Synaxis 25 2 (2007)

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SYNAXIS XXV/2 - 2007

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA



INDICE

Sezione monografica «Il profilarsi di nuovi modelli di clero in Sicilia» EVOLUZIONE DEI MODELLI DI PRETE NELLA STORIA RECENTE (Maurilio Guasco) . . . . . . . 1. Il modello carolino . . . . . . 2. Il prete romano . . . . . . 3. Il prete sociale . . . . . . 4. Il pastore . . . . . . . 5. La pluralità dei modelli . . . . .

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7 7 9 12 15 18

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25 26 33 34

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LA FORMA “CRISTICA” DI UNA FIGURA “A-TIPICA”: PINO PUGLISI (Corrado Lorefice) . . . . . . . . 1. Credente . . . . . . . .

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NUOVI MODELLI DI CLERO? LE SFIDE ATTUALI (Giuseppe Ruggieri) . . . . . 1. I problemi ereditati dal passato . . 2. Alcune sfide attuali . . . . 3. Le strategie della selezione . . .

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IL PROFILARSI DI NUOVI MODELLI DI CLERO IN SICILIA. LE SFIDE ATTUALI (Alberto Neglia) . . . . . . Premessa . . . . . . 1. Le sfide come appello di Dio . . . 2. Il vangelo di Gesù come sfida fondamentale . 3. In ascolto della Parola . . . . 4. In ascolto della vita . . . . 5. Presenza nella Chiesa . . . .


2. 3. 4. 5. 6.

“Ecclesiastico” . Secolare . . Povero . . Audace nella tribolazione Una postilla conclusiva

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ATTUALITÀ DELLA PROSPETTIVA ANTIPERFETTISTA DELLA POLITICA ROSMINIANA (Salvatore Muscolino) . . . . . 1. Limiti del perfettismo . . . 2. Presupposti filosofici della polemica al perfettismo 3. Attualità o modernità politica di Rosmini .

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77 77 81 87

SALVATORE FAMOSO E LA RIFORMA LITURGICA. REGESTO DELL’ARCHIVIO PERSONALE (Carmine Lorena Bucolo) . . . . 1. La riforma liturgica . . . . 2. La vita di Salvatore Famoso (1920-1982) . 3. Salvatore Famoso e la riforma liturgica .

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LE BENEDETTINE OLIVETANE A PALERMO (Mario Torcivia) . . . . . 1. I monasteri palermitani delle olivetane 2. Considerazioni riepilogative . . 3. Olivetani e olivetane nella Palermo del ’500

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Sezione miscellanea

ASCESA E DECADENZA DEL PRIORATO DI S. ANDREA A PIAZZA ARMERINA. ANALISI DI TRE SACRAE REGIAE VISITATIONES (Tancredi Bella) . . . . . . . . 147 1. Le vicende storiche e i regi visitatori . . . . 148 2. “De servitiis divini cultus”. Considerazioni intorno alla vita religiosa del Priorato . . . . . 156 3. “De fabricis”. La conservazione dei manufatti architettonici . 162


4. “Redditus”, “Proventus” ed “Exitus”. Cronache sociali e bilancio del Priorato . . . . . 5. Le ‘gancie’ del Priorato di S. Andrea . . . 6. La Sancta Regalis Visitatio di Giovanni Angelo De Ciocchis 7. Osservazioni finali . . . . . .

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167 170 174 176

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181 181 182 184 193 205

MARIA MONTESSORI NEL RICORDO DI LUIGI STURZO (Salvatore Latora) . . . . . .

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Recensioni .

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LA RICOSTRUZIONE DELLA CHIESA DI S. CHIARA A CATANIA DOPO IL TERREMOTO DEL 1693 (Salvo Calogero) . . . . . . Premessa . . . . . 1. La ricostruzione del monastero delle clarisse 2. L’opera di Giuseppe Palazzotto nella chiesa di S. Chiara 3. Il completamento della nuova chiesa . . 4. Il completamento del monastero . . .

Nota

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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO



Sezione monografica* «Il profilarsi di nuovi modelli di clero in Sicilia»

Synaxis 25 (2007) 7-23

EVOLUZIONE DEI MODELLI DI PRETE NELLA STORIA RECENTE

MAURILIO GUASCO**

1. IL MODELLO CAROLINO Il Concilio di Trento rappresenta una data fondamentale nella storia del clero. Il 15 luglio 1563, nella sessione XXIII, i Padri conciliari approvano all’unanimità il decreto costitutivo dei seminari, decreto confermato da Pio IV con la bolla Benedictus Deus et Pater il 26 gennaio 1564. Tutte le chiese cattedrali e metropolitane sono invitate a riunire in un collegio i giovani aspiranti al sacerdozio, distribuendoli in diverse classi, quante al vescovo parrà opportuno, secondo il numero, l’età e i progressi nella disciplina ecclesiastica1. San Carlo Borromeo, uno dei maggiori protagonisti dell’applicazione in Italia del Concilio Tridentino, sarà anche il più sollecito a scrivere i regolamenti per i seminari, dai quali si può chiaramente desumere quale fosse l’immagine di prete che aveva in mente2. L’arcivescovo di Milano pensava * Il seminario interdisciplinare tra i docenti dello Studio Teologico S. Paolo prevedeva nove interventi: per diversi motivi si è riusciti ad averne appena la metà. Da questi contributi si riesce ad intravedere, comunque, lo scopo che il seminario si era prefisso. ** Ordinario di Storia del pensiero politico contemporaneo presso l’Università del Piemonte Orientale. 1 I vari documenti che hanno preparato il decreto finale, e il testo dello stesso decreto, in M. BENEDISCIOLI – M. MARCOCCHI (cur.), Riforma cattolica. Antologia di documenti, Roma 1963. 2 I testi dei vari regolamenti e altri scritti in proposito in Institutiones ad universum


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Maurilio Guasco

infatti che fin dal seminario si potessero individuare quali fossero le attitudini e le capacità del singolo, in base alle quali si potesse anche prevedere quale tipo di carriera ecclesiastica ciascuno avrebbe potuto fare. Per questo venivano date precise norme circa gli esami cui i candidati avrebbero dovuto essere sottomessi prima di venire ammessi agli ordini, per verificare non solo la loro preparazione, ma anche se possedessero i requisiti indispensabili per compiere questo passo. Da tale esame, per il quale si davano minutissime prescrizioni, sarebbe stato possibile avviare il candidato verso una certa «classe», o condizione di vita e di ministero, strettamente connessa con le sue capacità: una vera e propria gerarchia ecclesiastica di base, che Carlo pensava dovesse avere almeno quattro diversificazioni. La prima classe sarebbe stata composta da quanti avevano spiccata attitudine oratoria e ottima conoscenza dei casi di teologia morale, da poter eventualmente anche diventare insegnanti; fra di essi, si sarebbero potuti scegliere i responsabili di parrocchie maggiori, i vicari foranei, i canonici penitenzieri o teologi, i dignitari ecclesiastici. La seconda classe avrebbe accolto i meno facondi, ma comunque bravi in teologia morale, e che possedessero ottima conoscenza del catechismo romano. La terza classe, ancora i meno facondi, ma comunque in grado di fare semplici spiegazioni del Vangelo, nel corso degli uffici liturgici; e che fossero anche in grado di amministrare e spiegare i sacramenti. Nella quarta classe sarebbero andati quanti, pur non avendo tratto molto profitto dallo studio delle lettere, erano comunque in grado di spiegare al popolo i sacramenti e le cose essenziali per la salvezza. Anche questi, nei momenti di carenza del clero, avrebbero potuto essere utili in qualche ruolo pastorale, anche solo temporaneamente. Carlo Borromeo sembrava però non voler respingere nessuno soltanto per carenze intellettuali; e immaginava anche una quinta classe, composta da tutti gli altri seminaristi, ai quali comunque non sarebbe stata mai affidata nessuna responsabilità pastorale diretta. C’era dunque un elemento unificatore nelle diverse carriere ecclesiastiche a cui Carlo Borromeo voleva predeterminare i futuri preti, quello della cura animarum, dell’attività pastorale. Ma quell’ultima classe lasciava seminarii regimen pertinentes ab illustrissimo et reverendissimo D. D. Carolo S. Praxedis Cardinali, Archiep. Mediolani confectae, in Acta Ecclesiae Mediolanensis, Edente Paulo Pagnonio, Mediolani 1845, tomo II, 1005 ss. Altri testi anche nel tomo I, edito nel 1843.


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di fatto aperta la strada al permanere di modelli di vita sacerdotale che erano ben lungi dalla preoccupazione pastorale. Così non sarebbero scomparsi i clerici vagantes, e molti preti avrebbero continuato a esercitare le professioni più diverse, modificate solo in rapporto all’evoluzione della società civile, mentre altri saranno ordinati solo in funzione della celebrazione della Messa, per assolvere gli obblighi dei cosiddetti legati, connessi con quei beni che erano lasciati alle chiese con il preciso obbligo di una messa quotidiana per il defunto che aveva lasciato l’eredità. Veniva così reso vano l’invito fatto dal Concilio e da molti vescovi, a ordinare preti solo in funzione del servizio pastorale ad una comunità ben individuata.

2. IL PRETE ROMANO Tale situazione sarebbe durata a lungo. Tra il XVII e il XVIII secolo i preti che si dedicavano alla cura pastorale, interpretando così un preciso modello sacerdotale, erano una minoranza. Molti, soprattutto nella Roma dei papi, svolgono più il ruolo di funzionari civili, altri sono precettori nelle famiglie nobili, altri insegnano nelle scuole pubbliche o parrocchiali. L’attività pastorale viene considerata un servizio troppo gravoso e poco redditizio. Un prelato romano, il futuro cardinal Sala, riecheggiando in qualche modo, anche se con intenti opposti, la divisione in classi di Carlo Borromeo, in un suo piano di riforma scritto all’inizio dell’800 ci presenta la situazione del clero romano, offrendoci così un documento interessante per scoprire quali fossero i modelli di prete diffusi nella Roma del suo tempo3. L’ampio capitolo dedicato al clero manifesta una preoccupazione dell’autore, quella di ridare a quel clero il gusto del servizio pastorale, allontanandolo dalla mentalità che sembrava largamente dominante, che aveva trasformato gli ecclesiastici in una categoria tesa soltanto ad accaparrarsi benefici e rendite, svilendo così anche l’immagine di quanti erano dediti ai loro doveri di pastori.

3 G.A. SALA, Piano di riforma umiliato a Pio VII, Tolentino 1907 (il piano era stato redatto a Firenze tra il 1810 e il 1814, ed era rimasto inedito nella sua integralità).


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Maurilio Guasco

Il dato di partenza è chiaro: gli ecclesiastici sono troppo numerosi, e molti vivono nell’ozio. Ai troppi preti ordinati imprudentemente a Roma, si devono infatti aggiungere quelli provenienti dalle altre regioni, convinti di poter trovare nella capitale condizioni economiche migliori. L’autore distingueva il clero romano in cinque classi: «La prima classe è formata dai capitoli delle basiliche e delle collegiate; la seconda dai parrochi; la terza dai confessori e predicatori; la quarta dagli impiegati nelle segreterie e in altre incombenze, che non sono contrarie alla professione ecclesiastica; la quinta dalla residual turba di quelli che, non avendo alcun legame per cui siano impegnati in una determinata occupazione in servizio della Chiesa, o ne assumono di contrarie ai sacri canoni, o passano la loro vita senza far nulla»4.

La prima classe comprendeva circa un terzo del clero e aveva un’occupazione esclusivamente cultuale: cantare nel coro delle rispettive chiese e partecipare alle funzioni. Una professione angelica, notava l’autore, purtroppo spesso effettuata in modo poco preciso, il cui reddito era comunque quasi sempre alto e quindi ambito, anche da coloro che cercavano poi di cumulare quel compito con altre cariche per aumentare i guadagni. La seconda categoria avrebbe dovuto comprendere i preti migliori, vista la loro attività di pastori di anime, «distinti per dottrina, segnalati per zelo, rispettabili e rispettati per dignità». L’autore deve invece constatare amaramente: «Eppure l’impiego di parroco rimane per lungo tempo presso noi in tale avvilimento, che i nostri ecclesiastici di qualche abilità non solo non l’ambivano, ma neppure lo curavano, ed è ancora fresca la memoria di tante parrocchie occupate da preti forestieri, segnatamente corsi e calabresi»5.

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Ibid., 153-154. Ibid., 158.


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La ragione era da ricercarsi soprattutto nelle scarse rendite percepite dai parroci, che faticavano a procurarsi il necessario per vivere e non avevano neppure «la possibilità di mantenere un servitore, dovendo contentarsi di essere assistiti o da un chiericone o da un beccamorto».

La terza categoria, quella dei confessori e dei predicatori, annoverava un alto numero di persone degne, anche se non mancavano i confessori di manica troppo larga (detti «maniconi») e i predicatori che scambiavano il pulpito per una scena teatrale. Nella quarta categoria, gli impiegati delle segreterie delle varie Congregazioni, vi erano pure molte persone degne; ma altri trasformavano la loro attività in puro impiego profano, che avrebbe potuto essere affidato a dei laici. Non era infatti molto decoroso vedere preti occupati nelle varie segreterie di uffici governativi, o che esercitavano l’ufficio di procuratore, oppure «avviliscono il loro carattere servendo ai secolari da agenti, da esattori e da maestri di casa». La quinta classe era logicamente quella che destava ancora maggiori preoccupazioni, perché composta da preti sfaccendati, «assidui ai passeggi pubblici, alle conversazioni brillanti, ai giuochi, anche proibiti, alle feste clamorose, ai teatri e ad ogni altra sorta di spettacoli»6.

Era il risultato di tempi in cui, essendovi un gran numero di messe da celebrare, si ordinavano preti destinati a quel solo compito; oppure accedevano al sacerdozio i vari cantori della cappella pontificia. L’illustre prelato concludeva le sue analisi, dove le critiche erano sempre seguite da proposte concrete per modificare o migliorare la situazione, ricordando che il problema doveva essere affrontato alle radici.

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Ibid., 172.


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Bisognava affidare a persone di grandi capacità e rigore la direzione dei seminari e delle case di formazione dei preti, per agire sui giovani destinati al sacerdozio e per offrire luoghi dove i giovani preti potessero trovare aiuto e sostegno nei primi anni del ministero sacerdotale. In tal modo si sarebbe evitato di esporli alla tentazione di trasformare velocemente la loro missione sacerdotale in una professione lucrosa, le cui gerarchie ed importanza sembravano fondate quasi esclusivamente sui redditi che vi erano connessi. Gli anni delle rivoluzioni, gli sconvolgimenti che ne seguiranno, i nuovi e non sempre pacifici rapporti tra la Chiesa e gli Stati determineranno ulteriori modifiche nei modelli sacerdotali e nel modo di interpretare la missione pastorale. Il Sala aveva descritto un certo tipo di prete romano, un’espressione spesso usata fino a diventare un luogo comune che non necessita di spiegazioni. Ma coesistono anche vari altri modelli: il prete meridionale, con il suo sistema di vita legato al fenomeno delle chiese ricettizie, della scarsa presenza della struttura parrocchiale, dell’ampia presenza di preti privi di impegni pastorali: il prete veneto, con la sua disciplina austro-ungarica, con la sua accentuata pastoralità, la sua parrocchia dove è re, papa, vescovo e parroco; il prete lombardo, con le sue organizzazioni che diventeranno banche, e provvederanno ben anzi tempo al congruo sostentamento del clero; il prete piemontese, spesso accusato di filo-giansenismo, ma poi corretto dall’avvento dei grandi preti sociali, condizionati però dalla prima ondata di scristianizzazione sospinta dalle leggi eversive, e pure fondamentalmente fedele a casa Savoia, anche quando i suoi rappresentanti non fanno molto per meritare tale fiducia7.

3. IL PRETE SOCIALE Si tratta di modelli che vanno evolvendo soprattutto nel corso dell’800: nelle regioni italiane appariranno preti liberali e preti conservatori, preti favorevoli alle rivoluzioni e preti contrari, preti che si dedicano alle

7 Ampie analisi e bibliografia in proposito in Ricerca storica e Chiesa locale in Italia. Risultati e prospettive, Roma 1995.


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opere sociali per contribuire a creare una società più attenta ai nuovi bisogni e alle nuove povertà. Un esempio significativo, che si ripete in modi diversi quasi in ogni regione, è offerto da don Bosco, la cui attività avrebbe riscosso successi incredibili in tempi relativamente brevi8. Temperamento pratico e piuttosto alieno dall’ideologia, coscienza libera di fronte ai grandi problemi sociali e politici del suo tempo, don Bosco diventa portatore di nuove proposte, di nuovi modelli in campo religioso e più specificamente ecclesiastico: il prete non deve più essere soltanto l’uomo del sacro, l’uomo separato, ma l’uomo coinvolto nelle cose a cui si dedica, l’uomo della partecipazione e della condivisione. Nasce così una nuova classe di sacerdoti, accomunati dal lavoro di educazione popolare negli oratori o impegnati in altre iniziative sociali, dal mondo del lavoro alle carceri, agli ospedali. La contemporanea laicizzazione della società stava determinando la cancellazione di tutta una serie di uffici riservati agli ecclesiastici. Durante il Settecento era lentamente scomparso il precettore domestico, rimasto solo in alcune zone, ma per un tempo relativamente breve. Scompariva anche il prete che aveva come unico compito quello di celebrare delle messe (prete da messa o altarista), impegno dal quale traeva il necessario per vivere. Le messe erano connesse con un lascito, o con beni immobili di proprietà ecclesiastica. L’incameramento dei beni, l’inflazione che toglieva valore ai redditi, costringevano quei preti a cercare altre fonti di guadagno; e nello stesso tempo diminuiva anche il loro numero, grazie a una più accurata preparazione richiesta e quindi a una selezione più rigorosa nel seminario. Negli antichi territori pontifici scompariva anche il prete del tutto dedito alla amministrazione e al governo, ruolo reso necessario dall’esistenza dello Stato pontificio, ma divenuto ormai inutile e poco compatibile con il riaffermato ruolo religioso e pastorale. Emergeva lentamente il pastore, dedito alla cura spirituale di quella porzione di fedeli che gli veniva affidata. Era soprattutto a questi pastori che 8 Tra la vastissima bibliografia su don Bosco, restano fondamentali i tre volumi di P. STELLA, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, Zurigo-Roma 1968-1988. Da completare con l’ampia ricerca di P. BRAIDO, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, 2 voll., Roma 2003.


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pensava il legislatore, quando il 15 agosto del 1867 varava una legge che garantiva ai responsabili delle parrocchie il necessario per vivere, trasformando in qualche modo i parroci in stipendiati dello Stato. Un rapporto con lo Stato che era particolarmente forte per quella piccola ma simbolicamente significativa classe di preti senatori e deputati, destinata a scomparire in seguito ai primi conflitti con la Chiesa e quindi all’occupazione di Roma da parte dei piemontesi, con il conseguente rifiuto di Pio IX di riconoscere il nuovo Stato con la sua capitale. Una nuova figura, e un nuovo modello, doveva apparire all’orizzonte, diffondendosi velocemente in quasi tutte le regioni, quella del «prete sociale»9. L’elenco delle attività promosse da questi preti è molto lungo e investe quasi tutti i settori dell’assistenza, con particolare attenzione al mondo contadino. Ma intanto va sempre più affermandosi la figura del prete pastore10. Ancora a metà Ottocento i preti in cura d’anime erano in minoranza nei confronti di quanti si dedicavano alle attività più varie; gradualmente la figura più riconosciuta diventa quella del pastore, responsabile parrocchiale, predicatore, professore in seminario, collaboratore nelle varie opere di estrazione ecclesiastica, mentre a Milano facevano la prima timida e fugace apparizione i cappellani del lavoro. I preti sociali, in non pochi casi, diventavano i protagonisti dei primi tentativi di un ritorno dei cattolici alla vita politica: prima Romolo Murri e poi Luigi Sturzo sarebbero stati le avanguardie di un gruppo di preti che avrebbero collaborato, all’inizio del 9

Si vedano in proposito i vari saggi raccolti in C. NARO (cur.) Preti sociali e pastori d’anime, Caltanisetta-Roma 1994. 10 La bibliografia sull’attività del clero tra ’800 e ’900 è molto cresciuta negli ultimi decenni. Ricordo alcune ampie rassegne in proposito: G. BATTELLI, Clero secolare e società italiana tra decennio napoleonico e primo novecento. Alcune ipotesi di rilettura, in M. ROSA, Clero e società nell’Italia contemporanea, Roma-Bari 1992, 43-123; M. GUASCO, Il prete dall’Ottocento al Vaticano II: tra storia e storiografia, in G. MARTINA – U. DOVERE (curr.), I grandi problemi della storiografia civile e religiosa, Roma 1999, 299-322; A. RICCARDI, Il prete nella Chiesa italiana della seconda metà del Novecento, in Società, Chiesa e ricerca storica, in M. NARO (cur.), Studi di storia moderna e contemporanea in onore di Pietro Borzomati, Caltanisetta-Roma 2002, 433-454; R.P. VIOLI, Il clero, in M. IMPAGLIAZZO (cur.), La nazione cattolica. Chiesa e società in Italia dal 1958 a oggi, Milano 2004, 147-159; C. NARO, Clero e nazione italiana, in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione lugliodicembre (2000) 313-329.


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Novecento con la Democrazia cristiana murriana, quindi con il Partito Popolare, nel primo dopoguerra, e con la Democrazia Cristiana, nel secondo dopoguerra. Si trattava però di fenomeni congiunturali, e spesso di breve durata; così come sarebbero stati fenomeni congiunturali i pretisoldati della prima guerra mondiale e i cappellani militari, alcuni dei quali avrebbero avuto anche un ruolo non molto lusinghiero come propagandisti convinti del regime fascista e quindi della Repubblica di Salò11.

4. IL PASTORE La nuova situazione politica, negli anni del secondo dopoguerra, avrebbe determinato l’accentuazione di quella figura di prete che tendeva ormai a diventare la più diffusa. In un contesto internazionale che vedeva la crescente persecuzione antireligiosa nei paesi comunisti, e in un’Italia dove il Partito comunista era di gran lunga il più forte fra i paesi occidentali, nel luglio 1949 a Roma veniva emanato un decreto di scomunica nei confronti di quanti aderivano scientemente alla dottrina del marxismo ateo. Al di là di tutti i dibattiti sollevati da quel decreto e della difficile situazione in cui vennero spesso a trovarsi i parroci, rimaneva il fatto paradossale di un decreto che sembrava affermare l’ovvio, e cioè che un ateo non deve essere ammesso ai sacramenti, mentre pareva altrettanto paradossale che una persona considerata atea esigesse i sacramenti. Il paradosso derivava dal fatto che da sempre tutti gli italiani erano considerati cattolici, e quindi avevano diritto ai sacramenti senza indagare sulla loro presunta fede religiosa. Anche il comunista militante, che non si era mai chiesto se la sua militanza politica fosse una prova della sua mancanza di fede, non capiva perché venisse privato di quello che considerava un suo diritto. Questo faceva apparire all’orizzonte la necessaria trasformazione dell’impegno del prete. Da sempre considerato distributore di sacramenti, si rendeva conto che doveva ritrovare il suo ruolo di evangelizzatore, di responsabile cioè della formazione cristiana dei suoi parrocchiani, che non 11 Si veda in particolare M. FRANZINELLI, Il riarmo dello spirito. I cappellani militari nella seconda guerra mondiale, Paese (Treviso) 1991; ID., Stellette, Croce e Fascio littorio. L’assistenza religiosa a militari, balilla e camicie nere 1919-1939, Milano 1995.


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poteva più considerare tali per diritto di nascita. Bisognava riparlare dei sacramenti come momenti forti di una vita religiosa, che non si poteva presupporre, ma doveva essere fatta sbocciare e coltivata. In quel momento, le reazioni erano diverse: se il prete era prima di tutto un distributore di sacramenti, non si vedeva perché li potesse negare a qualcuno. Sarebbero passati vari anni prima che si accettasse di prendere coscienza di questa nuova situazione, che aveva già fatto dire a non pochi francesi che la Francia rischiava di trasformarsi in un paese di missione. Le condizioni del cattolicesimo italiano erano certamente migliori di quelle verificabili in Francia, ma vi erano tutte le premesse perché un giorno anche in Italia, come effettivamente avvenne, si cominciasse a modificare il termine di «nuova evangelizzazione» in «prima evangelizzazione». Di fronte a questi rischi si poteva dunque ipotizzare una nuova figura di prete, più attento all’innovazione che alla conservazione, più adatto alla missione che ai regimi di cristianità. La premessa di questo poteva essere rappresentata da quelli che sarebbero stati presto definiti i preti fidei donum, dal titolo dell’enciclica che ne aveva determinato la formazione. Pio XII, che era già intervenuto sui problemi della formazione del clero con l’esortazione apostolica Menti nostrae del settembre 1950, pubblicava nell’aprile 1957 l’enciclica Fidei donum, con la quale invitava i vescovi occidentali a mettere i loro preti al servizio dei paesi di missione, per periodi determinati e previo accordo tra i vescovi interessati all’invio e all’accoglienza. Si trattava di una svolta radicale nella formazione del clero, ed era anche frutto di un clima diverso nato nei seminari grazie alla forte crescita di una nuova coscienza missionaria. L’enciclica di Pio XII indicava una nuova strada, senza per questo sconfessare la precedente, la strada della cooperazione fra le diocesi. Il prete diocesano che sentiva il desiderio di dedicare alle missioni un periodo della propria vita, veniva messo in contatto dal suo vescovo con una diocesi di un paese a scarsa diffusione del cristianesimo. Il sacerdote si impegnava allora per un triennio, eventualmente rinnovabile, restando legato alla propria diocesi di origine, ma lavorando nella nuova parrocchia alle direttive del vescovo locale. L’enciclica non suggeriva strade del tutto nuove, qualche diocesi aveva già sperimentato o auspicato tale forma di cooperazione. Sembrava d’altronde logico che quelle diocesi che avevano un numero maggiore di preti ne


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inviassero alcuni nelle diocesi più povere. Questo però significava il superamento di una mentalità e di una prassi secolare, di quel modello ecclesiale che prevedeva che i preti fossero al servizio della loro diocesi di origine, e che quanti pensavano di mettersi al servizio della Chiesa universale entrassero in una Congregazione religiosa. L’enciclica Fidei donum auspicava il superamento di tale prassi, e invitava i preti diocesani a guardare oltre i confini della propria diocesi, a sentirsi al servizio della Chiesa che poteva chiedere di svolgere il loro servizio pastorale al di fuori della diocesi stessa12. Quella Chiesa in stato di missione che sarebbe diventato un programma, o un sogno, negli anni del Concilio, aveva qui le sue premesse; e un sacerdozio riletto in chiave missionaria non poteva non produrre frutti diversi anche nell’autocomprensione dei preti. I testi conciliari non avrebbero introdotto particolari novità, per quanto concerne il modello sacerdotale. Ma leggendo con attenzione i vari documenti, e in particolare quelli dedicati alla formazione e alla vita dei preti, si potevano cogliere elementi significativi. Se rimaneva forte il riferimento al prete garante della continuità, legato a qualche nostalgia del regime di cristianità, si parlava apertamente di missione come centro della vita della Chiesa, e di conseguenza come compito prioritario dei preti. Con l’accenno alla possibilità da parte dei preti, in condizioni particolari, di scegliere il lavoro salariato, possibilità che nel corso degli anni Cinquanta era stata del tutto esclusa nei documenti romani13, si aprivano le strade a 12 Si veda R. ZECCHIN, I sacerdoti Fidei donum. Una maturazione storica ed ecclesiale della missionarietà della Chiesa, Roma-Padova 1990. 13 Sono noti i documenti del 1954 e del 1959, provenienti da Roma e diretti alla Chiesa di Francia, sulla vicenda dei preti operai. Il primo imponeva a tutti i preti di lasciare il lavoro entro il primo marzo 1954, il secondo, del luglio 1959, di fronte a qualche timida richiesta di poter riprendere quella esperienza, parlava esplicitamente di incompatibilità del sacerdozio con il lavoro salariato. Si possono vedere questi documenti romani in G. BARRA – M. GUASCO, Chiesa e mondo operaio. Le tappe di un’evoluzione: da don Godin ai preti operai ai «preti al lavoro», Torino 1967, 188-189, 229-234. Pochi anni dopo nel documento conciliare dedicato al ministero e alla vita sacerdotale, i Padri avrebbero scritto: «Tutti i presbiteri hanno la missione di contribuire a una medesima opera, sia che esercitino il ministero parrocchiale o sovraparrocchiale, sia che si dedichino alla ricerca dottrinale o all’insegnamento, sia che esercitino un mestiere manuale — condividendo le condizioni di vita degli operai, nel caso che ciò risulti conveniente e riceva l’approvazione dell’autorità competente — sia infine che svolgano altre opere di apostolato o ordinate all’apostolato».


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forme di vita sacerdotale molto lontane da quella considerata ormai classica, cioè quella di addetto esclusivamente al culto. Se ne potevano desumere conseguenze significative. D’altronde, affermare l’incompatibilità del sacerdozio con il lavoro salariato14, sembrava una vera anomalia di fronte al fatto che si dava per scontato che un prete potesse fare l’insegnante a tempo pieno, o l’amministratore della diocesi. Era poi così diversa la condizione del prete operaio da quella di chi esercitava queste due professioni? Ancora una volta, sarebbe stata la storia a indicare i cambiamenti, molto più che i documenti e le affermazioni di principio. Il decennio postconciliare avrebbe visto l’estendersi di una crisi non facilmente risolvibile: forte contrazione degli ingressi in seminario, e nello stesso tempo un numero molto alto di abbandoni del ministero da parte di preti di età ancora relativamente giovane. Si parlava ormai apertamente di una crisi del prete, nei suoi vari aspetti. Il problema si poneva a livello teologico: la promozione del laicato, i forti cambiamenti nei modelli ecclesiologici sembravano mettere in causa un ruolo da sempre riconosciuto, riducendo l’azione e la presenza del prete in ambiti poco significativi. Su tali strade sembravano avviare anche certe posizioni del dissenso cattolico, che dopo aver messo in causa una figura del prete nei suoi aspetti più storico-sociologici, ora sembrava intaccare anche la dottrina teologica, parlando ad esempio della scelta del proprio responsabile fatta dalla stessa comunità, e anche di presidenza dell’eucarestia condivisa da tutta l’assemblea eucaristica15. Andava così in crisi la tradizionale immagine del prete, lo stesso suo ruolo sociale. Il conseguente calo di prestigio, la collocazione della categoria su un gradino molto più basso di una riconosciuta gerarchia sociale finiva per rendere meno appetibile lo stesso ruolo: le gratificazioni offerte sembravano non compensare più le rinunce richieste.

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Nella ricordata lettera del luglio 1959, firmata dal card. Pizzardo, si diceva: «La S. Sede ritiene che il lavoro in fabbrica o in cantiere è incompatibile con la vita e le obbligazioni sacerdotali». 15 La letteratura sul cosiddetto dissenso fu discretamente ampia per un certo periodo. L’opera più completa e ricca di documentazione rimane quella di M. CUMINETTI, Il dissenso cattolico in Italia (1965-1980), Milano 1983.


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5. LA PLURALITÀ DEI MODELLI Stavamo assistendo a una nuova fondamentale svolta nella storia del clero italiano. Il sacerdozio non veniva più considerato il segno di appartenenza a una classe elevata, strumento di accesso a uno status sociale riconosciuto e apprezzato, che conferiva prestigio alla persona a prescindere dai suoi meriti individuali. Diventava una scelta, una vera missione, con le inevitabili conseguenze: cambiamento del sistema di vita, dei modi di trasmissione del messaggio evangelico e quindi delle strategie pastorali, modifica del modello unico, imposto, anche se la sua applicazione era stata molto ritardata, dal Concilio di Trento. Al clero tridentino si andava sostituendo un clero con alcuni elementi, essenziali, in comune, e altri diversificati. A porre in causa in modo radicale il modello tridentino erano stati i preti operai francesi, che avrebbero trovato imitatori in Italia a partire dalla fine degli anni Sessanta. La vicenda francese era durata meno di un decennio16. Iniziata timidamente mentre finiva la seconda guerra mondiale, si sarebbe sviluppata negli anni successivi per giungere a conclusione, almeno nelle intenzioni della gerarchia, nel 1954. Come abbiamo ricordato, la prima proibizione era appunto del 1954, ratificata poi nel 1959, quando si dichiarava esplicitamente che il sacerdozio era incompatibile con il lavoro in fabbrica o nei cantieri. Le ragioni di quella proibizione erano molteplici, di carattere anche politico, ma la vera posta in gioco era una sola, la definizione del sacerdozio e delle modalità del suo esercizio. Nelle Congregazioni romane si pensava che veniva messa in causa l’essenza stessa del sacerdozio. Permaneva infatti la mentalità che aveva fatto del sacerdozio definito dal Concilio di Trento non uno dei possibili modelli sacerdotali, ma l’unico modello sacerdotale. Il dibattito sui preti operai era legato alle lunghe discussioni sull’evangelizzazione del mondo operaio. In Francia alcuni avevano scelto la strada della presenza di preti come operai nelle grandi fabbriche; in Italia 16 E. Poulat ha dedicato parecchi lavori alla vicenda dei preti operai. La sua opera maggiore è stata tradotta anche in italiano: I preti operai (1943-1947), Brescia 1967. Come indicato nel titolo, l’analisi molto ampia si ferma al 1947. La migliore e più recente opera in proposito è quella di M. MARGOTTI, Preti e operai. La Mission de Paris dal 1943 al 1954, Milano 2000.


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si era scelta la via dei cappellani di fabbrica, di preti cioè cui era affidata la cura pastorale del mondo operaio, e che concepivano la loro presenza nei luoghi di lavoro con lo stesso criterio con cui altri preti operavano nelle parrocchie: responsabili dell’istruzione religiosa degli operai e della loro eventuale preparazione ai sacramenti, senza condividere il loro lavoro. Si trattava secondo alcuni di due strategie pastorali, una che privilegiava una presenza specificamente sacerdotale, l’altra che credeva al coinvolgimento totale nell’ambiente da evangelizzare. Ma il confronto non era fra due strategie pastorali, bensì fra due visioni del mondo, due modi diversi di concepire la società e la comunità cristiana, di definire la scristianizzazione. Da un lato, permaneva una convinzione di fondo: la società come tale continua a essere globalmente cristiana, in quanto conserva i valori e i riferimenti essenziali che sono propri di una società cristianizzata. Ciò che è cambiato, che è in crisi, è la pratica religiosa. La conseguenza è quella constatata: la diminuzione della pratica, cioè della partecipazione ai gesti di culto, soprattutto a quelli considerati qualificanti, quali la messa della domenica. Fra le ragioni vi sono anche i difetti delle strategie pastorali: modi e linguaggio dell’annuncio religioso, tipo di pratica religiosa e devozioni, orari delle cerimonie religiose; basterà aggiornarli per facilitare un ritorno a quella pratica ora in crisi. Di fronte a tale analisi ne stava apparendo un’altra: la società non è più cristiana, o forse non è mai stata veramente cristianizzata. Comunque, i valori cristiani non sono più i suoi valori di riferimento; non basterà certo cambiare le strategie pastorali per far rinascere una domanda religiosa che in certe categorie sociali va scomparendo. Dalla prima analisi scaturiva allora la proposta di cambiare i modi di operare, la seconda chiedeva un cambiamento nel modo di essere; di conseguenza anche un ripensamento della cultura e della formazione del clero, preparato ora in funzione della conservazione di una società statica, e costretto a confrontarsi con una società radicalmente mutata. Dopo il Concilio si era superata la convinzione della incompatibilità del lavoro salariato con il sacerdozio; nella tradizione della Chiesa d’altronde il lavoro era apparso a più riprese come strumento di ascesi e di perfezione, scelta della condizione del povero, mezzo per guadagnarsi la


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vita e non gravare sulla comunità cristiana anche da parte del prete. Tuttavia ora vi era un elemento nuovo: il prete non lavorava solo per guadagnarsi da vivere, ma in quanto aveva scelto di essere presente e militante nella classe operaia, sposando gli interessi, le lotte e le speranze di una classe di cui condivideva le condizioni di vita. Era la sua coscienza sacerdotale a cambiare, con il rischio di mettere in causa quelli che venivano considerati gli elementi essenziali dello stesso sacerdozio17. Era la proposta di un sacerdozio che non si definisse solo dal suo ruolo cultuale, ma da un nuovo tipo di testimonianza, «un sacerdozio vissuto totalmente in situazione operaia»18, allo scopo di far nascere la comunità cristiana anche in ambienti ai quali la Chiesa era totalmente estranea. Ci sarebbero stati anche tentativi di orientare dei giovani verso il mondo operaio fin dagli anni della formazione, creando strutture formative per quei seminaristi che pensavano di scegliere quel tipo di presenza dopo l’ordinazione sacerdotale19. Una scelta che avrebbe determinato un’ulteriore modifica o arricchimento dei modelli di vita sacerdotale; ma che si esponeva al rischio di creare un futuro presbiterio troppo disomogeneo e di formare un prete che non fosse l’uomo di tutti ma di una specifica categoria. Il problema posto dai preti e dai seminaristi operai si sarebbe riproposto in anni recenti con lo sviluppo dei cosiddetti movimenti ecclesiali di vita attiva (Comunione e Liberazione, Opus Dei, ecc.) o di rinnovamento spirituale. Quei movimenti avevano caratteristiche diverse e scopi molto specifici, con attività talvolta riservate ai soli membri, talvolta aperte all’esterno, ma con criteri selettivi e modelli religiosi molto particolari. Essi tendevano poi ad assumere anche il ruolo di formatori, per poter preparare sacerdoti a loro immagine e somiglianza, e destinati al loro esclusivo servizio. Il che non poteva non sollevare qualche problema per i responsa17

Su questi aspetti, E. POULAT, Notes sur la psychologie religieuse des prêtres ouvriers, in Journal de psychologie normale et pathologique (1957), 51-66, ora in Une église ébranlée. Changement, conflits et continuité de Pie XII à Jean-Paul II, Paris 1980, 149-164. 18 Lettera al vescovo di Torino, in Il Regno – Documenti 11 (1979) 302-303; si veda anche C. CARLEVARIS, Quindici anni prete-operaio, in Rocca 13 (1978) 48-50; Preti operai scrivono ai vescovi, in Il Regno – Attualità 6 (1978) 114-116. 19 Sui seminaristi al lavoro, A. FAMÀ, Il Seminario di Rivoli 1967-1972. L’esperienza dei chierici al lavoro, in Uomini di frontiera. «Scelta di classe» e trasformazione della coscienza cristiana a Torino dal Concilio a oggi, Torino 1984, 257-274.


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bili della formazione sacerdotale. Si ripeteva in parte la situazione verificatasi con i seminaristi provenienti dal mondo operaio, che chiedevano di orientare la loro formazione in vista dell’evangelizzazione degli stessi ambienti operai. Questo aveva sollevato ampie discussioni sulla necessità di formare un prete uomo di tutti e non di una specifica categoria. Ed è singolare che in certi casi i teorici dei movimenti e del sacerdozio a loro immagine fossero gli stessi che avevano fortemente messo in causa le proposte di un sacerdozio specifico per il mondo operaio. Il Concilio di Trento aveva fatto nascere un modello di prete uniforme, da estendere a tutti; era la sua forza, in tempi di necessaria riforma della Chiesa; ma rischiava di essere a scapito della possibilità di adeguare quel modello ai vari contesti in cui lo stesso clero sarebbe stato chiamato ad agire. Ma i requisiti e la formazione richiesti finirono per lasciar intuire che, nonostante le frequenti affermazioni contrarie, il sacerdozio si definisce prima di tutto come una funzione, un ruolo da svolgersi all’interno di una comunità, le cui connotazioni pratiche verranno individuate storicamente. È la storia cioè, più che la teologia, a definire il ruolo dei preti; la dottrina teologica cercherà di specificarne gli elementi essenziali, evitando però di indicare come tali quegli aspetti che hanno a loro volta origine storica. È significativo il fatto che ogni epoca abbia visto la presenza di preti che erano molto diversi dall’immagine ammessa e talvolta imposta per quel periodo; ed è altrettanto significativo che quegli stessi, osteggiati o emarginati da vivi, siano poi diventati in certi casi, dopo la morte, quasi modelli da proporre. Segno che anche in questo ambito il vissuto è spesso più ricco del normativo, e il secondo non spegne l’immaginazione e la fantasia pastorale20. 20 Esempi di sacerdozio vissuto nelle condizioni meno codificate, in R. BERETTA – G. GAZZANEO, Preti di strada. Le frontiere dell’emarginazione e della speranza raccontate dai più noti sacerdoti «anti-droga», Torino 1995. È apparso recentemente un volume che raccoglie saggi dedicati alla vita della Chiesa, ai problemi della parrocchia e alla identità del prete: F. GARELLI (cur.), Sfide per la Chiesa del nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia, Bologna 2003. Uno dei saggi è dedicato alla tipologia del clero: M. OFFI – F. GARELLI, Profilo e tipologia del clero italiano, 303-345. Dall’indagine svolta, gli autori ritengono di poter dividere il clero italiano in quattro tipi o modelli: il modello della mediazione, quello di modernità e tradizione, quello nostalgico-reattivo e quello sfiduciato-sociale. Come è logico in questi tipi di indagine, l’esito è la costruzione di un tipo ideale sufficientemente rappresentativo, anche se è probabile che un buon numero di preti non si riconosca in nessuno di quei modelli. Il termine comunque rimane ambiguo. Mi pare che più che di modelli, si debba


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La storia ci insegna dunque che nessun modello è eterno, e che sono le condizioni specifiche dei tempi e dei luoghi che richiedono un continuo adeguamento dei sistemi di vita dei preti perché possano meglio svolgere la loro missione, quella di annunciare il messaggio evangelico. Le nostre parole hanno come scopo l’annuncio della Parola rivelata; allo stesso modo, i diversi modelli sacerdotali dovrebbero avere come scopo di essere il meno possibile dissimili dall’unico modello di sacerdos, il Cristo.

parlare di diversi atteggiamenti interiori, o psicologici se si preferisce, con cui si esprime l’unico modello di prete che sembrano avere in mente gli studiosi, quello del pastore impegnato direttamente in parrocchia. Non si può escludere che questa sia la realtà: ma forse le indagini dovrebbero verificare non i modi in cui i preti vivono lo stesso modello sacerdotale, ma se esistano di fatto altri modi di vivere lo stesso sacerdozio.



Synaxis 25 (2007) 25-37

NUOVI MODELLI DI CLERO? LE SFIDE ATTUALI

GIUSEPPE RUGGIERI*

Non si è molto originali nell’affermare che il clero della Chiesa Cattolica soffre di un certo disagio. La costatazione è banale e non ha bisogno di essere documentata. Ne prendeva atto anche l’attuale vescovo di Roma nel suo dialogo con il clero d’Aosta riunito a Introd il 25 luglio 2005 e, senza stabilire un legame diretto, ne parlava assieme alla crisi delle grandi chiese istituzionali1. In questo contesto dire che si affacciano nuovi modelli di clero, potrebbe sembrare altrettanto scontato. Invece non lo è, giacché potrebbe darsi che per lungo tempo ancora dovremo assistere allo sfilacciarsi dei * Ordinario di Teologia fondamentale e Cristologia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 «Il primo punto è un problema che si pone in tutto il mondo occidentale: la mancanza delle vocazioni. Ho avuto, nelle ultime settimane, le Visite “ad limina” dei Vescovi dello Sri Lanka e della parte Sud dell’Africa. Qui crescono le vocazioni, anzi sono così tante che non possono costruire sufficienti Seminari per accogliere questi giovani che vogliono farsi sacerdoti. […] Diversa è la situazione nel mondo occidentale, che è un mondo stanco della sua propria cultura, un mondo arrivato al momento nel quale non c’è più evidenza della necessità di Dio, tantomeno di Cristo, e nel quale quindi sembra che l’uomo stesso potrebbe costruirsi da se stesso. In questo clima di un razionalismo che si chiude in sé, che considera il modello delle scienze l’unico modello di conoscenza, tutto il resto è soggettivo. Anche, naturalmente, la vita cristiana diventa una scelta soggettiva, quindi arbitraria e non più la strada della vita. E perciò, naturalmente, diventa difficile credere e se è difficile credere tanto più è difficile offrire la vita al Signore per essere suo servo. Questa certamente è una sofferenza collocata direi nella nostra ora storica, nella quale generalmente si vede che le cosiddette grandi Chiese appaiono morenti. Così in Australia soprattutto, anche in Europa, non tanto negli Stati Uniti. Crescono, invece, le sette che si presentano con la certezza di un minimo di fede e l’uomo cerca certezze. E quindi le grandi Chiese, soprattutto le grandi Chiese tradizionali protestanti, si trovano realmente in una crisi profondissima. Le sette hanno il sopravvento perché appaiono con certezze semplici, poche, e dicono: questo è sufficiente».


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vecchi modelli. La resistenza delle istituzioni e dei comportamenti collegati è imprevedibile. E nemmeno bisogna rincorrere il mito di “un” nuovo modello, dove resterebbe sottinteso che deve trattarsi del modello finalmente esemplare e normativo. Proprio la situazione siciliana ha conosciuto, nel secolo precedente, la coesistenza di diversi modelli, da quello “sociale” a quello “sacramentale”, a quello che chiamerei “familiare” (lo storico F. Stabile parlerebbe di “municipale”), a quello “movimentistico” a quello “parrocchiale-conciliare”. Senza quindi azzardare previsioni vorrei enumerare alcuni problemi che attendono una soluzione. Infatti è dalla soluzione concreta che si darà a questi problemi che, a mio avviso, si creeranno le condizioni che determineranno gli atteggiamenti di coloro che nella Chiesa sono chiamati a svolgere il ministero presbiterale.

1. I PROBLEMI EREDITATI DAL PASSATO La peculiarità dell’insegnamento del Vaticano II nei confronti del ministero presbiterale sta nel fatto di aver ancorato all’esercizio stesso del ministero pastorale l’ideale spirituale del prete. Fino a Trento, in maniera molto schematica, possiamo dire che l’esercizio del ministero pastorale veniva visto come ostacolo alla ricerca della propria santificazione. Era l’ordo monastico che come tale era considerato il luogo per eccellenza del progresso nella vita spirituale. Per uno dei fondatori della devotio moderna, Florentius Radewins (1350 ca – 1400), valeva che Si non essem sacerdos nec curam aliorum haberem, tunc possem me perfecte emendare2. Il motivo non è così nuovo e già Gregorio Magno, ma con accenti molto diversi e con chiara consapevolezza dell’urgenza dell’obbligo pastorale nonostante le propensioni personali, sottolineava la dialettica tra il raccoglimento del monastero e la dispersione dell’ufficio di vescovo. Rispetto a questo stato di cose l’epoca tridentina segnò due novità. La prima fu quella di collocare dogmaticamente il ministero presbiterale all’interno della potestas in sacris, come potere di celebrare l’eucaristia. E questo 2 Cit. sec. H. JEDIN, Das Leitbild des Priesters nach dem Tridentinum und dem Vaticanum II, in Theologie und Glaube (1970) 102-124; la citazione a p. 105.


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fu opera del concilio stesso. Non come opera del concilio, ma del clima di riforma attorno al concilio, dei grandi spirituali si adoperarono per rifondare un ideale interiore del clero. Il concilio da parte sua si era limitato alla istituzione dei seminari che, per lo più vennero però affidati a degli ordini religiosi, gesuiti in prima linea. La conseguenza fu una dicotomia tra l’ideale di vita, copiato dalla vita religiosa, e la “cura animarum” dall’altra parte. Solo a partire dal XVII secolo, in Francia sorge una reazione (Sulpiziani, Eudisti, De Bérulle etc.) e si cerca di suscitare una spiritualità “sacerdotale”, orientata al modello di Cristo sacerdote. Caratteristica della cosiddetta “scuola francese” fu quella di una certa separazione tra l’essere e l’operare del prete. «Il prete deve conformarsi a ciò che egli è in forza del suo stato, in virtù della vocazione e della consacrazione che lo fanno partecipare allo stato sacerdotale di Gesù Cristo. La scuola francese fonda una deontologia del sacerdozio, fondata a sua volta su una cristologia sacerdotale. E così, benché le applicazioni al ministero vengano continuamente perseguite e fatte, tutto è dominato da un’ontologia della consacrazione con fondamento cristologico, giacché Cristo è prete in forza dell’incarnazione stessa, cioè nella sua ontologia di Verbo incarnato […] Il primo ufficio sacerdotale è dunque quello dell’adorazione e del culto»3.

Ciò non impedisce che figure come Vincenzo dei Paoli o Giovanni Eudes insistano anche sull’aspetto missionario, per cui la caratteristica del sacerdozio è la comunicazione dell’opera redentrice di Cristo. È questo un modo che si pone del resto nella linea dei Padri. Gregorio di Nazianzo ad esempio non definisce il prete «mediante una specialità (come celebrare il sacrificio o predicare la Parola), ma richiamando ad un’attività totalizzante che include tutti i ministeri e che constituisce il prete, notiamo bene: il semplice prete, come un facitore di cristiani»4.

3 Y. CONGAR, Le sacerdoce du Nouveau Testament: mission et culte, in Les Prêtres. Décrets «Presbyterorum Ordinis» et «Optatam totius» (Unam Sanctam 68), 236-237. 4 M. JOURJON, Le sacerdoce díaprès l’Oratio secunda de saint Grégoire de Nazianze, in Bulletin du Comité des Études. Compagnie de Saint-Sulpice 38-39 (1962) 378.


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Già prima del resto figure come Carlo Borromeo, e poi dopo, come il curato d’Ars, si iscrivono in questa linea. Restava tuttavia la dicotomia di fondo. La scuola francese alimentò per secoli il desiderio di oblatività di tante generazioni di preti, fino alla vigilia del Vaticano II, ma con una certa scissione rispetto alle esigenze concrete della vita pastorale, della missione del prete in quanto tale. Qualcuno (H. Denis) ancora nel 1964, quindi nel pieno della discussione conciliare, poteva parlare del pericolo di distinguere un clero di liturghi e un clero di apostoli5. Si denunciava così un disagio che aveva radici secolari. Anche l’ideale del prete della scuola francese restava cioè ultimamente debitore di una considerazione astratta. A partire dalla prima metà del Novecento si moltiplicano quindi i tentativi per dare consistenza spirituale a quello che viene chiamato il “semplice” prete. La dizione giuridica distingueva infatti tra clero religioso e clero secolare. Si tende quindi a correggere lo squilibrio già sul piano linguistico e si comincia a parlare del prete diocesano tout court. Sono del 1938 due libri che faranno da battistrada a centinaia di pubblicazioni successive. E. Masure pubblica De l’éminente dignité du sacerdoce diocésain e P. Glorieux Dans le prêtre unique. La riflessione e il dibattito arriveranno fino alla soglia del Vaticano II, alimentati, soprattutto dopo la II guerra mondiale, dall’esperienza dei preti operai francesi. Cos’è un semplice prete, il prete tout court? È definito solo dal culto e dall’amministrazione dei sacramenti? Qual è il suo rapporto con il vescovo e con gli altri preti che fanno cose diverse? Cosa lo distingue effettivamente da un laico: solo il fatto di avere un potere sacro nella celebrazione dei sacramenti? Si comprende allora, già a partire da qui, il cammino fatto nel Vaticano II6, se si ricordano anche soltanto i nn. 13 e 14 del decreto Presbyterorum ordinis. Al n. 13, all’inizio, ci viene detto che

5 H. DENIS, Le Prêtre pourquoi faire? Réflexions sur le sacrement de l’Ordre, in Vocations sacerdotales et religieuses, juillet (1964) 39. 6 Cfr. G. RUGGIERI, L’immagine del prete nel Vaticano II, in XXVI Convegno del Dialogo dei Seminari di Sicilia: Formazione al Presbiterio, Spiritualità della Comunione (Cefalù, 24-26 ottobre 2003), [s.l.] [s.d.], 14-33.


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«i presbiteri raggiungeranno la santità nel loro modo proprio se, nello Spirito di Cristo, eserciteranno le proprie funzioni (munera) in maniera sincera e instancabile».

I munera del presbitero sono gli stessi di quelli del vescovo, al quale il presbitero è unito nell’unità dell’ordine ed il quale ha ricevuto in pienezza quello che i presbiteri hanno ricevuto parzialmente: predicare la Parola, santificare attraverso la presidenza dell’eucaristia e della celebrazione degli altri sacramenti, edificare e reggere una comunità. Al n. 14, alla fine, in maniera quanto mai illuminante, dopo aver esortato all’unità con il vescovo e con gli altri fratelli nel sacerdozio, il concilio afferma che «i presbiteri troveranno l’unità della propria vita nell’unità stessa della missione della chiesa, e così saranno uniti al loro Signore, e per mezzo di lui al Padre nello Spirito Santo, per poter essere colmati di consolazione e di gioia»7.

Anche così restavano tuttavia problemi insoluti. Nel contesto storico attuale, come condizione di radicalità perché il presbitero possa adempiere alle esigenze della propria missione, nella Chiesa latina è imposta la disciplina del celibato. Non sto qui a parlare delle ragioni storiche per cui in Occidente si è affermata questa disciplina. Alla fine degli anni ’60 del secolo passato, tradussi e introdussi in maniera entusiasta la Lettera aperta sul celibato di Karl Rahner. Ricordo ancora la partecipazione interiore con cui lavorai, per lo più in ore notturne. Fui preso soprattutto dal suo ragionamento di fondo: nessuno può venir meno alla parola data a Dio e deve affidare a Dio stesso, nella preghiera e nella donazione fiduciosa, la fedeltà alla parola che gli è stata data. Ritengo ancora valida questa ragione e scriverei la stessa introduzione di allora.

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Ma tutto il capitolo 14 costituisce forse il culmine dell’insegnamento spirituale del concilio sui presbiteri. Ivi viene ripreso il tema della dispersione pastorale e viene data una risposta teologicamente perspicua al problema. La dispersione che porta alla dissociazione può essere superata, ad imitazione di Cristo, nella ricerca della volontà del Padre e nell’adesione interiore alle norme della missione evangelica della Chiesa, in unione al vescovo e al presbiterio. Il motivo viene poi sviluppato e determinato ulteriormente al n. 15.


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Ma non può essere ignorato che nel frattempo nella nostra cultura sono diventate opache due cose almeno: l’irrevocabilità di una decisione umana e il legame intimo tra celibato e missione pastorale. Del resto non è proprio la maturità umana di un uomo sposato che nel Nuovo Testamento viene posta come criterio per la scelta dei presbiteri? Contro l’opacità di questi due nessi (irrevocabilità di una decisione umana e celibato-presbiterato) nella nostra cultura si è avuta inoltre una trasformazione radicale nella considerazione del sesso. Ogni idea di colpa legata al sesso è scomparsa dalla cultura comune. Mi pare ovvio che, a fronte di queste cose, il celibato “per il regno dei cieli” debba nella Chiesa essere perseguito e testimoniato come via non necessariamente connessa al ministero presbiterale. Una volta cioè che l’ideale di vita cristiana del presbitero viene tutta spostata sulla missione, senza residui “monastici”, i legami non essenziali diventano per ciò stesso labili e non risultano convincenti. Occorrerebbe quindi liberare vicendevolmente — come era per la Chiesa antica — la testimonianza celibataria e il ministero pastorale. Questa esigenza non equivale affatto alla conclusione secondo cui “occorre permettere ai preti di sposarsi”. Non è possibile passare con leggerezza su una promessa fatta al Signore — se è stata fatta in piena libertà e maturità umana. Ma è proprio questa condizione della maturità piena della decisione, che oggi — storicamente e culturalmente, e non già in base a semplici psicologismi — appare opaca. Ma non mi pare ancora questo il problema maggiore ereditato dal passato. Indicando nella vita pastorale l’ideale di vita del prete, il Vaticano II non indicava — e del resto non poteva e non doveva — la modalità attraverso cui doveva avvenire la “sutura” di questo ideale con l’equilibrio umano del presbitero. Vorrei spiegare questo problema non con l’aiuto della psicologia moderna, ma con le parole stesse di Agostino. Se infatti il prete è un uomo che deve vivere degnamente, questa vita degna e corrispondente al munus, alla funzione esercitata, non può che sorgere dall’adempimento del proprio desiderio esistenziale collocato ormai nel munus stesso, nell’ufficio da esercitare. Ciò vale sia per la scelta di fede radicale che per la concretezza stessa della fede personale, che è sempre incarnata in una particolare condizione di vita. Scrive Agostino nel Trattato 26 su Giovanni, che la liturgia ci fa meditare parzialmente all’Ufficio delle letture della XXVIII settimana del tempo ordinario, a commento del versetto «Nemo venit ad me, nisi quem Pater attraxerit»:


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«Est quaedam voluptas cordis, cui panis dulcis est ille caelestis: Porro si poëtae dicere licuit: trahit sua quemque voluptas (VIRGILIO, Ecl. 2), non necessitas, sed voluptas: non obligatio, sed delectatio, quanto fortius nos dicere debemus trahi hominem ad Christum, qui delectatur veritate, delectatur beatitudine, delectatur iustitia, delectatur sempiterna vita, quod totum Christus est? An vero habent corporis sensus voluptates suas et animus deseritur a voluptatibus suis?»8.

Il principio saggio enunciato da Agostino vorrebbe quindi che l’equilibrio personale del presbitero dipenda soprattutto dalla capacità che l’ufficio pastorale possiede di alimentare e sostenere quella voluptas animi che alberga in ogni cuore umano. Con ciò non voglio affatto banalizzare quello che è il dinamismo stesso della grazia. Voglio semplicemente sottolineare come la voluptas dell’animo umano sia anche culturalmente condizionata e determinata. La Chiesa sostanzialmente clericale che abbiamo conosciuto fino agli anni ’60 del secolo passato, permetteva un riconoscimento effettivo al ruolo del presbitero, anche socialmente e culturalmente identificato con “la” Chiesa. In questo riconoscimento il presbitero vedeva largamente compensati i “sacrifici” che il suo status imponeva. Anzi erano proprio quei “sacrifici” (dal celibato all’insicurezza economica) che esaltavano il ruolo. Il servizio pastorale, nella triplice sua articolazione che è quella della predicazione, della presidenza dell’eucaristia e della costruzione dell’unità della comunità, e soprattutto nell’unità di queste sue tre dimensioni, oggi appare tuttavia in crisi e non sembra possedere quella forza di attrazione di cui parlava Agostino. La crisi è determinata da una serie di fattori. Benedetto XVI nel discorso sopra citato ne ha enumerato soprattutto due: la crisi delle “grandi” chiese e il prevalere dell’esperienza “settaria”, fattori che sono ambedue legati a loro volta alla secolarizzazione della società occidentale, ma anche al contemporaneo risveglio della dimensione religiosa in 8 «Si dà una voluttà del cuore per la quale è dolce il pane celeste. Anzi se fu possibile ad un poeta affermare che “ognuno è tratto dalla sua voluttà” (VIRGILIO, Ecl. 2), non quindi dalla necessità ma dalla voluttà, non dall’obbligo ma dal godimento, con quanto maggior forza noi dobbiamo dire che è attirato verso Cristo quell’uomo che trova il suo godimento nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, cioè in tutto ciò che è Cristo? Oppure dovremmo dire che i sensi corporei hanno le loro voluttà e l’anima ne sia privata?»: AGOSTINO, Io. ev. tr. 26, 4.


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questo contesto. Ora è ormai da decenni che nella Chiesa vengono attribuite alla “secolarizzazione” un po’ tutte le colpe. Ma colpevolizzando la società non si ottiene un gran che. È la Chiesa che al suo interno deve trovare la capacità di ridiventare giovane. Più interessante invece è l’altro motivo elencato da Benedetto XVI: il risveglio della dimensione religiosa legato tuttavia ad un’esperienza “settaria” che indebolisce le grandi chiese. Io ritengo che questo sia un punto chiave. Giacché, anche all’interno delle grandi chiese (e persino dei grandi ordini religiosi) oggi si adotta un ideale “settario”. Senza la pretesa di un’analisi sociologica adeguata, mi sembra che i due tratti del modello religioso “settario” possano essere così formulati: a) l’istanza della verità viene affidata a ciò che “si prova” e si sperimenta anche sensibilmente: è così perché “mi piace”; b) i valori e i criteri di valutazione sono attinti al “comunitarismo”, alle regole cioè che vigono nel proprio gruppo di appartenenza, porto di salvataggio contro la frantumazione imperante nelle società avanzate. La sfida attuale è posta proprio qui: può la voluptas animi agostiniana, quel diletto interiore che è la sorgente ultima dell’equilibrio della persona, nell’attuale condizione della storia, concretizzarsi invece in quell’ideale di vita “oggettivo” che è descritto dal triplice munus del pastore: predicare una Parola che possiede una sua oggettività storica e normativa; santificare, attraverso la prassi liturgica e sacramentale che impone le proprie regole che non sono quelle comunitaristiche, ma quelle della comunione a noi donata per grazia; presiedere a questa comunione, con una funzione quindi che in primo luogo non è quello dell’esaltazione di un carisma specifico, ma quello del riconoscimento positivo di tutti, per essere di riferimento a tutti? Vanno qui ad infrangersi i criteri comunitaristici dell’identità di gruppo e il presbitero è il primo che è chiamato a costruire il proprio equilibrio personale fuori dall’esperienza “settaria”. Ma non mi pare esagerato — anche se non posso provarlo con un’analisi adeguata, ma solo in base alla mia percezione personale dell’atteggiamento dei miei studenti — che oggi un buon numero delle cosiddette vocazioni al presbiterato sia alimentato proprio da esperienze “settarie”.


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2. ALCUNE SFIDE ATTUALI La conformazione dell’esperienza religiosa nella condizione attuale ha un segno che non possedeva nel passato: il riconoscimento della dignità dell’altro. Che la presenza dello Spirito non sia circoscritta dai confini visibili del cristianesimo è stata una delle convinzioni che hanno segnato con grande vistosità il magistero di Giovanni Paolo II, frutto a sua volta della svolta del Vaticano II con il decreto Nostra aetate. L’incontro di Assisi del 1986 ha manifestato a tutti in maniera visibile questa nuova condizione delle appartenenze religiose. La consapevolezza delle differenze non si attenua. Ma le differenze non impediscono il rispetto e il riconoscimento dell’altro, fino ad offrire ospitalità, al proprio interno, all’esprimersi diverso dell’altro. Occorre comprendere come non si tratti in questo caso della coesistenza, ma del fare spazio dentro di sé all’altro che rimane tale, senza confusione. La prassi pastorale nel nostro tempo ne risulta profondamente condizionata. La comunione della Chiesa è chiamata ad aprirsi agli altri, le appartenenze si modificano, la difesa e la condanna non sono più compatibili con la coscienza nuova dei credenti. La sfida sta, a livello ecclesiale, nel comprendere come la verità della propria fede non ne venga relativizzata, ma provocata ad acquisire maggiore profondità. Infatti la prospettiva non può essere quella di costruire, anche nel piccolo, un parlamento delle appartenenze religiose e dei vari sistemi etici e culturali, in coesistenza più o meno pacifica, quanto quella di trovare nella propria esperienza di fede la capacità dell’apertura, dell’accoglienza, verificando quindi, in misura ancora maggiore di quella possibile in un sistema chiuso, la capacità della verità cristiana di stabilire la pace. Con un paradosso potremmo dire che il presbitero è chiamato ad essere garanzia di unità non solo all’interno della propria comunità, ma anche all’esterno, nel pieno, rispettoso ed umile dispiegarsi del suo ministero, come richiamo alla pace e all’accoglimento vicendevole. Diventa allora evidente la sfida posta all’esperienza personale del presbitero: una grande maturità umana, una sicurezza interiore che non faccia vagare da una identità all’altra, atteggiamenti tutti incompatibili con il “giovanilismo” insito nella prassi di selezione e formazione delle “vocazioni” al presbiterato.


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3. LE STRATEGIE DELLA SELEZIONE Per rispondere infatti alle sfide ereditate dal passato e a quelle del presente, il “modello” del presbitero dovrebbe ispirarsi cioè a criteri molto diversi da quelli praticati. Senza alcuna pretesa di completezza indico alcuni nodi soltanto che attendono un ripensamento. Forse non sono nemmeno i nodi centrali, ma nondimeno mi sembrano decisivi. Il primo nodo è quello dell’età. Il presbiterato viene presentato come una scelta “giovanile” e una discutibile pastorale delle vocazioni è di fatto impostata interamente secondo questa prospettiva giovanilistica. Due osservazioni vanno per lo meno fatte a tal proposito. La prima è che il discernimento del carisma nel candidato al presbiterato non può limitarsi a quello delle sue attitudini per il futuro. L’arco di tempo nel quale inoltre avviene questo discernimento, che non supera abitualmente i 30 anni di età, è del tutto inadeguato. Su un altro fronte, la crisi della stabilità delle nozze ne è oltre tutto una riprova. L’enorme percentuale dei matrimoni falliti in età ancora giovane non può essere addebitata solo alla perversione dei costumi. Qualsiasi pastore come il sottoscritto sa della sincerità degli affetti, del loro logorarsi e dell’incapacità umana di affrontare la crisi che attraversano tutta una generazione. Il pregiudizio oggi culturalmente dominante della revocabilità di qualsiasi decisione umana rende ancora più pesante questa osservazione. Il criterio che l’autore delle Lettere pastorali pone (si veda ad esempio 1 Tim 3,1-10), per i ministeri che potremmo chiamare di “guida”, va in direzione opposta dal giovanilismo adesso imperante, fatto questo tanto più significativo giacché operava in un contesto distante anni luce dal nostro, dove la “maturità” era molto più precoce. Ma per lui valeva che solo una sperimentata maturità umana e cristiana fosse la condizione perché uno potesse accedere al ministero. Il presbitero non può che essere una persona “assodata”. Invece il criterio usato oggi abitualmente sembra pretendere ogni volta un “miracolo”, assume la forma di un vero e proprio “tentare Dio”. Del resto che questa sia una “pretesa” purtroppo priva di fondamento, è abbastanza dimostrato dal fallimento degli attuali criteri di selezione del presbiterato e dalla conseguente mancanza di clero. Leggere la “diminuzione delle vocazioni” come una conseguenza della società secolarizzata equivale all’atteggiamento dello struzzo che mette la testa sotto la sabbia.


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Inoltre questa lettura, teologicamente, è alquanto discutibile. Più onesto sarebbe invece interrogarsi se i criteri di selezione che noi usiamo per il discernimento siano quelli giusti e se non siano proprio questi criteri a impedire il tranquillo discernimento dei carismi che lo Spirito del Signore non fa mai mancare alla sua Chiesa, secondo la promessa evangelica. Dobbiamo certo confidare nell’accondiscendenza del buon Dio alla nostra durezza, ma non è giusto pretendere che ragioni sempre proprio come noi. Fortunatamente, quasi contro voglia, si stanno compiendo delle scelte di cui non possiamo tuttavia prevedere il futuro. Accenno qui alla scelta dei vescovi francesi di affidare con un uno speciale “mandato” a cristiane/i non ordinate/i la conduzione di alcune comunità parrocchiali senza preti. Qualunque sia il futuro di queste esperienze (giacché potrebbe essere proprio questa la strada che prepara una nuova configurazione del ministero ordinato nella Chiesa latina) dobbiamo chiederci in ogni caso se debba essere talmente indiscutibile l’attuale criterio di selezione dei futuri presbiteri. Il mutamento dei criteri di selezione, attualmente centrato sul presupposto giovanilistico delle attitudini al futuro, in direzione invece della verifica provata della maturità umana e cristiana, potrebbe avviare oltre tutto verso una soluzione più sana il problema della scelta celibataria. Penso che sia giustificata in linea di principio l’attuale reticenza della Chiesa nell’accedere a facili mutamenti di decisioni “pubbliche”. La verifica di una scelta celibataria già provata o di un maturo patto nuziale dovrebbe invece essere la premessa necessaria perché sia il carisma celibatario che quello della fedeltà coniugale si espandessero in quello della responsabilità pastorale. Il secondo nodo è quello della radicalità. L’esigenza della radicalità non è esclusiva di alcune “classi” soltanto nella Chiesa. La vocazione universale alla santità è stata ribadita dal Vaticano II come prospettiva del cristiano comune. La radicalità cristiana, in particolare, non può essere ridotta alla scelta della vita monastica o religiosa. L’anziano della comunità chiamato alla predicazione della Parola, alla presidenza dell’eucaristia e al coordinamento dei vari doni e carismi presenti, non ha meno bisogno di radicalità umana e di fede del religioso. Ma, limitando le mie affermazioni solo alla situazione italiana, trovo impressionante le scelte di “mediocrità” umana e cristiana che sembrano oggi dominare quello che possiamo chiamare l’idealtipo. Con una decisione


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mai seriamente discussa all’interno di tutta la compagine ecclesiale9, si è voluto che il presbitero italiano fosse economicamente assicurato “per legge” secondo gli standard del “piccolo” borghese, del “piccolo” impiegato o altro ancora “piccolo”. Si dirà che questo è appunto “piccolo” e si ignora che fare il prete oggi in Italia è l’unica forma di vita in cui non si rischia per la propria sicurezza economica, “piccola” quanto si voglia. In questo contesto diventa del tutto fuori di senso un richiamo alla povertà propria e della Chiesa. Per farsi “perdonare” il sacrificio del celibato, i seminari del nostro tempo sono diventati anch’essi un tempio della sicurezza. Basta paragonare le difficoltà che deve affrontare un qualsiasi studente universitario con quelle di un seminarista per rendersi conto di questo abisso. Ci si sforza di rendere “appetibile” in tutti i modi la scelta del presbiterato, invece di prospettare tutte le asprezze e “mortificazioni” che sono richieste da una condizione umana che dovrebbe essere per definizione “mangiata dagli altri”. Il terzo nodo è quello della formazione intellettuale. Insegno teologia da 40 anni e trovo semplicemente irrazionali i criteri vigenti nella formazione teologica dei candidati al presbiterato. Non sono un fautore della “completezza” del sapere teologico da impartire. Del resto solo chi ignora la complessità del sapere teologico e delle sue discipline può oggi aver fiducia nei vari “Bignami” in cui oggi si esprime per lo più l’insegnamento “istituzionale” della teologia. Prova ne sia il fatto che i presbiteri poi lo 9 Ritengo che non esista nella storia della Chiesa italiana, dopo l’unità di Italia, un fatto talmente gravido di conseguenze per la vita del clero e per la condizione della Chiesa nella società italiana, di quello del “nuovo” concordato del 1984. Infatti ivi è implicito un “modello” di ministero presbiterale che garantisce sicurezza economica alla scelta, che dovrebbe essere tutta religiosa, di un ministero ecclesiale. Rispetto al concordato del 1929 abbiamo non solo la conferma di uno statuto “privilegiato” (non nei principi, ma nelle disposizioni concrete) della Chiesa Cattolica nella società, ma anche l’implicita definizione concordataria dello statuto futuro del presbitero. I mutamenti indotti della mentalità e dello stile del clero non potranno non essere devastanti. La scelta della Chiesa Valdese in Italia che stabilisce che i proventi dell’8 per mille non debbano in nessun caso essere devoluti al sostentamento dei pastori, mi sembra al confronto solo generosa, ma alquanto velleitaria, giacché indirettamente non libera dallo statuto delle garanzie. Il vecchio sistema delle congrue invece, non solo era limitato, ma nella sua inconsistenza materiale, permetteva ancora una configurazione dello stile di vita del prete sostanzialmente affidata al suo discernimento personale e alle sue scelte spirituali.


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trovano in gran parte inutile nella loro prassi. Non sono nemmeno un fautore del ritorno all’ignoranza del passato, soprattutto medievale, dove il sapere del pastore si limitava a ben poca cosa e la teologia era di fatto riservata ai chierici di una classe più elevata. Il presbitero oggi ha bisogno di discernimento, di capacità autonoma nella formazione del giudizio in situazioni sempre più complesse. Ritengo pertanto che mentre dovrebbe possedere molte più conoscenze esegetiche e di storia della Chiesa e della teologia, che lo abituino appunto alla “multicolore” incarnazione della sapienza divina nelle più svariate situazioni umane, dovrebbe essere invece liberato dalle innumerevoli catenine di un sapere frantumato.

Concludendo Mi rendo conto di essere rimasto sul piamo degli slogans più che affrontare nei dettagli i vari problemi legati alla condizione attuale del presbitero. Non posso pretendere di convincere nessuno. Ma se queste considerazioni possono almeno essere accolte come una provocazione seria e corredata da una lunga esperienza di contatto con studenti e presbiteri, sia nei luoghi dell’insegnamento, sia in quelli della cosiddetta formazione permanente, forse esse potrebbero non risultare del tutto inutili.



Synaxis 25 (2007) 39-51

IL PROFILARSI DI NUOVI MODELLI DI CLERO IN SICILIA. LE SFIDE ATTUALI

ALBERTO NEGLIA*

PREMESSA Nell’individuare alcune sfide che interpellano i presbiteri di oggi, tengo presente in modo particolare il presbitero religioso. Non va dimenticato, infatti, che nella chiesa di oggi un prete su tre è prete religioso. Tra l’altro, oggi, almeno in Italia, in buona parte della vita consacrata maschile, è in corso un processo di ulteriore clericalizzazione, e, siccome in più parti mancano i preti diocesani per il servizio delle parrocchie, molti istituti che non avevano nel loro carisma l’apostolato parrocchiale o lo contemplavano accanto ad altre forme apostoliche, hanno subito un processo di “parrocchializzazione”. Questo ha portato non pochi a diventare in realtà degli “pseudosacerdoti diocesani”, dimenticando, o persino vedendo come un peso il fatto di essere religiosi1. Al di là di queste deformazioni di fatto, è innegabile che nella esperienza del religioso presbitero è presente una problematica esistenziale perché si ritrova a vivere una vocazione qualificata da due connotazioni non omologhe, in quanto l’essere prete dice un ministero che può essere esercitato in diversi stati di vita mentre l’essere religioso dice uno stato di vita nel quale possono essere esercitati i più diversi ministeri2.

*

Docente incaricato di Teologia spirituale presso lo Studio Teologico S. Paolo di

Catania. 1

Cfr. J. ROVIRA, Vita religiosa e sacerdozio: doppia vocazione?Religioso-sacerdote o sacerdote-religioso?, in CredereOggi 133 (2003) 143. 2 Cfr. S. DIANICH, Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi, in Homo Vivens 11 (2000) 380.


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Storicamente queste due esperienze fanno appello alla tradizione apostolica, ma in modo diverso. Potremmo dire che il ministero ordinato si richiama alla successione apostolica istituzionale, mentre la vita religiosa fa appello alla successione apostolica carismatica. Il religioso presbitero vive, quindi, un equilibrio difficile, perché nella concretezza del vissuto può essere polarizzato da una connotazione piuttosto che da un’altra. Oggi, per esempio, si ha l’impressione che alcune comunità di religiosi presbiteri, dimenticando la loro natura carismatica e profetica, coltivino di più la dimensione apostolica istituzionale e rischiano di irrigidirsi in rigorosi schemi giuridici che la trasformano in una specie di “funzionariato istituzionale”.

1. LE SFIDE COME APPELLO DI DIO Desidero precisare che leggo il termine “sfide” come occasioni, avvenimenti, realtà, che mettono in crisi, che possono dare l’impressione di introdurre in un tunnel buio, ma che hanno anche una valenza positiva perché offrono elementi liberatori che aiutano a rompere con configurazioni che ormai non possono dare risposte alle aspettative generate da una nuova consapevolezza e sensibilità. In questo orizzonte, le sfide sono opportunità che Dio offre, nel nostro caso ai religiosi presbiteri, per ripensare la propria presenza e il proprio ruolo nella chiesa e nel mondo3. L’attuale tempo di “inverno ecclesiale” in cui anche la vita consacrata è coinvolta, forse perché è pesantemente condizionata dall’eccessiva clericalizzazione, potrebbe essere una sfida, un richiamo a recuperare l’intuizione della laicità delle origini della vita religiosa, e quindi ad avviare un processo di declericalizzazione. Sono consapevole che questo è un processo molto lungo, e non mi addentro nella discussione attualmente aperta sull’argo-

3 Giovanni Paolo II ricorda ai religiosi: «Negli avvenimenti storici si cela spesso l’appello di Dio a operare secondo i suoi piani con un inserimento attivo e fecondo nelle vicende del nostro tempo»: GIOVANNI PAOLO II, Es. apost. Vita consecrata, 73.


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mento4, ma, tenendo conto della situazione attuale, cioè, del fatto che la maggioranza dei religiosi sono anche presbiteri, proverò ad individuare alcune sfide che interpellano il religioso presbitero. Alcune indicazioni, in merito, ce li offre il Documento di lavoro (nn. 17-44) del “Congresso internazionale della vita consacrata”, tenutosi a Roma nel novembre del 2004. Esso nel n. 17 le elenca prima di descriverle: «La vita consacrata, oggi più globale che mai, si sente sfidata da diversi fenomeni nuovi, tra i quali mettiamo in risalto i seguenti: 1. la globalizzazione con le sue ambiguità e i suoi miti; 2. la mobilità umana con i suoi fenomeni migratori e i suoi processi accelerati; 3. il sistema economico neoliberista ingiusto e destabilizzante; 4. la cultura di morte e la lotta per la vita con tutte le sfide della biotecnologia e l’eugenetica; 5. il pluralismo e la crescente differenziazione; 6. gli aspetti della mentalità postmoderna; 7. la sete di amore e il “disordine amoroso” e affettivo; 8. la sete di sacro e il materialismo secolarizzato»5.

2. IL VANGELO DI GESÙ COME SFIDA FONDAMENTALE Pur tenendo conto di queste indicazioni, di questi fenomeni presenti nella nostra società, che certamente invitano i religiosi presbiteri a ripensare la loro presenza e la loro missione nel mondo e nella chiesa, a me sembra che la sfida fondamentale, quella che toglie la maschera e mette a nudo le crepe nella fedeltà alla propria vocazione, rimane il vissuto di Gesù, così come ci è consegnato dai vangeli e dall’esperienza più genuina dei testimoni. La sfida fondamentale è ancora oggi quella di lasciarsi vincere e avvincere dall’evento Gesù e dal suo vangelo. In fondo, questo è stato il desiderio e la prima intuizione, il sogno dei primi religiosi, i padri del deserto. 4 Se ne è parlato, tra l’altro, in un seminario di studio promosso dalla CISM e tenuto a Roma il 31 marzo 20005. Per un resoconto cfr. A. ARRIGHINI, Un problema irrisolto. Seminario sul religioso-presbitero, in Testimoni 8 (2005) 4-7. 5 Passione per Cristo passione per l’umanità. Congresso internazionale della Vita Consacrata, Milano 2005, 28.


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2.1. Uno sguardo alla storia È difficile stabilire esattamente quando abbia avuto inizio la vita religiosa nella Chiesa, però è certo che essa, in vari momenti storici, è stata suscitata dallo Spirito per richiamare l’intero popolo di Dio, in tempi di crisi, a una esperienza più radicale e genuina del Vangelo di Gesù. Così, per esempio, i Padri del deserto, si ritirarono in solitudine e misero in guardia la chiesa dal rischio della mondanizzazione incombente in essa soprattutto dopo la pace costantiniana e con la fine delle persecuzioni. Con Costantino, infatti, il cristianesimo passò dallo status di religione illecita allo status di religione ufficiale dell’impero. Iniziò un cambiamento che, insidiando dall’interno la comunità cristiana, porterà il clero a fare riferimento alle autorità politiche e non più alle comunità da cui proviene. La struttura della chiesa cominciò a diventare piramidale, ed alcuni credettero che per vivere il vangelo c’era bisogno di molte cose. In questo contesto, ci furono persone dentro questa storia, che intuirono che questo non era il sogno evangelico, che il vangelo si poteva vivere senza bisogno di tante sovrastrutture. Essi coltivavano il sogno, nella fedeltà al vangelo, di una comunità cristiana a struttura circolare, dove l’armonia venisse data dalla circolarità delle relazioni fraterne. La loro fuga mundi, quindi non era fuga dai fratelli ma dai centri di potere. Più tardi nel Medioevo, malgrado il tentativo della riforma gregoriana di riportare la chiesa alle fonti evangeliche, molti credenti ormai vivevano nell’imborghesimento più completo e si preoccupavano poco della vita spirituale e della fedeltà al vangelo. In questo contesto si verificò una fioritura di movimenti religiosi che proponevano una qualità di vita cristiana più essenziale, determinata dal dato evangelico, e di conseguenza una esistenza più vicina ai poveri.

2.2. Oggi, il pericolo di un cristianesimo senza vangelo Oggi, ripeto, la sfida più radicale è ancora quella di lasciarsi sedurre dal volto di Gesù e dal suo vangelo. La provocazione del vangelo, nella sua genuinità va presa in seria considerazione, proprio nel nostro tempo in cui è presente un’altra sfida: la proposta di un cristianesimo senza vangelo.


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Oggi, infatti, si parla tanto di Dio e di cristianesimo, anche da parte dei cristiani, ma disancorato dalla parola di Dio, dalla Bibbia. Si parla di un cristianesimo senza Vangelo, ovvero con il Vangelo solo copertina e a pagine bianche, un cristianesimo di “civiltà”, di “identità geopolitica”, che non ha più rapporto con l’annuncio di Cristo, con la “debolezza” della croce, ed ha solo nostalgia della deriva temporalista, della tradizione intesa come tradizioni popolari e non certo come tradizione cristiana incarnata nella parola, nella letteratura dei padri della chiesa, nei modelli degli Atti degli Apostoli e delle prime comunità cristiane, nella povertà della chiesa. Ci troviamo così di fronte a una “sfida” che rischia di creare una sorta di religiosità pagana parallela che si appella alla difesa delle radici cristiane dell’Europa e dell’Occidente per mere ragioni identitarie e geopolitiche, insomma come instumentum regni6. Di fronte a questa sfida, e al pericolo di una omologazione a questa prassi da parte dei cristiani, di fronte al rischio che l’istituzione ecclesiale si proponga come un potere tra gli altri poteri e che cammini nella direzione opposta al vangelo7, io oso pensare a comunità di religiosi presbiteri che in una chiesa locale mantengano viva la visibilità e il carattere profetico del vangelo, perché solo la novità del vangelo può rispondere alle aspirazioni dei nostri contemporanei che sono alla ricerca di una sorta di nuovo incontro con Dio e può porsi in rottura con gli elementi di una tradizione religiosa che non favoriscono l’apertura al mistero della trascendenza divina e al volto del fratello. Ovviamente non immagino una comunità che parli di Dio, (se ne parla troppo), ma una comunità di religiosi presbiteri che sia nella sua sensibilità talmente attraversata dalla Luce che con il suo vissuto, le sue scelte, i suoi gesti, il suo volto, le sue mani, tutta la sua presenza, Dio si incontri con Dio sepolto nel cuore dell’altro, nelle ferite della storia. Una comunità, come ci ricorda Giovanni Paolo II, che sia

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Cfr. P. GIUNTELLA, Un Cristianesimo senza Cristo?, in Viator 3 (2005) 17. Cfr. J.I. GONZALEZ FAUS, Crisi di credibilità nel cristianesimo, in Concilium 3 (2005) 60. 7


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Alberto Neglia «memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli… Vivente tradizione della vita e del messaggio del Salvatore»8.

3. IN ASCOLTO DELLA PAROLA Un’esistenza così, ci ricorda ancora Giovanni Paolo II, «non è concepibile che a partire da un rinnovato ascolto della Parola di Dio»9. Una presenza seria, che sia memoria di un volto, chiede che le comunità tornino a “stare” con la Parola di Dio in modo che la loro vita torni a dare spessore storico al dato evangelico. È l’ascolto della parola, infatti, che radica in Dio e crea un rapporto di parentela, di consanguineità con lui: «Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,19-21) E allora penso a una comunità di religiosi presbiteri che assuma come sua principale attività quella di radicarsi nella Parola di Dio. Questo invito ad “abitare nelle Scritture” (in Scripturis haerere), con lo studio e con la meditazione pregata già veniva fatto a tutti i credenti dalla Dei Verbum al n. 25. Nella Esortazione apostolica postsinodale Vita consecrata, Giovanni Paolo II, rinnova, in modo esplicito, questo invito ai religiosi: «La Parola di Dio è la prima sorgente di ogni spiritualità cristiana. Essa alimenta un rapporto personale con il Dio vivente e con la sua volontà salvifica e santificante».

Quindi propone la pratica della Lectio divina, perché «Grazie ad essa la parola di Dio viene trasferita nella vita, sulla quale proietta la luce della sapienza che è dono dello Spirito»10.

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GIOVANNI PAOLO II, Es. apost. Vita consecrata, 22. ID., Lett. apost. Novo millennio ineunte, 39. ID., Es. apost. Vita consecrata, 94.


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La parola ascoltata e meditata, pregata, aiuta la comunità «a progredire nella vita spirituale» e a restare fedele al progetto di Dio, come viene sottolineato ancora nel documento Vita consecrata: «Dalla meditazione della Parola di Dio, in particolare dei misteri di Cristo, nascono, come insegna la tradizione spirituale, l’intensità della contemplazione e l’ardore dell’azione apostolica. Sia nella vita religiosa contemplativa che in quella apostolica sono sempre stati uomini e donne di preghiera a realizzare, quali autentici interpreti ed esecutori della volontà di Dio, opere grandi. Dalla frequentazione della parola di Dio essi hanno tratto la luce necessaria per quel discernimento individuale e comunitario che li ha aiutati a cercare nei segni dei tempi le vie del Signore. Essi hanno così acquisito una sorta di istinto soprannaturale, che ha loro permesso di non conformarsi alla mentalità del secolo, ma di rinnovare la propria mente, “per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto” (Rm 12,2)»11.

Una comunità che riprende a leggere e meditare la parola di Dio diventa nella chiesa e nel mondo presenza che ritrova la spina dorsale, è corpo vivo che rinnova le vene attraverso cui scorre il sangue che lo mantiene in vita, nella vita cristica.

3.1. La comunità spazio educativo all’ascolto della parola L’ascolto della Parola, allora, è vocazione intrinseca a una comunità di religiosi presbiteri, la prima attività da cui scaturiscono le altre diaconie (cfr. Lc 10,38-42). Ma una comunità di religiosi presbiteri che matura attorno alla Parola, anche se ad essa è affidata una parrocchia, deve crescere nella consapevolezza che la sua prima e permanente diaconia deve essere quella di introdurre i fedeli, che ad essa fanno riferimento, alla familiarità con la Parola in modo che tutta la comunità cristiana attorno alla Parola diventi comunità di fede e porti frutti. Al riguardo, sempre nel documento Vita consecrata, viene opportunamente detto:

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Alberto Neglia «Conviene anzi che tale prassi venga proposta anche agli altri membri del Popolo di Dio, sacerdoti e laici, proponendo nei modi consoni al proprio carisma scuole di preghiera, di spiritualità e di lettura orante della Scrittura, nella quale Dio “parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11) e si intrattiene con essi per invitarli e ammetterli alla comunione con sé”»12.

4. IN ASCOLTO DELLA VITA Una comunità in ascolto della Parola è continuamente messa in questione, è rinnovata nel cuore (luogo delle decisioni e delle scelte), è coinvolta nel sogno di Dio: quello di formare casa nella storia. Una comunità così convertita dalla Parola lascia cadere i pregiudizi nei riguardi del mondo e si pone in ascolto della storia nella sua complessità, consapevole che questa umanità, a parte le sue ferite, è l’unica umanità di Dio, è l’unico tempio dove Dio prende dimora e da cui pure continua a parlarci. Certo, Oggi la storia è condizionata da un’impostazione economica neoliberale: un’idolatria della ricchezza, un individualismo escludente, una tecnocrazia inappellabile. Di conseguenza, ciò che anima la storia è la competizione per la sopravvivenza, nella quale il debole soccombe e il forte prospera. Si trova, così, al cuore della storia moderna una doppia contraddizione. Ci offre il progresso e troviamo la povertà; ci parla di libertà e ci troviamo impotenti. Non ad occhi chiusi, quindi, ma consapevoli di questa situazione i religiosi presbiteri, senza schifarsi di questa storia e senza fuggirla (c’è da fuggire solamente la logica che la anima), ma, coltivando il sogno di Dio, immergendosi in essa, già con il loro stile semplice, essenziale, povero, con la loro relazione fraterna, dicono che è possibile una storia diversa, e si attivano a far nascere una vita nuova nei luoghi più impensati e più lontani. Questo, ovviamente, richiede che si liberino di grosse strutture che danno più l’impressione di aziende produttivistiche che di ambienti dove si coltiva una qualità di vita evangelica, ma richiede anche una profonda conversione personale. Una vita essenziale, infatti, che ritorna alla figura di Gesù di Nazareth per assumerla come paradigma su cui declinare, sotto 12

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l’azione dello Spirito la propria esistenza storica, chiede di mettere in gioco non sole le proprie cose, gli spazi strutturali, ma il proprio modo di pensare, la prospettiva da cui rapportarsi con gli avvenimenti e con le persone, di mettere in gioco la stessa vita.

4.1. Nello stile di Gesù Si tratta di lasciare esplodere nella propria esistenza l’atteggiamento che caratterizza il vissuto di Gesù: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù», ci ricorda Paolo (Fil 2,5), e chiarisce: «Egli spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,5-8).

Questo è il modo di sentire di Cristo, il suo modo di entrare nel mondo e il suo modo di stare nella storia degli uomini: ci sta nella posizione dell’obbediente, di chi porta il carico, di chi è sottoposto. Questo è il suo modo di fare cultura nella storia degli uomini. A partire dalla contemplazione di questa icona di Cristo, Paolo, nella stessa lettera ammonisce: «Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso» (Fil 2,3). La parola umiltà non esprime la densità semantica del termine greco tapeinofrosune, di cui vuole essere traduzione. Tapeinofrosune, certamente vuol dire umiltà, ma più esattamente è la piccolezza, è il sentirsi piccoli, è il pensarsi piccoli, è un approccio al mondo che viene filtrato dalla piccolezza. Questa piccolezza, Francesco la chiamerà minorità, è il sentimento che fa cogliere gli altri superiori a se stessi, non per scenografia, ma come impostazione di vita. È il radicale aprirsi dell’animo umano all’altro come dono, ma è anche apprezzamento del dono altrui che gratuitamente ti viene elargito, è l’atteggiamento che ti fa cogliere tutto come dono anche le catene e la morte. È riconoscimento che nel mondo c’è sempre e comunque un dono per te, dove sempre e comunque tu sei chiamato a essere presente con tutta la tua responsabilità e con tutto il tuo impegno di obbedire al dono altrui.


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Sogno una comunità che insegue questo atteggiamento, lo accarezza come progetto culturale e siede in circolo accanto agli altri, accanto ai “poveri cristi”, senza pregiudizi, e si gioca con loro non solo le cose, ma la vita, la posizione sociale, la reputazione. Sogno una comunità di religiosi presbiteri, anche parrocchiale, che inizi a pensare, a strutturarsi, a organizzare e ad articolare la vita a partire dalla “pietra scartata” che è Cristo crocifisso, a partire dai “poveri cristi” gli sfigurati, gli esclusi di questo mondo, (penso ai profughi che rischiano la vita e, approdando alle nostre spiagge, sono trattenuti nei centri di permanenza temporanea e trattati peggio delle bestie) che sono i veri “vicari di Cristo” (Mt 25,31-46), che ci interpellano e ci ricordano che la via della vita non si può percorrere senza di loro.

5. PRESENZA NELLA CHIESA Una comunità di religiosi presbiteri che assume questo stile diventa terapia d’urto dello Spirito per l’umanità e, in modo particolare per la stessa comunità ecclesiale. E oggi ce n’è bisogno. Si ha l’impressione, infatti, che la chiesa vada perdendo credibilità, sia perché acconsente, in alcune espressioni, a una logica di privilegi e di potere, sia perché manifesta una certa infedeltà alla ecclesiologia di comunione, presente nelle prime comunità cristiane e riproposta dal Vaticano II. La riflessione teologica del dopo Concilio è stata propositiva in ordine alla comunione, ma nella prassi la nostra chiesa rimane piramidale, e, a volte, si dà l’impressione che si riduca a uno UNESCO a scopo spirituale e filantropico, perdendo tutto il proprio aspetto profondamente misterico13.

5.1. Profezia di rapporti fraterni Una comunità di religiosi presbiteri che coltiva la propria identità mantenendo vivi la visibilità e il carattere profetico del vangelo e riappropriandosi di una peculiarità irrinunciabile dell’esperienza cenobitica: una 13 Cfr. G. DANNEELS, I consacrati nella vita della diocesi. Essere come dei radar, in Testimoni 17(1999) 26.


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vita caratterizzata dal rapporto fraterno e non da quello gerarchico, nello stile della comunità di Gerusalemme (At 2,42-48), diventa esperienza trainante per tutta la comunità ecclesiale. L’incidenza di una tale presenza viene sottolineata nel documento La vita fraterna in comunità: «La comunità religiosa, nella sua struttura, nelle sue motivazioni, nei suoi valori qualificanti, rende continuamente visibile e continuamente percepibile il dono di fraternità fatto da Cristo a tutta la Chiesa. Per ciò stesso essa ha come impegno irrinunciabile e come missione di essere e di apparire come cellula di intensa comunione fraterna che sia segno e stimolo per tutti i battezzati»14.

E nello stesso documento c’è l’invito implicito a superare la tentazione di considerare la presenza dei religiosi presbiteri, in una chiesa locale, come fornitrice di truppe ausiliarie per l’apostolato, e si evidenzia che una comunità che vive così, già evangelizza per quello che è prima ancora che per quello che fa: «La comunione fraterna, in quanto tale, è già apostolato, contribuisce cioè direttamente all’opera di evangelizzazione»15.

5.2. Dialettica carisma e istituzione Infine sogno una comunità di religiosi presbiteri che sappia vivere, alla luce del vangelo, il delicato equilibrio, insito nella vocazione del religioso presbitero, tra carisma e istituzione. In questo delicato equilibrio si pone, in modo particolare, la relazione con il vescovo. Rapporto che scaturisce dalla stessa ordinazione sacerdotale e che deve tradursi in comunione e corresponsabilità. Non è sempre facile la prima perché ci si limita spesso all’obbedienza nell’accettare le disposizioni di autorità, mentre la comu-

LICA,

14 CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLa vita fraterna in comunità, 2b. 15 Ibid., 54.


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nione richiede certamente molto di più e da una parte e dall’altra. Più problematica, ancora, la corresponsabilità, che significa non soltanto un condividere difficoltà e oneri del vescovo, nell’animazione di una chiesa locale, ma partecipare con la propria connotazione carismatica al ministero del vescovo condividendo con lui il compito di guidare il popolo di Dio. Una comunità di religiosi presbiteri che coltiva la propria identità carismatica non può lasciarsi assorbire passivamente dall’istituzione, ma, vivendo in tensione con essa, deve farsi propositiva, rischiando in cammini nuovi per il vangelo e facendosi presente, con testimonianza coraggiosa, là dove non arrivano gli organi ufficiali. Questa tensione dialettica la evidenziava trent’anni fa Paolo VI nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi: «La loro azione missionaria dipende evidentemente dalla gerarchia. […] Ma… grazie alla loro consacrazione religiosa, essi sono per eccellenza volontari e liberi per lasciare tutto e per andare ad annunziare il Vangelo fino ai confini del mondo. Essi sono intraprendenti, e il loro apostolato è spesso contrassegnato da una originalità, una genialità che costringono all’ammirazione. Sono generosi: li si trova spesso agli avamposti della missione, ed assumono i più grandi rischi per la loro salute e per la loro stessa vita. Sì, veramente, la Chiesa deve loro molto»16.

Ma questa tensione dialettica, vissuta come fedeltà al Signore, come docilità allo Spirito, come attenzione intelligente ai segni dei tempi, come volontà di inserimento nella chiesa e come coscienza di subordinazione alla sacra gerarchia17, può provocare una certa solitudine e marginalità nella vita del religioso presbitero. Nel documento Mutuae relationes ne è evidenziata la possibilità: «Ogni carisma autentico porta con sé una certa carica di genuina novità nella vita spirituale della Chiesa e di particolare operosa intraprendenza, che nell’ambiente può apparire incomoda e può anche sollevare delle difficoltà, poiché non sempre e subito è facile riconoscere la provenienza dallo Spirito»18. 16

PAOLO VI, Es. apost. Evangelii nuntiandi, 69. Cfr. S. CONGREGAZIONE PER I RELIGIOSI E PER GLI ISTITUTI SECOLARI E S. CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Mutuae relationes, 12. 18 L. c. 17


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Penso, allora, che una comunità di religiosi presbiteri la debba mettere in conto e la debba vivere come recupero di profonda dignità in un mondo che ha sempre bisogno di appoggi, dentro una chiesa che per vivere la sua fede sente il bisogno di appoggiarsi a determinati signori della storia. Per i primi monaci che hanno preso la via del deserto, la solitudine era qualcosa di bello, per recuperare l’identità e la responsabilità. Oggi il deserto non è uno spazio delimitato, è la vita con le sue contraddizioni e con le sue logiche di morte dove si è chiamati a stare per realizzare il sogno di Dio, a cui accennavamo prima. La solitudine, così, è l’esperienza dell’appartenenza all’unico Signore crocifisso e risorto. Questa solitudine, segnata dalla croce, ci ricorda il documento Mutuae relationes è sigillo dell’autenticità della propria vocazione: «Il giusto rapporto fra carisma genuino, prospettiva di novità e sofferenza interiore comporta una costante storica di connessione tra carisma e croce, la quale, al di sopra di ogni motivo giustificante le incomprensioni, è sommamente utile a far discernere l’autenticità di una vocazione»19.

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L. c.



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LA FORMA “CRISTICA” DI UNA FIGURA “A-TIPICA”: PINO PUGLISI

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Risalire al livello teologale del ministero presbiterale di don Giuseppe Puglisi, culminato nel martirio, e rilevare il come è stata concretamente vissuta la carità pastorale da questo cristiano-prete, è l’obiettivo del presente contributo. A partire dalla ricostruzione storica della sua vicenda biografica, oramai sufficientemente delineata1, ci serviremo del materiale d’archivio che custodisce il suo pensiero, specialmente dall’evento conciliare in poi, e delle testimonianze e memorie di quanti hanno avuto consuetudine di vita con lui2. Attraverso la consultazione della documentazione3, si evince un “superamento” della teologia del passato, una svolta nella comprensione dell’identità presbiterale che poi influenzerà il suo vissuto pastorale. *

Docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Per una prospettiva storica della vita di don Puglisi e per un suo profilo umano e cristiano cfr le opere recentemente riviste e ampliate di F. DELIZIOSI, Don Puglisi. Vita del prete palermitano ucciso dalla mafia, Milano 2001; F. ANFOSSI, E li guardò negli occhi. Storia di padre Pino Puglisi il prete ucciso dalla mafia, Milano 2005. 2 Tra le tante, contenute nelle succitate biografie, si vedano le interessanti testimonianze dell’assistente sociale missionaria AGOSTINA AJELLO, in A colloquio con P. Pino Puglisi, Intervento alla Tre Giorni promossa dal Progetto Culturale Chiesa Italiana e dalla Facoltà teologica di Sicilia “S. Giovanni Evangelista”, Ricorda racconta cammina. Da Palermo 1995 a Verona 2006 per trasmettere la fede nel Risorto, speranza del mondo, Palermo 24-27 novembre 2006, dattiloscritto, Palermo 26 novembre 2005; di don AGOSTINO ZIINO e del card. SALVATORE PAPPALARDO, in Don Giuseppe Puglisi. Un pastore secondo il cuore di Dio, a cura dell’Arcidiocesi di Palermo, Palermo 2004; della famiglia Badalamenti in M. BADALAMENTI, Martire oggi. Una testimonianza d’amore: Padre Giuseppe Puglisi, Palermo 2000. 3 L’Archivio Giuseppe Puglisi (= AGP) è conservato presso il Centro Ascolto Giovani “Don Giuseppe Puglisi” in Via Matteo Bonello, 6 a Palermo. Esso comprende le carte del 1


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Puglisi viene ordinato prete il 2 luglio 1960, pertanto la sua formazione al presbiterato risente della teologia e della visione preconciliare del “sacerdozio”4. Accolse però con entusiasmo ed interesse l’evento conciliare, assimilandone le idee di fondo5, a iniziare dalla ritrovata visione ecclesiologica che riconsegna alla comunità cristiana la sua identità misterica e la vocazione ad essere sacramento di Cristo e della sua salvezza nel mondo. periodo giovanile e dei primi anni di sacerdozio; la scarsa corrispondenza, se si esclude quella prodotta per motivi di ufficio (Curia, Organismi pastorali, Istituzioni civili); schemi e appunti di omelie, incontri formativi, conferenze, ritiri, campi scuola; alcune relazioni tenute al Centro Diocesano Vocazioni e al Centro Regionale Vocazioni, a qualche convegno o agli incontri dei parroci del quartiere palermitano “Brancaccio-Ciaculli”. Inoltre vi si trovano alcune trascrizioni da cassette audio di omelie o interventi ai campi vocazionali registrati dai partecipanti. Per quanto riguarda gli appunti, don Puglisi quando partecipava a ritiri, incontri o conferenze, o durante la lettura di un libro, amava prender nota, per cui non è sempre facile distinguere le sue riflessioni da quelle dell’oratore o dell’autore. Comunque rispecchiano sempre la sua sensibilità perché era solito appuntare ciò che lo interessava e che reputava utile per la sua formazione e il suo impegno pastorale. 4 I documenti del Vaticano II e i testi del magistero postconciliare non hanno sciolto la riserva circa il lessico. A riguardo della nostra scelta di tralasciare la cristallizzata e limitante (teologicamente e pastoralmente) accezione sacerdotale e l’opzione peri il termine presbitero/presbiterato o dell’espressione ministero presbiterale, si vedano le puntuali osservazioni di carattere lessicale di C. SCORDATO, Teologia del presbiterato: orientamenti teologici postconciliari, in P. SORCI (ed.), Il presbitero nella Chiesa dopo il Vaticano II, Trapani 2005, 149-155. Sul recente dibattito teologico cfr. E. CASTELLUCCI, Il dibattito sul ministero ordinato nella teologia cattolica successiva al Vaticano II, in M. QUALIZZA (cur.), Il ministero ordinato. Nodi teologici e prassi ecclesiali. Atti dell’XI Corso di aggiornamento per docenti di teologia dogmatica (Roma, 27-30 dicembre 2000), Cinisello Balsamo 2004, 17-111. 5 È oramai risaputo quanto l’evento conciliare abbia inciso in maniera determinante nel pensiero e nella prassi di don Puglisi: cfr. M.F. STABILE, Pino Puglisi nella Chiesa siciliana in Don Pino Puglisi prete e martire, Trapani 2000, 104. A riguardo del Vaticano II, in una relazione dove affronta l’argomento della vocazione divina dell’uomo, don Puglisi così si esprime: «Vorrei sviluppare questo pensiero fondamentale ripercorrendo i documenti del Concilio […] È già passato un ventennio dalla chiusura del Concilio Vaticano II, ma i documenti del Concilio sono di pienissima attualità, anzi purtroppo ancora non sono del tutto passati nella nostra mentalità, nella nostra vita e nella nostra attività. Quindi è necessario che sempre ritorniamo ai documenti del Concilio. Vorrei soprattutto riferirmi a due documenti che parlano più chiaramente e più a lungo di questo argomento: la “Gaudium et Spes” (G.S.) e la “Lumen Gentium” (L.G.)»: La vocazione dell’uomo, Relazione tenuta al Corso di Formazione per Animatori Vocazionali (Palermo, 1-27 febbraio 1987), dattiloscritto a cura del Centro Diocesano Vocazioni di Palermo, 4.


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Così, dalla visione gerarchico-sacrale6 del “sacerdote” degli anni del seminario e dei primi passi del ministero, ancora povera del contenuto teologicosacramentale e descritta con un linguaggio aulico-trionfalistico7, passerà ad una comprensione biblico-teologica ed ecclesiologico-sacramentale del presbitero, «segno della presenza di Cristo, pastore e guida, nella Chiesa»8. Va riconosciuto che la forma storica del presbitero e la sua intelligenza teologica non è data una volta per tutte. Si concretizza nelle diverse sfumature del qui e ora di un entroterra storico-culturale, all’interno di un vissuto cristiano specifico e di una rappresentazione di Chiesa. Sorge dunque spontanea la domanda: don Puglisi incarna un modello di prete? Ed eventualmente, quale? In lui ci è difficile scorgere la materializzazione univoca di una tipologia presbiterale; e non solo perché vive nel solco del trapasso conciliare. Ogni presbitero nelle concrete condizioni del suo ministero (diaconia!9) — dal Vaticano II oramai abbiamo appreso la lezione che la “variante storica” è teologicamente “rilevante” oltre che “rivelante”10 — è condotto dallo Spirito ad incarnare creativamente l’unico modello che è il Cristo “compro6

In un discorso d’occasione, appena una settimana dopo l’ordinazione presbiterale, dichiarava: «Ogni qualvolta nella diocesi si celebra una messa, il mediatore principale è il vescovo; il celebrante ha ricevuto il potere ed il mandato di celebrare dal suo vescovo, del quale è appunto un cooperatore: quando si offre un sacrificio eucaristico, la comunità lo offre per la mediazione del vescovo, anche se questi è rappresentato da un suo cooperatore nel sacerdozio»: Discorso in occasione del 50° anniversario dell’ordinazione presbiterale del card. E. Ruffini (10 luglio 1960), manoscritto, in AGP, b. VI, fasc. 1. 7 «Quanto è alta la dignità sacerdotale! Poiché la dignità di un essere e dei suoi atti si misura dalla dignità della persona cui si attribuiscono, l’essere e gli atti del sacerdote in quanto tale, appartenendo al Figlio di Dio, sono di una dignità divina. Il sacerdote è dunque un essere divino, la congiunzione tra il divino e l’umano, il ponte tra il giardino di delizie e la valle di lacrime; egli è l’apice del creato, il monte la cui vetta affonda nel cielo»: Sulla creazione, sugli ordini sacri e sul sacerdozio cattolico, appunti s.d., manoscritto, in AGP, b. III, fasc. 24. 8 Dio mi affida una missione d’amore, Relazione al Campo Vocazionale Giovani del movimento “Presenza del Vangelo”, Motta D’Affermo 1990, trascrizione da nastro audiofonico di Filomena Lo Manto, in AGP, b. IV, fasc. 10, scatola cassette 1990. 9 Per una riflessione biblica sul presbitero a partire dalla categoria teologica della diaconia di Cristo cfr. G. BELLIA, Dalla diaconia di Cristo ai ministeri della Chiesa, in Il presbitero nella Chiesa dopo il Vaticano II, cit., 81-99. 10 Per una comprensione della storia come luogo teologico e per una ermeneutica dei segni dei tempi cfr. G. RUGGIERI, Per una ermeneutica del Vaticano II, in Concilium 1 (1999)


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messo” nella storia degli uomini fino al dono totale di sé. Non va dimenticato che don Pino, come Gesù, è stato ucciso in partibus infidelium a motivo del Regno. La questione, dunque, non è “quale modello” egli abbia impersonato, ma come e in quali termini si è fatto interpellare, alla luce dell’Evangelo, dalla storia concreta in cui ha vissuto ed esercitato la sua azione pastorale. In lui troviamo non tanto uno “schema” sacerdotale, quanto “criteri” evangelici, ridestati dall’“aggiornamento” conciliare, che gli hanno permesso di concretizzare, a partire dalle provocazioni di quella sua specifica collocazione storico-territoriale, l’esemplarità cristica in una forma “a-tipica” (non schematica, dunque inedita!)11. In fondo, come aveva inteso il Decreto conciliare sul ministero e la vita presbiterale, nella vita di un presbitero, mosso da una autentica carità pastorale, è all’opera l’imprevedibile creatività dello Spirito e la sua “misura eccessiva” apparsa esemplarmente nel Crocifisso risorto: «Reggendo e pascendo il popolo di Dio, i presbiteri sono stimolati dalla carità del buon Pastore a dare la loro vita per il gregge, pronti anche al supremo sacrificio […], nella loro qualità di reggitori della comunità praticano l’ascetica propria del pastore d’anime, rinunciando ai propri interessi e mirando non a ciò che fa loro comodo, bensì a ciò che è utile a molti, in modo che siano salvi, in un continuo progresso nella perfezione del compimento del lavoro pastorale e, all’occorrenza, pronti anche ad adottare nuovi sistemi pastorali, sotto la guida dello Spirito d’amore, che soffia dove vuole»12.

L’essere-con/nell’esser-come Cristo, in virtù della conformazione pneumatica, reputo possa fungere da chiave interpretativa della non-standardizzata, singolare identità cristiano-presbiterale di Pino Puglisi. Parole e gesti, che non hanno la loro radice nell’insegnamento e nell’esempio di Gesù non rendono ragione, in un preciso contesto storico ed ecclesiale, 18-34, e l’interessante e “provocatoria” lettura della categoria conciliare “segni dei tempi” di J. COMBLIN, I segni dei tempi, in Concilium 4 (2005) 96-111. 11 «Sullo scenario dei modelli di presbiterato del Novecento non possiamo non riconoscere l’originalità della figura di don Pino»: C. SCORDATO, Don Pino Puglisi tra ministero e martirio, in Don Pino Puglisi prete e martire, cit., 61. 12 CONCILIO VATICANO II, Decr. sul ministero e la vita sacerdotale Presbyterorum ordinis (07.12.1965), 13.


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dell’esistenza cristiana e, molto più, dell’identità e della missione di un presbitero. In lui si evince quella che, nella vita del discepolo, possiamo definire l’ennomia cristica: «Cristo, l’Uomo-Dio […] diventa uomo normativo per tutti i credenti»13.

1. CREDENTE14 L’imprevedibile, nonché “straordinario”, esito del ministero presbiterale di Giuseppe Puglisi va compreso — e quanti lo abbiamo conosciuto personalmente ne siamo del tutto convinti — a partire dalla ferialità e dal nascondimento della sua vita cristiana. Il concetto neotestamentario della 13 F. PIZZO (cur.), Don Giuseppe Puglisi educatore dei giovani e formatore di coscienze. Campi scuola 1984-1992, Palermo 1994, 2° Campo, 68 (= Campi scuola, seguito dal numero del campo e dalla pagina). Così presenterà ai giovani l’identità del cristiano: «Il seguace di Cristo, [è] colui che ha scelto di vivere secondo il modello di comportamento di Gesù Cristo»: ibid., 1° Campo, 52. L’espressione ennomia cristica fa riferimento al noto testo paolino di 1Cor 9, 21 (e"nnomov Cristou%) e permette di estrapolare il fondamento cristologico e pneumatologico della vita cristiana che ha in “Cristo-legge” la sua dinamica propulsiva. Il Cristo “incontrato” diviene per il credente “norma” di vita. Su questo cfr. L. ALVAREZ-VERDES, L’ennomia cristica come principio di flessibilità nella prassi morale. Approccio ermeneutico a 1Cor 9, 19-23, in M. NALEPA – T. KENNEDY (curr.) La coscienza morale oggi, Roma 1987, 73-106. 14 Una preziosa pagina di un altro martire della fede — D. Bonhoeffer — ci può venire in aiuto per cogliere un aspetto peculiare di questo prete “silenzioso e feriale”, privo della benché minima coscienza della “straordinarietà” del suo agire: «Chi è nella sequela vede sempre e soltanto il suo Signore e lo segue. Se vedesse lo straordinario in sé, già per questo non sarebbe più nella sequela. Chi è nella sequela fa la volontà del Signore nella semplice ubbidienza come straordinario, e di tutto questo sa solo di non poter fare altrimenti, di fare dunque ciò che è semplicemente ovvio. L’unica riflessione comandata a chi è nella sequela ha per oggetto l’essere del tutto inconsapevoli, del tutto privi del momento riflessivo nell’ubbidienza, nella sequela, nell’amore. Se fai il bene, non far sapere alla mano sinistra ciò che fa la destra. Non devi sapere il bene tuo proprio. Altrimenti è davvero il tuo bene, non il bene di Cristo. Il bene di Cristo, il bene nella sequela si realizza senza che si sappia. La vera opera dell’amore è sempre l’opera che mi resta nascosta […]. Anche l’amore eccezionale per il nemico resta nascosto a chi è nella sequela. In effetti egli non vede più il nemico come tale, se lo ama. Questa cecità o meglio questo sguardo illuminato da Cristo di chi è nella sequela è la sua certezza. Il nascondimento della sua vita ai suoi stessi occhi è la promessa che gli è data»: D. BONHOEFFER, Sequela, trad. it., Brescia 20012, 149-150.


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sequela è un criterio ermeneutico decisivo per venire a capo della sua vicenda e della sua identità di prete. Don Pino essenzialmente è un discepolo e un credente e tale resta lungo tutto l’arco della sua vita. La sua è una fede interiorizzata, dunque semplice; assimilata e radicata (radicale!), propria degli umili. Il Signore Gesù è il centro della sua esistenza, del suo messaggio, del suo ministero che rivela un chiaro contenuto cristocentrico. Tutto quello che lui pensava e operava lo faceva in obbedienza a Cristo suo Signore e Maestro. Il presbiterato di Puglisi è saldamente fondato sulla vocazione battesimale, sulla consapevolezza della chiamata cristiana, “pro-ferita” e realizzata (“interpretata”!) in tale condizione e ministero. C’è infatti circolarità tra la sua adesione-dedizione a Cristo e il concreto esercizio del ministero presbiterale. In don Puglisi la sequela Christi si è realizzata nel presbiterato. Il suo essere discepolo di Cristo era il suo esser prete e viceversa, come lui stesso teneva a precisare in una relazione del 1982: «Io non mi realizzo con una vocazione battesimale in generale. Io non sono un cristiano in generale, sono questo cristiano specifico e quindi ho questa specifica vocazione»15.

Al centro della sua vita c’è la pratica assidua dell’ascolto delle Scritture che lo ha introdotto alla conoscenza personale diretta del Verbo di Dio. Era tutta la sua ricchezza da condividere con chiunque16. Durante la verifica del 1° Campo scuola, facendo riferimento all’intensa esperienza di ascolto delle Scritture, ebbe a dire: «Abbiamo apprezzato la Parola di Dio, non ce ne staccheremo più; d’ora innanzi diventi per noi una parola che ha importanza, che ha la prima importanza, una parola che è certezza, perché non è parola di uomo ma di Dio, e non può sbagliare, perché Dio non sbaglia ed Egli ci ama. Quindi poniamoci in ascolto di questa parola, con costanza, cioè giorno per giorno; creiamo dei tempi per l’ascolto»17. 15

Cit. in F. DELIZIOSI, Don Puglisi. Vita del prete palermitano, cit., 178. Sulla proposta formativa di don Puglisi parroco, insegnante e animatore della pastorale vocazionale cfr. C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi, in Synaxis 18 (2000) 457-475. 17 Campi scuola, 1° Campo, 62. 16


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Don Pino “rimaneva”18 nel suo Signore e non aveva pudore a manifestare un discepolato inteso come relazione personale d’amore. Nel presentare la persona di Gesù, durante un corso di esercizi spirituali per religiose, nello schema preparato annota: «Bisogna essere innamorati di Lui per seguirlo, per consacrarsi a Lui»19. La sua attività pastorale nasce dalla consuetudine di vita con il Signore Gesù incontrato nelle Scritture e nella liturgia, specialmente nell’Eucaristia. In lui vita e impegno ministeriale sgorgano dall’accoglimento del Cristo Parola-Evangelo/Corpo-donato. Rimanere in Cristo, frequentando le Sacre Pagine e nutrendosi del Pane essenziale, è per lui fonte di energia interiore e di inedita creatività e potenzialità: «La nuova potenzialità significa questo: nella sua Parola noi troviamo la luce per capire chi siamo, da dove veniamo, che cosa dobbiamo fare, che cosa è bene che noi andiamo via via compiendo nella nostra vita»20.

Abituato, grazie al suo robusto discepolato, ad obbedire alla parola di Dio contenuta nelle Scritture e, come vedremo, celata nelle trame della storia, nel ministero lo ritroviamo totalmente coinvolto nel servizio dell’Evangelo a tal punto che questo prenderà forma, verrà “rappresentato” (“ri-presentato”), in lui: il suo appassionato annuncio evangelico si è incarnato fino a divenire “passione”, tribolazione, immolazione, effusione del sangue in quel 15 settembre 1993. La sua morte pro-esistenziale si rivela, in questo modo, Parola-appello di Dio, Evangelo del Regno da lui amato e servito con dedizione e fedeltà21. 18 «Rimanere in Lui significherà ascoltarlo, ascoltare la sua Parola, nutrirsi della sua Parola, nutrirsi del suo sangue, significherà accoglierlo dentro di noi. Tutte le volte che noi celebriamo l’Eucaristia, celebriamo la Pasqua, perché Cristo morto e risorto diventa una sola cosa con ciascuno di noi: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me ed io in Lui”»: Dio mi affida una missione d’amore, cit. 19 Esercizi spirituali predicati alle sorelle dei Poveri di S. Caterina da Siena (Siena, 5-11 agosto 1992), appunti, manoscritto, in AGP, b. III, fasc. 22. 20 Dio mi affida una missione d’amore, cit., 5-6. 21 «Non sono un biblista, non sono un teologo, un sociologo, sono uno che ha cercato solo di lavorare per il Regno di Dio»: Testimoni della speranza. Relazione tenuta al Convegno nazionale del Movimento “Presenza del Vangelo” (Trento, 22, 28 agosto 1991), dattiloscritto, in AGP, b. IV, fasc. 13.l.


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2. “ECCLESIASTICO”22 In don Puglisi colpisce la lucida consapevolezza che la Chiesa può essere compresa in tutta la sua profondità misterica solamente quando essa è riunita in assemblea orante: «Il Vaticano II ci ha fatto riscoprire alcune verità importantissime. Intanto che la vocazione fondamentale è la comunione con Dio, con un Dio che è amore ed è pieno di tenerezza. […]. Questo messaggio forte lo abbiamo riscoperto con il Concilio, insieme con tante altre cose. Ad esempio ricordo quando, agli inizi degli anni Sessanta, cominciai a insegnare religione. Dicevo ai miei alunni: “Se vi dico la parola Chiesa, quale immagine vi viene in mente?”. Qualcuno mi diceva la chiesa parrocchiale, qualcun altro mi diceva la cupola di S. Pietro. Infatti nei libri di catechismo era disegnata questa cupola. Cambiare una mentalità del genere non è stato facile. Attualmente quando si fa una domanda del genere a dei giovani che hanno una certa istruzione religiosa, rispondono che la Chiesa è un’assemblea di persone che prega. È vero, l’assemblea liturgica è immagine visibile della Chiesa. Ecco dopo il Concilio siamo passati da una spiritualità ad un’altra»23.

Don Pino, oltre alla dimensione misterica, aveva maturato la visione della Chiesa come popolo di Dio, la Chiesa di comunione. Essa è una compagine, un’“assemblea di chiamati” (e\kklhsòç) ad essere nel e per il

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Da intendere secondo l’accezione del padre H. De Lubac: «Nel linguaggio attuale, questo bel nome è consunto, per non dire degradato. Esso è diventato il titolo corrente di una professione da apporre sui registri di stato civile, come etichetta per un reparto di abiti speciali. Nella Chiesa stessa noi non lo usiamo quasi più che come una designazione del tutto esteriore. Chi gli donerà la sua ampiezza e la sua nobiltà? Chi saprà renderci nuovamente sensibili ai valori che un tempo esso evocava? Nella sua accezione originaria, senza distinzione obbligata tra chierico e laico, l’“ecclesiastico”, vir ecclesiasticus, è l’uomo di Chiesa, l’uomo nella Chiesa; meglio: egli è l’uomo della Chiesa, l’uomo della comunità cristiana. Se non possiamo più strappare radicalmente al passato il vocabolo con questo preciso significato, conserviamone almeno la realtà. Che essa riviva in molti di noi»: H. DE LUBAC, Meditazione sulla Chiesa, trad. it., Milano 1979, 165. 23 Dalla registrazione di una lezione di storia della Chiesa tenuta da Puglisi durante un corso di Teologia di Base a Brancaccio, cit. in F. DELIZIOSI, Don Puglisi. Vita del prete palermitano, cit., 86-87.


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mondo un “segno e uno strumento” di salvezza e di pace per ogni uomo24. Per lui, dunque, la vocazione cristiana è vocazione nella Chiesa. Non si può vivere in pienezza il cristianesimo se non si appartiene alla Chiesa. «Dunque è proprio lì, nella comunità cristiana, nella Chiesa, che tutti riuniti da un’unica vocazione diventano una sola cosa in Cristo: una sola cosa. Diventano dunque il Corpo di Cristo. Leggiamo nella lettera agli Efesini: uno solo è il corpo, uno solo è lo Spirito, una sola è la speranza. Si parla proprio di questo corpo in cui noi siamo inseriti attraverso il Battesimo. La Chiesa dunque è quel corpo di Cristo nel quale la vita del Signore, di Cristo, si diffonde nei credenti per mezzo dei sacramenti. E questi vengono uniti in modo arcano, ma reale, a Cristo che ha sofferto ed è stato glorificato»25.

Convinto — come sosteneva il Concilio — che «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità»26,

coglieva tutta l’importanza di una pastorale unitaria, che promuova tutte le vocazioni, senza trascurare l’occorrenza di presbiteri che «stimolino al servizio e vivano a servizio, che sappiano discernere i veri carismi nelle comunità e li sappiano coordinare tra di loro per un servizio comunitario più efficace»27.

Da qui la corresponsabilità ecclesiale da lui promossa attraverso gli organismi di partecipazione28 perché ogni discepolo potesse vivere respon24

In una relazione don Puglisi affermava: «La Chiesa […] è il Corpo di Cristo, […] è il Cristo vivente nella storia, affinché quel volto di Cristo sia attraente per tutta l’umanità»: Dio mi affida una missione d’amore, cit. Cfr. le due costituzioni conciliari sulla Chiesa Lumen gentium e Gaudium et spes. 25 La vocazione dell’uomo, cit., 7. 26 CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Lumen gentium (21.11.1964) [= LG], 9. 27 Abbiamo bisogno di vocazioni. Relazione al Centro Regionale Vocazioni, 1988, manoscritto, in AGP, b. IV, fasc. 22. 28 «Sta dando i primi passi il Gruppo di Coordinamento pastorale di Quartiere, dal


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sabilmente la propria appartenenza alla comunità cristiana per una Chiesa che «diventi in questa nostra società sempre più “segno e strumento” di unità, di pace, di amore»29. Don Puglisi si preoccupava di far maturare la coscienza ecclesiale dei laici in vista dell’edificazione di una comunità strutturata ministerialmente, capace di incidere fattivamente nel territorio. Per ogni discepolo la chiamata cristiana si esplicita in termini inequivocabili di servizio: il servizio dell’Evangelo di Cristo-servo, il figlio di Dio salvatore che «non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). Dentro questa comune vocazione comprendeva il ministero (servizio!) presbiterale: «Ogni cristiano è chiamato ad essere al servizio degli altri, però ci sono alcuni che, in certo senso, coordinano i servizi e diventano stimolo per tutta la comunità per un servizio costante, più efficiente […]. Certamente la funzione può essere diversa come nel corpo, i muscoli del cuore non sono costituiti da elementi più preziosi di quelli di cui sono costituiti i muscoli del braccio ma la funzione sì, senza il braccio posso continuare a vivere, ma senza il cuore credo di no»30. quale dovranno scaturire le varie Commissioni per elaborare un Piano Pastorale Unitario, che dia la possibilità di iniziare una rievangelizzazione e ricristianizzazione della porzione del Popolo di Dio, residente in questo Quartiere»: Relazione sulle quattro parrocchie comprendenti il quartiere Brancaccio-Ciaculli in occasione della visita straordinaria del card. Salvatore Pappalardo (Palermo 11 gennaio 1991), dattiloscritto, AGP, b. IV, fasc. 11. 29 L. c. Don Pino è convinto che la Chiesa è la fraternità di quanti hanno aderito alla chiamata di Cristo, una compagine di uomini e donne accomunati dalla stessa Grazia. Per questo predilige le immagini della Chiesa rivalutate dal Vaticano II che rimandano al suo statuto comunionale: «Lui chiama e l’altro risponde; e la risposta lo fa entrare nelle “comunità” di coloro che gli rispondono, nella comunità di coloro che lo seguono, nella “Chiesa”. Tutti siamo questa vite, questo grappolo di uva in cui ciascuno ha il suo nome, però, tutti quanti costituiamo un’unica vite, siamo cellule che hanno la propria identità, ma che fanno parte dell’unico corpo. […] I vari ministeri non costituiscono un titolo diverso di fronte a Dio. Siamo tutti uguali davanti a Lui, siamo tutti figli di Dio, partecipi della sua natura e, quindi, quale dignità più alta ci può essere di questa? Essere figli di Dio e partecipi della natura di Dio. Proprio questo lo viviamo attorno all’Eucaristia, quando tutti ci cibiamo dello stesso corpo, ci nutriamo dello stesso sangue di Cristo. Lì non c’è vescovo, non c’è presbitero, non c’è diacono, non c’è lettore, accolito ecc.., siamo tutti uguali, diventiamo tutti lo stesso corpo»: Dio mi affida una missione d’amore, cit. 30 Dio mi affida una missione d’amore, cit.


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La sua carità pastorale, attinta dalla relazione discepolare, dalla comunione con Cristo, dal legame d’Amore con il suo Signore e Maestro31, rivela la coscienza di essere pastore della sua comunità e, pertanto, garante della gente a lui affidata, della loro vita, della loro storia. L’autorità, che si fonda sull’“essere della persona”32, per lui è servizio; pertanto spesso nella sua predicazione ricorre l’insolita scena evangelica di Gesù, Signore e Maestro, che lava i piedi dei suoi discepoli. In uno schema di ritiro annotava: «autorità → servizio: lavanda dei piedi; Mc 10,42-45»33. 31 «Egli ci ha chiamati alla comunione con sé. È in questa comunione con Lui che noi possiamo trovare la pienezza della nostra vita in Lui»: l. c. 32 Non va dimenticato che don Pino accompagnava alle letture bibliche e teologiche anche la lettura di autori dell’area antropologica, come per esempio E. Fromm. Questi, in un’opera cara al prete palermitano, afferma: «L’autorità secondo la modalità dell’essere non è fondata soltanto sulla competenza dell’individuo per quanto riguarda l’assolvimento di certe funzioni sociali, ma anche, e nella stessa misura, sulla vera essenza di una personalità pervenuta a un alto grado di crescita e integrazione. Persone del genere irradiano autorità e non sono costrette a impartire ordini, a minacciare, a corrompere; si tratta di individui altamente sviluppati i quali dimostrano, con ciò che sono — e non principalmente con ciò che fanno o dicono — quello che gli uomini possono essere. I grandi Maestri di Vita erano appunto autorità del genere…»: E. FROMM, Avere o essere, trad. it., Milano 1977, 60. 33 Esercizi spirituali predicati alle sorelle dei Poveri di S. Caterina da Siena, cit. Riportiamo il significativo commento del racconto giovanneo fatto a un campo vocazionale: «Ricorderete poi, dal Vangelo di S. Giovanni (13,1-17) il racconto della lavanda dei piedi che la liturgia della Chiesa colloca nel giorno del Giovedì Santo come un fatto molto importante: è la consegna del comandamento dell’amore che diventa servizio. Pensate quando Gesù si cinge i fianchi, prende il catino con l’acqua e incomincia da Pietro, ma questi dice: “Signore, tu lavi i piedi a me? […] Non mi laverai mai i piedi!”. Gesù gli risponde: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”, quindi, non sarai più in comunione con me. La risposta di Gesù sembra esagerata. Pietro fa un atto di gentilezza e Gesù gli dice che, se fosse rimasto in quella posizione, non sarebbe stato più suo amico. Pietro ancora non ha capito qual è il senso della missione di Gesù, non ha ancora capito che Gesù è venuto per farsi servo fino a morire per l’uomo. Pietro, forse, sta sognando il Messia che dovrà liberare Israele con la forza, con la potenza. Era avvenuto qualche giorno prima il fatto della madre dei due discepoli, la quale aveva chiesto di mettere i suoi figli uno a destra e uno a sinistra, uno ministro degli interni e l’altro ministro degli esteri. Gli altri discepoli restano male per quella richiesta; non credo perché la considerino una cosa ingiusta in sé e per sé, ma forse perché pensano: “questi ci vogliono scavalcare, invece di loro potremmo esserci noi uno a destra e uno a sinistra”. C’è gelosia fra di loro perché non hanno ancora capito che Gesù non ha stabilito il suo Regno come Regno di potenza, di benessere, nel quale gli intimi hanno dei privilegi particolari, degli sconti speciali; tutt’altro. Gesù, secondo me, vuole dire a Pietro: “se tu non ti


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Così il ministero presbiterale di don Pino esprime un chiaro fondamento ecclesiologico. Della Chiesa Puglisi ha una visione universale (“cattolica”!) essendo convinto che essa non esaurisce il Regno ma che ne costituisce in terra il germe e l’inizio: «La Chiesa non esaurisce il Regno di Dio, cioè la presenza di Dio nel mondo, ma è la forma evidente di questo Regno di Dio che va espandendosi, che va realizzandosi»34.

Nella comunità cristiana, il prete, con il suo ministero pastorale, traduce nell’oggi la memoria di Cristo, raduna e serve un popolo capace di coinvolgersi nella storia degli uomini di un dato territorio perché in essa si renda visibile l’irruzione del Regno di Dio. Come un pastore vive in funzione del gregge, così il prete in relazione alla sua gente. Nei confronti della sua comunità Puglisi si riconosceva pastore e guida ma si considerava anche compagno di viaggio. Esprimeva una solidarietà radicale e condivideva tutto con la sua gente, nella consapevolezza che pastore e gregge sono indissolubilmente legati e correlati nell’alveo della comunione ecclesiale: «Il presbitero, è colui che (lo dice il termine) è anziano nel popolo di Dio, ma “anziano” logicamente non come anzianità anagrafica, ma come esperienza di fede, di amore verso Dio, di comunione con i fratelli. Il presbitero ha il compito di essere segno della presenza di Cristo, pastore e guida, nella Chiesa in dipendenza dal Vescovo. Il presbitero è al servizio della comunità»35.

La morte violenta di Puglisi non è il frutto di una casualità ma l’epilogo di una comprensione del suo esser prete36 che gli fa esprimere non solo metti in testa che io sono venuto per servire e, quindi, anche voi che siete miei discepoli dovete essere pronti a servire, non hai capito niente né della mia, né della tua missione”. Infatti, poi, alla fine dice così. “Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni gli altri… Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica”. Il cristiano è quello che si mette al servizio degli altri nello spirito dell’amore che è donazione totale»: Dio mi affida una missione d’amore, cit. 34 L. c. Cfr. LG 5. 35 L. c. 36 Un convincimento, questo, oramai consolidato anche dall’acquisizione degli atti dei


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fedeltà a Dio e alla Chiesa, ma anche all’uomo e al mondo, guardati da lui con gli occhi del Nazareno che ha detto: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,17). C’è una continuità di intenzione che attraversa tutta la sua vicenda presbiterale, anche se poi, all’indomani del Vaticano II, è stata vissuta con una diversa consapevolezza. Essa è racchiusa sinteticamente nell’immaginetta ricordo della sua ordinazione presbiterale ove si legge: «O Signore, che io sia strumento valido nelle tue mani per la salvezza del mondo». Formato dall’Evangelo al dono totale di sé, il suo impegno di promozione umana scaturisce dalla virtù presbiterale della carità pastorale. Le parole della consacrazione eucaristica “questo è il mio corpo, questo è il mio sangue” da lui sono state assimilate esistenzialmente. Dare la vita inerisce all’essere del prete, e non solo nel senso metaforico di una vita spesa generosamente. Il ministero include l’evenienza del martirio, nella misura in cui il pastore difende e protegge il suo gregge dagli attacchi dei predatori e dei violenti. Ciò conferma che, come sostiene S. Di Cristina, don Puglisi non rientra nel «clichè storico del prete sociale»”37. La carità in lui non è vissuta quale attività di assistenza sociale ma è espressione irrinunciabile della sua identità cristiano-presbiterale.

3. SECOLARE38 Don Pino pensa realmente il suo servizio presbiterale nella dimensione evangelica della incarnazione che lo porta ad essere compagno degli uomini, fedele alle responsabilità “mondane”. Egli incarna la categoria neotestamentaria della dispersione, della disseminazione nel mondo, del procedimenti penali del tribunale di Palermo che si sono conclusi con la condanna dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio. Gli atti sono stati pubblicati dalla rivista Segno 197198 (1998). 37 S. DI CRISTINA, Spiritualità di un presbitero diocesano: don Pino Puglisi, in Don Pino Puglisi prete e martire, cit., 77. 38 Di lui, sempre lo stesso mons. Salvatore Di Cristina, che conosceva don Pino sin dagli anni della formazione in Seminario, ha affermato: «Si sentiva un prete secolare nel senso più autentico e positivo del termine»: ibid., 78.


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vivere tra le case degli uomini con lo statuto evangelico del pellegrino e dello straniero39, dell’essere nel saeculum, senza appartenervi nella logica. La sua carità pastorale ha trovato concretizzazione nel territorio dove, impiegando energie e risorse umane e spirituali, profonde il suo impegno di evangelizzazione e promozione umana. Un territorio da conoscere e studiare al fine di una progettazione pastorale incarnata. Per Puglisi non importava solo essere cristiani in modo generico, ma cristiani in un territorio parrocchiale ben preciso o tra i banchi di una scuola e, soprattutto, essere Chiesa a Godrano (1970-1978), a Brancaccio (1990-1993). Lungi dalla visione tipica di quel modello di Chiesa che si arroga una funzione civile, protesa a (ri)guadagnare spazi nella società, in lui prevale la prospettiva evangelica del lievito che deve fermentare la farina. Per tale motivo la sua impostazione pastorale coniuga Evangelo e territorio. Una prospettiva presente lungo tutto l’arco del suo ministero. La lettura della situazione storica e del territorio è fondamentale nella sua prospettiva pastorale40. Per questo chiede ai suoi parrocchiani occhi per guardare i bisogni umani e le necessità del quartiere, e braccia per un impegno diretto: «Vedendo quali sono oggi le forme di emarginazione che richiedono un soccorso, che cosa noi possiamo fare? […] Qui dovremmo vedere quali sono le forme di emarginazione, di bisogno che richiedono il nostro aiuto all’interno e all’esterno della nostra comunità cristiana. A quale servizio possiamo essere chiamati? Non possiamo partire dal dire: “Mi piacerebbe mettermi al servizio di tutti gli zoppi del mio paese!”. Debbo vedere quali sono le reali necessità e quindi a quali posso rispondere io»41. 1Pt 2, 11: paroòkouv kaì parepidhémouv. Lo dimostra l’attenta e minuziosa relazione sulle quattro parrocchie del quartiere Brancaccio-Ciaculli in occasione della visita del card. Salvatore Pappalardo dell’11 gennaio 1991 (cfr. Relazione sulle quattro parrocchie, cit.), e la Relazione e le Conclusioni al Convegno Parrocchiale sulla “Realtà socio-pastorale della Parrocchia S. Gaetano e delle Parrocchie del quartiere” (Palermo 14-16 ottobre 1992): cfr. dattiloscritto, in AGP, b. IV, fasc. 14. 41 Dio mi affida una missione d’amore, cit. F. Anfossi riporta la testimonianza di Salvo Palazzolo, un giovane della Fuci, vicino a Don Puglisi negli anni di Brancaccio: «Faceva solo la cosa più semplice che può fare un prete: essere attento alla realtà che sta intorno, qualunque essa sia, e avere un’attenzione particolare per le situazioni dove sono più forti l’ingiustizia, il disagio, l’indifferenza»: E li guardò negli occhi, cit., 46. 39

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Egli, come Gesù, si lasciava interpellare dalla vita delle persone. Il contatto con la storia lo portava ad osservare, ascoltare, incontrare, a condividere. Motivato dalla fede, e soprattutto dall’amore, a partire dall’attenta lettura territoriale e sociale pensò ad una parrocchia nella dimensione della “dislocazione”. L’ambito della testimonianza cristiana è il mondo, la storia degli uomini. Qui, si percepiscono e si vivono gli umori, le istanze, le gioie e le angosce della gente che devono essere fatte proprie dalla Chiesa. Egli così poneva allo scoperto, “alla luce del sole”42, i nodi equivoci del tessuto sociale ove operava. «Puglisi nel suo ministero poteva anche restare in silenzio e limitarsi all’amministrazione dei sacramenti in un quartiere dominato dalla mafia, ma il suo impegno pastorale di attenzione al territorio lo fece scontrare con la mafia che svelò il suo volto radicalmente antievangelico e un sistema di potere che annienta la dignità dell’uomo e vanifica la possibilità di una vera evangelizzazione. Puglisi rompeva una “pace” fatta di indifferenza e, a volte, di connivenza»43.

Anche in questa espressione di un ministero di adesione alla realtà e di libertà evangelica nei confronti di tutto ciò che dice immobilismo “forzato” (imposto da poteri mafiosi occulti), don Pino è motivato dal servizio dell’uomo nell’ottica e nello stile del Signore Gesù, il quale «quando deve seguire la “sua” legge che è quella dell’amore, quando deve seguire la legge del suo Dio, è libero da qualsiasi cosa, da qualsiasi persona gli stia accanto. Sappiamo bene come noi uomini non siamo così, ma ci lasciamo condizionare dall’amico, da ciò che è comunemente accettato da tutti; mentre Gesù non è così; sconvolge con la sua libertà il suo tempo»44.

Il parroco di Brancaccio non considera la Chiesa un’agenzia caritativa. La solidarietà di salvezza per i cristiani non scaturisce da un sentimentalismo religioso ma, logicamente e teologicamente, dalla fede quale 42 Molto significativamente Roberto Faenza ha intitolato così la sceneggiatura del suo film su don Puglisi: cfr. A. MONTESI – L. PALLANCH (curr.), Alla luce del sole, Roma 2005. 43 F.M. STABILE, Pino Puglisi nella Chiesa siciliana, in Don Pino Puglisi prete e martire, cit., 110. 44 Campi scuola, 4° Campo, 105.


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atto totale che impegna e coinvolge tutta la vita, compresa la costitutiva dimensione sociale di essa45. La disseminazione dei discepoli di Cristo tra le strade dei quartieri della città rende presente la Chiesa lì dove altrimenti gli uomini non potrebbero esser raggiunti. Si tratta di tessere relazioni e di cogliere i bisogni della gente perché diventino sollecitudine della comunità cristiana. Don Pino ha tracciato il profilo di una Chiesa che si connota secolarmente, cioè senza esenzioni o deroghe rispetto alla sua chiamata ad essere fermento nella e della storia. Forte di questo convincimento, nel contesto della spiegazione delle beatitudini evangeliche, parlando della gioia nell’afflizione ebbe a dire: «Il discorso della gioia credo che sia molto importante oggi. Noi ripetiamo tante volte le parole “felici e beati”; ma oggi con tutto quel che sentiamo, possiamo vivere nella gioia? È possibile questo? Non è un estraniarsi dal mondo, un alienarsi il voler pensare ad una gioia costante o magari a momenti di vera gioia? Con tante sofferenze e ingiustizie è possibile parlare di gioia? Noi siamo chiamati a scoprire i germi di bene che sono nel mondo, svilupparli in noi e negli altri e farli fruttificare, mettendo ovunque speranza. In questo contesto la gioia è possibile, non è un’alienazione, anzi è come un forte impulso che viene messo dentro di noi e ci dà la forza per andare avanti con speranza, per portare qualcosa di nuovo al mondo nel quale viviamo»46.

4. POVERO47 «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo “che era di condizione 45 «L’“atto religioso” è sempre qualcosa di parziale, la “fede” è qualcosa di totale, un atto che impegna la vita (Lebens akt). Gesù non chiama ad una nuova religione, ma alla vita»: D. BONHOEFFER, Resistenza e Resa. Lettere e scritti dal carcere, trad. it., Cinisello Balsamo 1988, 442. Sulla relazione carità-impegno sociale cfr la seconda parte della prima enciclica di BENEDETTO XVI, Deus caritas est, Città del Vaticano 2006, nn. 19-39. 46 Campi scuola, 1° Campo, 52. 47 Nella sua persona sembra riemergere l’esigenza sorta al Concilio (poi disattesa!) di una Chiesa povera e dei poveri che ebbe nel card. Giacomo Lercaro un convinto assertore:


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divina... spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo” (Fil 2,6-7) e per noi “da ricco che era si fece povero” (2Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione. Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre “ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito” (Lc 4,18), “a cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo»48.

Puglisi conosceva di sicuro questo testo conciliare. Egli si è sentito chiamato, rispondendo con prontezza e totalità, a farsi povero nella logica dell’amore infinito (“smodato”!) di Dio in Cristo Gesù. Colpisce da questo punto di vista la sua sobrietà evangelica che gli permetteva di essere povero tra i poveri49, consapevole che essi sono soggetti privilegiati del Regno di Dio. In loro si manifesta la signoria di Dio e, nel loro riscatto dalle oppressioni dei potenti di questo mondo, si rende palese che Dio “si è ricordato del

cfr F.M. STABILE, Padre Puglisi e i poveri, in La Comunità 22 (1999) 32-33. Sulla natura essenzialmente teologica della povertà così si esprimeva il card. Lercaro: «La pratique de la pauvreté et la situation du pauvre, selon l’Evangile, ne concernent pas seulement la conduite du chrétien et de l’Eglise, ma aussi le mystère intime et personnel du Christ. Elles ne constituent pas un chapitre d’une éthique, même sublime, ou l’expression d’une philanthropie aussi généreuse qu’inefficace, mais une partie intégrante de la révélation du Christ sur lui-même, un chapitre central de la christologie»: G. LERCARO, Préface, in Église et pauvreté, Paris 1965, 9. Cfr. anche G. ALBERIGO, L’evento conciliare, in G. ALBERIGO (cur.), Giacomo Lercaro vescovo della Chiesa di Dio (1891-1976), Genova 1991, 113-144. 48 LG 8. 49 Sulla povertà di don Puglisi l’amico mons. Francesco Pizzo afferma: «Era ben nota la sua assoluta povertà, che non era soltanto distacco, ma vivere dello stretto necessario, contentarsi del poco, condividere il suo poco con la povertà dei più bisognosi»: Campi scuola, cit., 29. «Don Pino ebbe animo e scelte di vita francescani. L’affermazione [è] fondata sulle nostre conoscenze della vita di don Pino…», attesta l’amico e confratello mons. Salvatore Di Cristina: Spiritualità di un presbitero diocesano, cit., 69. Certamente in questa scelta ha inciso la sua adesione e collaborazione al movimento “Presenza del Vangelo” fondato a Bagheria nel 1946 dal frate minore padre Placido Rivilli.


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suo giuramento di concedere agli oppressi la libertà dalle mani dei nemici”50. Per don Puglisi i poveri non sono solo destinatari di aiuti economici, ma inconfutabile “luogo teologico”, ambito vincolante ove la comunità cristiana deve collocarsi se vuole essere realmente sacramento credibile del Dio di Gesù Cristo e testimone della sua logica. Al fine di “frequentare” questo luogo — i poveri — occorre fare la scelta di uscire dal proprio egoismo e dalle proprie sicurezze, affrancarsi dai compromessi con i poteri di questo mondo, esprimere piena solidarietà con quanti cercano la giustizia, la libertà e la pace. Don Puglisi, con la scelta della povertà, al di là delle parole, ha “provocato” non solo la sua comunità parrocchiale ma, altresì, la Chiesa palermitana e dell’intera Isola a riscoprire la sua nativa chiamata ad essere povera con e per i poveri51. Egli era convinto che solamente somigliando a Cristo povero, la Chiesa rivela al mondo, nella sua stessa carne, la logica del Regno. Introducendo il tema del 1° Campo Scuola Seguire Gesù sulla via delle Beatitudini, proprio all’interno della prima beatitudine, così si esprime:

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Vd. Lc 1,72-74, il cantico profetico di Zaccaria, corifeo del riscatto di Israele. Qui di seguito lo schema di una meditazione da dove si evince il lucido convincimento di don Puglisi della scelta preferenziale dei poveri da parte di una Chiesa che sceglie di farsi povera: ore 9.00 «Siena, Domenica 9.8.92 4A) GESÙ povero ama i poveri, richiede la povertà Lc 12,33-34 1) L’incarnazione paradigma della povertà del Cristo 2Cor 2, 8-9 da ricco che era Fil 2, 6-11 kenosi Betlem Nazareth, il carpentiere; la vita pubblica Lc 9,57; la croce 2) Lc 4,18: il lieto annunzio ai poveri i pescatori di Galilea, le massaie, i pastori, i lavoratori dei campi, le vedove, i malati… 3) Beati voi poveri Guai a voi ricchi Lc 6,20.24.38; 12,13-34 (21.31-32, 33-34); 14,33; 16 (13) 19-31; Mt 25,31-46 1Gv 3,17 Essere poveri coi poveri»: Esercizi spirituali predicati alle sorelle dei Poveri di S. Caterina da Siena, cit. 51


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«La legge del NT non è imposta, ma proposta, è una legge che deve essere accolta e accettata, da diventare qualcosa di proprio, che fa parte della propria personalità […], si realizza, secondo quanto diceva il profeta Geremia: “verranno giorni nei quali con la casa di Israele… io concluderò una alleanza nuova. Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore” (Ger 31,31-34)»52.

Come Gesù, che da ricco si è fatto povero (cfr 2Cor 8,9), i cristiani sono inviati (unti con l’Unto) per evangelizzare i poveri. «L’esempio vivo della pratica delle […] beatitudini lo riscontriamo nella persona di Gesù. Egli è stato povero, cioè non si è lasciato condizionare mai dalla ricchezza, dal potere e dai beni della terra. […] Gesù era povero anche perché non si appoggiava ai potenti e non aveva potere personale»53.

Anche su questo versante l’esemplarità di Gesù si conferma fondamentale per la vita della Chiesa e della sua concreta presenza tra gli uomini e le donne destinatari della sua missione.

5. AUDACE NELLA TRIBOLAZIONE54 Don Puglisi pensa ad una Chiesa profetica55, serva di un progetto di evangelizzazione intesa in chiave isaiana (cfr. Is 6,1-3) come liberazione che riguarda la totalità dell’uomo. Una Chiesa più pneumatica in ogni sua manifestazione, attenta all’appello degli uomini, più attiva nella sua testimo52

Campi scuola, 1° Campo, 39-40. Ibid., 42. 54 Come afferma il Vaticano II, «La Chiesa “prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio ”, annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga (cfr 1Cor 11, 26). Dalla virtù del Signore risuscitato trae la forza per vincere con pazienza e amore le afflizioni e le difficoltà, che le vengono sia dal di dentro che dal di fuori, e per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se non perfettamente, il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce»: LG 8. 55 «La Chiesa è profetica, una comunità, un popolo profetico»: Dio mi affida una missione d’amore, cit. 53


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nianza, più audace nella ricerca della giustizia, più radicale nel prendere le distanze da ogni compromesso con il mondo e la sua menzogna. La fede biblica, infatti, non è un insieme di verità astratte ma comporta un discernimento del disegno salvifico di Dio, del suo regnare qui ed ora nella storia. Il Regno di Dio non è una teorizzazione, ma neanche una organizzazione. Esso è rovesciamento della logica del mondo, energia di riscatto dal dominio degli uomini che opprimono altri uomini con l’ingiustizia, lo sfruttamento e la violenza. È lotta nonviolenta contro le strutture di dominio e le egemonie occulte che esercitano una disumanizzante oppressione dei poveri e degli indifesi. La testimonianza della Chiesa scaturisce da una fede che chiede adesione al mondo e da una carità che esige intrinsecamente un’assunzione di responsabilità nei confronti della storia. Una carità che non può essere dissociata dalla ricerca della giustizia e che quindi include anche l’esser contrastati e perseguitati. La scelta cristiana si snoda sempre tra audacia e tribolazione: l’audacia della testimonianza dell’inedita logica evangelica e la tribolazione legata allo scontro con il monolitismo tipico dei poteri di questo mondo. Nella fede, quale adesione personale e comunitaria all’Evangelo del Regno, «la logica della scelta diventa una logica d’impegno, ma anche, qualche volta, di sacrificio che, però, dà vera gioia […]: la logica del chicco di frumento, la logica della croce. Gesù ha detto: “Chi vuol essere mio discepolo, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Mc 8,34-35). Può sembrare una cosa che atterrisce prendere la croce per essere discepolo di Gesù, ma se vogliamo crescere, sarà questa la logica. Se noi vogliamo restare immaturi allora rifiuteremo la logica della croce, la logica del chicco di frumento. Chi vuol crescere deve accogliere la logica del chicco di frumento»56.

Lì dove l’uomo vive nell’impotenza più abietta le povertà della storia, c’è un appello, una chiamata, una possibilità di E-vangelo (eu\aggelòon), che comporta uno “scendere” fino alla compromissione esistenziale, sulle orme dello “scambio kenotico” di Cristo Gesù57. 56 57

Campi scuola, 4° Campo, 116. «il quale, pur essendo di natura divina non considerò una rapina (a|rpagmoén) la sua


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La Chiesa è costituita per continuare questo “scambio” di riscatto, per togliere i veli e smascherare le menzogne che prostrano i deboli e gli indifesi, per una solidarietà capace di itinerari esodali e di progetti di liberazione. Nel suo genoma porta iscritta la chiamata ad essere segno di una speranza che riguarda gli uomini e a indicare risposte ai tanti loro interrogativi che restano spesso inespressi; ad essere lido di speranza ove i profughi delle intemperie della vita possono liberamente approdare58. Consapevole che la rivelazione ebraico-cristiana ha un carattere storico-escatologico, Puglisi, nei confronti della realtà sociale in cui vive, non pronuncia generiche parenesi moraleggianti, bensì precise denunce; punta l’indice, e non di sicuro per mero protagonismo o temerarietà ma, mosso dal giudizio evangelico, e lo fa con la forza della coerenza della vita. Ciò suscita l’ostilità dei “detentori del potere” che, nella Palermo del degrado e del disagio sociale, assumono le fattezze delle lobbies segrete o camuffate, propagatrici di panico e dipendenza tra i più deboli e indifesi. Nel solco del profetismo biblico, egli sta dalla parte delle vittime, difendendo e promuovendo sempre la dignità umana umiliata. Si impegna con somma dedizione nell’opera educativa delle giovani generazioni per strapparli alla mentalità mafiosa, alla cultura dell’illegalità, alla violenza, alla strumentalizzazione dell’ignoranza, della disoccupazione e della povertà. Ma la sua delazione, pur avendo una grande adesione storica, si uguaglianza con Dio; ma spogliò (e\keénwsen) se stesso assumendo la condizione di servo (morfhèn douélou) e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce»: Fil 2,6-8. Commentando durante un corso di esercizi spirituali il coinvolgimento di Gesù nella vita del paralitico e del cieco e nella vicenda della morte dell’amico Lazzaro, don Pino schematicamente offre questi spunti di riflessione: «Che cosa fa Gesù: 1) si avvicina alla miseria con simpatia, con volontà di comprensione; 2) fa fare qualcosa, scuote dal torpore, suscita l’attività, la speranza, il senso del bisogno; 3) interpreta fino in fondo la necessità e la miseria della persona»: Esercizi spirituali predicati alle sorelle dei Poveri di S. Caterina da Siena, cit. 58 È questo il motivo per cui don Puglisi volle nella sua parrocchia il Centro sociale Padre Nostro. È significativa la lettura che don Pino, assieme a Lia Cerrito, ha fatto della mentalità mafiosa dell’arroganza e della prepotenza a partire dalla preghiera evangelica del Padre Nostro: cfr. L. CERRITO, Come in cielo così in terra, Cinisello Balsamo 2001.


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Corrado Lorefice

rivela trascendente rispetto ad essa. Egli non è un “politico” o un “moralizzatore”. È un credente dall’occhio lungimirante, capace di prospettiva escatologica, pieno di fiducia, poiché assume le ostilità del mondo unito a Cristo e in suo nome. Affronta le ferite sociali non perdendo di vista (contemplando già!) il non ancora della pienezza del Regno, inaugurato da Gesù di Nazaret e attivo nelle contraddittorie vicende della storia. Ed è proprio guardando a lui che don Puglisi riesce a conservare, nonostante la consapevolezza dei rischi e l’umana trepidazione, quell’audacia tipica dei miti e dei poveri di spirito: «I potenti lo osteggiavano, ma nonostante questo Gesù non cercava di blandirli e neppure faceva loro “un’incensata”»59.

Di fronte al predominio territoriale mafioso, che mantiene lo status quo per creare dipendenza e sottomissione, il parroco di Brancaccio sollecitava e sosteneva l’impegno di frontiera dell’intera comunità o dei volontari del Centro sociale Padre nostro: «Dato che non c’è niente, noi vogliamo rimboccarci le maniche e costruire qualche cosa. E se ognuno di noi fa qualcosa, allora si può fare molto. Dovrebbe pensarci lo Stato, è vero. Ma noi cerchiamo di spingere. Il nostro agire diventa protesta»60.

Un impegno che, nascendo dalla testimonianza evangelica, include la possibilità del martirio, dell’effusione del sangue: «Certo questa testimonianza cristiana è una testimonianza che va incontro a difficoltà. […] Quindi dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo che dà valore alla testimonianza»61.

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Campi scuola, 1° Campo, 42. Intervento all’incontro “Chiesa e mafia”: la cultura del servizio e dell’amore contro la cultura del malaffare (18 febbraio 1993), in F. DELIZIOSI, «3P» Padre Pino Puglisi. La vita e la pastorale del prete ucciso dalla mafia, Milano 1994, 167. 61 Testimoni della speranza, cit. 60


La forma “cristica” di una figura “a-tipica”: Pino Puglisi

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6. UNA POSTILLA CONCLUSIVA La conclusione di questo lavoro mi viene suggerita dal dramma di Mario Luzi, Il fiore del dolore, dedicato a don Giuseppe Puglisi. L’aver tentato di balbettare qualcosa sul suo esser prete, alla fine, «lo conferma come compagno assente / lo conferma nel suo carisma cristicamente»62.

Con lui, amico e compagno, reso assente dalla violenza degli uomini, ma palesemente presente a motivo del suo supremo atto d’amore, “reale memoriale” del martirio di Cristo, condividiamo la grande idea di una Chiesa in diaconia del mondo, animata da preti che la aiutino a storicizzare creativamente l’unico ed esclusivo interesse che ha l’obbligo di custodire gelosamente e incrementare: condividere con tutti gli uomini, nella povertà dei mezzi e con la forza della mitezza, l’energia liberante e risanante dell’Evangelo del Regno.

62

M. LUZI, Il fiore del dolore, Firenze 2003, 28.



Sezione miscellanea Synaxis 25 (2007) 77-94

ATTUALITÀ DELLA PROSPETTIVA ANTIPERFETTISTA DELLA POLITICA ROSMINIANA

SALVATORE MUSCOLINO*

La prospettiva antiperfettista della politica di Rosmini offre, a nostro avviso, diversi spunti di riflessione per un dibattito come quello contemporaneo in cui si discute, spesso in modo acceso, sul rapporto tra fede e ragione o tra religione e scienza (a proposito delle questioni bioetiche), sul difficile rapporto tra culture eterogenee a livello nazionale e internazionale. Il lavoro è diviso in tre paragrafi: nel primo si analizza la critica di Rosmini alle teorie perfettiste; nel secondo si evidenziano i presupposti filosofici di tale critica; nel terzo e ultimo paragrafo si cerca di cogliere l’eventuale attualità o modernità del messaggio antiperfettista di Rosmini.

1. LIMITI DEL PERFETTISMO La prima domanda che bisogna porsi è ovviamente la seguente: che cosa è il perfettismo? Nella Filosofia della politica (1839) Rosmini ne fornisce la seguente definizione: «Il perfettismo, cioè quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti alla immaginata futura perfezione, è un effetto dell’ignoranza. Esso consiste in un baldanzoso pregiudizio, pel * Assegnista di ricerca in Filosofia politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Palermo.


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Salvatore Muscolino quale si giudica dell’umana natura troppo favorevolmente, se ne giudica sopra una pura ipotesi, sopra un postulato che non si può concedere, e con mancanza assoluta di riflessione ai naturali limiti delle cose. In un certo ragionamento, io parlai del gran principio della limitazione delle cose e vi dimostrai che vi sono dei beni la cui esistenza sarebbe al tutto impossibile senza l’esistenza di alcuni mali»1.

Rosmini in sostanza osserva che vi sono teorie politiche secondo le quali il male nella società dipenderebbe non dall’uomo ma dalla società stessa e dalle sue strutture. Il male, cioè, sarebbe essenzialmente male sociale e la politica avrebbe il compito di riformare la società sostituendo il vecchio ordinamento con uno nuovo e più giusto. Tale trasformazione, osserva Rosmini, nella mente di tali pensatori potrebbe anche comportare, ad esempio, dei sacrifici immediati da tollerare in vista della perfezione futura. Rosmini invece ritiene che la politica, se vuole adempiere in modo autentico alla propria funzione, non deve inseguire ideali utopici ma deve piuttosto considerare la “verità effettuale delle cose”, per usare una terminologia cara a un altro grande pensatore della tradizione politica italiana: Niccolò Machiavelli. Il riferimento a Machiavelli non è casuale perché il nome del pensatore fiorentino viene normalmente associato all’idea di un atteggiamento “realista” in politica e non utopista. Anche Rosmini, al di là delle critiche che muove a Machiavelli, può essere inserito nel filone realista e per rendersene conto è sufficiente leggere non solo la Politica prima, cioè lo scritto cui Rosmini si dedica nella prima metà degli anni Venti, ma anche gli scritti maturi cioè la Filosofia della politica e la Filosofia del diritto, opere in cui Rosmini manifesta la sua indole realista proprio polemizzando con il perfettismo. Rosmini, utilizzando la distinzione aristotelica di sostanza e accidente, insiste perché l’interesse della politica sia indirizzato alla “sostanza” della società e non agli “accidenti”; bisogna interessarsi a cambiamenti positivi per la sussistenza della società e non a mutamenti accidentali i cui effetti negativi possano emergere successivamente in modo non prevedibile. Inquadrato in tale modo, l’errore del perfettismo è quello di considerare il male solo ed esclusivamente come male sociale, cioè dovuto alla società e 1

A. ROSMINI, Filosofia della politica, Roma 1997, 104-105.


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non invece alla limitatezza e al peccato originale dell’uomo, dato da cui il teologo Rosmini non può non partire anche quando si occupa di problemi politici e sociali. Tipico esempio di pensatore perfettista è Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Il pensatore ginevrino, com’è noto, ritiene che i mali della società siano cominciati quando, per la prima volta, un uomo ha recintato un pezzo di terra reclamandone la proprietà. Questo episodio avrebbe dato origine a un processo di degenerazione che il pensatore svizzero ritiene di poter curare non con l’abolizione della proprietà, bensì con un nuovo modello politico, quello descritto nella sua famosa opera Il contratto sociale (1762). Se però guardiamo alla storia e ai tentativi di applicare concretamente le idee di Rousseau, allora non possono stupire le critiche che Rosmini indirizza al pensatore di Ginevra. Durante la Rivoluzione francese sono stati i giacobini (cioè Robespierre, Danton e Saint Just) a ispirarsi al modello del Contratto sociale, ma quando hanno conquistato il potere, i principi cardine del modello democratico di Rousseau, cioè l’idea di bene comune e di Volontà Generale, hanno invece generato una dittatura assai feroce e contraria ai valori ai quali si ispirava. La democrazia giacobina (come normalmente la si etichetta) in quanto tentativo di realizzare un ideale perfetto, era caratterizzata dal decisionismo dottrinario e dalla risolutezza da parte dei ceti dirigenti nella scelta dei modelli e dei metodi per conseguire l’ideale2. Il fatto che tale periodo sia passato alla storia con il nome di Terrore rende superflua ogni considerazione in merito al pericolo di ogni dirigismo coatto in campo etico-politico. Ma non è solo Rousseau e il suo modello di democrazia a ricadere nella trappola del perfettismo: destino simile hanno anche i socialisti utopisti di cui Rosmini si occupa in un apposito saggio pubblicato nel 18473. Rosmini contesta le teorie socialiste perché, nella loro visione ideale, finiscono con l’anteporre la società agli individui e la maggioranza alla minoranza. Essi sono pronti a sacrificare i diritti presenti degli individui a favore di una futura ipotetica società perfetta. Le teorie socialiste sono utopiche e 2

Cfr. F. CONIGLIARO, La libertà. Estasi e tormento, Torino 2001, 182. A. ROSMINI, Il Comunismo e il socialismo. Ragionamento letto nell’Accademia dei Risorgenti di Osimo, in A. ROSMINI, Opuscoli politici, Roma 1978, 81-116. 3


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perverse perché finiscono con l’astrarre l’uomo dalla concretezza della vita reale e con l’assolutizzare il ruolo della politica statale per il conseguimento della felicità, la quale felicità è connotata in termini esclusivamente naturalistici e materialistici. La trascendenza, per così dire, rimane esclusa. L’avversione di Rosmini nei confronti del socialismo è tale che suscita stupore il fatto che alcuni studiosi, appoggiandosi a singoli passi, abbiano avanzato l’ipotesi di un Rosmini in senso lato “socialista”. Gli addetti ai lavori ricordano la famosa polemica tra due autorevoli interpreti, Luigi Bulferetti e Pietro Piovani: il primo, basandosi su un passo giovanile in cui Rosmini parla di livellamento delle proprietà, ne deduce che egli sia ascrivibile al movimento socialista. Piovani invece, che considera Rosmini un liberale, sebbene di un liberalismo assai particolare, contesta ovviamente tale interpretazione4. Notiamo, per inciso, che la critica di Rosmini è limitata ai socialisti utopisti e non riguarda il socialismo scientifico di Karl Marx. Nonostante tutto, possiamo affermare con sicurezza che Rosmini avrebbe rifiutato anche il socialismo scientifico di Marx perché anche questo, al pari delle teorie cosiddette utopiste, vuole annullare la proprietà privata e, secondo Rosmini, ogni qualvolta si mette in discussione tale istituto si finisce con ledere la dignità e i diritti delle persone. Ed è nota la considerazione di Rosmini nei confronti della persona umana soprattutto in ambito politico e giuridico. Il rifiuto del socialismo e del comunismo non implica però che Rosmini sia favorevole al nascente capitalismo e ai suoi figli più prossimi: l’individualismo e il materialismo. Soprattutto su quest’ultimo si scatena la sua polemica. Il bersaglio è Melchiorre Gioia, rappresentante di una schiera di pensatori che vogliono leggere la politica sulla base delle categorie economiche. Rosmini rifiuta l’idea proposta da quei pensatori che ritengono che la felicità pubblica possa essere realizzata aumentando semplicemente la produzione dei beni, aumentando cioè il paniere di beni a disposizione del singolo per l’appagamento dei suoi desideri. Il “consumismo” di questi pensatori, sembra dire Rosmini profeticamente, è una medicina insufficiente contro i mali della società perché l’uomo ha una duplice natura, materiale e spirituale. Il perfettismo è impli4 Cfr. P. PIOVANI, Rosmini e il socialismo risorgimentale, in Rivista internazionale di filosofia del diritto 28 (1951) 1, 76-93.


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cito nella teoria materialista e consumistica perché, concependo la realtà umana solo nella sua dimensione materiale, ritiene che l’appagamento dell’uomo si realizzi solo con l’accrescimento dei beni (che, detto per inciso, diventa il fine della società politica). Questa idea, combinata con quella (di derivazione illuminista) del progresso secondo cui la società procede sempre per il meglio, ne genera a sua volta un’altra, quella che il male sociale dipende solo da una insufficiente organizzazione sociale e da una insufficiente produzione di beni. Per risolvere il problema della felicità pubblica e del male nella società sarebbe necessario quindi migliorare l’efficienza del sistema produttivo. Contro una tendenza che già comincia a muovere i primi passi nell’Europa ottocentesca, Rosmini ricorda e rivendica l’importanza dei beni spirituali e sembra sostenere che la dimensione dell’essere deve avere una preminenza su quella dell’avere. Quando parliamo di beni spirituali possiamo rifarci a quanto scritto nella Politica prima dove si parla della scienza, del sapere, dell’amore per la patria, della religione, come beni fondamentali per un appagamento completo della persona umana. I pensatori cosiddetti economisti commettono l’errore di basarsi su una antropologia incompleta5, perché considera l’uomo solo sul versante del corpo, sulla dimensione materiale, mentre in realtà l’uomo ha anche una dimensione spirituale che ha, in ultima istanza, una supremazia sulla prima. E sembra superfluo sottolineare quanto attuali siano queste considerazioni sui limiti del consumismo che nel ’900 trovano una prosecuzione inconsapevole e un approfondimento critico in ambiti culturali profondamente differenti da quello religioso all’interno del quale si muove Rosmini. Ci riferiamo ai pensatori marxisti del ’900 e alla critica contro la società tecnocratica condotta dai membri della scuola di Francoforte tra i quali ricordiamo lo psicoanalista Eric Fromm la cui opera più famosa si intitola proprio Essere o avere? (1976).

5 A. ROSMINI, Saggio sulla Definizione della Ricchezza, in A. ROSMINI, Opuscoli politici, cit., 16 nota 4.


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2. PRESUPPOSTI FILOSOFICI DELLA POLEMICA AL PERFETTISMO La riflessione sul perfettismo, come si evince dall’opera citata, cioè la Filosofia della politica, riguarda ovviamente la sfera della politica ma ad un’analisi più profonda si scopre che in realtà essa dipende dai presupposti del sistema rosminiano. A livello politico, Rosmini critica l’idea di una società perfetta per due ragioni che si implicano vicendevolmente: una teologica e l’altra filosofica. La prima, quella teologica, perché l’idea di una società perfetta sembrerebbe negare il dogma del peccato originale, quella situazione cioè in cui la libertà dell’uomo e la sua esistenza sono segnati dal peccato, dal male e dal dolore. In sostanza Rosmini critica del perfettismo il suo presupposto teorico, cioè l’ottimismo antropologico che, insieme all’idea che la storia sia un processo positivo inarrestabile, genera una visione ideologica totalizzante che finisce, potremmo dire, per avvalorare il “concetto” di società perfetta che è chiuso e statico, sulla “realtà” politica e sociale che è invece sempre aperta e dinamica. Le costruzioni teoriche perfettiste, infatti, tendono a fornire modelli di organizzazione politica e sociale in cui i cittadini sembrano diventare ingranaggi, sembrano cioè non essere a disposizione di se stessi ma di altri, cioè della società: il valore della libertà tramite cui la persona realizza se stessa finisce così con l’essere offuscato in un modello costruito praticamente a tavolino. A questo utopismo perfettista che si alimenta di un pericoloso antropocentrismo, Rosmini oppone un antiperfettismo di principio, oppone cioè l’idea che l’uomo è un essere fallibile e sempre in balia dell’errore. Il secondo motivo di avversione nei confronti del perfettismo è di natura filosofica e deriva in un certo senso dal primo: la ragione, anche quando si occupa di questioni politiche, deve essere aperta al dato della fede perché essa non è autosufficiente. In tutte le parti della sua enciclopedia, Rosmini afferma con decisione la necessità che si crei quel circolo ermeneutico tra fede e ragione e rifiuta l’idea di una ragione chiusa in se stessa. Così, se in campo politico egli critica il perfettismo, in ambito morale rifiuta i sistemi che innalzano la ragione a facoltà legislatrice e addirittura critica il razionalismo per i possibili influssi negativi sulla teologia6. 6

«Il razionalismo è un principio che si riduce a questa proposizione: “L’uomo non


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Come già sarà apparso chiaro, la polemica antiperfettista si collega alla questione del rapporto fede e ragione, problema fondamentale per ogni filosofia che voglia dichiararsi “cristiana”. Rosmini affronta direttamente la questione fin dagli anni giovanili quando manifesta l’intenzione di elaborare un’enciclopedia del sapere cristiana da contrapporre a quella illuminista e che permetta di riaffermare, contro gli errori del pensiero moderno (sensista, materialista, idealista, razionalista…) i principi della Scolastica, stagione del pensiero filosofico considerata da Rosmini «quanto di meglio l’uomo abbia saputo produrre nel campo del pensiero». Quando parliamo di Scolastica parliamo ovviamente di Tommaso d’Aquino che Rosmini considera il massimo ingegno della filosofia italiana e che, notoriamente, ha fornito una particolare soluzione al rapporto federagione. Pur confermando la filosofia come ancilla Theologiae, Tommaso, servendosi della filosofia e del linguaggio aristotelico, reclama una certa autonomia della ragione nei confronti della fede. La ragione ha il compito di dimostrare i preambula fidei per cui, in sostanza, ragione e fede avrebbero una relativa autonomia senza però che questa autonomia comporti un’“autosufficienza della filosofia” come certa neoscolastica sembra avere sostenuto. Tommaso non può certo essere ricondotto interamente ad Aristotele! Il vero Tommaso è invece più vicino allo spirito di Agostino di quanto si sia sostenuto in passato. Secondo Tommaso, è una conquista della ragione capire che avere fede non significa essere irrazionali, e una volta accolta la fede questa apre sentieri non percorribili con le sole forze della ragione umana. Rosmini è perfettamente in sintonia con Agostino e con Tommaso e occupa, potremmo dire, una posizione intermedia tra i due, l’una, quella agostiniana, che predilige la via interiore per giungere a Dio, l’altra, quella tomista, che cerca Dio tramite la mediazione del mondo sensibile. Al di là del rapporto con la tradizione patristica e scolastica, i recenti studi in ambito rosminiano stanno, comunque, rivalutando il momento teologico, spesso sottovalutato in passato rispetto a quello filosofico. Secondo alcuni, addirit-

dee ammettere se non quello che gli somministra la naturale esperienza, escluso ogni lume soprannaturale”»: A. ROSMINI, Il razionalismo teologico, Roma 1992, 35.


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tura, Rosmini sarebbe in primo luogo un teologo che si è occupato poi anche di filosofia nei limiti in cui questa tornava utile alla causa della teologia7. Chiudendo questa parentesi sul rapporto tra fede e ragione8, si può vedere come essa rivesta una certa importanza nell’ambito della polemica antiperfettista e quindi anche nell’ambito della dimensione politica e giuridica. Proprio nel saggio scritto in polemica con le teorie socialiste e comuniste, Rosmini si definisce un pensatore liberale: il liberalismo, egli dice, è una parola molto abusata ma se è intesa correttamente può essere molto utile. Il liberalismo, nella definizione data da Rosmini, è «un sistema di diritto e insieme di politica, il quale assicura a tutti il prezioso tesoro di loro giuridiche libertà»9.

Come noto, Rosmini è stato duramente attaccato anche dalle alte gerarchie ecclesiastiche: si pensi al cardinale Lambruschini o al cardinale Antonelli. Ricordiamo che proprio nel 1832 la Mirari Vos di Gregorio XVI aveva condannato il liberalismo come dottrina contraria all’ortodossia cattolica e La Costituzione secondo la giustizia sociale (1848) viene messa all’indice perché considerata troppo “liberale”. Rosmini si dispiace delle accuse che riceve, a suo avviso, ingiustamente e prepara risposte che in realtà non pubblica perché si rende conto che il clima nei suoi confronti è ormai decisamente ostile, quindi preferisce non alimentare lo scontro10. Comunque, è un dato ormai acquisito dalla critica che Rosmini, anche in queste delicate questioni di natura politica, cerca sempre di restare nell’ambito della ortodossia per cui, ad un’analisi libera da preconcetti, 7 Cfr. ad esempio G. GRANDIS, Il dramma dell’uomo. Eros/Agape & Amore/Carità nel pensiero antropologico di Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), Milano 2003, 58 ss. Sulla teologia rosminiana cfr. il recente M. KRIENKE, Theologie Philosophie Sprache. Einführung in das theologische Denken Antonio Rosminis, Regensburg 2006. 8 Sul rapporto tra scienza e teologia ci sembrano equilibrate le considerazioni svolte dal famoso teologo H. Küng in un suo recente volume alla luce delle recenti novità in campo scientifico: H. KÜNG, L’inizio di tutte le cose, trad. it., Milano 2006. 9 A. ROSMINI, Il Comunismo e il socialismo. Ragionamento letto nell’Accademia dei Risorgenti di Osimo, cit., 88. 10 Cfr. Rosmini a Don Francesco Puecher, 15 Agosto 1849 in A. ROSMINI, Epistolario filosofico, a cura di G. Bonafede, Trapani 1968, 568.


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appare chiaro che le sue proposte vanno proprio nella direzione opposta agli errori della modernità senza che questo implichi un semplice “ritorno al passato”. A livello filosofico, infatti, il richiamo alla Scolastica e alla tradizione medioevale, non significa riproporre modelli di pensiero antichi ma riproporne i valori di fondo: l’oggettività, Dio, il primato della verità. Rosmini però vuole riaffermare tali principi accettando la sfida del pensiero moderno, cioè la sfida della soggettività. A livello politico, accettare la sfida della modernità senza ricadere nei suoi errori, significa riconoscere il valore della libertà che, solo riconoscendo la verità, può evitare il pericolo del relativismo, del soggettivismo, dell’idealismo e del materialismo. Ma la Chiesa, probabilmente, non è ancora pronta per certe scelte e così sono forse spiegabili le tante incomprensioni di cui è stato vittima Rosmini. Parlare di giuridiche libertà, come fa Rosmini quando definisce il suo liberalismo, va proprio nella direzione contraria ai movimenti politici d’ispirazione rivoluzionaria che rivendicano la libertà e l’uguaglianza ma poi finiscono col negare la dignità della persona umana. E parlare di giuridiche libertà va anche contro l’altro grande sbocco della modernità che è rappresentato dalla filosofia politica di Hegel con la sua teoria etica dello stato che, in quanto incarnazione della razionalità, sarebbe l’unica entità in grado di garantire la libertà autentica delle persone. Rosmini respinge tutto ciò in nome del primato della persona che notoriamente coincide con il diritto: «La persona dell’uomo è il diritto umano sussistente»11. Una corretta teoria sullo stato12, secondo Rosmini, deve quindi partire da una corretta analisi della persona umana e dei suoi aspetti, potremmo dire, sociali. Secondo Rosmini, esistono, infatti, tre società fondamentali, tre diversi livelli in cui si articola la coesistenza dei soggetti, cioè la loro vita in società: questi tre livelli o, meglio, queste tre società sono: la società domestica, quella teocratica e quella civile. Le prime due sono società naturali perché naturalmente l’uomo si trova a vivere in famiglia (società domestica) e naturalmente l’uomo si trova ad essere parte di una società universale del genere umano i cui membri, 11

A. ROSMINI, Filosofia del diritto, I, Padova 1967, 191. Precisiamo che Rosmini distingue i concetti di stato e di società civile (cfr. ibid., III, 1208). Ai fini del nostro discorso tale distinzione è irrilevante. 12


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cioè tutti noi, abbiamo lo stesso rapporto di dipendenza nei confronti del Creatore; quando riconosciamo questo fatto entriamo a far parte della Chiesa (cioè la società teocratica) che non è un’altra società rispetto a quella del genere umano, ma una sua realizzazione più perfetta: «La società teocratica perfetta, cioè la chiesa di Gesù Cristo, non è che la società naturale del genere umano sollevata in alcuni uomini all’ordine soprannaturale, e recata all’ultimo suo compimento ed alla piena realizzazione»13.

Se la società domestica e quella teocratica (o del genere umano) sono società naturali, discorso diverso deve essere fatto per la società civile. Essa è una società artificiale, perché creata dagli uomini per tutelare la proprietà e l’utilità comune. Visto che la società civile è una società artificiale fondata sul denaro14, Rosmini propone una visione laica dello stato perché bisogna sempre distinguere ciò che riguarda l’amministrazione delle cose, cioè la sfera dell’utile, da ciò che riguarda la giustizia, cioè la sfera della morale e della religione. A dimostrazione di tale distinzione, Rosmini, che è favorevole alle libertà civili come la libertà di coscienza, di stampa, di associazione, è contrario all’idea che lo stato, anche se a maggioranza cattolico, definisca il cattolicesimo (o qualunque altra religione), come religione di stato (questo riconoscimento è presente invece nello Statuto Albertino). Nel progetto di costituzione per il nascente stato italiano che egli scrive nel ’48, egli argomenta questa sua idea spiegando che così procedendo si violerebbe il principio della laicità dello stato perché un funzionario statale ebreo o ateo sarebbe costretto a partecipare a cerimonie pubbliche con rito religioso da lui non condivise15. Difendere il carattere laico dello stato non significa però cadere nel laicismo. Sappiamo noi quanto attuali siano questi problemi e Rosmini, se rettamente inteso, ci offre diversi spunti su come poter affrontare oggi queste problematiche, anche se bisogna riconoscere che nella riflessione 13

Ibid., IV, 888. Cfr. A. ROSMINI, La Costituzione secondo la giustizia sociale, in A. ROSMINI, Scritti politici, a cura di U. Muratore, Stresa 1997, 200. 15 Cfr. ibid., 70. 14


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politica dell’Ottocento erano ovviamente assenti quelle tematiche collegate alla società multiculturale che caratterizzano il dibattito contemporaneo.

3. ATTUALITÀ O MODERNITÀ POLITICA DI ROSMINI Per rispondere adeguatamente alla domanda sull’attualità politica di Rosmini, innanzitutto bisogna porsi la seguente domanda: cosa significa attualità di un pensatore? Si può parlare di attualità di un pensatore per due motivi: 1) il suo pensiero filosofico è attuale o moderno perché viene riproposto da altri con o senza integrazioni; 2) il filosofo, a prescindere dal periodo storico in cui è vissuto, ha intuito certi limiti del pensiero moderno per cui le sue analisi continuano ad offrire spunti interessanti per gli studiosi. A noi pare che il Rosmini politico sia attuale soprattutto in questo secondo senso (ma non solo), perché, come già notato, ha intuito diversi limiti della cultura politica e sociale contemporanea. Soprattutto sul tema del laicismo alcuni suoi ragionamenti possono stimolare qualche riflessione. In alcuni articoli pubblicati su un giornale torinese nel 185316, Rosmini affronta diverse tematiche legate alla politica di laicizzazione condotta dal governo piemontese. Rosmini, ad esempio, critica l’opinione di coloro i quali ritengono che la legge dovrebbe essere atea cioè neutrale non solo alle istanze religiose, ma anche a quelle morali; critica poi l’idea del matrimonio civile, perché il matrimonio è una materia che deve essere gestita dalla Chiesa perché di sua competenza. Partendo proprio da quest’ultima questione, cioè quella del matrimonio, introduciamo il tema della famiglia. Riconoscendo la dimensione naturale della famiglia o società domestica, Rosmini afferma che la società civile (o stato) non può e non deve invadere una sfera che non è di sua competenza, perché essa deve occuparsi soltanto dell’utile e dell’economia. Oggi, invece, tale logica viene paradossalmente ribaltata. Sappiamo come il concetto di famiglia, da sempre considerato come il perno della società, sia oggi sottoposto a un continuo attacco non solo politico, ma in

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Questi articoli sono contenuti nel già citato A. ROSMINI, Opuscoli politici, cit.


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senso lato culturale17. Da quando la cultura contemporanea ha abbandonato il concetto di verità morale e da quando è la volontà di potenza a caratterizzare il rapporto tra la persona e i suoi diritti (o desideri?), anche concetti una volta considerati “naturali” come quelli di famiglia sono diventati mere costruzioni culturali. Quindi se dal punto di vista di Rosmini la politica e lo stato non devono intervenire per modificare la famiglia perché questa è un istituto “naturale”, oggi il ragionamento, pur andando apparentemente nella stessa direzione, viene paradossalmente ribaltato: se tutto deriva dalla volontà di potenza del singolo allora è giusto che lo stato non intervenga a indicare modelli privilegiati di famiglia rispetto ad altri. Nella società multiculturale che si vuole forgiare (spesso in maniera ideologica e senza assoluto spirito critico almeno riguardo alle modalità di attuazione e regolamentazione di tale processo), si vuole che lo stato non difenda un modello familiare rispetto ad altri, ma si vuole che li tuteli tutti senza differenze: matrimonio monogamico, poligamico, omossessuale, coppie di fatto con diritti equiparati a quelli delle famiglie sposate senza però i relativi doveri… Ma l’elenco delle questioni su cui la moda laicista interviene potrebbe allungarsi includendo, ad esempio, il tema della fecondazione assistita, su cui l’anno scorso il popolo italiano è stato chiamato ad esprimersi con un referendum; oppure questioni come l’aborto o l’eutanasia… Come Rosmini ha intuito nella sua polemica con la democrazia, in una società dove sono i numeri a contare, cioè i rapporti di forza tra i partiti o gruppi di interesse, allora tutto può essere negato o affermato senza possibilità di una discussione critica e razionale. Purtroppo, l’idea che una discussione razionale sia impossibile perché implicherebbe l’idea di una ragione fondativa forte (e dunque assoluta!) domina larga parte della cultura contemporanea non solo a livello della politica di massa ma anche a livello più squisitamente filosofico: è sufficiente rivolgersi al pensiero debole del filosofo italiano Gianni Vattimo (non a caso d’ispirazione nietzschiana e heideggeriana), o alle posizioni del filosofo americano Richard Rorty secondo il quale la filosofia lungi dall’avere pretese veritative deve essere considerata al pari di un genere letterario; o ancora alle teorie proceduralistiche del diritto e della

17 Per un’introduzione al dibattito contemporaneo sulla famiglia cfr. F. D’AGOSTINO, Una filosofia della famiglia, Milano 2003.


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politica che, se portate agli eccessi, fanno dell’accordo e del consenso la unica fonte possibile del bene e della verità politici e morali. Se il criterio di scelta diventa la forza dei numeri, allora lo stato da laico diventa laicista, perché indifferente a ogni contenuto morale o religioso. Si persegue in questa ottica un’idea, quella di uno stato e di un diritto “neutrali”, che in realtà finisce con il generare solo conflitti ideologici, nel senso negativo del termine. Purtroppo questi fenomeni sono sotto gli occhi di tutti perché anche l’Europa che stiamo costruendo è un’Europa che non riconosce, ad esempio, le proprie radici giudaico-cristiane e che sta adottando una politica di sviluppo basata solo sulla categoria dell’economia. E a poco serve affermare che per evitare le degenerazioni causate dal rapporto tra culture eterogenee sia sufficiente che tutti rispettino le libertà altrui quando il principio di libertà, inteso in modo assolutamente formale, dimostra giorno dopo giorno di essere incapace di trovare da sé il proprio limite. La libertà, per essere un valore sano e non degenerare, deve invece essere mediata con altri valori quali l’eticità e l’intersoggettività18. Per chi volesse osservare il fallimento di una società multiculturale così intesa basti osservare, ad esempio, il caso dell’Olanda, da molti osannato come esempio di modernità e di laicità. In Olanda oggi si assiste sia al fallimento del modello di integrazione (soprattutto con le comunità islamiche) sia ad una degenerazione nel campo della bioetica con gli eccessi cui sta portando la legge sull’eutanasia approvata inizialmente per i malati terminali e poi estesa anche ai minori in condizioni mediche analoghe. E recentemente ci sono state richieste presentate ai tribunali da parte di certi soggetti che, per motivi psicologico-esistenziali, hanno reclamato il diritto di ricorrere all’eutanasia19. Dal punto di vista laicista che riconosce solo la volontà del singolo come realtà con cui lo stato deve fare i conti, come opporsi a tale richiesta? Anche il suicidio, in fin dei conti, può diventare un diritto per il soggetto (e quindi sorgerebbe per lo stato il relativo dovere di assistenza o di non intervento!).

18 19

Cfr. F. CONIGLIARO, La libertà. Estasi e tormento, cit., 181. Si vedano le osservazioni di F. D’AGOSTINO in Parole di bioetica, Torino 2004, 82.


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Il laicismo, si potrebbe dire, è la conseguenza del perfettismo che Rosmini critica senza riserve. Il laicismo è quella moda culturale e politica per cui la ragione (ma più che di ragione bisognerebbe ormai parlare di volontà del singolo) è assoluta e non deve avere limiti salvo quelli (teorici) del rispetto della libertà altrui. La religione, o la morale, devono rimanere fuori dal dibattito pubblico che finisce così con l’essere deciso dalle maggioranze fluttuanti che gestiscono il potere. Il laicista, inteso come degenerazione di laico, non accetta che la ragione umana non sia autosufficiente e non accetta che la volontà del singolo possa essere limitata da un’autorità esterna sia essa la Chiesa o lo stato. Il laicismo contemporaneo, insomma, è la realizzazione di quel soggettivismo che Rosmini condannava perché avrebbe condotto alla disgregazione della società. Ovviamente è bene chiarire, a scanso di equivoci, che negare il laicismo non significa auspicare la creazione di uno stato teocratico; anche Rosmini rifiuta un’idea di tal genere. Negare il laicismo significa soltanto riconoscere la limitatezza della ragione e della volontà umana che non può arrogarsi il diritto di decidere, ad esempio, cosa sia vita degna di tutela e quale non lo sia; se sia giusto che un bambino cresca in un ambiente familiare quanto più “naturale” possibile, oppure no. Nel campo delle relazioni internazionali e nelle dinamiche interne della società multiculturale, non bisogna quindi appellarsi ad un relativismo assoluto che non serve a nulla e a nessuno. Non serve livellare tutte le credenze e tutte le concezioni antropologiche esistenti in virtù di una pretesa libertà assoluta e insindacabile. Il rivendicare, come ai nostri giorni è frequente, le radici cristiane dell’Europa, al di là dei manifesti elettorali e propagandistici, non deve significare difendere la “nostra cultura” cristiana contro quella musulmana (o cinese o indiana) solo perché “è la nostra cultura”. In questo modo ricadiamo nell’errore laicista di considerare le culture universi simbolici chiusi in se stessi, non comunicabili tra di loro e quindi, per principio, non comparabili. Ma quest’affermazione, non solo è contraria al senso comune, ma anche nella pratica non trova applicazione da parte di nessuno perché allora sarebbe sbagliato anche lottare, come invece tutti noi facciamo, per l’affermazione dei diritti umani. Sarebbe sbagliato combattere contro pratiche esistenti presso certe culture, come l’infibulazione; sarebbe sbagliato lottare


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perché la condizione della donna sia equa presso tutte le culture del mondo. Se si accettasse però l’idea della assoluta relatività delle culture, allora bisognerebbe interrompere anche queste battaglie perché sarebbero viziate da un presupposto eurocentrico. Noi, Europa, invece dobbiamo “difendere” la nostra cultura perché essa ha elaborato l’idea di tolleranza, l’idea di persona, l’idea di libertà, le sole idee che possano permettere alle culture di coesistere. È all’interno della nostra cultura che si è sviluppata un’istanza meta-culturale, un’istanza cioè che permette di trascendere la nostra stessa cultura di appartenenza. Questa istanza è rappresentata dal riconoscimento della “priorità dei diritti umani”20 riconoscendo cioè in ogni uomo un dato originario preesistente ogni cultura di appartenenza. Molti paesi musulmani, ad esempio, non ratificano queste carte dei diritti perché i diritti umani devono essere sottomessi alla Sharia cioè alla legge coranica, la qual cosa comporta diversi problemi con la concezione laica del diritto e dello stato propria dell’Occidente. Ciò che l’Occidente ha creato a differenza delle altre culture non è il semplice vivere tramite il diritto (cioè tramite le regole): ogni cultura, ogni società sono infatti organizzate da regole. L’Occidente, tramite l’idea dei diritti umani, ha elaborato l’idea del diritto come paradigma relazionale: il diritto cioè è quella esperienza relazionale fondata sul riconoscimento di principio dell’altro come titolare di diritti e dotato della nostra stessa dignità ontologica21.

20 C’è chi ha richiamato l’attenzione sul fatto che la discussione contemporanea sui diritti umani sarebbe viziata da un’impostazione razionalistica e volontaristica coerente con l’idea di libertà negativa frutto della modernità. Sarebbe necessario recuperare invece la dimensione metafisica e parlare, come faceva giustamente Rosmini, di diritti dell’uomo cfr. D. CASTELLANO, Razionalismo e diritti umani. Dell’antifilosofia politico-giuridica della “modernità”, Torino 2003. La bibliografia sui diritti umani è ormai vastissima. Si possono consultare: F. VIOLA, Etica e metaetica dei diritti umani, Torino 2000; B. PASTORE, Per un’ermeneutica dei diritti umani, Torino 2003. Per un accenno al tema dei diritti da un punto di vista storico-costituzionale è utile G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino 1992. 21 Cfr. F. D’AGOSTINO, Il diritto come problema teologico, Torino 1997, 71 ss. È bene ricordare che l’attenzione nei confronti dell’Altro caratterizza diversi pensatori del ’900 tra i quali bisogna ricordare almeno Emanuel Lévinas i cui lavori fondamentali sono Totalità ed Infinito (1971) e Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1978).


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Se la cultura europea è riuscita ad elaborare tutto ciò lo deve soprattutto al cristianesimo che, al di là degli errori e limiti storici che noi tutti conosciamo, ha contribuito all’idea di uguaglianza degli uomini, proprio perché siamo tutti membri di quella società universale del genere umano di cui parla Rosmini. Le idee liberali che caratterizzano l’età moderna sono state preparate, ad esempio, dal dibattito politico medioevale, laddove si discuteva dei rapporti tra potere temporale e potere spirituale. In Europa, insomma, grazie all’apporto fondamentale del cristianesimo, si è a poco a poco aperta la strada al riconoscimento della centralità della persona umana anche se il pensiero moderno, bisogna riconoscerlo, si è incamminato su sentieri spesso distanti dalla religione e da Dio22. Ma queste riflessioni sulla funzione del diritto e dei diritti umani (o meglio “dell’uomo”) ci sembrano un buon motivo per reclamare l’inserimento di un riferimento alle origini giudaico-cristiane nella Costituzione europea. Bisogna infine riconoscere che l’idea (tipica della postmodernità) di una ragione che riduce tutto a convenzione e a scelta soggettiva è un portato della moderna società capitalista e della mentalità tecnocratica dell’uomo contemporaneo. E non bisogna essere religiosi per rilevare i pericoli insiti in tale atteggiamento: per rendersi conto di ciò è sufficiente leggere le opere di Horkheimer e di Adorno, pensatori di ispirazione marxista che hanno intuito, ovviamente dal loro punto di vista, i limiti di un tale atteggiamento23. Avviandoci alla conclusione, non possiamo quindi non riconoscere il carattere profetico che Rosmini ha avuto nei confronti di tanti mali che affliggono il nostro mondo. Con la polemica contro il perfettismo, ad esempio, si può dire senza correre il rischio di esagerare, che Rosmini ha nettamente anticipato la critica che il grande filosofo della scienza e pensatore liberale Karl Popper ha fatto nei confronti dello storicismo. Con 22

È nota l’ipotesi interpretativa di Augusto Del Noce secondo la quale il pensiero moderno da Cartesio in poi non sarebbe obbligato a sfociare nel nichilismo e nell’ateismo. Sarebbe presente, invece, una linea alternativa che da Cartesio, tramite Pascal, Malebranche e Vico giungerebbe fino a Rosmini evitando gli esiti ateisti della modernità: cfr. A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, Bologna 1990. 23 Cfr. M. HORKHEIMER – TH.W. ADORNO, Dialettica dell’Illuminismo, trad. it., introduzione di C. Galli, Torino 1997; M. HORKHEIMER, Eclisse della ragione, trad. it., Torino 2000; TH.W. ADORNO, Dialettica Negativa, trad. it., introduzione di S. Petrucciani, Torino 2004.


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l’espressione storicismo Popper intende tutte quelle teorie che pretendono di avere scoperto le leggi fondamentali della storia umana e che pretendono così di poter predire anche il futuro. Rappresentante tipico della mentalità storicista è stato tra gli altri Karl Marx con la sua teoria del materialismo storico secondo la quale, essendo la storia una lotta di classe, con il capitalismo si sarebbe giunti a una situazione in cui la società sarebbe stata divisa in due gruppi: pochi soggetti ricchissimi e una massa sterminata in condizioni di povertà assoluta. La Rivoluzione sarebbe stata così un evento necessario e quasi automatico e si sarebbe aperta la strada alla realizzazione della società comunista. La storia però non solo ha smentito le previsioni di Marx, ma le sue teorie hanno fornito la base teorica a uno dei peggiori totalitarismi della storia. Secondo Popper, la ragione umana è fallibile, sempre soggetta all’errore e mai assoluta soprattutto quando fa previsioni nei confronti del futuro. Quindi è chiaro che la società politica migliore secondo Popper è quella liberale o società aperta, come egli amava definirla in contrapposizione alla società chiusa. Ed è proprio con le parole di Karl Popper che vogliamo concludere questo lavoro, parole che potrebbero trovarsi, così come sono24, anche in una pagina di Rosmini, quel Rosmini che ama affermare la centralità della persona ma al tempo stesso la sua limitatezza, soprattutto in campo politico. Scrive Popper nella prefazione al suo famoso scritto intitolato Miseria dello storicismo (1957): «Se tentiamo superbamente di portare il paradiso sulla terra, riusciamo soltanto a trasformare la terra in un inferno. Perché ciò non accada dobbiamo abbandonare il sogno di un mondo perfetto. Ciò non significa che dobbiamo cessare i nostri tentativi di fare il mondo migliore di quanto non sia, ma che dobbiamo impegnarci in questo compito con la dovuta umiltà: dobbiamo limitarci a combattere la miseria, l’ingiustizia, l’oppressione, la corruzione. In questo compito non dovremmo mai dimenticare ciò che vi è di imprevisto e, forse, anche di imprevedibile delle nostre azioni; messo

24 Non vogliamo infatti affermare che le proposte politiche di Popper siano identiche a quelle di Rosmini, ma solo che vi è una certa affinità riguardo alla concezione della ragione come facoltà fallibile e non assoluta.


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Salvatore Muscolino sulla bilancia, il passivo attribuibile ai nostri tentativi di progresso, potrebbe superare l’attivo25,

come dire, riprendendo Rosmini, che non bisogna mai dimenticare quel gran principio della limitazione delle cose.

25

K. POPPER, Miseria dello storicismo, trad. it., Milano 1999, 9-10.


Synaxis 25 (2007) 95-114

SALVATORE FAMOSO E LA RIFORMA LITURGICA. REGESTO DELL’ARCHIVIO PERSONALE*

CARMINE LORENA BUCOLO**

Fonte primaria per la ricostruzione della biografia e del pensiero di Salvatore Famoso è la copiosa documentazione da lui lasciata per testamento alla Biblioteca Agatina del Seminario Arcivescovile di Catania e consistente in carte relative al suo apporto alla riforma liturgica prima, durante e dopo il Vaticano II. Si tratta di documentazione contenente appunti, schemi, osservazioni e lettere degli anni in cui egli fu membro degli organismi della riforma liturgica, prima come consultore della Commissione preparatoria del concilio (1961-1962), poi come consultore del Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia (1964-1969), infine come consultore della Sacra Congregazione del Culto divino (1969-1975). Alla presentazione della figura e dell’opera di Famoso, per meglio contestualizzarla, si è ritenuto opportuno premettere i tratti salienti della riforma liturgica da Pio XII a Paolo VI. Si è, quindi, ricostruita la vicenda biografica di Famoso, supplendo alla carente documentazione cartacea con l’acquisizione di notizie sotto forma di intervista a coloro che gli sono stati più vicini: i familiari e i collaboratori nella curia arcivescovile di Catania. L’ultima parte è riservata alla ricostruzione dell’apporto di Famoso alla riforma liturgica così come si evince dal suo archivio personale, del quale viene fornito l’inventario.

* Estratto della tesi di Baccalaureato in Teologia, discussa il 24 giugno 2005 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, relatore prof. Gaetano Zito. ** Baccelliere in Teologia.


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1. LA RIFORMA LITURGICA 1.1. Le riforme operate da Pio XII A metà dello scorso secolo la Chiesa si trovava ancora con i libri liturgici nati dalla riforma tridentina. Più volte si era sentito il bisogno di una revisione. C’era stato qualche tentativo di riforma, soprattutto del Breviario e del Calendario, ma senza pervenire ad una loro revisione tali testi si erano ulteriormente appesantiti1. Negli anni del secondo dopoguerra i fermenti di riforma si andarono sviluppando rapidamente e, simultaneamente, le speranze e i propositi di una loro attuazione2. Pio XII non rimase estraneo a tali appelli alla riforma. Mentre prima del 1940 si trattava di mettere la liturgia esistente alla portata del popolo e di promuovere il canto gregoriano, a partire da Pio XII si scorgerà più chiaramente la necessità di una riforma profonda dei riti e di una introduzione parziale della lingua vernacola nella celebrazione3.

1 Benedetto XIV a metà del sec. XVIII iniziò una riforma, valida per gli aspetti storici, ma essa non vide mai la luce. Alla fine del sec. XIX Leone XIII costituì una commissione liturgica, rafforzata nel 1902 da una commissione storica. Il suo lavoro continuò sotto Pio X, ma non giunse alla fine. Molto produsse per il canto gregoriano, meno per la liturgia: solo poté dare il nuovo corso settimanale del Salterio e affermare il primato della domenica e di alcuni periodi forti dell’anno liturgico. Poi tutto si fermò con la morte del papa e la guerra del 1914. Cfr. C. BRAGA, La riforma liturgica di Pio XII, Roma 2003, IV. 2 Per la prima volta il 10 maggio 1946 il card. Carlo Salotti, prefetto della Congregazione dei Riti, presentò al papa Pio XII l’idea di una Commissione generale della liturgia. Due mesi dopo la stessa idea fu ripresentata al Santo Padre da mons. Alfonso Carinci, segretario della stessa Congregazione. Inoltre ne è prova l’inchiesta che, nel 1949, A. Bugnini pubblicò su Ephemerides Liturgica circa una possibile riforma generale della liturgia e particolarmente del Breviario. Molto eco suscitò pure la relazione del card. Lercaro al Congresso di liturgia pastorale ad Assisi nel 1956. Nella città umbra, infatti, maturò il coefficiente per l’avvio determinante della riforma liturgica. Tale congresso può considerarsi l’aurora della riforma. Il seguito del congresso fu un crescendo continuo di osservazioni, di proposte, di richieste. La proposta di una riforma fu ripresa da pubblicazioni e convegni internazionali. Cfr. ibid., IV. 3 A.G. MARTIMORT, La Chiesa in preghiera, Introduzione alla Liturgia, I, Brescia 1987, 94.


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Il 28 maggio 1948 venne costituita ufficialmente la Commissione per la riforma generale della liturgia4. La prima riunione ebbe luogo il 22 giugno dello stesso anno. Da questo momento in poi e fino all’8 luglio 1960 la Commissione tenne ottantadue adunanze. Nel 1960 riconobbe terminato il suo mandato, a seguito della costituzione della Commissione preparatoria per il Concilio Vaticano II5. Tra i principali frutti della Commissione istituita da Pio XII vanno ricordati: la ripresa della Veglia Pasquale (1951) e della Settimana Santa (1955), la semplificazione delle rubriche (1953) e l’Istruzione “de Musica sacra et sacra Liturgia” (1958) che applica l’enciclica Mediator Dei e l’Istruzione Musicae sacrae disciplina. Tra gli effetti della riforma va certamente sottolineato il nuovo impulso che ha ricevuto e dato il movimento liturgico. Le riforme operate da Pio XII sono state vissute ed accolte dalla Chiesa come risposta alle attese e come segno di speranza. Il progetto di riforma, vasto e complesso, affrontato con forza impari all’impresa, non è stato realizzato totalmente anche per il sopravvenire del concilio. Forse si potrebbe definire una riforma di transizione6; ma non si può negarle di essere stata precorritrice di quella del Vaticano II e di essere parte di quel “passaggio dello Spirito nella Chiesa” riconosciuto e posto in rilievo da Pio XII durante il suo pontificato.

4 La Commissione era così composta: presidenti C. Picara e G. Cicognani; segretario A. Bugnini; membri: A. Albareda, F. Antonelli, A. Bea, C. Braga, A. Carinci, C. D’Amato, E. Dante, P. Frutaz, G. Low, L. Rovigatti. Cfr. C. BRAGA, La riforma liturgica, cit., IV. 5 Fu un lavoro svolto nel massimo riserbo, fino al 9 febbraio 1951, quando fu pubblicata la riforma della Veglia Pasquale. Allora per la prima volta fu detto dell’esistenza di una Commissione per la riforma generale della liturgia. Lo stesso riserbo continuò anche nella preparazione degli altri capitoli della riforma, che venivano pubblicati senza ordine strettamente logico, man mano che si ritenevano pronti. Una certa unità logica si ebbe solo alla fine, nel 1960, con la pubblicazione del Codex Rubricarum, che coinvolse i principali libri liturgici, Breviario (1961) e Messale (1962), e il Calendario. Fra questi lavori vanno aggiunte le edizioni delle parti I e II del Pontificale Romano, che completavano i lavori in corso. Cfr. ibid., V. 6 Cfr. ibid., IV.


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1.2. Avvio della riforma liturgica del Vaticano II Il 25 gennaio 1959 nella basilica di S. Paolo, Giovanni XXIII dava l’annuncio del Concilio Ecumenico Vaticano II. Il 17 maggio 1959 il papa nominava una Commissione antepreparatoria del concilio. Il 5 giugno 1960 il card. Gaetano Cicognani veniva nominato presidente della Commissione preparatoria; l’11 luglio 1960 fu nominato il segretario, Annibale Bugnini. E l’organizzazione dei lavori cominciò subito. Nel suo plenum la Commissione fu composta da 65 tra membri e consultori, di una trentina di consiglieri, più il personale di segreteria. Come risulta dall’elenco fornito da Bugnini, tra di essi c’erano eminenti liturgisti. Tra i consultori figura anche mons. Salvatore Famoso nominato il 20 aprile 19617. Il concilio ebbe inizio l’11 ottobre del 1962 e il 20 dello stesso mese i Padri elessero i sedici membri della Commissione liturgica, ai quali si aggiunsero gli otto membri nominati dal papa. Si stabilì di includere nelle Commissioni anche i segretari dei Dicasteri romani. Il 22 febbraio il papa nominò presidente il card. Arcadio Larraona (1887-1973). Segretario fu nominato Ferdinando Antonelli. Nell’ottobre 1962 la Commissione liturgica ebbe i suoi periti, inizialmente 26, dei quali solo 12 avevano partecipato ai lavori della Commissione preparatoria. Altri ne furono aggiunti nel 19638. Il 14 novembre lo schema liturgico9 fu messo ai voti dei padri conciliari. La votazione diede il seguente risultato: votanti 2215, favorevoli 2162, 7

Cfr. SEGRETERIA DELLA PONTIFICIA COMMISSIONE CENTRALE, Pontificie Commissioni preparatorie del concilio Vaticano II, Città del Vaticano 1961, 106; Cfr. A. BUGNINI, La riforma liturgica (1948-1975), Roma 1983, 27-28. 8 La Commissione conciliare per la liturgia era così formata: Presidente: A.Larraona; Segretario: F. Antonelli; Membri eletti dai Padri conciliari (20 ottobre 1962): K. Callewaert, C. D’Amato, J. Inciso Viana, F. Grimshaw, P. Hllinan, H. Jenny, F. Jop, G. Lercaro,J. Macula, J. Martin, A. Pichler, E. Rau, C. Rossi, O. Spulbeck, G. Van Bekkum, F. Zauner; Membri nominati dal papa: A. Albereda, W. Bekkers,, E. Dante, B. Fey Schneider, P. Giobbe, P. Jullien, R. Masnou Boixeda, J. Prou, P. Schweger; Periti: I. Anglès, E. Bonet, A. Bugnini, I Cecchetti, C. De Clerq, A. Dirks, C. Egger, N. Ferraro, J. Fohl, P.Frutaz, R. Gagnebet, J. Jungmann, F. McManus, G. Martimort, G. Martinez de Antonana, R. Masi, J. Nabuco, J. O’Connell, J. Overath, M. Righetti, p. Salmon, A. Stickler, C. Vagaggini, D. Van den Eynde, J. Wagner. Cfr. A. BUGNINI, La riforma liturgica, cit., 41. 9 Dal 21 ottobre al 7 dicembre 1962 ebbero luogo ventuno adunanze, nel corso delle


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contrari 46, nulli 7. Questo risultato dimostrò che lo schema rispecchiava il senso liturgico e le aspettative della Chiesa universale. Furono costituite tredici sottocommissioni10. Nella sessione plenaria del Vaticano di mercoledì 4 dicembre 1963 la costituzione Sacrosanctum concilium viene approvata e da Paolo VI promulgata, una cum Patribus concilii11.

1.3. Attuazione della riforma liturgica L’ attuazione della Costituzione liturgica fu avviata subito. Il pontefice istituì un Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia. Si trattava di un organo di studio qualificato, anche con compiti amministrativi temporanei, alla diretta dipendenza del papa. Presidente del Consilium fu il card. G. Lercaro e segretario Annibale Bugnini. Esso comprendeva 42 membri: cardinali, arcivescovi e vescovi, un abate benedettino e tre sacerdoti. In seguito il loro numero venne accresciuto ad un massimo di 51 membri per provvedere ad una sempre maggiore rappresentanza di paesi. Vi erano oltre duecento consultori12 scelti da diversi paesi del mondo e divisi in circa 40 gruppi di studio. quali furono rielaborati il proemio e il cap. I dello schema liturgico. Gli altri capitoli furono riveduti nelle riunioni dal 23 aprile al 10 maggio e dal 27 al 30 settembre 1963. Cfr. ibid., 42. 10 Una sottocommissione per le questioni teologiche; una per le questioni giuridiche; una per le questioni generali; tre sottocommissioni lavoravano intorno al capitolo primo; le altre intorno ai restanti sette capitoli; un’ultima sottocommissione doveva curare la lingua latina della Costituzione. Cfr. ibid., 42. 11 Cfr. A.G. MARTIMORT, La Chiesa in preghiera, cit., 95. 12 Il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia era così formato: Presidenti:G. Lercaro (dal 2 marzo 1964 al 9 gennaio 1968), B. Gut (dal 9 gennaio 1968 al 8 maggio 1969); Segretario: A. Bugnini; Membri: P. Agagianian, F. Antonelli, A. Bea, G. Bekkers, G. Bevilacqua, J. Bluyssen, T. Botero, R. Boudon, L. C. Byrne, G. Carter, T. Clavel, P. Cody,C. Gonfalonieri, W. Conway, L. De Kesel, P. Dwyer, J. Inciso Viana, V. Enrique y Tarancon, P. Felici, B. Fey Schneider, P. Giobbe, V. Gracias, J. Gray, F. Grimshaw, E. Guano, P. Hallian, A. Hanggi, J. Hervas, D. Hurley, C. Isnard, F. Kabangu, F. Kerveadou, A. Kovacz, H. Jenny, F. Jop, A. Larraona, A. Lazik, A. Lopez de Moura, J. Macula, C. Mansourati, A. Martin, K. Otcenasec, M. Pellegrino, A. Pichler, E. Rau, C. Rossi. E. Ritter, L. Ruganbwa, L. Satoshi Nagae, R. Silva Enriquez, O. Spulbeck, L. Valentini, G. Van Bekkum, G. Van Zuylen, H. Volk, R. Weakland, H. Yong Clyde


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Di fatto l’attuazione avvenne secondo quattro passaggi essenziali: I. il passaggio dal latino verso la lingua locale; II. la riforma dei libri liturgici; III. la traduzione dei nuovi libri liturgici presso tutti i gruppi linguistici del mondo; IV. l’adattamento della forma romana della liturgia agli usi e alle mentalità delle singole chiese13. Nel corso dei lavori di attuazione si erano, però, arcuiti i contrasti fra il Consilium e la Congregazione dei Riti, la quale si sentiva privata di autorità perché non aveva alcuna possibilità di intervenire nella riforma liturgica. Paolo VI, l’8 maggio 1969, con la Costituzione apostolica Sacram Rituum Congregatio, sopprimeva la Congregazione dei riti, ripartendone le competenze tra la Congregazione per le cause dei santi e la Congregazione per il

Guilford, F. Zauner; Consultori: L. Agustoni, G. Agostoni, M. Altisent, G. Amadauni, K. Amon, A. Amore, P. Anglès, E. Ashworth, D. Balboni, D. Bartolucci, J. Beillard, G. Bekes, C. Bennett, R. Beron, T. Bogler, E. Bonet, P. Borella, L. Borello, B. Botte, C. Bouman, L. Bouyer, L. Brinkhoff, P. Bruylands, L. Buijs, I. Calabuig, P. Cardine, G. Castellino, E. Cattaneo, J. Collier, J. Claire, A. Cuva, I. Dalmais, P. Damilano, E. D’Anversa, P. De Gaiffier, F. Dell’Oro, T. De Urquire, G. Diekmann, A. Dirks, M. Dubois, P. Duncker, W. Durig, C. Egger, G. Fallani, R. Falsino, S. Famoso, J. Feder, B. Fischer, G. Fontane, A. Franquesa, A. Frutaz, G. Gelineau, L. Ghepardi, D. Grasso, J. Gribomont, P.M. Gy, A. Hanggi, A. Hamman, J. Harmel, R. Hesbert, G. Hofinger, J. Hourlier, H. Hucke, P. Jones, G. Jungmann, H. Kahlefeld, V. Kennedy, B. Kleynheyer, C. Kniewald, F. Kolbe, L. Kunz, E. Lanne, F. Larouque, J. Lecuyer, E. Lengeling, A. Lentini, L. Ligier, G. Lucchesi, B. Luykx, R. McKenzie, F. McManus, A. Martimort, A. Martinez, P. Massi, G. Mateos, S. Mazzarello, J. Meyia, O. Messiaen, L. Migliavacca, J. Miller, C. Mohrmann, J. Molin, C. Moneta, A. Mundo, J. Nabuco, U. Neri, P. Neunheuser, A. Nocent, J. O’Connell, A. Olivar, I. Onitibia, J. Overath, A. Paredi, J. Pascher, J. Patino, S. Paventi, F. Peeters, M. Pellegrino, M. Pfaff, R. Pilkington, J. Pinell, J. Quasten, J. Rabau, A. Raes, V. Raffa, E. Ramos, M. Righetti, I. Roger, A. Roguet, F. Romita, A. Rose, O. Rousseau, P. Salmon, J. Sauget, G. Schiavon, H. Schmidt, F. Schmitt, T. Schnitzler, X. Seumois, D. Sicari, W. Smits, G. Sombrero, A. Stenzel, I. Tassi, A. Terzariol, K. Tilmann, F. Toal, L. Trimeloni, C. Vagaggini, F. Vandenbroucke, R. Van Doren, V. Vigorelli, P. Visentin, G. Visser, C. Vogel, R. Volpini, J. Wagner, B. Wambacq, R. Weakland. CONSILIUM AD EXSEQUENDAM CONSTITUTIONE DE SACRA LITURGIA, Elenchus membrorum, consultatorum, consiliariorum Coetuum a studiis, Civitate Vaticana 1967. 13 A. BUGNINI, Dieci anni, in Notitiae 9 (1973) 395-399. ID., La riforma liturgica conquista la Chiesa, in Notitiae 10 (1974) 126.


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culto divino. Quest’ultima Congregazione incorporava il Consilium, che così cessava di esistere14. Il primo prefetto della Congregazione fu il card. Benno Gut. Il 12 settembre 1969 vennero nominati i consultori15 della nuova Congregazione. L’11 luglio 1975 fu istituita una nuova Congregazione per i sacramenti e per il culto.

2. LA VITA DI SALVATORE FAMOSO (1920-1982) 2.1. Note biografiche (1920-1982) Salvatore Famoso nasce a Catania il 27 marzo 1920 da Ignazio e Casella Agata; terzo di quattro figli, Margherita, Giuseppe e Mario. Al padre, impiegato come custode presso l’Istituto delle suore di San Vincenzo, deve in special modo la sua educazione anche religiosa. Nel 1930 all’età di dieci anni inizia a scrivere un piccolo diario dove annotava, giorno dopo giorno, la sua giornata e, in modo didascalico, riportava alla fine di ogni pagina un disegno che rappresentava visivamente la giornata trascorsa. Le pagine di questo diario consegnano un elemento costante, denominatore comune di quanto viveva: la devozione e l’adorazione al SS.mo Sacramento16. Nel 1931, nonostante l’opposizione dei genitori, soprattutto del padre, decise di entrare nel Seminario arcivescovile di Catania, durante il rettorato di mons. Francesco Pennisi17. Il 29 giugno 1943 fu ordinato sacer14

Il Consilium divenne Commissione per completare la riforma liturgica. I consultori furono: G. Agustoni, S. Amalorpawadass, B. Belluco, J. Bernal, C. Braga, I. Calabuig, P. Coughlan, A. Dirks, S. Famoso, G. Fontane, P. Gy, P. Jounel, E. Lengeling, G. Martimort, B. Neunheuser, A. Nocent, L. Mpongo, J. Patino, A. Rose, J. Rotelle, J. Soberal Diaz, T. Schnitzler, S. Swayne, J. Wagner. Cfr. A. BUGNINI, La riforma liturgica, cit., 42. 16 Notizia ritrovata nel diario personale di mons. Famoso, conservato dalla nipote, Margherita Famoso, residente ad Aci Bonaccorsi (CT). 17 Rettore del seminario di Catania dal 1932 al 1950, anno in cui è stato nominato vescovo Ausiliare dell’arcivescovo di Siracusa, Ettore Baranzini. Di fatto ebbe il compito di avviare l’organizzazione pastorale della nuova diocesi di Ragusa (1950), di cui fu nominato vescovo nel 1955. M. PAVONE, La diocesi di Ragusa: una Chiesa nascente tra nuove sfide sociali e dinamiche conciliari. Estratto dal volume: Atti del Convegno storico “La Provincia Iblea nell’Italia Repubblicana” (Ragusa 23-24 novembre 1995), Ragusa 1996, 108-172; 15


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dote18. La sua prima Messa solenne la celebrò a Viagrande durante i bombardamenti del 194319. Le molteplici difficoltà dell’immediato dopoguerra non impedirono al giovane sacerdote di coltivare lo studio della sua passione più grande, la liturgia, in un momento in cui questa veniva considerata dai più solo come “disciplina del culto”. L’insegnamento della liturgia presso il Seminario di Catania, a partire dal 1946, lo impegnò nella ricerca scientifica, nel tentativo di consegnare un manuale per gli studenti, nella promozione di quelle attività pastorali che permettessero agli alunni di tradurre nella vita le verità che trasmetteva loro con l’insegnamento. Lavorò inizialmente come “minutante” presso la Curia di Catania e fu chiamato a collaborare nella gestione della locale Casa del Clero20. Nel 1948 fu nominato segretario della Commissione Liturgica Diocesana. Il 3 gennaio 1952 cappellano delle suore Serve della Divina Provvidenza, soprattutto guidandone la fondatrice, Maria Marletta21. Il 22 novembre 1952 ottenne il titolo Accademico alla Pontificia Accademia di Liturgia a Roma. L’argomento della sua tesi fu: De memento in Missa. De quibusdam caeremoniis baptismatis. De imperfecta consacratione sananda. Il 2 aprile 1953 l’Arcivescovo Guido Luigi Bentivoglio lo volle Cancelliere arcivescovile22, ufficio che mantenne in modo esemplare, con spirito di abnegazione e di servizio ai confratelli della dicoesi e delle diocesi limitrofe. Il 5 giugno 1959 fu insignito del titolo di Cameriere segreto soprannumerario di Sua Santità Giovanni XXIII23. Fu anche direttore del Piccolo Clero

F. VENTORINO, Commemorazione di S. E. R. Mons. Francesco Pennisi nel centenario della sua nascita, in Bollettino Ecclesiale dell’Arcidiocesi di Catania 101 (1998) 537-559. 18 In Bollettino Ecclesiastico (= BE) 85 (1982) 47. 19 Notizia ottenuta da un’intervista fatta a mons. Salvatore Pappalardo, attuale Vescovo di Nicosia, già vice cancelliere della Curia di Catania con mons. Famoso. 20 Notizia ottenuta da un’intervista fatta a mons. Maurino Licciardello, segretario del Vicariato generale della Curia di Catania. 21 Cfr. M. MARLETTA, Navigando nel mare della vita, scritti autobiografici, Catania 2004, 24; G. ZITO, Una scommessa della Provvidenza. Maria Marletta nella Chiesa di Catania, Catania 2001. 22 In BE 57 (1953) 107. 23 In Rivista Liturgica 70 (1983) 96.


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di Catania24. Gli fu affidata la Rettoria della chiesa di S. Orsola, dove si stabilì insieme alla famiglia del fratello Mario, che lo accudiva25. Due sue ricerche storiche Accipe lampadam ardentem26 e Accipe vestem candidam27 lo fecero conoscere agli specialisti di liturgia e agli ambienti della Curia romana. Ebbe l’incarico di guidare i casi liturgici del clero catanese, la cui soluzione veniva pubblicata nel Bollettino Ecclesiastico dell’Arcidiocesi. Fu questa una delle attività di maggiore impegno che gli consentirono di svolgere un programma di ampio respiro per sensibilizzare il clero riguardo le principali tematiche liturgiche negli anni che precedettero il Concilio Vaticano II. Queste trattazioni, in uno stile chiaro e sobrio, costituivano un appuntamento atteso e apprezzato anche al di fuori dei confini della diocesi catanese. Già dal 1949 partecipava costantemente alle Settimane nazionali del Centro di Azione Liturgica: ciò gli consentì di istaurare rapporti di conoscenza, amicizia e collaborazione con quel gruppo di persone che con coraggio e ottimismo si impegnarono nel dopoguerra a riorganizzare il movimento liturgico in Italia. Risale a quegli anni la conoscenza con Annibale Bugnini che segnò l’inizio di una fraterna amicizia e di una feconda collaborazione. Nel 1961 fu nominato consultore della Commissione preparatoria del concilio. Frutto di questo primo periodo fu la pubblicazione del Commento al Proemio e al «Primo Capitolo» della Costituzione Liturgica28. Nel Consilium per l’attuazione della costituzione liturgica ebbe compiti di rilievo. Oltre ad essere consultore e consigliere di diverse Commissioni, fu presidente della Commissione per le rubriche del Messale e del Breviario. Successivamente fu nominato consultore della Sacra Congregazione per il Culto divino. Frutto di questa esperienza sono alcuni volumetti pratici per aiutare il clero nell’applicazione della riforma e celebrazione dei riti rinnovati: 24

In BE 60 (1956) 11. Notizia ottenuta da un’intervista fatta ad Anna Di Benedetto, cognata di Salvatore Famoso, residente insieme alla figlia Margherita ad Aci Bonaccorsi (CT). 26 In Rivista Liturgica 42 (1955) 193-199. 27 In Rivista Liturgica 42 (1955) 26-44. 28 S. FAMOSO, Commento al proemio e al «al Primo Capitolo», in G. CERINI (cur.), La Costituzione sulla Sacra Liturgia presentata ai fedeli, Milano 1964, 85-107. 25


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• Rito della Concelebrazione29; • Le cerimonie della liturgia rinnovata30 e Commento alle nuove cerimonie31, che presentano una guida pratica rispettivamente ai due documenti della Sacra Congregazione dei Riti del 1964 e del 1967; • La partecipazione della comunità religiosa all’assemblea liturgica, che chiarisce il concetto esatto e la visione chiara dell’assemblea liturgica; • Il nuovo rito dei funerali32, con note liturgico-pastorali per le catechesi; Guida pratica per la nuova Messa33, finalizzata principalmente a due aspetti: rilevare le ultime innovazioni dell’Ordinario della Messa, dando il motivo dell’innovazione alla luce dell’origine e dell’evoluzione del rito stesso; offrire una guida pratica per la celebrazione del nuovo rito della nuova Messa; • Il nuovo rito del battesimo34, ne presenta la struttura generale per trattare poi i principali problemi pastorali ai quali il nuovo rito ha cercato di dare una soluzione, per tradurla in pratica; • Guida pratica per il nuovo Ufficio Divino35, vuole essere una guida pratica della nuova liturgia delle ore perché ciò che è nuovo venga visto in tutto il suo spessore, non per una esecuzione formale e giuridica, ma per una liturgia viva, compresa e motivata anche nei dettagli. L’attività nel Consilium e nella Sacra Congregazione non gli fece trascurare gli impegni in diocesi. Fin dalla fondazione dello Studio Teologico S. Paolo, che segnò la chiusura della scuola teologica del seminario dove insegnava da anni, come ricordato sopra, tenne i corsi di Liturgia, fino all’anno accademico 1981-82. 29

ID., Il rito della Concelebrazione, Catania 1965. ID., Le cerimonie della liturgia rinnovata, Catania 1965. 31 ID., Commento alle nuove cerimonie, Brescia 1967. 32 ID., La partecipazione della comunità religiosa all’assemblea liturgica, in Il Tempio, Atti della XVIII Settimana Liturgica Nazionale a Monreale (Monreale, 28 agosto – 1 settembre 1967), a cura del Centro Azione Liturgica, Roma 1967, 161-182. 33 ID., Guida pratica per la nuova Messa, Brescia 1969. 34 ID., Il nuovo rito del battesimo, Catania 1970. 35 ID., Guida pratica per il nuovo Ufficio Divino, Brescia 1971. 30


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Dall’anno accademico 1969-70 tenne tre corsi: • Liturgia generale; • La Messa; • I Sacramenti. Nell’anno accademico 1976-77 fu chiamato a tenere il corso di matrimonio e famiglia secondo l’aspetto liturgico. L’anno dopo tenne altri due corsi: • De Sacramentis: aspetto liturgico; • Santificazione del tempo. Dal novembre del 1971 fu nominato Canonico della Cattedrale di Catania. Dal 1976 faceva parte dei Consiglieri del CAL36. Egli scrisse numerosi articoli nella Rivista di Pastorale liturgica. Fu redattore del calendario liturgico per le diocesi di Adria, Rovigo, Caltagirone, Ferrara, Lipari, Mantova, Siracusa e Trento. Da anni ormai preparava il Calendario liturgico diocesano che man mano da arida guida per la celebrazione della Messa e dell’Ufficio trasformò in un diario di famiglia, dove venivano annotati i giubilei, le ricorrenze, gli avvisi relativi agli avvenimenti di maggior rilievo della vita diocesana. Seguì lo stesso criterio quando il calendario divenne regionale e costituì uno degli strumenti di comunione fra le Chiese di Sicilia. Fece parte, inoltre, del gruppo di studio per l’esame dello schema Documenta Pontificii quo disciplina canonica de Sacramentis recognoscitur, preparato dalla Pontificia Commissione per la revisione del Codice di diritto canonico. Gli ultimi anni lo videro impegnato a preparare il Proprio dei Santi per le Chiese di Sicilia: un lavoro che richiese pazienza, costanza. Il suo lavoro alla fine fu coronato con successo con la pubblicazione nel 1981 dei due libri liturgici regionali: 1. Messe proprie delle Diocesi di Sicilia; 2. Lezionario per le celebrazioni dei Santi di Sicilia. Il 31 maggio 1982 alle ore 13.10, al suo tavolo di lavoro nella Cancelleria della Curia di Catania, morì improvvisamente mons. Famoso. Tutta la sua vita fu attraversata da un’unica passione, la liturgia. 36

In Liturgia 10 (1976) 887.


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3. SALVATORE FAMOSO E LA RIFORMA LITURGICA 3.1. L’apporto di Famoso alla riforma liturgica Salvatore Famoso all’inizio del suo cammino teologico, influenzato dal contesto italiano, aveva della liturgia una visione piuttosto rubricistica: la liturgia s’identifica nelle sue rubriche e nella loro osservanza formale delle cerimonie e dei riti esterni. Con la partecipazione agli organismi di preparazione e attuazione della riforma conciliare venne a contatto con i maggiori cultori di liturgia in campo internazionale e cambiò radicalmente la sua mentalità. Maturò progressivamente una visione della liturgia impregnata di teologia, assumendo questa quale contenuto delle rubriche stesse. Qualcuno, in verità, non capì questa radicale evoluzione, che viaggiò parallelamente al concilio, e mantenne di Famoso solo l’immagine di un liturgista rubricista puntiglioso e scrupoloso. Infatti con l’indizione del Concilio Vaticano II e la costituzione della Commissione preparatoria, della quale fu nominato consultore il 20 aprile 196137, iniziò per Famoso un periodo di intenso lavoro. Il frequente contatto con i maggiori esperti in liturgia ed i lavori di preparazione per la Sacrosanctum Concilium costituirono per Salvatore Famoso momenti preziosi di arricchimento personale e di stimolo per un impegno sempre maggiore38. Successivamente fu chiamato a far parte della Commissione postconciliare per l’attuazione della riforma liturgica. L’11 maggio 196439 mons. Famoso fu nominato consultore del Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia40. All’interno del “Consilium” fu: consultore del Coetus a studiis 9: “De generali Officii divini”41; consigliere del Coetus a studiis 10: “De Ordine Missae”42; consultore del Coetus a studiis 15: “De 37 Cfr. SEGRETERIA DELLA PONTIFICIA COMMISSIONE CENTRALE, Pontificie Commissioni preparatorie del concilio Vaticano II , Città del Vaticano 1961, 106. 38 In Rivista Liturgica 70 (1983) 94-98. 39 Cfr. A. BUGNINI, La riforma liturgica, cit., 911. 40 Cfr. CONSILIUM AD EXSEQUENDAM CONSTITUTIONE DE SACRA LITURGIA, Elenchus membrorum, consultatorum, consiliariorum Coetuum a studiis, Civitate Vaticana 1964, 19. 41 Cfr. ibid., 47. 42 L. c.


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Generali Structura Missae”43; relatore del Coetus a studiis 19: “De Rubricis Breviarii et Missalis” 44; consultore del Coetus a studiis 21: “De Libris II et Pontificalis III” 45; consultore del Coetus a studiis 26: “De Caeremoniali Episcoporum” 46. Consultore per la sezione Liturgia della Congregazione dei riti, dal 28 maggio 1968, il 12 settembre 196947 divenne consultore della Sacra Congregazione per il Culto divino per ciò che riguardava innanzitutto la cura del culto liturgico sotto l’aspetto dottrinale, pastorale e rituale, la revisione e la preparazione dei testi liturgici, l’approvazione dei calendari ed infine l’interpretazione delle norme e rubriche dei libri liturgici. Furono questi gli anni in cui la sua persona sembrò quasi trasformarsi, di solito fragile e schivo, affrontò il lavoro e i frequenti viaggi a Roma e all’estero con entusiasmo ed un’insospettata energia. Pervenne alla consapevolezza che l’essenziale della riforma stava unicamente nel far crescere la vita cristiana tra i fedeli mediante la partecipazione attiva, consapevole e fruttuosa alla liturgia. Per lui l’importanza fondamentale di tutti i documenti apparsi sulla riforma della sacra liturgia stava in ciò che le parole espressamente non dicevano, del mistero che non potevano esprimere, ma era rivelato dall’atmosfera che li avvolgeva e ne costituiva l’anima. Alla luce di questa constatazione egli pensava che oltre il pericolo di restare ancorati al passato ignorando ogni riforma, c’era un altro pericolo ed era quello di applicare tutte le norme pratiche stabilite nei documenti di riforma, senza conseguire lo scopo della riforma stessa. Occorreva, infatti, aver ben chiaro che ciò che era stato fatto non era tutto, che ancora si era ben lontani dal raggiungere lo scopo per il quale la riforma non era che un mezzo48. L’efficacia dei nuovi riti preparati non stava tanto nella celebrazione del rito stesso, quanto nella preparazione e prolungamento; i nuovi riti erano un valido strumento che per dare frutti richiedevano un “nuovo tipo di pastori d’anime” capaci di svestirsi di alcune idee, sia teoriche che pratiche, e coraggiosi nel rinunciare a determinate attività per impostare un 43 44 45 46 47 48

Ibid., 50. Ibid., 52. Ibid., 53. Ibid., 54. Cfr. A. BUGNINI, La riforma liturgica, cit., 919-920. Cfr. S. FAMOSO, La partecipazione della comunità, cit., 161-163.


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nuovo metodo pastorale che li impegnasse in una attività forse più stancante, certamente meno redditizia, e solo a lungo tempo veramente feconda49. Anche i casi liturgici o le questioni liturgiche per le riunioni periodiche del clero vertono sull’approfondimento della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium e sui documenti applicativi, nonché alla presentazione dei nuovi riti; tutti questi casi hanno come autore mons. Salvatore Famoso50. Dal 1953 al 1973 mons. Famoso pubblicò sul Bollettino Ecclesiastico ben 107 articoli, di diversa ampiezza, sui più svariati temi liturgici, la cui indole è prevalentemente pastorale; essi seguono i momenti principali della riforma liturgica di Pio XII, di Giovanni XXIII e della riforma liturgica generale voluta dal Vaticano II51.

49

ID., Il nuovo rito del battesimo, cit., 4. L’elenco di tutti i casi liturigici di mons. Salvatore Famoso è presentato nella bibliografia della tesi di C.L. BUCOLO, Salvatore Famoso e la riforma liturgica. Regesto dell’archivio personale. Tesi per il Baccalaureato in Teologia, relatore Gaetano Zito, Studio Teologico S. Paolo, Catania anno accademico 2004-2005. 51 I casi liturgici di mons. Famoso sono l’esempio dell’evoluzione che avvenne nel nostro autore catanese. Essi seguono il momento storico che avvenne nella Chiesa catanese durante il concilio Vaticano II. Questo dato non è però qualcosa di scontato. Infatti, a partire dal 1953 fino al 1965, la diocesi di Catania incarico di dare e leggere le soluzioni ufficiali dei casi morali nelle riunioni mensili del clero a Mons. Domenico Squillaci (1889-1973). La conseguenza che ne derivò fu la pubblicazione, sul Bollettino Ecclesiastico, di 79 casi morali. I casi di mons. Squillaci furono presentati con estrema chiarezza e grande competenza. Sempre sagge le sue soluzioni ma troppo legate ad una visione tradizionalista della morale, ignorando completamente l’influenza dei movimenti di pensiero che provenivano da altre discipline teologiche. Questo suo atteggiamento, se da un lato dava sicurezza e stabilità alla chiesa locale del tempo, dall’altra provocava una sorta di insoddisfazione e di svuotamento. Meraviglia, infatti, come nei suoi casi morali non vi fosse nessuna citazione del Concilio ecumenico Vaticano II. L’insegnamento di Domenico Squillaci si inscrive totalmente nella morale manualistica e legalistica caratterizzata dalla frammentarietà casistica dei trattati. Nelle sue pubblicazioni è chiaramente presente il metodo casistico. Don Domenico, quindi, sembra che non riuscì a far vivere il trapasso storico che spingeva verso una revisione delle categorie della morale per un proficuo dialogo con i tempi e gli uomini di quel periodo. Per un ulteriore approfondimento biografico e una più dettagliata analisi di questo autore cfr. C.L. BUCOLO, Domenico Squillaci e i casi morali (1953-1966). Tesi per la Licenza in Teologia Morale, Studio Teologico S. Paolo, Catania anno accademico 2006-2007; un estratto sarà in corso di stampa su Synaxis. 50


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Come presidente della Commissione liturgica diocesana, mons. Famoso volle che la riforma venisse attuata subito e senza tentennamenti. Si rese conto subito che avrebbe potuto far accettare ai fedeli i nuovi riti solo se avesse offerto i sussidi necessari perché le celebrazioni venissero fatte con decoro e con la piena partecipazione di tutti. In mancanza di iniziative sul piano nazionale, curò la stampa di foglietti, messali, sussidi vari, che raggiunsero diverse città d’Italia e costituirono la prima risposta ad una domanda che diventava sempre più pressante. L’apporto di Famoso alla riforma liturgica è connesso con lo sviluppo delle linee di teologia liturgica del suo tempo. Dagli appunti dei corsi di Liturgia che Famoso utilizzava durante il periodo del suo insegnamento, nel definire il termine liturgia egli si rifà ad autori come Odo Casel ma soprattutto riprende alla lettera la definizione di liturgia del teologo Vagaggini52. Il suo contributo è nell’attuazione stessa della riforma. Si può dire che l’apporto di Famoso alla riforma liturgica solo apparentemente è di tipo rituale. In realtà, la sua preoccupazione è essenzialmente di tipo pastorale. Il suo tentativo fondamentale fu quello di illustrare l’applicazione pratica delle celebrazioni riformate, scendendo nei dettagli più minuziosi. Ciò non va, però, interpretato come rubricismo, ma piuttosto come servizio a coloro che nella chiesa desiderano avere delle indicazioni precise e se ne servano con libertà e responsabilità per conseguire una celebrazione liturgica non formale e standardizzata ma una celebrazione viva, in grado di veicolare l’incontro con il mistero della Redenzione. Salvatore Famoso volle offrire un aiuto ai suoi confratelli nel sacerdozio allo scopo di evitare dubbi ed interpretazioni errate, e di contribuire ad una applicazione uniforme dei nuovi riti. Il suo apporto fondamentale all’applicazione della riforma può cogliersi nell’impegno a veicolare conclusioni e conseguenze concrete che promanano dalla dottrina liturgica, soprattutto alla luce dei rituali riformati.

52 Notizia ottenuta dagli schemi delle lezioni di liturgia scritti da Salvatore Famoso durante gli anni di insegnamento allo Studio Teologico S. Paolo e custoditi nella copiosa documentazione da lui lasciata per testamento alla Biblioteca Agatina del Seminario di Catania.


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3.2. Inventario del suo archivio Il materiale archivistico consiste, prevalentemente, di documenti relativi alla stretta collaborazione di Salvatore Famoso, membro degli organi della riforma liturgica. I volumi, gli studi, gli schemi e le lettere sono stati collocati dallo stesso Famoso in un classificatore metallico, diviso in quattro scomparti. Dopo la sua morte questa documentazione, in ossequio alle sue disposizioni testamentarie, è stata consegnata alla Biblioteca Agatina del Seminario arcivescovile di Catania, dove è rimasta non schedata e, tanto meno, di conseguenza valorizzata. Ciascun scomparto contiene numerose carpette, a molte delle quali lo stesso mons. Famoso ha dato un titolo, dentro ognuna delle quali si trova una ricca e varia documentazione. La regestazione dei documenti è stata da me condotta scegliendo di mantenere l’ordine dei documenti così come mons. Famoso li aveva lasciati. Per cui non esiste una schedatura cronologica dei documenti, né alfabetica, né per argomenti. L’archiviazione per quanto possa sembrare disordinata segue un preciso e minuzioso ordine che lo stesso Famoso gli ha dato. Ho dovuto operare una scelta nell’impostare l’inventario. Ho deciso, infatti, di far iniziare l’archiviazione dei documenti a partire dal primo scomparto in alto del classificatore metallico. Ho fatto questa scelta perché si supponeva, e ben a ragione, che vi fossero custodite le carte più remote. L’archivio Famoso può essere diviso in tre grandi sezioni: 1. Memoria della riforma liturgica di Pio XII; 2. Vaticano II; 3. Attuazione riforma liturgica. Ogni sezione è suddivisa in diversi settori. I settori riprendono il loro nome dal titolo attribuito alle carpette da Famoso. Ogni settore contiene: mittente del documento; destinatario dello stesso documento; data; argomento; eventuali allegati; eventuali note. In conclusione l’archivio Famoso racchiude: 477 schede; 3 sezioni; 99 settori.

3.2.1. Memoria riforma liturgica di Pio XII Questa prima sezione è dedicata ai documenti aventi per oggetto la riforma generale della liturgia ad opera di Pio XII:


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settore Memoria sulla riforma liturgica

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scheda 1

3.2.2. Vaticano II La seconda sezione è dedicata al Vaticano II. Questa sezione è costituita da quattro settori: settore Constitutio de Sacra Liturgia Sacrosanctum concilium Gli organi preparatori del concilio Elenco dei membri e consultori

scheda 2-3 4-20 21-22 23

3.2.3. Attuazione riforma liturgica La sezione relativa all’attuazione della riforma liturgica è la sezione più ampia. Infatti i documenti relativi ad essa occupano circa i tre quarti dell’intero classificatore metallico. La sezione è suddivisa in 94 settori; settori che riprendono il loro nome dal titolo attribuito alle carpette da Famoso. settore Preci eucaristiche Direttorio messa fanciulli Liber precum Adattamenti al Breviario Culto eucaristico extra Missa Culto mariano Pontificale e rituale Ordo dedicationis altaris De precibus Eucharisticis Festa di precetto Correzioni bozze del Breviario

scheda 24-28 29 30-34 35-37 38-46 47 48 49 50-51 52 53-58


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settore Visita pastorale Uso dei nuovi libri liturgici Salmi Riti Pontificali: semplificazioni Ordini maggiori e minori Nomine Episcopi in prece Eucaristica Musica sacra Matrimoni Martirologio Litanie dei Santi Lezionario del Messale Istruzione Comunione sotto le due specie Instructio termia Decreto di emendazione del codice rubriche Sacra Congregazione dei Riti 1956 Coetus a studiis n. 3: De psalmis Coetus a studiis n. 4: De lectionibus biblicis Coetus a studiis n. 5: De lectionibus patristicis Coetus a studiis n. 6: De lectionibus historicis Coetus a studiis n. 7: De himynis Coetus a studiis n. 8: De cantibus Officii divini Coetus a studiis n. 9: De generali structura Officii divini Coetus a studiis n. 10: De ordine Missae Coetus a studiis n. 11: De lectionibus in Missa Coetus a studiis n. 12: De oratione fidelium Coetus a studiis n. 13: De Missis votivis Coetus a studiis n. 14: De cantibus in Missa Coetus a studiis n. 16 a: De concelebrazione Coetus a studiis n. 16 b: De comunione sub utraque specie Coetus a studiis n. 18: De communibus Coetus a studiis n. 18 bis: De orationes et praefationibus Coetus a studiis n. 19: De rubricis Coetus a studiis n. 26: De caeremoniali episcoporum Coetus a studiis n. 1: De calendario Coetus a studiis n. 12 bis: De precibus in laudibus

scheda 59-60 61 62 63 64-68 69-70 71 72 73 74 75-76 77 78-79 80-81 82-87 88 89 90-91 92-93 94 95 96-106 107-112 113 114 115 116 117-134 135 136-137 138 139-141 142-156 157-160 161


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Salvatore Famoso e la riforma liturgica

settore Nuovo codice di diritto canonico Coetus a studiis n. 23: De rituali. De infermis Institutio breviario Hebdomada sancta Funerali Direttorio per le Commissioni liturgiche Cresima Dedicazione chiesa Consacratio virginum Commune sanctorum Calendari particulari De benectione abbatis Benedizioni De calendario Antifone messale Motu proprio 25 ianuarii 1964 Instructione A 26 septembris 1964 Instructione B 26 septembris 1964 Instructione C 26 septembris 1964 Instructio de musica sacra De editionibus librorum liturgicorum De usu pontificalium Vesti prelatizie Instructio de cultu Eucharistico Instructio altera Relatio Synodum Statuto del Consilium Res secretariae. Risposta ai quesiti Res secretariae. Ordo agendorum in sessionibus Res secretariae. relationes elencha 4 Res secretariae. Notitiae 2 Res secretariae. De rebus oeconomicis 3 De ordine Missae ac ritu servando ad normam Instructio 26.09.64 De structura generali officii divini

scheda 163-167 168 169-208 209-210 211-213 214-220 221 222-232 233-234 235-236 237-247 248-249 250 251-277 278-279 280-283 284-289 290-295 296-304 305-308 309-313 314-315 316 317-324 325-342 343-348 349-350 351-363 364 365-371 372-374 375 376-384 385-390


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settore De missali De benedictione abbatissae Benedizioni degli olii sacri De ordinatione episcopi Criteri di composizione del messale romano Instructio de ampliare facultate sacram communionem ministrandi sub utraque specie, necnon bis in eodem die concelebrandi aut comunicandi De ordine Missae Ordo Missae Istitutio generalis Professioni religiose De initiatione christiana adultorum Battesimo e riti connessi Penitenza Sicilia: libri liturgici

scheda 391-397 398 399 400 401-402 403-407

407-422 423-436 437-444 445 446-447 448-467 468-476 477


Synaxis 25 (2007) 115-146

LE BENEDETTINE OLIVETANE A PALERMO

MARIO TORCIVIA*

Il presente studio si prefigge di esporre la storia delle olivetane a Palermo. La permanenza di queste monache si circoscrive soltanto in un secolo, il sedicesimo, arco di tempo nel quale anche i monaci bianchi acquistano una maggiore visibilità nella capitale — urbs felicissima — del viceregno di Sicilia, mediante la costruzione del complesso monastico di S. Maria dello Spasimo e, poi, l’abitazione nell’ex monastero cistercense di S. Spirito1. Delineeremo la storia palermitana delle olivetane esponendo dapprima, diacronicamente, i vari monasteri da loro fondati: S. Maria di Monte Oliveto o (Ab)badia Nuova (1512-1519/20), S. Maria della Grazia (1525post 1543) e S. Lucia (1531-1584)2. Presentate quindi alcune considerazioni riepilogative intrecceremo, al termine dell’articolo, la storia dei monaci e delle monache nella Palermo del ’500.

* Docente straordinario di Teologia spirituale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Il mio più vivo ringraziamento va al personale dell’Archivio di Stato (= ASPA) e della Biblioteca Comunale (= BCP) del capoluogo siciliano e al dott. Giovanni Travagliato dell’Archivio Storico Diocesano di Palermo. 1 Cfr. infra, pp. 144 ss. 2 Attualmente, il primo è stato inglobato nel Seminario Arcivescovile (la chiesa, costruita dopo un secolo di presenza delle clarisse, è l’attuale cappella del Seminario e mantiene il nome di S. Maria di Monte Oliveto o Badia Nuova), della chiesa del secondo restano soltanto il portale e due finestre in fiorito gotico catalaneggiante, del terzo luogo olivetano (monastero e chiesa) non resta più niente.


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1. I MONASTERI PALERMITANI DELLE OLIVETANE 1.1. S. Maria di Monte Oliveto o (Ab)badia Nuova Prima di presentare le fonti sulla storia del monastero, premettiamo una notazione. Come avvenne per i monaci di S. Maria del Bosco di Calatamauro — complesso monastico abitato dapprima da eremiti, poi da benedettini neri diventati in seguito olivetani3 — così anche la Badia Nuova fu fondata da donne che già conducevano vita religiosa nel monastero palermitano di clarisse intitolato a S. Chiara. Nelle pagine che seguono evidenzieremo però la particolarità della fondazione del Monastero di S. Maria di Monte Oliveto. I primi storici che trattano del monastero non menzionano la presenza delle olivetane. Il corleonese Valerio Rosso nel suo studio su chiese e monasteri palermitani — opera preziosissima perché costituisce la prima fonte manoscritta sui luoghi sacri del capoluogo siciliano — parla di monache francescane: «36. La bazia nova. Questa chiesa antiquamente la stanza dell’Archivescovo di Palermo; la quale dopo fu donata à le monache dell’ordine di San Francesco nella quale hanno fatto un bel Monasterio»4.

Il nobiluomo Vincenzo Di Giovanni nel Del Palermo Restaurato (1627), annotato da Gioacchino Di Marzo nel 1872, fornisce il primo indizio, seppur indiretto, sulla presenza delle olivetane: «Tirando a basso, da man destra, vi è il muro del giardino dell’Arcivescovato, ed il monastero di monache, ora la Badia Nuova, prima detto di Monte Oliveto. Aggregato a questo monastero vi è il vescovato antico»5.

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Cfr. infra, p. 144 nota 95. V. ROSSO, Descrittione di tutti i Luoghi Sacri della felice Città di Palermo. Libri sei, ms. del 1590, in BCP Qq D 4, 38. 5 V. DI GIOVANNI, Palermo Restaurato, a cura di M. Giorgianni – A. Santamaura. Con una nota di Salvatore Pedone, Palermo 1989, 130. 4


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E parlando di cenobi di monache esistenti nel quartiere Siralcadia aggiunge: «Monte Oliveto, detto l’Abbadia Nova, i Sett’Angioli, santa Lucia del Monte di Pietà»6.

Rocco Pirri è il primo storico che fa conoscere i nomi delle fondatrici del monastero: «15. S. Mariae de Monte Oliueto, vulgò dicitur Abbatia Noua an. 1512.7 extructum est, rem maximè promouentibus Eulalia, & Brigida de Diana Germanis sororibus, quae in S. Clarae Moniales degebant. Ibi erant olim aedes Archiepiscopales, quas monialibus istis datas diximus» (fol. 171)8.

E, precedentemente, scrivendo dell’Arcivescovo del tempo, l’abate netino aveva trattato del censo annuale che le monache dovevano corrispondergli per l’uso degli antichi locali dell’arcivescovado: «1511. Franciscus II. De Nelvense Remolinus […]. Interim etiam Vicarium Diomedem Spes suae Ecclesiae Panormitanae praeficit, atque ille veteres Archiepiscopi aedes ad coenobium construendum sub annuo vigintiquinque aureorum censu monialibus è S. Clarae disciplina dedit9»10.

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ID., Palermo Restaurato, cit., 135. Tab. ejusdem mon. fol. I. 8 R. PIRRI, Notitiae Siciliensium Ecclesiarum, Palermo 1630, 222. Tale notizia è ripresa da O. MANGANANTI, Sacro Teatro Palermitano, ms. del sec. XVII, in BCP Qq D 12, 626627 e si ritrova anche in Sicilia Sacra. Editio Tertia emendata, & continuatione aucta cura, & studio Antonini Mongitore. Accessere Additiones …, Autore P. Domino Vito Maria Amico, Apud haeredes Petri Coppulae, Panormi 1733, t. I, 308. 9 Inter tab. monast. S. Mariae de monte Oliveto monial. Ord. S. Francisci f. I. 10 R. PIRRI, Notitiae, cit., 171. Le notizie del Pirri (171 e 222) sono riprese da L. WADDING, Annales Minorum t. XV (1492-1515), Quaracchi 19333, 524, il quale però afferma, erroneamente, che i locali dell’antico arcivescovado furono concessi perché venisse costruito un monastero di clarisse: «Hoc anno [1512] Franciscus de Nelvense Remolinus, Cardinalis Archiepiscopus Panormitanus per suum Vicarium Diomedem Spes, veteres Archiepiscopales aedes dedit pro construendo Monasterio Clarissarum sub annuo 7


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Ancora il Pirri fornisce un ulteriore elemento riguardante la localizzazione dell’antico palazzo arcivescovile, divenuto monastero di S. Maria di Monte Oliveto: «Palatium Archiepiscopale erat ubi nunc exstructum est coenobium novum Sanctimonialium; atque ibi Porta Urbis, quae dicebatur, Porta S. Agathae»11.

Sempre sull’antico palazzo arcivescovile, il presbitero palermitano, di origine ericina, Pietro Cannizzaro dà altre notizie: «Della Chiesa di S. Maria di Monte Oliveto. Mon.rio di donne sotto vocabolo la Badia nova. Diomede Spes Vicario di Franc.o 2° Arcivescovo di Pal.o e Prete Card. di SS. Giovanni e Paolo innanzi il possesso dal d.o concesse le case vecchie dell’Arcivescovato quali furo lasciate d’habitarci facendo Simone il Bologna fabbricare il nuovo Palazzo dove stanno oggi li Arcivescovi l’anno 1460. Per scudi venticinque d’oro hanno da pagarsi all’Arcivescovo ogni anno, da Eulalia e Brigida di Diana sorelle germane, quali stanno nel Mon.o di S. Chiara»12.

Il saccense don Agostino Inveges fa risalire il nome del monastero a quanto riportato in bolle papali: «Dopo 12 anni, e nel 1512. sotto l’istessa regola di S. Chiara, al lato settentrionale del Domo si cominciò il Monastero che nelle Bolle Pontificie vien chiamato Santa Maria de Monte Oliveto, e dal Popolo è detto Badia Nova»13. viginti aureorum, opus promoventibus Eulalia et Birgitta de Diana germanis Sororibus ejusdem Instituti. Insigne et numerosum evasit Monasterium, sub titulo sanctae Mariae de Monte Oliveto, vulgo dictum Abbatia nova». 11 R. PIRRI, Notitiae, cit., 155. Tale informazione è ripresa dal Mangananti, di cui diremo appresso, e dallo storico palermitano I. LA LUMIA, Palermo, il suo passato, i suoi monumenti, Palermo 1875 (riedizione: Palermo 2004, 82.84). 12 P. CANNIZZARO, Religionis Christianae Panormi libri sex, ms. del sec. XVII, in BCP Qq E 37, 490. 13 A. INVEGES, Annali della felice città di Palermo. Parte Seconda, Apparato al Palermo Sacro, Palermo 1650, 49. Tale notizia è ripresa dal O. MANGANANTI, Sacro Teatro, cit., 626-627.


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Pietro Antonio Tornamira, presbitero palermitano, è il primo che menziona le olivetane parlando di alcuni cambiamenti di regole e abito avvenuti in alcuni monasteri femminili a causa dell’accorpamento con altri ordini religiosi: «sicome successe con le Monache di Monte Oliveto nella Badia nova, […] havendo le Monache Olivetane lasciato la Regola del S. Benedetto, alla francescana si sottoposero»14.

Il palermitano don Onofrio Mangananti è l’autore che fornisce diverse notizie attingendo da altri scrittori e, soprattutto, da quanto riportato nell’atto del notaio Pietro Luigi Santa Lucia15. Nella sua opera degli ultimissimi anni del ’600 sulle chiese palermitane esistenti o distrutte, dedica diversi fogli alla “Chiesa del Monast. di S. Maria di Monte Oliveto d.a Bazia Nova”, intrecciando sovente le notizie su questa con quelle sull’antico arcivescovado di Palermo. Citato quanto scritto dall’Inveges e dal Pirri, e date alcune informazioni sull’arcivescovo di Palermo16, parla specificamente della Badia Nuova: «Abbazia Nova e la stanza ò l’Arciv.to vecchio il quale al mio tempo, è circa l’an. 1556 è stato dato alle monache di S. Franc.co […] scritto ind.o Fazello quanto nell’Inveges è error di stampa e deve leggersi come sta notato dal Pirri l’an. 1512. ecavasi anco dalle scritture del medesimo monast.o che essendo 14

P.A. TORNAMIRA, Lettera autografa, ms. del sec. XVII, in BCP Qq H 10, 279. In ASPA, Notai defunti. Stanza I. Notaio Pietro Luigi Santa Lucia, vol. 1872 (15111523), Registro. Tale atto — suntato, a volte non fedelmente, e trascritto integralmente, nei manoscritti del Mangananti e del Mongitore, di cui infra — riporta l’opera realizzata da due canonici palermitani (1 marzo 1520), la bolla della Penitenzieria Apostolica (17 agosto 1519) e lo strumento di assoluzione delle monache (11 marzo 1520). 16 «L’Arcivescovato Antico descritto dall’Inveges nel suo Palermo Sacro f. 394 quale Arciv.to Vecchio e parte della chiesa vecchia fu concesso alle Monache di s. Fran.o dentro il Monast.o di s. Chiara, fabbricarne un novo Monasterio e dedicarlo a s. Maria de Monte Oliveto dell’ord.e di benedettini bianchi e lasciare l’habbito et Regola di s. Fran.co e pigliare quella di s.Bened.o come qui dentro allungo si dice e prova scrittura autentica nel Archivo del d.o Arcivescovato»: O. MANGANANTI, Sacro Teatro, cit. 628. 15


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Mario Torcivia Franc.co Nelvense da Rimoli Card.le ad tit. di S. Pietro et Paulo17 Arcivescovo Palermitano le infra scritte monache professe, quali dimorarono dentro il Monasterio di S.ta Clara di Pal.o cioè Soro Eulalia et Soro Brigida Diana sorelli germani, come nota il Pirri, Soro Catherina Cifalù, Soro Christina18 di Silvestro et Soro Ursula de Mayda domandaro […] l’Antiche case del Arcivescovato di Pal.o quale erano in fronte la Porta della chiesa Maggiore, verso la parte di tramontana attaccate, come al presente, si vede, con l’antica Basilica chiamata S.ta Maria l’Incoronata, poiché ivi si coronavano i Rè di Sicilia acciò ind.o luogo fabricassero un nuovo Monast.o ad honore di S. Benedetto della Congregatione di Monte Oliveto, et entrare, e vivere, secondo la d.a Regola, costituzione, et osservanza, con lasciare l’habito, et Regola di S. Clara sotto la q.e al presente si erano professati. Senza però esimersi dalla giurisdizione del ordinario del luogo: è tutto questo promittevano con publico giuramento fra termine di an.o due farne venire la dispensa ò Breve dalla S.ta Sede Apost.: Diomede Spes all’hora V.G. del sopra d.o Arciv.vo Palerm.o condiscese alla loro domanda è gli concesse come dissi, l’Antiche Case del Arcivescovato il censo già d.o q.te alpresente pagano all’Arciv.o di Pal.o, fabricato d.o Monasterio passarono le sopra d.e Monache di S.ta Clara in quello col medesimo habito e Regola ad habitando et havendovi circa anni setti dimorato con ricevere Donzelle vestendoli del loro habito et addirizzandoli sotto la medesima disciplina, finalmente li professavano non facendo più reflessione al giuramento […] doppò di questo fecero supplicare da parte di Brigida allhora Abbadessa et tutti altri Monache da un sacerdote nome Vince.zo Romania al S.to Padre Leone X, perché fossero sciolte dal giuramento è restassero sotto la medesima Regola et Instituto loro di S. Clara, stante trovansi molti anni avvezzi e cresciuti sotto la sup.a d.a Regola di S. Clara, et adesso si professavano in habili all’osservanza di quella S. Bened.o. il Reverendo Sacerdote Vince.zo fatta la narrativa a S. Santità: ottenne che Leonardo [Nicolai] Presb. Card.le col tit. di S. Pietro ad Vincola come Penitenziario Apost.co riconoscesse il fatto, il q.le à 17 di Agosto 152019 (essendo all’hora la chiesa Palermitana vedova del suo Pastore) spedì una let.a ò Breve Apost.co infirma di Penitenziaria diretto alli Reverendi d. Angelo de Rigano et d. Antonino de Monaco Can.ci Palermitani che suntamente l’informassero, se la narrativa fatta a S. Santità à Nome è parte di Brigida Abbadessa e d.e altre Monache corrispondesse al fatto et quelli bone esaminassero cercando come huomini 17 18 19

In realtà il titolo cardinalizio è “SS. Giovanni e Paolo”, ndr. In realtà il nome era Trisina, vezzeggiativo del siciliano Tresa (Teresa), ndr. In realtà è il 1519, ndr.


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discreti la verità. Incaricando il tutto sopra le coscienze loro. e doppò riconosciuta esser stata giusta la loro petizione li volessero sciogliere et absolvere dall’asserto giuramento in forma ecclesiae, imponendoli la indegna penitenza salutare con lasciarli nella loro pristina Regola et Instituto di S. Chiara dove si erano professati. Capitato il d.o breve, ò Let.a Apost.ca nelle mani delli Reverendi Can.ci Palermitani d. Angelo et d. Antonino, di sub.o presero in esequzione il comandamento Apost.co»20.

Anche il canonico palermitano Antonino Mongitore si rivela molto preciso nei dati sulla storia della Badia Nuova e sul tentativo delle clarisse di diventare olivetane: «Monastero di S. Maria di Monte Oliveto detto la Badia Nuova. Vivevano nel Monastero di S. Chiara di questa Città due sorelle Eulalia e Brigida Diana monache professe, e altre Religiose di spirito, che spinte dal desiderio di maggior perfezione, ispirate da Dio vollero fondare in Palermo un nuovo Monastero sotto la regola dell’ordine di Monte Oliveto, di che fecero validissime istanze. Dopo alcun tempo insieme con Suor Caterina21 Cefalù, Sr. Caterina di Silvestro, e Sr. Orsola Maida ottennero dall’Arcivescovo di Palermo Francesco Nelvense Remolino, e in suo nome da Diomede Spes suo Vicario Generale la stanza dell’Arcivescovato Vecchio, come per atto di concessione rogato da not. Pier Luigi di S. Lucia a 5. dicembre 1512. Fu la concessione per licenza annuale di scudi 25. e si dichiara nello strumento principiare il luogo dall’Arcivescovado vecchio sino alla Strada chiamata di Gambino, e scendendo in giù sino a S. Agata la Guilla, indi salendo il luogo in faccia il Monastero di S. Lucia, e sino al Papireto. Fa menzione di questa concessione il Pirri in not. Eccl. Pan. f. 171 descrivendo dell’Arcivescovo Remolino22. […]. Ottenuta dunque la concessione dell’antico Arcivescovado, si avanzarono alla fondazione, e le fondatrici si obbligarono di fondarlo sotto l’istituto Olivetano, e il presero la regola di Monte Oliveto lasciando la regola, ed abito di S. Chiara, e confirmaron l’istituzione con giuramento: anzi di fare 20

O. MANGANANTI, Sacro Teatro, cit., 628-634. Cfr. supra p. 120 nota 18. 22 Seguono (167-168) la citazione del Pirri e il rimando a quella del f. 222 e la citazione del Wadding, che Mongitore corregge affermando: «(non fu però intenzione di fondarlo sotto la regola di S. Chiara, ma di Monte Oliveto, come ho detto, e appresso si dirà meglio)». In ultimo, l’Autore fornisce notizie sul cambiamento di luogo dell’arcivescovado. 21


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Mario Torcivia istanza alla Santa Sede per due anni di ottener licenza di far questa mutazione. Con queste condizioni uscirono dal Monastero di S. Chiara le soprannominate Religiose per la fondazione di questo nuovo Monastero nel 1512. come scrivono il Pirri in not. Eccl. Pan. f. 222. Inveges nell’appar. del Pal. Sac. f. 49. e si causa chiaramente da un strumento, che in appresso riporteremo: e in detto anno si accomodò il Monastero, e si edificò la chiesa, dedicata a S. Maria di Monte Oliveto: e cominciò a chiamarsi allora Badia nuova. Nome, che sino al presente ha il Monastero. Però le Monache entrate in questo nuovo Monastero, ancorché obligate a lasciar l’abito francescano, e la Regola di S. Chiara, passando a quella di Monte Oliveto, non vennero mai a questa mutazione, anzi seguirono per più anni a vivere insieme con altre Monache ricevute sotto l’abito, e Regola di S. Chiara. Trascorsi sette anni, e avendo per [illegibile] la mutazione, sperimentando validissime ripugnanze nel volerla fare, per l’assuefazione, ed abito fatto nell’osservanza della Regola di S. Chiara, si deliberarono di supplicare la Santa Sede, che fossero assolute dal giuramento fatto di volere abbracciare la regola ed istituto di Monte Oliveto, e fosse loro permesso il proseguire a vivere sotto quella di S. Chiara, quindi a loro istanza uscì breve dalla Sacra Penitenziaria di Roma a 17 agosto 1519 con cui si diede facoltà a d. Angelo Rigano e d. Antonino Monaco Canonici della Cattedrale di Palermo di conoscere la verità del fatto, e notandola conforme a quanto s’era rappresentato, assolvessero le monache dal giuramento fatto, e permettessero loro il seguitare a vivere sotto la regola di S. Chiara, senza mutazione di vita. […] Ricevuto questo breve da detti Canonici esaminarono la verità, e visionando le difficoltà, che vi erano nella mutazione del rito, e regola, in virtù della facoltà comunicata loro dal breve, diedero l’assoluzione del giuramento alle Monache colla licenza di seguire a vivere sotto la Regola di S. Chiara sotto la quale tuttavia oggi vivono. Il tutto si vede dallo strumento dell’assoluzione vergato dal notar Pietro Luigi di S. Lucia à 11 Marzo 8 ind. 1520. che qui trascrivo; causato dagli atti di detto notaio nell’Archivo de’ Notai di Palermo»23.

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A. MONGITORE, Dell’Istoria sagra di tutte le chiese, conventi, monasterj, spedali, et altri luoghi pii della città di Palermo. I Monasteri e Conservatori. I monasteri, ms. del sec. XVIII, in BCP Qq E 7, 167 ss. La notizia, senza riportare la fonte notarile, è ripresa quasi alla lettera ma con alcuni errori, da G. DI MARZO-FERRO, Guida istruttiva per Palermo e i suoi dintorni riprodotta su quella del Cav. D. Gaspare Palermo, Palermo 1858 (riedizione: Palermo 1984, 618-619).


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Gli storici successivi al Mangananti e al Mongitore, oltre a non citare l’atto notarile, non apportano dati nuovi. Così l’abate benedettino catanese Vito Amico…: «S. Mariae de Monte Oliveto, vulgo Abbatia Nova, Clarissarum quoque, MDXII»24.

… il presbitero palermitano Gioacchino Di Marzo — traduttore ed annotatore dell’opera dell’Amico — il quale, parlando del quartiere palermitano del Capo, si limita a dire: «Di rincontro del lato settentrionale del duomo è la chiesa del monastero di s. Maria di Monte Oliveto detto comunemente la Badia Nuova ed istituito nel 1512 per le sacre vergini sotto gl’istituti di s. Chiara»25.

…e Francesco Maria Emanuele e Gaetani, marchese di Villabianca, nella sua opera iniziata nel 1788, ma rimasta incompleta per la sopravvenuta morte (1802): «Badia Nuova. Monastero di nobili signore, che sta nel Siralcadi nel luogo istesso dove prima de’ tempi de’ Saraceni surse la vetustissima basilica capitale di Palermo, e che oggi sta dietro al novello duomo. […] Professano queste religiose la regola di s. Chiara e del serafico s. Francesco; e perciò riconoscono in lor fondatrici, o siano state promotrici, le pie dame Brigida ed Eulalia Diana, ch’eran monache di s. Chiara, nel 1512. Il monastero porta il titolo di s. Maria di Monte Oliveto; ma volgarmente dicesi la Badia Nuova. […]. Notisi finalmente, che le cennate fondatrici Diana si servirono per la fabbrica del loro chiostro delle vecchie case del palazzo arcivescovile, che si trovava già abbandonato dopo la fondazione della novella madre chiesa, prendendole a censo di once 25 l’anno nel 1512 (come appo Pirro,

24 V.M. AMICO, Lexicon topographicum siculum, Apud D. Joachim Pulejum, Catanae 1759, Tomi secundi, Pars altera, 31. 25 Dizionario Topografico della Sicilia di Vito Amico tradotto dal latino e annotato da Gioacchino Di Marzo chierico distinto della Cappella Palatina, vol. II, Palermo 1856 (ristampa anastatica: Palermo 2000, 294).


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Mario Torcivia Sic. Sacra, Pan., 1733, tom. I, pag. 185), a’ tempi del cardinal Remolino, arcivescovo di Palermo»26.

Lo stesso autore, però, nel tomo 23 dei suoi Opuscoli, trattando del Catalogo delle Superiore delli Monasteri, e specificamente di quelle del Monastero di S. Maria l’Oliveto detto la Badia Nuova, riferisce un’inedita notizia sulla prima abbadessa della Badia Nuova: «1512. La Madre Sr. Brigida Diana Fondatrice vivea nel 1527»27.

1.2. S. Maria della Grazia Relativamente esigue sono le notizie di cui disponiamo sul monastero di S. Maria della Grazia. Il luogo, andate via le olivetane, è passato alla storia come Monastero delle Ree Pentite o Repentite perché fu il primo cenobio per prostitute che avevano abbandonato la loro precedente condizione di vita. Come già scritto per la Badia Nuova, anche riguardo a questo monastero, i primi storici che ne hanno parlato non menzionano la presenza delle olivetane. Rosso dice solamente che, prima della “Bazia dille convertite”, v’era un altro monastero: «41. La bazia dille convertite. Questa chiesa e nella regioni dili Divisi nella quale primariamente vi era un Monasterio di Monache»28. 26 E.G. VILLABIANCA, Il Palermo d’oggigiorno, ms. dei secc. XVIII e XIX, in BCP Qq E 91-92 ed ora in: Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia, vol. XIII. Terzo della Seconda Serie. Opere storiche inedite sulla città di Palermo ed altre città siciliane pubblicate su’ manoscritti della Biblioteca Comunale, precedute da prefazioni e corredate di note per cura di G. Di Marzo, vol. III, Palermo 1873, 239-241. 27 E.G. VILLABIANCA, Opuscoli palermitani storici, in BCP Qq E 99, t. 23. 8, 13. 28 V. ROSSO, Descrittione, cit., 41.


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Di Giovanni nel Del Palermo Restaurato (1627), annotato dal Di Marzo nel 1872, descrivendo il quartiere della Kalsa, segnala la presenza del monastero delle Ree Pentite, e il luogo dove era sorto: «il monasterio delle donne Ree pentite, ove prima fu la casa de’ Sottili»29.

Anche Pirri parla delle Ree Pentite, menzionando la nobildonna che portò a compimento la costruzione del monastero: «20. S. Mariae de Gratia in hoc cenobium confluunt, quae è turpitudinis ceno emergunt mulieres, Repentitas vulgò dicimus. Diuitijs Elisabethe de Augustino, perfectum est an. 1526»30.

Per Cannizzaro, invece, ma erroneamente, la d’Agostino fu la fondatrice del monastero: «Della Chiesa e Monasterio di S. Maria della Grazia di suore dell’ordine di S. Franc.o d’Assisi dette volgarmente le Repentite. 1526. Tra tutte le opere pie quella soprananza, quale maggiormente opera p. la salute dell’anima, onde fra le abbia maggiori a questa di levare dal peccato, e dal fango quelle povere donne che o per necessità o per altro ci sono cascate onda mossa a tale pietà christiana Elisabetta d’Agostino gentildonna Panormitana a tal effetto fondò l’anno 1526 questo Mon. e chiesa sotto nome di S. Maria della Grazia detto volgarm.te delle Repentite, la cui festa a 5 Agosto celebrano, giorno di S. Maria ad Nives, sotto la regola, e dell’ordine di S. Franc.o d’Assisi»31.

Inveges riprende quanto già scritto da Pirro:

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V. DI GIOVANNI, Palermo Restaurato, cit., 137. R. PIRRI, Notitiae, cit., 222. Tale notizia è ripresa da O. MANGANANTI, Sacro Teatro, cit., 673 e da Sicilia Sacra, cit., 308-309. Il Wadding, sbagliando, riferisce la citazione del Pirri al monastero di S. Maria della Neve e di Montevergini, cfr. Annales Minorum t. XV (1492-1515), cit., 170 XLV. 31 P. CANNIZZARO, Religionis Christianae, cit., 775. 30


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Mario Torcivia «nel medesimo an. [1526] le ricchezze d’Elisabetta d’Agostino diedero compimento al Monasterio di S. Maria delle Grazie; dove hanno ricovero quelle misere Donne; le quali le sordidezze della lussuria deriderono colle lagrime, e colla penitenza mondare e limpiare: e perciò sono chiamate le Ripentite»32.

Anche nelle memorie sulla chiese palermitane scritte nel XVII dal notaio Baldassare Zamparrone, e ricopiate il secolo seguente da don Innocenzo Roccaforte, non viene menzionata la presenza delle olivetane: «Il Monastero delle Ripentite sotto titolo di nostra Signora della Grazia fu fondato l’anno 1545. in c.a sopra l’antico Palazzo di Casa Sottile aggregandovi la Cappella di d.o Palazzo sotto titolo di San Michele Arcangelo, fu una santa opera, et oggi fiorisce in santità!»33.

Così pure l’abate catanese Vito Amico: «S. Mariae de Gratia, quò illae conveniunt e turpitudinis ceno emergentes»34.

Il primo a menzionare la presenza delle olivetane in quello che è passato alla storia come il Monastero delle Ree Pentite, sotto la regola francescana, è Giuseppe Bernardo Castellucci. Lo scrittore, descrivendo i luoghi dove viene celebrata la memoria liturgica di S. Maria della Neve (5 agosto),

32 A. INVEGES, Apparato, cit., 42. Tale notizia è ripresa da O. MANGANANTI, Sacro Teatro, 673 e da L. SAMPOLO, Sugli Istituti di emenda della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, Palermo 1874, 20. 33 I. ROCCAFORTE, Memorie delle Chiese di Palermo, ms. del XVIII, in BCP Qq F 16, 72. 34 V.M. AMICO, Lexicon, cit., 37. Sulla stessa linea Di Marzo che nel 1856 annotò il volume dell’Amico: «Il monastero delle ree pentite decaduto oggigiorno dall’antico istituto di albergar le donne convertite, si compone di una comunità di preclare vergini che osservano gl’istituti francescani»: Dizionario Topografico, cit., 256, anche se, parlando del quartiere palermitano della Kalsa, Di Marzo dà notizia, senza accennare però della presenza delle Olivetane, di una precedente fondazione del monastero delle Reepentite: «la chiesa ed il monastero di s. Maria della Grazia detto comunemente delle Reepentite sotto gl’istituti francescani e fondato nella prima origine nel 1524»: ibid., 277.


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apporta dati nuovi rispetto a quelli finora presentati, perché ha consultato gli atti notarili: «Questo Monasterio è sotto titolo di s. Maria delle gratie della Regola di s. Benedetto di Monte Oliveto, hebbe la sua fondatione nel 1524. à 3 di Giugno come per una concessione di un tenimento di case con la cappella fatta per Vincenzo Sottili à Soro Francesca Leofanti prima Abbadessa del detto Monasterio per l’atti di Notar Gio: Antonio Pinto, e nel 1543. à 12 Giugno le Monache del detto Monasterio passarono in diversi Monasteri di questa città, e lasciarono il Monasterio sudetto per le Donne Ripentite, come per atto di permuta in Notar Giovanni Antonio lo Vecchio. il suddetto Monasterio oggi è sotto la Regola di s. Francesco»35.

Mongitore, nel volume sulla devozione mariana di Palermo e dei suoi abitanti, trattando della nobildonna Elisabetta d’Agostino e di suor Francesca Leofante, menziona il monastero di S. Maria della Grazia e la Congregazione olivetana: «Compatendo l’umana debolezza Elisabetta d’Agostino gentildonna Palermitana, stimò ben impiegate le sue ricchezze nel dar riparo a quelle Donne uscite dalle sordidezze del peccato: onde perfezionò a lor giovamento il Monastero delle Ripentite di Palermo nel 1526. sotto titolo di S. Maria della Grazia, acciò sotto il patrocinio della Vergine, assicurassero la loro eterna salute»36. «Visse ornata più che della nobiltà, della prosapia, e di religiosa perfezione Francesca Leofante nel Monastero di S. Chiara di Palermo, e bramosa dell’avanzo spirituale non men suo che delle altre, pensò alla fondazione d’un Monastero sotto la Regola dell’Ordine di Monte Oliveto. Questa profittevole impresa pose in esecuzione nel 1524. poiché ottenuta la concessione 35 G.B. CASTELLUCCI, Giornale sacro palermitano, Palermo 1680, 104-105. Tale notizia è ripresa da O. MANGANANTI, Sacro Teatro, cit., 673. Gli atti notarili consultati si trovano in ASPA, Notai defunti. Stanza I. Notaio Giovanni Antonio Pinto, vol. 2652 (15211524), Registro e Notaio Antonio Lo Vecchio, vol. 2453 (1542-1543), Registro. 36 A. MONGITORE, Palermo divoto di Maria Vergine e Maria Vergine protettrice di Palermo, Palermo 1720, t. II, 94-95. Tale notizia riprende quanto già scritto da Pirri e da Inveges.


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Mario Torcivia d’una tenuta di case con una Cappella da Vincenzo Sottile per atto rogato da Notar Gio: Antonio Pinto a 3. Giugno 152437 nel seguente anno38 perfezionò la fondazione del Monastero, cui diede il nome di S. Maria di Tutte le Grazie, per assicurarlo sotto la protezion della Vergine e per applicarsi le Monache in ossequio di Maria. Ma per la morte della fondatrice Badessa del Monastero, mancato in esso il fervore dello spirito, le Monache nel 154339 passarono in altri Monasteri lasciando il detto Monasterio per le donne Ripentite; e pur si conserva sotto lo stesso titolo di S. Maria di Tutte le Grazie»40.

Anni dopo, nella monumentale storia dei luoghi sacri palermitani, lo stesso Autore riprende quanto già scritto da altri storici locali, aggiungendovi ulteriori interessanti notizie attinte dagli atti notarili41: «Monastero di S. Maria la Grazia, detto le Repentite. La chiesa di questo Monastero riconosce la sua fondazione da Vincenzo Sottile42, nobile Palermitano: egli fondò nel 1512 una Chiesa, o Cappella43 nello stesso luogo ove trovasi questo Monastero, ed ove eran le case della famiglia Sottile, dedicandola a S. Maria della Grazia: e avendola dotata di sufficiente entrata, ne fu egli eletto 1° Beneficiale, e Cappellano a p.o Marzo del 151244. […]. In progresso di tempo fu in questo luogo fondato un Monastero a 3 Giugno del 1524. sotto la Regola di Monte Oliveto; e fu la fondatrice Suor Francesca Leofante, nobile Palermitana de’ Baroni della 37

Castelluccio Gior. Sac. Paler. f. 104. Secundus Lancellottus in Hist. Oliv. l. 2 c. 53 f. 325. 39 Castelluccio cit. f. 105. 40 A. MONGITORE, Palermo divoto, cit., t. II, 112. Facciamo notare come il canonico palermitano sia l’unico storico locale che citi fonti olivetane — qui il Lancellotto e il Tondi nella citazione seguente — e proprio parlando della Leofante. Sulla monaca olivetana palermitana apparirà nella rivista olivetana di spiritualità e di cultura monastica l’Ulivo 2007/2 il nostro articolo: La ven. Francesca Leofante benedettina olivetana palermitana (fine XV? – XVI). 41 Cfr. supra, p. 127 nota 35. Gli atti sono suntati, a volte non fedelmente, e trascritti integralmente. 42 Nell’atto l’esatto nome è: Giovanni Vincenzo Sottile. 43 Nell’atto si parla soltanto di Cappella. 44 Il Mongitore riferisce indi che il beneficio, avendovi il Sottile rinunziato, fu concesso il 9 ottobre 1514 al sac. Giovanni Battista de Tigano. 38


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Verdura. [Il Mongitore citando quindi quanto scritto dal Castellucci e dal Di Giovanni, scrive: “Ma Di Giovanni dice che fu dell’ordine di Monte Oliveto, non che sia al presente come si scriverà appresso”]. Il P. d. Secondo Lancellotti nell’Hist. Olivetana lib. 2 cap. 3 f. 315 fissa la fondazione di questo Monastero all’anno 1525. il che non istimo discordare dell’opinione riferita: poiché ben può essere che la detta Religiosa nel 1524. avesse comprato le case45, e nell’anno seguente 1525. precedendo le necessarie licenze, avesse fatto la fondazione46. Scrive egli che la fondatrice Sr. Francesca Leofante religiosa nel Monastero di S. Chiara di Palermo, fece far la compra da’ suoi parenti47, e […] ottenuta di far la fondazione, ed in essa le fu concesso, che con altre quattro compagne48 ricevesse l’abito di Monte Oliveto dall’Abbate di S. Maria del Bosco49, a cui sia soggetto il Monastero. La detta Francesca eletta Badessa perpetua, colla facoltà di vestir altre dello stesso abito. Ma che i Monaci Olivetani rinunciaro poco da poi la cura del Monastero […]. Da queste due autorità io ricavo, che p.a della fondazione del Monastero v’era in questo luogo chiesa; il che deduco da questa parola del Castellucci: come per una concessione di un tenimento di case con la Cappella: e dall’altra del Lancellotto: Templo Gratiarum […]. Sicché vi trovò la fondatrice già in piedi o chiesa o cappella in questo luogo. […]50. 45 Nell’atto troviamo scritto che si tratta di contratto enfiteutico con un censo annuale di 13 onze. Si menziona anche la figlia di Giovanni Vincenzo Sottile, Nunzia che, ancora minorenne, è chiamata a ratificare il contratto quando sarà maggiorenne. 46 Nell’atto troviamo scritto che don de Tigano concede il beneficio della cappella alla Leofante — e ciò dal 1 settembre p.v., data d’ingresso della Leofante nei locali acquistati. Al contempo, la monaca elegge il de Tigano cappellano del monastero perché vi celebri una messa al giorno per tutta la sua vita. 47 Nell’atto non si dice che siano parenti le persone nominate che hanno fatto il prestito a sr. Leofante. Si dà notizia, inoltre, del prestito da parte di un banco. 48 Nell’atto troviamo i nomi delle consorelle della Leofante: Margarita de Senia, Scolastica di Bellargut, Felicita Lathutha, Beneditta de Alliata. Il documento notarile riporta anche che la fondazione potè avvenire grazie al consenso dell’abbadessa — sr. Francesca Ventimiglia — e delle monache tutte del cenobio di S. Chiara. 49 Nell’atto notarile troviamo così scritto: «abbatia et monasterium fundare et edificare sub. tit.o et vocabulo sancte m. dela gratia cum abitu et ordine sancte marie diluspasimu et regula Sancti Benedicti». 50 Il Mongitore cita quindi lo Zamparrone su S. Michele Arcangelo — «In riguardo a questo passo il Baronio de maiesta. Panor. Lib. 1 f. 136 chiama antico questo Monastero: duplex sanctimonialium Cenobium, alterum ex Repentitis vetustum quidem» — il Pirri, 222 e l’Inveges, 42 in ordine al denaro devoluto da Elisabetta d’Agostino per completare il monastero, ndr. Sulla d’Agostino, cfr. supra, p. 127 nota 36.


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Mario Torcivia Non però è vero ciò che scrive il Cannizzaro de eccl. Pan. ms. f. 775 cioè che Elisabetta d’Agostino fondò questo Monastero per riparo delle misere donne levate dalla sozzura del peccato; poiché molti anni dopo ebbero hagio in questo Monastero le Repentite. Defunta la fondatrice con fama di gran santità, come si vede dalla breve notizia, che ne scrisse il P. d. Bonaventura Tondi nell’Oliveto dilucidato f. 18351 si raffreddò lo spirito delle Monache e si ridussero a poco numero: onde passarono al altri Monasteri, lasciando questo per le donne Ripentite nel 1543 […]. Così egli. Ma il vero è, che negli atti di not. Antonino Lo Vecchio (non Gio: Antonio Lo Vecchio) sotto li 12 Giugno 1543 si ha solamente atto, da me veduto e letto nell’Arcivo de Notari di Palermo, nel quale si narra, che edificato un Monastero sotto titolo di S. Maria la Grazia, sotto l’ubbidienza dell’Abbate di S. Maria del Bosco dell’ordine di Monte Oliveto ed essendo decaduto, e ridotto in gran povertà, a segno di non potersi sostenere; d. Girolamo Spatafora, d. Gio: Antonino Tagliavia e Aragona, Marchese d’Eraclea, e Conte di Castelvetrano, ed il d.r Andrea Arduino52 proposero53 che passassero le Monache restanti in poco numero in altri Monasteri di Palermo con licenza dell’Arcivescovo, e che il luogo restasse per le Ripentite in riparo della loro onestà, accettata l’offerta dalle Monache, fecero rinuncia di detto Monastero a detti Signori per le Repentite, colla riserva della licenza de’ Superiori. Tanto si ha dall’atto. In virtù di detta rinunzia passaron le Monache restate in varj Monasterij con licenza dell’Arcivescovo, ed in questo Monastero lasciato s’introdussero queste donne pentite, liberate dalle lordezze sensuali»54.

Villabianca, annotato dal Di Marzo, trattando del monastero delle Ree Pentite, scrive che il luogo era stato abitato prima da monache olive51

In realtà il testo è L’Oliveto illustrato, Venezia 1684, 183-190. Nell’atto del 12 giugno 1543 troviamo scritto l’esatto nome dei Deputati del Monastero delle Ree Pentite: «R.mo d.no don ger.mo de bononia e.po sirac.no, ill.mo d.no don Io: ant.no de aragona et tagliavia marchione eraclie et comite castrivetrani, et d. andrea arduino regio consiliario». 53 Nell’atto troviamo scritto che i suddetti personaggi ebbero il consenso di don Francesco Pessio, vicario generale dell’arcivescovo di Palermo, il francese Giovanni Carandolet. Si menzionano altresì il pretore (Bernardino de Terminis) e cinque giurati della città di Palermo. 54 A. MONGITORE, Dell’Istoria sagra. I Monasteri, cit., 363-370. Tale notizia è riportata quasi alla lettera da G. DI MARZO-FERRO, Guida istruttiva, cit., 317-318. 52


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tane le quali, ceduto il monastero alle francescane, si trasferirono in diversi monasteri palermitani. L’Autore, citando il Mongitore, menziona la Leofante quale fondatrice, nel 1524, del monastero olivetano, lì dove erano prima le case di Vincenzo Sottile: «Reepentite — Monastero di suore francescane, che sta sotto il titolo di s. Maria della Neve55. […] Sorge nel quarto della Kalsa, presso la contrada delli Divisi. La matrona Maria Colnago ne fu la fondatrice nel 1543, servendosi dell’antico monastero che in questo stesso luogo veneravasi per uso di moniali dell’ordine benedettino di Monte Oliveto, come per atto in notar Gio. Antonio lo Vecchio di Palermo56. Quali Olivetane monache, cedendo il lor chiostro alle presenti Francescane, se ne passarono a terminare i lor giorni sparse in altri monasteri di Palermo. Suor Francesca Leofante avea fondato detto sacro chiostro olivetano nel 1524 nelle case del patrizio Vincenzo Sottile, che a lei vendute vennero in notar Gio. Antonio lo Pinto di Palermo a 3 di giugno del 152457; e dopo Elisabetta d’Agostino nel 1526 andò a compirlo di tutto punto. Il primo istituto di questo monastero, oggi di Santa Maria di Tutte le Grazie, fu di dar ricovero a quelle donne, che, pentite delle lor libidini, volean ricovero in questo sacro chiostro, e perciò fu detto, siccome oggi volgarmente dicesi, delle Reepentite»58.

55 E il Di Marzo annota che nessun altro autore, oltre al Villabianca, assegna il titolo dell’immagine, non più esistente, di S. Maria della Neve al monastero, da tutti chiamato invece S. Maria delle Grazie, cfr. E.G. VILLABIANCA, Il Palermo, cit., 282-283 n. 1, ndr. 56 Di Maria Colnago, mentovata non so come dal Nostro qual fondatrice, non trovo affatto da altri ricordo alcuno (E.G. VILLABIANCA, Il Palermo, cit., 283). Per ulteriore conferma della sua affermazione, il Di Marzo riporta quanto scritto da G.B. CASTELLUCCI, Giornale, cit., 105 e da A. MONGITORE, Istoria sagra, cit., 369s. 57 Nel manoscritto è qui allegato in margine A. MONGITORE, Palermo divoto di Maria (tomo II, p. 112), dov’è particolar cenno della detta Francesca Leofante. (E.G. VILLABIANCA, Il Palermo, cit., 284). 58 Ibid., 282-284.


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Nessuna notizia nuova aggiungono a quelle già presenti nelle fonti già citate gli storici dell’Ottocento quali, solo per menzionarne alcuni, Isidoro La Lumia59, Vincenzo Di Giovanni60 e Luigi Sampolo61. Interessante, infine, la menzione del monastero olivetano nel prezioso repertorio bibliografico del Cottineau: «Palermo. S. Maria Gratiarum, abbaye d’Olivétaines, 1525, par Francesca Leofanti qui en fut la 1re abbesse»62.

1.3. S. Lucia Come per gli altri due monasteri, anche per il cenobio di S. Lucia i primi storici non menzionano la presenza delle benedettine appartenenti alla Congregazione olivetana, anche se affermano l’esistenza di monache: Così Rosso…: «42. Santa Lucia. questa chiesa e poco piu sopra santa agata la Guilla la quale e consecrata da sua Santità: et vi era coniunto un Monasterio di Monache il quale fu tolto perche ivi vi erano poche Monache. Ma l’anno MDLXXXVII. il monte della pietà, insieme con lo Senato palermitano ivi have posto quelle vergene senza madre et padre»63.

… e Di Giovanni:

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I. LA LUMIA, Palermo, cit., 107. V. DI GIOVANNI, La Topografia antica di Palermo dal secolo X al XV, vol. I, Palermo 1889 (ristampa anastatica a cura dell’Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti di Palermo, Palermo 1995, 103, nota 2). 61 L. SAMPOLO, Sugli Istituti, cit., 20. 62 L.H. COTTINEAU, Répertoire topo-bibliographique des Abbayes et Prieurés, vol. II, Turnhout, 1995 (riproduzione anastatica dell’edizione del 1939), col. 2178. 63 V. ROSSO, Descrittione, cit., 41. 60


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«Dalla sinistra vi è santa Cristina la Vecchia, ora ospidale de’ Peregrini, e poi il monastero di santa Lucia, ora del Monte di Pietà, ove si conservano le donzelle da quell’opera prese per conservare la castità»64.

Sempre il Nostro, parlando dei cenobi di monache esistenti nel quartiere Siralcadia, menziona tra gli altri quello di «Monte Oliveto, detto l’Abbadia Nova» e quello di «santa Lucia del Monte di Pietà»65, anche se quando Di Giovanni scrive ambedue i monasteri non sono più abitati dalle olivetane. L’abate Pirro è il primo autore che menziona le monache benedettine, anche se nel seguente testo troviamo un errore di stampa: «21. S. Luciae coenobium, hìc ab ann. 1587. Senatus Panormitanus plures educat puellas parentibus orbas, quousq; vel nubant, vel religiosam profiteantur vitam, erant eae aedes olim coenobium ordinis S. Bernardi, sed Moniales inde translatas diximus66 ad coenobium S. Mariae de Cancellario, cuius rei indicium est S. Luciae statua è marmore, quam secum illam asportarunt moniales»67.

Infatti, trattando dell’Arcivescovo del tempo, Pirro aveva scritto precedentemente: «1586. Caesar Marullus Messanensis Monialium disciplinam collapsam Marullus reparare, pravas abolere

64 V. DI GIOVANNI, Palermo Restaurato, cit., 130-131. Di Marzo, che annota nel 1872 l’opera del Di Giovanni, scrive: «Dietro la Badia Nuova ebbe luogo in prima un monastero di santa Lucia, di monache benedettine della Congregazione di Monte Oliveto, fondato nel 1531, e poi abbandonato da quelle nel 1582, a cagion de’ miasmi della vicina palude. Ivi stesso i governatori del Monte di Pietà […] stabiliron nel 1587 un conservatorio di donzelle, ch’è quello mentovato dall’autore»: Ibid., 395, nota 221. 65 Ibid., 135. 66 Fog. 184. 67 R. PIRRI, Notitiae, cit., 222. Sull’errore di stampa cfr. infra, p. 139 nota 83. La notizia è ripresa da O. MANGANANTI, Sacro Teatro, cit., 437, che corregge l’errore di stampa scrivendo “S. Benedicti”, e da Sicilia Sacra, cit., 309.


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Mario Torcivia consuetudines, nimiam fraenare licentiam, ad institutorum decreta dirigere statuit, effecitq;: atq; ut in majori faeminarum numero faciliùs, feliciùsq; religiosa vigerét instituta; è coenobijs S. Luciae68, & S. Trinitatis ordinis S. Benedicti […] in alia quaeque eiusdem disciplinae collegia emigrarunt»69.

Parlando poi del monastero del Cancelliere aggiunge: «Huc migrarunt Moniales S. Luciae, & S. Trinitatis, ut dixi ad annuo Christi 1586 f. 184».

Il Cannizzaro si rivela particolarmente prezioso perché fornisce il nome e gli anni di governo della prima abbadessa del monastero e, indirettamente, l’anno di fondazione dello stesso cenobio: «Della Chiesa di S. Lucia del Monte della Pietà. […] Vi sono alcune sepolture nel suolo di d.a Chiesa di marmo con questa scritta: Ossa sunt hoc in tumulo Sororis Mariae Leonis primae fundatricis huius Mon.rij in cuius Regimine stetit per annos 35. Obiit anno suae aetatis 74 Kalendas Augusti 1566»70.

L’Inveges fornisce un’ulteriore indicazione topografica del monastero: «Dopo 11 an. e nel 1587. il Senato Palermitano fabbricò il ricetto delle Fanciulle orfane nella Chiesa di S. Lucia sotto la Batia Nova, detto il Monte della Pietà»71.

Il Mangananti, scrivendo del “Monasterio di S. Maria del Cancellerio” riprende quanto già scritto da Pirro, correggendo il succitato errore: «In questo Monasterio l’An. 1586 passarono le monache di S. Lucia e della SS. Trinità, ambi monasteri dell’ord.e di S. Bened. essendo Arciv.o di 68 69 70 71

Hodie est id monasterium puellarum. R. PIRRI, Notitiae, cit., 184. Tale notizia viene ripresa da Sicilia Sacra, cit., 206. P. CANNIZZARO, Religionis Christianae, cit., 495. A. INVEGES, Apparato, cit., 50.


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Pal.mo D. Cesare Marullo Messanense. La chiesa di S. Lucia è hoggi la casa delle figliole del Monte della Pietà. essendosi dentro la d.a chiesa la statua mar. con l’Altare di d.a S.ta Lucia esse la portarono in d.o Cancelliero che così si nomina d.a chiesa»72.

Il Mongitore, che ha avuto modo di consultare le fonti presenti nella Corte Arcivescovale di Palermo, fornisce diverse notizie inedite73: «Conservatorio di S. Lucia Prima, che si fosse fondato questo Conservatorio, che sta sotto la cura de’ Governatori del Monte della Pietà, fu nello stesso luogo fondato un Monastero di Benedettine della Congregazione di Monte Oliveto. Ne fu la fondatrice una divota Palermitana, che fece donazione irrevocabile di s. 20 di rendita per la fondazione e s. 6 per lo cappellano. e infatti si fondò in questo luogo. Aggiunse però nella donazione, che se il detto Monastero si abbolisse, la detta donazione di s. 10. passasse a’ Rettori, e Fratelli della Cappella di S. Maria del Soccorso nella Chiesa di S. Agostino affine che ogni anno dovessero dotare una povera orfana, per maritarsi. Questo leggesi nella bolla, che in appresso trascriveremo. Non si sa l’anno della donazione, e fondazione: ma un epitaffio, che leggevasi nella Chiesa di questo Monastero, ed è riportato dal Cannizzaro de relig. Panor f. 495 ci dà bastevole notizia per conoscere in qual anno fosse fondato; […]. Se la prima Badessa, e fondatrice Sr. Maria Leone morì nel 1566 e governò 35. anni il Monastero, bisogna dire che fosse fondato nel 1531. Poco però ebbe a durare questo Monastero tanto per l’aria cattiva, cagionata allora dal fiume Papireto e dalle paludi, che ivi eran, in vicinanza del Monastero, quanto per lo poco numero delle Monache che tal volta non arrivavano al numero di sei, e che eran quasi sempre inferme, nel 1582, in tempo che l’Arcivescovo di Palermo Cesare Marullo inseguitava alla riforma de’ Monasteri della Città, unendo i piccoli Monasteri a’ Maggiori, nei quali potessero attendere all’osservanza regolare, l’Abbadessa di questo con le sue monache supplicarono il Sommo Pontefice Gregorio XIII. che concedesse loro facoltà di poter passare ad altro Monastero di Benedettine: e poiché non c’era in Palermo altro Monastero di Monte Oliveto, ed altro [che ] d’abito nero: con che dispensasse dalla disposizione della fondatrice, che volea che 72 73

O. MANGANANTI, Sacro Teatro, cit., 584. Purtroppo tali fonti sono andate perdute.


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Mario Torcivia li s. 10. di rendita in caso di abolizione del Monastero passassero alli deputati della Cappella della Madonna del Soccorso. All’istanza fatta dalla Badessa, e Monache spedì la seguente Bolla il Papa, concedendo quanto domandavano, delegando l’esecuzione a concessione l’Arcivescovo. Eccome la Bolla causata dal Registro della Corte Arcivescovale an. XI. ind. 1582 e 1583 f. 40874 […]. Trasmessa in Palermo questa bolla a 14 Febbraio 11. ind. 1582 e presentata nella Corte Arcivescovale a 26. dello stesso Febbraio: e registrata nel libro dell’anno 11 ind. 1582. e 1583. f. 408. In esecuzione di questa bolla l’Arcivescovo Marullo, trasferì le Monache di questo Monastero a questo del Cancelliere, in virtù di queste seguenti lettere di traslazione, ed unione75 […]. Son registrate queste lettere nella Corte Arciv.le nel libro dell’ind. 12 an. 1583 e 1584 a f. 515. di questa traslazione fa menzione l’Ab. Pirri in not. Eccl. Pan. f. 184 e a f. 220 aggiunge che passarono al Monastero del Cancelliero dell’ordine di S. Benedetto […]. Il P. Tornamira nella fine della Prosapia di S. Rosalia f. 465 scrive, che fu di Monache Olivetane: Il Monastero di S. Lucia, dice egli, prima di Monache Olivetane, che doppo passarono ad habitare nel Monastero di S. Maria del Cancelliere, seco conducendo la statua marmorea della S. Lucia, oggi di vergini orfane del Monte della Pietà. Dell’esti.ne del Monastero fa pur menzione Valerio Rosso nella desc. delle Chiese di Palermo f. 41 descrivendo: della Chiesa di S. Lucia: Vi era edificato un Monasterio di Monache, il quale fu tolto perché ivi vivevano poche monache. Qui dee accennarsi, che questo Monastero sempre è chiamato di S. Lucia, ancorché nella riferita bolla si chiami S. Lucia della Trinità. Di S. Lucia è chiamato da Pirri not. Eccl. Pan. f. 184. e 222. da Valerio Rosso Desc. delle Chiese di Pal. f. 41. che scrisse nel 1590. da Tornamira, Cannizzaro cit., Di Gio: e altri. ma totalmente diverso dal Monastero della SS. Trinità, che era ove è oggi l’Infermaria de’ Capuccini, le cui Monache passaron pure al Cancelliere, come dissi nelle Chiese estinte. 76

oltre la detta Abbadessa sr. Maria Leone fondatrice morta a primo Agosto 1566. come nell’epitaffio riferito ne’ libri de defonti della cattedrale: ne’ quali leggesi: a primo Agosto 1566 sr. Maria di Leone Abbadessa di S. Lucia 74

Segue, ai ff. 2-5, la Bolla che reca come data il 13 dicembre 1582. Nella Bolla si menziona Antonina Lo Cascio, la devota palermitana che fondò il Monastero, che viene chiamato però S. Lucia Trinitatis, ndr. 75 Seguono, ai ff. 6-8, le lettere. Specificamente, quella di traslazione reca la data del 6 febbraio 12 ind. 1584; quella di unione, 24 marzo 1584, ndr. 76 Lo spazio bianco è nel testo, ndr.


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della Trinità. trovasi in detti a 29. Luglio 1567 morte dell’Abbadessa di S. Lucia. ma senza nome»77.

Ancora il Mongitore, parlando del Monastero di S. Maria del Cancelliero, scrive: «Nel 1586 passarono in questo Monastero per ordine dell’Arcivescovo di Palermo d. Cesare Marullo le Monache del Monastero di S. Lucia, oggi Consrvatorio del Monte della Pietà. era stato fondato questo Monastero di S. Lucia nel 1532. sotto la regola di Monte Oliveto: ma per l’aria cattiva cagionata dalle paludi del fiume Papireto, ridotte le Monache a pochissimo numero, supplicarono nel 1582 la Santità di Gregorio XIII della facoltà di poter passare a qualche Monastero dell’Ordine Benedettino, e fu loro concesso quanto desideravano per bolla data in Roma a 13 Dicembre 1582. delegando l’affare all’Arcivescovo di Palermo ed egli trasferì le monache in questo Monastero come per lettera a 24 Marzo 1584. la bolla, e lettera si ritrovan depositate nella Corte Arcivescovile nel lib. dell’anno XI ind. 1582 e 1583 f. 408 e XII ind. 1583 e 1584 f. 515. Per questa traslazione delle Monache del Monastero di S. Lucia, con tutti i loro beni al Cancelliero, restò il dominio del luogo abbandonato a questo Monastero, da cui fu concesso a censo alli Governatori del Monte della Pietà per s. 30 per li primi due anni e in appresso per s. 46 annuali, per atto vergato da not. Bartolomeo Farina a 13 Maggio 1588. Le Monache del Mon. di S. Lucia nel loro passaggio portarono seco la statua marmorea di S. Lucia: onde di questa Santa si celebra la festa ogni anno nella chiesa di questo Monastero. […] così scrive il Pirri in not. Eccl. Pan. f. 184. 110 e 111»78.

Il Villabianca, annotato dal Di Marzo, fornisce interessanti notizie dell’uso successivo delle case e della chiesa di S. Lucia:

77 A. MONGITORE, Dell’Istoria sagra. Conservatori, cit., 1 ss. L’Autore cita quindi quanto da noi già riportato del Pirri, dell’Inveges e del Cannizzaro. Inoltre, come abbiamo già scritto parlando degli altri monasteri, anche per il S. Lucia, Gaspare Palermo riprenderà quanto scritto dal Mongitore. 78 ID., Dell’Istoria sagra. Monasteri, cit., 82v-83.


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Mario Torcivia «S. Lucia del Monte. — Conservatorio o sia monastero di figliuole orfane, che sotto l’invocazione di s. Lucia edificato venne dalli governatori del Monte di Pietà, come deputati di esso, nel 1781 […]. La sua antica chiesa e luogo pure di monastero, al presente abbandonato, ebbe posto dietro la Badia Nuova, nel quartiere del Capo, dacché ne ebbe la fondazione dal senato nel 158779. Delle case quindi del surriferito conservatorio abbandonato se ne fecero case secolaresche di loero80; e della chiesa se ne fè la concessione a’ confrati della congregazione del titolo della Madonna Addolorata, che componesi di gente minuta e di livrea, nel 1778. Ond’è che questa chiesa, conosciuta sotto il nome di chiesa del Monte vecchio, prende ora luogo nell’articolo delle Chiese semplici. La proprietà poscia di questa abbandonata chiesa spetta oggi, 1793, a Gaspare Amorosi, come quello che, avendosi preso a censo dal Monte le dette case, vi abbracciò insieme la censuazione di detta chiesa»81.

Parlando della chiesa S. Lucia del Monte all’interno del capitolo sulle Chiese semplici, il Villabianca, oltre a riportare quanto detto sopra, dà notizia dello stato della chiesa: «E questa chiesa, oggi abbandonata, vien conosciuta sotto il titolo della Madonna Addolorata e della Solità, perché vi ha luogo una congregazione di tal titolo, che componesi di gente minuta e di livrea; e n’è padrone Gaspare Amorosi»82.

Il Villabianca, sempre annotato dal Di Marzo, parlando del monastero del Cancelliere, ci riferisce che in questo cenobio andarono a vivere le monache del S. Lucia dopo l’abbandono del loro monastero: 79 Ivi era in prima un monastero del medesimo titolo e dell’istituto di Monte Oliveto, le cui monache nel 1584 passarono nel monastero del Cancelliere, restando quello abolito. E della fondazione che poi vi fu fatta del conservatorio nel 1587 ha il Mongitore non pochi particolari nel suo ms. de’ Conservatori (fog. 10 e seg.) e n’è qui pur un cenno di sopra a p. 243, nota 1. (E.G. VILLABIANCA, Il Palermo, cit. 271). La nota del Di Marzo l’abbiamo riportata infra alla p. 139 nota 83. 80 Lo stesso che lueri in sic., pigione, fitto. (E.G. VILLABIANCA, Il Palermo, cit. 272). 81 Ma in margine del manoscritto sta aggiunto di mano recente: «Questa chiesa esisteva fino al 1842, incorporata per prepotenza nel palazzo dell’avvocato fiscale marchese Artale. Il di lui figlio nel 1842 la diroccò intieramente per formarvi un piano»: l. c. 82 Ibid., 389.


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«Fu aggregato col tempo a questa badia il fu piccolo monastero di monache Cisterciensi, che si avea nel luogo e nelle case, che occupate poi vennero dal conservatorio di vergini dell’opera del Monte della Pietà; e perciò queste case, or di pigione, tuttora ritengono il nome del Cancelliere»83.

Il docente universitario dell’800, Di Giovanni, parlando del Monastero del Monte della Pietà, fornisce preziose notazioni topografiche sul luogo del monastero delle olivetane: «Esistette nella attuale via Gioeni verso il Papireto, e fu indi incorporato sulla fine del secolo passato parte al monastero della Badia Nuova dal lato di questa strada, e parte mutato in case particolari. Prima, sino al 1582, fu monastero di monache benedettine, poi, dal 1587 Conservatorio di donzelle orfane tenuto da’ Governatori del Monte della Pietà»84.

Ed ancora: «Il quale Monastero [di S. Lucia] sino al 1584, e il Conservatorio sino al 1781, esistettero nella strada che attesta il Villabianca essere stata detta di Majone»85. 83 Nel 1584 passarono nel monastero del Cancelliere le monache Olivetane del monastero di s. Lucia al Papireto, di cui fu conceduto a censo l’abbandonato edificio, nel 1588, a’ governatori del Monte di Pietà, i quali vi fondarono un conservatorio di donzelle orfane, intitolato del pari a s. Lucia, e trasferito più tardi in miglior sito, fuori la porta Macqueda, nel 1782. Nota intanto il Pirri del primitivo luogo di tale conservatorio (Sic. sacra. Pan., 1733, tom. I, col. 309): Erant eae aedes olim coenobium ordinis S. Bernardi, sed moniales inde translates diximus ad coenobium S. Mariae de Cancellarlo; e da ciò asserisce anco il Nostro, che quelle monache furono Cisterciensi. Ma osserva il Mongitore, che sbaglio di stampa è in tal passo del Pirri, e ch’è da intendere S. Benedicti, e non S. Bernardi, avendo egli scritto innanzi nella sua stessa opera, col 206, che quelle erano Benedettine, e che passarono in monastero dello stesso istituto, qual si è quello del Cancelliere. Del che si ha pure certezza da una bolla di Gregorio XIII pontefice, data in Roma a 13 dicembre del 1582, e riportata dal Mongitore nel suo ms. cit. (Conservatorii, fog. 2 e seg.), con che fu data facoltà di tale passaggio alle monache del monastero di s. Lucia in Palermo dell’ordine di s. Benedetto, della congregazione di Monte Oliveto, (E.G. VILLABIANCA, Il Palermo, cit., 242-243). 84 V. DI GIOVANNI, Topografia antica, cit., 3 nota 1. 85 Ibid., 229.


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Il Sances annota brevemente la storia del S. Lucia: da monastero di olivetane a conservatorio per fanciulle orfane, all’odierno plesso scolastico: «MONASTERO DI S. LUCIA DI OLIVETANE. Abbandonato dalle monache al 1582 per la malsania della palude Papireto, le quali passarono nel monastero del Cancelliere. Sino al 1781 vi dimorarono le recluse del Monte di Pietà, cioè sino che non fu costruito l’Orfanotrofio a porta Macqueda, inteso Badia del Monte. Nel 1781 buona parte fu incorporato alla Badia Nuova, e parte trasformato in case»86.

L’architetto e docente di storia dell’arte contemporanea, Adriana Chirco, infine, dà notizia della demolizione della chiesa di S. Lucia: «Accanto alla Chiesa [Badia del Monte] si trova il palazzo Artale di Collalta. […] La proprietà ha inglobato nel corso del XIX secolo, l’antica chiesa di S. Lucia alla Guilla a cui nel 1587 era stato annesso un pio istituto per la tutela e l’educazione di fanciulle povere. Quando quest’ultimo nel 1781 fu trasferito nella nuova sede di via Ruggero Settimo, l’edificio fu trasformato in abitazioni a pigioni e la chiesa accolse la congregazione della Madonna Addolorata, costituita da gente munita di livrea. La chiesa, passò nel 1793 in proprietà a Gaspare Amorosi. Fu poi incorporata nel palazzo dell’avvocato Artale, il cui figlio nel 1842 la demolì completamente»87.

2. CONSIDERAZIONI RIEPILOGATIVE Esposte dettagliatamente le fonti, possiamo ora tracciare la storia dei tre monasteri olivetani femminili della città di Palermo. In realtà, poiché le monache della Badia Nuova mai cambiarono regola ed abito, dovremmo parlare soltanto di due monasteri di olivetane. È comunque certamente strano il fatto che proprio la chiesa del monastero che desiderò invano abbracciare la regola e l’abito olivetani conservi ancor oggi 86 G. SANCES, Appunti sulla topografia e sulle trasformazioni delle antiche chiese di Palermo, Palermo 1914, 21. 87 A. CHIRCO, Palermo. La città ritrovata. Itinerari entro le mura, Palermo 20053, 47.48.


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il titolo “S. Maria di Monte Oliveto” o Badia Nuova. E tale titolo rappresenta oggi l’unico indizio della presenza di un monastero di olivetane a Palermo, considerato che degli altri due monasteri — S. Maria della Grazia e S. Lucia — non restano più testimonianze architettoniche a Palermo.

2.1. S. Maria di Monte Oliveto/Badia Nuova Il primo monastero di monache della Congregazione benedettina olivetana sorto a Palermo è S. Maria di Monte Oliveto o (Ab)badia Nuova (1512). Il monastero fu fondato, nel quartiere del Siralcadi — odierno Capo — sul luogo dell’antico arcivescovado, sito nel lato settentrionale del Duomo e abbandonato dopo che l’arcivescovo palermitano Simone Bologna fece costruire nel 1460 il nuovo, ed attuale, arcivescovado. Fondatrici furono le sorelle Eulalia e Brigida de Diana, clarisse del monastero palermitano di S. Chiara, desiderose di vivere una maggiore perfezione nella vita religiosa. L’antico arcivescovado fu concesso da Diomede de Spes, vicario generale dell’arcivescovo Francesco II Nelvense Remolino88, alle due clarisse. Le due sorelle de Diana furono tenute a corrispondere annualmente all’arcivescovo, come scritto nell’atto del 5 dicembre 1512, 25 scudi aurei. Il perimetro del nuovo monastero andava dall’antico arcivescovado sino alla porta di S. Agata la Guilla (oggi non più esistente) e da lì salendo sino al fiume Papireto (oggi interrato). Le due monache, insieme alle consorelle Caterina Cifalù, Trisina di Silvestro e Ursula de Mayda, lo fondarono col giuramento di abbandonare l’abito e la regola di S. Francesco per vestire e seguire quella di Monte Oliveto e di far istanza per due anni alla S. Sede di ottenere il permesso di fare il suddetto cambiamento, rimanendo pur sempre sotto la giurisdizione dell’Ordinario del luogo. Lasciato quindi il monastero di S. Chiara, le monache si trasferirono nel nuovo monastero89, la cui chiesa venne intitolata a S. Maria di Monte Oliveto. 88 Cardinale del titolo dei SS. Giovanni e Paolo, guidò la chiesa palermitana dal 1511 al 5 febbraio 1518. 89 Per questo motivo il monastero fu chiamato Badia Nuova.


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Le religiose, però, per ben sette anni non abbandonarono l’abito e la regola francescana, accogliendo anche alcune ragazze e vestendole sempre dell’abito francescano. Considerato che la situazione non poteva così continuare, i Superiori, che mal la tolleravano, fecero scrivere all’abbadessa sr. Brigida de Diana, per mezzo del presbitero Vincenzo Romania, una supplica a papa Leone X perché le monache venissero sciolte dal giuramento precedentemente fatto e restassero così clarisse. E questo perché accortesi della loro incapacità a seguire la regola benedettina. Il 17 agosto 1519 il card. Leonardo Nicolai, Penitenziere apostolico, scrisse una lettera a don Angelo de Rigano e don Antonino de Monaco, canonici della Cattedrale di Palermo90, nella quale si chiedeva conferma se quanto scritto nella supplica indirizzata al Papa corrispondesse alla realtà dei fatti. Se così stavano realmente le cose, ai suddetti canonici veniva data facoltà di sciogliere ed assolvere dal giuramento le monache, imponendo loro di restare obbedienti alla regola nella quale avevano professato. E ciò avvenne l’11 marzo 1520, come attesta l’atto del notaio Pietro Luigi Santa Lucia.

2.2. S. Maria della Grazia Nel 1512, nel quartiere della Kalsa, in via Divisi91, il nobile palermitano Giovanni Vincenzo Sottile, aveva fondato nelle case di sua proprietà una cappella, dedicata a S. Maria della Grazia, diventando egli stesso beneficiale. Dodici anni dopo, e precisamente il 3 giugno 1524, suor Francesca Leofante, monaca clarissa nel monastero di S. Chiara, acquistò, grazie a prestiti ottenuti, le case, la cappella e l’orto appartenuti al Sottile. La religiosa aveva avuto infatti l’ispirazione di fondare un monastero di benedettine olivetane. L’anno seguente, ricevuto il beneplacito da parte della S. Sede, suor Francesca Leofante, con altro quattro consorelle, lasciò il monastero di S. Chiara, prese l’abito olivetano. Roma, inoltre, la costituì, 90

In quel momento la chiesa palermitana si trovava senza Pastore. Traversa di via Maqueda, uno dei due assi viari che dividono perfettamente in quattro mandamenti il centro storico di Palermo. 91


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proprio perché fondatrice, badessa perpetua del monastero, soggetto all’abate olivetano di S. Maria del Bosco, dandole la facoltà di vestire altre giovani con l’abito della suddetta congregazione benedettina. Nel 1526 la nobildonna Elisabetta d’Agostino, utilizzando le proprie ricchezze, portò a compimento la costruzione del monastero. Morta suor Leofante e abbandonata ben presto dagli olivetani — com’è loro uso — la cura delle monache, la vita religiosa si raffreddò parecchio, il numero delle olivetane scese notevolmente e le poche monache rimaste condussero povera vita. Per venire incontro alla difficile situazione, i Deputati del monastero delle Ree Pentite insieme al Pretore e ai Giurati della città di Palermo, col consenso del vicario generale dell’Arcivescovo di Palermo, con atto datato 12 giugno 1543, proposero alle monache, ricevuto ovviamente il permesso dell’Arcivescovo di Palermo, di abbandonare il monastero, di ritirarsi in altri cenobi e di adibire così il luogo lasciato all’accoglienza di quelle donne che, dismessa la vita peccaminosa della strada, desideravano condurre vita monastica. Le monache accettarono e il monastero fu da allora chiamato comunemente Monastero delle Ree Pentite o Repentite e affidato alle monache francescane.

2.3. S. Lucia Nel 1531, nel quartiere palermitano Siralcadia e, precisamente, dietro la Badia Nuova, grazie alle ricchezze della devota palermitana Antonina Lo Cascio, suor Maria de Leoni fondò il monastero olivetano di S. Lucia, guidandolo come abbadessa per 35 anni. Dopo cinquant’anni di vita olivetana, nel 1582, le pochissime monache che vivevano nel monastero, a causa dell’aria poco salubre causata dalla vicinanza con la palude del fiume Papireto e anche per obbedire alla volontà dell’arcivescovo di Palermo92, fecero istanza a papa Gregorio XIII perché desse loro facoltà di passare ad altro monastero, sempre di benedettine. Il Papa acconsentì alla richiesta delle monache (13 dicembre 92 Il messinese Cesare Marullo, desiderando riformare la vita dei monasteri, rinvigorendone anche la disciplina, si prodigò per accorpare le piccole comunità monastiche con quelle numerose per membri.


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1582) delegando ogni potestà all’Arcivescovo di Palermo. E così le olivetane furono trasferite e unite alle benedettine nere del monastero del Cancelliere (24 marzo 1584)93. Il luogo, abbandonato dalle Olivetane, nel 1587 divenne, per volontà del Senato cittadino, un conservatorio per fanciulle orfane e affidato alla cura dei governatori del Monte di Pietà. Da qui il nome di “S. Lucia del Monte di Pietà”94.

3. OLIVETANI E OLIVETANE NELLA PALERMO DEL ’500 Presentata la storia dei singoli monasteri di olivetane, desideriamo ora intrecciarla con quella dei monaci perché il Cinquecento è l’unico arco temporale nel quale troviamo a Palermo la compresenza di monasteri olivetani maschili e femminili. Il primo (tentativo di) cenobio palermitano di olivetane (la Badia Nuova) nasce pochissimi anni dopo l’atto di donazione di un terreno, da parte del giureconsulto messinese Jacopo Basilicò, ai benedettini bianchi di Santa Maria del Bosco di Calatamauro perché vi sorgesse il monastero e la chiesa di S. Maria dello Spasimo (29 settembre 1508)95. 93

Al Cancelliere le olivetane portarono la statua della titolare del loro monastero. Il conservatorio ebbe vita nella sede dell’ex monastero olivetano fino al 1781, quando venne costruito, vicino al Politeama, un nuovo conservatorio: S. Lucia del Monte. In quell’anno buona parte del monastero fu incorporata alla Badia Nuova; la restante venne invece trasformata in case. L’abbandonata chiesa di S. Lucia, conosciuta col nome di Madonna Addolorata dal nome della Congregazione laicale che vi si riuniva, dopo essere appartenuta dal 1793 a tale Gaspare Amorosi, venne nell’800 incorporata nel palazzo del marchese Artale di Collalta, il cui figlio, nel 1842, la diroccò totalmente. 95 L’abbazia — fondata nel XIV secolo nell’odierno territorio di Contessa Entellina, in provincia di Palermo e, allora, diocesi di Agrigento, ora Eparchia di Piana degli Albanesi — il 9 settembre 1491 ottenne da papa Innocenzo VIII l’unione con Monte Oliveto Maggiore, dando così inizio alla presenza dei benedettini olivetani in Sicilia. Oltre a S. Maria del Bosco (fine XV-XVIII s.) i monaci bianchi saranno presenti a Chiusa Sclafani (priorato di S. Leonardo – XVI-XVIII s.), a Palermo (monastero di S. Maria dello Spasimo, di S. Spirito, di S. Giorgio la Kemonia – XVI-XIX s.), a Marineo (chiesa di S. Maria – metà XVI s.), a Giuliana (Monastero della SS. Trinità – metà XVII-XVIII s.). Dal 15 maggio 1908 al 30 gennaio 1910, infine, gli olivetani prestarono servizio religioso al Santuario palermitano di S. Rosalia sul Monte Pellegrino, chiamati dalla locale Deputazione che apprezzava la loro nomea di buoni custodi 94


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La donazione rappresentò la prima presenza di un certo prestigio degli olivetani a Palermo, perché nel 1353 i monaci di S. Maria del Bosco — allora ancora benedettini neri perché l’unificazione dell’abbazia nemorense con la Congregazione olivetana avverrà il 9 settembre 1491 — avevano già un pied-à-terre nella capitale dell’allora regno di Sicilia. Il nobile Matteo Sclafani aveva loro regalato, infatti, nel piano del Castello a mare, un terreno con caseggiato e cappella dedicata a S. Barbara. Tale luogo divenne così la loro gancia e si suppone che fosse abitata stabilmente da un gruppo di monaci nemorensi. Il 3 maggio 1509 l’abate generale degli olivetani dà il permesso all’abate di S. Maria del Bosco di cedere in enfiteusi la gancia di S. Barbara perché con i soldi ricavati si proveddesse al completamento degli erigendi chiesa e monastero palermitani, la cui costruzione viene confermata da papa Giulio II con lettera apostolica del 3 aprile 1510. Due anni dopo il suddetto scritto papale (1512), alcune claustrali del monastero palermitano di S. Chiara decidono di fondare un monastero di olivetane lasciando abito e regola francescani ed assumendo quelli dei benedettini bianchi. La “fondazione” dura però soltanto fino al 1519 perché le monache restano clarisse e per questo vengono sciolte dal giuramento precedentemente fatto di passare alla Congregazione benedettina olivetana. Mentre prosegue la costruzione del complesso monastico di S. Maria dello Spasimo altre monache clarisse usciranno dal suddetto monastero di

di santuari. Sulla storia dei monaci bianchi in Sicilia, oltre alle fonti olivetane custodite nella casa madre della Congregazione benedettina, l’abbazia di Monte Oliveto Maggiore (Siena), cfr. R. PIRRO, Sicilia Sacra, t. II, Panormi 17333 (prima edizione: 1630), 33 ss.; A SCHIRÒ, Il monastero di Santa Maria del Bosco di Calatamauro in Sicilia. Memorie e Documenti, Palermo 1894 N. ARCADIPANE – S. BALLETTA – L. MICELI, Le pergamene del monastero di santa Maria del Bosco di Calatamauro (1264-1763), Palermo – São Paulo 1991, specie le pp. 11-21; P. OLIMPIO DA GIULIANA, Memorie antiche del monastero di santa Maria del Bosco. Manoscritto del 1582 postillato da Torquato Tasso, a cura di A.G. Marchese, Palermo – São Paulo 1995; A.G. MARCHESE (cur.) L’abbazia di Santa Maria del Bosco di Calatamauro, tra memoria e recupero. Atti del Convegno di Studi (Chiusa Sclafani e Santa Maria del Bosco, 17-18 aprile 2004), Palermo 2006, e specificamente il contributo di G. MENDOLA, Da Calatamauro allo Spasimo: gli Olivetani a Palermo, 381-409, dal quale abbiamo ricavato le sintetiche notizie riportate.


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S. Chiara per fondare anch’esse (1525) un monastero di olivetane dipendente dall’abate di S. Maria del Bosco: S. Maria della Grazia96. Morta però la fondatrice, a causa della povertà e dell’assenza di sostegno considerato il divieto presente nelle Costituzioni degli olivetani di prendersi cura delle monache, anche questo monastero cessa di esistere e le monache si trasferiscono in altri monasteri (post 1543). Nel 1531 viene fondato un nuovo monastero di olivetane, S. Lucia, proprio dietro il già citato monastero di clarisse della Badia Nuova97. Nel frattempo, prosegue la costruzione di S. Maria dello Spasimo — continuerà fino al 1536, anche se la chiesa a quella data si presenta già ultimata. Nel 1537 però, a causa della costruzione del nuovo baluardo dello Spasimo, realizzato contiguo al monastero, i monaci sono costretti dapprima a costruire un nuovo monastero (1539), stavolta più piccolo, considerata l’esistenza del bastione e, poi, a traslocare a causa della disposizione di esproprio (7 marzo 1569) e di compera (8 novembre 1572) ad opera del Senato palermitano di tutto il complesso monastico olivetano. L’anno seguente ritroviamo i monaci nell’ex cenobio cisterciense di S. Spirito. Il 15 luglio 1577 arriva infine il Breve papale attraverso il quale si ratifica la vendita del complesso monastico di S. Maria dello Spasimo, la cui chiesa era stata ridotta ad uso profano con atto del 18 aprile 1576. Nel 1584, infine, anche l’ultimo monastero di olivetane cessa di esistere. Le monache, a causa dei miasmi della palude del fiume Papireto che scorreva lì vicino, sono costrette ad abbandonare il monastero e si trasferiscono, ricevuto il permesso papale (13 dicembre 1582), nel vicino monastero di benedettine del Cancelliere.

96 Non possediamo purtroppo notizie sul come mai dallo stesso monastero di clarisse, nel giro di dodici anni appena, ben due volte escono delle monache per fondare un monastero di olivetane. L’olivetano dom B. Maréchaux, nel suo Essai d’histoire olivétaine, in Bulletin de Notre-Dame de la Sainte-Espérance à Mesnil-Saint-Loup 21 (1879/4) 443-448 congettura un rapporto stretto tra la Leofante e le altre clarisse che avevano fondato la Badia Nuova, ascrivendo alla tenacia della prima il non essersi scoraggiata per come era andata a finire la vicenda della Badia Nuova al punto da fondare con altre compagne, pochi anni dopo la rinuncia delle prime clarisse (1519), un nuovo monastero di olivetane (1525). 97 Soltanto per pochi anni, dal 1531 al 1543, troviamo a Palermo due monasteri di olivetane, ma non abbiamo notizie se i due monasteri avessero rapporti tra loro.


Synaxis 25 (2007) 147-179

ASCESA E DECADENZA DEL PRIORATO DI S. ANDREA A PIAZZA ARMERINA. ANALISI DI TRE SACRAE REGIAE VISITATIONES*

TANCREDI BELLA**

La chiesa di S. Andrea a Piazza Armerina è, nel panorama medievale della Sicilia, una tra le più significative emergenze artistiche connesse agli Ordini cavallereschi, diffusamente insediati nel Meridione d’Italia1 ed una rilevante presenza nell’allora vastissimo comprensorio della Diocesi di Catania. Il presente studio tenta di restituire un quadro chiarificante e discretamente articolato delle condizioni di un Priorato della Sicilia SudOrientale, che ebbe infatti grande rilievo nel contesto delle crociate e solo successivamente, venutane meno la primigenia funzione, vide decadere la qualità della sua vita monastica; e alla rilassatezza spirituale generale, fra tardo Medioevo e prima Modernità, corrispose pure quella economica. Per tali ragioni la vicenda del Priorato è degna d’attenzione, proprio in quanto paradigmatica di una dinamica involutiva che fu di tutta un’età. *

Il presente articolo riprende sinteticamente la seconda parte della tesi di laurea dello scrivente, dal titolo Il Priorato di S. Andrea a Piazza Armerina tra Occidente e Terra Santa. Contributi per un riesame, discussa in Catania il 14.07.05, relatrice la prof.sa Claudia Guastella. Per la disponibilità e l’aiuto variamente offertigli l’autore ringrazia S.E. mons. Michele Pennisi, vescovo di Piazza Armerina, la relatrice e i professori Anna Maria Ficarra dell’Università degli Studi di Catania ed Alessandro Rovetta e Marco Rossi della Cattolica di Milano, nonché mons. Salvatore Consoli, mons. Gaetano Zito, la dottoressa Maria Pia Demma e l’avv. Lorenzo Antonio Lo Monaco, luogotenente dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro in Sicilia. ** Dottore in Lettere e dottorando di ricerca presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Catania. 1 Edificato nelle adiacenze della città di Piazza Armerina, presenta una pianta a croce commissa e si articola su due livelli, che assecondano il naturale declivio su cui insiste: la lunga navata ed il soprelevato transetto triabsidato.


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Tancredi Bella

1. LE VICENDE STORICHE E I REGI VISITATORI Il manufatto architettonico nacque per iniziativa dell’eminente signore lombardo Simone Aleramico e venne da questi donato all’Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme: fin dall’inizio la chiesa venne officiata da canonici regolari agostiniani. Mancando il documento di fondazione, è ancor oggi di capitale valore un diploma normanno, emanato il 30 novembre del 1148, ind. XII, con il quale Simone conte di Butera effettuò alcune donazioni alla chiesa del S. Sepolcro: tra esse «quondam meam ecclesiam, que est extra Placeam in honorem Sancti Andree fundatam, cum quatuor molendinis et alis omnibus suis, ecclesie sancti Sepulcri domini nostri Christi, libere et quiete et sine aliquo servitio perpetue possidendam»2.

Ciò proietta il Priorato sullo sfondo di una ricca e vasta rete di rapporti fra il Settentrione d’Italia, l’Isola e la Terra Santa, entro la quale Piazza Armerina aveva una collocazione preminente, tappa non periferica sulle vie 2 C.A. GARUFI, Gli Aleramici e i Normanni in Sicilia e nelle Puglie. Documenti e ricerche, in Centenario della nascita di Michele Amari, I, Palermo 1910, 80-81. Ruggero d’Altavilla decise di insediare nel cuore della Sicilia guarnigioni ‘lombarde’, provenienti cioè dall’Italia settentrionale e facenti parte dell’esercito normanno, con l’intento di avviare un processo di rilatinizzazione del territorio. Si vedano anche: C.A. GARUFI, Per la storia dei secoli XI e XII. Il “castrum Butere” e il suo territorio dai Bizantini ai Normanni. Note ed appunti di Storia e di Toponomastica, in Archivio Storico per la Sicilia Orientale, vol. XI, fasc. II (1914), 153 ss.; F. CAROLLO – A. STELLA, La Sicilia. Visione storica, economica, culturale e artistica, Palermo 1952; L. VILLARI, Note sui Comuni lombardi di Sicilia, in Archivio Storico Messinese, vol. III, fasc. IX-X (1957-1959), 185 ss.; R. GREGORIO, Considerazioni sopra la storia di Sicilia dai tempi normanni sino ai presenti, XIV, Palermo 1972-73 (Edizioni della Regione Siciliana); I. NIGRELLI, Piazza Armerina medievale. Note di vita sociale, artistica e culturale dal XII al XV secolo, Milano 1983; L. VILLARI, Storia Ecclesiastica della città di Piazza Armerina, Messina 1988; S. TRAMONTANA, Il Regno di Sicilia. Uomo e natura dall’XI al XIII secolo, Torino 1999; ID., Il Mezzogiorno medievale. Normanni, svevi, angioini, aragonesi nei secoli XI-XV, Roma 2000; S. FODALE, La Contea di Sicilia, in S. TRAMONTANA (cur.), Ruggero I, Serlone e l’insediamento normanno in Sicilia. Atti del Convegno internazionale di studi promosso dall’Istituto Italiano dei Castelli – Sezione Sicilia (Troina, 5-7 novembre 1999), Troina 2001, 27-33; P. PENSABENE, Dalla Villa Romana all’Insediamento medievale, in Kalòs. Arte di Sicilia 26 (2004) 9-11.


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dei pellegrinaggi e dei crociati all’alba dell’Europa3. Controversa questione è tutt’oggi la corretta datazione del monumento e la storiografia degli ultimi anni, senza apporti scientificamente incontestabili, ha bensì contribuito a chiarire alcuni punti nodali di imprescindibile valore, tralasciandone tuttavia altri: recentemente si è proposto di assegnare l’edificazione del manufatto architettonico ai primi decenni del XII secolo, non oltre comunque il 11484. Pur segnato da alterna fortuna e discontinua floridezza economica, il Priorato ebbe certamente un ruolo di non secondario valore proprio durante l’epopea delle crociate; il numero di cavalieri e frati che vi risedettero fra gli ultimi decenni del XIII secolo e i primi anni del XIV crebbe notevolmente. Le Rationes decimarum Italiae dei secoli XIII e XIV riferiscono infatti, tra le decime che la città di Piazza versava alla diocesi di Catania negli anni 1275-1280, anche quelle relative al Priorato: «Ecclesia S. Andree de eodem loco que est domus dominici Sepulcri valet unc. XXX, solvet pro utraque dictis subcollectoribus unc. VI.»5: 3 Sull’argomento si veda: A.C. QUINTAVALLE, Il Medioevo delle Cattedrali. Chiesa e Impero: la lotta delle immagini (secoli XI e XII), catalogo della mostra di Parma (Salone delle Scuderie in Pilotta, 9 aprile – 16 luglio 2006), Milano 2006, 28 ss. 4 Si vedano a riguardo gli articoli dello scrivente: Il Priorato di S. Andrea a Piazza Armerina, tra Occidente e Terra Santa. Parte prima: nuove considerazioni sul manufatto architettonico, in Diocesi di Piazza Armerina. Rivista della Chiesa Piazzese 5 (2005) 3, 93144; Il Priorato di S. Andrea a Piazza Armerina, tra Occidente e Terra Santa. Parte seconda: un riesame dell’apparato pittorico, in Diocesi di Piazza Armerina. Rivista della Chiesa Piazzese, 6 (2006) 3, 147-214. Ed ancora: E. MAGANUCO, L’architettura a Piazza Armerina, Catania 1926; S. BOTTARI, L’architettura della contea. Studi sulla prima architettura normanna nell’Italia meridionale e in Sicilia, Catania 1948; G. DI STEFANO, Monumenti della Sicilia normanna, Palermo 1955; P. LOIACONO, La chiesa del Priorato di S. Andrea a Piazza Armerina, prototipo del gotico siciliano, in Palladio (1957) 133 ss.; F. BASILE, L’architettura della Sicilia normanna, in Storia della Sicilia, V, Napoli 1981, 1-93; F. LA MORELLA – R. OLIVA, La chiesa di S. Andrea a Piazza Armerina e l’Ordine del S. Sepolcro di Gerusalemme, in Ali Crociate, Palermo 1985; R. SANTORO – G. CASSATA – D. CICCARELLI – G. COSTANTINO, La Sicilia, in S. CHIERICI (cur.), Italia Romanica, VII, Milano 1986; L. VILLARI, Storia della città di Piazza Armerina, capitale dei Lombardi di Sicilia (Dalle origini ai giorni nostri), Piacenza 1987; I. NIGRELLI, Il tesoro nascosto di Piazza Armerina, in Kalós. Luoghi di Sicilia 6 (1992) 28-33; E. MONTELEONE, Ordini religiosi e architettura a Piazza Armerina, in A. CONTRAFATTO (cur.) Architettura religiosa a Piazza Armerina, Catania 2000, 21-24. 5 P. SELLA (cur.), Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Sicilia, Città del Vaticano 1944, 79.


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a testimonianza della ricchezza per cui il Priorato spiccava nel panorama delle altre chiese armerine, e non solo, basti pensare che la prima chiesa menzionata tra quelle «apud Placiam», la chiesa di «S. Marie maioris», oggi Cattedrale della città, versava appena sette once. Furono dunque quelli gli anni di maggior prestigio, durante i quali vennero realizzate le più significative opere di decorazione pittorica. Con una bolla del 19 aprile 1262 Papa Urbano IV, che aveva tentato personalmente di corroborare l’Ordine, ponendovi a guida alcuni tra i più fidati suoi collaboratori ed affidandogli nuove prerogative, concesse «priori et fratribus ecclesie s. Andree de Platia […] ordinis s. Augustini» e alle sue pertinenze di essere definitivamente slegati dalla giurisdizione della diocesi di Catania legandoli indissolubilmente alla chiesa patriarcale di Gerusalemme: «solj Jerosolymitano Patriarchae subsit»6. Il priorato veniva così ad essere un riflesso verace dell’Istituzione gerosolimitana in Sicilia. Quando nel 1291 si spense definitivamente il tentativo della Cristianità di riconquistare i luoghi santi, l’Ordine del Santo Sepolcro si insediò presso la chiesa di S. Luca a Perugia, Casa Madre ed Arcipriorato dal 1187, a Barletta in Puglia, ove esisteva un Priorato dal 1160, ed a Piazza Armerina, ove presso la chiesa di S. Andrea venivano curati i pellegrini di Terra Santa7. Per restituire un quadro della vita e delle opere che animarono nei secoli l’attività del Priorato è utile altresì ricordare che il regolamento della 6

L. DOREZ – J. GUIRAUD, Les Registres d’Urbain IV (1261-1264): recueil des bulles de ce pape publiées ou analysées d’après les manuscrits originaux du Vatican, IV, Parigi 1892-1958, 26 (REG. 26, fol. 19, n. 81). Già in una bolla del 25 ottobre 1261 Urbano IV dichiarava la chiesa di S. Andrea ‘Priorato dipendente dal Santo Sepolcro di Gerusalemme’: cfr. L. DOREZ – J. GUIRAUD, Les Registres d’Urbain IV (1261-1264): recueil des bulles de ce pape publiées ou analysées d’après les manuscrits originaux du Vatican, cit., 9 (REG. 26, fol. 5, n. 16). Si vedano anche: C. MAIEZZA, Un ciclo del maturo Duecento con Storie di Sant’Andrea, in Federico e la Sicilia, II, Siracusa-Palermo 1995, 500; G. BRESC BAUTIER, Bulles d’Urbaine IV en faveur de l’Ordre du Saint-Sépulcre (1261-1264), in Mélanges de l’Ecole Française de Rome. Moyen Age – Temps Modernes, vol. 85, fasc. I (1973), 294; Urbanus Quartus XXI bullae in Bullarum Privilegiorum ac Diplomatum Romanorum Pontificum. Amplissima Collectio cui accessere Pontificum omnium Vitae, Notae, et Indices opportuni. Opera et Studio, Caroli Cocquelines, vol. III, fasc. I-II, Romae MDCCXL. 7 Cfr. S. MAUROLICO, Historia Sagra intitolata Mare Oceano di tutte le Religioni del mondo. Divisa in cinque libri, Messina 1613, 30-35; V. PRIVITERA, Ordini Cavallereschi. Storia e Decorazioni, Catania 1982, 18-23; R. CALIA, L’Ordine Equestre del S. Sepolcro in Sicilia, Alcamo 2002.


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comunità del convento annesso era il medesimo adottato dai Canonici di S. Agostino che custodivano il Santo Sepolcro a Gerusalemme8: presbiteri, frati conversi e cavalieri armati dovevano adoperarsi per il progresso della fede cristiana, officiare la chiesa, contribuire economicamente alle spedizioni delle crociate e compiere atti di carità; vi gravitavano anche molti crociati diretti in Palestina9. Sin dagli ultimi decenni del XIII secolo però il cenobio cominciò a sperimentare — come accadde in casi analoghi — un progressivo impoverimento ed un generale decadimento: i presbiteri si dedicavano ancora alla vita contemplativa, ma erano del tutto cessate le opere di carità. Finché nel 1446, per regia ordinanza e decreto papale, passò nelle mani di quattro cappellani curati10. 8 Tante comunità di canonici regolari di S. Agostino fiorirono dopo il concilio lateranense del 1059 e, se in un primo tempo ogni comunità era autonoma, successivamente alcune fra loro si uniro ad altre, formando delle congregazioni: una di esse, detta “del Santo Sepolcro”, nacque a Gerusalemme intorno al 1114 e i suoi membri, insieme a cavalieri, assunsero la salvaguardia del Santo Sepolcro durante i primi decenni del Regno di Gerusalemme. I francescani invece si stanziarono in Palestina dal 1230 in avanti e, da lì, si estesero presto all’intero Oriente; favoriti dai buoni rapporti fra il sultano Barsabai e Filippo il Buono, duca di Borgogna (1419-1467), riuscirono nel secolo XV ad assicurarsi le chiavi dell’Edicola del Santo Sepolcro e porvi un altare mobile in cui celebrare la Messa (cfr. Il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Splendori, miserie, speranze, Bergamo 1949, 65-87; E. JOSI, Gerusalemme, in Enciclopedia Cattolica, VI, Firenze 1951, 216). Dopo la caduta del suddetto Regno nel 1291 il Santo Sepolcro fu sottratto all’omonimo Ordine (e quindi alla tutela dei canonici regolari di S. Agostino) e, acquistato dal sultano d’Egitto nel 1333 da parte Roberto d’Angiò insieme ad altri luoghi santi, fu affidato ai frati Minori: tale decisione fu poi confermata da Papa Clemente VI, con bolla del 21 novembre 1342. Da allora la custodia di questo luogo passò ufficialmente sotto esclusiva dipendenza della Santa Chiesa, attraverso il Guardiano del Santo Sepolcro ed i frati Francescani, che vi presiedono tutt’ora: l’ente internazionale per la ‘Custodia della Terra Santa’, composto da Francescani provenienti in ogni parte del mondo, sorse infatti con la fine del Regno latino di Gerusalemme (cfr. G. ZANELLA, Custodia di Terra Santa, in Enciclopedia Cattolica, IV, Firenze 1950, 1095-1098; V. PRIVITERA, Ordini Cavallereschi. Storia e Decorazioni, Catania 1982, 18-23). Cfr. anche: A. COLOCCI VESPUCCI, Nel mondo degli Ordini equestri – Il Santo Sepolcro di Gerusalemme, in Rivista Araldica 35 (1937) 11, 512; B. BAGATTI, Santo Sepolcro, in Enciclopedia Cattolica, XI, Firenze 1953, 358-363; L. IRIARTE, Storia del Francescanesimo, Napoli 1982. 9 Cfr. A. ROCCELLA, Il Gran Priorato di S. Andrea e i Monasteri dei Benedettini in Piazza Armerina, Piazza Armerina 1883. 10 Cfr. G.P. CHIARANDÀ, Piazza, città di Sicilia, antica, nuova, sacra e nobile, Messina 1654.


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Dopo il definitivo tracollo dell’Ordine del Santo Sepolcro, il Priorato venne saldamente legato alla Corona di Sicilia quale bene di regio patronato, di cui anche quindi percepire le rendite: Giovan Luca Barberi, procuratore fiscale e notaio della Cancelleria, nel XVI secolo osservò che il conferimento della reggenza del Priorato era divenuto di pertinenza reale in quanto ereditato direttamente «ex collationibus et testamento dicti quondam Simonis comitis Butere»11. Anche per i suddetti motivi, il Priore era eletto dal Re ed aveva il privilegio di sedere al trentacinquesimo posto del Parlamento di Palermo12. All’interno del particolare status ecclesiastico, introdotto in Sicilia dal privilegio giuridico della Legazia Apostolica — che peraltro assunse nuova fisionomia nel Cinquecento e che determinò complessi rapporti fra la Curia Romana e i sovrani di Sicilia — è quindi esemplare la vicenda di quest’ente, sottratto definitivamente alle dipendenze del vescovo di Catania, alla cui diocesi apparteneva, né più sottoposto alla sua amministrazione: «sembra possa affermarsi che Giovan Luca Barberi, da devoto ufficiale della corona, abbia offerto su un vassoio, alla corona spagnola e in essa alle successive dinastie, uno stabile e singolare privilegio che ha determinato 11 G. LUCA BARBERI, Beneficia Ecclesiastica, a cura di I. Peri, II, Palermo 1963, 41; cfr. anche L.T. WHITE JR., Il Monachesimo latino nella Sicilia normanna, Catania 1984, 358 [Latin Monasticism in Norman Sicily, Cambridge, Massachusetts 1938]. 12 Tra le personalità di maggior rilievo che ricoprirono la carica di Priore, Vito Amico ricorda: Ottaviano Preconio, priore di S. Andrea dal 1560 e poi vescovo di Cefalù; Antonio Lombardo, dopo la suddetta carica, nominato vescovo di Mazara nel 1573 e poi arcivescovo di Messina; il Cardinale Scipione Rebiba, di nobile e illustre famiglia, già governatore di Roma, Rettore dell’Inquisizione, nominato priore nel 1579 da Filippo II di Spagna; Ludovico Ludovisi, arcivescovo di Bologna, eletto priore nel 1631; Teodoro Trivolzio, di nobile casata milanese; ed ancora Cesare di Ventimiglia, proveniente dalla prestigiosa famiglia palermitana; Giuseppe Migliaccio, nominato priore nel 1687, e successivamente vescovo prima di Patti e poi di Messina; Antonio Paceco ‘ducis Uzedae siciliae Proregis filius’ e, per ultimo, Giovanni Filangeri (cfr. V. AMICO, De Abbatiis et Prioratibus Ord. S. Augustini, in Sicilia Sacra disquisitionibus, et notitiis illustrata… Auctore abbate Netino et Regio Historiographo don Roccho Pirro. Editio tertia, emendata et continuatione aucta cura, et studio s.t.d.d. Antonini Mongitore. Accessere Addizione et Notitiae Abbatiarum Ordinis sancti Benedicti, Cistercensium, et aliae, quae desiderabantur, Autore P. Domino Vito Maria Amico, Palermo 1733, 1329-1332; cfr. anche: F.T. FAZELLO, De rebus siculis decas prima. Criticis Animadversionibus, atque Auctario AB S.T. D.D. Vito M. Amico, et Statella. A Catana Benedectino – Casinensi Priore, in publica Catanensi Academia civilis Historiae Professore. Illustrata, Catania 1749-1753).


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rapporti unici, intricati e litigiosi tra il potere statale e il potere ecclesiastico, con una innegabile condizione di subordinazione del secondo al primo»13.

Il sovrano poteva pertanto «sindacare l’operato sociale e politico degli ecclesiastici, come patrono interessarsi dello stato materiale delle chiese, come legato pontificio intervenire direttamente nel campo dello spirituale con tutti i poteri che il diritto canonico assegna al visitatore apostolico»14.

Poiché sottratti alla giurisdizione vescovile, il Priorato e l’annesso convento non sono menzionati nelle sacre visite pastorali15: un compito analogo ebbero, ciò nondimeno, le ‘sacrae regiae visitationes’ effettuate al Priorato proprio in quanto di patronato regio, le quali costituiscono un patrimonio informativo di straordinaria portata, cronologicamente esaustivo, anche se forse non sempre attendibile: 13 G. ZITO, La Legazia Apostolica nel Cinquecento: avvio delle controversie e delle polemiche, in S. VACCA (cur.), La Legazia Apostolica. Chiesa, potere e società in Sicilia in età medievale e moderna, Caltanissetta-Roma 2000, 125. Sull’argomento si vedano anche: G. CATALANO, Studi sulla Legazia Apostolica di Sicilia, Reggio Calabria 1973; F.M. STABILE, L’abolizione della Apostolica Legazia Sicula e del Tribunale di Regia Monarchia, in ‘O Theologos, 4 (1977), 53-90; M. AYMARD – G. GIARRIZZO (curr.), La Sicilia, Torino 1987; G. ZITO, Storia religiosa della Chiesa di Sicilia, estratto da Ricerca Storica e Chiesa locale in Italia. Risultati e Prospettive. Atti del IX Convegno di studio dell’Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa (Grado, 9-13 settembre 1991), 379-409; S. FODALE, La Legazia Apostolica nella storia della Sicilia, in S. VACCA (cur.), La Legazia Apostolica, cit.,11-22. 14 P. COLLURA, Le sacre regie visite alle chiese della Sicilia, in Archiva Ecclesiae. Bollettino dell’Associazione Archivistica ecclesiastica XXII-XXIII (1979-80) 445. 15 Una menzione del Priorato si trova nelle “relationes ad limina” della Diocesi di Catania (cfr. A. LONGHITANO, Le Relazioni “ad limina” della Diocesi di Catania [15901632], in Synaxis 1 [1983] 225-232), precisamente in quella redatta dal vescovo Michelangelo Bonadies nel 1682: l’ente è altresì ricordato come «Prioratum regium S.ti Andreae Platiae unum»: A. LONGHITANO, Le Relazioni “ad limina” della Diocesi di Catania (1668-1686), in Synaxis 4 (1986) 469. Tra quelle effettuate dopo l’erezione della diocesi di Piazza Armerina, soltanto la relazione del vescovo Gerolamo Aprile Benzo, del 17 novembre 1823, fa menzione della chiesa di S. Andrea, «cuius collatio est de regio patronatu et nulla iurisdictio quoad ecclesiam competit episcopo» (cfr. S. M. PAGANO – G. CASTALDO, Le visite ad limina apostolorum dei vescovi di Piazza Armerina e le loro relazioni sullo stato della diocesi [1818-1920], in Archivio storico per la Sicilia Orientale, LXXXIII, I, Catania 1987, 101-103).


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Tancredi Bella «il visitatore regio, un ecclesiastico in qualità di delegato straordinario, riceveva amplissima facoltà per esaminare la lecita proprietà dei beni ecclesiastici e la loro corretta amministrazione, per controllare arredi e suppellettili sacre, per rendersi conto del servizio ecclesiastico in ciascuna diocesi. In nome del re legato apostolico, poteva emanare decreti per eliminare abusi o ristabilire la disciplina»16.

Oltre la sacra regia visita di Giovanni Angelo De Ciocchis redatta nel 1743 (l’ultima al Priorato che sia pervenuta e l’unica edita)17, occorre qui ricordare le inedite del Reverendo Monsignor Francesco Vento (1542), del Reverendo Jacopo Arnedo (1557-58) e di Monsignor Pietro Manriquez (1576), ed è a queste che qui si farà riferimento, identificando alcuni nuclei tematici, sui quali ciascuno di costoro ha soffermato progressivamente l’attenzione. Monsignor Vento, «Canonico Mazariensi et Sacrae paginae professori ac teologo»18, introduce la relazione affermando che il Priorato di S. Andrea «existit extra menia Civitatis Placie ad miliare unum septentrionem versus»19; prosegue aggiungendo che possedeva alcune gancie, tra le quali la chiesa di S. Andrea a Lentini, ed in ultimo menziona in apertura i tre mulini esistenti «prope dictum Prioratum nuncupatis lo Molino di Sancto Andria lo Molino pichulo dili Donni et lo Molino dili armi»20,

con i rispettivi tributi. 16 G. ZITO, La Legazia Apostolica nel Cinquecento: avvio delle controversie e delle polemiche, cit., 132. 17 G.A. DE CIOCCHIS, Sacrae Regiae Visitationis per Siciliam, III, Vallis Neti, Palermo 1836. 18 Archivio di Stato di Palermo (= ASP), Fondo Conservatoria di Registro (= Registro), registro (= r.) 1305, foglio (= f.) 1 recto (= r.; il verso verrà indicato con v.); i fogli dedicati alla visita al Priorato di S. Andrea in Piazza Armerina vanno dal 132r. al 133v. Per questa, come per le seguenti citazioni letterali, è stato adottato il criterio di sciogliere tutte le abbreviazioni così come di convertire le lettere maiuscole in minuscole e viceversa, all’occorrenza, secondo un uso della lingua più consono ai nostri giorni. 19 ASP, Registro, r. 1305, f. 132r. 20 ASP, Registro, r. 1305, f. 132r.; aggiunge anche che priore era il palermitano «Reverendus Dominus Ambrosius Sanches Siculus». A testimonianza di come i mulini del Priorato abbiano avuto grande importanza, tanto da essere menzionati — almeno come topo-


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L’importanza della sacra visita del Reverendo Arnedo, dottore in sacra teologia e «Sue Catholicae Maiestatis eiusque regij patronatus ac generalis Visitator in hoc Sicilie Regno»21, effettuata il 9 aprile 1558, è data dalla scrupolosità con cui venne redatta, nonché nell’estrema precisione con cui è descritto lo stato di conservazione del manufatto architettonico e dei beni mobili ad esso vincolati. Non va dimenticato inoltre che essa si colloca a distanza di quindici anni da quella precedente (dieci, se si prende come termine di paragone la relazione della prima visita di Mons. Vento del 1552, di cui quella menzionata è sostanzialmente una copia, forse più completa) ed il paragone tra le due può risultare certamente vantaggioso per conoscere lo stato conservativo del bene stesso. Nell’incipit della trattazione Arnedo aggiunge: «Prioratus Sancti Andree ordinis Canonicorum regularium Sancti Augustini Sepulcri Jerosolimitani existens extra menia Civitatis Placie ad miliare dimidium versus septentrionem»,

opportunamente evidenziando il legame con la Terra Santa e precisando l’ubicazione geografica della chiesa22. Tra le pertinenze del Priorato nimo — nella denominazione di una Baronia certamente viva fino al tardo XVIII secolo, si vedano: G. L. BARBERI, I Capibrevi, scritti nel 1509-1511 (ed. cons. I Capibrevi di G.L. Barberi, ora per la prima volta pubblicati da Giuseppe Silvestri, Palermo 1879, 439); F. SAN MARTINO DE SPUCCHES, La Storia dei Feudi e dei Titoli Nobiliari di Sicilia, dalla loro origine ai nostri giorni (1925). Lavoro compilato su documenti ed atti ufficiali e legali, Palermo 1929, vol. VI, Da quadro 712 a Quadro 872, quadro 852, 400-404 e vol. X, Da Quadro 1683 a Quadro 2029, quadro 1724, 68. Resta da appurare quando i mulini abbiano cessato la loro attività; oggi restano in piedi porzioni di uno solo di essi (qualche arcata dell’acquedotto adibito a convogliare le acque fino al cenobio), quello limitrofo che sorgeva a nord-ovest, lungo il sentiero che dal prospetto principale della chiesa declina a settentrione. 21 ASP, Registro, r. 1309, f. 1r. (i fogli dedicati alla visita al Priorato vanno dal 291r. al 305r.). 22 ASP, Registro, r. 1309, f. 291r. Il Priorato viene dall’Arnedo ancora identificato come di pertinenza dei Canonici regolari di S. Agostino, anche se si tratta di un’appartenenza verosimilmente fondata solo su ragioni storiche e non più sullo stato dei fatti, dato che nel 1446 era stato sottratto alla loro diretta amministrazione: poco più avanti ribadisce infatti che gli offici della chiesa «antiquitus exequabantur per plures sacerdotes ordinis sancti augustini sepulcri hierosolimitani ut ex multis scripturis liquet». Aggiunge ancora che era posto a


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l’Arnedo cita anche la chiesa di S. Elia in Adrano, la chiesa di S. Maria ‘di Piazza Vecchia’ e la chiesa di S. Agata, sita nelle vicinanze di quest’ultima. Infine la sacra visita del Reverendo Manriquez, abate dell’illustre monastero di Santa Maria di Roccadia ed anch’egli «Siciliae regno eiusque Visitator omnium ecclesiarum de regno Iure patronatus per totum vallem Nothi»23, precedendo la ben più nota visita del De Ciocchis, rimane per tutto il XVII secolo e per i primi decenni del successivo il documento più attendibile sulla conservazione dei beni mobili ed immobili del Priorato.

2. “DE SERVITIIS DIVINI CULTUS”. CONSIDERAZIONI INTORNO ALLA VITA RELIGIOSA DEL PRIORATO Sia il Vento che l’Arnedo iniziano le loro ricognizioni circa la consistenza religiosa dell’ente ecclesiastico in esame (coi relativi provvedimenti), soffermando l’attenzione — ciascuno secondo una particolare prospettiva — sulle manchevolezze riscontrate e su taluni problemi sorti all’interno del cenobio, realtà complessa poiché contemplativa ma pure attiva, e già sulla soglia di un lento declino spirituale. Il primo tra essi cita inizialmente le uscite che il Priorato doveva sostenere ogni anno per assicurare lo stipendio dei due sacerdoti e del chierico, che attendevano al «servitio Cultus Divini»24 e che erano usufruttuari del giardino attiguo al cenobio.

mezzo miglio fuori le mura della città. In quindici anni è pertanto da supporre — con un margine abbastanza largo di probabilità — che la città si fosse espansa, almeno verso nord, di qualche centinaio di metri. Priore era il Reverendo Ferdinando De Montesa, spagnolo e residente ‘ex regno’. 23 ASP, Registro, r. 1314, f. 1r. (i fogli dedicati alla visita al Priorato vanno dal 123r. al 157v., anche se andrebbero considerati fino al 172v., includendo le singole ricognizioni alle altre chiese gancie del medesimo Priorato, allegate a quella della chiesa di S. Andrea). 24 ASP, Registro, r. 1305, f. 132v. La somma annuale era di undici once. Opportunamente il regio visitatore chiamò a testimoni alcuni anziani piazzesi, «nobile Andrea Dionisio et Leonardo Candela octuagenarijs nec non nobile Mattheo De Luca septuagenario» affinché attribuissero veridicità a quell’antica tradizione, evidentemente non più accertabile per la mancanza di documenti ufficiali, che prevedeva la presenza di tre sacerdoti e due chierici dell’Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme a presiedere l’ufficiatura del Priorato.


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Proprio perché era in potere del regio visitatore l’emanare «decreti, che diventavano norma e legge del diritto ecclesiastico particolare della Sicilia ed avevano perciò forza esecutiva»25,

i provvedimenti di Monsignor Vento furono ribaditi pochi anni dopo dall’Arnedo: egli infatti documentava come la situazione di ‘vacanza’ non fosse ancora stata risanata, affermando infatti che soltanto due sacerdoti ed un chierico assolvevano ai «ministeria et servitia divini cultus in presentiarum»26 e che, per tanto, era ancora necessario innalzare il numero dei sacerdoti a tre. Inoltre dichiarava che questi ultimi dovevano essere «bone vite et fame et alicuius litterature» ed ancora che tra essi uno fosse maggiore d’età e quindi più autorevole, a cui gli altri erano chiamati ad obbedire, e che «teneantur semper commorari in dicto prioratu et omnes horas canonicas diurnas ac nocturnas singulis diebus decantare ac missam magnam in diebus festivis et dominicis in alijs vero unam aut alteram missam quotidie celebrare»27.

Più avanti nella relazione della visita l’Arnedo registrò la contemporanea presenza dei due messali, «unum gallicum et alium romanum», che attesta la coesistenza di riti ancora osservati nella chiesa medesima, a seconda della provenienza dei ministri28: dato singolare a dimostrazione di come, nono25

P. COLLURA, Le sacre regie visite alle chiese della Sicilia, cit., 446. ASP, Registro, r. 1309, f. 291r. 27 ASP, Registro, r. 1309, f. 291r. Inoltre aggiunse che venissero ripristinati, nel loro numero, tutti i libri necessari al culto secondo la regola osservata e che i ministri si attenessero alla consuetudine di indossare l’abito, poiché, qualora ne fossero stati trovati privi, sarebbero incorsi nelle punizioni canoniche. 28 ASP, Registro, r. 1309, f. 295r. Di certo il rito romano ed il gallicano mostravano delle analogie, se non altro nell’organizzazione della liturgia: «non minus prolixa era Romana Missa, quam Gallicana»: J. MABILLON, De Liturgia Gallicana Libri III. In quibis veteris missae, Quae ante annos mille apud Gallos in usu erat, forma ritusque eruuntur ex antiquis monumentis, Lectionario Gallicano hactenus inedito, & tribus Missalibus Thomasianis, quae integra referuntur. Accedit Disquisitio de Cursu Gallicano, seu de divinorum Officiorum origine et progressu in Ecclesiis Gallicanis. Opera & studio Domini Johannis Mabillon, 26


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stante fosse già in corso il Concilio tridentino, che prescrisse l’esclusivo uso del rito romano, nella diocesi di Catania fino agli anni ’50 del XVI secolo si facesse ancora uso del gallicano accanto al romano (poi pienamente introdotto dagli anni ’60), mentre già alla metà di quel secolo presso la Diocesi di Cefalù v’era stato un pronunciamento ufficiale che proibiva ai Canonici regolari di S. Agostino (la medesima congregazione già a guida del Priorato di Piazza) l’uso del rito gallicano affinché vigesse esclusivamente il romano29; ed è proprio con l’introduzione dal 1570 del messale romano, da lui approvato e fatto pubblicare, che Papa Pio V prescrisse la scomparsa di riti diocesani e consuetudini locali non approvati dalla Sede Apostolica. Vent’anni dopo Monsignor Manriquez era in grado di spendere parole più rassicuranti sulle condizioni di vita e d’osservanza del Priorato: le disposizioni dell’Arnedo erano state puntualmente messe in pratica ed avevano sortito un esito durevole30; riguardo alla vita della comunità, dopo aver ripetuto la necessità che i sacerdoti risiedessero dentro le mura del convento e che non ne uscissero senza permesso, ribadisce che «teneantur mensam et vitam in communi agere»31. L’inevitabilmente sommario elenco del regio visitatore restituisce un rapido ma incisivo affresco della concreta vita conventuale: dispose infatti che per il sostentamento dei religiosi venisse assegnata un’oncia in farina e un ‘cantareo’ di formaggio, ed ancora Presbiteri & Monachi Ord. S. Benedicti è Congregatione S. Mauri., Parisiis, 1729, 187. Sulle specificità del rito romano si veda: L.A. MURATORI, Liturgia romana vetus tria sacramentaria complectens, Leonianum scilicet, Gelasianum, et antiquum Gregorianum edente Ludovico Antonio Muratorio […] ad confirmandam prae ceteris catholicae ecclesiae de Eucharistia doctrinam. Denique accedunt missale gothicum, missale francorum, duo gallicana, et duo omnium vetustissimi romanae ecclesiae rituales libri, Venezia 1748. 29 Cfr. J. DE JOHANNE, Sanctae Panormitanae Ecclesias Canonici, De Divinis Siculorum Officiis Tractatus, Panormi 1736, 408. 30 Aggiunse inoltre che venisse celebrata una messa «feria secunda de requie pro benefactoribus et fundatoribus et sabbatho de beata Virgine similiter cantare nisi fuerint impediti aliquo festo duplici vel solemni et aleas missas lectas dicere»: ASP, Registro, r. 1314, f. 124r. 31 L’espressione «Sanctum et iucundum est fratres habitare in unum»: ASP, Registro, r. 1314, f. 124v., con la quale introdusse alcuni decreti legati alla vita comune dei sacerdoti, riecheggia un versetto del Salmo 132 («Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme»); aggiunse inoltre: «quoniam Deo militantes et residentes in claustris non debet se impedire negotijs exterioribus et saecularibus maxime in emendis necessarijs et faciendis aliquibus servitijs non decentibus religionis»: ASP, Registro, r. 1314, f. 124v.


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quattro once per le spese relative all’ufficiatura della chiesa (in particolare viene specificato apertamente il costo dell’olio per le lampade); un barile di ‘tonnina’ ed uno maiale; dodici once per le minute spese relative ad eventuali malattie, per cui fosse stata necessaria la consultazione di un medico, e per il pagamento del ‘barbitonsiere’; ed inoltre che venissero loro date «omnes et singula medicina, syruppi, et alia necessaria a medicis ordinanda»32. Tra le altre prescrizioni il Manriquez ordinò che nessuno fra i sacerdoti e i religiosi intraprendesse affari, tranne che in «casu urgentis necessitatis et gravis infirmitatis patris et matris fratum et sororem»33 e comunque previa autorizzazione del superiore. Anche il Nostro ribadì l’opportunità che fossero ben reperibili i libri spirituali che elenca, affinché ne fosse garantito l’impiego: «legenda Sanctorum, Regula Sancti Augustini, et opera Fratris Aloysij de Granata, Cathecismus, et Concilium Tridentinum»34;

qui il Manriquez fece forse riferimento all’opera del teologo spagnolo Luis de Granata, Libro delle orazioni e della meditazione (1554), probabilmente indicata come lettura contemplativa35. Dispose inoltre che venissero acquistati

32 ASP, Registro, r. 1314, f. 125r. Venti once annuali dovevano esser date ai canonici ed ai presbiteri per il pagamento dei loro abiti; quattro tovaglie e dodici mappe dovevano essere concesse ai religiosi; ed ancora a ciascuno di essi un materasso di lana con un sacco di paglia, due coperte e lenzuola a sufficienza, un letto con una tavola e uno sgabello. Altre disposizioni poi erano date per il frumento, il vino, il mosto e l’olio di cui potevano disporre i religiosi. 33 ASP, Registro, r. 1314, f. 126r. Più avanti il Manriquez prevede la possibilità di allontanamento temporaneo dal Priorato solo per chi avesse avuto una «causa legitima et rationabili»: ASP, Registro, r. 1314, f. 131r. 34 ASP, Registro, r. 1314, f. 126r. 35 Aloisio da Granada (o Luis de Granada, al secolo Luis de Sarria, Granada 1504 – Lisbona 1588), domenicano, studiò a Valladolid dove assorbì la cultura dell’Umanesimo (si ricordi che presso la stessa città si trovava un priorato del Santo Sepolcro, che forse non gli fu estraneo): tra le tante opere scrisse appunto il Libro de la oraciòn y meditaciòn en el qual se trata de la consideraciòn de los principales misterios de nuestra fe con otras cosas provechosas (Salamanca, 1554), non tanto una spiegazione delle preghiere quanto dello stato spirituale che le accompagna. Cfr. Granata (Fray Luis de), in Enciclopedia Universal Ilustrada, tomo 24, Bilbao 1925, 1042-1046.


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Tancredi Bella «Antiphonarium, Graduale Psalterium duo missalia secundum Concilium Tridentinum et alij libri necessarij pro cantandas missas in dicta ecclesia»36:

venendo meno ogni riferimento al messale gallicano, si evince che la situazione doveva essere stata regolarizzata, col definitivo accantonamento del relativo rito a favore del pieno esercizio di quello romano. Allo stesso modo aveva indicato che venisse ripristinata la sana e devota consuetudine secondo cui sempre «caena et prandium misceatur cum alegria lectione spirituali, et legatur aliquod capitulum de dicta regula, et de dictis libris spiritualitatis»37.

Più avanti nella trattazione disse che andavano procurate anche due «altarettas», o altari portatili, di cui accusò l’assenza in due casi38: non si dimentichi che la possibilità di detenere reliquie in chiesa era già stata concessa, durante il pontificato di Papa Urbano IV, tra i particolari privilegi accordati all’Ordine del Santo Sepolcro e alle sue case; e non va tralasciato inoltre che il Concilio tridentino aveva ribadito, per l’irreprensibilità del culto, che la consacrazione avvenisse su altari contenenti reliquie. La custodia di reliquie presso il Priorato venne però poi a diminuire drasticamente ed infine a cessare se, purtroppo, si è costretti a constatare l’assenza di ogni allusione alla chiesa di S. Andrea nella ricognizione offerta da Placido Carrafa a metà del XVII secolo, ivi appunto mancando reliquie39. Il Manriquez aveva anche 36

ASP, Registro, r. 1314, f. 128v. Alla lettura delle parole del Manriquez sorge, quanto meno, la domanda su quali fossero i testi sacri adoperati per la preghiera corale e la liturgia e — magari — anche il sospetto che essi fossero non tanto da accrescere nel numero quanto da ripristinare ex novo. 37 ASP, Registro, r. 1314, f. 126r. 38 ASP, Registro, r. 1314, f. 134r. Generalmente il possesso di reliquie, usualmente conservate proprio all’interno degli altari portatili, consentiva — sostiene Tramontana — «forme di devozione e di culto come strumento di aggregazione religiosa, politica, sociale, economica, e come interpretazione del mondo e modello di comportamento»: S. TRAMONTANA, Il Regno di Sicilia, cit., 9. 39 La sua opera è largamente dedicata a ripercorrere la storia di alcuni enti ecclesiastici, tra i più insigni di Sicilia, ponendo particolare attenzione al tema della custodia di reliquie sacre (cfr. P. CARRAFA, Sicaniae Descriptio et Delineatio, in qua ulterioris Regni Siciliae Urbes, oppida, littora, qui illam fuerint dominati, templa, Sanctorum Corpora, Archiepi-


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aggiunto che, ove un sacerdote per circa cinquant’anni avesse servito la chiesa con fedeltà e sollecitudine e non avesse potuto più farlo per infermità o anzianità, non bisognava comunque sottrargli il vitto e non si doveva espellerlo dal Priorato, ma anzi assicurargli, finché avesse avuto vita, gli alimenti e il vestiario e tutto ciò che era necessario e conferirgli il privilegio «emeriti militis»40. Prendendo poi al vaglio gli introiti che pervenivano all’ente — a testimonianza della sua ricchezza — dall’ampio patrimonio fondiario, tuttavia topograficamente frazionato in ragione delle successive donazioni e le cui condizioni gestionali erano necessariamente complesse, anche il Manriquez soffermò l’attenzione sulla particolare condizione amministrativa dei mulini, che non potevano essere subaffittati41. Comparando le parti iniziali delle tre ricognizioni emerge con chiarezza quanto accadde alla metà del XVI secolo presso il Priorato (ma il fenomeno — lo si è detto — era più generale); il panorama d’insieme che ne risulta è senza dubbio per molti aspetti disarmante e già indizio di un lento e progressivo declino, da cui il suddetto ente non si sarebbe più risollevato: tra gli ammonimenti del Manqriquez ve n’era stato — ad esempio — anche uno indirizzato ai laici che avevano preso l’abitudine di dimorare o pernot-

scopatus, Episcopatus, Archimandritatus, Abbatiae, Prepositurae, Prioratus, aliaq; memorabilia breviter describuntur, ac delineantur, Palermo 1653). Occorre aggiungere tuttavia che, alla fine dello stesso secolo, Bernardino Masbel diede notizia che la chiesa era retta dal Priore Migliazzo, e ciò permette di datare al tardo Seicento la capsula ricoperta da seta damascena, contenente reliquie, della cui esistenza aveva parlato il De Ciocchis nella sua ricognizione, e che certamente era stata predisposta durante la reggenza del suddetto Priore, dato che incise vi erano su lamina d’argento le sue insegne (cfr. B. MASBEL, Descritione e Relatione del Governo di Stato, e Guerra del Regno di Sicilia, Palermo 1694, 120-129). 40 ASP, Registro, r. 1314, f. 127r. Quest’appellativo faceva esplicito riferimento all’essere ‘miles’: la tradizione dei cavalieri-frati, dei religiosi armati aveva lasciato un segno indelebile. Non sarebbe toccata invece la stessa sorte al sacrestano della chiesa qualora, ultrasessantenne, si fosse trovato nell’impossibilità di continuare il servizio per vecchiaia: sarebbe stato espulso e al suo posto doveva essere assunto un giovane «aptus laboribus et bonae vitae et competentis literaturae». 41 Sette salme di frumento dovevano provenire al tesoriere e depositario come rendita dei mulini e i «conductores et ingabellatores et arrendatarij dictorum molendinorum […] teneantur ad unum maiale seu porcum dandum dictis canonicis seu presbyteris servitiijs dictae ecclesiae dedicatis»: ASP, Registro, r. 1314, f. 129r.


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tare presso il cenobio42. Questo Priorato — come molti altri in Sicilia e nel resto d’Italia — era stato incapace di reagire ai mali che lo avevano investito e portato all’impoverimento e alla perdita di prestigio: nel caso specifico anche a causa della particolarissima vicenda, che lo aveva visto dapprima legato esclusivamente ad un Ordine equestre di Terra Santa, e quindi sottratto a quella giurisdizione (anche per il venir meno dei presupposti originari) ed infine incluso fra i beni ecclesiastici d’amministrazione regia 43: e le disposizioni dei regi visitatori lo confermano.

3. “DE FABRICIS”. LA CONSERVAZIONE DEI MANUFATTI ARCHITETTONICI La lettura delle sacre visite risulta di fondamentale importanza per conoscere la storia del manufatto architettonico. Dalla relazione di Monsignor Vento si apprende come, già prima della metà del Cinquecento, l’edificio chiesastico necessitasse di un primo intervento di ripristino, volto a risanare alcune ingenti lesioni, segno di degrado tuttavia non imputabile esclusivamente alla cattiva amministrazione. Il Vento infatti si limitò solo ad assegnare le singole somme di denaro utili a dette riparazione: cinque once vennero destinate per consolidare le lesioni della fabbrica chiesastica «cum tribus lapidibus fovearum»44. Estremamente più puntuale fu l’analisi del Reverendo Arnedo, così come venne esposta per iscritto nella relazione conclusiva della sua sacra visita. Il Priorato si mostrava bisognoso di riparazioni e restauri in molte parti: 42 Molto probabilmente era accaduto anche questo nel clima di rilassatezza della vita religiosa (cfr. ASP, Registro, r. 1314, f. 129r). Manriquez aveva decretato anche che la correzione dei sacerdoti spettava, in assenza del Priore, al Vicario e comunque al maggiore tra essi, puntualizzando che i laici dovevano astenersene, non essendo materia di loro competenza. 43 «E tale incapacità sembrava più grave per gli antichi e gloriosi cenobi che, proprio per la loro più complessa organizzazione interna ed amministrazione economico-fondiaria, non riuscivano ad adeguarsi ai tempi nuovi»: G. PENCO, Storia del Monachesimo in Italia. Dalle origini alla fine del Medioevo, Milano 1983, 298. 44 ASP, Registro, r. 1305, f. 133r. (dallo stesso foglio sono ricavate le altre citazioni riportate in seguito); ed ancora altre cinque once vennero destinate a «magistro Juliano La Greca et magistro Johanne Di Amuri», che probabilmente avevano ricevuto l’appalto dei lavori.


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«in primis quod terminetur tectum navis ecclesie. Item quod reficiatur et restauretur tectum ale dextere ipsius ecclesie»45.

I più ingenti danni erano quindi riscontrabili nella copertura dell’aula unica che costituisce la nave della chiesa, così come del transetto destro, dove appunto andava ultimato e restaurato il tetto a capriate lignee; andavano poi rifatte «cappelle lateris sinistri et dextris ipsius altaris maioris». Inoltre non erano ancora state sanate le lesioni riscontrate quindici anni prima da Vento: l’Arnedo le registrò nuovamente, localizzandone primariamente una «magna que est in muro ianue parve ipsius ecclesie», e ne ordinò il consolidamento. Una porta nuova infine, da realizzarsi in legno pregiato e resistente, occorreva per un portale laterale della chiesa (non meglio specificato): ed andava restaurata altresì la grande porta «que respicit septentrionem». L’Arnedo inoltre antepose, ad altri interventi, il completamento del campanile, che pertanto — con maggior attendibilità — è possibile effettivamente datare alla metà del XVI. Per ciò che concerne l’arredo della chiesa, occorreva introdurre una nuova acquasantiera e comperare due nuovi lampadari bronzei per l’altare maggiore e per quello dedicato a S. Andrea; andava restaurato il pulpito, di cui si ignora tanto l’ubicazione quanto i materiali costruttivi, che andava comunque reso più funzionale ai movimenti richiesti durante le celebrazioni; bisognava inoltre realizzare un sobrio coro ligneo presso l’altare maggiore, per una più decorosa esecuzione delle liturgie e per favorire i presbiteri nella recita delle ore canoniche ed andava inoltre procurato un buon armadio — di modeste dimensioni e foderato in seta — da collocare presso la sacrestia piccola46.

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ASP, Registro, r. 1309, f. 291v. (dal medesimo foglio sono tratte le seguenti citazioni, fino a nuova indicazione). Ed ancora — «iuxta evidentem necessitatem» — andava restaurata urgentemente la porzione di copertura — che il visitatore appella ‘dammuso’ — sovrastante l’altare maggiore. 46 Doveva essere ubicato nel posto in cui, fino a quel momento, erano state decorosamente riposte le reliquie, che in esso andavano pertanto custodite, entro una teca argentea o d’avorio. Andavano inoltre poste nuove lapidi a chiusura di alcune sepolture, probabilmente in grave dissesto ed — in ultimo — era necessario procurare uno strumento per la realizzazione delle ostie.


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Nell’attiguo convento andavano ristrutturate due celle, chiamate «dilo priore» e, vicino ad esse, nei pressi della «sala magna superiorj», ne andavano ricavate altre due, dove potessero più comodamente alloggiare i ministri della chiesa; bisognava inoltre allargare l’apertura della scala. Il cenobio era quindi articolato quanto meno su due piani, era abbastanza ampio (tanto che non di celle si parlava, ma di ‘camere’) ed, in secondo luogo, possedeva una sala, vale a dire un capitolo o un refettorio47. Andava portata a termine la pavimentazione della «sala superioris», in parte forse da rifare ex novo, affinché «sit equale per totum»48. Le mura perimetrali del convento, specialmente nei pressi delle celle di più recente edificazione, andavano — almeno all’esterno — rifatte e imbiancate con calce, per non esser eccessivamente sottoposte all’usura degli agenti atmosferici. Preziose sono tali informazioni perché permettono di immaginare — anche se sommariamente e molto in generale — quale fosse l’estensione e l’articolazione degli ambienti che costituivano il complesso conventuale, di cui oggi nulla rimane49. L’estrema accuratezza della descrizione dell’Arnedo risultò parecchio utile a monsignor Manriquez che, non molti anni dopo, introdusse la propria relazione asserendo che le strutture murarie della chiesa e del convento necessitavano, in molte parti, di interventi di restauro e che questi sarebbero dovuti avvenire con puntualità e scrupolo, secondo quanto «per quondam

47 A riguardo cfr. N. DE MARI, L’architettura monastica, in G.M. GRASSELLI – P. TARALLO (curr.), Guida ai monasteri d’Italia, Casale Monferrato 1995, 59-62. 48 ASP, Registro, r. 1309, f. 292v. (anche le altre citazioni, fino a nuova indicazione, vengono tratte dalla medesima pagina). L’Arnedo parla in realtà di ‘domus’, termine tecnico con cui venivano genericamente individuate le sedi realizzate e utilizzate dalle Congregazioni — come in questo caso — per i propri religiosi. 49 Di certo buona parte di esso doveva svilupparsi non sul lato meridionale della chiesa (cfr. S. BOTTARI, L’architettura della contea, cit., 20), bensì attorno al versante settentrionale, in concomitanza del piccolo ingresso del braccio sinistro del transetto, sormontato da una finestra di non anguste dimensioni, che serviva probabilmente da raccordo tra la canonica e la chiesa e a cui si accedeva forse tramite un soprelevato camminamento esterno — verosimilmente ligneo — di cui rimangono, sul perimetro esterno del muro sinistro della nave, alcune mensole in pietra che dovevano costituirne i sostegni. Non diversamente poteva essere, data la configurazione topografica del versante meridionale della chiesa, in forte declivio.


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Reverendissimus de Arnedo fuerunt multa ordinata et non adimpleta»50. Innanzitutto ordinò che venisse colmata la «cisura magna», che si trovava nel muro del portale minore — non meglio identificabile, quindi — così come «omnes alia cisura». Un intervento particolarmente oneroso era il consolidamento dell’«angulus ipsius ecclesiae subtus portam parvulam»51, volto ad oriente, che andava pertanto rifatto onde evitare «maximum periculum et damnum quod evenere possit totius parietis». Confrontando la descrizione del Manriquez con lo stato attuale del monumento è possibile offrire un’interpretazione della sua indicazione: se del lato della chiesa che volge ad oriente si sta parlando, esso non può che essere identificato con l’unico rivolto verso sud-est, dove sono due discrepanze sulla parete, analoghe a quella sovrastante il portale del braccio sinistro del transetto52. Per quanto riguarda il cenobio, ribadì la necessità di un intervento sul tetto della ‘sala magna’, che era stato «male confectum» e andava di conseguenza ripristinato con tavole di buon legno e con la perizia di un «optimum fabrum»; stabilì che venisse colmata una grande crepa «existentis in campanario»53, corpo di fabbrica che era stato quindi già eretto ma forse malamente, se dopo pochi lustri era già lesionato. Il Manriquez concluse il suo lungo elenco con una notazione che ne palesa la scrupolosità: decretò infatti che gli addetti alle riparazioni delle strutture murarie della chiesa, ai quali fosse rimasto ancora del giudizio ed una sana prudenza, «semper incipiant a rebus magis necessarij». Un passaggio di straordinaria importanza — che si è voluto appositamente menzionare per ultimo — è quello relativo alle regole d’uso dei 50 ASP, Registro, r. 1314, f. 131v. Successivamente ribadì l’opportunità dell’intervento sul ‘dammuso’ sovrastante l’altare maggiore, che «tendit ad ruinam»: ASP, Registro, r. 1314, f. 132r., e che venissero restaurate porzioni di copertura delle ali sinistra e destra della chiesa, da intendersi, anche questa volta, come i rispettivi bracci del transetto. 51 ASP, Registro, r. 1314, f. 132v. (anche le altre citazioni immediatamente a seguire sono tratte da questo foglio). 52 La prima di esse è sita a circa un metro e mezzo dall’angolo con la facciata ed è una vera e propria discrepanza ‘magna’ (perché si estende dallo spiovente del tetto fino a quasi un metro da terra); la seconda — molto meno marcata — è posta sul muro del portale del braccio destro del transetto più o meno all’angolo sud-ovest. Ribadisce inoltre che andava posta anche un’«arca parva argentea sive eburnea in qua reponantur reliquia» all’interno della chiesa. 53 ASP, Registro, r. 1314, ff. 133r. e v. (dai medesimi fogli le altre citazioni).


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«viridarium et clausura arborata»54 attigui al Priorato, che andavano recintati da muri: il chiostro ed il giardino — resta da accertare se fossero la medesima cosa oppure due spazi concomitanti — dovevano esser lasciati liberi pro «usu ipsius ecclesia sacerdotum seu canonicorum» (che vi potevano quindi trascorrere le ore di meditazione personale o di riposo), mentre ne andava precluso l’accesso alla gente comune «ad evitandam conversationem laicorum». Da quanto detto si può concludere che il plesso cenobitico era probabilmente semplice ed essenziale nella configurazione, ma coordinato e completo in tutte le sue parti: prevedeva infatti l’ampliamento dei dormitori e le chiare espressioni dei visitatori lasciano immaginare che altrettanto respiro fosse dato al refettorio, ad un probabile capitolo e comunque all’estensione delle aree destinate alla conduzione della vita in comune, senza considerare inoltre le esplicite allusioni — qui esposte in battuta finale — agli spazi all’aperto. Eppure del probabile refettorio andavano già restaurate la pavimentazione e la copertura lignea, e altri interventi erano ormai necessari alla scala e al perimetro murario esterno, segno che, se da un lato la vita comunitaria era ancora fiorente e richiedeva che le strutture abitative vi si adeguassero, dall’altro però il degrado delle medesime era già iniziato, probabilmente perché nel quadro della rilassatezza già detta decadeva anche la corretta manutenzione degli immobili.

54 ASP, Registro, r. 1314, f. 132v. (le altre citazioni sono tratte dallo stesso foglio). Si trattava — forse — dell’usuale chiostro, normalmente cuore dei ogni complesso conventuale: si ignora però se la configurazione fosse quella tradizionale, col pozzo al centro e le aiuole e col fabbricato gravitante attorno (cfr. N. DE MARI, L’architettura monastica, cit.). Con maggiore probabilità il visitatore faceva riferimento invece ad una porzione di terreno, collocata dentro le mura del complesso conventuale, destinata alla coltivazione di verdure, ortaggi e frutta per l’uso della comunità. Certamente questo spazio, quand’anche non fosse stato chiaramente circoscritto sotto il profilo architettonico, accresceva comunque l’estensione topografica del complesso. Il Manriquez decretò che «nullo modo permittatur liber usus pascendi animalia in dicta clausura»: ove ne fossero stati trovati all’interno, sarebbero stati sequestrati.


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4. “REDDITUS”, “PROVENTUS” ED “EXITUS”. CRONACHE SOCIALI E BILANCIO DEL PRIORATO Rapidi accenni, estrapolati dai lunghi registri dell’Arnedo e del Manriquez e contenenti gli introiti che il Priorato fruiva dai propri possedimenti, offrono un panorama della ricchezza e della complessità delle relazioni economiche sviluppatesi attorno all’ente ed anche sommarie notizie circa le uscite che esso doveva sostenere per amministrarsi. Il Reverendo Arnedo riferisce inizialmente le tasse pagate al Priorato dai fondi di sua pertinenza, siti nei pressi delle città di Piazza e di Butera e in altre contrade; di ognuno di essi menziona il momentaneo usufruttuario55. Molti proprietari terrieri e possidenti di Piazza erano soggetti al pagamento di contributi annuali al Priorato e l’Arnedo, di ognuno dei beni immobili (case, magazzini, cortili, giardini, orti, vigne, terre, chiuse, etc.), riferisce l’ubicazione ed i canoni versati56. Molteplici e di diversa estrazione erano i soggetti obbligati al Priorato: tra essi altri enti ecclesiastici57 o civici: l’ospedale di Piazza, ad esempio, versava un ‘tareno’ per una casa di cui fruiva nel quartiere di Santa Maria. La somma di tutte le entrate — considerando anche quelle provenienti da Lentini e Adernò — era di 184 once e 109 salme annuali. Per quanto concerne le uscite, inizialmente l’Arnedo si riferisce al «donativo regio ordinario» — somma che ogni ente ecclesiastico, sotto 55

Interessante è conoscere i proventi dei tre mulini: quello denominato ‘di Santo Andrea’ versava 44 salme annuali di frumento; quello ‘di Larmi’ — o ‘di li armi’ — versava 41 salme annuali ed il piccolo — ‘lo molinello’ — solo 9. Ciò attesta come tutti i mulini fossero — all’epoca — in attività (cfr. ASP, Registro, r. 1309, f. 296r.). 56 ‘Andreas De Triolo’, per una casa nel quartiere Castellina, pagava due tareni annuali; ‘Juliano de Lamoro’, per un ‘catodio’ nel medesimo quartiere, pagava un tareno; ‘Franciscus de Criximiano’ versava annualmente dodici tareni per un ‘magazeno’ e tre tareni per un altro deposito versava il signor ‘De Lauria’; cinque tareni erano versati dal signor ‘Satariano’ per la fruizione di una casa nello stesso quartiere. ‘Marcus de Bonura’ versava un tareno per l’affitto di un ‘viridario’ sito in contrada Sant’Andrea così come ‘Thomeus de Farinato’ versava cifre decimali per una vigna in contrada Rambaldo. Il signor ‘Gagliolo’ versava due tareni per una terra affittata in contrada Monte e ‘Petrus lo Segio’ versava due tareni per una ‘clausura’ vicino al fiume Jozo (cfr. ASP, Registro, r. 1309, ff. 296v. e seguenti). 57 ‘Soror Catherina de Calaxibetta’ versava due tareni annuali per una casa — forse di religiose — affittata nel quartiere di Santa Maria (cfr. ASP, Registro, r. 1309, f. 297r.) così come il ‘clericus Roccus Calandra’ versava alcune quote decimali per una vigna sita in contrada ‘di Piano Armerino’ (cfr. ASP, Registro, r. 1309, f. 299v.).


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diritto di regio patronato, doveva annualmente al fisco della corona — che era di sette once58. Il quadro d’insieme riferito da monsignor Manriquez nel 1576 conferma la preminenza dell’ente, cui afferisce ancora una parte della fervente economia della città e del territorio; si osservi inoltre il marcato aumento della ricchezza del Priorato, conseguente alla maggiore produttività del patrimonio fondiario59. È anche interessante esaminare l’elenco di coloro che fruivano, nella città di Piazza e nel contado, di proprietà terriere vincolate al Priorato: se il signor ‘Philippus Pizuto de Chiazza’ fruiva di una terra in contrada ‘Santo Andrea’, attigua alla via pubblica posta sotto il Priorato, già all’epoca doveva esserci una strada tangente l’ingresso principale di esso60; si evince altresì che il circondario era tutto allocato e, se ‘Francisca de Arrigo’ godeva in affitto di una vigna in contrada Sant’Andrea, confinante con quella ‘delli frati di Santo Francesco’, si arguisce che nell’area in esame il Priorato non era l’unico insediamento ecclesiastico. Tutti gli introiti fruttavano 376 once annuali (per oltre 120 complessivi censualisti), notevolmente più elevata rispetto a quella registrata non molto tempo prima dall’Arnedo e ciò indicava quindi un sensibile accrescimento della ricchezza dell’ente61. In rapporto era però aumentata anche 58 ASP, Registro, r. 1309, f. 302v. Analoga cifra era però spesa dal Priorato come contributi straordinari alla Corona. Per le riparazioni delle strutture murarie si spendevano poi circa due once ed altrettante necessitavano per il salario del cappellano della chiesa di S. Andrea a Lentini. La somma di tutte le spese era di circa 20 once. 59 Il feudo ‘di Gallinica’ non versava più 70 once annuali bensì 120 e 2 cantarei di formaggio (anch’essi quindi lievitati rispetto a quanto registrato dal precedente visitatore); anche il feudo di ‘Rantimemi’ aveva visto accresciuta la sua gabella, passata da 70 a 160 once annuali; il feudo ‘della Frattula’ versava adesso 30 once (contro le 12 dei vent’anni prima); il territorio ‘della Chiappa’ aveva visto raddoppiate le imposte (12 once); da Butera provenivano 8 once (e non più 2). L’elencazione potrebbe continuare, senza considerare i proventi dei mulini: i tre maggiori (di ‘Santo Andrea’, ‘di li armi’ e ‘lo mulinello’) versavano 110 once annuali, cifra in questo caso rimasta più o meno costante, così come la produzione (cfr. ASP, Registro, r. 1314, f. 139r.). 60 Cfr. ASP, Registro, r. 1314, ff. 140r. – 142r. Il signor ‘Joan Paolo Candelia’ rivelava di fruire di una vigna con alcune terre ‘vacue’ e una casa ‘sderrupata’ in contrada Vallone. Alcuni di tali soggetti erano anche di estrazione sociale elevata: il ‘juris doctore Pietro d’Argento’ aveva in affitto in contrada Sant’Andrea, nei pressi del Priorato, un giardino ‘con flumara e terri vacui’ e versava annualmente quattro once. 61 Senza considerare che ad essa andava ancora aggiunto l’annuale gettito in frumento pari a 123 salme, più 2 cantarei di formaggio, 2 maiali e 2 salme di mosto.


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la spesa cui doveva far fronte il Priorato: per la riparazione delle strutture murarie e per il ripristino delle suppellettili sacre — iniziative che questa volta il Manriquez menziona come da privilegiarsi — andavano utilizzate annualmente 24 once62. Le tasse a favore della corona erano esatte dal percettore del Val di Noto per il Tribunale del Real Patrimonio, ‘Cesare de Bologna’, ed ammontavano a 29 once annuali63. Di singolare interesse sono le voci riguardanti le uscite del Priorato: per l’olio, la cera e lo stipendio del cappellano della chiesa di S. Giorgio a Butera erano state spese in media due once (il che attesta come la chiesa, fino alla fine del XVI secolo, fosse ancora officiata); analogo discorso può esser fatto per la chiesa di Santa Maria di Piazza Vecchia, cui erano destinate due once per la riparazione degli edifici, quattro per lo stipendio del celebrante e due per l’olio e la cera, così come un’oncia era devoluta alla chiesa di S. Agata per gli interventi sulle strutture murarie e due per lo stipendio del cappellano. La somma complessiva delle uscite del Priorato ammontava a 535 once: era aumentata pertanto la prosperità ma, in rapporto, si erano anche moltiplicate le spese; se la ricchezza netta dell’ente si era avviata verso una sostanziale ripresa (grazie agli introiti esterni), il cattivo governo e l’uso poco oculato del patrimonio l’avevano già pesantemente resa deficitaria. La grande varietà delle proprietà citate, delle contrade ove insistevano e delle condizioni d’usufrutto ben restituisce l’intensa economia che si articolava alla metà del XVI secolo; parimenti sono motivo d’interesse i nomi dei soggetti menzionati come a vario titolo in rapporto con l’ente, i quali evidenziano quanto eterogenea fosse la popolazione della città, ove avevano convissuto nei secoli precedenti — e forse anche allora — genti di provenienza anche largamente extraisolana64. 62 Altre 29 servivano per lo stipendio del servo e il vestiario dei canonici e dei sacerdoti; 21 once (ripartite in 10 per il frumento, 7 per il mosto, una per il formaggio, una per la ‘tonnina’, una per i legumi e una per la carne di maiale) necessitavano per il vitto dei canonici. 63 Esse erano ripartite su varie voci: donativo regio, contribuiti alle fabbriche del Regno, contribuiti all’edificazione dei ponti e palazzi, al mantenimento dei feudi, delle galere, etc.: un vero e proprio salasso, a cui era necessario aggiungere la somma straordinaria — da versare una volta ogni tre anni — di 1100 once. 64 Si considerino nomi come ‘Aurelius de Messana’, ‘Bartolomeus de Claramonte’, ‘Helisabet de Cathalano’, ‘Andreas de Cremona’ e ‘Lodovicus de Inserra’. E il Manriquez


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5. LE ‘GANCIE’ DEL PRIORATO DI S. ANDREA Quasi nulla più resta oggi delle chiese legate nei secoli al Priorato di S. Andrea, che devono la loro fortuna e talora anche una relativa fama proprio all’essere state assegnate alla giurisdizione del prestigioso ente, e pochissimo si sa pure della genesi, delle vicende e dei connotati storico-artistici di esse, verosimilmente valide entità nel loro contesto territoriale. Per l’«Ecclesia Sancti Andree Civitatis Leontini grangeam et suffraganeam prioratus Sancti Andree Civitatis Platie» Arnedo, sin dalle prime battute, prescrisse alcuni interventi di urgente esecuzione65. Per ciò che concerne il manufatto architettonico decise che fosse ampiamente restaurata la «cappella seu tribuna», che presentava alcune crepe, a causa delle quali «tempore pluvie distillat», ed inoltre che venisse creato un sostegno per reggere il quadro posto sull’altare, consolidandone il retro per mezzo di tavole di legno: questo genere di notizie, come altre, mostra la perizia del regio visitatore che, dopo aver localizzato un determinato problema, ne proponeva anche la soluzione, in questo caso suggerendo il metodo di intervento che concretamente bisognava applicare. Anche presso questa chiesa — come si era visto accadere al Priorato — s’era insinuata una certa corruzione dell’amministrazione come dei costumi ed era pertanto necessario procedere analogamente a quanto si era già fatto a Piazza, onde l’Arnedo diede anche disposizioni su una più corretta gestione della chiesa; prescrisse inoltre la puntuale e immediata registrazione dei redditi percepiti direttamente dalla chiesa nonché dei giogali e delle suppellettili sacre66. Più canonicamente schematica è invece la ricognizione del Manriquez sulla stessa chiesa di Lentini67; per quanto riguarda la conservazione delle riferirà di ‘Antonio Zebedeo’, ‘Jacopo Antiochia’, ‘Alberto di Solonienda’, ‘Symon Lo Blanco’, e di ‘Margarita La Pisana’ moglie di ‘Joanne Pisano’. 65 ASP, Registro, r. 1309, ff. 303r. – 304v. (dagli stessi fogli sono tratte le altre citazioni presenti nel testo). Senza effettuare distinzioni per materia, ordinò in primo luogo che venisse procurata una «casula ex damasco rubeo vel albo et pallio ex eodem damasco», da utilizzare durante le funzioni, che venissero acquisite alcune nuove stole coi relativi manipoli di seta ed in generale che venisse rinnovato il vestiario sacerdotale. 66 «Ad perpetuam custodiam ipsius et memoriam»: il documento doveva essere autentico e da realizzare entro un mese, pena una multa di cinquanta once da versare al fisco regio. Al sacerdote «bone vite et fame» erano destinate annualmente due once. 67 Effettuata il 16 ottobre dello stesso 1576: cfr. ASP, Registro, r. 1314, ff. 158r. – 160v.


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costruzioni il visitatore decretò che venisse restaurata la malconcia copertura della chiesa con nuovi elementi lignei e successivamente «cooperiatur ex regulis» — cioè non in maniera approssimativa ma a regola d’arte — e similmente che fossero riparate le porte e le entrate. Dovevano essere inoltre approntati un’acquasantiera in pietra ed ancora due corporali, quattro ‘purficatoria’ e una cassetta lignea ove riporre i giogali della chiesa. Nonostante l’incuria dell’amministrazione ancora molti erano gli ornamenti sacri di questa gancia, di cui il Manriquez offre una inestimabile descrizione che ne riporta in vita il tenore: pezzo notevole era un «linzolo di tela quarnito con suoi fronze di cottuni brevi quale sta adietro del crocifixo» ed è doveroso domandarsi se si stia parlando di un crocifisso portatile — da altare — o piuttosto di una croce a muro, di maggiori proporzioni68. Dall’affresco proposto dai dei due regi visitatori ben risulta il tenore — ma pure l’incalzante declino — della più importante gancia del Priorato69. (dai medesimi fogli vengono tratte le altre citazioni seguenti). Assegnò in primis cinque once — e non più soltanto due — come stipendio del cappellano che era tenuto a celebrare la messa tutte le domeniche, i giorni festivi ed il sabato per la «beata et gloriosa virgine Maria», tranne che non coincidesse con una solennità; la celebrazione doveva terminare con l’orazione: «et famulos tuos papam regem nostrum Philippum, et Reginam cum prole regia, Priorem et famulos tuos ab omni adversitate custodis, per Dominum Nostrum». 68 Ed ancora vi era una cassa «inante Santo Andrea», che testimonia la presenza di una statua o di altra raffigurazione del Santo cui era dedicata la chiesa (perduta). 69 Vito Amico precisa l’ubicazione topografica di un’omonima chiesa, posta ad occidente, presso il colle Evarco vicino Lentini dove, mentre viveva ancora S. Francesco, i «Minores Conventuales […] sub Honorio III., MCCXXVI. monasterium excitarunt prope S. Andreae cryptam», laddove con il termine ‘cryptam’ si deve intendere una grotta: si parla infatti di chiesa rupestre. La sua fondazione sembra quindi da attribuirsi ad un periodo precedente il 1226 (cfr. V. AMICO, Lexicon Topographicum Siculum, in quo Siciliae Urbes, Opida, cum vetusta, tum extantia, Montes, Flumina, Portus, adiacentes Insulae, ac singula Loca describuntur, illustrantur, tomo I Vallis Neti, parte II, Palermo 1757, 349). Di ‘chiesa rupestre’, per identificare quella di S. Andrea, parla anche Aldo Messina, il quale avvalora tutto ciò che, già dall’Amico, si è appreso circa la nascita e la storia della chiesa; ne parla come di una ‘grotta’, «una chiesa rupestre di cui si è persa ogni traccia» (cfr. A. MESSINA, Le Chiese rupestri del siracusano, per ‘Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici. Monumenti 2’, Palermo 1979, 51, 16). L’Amico aggiunge che dall’anno 1723, poco sotto l’originaria ubicazione, era sorta una chiesa di più bell’aspetto ed inoltre che «hinc Monasterio S. Andreae de Platia Ordinis S. Augustini ab Adelasia Comitissa assignatam anno MCXXVI». I Minimi di S. Francesco di Paola possedettero quindi alle pendici dello stesso colle Evarco, nel 1594, una antica chiesa di S. Andrea Apostolo, che la contessa Adelasia aveva assegnato


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‘Di Piazza Vecchia’ era nominata dal popolo la chiesa di Santa Maria a Piazza, anch’essa gancia del Priorato70; e il Manriquez è l’unico regio visitatore che, oltre ad accennarne l’esistenza, ne abbia anche approntato un rapido esame. La situazione di cui prese visione non era — neanche in questo caso — delle più rassicuranti: nella chiesa non veniva più osservato il culto divino, non erano celebrate le messe e il «locus habetur pro derelicto» anche se «in dicta ecclesia est maxima populi devotio et pietas»71, chiaro segnale di come, pur nell’imperante trascuratezza, non fossero assolutamente venute meno la fede e la religiosità del popolo e la frequentazione di questa chiesa, forse per la devozione ad un’effigie mariana. In ultimo il Nostro assegnò due once per l’accrescimento delle suppellettili sacre e per le spese di riparazione della struttura chiesastica, che necessitava quindi, già alla fine del XVI secolo, di interventi di restauro, seppur non troppo ingenti data l’esigua somma assegnata72. nel 1126 al Priorato di S. Andrea di Piazza. Probabilmente essa rovinò in seguito ad un terremoto, «cum adnexis claustris, nobilius instaurata urbi elegantiam acquirit», e quindi il quadro assume connotati più chiari e compiuti (cfr. ibid., 349-350). L’esistenza della suddetta chiesa è riscontrabile in una raffigurazione della città di Lentini, realizzata da anonimo al termine del XVI sec.: ai piedi del colle Evarco è rappresentata una chiesa di “S.to Andria” (cfr. L. DOUFOUR - H. RAYMOND, 1693: Val di Noto. La rinascita dopo il disastro, Catania 1994, 9293; E. DOTTO, Disegni di città. Rappresentazione e modelli nelle immagini raccolte da Angelo Rocca alla fine del Cinquecento, Siracusa 2004, 35,58,70,78). 70 Il Santuario di Piazza Vecchia occupa l’aera dove si ergeva un tempo la basilica dedicata a Santa Maria delle Vittorie, costruita in epoca normanna (cfr. L. VILLARI, Storia Ecclesiastica della città di Piazza Armerina, cit., 33). L’attuale complesso architettonico può esser considerato «il risultato di stratificazioni costruttive realizzate su un precedente impianto triabsidato»: A. CONTRAFATTO (cur.) Architettura religiosa a Piazza Armerina, cit., 78-79, di epoca verosimilmente bizantina. La chiesa di ‘S. Mariae Veteris’, conosciuta altresì come S. Maria di Piazza Vecchia, viene citata anche tra le chiese, in diocesi di Piazza, che versavano le decime alla diocesi catanese, negli anni tra il 1275 e il 1280, e lì viene menzionata subito prima di quella di S. Andrea (cfr. P. SELLA [cur.], Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, cit., 79). 71 ASP, Registro, r. 1314, ff. 167r. e v. La visita ebbe luogo l’ultimo giorno del giugno 1576. Il Manriquez stabilì che venisse ripristinata l’ufficiatura e che la messa si celebrasse nelle domeniche e nei giorni festivi; decretò altresì che lo stipendio del sacerdote fosse di quattro once, del chierico di un’oncia così come un’altra oncia andava spesa per l’olio delle lampade e la cera. 72 È opportuno annotare che oggi essa è l’unica ancora esistente tra le anzidette chiese di pertinenza del Priorato.


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Utilissime sono altresì le visite del Manriquez alle chiese di S. Agata, «existens in civitate Platiae», e di San Giorgio a Butera, anch’esse gancie del Priorato73. La situazione della prima — per quanto riguarda l’ufficiatura — era analoga alla precedente e pertanto il Nostro decretò che almeno venisse stabilito un giorno settimanale in cui celebrare la S. Messa; un’oncia destinò alle riparazioni della fabbrica e per l’arredo sacro. Non doveva essere quindi cospicuo il danno materiale del manufatto architettonico, anche se di ciò è possibile nutrire seri dubbi, tanto più avvalorati dal fatto che nei secoli successivi esso andò così in rovina da scomparirne ogni traccia; pertanto il suo degrado doveva essere, all’epoca del regio visitatore, già in serio stato d’avanzamento. La seconda, «distans a terra Vuterae per unum milliare», era quindi notevolmente decentrata rispetto all’abitato, una chiesetta di campagna, per dimensioni simile a una cappella: di essa oggi non resta più alcuna traccia, nemmeno il toponimo74. Il contesto osservato dal visitatore era talmente compromesso e la vita religiosa della chiesa era decaduta a tal punto che — con rassegnazione, verrebbe da aggiungere — il Manriquez ne decretò la destituzione da ogni ufficio e dal connesso diritto di percepire direttamente proventi: a causa del suo miserrimo stato non era più ragionevole «fabricari reparari nec restaurari». Nonostante il degrado v’era tuttavia la volontà di preservare ancora questo bene da ulteriore rovina, dato che vantava un rapporto privilegiato con il Priorato di S. Andrea, in quanto donato con lo stesso diploma del 1148 del conte Simone Aleramico: il Nostro decise

73 ASP, Registro, r. 1314, ff. 168r. – 169v. (dagli stessi fogli sono tratte le altre citazioni a seguire). La visita alla prima avvenne nello stesso giorno della precedente; presso la seconda il Nostro si era recato invece il 18 aprile dello stesso anno. La chiesa di ‘S. Agathae in Platia’ è menzionata anche nel diploma di donazione del conte Simone (cfr. C.A. GARUFI, Gli Aleramici e i Normanni in Sicilia e nelle Puglie, cit.). 74 Anche per questa chiesa è possibile immaginare un diretto rapporto con la Terra Santa per via della sua probabile origine greca: i sovrani normanni avevano avuto infatti interesse a sostenere l’espansione della chiesa latina in regioni — il sud Italia e la Sicilia in particolare — per lo più di rito greco. In questo progetto di latinizzazione del meridione si inseriva la strategia di donare chiese, originariamente legate al mondo greco, a congregazioni di Terra Santa sorte sotto il Patriarcato Latino. Cfr. G. BRESC BAUTIER, Les possessions des églises de Terre Sainte en Italie du Sud (Pouille, Calabre, Sicile), in Roberto il Guiscardo e il suo tempo. Atti delle prime giornate normanno-sveve (Bari, 28-29 maggio 1973), Bari 1975, 24-25.


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pertanto che fossero ripristinati e sprangati tutti i portali della chiesa75, «ne detur aditus animalibus» né divenisse luogo di «sordidos usus». Contraddittori appaiono comunque alcuni provvedimenti del Manriquez: doveva essere risollevata la croce della chiesa (probabilmente inclinatasi)76, quasi a volerne garantire la sacralità ed una parvenza di decoro, eppure bisognava erigere un altare nella chiesa madre di Butera, che fosse «sub invocatione dicti Sancti Georgij» (come a sancirne l’impossibilità di culto presso il derelitto sito) e in tale altare bisognava continuare ad osservare il culto, secondo il rituale che era venuto meno nella primigenia chiesa; il Reverendo Vicario della terra di Butera doveva celebrarvi messa in un giorno da stabilire e sempre presso lo stesso altare si doveva porre una «imago et figura dicti Sancti», una tela o più verosimilmente una composizione plastica77. Questo restava quindi di due notabili chiese che così vedevano ridotta o annullata la loro funzione e che pertanto ancora breve vita avrebbero avuto, passando prima all’incuria definitiva e all’oblio ed infine — non si sa quando con precisione — scomparendo materialmente. Oggi pare non ne rimanga traccia alcuna e forse solo improbabili scavi potrebbero localizzarne con esattezza i siti, per cui davvero preziose sono queste note del Manriquez, quasi un ultimo respiro di due singolari edifici chiesastici.

6. LA SANCTA REGALIS VISITATIO DI GIOVANNI ANGELO DE CIOCCHIS Di notevole importanza fu anche la ‘sancta regalis visitatio’ effettuata dal ‘regio visitatore’ Giovanni Angelo De Ciocchis nel 174378. Pur coi suoi limiti impliciti, dovuti anche al taglio particolare dell’esposizione e ad errori dello stesso autore, la dettagliata e scrupolosa ricognizione — ultimo inventario dei cospicui beni del Priorato — si sviluppa attorno ai consueti nuclei 75 Ed anche in questo caso usa il plurale «portae», il che lascia intendere che la chiesa fosse di dimensione tale da avere più d’un ingresso. 76 Ove sia corretta l’interpretazione di quell’«erigatis» (cfr. ASP, Registro, f. 1314, f. 169r.). 77 Quest’altare, presso la chiesa madre di Butera, era quindi un prolungamento dell’attività di quella chiesa, di cui la cattiva amministrazione e il clima di corruzione avevano favorito il collasso. 78 G. A. DE CIOCCHIS, Sacrae Regiae Visitationis per Siciliam, cit.


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tematici: innanzitutto analizza la storia dell’ente, in secondo luogo passa in rassegna i beni immobili del Priorato e quelli mobili, infine sottolinea lo stato conservativo e ne consiglia talora una più lungimirante manutenzione e salvaguardia. Notevoli le indicazioni riguardo ai restauri sulla fabbrica e circa il cenobio: «Ecclesiae adiacet antiquum Coenobium, cuius adhuc existunt nonnullae cellae»79; nel 1743 esistevano quindi porzioni considerevoli del cenobio, probabilmente ancora usualmente abitate. Il De Ciocchis descrisse l’arredo liturgico della chiesa con dovizia di dettagli e soffermò per un attimo l’attenzione sulle «Sacrae Reliquiae», patrimonio del Priorato che un secolo di presumibile malgoverno e di mancato controllo avevano ulteriormente dilapidato e tuttavia non totalmente disperso: tra esse emergeva «Reliquia S. Andreae in manu argentea. Item plures aliae reliquiae, quae osservantur in capsula cooperta ex serico damasceno cum veste ex corio instructa in lamina argentea stegmate Prioris Migliaccii»80.

Assai utile è l’esaustiva ricognizione delle suppellettili sacre della chiesa e a riguardo occorre sottolineare come i singoli epiteti — in merito alla vetustà di realizzazione, allo stato di usura e talora al degrado — attribuiti a molti oggetti dallo stesso De Ciocchis (come pure dai predecessori) offrano pertinenti e — in mancanza d’altro — preziosi suggerimenti per l’inquadramento storico-artistico dei singoli manufatti. Va rilevato che le locuzioni ‘all’antica’ ed ‘all’antica assai’ — più volte utilizzate dal Nostro per qualificare determinati oggetti da valorizzare maggiormente rispetto ad altri, italianizzazione degli analoghi termini latini utilizzati dai predecessori — ne inquadrano in maniera attendibile l’esecuzione all’interno dei secoli basso-medievali. La chiesa possedeva quindi un ricco patrimonio e taluni oggetti menzionati come ancora in uso nel 1743 (fra i quali alcuni calici) forse appartenevano alla primigenia dotazione, quella basso-medievale, ma è certo una supposizione ardita. Non si conosce purtroppo il destino di molti di essi, così minuziosamente descritti dal ‘regio visitatore’: nulla infatti oggi si sa della croce, della pisside, del calice certamente medievale, dell’ostensorio, dell’incen79 80

Ibid., 225. L. c.


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siere col piede in rame, della mano argentea con le reliquie del Santo; doveva trattarsi comunque di oggetti di nobile manifattura, magari non provenienti da opifici lontani ma di sicuro inseribili entro una dignitosa «produzione minore e più differenziata, in cui emerse soprattutto una committenza ecclesiastica che favorì la possibilità di aggiornamenti locali delle singole botteghe»81.

7. OSSERVAZIONI FINALI Si è qui esaminata una documentazione redatta per finalità che oggi appaiono assai lontane, e non solo cronologicamente: testi redatti non certo per offrire informazioni propriamente storiche né tanto meno storico-artistiche hanno tuttavia fornito preziose notizie sulla storia del Priorato. Occorre bensì considerare doverosamente che le anzidette relazioni restituiscono in maniera non sempre chiara e completa la realtà qui esaminata, ma è pienamente ragionevole considerare come sostanzialmente veritiero quanto da esse è riferito: a buon diritto «le visite possono essere assunte ad indice della situazione ecclesiastica particolarmente delicata, ma in special modo della necessità di affermare i diritti della corona, determinati dalla Legazia Apostolica, in un periodo in cui se ne delineavano nuovi connotati»82.

81 C. GUASTELLA, Il Reliquiario con smalti di Piazza Armerina, in Federico e la Sicilia, II, cit., 266. Il rinvenimento a Piazza Armerina di un reliquiario d’argento dorato (attribuito al XIII secolo o al massimo agli inizi del XIV), dalla enigmatica provenienza e dall’incerta destinazione, ha fatto ipotizzare dei potenziali rapporti (sotto il profilo dei motivi decorativi e delle tecniche) con alcuni pezzi provenienti da Agira, dov’era un insediamento gerosolimitano e dove cultura orientale e cultura occidentale convivevano. La presenza di questo oggetto pregiato «contribuisce ad ampliare il panorama della produzione orafa isolana e dei suoi aggiornamenti, culturali e tecnici, nella transizione dall’uso dello smalto opaco in alveoli incassati a quello dello smalto traslucido»: l. c. Alla base di questo mutamento potrebbe essere identificato anche il trasferimento in Sicilia di alcuni Ordini di Terra Santa, diffusamente insediati a Piazza Armerina. 82 G. ZITO, La Legazia Apostolica nel Cinquecento, cit., 133.


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Con l’icastica espressione dantesca, si può quindi affermare che «ridon le carte»83 di questa documentazione: il composito affresco qui riferito ha svelato connotati inediti sia riguardo ai beni mobili ed immobili del Priorato (del manufatto architettonico e di alcune sue enigmatiche particolarità si è tentato di proporre altrove una più attenta interpretazione84) sia in merito alla vita comunitaria che vi si conduceva, sia infine circa la prosperità di quest’ente ecclesiastico e il suo radicamento territoriale in secoli nodali nella storia dell’Occidente cristiano. Non si può non riscontrare la decadenza culturale e religiosa ed il degrado dei costumi che segnarono in un certo tempo la vita di questa chiesa e del suo convento, secondo una linea di tendenza ben nota nella storia della Chiesa e della società in Europa. L’affievolimento del fervore religioso, la dissolutezza, l’incuria, avevano sicuramente contribuito al delinearsi di quel clima di illimitata anarchia con cui i regi visitatori dovettero fare i conti, e il decadimento economico — già latente negli anni presi in considerazione, ma ancora non eccessivamente progredito — sarebbe arrivato, di lì a poco, al suo punto di non ritorno; bagliori ve n’erano già all’epoca e la triste rassegna delle chiese afferenti al Priorato ne offre un sintetico ma ben incisivo quadro. Irrimediabilmente lasciata a se stessa era ormai la cura e l’amministrazione del patrimonio fondiario: chi doveva curarne la corretta gestione era mosso forse solo da interessi individuali né la stessa autorità religiosa dell’ente era in grado di porvi un freno. Nonostante questo, concludere l’indagine ponendo l’accento esclusivamente sui caratteri negativi del periodo considerato, che pure furono tali da compromettere irreparabilmente il futuro dell’ente, sarebbe poco rispettoso dei dati storici. Nell’età medievale gli enti ecclesiastici, con le loro chiese e i loro conventi, avevano assunto il ruolo di «centro della civiltà»85: e ciò era stato vero anche per questo Priorato, che, nato nel territorio per offrire ospitalità ai crociati e ai cavalieri del Santo Sepolcro in viaggio da e per la Terra Santa, era divenuto ben presto un importante crocevia nei 83

DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Purgatorio XI, 82. Cfr. T. BELLA, Il Priorato di S. Andrea a Piazza Armerina, tra Occidente e Terra Santa. Parte prima, cit., 99-109. 85 C. DAWSON, Il Cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale, Milano 2004, 83. 84


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rapporti fra la cristianità occidentale e la Palestina. Se nulla si può obiettare a chi nota l’inversione di rotta avvenuta successivamente, resta però analogamente vero che la presenza degli enti religiosi nella società era ancora del tutto permanente nel periodo storico qui considerato e le campane dei conventi scandivano ancora la vita delle comunità civili, come in questo caso in cui addirittura si provvide alla pur tardiva edificazione del campanile. I documenti qui esaminati, che hanno largamente illuminato anche sotto il profilo storico-artistico l’intero complesso architettonico del Priorato, cenobio incluso86, ne hanno tristemente mostrato uno scenario di 86 Riguardo al cenobio occorre osservare che una ‘Pianta della città di Piazza’, realizzata in una incisione della seconda metà del Seicento e dedicata a Cristoforo D’Amico, Giudice del Tribunale di Catania, raffigura sulla destra, rispetto al Duomo e al cuore della città, il Priorato di S. Andrea, non nel suo alzato ma in pianta, recintato nella retrostante parte orientale per mezzo di un riquadro, all’interno del quale sono disegnati un casolare ed un mulino, forse a testimoniare ancora la presenza di queste due vicinissime pertinenze. Il disegno troppo semplicistico e poco chiaro non permette di avanzare ipotesi sulla loro reale conformazione architettonica. Un’altra carta della medesima città, questa volta di fine Seicento, presenta la stessa raffigurazione in pianta del Priorato, mentre tutti gli altri complessi monastici sono invece prospetticamente raffigurati nella loro volumetria: vi appare con maggior chiarezza una porzione di costruito, confinante con un lato del recinto e posta longitudinalmente in prosecuzione del braccio destro del transetto della chiesa a raccordare quest’ultima col casolare indicato anche nella precedente pianta, probabilmente il cenobio o parte di esso; permane anche la presenza del probabile mulino. Queste due carte attestano certamente l’esistenza di un complesso conventuale ancora per tutto il XVII secolo, arco temporale in cui — come detto — si ebbe una interruzione delle ‘sacre regie visite’ al Priorato. Va anche osservato il motivo a zig-zag che è disegnato in ambedue le carte davanti alla porta del convento a simboleggiarne, verosimilmente, una scalinata d’accesso. Cfr. L’Archivio Trigona di Canicarao. Pizza e la sua Nobiltà fra XVI e XVIII secolo, a cura dell’Archivio di Stato di Enna, del ‘Rotary Club’ di Piazza Armerina e di ‘Italia Nostra’ di Piazza Armerina, Enna 1986. Certamente una parte di costruzione cenobitica, forse la nuova canonica di cui si è detto, è testimoniata ancora nel 1851 dal Catasto Provvisorio del Comune di Piazza; un’inserzione riporta infatti le seguenti parole: «si carica casamento composto di cinque stanze superiori e due corridoi e quattro bassi. Nuovi fabbricati verbale del 4 marzo 1853, Decreto n. 126 del 1853». Ci si sta quindi effettivamente riferendo alla porzione di canonica, annessa al braccio settentrionale del transetto, che resta visibile ancora oggi anche se solo per esigue tracce murarie. La si definisce come ‘nuovo fabbricato’ o perché fu costruita ex novo in quel periodo, a sostituire la superstite e forse fatiscente parte residua del cenobio, non più adatta a ricovero dei canonici e del Priore, o perché una vecchia porzione del convento venne riadattata in quel periodo. Restano solo supposizioni di interessante profilo storico, da approfondire in altra sede.


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decadenza spirituale ed economica. Ma conclusivamente sembra più opportuno restituire del Priorato l’immagine della sua stagione originaria, quando di certo esso validamente offrì l’ennesima prova della fecondità della civiltà cristiana: «multiforme, onnipresente, potentemente motivata, non esiste campo in cui essa non abbia lasciato la sua impronta, non c’è una provincia, una regione, in cui degli edifici di un’indicibile bellezza, o le loro rovine, queste cicatrici della storia, non testimoniano della sua fervente presenza»87.

87 L. MOULIN, L’influenza della civiltà monastica sulla vita quotidiana dei secoli passati, in R. OURSEL – L. MOULIN – R. GREGOIRE, La civiltà dei Monasteri, Milano 1985, 278.



Synaxis 25 (2007) 181-208

LA RICOSTRUZIONE DELLA CHIESA DI S. CHIARA A CATANIA DOPO IL TERREMOTO DEL 1693 SALVO CALOGERO*

PREMESSA Sulla ricostruzione del monastero delle clarisse catanesi, riunite dopo il terremoto del 1693 in un unico monastero sotto il titolo di Santa Chiara, e in particolare sull’attuale chiesa, esistono alcuni studi effettuati da Francesco Granata, pubblicati nel 1942 sotto forma di articoli nel giornale Il Popolo di Sicilia. Con il presente studio si intende completare quanto pubblicato dal Granata che, avendo rinvenuto i registri contabili del monastero, si limitò a fare conoscere le notizie più importanti1, non consentendo la comprensione delle vicende costruttive della chiesa e, tanto meno, del monastero.

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Ingegnere specializzato nel restauro di edifici storici e monumentali. Gli articoli che riguardano la chiesa di Santa Chiara, pubblicati da Francesco Granata ne Il Popolo di Sicilia, sono i seguenti: Palazzotto o Vaccarini? (6 febbraio 1942), Il disegno della chiesa di S. Chiara e di Giuseppe Palazzotto (23 agosto 1942), La chiesa settecentesca di S. Chiara e l’architetto Giuseppe Palazzotto (6 settembre 1942), inoltre, nel Corriere di Sicilia del 24 settembre 1950, pubblicò l’articolo: Breve storia della porta grande della chiesa di S. Chiara. Francesco Granata pubblicò altri articoli nel bollettino parrocchiale di S. Chiara Il Filo, negli anni 1965/70 (Le clarisse di San Geronimo, La chiesa di S. Chiara costruita sull’antica chiesetta di S. Lorenzo? Palazzotto o Vaccarini? L’Immacolata di S. Chiara e un indulgenza dal 1758, Il pavimento della chiesa di S. Chiara, Le campane di S. Chiara, La sepoltura “sepolta” delle clarisse), raccolti dal parroco sac. Francesco Pergolizzi nella monografia Monasteri e chiesa di S. Chiara in Catania, Catania 1998. 1


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1. LA RICOSTRUZIONE DEL MONASTERO DELLE CLARISSE Il monastero di Santa Chiara, dopo essere stato distrutto dall’evento sismico del 1693, fu ricostruito dalle clarisse «nell’istessa parte ove prima edificato era»2. Il 12 agosto 1693 il vescovo Andrea Riggio destinò al monastero di Santa Chiara i beni di altri due monasteri dello stesso ordine che vennero aggregati ad esso, cioè quelli di San Gerolamo e di Montevergine3; in forza dei nuovi beni assegnati, nel 1696 le monache avevano già «incominciato a fare il recinto, clausura e chiesa». Nel 1704, dopo avere costruito il dormitorio, la clausura e altre «officine»4, chiesero l’autorizzazione a soggiogare alcuni beni per costruire la loro chiesa5. Il 5 luglio 1709 fu stipulato un contratto6 con il quale mastro Salvatore Scuderi di Catania si obbligò a fare il tetto della chiesa — «di rustico incannato alla patornesa» mettendo «tre forbici morte» e «forbice piccola» —, le grate per il «litterio», due gelosie del cappellone e una finestra di castagna sopra la porta della chiesa, testimoniando la fase conclusiva della costruzione del nuovo edificio. Infatti, il vescovo Andrea Riggio, nella relazione ad limina del 6 novembre 1709, scrisse: «Ho già informato la Santità Vostra in un’altra lettera che il monastero di Santa Chiara, vicino alla cattedrale, indotto da una buona ispirazione, spontaneamente ha chiesto di sottostare alla giurisdizione del vescovo. Alle sacre vergini di questo monastero, oltre ad aver lasciato alcune istruzioni e aver nominato alcuni ottimi ministri per provvedere al loro buon governo, in breve tempo ho edificato una nuova chiesa abbastanza grande e adornata per celebrare il culto divino»7. 2 ARCHIVIO STORICO DELLA DIOCESI DI CATANIA (= ASD CT), Fondo Tutt’atti 1695/96, b. 178, c. 149, 18 aprile 1696 (cfr. Recuperare Catania, a cura di S. Barbera, Roma 1998, 320). 3 ARCHIVIO DI STATO DI CATANIA (= AS CT), Fondo Corporazioni religiose soppresse (= CCRRSS), b. 214, c. 322 r-v., 11 marzo 1694 (cfr. Horribilis terremotus eventus in die 11 ianuarii 1693, a cura dell’AS CT, Misterbianco 1994, II, 48). 4 AS CT, 2° vers., b. 1246, c. 207, 1 febbraio 1704, notaio Vincenzo Russo (cfr. Recuperare Catania, cit., 320). 5 ASD CT, Fondo Tutt’atti 1704/05, b. 186, c. 75 v. (cfr. Recuperare Catania, cit., 320). 6 AS CT, 1° vers., b. 2274, c. 699, 5 luglio 1709, notaio Nicola Coltraro (cfr. Recuperare Catania, cit., 320). 7 A. LONGHITANO, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1702-1717), in Synaxis 7 (1989) 417-515: 485.


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Nel 1734 le monache decisero di ampliare il loro monastero costruendo un nuovo dormitorio a sud e, a tale scopo, stipularono vari contratti per la fornitura di calce8, pietra9, pomici10, e «madoni seu bisole e canali»11; il 17 marzo 1734 fu stipulato il contratto con mastro Gioacchino Saia di Catania affinché realizzasse le forme dei «dammusi» del nuovo dormitorio12. L’11 maggio 1736 le monache chiesero al vescovo l’autorizzazione a prelevare 100 onze dalla “Cassa di tre chiavi” per completare la costruzione del dormitorio, mentre il 14 maggio 1740 stipularono il contratto con i «lapidum incisores» Domenico Caruso e Giuseppe Vinci, con il quale i suddetti si impegnavano a «lavorare il porticato di battere per detto venerabile monastero, cioè il soglio solo di pietra nera forte sbardato di sotto e tutto lo resto di bianco, giusta il disegno che tiene detta reverenda abbatissa […] il tabellone dovrà essere rilevato ed isolato di tre in quattro palmi, la mezza festina isolata, le incosciature e pilastri pezzi sani, li pezzi del cornicione pur sani e scorniciati»13.

La descrizione del «porticato» corrisponde a quella del portale d’ingresso al monastero posto nel prospetto di levante, su via Castello Ursino. Dopo la realizzazione del dormitorio di mezzogiorno, il monastero si poteva considerare completo delle parti necessarie alla vita monastica di clausura. Dalla veduta prospettica della città di Catania disegnata da Francesco Orlando, pubblicata nel 1761 dal Leanti14, è visibile la chiesa annessa al monastero delle clarisse, posta nel sito di quella attuale ma di forma diversa (fig. 1).

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AS CT, 1° vers., b. 2302, c. 438, 22 marzo 1734; notaio Giuseppe Capace (cfr.. Recuperare Catania, cit., 321). 9 AS CT, 1° vers., b. 2302, c. 439, 22 marzo 1734 (cfr. Recuperare Catania, cit., 321). 10 AS CT, 1° vers., b. 2302, c. 396, 1 marzo 1734 (cfr. Recuperare Catania, cit., 321). 11 AS CT, 1° vers., b. 2302, c. 403, 2 marzo 1734 (cfr. Recuperare Catania, cit., 321). 12 AS CT, 1° vers., b. 2302, c. 430, 17 marzo 1734 (cfr. Recuperare Catania, cit., 321). 13 AS CT, 1° vers., b. 2302, b. 2308, c. 356, 14 maggio 1740 (cfr. Recuperare Catania, cit., 321). 14 A. LEANTI, Lo stato presente della Sicilia, I, Palermo 1761.


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Figura 1: Particolare della veduta di Catania (A. Leanti, 1761).

Mentre la chiesa attuale ha la pianta ovale, quella rilevata dall’Orlando aveva la forma rettangolare, con il prospetto posto sulla strada San Filippo (oggi via Garibaldi), corrispondente al primo ordine del prospetto attuale delimitato dalle paraste bugnate.

2. L’OPERA DI GIUSEPPE PALAZZOTTO NELLA CHIESA DI S. CHIARA I lavori ripresero nel 176015 per dare una nuova forma all’intero monastero. Infatti, insieme alla nuova chiesa, che doveva sostituire quella fatta costruire nel 1709 dal vescovo Riggio, furono rifatti i locali annessi, come il parlatorio, la sacrestia, il capitolo, il refettorio e la cucina. Il 2 aprile dello stesso anno i “mastri” Antonino Puglisi e Pietro Anastasi si obligarono con la badessa «di portare tutta quella quantità di 15 Nella contabilità, trascritta nel registro dei conti relativi alla costruzione della nuova chiesa, si legge: «Per aversi sbarattato la chiesa e fatto il calcinaro nello cappellone per ripostarsi la calce»: ASD CT, Fondo Religiosi e Religiose, Registri dei conti 1760, 1784, C. F. 32, f. 1.


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pietra vi sarà di bisogno per li fossati, di due e quattro a spalla ben viste alli mastri ed all’architetto»16. Il 2 maggio fu pagato mastro Gioacchino Saia «per aversi cominciato a scoprire la chiesa e sacrestia coll’officini di sopra e diroccato li mura e trasportato li canali e legni»17 e, nel frattempo, iniziarono «a fare li fossati della nuova chiesa»18 e «la clausura di tavole innanzi la porta picciola della chiesa antica»19. Il 24 maggio 1760 fu realizzata la «pietra angolare per mettersi le reliquie nel predetto fossato» e si comprò «canna una e mezza di zagarella incannata […] per calarsi la pietra nel fossato». Oltre alla reliquia, nella pietra angolare fu inserita «una piancia di rame coll’anno e nome della sig.ra Badessa scolpiti in detta piancia».

Il 16 giugno furono pagate onze 11 a «mastro Gaspare per maestria del modello fatto per la chiesa» e tarì 6 a «mastro Agostino per avere dato il bianchetto al modello». Il progetto fu ideato dall’architetto Giuseppe Palazzotto20, infatti, il 24 giugno 1760, furono date onze 10 «al sig. Giuseppe Palazzotto per sue fattighe e per avere fatto il disegno della chiesa con suoi officine». 16 I contratti per l’acquisto di materiale edile e di «estaglio» con le maestranze furono stipulati presso il notaio Alessandro Nociforo. «A 24 febraro 1760: Domenico Giuffrida si obligò portare tutta quella quantità di agliara sarà necessaria per l’edificio della nuova chiesa a fabrica finita a raggione di tarì 1.6 salme come per contratto fatto per gli atti di notaio Alessandro Nociforo sotto la stessa detta giornata e si ha dato caparra […] onze 2. A 13 aprile 1760. Giuseppe e Michelangelo Carbone in solido si obligarono portare salme 1000 di agliara a tarì 1.6 a salma ed in conto hanno ricevuto onze 4»: atto notaio Alessandro Nociforo del 13 aprile 1760. «A 3 maggio 1760 mastro Vincenzo Sciuto ha portato calce»: l.c. 17 «A 4 detto per loero di un lazzo e due taglioli brunzini per abbassare la legname della chiesa e cappellone […] onze 4»: l. c. 18 «A 14 maggio 1760»: l. c. 19 «A 21 maggio 1760»: l. c. Mentre le maestranze avevano «cominciato a scoprire la sacrestia, cambara del capitolo, passaggio e parlatorio» fu necessario riparare il «muro vicino la cantonera della loggetta» e «ripigliarsi li pedamenti della loggetta». Nel parlatorio fu realizzata una parete divisoria con struttura intelaiata in legno «a 3 giugno 1760 per serratura di palmi 156 di legni di abito per l’intosta del novo parlatorio»: l. c. 20 Giuseppe Palazzotto, figlio di Francesco e Andreana Grillo, nacque a Catania il 2 gennaio 1702 (ASD CT, Fondo Registri Canonici, S. Maria dell’Aiuto, battesimi, 1679-1714,


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Mentre si lavorava per «diroccarsi il dammuso del parlatorio», per «scoprire la galleria» e «per avere cominciato il fossato vicino il pilastro della loggetta»21, si procedeva a «farsi l’archi del dammusello della sepoltura», cioè le volte delle cripte sottostanti la chiesa. Nel cantiere era presente il nipote dell’architetto Palazzotto, Giuseppe Serafino22 che, probabilmente, svolgeva il ruolo di appaltatore23, mentre la direzione dei lavori fu affidata allo zio, come risulta dalla paga di onze 3 registrata il 20 agosto 1760 per «regalo fatto all’inciegnero per la fiera di agosto per raggione di assistenza che fa alla fabrica il medesimo». Lo stesso giorno f. 15, n. 2, cfr. S. CALOGERO, Fra Liberato al secolo Girolamo Palazzotto, Architetto e “Servo di Dio”, in Synaxis 22 [2004] 133-161). In quel periodo Giuseppe Palazzotto svolgeva il ruolo di architetto del senato ed era impegnato nei cantieri più importanti di Catania. Fra le opere progettate e dirette dall’architetto Giuseppe Palazzotto in questo periodo vi furono il palazzo e il museo del principe Biscari (V. LIBRANDO, Palazzo Biscari a Catania, in Aspetti dell’architettura barocca nella Sicilia orientale, Catania 1971), il palazzo senatorio (S. CALOGERO, Documenti inediti sul palazzo degli Elefanti a Catania, in Tecnica e Ricostruzione 59 [2004] 17-32), la chiesa di San Nicola l’Arena dei benedettini (D. MARIOTTI – C. CIUCCARELLI, La chiesa di S. Nicolò l’Arena nelle fonti inedite, in Catania terremoti e lave, a cura di E. Boschi – E. Guidoboni, Bologna 2001, 297-370) e quella di San Michele Arcangelo dei minoriti (S. CALOGERO, L’opera di Girolamo e Giuseppe Palazzotto nella “Casa” dei minoriti a Catania, in Synaxis 23 [2005] 195-227). Inoltre, nel 1753 Giuseppe Palazzotto fu incaricato di completare due palazzi progettati e iniziati dal Vaccarini: palazzo Villermorsa (cfr. V. LIBRANDO, G. B. Vaccarini: Il palazzo Villarmosa, in Cronache di Archeologia e di Storia dell’Arte 1 [1962] 10) e palazzo San Giuliano (cfr. S. CALOGERO, Lo storico palazzo San Giuliano a Catania, in Tecnica e Ricostruzione 57 [2002] 57). Riguardo al palazzo San Giuliano si può affermare che il Vaccarini intervenne nei prospetti di tramontana e di ponente, compresa la scala del corpo nord-ovest non più esistente e il corrispondente prospetto della corte interna (AS CT, 2° vers. not., b. 1135, da c. 573 r. a 574 r., 20 dicembre 1738, notaio Vincenzo Arcidiacono senior). 21 «A 29 detto [luglio 1760] a due mastri d’ascia, mastro Muratore e quattro manuali per avere salito tre legni grossi due per appuntelarsi il tetto della loggetta, ed uno per il solaro di detta e per aversi abbassato le campane e legni due mastri a tarì 3 per uno […]. A 30 detto a due mastri d’ascia, un mastro muratore e quattro manuali per salire le campane e situarle con aversi fatto l’ossatura nova di legni»: ASD CT, Fondo Religiosi e Religiose, Registri dei conti 1760-1784, C. F. 32, f. 1. 22 Giuseppe Serafino, figlio di Pasquale e Angela Palazzotto, nacque a Catania il 25 marzo 1713 e morì nel 1798 (ASD CT, Fondo Registri Canonici, S. Maria dell’Aiuto, battesimi, 1690/1714). 23 «A 11 agosto 1760 date al sig. Giuseppe Serafino per conto delli mastri Pirriatori tarì due»: ASD CT, Fondo Religiosi e Religiose, Registri dei conti 1760 - 1784, C. F. 32, f. 1.


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furono acquistate «quattro tavole di abito per farsi la sercia per pigliarsi le misure rotonde della chiesa» e il 22 agosto si pagarono le maestranze «per aversi cominciato la fabrica della chiesa». Definito il tracciato ovale della chiesa sotto le direttive dell’architetto, i «mastri intagliatori» iniziarono «a fare li sogli della porta piccola»24. I lavori procedevano velocemente, dimostrando una capacità organizzativa notevole. Infatti, alla fine di agosto 1760 furono pagati due mastri «per fare le catene de’ pilastri di pietra nigra» e «per avere fatto le basi de pilastri»25. Una volta giunti al cornicione, si stipulò il contratto per acquistare «tutta quella quantità di pomici saranno necessarie» per la costruzione delle volte, in particolare quella sopra l’ingresso della chiesa («litterio») e l’altra sopra il presbiterio26 («cappellone»). Una volta predisposto l’occorrente per realizzare le volte, il 30 dicembre si stipulò il contratto con il quale «mastro Giuseppe Russo si ha obligato a portare tutta quella quantità di catusi larghi un sbango e l’imbrici secondo la mostra», ossia le opere necessarie allo smaltimento delle acque piovane: grondaie («embrici») e pluviali («catusi»). Il 3 febbraio 1761 fu trascritto: «regalo fatto all’incegniero sig. Giuseppe Palazzotto per raggione di fiera per l’assistenza dona alla fabrica della chiesa […] onze 3». Ultimati il cornicione e «i dammusi» della cantoria e del presbiterio si pagò «un mastro pirriatore per avere fatto le incosciature di pietra nigra di tre finestre grandi di lume della chiesa»27. Nel mese di aprile si procedette a realizzare la «porta per il passaggio si ha fatto dal dormitorio per passare 24 Il materiale impiegato era la pietra lavica, come si evince dai giustificativi delle paghe: «pietra di sciara per il soglio della porta piccola della chiesa nova» e «due terzi d’incosciature nigre per la porta picciola»: l. c. 25 Nel mese di ottobre furono inserite le «catene per li pilastri ed intagli per l’archi delle cappelle» e a novembre si iniziò «a carreggiare la pietra bianca della marina colla carretta», con la quale mastro Orazio, mastro Leonardo e mastro Francesco Fichera realizzarono i «cagnoli, capitelli e finestre»: l. c. 26 Infatti, il 6 dicembre 1760 furono pagati «due manuali per avere diroccato la cantonera e muro del dormitorio per potere entrare la cappella della chiesa» e il 10 dello stesso mese si acquistarono «200 madoni per li piedi del dammuso dello litterio»: l. c. 27 «A 4 febraio 1761. Per 657 quadretti per servigio dell’intosta del dormitorio a tarì 3.10 lo 100 […] onze 23.1. A 21 detto [marzo 1761] ad un altro mastro per avere fatto una


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nelle finestre della chiesa» e a «portare cinque barchate di pietra bianca ed otto balate per serviggio delli cagnoli»28. I «cagnoli», probabilmente, dovevano sostenere il «passaggio» su via Santa Chiara29. Furono acquistate «mille canni per voltarsi il dammuso del cappellone», cioè la cupoletta del presbiterio30. Il 23 luglio 1761 si legge: «date al sig. Giuseppe Palazzotto per la continua assistenza fa alla fabrica in luogo di onze tre come ho fatto pel passato, gle l’ho augumentato ad onze sei, sicché gl’ho dato onze 6». Nel frattempo si continuava a lavorare nel parlatorio, in particolare nella collocazione della «pietra nera per servigio delli pilastri del parlatorio» e «delle rote del parlatorio, e per quella di fuori»31. L’11 gennaio 1762 si pagò «un manuale per diroccare il muro nell’entrata della porta che si va alla nuova sacrestia» e successivamente furono versate onze 6 «al sig. Giuseppe Palazzotto per l’assistenza fa alla fabrica per altri sei mesi». Oltre al muro che divideva la sacrestia, furono diroccati anche «il muro del parlatorio per farsi la porta» e «le finestre della galleria e muro di sopra». La realizzazione della «porta nell’infermeria che abbassa nelle

giornata e mezza lo resto dell’incosciature delle finestre d’intaglio nero […] onze 4. A 7 detto [aprile 1761] a mastro Francesco Platania per avere fatto l’incosciature delle finestre di nero […] onze 3»: l. c. 28 Dalla paga registrata il 22 gennaio 1761 si evince l’utilizzo «per fare li sogli delle finestre, di pietra nera» e di «pietra bianca accomodata dal seminario». 29 Da una nota del 21 aprile 1761 si evince che attaccata alla cantoria («litterio») vi era una «loggetta», di cui fu necessario «diroccare il muro della loggetta alla parte di dentro sopra il litterio novo» e realizzato il «passaggio alla loggetta», completando il percorso che serviva alle monache di clausura di partecipare alla liturgia attraverso le finestre ricoperte dalle grate. 30 Fra aprile e giugno si lavorò a «77.6 di pezzi accarozzati e pezzi d’archi» e nel mese di settembre furono serrati «palmi 28 di legni di castagna per li sopraporti delle finestre sopra l’arco del cappellone», cioè la parte superiore dell’arco trionfale. Nel mese di ottobre si lavorava alla «serratura di palmi 180 di legno di castagna per servigio delli telari delle vitrate della chiesa», per cui la chiesa si poteva dire completa nella sua struttura portante (l. c.). 31 Il 4 dicembre si acquistò «un fascio di ferro tondo per l’altre tre grade del parlatorio» e nel mese di gennaio 1762 «20 legni grossi di castagna di palmi 23 per uno per il solaro della sacrestia di dentro e camera del capitolo» compreso tutto il legno per realizzare il tetto della chiesa (l. c.).


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camere vicino la chiesa e fatto il solaro sotto detta porta», insieme alle «scale per salire alle camare sopra la sacrestia di dentro», indica che i lavori riguardarono tutti i corpi di fabbrica annessi alla chiesa, compresa la vecchia «galleria». Per quanto riguarda la nuova «galleria», la contabilità riporta che il 17 maggio 1762 furono pagati i mastri d’ascia per fare «li sopra porti e fare li ponti alle finestre della galleria». Da quanto riportato nella contabilità si evince che la nuova «galleria» aveva una volta («dammuso») e, sopra di essa, una terrazza («astraco») coperta da un tetto a falda («covertizzo»), le aperture, cioè le «porte, finestre della galleria», avevano dei telai di legno pitturati colore verde rame e le finestre erano, inoltre, chiuse da grate32. Oltre al compenso assegnato per la volta grande della chiesa33, nel registro dei conti, si evincono le misure delle pietre «pomici» necessarie a realizzare tutte le volte34. Quindi siamo nella fase conclusiva della costruzione, cioè alla realizzazione delle volte.

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Il 5 giugno si legge: «cominciato a fare il covertizzo della galleria», l’11 giugno l’acquisto di «pece per impeciare li legni grossi d’abito che entrano nel muro della galleria», il 22 giugno la paga a «mastro Giosafat per conto di Russa deve portare per l’astraco si deve fare sopra il dammuso della galleria» e il 9 luglio comprarono «tre legni trentini grossi per serviggio del covertizzo della galleria ad onze 1 per uno». Nel mese di agosto dello stesso anno furono pagati «mastro Antonio e due figlioli per fare le gelosie della galleria» e il 15 agosto 1762 «mastro Agostino […] per bianchetto, oglio di lino, polveri desiccanti, verde rame […] e per avere tinto le porte, finestre della galleria, grade delle finestre, e telai», inoltre il pavimento fu realizzato con «visali di creta vergine»: l.c. 33 Nel registro dei conti si legge: «a 29 marzo 1762. Date al capo mastro, mastro Antonio Saja, mastro Giuseppe Romano e mastro Gioachino Saja, per avere pigliato a corpo il dammuso grande della chiesa per prezzo di onze quaranta si sono dati di caparro onze 12»: l. c. 34 Infatti il 17 maggio 1762 si trova «date a Giuseppe Nicotra e Francesco Sorito per canne cento quaranta sei, un palmo, ed oncie sei di pomici per li dammusi a tarì 6.12 a canna, cioè canne 125 per il dammuso grande della chiesa, per il dammuso del parlatorio canne 15 e per il dammusello sotto la scala canne 6.1.6»: l. c.


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Dalla contabilità si evincono anche le misure delle «forme» degli archi35 e che l’8 maggio 1762 furono saldati i mastri d’ascia per avere eseguito il «corpo del dammuso»36. Nel frattempo si lavorava nella copertura del presbiterio comprando «palmi 544 costeri per il covertizzo del cappellone» e fu eseguito il «solaro della camera di dietro il cappellone per ponente», confermando l’intervento del Palazzotto anche in questa parte dell’edificio. Una volta pagate le maestranze «per conto d’isformare il dammuso della chiesa» ed avendo a disposizione il materiale sopra elencato, si continuò a lavorare nel tetto della chiesa, realizzando «quattro archetti alli pilastri fatti sopra il dammuso della chiesa» e il 9 settembre 1762 furono pagati «mastro Antonio, mastro Giachino, e quattro manuali per avere cominciato il covertizzo della chiesa»37. Quindi nel mese di luglio 1762 il volume della chiesa era pressoché completo (fig. 2) e si procedeva con elementi di dettaglio come «il giro coll’intagli sopra la chiesa»38, «il liscio al muro del parlatorio della parte di fuori» e si pagarono, inoltre, le maestranze «per inalbare l’affacciata» e «per visalare il parlatorio»39. Le maestranze avevano «cominciato a fare il solaro delle camere, telari di vitriate del parlatorio, scale e balaustri per il riparo delle scale ed

35 «Arco del passaggio di sotto le camere […] canne 2. Arco della cappella dentro la camera del capitolo […] canne 2.6. Archi della scala e dammuso di detta […] canne 2.2.9. Formi del dammuso dell’entrata della sacristia […] canne 3.1. Formi di tre dammusi del parlatorio e coretti […] canne 47.0.6. Due archi del passaggio delle camere di sopra ed archi della galleria […] canne 1.6.3. Formi de’ contro dammuselli del dammuso del parlatorio […] canne 10.5»: l. c. 36 Inoltre, il 15 maggio, dopo «avere sbrigato il dammuso della chiesa», si scrisse la notizia: «oggi si terminò il dammuso»: l. c. 37 Il 12 luglio 1762 si comprò una «boccola con suo chiodo per mettersi al dammuso finto della camera del capitolo» e lo stesso giorno furono acquistati «palmi 1530 costeri per conto del covertizzo del tetto della nuova chiesa», «quattro catine di ferro per li pilastri sopra il dammuso […] otto trafitti di ferro per dette catine» e «chiodi comprati in Messina per servigio del covertizzo della chiesa miscialetti»: l. c. 38 Dal 29 agosto 1760 al 17 marzo 1762 furono stipulati presso il notaio Alessandro Nociforo senior i contratti per la serratura d’intagli bianchi. 39 «N. 300 visali di creta vergine. Visali […] n. 650. Quadretti […] n. 30»: l. c.


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Figura 2: Veduta dall’alto della copertura della chiesa (S. Barbera, 1998).

altro, ed allongato le finestre delle galleria» e il 2 agosto furono pagate «per incannare il dammuso finto della camera del capitolo». Il 18 agosto 1762 il direttore dei lavori ricevette la solita paga: «date al sig. Giuseppe Palazzotto architetto per raggione di assistenza e per altri mesi sei onze 6» e subito dopo venne pagato «mastro Francesco lo Sciuto in conto di scolpire n. quattordeci mautri per le gelosie della galleria». La chiesa e i locali annessi erano ormai completi40, per cui il 30 agosto fu pagato «un figliolo per avere puliziato li banchi del parlatorio», e nel contempo fu «fatto un Santissimo Crocifisso di legno per il parlatorio». 40 L’11 settembre 1762 furono comprati «rotola 50 di sapone bianco di Venezia per dare lustro marmoreo nello stucco del parlatorio e stucco della nova chiesa» e il 26 settembre


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Fra i materiali furono registrati l’acquistò di «una canna di catusi grossi per l’aquidotto dello lavizzo della cocina», «una manica ed un muto per la canalata del cappellone canna una» e «n. 980 visoli di creta vergine e […] canne 52.4 d’embrici, e muti e canne 2.4 di catusi piccoli». In questo stesso periodo fu pagato «mastro Agostino in conto delli telari della chiesa ed altri telari delle camere di sopra, sacrestia di dentro e camere del capitolo, per il colore deve dare alli medesimi»41. Il 5 novembre 1762 fu pagato il «capo mastro Daniele onze trenta tarì venti e grana cinque per saldo di onze 80.20.5 per quanto importò l’infrascritta legname per serviggio del tetto del cappellone, del dammuso della chiesa, e tetto della galleria e scala» e ancora «mastro Agostino per saldo di avere dato l’oglio di lino ad otto telari grandi delle finestre della chiesa per quattro finestre di sopra, sei telari di sopra ed Angelo grande di ferro con avere dato il colore a detto Angelo, a due telari grandi della chiesa, quattro finestre di sopra e sei altri telari di finestre, per oglio di lino bianchetto desiccante e maestria».

Alla fine del 1762 fu pagato «mastro Agostino per avere fatto li raggi addorati allo Spirito Santo nel cappellone per pannella, imbordente, vernice e maestria» e «un mastro d’ascia per avere fatto due formi per il quadrone del dammuso della chiesa»42. All’inizio del 1763 si lavorò all’esterno della chiesa, infatti il 5 gennaio fu pagato «mastro Gaetano, un manuale ed un figliolo per avere gettato la russa nelle tre finestre della chiesa della parte dello levante e fatto le fasce di russa». Subito dopo fu trascritto: «a 5 febbraro 1763 date al Sig. «salme 27 russa per servigio del dammuso, passaggio e canaletta sopra la chiesa». Fu necessario «armare li ponti per inalbare il dammuso di calce» e a tale scopo furono «prese, in più volte nel mese ottobre 1762, cordini per armare li ponti per stocchiarsi il cappellone e dammuso della chiesa», quindi il 7 novembre si iniziò «ad intonacare il dammuso della chiesa»: l.c. 41 Nel mese di dicembre «palmi 52 di serratura di legni di castagna per paranti di Porta, e telari di vitrati delle finestre delle camere di sopra»: l. c. 42 L’interno della chiesa poteva considerarsi ultimato e, oltre i «raggi addorati allo Spirito Santo nel cappellone»: l.c., l’aspetto della chiesa era di una superficie imbiancata con latte di calce e decorata con stucchi lucidi.


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Giuseppe Palazzotto architetto per raggione di assistenza alla fabrica per altre sei mesi […] onze 6». I lavori si avvicinavano alla conclusione, pertanto il 17 giugno 1763 fu pagato «mastro Agostino per avere tinto li telari di sei finestre grandi di vitriati della nuova chiesa per bianchetto oglio di lino, diseccanti legni e maestria» e il «30 giugno 1763. A mastro Francesco per saldo di avere posto n. 900 vetri ad otto finestre grandi della chiesa, a sei finestre delle camere di sopra, altri sei nella sacrestia e camera del capitolo, due prima della scala, due vetriate nella cocina, ed una nella camera della porticatoria» e «a 15 agosto 1763 al sig. Giuseppe architetto Palazzotto per raggione di assistenza della fabrica per altri sei mesi […] onze 6». Quindi i lavori della chiesa si potevano ritenere conclusi nel mese di luglio 1763, come risulta da una nota del 6 giugno 1764: «Spesa fatta per servigio della nuova chiesa per vari complimenti fatti al sig. Giuseppe Palazzotto architetto, sig. Baptista lo scultore ed altre persone. Manciare a mastri e manuali per la guardia la sera e manciare per alcune recreazioni alli mastri muratori, mastri d’ascia manuali, e garzone che guidava la carretta dal mese ottobre 1760 per tutto luglio 1763».

3. IL COMPLETAMENTO DELLA NUOVA CHIESA Il 22 maggio 1764 morì l’architetto Giuseppe Palazzotto43, pertanto i lavori furono continuati sotto la direzione di un altro architetto. Fra le opere completate nel luglio 1764 si trovano le «grade di ferro, calascendi, catinazzi del parlatorio e chiesa» e l’acquisto di «due gaffe di ferro per il legno mastro del tetto della chiesa». Inoltre fu realizzata da

43 Il 22 maggio 1764 Giuseppe Palazzotto morì dopo una lunga malattia. Nella «schedula testamentaria» e nel testamento del 12 marzo 1764, con il quale nomina le sorelle Brigida e Giuseppa eredi universali, si legge: «trovandomi io infrascritto testatore Giuseppe Palazzotto a letto a più tempo costretto da certa infermità»: AS CT, 1° vers., b. 8015, da c. 653 r a 668 r., 14 luglio 1763, notaio Gaetano Politi.


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mastro Orazio Caruso e da suo figlio Vincenzo la scala del parlatorio «coll’affacciata e balaustri»44. Nell’elenco dei «denari presi dalla cassa de’ capitali col permesso di Monsignor Eccellentissimo Vescovo per la fabrica della nuova chiesa», per un totale di onze 2160.12.0, si trovano «in primis per mano della sig.ra depositaria […] onze 338.5» e quelli «accomodati dal fu sig. Giuseppe Palazzotto […] onze 80». Per cui il Palazzotto, oltre a svolgere il compito di progettista e direttore dei lavori, finanziò anche i lavori con una cifra considerevole per l’epoca. I lavori ripresero dopo due anni dalla morte dell’architetto Palazzotto, come risulta dal «Libro dell’edificio della nuova chiesa per seguirsi detta chiesa nel governo della signora Superiora Maria Cesarea Coco in quest’anno 1766, colli denari dell’introito giornale con aversi cominciato a 8 febraro 1766», ma già alla fine del 1765 si pensò a comprare i marmi per il pavimento della chiesa. Infatti, il 29 novembre 1765 fu riportata la paga «per aversi mandato a Tavormina due mastri per pigliare e fare la mostra delle pietre per vedersi»45. Il 22 febbraio 1766 furono comprati «rotola due di cartonello per farsi li modari di tutto il disegno della pietra marmorea si deve fare in Tavormina» e fu pagato il «sig. Giambattista Marino per moderi, disegni ed assistenza regalo onze 3». Oltre al pavimento, disegnato dallo scultore Giovan Battista Marino, si completarono le opere lasciate incompiute da Giuseppe Palazzotto, come «lo stucco nella chiesa» e la «corona della chiesa», realizzata con «pezzi d’intaglio» incollati con «pece greca» e successivamente pitturati, come

44 La pietra lavorata dai Caruso fu messa in opera in sette giorni da mastro Gaetano Cristaudo, che fu pagato «per avere situato la scala del parlatorio col prospetto d’intaglio», mentre mastro Salvatore Scandurra fu pagato «per aver fatto una fascetta d’intaglio nero per base della scala di detto parlatorio palmi 43»: l. c. 45 Nella contabilità si legge: «per palmi 507 cubi di pietra torchina e bianca fatta a giornata in Tavormina da mastro Francesco Caruso colla sua assistenza […]. Più pietra rossa zingaresca, macchia buona ed inguarnizionata e pietra superficiale scartata palmi 858 lungo cioè palmi 560. Per conto di marmo bianco, libici di Trapani e saravezza. Per palmi 9.5.3 di giallo di Castronovo a tarì 6.15 il palmo. Per palmi 6.8 di libbicio di Trapani a tarì 15 il palmo onze quattro e tarì uno e grana dodeci di trasporto e doganella in Palermo»: l. c.


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risulta dall’acquisto di «oglio di lino per farsi la tinta nell’intagli della corona della chiesa»46.

Figura 3: Veduta della parte superiore della chiesa (F. Fichera, 1934).

Fu pagato anche il «ferro zapponaro» «per aversi fatto una croce di ferro per mettersi al prospetto della chiesa» che il 15 aprile fu posta in opera come risulta dalla annotazione «piombo per impiombare la croce grande di ferro posta sopra la chiesa», per cui la parte superiore del prospetto principale si poteva considerare ultimato (fig. 3). Inoltre, una volta ultimate le strutture del parlatorio e delle camere del capitolo, cioè i corpi di fabbrica ad est e a sud della chiesa, si ripresero i lavori per quelli posti a ovest, dove 46 Il lavoro degli intagliatori «di pietra per farsi la corona della chiesa» fu eseguito a partire dall’8 febbraio 1766 al 31 maggio 1766.


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era collocata la nuova sacrestia e per la quale, il 25 marzo 1766, furono acquistate «canne 12.6 di pomici per il dammuso della sacrestia»47. Il 19 aprile i fratelli Gioacchino e Gaetano Saia, mastri falegnami, incominciarono «a fare le porte e finestre delle camere di sopra» e il 14 maggio «per avere cominciato le gelosie» di legno48. Nel frattempo si iniziarono i lavori per la porta grande della chiesa, disegnata dall’architetto don Francesco Battaglia49, il quale ebbe anche l’incarico di dirigere le opere rimaste incompiute dal Palazzotto50. Il 19 maggio si pagò «mastro Francesco Caruso per avere cominciato a lavorare le incosciature di marmo torchino, e bianco per la porta della chiesa»51 (fig. 4). Le somme trascritte «per conto di mastrie di mastri moratori per inalbare le camere di sopra e di sotto, per inalbare e fare l’intosta al passaggio, dammuso per la sacrestia per aversi diroccato, ed altro come si vede; e corona della chiesa», fanno capire gli interventi murari eseguiti in questo periodo52. I lavori riguardarono pure la «serratura di pietra bianca per farsi li balatelli per sotto li canali per servigio del passaggio per andare alle finestre della chiesa». 47 I nuovi contratti per la fornitura di materiale furono stipulati presso il notaio don Salvatore Fischetti. «a 6 Aprile 1766 date a mastro Gaetano Leonardi in conto di visali, canali, mattoni grandi e piccioli secondo predetto atto fatto per gli atti di notaio don Salvatore Fischetti cioè li visali di terra a tarì 3.2 lo 100; visali di solaro a tarì 2.10 lo 100; canali a tarì 3.10 lo 100; mattoni grandi a tarì 5 lo 100; e mattoni piccioli a tarì 2.10 lo 100 onza una»: ASD CT, Fondo Religiosi e Religiose, Registri dei conti 1760-1784, C. F. 32, f. 1. 48 Per le opere di falegnameria furono acquistate «canne 14.4 di tavole di castagna, per servigio delle scale che saliscono alla finestra del cappellone e gelosia per le finestre sopra la chiesa, loggetta e finestre delle camere a tarì 14 a canna»: l. c. 49 Francesco Battaglia, figlio di Paolo e Angela Biondo, nacque fra il 1701 e il 1702 (V. LIBRANDO, Francesco Battaglia architetto del XVIII secolo, in Aspetti di architettura barocca della Sicilia orientale, Catania 1971). 50 «All’architetto don Francesco Battaglia per avere fatto il disegno della porta grande della chiesa ed alcune altre assistenze e visalocchi […] onze 2»: ASD CT, Fondo Religiosi e Religiose, Registri dei conti 1760-1784, C. F. 32, f. 1. 51 Subito dopo furono acquistate «due lande di stagno per farsi li modari dell’incosciature della porta grande della chiesa»: l. c. 52 Inoltre, furono acquistati «visali di terra n. 3675, visali di solaro n. 2660, canali n. 500, più mattoni grandi parmalori n. 580, più mattoni piccioli per l’intosta del camino n. 3550 / più canali portati per il tetto del passaggio n. 500 / più canali portati n. 250 / per 800 visali di creta vergine a tarì 4.15 lo 100, canne 8.4 a tarì 2.15 di imbrici, 27 mezzi imbrici a tarì 1.10 canne 6.6»: l. c.


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Figura 4: Foto della chiesa di S. Chiara nel 1943 (F. Pergolizzi, 1998). È visibile il portale progettato dal Battaglia in marmo bianco e “torchino”.

Mentre si realizzava «il ponte per dare il liscio alle mura della chiesa», subentrava come fornitore di marmo il fratello del nuovo direttore dei lavori, mastro Domenico Battaglia, con il quale furono stipulati diversi contratti notarili53. 53 «Al scrivano per avere fatto due copie d’alberano colla procura ad publicandum alberanu, per l’accordo fatto del marmo con mastro Domenico Battaglia […] onze 1. A 10


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Il 30 luglio 1766, dopo avere comprato «salme 5 d’arena cocciuta d’acqua dolce per intonacare il quadrone del parlatorio» e pagato un’onza e 18 tarì «a don Francesco Casaramone per avere dipinto il mosaico e quattro angoli del parlatorio», si pagò onze 16 il «pittore don Francesco Sozzi per avere dipinto il quadronello del parlatorio» dopo che lo stesso aveva dato «il colore giallo alla cornice dello quadrone del parlatorio»54. Il primo agosto si pagarono le maestranze «per avere cominciato a fare li scalini dell’altari» e il 12 agosto furono realizzate «canne 4.7 di ossatura di dammuso della sepoltura per aversi allargato», testimoniando la volontà delle suore ad ampliare la loro cripta. La posa in opera del pavimento fu eseguita a partire dal 3 settembre 1766, come risulta dalla paga di onze 1 data «al sig. Giambattista Marino per avere fatto il disegno del pavimento della chiesa ed assistito a fare la pianta di detto pavimento in detta chiesa regalo» (fig. 5). Per quanto riguarda il disegno della cantoria («litterio») (fig. 6) e delle due fonti all’ingresso della chiesa nella contabilità si legge: «a don Antonino Pepi55 per avere designato l’affacciata della chiesa e lo litterio onze 1.10. Al sig. canonico Corvaja per avere fatto venire il disegno delle fonti da Roma onze 19». Mentre si iniziava a «visalare la sacrestia» fu «diroccato il muro della nuova sacrestia per situarsi il molimento ed il lavabo di marmo»56. luglio 1766: date a mastro Domenico Battaglia in conto di 30 carrate di marmo bianco deve consegnare a questo Monastero di S. Chiara a raggione di onze 4.8 la carrata come appare per atti di notaio don Salvatore Fischetti sotto li febbraro 1766; a tarì 4.5.2 a palmo, onze trenta […] onze 30»: l. c. 54 Nel mese di novembre fu registrata la spesa «per addorare il parlatorio con mustura e lo Spirito Santo nella chiesa coll’imbordente e pannella d’oro»: l. c. 55 Antonio Emmanuele, detto Pepe, svolse un’intensa attività disegnando apparati, “macchine”, ornati e mobili (F. FICHERA, G. B. Vaccarini e l’architettura del Settecento in Sicilia, Roma 1934, 197). Ai benedettini, tra l’altro, fornì i disegni degli armadi della sacrestia e del grande organo di Donato del Piano (ibid., 149, 182, 184). Senza dubbio, della sua opera si avvalse molto e a lungo il principe Biscari per la decorazione degli ambienti del palazzo alla Marina (V. LIBRANDO, Palazzo Biscari a Catania, cit., 80). Inoltre, nel palazzo degli Elefanti progettò e diresse i lavori per la decorazione del grande salone (S. CALOGERO, Documenti inediti sul palazzo degli Elefanti a Catania, cit., 26). 56 Il «molimento», cioè il monumento sepolcrale, fu collocato il 3 ottobre 1766 da Giovan Battista Marino che fu pagato «per situare il molimento del fu detto Seminara, ed il lavatoio di marmo nella sacrestia»: ASD CT, Fondo Religiosi e Religiose, Registri dei conti


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Figura 5: Disegno del pavimento della chiesa (F. Fichera, 1934).

1760-1784, C. F. 32, f. 1. Il cavaliere regio don Pietro Seminara, «venendo a morte e non lasciando figli, volle per suo testamento — pubblicato il 26 dicembre 1585 da Franciscus De Martino publicus Notarius — che si fondasse un nuovo monastero di donne della regola di S. Chiara sotto il titolo di S. Geronimo — o Gerolamo —, come ci apprendono i documenti raccolti in una “giuliana” del medesimo monastero»: cfr. F. GRANATA, Le Clarisse di San Geronimo, cit., 17.


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Figura 6: Cantoria della chiesa “litterio� (F. Fichera, 1934).


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Nel frattempo si comprava l’occorrente «per apparecchiare il ponte al pittore per dipingere il quadrone della chiesa» e la «colla per incollare cartonelli per li disegni del pavimento, e per servigio pure del mastro d’ascia». Il 9 ottobre 1766 si iniziarono «a situare li scaloni di marmo dell’altari», il giorno successivo fu pagato il «sig. Giambattista Marino in conto di mastria di detti angeli sta operando per le fonti»57 e furono pagati «due manuali ed un giovane per fare le mura alla sepoltura e voltare il dammuso», cioè il previsto ampliamento della cripta. Francesco Granata ebbe l’opportunità di vedere la cripta della chiesa in seguito al crollo dei locali annessi a est della chiesa causato dai bombardamenti del 17 aprile 1943 e li descrisse in questo modo: «Un angusto cubicolo squallido e maleodorante, dalla volta a botte, grande sì e no una ventina di metri quadri e alto poco più di due metri. In un nicchione, a destra, a piè della scaletta una specie di pozzo: l’ossario: un cumulo di ossa umane […]. Allineate sopra lo sgocciolatoio che, a modo di sedile, correva lungo tre pareti della sepoltura (nella quarta, quella di levante, sfociava la scala) giacevano sei bare»58.

A partire dal 5 novembre si iniziò la realizzazione della «scalonata» del presbiterio e il 17 dello stesso mese, dopo avere pagato un’onza «a mastro Giambattista Marino per l’assistenza data per il disegno del pavimento regalo per San Martino», si iniziò «a situare il pavimento di marmo»59. Mentre si collocava il pavimento, fu alzato il ponte che doveva servire al pittore per dipingere il quadro nella volta della chiesa. Per prepa5

Il 18 dello stesso mese furono acquistati «quintali due e rotola settantacinque di pece greca per servigio di incollare li marmi del pavimento e dell’altari si devono fare nella chiesa»: l. c. 58 F. GRANATA, La sepoltura “sepolta” delle clarisse, cit., 44-46. 59 La direzione dei lavori per la posa in opera del pavimento nella chiesa fu effettuata dallo stesso Giovan Battista Marino, che ricevette un’onza: «a 24 dicembre a detto di Marino per detta assistenza regalo per le feste del Santo Natale» e un’altra onza «a 18 Aprile 1767 a detto di Marino per detta assistenza per le feste di Pascha»: ASD CT, Fondo Religiosi e Religiose, Registri dei conti 1760 - 1784, C. F. 32, f. 1.


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rare la superficie del quadro, il 20 novembre furono acquistate «salme 12 d’arena cocciuta d’acqua dolce per intonacare il quadrone grande della chiesa» e il 22 fu dato «a don Francesco Sozzi pittore, in conto della pittura del quadrone, onze venti come appare per cautela oggi in notaio don Salvatore Fischetti in piede del contratto obligatorio di detta pittura».

Figura 7: Affresco di Francesco Sozzi (F. Pergolizzi, 1998).


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Francesco Sozzi iniziò la sua opera subito e la ultimò il 2 maggio 1767, come risulta dalla contabilità «più date per saldo di pittura come per apoca oggi onze 30» per un totale di onze 89.20.12 (fig. 7), e il 16 dicembre 1766 al «capo mastro d’ascia» furono date onze 5 in acconto «per lo litterio deve fare nella chiesa» e un’onza «per conto del modello dell’affacciata della porta della chiesa», probabilmente, corrispondente all’anteporta (fig. 8).

Figura 8: Anteporta della chiesa (F. Fichera, 1934).


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Le opere di falegnameria (mastro d’ascia) furono eseguite su disegno di don Antonio Pepe e riguardarono anche «la porta, e scaffe per l’armaro de libri del monastero fatto dentro il refittorio nuovo», che furono incominciati il 12 novembre 1766. Inoltre, gli stessi falegnami furono pagati «per avere cominciato a fare la porta picciola della chiesa», «per avere cominciato la porta della sacrestia che si unisce colla chiesa» e il 27 febbraio 1767 «per avere cominciato la porta grande della chiesa»60. Mentre si lavorava per il pavimento e gli altari laterali, si realizzò l’altare maggiore con la custodia del Santissimo, per il quale «Giacomo Ferlito cominciò a serrare marmo a 9 gennaro 1767 con aversi obligato come per atto in notaio don Salvatore Fischetti a 17 gennaro 1767»61. A questo punto la chiesa poteva ritenersi completa in tutte le sue parti. La forma della chiesa e del monastero di Santa Chiara, così come si presentava prima delle modifiche ottocentesche, è stata ipotizzata nei disegni allegati (figg. 9 e 10).

Figura 9: Sezione longitudinale della chiesa prima del 1871. 60 Nella stessa contabilità sono descritti i materiali impiegati, cioè «due cardinali per la porta picciola della chiesa», «rotola quattro di chiodi ottantini per la porta piccola della chiesa fatta nuova». «Per due legni grossi di castagna per servigio delli cardinali della porta grande della nuova chiesa» e «quattro barroni di castagna per servigio delli portelli della nuova porta grande della chiesa»: l. c. 61 Nel contempo fu pagato il «detto di Battaglia per palmi sei, ed oncie otto di saravezza rosata […]. A 27 detto per palmo uno ed once otto di marmo nigro»: l. c.


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Figura 10: Pianta del monastero. Ipotesi di restituzione al 1767.

4. IL COMPLETAMENTO DEL MONASTERO Ultimata la chiesa, le monache ebbero la necessità di ingrandire l’edificio monastico, ragione per cui nel mese di giugno 1783 si diede inizio ai lavori di costruzione di un nuovo dormitorio e alla riforma di quello ad ovest, nel quale furono inserite le celle singole separate da un corridoio centrale di distribuzione. Nel «Libro d’edificio per acconci e ripari del dormitorio del ponente nel governo della signora superiora Maria Eleonora Tedeschi cominciando a 13 giugno 1783» fu riportata la «somma di tutta la spesa della fabrica per li pedamenti del dormitorio di ponente, galleria, ed intostine dell’uno e dell’altro dormitorio» e quella per «spese diverse fatte per il secondo dormitorio del mezzogiorno ed intostine». Nella stampa di A. Vacca del 1780 è possibile vedere la nuova chiesa progettata dal Palazzotto e il monastero in cui è evidente la presenza di un solo chiostro, quello adiacente la chiesa, mentre totalmente assente è il nuovo corpo di fabbrica su via Santa Chiara non ancora edificato, rimanendo così confermata al 1783 la data della sua realizzazione62 (fig. 11). 62 I lavori furono diretti da un architetto, del quale non è stato trascritto il nome, che ricevette la paga di tre onze per l’assistenza alla fabbrica, rispettivamente nel mese di luglio 1783, marzo 1784 e settembre 1784.


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Figura 11: Particolare della veduta di Catania (A. Vacca, 1780).

Nella stampa pubblicata nel 1832 da Sebastiano Ittar è possibile vedere, oltre all’accorpamento dei due isolati che nella pianta del Vacca risultavano separati63, un diverso tracciato della via Santa Chiara in prossimità con la strada Ferdinanda (già strada San Filippo e oggi via Garibaldi). Il nuovo corpo posto ad ovest rispetto alla chiesa, che conteneva al piano terra la nuova sacrestia, si interrompeva in prossimità della porta piccola della chiesa, lasciando libero l’accesso direttamente sulla strada (fig. 12). L’interruzione del corpo di fabbrica era giustificata da un notevole salto di quota lungo il 2° vico Santa Chiara (oggi via Santa Chiara), proprio in prossimità della porta piccola che si trovava alla stessa quota della strada Ferdinanda, formando uno slargo che, probabilmente, era raccordato alla parte a quota più alta del 2° vico Santa Chiara mediante una scalinata.

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L’accorpamento dei due isolati fu effettuato dopo il terremoto del 1818.


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Figura 12: Particolare della pianta di Catania (S. Ittar, 1832).

Questa situazione fu modificata nel 1871, abbassando la quota del 2° vico Santa Chiara di circa due metri in corrispondenza dell’incrocio con il vico Barone Sisto64 (oggi via Consolato della Seta). 64

In questa occasione il proprietario del palazzo confinante ad ovest aveva demolito parte delle sue proprietà «gratuitamente alla cantonata di levante, per quasi due metri, le vecchie fabbriche», permettendo, così, l’allineamento del 2° vico Santa Chiara con la dirimpettaia strada Santa Maria delle Grazie: BIBLIOTECHE RIUNITE CIVICA E A. URSINO RECUPERO, Ragioni con documenti pel signor Giovanni Manganaro al Consiglio comunale di Catania, Catania 1871, in E. MICCICHÈ, Accadeva una volta a Catania, Catania 2001, 22, nota 4.


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Questa nuova situazione corrispondente a quella attuale, visibile nella pianta del catasto urbano del 1884 (fig. 13), comportò lo spostamento del monumento del Seminara nel nuovo corridoio, che servì pure da vestibolo per la porta piccola della chiesa. Nel corso del Novecento il corridoio è stato suddiviso con pareti che hanno in parte nascosto le cornici nella porta piccola della chiesa (fig. 14). Quest’ultima modifica, insieme agli interventi di adattamento al livellamento stradale dell’800 e alla ricostruzione dei locali annessi alla chiesa dopo il 1943, ha modificato ulteriormente la forma originaria del monastero e della chiesa, non facendo apprezzare le scelte architettoniche e le proporzioni definite nel Settecento dall’architetto Giuseppe Palazzotto.

Figura 13: Particolare del catasto urbano del 1884.


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Figura 14: Porta piccola d’ingresso alla chiesa.

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Nota Synaxis 25 (2007) 211-218

MARIA MONTESSORI NEL RICORDO DI LUIGI STURZO

SALVATORE LATORA*

Ben vengano trasmissioni come questo recente sceneggiato della TV su Maria Montessori (1870-1952) o come quelle su Dante, dell’attore Benigni, per farci riscoprire, in questo caso, il valore della scienziata e grande educatrice dell’infanzia, in occasione del centenario (1907-2007) della prima “Casa dei bambini” nel quartiere di San Lorenzo in Roma, che fu un fatto innovativo e rivoluzionario rispetto alle idee pedagogiche correnti. Conosciuta in tutto il mondo per il metodo e le Case montessoriane, quasi sconosciuta in Italia per l’avversione del fascismo, e per certi orientamenti educativi, se non, molto comunemente, per l’effigie riprodotta sulle monete delle mille lire! Ammirata da grandi personalità del nostro secolo come Gandhi, Freud, Tagore, Marconi, Piaget e anche dal nostro Luigi Sturzo, che ne scrive in un ricordo personale sul periodico La Via, del 28 giugno del 1954, poi riprodotto nel volume edito dalla Zanichelli: Politica di questi anni, Bologna 1966, pp. 243-245. Come avvenne che Luigi Sturzo fece la conoscenza di Maria Montessori? Così egli scrive: «1907: ero da due anni sindaco di Caltagirone. La scuola mi interessava più di ogni altro ramo dell’amministrazione; non invano avevo insegnato per dodici anni al seminario vescovile, ed avevo già fatte le prime battaglie per la libertà della scuola. Le mie gite a Roma erano frequenti allora, sia per *

Docente di Filosofia presso l’Istituto di Scienze religiose S. Luca di Catania.


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Salvatore Latora l’associazione nazionale dei comuni, della quale ero consigliere; sia per gli affari del mio comune; così mi capitò di incontrare presso amici la dottoressa Montessori che mi invitò a visitare la sua scuola nel quartiere di S. Lorenzo. Sapevo che sospetti di naturalismo avevano ostacolato l’iniziativa; dopo un lungo colloquio decisi di visitare le scuole e rendermi conto del tipo di scuola e delle ragioni del metodo. Andai più volte a S. Lorenzo; il mio interessamento si accrebbe di volta in volta e Maria Montessori non dimenticò mai il piccolo prete che per il primo aveva preso diretto interesse alla sua iniziativa, l’aveva incoraggiata, ed aveva affermato che nessuna pregiudiziale anticristiana fosse alla base di quell’insegnamento; cosa che poteva essere introdotta in questo e in altri metodi da maestri non credenti».

Da allora non vide quasi più la Montessori; ma un giorno, quando egli si trovava in esilio a Londra, il 21 giugno del 1925, festa di s. Luigi, nella casa religiosa di Fulham Road, si vide portare un bel mazzo di garofani bianchi: erano della Montessori che si era fatta viva «in un giorno a me caro; in un’ora di forte nostalgia, quando lontano dalla sorella e dagli amici, mi venivano in mente le care feste dell’onomastico, in un paese dove l’onomastico non si ricorda e di amici a Londra non ne segnavo allora che pochi, anzi pochissimi».

Parlarono allora dell’Italia e delle vicende del nostro paese, dello sviluppo del metodo Montessori nel mondo, dell’alone di simpatia e di fiducia che circondavano le varie iniziative all’estero di quelle “Case dei bambini”, della sua candidatura al premio Nobel per la pace. Sturzo paragona questa geniale pedagogista-medico a un’altra italiana, maestrina, fondatrice di un ordine religioso, allora beata e poi santa, Francesca Saverio Cabrini, molto stimata in America, anche nel mondo protestante, per le scuole infantili ed elementari; e ricorda che egli avrebbe voluto fondare anche a Caltagirone scuole secondo il metodo dell’una e dell’altra italiana. Termina con una profonda considerazione: «Mi sono più volte domandato, egli scrive, perché da quarantacinque anni ad oggi, il metodo Montessori non sia stato diffuso nelle scuole italiane.


Maria Montessori nel ricordo di Luigi Sturzo

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Allora come oggi, debbo dare la stessa risposta: si tratta di vizio organico del nostro insegnamento: manca la libertà; si vuole l’uniformità, […] si ha una diffidenza verso lo spirito di libertà e di autonomia della persona umana, che è alla base del metodo Montessori; si è addirittura soffocati dallo spirito vincolistico di ogni attività associata, dove mette mano lo stato; dalla economia che precipita nel dirigismo, alla politica che marcia verso la partitocrazia, alla scuola che è monopolizzata dallo stato e di conseguenza burocratizzata».

Fin qui, Luigi Sturzo, mentre noi ci chiediamo se siano ancora valide le sue realistiche analisi; e non possiamo non rispondere che in buona parte lo sono ancora, pur considerando gli evidenti mutamenti storici. Ma entrando nel merito: la “Casa dei bambini” vuole essere un ambiente, in cui l’infanzia possa muoversi e svilupparsi liberamente con gli “ esercizi sensoriali” con il materiale su misura di ciascuna “mente assorbente”, nelle attività utili alla vita quotidiana (apparecchiare la tavola, lavare le stoviglie et cetera), senza costrizioni o punizioni disciplinari, perché in questo ambiente i bambini si autodisciplinano. L’accusa che viene rivolta riguarda la tecnica e il materiale didattico predisposto, che si presume corrisponda allo sviluppo spontaneo del bambino, è di chiara matrice scientifica e positivistica (secondo le idee del tempo e la formazione della Montessori), anche perché le prime applicazioni del metodo sono state fatte su bambini non normali e poi rivelatesi efficaci per tutti gli altri, come viene descritto nelle opere: Il segreto dell’infanzia; La mente del bambino. La Montessori è autrice anche di : Educazione e pace; La formazione dell’uomo; La santa messa spiegata ai bambini; la vita in Cristo, che alcuni considerarono questi motivi spiritualistici e religiosi della sua pedagogia come giustapposti o sovrapposti alle strutture naturalistiche del suo metodo e della sua psicologia. E invece no, come credo ben vide Sturzo, che li considerò come ben compatibili con altri metodi, perché bisogna ricordare che il motivo ispiratore di tutta l’opera montessoriana è di tipo profetico e messianico, infatti: «Le sorti del mondo, ella proclama, possono mutare attraverso il bambino […] il bambino può aiutare l’umanità a risolvere una grande quantità di problemi individuali e sociali».


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Salvatore Latora

Il Bambino liberato da una nuova pedagogia può liberare anche gli altri. Per questo la Montessori rimane una grande figura nel panorama della pedagogia scientifica contemporanea Quali sono stati, allora, i motivi che hanno reso difficile la realizzazione di asili montessoriani in Italia, mentre essi si diffusero facilmente all’estero? Sturzo intuì e ne enunciò la causa generale, ma occorre individuarne più concretamente le ragioni storiche ed ideologiche. I primi asili infantili sorsero in Europa intorno agli anni Venti del sec. XIX, mentre in Italia sorsero per opera di Ferrante Aporti, pedagogista e sacerdote italiano, che ebbe l’incarico di dirigere le scuole elementari di Cremona, e qui nel 1829 istituì il primo Asilo d’infanzia, (quindi ancor prima dei Giardini d’infanzia di Froebel che sono del 1840), a pagamento per i figli di benestanti, seguito due anni dopo da quello gratuito per i poveri dai 3 ai 6 anni. Ma di esso furono rilevati i limiti, per un certo scolasticismo anticipato e per irreligiosità, in quanto sottraeva alla famiglia la prima educazione. Agli asili aportiani si opposero quelli froebeliani, che centravano tutta l’attività dei piccoli sul gioco. All’inizio del nuovo secolo le sorelle Rosa e Carolina Agazzi presentarono il loro metodo, di schietta ispirazione cristiana, che proponeva la riproduzione della vita familiare, «scuola materna» appunto, a cui ben presto si contrappose quello montessoriano, ma le preferenze in Italia andavano al primo, come si espresse anche Lombardo-Radice in un articolo del 1926 sulla rivista L’Educazione nazionale, in cui propendeva per il sistema di Compiano, delle sorelle Agazzi, che si ricollega al migliore Aporti e al migliore Froebel senza distruggere una grande tradizione basata sulla naturalità del museo delle cianfrusaglie, contrariamente al metodo della Montessori basato sull’uso didattico di materiali speciali adatti più per i tardivi che non per i normodotati. Il metodo della Montessori fu dunque avversato, per il presupposto positivistico, da idealisti, da fascisti e dai cattolici. Naturalmente si misconosceva il grande merito della Montessori, che è stato quello di partire dalla centralità del bambino creando un ambiente adatto a lui; per quanto riguardava i soggetti con deficit mentali, la dottoressa riteneva che il solo intervento medico era insufficiente e perciò occorreva coniugarlo con una adatta opera pedagogica e didattica,


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come sostenne nel Congresso pedagogico del 1898 a Torino, a cui partecipò anche Rosa Agazzi. Tali idee le consentirono in seguito di superare l’influsso della cultura positivistica, allora dominante nelle Università, per aprirsi a un’antropologia non materialistica. Nel 1902-04 si iscrisse a Filosofia presso La Sapienza di Roma, dove seguì i corsi di Antonio Labriola, Luigi Credano, Sante De Sanctis; nel 1904 conseguì la libera docenza in Antropologia e nel 1907 aprì, come si è detto, la prima Casa dei bambini nel quartiere povero romano di S. Lorenzo, dove applicò a fanciulli normodotati, ma in condizione di deprivazione socio-culturale, le sue idee pedagogiche e didattiche. Ma a causa di quelle avversioni, di cui si diceva, le case per bambini montessoriane si diffusero più all’estero che non in Italia. Quali gli sviluppi successivi della scuola, nei vari ordini e gradi, e della scuola dell’infanzia in particolare, in Italia? Oggi, alla esigenza educativa della maggioranza dei bambini italiani cercano di rispondere, e convivono, tre tipi di scuole: scuole statali, scuole paritarie o private e scuole dell’ente locale, regolate dalla legge n° 444 del 18 marzo 1968, che riconosce alla Scuola Materna l’appartenenza al sistema scolastico e ne sottolinea la natura di primo e fondamentale ambiente educativo. Nel 1969 vengono emanati gli Orientamenti per la scuola materna statale, seguiti da quelli del 1991, che poi furono sostituiti dalle Indicazioni Nazionali per i Piani Personalizzati delle Attività Educative nelle Scuole dell’Infanzia (Allegato al DM 100 del 18 settembre 2002). Nel 1945 furono emanati i Programmi della Scuola Elementare, che ebbero un ulteriore sviluppo in quelli di dieci anni dopo, nel 1955. Nel 1962 venne istituita la Nuova Scuola Media Unica con finalità democratica, perché permetteva a tutti di frequentarla diventando così “scuola di massa”, ma malgrado ciò si rivela ancora una volta selettiva e classista, perché “ fa parti uguali per diseguali” o come un ospedale che curi solo i sani e non gli ammalati, secondo le sue specifiche finalità. Sono queste le denunzie fatte dalla Scuola di Barbiana, diretta da Don Milani, con la Lettera ad una professoressa (1967), che scritta anche con il contributo degli alunni, non è solo una lettera di protesta, ma di proposta innovativa per un nuovo modo di fare scuola (si leggono ad esempio il modo nuovo di imparare le lingue, la scienza e la matematica; come si vorrebbe si inse-


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gnasse la filosofia1, la pedagogia, l’educazione civica, come si fa un tema, come si insegna la religione2). Nel campo pedagogico e didattico si annoverano le opere di M. Lodi, C’è speranza se questo accade a V’ho (di Piadina, prov. di Cremona) (1972); e di F. De Bartolomeis, La ricerca come antipedagogia ( 1969). Intanto nel 1971 viene istituito il Tempo pieno, per venire incontro alle istanze di tipo sociale, che vede la scuola come luogo di decondizionamento e di promozione della realtà di appartenenza dell’alunno. Nel 1974, con i Decreti Delegati, sono introdotti gli Organi Collegiali della scuola, che danno un nuovo profilo della funzione docente, infatti con la successiva Legge n. 517/77, si invitano i docenti a ripensare non solo la modalità del progettare ma anche quella dell’insegnare e del valutare, in termini di grande flessibilità: si diffonde la Scuola del Curricolo come superamento degli antichi Programmi. Come modalità organizzativa si suggerisce anche il modello delle “classi aperte” e si introduce la figura di un nuovo professionista, l’insegnante di sostegno, che affiancherà gli altri docenti per favorire l’integrazione degli alunni in situazione di handicap, 1 «I filosofi studiati sul manuale diventan tutti odiosi. Sono troppi e hanno detto troppe cose. Il nostro professore non s’è mai schierato. Non s’è capito se gli vanno bene tutti o se non gliene importa di nessuno. Io tra un professore indifferente e un maniaco preferisco il maniaco. Uno che abbia o un pensiero suo o un filosofo che gli va bene. Parli solo di quello, dica male degli altri, ce lo legga sull’originale per tre anni di seguito. Sortiremmo di scuola convinti che la filosofia può riempire una vita»: Lettera a una professoressa, Firenze 1971, 119 2 «Tre anni su tre brutte traduzioni di poemi antichi (Iliade, Odissea, Eneide) tre anni su Dante. Neanche un minuto solo sul Vangelo. Non dite che il Vangelo tocca ai preti. Anche levando il problema religioso, restava il libro da studiare in ogni scuola e in ogni classe […] Quando avrete dato al Vangelo il posto che gli spetta la lezione di religione diventerà una cosa seria. Si tratterà solo di guidare i ragazzi nell’interpretazione del testo. Lo potrebbe fare il prete e magari in discussione con un professore non credente, ma serio. Cioè che conoscesse il Vangelo quanto lui. Nella ricerca di questi professori verranno a galla i limiti della vostra cultura. A Firenze ci sono decine di preti capaci di una lezione biblica d’alto livello. Gente che legge correntemente il testo greco e all’occorrenza sa mettere gli occhi sull’ebraico. Mi sapreste fare il nome di un laicista seriamente preparato a tenergli testa? Ma uscito dalle vostre scuole non di seminario. Ho sentito la conferenza di un giovane intellettuale di quelli che hanno letto tutti i libri che c’è nel mondo (fuorché uno): “Se il grano di frumento non cade in terra e non muore non porta frutto come dice Gide!”. Non sapeva che aveva citato una pericope del Vangelo e non una frase di Gide!» (Lettera a una professoressa, cit., 120-121).


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ormai sempre più presenti nelle scuole normali. E qui, a nostro parere, si sarebbe potuto tenere presente l’esperienza della Montessori, utilizzando i cosiddetti materiali delle sue scuole, che avrebbero attirato anche i ragazzi normali, come si è verificato in molti casi, avviando anche una integrazione e un cambiamento dei metodi didattici tradizionali. Si abolisce il voto numerico, sostituendo la tradizionale pagella con un nuovo documento la scheda di valutazione, con lo scopo non solo di registrare i risultati scolastici, ma di descrivere un profilo evolutivo dell’alunno, in funzione formativa oltre che certificativa. Gli anni Novanta sono anni di grandi trasformazioni dei sistemi scolastici europei che non possono non influire anche su quelli italiani: in sede di UE viene pubblicato Il Libro Bianco a cura di Edith Cresson, e il Rapporto Delors, elaborato in ambito UNESCO: entrambi individuano nell’imparare ad apprendere il nuovo valore guida, secondo cui occorre passare dalla scuola dell’insegnamento alla scuola dell’apprendimento. Tali orientamenti vengono largamente recepiti nel disegno di riforma avviato nel 1996 dal ministro d’allora E. Berlinguer, che avvia la riforma dei cicli scolastici, portata a termine dal successivo ministro De Mauro. Intanto nel 1997 con la legge n° 59 viene riconosciuta l’autonomia alle istituzioni scolastiche, per cui tra le tante conseguenze vengono meno I Programmi nazionali, sostituiti da un nuovo strumento progettuale, elaborato dalla scuola, il Piano dell’Offerta Formativa (POF). La Legge n° 30/2000, che approvava la riforma dei cicli e i relativi Indirizzi per l’attuazione del curricolo, in realtà mai applicati per il cambio di legislatura, dal centrosinistra al centrodestra con il Ministro Moratti, che fece abolire quella legge, sostituendola con una nuova, la n° 53 del 2003. Intanto, nei nostri giorni, emerge la grave crisi della scuola indicata ormai con l’espressione significativa di “ emergenza educativa” a cui cercano di far fronte, il personale della scuola con in testa il ministro Fioroni. Tale situazione legislativa e culturale non può non toccare anche la scuola dell’infanzia, da cui tuttavia bisogna ripartire per una rinascita di quel settore che costituisce la base per il futuro della nazione, come da tutti auspicata. Secondo il pensiero di Edgar Morin, illustre sociologo ed epistemologo francese, perché l’universo educativo sia efficiente occorrono tre elementi, che riguardano soprattutto la formazione degli insegnanti: l’aspetto culturale, la preparazione professionale, e la motivazione voca-


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zionale, senza quest’ultima, di natura precipuamente spirituale e qualitativa, anche gli altri due aspetti non potranno essere efficaci. È chiaro per Morin, teorico della teoria della complessità, che anche nell’opera delicata e importante della istruzione educativa, è indispensabile l’impegno della famiglia, degli enti sociali, dello stato e della politica, tutti coinvolti nella formazione delle nuove generazioni, per la costruzione di una nuova società e di un mondo migliore.


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C. PICCARDO – R. NARDIN – S. CORSI, La Sapienza monastica: una tradizione vivente, Borla, Roma 2006. Uno dei termini chiave per comprendere la perenne bellezza e validità della vita monastica cristiana è senza dubbio “sapienza”. Sulla sapienza monastica molto si è scritto — dandolo anche come titolo, un po’ di anni or sono, ad una raccolta di scritti del monaco camaldolese Emanuele Calati — perché uno dei modi più chiari per parlare della via monastica tout court, cammino di sequela Christi sulla scia di padri e madri che hanno portato a Cristo i fratelli e le sorelle, facendoli anche maturare in modo pienamente umano. E proprio su La Sapienza monastica: una tradizione vivente nei giorni 23-27 novembre 2003, nel monastero di trappiste N.S. di Valserena (Guardistallo, Pisa), si è svolto un incontro monastico i cui Atti sono pubblicati nel testo dal titolo omonimo. Il volume presenta le relazioni di madre Cristiana Piccardo, abbadessa del monastero trappista di Vitorchiano dal 1964 al 1988, fondatrice del monastero di Valserena (1988) ed ora residente in in una comunità venezuelana, di dom Roberto Nardin, monaco benedettino della Congregazione di Monte Oliveto e docente alla Pontificia Università Lateranense e all’Istituto Monastico del Pontificio Ateneo S. Anselmo (Roma) e di don Santino Corsi, prete diocesano di Bologna che ha dato vita alla comunità, di ispirazione monastica ma pienamente inserita nella diocesi felsinea, dei “Discepoli del Signore”. Volutamente, perché non andasse perduta la preziosa ricchezza dei contenuti dibattuti nei giorni dell’assise monastica, il volume riporta anche le domande dei monaci e delle monache — tutti di monasteri dell’Italia Centro-Settentrionale — e le risposte dei relatori, nonché i contributi offerti da diversi partecipanti all’incontro nelle diverse tavole rotonde che hanno ritmato i giorni. Il risultato è un libretto agile, ma denso riguardo ai contenuti, che


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pemette al lettore, non solo al monaco, di approfondire la conoscenza della vita monastica, grazie soprattutto all’esperienza di vita trasmessa da suor Piccardo, vera madre spirituale di tante giovani e protagonista del rinnovamento postconciliare della vita monastica femminile trappista. A lei sono state affidate infatti tre delle cinque relazioni dell’incontro monastico riguardanti: la crescita della persona nella sapienza della Regola; la vita fraterna quale maestra di sapienza; la costruzione della pace nella comunità, valore strettamente legato alla sapienza del perdono. Dom Nardin ha trattato, dopo aver presentato la testimonianza del monachesimo medievale, della formazione monastica nel nostro tempo postmoderno. Il presbitero bolognese don Corsi ha presentato infine la propria vicenda personale in ordine alla lettura sapienziale della Scrittura. Ci auguriamo che si moltiplichino sempre più le occasioni di incontro e di scambio tra le realtà monastiche italiane e che tutti possiamo beneficiare dei contenuti emersi attraverso la pubblicazione di testi come questo apparso l’anno scorso. Mario Torcivia

G. CHIMIRRI, Psicologia del corpo. Materialità, spiritualità e moralità dell’uomo, Armando Editore, Roma 2004. La centralità del tema del corpo è ormai una costante della filosofia e delle scienze umane contemporanee, dopo le tante parzialità spiritualistiche o materialistiche, svelate da Antonio Damaso, in quel libro fondamentale per questo aspetto, che è L’Errore di Cartesio (Milano 1995), in cui l’illustre neurologo è stato forse il primo a svelare le infauste conseguenze, che risalgono a un certo Cartesio, per quella separazione drastica fra res cogitans e res extensa, fra emozione e intelletto, che per secoli è stata un criterio ispiratore della ricerca e un principio speculativo da non violare. Nella stessa direzione si muove la ricerca di Giovanni Chimirri, che si fa apprezzare, per il modo interdisciplinare di affrontare la tematica, costruendo così una moderna e corretta antropologia in tutti i suoi aspetti: culturale, psicologico, filosofico, teologico, in una sintesi di personalismo


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etico. E si raccomanda anche, per lo stile piano, scorrevole, leggibilissimo e quindi fruibile da parte di un largo numero di lettori, in special modo delle nostre scuole. Che sia un tema attualissimo, basti ricordare che proprio nel prossimo 6-8 settembre si svolgerà a Cividale del Friuli (Udine) il XXI Convegno Nazionale di Filosofia su: Verità del corpo, organizzato dall’ADIF (Associazione Docenti Italiani di Filosofia), Presidente A. Molinaro dell’Università del Laterano, Roma. Il volume del Chimirri si articola in cinque capitoli, seguiti ciascuno da una vasta e appropriata bibliografia. Già nel primo capitolo che si intitola, Il corpo in questione si danno le idee base che reggono tutto il percorso del testo: la psicologia del corpo deve essere intesa come psicologia dell’uomo nei due aspetti fondamentali, quello materiale e quello spirituale, dentro il quale risalta l’aspetto etico. «Da qui deriva quella concezione bipolare dell’uomo che pervade tutta la nostra ricerca, scrive l’A.: l’uomo come unità psicosomatica, ovvero l’uomo come con-fusione di materia e spirito, di carne e di mente, di corpo e di anima, di fisicità e di razionalità, di datità e di valore, di sensazione e di idea. L’uomo deve vivere concordando ed armonizzando questa sua bipolarità costitutiva» (p. 15). E in questo l’Autore segue la concezione antropologica di Antonio Rosmini (il più grande filosofo italiano del suo secolo, 1797-1855) e il suo sintesismo filosofico, che considera l’essere sotto tre forme: ideale, reale e morale; ma questa trinità di forme si unifica nell’essere morale, sicché il Chimirri può concludere che «una vita merita questo nome solo se si fa azione etica, azione unificante e riconoscente. Gli uomini vengono giudicati e ricordati, essenzialmente, per quanto hanno saputo donare all’umanità, per quanto hanno saputo contribuire al progresso della storia. Il santo, lo scienziato, l’artista, l’imperatore, il filosofo ecc. valgono soltanto per il contributo che hanno saputo dare al miglioramento esistenziale, politico e morale dell’uomo. È in forza di tutte queste considerazioni preliminari, allora, che la nostra prospettiva psicologica, può essere qualificata sostanzialmente come “psicologia antropologica” o come “psicologia filosofica” o come “psicologia morale”» (p. 16). A questo punto ci sentiremmo di aggiungere due osservazioni: la prima sulla linea del pensiero del Rosmini che svela come ogni modificazione delle sensazioni avviene nell’ambito del sentimento fondamentale


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corporeo, per cui il principio senziente fa avvertire il corpo come il mio corpo, sintesi quindi di anima e corpo, organicamente uniti, mai separati! L’altra osservazione o integrazione che ci sentiamo di fare è alla luce di una più recente opera del Chimirri stesso, secondo cui, dato che la nostra vita esprime il suo significato nel desiderio di verità, soltanto la dimensione religiosa è in grado di offrire una risposta totale e radicale alle grandi questioni, compresa quindi la problematica della corporeità, che travagliano il cuore di ogni essere umano (cfr. Capire la religione). Una sana concezione antropologica, dal punto di vista filosofico, si articola, dunque, in rapporto con le scienze, da un lato, e in rapporto con la religione e la teologia, dall’altro. Dopo il primo capitolo che ha carattere introduttivo e in cui si sottolinea come alla luce del concetto di persona è possibile comprendere il significato del corpo in se stesso e nelle sue dinamiche fondamentali, l’A. stesso ci dà una sintesi dei quattro capitoli successivi: Il corpo rappresenta la condizione materiale ed esistenziale dell’uomo come persona, come sintesi di corpo-anima (cap. II, p. 35) — Il corpo come linguaggio, come comunicazione, come bellezza, come pudore del sé ( cap. III) — Il corpo come sensorialità nei suoi dinamismi delle pulsioni, che devono essere vissuti in armonia con la volontà, il bene i valori ( cap. IV). — Il corpo come strumento di perpetuazione della specie. In questo ultimo capitolo si affrontano i temi dell’erotismo e della sessualità; della morte del corpo, della sua resurrezione e della resurrezione della persona (cap. V, ibid.). Personalmente abbiamo voluto percorrerlo in una lettura dal punto di vista pedagogico-educativo, perché riteniamo il volume adatto per le scuole superiori, come corso centrale di Antropologia, che coinvolga in modo interdisciplinare i professori di lettere, di filosofia, di materie scientifiche e perché no, anche gli altri. Ecco alcuni temi comuni, per educare nella scuola alla responsabilità morale in una società complessa, nel tempo della post-modernità. I. — Per introdurre il problema bisogna preliminarmente porsi la domanda di quale sia la costituzione dell’uomo come nesso corpo/anima. A tale domanda hanno cercato di rispondere, oltre a filosofi di vario orientamento, alcuni di estrazione fenomenologica come: Husserl, Sartre o Merleau- Ponty, (pp. 41-51, per cui si può vedere anche l’ottima antologia: V. MELCHIORRE [cur.], Il corpo), ma anche prima, in ordine di tempo, se ci


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si riferisce ai filosofi dell’area materialistica, e, dal punto di vista opposto, ai filosofi dell’area idealistica, (pp. 182-183); soluzioni entrambe che non soddisfano per il loro parzialismo, e per evitare ogni dissociazione occorre, quindi, ritornare al realismo: sulla cui direzione si è mossa la tradizione tomistico-cristiana: da sant’Agostino a san Tommaso, a Rosmini, alla Veritatis splendor (n. 48), di Giovanni Paolo II. II. — Seconda pista per un eventuale lavoro scolastico. La medicina psicosomatica, (pp. 51-65) che permette un approccio globale verso l’uomo, i cui singoli aspetti (vitale, mentale, spirituale) non sono che fattori parziali e insufficienti, se presi isolatamente. Qui si affrontano le questioni dell’igiene, molto importanti in una scuola di adolescenti e giovani (pp. 66-76); e i disturbi psicosomatici. III. — Terza pista di lavoro. Il corpo come linguaggio e come mezzo di comunicazione con esempi di linguaggi non verbali: lo sguardo e la carezza. L’estetica del corpo: la bellezza esteriore e quella interiore; la nudità e la questione del pudore (pp. 86 ss.). IV. — Quarta pista di lavoro. Le passioni umane e il male — Filosofia e psicologia del piacere e del dolore: dai greci alla psicoanalisi; in rapporto con i valori e la questione del senso della vita (pp. 116-142). Qui privilegerei le vedute della Logoterapia di Viktor Frankl. V. — Quinta pista di lavoro. Il corpo come realtà sessuata: importanza della conoscenza biologica e psicologica della differenza sessuale di maschio e femmina e i principi di etica sessuale — Eros e thanatos: la paradossalità della vita e dell’amore — Sopravvivenza e immortalità (pp.145- 187). Qui si impongono la lettura e il commento del Deus Caritas di Benedetto XVI; e una integrazione degli aspetti sociali del corpo. Il volume del Chimirri, lo ribadiamo, si apprezza per il carattere enciclopedico ma sintetico e piano, didascalico, adeguato dal punto di vista didattico agli alunni delle varie scuole superiori, infatti ogni termine specifico e ogni nome di personaggio viene spiegato all’interno del testo stesso, senza la necessità di ricorrere a volumi esterni: per questo lo riteniamo un testo utile da adottare nelle nostre scuole. Salvatore Latora


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G. CHIMIRRI (cur.), L’etica dell’Idealismo. La filosofia morale italiana tra neohegelismo, attualismo e spiritualismo. Mimesis, Milano 1999. È giusto non tralasciare un filone di pensiero come l’Idealismo, tanto fecondo in Italia e all’estero dalla fine dell’Ottocento ai primi trent’anni del Novecento, anche se poi dalla fine della seconda Guerra Mondiale venne dimenticato, sia per il coinvolgimento con il fascismo da parte del Gentile, sia perché la cultura generale di allora ebbe a privilegiare le correnti di pensiero diffuse all’estero. Ma ora che siamo un po’ distanti dalle passioni ideologiche e politiche di quel periodo di rigetto e si registrano forti segnali di stimolo ad una lettura più serena delle opere di quegli Autori, si apprezzano di più opere pregevoli come questa di Giovanni Chimirri, che richiama l’attenzione sul primato della “parte etica” del pensiero idealistico, per lo più trascurata dalle varie opere storiografiche dell’idealismo. Oggi, infatti, è sotto l’attenzione di tutti, che le scuole filosofiche predominanti come l’ermeneutica tedesca, il post-strutturalismo francese, il neomarxismo della Scuola di Francoforte e la Scuola analitica dei paesi anglosassoni, che intorno agli anni sessanta hanno riscosso tanto successo, negli ultimi vent’anni sono entrate in crisi, non essendo stato in grado di far maturare né culturalmente né socialmente la nostra società, lasciando anzi un senso di scetticismo generale o di nichilismo diffuso sull’onda della crisi esistenziale di una filosofia debole! È così che Autori e Correnti filosofiche, considerate superate e inattuali, riemergono sotto la spinta di un cambiamento ricostruttivo. «Consultando vari manuali di storia della filosofia scritti da eminenti cattedratici italiani, sottolinea il Chimirri, si può constatare facilmente come la grande stagione dell’idealismo italiano viene ridotta ai soli nomi di Croce e Gentile… Ed è un vero peccato che si finisca il liceo o l’università senza aver mai conosciuto e letto B. Spaventa, senza il quale non ci sarebbe stato G. Gentile; oppure P. Martinetti, che non è inferiore al Croce. E che dire degli altri idealisti minori, che minori non sono, come Maturi e Carlini, come Spirito e Sciacca, come Fazio-Allmayer e Juvalta, come Chiavacci e Antoni, come Calogero e De Ruggiero, come Saitta e La Via (direi meglio Bontadini, tralasciato, e La Via!) e tanti altri ancora» (Premessa, pp. 8-9). Tutti professori universitari, ma veri maestri e “padri spirituali” dei loro


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allievi che seguivano con cura; grandi studiosi, scrittori, traduttori ed editori, che in somma fecero della filosofia la loro missione! Il volume, oltre a trattare in otto capitoli le problematiche del pensiero idealistico: L’eredità e l’attualità dell’Idealismo (cap. I); La molteplicità degli idealismi (cap. II); Idealismo e filosofie (cap. III); L’essenza dell’idealismo (cap. IV); nei due capitoli successivi affronta il tema proprio del libro, e cioè il tema dell’etica idealistica: Idealismo ed etica (cap. VI); Tematiche dell’etica idealistica (cap. VII). Segue poi una raccolta di essenziali schede bio-bibliografiche sugli autori proposti, n° 16, per la precisione: Figure ed opere dell’idealismo morale italiano (cap. VIII); segue poi una nutrita e articolata bibliografia, sui temi generali dell’idealismo e sui singoli autori citati. L’ultima sezione del libro (pp. 107- 191) è dedicata alla raccolta antologica di brani essenziali delle opere dei sedici autori scelti, assai interessanti anche perché: «A parte infatti qualche eccezione, quasi tutte le opere di questa antologia non vengono più ristampate da molti decenni (qualcuna da circa un secolo); a causa forse del loro scarso valore commerciale, che è invece diametralmente opposto al loro valore effettivo, speculativo» (p. 7). Abbiamo lasciato appositamente per ultimo, il capitolo V, in cui l’Autore affronta le critiche all’idealismo in funzione della legittimità e possibilità di un’etica filosofica. Ora, stando alle cinque critiche che egli elenca nei confronti dell’idealismo, e cioè: critica del solipsismo, del trascendentalismo, del panteismo, dell’idealità e irrealtà del finito, e infine dell’antiteismo, è chiaro che con queste premesse una legittima etica filosofica non può reggersi. Eppure il Chimirri conclude il suo discorso appoggiandosi ad una citazione di Fiche, proprio a un filosofo dell’idealismo etico, il quale sostiene la necessità del rapporto della morale con la religione: «moralità e religione sono assolutamente una cosa sola, entrambe costituiscono un attingimento del soprasensibile, la prima mendiante l’agire la seconda mediante il credere… La religione senza moralità è una superstizione» (Ma questo è Kant!). L’aporia sul piano della filosofia idealistica resta! Si può tuttavia giustificare l’agire etico sul piano pratico, come fa Fiche, come ha fatto Gentile con Genesi e struttura della società e come fanno tanti altri proclamando: “Tornino i volti” e il primato dell’etica, secondo Lévinas o Mancini, ma l’aporia sul piano filosofico non può restare


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irrisolta: È vero: la perenne verità di alcune tesi dell’idealismo come l’immanenza gnoseologica e la riconduzione dell’essere finito nell’Assoluto, resta; ma resta anche la sua invincibile aporia: se si pretende di fare una filosofia dell’assoluto all’insegna dell’immanentismo metafisico, si viene ad annullare di conseguenza, l’uomo singolo, libero e responsabile e quindi si annulla ogni etica con la risoluzione dell’uomo nel divenire! dell’Assoluto (Un assoluto che diviene non è più Assoluto: così cadiamo nel Nichilismo!). Tutti coloro che come Carlini, Guzzo, Battaglia, Sciacca, La Via, che hanno cercato di comprendere l’idealismo come eticità, non si può dire che siano rimasti idealisti! Si può certo affermare un’etica sul piano pratico, ma tutto è possibile sul piano pratico, anche l’ateismo pratico è possibile, ma non sul piano teoretico e filosofico: L’ateismo come negazione impossibile, è il titolo di un rigoroso saggio di Vincenzo La Via. La Via, il più profondo studioso del pensiero del suo maestro, il Gentile, ci ha proposto un metodo: l’autocritica dell’idealismo, attraverso cui, elaborando una controrivoluzione copernicana perviene ad un Assoluto realismo, analizzando il Conoscere fondante, sintesi di immanenza e trascendenza. In questa rigorosa opera speculativa, oltre alla elaborazione critica e al ribaltamento dell’Attualismo gentiliano, egli ha rivissuto la lezione del Rosmini, che indica sì il primato dell’etica, ma come sintesi trinitaria delle altre forme dell’Essere, quella ideale e quella reale. La Via ha tenuto presente e ha rielaborato anche la trilogia di Maurice Blondel: Il pensiero; l’essere e gli esseri; l’Azione, in cui il filosofo francese afferma qu’entre être et connaître il y a agir, consentendo, insieme con il La Via, la restituzione del realismo, il percorso della saggezza, smarrita dagli irrazionalismi moderni, compreso l’idealismo; l’armonia del pensiero e della fede, della filosofia e della teologia, per non sottrarci all’appello della Carità, che deriva da quella filosofia naturaliter christiana,quale itinerarium ad Evangelium (cfr. Atti del Convegno sul pensiero di V. La Via, Catania 2000). Salvatore Latora


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G. CHIMIRRI, Lineamenti di estetica. Filosofia dell’opera d’arte, Mimesis, Milano 2001. Ci troviamo di fronte ad un’opera altamente didascalica, che per la sua struttura manualistica e per la scorrevolezza del linguaggio si rivolge non solo agli studenti di Estetica, ma anche ad un largo pubblico di studiosi. In essa, Giovanni Chimirri, servendosi della sua vasta cultura e della sua lunga esperienza come autore di parecchi volumi e collaboratore di diverse riviste nonché direttore di collane librarie, affronta in 10 capitoli quasi tutte le questioni inerenti alle problematiche dell’arte. La vita come arte: condanne di ieri e rivalutazioni di oggi (cap. I) — La filosofia dell’arte e la critica d’arte (cap. II) — L’essenza dell’arte: simbolismo e tecnica; gerarchia e classificazione delle arti (cap. III) — L’arte come espressione di personalità: psicoanalisi dell’arte; comunicabilità, socialità e strumentalizzazione politica dell’arte (cap. IV) — Gli elementi dell’arte: ispirazione, creazione, imitazione, tradizione, innovazione, kitsch, riproduzione e falsificazione delle opere d’arte (cap. V). I restanti quattro capitoli (capp. VI, VII, VIII, IX) possono essere raggruppati insieme, perché trattano angoli visuali dello stesso problema: La possibilità della catarsi artistica — Autonomia e moralità dell’arte — La responsabilità etica e sociale dell’artista — Il rapporto tra arte, religione e filosofia — Arte sacra e arte religiosa, cristiana e non — L’arte liturgica. L’ultimo capitolo, il X è riservato a: Esperienza estetica e contemplazione — Metafisica della bellezza — La struttura oggettiva del bello (chiarezza, integrità, proporzione, ornamento, inutilità) — Il bello umano (psicologia della corporeità, della nudità, dell’espressività) — Il sentimento del sublime. In questo vasto panorama cercheremo di enucleare alcune problematiche essenziali che abbiano principalmente valore educativo e didattico. In primo luogo, alcune definizioni, che rielaboriamo con l’aiuto dell’Autore: cosa si intende per arte e qual è il suo rapporto con la vita, non in generale ma nel senso esistenziale di ciascuno di noi; e poi quale significato diamo alla Filosofia dell’arte e qual è il concetto e il fine dell’Estetica. «L’arte è da considerare, come una delle principali, fondamentali e irrinunciabili espressioni della nostra personalità. La persona umana è una con-fusione di spirito (mente, idea, ragione, volontà, libertà ecc.) e di corpo


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(quella massa materiale che ci àncora alla terra); e l’arte sembra proprio essere quel mirabile mezzo, che unisce, ravviva, rinvia, trasforma ora l’elemento spirituale in quello materiale ed ora l’elemento materiale in quello spirituale (così Schiller)… L’arte, in forza della bellezza prodotta e in forza dei valori che rappresenta, per lo più in maniera simbolica, conduce ed innalza la sensibilità e la sensualità dell’uomo verso il mondo spirituale e del pensiero» (p. 11). L’arte quindi come ideazione e creazione del bello e come contemplazione simbolica di valori è una delle espressioni della creatività della persona ed ha una funzione catartica, di purificazione, di sublimazione. L’Estetica, dal greco àisthesis = sensazione, percezione, oltre che riflessione sulla percezione, secondo l’etimologia, si è andata sviluppando come riflessione filosofica sulle opere d’arte e sulla creazione artistica. Ora, poiché la riflessione filosofica riguarda tutto l’uomo con la sua propensione, non solo verso il bene, ma anche verso il male: lo stesso deve ipotizzarsi per l’arte, che può indurre al male e che quindi può essere fonte anche di corruzione, sicché molti Autori hanno pensato di limitarla per legge o addirittura di bandirla dallo stato! Il Chimirri si pone il problema e vi dedica tutto un capitolo in cui risponde dicendo: «Il male che l’uomo può esprimere nell’arte e che attinge inevitabilmente dalla propria realtà personale, deve essere un male solo possibile, ipotizzato, raffigurato, oggettivato in un’alterità che è l’opera d’arte.In quanto rappresentato,questo male non è il vero male reale (verso il quale amiamo sentirci piuttosto vittima), ma qualcosa che è stato deliberatamente costruito come possibile, che è stato riconosciuto come tale, quindi nel contempo giudicato e condannato. Il soggetto, il contenuto, l’oggetto, la storia, il personaggio cattivo creato dall’artista, non diventa una potenza autonoma in grado di compromettere da sé ed automaticamente i valori morali, giacché l’opera d’arte dipende pur sempre dall’interpretazione del suo autore, della critica e del pubblico» (p. 77). Qui è evidente la implicazione di diversi fattori: in primo luogo si pone il problema della libertà dell’artista e quindi dei limiti di tale libertà (cfr. tutto il cap. VII: Autonomia e moralità dell’arte, pp. 83-86; e il cap. VIII, L’artista e il pubblico, pp: 89-92); in secondo luogo la funzione della critica, con il suo difficile compito di orientamento, che sappia discriminare, ciò che è arte e ciò che arte non è, anche se seduce; e soprattutto il ruolo dei


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fruitori dell’opera d’arte, che devono essere educati al gusto estetico, e ciò è compito non solo della critica, ma dei principali enti educativi che sono la famiglia, la scuola, la chiesa (cfr. i capp. II, IX, X, pp. 97-135). Ritornando alla dottrina del male e del brutto in rapporto all’arte, l’Autore scrive che il brutto va inteso come espressione malriuscita (p. 81) e il male «metafisicamente non è una sostanza, un “ essere attivo”, un ente reale, ma indica piuttosto, privazione, difetto, parziale corruzione di bene. Il male è un negativo comprensibile soltanto per il suo rapporto al bene, per il suo rapporto al dover essere dell’uomo come affermazione di valori spirituali e materiali. La vita dell’uomo non è mai, sostanzialmente immoralità e irrazionalità, bensì sempre moralità in divenire (per quanti errori e peccati si possono commettere)» (p. 78). Ci sarebbe da tenere presente, per sfatare ogni concezione idilliaca della vita umana, la concezione del negativo e del male nel pensiero di Luigi Pareyson (anche nel dibattito con X. Tilliette ) e al pari della sua teoria estetica della formatività, qui solo citata. Se ora ci chiediamo ulteriormente che cosa è questo fenomeno complesso, che è l’arte, per dare una risposta semplice, pratica e nello stesso tempo comprensiva, rispondiamo che l’arte è ciò che hanno operato, scritto e detto gli artisti. Tale risposta comporta tutta una serie di problemi: l’artista lavora sulla spinta della intuizione e del sentimento con delle parole collegate insieme (o colori o suoni) per creare delle immagini e suscitare emozioni e immagini, che non corrispondono perfettamente al mondo di fuori che fa parte del mistero che ci circonda: realtà e creazione artistica fanno parte di due sistemi distinti, obbediscono a leggi diverse e tuttavia c’è tra di loro un rapporto, che solo l’artista può scoprire e ricreare, attraverso però tutta una serie di tecniche nel modo di operare che richiede, oltre al talento personale, abilità acquisite di quel che si dice la cultura letteraria (cfr. Tecnica e mestiere. L’artigiano e l’artista, cap. III, p. 35 ss., e Gli elementi dell’arte: Ispirazione, Creazione, Imitazione, Tradizione e innovazione, Riproduzione e falsificazione delle opere d’arte, cap. V, pp. 61-72). L’altro tema interessante da trattare in modo interdisciplinare in istituti superiori di scienze religiose, o in facoltà teologiche è il tema del rapporto tra arte-religione-filosofia. In genere il “sacro” domina tutta la vita umana e così la vita dell’arte, per questo buona parte del patrimonio del mondo verte sulla vasta area del sacro, ma questa è una mitologia laica, da cui bisogna distinguere “l’arte religiosa” che è «quella che si riferisce ad una


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determinata religione, con tutta la sua storia, istituzioni e dogmi. Avremo così, allora un’arte cristiana, islamica, buddista, induista, scintoista, confuciana ecc.» (p. 99). Qui l’apporto del cristianesimo è stato enorme «nel campo della musica (vedi il canto gregoriano); nell’architettura (vedi le centinaia di basiliche romane, di cattedrali gotiche, di santuari. Vedi il complesso di S. Pietro a Roma o di piazza dei Miracoli a Pisa, o il duomo di Firenze e di Orvieto, o le centinaia di abbazie e monasteri e conventi e chiostri: nella pittura vedi le stanze di Raffaello, la Cappella Sistina o il Cenacolo Vinciano» (p. 101). L’essenza di tutte queste opere è di ispirazione teologico-filosofica, diversamente dall’arte sacra delle altre religioni; nell’ebraismo e nell’islam, infatti, prevale l’arte della parola e l’arte simbolica. Per tutte queste ragioni crediamo che un’opera come questa sia adatta per l’educazione estetica dei giovani delle nostre scuole superiori,Università e Istituti teologici e di Scienze religiose. Salvatore Latora


Synaxis 25 (2007) 231-232

NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

1. BACCELLIERI IN TEOLOGIA Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia, il 21 giugno 2007: CORSINO SABRINA, L’Etica di Dietrich Bonhoeffer e il suo fondamento biblico. (relatore prof. Giuseppe Ruggieri) Il 22 giugno 2007: MAGLIOCCHETTI WALTER, Pascal e la ricerca di Dio. Dalla testimonianza al dialogo. (relatore prof. Giuseppe Schillaci) STRANO CARMELA, “Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita che è nel paradiso di Dio”. L’albero della vita nel libro dell’Apocalisse. Analisi esegetico-teologica di Ap 2,7; 22,2. (relatore prof. Attilio Gangemi)

2. CONVEGNO CON L’UNIVERSITÀ DI CATANIA Nei giorni 3 e 4 maggio 2007 si è tenuto nell’aula magna della Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Catania, il Convegno di studi su: “Embrioni, cellule e persona: biomedicina, giurisprudenza ed etica a confronto”. Il convegno, caratterizzato da un taglio interdisciplinare, si inserisce nell’ormai tradizionale e consolidata collaborazione biennale dello Studio Teologico S. Paolo con l’Università di Catania.


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

3. COLLEGIO DEI DOCENTI Il 5 giungo 2007, il Gran Cancelliere della Facoltà Teologica di Sicilia, l’Arcivescovo Paolo Romeo, ha nominato Docente stabile dello Studio Teologico S. Paolo il prof. GIUSEPPE SCHILLACI, docente di filosofia. Il 10 giugno 2007, il Preside dello Studio Teologico S. Paolo, su proposta del Collegio docente, ottenuto il benestare del Moderatore, ha nominato Docente incaricato il prof. SALVATORE MILLESOLI, docente di teologia spirituale.

4. VIAGGIO-STUDIO IN TERRA SANTA Dal 4 al 10 luglio 2007 si è svolto un viaggio studio in Terra Santa per docenti e alunni dello Studio Teologico S. Paolo. Il viaggio è stato guidato e animato per gli approfondimenti biblici e spirituali dal prof. Attilio Gangemi e dal prof. Dionisio Candido docenti di Sacra Scrittura del S. Paolo.

5. NOMINA EPISCOPALE In data 16 luglio 2007, Benedetto XVI ha nominato vescovo di Noto MARIANO CROCIATA del clero della Diocesi di Mazara del Vallo.


Synaxis «NUMERI MONOGRAFICI»

Synaxis XIII/1 - 1995

«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900 Synaxis XIV/1 - 1996

«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FASULLO, Una religione mafiosa A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgico-celebrative


S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa

Synaxis XV/2 - 1997

«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero S. VACCA, Società e Cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale


Synaxis XVI/2 - 1998

«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia C. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare Synaxis XVII/1 - 1999

«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia


P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione Synaxis XVII/2 - 1999

«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna


Synaxis XVIII/2 - 2000

«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo) N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia


Synaxis XIX/2 - 2001

«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La Chiesa e gli infedeli Synaxis XX/2 - 2002

«Chiesa locale e istituti di vita consacrata» F. CONIGLIARO, Il presbiterio: un ministero per la Chiesa locale R. FRATTALLONE, I presbiteri “religiosi” e la pastorale diocesana A. NEGLIA, Il carisma degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica nella Chiesa locale C. TORCIVIA, Partecipazione dei membri degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica al progetto pastorale diocesano


Synaxis XX/3 - 2002

«Per una spiritualità del Vaticano II» P. HÜNERMANN, Esiste una spiritualità del Vaticano II? G. ALBERIGO, Le ragioni dell’opzione pastorale del Vaticano II G. ALBERIGO, Lo spirito e la spiritualità del Vaticano II Synaxis XXIII/1 - 2005

«Dimensioni della ritualità» G. RUGGIERI, Introduzione A. COCO, Riflessioni su storia, struttura e rito nella cultura del secondo Novecento R. OSCULATI, Rito ed etica. Per una lettura dell’evangelo di Marco B. FRONTERRÉ, Il tema del sacrificio nella prima agiografia martiriale (II-III sec.). Appunti per una storia della morte nel cristianesimo antico A. LONGHITANO, Ritualità e dinamica del potere nella festa di S. Agata a Catania G. ZITO, Ritualità e conflitti sociali nella festa di S. Agata a Catania dopo l’Unità A. GRILLO, La ritualità della penitenza ecclesiale. intrecci e interferenze tra dimensione rituale, giuridica e teologica della esperienza del perdono R.M. MONASTRA, Fede e Bellezza e la confessione romantica A. ROTONDO, Un cuore pensante… balsamo per molte ferite



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