO NELLA LETTERATURA ITALIANA: APPUNTI IN MARGINE A DUE TESTI DI METÀ OTTOCENTO
ROSA MARIA MONASTRA*
Anzitutto una giustificazione, o quanto meno una motivazione riguardo all’oggetto di analisi da me prescelto. Dato il tema del seminario, sarebbe forse apparso più congruente, da parte di un’italianista, un intervento in ambito novecentesco. È infatti nel Novecento che gli ebrei irrompono con forza sulla scena letteraria italiana: si pensi, giusto per fare i nomi più noti, alla Trieste di Svevo e Saba, alla Torino dei tre Levi (Carlo, Natalia, Primo), alla Ferrara di Bassani, fino alla Roma di Moravia. Su questi grandi scrittori, per l’appunto, esiste un’ampia bibliografia in cui — marginalmente o specificamente — si è cercato di mettere a fuoco gli elementi riferibili al mondo ebraico. Sennonché proprio dalla lettura di tali studi, per quanto interessanti e stimolanti essi possano essere, ho finito col ricavare la persuasione che fosse meglio cambiare strada. Per spiegarmi meglio farò qualche rapida osservazione a partire da un libro che affronta complessivamente la questione dell’“ebraicità” negli autori novecenteschi, e cioè il saggio dell’americano Henry Stuart Hughes suggestivamente intitolato Prisoners of Hope1. Hughes muove dalla constatazione di un paradosso: gli ebrei d’Italia, a causa della complessa stratificazione dei loro insediamenti, per un verso sono tra i più assimilati del mondo, per l’altro mantengono un forte senso di identità. Assimilazione significa condivisione della lingua e dei valori della maggioranza: già nei ghetti, infatti, gli ebrei * Docente di Letteratura italiana presso la Facoltà di Lingue dell’Università degli Studi di Catania. 1 H. STUART HUGHES, Prisoners of Hope. The Silver Age of Italian Jews 1924-1974, Cambridge Mass. 1983 (trad. it. Prigionieri della speranza. Alla ricerca dell’identità ebraica nella letteratura italiana contemporanea, Bologna 1983).
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italiani parlavano la lingua dei loro connazionali2; quanto alla religione, essi si sarebbero sempre distinti per un grande pluralismo di riti e per una certa rilassatezza di costumi. Ora, tolti quegli elementi di coesione che sono la lingua e le pratiche religiose, in che cosa può consistere il senso di identità? Hughes parla di una coscienza ebraica “residua”, che in certo qual modo costituirebbe l’altra faccia di un ricorrente pregiudizio antisemita: e cita il caso significativo di Luigi Luzzatti, teista avverso a ogni tipo di confessionalità, il quale nel 1909 ebbe a dichiarare di tornare a sentirsi ebreo ogni volta che qualcuno lo additasse come tale3. Un’identità in negativo, dunque. Il fatto è però che Hughes su questo “residuo”, tanto pesante nelle sue conseguenze umane quanto evanescente a livello simbolico, cerca comunque di costruire un discorso interpretativo per i testi letterari: e ipotizza l’esistenza di una particolare “sensibilità” negli scrittori italiani di origine ebraica — minima in Moravia, massima in Bassani, ma comunque sufficiente a costituire un comune denominatore. Invece, stando alle sue stesse premesse, mi pare si dovrebbe concludere che, in mancanza di una forte continuità linguistica e religiosa, l’unico fattore caratterizzabile come ebraico può essere costituito dalla memoria: memoria nostalgica o ironica, riconciliata o conflittuale, ma comunque tale da suscitare in chi scrive una doppia immagine di sé, come uguale e come diverso. Ove questa memoria non sussista, o si percepisca labilmente, ogni tentativo di dare ai testi una declinazione ebraica non può riuscire convincente. Quando poi essa affiori in modo significativo, occorre comunque tener presente che si tratta di una “ebraicità” sfuggente, espressa o messa in questione a partire dai parametri 2 Come precisa meglio M. MAYER MODENA (Le parlate giudeo-italiane, in AA.VV., Storia d’Italia. Annali, a cura di C. Vivanti, XI/2, Torino 1997, 937-963), le parlate giudeoitaliane moderne si presentano «come il punto di arrivo di una tradizione di espressione linguistica di assai complessa formazione. In ogni suo momento, essa ha conservato tenacemente traccia dei momenti precedenti e ha continuato a essere arricchita e quasi dominata dal rapporto di diglossia con la lingua sacra, avendo sempre come base (in ogni singola zona) il dialetto italiano del luogo che, per il relativo isolamento del gruppo ebraico, non può che presentarsi come più conservatore e arcaizzante rispetto all’ambiente circostante». 3 Per la verità di dichiarazioni di questo tipo Luzzatti si trovò a farne più volte, talora anche suscitando il risentimento degli ebrei ortodossi: cfr M. BERENGO, Luigi Luzzatti e la tradizione ebraica, in AA.VV., Luigi Luzzatti e il suo tempo, atti del convegno internazionale di studi, Venezia 7-9 novembre 1991, Venezia 1994, 527-541.
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propri della cultura occidentale; e che a volerla enfatizzare in modo esclusivo si rischia di creare una sorta di ghetto intellettuale dove spariscono i nessi più significativi con il mondo circostante. In base a tali considerazioni dunque ho preferito modificare l’angolo visuale: non gli scrittori ebrei, ma l’immagine dell’ebreo nella letteratura italiana. E ho deciso di mettere a fuoco non il Novecento, già oggetto di tanti studi, bensì l’Ottocento, solitamente preso in esame da questo punto di vista solo per quei paesi in cui la presenza di una grande finanza ebraica ha dato impulso a un sensibile orientamento antisemita, con ripercussioni e lacerazioni notevoli anche in ambito letterario. In realtà spunti in questa direzione non sono mancati nemmeno nel nostro paese. In particolare mi è sembrato opportuno evidenziare alcune testimonianze di metà Ottocento4, quando, falliti i moti liberaldemocratici, si profilarono in varie parti d’Italia più o meno vistosi rigurgiti antigiudaici. L’idea che si potesse tornare a una drastica chiusura dei ghetti era tuttavia ormai largamente minoritaria; e infatti da lì a non molto l’unificazione del paese avrebbe sancito la piena parità fra i sudditi del Regno: ma senza per questo estinguere tutti i veleni, che, infatti sarebbero tornati ad affiorare — sempre più aggressivi — verso la fine del secolo. Le opere che qui intendo analizzare — il romanzo L’ebreo di Verona di Antonio Bresciani e il dramma Emanuele di Ippolito Nievo — sono certamente due opere “minori”, e tuttavia mi sembrano assai utili per capire questa chiaroscurata vigilia. Le aree geopolitiche qui chiamate in causa sono la Roma di Pio IX, ancora segnata da leggi discriminatorie e consuetudini umilianti, e ossessionata da un’ortodossia religiosa che poteva arrivare fino alla sopraffazione5; e la Mantova austriaca, dove la tradizionale tolleranza 4 Per un quadro generale della questione dall’età napoleonica al 1848, si veda F. DELLA PERUTA, Gli ebrei nel Risorgimento fra interdizioni ed emancipazione, in AA.VV., Storia d’Italia. Annali, XI/2, cit., 1133-1167; con particolare attenzione al Piemonte, G. ARIAN LEVI – G. DISEGNI, Fuori dal ghetto. Il 1848 degli ebrei, Roma 1998. 5 Basti pensare al caso Mortara, che esploderà da lì a poco, nel 1858. Per quanto riguarda le condizioni del ghetto romano alla vigilia dei moti, si veda quel che ne diceva il buon Massimo d’Azeglio: «Che cosa sia il ghetto di Roma, lo sanno i Romani e coloro che l’hanno veduto. Ma chi non l’ha visitato, sappia che presso il ponte a Quattro Capi s’estende lungo il Tevere un quartiere, o piuttosto ammasso informe di case e tugurii mal tenuti, peggio riparati e mezzo cadenti […] nei quali si stipa una popolazione di 3900 persone, dove invece ve ne potrebbe capire una metà malvolentieri. Le strade strette, immonde, la mancanza d’aria,
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degli Asburgo già nell’ultimo quarto del Settecento aveva posto le premesse per una rapida affermazione sociale di alcune famiglie israelitiche. Ma si tenga presente che Bresciani aveva vissuto da giovane in luoghi non distanti da quelli nieviani: nato ad Ala, nel Trentino, egli infatti aveva soggiornato a lungo a Verona (donde appunto non a caso avrebbe fatto venire il suo ebreo); sicché non possiamo sorprenderci se nel suo romanzo la sprezzante ideologia del ghetto si ammorbidisce in una più condiscendente valutazione dell’ebraismo nordico e mitteleuropeo. *** È noto come l’immagine letteraria dell’ebreo si sia consolidata attraverso i secoli intorno a due nuclei principali: per un verso il leggendario ebreo errante, per l’altro l’ebreo ricco (mercante o usuraio, a seconda dei casi). La leggenda dell’ebreo errante è molto antica6. Le prime testimonianze ad essa riferibili risalgono addirittura al VII secolo, ma per una documentazione dai contorni più precisi bisogna andare ad alcune cronache del Duecento: una, anonima, proveniente dal convento di S. Maria di Ferraria, nel regno di Napoli; due provenienti dal monastero inglese di Saint Albans, e cioè i Flores historiarum di Ruggero di Wendover e i Chronica majora di Matteo di Parigi. In tutte e tre si racconta di un uomo che avrebbe offeso Gesù durante la sua passione colpendolo e incitandolo a camminare, e perciò sarebbe stato condannato ad aspettarne il ritorno alla fine dei tempi: nella cronaca di Ferraria l’uomo è indicato come quidam Judaeus, nelle cronache inglesi si parla di un ostiarius di Ponzio Pilato, Cartaphilus, poi battezzatosi il sudiciume che è conseguenza inevitabile dell’agglomerazione sforzata di troppa popolazione quasi tutta miserabile, rende quel soggiorno tristo, puzzolente e malsano. Famiglie di que’ disgraziati vivono, e più d’una per locale, ammucchiate senza distinzione di sessi, d’età, di condizione, di salute, a ogni piano, nelle soffitte e perfino nelle buche sotterranee che in più felici abitazioni servono di cantine» (M. D’AZEGLIO, Dell’emancipazione civile degl’Israeliti, in Scritti e discorsi politici, I, Firenze 1931, 367-368). 6 Sull’argomento esiste una bibliografia vastissima. Tra le pubblicazioni più recenti di carattere complessivo si vedano almeno: M.F. ROUART, Le mythe du Juif errant dans l’Europe du XIX siècle, Paris 1988; F. SOFIA, La laicizzazione dell’immagine dell’ebreo errante, in AA.VV., Stato nazionale ed emancipazione ebraica, a cura di F. Sofia e M. Toscano, Roma 1992, 105-121; AA.VV., L’ebreo errante. Metamorfosi di un mito, a cura di E. Fintz Menascé, Milano 1993.
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col nome di Giuseppe. La leggenda del peccatore che non può morire prima del Giudizio ha circolato ampiamente per tutto il Medioevo con diverse varianti (varia anche il nome del personaggio, che non è identificato sempre come ebreo: in Italia lo troviamo sotto il nome di Buttadeus, in Spagna come Juan Espera en Dios). Ai primi del XVII secolo la figura acquista una nuova e più precisa fisionomia. Nel 1602 appare infatti in Germania un Volksbuch, la Kurze Beschreibung, in cui il personaggio che ha offeso Cristo è ormai chiaramente un ebreo, un ciabattino di Gerusalemme di nome Ahasverus: egli ha impedito a Gesù di riposare davanti alla sua casa (altrove si dirà che gli ha negato la possibilità di dissetarsi), e perciò non può aver pace prima che Cristo ritorni. Antisemitismo e inquietudine moderna creano una nuova figura: Ahasverus è un vecchio lacero, piagato dai lunghi vagabondaggi, senza più quell’aura di bonaria saggezza che lo caratterizzava in origine. Alla fine del Settecento questa immagine di sofferenza e sradicamento suggestionò Goethe, che intorno al 1774 prese a lavorare a una poesia intitolata Der Ewige Jude, poesia rimasta allo stato di frammento perché la tematica storico-esistenziale del progetto presto sarebbe andata a confluire nella ripresa di un altro personaggio tradizionale, quello di Faust. Fra preromanticismo e romanticismo, furono moltissimi gli scrittori, artisti e musicisti che si interessarono al vecchio ebreo senza pace: la leggenda cristiana di espiazione diventava così un mito volto ad esprimere insieme la pienezza e la finitezza della vita umana, un mito di autoliberazione. In Francia essa assunse sovente una forte carica sociale: si pensi alla ricorrente apparizione — nei momenti più caldi — di periodici intitolati «Le Juif errant»7; e si pensi soprattutto al famoso romanzo (poi anche dramma) di Sue, intitolato anch’esso Le Juif errant, in cui i personaggi dell’Ebreo e dell’Ebrea venivano a simboleggiare l’oppressa classe operaia. Ora, a mio parere, L’Ebreo di Verona di Bresciani8 intende appunto contrapporsi all’uso che della leggenda si faceva nella cultura liberalde7 «Le Juif errant» (1790); «Le Juif errant. Journal politique et littéraire, ou Rélation véridique de tous les événements relatifs à la République française» (1799); «Le Juif errant. Revue mensuelle du progrès» (1834); «Le Juif errant» (1848). In proposito cfr F. SOFIA, La laicizzazione dell’immagine dell’ebreo errante, cit., 109-111. 8 Il romanzo uscì a puntate sulla «Civiltà Cattolica» dall’aprile 1850 all’agosto 1851; quindi subito in volume, Roma 1852. Una 2ª ed., accresciuta di una dedicatoria al gesuita Carlo Maria Curci e di molte note, apparve nel 1860: ad essa si rifà l’ed. complessiva delle
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mocratica (alla quale del resto nel romanzo si allude un paio di volte polemicamente)9. Si direbbe anzi che l’autore abbia voluto chiamare Aser il suo protagonista proprio perché in questa moderna figura dell’ebraismo filorivoluzionario si sentisse risuonare un’eco dell’antico Asvero, e al lettore riuscisse agevole interpretarne le vicissitudini di colpa e conversione come una valida antitesi alle recenti riprese della tradizione in chiave anticlericale e antiassolutista. Tutto lascia credere insomma che l’Ebreo di Bresciani ambisca a far piazza pulita di un mito divenuto pericoloso, assorbendone in direzione opposta il potenziale di suggestione: laddove infatti il romanzo di Sue si dipanava intorno a una tesi sovversiva costituita dall’adesione all’utopia fourierista e dall’odio per la Compagnia di Gesù, L’Ebreo di Verona invece intende fare l’apologia dei gesuiti e screditare i “settarii”. Donde la diversa ottica in cui si pone la presenza ebraica: là nella luce di una dura contestazione della Chiesa istituzionale, qui al contrario in quella di una auspicabile sottomissione ad essa. A livello narrativo, l’effetto più vistoso di questa simmetria rovesciata si coglie nella trasformazione di genere: non più l’epopea del Bene contro il Male, ma la storia di una conversione dal Male al Bene. Aser, affiliato alla “setta” mazziniana, salva da un grave pericolo una fanciulla cattolica, Alisa, la quale si innamora di lui senza sapere che si tratta di un ebreo. Lo saprà solo alla fine del romanzo, quando il giovane, ormai convertito e battezzato, le manderà una lettera di confessione: l’autore non gli farà certo negare il perdono dell’amata, ma d’altra parte farà morire Aser per mano di un ex-compagno di cospirazione, scansando così i rischi di uno happy end non da tutti apprezzabile.
Opere intrapresa dalla stessa «Civiltà Cattolica» poco dopo la morte di Bresciani. Qui tutte le citazioni saranno tratte dalla seguente edizione (che riproduce quella del vol. VI delle Opere): L’Ebreo di Verona. Racconto storico dall’anno 1846 al 1849 del P. Antonio Bresciani D.C.D.G., 6 voll., Milano 1884. 9 Polissena, inaffidabile istitutrice di Alisa (cfr più avanti), cerca di attrarre la giovinetta nell’orbita rivoluzionaria dandole da leggere «i giornali della Giovine Svizzera, l’Ebreo errante, la Religione dell’avvenire di Feuerbach, le Poesie di Giorgio Herwegh, le Arringhe di Weitling e di Marr» (I, 77). Aser, sentendo dei maltrattamenti e delle umiliazioni inferti ai gesuiti dal popolo genovese, esclama indignato: «Oh questo poi è troppo! Eugenio Sue nell’Ebreo errante, Vincenzo Gioberti nel Gesuita moderno, che apposero ai Gesuiti ogni iniquità, di questi sudiciumi non li rimbrottan mai» (II, 36).
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«Empio, ma per giunta anche ebreo», si definisce Aser quando decide di aprire il suo cuore al buon padre Cornelio10: dove l’“empietà” si riferisce al ruolo di “settario”, di «guerreggiatore» contro i legittimi sovrani e dunque «contro Dio»; e l’essere ebreo si configura come colpa in quanto comporta il rifiuto di Cristo e la mancata rigenerazione attraverso il battesimo. Errante è dunque Aser non solo letteralmente, perché corre per tutta l’Europa incendiata dalle rivoluzioni, ma soprattutto metaforicamente, perché sta dalla parte sbagliata e pratica una fede sbagliata. La sua conversione sarà allora una doppia conversione, politica e religiosa. Sennonché, come abbiamo visto, ciò non basta a farne un individuo senza macchia, accettabile come genero da un savio padre di famiglia (nel romanzo, da Bartolo, padre di Alisa). Ci pensa l’autore a salvare capra e cavoli, per un verso inchinandosi al suo «valoroso Ebreo»11 e per l’altro togliendolo di mezzo al momento opportuno: egli conferma così la materna benevolenza della Chiesa verso tutti quelli che le si sottomettono, ed evita un’unione che potrebbe disturbare il lettore benpensante. Non c’è propriamente, in tutto questo, un pregiudizio razziale. Pure il ricorrente disprezzo verso gli ebrei circolante per il romanzo delinea un orizzonte abbastanza sospetto. Li disprezzano i “settarii”, che si giovano del loro sostegno alla rivoluzione ma li considerano «gente sozza, ignorante, taccagna, vigliacca, che per due quattrini ne disgraderebbe Giuda»12. Si autodisprezza il convertito Aser, al punto da preoccuparsi che la «pia famigliuola» che lo ha ospitato e curato dopo un brutto incidente di caccia venga a sapere «d’aver avuto in casa un giudeo»13. E probabilmente un po’ li disprezza lo stesso Bresciani, se in una nota, ai sarcasmi di un giornale liberale sull’«animo italiano» e il «civile sapere» di un avvocato di Macerata che aveva cacciato via tre combattenti israeliti, replica in questi termini: «Appunto forse perché italiano aveva in onta la Giudea; né riputavasi intaccar punto il civile sapere se i tre giudei sapean di ghetto, ed ei non volea che appuzzassergli la casa»14. 10
VI,
11
IV,
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83. E cfr anche ibid., 85: «io ebreo ed empio». 64. I, 76. VI, 88. III, 106.
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Se i reclusi del ghetto sono gabbati due volte, in quanto privati dei loro diritti e in quanto appunto per di più oggetto di scherno, un trattamento un po’ diverso viene riservato al ricco e assimilato ebraismo d’Europa. Nel romanzo è anzitutto un personaggio storico, il “settario” Sterbini, a distinguere tra le due cose: «Nel resto tu misuri gli Ebrei d’oltremonti con quelli dei nostri ghetti d’Italia, così sudici, cenciosi e puzzolenti; t’inganni a partito: colà son liberi, colti, ricchi, frequentano le università, s’avvolgono tra le gentili brigate, hanno traffichi in tutt’i porti, banchi in tutte le metropoli, sono adoperati in tutt’i carichi dai Governi, e poco meno che non sono gentiluomini di camera ne’ palazzi reali»15.
Più avanti, è un compagno di liceo di Aser a evidenziarne la diversità rispetto al tipo consueto dell’ebreo italiano: «Era l’unico ebreo, cui gli scolari non ischernissero, o facendogli le bocche, o torcendo il naso e alzando il niffolo, o grugnendo, o accartocciando coll’ala del vestito l’orecchio del porco per beffarlo, e dargli la baja, e farlo versare. Egli era di tanto ingegno, che pochi il gareggiavano, e con questo, tanto gentile e cortese, che non putiva nulla di ghetto, ed avea l’aria di gentiluomo. […] . Suo padre, ch’è banchiere, ha frequenti pratiche col padre mio […]. Or egli ci narrò più volte che Aser, dopo il primo anno di filosofia, fu chiamato in Amburgo da un suo zio, ch’è ivi traricco ed ha legni in mare e traffichi con tutte le costiere del Baltico e del mar Bianco sino ad Arcangelo, ov’apre magazzini e banco di gran corso colle borse di Stokolma, di Cristiania e di Copenaghen»16.
Aser dunque in Italia è un’eccezione. Ma che pensare di tutti gli altri ebrei, di quelli costretti a subire il bel trattamento che viene descritto con freddezza, e quasi con divertimento, nel passo appena citato? Dobbiamo intuire, nell’elencazione particolareggiata delle loro umiliazioni, una qualche compiaciuta complicità da parte dell’autore? È difficile rispondere: 15
I,
16
III,
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certo, Bresciani non sembra particolarmente scosso dalla crudeltà di quei comportamenti; pure non si può dire che li condivida. Dopotutto egli non risparmia una tiratina d’orecchie a chi voglia esagerare. Alla fine del romanzo, infatti, immaginando la reazione disgustata del pubblico già di fronte al titolo («Uh, ah, oh l’Ebreo! dàlli la baja, ch’è l’Ebreo, vi si sente proprio il sito e il fortore del ghetto»), egli mette in campo qualche lettore più assennato, che inviti gli altri alla «flemma»: «L’autore ci avrà già il suo buon partito alle mani, per esempio vorrà… chi sa?… far vergogna forse a più d’un cristiano»17.
Poca cosa, se si pensa al pathos di un Massimo d’Azeglio nel denunciare la responsabilità dei cristiani18. Ma questo era padre Bresciani: «un buon uomo», come ebbe a definirlo De Sanctis19; cioè un uomo troppo meschino per andar oltre le proprie paure, per aprirsi a una nuova, più generosa e problematica religiosità. Non possiamo dimenticare peraltro che quest’uomo meschino fu espressamente incaricato dalle autorità pontificie di scrivere il suo romanzo a scopo di propaganda controrivoluzionaria20: egli non parlava semplicemente in proprio, ma esprimeva un punto di vista ufficiale. *** 17
118. Cfr M. D’AZEGLIO, Dell’emancipazione civile degl’Israeliti, cit., 401: «Ognuno di noi dunque tenda la mano ai nostri fratelli Israeliti, li ristori de’ dolori, de’ danni, degl’ingiusti scherni che fecero loro soffrire non dirò i Cristiani (ché un tal nome non si conviene a chi rinnega o falsa il sommo tra i precetti di Cristo, la carità) ma coloro che avevano, e pel fatto delle riferite persecuzioni non meritavano il titolo di Cristiani». 19 F. DE SANCTIS, «L’Ebreo di Verona» del padre Bresciani [1855], in Opere, IV: La crisi del Romanticismo, introd. di G. Nicastro, nota di M.T. Lanza, Torino 1972, 498-527. 20 Lo attesta lo stesso Bresciani nella già menzionata dedicatoria al padre Curci: «nell’assegnare le parti agli scrittori voleste ch’io assumessi quella d’ammaestrar dilettando colla vivacità dello stile, la gajezza delle immagini, la varietà de’ racconti, la bizzarria degl’intrecci e il ghiotto delle facezie e de’ sali, che soglion esser l’esca ch’attrae la gioventù ad abboccare l’amo di certe verità severe […]. Ed io m’acconciai volontieri al vostro desiderio; tuttavia ricordo, che non sapea né a quale argomento appigliarmi né come condurlo; ma voi, cui nulla sgomenta, mi gittaste là riciso: — Scrivete delle cose di Roma, 18
VI,
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Come quella dell’ebreo errante, anche la figura dell’ebreo ricco è dapprima una figura positiva: si pensi al mercante del Novellino, che con la sua parabola dei tre anelli riesce ad aggirare il quesito-trabocchetto del Soldano; e si pensi al suo diretto discendente, l’usuraio Melchisedech del Decameron, che con lo stesso stratagemma lo fa rinsavire. Gli aspetti torvi e sordidi del mestiere di usuraio vengono fuori piano piano: già un po’ nel primo Quattrocento21, e poi vistosamente nel Cinque/Seicento: ma nei grandi scrittori con una ambivalenza che mette a fuoco anche le responsabilità dei cristiani (vedi il Barabas di Marlowe e lo Shylock di Shakespeare). L’alta lezione di tolleranza di Boccaccio sarà ripresa nel Settecento da Lessing nel dramma Nathan der Weise: significativamente però “il saggio” torna qui a essere un mercante, come nel Novellino, non è un usuraio come nel Decameron. Una luce sinistra, e insieme un misterioso fascino, circondano ambiguamente certi ebrei usurai o affaristi dell’Ottocento: come il Gobseck balazachiano, un «Hollandais digne du pinceau de Rembrandt»22, che impegna la vita nell’accumulare ricchezze di cui non gode e muore con l’imperturbabilità di un antico romano; o come i tanti ebrei che pullulano ne L’Argent di Zola — Busch, Kolb, Jacoby, e soprattutto Gundermann, «le roi tout-puissant, redouté et obéi de Paris et du monde»23, costretto a cibarsi solo di latte e a non riposare mai.
voi che vedeste cogli occhi vostri e udiste coi vostri orecchi. È argomento fresco, notorio, universale: svolgetelo come v’aggrada, desterà sempre la curiosità degl’Italiani e potrebbe chiarirli sopra le fallacie e le menzogne che si spacciavano svergognatamente dai giornali dei cospiratoti a quei giorni malaugurati» (L’Ebreo di Verona, cit., I, 15-16). E cfr F. DANTE, Storia della «Civiltà Cattolica» (1850-1891). Il laboratorio del Papa, Roma 1990. 21 Si pensi alla prima novella della IV giornata del Pecorone, dove compare un nucleo narrativo che darà frutti splendidi e avvelenati nel Mercant of Venise. E si pensi alle prediche di Bernardino da Siena, e in genere alla campagna contro l’usura, durante la quale i frati minori francescani «pronunciarono dalle piazze e dai pulpiti delle invettive contro gli ebrei in cui ben poco poteva definirsi oratoria sacra» (A. MILANO, Storia degli Ebrei in Italia, Torino 1963, 684). 22 H. DE BALZAC, Gobseck, in La comédie humaine. Études de moeurs: Scènes de la vie privée, II, Paris 1951, 671. 23 É. ZOLA, L’Argent, in Les Rougon-Macquart, V, Paris 1993 [1967], 91. Contro ogni interpretazione del romanzo zoliano in chiave antisemita si veda P. PELLINI, L’oro e la carta. «L’Argent» di Zola, la “letteratura finanziaria” e la logica del naturalismo, Fasano (BR) 1996, 89-99.
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In Italia, mentre si susseguono le prese di posizione contro le interdizioni agli israeliti (Cattaneo, Gioberti, i fratelli Massimo e Roberto d’Azeglio…), Nievo denuncia con forza, nel dramma Emanuele, la spirale di odio innescata dalla discriminazione: pur nei limiti di un linguaggio teatrale di compromesso, egli riesce a dare una straordinaria forza morale alla protesta del suo Giosue — tanto da farcelo apparire quasi come un progenitore del pawnbroker del romanzo di E.L. Wallant e del film di Sidney Lumet. Novello Scylock senza sospetto di laidezza ma solo incattivito dalla cattiveria altrui, Giosue si avvale della degradazione come di un’arma vendicatrice, esercita l’usura per annichilire la dissipata aristocrazia che gli chiede denaro e al contempo lo oltraggia, considera il ghetto e la stabilità delle tradizioni giudaiche come un’orgogliosa affermazione di identità, l’unico modo per far quadrato contro la persecuzione e le ingiurie. Nel dramma, che non fu mai rappresentato, e nemmeno pubblicato vivente l’autore, non ci sono indicazioni precise riguardo all’ambientazione, ma «da più riferimenti è evidente che esso nasce dall’osservazione dell’ebraismo mantovano»24: tra l’altro, è dedicato all’amico Emanuele Ottolenghi, appartenente a un’antica e ricca famiglia ebrea di Sabbioneta, conosciuto da Nievo sul finire del ’47 allorché, dopo aver compiuto a Verona gli studi ginnasiali, si ricongiunse alla famiglia (che allora viveva appunto tra Mantova e Sabbioneta, dove il padre di Ippolito era pretore). Il testo, datato «aprile 1852», ha un retroterra che merita di essere ricordato. Alla fine del ’51, e precisamente il 27 dicembre, il periodico bresciano «La Sferza» era uscito con un brutto articolo del direttore Luigi Mazzoldi in cui, in relazione a un recente decreto della Delegazione provinciale contro l’usura, si inveiva contro gli ebrei “truffatori”. A protestare, oltre alla comunità israelitica di Mantova e a un tale Bruner, fu appunto Ippolito Nievo, che inviò alla redazione del giornale una lunga
24 R. SALVADORI, Ippolito Nievo e l’ebraismo mantovano, in AA.VV., Ippolito Nievo e il Mantovano, atti del convegno nazionale, a cura di G. Grimaldi, introd. di P.V. Mengaldo, Venezia, 2001, 261 ss. Sulla comunità mantovana si veda F. CAVAROCCHI, La comunità ebraica di Mantova fra prima emancipazione e unità d’Italia, Firenze 2002; sul nucleo di Sabbioneta V. COLORNI, Gli ebrei a Sabbioneta, in Judaica minora. Saggi sulla storia dell’ebraismo italiano dall’antichità all’età moderna. Nuove ricerche, Milano 1991, 99-114 (e cfr anche, dello stesso autore, Appunti sugli ebrei a Bozzolo, in ibid., 17-27).
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lettera: questa però non fu pubblicata per intero, bensì solo sommariamente25 e per giunta senza il nome dell’autore26, in modo che ne riuscisse attutita la forza polemica e assumesse per converso risalto la controargomentazione redazionale. Nonostante la manipolazione unilaterale della controversia, l’assunto del discorso di Nievo appare chiaro: non essere «necessario per la perfetta civiltà che tutti siano cristiani». All’altro capo della polemica, «La Sferza» ribadiva invece una posizione di stretta osservanza “romana”: fuori dal «dogma della croce» non ci può essere verità; dunque bisogna ricondurre ad esso anche il giudaismo, e allora questo «non sarà più giudaismo ma cristianesimo». Quanto alle nefandezze perpetrate dai cattolici zelanti e denunciate da Nievo (le stragi organizzate dai domenicani, l’ipocrisia insegnata dai gesuiti), per «La Sferza» si sarebbe trattato di «eccessi» che non hanno mai intaccato la salda bontà dei principi. A leggere su questo sfondo l’Emanuele, ci si accorge che la limpida aconfesssionalità dell’opera cova dentro di sé un tarlo, forse inoculato appunto da un ripensamento della questione alla luce delle obiezioni della parte avversa. Si tratta di un nodo irrisolto tra apertura al diverso e desiderio di eliminarlo in quanto tale: sia pure alleggerito da tutte le «superstizioni» che sono cresciute su di esso, il Vangelo costituisce infatti comunque nell’Emanuele un punto di riferimento ineludibile, a cui devono 25 Il decorso di questa polemica non è chiarissimo in tutte le sue fasi, appunto perché non possiamo leggere l’intervento di Nievo ma solo il grossolano riassunto che ne fece poi «La Sferza» nel fascicolo del 31 gennaio 1852 (ora in I. NIEVO, Scritti giornalistici, a cura di U.M. Olivieri, Palermo 1996, 339-341). Stando a quanto si legge in questa controreplica del periodico bresciano, parrebbe che Nievo contestasse l’attribuzione alla comunità israelitica mantovana della protesta pubblicata sul n. 5 del 17 gennaio e ne dichiarasse invece autore un certo Bruner, «cristiano cattolico come una regina di Spagna»: secondo «La Sferza», la confusione sarebbe stata determinata dal fatto che alla redazione era altresì pervenuta «una lunga rettificazione firmata — la comunità israelitica di Mantova — e ciò contemporaneamente all’articolo del sig. Bruner». (È curioso però che tutti quelli che hanno discorso di questa polemica abbiano continuato ad attribuire la lettera pubblicata il 17 gennaio alla comunità ebrea mantovana: così già G. SOLITRO, Ippolito Nievo, Padova 1936, 33; così lo stesso U.M. OLIVIERI, curatore degli Scritti giornalistici nieviani, cit., 403; così R. SALVADORI, Ippolito Nievo e l’ebraismo mantovano, cit., 262). 26 Che si tratti di Nievo è comunque attestato senza possibilità di dubbio da una sua successiva lettera apparsa, questa volta integralmente e firmata, nel numero del 26 gennaio 1853, in risposta a uno sprezzante giudizio di Mazzoldi sugli studenti padovani (cfr I. NIEVO, Scritti giornalistici, cit., 42).
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ricondursi anche gli ebrei. Nella controversia che al vecchio Giosue, barricato nella sua religione e nella sua cultura, contrappone il giovane Emanuele, anelante invece all’integrazione e pronto a usare la sua ricchezza per ottenerla, l’ultima parola spetta al Medico, chiaro portavoce dell’autore, che appunto fa appello al messaggio evangelico: «Cancellate il passato dalla vostra memoria, e il passato si cancellerà dalla memoria degli altri — rispondete coll’indifferenza all’indifferenza, col disprezzo allo scherno, colla compassione all’odio; e andate oltre! […] La più alta formula della morale, il soccorso reciproco, l’amore è espressa nel Vangelo a caratteri sacrosanti. Questo Vangelo è tanto grande ne’ suoi precetti da farsi perdonare tutto il codazzo di superstizioni che gli fu dietro affibiato. In grazia sua il Papato durò diciotto secoli, e non in grazia dello scettro di legno che si degnò di regalargli Carlo Magno. Ma i principî morali che il Vangelo ha santificato col suggello religioso per poterli introdurre nelle grosse menti degli Ebrei de’ tempi d’Augusto, quelli stessi principî di filosofia li ha desunti dall’uguaglianza originaria degli esseri. Senza esser Cristiani potete esser filosofi — e, schivando molte inutili differenze arriverete allo stesso risultato, all’esercizio delle virtù sociali, alla filantropia»27.
Di fronte alla resistenza frapposta dal disincantato Giosue, così il Medico riprende la sua perorazione: «Ora che la luce dell’incivilimento si è fatta strada attraverso a’ dogmi di ferro che parevano eterni e li rovescia a destra ed a sinistra, ora è il tempo di farsi avanti anche nel campo dell’intelligenza per non coonestare la stolta credenza che vi segna come dediti solo al guadagno dell’oro. Mostratevi, persuadete i vostri correligionari ad entrare a viva forza nella società, a superare le barriere del ghetto, a sparpagliarsi, a confondersi cogli altri. Così non sarete una tribù in antagonismo con la società, ma sì una frazione di questa; così non vi peserà più sulle spalle quella esecranda solidarietà (giustificata in certo qual modo dall’intimità in cui vivete) per cui le azioni di un membro della vostra comunione s’imputavano ad ognuno di voi — purgate il vostro culto da quelle frivolezze, da quelle ridicolaggini che offrono tanta presa ai caricaturisti…» 27
I. NIEVO, Teatro, a cura di E. Faccioli, Torino 1962, 69-70.
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A Giosue che obietta: «Addio Giudaismo, allora», il Medico risponde: «Addio Ebraismo? Forseché la salute dell’umanità riposa sulle leggi mosaiche? Necessaria all’uomo è la sola religione desunta dalla natura dell’esser suo, la quale nell’individuo può variare a seconda delle credenze, ma che nella sfera dei fatti esterni e sociali si traduce invariabilmente col precetto: Fa’ per gli altri quello che faresti per te stesso»28.
Insomma, anche per Nievo l’Europa non può non dirsi cristiana. Al di là di questo attaccamento ai fondamenti della tradizione occidentale, tuttavia, non si può non apprezzare la decisione con cui il giovanissimo scrittore porta avanti la sua lotta al pregiudizio e alla discriminazione, fino a un completo rovesciamento dei ruoli: il Bene qui sta tutto dalla parte degli ebrei, il Male dalla parte dei cristiani. Tra questi ultimi l’unica eccezione è costituita da una sfortunata fanciulla, Teresa, che sa valutare le persone per quello che sono, sicché si innamora dell’ottimo Emanuele e lo sposa (in questo dramma dunque si attua subito, senza alcun problema, quel matrimonio misto che faceva tanta paura a Bresciani). Per il resto anche Emanuele dovrà rendersi conto che Giosue aveva ragione: la società «è egoista, servile, ignorante». Ma a riportare tutti in un orizzonte positivo provvederà alla fine quella sorta di deus ex machina che è il Medico, assertore di un ottimismo della volontà in grado di arginare lo stesso pessimismo della ragione: «I periodi in cui vive l’umanità […] non si compongono di qualche secolo, ma di cento e di mille — non dico io mai — Di qui a cent’anni la tal cosa sarà! — ma dico invece — La logica m’insegna che si deve arrivare a quel punto, dunque o domani o di qui a mille anni vi si arriverà».
***
28
Ibid., 73-74.
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Come si è visto, il pregiudizio di padre Bresciani nei confronti degli ebrei era sostanzialmente d’ordine religioso; pure, prendendo di mira la loro partecipazione ai moti quarantotteschi, egli usava toni che da lì a trent’anni, sulle pagine stesse della «Civiltà Cattolica», sarebbero riecheggiate con ben più truce inflessione. Nell’Ebreo infatti si prospettava la solidarietà tra ebrei e liberali come una solidarietà in qualche modo protetta dal demonio, essendo i “settarii” tutti accusati di satanismo; e d’altra parte si introduceva appunto un liberale, Sterbini, a parlare sprezzantemente degli ebrei inchiodandoli al loro atavico retaggio di odio: «Non è grandezza d’animo, non è generosità, non è cortesia che ce li affratella così strettamente, è la rabbia di Giuda. Purché la risurrezione d’Europa ricrocifigga e riseppellisca il Nazzareno, ci darebbono insino alla pelle»29.
Da qui all’esplosiva polemica contro ebraismo e massoneria liberale condotta da padre Oreglia il cammino certo appare complesso, ma non disgiungibile nei suoi nessi essenziali: anche Oreglia chiamerà in causa il diavolo, e anche lui farà leva sull’«odio anticristano talmudico» per avviare una campagna denigratoria dalle connotazioni sempre più ambigue (la “razza” ebrea)30. Siamo, insomma, al primo capitolo di una questione tutt’altro che sopita, quella della responsabilità cattolica nel diffondersi — tra Otto e Novecento — di un brodo di cultura antisemita31. 29
A. BRESCIANI, L’Ebreo di Verona, cit., I, 76. Cfr R. TARADEL – B. RAGGI, La segregazione amichevole. «La Civiltà Cattolica» e la questione ebraica. 1850-1945, Roma 2000, 16 ss. 31 Come fa osservare G. MICCOLI (Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo, in AA.VV., Storia d’Italia. Annali, XI/2 cit., 1369-1574), se in via di principio è opportuno distinguere tra il tradizionale antigiudaismo teologico e il successivo antisemitismo razziale, pure non v’è dubbio «che nel nuovo antisemitismo politico, völkisch e razzista, confluiscano largamente temi e giudizi sul ruolo e la “natura” degli ebrei ereditati dalla polemica cristiana, così come non vi è dubbio che la stampa e i movimenti cattolici, spesso in prima linea negli ultimi decenni dell’Ottocento nell’animare e condurre le campagne antiebraiche, non solo si riallacciano ampiamente alle tematiche tradizionali, ma conferiscono ad esse una dimensione politica e sociale volta a combattere i valori e gli esiti della “rivoluzione”, non di rado in stretto parallelo con le proposte e gli orientamenti politici di quell’antisemitismo che si vuole del tutto diverso». 30
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Quanto all’encomiabile dimostrazione di tolleranza effettuata da Nievo col suo Emanuele, si è già rimarcato come la sua proposta di una «filantropia» naturale a sfondo evangelico in funzione di una completa assimilazione degli ebrei adombrasse una prospettiva pur sempre di parte («Cancellate il passato dalla vostra memoria»…). Vi si può intravedere una ferita che a tutt’oggi non si è ancora richiusa: perché mai, si è chiesta recentemente Elena Loewenthal32, si continua a rimproverare agli ebrei il loro attaccamento alla tradizione, perché si pretende da loro che diventino «come tutti gli altri»? Siamo, insomma, di fronte al limite ultimo della tolleranza occidentale, disposta a incontrarsi con il diverso solo su un terreno che in qualche modo le appartiene. E allora: come può il diritto alla diversità conciliarsi con il diritto all’uguaglianza? Un’indicazione preziosa — forse utopistica, ma non per questo meno importante e significativa — ci viene dall’antica saggezza yddish attraverso la voce di Isaac Bashevis Singer: «Quando tutte le nazioni si renderanno conto che sono in esilio, l’esilio cesserà di essere; quando le maggioranze scopriranno che anch’esse sono minoranze, la minoranza sarà la regola e non l’eccezione. […] In un mondo in cui siamo fondamentalmente degli estranei, il comandamento “Amerai lo straniero” non è semplicemente un desiderio altruistico, ma il cuore stesso della nostra esistenza»33.
32 E. LOEWENTHAL, La tentazione di esistere: ebrei d’Italia oggi fra memoria, scrittura, futuro, in AA.VV., Appartenenza e differenza: ebrei d’Italia e letteratura, Firenze 1998, 152. 33 Cfr E. MORTARA DE VEROLI, Emancipazione e sue metafore letterarie, in AA.VV., Stato nazionale ed emancipazione ebraica, cit., 89.
UNA FIGURA PARADOSSALE DELLA LEGGE: IL DIRITTO RAZZISTA
ERNESTO DE CRISTOFARO*
Parlare del problema ebraico è postulare che gli Ebrei sono un problema; è vaticinare (e raccomandare) le persecuzioni, la spoliazione, l’assassinio, lo stupro e la lettura della prosa del dottor Rosenberg. (J.L. Borges, I timori del dottor Américo Castro)
In un testo apparso nel 1946, un testo che confonde borgesianamente documento e finzione, lo scrittore Zvi Kolitz racconta le ultime ore di uno tra gli insorti del ghetto di Varsavia. Costui, Yossl Rakover, come Giobbe nella Bibbia, si rivolge a Dio e mentre i cecchini nazisti uccidono i suoi figli, gli offre la sua fede, nonostante tutto quanto gli accade intorno sembri operare perché essa vacilli. «Sono fiero di essere Ebreo — dice Yossl — non malgrado il trattamento che il mondo ci riserva, ma proprio a causa di questo trattamento»; e, più avanti: «Sono felice di appartenere al più infelice di tutti i popoli della terra, la cui Legge rappresenta il grado più alto e più bello di tutti gli statuti e le morali. Adesso questa nostra legge è resa ancora più santa ed eterna dal fatto di essere così violata e profanata dai nemici di Dio»1.
* Dottore di ricerca in Cittadinanza europea e Cultore di Storia del diritto medievale e moderno presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Catania 1 Z. KOLITZ, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Milano 1997, 22-23.
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Parlare di “diritto razzista” significa mostrare come le leggi degli uomini abbiano segnato le tappe di questa profanazione, come abbiano lastricato i gradini della discesa negli inferi della storia. L’espressione “diritto razzista”, nel senso più ampio in cui la useremo, designa l’insieme delle misure di discriminazione adottate nei confronti degli Ebrei dal regime nazista nel 1935 e da quello fascista nel 1938. In sede storiografica si è sottolineata l’esistenza di un collegamento tra questi due momenti, in particolare insistendo sul carattere emulativo della legislazione italiana adottata per rincorrere e, al tempo stesso, compiacere l’alleato germanico2. Altre letture collocano questi fenomeni nel solco di una tendenza epocale, ne associano l’ispirazione al manifestarsi di un’inedita forma di potere; un potere che si insinua nel corpo degli individui per difendere quello della comunità da una minaccia di degenerazione presentata come incombente, un potere che chiama in causa la “nuda vita” catalogando le persone sulla base di parametri medici, un potere che diviene biopolitica3. Sebbene, certamente, movenze teoriche simili non fossero estranee alla cultura positivistica italiana di inizio novecento e avessero trovato nell’opera di autori come Cesare Lombroso convinti sostenitori4 e, per quanto l’esperienza coloniale in un senso e l’antico antigiudaismo della Chiesa cattolica in un altro5, offrissero agli orientamenti discriminatori non trascurabili condizioni di radicamento, il razzismo fascista è l’oggetto di una costruzione autonoma e cronologicamente localizzata. Il termine “razza” appare marginale nella voce “Fascismo” dell’Enciclopedia Treccani del 1932, firmata dallo stesso Mussolini, sebbene, di fatto, imputata a Giovanni Gentile. La nazione, la cui coscienza storica lo Stato fascista intende
2
Cfr R. DE FELICE, Storia degli Ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1993, 247-258. Cfr M. FOUCAULT, Bisogna difendere la società, Milano 1998, 206-227 e, in una prospettiva di ricostruzione concettuale, R. ESPOSITO, Bìos, Torino 2004. 4 Cfr Nel nome della razza, cura di A. Burgio, Bologna 2000; in particolare, il saggio di D. FRIGESSI, Cattaneo, Lombroso e la questione ebraica, 247-264. 5 Sulla prima si vedano: N. LABANCA, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna 2002, 411-424 e B. SÒRGONI, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea, Napoli 1998; sul secondo, i vari saggi presenti nel volume Gli Ebrei in Italia, in Annali della Storia d’Italia, XI, Torino 1996. 3
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risvegliare, non si identifica come «razza né come regione geograficamente individuata» piuttosto come «schiatta storicamente perpetuantesi, moltitudine unificata da un’idea che è volontà di esistenza e di potenza, coscienza di sé, personalità»6. Qualora il termine “schiatta” dovesse apparire equivoco e incline a prestarsi a letture che, come in effetti avvenne, intendessero retrodatare il più possibile la presenza di motivi razziali nella dottrina fascista7, sarebbe utile richiamare un importante passaggio dell’intervista resa da Mussolini a Emil Ludwig nel 1932. Occupandosi nuovamente delle relazioni tra razza e identità nazionale, Mussolini affermava: «Naturalmente non esiste più una razza pura, nemmeno quella ebrea. Ma appunto da felici mescolanze deriva spesso forza e bellezza a una nazione. Razza: questo è un sentimento, non una realtà; il 95% è sentimento. Non crederò mai che si possa provare biologicamente che una razza sia più o meno pura. Per combinazione tutti quelli che proclamano nobile la razza germanica non sono germanici: Gobineau francese, Chamberlain inglese, Woltmann israelita, Lapouge nuovamente francese. […] L’orgoglio nazionale non ha affatto bisogno dei deliri di razza»8.
Pochi anni colmano la distanza tra il razzismo nazista cui questo testo fa, non velatamente, riferimento e il Manifesto degli scienziati razzisti che, nel Luglio del ’38, con l’imprimatur del Ministero per la cultura popolare, sancisce l’ingresso ufficiale dell’antisemitismo nel vocabolario politico italiano. Pur senza un Mein Kampf dal quale attingere, i molti discorsi antisemiti che avevano attraversato la pubblicistica italiana, trovando nella rivista Il Tevere di Telesio Interlandi o nei Dieci punti fondamentali del problema ebraico redatti da Giovanni Preziosi altrettante casse
6
B. MUSSOLINI, Fascismo, in Enciclopedia italiana Treccani, XIV, Milano 1949 (edizione originale 1932), 848. 7 Sull’originalità del razzismo fascista e il suo affacciarsi con una fisionomia netta sin dalle prime esperienze politiche di Mussolini si veda, comunque, G. FABRE, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo la formazione di un’antisemita, Milano 2005. 8 E. LUDWIG, Colloqui con Mussolini, Milano 1965, 89.
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di risonanza9, venivano così ricomposti in un fascio unificante e assicurati a un’ortodossia di cui il Duce in persona sarebbe stato il garante10. «È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti», recita l’articolo sette del Manifesto della razza e prosegue: «Tutta l’opera che finora ha fatto il regime in Italia è, in fondo, del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nelle parole del Capo il richiamo ai concetti di razza». Di questo razzismo fieramente rivendicato, gli Ebrei sono il primo bersaglio: l’articolo nove li definisce «non appartenenti alla razza italiana» e, nonostante una secolare presenza sul suolo nazionale, «non assimilati né assimilabili». Un successivo censimento quantifica in poco più di cinquantottomila i cittadini residenti che abbiano almeno un genitore ebreo, essendo questo criterio di natura biologica quello prescelto per isolare più efficacemente le fonti di una possibile contaminazione. L’arbitrarietà teorica del medesimo sarà, d’altronde, fonte di innumerevoli abusi in sede applicativa e tentativi di aggiramento da parte dei destinatari di provvedimenti restrittivi una volta varata la legislazione discriminatoria11. Il passaggio successivo è, infatti, quello mediante cui lo status dei cittadini ebrei viene colpito attraverso misure che abbracciano momenti e luoghi centrali della vita sociale. Nel settembre 1938, insegnanti e allievi ebrei vengono espulsi dalle scuole; non può sfuggire il duplice profilo discriminatorio di questa disposizione: da una parte essa colpisce una massa indistinta di bambini e adolescenti che sperimentano le prime forme di socialità, dall’altra essa inocula nei circuiti primari della trasmissione culturale il veleno di una pedagogia ispirata ad un culto escludente dell’identità etnica. Nel Novembre dello stesso anno vengono fissate norme che impediscono i matrimoni misti, che determinano l’allontanamento degli Ebrei dagli impieghi pubblici, la loro espulsione dal partito fascista, il divieto di prestare servizio militare e di essere possessori o dirigenti
9 Sulla presenza di tematiche razziali nel dibattito culturale del ventennio si veda, da ultimo, M. DI FIGLIA, Le radici razziste del fascismo italiano, in Segno 269 (2005) 95-110. 10 Sul fascismo come collettore forzoso, “fascio” di soggetti, linguaggi e narrazioni si veda M. ISNENGHI, L’Italia del Fascio, Firenze 1996, 105-124. 11 Cfr M. SARFATTI, Gli Ebrei nell’Italia fascista, Torino 2000, 154-164. Sul punto si veda anche M.R. LO GIUDICE, Razza e giustizia nell’Italia fascista, in Rivista di storia contemporanea 12 (1983) 69-90.
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d’aziende con cento o più dipendenti o possessori di terreni che superino i cinquanta ettari di estensione. Una capillare normativa di grado minore estende la portata dei vincoli menzionati, rendendo estremamente problematica l’agibilità di ogni residuo spazio sociale. Gli Ebrei vengono cancellati da tutti gli albi professionali e, inoltre, non possono: commerciare in preziosi; essere mediatori, piazzisti o commissionari; vendere oggetti d’antiquariato, oggetti d’arte o articoli per bambini; vendere apparecchi radio, libri o carte da gioco; essere titolari di tipografie o lavorare come fotografi; vendere oggetti sacri, gestire esercizi di mescita di alcolici o di raccolta di lana per materassi; esportare prodotti ortofrutticoli, ottenere licenze per scuole di ballo o di taglio o lavorare come conducenti di autoveicoli da piazza e da rimessa; ricorrere alla pubblicità sulla stampa nazionale o esercitare alcuna attività alberghiera o affine (compreso il mestiere di uomo di fatica, facchino, …); avere rapporti di affari o forniture con amministrazioni pubbliche o esercitare attività nel settore del credito e delle assicurazioni; essere soci di cooperative, far parte di sodalizi a carattere culturale, morale e sportivo o ottenere permessi per ricerche minerarie o concessioni di riserve di caccia; amministrare condomini di proprietà(anche parziale) di ariani; ottenere il porto d’armi o il brevetto di pilota; gestire copisterie o agenzie di viaggi e turismo o allevare piccioni viaggiatori; infine, non possono comparire negli elenchi telefonici o fare inserzioni di avvisi mortuari12. La pedante e grottesca meticolosità di quest’elenco svela un’idea di annichilimento molto più fredda e sistematica di quanto occasionali slanci revisionistici, alimentati dal mito dell’italica bonomia13, non possano accreditare il suo contrario. L’atteggiamento della dottrina giuridica italiana rispetto al tema razziale non è univoco. Innanzitutto vi sono giuristi eminenti come Tullio Ascarelli, Federico Cammeo o Giorgio Del Vecchio, espulsi dall’Università per motivi razziali; per cui l’effetto più immediato di queste misure si concretizza in una mutilazione pura e semplice del sapere giuridico, analoga a quella che interessa ogni altro settore disciplinare colpito dalla medesima sorte. Poi vi sono autorevoli studiosi che, senza particolare 12 13
Cfr E. COLLOTTI, Le leggi razziali in Italia, Roma-Bari 2003, 71-77; 84-86. Su cui si veda A. DEL BOCA, Italiani, brava gente?, Vicenza 2006.
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enfasi, ma mostrando un accorto senso dei tempi, aggiornano gli arnesi della loro officina concettuale secondo le nuove priorità. È il caso, tra gli altri, dei costituzionalisti Sergio Panunzio e Carlo Costamagna. Il primo, nella sua Teoria generale dello stato fascista pubblicata nel 1939, si astiene dall’offrire un’analisi approfondita del concetto di razza, limitandosi a dire che, tanto questa che la nazione vanno considerate alla stregua di miti e credenze da prendere in blocco. La sola cosa che non gli appaia problematica e opaca nella definizione del rapporto tra l’una e l’altra, è che la razza sta alla nazione come la parte al tutto o il mezzo al fine. Pertanto, se per garantire l’unità della nazione occorre consolidarne la base biologica «è logico inferire — sostiene Panunzio — che come più si provvede con la politica razziale all’incremento della purezza e distinzione della razza tanto più si concorre a costituire e rassodare la nazione»14.
Negli Elementi di diritto pubblico generale pubblicati da Costamagna nel 1943, dopo una breve rassegna dello sviluppo teorico del razzismo, si afferma che il concetto di razza ha, rispetto a quello di nazionalità, un ruolo integrativo e correttivo. La creazione di uno Stato da parte del popolo descritto come “persona morale” manifesta la volontà di potenza di una stirpe. «Il concetto di nazione — scrive Costamagna — implica quello di razza come concetto espressivo della specie di fronte all’individuo e designativo del nesso biologico che si stabilisce mediante la procreazione tra le individualità della specie medesima»15.
In conclusione, anche per Costamagna la politica sociale per la difesa della razza concerne il trattamento della popolazione considerata come mezzo per la potenza dello Stato. Con uno stile sorvegliato, sia Panunzio che Costamagna aderiscono alla svolta razziale del fascismo sottolineandone gli aspetti positivi per la vita nazionale e lo sviluppo dell’“uomo nuovo” che il regime intende tenere 14 15
S. PANUNZIO, Teoria generale dello stato fascista, Padova 1939, 35. C. COSTAMAGNA, Elementi di diritto pubblico, Torino 1943, 156.
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a battesimo. Nessun riferimento agli Ebrei e nessun accenno al carattere afflittivo che la politica razziale ha nei loro confronti, sia pure “giustificato” dalla minaccia che essi rappresenterebbero. Tutt’altro tono è quello che traspare dalle pagine di una rivista, Il Diritto razzista, che fa del tema della razza considerato sub specie iuris la propria ragione sociale ed esibisce un’inquietante miscela di zelo teorico e intraprendenza organizzativa. Si è accennato all’esistenza di periodici come Il Tevere di Interlandi o La vita civile su cui Giovanni Preziosi pubblica il suo “decalogo sul problema ebraico”, attivi prima del varo delle leggi razziali. L’esperienza coloniale, l’affinità di orizzonti politici tra nazismo e fascismo e, in generale, la cultura antidemocratica e antiuniversalista che alimenta entrambi i regimi, favoriscono l’emergere di orientamenti teorici che sbandierano il vessillo della discriminazione e additano nel dominio dei popoli forti sui deboli una missione storica. Interlandi passerà poi alla direzione della Difesa della razza, voce ufficiale di un regime attento all’incisività educativa della propaganda non meno che alle altre conseguenze concrete degli indirizzi di politica razziale. Giovanni Preziosi (negli anni successivi all’armistizio, in forza agli apparati di persecuzione della repubblica di Salò) sarà, con Roberto Farinacci, tra i primi a simpatizzare con Il Diritto razzista. Il periodico nasce nel 1939, inizialmente come supplemento ad un’altra testata, La nobiltà della stirpe, fondata nel decennale della marcia su Roma dall’avvocato e squadrista Stefano Cutelli16. La pubblicazione del Diritto Razzista si interrompe nel 1942 ma, nonostante la brevità della sua esistenza, il progetto editoriale non sembra affatto velleitario. Intorno ad esso Cutelli riesce ad attrarre personalità di assoluto rilievo della scienza giuridica italiana e tedesca ed esponenti delle più alte magistrature. Del Comitato scientifico fanno, infatti, parte i Presidenti di Cassazione Antonio Azara, Ettore Casati e Domenico Rende, l’Avvocato generale dello stato Adolfo Giaquinto ma anche il Professor Santi Romano, eminente costituzionalista e Presidente del Consiglio di Stato e il Professor Pier Silverio Leicht, storico del diritto e Preside della Facoltà di Giurisprudenza 16 Tra i primi a farne cenno nel dopoguerra A. SPINOSA, La persecuzione razziale in Italia. L’azione della stampa, in Il Ponte novembre (1952) 1609. Ora in ID., Mussolini razzista riluttante, Milano 2000, 70.
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dell’Università di Roma. Nel Consiglio di redazione siedono Presidenti di Corte d’Appello e Consiglieri di Stato e, sin dai suoi primissimi numeri, la rivista vanta collaborazioni di personalità della cultura nazista che le consentono di fregiarsi della denominazione(che appare in versione bilingue sul frontespizio) di Rivista italo-tedesca del diritto razziale. Tra queste vanno menzionate le figure di Johann von Leers e Hans Frank. Il primo, che interviene con maggiore frequenza, è il titolare della cattedra di Diritto razziale presso l’Università di Jena e uno fra i più ferventi promotori di una riforma dell’intero sistema giuridico tedesco che metta al centro le categorie di “comunità di sangue” e “purezza razziale”. Il secondo è il Presidente dell’Accademia di diritto germanica, il Governatore della Polonia occupata durante la guerra(e, in questa veste, oggetto dell’apprezzamento della rivista per aver deciso di segregare gli Ebrei nei ghetti) nonché un importante penalista, capace, grazie a quest’eminente condizione, di accreditare il giornale di Cutelli come vero e proprio ponte tra razzismo giuridico nazista e fascista. La rivista si compone di tre sezioni, dedicate la prima a questioni di dottrina e le successive a rassegne di giurisprudenza e legislazione su tematiche che intersecano profili razziali. Il tema della “tutela giuridica della razza” è declinato con riferimento a tre assi: difesa del prestigio della razza in ambito coloniale, difesa della razza dalla contaminazione con l’elemento ebraico sul suolo nazionale e prospettazione di un nuovo ius publicum europeum su basi razziali. Sul primo punto, che attiene alla posizione degli indigeni nei possedimenti italiani in Africa, la rivista plaude alla regolamentazione che inibisce le relazioni sessuali con gli italiani in quanto lesive del prestigio della razza ma invoca anche modifiche del diritto processuale che evitino la possibilità di trattare paritariamente la testimonianza di un italiano e di un uomo di colore17. Il rapporto con gli Ebrei italiani (o stranieri residenti in Italia)è trattato sotto il profilo della differenza tra affievolimento della capacità giuridica o revoca della cittadinanza(per gli stranieri) o, ancora, sul punto della natura giurisdizionale o amministrativa dei provvedimenti che
17 Cfr R. ASTUTO, Gerarchia di razza o reciprocità egualitaria penale, in Il Diritto razzista settembre-dicembre (1940) 170- 193.
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dichiaravano lo status di Ebreo, con ciò che poteva conseguirne in termini di impugnabilità. Ma anche su questo piano la rivista si esprime tanto nell’ottica comparatistica col diritto tedesco(per esempio, a proposito dell’opportunità di sanzionare le relazioni more uxorio tra ariani ed Ebrei come avveniva in base alle Leggi di Norimberga)18, quanto formulando proposte de iure condendo, come quella concernente l’aggiornamento della Carta del lavoro attraverso l’introduzione della nozione di razza tra i principi da essa contemplati. In attesa che un’autonoma Carta della razza si fosse aggiunta alla Carta del lavoro e a quella della scuola e fosse divenuta la pietra di paragone su cui misurare la legislazione a venire19. Nel volgere del conflitto, i toni diventano più esasperati e la sovrapposizione dei nemici come Roosevelt e Stalin all’archetipo dell’eterno perfido giudeo, fa apparire l’annichilimento della stirpe di David come la sola salvezza possibile per l’Europa20. Nonostante gli sforzi profusi in tal senso, l’obiettivo non viene raggiunto; mentre la rivista di Cutelli, probabilmente a corto di denaro per il taglio del sussidio statale che riceveva, è costretta a chiudere i battenti. Esattamente come durante la sua attività l’orizzonte ambizioso delle questioni affrontate e l’indiscutibile prestigio scientifico di redattori e collaboratori convincono della presenza di una diffusa sensibilità e condiscendenza verso la politica razziale, liquidata l’impresa, la sorte di chi vi prese parte appare non meno indicativa. Molti dei magistrati che vi scrissero, conclusero la loro carriera senza incidenti e, in certi casi, assumendo incarichi di alto prestigio e responsabilità21. Viceversa, della rivista e del suo tentativo di sussumere i principi del razzismo nell’alveo delle regole che ordinano la vita quotidiana, si parla 18
Cfr M. LA TORRE, Effetti della condizione razziale sullo stato giuridico della persona, in Il Diritto razzista maggio-giugno (1939) 34. 19 Cfr S. CUTELLI, Verso la dichiarazione dei principi generali del diritto fascista: inserimento delle nozioni di “razza” e “partito” nella Carta del lavoro, in Il Diritto razzista settembre-dicembre (1940) 161-165. 20 Cfr i testi redazionali: Roosevelt è ebreo o meticcio di ebrei e Stalin meticcio ebreo, ammogliato con un’ebrea, in Il Diritto razzista marzo-agosto (1942) 97. 21 Cfr G. SCARPARI, Una rivista dimenticata: Il Diritto razzista, in Il Ponte 1 (2004) 143-145.
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poco nella storiografia post-bellica e anche studiosi meticolosi come De Felice, appaiono singolarmente parsimoniosi al riguardo22. Difficile, tuttavia, stando ad alcune recenti vicende di cronaca, considerare il capitolo completamente chiuso. Circa tre anni fa, un importante quotidiano italiano descriveva l’iter giudiziario di una richiesta di assegno di benemerenza da parte di una donna emiliana, Nella Padoa, allontanata dalla scuola in seguito ai provvedimenti del 193823. Riconoscendo in tale trattamento una lesione morale dei diritti fondamentali della persona, la sezione emiliana della Corte dei Conti aveva assegnato alla richiedente un assegno (di 800.000 lire mensili) previsto per simili casi da una legge del 1955. Avverso questa decisione e per il tramite dell’Avvocatura dello Stato, il Ministero dell’Economia presenta ricorso. La tesi del ricorrente è che «le restrizioni cui fu sottoposta la signora Padoa in seguito all’emanazione delle leggi razziali non siano elemento sufficiente per integrare gli estremi della violenza morale» essendo piuttosto l’effetto di «una generale condizione di soggezione e discriminazione dei cittadini ebrei che come tale non può portare al conferimento dell’assegno». Di analogo tenore le considerazioni presenti nella memoria del vice-procuratore generale presso la Corte, il quale si domanda se «l’espulsione dalla scuola sia, in via generale ed astratta, idonea a concretizzare, non un mero pregiudizio, ma una specifica azione lesiva, proveniente dall’apparato statale e intesa a ledere la persona colpita nei suoi valori inviolabili».
L’autore dell’inchiesta ravvisava in queste interpretazioni un’indiretta reintroduzione delle leggi razziali; leggi recuperate nel loro spirito piuttosto che nella lettera, da capziosità argomentative e dal comico bisogno di apparire equanimi non soddisfacendo le pretese riparatorie di alcuni soggetti verso una legislazione che aveva colpito una categoria nel suo insieme. Forse, nello svolgimento di storie come questa è possibile rintracciare i segni di alcune profetiche parole con cui si conclude un articolo di Hans 22
Cfr R. DE FELICE, Storia degli Ebrei italiani sotto il fascismo, cit., 379-380. Cfr M. PIRANI, La Corte dei conti rinnova le leggi razziali, in La Repubblica, 17 marzo 2003, 16. 23
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Frank apparso sul Diritto razzista nel 1940. Dopo aver esaminato comparativamente legislazione tedesca e italiana in materia razziale e ricordando che l’unione tra ariani ed Ebrei da entrambe osteggiata è, per la salute della popolazione, altrettanto esiziale che l’unione con portatori di malattie ereditarie, Frank precisa che la sola legislazione non basta a difendere e far durare la migliore delle idee giuridiche. «Le leggi — afferma — sono soltanto un mezzo per la trasmissione dell’idea giuridica nella vita e la fedele trasmissione è soltanto possibile a coloro i quali sono strettamente persuasi dall’idea che ha condotto all’emanazione della legge. Solo allora vi è la garanzia che questa idea trovi la sua fedele attuazione nella realtà della vita. Sarebbe più facile far vivere un diritto senza leggi, ma con una generazione di giuristi penetrati dall’idea ed entusiasti di essa, che non emanare leggi perfette»24.
Divisi su ciò che rappresenta una legge perfetta, possiamo senza remore sottoscrivere il resto dell’analisi di Frank; ma, proprio per questo siamo chiamati a considerare lo studio del Diritto razzista (che lo si intenda come legislazione generale o come titolo di un foglio antisemita) non un semplice passatempo antiquario ma l’analisi della mappa di una battaglia, quella contro l’intolleranza e l’afasia morale, che non ammette pause.
24 H. FRANK, Il diritto razzista germanico, in Il Diritto razzista gennaio-febbraio (1940) 22.
GIUDICI E RAZZA NEGLI ANNI DELLA DISCRIMINAZIONE. VOCI DALLE SENTENZE (1938-1942)
GIUSEPPE SPECIALE*
1. I GIUDICI E LA RAZZA Ho voluto affrontare il tema del nostro seminario da un angolo visuale circoscritto. Ho considerato la condizione dei giudici italiani costretti, per il loro ufficio, a misurarsi, dal 1938 a tutto il 1943, almeno, con la legislazione voluta dal fascismo in difesa della razza. M’incuriosiva conoscere il loro atteggiamento nei confronti di quella legislazione, ascoltare le loro voci. Al di là di una prevedibile varietà di timbri, inevitabile trattandosi di giudici diversi, volevo verificare se e in quale misura queste voci si accordavano e componevano un canone o se davano luogo a irriducibili dissonanze, non per questo meno significative per lo storico. L’indagine mi incuriosiva sotto un duplice aspetto: il primo riguarda l’atteggiamento dei giudici come uomini appartenenti per lo più ai ceti medio alti dell’Italia, cioè di una parte dell’Europa del secolo ventesimo, dotati di una cultura senz’altro superiore alla media, cresciuti generalmente nell’educazione cattolica. Secondo questa prospettiva della ricerca l’ebreo non ha un ruolo attivo, se non quello di costituire e incarnare l’elemento scandaloso che costringe l’altro, il non ebreo, a riflettere, prima di tutto su se stesso, sulla propria storia, sulla propria identità. Ma ho scelto di privilegiare il secondo aspetto — pur intrinsecamente collegato al primo — che riguarda invece la cultura giuridica propria degli stessi giudici: mi premeva osservare come la giurisprudenza, * Docente di Storia del diritto medioevale e moderno presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania.
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la scienza giuridica, si atteggiava nei confronti di quella legislazione; desideravo verificare in qualche modo la reazione dell’ordine giuridico all’introduzione delle leggi razziali; in qualche modo volevo constatare il grado di plasticità, la resistenza, che i dogmi, le forme, le esperienze su cui si fondava l’ordine giuridico opponevano alle nuove regole razziali. E forse nell’espressione «plasticità dei dogmi» riassumo e anticipo l’intima contraddittorietà di quelle leggi rispetto ai cardini e alle radici più intime dell’ordine giuridico, almeno nell’ordine giuridico che ci ha consegnato la codificazione.
2. FONTI Ho assunto ad oggetto della mia indagine le pronunce giudiziali rese dalla magistratura del regno negli anni compresi tra l’ottobre 1938 e il gennaio 1944. Questo è l’arco di tempo in cui nel regno ebbero vigore le leggi discriminatorie. Questo termine, “discriminatorio”, non compare nella legislazione, almeno non compare dall’inizio, ma fu subito adottato nell’uso ed ebbe successo, forse proprio perché mascherava la crudezza delle soluzioni legislative e perché, in seguito, si prestò bene alla contrapposizione con la successiva legislazione “persecutoria”, adottata nella RSI e spiccatamente simile a quella dell’occupante-alleato tedesco. Ho individuato le sentenze attraverso uno spoglio delle raccolte del “Foro italiano” dal 1938 al 1946. Tali sentenze riguardano fattispecie legate all’applicazione delle leggi del 1938, e degli anni seguenti, ai cittadini italiani e agli stranieri di razza ebraica. Si rintracciano nel Foro italiano sotto la voce “israeliti”. Qui può aggiungersi che tale voce è presente nell’indice anche negli anni precedenti la legislazione antiebraica e per quegli anni rinvia, per esempio, a casi riguardanti consuetudini di lunghissima durata, quali la gazagà, e ad altri pochi casi che nulla hanno a che fare con il problema della razza. A margine può dirsi che se una discontinuità salta all’occhio nel numero del Foro italiano del 1939, rispetto alle annate precedenti, è l’assenza nel frontespizio dei nomi di giuristi quali Alfredo Ascoli, Cesare Vivante, Tullio Ascarelli. Ascoli e Vivante componevano il comitato di direzione insieme con Mariano D’Amelio e Santi Romano, firmatario, quest’ultimo, del manifesto della razza.
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Come si sa, con diversi interventi amministrativi e legislativi che scandiscono un crescendo, lo stato italiano provvede, a partire dall’agosto del 1938, a censire, individuare, isolare, gli ebrei per poi limitarne i diritti. Qui non è il caso di richiamare tutta la legislazione in difesa della razza, è utile ricordare solo le disposizioni che sono oggetto delle sentenze studiate. Il decreto legge 1728 dell’ottobre del 1938, convertito in legge nel gennaio del 1939, l’atto legislativo più importante della legislazione sulla difesa della razza, e le successive disposizioni ad esso collegate, definiscono chi deve considerarsi ebreo, sia cittadino italiano che straniero; vietano i matrimoni misti; dispongono, tra l’altro, l’espulsione dall’Italia degli ebrei stranieri, fissando al 12 marzo 1939 la data ultima per l’abbandono del territorio italiano; impongono il licenziamento dall’impiego pubblico e parastatale dei cittadini e degli stranieri di razza ebraica; fissano limiti alla proprietà immobiliare degli ebrei italiani; impediscono loro l’esercizio, in pratica, di qualunque mestiere o professione; discriminano gli ebrei che si siano distinti per particolari benemerenze nei confronti dello stato e del fascismo prevedendo che solo per questi non si producano determinati effetti della legislazione in difesa della razza.
3. COORDINATE: TRA EROISMO E NORMALITÀ Contrapporre la legislazione discriminatoria italiana alla legislazione persecutoria repubblichino-tedesca in qualche misura acquieta gli animi (almeno dal punto di vista italiano). Ma, ovviamente, non è per questo motivo che non ho guardato ai casi giurisprudenziali della RSI, bensì perché la cornice politico istituzionale repubblichina, la commistione tra governo fascista e occupante nazista, lo stato di guerra, la sospensione del normale funzionamento dell’amministrazione della giustizia, modificavano radicalmente le coordinate entro le quali desideravo condurre l’indagine. Senz’altro con la RSI fascista-nazista i principi che ispiravano la legislazione del 1938 e degli anni successivi ebbero pieno sviluppo e applicazione; senza dubbio le condizioni politiche istituzionali militari della RSI svelarono completamente la vera natura, l’originaria natura, delle norme razziali. Ma a me interessava capire come quelle norme erano state lette nel regno italiano, in un tribunale nel vigore delle regole normali della giurisdizione, al di fuori
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di uno stato d’eccezione caratterizzato anche dall’invasione di un esercito straniero, sia pure alleato. Non volevo, infatti, che l’indagine uscisse fuori dalla dimensione più strettamente giuridica. Per la mia ricerca un’eventuale presa di posizione dei giudici in chiave politica, religiosa, umanitaria, o un eroico gesto di denunzia — e comunque non ho riscontrato né l’una né l’altro — non avrebbe avuto interesse. Certamente ne avrei dato atto, ma sarebbe stato di scarso rilievo per la mia ipotesi di lavoro. Quando ho scelto di limitare cronologicamente e geograficamente l’indagine, escludendo la legislazione “persecutoria” repubblichina e concentrandomi solo sulla “discriminatoria”, ho pensato a quel giudice ricordato da Calamandrei nell’introduzione della terza edizione (1954) all’Elogio dei giudici scritto da un avvocato (1935). Quel giudice, un giovane pretore toscano, si rifiutò di applicare una norma repubblichina del 1944 che, sovvertendo un principio consolidato del diritto penale e della civiltà giuridica, prescriveva l’arresto dei genitori dei renitenti alla leva. Quel giudice gridò l’ingiustizia di quella norma, si rifiutò eroicamente di applicarla e così scrisse al Prefetto che per iscritto lo aveva minacciato di prendere provvedimenti contro di lui, come contro un sabotatore, qualora non gli avesse assicurato l’obbedienza alle prescrizioni repubblichine: «Sono dolente di non poter dare l’assicurazione richiesta. Il prestare le carceri giudiziarie per la detenzione di innocenti è atto contrario alla legge e al costume italiano. Dacchè servo lo Stato nell’amministrazione della giustizia non ho mai fatto nulla contrario alla mia coscienza. Dio mi è testimone che non v’è jattanza nelle mie parole»1.
Bene, la mia ricerca non voleva studiare questo tipo di reazioni, eroiche, appunto, e perciò individuali. Voleva piuttosto guardare come agiva il giudice nello spazio compreso tra l’obbligo che incombeva su di lui, a causa del proprio ufficio, di applicare una norma legittimamente formatasi nell’ordinamento e il limite verso il quale poteva spingersi legittimamente con la sua interpretazione, interpretazione condotta nell’ambito dei rigorosi criteri della scienza giuridica. 1
p. XVI.
P. CALAMANDREI, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, 19353, Firenze 1955,
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Ho ritenuto che la legislazione discriminatoria si prestasse bene all’esperimento: assolutamente disumana, isola dalla società nazionale gli ebrei, ne comprime fortemente i diritti, ne mortifica la dignità escludendoli dalle scuole, dal lavoro, dalla società, tuttavia non commina loro pene capitali né prevede deportazioni. Non prevede, cioè, soluzioni che avrebbero potuto più facilmente suscitare gesti eroici, o comunque prese di posizione ‘meta-giuridiche’. Con la consueta catena fanatismo — cinismo — conformismo, il regime riesce a ottenere il consenso dell’opinione pubblica, della parte di opinione pubblica che è fanaticamente antisemita, della parte che è cinicamente e opportunisticamente antisemita, della parte che si adegua, per quieto vivere. Con un’efficace campagna di stampa ben orchestrata dal regime la legislazione razziale fu accettata, quando non anche ampiamente condivisa, dall’opinione pubblica. Non valsero le timide, e fin troppo diplomatiche, critiche che si levarono da parte di alcuni — penso al discorso del Papa di fine luglio 1938 al collegio Propaganda fide al quale Mussolini da Forlì già l’indomani diede una risposta secca e conclusiva — a orientare diversamente una opinione pubblica ormai addomesticata da oltre due lustri di propaganda di regime e ben disposta in senso antisemita anche da una certa cultura tardopositivista (che aveva trovato terreno fertile in occasione dell’esperienza coloniale), dal culto della nazione e da una certa cultura cattolica antigiudaica (si pensi alla adesione di Agostino Gemelli al Manifesto della razza del luglio del 1938 e all’uso strumentale in senso antisemita che di questa secolare cultura antigiudaica di matrice cattolica fece un gerarca come Farinacci proprio per neutralizzare le critiche mosse dal Papa).
4. VOCI DALLE SENTENZE Guardiamo ora le sentenze. Come sempre nell’esperienza giuridica le fredde figure generali e astratte previste dal legislatore si animano e si colorano solo quando si incarnano nelle vicende personali degli individui. Ed è questo il momento cruciale in cui il giudice, l’avvocato, le parti coinvolte guardano la loro immagine riflessa nello specchio che è il processo. È questo il momento in cui per il giudice (e non solo per il giudice: questi di certo non è il dominus assoluto del processo, ma è il protagonista
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della sintesi del processo dialettico al quale hanno dato vita gli avvocati e i soggetti comunque coinvolti nell’agone processuale), è questo il momento in cui per il giudice scocca l’ora del redde rationem. È il momento della verità: come applicherà quelle norme che il legislatore ha legittimamente fissato? Nello specchio del processo è abituato da sempre a vedere riflesse la sua tecnica, la sua sapienza, la sua cultura. Qui, come in altri casi, ma forse più che in altri casi, affiora da quello specchio anche l’immagine della sua coscienza, forse anche del suo credo religioso, comunque della ragione ultima e più intima della sua funzione. Ora deve decidere dei diritti patrimoniali di ebrei, italiani e stranieri, che sono stati licenziati dai datori di lavoro, o a cui devono espropriarsi beni immobili; ora è chiamato a giudicare della validità di un matrimonio misto, celebrato anche dieci anni prima del processo; ora deve dirimere le controversie patrimoniali tra due professionisti, uno ariano e l’altro ebreo, che, a seguito delle leggi razziali, pongono fine alla loro collaborazione professionale; ora deve stabilire se possa revocarsi all’ebreo discriminato il godimento di alcuni diritti. In tutte queste vicende si intrecciano le vite di uomini e donne, le loro miserie, i loro egoismi, le loro paure, i loro interessi, le loro passioni. È così in tutti i processi. Il giudice è abituato. Ma qui, almeno in parte, è diverso. La legislazione della persecuzione razziale — o più dolcemente, o ipocritamente, della discriminazione razziale —, concepita e propagandata per difendere l’eugenesi della razza italiana dalle commistioni ebraiche, produce un effetto immediato nel non ebreo: la convinzione che l’altro, l’ebreo, sia privato di ogni tutela. Può così diventare per il non ebreo pretesto per liberarsi di una moglie ebrea sposata da più di dieci anni, occasione per rilevare la metà di un avviato studio professionale a costi stracciati, motivo per non accordare la giusta, prevista dall’ordinamento, mercede al dipendente. Il giudice è abituato anche a questo. Sempre i consociati si insinuano nelle pieghe dell’ordinamento per utilizzare a proprio favore norme che sono state poste per ben altri fini. Ma qui, almeno in parte, è diverso. Qui il discrimine tra il soggetto di diritto comune, con piena capacità, e il soggetto di diritto singolare, con capacità limitata, è la razza. La capacità viene, in forza della legislazione razziale, ancorata alla razza-religione, non all’età, o al sesso, o al censo; viene ancorata a qualcosa che in qualche
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misura è estranea, lontana, nuova, rispetto agli schemi e ai criteri logicogiuridici che costituiscono l’armamentario del giudice, rispetto a quegli schemi e a quei criteri che sono il prodotto della consolidata cultura giuridica radicata nella codificazione, rispetto a quegli schemi e a quei criteri che guidano — fino a quel momento, almeno, hanno guidato — il giudice quando ordina e legge la realtà. Questo elemento di novità, proprio perché inserito e incidente nell’ordine giuridico al più alto livello, cioè al livello della capacità dei soggetti, turba e modifica sostanzialmente l’ordine costituito. Al giudice, alle sue decisioni, spetta il compito di determinare la misura di tale cambiamento. Dal giudice, anche dal giudice, in qualche modo dipende se gli effetti causati dalle novità legislative in materia razziale si produrranno solo nell’ambito su cui tali novità direttamente incidono o se si estenderanno ben oltre tale ambito producendo uno stravolgimento radicale dell’ordinamento. In alcune sentenze, nella quasi totalità di quelle esaminate, sembra che il giudice voglia dare della legislazione razziale la lettura che produca effetti il più possibile limitati e ristretti all’ambito su cui direttamente essa incide. E, finalmente, le sentenze: alcune riguardano il trattamento previdenziale di lavoratori stranieri o italiani licenziati perché ebrei; altre dirimono questioni legate alla proprietà immobiliare e agli atti di disposizione patrimoniale degli ebrei; altre riguardano il coordinamento tra le attribuzioni della cognizione al giudice ordinario e l’attribuzione esclusiva della cognizione all’autorità amministrativa; altre ancora risolvono questioni di diritto internazionale privato particolarmente significative perché riguardanti soggetti stranieri sottoposti alle limitazioni di status dell’ordinamento tedesco.
4.1. Rimane ferma la regola Guardiamo la prima sentenza: riguarda il caso di una ebrea egiziana, Sarah Casviner, dipendente della ditta Viganò. In quanto straniera, Sarah deve abbandonare il territorio italiano entro il 12 marzo 1939. La Viganò, in forza del decreto legge 1728 del 19 ottobre 1938, la licenzia a decorrere dal marzo 1939, ma si rifiuta di corrisponderle il pagamento dell’indennità di anzianità. La lavoratrice agisce per ottenere il pagamento. Il datore di
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lavoro per sottrarsi al pagamento dell’indennità invoca il principio di forza maggiore, cioè vuol fare valere il factum principis a lui non addebitabile come causa di forza maggiore. Ma nella legge impiegatizia il datore di lavoro è esonerato dal pagamento dell’indennità solo quando per la causa di forza maggiore si sia determinata la cessazione, liquidazione o riduzione dell’azienda. «In ogni altro caso di licenziamento, anche se estraneo alla volontà del datore di lavoro, vale il principio generale dell’obbligo di corrispondere le indennità relative»
statuisce infatti la legge impiegatizia del 1924. Semplificando potremmo affermare che il giudice è chiamato a stabilire entro quali limiti l’ordinamento in tutte le sue componenti sia modificato dallo stato d’eccezione introdotto dalle leggi razziali. Oppure se tali leggi non introducano uno stato d’eccezione e producano modifiche solo sui limitati settori dell’ordinamento sui quali direttamente incidono. Nel caso in questione, il giudice dei diversi gradi di giudizio, Tribunale lavoro Roma 1939, Corte d’Appello Roma (13 gennaio 1940), e Corte di Cassazione 1940, propende per questa seconda lettura. Il giudice di primo grado scrive: «Ed è di somma rilevanza il fatto che il legislatore fascista, pur nel dettare i provvedimenti per la difesa della razza italiana, ha voluto uniformarsi ai principi del proprio ordinamento sindacale corporativo, assicurando, anche in deroga alle vigenti disposizioni, ai dipendenti dello Stato dispensati dal servizio, il trattamento minimo di pensione o una indennità speciale in relazione agli anni di servizio compiuto, e stabilendo inoltre che tutti gli altri enti, nella legge tassativamente indicati, debbano liquidare ai dipendenti dispensati dal servizio, gli assegni o le indennità previsti dai propri ordinamenti»2.
2 TRIBUNALE LAVORO ROMA, 31 luglio 1939, Casviner c. Ditta Viganò, in Foro Italiano 64 (1939) parte I, coll. 1662-1664.
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Domenico Riccardo Peretti Griva, presidente della Corte d’Appello di Torino, commenta così questa sentenza nella rivista La magistratura del lavoro: «La portata della legge razziale non poteva essere, con simili disposizioni, posta in maggior evidenza. Con essa si mirava a salvaguardare l’integrità della razza, ma si dimostrava la preoccupazione di evitare ai colpiti degli immediati pregiudizi economici privati che non fossero resi necessarii dalla realizzazione degli scopi, di natura personale pubblicistica, perseguiti dall’intervento legislativo. Non una sanzione penale si voleva infliggere alla razza esclusa dalla vita nazionale, sebbene si voleva instaurare un ordine che eliminasse ogni pericolo di preoccupante commistione»3.
Nello stesso senso il giudizio della Corte di Cassazione che conferma l’esito del processo di primo e secondo grado: «Per fermo, la legge sulla razza, ispirata unicamente a finalità politiche, non può incidere su rapporti economici: onde se la stessa importa indubbiamente la risoluzione del rapporto impiegatizio, lascia però immutato il diritto a tale indennità […] rimane ferma la regola che tale beneficio di natura economica non può essere tolto, quante volte non vi sia colpa o volontarietà da parte dell’impiegato […] e che il diritto medesimo, lungi dall’essere soppresso o, comunque, menomato dalla legge sulla difesa della razza italiana, trova in essa argomento di conferma, come testé si è dimostrato»4.
Due anni più tardi la Cassazione, a sezioni unite, ispirandosi a criteri analoghi risolve un caso che presenta differenze sostanziali rispetto a quello di Sarah Casviner. La signora Debenedetti, cittadina italiana di razza ebraica, dipendente del Consorzio agrario di Vercelli, viene licenziata perché ebrea. Il Tribunale e la Corte d’Appello di Torino nel 1939 non riconoscono al Consorzio natura di ente parastatale e concludono per l’esclusione della Debenedetti dal trattamento pensionistico previsto per gli ebrei licenziati dagli enti statali e parastatali indicati nella legge. I privati, 3 D.R. PERETTI GRIVA, Nota a Sentenza del Tribunale lavoro Roma, Casviner c. Ditta Viganò, in La magistratura del lavoro (1939) coll. 1118-1125. 4 CORTE DI CASSAZIONE, sez. II civ., 11 luglio 1940, n. 2261, Viganò c. Casviner, in Foro Italiano 65 (1940) parte I, coll. 1217-1219.
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infatti, lecitamente possono licenziare i propri dipendenti, sia ariani che ebrei, in qualunque momento. Pertanto dal licenziamento della Debenedetti, sia pure dichiaratamente disposto dal datore di lavoro per l’appartenenza della stessa alla razza ebraica, non può scaturire alcun trattamento di favore rispetto a quanto sarebbe dovuto spettare alla lavoratrice per diritto comune. In sostanza l’indicazione del motivo del licenziamento da parte del datore di lavoro è superflua e non produce alcun effetto trattandosi, nel caso, di rapporto di lavoro intercorrente tra privati5. La Suprema Corte, invece, ritiene che il Consorzio abbia natura di ente parastatale e che la controversia debba essere disciplinata dal decreto legge 1728 del 1938 che all’art. 13, lettera c) vieta alle amministrazioni degli enti parastatali, comunque costituite e denominate, di tenere alle proprie dipendenze persone appartenenti alla razza ebraica e stabilisce che la dispensa dal servizio deve avere luogo nel termine di tre mesi dall’entrata in vigore del decreto. Alla dipendente devono essere corrisposte tanto l’indennità di preavviso quanto l’indennità di anzianità secondo le norme a lei più favorevoli. Conclude la Corte: «il provvedimento non è in odio al personale, ma è diretto ad eliminare pericoli di perturbazioni eugenetiche nella razza italiana… anzi per i dipendenti in pianta stabile dello Stato il trattamento è stato più favorevole di quello ordinario, essendo stata concessa la pensione con un minimo di dieci anni di servizio (art. 21)»6.
4.2. Arianizzazione e ingiustificate eccezioni Altra occasione per dare un’interpretazione dei provvedimenti razziali nel loro complesso è offerta alla Cassazione nel marzo 1943: la Corte
5 CORTE D’APPELLO TORINO, 18 dicembre 1939, Debenedetti c. Consorzio agrario di Vercelli, in Foro Italiano 65 (1940) parte I, col. 599. 6 CORTE DI CASSAZIONE, sezz. Unite, 12 marzo 1942, n. 676, Consorzio agrario di Vercelli c. Debenedetti, in Foro Italiano 68 (1943) parte I, coll. 83-86.
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conferma nella sostanza un caso deciso dal Tribunale di Genova e vagliato dalla Corte d’Appello della stessa città rispettivamente nel 1941 e nel 19427. Una norma del 1939 prevede per i cittadini italiani di razza ebraica una deroga alla regola di diritto comune che vieta le donazioni fra coniugi. La controversia nasce tra tale Polli e i coniugi Gugenheim Lottero. Gugenheim, cittadino italiano di razza ebraica, forte della deroga prevista nelle leggi razziali, ha disposto di tutti i propri beni donandoli alla moglie Lottero, italiana di razza ariana. Polli, creditore di Gugenheim, sostiene che la donazione lo priverebbe, in caso di insolvenza di Gugenheim, della possibilità di soddisfare il proprio credito aggredendo il patrimonio del debitore e che non è sufficiente a garantire i suoi diritti di creditore il fatto che Gugenheim abbia un’assicurazione che copre ampiamente il rischio di insolvenza, poiché tale assicurazione è fornita da una società inglese, paese belligerante con l’Italia, i cui beni in Italia sono posti sotto sequestro. Nel processo si deve preliminarmente chiarire l’esatta portata della deroga al divieto di donazione tra coniugi. Per l’art. 10 del decreto legge 1728 i cittadini italiani di razza ebraica non possono essere proprietari di terreni che, in complesso, abbiano un estimo superiore a lire cinquemila, né essere proprietari di fabbricati urbani che, in complesso, abbiano un imponibile superiore a lire ventimila. Il decreto attuativo, il n. 126 del 1939, stabiliva nell’art. 4 che la eventuale quota eccedente doveva essere trasferita all’Ente gestione e liquidazione immobiliare, appositamente creato, dietro pagamento del corrispettivo del valore determinato a seguito di una procedura di cui avremo modo di occuparci. Per il pagamento l’Egeli emette appositi speciali certificati trentennali che fruttano un interesse annuo del 4 per cento. Lo stesso decreto legge n. 126 stabiliva appunto nell’art. 6 che «In deroga alle disposizione degli articoli 4 e 5, il cittadino italiano di razza ebraica può fare donazione dei beni ai discendenti non considerati di razza ebraica, ovvero ad Enti od Istituti che abbiano fini di educazione od
7 TRIBUNALE GENOVA, 24 luglio 1941, Polli c. Gugenheim e Lottero, in Foro Italiano 66 (1941) parte I, coll. 1072-1074; CORTE D’APPELLO GENOVA, 3 febbraio 1942, Gugenheim c. Polli, in Foro italiano 68 (1943) parte I, coll. 96-100; CORTE DI CASSAZIONE, sez. I civ. 15 marzo 1943 n. 611, Gugenheim c. Polli, in Foro italiano 68 (1943) parte I, coll. 383-386.
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Giuseppe Speciale assistenza. La donazione di questi beni può essere fatta anche al coniuge che non sia considerato di razza ebraica».
In questo quadro normativo la questione da dirimere è se la deroga al divieto di donazione al coniuge disposta per il cittadino italiano di razza ebraica riguardi l’intero patrimonio immobiliare, senza alcuna limitazione, oppure, nel caso in cui si tratti di un patrimonio che superi il limite fissato dal decreto 1728, riguardi soltanto la quota eccedente, rimanendo valido, con riferimento alla quota consentita, il divieto di donazione, proprio del diritto comune. La Corte d’Appello di Genova, prima, e la I sezione civile della Corte di Cassazione, dopo, confermano e ribadiscono la decisione del Tribunale di Genova secondo il quale la norma che consente la donazione al coniuge serve allo scopo di evitare l’incameramento dei beni da parte dell’Egeli. Ne consegue che la deroga al principio di diritto comune che vieta le donazioni fra coniugi ha un senso solo con riferimento ai beni che eccedano i limiti del patrimonio che le leggi razziali consentono agli ebrei di possedere e pertanto devono essere incamerati dall’Egeli. Se così non fosse «l’interprete arriverebbe a creare arbitrarie sperequazioni fra i cittadini dello stesso stato ed ingiustificate eccezioni alle norme cogenti del diritto positivo»8.
La Corte d’Appello e la Corte Suprema, confermando la decisione del primo grado del giudizio, respingono le critiche che erano state mosse da Enrico Grego, nelle stesse pagine del Foro Italiano9. In sintesi le critiche si articolano su tre punti. In primo luogo si lamenta che la deroga di cui all’art. 6 non sia stata considerata “in sistema” con i precedenti articoli 4 e 5 del decreto attuativo, in particolare si lamenta che si sia ignorato da parte del giudice che nell’art. 6 si deroga espressamente agli articoli 4 e 5, così come si sia ignorato che la donazione è riferita a “questi beni”, cioè a quegli stessi 8 TRIBUNALE GENOVA, 24 luglio 1941, Polli c. Gugenheim e Lottero, in Foro Italiano 66 (1941) parte I, coll. 1072-1074. 9 E. GREGO, in Foro Italiano 66 (1941) parte I, coll. 1298-1301.
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beni che possono donarsi a Enti od Istituti che abbiano fini di educazione od assistenza. In secondo luogo si afferma che, assunto il criterio del tribunale, secondo il quale la donazione è ammessa solo se riguarda la parte del patrimonio eccedente la quota consentita, non è sufficiente che la stima dei beni donati non superi i limiti della quota consentita, dovendo valutarsi se nel patrimonio del donante vi siano altri beni il cui valore stimato, sommato al valore della stima dei beni donati, superi i limiti fissati dalle leggi razziali. In terzo luogo, e conclusivamente, Grego afferma che «Devesi considerare ancora che la ratio legis della disposizione dell’articolo 6 non è tanto quella, ritenuta dal tribunale, di rendere possibile ai cittadini di razza ebraica di evitare l’incameramento dei loro beni, quanto il desiderio di agevolare in ogni modo l’arianizzazione dei beni stessi»
e cita per confermare che lo scopo della norma è l’arianizzazione dei beni le disposizioni di cui agli articoli 30 (se i beni, prima del trasferimento all’Egeli passano in eredità ad un ariano, cessa l’applicazione dell’art.4), 55 (l’ebreo può donare l’intera azienda o la sua quota sociale ai soggetti indicati nell’art. 6) e 74 (gli atti di donazione di cui agli artt. 6 e 55 godono di benefici fiscali). La Corte d’Appello e la Corte di Cassazione ritengono irrilevanti i richiami agli articoli 30, 55 e 74. Anzi ritengono che il richiamo alle norme in essi contenute avvalori ulteriormente l’interpretazione sostenuta dai giudici genovesi. Sempre sugli aspetti patrimoniali, più precisamente sulla liquidazione dei patrimoni immobiliari degli ebrei, possono leggersi altre pronunce che attribuiscono alle norme che regolano la procedura di liquidazione, e più in generale alla legislazione razziale, un impatto sull’ordinamento nazionale limitato a obiettivi definiti: «Si tratta di legge a scopo eminentemente politico, intesa com’è a ridurre e controllare nel massimo suo esponente, la proprietà immobiliare, la potenzialità economica di una razza, che al di sopra dei diversi ambienti politici, sociali ed intellettuali, in cui è nata e vive, ha una propria ideale unione di spiriti e di intenti, una patria sognata, al cui divenire e alla cui fortuna ogni
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Giuseppe Speciale altra considerazione e ogni altro legame dovrebbe sacrificarsi. Ma, una volta ottenuto il suo scopo di riduzione e di controllo; una volta chiuso l’adito a ulteriori aumenti dei patrimoni immobiliari ebraici, la legge non ha ulteriore ragione di restrizioni e di rigori, e soprattutto mancherebbe alla funzione sua di giustizia politica ed economica…»10.
Qui i toni usati dall’estensore lasciano trapelare un’adesione al progetto politico ispiratore della legislazione. Tuttavia — sincera, entusiasta, cinica o conformista che sia —, tale adesione non si spinge oltre i limiti ai quali accennavo.
4.3. Il giudice e il ministro L’articolo 26 del decreto 1728 è assai spesso oggetto dell’attenzione del giudice. Il testo offre il fianco a dubbi, generalmente strumentali, sulla competenza giurisdizionale circa le questioni razziali: «Art. 26. Le questioni relative all’applicazione del presente decreto saranno risolte, caso per caso, dal Ministro per l’interno, sentiti i Ministri eventualmente interessati, e previo parere di una Commissione da lui nominata. Il provvedimento non è soggetto ad alcun gravame, sia in via amministrativa, sia in via giurisdizionale».
Non era insolito che ai sensi dell’art. 26 si invocasse o si eccepisse l’incompetenza del giudice. Costantemente, con una sola significativa eccezione della Corte dei Conti, immediatamente corretta dalla Corte di Cassazione, il giudice, ordinario, amministrativo, contabile, rigetta tale interpretazione dell’art. 26 e afferma la propria competenza a giudicare di tutte le controversie inerenti alla legislazione razziale riservando al potere discrezionale del ministro solo la decisione della questione fondamentale: chi sia ebreo. Solo su tale questione l’ultima parola spetta al Ministro e avverso la sua decisione, anche difforme rispetto alle risultanze anagrafiche, 10 TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA, 21 marzo 1942, Thovazzi c. Carmi e Egeli, in Foro Italiano 67 (1942) parte I, coll. 1136-1138???.
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non è possibile alcuna forma di gravame. Per questo punto è assai significativo quanto si legge in una sentenza del Consiglio di Stato che qui si riporta esemplificativamente: «In contrario non vale asserire che il decreto legge n. 1728 ha scopo e impronta prevalentemente politici, per dedurne che, implicando ogni controversia relativa alla sua interpretazione e applicazione un giudizio esclusivamente politico, la negazione del diritto di azione o di ricorso trova la sua giustificazione nella maggiore idoneità della autorità amministrativa a valutazioni di ordine politico […] a quanto sopra si aggiunga che l’attribuzione alla cognizione esclusiva della autorità amministrativa di ogni e qualsiasi controversia in tema di interpretazione ed applicazione del decreto legge in esame non sembra necessaria ai fini della realizzazione degli intenti politici propostisi dal legislatore. Sufficiente per tale realizzazione sembra, invece, la cautela dal legislatore medesimo usata di deferire al ministro l’accertamento, ampiamente discrezionale, della appartenenza alla razza ebraica, e di consentire che tale accertamento possa essere fatto senza limitazione alcuna di mezzi istruttorii e in difformità anche alle risultanza degli atti di stato civile […] Giudicare sulle conseguenze ulteriori, specialmente di ordine patrimoniale, della appartenenza alla razza ebraica non implica valutazioni di ordine politico, ma l’applicazione, solo, di rigorose norme di diritto. Si arriverebbe, altrimenti, alla assurda conseguenza che il Ministro per l’Interno potrebbe decidere ad libitum, senza alcuna garanzia di procedura e senza possibilità di successivo controllo giurisdizionale, controversie civili, in tema, ad esempio, di nullità di matrimonio, di privazione della patria potestà, di proprietà di beni immobili, e così via, e controversie anche di natura penale, relative ai vari reati contemplati dalla legge per la difesa della razza»11.
4.4. L’art. 6 delle preleggi C’è una decisione — e qui deve sottolinearsi che non si tratta di una pronuncia isolata — del Tribunale di Trieste del 24 gennaio 1941, partico-
11 CONSIGLIO DI STATO, sez. V, 11 luglio 1941, Falco c. Banco di Napoli, in Foro Italiano 66 (1941) parte III, coll. 249-251, con nota di A.C. Temolo.
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larmente significativa per far luce sui rapporti tra italiani e tedeschi, quanto ai problemi legati all’esercizio della giurisdizione. Harth — ebreo rumeno titolare d’impresa a Vienna, lì privato della capacità di gestire la propria impresa, sottoposta ad amministrazione coattiva in applicazione delle leggi razziali naziste —, trovandosi in Italia, agisce contro la società Villain e Fassio a tutela dei propri interessi in Italia12. Alla società convenuta, che vuole far valere l’incapacità di Harth, il giudice replica che non v’è dubbio che legittimamente lo stato tedesco possa limitare la capacità del cittadino ebreo rumeno in Germania, ma la capacità dello stesso in Italia, e in relazione a beni che si trovano in Italia, è regolata dal diritto italiano: l’articolo 6 delle disposizioni sull’applicazione della legge in generale statuisce che «lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità».
Considerato che l’ordinamento rumeno, regolatore della capacità di Harth, stabilisce «che gli stranieri godranno abitualmente in Romania degli stessi diritti dei quali godono i rumeni»,
non v’è dubbio che Harth abbia la capacità di agire in giudizio in Italia a tutela dei suoi interessi nei confronti della convenuta.
5. DUE ULTIME VOCI AL DI LÀ DI QUEL TEMPO Due ultime voci vorrei qui farvi ascoltare. La prima si leva dalla Corte di Cassazione quando ormai tutto è finito, il 7 agosto 1945. Ma quando ancora vive, troppo vive, sono le ferite inferte all’umanità, al senso morale e civile, all’identità di un popolo. La sentenza non doveva e non poteva attraversare i confini temporali che imbrigliano il mio itinerario. È vero che la 12 TRIBUNALE TRIESTE, 24 gennaio 1941, Harth c. Ditta Villain e Fassio, in Foro Italiano 66 (1941) parte I, coll. 795-797.
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controversia risale al periodo precedente la legge 20 gennaio 1944 n. 25, abrogatrice della legislazione razziale, ma non è per questo che la sottopongo alla vostra attenzione. Piuttosto perché dà la misura di come, al di là di tutte le intenzioni dei giudici, almeno di quei giudici che interpretavano e applicavano le leggi razziali tentando sempre di ricondurle all’interno del quadro ordinamentale, le leggi razziali abbiano costituito un monstrum che ha stravolto l’ordinamento, le coscienze, il senso comune. Il 7 agosto 1945 l’incubo è ormai finito: ma il giudice è frastornato, disorientato, brancola. Il Procuratore del regno aveva agito, prima che fosse intervenuta la legge 20 gennaio 1944 n. 25, abrogatrice della legislazione razziale, per ottenere la dichiarazione di nullità della trascrizione del matrimonio avvenuto tra un cittadino italiano di razza ebraica e una cattolica13. Il procuratore agiva ex art. 6 del decreto legge 17 novembre 1938 n. 1728 che statuiva: «non può produrre effetti civili e non deve, quindi essere trascritto nei registri dello stato civile […] il matrimonio celebrato tra un cittadino italiano di razza ariana ed un non ariano».
Il caso, come non manca di rilevare Jemolo, nella sua notacommento, è dei più semplici. Non v’è dubbio che, limitatamente alla produzione degli effetti civili, l’azione del Procuratore sia pienamente legittima e fondata sulla norma del decreto razziale. Ma il giudice supremo imposta la causa in tutt’altri termini. Ritiene che oggetto della causa sia una domanda per regolamento di giurisdizione. Il giudice, cioè, vuole accertare se il magistrato italiano abbia giurisdizione a conoscere dell’istanza con la quale il Procuratore del regno ha chiesto che sia dichiarata la nullità del matrimonio cattolico concordatario, più correttamente della trascrizione di detto matrimonio, concluso tra un cittadino italiano ebreo e una cittadina ariana. Non basta. Non solo il giudice imposta la causa in termini di regolamento di giurisdizione, ma conclude per il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana. Il supremo giudice invoca l’art. 34 del 13 CORTE DI CASSAZIONE, sezz. unite civili, 7 agosto 1945 n. 713, Segre e Villa c. Procuratore del Regno Roma, in Foro Italiano 69 (1944-1946) parte I, coll. 298-303 con nota di A.C. Jemolo.
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Concordato che riconosce effetti civili al matrimonio canonico e riserva alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici le cause concernenti la nullità del matrimonio e la dispensa dal matrimonio rato e non consumato, anche se trattasi di matrimoni trascritti nei registri di stato civile. Richiama poi il giudice anche la legge che attua il concordato, la 847 del 1929, che riserva al giudice italiano la possibilità di intervenirte solo in due ipotesi tassativamente fissate (la materia dell’opposizione notificata all’ufficiale dello stato civile pel rilascio del certificato attestante l’inesistenza di cause d’opposizione alla celebrazione d’un matrimonio valido agli effetti civili (limitatamente al vincolo di precedente matrimonio e all’interdizione per infermità di mente) e la materia dell’impugnazione della trascrizione dell’atto di matrimonio (limitatamente alle due suddette cause). Il giudice della suprema corte considera «che le due ipotesi nelle quali è ammesso, prima e dopo la trascrizione dell’atto, l’intervento della giurisdizione italiana costituiscono tassative eccezioni all’esclusione della giurisdizione stessa in materia matrimoniale»
e conclude: «perciò la proibizione del matrimonio, la sua dichiarata nullità e l’inefficacia della sua trascrizione agli effetti civili, contenute nel decreto legge 17 novembre 1938 n. 1728, erano bensì valide norme di diritto interno, applicabili al matrimonio puramente civile o al matrimonio di altri culti ammessi nello stato, ma erano giuridicamente inesistenti rispetto alla Chiesa e al diritto concordatario e giuridicamente inefficaci in confronto d’un matrimonio che, come nella fattispecie, fosse stato in spreto di esse celebrato davanti a un ministro del culto cattolico e trascritto agli effetti civili».
A tali ministri e al funzionario dello stato civile si sarebbe potuto comminare la sanzione di cui agli articoli 5 e 6 non in quanto conseguente ad un matrimonio nullo o privo di effetti civili, ma in quanto essi, nell’esercizio delle loro pubbliche funzioni, avevano omesso di fare osservare le leggi razziali. È evidente che il ragionamento del giudice presta il fianco a critiche fondate. Al di là della gravità di alcune affermazioni — quali «il diritto canonico divenuto ricettizio nella legislazione italiana» —, il giudice ignora il fatto che lo stato poteva bene con il decreto 1728 porre norme in
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contrasto con il concordato dando luogo, così ad una implicita abrogazione dell’accordo, rilevante sul piano internazionale, ma assolutamente irrilevante sul piano interno. Giustamente e acutamente Jemolo ricorda che anche alcuni articoli della Istruzione della congregazione dei sacramenti ai vescovi d’Italia non erano conformi al Concordato ma «come a nessuno è mai venuto in mente che i tribunali ecclesiastici possano rifiutarsi di applicare una norma pontificia perché in contrasto con il Concordato, nessuno aveva fin qui pensato che i magistrati italiani potessero fare altrettanto con le leggi del loro stato. Bacio la mano al magistrato che, offeso da un legge nella sua coscienza di cittadino o di credente, getta la toga; ma finché siede al banco del giudice deve applicare la legge. L’iniquità della norma dell’art. 6 del decreto legge 17 novembre 1938 ha trascinato la Suprema corte e le ha fatto stendere, per mano di uno dei magistrati più colti e che più l’onorano, una decisione del tutto inaccettabile…»14
ma lo stesso Jemolo, che nelle sue note alle sentenze prima ricordate si impegnava, come sempre fanno e devono fare i giuristi, in sottili ragionamenti giuridici, solo ora scrive e può scrivere — senza il raro e sofferto eroismo di quel giovane pretore toscano ricordato da Calamandrei — che l’art. 6 del decreto 1728 violava sì l’art. 34 del Concordato, ma «ben più profondamente feriva il senso morale e civile della più gran parte degli italiani»15.
Della più gran parte? La storia pone ancora questa domanda. La seconda e ultima voce, con cui chiudo il mio intervento, è dei nostri giorni. Nel 1992 la Commissione per le Provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri rigetta la domanda con cui la signora Nella Padoa, ebrea italiana, chiede la concessione dell’assegno (350 mensili) vitalizio di benemerenza di cui
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all’art. 3 della legge 932/1980 prevista per i cittadini di origine ebraica che abbiano subito, in forza della legislazione razziale, «atti di violenza o sevizie in Italia o all’estero ad opera di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista».
La Commissione non accoglie la domanda perché ritiene che in capo alla richiedente non sussistano i requisiti previsti dalla legge. Per la Commissione la marchiatura nei documenti ufficiali come appartenente alla razza ebraica, l’allontanamento dalla scuola del regno come appartenente alla razza ebraica, l’arresto per motivi politici e razziali da parte delle SS. tedesche e l’internamento nel carcere di Modena, dal 19.3.1945 al 22.4. 1945, subiti dalla signora Nella, non integrano gli atti di violenza richiesti dalla legge, neanche sotto il profilo della violenza morale… «Ciò atterrebbe, infatti, esclusivamente alla generale condizione di soggezione e discriminazione dei cittadini ebrei che, come tale, comporterebbe solo il riconoscimento della qualifica di perseguitato. razziale a norma e ai fini della legge 8.7.71 n. 541, e non potrebbe, invece, portare di per sé stessa, al conferimento dell’assegno…»16.
Con sentenza del 2001, invece, la sezione giurisdizionale della Corte dei Conti per l’Emilia Romagna accoglie il ricorso proposto da Nella Padoa e la ammette al godimento dell’assegno nella considerazione che negli atti subiti dalla ricorrente si concretizzano le violenze previste dalla legge concessiva. Il Ministero dell’economia si appella alla sezione giurisdizionale centrale d’Appello della Corte dei Conti sostenendo che sussiste errore di diritto nel riconoscimento dell’assegno vitalizio perché, nella fattispecie,
16 Sentenza n. 17/2004 del 21 gennaio 2004 – I Sezione giurisdizionale centrale d’Appello – Riconoscimento alle vittime delle persecuzioni razziali del diritto alla concessione dell’assegno vitalizio di benemerenza di cui all’art. 3 della legge n. 932/1980, in www.corteconti.it
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«l’impugnata sentenza avrebbe erroneamente applicato le norme sopracitate considerando le restrizioni cui fu sottoposta la Sig.ra Nella Padoa, in seguito all’emanazione delle leggi razziali del 1938, come elemento sufficiente per integrare gli estremi delle persecuzioni in base al dettato normativo. In dette restrizioni non si ravviserebbero, infatti, elementi per individuare specifiche azioni persecutorie nei suoi confronti»17.
In sintesi il Ministro e l’Avvocatura dello Stato ritengono che sia necessario un quid pluris rispetto alla mera soggezione alla legislazione antiebraica perché si concretizzi l’azione lesiva alla cui esistenza la legge subordina la concessione dell’assegno. Preliminare a tutta una serie di delicate e sottili questioni previdenziali è pertanto la decisione della questione «se le misure concrete di attuazione della normativa antiebraica (tra cui i provvedimenti di espulsione dalle scuole pubbliche) debbano considerarsi soggezione alla legislazione razziale o, all’opposto, possano in astratto ritenersi idonee a concretizzare una specifica azione lesiva proveniente dall’apparato statale e intesa a ledere la persona colpita nei suoi valori inviolabili»18.
Le sezioni riunite della Corte dei Conti a cui è rimessa tale questione pregiudiziale risolvono positivamente con sentenza del 25 marzo 2003 affermando «il diritto dei cittadini italiani che abbiano subito persecuzioni politiche a carattere antifascista e razziale in forma di violenze e sevizie ad opera di agenti dello Stato Italiano ovvero di appartenenti al partito fascista, all’assegno di benemerenza […], quando essi siano stati assoggettati a misure amministrative di esclusione dalla vita politica e sociale in applicazione delle cc.dd. leggi razziali…»19.
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Il giudice, la sezione giurisdizionale centrale d’Appello della Corte dei Conti, recepisce la sentenza delle sezioni unite ma non fa scaturire l’ammissione al beneficio sic et simpliciter dall’appartenenza alla razza ebraica, dalla mera soggezione alla legislazione antiebraica. Per il giudice la previsione legislativa, come al solito generale e astratta, non produce concrete modificazioni o estinzioni di situazioni giuridiche, quanto una sorta di ‘stato d’attesa’, un’astratta possibilità che tali modificazioni si producano. Per il giudice è l’applicazione, invece, caso per caso, delle leggi razziali che si traduce inevitabilmente e inesorabilmente in concrete attività persecutorie che ménomano le posizioni giuridiche e in specifiche azioni lesive dei diritti inviolabili dei destinatari20. Alla signora Nella Padoa viene riconosciuto il diritto all’assegno. Nelle sofferenze e nelle umiliazioni da lei subite si attuano le previsioni generali e astratte della normativa razziale e si concretizzano specifiche attività persecutorie e azioni lesive. Alla fine di questo breve itinerario per tentare una prima riflessione conclusiva devo ancora una volta citare un brano di quest’ultima sentenza: «Invero l concrete e individuali misure di attuazione della normativa antiebraica […] non solo realizzarono in via immediata la lesione della dignità della persona nei suoi fondamentali diritti […] ma racchiudevano in loro lo scopo, mediato e tuttavia immanente ed essenziale, di annientare completamente e sotto ogni possibile profilo della vita civile e di relazione — in quanto costituente “minaccia per la purezza e l’integrità della razza italiana” — l’ancor più presupposto diritto naturale dei cittadini appartenenti alla minoranza ebraica alla loro identità socio-culturale, preesistente alla stessa formazione dello Stato ed essenziale per qualsiasi comunità civile».
Io penso che quel richiamo della Corte dei Conti del 2004 al diritto naturale segni il valore, e il limite del valore, dell’interpretazione dei giudici che applicarono la legislazione razziale. All’interno del quadro legislativo e ordinamentale dell’Italia fascista in cui esercitarono la giurisdizione i
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giudici non gridarono — se lo avessero fatto sarebbero stati degli eroi — l’abiezione di quelle norme, pur legittimamente poste; le applicarono, invece, perché legittimamente poste, limitando, per quanto possibile, la deformazione e lo stravolgimento che esse producevano sulle forme, sui dogmi, sulle esperienze su cui sino a quel momento si era fondato l’ordine giuridico. E le applicarono proprio rifacendosi a quelle forme, a quei dogmi, a quelle esperienze. La legislazione razziale dolorosamente e scandalosamente ci ammonisce sul diritto e sulla legge: i due lembi di una ferita sempre aperta.
“UN VIVO CHE PASSA”. NOZIONI E IMPLICAZIONI SU SHOAH E CINEMA (A PROPOSITO DI POLANSKI)
FERNANDO GIOVIALE*
Devlin God? God? You think God is sinking into a quicksand? That’s what I would call a truly disgusting perception. If it can be dignified by the word perception. Be careful how you talk about God. He’s the only God we have. If you let him go he won’t come back. He won’t even look back over his shoulder. (HAROLD PINTER, Ashes to Ashes, 1996)
Dio? Dio? Pensi che Dio stia affondando nelle sabbie mobili? Lo trovo un concetto davvero disgustoso. Se è lecito chiamarlo concetto. Attenta a come parli di Dio. È l’unico Dio che abbiamo. Se te lo lasci sfuggire non tornerà più. Non si volterà nemmeno a guardarti. (HAROLD PINTER, Ceneri alle ceneri, trad. it. di Alessandra Serra, 1997)
Un vivant qui passe, titolo di un film-documentario di Claude Lanzmann (Francia 1997), ci è sembrato felicemente riferibile a un’opera tipologicamente diversa come il film-narrazione di Roman Polanski The Pianist (“Il pianista”, Pol-Fr-GB 2003), assunto specifico di questo lavoro. Il documentario s’impernia su un lungo colloquio, risalente al 1979, con Maurice Rossel, delegato del Comitato internazionale della Croce Rossa in Germania a partire dal 1942, che a capo di una delegazione ispezionò il *
Docente di Discipline dello Spettacolo presso l’Università degli Studi di Catania.
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ghetto di Theresienstadt (città fortezza a una sessantina di chilometri da Praga) nel giugno del 1944, e nel settembre Auschwitz. Theresienstadt veniva propagandata dai nazisti, da Aldolf Eichmann in persona, come “il ghetto modello” da mostrare agli esterni di rango. Commenta Lanzmann: «In verità quel “ghetto modello” era un luogo di transito, prima o ultima tappa, come si vedrà, di un viaggio verso la morte, che ha condotto la maggior parte di coloro che vi soggiornarono nelle camere a gas di Auschwitz, di Sobibor, di Belzec o di Treblinka, a volte, dopo varie peregrinazioni nei ghetti della Polonia, della Bielorussia o del Baltico che non erano affatto come Theresienstadt “ghetti modello”. […] Le condizioni di vita reali a Theresienstadt erano spaventose: la maggioranza degli ebrei, uomini e donne che vi erano concentrati, erano molto vecchi e in stato di miseria assoluta, promiscuità e malnutrizione in situazione di sovraffollamento nei caseggiati della città fortezza».
Non seguiremo la conversazione tra il regista e l’interlocutore: questi continua a mostrare, dopo tanti anni, qualche reticenza, come incerto tra l’orrore del ricordo e la percezione di inconsapevolezza un po’ colpevole, se è vero che (vedi Auschwitz) a Rossel venivano fatte vedere solo le cose più convenienti, e l’ospite non pareva applicare un grande zelo nei criteri della sua ispezione; del che avrebbe mostrato di rendersi, implicitamente, conto scrivendo siffattamente a Lanzmann: «Adesso che sono ottuagenario non mi ricordo molto bene dell’uomo che ero allora. Mi ritengo più saggio o più folle, e forse è la stessa cosa. Sia compassionevole, non mi renda troppo ridicolo».
Durante il colloquio, riferendosi ai cosiddetti mussulmani, ovvero a quegli internati ridottisi a larve umane in totale abbandono psicofisico, fantasmi vaganti per il campo (impressionanti, al riguardo, le riflessive rappresentazioni di Primo Levi, soprattutto in I sommersi e i salvati), Rossel dichiarava: «Quella gente mi osservava con una incredibile intensità, al punto di voler dire quasi: “Ebbene, ecco un tipo che arriva qua e come? Un vivo che passa”».
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Il testo di quello straordinario colloquio si può leggere anche in lingua italiana in un volume ampiamente occupato dalla sceneggiatura integrale di Shoah, altro film-documentario di Claude Lanzmann di lunga e complessa gestazione. Precisa l’autore: «Per ragioni di tempo e di montaggio, avevo deciso di rinunciare a una trattazione diretta nel mio film dello straordinario soggetto rappresentato da Theresienstadt, a un tempo centrale e laterale nella genesi e nello sviluppo della distruzione degli ebrei d’Europa».
Shoah è un’opera-monstre di cinquecentosettanta minuti, a fronte dei sessantacinque di Un vivant qui passe. Apparve nel 1985, ma Lanzmann vi aveva posto mano sin dal 1974. Qualcuno ha scritto: «La realizzazione del film richiese undici anni, di cui cinque dedicati alla selezione e al montaggio delle 350 ore girate. Immane riflessione sulla distruzione degli Ebrei d’Europa, Shoah — nove ore e mezza di interviste, raccolte in tutto il mondo, e di riprese sui luoghi dello sterminio — costituisce un’opera capitale per comprendere l’offesa subita da una parte della popolazione europea negli anni tra il 1941 e il 1945».
E Simone de Beauvoir, nella prefazione (La memoria dell’orrore) al volume coi dialoghi di Shoah, da lei definito una cantata funebre a più voci: «Non è facile parlare di Shoah. C’è della magia in questo film, e la magia non si può spiegare. Abbiamo letto, dopo la guerra, un gran numero di testimonianze sui ghetti, sui campi di sterminio; ne eravamo sconvolti. Ma oggi, vedendo lo straordinario film di Claude Lanzmann, ci accorgiamo di non aver saputo niente. Malgrado tutte le nostre conoscenze, quella terribile esperienza rimaneva distante da noi. Per la prima volta la viviamo nella nostra testa, nel nostro cuore, nella nostra carne. Diventa la nostra. Né romanzo né documentario, Shoah realizza questa ri-creazione del passato con una stupefacente economia di mezzi: dei luoghi, delle voci, dei volti. La grande arte di Claude Lanzmann consiste nel far parlare i luoghi, nel resuscitarli attraverso le voci, e, al di là delle parole, nell’esprimere l’indicibile attraverso i volti».
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Un esperto come Frediano Sessi, che studia queste tematiche portandovi dentro le sue qualità di narratore (è autore di romanzi come L’ultimo giorno e Alba di nebbia) e di saggista-editore (gli dobbiamo anche la cura italiana della “nuova edizione integrale” del Diario di Anne Frank), in un libro collettivo fortemente incentrato sulla duplice ‘testimonianza’ di Primo Levi e di Claude Lanzmann (Il racconto della catastrofe. Il cinema di fronte ad Auschwitz) annota puntualmente: «Nel film ogni passaggio viene ripreso da tre punti di vista: quello delle vittime, quello dei testimoni e infine quello dei criminali. I contadini polacchi che hanno continuato a vivere nei dintorni dei campi di sterminio, o che abitano nelle case degli ebrei deportati e sterminati, diventano in Shoah narratori fondamentali (prima di Lanzmann nessuno aveva mai pensato di interrogarli)»;
e aggiunge: «Ma Shoah è anche un film strettamente legato alla “geografia” dell’inferno nazista, dove il luogo in cui sorgeva il lager o il ghetto diviene lo spazio scenico che ci travolge nell’inimmaginabile».
E a proposito di luoghi, nella sobria introduzione all’edizione italiana della sceneggiatura, Sessi rimarca una distinzione che ci pare utile riportare per esigenza di (atroce, didattica) chiarezza: «I campi di sterminio furono sei e funzionarono dal 1941 al 1944. Erano campi di concentramento diversi dai lager di lavoro e di punizione o da quelli per prigionieri di guerra. Il solo scopo dei campi di sterminio era quello di eliminare fisicamente il maggior numero di esseri umani (in prevalenza ebrei). Quattro di questi erano meri luoghi di sterminio: Chelmno (ribattezzato Kulmhof), Belzec, Sobibor e Treblinka. In pratica erano dei terminal ferroviari dove, fin dal loro arrivo, i deportati venivano condotti direttamente ai camion a gas o alle camere a gas, per essere assassinati. Altri due campi: Lublino-Majdanek e Auschwitz-Birkenau erano, per così dire, misti: all’inizio campi di concentramento per politici e di lavoro coatto, all’interno dei quali vennero predisposti centri di sterminio con installazioni a gas e annessi forni crematori. […] Due precisazioni ancora si rendono
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necessarie, per comprendere meglio questa distinzione: in taluni campi di concentramento e lavoro coatto furono praticate delle gassazioni saltuarie, come a Mauthausen, Stutthof, Natzweiller-Struthof, ma il trattamento massiccio dei deportati con il gas ebbe luogo solo nei campi di sterminio. Inoltre, tra il 1944 e il 1945, un certo numero di internati nei campi di sterminio vennero evacuati e trasferiti con marce forzate (le marce della morte) nei lager situati in territorio del Reich (per esempio, Bergen-Belsen, Mauthausen ecc.)».
Il nome che resta sinistramente realistico e simbolico è Auschwitz, denominazione tedesca della polacca Os!wiecim: cittadina posta circa sessanta chilometri a ovest di Cracovia, su cui vorremmo qui richiamare, di Primo Levi, piuttosto che le opere massimamente rappresentative, un breve racconto-resoconto del 1984, Auschwitz, città tranquilla, che così si avvìa: «Può stupire che in Lager uno degli stati d’animo più frequenti fosse la curiosità. Eppure eravamo, oltre che spaventati, anche curiosi: affamati di pane e anche di capire. Il mondo intorno a noi appariva capovolto, dunque qualcuno doveva essere capovolto, e perciò essere un capovolto lui stesso: uno, mille, un milione di esseri antiumani, creati per torcere quello che era diritto, per sporcare il pulito».
E a proposito del nome (che ormai è, universalmente e fatalmente, quello tedesco): «Ma contro il nome di Auschwitz nessuno ha obiezioni: è ancora un nome vuoto, che non suscita echi; una delle tante città polacche che dopo l’occupazione tedesca hanno cambiato nome. Os!wiecim è diventata Auschwitz, come se bastasse questo a far diventare tedeschi i polacchi che vi abitano da secoli. È una cittadina come tante altre».
Alla realtà del Lager per antonomasia Frediano Sessi ha dedicato uno studio, Auschwitz 1940-1945, esemplare nella sua doppia articolazione di informazione minuziosa e ampia narratività: illuminante, ad esempio, Musica, giochi, sessualità; ma a proposito della sessualità duplicemente coatta del bordello-lager ascoltiamo da un libro atrocemente puntuale di Laurence Rees:
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Passo importante, che ci aiuta, in direzione filmica, non già a creare un qualche sfondo storico-sociologico a corrivi filmetti italicamente ‘sadomasonaziporno’ (come qualcuno, spiritosamente, li definì: e saranno già in fase di riabilitazione…), su cui svetta comunque un Tinto Brass d’annata, Salon Kitty (1975); ma piuttosto a rileggere in controluce episodi-chiave di opere come Spartacus (diretto e non sceneggiato da Stanley Kubrick), dove Varinia vien data per il sesso a Spartaco, mentre il panciuto padrone — il solito godibilissimo Peter Ustinov, già ghiotto Nerone in Quo vadis? — li spia senza ritegno; e soprattutto a collocare in una prospettiva calcata e contrastiva un capolavoro come Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini (1975), dove il decadente Settecento di Sade s’è fatto villa signorile in territorio RSI e vi dominano scopofilia e voyeurismo, ma con un significativo rovesciamento rispetto al tradizionale moralismo nazionalsocialista (quello ufficiale: perché tra i gruppi ‘esoterici’ di gerarchi rivali potevano dominare virilismo e omofilìa, come sontuosamente ci raffigura Luchino Visconti in La caduta degli dei). Se in lager-bordello si vigila perché il sesso resti ‘normale’, in villa-lager si ammettono solo atti ‘contro natura’, a pena di mutilazioni orribili e intimata soluzione finale. Così commentavamo in un saggio sulla monitoria, rigoristica, flagellante, pedagogica opera postuma di Pasolini: «Ed è la terribile ‘prova ultima’ della tortura, della manipolazione all’eccesso, della crudeltà senza confini, degli estremi sussulti di lussuria, della strage come esibizione e spettacolo: legge suprema del campo di sterminio, soluzione finale del nazionalsocialismo (e Salò fu la sanguinosa utopia di un nazionalsocialismo italiano)».
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«Estratto dalla storia e collocato sul piedistallo dei simboli universali, Auschwitz diventa qualcosa di sacro ma anche qualcosa di sterile, un totem e nello stesso tempo un tabù: l’uomo qualunque ha potuto separarlo da sé, relegarlo tra i “mostri” di una realtà aliena che non gli appartiene e non lo coinvolge» (Giovanni Gozzini).
Assai pedestremente, in realtà, vi si esercitava quello che Wolfgang Sofsky, nella sua ben squadrata analisi sociologica sui campi, ha definito potere assoluto. Un recente volumetto, agile e informato, Auschwitz. Geschichte und Nachgeschichte della giovane storica Sibille Steinbacher, così introduce l’argomento: «Auschwitz costituí il punto focale dei due principî ideologici dominanti del regime nazionalsocialista: fu il maggior teatro dell’uccisione in massa degli ebrei europei e un luogo di concretizzazione della politica di colonizzazione e di “germanizzazione”. L’annientamento e la “conquista dello spazio vitale” vi si fusero concettualmente, temporalmente e spazialmente. In quanto campo di concentramento, di sterminio e di impiego del lavoro forzato, Auschwitz è esemplare della pluridimensionalità del sistema nazionalsocialista dei lager. Il collegamento fra il proposito sterminatore e gli interessi di sfruttamento industriale divenne qui immediata realtà. La circostanza che la città di Auschwitz, segnata da una secolare tradizione ebraica, sia diventata nella fase culminante del massacro una città “tedesca”, orienta l’attenzione sul contesto sociale del lager e solleva questioni relative alla percezione pubblica del crimine».
Suscita qualche impressione la singolare evoluzione semantica del termine, dal tradizionale ‘campo’ o ‘accampamento’ — che pur in accezione militare finisce con l’apparire, comparativamente, persino rassicurante — all’estremo ‘campo di concentramento’ o ‘di sterminio’; come dire: dal fiero Wallensteins Lager di Schiller, prima parte del sommo dramatisches Gedicht, al termine-concetto sciaguratamente legato alla Shoah, ovvero alla Distruzione, cui opportunamente s’intitola l’opera massima sul tema tragico per antonomasia del XX secolo, The Destruction of the European Jews di Raul Hilberg (che dal 1961 ha continuato ad aggiornarla fino all’edizione italiana del 1999). Le grand entomologiste de la Sho’ah, secondo la definizione che dello storico ebreo statunitense fornisce Imre Toth, ‘impone’
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un termine-concetto che adesso raggiunge un più grande pubblico di lettori con l’avvìo di una ponderosa Storia della Shoah. Su questa parola Alain Besançon chiudeva un libro tendenzioso e acuminato, costruito su un sistematico parallelismo nazismo-comunismo che funziona poco sul piano storiografico ma conosce qualche intrigante impennata su quello comparativo ed eticopolitico: secondo lo studioso, «le due differenti dottrine condividono comunque l’idea di una salvezza collettiva, che verrà nella storia: idea biblica, che si oppone all’antistoricismo delle filosofie antiche, indiane, cinesi»
(in parentesi: a tacere del fatto che circolano e sedimentano tra gli ideologemi nazionalsocialisti tendenze di tipo esoterico, orientistico, nirvanico — e dunque antistoricistico —, sarebbe difficile trovare spazio, in una Escatologia occidentale dove Jakob Taubes può far convivere Marx e Kierkegaard, per il pensiero di Adolph Hitler… e tantomeno in una fascinosa summa utopica, cristianomarxista, come Il principio speranza di Ernst Bloch). Le malheur du siècle (1998), destinato a ideologizzarsi, forse per volontà dell’ingombrante prefatore Vittorio Mathieu, nel titolo italiano Novecento, il secolo del male (nazismo, comunismo, Shoah), si congeda con questa riflessione: «Alcuni ebrei hanno rifiutato la parola olocausto perché, designando un sacrificio, non era adatta a designare quel parossismo insensato del male: hanno preferito la parola neutra Shoah, “catastrofe”. I cristiani avrebbero potuto accettare la parola olocausto, perché è stata vissuta e catalogata come sacrificio, dal loro Messia. L’incomprensione reciproca su tale avvenimento non si fonda, pertanto, su un malinteso, né sulla cattiva volontà, ma riguarda le radici stesse della fede ebraica e cristiana. I cristiani ritengono, nei limiti del conoscibile, di averne una chiave: ma essa è valida entro i limiti della loro fede. Essa è rifiutata dagli ebrei, e i cristiani non capiscono il motivo del rifiuto. Così, il problema dell’unicità della Shoah non può trovare una soluzione esaustiva universalmente riconosciuta. Resta da capire chiaramente questa irresolutezza, e accettarla».
A Besançon si potrebbe replicare con le parole che Zvi Kolitz, l’artefice di un celebre ‘falso’ sul tema del martirio nel ghetto di Varsavia (Yossl Rakover si rivolge a Dio), scriveva a Paul Badde:
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«L’Olocausto è una specie di buco nel cosmo, è il garante dell’esistenza del Male. Per gli ebrei è l’equivalente della Crocifissione».
Terribile e affascinante, quest’idea dell’unico evento di salvazione secondo i cristiani che in una parte dell’immaginario ebraico si reduplica nel molteplice dell’Olocausto (e qui la parola, misticamente incorporata come un ‘pan degli angeli’ se non un’eucaristia, torna indispensabile), così compiendosi le profezie veterotestamentarie sulla Colpa d’Israele e il suo diritto-dovere di Martirio. «Dunque io avrei dovuto passare tutto il tempo a studiare esclusivamente per Auschwitz, mi venne da pensare. Mi avrebbero spiegato tutto in modo schietto, onesto, ragionevole. Invece per tutti e quattro gli anni di scuola non era stata detta nemmeno una sola parola in materia. Certo, mi rendevo conto che sarebbe stato increscioso, e poi non fa parte della cultura di base richiesta alla fine della scuola, dovevo darne atto. La spiacevole conseguenza fu che dovetti farmi insegnare, per esempio, che ci trovavamo in un “Konzentrationslager”, un campo di concentramento. Ma ci spiegarono che anche questi non sono tutti uguali. Qui, per esempio, eravamo in un “Vernichtungslager”, sarebbe a dire un campo di sterminio, così venni a sapere. Una cosa completamente diversa — aggiunsero subito — era l’“Arbeitslager”, ovvero il campo di lavoro […]».
Questo trattatelo di ‘didattica onomastica’ appartiene a Roman eines Schicksallosen di Imre Kertész, pubblicato in Germania nel 1975 e apparso in Italia come Esseri senza destino (1999), riproposto poi sull’onda del nuovo successo internazionale seguito al conferimento del Nobel per la letteratura allo scrittore ungherese, che nel 1944 era stato deportato ad Auschwitz e da lì, nel 1945, a Buchenwald. La storia autobiografica del ragazzo ebreo Gyurka, riassumibile come ‘all’inferno e ritorno’ (To Hell and Back era un popolare film di guerra con Audie Murphy), s’incornicia tra un inizio e una fine in clima di vita civile: dall’incipit in chiave di quotidianità turbata dalla guerra e dai nuovi eventi che investono la popolazione ebraica: «Oggi non sono andato a scuola. O meglio, ci sono andato, ma solo per farmi esonerare dal nostro professore. Gli ho portato la lettera di mio padre, in cui richiede il mio esonero “per motivi familiari”. Il professore ha chiesto
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Fernando Gioviale quali fossero questi motivi familiari. Io gli ho risposto che mio padre è stato chiamato al periodo di lavoro obbligatorio; a quel punto lui non ha più fatto obiezioni»;
all’explicit luminosamente rasserenato sul motivo di una nuova armonia generata dalla sofferenza, di una precoce saggezza: perché quello che a Gyurka sembrava inconcepibile, accettare le tribolazioni come imperscrutabile volontà divina, diventa infine possibile non già nel senso di un ‘semitico’ abbandonarsi a Dio, ma in quello turbatamene ‘laico’ di un’amara, epperò pedagogica, lezione di vita (che a noi può evocare, e proprio in scioglimento, un che di manzoniano). ‘Scandaloso’ vi è un tema che in radicale coerenza, umanistica più che fideistica (dove religiosità e immanentismo si dànno la mano nel segno di accomunabili laudes creaturarum), può condurre all’adynaton di una felicità dei campi di concentramento: un assurdo perfettamente bilanciato tra Kafka (non a caso indicato da Martin Esslin, attraverso Le procès di Gide-Barrault, come incubatore di un Theater of the absurd) e Beckett, alla presenza muta dell’Onnipotente: «Però non esageriamo, perché il problema è proprio questo: io ci sono e so bene che, pur di poter vivere, il prezzo che pago è di accettare qualunque punto di vista. E mentre lascio vagare il mio sguardo sulla piazza che riposa tranquilla nella luce del tramonto, sulla strada provata dal temporale eppure piena di mille promesse, già avverto crescere e lievitare in me questa disponibilità: proseguirò la mia vita che non è proseguibile. Mia madre mi sta aspettando e probabilmente sarà molto felice di rivedermi, la poveretta. Ricordo che un tempo aveva in mente che io diventassi un giorno un ingegnere, un medico o qualcosa del genere. Probabilmente succederà proprio come lei desidera; non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori”: sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno. Sempre che me lo chiedano. E se io, a mia volta, non l’avrò dimenticata».
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(Si tratterebbe di una dimenticanza come segno di fragilità corporea o spiegabile perché, con Dante, nostro intelletto si profonda tanto / che dietro la memoria non può ire?). Se in Esseri senza destino Auschwitz appare felicemente ‘marginale’ (era proprio così: ad Auschwitz avevo trascorso in tutto soltanto tre giorni interi), vi domina, anche paesaggisticamente, Buchenwald: e bisognerebbe leggere, con tutto il libro, le pagine isolatamente descrittive che punteggiano diversi avvìi di segmento testuale nel segno di quella che un Foscolo avrebbe potuto chiamare “la mesta armonia che lo governa”: ‘attacchi’, che paiono ariosi d’opera, come «Siamo arrivati a Buchenwald un mattino limpido e assolato ma le nuvole correvano nel cielo e leggere raffiche di vento rinfrescavano l’aria. La stazione ferroviaria sembrava, almeno dopo quella di Auschwitz, una piccola e confortevole stazione di campagna».
Oppure: «Nel mentre, però, notai che stavamo salendo con passo spedito su un’altura via via sempre più coperta di prati lungo un’altra strada bellissima, ma non dritta come quella di Auschwitz bensì piena di curve. La zona era molto verde, c’erano degli edifici graziosi e, in lontananza, nascosti tra gli alberi, ville, giardini, parchi e tutto quel paesaggio, la sua estensione, le sue proporzioni mi sembrarono giuste, potrei dire piacevoli — almeno per l’occhio abituato ad Auschwitz».
O ancora: «Buchenwald è situato in una zona collinosa, sul dorso di un’altura. L’aria è pura, l’occhio viene allietato da un paesaggio molto vario, dal bosco tutt’intorno e dai tetti di tegole rosse delle cascine giù nella valle».
Il narratore conferisce al suo ‘io giovane’ l’intero persistente candore di chi, nella tribolazione, scopre e ammira quella che il pasoliniano Totò di Che cosa sono le nuvole? chiamava — parola più parola meno — «straziante, indescrivibile bellezza del Creato»: perché ovunque è possibile, con la scoperta della natura, una disgelante epifania, soprattutto là dove è sofferenza da sopraffazione e vilipendio da oltraggio. Ed è bello che,
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sull’onda lunga del Nobel, il romanzo ormai quasi ‘antico’ di Imre Kertész trovasse la via del cinema, giungendo a una fama di risarcimento propizia a ripagarlo, oltre le remote angherie da nazionalsocialismo, delle nuove rimozioni ed emarginazioni da ‘socialismo reale’. Si ricordi infatti che il perseguitato razziale sopravvissuto rischiava di non trovare ascolto in una realtà politico-istituzionale ostentatamente rivolta a sanare nell’ottimismo del nuovo corso socialista le ferite dell’occupazione, della guerra, della persecuzione, della strage. L’Ungheria era il paese che, nell’ardua volontà di conciliare nazionalpatriottismo con socialismo, indipendenza con internazionalismo, libertà con comunismo, avrebbe conosciuto la tragedia del 1956 (sono giusto cinquant’anni) e, con l’invasione sovietica e le sue stragi, subìto ferite di ardua rimarginazione, ma pure — per i reali e dunque razionali paradossi della storia — inediti spiragli di liberalizzazione. Questo paese vecchio e nuovo non trovava modo, tuttavia, di pubblicare Essere senza destino, né l’edizione tedesca persuadeva l’apparato culturale di regime a riaccoglierne l’autore. Fatto si è che anche per l’Ungheria cautamente ‘diversa’ dall’imperante modello praghese (quello seguito al ‘socialismo dal volto umano’ del 1968, all’occupazione delle truppe del Patto di Varsavia, alle ombre lunghe della grigia, triste, ferrigna dittatura husakiana) solo la caduta del muro di Berlino, col crollo della sanguinosa utopia di un comunismo tedesco che aveva sedotto persino Brecht, avrebbe dato nuovo fiato e legittima fama all’opera di Kertész. E così, trent’anni dopo la sua pubblicazione in Germania, Essere senza destino diventava film anche grazie al ritorno dell’autore sulla propria parola in forma di sceneggiatura: genere misto, dove lo scrittore poteva rifondere i suoi interessi romanzeschi e teatrali. Di Sorstalanság (in Italia Senza destino, 2005) è regista Lajos Voltai, già direttore della fotografia per un film riconducibile, nella delineazione drammaturgica del rapporto tra un attore e il Terzo Reich, alla dialettica ‘forte’ artista-potere: Mephisto di István Szabó, tratto nel 1981 dal romanzo di Klaus Mann. Proprio di fotografia, con un uso eloquente del cinemascope, vive innanzitutto Senza destino, in cui troneggia la nuova musica di Ennio Morricone, che della misteriosa radicalità di una tribolazione in terra fa motivo per una partitura epicolirica sempre pronta ad alzare il livello verso un sinfonismo fra ieratico e modernizzante. Quella vicenda serba retaggio memoriale e armoniosa tornitezza in un film che, come da codice retorico, accentua e istituzionalizza il rapporto tra la visione e
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l’oggetto, puntando su una cinématographie di calcolata distanza così dalle accensioni coloristiche come dagli spegnimenti in bianco e in nero. Coi tempi giusti di una successione triadica prologo-azione-epilogo, non ignara di una lezione d’epopea ma attenta a smorzare i toni, Essere senza destino ci affidava un’altra faccia della Shoah in Europa: lungo una dorsale riconducente anche al mondo di Primo Levi, attraverso la duplice via del campo ‘statico’ e della fuga ‘dinamica’, ovvero Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati, da una parte, il più romanzesco La tregua dall’altra (che nel 1997, intanto, s’era fatto film per la mano un po’ stanca di Francesco Rosi). Anche nella forma larga di un raccontare senza bagliori, pudico e ‘monotono’ nella sua ben dosata desaturazione di colori, in Senza destino il lager domina senza cancellare né sopraffare; e Auschwitz vi fa da comparativo controcanto su un atroce dolore di sfondo, che potremmo oggettivare col lucido sommario di Rees: «Oggi si stima che, su 1.300.000 persone deportate ad Auschwitz, 1.100.000 vi siano morte. Ben un milione erano ebrei, e la precisazione statistica è importante perché molti ancora vorrebbero adottare la linea comunista e definire tutti quei morti “vittime del fascismo”. Non bisogna mai dimenticare che più del 90 per cento degli individui che persero la vita ad Auschwitz agli occhi dei nazisti non avevano commesso altro “crimine” che quello di essere nati ebrei».
Fino al seguente corollario: «La nazione da cui fu deportato ad Auschwitz il numero più alto di ebrei fu l’Ungheria, durante la frenetica campagna dell’estate del 1944 (438.000)».
Ben si spiega allora perché uno dei maggiori edificatori della nuova cultura ebraica nel ventesimo secolo, Vladimir Jankélévitch, possa avere scritto in Pardonner?: «L’inesplicabile, l’inconcepibile orrore di Auschwitz si riduce forse a queste astrazioni indeterminate che chiamiamo violenza, artiglieria pesante, gli orrori della guerra? Ciò significa voler affogare il problema in pietose idee generali, banalizzare e dissolvere pudicamente il carattere eccezionale del genocidio, parlare di tutto a proposito di qualunque cosa. […] Dicevamo che il problema di Auschwitz, per gli spiriti raffinati, sembra risiedere in
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Fernando Gioviale queste due parole: come liberarsene? I più avveduti fra i nostri brillanti conversatori invocano i crimini di Stalin, crimini decisamente provvidenziali perché servono loro per scusare quelli di Hitler [non solo per ‘scusarli’, aggiungiamo noi, ma per ‘anticiparli’ e quindi ‘spiegarli’ come reazione quasi difensiva: secondo la vulgata della ‘guerra civile europea’ riconducibile alle idee, opinabili ma tutt’altro che ‘revisionistiche’ (alla Irving, per intendersi), di Ernst Nolte, con susseguente Historikerstreit, di cui resta valido documento un bel volumetto curato da Gian Enrico Rusconi]. Ma i crimini di Stalin non sono una risposta a tutto… Perciò hanno trovato di meglio: Hitler si sarebbe ispirato al sultano che organizzò, all’inizio del secolo, l’odioso massacro degli armeni. Se gli ebrei sono stati sterminati è insomma colpa di Abdülhamit. Un eminente storico ha perfino scritto che gli “affogamenti di Nantes”, sotto il Terrore, furono il vero precedente di Auschwitz e di Treblinka».
Lo sdegno sacrosanto, temperato dall’acre ironia, di Jankélévitch — ne ha scritto Massimo Giuliani nel suo libro più importante, Il pensiero ebraico contemporaneo: «Di quest’ebreo di origine russa e naturalizzato francese, che per trent’anni tenne la cattedra di filosofia morale alla Sorbona, si può dire che non rincorse mai le mode filosofiche che a ondate sommersero la Francia negli anni Sessanta e Settanta»;
per un’eventuale laurea honoris causa, si darebbe migliore laudatio? —, lo porta a ‘gridare’: «Ma ora non si tratta del massacro degli armeni, né dell’inferno di Verdun, né delle torture in Algeria, né del terrore staliniano, né delle violenze segregazioniste in America, né della notte di San Bartolomeo: si tratta del crimine più mostruoso della storia, e si tratta della quietanza definitiva promessa ai criminali di questo crimine».
E ancora: «No, Auschwitz e Treblinka non assomigliano a niente: non soltanto perché in generale niente equivale a niente, ma soprattutto perché niente equivale
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ad Auschwitz; questo crimine è incommensurabile con qualunque altra cosa, stavamo per dire che è un abominio metafisico. Con i loro sei milioni di sterminati, gli ebrei sono certamente in testa al martirologio di tutti i tempi; triste privilegio, ahimè, e che nessuno contenderà alle vittime dell’odio gotico».
Per Jankélévitch, infine, è veramente il mostruoso capolavoro dell’odio. Tragico epilogo-ricapitolazione, con apocalittico rogo — non osiamo dire ‘wagneriano’ — che si confida irreversibile (furore antigiudaico e ‘revisionistico’ dell’iraniano fanatico Ahmadinejad permettendolo), di quel che Imre Toth intende per antisemitismo: «L’antisémitisme dépasse la catégorie historique des res gestae. Il n’est pas un événement ni même une chaîne d’événements. C’est un magma, en permanente ébullition, une couche géologique étalée sous la croûte terrestre, dont l’âge remonte à la formation de l’hémisphère occidental».
E ancor più drasticamente: L’antisémitisme est un état ontique de l’esprit occidental, une dimension ontologique de l’Occident. Nous devons l’affronter comme tel. Che Toth, almeno in prospettiva, abbia torto: perché anche gli arabi — come troppo spesso si ignora o si ‘dimentica’ — sono semiti, e non vorremmo che le stragi atroci perpetrate da gruppi di fanatici, più o meno protetti da comunità più larghe di fedeli, diventassero occasione propizia per rinfocolare la plurisecolare dimension ontologique, magari camuffata da paradossale ‘difesa degli ebrei’. Come che sia, Étre juif — après l’holocauste serba una monitoria ‘didattica’ radicalità, in un libro a più voci di gran livello interculturale. Di Auschwitz, locus apocalittico (sub specie ora di sconvolgimento catastrofico, ora di rivelazione epifanica), fu comandante Rudolf Höss, che aspettando in carcere l’esecuzione capitale scrisse un’autobiografia raggelante per la meticolosità della confessione e la burocratica riaffermazione di un’‘etica del dovere’ su cui Primo Levi, che di Auschwitz è in quanto artista testimone sommo (dal fondativo Se questo è un uomo al definitivo I sommersi e i salvati), così conclude la sua prefazione all’edizione italiana di Kommandant in Auschwitz:
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Fernando Gioviale «Le ideologie possono essere buone o cattive; è bene conoscerle, confrontarle e cercare di valutarle; è sempre male sposarne una, anche se si ammanta di parole rispettabili quali Patria e Dovere. Dove conduca il Dovere ciecamente accettato, cioè il Führerprinzip della Germania nazista, lo dimostra la storia di Rudolf Höss».
Se quel libro va letto con controllato orrore, in coppia ideale con un altro, Into that Darkness. From mercy killing to mass murder, dove Gitta Sereny rielabora i suoi lunghi colloqui del 1971 nel carcere di Düsseldorf con un Franz Stangl già comandante di Sobibor e Treblinka (detto in parentesi, questi propone considerazioni anche acute sull’atteggiamento della Chiesa cattolica verso il nazionalsocialismo, sul fatto che Pio XII, parzialmente sulla scia di Pio XI, peraltro «assai più critico nei confronti dei nazisti», considerasse i tedeschi sotto Hitler «il principale baluardo contro il bolscevismo in Europa»), Auschwitz come nome-simbolo ha dato luogo a molteplici variazioni. Poco potremo dire — nei limiti spaziali e tipologici del nostro discorso — della questione teologica, presente soprattutto in area ebraica (un titolo-summa, pure, va ricordato: Der Gottesbegriff nach Auschwitz. Eine judische Stimme — Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica di Hans Jonas; mentre una buona rassegna critica si trova in Auschwitz nel pensiero ebraico. Frammenti dalle «teologie dell’Olocausto», di Massimo Giuliani), ma senza ignorare che il tema del ‘silenzio di Dio’ si è affacciato anche nel discorso di Benedetto XVI ad Auschwitz (28 maggio 2006), allorché papa Ratzinger, già teologo universitario a Tubinga, richiamava alla memoria momenti del Salmo 44 («Per te siamo messi a morte, stimati come pecore da macello. Svegliati, perché dormi, Signore? Destati, non ci respingere per sempre! Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione?»), e invitando a non volersi fare giudici di Dio e della storia ribadiva: «No — in definitiva, dobbiamo rimanere con l’umile ma insistente grido verso Dio: Svegliati! Non dimenticare la tua creatura, l’uomo!».
Il tema del silenzio ‘distante’ si agita anche in un vivace Dialogo sull’Olocausto di Jorge Semprún e Elie Wiesel, dove quest’ultimo, per tornare infine a una risposta di fede, così s’interroga:
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«Per me c’era solo Dio, perché tutto sommato l’uomo ai miei occhi non contava. Contava Dio, Lui soltanto importava. Spettava a Lui dare un senso alla mia vita. Era Dio la motivazione di tutto quello che mi succedeva. E proprio per questo io avvertivo un’assenza, un’eclissi: già, ma Dio dov’era?».
L’ardua questione, di là da ogni legittima opinione in un senso o nell’altro (o in un altro ancora), potrebbe trovare una motivazione filosoficamente ‘alta’ nella formulazione di un Dio «trascendente fino all’assenza» di Emmanuel Lévinas, che ci affida fra l’altro, chiosando da par suo Yossl Rakover si rivolge a Dio (il saggio in originale, Aimer la Thora plus que Dieu, si legge in Difficile liberté. Essais sur le judaïsme), una riflessione siffattamente elevata: «Sulla strada che porta al Dio unico c’è una stazione senza Dio. Il vero monoteismo ha il dovere di rispondere alle legittime esigenze dell’ateismo. Un Dio per adulti si manifesta per l’appunto attraverso il vuoto del cielo infantile. Momento nel quale Dio si ritira dal mondo e nasconde il volto (secondo Yossl ben Yossl)».
Con quel che ne segue: «Dio che nasconde il volto: non è, a nostro parere, un’astrazione da teologo e neppure un’immagine poetica. Rappresenta l’ora in cui il giusto non trova alcuna risposta esterna, in cui nessuna istituzione lo protegge, in cui vien meno anche la consolazione della presenza divina nel sentimento religioso infantile, in cui l’individuo non può trionfare se non nella propria coscienza, vale a dire necessariamente nella sofferenza. Senso tipicamente ebraico della sofferenza che giammai assume il valore di un’espiazione mistica per i peccati del mondo. La condizione delle vittime in un mondo in disordine, vale a dire in un mondo dove il Bene non riesce a trionfare, è la sofferenza. Essa rivela un Dio che, rinunciando a ogni manifestazione pietosa, fa appello alla piena maturità dell’uomo totalmente responsabile».
Le questioni tematicamente più mirate passano per i lavori di Améry, Antelme, Bettelheim, Todorov, Levi sopra tutti, approdando a esiti di concettualizzazione parafilosofica che in area italiana producono Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone di Giorgio Agamben. Il quale,
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con la sua perizia sinuosamente iperdeduttiva, costruisce schemi interpretativi anche pregevoli maneggiando fonti e riscontri, ma tra fitti reticoli di acuzie indiscussa finisce col raggomitolarsi intorno ai propri filosofemi, anche perché gli apparenti calembour serbano poco di certa radicalità heideggeriana (a Sein und Zeit — Essere e tempo Agamben fa riferimenti espliciti e insistiti), di un’oscurità rigorosamente legata, tra le folgori di una prosa colma di faville, alla propria ratio propriamente linguistica, ovvero cognitiva ed espressiva, ulteriormente esaltata — di là dalle scelte di volta in volta opinabili in un contesto siffattamente arduo — nella nuovissima versione, finalmente col tedesco originale, di Alfredo Marini, che a un solido apparato accompagna un ampio, succoso Tradurre «Sein und Zeit». Sulla scrittura concettuale dell’ultimo sciamano (è il titolo di un recente volumetto di conversazioni su Heidegger, dove si ritrovano anche Jünger, Gadamer, Nolte), precisava peraltro, e davvero da par suo, George Steiner in un parallelismo con le ragioni della poesia e della musica: «Posso ancora testimoniare che molto di Heidegger può “essere capito” sebbene in modi che non sono immediatamente identificabili con quelli usuali della comprensione e della “ri-esponibilità” (già, e questo è uno dei corni del dilemma, ci troviamo a cercare nuove parole)».
Gli esempi (im)possibili in Agamben essendo numerosi, non resistiamo alla tentazione di citare un passo. A proposito della «fenomenologia della testimonianza in Primo Levi», il filosofo si abbandona a un raptus siffatto (pp. 111-112): «Si direbbe, in apparenza, che sia l’uomo — il superstite — a testimoniare del non-uomo, del musulmano. Ma se il superstite testimonia per il musulmano — nel senso tecnico di “per conto di” o “per delega” (“parliamo noi in loro vece, per delega”), allora, in qualche modo, secondo il principio giuridico per cui gli atti del delegato si imputano al delegante, è il musulmano a testimoniare. Ma ciò significa che colui che veramente testimonia nell’uomo è il non-uomo, che, cioè, l’uomo non è che il mandatario del non-uomo, colui che gli presta la voce. O, piuttosto, che non vi è un titolare della testimonianza, che parlare, testimoniare significa entrare in un movimento vertiginoso, in cui qualcosa va a fondo, si desoggettiva integralmente e ammutolisce, e qualcosa si soggettiva e parla senza avere — in
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proprio — nulla da dire (“racconto di cose… non sperimentato in proprio”). Dove, cioè, colui che è senza parole fa parlare il parlante e colui che parla porta nella sua stessa parola l’impossibilità di parlare, in modo che il muto e il parlante, il non-uomo e l’uomo entrano — nella testimonianza — in una zona d’indistinzione in cui è impossibile assegnare la posizione di soggetto, identificare la “sostanza sognata” dell’io e, con essa, il vero testimone».
La prosa traslucida di Levi, netta e severa, accorata e ferma, finisce col perdersi così nel vento tra le foglie lievi, come la dantesca sentenza di Sibilla; e l’umanissimo perché disumanizzato, lo spettro vagante dell’‘internato terminale’, il Muselman (una sorta di pietoso morto-vivente che si aggira sperduto, forse a chiedere sangue e vita come uno zombi di George Romero: quello sinistramente in bianco e nero di The night of the living dead — La notte dei morti viventi), diventa debole cavia tra le mani iperesperte del suo nuovo dissezionatore: qualora non fosse bastata la meticolosa crudeltà, quella sì chiara e netta nella consapevolezza del suo scopo, degli aguzzini ufficiali. Auschwitz percorre, direttamente o indirettamente, i film più importanti legati ai temi del concentramento e dello sterminio: dal vivido, riflessivo documentario Nuit et brouillard (“Notte e nebbia”, Francia 1955) di Jean Cayrol e Alain Resnais, che apre dopo troppi silenzi l’importante stagione dell’anamnesi cinematografica, all’italiano Kapò di Gillo Pontecorvo (1959), già criticatissimo dalla giovane scuola francese per qualche (linguistica) concessione ‘demagogica’ al sentimentalismo dello spettatore medio; dal polacco, incompiuto Pasazerka (“La passeggera”, 1961-1963) — senza dimenticare, nel 1961, il pregevole film de montage di Fréderic Rossif Les temps du ghetto —, allo statunitense, ipercompiuto Schindler’s List (1993). E a questi due film, prima di passare a Polanski, converrà riservare qualche indugio. Singolarissimo e straziante l’iter del primo, La passeggera, diretto da Andrzej Munk (Cracovia 1921 – Lowicz 1961) che lo sceneggiò con l’apporto fondamentale di Zofia PosmyszPiasecka, autrice del romanzo omonimo. Munk giungeva al suo canto del cigno (rimastogli troppo in gola per la morte improvvisa durante la lavorazione del film) dopo un breve ma importante itinerario che non disdegnava una corrosiva satira sociale e una vena di umor nero non sempre
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gradite nella sua Polonia. Per un ultimo commosso omaggio al maestro, i suoi collaboratori pensarono non già di ‘completare’ un’opera troppo incompiuta per assumere una veste adeguata, ma di integrare il girato con una serie di fotografie che ne contestualizzassero la tormentata vicenda testuale. Il prezioso lavoro di Witold Lesiewicz consentiva così di recuperare quella promessa di capolavoro che, per ricchezza comportamentale e situazionale e per gelida crudezza di un quadro documentario servito da un perforante cinemascope in bianco e nero (nessuno potrà dimenticare quelle donne costrette a sfilare interamente nude nel gelo notturno del campo), sarebbe dovuto essere, ed è già, La passeggera. Ne avrà serbato memoria il conterraneo e pressoché coetaneo Andrzej Wajda nel suo Krajobraz po bitwe (“Paesaggio dopo la battaglia”, 1970), sulla base dei racconti autobiografici di Tadeusz Borowski, scampato allo sterminio per morire giovanissimo. In questo film armonioso e sensibile, è il dopo che interessa a Wajda (il cui capolavoro, legato alla guerra e alla resistenza, resta Popiól i diament – “Cenere e diamanti”, 1958, sceneggiato insieme con Jerzy Andrzejewski, autore del romanzo, e anticonformisticamente incentrato su un giovane, Maciek, che avendo combattuto i tedeschi su posizioni nazionaliste conduce il suo anticomunismo sino all’assassinio politico): ovvero la sorte complicatamente umana che attende uomini e donne, polacchi ebrei e non ebrei, subito dopo la liberazione dai campi. Comportamenti, desideri, conflitti di libido e di coscienza si ritrovano, in altre chiavi, nel munkiano La passeggera; ne riassumiamo la disturbante vicenda con Morando Morandini: «Su una nave in rotta da Amburgo verso un porto canadese nei primi anni ’60, Liza, già sorvegliante nel lager di Auschwitz, incontra un’ebrea polacca che fu tra le sue vittime e con la quale, spinta anche da un’attrazione omofila, cercò inutilmente di avere un rapporto “umano”. Ne parla col marito in due confessioni, la prima in modi di autogiustificazione e la seconda con un vero e proprio scavo di sé stessa».
Quel che resta del film basta a farne un unicum dove l’orrore è tale perché offerto nella sua ruvida fenomenologia, e insieme fa in tempo a ricomporsi in una dialettica sottile e obliqua di rapporti umani, grazie a una radicalità di presenza femminile atta a irradiare un che di erotico e di materno, d’ingenuo e di perverso, d’innocente e di colpevole di là da ogni
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steccato, individualità, coscienza, riflessione. Il gioco di scambio vittimacarnefice qualcosa avrà pure insegnato, nella radicale distanza di poetica e di stile, a un’artista sanguigna come Liliana Cavani, che nel 1974 ci dava una delle sue opere più risentite e personali, Il portiere di notte: «Nel 1957 a Vienna, ex deportata, moglie di un direttore d’orchestra, riconosce nel quartiere dell’albergo l’ufficiale delle SS di cui, giovanissima, era diventata l’oggetto sessuale in campo di concentramento, in un tortuoso rapporto sadomasochistico».
Dentro un involucro non immemore di sfatte bellezze viscontiane, tra comprimari di lusso come Philippe Leroy, Gabriele Ferzetti e un’Isa Miranda di antiche memorie soldatiane e fogazzariane (Malombra), s’impone la coppia di Charlotte Rampling e Dirk Bogarde: diafana e misteriosamente sensuale nella sua quasi androgina nudità la prima, maestro, il secondo, d’ironica sottile ambiguità, che par promanare da vertici di controllata perfidia come The Servant (“Il servo”, 1963), capolavoro inglese di Joseph Losey geometricamente sceneggiato da un Harold Pinter che d’indeterminazione e di minaccia, di angoscia rattenuta e d’ironia raggelata, è maestro insuperabile. Losey per Losey: il valente angloamericano ci avrebbe dato, in tema di ebraismo e di deportazione, un esito del livello di Mr. Klein, produzione italofrancese del 1976, dove il tema della ricchezza cinica ed egocentrica, felicemente coniugandosi con un ‘doppio’ tra Dostoevskij e Kafka, approda a una quintessenza di verità già compiuta nella sceneggiatura del maestro Franco Solinas (si potrà mai dimenticare La battaglia di Algeri, con la regìa inattesamente superba di Gillo Pontecorvo?), e poi risolta in rigogliosa pienezza di ordito e di linguaggio. Si tratta infine di film reciprocamente diversi, ma tutti variamente rivolti al ‘pensiero’ nascosto, tra anima e corpo, di carnefici e vittime, di padroni e servi: singolarmente utili, a tacer d’altro, per delineare quelle che Marcella Ravenna, in un libro ‘diverso’, definisce le radici psicologiche della Shoah e delle atrocità sociali, studiando in profondità «gli effetti di azioni violente sulla mente e sul corpo delle vittime».
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Fernando Gioviale «L’industriale tedesco Oskar Schindler, in affari coi nazisti, usa gli ebrei dapprima come forza-lavoro a buon mercato, un’occasione per arricchirsi. Gradatamente, pur continuando a sfruttare i suoi intrallazzi, diventa il loro salvatore, strappando più di 1100 persone dalla camera a gas»:
è la cornice narrativa di Schindler’s List, il film fortemente voluto dall’ebreo statunitense Steven Spielberg, grande affabulatore per immagini e, ci ricorda Claudine Drame («un projet d’une toute autre ampleur a pris naissance, au sein cette fois de la profession cinématographique»), benemerito creatore nel 1994 di una Survivors of the Sho’ah Visual History Foundation. Insiste in Schindler’s List la quotidiana crudeltà del campo, paranoicamente dominato dall’insicuro epperò violento e incontrollabile comandante Plaszow. La robusta sceneggiatura di Steven Zaillian, che contamina pregnanza drammaturgica con accensioni di patetico mélo, deriva dal libro di Thomas Keneally (1982), scrittore australiano di qualche virtù, che nella Nota dell’autore dichiara finalità e, in certo senso, limiti dell’operazione: «Nella moderna narrativa ci si serve spesso della struttura e del meccanismo del romanzo per raccontare una storia vera. Altrettanto ho fatto io, prima di tutto perché sono un romanziere di professione, e poi perché la tecnica del romanzo mi sembrava adatta a un personaggio dell’ambiguità e della grandezza di Oskar. Ho comunque cercato di evitare ogni possibile finzione letteraria, per non alterare la fedeltà storica, e di distinguere fra le realtà e i miti che verosimilmente si associano a un uomo della statura di Oskar».
Dev’essere stato arduo conciliare uso della “tecnica del romanzo” e diffidenza verso “ogni possibile finzione letteraria”! E dire che uno Schiller non si peritò di “alterare la fedeltà storica”, proprio questo anzi sostenendo: che il poeta drammatico deve allontanarsene per trasformazione se gli sembri necessario a raggiungere la poesia. Keneally non è della stessa idea, ma da noi vige libertà di pensiero: e pazienza se il valente romanziere non ha scritto un Don Carlos né una Maria Stuarda. Quanto a Spielberg, come sempre fa le cose in grande, guidato da un fiuto spettacolare pressoché infallibile: a partire dalla fotografia in un bianconero d’antan che vuol sapere di documentario (ma ripristinando il colore nell’epilogo sull’Israele d’oggi, con gli ebrei che depongono pietre sulla tomba del benefattore) e s’impreziosisce
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nella macchia di colore — il cappotto rosso della bambina in fugace ricerca di nascondiglio — che ‘artificiosamente’ altera per un momento lo stranito rigore della sequenza più celebre e più alta del film, quella dedicata al rastrellamento nel ghetto. E quante cose può evocarci un ghetto, e il ghetto dei ghetti, a Varsavia! Dal toccante diario di Mary Berg ragazzina, che copre gli anni 1939-1944 ed è il primo documento completo — ce lo ricorda il solito Frediano Sessi — sulla più immane tragedia di una città nella guerra mondiale, fino alla corposa lezione storiografica di Norman Davies sull’insurrezione polacca (Rising ’44): ma decisivamente transitando per il grosso impegno dedicato ai fatidici 1939-1944 da Gustavo Corni, che nel 1993 lesse il libro di Mary e ne ricavò suggestioni indelebili per il proprio libro, indagine sistematica particolarmente attenta al quadro del collaborazionismo ebraico (gli Judenräte in funzione sub-dirigente e le squadre di polizia), e tentata da qualche volo epicolirico: «Dai ghetti sono uscite soltanto le colonne di ebrei portate ai boschi di Ponary, alle fosse comuni di Rumbuli, al IX Forte, o i convogli ferroviari che hanno alacremente fatto la spola con Treblinka, Belzec, Sobibór, Chelmno, Auschwitz. Ma dall’esperienza dei ghetti sono riusciti a sopravvivere non pochi ebrei ed ebree che, dopo il 1945, sono stati in grado di raggiungere la Terra Promessa; e dai ghetti sono usciti tanti (pochi) che faticosamente hanno ricominciato a vivere, a fondare famiglie, a procreare figli ricostruendo un mondo di valori, di speranza, di fiducia in se stessi e nell’umanità».
Di là da queste suggestioni associative Schindler’s List, tra piacevolezza romanzesca del prologo e invadente patetismo dell’epilogo, risulta spesso felice nel rappresentarci la psicopatologia della vita quotidiana nel campo di Auschwitz con le varie storie di ordinaria follia, mentre Spielberg tiene l’intero racconto saldamente in pugno da quel grande cervello ingegneristico che è, coadiuvato da attori celebri, perizie scenotecniche, musiche importanti, sacre e profane, dentro e oltre la colonna sonora di John Williams: e quant’altro. Ma la doppia insidia del buonismo (ch’è cosa diversa dalla bontà) e dell’americanismo (ch’è cosa diversa dall’America), una certa quale smania di onnipotenza che sovente lo coglie e, non potendo egli essere né Welles né Coppola né Kubrick, più volte lo tarpa, la tentazione ricorrente di alzare il tono per smuovere i sentimenti, una libidica pulsione verso il duetto effettistico e iperpatetico (Liam Neeson nel personaggio eponimo, Ben
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Kingsley in quello dell’assistente-consigliere ebreo), ridimensionano un film che, mentre non poco si sarebbe giovato di salutari potature, poteva essere epocale e non è. Virtù e vizi spielberghiani si confermano nel recente, ben fatto, nobile, virtuoso Munich, dal quale scopriamo che anche gli agenti del Mossad hanno un’anima, un cervello e soprattutto un cuore, che buoni e cattivi stanno da entrambe le parti, che bisogna lavorare per l’incontro e la pace, ecc. ecc. Cose bellissime senza meno, ma che ci fanno tornare in mente lo splendidamente sussiegoso don Rodrigo mentre a un tumultuante padre Cristoforo dichiara sprezzante: il predicatore in casa, non l’hanno che i prìncipi! Talché ci mulina il sospetto che lo Spielberg migliore di questi anni sia, paradossalmente ma non troppo, quello di commedia: Catch me if you can (“Prova a prendermi”) del 2001, con l’inedita coppia Di Caprio-Hanks, e da ultimo (finora), The Terminal, dove il politically correct, mentre conferma i suoi possibili pregi umanistici, si rovescia nel felice contrario della farsa stralunata (davvero ‘meraviglioso’, il Tom Hanks fanciullesco e fintoingenuo cittadino di un «fittizio staterello eurocaucasico», in cerca d’America ma per tornarsene felice a casa propria: come forse avrebbe desiderato fare il greco Stavros nello scioglimento di un’opera-epoca di Elia Kazan, America, America), che non esclude e anzi incorpora e invera una radicale, impietosa, puntutissima critica dell’economia politica, o semplicemente del pomposo autoreferenziale establishement nordamericano (peccato che il copione di Sacha Gervasi non preveda uno spazietto per l’insopportabile codazzo dei vari ‘servi sciocchi’ europei. Affidiamoci nuovamente a Pinter, che parlando di teatro in Arte, verità e politica, discorso tenuto a Stoccolma in occasione del conferimento del Nobel 2005 per la letteratura, trovava modo di ‘citare’ come criminali di guerra George W. Bush e Tony Blair: «Oggi gli Usa non si attengono più al conflitto “a bassa intensità”. Non serve più essere reticenti o subdoli. Ormai scoprono le carte in tavola senza né paura né vergogna. Se ne fregano altamente delle Nazioni Unite, del diritto internazionale e del dissenso. Li considerano tutti irrilevanti e impotenti. E sono anche padroni di una festosa cagnetta che li segue sempre al guinzaglio, la patetica e sottomessa Gran Bretagna»;
e ci si perdoni l’impertinente corsivo che forse ‘disturba’ la versione della Serra: ma l’effetto, nel tragico, è talmente comico…).
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I vizi spielberghiani, che sembrano dare qualche momentanea ragione a quello che l’altro l’ebreo statunitense Norman G. Finkelstein denuncia come «sfruttamento della sofferenza degli ebrei» nell’eloquente The Holocaust industry, emergeranno più chiaramente se proviamo a costruire un ponte tra Schindler’s List e un film di alcuni anni prima (1988), Au revoir, les enfants (cui dedica qualche attenzione Wendy Everett dentro un volume a più voci tanto allettante nel sottotitolo — “Cinema, storia e identità nazionale” — quanto deficitario sul tema in questione). Parallelismo improprio, s’intende, perché il testo di Luis Malle, sceneggiatore unico a partire da autobiografiche esperienze adolescenziali (l’eccellente scénario si legge da Gallimard-Folio), costruisce una vicenda di collegio cattolico nella Francia occupata del 1944, con la scontrosa amicizia tra Julien e il misterioso coetaneo Bonnet, che poi è un piccolo ebreo nascosto e protetto dal direttore del collegio “Saint Jean de la Croux” (nomen omen, nel segno del più alto misticismo lirico di Spagna e d’Occidente). Scoperti dalla Gestapo per la spiata di un inserviente zoppo, licenziato con qualche giusto risentimento ma spinto sino a una vendetta atroce, Bonnet e il suo momentaneo salvatore, quel padre Jean che non ha bisogno d’essere un eroe perché è un vero cristiano (anche nell’accezione ‘siciliana’ di uomo, di persona), vanno incontro al proprio destino con quasi apatica, consapevole rassegnazione l’uno, con pudica semplicità l’altro, che salutato dai ragazzi schierati nel cortile risponde sobriamente au revoir, les enfants: mentre, sull’allontanarsi dei due e sullo stranito dolore per la perdita irreparabile del nuovo amico, l’inquadratura indugia a cogliere nell’occhio di Julien una lacrima che non fa in tempo a uscire, e forse non potrebbe nell’economia stilistica dell’opera. Se Spielberg e Zaillian amplificano e dilatano, puntando su una didattica della ridondanza che, visto il tema, deborda verso la dispersione per eccesso di comunicatività e malintesa ‘immedesimazione’ parastanislavskijana, Malle procede per sottrazione e scarnificazione, conferendo ai suoi centotré minuti un rigore spoglio e severo appena incorniciato da passaggi musicali nel segno di Schubert e di Saint-Saëns; e la bellissima, funzionale, come spenta fotografia a colori di Renato Berta sembra virare, idealmente, verso il bianco e nero, laddove la bellissima, funzionale, come accesa fotografia in bianco e nero di Janusz Kaminski, per i centonovantacinque minuti di Spielberg, parrebbe generarsi da una colorazione denaturata ad hoc. Insomma, Spielberg proviene, con tutto il rispetto
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per un artigianato così scaltrito e complesso da farsi arte di cinema, dagli Indiana Jones e dai dinosauri, dagli incontri ravvicinati e dagli ET; Malle, con un soggetto tutto proprio, discende dal suo gran precedente Lacombe Lucien (1974), strutturato piuttosto come un ‘romanzo’ (centotrentacinque minuti di durata), tra indugi e digressioni, a fronte del ‘racconto’ Au revoir, les enfants con la sua meditata speditezza che non dà mai l’impressione di una vicenda tirata via, puntando semmai sull’implicito e sul non detto, senza ‘evoluzione’ psicologica dei personaggi come si richiede, appunto, da una novella, e forse addirittura da un più conciso conte (qui la narratologia francese, sugli sviluppi anche eterodossi di una gloriosa lezione formalistica soprattutto russa, eccelle in codificazioni retoriche, un tantino esagerando in distinzioni metalinguistiche). Ma c’è un’ascendenza più lontana, alta da parere inaccessibile per moralità di stile: tràttasi di Robert Bresson, e non ci si stupisca gridando al delitto di lesa maestà. La militanza bressoniana, del resto, risale all’epoca in cui Malle fungeva da assistente al Maestro ‘giansenista’ per Un condamné à mort s’est échappé (1956), che già allora, nella rigoristica severità dell’assunto, impiegava musica alta e sacra (la Messa in do minore di Mozart) come raro e attutito contrappunto, aprendo così la strada non solo all’allievo diretto ma altresì, e ben prima, a un ‘ammiratore risentito’ di nome Pasolini. Il nostro Pier Paolo, nel 1961, avrebbe esordito nella regìa come una folgore, impreziosendo e straniando Accattone con Bach e la Matthäus-Passion. Il pianista è la storia di un giovane uomo che suona il pianoforte, che fugge, si nasconde, sopravvive per tornare a suonare il pianoforte. Una vita per la musica, laddove altri possibili amori tralucono e rapidamente svaniscono. Intorno a lui è una famiglia, un paese, una vicenda storica che segna esistenze nella morte e nella vita. Parte cospicua dei centoquarantotto minuti scorre tra caseggiati, camere, soffitte, dove si aspetta che il tempo passi senza danni e senza sorprese, in attesa che giunga un evento liberatorio. La situazione non è nuova: l’avevamo già incontrata, in una condizione di gruppo anziché individuale, col più celebre diario dell’adolescenza tradita nel suo innato bisogno di spazio libero, di giochi e d’incontri. Parliamo naturalmente di Anna Frank, la piccola ebrea francofortese che nel 1933, a soli quattro anni, lascia la Germania perché la famiglia la conduce ad Amsterdam, città-simbolo di quella libera Olanda che fu già, nei secoli ferrigni delle lotte
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interreligiose e delle persecuzioni politiche, terra di accoglienza per spiriti liberi e perseguitati, e che ora, nell’annus horribilis dell’ascesa al potere di Hitler (quella che Bertolt Brecht, nel 1941, avrebbe definito aufhaltsame — ‘contenibile’ o, come preferiamo, ‘resistibile’ — così intitolando la commedia-parabola, in pentapodìe giambiche di tradizione, Der aufhaltsame Aufstieg des Arturo Ui), sembra accogliere in sicurezza i rifugiati; ma la situazione è destinata a cambiare con l’occupazione tedesca del 1940. Prima dell’arresto nel 1944, i Frank se ne stanno rinchiusi dentro una soffitta in coabitazione, dove attendono gli eventi che maturano tra il 1942 e il 1944, fino all’arresto con deportazione e dispersione. Morranno quasi tutti; con la sorella Margot, Anne perisce a Bergen-Belsen, dov’era stata trasferita da Auschwitz, per le conseguenze di un tifo petecchiale che divora un corpo già prefigurante, tra freddo fame e indigenza, il proprio cadavere. Sono i tratti storici che fanno da sfondo a quello che Bruno Bettelheim, con tutto lo sdegno di una stigmatizzazione francamente eccessiva (questo continuo moraleggiare sulla pelle altrui, sulla sorte di piccoli esseri che, ahiloro, non riuscino a diventare eroi!), definisce il mito di Anna Frank: e Tzvetan Todorov, nel suo pregevole Face à l’extrême (1991), così commenta rifacendosi, di Bettelheim, a Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa (1988): «Bettelheim attacca con particolare violenza quello che chiama il “mito di Anna Frank”, ossia l’ammirazione, addirittura il culto, per una famiglia di ebrei olandesi che ha cercato di dissimularsi la gravità della situazione e di continuare a vivere come prima del disastro, godendo dell’amore e dell’intimità familiari».
Bettelheim si spinge a scrivere (in Sopravvivere, 1989) che «Anna, sua sorella, sua madre, sono morte perché i Frank non seppero decidersi a credere a Auschwitz». Radicalismo intransigente che forse aiuta a spiegare perché un sensibile intellettuale come questo potesse giungere al suicidio, nel marzo del 1990. Senza entrare qui nella vicenda del celebre Diario (o meglio dei diari, che la stessa Anna intendeva trasformare in un libro e quindi veniva già rivedendo e rielaborando), basterà precisare che nel 1947 Otto Frank, il padre unico superstite, pubblicava ad Amsterdam un libro che, mentre
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tralasciava — secondo la volontà della figlia — le scritture originali (tuttavia conservate e oggi leggibili in edizione critica), espungeva di suo pagine ritenute inadatte per questioni di intimità familiare o personale, con risvolti anche sessuali piuttosto logici in una tredicenne. Su tale versione in varie traduzioni (quella italiana era prefata nel 1964 da Natalia Ginzburg) si è basata la fama internazionale di Anna Frank e, per quanto ci può qui riguardare, il percorso spettacolare che ne è seguito tra teatro e cinema; ci riferiamo in particolare al dramma di Frances Goodrich e Albert Hackett, The Diary of Anne Frank (nel 1952 s’era avuta l’edizione americana del diario), che risale al 1954 e fu messo in scena a Broadway il 5 ottobre 1955: donde poi il film di George Stevens (1959). Nell’introduzione all’edizione italiana della pièce, Paolo Collo e Alessandra Serra riportano una lettera di Otto Frank dove si legge: «Mi riuscì ancora più difficile dare il permesso per un dramma che per la pubblicazione del libro. Mi influenzò notevolmente la signora Roosvelt [vedova del Presidente], che scrisse la prefazione per l’edizione americana e con la quale ebbi occasione di parlare a New York. Ella mi fece notare che, dopotutto, un piccolo numero di uomini legge libri, e che era mio dovere allargare il più possibile la cerchia di coloro che volevano accogliere il messaggio di Anne, e per questo il teatro e il cinema erano i mezzi più adatti. Dopo molte riflessioni e discussioni con scrittori è stata creata l’opera teatrale. Io sono convinto che essa adempie a una missione, e questa è la cosa più importante».
È accertato che la prima drammatizzazione di Meyer Levin non piacque, mentre il testo ebbe gran successo nella versione dei coniugi Albert Hackett e Frances Goodrich, non ebrei, suggeriti da Lillian Hellman. Basandosi sulle indagini di J.E. Doneson (The Holocaust in American Film, 1987), Claudio Gaetani ricostruisce tutta la vicenda tra teatro e cinema, con le proteste di Levin che se la prendeva con quegli intellettuali, in testa la Hellman, rei di non accettare lui e il suo testo “perché entrambi troppo ebrei”: «Ben sei volte il testo viene riscritto e corretto dalla coppia sottoponendo il messaggio del libro a una “universalizzazione” ogni volta maggiore. La componente ebraica dello scritto originario viene, in breve, del tutto ignorata».
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Nella sua severa disamina, Gaetani attacca l’opera di Stevens come esempio di facile ‘americanizzazione’ commerciale; ma in fondo i possibili vizi sono già nella pièce, che meritava tuttavia questo nostro indugio perché è uno dei primi messaggi spettacolari di ampiezza popolare e internazionale sul tema dei temi del XX secolo: anche se l’opera massima resta forse Die Ermittlung. Oratorium in 11 Gesängen (“L’istruttoria. Oratorio in undici canti”, 1965) di Peter Weiss (autore di drammaturgie esemplari come Marat-Sade e Hölderlin), dove la triste materia di un processo a un gruppo di aguzzini si protende a una severa e laica sacralizzazione, anche per l’uso straniante e sublimante del verso. Quanto al film di Stevens, che avvalendosi della sceneggiatura ‘di ferro’ di Hackett e Goodrich ne conserva la robusta e squadrata derivazione teatrale, si dovrà riconoscere ad esso non solo l’intento risentitamente didattico e il bel gioco attorale di squadra (con la premiatissima signora Van Daan di Shelley Winters), ma un’adeguata mise en scène sul doppio asse fotografia-scenografia. Eccellente il cinemascope in bianco e nero di William C. Mellor; quattro scenografi (Lyle R. Wheeler, George W. Davis, Walter M. Scott, Stuart A. Reiss) a comporre un quadro complicato ed esaltato da una ‘fissità’ atta a rendere l’ambiente ossessivo nella sua onnipresenza e fatalmente sinistro nella sua quotidianità che esclude la dialettica con l’esterno, se non come incursione di assoluta epperò inquietante momentaneità. Sono gli anni, non dimentichiamolo, in cui il tema della stanza chiusa e statica, come scelta drammaturgica di esibita rinuncia al mondo esterno, implode nel giovane, compiutissimo Pinter di The Room (“La stanza”), The Dumb-waiter (“Il calapranzi”), The Careteker (“Il guardiano”): come se il luogo chiuso, nella sua ossessività quasi claustrofobica, servisse pure a proteggere, rinchiudendo entro un recinto difensivo; e alla sconvolgente sterminatezza del ‘campo’, alla sua dispersività funzionale alla distruttività, al minaccioso ‘esterno’ che conduce alla fine, il drammaturgo contrapponesse il grembo contaminante e tuttavia ‘sicuro’ dell’interno assoluto: che diventa comunque un’attesa angosciosa della fine. Anche Pinter appartiene all’ebraismo: e questo, pur dentro un contesto aconfessionale, vorrà dire qualcosa. Valido direttore di ambienti e di persone, l’ottimo Stevens, da parte sua, svolge puntualmente il suo compito; e ancora una volta Gaetani riprende la Doneson per ricordarci che il regista aveva girato un altro finale, con Anna in mezzo alla nebbia del campo. Come che sia, quando noi
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udiamo la voce della ragazzina dirci (ed è già nella pièce) Malgrado tutto, io credo ancora all’intima bontà dell’uomo, di là dalla convenzione retorica avvertiamo il senso di una condizione mentale, di una cultura umana che riesce a trovare la chiave di una misteriosa ‘felicità’: quella altrimenti raccontata da Kertész in Essere senza destino. Qualcosa di perenne e di moderno è in questa stella fissa della felicità, che nel Settecento europeo e nordamericano ebbe fortuna come utopia sociale perché, evidentemente, ne ha bisogno l’individuo umano. Ed è oltremodo significativo che il motivo insista nella prosa di un’altra ebrea olandese, Etty Hillesum (‘scoperta’ da J.G. Gaarlandt), che tenne un diario dal 1941 al 1943, allorché, nel novembre, moriva ad Auschwitz coi genitori e il fratello. Se Anna è un’adolescente colma di trasalimenti, Etty è una matura giovane donna di forti esperienze e passioni, di legami liberi, pur nella cura persistente della rete familiare, soprattutto del padre cultore e professore di classicità. Ne offriamo una tranche generosa di dominata commozione: «Sono in uno stato d’animo così singolare. Sono proprio io a scrivere qui, così tranquilla e matura — qualcuno mi potrebbe capire se dicessi che mi sento così stranamente felice, non in modo artificioso o altro, ma in tutta semplicità, perché mi sento crescere dentro dolcezza e fiducia, di giorno in giorno? Perché tutta la confusione le minacce e i pesi non mi portano neanche per un momento all’alienazione mentale? Perché continuo a vedere e a sentire la vita così chiara e nitida in tutti i suoi contorni. Perché nulla offusca i miei pensieri e i miei sentimenti. Perché posso sopportare e accettare tutto, e perché la coscienza del bene che c’è stato nella vita — anche nella mia vita — non è stata soppiantata da tutte queste altre cose, anzi diventa sempre più parte di me. Non oso quasi aggiungere altro, non so che cosa sia, è come se mi spingessi troppo oltre nel mio distacco da tutto ciò che porta la maggior parte delle persone vicino all’alienazione mentale. Se sapessi con certezza di dover morire la prossima settimana, potrei rimanere a studiare alla mia scrivania per tutto questo tempo, nella massima tranquillità di spirito e senza che questo sia una fuga — io so, ora, che vita e morte sono significativamente legate fra loro. Sarà uno scivolare dall’una nell’altra — anche se la fine potrà essere triste o persino orribile, nella sua forma esteriore».
Ebraico o cristiano, tutto questo? Religioso o laico? Semplicemente e misteriosamente umano, forse:
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«E questo probabilmente esprime meglio il mio amore per la vita: io riposo in me stessa. E quella parte di me, la parte più profonda e la più ricca in cui riposo è ciò che io chiamo “Dio”».
Neppure Pascal appare, nelle Pensées, più chiaro e diretto; e, su altro fronte, neppure Voltaire nel proprio Dictionnaire philosophique. Sì invece Fellini: perché il sorriso di ‘assurda’ felicità che Cabiria manda a tutti noi, felice dopo tanto tribolare, è della stessa pasta poetica. E al cinema, per le sue risposte radicali, giova talvolta la sola meloimmagine. Ma torniamo coi piedi sulla terra. Chi cerchi forza viva, una verità nuda attraverso l’elemento primordiale, non guardi al probo, un po’ piatto e magari lungimirante film di George Stevens, ma al lancinante documentario ch’egli girò da soldato, Nazi Concentrations Camps (1945). «Stevens, peraltro, aveva partecipato agli sbarchi in Sicilia e in Normandia, azioni queste che gli avevano fatto conseguire medaglie al valore nonché una citazione del generale Eisenhower. Una volta sconfitti i tedeschi e terminata la guerra, il regista è incaricato di effettuare nei luoghi dell’orrore riprese che provino i folli crimini commessi dai nazisti. Risultato del lavoro sono appunto questi due documentari che vengono mostrati come prove al processo di Norimberga, accompagnati da dichiarazioni giurate che ne attestano l’autenticità e che provengono, oltre che dallo stesso Stevens, da altri due esperti della macchina da presa quali Ray E. Kellogg, direttore della fotografia e degli effetti speciali visivi alla 20th Century Fox, e John Ford, all’epoca capitano della Marina Militare statunitense» (Gaetani).
A questi nomi va aggiunto quello di un certo Alfred Hitchcock, anche se il suo prezioso materiale non venne poi adeguatamente diffuso: aspetto significativo di un processo di rimozione che segnò grosso modo il primo decennio dopo la guerra. Precisa un giornalista competente come Aldo Viganò, che non a caso parla di responsabilità dello sguardo: «Quando le truppe alleate entrarono nei campi di concentramento, erano state accompagnate da uomini con la cinepresa. Tra sorpresa e sgomento furono girati chilometri di pellicola, sia a colori, sia in bianco e nero. Molto di questo materiale filmato fu utilizzato nei tribunali di Norimberga, ma pochissimo arrivò al grande pubblico. Come rappresentare la realtà senza volgarizzarla?
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Fernando Gioviale Quale distanza assegnare allo sguardo e quale tono privilegiare? I governi inglese e statunitense cercarono di trovare una risposta a questi interrogativi, affidando il compito di montare quelle immagini a grandi registi, quali Alfred Hitchcock e George Stevens, al fine di farle vivere esteticamente, e quindi collocarle in una dimensione al di fuori della problematica morale. Ma poi, forse anche a causa delle urgenze della guerra fredda e della conseguente determinazione del nuovo nemico, qualcosa non funzionò e quei governi preferirono tenere nel cassetto i loro film, pur montati con grande pudore, e ne rimandarono l’uscita a tempi più favorevoli».
Resta il fatto che il cinema si è rivelato e confermato lo strumento comunicativo più formidabile per insegnare Auschwitz, come recita un bel volume curato nel 1995 da Enzo Traverso (cui dobbiamo un Auschwitz e gli intellettuali ricco di pagine persuasive su Hanna Arendt, Paul Celan, Jean Améry, Primo Levi): anche nelle forme del megaspettacolo popolartelevisivo, quale fu Holocaust (Usa 1978), sceneggiato da Gerald Green a partire dal proprio best-seller e diretto da Marvin Chomsky, il medesimo (benemerito) di Radici, ovvero dell’africano Kunta Kinte deportato in America e in lotta per un riscatto dalla condizione servile. I puristi fremeranno, ma filmoni siffatti, con tutte le loro gonfiezze al limite dell’indigeribile, svolgono una funzione di spettacolarizzazione civile: e magari potrà spiacere che il termine Olocausto proprio da Holocaust sia stato messo in circolo oltremisura, suscitando una salutare risposta di rigetto. Era forse un capolavoro di stile Judgment at Nuremberg (“Vincitori e vinti”, Usa 1961)? Eppure le tre ore di Stanley Kramer, non propriamente un fulmine di guerra in fatto di dinamismo registico, segnarono un’epoca: milioni di giovanissimi (tra i quali il sottoscritto) andarono a vedere un film-evento, i cui alti meriti didattici e spettacolari, promanando da uno screenplay del drammaturgo Abby Mann, si affidavano a gente come Spencer Tracy, Burt Lancaster, Richard Widmark, Judy Garland: e infine l’americano ‘diverso’ Montgomery Clift (uno straordinario alienato mentale), la tedesca ‘storica’ Marlene Dietrich, inarrivabile quando ama e quando canta, il tedesco ‘nuovo’ Maximilian Schell, raffinato e dialettico avvocato difensore, ora ‘tecnico’ ora ‘politico’. La primogenitura cinematografica, in questo campo, è antica, addirittura ‘profetica’. Ascoltiamo Roger Greenspun, dal bel Dizionario dell’Olocausto a cura di Walter Laqueur (di cui si deve qui ricordare,
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almeno, The terrible Secret, che dal 1980 dice cose chiarissime sulle neghittose connivenze occidentali e vaticane): «Nel suo piccolo, il cinema predisse l’Olocausto. Il film muto di Karl Breslauer, Die Stadt ohne Juden [La città senza ebrei], proiettato in prima visione a Vienna nel luglio 1924, presentava una fantasia satirica sulla società contemporanea. La città di Utopia, rovinata dall’inflazione e aizzata dai sostenitori antisemiti del pangermanesimo presenti in parlamento, decide di accusare e poi di bandire i suoi cittadini ebrei. Tutti gli ebrei, anche quelli battezzati o nati da matrimoni misti, vengono spediti in treno a Zion — un luogo indefinito, ma gremito di ebrei, di palme e di gente con acconciature arabe. Nella città di Utopia liberata dagli ebrei le cose cominciano a peggiorare. Crescono la disoccupazione e l’inflazione; i negozi alla moda, i caffè, i teatri e i bordelli chiudono per mancanza di clienti. Così quando il giovane protagonista ebreo torna di nascosto — travestito da ricco francese baffuto, con un piano per salvare l’economia di Utopia e anche la sua storia d’amore con una ragazza non ebrea — non ha difficoltà a sconfiggere i pangermanisti, a ribaltare il parlamento e ad aprire le porte della città riconoscente agli ebrei che tornano».
Greenspun aggiunge un felice commento sulla puntuta commedia (di cui non ci giunge nulla dal fresco libro monografico di Claudio Gaetani: come mai?), con la sua invidiabile libertà nel trattare il tema delle leggi antisemite e l’intuitiva capacità di ‘prefigurare’ ben più tristi scenografie prossime venture: quei treni infatti, se approderanno alle fortunate seriocomicherie di Benigni (auspice Vincenzo Cerami) nel suo piccolo-grande film La vita è bella (1997), e con più rilassata agrodolcezza (auspice Moni Ovadia) in Train de vie di Radu Mihaileanu (1998), riportano in memoria i miserabili convogli della deportazione (con la palpitante partenza della famiglia del Pianista, salvato da un amico collaborazionista Judenrat ma separato per sempre dai propri cari), e in particolare, angoscianti fra gli angoscianti perché sinistramente ‘visti’ e ‘uditi’ quasi fossero vuoti, nudi e spettrali, in un film a suo modo efficace, Amen (2002), dove il solido, ben collaudato professionista Costa-Gavras (equanime fustigatore di totalitarismi: dal ‘greco’ Z al ‘cecoslovacco’ L’aveu-“La confessione” al ‘tedesco’ Amen, appunto), traspone senza adeguati slanci di regìa un vessillo della drammaturgia contemporanea, d’impianto etico-storico postschilleriano,
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come Der Stellvertreter (“Il Vicario”) di Rolf Hochhuth (1963), sui tristi (conniventi?) silenzi di Pio XII, nel contesto di un lungo percorso storico che ha condotto a quella che Daniel Jonah Goldhagen, con titolo gravemente significativo, definisce A Moral Reckoning, “una questione morale”: si tratta del medesimo storico di Harvard che — come ci rammenta egli stesso nell’introduzione Formulare il problema — nel 1996 suscitò un vespaio di polemiche col suo libro più celebre, I volenterosi carnefici di Hitler (1996), «puntando l’obiettivo sui tedeschi comuni che furono i principali esecutori dello sterminio e mostrando come costoro avessero fatto strage di ebrei perché, impastati di antisemitismo, ritenevano giusto, virtuoso e necessario ucciderli».
Si chiede e ci chiede Goldhahen: «Per i cristiani e per la Chiesa cattolica in particolare l’interrogativo è il seguente: che cosa è tenuta a fare una religione che predica l’amore e la bontà per affrontare il proprio passato di odio e di sangue, per fare ammenda verso le vittime, per riparare ai torti sì da prosciugare la fonte di un odio e di un pregiudizio che, quali ne siano i trascorsi, non intende più avallare?».
Evidentemente non poteva bastare il pellegrinaggio ad AuschwitzBirkenau di Giovanni Paolo II; né sappiamo come lo storico ebreo abbia reagito al messaggio del medesimo papa per i sessant’anni dalla liberazione dei prigionieri di quel campo di sterminio (Dal Vaticano, 15 gennaio 2005), o al discorso di Benedetto XVI di cui ci siamo occupati. Tornando al nostro poema drammatico, a livelli più radicali e profondi Il Vicario rimedita su una complessa vicenda politica, religiosa e umana che non a caso s’intesta «In memoria di Padre Maximilian Kolbe, internato ad Auschwitz, n. 16670 e di Padre Bernhard Lichtenberg, prevosto del capitolo del duomo di Santa Edvige a Berlino».
A suo tempo svillaneggiato dai soliti zelanti-zeloti (non sappiamo se Vittorio Messori abbia fatto in tempo, per ragioni di età, a occuparsene: resta memorabile il suo infortunio nel ridimensionare il caso Galilei pressoché
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alla vigilia della resipiscenza woitylana con consequenziaria ammenda di pentimento) più realisti del re, ma con giusta commozione prefato dal cristianissimo Carlo Bo come Un dramma cristiano, e saviamente ‘annotato’ da un Dramaturg del calibro di Erwin Piscator (Il dramma di Hochhut Il Vicario è uno dei pochi contributi validi che si sono fatti per dare un senso al nostro passato), il complesso dramatisches Gedicht — purtroppo sempre meno visibile anche per ragioni di lunghezza quasi faustiana — è stato da poco ripubblicato, meritoriamente, dalla piccola e combattiva casa editrice marchigiana Wizarts, che ha riproposto la vecchia edizione Feltrinelli con relativi apparati. Un testo su cui meditare, che troppo poco ha finito con l’insegnare al cinema. La didattica filmica, d’altra parte, può volgersi in direzioni non propriamente nobili, se usata come arma impropria per menare fendenti ideologici nel segno dell’intolleranza dogmatica e dell’estremismo razzista. Ed è accaduto che prodotti spiritualmente ignobili pescassero abilmente nel gran mare di una letteratura che, in epoche tutt’affatto diverse dalla nostra, trattava temi di frontiera giostrati sul filo di un ebraismo capziosamente trascinabile, con qualche acconcio o scellerato cambiamento di segno, nella palude insalubre e limacciosa dell’antiebraismo. Si consideri il caso, davvero ‘di scuola’, di Jud Süss (“Süss l’ebreo”, 1940), tristo manifesto filmico di Veit Harlan destinato a vistose ancorché datate fortune: «adattamento — con integrazioni antisemitiche al copione effettuate da Joseph Goebbels — di un romanzo storico del 1925 di Lion Feuchtwanger, che parla di un potente ebreo tedesco del XVIII secolo che distrugge se stesso. Alla fine del ’40 lo davano in oltre sessanta cinema di Berlino; con il titolo Le Juif Süss batté tutti record di incassi della Francia di Vichy. Heinrich Himmler obbligò tutti i soldati tedeschi a vederlo, e lo fece circolare là dove si progettava di istituire i campi di sterminio per fomentare l’antisemitismo nella popolazione locale. Negli anni Sessanta, versioni del film doppiate in arabo circolavano ancora in Medio Oriente» (Greenspun).
Il romanzo dell’ebreo Feuchtwanger, che tra l’altro collaborò col conterraneo bavarese Brecht e finì col rifugiarsi negli Stati Uniti (sarebbe morto a Los Angeles nel 1958), è una storia di colpa e di redenzione, di perdizione e di salvazione: l’ebreo ‘compromesso’ con la cultura economicistica del denaro (come lo shakespeariano Shylock, relegato nella veste di
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usuraio dall’emarginante totalitarismo cristiano e dall’interdizione delle arti liberali) precipita nel male ma infine preferisce la morte redentrice. E viene in mente un film ultrapatetico, rozzamente efficace di Goffredo Alessandrini, L’ebreo errante (1947), da Eugène Sue, con un Vittorio Gassman che furoreggia nel suo strepitoso gigionismo di eroe negativo destinato a redimersi sacrificando la propria vita di ebreo ‘colpevole’ — già condannato a vagare nei secoli per l’irrisione del Cristo — onde salvare tanti ebrei ‘innocenti’. In lode, dunque (almeno Feuchtwanger, perché Alessandrini e il suo stuolo di sceneggiatori, tra cui Anton Giulio Majano e il prossimo grande Ennio De Concini, indulgono alla retorica di un antico demonismo giudaico), della ‘verità’ dell’essere ebreo, lungamente tradita dall’ ‘oscura’ tentazione terrena, e infine ritrovata. Si può intuire fino a che punto quella prosa così carica di pensiero — cui la nostra abborracciata sinteticità non rende certo giustizia — si prestasse a ruvide manipolazioni: non più traviamento ma colpa razziale e libidine violenta, assassina; non più redenzione ma giusta punizione per il finanziere cattivo e per tutti gli ebrei. Il romanzo, peraltro, «era già diventato un film britannico del 1934 (Jew Süss), diretto da Lothar Mendes con Conrad Veidt in una versione filosemita, in linea col romanzo, ignobilmente deformato nella sceneggiatura di Ludwig Metzger, Eberhard Möller e dello stesso V. Harlan» (Morandini).
Accadeva in realtà che tematiche ebraiche, ben al di qua della guerra hitleriana, venissero trattate con una libertà che — dopo l’infinito orrore della Shoah — oggi creerebbe imbarazzi, dissensi, proteste, turbolenze censorie (persino The Passion of the Christ di Mel Gibson fu ruvidamente accusato, a scatola chiusa, di antisemitismo: e ci occorse di doverlo difendere riconducendolo, semmai, ad arcaici filoni di severo giudeocristianesimo…). Feuchtwanger medesimo, pur ebreo, avrebbe avuto i suoi problemi, anche perché non è stato infrequente il caso di israeliti piuttosto duri con la propria presunta antropologia: resta esemplare la vicenda del viennese Otto Weininger e del suo celebre, fortunato, tendenzioso Geschlecht und Charakter (“Sesso e carattere”, 1903), dove «il capitolo Das Judentum oltre che il manifesto dell’antisemitismo “filosofico” è anche il manifesto dell’“odio di sé ebraico”» (Cavaglion).
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Tra sociologia, psicologia, economia, si finiva così col dipingere un ritratto dell’ebreo, di quello che si riteneva, di fatto, uno specifico tipo umano (col rischio fatale di differenziarlo radicalmente, favorendone la ghettizzazione): non a caso dobbiamo a un grande sociologo della modernità borghese, Werner Sombart, un’indagine capitale come Die Juden und das Wirtschaftsleben (Lipsia 1911), tradotta in italiano, pensate un po’, da un “Gruppo di Ar” (Gli ebrei e la vita economica) per una casa editrice di trascorse prodezze nazionalrivoluzionarie nel cuore di Padova, già regno di quel Franco Freda autore di un libro inquietante, La disintegrazione del sistema, e poi processato per la strage di Piazza Fontana del 1969 (prevalse l’insufficienza di prove). Tornando a Feuchtwanger, era lo stesso radicalismo antiborghese a indurlo a rappresentare nell’ebreo integrato il borghese avido di denaro; e s’intende che, in prospettiva, quella linea tra marxista e anticapitalistico-romantica rischiasse di offrire qualche linfa residuale alla strumentalizzazione antisemitica. Ma era una situazione vieppiù connessa alla tradizione ‘cristiana’, incarnata dallo stesso Shakespeare, che pure concede vera grandezza all’umanità gridata di Shylock nel suo Merchant of Venice: poesia che sarà decisiva ispirazione, contaminandosi con Hamlet, per quella che resta la più bella commedia filmico-teatrale sulle scaturigini della catastrofe, To Bie or no to Bie (“Vogliamo vivere”, Usa 1942) del sommo incantatore Ernst Lubitsch, in tempestiva satira antinazista preceduto — è vero — dal britannico Chaplin, gigantesco artefice di The Great Dictator (Usa 1940), ancorché psicoetnicamente condizionato, quest’ultimo, da un nobile rigurgito di ‘pathos’ civile e morale nella scena finale, a fronte della pura, irridente e un po’ cinica frenesia comica del mittleuropeo. Per non dire, quanto a pregiudizi civicamente radicati, di un Marlowe così virulento verso la diabolica malvagità israelitica da far sospettare al suo fine esegeta Rodolfo Wilcock, nel Jew of Malta, persino un sottocodice antifrastico. Ma l’antigiudaismo era, purtroppo, moneta corrente dentro le diverse ‘anime cristiane’, e ai livelli massimi: nel 1543 Martin Lutero pubblicava un certo libello, Von den Juden und ihre Lügen (“Degli ebrei e delle loro menzogne”), che si concludeva — citiamo dall’edizione più recente, un’Einaudi economica e lodevole ancorché senza tedesco — con le seguenti pietose raccomandazioni: «E dunque un cristiano, il quale, comunque, non desideri diventare un ebreo, trova qui (spero) abbastanza per potersi non solo ben difendere dai
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Fernando Gioviale ciechi e velenosi ebrei, ma anche per diventare nemico della malvagità, delle menzogne, delle maledizioni degli ebrei, e per comprendere non solo che la loro fede è falsa, ma anche che essi sono certamente posseduti da tutti i demoni».
Ecco perché esistono, in fondo, così scarsi documenti intorno alle premesse ideologiche della ‘soluzione finale’: Hitler & Company dovevano solo rispolverare una lunga e persistente tradizione di razzismo fanatico, dove cattolici e protestanti, divisi su tutto, sciaguratamente concordavano (e dire che Lutero, in febbrile ricerca di adepti contro la Chiesa di Roma, li aveva machiavellicamente blanditi, gli ebrei posseduti da tutti i demoni: deluso, non aveva trovato di meglio che risfoderare le clericalissime armi dell’antigiudaismo viscerale!). Per tutto ciò saluteremo come gioioso rovesciamento di segno, in quell’epocale 1779, il Nathan der Weise (“Nathan il saggio”) di un Lessing convinto propugnatore, con le ragioni del teatro di poesia, di una illuminante Aufklärung: e nel 1749 aveva scritto una commedia in prosa prefiguratrice come Die Juden (“Gli Ebrei”). Conversando con Nathan, un Klosterbruder (“fratello del chiostro”, cioè frate) può attestare nella solenne, dolcissima pentapodìa giambica di tradizione: «Und ist denn nicht das ganze Christentum | Aufs Judentum gebaut? Es hat mich oft | Geärgert, hat mir Tränen g’nug gekostet, | Wenn Christen gar so sehr vergessen konnten, | Daß unser Herr ja selbst ein Jude war (IV, 7)»;
e benissimo Andrea Casalegno: «Il cristianesimo non si fonda tutto | sull’ebraismo? Spesso mi indignai | e versai molte lacrime, vedendo | come i cristiani possano scordare | che anche nostro Signore era un ebreo».
Se ne scordarono per secoli, infatti: tanto che Riccardo Calimani ha voluto dedicare un grosso volume, tra i tanti suoi sui molti aspetti della storia ebraica, a Gesù ebreo, e un altro, Storia dell’ebreo errante, alle poco edificanti peripezie cui l’Occidente cristiano, dai tempi della dispersione e dell’esilio, costrinse una nazione senza più stato sino a quello, esso stesso tribolato (e tribolante), di Israele. Oppure, al contrario, qualcuno se ne
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ricordò, ma per cercare di cancellare quel ‘peccato originale’ dalla pelle del Cristo attraverso un nuovo Cristo germanico, puro perché incontaminato dalla tabe giudaico-romana: e fu Parsifal in versione ottocentesca. Solo la geniale grandezza di Richard Wagner riuscì a farne, sul tramonto di quel secolo, valida poesia e musica sublime, trasformando un fondo ideologico così povero d’amore e irto di pregiudizi (Höchsten Heiles Wunder | Erlösung dem Erlöser! — Miracolo d’altissima salute! | Redenzione al Redentore!, s’intona nello scioglimento conclusivo del Bühnenweihfestspiel o ‘azione scenica sacra’) in uno dei massimi inni spirituali della comunità errante in cerca di approdo salvifico. Non sappiamo precisamente come sia stato possibile, sicché facciamo nostre le parole di Harold Bloom, in Genius: «Dal momento che non riusciamo a dar conto di Shakespeare o Dante, Cervantes, Goethe, Walt Whitman, cosa possiamo fare di meglio se non tornare a studiare l’antico concetto di genio? Il talento non può essere originario, il genio deve esserlo».
Il medesimo grande studioso, in un nuovissimo fascinosissimo Jesus and Yahweh, rivendica infine, con splendida perizia ermeneutica, una decisiva ‘frattura’ tra il Dio veterotestamentario e un inedito Gesù Cristo, peraltro «completamente soffocato sotto l’imponente sovrastruttura teologica elaborata nel corso della storia».
Per parte nostra, mentre ammiriamo da sempre l’umanesimo ebraico, fideista o razionalista, religioso o agnostico che sia (e a volte l’uno e l’altro insieme: vedi lo stupendo Crimes and Misdemeanors – “Crimini e misfatti” di Woody Allen, dove un professor Levi, casualmente paragonabile al nostro Primo, conduce la propria saggezza, illuminante per altri, fin dentro l’ultima notte del suicidio), deploriamo, senza osare paragoni blasfemi coi milioni di morti e di sacrificati, una collaterale e consequenziale diminuzione di libertà per risentito e più che condivisibile filogiudaismo: perché oggi, se si dissente da un atto concreto del governo israeliano, si rischia d’esser tacciati di antisemitismo proprio da chi assimilò almeno la logica, se non la pratica, della ghettizzazione e dello
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sterminio (e una sinistra italiota con l’eterna coda di paglia, per non sapersi emancipare una volta per tutte dal più stupido e grezzo animus antisraeliano, si fa dar lezioni di sostegno alla democrazia d’Israele da chi sino a ieri, o a stamattina, agitava Evola e Rauti!). Un vento benefico di anticonformismo, per tutto ciò, ci è parso giungere dalla più che tardiva versione italiana di un bel libro dell’ebrea di Kiev, naturalizzata francese, Irène Némirovsky, ventiseienne nel 1929. Raccontando con nervoso modernismo di un banchiere ebreo dimentico d’ogni pietas, il romanzo David Jodler reca un contributo, magari sulla scia di Feuchtwanger ma con sicura autonomia di scrittura, alla libertà delle arti e delle idee. La medesima per la quale ci pare di dover aborrire la condanna, giuridicamente legittima ma civicamente sconcertante, inflitta in Austria allo storico inglese David Irving per pregressi delitti di revisionismo negazionistico (il ‘reato’, regolarmente previsto dalla legge, risale a Hitler’s War, del 1977! Inestinguibile, dunque?): perché è da stolti e disonesti negare le colpe hitleriane per le camere a gas, ma fino a prova contraria l’arrogante idiozia, che non è una virtù, neppure dovrebb’essere penalmente sanzionabile. Un paese civile, quale l’Austria di gloriosi (dimenticati?) retaggi asburgici già svettanti in uno Hofmannsthal vessillifero d’una nuova Europa dopo la catastrofe della Grande Guerra, dovrebbe provare più che imbarazzo nel condannare un maturo signore che, senza meno, andrebbe considerato non punibile: magari per parziale infermità mentale. Noi lo avremmo affidato, un po’ sadicamente, allo Historikerstreit e a un implacabile accusatore-giudice-esecutore del calibro e del fascino di Jürgen Habermas. Meglio un salutare regolamento di conti, a suon di sberle culturali per un intellettuale-somaro, in luogo di uno sgradevole processo che, a tacer d’altro, fa di un antipatico narcisista un improbabile capro espiatorio: o l’Austria intende esorcizzare con vendette trasversali il peccato originale della nazionalità di Hitler e la colpa non archeologica di un Anschluss violentemente a furor di popolo? Per Il pianista Varsavia è la città, Chopin la musa: diremmo parafrasando Saba; e potremmo anche reintitolare il film A survivor from Warsaw, perché il pianista è un sopravvissuto di Varsavia, giusta il celebre titolo della composizione per voce recitante, coro maschile e orchestra, op. 46, di Arnold Schönberg, che risale al 1947 e fu eseguita negli Stati Uniti nel
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1948. Ne scrive Giacomo Manzoni, critico finissimo e musicista così arditamente elevato dall’averci proposto un suo Faust: «Fu il racconto di un giovane ebreo, scampato miracolosamente allo sterminio nazista di Varsavia, che ispirò a Sch. quest’opera commissionatagli dalla Fondazione Kussevitzkij e portata a termine in soli dodici giorni. Il declamato è affidato a una voce maschile, secondo il procedimento della “Sprechstimme” (voce parlata), non deve cioè essere eseguito, raccomanda l’A., con rigore musicale: “Non bisogna mai cantare e nemmeno intonare a un’altezza precisa”. È essenziale, invece, un’accuratissima scansione, in rapporto diretto con i ritmi eseguiti dall’orchestra. […] “Non riesco a ricordare tutto. Devo esser rimasto a lungo senza conoscenza; ricordo solo il momento grandioso in cui tutti, quasi fossero stati d’accordo, intonarono l’antica preghiera che per tanti anni avevano trascurata, la dimenticata professione di fede”. Così si inizia il drammatico racconto che, in una tensione sempre più concitata, culmina con la preghiera ebraica del finale, affidata al coro maschile: “Ascolta, Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è uno. E amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua forza…”. […] Quest’opera, che testimonia la vicenda interiore del musicista, conferma la sua intensa partecipazione agli eventi della storia contemporanea e il suo bisogno di tornare a credere nella religione degli avi. La problematica religiosa […] si era fatta consapevole in lui verso il 1930 quando, per reazione al nazismo in ascesa, era tornato alla fede ebraica, che aveva abbandonato da giovane per quella protestante. Mosè e Aronne, cominciato appunto in quel tempo, rappresenta la sua fuga dagli orrori dei tempi moderni, verso un mondo di giustizia superiore. Un sopravvissuto di Varsavia è un’altra espressione viva della religiosità “impegnata” di Sch.».
L’ardita densissima composizione dell’assorto ebreo austriaco (circa sette minuti — 6’51” — nell’edizione Deutsche Grammophon, 1993, pregevolmente orchestrata coi Wiener Philarmoniker da quell’autentico maestro ch’è Claudio Abbado) sembra un’estrema e contratta ‘derivazione’, per radicale metamorfosi, di un caposaldo dell’arte musicale tedesca, Ein deutsches Requiem nach Worten der Heiligen Schrift (“Un Requiem tedesco su parole della Sacra Scrittura”), op. 45, di Johannes Brahms (1868), oggi custodito dalla Emi (2004) in un’edizione risalente al fatidico 1947: supercantata da Elisabeth Schwarzkopf e Hans Hotter, ‘eticamente’ ripensata da un giovane Herbert von Karajan che signoreggia i magnifici Wiener.
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Allorché l’ebreo franco-polacco Roman Polanski giunge a The Pianist (2002), summa assai personale di una poetica (almeno, di una sua anima cospicua, perché vario per generi e temi appare un itinerario che da ultimo si è espresso con Oliver Twist, 2005: nel medesimo filone inglese — Dickens per Hardy — di Tess, 1979, è un Oliver intrigante e intelligente ma sensibilmente al di sotto, diremmo, del superbo bianconero di David Lean, del 1948), sembra sollecitato verso quella tematica dalla sua esperienza personale e familiare a Varsavia durante l’orrore e, più latamente, da una forte mediazione culturale e drammaturgica che, ad esempio, l’indusse nel 1994 a portare in cinema, con lo stesso titolo, il dramma Death and the Maiden (“La morte e la fanciulla”) di Ariel Dorfman, argentino di nascita (1942), statunitense di rapida adozione, cileno dal 1954 fino al 1975, ovvero fino al golpe di Pinochet, poi tornato in Cile, o meglio tra Cile e Usa, nel 1990, anno di pubblicazione della pièce. Un filo ben aggomitolato lega Il pianista a La morte e la fanciulla. Triplice, diremmo: per affinità tematica, per strategia musicale, per tipologia drammaturgica. La vicenda di Dorfman è introdotta dalla didascalia seguente (citiamo dalla versione italiana di Alessandra Serra: la medesima traduttrice, guarda caso, del Diary of Anne Frank, dramma, e dell’edizione più accreditata del teatro di Pinter): «L’azione si svolge ai giorni nostri, probabilmente in Cile, ma potrebbe trattarsi di un qualsiasi altro Paese che ha appena ottenuto la democrazia dopo un lungo periodo di dittatura».
In questa tesissima azione scenica, Paulina Salas crede di riconoscere in Roberto Miranda il medico che, con qualche partecipazione personale, vigilava sulle torture inflittele durante la dittatura; e costringe il marito Gerardo Escobar, appena insediato dal Presidente a capo di una commissione d’inchiesta sui crimini perpetrati in quegli anni, a collaborare con lei nel sequestro e nell’interrogatorio del sospettato. Tra reticenze e ammissioni, indizi e vaghezze, urla e silenzi, il dramma procede sul filo di una obliqua, straniata, a tratti sinistramente ‘comica’ ambiguità, che la sceneggiatura del film, scritta da Rafael Iglesias e dallo stesso Dorfman, radicalizza nella calcolata poliedricità dell’immagine, soprattutto nel ‘gran finale’ col reincontrarsi dei tre personaggi, fra realtà e immaginazione, in una sala da concerto dove si esegue Der Tod und das Mädchen, il celebre quartetto in
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re minore di Franz Schubert del 1826 (che in realtà trae titolo da un Lied del 1817 con parole di Mathias Claudius): diabolicamente, il medesimo che il presunto ‘consigliere’ o ‘assistente medico’ Miranda, e comunque l’autentico aiuto-aguzzino, faceva suonare durante la tortura. Forse Miranda è colpevole (ma forse no: direbbe Pirandello; e prima di lui d’Annunzio: Forse che sì forse che no); ma il senso della tetragona sequenza drammaturgica azione scenica-film è che, forse, sarebbe potuto esserlo, e con lui chissà quanti altri (o quanti di noi?), perché tale è, per antica diabolica nequizia, la bestia umana (non già, si badi, la bestia: innocente anche nella più dilaniante ferocia, perché senza arbitrio razionale). Miranda diventa così il nemico ritrovato: parafrasando il titolo italiano — L’amico ritrovato — del racconto lungo Reunion (1971), scritto in inglese dal tedesco Fred Uhlman; e manco a farlo apposta, si riaffaccia quel Pinter che ne trasse la sceneggiatura per il film anglo-franco-tedesco Reunion (1989) dello statunitense Jerry Schatzberg (in italiano, coerentemente, L’amico ritrovato). Non occorrerà rimarcare troppo, sul filo dell’analogismo musicologico, la parallela presenza strategica di Chopin nel successivo Pianista: ancorché colmo di scatenamenti disturbanti e viscerali risultasse quello Schubert, a fronte della funzione di conforto e redenzione, passione e sublimazione che il pianismo chopiniano sarebbe stato chiamato a procurare. Quanto a parallelismi di tipologia drammaturgica, si rammenti che Death and the Maiden è un rigoroso Kammerspiel, e tale resta — garantito dal medesimo Dorfman — nell’omonimo polanskiano. Orbene, si è già accennato alla particolare presenza dell’ambiente chiuso (dalla soffitta sino, appunto, alla ‘camera’) del Pianista, e come, anche per questa via, si potesse recuperare al nostro discorso l’antico The Diary of Anne Frank nella sequenzialità dramma-film, riconoscendo così il giusto merito a un George Stevens che ci ha dato di meglio (nel melowestern, Shane – “Il cavaliere della valle solitaria”; nel meloepico, The Giant – “Il gigante”, con le bellezze assolute di Elizabeth Taylor e del morituro James Dean; nel melosociale, A Place in the Sun – “Un posto al sole”: per limitarsi al secondo dopoguerra) ma seppe svolgere la sua parte, in un film di quasi tre ore, proprio nel trattamento dello spazio chiuso e ristretto. E se per un attimo riannodiamo il filo dei riferimenti pinteriani, a partire dal titolo-simbolo The Room, non potremo certo stupirci, nel compiacimento, della dedica apposta da Dorfman alla sua opera cameristica (nel duplice senso, saremmo per dire, di un ultraristote-
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lico unitarismo e di una presenza-struttura del capolavoro, cameristico appunto, di Schubert): «Questa commedia è dedicata a Maria Elena Dauvauchelle e a Harold Pinter». Limitiamoci a postillare che l’omaggio all’altro ebreo Pinter può esser letto in chiave sia di poetica che di drammaturgia: perché il maggiore scrittore inglese d’oggi condusse qualche tempo fa un proprio discorso cameristico, pressoché astratto nel suo procedimento Absurd di larvati echi beckettiani, fin dentro un simbolismo di fondo ideologico e di irradiazioni politiche in piena coerenza col suo umanesimo occidentalista risentitamente polemico verso l’occidentalità degradata: ci riferiamo a opere come One for the Road – “Il bicchiere della staffa”, Mountain Language – “Il linguaggio della montagna”, Party Time, e persino Ashes to Ashes; dentro una nuova e urgente linea tematica non dimentica, peraltro, della remota disturbantissima The Hothowse – “La serra” (è un lager, il misterioso istituto? E l’accidioso e vizioso direttore, già strepitosamente incarnato da un Carlo Cecchi di melliflua, sussiegosa parlata tosconapoletana: è uno ‘scienziato’ in vena di esperimenti su inerti cavie umane? Oppure un ottuso burocrate in foia di mobbing come di tornaconti sessuali?). La morte e la fanciulla costituisce pertanto un esemplare Kammerfilm e una tappa di avvicinamento tra le remote, variopinte ossessioni di Roman — già incarnatesi in due opere di rilevante potenza simbolica come Le locatarie (“L’inquilino del terzo piano”) e Rosemary’s Baby — e il Grundthema della sua vita: l’esperienza del ghetto, i genitori deportati a Mauthausen, la ricerca della madre perduta, il padre ritrovato. Il diario romanzato di Wladyslaw Szpilman (1911-2000) risulta una base ideale per la sceneggiatura di Ronald Harwood, scrittore di origine ebrea già autore di Taking Sides, dramma sui ‘compromessi’ paranazisti di un Wilhelm Furtwängler e poi film di István Szabó (“A torto o a ragione”, 2002) sulla linea di Mephisto. L’opera di Polanski aveva buon gioco nel fruire di una grossa produzione che metteva insieme i due paesi chiave della vicenda storica (Polonia e Germania) con la Gran Bretagna e con quella Francia dimora ‘stabile’ del regista dopo le due fughe principali della sua vita: dalla Polonia (vedi le prime performance, come Nóz w Wodzie – “Il coltello nell’acqua”) e dagli Stati Uniti (dove realizzava un opus maximum del calibro di Rosemary’s Baby, che giustamente Alessandro Cappabianca, enucleando una “poetica” polanskiana, colloca in cima al suo discorso
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critico). Ancora una volta, Polanski dimostra quanto preziosa sia la fonte diretta di una sceneggiatura e quanto poi il film sia altro: fedelissimo al romanzo di Ira Levin, Rosemary’s Baby è infatti una prova assoluta di linguaggio drammaturgico-filmico di fronte alla piacevole disadorna narratività del testo-base, pur calcato, con appena qualche taglio o attenuazione, praticamente pagina per pagina. Impensabile senza il robusto canovaccio di Szpilman, Il pianista consegue le altezze linguistiche dell’altro di nuovo ottenendo, nel rigore della forma, il massimo possibile di spettacolarità, a partire da un’idea — si direbbe — di cinema ‘arte popolare’ che aspira alla posteroica medietà del romanzo e, nello spirito della moderna epopea borghese di hegeliana memoria, tende a far coincidere il tempo della storia con la logica del racconto. Polanski è forse il maggior erede di un cinema classico (americano) opportunamente filtrato di spiriti europei e pronto quindi al grande passaggio dal ‘privato’ al ‘pubblico’, restando esemplarmente story, vicenda raccontata. Lo Szpilman, di suo, s’era avute le canoniche vicissitudini anche come scrittore: steso in prima versione nel 1945 (attesta il figlio Andrzej), il suo libro apparve, infatti, a Varsavia nel 1946 come S⁄mierc! Miasta (“Morte di una città”), ch’è il titolo di un capitolo. Tolto presto dalla circolazione e latitante per decenni, riappariva in inglese nel 1984 (sulla quarta edizione del 1988 si basa la traduzione di Lidia Lax, 1999), e solo nel 2001-2002 in edizione integrale polacca: Pianista: Warszawskie Wspomnienia 1939-1945, Krków, Znak, 2002. C’informa Wolf Biermann, il già celebre scrittore e poeta dissidente dell’allora DDR (Deutsche Demokratische Republik), nel 1976 costretto a emigrare a Ovest: «Subito dopo la guerra in Polonia era impossibile pubblicare un libro che rappresentasse un ufficiale tedesco come un uomo coraggioso e generoso. Forse per i lettori può essere di qualche interesse sapere che nell’edizione polacca Wladislaw Szpilman si era visto costretto a far passare per austriaco il suo salvatore tedesco Wilm Hosenfeld. Per quanto oggi la cosa possa apparire assurda, all’epoca evidentemente un angelo austriaco non era “così malvagio”».
Biermann allude al fatto che, nella vulgata, l’Anschluss del 1938 può continuare ad apparire come un’annessione perpetrata solo con la forza, e un austriaco certamente meno ‘colpevole’ di un tedesco: tipicamente tedesca è, infatti, la Schuldfrage, la “questione della colpa”, che dalle vaghe
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scaturigini “catastrofiche” di Friedrich Meinecke giunge, concettualizzandosi con Karl Jaspers, sino ai lucidi ‘risentimenti’ di uno Habermas, di cui è traccia in un libro recente, L’Occidente diviso, così importante per la formazione di una rinnovata coscienza europea: «Il Terzo Reich ha condotto sul fronte orientale una guerra di annientamento. I reparti operativi hanno infierito nelle città e nei villaggi polacchi. I nazisti hanno costruito i campi di sterminio su suolo polacco. Vi abbiamo reclutato lavoratori coatti, assassinato e deportato gente polacca» [Abbiamo: non hanno].
Di quella figura-chiave, il capitano Wilm Hosenfeld (che aveva salvato — ci si dice — numerosi ebrei, e sarebbe morto nel 1952 in un campo di prigionia sovietico a Stalingrado), il libro riporta alcuni estratti di diario (1942-1944). Fervente cattolico coinvolto nella mitologia della ‘rivoluzione nazionalsocialista’, Hosenfeld rivela fin dalla nota del 18 gennaio 1942 una visione del mondo ancora elitaria e aristocrateggiante: «La storia ci racconta di fatti orrendi e atroci durante la Rivoluzione francese. E anche la rivoluzione bolscevica ha consentito che terribili atrocità fossero perpetrate sulla classe dominante per mano di esseri di una razza inferiore, dagli istinti animaleschi, esseri pieni di odio. […] Tanto i giacobini quanto i bolscevichi hanno massacrato le classi superiori dominanti e giustiziato le loro famiglie reali. Hanno tagliato i ponti con il cristianesimo e l’hanno combattuto, decisi a cancellarlo dalla faccia della terra».
Hosenfeld contra Nietzsche, vien voglia di dire con un’ovvia parafrasi nietzschiana, perché tutto il male, per questo cristiano classista e razzista (tragico ossimoro negatore del Vangelo, ma storicamente possibile), sembra provenire dal rinnegamento del cristianesimo; laddove il filosofo anticristiano vedeva giusto, ancorché in negativo, quando considerava il cristianesimo la vera origine del ‘male’ contemporaneo, i sovversivismi della modernità come filiazione di quel male originario ch’è per lui il verbo del Cristo: e così lamentava in Der Antichrist. Fluch auf das Christentum (“L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo”), nella versione di Ferruccio Masini: «Il veleno della dottrina dei “diritti uguali per tutti” — è stato diffuso dal cristianesimo nel modo più sistematico; procedendo dagli angoli più segreti
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degli istinti cattivi, il cristianesimo ha fatto una guerra mortale ad ogni senso di venerazione e di distanza fra uomo e uomo, cioè al presupposto di ogni elevazione, di ogni sviluppo della cultura — con il risentimento delle masse si è fabbricato la sua arma principale contro di noi, contro tutto quanto v’è di nobile, di lieto, di magnanimo sulla terra […] Concedere l’“immortalità” a ogni Pietro e Paolo, è stato fino a oggi il più grande e il più maligno attentato all’umanità nobile. — E non sottovalutiamo la sorte funesta che dal cristianesimo si è insinuata fin nella politica! […] L’aristocraticità del modo di sentire venne scalzata dalle più sotterranee fondamenta mercé questa menzogna dell’eguaglianza delle anime; e se la credenza nel “privilegio del maggior numero” fa e farà rivoluzioni, — è il cristianesimo, non dubitiamone, sono gli apprezzamenti cristiani di valore quel che ogni rivoluzione ha semplicemente tradotto nel sangue e nel crimine!».
Folgoranti verità che, in pieno rovesciamento di segno, così commentavamo in un libro disegnato, attraverso Nietzsche e Wagner, Heidegger e Hölderlin, per un apocalittico a tutta prova come Stefano D’Arrigo: «Geniale e prefigurante (basterebbe quel Ressentiment der Massen): ecco un caso, esemplare nella sua eterodossia, di fichtiana Bestimmung des Gelherter, la destinata missione del dotto essendo, appunto, di dire una ‘scientifica’ verità anche nella più ‘ideologica’ presa di posizione, o addirittura Weltanschauung».
Ormai lontano dal totalitarismo hitleriano, Hosenfeld aggiungeva alla sua nota: «I metodi dei nazionalsocialisti, per quanto diversi, anch’essi perseguono fondamentalmente uno stesso scopo: lo sterminio e l’annientamento di persone che non la pensano come loro. […] Da un lato si alleano con le classi dominanti capitalistiche e industriali e sostengono il principio capitalista, dall’altra predicano il Socialismo».
Di fatto è un deluso: «E guardate gli stessi nazionalsocialisti, osservate quanto vivono lontani dai principi del Nazionalsocialismo: lontani, per esempio, dall’idea che il bene comune venga prima del bene individuale».
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E si chiede in data 1 settembre 1942: «Perché è dovuta scoppiare questa guerra? Perché bisognava mostrare all’umanità dove la stava conducendo la sua mancanza di fede. Innanzitutto il Bolscevismo ha ucciso milioni di uomini col pretesto di introdurre un nuovo ordine mondiale. Ma i bolscevichi potevano agire in questo modo solo perché si erano allontanati da Dio e dall’insegnamento cristiano. Ora il Nazionalsocialismo sta facendo lo stesso in Germania».
Nella sua sofferta e un po’ confusa meditazione, l’ufficiale tedesco giungeva a infliggersi assilli parateologici significativi come documento psicologico di chi si trovi dinanzi a questioni sovrastanti il senso morale comune e le stesse fedi tradizionali: «È questa negazione dei comandamenti divini che porta a tutte queste manifestazioni immorali di avidità, di arricchimento illecito, di odio, di frode, di libertinaggio, causa di infertilità e di degrado del popolo tedesco».
E poi, in nome di un radicalismo apocalittico che potrebbe fare il paio coi vaticini di origine veterotestamentaria intorno all’antica ‘colpa’ di un Israele miseramente impari dinanzi al suo elettivo destino di salvezza: «Dio permette che tutto ciò avvenga, lascia che queste forze abbiano il sopravvento e che periscano tanti innocenti per dimostrare al genere umano che senza di lui siamo solo animali feroci convinti di doversi reciprocamente distruggere. Non vogliamo ascoltare il comandamento divino “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Bene, dice allora Dio, prova a seguire il comandamento del diavolo “Odia il prossimo tuo”. Noi conosciamo la storia del Diluvio universale dalle Sacre scritture. Perché i primi esseri umani hanno fatto una fine tanto tragica? Perché avevano abbandonato Dio e dovevano morire, innocenti o colpevoli che fossero. E della loro punizione dovevano incolpare solo se stessi. Ed è quanto avviene anche oggi».
Il libro di Szpilman si conclude con un breve “Poscritto” dedicato all’amico violinista Zygmunt Lednicki, che nel viaggio di ritorno a Varsavia, dopo la liberazione della città da parte dei sovietici, incontra l’ufficiale tedesco prigioniero dietro il filo spinato ma non riesce a udirne il nome confusosi con una febbrile richiesta di aiuto:
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«“Io sono tedesco” aveva bisbigliato febbrilmente l’uomo. “Ho aiutato Szpilman quando si teneva nascosto nel solaio dell’unità di commando della piazzaforte di Varsavia. Gli dica che sono qui, che cerchi di tirarmi fuori, la supplico…”».
Impossibile ogni soccorso: «Feci tutto quanto era in mio potere per rintracciare il prigioniero tedesco, ma non riuscii mai a trovarlo. Il campo dei prigionieri di guerra era stato evacuato e il luogo dove ora si trovava era un segreto militare. Ma forse quel tedesco, l’unico essere umano con indosso l’uniforme tedesca che io abbia mai conosciuto, era riuscito a tornare a casa sano e salvo»,
il libro si conclude con un’annotazione di turbamento, più che commosso, stranito e stordito: «Io suono per i bambini polacchi che ignorano quante sofferenze umane e quale mortale paura un tempo siano passate in quelle loro aule assolate. Prego perché possano non apprendere mai cosa significhino queste paure e queste sofferenze».
L’ultimo capitolo, prima del poscritto, s’intitola “Notturno in do diesis minore” e s’incentra sull’episodio determinante della vita nascosta del pianista: l’incontro improvviso, inaspettato e d’impulso traumatico, con l’ufficiale tedesco (che in realtà viene introdotto nelle battute conclusive del capitolo precedente). Saputo che l’altro è un pianista, l’ufficiale lo porta con sé verso un pianoforte e gli ingiunge di suonare. «Eseguii il Notturno in do diesis minore di Chopin. Il suono duro e metallico delle corde scordate echeggiava attraverso l’appartamento vuoto, per le scale, fluttuava sulle macerie della villa sull’altro lato della strada e tornava indietro in un’eco sommessa e malinconica. Quando ebbi finito, il silenzio parve ancora più cupo e più sovrannaturale di prima. Da qualche parte in strada un gatto miagolava. Fuori si udì uno sparo. Un colpo secco, violento, tedesco».
Sarà che abbiamo recepito più volte il film, prima ancora di leggere il libro; ma la sensazione di un’artigianale convenzionalità, pur nel carattere
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probo di una scrittura linda e precisa dentro la sua genericità emotiva, trova numerosi puntelli negli snodi di quella situazione-chiave per la vita del protagonista-io narrante. Vi domina il commentario psicologistico più ragionevole e prevedibile: «Quando posai le dita sulla tastiera, tremavano. Dunque questa volta avrei dovuto pagare un prezzo per la mia vita suonando il pianoforte!».
E quando, dopo l’ammissione di ebraismo e la promessa di aiuto, Szpilmann chiede «Lei è tedesco?» (stenta a crederlo, evidentemente; ovvero cerca un contatto umano attraverso una domanda ovvia), l’effetto è brutalmente a effetto: «Avvampò. E, in preda all’agitazione, quasi urlando, mi rispose come se l’avessi insultato. “Sì, e me ne vergogno dopo tutto quello che è successo!” Con un movimento brusco si alzò, mi strinse la mano e se ne andò».
Tutto vero, non dubitiamo; oppure tutto riplasmato, perché all’io narrante serve una scena forte. Nell’un caso e nell’altro, gronda retorica, perché non basta la ‘verità’ a costruire un personaggio: e se si tratta, invece, di una “menzogna romantica” (scomodiamo René Girard), la mossa è mal trovata. Perché quell’ufficiale pentito, storico o mitico che sia, sa di scolastico e d’inverosimile: la vita se lo può permettere nella sua dinamica a volte naturaliter grottesca, mentre l’arte, anche a voler lasciare in pace Aristotele, serba obblighi maggiori. Il procedimento tra romanzesco e iperdrammatizzante — carico com’è di dialoghi effettistici — si dipana sino allo scioglimento più didascalico nella sua ‘umanistica’ ovvietà: «Ci eravamo già salutati e lui stava per andarsene, quando all’ultimo momento mi venne un’idea. Era un po’ che mi stavo lambiccando il cervello per trovare il modo di mostrargli la mia riconoscenza e lui aveva già rifiutato di accettare l’unico bene che mi era rimasto, l’orologio. “Mi stia a sentire”, gli presi la mano e cominciai a parlare in tono pressante. “Non le ho mai detto come mi chiamo… non me lo ha mai chiesto, ma voglio che se lo tenga bene in mente. Non si sa mai cosa potrebbe succedere. Lei deve fare un lungo viaggio per tornare a casa. Se sopravviverò lavorerò
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sicuramente di nuovo per la Radio polacca. Era lì che lavoravo prima che scoppiasse la guerra. Se le accadesse qualcosa e io potessi in qualche modo aiutarla, si ricordi il mio nome: Szpilman, Radio polacca”. Lui mi rivolse il suo solito sorriso, in parte di disapprovazione e in parte timido e imbarazzato. Ma io capii che in quel momento gli avevo fatto un gran piacere a manifestargli il mio desiderio di essergli d’aiuto».
Da lì poi le ultime vicissitudini, sino all’equivoco rischioso provocato dal pastrano tedesco (Il mio ufficiale mi aveva lasciato un pastrano militare tedesco che doveva ripararmi dal gelo quando andavo a cercare l’acqua) e ai contratti sussulti di un’umanità che si risveglia; e anche qui il narratore diarista non rinuncia a toni che saremmo tentati di definire, con tutto il dovuto rispetto ai traumi di un’esperienza umana che lascia il segno, da ‘svolgimento’ compostamente scolastico (“bravo, sette più!”: avrebbero detto nei loro verdi anni cabarettistici Cochi e Renato, ovvero Ponzoni e Pozzetto). «Il giorno seguente sarebbe cominciata per me una nuova vita. Come avrei fatto a riaffrontarla, avendo alle spalle soltanto morte? Quale energia vitale potevo trarre dalla morte? Ripresi a camminare. Un vento violento faceva sbattere i rottami di ferro in mezzo alle macerie, fischiando e ululando attraverso le cavità annerite delle finestre. Scese il crepuscolo. La neve prese a cadere da un cielo plumbeo, sempre più buio».
L’episodio-chiave risulta ben altrimenti esemplare in HarwoodPolanski. Nello stile complessivo di un film che al gusto intrecciato del romanzo accompagna il sobrio piacere della veridicità, si procede per attenuazione e sottrazione, per snellimento e prosciugamento. Comprendiamo allora perché qualcuno abbia parlato di ‘anti-Schindler’, e perché lo stesso Polanski rifiutasse l’offerta di Spielberg di dirigerlo lui, quel film (lungimiranti entrambi: l’uno, Spielberg, perché consapevole di certa propria incontinenza; l’altro, Polanski, perché ancora impreparato all’eventoepifania del proprio cinema, ma non meno, forse, perché avvertiva i rischi ‘keneallyani’ di una storia a tutto tondo). Nel film il pianista e l’ufficiale si fronteggiano fra silenzi e reticenze, con rare parole che tradiscono l’assurdità stessa di una situazione che, filmicamente, si risolve nella totale visività
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dell’inquadratura (la musica sopraggiungerà dopo). L’uomo tedesco è tutto in quella ferma e cortese postura, compostamente consapevole di un destino ch’è la fine della Germania ‘nibelungica’ nella quale s’è formato. Non impreca, non deplora, non dà in smanie. Chiuso nella propria invitta eleganza, assume in sé una responsabilità storica e un approdo di catastrofe senza recriminare né rimpiangere. Forse è meno colpevole di altri, magari non ha fatto troppo male: e più che da massacratore ha una facies da umanista di antica tradizione goethiana. Forse. Il cinema non abbisognando di clinica o letteraria psicologia, l’intero personaggio è qui, consegnato al nostro sguardo: imperativo senza iattanza, padrone di sé senza arroganza. Davanti a lui è un uomo stranito, affamato, timido, eppure strenuamente deciso a tener duro: se l’indigenza lo piega, la miseria non lo vince, perché deve sopravvivere anche per tornare a suonare. I due possono incontrarsi nel segno dell’arte: mentre il pianista esegue, l’altro medita, forse ricorda, magari sogna. Quella musica è l’Europa più giusta, ancorché non sia stata capace di unirli in nome di una comune sensibilità estetica: perché di alta vocazione musicale è la Polonia, di altissima la Germania. Se nel suo libro Szpilman insiste sul Notturno in do diesis minore (la struggente composizione postuma su cui si apre il film), Polanski divergendo ci regala, nel momento assorto e pudico, umano e religioso del pianista che torna a suonare dopo tanto tempo (e non più a mimare il suono, come ha fatto talvolta per simulare un’ebbrezza senza rischio), la Ballata n. 1 in sol minore op. 23 (1835?), eseguita con un grosso taglio interno ma compiutamente espressiva nella più concisa e ‘monotona’ versione filmica. La ballata è costruita su un tema A (moderato) e un tema B (meno mosso), articolandosi in cinque sezioni (A-B-B-B-A) e una coda. Per Schumann, così felice nelle annotazioni su Chopin, «una delle sue opere più selvagge e caratteristiche», che nella versione compendiata, di fatto più lineare, si consegna alla composta malinconia di un’interiore quintessenziata meditazione, pronta a distendersi in un ritmo circolare di sinuoso abbandono patetico e, insieme, di dominato controllo linguistico. Nel suo Chopin Nicholas Temperley si occupa dell’artista che il 2 novembre 1830 lascia per sempre Varsavia: «Poco dopo la sua partenza era scoppiata una rivolta contro la dominazione russa; Woyciechowski [Tytus, l’amico che lo accompagnava] tornò in fretta in Polonia. I polacchi, che disponevano di un esercito ben equipaggiato,
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ebbero dapprima la meglio e il granduca Konstantyn fu costretto ad abbandonare il paese; presto però i russi ebbero il sopravvento, e ridussero la Polonia allo stato di provincia russa, con il proposito di soffocare ogni sentimento nazionale. Le altre potenze europee ignorarono le richieste d’aiuto della Polonia. La profonda amarezza di Chopin era comprensibile, e a questa si univano le preoccupazioni per la famiglia. Tali sentimenti trovano espressione nelle lettere disperate e (si direbbe) nel tono di alcune composizioni del periodo, come la Ballata in Sol minore, lo Scherzo in Si minore e lo Studio in Do minore op. 10 n. 12. Tra le altre composizioni di questo fecondo periodo sono le Mazurke opp. 6 e 7, la Grand Polonaise op. 22, valzer e arie».
Due di queste composizioni appaiono nel film, che si chiude, nei lunghi titoli di coda, con l’esecuzione della “Grande Polonaise” brillante per pianoforte e orchestra (terminata poco prima della partenza per Vienna), preceduta da un Andante spianato per pianoforte solo. L’Andante è in sol maggiore, la Polacca in mi bemolle maggiore. Claudio Capriolo e Giorgio Dolza sottolineano lo scarso peso di una parte orchestrale che si potrebbe sopprimere: «L’andante spianato è incomparabilmente superiore alla Polacca: per la profondità dell’ispirazione, per l’intensità espressiva e per il perfetto equilibrio strutturale va considerato come uno dei capolavori di Chopin».
Se la musica che apre il film è quella del Notturno, esemplare e proverbiale nel suo modulato rigore mnestico, lo chiude quella brillante e trionfale della Polonaise, ma è sempre il pianoforte a svettare: «Le Polacche della maturità sono composizioni del tutto differenti e nuove, sia per concezione formale sia per forza espressiva: veri e propri poemi epici nei quali Chopin rievoca le antiche virtù guerresche e le passate glorie dei polacchi. E che perciò, considerata la ben diversa situazione in cui versa ora la Polonia, assumono una valenza “politica”: davvero le opere di Chopin sono, come dice Schumann, “cannoni nascosti sotto i fiori”».
Si ricordi che, delle diciotto Polacche, una è per violoncello e pianoforte (op. 3), una — la nostra — per pianoforte e orchestra, sedici per pianoforte solo. La strategia polanskiana punta dunque su scelte fortemente
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espressive e munite di un sottotesto simbolico: se Chopin ‘notturno’ è più intimo e raccolto, la ballata assume il senso di una radicale testimonianza (lo struggimento per la patria duplicemente perduta), mentre la polacca impone il trionfo marziale, l’energia sprigionata della liberazione, una febbre di nuova creatività. Anche a volere ignorare circostanze e contesti di composizione, è la triplice tipologia formale a suggerire, nella legge costante della bellezza, tre funzioni diverse di un’unica anima musicale, per non dire spirituale. Pudicamente vi s’incastona, motivo ricorrente in Polanski, la Mondscheinsonate (“Sonata al chiaro di luna”) di Beethoven; col suo cristallino luminoso straniamento essa funge da eco, momentanea e trafiggente, di una musica eseguita chissà dove, fors’anche vicina, che il pianista per un attimo può udire per trarne troppo rapida consolazione, magari ulteriore struggimento: un po’ come Rosemary mentre ascolta rapita il vagito di un bambino, che in quel momento di estatica interferenza è comunque suo. Il pianismo ‘distillato’ (proprio da Stille) di Beethoven precede e prepara quello di Chopin, che dinanzi all’inimitabile moltiplicazione dei generi procede per concentrata stilizzazione, come intuiva meglio di tutti un Liszt: «Racchiudendosi nell’ambito esclusivo del pianoforte, Chopin diede prova di una delle qualità più preziose in un grande scrittore e senza dubbio delle più rare in uno scrittore comune: la giusta valutazione della forma ove gli è dato eccellere»;
e Piero Rattalino (di cui si dovrà rammentare, almeno, un F. Chopin: ritratto d’autore del 1991), in prefazione a questa insostituibile Vita di Chopin: «La prosa di Liszt è quella di un oratore, di un oratore che non legge una arringa. E il suo Chopin è una specie di orazione in difesa di un artista che, non dimentichiamolo, non aveva scritto né un melodramma né una sinfonia, e che nessuno avrebbe automaticamente cavato fuori dal cielo minore del pianoforte per collocarlo nel cielo maggiore della musica in quanto arte assoluta».
Tante e complesse appaiono, infine, le ragioni che inducevano a recuperare uno Chopin in parte diverso da quello di Szpilman, soprattutto in considerazione del periodo splendidamente ‘militante’ che l’artista si
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trovava a vivere nella distanza dalla sua Varsavia vilipesa dai russi (come poi, nell’età di Szpilman e di Polanski, dai tedeschi: e poi ancora dai russi), destinata a perdurare nella sua dipendenza dagli zar prima, e dopo dal ‘nuovo zar’ Stalin il Terribile: quello filigranato con titanico vigore rinascimentale e manieristico straniamento shakespeariano da Sua Maestà Ejzen tejn in un Ivan Groznyi non meno che stupefacente, specie nella seconda parte a lungo ‘maledetta’. Quanto alla centralità della Ballata in sol minore — sulla cui preferenza, in sostituzione del Notturno in do diesis minore, un sensibile specialista polanskiano come Alberto Scandola offre considerazioni pertinenti ma un tantino generiche —, occorrerà ricordare che prima dell’op. 23 il termine si riferiva a composizioni vocali, e precisare, ancora con Capriolo e Dolza: «La ballata strumentale è dunque un genere “inventato” dal nostro musicista: il quale disse una volta a Schumann che nel creare le proprie Ballate aveva tratto spunto dagli omonimi componimenti lirico-narrativi di Adam Mickiewicz — Iniziatore della poesia romantica polacca, Mickiewicz aveva pubblicato nel 1822 una raccolta di ballate e romanze d’intonazione popolare, palesemente ispirategli dall’attenta e assidua lettura delle opere dei massimi rappresentanti del romanticismo tedesco, da Bürger a Goethe e a Schiller, di alcune delle quali Mickiewicz fu anche pregevole traduttore».
Vero è che sarebbe improprio trovare ‘corrispondenze’, se non baudelairiane, tra i testi di quel poeta e quelli del nostro musicista: «non nutriva alcuna simpatia per la musica “a programma”, per i riferimenti letterari nelle opere musicali, così come lo infastidiva che alcuni editori attribuissero titoli di fantasia alle sue composizioni»;
non meno vero è che l’insieme dei riferimenti impliciti, facendosi ‘immagine-suono’, in Polanski funziona davvero. E così, allorché si dispone ancora un po’ rattrappito dinanzi allo strumento prodigiosamente ‘materializzatosi’ ai suoi occhi, il pianista sceglie un genere, la ballata, che nei suoi precordi letterari è proprio della massima tradizione tedesca, dall’ottimo Bürger (quello, tra l’altro, del nostro Berchet) ai sommi dioscuri della Kunstperiode, Schiller e Goethe. Cosa ‘sente’ l’assorto ufficiale nel suo ascolto meditato? Certo la pura e perfetta bellezza, che non ha bisogno di nulla, men che mai
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delle nostre affannose disamine ‘genealogiche’, per raggiungerci; forse la comune appartenenza, di lui ‘ariano’ tedesco come dell’altro ‘ebreo’ polacco, a una ‘civiltà dell’ascolto’; fors’anche un’onda di emozioni estetiche (o estatiche) che partendo chissà da dove, chissà da quando, sia passata per il gran mare dell’essere sublimandosi nella massima poesia tedesca e di là tracimando, per rivoli e per echi, verso quella Polonia medesima che a lui tedesco affida ora due uomini-artisti: il sommo Chopin, fervido poeta nazionale e gloria comune d’Europa, il lodevole Szpilman, piccolo uomo che, per lui, ritrova la sua arte. Proviamo a calare un po’ di Leopardi raggiunto dal canto di Silvia, in questo Hosenfeld trafitto da un raggio di sole “in quelle tenebre”: lingua mortal non dice | quel ch’io sentiva in seno. Ma è il narratore Polanski, con la forza di una suasiva liricheggiante affabulazione, a evocarci questo e altro: non già l’onesto Szpilman, con le sue ansie un po’ goffe di sincerità senza riscatto. Massiccio ‘contenuto’, quella prosa di ordinaria referenzialità; ‘forma semplice’, questa poesia di trascesa allusività confidata a una puntuale ritmica cinemelografica. Soprattutto, il romanzo-diario non narra, descrive (secondo la terminologia di uno storico saggio lukacsiano); per contro narrando, Polanski riesce a ‘evocare’: ed è come se presupponesse questioni complesse di psicologia della bellezza e della musica, che nel lager conobbero tortuosi inveramenti e smentite, dionisiaci invasamenti e meschine ipocrisie. E qui ci soccorre quanto mirabilmente scriveva Tzvetan Todorov in Face à l’extrême: «La Lagerführerin dello stesso campo di concentramento [Treblinka], Maria Mandel, ha un debole particolare per l’aria di Madame Butterfly dall’opera di Puccini: a ogni ora del giorno e della notte va nella baracca della musicista per farsela cantare. Ogni volta ne è incantata. Joseph Kramer, comandante di Birkenau, condivide le inclinazioni musicali della Mendel e incoraggia le attività dell’orchestra femminile del lager. Il pezzo che preferisce è il Sogno di Schumann, che ascolta con la massima attenzione. “Si abbandona alla sua tenera emozione e si lascia piacevolmente scorrere sulle guance accuratamente sbarbate lacrime preziose come perle” […]. “Uomini che amano tanto la musica, uomini che piangono nell’ascoltarla, sono capaci di fare tanto male, di fare semplicemente del male?”, si chiede un membro dell’orchestra maschile di Auschwitz. Purtroppo sì. E Fania Fénelon, che si lascia trasportare dalla musica che suona, non è neanche lei la sola: negli uffici della Sicurezza di Stato, a Berlino, è stato predisposto un
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locale per la musica fornito di strumenti. Un certo Adolf Eichmann va regolarmente a suonarvi il violino, accompagnato al piano dal suo camerata ss. Bostramer: musica da camera romantica».
La bellezza non garantisce, la musica non redime (e la tragedia non purifica). Nell’estimatore di bellezza può nascondersi il criminale, e la musica, con quella che — parafrasando Fiedler — si potrebbe definire pura udibilità, inebria uno spirito che, in quell’istante emancipandosi dalla carne, si rigenera per volgersi poi più libero e più forte alla sua ordinaria devozione al male. Così fa Alex, scellerato giovinsignore di A Clockwork Orange, supremo sforzatore di carnose fanciulle e competente delibatore di perfetti distillati beethoveniani. La perforante audiovisività del film trascende la letteraria allusività del romanzo (Anthony Burgess), sicché Arancia meccanica è per sempre quella di Stanley Kubrick. Non meno interessante è la sindrome di autoesaltazione, di autosufficiente e autoassolutoria dedizione alla musica in sé, anche nel luogo di massimo dolore da segregazione senza destino, che poteva contagiare e inebriare l’artista rinchiuso, fino a farne un inaspettato cultore di MusikalischSchön (il bello musicale di Hanslik, cui Wagner non perdonò, deridendolo nei Meistersinger, il rifiuto di ogni letteraria ‘contaminazione’). Esemplare il motivo-episodio che ci viene raccontato, ancora, da Todorov: «Alma [Rose, direttrice dell’orchestra femminile di Auschwitz] preferisce la perfezione della musica alla felicità delle sue musiciste. Per lei la perfezione è uno scopo in sé, e le è indifferente sapere a chi si rivolga la sua attività: nel suo caso non si può quindi più parlare di virtù, sia essa quotidiana o di altro tipo. Prima delle guerre, ricorda Alma, “le storie di arresti, di deportazioni succedevano lontano, così lontano da me. Non mi toccavano, non m’interessavano. Per me contava solo la musica”. Anche quando la sua vita è alla fine, continua a dichiarare: “Morire non ha importanza, ne ha fare musica, quella vera”. Internata nel lager, si dedica anche qui all’attività musicale, e i difetti delle musiciste sono altrettanti ostacoli da superare: il suo fine è la musica, non sono gli esseri. Alma urla, schiaffeggia, punisce e si giustifica: “Qui o altrove, quello che si fa deve essere fatto bene, non fosse che per un rispetto di sé”. L’attività dello spirito può quindi generare un sentimento di dignità (quello che nasce dalla consapevolezza di un lavoro ben fatto), e ignorare al tempo stesso l’interesse degli individui. Dopo la sua morte, le SS
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Fernando Gioviale le rendono un commovente omaggio: s’inchinano piangendo davanti alle spoglie di quell’ebrea, coperta di fiori bianchi».
Una pioggia di fior sovra il suo grembo: si sarebbe tentati di chiosare coi Rerum vulgarium fragmenta; ovvero Alma come novella Laura, anche se da quelle parti mancava, per sua fortuna, un Petrarca. La musica può dunque salvare, o distrarre, o aiutare a sopravvivere: come insegna l’exemplum di Jacques Stroumsa, ebreo greco di Salonicco emigrato poi in Israele, col suo intrigante Violinista ad Auschwitz (dove si legge anche una toccante memoria del suicidio di Primo Levi, 11 aprile 1987): Dopo il nostro arrivo al campo e la scomparsa di mia moglie e dei miei genitori, fu la musica che mi permise di non soccombere alla disperazione, perché un uomo senza speranza era già un uomo morto. La musica mi permise di sopportare l’insopportabile. Anche se di recente Gabriele Nissim ha seriamente argomentato su un «mito del comunismo come baluardo contro l’antisemitismo», Stroumsa rivendica, prima ancora di un appassionato sionismo (di rivoluzione sionista scrive oggi, con legittimo orgoglio, la salda e tollerante coscienza israeliana di Abraham Yehoshua), un convinto comunismo ‘morale’, fondato su inoppugnabili ragioni storiche (è giusto riportarle alle memoria dei troppi smemorati, sempre pronti a esaltare gli americani come mitici solitari liberatori): «Dopo la liberazione, io venni rimpatriato in Francia. Divenni comunista, per riguardo al popolo russo che aveva tanto sofferto durante la guerra, e i cui enormi sacrifici avevano permesso di vincere il nazismo. Ero già molto cambiato quando compresi che i bolscevichi avevano una politica ostile allo Stato d’Israele, che avevano peraltro contribuito a creare».
Nella sua prefazione Lorenzo Perrone esalta, del (fortunato?) ingegnere-violinista, «un sentimento di profonda fedeltà alla memoria dei propri cari e dei compagni di sventura, in nome di quella vita che è stata spezzata, che essi non hanno più potuto godere, quasi che Jacques volesse continuare a recitare per tutti loro un ininterrotto qaddish, l’omaggio filiale verso il padre defunto nella tradizione della preghiera ebraica».
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La bella, troppo bella pagina di Todorov su un’etica assoluta del lavoro artistico ci conduce ‘per li rami’ ancora al cinema, sul motivo del lavoro ben fatto. Analoga situazione si ritrova, infatti, in The Bridge in the River Kwai (1957), forse il film più popolare del classico e un po’ dimenticato David Lean (poi raffinato cesellatore di conflitti e difficili equilibri interculturali in Passage to India, persino più persuasivo dell’ottimo Forster). Nell’imponente Il ponte sul fiume Kwai il colonnello inglese Nicholson (un sopraffino Alec Guinnes) s’innamora perdutamente del ponte costruito per volontà dei suoi aguzzini giapponesi (siamo, in linea col nostro assunto, in un campo militare): perché è fatto a regola d’arte ed è opera sua. Dovrà contribuire a distruggerlo, con la morte nel cuore: ma Sua Maestà Britannica über alles (rischi siffatti non correremo di certo noi siciliani, che forse mai, né in pace né in guerra, costruiremo un ponte: insulari siamo e resteremo. L’ostacolo psicoantropolgico, peraltro, è stato ‘perfidamente’ aggirato dagli inglesi, che in barba a fumisterie ideologiche si sono gemellati coi francesi attraverso il megatunnel sotto la Manica: ma noi, si sa, ci sentiamo — come ammonisce l’ironia amara del principe di Salina, magari con le sembianze siculoyankee di un Burt Lancaster sapientemente ritratto dal Gran Lombardo Luchino — non meno che perfetti: il sale della terra). Se a questo e ad altro può portarci il pudico eppure rapinoso ‘duetto’, in Polanski, fra il timido ebreo e il suo conquistatore orazianamente conquistato, davvero non si comprende come, chiudendo una scheda di ottima efficacia sintetica e commentativa: «Varsavia, 1939-1944: il giovane e già affermato pianista ebreo Wladyslaw Szpilman conosce la tragedia della persecuzione nazista. Chiuso nel ghetto assieme a tutti gli altri ebrei, è l’unico della sua famiglia a non essere deportato nei lager; e durante gli ultimi mesi prima della liberazione, sopravvive da solo tra le rovine, contando sul silenzio del capitano tedesco Will Hosenfeld, che lo scopre ma lo rispetta come musicista. Un progetto che Polanski sognava da anni: un ritorno in patria e un viaggio nella memoria più dolorosa. All’inizio il calvario della famiglia ebrea sembra onorare troppe convenzioni narrative: ma attraverso la cronaca minuta e oggettiva, Polanski non ricatta, trattiene con accortezza le emozioni, guarda l’orrore in campo lungo e mette più di un brivido. Finché, nella seconda parte, il film prende davvero il volo e la Storia diventa metafora della condizione umana: Szpilman, derelitto e muto nel ghetto sfollato, con la sola
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Fernando Gioviale memoria di Chopin a sostenerlo, è una specie di Robinson Crusoe o di Giona nel ventre della balena»,
un dizionario corrente possa concludere: «Un po’ schematico il nazista “buono”, anche se il pre-finale in cui lo si vede prigioniero è di grande forza» (Mereghetti).
Se il riferimento a Defoe può essere utile a comprendere l’adattabilità dell’intelligenza umana a una realtà ambientale che ne nega l’aristotelica socialità, e il parallelo con Giona propone un richiamo, implicito, a un film di Roberto Faenza, Jona che visse nella balena (1993) — esempio di buon cinema italiano sul tema del lager, forse non dimentico, nel ritrarre lo ‘sguardo’ del piccolo ebreo olandese, della lezione d’un Malle —, guardare alla figura cinematografica dell’ufficiale attraverso la lente ipercaratterizzante della fonte letteraria è proprio un errore. Intanto, sembra che si debba aver paura dei sentimenti: laddove documentalmente risultano atti di eroismo disinteressato proprio nei campi di sterminio. E poi, perché ‘nazista’? Per quanto si evince dal film, si tratta di un ufficiale delle cui idee non sappiamo nulla, e che certo si trova a combattere per una causa disonorante, ma come tanti che nazisti non furono (fino al rischio della fronda e della congiura antitirannica): né per forza comunisti quando l’Unione Sovietica attaccava la Finlandia o, nei suoi tardi anni di esistenza, l’Afghanistan. Se non abbiam diritto di dubitare che il fatto sia vero, in Polanski è altamente verosimile: e su questo tratto di insuperato aristotelismo, che rende la ‘poesia’ più universale della ‘storia’, s’è già detto qualcosa. Pretendere, per riconoscerne e onorarne l’onestà morale, la rivolta esplicita di un militare in guerra, significa attendersi da circostanze ardue e assolute, fuori da un vero controllo di opinione pubblica internazionale, esiti paragonabili a quelli dell’odierno Israele, dove valorosi ufficiali si sono rifiutati, con tutte le conseguenze di legge (perché vige, nello Stato ebraico, la maestà della legge: non si dice per gli arabi israeliani, ma per i sospetti o flagranti terroristi. E negli Usa?), di bombardare villaggi palestinesi: segno di una coscienza ben vigile di fronte agli orrori dell’occupazione, ma altresì — se non è vano rilevarlo — di una ‘tenuta’ encomiabile della democrazia israeliana dinanzi all’imprevedibilità di un nemico che (d’accordo: munito
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dei più comprensibili nazionalismi di questo mondo) s’insinua tra la folla, in un mercato o su un autobus, per uccidersi uccidendo persone innocenti. Il vero è che quell’ufficiale tedesco ci viene reso come amaramente e compostamente consapevole della catastrofica disfatta non già di un uomo o di un esercito — che pure vi sono, e contano — ma di un intero paese, forse di un ciclo di civiltà nel quale persino il giovane Marx, in ciò non troppo diversamente dal giovane Wagner, poteva studiare le forme della rivoluzione anticapitalistica e, insieme, i modi onde superare un’ambigua questione ebraica. Sarà quanto si voglia improbabile che il muto duetto tra il pianista e l’ufficiale, di mezzo alle volute avvolgenti e smemoranti della più che dimezzata ma sempre grande Ballata, si sia svolto in tanto rigore di classicità formale: perché la cronaca della vita è sovente più sciatta e volgare, più occasionale e aggressiva (e magari ha piena ragione Szpilman a rimarcare le generose intemperanze dell’inatteso interlocutore). La singolare struttura triadica che si genera nell’antonomastica Scena del film — l’uomo derelitto che, rincorato da un raggio di umanità, trova la forza di suonare; il fiero soldato sconfitto che finalmente desidera, direbbe l’Imbonati manzoniano, sentire e meditar; il genio chopiniano così propizio a procurare un’infinita suggestione di armonie, melodie, sorgive malìe — appare come protesa a trascendere una terrena ‘bellezza’ per aspirare alle altezze del ‘sublime’: e forse, in assenza di un Dio provvidente, ci si può appagare di un Dio immanente in mutate sembianze di estetica epifania. Talché è forte, qui, la tentazione di chiamare a testimoniare Schiller in persona: «Il sublime ci procura dunque una evasione dal mondo sensibile, in cui il bello vorrebbe tenerci prigionieri (Del sublime); con la sentenza definitiva: Per questa ragione trattano assai male la propria arte quegli artisti e poeti i quali credono di raggiungere il pathos con la semplice forza sensibile dell’affetto e con la più viva rappresentazione della sofferenza. Essi dimenticano che la sofferenza per se stessa non può mai essere il fine ultimo della rappresentazione né la fonte immediata del godimento che ci procura una rappresentazione tragica. Il patetico è estetico solo in quanto sia sublime (Del patetico)».
Anche a questo doveva pensare un poetico maestro della contemporaneità, l’ebreo Paul Celan (ben oltre l’importante simbiosi ebraico-tedesca di cui ci ragguaglia Traverso, sulla
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Fernando Gioviale «fusione nella persona storica di Celan dell’anima tedesca, di quella romanza e di quella slava, il suo destino poliglotta e l’incrocio topografico della Czernowitz natale, di Bucarest, di Vienna e di Parigi»,
riferisce Alberto Bertoni nel densissimo saggio L’Olocausto e l’identità letteraria), che con la sua «accusatoria teodicea», nella raccolta Die Niemandrose, «si rivolge a un Dio demidiato, che potrà ritrovare la sua unicità, ovvero perfezione, solo in quanto recuperi al proprio ambito, alla sua Schechina [termine ebraico atto a significare l’emanazione della grazia divina nella realtà terrestre], quella metà del reale che rimane tuttora oscurata dall’ombra del male immenso cui Egli non seppe opporsi» (Giuseppe Bevilacqua).
Ed ecco come Celan riscatta nel sublime tutto il peso del patetico: ES WAR ERDE IN IHNEN, und Sie gruben. Sie gruben und gruben, so ging ihr Tag dahin, ihre Nacht. Und sie lobten nicht Got, der, so hörten sie, alles dies wollte, der, so hörten sie, alles dies wußte. Sie gruben und hörten nichts mehr; Sie wurden nicht weise, erfanden kein Lied, erdachten sich keinerlei Sprache, Sie gruben. Es kam eine Stille, es kam auch ein Sturm, es kamen die Meere alle. Ich grabe, du gräbst, und es gräbt auch der Wurm, und das Singende dort sagt: Sie graben. O einer, o keiner, o niemand, o du: Wohin gings, da’s nirgendhin ging? O du gräbst und ich grab, und ich grab mich dir zu, und am Finger erwacht uns der Ring.
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Rileggiamo con Bevilacqua: ERA TERRA DENTRO DI LORO, ed essi scavavano. Essi scavavano e scavavano, così trascorrendo il dì e la notte. E non lodavano Iddio, il quale, gli fu detto, tutto questo voleva, tutto questo, gli fu detto, sapeva. Essi scavavano e nulla più udivano; essi non capivano, né crearono un solo canto, non si diedero una lingua. Scavavano. E giunse un silenzio, giunse anche un vortice, giunsero i mari, tutti. Io scavo, tu scavi, e scava anche il verme, e che lì va cantando, dice: Essi scavano. O uno, oh nullo, oh nessuno, oh tu: Dove s’andava, giacché non s’andava in alcun luogo? Tu scavi ed io scavo, scavando ti raggiungo: e al dito si ridesta a noi l’anello.
Dunque si poté scrivere, e poetare, e cantare, dopo Auschwitz: nonostante l’apocalittico interdetto di Adorno. Forse non si imparò davvero a vivere, una volta fuori dall’orrore, se pure lo scampato Celan era atteso da un destino di suicidio, maturato nel 1970: esito, fors’anche, della radicale verità della sua poesia, rappresentazione di uno sconvolgimento sino alla negazione di lode a un Dio obliquamente citato come soggetto di volere negativo, sul crinale di una serpeggiante, tragicomica blasfemìa: E non lodavano Iddio, | il quale, gli fu detto, tutto questo voleva, | tutto questo, gli fu datto, sapeva. Che ne è del Tzidduq ha-din (“Giustizia della sentenza”)? «Atto di rassegnazione, accettazione della sentenza divina come giusta e indiscutibile. Si recita prima della sepoltura. La seguente formula è del rito sefardita» (Rita Torti Mazzi):
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Fernando Gioviale O Signore, sei giusto e sono giuste le Tue leggi. Il Signore è giusto in tutte le Sue vie e fedele in tutte le Sue azioni. La Tua giustizia è eterna e il Tuo insegnamento verità. Le leggi del Signore sono verità, tutte quante giuste. Dove domina la parola del re, chi può dirgli: cosa fai? Egli fa ciò che desidera. Là sono uguali piccoli e grandi e servi liberi dal padrone; nei suoi servi non crede e persino ai suoi angeli riconosce difetti; tanto più l’uomo, che è un verme, il figlio di Adamo, un insetto. Integra è l’azione della Roccia, immacolato è il suo operato, tutte le Sue vie sono di giustizia. Dio di lealtà, in cui non esiste difetto, giusto e retto Egli è, Giudice di verità, emette giudizi di carità e verità. Benedetto sia il giudice di verità, poiché veramente ogni Suo giudizio risponde a perfetta giustizia.
Con questa stupenda preghiera funebre gareggiò Paul Celan; e, come poeta, in bellezza prevalse, imponendo una tragica verità lirica che vale per tutti i morti di Shoah, anche per i sopravvissuti colpevoli d’essere sopravvissuti (effetto collaterale, non prevedibile, della più grande questione della colpa). Deliberatamente fuori dal canto alto e mosso, nella sua prosa mirabilmente ‘secca’ (di un narratore come Mérimée lo diceva Montale), piace qui proporre un estremo sigillo pinteriano, chiamando ancora una volta quel sarcastico ebreo a chiudere, in allusivo e stranito incorniciamento, le nostre note: Rebecca I walked out into the frozen city. Even the mud was frozen. And the snow was a funny colour. It wasn’t white. Well, it was white but there where other colours in it. It was as if there were veins running through it. And it wasn’t smooth, as snow is, as snow should be. It was bumpy. And when I got to the railway station I saw the train. Other people were there. (Pause). And me best friend, the man I had given my heart to, the man I knew was the man for me the moment we met, my dear, my most precious companion, I watched him walk down the platform and tear all the babies from the arms of their screaming mothers. (Harold Pinter, Ashes to Ashes)
“Un vivo che passa”. Nozioni e implicazioni su Shoah e cinema Uscii nella città gelida. Anche il fango era ghiacciato. E la neve era di un colore strano. Non era bianca. Anzi no, era bianca ma c’erano anche altri colori. Come delle vene che le scorrevano sotto. E non era nemmeno liscia, com’è la neve, come dovrebbe essere. Era piena di cunette. E quando arrivai alla
stazione vidi il treno. C’era altra gente. (Pausa). E vidi il mio migliore amico, l’uomo a cui avevo dato il cuore, quello che sapevo sarebbe stato il mio uomo fin dalla prima volta che lo incontrai, il mio adorato, il mio prezioso compagno, lo vidi passeggiare lungo i binari e strappare tutti i bambini dalle braccia delle madri urlanti. (Harold Pinter, Ceneri alle ceneri)
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BIBLIOGRAFIA
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The Pianist di Roman Polanski (Francia, Gran Bretagna, Germania, Polonia, Olanda – 2002) è sceneggiato da Ronald Harwood e interpretato da Adrien Brody (Szpilman), Thomas Kretschmann (Hosenfeld), Frank Finlay, Maureen Lipman, Emilia Fox, Ed Stoppard, Julia Rayner, Jessica Kate Meyer. Palma d’Oro al Festival di Cannes. Il pianista che esegue è Janusz Olejniczak. L’edizione in due dvd (Universal Pictures Video, 2003) comprende il documentario A Story of Survival. Behind the Shenes of “The Pianist”.
RAZIONALITÀ FILOSOFICA, MITO RELIGIOSO, ESPERIENZA UMANA IN HERMANN COHEN
ROBERTO OSCULATI*
L’evoluzione della filosofia moderna conduce il pensiero oltre l’obiettività metafisica dell’essere e l’empirismo della materia e dell’esperienza immediata. Platone e Kant insegnano a liberare la ricerca intellettuale da un presunto riferimento posto al di fuori del pensiero e dell’attività della coscienza. L’io ritrova nel più profondo di se stesso le sue ragioni più elevate, universali e necessarie. Il trascendentale è il volto essenziale della verità, che vi scopre le sue condizioni più autentiche, libere ed aperte. La scienza matematico-fisica, il diritto e l’estetica sono i prodotti più elevati della storia umana, in particolare di quella moderna, e costituiscono la base di un sapere filosofico che ne percepisce le ragioni estreme ed universali, oltre ogni realizzazione empirica. La scienza si eleva alla nozione della verità pura, all’ orizzonte infinitamente aperto e necessario del sapere, quale base primordiale di ogni ricerca. La verità non è un oggetto, ma una disposizione dello spirito umano ed indica la sua apertura senza limiti verso un mondo puro ed assoluto. Essa è sempre il risultato di una catarsi dell’esperienza da tutti i suoi contenuti parziali e determinati. Le scienze particolari devono essere superate in questo anelito platonico verso un mondo ideale. Alla base dell’etica filosofica stanno l’esperienza e la storia del diritto, quali tentativi di realizzare il bene comune. L’ordinamento dello stato ne è il prodotto più universale. Così la progressiva eliminazione di ogni diseguaglianza tra gli esseri, il rispecchiamento dell’io e del tu nell’identità dei diritti e dei doveri nella vita pubblica conduce verso il bene assoluto al di sopra di ogni sua realizzazione parziale. Altrettanto deve dirsi dell’espe* Docente di Storia del cristianesimo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania.
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rienza estetica, movimento incessante verso una bellezza che non può mai essere monopolizzata ed espressa in modo definitivo. La realtà umana appare così come un movimento senza sosta di universalizzazione, di idealizzazione e di comunione. La storia concreta e le culture diverse sono analizzate in rapporto all’empito di razionalità, giustizia e bellezza che costituisce il carattere più elevato dello spirito, che non può mai essere spento dalle deviazioni, dagli errori, dalle meschinità dell’esistenza concreta. Gli ideali si aprono all’orizzonte delle scienze dello spirito e della vita umana. Di fronte a questa prospettiva, elaborata sulla scorta della filosofia platonica e della critica kantiana, Hermann Cohen (1842-1918) pone continuamente il problema religioso, come è vissuto soprattutto dall’ebraismo e dal cristianesimo. Il pensiero mitico caratteristico della religione d’Israele e delle chiese cristiane esprime a suo modo le tensioni dello spirito umano verso la verità, la giustizia, la bellezza. In particolare il filosofo riprende e discute l’etica della profezia ebraica. La nozione del divino vi assume un carattere sperimentale, storico e pragmatico, quale esame critico delle vicende d’Israele. Ma in questo rivestimento temporale si rivela continuamente una concezione universale, positiva, egualitaria, libera e pura dell’umanità. L’incontro dell’uomo con l’uomo, nel comune desiderio di pace, di sincerità, di rispetto, di giustizia condivisa da tutti, conduce la profezia fuori dalla ristretta visione delle sorti d’Israele e mette in luce un’etica concreta, dinamica, coinvolgente. Anche il cristianesimo, pur con il suo retaggio mitico ed ecclesiastico, aspira ad un vero, ad un bene, ad un bello che tutti redima ed accomuni. In particolare la figura di Gesù, considerata nella prospettiva dei canti del servo di Iahweh e liberata da contaminazioni metafisiche, aggiunge alla considerazione ideale dell’umano un tratto nuovo: la compassione. L’essere umano, accanto alla sua natura ideale, è pure cosciente della sua miseria, fragilità e peccaminosità. È soggetto alla legge della sofferenza e della morte. Assieme al vero, al giusto e al bello, l’innocente sottoposto alla tortura insegna così a porre l’esigenza del compatimento per la comune debolezza e il desiderio della redenzione. La corona di spine diventa simbolo di un’umanità bisognosa di misericordia e di soccorso, come dovunque la si incontra. Le aspirazioni intellettuali, morali ed emotive dello spirito ebraico e
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cristiano si accompagnano all’arduo pensiero filosofico e lo completano con i loro accenti appassionati, vivi e coinvolgenti. La Bibbia ebraica e cristiana può essere letta come continua esigenza di compimento ultimo dell’essere umano oltre ogni limite dell’esperienza e della storia, come una vicenda che continuamente si ripete nell’intimo di ogni spirito. L’ebraismo di Cohen si muove tra due poli opposti e sempre attraentesi: la scienza, la società e la cultura del mondo delle genti e l’elezione spirituale d’Israele. Il filosofo neokantiano della Belle époque rimane pur sempre un animo commosso dalla profezia ebraica e dall’evangelo cristiano: i puri ideali della razionalità devono essere sempre sollecitati dall’affetto e dal sentimento caratteristici della religione biblica. Essi spingono ad uscire dalla purezza del concetto per incontrare la propria ed altrui individualità, per partecipare ad un cammino storico infinito, per sentire come propri sia la comune fragilità sia il desiderio più sublime di ogni spirito
1. ETICA E RELIGIONE Dopo la Logica della conoscenza pura, uscita per la prima volta nel 1902, Cohen pubblicava nel 1904 la sua Etica della volontà pura, che vedeva una seconda edizione tre anni dopo. Dagli aspetti più generali dell’etica nella sua aspirazione alla verità, nel suo carattere pratico, nella centralità dell’autocoscienza e della libertà, il filosofo passa all’idea di Dio, alla virtù, alla veridicità, alla modestia, al coraggio, alla fedeltà, alla giustizia, all’umanità. Egli prende l’avvio dal desiderio universale ed extracategoriale della verità per studiarne la progressiva concretizzazione nella scelta morale. Ma quanto più si fa determinato l’impegno etico, tanto più esso aspira ad essere universale. La dialettica razionale esige questa continua correlazione tra l’ideale e l’azione specifica, tra una condizione pura e la scelta pratica. Si tratta di due prospettive essenziali dello spirito umano in tutti i suoi aspetti. Nulla deve racchiudersi nei limiti di un autoaccecamento, ma nulla deve rimanere in una condizione astratta e ignara della concretezza etica, psicologica e storica. Lo spirito umano è animato da un duplice empito essenziale: l’universalità e la determinazione, l’idealità e la scelta, la meta ultima e le strade che vi conducono. Ogni esperienza acquista un duplice volto e si anima di una dialettica senza fine. L’etica è segnata da
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questo dinamismo che non conosce sosta e pervade ogni determinazione dello spirito sia nell’ambito individuale sia nelle costruzioni storiche. In questa analisi dell’agire morale il filosofo raccoglie i risultati dei suoi studi su Kant assieme ad una sempre maggiore attenzione per la dialettica platonica e l’universalismo concreto della monade di Leibniz. Ma il problema religioso indicato dalla Bibbia e dalla tradizione intellettuale ebraica è un punto di riferimento costante. In particolare la profezia ha posto quale problema fondamentale della religione il rapporto tra esseri umani ed ha superato il mito, che viene condotto alla realtà immediata, universale e concreta dell’esperienza comune e delle sue condizioni elementari. Il concetto del divino viene liberato da ogni costruzione cosmica, metafisica e politica ed esposto come esigenza ideale di giustizia universale. La religione esercita una funzione liberatoria nei confronti di qualsiasi riduzione dell’etica a prospettive limitate e parziali. Il monoteismo profetico è una garanzia di umanità, di libertà dalla sofferenza, di comunione tra tutti gli esseri umani. L’idea profetica del divino e quella dell’umano si rispecchiano e sostengono a vicenda. Non viene proposto nulla che stravolga o asservisca l’umano a se stesso, nè il divino viene adattato a peculiari interessi caratteristici di un ambiente o di un’epoca. La profezia propone un cammino infinito, al di là ogni limite pur nella concretezza della storia. Essa afferma l’aspetto più caratteristico dello spirito umano oltre ogni mitologia, dogmatismo o ecclesiasticismo1. Appare in questa prospettiva la necessità di un contributo di tutti alla vita pubblica: lo stato quale luogo universale della moralità deve fondarsi sul suffragio universale e sull’assunzione personale della responsabilità verso la vita pubblica. Nello stesso tempo occorre costruire un’etica fondata sul
1
H. COHEN, Etica della volontà pura, Napoli 1994, 290-294. Riappare qui un’antica analogia tra il pensiero matematico, filosofico e teologico. Il calcolo infinitesimale aveva insegnato, nei secoli XVII e XVIII, a concepire le operazioni logiche come un progressivo avvicinamento ad una verità mai esattamente circoscrivibile, ma sempre più esigente e purificata. Cfr H. COHEN, Das Prinzip der Infinitesimalmethode und seine Geschichte, Berlino 1883. La stretta unione nella personalità di Cohen della più rigida coscienza teoretica e del più intenso afflato religioso è stata sottolineata il particolare dall’allievo ed amico E. CASSIRER. Vedine ad esempio Hermann Cohen. Worte gesprochen an seinem Grabe am 7. April 1918, in Gesammelte Schriften, IX, Amburgo 2001, 487-493.
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coraggio e sull’umiltà, che devono liberare ogni cittadino dall’egocentrismo, dall’arroganza, dalla chiusura nel proprio interesse di classe o di nazione2. La logica era stata guidata dallo sviluppo delle scienze matematiconaturali caratteristico del secolo XIX e dell’inizio del XX, a cui riteneva di dover fornire le prospettive più generali. L’idea e la pratica dello stato moderno guidano l’elaborazione dell’etica e la religione profetico-messianica è interpretata quale ispiratrice di una vita pubblica capace di correggere e migliorare continuamente se stessa attraverso la democrazia e il socialismo. Il filosofo ebreo sembra professare un ingenuo ottimismo nei confronti dell’evoluzione culturale e sociale della Germania imperiale, in cui si sente maestro di intelligenza e di moralità universali e condivisibili. Presto la guerra mostrerà quanto fossero vivi gli aspetti rozzi, tribali ed egoistici che si annidavano nella vita pubblica e privata dell’Europa civile e moderna.
2. SISTEMA DELLA FILOSOFIA E CONCETTO DI RELIGIONE Nel 1915 Cohen pubblicava uno studio completo sulla natura dell’esperienza religiosa. Una volta raggiunta una visione sistematica del pensiero filosofico, nella sua tripartizione di logica, etica ed estetica, ci si doveva preoccupare di un’analisi teorica della religione. Fin dalla sua giovinezza il pensatore si era trovato a stretto contatto con l’ebraismo. Esso rappresentava a sua volta un modo organico ed articolato di affrontare i problemi umani. La varietà del linguaggio biblico e rabbinico, i vasti interessi intellettuali della cultura ebraica antica, medievale e moderna, la presenza in Germania di attive comunità e i problemi giuridici e politici che ne sorgevano, l’immediato e quotidiano confronto con il cristianesimo, soprattutto protestante, esigevano una presa di posizione articolata e coerente. Generalmente la religione nel contesto culturale europeo moderno veniva affrontata da due punti di vista contrapposti: la storia e la metafisica. Il primo metodo si basa su una raccolta sempre più vasta di materiali 2
Vedi anche H. COHEN, Schriften zur Philosophie und Zeitgeschichte, II, Berlino 1928, 270-302, dove il rapporto tra etica, religione e politica viene analizzato nell’introduzione all’opera di F.A. LANGE (1828-1875), Die Geschichte des Materialismus, uscita nel 1866 e riedita da Cohen nel 1914. Molti interessi scientifici, politici e religiosi di Lange vennero ripetutamente elaborati dal più giovane collega e successore a Marburgo.
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concreti e descrive l’aspetto pratico del fenomeno religioso. Il secondo intende la religione come rapporto con un’entità considerata come originaria ed assoluta. Il filosofo si dichiara insoddisfatto sia dell’una che dell’altra prospettiva teorica. Nè la raccolta empirica di dati antropologici, nè l’ipotesi ontologica possono essere considerate sufficienti in un teoria critica della ragione umana. Il soggetto umano alla ricerca delle condizioni essenziali della verità non la riconosce negli estremi apparenti dell’empiria e dell’ontologia. Essa scaturisce dalla propria autocoscienza, purificata sia dall’immediatezza categoriale sia dalla pretesa metafisica. La verità assume un carattere ideale, è un movimento infinito di purificazione e di universalizzazione, è un metodo più che un contenuto, un cammino dello spirito verso una meta irraggiungibile, non monopolizzabile, non riducibile ad un contenuto determinato. La logica come teoria generale della conoscenza ha condotto lo spirito umano ad una limpida coscienza di sè indipendente da ogni contenuto determinato. Piuttosto i singoli aspetti dell’esperienza devono essere destituiti della loro pretesa autonomia e introdotti in una visione universale, dove si generano le loro correlazioni reciproche. Tutto il campo infinito dell’essere acquista così un carattere dinamico, relazionale, privo di divisioni artificiali e di contrapposizioni. L’etica vuole accompagnare l’orizzonte della logica con azioni che corrispondano all’ideale della ragione. La storia appare come un terreno che sempre di nuovo deve essere percorso e che assume il suo significato più vero nelle scelte del presente e nella preparazione del futuro. La dignità morale dell’essere umano si compie nell’azione individuale e collettiva con cui la vicenda storica è fatta uscire dalla idolatria del dato e spinta verso una meta ideale. Qui incontra la religione, soprattutto nella forma che hanno conferito a questa esperienza umana il profetismo e il messianismo biblici. Sollevandosi oltre ogni determinazione parziale la visione profetica si è caricata della coscienza umana del limite e della necessità del suo superamento. Il linguaggio immaginoso della profezia biblica non voleva delineare una realtà ultraterrena, piuttosto indicava le esigenze più profonde ed universali di una storia soggetta alle illusioni, alle prepotenze, agli artifici. Queste apparenze fastose si sarebbero tramutate nella rovina, nella sofferenza e nella distruzione, ma proprio da questa negatività sarebbe sorta di nuovo la sfida della verità e della giustizia come esigenze di ogni essere umano. La
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limpidezza e l’universalità del pensiero logico, l’imperativo puro dell’etica vengono ammoniti dalla religione profetica a guardare concretamente la vicenda storica degli uomini, i loro fallimenti, il loro dolore. Non si raggiunge l’ideale senza un continuo passaggio attraverso la sua negazione, senza provare nelle più intime fibre la fragilità dell’umano, senza una continua conversione ed un superamento del presente. Qualora si ipotizzasse che la conformazione pubblica dello stato e la sottomissione alle sue leggi liberino l’individuo dalla sua debolezza morale, si correrebbe troppo presto verso una meta ben lontana «e l’etica ha imparato dalla religione che i profeti, in particolare Geremia ed Ezechiele, scoprirono in primo luogo l’individuo nell’autoriconoscimento del peccato. Ed anche se l’individuo deve alla fine superarsi nella totalità, egli deve, tuttavia ad ogni modo rimanere individuo nella totalità; certo un individuo della totalità, non dell’egoismo. E deve innanzitutto essere interamente giunto a prodursi l’individuo come tale, dal cui sviluppo egli continuamente dipende»3.
La responsabilità dell’individuo e la sua autonomia spirituale uniscono strettamente etica e religione. Come le prima non può chiudere l’essere umano in una struttura collettiva, così la seconda non deve costituire un’ evasione verso soluzioni immaginarie. L’una e l’altra propongono aspetti essenziali dell’esistenza che devono illuminarsi e compiersi simultaneamente. Così i concetti caratteristici della religione devono essere vissuti come un richiamo all’autonomia della coscienza, alla sua piena realizzazione. Oltre ogni ritualità ed ontologia le nozioni del divino e dell’umano si riflettono l’una nell’altra e si elevano a vicenda sopra ogni menomazione della libertà e dell’umanità cosciente di sè. Nell’ebraismo «la trascendenza di Dio significa la sufficienza dell’uomo per l’affermazione della sua umanità. Questa sufficienza si basa sulla moralità autonoma dell’uomo: essa è solo realizzata, non delimitata attraverso la meta a cui, come ogni attività umana, anche questa deve essere indirizzata»4. 3 4
H. COHEN, Il concetto di religione nel sistema della filosofia, Napoli 1996, 59-60. Ibid., 69.
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Il cristianesimo, sotto questo aspetto, condivide la tentazione del panteismo e fa partecipare il divino al travaglio spirituale dell’uomo attraverso una umanizzazione del concetto di Dio. L’ebraismo invece sottolinea il processo di liberazione di cui l’individuo è responsabile e lascia la redenzione come una meta finale ed ideale che attrae a sè senza confondersi con lo sforzo umano. All’uomo compete la lotta, non il possesso. Il filosofo percepisce nel protestantesimo moderno un processo di ritorno alla purezza del monoteismo ebraico, dove «la persona umana di Cristo è posta al centro del vivo travaglio della religione»5. Con l’affievolirsi della teologia trinitaria l’umanità storica ed etica del Cristo evangelico prende il sopravvento e si presenta come ideale di umanità proposto a chiunque prenda coscienza del suo isolamento, della sua indigenza, della sua fragilità, del suo desiderio di redenzione. Ognuno può ritrovare se stesso nella figura di Cristo, poiché «questa immagine ideale dell’individuo umano non è l’incubo della sua disperazione, ma l’immagine eroica della sua lotta contro i suoi limiti umani, trasfigurata però attraverso il suo confidare nella redenzione, che la illumina da oltre questi limiti dell’umanità: un confidare nel Dio della grazia e della redenzione; in un Dio che non è un uomo, ma tende la mano all’uomo peccatore, ed entra in correlazione con l’individuo umano»6.
Per la profezia ebraica la più grande sofferenza è costituita dalla povertà, anzi il vero individuo religioso è indicato come il povero. Qui la religione sollecita la coscienza morale a superare la solitudine egoistica dell’individuo e le condizioni culturali e sociali che giustificano o tollerano la povertà. Il tema del prossimo diviene essenziale e viene proposta una meta morale in cui siano eliminate le enormi ingiustizie testimoniate da tutta la storia umana. La religione d’Israele incontra le esigenze del socialismo e dà ad esse una giustificazione etica e religiosa basata sulla comune umanità: «Il concetto etico fondamentale è il rispetto, che fa riferimento soltanto alla dignità morale di ogni uomo; ma che non tiene affatto in conto se l’uomo è povero e misero, o ricco ed opulento. Deve però essere aguzzata la vista per queste distinzioni sociali. E la compassione è la lente che riduce questa 5 6
Ibid., 69-70. Ibid., 70.
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distanza rispetto all’uomo. E dove per una volta è subentrata la compassione, lì l’amore per gli uomini, deve sbocciare, foss’anche solo in sostituzione della compassione che è suscitata. L’amore per gli uomini è la forma religiosa dei rapporti sociali tra uomo ed uomo. E la povertà è il mezzo ottico per scoprire l’uomo come simile e così come un oggetto naturale dell’amore sociale per gli uomini»7.
Il pericolo delle astrazioni caratteristiche della logica e dell’etica cade di fronte alla sollecitazione religiosa, che richiama alla vita reale degli individui nella storia, nella politica, nell’economia, nell’incontro quotidiano tra esseri umani. La filosofia antica e moderna ha compiuto spesso il tentativo di elevarsi al di sopra della sofferenza. La religione dei profeti la richiama invece alla necessità di far proprio il dolore dei propri simili, di non isolare la coscienza spirituale dalle condizioni esistenziali, di sollevare il problema di una verità e di una giustizia di cui tutti siano partecipi nella concretezza dell’esistenza sociale. Un ulteriore aspetto del confronto tra il sistema della filosofia e la religione è costituito dall’estetica ovvero dall’analisi del sentimento. La logica pura intuisce una sfera intellettuale universale come ricerca infinita della verità oltre ogni suo conformazione determinata, come apertura dello spirito verso un orizzonte mai determinabile ma sempre presente. La volontà aspira una legge morale universale definibile come uguaglianza di tutti gli esseri umani. L’estetica concentra ulteriormente lo spirito verso la concretezza sensibile dell’amore, dove è inevitabile l’incontro ed il confronto con l’esperienza religiosa. Il prodotto estetico potrebbe rimanere chiuso nell’idealità dell’arte, se la religione non richiamasse alla vicinanza dell’essere umano e dei suoi limiti. Anche qui la sofferenza e la compassione costituiscono la sorgente prima della comunione tra esseri umani. Il sentimento puro dell’amore esce dai suoi confini ideali ed entra nella vicenda delle condizioni umane in cammino. L’individualità è la caratteristica fondamentale dell’uomo religioso: «Attraverso Dio l’uomo diventa un individuo assoluto. Ora egli non è responsabile più solo per l’umanità, e tanto meno nel senso che egli sarebbe solo inserito nella massa; egli si trova ora nell’intero grande mondo soltanto 7
Ibid., 81.
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Roberto Osculati per se stesso, sui propri piedi, poichè la sua testa raggiunge Dio e poi perchè, pensato con precisione, il suo concetto è connesso con quello di Dio. Questa individualità soltanto però rende l’uomo veramente uomo, non solo un’astrazione di un concetto d’uomo»8.
Anche nella prospettiva estetica questo è il grande contributo fornito dalla religione alla filosofia: tradurre le esperienze più generali dello spirito in coscienza viva di sè e simultaneamente dell’altro, di colui al quale è riconosciuta un’umanità simile alla propria: «Allora Dio diviene per così dire vivente, se l’uomo nell’immensità della sua sofferenza, è rappresentato come l’autentico oggetto dell’uomo religioso»9.
Qui appare la sublimità delle religione cristiana, spogliata del suo apparato mitologico, rituale e giuridico. L’individualità insieme concreta ed universale del Cristo si pone al centro dell’esperienza religiosa e conferisce ad essa il suo carattere più autentico: «La religione vivente, che deve giustamente liberarsi dalle sue origini storiche, insiste sul pensiero dell’unicità di Cristo, poichè l’individualità dell’anima umana può essere insegnata, in questo contesto della dottrina della fede, solo attraverso questo Cristo unico, solo attraverso Cristo in quanto l’unico. Egli è pensato come l’unico uomo che ha dischiuso la correlazione con Dio. La sua sofferenza testimonia la sofferenza dell’uomo, dell’uomo e non dell’ebreo o del samaritano; dell’uomo in quanto anima sola ed isolata dell’uomo, che non tanto deve garantire la legge morale dell’umanità sublime, quanto piuttosto deve rendere il concetto dell’uomo vivo e concreto nella sua immensa ed inesauribile sofferenza, che può trovare liberazione e redenzione solo al di là della sua viva individualità»10. 8
Ibid., 93. Ibid., 94. 10 L. c. L’attenzione del filosofo ebreo alla figura storica ed etica di Gesù ebbe un suo vivido parallelo nel collega evangelico W.Herrmann (1846-1922), dal 1879 al 1917 docente di teologia sistematica a Marburgo. In quell’università furono pure attivi originali esegeti neotestamentari come A. Jülicher e J. Weiss. Cfr T. MAHLMANN, Wilhelm Herrmann, in Theologische Realenzyklopädie, XVI, Berlino 1986, 165-172; H. SCHNEIDER, MarburgUniversität, in ibid., XXII, Berlino 1992, 68-75. 9
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Oltre alla riduzione della religione all’etica operata da Kant e dei residui metafisici della posizione di Schleiermacher, «noi abbiamo riconosciuto il sentimento religioso come compassione, come scoperta dell’uomo nella sofferenza, come scoperta dell’individuo nell’uomo sofferente, e come scoperta della sua correlazione con Dio, che è, per così dire, composta da questa sofferenza e compassione. In ciò consiste l’attività creatrice di questo sentimento religioso, di questa compassione per l’anima umana»11.
La correlazione tra l’uomo e il divino, fondamento dell’individualità, è raggiunta dall’uomo non nella sua grandezza, ma «nella corona di spine, aureola grazie a cui egli si scopre l’uomo della religione. La sofferenza dell’uomo è il carattere dell’individuo. E dalla sofferenza sorge la compassione»12.
Essa ha un carattere infinito, non può mai essere circoscritta o esaurita e rende davvero l’uomo figlio di Dio. Suo aspetto complementare, come l’hanno cantato i Salmi, è il desiderio di Dio, che è risposta alla compassione e sua testimonianza. La coscienza del dolore umano si costruisce davanti al divino assieme al desiderio del suo superamento. Ed anche qui il divino appare come garanzia spirituale del rapporto tra i poli estremi dell’esperienza umana: la sconfitta del dolore e la lotta contro tutte le sue dimensioni. I Salmi d’Israele hanno dato voce a questa dimensione individuale dell’essere umano alla ricerca della sua redenzione dalla sofferenza. Così l’etica dei profeti acquista l’accento commosso che cerca la redenzione dell’anima. La preghiera ne è la manifestazione più elevata, al di là dei riti sacrificali della legge, e diviene fiducia nel suo raggiungimento. L’approfondirsi dell’esperienza religiosa deve sempre guardarsi da una obiettivazione del divino, dal momento che la religione è esclusivamente una correlazione, un percorso infinito della coscienza di sè oltre se 11 12
Ibid., 95. Ibid., 99.
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stessa, ma alla ricerca della sua piena libertà ed autonomia. È una dialettica che diviene tanto più coinvolgente quanto ci si addentra nel suo dinamismo. Ma nello stesso tempo logica, etica ed estetica devono mantenere la loro indipendenza teorica. Anche qui si tratta di correlazioni, di prospettive che devono esser conservate nella loro azione reciproca: lo spirito umano nella sua ricerca senza soste è debitore a tutto se stesso nella molteplicità delle sue funzioni. Ognuna fa da prospettiva all’altra, ognuna può diventare il punto focale dell’attenzione, tutte devono essere rispettate nelle loro caratteristiche. Il rapporto tra la ragione e la fede, tra la filosofia e la religione implica una convergenza reciproca verso una meta infinita, dove tutto l’umano deve essere purificato dalle sue ombre e dai suoi limiti. Un’ultima prospettiva delle scienze dello spirito deve essere attribuita alla psicologia, anche se si tratta di una parte del sistema che il filosofo non ebbe modo di elaborare compiutamente. È in ogni caso un ulteriore passo verso la percezione viva della propria individualità ed anche qui il confronto con la religione si fa stringente. L’individuo vi si pone al centro con la coscienza della sua debolezza ed il desiderio di esserne liberato. Il divino appare come una garanzia di liberazione quale nessun essere umano e nemmeno la loro totalità può fornire. Sul piano psicologico il divino si fa “il mio proprio Dio” e questa esperienza è caratteristica della religione. Nel mondo contemporaneo la coscienza sociale si è fatta molto più viva che in passato, ma l’etica collettiva ha sempre bisogno di essere richiamata all’individualità e alla responsabilità personale13. Il dolore acuisce questa coscienza di sè e la rende capace di rappresentare l’itinerario di tutta l’umanità attraverso la sofferenza. La profezia del servo di Iahweh (Is 53) e il Cristo incoronato di spine indicano come questa condizione non sia sconto della colpa, ma tappa di un universale cammino attraverso la menzogna, la malvagità e la bruttezza. È il compito di ogni essere umano, che non vi può essere sottratto da nessuna idealità astratta e generale e che insieme raccoglie tutti in una comune fatica14. Ne scaturisce una filosofia della storia e una pratica di umanità da cui nessuno è escluso e che esige il rispetto per le diverse forme morali e religiose in cui opera. Appare inoltre il valore educativo della religione nei confronti della società attuale 13 14
Ibid., 116-119. Ibid., 124-132.
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sempre più bisognosa di libertà, dignità personale, impegno individuale e sensibilità collettiva.
3. FONTI DELL’EBRAISMO E RAZIONALITÀ UNIVERSALE Il 4 aprile 1918 Hermann Cohen muore a Berlino. Egli lascia un manoscritto, ormai quasi completo, in cui le fede d’Israele viene sottoposta ad un’accurata analisi filosofica. Il volume viene edito l’anno successivo a cura della moglie, Martha Cohen, e di un gruppo di amici. La lettura della Bibbia, soprattutto nella sua parte profetica e sapienziale, accompagna il tentativo di formulare in modo sistematico i contenuti religiosi del testo tradizionale. Nello stesso tempo il filosofo neokantiano della razionalità pura e trascendentale si dimostra un conoscitore appassionato della cultura ebraica dall’antichità ellenistica alle ricerche storiche del XIX secolo e alle discussioni recenti sulla natura dell’ebraismo. Egli vuole seguire, almeno in parte, le orme di Filone e, soprattutto, quelle di Maimonide e di altri pensatori ebrei medievali che accettarono le sfide della razionalità filosofica e scientifica del loro tempo. Convinzione fondamentale è che la simbologia religiosa ebraica nasconda, nel suo linguaggio narrativo, legale, liturgico, profetico o sapienziale, l’esigenza di una razionalità universale che deve essere messa in luce anche nella vicenda storica moderna ed attuale a vantaggio di tutte le genti. L’ebraismo doveva continuare ad essere e divenire sempre di più la profezia di un’umanità razionale, pacifica e felice, capace di volgere la sguardo oltre i meandri di una storia disseminata di menzogne, di sconfitte e di sofferenze. La fede dei profeti infatti si eleva progressivamente ad una visione universale dell’essere umano e il messianismo ne è la prospettiva ultima. Ognuno scopre se stesso nella sua uguaglianza ideale con il proprio simile. Nessuno è estraneo o nemico, ognuno è partecipe di una comune libertà e dignità. Questa prospettiva ultima della storia umana ne costituisce l’orizzonte ideale, che mette in luce le contraddizioni della storia, delle civiltà, delle religioni. All’interno del labirinto in cui si avvolgono le vicende dell’individuo, dei gruppi, dei popoli la religione che si è elevata alla visione profetica ha mostrato una meta ultima. Nessuno può monopolizzarla, definirla, limitarla: al contrario, tutto viene posto sotto giudizio, appare come
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lontano ed insufficiente. Nello stesso tempo l’esperienza umana viene sottoposta ad un dinamismo che la penetra, la sollecita, la attiva. L’ideale supremo di questa visione e pratica dell’umanità è caratterizzata dalla nozione del divino propria dell’ebraismo. Essa si contrappone al panteismo, che confonde l’ideale e le forme più limitate della realtà. Se tutto può essere divinizzato, elevato a regola, posto come termine autorevole dell’esperienza, si genera un capovolgimento totale. L’assolutezza e l’unicità del divino vengono oscurate dalla molteplicità degli dei, dalle costruzioni artificiose degli esseri umani che pongono nei loro templi esteriori ed interiori il prodotto delle loro mani. Allora qualsiasi arbitrio, qualsiasi mostruosità, qualsiasi depravazione possono essere giustificati. Non può essere accettata nessuna pretesa umana di definire il divino, di circoscriverlo, di obiettivarlo sia sul piano teorico sia su quello pratico. Attraverso questa nozione basilare della religione individui e civiltà delineano se stessi, la loro idea di umanità, la pratica che ne consegue. Il superamento che il profetismo compie dell’idolatria e delle concezioni tribali del divino innalza l’essere umano verso una verità e una giustizia supreme. L’universo dell’esperienza trova nell’unicità del divino il suo canone fondamentale. Esso designa la massima apertura dello spirito umano, il suo dinamismo più elevato, la meta ideale di tutta la storia. Il popolo ebraico, sottoposto alla distruzione del regno e del tempio, esule in terra straniera, piegato sotto la sofferenza, messo a contatto con altri popoli, ha approfondito all’estremo la sua religiosità e l’ha formulata nei termini più puri: tale è, nella sua essenza più profonda, la funzione d’Israele tra i popoli15. Proprio per questo motivo, storico e insieme ideale, dopo la distruzione dell’ultimo lembo dell’antico regno davidico e salomonico avvenuta ad opera dei babilonesi nel 586 a. C., Israele ha iniziato il suo difficile cammino tra le genti. Ha abbandonato le forme comuni della vita pubblica e si è dedicato alla sua testimonianza di un divino ideale cui corrisponde una prassi di umanità. Il culto del tempio si è trasformato nell’ascolto della parola profetica, che da secoli ammoniva Israele per scioglierla dalla sua illusione di ottenere un posto tra gli stati analogo a quello conquistato da altri. Il possesso di un territorio, la monarchia, la prosperità 15 H. COHEN, Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, Cinisello Balsamo 1994, 99-128.
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economica, la forza militare devono essere abbandonati per iniziare un cammino senza fine alla ricerca della verità, della giustizia e dell’amore che accomunino tutti oltre ogni divisione e contrapposizione. La figura del messia, quale si è andata elaborando nell’esilio babilonese ed assume la sua configurazione più limpida nella seconda parte del volume di Isaia, propone i tratti di un individuo che rappresenta tutto il popolo nel suo itinerario storico. La vita umana è sempre accompagnata da un enorme carico di sofferenza. La fedeltà al divino unico impone di portare il pesante fardello della cattiveria umana, della colpa e del suo castigo, della contraddizione in cui gli esseri umani continuamente si avvolgono. Il messia d’Israele rappresenta in maniera poetica tutto il popolo nella sua funzione di segnavia dell’umanità in cammino. Il male sembra trionfare, il giusto è sottoposto all’ignominia, al dolore, alla morte. Ma, nello stesso tempo la sofferenza è l’inizio della redenzione: quanto più essa si accanisce tanto più mostra la possibilità di trasformarla in testimonianza di libertà, di amore e di giustizia. Il giusto soffre ed accetta in silenzio il grave peso che gli è posto sulle spalle e sembra schiacciarlo, ma il suo animo guarda alla liberazione di tutti da questo orrendo destino di morte. Egli indica che la malvagità umana non può essere l’ultima parola, che c’è sempre una speranza oltre l’orrore del male. Israele esercita nella sua lunga storia di repulsione e di dolore anche questa funzione profetica a nome di tutta l’umanità. Come la fede libera dalle obiettivazioni del divino, dalle complicità delle teologie con l’arbitrio umano, così la sofferenza avvia oltre i limiti della sua immediatezza, è una tappa sulla lunga via della ricerca che gli esseri umani fanno di se stessi. Il giusto sofferente, anche se è travolto nella sua esistenza esteriore, insegna che ad ogni uomo appartiene anche la redenzione, la libertà dal male, la gioia16. Tutto ciò che è chiuso in categorie prefissate, obbligatorie ed opprimenti deve esserne liberato per costruire, in un processo infinito, la vera realtà dell’essere umano. Il realismo con cui è guardata la storia deve accompagnarsi ad un rigoroso idealismo che sa scrutare oltre ogni confine, ogni separazione, ogni esclusione una realtà completamente diversa. L’idea biblica del divino e la testimonianza messianica insegnano a guardare l’umanità con occhi preoccupati di trovare tutto ciò che accomuna gli esseri 16
Ibid., 358-433.
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umani tra loro. Oltre ogni forma di nazionalismo e razzismo, oltre ogni differenza di cultura e di società, l’etica dei profeti si fonda su un unico legame di somiglianza tra tutti gli esseri umani. La sofferenza, la libertà e la fede d’Israele devono condurre al riconoscimento dell’altro come simile a sè, poichè la legge si riassume nel comandamento dell’amore di Dio, vissuto con dedizione incondizionata, e in quello del prossimo, considerato come un altro se stesso. Le condizioni fondamentali dell’esistenza sono uguali per tutti, le esigenze naturali non si differenziano: ognuno è portatore della medesima umanità in qualunque condizione si trovi. Anche qui la fede d’Israele mostra il suo volto realistico ed insieme ideale. Gli esseri umani sono tormentati dalla disuguaglianza, dalla rivalità, dall’indifferenza. Sembrano chiusi in un mondo dominato dall’opposizione, dalla ferocia reciproca. Ma, come sempre, la religione deve liberarsi dalle complicità con tutto ciò che oppone gli esseri umani gli uni agli altri e deve diventare motivo di sensibilità, di collaborazione, di comunione, di uguaglianza. I richiami della legge e dei profeti diventano sempre più attuali nel mondo europeo tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX. Nei moderni stati industriali si sono create enormi ed artificiali ostilità tra esseri umani legati a strutture economiche e giuridiche opprimenti ed alienanti. Questa contrapposizione interna alla vita delle diverse società dell’Europa si rovescia nei rapporti tra stati e la guerra, che infuria proprio negli ultimi anni di vita del filosofo dell’universalità, ne è la più terribile dimostrazione. Occorrerà uscire anche da questa sciagura per guardare sempre di nuovo ad un’umanità ideale, al compito infinito di liberare se stessi da ogni tribalismo omicida. Così scrive il vecchio filosofo: «Anche se gli strazi della guerra non ci infuriassero intorno, già lo spettro della guerra, il mero pericolo della guerra, costituirebbe una contraddizione non solo contro la pace del mondo, ma anche contro la pace dell’anima. Noi non l’abbiamo, nessun popolo l’ha, non l’ha l’umanità finchè lo spettro dell’odio tra i popoli è l’autentico angelo di morte che percorre il mondo con la sua falce. Ma anche l’individuo non può ottenere la pace della sua anima senza l’assicurazione della pace mondiale. Il messianismo collega l’umanità con ogni uomo singolo. Per la mia propria pace ho bisogno della fiducia che l’odio tra i popoli venga eliminato dalla coscienza culturale dell’umanità. I popoli non si odiano. Ma l’avidità suscita invidia e avidità e invidia fanno
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balenare davanti agli occhi dell’uomo un’immagine illusoria che viene fatta passare per una forza dell’anima e che si presume dunque di accreditare come tale. Tutto l’odio è vano e senza ragione. Tutto l’odio non è che illusione, non è che reinterpretazione e abbellimento dell’umana bassezza costituita dall’avidità e dal suo affetto, l’invidia. Riconoscete come l’odio costituisca presso tutti i popoli l’inganno di una falsa psicologia popolare, riconoscete in una psicologia più profonda, illuminata dall’etica, che l’odio è un fattore falso della vita psichica, e la parte più gravosa del peccato cadrà dal cuore dell’uomo»17.
Anche la morte presenta un duplice volto, a seconda della condizione spirituale di cui fa parte: il dato obiettivo e biologico può essere considerato in una prospettiva universale e infinita in cui la vita continuamente riafferma se stessa oltre ogni limite categoriale. Essa si appoggia su una storia che ha le sue origini nella fede antica dei padri, si innerva, attraverso l’esperienza del presente nell’attualità dell’esistenza, si volge verso il futuro profetico e messianico della liberazione da quest’ombra cupa che grava sul mondo. L’immortalità è un ideale dello spirito, oltre ogni categoria calcolabile e prefissata. È un’energia che rinasce sempre nel cuore dell’essere umano, che vuole superare ogni limite al suo desiderio di verità e di giustizia18. Nella ricerca di una razionalità universale nascosta nel linguaggio immaginoso della profezia e della salmodia il filosofo individua i caratteri del protagonista del cammino spirituale verso la verità: l’individuo nell’intimità della sua coscienza. Alla profezia di Ezechiele viene attribuito questo scopo, che supera le usuali prospettive della vita comune e delle istituzioni politiche e religiose d’Israele. Il crollo di quanto sembrava costituire l’essenza dell’elezione d’Israele ha portato alla luce la necessità delle scelte personali. Il mondo spirituale si libera dalla sua adesione ad una strutture predeterminata ed emerge nella sua nudità. Nè le tradizioni nè i padri significano alcunchè sul piano della colpa e della giustizia, ma la decisione e l’azione che partono dal cuore del singolo. Non ci si può appellare ad alcun diritto predeterminato,nè si può recriminare su alcuna colpa compiuta da altri. Ognuno risponde di se stesso, ognuno è l’origine del proprio bene e del propriomale. Il destino che incomberebbe sull’essere umano è un’illusione assieme alla presunzione della giustizia. Queste fasi dell’esperienza 17
Ibid., 629-630.
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spirituale devono essere superate dalla coscienza di sè, dalla scelta inevitabile, dall’azione di cui si è la sorgente. Il divino si fa così esigenza di moralità soggettiva, ideale di un cammino personale e solitario di cui è giudice solo la propria coscienza oltre ogni riparo e giustificazione19. L’essere umano, benchè liberato da ogni sostegno esteriore ed immaginario, da ogni illusione tribale e mitica, non è abbandonato alla sua solitudine. La legge è guida del suo cammino con la molteplicità dei suoi suggerimenti, delle sue sollecitazioni, delle sua capacità di istruire, sorreggere e consolare. Non deve essere concepita come un peso gravoso, nè come una facciata ipocrita o una scenografia vuota. Essa non può sostituire la libertà e l’universalità dell’impegno morale. Piuttosto lo mostra, lo aiuta, lo sollecita, soprattutto nelle sue celebrazioni festive, in cui poeticamente si allude ad un universo di giustizia, amore e fiducia. La legge è il segnale che indica una realtà che la supera sempre, indica una meta, non la preclude nè la sostituisce. Anch’essa è gravida di un mondo futuro, così come, nel suo linguaggio apparentemente limitato ed esclusivo, contiene dovunque esigenze di umanità universale20. Neppure la colpa deve essere vissuta nei termini di un destino ineluttabile. Essa fa parte della fragilità dell’essere umano, della sua progressiva illuminazione e costruzione, di un cammino infinito dalle molte vicende. Le nozioni fondamentali della teologia ebraica relativizzano anche la peccaminosità dell’essere umano, che non deve mai perder la fiducia in se stesso, nella sua capacità di rialzarsi, convertirsi e camminare verso una metà ideale. La gravità della colpa non chiude mai la possibilità della redenzione ed anche qui bisogna guardarsi da ogni pensiero angusto, pessimista, lamentoso. La colpa è un aspetto dell’esperienza, un’ombra che l’accompagna sempre, ma non è mai il criterio sotto il quale racchiudere l’essere umano, chiamato piuttosto ad allargare le dimensioni del suo spirito, a liberarsi dalle illusioni, a non farsi abbagliare dalle apparenze. La religiosità indica la colpa e immediatamente mostra la sua debolezza e parzialità, la pone di fronte ad un ideale che la cancella nel più profondo dell’animo e ne fa una tappa provvisoria di un cammino infinito21. 18 19 20 21
Ibid., 434-487. Ibid., 268-283. Ibid., 488-530. Ibid., 284-357.
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L’individualità religiosa acquista la sua dimensione più intensa nell’esercizio della preghiera. L’animo vi supera l’appartenenza alle dimensioni scontate e parziali, in cui la vita concreta spesso si racchiude, per essere sempre di nuovo illuminato e guidato verso l’universalità dell’umano, di cui il rapporto con il divino è garanzia ed espressione. Le formule della preghiera biblica, in particolare della salmodia, assieme a quelle della tradizione rabbinica, nel loro linguaggio emotivo e poetico raccolgono l’esperienza del popolo e del singolo itineranti verso la meta ideale. Si tratta sempre di segnali posti lungo una strada, di simboli che richiamano ad un compito mai concluso, di formulazioni immaginose che fanno volgere lo sguardo del credente oltre ogni condizione mondana. La preghiera contiene a suo modo l’anelito verso un’ultima razionalità etica che elimini ogni residuo di menzogna e malvagità. Anche in essa la ragione e la fede si avvicinano, mentre le differenzia soltanto una modalità di espressione. Nell’una prevale l’apparente freddezza del linguaggio logico ed etico, nell’altra si mostrano la fantasia, il sentimento immediato, l’emozione. Ma sono ambedue dimensioni dell’unicità dello spirito umano alla ricerca del suo ultimo volto22. Giustizia, coraggio e fedeltà sono le traduzioni concrete dell’ideale religioso proposto dalle Scritture d’Israele. Chi si volge alla inesauribile e onnipresente trascendenza divina, sostenuto dai simboli che si sono andati raccogliendo in un plurimillenario cammino, sa anche procedere nelle vicende della storia concreta con forza, determinazione e coerenza. In ogni suo pensiero, in ogni sua azione esercita il supremo sacerdozio della continua liberazione dell’umano da tutto ciò che lo deforma e stravolge. L’etica concreta e quotidiana deve elevarsi al di sopra degli adattamenti e degli opportunismi, delle finzioni e delle delusioni, dello scoraggiamento e della rinuncia. Ognuno è coinvolto con tutto se stesso nella costruzione della propria individualità intellettuale e morale, nella testimonianza di un mondo purificato dal male, nella partecipazione ad una lotta totale tra realtà morali completamente opposte. Le ragioni della vita sono eternamente in conflitto con quelle della morte, la ragioni della verità contro quelle della menzogna, quelle dell’amore contro quelle dell’odio. Ogni minima scelta
22
Ibid., 531- 566.
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contribuisce a creare o distruggere un universo spirituale, sia nella propria individualità sia nell’umanità collettiva23. Molte volte nel corso della storia d’Israele la razionalità delle genti si è incontrata con i simboli religiosi e le tradizioni pratiche dell’ebraismo, che sono stati sfidati a condurre verso una coerenza ultimativa l’animo del credente. La cultura persiana, l’ellenismo neoplatonico dell’Egitto, il confronto con la scienza cristiana antica e medievale, il contatto secolare con la civiltà islamica, la razionalità dell’Europa occidentale moderna hanno costretto la fede dei padri a interpretare sempre di nuovo tutta la sua simbologia. Questo processo deve ripetersi nei confronti della cultura e dei problemi dell’Europa attuale. Anche in questa occasione Israele deve farsi testimone di razionalità universale, di umanità compiuta, di libertà collettiva. La tragedia della guerra in cui era precipitata l’Europa civile richiamava con rinnovato vigore la fede ebraica alle sue idealità, alla sua essenza più intima, alla sua testimonianza positiva in favore di ogni essere umano: «La pace è l’emblema dell’eternità e la parola d’ordine della vita umana, tanto nel suo comportamento individuale quanto nell’eternità della sua missione storica. In questa eternità storica si compie la missione di pace dell’umanità messianica»24.
Ecco l’augurio che M. Cohen rivolgeva ai lettori nella Prefazione del volume: «Anche questo ultimo, grande lavoro possa così operare nello spirito in cui mio marito lo ha scritto, nella fiducia incrollabile nella permanente forza vitale dell’ebraismo, punto culminante del quale era per lui il messianismo, per cui egli si sentì profondamente legato per tutta la vita ai profeti»25. 23
Ibid., 567-620. Ibid., 640. 25 Ibid., 50. Una raccolta di interventi del filosofo nel contesto della vita pubblica tedesca e sul ruolo della cultura ebraica nel mondo moderno è fornita da H. COHEN, La fede d’Israele è la speranza, Firenze 2000. Cfr in particolare L’idea del messia, in ibid., 61-84, steso probabilmente nel 1892. Lo stretto legame del pensatore neokantiano con la tradizione ebraica ed in particolare con M. Maimonide è sottolineato nel 1933 anche da E. CASSIRER, Hermann Cohens Philosophie der Religion und ihr Verhältnis zum Judentum, in Gesammelte Schriften, XVIII, Berlino 2004, 255-264. 24
L’ESSENZA DEL GIUDAISMO SECONDO FRANZ ROSENZWEIG
GIUSEPPE RUGGIERI*
Pierre-Jean Labarrière, a conclusione di una sua fine analisi del rapporto tra Rosenzweig e Hegel, rimprovera a Rosenzweig di essere incoerente nella sua critica a Hegel: anch’egli infatti non riesce a comprendere l’individuale e il contingente fuori di un sistema di pensiero e lo farebbe addirittura con minor coerenza di Hegel1. Non presumo di possedere una conoscenza di Hegel che si possa sia pure lontanamente misurare con quella del padre Labarrière. Ma ho il sospetto che gli sfugga una cosa: Rosenzweig non persegue infatti una comprensione dell’individuale, della vita e dell’evento fuori da un sistema, ma presume di mantenere mediante il pensiero stesso e il suo formalismo la trascendenza dell’esistenza rispetto ad esso. E persegue questo suo progetto ponendo il pensiero al servizio del linguaggio (è uno dei primi pensatori europei a costruire la sua filosofia sul linguaggio, ancor prima di Heidegger) inteso come matrice feconda del pensiero e primo rispetto ad esso, ma anche come espressione prima e insuperabile dell’esistenza storica2. E questo perché il “sistema” in Rosenzweig resta profondamente funzionale all’esistenza vissuta. Anche per comprendere la riflessione di Rosenzweig a proposito dei rapporti tra giudaismo e cristianesimo non si può prescindere quindi da questo *
Docente di Teologia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. P.-J. LABARRIÈRE, Le tout, le linéaire e l’impersonnel. Formes figées d’un hégélianisme haïssable, in La pensée de Franz Rosenzweig. Actes du colloque parisien organisé à l’occasion du centenaire de la naissance du philosophe, Paris 1994 (in seguito: La pensée), 123-136. 2 «Pour Rosenzweig, le langage n’est pas le véhicule de la pensée. Il est l’organe de l’existence, car, comme elle, il se déroule dans le temps et se manifeste à travers la rélation à autrui.»: ST. MOSÈS, Système et Révélation. La philosophie de Franz Rosenzweig, Paris 2003, 59. 1
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equilibrio tra esistenza e pensiero e, in maniera ancora più concreta, da due riferimenti: dalla biografia concreta di Rosenzweig e dal contesto formale del “sistema” in cui queste riflessioni vengono sviluppate. I due contesti sono profondamente intrecciati, giacché il formalismo del suo sistema è legato alla biografia più di quanto non si pensi.
1. NOTE BIOGRAFICHE Franz Rosenzweig nacque a Kassel il 25 dicembre 1886, da una famiglia dell’alta borghesia ebraica, assimilata. Del giudaismo, a partire dall’esperienza familiare, conosceva solo alcuni elementi del rituale. Si iscrisse dapprima in medicina, ma dopo sei semestri cambiò per la filosofia, prima a Berlino e poi a Friburgo dove diventa allievo di Meinecke. Scrive un libro (di cui un capitolo diventerà la sua tesi di dottorato nel 1912) sulla formazione del pensiero politico di Hegel, che sarà pubblicato nel 1920: Hegel und der Staat. Ma Rosenzweig non sarà un hegeliano. Ben presto egli si volge alla critica radicale del sistema hegeliano come pensiero della totalità che parte dall’identità di essere e pensiero e tende ad assorbire tutto nel pensiero. Da questo punto di vista egli va collocato filosoficamente all’interno di quel contesto spirituale e culturale che è segnato dalla Kierkegaard Renaissance in Germania, ma anche dalla critica al positivismo e dalla crisi del Kulturprotestantismus. Decisivi per l’evoluzione del pensiero di Rosenzweig furono alcuni incontri. Due cugini di Rosenzweig, i fratelli Hans e Rudolf Ehrenberg, si erano convertiti al cristianesimo. Ma più importante ancora fu l’incontro con Eugen Rosenstock, anche lui ebreo convertito al cristianesimo luterano, storico del diritto e attento alla necessità di una formazione culturale dei soggetti sociali (emigrerà negli Stati Uniti, dove insegnerà prima a Harvard e poi al Dartmouth College nel New Hampshire). Si incontreranno per la prima volta nel 1910 e poi a Lipsia nel 1913. Con lui Rosenzweig condivideva l’esigenza che la filosofia non si riducesse a un esercizio accademico, ma dovesse piuttosto prendere le distanze dal modo di pensare del secolo precedente assumendone al tempo stesso l’eredità, cercando di
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comprendere quello che nel frattempo era accaduto, una filosofia quindi che non fosse estranea all’esistenza, ma si traducesse in atti concreti, orientando la vita (come poi è stato per tutti e due che, della loro filosofia, hanno fatto uno strumento di educazione sociale). Rosenstock, convinto che l’ebraismo avesse ormai assolto alla sua funzione storica e che quindi non restava che convertirsi al cristianesimo, rimproverava al giovane Rosenzweig il suo “relativismo”, che in questo caso voleva dire l’equivalenza delle possibili scelte tra cristianesimo ed ebraismo. Egli per conto suo aveva già deciso, ravvisando ormai nel cristianesimo il futuro concreto del giudaismo, dopo che questo si era difatti dissolto con la scelta dell’assimilazione lungo l’Ottocento. Il 7 luglio 1913, dopo una conversazione durata una notte, Rosenzweig decide quindi di convertirsi al cristianesimo. La scelta in un primo momento non gli era sembrata particolarmente drammatica. Il suo giudaismo di prima era stato descritto da lui efficacemente in una nota di diario del 27 marzo 19063: «Su cosa fondo il mio giudaismo? I. È la religione dei miei padri […] II. Rispetto di buon grado alcuni usi, senza aver motivo reale per farlo […] III. Credo a Platone IV. Amo pensare attraverso le immagini della storia biblica. Di questi quattro pilastri, il primo è il più forte, il pilastro centrale . Il secondo è una corona dei pilastri che sopportano il peso del tempio su tutta la sua periferia. Il terzo e il quarto sono semplici ornamenti. Anche se in se stessi sono forti, in questo edificio non servono ad altro che alla decorazione».
Ma già nel 1909, in una lettera ai genitori che avevano mostrato ostilità nei confronti della decisione del cugino Hans Ehrenberg di farsi battezzare, aveva scritto: «Siamo cristiani in ogni cosa. Viviamo in uno stato cristiano, frequentiamo scuole cristiane, leggiamo libri cristiani. Insomma: tutta la nostra cultura poggia, dal principio alla fine, su fondamenti cristiani […] Nella Germania di oggi, è impossibile abbracciare (annehmen) il giudaismo. Si tratta solo di un giudaismo ottenuto per circoncisione, l’osservanza della Kaschrout4, la 3 4
Gesammelte Schriften 1, Martinus Nijhoff, Haag 1979, 37. Purità o impurità dei cibi.
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Giuseppe Ruggieri Barmitzwa5. Il cristianesimo possiede qui un vantaggio enorme. È stato escluso che Hans divenga giudeo. Invece è possibile che egli divenga cristiano. E, per farvi comprendere con quale serietà io parlo: è il consiglio che io stesso gli ho dato e lo farò ancora e ancora»6.
Dopo la notte del 7 luglio 1913, Rosenzweig aveva di fatto comunicato ormai ai suoi la decisione di convertirsi. Ma lo voleva fare con piena conoscenza di causa, cioè da giudeo e non da pagano. Per questo, di ritorno a Kassel partecipò alle feste del Nuovo Anno nella sinagoga e si recò a Berlino per celebrare lo Yom Kippur7. È lo stesso Rosenzweig a dirci che questa celebrazione ebbe su di lui l’effetto di una rivelazione. Ripensa conseguentemente la sua decisione e decide di continuare nella sua riappropriazione del giudaismo. Comincia quindi a seguire a Berlino le lezioni di Cohen che dalla fase neokantiana era passato, dopo Marburg, a insegnare a Berlino la filosofia del giudaismo alla Hochschule für die Wissenschaft des Judentums, diventandogli amico, mentre prima ne aveva ricusato la filosofia8. Gli effetti di questa decisione furono significativi per il suo filosofare: «Il primo, immediato, fu di ripensare il rapporto tra fede e filosofia e di proporre alla luce di questo pensiero nuovo una lettura inedita della storia della filosofia e della chiesa stessa (riprendendo in parte le categorie schellinghiane della Filosofia della rivelazione: chiesa petrina, chiesa paolina e chiesa giovannea) — stabilendo un’equazione inedita tra il paganesimo, il cristianesimo e le nuove esigenze della filosofia. Il secondo, una volta abbandonato il progetto di conversione, fu quello di rivalutare in questa
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Letteralmente: “figlio del precetto”. Conclude l’iniziazione del giovane a 13 anni, giacché ormai egli è tenuto all’adempimento di tutti i precetti, e per questo viene invitato a leggere a voce alta la Torah nella sinagoga. 6 Cit. 94-95. 7 Cfr NAHUM N. GLATZER, Frank Rosenzweig, his Life and Thought, New York 1961, 25 s. 8 Da Cohen Rosenzweig riceve copia del manoscritto che diventerà, postumo , nel 1919: Die Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums. Su Cohen vedi il saggio di Osculati in questo volume. Per l’influsso di Cohen su Rosenzweig, cfr ST. MOSÈS, cit., 43-47.
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prospettiva (e contro Rosenstock) la complementarità di giudaismo e cristianesimo, lungo un asse che era al tempo stesso teologico, storico e politico».9
Chiamato alle armi nella I guerra mondiale, dalle trincee macedoni invia le idee madri di quello che diventerà Der Stern der Erlösung sulle cartoline militari spedite alla famiglia. Sarà la madre a ricopiare quelle cartoline. Ritornato dalla guerra, redige l’intera opera in 5 mesi dalla metà di agosto 1918 alla metà di febbraio 1919. Il libro uscirà nel 1921 in poche centinaia di copie10. Editorialmente sarà un fallimento. Nel 1925, a sottolineare alcuni dei tratti salienti dell’opera, Rosenzweig pubblicherà Das neue Denken, scritto di riferimento per un’interpretazione adeguata della Stella11. Rosenzweig, coerente con il suo ritorno al giudaismo, lascia la carriera universitaria e si trasferisce a Francoforte dove prende in mano la già esistente Jüdische Volkshochschule che presto diventerà un’istituzione importante a cui Rosenzweig darà il nome di Freies jüdisches Lehrhaus. Ma deve interrompere presto la sua attività didattica diretta. Nel 1922 gli viene diagnosticata una paralisi progressiva degli arti che lo porterà anche alla sordità. Sono gli altri che debbono leggere per lui ed egli indicherà in una tavoletta le lettere da scrivere. Ma Rosenzweig non demorde, persegue vari progetti tra cui, importantissimo, quello della traduzione tedesca della Bibbia con Martin Buber. Muore nel 1929, prima che si scateni la follia nazista. Dopo aver preso visione de La Stella W. Benjamin scrisse a G. Scholem l’8 novembre 1921, le sue impressioni contraddittorie, allegando una copia dell’Angelus Novus di Paul Klee. Egli aveva di fatto, nonostante le sue perplessità, afferrato il carattere profetico del libro. Sul dipinto di Klee di cui accludeva la copia, diceva che non era fatto per essere
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M. CRÉPON, Présentation a F. Rosenzweig, Foi et savoir. Autour de l’Ètoile de la Rédemption, intr. trad. et annoté par G. Bensussan, M. Crépon et M. de Launay, Paris 2001, 12. 10 Qui si farà riferimento, se non detto altrimenti, alla traduzione italiana di G. Bonola: F. ROSENZWEIg, La stella della redenzione, Genova 1985. 11 Cfr la versione italiana, a cura di G. Bonola: Il nuovo pensiero, Venezia 1983.
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affisso alle parete della tana di un giudeo colto, ma che da parte sua l’aveva attaccato alle pareti della camera di suo figlio, sopra un esemplare dell’opera di Rosenzweig, e ogni mattina contemplava questo angelo che resta pensieroso e «lo resterà fino a quando questo libro infine verrà compreso»12. La migliore introduzione alla stella della redenzione è per comune riconoscimento, quella di Stéphane Mosès, Système et Révélation. La philosophie de Franz Rosenzweig, di cui esiste adesso la II ed. rivista e corretta, pubblicata a Parigi nel 2003. Io però, pur attingendo ampiamente a Mosès, per cogliere la struttura dell’opera, preferisco scegliere, come suggeriva Ricoeur al congresso organizzato per il centenario della nascita di Rosenzweig, una lettura a ritroso, seguendo uno schema inverso a quello di Rosenzweig, non tanto per un intento didattico, ma proprio perché le considerazioni su giudaismo e cristianesimo dominano l’ultima parte e da lì è più facile collocarle nell’insieme del pensiero di Rosenzweig. Non posso tuttavia omettere una considerazione sul “formalismo” del sistema che soggiace alla Stella.
2. IL FORMALISMO DEL SISTEMA13 L’ultima parte de La stella della redenzione porta un titolo particolare: Die Gestalt oder die ewige Überwelt: La figura ovvero l’eterno sovra-mondo14. Sotto questa dicitura ci sta l’immagine della stella di Davide, fatta da due triangoli che si incrociano essendo raffigurati uno con 12
Cit. sec. B. DUPUY, Présence de Franz Rosenzweig, in La pensée, cit., 15-16. In questa parte della mia presentazione seguo molto da vicino P. RICOEUR, Lecture di Franz Rosenzweig, in La pensée, cit., 25-42. 14 P. RICOEUR, cit., 29-30, precisa bene il senso della Gestalt, collegandola alla “figura” di Auerbach. Gestalt non equivale a “immagine” (Bild), impossibile nella tradizione iconoclasta giudaica. Ma nemmeno è il typos, secondo l’ermeneutica cristiana, per cui il typos applicato all’AT diventa sinonimo di ombra. Più utile invece il rapporto con la Vorstellung e il Begriff di Hegel, la cui dialettica è ripresa da Rosenzweig in quella di Gestalt e speculazione. Ma per Rosenzweig la speculazione è dall’inizio alla fine metaforica e viceversa la metafora è totalmente speculativa. Sempre Ricoeur ipotizza che la scelta del termine Gestalt sia dato dall’identità di figura e viso, come appare da La stella, 452-453. 13
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la base in alto e l’altro con la base in basso : la figura del sovra-mondo. Già questo ci avvisa che tramite la stella di Davide, l’esistenza ebraica fa parte essenziale del sistema e di fatto l’ultima parte del libro è dedicata al rapporto tra giudaismo e cristianesimo e al rapporto di entrambi alla figura della verità, che non dimentichiamolo, resta per Rosenzweig un evento a venire, qualcosa che viene dal futuro e non dal progresso della storia. Il cammino che porta alla redenzione è rappresentato dalla figura della stella. Cosa raffigura la stella? Il primo triangolo non è un vero e proprio triangolo, esso è fatto piuttosto da tre punti che non sono raccordati: Dio al vertice, il mondo e l’uomo agli angoli bassi. Questi tre punti rappresentano la pluralità irriducibile in cui si risolve la composizione del sistema nella prima parte dell’opera, in cui si descrive la realtà metalogica e metaetica previa a ogni esperienza esistenziale e che noi possiamo solo dopo, a partire dell’esistenza sperimentata, ricostruire mediante concetti. Essi costituiscono un assemblaggio impossibile. Essi sono infatti le punte della realtà elementare sulla quale si costruisce, grazie al linguaggio, l’esperienza dell’esistenza. Al secondo triangolo è essenziale incrociare il primo, giacché esso raffigura i tre legami non identitari che impediscono che i tre filosofemi (Dio-nascosto, mondo autosufficiente, uomo chiuso in se stesso), raggiunti dopo l’esperienza dell’esistenza, restino separati, nella pura autoreferenzialità che li contraddistingue. Questi legami che istaurano il nesso sono rispettivamente creazione, rivelazione, redenzione. È il vertice basso del secondo triangolo, la redenzione, che fornisce il filo conduttore del terzo libro, quello dedicato alla duplice eternizzazione del sovra-mondo mediante la vita giudaica e la via cristiana, che rappresentano il processo utopico in cui consiste la redenzione. La stella esprime anche una precisa epistemologia. Alla sua base c’è un assunto polemico contro la teoria della conoscenza idealista, che presuppone l’identità dell’essere e del sapere. Il sapere dell’uomo è vero se lascia emergere la trascendenza dell’esistenza concreta rispetto allo stesso sapere mediante cui l’uomo la coglie. Conseguentemente, Rosenzweig sostiene che il mondo esiste indipendentemente dal sapere e prima di esso
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e che esso si offra all’intuizione originaria come realtà metalogica, come un dato elementare dotato di propria evidenza. La conoscenza razionale non è costitutiva della realtà; essa non svolge alcuna funzione trascendentale e il suo ruolo si riduce soltanto a decifrare a posteriori le implicazioni della nostra presa intuitiva della fatticità del mondo. «L’epistemologia di Rosenzweig, vale a dire l’insieme dei mezzi utilizzati per decifrare la realtà, dovrà quindi fondarsi su un sistema di segni che non siano costitutivi della realtà. D’altra parte però questi segni non possono essere assolutamente arbitrari, se si vuole cogliere la realtà: tra la realtà e i segni che la descrivono deve darsi una certa adequazione»15.
I segni sociali, cioè le forme collettive della vita religiosa, si riferiscono ad una realtà ideale che non esiste ancora e della quale non sono che approssimazione, o piuttosto un’anticipazione. La comunità religiosa incarna da oggi, ma sotto una forma limitata e particolare, la realtà utopica del mondo riconciliato. Lo statuto del segno sociale è esattamente l’inverso di quello del segno matematico: qui è il segno (l’insieme delle forme della vita religiosa) che è dato all’esperienza, mentre il referente (il mondo della redenzione) è un irreale che si situa da qualche parte nel mondo a-venire. Per il fatto stesso che esso può essere vissuto solo per anticipazione, può essere rappresentato (può essere cioè presente alla conoscenza) solo attraverso la mediazione di un sistema di segni già visibili, quello delle figure della vita religiosa collettiva16. Secondo la felice espressione di Ricoeur, la «verità eterna è il punto di fuga verso cui convergono le due modalità di eternizzazione dell’esperienza, figurate dalla vita e dalla via, dal fuoco e dai raggi […] la verità eterna non è un Altrove Assoluto, ma l’intento immanente alla vita giudaica e alla via cristiana»17.
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ST. MOSÈS, cit., 151. ST. MOSÈS, cit., 153. Cit. 28.
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3. GIUDAISMO E CRISTIANESIMO Giudaismo e cristianesimo sono raffigurati rispettivamente dalla vita e dal fuoco, dalla via e dai raggi dell’espansione del fuoco. Il giudeo, o meglio il popolo giudaico, non ha bisogno di convertirsi, esso è tale per generazione. Il cristiano invece deve diventare tale, per conversione. Il giudeo è fuori dalla storia, ma ne prefigura, senza poterla rendere compiutamente presente, la redenzione futura. Il cristiano è colui che invece si immerge nella storia per mutarla, ma senza poter esaurire il suo compito. Giudaismo e cristianesimo sono quindi vicendevolmente irriducibili, ma convergono utopicamente. Rosenzweig oppone chiaramente da una parte il tempo cronologico e il progresso di questo tempo, a favore, dall’altra parte, di un tempo che durerà, un tempo immobile, ma che è possibile sperimentare da una parte come esistenza giudaica e dall’altra come esistenza cristiana. Il giudeo lo fa separandosi dalla storia delle nazioni con la loro cultura e la loro politica, per organizzare la propria vita attorno alla Torah immutabile e ricadendo per ciò stesso nella particolarità. Il cristiano procede invece alla sospensione del mondo mutevole lavorando all’interno della storia, per innalzarla al di sopra di se stessa, mediante l’espansione della confessione cristiana: la vita eterna viene resa presente nella separatezza giudaica, la via eterna nella conversione cristiana. Tutto ciò viene da Rosenzweig esplicitato attraverso un esame dei rispettivi rituali, come esplicitazione del linguaggio giudaico e cristiano, quale si esprime nelle feste che attraversano il tempo di Dio, del mondo, dell’uomo (le tre punte del triangolo). Rosenzweig infatti è un filosofo del linguaggio, non perché costruisca una teoria del linguaggio, ma perché tutta la sua riflessione è un’esplicitazione di ciò che è portato già nel linguaggio, dalla sua struttura grammaticale e sintattica per un verso, alle metafore contenute nel linguaggio concreto per altro verso. Egli è al di qua del linguistic turnpoint, della considerazione del linguaggio come organo del pensiero e non più soltanto come espressione del pensiero.
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4. LA SPECIFICITÀ DEL POPOLO GIUDAICO18 Come ogni società di tipo tradizionale il giudaismo vive nel tempo distinguendo tra tempo profano, considerato luogo dell’effimero, e tempo sacro che rappresenta il mondo dell’immutabile e dell’essenziale. Ma mentre gli altri popoli vivono il tempo sacro come un ritorno degli eventi fondatori primordiali, il giudaismo riattiva gli eventi fondatori (creazione, liberazione del popolo etc.) non per risuscitare il tempo primordiale, ma per anticipare il tempo escatologico. L’anticipazione è quell’esperienza mediante la quale l’avvenire vive in seno al presente, senza essere annullato o assorbito in esso. Nel sistema di Rosenzweig questa anticipazione può accadere solo attraverso i segni della liturgia. Rosenzweig distingue in negativo il popolo giudaico da una comunità spirituale e da una nazione. Il popolo giudaico non solo è una comunità di sangue, ma una comunità di sangue che si perpetua per generazione. Mentre la comunità spirituale vive e muore con la nascita e la morte dei suoi valori, nella comunità ebraica la trasmissione dei valori passa non solo attraverso il rapporto tra maestro e allievo, ma ancor prima attraverso il rapporto tra padre e figlio. Ma il popolo giudaico non è nemmeno una nazione. Mentre gli altri popoli (nazioni) hanno un legame essenziale con un determinato territorio, il popolo giudaico è senza terra (320-322). Mentre gli altri popoli posseggono una lingua propria che loro fanno evolvere, il popolo ebraico non parla la propria lingua, ma quella degli altri popoli. La lingua serve solo per pregare. Il popolo giudaico non è solo esule dalla propria terra, è anche esule dalla propria lingua (322-324). E anche il rapporto con la legge impedisce al popolo giudaico di essere uguale agli altri. Alla legge il giudeo si può sottrarre, ma non la può cambiare. Gli altri popoli fanno le loro leggi, nel popolo giudaico regna una legge che nessuna rivoluzione può abrogare (324-326). Ma proprio perché si rapporta alla propria terra come ad un sogno, alla propria lingua come ad un ideale, alla propria legge come ad un mito fuori dal tempo, attraverso tutte questi oggetti del proprio desiderio, il 18 Da qui in avanti saranno indicate tra parentesi nel testo le pagine dell’edizione italiana de La stella.
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popolo giudaico ha di mira l’assoluto della terra, l’assoluto della lingua e l’assoluto della legge. Questa esistenza autonoma permette al popolo di creare il suo tempo specifico. Nella misura infatti in cui il popolo giudaico è privo di ogni realtà politica, o meglio vive la propria realtà politica sul registro della nostalgia o dell’utopia, la sua temporalità specifica è differente da quella degli altri popoli. Ecco perché i momenti che la scandiscono nella liturgia non si riferiscono tanto ad eventi storici nella loro temporalità irrevocabile, quanto ad articolazioni paradigmatiche della redenzione. Ogni festa che evoca un evento fondatore non lo evoca per commemorarlo, quanto per affermare la permanenza del suo significato, lo evoca cioè come paradigma. Il tempo rituale del giudaismo è strutturato secondo le tre categorie della creazione, della rivelazione e della redenzione: il sabato è la festa della creazione (332-338); la Pasqua, la festa delle Settimane e la festa delle Capanne si riferiscono alla rivelazione (338-345); La festa del nuovo Anno e il giorno dell’Espiazione si riferiscono alla redenzione (345-350).
5. CREAZIONE Il sabato ricorda la fine del processo creativo. Il sabato dell’uomo riflette il sabato di Dio. Il ritorno regolare del sabato fonda la creazione. A differenza della festa del Nuovo Anno che inaugura un tempo sacro sulla misura dell’intero anno e lascia quindi scorrere in maniera indifferenziata — se non ci fosse il sabato — il tempo storico, il sabato proietta il tempo sacro nell’esperienza di tutti i giorni. Sta qui principalmente la sua funzione ed è per questo che nella sua struttura rituale contiene non solo la creazione, ma altresì la rivelazione e la redenzione. La creazione infatti contiene virtualmente tutta la realtà. Così la liturgia della sera che introduce al sabato è centrata attorno al tema della creazione, allo stesso modo della benedizione sul vino e sul pane (in quanto frutti della terra e prodotti dell’attività umana). La preghiera del mattino che mette in evidenza il tema della
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rivelazione, culmina nel ricordo dell’elezione di Israele, del dono della Legge e dell’eternità del popolo giudaico. E la preghiera del pomeriggio, on la benedizione che chiude il sabato, e afferma il principio della distinzione tra sacro e profano, si riferisce alla redenzione anticipata appunto nel tempo sacro. La struttura rituale del sabato ne fa quindi una sorta di archetipo del mondo ideale della redenzione. «Questo è infatti l’ultimo punto: conformemente alla sua istituzione il sabato era innazitutto memoria dell’opera dell’inizio, e come tale era saldo, durevole fondamento dell’anno liturgico. D’altra parte per la sua stessa istuituzione, pur all’interno della creazione, era già il primo segno della rivelazione; infatti è qui, velato nelle parole dell’istituzione del sabato, che compare per la prima volta nella scrittura, il nome rivelato di Dio. Ed infine proprio per il fatto che esso è entrambe le cose, segno della creazione ed insieme prima rivelazione, esso è anche e soprattutto l’anticipazione della redenzione. Infatti che altro sarebbe la redenzione se non questo: che la creazione a la rivelazione vengono a riconciliarvisi? E quale sarebbe la prima indispensabile concezione preliminare di tale riconciliazione se non il riposo dell’uomo dopo aver compiuto il suo lavoro nel mondo?» (335).
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RIVELAZIONE
Nella Pasqua, attraverso il racconto dell’uscita dall’Egitto e la ripetizione annuale del pasto rituale (che segnò la notte dell’Esodo), l’assemblea dei convitati si trasforma in comunità fraterna e partecipa alla rigenerazione del popolo tutto intero. Infatti ciò che distingue la cena di Pasqua dalle altre cene, è che essa non solo serve ad una rigenerazione organica o sociale della comunità, ma anche alla rigenerazione del popolo sotto la forma di un rinnovamento del senso, giacché in questa cena tutti gli elementi della convivialità sono ritualizzati e dotati di senso. Non basta dire che il pasto è un rinnovamento, giacché è il rinnovamento stesso il tema del pasto. La seconda festa della rivelazione è Shavuot o festa delle settimane, giacché ha luogo 7 settimane dopo la Pasqua. Di per sé sarebbe il rito della presentazione dei primi frutti al tempio, ma una tradizione rabbinica identifica la data con quella della consegna della Torah. Nella serie delle tre
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feste attraverso le quali il destino collettivo degli ebrei nel deserto si trasforma in una storia archetipa, essa segna la tappa centrale, quella in cui il popolo prende coscienza della sua vocazione spirituale, prima di vivere questa vocazione nei 40 anni di pellegrinaggio nel deserto. Si tratta della festa della rivelazione per eccellenza. Infatti così come a livello individuale la rivelazione è l’istante in cui si costituisce la persona come un io di fronte ad un’alterità assoluta, ma anche in cui Dio si limita esistendo solo nell’affermazione che l’io umano fa di lui, allo stesso modo Dio si rende presente limitandosi nella fede del popolo, attraverso un’esperienza mistica collettiva. La terza festa della rivelazione è la festa delle capanne (Succoth). Per un verso commemora la fine della messe per altro verso le tende in cui il popolo soggiornava nel deserto, il riposo dopo il lungo cammino. La capanna che ogni giudeo deve costruire, nella quale stare lungo i 7 giorni della fede, o almeno nella quale prendere i pasti, crea uno spazio sacro all’interno del quale vivere in un’anticipazione metaforica la redenzione finale. Ma al tempo stesso la capanna manifesta il carattere effimero di ogni soggiorno umano, di ogni istituzione, l’impossibilità di raggiungere un compimento assoluto della storia. Lasciando la sicurezza della casa per un riparo precario, il giudeo afferma il valore creativo dello sradicamento, la necessità permanente di negare il dato in nome dell’utopia. «Il popolo non può indugiare sotto le ombre protettrici del Sinai con cui Dio lo avvolse perché fosse solo con lui. Il popolo deve uscire dalla nascosta solitudine a due con il suo Dio e spingersi nel mondo, deve intraprendere la traversata del deserto, di cui la generazione vivente che stava ai piedi del Sinai non vedrà più la fine; soltanto una generazione successiva, compiuta la traversata del deserto, troverà riposo nel santuario divino della patria» (341).
La serie delle 3 feste, per quanto possa essere archetipa, dà tuttavia origine ad un processo storico, il paradigma di una successione di cui la redenzione è sempre il termine ultimo. «La festa delle Capanne, benché festeggi la redenzione foriera di riposo, è però ancora la festa della peregrinazione nel deserto: nelle feste della comune appartenenza del popolo nel pasto comunitario, come anche in
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Giuseppe Ruggieri quelle dell’ascolto comunitario, l’uomo non è ancora inserito nella comunità dell’ultimo silenzio. Oltre la semplice fondazione della comunità nella parola comunitaria e oltre la sua semplice realizzazione nella vita in comune dev’esserci un livello ancora più alto, dovesse pure trovarsi ai confini più estremi della comunità e costituire una comunione al di là della vita comunitaria» (343).
7. REDENZIONE Capodanno (Rosh hashanah) e giorno della riconciliazione (Versöhnung: Yom Kippur) nella tradizione ebraica vengono chiamati giorni terribili/violenti (gewaltige Tagen, yama’im nora’im), non hanno riferimento ad eventi storici, non si rivolgono al popolo in quanto tale, ma al giudizio che pende su ogni singolo uomo e per questo nella tradizione rabbinica vengono chiamati giorni terribili. Nessuna sintesi da parte dell’interprete può raggiungere qui la forza espressiva delle pagine che Rosenzweig consacra ai “giorni terribili”, specialmente la pagina 348 che trascrivo quasi per intero: «Un segno perfettamente visibile stabilisce saldamente questa tonalità fondamentale dei “giorni terribili” per tutta la loro durata, e cioè il fatto che per il singolo essi inseriscono l’eterno direttamente nel tempo. In questi giorni l’orante indossa la sua veste funebre. Senza dubbio già nel rito quotidiano l’istante in cui viene indossato il mantello di preghiera (clamide e toga del costume antico) richiama il pensiero all’ultima veste ed alla vita eterna, in cui Dio avvolgerà l’anima nel suo mantello. Così anche dal quotidiano e dal sabato che ricorre ogni settimana, proprio come avviene al momento della creazione, un raggio di luce viene a cadere sulla morte come coronamento e meta della creazione. Ma l’abbigliamento funebre completo […] non è un abito di tutti i giorni; per la creazione la morte è soltanto un estremo, un confine, non viene vista in se stessa. Solo la rivelazione sa, e lo sa come suo primo sapere, che l’amore è forte come la morte. E infatti il singolo porta già una volta nella vita la sua veste funebre completa: sotto il baldacchino nuziale, subito dopo averla ricevuta, nel giorno delle nozze, dalle mani della sua sposa. Infatti solo con il matrimonio egli diviene membro del popolo a pieno titolo; non a caso alla sua nascita suo padre prega che possa essergli concesso di educarlo alla Torah, al baldacchino nuziale ed alle buone opere. La Torah, apprenderla ed attenervisi, è il fondamento
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sempre presente di una vita ebraica; il pieno realizzarsi di questa vita comincia con il matrimonio, solo qui sono davvero possibili le “buone opere”. Anzi solo l’uomo ha bisogno della Torah come suo fondamento cosciente; alla nascita di una figlia il padre aveva pregato soltanto di poterla condurre al baldacchino nuziale ed alle buone opere; infatti la donna possiede questo fondamento della vita ebraica anche senza il cosciente rinnovamento dell’“apprendere”, necessario invece all’uomo, che è meno saldamente radicato nella terra del “naturale”. Infatti per un decreto antico del diritto è lei che perpetua il sangue ebraico: non solo il figlio di due genitori ebrei, ma già il figlio di madre ebrea è, per nascita, ebreo».
Considero questa pagina esemplare, dal punto di vista del metodo, per comprendere il giudaismo di Rosenzweig. Esso è il rito, giacché è il linguaggio rituale (gesti e parole) che fa la comunità e il pensiero sulla specificità della comunità non può che essere esplicitazione del rito. Leggendo queste pagine io ho avuto la stessa sensazione che poi ho ritrovato nei romanzi di Chaim Potok, soprattutto L’arpa di Davita. Il popolo ebraico, forse unico tra i popoli della terra, ha questa possibilità di ricrearsi continuamente nei suoi riti e di trovare lì la propria identità. Il rito non annulla la storia, ma la filtra e l’assume in un significato che, per quanto “simbolico”, non è meno reale.
8. TEOLOGIA POLITICA Certo, Rosenzweig si è posto con grande lealtà di fronte all’esistenza e ne ha colto l’irriducibilità al sapere — e per questo fu fondamentale anche la sua esperienza in guerra — ma in qualche modo prescinde dalla storia, quella collettiva, persino del proprio popolo. Dopo la descrizione della liturgia ebraica Rosenzweig sviluppa una sorta di teologia politica del giudaismo. È innegabile la sensazione che questa teologia sia “dedotta” dalla dimensione rituale. Egli affida infatti al cristianesimo il compito di accompagnare le nazioni nel loro cammino storico fino al punto in cui esse saranno talmente mature da saper riconoscere nell’esistenza collettiva giudaica il modello già realizzato di un’umanità ideale. L’idea messianica si trova così divisa in due aspetti, uno paradigmatico incarnato nel popolo giudaico e l’altro storico rappresentato dal cristianesimo.
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La differenza tra la storia quotidiana e il sacro non è temporale ma qualitativa. Nel giorno della riconciliazione l’anima accede all’assoluto con un salto: ma questo salto qualitativo non è sufficiente a portare in questo mondo la redenzione. L’esperienza parossistica del giorno della riconciliazione è effimera; essa sospende il tempo, ma non l’abolisce. Essa inoltre resta limitata all’individuo che la sperimenta, al massimo alla comunità. Non bisogna tuttavia dimenticare che se il popolo giudaico è sottratto interamente alla storia, per Rosenzweig la storia è quella hegeliana. Infatti per lui la storia universale è quella dell’apparizione e della scomparsa degli stati, per cui un popolo che aspira all’eternità deve essere estraneo a questa storia, non può essere uno stato come gli altri. Ma questa storia, che nella guerra del 1914-1918 sembra aver confermato il pensiero di Hegel, della storia come un affrontarsi degli stati, si condanna da sé. E così è sempre Hegel che dà al cristianesimo un ruolo centrale in quanto ruolo metastorico: «Con la sua tendenza a realizzare la ragione, il cristianesimo rappresenta per lui (Hegel) l’archetipo della riconciliazione tra realtà e razionalismo»19.
Ecco perché per Hegel la cristianità e lo stato incarnano da 18 secoli l’inizio della fase ultima della storia. Giacché Rosenzweig mutua da Hegel questa visione della storia, per lui la storia del mondo occidentale, diventa una storia essenzialmente cristiana. Il giudaismo rappresenta un’alternativa a questa storia. Ciò che Rosenzweig descrive è quindi l’essenza del giudaismo non la sua storia. Lo si può vedere sia nel giudizio sulla guerra e il popolo giudaico attuale (La stella, 354), sia nel giudizio sul sionismo che egli prima rigetta, ma poi relativizza20.
19 20
Hegel und der Staat, Aalen 1962, cit. qui secondo ST. Mosès, cit., 204. ST. Mosès, cit., 209.
EBRAISMO E CRISTIANESIMO IN EMMANUEL LEVINAS
GIUSEPPE SCHILLACI*
1. ATENE O GERUSALEMME? Le radici ebraiche costituiscono la matrice implicita, ma non occulta, del pensiero filosofico di Levinas. Ci troviamo dinanzi ad un filosofo che certamente non nasconde la sua identità religiosa. La sua riflessione è essenzialmente filosofica che non prescinde tuttavia dalla ispirazione religiosa; una riflessione filosofica, da inquadrare sicuramente nell’ambito del pensiero neoebraico, che tende nondimeno a manifestarsi senza però una specificazione identitaria, per pudore quasi di schiacciare, omologando, la pretesa filosofica del suo dire. Ci troviamo dinanzi un pensiero che attinge ad una doppia sorgente: l’ebraismo e la filosofia. Un pensiero che si dibatte tra Atene e Gerusalemme1. Se si vuole lo si può definire un pensiero agonico, un pensiero in lotta! La tentazione è grande, ci suggerisce Marie-Anne Lescourret2, di comparare Levinas a Maimonide e non solo. Due filosofi che hanno tentato di conciliare ebraismo e pensiero greco. Entrambi hanno attribuito alla Bibbia e al Talmud un posto di rilievo nella loro opera, eppure si presentano *
Docente di Filosofia, Ontologia e Etica, presso lo Studio Teologico S. Paolo di
Catania. 1
Cfr TERTULLIANO, De praescriptione haereticorum, VII, 9 in SCh 46, 98: «Che cosa hanno in comune Atene e Gerusalemme? Che cosa l’accademia e la chiesa?». 2 Cfr M.-A. LESCOURRET, Emmanuel Levinas, Paris 1994, 178: «Est-il un penseur juif, un juif penseur? Occupe-t-il dans l’histoire de la pensée juive, dans l’historie de la philosophie une place comparable a celle de Maimonide, de Hermann Cohen, de Franz Rosenzweig? Son judaïsme est-il pur de toute philosophie, sa philosophie pure de tout judaïsme? A-t-il vraiment cherché à les séparer comme il a séparé ses textes talmudiques des ses autres publications, ou bien a-t-il souhaité créer une nouvelle interface entre le monde grec e le monde juif, Aristote et la Bible, à l’instar de Maimonide?».
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Giuseppe Schillaci
come filosofi. La Scrittura entra decisamente nel percorso filosofico dei due e diventa pure oggetto di citazione. Se da una parte, dunque, è vero che Levinas si presenta essenzialmente come un filosofo, d’altra parte è anche vero che egli fa trasparire, tra le righe e a più riprese, l’ispirazione ebraica del suo pensiero. La Bibbia e il Talmud non vengono tuttavia utilizzati come argomento di autorità, come verità rivelata, ma come testi che sollecitano un pensiero e lo impegnano. Possiamo dire che, tali fonti vengono considerati come testi che impegnano un pensiero e non una fede, non vincolano obbligando, dunque, il suo credere. Anche perché sostanzialmente, secondo Léon Askénazi, la nozione di credenza, di fede, è piuttosto di origine cristiana e non ebraica: «la differenza tra l’esistenza ebraica e l’esistenza cristiana, è che l’esistenza cristiana è un’esistenza di credente, mentre l’esistenza ebraica è un’esistenza di esistente»3.
Il rapporto già complesso nel pensiero di Levinas tra filosofia e ebraismo ci mette in guardia da una facile semplificazione tra ebraismo e cristianesimo. Alla domanda di H. Philipse: «Qual è la relazione tra la religione e la filosofia e tra la sua religione e la sua filosofia?». Levinas risponde: «La religione ne sa molto di più. La religione crede di saperne molto di più. Non credo che la filosofia possa consolare. La consolazione è una funzione differente: è religiosa»4.
Levinas in diverse interviste elencando i propri maestri cita nell’ordine: Husserl, Heidegger, Rosenzweig e M. Shoshani. I primi due si riferiscono, per rimanere nel bipolarismo di Tertulliano, alla scuola di Atene, mentre gli altri due sono maestri che appartengono, invece, alla scuola di Gerusalemme. La preoccupazione che accompagna la riflessione levinassiana è quella
3 4
L. ASKÉNAZI, L’autre dans la conscience juive, in A.A. V.V., Ibid., Paris 1973, 288. E. LEVINAS, De Dieu qui vient à l’idée, Paris 1982, 137.
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«di tradurre il non-ellenismo della Bibbia in termini ellenici e non quello di ripetere le formule bibliche nel loro senso ovvio, isolato dal contesto, il quale, all’altezza di un tale testo, è tutta la Bibbia. Non c’è niente da fare: la filosofia si parla in greco. Ma non bisogna pensare che la lingua modella il senso. La lingua greca — la lingua secondo la sintassi — permette probabilmente di presentare il senso»5.
È doveroso dare qualche breve cenno sui secondi due maestri6. Levinas, nella prefazione al suo saggio concepito come tale, Totalità e Infinito, dice di Rosenzweig che è «troppo spesso presente in questo libro per poter essere citato»7. In una sua bellissima conferenza del 1959, Tra due mondi. La via di Franz Rosenzweig, si evince il debito nei confronti di questo ebreo tedesco morto nel ’29 a soli 43 anni. Lo definisce un pensatore timido e audace nello stesso tempo. E, a proposito della Stella della Redenzione, Levinas annota come sia il «libro principale di Rosenzweig, il capolavoro della sua vita»; un’opera che si presenta come un sistema di filosofia generale e che annuncia un nuovo modo di pensare: «Forse il suo influsso sui filosofi non giudei tedeschi è stato maggiore di quanto volessero ammettere. Essi non lo citano mai. Eppure questo libro di filosofia generale è un libro giudaico, che fonda il giudaismo in modo nuovo; il giudaismo non è più solo un insegnamento le cui tesi potrebbero essere vere o false, ma l’esistenza giudaica (scrivo l’esistenza per dirla in una sola parola) è essa stessa un accadimento essenziale dell’essere, l’esistenza giudaica è una categoria dell’essere»8.
Maestro di rinnovamento giudaico, Rosenzweig, è considerato da Levinas con tenerezza e affetto un contemporaneo e un fratello. Di Shoshani si dice che è un maestro di cui tutti parlano e di cui nessuno sa niente. Maestro non solo di Levinas, ma anche di altre figure dell’ebraismo come Elie Wiesel. Un personaggio circondato da un alone di mistero, le poche notizie, su questo maestro, contenute nel libro di Salomon 5
L.c. Sui primi due maestri, Husserl e Heidegger, si veda il nostro Relazione senza relazione, Acireale 1996. 7 E. LEVINAS Totalità e Infinito, trad. it. Milano 1980, 26. 8 ID., Difficile liberté, Paris 1963 et 1976, 255-256. 6
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Malka9 non aggiungono nulla alle altre che abbiamo in possesso. Il nostro Autore trovò nelle lezioni talmudiche di Shoshani la stessa spregiudicatezza delle lezioni fenomenologiche di Husserl. Un genio, lo definisce ancora Levinas, uno la cui parola è sempre dove deve essere, il cui giudizio si desidera e si teme nello stesso tempo. Egli lo incontra all’età di 30 anni, cioè dopo aver conosciuto Husserl, Rosenzweig ed Heidegger: «Ho avuto un rapporto approfondito con il pensiero talmudico piuttosto tardi, a contatto con M. Chouchani. Egli non mi ha infuso nulla del suo immenso sapere, né certo della sua incomparabile intelligenza, ma mi ha insegnato come si dovevano affrontare questi testi, questo fondo irraggiungibile. A confronto con lui, tutto questo è nulla e noi non si è nulla. Era un dialettico formidabile. Quando voleva mettercisi, era in grado di difendere il giorno dopo davanti agli stessi allievi più o meno il contrario di quello che aveva insegnato il giorno prima. Con un virtuosismo straordinario, ma anche, ogni volta, con della nuove dimensioni di senso! Ne ho conservato un ricordo indimenticabile e incomunicabile della vita dello spirito»10.
Il modo di trattare i testi da parte dei maestri del Talmud era abbastanza complicato, Levinas «con Shoshani studia come non ha studiato con altri, studia ciò che si studia nelle jeshivot lituane con un metodo nuovo, un metodo che tende a leggere nel testo talmudico un senso universale. Da M. Shoshani Levinas impara dunque un metodo — il metodo delle letture talmudiche»11. 9
Cfr S. MALKA, Leggere Levinas, trad. it. Brescia 1989. «Lo si diceva originario della Lituania, formato in delle Yeshivot, che parlava yiddish, che era passato per il vecchio Ychouv di Gerusalemme. Era vissuto a lungo in Marocco. Si diceva che beveva. In ogni caso, non aveva fissa dimora e non se ne conosceva il mestiere. Vecchio scapolo, viveva con lezioni di Talmud che egli dava a un gruppetto di amatori. Scompariva talvolta senza ragione e ricompariva senza spiegazioni. Levinas racconta il suo stupore, quando una notte, avendo sentito bussare alla porta, ha scoperto un uomo smunto, smagrito, che non mangiava da tre giorni e che gli chiedeva alloggio. Così era Chouchani. Era di quegli ebrei che altrove venivano chiamati Luftmenschen (in yiddish uomini sospesi in aria). Sradicato. Boemo. Mille miglia dall’universitario, tutto sommato borghese, che istallato a Parigi non si muoverà dal suo XVI arrondissement. Tuttavia questo spirito acuto e anticonformista lo sedurrà» (ibid., 58). 10 E. LEVINAS, Trascendenza e intelligibilità, trad. it. Genova 1990, 58. 11 M. GIULIANI, Levinas e il giudaismo, ovvero “al di là della filosofia”, in Studia Patavina 47 (2000) 3, 636. A Salmon Malka che gli chiede di Shoshani, se è lui che gli fatto
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L’incontro con questo maestro, geniale e misterioso, offre a Levinas la possibilità concreta per l’acquisizione di una nuova modalità di lettura dei testi della tradizione giudaica e in particolare di un metodo nello studio del Talmud. Perciò, bisogna chiedersi a questo punto: «Cosa significa un metodo nello studio del talmud? Per saperlo dovremmo interrogare questo maestro. E dunque conoscerlo meglio. Ma di lui sappiamo così poco da supporre che M., dinanzi al suo nome, stia non per ‘monsieur, ma per ‘mistérieux’. Addirittura il nome, Shoshani, non sarebbe il suo vero nome. E tuttavia questo maestro è esistito, ha avuto dei discepoli, ha insegnano il talmud in Francia, in Israele, in America Latina. Ma sempre dissimulando la sua vera identità, stando al di là del suo detto, schermendosi attraverso un dire in nome di X, che ha insegnato a nome di Y. Simile all’’uomo senza identità’ che ‘ha le spalle a se stesso in ogni movimento di ritorno a sé’, dirà Levinas in Humanisme de l’autre homme. Il maestro del maestro è un volto nel quale si rifrangono i mille volti dei maestri della tradizione; il maestro del maestro è una voce nella quale risuonano le mille voci dei maestri della tradizione. Mai anonimato fu più individuabile e personalizzato; mai ubiquità fu più storicamente determinata e inequivoca. In questo maestro di Levinas — nel maestro del maestro — v’è già, in cifra tutto il giudaismo che Levinas ha vissuto e insegnato. Il giudaismo della tradizione rabbinica. Il giudaismo delle due Torrot (la Torà orale e la Torà scritta). Il giudaismo della ‘difficile esegesi’ e dell’’infinito commento’; il giudaismo della ‘benedetta ambiguità’ e del ‘santo paradosso’; il giudaismo dei farisei. Levinas il grande fariseo, lo ha definito un suo allievo del dopoguerra. Solo chi studia il talmud sa che il metodo dei maestri del talmud sta in una (forse) insoddisfacente circolarità ermeneutica, senza vincoli cronologici né limiti filologici, poiché il testo chiama il testo, scoprire il Talmud, Levinas risponde: «Io non so neppure se ciò che so è già una scoperta, ma è lui che mi ha mostrato come bisogna leggerlo. Accanto al suo genio, alle sue conoscenze, alla sua potenza dialettica, tutto impallidisce. Io non avevo imparato molto a leggere la Halakha che, come lei sa, è essenziale al Talmud. Avevo cominciato a leggere un po’ l’Haggada. Ma Chouchani diceva: ‘Bisogna leggere la Halakha come lei legge l’Haggada’. Il che non significa che bisogna considerarla un tessuto di simboli e di allegorie. Bisogna leggerla anche con l’immaginazione. Chouchani era molto duro, esigente verso di me come verso tutti. Maestro inflessibile! Ma quando aveva un sorriso di incoraggiamento, significava molto. E talvolta egli aveva questo sorriso per dei passaggi midrashici che io tentavo di commentare. Egli pensava che non bisogna costruire né speculare nell’astratto, ma nell’immaginazione. Bisogna pensare a dei mondi che sono evocati da ogni immagine del testo, allora il testo si mette a parlare» S. MALKA, Leggere Levinas, cit., 117-118.
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Giuseppe Schillaci come l’abisso del salmo chiama l’abisso. Israele è il nome ultimo del maestro di Levinas, colui che lotta con Dio, ossia con il testo nel quale queste e quelle, seppur in contraddizione, sono parole del Dio vivente»12.
Il riferimento ad Israele non è da far coincidere però ad una terra, in questo senso il pensiero di Levinas non è, infatti, un pensiero nostalgico del possesso di una terra, ma la voce di un Altro, che giunge da altrove, che lo invita a spossessarsi attraverso un continuo esodo. Per cui occorre attingere continuamente agli eventi fondatori che ispirano un’appartenenza ed un cammino speculativo. Levinas si chiede a proposito di questi eventi: «Sono essi privi di riferimento alla Bibbia che resta il loro spazio vitale. Il riferimento non si concretizza in lettura e la lettura non è un modo di abitare? Volume del libro sottoforma di spazio vitale! È anche in questo senso che Israele è popolo del Libro e che la sua relazione alla Rivelazione è unica nel suo genere. La sua stessa terra poggia sulla Rivelazione. La sua nostalgia della terra si nutre di testi. Essa non deriva per niente da una qualsiasi appartenenza vegetale a un suolo»13.
Levinas dal 1946 al 1961 fu direttore dell’Ècole normale israélite orientale. Lo scrittore Ami Buganim, allora adolescente, lo ricorda così: «Monsieur Levinas ci attendeva subito dopo la sveglia per sharit, la preghiera del mattino, e si separava da noi quando si andava a dormire per ma’ariv, la preghiera della sera, secondo il siddur ebraico. Il mattino lo trovavamo in sinagoga, vestito del suo tallit e stretto dai suoi tefillin, che si dondolava avanti e indietro. Pregava e studiava ad un tempo. Pregava il suo Talmud, e non nascondendosi sembrava volesse dirci che studiare è un modo di pregare […] Di shabbat, riponeva il suo Talmud e intonava con noi le melodie dello shabbat. Ci trasmetteva l’ardore — orientale — con cui cercavamo di ricostruire il clima dello nostre sinagoghe d’origine. Soprattutto quando ci mettevamo a strillare il Cantico dei cantici, nel quale, dietro sincere tensioni mistiche, si percepivano innegabili armonie erotiche»14. 12
M. GIULIANI, Levinas e il giudaismo, ovvero “al di là della filosofia”, cit., 636-637. E. LEVINAS, L’au-delà du verset. Lectures et discours talmudiques, Paris 1982, 159. 14 Cahier de l’Alleance Israélite Universelle, Janvier 1996, n. 12/13, 21. Testimonianza riportata da M. GIULIANI, Levinas e il giudaismo, ovvero “al di là della filosofia”, cit., 638. 13
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La familiarità con i testi, con le sorgenti, della tradizione ebraica sollecitano il pensiero e si sollecitano a vicenda. C’è la precisa volontà in Levinas di restituire alla Bibbia e al Talmud, all’insegnamento rabbinico e all’esperienza vissuta, il posto che meritano nel pensiero occidentale soprattutto quando questo sceglie di ignorarli o addirittura di cancellarli: «I versetti biblici non hanno qui per funzione di fornire una prova; ma testimoniano di una tradizione e di un’esperienza»15.
Questa tradizione e questa esperienza ispirano pertanto la filosofia levinassiana: «Capire Levinas è capire la dimensione ebraica della sua filosofia, e per capire tale dimensione occorre risalire alla natura del suo giudaismo. Parliamo qui di giudaismo e non di ebraismo perché con questo temine si esprime precisamente la vita, la vitalità e la tradizione religioso-culturale degli ebrei dell’epoca del secondo tempio (IV sec a. C. – I sec. d. C.) — l’epoca del sorgere e del diffondersi del movimento spirituale dei farisei, e del formarsi delle diverse scuole rabbiniche — tradizione codificata dopo il ’70, da Rabbi Jehuda Ha-Nassi, II sec., nella Mishnà, e accresciuta nella Gemerà dei maestri palestinesi e babilonesi (La Mishnà e la Gemerà formano il Talmud)»16.
È questa la tradizione a cui Levinas si riferisce e in cui affonda la sua riflessione. Lo studio della Toràh e del Talmud, la pratica dei precetti, è la tradizione a cui egli si riferisce; è la tradizione attorno a cui ruota e si sviluppa il giudaismo rabbinico. Levinas come discendente dalla tribù di Levi appartiene, infatti, a questo tipo di giudaismo17. Questo essenziale riferimento alla tradizione e alle fonti ebraiche ci fanno pensare che «Levinas non ha cercato come Mainonide di conciliare il testo biblico con il filosofo (che nel XII secolo era Aristotile); né mai addivenire a una qualche 15
E. LEVINAS, Humanisme de l’autre homme, Montpellier 1972, 96. M. GIULIANI, Levinas e il giudaismo, ovvero “al di là della filosofia”, cit., 638. 17 Cfr l.c. Inoltre c’è da dire che Levinas come ebreo di origine lituana «appartiene a quel giudaismo rabbinico lituano che ha accentuato la dimensione dello studio e delle mitzvòt contro ogni forma di misticismo di tipo proto-chassidico. L’insediamento ebraico in Lituania è fatto risalire al XIII secolo, e nel XVII secolo questa terra era chiamata la seconda erez Israel la seconda terra d’Israele, e Vilna, la Gerusalemme lituana» (ibid., 638-639). 16
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Giuseppe Schillaci fusione tra giudaismo e filosofia — come aveva brillantemente fatto Filone d’Alessandria molti secoli prima di Maimonide. Levinas, assai più ambiziosamente, cerca la tensione, non la conciliazione; cerca la crisi della filosofia a contatto con le fonti ebraiche e in tal modo cerca di inserire il giudaismo nel cuore stesso della riflessione filosofica occidentale: nel cuore della metafisica, il discorso sull’essere. Lo scontro tra giudaismo e filosofia o è totale, o non è. O è al cuore del sistema, o non approda a nulla. O è rottura o non lascia nemmeno un graffio. Questa la sfida dell’ebreo Levinas alla filosofia occidentale. Questo è l’eccessivo o l’iperbolico (come dice Ricoeur) del pensiero di Levinas»18.
Il rapporto con il cristianesimo nella riflessione levinassiana si inserisce in questo percorso. Levinas non cerca né la fusione, né la conciliazione dialettica, ma l’alterità. Il suo itinerario speculativo non funziona come un sistema in cui tutto rientra, e deve rientrare, in una totalità coerente secondo una logica conseguenziale. Come l’incontro tra giudaismo e filosofia non mira a concludere il discorso, ma ad esasperarlo e quindi ad evocare, così il rapporto con il cristianesimo si inserisce in un discorso che si apre; è l’incontro che rinvia ad un sempre oltre, poiché c’è sempre un al di là. È l’alterità irriducibile e radicale a cui ricondurre un possibile rapporto o incontro.
2. IL COMANDAMENTO (AMARE LA TORÀH PIÙ DI DIO)19 Non si può non pensare alla riflessione che porta avanti Levinas senza fare riferimento alla Shoà, all’Olocausto. Egli, ricordando gli anni in Europa cha vanno dal 1933 al 1945, rivede nell’esperienza di rifiuto e di dolore del suo popolo quella del servo sofferente di cui parla Isaia: «Fra i milioni di esseri umani che vi trovarono una misera fine, i giudei fecero l’esperienza unica di una derelizione totale. Essi conobbero una condizione inferiore a quella delle cose, un’esperienza di passività totale, un’esperienza di Passione. Il capitolo 53 di Isaia vi esauriva per loro tutti i 18
Ibid., 639. Questo è il titolo dell’allocuzione pronunciata il 29 aprile 1955 durante la trasmissione Ascolta Israele. Il testo si trova in E. LEVINAS, Difficile liberté, cit., 201-206. 19
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sensi. La sofferenza, che fu comune a loro con tutte le vittime della guerra, ha assunto il suo unico significato per loro dalla persecuzione razziale, che è assoluta, poiché paralizza, nella sua stessa intenzione, ogni fuga, rifiuta anticipatamente ogni conversione, impedisce ogni abbandono di sé, ogni apostasia nel senso etimologico del termine e tocca così l’innocenza stessa dell’essere richiamato alla sua identità originaria»20.
A fronte di questa persecuzione assoluta che paralizza, impedendo ogni abbandono e apostasia, c’è invece l’esperienza della solidarietà di alcuni cattolici, laici, preti e monaci, i quali prestarono il loro aiuto a bambini e adulti ebrei in Francia, e fuori dalla Francia. Proprio nel momento in cui gli ebrei vivevano questa esperienza estremamente dolorosa alcune persone ascoltarono quel grido soffocato di così immane dolore facendosi prossimi e prendendosi cura di loro. Levinas ricorda, con emozione, un episodio emblematico all’inizio della guerra in cui si riappropria del suo essere uomo, avvertendo un senso di accoglienza e di comprensione, essendosi ritrovato in un contesto ove si parla e si respira un linguaggio familiare, intimo e amico: «Ricordo una visita che durante una cerimonia religiosa, ebbi occasione di fare all’inizio della guerra alla chiesa di sant’Agostino a Parigi […]. Là in un angolino della chiesa, mi trovai vicino a un quadro che rappresentava Anna mentre conduceva Samuele al tempio. Mi ricordo tuttora l’impressione di tornare per un momento ad essere uomo, alla possibilità almeno di parlare e di essere capito, che mi prese allora: emozione che era paragonabile solo a quella che provai durante i lunghi mesi di detenzione in un Frontstalag in Bretagna con i prigionieri nordamericani; a quella che, in uno Stalag in Germania provai quando, sulla tomba di un compagno giudeo che i nazisti volevano seppellire come un cane, un sacerdote cattolico, il padre Chesnet, recitò preghiere che in senso assoluto erano preghiere semitiche»21. 20
E. LEVINAS, Difficile liberté, cit., 25. Ibid., 26. Più tardi in un’intervista del 1987 ricorderà così la cerimonia religiosa a Sant’Agostino. «Durante la guerra ero stato mobilitato in un servizio alla capitale. Un compagno, nell’ufficio, aveva perso un figlio. Il padre era ebreo ma la madre cristiana; il servizio funebre si svolse nella chiesa di Sant’Agostino. Era prima del 10 maggio 1940, ma il nostro antico mondo era già in crisi. Durante la cerimonia ero vicino ad un’immagine, tela o affresco, che rappresentava una scena da 1Samuele: Anna conduce al Tempio suo figlio 21
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Il monoteismo giudaico è l’ambito dentro cui si spiega questo itinerario e a cui attingere nel confronto con il cristianesimo. La Bibbia è naturalmente la fonte del monoteismo che tuttavia va codificandosi nella tradizione orale del Talmud. Ora, questa tradizione che è la matrice del costituirsi del giudaismo rabbinico segue un altro cammino per giungere a Dio: «Il giudaismo che ha una realtà storica — il giudaismo semplicemente — è rabbinico. Le vie che conducono a Dio in questo giudaismo non attraversano gli stessi paesaggi delle vie cristiane»22.
Trascendenza di Dio e libertà umana questo è quanto il giudaismo mette costitutivamente insieme. Una potenza divina, che assumesse i tratti sacramentali per salvare, l’uomo condurrebbe se non all’annullamento della libertà umana ad una sua irrimediabile ferita. Dio è il Santo, assolutamente trascendente, che resta tale, per cui non ha nulla a che fare con il mondo. «Questa potenza in certo modo sacramentale del divino, appare al giudaismo tale da ferire la libertà umana, contraria all’educazione dell’uomo, che resta azione su un essere libero. Non che la libertà sia fine a se stessa: essa però resta la condizione di ogni valore che l’uomo possa raggiungere. Il sacro che mi ingloba e mi trasporta è violenza»23.
La trascendenza di Dio è la garanzia stessa della libertà dell’uomo. Dio nella sua trascendenza non interferisce in alcun modo con la libertà dell’uomo, al contrario la rispetta infinitamente. L’indipendenza umana e la sua intelligenza si costituiscono nella separazione giungendo fino all’ateismo: Samuele. Questo era ancora il mio mondo. Soprattutto Anna, straordinaria figura di donna ebrea. Ho pensato alla sua silenziosa preghiera: ‘le sue labbra si muovevano ma la sua voce non si sentiva’; ho pensato al malinteso con il sacerdote Eli e a come lei risponde: ‘No, mio signore, sono una donna affranta; non ho bevuto né vino né alcuna bevanda inebriante; stavo solo sfogandomi davanti a Dio’. Questa donna pronunciava la vera preghiera del cuore: lo svuotarsi di un’anima. Relazione autentica, concretezza dell’anima, personificazione della relazione. Ecco ciò che ho visto nella Chiesa. Che prossimità! Tale prossimità resta in me» E. LEVINAS, Nell’ora delle nazioni, trad. it. Milano 2000, 191. 22 E. LEVINAS, Difficile liberté, cit., 28. 23 Ibid., 29.
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«è grande Gloria di Dio aver creato un essere capace di cercarlo e di capirlo da lontano, partendo dalla separazione, dall’ateismo»24. Una religione adulta sa correre questo rischio: «La difficile via del monoteismo si congiunge con la strada dell’occidente. Ci si può chiedere infatti se lo spirito occidentale, se la filosofia, non sia in ultima analisi l’affermarsi di un’umanità che accetta il rischio dell’ateismo, che va corso e superato, come prezzo della sua maggiore età»25.
In tale contesto, Levinas si chiede come il giudaismo concepisce l’umano. Poiché noi, in fondo, possiamo dire qualcosa dell’umano e non del divino, di Dio! «Ma in qual modo, allora, il giudaismo, geloso della sua indipendenza ma assetato di Dio, concepisce l’umano? Come potrà integrare l’esigenza di una libertà pressoché vertiginosa col desiderio di trascendenza? Avvertendo la presenza di Dio nella relazione con l’uomo»26.
La trascendenza che viene affermata dal giudaismo è una trascendenza reale, che viene fuori dalla stessa struttura dell’essere umano; non da un Ego che si autopone come sé, ma come un io interpellato, accusato dall’altro: «l’io si trova in uno stato di smembramento e di squilibrio. Ciò significa che si ritrova come colui che è già empio verso gli altri, arbitrario e violento. La coscienza di sé non è una inoffensiva constatazione che un io fa del suo essere, ma è inseparabile dalla coscienza della giustizia e dell’ingiustizia. La coscienza della mia ingiustizia naturale, del danno causato ad altri a partire dalla mia struttura del ‘Ego’, è simultanea alla mia coscienza di essere uomo: esse coincidono»27.
24 25 26 27
Ibid., 30. Ibid., 31. L. c. Ibid., 32.
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La domanda che sorge a questo punto è: come mai la rivelazione inizia con il libro della Genesi, cioè con il racconto della creazione, quanto ciò che conta sono i comandamenti? Per i commentatori ebrei la Genesi è oggetto di stupore. Anche il Rachi rimane stupito e si pone la medesima domanda, alla quale risponde — come sottolinea Levinas — in questi termini: «è importante per l’uomo al fine di possedere la terra promessa — sapere che Dio ha creato la terra: poiché se non lo sapesse, il suo possesso sarebbe usurpazione. Nessun diritto può dunque discendere dal semplice fatto che la persona ha bisogno di spazio vitale: la coscienza del mio io non mi rivela alcun diritto, la mia libertà si scopre arbitraria. Essa fa appello ad una investitura. L’esercizio ‘normale’ del mio io, che trasforma in ‘mio’ tutto quanto può raggiungere e toccare, è messo in questione; possedere è sempre un ricevere. La terra promessa non sarà mai, nella Bibbia una ‘proprietà’ nel senso romano del termine, e il contadino, al momento delle primizie, non penserà ai legami eterni che lo connettono al terreno, ma al figlio di Aram, suo antenato, che fu errante»28.
La trascendenza reale mi viene incontro nell’altro che non è una riedizione dell’io, è l’altro: «nella sua qualità di altrui esso si insinua in una dimensione di altezza, idealità, divinità, e tramite la mia relazione con altri, io sono in rapporto con Dio»29.
Il rapporto con Dio, la conoscenza che ho di Dio, si consegna nel rapporto etico con l’altro. È questo il comandamento (Mitzwah), l’obbligazione assoluta, l’espressione della stessa volontà di Dio: «Nell’Arca Santa dalla quale Mosè intende la voce di Dio, non v’è altro che le tavole della Legge»30. L’attributo che si dà a Dio all’indicativo risponde all’imperativo: Dio è misericordioso significa siate misericordiosi! Il vangelo di Luca 6,36 stabilisce e rimarca in modo inequivoco questo rapporto: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro». Rapportarsi con Dio trascendente, conoscerlo, vuol dire sapere quel che si deve fare. Il rapporto con Dio rinvia all’educazione e quindi al comandamento. È il rapporto con l’altro che dischiude l’al di là, la trascendenza. 28 29 30
Ibid., 32-33. Ibid., 33. L. c.
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Dio, secondo questa visione, si fa concreto non attraverso l’incarnazione, ma attraverso la legge. La Toràh mi mette a contatto con il trascendente nella misura in cui questa risplende nel volto del prossimo. In questo rapporto si gioca il senso della liberà. Il rapporto con l’alterità radicale non nega dunque la libertà. Il Dio del cielo si rende accessibile senza, che perda la sua trascendenza e, nello stesso tempo, senza che neghi o annulli la libertà di chi crede. Il Talmud dichiara «Dio non è mai sceso sul Sinai, mai Mosè è salito in cielo. Ma Dio ha piegato il cielo come una coperta, e con essa ha ricoperto il Sinai, trovandosi così in terra senza mai lasciare il cielo».
Levinas commenta che, «v’è in ciò una dissacrazione del Sacro. La giustizia resa al mio prossimo mi dà di Dio una prossimità insuperabile. Essa è altrettanto intima quanto la preghiera e la liturgia, che senza la giustizia sono nulla. Dio nulla può ricevere da mani che hanno commesso violenza. Il pio è il giusto. Giustizia è il termine che il giudaismo preferisce ad altri termini più evocanti sentimenti: poiché l’amore stesso richiede la giustizia, e la mia relazione col prossimo non potrebbe restare estranea ai rapporti che questo prossimo ha con i terzi. Il terzo è pure mio prossimo»31.
Qui, non c’è una presa di distanza dalla ritualità, ma una ricomprensione della dimensione rituale all’interno della fedeltà alla legge. Il comandamento che da Dio conduce all’uomo è la via della disciplina rituale, cioè dell’educazione di se stessi:
31 Ibid., 34. «I cristiani — dice Levinas — attribuiscono molta importanza a quanto chiamano fede, mistero, sacramento. A tale riguardo, vi racconto una piccola storia: Hannah Arendt, qualche tempo prima della sua morte, raccontava alla radio francese che quando era bambina, nella sua città natale Konigsberg, un giorno disse al rabbino che le insegnava religione: ‘Ho perduto la fede’. E il rabbino rispose: ‘Chi ve la chiede?’. La risposta è caratteristica. Ciò che importa non è la fede ma il ‘fare’. Fare significa senz’altro il comportamento morale, ma anche il rito. Del resto credere e fare sono differenti? Che significa credere? Di che cosa è fatta la fede? Di parole? Di idee? Di convinzioni? Con cosa crediamo? Con tutto il corpo! Con tutte le mie ossa (Salmo 35,10)! Il rabbino voleva dire: ‘Fare bene è credere’. Questa è la mia conclusione» E. LEVINAS, Nell’ora delle nazioni, cit., 192.
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Giuseppe Schillaci «La via che conduce a Dio conduce ipso facto all’uomo, e non per sovrappiù; e la via che conduce all’uomo ci riconduce alla disciplina rituale, all’educazione di noi stessi. La sua grandezza è nella sua regolarità quotidiana»32.
La legge, dunque, non è vista come giogo, ma come una vera pedagogia (l’espressione paolina di Gal 3, 24-25 considera la legge un pedagogo in rapporto a Cristo: «la legge è divenuta un pedagogo che ci ha condotti a Cristo, perché fossimo giustificati dalla fede. Sopraggiunta poi la fede non siamo più sotto il dominio del pedagogo»): «La legge è uno sforzo. La fedeltà quotidiana al gesto rituale richiede un coraggio più calmo, più nobile e più grande del guerriero […] la legge per il giudeo non è mai un giogo. Essa implica una sua gioia di cui si nutre una vita religiosa e tutta la mistica giudaica»33.
Ai giudei quindi, come si prega e si medita nei Salmi, “nulla manca”, per cui essi «non si sentono al di qua degli orizzonti aperti dei vangeli»34. Il giudaismo dimora continuamente nei comandamenti poiché questi lo pongono nella relazione con Dio: «il giudaismo, in cui la Rivelazione è, […] inseparabile dal comando, non significa affatto il giogo della Legge, ma appunto l’amore. Il fatto che il giudaismo è intessuto di comandamenti attesta il rinnovarsi, in ogni istante, dell’amore di Dio per l’Uomo, senza di che l’amore comandato nei comandamenti non avrebbe potuto essere comandato. Si evidenzia così che il ruolo eminente della mitzwah nel giudaismo significa non un formalismo morale, ma la presenza vivente dell’amore divino, eternamente rinnovato. E di conseguenza, attraverso il comandamento, significa l’esperienza d’un presente eterno»35.
32
E. LEVINAS, Difficile liberté, cit., 35. L.c. 34 L.c. In particolare Levinas si riferisce al Salmo 23: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla». 35 Ibid., 266-267. 33
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In questo senso allora la priorità è data alla Toràh. Dio si dona attraverso la legge e la fedeltà alla legge: «la vera umanità dell’uomo e la sua dolce virilità entrano nel mondo con le parole severe di un Dio esigente; lo spirituale non si dà come una sostanza sensibile, ma attraverso l’assenza; Dio è concreto non attraverso l’incarnazione, ma attraverso la legge»36.
Un Dio che si incontra nei suoi comandamenti, sempre più attraverso una legge esigente. La legge è la via alla libertà. Una libertà difficile, poiché è scritta “sulle tavole di pietra”, come rimarca il Trattato sui principi (Pirqè avòt 6,2): citazione apposta sul frontespizio del saggio sul giudaismo, nell’edizione francese, Difficile liberté. In questo senso, quanto viene sottolineato da Levinas: «È l’esatto contrario della libertà cristiano paolina: non libertà dalla legge: ma libertà attraverso la legge. Questo è il senso del giudaismo — senza legge nessuna libertà. Ma senza libertà non è possibile neppure vita etica, o morale. E dunque nessuna vita religiosa. Ora, per cogliere il giudaismo, il suo concetto di libertà e il senso più profondo del discorso etico occorre, secondo Levinas, tornare all’idea talmudica del ‘giogo dei precetti’, ossia all’ossimoro della condanna alla libertà»37.
Essere liberi, nella riflessione levinassiana, è di conseguenza l’impossibilità di sottrarsi. L’uomo è libero quando obbedisce al Dio Altissimo, così diventa unico, cioè fa quello che nessun’altro può fare al suo posto. «Ma forse l’aspetto più caratteristico della difficile libertà ebraica risiede in un ritualismo regolante tutti i gesti della vita quotidiana, nel famoso ‘giogo della Legge’: nel rituale non è niente di luminoso, nessuna idolatria; è una distanza presa nella natura nei confronti della natura, e forse anche precisamente l’attesa dell’Altissimo che una relazione — o se si preferisce, una deferenza — a Lui, una deferenza all’aldilà che genera qui il concetto stesso di aldilà o di a-Dio»38. 36 37 38
Ibid., 205. M. GIULIANI, Levinas e il giudaismo, ovvero “al di là della filosofia”, cit., 640-641. E. LEVINAS, L’au-delà du verset, cit., 173.
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La libertà si offre a noi nell’obbedienza alla Toràh, dove Dio si lascia incontrare: Dio passa nel volto del prossimo. Dio, secondo l’insegnamento della Scrittura, non si dà a vedere, ma si ascolta. Dio ha lasciato all’uomo i suoi comandamenti, si mostra attraverso l’uomo che si relaziona con l’altro uomo; mi parla nel volto del prossimo dove è iscritto il comandamento: non uccidere! L’uomo è dunque il luogo, lo spazio vitale, nel quale passa la trascendenza.
3. KENOSI DI DIO E MESSIANISMO Lo spirito della Bibbia e segnatamente del giudaismo si mostra in tutta la sua verità ed autenticità — secondo Levinas — quando il rapporto col divino si incrocia con l’umano, vale a dire con gli uomini concreti: «Mosè e i profeti non si dan pena dell’immortalità dell’anima, ma del povero, della vedova, dell’orfano, dello straniero. Il rapporto con l’uomo in cui si realizza il contatto col divino non è una sorta di amicizia spirituale, ma quella che si manifesta, si sperimenta e si realizza in un’economia giusta e di cui ogni uomo e pienamente responsabile»39.
L’uomo è investito personalmente come essere responsabile. Il suo non è uno sforzo di essere, ma un essere per: il suo è un essere per altri! L’uomo viene costituito, scelto dal bene, eletto dal bene! La relazione con Dio, che non si offre in una visione, è un comando ad andare verso l’uomo; un comando che mi obbliga verso l’altro. La relazione con l’altro si poggia su una fondamentale asimmetria: «La reciprocità è una struttura fondata su una ineguaglianza originaria. Perché l’uguaglianza possa fare il suo ingresso nel mondo, bisogna che gli esseri possano esigere da sé più di quanto non esigano dagli altri, che si sentano responsabili della sorte dell’umanità e che si pongano, in questo senso, in disparte rispetto all’umanità»40.
39 40
ID., Difficile liberté, cit., 36. Ibid., 39.
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Dio si mostra nascondendosi, o meglio ritraendosi. Dio si consegna, in tal senso, nella responsabilità che l’uomo ha nei confronti di tutti gli altri uomini. La trascendenza di Dio è il suo stesso abbassamento. Particolarmente significativo a tal proposito è l’episodio dei tre visitatori da Abramo, di cui narra il libro della Genesi. In questo apologo Dio appare ad Abramo nello stesso tempo che i tre passanti. Abramo in Genesi 8,3 si rivolge ad uno tre angeli con il nome ‘Adonai’: «Adonai (Signore), se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare davanti al tuo servitore. Dire Adonai a un angelo che, sotto forma umana, è per Abramo un passante sconosciuto, equivale veramente a pronunciare il Nome di Dio? Per uscire dalla difficoltà, un apologo. Dio sarebbe apparso ad Abramo contemporaneamente ai tre passanti. È a lui che Abramo avrebbe detto: ‘Non passare, Adonai, davanti al tuo servitore’. Egli gli avrebbe detto: ‘Aspetta che riceva prima i tre viaggiatori’, poiché i viandanti, oppressi dal calore e dalla sete, passano davanti all’Eterno nostro Dio. La trascendenza di Dio è la sua stessa cancellazione, che però ci obbliga nei confronti degli uomini. Più alta della grandezza è l’umiltà»41.
Pensare la trascendenza di Dio in termini di umiltà: è questa la via che permette di incontrarlo nell’altro e di cui si diventa assolutamente responsabili. Levinas ci invita ad accostarci ad una verità non onnipotente, non clamorosa, ma umile che si ritrae lasciando sempre il posto. È questo il movimento che permette di avvicinarsi con rispetto all’idea «di una verità di cui la manifestazione non è gloriosa ed eclatante, l’dea di una verità che si manifesta nella sua umiltà, come la voce di un fine silenzio secondo l’espressione biblica — l’idea di una verità perseguitata non è forse l’unica modalità possibile della trascendenza? Non a causa della qualità morale dell’umiltà, che io d’altra parte non vorrei per nulla contestare, ma a causa del suo modo di essere che è forse la sorgente del suo valore morale. Manifestarsi come umile, come alleato del vinto, del povero, del perseguitato, è precisamente non rientrare nell’ordine. In questa (disfatta) sconfitta, in questa timidezza che non osa osare, attraverso questa sollecitazione che non ha la faccia di sollecitare e che è la non audacia stessa, attraverso questa sollecitazione di mendicante e straniero che non ha dove posare il capo — 41
E. LEVINAS, L’au-delà du verset, cit., 153-154.
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Giuseppe Schillaci in balia del sì o del no di colui che accoglie — l’umiliato disturba assolutamente; non è del mondo. L’umiltà e la povertà sono un modo di tenersi nell’essere — un modo ontologico (o me-ontologico) — e non una condizione sociale. Presentarsi in questa condizione di esiliato, è interrompere la coerenza dell’universo. Bucare l’immanenza senza ordinarvisi»42.
La prossimità di Dio si dà, si consegna, nell’umiltà. Il tema biblico dell’umiltà di Dio viene detto ed evocato da Levinas in termini filosofici con l’idea di verità perseguitata: «L’idea che la trascendenza di ciò che è trascendente risiede nella sua estrema umiltà ci permette di intravedere una verità che non è disvelamento. L’umiltà della verità perseguitata è così grande, che non osa presentarsi ‘nell’apertura illimitata’ di cui ha parlato Heidegger. O, se si vuole, la sua presentazione è equivoca: è presente come se non fosse presente. Questa è per me la novità filosofica introdotta da Kierkegaard. L’idea di verità perseguitata ci permette di porre fine al gioco del disvelamento, in cui sempre l’immanenza prevale sulla trascendenza: poiché, una volta che l’essere si è disgelato, anche se parzialmente, anche se nel Mistero, esso diventa immanente»43.
Detto questo, Levinas, si pone le seguenti domande: «Il Dio che si umilia per ‘dimorare con il contrito e l’umile’ (Isaia 57,15), il Dio ‘del forestiero, della vedova e dell’orfano’, il Dio che si manifesta nel mondo attraverso la sua alleanza con chi si esclude dal mondo, può Egli, nella sua dismisura, divenire presente, nel tempo del mondo? Non è troppo per la sua povertà? Non è troppo poco per la sua gloria senza la quale la sua povertà non è una umiliazione?»44. 42
ID., Entre nous, Paris 1991, 66. ID., Nomi propri, trad. it. Casale Monferrato 1984, 93. Secondo Levinas, Kierkegaard, nel pensiero europeo, ha introdotto qualcosa di nuovo, a partire dalla nozione di fede religiosa che «non è, nel pensiero, una conoscenza imperfetta di una verità che sarebbe in se stessa perfetta e trionfante, la fede religiosa non è, nel pensiero, una verità minore, una verità senza certezza, una degradazione del sapere. C’è in Kierkegaard un’opposizione non tra fede e sapere, in cui si opporrebbe l’incerto al certo, ma tra verità trionfante e verità perseguita. La verità perseguita non è semplicemente una verità a cui ci si accosta in maniera inadeguata. La persecuzione e perciò l’umiltà sono le modalità del vero» (ibid., 92). 44 ID., Entre nous, cit., 68. 43
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L’umiltà della manifestazione di Dio occorre che non si inscriva nella dimensione dell’ordine immanente, ma si allontani sempre più come un passato che non fu mai presente. La prossimità di Dio si annoda con la priorità dell’altro uomo. Il volto dell’altro è, in particolare, il modo concreto di Dio che viene a visitarmi. Ci troviamo dinanzi un Dio che si allontana sempre più, ma che si consegna nell’obbligo di accogliere il volto del prossimo, sempre più indifeso, povero, perseguitato. È attraverso l’uomo che il trascendente mostra un senso: «Occorre che la venuta del senso nel contesto sia sempre anche una anacoresi o un santità; occorre che la voce che risuona nel parlare sia anche la voce che si affievolisce e tace»45.
Nella kenosi di Dio è possibile cogliere una relazione possibile tra giudaismo e cristianesimo. Non solo la possibilità di un dialogo, ma anche una simbiosi. Si entra in intimità con Dio quanto si incontra l’uomo nella sua umanità più nuda, più indifesa, più esposta. Questa incarnazione di Dio sembra alludere alla figura del Messia. Proprio su questo punto, però, sembra che tra il giudaismo di Levinas e il cristianesimo ci sia uno scarto insormontabile. Il Messia non è una figura della storia, mediatore tra Dio e l’uomo. Addirittura Dio uomo! Secondo Levinas, invece, poggiandosi su alcuni testi della tradizione giudaica, ogni uomo è il messia di Dio: «Il Messia è pronto a venire oggi stesso. Ma tutto dipende dall’uomo»46. Un uomo che sopporta tutto, che è responsabile di tutto e di tutti. Una responsabilità che giunge fino alla sostituzione, fa dell’io il Messia. Un io che viene considerato unico nella misura in cui regge il mondo, si sostituisce. La nozione di sostituzione è il nucleo del saggio di Levinas Altrimenti che essere, in cui l’io è visto sempre più all’accusativo, cioè come eccomi. L’io che non può sottrarsi alla responsabilità, è il non poter sfuggire a Dio. Questa impossibilità abita in fondo all’io come la passività assoluta. L’impossibilità di sfuggire a Dio, Levinas, la intravede nell’avventura di
45 46
ID., L’au-delà du verset, cit., 150. ID., Difficile liberté, cit., 106.
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Giona, il quale è figura di dell’io che è nell’impossibilità di sottrarsi alla sua condizione di ostaggio, per farsi responsabile di tutti47. Rispondendo al professor Heering sul senso della sostituzione e sulla sua non reciprocità, Levinas dice: «La sostituzione ad altri vuol dire: nel mio ultimo rifugio di io non sentirmi innocente persino del male che altri fa. Andrò molto più lontano. ‘Ultimo rifugio’ non è una formula sufficiente. Essa può far credere che l’io abbia una capsula. Per spiegare la nozione di sostituzione occorre che io dica di più, che usi delle iperboli: l’individuazione di me, ciò per cui l’io non è semplicemente un essere identico, una sostanza qualsiasi, ma ciò per cui è ipseità, ciò per cui è unico, senza trarre la sua unicità da alcuna qualità esclusiva, tutto questo è il fatto di essere designato o assegnato o eletto per sostituirsi senza potersi nascondere. Grazie a questa assegnazione non sviabile, dall’‘Io’ in generale, dal concetto, si radica colui che risponde in prima persona, — io, oppure di colpo all’accusativo: ‘eccomi’»48.
Ognuno è chiamato ad agire nella sua unicità di uomo come se fosse il Messia. Il messianismo più che richiamare una persona particolare o un tratto particolare del popolo ebraico è la struttura stessa della soggettività. Il soggetto è tanto più soggetto quanto più responsabile e quindi capace di assumersi la responsabilità di tutti. «Il Messia sono Io, essere Io è essere Messia. Si vede allora che il Messia è il giusto che soffre, che ha preso su di sé la sofferenza degli altri. E chi prende in fin dei conti su di sé la sofferenza degli altri se non l’essere che 47 Cfr ID., Altrimenti che essere, Milano 1983. Si veda il capitolo IV dal titolo La Sostituzione. Una particolare convergenza su questa nozione si può scorgere nella riflessione di Bonhoeffer quando a proposito di Gesù Cristo dice: «è per eccellenza colui che vive in maniera responsabile. Egli non è il singolo, che vuole pervenire alla propria perfezione etica, bensì vive solo come colui che ha assunto e porta in sé l’io di tutti di uomini. Tutta la sua vita, il suo agire e patire è sostituzione vicaria. Come colui che è divenuto uomo egli sta realmente al posto di tutti gli uomini. Quanto gli uomini dovrebbero vivere, fare e soffrire lo riguarda. In questa sua reale sostituzione vicaria, che costituisce la sua esistenza umana, egli è il responsabile per eccellenza. Nella reale sostituzione vicaria di Gesù Cristo in favore di tutti gli uomini sta la radice di ogni responsabilità umana» (D. BONHOEFFER, Etica, trad. it., Brescia 1995, 201-202). 48 E. LEVINAS, Dieu qui vient à l’idée, cit., 145-146.
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dice Io ‘(Moi)’? Il fatto di non sottrarsi al peso che impone la sofferenza degli altri definisce l’ipseità stessa. Tutte le persone sono Messia. L’Io in quanto Io, prendendo su di sé tutta la sofferenza del mondo, si designa da solo per questo ruolo. Designarsi in questo modo, non sottrarsi al punto di rispondere ancora prima che la chiamata risuoni: questo è precisamente essere Io. L’Io è quello che ha offerto se stesso per portare su di sé tutta la responsabilità del Mondo, il samo-zvanec49 che denunciava Jankélévitch, il samo-zvanec per eccellenza, colui che si designa da sé. Ed ecco che perché può prendere su di sé tutta la sofferenza di tutti: può proclamarsi ‘Io’ soltanto nella misura in cui egli ha già assunto su di sé questa sofferenza. Il messianismo non è altro che questo apogeo nell’essere, che è la centralizzazione, la concentrazione o la torsione su di sé dell’Io. E concretamente questo significa che ciascuno deve agire come se fosse il Messia. Il messianismo non è dunque la certezza della venuta di un uomo che arresta la storia. È il mio potere di sopportare la sofferenza di tutti. È l’istante in cui riconosco questo potere e la mia responsabilità universale»50.
La relazione con Dio rinvia alla relazione con l’altro uomo di cui si diventa responsabile fino ad assumere la sua responsabilità. Io non sono più io, ma eccomi: all’accusativo!
4. CONCLUSIONE Il rapporto giudaismo cristianesimo in Levinas possiamo sintetizzarlo in alcuni passaggi significativi della conferenza su Rosenzweig, Tra due mondi, che mostrano la fonte ispiratrice di un itinerario speculativo ricco e articolato. Rosenzweig, che nel suo percorso religioso esistenziale dapprima si rivolge al cristianesimo per poi ritornare al giudaismo, è considerato da Levinas, da una parte la ragione per riconoscere la valenza storica del
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Espressione russa che indica colui che si autonomina, ossia l’impostore secondo Jankélévich. Così, quest’ultimo, fa vedere negativamente, nella sua opera L’ésperance et la fin des temps, il falso Messia, colui che va dicendo di essere quindi lo zaveric. Qui invece Levinas riprende l’espressione in chiave positiva, poiché colui che si autodesigna si assume la sofferenza di tutti gli uomini. 50 E. LEVINAS, Difficile liberté, cit., 129-130.
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cristianesimo, ma dall’altra parte è la testimonianza vivente per affermare l’insuperabilità del giudaismo: «Questo duplice moto, verso il cristianesimo dapprima, verso il giudaismo poi, non ci interessa soltanto come curiosità psicologica. Esso testimonia il destino del giudaismo europeo moderno, che non può più misconoscere il fatto che da duemila anni il cristianesimo è una forza determinate dell’esistenza occidentale. E io penso che questo atteggiamento comprensivo verso il cristianesimo attesti anche che, contrariamente a quanto asserito stamane, il cristianesimo non è più pericoloso per il giudaismo: non è più per noi una tentazione»51.
Giudaismo e cristianesimo, secondo le indicazioni di Rosenzweig52, sono due modalità concrete mediante cui l’amore di Dio raggiunge l’uomo; sono due forme concrete mediante cui si realizza la religione: «cristianesimo e giudaismo sorgono nella storia non come eventi contingenti, ma come l’entrata dell’Eternità nel Tempo. Il giudaismo è vissuto come costituente sin d’ora la vita eterna. L’Eternità del cristiano è vissuta come un cammino, una via. La Chiesa cristiana è essenzialmente missione. Dall’Incarnazione alla Parusia il cristianesimo attraversa il mondo per trasformare la società pagana in società cristiana. Via eterna, perché via che non è certo più di questo mondo. Essa è sospesa fra la venuta di Cristo e il suo ritorno al di sopra degli avvenimenti concreti che la Chiesa può inglobare tutti e tutti penetrare. Essa è dunque fuori dalla storia, ma può inglobare tutta la storia. Il mondo è trasparante per essa. Il cristiano riveste la sua essenza cristiana sopra la sua essenza naturale; è sempre un convertito 51
Ibid., 255. Cfr E. LEVINAS, Nell’ora delle nazioni, cit., 191-192: «Già prima della guerra leggendo Rosenzweig ho conosciuto la sua tesi sulla possibilità filosofica di pensare la verità come apertura verso due forme: l’ebraica e la cristiana. Posizione straordinaria: il pensiero non procede verso il suo compimento attraverso una sola via. La verità metafisica sarebbe possibile essenzialmente attraverso due espressioni. Tutto questo viene enunciato per la prima volta. Non sempre sono d’accordo con tutte le articolazioni del sistema di Rosenzweig. Non credo che le articolazioni, così come le sviluppa, siano valide definitivamente. Ma le stessa possibilità di pensare senza compromessi né tradimenti sotto le due forme, l’ebraica e la cristiana, quella della misericordia cristiana e quella della Torah ebraica, mi ha consentito di comprendere la relazione tra ebraismo e cristianesimo nella sua positività. Posso dirlo in altri termini: nella sua possibilità di dialogo e di simbiosi». 52
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in lotta con la sua natura. E il carattere permanente di questa sovrapposizione del cristianesimo alla natura trova la sua espressione nel dogma del peccato originale. Viceversa la comunità giudaica è una comunità che ha l’eternità nella sua stessa natura; non riceve il suo essere né da una terra, né da una lingua, né da una legislazione sottoposta a innovazioni e rivoluzioni. la sua terra è ‘santa’ e termine di una nostalgia, la sua lingua è sacra e non parlata. La sua Legge è santa e non una legislazione temporanea, fatta per padroneggiare politicamente il tempo. Ma il giudeo nasce giudeo e confida nella vita eterna, di cui vive la certezza tramite i legami carnali che lo uniscono ai suoi antenati»53.
Ebraismo e cristianesimo si parlano come si parlano due persone intime, ma senza pensare di ridurre l’uno all’altro. «Il giudeo deve restare giudeo anche dal punto di vista cristiano». Ad un interlocutore che gli chiede se il Nuovo testamento non sia da considerare come un midrash cristologico della Bibbia ebraica, Levinas risponde: «non ho mai vissuto la lettura del Nuovo Testamento come vivo la lettura dell’Antico, dove non mi manca nulla»54. La verità in cui giudaismo e cristianesimo si uniscono è Dio. Un Dio presente negli altri. Questa presenza, che si mostra soprattutto nei piccoli, per Levinas, non è una metafora, ma la presenza reale di Dio. Il testo che spesso egli cita, per affermare questo, è Matteo 25: «ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). In questo testo credo si possa riassumere il contatto di Levinas col Vangelo: «Più tardi lessi il Vangelo. Penso che quella lettura, che non mi contrariava più, sottolinei un’antitesi. La rappresentazione e la dottrina dell’uomo che vi trovavo mi sembravano sempre vicine. Sono capitato sul capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo in cui un gruppo di persone rimane sorpreso nell’ascoltare che hanno abbandonato o perseguitato il buon Dio ed in cui viene detto loro che quando mandavano via i poveri che bussavano alle loro porte era in realtà il buon Dio in persona che stavano mettendo alla porta. Più tardi, dopo aver appreso i concetti teologici di transustanziazione e di eucaristia, mi dicevo che la vera eucaristia era nell’incontro con gli altri 53 54
E. LEVINAS, Difficile liberté, cit., 269-270. ID., Trascendenza e intelligibilità, cit., 45.
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Giuseppe Schillaci piuttosto che nel pane e nel vino, e che è in questo incontro che risiedeva la presenza personale di Dio; e tutto questo l’avevo già letto nell’Antico Testamento, al capitolo 58 di Isaia. Il senso era lo stesso: uomini già ‘spiritualmente raffinati’ che vogliono vedere il volto di Dio e godere della sua prossimità vedranno il suo volto solo quando avranno affrancato i loro schiavi e nutrito quanti hanno fame. Questa è l’antitesi. E, mi permetto di dire, questa fu anche la comprensione di Cristo. Quanto rimaneva incomprensibile non era tale figura, ma la teologia realista che la circondava. L’intero dramma del suo mistero teologico rimaneva inintelligibile. Ed è ancora così, nonostante concetti come la Kenosi di Dio, l’umiltà della sua presenza sulla terra, siano così vicini alla sensibilità giudaica con tutto il vigore del loro senso spirituale»55.
Un io che si fa responsabile dell’altro fino a svuotarsi di sé non può non fare pensare allo svuotamento di Gesù Cristo. Una verità umile che si verifica consegnandosi nella testimonianza della vita. È la risposta d’amore all’amore!
55
ID., Nell’ora delle nazioni, cit., 190. Il vangelo agli occhi di Levinas rimane compromesso dalla Storia, cioè dai cristiani: «La cosa peggiore era che tutti quegli atti spaventosi dell’Inquisizione e delle Crociate erano legati al segno di Cristo: la Croce. Tutto ciò sembrava incomprensibile e richiedeva una spiegazione. E bisognava aggiungere il fatto che, a dire il vero, il mondo non era cambiato affatto dal sacrificio cristiano. Qui l’essenziale: cristiana, l’Europa non poteva fare nulla per raddrizzare le cose» (l.c.).
DI UNA POSTFAZIONE AFFIDATA ALLE SCRITTURE SAPIENTI DI FRANZ ROSENZWEIG
Ci siamo interrogati a lungo sulla utilità di una postfazione. Il lavoro è già compiuto, fino all’ultima pagina. Gli incontri si sono celebrati, dal primo all’ultimo. La dottrina di ciascuno ha avuto tutto il tempo di essere esibita. Il ruolo di tutti ne esce premiato, al modo dei campioni medievali dopo ogni festoso torneo. Nel frattempo le parole si sono spese a fiumi, per acquietare la fatica di capire. Identità e alterità, tuttavia, l’hanno avuta ancora vinta, forse. Nonostante i nostri seminari, grazie anche ai nostri seminari. È il momento allora dell’ascolto. Al cospetto della postfazione che ci regala Rosenzweig gli autori si rannicchiano per non sparire, quasi sull’orlo di un’eclisse in cui è possibile cogliere finalmente i silenziosi segni del discorso ebraico. (F.M.)
«Il popolo ebraico è, tra i popoli della terra, ciò che si dice di sé dall’alto di ogni sabato della sua vita: il popolo unico. I popoli del mondo non possono accontentarsi della comunanza di sangue; essi affondano le loro radici nella notte della terra, di per sé morta ma tuttavia datrice di vita e dalla sua durata traggono garanzia della propria. Al suolo ed al suo dominio, al territorio, si àncora saldamente la loro volontà di eternità. Attorno alla terra della patria scorre il sangue dei suoi figli; essi infatti non confidano in una comunità viva del sangue, che non sia ancorata al saldo suolo della terra. Noi soltanto confidammo nel sangue e lasciammo la terra; così risparmiammo il prezioso succo della vita, i popoli della terra, separammo il nostro elemento vitale da ogni comunanza con ciò ch’è morto. Infatti la terra nutre, ma al tempo stesso lega, e laddove un popolo ama il suolo della patria più della propria vita, sopra di lui sempre incombe il
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pericolo (che incombe su tutti i popoli del mondo) che se per nove volte quell’amore può salvare il suolo della patria dal nemico, e con il suolo salvare anche la vita del popolo, tuttavia una volta su dieci il suolo resti il più amato e la vita del popolo sia versata a perire su di esso. A chi conquista il paese finisce con l’appartenere anche la gente che lo abita; e non può essere altrimenti se appunto la gente è più attaccata al paese che alla propria vita in quanto popolo. Così la terra tradisce il popolo che aveva affidato la propria durata alla sua; essa dura, è vero, ma il popolo che la abita perisce». «Mentre ogni altro popolo è tutt’uno con la propria lingua e la lingua gli si dissecca in bocca, se cessa di essere popolo, il popolo ebraico non si identifica mai totalmente con le lingue che parla […] la sua lingua infatti da tempo immemorabile non è più la lingua della vita quotidiana, e tuttavia, come mostra già la sua continua intromissione dispotica nell’ambito della vita quotidiana, è tutt’altro che una lingua morta. Essa non è morta, ma, come il popolo stesso la chiama, è lingua santa. La santità della sua lingua ha aspetti analoghi alla santità della sua terra, essa distoglie dalla quotidianità il momento più alto del sentire; essa impedisce che il popolo eterno viva totalmente in sintonia con il tempo; anzi in generale, proprio con il rinchiudere la vita ultima, la vita più alta, la preghiera, entro lo steccato di un ambito linguistico santo, gli impedisce di vivere totalmente libero e spontaneo […] La santità della lingua santa, nella quale egli può solo pregare, fa sì che la sua vita non getti radici nel terreno di una lingua propria. Una testimonianza del fatto che la sua vita linguistica si sente sempre in terra straniera è che egli sa che la sua vera patria linguistica è sempre altrove, nell’ambito linguistico della lingua santa, inaccessibile al discorso quotidiano, è la curiosa circostanza che la lingua quotidiana cerca di mantenere il collegamento con l’antica lingua santa, peraltro estranea da lungo tempo all’uso quotidiano, tramite i muti segni della scrittura; in maniera del tutto diversa da quando avviene presso i popoli del mondo, presso i quali è la lingua a sopravvivere ad una forma di scrittura perduta piuttosto che, al contrario, una forma di scrittura ad una lingua ormai estranea al quotidiano. Proprio nel silenzio e nei silenziosi segni del discorso l’ebreo sente che anche il suo linguaggio quotidiano è ancora di casa nella lingua santa delle sue ore di festa».
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«Solo per chi è mortale l’amore è completamente dolce; solo nell’amarezza della morte è rinchiuso il segreto di questa estrema dolcezza. Così i popoli del mondo prevedono un tempo in cui la loro terra, con i suoi monti e con i suoi fiumi, sarà ancora sotto il cielo come oggi, ma altri uomini l’abiteranno; la loro lingua sarà sepolta nei libri e le loro leggi avranno perso la loro viva potenza. Noi soli non possiamo immaginare un tale tempo, poiché tutto ciò a cui i popoli del mondo ancoravano la loro vita ci è stato strappato da molto tempo; a noi terra lingua usanza e legge già da molto tempo sono state recise dall’ambito del vivente e da vive sono state elevate per noi a sante; ma noi viviamo ancora e viviamo eternamente; la nostra vita non è più intrecciata a nulla di esteriore; noi abbiamo gettato radice in noi stessi, privi di radice nella terra, e perciò eterni erranti, e tuttavia profondamente radicati in noi stessi, nel nostro proprio corpo e sangue. E questo radicamento in noi stessi, ed in noi stessi soltanto, ci è garanzia della nostra eternità.» (La stella della redenzione, Casale Monferrato 19862, 319 ss.)
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EUPLO E LUCIA 304-2004 AGIOGRAFIA E TRADIZIONI CULTUALI IN SICILIA Atti del Convegno di Studi organizzato dall’Arcidiocesi di Catania e dall’Arcidiocesi di Siracusa in collaborazione con Facoltà di Lettere e Filosofia, Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università degli Studi di Catania Associazione Internazionale di Studio su Santità Culti e Agiografia Studio Teologico S. Paolo Catania-Siracusa 1-2 ottobre 2004 a cura di TERESA SARDELLA – GAETANO ZITO
S. PRICOCO, Introduzione • F.P. RIZZO, Il Cristianesimo siciliano dei primi secoli. Ruolo primario delle Chiese di Siracusa e di Catania tra III e IV secolo • V. GROSSI, La letteratura martiriale nella storiografia patristica • A. DI BERARDINO, Il modello del martire volontario • R. BARCELLONA, Leggende gregoriane su santi siciliani • F. SCORZA BARCELLONA, La passione di Euplo nella storiografia ecclesistica e regionale • C. CRIMI, S. Agata a Bisanzio nel IX secolo. Rileggendo Metodio patriarca di Costantinopoli • A. HEINZ, Agata, Lucia ed Euplo nella tradizione liturgica medievale • A. CAMPIONE, La Sicilia nel Martirologio Geronimiano • G. OTRANTO, La Sicilia paleocristiana nei concili di III-IV secolo • T. SARDELLA, Roma e la Sicilia nella promozione del culto dei santi siciliani: il pontificato di Simmaco • A. ACCONCIA LONGO, Santi siciliani di età iconoclasta • R. GRÉGOIRE, I testi agiografici: tra fonti bibliche, relazioni con ebraismo ed islamismo, ed influssi eterodossi • F. RIZZO NERVO, Lucia nelle altre vite di santi • R. OSCULATI, “Lege vitas sanctorum”: Cornelio a Lapide, il Nuovo Testamento e il martirio spirituale • B. BERTOLI, Il corpo di santa Lucia a Venezia • A. MILANO, Conclusioni