Synaxis 26 1 (2008)

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SYNAXIS XXVI/1 - 2008

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA



INDICE

Sezione teologico-morale LA LETTERA ENCICLICA SPE SALVI DI PAPA BENEDETTO XVI (Francesco Brancato) . . . . . . . 1. La speranza affidabile . . . . . 2. Per una speranza laica . . . . . 3. Una speranza “condivisa” . . . . . 4. Dal regno di Dio al regnum hominis. L’ambiguità del progresso 5. Progresso e Regno di Dio . . . . . 6. La speranza che va oltre la morte . . . . 7. In conclusione… . . . . . .

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DON STURZO: MORALIZZARE LA VITA PUBBLICA (Salvatore Millesoli) . . . . . . . . Premessa . . . . . . . . 1. Il rapporto tra politica e morale . . . . . 2. La ricerca del bene comune, quale fondamento della politica cristiana 3. L’impegno politico del cristiano è impegno morale . . . 4. Moralizzare la vita pubblica . . . . .

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LA RELAZIONE NECESSARIA E FECONDA TRA BIOETICA E SPIRITUALITÀ NELLA PROSPETTIVA DEL PROCREARE UMANO (Vincenzo Volpe) . . . . . . . . 59 Premessa . . . . . . . . 59 1. Bioetica e spiritualità nella questione antropologica e teologica del procreare . . . . . . . 60 2. L’amore coniugale, “luogo” per un incontro possibile tra bioetica e spiritualità . . . . . . . 63 3. La vita trinitaria, modello della bioetica cristiana . . . 67 4. Il dono sacro della vita tra libertà, responsabilità e verità . . 70


Conclusione

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«DOV’È ABELE, TUO FRATELLO?» (GEN 4,9). LA RADICE DEL CONFLITTO E LA POSSIBILE SOLUZIONE SECONDO IRENEO DI LIONE (Biagio Aprile). . . . . . . . . 79 1. La natura dell’uomo: plasma e Spirito. . . . . 82 2. La condizione originale di Adamo . . . . . 86 3. I due segni del conflitto: l’angelo e il serpente . . . 91 4. Verso una soluzione del conflitto . . . . . 94 5. Quale compito per i credenti? . . . . . 99

Sezione miscellanea SPERAR DI ESSERE NELLA VERITÀ (Giuseppe Schillaci) . . . Premessa . . . 1. La verità afferrata . . 2. La verità cercata . . 3. La verità sperata . . Conclusione . . .

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SULLA “TRANSLATIO” DI S. AGATA DA COSTANTINOPOLI (Marina Manuela Cafà) . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . 1. Il culto di s. Agata nell’oriente bizantino: le fonti . . . 2. La spedizione di Maniace in Sicilia nella tradizione storiografica bizantina . . . . . . . . 3. Le testimonianze di area occidentale: Orderico Vitale e Guglielmo di Malmesbury . . . . . . . 4. L’epistola del vescovo Maurizio: caratteristiche e testimoni superstiti 5. Riflessioni sul presunto furto delle reliquie di s. Agata da parte del generale Maniace . . . . . . Conclusione . . . . . . . . IL SEMINARIO DI NOTO (1852-1913) (Antonio Sparacino) . . .

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1. Gli eventi iniziali . . . . . . . 2. Il seminario dal 1852 al 1878 . . . . . 3. I padri Gesuiti alla guida del seminario (1878-1894) . . 5. La direzione del seminario affidata ai Padri della Missione (1904-1915) 6. Gli alunni . . . . . . . . 7. La formazione disciplinare, didattica, spirituale . . . Conclusione . . . . . . . .

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Note ARCHIVI ECCLESIASTICI ITALIANI: SITUAZIONE E PROBLEMATICHE (Gaetano Zito) . . . . . . . .

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IN MEMORIA DEL PROF. SEBASTIANO GOZZO. Omelia ai funerali. Siracusa, 28 Dicembre 2007 . (Giuseppe Costanzo)

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Recensioni .

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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO



Sezione teologico-morale Synaxis 26 (2008) 7-44

LA LETTERA ENCICLICA SPE SALVI DI PAPA BENEDETTO XVI

FRANCESCO BRANCATO*

1. LA SPERANZA AFFIDABILE Il 30 novembre 2007, festa di s. Andrea apostolo, Benedetto XVI ha firmato la sua seconda lettera enciclica dal titolo Spe Salvi, dedicata al tema della speranza1. È un’enciclica che ci consente di avviare una riflessione seria circa il contenuto della speranza cristiana e quanto essa ha da dire al mondo contemporaneo in cui, forse, siamo poco interessati alla provenienza e alla destinazione, ma soltanto al transitare, al saper vivere e risiedere nel mondo. L’uscita dell’enciclica è stata accompagnata da tutta una serie di reazioni sia in campo ecclesiale, come è naturale, sia in ambienti culturali laici. Se la prima reazione è scontata, non lo è certamente la seconda, che non ha mancato di rimettere in mostra perlomeno l’interesse (il rinnovato interesse) di molta cultura laica che precedentemente si sarebbe forse limitata a snobbare gli interventi magisteriali della Chiesa, e che ora, invece, sembra sempre più interessata ad un confronto con essa. Un confronto critico e non sempre costruttivo, se si tiene conto anzitutto del tono e del contenuto di molti interventi apparsi nei quotidiani nazionali da parte di non pochi intellettuali e filosofi italiani2. Il tema della speranza è certamente inte*

Docente incaricato di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di

Catania. 1 I riferimenti sono tratti dall’enciclica pubblicata dalla Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007. 2 Basta riprendere la rassegna stampa dei principali quotidiani italiani dei giorni successivi all’uscita dell’enciclica, per rendersi conto di quante reazioni essa abbia prodotto


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Francesco Brancato

e di che natura queste siano state. In alcuni casi si ha proprio l’impressione che secondo alcuni l’intervento papale sia accostabile, per toni e anche per contenuti, alla Mirari vos di Gregorio XVI, del 1832, o al Sillabo di Pio IX, del 1864, a motivo del giudizio dato sulla “modernità”. È quasi superfluo affermare che la Spe salvi si muove, in realtà, lungo un orizzonte diverso e molto distante da quegli interventi magisteriali. In ogni caso, la seconda enciclica di papa Ratzinger, secondo Marco Politi, è molto colta, ma è anche molto europea, “sottilmente integrista”. Vi si parla infatti di Agostino, Bacone, Kant, Engels e Marx, si cita la scuola di Francoforte e il greco Massimo il Confessore, ma — a parte un cenno alla santa africana Bakhita e a un martire vietnamita — il vasto mondo globalizzato con le sue molteplici culture è come se non esistesse. Il Papa intende in ogni caso «rinnovare la speranza nei paesi di vecchia cristianità, che sono diventati tiepidi». Ciò, secondo Politi, porta a considerare la speranza come qualcosa che viene sì da Dio, ma dal Dio cristiano, anzi cattolico. L’enciclica contiene anche una reinterpretazione suggestiva del Giudizio Finale ed è un testo complesso, da studiare attentamente, anche se offre il fianco a riflessioni critiche (Repubblica, 1-12-2007: www.repubblica.it/2007/10/sezioni/esteri/benedettoxvi-17/commento-politi-enciclica.html). «Luci ed ombre» sono presenti nell’ultima fatica letteraria di Joseph Ratzinger secondo il filosofo e sindaco di Venezia Massimo Cacciari, il quale, pur apprezzando l’impianto complessivo della Spe salvi, e definendo l’intervento del papa “di grande interesse”, tuttavia non nasconde le proprie “perplessità” circa le critiche avanzate dal Pontefice al pensiero di Marx e all’Illuminismo (Repubblica, 1-12-2007). Gianni Vattimo, su La Stampa dell’1-12-2007, affermava che nell’enciclica c’è una condanna troppo forte nei confronti della modernità. Per Benedetto XVI, infatti, il «cristianesimo moderno» è degno solo di una autocritica, del resto connessa con quella che viene richiesta a tutta la modernità. Secondo il filosofo torinese, mentre l’enciclica abbonda, com’è giusto, di citazioni scritturali e di richiami ai Padri della Chiesa, evita completamente ogni riferimento alla teologia contemporanea, che pure non è affatto silenziosa sulla tematica della speranza, a cominciare dalla Teologia della liberazione. Il silenzio sui teologi di oggi, tra le tante citazioni di cui è costellato il testo papale, non può non collegarsi all’amputazione di una parte della tradizione ecclesiale che il Papa vede come limitata a testi più antichi. Il cristianesimo moderno deve fare autocritica perché, evidentemente, si è lasciato infettare dal virus della modernità che è il culto eccessivo della ragione e della libertà. Se questo giudizio di Vattimo ci appare duro, non lo è certamente quanto quello, scontato e davvero prevedibile, espresso da Eugenio Scalfari su Repubblica del 2-12-2007, in cui viene riproposto, indipendentemente dal contenuto stesso dell’intervento del papa, un clichè obsoleto e stantio: antimodernismo, integralismo, oscurantismo, ecc. (cfr. www.repubblica.it/2007/10/sezioni/esteri/benedettoxvi-17/papa-mondo/papa-mondo.html). Il filosofo Sergio Givone, intervenendo su Avvenire del 2-12-2007 afferma che l’enciclica ci ricorda che «la salvezza sorge dallo sguardo alle cose ultime». Il Papa nella sua lettera si pone alcune domande fondamentali: qual è il contenuto della speranza cristiana? In che cosa spera chi crede? E in che cosa crede chi spera? Ma la speranza è solamente qualcosa da mettere in rapporto con il presente o al massimo con il futuro prossimo venturo? La storia del cristianesimo, conclude Givone, ci dice il contrario. Il cristianesimo, infatti, non ha mai derogato a un principio di fondo, e cioè che la speranza è da mettere in rapporto non solo e non tanto con le cose prossime, le cose della vita terrena, ma prima ancora con le cose ultime, le cose che hanno a che fare con la vita eterna e che dunque si collocano al di là del tempo e della storia, senza per questo esserne assolutamente estranee. Per Givone, dunque, l’enciclica sottolinea il fatto


La Lettera enciclica Spe Salvi di papa Benedetto XVI

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ressante di per sé, ma ciò che spinge diversi filosofi a entrare nel vivo del confronto e del dibattito, e ad elargire con generosità le loro opinioni e le loro osservazioni, è anche il fatto che Papa Ratzinger ci ha ormai abituati a leggere nei suoi interventi anche il rimando ad autori non strettamente “canonici” o rigidamente legati alla tradizione teologica della Chiesa. Non è infatti raro che nei discorsi del Papa, e perfino nei suoi documenti autorevoli come le encicliche, compaiano confronti diretti con filosofi ed autori quali Kant o Nietzsche, Engels o Marx, ecc. Ma andiamo con ordine. La Spe salvi segue l’enciclica dedicata alla carità, Deus caritas est, e prende il titolo dal versetto 24 del capitolo 8 della Lettera ai Romani: «Spe salvi facti sumus», in quanto «la “redenzione”, la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente» (p. 3). Le parole che introducono l’enciclica meritano un’attenzione tutta particolare in quanto dischiudono il senso dell’intero intervento magisteriale. Il Papa ribadisce in sostanza ciò che è chiaro per la fede ecclesiale. Se la redenzione è già stata operata da Cristo nel suo mistero di morte e resurrezione, essa non ha tuttavia ancora raggiunto la sua perfetta consumazione e pienezza: ciò che si è compiuto nel Capo attende infatti di compiersi perfettamente in tutte le sue membra. Nessuno può pertanto illudersi di aver garantita, nonostante tutto, la redenzione, e soprattutto di aver assicurato l’esito finale del proprio cammino storico, e questo perché la salvezza è sì opera libera e gratuita di Dio, frutto del suo che non si dà alcuna speranza senza le cose ultime. Di conseguenza, legare la speranza alle realtà ultime, quelle che la vecchia manualistica chiamava novissimi, non implica affatto una sorta di regressione antimoderna. Sono, queste, solo alcune delle molte reazioni e dei molti commenti apparsi all’indomani della promulgazione dell’enciclica, che hanno riempito le pagine dei giornali, sia nazionali che, in parte, internazionali, come anche un numero incalcolabile di siti internet e di pagine web. Tralasciamo in questa breve presentazione gli interessanti commenti del Card. G.M. Cottier e del Card. A. Vanhoye fatti in occasione della presentazione ufficiale dell’enciclica, o l’intervista realizzata da N. Gori con W. Giertych, teologo della Casa Pontificia su L’Osservatore Romano del 31-12-2007. Non possiamo rendere conto neppure dell’interessante commento del filosofo inglese R. Scruton su Avvenire del 20-12-2007 e dello stesso R. Girard, sempre su Avvenire del 5-12-1007. Ci limitiamo a segnalare, infine, gli interventi di R. Brague, studioso del giudaismo antico, sia su Avvenire del 13-12-2007, che su Il Foglio del 14-12-2007. Per ulteriori approfondimenti e per consultare soprattutto questi ultimi commenti, si rinvia alla rassegna stampa curata da www.magisterobenedettoxvi-blogspot.com/2007/11/enciclica-spe-salvi-lo-speciale-del.html).


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amore e della sua fedeltà, ma non può realizzarsi in mancanza del libero assenso da parte dell’uomo all’appello rivoltogli da Dio, senza la sua fattiva e volontaria collaborazione all’opera della grazia. La redenzione ci è stata veramente donata, ma nel senso che ci è stata donata la speranza; una speranza che il Papa definisce “affidabile”, in quanto poggia non tanto su calcoli umani e su possibili previsioni, ma su Dio stesso che nella historia salutis si è rivelato come il Dio fedele. La redenzione non è un semplice dato di fatto, dunque. Essa ci è offerta, ma non ha ancora ricevuto risposta la domanda fondamentale posta da Gesù nel vangelo lucano: «Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà fede sulla terra?» (Lc 18,8); un interrogativo che non nasconde tutto l’orrore provocato dal mysterium iniquitatis che attraversa la storia e ne solca i sentieri, rendendo agonica la fede dei discepoli di Gesù che sono chiamati a vivere il proprio presente con tutte le contraddizioni e le fatiche che lo segnano. Il Papa non manca perciò di denunciare tutti i lati oscuri del tempo presente che può essere vissuto e accettato solo nella misura in cui conduce verso una meta; solo, cioè, se è un presente dotato di senso, con un orientamento ben preciso. Altrimenti ci troveremmo a vivere come viandanti smarriti e senza meta, incerti su tutto, compresa la meta e il cammino per raggiungerla. L’insecuritas che caratterizza il mondo contemporaneo è un sintomo dell’incapacità dell’uomo di oggi di individuare una meta sicura, chiara, nella confusione che governa il presente, in cui ogni nodo sembra essere in verità uno snodo; in cui, come ormai più volte si è detto e scritto, tutto sembra essere diventato instabile, liquido, approssimativo, provvisorio3. L’uomo contemporaneo, infatti, non cerca più una meta, ma si 3

Il mondo contemporaneo, diversamente da quanto avveniva in passato, è privo di agganci forti e da tutti condivisi, è plastico e mobilissimo, in continua evoluzione, e per questa ragione difficilissimo da definire e imbrigliare attraverso categorie e concetti universalmente validi. Si potrebbe parlare di complessità, poliformità o addirittura di disseminazione: impossibilità non solo fattuale (de facto) ma anche teorica (de iure) di raggiungere una visione integrata e unitaria della vita e della storia umana. Mentre la cultura moderna era ancora dominata dal problema dell’unificazione del senso, oggi, invece, non si cerca più l’unificazione del senso e non la si vuole trovare (questa unificazione) né nell’ordine del kosmos, come avveniva nella cultura classico-cristiana, né nelle capacità progettuali forti della razionalità storicista (capacità di cogliere l’unitarietà, la linearità e la progressiva maturazione della storia), come avveniva nella cultura moderna. Oggi, ogni approccio è assolutamente relativo e naturalmente proiettato verso altri nodi che a loro volta aprono ad una serie praticamente infinita di nodi, e così via. L’unica legge che forse governa il mondo di oggi è la differenziazione senza fine, la frammentazione e la moltiplicazione.


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accontenta di raggiungere semplicemente la tappa successiva e più prossima del suo vagabondare. Non si aggrappa più a grandi e solide speranze, a grandi visioni che siano in grado di alimentare e orientare grandi progetti, ma si accontenta di possedere microsperanze che lo aiutino a realizzare microprogetti. Non cerca più la salvezza, ma si accontenta del benessere. Ha operato, cioè, non solo la secolarizzazione della salvezza, ma anche la secolarizzazione dalla salvezza, perché ciò che desidera è affrontare il proprio presente o al massimo il proprio domani. L’homo faber ha preso il posto di Dio e si è reso garante della propria realizzazione mondana. Semplicemente mondana. Il vero futuro rimane per lui assolutamente indisponibile e fors’anche improbabile, certamente troppo lontano per essere pensato e costruito in un tempo in cui lo strapotere della scienza e della tecnica, da un lato gli lascia presagire scenari di salvezza sempre più affascinanti, paradisi artificiali e virtuali precedentemente offerti dalla visione religiosa, dall’altro gli fa temere per il suo stesso futuro, in quanto avvicina pericolosamente sempre più lo spauracchio di una conclusione apocalittica del mondo e della storia. Se la politica ha mostrato, soprattutto nelle catastrofi del Novecento, tutta la sua insufficienza a servire da strumento di liberazione dell’uomo e della società, come i grandi sistemi totalitari e il loro fallito tentativo di chiudere la storia hanno purtroppo fatalmente dimostrato, la tecnica, altro braccio dell’emancipazione moderna dell’uomo da qualsiasi ipoteca divina, che sino a non molto tempo fa sopravviveva come un mito ancora possibile, oggi si dimostra incapace di contenere tutte le controfinalità insite nella sua logica e nel suo sistema. La distruttività umana è diventata infatti un pericoloso fenomeno suicida e biocida. Per la prima volta l’uomo percepisce se stesso come più potente della natura, non solo perché può riuscire a piegare il suo corso ai propri fini, ma anche perché può addirittura decidere dell’esserci o non esserci più della natura stessa. L’insicurezza è quindi la cifra del mondo contemporaneo. Un mondo in cui una delle voci di spesa più consistenti degli Stati avanzati è proprio la “sicurezza nazionale” e la lotta al pericolo terroristico. Le condizioni generali del pianeta, la sempre crescente crisi energetica, il cambiamento globale del clima, gli scenari cupi offerti dal terrorismo internazionale di matrice fondamentalista, l’aumento demografico, l’affermazione di nuove superpotenze economiche e militari quali l’India e la Cina che stanno mettendo in discussione gli equilibri internazionali finora raggiunti, la paura per catastrofiche pandemie batteriche, ecc.,


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rendono ancora più cupi gli scenari del futuro e più incerta la meta che l’umanità si sta lentamente avviando a raggiungere. L’uomo contemporaneo si percepisce come disperso e vagante nel labirinto del mondo. In questo clima il Papa parla della speranza come di ciò che permette di affrontare il presente perché orienta verso una meta di cui siamo sicuri. I cristiani, infatti, poggiando la propria sicurezza unicamente sulla parola di Dio, nonostante le prove del presente, «sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente» (p. 5). Per questa ragione i cristiani, che hanno un futuro, non possono affliggersi di fronte alle prove della storia e della vita, come coloro che non hanno speranza (1Ts 4,13). Essi sanno che «il vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma la comunicazione che produce fatti e cambia la vita» (p. 5). In tal senso il messaggio cristiano, precisa il Papa, non è solo informativo, ma è anche performativo, e a causa di ciò il cristiano non può solamente guardare alla storia e limitarsi a considerare tutte le brutture e le contraddizioni che l’attraversano, o fermarsi a proporre una buona notizia che potrebbe sembrare in un primo momento sterile e inefficace, ma deve operare nella storia perché questa si incammini positivamente verso il futuro che in Cristo e per Lui è stato spalancato. Chi ha speranza vive diversamente, e la sua vita nuova non può non lasciare la sua traccia anche nel mondo. La speranza di cui il Papa sta parlando, la speranza cristiana, è quella che è donata dalla conoscenza di Dio, proviene dall’incontro reale con Dio che in Cristo si è reso presente in maniera davvero unica e insuperabile nel mondo. Incontrare Lui significa ricevere speranza, sconoscerlo significa invece non avere speranza (p. 8). È l’incontro con Lui, un incontro, ripetiamolo, non solo informativo ma anche performativo, che cambia la vita dell’uomo (p. 9). La speranza pertanto trasforma dal di dentro l’esistenza dell’uomo, così come tramuta dal di dentro la stessa società. È ciò che avevano ben compreso i primi cristiani. Per loro la società presente è una «società impropria» (p. 11). Essi si sentivano già cittadini della società nuova che Dio stesso ha preparato per coloro che lo amano e osservano i suoi comandamenti. Affermare questo non significa affatto denigrare il mondo presente a vantaggio di quello futuro, ma significa solamente guardare con onestà al mondo attuale con tutto il bene e tutto il male che lo abitano. Significa leggere nel presente tutti i semi di bene che lo alimentano e lo plasmano, ma anche la terribile


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azione della morte «di fronte alla quale la questione circa il significato della vita si rende inevitabile» (p. 13). Lo sguardo del cristiano rivolto al mondo e al presente non sarà dunque né quello illuso e ingenuo di chi non riesce a guardare sino in fondo tutto il negativo che purtroppo penetra nelle pieghe della storia e del mondo, né quello rassegnato di chi, al contrario, non è in grado di scorgere in esso inizi di bene, di vita e di salvezza. Solamente Cristo, vero filosofo e vero pastore, è colui che ha vinto la morte ed ha portato all’uomo la verità che i filosofi avevano cercato invano. È lui che «ci dice chi in realtà è l’uomo e che cosa egli deve fare per essere veramente uomo» (p. 14)4. Nessuna filosofia ha infatti saputo spingersi al di là della soglia della morte e aprire veramente un sentiero capace di inoltrarsi nell’oscurità che avvolge l’oltre della sua soglia. Nessuna filosofia ha saputo parlare all’uomo veramente di speranza, di una speranza affidabile, perché nessuna ha saputo attraversare la valle della morte. Unicamente Cristo, vero pastore, conosce la via che passa per quella valle, e può accompagnare l’uomo, guidare ogni singolo uomo, nella sua solitudine, nell’attraversarla. Lui solamente, infatti, ha percorso sino in fondo questa strada ed è disceso nel regno della morte. Egli ha vinto la morte e ora può condurre ogni uomo nel suo cammino, offrendogli la certezza che con Lui può ormai percorrere perfino la valle della morte. È il mistero del descensus ad inferos, del sabato santo e della notte oscura, che ci dice tutta la drammatica solidarietà di Cristo con l’uomo. Cristo non è infatti l’impassibile eroe greco che va incontro alla morte con l’imperturbabilità di un dio, ma è il Servo sofferente che in obbedienza assoluta e filiale al Padre, ha accolto la morte, estrema umiliazione, dopo aver rivolto a Dio suppliche e preghiere, con forti grida e lacrime, per esserne liberato (cfr. Eb 5,7). Con la sua morte, aggiunge perciò il Papa, egli ha offerto ai credenti una «nuova speranza» (p. 16). Questa speranza è nuova perché non è modellata sulle speranze del mondo, ma trova il suo momento generativo nel mistero pasquale di Cristo. È nuova perché è sguardo rivolto verso il futuro di Dio, è la porta d’ingresso che permette a questo futuro di incontrare il presente e di fecondarlo. In tal senso 4 Difficile non leggere qui il richiamo all’importante testo di Gaudium et Spes 22, cuore dell’intera visione antropologica del Vaticano II, in cui si afferma: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell’uomo». Cristo, nuovo Adamo, continua il testo conciliare, non solo svela pienamente l’uomo all’uomo, ma gli fa anche nota la sua altissima vocazione.


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la fede, che è speranza (p. 3), secondo quanto ci dice ancora la Lettera agli Ebrei (11,1): «È “sostanza” (hypostasis) delle cose che si sperano; prova di quelle che non si vedono», nel senso che la fede è «una costante disposizione dell’animo, grazie a cui la vita eterna prende inizio in noi e la ragione è portata a consentire a ciò che essa non vede» (p. 17). Ciò significa che per la fede, in modo iniziale, secondo la sostanza, sono presenti le cose che si sperano, è presente la vita vera, che ancora non è visibile nel mondo esterno, poiché non appare, ma è tuttavia veramente attuale nell’oggi come «realtà iniziale e dinamica» (p. 17) per il fatto stesso che il credente la porta dentro di sé. La fede è dunque speranza, poiché essa «non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una “prova” delle cose che ancora non si vedono» (p. 19). Dire ciò, continua il Papa, significa affermare che la fede attira il futuro dentro il presente. La figura del futuro nel presente fa sì che quest’ultimo non sia più puro non-ancora, semplice rinvio ad una realtà assolutamente estranea e altra, inavvicinabile, ineffabile, lontana, ma sia al contrario accogliente in sé le realtà attese. Per questa sua apertura ospitale esso si trasforma in un presente sensato, orientato verso una meta certa che però già presagisce e assapora (p. 19). La fede dà perciò alla vita una nuova base e un nuovo fondamento su cui poggiare anche una nuova prassi. Tutto ciò è una “prova” che le realtà future sono già presenti e operanti nella storia, e che la promessa di Cristo non riguarda esclusivamente il futuro, ma è una vera presenza, poiché in Lui ci è stata comunicata la sostanza delle cose future. L’attesa del credente è oramai attesa delle cose future, ma a partire da un presente già donato. È, cioè, attesa che giunga a pienezza il Corpo di Cristo in vista della venuta definitiva del Signore nella gloria5. 5 Non sfugge a questo proposito il retroterra che hanno queste riflessioni del Papa il quale, sebbene non faccia riferimento esplicito alle diverse scuole di pensiero e agli accesi dibattiti che animarono soprattutto la teologia protestante a cavallo tra la fine del XIX sec. e la prima metà del XX, tuttavia ha certamente di fronte a sé il frutto dell’importante confronto che si stabilì tra gli esponenti della cosiddetta escatologia conseguente e quelli dell’escatologia realizzata. Il confronto in campo esegetico-teologico si produsse a partire dalla riscoperta della dimensione escatologica del messaggio di Gesù considerato nel suo contesto storico e culturale. La rilettura della predicazione di Gesù, specialmente delle sue parabole, nonché della sua importante azione taumaturgica e di esorcismo, ha fatto luce, infatti, sul significato del suo stesso messaggio che non poteva essere ridotto a semplici insegnamenti


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Nessuna fuga dal mondo e dalle realtà terrestri, nessun disimpegno nei confronti dell’umanità e delle sue esigenze, sono giustificabili per il cristiano il quale, invece, ha il dovere di immergersi totalmente nel suo oggi senza però venirne assolutamente assorbito e compreso. A questo proposito, è più che legittima e opportuna la domanda che il Papa si pone e rivolge anche a tutti i credenti: la fede cristiana è per l’uomo contemporaneo una speranza che sorregge la sua vita, una speranza performativa, un messaggio che plasma veramente la sua intera esistenza, oppure è stata ridotta ad una sterile informazione ormai stantia e anacronistica? Il credente deve porsi con onestà questo interrogativo perché la sua fede oggi più che mai è messa alla prova in mille modi6. La fede per lui è la sostanza della speranza, è la porta che gli schiude la vita eterna, quella vita che nulla, neppure il progresso tecnologico e le più innovative scoperte in campo medico e scientifico, riescono ad offrirgli davvero. Ma cosa cerca veramente l’uomo di oggi? Cerca ancora la vita eterna oppure si accontenta di vivere di natura morale, ma era la proclamazione del regno escatologico e potente di Dio. Senza entrare comunque nello specifico della complessa questione e controversia sviluppatasi tra gli esponenti dell’escatologia conseguente e quelli dell’escatologia realizzata, si può solamente dire che questo dibattito è stato di fondamentale importanza per l’approfondimento e il rinnovamento dell’escatologia contemporanea. 6 Giovanni Paolo II, da parte sua, in Ecclesia in Europa 7 aveva parlato di offuscamento della speranza soprattutto nel vecchio continente europeo. Egli parlava addirittura delle chiese in Europa come tentate da un ottenebramento della speranza. Il tempo presente, infatti, con le sfide che gli sono proprie, appare come una stagione di smarrimento. Tanti uomini e donne sembrano disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani condividono questi stati d’animo. Al n. 8 aggiunge che si registra sempre più una sorta di paura nell’affrontare il futuro, tanto che l’immagine del domani coltivata risulta spesso sbiadita e incerta. Ciò fa sì che del futuro si ha più paura che desiderio. Ne sono segni preoccupanti, tra gli altri, il vuoto interiore che attanaglia molte persone, e la perdita del significato della vita. Ciò non toglie, comunque, che rimane sempre forte e insopprimibile la nostalgia della speranza, poiché in definitiva «l’uomo non può vivere senza speranza: la sua vita sarebbe votata all’insignificanza e diventerebbe insopportabile» (n. 10). Ma, soggiungeva già allora Giovanni Paolo II, spesso chi ha bisogno di speranza crede di poter trovar pace in realtà effimere e fragili, e così la speranza, ristretta in un ambito intramondano chiuso alla trascendenza, viene identificata nel paradiso promesso dalla scienza e dalla tecnica, o in forme varie di messianismo, nella felicità di natura edonistica procurata dal consumismo o in quella immaginaria e artificiale prodotta dalle sostanze stupefacenti, in alcune forme di millenarismo, nel fascino delle filosofie orientali, nella ricerca di forme di spiritualità esoteriche. Il cristiano, purtroppo, non è assolutamente immune da questi molteplici pericoli (n. 10).


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il meglio possibile il proprio presente fronteggiando, per quanto è in suo potere, le inevitabili avversità che lo segnano? Per l’uomo di oggi, infatti, vivere eternamente sembra addirittura configurarsi quasi come una vera e propria condanna (pp. 23-25). Molta riflessione filosofica contemporanea parla sovente e sempre più insistentemente di felicità di questa vita, del bisogno dell’uomo non tanto di andare incontro ad una vita altra rispetto alla presente, ma di vivere tranquillamente questa vita, o perlomeno di vivere il più a lungo possibile, secondo il dettato nietzscheiano fatto proprio da non pochi filosofi contemporanei: «Non alia, sed haec vita sempiterna»7. Se infatti guardiamo alla situazione filosofica contemporanea, specialmente a quella italiana, ci accorgiamo immediatamente che la abita un forte senso della finitudine. Non tanto una finitudine su cui la filosofia trascendentale intende meditare e che vuole chiarire, ma una finitudine insuperabile, senza fondamento, nichilista. La filosofia di molti autori di oggi propone una ricerca di saggia riconciliazione con la vita, anche se profondamente pagana. È concentrata nell’istante del presente e fa a meno sia di un futuro progettato che di un salvatore atteso. La saggezza di molti filosofi contemporanei, come vedremo più avanti, in maniera del tutto particolare di molti filosofi italiani, si misura sull’esperienza presente, sulle circostanze date, felice dell’“istante” offerto, senza memoria né speranza8. 7 Citazione ripresa dai Frammenti postumi di F. Nietzsche e riproposta da moltissimi filosofi, tra cui E. SEVERINO, in La Follia dell’Angelo, Milano 2006, 130; o da S. NATOLI, in La felicità di questa vita, Milano 2001, usata qui come esergo. 8 Sono le conclusioni di un lavoro di gruppo diretto da P. Gilbert sul “neopaganesimo” proprio di alcuni filosofi italiani contemporanei (cfr. P. GILBERT [cur.], La terra e l’istante. Filosofi italiani e neopaganesimo, Soveria Mannelli, 2005, 238). A questo proposito Armando Matteo afferma: «I filosofi italiani postmoderni progettano una riconciliazione con il finito che rinuncia alla speranza; anzi la speranza — e in modo specifico la speranza cristiana — è un luogo critico in cui verificare l’attendibilità dell’intera impresa, quasi una specie di largo fossato da attraversare per poter finalmente giungere a quella patria neopagana dell’uomo saggio postmoderno. La parola d’ordine del pensiero filosofico postmoderno è, infatti, quella di fedeltà: fedeltà alla terra dopo il lunghissimo tradimento perpetrato nei suoi confronti proprio a causa dell’influenza del cristianesimo. Bisogna, dunque, tagliare quella corda (in ebraico tikva ha lontane assonanze con corda e con speranza) che lega ancora i contemporanei a “sovraterrene speranze” di nicciana memoria»: La speranza nel pensiero filosofico postmoderno italiano, in F.O. PIAZZA [ed.], I sentieri della speranza. Fonti, paradigmi, contesti, Trapani 2006, 143-157, qui 143-144. Sempre a questo proposito si rimanda all’interessante studio di G. CANTARANO Immagini del nulla. La filosofia italiana contemporanea, Milano 1998.


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2. PER UNA SPERANZA LAICA Facendo a meno della speranza cristiana, in alcuni casi affrontandola direttamente, diversi filosofi italiani contemporanei intendono voltare pagina sulla metafisica e abitare il finito. Presentare per sommi capi l’opinione filosofica di alcuni di loro circa la questione della speranza, ci aiuterà a comprendere un po’ meglio il contesto culturale, almeno italiano, in cui si inscrive l’intervento di Benedetto XVI. È dunque utile a questo proposito riferire, naturalmente in maniera alquanto sommaria, su quanto alcuni esponenti della filosofia italiana contemporanea dicono intorno alla speranza, e soprattutto cogliere la sostanza delle accuse rivolte da molti di loro alla concezione della speranza propria del messaggio cristiano. Diversi pensatori italiani dichiarano infatti vana la speranza cristiana, in quanto nel tempo che viviamo sono venuti meno i presupposti perché abbia senso ciò che intendiamo normalmente con il verbo “sperare”. La speranza cristiana secondo Emanuele Severino, uno dei più conosciuti e importanti filosofi italiani, è infettata di nichilismo. Ad essa subentra l’attesa del disvelamento della verità, che mostra l’essere eterno di ogni finito. La tecnica è l’approdo moderno della speranza di redenzione della vita dell’uomo dalla tragica condizione naturale. La tecnica è oggi il mezzo da cui dipende la salvezza dell’uomo sulla terra. Essa è l’oltrepassamento di ogni limite e la forma più radicale in cui si presenta il divenire. L’uomo di cui si parla è colui che attraverso la tecnica è capace di percorrere tutte le vie possibili, ma che nello stesso tempo, schiavo egli stesso del potere della tecnica, ha un unico traguardo, la morte, almeno secondo quanto afferma la follia nichilista dell’Occidente. La salvezza dal nulla, infatti, è la via sbarrata anche alla tecnica dell’Occidente. L’unica trascendenza che si dà è quella della tecnica che vuole essere oltrepassamento di ogni limite, tentativo di soddisfare le richieste che erano proprie delle più antiche e radicali forme di trascendenza quali la coscienza religiosa, quella artistica e quella filosofica. Ogni speranza di natura religiosa non può avere alcuna ragionevole cittadinanza in un mondo dominato dall’apparato tecnico e dal paradiso da esso promesso e in parte anche realizzato9. 9

Di questo filosofo si vedano soprattutto Pensieri sul cristianesimo, Milano 1995; Oltre l’uomo e oltre Dio, Genova 2002; per non dimenticare Struttura originaria, Milano 19812, e l’ultimo testo Oltrepassare, Milano 2007.


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Per Manlio Sgalambro, invece, filosofo sui generis, la speranza cristiana è una speranza “dozzinale”10, cioè di poco pregio e di scarso valore, di cui si accontentano gli uomini che non cercano la scienza, la verità, ed in modo particolare non si interessano della verità “della teologia”. La fede e la speranza sono degli «squallidi sostegni del nostro incerto destino», egli afferma nella premessa alla seconda edizione del suo libro Trattato dell’empietà, che si prefigge di costruire una “teologia pubblica” in cui, proprio nell’epoca della grande valutazione, ad essere valutato è anche Dio11. Ciò che rimane non è di certo la speranza, pura illusione, ma la semplice Fortuna. Non speranza, ma Fortuna, perché tra i nomi divini quello che li può sintetizzare tutti è Fortuna, che indica nella necessità generale la sorte individuale: se la prima stabilisce l’ineluttabilità della morte, la seconda ne esplicita solamente l’occasione e il momento. Ciò deve essere detto contro la teologia tradizionale che, al contrario, non ha fatto altro se non segnalare all’uomo il limite finale contro cui si sfracella ogni individuo, e indicare altresì l’eventuale contentino finale a cui si va incontro. La speranza, in questo quadro, è per la riflessione teologica un problema di second’ordine. Il problema infatti non consiste propriamente nel fatto che non ci sia nulla da sperare, ma nel fatto che non è possibile sperare nella speranza, che è mantenuta in vita e alimentata dall’inganno secondo cui l’uomo è destinato alla gioia e alla vita piena. La filosofia, cioè, deve aiutare l’uomo ad uscire dallo stato di vera minorità che è proprio di chi vive ancora dell’ubriacatura della speranza, e costringere l’uomo a guardare in faccia il suo destino che non è per nulla differente da quello del sistema solare e della sua lenta e inesorabile fine. Secondo Umberto Galimberti l’autonomia della tecnica dà l’illusione e la cieca speranza all’uomo di poter sciogliere la sua azione dai vincoli imposti dalla Necessità che regge l’ordine cosmico a cui la stessa divinità, per il pensiero greco, è sottomessa. La speranza è allora lo sguardo verso l’orizzonte, ma uno sguardo gettato su quel minimo che suggerisce l’aspetto nascosto del presente, fisso nella direzione a cui esso rinvia. Viene tentata, qui, una risposta alla richiesta di senso; viene dilatato l’orizzonte e approfondito il cammino stesso dell’esistenza. La speranza di cui si parla è 10

Cfr. M. SGALAMBRO, Lettera sull’empietismo e su un recente progresso della teologia, in ID., De mundo pessimo, Milano 2004, 255. 11 Trattato dell’empietà, Milano 1987, 7.


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perciò quella che non aliena l’uomo dalla sua esistenza, che lo fa andare oltre, ampliando i suoi orizzonti e orientando il suo cammino, senza strapparlo comunque dalla terra e senza incamminarlo verso un sentiero che si inoltra al di là dei confini visibili del suo paesaggio. La speranza cristiana è invece vana, perché nell’attuale epoca della tecnica svanisce il senso della storia. La tecnica, infatti, sta attuando un processo di riscrittura-ribaltamento delle categorie fondamentali dell’umanesimo occidentale. In particolare, per quel che riguarda l’orizzonte della religione cristiana, la civiltà della tecnica conduce all’inevitabile distruzione dell’orizzonte della storia come distensione di passato, presente e futuro. L’unico tempo è quello presente. La storia sorge solo a partire dal fine ultimo verso cui si è proiettati (la salvezza, appunto): tale fine ultimo determina la continuità con il presente e il passato, e stabilisce il senso dell’agire. La tecnica, però, «non si propone fini; ciò verso cui si muove non sono scopi, ma risultati delle sue procedure, per cui se la coscienza dell’uomo occidentale è ancora persuasa della continuità storica, il carattere afinalistico della tecnica ha tolto a questa continuità qualsiasi orizzonte in cui reperire un senso. In questo modo la storia giunge alla propria fine, che viene a coincidere con il suo dissolversi nel fluire insignificante del tempo»12. L’imporsi di un tale “insignificante fluire del tempo” segnerà la scomparsa del cristianesimo e della sua speranza. Salvatore Natoli, che nella sua riflessione filosofica parla di “neopaganesimo”, di “cristianesimo di un non credente”, di “felicità di questa vita” e di “etica del finito”, fa notare come l’uomo greco non sappia altro se non ciò che apprende dall’esperienza. Questa gli dice che la sua natura è mortale; che di fronte al dolore, qui ed ora, egli deve lottare e deve sopportarlo. Gli dice che egli non è altro se non una parte del ciclo della natura; che la sua è una speranza breve, non assoluta ma anche non illusoria, carica di incertezza. Nella tradizione ebraico-cristiana, invece, la speranza è fondata sulla certezza che Dio è fedele e che quindi porterà a compimento quanto ha promesso13. In questo quadro si inscrive anche la concezione ebraico-cristiana del dolore. In un contesto, cioè, in cui è possibile sperare oltre ogni possibile speranza, contro la stessa disperazione, non è più da sperare solo ciò che ci si può attendere, ma è propriamente oggetto di 12

Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano 1999, 516. Cfr. L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura contemporanea, Milano 1986, 203. 13


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speranza ciò che è inattingibile, fuori portata, inaudito, perché Dio può spalancare gli orizzonti dell’esistenza mortale al di là dei confini visibili del tempo e dello spazio, e può così mantenere l’uomo perennemente in cammino. Questo cambio di prospettiva non ha però liberato l’uomo dal dolore e dalla paura della morte, ma lo ha condotto ad operare una sorta di sublimazione di questi eventi drammatici, facendo del dolore una prova e della morte, anticipata nella mortificazione corporale e nelle rinunce spirituali, il definitivo e agognato incontro con Dio. La speranza cristiana si dispiega perciò lungo una traiettoria diversa dalla speranza umana e naturale, propria dei greci e della metafisica del tragico. Per questi ultimi, infatti, la speranza era esposizione al possibile, ad un futuro indeterminato, dall’esito oscillante e comunque posto entro un orizzonte vicino, prossimo; un futuro in cui non si danno certezze assolute. Il senso ebraico di sperare ci dice al contrario che la speranza è uguale a fiducia; fiducia che brilla innanzitutto nel fallimento, lì dove tutto è vuoto e si stende l’ombra della morte, perché il Dio biblico, il Dio di Gesù di Nazareth, garantisce la certezza dell’esito al di là di ogni sconfitta. Oltre ogni fallimento, infatti, si aprono nuove possibilità e nuovi orizzonti in un futuro sempre più inesauribile, abitato e schiuso da una speranza assoluta, ma anche lontana. Una speranza e un futuro che sono perciò incentrati sulla fedeltà di Dio che rende poco fondate le speranze degli uomini. Ma «la speranza si volge in disperazione quando c’è un eccesso di fiducia, un’incondizionata confidenza nel futuro»14. La speranza potrebbe allora configurarsi come il male peggiore perché dà l’illusione di vincere il dolore e di accedere a un mondo pacificato. Una speranza che spera così tanto, se è solamente umana, ammette Natoli, è condannata alla disperazione, così come è avvenuto per il mondo moderno. Se quest’ultima affermazione avvicina forse il ragionamento di Natoli a quello proprio della Spe Salvi, ciò che segue marca tutta la distanza dell’argomentazione del filosofo neopagano da Papa Ratzinger. Secondo Natoli, infatti, quanto detto non toglie che anche i pagani sperano. Anzi, egli aggiunge, solo i pagani, i non credenti, sperano in senso stretto, perché la vera speranza è possibile solo in regime di incertezza. La speranza, in effetti, non garantisce che il bene avrà la meglio sul male, tanto meno garantisce un futuro lontano dal tempo presente e dalle attuali condizioni del mondo. 14

B. FORTE – S. NATOLI, Delle cose ultime e penultime. Un dialogo, Milano 1997, 33.


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La speranza possibile è tale solo se è prossima, poiché l’uomo confida nel futuro solo in ragione dell’amore che ha per coloro che gli stanno accanto e per il presente che vive e in cui vive. Certamente è tale non in ragione dei tempi ultimi e dell’eschaton, che invece ritiene come lontani dal suo oggi e dalle persone care per le quali desidera vita e salute nel loro presente. In realtà, continua Natoli, «è a questo mio figlio, a cui voglio bene, che devo preparare il futuro, per lui nutro speranze. Per chi non crede, la speranza nelle cose ultime è troppo lontana per essere rilevante»15. La vera speranza, allora, perché non si confonda con la certezza propria di chi crede, è speranza occasionale, feriale, legata al presente. La speranza del noncredente è diversa da quella del credente per il quale sperare significa in concreto sapere che in qualsiasi caso la salvezza futura, già anticipata nel mistero di Cristo, è certa e assicurata, e che la propria vita, così come quella del mondo intero, è orientata al bene. La speranza cristiana è allora appena toccata dall’incertezza, non è affatto “incerta laetitia”, secondo la convinzione di Spinoza, per cui solo ai pagani è dato di sperare veramente. Se tutto questo è vero, allora è anche vero che la speranza cristiana è giunta al termine della sua parabola. Il tempo presente è infatti segnato dal venire meno di qualsivoglia bisogno di salvezza: è il tempo del pensionamento di Dio. La secolarizzazione ha vinto sulla religione: l’uomo contemporaneo non ha più bisogno di salvezza, cerca solo ed esclusivamente il benessere. Senza il bisogno di una salvezza trascendente, lo spazio della speranza cristiana è nullo. Si tratta solo di gestire l’esistenza. L’esperienza del dolore, profonda e originaria, è per Natoli il vero experimentum crucis dell’esistenza umana ed il banco di prova della fede cristiana nel Dio trascendente, vero garante della promessa (mancata) di redenzione e delle relative (incompiute) speranze. L’unica forma che la speranza può assumere è quella di una pace con il finito, che può al più tradursi in una manifestazione intensa della voglia di vivere. Massimo Cacciari da parte sua sostiene che la speranza è rivolta a ciò che non può essere perfettamente saputo, e ciò che non si può conosce perfettamente e perfettamente prevedere è che nell’eschaton della parusia la dóxa del Figlio si rifletta compiutamente nell’apocalisse dei figli, poiché questo avvento non è in alcun modo fondato su quanto già si è manifestato 15

Ibid., 36.


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e rivelato. La Rivelazione non può dire altro se non la “possibilità” dell’apocalisse dei figli i quali, a loro volta, possono solamente sperarla, senza che dalla Vita intradivina possa venire loro alcuna rassicurante risposta16. Da qui si comprende anche la domanda terribile e radicale di Gesù di cui Luca ci riferisce nel suo vangelo: «Ma tuttavia il Figlio dell’uomo, venendo, troverà fede sulla terra?» (Lc 18,8), che significa propriamente: troverà Vita?17 Per questa domanda, che già in precedenza abbiamo incontrato, non c’è risposta, o almeno non c’è, secondo Cacciari, una risposta prevedibile e certa, poiché solo il Futuro è la risposta, un Futuro unicamente presagibile, mai del tutto saputo. Cristo infatti non sa se il suo annuncio possa effettivamente convincere lungo la sua Età gli uomini, o se invece l’incredulitas avrà il sopravvento. Per questa ragione Cacciari può aggiungere: «Ho la sensazione che si parli di speranza, come di fede o di amore, in modo molto generico. Mentre, soprattutto nella tradizione cristiana, il tema va assunto con grande serietà e radicalità e non va niente affatto confuso con una declinazione volgare del termine stesso»18. Anche lui, come già in qualche modo sosteneva Natoli, è convinto che «in buona sostanza, potrebbe dirsi che sperano coloro che non sanno, perché laddove io so (episteme) — cioè sto sulla cosa, la posseggo, la tengo in mano, ne posso decidere — sulla base di questo sapere, progetto»19. Ma, al di là di quanto può essere detto su questo argomento, ciò che comunque al filosofo interessa dell’argomentare del teologo è la domanda: come può la speranza essere certa se rimane speranza? Gli sta a cuore, cioè, il predicare questa agonia, questo non essere legati, in verità, ad una speranza che si confonde con l’assoluta e indiscussa certezza che pretende di spiegare ogni cosa. Gli interessa una speranza che è da considerarsi come da sempre appesa alla croce. La finitezza dell’uomo, nel suo mancare sempre a se stesso, si apre proprio a questo punto alla vera speranza. Insecuritas e Securitas si rincorrono e si complicano, l’incertezza radicale dà fondamento alla speranza. L’unica certezza che è data all’uomo è che la speranza è incerta, che la sua figura è inafferrabile e che il suo logos è doppio, perché potrebbe rivelarsi come inganno di desideri vuoti o trasformarsi in pura conoscenza e prognosi. Nell’attesa della speranza, allora, 16 17 18 19

Cfr. Dell’Inizio, Milano, 20012, 619. Cfr. ibid., 630. Il filo sottile della speranza, in Segno 250 (2003) 38. L.c.


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rimane sempre l’inaspettato e ciò cui nessuna via conduce. Nessuna meta certa, dunque, ma solo l’incertezza del camminare e del suo approdo20. Come se non bastasse, secondo il filosofo veneziano neppure è possibile per l’uomo rifugiarsi nella speranza offerta dal progetto tecnico-scientifico che gli sa proporre soltanto una “speranza da vermi”. Anche la speranza propria dei progetti tecnico-scientifici, infatti, ha la pretesa di soddisfare certezze che invece l’uomo non può mai possedere circa il proprio futuro e il futuro del mondo. Tali progetti alimentano una speranza che è speranza di potere durare eternamente così come siamo. Proprio ciò, conclude Cacciari, è in realtà un incubo e non risponde affatto al desiderio più profondo dell’uomo21. Per il filosofo veneziano, la speranza cristiana, così come è intesa nella sua versione ‘volgare’, pecca in definitiva di troppa sicurezza, e alla fine rende superflua o la libertà dell’uomo oppure se stessa, perché si trasforma in certezza. Non per questo sono da preferire la cosiddette speranze “secolari”. La teologia cristiana, da parte sua, in genere si ferma alla considerazione secondo cui il fine è certo, ed è per questo che nulla la distingue dalla hegeliana filosofia della storia. La verità di Dio, secondo questa impostazione, fin dal principio scioglierebbe il problema della libertà dell’uomo: tutto è già predeterminato e in attesa di sviluppo; all’uomo resterebbe solo il compito di accogliere la manifestazione storica della verità. La speranza, così intesa, è speranza “comica” (nel senso che deriva dalla “commedia”, in cui il fine positivo è certo), perché risolta totalmente nel suo fondamento. Ciò che necessita è al contrario una speranza che faccia i conti con la storia e con la libertà, mai prevedibile, dell’uomo di fronte al proprio destino. Gianni Vattimo, filosofo che vive un rapporto alquanto turbolento con il messaggio cristiano, tanto da definire la propria fede un “credere di credere”22, è convinto che sia essenziale avanzare la proposta di un cristianesimo non-religioso a partire dall’ontologia debole che sta al centro del suo pensiero filosofico. Secondo lui la speranza cristiana, quella professata dai credenti, resta cieca nella misura in cui rimane legata alla visione metafisica di Dio, dell’uomo e della storia che, invece, è stata ampiamente superata proprio grazie al movimento della secolarizzazione avviato dalla kenosi di 20

Cfr. Dell’Inizio, cit., 433-434. L.c. 22 Cfr. il suo Credere di credere, Milano 1996, ma anche Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Milano 2002. 21


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Dio nel Figlio. In particolare, Vattimo contesta alla speranza cristiana il suo eccessivo sbilanciamento nell’aldilà ed il mancato raccordo con l’aldiquà. Il cristianesimo contemporaneo deve perciò accettare il proprio destino che è poi quello stesso dell’Occidente. Deve cioè riconciliarsi con la storia tramite la secolarizzazione e fare della speranza una spinta in grado di trasformare positivamente il presente incerto e instabile dell’uomo. Sergio Givone, importante studioso di estetica, ritiene che la filosofia non possa mantenere le distanze dalla vita23. A tal fine deve acquisire le vesti di un pensiero tragico, che non tenti di stringere nelle sue rigide distinzioni logiche il reale, ma che cerchi di lasciarne trasparire la libertà e l’imprevedibilità. Il reale, infatti, non è dominato dalla legge della necessità, ma da quella della libertà e della possibilità. Da questa visuale, il cristianesimo deve fare i conti con il fatto che la storia nella quale noi viviamo non è una storia apparente, avviata verso una fine in cui tutto si risolverà per il meglio, come avviene nella tradizione cinematografica americana. Essa è al contrario storia di libertà. Quella in cui siamo collocati è storia tragicamente libera, perché le mani dell’uomo non sono indirizzate sempre verso l’albero del bene e della vita, in quanto anche del male che di sé ha ferito la storia, ciascuno è in fondo responsabile. Questo sapere tragico, che spesso i cristiani eludono, proprio nel momento in cui declinano troppo approssimativamente il lemma della speranza, è fondamentale per comprendere appieno proprio il senso della speranza. Bisogna infatti assumere il tragico dell’esistenza perché si dia vera speranza. Per Mario Ruggenini, infine, la speranza cristiana è diventata una speranza vana, perché, a causa della conversione metafisica cui la speculazione teologica ha sottoposto il messaggio di Gesù, anch’essa ha subito il destino toccato a tutta la parola di Dio: la speranza cristiana ha praticamente perso di vista il mondo24. Si potrebbero dire molte altre cose e aggiungere altre importanti riflessioni dei diversi filosofi che si occupano anche di questi argomenti, ma ciò ci condurrebbe decisamente lontano dalle intenzioni di questo commento dell’intervento del Papa. Ci basta semplicemente rinviare ad un ultimo ed interessante contributo, quello di Sergio Quinzio, filosofo, ma 23

Di questo filosofo cfr. soprattutto Storia del nulla, Roma-Bari 20062. Cfr. Il Dio assente. La filosofia e l’esperienza del divino, Milano 1997; Il discorso dell’altro. Ermeneutica della finitezza, Milano 1996. 24


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soprattutto esegeta e teologo cristiano, che più di ogni altro si è confrontato con la speranza cristiana che per lui era “speranza crocifissa”. Questa è infatti l’unico modo per strappare dalla gola del leone gli ultimi brandelli di senso del mondo e della storia. Una radicale meditazione teologica sulla fede cristiana, soprattutto in relazione alla modernità intesa come secolarizzazione dell’escatologia biblica, ha condotto Quinzio a ravvisare nei principali tratti del mondo moderno, apparentemente ateo e scristianizzato, la trascrizione, in alcuni casi la contraffazione e la demitizzazione, della speranza giudaica. Egli è approdato, negli ultimi anni della sua vita, ad un cristianesimo tragico incentrato sulla “sconfitta di Dio”, sulla constatazione disperata che la promessa messianica è stata elusa e delusa, e che la stessa esistenza della divinità è minacciata dall’impotenza e dal rischio. La fede sembra dunque sperare l’impossibile. Essa è tuttavia irrinunciabile. Tutto ciò che l’uomo possiede è impotente ed è una sorta di speranza disperata. Per lui non è per nulla vero che la speranza cristiana illude l’uomo e lo allontana dal suo presente e dalla terra per proiettarlo già compiutamente in un futuro ultramondano e incantato, e non è neppure vero che in sostanza solamente il non credente spera, mentre il credente si limita ad attendere che si compia la salvezza promessa. Egli afferma infatti che la speranza cristiana «è la più consapevole della sua radicale difficoltà, quella che non bara al gioco, quella che osa guardare senza autoinganni la tragicità della sua situazione. La speranza nell’apocalisse non delude: non è modellata sulle nostre aspettative»25. Cosa emerge dalle riflessioni di questi autori così diversi tra di loro? Quale visione della speranza ci viene offerta? Quali critiche vengono mosse alla speranza cristiana? Sebbene nell’enciclica siano altri gli interlocutori che in campo filosofico il Papa predilige (in particolare Kant, Marx, Adorno), nondimeno i filosofi italiani contemporanei hanno il merito di tratteggiare con chiarezza la situazione in cui versa l’uomo di oggi, con la sua visione del mondo e della storia. Hanno il merito di far luce su quell’uomo a cui è destinata la testimonianza di una speranza credibile e affidabile che il messaggio cristiano porta in sé. La pacifica riconciliazione con il mondo e con il presente che molti di loro predicano, in alternativa e in alcuni casi, 25 La croce e il nulla, Milano 1984, 224. Di questo autore si vedano anche Diario profetico, Milano 19962; La speranza nell’Apocalisse, Roma 1984; Religione e futuro, Milano 20012.


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lo abbiamo visto, anche in chiara opposizione alla speranza cristiana, in definitiva si risolve nell’auspicio di vivere una vita da cui sia estromessa la dimensione trascendete, qualora questa venga intesa come diversa rispetto all’esistenza concreta e presente dell’uomo in questo mondo. Ma è veramente questo ciò che l’uomo ricerca, si chiede il Papa? L’uomo desidera, cioè, vivere illimitatamente questa vita, così com’è? Può essere, cioè, ridotta la sua sete di vita, di vita piena, al desiderio di prolungare il più possibile l’evento biologico della vita allontanando il più possibile l’evento biologico della morte? Il desiderio di vita iscritto nel cuore dell’uomo, quell’istinto che gli fa aborrire il pensiero che con la morte tutto abbia fine (cfr. Gaudium et Spes 18), è riconducibile solamente e direttamente al suo bisogno biologico di resistere al sopraggiungere della morte? L’uomo, in verità, come non manca di sottolineare il Papa richiamando il pensiero di s. Agostino, vuole unicamente la vita beata, la felicità piena (p. 27). Egli tuttavia non conosce questa realtà che però desidera più di ogni altra cosa. Proprio questa realtà ignota è la vera speranza che lo spinge a cercare sempre, senza accontentarsi mai di quanto riesce man mano a raggiungere e a possedere: «La parola “vita eterna” cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta» (p. 28), perché in fondo, se questa vita fosse totalmente sconosciuta e sfuggente, non sarebbe neppure desiderabile e presagibile. Se, al contrario, fosse già perfettamente posseduta, non sarebbe più l’oggetto delle aspirazioni più profonde dell’uomo e la spinta capace di muoverlo verso la meta. Non si dà perciò alcuna alternativa tra amore per questa vita, e per tutto ciò che essa significa, e attesa della vita nuova ed eterna. Non si dà per il cristiano neppure frizione tra realtà ultime e il penultimo che egli vive e sperimenta, ma solo “pacifica tensione”: il penultimo prepara, e in qualche modo anticipa, ciò che finalmente l’ultimo realizzerà in pienezza e porterà a perfetta consumazione, in quanto crescono nell’oggi i principi di bene e di vita che matureranno compiutamente nell’eschaton finale. La vita eterna che il credente costantemente ricerca nel corso della sua esistenza finita è allora «il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo — il prima e il dopo — non esiste più» (p. 29). È la vita in senso pieno, l’immersione nella vastità dell’essere e l’esperienza della gioia piena e senza fine. La speranza cristiana di cui il Papa ci parla non è perciò una speranza “corta”, “miope”, che mira semplicemente a sorreggere l’uomo perché al massimo raggiunga il “prossimo villaggio”, ma è la forza che


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spinge l’uomo ad avviarsi verso l’unica direzione che può veramente acquietarlo, che può rispondere alle sue domande più profonde e agli interrogativi più grandi del suo cuore. Soltanto Cristo, l’essere con Lui, è infatti la risposta al suo domandare, alla domanda che lui stesso è (p. 29).

3. UNA SPERANZA “CONDIVISA” La speranza è desiderio di essere con Cristo, ma nella compagnia degli uomini, dei fratelli, poiché essa non è per nulla individualistica. Il Papa, per esprimere questa verità, cioè la dimensione comunitaria della speranza cristiana, riprende ancora una volta il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei in cui viene tracciata «una specie di storia di coloro che vivono nella speranza e del loro essere in cammino» (p. 30). La speranza cristiana è quindi ciò che di più lontano si possa pensare rispetto alle forme di individualismo che ha conosciuto la storia. Per la Bibbia il popolo di Israele è il soggetto adeguato della speranza. Le promesse di Dio, la sua alleanza, i suoi atti salvifici, sono a favore dell’intero popolo, interpellano il popolo e lo chiamano in causa. È per il suo popolo che Dio prepara e schiude un futuro di salvezza, e che annuncia l’instaurazione di un regno di giustizia e di pace, nuovi cieli e nuova terra (cfr. Ap 21,1). Anche per il Nuovo Testamento questa convinzione rimane assolutamente valida. Il singolo è personalmente chiamato in rapporto alla comunità di cui è membro, in quanto parte di un popolo fatto oggetto della benevolenza di Dio. Sono tutti, “i molti”, ad essere attirati da Cristo elevato sulla croce, ed è una moltitudine immensa, che nessuno è in grado di contare, ad essere introdotta al banchetto di nozze dell’Agnello (cfr. Ap 7,9; 19,9; 21,2). Tutte le pagine della Scrittura, da Genesi all’Apocalisse, ci parlano, in sostanza, dell’uomo in comunità come colui per il quale Dio agisce e compie la sua opera. Sarebbe troppo lungo e ci porterebbe troppo lontano approfondire questo dato inconfutabile che esprime il credo genuino della fede giudaico-cristiana e anche dell’intera riflessione patristica circa la dimensione comunitaria della speranza. Ciò purtroppo non toglie che nella storia della Chiesa, come non manca di evidenziare il Papa, di fatto, non siano mancate delle deviazioni che hanno portato ad approfondire smisuratamente l’aspetto personale e a volte persino individualistico e privato della salvezza, a scapito di quello comunitario. È stata questa stortura che in parte


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ha provocato dure critiche da parte della cultura “laica”, come abbiamo potuto constatare. Una critica che ha avuto di mira la speranza cristiana accusata di avere prodotto e alimentato nell’uomo aspettative ultramondane che alla fine lo hanno distratto dall’impegno e dalla responsabilità per il mondo e per gli altri a favore della ricerca dei beni eterni, della felicità futura e dei premi celesti. Quale è stato l’esito di tutto ciò?

4. DAL REGNO DI DIO AL REGNUM HOMINIS. L’AMBIGUITÀ DEL PROGRESSO In epoca moderna, specialmente a partire dall’elaborazione filosofica di Francesco Bacone a cui il Papa dedica ampio spazio nella sua argomentazione, le critiche rivolte al messaggio cristiano e alla sua speranza escatologica, sono divenute sempre più radicali e pungenti. Con lo sviluppo della scienza e della sua applicazione tecnica, anche il rapporto con la natura ha subito un radicale cambiamento. La natura è infatti divenuta l’oggetto da studiare e su cui intervenire per attuare il dominio dell’uomo sul cosmo e per assoggettare ogni cosa ai suoi estemporanei bisogni. L’uomo si è illuso di aver recuperato quel dominio che aveva precedentemente perduto a causa del suo peccato. Quanto prima si attendeva da Dio ora invece egli può ottenerlo con le sue sole forze e grazie agli strumenti che ha costruito e che ha a disposizione. L’universo, specialmente a partire dagli esperimenti portati avanti da Galileo, diviene semplicemente un libro scritto in lingua matematica, i cui caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche26. Se la natura è un libro, l’essere umano ne è il lettore, a cui tocca voltare le pagine, e comprenderne per intero la trama. Ma leggere il libro della natura ha anche portato con sé il desiderio di scriverne e correggerne alcuni passi. Così alla scienza, che cerca le leggi della natura, si è affiancata la tecnica che per molti versi è proprio il tentativo di portare avanti questo ambizioso programma. Oggi l’ombra lunga di queste premesse ha portato l’opera dell’uomo a spingersi fin nelle pieghe dell’atomo e del codice genetico. Con la scienza, e soprattutto con la tecnica, egli può cioè costruirsi da solo il paradiso che desidera, a misura dei suoi bisogni e dei suoi desideri, senza Dio, facendo a meno di lui e del suo invadente e prepotente intervento. Il 26

Cfr. G. GALILEI, Il Saggiatore, Roma 2007.


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paradiso perduto può e deve essere costruito qui ed ora con i mezzi che l’uomo possiede e con ciò che egli stesso, oramai divenuto adulto, è in grado di darsi con la sua ragione e il suo ingegno. La fede è divenuta veramente superflua, così come superflua è divenuta la speranza. La fede viene ormai spostata su un livello altro, il livello delle cose private e ultraterrene, poco o per nulla rilevanti per il mondo. Essa non ha più alcuno spessore pubblico e nessuna presa sul mondo e le sue dinamiche interne. È una logica, questa, che appare oggigiorno dominante e contro cui Papa Ratzinger ha più volte preso posizione, ribadendo il significato della fede per la trasformazione stessa del mondo, della società e delle sue strutture. La fede, dunque, come fatto privato, e la speranza come analgesico offerto dalle religioni contro la fatalità della morte. È questo ciò che in estrema sintesi ci ha consegnato il lungo e articolato percorso che dal razionalismo all’illuminismo, e quindi ai grandi sistemi totalitari del Novecento, è giunto sino ai nostri giorni. È a partire da questo processo, a cui il Papa fa un breve accenno, che si è prodotta ciò che egli stesso definisce «una crisi della speranza cristiana» (p. 37) che ha portato alla nascita della fede nel progresso, allo sviluppo della speranza riposta nell’operare dell’uomo; un processo che ci ha lentamente condotti ad operare il passaggio dal regno di Dio al tentativo di instaurare il regnum hominis in cui la ragione (la ragione scientifica e calcolante) occupa un posto di prim’ordine. La società moderna, completamente e costantemente tesa a massimizzare e ottimizzare le proprie capacità nel presente, si fonda sulla convinzione secondo cui i processi di sviluppo che sono stati innescati nella storia recente, sono intrinsecamente e indiscutibilmente buoni. Il progresso, quindi, non può essere ragionevolmente messo sotto accusa. Esso non fa altro che servire l’individuo al meglio, prolungando la sua esistenza media, fornendogli un habitat più confortevole, dotandolo di risorse crescenti, arricchendo in misura esponenziale il suo benessere quotidiano, favorendo l’ampliamento degli spazi per il riposo e lo svago. Se tutto ciò è in parte vero e può senza dubbio essere ritenuto un guadagno, ha anche portato lentamente l’uomo contemporaneo a sentire sempre meno il bisogno di ancorarsi ad assoluti di qualsiasi tipo, ed ha alimentato la convinzione secondo cui ciò che conta è che ora e qui si stia bene, che si provi sempre più piacere fisico e psichico. Lo star bene è divenuta l’unica norma vincolante. Non è più una possibilità dell’esistenza umana, ma un obbligo che va soddisfatto a tutti i costi: armo-


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nizzando i contrasti, smorzando le tensioni, addolcendo i chiaroscuri, inquadrando il tutto entro una cornice soft. Oggi, ai grandi slanci e al grande ottimismo che avevano caratterizzato l’epoca moderna e le grandi rivoluzioni sociali, politiche ed economiche del passato, come vedevamo già all’inizio, è subentrata una pacata e controllata gioia per le quotidiane conquiste in campo medico, fisico, tecnologico e scientifico in genere. L’uomo è entrato in quella che può essere tranquillamente definita l’epoca del disincanto. Cosa abbia comportato tutto questo, cosa l’uomo sia stato in grado di fare da solo, è sotto gli occhi di tutti e la storia ne è la triste testimone. Papa Ratzinger accenna ad esempio alla concretizzazione politica che tale speranza tutta terrena ha conosciuto nel passato. A tal proposito egli richiama l’esperienza della Rivoluzione francese, con tutto ciò che ad essa è legato o può essere ricondotto, e quindi le pretese dell’Illuminismo con i suoi ideali tesi all’affermazione assoluta della sola ragione, contro le false speranze della religione e le superstizioni della fede. Ma l’indagine del Papa non si ferma a quanto l’Illuminismo ha di fatto prodotto. Egli sposta la sua attenzione più in là e guarda ad autori come Engels e soprattutto Marx e all’influenza che il loro pensiero ha esercitato sul mondo contemporaneo. Secondo Marx, in particolare, è necessario dileguare la verità dell’aldilà per stabilire finalmente la verità dell’aldiquà su cui bisogna operare affinché si arrivi al cambiamento di tutte le cose. All’eschaton cristiano è da sostituire la rivoluzione operata dall’uomo, dalle classi operaie, al fine di stabilire già lungo la storia quelle condizioni di vita (giustizia sociale, emancipazione delle classi operaie, uguaglianza, ecc.) che traducono per questo mondo il paradiso promesso dalla religione per l’aldilà. Pur riconoscendo che la promessa fatta da Marx «ha affascinato ed affascina tuttora sempre di nuovo» (pp. 42-43), il Papa denuncia il fatto che la storia e gli eventi hanno mostrato che l’errore fondamentale di Marx è stato quello di aver dimenticato che l’uomo rimane pur sempre uomo e che quindi è sempre soggetto anche all’azione nefasta del male, del peccato. Ha dimenticato, cioè, che la terra lasciata a se stessa, privata del suo orizzonte ultimo, rimane una terra desolata, desertica, chiusa e sterile. Non ha tenuto conto del fatto che l’uomo, consegnato esclusivamente a se stesso, va incontro al pericolo, nella misura in cui prevale in lui l’egoismo, di asservire e distruggere i suoi stessi simili. Le conferme, in tal senso, purtroppo non mancano. Il marxismo, dice il Papa, è stato un grande tentativo di trasformare in forme storiche e secolari la


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speranza cristiana. L’attesa dell’avvento della società comunista ha nutrito di speranza milioni e milioni di persone in un evento apocalittico e in una palingenesi finale della storia la cui ragion d’essere era nelle mani della storia stessa e della prassi umana. Marx riteneva, inspiegabilmente, che il ritmo della storia ad un certo punto si sarebbe fermato e si sarebbe confluiti in una società post-storica di giustizia e di pace in cui ad ogni uomo sarebbe stato dato secondo i suoi bisogni e chiesto secondo le sue possibilità. Su questa fase finale egli non ha però lasciato alcuna indicazione. Secondo Benedetto XVI tutto ciò si spiega con il fatto che il marxismo è una storicizzazione della speranza cristiana, ma che all’evento apocalittico del Giudizio sostituisce l’irrompere della discontinuità della società comunista. Una cosa è certa: da questa secolarizzazione della speranza cristiana sono nate molte esasperazioni del “cinismo del potere” che hanno lasciato un immenso strascico di vittime. Se si guarda a tutto questo ci si accorge che la critica mossa alla speranza cristiana in epoca moderna è stata sostanzialmente infondata e per diverse ragioni anche gratuita. L’età moderna, dice anzi il Papa con chiarezza, in dialogo con il cristianesimo e la sua vera concezione della speranza, deve fare autocritica. Ciò non toglie che anche i cristiani, da parte loro, «devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza» (p. 45), perché riscoprano cosa hanno da offrire al mondo di oggi. Il cristianesimo moderno deve comprendere ancora una volta se stesso a partire dalle proprie radici (p. 45). Anzitutto oggi, in quanto oggi, più che mai, esso corre il rischio di affannarsi a ricercare il giusto dialogo con la generazione presente dimenticando però il confronto con le generazioni cristiane passate che hanno scritto la storia della speranza, l’hanno resa viva e attuale, trasformante. Il progresso è indubbiamente un fatto positivo, lo dimostra chiaramente il bene che riesce a realizzare una tecnologia posta a servizio dell’uomo e del suo benessere, prima di tutto fisico. Prendere atto di ciò non può indurre comunque a dimenticare la lezione del passato che ci ricorda che il progresso può anche aprire possibilità abissali di male. L’uomo ha potere sulle cose ma non ha ancora potere sul proprio potere27. Esiste perciò una forte ambivalenza nel rapporto dell’uomo con la tecnica, a motivo 27 Cfr. a questo proposito l’interessante studio di R. GUARDINI, La fine dell’epoca moderna. Il potere, Brescia 1993.


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dell’imprevedibilità degli esiti di quest’ultima. È il progresso fine a se stesso, o posto a servizio esclusivamente di una ristretta elite di privilegiati, a scapito delle grandi masse, che è messo sotto accusa. Un progresso che nel passato, come anche nel presente, è orientato in non pochi casi verso l’acquisizione di conoscenze e tecniche sempre più sofisticate per la produzione di armi di distruzione di massa. Contro il facile ottimismo di molta parte degli intellettuali di oggi, che in nome di un sempre crescente benessere rimangono fondamentalmente insensibili nei confronti di quanto di sinistro può custodire in sé un progresso sordo a qualsivoglia indicazione etica, il Papa fa giustamente notare l’ambiguità che caratterizza il mondo tecnologico odierno, in quanto, «se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore (cfr. Ef 3,16; 2Cor 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo» (p. 46). Non è difficile leggere qui tutta la ricca riflessione di molti interventi autorevoli del magistero della Chiesa, primo tra tutti Gaudium et Spes, ma anche di altri importanti documenti, quali la lettera enciclica Populorum Progressio di Paolo VI, per non dimenticare la Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, solo per citarne alcuni che ci sono sembrati particolarmente attenti a queste questioni. In questi interventi, accanto e unitamente alla giusta considerazione dei meriti dello sviluppo tecnico-scientifico nel mondo moderno, non ci si esime dal denunciare anche tutte le storture e le possibili devianze insite in una concezione di progresso priva di riferimenti etici forti, quali la centralità della persona umana, il rispetto per i più deboli e la cura e responsabilità per l’ambiente. In particolare, Gaudium et Spes 4, parlando delle speranze e delle angosce che attraversano il mondo di oggi, si esprime con termini che ritroviamo tra le righe nella riflessione di Papa Ratzinger. Il testo conciliare esprime il bisogno della Chiesa di scrutare i segni dei tempi delle varie generazioni, per conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, con tutte le sue caratteristiche principali. Il mondo contemporaneo, in particolare, è contrassegnato da rapidi e profondi mutamenti che vanno fatti risalire all’intelligenza e alla creatività dell’uomo; cambiamenti che non sempre si verificano in modo indolore, ma che anzi, non poche volte, comportano non lievi difficoltà. In questo quadro, continua il Concilio, molti uomini non sono in grado di imprimere al progresso un giusto orientamento, una precisa direzione a servizio dell’uomo e del bene, e non sanno neppure


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identificare i valori perenni e quindi armonizzarli con le scoperte recenti. Per questo motivo l’uomo contemporaneo si muove tra la speranza e l’angoscia, ed è alla ricerca di una risposta che dia senso alla sua azione nel mondo. L’epoca attuale, è quindi segnata da profonde mutazioni che riguardano più direttamente lo sviluppo di una mentalità scientifica; l’avanzamento della tecnica e l’affermazione del suo potere onnicomprensivo; il progresso delle scienze biologiche, psicologiche e sociali; la capacità dell’uomo di prevedere e controllare il proprio incremento demografico; il passaggio da una concezione piuttosto statica dell’ordine delle cose ad una concezione più dinamica ed evolutiva (Gaudium et Spes 5). I mutamenti di cui stiamo parlando riguardano anche l’ordine sociale, tanto è vero che si diffondono nuovi e migliori mezzi di comunicazione sociale che favoriscono un modo più largo e più rapido di conoscenza degli avvenimenti, nonché la diffusione delle idee e dei sentimenti (Gaudium et Spes 6). A questi mutamenti si aggiungono quelli psicologici, morali e religiosi che caratterizzano l’uomo contemporaneo (Gaudium et Spes 7). L’epoca attuale è anche segnata da gravi squilibri e contraddizioni causati dalla rapida evoluzione in atto, sia a livello della persona, sia a livello sociale. Di fronte a questa situazione, non vengono meno, anzi per alcuni versi si acuiscono, gli interrogativi più profondi del genere umano: «Cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l’uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?» (Gaudium et Spes 10). Lo stesso Paolo VI in Populorum Progressio metteva in guardia contro una concezione troppo ottimista dello sviluppo e del progresso, e denunziava, già diversi decenni fa, il pericolo di una crescita “ambivalente”. Secondo il pensiero del pontefice, infatti, avere di più, per i popoli come per le persone, non è lo scopo ultimo. Ogni crescita è necessaria onde permettere all’uomo di essere più uomo, ma ciò non toglie che può anche rinserrare l’uomo come in una prigione, quando diventa il bene supremo che impedisce di guardare oltre (n. 19). Ciò che è necessario è dunque un “umanesimo” nuovo che sappia guardare al progresso come posto a servizio dell’uomo e alla sua crescita integrale, al di là dei limiti angusti del suo oggi e del suo immediato futuro (n. 20). Nell’era tecnologica l’uomo rischia perciò di essere vittima degli


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stessi successi della sua intelligenza e dei risultati delle sue capacità operative se va incontro ad una sorta di “atrofia” spirituale, di durezza e freddezza del cuore; se considera se stesso un animale un poco più evoluto degli altri e prodotto dal gioco del caso; materia organica, semplicemente e solamente materia organica, destinata, nonostante tutti i suoi sforzi e tutte le sue arguzie mentali, all’annientamento. Il progresso, nella misura in cui si trasforma in scientismo tecnologico, ideologia animata dalla volontà di potenza e spinta dall’idea che è possibile trasformare tutto, si ritorce contro l’uomo stesso e diventa foriero di morte. Trasforma l’uomo in cosa, genera quell’anticultura di morte che porta alla “cosificazione” dell’uomo che viene così ridotto a merce, a cosa tra le cose, non più persona degna di amore personale, che esige fedeltà. A ben guardare, fuggendo ogni nociva visione apocalittica della fine, sembra che insieme al gigantesco progresso materiale che investe il mondo contemporaneo, l’uomo sia arrivato anche al tentativo di cancellare proprio se stesso. Da un lato sorge perciò spontanea la fiducia in un progresso sempre crescente, dall’altro si scatena in maniera istintiva, la paura, anch’essa sempre più grande, che questo progresso alla fine, privato di regole e non posto al servizio dell’uomo, di tutti gli uomini e di tutti i popoli, si ritorca contro di lui e diventi l’inizio di una “gigantesca e programmata” morte dell’uomo. Queste preoccupazioni acquistano ancora più forza se comprese anche alla luce di quanto nel suo insieme il secolo XX ha purtroppo registrato: le due grandi guerre mondiali, il programma di portare a termine un sistematico sterminio di massa di interi popoli, Auschwitz, il tentativo di operare vere e proprie pulizie etniche. Le paure e le ansie che gravano nel cuore dell’uomo sono dunque giustificate, e devono tenere desta la sua attenzione perché si possa ricercare sempre più il bene dell’uomo e quanto contribuisce al suo benessere fisico e spirituale, personale e sociale, e contrasti la morte e tutte le sue espressioni. È quanto ribadisce Giovanni Paolo II nella Centesimus annus — riprendendo tra l’altro anche l’importante riflessione proposta da Laborem exercens e da Sollicitudo rei socialis — in cui afferma che il vero progresso deve essere posto a servizio della persona umana e del suo valore unico nel progetto di Dio che lo ha voluto per se stesso e non in vista di altro (n. 11). In tal senso, qualsiasi vero sviluppo non può ridurre l’uomo a semplice molecola dell’organismo sociale, così come ha fatto erroneamente il socia-


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lismo, né può essere subordinato al funzionamento del meccanismo economico-sociale, poiché in definitiva egli, che è la via della Chiesa, trascende il mondo delle cose (n. 53 e n. 13). Queste riflessioni crediamo che siano utilissime perché riescono a sintetizzare e presentare con estrema lucidità una situazione che fondamentalmente è rimasta invariata, per molti versi, anche nel presente; un presente a cui Papa Ratzinger si riferisce direttamente in diversi passaggi cardine della sua riflessione. La Spe Salvi ha alle spalle e come background questa riflessione, e Papa Ratzinger, nonostante le aspre critiche, molte delle quali scontate e messe in conto sin da subito, in tal senso non ha aggiunto nulla di nuovo nella sua lucida e lineare presentazione della natura doppia del progresso e del suo significato per la comprensione stessa della speranza cristiana. Egli ha anzi riproposto per l’oggi ciò che ormai il magistero ecclesiale da molto tempo non si stanca di ripetere. Non vorremmo insistere ulteriormente su questo punto. Ci basta solo indicare qualche altro elemento che può esserci utile per approfondire ancora le questioni affrontate dall’enciclica.

5. PROGRESSO E REGNO DI DIO Riguardo all’idea di futuro e circa il rapporto tra il futuro assoluto di Dio, l’eschaton, e la storia, nel periodo preconciliare si sono registrate alcune posizioni che oscillano da un grande entusiasmo per l’evoluzione e il progresso, tanto da identificare storia del mondo e storia della salvezza, ad una considerazione critica degli stessi. In questo secondo orientamento, il lavoro di umanizzazione viene inteso come autenticamente religioso e mezzo attraverso cui si realizza l’apertura all’avvento del futuro assoluto di Dio. L’impegno per il futuro mondano è una condizione indispensabile del compimento, ma non lo realizza, perché il compimento rimane sotto la riserva escatologica (continuità/discontinuità). In questo panorama non sono mancati neppure i moniti apocalittici. Questi hanno denunciato il fatto che le esperienze del presente storico inducono a riflettere se uno sbocco positivo della storia umana sia veramente oggetto della rivelazione divina, o se invece l’umanità non sia in grado di contrastare in forma distruttiva


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l’iniziativa divina sulla creazione e l’umanità. Si sottolinea qui, in sostanza, la responsabilità dell’uomo che deve essere tenuta sempre desta e in tensione poiché, in realtà, il futuro storico, nel suo esito positivo, non è necessariamente garantito e comunque può essere seriamente compromesso dalla sua azione. Il Concilio, con Gaudium et Spes 39, come sappiamo, ha rifiutato le tesi estreme, ed ha insegnato la continuità e insieme la discontinuità tra il Regno e la storia, tanto è vero che nel lavoro relativo alla terra presente cresce quel corpo dell’umanità nuova che già offre una prefigurazione del mondo nuovo: non si dà né un incarnazionismo estremo, né una concezione dualistico-escatologica, ma si riconosce una dignità metastorica agli atti umani. La meta rimane dunque un dono divino, ma non per questo cessa di essere anche l’obiettivo conseguito positivamente dall’uomo con la sua azione nel e per il mondo, animato da una speranza viva. Per questa ragione l’uomo non può essere indifferente riguardo al futuro storico del mondo e della società. Il suo sforzo è tuttavia fatto nella consapevolezza che egli è creatura tra le creature; la sua responsabilità è dunque responsabilità creaturale per la creazione. Quella del Papa, lo ripetiamo, non è perciò una critica gratuita e infondata mossa al progresso — e tanto meno all’azione dell’uomo nel mondo e per il mondo — ma solo un ridimensionamento dello stesso e una considerazione seria dell’azione del peccato sull’uomo e sul mondo. La visione della vita beata orientata verso la comunità, estranea agli interessi egoistici dei singoli, «ha di mira, sì, qualcosa al di là del mondo presente, ma proprio così ha a che fare anche con la edificazione del mondo» (p. 33). Non è pertanto assolutamente giustificabile alcuna fuga del cristiano di fronte alle sue responsabilità per il mondo, a favore della salvezza della propria anima. Egli non può dimenticare che in verità la speranza è l’attesa del non ancora, è fede nella promessa di Dio che fa nuove tutte le cose, anche attraverso la consapevole collaborazione dell’uomo, il quale è chiamato a costruire il proprio futuro già nel suo oggi, ma come risposta e adesione all’azione di Dio, come accoglienza del suo futuro. La speranza cristiana apre dunque l’uomo al futuro ed è costante forza critica del progresso. Apre il presente all’irruzione del futuro che è capace di fecondarlo, di illuminarlo. Animato da questa speranza l’uomo è in grado di guardare al suo avvenire e all’avvenire del mondo con reale fiducia, non


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tanto perché incapace di vedere le crepe della storia, del mondo e delle sue relazioni con gli altri, cioè la forza del peccato, e neppure perché ormai perfettamente riconciliato con il mondo e con gli altri, ma perché capace di cogliere nell’oggi l’inizio reale del regno escatologico di Dio. Dire questo significa convenire che non manca in Spe salvi un’analisi della condizione in cui versa l’uomo contemporaneo, con tutte le sue luci e le sue ombre; nell’enciclica viene anzi offerta un’analisi lucida alla luce, però, della speranza cristiana e di quanto questa è in grado di aprire di fronte all’uomo, al suo destino e al futuro del mondo. Papa Ratzinger, va ripetuto ancora una volta, ha perciò riproposto per l’oggi quanto ormai da molto tempo il magistero ha chiaramente e più volte sottolineato. Una considerazione del progresso, quindi, non propriamente negativa, ma sostanzialmente positiva, con la consapevolezza, però, che il progresso, per essere veramente tale, «ha bisogno della crescita morale dell’umanità» (p. 46) attraverso l’apertura della ragione alle forze salvifiche della fede. La ragione, infatti, è veramente umana «solo se guarda oltre se stessa» (p. 47), cioè a dire, solo se non viene ridotta a ragione scientifica. La ragione giunge perfettamente a se stessa solamente se non si rinchiude in sé, ma riesce ad aprirsi a ciò che la conduce oltre. È esattamente questa l’azione della speranza. «Ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione» (p. 48). La fede ricorderà alla ragione che non è possibile creare un regno dell’uomo in alternativa al regno di Dio; un regno che coincida con le strutture, pur sempre fragili e instabili, del mondo e della storia, in quanto le buone strutture aiutano indubbiamente l’uomo per la sua crescita umana, ma da sole non sono in grado di condurre a pienezza proprio questa crescita28. Le ricorderà che non può perciò redimere l’uomo, perché nulla può salvare l’uomo dall’esterno. È l’amore, continua il Papa che libera l’uomo dal di dentro; l’amore incondizionato che neppure la morte può distruggere. Chi, se non Dio solo, può garantire che l’amore non venga anch’esso fagocitato 28 Come non ricordare a questo proposito l’analisi del mondo contemporaneo proposta da Gaudium et Spes 36 ormai più di quarant’anni fa, ma per molti versi ancora attuale. Il testo conciliare metteva in guardia dal pericolo di considerare il rapporto tra attività umana e religione come dannoso per l’autonomia degli uomini, delle società e delle scienze. Proprio qui il Concilio raggiungeva un punto essenziale della sua riflessione affermando che in verità «la creatura senza il Creatore svanisce […]. Anzi, l’oblio di Dio rende opaca la creatura stessa».


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dalla potenza distruttrice della morte? In tal modo, chi non conosce Dio può possedere certamente molteplici speranze, ma non ha in sé la grande speranza che solamente può sorreggere tutta la sua vita, poiché lo sostiene anche nella morte e oltre la morte. Anche nella morte infatti non viene meno la fedeltà di Dio, ma anzi la comunione con lui garantisce contro la distruzione e l’annientamento che la morte porta con sé. Nessun regno terreno può assicurare questo all’uomo, e questi non può accontentarsi di qualcosa di meno; neppure può accontentarsi del mondo migliore che gli promette come un miraggio la scienza e ancora di più la tecnica di oggi. Questo mondo del futuro, non è in effetti alla ricerca della vera speranza che è solamente Dio. Questi è il fondamento della speranza in quanto ha assunto il volto umano ed ha amato l’uomo sino alla fine. È questo l’insegnamento che da parte sua la fede può consegnare alla ragione.

6. LA SPERANZA CHE VA OLTRE LA MORTE Interessante è la riflessione dedicata dal Papa ai “luoghi” di apprendimento e di esercizio della speranza. Innanzitutto egli individua nella preghiera la «scuola della speranza» (p. 61) perché attraverso di essa il credente alimenta il suo desiderio di Dio e anela verso il compimento delle sue promesse, ma anche perché per suo mezzo egli può diventare per gli altri ministro della speranza, può tenere il mondo costantemente aperto a Dio e al suo intervento di salvezza. Anche l’agire e il soffrire sono per il Papa luoghi di apprendimento della speranza. Infatti, solo la grande speranza-certezza che, nonostante tutti i fallimenti, la vita dell’uomo, così come la storia nel suo insieme, «sono custodite nel potere indistruttibile dell’Amore e, grazie ad esso, hanno per esso un senso» (p. 67) è in grado di rispondere alle questioni più profonde e radicali dell’uomo. Da qui si comprende perché perfino le situazioni più assurde e infernali, quali ad esempio l’esperienza del campo di concentramento fatta dal martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin, non possono distruggere nel cuore del credente la luce della speranza. Cristo è infatti disceso nell’Inferno e si è reso vicino a chi vi viene gettato, «trasformando per lui le tenebre in luce» (p. 73). Il Giudizio è un luogo di apprendimento e di esercizio della speranza


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fondamentale. L’attesa del Giudizio ha in effetti alimentato da sempre la fede dei credenti che hanno vissuto nell’attesa costante della venuta finale del Signore. Tuttavia, il Giudizio sempre più è risultato agli occhi delle generazioni cristiane un evento terribilmente minaccioso e cupo. A questo proposito è sufficiente ricordare le più svariate rappresentazioni del Giudizio finale nelle chiese del passato, il successo che una preghiera-canto come il Dies irae ha avuto nella tradizione liturgica della Chiesa, o la natura, il contenuto e il tono che avevano i vari riti che accompagnavano la celebrazione delle esequie cristiane e i momenti di agonia del morente. La speranza è stata sciaguratamente sganciata quasi del tutto dalla considerazione del Giudizio. L’uno e l’altra sono stati visti come inversamente proporzionali, almeno nell’immaginario dei credenti delle passate generazioni. Il Giudizio è stato letto non più come evento di salvezza, ma come manifestazione dell’ira divina e attuazione della sua collera vendicativa contro l’umanità peccatrice. In realtà non si può guardare al Giudizio se non fissando lo sguardo sul Crocifisso, che è giudizio sulla storia e sul mondo, ma è altresì il simbolo permanente della misericordia di Dio. Il Crocifisso è infatti per il cristiano la certezza che il mondo nuovo che egli attende non è soltanto una realtà posta al di là dei limiti del suo mondo terreno, della sua storia reale, ma è già presente nel suo oggi, è segretamente cominciato nel suo presente segnato ancora dalle contraddizioni del peccato, dalle divisioni, dalle paure, dalle ingiustizie e dal dolore. Il Crocifisso è la rivelazione della vera natura della speranza: apertura del mondo al futuro, inteso come anima e orientamento del presente, come forza critica del presente, delle sue realizzazioni e dei suoi traguardi; irruzione del futuro nell’oggi, perché l’oggi sia reale anticipo della pienezza finale, della perfetta riconciliazione dell’uomo, immagine di Dio, con Dio, gli altri e il mondo. La speranza cristiana è allora vittoria sulle visioni apocalittiche della fine, sulle visioni catastrofiche che prospettano una fine con terrore o addirittura un terrore senza fine. L’autentica attesa cristiana del futuro non ha a che fare con tali soluzioni finali perché il suo punto focale non è la fine della vita, la fine della storia e del mondo, ma l’inizio della vita vera, l’inizio del regno di Dio e della nuova creazione nella forma destinata a durare. La speranza cristiana non traccia quindi le linee dello sviluppo passato e presente della storia del mondo per riproporle nel futuro, e, a


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partire da qui, elaborare supposizioni su una bella, o su una più probabile brutta fine. Piuttosto essa legge nella morte di Cristo l’anticipazione della fine di questo tempo secolare di peccato, di morte e di male, perché riconosce, nella risurrezione di Cristo, la redenzione dal male. E questo perché in Cristo risorto si dà l’inizio della nuova vita e della creazione nuova di tutte le cose. Essa, anzi, fa sperimentare, nelle energie dello Spirito di Cristo, già qui ed ora, il nuovo inizio. Cristo è infatti l’inizio della nuova vita nel mezzo di questo mondo violento e passeggero. In lui può essere riconosciuto l’inizio nella fine, direbbe J. Moltmann, perché se Cristo è l’iniziatore della vita eterna, la primizia della vita nuova, allora in lui è possibile riconoscere anche la fine di questa vita temporale e l’effettiva inaugurazione dell’eschaton29. La speranza ci rivela che la vera fine di questo mondo è il lato a noi rivolto dell’inizio del mondo di Dio, del mondo nuovo che non nasce per la distruzione violenta del primo, né per la sua semplice sostituzione, ma, quale dono eccedente ed esuberante di Dio, si radica in questo mondo transeunte e caduco, trova in esso il suo reale inizio. La forza di trasformazione del mondo proviene al cristiano dalla speranza riposta in Cristo, generata dalla sua Pasqua, continuamente modellata dalla sua Pasqua. Non è la sua una lotta utopica per la trasformazione del mondo sulla base di programmi politici, economici e sociali, come ha inteso ribadire il Papa nella sua enciclica, ma è l’impegno per una responsabile prassi della speranza al fine di strappare questo mondo al dominio del peccato per l’avvento ultimo del regno di Dio. La speranza cristiana libera dunque l’uomo dall’illusione propria della moderna fede nel progresso e dalle pretese della globalizzazione postmoderna che sono in definitiva delle forme secolarizzate del millenarismo religioso inteso come storia della salvezza, ma lo libera anche dalle moderne paure della fine del mondo e dai sogni di distruzione mondiale, intese come forme di secolarizzazione della vecchia apocalittica religiosa, e lo apre ad un sano realismo che lo fa guardare al tempo presente, con tutte 29

Cfr. a questo proposito l’interessante saggio dell’autore di Teologia della speranza: Nella fine – l’inizio. Una piccola teologia della speranza, Brescia 2004. Qui il teologo evangelico traccia le linee fondamentali per quella che egli definisce una “teologia biblica delle catastrofi” al fine di leggere proprio nelle catastrofi dei nuovi inizi, nella giustizia di Dio il fondamento per una rigenerazione della vita e nella speranza la forza vitale capace di far generare nella fine l’inizio.


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le sue contraddizioni e i suoi limiti, senza rimanerci tuttavia invischiato e imprigionato. La speranza cristiana è allora speranza in azione, paziente, resistente, non rassegnata alla piccolezza dell’oggi, né alienata nella grandezza del domani. Essa poggia sul messaggio rivoluzionario della risurrezione di Gesù dai morti, poiché se Cristo non fosse risuscitato dai morti, afferma l’apostolo Paolo, e quindi se avessimo avuto speranza in lui soltanto in questa vita, saremmo da compiangere più di tutti gli uomini (cfr. 1Cor 15,19). Poiché esiste la risurrezione della carne, afferma a questo proposito il Papa, esiste anche una giustizia, in quanto esiste la riparazione che ristabilisce il diritto. Per questa ragione, egli conclude, «la fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza» (p. 84). Anzi, proprio la questione della giustizia costituisce l’argomento principale e più forte in favore della fede nella vita eterna, perché assicura che l’ingiustizia della storia non avrà l’ultima parola e che l’amore non è destinato ad essere perso per l’eternità. «Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa. L’immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un’immagine terrificante, ma un’immagine di speranza» (p. 85). La consolazione del credente è che Dio è giustizia e crea giustizia, e per ciò stesso può avere vera speranza. In Cristo crocifisso e risorto tutto ciò si mostra pienamente. In Lui si manifesta infatti la pienezza di grazia, ma non per questo viene esclusa la giustizia, poiché il Figlio appeso alla croce è giudizio sul mondo. La giustizia divina non cambia perciò il torto in diritto, né cancella come una spugna quanto di terribile è stato perpetrato lungo la storia. «I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato» (p. 86), afferma chiaramente e incisivamente il Papa, fugando ogni dubbio circa la dottrina della Chiesa sull’Inferno e la sua eternità, quale sorte riservata a coloro che, per un uso distorto della libertà, si sono autoesclusi dalla vita di comunione e di amore con Dio, avendo deliberatamente rifiutato l’offerta della sua amicizia e della sua alleanza. Ognuno sarà perciò giudicato a seconda delle opere che avrà compiute liberamente di fronte a Dio e ai fratelli. La Scrittura, in effetti, seppure sia alquanto sobria quando parla del destino ultimo dell’uomo e del mondo, non tace a riguardo della reale possibilità di perdizione eterna cui va incontro chi si è chiuso egoisticamente a Dio e al prossimo, poiché con la morte la scelta fatta dall’uomo diventa definitiva. Chi si è chiuso total-


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mente a Dio, infatti, ha ormai assolutamente distrutto in sé il desiderio stesso della verità, ha frantumato la disponibilità all’amore e si è reso pienamente accessibile all’azione del male, vivendo nell’odio e nella menzogna (p. 88). Ma se c’è sciaguratamente chi per sua sventura ha imboccato questa via senza uscita, c’è innanzitutto chi si è lasciato penetrare da Dio ed ha vissuto nella piena disponibilità al prossimo (pp. 88-89); e questa convinzione dà ragione della sostanza della fede cristiana che è il lieto annuncio della salvezza. Non ci sono per l’uomo, pertanto, due possibilità equivalenti e parallele (salvezza o perdizione), ma Dio ha preparato per lui esclusivamente un destino di gloria, da cui, tuttavia, l’uomo, il singolo uomo (nessuna massa dannata), può disgraziatamente autoescludersi. Ciò nondimeno, l’esperienza di tutti i giorni, continua il Papa, ci fa incontrare con persone che non vivono alcuna di queste esperienze e condizioni estreme, ma, seppure fra mille debolezze e fragilità, rimangono comunque aperte alla verità e all’amore per Dio e per gli altri. Questi hanno bisogno, per salvarsi e diventare dopo la morte definitivamente capaci di Dio, di «attraversare in prima persona il “fuoco”», come ci riferisce Paolo nell’oscuro brano di 1Cor 3,12-15. Questo fuoco è Cristo stesso. Il suo sguardo, infatti, risana e trasforma l’uomo. «Nel momento del Giudizio sperimentiamo e accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia» (p. 92). Il Giudizio di Dio è dunque speranza, perché è sia giustizia che grazia. In Cristo il giudizio è stato strettamente e indissolubilmente legato alla grazia, per cui a tutti è consentito sperare davvero. La speranza cristiana illumina perfino l’oscurità della morte e il suo oltre. L’azione dei credenti raggiunte anche coloro che sono passati attraverso la morte ed hanno però bisogno dell’aiuto e dell’intercessione dei fratelli ancora in vita. L’uomo, infatti, non è una monade chiusa in se stessa, ma vive la propria esistenza in profonda comunione con tutti gli altri (p. 95). La speranza cristiana, di conseguenza, «è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza per me» (pp. 95-96). Il Papa conclude la sua lettera enciclica, ricca di spunti di riflessioni e di itinerari di approfondimento, come abbiamo avuto modo di constatare, con un richiamo a Maria Vergine, Stella maris, quale punto di riferimento indispensabile per il credente che è chiamato ad attraversare un’esistenza che sempre più assume i tratti di un mare in burrasca. La vita, per usare


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ancora un’immagine dell’enciclica, è come un viaggio in alto mare; è segnata da tutte le insicurezze e i pericoli che quotidianamente l’assalgono. Come le acque primordiali, simbolo del caos e delle forze oscure del male, minacciano costantemente la creazione, tanto che la Scrittura ci parla di una ininterrotta e inesausta lotta di Dio contro il male e le sue più tristi manifestazioni, sino alla consumazione del mondo, così l’esistenza del credente è perennemente assalita dalla tentazione della sfiducia nei confronti di Dio e dell’annebbiarsi e incrinarsi della sua speranza. Tuttavia la vita non si converte mai, in nessun caso, in un vagabondare senza meta e senza senso, nella misura in cui la via che si segue è quella tracciata dalle persone che hanno saputo vivere rettamente; da coloro che, «ci hanno preceduto nel segno della fede e dormono il sonno della pace» (Canone Romano). Tra queste naturalmente Maria risplende come segno di certa speranza e di consolazione per la Chiesa in cammino, quale sua primizia e modello (cfr. Lumen Gentium 68).

7. IN CONCLUSIONE… Si può affermare che la lettura dell’ultima enciclica di Benedetto XVI per molti versi stupisce e dà a pensare, in quanto, sia per i toni usati che per il modo di procedere della riflessione, non segue sino in fondo alcuni canoni “classici” di questo tipo di intervento magisteriale. Più che una forma solenne e una struttura bel precisa (Scrittura, testimonianza patristica e contributo dei maggiori autori cristiani, interventi dei pontefici precedenti e dei più significativi documenti conciliari, confronto con il mondo contemporaneo, indicazioni pastorali per il presente e per il futuro) a cui molte lettere encicliche del passato — in verità forse non tutte — ci avevano abituato sino ad ora, la Spe salvi si snoda come una lunga e lineare riflessione, a tratti alquanto complessa, di natura teologico-pastorale, sul tema della speranza e della salvezza finale dell’uomo in Cristo. Una riflessione in cui vengono affrontate questioni che oggi forse hanno poca cittadinanza nel mondo contemporaneo, sempre più impegnato a gestire il presente e sufficientemente distratto nei confronti del futuro. Parlare di speranza nei toni in cui l’ha fatto il Papa è per molti versi un atto di coraggio che rivela la parresía con cui egli si accosta alle questioni cruciali dell’uomo. Egli ha


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sottolineato e ribadito che l’autentica speranza cristiana ha un nome e un volto: Cristo Crocifisso, nel quale è data all’uomo una “speranza affidabile” perché gli è offerta una “meta certa”. Nell’affrontare un tema così delicato, che nel corso della storia è stato soggetto a non pochi fraintendimenti che hanno portato a leggere nella speranza cristiana, come abbiamo visto, il narcotico offerto agli uomini per sopportare le contrarietà della vita, o la via di fuga verso l’attesa di paradisi ultraterreni in cui poter raggiungere finalmente quel benessere e quella pienezza che qui e adesso non è dato all’uomo di conquistare a motivo della sua insopprimibile e insuperabile finitezza, il Papa ha saputo recuperare il messaggio genuino del Regno, coniugando il discorso sulle cose ultime con l’attenzione alle realtà del mondo. E in questa luce è apparso anche tutto ciò che di “terreno” è insito nella speranza cristiana. La vita eterna, il Giudizio, gli eventi “ultimi” legati al “ritorno” di Cristo che sembrano avere così poco da dire sulla vita dell’uomo e sembrano richiedere la sua messa tra parentesi, poiché ciò che conta non è tanto il viaggio, quanto piuttosto la meta da raggiungere, invece aprono una prospettiva nuova che Benedetto XVI schiude nella sua enciclica. Questa conduce a tutt’altro esito: guardare sì in profondità ed in alto la speranza cristiana, ma anche cogliere la luce che ne deriva per questa vita. La tensione verso l’oltre rende gli uomini liberi e critici verso tutto ciò che possono costruire e ottenere, anche di buono, da soli, lungo il corso, sempre breve, della loro esistenza e della storia. La fede cristiana manifesta da parte sua di non essere alienazione ma ricomposizione dell’umano. L’ultimo non toglie nulla né azzoppa il penultimo, ma lo destina, lo alimenta e lo rende gravido di autentico futuro. La speranza cristiana non sottrae affatto all’impegno in questo mondo, e non spinge verso una salvezza individualistica, ma al contrario libera dai surrogati della speranza che sono le ideologie, scioglie dagli inganni delle promesse di salvezza degli “strilloni di turno” e spinge ad una salvezza che ha una dimensione profondamente comunitaria. La speranza cristiana, in conclusione, custodisce quella tensione che abita il finito e che rende inquieto il cuore dell’uomo di oggi forse come non mai. Essa è la sola che riesce ad es-porre l’uomo verso l’altro e verso il futuro, tirandolo fuori dalle sue sicurezze e denunciando la fragilità delle sue conquiste, ma anche collocandolo nel futuro stesso di Dio.


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DON STURZO: MORALIZZARE LA VITA PUBBLICA

SALVATORE MILLESOLI*

PREMESSA Quello dell’impegno socio-politico del cristiano è uno dei più discussi e controversi temi che hanno contrassegnato la maturazione e l’adeguamento della Chiesa ad una società in rapido mutamento negli ultimi cento anni di storia1. Da una società fortemente legata alla religione, quella di stampo medievale, si è passati ad una drastica reazione anticlericale propria dell’effetto che l’Illuminismo ha avuto sulla realtà sociale. Ma il problema che sempre ci si è posti è quello di quale tipo di partecipazione il cristiano deve avere nella conduzione civile e politica della realtà in cui vive, e come la sua fede può esprimersi fattivamente nella corretta gestione del proprio ufficio amministrativo. *

Docente incaricato di Teologia spirituale presso lo Studio Teologico S. Paolo di

Catania. 1

Il Concilio Vaticano II più volte ribadisce l’importanza e la necessità di tener presente, per la comprensione storica della Chiesa, il contesto storico-sociale dove essa si trova inserita. Emblematico è questo brano della Gaudium et Spes: «La Chiesa, avendo una struttura sociale visibile, che è appunto segno della sua unità in Cristo, può far tesoro, e lo fa, dello sviluppo della vita sociale umana, non quasi le manchi qualcosa nella costituzione datale da Cristo, ma per conoscere questa più profondamente, per meglio esprimerla e per adattarla con più successo ai nostri tempi. Essa sente con gratitudine di ricevere, nella sua comunità non meno che nei suoi figli singoli, vari aiuti dagli uomini di qualsiasi grado e condizione. Chiunque promuove la comunità umana nell’ordine della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica, sia nazionale che internazionale, porta anche non poco aiuto, secondo il disegno di Dio, alla comunità della Chiesa, nella misura in cui questa dipende da fattori esterni. Anzi, la Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dalla opposizione di quanti la avversano o la perseguitano» (n. 44).


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Tanti sono stati gli uomini che, da cristiani, si sono dedicati al servizio della società civile, lasciando una forte impronta, perché se è vero che la vita, l’opera e il pensiero di ogni grande uomo sono sempre sorretti da un’idea fondamentale, che al contempo ne diventano l’anima e la forza motrice, quella di un cristiano non può che essere il Vangelo. Questo vale soprattutto per chi passa alla storia per aver cercato di dare un apporto positivo alla crescita e al miglioramento della civiltà. Tra questi, insigne protagonista dello scenario politico del novecento italiano, c’è senza dubbio don Luigi Sturzo, la cui visione di fondo, che ne sorregge tutta l’opera, può essere così riassunta: necessità di una buona teoria per una prassi politica autentica.

1. IL RAPPORTO TRA POLITICA E MORALE L’idea di un necessario rapporto tra una buona teoria politica e la sua concretizzazione pratica, prende forma nella coscienza sturziana a partire dalla sua esperienza diretta dei primi anni di impegno concreto nell’amministrazione locale a Caltagirone, sua città natale. A partire dal 1900 don Sturzo inizia un periodo di maturazione del pensiero sociale, che, attraverso una serie di conferenze presso i circoli locali e la redazione di alcuni articoli, lo impegna, contemporaneamente all’insegnamento presso il seminario diocesano, nella grande opera di recezione e attuazione della Rerum Novarum. Nel 1904, ottenuto il permesso dalla Santa Sede, viene nominato Commissario prefettizio di Caltagirone, e un anno dopo anche pro-sindaco della Città, carica che conserverà per quindici anni fino al 1920. Ma il fulcro del suo pensiero dovrà aspettare qualche decennio per essere raggiunto, infatti esso viene maturato e poi sintetizzato durante la fase di una più intensa produzione letteraria che coincide con l’epoca dell’esilio2. 2 Il periodo dell’esilio che Sturzo passa fuori dall’Italia durante il ventennio fascista abbraccia due momenti: l’esilio londinese (1924-1940) e quello statunitense (1940-1946). Questo è il periodo di massima intensità intellettuale per Sturzo. Infatti, in questi anni vedono la luce i capolavori della sua produzione letteraria, poi pubblicata nell’Opera Omnia, a cura dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma. L’intera opera è costituita da tre serie: a) Le opere (dodici pubblicazioni dal 1954 al 1971); b) Saggi, discorsi, articoli (tredici pubblicazioni dal 1954 al 1974); c) Scritti vari (cinque pubblicazioni dal 1954 al 1972).


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Di questa produzione un’opera eccellente è sicuramente “Politica e Morale” del 19383. Tra le righe di questa opera si rintracciano le fondamentali idee morali dell’opera e del pensiero politico sturziano, idee che risultano a distanza di settant’anni di grande attualità, soprattutto per quanto riguarda il variegato mondo del rapporto tra politica e lavoro, anzi proprio a partire dalla salvaguardia dei diritti del lavoratore prende le mosse l’itinerario teoretico del prete calatino. Scrive egli stesso riguardo agli inizi del suo percorso: «Quando ero professore di filosofia e di sociologia nel seminario maggiore di Caltagirone un gruppo di operai si rivolse a me. Giacchè combattevo l’usura con le cooperative, giacchè mi occupavo della formazione di fanciulli e giovani, perché non mi sarei occupato anche dell’educazione civica dei lavoratori?»4.

Così Sturzo lancia una campagna di formazione per i lavoratori, attraverso la costituzione di appositi comitati parrocchiali5, e a quanti aderirono alla sua proposta di formazione Sturzo pone una condizione: «acquisire sempre più una personalità civile e morale»6. Con queste idee di fondo Sturzo abbandona la sua cattedra al seminario diocesano per sensibilizzare, attraverso lo strumento del giornalismo7, 3

L. STURZO, Politica e Morale, in Opera Omnia, vol. IV serie I, Bologna 1960. Ibid., 97. 5 Il giovane prete di Caltagirone vive con entusiasmo il clima carico di tensioni, ma anche fervido di aspettative, del post Rerum Novarum, cercando il modo di poter introdurre le nuove prospettive democratico-cristiane in un ambiente, quello della sua città, ancora chiuso e trincerato dietro un alone di diffidenza verso le nuove idee. Per far cosa gradita agli ecclesiastici diffidenti, Sturzo si servì di uno strumento già ampiamente accettato dal comune sentire, che era quello dei comitati parrocchiali, tipici dell’Opera dei Congressi. Il primo comitato calatino fu fondato nel 1895 nella Parrocchia di San Giorgio, e radunò un nutrito gruppo di cattolici pronti a seguire Sturzo nella sua innovativa opera di sensibilizzazione e promozione della formazione dei giovani lavoratori (cfr. G. DE ROSA, Luigi Sturzo, Torino 1977). 6 L. STURZO, Politica e Morale, cit., 97. 7 Sturzo fonda nel 1897 il giornale “La Croce di Costantino”, come organo ufficiale dei comitati interparrocchiali che andava costituendo. Il giornale non fu accolto benignamente dai concittadini di Sturzo, tanto che ne bruciarono una copia in piazza al suono dell’inno di Garibaldi. Ma la storia darà ragione al prete calatino visto che l’impegno dei cattolici da lì a presto sarebbe cresciuto notevolmente in tutto il paese (cfr. G. DE ROSA, Luigi Sturzo, cit.). 4


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e attraverso l’organizzazione dei comitati, la lotta democratica per «moralizzare la vita pubblica»8, persuaso che se da un lato «le masse sono educabili» e che «il popolo può esercitare il potere», dall’altro lato si convince sempre più che «ogni educazione morale della vita pubblica deve appoggiarsi su una solida concezione della politica»9. Il problema in tutto questo, oggi come allora, sta nella difficoltà di conciliazione tra l’idea di politica e quella di morale, il nostro autore lo ribadisce chiaramente: «siam soliti parlare di politica e di moralità come se si trattasse di due nemiche che non riusciranno mai ad intendersi».10 Sturzo non può non tenere conto del substrato ideologico, maturato soprattutto in epoca patristica, che relega la politica tra le opere negative, conseguenza diretta del peccato, come si evince proprio dalle prime righe dell’opera Politica e Morale: 8 Una provocazione lanciata con molta sicurezza che andrà maturando nel corso degli anni, anche se ridimensionata nella sua portata ideologica, come si evince da questo articolo degli ultimi anni di vita: «Una parola “moralizzare la vita pubblica”! Dove e quando essa è stata mantenuta sulla linea della moralità? Non ieri, non oggi; non da noi; non dai nostri vicini; non dai Paesi lontani. Eppure, è questa l’aspirazione popolare: giustizia, onestà, mani pulite, equità. Che cosa è mai la concezione dello “Stato di diritto” se non quella di uno Stato nel quale la legge prende il posto dell’arbitrio; la malversazione e la sopraffazione non restano impunite? Bene, facciamo come si fa nelle case; in primavera e in autunno pulizia generale; si rivedono tutti gli angoli; si spolverano tutti i mobili; si buttano via stracci e carte inutili: pulizia, ci vuole. È vero, ci sporchiamo le mani; ma c’è l’acqua e il sapone a ripulirle più volte.» L. STURZO, Moralizzare la vita pubblica, in Il Giornale d’Italia, 2 gennaio 1958, ora in L. STURZO, Battaglie per la libertà, Palermo 1992, 625. 9 L. STURZO, Politica e Morale, cit., 98. 10 Ibid., 61. Un articolo risulta interessante circa il pensiero di Don Sturzo riguardante l’eticità intrinseca della politica: «C’è chi pensa che la politica sia un’arte che si apprende senza separazione, si esercita senza competenza, si attua con furberia. È anche opinione diffusa che alla politica non si applichi la morale comune, e si parla spesso di due morali, quella dei rapporti privati, e l’altra (che non sarebbe morale né moralizzabile) della vita pubblica. La mia esperienza lunga e penosa mi fa concepire la politica come satura di eticità, ispirata all’amore al prossimo, resa nobile dalla finalità del bene comune. Per entrare in tale convinzione, occorre essere educato al senso di responsabilità, avere forte carattere pur con le più gentili maniere, e non cedere mai alle pressioni indebite e alle suadenti lusinghe per essere introdotto ad operare contro coscienza. Si sbaglierà, di sicuro, non mai di proposito e ad occhi aperti, né per volontà perversa e per fini egoistici: l’errare è dell’uomo, il perseverare è del diavolo». Articolo apparso su Il Popolo del 16 dicembre 1956.


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«Nei primi secoli del cristianesimo s’insinuò la teoria che tanto il possesso dei beni terrestri quanto il potere coercitivo dell’autorità politica fossero conseguenza del peccato originale, e benché non fossero in sé stessi un male (nel senso di peccato), venivano ora riguardati come una pena della prima colpa, ora come una causa più o meno remota di peccato. Così concepiti possesso e potere, venivano ad appartenere alla categoria del “mondo” (nel senso datovi dal Vangelo), specialmente quando il possesso si tramutava in ricchezze e il potere in dominio. A queste due cause venivano collegati gli altri mali sociali, quali la schiavitù, la poligamia, la ribellione, la guerra. L’origine psicologica di simili mali era segnata dalle tre concupiscenze enumerate da S. Giovanni: concupiscientia oculorum, concupiscentia carnis, et superbia vitae; ma la loro origine sociale si ritrova nel possesso e nel potere»11.

2. LA

RICERCA DEL BENE COMUNE, QUALE FONDAMENTO DELLA POLITICA

CRISTIANA

Don Sturzo non condivide un’arbitraria attribuzione di sostanziale immoralità alla politica, ne ribadisce, anzi, la intrinseca moralità legata a quella che è la vera natura del suo fine, cioè il bonum commune. Infatti egli sostiene che se l’azione politica è la «partecipazione al governo di un paese per il raggiungimento del bene comune» tale attività è certamente morale, perché «cercare il bene comune con mezzi adatti è certamente uno scopo morale»12. Il vero problema è allora la concezione che si ha di bene comune. Per il fatto stesso che esso rappresenta un bene utile, e anche onesto, è quindi un bene morale? Il tutto può essere superato sottolineando un’altra caratteristica del bene comune, il fatto che è “comune”, cioè “per tutti”: «L’idea di utilità è alla base della politica e forma indubbiamente il suo fine specifico e predominante. Questa concezione utilitaristica si trasforma a poco a poco in concezione morale quando si passa dall’utilità di un solo individuo, monarca o dittatore, a quella di tutti gli individui, dalla considerazione dell’utilità di una sola classe (nobiltà, clero, esercito come era 11 12

Ibid., 3. Ibid., 61.


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Salvatore Millesoli nell’ancien régime francese ), a quella di tutte le classi. Insomma, più il vantaggio cercato è d’interesse generale e più la politica diventa morale; più questo vantaggio si restringe ad un piccolo numero e più la politica diventa immorale»13.

Sturzo così individua la ragione intrinseca del potere politico dal finalismo etico che soggiace al rapporto società-Stato, cioè il bene comune, al di là di questo limite non può esserci potere legittimo, non può esserci rapporto morale. Il concetto di “bene comune” si oppone a quello di “bene individuale”, al quale deve attendere il singolo individuo, e mai, in nessun caso, la comunità. Dunque il bene comune diventa il vero e proprio limite del potere, e questo deve essere chiaro nella coscienza di chiunque voglia dedicarsi al servizio della comunità, perché essa diventi sempre più una società civile, che abbia come punto di riferimento l’uomo. Una società al servizio dell’uomo è quella che si propone come meta prioritaria il bene comune, inteso come l’insieme dei requisiti necessari affinchè gli uomini, singolarmente o socialmente intesi, possano raggiungere il proprio sviluppo umano, etico, spirituale, anche se quest’ultima sfera della vita dell’uomo gode solo indirettamente di tale beneficio. Per tale ragione il bene comune suppone in primo luogo il rispetto della persona in quanto tale, e dei suoi diritti fondamentali e inalienabili: «Il finalismo della società (di qualsiasi società, lo Stato compreso) che noi diciamo bene comune e poniamo come limite al potere, è meglio precisato sotto l’aspetto di diritto della persona umana. […]. Tale limite è sostanzialmente etico, perché la persona in concreto è il termine dei beni e dei vantaggi che crea leggi che regolano il potere. Tutto ciò che lede la persona umana, ne viola i diritti, ne impedisce l’adempimento dei doveri, ne altera il carattere razionale, forma il limite insuperabile del potere»14.

Sturzo è dunque convinto che la società ha il dovere di permettere a ciascuno dei suoi membri di realizzarsi singolarmente, cioè il bene comune della società deve essere al servizio di tutto l’uomo, oltre che di tutti gli 13 14

Ibid., 63-64. L. STURZO, Coscienza e politica, Bologna 1953, 376-377.


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uomini. Che la persona si ordini alla società dipende dal fatto che la società, a sua volta, sia ordinata al bene delle persone, ed entrambe siano subordinate al Bene supremo, che è Dio. Inoltre, essendo la persona umana principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali, non si può pensare che il rapporto tra bene comune e bene personale sia qualcosa di discordante o conflittuale.

3. L’IMPEGNO POLITICO DEL CRISTIANO È IMPEGNO MORALE Su questa univoca concezione di bene si fondano i principi fondamentali del pensiero sturziano circa la strada da percorrere per affrontare correttamente i problemi concernenti sia i rapporti inerenti al binomio bene privato-bene comune, sia la debita accoglienza riservata al settore ora conosciuto come “privato sociale” o “terzo settore”, dove il fedele può esercitare il suo mandato di operatività evangelica, lasciando però sempre trasparire l’etica di fondo, senza lasciare ombre di dubbio circa l’onestà e la moralità del servizio reso15. Sturzo in tal senso ha maturato una grande esperienza personale, che non poche volte gli ha procurato fastidi e amarezze. Ne parla concretamente come per voler mettere in guardia i più avveduti: «La mia esperienza mi ha sempre provato che i cattolici che entrano in partiti strettamente politici, non solo perdono il senso dell’apostolato sociale e morale che si trova nei partiti di ispirazione cristiana, ma inoltre si attaccano troppo agli aspetti materiali e utilitari della politica e non riescono più a distinguere tra i mezzi onesti e quelli che chiameremo discutibili; questi cattolici diventano spesso una minoranza isolata e senza influenza in mezzo ad una maggioranza troppo materialista… e realista. Un

15 A tal proposito interessante un altro articolo, antecedente a quello omonimo del ’58, che fa trasparire quest’ansia del prete calatino per la limpidezza etica delle istituzioni: «Oggi tutti lamentano l’immoralità privata…Ma non si corregge tale immoralità solo con le prediche o con gli articoli dei giornali. Bisogna che la prima ad essere corretta sia la vita pubblica: ministri, deputati, sindaci, consiglieri, cooperatori, organizzatori sindacali, siano esempio di amministrazione rigida e di osservanza fedele ai principi della moralità»: L. STURZO, Moralizzare la vita pubblica, in L’Italia, 3 novembre 1946, ora in L. STURZO, Politica di questi anni, I, Bologna 1954, 42.


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Salvatore Millesoli partito per i cattolici non deve essere soltanto uno strumento politico, ma deve avere un programma ideale e morale»16.

Importante e fondamentale dunque l’ideale di fondo dell’agire politico per il cristiano, esso esprime come la nuova visione di Sturzo per un nuovo impegno politico e sociale non è intesa come un semplice attivismo confuso e disorganico, né è motivata dalla sete di potere o da una propria ambizione personale, né da una evasione dal proprio ministero sacerdotale; tale visione nasce invece dalla volontà di fondare tutta la vita sulle solide basi del cristianesimo. Così egli elaborò un progetto per un partito vicino ai bisogni della base popolare anche grazie al non expedit che precludeva ai cattolici la partecipazione attiva alla vita parlamentare del paese, con «un’opera di educazione politica a lungo termine nei confronti di un elettorato amorfo, avvolto nei pregiudizi e nei personalismi»17. Sturzo, sulla base di questa rinnovata coscienza, lancia il famoso appello «a tutti gli uomini liberi e forti», che sarà uno dei documenti più elevati ed emblematici di tutta la nostra letteratura politica, una carta d’identità perfettamente laica, senza riserve e pregiudizi di stampo clericale, espressione di una visione politica liberale circa i problemi di uno stato democratico uscito dal dramma di un conflitto mondiale18. Se, però, da un lato viene lanciato un forte appello alle coscienze di tutti i cittadini, all’insegna di quella forza che viene dalla libertà, Sturzo, con un filo di rammarico nota e denuncia con vigore la scarsa volontà di conciliazione tra fede e politica nel vissuto di molti cattolici: «Nella frolla educazione delle coscienze, nel tradizionale servilismo politico anche della religione, nell’ambiente individualistico del liberalismo, a poco a poco tra i cattolici si è andata formando una concezione unilaterale e incompleta dei rapporti fra la vita religiosa e la vita politica, da ammetterne la divisione, lo stacco e anche la contraddizione. La vita religiosa si riguarda 16

Ibid., 106. M. BELARDINELLI, Movimento cattolico e questione comunale dopo l’Unità, Roma 1979, 42; cfr. anche F. RIZZO, Luigi Sturzo e la questione meridionale, Roma 1957. 18 Cfr. G. DE ROSA, Luigi Sturzo, cit., 194: «A tutti gli uomini liberi e forti che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini supremi della Patria, senza pregiudizi né preconcetti facciamo appello perché uniti insieme propugnino insieme nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertà». 17


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come un fatto semplicemente “personale”, che non esce dai limiti dell’individuo e dall’ambito della propria coscienza […].E la religione, ricacciata indietro, indietro, con un lavorio crescente e indisturbato, è rimasta come conforto personale di qualche civile dalla coscienza timorata, di poche o molte donne, di molto popolo, che ancora è credente come per tradizionale legge di famiglia, spesso senza comprendere intiero il senso della vita cristiana. Messa così la religione in bando dalla vita sociale e divenuta un fatto personale, deve necessariamente sorgere spesso il contrasto fra la coscienza individuale e la sociale, fra la persona e l’ambiente, fra la convinzione e la legge, fra la vita privata e pubblica»19.

Sturzo è convinto della possibilità per i credenti di far penetrare i propri valori religiosi e morali nella vita quotidiana e dunque nella politica: «Una delle ragioni di questo rovinìo di coscienze collettive e individuali è il pregiudizio che la religione non fa di politica. Di grazia: che cos’è la politica? Non sarà certo il mestiere di gabbare il prossimo per montare in alto e pescar nelle banche. Quello no, non è politica. La politica riguarda l’ordinamento sociale di una nazione, sia amministrativo, sia economico, sia giuridico, riguardo i diritti e i doveri individuali e sociali, l’educazione, la morale, la prosperità pubblica. È certo che la religione, come tale, prescinde che uno stato sia monarchico o repubblicano, rappresentativo o assoluto, che si armi o stringa alleanze. Però, poiché la società terrena e la vita terrena sono ordinate a una società e a una vita migliore, la celeste, la religione vuole e deve volere che diritto, leggi, educazione, costumi, amministrazione siano fondati sulla moralità e sulla giustizia; e non solo che non siano contrari, ma che siano favorevoli allo svolgimento della dottrina e della vita cristiana. Questa è la politica che fa la religione; essa vuole l’influenza del Cristianesimo nella vita pubblica delle nazioni; perché la vita e la coscienza pubblica sono coefficienti dell’indirizzo della vita e della formazione della coscienza privata»20.

Sturzo conclude questo suo articolo rivendicando il ruolo civile attribuito alla Chiesa, e dunque teorizzando un “partito cattolico”, come 19 IL CROCIATO, Coscienza religiosa e coscienza politica, in La Croce di Costantino, 7 ottobre 1900, 1. 20 Ibid., 2.


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braccio secolare della Chiesa, che riconquista e riorganizza la secolarizzata società attraverso «una sorta di moderna teocrazia proveniente dal basso»21: «Oggi che la vita politica non scende più dall’alto al basso, ma dal basso va all’alto, e che perciò le forme democratiche popolari si sono sostituite alle forme aristocratiche e assolute, la Chiesa opera per mezzo dell’influenza sociale della democrazia. I cattolici veri che alla coscienza individuale di cristiani aggiungono la coscienza collettiva, e alla vita privata cattolica, la vita pubblica, seguono gli ammaestramenti della Chiesa, del Papa e dei Vescovi e formano quel che si chiama partito cattolico o cattolici militanti. E ciò con maggior dovere e con maggiori sacrifici oggi che la società imbevuta dalle teorie liberali e minacciata dal socialismo, ha nella sua vita collettiva giuridica e politica, scientifica e letteraria apostatato da Dio, i cui diritti conculca, la cui legge viola, il cui nome bestemmia, i cui dommi deride, la cui morale calpesta. E’ questa la coscienza politica dei cattolici coscienza tutt’ora imperfetta, perché molti pregiudizi di ambienti e di educazione ne contrastano la formazione e lo sviluppo. Che però oramai in tutta Italia è penetrata col soffio del movimento cattolico che ha dato l’organizzazione dell’Opera dei Congressi e della Democrazia Cristiana. Questa organizzazione coi suoi circoli e le sue scuole, coi suoi giornali e le sue istituzioni economiche e di beneficenza, con le pubbliche affermazioni e le vivaci lotte elettorali, scuote gli inerti, i dormienti, i cattolici frolli, e addita loro la gioventù corrotta nelle scuole laiche, la immoralità che inonda, l’irreligione delle università, la tresca con le banche, l’asservimento del popolo, la guerra alla Chiesa, e grida nel supremo pericolo: Salviamo l’Italia!»22. 21

I,

M. CONDORELLI, Chiesa e Stato in Luigi Sturzo, in Luigi Sturzo nella storia d’Italia,

327.

22 IL CROCIATO, Coscienza religiosa e coscienza politica, cit., 2. Il tono, molte volte forte e deciso, di rimprovero usato dal nostro sacerdote viene smorzato da tentativi di recupero della realtà politica nel suo insieme, aprendosi a suggerimenti e riflessioni che fanno intravedere un ottimismo di fondo che così viene espresso nel proseguo dell’articolo citato: «Per quanto sto segnalando non vorrei dare l’impressione che tutta l’amministrazione statale sia corrotta; farei torto al personale tradizionalmente corretto e zelante; ma il sistema dei “controllati-controllori”, da me denunziato dieci anni fa, vige ed è generalizzato perfino con leggi recenti; le responsabilità dei capi sono attenuate o elise dalle decisioni di commissione o dai pareri dei comitati consultivi ministeriali e interministeriali; le promozioni a salti mortali sono non dico frequenti, ma meno rare del passato e demoralizzano coloro che contano sulla regolarità della carriera e sulla disciplina del personale. Per giunta la differenza di stipendio fra il personale dei dicasteri statali e lo stipendio (aumentato da indennità, parte-


Don Sturzo: moralizzare la vita pubblica

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4. MORALIZZARE LA VITA PUBBLICA Questa salvezza auspicata da don Sturzo per l’intera Nazione proviene da un recupero dell’eticità insita nel servizio politico, eticità che si recupera attraverso una sorta di “pulizia generale”, una pulizia atta a “moralizzare la vita pubblica”: «Pulizia! Pulizia morale, politica e amministrativa; solo così potranno i partiti ripresentarsi agli elettori in modo degno per ottenere voti; non mai facendo valere i favori fatti a categorie e gruppi; non mai con promesse personali di posti e di promozioni; ma solo in nome degli interessi della comunità nazionale, del popolo italiano, della Patria infine; perché la moralizzazione della vita pubblica è il miglior servizio che si possa fare alla Patria nostra. E non abbiate vergogna, candidati di tutti i partiti, di parlare di Patria, perché la Patria, come ideale collettivo, indica giustizia, moralità, equità, onore, rispetto della personalità»23.

Questa pulizia riguarda anche la sfera più intima della coscienza, per cui il sacerdote Sturzo si permette di dare anche un consiglio da Padre spirituale, consigliando a chi si dedica, da cristiano, al servizio delle istituzioni, di fare un esame di coscienza quotidiano, così da verificare continuamente la bontà delle proprie scelte e, perché no, chieda anche perdono dei propri errori: «Fare ogni sera l’esame di coscienza è buon sistema anche per l’uomo politico; così come è giovevole fare buoni propositi. Se, ciò nonostante, la sera si arriva a mani vuote senza aver mantenuto i buoni propositi della mattina, pensa che ciò accade ai più, e serve a tenerci umili anche se la gloria umana aleggia attorno alla nostra piccola testa»24.

Muovendo da questo presupposto, la visione morale di Sturzo diventa anche, in qualche modo, spirituale, perché non può non contrapporsi cipazione agli utili e simili) degli enti statali e parastatali (specialmente nelle posizioni gerarchiche di responsabilità e nelle funzioni tecniche) è tale da ripercuotersi sul morale di tutta la classe impiegatizia e sulla stessa pubblica opinione»: ibid., 628. 23 Ibid., 629. 24 L. STURZO, Politica e Morale, cit., 238-239.


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nettamente a quella di chi, per esempio, definisce il campo sociale e politico semplicemente come una realtà “mondana” che niente ha a che fare con la propria vita cristiana. Al contrario, Sturzo stigmatizza gli errori e i danni provocati dalle concezioni dualiste, che costringono il cristiano a vivere una sorta di “schizofrenia” comportamentale, considerando inconciliabile il progresso della vita spirituale cristiana con l’esercizio di funzioni legate all’amministrazione della cosa pubblica, privandolo così del necessario dinamismo escatologico, come orientamento verso il Cielo. Nella Vera Vita. Sociologia del soprannaturale25, Sturzo più volte richiama questo dato storico, costatando come una sorta di neo-umanitarismo basato sulla scienza (positivismo), il monismo idealistico basato sulla filosofia dello “spirito” o “idea” (idealismo hegeliano), e il socialismo basato sul materialismo dialettico (marxismo), hanno fatto scomparire dalla scena la persona umana e i suoi alti destini, poiché per tali concezioni essa non è che «il fenomeno di un processo, o cieco come la materia o autocosciente come lo spirito, senz’altra finalità che lo stesso processo di auto-realizzazione»26. La vita di ogni uomo, invece, per don Sturzo, deve essere animata e determinata da una comprensione globale dell’esistenza. L’ampiezza e la profondità di tale comprensione globale sono proporzionate all’ampiezza e alla profondità dello sguardo interiore dell’uomo, che la nutre e ne vive. La 25 La Vera Vita – Sociologia del soprannaturale, costituisce uno dei capolavori della produzione sturziana. Fu pubblicata per la prima volta in lingua inglese negli Stati Uniti nel 1943, presso The Catholic University of American Press (Washingthon) con il titolo The true life – Sociology of the supernatural. Nello svolgimento dell’opera Luigi Sturzo manterrà le idee di fondo che ha comunicato al fratello Mario in una lettera: «Ti scrissi già sull’idea direttiva del mio nuovo lavoro che vorrei intitolare Vita Soprannaturale. Il mio punto di partenza è dato dalle conclusioni dei libri precedenti. Il Saggio di Sociologia finisce con l’appello che la vita sociale fa alla trascendenza; Chiesa e Stato con la constatazione che umanesimo e cristianesimo sono storicamente inseparabili come natura e sopra-natura. Il terzo lavoro partirà (nell’introduzione già abbozzata) dal principio che non si dà in concreto una natura completa, perfetta, valevole ai fine dell’uomo, ma che elevata all’ordine soprannaturale, decaduta e restaurata, la natura è talmente legata al soprannaturale da non essere più autonoma. Fuori della sintesi natura — sopra natura si avrà di qua la decadenza, di là l’annichilazione. Tale sintesi è individuale — sociale». In Carteggio, IV, 195-196. L’opera è costituita da due parti precedute da un’introduzione. Nell’introduzione, oltre a tracciare le linee del lavoro, Sturzo giustifica l’approccio sociologico in base al fatto che la soprannaturalità è anche un evento storico sociale. 26 L. STURZO, La Vera Vita, 173.


Don Sturzo: moralizzare la vita pubblica

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Vera Vita di cui scrive e la vita stessa di Sturzo attestano che la comprensione globale che lo animò interiormente può essere definita da una sola parola: cristiana, vale a dire fondata sulla fede che il Figlio di Dio si è incarnato nella Persona di Gesù di Nazaret e che, per tale incarnazione, la storia è diventata il luogo nel quale divino e umano s’incontrano, senza che l’Uno annienti l’altro. Per questo, osserva Sturzo, il sentimento religioso rinasce sempre, non solo come bisogno intimo di ciascuno di noi, ma come aspirazione trascendente, come salda base di vita sociale, orientamento di pensiero, bisogno d’infinito, senso oscuro ma reale della coscienza collettiva, che mai sembra aver perduto o possa perdere il contatto con il divino: «Ogni particolare storia è come inabissata nell’universale e […] ogni caso profano rivela il suo rapporto religioso. Il fatto vero è che la storia, qualunque essa sia, in qualsiasi punto dei secoli venga presa, nell’antichità o nella modernità, non importa in quale luogo, in Europa o in Africa, ci riporta al problema fondamentale dell’umanità vivente e itinerante in rapporto al suo finalismo di unificazione. La storia c’impedisce di guardare l’uomo come un singolo individuo nella solitudine della sua anima, e di guardar Dio come termine singolare di ciascuno, al di fuori della comunione solidale degli uomini fra di loro e con Dio. La storia è la sorte della comunità vivente nei secoli che si fa presente a ciascuno di noi per quella piccola o grande finestra che si apre su di essa nella coscienza di ciascuno. Tale presenza non è di un transitorio che si perde o si è perduto nel nulla, ma di un permanente che sentiamo vivo in ciascuno di noi. […] Sono forse lo spazio e il tempo in cui ci proiettiamo vivendo, pensando, agendo, quelli che ci unificano? Di là dallo spazio e dal tempo ci appella ancora una totalità comprensiva e trascendentale che ci fa sentire il posto finito in cui siamo e l’infinito cui aspiriamo»27.

Così, per Sturzo, fulcro del cammino della storia umana verso l’unificazione finale è l’incarnazione del Verbo. La storia stessa testimonia che l’umanità ha subito un’inserzione del divino, «che il processo umano si è soprannaturalizzato»28. Da qui l’impegno morale, che va distinto da una sorta di buonismo laico, il quale: 27 28

Ibid., 173-174. Ibid., 175.


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Salvatore Millesoli «aiuta il simile perché simile, benché il laicismo non arrivi a trovare nell’uomo la similitudine di Dio, ma solo un essere che ha dei diritti uguali agli altri. È perciò che esso è impotente a contrastare gli egoismi che solo una religione di sacrificio come il Cristianesimo può arrivare a mortificare. L’universalismo di fratellanza, o meglio l’amore del prossimo esteso a tutti, non può realizzarsi se non per quel tanto che si mortifica (e non si esalta) l’egoismo delle persone, delle classi e dei popoli»29.

La morale cristiana, invece, è universale nei suoi principi e nelle sue applicazioni generali, perché interpreta la legge naturale nella sua più corretta formulazione, e soprattutto perché basa ogni vera morale sul precetto di amore di Dio e amore del prossimo uniti insieme; ma il cristianesimo è efficace nella trasformazione e unificazione morale anzitutto perché è una religione predicata agli uomini, affinché vi aderiscano liberamente e volontariamente. In questa libertà interiore coincidono e si completano l’atto morale e l’atto religioso: ogni morale esterna o imposta e ogni religione puramente formalistica, non potrebbero mai pervenire all’interiorità umana e darvi il senso dell’universalità. In conclusione, chi potrà favorire lo spirito di amore, di fratellanza e di solidarietà che deve trionfare non è la cultura sola, né la potenza terrena, né la scienza, né il benessere materiale esteso a tutti, né l’abilità umana. Solo i principi e le dottrine del cristianesimo, con la chiesa come organizzazione positiva, il contributo delle chiese dissidenti e perfino delle altre religioni, per quel che contengono di verità e di amore, potranno fecondare e rendere efficaci gli sforzi umani verso un avvenire migliore, fino al compimento della tendenza unificatrice verso Dio, nella quale naturale e soprannaturale saranno finalmente in congiunzione perfetta30.

29 30

Ibid., 205. Cfr. ibid., 217.


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LA RELAZIONE NECESSARIA E FECONDA TRA BIOETICA E SPIRITUALITÀ NELLA PROSPETTIVA DEL PROCREARE UMANO*

VINCENZO VOLPE**

PREMESSA Cogliere il nesso che intercorre tra spiritualità e bioetica significa sondare le radici esistenziali profonde e segrete dell’uomo, della persona umana, considerata nella sua integrità e nella sua complessità a volte paradossale. A partire da questa visione antropologica risulta evidente come in ogni momento della vita l’uomo “fa bioetica”: sviluppa, cioè, una sua riflessione sulla vita, a favore o contro di essa, vive e sceglie i valori che più lo realizzano; ma al contempo dialoga in profondità con se stesso, con il suo “spirito”, incontra la voce della sua coscienza, ascolta o rifiuta la voce di un Altro con il quale inevitabilmente confrontarsi. Pertanto la riflessione bioetica, illuminata dalla novità del messaggio evangelico, non può camminare disgiunta da una prospettiva spirituale; questo legame dovrebbe essere tenuto ben presente soprattutto dagli operatori pastorali, i quali all’interno della comunità cristiana si fanno carico non solo della formazione e dell’orientamento dei fidanzati, dei coniugi, delle famiglie, ma soprattutto devono poter essere essi stessi capaci di vivere una vita spirituale aperta e sensibile ai valori e alle problematiche della bioetica. Il panorama antropologico odierno si presenta come segnato da un vasto e accentuato pluralismo: le visioni dell’uomo sono molte e diverse, tanto da risultare talvolta contraddittorie. È inevitabile che al pluralismo antropologico faccia seguito un pluralismo etico: questa è una delle ragioni *

Estratto della tesi di Licenza in Teologia morale, discussa il 9 febbraio 2007 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, relatore il prof. Giovanni Russo. ** Licenziato in Teologia morale.


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per cui, rispetto alle varie problematiche sulla vita umana, si parla sempre più di bioetiche al plurale, a seconda delle diversità antropologiche di riferimento. Ma la preoccupazione di far conoscere le varie problematiche, lungi da creare steccati e contrapposizioni, potrebbe diventare l’occasione per un confronto proficuo nell’interesse comune della ricerca della verità. Sollecitati da questa sensibilità culturale e antropologica, che inevitabilmente coinvolge anche la riflessione teologica e spirituale, si avverte la necessità di elaborare una considerazione e un’analisi nella prospettiva del procreare umano relativamente al rapporto tra la bioetica e la spiritualità. La scelta di tale percorso si giustifica per la stessa tensione intrinseca della stessa spiritualità, la quale assume come proprio compito quello di tenere desta l’attenzione verso l’aspetto esperienziale della vita cristiana, con l’intenzione di stimolare e favorire il suo inserimento nel tessuto concreto della quotidianità dell’esistenza umana. In questo senso la spiritualità riveste un particolare ruolo che è al contempo ermeneutico e sapienziale, perché offre elementi e modalità per poter vivere la vita cristiana in modo più corrispondente alla cultura e alle nuove necessità del presente storico.

1. BIOETICA E SPIRITUALITÀ NELLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL PROCREARE

Partendo da queste osservazioni preliminari, risulta chiaro che ogni valutazione etica rimanda a un approccio più radicale, quello propriamente antropologico e teologico, che riguarda la verità umana e la verità che è Dio, ossia la realtà di Dio Trinità e dell’essere stesso dell’uomo in rapporto con se stesso e con il suo Creatore. Solo affrontando l’interrogativo più elementare e nel contempo il più complesso che il soggetto umano può porsi, ossia “che cosa è l’uomo?”, meglio “chi è l’uomo?”, è possibile dare risposta alla domanda sulla bontà o meno dell’agire dell’uomo nei riguardi della vita. Non è fuori luogo affermare che la questione del senso profondo della sessualità e della procreazione umana sia uno dei punti di discrimine di diverse antropologie, e che ha avuto ragione papa Paolo VI quando nell’Humanae Vitae profeticamente ha evidenziato i punti nevralgici non solo dell’etica coniugale, ma della stessa concezione dell’uomo. Pertanto


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non c’è etica senza antropologia, così come non c’è antropologia senza etica. Ma una vera antropologia etica, come anche una “bio-etica”, può fare a meno di una “spiritualità”? La procreazione umana, il procreare una nuova vita all’interno di un rapporto stabile e duraturo come quello coniugale, è un atto responsabile che si pone in stretta continuità con la creazione divina e diventa segno esplicito di collaborazione con l’atto creativo di Dio. L’uomo, “creato a immagine e somiglianza” di Dio, è il centro della natura; in modo particolare il suo cuore, ovvero il suo spirito, la sua volontà e la sua coscienza, è il luogo privilegiato all’interno del quale il Creatore, infondendo il suo Spirito e la sua Parola, sancisce la sua Alleanza e chiede una risposta d’amore e di fedeltà. Ma questo dinamismo spirituale dell’uomo, che spesso si risolve in un cammino arduo verso la comunione con Dio e con gli altri, si incrocia spesso con il rischio dello smarrimento, della dispersione e della frammentazione. La bioetica, allora, può diventare uno spazio privilegiato dove antropologia e sapere scientifico si incontrano per offrire una base razionale, una luce di competenza capace di illuminare la coscienza dell’uomo che di fronte alle controversie sul valore della vita spesso si ritrova smarrita e incapace di scegliere il bene. A queste ragioni, che mi hanno indotto a trattare il rapporto tra spiritualità e bioetica, è necessario aggiungere altre due considerazioni. La prima è che la quaestio de homine costituisce ormai il nodo centrale di tutto il dibattito culturale contemporaneo. Una centralità non ultimamente dovuta al fatto che l’uomo oggi ha acquisito un potere tale da ridefinire l’humanum, che lungo la sua storia non aveva mai avuto. Ad esempio il tema della relazione tra corporeità e identità personale è un ambito della riflessione antropologica che soprattutto in questi ultimi anni si è aperto alla nuova ed inquietante categoria del “post-umano”1. In tale prospettiva sarebbe un errore porre subito al centro il problema delle “regole” che devono limitare 1

Un’analisi interessante e intelligente sul “post-umano” è stata offerta dall’articolo di N. GALANTINO, Il post-umano: change o minaccia?, in Rassegna di Teologia 26 (2005) 2, 185-202. L’autore riflette sulle possibili trasformazioni a cui viene o può essere sottoposto il corpo umano che deve fare i conti con l’era cibernetica delle varie “intelligenze artificiali” e con le innovazioni della bio-tecnologia. L’articolo è impreziosito da una ricca quanto aggiornata bibliografia sui temi che riguardano corpo-corporeità, identità personale.


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o meno quel potere, queste infatti dovrebbero trovare la loro ultima giustificazione nella risposta che noi diamo alla domanda “chi è l’uomo?”. La seconda ragione della mia scelta è quella di proporre, senza alcuna pretesa risolutiva, una base di incontro fra ragione e fede, tra cultura e teologia, fra esperienza e Rivelazione, fra chi non va oltre l’uso della ratio nella ricerca della verità sull’uomo, e chi accoglie anche e soprattutto la luce della Rivelazione divina. Condividendo l’indicazione di J. Castellano C., che indica la spiritualità come il vertice della cultura2, sono infatti persuaso che il dialogo tra ragione e fede sia possibile su una base individuata e costituita a partire da una visione positiva dell’uomo che, introdotta dalla tradizione ebraico-cristiana, sia capace di esibire una ragionevolezza tale da essere assentita anche da chi cristiano non è. Che il riconoscimento teoretico e pratico di questo dialogo comune sia oggi un’esigenza urgente e prioritaria è mostrato dal pericolo in cui versa la vita dell’uomo odierno nelle sue diverse forme e manifestazioni, situazione così preoccupante da attivare la virtù della vigilanza da parte di tutti, credenti e non. Bioetica e spiritualità, quindi, più che semplici temi e termini in questione, si attestano come dimensioni antropologiche che si richiamano tra di loro; ma sono anche discipline con un loro statuto epistemologico preciso, una loro storia, una loro autonomia, con campi di ricerca e di approfondimento specifici. Dal Concilio Vaticano II in poi si ritiene che la spiritualità sia da riferirsi ad ogni uomo aperto al mistero e che vive in pienezza secondo le sue vere dimensioni. La spiritualità è vista, quindi, in prospettiva antropologica: essa è una prerogativa delle persone autentiche, che di fronte al reale e alla storia hanno fatto una scelta assiologia decisiva, fondamentale e unificante, capace di offrire un senso definitivo all’esistenza3. Evidenziando in particolare il fondamento teologico-trinitario della bioetica e della conseguente sua relazione con la spiritualità cristiana, si approda necessariamente su una sponda diversa e poco esplorata a sufficienza. Il discorso da una parte si profilerà su una versante specificamente onto-teologico, che dovrà affrontare il problema del fondamento ultimo della bioetica, intesa come riflessione sulla vita, tenendo conto di una conce2

Cfr. J. CASTELLANO CERVERA, Cultura e spiritualità, in Teresianum 48 (1997) 1,

58-64. 3 Cfr. S. DE FIORES, Spiritualità contemporanea, in S. DE FIORES – T. GOFFI (curr.), Nuovo Dizionario di Spiritualità, Roma 1979, 1525.


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zione più generale sul mistero della vita. D’altra parte, nel nostro caso concreto, si rifletterà sulla possibilità dei coniugi di procreare, ovvero di trasmettere la vita a nuove creature, come elemento che assume vero significato solo all’interno del grandioso disegno dell’Amore di Dio che desidera la salvezza di ogni sua creatura.

2. L’AMORE CONIUGALE, “LUOGO” PER UN INCONTRO POSSIBILE TRA BIOETICA E SPIRITUALITÀ

La bioetica non è più un campo di ricerca nuovo. Sono trascorsi ormai più di trent’anni dalla sua nascita dal momento in cui R. Potter, coniando il neologismo diventato poi famoso, definì la bioetica come la scienza della sopravvivenza col compito fondamentale di promuovere la qualità della vita4. Oggi la bioetica reclama la sua autonomia epistemologica5 e ha un vasto campo di azione che va dall’ambito etico delle scienze umane che si scopre strettamente in contatto con la biomedicina, a quello che pone attenzione ad un’etica della terra e della natura in genere, come anche ad un’etica della popolazione in relazione alle risorse e ai consumi sostenibili. Per dare vigore a questa prospettiva più integrata e aperta al futuro lo stesso Potter parla di «global bioethics», per significare l’attenzione etica che ci deve essere a favore di una sopravvivenza della specie umana sostenibile a lungo termine, capace di coinvolgere la società civile e il mondo 4

Cfr. U.R. POTTER, The Science of Survival, in Perspectives in Biology and Medicine 14 (1970), 120-153. Possiamo elencare altre definizioni di bioetica: «Filosofia della ricerca e della prassi biomedica» (E. Sgreccia); «Settore dell’etica che studia i problemi inerenti alla tutela della vita fisica e in particolare le implicazioni etiche delle scienze biomediche» (S. Leone); «L’etica applicata ai nuovi problemi che si sviluppano alle frontiere della vita» (C. Viafora); «La scienza sistematica dell’uomo etico che indaga gli ambiti della tecnogenesi del mondo biologico» (G. Russo); «L’etica in quanto particolarmente relativa ai fenomeni della vita organica del corpo, della generazione, dello sviluppo, maturità e vecchiaia, della salute, della malattia e della morte» (U. Scarpelli). Per la documentazione di queste citazioni rimandiamo al volume di G. RUSSO, Storia della bioetica. Le origini, il significato, le istituzioni, Roma 1995, 8 ss. Per una definizione di bioetica cfr. anche M. CASCONE, Temi di bioetica, Torino 1996, 9-11. 5 Un riferimento al dibattito epistemologico e allo specifico della bioetica può essere rintracciato in G. RUSSO, Bioetica. Manuale per teologi, Roma 2004, cap. I.


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intero6. La bioetica va intesa — sempre secondo il pensiero di Potter — come una «sapienza biologica» (biological wisdom), una sapienza fondata biologicamente, una sapienza che sappia realizzare un “ponte” tra scienze bio-sperimentali e scienze etico-antropologiche. Solo tale “ponte” tra scienze umane e sperimentali può assicurare un “ponte” al futuro dell’uomo: la sopravvivenza della vita umana e, in ogni caso, la sopravvivenza di una vita di qualità7. Nell’orizzonte potteriano, quindi, lo statuto epistemologico della bioetica è quello di essere scienza eminentemente “dialogica”. La bioetica è una disciplina scientifica dialogica, sia per gli argomenti di cui si occupa sia per il modo in cui li affronta: studia problematiche che riguardano sia il bios che l’ethos (campo della vita, della salute, dell’ecologia); legge le due dimensioni — il biologico e l’etico — insieme, concependo il mondo e l’umanità come comunità biotica: comunità di tutta la vita, di tutti gli esseri viventi, comunità ordinata dall’equilibrio bio-chimico ed etico-antropologico insieme. Studiare insieme l’ambito del bios e quello dell’ethos, con un metodo unitario e condiviso, non significa che la bioetica affronta un doppio campo di indagine, ma che l’approccio tipico della stessa bioetica si caratterizza per la sua capacità di collegare, di sintetizzare e di indicare le situazioni concrete dove la vita si sviluppa e si evolve qualitativamente. Risulta più confacente al nostro studio un’altra definizione offerta da Reich, per il quale la bioetica rappresenta «the systematic study of human conduct in the area of the life sciences and health care, insofar as this conduct is examined in the light of moral values and principles»8. Alla luce di questa definizione il discorso diventa più complesso soprattutto per il problematico rapporto tra bios ed ethos che la bioetica naturalmente porta in se stessa. È certo, comunque, che essa vive il travaglio di un settore ricco 6 Cfr. U.R. POTTER, Bioetica globale, in G. RUSSO (cur.), Enciclopedia di bioetica e sessuologia, cit., 356-361. L’articolo non è altro che una sintesi divulgativa delle idee espresse dallo stesso autore nel suo noto volume Global Bioethics: Building of Leopold Legacy, East Lansing 1988. Sull’argomento in questione segnaliamo di M. GENSABELLA FURNARI, La bioetica globale di Van Potter e il valore della vita umana, in Itinerarium 10 (2002) 1, 125-140. Sulla scia di Potter, rispetto al concetto di “bioetica globale” citiamo di B. CHIARELLI, Bioetica globale, Firenze 1993. 7 Cfr. U.R. POTTER, Bioethics: Bridge to the Future, Englewood Cliffs 1971. 8 W.T. REICH, Encyclopedia of bioethics, New York 1995, XXVIII.


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di stimoli e di impulsi pluridisciplinari, ma appunto per questo non privo anche di molte ambivalenze; d’altra parte la riflessione contemporanea sulla bioetica non può ridursi ad oggetto di una razionalità strumentale e ideologizzata, appiattita su una visione secolarizzata che si interroga sulla vita etsi Deus non daretur9. La bioetica, invece, secondo il pensiero di Potter, è una sapienza urgente e necessaria capace di provvedere all’indagine di come usare il pensiero per una presenza più responsabile dell’uomo nella promozione della qualità della sua vita10. Il tema della “qualità della vita” richiama l’attenzione sull’importanza della persona, nel rapporto con se stesso e nelle sue relazioni interpersonali, e sulla risposta alle domande di senso. Infatti quando questa stessa attenzione alla “qualità della vita” la si applica alla biomedicina nel campo della ricerca e della sperimentazione diventa urgente concepire modelli etici di riferimento quanto più condivisi. Al presente, di fatto, sembrano mancare proprio questi principi etici comuni, che siano accettati come validi e indiscutibili. Questo capita soprattutto nell’ambito della sperimentazione clinica dove risultano fondamentali alcuni modelli etici di riferimento che dovrebbero salvaguardare l’autonomia e la libertà della scienza, per una vera e autentica utilità sociale, nella prospettiva dello sviluppo integrale della persona umana11. Ma anche questa esigenza di una prospettiva valoriale rischia di rimanere solo un possibile paradigma culturale se non la si innesta in un dinamismo che coinvolge il senso profondo della vita umana. È nell’intreccio cognitivo ed esistenziale tra anima e corpo, “qualità” e “sacralità” della vita, scienza e fede, che bisogna necessariamente ricercare un “luogo” umano, finito ma aperto all’infinito, capace di far convergere tutta la vita nelle sue varie componenti e dimensioni perché questa venga difesa, valorizzata e incrementata nella sua globalità. Parlare di persona umana, parlare dell’uomo, significa parlare del suo essere unione di un corpo e di un’anima, di una corporeità e di una spiritualità senza le quali la persona umana non potrebbe essere definita perché non sarebbe più tale. Una concezione della sessualità e della procreazione 9

Cfr. G. RUSSO, Bioetica, in ID. (cur.), Enciclopedia di bioetica e sessuologia, cit.,

330-331. 10

Cfr. U.R. POTTER, The Science of Survival, cit., 121. Cfr. S. CONSOLI, L’etica del consenso nella sperimentazione clinica, in Synaxis 21 (2003) 1, 9-10. 11


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che non si riducano alla sola biologia o alla sola psicologia o alla sola spiritualità, ma che contempli la globalità del problema, può essere data dalla bioetica, ovvero da certi approcci particolari di questa disciplina, che cerca di considerare le persone come un tutto e non come parti di un tutto, grazie all’applicazione di una metodologia che consideri la biologia e l’antropologia per poi approdare al discorso etico. Molte scuole di pensiero, per secoli, hanno diversamente affrontato il rapporto corpo-anima, parte materiale e parte spirituale dell’uomo. C’è chi ha svalutato l’uno e sopravvalutata l’altra, chi ha fatto il contrario, o chi invece ha cercato una via di mezzo. Diverse sono state le chiavi di interpretazione dell’uomo, come diversi anche oggi sono i modi di considerare la persona umana e la sua dignità. Una fenomenologia della tendenza sessuale e una corretta interpretazione del suo significato sono la necessaria premessa all’analisi metafisica e spirituale dell’amore (sponsale, in particolare) che, nella sua verità, altro non può affermare se non il valore della persona e la comunione delle persone (communio personarum). Il modello di comprensione comportamentista, invece, così come quello puramente bio-fisiologico, applicati all’attività sessuale umana, rivelano la loro parzialità e la loro non esaustività, dal momento che l’attività sessuale umana possiede determinati significati obiettivi che solo il punto di vista personalistico risulta in grado di evidenziare attraverso un’integrazione morale e spirituale dell’amore12. Pertanto l’amore coniugale nel suo significato unitivo e procreativo, quando è vissuto in pienezza secondo il disegno originario di Dio, diventa il “luogo” in cui si incontrano le esigenze tipiche della bioetica e la dimensione profonda dell’esistenza umana aperta al Trascendente. Questo in forza della struttura propria dell’amore coniugale che è quella di una «totalità unificata»13. La densità antropologica di tale formula può essere dinamicamente colta proprio a partire dall’esperienza del dono di sé nell’amore coniugale. 12 Cfr. R. BUTTIGLIONE, Il pensiero di Karol Wojtyla, Milano 1982, 116 ss. Per lo sviluppo di un’analisi filosofica sulla tematica, cfr., per esempio, G. CHANTRAINE, Uomo e donna. Riflessioni filosofiche e teologiche, Milano 1986; A. PESSINA, Bioetica. L’uomo sperimentale, Milano 1999, 76-93; R. LUCAS LUCAS, Antropologia e problemi bioetici, Cinisello Balsamo (MI) 2001, in particolare i capp. II (“II valore del corpo umano”) e III (“La persona e la sessualità”). 13 D. TETTAMANZI, Nuova bioetica cristiana, Casale Monferrato (AL) 2000, 222.


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L’amore coniugale comporta il reciproco dono degli sposi, più precisamente il dono personale e totale: dono personale, nel quale e con il quale gli sposi si donano non tanto le cose che hanno quanto le persone che sono; dono totale, totale in quanto personale: la persona, infatti, è un tutto unico, indiviso e indivisibile di corpo, psiche e spirito, cosicché il dono degli sposi o è totale proprio perché personale o non è personale proprio perché non totale14. Il processo generativo umano è il momento nel quale i coniugi diventano «cooperatori dell’amore di Dio Creatore»15, donandosi amore si aprono alla vita e diventano essi stessi “con-creatori” di vita. Bioetica e spiritualità si incontrano proprio a partire dalla vita, promuovendo la vita, difendendo la vita: ambedue, secondo il loro apporto specifico, creano le condizioni perché gli uomini «abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).

3. LA VITA TRINITARIA, MODELLO DELLA BIOETICA CRISTIANA In una visione globale dell’etica della vita che presuppone la concezione unitaria dell’uomo, la prospettiva antropologica si armonizza bene con quella teologico-spirituale. Sulla base della Rivelazione divina, infatti, è possibile individuare le dimensioni fondamentali che rendono santa la vita e che, di conseguenza, conferiscono alla bioetica un valore aggiunto al fine di superarsi come mera trattazione biomedica per assumere una linea interpretativa più organica e coerente che valorizzi sempre la persona come “totalità unificata”16. La grande novità dell’annuncio cristiano non consiste nel credere che Dio esiste, ma nel credere che Dio è Amore (cfr. 1Gv 4,8.16). Il cristianesimo riconosce, infatti, un unico Dio in tre Persone, che vivono e comunicano una relazione d’amore così forte che coinvolge spiritualmente e operativamente l’uomo; infatti «la dottrina della Trinità è la realtà di fede 14

Cfr. HV 9. Cfr. GS 50; CCC 2367. 16 Come giustamente osserva M. Vidal, «nei trattati morali sulla vita umana di solito esiste una lacuna a questo riguardo. Si affrontano le situazioni concrete: aborto, eutanasia, pena di morte, ecc. Manca, però, una trattazione fondamentale e generale del valore della vita umana in quanto tale»: M. VIDAL, Manuale di etica teologica, vol. 2-I, Assisi 1995, 351. 15


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più carica di conseguenze operative per l’esistenza umana in tutti i suoi ambiti»17. Tutte le grandi questioni odierne dell’umanità: l’economia, il problema della comunicazione e della globalizzazione, la trasmissione della vita e l’ingegneria genetica, la ricerca di senso e di interiorità, la spiritualità e la corporeità, il significato del saper vivere e del saper morire, la questione dell’abitabilità del mondo, «tutte dipendono dal fatto che si riesca a disegnare un’immagine dell’essere umano che abbia il suo prototipo nella Trinità»18. Per definire il punto di partenza per una tale prospettiva teologicospirituale che interessa e coinvolge anche la bioetica, risulta interessante un passaggio di B. Forte che nel suo volume Trinità per atei, rispondendo al filosofo G. Girello, afferma che «solo se Dio è Trino c’è spazio nell’abisso del Suo mistero per ospitare una processio creaturarum dove il divenire abbia possibilità e consistenza»19. La conseguenza è decisiva per la comprensione del senso della vita umana: essa non è separata da quella divina e non si svolge solo su un piano biologico, poiché è parte integrante dell’opera creatrice di Dio Trinitario, scaturente dall’amore di Dio Padre, dal Creatore del cielo e della terra, che ha creato tutto tramite la sua Parola, per mezzo e in vista del suo Figlio, e che tutto conserva e porta a compimento nello Spirito Santo, il datore della vita. L’uomo, creato ad immagine di Dio, partecipa alla vita divina trinitaria che è vita di comunione e di dialogo tra le persone divine, e in questa sua connaturata appartenenza riscopre la sua principale vocazione nell’amore: «Dio, che ha creato l’uomo per amore, lo ha anche chiamato all’amore, vocazione che è Amore»20. Dal momento che il dinamismo proprio dell’amore è quello che nasce e si esprime all’interno di una comunità interpersonale, quale è la famiglia, 17

E. CAMBÒN, Trinità modello sociale, Roma 1999, 16-17. K. HEMMERLE, in La Trinità. Vita di Dio, progetto dell’uomo, Roma 1987, 143. 19 B. FORTE, Trinità per atei, Milano 1996, 179. «In questa visione della Trinità come origine e méta della storia, essa appare veramente come il grembo adorabilmente trascendente, in cui il mondo è raccolto, il luogo senza luogo in cui esso si muove, il tempo senza tempo in cui esso si svolge. […] Il divenire umano, la faticosa marcia verso il futuro, che dalle origini segna la vicenda dell’uomo sulla terra, no è sospeso nel vuoto: esso è raccolto in Dio»: B. FORTE, Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, Cinisello Balsamo (MI) 1985, 207. 20 CCC 1604. 18


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l’appartenenza reciproca delle persone non può essere assicurata e garantita da un calcolo equilibrato di egoismi, ma solo da una libera scelta di mutua donazione: «il dono di sé può avere pieno valore solo se è la parte e l’opera della volontà. Perché è precisamente in virtù del libero arbitrio che la persona è padrona di se stessa ed è un qualcuno inalienabile e incomunicabile. L’amore sponsale, amore in cui ci si dona, impegna la volontà in modo particolarmente profondo. [...] Secondo le parole dell’Evangelo, bisogna “donare la propria anima”»21. A questo punto diventa decisiva e fondamentale la categoria del “dono” per tentare di definire «il logos, la verità, il dato della vita umana, e conseguentemente per cogliere l’ethos, la storia, il compito della vita umana. Proprio per questa via, apparentemente così lontana e astratta rispetto ai concreti e complessi problemi della bioetica, queste stesse questioni possono ricevere un’illuminazione originale e quanto mai feconda e stimolante»22. L’amore coniugale implica così il lavoro della completa donazione che rinuncia all’egoismo e l’apertura all’amore che genera l’atteggiamento oblativo. Ma per arrivare a questo dono totale è importante lavorare su se stessi (ascesi) per essere spiritualmente pronti a compiere una scelta veramente libera. Una spiritualità vissuta in questo senso è propria di chi ha fatto un’opzione decisiva, unificante e capace di dare un senso definitivo all’esistenza, oltre che alle azioni immediate. Il principio trinitario dell’amore di Dio diventa un modello che aiuta ad umanizzare la vita dell’uomo e ogni tipo di relazione interpersonale, per cui l’altro deve essere sempre visto come un dono di amore e mai in funzione strumentale. Nel nostro caso particolare la circolarità di amore di Dio-Trinità orienta i coniugi a fare questa scelta di vita in comunione, cioè sponsalmente23. Pertanto il dono della procreazione umana trova la sua autenticità nella partecipazione del dono della fecondità trinitaria: il Padre nella sua infinità si dona nel suo Figlio, suo Verbo, il quale così è originato da tutta l’eternità; e il Padre e il Figlio si trovano nella donazione amorosa totale che è lo Spirito Santo. La fecondità trinitaria consiste nel dono mutuo 21

K. WOJTYLA, Amore e Responsabilità, Torino 1983, 91. D. TETTAMANZI, Nuova bioetica cristiana, cit., 43. 23 Cfr. A.N. WOZNICKI, A Christian Humanism: Karol Wojtyla’s Existential Personalism, New Britain Conn. 1980, 37. 22


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infinito. Così il mistero della procreazione umana si percepisce nella sua più intima realtà, ossia come dono totale ed assoluto.

4. IL DONO SACRO DELLA VITA TRA LIBERTÀ, RESPONSABILITÀ E VERITÀ La finalità naturale, primaria e principale della medicina e del progresso tecnico-scientifico è la difesa e la protezione della vita, non la sua eliminazione o manipolazione; di contro si costata che, tanto nell’aborto come nella Procreazione Medicalmente Assistita (= PMA), la scienza medica invece di proteggere la vita si mette al servizio della sua manipolazione e distruzione, perdendo così la propria dimensione etica originale, riconosciuta già nell’antico e sempre attuale giuramento di Ippocrate. E non serve giustificarsi dicendo che la PMA, sia essa omologa o eterologa, mira precisamente a promuovere la vita; se è vero che mediante essa coppie sterili possono avere figli, è pure vero che il prezzo da pagare è la manipolazione, la distruzione, l’uccisione, la crioconservazione di molti piccoli e indifesi esseri umani. Il fine non giustifica i mezzi: infatti non tutto ciò che è tecnicamente possibile, può essere moralmente ammissibile. Nelle varie e dibattute discussioni di bioetica si invoca un giusto equilibrio tra momento fondativo e momento normativo: si tratta, cioè, di ripensare, in una prospettiva antropologica e teologico-spirituale, le grandi categorie e le direttive di senso in grado di definire un orizzonte etico capace di coniugare attenzione alla persona ed efficacia operativa, istanza individuale e istanza pubblica, piano etico e piano giuridico, distinguendo opportunamente i livelli e creando correlazioni24. Di fronte all’incombente pericolo di un’arbitraria manipolazione della vita dell’uomo, di fronte alla distruzione dell’ambiente, e quindi dell’umanità, è un dovere primario riproporre costantemente la domanda sulla responsabilità collettiva per prevenire danni irreparabili. La questione è di tali proporzioni che H. Jonas, tra i primi a porre il problema del rapporto tra uomo e natura, ritiene debba essere chiamata in causa non solo una nuova etica ma, addirittura, una nuova ascesi: «all’inizio del Cristianesimo vi furono uomini che sotto l’influsso di una potente religione ultraterrena 24

Cfr. G. PIANA, I nodi critici, in Rivista di Teologia Morale 33 (2000) 1, 32-33.


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fecero di tutto per l’ascesi. Per amore della vita terrena ciò non è mai stato fatto. C’è solo in particolari momenti, quando un popolo è in pericolo e i giovani fremono per difendere la patria. Non so se è possibile ottenere senza religione trascendente un’ascesi nella massa, laddove il pericolo non è così chiaro come su una nave che affonda, ma si estende per decenni e attraverso i continenti»25. A parere di Jonas, quindi, non è possibile avere a cuore la vita dell’uomo e della natura in tutte le sue forme senza una profonda rivoluzione spirituale delle coscienze. Il concetto di responsabilità si fa strada nel dibattito etico con Max Weber, il quale ad un’etica della convinzione o dell’intenzione oppone un’etica della responsabilità che considera i mezzi e le conseguenze di ogni azione morale, e che evidenzia l’agire razionale rispetto allo scopo26. Il principio responsabilità di H. Jonas27 e di E. Lévinas28 offre all’etica in generale un solido fondamento, superando l’astrattezza essenzialista della tradizionale via ontologica, ma anche l’insufficienza del pragmatismo neoilluminista. Il concetto di responsabilità comporta il dovere di rispondere a qualcuno delle proprie azioni, esigendo non solo la bontà delle intenzioni ma verificando l’efficacia reale e la rettitudine dei comportamenti. Alla luce del principio di responsabilità la bioetica, pur non ignorando la rilevanza personale di ogni scelta morale, si sviluppa come etica pubblica; supera il criterio utilitarista e individualistico per fare spazio alla relazione tra libertà, 25

H. JONAS, Il principio di responsabilità, Torino 1990, 85. Dello stesso autore cfr. anche Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino 1990. 26 Cfr. M. WEBER, Politica come professione, trad. it. di A. Giolitti, in ID., Il lavoro intellettuale come professione, Torino 1948. 27 L’etica della responsabilità di H. Jonas offre alla bioetica un grande riferimento che valorizza la persona umana e la natura uniti in una relazione inscindibile e necessaria perché non prevalga solo il progresso tecnico e biologico, ma si affermi l’uomo nella sua libertà di coscienza e la vita in tutte le sue forme. Cfr. H. JONAS, Il principio responsabilità, trad. it. a cura di P. Portinaio, Torino 1993; H. JONAS, Organismo e libertà (1994), trad. it. a cura di P. Becchi, Torino 1999; H. JONAS, Tecnica, medicina ed etica (1985), trad. it. a cura di P. Becchi, Torino 1997. Sul pensiero di H. Jonas segnaliamo lo studio di M. GENSABELLA FURNARI, Tra autonomia e responsabilità. Percorsi di bioetica, Soveria Mannelli (CZ) 2000. 28 Un altro significato di “responsabilità” lo troviamo anche in E. Lévinas, inteso come «responsabilità per altri», in quanto «struttura essenziale, primordiale, fondamentale della soggettività». Cfr. E. LÉVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1978), trad. it. a cura di S. Petrosino e M.T. Aiello, Milano 1983; E. LÉVINAS, Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo (1982), trad. it. a cura di E. Baccarini, Roma 1984.


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bene comune e giustizia. Tutto ciò porta a rifondare l’ordine giuridico e il sistema democratico su basi etiche, attraverso un confronto civile e il concorso attivo di tutte le parti sociali, in modo tale che siano garantite la libertà, il dialogo e il valore della persona umana nella sua integralità29. Alla luce di questa prospettiva personalistica si può affermare, senza timore di incorrere in vacui moralismi, che ogni figlio è un dono, frutto dell’amore reciproco dei coniugi, per cui nella famiglia non viene aggregato o introdotto dall’esterno. Il figlio è concepito, non prodotto: egli è una persona che si accoglie, non un oggetto che si ordina. Prima ancora che i criteri etici, la PMA contraddice lo statuto antropologico del nascituro e della sessualità. Infatti il figlio viene privato del diritto ad essere concepito come frutto dell’amore coniugale, e nel caso della PMA eterologa, anche privato dell’identità dei propri genitori. Ogni essere umano ha diritto di sapere di chi è figlio, ed è dunque un dovere di giustizia che la legge garantisca tale diritto. Inoltre, non si tratta di mettere in questione le tecniche di fecondazione artificiale per il fatto che sono essere artificiali; il nodo della questione non riguarda l’elemento tecnico, ma il fatto che l’origine di una persona umana, in virtù della dignità che gli è propria, deve essere il frutto della donazione di amore tra i genitori, e non un prodotto della tecnica. Ciò emerge con chiarezza dalla natura della sessualità umana, la quale non è un dato puramente biologico, ma implica tutta la persona. Proprio in questa presa di coscienza del valore inalienabile della vita si inserisce la particolare prospettiva della bioetica che viene a contatto con la dimensione più “spirituale” della persona umana che dona vigore alla testimonianza. In particolare per l’uomo di fede, procreare significa essere co-autori di una nuova vita e con essa e per essa inaugurare e promettere di continuare un cammino “pasquale”, di liberazione e salvezza nella logica di Cristo30. L’orizzonte particolare su cui si staglia il concetto di procreazione responsabile è costituito dal fatto che l’uomo e la donna, nel generare, collaborano veramente con Dio, dalla cui iniziativa creatrice ha immediatamente origine l’anima spirituale di ogni persona umana, creata a sua immagine e chiamata in Cristo a partecipare gratuitamente della sua vita divina. Ecco il 29 30

Cfr. G. PIANA, I nodi critici, cit., 33-34. X. THÉVENOT, La bioetica, cit., 95-96.


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motivo per cui invece di semplice “riproduzione” dell’esemplare di una specie, è meglio parlare di “procreazione” di una persona unica e irripetibile, chiamata ad un rapporto speciale con Dio31. Questa motivazione ulteriore dona maggiore consistenza al valore della vita umana che non può essere mai ridotta al solo aspetto biologico, poiché essa è una vita personale che deve essere difesa e promossa nella sua integralità. Sulle frontiere della libertà e dell’amore si impara a dialogare sulla qualità e sul valore della vita, a convivere con l’altro e a gareggiare per riscoprire insieme la sacralità della vita e la responsabilità di costruire un mondo più umano. Quanto mai opportune, a riguardo, le parole di Giovanni Paolo II: «La questione della vita e della sua difesa e promozione non è prerogativa dei soli cristiani. Anche se dalla fede riceve forza e luce straordinarie, essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspira alla verità ed è attenta e pensosa per le sorti dell’umanità. Nella vita c’è sicuramente un valore sacro e religioso, ma in nessun modo esso interpella solo i credenti: si tratta, infatti, di un valore che ogni essere umano può cogliere anche alla luce della ragione e che perciò riguarda necessariamente tutti»32.

CONCLUSIONE Attraverso questa trattazione e nonostante gli evidenti limiti della stessa, spero di aver dato un contributo per una possibile tematizzazione del rapporto tra spiritualità e bioetica che trova un’applicazione ad hoc specie quando si affronta l’argomento del procreare umano, inteso in quell’ottica di saggezza globale della vita che non si riduce solo al campo biomedico, ma neanche esclusivamente alla sfera etica. In modo particolare in una prospettiva filosofica e teologico-spirituale che considera la persona umana nella sua integralità, la bioetica non può considerarsi separata da una visione spirituale, e d’altra parte la stessa spiri31 Cfr. L. MELINA, La responsabilità procreativa nella visione cattolica, in Anthropotes 19 (2003) 2, 250. 32 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Evangelium vitae (25.03.1995), 101.


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tualità deve tener in grande considerazione l’approccio che l’etica della vita propone quando parla soprattutto all’uomo contemporaneo. Per cui presentare le dimensioni etiche e spirituali del procreare umano nell’attuale contesto socio-culturale significa non fermarsi solo ad una valutazione normativa e regolativa, ma considerare la procreazione umana dinamicamente, come un “luogo” esistenziale privilegiato in cui si configura la possibilità di un’interazione etico-spirituale. In una prospettiva globale e pluralista, come ormai il contesto attuale da più parti richiede, la vita morale è sempre più connessa alle nuove situazioni sociali e alle nuove problematiche bioetiche; di conseguenza gli stessi cammini spirituali potranno essere tracciati solo tenendo conto di queste problematiche, appunto perché la vita spirituale non può chiudersi nell’ambito ristretto del soggetto, ma implica un impegno storico e sociale. Inoltre l’uomo del nostro tempo, spesso confuso e frammentato, non può ricevere sicurezza solo dal progresso della scienza che molte volte insegue successi calpestando la dignità della vita più debole e indifesa. Spesso la sacralità della vita è oscurata per la tenacia di imporre una visione tecnicista, edonista ed effimera come se tutto dipendesse dal puro caso o dalla sperimentazione arbitraria, e dove tutto si vive cogliendo solo il segmento sempre più ridotto dell’immediatezza, senza la preoccupazione di una progettazione personale compiuta nella libertà, nella verità e nell’amore. Il mistero della vita così viene frantumato per l’arroganza di voler dare a tutto una spiegazione partendo da sé, senza attendere che Dio possa intervenire nella vita. In altre parole l’uomo contemporaneo continua a farsi la domanda sul “come vivere”, ma non ritiene che una risposta possa arrivare dalla filosofia o dalla bioetica, meno che mai dalla fede. Egli pensa che la filosofia, la bioetica e la fede non abbiano più a che fare con la verità e con la ragione, di conseguenza le scelte fondamentali dovrebbero trovare il loro criterio nelle promesse della tecnologia. In un saggio intitolato Problemi attuali nell’etica in una prospettiva ebraica, H. Jonas afferma che «la ragione, vittoriosa grazie alla scienza, ha distrutto la fede nella rivelazione senza tuttavia sostituire quest’ultima nella sua funzione di punto di riferimento per le nostre scelte fondamentali. La ragione ha reso se stessa incapace di svolgere tale funzione, nella quale un tempo era in competizione con la religione, precisamente quando si poneva,


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in forma di scienza, quale unica autorità riguardo alla verità».33 Tale situazione culturale si riflette nell’incapacità della filosofia contemporanea di fornire principi orientativi per una teoria etica, cioè la difficoltà che la ragione speculativa incontra nell’attribuire un valore a delle norme etiche in quanto parti del nostro universo conoscitivo ed esistenziale. Pertanto si sente il bisogno di una cultura rinnovata, capace di indicare vie nuove di umanizzazione, tanto sensibile e matura da trasmettere quella sapienza che si esprime nell’azione responsabile e nell’umiltà dell’uomo di ascoltare il Dio della Vita che parla ancora oggi con la sua Parola e attraverso le vicende della storia. Ma per attivare questo circolo virtuoso è necessaria una spiritualità vera, che illumina la cultura, ne assume i connotati più autentici, discerne i valori, orienta le scelte morali. Pertanto una spiritualità che non diventa cultura, e in particolare cultura della vita a favore della persona umana, non è vera spiritualità, accolta, pensata e vissuta. Nell’atto del procreare umano, i coniugi non portano a compimento solo una funzione biologica, ma tutto ciò che essi sono come persone singole e come coppia. Se con tutta la loro persona esprimono amore salvifico, vivono un’autentica spiritualità radicata nella Parola e nei Sacramenti e testimoniano con gesti concreti di appartenere a Cristo, faranno germogliare anche nei loro figli i valori cristiani e saranno artefici della vera vita che nello Spirito trova la sua completa maturità. Intesa e vissuta in questo senso la spiritualità non riguarda un settore dell’esistenza cristiana, ma diventa uno stile di vita; essa coinvolge, pertanto, anche la bioetica, la quale non si limita ad un ruolo semplicemente etico all’interno della biomedicina, ma si trasforma in uno spazio vitale in cui è possibile cogliere le istanze spirituali profonde dell’uomo che ricerca la verità sul mistero della vita. In questo senso allora la realtà relazionale familiare, la forma dialogica, la dualità unificante dell’uomo e della donna diventeranno espressioni che traggono linfa vitale dall’esperienza concreta e ritornano ad informare l’esperienza cristiana per un effettivo cammino spirituale.34 33 H. JONAS, Problemi attuali nell’etica in una prospettiva ebraica, in ID. Dalla fede antica all’uomo tecnologico, trad. it. di G. Bettini, Bologna 1991, 257. 34 Cfr. F. ASTI, Principi fondamentali per una teologia spirituale e rinnovata, in Teresianum 54 (2003) 2, 381.


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La vita in tutte le sue forme è il vero obiettivo dell’impegno personale, familiare, sociale e politico dei credenti in Cristo; in essa, infatti, si racchiude l’essenza dell’annuncio cristiano: «La vita si è fatta visibile e noi ne siamo testimoni» (1Gv 1,2). La responsabilità per la vita coinvolge di conseguenza l’essere responsabile per la natura, per l’uomo, per il mondo, perché l’impegno per la vita è estensibile a tutto ciò che i nostri occhi vedono, i nostri orecchi odono e le nostre mani toccano. Giovanni Paolo II con l’enciclica Evangelium vitae non ha fatto altro che ridestare l’attenzione di tutti su questo principio fondamentale, per il quale i cristiani sono sempre stati in prima linea nel promuovere e difendere i principi basilari del vivere comune e civile. La necessaria simbiosi tra bioetica e spiritualità si risolve, in ultima analisi, in una visione culturale e teologica che pone al centro la cura per la vita in tutte le sue forme, specie la vita umana dal suo concepimento al suo naturale tramonto. Si tratta di assumere la cultura della vita, che si differenzia dal diffuso vitalismo del nostro tempo proprio in questo suo radicamento nella verità, conosciuta tramite la ragione e soprattutto sperimentata esistenzialmente all’interno di una vera esperienza della fede. Da qui nasce un reale e permanente interesse del credente anche per il mondo, perché, come ha scritto R. Guardini, tramite l’Incarnazione, Dio si mostra “esistenzialmente” interessato all’essere, al divenire, allo sviluppo e al destino della persona umana e, attraverso l’uomo, al mondo intero35. Ma questa sollecitudine diventa possibile solo se il mondo viene considerato come una realtà valoriale voluta da Dio e come un tesoro prezioso ai suoi occhi, affidato all’amore, all’intelligenza e all’operosità dell’uomo. In questa prospettiva la realtà storica del Cristianesimo è da intendersi non nel senso storicistico e relativistico della teologia liberale, ma nel significato di quella storia che Dio svolge a partire dalla sua creazione, nelle diverse situazioni in cui l’uomo si trova a vivere offre le condizioni nelle quali la stessa fede può attuarsi come esistenza cristiana. L’attualizzazione di questa vicinanza di Dio all’uomo e alla sua storia è consegnata al credente in Cristo come un suo impegno preciso che gli deriva dal Battesimo e che

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31-35.

Cfr. R. GUARDINI, Sul limite della vita. Lettere teologiche a un amico, Milano 1979,


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consiste concretamente nel rendere visibile l’amore di Dio con la testimonianza della vita. In particolare agli sposi cristiani, che vivono il loro amore coniugale aprendosi alla vita, è affidato il compito, nell’esistenza ordinaria, di realizzare, incarnare e testimoniare una vera “qualità della vita”, che affonda le sue radici nell’esperienza di Dio Padre, Amante della vita, che dona il suo Figlio «obbediente fino alla morte e alla morte in croce», nel quale tutti noi siamo santificati. Comprendere e vivere spiritualmente le esigenze sempre più urgenti della bioetica sarà per il cristiano una delle sfide più importanti a cui dovrà rispondere per rendere credibile oggi il messaggio di salvezza del Vangelo di Cristo.



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«DOV’È ABELE, TUO FRATELLO?» (GEN 4,9). LA RADICE DEL CONFLITTO E LA POSSIBILE SOLUZIONE SECONDO IRENEO DI LIONE

BIAGIO APRILE*

Qualche decennio fa, l’allora cardinale Josef Ratzinger si chiedeva se per la teologia contemporanea i Padri avessero ancora importanza1. Gli faceva eco, alcuni anni dopo, il cardinale Michele Pellegrino con una domanda sulla loro attualità: «I Padri hanno qualcosa da dire all’uomo d’oggi?»2. Attualmente, è innegabile che la riscoperta degli autori cristiani antichi è fondamentale non solo per la teologia, ma anche per tutta la chiesa. Ogni volta che in Occidente c’è stato un vero rinnovamento cristiano, nell’ordine del pensiero come in quello della vita, esso è avvenuto sotto il segno dei Padri. Il “ritorno” ai Padri è iniziato nei primi anni del Novecento, per opera di illustri teologi, e attraverso la mediazione di centri culturali specializzati, trovando un punto climax — nonché conferme e nuovi stimoli — nel Concilio Vaticano II3. La ricerca del tema della conflittualità in una delle sorgenti principali della teologia, qual è appunto l’ambito patristico, si rivela come un lavoro molto interessante e proficuo. Una lettura di Gen 4,9, sotto l’aspetto della relazione conflittuale con il fratello in quanto altro, non ha uno specifico riscontro in opere patristiche precise. Tuttavia, ricercare questo tema, che nasce da un’urgenza contemporanea, all’interno della riflessione lasciataci dalla chiesa antica, esige un’appropriata metodologia, per evitare il rischio *

Docente incaricato di Patrologia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr. J. RATZINGER, Storia e dogma, Milano 1971, 52. 2 Cfr. M. PELLEGRINO, I padri della chiesa hanno qualcosa da dire all’uomo d’oggi?, in Augustinianum 3 (1977) 453-460. 3 Cfr. L. LONGOBARDI, I padri della chiesa: le scelte del Vaticano II, in Asprenas 2-4 (2003) 171-176. 1


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d’una lettura ideologica dei Padri mediante attualizzazioni strumentali o anacronismi. Pertanto, occorre inserirsi nella riflessione teologica dei Padri ed è metodologicamente opportuno, dopo una prima ricerca generale, scegliere quegli autori che testimoniano di essersi posti il problema, non negli stessi termini in cui lo si potrebbe fare oggi (ricercando il tema tout court), ma nelle opere scritte per i problemi urgenti del loro tempo. In questo modo si può attingere correttamente al loro autorevole contributo, e trarne un apporto prezioso per ripensare il nostro argomento. L’interrogativo divino rivolto a Caino — «Dov’è tuo fratello?» — racchiude una serie di temi che ruotano attorno a quello centrale della conflittualità con l’altro; essa denuncia chiaramente la fine d’una relazione tra fratelli consanguinei, infranta da uno dei due con gesto omicida. Ma da dove sorge questa conflittualità? Per investigare questo problema nei Padri può essere utile procedere a ritroso, risalendo fino alla sua radice. Pertanto, la domanda di Dio su Abele, nella lettura dei Padri, potrebbe essere espressa in forma interrogativa con lo scopo di suscitare una santa inquietudine, per mettere in atto un movimento interiore di ricerca. Caino è invitato a rispondere non tanto indicando un luogo oggettivo, quanto collocandosi in una prospettiva diversa nei confronti d’una realtà percepita come problematica, vista, fino a quel momento, da una sola angolatura: quella dell’eliminazione violenta del fratello, altro, diverso, fino ad essere percepito come minaccia per la propria identità4. Forse, la domanda circa il dove, celatamente, vuole invitare anche noi a ritrovare la giusta relazione tra l’identità e l’alterità; sembra chiedere innanzitutto: chi è il fratello? E poi: quando si è fratelli? E ancora: perché il conflitto in una relazione fraterna? Porre queste domande all’interno della riflessione della chiesa antica significa risalire al nocciolo della questione che è prettamente antropologica. Si tratta di mettere in gioco il mistero 4

In ambito ebraico, la domanda teologica “sul dove” orienta il senso antropologico ed etico del “chi sei?”. Così è avvenuto per Adamo: chiedergli «Dove sei?» (Gen 3,9b), equivale all’altro interrogativo, molto più inquietante, del «Chi sei?». Se è vero che nella vita non è importante rispondere a ogni quesito, bensì porsi la domanda giusta, quella essenziale, fondamentale, che ha valore assoluto, nella storia di Adamo, come nel vissuto di Caino, Dio richiama ciò che c’è dietro l’esperienza del peccato o della conflittualità. È in gioco l’identità del soggetto, il porsi nella storia del credente, del singolo responsabile davanti all’Altro. Perché la domanda suscita il pensiero, mette in cammino, orienta la ricerca, obbliga a discernere. Cfr. in particolare il commento di M. BUBER, Il cammino dell’uomo, Magnano (BL) 1990.


La radice del conflitto e la possibile soluzione secondo Ireneo di Lione

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stesso dell’uomo, provare a intervenire non solo sulle sue relazioni, ma anche e soprattutto sul suo “esserci”. L’uomo, infatti, pur essendo stato creato ad immagine e somiglianza di Dio, può allontanarsi dal suo Creatore, avviando così una dinamica che lo precipita in uno stato di lontananza da lui e di rottura, fino a pensarsi come suo concorrente, nonché antagonista. Seguendo questa pista, dunque, la radice remota della conflittualità e l’archetipo d’ogni conflitto vanno individuati nel peccato originale, come rifiuto della diversità e del proprio limite di fronte all’Altro, che è Dio. I movimenti di questa dinamica d’opposizione al Creatore non sono sempre compresi apertamente, ma sono riscontrabili in modo camuffato, subdolo; e, ciò che è più drammatico, riguarda l’uomo e la sua capacità di nascondere a se stesso tali conflitti o processi di resistenza. Nelle due parti dell’articolo, cercheremo di delineare il pensiero di Ireneo di Lione5 circa l’argomento della conflittualità, analizzando l’insegnamento del testo Esposizione della predicazione apostolica e facendo riferimento ad alcuni passi dell’opera Contro le eresie6. Siamo consapevoli 5

Poche sono le notizie certe sulla vita di Ireneo e ci vengono dalla Historia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea (cfr. EUSEBIO DI CESAREA, Historia ecclesiastica, V, 4,2; 20,57; 24,17; 26: PG 22,370-374; 399-402; 406). Si sa che, nato a Smirne (Asia Minore), probabilmente tra il 140 e il 160, si forma alla scuola di Policarpo, vescovo della città. Di origine pagana, discepolo della seconda sofistica, dotato di buona cultura enciclopedica, abile nella composizione, nel 177 è prete e, successivamente, vescovo della chiesa di Lione, importante centro commerciale della Gallia, nel quale risiedevano molti greci. Svolge un’intensa attività missionaria, specialmente tra le popolazioni dell’interno, che non erano grecofone; combatte accanitamente la propaganda degli eretici e fa opera di pacificazione tra le Chiese. Secondo un’antica tradizione, Ireneo muore martire; la sua morte dovrebbe collocarsi, quindi, al tempo della persecuzione di Settimio Severo, negli anni 202-203. Per un primo approccio al pensiero e all’opera di Ireneo, cfr. il testo e i rimandi bibliografici del recente studio di B. BENATS, Il ritmo trinitario della verità. La teologia di Ireneo di Lione, Roma 2007. 6 Ireneo scrive in greco. Conosciamo la Denuncia e confutazione della falsa gnosi, nota integralmente solo in un’antica traduzione letterale latina con il titolo Adversus haereses (d’ora in poi abbreviato Adv. haer.) ossia Contro le eresie; opera preziosa non solo per la diretta conoscenza delle opere gnostiche confutate, ma soprattutto per le affermazioni sul primato della chiesa di Roma fondato sulla diretta tradizione di origine apostolica, e la Esposizione della predicazione apostolica (in greco, citata comunemente Epideixis, da cui l’abbreviazione Epid.), ritrovata nel 1904 in una traduzione armena. Quest’ultima è un trattato apologetico non polemico: offre una dimostrazione positiva della vera dottrina, rimandando all’Adv. haer. per la confutazione degli gnostici. Cfr. IRENEO DI LIONE, Contro le eresie


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dell’uso polisemico del termine “altro”, come pure del lemma “conflitto/ conflittualità”, nel vasto e complesso pensiero dei Padri e della teologia dei primi secoli.

1. LA NATURA DELL’UOMO: PLASMA E SPIRITO Nel sintetizzare all’amico Marciano il contenuto della predicazione apostolica, affinché sia consolidato nella fede e consegua la salvezza camminando secondo la verità, Ireneo premette una considerazione di natura antropologica di fondamentale importanza per il nostro tema. Egli afferma che l’uomo è plasma, unione inscindibile di corpo e anima; e, solo mantenendo l’uno nella purezza, e l’altra nella verità, si può raggiungere la perfezione del proprio essere7. Per Ireneo, l’uomo è, infatti, una mescolanza di anima e di carne modellata ad immagine di Dio e plasmata dalle mani del Padre (il Figlio e lo Spirito). Rivolgendosi a tali mani, Dio disse: «Facciamo l’uomo». Giungere alla presenza di Dio significa, per l’uomo, esprimere la piena auto-realizzazione; tale meta è resa possibile dal dono dello Spirito divino, che rende l’uomo perfetto8. Ireneo si distanzia, in modo forte, dal pensiero gnostico, sostenendo che ciascuno dei tre elementi costitutivi dell’uomo (la carne, l’anima e lo Spirito) ha la sua dignità e il suo valore, così che solo l’unione dei tre rende l’uomo veramente uomo. Egli è a immagine di Dio nella sua carne, ma solo quando essa viene vivificata dallo Spirito acquisisce la somiglianza con il suo Creatore. Il plasma è destinato a diventare conforme all’immagine di Dio, che è il suo Figlio9. e gli altri scritti, a cura di E. Bellini e, per la nuova edizione, di G. Maschio, Milano21997. L’opera è consultabile in PG, VII, 433-1224; SCh 100; 152-153; 263-264; 293-294; 210-211. 7 Cfr. Epid., II. 8 Cfr. A. ORBE, El hombre ideal en la teología de San Ireneo, in Gregorianum 43 (1962) 449-491. 9 Adv. haer., V, 6,1: «Invece Dio sarà glorificato nella sua propria creatura, rendendola conforme e simile al suo proprio Figlio. Infatti per mezzo delle mani del Padre, cioè il Figlio e lo Spirito, l’uomo e non una parte dell’uomo, è fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Ora l’anima e lo Spirito possono essere una parte dell’uomo, ma in nessun modo l’uomo: l’uomo perfetto è la mescolanza e l’unione dell’anima, che ha ricevuto lo Spirito del Padre e si è mescolata alla carne plasmata ad immagine di Dio […]. Sono questi gli uomini


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Perciò, la dimensione corporea non solo non pregiudica l’essere spirituale dell’uomo, ma, al contrario, ne costituisce la completezza; l’uomo si dice “spirituale” non se è privo di carne e sangue, bensì se possiede lo Spirito di Dio. E se l’uomo perfetto è costituito di Spirito, anima e corpo, anche il corpo è destinato a raggiungere la pienezza della vita eterna, poiché una sola è la salvezza10.

1.1. La dignità della carne Tra gli elementi che compongono l’uomo, Ireneo presta maggiore attenzione al corpo e allo Spirito. Riguardo al corpo, a differenza dei Valentiniani che lo ritenevano formato da una materia fluida e diffusa11, egli che l’apostolo chiama spirituali, essendo spirituali grazie alla partecipazione dello Spirito, ma non grazie alla privazione ed eliminazione della carne. Se infatti si elimina la sostanza della carne, cioè dell’opera plasmata, e si considera semplicemente ciò che è propriamente spirito, una cosa tale non è più un uomo spirituale, ma lo spirito dell’uomo o lo Spirito di Dio. Quando, invece, questo Spirito mescolato all’anima si unisce all’opera plasmata, grazie all’effusione dello Spirito, giunge a compimento l’uomo spirituale e perfetto, e questo è l’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio. Quando invece all’anima manca lo Spirito, un tale uomo, rimasto realmente animale e carnale, sarà imperfetto, perché ha bensì l’immagine di Dio nell’opera plasmata, ma non ha ricevuto la somiglianza per mezzo dello Spirito. Ora come quest’uomo è imperfetto, così, ancora, se si elimina l’immagine e si rifiuta l’opera plasmata, non si può più considerare l’uomo, ma o una parte dell’uomo […], o qualche altra cosa che non è l’uomo. Infatti né la carne plasmata è in se stessa uomo perfetto, ma corpo dell’uomo e parte dell’uomo, né l’anima è in se stessa uomo, ma anima dell’uomo e parte dell’uomo, né lo Spirito è uomo, perché si chiama Spirito e non uomo». 10 «Ora, la mescolanza e l’unione di tutte queste cose costituisce l’uomo perfetto. E per questo l’Apostolo […], ha definito chiaramente l’uomo perfetto e spirituale, partecipe della salvezza, dicendo nella prima lettera ai Tessalonicesi: “Il Dio della pace vi santifichi in modo che diventiate perfetti e tutto il vostro essere — lo Spirito, l’anima e il corpo — sia conservato irreprensibile per la venuta del Signore Gesù”. In verità, quale motivo aveva di chiedere per queste tre cose, cioè l’anima, il corpo e lo Spirito, una conservazione totale per la venuta del Signore, se non avesse saputo che ci sarebbe stata la restaurazione e l’unione delle tre cose e che una sola e la medesima sarebbe stata la loro salvezza? Per questo dice perfetti quelli che presentano al Signore le tre cose irreprensibili. Sono dunque perfetti quelli che hanno lo Spirito di Dio sempre dimorante in loro e si conservano irreprensibili nell’anima e nel corpo, cioè conservano la fede in Dio e la giustizia verso il prossimo»: l.c. 11 Cfr. ibid., V, 15,4. Si consideri lo studio di M. SIMONETTI, Psychê/Psychikos nella gnosi valentiniana, in Rivista di Storia e Letteratura religiosa 2 (1966) 1-47.


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sostiene che, come il nuovo Adamo nacque dalla Vergine Maria, il primo Adamo fu plasmato dalla terra vergine, che Dio con la sua arte rese capace di ricevere la sua potenza12. Ireneo sottolinea non solo che la carne è indispensabile all’uomo perfetto, ma anche che per la sua debolezza in essa si manifesta maggiormente la gloria e la potenza di Dio. Infatti già ora essa partecipa della sapienza e della potenza di Dio per il dono della vita; quanto più risplenderà al momento della risurrezione, quando verrà resa incorruttibile dallo Spirito del suo Creatore13?

1.2. Lo Spirito nella carne: la plasis Ireneo concepisce lo Spirito come una realtà divina, necessaria perché l’uomo sia perfetto, ma tale che, se manca, l’uomo continua ad essere uomo. Occorre dunque distinguere lo Spirito divino dallo spirito creato, che si identifica con l’anima o con una facoltà di essa. Senza lo Spirito, la carne è morta; perciò, non ha la vita, né può ereditare il regno di Dio. Invece, dove lo Spirito permea la carne, lì c’è l’uomo vivente; allora, la carne è ereditata dallo Spirito, poiché è dimentica di sé per avere acquistato la qualità dello Spirito ed essere divenuta conforme al Verbo di Dio14. È Dio, dunque, che con la sua potenza senza limiti, rende la carne capace di ricevere il suo stesso Spirito. Diversamente dall’impostazione origeniana o, comunque, della scuola d’Alessandria, Ireneo — contro ogni posizione dualista, non solo gnostica, ma pure di matrice ellenica — proverà a rileggere i racconti della creazione sull’uomo come espressione

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Epid., XI: «Ha creato l’uomo con le sue mani prendendo dalla terra ciò che c’era di più puro e più fino e mescolandovi in giusta proporzione la sua potenza. Infatti, tracciò su questo composto il suo stesso profilo di modo che ciò che sarebbe stato visibile portasse l’impronta divina — perché come immagine di Dio l’uomo fu plasmato e posto sulla terra —, e affinché diventasse essere vivente, gli soffiò sul volto l’alito vitale, cosicché, nello spirito e nel fisico, l’uomo fosse simile a lui». 13 Cfr. Adv. haer., V, 3,2-3. Per approfondire questo aspetto, cfr. A. ORBE, San Ireneo y la creación de la materia, in Gregorianum 59 (1978) 71-125. 14 Cfr. ibid., V, 9,3.


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d’una sola realtà. In Gen 1-2 si rivela un solo processo creativo: Parola e Spirito sono in azione per plasmare il volto di Adamo15. La creazione è considerata, da Ireneo, un evento ancora in atto: accompagna tutto il percorso dell’uomo perché lo Spirito continua a plasmare la nostra carne a immagine e somiglianza del Figlio, del Verbo incarnato. È, per Ireneo, il processo della plasis: fare, modellare, produrre, sono espressioni attraverso le quali il vescovo di Lione lascia intendere l’agire pratico, reale, concreto, di Dio nella storia dell’umanità. La plasis, il fatto cioè che lo Spirito penetra nella carne (fango e acqua, cioè polvere bagnata, mista), permette a Ireneo di introdurre il tema dell’economia divina e della pedagogia. Perché Dio crea Adamo un po’ alla volta, plasamandolo come un vasaio? Semplicemente perché Adamo possa ricevere, in modo progressivo, graduale, la rivelazione di Dio. La plasis, allora, indica pure che la creazione è già inizio della storia della salvezza, perché riconduce l’azione dinamica ed evolutiva dello Spirito nell’Adamo di terra16. In tale prospettiva, il conflitto appare come un processo che accompagna tutta la storia di Adamo a partire dalle sue prime relazioni (con Dio, con l’altro, con la terra, con le creature del cielo, con gli esseri viventi nel mare e nello spazio abitato); e si afferma come un percorso di scissione, di separazione: da una fraternità originale a una fraternità spezzata e, di volta in volta, capace di dialogare, di provare a riconciliarsi. Così fu per Abele il giusto, nonché per le vicende di Isacco, la storia di Giuseppe, etc… Come lo Spirito plasma in noi la carne, così, per opposizione, il conflitto determina in noi il processo inverso alla comunione, cioè quello della scissione o separazione17. Ireneo, riprendendo l’antropologia paolina (cfr. 1Ts 5,23), concepisce l’uomo costituito da due elementi di natura opposta, la carne e lo Spirito, e da un terzo, l’anima, dotato di libertà di scelta. Carne e Spirito, infatti, signi15 È conveniente approfondire il tema delle “mani di Dio” all’opera nella creazione, secondo Ireneo, mediante l’ottimo studio di A. ORBE, La teologia dei secoli II e III. Il confronto della Grande chiesa con lo gnosticismo. I. Temi veterotestamentari, Casale Monferrato (Alessandria) 1995, 274-301. 16 Per questa parte, Cfr. E. SCOGNAMIGLIO, Il volto dell’uomo. Saggio di antropologia trinitaria. I. La domanda e le risposte, Cinisello Balsamo (Milano) 2006, 3-23. 17 Su questi aspetti, Cfr. E. SCOGNAMIGLIO, Ecco, io faccio nuove tutte le cose. Avvento di Dio, futuro dell’uomo e destino del mondo, Padova 2002.


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ficano non solo due elementi quasi incompatibili, ma anche due direzioni antitetiche di vita: l’una in favore di Dio, l’altra ribelle a lui. Se tale è la natura dell’uomo, per costituzione egli è posto in una situazione di possibile conflitto18. L’uomo, come l’angelo, è stato voluto da Dio dotato di ragione, e perciò capace di intendere e di scegliere. Nel pensiero di Ireneo, tale possibilità di scegliere rende la creatura ragionevole capace di merito davanti a Dio, in quanto non sottomessa con obbligo ai suoi comandamenti19. Secondo Ireneo, l’anima è libera sia rispetto all’adesione alla verità della fede, sia rispetto all’agire20; anche la prima è determinante per la salvezza, come abbiamo detto sopra21.

2. LA CONDIZIONE ORIGINALE DI ADAMO Ci sembra opportuno, a questo punto, considerare quattro aspetti della situazione originale in cui si viene a trovare l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio secondo la prospettiva antropologica unitaria di Ireneo.

2.1. L’integrità originale La prima prerogativa concessa da Dio ad Adamo riguarda il dominio sulla terra e dei suoi abitanti. Adamo, infatti, «fu creato da Dio libero e autonomo per dominare su ogni essere della terra. Questo mondo creato, preparato da Dio prima di plasmare l’uomo, fu dato all’uomo come suo territorio 18 Adv. haer., V, 9,1. «L’uomo perfetto è composto […] di tre realtà: la carne, l’anima e lo Spirito. L’uno, cioè lo Spirito, salva e forma; l’altra, cioè la carne, è salvata e formata; e l’altra, che si trova tra queste due, cioè l’anima, ora segue lo Spirito e grazie a lui vola, ora obbedisce alla carne e cade in desideri terrestri». 19 Ibid., IV, 37,1-2.«Le parole: “Quante volte ho voluto radunare i tuoi figli e non hai voluto” indicano l’antica legge della libertà dell’uomo, perché Dio lo fece libero, in quanto ha fin dall’inizio il suo potere, come anche la sua anima, per seguire il consiglio di Dio volontariamente e senza essere costretto da lui». 20 Cfr. ibid., IV, 37,5. 21 Cfr. Epid., II.


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con tutti i beni che conteneva»22; «Affinché si nutrisse e si sviluppasse con gioia e letizia gli fu preparato un posto, il migliore di questo mondo, privilegiato per l’aria, la bellezza, la luce, il cibo, le piante, i frutti, le acque e per tutte le altre cose necessarie alla vita. Questo luogo si chiama Giardino»23. Adamo ed Eva, pur dotati di un organismo adulto, conoscevano l’innocenza dei bambini. In paradiso avevano il dono dell’integrità. Infatti, erano ambedue nudi, ma non ne provavano vergogna; e poiché erano stati creati di recente, non avevano conoscenza della generazione dei figli24. La condizione dell’esistenza umana nell’Eden era di carattere angelico: diletto, agio, lodi continue al Creatore, e soprattutto relazione mai interrotta con Dio, in veglia assidua; né si conosceva conflitto tra esseri umani.

2.2. L’intimità con il Verbo Di là dell’integrità di ambiente, di carne e di pensieri, il più grande pregio della condizione umana originale, e il suo elemento specifico, era il connubio spirituale con il Verbo. Questi passeggiava frequentemente nell’Eden, in una comunione intima con l’uomo non concessa agli angeli. Tale l’unità di spirito con il Figlio era preludio alla comunione di Spirito con il Padre. Infatti, il dialogo assiduo con il Verbo si presentava, ad Adamo, non come un dono già definito, bensì come profezia di un futuro ancora migliore, scuola d’una condizione di vita il cui epilogo era celato nelle altezze del Padre25. 22

Ibid., XI. Ibid., XII. 24 Ibid., XIV: «Adamo ed Eva […] erano nudi e senza vergogna, perché i loro pensieri erano innocenti e infantili e non avevano idee o immagini quali sono ingenerate nell’anima dal male, complice la concupiscenza, e dalla passione. Vivevano infatti nella integrità conservando il loro stato naturale, perché ciò che era stato insufflato nel loro plasma era alito vitale. Ora fino a tanto che questo alito resta nel suo ordine e vigore, non sono immaginate o pensate cose ignobili. Per tale motivo non si vergognavano di baciarsi e di abbracciarsi con infantili innocenza». 25 Ibid., XII: «Così bello e riposante era il Giardino che il Verbo di Dio si recava abitualmente, vi passeggiava e si intratteneva con l’uomo prefigurando quello che sarebbe accaduto in futuro, cioè che sarebbe stato suo concittadino e avrebbe conversato con lui e dimorato con gli uomini insegnando loro la giustizia». 23


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Nel progetto di Dio, l’uomo doveva essere un giorno reso a immagine perfetta della sua immagine, che è il Verbo: «L’“immagine” è il Figlio di Dio, alla cui immagine l’uomo fu fatto»26. Destinato ad essere come Dio, cioè più che uomo, in lui si sarebbero compendiati l’aspetto prettamente umano (plasma) lo Spirito e, come strumento meritorio dello Spirito, l’anima. Grazie allo Spirito, l’uomo avrebbe posseduto un germe d’immortalità, alimentato attraverso la libera sottomissione a Dio. Questa, oltre a impedire la degenerazione naturale, avrebbe innalzato il corpo umano alle altezze di Dio, godendo la visione continua del Padre, inserendolo nell’esistenza dello Spirito senza passare attraverso la morte. Così, l’uomo sarebbe stato posto in uno stato più che paradisiaco, in modo assolutamente gratuito, e nel pieno rispetto della sua libertà. L’iniziativa, però, spettava a Dio.

2.3. L’immaturità Nel pensiero d’Ireneo, l’uomo formato da Dio in origine «era bambino e il suo senso della discrezione non era ancora sviluppato»27. Adamo ed Eva, appena usciti dalle mani di Dio, erano fisicamente maturi, ma psicologicamente bambini; necessitavano, dunque, di imparare ad essere uomini alla sequela del Verbo, sottomettendosi alla disciplina di Dio in corpo e anima. Per il vescovo di Lione, intercorre molta distanza tra l’uso di ragione di un bambino e quello di un adulto; solo quest’ultimo, infatti, è cosciente del compito che Dio gli affida. Ai progenitori, creati di recente e, perciò, ancora inesperti, mancava questo aspetto, in contrasto con la maturità immediata e perfetta degli angeli. Bambini per età e inesperti nel giudizio, essi erano incapaci d’obbedire con merito ai comandi di Dio, e di crescere in virtù fino a raggiungere la condizione dell’uomo maturo. Inesperto e infantile dal lato umano, Adamo mostrava un intelletto sottile per imporre nomi “propri” agli animali28. Non era bene che Adamo raggiungesse subito, senza esperienza, la duplice conoscenza di sé, come 26 27 28

Ibid., XXII. Ibid., XII. Cfr. ibid., XIII.


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uomo e come essere destinato a Dio. Era stato messo in grado di discernere e giudicare, ma non per questo possedeva maturità di giudizio. Il suo essere creatura gli imponeva di apprendere prima ad essere uomo, per saper poi essere Dio. Questa crescita graduale si rendeva necessaria per evitare che Adamo ed Eva si inorgoglissero del dono dell’integrità, reputandolo naturale, e che si appropriassero delle sue prerogative: l’assenza della morte e della corruzione, miserie legate alla carne. Le esperienze di Adamo nell’Eden superavano quelle usuali della terra. Aveva ricevuto tutto con generosità; rischiava di credere che tutto fosse suo a titolo naturale, e di abusare del libero arbitrio fino al disprezzo del Donatore. Nello stato originale d’integrità, infatti, il vigore divino preveniva nell’uomo pensieri e immagini cattivi, ma non suggestioni e intenti di orgoglio.

2.4. Il significato di un’obbedienza meritoria Nella condizione originale d’integrità, la natura retta, aiutata dallo Spirito, non escludeva la possibilità d’essere tentati nell’orgoglio. Per questo, era necessario che l’uomo fosse messo alla prova, senza danneggiare il regime preternaturale del paradiso, ma dando spazio al merito. Da qui il comandamento, che sarebbe bastato come un vincolo concreto ad evidenziare la distanza tra il Signore e l’uomo, tra l’Ingenerato e il creato. L’uomo, recentemente plasmato da Dio e ancora imperfetto, andava educato come un lattante. Trattarlo con la sola legge naturale, come gli angeli, avrebbe significato formarlo come un essere perfetto, esponendosi al rischio che imputasse alla natura i doni e il destino ricevuti; il comando positivo offriva l’occasione per un’obbedienza più meritoria e idonea alla formazione umana29. 29 Ibid., XV: «Ma per timore che l’uomo coltivasse pensieri di grandezza e si esaltasse, come se non avesse un Signore, per l’autorità che gli era stata concessa e per la libertà di accesso a Dio, e peccasse contro Dio, suo creatore, sconfinando, e compiacendosi di se stesso, e assumesse atteggiamenti da arrogante verso Dio, questi gli impose una legge, perché riconoscesse di avere per Signore il Signore dell’universo. Dio, dunque, gli impose certi limiti di modo che se osservava il precetto di Dio, sarebbe rimasto sempre quale era, cioè immortale; ma se non lo osservava, sarebbe divenuto mortale, destinato a dissolversi in


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Ci sono cose proibite perché cattive in sé, malvagie30, e cose malvagie perché proibite. Ordinando di non mangiare dell’albero della scienza, Dio proibiva una cosa lecita in sé, ma che solo a motivo del suo comando diventava cattiva. L’uomo era chiamato a obbedire per sottomissione al Creatore, non per la malvagità di quanto gli veniva proibito. A chi potrebbe chiedere perché Dio abbia creato angeli e uomini tali che possanno ribellarsi a lui e non che perseguano il bene automaticamente, Ireneo risponde che, se così fosse, il bene non sarebbe piacevole, la comunione con Dio non sarebbe preziosa e non sarebbe degno di considerazione un bene che si conseguisse senza un proprio moto, impegno e applicazione, ma fosse insito in noi automaticamente e senza sforzo, così che i buoni non avrebbero alcuna superiorità se fossero tali per natura e non per elezione; e perciò non comprenderebbero che il bene è eccellente e non ne godrebbero31. Attraverso questo cammino di crescita nell’amore del bene e di buon uso della libertà, l’uomo diviene progressivamente pienamente maturo. Dio, infatti, nella sua onnipotenza, avrebbe potuto crearlo perfetto fin dal principio; ma, per il suo essere creatura, non sarebbe stato in grado di “contenere” tale perfezione32. In questo rispetto sacro della gradualità dell’educazione umana, lo stesso Figlio di Dio si offrì a noi non nella sua gloria inesprimibile, che non avremmo potuto comprendere, ma come uomo, cioè in modo tale da poter essere accolto dalla nostra piccolezza33. L’uomo, dunque, deve prima quella terra, dalla quale era stato preso il suo corpo. Ecco il precetto: “D’ogni albero che è all’interno del Giardino, potrai mangiare; ma del solo albero dal quale deriva la conoscenza del bene e del male, non mangerete. Il giorno che ne mangerete, certamente morirete”». 30 È il caso dei precetti naturali negativi. 31 Cfr. Adv. haer., IV, 37,7. 32 Ibid., IV, 38,1. «Infatti, come la madre può certo dare all’infante un nutrimento perfetto, ma questo non è ancora in grado di ricevere un nutrimento superiore alla sua età, così anche Dio poteva dare all’uomo la perfezione fin dal principio, ma l’uomo non sarebbe stato capace di riceverla, perché era infante». 33 Ibid., IV, 38,2: «Fin dal principio Dio poteva dare la perfezione all’uomo, ma quello, essendo nato da poco, non era in grado di riceverla o, se l’avesse ricevuta, di contenerla o, se l’avesse contenuta, di custodirla. Per questo il Verbo di Dio, che era perfetto, si fece infante con l’uomo, non per se stesso ma per l’infanzia dell’uomo, e fu compreso così come l’uomo era capace di comprenderlo. Dunque l’impossibilità e il difetto non riguardano Dio, ma l’uomo nato da poco, poiché non era increato».


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raggiungere la pienezza della sua umanità, per poter poi essere elevato alla somiglianza con Dio34.

3. I DUE SEGNI DEL CONFLITTO: L’ANGELO E IL SERPENTE La prova di obbedienza a Dio passa per Adamo ed Eva attraverso l’incontro con l’angelo ribelle sotto forma di serpente35. Esso pone una domanda carica di sospetto: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?», attraverso la quale instilla in Eva il dubbio36. 34 Ibid., IV, 39,2: «Dunque, come sarai dio, se non sei ancora stato fatto uomo? Come sarai perfetto, se sei stato appena creato? Come sarai immortale, se in una natura mortale non hai obbedito al Creatore? Dapprima, infatti, devi custodire il rango di uomo e poi partecipare alla gloria di Dio, perché non sei tu che fai Dio, ma è Dio che fa te». 35 Circa il tema della creazione uomo/donna nei Padri, cfr. gli interessanti studi raccolti in S.A. PANIMOLLE (cur.), Dizionario di Spiritualità biblico-patristica. XI. Creazione uomo donna. Parte seconda: negli scritti dei Padri, Roma 1995. 36 Il cardinale Carlo Maria Martini commenta così Gen 3,1: «Ci troviamo davanti a un capolavoro di retorica, perché si tratta di un’insinuazione chiaramente maligna e paradossale che ha lo scopo di sconcertare chi ascolta. Non si è tanto colpiti dalla falsità dell’affermazione, che è evidente, bensì dalle allusioni che ci stanno dentro. A ben osservare, è un ottimo modo per cominciare a ingannare qualcuno: si schiaccia qualcuno con un paradosso, che di per sé è inammissibile e, però, è talmente enorme che alla fine si finisce con il pensare che qualcosa di vero ci sarà. È tipico dell’insinuazione maligna e ansiosa coinvolgere nel dubbio e nella paura, ottundere la mente e suscitare il sospetto. Se poi l’affermazione cattiva viene fatta da una persona intelligente, è ancora più facile che chi l’ascolta concluda: forse mi sto ingannando, o stanno ingannandomi, forse c’è dietro qualche problema che non capisco. Naturalmente, tale affermazione maligna e paradossale ha una parvenza di verità. Effettivamente è stato proibito di mangiare uno dei frutti del giardino. La proibizione è dunque vera, solo che non si parla della concessione che Dio ha dato per tutti gli alberi; questo modo falso di proporre la domanda, fa risultare assurda e arbitraria la proibizione: per quale motivo Dio ci ha vietato qualcosa? Forse ha un secondo fine, forse non ci vuole bene, forse ci sta ingannando. L’analisi filologica di questa domanda che ha lo scopo di indurre alla morte ci insegna come il nemico opera per confondere lo spirito umano»: C.M. MARTINI, La radicalità della fede, Casale Monferrato (Alessandria) 1991, 57-59. Scrive Teofilo d’Antiochia: «L’albero stesso della scienza era buono e buono era anche il suo frutto. Non causò — come alcuni sostengono — la morte; fu la disobbedienza a produrla. Nel suo frutto, in effetti altro non vi era che scienza e la scienza è buona se ciascuno se ne serve debitamente»: TEOFILO D’ANTIOCHIA, Ad Autolycum, II, 25: PG 6,1091. Belle anche le riflessioni di


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Ciò che spinge l’angelo ad attaccare è l’invidia per la vita divina ricevuta dall’uomo in dono, una vita concessa esclusivamente all’uomo e orientata a una salvezza alla quale l’angelo non era destinato. «L’angelo ingannò l’uomo, geloso e invidioso per i numerosi doni di cui Dio l’aveva colmato»37. Sono i doni di somiglianza divina, signoria universale, immortalità, privilegi non concessi all’angelo e gratuitamente legati al plasma, che vedranno la loro massima espressione nell’umanità gloriosa di Gesù. Dio, infatti, non accentrò la sua economia intorno all’angelo, chiamandolo alla sua visione. Fece della carne umana l’asse della sua economia, poiché era libero di depositare i suoi tesori in vasi d’argilla. Il suo splendore e la sua bontà risplendono maggiormente nella povertà umana che nella naturale ricchezza degli angeli. Gli angeli dovevano servire l’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio — secondo la carne —, e riconoscere in esso, nell’adorazione e nelle lodi continue del loro comune Signore, l’immagine e la somiglianza perfette di Dio38. Nel meccanismo della prima tentazione (modello e archetipo d’ogni tentazione), Ireneo sottolinea tre elementi: l’invidia dell’angelo, l’inganno e la disobbedienza dell’uomo, e distingue il peccato interiore e quello esteriore. Il primo peccato dell’angelo in senso stretto consistette nell’invidia per l’uomo; l’inganno o la tentazione ne fu la conseguenza spontanea, ma sopraggiunse successivamente. Ireneo attribuisce grande importanza alla manifestazione sensibile dell’invidia, e in generale, a qualsiasi elemento nascosto che è necessario rivelare, perché Dio non si limita a punire le violaG. RAVASI, Il libro della Genesi (1-11), I, Roma 1990. Circa il tema del peccato originale, cfr. A.M. DUBARLE, Il peccato originale nella Scrittura, Roma 1968, 43-80. 37 Epid., XVI. Cfr. Adv. haer., V, 24,4. 38 Epid., XVI: «L’uomo non osservò questo precetto e disobbedì a Dio, ingannato da quell’angelo, che, geloso dell’uomo e invidioso dei molti favori accordatigli da Dio, rovinò se stesso e fece dell’uomo un peccatore inducendolo a trasgredire il precetto di Dio. L’angelo, divenuto per la sua menzogna capo e guida del peccato, fu egli stesso colpito per avere offeso Dio e provocato la cacciata dell’uomo dal Giardino. E poiché per il suo comportamento si ribellò e si allontanò da Dio, fu detto in ebraico Satana, cioè ribelle. Ma è anche detto calunniatore. Dio dunque maledisse il serpente, che aveva impersonato il calunniatore; la maledizione colpì anche l’animale e l’angelo, cioè Satana, che si era annidato in lui. Frattanto allontanò dalla sua presenza l’uomo mandandolo ad abitare sulla via che conduce al Giardino, poiché il Giardino non ammette il peccatore». Sulla teologia dell’immagine nei Padri, cfr. l’ottimo studio di A.G. HAMMAN (cur.), L’uomo immagine somigliante di Dio, Milano 1991.


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zioni esteriori delle colpe, ma legge nel profondo dei cuori le intenzioni che muovono ad agire. Ireneo collega molto bene il peccato alla volontà. Egli afferma che l’apostasia di satana non fu soltanto interiore, ma anche esteriore, rivelatasi nel peccato dell’uomo. Grandi sarebbero state l’ignoranza e l’ingiustizia di Dio, se avesse punito soltanto l’uomo per un peccato esteriore che obbediva ad una suggestione dell’angelo. Ed esagerata sarebbe stata l’astuzia dell’angelo cattivo, se avesse ingannato Dio tirando il sasso e nascondendo la mano. L’aspetto esteriore non aggiunge cattiveria all’atto interno; lo rende manifesto. L’apostasia personale dell’angelo, conseguenza dell’indivia, merita — per Ireneo — esigua attenzione. Se non ci fosse stata l’intenzione di coinvolgervi gli uomini, il suo peccato, anteriore a quello umano, sarebbe passato inosservato e privo di conseguenza per l’economia. La rilevanza del peccato diabolico risiede nelle sue ripercussioni sull’uomo. L’angelo malvagio fu costituito principe dell’apostasia, poiché ingannò efficacemente Adamo, fino a indurlo alla disobbedienza e a provocarne l’allontanamento da Dio39. Dall’inganno seduttore del serpente, che infrange la relazione tra l’uomo e Dio, segue inevitabilmente il conflitto con il fratello, in quanto altro40. La radice del conflitto tra fratelli, che genera la morte, secondo Ireneo, sembra risiedere proprio nella struttura stessa della creatura, che è posta di fronte al dissidio interiore di potersi servire o meno di quell’albero della scienza e, quindi, di poter o no obbedire al comando di Dio. Un dissidio interiore, un bivio, è continuamente posto davanti all’uomo, proprio perché si ritrova partecipe delle prerogative divine e, allo stesso tempo, soggetto a quelle comuni a ogni essere creato. Secondo la visione antropologica d’Ireneo, siamo di fronte al mistero del rapporto tra il Creatore e la creatira. Dal conflitto originale con Dio 39

Cfr. Adv. haer., IV, 4. Epid., XVII: «Espulsi dal Giardino, Adamo e la sua donna, Eva, fecero l’esperienza di molte tribolazioni fisiche e spirituali e vissero in questo mondo nella tristezza, nella fatica e in lamenti […]. Ma l’angelo ribelle, che aveva indotto l’uomo alla disobbedienza facendone un peccatore e causandone l’espulsione dal Giardino, non soddisfatto della prima impresa, ne architettò un’altra nei confronti dei fratelli. Riempito Caino del suo spirito, ne fece un fratricida. Abele morì assassinato dal fratello venendo così a significare che, d’ora in poi, alcuni sarebbero stati perseguitati, angariati e uccisi, mentre i malvagi avrebbero ucciso e perseguitato i giusti. Per questo Dio si adirò terribilmente, maledisse Caino e da allora ogni discendente nella linea della sua successione fu simile al progenitore». 40


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scaturì quello di Caino con Abele, come oggi quello d’ogni Caino con ogni Abele, poiché dal peccato d’origine in poi la malvagità si è diffusa tra gli uomini, riducendo le tracce di giustizia a ben poca cosa41.

4. VERSO UNA SOLUZIONE DEL CONFLITTO Nella seconda parte dell’Esposizione della predicazione apostolica, Ireneo traccia un sunto della storia sacra, individuando come filo conduttore la volontà salvifica di Dio e i suoi interventi quale Giudice42. Tra tutti gli eventi che costituiscono le tappe dell’economia, è di capitale importanza l’incarnazione del Verbo, plasmato dal seno di Dio, cioè nato dal suo Spirito43: «L’“immagine” è il Figlio di Dio, alla cui immagine l’uomo fu fatto. Per questa ragione si è manifestato alla fine dei tempi “per dimostrare che l’immagine rassomigliava a lui”»44. Tanto la liberazione dell’esodo, quanto quella di altri momenti della storia sacra, per Ireneo, sono opera del Figlio, il quale è destinato ad essere a capo di tutta l’umanità, poiché il Padre gli ha assoggettato tutto45. I profeti avevano predetto la sua incarnazione nel grembo d’una Vergine, che avrebbe vissuto con gli uomini, che avrebbe rigettato il male per scegliere il bene prima ancora di conoscere o distinguere il male46. Fatti a sua immagine, gli uomini trovano in lui la guida perfetta verso la meta eterna47. Per la sua incarnazione, passione, morte e risurrezione, e 41

Cfr. ibid., XVIII. Cfr. ibid., XVIII-XXX. 43 Cfr. ibid., LI. 44 Ibid., XXII. 45 Cfr. ibid., XLVIII-XLIX. 46 Ibid., LIII: «In lingua ebraica ha un doppio nome: Messia-Cristo (Unto) e GesùSalvatore. Questi due nomi indicano le opere che avrebbe compiute. Infatti ha ricevuto il nome di “Cristo” (Unto), perché il Padre per suo mezzo e in vista della sua venuta come uomo ha unto e ordinato divenuto causa di salvezza per coloro che, fin da allora, furono da lui liberati da ogni infermità e morte; per coloro che avrebbero creduto dopo di loro è anche donatore di salvezza eterna». 47 Ibid., LV: «“Dio disse: facciamo allontanarci l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. È chiaro che il Padre si rivolge al Figlio, suo ammirabile consigliere. Egli è anche nostro consigliere; parla e non costringe; come Dio, quantunque sia anche “Dio potente”, consiglia di abbandonare l’ignoranza e d’acquistare la conoscenza, di dall’errore per andare verso la verità, di rigettare la corruzione per ottenere l’incorruttibilità». 42


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la conseguente effusione dello Spirito Santo, il Figlio ha ricapitolato in sé tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra (cfr. Ef 1,10), ha restaurato l’umanità nella sua integrità originale, l’ha riunita nella comunione con Dio e le ha ottenuto il dono dello Spirito che dà la vita, e dunque conferisce l’incorruttibilità48. E ancora così ha unito l’uomo a Dio e realizzato la comunione di Dio e dell’uomo. Se la sua incorruttibilità fosse rimasta invisibile e nascosta, non ci sarebbe stata di aiuto, ma si rese visibile, affinché si realizzasse la piena comunione49. Pertanto, per Ireneo, il Verbo di Dio detiene il primato su tutte le cose, perché è vero uomo, consigliere meraviglioso e Dio forte, chiama nuovamente l’uomo alla comunione con Dio, affinché per mezzo della comunione con lui partecipiamo della incorruttibilità50.

4.1. La carne obbediente A fondamento della comunione con Dio sta, innanzitutto, la sottomissione fiduciosa e amorevole da parte dell’uomo creatura nei confronti del Creatore. Se, come abbiamo visto, radice e archetipo d’ogni conflitto è la disobbedienza di un uomo verso Dio, la restaurazione della comunione con lui non poteva che avvenire per l’obbedienza di un uomo al suo volere. La disobbedienza della carne, che per natura è fragile, ma ha la facoltà di scegliere se obbedire o opporsi a Dio, doveva essere riscattata dall’obbedienza della stessa carne. Infatti, nel pensiero d’Ireneo, la carne è il cardine di tutta l’economia; e perciò anche della salvezza. La disobbedienza di Adamo doveva essere riparata dall’obbedienza totale del Figlio fatto carne51. 48 Cfr. ibid., VI. Cfr. Adv. haer., IV, 20,5: «lo Spirito prepara in precedenza l’uomo per il Figlio di Dio, il Figlio lo conduce al Padre e il Padre gli dà l’incorruttibilità per la vita eterna». 49 Epid., 31. 50 Cfr. ibid., XL. 51 Ibid., 31-32. Cfr. Adv. haer., III, 18,7: «Congiunse, dunque, e unì […] l’uomo a Dio. Infatti, se non fosse stato l’uomo a vincere l’avversario dell’uomo, il nemico non sarebbe stato vinto giustamente. D’altra parte, se non fosse stato Dio a donarci la salvezza, non l’avremmo ricevuta stabilmente. E se l’uomo non fosse stato unito a Dio, non avrebbe potuto divenire partecipe della incorruttibilità, infatti, il Mediatore di Dio e degli uomini, grazie alla sua parentela con tutti e due, doveva ricondurli ambedue all’amicizia ed alla concordia e fare in modo che Dio assumesse l’uomo e l’uomo si offrisse a Dio. Infatti, come avremmo potuto


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Ireneo stabilisce un parallelo preciso tra la coppia responsabile del peccato originale e quella che nella pienezza dei tempi ha introdotto nel mondo la salvezza. Per questo possiamo dire che per il Padre della chiesa il ruolo di Maria nell’opera della nostra salvezza è fondamentale: Ella è la nuova Eva, che per la sua obbedienza unita a quella del Figlio, è la vera Madre di tutti i viventi52. divenire partecipi della adozione filiale, se mediante il Figlio non avessimo ricevuto da lui la comunione con lui; se non fosse entrato in comunione con noi il suo Verbo facendosi carne? Per questo è passato attraverso ogni età, restituendo così a tutti la comunione con Dio. Dunque quanti dicono che si è manifestato apparentemente, che non è nato nella carne e che non si è fatto veramente uomo, sono ancora nell’antica condanna: essi difendono il peccato, perché secondo loro non è stata vinta la morte che “regnò da Adamo fino a Mosè, anche su coloro che non peccarono con una trasgressione simile a quella di Adamo”. Poi quando venne la Legge data da Mosè, da una parte a proposito del peccato, attestò che è peccatore e gli tolse il regno, smascherandolo come ladrone e no re e mostrandolo come omicida; ma dall’altra caricò l’uomo, che aveva il peccato su di sé, mostrando che era reo di morte. La Legge, infatti, sebbene fosse spirituale, ha manifestato il peccato, ma non l’ha distrutto: perché il peccato non dominava sullo Spirito ma sull’uomo, dunque colui che doveva uccidere il peccato e redimere l’uomo, reo di morte, doveva divenire ciò che era quello, cioè l’uomo che era stato ridotto in schiavitù dal peccato ed era tenuto sotto il suo potere dalla morte, affinché il peccato fosse ucciso dall’uomo e l’uomo uscisse dalla morte. Come per la disobbedienza di un solo uomo, colui che all’inizio fu plasmato dalla terra vergine, i molti furono costituito peccatori, così per l’obbedienza di un solo uomo, colui che all’inizio fu generato dalla Vergine, molti dovevano essere giustificati e ricevere la salvezza. Così dunque il Verbo di Dio divenne uomo, come dice anche Mosè: “Dio, le sue opere sono vere”. Ora se appariva come carne senza essere divenuto carne, la sua opera non era vera. Ma egli era ciò che appariva: Dio che ricapitola in sé la sua antica creatura, che è l’uomo, per uccidere il peccato, distruggere la morte e vivificare l’uomo. E per questo le sue opere sono vere». Cfr. anche Adv. haer., III, 19,1; 20,2; IV, 20,4; V, 1,1. 52 Epid., XXXIII: «Come a causa d’una vergine disobbediente l’uomo fu trafitto, cadde e morì, così a causa ancora d’una vergine obbediente alla parola di Dio, risuscitato riprese la vita. Il Signore, infatti, è venuto a cercare la pecorella perduta, cioè l’uomo che si era perduto. Perciò, non si formò un corpo diverso, ma per mezzo di colei che discendeva da Adamo conservò la somiglianza di quel corpo. Adamo infatti fu ricapitolato in Cristo, affinché ciò che è mortale fosse inghiottito nell’immortalità, ed Eva in Maria, affinché una vergine divenuta avvocata d’una vergine, dissolvesse e annientasse con la sua obbedienza di vergine la disobbedienza d’una vergine. Il peccato commesso a causa dell’albero fu annullato dall’obbedienza compiuta sull’albero, obbedienza a Dio, per la quale il Figlio dell’uomo fu inchiodato sull’albero, abolendo la scienza del male e apportando e donando la scienza del bene. Il male è disobbedire a Dio; il bene invece obbedire». Cfr. Adv. haer., III, 21-22; V, 1,3; 14,2; 19,1.


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Per l’obbedienza del Verbo fatto carne, l’umanità ha ricevuto il compimento di tutte le promesse di Dio: quella ad Abramo (la giustificazione per la fede53), a Davide (un discendente, re eterno nato da una Vergine54), e soprattutto quella della vita55.

4.2. A partire dal Figlio e dallo Spirito: il nuovo ordine Per l’opera compiuta dal Figlio, l’umanità e l’intera creazione sono inserite in un nuovo ordine di vita che troverà compimento alla venuta del Cristo nella gloria. Allora, la pace, nell’assenza d’ogni conflitto e violenza, regnerà senza ostacoli per l’umanità trasfigurata a immagine del Verbo divino56. La trasformazione del cuore, in Cristo, dunque, è tanto profonda e radicale da fare del credente un uomo nuovo che non vede più, nell’altro, un nemico e, nella sua diversità, un ostacolo alla propria identità, e perciò aborrisce la violenza. Il sacrificio del Figlio, voluto dal Padre per la nostra salvezza, ristabilisce — tra gli uomini — questa pace profondamente radicata nell’intimo. Nel suo nome, tutti, pur essendo diversi, si riconoscono fratelli e amici57. Poiché la radice d’ogni conflitto tra i figli di Dio è la disobbedienza al Padre, le ostilità sono destinate a cessare una volta che sia risolto il conflitto con lui. Per questo, incontrerà lo sguardo severo del Giudice solo chi si oppone al Creatore e, così, semina discordia. Alla venuta del Signore glorioso, tutti i ribelli, i non in pace, saranno giudicati da lui, compreso colui che è stato l’artefice della caduta e del conflitto58. 53

Cfr. Epid., XXXV. Cfr. ibid., XXXVI. 55 Cfr. ibid., XXXVII-XXXVIII. 56 Cfr. ibid., LXVI. 57 Ibid., LXXII: «Quando dice: “la sua sepoltura sarà pace” racconta come è morto per la nostra salvezza — poiché è nella pace della salvezza — e che con la sua morte “quelli che erano tra loro avversari e nemici”, credendo concordemente in lui, saranno in pace tra loro, divenuti ben disposti e amici per via della comune fede in lui. Anche questo si avvera». 58 Ibid., LXXXV: «Risorto e salito al cielo, attende alla destra del Padre il momento fissato dal Padre per giudicare tutti i suoi nemici che saranno stati a lui assoggettati. Nemici sono coloro che sono stati trovati nello stati di ribellione, angeli, arcangeli, principati, troni che hanno disprezzato la verità». 54


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Gli apostoli, inviati dal Signore, hanno predicato per il mondo intero che il Figlio di Dio è venuto per subire la passione, l’ha sopportata per distruggere la morte e vivificare il corpo e che, cessando lo ostilità verso Dio, cioè le iniquità, otterremo la sua pace compiendo ciò che è di suo gradimento59.

4.3. L’amore fraterno L’uomo, liberato dal peccato, salvato dalla morte, vivo per l’amore e la compassione di Dio verso di lui60, per il dono di Cristo e dello Spirito può elevare la sua relazione con i fratelli sul piano dell’amore, che costituisce l’unico comandamento divino61. Ora, finalmente, possiamo camminare in novità di vita. Occorre, dunque, entrare nell’alleanza nuova, quella che rende l’uomo capace d’osservare i comandamenti di Dio, perché dotato di un cuore e una mente nuovi. Allora, il cuore di pietra sarà rinnovato in quello di carne e si adempirà la parola secondo la quale Dio può far sorgere figli di Abramo anche dalle pietre62. Ireneo prosegue sottolineando, ancora una volta, come dall’amore per Dio, che ci è stato ottenuto dal suo Verbo e ha quale elemento essenziale la

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Cfr. ibid., LXXXVI. Cfr. ibid., LVIII. 61 Ibid., LXXXVII: «Ma non è con la verbosità della legge che il genere umano è salvato, bensì con la concisione della fede e della carità. Dice Isaia: “una parola concisa e breve nella giustizia, perché Dio manderà ad effetto una parola breve sulla terra”. Ugualmente Paolo dice: “l’amore è la pienezza della legge”. Infatti colui che ama Dio, adempie la legge. Quando al Signore fu chiesto: “quale è il primo comandamento?” rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la forza”; e il secondo è simile a questo: “amerai il prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti, dice, “dipendono tutta la legge e i profeti”. Così con la fede in lui ha accresciuto il nostro amore per Iddio e per il prossimo per farci pii, giusti e buoni. Per questo ha mandato ad effetto una “parola breve sulla terra». 62 Ibid., XCIII: «Infatti, dopo essere stati strappati al culto delle pietre, i nostri cuori, mediante la fede, vedono Dio e diventano figli di Abramo, “che fu giustificato dalla fede”. Per questo Dio dice per bocca del profeta Ezechiele: “Darò loro un altro cuore e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro corpo il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne di modo che camminino nei miei decreti e osservino i miei precetti e li mettano in pratica. Essi saranno mio popolo ed io sarò loro Dio”». 60


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sottomissione a lui, scaturisce l’amore per il prossimo. Per il discepolo di Cristo non c’è altra legge da osservare.

5. QUALE COMPITO PER I CREDENTI? Come, dunque, possiamo appropriarci dell’incorruttibilità spirituale, morale e fisica, che il Figlio di Dio ci ha ottenuto e lo Spirito ci ha donato? Come possiamo fare nostra la soluzione d’ogni conflitto, che ci è stata elargita dal Verbo stesso di Dio? Per Ireneo, questa grazia si riceve per mezzo della comunione con la chiesa, attraverso l’accoglienza della fede trasmessa dagli apostoli, il beneficio del battesimo e la giustizia della vita. Senza il battesimo e, dunque, senza la chiesa, è impossibile per l’uomo fare propria la misericordia salvifica della Trinità e, quindi, vedere riaperte le porte della vita eterna63. Per il dono del battesimo, infatti, nei credenti abita continuamente lo Spirito ricevuto dal Padre; è lo Spirito d’Amore che stabilisce la comunione perfetta con il Padre e il Figlio, e in loro, tra i fratelli. La presenza permanente dello Spirito è custodita da chi l’ha ricevuta nella conditio sine qua non di vivere in verità, santità, giustizia e pazienza, nonché nell’attesa della risurrezione della carne64.

63 Ibid., VII: «Per questo il battesimo che ci fa nascere di nuovo […] ci consente di rinascere a Dio Padre tramite suo Figlio e nello Spirito Santo. Perciò coloro che portano lo Spirito di Dio sono condotti al Verbo, cioè al Figlio, che li accoglie e li presenta al Padre e il Padre dona loro la incorruttibilità. Senza lo Spirito Santo non si può vedere il Verbo di Dio e senza il Figlio nessuno può accostarsi al Padre, perché il Figlio è la conoscenza del Padre e la conoscenza del Figlio avviene tramite lo Spirito santo. Ma il Figlio, secondo la benevolenza del Padre, dispensa come ministro lo Spirito a chi vuole e come il Padre vuole». 64 Cfr. ibid., XLI. È fondamentale riscoprire, in tale prospettiva, l’antropologia unitaria del pensiero di Ireneo: la risurrrezione della carne permette di rileggere la profonda appartenenza tra l’anima e il corpo. Anche Tertulliano sembra seguire questa impostazione. Infatti, per recuperare un valore non solo strumentale del corpo, bensì salvifico e rivelativo, a proposito della risurrezione finale, egli scrive: «Ora che abbiamo assegnato all’anima il comandare, e alla carne l’obbedire, dobbiamo però stare in guardia affinché non tentino di capovolgere anche questi concetti, pretendendo che la carne sia al servizio dell’anima ma non come serva, per non doverla riconoscere come compagna»: TERTULLIANO, De resurrectionis carnis, XVI, 1: PL, II, 814.


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La riflessione offertaci dalla teologia d’Ireneo, se opportunamente approfondita nell’ethos di qualsiasi discepolo di Cristo, si rivela come un ottimo strumento per la crescita personale e comunitaria. Si tratta di rileggere la categoria dell’anthrôpos in una prospettiva più dinamica, di crescita, di tensione, ove il conflitto, lo spasmo delle relazioni, la complessità dei dialoghi e delle comunicazioni, trovano spazio e collocazione, nonché significato e motivo di comprensione. D’altronde, possiamo, simbolicamente, rileggere la radice del conflitto e le sue possibili soluzioni alla luce del mistero del Logos-sarx, secondo quel misterioso passaggio che va dalla fraternità spezzata alla fraternità riconciliata. Colui che fa esperienza dello Spirito — dell’azione pneumatica nel cuore —, manifestata nell’adesione alla fede trasmessa dagli apostoli e ai principi evangelici di vita, a poco a poco intravede possibili itinerari di riconciliazione ed è capace di rileggere il conflitto come luogo teologico, nonché motivo d’incontro con l’Altro. Di fatti, non è senza turbamento che si guarda un volto65. Nel cammino, infatti, prende coscienza del suo inestimabile valore agli occhi di Dio, in quanto creato a sua immagine e somiglianza e redento dal sangue del suo Figlio. Sentendo così nel profondo il valore del proprio essere, no percepisce più il fratello come una minaccia per la propria identità, bensì come una ricchezza inestimabile donatagli da Dio per il suo Amore infinito. Per chi ha compreso intimamente questa verità, la legge non ha più ragione di regolare i rapporti umani, perché tutto è vissuto nella libertà dell’Amore66. Affidando se stesso alle mani del suo 65

Cfr. le lungimiranti prospettive di E. LÉVINAS, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Milano, 1980. 66 Epid., XCVI: «Pertanto, non abbiamo bisogno della legge, come pedagogo; ecco noi trattiamo con il Padre e stiamo faccia a faccia con lui essendo divenuti bambini senza malizia, e forti in ogni giustizia e onestà. La legge infatti non dirà più: “non commettere adulterio” a colui che non ha concepito neppure il desiderio della donna altrui; o “non uccidere” a colui che ha allontanato da sé l’ira e l’inimicizia; o “non desiderare il campo del tuo vicino, il suo bue o il suo asino” a coloro che non hanno interesse per le cose della terra, ma fanno provvisioni per il cielo; neppure “occhio per occhio e dente per dente” a colui che non ha nemici e tratta tutti come prossimo e perciò non alza le mani per vendicarsi; non esigerà le decime da chi ha votato a Dio tutti i suoi beni e ha lasciato padre, madre, la famiglia al completo, per seguire il Verbo di Dio. Non comanderà più di riservare un giorno al riposo a colui che ogni giorno osserva il sabato, cioè che rende culto a Dio nel tempio di Dio che è il corpo dell’uomo e pratica sempre la giustizia».


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Creatore, l’uomo ritrova, così, la sua originale e divina bellezza destinata a rifiorire già ora sulla terra nella comunione di vita con i fratelli, per manifestarsi in tutto il suo splendore nell’eternità beata67.

67 Adv. haer., IV, 39,2: «Se, dunque, sei l’opera di Dio, aspetta la mano del tuo Artefice […]. Presentagli il tuo cuore morbido e malleabile e conserva la forma che ti ha dato l’Artista, avendo in te l’Acqua che viene da lui per non rifiutare, diventando duro, l’impronta delle sue dita. Conservando questa conformazione, salirai alla perfezione, perché dall’arte di Dio sarà nascosta l’argilla che è in te. La sua Mano, che ha creato la tua sostanza, ti rivestirà d’oro puro e d’argento di dentro e di fuori e ti adornerà così bene che il Re stesso si lascerà prendere dalla tua bellezza. Se invece, indurendoti, rifiuti la sua arte e ti mostri ingrato verso di lui perché ti ha fatto uomo, divenendo ingrato verso Dio, perdi insieme la sua arte e la vita: perché fare è proprio della bontà di Dio, essere fatto è proprio della natura dell’uomo. Dunque se gli affiderai ciò che è tuo, cioè la fede in lui e la sottomissione, riceverai la sua arte e sarai l’opera perfetta di Dio».



Sezione miscellanea Synaxis 26 (2008) 103-136

SPERAR DI ESSERE NELLA VERITÀ*

GIUSEPPE SCHILLACI**

PREMESSA Sembra piuttosto paradossale porre la questione della verità in un’epoca in cui di verità, prima o ultima che sia, di verità definitiva e assoluta, non si ritiene opportuno parlare. Nel contesto del pensiero post-moderno in cui non ci sono più certezze assolute, in cui tutto è liquido1, mettere l’accento su ciò che è incontrovertibile, solido, oltre ad essere un tema “forte” da un punto di vista speculativo, assume i connotati di una sfida provocatoria2. Di quale o di quali verità si vuole parlare? A quale verità attingere o fare riferimento? *

Prolusione tenuta il 26 ottobre 2007 all’inaugurazione dell’Anno accademico 20072008 dello Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Docente ordinario di Etica e Ontologia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Si veda l’ampia e lucida riflessione, a tal proposito, di Z. BAUMAN. Segnaliamo qui soltanto alcuni dei suoi saggi più recenti come Modernità liquida, trad. it., Roma-Bari 2002, Vita liquida, trad. it., Roma-Bari 2006 e ancora Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, trad. it., Roma-Bari 2007. 2 Cfr. P. GILBERT, Comunicare la verità e informare, in La civiltà cattolica, 1994, IV, 41-42: «In termini generali, l’affermazione di una verità ultima, definitiva, ci sembra difficilmente credibile per la mentalità oggi più diffusa. Non è tanto l’ampiezza delle informazioni che ce ne impedisce l’approccio, ma la diversità delle nostre culture, scientifiche e non, che non sappiamo più come unificare. La tentazione scettica è di nuovo in agguato. I nostri dialoghi, stanchi di non concludere, si esauriscono. Rinascono i nazionalismi, i particolarismi di ogni genere. Dopo decenni di dialoghi internazionali, interculturali, interreligiosi, il nostro tempo ha forse virato di bordo? Dobbiamo riprendere coraggio e rendere di nuovo testimonianza alla verità che ci trascende».


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Giuseppe Schillaci

Il tema della verità costituisce certamente l’ambito più caratteristico ed emblematico dell’interrogazione filosofica sin dal suo sorgere, ma è pure la pretesa che si insinua in ogni modello credente. L’assenso (veritativo) della fede non può fare a meno di ricorrere a tale questione suggestiva e vitale. Per un verso c’è chi affronta tale argomento all’interno di una visione che scorge l’uomo come incapace di conoscere la verità: una visione che ha come radice una fondamentale sfiducia dell’uomo nei confronti della ragione, soprattutto nei confronti di un certo tipo di ragione la quale non si trova nelle condizioni di poter raggiungere qualsiasi verità. Per un altro verso c’è invece chi punta decisamente sulla certezza della verità come fondamento della realtà, non solo per non smarrire la direzione di marcia dinanzi alla crisi epocale del pensiero occidentale, ma anche per affermare una identità monolitica e incrollabile che tuttavia è messa continuamente in discussione da altre identità e da un mondo sempre più plurale, nonostante i tentativi di una globalizzazione forzata. Nell’articolazione di questa problematica sulla verità, vorrei in un primo momento, mettere in risalto la determinazione che porta avanti il discorso teoretico speculativo. Senza entrare in tutte le varie modalità richieste dal rigore argomentativo e che ciascun campo del sapere esige ed utilizza, è mia intenzione mostrare i tratti essenziali di una verità afferrata attraverso l’opera di un pensiero che si rinchiude nell’unilateralità del sapere. Quindi, in un secondo momento, tentare di inscrivere la ricchezza e la capacità che ogni discorso ha in sé in un percorso di ricerca, che non mira al dominio o alla equiparazione, ma al riconoscimento di uno scarto dal quale scaturisce il pensare stesso. Per lasciare infine, in un terzo momento, che la verità nella sua grandezza ci raggiunga quale sovrabbondante e indicibile precedenza che si dona. La speranza, in questo breve itinerario, ci conduce ad una realtà che può essere solo donata, dal momento che l’uomo non può raggiungerla con le sue sole forze. Questa riflessione sulla verità, che non ha certo la pretesa di offrire un discorso esaustivo su un tema così significativo per la molteplicità dei saperi, cerca di situarsi dentro lo spazio e il tempo di quella relazione intersoggettiva che scaturisce, matura e si approfondisce nel dialogo: nel rapporto interlocutivo all’interno del quale un soggetto parla e l’altro risponde. È questo lo spazio e il tempo dialogico della verità! Di una verità non arrogante ma umile. Ciò accade, a mio parere, dentro un percorso di scoperta dell’alterità


Sperar di essere nella verità

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che conduce al riconoscimento di una precedenza, per cui noi siamo arrivati tardi. Tutto ciò solo per tentare di dire lo scarto e la finitezza della condizione dell’uomo che scopre l’oltre dal quale lasciarsi interpellare in quanto da esso abitato. La verità come alterità dunque! Una verità che si mostra e si consegna nel dia-logo. Tale verità, che si fa nel dia-logo, sfugge soprattutto a quella certezza presuntuosa, monolitica e rigida, sfociante spesso nella sopraffazione e nella violenza. Una verità sempre più grande, invece, è tale perché sempre più piccola, arrendevole e discreta. È una verità che libera e non umilia mai. È questo contesto di riconoscimento dell’alterità la condizione perché l’uomo si ponga in atteggiamento di rispettoso silenzio che è invito ad una ricerca umile, ad un servizio dis-inter-essato, ad una comunione accogliente e speranzosa della Verità e di ogni verità.

1. LA VERITÀ AFFERRATA Che cos’è la verità? Non è solo la domanda che Pilato rivolge a Gesù nel momento drammatico di un ingiusto processo. È, in particolare, la domanda che la riflessione metafisica, nelle varie fasi della storia del pensiero filosofico, è riuscita a porre sotto diverse angolature e prospettive. Anche in seno al pensiero post-metafisico l’interrogativo sulla verità non ha finito di porre istanze e problemi. La domanda sulla verità è la domanda che ritorna sempre nuovamente e con questa la riflessione metafisica: «La fine della metafisica — sottolinea J.L. Marion — non implica nessuna proibizione della filosofia, ma ne libera la serietà e i compiti: si tratta di un compimento della ragione sotto la figura ricapitolatrice dell’essenza trionfante della tecnica, dell’affrancamento della questione dell’essere in quanto tale come l’impensato radicale che fedele ad ogni metafisica lo si attende come ‘nuovo inizio’, e infine della legittimità della storia della filosofia come pensato di questo impensato»3. Il progetto di voler oltrepassare la metafisica è destinato inevitabilmente allo scacco e al fallimento: perché, come aveva messo bene in evidenza M. Blondel poggiandosi su un’argomentazione classica, se si volesse escludere la metafisica questo lo si potrebbe fare solo 3 J.L. MARION, La fin de la fin de la métaphysique, in Laval thèologique philosophique 42 (1986) 31.


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attraverso una critica metafisica4. La fine della metafisica, vista anche nel suo sviluppo storico, segna quindi il suo nuovo inizio. La metafisica, di cui si pensava aver decretato la fine, risorge nuovamente, nel momento stesso in cui si riprende a pensare e a pensare diversamente, a pensare altrimenti e l’altrimenti. Ora, il tema della verità dimora nel cuore stesso della metafisica e accompagna ogni discorso metafisico. Il momento fondativo del pensiero, agli albori della riflessione filosofica, mette in particolare evidenza il contrasto tra verità (alétheia) e opinione (dóxa). È Parmenide il filosofo che ne mostra l’incidenza e l’importanza indicandone l’alternativa: «io dirò, tu intanto ascolta e accogli la mia rivelazione, cioè quali sole vie di ricerca siano logicamente pensabili: e, precisamente, in quale modo una esista e che non è possibile che esista — è il cammino della Persuasione (infatti accompagna la Verità) — e che l’altra non esiste e che è logico non esista: io ti chiarisco come questo sia un sentiero che non si può scrutare; infatti non potresti conoscere il nonessere — che ciò non è fattibile — né esprimerlo»5. Il primato del sapere, nella storia del pensiero filosofico, affermato e codificato soltanto nell’orizzonte epistemico del conoscere, mostra quella prospettiva che vede l’essere come correlativo del pensiero stesso: «La stessa cosa è pensare ed essere» afferma lapidariamente l’Eleate. Questa sua affermazione, destinata ad essere ripresa e reiterata più volte nella storia del pensiero filosofico (vedi Spinoza, Hegel, Severino…), si consolida attraverso il primato dell’identità sulla differenza. Un tale primato porta ad occultare uno dei motivi fondamentali del pensiero metafisico, — che si sviluppa da Platone ad Aristotele, da Leibniz a Levinas —, secondo il quale, invece, è possibile pensare l’identità e la differenza, il medesimo e l’altro. 4 Cfr. M. BLONDEL, L’action (1893), Paris 1993, 389-390: «On ne peut exclure la métaphysique que par une critique métaphysique: prétendrait-on donc se prononcer contre ce qui, par hypothèse, est étranger à l’ordre philosophique, sans que ce jugement sommaire excédat en rien la compétence philosophique? Deux propositions dépassent le droit strict de la science purement humaine: ‘Ce n’est pas.’ — ‘C’est’? Or, montrer qu’il est impossible à la philosophie de repousser ou de constituer par ses seules forces une vérité, une action, une vie supérieure à la nature, c’est encore œuvre de philosophie. Et pourtant cette critique en apparence toute négative qui demeure sur le terrain même de ceux qui prétendent ignorer ce qu’ils nient en effet, a nécessairement un résultat très positif». 5 PARMENIDE, Testimonianze e Frammenti, a cura di M. Untersteiner, Firenze 1967, 129-131.


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La riflessione filosofico-culturale che privilegia il pensiero di Parmenide mira a ridurre, sempre nuovamente, ogni discorso all’identità, come sogno e desiderio di una ragione totalitaria e forte, per questo chiusa e autosufficiente, che non lascia spazio ad altro se non a se stessa. È la ragione emancipata la quale, rispondendo ad un’esigenza legittima del pensare, si libera da ogni tutela per ricondurre tutto ad unum, riportare ad unità il filo del discorso e trovare così il punto di riferimento e la chiave di volta di tutte le cose: è il pensiero unico a cui aspira non solo ciascun pensatore o filosofo che sia, ma anche ogni uomo. Ma l’unità è identità? In questo nostro tempo sempre più fluido e plurale, mi pare necessario situarsi all’interno di un percorso di ri-conoscimento dell’alterità, non nella assolutizzazione di una posizione che privilegia l’identità, ma ritrovare l’identità attraverso l’alterità; né a maggior ragione collocarsi dentro una logica che insista su un processo di tipo dialettico e risolutivo per controllare e dominare il dire e il suo oltre. Il ri-conoscimento dell’alterità è quell’eccedenza del pensare che lascia emergere una prospettiva ulteriore, più che dialogica, nel rimando dell’uno e dell’altro: non quindi l’uno nell’altro o l’uno contro l’altro ma l’uno con l’altro, meglio l’uno per l’altro! La verità come alterità assume nella riflessione metafisica quella prospettiva etica dell’essere-per altri che si lascia interpellare da una responsabilità senza fine. Tenendo presente un quadro di riferimento tradizionale per la storia del pensiero filosofico, che vede gli antichi greci distinguere tra discorso incontrovertibile (epistéme) il quale si impone di per sé e discorso che, non essendo in grado di imporsi, può essere negato (dóxa), Martin Heidegger ci ricorda che se si vuole comprendere cos’è la verità reale occorre sapere che cosa significa verità. All’interno dunque della contrapposizione: filosofiasenso comune, scienza-opinione, verità-falsità, il filosofo tedesco si domanda: «Che cosa si intende abitualmente con la parola verità? Questa parola sublime, e al tempo stesso logora quasi insignificante, indica ciò che rende vero il vero. Ma che cos’è il vero? Noi diciamo ad esempio: ‘è una vera gioia collaborare al buon esito di questa impresa’, e con ciò intendiamo dire che si tratta di una gioia pura e reale. Il vero è il reale»6. Il vero è reale perché autentico, perché si oppone al falso. L’esempio che egli utilizza — proseguendo nel suo ragionamento — è la distinzione dell’oro vero da quello 6

M. HEIDEGGER, Sull’essenza della verità, trad. it., Brescia 1973, 7.


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falso. Però, in questo senso, l’oro vero e l’oro falso sono reali entrambi per cui la verità dell’oro autentico non può essere garantito dalla sua realtà. La verità si realizza nell’accordo tra l’oro vero che diciamo propriamente oro e quello reale. La verità sta nell’accordo: «Il vero, si tratti di una cosa vera o di una proposizione vera, è ciò che si accorda, ciò che realizza l’accordo. Esser-vero e verità qui significano concordare, e questo in una doppia maniera: da un lato, la concordanza di una cosa con ciò che di essa si presuma sia, dall’altro l’accordo tra ciò che è stato pensato nel giudizio e la cosa»7. La verità non solo si accorda ma realizza anche l’accordo. Questo testo di Heidegger ci rimanda alla definizione classica, tradizionale, di verità di s. Tommaso nel suo De Veritate: «La verità è l’adeguazione della cosa e dell’intelletto; ma questa adeguazione non può essere che nell’intelletto: dunque la verità non è che nell’intelletto»8. La verità come anche la falsità, secondo quanto Aristotele aveva già sottolineato nella sua Metafisica, non la troviamo nelle cose ma nella mente, nel pensiero. Ora, la concezione della verità come adaequatio si nuove in quella visione propria della teologia della creazione per cui le cose sono quelle che sono perché create da Dio: «La veritas come adaequatio rei et intellectus non si riferisce a quello che in seguito sarà il possibile pensiero trascendentale di Kant, fondato sulla soggettività dell’essenza umana, e per il quale ‘gli oggetti si conformano alla nostra conoscenza’, ma si riferisce alla fede teologica cristiana, per la quale le cose, in ciò che sono e se sono, sono solo in quanto, essendo create (ens creatum), corrispondono all’idea precedentemente pensata nell’intelletto divino, vale a dire, nello spirito di Dio, per cui, essendo conformi alle idee-norma, in questo senso sono vere»9. La concezione moderna, mettendo sempre più in risalto la prerogativa del soggetto e le sue condizioni per ricever l’oggetto, affonda le proprie radici nella verità come corrispondenza, poiché pone l’attenzione non più 7

Ibid., 8. S. TOMMASO, De Veritate, I, 2: «Veritas est adaequatio rei et intellectus; sed haec adaequatio non potest esse nisi in intellectu; ergo nec veritas est nisi in intellectu». 9 M. HEIDEGGER, Sull’essenza della verità, cit., 9. Heidegger conclude dicendo che «La veritas, come adaequatio rei (creandae) ad intellectum (divinum) garantisce la veritas come adaequatio intellectus (umani) ad rem (creatam). La veritas esprime in ogni caso ed essenzialmente la convenientia, la concordanza dell’ente con l’ente dell’ente creato con l’ente creatore, esprime cioè un’armonia determinata dall’ordine della creazione»: ibid., 910. I corsivi non sono nel testo. 8


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sull’originario manifestarsi di ciò che è, ma mette in evidenza il corretto rapportarsi dell’uomo al ciò che è, «sicché la verità viene a coincidere con l’esattezza del vedere e del giudicare umano»10, visione che nella riflessione aristotelica e tomista si esplicita in un soggetto e oggetto che «tendono naturaliter a quella verità che accade proprio quando non v’è reciproca sopraffazione, ma consonanza»11. Questa concezione della verità come conformità o accordo costituisce quindi il presupposto della svolta antropologica dell’umanesimo, ma anche lo sviluppo e l’affermazione non trascurabile della centralità del soggetto nella filosofia moderna. Il ruolo del soggetto, che conosce e determina il significato della verità, diventa sempre più il riferimento fondamentale che accomuna le figure della verità come adaequatio, come certezza, ma anche come volontà di potenza: «Ciò che accomuna le figure di verità come adaequatio, come certezza, e come orizzonte della volontà di potenza è la riduzione della verità come attributo del soggetto, rappresentato, a seconda delle epoche, dalla diànoia aristotelica, dall’intellectus tomista, dal cogito cartesiano e dalla nietzschiana volontà di potenza»12. Nel pensiero occidentale la verità si è affermata di conseguenza come certezza ed esattezza del pensare a motivo dell’importanza e della centralità del soggetto umano e del suo volere. La verità come conformità diventa sempre più proprietà e prerogativa dell’uomo. È l’uomo in tale contesto il protagonista della definizione e della elaborazione della verità. La riflessione metafisica di Aristotele aveva offerto e definito le leggi che hanno consentito l’affermarsi di una tale concezione della verità e in particolare l’individuazione di quel principio, il più sicuro di tutti, intorno al quale è impossibile cadere in errore, vale a dire il principio di non contraddizione o di identità, secondo il quale: «È impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto»13. Qualsiasi obiettore non può negare la validità di questo 10 11

U. GALIMBERTI, Introduzione, in M. HEIDEGGER Sull’essenza della verità, cit., XVIII. A. MILANO, Quale verità. Per una critica della ragione teologica, Bologna 1999,

130. 12

U. GALIMBERTI, Introduzione, cit., XLIII. ARISTOTELE, La metafisica, a cura di G. Reale, Milano 1978, IV,3. Prima di enunciare questo fondamentale principio della conoscenza metafisica Aristotele precisa che: «è compito del filosofo e di colui che specula intorno alla sostanza tutta e alla natura di essa, 13


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principio. Chiunque voglia negarlo in effetti nel momento stesso in cui lo nega lo pone. La negazione è dunque la sua stessa affermazione. Tommaso d’Aquino lo ripropone contro coloro che negano, con il principio di non contraddizione, anche la verità con un ragionamento ripreso da quello aristotelico: «Ci sono molte proposizioni che a negarle si è costretti ad affermarle […] chi nega che esiste la verità, afferma una verità; poiché afferma che è vera la negazione che egli proferisce. Lo stesso si dice di colui che nega il principio: ‘Cose contraddittorie non possono essere simultaneamente vere’: poiché negandolo afferma che è vera la sua negazione e falso il contrario; e quindi che non possono essere egualmente vere l’una e l’altra»14. Dentro questo quadro di riferimento assoluto, credo, si possa situare la riflessione che, ormai da mezzo secolo, sin dal suo insegnamento all’Università Cattolica del S. Cuore di Milano, porta avanti E. Severino15: è il suo pensiero unico. Non solo tornare a Parmenide ma vivere di Parmenide. Egli afferma infatti: «Il nostro esistere, il nostro vivere, il nostro decidere, il nostro agire risultano dunque di fatto in strettissima relazione far indagine anche intorno ai principi dei sillogismi. Colui che, in qualsiasi genere di cose, possiede la conoscenza più elevata, deve essere in grado di dire quali sono i principi più sicuri dell’oggetto di cui si fa indagine; di conseguenza, anche colui che possiede conoscenza degli esseri in quanto esseri, deve poter dire quali sono i principi più sicuri di tutti gli esseri. Costui è il filosofo. E il principio più sicuro di tutti è quello intorno al quale è impossibile cadere in errore: questo principio deve essere il principio più noto (infatti, tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un principio non ipotetico, giacché quel principio che di necessità deve possedere colui che voglia conoscere qualsivoglia cosa deve già essere posseduto prima che si apprenda qualsiasi cosa. È evidente, dunque, che questo principio è il più sicuro di tutti». 14 S. TOMMASO, Summa contra Gentiles, II, 33, 7. P. Gilbert, ripercorrendo il pensiero di E. Severino, mostra il valore del principio di non contraddizione mediante il celebre argomento della confutazione o “ritorsione” che si avvale degli argomenti o delle accuse dell’avversario per colpirlo: «Alcune negazioni hanno efficacia a condizione di appoggiarsi su ciò che negano, cioè a condizione di porre effettivamente ciò che tolgono verbalmente. Chi dice che non c’è verità suppone che ci sia verità affinché la sua negazione della verità sia efficace, riconosciuta in quanto verità. Chi pone una proposizione in cui dice di togliere la verità (‘non c’è verità’), la pone effettivamente (‘c’è verità’) affinché la sua negazione sia una norma effettiva per ogni pensiero»: P. GILBERT, Emanuele Severino e il linguaggio cristiano, in La Scuola Cattolica 2 (1996) 670. 15 Severino fu allontanato dall’insegnamento nel 1970 per motivi essenzialmente speculativi e non disciplinari. Su questi motivi si veda il suo saggio: E. SEVERINO, Risposta alla chiesa, in Giornale Critico della Filosofia Italiana 50 (1971) 379-451.


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con ciò che pensiamo dell’essere-cosa delle cose. Se decidiamo di aprire la finestra è perché siamo in grado di pensarla come finestra e di distinguerla da un tavolo e da una sedia. In questo senso dunque a guidare gli uomini e la civiltà sono soprattutto i significati, e in particolare, quelli che potremo chiamare i significati dominanti»16. Afferrare questi significati dominanti comporta essenzialmente che: «Il pensare dell’uomo di ogni tempo è di qualsiasi epoca non può prescindere da quell’orizzonte specifico che è costituito dal significato concretamente attribuito alle parole ‘essere’, ‘verità’ e ‘libertà’. Occorre dunque diffidare di coloro che ritengono che vivere coi piedi per terra significhi prescindere da questi significati, che rappresentano invece il punto di riferimento irrinunciabile di ogni pensare»17. Il pensare dell’uomo dimora pertanto all’interno di questo fondamentale principio di identità: non c’è distanza alcuna tra il pensiero e l’essere. È decisamente il trionfo dell’identità! In questa identità la verità viene assolutamente afferrata non come una realtà esterna, distante, ma come il punto di partenza. La verità è la realtà di cui l’uomo fa parte. La verità non è da considerarsi come oggetto di ricerca dell’uomo, ma la sua stessa essenza. Occorre pertanto abolire qualsiasi distanza tra l’uomo e la verità: «Se il nostro pensare la verità fa coincidere quest’ultima con ciò che è ricercato, ciò che è desiderato — e non c’è dubbio che questo sia il modo dell’Occidente di pensare la verità —, noi finiamo col trovarci in una situazione nella quale l’uomo, effimero e finito, risulta molto distante dalla verità, i cui tratti di immutabilità e eternità non fanno che evidenziare questa distanza nei termini di una separatezza quasi radicale»18. L’uomo e la verità, secondo questa preoccupazione speculativa, non sono più pensati a distanza e nella distanza, come invece alludeva il mito della caverna di Platone, mito che influenzerà — secondo Severino — il modo di rapportarsi alla verità del pensiero filosofico dell’Occidente19. Il 16 E. SEVERINO, Il nulla come destino, in P. CODA – E. SEVERINO, La verità e il nulla. Il rischio della libertà, Cinisello Balsamo 2000, 23. 17 Ibid., 23. 18 L.c. 19 Cfr. ibid, 24: «Non c’è del resto altra possibilità per un pensiero che, come quello greco, pensa il tema della verità sulla falsariga del mito della caverna: l’uomo, pensato come originariamente chiuso all’interno di questa caverna, solo attraverso un travagliato tragitto può uscire da essa e vedere la luce della verità. Questo atteggiamento nei confronti della


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rapporto dell’uomo con la verità posto in questi termini, cioè di distanza e di separatezza rischia, a suo avviso, proprio di portarci ad affermare che per l’uomo è impossibile raggiungere la verità. Per cui è necessario pensare il rapporto dell’uomo con la verità, non come il raggiungimento di un fine, non come lo scopo di un cammino di ricerca o di un desiderio, il punto di arrivo di un percorso, ma come piena identificazione con essa20. Se vogliamo dunque che l’esito di questo cammino non incorra nel fallimento bisogna pensare il rapporto tra l’uomo è la verità in termini originari: «La verità va dunque pensata non come l’esito di un processo di ricerca, non come un possesso che si acquisisce, non come un punto di vista che si cerca di comunicare, non come una convinzione personale, ma invece come una presenza originaria che si evidenzia come conditio sine qua non della stessa ricerca della verità. Quest’ultima infatti, proprio in quanto presenza originaria, è la condizione di possibilità stessa di ogni viaggio e non invece il punto di arrivo di viaggi che, in quanto preparati e realizzati nella non-verità, non potranno in alcun modo avere la verità come proprio approdo»21. Non approdo ma origine: ecco come si afferma e si afferra la verità nel pensare di Severino. Si parte dunque dalla verità come realtà innegabile, che non può essere messa assolutamente in discussione: fondamento inconcussum. Il principio di identità o di non-contraddizione viene riproposto verità, inaugurato da Platone, diverrà modello stesso del rapportarsi dell’Occidente alla verità, modello che troverà la sua compiutezza nel nucleo stesso della riflessione hegeliana contenuta nella Fenomenologia dello Spirito: in quest’opera infatti l’uomo viene pensato come impegnato in un percorso teorico che, prendendo le mosse dalle forme primitive della non-verità, ha come suo irrinunciabile traguardo un approdo caratterizzato dal dispiegarsi della verità come sapere assoluto». 20 Cfr. ibid., 24-25: Severino prendendo a prestito dal vangelo l’immagine del bussare così si esprime: «Se la verità fosse davvero il punto di arrivo di un percorso che ha per protagonisti gli uomini, noi ci troveremmo a muoverci verso la casa della verità con passi che, in quanto precedenti l’apertura della porta da parte della verità stessa, non apparterrebbero ad essa, ma si compirebbero fuori di essa. Se così fosse, ci porremmo in ascolto della verità con un udito che non è in grado di sentire la verità stessa, ma che invece appare destinato, proprio in quanto è la verità la padrona della casa cui noi stiamo bussando, a essere uditore della verità, per limitarsi invece ad ascoltare qualcosa che precede la verità che non ha nulla da spartire con essa. Se così fosse, dunque, l’intero cammino dell’uomo verso la verità sarebbe estraneo alla verità stessa da costringerci a pensare ad esso come radicalmente appartenente alla non-verità». 21 Ibid., 25.


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come origine e principio di ogni pensare. La verità si coglie a partire dai principi del pensare non solo per il pensare ma per l’essere. Essere per pensare ma anche pensare per essere? È l’assoluta posizione e affermazione dell’eternità dell’essere, della sua perfezione e immutabilità. È questo il fondamento! La verità è da considerarsi come ciò che è innegabile, che quindi non può essere né contestata, né contraddetta. Il fondamento non è più da cercare ma da affermare risolutamente. È così che il Severino realizza la perfetta fusione dell’ordine logico con quello ontologico. L’affermazione della incontraddittorietà della verità è posta in tal modo come la condizione per la negazione di ogni divenire e di ogni finitezza. Il finito, infatti, mette in questione l’infinito, così come il divenire mette in questione l’eterno. Ora, poiché l’eterno e l’infinito non possono essere assolutamente messi in questione, il finito e il divenire sono contraddittori. La verità è perciò eterna, vale a dire ancora fondamento inconcussum. Secondo il pensiero di Severino se esiste l’eterno non può esistere il divenire22, non può esistere la temporalità, la fugacità…, la storia con le sue contraddizioni. Non solo, ma, in questo orizzonte di senso, è in gioco anche una concezione della ragione, del logos. La verità è questo logos; la verità è incontrovertibilmente identica alla ragione e non lascia spazio all’alterità. Siamo dinanzi ad una ragione monolitica, assolutamente identica con se stessa, che si chiude in sé: quasi per paura di perdere forza e consistenza, se si lasciasse solo mettere in questione e accettasse di dilatare i propri orizzonti. La ragione, che non ammette discussione, dia-logo, è per ciò stesso non solo una ragione chiusa in se stessa nella propria autosufficienza, assolutamente auto-referenziantesi, ma anche, con e nella sua presunta forza, totalitaria e intollerante. Emanuele Severino insiste risolutamente su questo concetto di verità forte; una verità necessaria che in quanto tale si può solo conoscere e non sperimentare! Ci troviamo, mi pare, secondo questa presa di posizione del pensare, dinanzi al sogno antico dell’uomo, della ragione, di eguagliarsi all’eternità: eritis sicut Deus (Gn 3,5). La tentazione delle origini è quella di volere superare la distanza e la differenza: «La speranza della ragione è di superare le sue presenti circostanze, elevarsi ad un sapere che, sovrastando gli avveni22 Cfr. E. SEVERINO, Verità e necessità, cit., 64: «Se dunque si crede all’eterno si crede che il niente sia trasformato in essere e si cancella in questo modo quello stesso divenire che rappresenta il respiro originario dell’Occidente».


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menti immediati, consenta di comprenderli maggiormente. Ma, da qui, nasce anche il suo sogno di eguagliarsi a qualche eternità. Ora ciò facendo, la ragione contraddice le condizioni discorsive della sua pratica e si condanna a denigrare le sue proprie opere. Divenuta potenza di autodistruzione, essa si angoscia di se stessa, dispera del proprio divenire, si dedica al nulla e scredita tutto, se stessa, le proprie condizioni, ciò che essa non è. Da qui la sua violenza e la sua dimissione. Ha rivolto contro di sé la propria vocazione all’universale. Chiamata all’universale si accontenta adesso di generalità e nega la singolarità. Essa rifiuta di nascere da una interiorità e pretende di porsi alla sua propria origine»23. In questo modo si configura la ribellione dell’uomo alla sua esistenza finita e contingente così come gli è stata data da un Altro. La tentazione delle origini è, appunto per questo, anche la tentazione della violenza che si nasconde all’interno di qualsiasi discorso che voglia presentarsi come esaustivo (anche il mio!), ove esso proceda per assoluta certezza e onnipotenza. La ragione, non discorsiva ma assoluta, non tollera di essere messa in discussione. La ragione totalitaria e violenta prende le mosse dal principio che A è A, da questa tautologia, dall’identificazione per eccellenza: «La tautologia dà l’avvio, in qualche modo, a questa emergenza dal nulla e a questo impulso. Prima di ogni linguaggio, l’identificazione della soggettività è il fatto, per l’essere, di tenere al suo essere. L’identificazione di A come A è l’ansia di A per A. La soggettività del soggetto è una identificazione dello Stesso nella sua cura per lo Stesso. È egoismo. La soggettività è un Io»24. Il presupposto è quello di una ragione che padroneggia il discorso che crea. Una razionalità onnivora, che procede per riduzione, giunge fino a giustificare la totalità e la violenza. La totalità infatti chiude ogni altro discorso e lo mortifica. Il nuovo pensiero di Rosenzweig, l’Infinito di Levinas, mirano, invece, a non lasciarsi condurre dentro il potere deduttivo di un pensiero inteso sempre più come sapere, non si lasciano quindi attirare da una razionalità imperante e omologante che privilegia l’identità a scapito dell’alterità e della differenza, ma si pongono in ascolto di una voce che giunge da un’altra riva, da una ulteriorità non equiparabile, che apre al 23 24

P. GILBERT, Sapere e sperare. Percorso di metafisica, Milano 2003, 188-189. E. LEVINAS, Nomi propri, trad. it., Casale Monferrato 1984, 82-83.


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dialogo e all’accoglienza. La loro riflessione non nasconde l’inquietudine di un pensiero che ha altrove la propria origine: non in sé ma in Altro. Si tratta di un pensiero umano che ha nell’inquietudine, nello scarto, il tratto specifico.

2. LA VERITÀ CERCATA Ad una verità che si impone e che trionfa su ogni ostacolo, su ogni differenza e su ogni messa in questione che sia, si propone, (si consegna, e si abbandona), una verità che raccontandosi accetta il confronto, una verità che si lascia mettere in questione dall’altro: è la verità che accetta lo scambio, partecipa, dia-loga, soffre, fino ad essere crocifissa25. È questa la verità che non mira al dominio o al possesso ma, esibendosi, si offre disarmata alla libertà dell’uomo. Ad una verità rassicurante e vittoriosa si indica l’alternativa di una verità inquieta, sconfitta: paradossale. Ad una verità forte, risoluta e a tratti arrogante si propone una verità, se si vuole, debole, umile, che però accoglie e non rifiuta, che apre e non chiude mai (non solo il discorso!). È la verità che non cerca il dominio, ma il servizio e lascia essere, non cerca di essere in uno sforzo volontaristico e potente di affermazione di sé: non cerca quindi il proprio interesse; è una verità che si prende cura mettendo nelle condizioni di far essere nella verità, che proprio per questo non si impone come verità, ma pazienta; è una verità che lascia il posto e che di conseguenza non ha dove posare il capo; è una verità che si fa da parte per lasciar, quindi, essere. In questo orizzonte di senso, a mio parere, si può tentare di riconsiderare l’identità. La riflessione filosofica di Heidegger, impegnata a ripensare la questione del fondamento, riconosce non nella necessità ma nella libertà l’essenza della verità: «L’essenza della verità è la libertà», egli afferma in 25 Si veda, su questa modalità ‘altra’ di accostare la questione della verità, il bel saggio di teologia di G. RUGGIERI, La verità crocifissa. Il pensiero cristiano di fronte all’alterità, Roma 2007. L’autore mostra come solo una ricollocazione della verità cristiana nell’orizzonte suo proprio, cioè cristologico, permetta di pensare la questione dell’alterità: «Il recupero proprio della verità cristiana come comunione con l’altro implica altresì il recupero del suo dinamismo interno, come sorgente di accoglienza, come capacità di sop-portazione della diversità»: ibid., 41.


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tal modo la presenza disponibile dell’essere che si dà manifestandosi. La verità è intesa, dal pensatore della Foresta nera, come manifestazione, che secondo il significato del termine greco alétheia, si identifica essenzialmente con una realtà non nascosta: «Se noi traduciamo alétheia, invece che con ‘verità’, con ‘non-nascondimento’, allora questa traduzione non è solamente ‘più letterale’, ma contiene anche l’indicazione di pensare e ripensare il concetto abituale di verità, nel senso della conformità del giudizio, in quella luce, non ancora compresa, dell’esser-svelato e dello svelamento dell’ente. L’affidarsi all’esser-svelato dell’ente non è un perdersi in esso, ma è dispiegare uno sfondo, tirandosi indietro, davanti all’ente, in modo che questo si manifesti in ciò che esso è, e come è, sicché l’adeguazione rappresentativa possa prendere da esso la misura della conformità»26. È la realtà di quanto esiste che si esibisce, si manifesta, perché si dà. La riflessione non è incentrata più, seguendo le indicazioni e le preoccupazioni della filosofia moderna, su un soggetto che investe tutto se stesso pur di appropriarsi di una realtà estranea; non è più l’espandersi di un soggetto che, forte delle sue categorie o dei suoi presupposti, non ha altra mira che cercare di capire, di con-prendere e quindi afferrare per eliminare ogni scarto, distanza, alterità che sia. Il primato del sapere, che ha come essenziale aspirazione il possesso, cede il passo al primato della realtà; si abbandona così il sapere come potere per lasciarsi interpellare dall’altrimenti che sapere. Ora, questo dinamismo del non nascondimento della verità conduce il pensiero a cedere ad un’altra precedenza e ad affidarsi a ciò che è manifesto e alla sua manifestazione: «Lasciar-essere — dice Heidegger — significa: affidarsi all’ente. Questo affidarsi non è da intendere, ancora una volta, come un mero avere-a-che-fare o un mero aver-cura, nel senso di custodire o inserire in un piano l’ente che di volta in volta si incontra e si cerca. Lasciar-essere — nel senso di lasciar-esser l’ente come quell’ente che è — 26

M. HEDEGGER, Sull’essenza della verità, 23. Il filosofo francese M. Henry riprende questa riflessione precisando che, il concetto di verità si sdoppia designando contemporaneamente ciò che si mostra e il fatto di mostrarsi. Per il filosofo francese l’essenza della verità sta nel fatto di mostrarsi: «Il fatto di mostrarsi, considerato in se stesso e in quanto tale, è l’essenza della verità. Perché essa consiste nel puro fatto di mostrarsi o, anche di apparire, manifestarsi, rivelarsi, possiamo pure chiamare verità ‘mostrazione’, ‘apparizione’, ‘manifestazione’, ‘rivelazione’. Del resto con i tre termini equivalenti di apparizione, manifestazione, rivelazione, è indicata la verità nel Nuovo Testamento, altrettanto bene e spesso che con il nome proprio di Verità»: M. HENRY, Io sono la verità, trad. it., Brescia 1997, 32.


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significa affidarsi a ciò che è manifesto e alla sua manifestazione, in cui ogni ente entra e dimora, e che ogni ente che si manifesta porta ad un tempo con sé»27. Il filosofo tedesco, in questo senso, sembra lasciar trasparire un soggetto che, al contrario del pensiero moderno, più che farsi avanti fa un passo indietro: lasciando essere ciò che è, lascia che si manifesti ciò che lo precede, quanto viene prima, al quale occorre affidarsi. In tal modo lasciar venire alla luce, lasciar che la verità si manifesti. Questo manifestarsi della verità invita il soggetto a indietreggiare rispettando, lasciando essere. A questo punto il soggetto, più che ricondurre tutto a sé, è invitato ad uscire da sé: «La crisi della soggettività moderna rivela al contempo la sua impossibilità di ricomprendersi come finitezza, non dunque a partire da se stessa, ma come relazione all’alterità del mondo che la fa essere. Infatti il soggetto che si comprende a partire da sé si chiude nell’illusione moderna di potersi porre come principio del proprio essere. La finitezza come relazione che ha in altro la propria origine è viceversa l’essere dell’esistenza»28. Il riconoscimento di essere stati generati da un altro, oltre a far risaltare la messa in questione del primato della soggettività, mette in particolare evidenza la finitezza e cosa significa abitare nella finitezza del finito. Il discorso metafisico riprende nuovamente da questo status: sostare e dimorare presso il finito, il che vuol dire assumere sempre più la logica della nononnipotenza; è abitare in una relazione che, spoglia di ogni logica di potere e di dominio, lascia essere. La finitezza è il luogo della verità che, proprio per questo, si espone continuamente al rischio del rifiuto e della negazione: «L’irrequietezza che spinge l’uomo ad allontanarsi dal mistero per volgersi alla realtà corrente, e che lo fa procedere da uno all’altro degli oggetti della realtà quotidiana, sottraendogli mistero, è l’errare. L’uomo erra. Con questo non si intende dire che l’uomo cade nell’errare, perché ek-sistendo in-siste, e quindi nell’errare già si trova. L’errare, in cui l’uomo si muove, non è qualcosa che trovandosi nella prossimità dell’uomo, attira l’uomo a tal punto da farlo cadere nella fossa, al contrario, l’errare appartiene all’intima costituzione dell’esser-ci a cui l’uomo storico è affidato»29. Questo erramento della verità 27

M. HEIDEGGER, Sull’essenza della verità, 22. M. RUGGENINI, Dire la verità. Noi siamo qui forse per dire…, Genova- Milano 2006, 42. 29 M. HEIDEGGER, Sull’essenza della verità, 38. 28


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è visto da M. Heidegger come l’antiessenza della verità stessa. È l’oblio del mistero dell’Essere che nel corso della vicenda storica del pensare entra nelle trame dell’erramento degli enti; l’Essere in tal modo si nasconde tra gli enti: «All’essere appartiene un luminoso nascondersi, l’essere appare originariamente nella luce di un sottrarsi che nasconde. Il nome di questa luce è alétheia»30. Ci troviamo dinanzi ad una verità errante non in nostro possesso, che sfugge; non un dato stabilito e definito ma una realtà sempre più inafferrabile e oltre, non un problema da risolvere ma un mistero da accogliere e al quale affidarsi. La verità si nasconde nel finito e lo interpella incessantemente, invitandolo a rapportarsi con essa, nella misura in cui ne riconosce la propria origine, ma anche la distanza. Alla luce di questa tematizzazione della verità come manifestazione e nascondimento ci viene indicata la via dell’esistenza finita presso cui dimorare, che non è la rigida pretesa dell’autosufficienza ma il docile riconoscimento di un’origine, da cui scaturisce la bellezza (e la verità) di una realtà finalmente restituita alla sua dignità e al suo valore: «L’esistenza è finita perché ha da parlare, ma parlare significa essere in relazione col mondo, anzi parlare in risposta alle parole che interpellano l’esistenza a partire dal mondo. A sua volta la verità è alétheia perché non sussiste in sé, né è semplicemente data, ma perché si fa evento, senza perdere la sua trascendenza, nell’esistenza finita, in quanto le si annuncia nei discorsi degli altri e la chiama ad avere parte al colloquio del mondo. La verità come alétheia è pertanto la verità della finitezza, ma nel doppio senso, per cui si deve dire che l’esistenza fa essere la verità, ma in quanto l’accoglie, senza che pertanto si possa fare dell’esistenza finita il principio d’una verità di cui disporrebbe»31. Ridare dignità al finito si inserisce in un percorso che finalmente ci permetta di ritrovare altro e l’altro. La rivalutazione del finito è il presupposto perché si ponga nell’uomo la capacità di ricercare e di conseguenza accogliere la verità. La verità, non pensata come realtà statica, posseduta e quindi circoscritta, ma come realtà dinamica in-circoscrivibile che si esibisce, ed esce fuori da quella prospettiva utilitaristica e strumentale dentro la quale ogni cosa finisce per essere risolutamente racchiusa, sclerotizzata e mortificata. Tutto ciò accade nella 30 31

Ibid., 47. M. RUGGENINI, Dire la verità, cit., 42.


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misura in cui il sapere, come ricerca e domanda del perché, non si chiude in una sorta di abilità tecnica o dialettica e non si presenta come una sofisticata arte della dimostrazione che riduce e riconduce tutto all’identico. La ricerca della verità si dispiega e si consegna in quell’arte del discorso umano che è capace di incontrare autenticamente l’altro, che perciò non ha come obiettivo padroneggiare e condurre la trama del discorso stesso e chiudere in tal modo la relazione. Un discorso che si intesse di nuovi rapporti, lasciandosi raggiungere dalla verità, vive e si nutre continuamente di inquietudine e di messa in questione. In questo senso allora vorrei brevemente soffermarmi sulla figura di Socrate. Una figura da cogliere in tutta la sua ricchezza, anche e non solo, in contrapposizione ai Sofisti di ieri e di oggi. Socrate è il prototipo dell’uomo che si pone dinanzi e in relazione ad una verità scorta come sempre più grande. Egli è il filosofo o semplicemente l’uomo che ricerca; che come tale non ha la pretesa di sapere tutto. Socrate è visto, in questa prospettiva, come colui che smaschera i sofisti e il loro preteso sapere attraverso il suo magistrale non-sapere. La sua è una dotta ignoranza! L’uomo misura di tutte le cose di Protagora, invece, si muove all’interno di un altro orizzonte di pensiero. È l’uomo che manipola le parole per controllare il discorso. L’opinione secondo questa logica ha sempre la meglio e vanifica la ricerca della verità. Ogni cosa si incentra sulla abilità della dimostrazione per cui, in definitiva, il punto di riferimento permane sempre e comunque colui che misura e controlla. La stessa relazione interlocutiva viene pensata e risponde ad una mera abilità dialettica che ha come protagonista quell’uomo sempre più preoccupato di prevalere e trionfare sull’altro. Ciò che conta è la prova per la prova, l’argomento per l’argomento, che vengono concepiti e posti nella ricerca della verità soltanto in funzione di un vantaggio e di un tornaconto personale o di gruppo; il sofista di ieri e di oggi obbedisce in fondo alla norma ultima che è quella della utilità economica, egli entra dunque in rapporto con la verità e il sapere operando secondo la legge dell’interesse di tipo commerciale (do ut des), che si nutre di essenziale e onnivora logica competitiva. Socrate mette in crisi questa modalità strumentale nel rapporto con la verità e l’altro. Egli non si colloca sulla medesima linea, non gli oppone cioè un sapere di migliore qualità, in una sorta di concorrenza che risponde ancora alla logica competitivo-commerciale, ma il non-sapere: «Io so di non


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sapere» ribadisce a più riprese nel confronto con i sofisti. Il suo non sapere è il segno di uno scarto tra ciò che egli sa effettivamente e ciò che bisognerebbe sapere veramente. Lo scarto pone gli interlocutori in quel comportamento-atteggiamento dialogale che evidenzia il rapporto autentico con la verità. La ragione dialogica non si mostra come sola ragione che argomenta e prova, che mira ad annullare ogni distanza appropriandosi, ma che scopre al contrario sempre più la distanza: lo scarto! La verità che approfondisce questa distanza è una verità che si pone sempre più in avanti, sempre nuovamente da raggiungere: verità che si dà nascondendosi, sottraendosi. La verità è tuttavia — per Socrate — qualcosa di pubblico, di comunicabile, che bisogna ricercare continuamente e incessantemente nel dialogo. La domanda dell’incessante perché, che un autentico domandare filosofico pone, non interrompe il discorso ma lo rilancia sempre. In tale contesto nessuno dei partner del dialogo può vantarsi di possedere la verità. La verità precede tutti, non è ancora raggiunta e tuttavia è accessibile nel colloquio ri-conoscente, rispettoso, umile. Oltre a ciò, la verità, nella sua autentica e non opprimente manifestazione, si dà nell’orizzonte del disinteresse, vale a dire non è sottoposta a uno scopo o a un interesse; l’uomo non entra in rapporto con la verità per utilizzarla o dominarla: «Questa sottomissione della verità ad uno scopo — segnala Henrici — trova la sua espressione più vasta nell’ideologia. La si potrebbe definire come una ‘verità per…: una verità che ha un significato per un gruppo determinato, perché è utile agli scopi di questo gruppo. L’ideologia non è una non-verità […] ma l’assolutizzazione di una verità parziale, il privilegio dato al punto di vista di un gruppo su tutti gli altri»32. L’interesse nell’ideologia diventa infatti il criterio della verità. Conta ciò che è importante per me o per noi, non perché è vero ma perché risponde ad un interesse personale o di gruppo. Una verità soggetta ad un interesse è per ciò stesso una verità strumentale: «Il politico, l’economista, e anche il saggio sono pronti ad ammettere e ad esplorare sempre più, prima di tutto, ciò che corrisponde ai loro interessi. Quanto poi alle verità che si oppongono a costoro, non è raro che vengano relegate nello sfondo (arrière-plan). Di modo che, si ribalta il rapporto alla verità: invece di sapersi dipendenti dalla verità e camminare verso di essa, si rapporta la verità a se stessi, la si assog32

P. HENRICI, Sophistique et philo-sophie, in Communio 12 (1987) 4, 24-25.


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getta per così dire, si cerca di attirarla all’interno del proprio cerchio di interessi»33. Una verità sempre più assoggettata ad uno scopo, pensata in termini di interesse, in termini utilitaristici, è una verità che non può e non deve inquietare o mettere in discussione: asservita ed utilizzata tale verità non si dilata (non è sempre più grande) ma si restringe sempre più fino a soffocare. Questo significa sottomettere la verità all’interesse o agli interessi, in altre parole relativizzarla, e quindi equipararla dominandola. L’interesse — il mio, il tuo o il nostro —, pertanto, conta più della verità in sé: «La verità che è importante per noi — sottolinea ancora P. Henrici — vale in modo assoluto, non perché è vera, ma perché è importante per noi. La verità parziale, così assolutizzata, rimpiazza la verità totale — che è sempre davanti a noi, che non è mai afferrabile in modo esaustivo»34. Non equiparata e mai equiparabile la verità, invece, sfugge e perciò mette in questione, interpella, destabilizza. Non è raro trovarsi dinanzi a fare i conti con tanti soggetti, persone, che affermano in modo assoluto di avere, possedere, la verità totale, affermata tuttavia come verità propria, (è la mia, la nostra verità…), che è ancora un ulteriore modo di assoggettarla ad un proprio interesse. Ora, poiché ognuno ha un interesse ci sono molti interessi. Il mio interesse diventa di conseguenza il criterio per la verità stessa. È in questa ottica che il mio interesse fagocita la verità in se stessa. Inoltre, visto che ci sono più interessi ci sono evidentemente più verità, molteplici verità. È questa in fondo la relativizzazione della verità. Si collocherebbe qui il tanto discusso problema del relativismo35? A questo punto non è secondario precisare che, se è vero che si vedono apparire all’orizzonte sempre nuove verità con le quali fare i conti e quindi confrontarsi (è la condizione di finitezza dentro cui inevitabilmente ci moviamo e di cui abbiamo detto sopra), è anche vero che «questa moltiplicazione e questa relativizzazione della verità non conduce in niente al 33

Ibid., 24. Ibid., 25. 35 Cfr. J. RATZINGER, Omelia della messa “pro eligendo Romano Pontifice”, in L’Osservatore Romano, 19 aprile 2005, 6-7: «Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare ‘qua e là da qualsiasi vento di dottrina’, appare come l’unico atteggiamento dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie». 34


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relativismo, al contrario: le differenti verità non entrano in conflitto se non perché ciascuna pretende essere in sé stessa la verità unica, totale e assoluta»36. Le diverse verità entrano in conflitto tra di loro nel momento in cui ciascuna verità si impone svilendo e/o disprezzando le altre, in tal modo esige di essere per se stessa e per le altre la sola verità, l’unica, alla quale fare riferimento. È il potere della verità totalitaria che non lascia spazio ad altro, di conseguenza non c’è spazio per il dialogo, per l’ulteriorità, non c’è speranza! Qui si insinua la più insidiosa sofistica di oggi che è — secondo Henrici — il possesso della verità. «Ho ragione perché io possiedo la verità. Questo è il modo ultimo e supremo di sottomettere la verità ad uno scopo»37. Se vi è dittatura del relativismo, credo si possa dire, è perché la verità è posta al servizio del proprio interesse e non solo del proprio parziale punto di vista. La ragione sottoposta alla logica del potere conduce a pensare la verità in termini esclusivi di possesso. Cosicché ci troviamo dinanzi ad una verità sottomessa alla logica della propria difesa o della propria autolegittimazione. Ci si difende a colpi di verità senza mai lasciarsi scalfire da essa: «Un sintomo di una sottomissione di questo genere è l’attitudine dottrinaria. Colui che (egli pretende) possiede la verità si comprende come il Maestro assoluto; insegna, fa la lezione, indottrina. Il dialogo per lui, non entra in gioco che come polemica, o a seguito di considerazioni tattiche. Non pone che questioni in modo retorico o didattico»38. Questa attitudine dottrinaria si manifesta con l’impedire di porre domande, di interrogare e di ricercare, che sono invece la via maestra attraverso la quale l’uomo giunge al cuore della verità. Si innesta nell’atteggiamento di dominio e di possesso dell’uomo sull’altro uomo il rifiuto del dialogo e quindi il rifiuto di un cammino di riconoscimento delle alterità. Non lasciarsi interpellare è chiudersi in una sempre più solitaria autosufficienza. È chiudersi alla verità più grande, ad una verità che non ha la pretesa di controllare o dominare; una verità che si dona consegnandosi senza tornaconto o interesse alcuno. La verità cercata si consegna nel momento stesso in cui si dà e si dà nascondendosi, cioè facendosi da parte. 36 37 38

P. HENRICI, Sophistique et philo-sophie, cit, 25. L.c. Ibid., 26.


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La ricerca della verità si alimenta di un clima amicale, di fiducia, dentro il quale si sviluppa e approfondisce il dialogo. La capacità di dialogo si contrassegna quindi come attitudine all’ascolto sincero e rispettoso dell’altro, ove ci si lascia interpellare docilmente dall’altro per accoglierlo nella sua alterità. La verità, in tale contesto e prospettiva, in primo luogo si ascolta. Nella verità, di cui si è alla ricerca, il discorso e il rapporto tra gli uomini si distinguono per il loro decentrarsi, che non è annullarsi di fronte all’altro, ma è incontrare nell’altro se stessi. La verità che si ricerca nel dialogo non si pone come volontà di imporsi all’altro, ma ci espone, lasciando che l’altro ci interpelli mediante un ascolto rispettoso e paziente. Il pensiero dialogico è la caratteristica di ogni autentica ricerca, che si caratterizza come pensiero che pazienta, di conseguenza come un pensiero non arcigno ma duttile che, perciò, non presume mai: «Questa attitudine al dialogo si esprime in modo più metto nella ricerca scientifica, quando questa, al di là di ogni orientamento verso degli scopi, è prima di tutto in ricerca della conoscenza e della verità. Ogni ricercatore non dovrà soltanto presentare le sue esperienze e teorie in modo tale che i colleghi della sua disciplina possono rifarle e criticarle; egli dovrà sempre aspettarsi che la sua teoria, per mezzo di nuove esperienze e di nuove idee, sia resa falsa dalla natura stessa. Nessuno sa meglio di un autentico ricercatore a quale punto tutti i risultati raggiunti siano provvisori. Anche per la conoscenza scientifica, la verità è sempre in avanti»39. La verità sta allora sempre in avanti, per cui la verità viene sempre accolta come altra rispetto alle nostre idee, ai nostri progetti. Il che vuole dire relativizzare il pensiero come sapere: nella conoscenza e nella ricerca della verità non c’è solo l’opera del concetto che afferra. Non c’è solo l’opera dell’intelletto, c’è altro. Non è quindi solo l’opera della concettualizzazione a determinare il discorso. Non esiste solo il begriff, non esiste solo la rappresentazione, ma c’è anche la contemplazione, l’ammirazione: è lo stupore che fa essere e provoca il pensiero, il quale, non più fermo dentro un orizzonte parziale, viene rapito, strappato a se stesso e condotto altrove. Un pensiero in estasi, fuori di sé… La meraviglia non è forse l’inizio del filosofare? L’uomo ha cominciato a filosofare nel momento in cui si è lasciato raggiungere da una verità più grande, dalla quale, quindi, si è lasciato mettere in 39

Ibid., 27-28.


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questione. L’uomo che domanda, intraprendente e vitale, in ricerca continua, non smette tuttavia di lasciarsi domandare. L’uomo che prende l’iniziativa è l’uomo che ri-conosce l’iniziativa di un Altro. C’è un prima di me. Per cui io non vengo prima, non sono prima. Prima c’è un Altro e c’è altro. In questo senso l’uomo non va pensato solo come colui che pone questioni ma è anche messo in questione: il domandante è il domandato. L’uomo è stato posto nell’essere. Ora l’essere stato posto nell’essere è il ri-conoscimento di una iniziativa, di una precedenza. Per cui il conoscere è da intendere come un più fondamentale ri-conoscere, è gratitudine. La verità si consegna, in tal modo, in questo percorso, sempre inesplorato, di alterità. Non solo visione, ma ascolto, empatia, emozioni, sensi. Ritrovare il senso è ritrovare tutti i sensi: l’uomo nella sua complessità. Non solo sguardo che cattura ma ammirazione e rapimento. La visione di insieme è allora da intendere come una prospettiva: un punto di fuga! Ci ri-troviamo così dinanzi ad una ragione che dilata progressivamente i suoi orizzonti; cioè una ragione in ascolto; una ragione che non ha paura di lasciarsi mettere in questione che accetta il confronto e l’apertura. La quale quindi non ha nessuna pretesa risolutiva, ma nell’apertura interlocutiva si alimenta dello scambio con l’altro che la oltrepassa dimorando così nella sua dimensione più autentica. Una ragione che impara: docilmente aperta impara da una verità più grande, magnanima, misericordiosa. Verità e misericordia si incontreranno (cfr. Sal 84,11)? L’incontro umano è il prototipo di una autentica ricerca della verità; è lasciandosi incontrare che ci si mette in cammino; un cammino che non ha termine, inesauribile, sempre in esodo. Il percorso di alterità esige questa spogliazione di sé. Si impara incontrando e lasciandosi incontrare! La verità che si cerca non è quindi solo problema da cogliere e risolvere ma anche mistero da accogliere e contemplare. Mentre nel processo conoscitivo il primato è dato alla definizione, opera del soggetto, che si appropria dell’oggetto, nella apertura intersoggettiva il primato è dato all’altro. L’incontro umano oltrepassa la dimensione intellettiva per fare spazio alla verità più grande. Dilatare lo spazio della verità è consegnarla all’alterità. La verità come alterità introduce allora nuovamente il pensare metafisico nel circuito della riflessione filosofica, non con la preoccupazione ansiosa di afferrare risolutamente una soluzione, ma come rinvio ad una ulteriorità indefinibile. Un discorso che non mira a possedere non ha paura


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di perdere: «Il discorso metafisico è il discorso che perde irrimediabilmente la verità di cui parla, che tuttavia continua a interrogarlo»40. Cercare la verità significa perderla, cioè donarla. Il discorso metafisico scaturisce e si misura con l’alterità irriducibile, un discorso questo che non si pone più dentro lo sforzo titanico della volontà di potenza: come volontà che si appropria della verità facendone un oggetto da manipolare e possedere. Non esercitar alcun tipo di potere è questo l’appello che viene dalla Verità-alterità: “Fra voi non sia così”. Se per coloro che dominano in questo mondo è essenziale esercitare il potere, tra voi cercatori infaticabili e dis-inter-essati della verità non sia così! Occorre perdere la verità per ritrovarla ancora come alterità e ulteriorità. Ciò che viene prima è quanto sta in avanti: è questa la dimensione di alterità. Una verità non alterata ma altra, sempre più altra! È questo il pensiero metafisico che si nutre di ulteriorità inassimilabile. L’assimilazione è infatti l’operazione che riconduce l’altro al medesimo per distruggere l’altro e il medesimo; lo scarto e la distanza sono la posizione per ritrovare, invece, e l’altro e il medesimo.

3. LA VERITÀ SPERATA La verità nella dimensione dell’alterità ci proietta in un orizzonte ulteriore, nel futuro, non come una fuga, ma come un’autentica apertura alla realtà nella sua meravigliosa complessità. È il tempo che si apre. La verità in quanto alterità è (una) verità sperata. Dinanzi alla quale il pensiero si fa sempre più disponibile, aperto…, che non chiede e non mira a possedere. Il pensiero possiede la certezza di essere posseduto per cui si lascia raggiungere da una verità più grande. La verità è av-venire. La verità in quanto alterità è evento e avvenimento! Ci troviamo davanti una verità inedita, sempre da scoprire, mai compiuta, che non è chiusa dentro una necessità assoluta e predeterminata senza nulla di nuovo con cui rapportarsi. Non una verità che si colloca in un eterno ritorno prigioniero e ineluttabile. La verità nella sua alterità fa irruzione nel tempo e nel finito; è la verità che

40

M. RUGGENINI, Dire la verità, cit., 30.


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sopraggiungendo dischiude il tempo e il finito. Aprire il tempo, non chiuderlo, è dimorarvi con fiducia e speranza: essere nella verità sperando. “Sperar di esser nella Verità”, il titolo che ho voluto dare a questa prolusione accademica è tratto dall’espressione alla prima persona di P. Ricoeur41. Dietro questo suggerimento ci sta la preoccupazione di articolare l’essere nella verità allo sperare: «qui si deve fare attenzione — dice Ricoeur — a non separare il ‘nella’ — ‘nella verità’ — dall’‘io spero’ — io spero di essere nella verità. Non posso dire questa unità, articolarla razionalmente e enunciarla, non vi è logos di questa unità. Non posso inglobare in un discorso coerente ‘l’apertura’ che fonda nell’unità tutte le questioni. Sennò non direi più : ‘spero di essere nella verità’, ma: ‘ho la verità’; questo rapporto possessivo nei confronti della verità è forse il segreto della pretesa dell’aggressività di fronte ad ogni pensiero ribelle che si nasconde in ogni eclettismo e in ogni filosofia sistematica della storia. Poiché è ancora necessario possedere la verità per riflettere il divenire immanente della storia in un Sapere assoluto. No, questa speranza non conferisce potere di dominare la storia, di ordinarla razionalmente»42. Essere nella Verità e sperare si proiettano in un orizzonte di fondamentale apertura. Quindi sperare! Sperare non nel senso di un mal compreso sentire comune, talora freddo, spesso rassegnato, che si esprime nei termini: speriamo che… Ho scelto di mettermi in quell’atteggiamento umanissimo che — privo di quella preoccupazione esclusivamente teoretica, la quale si arrovella e si affanna a raccogliere argomenti su argomenti, pur di confutare con immane fatica l’impossibilità del sapere e della verità e il relativismo conseguente — si apre invece all’attesa e alla fiducia, scorgendo nella speranza l’anima di ogni vero sapere. Quindi ancora sperare! Sperare da intendere, evidentemente, nel senso contrario a di-sperare: «Che cosa significa disperare? — si chiede G. Marcel — Non fermiamoci ai sintomi, alle manifestazioni; in che cosa consiste l’essenza dell’atto di disperare? Sembra che esso sia sempre una capitolazione davanti a un certo fatum posto dal giudizio. Ma tra capitolazione e non capitolazione, la differenza, sebbene certa, è difficile da precisare […]. Capitolare, nel senso forte del termine, non significa soltanto o esclusivamente accettare la sentenza pronunciata, o anche riconoscere l’ine41

Cfr. P. RICOEUR, Storia e verità, trad. it., Lungro di Cosenza 1994, 50. Più precisamente Ricoeur dice: «Spero di essere nella Verità». 42 Ibid., 51.


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vitabile come tale: significa annientarsi di fronte a questa sentenza, di fronte all’inevitabile; significa in fondo rinunciare a essere se stesso, significa restare affascinati dall’idea della propria distruzione fino al punto da anticiparla»43. La speranza è intesa, invece, come una fiduciosa disposizione interiore e un autentico (vero) atteggiamento esteriore dell’uomo, che mette in luce un sostanziale ottimismo nei confronti della realtà intera, degli altri, di se stessi (spesso nei nostri discorsi, soprattutto ecclesiastici, mi sia permesso esprimermi così, traspare più la disperazione che la speranza, più la chiusura che l’apertura). Non disperare mai di niente e di nessuno, quindi non disperare mai dell’uomo, vuol dire stare dalla parte della misericordia e non del giudizio che induce alla capitolazione, alla rinuncia a essere se stesso. L’uomo che capitola e si annienta dinanzi al giudizio è l’uomo che non scorge più un futuro nella sua vita. Bisogna lasciare, dunque, che misericordia e verità si incontrino per restituire l’uomo a se stesso e ridonargli dignità, identità di essere. Sperar di essere nella verità è porsi e lasciasi porre in quell’atteggiamento umanissimo che non solo sa ma invita anche a prendere tempo, a pazientare: «Colui che si irrigidisce o si ribella non sa prendere tempo. Che cosa bisogna esattamente intendere con queste parole così estranee ai tecnici della filosofia? ‘Prendi tempo’, dirà ad esempio un esaminatore a un candidato incline a perdersi d’animo. Ciò significa: non scompigliare il ritmo personale, la cadenza del tuo pensiero o anche della tua memoria, altrimenti perderai le tue possibilità, rischierai di dire a caso le prime parole che ti vengono in mente»44. Pazientare nei confronti di se stessi e nei confronti degli altri significa far affidamento e aver fiducia; è nutrire un profondo rispetto dei propri tempi e dei tempi dell’altro. Ora, certamente pazientare non ha come conseguenza abbandonare l’altro al suo destino, a sé stesso, ma accompagnarlo nel suo processo di maturazione e di crescita: «No, far affidamento, qui, significa unirsi in qualche modo a questo processo, in maniera da favorirlo dall’interno. Sembra dunque che la pazienza indichi un certo pluralismo temporale, una certa pluralizzazione di sé. Essa si oppone 43 G. MARCEL, Homo viator. Prolegomeni ad una metafisica della speranza, trad. it., Torino 1967, 47-48. In particolare Abbozzo di una fenomenologia e di una metafisica della speranza, 38-80. Il testo è una conferenza tenuta da Marcel nel febbraio del 1942 allo Scolasticat di Fourvière. 44 Ibid., 49.


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radicalmente all’atto col quale io dispero dell’altro, dichiarando che non è buono a nulla, o che non comprenderà mai nulla, o che è inguaribile. Si tratta naturalmente della stessa disperazione che mi fa proclamare che non guarirò mai, che non vedrò mai il termine della mia prigionia, ecc…»45. Pazientare significa spezzare quella sorta di determinismo necessitato, secondo il quale niente può cambiare, per liberare, piuttosto, in ogni istante l’istante a quelle energie positive che trasformano un’esistenza riconsegnandola a se stessa: «La pazienza, in apparenza — e attenendosi rigorosamente all’etimologia del termine — è semplicemente un lasciar fare o un lasciar essere, ma se solo si approfondisce l’analisi, si scopre che questo lasciar fare o questo lasciar essere, poiché è al di là dell’indifferenza, poiché implica un acuto rispetto della durata o della cadenza vitale caratteristica dell’altro, tende a esercitare su quest’ultimo un’azione trasformatrice analoga a quella che a volte costituisce la ricompensa d’amore»46. Il pensare riflessivo e meditativo che abbiamo ereditato dalla migliore tradizione del pensiero filosofico occidentale si muove in questa direzione di paziente e acuto rispetto: a tal proposito si pensi a mo’ di breve esempio al Discorso sul Metodo di Cartesio, il quale in questa sua fondamentale opera indica, come prima regola di un corretto modo di pensare, il non precipitarsi47. Ciò vuol dire che, in primo luogo, per pensare regolarmente 45

Ibid., 50. Ibid., 50-51. 47 Cfr. DESCARTES, Discours de la Méthode, in Œuvres et lettres, 136-137. Il filosofo francese, ripercorrendo, in questo testo autobiografico, il corso dei suoi studi, evidenzia in modo particolare alcune scienze: la logica, la geometria e l’algebra, delle quali coglie i vantaggi, ma cerca di evitare i difetti, per cui egli sottolinea come «il fallait chercher quelque autre méthode qui, comprenant les avantages de ces trois, fut exempte de leurs défauts. Et, comme la multitude des lois fournit souvent des excuses aux vices, en sorte qu’un Etat est y son fort étroitement observées; ainsi, au lieu de ce grand nombre de préceptes dont la logique composée, je crus que j’aurais assez des quatre suivants, pourvu que je prisse une ferme et constante résolution de ne manquer pas une seule fois à les observer. La premier était de ne recevoir jamais aucune chose pour vraie que je ne la connusse évidemment être telle ; c’est-à-dire d’éviter soigneusement la précipitation et la prévention ; et de ne comprendre rien de plus en mes jugements que ce qui se présenterait si clairement et si distinctement à mon esprit que je n’eusse aucune occasion de la mettre en doute». La prima regola del metodo, al fine di conoscere una cosa come vera, comporta l’evitare con cura la precipitazione e la prevenzione. La precipitazione come atteggiamento dello spirito che si lascia prendere dalla fretta, la prevenzione che, invece, rifiuta e non accoglie quanto mette 46


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e correttamente occorre evitare la fretta, quell’atteggiamento dello spirito che mira a bruciare le tappe, il tempo: si vuol vincere e annullare il tempo di cui tuttavia si rimane vittima; si vuol oltrepassare il tempo e la sua finitezza, ma ci si lascia prendere da quello stato d’animo per cui il tempo è visto come condanna o maleficio e come permanente inconsistenza, un tempo che non passa mai o non fa che passare. Ebbene, sperar è abbandonarsi ad una fiducia assoluta che non si lascia rinchiudere nel fatum o nel maleficio per cui nulla mai potrà cambiare, ma è pure liberarsi da quella disperata bramosia sempre più preoccupata di avere e di possedere. Liberare la speranza come disposizione fondamentale dell’uomo è abbandonarsi ad un Altro senza porre alcuna condizione: «la disposizione interiore di colui che, non ponendo alcuna condizione, alcun limite, abbandonandosi a una fiducia assoluta, supererà proprio così facendo ogni delusione possibile e conoscerà una sicurezza dell’essere o nell’essere che s’oppone alla fondamentale insicurezza dell’avere»48. È perciò sperar di essere! L’essere contesta e lascia la prospettiva dell’avere, del possesso con la sua brama. Abbandonare la logica dell’avere mette l’uomo nella condizione di non lasciarsi imprigionare dalla malattia mortale della disperazione. Sperar di essere è non solo da scorgere, da proiettare, ma anche da vivere nell’orizzonte del desiderio e non del bisogno49. Sperare è desiderare di essere, cioè accogliere la ricchezza di una in questione lo stesso spirito. Il filosofo è l’uomo che sa prendere il tempo per lasciarsi interpellare da una verità mai equiparata ed equiparabile, nella quale tuttavia egli abita. 48 G. MARCEL, Homo viator., cit., 57. Secondo Marcel questo è il segno ontologico della speranza e della speranza assoluta: «Essa si presenta come risposta della creatura all’essere infinito al quale sa di dovere tutto ciò che è e di non poter senza scandalo porre alcuna condizione. Dal momento in cui mi prostro, direi quasi, dinanzi al Tu assoluto che nella sua infinita condiscendenza m’ha tratto dal nulla, sembra che io mi vieti per sempre di disperare, o più esattamente che riconosca implicitamente nella disperazione possibile un indizio di tradimento da non potermici abbandonare senza pronunciare la mia propria condanna. Che significherebbe infatti, in questa prospettiva, disperare, se non dichiarare che Dio s’è allontanato da me? Oltre al fatto che una simile accusa è incompatibile con la posizione del Tu assoluto, si può osservare che, pronunciandola, mi attribuisco illegittimamente una realtà distinta che non può appartenermi»: ibid., 57-58. 49 Cfr. E. LEVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, trad. it., Milano 1998, 221-223; E. LEVINAS, Totalità e infinito, trad. it., Milano 1980, 59: «la ricerca della verità è una relazione che non si fonda sulla privazione del bisogno. Cercare e ottenere la verità significa essere in rapporto, non perché si è definiti da altro da sé, ma perché, in un


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pienezza, di un dono, che si esprime integralmente nella consegna di sé e si alimenta della sua vitalità e bontà generosa. La generosità di essere della e nella verità è meglio che pensarla, al fine di impedire che la si imprigioni dentro un asfittico immobilismo perbenista il quale aspira ad una impassibilità imperturbabile. La verità di essere accetta l’espropriazione di sé dandosi nel dare in una compassione che non conosce ricompensa. Il pensiero disponibile è un pensiero che non cerca solo di sapere, nel senso che non mira soltanto ad appropriarsi ad ogni costo di ciò che pensa, ma si apre al di più, all’eccedenza, al meglio che pensare, all’altro. Pensare sì, ma diversamente, senza appropriazione. Un pensare espropriato, che non si chiude in sé, è un pensare contemplativo, che apre spazi di alterità, spazi di silenzio rispettoso e fecondo. È necessario, allora, nuovamente imparare a pensare? Forse, molto più semplicemente, bisogna ritornare a pensare veramente. Pensare contemplando che è un pensare lasciandosi incontrare e interpellare da una parola altra; è pensare ascoltando. Un pensiero che, ricevendo, si lascia raggiungere è un pensiero sempre grato. Aprire il tempo, forse, significa anche questo? La precipitazione è senza dubbio la malattia del nostro tempo, ma è anche, come si vede spesso, la malattia del pensiero, di un pensiero autosufficiente che non si accoglie come attesa e come pazienza. Il pensare con l’avidità del possesso si dispiega appunto dentro la dimensione dell’impazienza: non c’è più tempo per vivere di attesa e dell’attesa, non c’è più tempo per stare a meditare. Pensare come meditare non è con-prendere, non è possedere. È un pensare senza la preoccupazione di sapere (il non sapere di Socrate), perciò capace di attendere, capace di aprirsi ad altro. È il non lasciarsi prendere dalla preoccupazione del dominio a tutti i costi. Lasciare che il discorso fluisca dentro un orizzonte di trascendenza continua e di grazia sovrabbondante. Si spera di essere nella verità nella misura in cui si lascia la logica del dominio, non si controlla più, non si domina più l’oggetto: pensare senza sapere è dunque sperare! Sperare vuol dire liberarsi da un certo rigido determinismo, dalla necessità; è essere attratti (afferrati) lasciandosi afferrare dall’amore, certo senso, non si manca di niente». Mentre il bisogno tende ad annullare la distanza il desiderio l’approfondisce. Si veda il nostro studio sul pensiero filosofico levinassiano: Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Levinas, Acireale 1996.


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dal gratuito, dalla grazia che riapre continuamente il pensare. La grazia così è l’anima e il respiro stesso del pensare! La verità-alterità lascia lo spazio e il tempo ad altro, non si chiude dentro di sé in una pretesa autosufficienza onnipotente, non esclude e non emargina, ma si dilata sempre più, per cui c’è sempre più posto. La verità, che si apre sempre più ad altro, non considera quanto giunge da altrove come un suo depauperamento, ma come un suo accrescimento e arricchimento. La verità-alterità accetta di ricevere lasciandosi ammaestrare. E, in particolare, impara in quanto patisce con l’altro e per l’altro. Di Cristo dice la Scrittura che pur essendo Figlio imparò l’obbedienza dalle cose che patì (cfr. Ebrei 5,8). La verità che si apre ad altro è una verità compassionata e misericordiosa. Questo è ri-trovarsi ad essere nella verità-alterità sempre più grande. L’uomo fa parte della verità, è nella verità, ma arriva tuttavia a coglierne e mostrarne un aspetto. La verità è, infatti, anche una realtà che lo oltrepassa. Ci si pone, allora, dinanzi alla verità e nella verità, che si spera, con un atteggiamento di umile servizio; la verità-alterità non accetta di essere controllata e dominata. Ricercare è servire la verità senza pretesa di adeguarla e possederla in modo esclusivo; questo significa ascoltare che c’è altro: «La ricerca della verità sotto un certo aspetto è difficile, mentre sotto un altro è facile. Una prova sta nel fatto che è impossibile ad un uomo cogliere in modo adeguato la verità, e che è altrettanto impossibile non coglierla del tutto: infatti, se ciascuno può dire qualcosa intorno alla realtà e se, singolarmente preso, questo contribuisce poco o nulla alla conoscenza della verità, tuttavia, dall’unione di tutti i singoli contributi deriva un risultato considerevole»50. La ricerca autentica è sempre un atto di un’umiltà e non di presunzione. L’uomo si pone dinanzi alla verità e nella verità con umiltà. La verità in quanto tale educa al rispetto. Questo è facile e difficile ad un tempo dice Aristotele. Sperare di essere nella verità è facile perché tutti sono in grado di coglierne un aspetto, non ci sono privilegi o caste, “ciascuno può dire qualcosa intorno alla realtà”, così come questa si offre. Nessuno è escluso da questa ricchezza e donazione di senso. Perciò, secondo l’indicazione aristotelica, tutti coloro che si sono occupati della verità hanno qualcosa da insegnarci, anche coloro 50

ARISTOTELE, Metafisica, cit, II, 1.


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di cui non condividiamo le opinioni o meglio di quella parte di verità che esibiscono. Si impara sempre da tutti anche da chi sembra non abbia niente da insegnarci: questo è ancora sperare! Ora, ciò significa anche che la ricerca della verità non è un fatto privatistico e individualistico ma è qualcosa di pubblico e corale; la verità è sempre verità inclusiva mai esclusiva: la verità nella sua grandezza include le alterità e non si chiude quindi nella dimensione di una identità onnivora e conquistatrice. Una visione identitaria che rifiuta l’alterità si costruisce, anche senza volerlo, secondo una dimensione totalitaria. La verità chiusa nell’identità monolitica e rigida rifiuta la coralità e la comunione con l’altro da sé. La verità non è l’unisono ma la sinfonia. È così che si afferma il totalitarismo — secondo von Balthasar — come concezione che rinchiude e circoscrive il tutto nella parte: «Non si sopporta più una visione unitaria delle cose, secondo la quale ognuno ha il suo compito e con il suo carisma rappresenta solo una parte di questa unità, e si sommerge il tutto nella parte. Si rifiuta la sinfonia e si esige l’unisono. Secondo il linguaggio platonico questo è tirannide e, secondo il linguaggio moderno, totalitarismo, l’intima contraddizione del sistema mono-partitico e la presunzione della infallibilità»51. Questo sperare di essere nella verità è però anche difficile perché l’uomo conosce sempre da un particolare punto di vista la realtà, l’essere; benché egli riesca ad affermarne l’esistenza non riesce tuttavia a coglierne il mistero. Il mistero lo si accoglie e lo si contempla non lo si possiede, così è anche per la verità. L’essere reale lo conosciamo in modo astratto e generale, infatti: «Nella sua singolarità concreta, è sempre più ricco e più misterioso di tutto ciò che io sono capace di conoscere con l’aiuto delle mie rappresentazioni, concetti e strumenti linguistici. Ciò che, al contrario, si 51

H.U. VON BALTHASAR, La verità è sinfonica, trad. it., Milano 1979, 19. La verità cristiana, secondo von Balthasar, è sinfonica: «Che la verità cristiana è sinfonica è forse la cosa che oggi con più urgenza va annunciata e caldeggiata. Sinfonia non è affatto sinonimo di armonia sdolcinata, priva di forza. La grande musica è sempre drammatica, crea continuamente delle tensioni e le risolve a livello più alto. La dissonanza però non è cacofonia. Non è neppure l’unico mezzo per tenere viva la tensione sinfonica. Morzart dà alla sue melodie più semplici – quante volte egli lavora con le tonalità più facili – qualche cosa di così morbido, scattante e di così reciprocamente interdipendente che la forza, dalla quale dopo poche battute già si riconosce la presenza del suo genio, sembra che promani da una inesauribile riserva di tensione spirituale, per riempire adeguatamente con questa ogni membro»: ibid., 20.


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dirige verso quello che c’è di inimmaginabile e di mai pienamente conoscibile in ciò che realmente esiste, è il desiderio, è l’amore»52. Il desiderio e l’amore ci conducono oltre. La verità che si spera non è perciò solo frutto di uno sforzo umano. Non è infatti un conatus chiuso e preoccupato di sé poiché se così fosse: «Questo sarebbe troppo e troppo poco. Troppo, perché si continuerebbe a prendere per regola il proprio sforzo; troppo poco, perché, per l’uomo, la verità non può essere soltanto qualcosa verso cui si tende. Se la verità non fosse da sempre donata in un certo qual modo, non ci sarebbe neanche sforzo verso di essa»53. La verità sperata è un dono che diventa un compito, che circola come un dono senza risolversi nel (in un) compito. Nella misura in cui la verità è sempre più altra è una verità sperata, si inscrive pertanto in un percorso che non conosce termine. Una verità che non si rinchiude in delle formule è una verità che sfugge alla definizione concettuale per consegnarsi al paradosso di un amore che non cerca il contraccambio, ma disinteressatamente dona speranza. Sperar di essere nella verità è pertanto lasciarsi interpellare da un amore gratuito e disinteressato. Tanto che la carità segna nel cammino filosofico, non solo un nuovo inizio del discorso metafisico, ma il sempre ancora da pensare; è il dono per eccellenza che introduce nuovamente e continuamente nel pensare autentico. In questo orizzonte paradigmatico, sempre antico e sempre nuovo, della carità, Pascal ci permette di prendere in considerazione ciò che viene prima. Si conosce prima di amarla la verità oppure si ama prima di conoscerla? A tal proposito egli afferma che «mentre parlando di cose umane si dice che bisogna conoscerle prima di amarle, e ciò è divenuto proverbio, i santi, al contrario, dicono, parlando delle cose divine, che bisogna amarle per conoscerle e che non si entra nella verità se non attraverso la carità, e con ciò hanno dato una delle loro sentenze più utili»54. Sperar di essere nella verità attraverso la carità e nella carità. La 52

P. HENRICI, Sophistique et philo-sophie, cit., 29. L’autore continua dicendo che «Je ne désire pas la nourriture connue, mais la nourriture réelle ; et quand on aime quelqu’un d’un amour vrai, on l’aime lui-même, tel qu’il est dans la réalité, avec son mystère, mystère que lui-même ne peut percer — e non pas les connaissances qu’on peut rassembler à son sujet, non pas l’image qu’on se fait de lui. Si l’on pouvait vraiment connaître celui que l’on aime, on n’aurait plus une connaissance humaine; se serait la vision béatifique»: l.c. 53 Ibid., 30. 54 B. PASCAL, L’art de persuader, in Œuvres complètes, a cura di J. Chevalier, Paris 1954, 592. Questa è la conseguenza di quanto aveva affermato poco sopra: «Je ne parle pas


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carità si incarna in un essere nella verità che non chiude mai il cammino, anzi lo apre continuamente alla speranza. In questa prospettiva, per rimanere ancora nell’ottica pascaliana, è in primo luogo il cuore che sente la verità dalla quale si lascia afferrare, quel cuore che “ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. Il cuore ci introduce in quella disposizione fondamentale che ci fa essere nella verità. Dentro questo nostro percorso come intendere il cuore? «Il cuore — commenta Guardini — non è espressione di emotività in contrapposizione a logicità; non sentimento in contrapposizione a intelletto; non ‘anima’ in contrapposizione a ‘spirito’. Il ‘cuore’ stesso è spirito; l’atto del cuore è una delle manifestazioni dello spirito. Un atto che alla conoscenza ‘dà’ (nutrimento). Determinati oggetti possono essere attinti solo nell’atto del cuore, non perciò restano nello stato di intuizione arazionale, ché in sé per quell’atto sono accessibili a penetrazione intellettiva-logica. [..] ‘Cuore’ è lo spirito, in quanto esso giunge ad accostarsi al sangue: nella fibra sensibile e viva del corpo, senza però diventare ottuso. Cuore è lo spirito fattosi ardente e sensibile per l’influsso del sangue e che insieme si solleva alla chiarezza dell’intuizione, all’evidenza della figura, alla percezione del giudizio. Il cuore è l’organo dell’amore, dall’amore dal quale scaturì la filosofia platonica ed ancora, dopo il fecondo rinnovamento ad opera della filosofia cristiana, la Divina Commedia. Questo amore significa cioè il rapportarsi dell’intimo dell’uomo, del suo sentimento e del suo anelito all’idea: il moto teso dal sangue allo spirito, dal presente corporeo all’eternità spirituale. Questo è il moto che viene sentito nel cuore»55. Il cuore è l’organo — secondo Pascal — dell’esprit de finesse, cioè di uno spirito aperto, flessibile; è uno spirito grande che libera la capacità di amare in modo disinteressato e si apre al colloquio: «Ci sono due specie di spirito, l’uno geometrico e l’altro che lo si può chiamare di finesse. Il primo ha un modo di vedere lento, duro, inflessibile; ma il secondo ha una ici des vérités divines, que je n’aurais garde de faire tomber sous l’art de persuader, car elles sont infiniment au-dessus de la nature : Dieu seul peut les mettre dans l’âme, et par la manière qu’il lui plait. Je sais qu’il a voulu qu’elles entrent du cœur dans l’esprit, et non pas de l’esprit dans le cœur, pour humilier cette superbe puissance du raisonnement, qui prétend devoir être juge des choses que la volonté choisit, et pour guérir cette volonté infirme, qui s’est toutes corrompue par ses sales attachements»: l.c. 55 R. GUARDINI, Pascal, trad. it., Brescia 1980, 174-175.


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flessibilità di pensiero, che applica contemporaneamente alle diverse parti amabili di ciò che ama. Dagli occhi scende fino al cuore, e dai movimenti esterni conosce ciò che avviene interiormente. Quando si possiede l’uno e l’altro quante gioie dà l’amore! Poiché si possiede insieme la forza e la flessibilità dello spirito, che è molto necessaria per l’eloquenza (il colloquio) fra due persone»56. La verità non solo è raggiunta dalla carità ma ancor più ci raggiunge nella carità: è questo l’avvenimento da ri-conoscere. Il dono che giunge a noi diventa la nostra responsabilità ed è a noi affidato per consegnarlo e moltiplicarlo con generosità e gratuità.

CONCLUSIONE Sperar di essere nella verità è vivere e camminare nella carità, che secondo quanto ho cercato fin qui di dire, è la possibilità e la condizione stessa del dialogo, cioè la capacità di incontrare e di lasciarsi incontrare; davanti alla verità quindi il cuore si dilata sempre più; è un cuore grande per pensare in grande: «in una grande anima tutto è grande. Ci si domanda se bisogna amare. Questo non si deve domandare: lo si deve sentire. Non si delibera su questo, si è trasportati, e si ha la gioia di sbagliarsi quando lo si consulta»57. All’interno di questa sovrabbondante donazione, che ignora, che non conosce, la verità si offre e si consegna continuamente per raggiungere tutto e tutti. È nella dimensione della gratuità generosa, in quell’orizzonte umano di autentico e assoluto disinteresse, in cui la mano destra non sa quello che fa la mano sinistra, che ci è dato sperar di essere nella Verità. Il dono, che si moltiplica nella pluralità e molteplicità dei doni, rimanendo tale ossia dono assoluto, è grazia; è la grazia! In questo itinerario di non reciprocità, di sproporzione e di distanza, si sviluppa sia una autentica ricerca della Verità, che un servizio dis-interessato della Verità. Si scopre in questo modo una Verità sempre più grande, davanti alla quale ci si pone in atteggiamento di grato riconoscimento per intraprendere un cammino che abbandona ogni logica e volontà di possesso. 56 57

B. PASCAL, Discours sur les passions de l’amour, in Œuvres complètes, 538-539. Ibid., 538.


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Un tale riconoscimento ci mette nelle condizioni di vivere nei confronti dell’altro, di ogni altro, senza voler esercitare alcun tipo di potere. Questo non mostrare mai i muscoli significa porsi dinanzi alla Verità in atteggiamento di accoglienza o di passività recettiva che è più attiva di ogni attività. La Verità, nella misura in cui viene accolta e ricevuta, è la condizione di possibilità per un’assunzione di responsabilità generosa e operosa nei confronti dell’altro. La Verità che si consegna priva di qualsiasi volontà coercitiva si manifesta autenticamente e si invera quindi sempre più nella carità. La carità è il cuore umile della Verità; è questa una Verità altra che manifesta la sua grandezza nell’umiltà. Una Verità che non osa imporre il discorso, non osa dire, ma lascia dire. Bisbiglia, suggerisce, non impone nulla, offre solo speranza. Lascia l’altro e gli altri dirsi nel suo dire. Lascia che il discorso si componga e non che si imponga. È questa la Verità che consegnandosi ricompone l’infranto. Il mondo rotto, in frantumi, si ricompone nell’agape. Quell’amore che non teme le differenze ma al contrario le promuove, le accoglie, le sostiene. Amare veramente vuol dire allora creare differenze non annullarle. La convivialità accogliente delle differenze diventa in tal modo lo stile di vita di chi si è posto in ascolto docile di questa Verità altra. Il dono diviene quindi un compito. Sperar di essere nella Verità è questo dono divenuto compito. Amare per pensare seriamente e diversamente la Verità! Amare non solo per conoscere la Verità ma in primo luogo per incontrarla e riconoscerla. Il compito di essere nella Verità significa in fondo accogliere e vivere la speranza per consegnarla all’uomo di oggi. È la Verità che offre misericordia e invoca misericordia! Quando la Verità si esibisce nel segno della debolezza, non della forza, del potere, dell’arroganza, quando la Verità si mostra nel segno della compassione e della misericordia allora ci raggiunge una Speranza senza eguali!


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SULLA “TRANSLATIO” DI S. AGATA DA COSTANTINOPOLI*

MARINA MANUELA CAFÀ**

INTRODUZIONE Esiste una secolare tradizione che ha attribuito al generale bizantino Giorgio Maniace la responsabilità del furtum delle reliquie della martire catanese Agata (traslate dalla sua città natale a Costantinopoli nel 1040), ed ha indicato nelle figure dei due soldati, Goselmo e Gisliberto, gli artefici del suo “ritorno” a Catania nel 1126. Quali sono le fonti ed i presupposti “storici” di tale tradizione? Quale il panorama storico, culturale e religioso in cui fu redatta nel 1126, dal vescovo-abate di Catania Maurizio, l’Epistola in cui viene dato resoconto di tali accadimenti? Nel tentativo di far luce su questa tradizione, il cui valore storico mai nessuno degli antichi scrittori catanesi, e siciliani in genere (Gaetani, Pirro, De Grossis, Carrera, l’abate Vito Amico, etc.) mise in dubbio, la ricerca si è focalizzata da una parte, sulle testimonianze della diffusione del culto di Agata a Costantinopoli (Metodio di Siracusa), e sulle tradizioni che ne hanno collocato in epoche differenti sia la traslazione a Costantinopoli sia il “ritorno” a Catania (Andrea Dandolo), dall’altra parte, sulle fonti storiografiche bizantine che hanno riferito della spedizione di Maniace in Sicilia contro gli Arabi (al fine di rintracciare qualche riferimento sul “presunto” furto da lui compiuto), e sulle testimonianze che sembrerebbero suffragare la versione tramandata dall’Epistola, come quelle dei cronisti di area occidentale, Orderico Vitale e Gugliemo di Malmesbury, che hanno sostenuto la praesentia del corpo di Agata a Costantinopoli. Lo studio è stato, inoltre, orientato ad un approfondimento del tema delle reliquie e delle loro trasla*

Estratto della tesi di Laurea in Filologia classica, discussa il 5 luglio 2004 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania, relatore prof. Carmelo Crimi. ** Docente di materie letterarie nei licei.


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zioni in Occidente ed in Oriente, ed indirizzato ai fondamenti testuali della tradizione in questione (il Liber Prioratus ed il Codice degli Uffici, rispettivamente codici del XV e XVI sec., e le Vitae Sanctorum Siculorum del Gaetani); infine, si è proceduto alla verifica dell’edizione di G. Scalia che nel 1928 ha presentato i testi dell’Epistola del vescovo Maurizio e dell’Historia Translationis.

1. IL CULTO DI S. AGATA NELL’ORIENTE BIZANTINO: LE FONTI Esistono varie testimonianze (epigrafiche e monumentali) che confermano la diffusione del culto di Agata al di fuori dei confini di Sicilia, in particolare nell’Oriente bizantino profondamente intriso di religiosità. Certamente significativa è l’Oratio in S. Agatham1 recitata a Costantinopoli tra l’842 e l’847 da Metodio di Siracusa, patriarca della Capitale, in occasione di un anniversario del martirio della santa, il cinque febbraio. In questo panegirico (in cui è evidente che l’oratore segue gli Atti greci, nonostante le lunghe digressioni retoriche che fanno assumere al testo una forma diversa da questi) dopo un lungo esordio in cui viene dichiarato lo scopo apologetico della composizione, il patriarca elogia Agata come martire, come donna e vergine, ed argomenta sull’etimologia del suo nome. Prosegue poi riferendo, con ricchezza di particolari, lo svolgimento del processo ed il martirio e, dopo aver narrato della terribile eruzione dell’Etna che, grazie al velo della martire, non arrecò danni alla città di Catania, conclude l’orazione descrivendo il miracolo del gorgoglio dell’olio delle lampade, toèn e\kblusmoèn tou% tinwn kandhlw%n e\laòou2, che si verificava ogni anno, il cinque febbraio, nella chiesa dedicata alla santa a Costantinopoli. Questo panegirico appare, dunque, particolarmente interessante e significativo poiché fornisce due preziose informazioni sul culto della martire catanese a Costantinopoli: l’annuale prodigio3 che soleva verificarsi 1

Biblioteca Hagiographica Graeca, 1, 11. Acta SS., feb. I, 624 e ss. E. MIONI, L’encomio di S. Agata di Metodio, patriarca di Costantinopoli., in Analecta Bollandiana 68 (1950) 92. 3 Questo miracolo, che per s. Agata non è altrove menzionato, non risulta una novità nell’ambito agiografico. Era un’usanza greca raccogliere e conservare l’olio, a"gion e"laion, 2


Sulla “traslatio” di s. Agata da Costantinopoli

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in occasione dell’anniversario del suo dies natalis, ed il luogo in cui esso si verificava, ossia in una chiesa dedicata alla martire nella città capitale dell’impero bizantino, in cui la stessa orazione fu pronunciata. Il patriarca Metodio, dopo aver affermato di assistere per la terza volta al miracolo, fa riferimento a due edifici di culto dedicati alla martire catanese a Costantinopoli: «Ou/tov o| loégov — w& pateérev — th%v maèrturov tou% a\qlhtikou% dianuésmatov, o£n meq’u|mw%n o|milh%sai t+% e\nagwg+% tou% e\thsòou qauématov, kaì t§% nu%n tròt§ e\n to_v proésqen duo_n croénoin eu\dokhqeìv o$moia […] a|ll’ai\tw% u|ma%v paéntav, touév te kat’au\thèn h|meéran, ei”te e\n touét§ <t§%> na§%, ei”te e\n a”ll§ th%v maérturov a\qroizomeénouv»4.

A tal proposito, il Sinassario di Costantinopoli, al 5 febbraio, ci conferma che l’orazione fu pronunciata in una di queste due chiese della capitale: delle quali una era situata nel quartiere del Triconco, e l’altra nella parte opposta del Corno d’Oro nel kaéstron dei Rhos: «Tele_tai deè h| au\th%v suénaxiv e\n t§% martureò§ au\th%v t§% o”nti e\n t§% Trikoégc§ kaì peéran e\n t§% kaéstr§ tw%n {Rw%v»5.

Anche Janin6 cita letteralmente il sinassario per fornire una localizzazione del suddetto luogo di culto, dopo aver affermato che la chiesa elevata nella capitale in onore della vergine Agata, martirizzata a Catania sotto Decio, esisteva già nel IX secolo, poiché il patriarca Metodio, nel suo o altri profumi che avevano toccato il corpo dei martiri o, anche semplicemente, l’olio delle lampade che aveva bruciato davanti le loro reliquie. L’uso è attestato fin dal IV secolo e ne parlano Giovanni Crisostomo, Gregorio di Tours, ed altri. L’esempio più conosciuto è quello di S. Martino che operò molti miracoli mediante l’olio che bruciava davanti la sua tomba o la sua immagine. Anche per questo santo si verificò un prodigio simile a quello riferito da Metodio per l’anniversario della martire Agata. A ricordarlo è GREGORIO DI TOURS, Miraculis S. Mart., in PL, 71, 978: «Vas etenim illum medium erat. Cumque de hoc liquore, quod ad basilica sancti [Martini] adsumptum fuerat, perfunderetur, protinus ebulliens oleum ampullam usque ad summitatem implevit». 4 Ibid., 91. 5 Syn. CP, 197-198 (= Acta SS., Propylaeum Novembris, 1902), col. 445, ll. 44-45. 6 R. JANIN, Les églises et les monastéres des grands centres byzantins, Paris 1962.


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panegirico alla santa, aveva dichiarato di essere stato diverse volte testimone del miracolo che in essa si verificava il giorno della festa. Queste testimonianze confermano, dunque, la costruzione di edifici sacri eretti a Costantinopoli in onore della santa martire catanese già nel IX secolo. Tale venerazione avrebbe necessariamente implicato la presenza delle reliquie di Agata nella capitale dell’impero bizantino? Janin sostiene che il corpo di Agata «fut apporté à Costantinople sous le règne de Basile II et de son frère Costantin (976-1028)», ma precisa che «on ne peut dire s’il fut déposé dans l’église que la capitale avait élevée en son honneur». Afferma inoltre che, dopo la presa di Costantinopoli da parte dei Latini (1204), il doge Enrico Dandolo restituì il corpo della santa ai siciliani che lo riportarono nel loro paese. Lo studioso ricava la notizia dall’opera del Riant, Exuviae Sacrae7. Con molta probabilità la fonte è la Chronica maggiore di Andrea Dandolo, cronista veneziano vissuto tra il 1307 ed il 1354 circa che, dopo aver diffusamente parlato della conquista di Costantinopoli da parte dei crociati e delle imprese del doge Enrico Dandolo (1108-1205), accenna alle reliquie che i Veneziani riportarono in patria dalla capitale dell’impero (un frammento della Santa Croce, un’ampolla contenente il sangue di Cristo, un braccio di san Giorgio martire ed un pezzo del cranio del Battista). Si fa poi cenno al ritrovamento dei corpi di sant’Agata e di santa Lucia; il primo venne consegnato ad alcuni pellegrini siciliani, mentre il secondo finì a Venezia nella chiesa di san Giorgio Maggiore: «Inventis similiter corporibus Sanctarum Agathae et Luciae virginis, quae Basilius et Constantinus Augustus deferri Costantinopolim decrevit, Dux obtentum corpus Sanctae Luciae Venetias in Monasterio Sancti Georgi mandavit, quod in Ecclesia eius nominis dedicata repositum est. Corpus vero beatae Agathae quibusdam peregrinis concessum est»8.

La testimonianza del cronista Andrea Dandolo, che scrive nella prima metà del XIV secolo ed oltre un secolo dopo dall’impresa di Enrico Dandolo, assegnando agli imperatori Basilio II e Costantino VIII (976-1028) 7 P.E.D. RIANT, Exuviae sacrae Constantinopolitanae, II, Genova 1877-78, 262-265, 271, 272. 8 A. DANDULI, Chronica per extensum descripta, in L. A. MURATORI, Rerum Italicarum Scriptores, XII, 331.


Sulla “traslatio” di s. Agata da Costantinopoli

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la decisione di trasportare le reliquie di Agata a Costantinopoli e collocandone il ritorno in Sicilia dopo la quarta crociata (1204), si mostra così in netto contrasto rispetto a quella sostenuta dall’Epistola del vescovo Maurizio, che attribuisce la sottrazione delle reliquie di Agata al generale bizantino Giorgio Maniace e ne celebra il ritorno a Catania nel 1126. Secondo lo Scalia9, che sostiene l’attendibilità storica della traslazione di Agata a Costantinopoli da parte di Maniace e del suo “ritorno” a Catania nel 1126, il rapido cenno al corpo della santa da parte del cronista Andrea Dandolo deriverebbe da una diceria diffusa a quel tempo a Venezia e, quindi, risulterebbe del tutto infondata. È dunque chiaro il fatto di trovarsi davanti a due differenti tradizioni che hanno collocato in epoche diverse sia la “presunta” traslazione di Agata a Costantinopoli, sia il suo “presunto” ritorno a Catania: quella che fa capo alla Chronica di Andrea Dandolo della prima metà del XIV secolo, e l’altra, l’Epistola del vescovo Maurizio, che, presumibilmente, risale al XII secolo e che derivò dall’ambito locale.

2. LA SPEDIZIONE DI MANIACE IN SICILIA NELLA TRADIZIONE STORIOGRAFICA BIZANTINA

Al fine di rintracciare qualche riferimento sul furtum compiuto, secondo l’Epistola del vescovo Maurizio, dal generale bizantino Giorgio Maniace nel corso della sua spedizione siciliana (1038-1040), sono state analizzate le fonti storiografiche bizantine che ne parlano. Compiuta contro gli Arabi, tra il 1038 ed il 1040, per recuperare le antiche posizioni bizantine nell’Isola, sotto l’imperatore Michele IV Paflagone, la spedizione di Maniace è menzionata nelle opere degli storiografi contemporanei: Psello, Attaliate e Skylitzes. La fonte più completa di informazioni è la Synopsis historiarum di Giovanni Scilitze che riferisce gli avvenimenti tra l’811 ed il 1057. Questi i fatti: in occasione dell’impresa siciliana, Giorgio Maniace fu nominato strathgoèv au\tokraétwr, mentre il comando della flotta fu affidato 9 G. SCALIA, La traslazione del corpo di S. Agata e il suo valore storico, in Archivio Storico per la Sicilia Orientale 22-23 (1927-1928) 41.


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al patrizio Stefano, cognato dell’imperatore. Coadiuvato da forze mercenarie normanne, lo stratega, dopo aver conseguito la prima vittoria a Rometta nel 1038, prese tredici città della Sicilia orientale (tra cui l’antica capitale Siracusa) e le fortificò costruendo cittadelle e riparando la cinta muraria per impedire la riconquista dei territori da parte degli Arabi. Due anni dopo (1040) l’armata bizantina ottenne la vittoria più importante e decisiva presso le pianure di Troina, dove si erano accampati i rinforzi spediti dall’Africa in sostegno dell’emiro Abd Allàh. Dopo la battaglia, però, i Saraceni riuscirono ad eludere la sorveglianza della flotta bizantina, e Maniace attribuì la responsabilità dell’accaduto all’ammiraglio Stefano, al quale aveva raccomandato, prima dello scontro, di impedire la fuga al nemico via mare. Come racconta Scilitze: «kaì pòptei meèn tw%n ‘Afrwn plh%qov u|peèr taèv penthékonta ciliadav, au\toèv deè o| touétwn a”rcwn diadraèv toèn kòndunon e”rcetai e\n t§% ai\gial§% kaì kelhtò§ e\pibaèv kaì taèv tou% Stefaénou laqwèn fulakaèv a\peédrase proèv thèn oi\keòan cwéran»10.

Questo fatto, che avrebbe potuto rimanere circoscritto nell’ambito di un comune dissenso fra comandanti militari, ebbe incredibili sviluppi. La fuga dell’emiro suscitò talmente l’ira di Maniace che, come sostiene Scilitze, avrebbe addirittura colpito lo stesso Stefano: «o$per maqwèn Maniaékhv e\n dein§% te e\poie_to,kaì toèn Steéfanon summòxanta touét§ u$bresò te a\toépoiv kateékluse kaì toèn seiromaésthn a\nateònav e”paisen au\toèn kataè th%v kefalh%v ou\k o\lògav, r| çéqumon a\pokalw%n kaì a”nandron kaì tw%n tou% basileéwv prodoéthn pragmaétwn»11.

10

G. SKYLITZES, Synopsis historiarum, Berlino 1973, 406. Ibid., 406. Fino a che punto questo episodio può essere considerato veritiero? Bisogna considerare che Scilitze era un dignitario d’alto rango che, nel proposito di sostenere la politica imperiale, avrebbe attribuito una simile azione a Maniace per mascherare la subdola manovra di Stefano finalizzata ad eliminare il valoroso generale dalla scena politica e militare. Infatti, dopo il rimpatrio di Maniace, il comando della spedizione siciliana passò nelle mani di Stefano al quale, frattanto, veniva inviato in appoggio il praipositos Basilio Pediatite. 11


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Naturalmente, l’oltraggiato non esitò ad inviare una lettera al cognato e primo ministro Giovanni l’Orfanotrofo in cui accusava Maniace di star meditando il tradimento e la rivolta contro l’imperatore. Così, l’artefice dei successi bizantini nell’Isola si trovò d’improvviso destituito e richiamato a Costantinopoli, dove venne incarcerato assieme ad uno dei suoi ufficiali, Basilio Teodorocano, mentre il comando della spedizione passava nelle mani di Stefano. Un breve accenno alla spedizione siciliana è presente nella Cronografòa (VI, 76) di Michele Psello (ca. 1018-1081), cronaca degli avvenimenti di cui furono protagonisti gli imperatori bizantini da Basilio II a Michele VII (976-1078). Lo storico, introducendo la vicenda dell’apostasia di Maniace nei confronti dell’imperatore Costantino IX Monomaco (1042-1055), nel 10421043, riferisce di aver incontrato personalmente lo stratega e di essere rimasto sbalordito dalla sua possanza fisica, dal momento che ‹‹la natura aveva riunito in lui tutto quanto s’addice a chi è destinato al comando››12. Tuttavia, egli fu vittima di un triste destino, poiché non gli fu mai concesso di cogliere fino in fondo i frutti delle sue valorose imprese. Infatti, ‹‹ad ogni successo conseguito, subito veniva cinto in catene. Rientrava vittorioso alla reggia e si ritrovava in carcere››: a\ll}o|mou% ti katwérqou, kaì stefanhforw%n au&qiv desmaè perieékeito, e\pan+éei nikhfoérov to_v basileu%si kaì §”kei toè desmwthérion. ‹‹Aveva espugnato Edessa: veniva posto sotto

processo. Era mandato a occupare la Sicilia: perché questa non cadesse in sua mano, veniva ignominiosamente richiamato››: ‘Edessa h$lw, kaì e\n grafa_v h&n, Sikelòan ai|rhéswn e\peémpeto, kaì i$na mhè par´e\keònou a|loòh, a\tòmwv au&qiv a\nekale_to13. Michele Attaliate, nell’unica attestazione dedicata alla Sicilia, nella sua `Istoròa scritta tra il 1034 ed il 1079, ricorda nostalgicamente la perdita delle posizioni siciliane riconquistate grazie all’impresa di Maniace: «kaì ei\ mhè diablhqeìv perì turannòdov o| thèn strathgòan tw%n o"lwn e\mpisteuqeìv Gewérgiov e\ke_nov o| Maniaékhv e\k meésou geégone, kaì a"lloiv a\neteéqh taè tou% poleémou, ka!n u|poè {Rwmaòoiv e\teélei nunì nh%sov ou$tw megaélh kaì periboéhtov kaì poélesi periezwsmeénh megòstaiv kaì tw%n a"llwn crhstw%n 12 13

M. PSELLO, Imperatori di Bisanzio (Cronografia), I-II, Milano 1984, 6, 77. Ibid., 6, 76.


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Marina Manuela Cafà ou\denoèv a\podeéousa. nu%n deè o| fqoénov kaì toèn a"ndra kaì taèv praéxeiv kaì tosou%ton kateirgaésato e"rgon»14.

Anche per Attaliate, dunque, come per lo stesso Psello, il movente delle accuse mosse al generale bizantino sarebbe stato lo fqoénov15. Come è possibile notare, nelle testimonianze degli storiografi contemporanei che menzionano la spedizione siciliana di Giorgio Maniace, non si fa alcun riferimento alla translatio delle reliquie di s. Agata a Costantinopoli, e ciò vale anche per gli storici ed i cronisti dell’età dei Comneni (l’anonimo continuatore di Scilitze, Niceforo Briennio, Anna Comnena, Giovanni Cinnamo, Niceta Coniata, ed i cronisti Giorgio Cedreno e Giovanni Zonara) che, o non toccano mai nei loro racconti avvenimenti siciliani o, se ne fanno menzione, non riferiscono delle reliquie di Agata.

3. LE TESTIMONIANZE DI AREA GUGLIELMO DI MALMESBURY

OCCIDENTALE:

ORDERICO VITALE

E

Constatato il silenzio delle fonti storiografiche bizantine sulla presunta traslazione delle reliquie di s. Agata a Costantinopoli nel 1040 da parte di Maniace, meritano particolare attenzione le testimonianze di due monaci benedettini inglesi, Orderico Vitale e Guglielmo di Malmesbury, autori di opere significative nell’ambito della storiografia della prima metà del XII secolo. Orderico Vitale (1075-1142), inglese di nascita, trascorse tutta la sua vita, a partire dall’età di dieci anni, nell’abbazia di Sant Évroul in Normandia. Qui compose, tra il 1096 ca. ed il 1142, l’Historia Ecclesiastica16, considerata tra le più importanti cronache medievali. 14

M. ATTALEIATES, Historia, Bonnae 1853, 9. Lo fqoénoV può essere considerato un fattore politico di prim’ordine, in un impero in cui il diritto dinastico dipendeva soltanto dal favore dell’imperatore. Per cui, non risultava infrequente che gli imperatori accusassero di alto tradimento personalità divenute troppo scomode che, con i loro meriti, attiravano sempre maggiori consensi, e costituivano una concreta minaccia al loro potere. 16 Commentata e tradotta da Marjorie Chibnall in sei volumi: The Ecclesiastical History of Orderic Vitalis, Oxford 1968-80. 15


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Costituita da 13 libri, l’opera riguarda il periodo compreso tra la conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni (1066), ed i primi anni del regno di Stefano di Blois (1135-1154). Questi eventi storici, comunemente considerati profani, furono collegati da Orderico con la storia della chiesa della Normandia, secondo la nota metafora della vite (la chiesa) e dei suoi tralci (i cristiani), entrambi coltivati da un unico agricoltore (Dio). In quest’opera, in cui i vari avvenimenti appaiono esposti con un linguaggio letterario, secondo le tendenze storiografiche dell’epoca, egli si proponeva di dire il Vero e si ispirava alle due celebri composizioni storiche con lo stesso titolo, quella paradigmatica di Eusebio e quella del monaco benedettino inglese Beda, così come tenne presenti anche i Gesta Normannorum ducum di Guglielmo di Jumièges. Dalla trattazione di Orderico emerge un particolare interesse per le vite dei santi, per i miracoli da essi compiuti, e per le loro reliquie. Così, in un passo dell’Historia Ecclesiastica, Orderico (mentre descrive le dinastie anglosassoni e accenna alle tribulationes che nel mondo erano sorte a quel tempo, riferendosi alla dominazione araba in Sicilia ed in Italia che arrecò molti danni e distruzioni) fa menzione delle reliquie di s. Agata: «Tunc in mundo multae tribulationes exortae sunt, graviterque terrigenas vexantes quassaverunt. Saraceni Siciliam et Italiam, aliasque regiones Christianorum invaserunt, caedes ac rapinas et incendia multa fecerunt. Manichetus imperator Constantinopoleos aggregatis imperii viribus insurrexit, et repulsis post multa detrimenta idololatris, fines Christianorum liberavit. Ossa quoque sanctae Agathae virginis et martyris, aliorumque sanctorum corpora, ne a redeuntibus foedarentur paganis, de Sicilia Constantinopolim reverenter transtulit. Succedente illi Diogene, Osmundus Drengot et Drogo, aliique Normanni coeperunt Apuliam incolere, et in Agarenos vel pseudo-Christianos arma viriliter exercere»17.

17 PL, 188, 404. La testimonianza di Orderico Vitale è presentata dallo Scalia come una prova che conferma la veridicità della traslazione delle reliquie della martire catanese a Costantinopoli. Dalle argomentazioni che egli avanza nel suo contributo, in cui è riportato il testo di Orderico con il nome di Manichetus, si deduce indirettamente che identifichi questo personaggio con Maniace; mentre D’Arrigo (in S. D’ARRIGO, Il martirio di S. Agata nel quadro storico del suo tempo, I-II, Catania 1998, 80), che presenta una versione italiana del testo di Orderico, traduce senza alcuna incertezza Manichetus con Maniace.


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In questa testimonianza Orderico (che sottolinea la propria ostilità nei confronti degli arabi, pagani e idolatri, distinguendoli in modo netto dai cristiani) fa riferimento all’intervento dell’imperatore bizantino, che egli chiama Manichetus, il quale, dopo essersi contrapposto con successo ai Saraceni, avrebbe trasferito a Costantinopoli le reliquie di s. Agata, assieme ad altri corpi di santi, non meglio precisati. Il trasferimento di questi “sacri resti” viene giustificato dal monaco inglese come necessario per preservare gli stessi dalle profanazioni dei pagani che, come si evince dalla frase a redeuntibus paganis, erano ritornati alle loro posizioni. In Sicilia, sappiamo che soltanto alla fine dell’impero di Basilio II i Bizantini tentarono di attuare di nuovo un’attiva politica, mediante il catapano Basilio Boioannes, ma la dominazione araba fu contrastata con esiti di un certo rilievo, dall’impresa del generale Maniace (1038-1040), a cui successero, dopo il suo improvviso richiamo a corte, Stefano ed il praipositos Basilio Pediates, che non furono in grado di evitare che i Saraceni riacquistassero le posizioni precedenti. Dopo il tentativo dei bizantini, sarebbero stati i Normanni ad approfittare delle discordie tra le fazioni arabe nell’isola, conquistandola. Orderico, allora, quando parla di Manichetus alluderebbe a Maniace o a qualcun altro personaggio che in Sicilia contrastò i musulmani? Il fatto che nella sua testimonianza egli precisi che all’imperatore Manichetus successe Diogene (cioè Romano IV Diogene, 1068-1071) farebbe pensare a Costantino X Ducas (1059-1067), ma non sembra che vi furono altri interventi bizantini in Sicilia dopo Maniace, Stefano ed il praipositos Basilio Pediadite. Altrettanto meritevole di approfondimento appare la testimonianza del benedettino e storico inglese Guglielmo di Malmesbury (1095-1143 ca.), considerato, dopo Beda, il più grande degli storici medievali inglesi. Anche lui, come il contemporaneo Orderico, fece in giovane età il suo ingresso nel monastero di Malmesbury, dove fu monaco dall’adolescenza fino al termine della sua vita. La profonda passione che nutrì per la cultura religiosa, storica e letteraria lo spinsero non solo ad acquisire un numero sempre maggiore di testi, anche da altre abbazie inglesi, per arricchire il patrimonio librario del monastero, ma anche a maturare una propria coscienza storica sui più disparati argomenti. Così, redasse significative


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opere che apportarono un notevole contributo alla letteratura inglese ed europea, in particolare quelle di argomento storico: i Gesta regum Anglorum, composti tra il 1125 ca. ed il 1135 ca., in cui trattò la storia secolare d’Inghilterra dal tempo di Beda (673-735) fino all’età a lui contemporanea; i Gesta Pontificum in cui, parimenti, trattò gli avvenimenti della storia religiosa inglese, a partire dal VII secolo fino ai suoi giorni. Per il suo lavoro storico egli non si basò esclusivamente sulle fonti letterarie (ad es. Beda), ma anche su fonti monumentali (iscrizioni, monumenti sepolcrali) e testimonianze orali. In un brano dei Gesta Regum Anglorum, il dotto monaco di Malmesbury, dopo aver passato in rassegna gli imperatori che regnarono a Costantinopoli, allude alle traslazioni di reliquie di cui questi sovrani furono artefici, riuscendo a trasferire nella capitale, da ogni regione, reliquie insigni (come la Santa Croce trasportata da Elena da Gerusalemme) e corpi di santi; tra i numerosi, da lui menzionati, anche quelli delle vergini Agata e Lucia: «Requiescunt ibi apostoli, Andraeas, Jacobus frater Domini, Mathias; prophetae, Eliseus, Samuel, Daniel, et alii plures; Lucas evangelista, martyres innumerabiles; confessores, Johannes Chrysostomus, Basilius, Gregorius Nazianzenus, Spiridion; virgines, Agatha, Lucia; omnesque postremo sancti quorum corpora illuc ex omnibus regionibus imperatores convehere potuerunt18».

Questa notizia, che testimonia, in modo indiretto, la profonda devozione degli imperatori bizantini per le reliquie, allo stesso tempo, è un’ulteriore prova della costante associazione tra le due sante siciliane, Agata e Lucia19. In un altro passo, Gugliemo fa riferimento all’imperatore Manichetes (PL, 179, 1204 ss.) che, per verificare l’attendibilità della profezia del re Edoardo il Confessore20, aveva inviato una lettera al vescovo di Efeso, 18

179, 1310 B. Lo stretto legame tra Agata e Lucia è già messo in evidenza nelle due redazioni, una in lingua greca, l’altra in lingua latina, del martyrion di s. Lucia. 20 PL, 179, 1204 ss.: «Ille [cioè Edoardo] multum cunctatus, tandem instantibus mira respondit: Septem dormientes in Caelio monte requiescere jam ducentis annis in dextro jacentes latere; sed tunc, in hora ipsa risus sui, latus invertisse sinistrum; futurum ut septua19

PL,


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affinché agli ambasciatori del re fossero mostrati i sette dormienti21. La profezia di Edoardo fu confermata, ed il cronista anglosassone conclude l’episodio alludendo alle sventure che capitarono agli imperatori che seguirono a Manichetes: «Tunc etiam, mortuo Manichete Constantinopolis imperatore, Diogenes, et Michaelius, ac Bucinacius, et Alexius vicissim se de imperio praecipitarunt22».

Ma chi sarebbe questo Manichetes? La testimonianza del monaco di Malmesbury permettere di collocare storicamente questo imperatore, contemporaneo del re anglosassone Edoardo (1042-1066) e, come lo stesso Orderico Vitale aveva affermato, precedente all’ascesa al trono di Diogene (Romano IV Diogene, 1068-1071): un altro riferimento che, indirettamente, porterebbe ad identificarlo con Costantino X. Cercando di ampliare la prospettiva in questione, tra gli imperatori bizantini che salirono al trono prima di Romano IV Diogene (1068-1071), e furono contemporanei al regno di Edoardo (1042-1066), ricordiamo: Costantino IX Monomaco (1042-1055), Teodora (1055-1056), Michele VI (1056-1057), Isacco I Comneno (1057-1059), Costantino X Ducas (10591067). Nessuno di questi, tuttavia, porta il nome di Manichetus o ginta quatuor annis ita jaceant, dirum nimirum miseris mortalibus omen. Nam omnia ventura in his septuaginta quatuor annis quae Dominus circa finem mundi praedixit discipulis suis: «gentem contra gentem surrecturam, et regnum adversus regnum […] His auditis, comes militem, episcopus clericum, abbas monachum, ad veritatem verborum exsculpendam, Manicheti Constantinopolitano imperatori misere, adjectis regis sui litteris et muneribus. Eos ille, benigne secum habitos, episcopo Ephesi destinavit, epistola pariter quam sacram vocant comitante, ut ostenderetur legatis regis Angliae Septem Dormientium». 21 BS, 11, 900-901. I sette dormienti erano sette santi che la leggenda fa morire ad Efeso, durante la persecuzione di Decio (250-251) e risuscitare sotto Teodosio II (401-450). La leggenda narra che l’imperatore Decio, viaggiando in Oriente, si fermò ad Efeso e tradusse davanti al suo tribunale, fra altri cristiani, sette giovani i quali, dopo diversi interrogatori, si nascosero in una grotta fuori città per fuggire la persecuzione. Murati per ordine di Decio, essi dormirono un sonno miracoloso e si risvegliarono, come se fosse l’indomani, sotto il regno di Teodosio II, per attestare la realtà della resurrezione dei morti. 22 L c. Guglielmo precisa che dopo la morte dell’imperatore Manichetus, Diogene (Romano IV Diogene), Michele (VII Ducas), Bucinatio (Isacco Comneno) e Alessio (I Comneno), a loro volta andarono in rovina.


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Manichetes, sebbene sia Orderico che Guglielmo concordino nel considerarlo precedente a Romano IV Diogene; per di più, Orderico completa l’informazione sul conto di questo sovrano, ricordando l’impresa siciliana che avrebbe compiuto contro gli Arabi ed attribuendogli la traslazione delle reliquie di Agata e di altri santi. Ciononostante, siamo a conoscenza del fatto che l’ultima significativa presenza dei bizantini in Sicilia sia stata quella del generale Maniace tra il 1038 ed il 1040 che, tra l’altro, non fu imperatore ma fu accusato di tentativi di usurpazione. In un altro passo Guglielmo, nello stilare un elenco degli imperatori bizantini, a partire da Costantino il Grande, non riferisce il nome di Manichetus, né la forma Manichetes: ciò è indicativo del fatto che il cronista inglese, probabilmente, si sia rifatto ad una differente tradizione: «Romanus, Michael, Michael, Constantinus, Theodora imperatrix, Michael, Sachius [cioè Isacco Comneno], Constantinus, Romanus Diogenes, Nicephorus Butanius [cioè Niceforo III Botaniate], Michael»23.

A questo punto, attestato che il nome di Manichetus-Manichetes non corrisponde ad alcun imperatore, quali ipotesi si potrebbero avanzare, per tentare di identificarlo? Forse, potrebbe trattarsi di un termine che qualifica, a mo’ di epiteto, un qualche sovrano, dal momento che Manichetus appare molto vicino all’aggettivo a\nòkhtov, che rientra nell’ambito della titolatura imperiale. Un’altra possibile interpretazione potrebbe essere la seguente: il termine Manichetus/Manichetes sembrerebbe esito di una corruzione di Maniace: cioè, tra Manòakhv e l’aggettivo a\nòkhtov, oppure tra Manòakhv e nikhthév. Potrebbe, dunque, trattarsi del generale Maniace, famoso per le sue vittoriose imprese militari, che non assunse la carica di imperatore ma fu varie volte accusato di apostasia? In questo caso, però, non reggerebbe il fatto che a lui sarebbe successo Diogene. Queste ipotesi, tuttavia, sono destinate a rimanere tali per la mancanza di ulteriori elementi di fatto da sottoporre ad analisi.

23

PL,

179, 1310.


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In conclusione, le testimonianze dei due monaci benedettini Orderico Vitale e Guglielmo di Malmesbury, che redassero le loro opere all’incirca nel primo quarantennio del XII secolo, sembrerebbero sostenere, contro il silenzio delle fonti storiografiche bizantine sottoposte ad esame, la praesentia delle reliquie di s. Agata a Costantinopoli. Rispetto a Guglielmo, la testimonianza di Orderico appare più completa, dal momento che attribuisce tale traslazione all’imperatore Manichetus. L’identità di questo personaggio non è facilmente individuabile, anche perché in Sicilia, contro gli Arabi, dopo l’impresa di Maniace, non risulta che qualcun altro imperatore si sia contrapposto ad essi. L’identificazione di questo personaggio con Maniace, come hanno sostenuto Scalia e D’Arrigo, che non mettono in dubbio l’attendibilità delle informazioni contenute nell’Epistola, non è dimostrabile giacché egli, nonostante risulti contemporaneo di Edoardo, come ha sostenuto Guglielmo, non fu imperatore. Non è da escludere che l’informazione della deposizione del corpo di Agata a Costantinopoli sia stata trasmessa ai due monaci inglesi da tradizioni orali che, come si è visto, tra le abbazie benedettine era molto intensa; ma ci sfuggono i contorni precisi. Un altro elemento da non sottovalutare è il fatto che nelle testimonianze di entrambi i monaci, ed in particolare in Orderico, che mostrò un vivo interesse per le translationes, non si fa minimo accenno al ritorno delle reliquie della martire a Catania che, come si evince dall’Epistola attribuita al vescovo Maurizio, sarebbe stato celebrato in modo solenne e del quale essi avrebbero potuto avere notizia, se si considerano le date di composizione delle loro opere. Questo potrebbe significare o che i due monaci riferirono la notizia della deposizione a Costantinopoli del corpo di Agata prima del 1126 o, se scrissero dopo questa data, che non furono a conoscenza di tale ritorno. Oppure, potremmo anche azzardare un’altra ipotesi: Maurizio, vescovo e abate del monastero benedettino di S. Agata dal 1122 al 1144, potrebbe esser venuto a conoscenza dalle opere dei coevi monaci dell’ordine di s. Benedetto, Orderico e Guglielmo, del fatto che la martire catanese Agata si trovasse a Costantinopoli, e che a sottrarla alla sua patria fosse stato l’imperatore Manichetus, che egli avrebbe potuto identificare con Maniace, la cui spedizione in Sicilia, avvenuta meno di un secolo prima, potrebbe essere stata ancora viva nella popolazione catanese.


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L’oggettiva difficoltà di interpretare in modo univoco i vari elementi messi in luce, o in attesa ancora di ipotesi realmente risolutrici, riflette il clima di incertezza che caratterizza di norma la complessa e sfaccettata problematica relativa alle reliquie ed alle translationes.

4. L’EPISTOLA DEL VESCOVO MAURIZIO: CARATTERISTICHE E TESTIMONI SUPERSTITI

La presunta translatio delle reliquie di s. Agata da Catania a Costantinopoli nel 1040, le modalità con cui furono trafugate, ottantasei anni dopo, dalla capitale dell’impero bizantino, da parte dei due soldati Goselmo e Gisliberto, ed il viaggio del loro ritorno nel 1126, si trovano descritti in un documento, che sarebbe stato stilato dal vescovo di Catania, Maurizio, in occasione della “riappropriazione” da parte della città del santo corpo della martire. Nel suddetto testo, presentato sotto forma di Epistola, il furtum delle reliquie della martire catanese ed il loro trasferimento a Costantinopoli sono attribuiti al generale bizantino Giorgio Maniace, a conclusione dell’impresa da lui condotta in Sicilia contro gli Arabi negli anni 1038-1040. Purtroppo non siamo più in possesso dell’originale testo manoscritto dell’Epistola di Maurizio, conservata nel Tesoro della Cattedrale e contenente l’Historia translationis della martire catanese, a causa del tremendo terremoto che colpì la città di Catania nel 1693. L’unica possibilità di poter accostarci a tale documento è costituita dalla presenza di due codici, superstiti al terremoto: il Liber Prioratus, della seconda metà del XV secolo, ed il Codice degli Uffici, dei primordi del XVI secolo. Conservati attualmente presso l’Archivio Storico Diocesano (in cui confluì, nell’aprile del 2001, l’Archivio capitolare di Catania) i due codici sono stati oggetto di studio da parte di G. Scalia24. Il primo codice è cartaceo, reca sul dorso il titolo Liber Prioratus, scanzia 2°, vol. 44, e presenta la trascrizione della Translatio sante Agate virginis et martiris, fogli da 64 a 74, copia della storia della traslazione

24

Infra, nota n. 9.


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redatta dal vescovo Maurizio. L’epoca di composizione del codice, come ha sostenuto Scalia, in base ad un esame paleografico e ad indicazioni cronologiche di vari documenti presenti nel codice stesso (come la lettera del re Alfonso d’Aragona, recante la data del 1424, e le cronache monastiche, con date del 1466 e del 1486), sarebbe la seconda metà del XV secolo. Il secondo codice di cui si è in possesso è il Codice degli Uffici, costituito da un grosso volume membranaceo, recante sul dorso il titolo De traslatione divae Agathae et alia, scritto in gotico e contenente gli Uffici divini utilizzati nella cattedrale di Catania da tempi antichi. È diviso in due parti: gli Uffici particolari in uso nella chiesa catanese, che sono tredici, e gli Uffici comuni, che sono dello stesso numero. In seguito ad un attento esame della scrittura del codice stesso, all’esame paleografico ed ai riferimenti cronologici interni degli altri Uffici presenti nel volume, Scalia propone una datazione agli inizi del XVI secolo. L’ufficio De Traslatione è collocato all’inizio del codice ed occupa i fogli 1-19; il racconto è intercalato da inni, antifone, responsori e versetti, cui segue il testo del monaco Blandino con la narrazione di alcuni miracoli. Il Liber Prioratus ed il Codice degli Uffici appartengono ad una stessa famiglia di codici, che derivò da un antico esemplare, perduto, in cui il documento della Historia Translationis riuniva in un solo corpus tre parti redatte in date diverse. La prima parte — costituita dall’Epistola del vescovo Maurizio, dal racconto della Traslazione delle reliquie della santa da Costantinopoli a Catania, con la narrazione di alcuni miracoli e dall’assoluzione del vescovo Maurizio — corrisponde al documento mauriziano del 1126; la seconda parte, che presenta la narrazione di altri miracoli, fu scritta dal monaco Blandino e riguarda avvenimenti fino al 1141; la terza parte è costituita dal racconto di un altro miracolo, probabilmente dello stesso Blandino, in un’epoca di poco posteriore alla precedente. Oltre a questi due codici, esiste un’altra redazione del documento del vescovo Maurizio, contenuta nelle Vitae Sanctorum Siculorum, opera monumentale contenente un corpus dei monumenti agiografici relativi ai santi siciliani, raccolti dal gesuita siracusano Ottavio Gaetani e pubblicati a Palermo postumi, nel 1657, da Pietro Salerno, quasi quarant’anni dopo la morte dello stesso Gaetani. Egli trascrisse la Storia della Traslazione da un manoscritto che si conservava nel tesoro della Cattedrale. È lui stesso ad informarcene: hanc historiam à Mauritio, Episcopo Catanensi,


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compositam exscripsimus ex MS. cod. Catanensi, qui in eius ecclesiae thesauro servatur25. A questo stesso manoscritto accenna la Cataneide del 1633, opera di O. D’Arcangelo, riordinata da Valeriano di Franchi, monaco benedettino di S. Nicolò l’Arena. In essa il manoscritto in questione viene designato come primigenium exemplar. Nel sommario del settimo capitolo, D’Arcangelo dichiara che la lettera di Maurizio «cavata dal suo originale fu trascritta in un libro scritto in bergamo [pergamena] degli Uffici divini della nostra cattedrale, conservato nell’archivio della Corte vescovile, e tolta da quel libro fu dato alle stampe nel breviario Gallicano con l’ufficio della festività sotto il XVII agosto»26.

Inoltre, nel primo capitolo della stessa opera, in cui è tracciata la storia dei vescovi catanesi, l’autore relativamente a Maurizio ricorda l’Epistola, affermando che essa «fu da lui distesamente composta e di sua mano scritta, la cui copia autentica è registrata in Carta bergamena conservata nel tesoro di detto Monastero [di S. Agata]».

Da questo stesso primigenium exemplar trascrisse la storia della Traslazione il De Grossis, che si conforma al Gaetani anche nell’assenza dei versus, tre brevi tratti lirici, inseriti dopo alcuni episodi miracolosi. Esiste un’altra redazione volgare, anteriore al sec. XVI, dell’Epistola di Maurizio, rinvenuta in un codice cartaceo della Magliabechiana di Firenze dalla Naselli27, che dimostra che l’Epistola era conosciuta e divulgata in Toscana fin dal XV secolo. Sulla base di significative differenze rispetto agli altri codici, questa redazione si considera derivata da un altro esemplare, anch’esso perduto. In complesso, sulla base di affinità e di divergenze, i codici che conservano l’Epistola del vescovo Maurizio con la storia della Traslazione 25

Cfr. O. GAETANI, Animadversiones, cit., 46. Cfr. G. SCALIA, La traslazione, cit., 58. 27 C. NASELLI, Una redazione volgare dell’Epistola del vescovo Maurizio…, in Archivio Storico per la Sicilia Orientale 19 (1922) 1-28. 26


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delle reliquie della martire catanese, risultano appartenere a tre famiglie, derivate da tre esemplari che, a tutt’oggi, risultano perduti. L’Epistola, che pretende essere stata redatta dal vescovo Maurizio in occasione del ritorno delle reliquie di Agata da Costantinopoli, sembra riflettere l’appartenenza all’ambito del genere agiografico delle translationes, rispettando a grandi linee la struttura narrativa prevista da questo tipo di composizioni. Infatti, il vescovo, mostrando fedeltà al genere, attribuisce esclusivamente alla voluntas divina il ritorno di Agata nella città di Catania e presenta il furtum delle sue spoglie da Costantinopoli come voluto dalla stessa martire (consensus) che, con frequenti apparizioni durante i sogni, manifestò il proprio desiderio al soldato di origine francese Goselmo: «per nocturnam visionem se beatissima virgo et martir Agata semel et iterum atque terzio repraesentans praecipit ut se ab ecclesia, in qua iacebat latenter ablata, Cathaneam ubi orta et passa fuit et pro Christo fuerat coronata martirio reportaretu»28.

Tale furtum, quindi, è considerato come un legittimo rientro dall’“esilio” e viene definito laudabile, come in altri racconti di translationes29. Un altro aspetto comune a questa tradizione narrativa è il viaggio del ritorno che si conclude con esito positivo, grazie alla protezione del santo, così come la gioiosa accoglienza riservata alle reliquie dalla nuova comunità. Nel testo Maurizio, dopo aver riassunto brevemente le vicende del martirio subìto durante la persecuzione di Decio dalla vergine Agata, che rimase sepolta per molto tempo nella città di Catania dove il Signore, per mezzo della sua intercessione, aveva compiuto numerosi miracoli, attribuisce la sottrazione delle reliquie a Maniace, exarchum in bellicis rebus experientissimum, inviato dall’imperatore di Costantinopoli in Sicilia contro i “barbari30” che avevano demolito chiese e distrutto città; il vescovo 28

Cfr. G. SCALIA, La traslazione, cit., 154. L’evento della traslazione di sant’Eugenio da Saint-Denis a Brogne, nel decimo secolo, ad opera di Gerardo di Brogne, fu proprio definito laudabile furtum. Cfr. P. J. GEARY, Furta sacra. La trafugazione delle reliquie nel Medioevo, Milano 2000, 116. 30 Si tratta degli Arabi. Del resto, anche Orderico Vitale (PL, 188, 404) fa riferimento alle stragi, ai saccheggi e agli incendi che in Sicilia furono compiuti dagli Arabi, ma egli esplicitamente fa il nome dei Saraceni. 29


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non menziona, quindi, direttamente il popolo arabo ma fa riferimento, in generale, ai barbari. Forse perché all’epoca in cui si presume essere stata redatta l’Epistola, quando l’Isola era già sotto il dominio normanno, parte della popolazione catanese era costituita da una rilevante presenza musulmana che i nuovi rappresentanti del potere stavano cercando di integrare socialmente, favorendone la convivenza con le altre, in modo da poterla meglio controllare? Il vescovo non sembra mostrare, inoltre, un atteggiamento di condanna nei confronti della sottrazione del corpo di Agata, «cum multorum aliorum sanctorum corporibus», da parte di Maniace, giustificandola come un gesto compiuto per risollevare l’impero alla sua antica potenza: «Qui Maniacus corpus Deo dilectae virginis Agatae cum multorum aliorum sanctorum corporibus Constantinopolim quae prius fuerat vocata Buzantium delegavit, credens orientis imperium iam iamque casurum per eorum preces et merita posse in robur pristinum relevari».

Questa prospettiva di Maurizio si basava sulla profonda fede nutrita verso il potere delle reliquie attraverso cui si manifestava la grazia di Dio; infatti, dal contenuto dell’Epistola si evince che il vescovo di Catania era ben consapevole che i corpi dei santi per eorum preces et merita avrebbero potuto portare significativi benefici alla società. Nel testo viene, infatti, sottolineata la mobilitazione generale che interessò la città di Costantinopoli in seguito alla scoperta del furto, dal momento che tale sottrazione avrebbe costituito un triste praesagium per l’impero. Il racconto del vescovo benedettino prosegue con la descrizione dell’avventuroso viaggio di ritorno in patria delle reliquie, con l’episodio della mammella lasciata sul lido di Taranto, con la festosa accoglienza attribuita alla santa dalla comunità catanese e con la descrizione degli eventi miracolosi che ne seguirono.


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5. RIFLESSIONI SUL PRESUNTO FURTO DELLE RELIQUIE DI S. AGATA DA PARTE DEL GENERALE MANIACE Accusato di alto tradimento, mentre sembrava sul punto di strappare l’Isola agli emiri africani, Maniace fece ritorno a Costantinopoli. Secondo l’Epistola di Maurizio del 1126, proprio in occasione di questo improvviso richiamo, il generale avrebbe trasferito nella capitale dell’impero bizantino le reliquie di Agata assieme ad altri corpi di santi31. Sebbene, come si è visto, il silenzio delle fonti storiografiche bizantine non sia da sottovalutare, così come quello dei documenti ufficiali emanati a Catania tra il 1040 ed il 1126 (periodo in cui, presumibilmente, le reliquie si trovavano a Costantinopoli), si è tentato di riflettere sui presunti fatti. Quali motivazioni avrebbero potuto spingere Maniace a compiere un simile gesto, sempre ammesso con le dovute cautele, che tale furto sia stato realmente compiuto e che sia stato proprio lui a commetterlo? Forse, lo avrebbe fatto per ingraziarsi il favore del sovrano, agli occhi del quale egli era decaduto, nella speranza di evitare la prigionia? O per sottrarre quei resti sacri alla profanazione degli Arabi, come sostenne Orderico Vitale (che attribuisce la traslazione all’opera di un certo Manichetus) o, come affermò il vescovo Maurizio, nella speranza che le preghiere dei santi martiri potessero ristabilire l’antica forza dell’impero bizantino? Certamente, la donazione ai sovrani di reliquie di santi, venerati nei territori di conquista, costituiva un vero e proprio “trofeo di guerra”, se si considera la profonda venerazione mostrata dalla società bizantina nei confronti di queste exuviae sacrae. Lo stesso Maniace, come testimonia Scilitze, dopo la vittoria per la riconquista di Edessa, nel 1032, avrebbe inviato a Costantinopoli una preziosissima reliquia: la lettera autografa di Cristo al re Abgar di Edessa 31 Secondo il veneziano Leo Hostiensis (Chronica Cassinensis, in L.A. MURATORI, Rerum Italicarum Scriptores, II, 387) Maniace avrebbe trasportato a Costantinopoli le spoglie di Santa Lucia da Siracusa. Nota egli, infatti, sotto l’anno 1039 della sua Chronica: «Per id tempus Maniacus dux ab imperatore constantinopolitano ad debellandos Saracenos in Siciliam transmissus. Cumque jam maxima pars Siciliae recepta esset et Syracusana civitas capta, a sene quodam praefato duci mausoleum Sanctae Virginis Luciae proditum eiusque sacrum corpus inde sublatum et in argentea theca cum omni reverentia positum, Constantinopolim est transmissum».


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«o| Maniaékhv […] eu|rwèn deè kaì thèn i\dioégrafon e\pistolhèn tou% despoétou kaì kuròou }Ihsou% Cristou%, thèn proèv Au"garon pemfqe_san, t§% basile_ e\n Buzantò§ a\peésteilen»32.

Da queste riflessioni si evince che potrebbe essere verosimile che Maniace avesse portato con sé a Costantinopoli, dopo le sue imprese condotte contro gli Arabi, alcune reliquie locali. Proseguendo l’analisi sulle testimonianze che potrebbero suffragare la tradizione di questo presunto furto, sostenuta dall’Epistola di Maurizio, secondo il gesuita siracusano Ottavio Gaetani33, Maniace avrebbe consegnato il corpo di Agata all’imperatrice Teodora34 che, a sua volta, lo avrebbe dato in custodia al monastero di Santa Maria35. Questa notizia, omessa e assente nel racconto del vescovo Maurizio (dove non si precisa la chiesa da cui il corpo della martire, a Costantinopoli, sarebbe stato sottratto con furtum laudabile dai due soldati Goselmo e Gisliberto), il Gaetani la attinse dalle schede36 di Costantino Lascaris, dotto letterato che, durante l’invasione di Costantinopoli da parte dei Turchi, 32

Skyl., 387; Georg. Cedr., in PG, 122, 234. O. GAETANI, Animadversiones, n. 6, 47. «Corpus B. Agathae Constantinopolim, ad Theodoram Augustam, delatum à Maniace, collocatum est in monasterio Virginum, cui cognomentum S. Mariae, ex schedis Constantini Lascaris Byzantini, que Messane in thesauro civitatis asservantur». 34 In realtà, se le cose andarono veramente così, nel 1040, Teodora non era imperatrice: il titolo di augusta a lei attribuito dal Gaetani, forse, è da addebitare alle sue due successive reggenze imperiali del 1042 e del 1055-56. Infatti, Teodora fu costretta nel settembre del 1028 (Scyl., 385; Georg. Cedr., Hist., in PG, 122, 229-231) dalla sorella Zoe a ritirarsi nel monastero di Pétrion, e resse le sorti dell’impero in seguito. 35 R. JANIN, Les églises, 134; ID., Constantinople, 407-408. Lo studioso colloca la permanenza di Teodora, tra il settembre del 1031 ed il dicembre del 1055, nel monastero di Santa Eufemia, nel quartiere di Pétrion, dove vi erano anche altre chiese e monasteri. Non risulta, dalle informazioni contenute in queste due opere, che nessuno di questi monasteri del quartiere di Pétrion sia stato dedicato alla vergine Maria, né che in uno dei tanti edifici di culto della capitale dedicati alla stessa, fossero state custodite le reliquie di Agata. Forse, allora, Teodora avrebbe donato il corpo di Agata ad un altro monastero che non fosse quello presso il quale lei permase, o la testimonianza che il Gaetani attinse dal Lascaris si mostra in tutta la sua fragilità? 36 Al tempo del Gaetani queste schede si trovavano ancora conservate nel tesoro dell’Archivio della Biblioteca di Messina. Per punizione dell’insurrezione antispagnola del 1678, esse furono trasferite, assieme ad altri importanti documenti, in Spagna. 33


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riuscì a scappare e a rifugiarsi prima a Milano, poi a Napoli e, infine, a Messina nel 146537. Purtroppo, non siamo in possesso di sufficienti prove per verificare se davvero il furtum delle reliquie di Agata fu compiuto da Maniace, o da qualcun altro personaggio, o se, addirittura, tale avvenimento non si verificò. Certamente indicativo appare, in tal senso, il silenzio delle fonti storiografiche bizantine e quello dei documenti ufficiali emanati a Catania nel periodo in cui, presumibilmente, le reliquie si trovavano a Costantinopoli.

CONCLUSIONE Accanto alle testimonianze che hanno attestato la diffusione del culto di Agata a Costantinopoli (come quella di Metodio di Siracusa), sono state esaminate le fonti che hanno riferito della praesentia del corpo della martire catanese nella capitale dell’impero bizantino, sia quelle che non ne hanno specificato l’epoca né le modalità di acquisizione (come Guglielmo di Malmesbury e Costantino Lascaris), sia quelle che ne hanno fornito altri particolari, come Orderico Vitale che attribuì la traslazione ad un personaggio di nome Manichetus. Oggetto di approfondimento sono state anche le diverse tradizioni che hanno collocato in epoche differenti sia la traslazione delle reliquie di Agata a Costantinopoli sia il loro “ritorno” a Catania: da una parte, quella sostenuta dal vescovo di Catania Maurizio nel 1126, secondo cui Maniace fu l’auctor del misfatto, in occasione del ritorno delle reliquie in quell’anno, ad opera del furtum laudabile compiuto dai soldati Goselmo e Gisliberto; dall’altra, quella del cronista veneziano Andrea Dandolo (prima metà del XIV secolo), secondo cui la translatio del corpus di Agata fu stabilita dagli imperatori Basilio e Costantino, mentre il suo ritorno in Sicilia avvenne dopo la quarta crociata (1204).

37 Tale informazione il Lascaris (secondo D’Arrigo, 84), l’avrebbe ricavata dalla tradizione popolare diffusa a Costantinopoli, ed ancora viva al tempo del letterato, che, probabilmente, si basava sul ricordo degli edifici di culto elevati in onore della santa.


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La mancanza di ulteriori elementi da sottoporre ad analisi, conduce alla conclusione che non è possibile accertare la validità di queste differenti testimonianze. Come si potrebbe spiegare, infatti, il silenzio delle fonti storiografiche bizantine, quello dei documenti ufficiali emanati a Catania tra il 1040 ed il 1126, periodo in cui, presumibilmente, le reliquie si trovavano a Costantinopoli, ed il fatto che la prima menzione della loro sottrazione da parte di Maniace sia avvenuta soltanto dopo quasi un secolo dal “presunto” evento e, soprattutto, in occasione del “presunto” ritorno? Infatti, il primo che menziona il furtum delle reliquie di Agata, attribuendolo al generale Maniace, sarebbe proprio il vescovo di Catania Maurizio, nell’Epistola che egli stesso avrebbe redatto nel 1126, in occasione del ritorno in patria delle reliquie della santa. Quelle che potremmo avanzare sarebbero delle congetture che non avrebbero la possibilità di essere accertate in alcun modo; tuttavia, ci sembra fondamentale riflettere sui moventi e sulle esigenze che agli inizi del XII secolo indussero i rappresentanti della comunità ecclesiastica catanese a riaffermare il culto cittadino verso la santa. Al di là dell’attendibilità dell’Epistola di Maurizio e della veridicità storica della “presunta” translatio del corpo di Agata a Costantinopoli e del suo “presunto” ritorno a Catania, è sembrato opportuno avanzare qualche considerazione sul significato profondo che sembra caratterizzare l’evento del “rimpatrio” di queste reliquie, cercando di comprendere le esigenze della cultura religiosa del tempo. È opportuno considerare una translatio nel suo valore mitopoietico e nelle sue finalità urbanocentriche. L’XI secolo è stato interpretato come un’età di recupero della memoria e dell’identità cittadina attraverso la scoperta di antichi e nuovi culti patronali. Lo dimostrano la costruzione di nuove cattedrali, l’istituzione di nuove diocesi, e la redazione delle agiografie dei nuovi patroni, vere e proprie leggende di fondazione che avevano lo scopo di colmare la lacuna tra il passato mitico delle “origini” ed un presente in fase di grande crescita e rinnovamento socio-istituzionale e, per questo, bisognoso di darsi una nuova base identitaria attingendo al passato e allo spazio cristiani. Nello specifico caso di Catania, la conquista normanna del 1071 portò ad una riorganizzazione ecclesiastica. I normanni avviarono, infatti,


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un processo di latinizzazione nel Mezzogiorno e, pur rispettando il fatto che la maggior parte degli abitanti cristiani della Sicilia fosse di lingua e di rito religioso greco, cercarono di istituire ovunque diocesi latine con a capo vescovi di obbedienza romana. Sebbene sia accertato che durante il dominio arabo i musulmani mostrarono tolleranza verso i cristiani, e che l’esercizio del culto in Sicilia non venne mai ostacolato, ciò non deve far credere che tutto rimase come prima: scomparvero le strutture ecclesiastiche ed i cristiani non potevano svolgere compiti di evangelizzazione o di proselitismo. Inoltre, a differenza delle zone agricole e montane del Val Demone o del Val di Noto, dove fu maggiore la presenza di cristiani, nelle città, dove risiedevano gli emiri ed avevano sede gli organi amministrativi e giudiziari, il loro numero doveva essere poco consistente. Il silenzio assoluto delle fonti arabe e normanne sull’antica Cattedrale di Catania è una conferma a tale situazione. Inoltre, il fatto che il Conte Ruggero subito dopo la rifondazione della diocesi, dispose la costruzione di una nuova Cattedrale, è un’ulteriore indizio che a quell’epoca la primitiva Cattedrale non esistesse più o non fosse più agibile. In complesso, contrariamente a quanto lasciano intendere gli storici catanesi del XVII secolo, nella città di Catania non si può ipotizzare la permanenza del culto cristiano o di quello di s. Agata38. Il progetto di riorganizzazione delle strutture ecclesiastiche della città da parte dei Normanni aveva lo scopo, dunque, di favorire il ritorno della popolazione al cristianesimo ed al rito latino. Impresa ambiziosa se si considera che all’epoca la popolazione catanese appariva costituita da un mosaico di lingue e culture: saraceni, bizantini, ebrei, francesi, tedeschi, lombardi, etc., ai quali i “nuovi dominatori” si proponevano di offrire un modello politico e religioso che potesse accogliere comuni consensi. Ciononostante, malgrado le incolmabili divergenze tra cristiani e musulmani di Sicilia, questi popoli mostravano comuni attese e speranze legate alla salvezza eterna e all’intervento del soprannaturale, nutrivano fiducia verso i miracoli e riponevano fede, rispettivamente, verso reliquie cristiane o amuleti musulmani.

38 A. LONGHITANO, Il culto di S. Agata, in V. PERI (cur.), Agata la santa di Catania, Bergamo 1996, 75-76.


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Per facilitare la convivenza tra vincitori e vinti, ed acquistare crescenti consensi con occasioni di incontro (atti di fede e pratiche liturgiche) l’atteggiamento dei Normanni fu, quindi, di estrema tolleranza. Al fine di consolidare la conquista e la gestione del territorio, strappato con la violenza ai Saraceni, tra il 1086 ed il 1090 fu costruita nel cuore della città la nuova Cattedrale, costruzione religiosa e militare con il duplice compito della difesa materiale e spirituale dei fedeli: un’ecclesia munita. Nel 1092 fu fondato il monastero benedettino di Sant’Agata, ben presto trasformato nella diocesi più potente dell’isola in termini di giurisdizione del territorio. Al vescovo bretone Angerio, che esercitava la funzione di abate, Ruggero I aveva concesso il governo temporale della città e gli insediamenti circostanti. Pertanto, nelle mani di una sola persona, in cui il Conte riponeva incondizionata fiducia, convergevano tre tipi di autorità: quella civile, quella monastica e quella episcopale. In effetti, la Chiesa di Catania si caratterizzò per il nesso strettissimo col potere politico, che mediava ogni rapporto, tra sovrano e sudditi, tra fedeli e chiesa. Dopo Angerio, titolare della sede catanese dal 1122 al 1144 fu Maurizio, autore, secondo la tradizione esaminata, dell’Epistola in cui nel 1126 si dava l’annuncio ai cittadini catanesi del ritorno delle reliquie della martire Agata dal loro “esilio” a Costantinopoli. Se si considera la straordinaria importanza che nell’immaginario collettivo della società medievale assunsero le reliquie di un santo, veri e propri catalizzatori della devozione religiosa, e che proprio tra l’XI ed il XII secolo nei centri abitati si diffuse la tendenza ad incoraggiare il culto del patrono cittadino e delle sue reliquie (che, attirando pellegrini, con la fama dei loro miracoli, contribuivano a far assumere alla città prestigio ed incremento economico), non sembra troppo azzardato pensare che la riscoperta del culto di Agata fu funzionale al progetto normanno di realizzare un’unità di fede, di cultura e di riti, rinnovando l’identità religiosa e sociale della città sotto un simbolo cristiano. In quest’ottica, l’Epistola di Maurizio è il primo documento che offre interessanti spunti di riflessione sul rifiorire del culto di Agata a Catania in epoca normanna. Da allora, La praesentia di Agata, la patrona, attraverso la virtus delle proprie reliquie, rappresentò l’elemento costitutivo dell’identità della comunità cristiana catanese.



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IL SEMINARIO VESCOVILE DI NOTO (1854-1913)*

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1. GLI EVENTI INIZIALI Il 15 Maggio 1844, con la Bolla Gravissimum sanae munus, papa Gregorio XVI fonda la diocesi di Noto, assegnandole un territorio che comprende 14 comuni fino ad allora appartenuti all’arcidiocesi di Siracusa1. Fu eletto primo vescovo Giuseppe Menditto proveniente da Capua. Alcuni documenti ne attestano la volontà di aprire il seminario, tuttavia le precarie condizioni di salute lo costrinsero a lasciare Noto nel 1850 senza averlo aperto2. In questo periodo i futuri sacerdoti venivano preparati nelle città d’origine, affidati alle cure dei vicari foranei. Il nuovo vescovo Giovanni Battista Naselli entrò in diocesi il 24 agosto 18513. Il 16 ottobre con apposito decreto fece conoscere la sua volontà di iniziare l’attività del seminario a partire dal 1 novembre 1851. Tale data fu, tuttavia, spostata al gennaio 18524. Dopo il 9 settembre 1853, * Estratto della tesi di baccalaureato, discussa il 24 giugno 2005 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, relatore il prof. Gaetano Zito. ** Baccalaureato in Teologia. 1 I comuni sono: Noto, scelta come capoluogo della novella diocesi, Ferla, Palazzolo, Cassaro, Pachino, Avola, Modica, Rosolini, Buccheri, Buscemi, Scicli, Giarratana, Pozzallo, Spaccaforno (oggi Ispica). Sull’argomento si veda G. ZITO, Nascita di una diocesi: Noto (1778-1844), in Synaxis 26 (1988) 565-621; A. LONGHITANO, L’erezione della diocesi: realtà diverse in cerca di unità, in Contributi alla geografia dell’agro netino, Atti delle “Giornate di Studio”, Noto 29-30-31 maggio 1998, 333-347. 2 S. GUASTELLA, I vescovi della diocesi di Noto, Noto 2002, 32. 3 Ibid., 40. 4 Circolare del vicario generale 12 Ottobre 1851, in NOTO. ARCHIVIO STORICO DIOCESANO (= N.A.S.D.), Fondo Curia Vescovile (= F.C.V.), sezione (= sez.) Vicariati, Noto, busta (= b.) A508/2, Seminario.


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però, tutto lascia pensare che sia stato nuovamente chiuso, dunque la durata della sua apertura fu di circa due anni. Il 1 novembre 1863 il seminario sarà riaperto da Mario Mirone, terzo vescovo di Noto (1854-1864), e da quel momento non verrà più chiuso, se non per brevi periodi. La difficoltà che i vescovi incontrarono di individuarne una sede stabile fu una delle cause principali del difficile avvio dell’attività del seminario. Il progetto iniziale fu quello di destinare i locali dell’ex abbazia di S. Maria dell’Arco, dopo opportuni adattamenti, a seminario Vescovile, tuttavia il progetto non andò a buon fine. Naselli ritenne di dovere trasferire la sede del seminario nei locali dell’ex convento di S. Maria di Gesù per cui fu approntato un progetto di restauro che tuttavia non venne mai eseguito5. Il 16 Febbraio 1855 Mario Mirone, acquistò la parte meridionale del palazzo dei marchesi Trigona di Canicarao, di fianco alla Cattedrale. I lavori di adattamento dell’edificio cominciarono nel 1856 e si conclusero nel 1861. Venne così destinata a seminario l’ala di Ponente del palazzo. All’arrivo di Giovanni Blandini si resero necessari locali più ampi e magari più adatti di quelli annessi al palazzo episcopale. La scelta del vescovo cadde su un piccolo eremo sito in contrada S. Giovanni di Lardia, a circa un chilometro dal centro abitato. L’erigenda struttura, completata nel 1882, ospiterà 100 alunni.

2. IL SEMINARIO DAL 1852 AL 1878 Il 17 Febbraio 1864 muore il vescovo Mario Mirone. Inizia così un lungo periodo di sede vacante che vedrà a capo della diocesi un vicario capitolare: il parroco della Cattedrale Nicolò Messina. Fra il 1853 e il 1872, cioè dalla fine dell’episcopato di Giovanni Battista Naselli alla fine del governo del vicario capitolare Nicolò Messina, si succedono sei rettori in seminario6. Questo fu un periodo caratterizzato 5 Cfr. G.B. NASELLI, Relatio status Ecclesiae Netensis quam Ioannes Baptista Naselliiam episcopus civitatis Neti, nunc Archiepiscopus Panormitanum Ss.mo Pio Nono Pontifici Maximo offert et humiliat, anno Domini 1854 (fotocopie autenticate), in N.A.S.D., busta Relatines ad limina. 6 Gabriele Lo Presti (1855-1863); Giovanni Battista Bongiorno (1863-1864); Vito


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da instabilità, dovuta certamente al rapido succedersi di figure diverse che, pur garantendo un alto profilo culturale e sacerdotale, tuttavia non potevano garantire una continuità nell’itinerario formativo. L’apertura del seminario coincide con l’inizio del periodo, durato otto anni, in cui la sede vescovile rimase vacante. Inoltre Benedetto La Vecchia Guarneri, eletto vescovo di Noto nel 1872, il cui governo durò solo due anni, non riuscì ad incidere su una realtà che si era consolidata da alcuni anni. Il vero punto di svolta fu l’elezione di Giovanni Blandini, nel 1875, undici anni dopo la morte di Mirone e dell’apertura del seminario. Non mancarono tuttavia punti di continuità nel governo del seminario in questo periodo: riteniamo che essi siano da ricercare nelle figure di Gabriele Lo Presti e Nicolò Messina. Il primo perché fu rettore dal 1855 al 1863, vice rettore e cassiere dal 1864, professore di teologia dogmatica dal 1855 al 1891. Il secondo perché fu professore di diritto canonico dal 1863 al 1890 e perché, in qualità di vicario capitolare, esercitò forti ingerenze sul seminario. Non conosciamo la compagine dei professori nel periodo 1852-1853. Nell’anno 1863 i professori in seminario erano sei, di cui due appartenenti a ordini religiosi7, fra gli altri figura Corrado Sbano8. L’anno successivo il gruppo viene arricchito di altri elementi che si aggiungono o sostituiscono ad altri che vanno via. I religiosi saranno quattro9. Tra il 1865 e il 1866 si verifica un assottigliamento del numero dei professori, forse in parte dovuto alla soppressione degli ordini religiosi verificatasi nel 1866. Nel 1865-66 vengono lasciati i soli insegnamenti teologici, e si formano due classi preparatorie, nelle quali, si può ipotizzare, siano stati raggruppati gli insegnamenti propedeutici alla teologia10. Amato (1864-1865); Antonino Morana (1865-1867); Salvatore Giompaolo (1867-1869); Antonino Jaccarini (1869-1878). 7 Luigi Vasquez, domenicano e Luigi da Noto, carmelitano riformato 8 Canonico della Cattedrale, fu un insigne letterato, legato alla poetessa Mariannina Coffa. In seminario fu professore di lettere e di Storia Ecclesiastica, e, dal 1880 direttore degli studi. 9 Oltre ai due dell’anno precedente sono presenti: Gaetano da Buccheri, cappuccino, e Costanzo da Noto, minore osservante. 10 Giornale di cassa per stipendi a professori e persone di servizio in NOTO. ARCHIVIO STORICO SEMINARIO VESCOVILE (= N.A.S.S.V), Fondo Seminario Vescovile (= F.S.V.) sez. Amministrazione, Registri, b. Am.34/3 .


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Questo periodo, vede un seminario povero di professori e anche di alunni. La difficoltà di reclutare professori per il seminario era legata certamente a ragioni molteplici. Contribuì molto la scarsa mobilità dei presbiteri che notoriamente mal sopportavano gli spostamenti di residenza, anche a causa del fatto che non poteva essere loro garantito un congruo sostentamento, quando si trovavano lontani dalle famiglie che ne potevano avere cura. Ai sacerdoti che risiedevano fuori del loro paese non era possibile garantire né un alloggio adeguato, mancando le case canoniche, né un degno trattamento alimentare11. Inoltre i sacerdoti che potevano accedere all’incarico di professore erano quelli che avevano conseguito un titolo di studio presso una università, o che avevano comunque percorso un itinerario di studi che avesse loro dato una sufficiente preparazione teologica. Ma tutto ciò consentiva loro di aspirare a ricoprire altri importanti incarichi ecclesiastici certamente più redditizi, magari nella medesima città di provenienza12. Tali incarichi (parroco o canonico di una collegiata) erano largamente più prestigiosi di quello di professore in seminario e attiravano di più le aspirazioni del clero13. Quanto detto finora ci fa comprendere come fosse meglio che i professori del seminario fossero cittadini di Noto, e siccome solo una parte 11 Ci sembra particolarmente illuminante la vicenda del sac. Salvatore Giompaolo parroco di Palazzolo che rinuncia a sedere nello scranno di canonico penitenziere della Cattedrale di Noto. 12 Su tale argomento sono molto efficaci le parole di Rosmini il quale afferma che: «In tempi, ne’ quali la grossezza della pensione annessa agli ufficj è assai sicuro indizio da giudicare dell’abilità degli uomini che vi sono applicati, non hassi fortemente a dubitare del gran sapere de’ maestri de’ nostri seminarj, al cui incarico è annesso sì scarso provento, che molte vlte lor pare di toccare il cielo col dito quel dì che uscendo di Seminario giungono sopra un beneficio parrocchiale al quale, anziché alla cattedra, ebbero, come a termine fisso de’ loro voti, sempre l’animo inteso?», l’autore prosegue dicendo che «gli stipendj de’ maestri seminariali equivalgano almeno al provento delle più pingui parrocchie; e che i maestri non si rimovano dalla cattedra se non promovendoli a qualche canonicato o dignità capitolare, o anche all’episcopato»: A ROSMINI, Le cinque piaghe della Santa Chiesa, a cura di C. Riva, Brescia 1966, 99. 13 Il can. Pietro Paolo Spadaro, di Scicli, consegue la Licenza in Sacra Teologia all’Università di Catania. A margine della registrazione del titolo si osserva: «Licenziato onde ottenere un grado conveniente nel clero» in CATANIA. ARCHIVIO STORICO DELL’UNIVERSITÀ (= C.A.S.U.), Fondo Toullier, 265 (numerazione provvisoria = n. provv.).


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esigua dei sacerdoti netini aveva una preparazione che li rendesse idonei all’insegnamento, la scelta era molto difficile. Tutto questo è in parte confermato dal vescovo Giovanni Blandini nella lettera, di cui diremo più avanti, inviata al padre generale dei Padri della Missione, p. Borè, nel 1875 nella quale lamentava proprio la difficoltà di reperire professori per il seminario14.

3. I PADRI GESUITI ALLA GUIDA DEL SEMINARIO (1878-1894) Il vescovo Giovanni Blandini, aveva dunque accertato la mancanza nella sua diocesi di sacerdoti capaci di reggere il seminario. Dal 1878 diede l’incarico di rettore al gesuita Giuseppe Nalbone. Dal 1880 si costituì in seminario una comunità composta da tre padri e due fratelli coadiutori. I padri, oltre ad occuparsi della direzione ed amministrazione del seminario, svolsero l’attività di insegnamento e di direzione e formazione spirituale degli alunni loro affidati15. Il numero dei professori in questo periodo aumenta con l’incremento dei seminaristi e delle materie che venivano insegnate. Man mano che i sacerdoti diocesani si formavano e specializzavano nelle discipline teologiche, sotto il controllo del vescovo, presero il posto dei Gesuiti che rimasero 2 nel biennio 1892-94. Alcuni di questi giovani sacerdoti furono Simone Sultano, Vincenzo Parlagreco, che lascerà il sacerdozio; Antonino Schembri, vice vicario generale e cancelliere. A questi si aggiunga anche Pierpaolo Barresi che fu, giovanissimo, vicario generale e, sia pure per pochi mesi, rettore del Seminario. Il vescovo Giovanni Blandini aveva dunque un progetto: quello di un seminario che formasse un clero di livello culturale più elevato rispetto a quello che aveva trovato, nuovo nelle strutture e nel personale. Per fare questo aveva bisogno di un corpo insegnante numeroso e ben formato. I padri gesuiti diedero un prezioso aiuto al vescovo garantendogli sia la cultura che la disciplina. 14 Lettera di mons. Giovanni Blandini a p. Borè del 12 Luglio 1876, in N.A.S.D., F.C.V., sez. Registri, b.1158 Copialettere, lettera 74, 447-448. 15 Furono rettori del Seminario in questo periodo: Giuseppe Nalbone (1878-1882); Alfonso Labso (1882-1889); Michele Labso (1889-1894).


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Dal 1894 al 1904, furono incaricati di guidare il seminario due sacerdoti diocesani: Giuseppe Serrentino, di Noto, e Pierpaolo Barresi, di Buccheri. Mentre il primo resse a lungo il seminario, il secondo lo fece per pochi mesi a causa della sua prematura morte. La struttura del seminario non cambiò molto in questi anni rispetto alla forma datale dalla direzione dei Gesuiti. La compagine dei professori rimase pressoché immutata, come il numero e il tipo di materie insegnate. Furono questi, inoltre gli anni in cui si realizzò il progetto blandiniano di un Convitto16 per giovani che, pur non avendo aspirazione al sacerdozio, pure volevano ricevere una formazione cristiana. Questo, nelle intenzioni, doveva consentire l’entrata in seminario ai soli giovani con vocazione sacerdotale e dunque di potersi concentrare sulle attività di formazione sacerdotale. Ciò motivò, maturata l’occasione, la decisione di chiamare alla guida del seminario i Padri della Missione, detti Lazzaristi.

4. LA DIREZIONE DEL SEMINARIO AFFIDATA AI PADRI DELLA MISSIONE (19041915) A seguito delle leggi separatiste emanate in Francia dal 1903 vennero chiuse moltissime case religiose e coloro che le abitavano furono espulsi e costretti ad emigrare per mancanza di mezzi sufficienti di sostentamento. L’espulsione dei Padri della Missione dalla Francia li rese disponibili ad assumere la direzione dei Seminari diocesani, come i vescovi, compreso il Blandini, da tempo richiedevano. La risposta affermativa dei padri alla richiesta17 arrivò nel luglio 190418, a settembre il gruppo dei padri che arrivò comprendeva cinque padri sotto la guida di p. François Verdier19, superiore20. 16 Il Convitto S. Luigi era stato aperto nel 1891 e ora vedeva il suo splendore, verrà chiuso durante la prima guerra mondiale a causa del fatto che i locali dove era ospitato si resero necessari per ricoverare i chierici. 17 Non abbiamo tuttavia trovato alcuna lettera con cui il vescovo rinnovava la sua richiesta ai Missionari. 18 Lettera di mons. G. Blandini del 27 Luglio 1904, in N.A.S.D., F.C.V., sez. Registri, C1173 Lettere, 390. 19 Superiore generale della Congregazione dal 1919 al 1933. 20 Inoltre p. Albert Narguet e p. Nicolas Suylen; e due napoletani, p. Vincenzo Paolillo e p. Giuseppe Bottiglieri.


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I padri portarono un grande vento di novità non sempre ben visto dai sacerdoti della diocesi che si videro togliere la guida del seminario. Gli alunni, inizialmente diffidenti21, fecero progressi sia nella disciplina sia nella vita spirituale sia nell’istruzione. I padri si misero a lavorare insieme ai sacerdoti diocesani che continuarono a insegnare in seminario. I professori diocesani attendevano alla formazione degli alunni più giovani, studenti del ginnasio, mentre a quella dei più grandi, studenti di teologia, attendevano i Lazzaristi. I collaboratori di Verdier erano tutti molto giovani, la loro età andava dai ventiquattro ai trenta anni. Questa era stata una esplicita richiesta del Verdier in quanto ciò gli avrebbe consentito di avere collaboratori più disponibili ad adattarsi e meno sclerotizzati nei metodi educativi acquisiti in precedenti esperienze22. Un ruolo centrale fu assunto dal Verdier, attorno alla cui figura ruotava tutta la conduzione del seminario. Il p. Verdier voleva inoltre che la maggior parte dei professori fossero laureati. L’anno successivo i padri della Missione giunsero alla guida del seminario di Caltagirone, nel 1906 a quello di Piazza Armerina, quindi nel 1907 a quello di Agrigento. Dunque nel 1907 i Seminari che in Sicilia erano guidati dai padri francesi erano ben quattro e i religiosi che ne erano a capo dipendevano tutti direttamente da Parigi23. Tuttavia l’esperienza dei francesi in Sicilia non durò molto, tra il 1912 e il 1918 tutti i padri partirono, ciascuno per differenti cause. All’inizio del 1913 muore Giovanni Blandini e dopo pochi mesi giunge a Noto Giuseppe Vizzini. L’arrivo del nuovo vescovo non determinò un brusco cambiamento di rotta nella direzione del seminario, che invece subì un duro colpo dalla partenza del suo rettore. Nel 1915 François Verdier, richiamato in Francia per ricoprire la carica di 2° Assistente al Generale dell’Ordine, dovette 21 Le testimonianze su questo periodo sono state raccolte da p. Mario Sorrentino della Missione di S. Vincenzo in una serie di appunti inediti conservati presso l’Archivio della Casa Provinciale di Napoli. Tuttavia le mie ricerche, fatte presso l’Archivio della Casa Generalizia di Roma, di più sicuri riscontri a quanto il p. Sorrentino scrive non hanno dato risultati positivi. Scegliamo, comunque di dare conto di tali notizie avvertendo che esse sono al momento senza una base documentaria certa. 22 M. SORRENTINO, Appunti inediti, in NAPOLI. ARCHIVIO CASA PROVINCIALE, CONGREGAZIONE DELLA MISSIONE (= N.A.C.P.P.,C.M.), sez. Memorie. 23 Catalogne des Maisons et du personnel de la Congregation de la Mission 1907, Paris 1907.


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lasciare Noto. Dall’Olanda fu chiamato Nicolas Suylen per dare una mano ai padri rimasti. Divenne intanto rettore Matteo Fattomeo che si trovava già sul posto. L’anno successivo divenne rettore Nicolas Suylen il quale rimase con solo due padri a causa del venire meno di molti alunni. Nel frattempo la guerra infuriava e i locali di S. Giovanni vennero requisiti dall’autorità militare per essere adibiti a prigione. Le mutate condizioni, la guerra, i contrasti con Vizzini circa la proprietà di San Giovanni24, l’accresciuta ingerenza del vescovo nella formazione dei chierici, indussero i padri Lazzaristi a lasciare Noto, anche se il vescovo espresse il suo rammarico per la loro partenza25. Il giudizio sulla formazione ricevuta dai chierici che stettero sotto la direzione dei Lazzaristi fu in larga parte positivo, sia da parte di Blandini, che fu manifestamente entusiasta dei padri francesi, sia da parte di Vizzini, che apertamente non espresse mai giudizi negativi, anche perché essi garantivano il rispetto del modello romano della formazione sacerdotale, che era tra le sue principali preoccupazioni. I problemi che furono lamentati furono perlopiù di carattere organizzativo e legati alle differenze culturali, tuttavia non possiamo tacere che i padri della Missione si allontanarono anche a causa dei contrasti che intervennero con Vizzini. Vizzini non seppe come sostituire i padri francesi, per cui assunse lui stesso la direzione del seminario dopo la loro partenza.

5. GLI ALUNNI Quando Naselli aprì il seminario nel 1852 i chierici che risposero al suo appello furono 36. Il 1 Novembre 1863 vennero in seminario 42 chierici paganti26, che nel 1864-65 divennero 5827. Il numero di alunni, 24 Tra le promesse che il vescovo Blandini aveva fatto ai padri Lazzaristi c’era quella della donazione dell’edificio di S. Giovanni. 25 M. SORRENTINO, Appunti inediti, cit. 26 La precisazione è necessaria in quanto i numeri a cui facciamo riferimento sono tratti dai registri d’amministrazione, che non tengono conto delle eventuali eccezioni. Qualora altra fonte dirà qualcosa in merito, ciò verrà menzionato esplicitamente. Registro dei pagamenti fatti dai chierici 1863-1875 in N.A.S.S.V., F.S.V., sez. Amministrazione, Registri, b.A34/1. 27 Lo attesta un documento che riassume l’attività del Seminario e reca anche il


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diminuì progressivamente fino a diventare nel 1874-75 pari a venti chierici e sei secolari. Dopo il 1875 non abbiamo alcuna fonte che ci possa dire quali sono le variazioni numeriche degli alunni fino al 188428. Dal 1884 al 1904 il numero dei chierici non va mai al di sotto di100 unità con picchi di 194 unità raggiunti nel 1885-8729. A partire dal 1905 il numero degli alunni comincia a calare, attestandosi inizialmente intorno a 60 unità nell’anno 1905-190630. Ma il calo si manifesta ben presto e prosegue fino 1914 quando restano in seminario solo 30 alunni che però prima della fine dell’anno diventeranno 24. Di questi i teologi sono solo 9. Il numero maggiore di alunni tra il 1855 e il 1874 proviene da Modica, il paese col più alto indice demografico e con il clero più numeroso31. Sono pochi i chierici provenienti dai paesi meno popolati e dai paesi della costa, Pachino e Pozzallo32. Con l’arrivo di Blandini le cose cambiano anche in conseguenza dell’intensa attività vocazionale e la raccolta di somme per il mantenimento dei chierici poveri. Tra il 1875 e il 1885 Giuseppe Guarino, arcivescovo di Messina, manda i suoi seminaristi a Noto33. Nell’elenco del 1879 sono numerosi i numero degli alunni diviso per le classi di appartenenza, a questo documento se ne accompagnava un altro recante nomi e dati anagrafici e scolastici in N.A.S.S.V., F.S.V., sez. Scuola, Programmi, Sc.1. 28 Dal 1884 sono disponibili i registri di camerate. 29 Camerate 1884-1889 in N.A.S.S.V., F.S.V., sez. Alunni del Seminario, Registri, Al/1. 30 Esami bimestrali del corso teologico- filosofico- ginnasiale 1896-1909 in N.A.S.S.V., F.S.V., sez. Scuola, Registri, Sc.3/1. 31 La statistica del clero del 1869 conta a Modica 103 sacerdoti diocesani non pochi dei quali fino al 1866 facevano parte del clero religioso, contro gli 84 di Noto, che la seguiva quanto a numero di sacerdoti, in N.A.S.D., F.C.V., sez. Atti della diocesi, C1023/ 4 Statistica. 32 La ragione di una tale esiguità di numero si può ipotizzare nel fatto che non fossero favorevoli le condizioni economiche delle famiglie ivi residenti: trattandosi di pescatori aumentava la precarietà del loro lavoro, inoltre a preferenza dei contadini i giovani di quelle famiglie venivano avviati al lavoro fin dalla tenera età. Mancava, ancora, un legame stabile con le comunità ecclesiali, a causa della mobilità degli uomini il cui lavoro li teneva fuori casa per lungo tempo e la mancanza di una stabile comunità parrocchiale. 33 G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (18671894), Acireale 1987, 188, nota 91.


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chierici provenienti da Ragusa, ma soprattutto sono presenti molti chierici da Caltagirone, fra essi i fratelli Mario e Luigi Sturzo. Dal 1884 al 1888 il numero dei seminaristi extradiocesani si aggira intorno a 40 unità, con punte di 49 unità nel 1886-87, costituendo così circa un quarto del totale. Tra le richieste di vestizione dell’abito clericale nel 1847-60 troviamo quelle dei figli di medici, notai e possidenti34, membri di classi economicamente benestanti. Dopo il 1860 il prestigio della Chiesa e delle sue strutture si indebolì, dunque la provenienza sociale dei futuri chierici cambiò. I nobili, i ricchi borghesi, le categorie professionali, sono attratti da altre carriere, così restano i membri delle classi più basse, quelli che provengono dal mondo contadino ed artigiano, che pure già prima diventavano preti. Giovanni Blandini mise molta cura a che il numero dei seminaristi aumentasse, e per fare fronte alle difficoltà economiche dei candidati al sacerdozio fondò l’Opera dei Chierici Poveri. Questo consentì a numerosi giovani che si trovavano in condizioni economiche disagiate di entrare in seminario e di costituire il “patrimonio sacro” necessario per poter accedere al sacerdozio; in caso contrario essi avrebbero dovuto rinunciare alla carriera ecclesiastica, ovvero avrebbero dovuto godere di sovvenzioni economiche dei familiari o di terzi. Così si sottrassero i giovani chierici alle influenze esterne sia delle famiglie come dei patroni che fornivano le somme necessarie al loro mantenimento. Si produce così una frattura tra la classe dirigente civile e quella ecclesiastica, con la conseguenza che ora il clero è in grado di esercitare liberamente la facoltà di critica nei confronti del potere costituito, come probabilmente il clero del ’700 e del primo ’800, nonostante i privilegi, non era in grado di fare35.

34 Richieste di vestizione d’abito clericale fatta da Carmelo Failla, notaio, padre di Costanzo; da Ignazio Fronte, figlio del dottore Giovanni; da Michele Mormino, figlio del possidente don Francesco in N.A.S.D., F.C.V., sez. Vicariati, Modica, b.A393/1 Seminario . 35 Cfr M. GUASCO, Storia del clero, Bari 1997, 55-63.


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6. LA FORMAZIONE DISCIPLINARE, DIDATTICA, SPIRITUALE 6.1. La formazione del clero prima della fondazione del seminario Abbiamo già accennato che fino al 1852, e tra il 1854 e il 1863, la formazione dei chierici che intendessero giungere all’ordinazione sacerdotale era affidata ai vicari foranei della propria città. Da alcune lettere degli anni 1847-48 sappiamo che il vicario foraneo sorvegliava la condotta morale di coloro che intendevano «ascendere allo stato clericale». Non c’era alcun codice di norme stabilito, né un elenco di pratiche da seguire, tuttavia potevano darsi regole occasionali: ad esempio i chierici di Noto erano tenuti a presentarsi alle funzioni in cattedrale, pena la mancata ordinazione. La circolare era a firma del vicario generale36. La formazione culturale era lasciata ai sacerdoti che professionalmente impartivano lezioni a chi ne faceva richiesta. Testimoniano questo uso i molti certificati rilasciati da maestri di grammatica o di eloquenza o di aritmetica37. Altri, quelli economicamente più facoltosi o più ambiziosi di ascendere ad alti gradi della gerarchia ecclesiastica, si rivolgevano alle istituzioni religiose deputate alla formazione scolastica tra cui emergevano i collegi dei Gesuiti di Noto e Modica38. Altri ancora si rivolgevano ai Seminari di altre diocesi39. Se poi si voleva raggiungere un alto grado di istruzione teologica e se ne aveva la possibilità economica ci si rivolgeva alla facoltà di teologia di Catania40: studiare presso l’Università era infatti particolarmente costoso41. 36

sez. Vicariati, Noto, A508/1 Seminario. Richiesta di vestire l’abito clericale di Ignazio Fronte in N.A.S.D., F.C.V, sez. Vicariati, Modica A393/1 e Richiesta di vestire l’abito clericale di Carmelo Failla, padre di Costanzo in ID. sez. Atti della diocesi, Ordini Sacri F, b.C978. 38 Quest’ultimo godeva di grande prestigio, anche se aveva dovuto subire un forte ridimensionamento dopo il 1848. Cfr. G. COLOMBO, Collegium Mothycense, Modica 1993, 189-193. 39 Fra i seminari più ambiti c’era quello di Monreale, di cui danno testimonianza: Carlo Papa, patriota modicano, che lo frequentò negli anni del liceo, in E. SIPIONE, Dissensi familiari e stati d’animo patriottici in attesa del 1860, in ARCHIVIO STORICO PER LA SICILIA ORIENTALE I, 1960, 65-81; e Vito Amato di Buccheri, III rettore del seminario di Noto, che frequentò anche i corsi di teologia, in N.A.S.D., F.C.V, sez. Atti della diocesi, Ordini Sacri. 40 C.A.S.U., Fondo Toullier, 265 (n. provv.). 41 Ibid., 185 (n. provv.). L’incartamento personale di Giovanni Battista Bongiorno 37

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Della formazione spirituale non sappiamo nulla. Possiamo supporre che il sacerdote che aveva in cura il giovane chierico desse alcuni rudimenti per la celebrazione della Santa Messa, l’amministrazione dei sacramenti, la recita del Breviario e le principali pratiche di pietà. Nulla sappiamo delle letture spirituali, delle devozioni o delle pratiche di pietà. Nel complesso possiamo dire che la formazione era lasciata in gran parte all’iniziativa personale dei parroci. Ai vescovi restava solo il compito di raccogliere informazioni, per fare accedere allo stato clericale persone che ne avessero i requisiti. In questo periodo il ruolo del vescovo era pressoché marginale.

6.2. La disciplina Non conosciamo l’esistenza di un regolamento del seminario e dunque la disciplina era oggetto di occasionali interventi. Nel 1867 le difficoltà del seminario furono di ordine economico ed organizzativo. Si lamentava la morosità degli alunni, così il mancato pagamento della retta determinava la non ammissione ai pasti42, inoltre si richiamarono i sacerdoti ordinati negli ultimi anni perché sostenessero gli esami conclusivi, se non lo avevano fatto prima43. I seminaristi venivano divisi per camerate, la cui sorveglianza era affidata ad un seminarista anziano, generalmente un diacono. Dal 1884 le camerate erano di quattro tipi: grandi, grandicelli, mezzani, piccoli, accanto a queste categorie c’era quella dei foristi44. Segnaliamo la presenza dei

contiene ancora le ricevute dei pagamenti fatti. Essi complessivamente ammontano a 77, 55 ducati. A questi bisognava aggiungere le spese di vitto ed alloggio per almeno tre anni. 42 Non conosciamo il grado di applicazione che la norma ricevette. Tuttavia essa consente di attribuire un alto grado di certezza ai registri amministravi che costituiscono l’unica testimonianza del passaggio in Seminario di alunni che altrimenti non conosceremmo. 43 Circolare di mons. Nicolò Messina ai vicari foranei sull’apertura del Seminario 22 Novembre 1867 in N.A.S.S.V., F.S.V., sez. Disciplina, Regolamenti, b. Ds.1. 44 Camerate 1884-1889, in N.A.S.S.V., F.S.V., sez. Alunni del Seminario, Registri, b. As.1/1; Elenco dei Seminaristi 1889-1896 in ID. b. As.1/2; Registro camerate 1889-1903 in ID. b. As.1/3.


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Chierici del Sacro Cuore che avevano una veste differente e particolari intenzioni di preghiera per i benefattori45. Qualche problema dovette costituire anche la divisione dei seminaristi nelle due o tre sedi, distanti circa mezz’ora di cammino: San Giovanni e il vecchio seminario, cui si aggiungono altri che vivevano nella Canonica della Cattedrale, tutti chiamati Succursalisti. Ad essi era preposto un sorvegliante, generalmente un giovane sacerdote. L’arrivo dei Padri della Missione sconvolse non poco la vita del seminario di Noto. Venne introdotta una disciplina più rigida rispetto a quella che i padri trovarono al momento del loro arrivo46, modificarono gli orari, le regole di silenzio, le regole dello studio, della preghiera e delle attività ricreative. Un dato che sottolineiamo è che, mentre gli altri professori mangiavano a parte insieme all’economo, i soli padri Lazzaristi, insieme al Serrentino, che era padre spirituale, mangiavano con gli alunni. Questo è segno di una diversa prospettiva pedagogica che i padri francesi intendevano attuare. Circa il trattamento del vitto, date la scarsezza del cibo, ai seminaristi veniva concesso di consumare provviste che ricevevano dalle famiglie, e in considerazione di ciò essi pagavano somme diverse. Per gli orari la giornata appare molto impegnata.

6.3. La formazione culturale Gli alunni al momento di entrare in seminario dovevano sostenere un esame col quale si determinava il loro grado di preparazione e si poteva così stabilire in quale classe dovevano essere destinati i candidati47. Un altro esame era necessario per passare alla classe superiore48. 45

Cfr. G. BLANDINI, Lettera al card. G. Antonelli, 29-10-1875, in S. GUSTELLA, Spiritualità e attività pastorale del vescovo mons. Giovanni Blandini, Atti del convegno di studi su mons. Giovanni Blandini nel 150° della nascita (Noto 8-9 Ottobre 1982), Noto 1986, 78-79. 46 M. SORRENTINO, Appunti inediti, cit., 7. 47 Circolare del vicario generale 12 Ottobre 1851, in N.A.S.D., F.C.V., sez. Vicariati, Noto, b. A508/2, Seminario. 48 Prospetto dell’insegnamento nel Seminario di Noto nel 1864-65 in N.A.S.S.V., F.S.V., sez. Scuola, Programmi, b. Sc.1.


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Le classi che vennero formate nel 1864 sono: 3 ginnasiali, 1 liceale che comprendevano la filosofia e la retorica e 3 classi teologiche. Nelle classi liceali i programmi prevedevano Filosofia. Matematica. Algebra. Geometria49. Nella classe liceale, ovvero filosofica i testi di riferimento erano dei due volumi del padre Matteo Liberatore50. Per i programmi della teologia essi poco si distaccano dalla struttura che caratterizza gli studi di tutto l’800, essi comprendevano teologia dogmatica, teologia morale, diritto canonico e storia ecclesiastica51. Parziale conferma viene dal fatto che i libri di testo usati nei corsi teologici in seminario sono: per la teologia dogmatica un testo il cui titolo non abbiamo potuto identificare, per la teologia Morale il testo di Pietro Scavini52, che era obbligatorio anche per i chierici esterni53, per il diritto canonico quello di Monsignor Devoti54. Siamo certi che ad un certo punto il Ginnasio venne chiuso, forse per mancanza di alunni55.

6.4. L’opera di Giovanni Blandini. Abbiamo già più volte accennato al problema che Blandini si trovò ad affrontare quando mise mano alla riforma della formazione dei futuri presbiteri. A lui toccava non solo mettere mano alla riforma degli studi teologici, ma anche creare dal nulla gli studi ginnasiali. Egli sapeva bene che bisognava rivolgersi, per aumentare il numero dei chierici, a quei giovani che 49 È probabile che al can. Corrado Sbano, che amava fortemente le lettere e l’erudizione classica, si debba l’impianto degli studi preparatori allo studio della teologia. 50 M. LIBERATORE, Institutiones philosophiae, 2 vol., Roma 1840-1842. 51 M. CATALANO ET AL., Storia dell’Università di Catania, Catania 1934, 315. 52 P. SCAVINI, Theologia moralis universa, Novara 1841?. 53 Circolare del Vicario Generale ai vicari foranei, s.d., in N.A.S.D., F.C.V., sez. Vicariati, Noto, b. A508/2 Seminario. 54 M. DEVOTI, Libri iuris canonici publici et privati libri V, Roma 1803?. 55 Lettera circolare ai R.R. vicari foranei della Diocesi, in La Luce Vera, n. 6, 15 Ottobre 1873, 1-2. Informativa richiesta dal ministro della pubblica istruzione, 1875, in SIRACUSA. ARCHIVIO DI STATO (= S.A.S.), fondo Prefettura, sez. Istruzione Pubblica, b. 245.


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non avrebbero avuto altra possibilità di accedere all’istruzione se non gratuitamente56. Gli sforzi, dunque si diressero in tre direzioni: ripensare l’assetto dello studio in seminario, cercare professori capaci di insegnare al ginnasio e in teologia, reperire i fondi economici necessari per fare fronte alle spese necessarie. Degli ultimi due abbiamo già parlato, resta il primo tema da affrontare: come Blandini pensò e attuò la formazione culturale del suo seminario. Blandini fu molto sensibile alla formazione culturale dei chierici della sua diocesi. Non lesinò il permesso di approfondire gli studi ai suoi alunni, nella consapevolezza di volere preti dotti e santi57. A ciò aggiungiamo che tale esigenza sembra provenire da un preciso intento: quello di fronteggiare la modernità58. Il vescovo vedeva nella “scienza cristiana”, come lui la chiama, un argine contro i pericoli della modernità. Tuttavia questo non ci dice che il vescovo volesse tutti i sacerdoti dotti nelle scienze teologiche e cristiane. Consentì a coloro i quali non mostravano particolari propensioni allo studio, di abbreviarne il corso. Sembra non ci si discosti molto da una concezione pratica della formazione culturale del clero. La teologia serve ad essere migliori pastori, ma quando le menti non sono capaci di accogliere molti contenuti scientifici si consente lo stesso di diventare sacerdoti. Lo stesso Blandini privilegiò l’impegno dei suoi sacerdoti nelle parrocchie, dopo avere espletato un sia pur lungo periodo di insegnamento59. 56

Cfr. G. BLANDINI, Lettera pastorale, in La Luce Vera, n. 18, 10 Settembre 1876, 321-324 . 57 Cfr. Lettera di mons. G. Blandini del 16 Ottobre 1903, in N.A.S.D., F.C.V., sez. Registri, C1172 Lettere, 339. 58 «Sesto, invitiamo ed esortiamo gli appassionati amatori della scienza cristiana, che del loro nome e del loro appoggio ci aiutino a rendere più feconda e attuosa l’Accademia di s. Tommaso d’Aquino, già da tre anni costituita nel nostro Seminario. L’ossequio della nostra fede è razionabile, come ci ha detto s. Paolo, e prova n’è, fra le altre luculentissima, l’Angelo delle scuole, nella persona di cui toccò il fastigio la santità e riparavasi sfolgorante l’enciclopedia dell’umano sapere. Siamo noi i figli della luce, il nostro Dio ama titolarsi il Signore delle scienze – Deus scientiarum dominus (1 Reg.2,3)»: G. BLANDINI, Lettera pastorale per pubblicare la enciclica del papa contro la massoneria, Noto 1884, 43. 59 Anche quando i professori restavano a Noto, veniva loro dato un incarico di rilievo che portava via molto tempo. Un esempio di ciò lo possiamo individuare in Pier Paolo


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Non si trattava di una deliberata avversione per gli studi, che anzi doveva amare molto, ma di una preoccupazione di assicurare pastori60. Emerge, dai suoi scritti l’immagine di una Chiesa assediata, che ha bisogno di soldati preparati, ma che non possono soffermarsi a studiare le strategie belliche ma debbono imparare subito ad usare le armi per la battaglia. Fuor di metafora, crediamo che Blandini volesse sacerdoti preparati, e non teologi speculativi, per fronteggiare una modernità che secondo lui portava con sé serissimi rischi per la fede. Il problema maggiore che si trovò ad affrontare Blandini fu quello di dare al seminario un’impostazione del tutto originale e si trovava di fronte alla necessità di riorganizzarne le strutture quasi allo stremo61. Il programma della scuola comprendeva tre periodi: il periodo letterario o classico; il periodo filosofico; il periodo teologico62. Nel periodo letterario si approfondiscono le lingue, sia in forma scritta che parlata. Questo periodo è diviso in due: elementare e classico. Il periodo filosofico comprende lo studio della filosofia, al centro di essa è la filosofia di s. Tommaso d’Aquino63, A completamento di questi Barresi, che da professore di teologia in Seminario, divenne vicario generale a meno di quarant’anni. 60 «vi ci spronava gagliardamente il pressante bisogno di Sacri Ministri, che ovunque si sente, e nella nostra Diocesi in modo speciale, avendo noi qualche borgata, ove un solo Sacerdote deve sacrificare due volte in ogni dì festivo, perché i fedeli satisfacciano al precetto di ascoltar la Messa; e qualche altra di sette mila e più anime, la quale è servita da soli due Sacerdoti, con quella iattura di vantaggi spirituali che ognuno immagina. Si aggiunga a ciò il riflettere, come accennammo nella nostra Lettera circolare l’anno passato, che dei viventi Operai nella vigna del Signore altri son resi inerti dagli acciacchi della vecchiaia, ed altri nati e cresciuti in epoca ben diversa della nostra non comprendono abbastanza i bisogni contemporanei, quali soldati non usi al fuoco ed alla mischia mal saprebbero reggersi contro l’urto della battaglia»: G. BLANDINI, Lettera pastorale, cit., 322. 61 Si voleva dare grande visibilità alle attività del Seminario, soprattutto con gare, concorsi ed accademie poetiche, che si svolgevano in Cattedrale o in Seminario, alla presenza del pubblico e il cui resoconto veniva puntualmente riportato sul giornale. Lo scopo era quello di raggiungere così i benefattori e renderli edotti sui progressi dei loro protetti, motivandoli magari ad una maggiore generosità. 62 C. SBANO, Discorso, in La Luce Vera, 1 gennaio 1881, 1-2; 1 febbraio 1881, 1-2;1 marzo 1881, 1-2. 63 In quegli anni veniva riscoperta per l’impulso decisivo di papa Leone XIII con l’enciclica Aeterni Patris del 1879.


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studi troviamo la Geografia, la Storia e la Matematica, «la prima e la seconda danno l’erudizione, la terza disciplina, ordina e inacuisce l’ingegno». Il periodo teologico resta diviso nelle quattro discipline classiche di Teologia, Morale, Diritto Canonico e Storia ecclesiastica. In questo periodo si aggiunge lo studio della Sacra Scrittura. Per altri approfondimenti si dovrà aspettare l’arrivo dei padri Lazzaristi. Abbiamo già accennato alla possibilità che veniva data agli alunni meno dotati di seguire un corso abbreviato che comprendeva il solo studio della Morale, con esclusione della teologia Dogmatica. Alla fine del corso ginnasiale e liceale, o filosofico, ai chierici veniva data la possibilità di conseguire un titolo valido presso le scuole dello Stato64. I Padri della Missione portarono certamente una grande novità. La formazione che essi condussero fu quella scelta dal p. Verdier e dunque sullo stampo di quella di Montpellier, dove era stato superiore. Nel corso teologico, quello preso dai padri lazzaristi vennero introdotte delle novità: anzitutto un maggior rigore nella disciplina dello studio e un maggior rigore nell’insegnamento. Agli alunni, oltre alla frequenza scolastica, venne richiesto di sostenere un esame quindicinale che consisteva nell’assegnazione di un tema da svolgere su argomenti discussi a scuola. Questi esercizi preparavano gli alunni agli esami trimestrali scritti ed orali. L’anno 1904-1905 vide l’introduzione di materie quali l’Ebraico, il Canto gregoriano e le Cerimonie Sacre, che l’anno dopo divenne Liturgia65, a queste si aggiunse l’anno seguente anche la Patrologia66. Nell’anno 1907-1908 il corso di Perfezionamento, che seguiva il ginnasio e precedeva la filosofia, fu soppresso e sostituito con il Liceo.

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Dal Seminario dei chierici in Noto, in La Luce Vera, n. 8, 1 agosto 1884, 2. Libro dell’Esito 1903-1905 in N.A.S.S.V., F.S.V., sez. Amministrazione, Registri, Am.38/2. 66 Essa sarebbe stata imposta dalla riforma degli studi nei seminari voluta da papa Pio X ed attuata con il Programma generale di studi del 5 Maggio 1907, cfr. La riforma della Chiesa per la restaurazione cristiana della società. Le visite apostoliche delle diocesi e dei seminarid’Italia promosse durante il pontificato di Pio X (1903-1914), Roma 1998. 65


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6.5. La formazione spirituale. La prima formazione spirituale del seminario di Noto si svolgeva nel modo in uso presso i Collegi dei Gesuiti, sia pure con gli opportuni adattamenti. Con l’arrivo dei padri Gesuiti, precisamente nel 1882, venne istituita la figura del prefetto di Spirito, o di Spiritualità in seminario. Prima, tuttavia, è probabile che tale compito fosse svolto dal rettore Giuseppe Nalbone, che allora non aveva altro incarico. Erano in uso un libretto già usato presso il Collegio dei Gesuiti di Noto: l’Esercizio di devozione al Sacro Cuore di Gesù67, ad opera del gesuita Alfonso Muzzarelli, e un’altra raccolta di orazioni dal titolo Indirizzo alla via della Salute68. Blandini, nella sua relazione ad limina del 1882, ci informa che gli esercizi spirituali vengono svolti «iuxta s. Ignatii de Loyola»69. I Padri della Missione introdussero la pratica della meditazione quotidiana per un quarto d’ora al giorno70. Le letture spirituali erano diverse tra i piccoli e i grandi.

CONCLUSIONE Riprendiamo ora i fatti principali che siamo stati in grado di ricostruire: l’apertura del seminario non avvenne subito dopo la fondazione della diocesi nel 1844, ma durante il breve governo del secondo vescovo di Noto Giovanni Battista Naselli (1851-1853) nel 1852. Essa tuttavia non fu di lunga durata, ma il seminario rimase aperto appena due anni, poi fu chiuso nuovamente. L’apertura definitiva del seminario avvenne il 1 Novembre del 1863, alla presenza di Mirone, il quale morì poco dopo, nel 67

A. MUZZARELLI s.j., Esercizio di divozione al Sacro Cuore di Gesù, Palermo 1843. Indirizzo alla salute, Lione 1843. 69 G. BLANDINI, Relationes Status Netinae Diocesis quas ad Eminentiss. Dominum S. Congregationnis Concilii Cardinalem Praefectum exhibet Joannes Blandini eiusdem diocesis Episcopus, Noto, 8 dicembre 1882, (fotocopie autenticate), in N.A.S.D., busta Relatines ad limina. 70 M. SORRENTINO, Appunti inediti, cit., 6. 68


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Marzo del 1864. Da questo momento si aprì un lungo periodo durato otto anni, in cui la sede episcopale di Noto rimase vacante. Durante questo periodo mancò un indirizzo unitario della vita della diocesi e, per quanto ci riguarda, anche del seminario. La fine di questo periodo di transizione, non ai nonostante il breve episcopato di Benedetto La Vecchia Guarneri (1872-1874) avvenne con la nomina a vescovo di Giovanni Blandini nel 1874. Abbiamo chiamato l’opera di Blandini la rifondazione del seminario, ed in effetti essa fu una vera rivoluzione, frutto di un impegno che nasceva dalla convinzione che la formazione era essenziale per avere un clero di buona qualità. L’incisività dell’azione di Blandini fu data anche dal fatto che il suo governo durò a lungo, ed ebbe a disposizione tempo e mezzi per attuare il suo progetto. Tuttavia dobbiamo notare che proprio la lunghezza del suo episcopato non consente di dare un giudizio unitario sulla formazione che si dava nel seminario al suo tempo. Abbiamo individuato almeno tre fasi di tale formazione, corrispondenti al tipo di superiori cui era affidato il governo del seminario: i padri Gesuiti (1878-1894), i sacerdoti diocesani (18941904), i padri Lazzaristi (1904-1916). Se lo sforzo del vescovo fu quello di dare un indirizzo unitario alla formazione del clero secolare, l’attuazione di questo indirizzo non diede frutti sempre omogenei. Dal tenore di quanto abbiamo detto sembra che abbiamo formulato un giudizio oscillante, in realtà il giudizio non può che essere diverso, secondo il periodo che si intende trattare. Se i padri Gesuiti si attennero alla tradizione del loro insegnamento e svolsero il loro lavoro con estrema perizia, con i sacerdoti diocesani il vescovo poté intervenire più liberamente ad introdurre nuovi insegnamenti, basti pensare all’introduzione nell’anno scolastico 1902-1903 della Sociologia tra le materie insegnate nel corso teologico, tuttavia il periodo di governo dei sacerdoti diocesani non fu nel complesso positivo. Ci sembra importante sottolineare un dato. La formazione del clero e, conseguentemente, la sua vita, sfuggiva al controllo dei vescovi di Noto. Il clero, fino all’apertura del seminario nel 1863, continuava a formarsi nei propri paesi, sotto l’influenza del clero locale e delle famiglie con conseguenze negative sulla disciplina e sulla condotta morale di esso. A tutto ciò si aggiunga che i giovani chierici, al momento dell’ordinazione, non venivano ordinati dal vescovo diocesano, ma da un altro a cui presentavano le lettere dimissoriali.


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La necessità di un seminario diocesano rispondeva, quindi, ad una fondamentale esigenza ecclesiale. Non solo per avere un clero “dotto” o spiritualmente ben formato, ma per avere un clero che avesse un’idea di Chiesa che si allontanasse da quella del campanile cittadino e una visione di vescovo che non fosse quella di un alto burocrate. Se questo è il giudizio per il periodo precedente al 1874, con la venuta in diocesi di Giovanni Blandini si inaugura un lungo periodo di stabilità. Il rapporto dei chierici con il vescovo sembra fu influenzato dal trasferimento del seminario a San Giovanni. Se questo consentì un notevole miglioramento delle condizioni logistiche e dunque dell’insegnamento, non favorì certo il contatto frequente con il vescovo. Ciò spiegherebbe il perché furono pochi i sacerdoti che seguirono Blandini nel suo impegno sociale. Non si può certo dire che tutti i chierici furono indifferenti a tale impegno del vescovo, ma mancò la proliferazione di opere sociali come quelle che in quel periodo impegnarono tanti in Sicilia. Il vescovo voleva sacerdoti pastoralmente preparati, fedeli ai modelli della formazione romana, così è da leggere l’impegno a ricercare superiori che ne garantissero il rispetto. Meno rilevante sembra l’impegno nella formazione sociale. Tutto questo richiederebbe una più attenta riflessione sulle condizioni della Chiesa locale di Noto e sul suo clero. Nel complesso, tuttavia, sembra che il vescovo lasciò sempre ampia autonomia ai superiori che si avvicendarono in seminario. La sua presenza non sembra invadente e ciò, sommato alla lontananza logistica del seminario, ci sembra possa spiegare che i seminaristi e quindi i sacerdoti non fossero del tutto in linea con il loro vescovo. Non possiamo, tuttavia, negare che l’impegno che Blandini mise nella formazione della diocesi intera fu elevato, e il seminario si inserì in tale opera.


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ARCHIVI ECCLESIASTICI ITALIANI: SITUAZIONE E PROBLEMATICHE*

GAETANO ZITO**

1. UNA NUOVA STAGIONE PER GLI ARCHIVI ECCLESIASTICI Da un ventennio circa in Italia l’attenzione verso il patrimonio archivistico ecclesiastico si è molto sviluppata e consolidata. Sensibilità ed interesse per la documentazione in essi conservata vengono espressi ormai da soggetti diversi, istituzionali e privati, accademici e localistici, ecclesiastici e civili. Atteggiamenti che sono conseguenza di fattori molteplici, dei quali mi limito ad enunciarne soltanto alcuni che mi sembrano più rilevanti. La ricerca storica, dalla lezione degli Annales in special modo, ha sviluppato nuovi percorsi di indagine archivistica. La nuova lettura della documentazione ha permesso, di conseguenza, di garantire un fondamento scientifico, sempre più valido e di ampio respiro, alla storia e alla cultura socio-religiosa locale per meglio delinearne l’identità. Non solo tesi di laurea e di dottorato ma anche semplici cittadini hanno avviato percorsi di ricerca sulle tradizioni e la storia del proprio territorio. Si è esteso il desiderio e il senso di responsabilità finalizzati a custodire e mettere in luce la memoria ecclesiale, intesa anche come memoria della comunità civile. Non sono mancate precise direttive dell’autorità ecclesiastica per una più accorta conservazione e per favorire la fruizione degli archivi. La * Testo dell’intervento tenuto al Workshop organizzato dall’Institut für Österreichische Geschichtsforschung, Vienna 11 luglio 2006. * Docente stabile di Storia della Chiesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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nuova stagione di intese tra Stato e Chiesa in materia di beni culturali ha prestato la debita attenzione anche agli archivi ecclesiastici. Insegnamenti specifici, di archivistica ecclesiastica e di storia delle istituzioni ecclesiastiche, sono stati inseriti nei corsi di laurea in beni culturali istituiti in diverse Università italiane. Può ormai considerarsi universalmente acquisita la persuasione che la documentazione archivistica ecclesiastica è indispensabile alla comprensione, tutela e valorizzazione di tutto il patrimonio culturale nazionale. Un ruolo del tutto peculiare non può non riconoscersi all’Associazione Archivistica Ecclesiastica che ha contribuito in modo determinante, soprattutto nel mondo ecclesiastico — e non solo nazionale —, alla formazione e diffusione di una cultura archivistica e di una maggiore liberalità nel rendere consultabili gli archivi. Ne fanno fede gli atti dei ventidue convegni celebrati, le guide degli archivi diocesani e degli archivi capitolari, il manuale di archivistica ecclesiastica, Consegnare la memoria, i volumi della collana Quaderni di Archiva Ecclesiae. Si tratta di un concreto corpus di cultura archivistica che spazia su tutti i versanti delle problematiche connesse con la conservazione, gestione, valorizzazione e fruizione degli archivi ecclesiastici. A questa attività associativa sono riconducibili, direttamente o indirettamente, convegni e pubblicazioni, locali e nazionali, in alcuni casi di importante valore scientifico. L’esigenza della ricerca ha favorito, poi, l’ordinamento, la redazione di strumenti di indagine (guide, inventari, strumenti di consultazione), il restauro di documenti e l’apertura di archivi in passato tenuti soltanto come santuari inaccessibili, destinati esclusivamente alla conservazione di carte antiche non meglio identificate. Non meno importante è stato l’apporto degli ordini religiosi e degli istituti di vita consacrata per la valorizzazione del materiale documentario conservato nei loro archivi, in molti casi determinante per la storia del territorio e delle chiese locali. Si è in genere provveduto a rendere consultabili a studiosi e ricercatori gli archivi degli istituti di più antica istituzione. Mentre, l’esigenza di riscrivere le costituzioni di ordini religiosi e istituti di vita consacrata, per adeguarle agli orientamenti del Concilio Vaticano II, ha determinato l’esigenza di ricerche “interne” per recuperare l’idealità delle origini, meglio delineare il carisma di fondazione e dotarsi di una ricostruzione scientifica della figura del fondatore. Condizioni che hanno prodotto


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un accorto ordinamento degli archivi storici e, in certi casi, una più idonea gestione degli archivi correnti. Il mondo degli archivi ha vissuto una stagione molto importante anche per l’adozione delle nuove tecnologie. L’introduzione di attrezzature per la fotoriproduzione di documenti per diversi anni ha svolto un ruolo determinante per favorire la ricerca degli studiosi. Di tali attrezzature ormai conosciamo i limiti, soprattutto per la tutela dell’integrità del materiale archivistico: si pensi al rischio di rompere la legatura dei registri per favorire la fotoriproduzione. Rischio presente anche nelle operazioni di microfilmatura che, per un certo tempo, ha prestato un buon servizio alla conservazione dei materiali d’archivio. In questi ultimi anni si è avviata l’introduzione dell’informatica, con lo sviluppo della digitalizzazione, e si è determinato un maggiore utilizzo a servizio degli archivi. È un mondo di cui elogiamo i pregi ma cominciamo ad intravedere qualche punto debole: per esempio, la durata del supporto digitale. Con l’espansione di internet, infine, oltre a copie di documenti in formato digitale e in trascrizione, è possibile fruire in rete di guide e inventari che agevolano la consultazione degli archivi su scala internazionale. Su questo versante, però, è necessario che l’archivio si attrezzi per essere in grado di rispondere alle richieste di riproduzione di documenti pervenute da utenti virtuali che non hanno mai visto l’archivio. Il richiamo di questi fattori fa comprendere come sia in atto una mutazione della fisionomia degli archivi ecclesiastici e l’archivista ecclesiastico si trovi di fronte a nuove sfide.

2. QUANTITÀ E TIPOLOGIA DI ARCHIVI È opportuno, a questo punto, chiedersi quanti siano gli archivi ecclesiastici in Italia. Si può, così, meglio intendere quali problematiche presentano, che cosa comporta la loro gestione. Assumiamo come fonte il comunicato stampa distribuito in occasione dell’Intesa per la conservazione e la consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche, firmata il 18 aprile 2000 dal Ministro per i beni culturali, Giovanna Melandri, e dal Presidente della Conferenza episcopale italiana, card.


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Camillo Ruini. In Italia vengono computati: 227 diocesi, 25.102 parrocchie, 274 seminari diocesani, 16.920 comunità di Istituti religiosi, 27.357 tra scuole secondarie e superiori, ospedali e altre istituzioni dipendenti da enti ecclesiastici. In tutto circa 70.000 istituzioni ecclesiastiche, presso le quali esistono altrettanti archivi. Ad essi vanno aggiunti gli archivi storici dei capitoli delle cattedrali (sono circa 300), delle chiese collegiate, delle confraternite, delle conferenze episcopali, dei tribunali ecclesiastici diocesani e regionali. Inoltre, gli archivi di altri enti ecclesiastici scomparsi, come gli archivi delle diocesi e delle parrocchie soppresse ed accorpate nel 1986. In Italia esiste quindi una notevolissima quantità di archivi ecclesiastici. Si stima che circa 100.000 archivi possono essere classificati come ecclesiastici, nel senso di archivi che testimoniano la manifestazione e la memoria di un istituzione che esprime l’esperienza cristiana. Ad essi va aggiunto un ulteriore rilevante numero di archivi connessi con la capillare diffusione di movimenti, gruppi e associazioni ecclesiali su tutto il territorio nazionale. Di questi, purtroppo, non è possibile avere un censimento, poiché i singoli gruppi spesso hanno un’esistenza breve e, pur avendo prodotto documentazione utile alla memoria ecclesiale oltre che civile di quel luogo, può accadere che venga dispersa al momento in cui il gruppo finisce di esistere. Va osservato che la prevalente attenzione posta sugli archivi storici diocesani e, in diversi casi, su quelli parrocchiali, lascia in ombra l’attenzione su molti altri archivi ecclesiastici e non favorisce, quindi, la possibilità di avere una comprensione esatta della loro quantità. Tutti questi archivi chiedono spazi sufficienti e idonei, regolare gestione e personale ben preparato, fondi finanziari, attrezzature e tecnologie appropriate. La copiosa documentazione che si conserva in ogni archivio ecclesiastico è memoria delle istituzioni e delle comunità cristiane che l’hanno prodotta. Ma anche del territorio in cui hanno operato. Tale documentazione, infatti, testimonia pure di vicende sociali, economiche e politiche accadute nello stesso territorio e con le stesse persone come protagoniste. Anche per tale ragione, oltre 30.000 archivi ecclesiastici hanno ricevuto l’attributo di “archivio di particolare interesse storico” da parte dell’autorità civile competente.


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3. NUOVA FISIONOMIA… I fattori sopra richiamati, circa la cresciuta sensibilità verso gli archivi ecclesiastici, hanno reso ormai superata la semplice e abituale considerazione di essi come deposito documentario, accessibile soltanto ad una ristretta cerchia di studiosi. Non solo. Sembra così destinata pure ad archiviarsi — sia permesso l’uso del verbo —, come conseguenza della prassi, una concezione degli archivi come “res” privata. D’altronde, alla luce della lettera della Pontificia Commissione per i Beni culturali della Chiesa su La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici (1997), che abbiamo apprezzato e consideriamo ormai la magna charta del nostro lavoro di archivisti, chi si occupa di archivi della Chiesa è chiamato a maturare una visione di servizio ecclesiale dell’archivio, per la promozione della cultura e della pastorale nella comunità cristiana. Gli stessi fattori, uniti ad una certa sensibilità verso il più vasto patrimonio culturale, si sono incrociati, e continuano ad incrociarsi, con l’esigenza occupazionale del mondo giovanile. Da parte di non pochi giovani che conseguono congrui titoli accademici e frequentano appositi master di specializzazione viene avanzata la richiesta di possibilità di impiego nell’ambito degli archivi ecclesiastici. Un precedente significativo può essere considerato il progetto di inventariazione informatizzata del patrimonio storico-artistico ecclesiastico, avviato dall’Ufficio nazionale per i Beni culturali della Chiesa della Conferenza Episcopale Italiana, e in molte diocesi già completata (si può visitare la banca dati pubblicata sul web http://www.chiesacattolica.it/beweb/). Per realizzare questa inventariazione è stato indispensabile servirsi anche di personale esterno all’organigramma delle curie diocesane. Allo stesso modo, anche per l’inventariazione, la catalogazione e l’informatizzazione degli archivi si è creduto che potessero aversi possibilità di impiego per i giovani, con contratti a progetto e a tempo determinato. Laddove fosse possibile, ovviamente, che ben vengano simili opportunità. Accompagnate, tuttavia, da una rigorosa selezione del personale, da quelle ovvie cautele che facciano evitare forme di strumentalizzazione del patrimonio archivistico, appiattimento su logiche informatiche e distorsione di scopi istituzionali.


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4. … E NUOVE PROFESSIONALITÀ Nuove problematiche emergono dall’affacciarsi alle porte degli archivi di collaboratori. La crescente difficoltà a destinare o a reperire, tra gli ecclesiastici della diocesi, oppure tra i membri di un istituto di vita consacrata, chi possa o sia disponibile a compiere un apposito itinerario di preparazione ad assumere il ministero di custode e promotore della memoria custodita negli archivi e da consegnare alle nuove generazioni, impone di allargare gli orizzonti. Il fenomeno, in fase di sviluppo in diverse zone della penisola, non è privo di problematiche per i responsabili istituzionali degli archivi ecclesiastici. Fatta salva, anzitutto, una sufficiente maturità umana e una indispensabile sensibilità ecclesiale in chi dovrebbe ricevere l’incarico di archivista, in via del tutto esemplificativa possono almeno tenersi in conto: la preparazione specifica e le competenze, in quale istituzione maturate e con quale apposito itinerario; definire con chiarezza e puntualità gli obbiettivi che l’istituzione intende conseguire e che valgano come mansioni assegnate, su cui compiere delle periodiche verifiche; individuare la corretta fisionomia giuridica dell’inquadramento lavorativo e i necessari fondi finanziari per garantire un’equa retribuzione e la copertura delle spese per il regolare andamento dell’archivio. A questi criteri si accompagnano, inoltre, il dovere di tutelare la documentazione archivistica, garantire la professionalità nella gestione e nel servizio agli studiosi, la vigilanza a non mortificare l’entusiasmo e a saper valorizzare la disponibilità. I possibili nuovi collaboratori per l’archivio, per lo più, provengono dalle Facoltà di Beni culturali, dai corsi di laurea delle Facoltà di Lettere, da specializzazioni post laurea, dall’esperienza di ricerche archivistiche finalizzate alla stesura della tesi di laurea breve o di laurea specialistica, da stages di formazione a supporto di corsi teorici. Ma non mancano dinamici pensionati appassionati di “carte vecchie” e di ricerche di storia locale che, se debitamente accolti e valorizzati, possono dare apporti significativi per ordinamento, inventariazione e assistenza agli studiosi. Iniziano, in qualche caso, collaborando con entusiasmo l’archivista in carica, dal quale apprendono la tecnica e il senso pratico a supporto della teoria studiata. La loro prestazione in diversi casi è a titolo gratuito, di volontariato che, tuttavia, è sempre bene codificare. Sono state attivati


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contratti di collaborazione a progetto, oppure a tempo determinato, in qualche luogo sostenute dal partneriato con enti pubblici. In qualche diocesi e istituto di vita consacrata si è pervenuti alla decisione di assunzione lavorativa a tempo indeterminato con regolare contratto di lavoro. Un’opportunità è venuta dalla legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare, cui è seguita la legge sul servizio civile, ma la collaborazione dei giovani è limitata ad appena un anno e, prima di renderli minimamente autonomi nel lavoro di archivio, è indispensabile dedicare un tempo alla formazione previa, cosicché la collaborazione effettiva si riduce ad un periodo ristretto. Condizioni che hanno prodotto e producono indubbi benefici, permettendo di portare a compimento percorsi anche brevi di riordinamento, inventariazione, tutela e possibilità di fruizione. Non vanno però sottaciuti i limiti determinati dalla precarietà. Ne segnalo almeno due. Nel caso del volontariato è difficile chiedere maggiore disponibilità, di tempo e lavoro, di quanto non ne viene offerta. Negli altri casi accade che la conclusione del servizio, come la mancanza di fondi per un’assunzione a tempo indeterminato e per un’equa retribuzione, induce i collaboratori a cercare opportunità lavorative altrove, con la conseguenza che lasciano l’archivio dopo un tempo di formazione e quando ne hanno acquisito almeno sufficiente conoscenza e competenza. In ogni caso, per tutti costoro è necessario programmare una formazione previa e, soprattutto per i collaboratori stabili, garantire un aggiornamento periodico. La domanda di lavoro da parte di tanti giovani che mostrano interesse agli archivi e, come osservato, hanno pure orientato in tale direzione percorsi di formazione universitaria, si incrocia in effetti con una larga potenziale offerta di lavoro per il considerevole numero di archivi ecclesiastici, come ricordato, sparsi sul territorio e per la loro variegata tipologia. Ma è stato già osservato che il semplice titolo di studio, o percorso formativo generico, non può essere considerato sufficiente per un’immediata immissione lavorativa in archivio. Si pone la questione di come i responsabili degli archivi ecclesiastici possono e devono esigere una formazione integrativa specifica: chi può offrirla e dove. Questione, questa, che spesso viene risolta con percorsi formativi non del tutto specialistici ma realizzati in loco, con modalità non sempre di sufficiente livello scientifico. Una menzione elogiativa meritano, in tal senso, le esperienze condotte da alcuni


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anni dall’Archivio Storico Patriarcale di Venezia e dall’Archivio Storico Diocesano di Trento. Il precorso formativo di nuovi possibili collaboratori chiede, infatti, oltre ad una imprescindibile e almeno elementare conoscenza della lingua latina, che si esigano o si forniscano loro competenze minime di tecnica archivistica, storia delle istituzioni ecclesiastiche, storia della Chiesa locale, visione elementare della realtà archivistica locale e centrale della Chiesa e dello Stato, elementi di legislazione ecclesiastica e civile in materia di beni culturali e specificamente di archivi: dal diritto canonico del 1917 e del 1983, alle direttive dell’autorità ecclesiastica centrale e locale, alla normativa sulla privacy nella ricerca storica. In larga misura, in Italia ormai può rispondere a tali esigenze il manuale di archivistica ecclesiastica, dall’emblematico titolo Consegnare la memoria (edizioni Giunti 2003), voluto dall’Associazione Archivistica Ecclesiastica e valutato dal Prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, Sergio Pagano, «innovativo nel suo disegno» e nuovo nell’impostazione, «intelligente e meritorio, precursore di un modo nuovo di intendere e comprendere le scritture della Chiesa, anzi delle Chiese, di custodirle e valorizzarle per la memoria viva e non soltanto per la mera “gestione”, come oggi si dice» (L’Osservatore Romano, 9 luglio 2003, 9). Si diffonde la convinzione che, se non proprio all’inizio della collaborazione ma certo nel tempo, da chi si occupa di archivi ecclesiastici, quantunque la competenza archivistica possa prevalere sull’appartenenza ecclesiale, è necessario che si pervenga ad una sintesi pur se minima di cultura storica, cultura umanistica e cultura teologica. Oltre ad una sempre più opportuna competenza informatica. Per la peculiarità delle istituzioni che li hanno prodotti e della stessa documentazione conservata negli archivi ecclesiastici, si ritiene non sufficiente una competenza squisitamente tecnica, priva di sensibilità ecclesiale, da accortezza a saper collocare il patrimonio archivistico nella prospettiva più ampia del patrimonio culturale della Chiesa, da una visione aperta dell’archivio come luogo di servizio alla cultura e alla memoria della comunità ecclesiale e della comunità civile. D’altronde, come sottolinea la lettera della Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa su La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici (1.1.), «gli archivi ecclesiastici, conservando la genuina e spontanea documentazione sorta in rapporto a persone e ad avvenimenti, coltivano la memoria della vita della Chiesa e manifestano il senso della Tradizione.


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Infatti, con le informazioni in essi raccolte, permettono di ricostruire le vicissitudini dell’evangelizzazione e dell’educazione alla vita cristiana».

5. CON QUALI SUPPORTI FINANZIARI Sul versante dei fondi finanziari per gli archivi, un apporto determinante, con prevalente finalità promozionale, è venuto in questi ultimi anni dall’Ufficio Nazionale per i Beni culturali della Chiesa, della Conferenza Episcopale Italiana. La felice intuizione di rendere disponibile un contributo annuo anche per gli archivi storici diocesani, oggi di € 13.000, destinato a progetti ben precisi, ha stimolato una politica virtuosa a favore di essi. La Chiesa locale si è vista esortata a farsi carico del patrimonio archivistico, anche in termini finanziari, in diversi casi sostenendo economicamente la realizzazione di progetti finalizzati all’idonea tutela, valorizzazione e fruizione del materiale documentario. Ma la questione su dove e come reperire i fondi per la funzionale gestione degli archivi è denominatore comune a tutte le istituzioni ecclesiastiche. In qualche caso è probabile che sia determinata dalla politica amministrativa degli economati diocesani e degli amministratori di istituti di vita consacrata, se non dalla visione, o “non visione”, che si ha degli archivi. E tuttavia, un’oculata lettura di bilanci di enti pubblici, da quelli europei a quelli delle amministrazioni locali, è probabile che permetta di convogliare rigagnoli finanziari che nell’insieme e nel tempo possono dare ottimi risultati. In genere, però, tale compito è lasciato all’intuizione e alla buona volontà dell’archivista, tanto nella fase di individuazione che in quella della documentazione da produrre prima, durante e a conclusione del progetto. Gli archivi, come d’altronde anche le biblioteche, vanno sottratti alla logica del rapporto costi/benefici. Sono servizi in perdita economica, pur se in qualche caso potrebbe darsi un ritorno finanziario da progetti finalizzati alla commercializzazione, per esempio, di immagini o gadget che riproducano particolare materiale archivistico. Ne è un emblematico esempio l’operazione avviata in questi anni, con gusto e professionalità, dall’Archivio Segreto Vaticano: riproduzione di sigilli e firme illustri, degli stessi Registri Vaticani in formato digitale, ed altro. I benefici del servizio d’archivio, come di biblioteche, non sono certo monetizzabili. Vanno collocati in una


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prospettiva pastorale di lungo tempo e possono conseguirsi se, alla professionalità si affianca l’accoglienza, la pazienza, la liberalità culturale. Non sono molti, tuttavia, gli archivi ecclesiastici italiani che abbiano un budget annuale ben definito per la loro gestione. Mentre non pone particolari esigenze la retribuzione dell’archivista ecclesiastico — grazie al sistema di sostentamento del clero italiano —, la retribuzione del personale laico, soprattutto là dove esso è strutturato in modo stabile e organico alla vita della diocesi, costituisce l’onere finanziario principale. Ad esso vanno sommati gli oneri per la gestione dei locali, non sempre sufficienti ed idonei, e per tutelare la copiosa documentazione pervenuta, garantendone integrità e idonea conservazione. Si tratta, infatti, di sostenere costi considerevoli in special modo per il restauro dei documenti, l’apposita ed esclusiva destinazione di immobili, la idoneità e la sicurezza delle strutture, la climatizzazione degli ambienti, anche per la salvaguardia dei documenti dal crescente inquinamento atmosferico. Fattori che, se non debitamente assunti, possono contribuire a rendere sempre più emergente il rischio di non riuscire a consegnare integro al futuro il patrimonio documentario che da secoli i nostri archivi conservano e tramandano. I lavori, poi, dell’ultimo convegno dell’Associazione Archivistica Ecclesiastica, settembre 2005, e i cui atti sono stati pubblicati nel periodico associativo Archiva Ecclesiae, hanno messo in evidenza le problematiche connesse con gli archivi ecclesiastici nel territorio della comunità diocesana. È evidente che il riferimento non è soltanto agli archivi storici. Occorre, infatti, liberarsi da una prospettiva preminente di quest’ultimi e assumere le problematiche, spesso più complesse, degli archivi correnti. Ed ecco che torna ancora una volta la necessità di strutture, attrezzature e personale in grado di gestirli e renderli puntualmente fruibili anche alla stessa istituzione che li produce. Non è semplice risolvere simili esigenze. In particolare, ci si interroga su come poter garantire ambienti idonei e, per gli archivi storici, un archivista ad ogni archivio. Questione questa che potrebbe risolversi anche con l’affidare più archivi ad un solo archivista, qualora abbiano moderate esigenze e si tratta di istituzioni vicine territorialmente, evitando in tal modo di trasferire di sede la documentazione dell’ente che nel tempo l’ha prodotta. Si potrebbe pervenire alla nomina di un archivista per ogni vicariato pastorale della diocesi, oppure per ogni paese o anche per gruppi di


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paesi limitrofi, con equa ripartizione di tempi di lavoro, di servizio agli studiosi, di relativi oneri finanziari. Mentre, per archivi più considerevoli, come gli archivi capitolari, oppure laddove le condizioni non favoriscono una sicura tutela e una sufficiente disponibilità alla consultazione delle carte, si può ricorrere al trasferimento di sede degli archivi presso l’archivio storico diocesano, o presso un archivio “nodo di memoria del territorio”, fatta sempre salva però la proprietà della documentazione all’ente depositante. Qualsiasi delle soluzioni adottate, nondimeno, non può prescindere dal necessario e opportuno coordinamento con l’archivio storico diocesano, oppure con l’archivio generale dell’istituto di vita consacrata.

6. PROSPETTIVE E QUESTIONI APERTE Provo a mettere insieme, infine, alcune altre problematiche connesse con la situazione degli archivi ecclesiastici italiani. 6.1. Sembra avviata a svilupparsi la tendenza a considerare la Chiesa locale quale destinataria principale dell’investimento finanziario — pur se limitato — a favore degli archivi. Si tratta di una nuova prospettiva tesa a rendere fruibile, anzitutto a se stessa, il patrimonio culturale e la documentazione archivistica in special modo, avviando il superamento di una prevalente visione museale a favore di una dimensione pastorale degli archivi, di servizio all’evangelizzazione e alla catechesi, a quella particolare forma di caritas che è il dialogo culturale, franco e leale, soprattutto con il mondo accademico. La stessa sede dell’archivio, soprattutto se dignitosa, accade che diviene luogo di incontro e di confronto con e tra gli studiosi, potendo assumere così la fisionomia di inusuale, se si vuole, ma effettivo luogo pastorale, all’insegna della lealtà e del rispetto anche di posizioni ideologiche lontane. In esso, capita di avviare e consolidare relazioni che durano oltre lo specifico periodo della ricerca archivistica e possono sfociare anche nella condivisione di momenti familiari e personali. La sala studio di un archivio alcune volte “rischia” pure di trasformarsi in sala di catechesi. Nuovi metodi di insegnamento della storia nelle scuole medie inferiori e superiori, raramente pure nelle scuole elementari,


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induce gli insegnanti a favorire negli alunni una prima esperienza di incontro con le antiche carte. La visita all’archivio diviene, così, occasione per far cogliere la trasmissione della fede e l’appartenenza alla comunità cristiana, per consegnare brevi note di ecclesiologia, di storia della chiesa locale inserita nel più vasto orizzonte della chiesa universale, per far luce su luoghi comuni di stampo giornalistico delle vicende storiche grazie alla documentazione conservata in archivio. 6.2. Stenta a maturare la convinzione che, nel panorama del patrimonio culturale anche ecclesiastico, il patrimonio archivistico svolge il ruolo di “bene culturale primario”. Grazie alla documentazione archivistica è possibile, infatti, dare ragione, permettere la comprensione della ideazione, realizzazione, gestione e fruizione di ogni altra tipologia di bene culturale. Si pensi, solo per fare due esempi, alla imprescindibile ricerca archivistica per avviare il restauro di una chiesa, come pure per individuare le ragioni, la committenza e il costo dell’arredo liturgico di una chiesa, di un’opera iconografica realizzata per la devozione dei fedeli e la loro educazione alla fede. Se ciò è vero, allora investire energie, persone e fondi finanziari negli archivi permette ad ogni istituzione ecclesiastica di elaborare una visione ampia e articolata della propria storia e del proprio legame con il percorso storico della Chiesa universale e del territorio in cui è inserita. Non si tratta soltanto di elementi utili per la storia dell’architettura, della pittura, delle diverse espressioni artistiche a supporto del culto e dei riti, della formazione e gestione delle biblioteche. 6.3. Rilevante è, inoltre, la questione connessa con la formazione degli archivi correnti che negli anni futuri diventeranno archivi storici. Anzitutto, non pare purtroppo che sia diffusa la convinzione di coordinare il titolario dell’archivio corrente con quello dell’archivio storico, per rendere indolore e agevolare al momento opportuno il passaggio della documentazione dall’uno all’altro. Inoltre, alla necessità di conservare le carte amministrative, a sostegno di una corretta amministrazione e per giustificare le spese agli organi di controllo ecclesiali e statali, non corrisponde spesso identica cura nel deporre in archivio ogni testimonianza, cartacea ma anche audiovisiva, dell’attività propria dell’ente. Scarsa sensibilità, questa, che


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può rilevarsi nella gestione delle diverse tipologie di archivi correnti dei diversi uffici ecclesiastici. Con la conseguenza di consegnare alla storia la fisionomia di ottimi amministratori ma di fragili operatori pastorali. 6.4. L’introduzione dell’informatica nel lavoro quotidiano di uffici e archivi ecclesiastici è un altro ambito problematico per gli archivi correnti e per quelli storici. Certo, l’informatica offre non poche soluzioni alle esigenze di produzione ordinaria di documenti e alla gestione degli archivi. Nondimeno, non sempre ci si rende conto che essa presenta anche dei rischi, che possono comportare la irrimediabile perdita di documentazione: si pensi semplicemente al crash di un hard disk. Fino a che punto si vigila per garantire da rischi la documentazione prodotta e fare in modo che la memoria virtuale resti reale per il futuro? Non che manchino soluzioni informatiche in grado di garantire la possibilità di conservare con sufficiente garanzia le informazioni digitali, al punto che qualche informatico si spinge a sostenere la “quasi eternità” del supporto. Due soluzioni vengono prevalentemente proposte. La prima si riferisce all’acquisizione di un server fornito di efficace sistema raid: permette di aumentare la velocità di scrittura/lettura dei dati, oppure di difendersi dai guasti dell’hard disk. Nel caso degli archivi, il suo utilizzo è da preferire per la sicurezza più che per la velocità di accesso ai dati. È possibile, infatti, ottenere la duplicazione automatica dei dati su due o più dischi (mirroring): in caso di guasto di uno di essi, le informazioni si manterranno integre su un altro. Al sistema raid si può, poi, affiancare una unità di backup su nastro per le copie di sicurezza. Di recente introduzione, meno conosciuta ma molto più efficace e duratura nel tempo è, invece, la seconda soluzione: la rete grid computing (calcolo a griglia). Il sistema permette l’accesso ad una memoria smisurata, calcolata in terabyte (un tera equivale a mille gigabyte!), e decentralizzata, disponibile in rete grazie ad un numero indistinto di calcolatori tra loro interconnessi, senza un particolare limite geografico o istituzionale. Tuttavia, più che dalla durata dell’hard disk è dall’abituale collegamento alla rete internet che provengono ormai i maggiori pericoli per la sicurezza dei dati. Sono ben noti a tutti attacchi di hackers e tipi diversi di malware e spyware che circolano in rete, contro i quali antivirus e firewall non garantiscono assoluta sicurezza.


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Da più parti ci si interroga, comunque, se i costi per la digitalizzazione e per la sicurezza dei dati possono essere prioritari rispetto ai finanziamenti per il restauro di documenti, con il conseguente rischio di investire fondi per l’informatica piuttosto che per riportare a condizioni dignitose le carte rovinate. Senza tacere che si riscontra qualche volta una certa ingenuità di carattere finanziario. La decisione di informatizzare il lavoro ordinario non si limita al semplice acquisto di una stazione informatica. Comporta l’onere di preventivare periodici costi, tanto per l’aggiornamento di hardware e software, quanto per il periodico trasferimento della mole dei dati prodotti su supporti di nuova generazione: ne va della loro conservazione e della loro fruibilità. In ogni caso, nell’incontro tra archivi ed informatica ci si rende sempre più conto che bisogna evitare il pericolo di piegare l’archivio alle regole dell’informatica, mentre è questa che deve rispondere alle domande di funzionale gestione dell’archivio e di veloce reperimento delle informazioni. Circa poi la informatizzazione degli archivi storici ogni archivio si è orientato liberamente nella scelta del software. Al punto che non solo si è verificata una assenza di coordinamento a livello nazionale ma la stessa Associazione Archivistica Ecclesiastica ha preferito avallare la libertà dell’archivista, senza optare per uno o l’altro dei software in commercio. Mi limito a citare alcuni esempi. In alcune regioni anche agli archivi storici ecclesiastici, per il loro ordinamento e l’inventariazione dei fondi archivistici, dall’amministrazione regionale è stato fornito gratuitamente il software Sesamo. Dalla piattaforma di CDS/Isis, prodotto gratuito distribuito dall’UNESCO, è nato Isis/Arca per gli archivi ecclesiastici veneziani. Piattaforma sostanzialmente adottata anche per lo sviluppo di Acta, software per la gestione degli archivi ecclesiastici e per la realizzazione di data base per i registri sacramentali, realizzato primariamente per la diocesi di Vicenza e adottato da altri archivi ecclesiastici. Da qualche anno l’Ufficio nazionale per i beni culturali della Chiesa, della Conferenza episcopale italiana, ha avviato la distribuzione gratuita, e ne sta sollecitando l’adozione presso gli archivi storici diocesani, di un proprio software, CEIAR. Ad esso si affianca il software prodotto per l’archivio della Congregazione per la Dottrina della fede, Shades (Software for Historical Archives Description). E non mancano casi di archivisti che hanno preferito commissionare un software esclusivo per l’archivio di cui sono responsabili.


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L’adozione della digitalizzazione e l’aver superato la fase della consegna agli studiosi di copie fotostatiche a vantaggio di quelle digitali formato immagine, sta permettendo ad alcuni archivi storici di realizzare un virtuoso percorso, che favorisce la progressiva formazione, a costi zero, di un archivio digitale parallelo, con la duplice conseguenza di tutelare gli originali, nella consultazione e per future copie, e di poter conservare in luogo debitamente protetto le copie digitali. 6.5. Non è mancato di recente un certo dibattito se avviare la codificazione di standard descrittivi per gli archivi ecclesiastici. La particolare situazione storica della penisola, che acquisisce una fisionomia politica soltanto dopo il 1860 con l’Unità d’Italia e solo negli anni successivi avvia il lento formarsi di una fisionomia ecclesiastica nazionale, ha contribuito a rendere difforme nel tempo la progressiva formazione di istituzioni ecclesiastiche. In modo esemplificativo: la parrocchia della Lombardia e del Veneto, formatasi con il determinante influsso della legislazione austriaca settecentesca, non è certo identica alla parrocchia del Sud Italia. Gli archivi ecclesiastici, anche quelli storici diocesani, presentano uniformità di titolario soltanto per qualche fondo, dovuto soprattutto all’attività episcopale post-tridentina. È sufficiente uno sguardo ai tre volumi della Guida degli archivi diocesani d’Italia, prodotti dall’Associazione Archivistica Ecclesiastica, per rendersi conto della difficoltà connessa con la codificazione degli standard descrittivi. 7. Vorrei concludere con un riferimento al dibattito di questi anni attorno alla identità cristiana dell’Europa. Mi riferisco, ovviamente, al riconoscimento di una storia impregnata dalla presenza delle istituzioni ecclesiastiche e da imprescindibile connessione tra vita civile, politica, economica e vita delle comunità cristiane. Sembra abbiano ricevuto poca attenzione e valorizzazione gli archivi ecclesiastici, che sono patrimonio culturale anche di una nazione e dell’Europa, per trovare in essi una valida piattaforma per il confronto e il dialogo con la cultura contemporanea. Oltre alla possibilità di ricostruire momenti e figure delle vicende politiche e culturali, il dibattito relativo al tema dell’identità, e dell’identità cristiana in special modo, tanto in ambito nazionale e locale che europeo, non può prescindere dalla memoria conser-


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vata nelle carte degli archivi ecclesiastici. Di esse va sempre ricordato quanto ebbe a dire papa Paolo VI nell’allocuzione agli archivisti ecclesiastici, il 26 settembre 1963: «i nostri brani di carta sono echi e vestigia di questo passaggio della Chiesa, anzi del passaggio del Signore Gesù nel mondo. Ed ecco che, allora, l’avere il culto di queste carte, dei documenti, degli archivi, vuol dire, di riflesso, avere il culto di Cristo, avere il senso della Chiesa, dare a noi stessi, dare a chi verrà la storia del passaggio, del transitus Domini nel mondo».


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IN MEMORIA DEL PROF. SEBASTIANO GOZZO

Giorno 26 dicembre 2007 il prof. mons. Sebastiano Gozzo, dopo aver vissuto un periodo di grave condizione di salute con lo spirito di speranza e di serenità che sempre lo ha caratterizzato, ha concluso la sua giornata terrena. Il prof. Gozzo ha insegnato nello Studio Teologico S. Paolo Teologia dogmatica dal 1969 al 1981. In quanto membro del Consiglio di Presidenza ha dato un grande contributo di intelligenza e di creatività allo strutturarsi dello Studio S. Paolo nel primo periodo della sua fondazione. Si ritiene di farne adeguata memoria riportando l’omelia che l’arcivescovo Giuseppe Costanzo, collega di insegnamento al S. Paolo, ha tenuto a Siracusa ai funerali.

«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv. 11,25 s.).

Da quel letto di dolore, diventato cattedra di spiritualità e di vita, una Voce arcana, carica d’amore, lo invitò ad alzarsi: «Vieni — gli disse — seguimi. Ti voglio con me nella gloria. Il tempo della prova è finito. Il tuo servizio d’amore è concluso. Comincia l’eternità beata». Così mons. Sebastiano Gozzo ha lasciato questo mondo ed ha raggiunto la casa del Padre. Ha vissuto l’attimo più solenne e decisivo di tutta l’umana vicenda: ha cessato di esistere nel tempo ed ha varcato la soglia dell’eternità. Non è facile tratteggiarne la personalità poliedrica: il suo carattere esuberante, la sua intelligenza acuta, la varietà dei suoi doni. Cercherò di riflettere con Voi su cinque aspetti fondamentali!


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1. LA RICCHEZZA DI UMANITÀ In lui si compenetravano acutezza di mente, ricchezza di cuore e fascino di comunicazione. Nella sua persona erano intimamente coniugate la dimensione spirituale, la dimensione culturale e la dimensione pastorale. Nella sua struttura personale erano mirabilmente fusi il pensare, il sentire, l’agire. Affrontava le tematiche culturali, spirituali, pastorali con intelligenza brillante, con affascinante argomentazione, con analisi penetrante, con appassionata consapevolezza, con veemente impegno. Pensava, pregava e predicava con le vibrazioni del corpo e dell’anima, della mente e del cuore. Le sue idee-forza, venivano da lui comunicate con efficacia e trascinavano gli altri nella via del rinnovamento. I suoi ideali ecclesiali e sociali venivano incarnati con tale forza da trovare facilmente condivisione in chi gli stava accanto. Le sue sofferenze per i ritardi pastorali, per la incompiuta attuazione del Concilio Vaticano II, suscitavano viva partecipazione nel cuore dei suoi compagni viaggio. Visse costantemente proteso alla ricerca dell’autenticità, della profondità, della umanizzazione della vita umana. Genialità e originalità connotarono la sua ricca personalità. Aperto al “nuovo”, indicava nuovi sentieri, percorreva nuove vie, apriva nuovi orizzonti, e tutto questo con l’umiltà della persona veramente colta. Instaurava relazioni profonde e sentite, viveva sentimenti umani forti, manifestava ricchezza di cuore e di umanità, esprimeva una forza interiore straripante.


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2. LA PROFONDITÀ DI CULTURA Aveva una solida preparazione filosofica e teologica. Era licenziato in Teologia presso l’Università Gregoriana di Roma. Fu assistente Diocesano della FUCI, docente di Filosofia presso il Seminario Arcivescovile di Siracusa, di Teologia Dogmatica presso lo Studio Teologico “S. Paolo” di Catania, di Religione presso l’Istituto Scientifico “Corbino” di Siracusa. Sotto il profilo culturale era un punto di riferimento essenziale per tutta la Città e per la diocesi di Siracusa. I temi più dibattuti e attuali erano da lui affrontati con competenza e con vivacità, ma anche con onestà intellettuale e umiltà di cuore. Era impossibile sottrarsi alla sua dialettica così coinvolgente. Presentava un Vangelo “incarnato” nel mondo d’oggi, una fede “inculturata”, che rispondeva alle nuove sfide della post-modernità. Indagatore della verità problematica del pensare e del vivere, percorreva i sentieri impervi per raggiungere il cuore della verità: della verità sceverata, cercata, sofferta, mai “scontata”, mai superficiale, sempre affascinante. La sua teologia era maturata nella prassi ecclesiale. Non era una teologia elaborata a tavolino, ma scaturiva sia dall’ascolto della Parola di Dio sia dall’ascolto dell’anima dei fedeli sia dalla comprensione del dramma di chi non ha ancora trovato la verità.

3. LA TESTIMONIANZA DI SPIRITUALITÀ La sua spiritualità non era certamente una spiritualità di evasione, ma di impegno. Una spiritualità correlata con la dimensione biblica, teologica, pastorale. Una spiritualità che scaturiva da una fede “pensata” e matura. Una spiritualità che si nutriva di meditazione e di amore ai fratelli, di contemplazione e di azione pastorale. Una spiritualità “moderna”: aperta al soffio dello Spirito nell’oggi della Chiesa e del mondo, nell’oggi della storia e dei mutamenti sociali e culturali. Una spiritualità “profetica”: che guarda avanti, che è insoddisfatta del


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presente, che intende anticipare e prefigurare il futuro, il futuro dell’uomo che è Dio e il suo Regno. Una spiritualità che si manifesta nella sete di santità, che è vocazione universale, perché è il progetto di Dio su ogni uomo e su tutti gli uomini.

4. LA PASSIONE PASTORALE Parroco di San Martino, ha vissuto intensamente l’ansia pastorale per i suoi fedeli. Evangelizzatore infaticabile, ha portato il Vangelo agli uomini con passione e dedizione. Il rapporto con tutti è stato affettuosamente “paterno”. Egli è stato padre spirituale di una schiera innumerevole di persone. Come padre ha ascoltato, ha compreso, ha consolato, ha amato, ha guidato. Poiché la pastorale ha anche bisogno di organizzazione, egli è stato anche geniale organizzatore, distribuendo in maniera organica e sistematica il suo tempo per le varie categorie di persone e per le varie iniziative della parrocchia. Sul versante liturgico ha messo a frutto la sua creatività coinvolgendo i fedeli nella partecipazione a una Liturgia viva e vivace. Ha unito l’opera di evangelizzazione all’impegno per la promozione umana. Non solo la Chiesa, ma anche la società civile ha beneficiato della sua illuminata parola e della sua generosa azione. Il metodo da lui seguito è stato contrassegnato dal confronto chiaro, dal dibattito leale, dal dialogo costruttivo. La sua presenza, la sua parola e la sua azione hanno avuto una profonda incidenza sulla società: nella dimensione sociale egli ha avuto un ruolo di illuminato ispiratore di impegno socio-politico.

5. L’MPEGNO EDUCATIVO È stato un grande educatore. Talento, carisma, impegno hanno contraddistinto la sua attività educativa. In tutta la sua vita sacerdotale ha profuso le sue energie morali nell’opera educativa.


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Vice-rettore del Seminario a Siracusa, sosteneva e guidava il cammino vocazionale dei Seminaristi. I giovani studenti delle Scuole Statali dove lui era Docente rimanevano affascinati dalla sua parola calda e coinvolgente. Gli studenti universitari della FUCI e quelli di Teologia al “S. Paolo” di Catania trovavano in lui una guida sicura e un maestro di vita. Un particolare impegno ha riservato all’AGESCI, di cui è stato Assistente Regionale. La metodologia scoutistica è stata da lui seguita con convinzione e con interpretazione personale. Nei confronti di tutti i ragazzi e i giovani affidati alle sue cure pastorali, oltre alla competenza pedagogica, ha profuso soprattutto amore. Un amore sacerdotale. Come ha profuso amore alla Chiesa, alle anime, al mondo. Su questo terreno si è manifestato il suo amore profondo a Gesù Cristo e la sua dedizione totale a Lui. Ora il Signore Risorto lo ha voluto con Sé. Lo ha chiamato al premio eterno, lo ha accolto nella Gerusalemme celeste, che è la casa del Padre e la vera patria. Ora Egli ha incontrato quel Volto che ha sempre cercato, ha abbracciato il Sommo Sacerdote di cui è stato ministro. Ora ha intonato — con la corte celeste — l’eterno Alleluia e con la Vergine Santa il canto del Magnificat. Così amiamo pensarlo: avvolto nella luce, immerso nell’amore, inabissato nell’oceano di pace, intento solo a lodare e ad amare. Umanamente ci manca, ma sappiamo che dal cielo egli ci è ancora fratello buono e amico più di prima. Giuseppe Costanzo arcivescovo di Siracusa



Recensioni Synaxis 26 (2008) 205-223

HANS URS VON BALTHASAR, Il libro dell’Agnello. Sulla rivelazione di Giovanni, a cura di E. Guerriero, Jaka Book, Milano 2007, pp. 122 (Già e non ancora). Finalmente appare nella sua prima edizione italiana l’agevole commento di uno dei più grandi teologi del XX sec. all’Apocalisse di Giovanni, il Libro dell’Agnello (Sull’Apocalisse), come preferisce chiamarlo il teologo svizzero. Il suo è un commento che non vuole fare altro che lasciare emergere tutta la ricchezza di significato insita nelle immagini e nelle parole dell’ultimo libro della Bibbia, tra l’altro opportunamente riportato, nella traduzione approvata dalla Conferenza Episcopale Italia, all’inizio di questo breve, ma intenso, commento. Von Balthasar, infatti, intende semplicemente offrire un’interpretazione delle “cose ultime” nella quale possa però emergere la centralità di Gesù Cristo, così come risalta dall’armonia delle immagini che popolano questo libro davvero unico, che più di ogni altro scritto della Bibbia ha suscitato interessi di varia natura, ha ispirato arte, musica, poesia, letteratura. Un libro che ci “parla” di una liturgia celeste nella quale il male è finalmente distrutto e in cui si afferma assolutamente l’amore che è il giudizio divino. Un libro, pertanto, che è attualissimo e che non può essere altro, al di là di ogni possibile interpretazione che se ne può dare e che di fatto se ne è data nel corso dei secoli, che sorgente di speranza per l’uomo di tutti i tempi, chiamato ad attraversare le temperie della storia. Introduce il libro la densa prefazione di Elio Guerriero, curatore delle opere di Von Balthasar in italiano, in cui vengono offerte alcune chiavi di comprensione indispensabili per essere avviati ad una lettura in cui risalta chiaramente anche il metodo proprio del teologo svizzero il quale va diritto al senso allegorico dello scritto biblico e invita il lettore-orante a lasciarsi prendere dalla parola affinché possa cogliere come l’Apocalisse sia in realtà «un libro su Gesù e sulla Chiesa, meglio su Gesù in quanto presente nella


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Chiesa, afflitta dalle persecuzioni, alla quale vengono chieste stabilità e costanza» (p. 11). La Chiesa viene perciò invitata a sperare nella vittoria dell’Agnello che sarà globale e universale, anche se gli eventi che si svolgono tra il cielo e la terra, cioè la storia universale, restano misteriosi e quindi “appesi” alla perfetta manifestazione del Cristo trasfigurato, centro e cuore della rivelazione, per il quale l’essere stato morto è un atto della sua vita eterna. Egli, pertanto, vive in sé i drammi stessi della storia che non gli rimane estranea e dalla quale “non riesce” a distanziarsi. Opportuna è a questo riguardo l’osservazione finale proposta da Guerriero nella sua prefazione, quando viene ricordato al lettore che gli anni in cui von Balthasar scriveva questo libro, erano anche quelli in cui lavorava ad un altro testo, per molti versi controverso e oggetto persino di aspre polemiche, Sperare per tutti, a conferma del fatto che secondo la visione propria del teologo di Lucerna i guai della terra in definitiva sono transitori, perché ciò che resta è solamente l’amore del Padre che ha resuscitato quell’Agnello che si è caricato dei peccati del mondo (p. 13). Il commento si suddivide in nove brevi capitoli: 1. Il Libro dell’Agnello; 2. Il vivente che era morto; 3. La confessione delle Chiese; 4. La storia sciolta dai sigilli; 5. La partoriente; 6. L’accelerazione escatologica; 7. Il Giudizio; 8. La sposa dell’Agnello; 9. L’apocalisse e noi. Nove capitoletti in cui il teologo, con un linguaggio affatto tecnico e freddo, segue passo passo con passione lo svolgersi del libro biblico mettendo di volta in volta in evidenza solamente alcuni degli elementi fondamentali per coglierne il messaggio centrale e nascosto e per “indicarne” la ricchezza esuberante che in definitiva è Cristo stesso, in quanto «egli è sia colui che rivela sia colui che in tutta l’opera viene rivelato» (p. 47). È lui, infatti, che combatte tutte le battaglie sino alla distruzione finale del male. Nelle sue battaglie, poi, si riconosce e si innesta anche la lotta che la Chiesa è chiamata a fare propria nel corso della storia. Il filo rosso di tutto lo scritto è allora la vittoria globale e universale dell’Agnello a vantaggio di tutti i popoli; è la rivelazione, in questa vittoria, del senso della storia e della creazione nella sua totalità che tuttavia, essendo esposta tramite visioni e in figure che al contempo dicono e restano misteriose, non può essere ritenuta ancora perfettamente, escatologicamente, compiuta. Anche per questa ragione «in ogni interpretazione dell’Apocalisse ci saranno sempre una parte che diventa davvero “manifesta” e può essere interpretata e una parte che


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resta misteriosa anche nelle sue immagini, una parte la cui interpretazione sarà sempre aperta a nuove domande e che comprenderemo pienamente soltanto alla fine della storia» (p. 50). E questo perché sia Cristo, che l’elemento anticristico e finanche la Chiesa di Cristo, sono sì manifesti nella storia, ma solo in una dimensione di mistero. L’Apocalisse ci vuole così parlare di «quanto accade in cielo, in terra e tra cielo e terra» (p. 52) con la consapevolezza che c’è sì rapporto e corrispondenza tra il cielo e la terra (poiché il cielo prende parte a quanto accade sulla terra, p. 96), ma c’è soprattutto distanza, non perfetta assimilazione né, tanto meno, coincidenza. Per consolare — non per colmare pienamente — tale distanza (tra cielo e terra) l’intera Apocalisse ci fa dono, ci consegna, tutta una serie di immagini che sono destinate ad essere a loro volta donate. Il dono per eccellenza è Cristo Gesù, il Vivente che era morto, di cui in definitiva tutte le immagini, anche quelle apparentemente più lontane, ci parlano. Egli è colui che è presente nelle Chiese, ma lo è come colui che cammina, che non può essere vincolato in alcun modo; come colui che procede, quale Signore della storia, verso la fine dei tempi. Il suo è un avanzare vittorioso, ma è anche «turbato dall’infedeltà e tiepidezza della sua Chiesa» (p. 63) che perciò necessità, prima dell’inizio della rivelazione vera e propria, di essere purificata perché diventi una con il suo Sposo. Essa deve essere purificata da tutto ciò che nel corso della storia l’ha segnata nelle sue opere che non sempre sono state compiute secondo il volere di Dio: le opere richieste, infatti, sono la risposta a ciò che si è ricevuto; sono, in sostanza, la fede vissuta, l’amore vissuto, la confessione della fede in mezzo alle tribolazioni e ai travagli della storia nella quale è possibile solamente rintracciare frammenti di una “matematica celeste” che rimandano ad un ordine che sfugge alla comprensione dell’uomo (p. 69). E questo perché in definitiva «chi può decifrare il senso del mondo in quanto natura e in quanto storia? Quale filosofia può spiegare il principio, il centro e la fine del tutto, di tutto ciò che è sigillato sette volte?» (p. 75). A queste domande c’è una sola risposta possibile: l’Agnello come immolato, l’unico che può consolare e asciugare le lacrime del veggente, lacrime, aggiunge von Balthasar, che «sono un segno più eloquente e prezioso di quanto non siano tutti gli occhi asciutti dei filosofi e degli altri sapienti universali» (pp. 75-76). L’Agnello vittorioso che spezza i sigilli, è però colui che soffre per il travaglio della storia, perché in verità, le doglie di cui ci parla il capitolo 12 prima ancora che le doglie in


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vista del Messia, sono le doglie del Messia stesso alle quali la donna dovrà partecipare. Sulla croce si compie pertanto l’incarnazione di Gesù, e presso la croce si compie anche il doloroso parto di Maria. Per il Messia, la croce è la vittoria, poiché egli viene subito rapito verso Dio e il suo trono, ma per la donna parte proprio da lì la sua tribolazione poiché essa resta sulla terra e fugge verso il deserto dove vive, nutrita da Dio, la sua attesa escatologica nella testimonianza resa al vangelo di Gesù. È questa la condizione dei cristiani generati presso la croce di Gesù sino alla consumazione del mondo, in un processo in cui «la fecondità di Israele si raccoglie e al contempo si oltrepassa in Maria, e la nuova fecondità di Maria si sviluppa verso la maternità della Chiesa» (p. 87). Quest’ultima vive un tempo in cui ogni cosa è posta sotto il Giudizio divino, un tempo in cui i cristiani sono chiamati alla lotta il cui esito, tuttavia, è certo poiché la vittoria è già stata raggiunta. In tal senso, «l’Apocalisse non è un altro vangelo che riferisce dell’Orto degli Ulivi e della croce, ma una visione della storia universale compiuta alla luce di tutto l’evento si salvezza» (p. 106). Ciò non toglie, ancora una volta, che se è vero come è vero che la nuova Gerusalemme scende dal cielo, è anche vero che a questa discesa corrisponde — deve corrispondere — l’ascesa del popolo di Dio perché sia perfettamente incorporato alla Sposa senza macchia né ruga, e sia definitivamente introdotto nella città di Dio. Ci sarebbero tante altre cose da dire sull’appassionato commento dell’Apocalisse proposto dal teologo di Lucerna. Un pregio dell’opera che non può essere assolutamente taciuto è l’ultimo capitolo, in cui egli tenta di cogliere alcuni elementi a partire da cui è possibile accostarsi a questo libro della Bibbia per comprenderne tutta l’attualità e il messaggio ancora vivo per l’uomo contemporaneo. L’uomo di oggi, infatti, si trova a vivere un tempo particolarmente confuso e per molti versi percepito anche come “apocalittico”. Egli, tuttavia, non sa sino in fondo che è tipico dell’Apocalisse non tanto parlare di eventi futuri e indeducibili o aprire il sipario su scenari posti totalmente oltre la storia mondana e l’esperienza del mondo, ma è invece tipico della sua composizione illustrare la continua alternanza e il riferimento interno tra quanto avviene in cielo e quanto avviene sulla terra, perché in realtà ci troviamo inseriti in un unico grande evento liturgico consistente nell’adorazione di Dio e dell’Agnello. Nello scenario aperto dall’intronizzazione dell’Agnello, quindi, non c’è posto per il male, ma solo per la lode, e l’Apocalisse appare come la rivelazione


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massima della buona novella di Cristo: «Dio è amore». Come può essere detto tutto questo se non attraverso immagini che devono rimanere tali per svolgere il loro servizio, perché esse hanno il potere di dire più di tutti i “non-è-altro-che…” dell’uomo e dei suoi poveri e piatti ragionamenti? Esse, infatti, sono segni del Dio sempre più grande ed hanno una forza evocativa infinitamente più grande delle parole degli uomini che per quanto si affannino, non potranno mai tirare via dalle mani dell’Agnello il “libro sigillato”. A lui è dato ogni potere, a loro la libertà di una scelta definitiva per Dio perché abbiano parte alla vittoria dell’Agnello (p.122). Queste brevi note non riescono a dare ragione della ricchezza raccolta ed espressa in questo breve commento al libro della Rivelazione, che in poche pagine riesce ad immergere il lettore in un testo suggestivo e attualissimo. Certo, resta ad esempio problematica l’affermazione che von Balthasar fa a proposito del Giudizio e della resurrezione dei morti ad esso legata: «L’Apocalisse non svela il mistero della resurrezione, ma a noi non è vietato pensare non solo alla resurrezione corporale di Maria, ma anche a quella dei singoli “santi morti” dopo la morte e la resurrezione di Gesù (Mt 27,51-53), un evento che può senz’altro restare inconcluso. Fare a questo proposito affermazioni di carattere definitivo ci resta precluso, mortali come siamo» (p. 107). L’ammissione finale del grande teologo svizzero credo che compensi quella che alcuni hanno giudicato come una delle sue pericolose “fughe in avanti” che piuttosto che rivelare gli azzardi di un teologo, tradiscono, come in questo caso, l’anelito e la speranza di un uomo di fede che altro non cerca se non l’incontro pieno e definitivo con il suo Signore. Francesco Brancato

MAURO GAGLIARDI, Introduzione al Mistero Eucaristico. Dottrina, Liturgia, Devozione, prefazione di Nicola Bux, Edizioni San Clemente, Milano 2007, pp. 410. Tra i numerosi studi che anche di recente sono stati dedicati all’Eucaristia, sia di natura teologica che liturgica o pastorale, pochi hanno costruito in maniera “sintetica”, chiara e precisa la “storia” di questo grande Mistero che è la fonte e il culmine di tutta la vita e di tutta la missione della


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chiesa, come quello offertoci da Mauro Gagliardi, teologo salernitano e professore di teologia sistematica presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma. Con coraggio egli si è infatti cimentato in un’impresa che per diverse ragioni in un primo momento scoraggerebbe chiunque, soprattutto se ancora all’inizio del proprio lavoro teologico; impresa che in questo caso si è rivelata una sfida per molti versi vinta anche perché dettata dal desiderio sincero di fare chiarezza su alcuni punti nodali della riflessione teologica riguardante l’Eucaristia. Con una riflessione rapida, ma non per questo superficiale, egli ripercorre le tappe fondamentali dello sviluppo della dottrina magisteriale e della speculazione teologica circa il mistero eucaristico, la liturgia che lo celebra e la devozione che la chiesa alimenta, tenendo in debito conto anche il loro ininterrotto e mutuo influsso. Uno studio ben documentato che tuttavia, tranne per alcune rarissime eccezioni, non concede spazio a divagazioni che hanno poco a che fare, almeno direttamente, con l’approfondimento degli aspetti più importanti di questa verità centrale del dogma. Uno studio anche attualissimo e aggiornato in quanto raggiunge gli ultimi e più importanti documenti dedicati da papa Benedetto XVI all’Eucaristia, e che nell’ultima parte indica alcune vie possibili o necessarie sia per una comprensione sempre nuova, e quindi fedele, del mistero eucaristico, sia per una fruttuosa celebrazione dello stesso. Nicola Bux, che ha scritto la prefazione al libro, afferma giustamente che ci troviamo di fronte ad un saggio che affronta «integralmente e in modo equilibrato la dottrina cattolica sul “mirabile sacramento”» (p. 7), in quanto non ha altra intenzione se non quella di «presentare ciò che la rivelazione e la chiesa insegnano sul mistero eucaristico e come la liturgia e la devozione si siano ispirati e debbano sempre attenersi all’insegnamento biblicoecclesiale sull’Eucaristia» (p. 260). Queste prospettive di fondo sono infatti chiare sin dall’inizio dello studio e organizzano l’intera argomentazione teologica. Il testo, scritto bene e con un linguaggio chiaro e abbastanza semplice anche quando si tratta di prendere in considerazione temi e questioni di difficile comprensione soprattutto per chi non è addentro ad alcune problematiche e con poca familiarità con la terminologia strettamente teologica, si divide in cinque capitoli molto densi in cui l’Autore prende in esame prati-


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camente le principali tematiche legate alla dottrina eucaristica, alla celebrazione del suo mistero e alla devozione che manifesta l’amore della chiesa per questo sacramento. Il cap. I: L’Eucaristia nella Sacra Scrittura, non è un semplice capitolo introduttivo, ma vuole presentare, anche qui in maniera concisa, attraverso un approccio prevalentemente sincronico, le fondamenta dell’intera riflessione credente sull’Eucaristia che nell’AT (“Eucaristia anticotestamentaria”, p. 26) viene prefigurata tramite diverse “immagini eucaristiche” e allusioni allegoriche che, secondo la lettura tipologica utilizzata dall’Autore, preparano l’economia sacramentale del NT. A partire da qui l’Autore si sofferma sulle “figure eucaristiche veterotestamentarie”, fedele al criterio secondo cui la riflessione teologica deve integrare la lettura storico-critica dei testi biblici con l’analisi sincronica degli stessi al fine di cogliere il senso pieno, il senso spirituale della Scrittura stessa nella quale è possibile rinvenire tutti gli aspetti principali che vengono approfonditi e ampliati in un secondo momento dalla riflessione credente (p. 76). Al di là di ogni possibile argomentazione, risulta comunque chiaro che a partire da una lettura corretta e fedele della testimonianza neotestamentaria a riguardo dell’Eucaristia, si comprende senza possibilità alcuna di fraintendimenti che le parole di istituzione eucaristica mostrano come l’aspetto sacrificale dell’Eucaristia sia prioritario rispetto a quello conviviale (p. 45). È questo un punto nodale della dottrina cattolica sul mistero eucaristico ed è anche questo il leitmotiv dell’intera riflessione condotta da Gagliardi. Questi, infatti, nel corso della sua presentazione critica della storia del dogma, a più riprese e da diverse angolature, ferma la sua attenzione su questo elemento dirimente che caratterizza la comprensione cattolica del sacramento eucaristico e per ciò stesso la sua celebrazione e la devozione che ne deriva. Con il cap. II inizia la trattazione dell’Eucaristia nella storia tra teologia, liturgia e devozione (antichità, sino al sec. V) in cui l’Autore ricostruisce le tappe principali dello sviluppo della conoscenza dell’“Eucaristia ecclesiale”, al fine di introdurre il lettore all’intelligenza del modo in cui i cristiani hanno compreso, celebrato e adorato l’Eucaristia nei primi secoli della chiesa (p. 77). Questa disamina continua anche nel cap III (medioevo ed epoca moderna, secc. VI-XIX) e nel cap. IV (epoca contemporanea, secc. XX-XXI) in cui vengono presentati criticamente i principali documenti magisteriali in materia (soprattutto in quest’ultimo capitolo) e i più significativi


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apporti derivanti dal confronto teologico e dall’insegnamento dei principali autori cristiani, primo tra tutti san Tommaso, al quale Gagliardi, giustamente, dedica ampio spazio nell’economia generale della sua trattazione (pp. 150-171). L’Autore procede nella sua disamina seguendo fedelmente il metodo scelto sin dall’inizio, e che consiste nel proporre al lettore una sorta di antologia di testi discretamente commentata, al fine di dare la parola agli stessi autori e di lasciar assaporare al lettore tutta la ricchezza contenuta nei loro scritti o nelle dichiarazioni del magistero ecclesiastico, senza altra pretesa se non quella di fornire «una semplice introduzione al mistero Eucaristico, operata nell’ottica della chiesa che lo celebra, lo adora e vi crede da duemila anni» (p. 127). Il cammino conduce pertanto all’approfondimento dei documenti eucaristici di Giovanni Paolo II (Dominicae Cenae; Ecclesia de Eucharistia) e di Benedetto XVI (l’esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis e la lettera apostolica motu proprio data Summorum Pontificum) in cui viene ribadita e approfondita la sostanza della dottrina cattolica sul mistero dell’Eucaristia compreso soprattutto come sacrificio di salvezza, e perciò come convito fraterno. Unitamente alla presentazione della ricchezza dottrinale contenuta negli interventi di papa Wojtyla, Gagliardi non manca di muovere delle critiche forti ad una prassi celebrativa che purtroppo nel recentissimo passato non ha risparmiato in alcuni casi neppure la liturgia pontificale che, a giudizio dell’Autore, in diverse occasioni ha lasciato troppo spazio ad elementi “spuri” e perfino “bizzarri” che non sempre hanno reso visibile quanto veniva invece ribadito con forza nelle dichiarazioni magisteriali. L’attenzione al magistero di papa Ratzinger, invece, concentrata soprattutto sui suoi più recenti interventi, dà l’occasione all’Autore per ribadire una sua convinzione profonda, ovvero che la riforma liturgica del Vaticano II non è ancora terminata, ma è anzi tuttora in atto e abbisogna pertanto di nuovi impulsi e di più accurati interventi perché possa essere portata in porto nel rispetto delle intenzioni proprie dei padri conciliari e dei documenti che la grande assise ecclesiale produsse, nel rispetto, cioè, del binomio mai scindibile tra continuità e fedeltà e bisogno di rinnovamento. Con queste convinzioni egli giunge così al cap. V (Teologia, liturgia e devozione) in cui indica alcuni elementi per comprendere, celebrare e adorare l’Eucaristia nel terzo millennio (p. 265 e ss.). Qui viene ribadita la centralità e l’attualità della dottrina della transustanziazione quale elemento


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inalienabile del depositum fidei, con tutto ciò che ne deriva non solo per la comprensione che del mistero eucaristico ha la chiesa, ma anche per una sua corretta celebrazione e per una devozione fedele al mistero creduto e celebrato. È il capitolo che impegna maggiormente Gagliardi perché proprio qui egli raccoglie quanto di importante è emerso nei capitoli precedenti e lo “utilizza” per indicare gli scenari possibili e, prima ancora, le vie da percorrere perché l’Eucaristia informi la vita spirituale del credente, il quale è chiamato a diventare uno col Cristo Sacerdote e Vittima e, attraverso di lui con lui e in lui, ad offrirsi al Padre ed essere da lui attirato nella gloria grazie all’azione dello Spirito santificatore (p. 315). Questo dinamismo, aggiunge l’Autore, deve portare a superare ogni forma di estrinsecismo e favorire la fede nel mistero che è il criterio base anche per la creatività liturgica e la partecipazione attiva e consapevole dei fedeli all’Eucaristia. Una partecipazione che non produca comunque una sorta di presenzialismo e attivismo certamente dannosi nei confronti del carattere sacro e misterico del sacrificio eucaristico, ma che si armonizzi con questa dimensione essenziale dell’Eucaristia. Perché questo avvenga, cioè perché si conservi il carattere misterico e sacro dell’Eucaristia, quale azione di Dio, sacrificio incruento di Cristo sull’altare, e sacrificio offerto dalla chiesa in unione al suo Capo, secondo l’Autore è anche utile preservare l’utilizzo della lingua latina almeno per alcune parti della messa, così come non è da rigettare la possibilità di rivedere l’attuale consuetudine della messa “verso il popolo” e favorire invece l’“orientamento” della stessa celebrazione affinché sia il celebrante che i fedeli tutti abbiano come punto di riferimento il Signore stesso che sull’altare si offre al Padre in sacrificio di soave odore (p. 364). Il libro si conclude con un breve paragrafo dedicato al rapporto tra devozione eucaristica, spiritualità ed etica; un paragrafo che avrebbe comunque meritato un’attenzione maggiore, e quindi con una riflessione finale dedicata al ruolo di Maria nella devozione eucaristica, poiché è sempre più forte la convinzione secondo cui la vera devozione eucaristica deve sfociare in quella mariana e viceversa (p. 386). Il saggio si chiude quindi con alcune preghiere per coltivare la devozione eucaristica e con una bibliografia essenziale scelta dall’Autore per introdurre il lettore all’approfondimento delle prospettive proposte nel libro. Ci troviamo di fronte ad un testo davvero ricco e interessante, la cui lettura edifica e mette sul tappeto temi difficilmente evitabili o che non


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possono essere affrontati superficialmente. Un testo che in alcuni casi e in diversi passaggi insiste su alcuni nodi problematici che comunque anche oggi abbisognano di chiarezza e di essere ribaditi in un momento in cui per alcuni versi cresce la confusione nel cuore e nella mente dei credenti su questioni che possono essere adeguatamente comprese solamente nello spazio vitale dischiuso dalla fede e proprio della comunità credente che celebra e vive il mistero che professa nella sua dottrina. Un merito indiscusso del saggio di Gagliardi è quello di aver affrontato in maniera critica e seria questioni che purtroppo, sotto la spinta anche dei mass media, spesso oggi vengono trattate in maniera superficiale e frettolosa, nell’assoluta ignoranza della tradizione e della riflessione dei secoli passati, a motivo del bisogno sempre crescente di favorire il dialogo con la generazione di oggi, ma anche a scapito del contatto vitale con le generazioni cristiane che ci hanno preceduto. E allora, soprattutto per l’Eucaristia vale il principio secondo cui nihil innovetur nisi quod traditum est! È questo uno degli insegnamenti che certamente ci riconsegna la lettura dell’opera di Gagliardi. Francesco Brancato

FRANCESCO ATZENI – TONINO CABIZZOSU, Dizionario biografico dell’episcopato sardo. Il Settecento (1720-1800), vol. II, AM&D Edizioni, Cagliari 2005, pp. 272 (Studi e Ricerche). Gli studi storici sulla Chiesa sarda — per quanto numerosi e, in varie occasioni, di valore — hanno sino ad oggi palesato una certa carenza di sistematicità e, soprattutto, difficilmente si sono sollevati rispetto a singoli casi di figure o istituzioni, deputando spesso a letture sociologiche un approccio generale con la realtà più vasta dell’isola. Il presente dizionario — il primo in ordine di pubblicazione — vuole colmare appunto questa lacuna, presentandosi innanzitutto come una utile, scientificamente precisa e documentata raccolta di voci monografiche sui singoli vescovi che, per questo primo tomo, hanno governato le diocesi sarde nell’arco del secolo XVIII. Le voci — preparate da una vasta equipe di collaboratori — risultano necessariamente sintetiche, ed allo stesso tempo ricche di informazioni,


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privilegiando comunque sempre il lato biografico senza tralasciare i contesti sociali ed ecclesiali in cui i vescovi dell’isola si sono mossi. Esse fanno generalmente riferimento alla letteratura esistente, ma nella maggioranza dei casi presentano anche lo stato delle fonti storiche sui prelati, citando numerosi materiali versati in archivi diocesani, parrocchiali, vescovili e capitolari, nonché civili (oltre all’Archivio Segreto Vaticano ed a vari archivi di Stato). Altro merito della presente impresa editoriale (come ricorda opportunamente Ottorino Pietro Alberti nella presentazione) è l’aver posto all’attenzione il problema della mancanza ad oggi nella storiografia italiana, non solo ecclesiastica,di opere di sintesi e di strumenti di consultazione generale dedicati all’episcopato, quasi che ogni singolo esponente della gerarchia andasse inteso come una monade da indagare a se stante, e la sua dimensione collettiva — per non dire collegiale — nei rapporti tra pari e in quelli con la comunità socioecclesiale non avesse rilevanza. Un’operazione che, di contro, è già stata messa a punto per i religiosi, con il Dizionario degli Istituti di Perfezione coordinato da Giancarlo Rocca ed edito dalle Paoline. Di pari livello di serietà appare quest’opera sull’episcopato sardo, che promette inoltre — attraverso la sua sistematicità di indagine — di fare luce anche su figure per cosi dire “minori”, sino ad oggi poco note e non valorizzate dalla storiografia ecclesiastica. Se i singoli riferimenti risultano quindi preziosi, non da meno appare il quadro generale che si desume da una lettura sequenziale del Dizionario: in esso, pur nelle inevitabili ineguaglianze di stile e metodo espositivo proprie di un’opera collettanea, si intravede anche una certa coesione narrativa, frutto della vigile curatela. Ciò infatti che emerge attraverso la rassegna delle voci di questa opera è uno spaccato della Chiesa sarda del Settecento, a tratti vivace, inquadrato dal punto di vista della gerarchia ecclesiastica nelle sue principali posizioni, scelte e relazioni. Un’ulteriore operazione che il Dizionario permette è il rapido accostamento tra le cronistorie delle diocesi e, soprattutto, il raffronto — anche in senso diacronico — tra i vescovi autoctoni e quelli di provenienza continentale; un aspetto, quest’ultimo, che probabilmente assumerà una particolare rilevanza nel tomo dedicato al Novecento, dovendo affrontare il passaggio centrale del Concilio Plenario Sardo del 1924. Il piano dell’opera prevede, infatti, la pubblicazione in serie di altri tre tomi (il primo, dal Concilio tridentino sino al 1720, il terzo e il quarto


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rispettivamente dedicati all’Ottocento ed al Novecento), comprendendo così tutto l’arco dell’età moderna e contemporanea. A fianco del Dizionario è prevista la pubblicazione di una serie di volumi monografici sulle singole diocesi sarde (Cagliari, Sassari, Oristano, Alghero, Ales, Bosa, Iglesias, Lanusei, Nuoro, Ozieri, Tempio), denominata “Diocesi e vescovi della Sardegna dal Concilio di Trento al Vaticano II”, che fornirà il necessario approfondimento sulle singole aree ecclesiastiche dell’isola, in questo caso sulla scorta di imprese editoriali dedicate ad altre regioni italiane (ad esempio, la “Storia religiosa della Lombardia” in dodici tomi pubblicata da La Scuola). In sintesi, questo progetto editoriale — curato da Tonino Cabizzosu, direttore dell’Archivio Arcivescovile di Cagliari e docente di Storia della Chiesa presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sardegna e da Francesco Atzeni, ordinario di Storia Contemporanea presso l’Università di Cagliari — costituisce un prezioso strumento di consultazione ed è destinato a divenire un riferimento costante negli studi di storia della Chiesa sarda. Paolo Gheda

EUDOCIA AUGUSTA, Homerocentones, editi a Rocco Schembra, in Corpus Christianorum, Series graeca, 62, Brepols Publishers-University Press, Turnhout-Leuven 2007, 492 pp. Singolare destino quello degli Homerocentones o Centoni omerici, genere poetico cristiano della tarda antichità, coltivato nelle ristrette cerchie delle elìtes aristocratiche dell’Impero Romano d’Oriente nel V secolo. Trasmessi e salvati dalla tradizione manoscritta, grazie all’uso che se ne fece ininterrottamente nell’insegnamento scolastico, per tutto il “millennio bizantino”, i Centoni omerici narravano, con gli stessi esametri estrapolati dall’Iliade e dall’Odissea di Omero, la vita di Cristo, così come ci è stata tramandata nei Vangeli canonici. Operazione che non va giudicata con il metro e con l’occhio del “classicista”, quale si mostra l’americano M.D. Usher, la cui monografia [M.D. USHER, Homeric Stitchings. The Homeric Centos of the Empress Eudocia, Lanham (Maryland) 1998] è uno dei pochi studi recenti sull’argomento. Il titolo della monografia, traducibile in italiano con «Rattoppi omerici», mostra proprio il giudizio di chi guarda agli


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Homerocentones, come appunto a dei “rattoppi”, “confezionati” con versi omerici. La critica attenta di Rocco Schembra alla monografia di Usher, nell’introduzione all’edizione critica degli Homerocentones, da lui curata, apparsa, dopo tredici anni di lavoro, nel prestigioso Corpus Christianorum, rivela la preparazione, nonché la maturità di giudizio di questo insigne filologo. Questi assurge, così, a rappresentante di quella “scuola italiana” che tanto ha ancora da insegnare e da offrire agli studi di filologia classica. A lui si deve la definizione, filologicamente corretta, dei Centoni omerici come di componimenti poetici di argomento cristiano redatti a partire dal V secolo d.C. e realizzati con l’accostamento di versi o semiversi, desunti dall’Iliade e dall’Odissea (p. XIX). Proprio quest’ultima caratteristica rende gli Homerocentones un documento ed una testimonianza importanti di quella particolare temperie storica, culturale, religiosa e spirituale che fu la tarda antichità. La cultura cristiana, proveniente da un rapporto conflittuale, ancora nel IV secolo, con la cultura classica e pagana — ricordiamo il sogno di Gerolamo con l’ammonimento: «tu es ciceronianus, non christianus» ed il tentativo di restaurazione politico-religiosa dell’Imperatore Giuliano, detto l’Apostata — perviene, però, anche, ad un rapporto, fatto di scambi e di relazioni, con quella cultura pagana, nei confronti della quale, i Padri della Chiesa ebbero sempre un atteggiamento ambivalente. Proprio la poesia centonaria, sia latina con l’Eneide di Virgilio, come il Cento Vergilianus di Proba del IV secolo, sia greca con l’Iliade e con l’Odissea, come appunto, gli Homerocentones di Eudocia del V secolo, portarono a compimento un’operazione che documenta tale rapporto esistente fra la nuova fede e l’eredità antica. Tale operazione non può essere liquidata come un capriccio di eruditi, frutto di virtuosismo e di nostalgia dell’antico, quale quello del poeta pagano Ausonio del IV secolo od un raffinato “travestimento” di Omero in forma cristiana od ancora, viceversa, una semplice “riformulazione” della vita di Cristo in versi omerici o virgiliani, riusando come semplice materiale da costruzione o Baustein, i versi dei massimi poeti non solo della letteratura e della poesia greca e latina, ma anche dell’insegnamento scolastico tardoantico. Infatti, complessi e diversificati appaiono i processi che presiedono allo scomporre i versi omerici — rispettandone il metro e la prosodia — in corrispondenza della loro cesura metrica; al loro ricomporli — con l’obbligo della fedeltà all’ortodossia — per esprimere e ripresentare il Vangelo; infine, al loro riuso — con gli opportuni adattamenti


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del lessico omerico, dovuti alla presenza dei dogmi cristiani — manifestando, da parte del poeta centonario, una inevitabile tendenza all’interpretazione. Complessi sono i rapporti, allora, che si vengono a creare, innanzitutto, fra il modello omerico e la Sacra Scrittura e quindi, fra il verso e la versificazione omerica da una parte ed il poeta centonario dall’altra, chiamato a mantenere e ad osservare una doppia fedeltà: quella ad Omero e quella al Vangelo. Il problema della convivenza di Paganesimo e di Cristianesimo, nella cultura tardoantica, in particolari espressioni della comunicazione letteraria di quell’epoca, quali i Centoni omerici, sta al cuore della questione del Tardoantico. Tale problema, Usher lo banalizza, adottando per i poeti centonari ed i loro Centoni, l’infelice similitudine degli artisti Outsider e dell’Outsider Art; egli, di fatto, non riconosce ai Centoni omerici ed ai poeti centonari una dignità ed una originalità artistiche. Schembra, invece, con la serietà e la puntigliosità che lo contraddistinguono, mette in chiaro, come, a differenza degli artisti Outsider, i poeti centonari non erano degli autodidatti; essi, infatti, dimostrano una grande attitudine alla versificazione omerica — dovuta all’insegnamento nella scuola antica, di cui Omero era uno dei capisaldi — nonché una grande capacità mnemonica, in virtù dell’apprendimento di Omero nella scuola. Essi, inoltre, a differenza degli artisti Outsider, non riusano materiali di scarto; Omero, infatti, era il poeta vate, presso le elìtes intellettuali di Costantinopoli, allo stesso livello degli autori della Sacra Scrittura. In realtà, i poeti centonari si collocano, in pieno, in quella tendenza tipica della letteratura della tarda antichità che riutilizza, con intenti diversi, il grande materiale letterario della cultura classica, rispondendo al kunstwollen del loro tempo (p. CXX). Infine, i poeti centonari non sono degli emarginati, come lo sono gli artisti Outsider e la versificazione centonaria non è una folk art o arte popolare. Eudocia, infatti, era la consorte di Teodosio II, Imperatore dell’Impero Romano d’Oriente, dal 408 al 450 e risiedeva stabilmente nella corte imperiale di Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente. L’ambiente di corte, nel quale videro la luce gli Homerocentones, distante da un pubblico “popolare”, non è, quindi, proprio un ambiente di emarginati. Al di là, però, dei banali e superficiali giudizi di Usher, Schembra gli riconosce il merito di voler studiare e comprendere i Centoni nelle loro relazioni con il modello omerico e biblico. I Centoni omerici testimoniano, infatti, il prestigio culturale sia di Omero sia della Bibbia nella tarda anti-


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chità; non è del tutto peregrina, quindi, l’osservazione di Usher, secondo la quale, l’“urto” o clash fra questi due “sistemi di segni”, così diversi l’uno dall’altro, disturba l’autorità di entrambi. Inoltre, la categoria di Verfremdung o «straniamento», mutuata da B. Brecht, induce Usher ad accorgersi dell’importanza dell’adattamento e del reimpiego del “significante” omerico per esprimere un “significato” del tutto cristiano. Proprio in tale direzione, punta il suo esame di quei termini del lessico omerico che nell’edizione (o Ècdosi) del testo da lui proposta vengono variati od adattati nella versificazione centonaria. Però, Usher scambia per innovazioni e soluzioni nuove dei poeti centonari quelle che, in realtà, sono lezioni erronee dei codici della tradizione manoscritta degli Homerocentones, non fornendo, fra l’altro, un testo approntato (o Constitutio textus) in maniera soddisfacente. Di ben altro valore, è l’approccio di Schembra ai problemi testuali, linguistici, metrici, stemmatici e codicologici, posti dagli Homerocentones. Schembra, a differenza di quanto sostiene Usher, ricorda come, nella tarda antichità, Omero e tutta la poesia antica era destinata alla lettura, respingendo quindi la tesi dell’americano, secondo la quale, la poesia centonaria continua la tradizione orale dei rapsodi arcaici che hanno dato origine ai poemi omerici (pp. CXXI-CXXII). Sembra, infatti, del tutto fuori luogo riprendere e citare, riguardo agli Homerocentones, la “questione omerica”. Usher presenta, nel suo studio, un’edizione del testo del poema centonario, frutto della sua Constitutio textus, ottenuta con l’ausilio di un solo codice manoscritto (l’athonita Hagion Oros o E), giunto a noi mutilo e di una sola delle edizioni a stampa (quella di Stephanus, stampata a Ginevra nel 1578), apparse dal 500’ in poi con il revival degli studi classici ed umanistici. Schembra, invece, crede fermamente nell’importanza del lavoro sul testo, a noi pervenuto, nei testimoni della tradizione manoscritta (o Textus receptus) e quindi, nello studio scrupoloso di tutti i codici contenenti gli Homerocentones. Egli, così, dichiarando di avvalersi del metodo di Lachman, esamina insieme (o collaziona) un gran numero di manoscritti, minuziosamente descritti, nell’Introduzione alla sua edizione critica degli Homerocentones. Sul raggruppamento (o Collatio) di questi codici, testimoni della tradizione manoscritta degli Homerocentones, Schembra ha verificato la sua Constitutio textus, proveniente dall’osservazione e dalla raccolta di tutti gli errori o di tutte quelle lezioni difformi dalla sua Constitutio textus, presenti in essi, posti a confronto, naturalmente, con il


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testo di Omero nelle edizioni dell’Iliade e dell’Odissea, pervenute oggi fino a noi. Invece di parlare di lectio difficilior o di lectio facilior, poiché a causa della memoria difettosa, il poeta centonario poteva egli stesso commettere degli errori, riportando, nel componimento centonario, in modo errato, i versi omerici, Schembra parla di codici potiores e di codici deteriores, ossia di un codice o di più codici — raggruppati in “famiglie” o “sottofamiglie” — «preferibili» ad uno o più codici «peggiori». La Collatio dei codici manoscritti porta, appunto, ad individuare gli errori e ad escludere le lezioni in favore della lezione corretta, per arrivare ad un testo il più possibile vicino a quello dell’archetipo ed alla sua Constitutio textus. Poiché i testimoni dipendono da altri più antichi, in un rapporto di antigrafo-apografo, lo Schembra cerca di individuare i capostipiti che dovrebbero contenere un minor numero di errori rispetto a quello degli altri testimoni che dai capostipiti dipendono. Nel caso degli Homerocentones, non necessariamente il capostipite od il manoscritto più antico sono i testimoni che conservano un testo migliore ed esente da errori, rispetto ad un altro. Essi, infatti, possono dipendere a loro volta da manoscritti, con errori comuni ad altri, in base ai quali si ricostruiranno i “rami” della tradizione. Tuttavia, più si va avanti nella tradizione manoscritta, più aumentano gli errori nei testimoni. Schembra, così, si avvale del metodo lachmaniano, per avvicinarsi il più possibile all’archetipo del testo, studiando anche la Constitutio textus che ha presieduto alle edizioni a stampa, susseguitesi fino ai giorni nostri. Senza trascurare gli errori tipografici — certamente più frequenti nel passato rispetto ad oggi — può essersi verificata l’eventualità che gli editori delle edizioni a stampa abbiano “corretto” lezioni di Omero nel poema centonario, giudicate come errori, ma che, in realtà, erano le lezioni giuste, nel testo a noi pervenuto nei manoscritti. Si verifica, così, il fenomeno detto dell’“iperomerismo” presso gli editori e gli studiosi del periodo prelachmaniano che è la peculiarità della Constitutio textus dei testi dei poemi centonari nelle edizioni a stampa (p. XXIII). Schembra, allora, mostra di sapersi distaccare dal metodo di Lachman e di saper guardare al di là di esso, tenendo conto del contesto storico e culturale nel quale si sono formati sia i codici manoscritti sia le edizioni a stampa. Infatti, i poeti centonari omerici del V secolo attingono a testimoni del testo omerico più antichi di quelli a noi pervenuti, risalenti al X secolo, per l’Iliade ed al X-XI secolo per l’Odissea, quindi di cinque secoli anteriori, sempre che non si ammetta la


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possibilità che essi abbiano avuto a disposizione testimoni ancora più antichi (p. LXXXIII). Certamente, questa materia, alla quale è introdotto il lettore non specializzato, è difficile e complessa; tuttavia, proprio il dilungarsi sugli errori o sulle lezioni difformi rispetto alla sua Constitutio textus, presenti nei codici manoscritti, sul loro accordo e sul loro disaccordo, non è una nota facilmente ricorrente negli studi dei filologi del calibro di Schembra. La pazienza con la quale Schembra spiega al lettore non specializzato gli errori comuni a questo od a quell’altro manoscritto; la minuzia e l’attenzione con le quali riferisce l’esame autoptico dei codici con tutte le loro caratteristiche, ricostruendone, per alcuni, anche particolari circostanze della loro storia e del loro ritrovamento; la riproduzione degli stemmata codicum e degli stemmata editionum nelle tavole stemmatiche a corredo del testo che permettono al lettore di comprendere, passo per passo, la ricostruzione delle parentele dei codici fra loro e delle loro famiglie, rendono giustizia a questa introduzione che si rivela uno strumento prezioso per chi intenda avviarsi allo studio dei problemi della filologia classica, in genere e della poesia centonaria omerica, in particolare. Consapevole dei limiti del metodo lachmaniano, Schembra non si limita alla Collatio dei codici; non appartiene, pertanto, a quella categoria di filologi “puri” che si precludono altri campi ed altri orizzonti della storia e della critica del Textus receptus. Lo dimostra il suo interesse per le edizioni a stampa degli Homerocentones, in particolare, per la prefazione alle rispettive singole edizioni, nelle quali si addentra, alla ricerca dei criteri della loro Constitutio textus, come in quella di Aldo Manuzio o l’Aldina del 1501-1504, che è stata l’Editio princeps per tutte le altre edizioni a stampa, in numero di dodici, susseguitesi dai primissimi anni del 500’ fino alla fine del 700’. L’esame delle edizioni a stampa consente, infatti, a Schembra di osservare come già Stephanus, nel 1578, avesse avuto la brillante intuizione che i Centoni omerici potessero servire a recuperare quelle lezioni di Omero che si erano perdute. In tal modo, gli Homerocentones sarebbero una fonte indiretta per il recupero di quelle lezioni dell’“Omero perduto”, non pervenute nei testimoni, sui quali si basano le edizioni dell’Iliade e dell’Odissea giunte fino a noi. Proprio l’interesse per la restituzione del testo omerico divenne predominante nelle edizioni a stampa del 600’, trasformando, così, lo studio dei Centoni omerici, in una sorta di passione erudita, una curiosità da dotti, a differenza delle edizioni a stampa del 500’, nelle quali, gli Homerocentones erano rite-


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nuti, ancora, come dei testimoni della poesia cristiana. È questa la sorte singolare cui si accennava all’inizio; prima, esempi di poesia cristiana, ancora viva, presso i circoli umanistici del Rinascimento, i Centoni omerici, in seguito, furono considerati fonti della tradizione indiretta del testo omerico. Gli Homerocentones possono servire, così, allo studioso a porre la questione della raccolta e del riesame di tutte le testimonianze di Omero non confluite nella tradizione medievale (p. CLXXXIII, n. 175). Sono ardui i problemi filologici e testuali, posti dai centoni omerici, a motivo anche degli stati redazionali nei quali questi ci sono pervenuti. L’edizione critica a cura di Schembra contiene cinque testi tràditi nella tradizione manoscritta e restituiti nella sua Constitutio textus: una forma lunga o I HC; una breve o II HC; tre redazioni o stati redazionali. Gli stati redazionali, detti: HCa, HCb ed HCg, sono stati ritenuti da Schembra come delle composizioni anonime ad uso della scuola, dove venivano ricopiati e probabilmente imparati e studiati a memoria dagli allievi. Le prime due forme, una lunga, l’altra breve, presentano, invece, un esempio interessante di rielaborazione, rimaneggiamento ed in parte di rifacimento del materiale omerico e centonario, dietro cui vi sta la preferenza verso l’oikonomìa salvifica del NT, in luogo di quella dell’AT, il cui riferimento viene così omesso nel prologo di II HC. La forma lunga sarebbe stata iniziata dal vescovo Patrizio e quindi portata a termine da Eudocia. La forma breve menziona nell’inscriptio, posta al suo inizio, oltre ai nomi di Patrizio e di Eudocia, quelli del filosofo Ottimo e di Cosma di Gerusalemme, complicando ulteriormente i problemi di redazione e di attribuzione degli Homerocentones. L’apparato critico, agevole e relativamente facile da consultare, è triplice, in calce al testo edito e presenta: le citazioni dei versi dell’Iliade e dell’Odissea; i versi in comune con le forme e gli stati redazionali; infine, le lezioni presenti nei codici collazionati. Interessante, verso la fine dell’Introduzione, è la menzione e l’esplicazione di alcune varianti di cristianizzazione (pp. CLXXXV-CXCI) che, più di ogni altro elemento, aiutano il lettore a comprendere la complessità dell’operazione della poesia centonaria. Un esempio, fra tutti, è quello offerto da Odissea, V,194, dove si dice che Calipso ed Odisseo: «si posero in una grotta dea e uomo», verso ripreso e rifuso nel Centone, per dire che Gesù: «si pose davanti al sepolcro come Dio ed uomo» (HC I, 1277, Schembra, p. 85). Lo stesso verso omerico, con il verbo alla terza persona singolare — esprimendo ora il dogma cristiano dell’Incarnazione — narra, nella reda-


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zione centonaria, l’episodio della resurrezione di Lazzaro, riferendosi, però, alla persona di Gesù che si pone di fronte al sepolcro di Lazzaro come Dio e come uomo. Opera di indiscutibile valore e rigore scientifico, l’edizione critica degli Homerocentones viene a colmare una lacuna nel panorama degli studi della poesia cristiana antica, ma contribuisce, anche, a porre sul tappeto, il problema della necessità di uno studio del testo e dei suoi problemi critici e filologici, come premessa ineludibile per la comprensione del suo contenuto teologico. Francesco Aleo



Synaxis 26 (2008) 225-230

NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO

1. LICENZIATI IN TEOLOGIA MORALE Hanno conseguito la Licenza in Teologia morale, l’11 ottobre 2007: BANNO DOMENICO, L’amore di Dio e di Cristo nella lettera agli Efesini. Analisi esegetico-catechetica di Ef 1,3-4; 2,4; 5,2.25-27. (Relatore prof. Attilio Gangemi) DI PIETRO SIMONA MARIA, “Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9). Rimanere in Gesù e nel suo amore: l’ideale del discepolo in Gv 15,1-8; 15,9-110. (Relatore prof. Attilio Gangemi) DI STEFANO NUNZIO, “Dovete anche voi lavarvi a vicenda i piedi (Gv 13,14) agli Efesini. Analisi esegetico-spirituale di Gv 13,12-15. (Relatore prof. Attilio Gangemi)

Il 12 ottobre 2007: MWASHIMAHA JOHN ABRAHAM, The communion of Saints in the african traditional religion. (Relatore prof. Corrado Lorefice)

L’8 febbraio 2008: FICARRA LUIGI, La legge naturale in Tommaso D’Aquino. (Relatore prof. Pasquale Buscemi)


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

NKORONKO CHRISTOPHER, Family school of love. Afro-christian approach. From the Second Vatican Ecumenical Council to the present with reference to the Waha of Kigoma diocese – Tanzania. (Relatore prof. Corrado Lorefice) NYANDA AMOS, Il matrimonio nella tribù Sukum. Confronto con la concezione cristiana del Catechismo della Chiesa Cattolica. (Relatore prof. Salvatore Consoli) SANTAGATI AQUILA, L’attrattiva della predicazione del Vangelo del Regno (Matteo 13,44-46). (Relatore prof. Carmelo Raspa)

2. BACCELLIERI IN TEOLOGIA Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia, l’11 ottobre 2007: FIORITO MARIA, La presenza di Is 40,1-11 nei racconti evangelici di Giovanni Battista (Mt 3,1-12; Mc 1,1-8; Lc 3,1-20). (Relatore prof. Attilio Gangemi) FOGLIA GIORGIO, Virtù teologali come anima e caratteristica della vita cristiana. I tre habitus che caratterizzano l’Imago Dei. (Relatore prof. Salvatore Consoli) KHALIL SAFWAT MARKOS GHOBRIAL, La risposta di Gesù al sacerdote in Mt 26,64 e Mc 14,62 (cfr. Lc 22,69). (Relatore prof. Attilio Gangemi) NASCA ROSARIA, Dalla lode all’amore negli scritti di Francesco d’Assisi. (Relatore prof. Alberto Neglia)


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NIYONZIMA ALBERT, La metafora del fico nel Nt. “La maledizione del fico (Mt 21,18-22); Mc 11,12-14.20-26; La parabola del fico sterile (Lc 13,6-9); Natanaele sotto il fico (Gv 1,48.50). (Relatore prof. Attilio Gangemi) TRAPANI FRANCESCO ANTONIO, La grande promessa di pasqua: Gesù risorto speranza dell’uomo nel terzo millennio. (Relatore prof. Vittorio Rocca)

Il 12 ottobre 2007: ANDRONICO ALFREDO, La metafora sponsale tra Cristo e la Chiesa nel De Concordantia Catholica di Niccolò Cusano. Motivo sponsale e sinodalità nella teoria conciliarista. (Relatore prof. Giuseppe Ruggieri) DI STEFANO FRANCESCO, Il culto di Maria SS. del Ponte a Caltagirone. Tra storia, devozione e pietà popolare. (Relatore prof. Giuseppe Federico) NDAYIZEYE GERARD, La Chiesa burundese per la pace e la nonviolenza. (Relatore prof. Salvatore Consoli) MANGIAFICO MICHELE, Dalla liturgia alla Chiesa. Ermeneutica della Sacrosanctum Concilium in Dossetti. (Relatore prof. Giuseppe Ruggieri) MAUGERI GIUSEPPE, La confermazione nei Catechismi della Conferenza Episcopale Italiana. (Relatore prof. Giuseppe Federico) MONFORTE AMBROGIO, Il culto di Maria SS. dell’Elemosina a Biancavilla tra storia, fede e pietà. (Relatore prof. Giuseppe Federico)


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RANDELLO GAETANO FABIO, La quaresima e la settimana santa a Licodea Eubea. (Relatore prof. Giuseppe Federico) TROVATO MARIA CLAUDIA, Natura e missione dei laici nel pensiero e nell’opera di Giuseppe Lazzati. (Relatore prof. Corrado Lorefice)

L’8 febbraio 2008: BARONE CHRISTIAN, La cristologia estetica del cardinale Pierre de Bérulle. (Relatore prof. Giuseppe Ruggieri) FUCILE ROBERTO, Fernando Cento vescovo di Acireale (1922-1926) e padre conciliare. (Relatore prof. Gaetano Zito) GIUFFRIDA ALFIO, La “notte oscura dell’anima” nella ultime poesie di David Maria Turoldo. (Relatore prof. Giuseppe Buccellato) LICCIARDELLO VENERANDO, Maria. modello, madre e speranza della Chiesa. Maria nella eucologia del Messale Romano. (Relatore prof. Giuseppe Federico) SPOTO RITA, “Che tutti siano una cosa sola”. L’unità dei discepoli nel capito 17 del Vangelo di Giovanni. Analisi strutturale e osservazioni esegetiche. (Relatore prof. Attilio Gangemi) TORO VINCENZO, “La pietra che scartarono i costruttori” (Sal 117,22). L’utilizzazione in 1Pt 2,1-10. (Relatore prof. Attilio Gangemi)


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3. COLLEGIO DOCENTI Il 19 ottobre 2007 il Preside, su proposta del Collegio docente e ottenuto il benestare del Moderatore, ha nominato Docenti incaricati: il prof. Biagio Aprile, docente di patristica il prof. Luca Saraceno, docente di filosofia

4. INAUGURAZIONE ANNO ACCADEMICO Il 26 ottobre 2007 si è tenuta l’inaugurazione del 40° anno accademico dello Studio Teologico S. Paolo. La mattina i docenti, i membri del Consiglio si sono incontrati con i Vescovi delle Chiese che aderiscono al S. Paolo: Acireale, Caltagirone, Catania, Nicosia, Noto, Siracusa. Il pomeriggio si è tenuto il momento accademico, con la solenne concelebrazione eucaristia presieduta dal neo vescovo di Noto Mariano Crociata. Alla concelebrazione ha fotto seguito relazione del Preside mons. Salvatore Consoli. Dopo la relazione del Preside, Giuseppe Schillaci, Professore stabile di Filosofia, ha tenuto la prolusione accademica sul tema: “Sperar di essere nella Verità”.

5. CONVEGNO DI STUDIO Il 29 e il 30 novembre 2007, al Convento di S. Biagio di Acireale, lo Studio Teologico S. Paolo insieme alla Provincia siciliana dei Frati minori hanno tenuto il Convegno su «Frate Allegra tra Cina e Sicilia. Bibbia e spiritualità».

6. COLLOQUIO DI SPIRITUALITÀ Il 6 dicembre 2007 presso lo Studio Teologico S. Paolo si è tenuto un colloquio di spiritualità sul tema: «Una sposa vestita di povertà. La Trinità e la Chiesa nella mistica di S. Maria Maddelena di Firenze (1566-1607)».


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Sono intervenuti come relatori: Chiara Vasciaveo “L’esperienza di Dio Trinità” e Alberto Neglia “Il rinnovamento della Chiesa”. Ha moderato l’incontro Egidio Palumbo.

7. COLLEGIO DEI DOCENTI Il 7 febbraio 2008, il Gran Cancelliere della Facoltà Teologica di Sicilia, l’Arcivescovo Paolo Romeo, ha nominato Docenti stabili dello Studio Teologico S. Paolo: il prof. Giuseppe Buccellato SDB, docente di Teologia spirituale il prof. Giuseppe Alberto Neglia OC, docente di Teologia spirituale

8. CONVEGNO SU GIUSEPPE CRISTALDI Lo Studio Teologico S. Paolo ha dato il suo patrocinio al Convegno svoltosi ad Acireale su “Giuseppe Cristaldi. Credere pensando”, che si è tenuto nei giorni 7-8 aprile.

9. COLLOQUIO INTERDISCIPLINARE Il 18 aprile 2008 si è tenuto presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania il colloquio interdisciplinare sul tema: «Definitività delle scelte, oggi, nella Chiesa». Sono intervenuti come relatori: Antonino Crimaldi “Orientarsi per le scelte definitive: influssi e condizionamenti del contesto socio-culturale odierno” e Giuseppe Buccellato “Quale maturità umana e spirituale, oggi, per una scelta definitiva? Criteri di un orientamento e possibili itinerari di formazione”. Ha moderato il colloquio Egidio Palumbo.


Synaxis «NUMERI MONOGRAFICI» Synaxis XIII/1 - 1995

«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900 Synaxis XIV/1 - 1996

«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FASULLO, Una religione mafiosa A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgico-celebrative S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa


Synaxis XV/2 - 1997

«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero S. VACCA, Società e Cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale Synaxis XVI/2 - 1998

«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia


C. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare Synaxis XVII/1 - 1999

«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione Synaxis XVII/2 - 1999

«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna


G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna Synaxis XVIII/2 - 2000

«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo) N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia Synaxis XIX/2 - 2001

«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma


A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La Chiesa e gli infedeli Synaxis XX/2 - 2002

«Chiesa locale e istituti di vita consacrata» F. CONIGLIARO, Il presbiterio: un ministero per la Chiesa locale R. FRATTALLONE, I presbiteri “religiosi” e la pastorale diocesana A. NEGLIA, Il carisma degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica nella Chiesa locale C. TORCIVIA, Partecipazione dei membri degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica al progetto pastorale diocesano Synaxis XX/3 - 2002

«Per una spiritualità del Vaticano II» P. HÜNERMANN, Esiste una spiritualità del Vaticano II? G. ALBERIGO, Le ragioni dell’opzione pastorale del Vaticano II G. ALBERIGO, Lo spirito e la spiritualità del Vaticano II Synaxis XXIII/1 - 2005

«Dimensioni della ritualità» G. RUGGIERI, Introduzione A. COCO, Riflessioni su storia, struttura e rito nella cultura del secondo Novecento


R. OSCULATI, Rito ed etica. Per una lettura dell’evangelo di Marco B. FRONTERRÉ, Il tema del sacrificio nella prima agiografia martiriale (II-III sec.). Appunti per una storia della morte nel cristianesimo antico A. LONGHITANO, Ritualità e dinamica del potere nella festa di S. Agata a Catania G. ZITO, Ritualità e conflitti sociali nella festa di S. Agata a Catania dopo l’Unità A. GRILLO, La ritualità della penitenza ecclesiale. intrecci e interferenze tra dimensione rituale, giuridica e teologica della esperienza del perdono R.M. MONASTRA, Fede e Bellezza e la confessione romantica A. ROTONDO, Un cuore pensante… balsamo per molte ferite Synaxis XXV/2 - 2007

«Il profilarsi di nuovi modelli di clero in Sicilia» M. GUASCO, Evoluzione dei modelli di prete nella storia recente G. RUGGIERI, Nuovi modelli di clero? Le sfide attuali A. NEGLIA, Il profilarsi di nuovi modelli di clero in Sicilia. Le sfide attuali C. LOREFICE, La forma “cristica” di una figura “a-tipica”: Pino Puglisi


Collane di Synaxis «QUADERNI DI SYNAXIS» AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito) AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184 AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito) AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138 AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito) AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334 AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264 AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170 AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190


AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136 AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160 AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280 AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427 AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240 AA. VV., Magia, superstizione e cristianesimo, Giunti, Firenze 2004, pp. 240 AA. VV., La Bibbia libro di tutti?, Giunti, Firenze 2004, pp. 312 AA. VV., Euplo e Lucia. 304-2004. Agiografia e tradizioni cultuali in Sicilia, Giunti, Firenze 2006, pp. 424 AA. VV., Io sono l’altro degli altri. L’ebraismo e il destino dell’Occidente, Giunti, Firenze 2006, pp. 312 AA. VV., Repraesentatio. Sinodalità ecclesiale e integrazione politica, Giunti, Firenze 2007, pp. 240 AA. VV., Embrioni, cellule e persona: biomedicina, giurisprudenza ed etica a confronto, Giunti, Firenze 2008, pp. 192


«DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS» G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288. P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158. A. G ANGEMI , I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,1931), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524. G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418. A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244. A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19), Edizioni Arca, Catania 2003, pp. 1032. G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere, Edizioni Arca, Catania 2004, pp. 240.


F. BRANCATO, La questione della morte nella teologia contemporanea. Teologia e Teologi, Giunti, Firenze 2005, pp. 168. F. BRANCATO, “L’ultima chiamata”. Giovanni Paolo II e la morte, Giunti, Firenze 2006, pp. 240. G. SCHILLACI, Essere come dis-inter-esse. Dalla corporeità alla carità, Giunti, Firenze 2006, pp. 120. L. SARACENO, La vertigine della libertà. L’angoscia in Sören Kierkegaard, Giunti, Firenze 2006, pp. 216. F. CONIGLIARO, Proceduralità e trascendentalità in J. Habermas. Una tensione non-contemporanea e il suo significato antropologico, etico e politico, Giunti, Firenze 2007, pp. 360. A. SAPUPPO, Le cellule staminali e la terapia genica. Aspetti scientifici, antropologici ed etici, Giunti, Firenze 2007, pp 168. A. MINISSALE, Bibbia e dintorni. Saggi esegetici e scritti d’occasione, Giunti, Firenze 2007, pp. 384. F. BRANCATO, Il “De novissimis” dei laici. Le “realtà ultime” e la riflessione dei filosofi italiani contemporanei, Giunti, Firenze 2008, pp. 480. R. SCIBILIA, Il coinvolgimento nel mistero di Cristo fondamento dell'etica cristiana, alla luce di Col 3,1-4, Giunti, Firenze 2008, pp. 264. Sezione della collana: Ricerche per la Storia delle Diocesi di Sicilia S. DI LORENZO, Laureati e Baccellieri dell’Università di Catania. I. Il fondo Tutt’Atti dell’Archivio Storico Diocesano (1449-1570), Giunti, Firenze 2005, pp. 168. A. PLATANIA, La musica sacra a Catania tra Ottocento e Novecento. L’archivio musicale del Seminario arcivescovile di Catania, Giunti, Firenze 2006, pp. 360.


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