Synaxis 27 1 (2009)

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SYNAXIS XXVII/1 – 2009

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA



INDICE

Sezione monografica “Una sposa vestita di povertà”. La Trinità e la Chiesa nella mistica di s. Maria Maddalena di Firenze (1566-1607) S. MARIA MADDALENA DI FIRENZE, TEOLOGA E MISTAGOGA INTRODUZIONE

(Egidio Palumbo) . . . . 1. Una teologia vissuta e profetica. . 2. Una mistagogia simbolica .

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«LA SANTISSIMA TRINITÀ È QUELL’AMOR PURO E INFINITO CHE DI CONTINUO SPIRA E RESPIRA» NOTE DI TEOLOGIA TRINITARIA IN S. MARIA MADDALENA DI FIRENZE

(Chiara Vasciaveo) . . . . 1. Mistica come teologia . . 2. Le tappe del cammino spirituale . 3. La Trinità increata e la «Nuova trinità» 4. Il «consiglio ab aeterno» . . 5. «Guardi quanto è comunicativa» 6. Una Chiesa polifonica . .

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«DIO VUOLE CHE SI RINNOVI LA SUA SPOSA CHIESA». IL RINNOVAMENTO DELLA CHIESA (Alberto Neglia) . . . . . . . 1. La Chiesa tra fedeltà e tradimento . . . 2. Il rinnovamento come cammino di conversione . 3. Un progetto di vita per il papa e per i cardinali . 4. La vita religiosa come profezia per la Chiesa . . 5. Per concludere . . . . . .

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BIBLIOGRAFIA RIGUARDANTE S. MARIA MADDALENA DE’ PAZZI (Chiara Vasciaveo) . . . . . . .

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Sezione teologico-morale INTRODUZIONE ALL’ETICA SACRAMENTARIA, OVVERO ANCORA SULLO SPECIFICO DELL’ETICA CRISTIANA (Maurizio Aliotta) . . . . . . . . 1. Il quadro di riferimento essenziale . . . . 2. Sacramenti e morale cristiana . . . . . 3. Dimensioni morali dei sacramenti . . . .

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AMORE E SAPIENZA IL LINGUAGGIO EROTICO NEL CANTICO DEI CANTICI E IN PROVERBI

(Agostino Greco) . . . . . . . . 1. Il linguaggio erotico del Cantico dei cantici come terminologia del dialogo . . . . . . . . 2. Il linguaggio erotico nel libro dei Proverbi . . . 3. L’esempio di alcuni paralleli letterari tra Cantico dei cantici e Proverbi . . . . . . . . 4. Amore e donna, Sapienza e donna . . . . 5. Qualche spunto conclusivo . . . . . IL MATRIMONIO TRA CATTOLICI E MUSULMANI IN ITALIA (Guglielmo Giombanco) . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . 1. Il matrimonio: realtà umana e segno di salvezza . . . 2. Il matrimonio nella cultura e nella religione islamica . . 3. I matrimoni interconfessionali . . . . . 4. Nodi problematici per la trascrizione civile del matrimonio tra cattolici e musulmani in Italia . . . . . 5. Alcune considerazioni conclusive . . . .

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TEOLOGIA DELLE RELIGIONI (Gianni Colzani) . . . . 1. Quale concezione di “religione” . 2. Cosa intendere per “salvezza” . 3. Il dato conciliare e postconciliare 4. Teologia delle religioni . .

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AGOSTINO: LA PAROLA TRA COMUNICAZIONE UMANA E ILLUMINAZIONE DIVINA (Santi Lo Giudice) . . . . . . .

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Sezione miscellanea IL CONTRIBUTO DI LA PIRA ALLA FORMAZIONE DEL DETTATO COSTITUZIONALE: POLITICA DEL DIALOGO ED IMPEGNO CRISTIANO (Marco Luppi) . . . . . . .

LA COSTRUZIONE DEL SEMINARIO DEI CHIERICI A CATANIA (Salvo Calogero) . . . . . . . . 1. Le trasformazioni ottocentesche . . . . 2. La cessione del “palazzo dei Chierici” al Comune . . 3. L’intervento di Mario Di Stefano nel “palazzo dei Chierici” . 4. Le leggi eversive e il nuovo Seminario dei Chierici . . 3. I lavori eseguiti nel Novecento e i passaggi di proprietà . Appendice documentaria . . . . . .

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Recensioni .

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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

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Sezione monografica “Una sposa vestita di povertà”. La Trinità e la Chiesa nella mistica di s. Maria Maddalena di Firenze (1566-1607)*

Synaxis 1 (2009) 7-13

S. MARIA MADDALENA DI FIRENZE, TEOLOGA E MISTAGOGA INTRODUZIONE

EGIDIO PALUMBO

** OCARM

Nell’anno 2007 si è celebrato il centenario della morte (16072007) di Maria Maddalena di Firenze, mistica carmelitana fiorentina. Un’occasione per approfondire la sua esperienza e il suo magistero teologico-spirituale ancora poco conosciuti. Maria Maddalena nasce nella nobile famiglia de’ Pazzi di Firenze il 2 aprile 1566, e muore di tubercolosi polmonare il 25 maggio 1607 a quarantuno anni. Nel 1626 fu proclamata beata da Urbano VII e canonizzata da Clemente IX nel 1669. A sedici anni, Maddalena scelse di entrare come monaca carmelitana nel Carmelo femminile di S. Maria degli Angeli a Firenze, oggi sede del seminario diocesano, il 27 novembre 1582. Un monastero abbastanza vivace, in parte legato ai movimenti femminili che si ispiravano alla predicazione del Savonarola (1452-1498), cioè al suo impegno di riforma della Chiesa, di una vita cristiana più conforme al Vangelo e moralmente irreprensibile. * Atti del Colloquio di spiritualità tenuto il 6 dicembre 2007 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Docente invitato presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Egidio Palumbo

Nel monastero, inoltre, circolavano testi scritti riguardanti la dottrina spirituale, accompagnata da estasi e visioni, di donne stimate nell’ambiente fiorentino, come le domenicane Caterina de’ Ricci (1522-1590) e Maria Bartolomea de’ Bagnesi (1514-1577). Il monastero fu governato da valenti padri spirituali del presbiterio diocesano, alcuni dei quali, ammiratori del Savonarola, come Don Agostino Campi, invitavano al monastero — come confessori, direttori spirituali e formatori — padri domenicani e gesuiti di elevata preparazione biblico-teologica e spirituale, come il domenicano p. Alessandro Capocchi. Dentro questo ambiente maturò spiritualmente e teologicamente Maria Maddalena di Firenze. Per introdurci all’esperienza teologica della nostra mistica fiorentina, vorrei mettere brevemente in evidenza il suo approccio teologico-spirituale e mistagogico simbolico ai misteri della fede.

1. UNA TEOLOGIA VISSUTA E PROFETICA Maria Maddalena di Firenze, purtroppo, è conosciuta più per le estasi e per le penitenze e meno per la sua esperienza e il suo magistero teologico-spirituale tramandatoci nelle sue estasi trascritte “in diretta” dalle sue consorelle per ordine di Don Agostino Campi. Tali estasi, in realtà, sono meditazioni sulla Parola di Dio ascoltata nella liturgia, meditazioni dove si sente l’ampio respiro biblico e patristico di Maddalena. Anche se pur provata psicologicamente, possiamo sen’altro affermare che nessuna alterazione psicologica comunica attraverso le sue estasi; non cede all’analisi introspettiva degli stati interiori, come in parte avviene in Teresa d’Avila (1515-1582), ma contempla il Mistero di Dio Trinità, come mistero di comunione e di comunicazione interpersonale. E nella prospettiva di Dio Trinità, contempla il mistero della Chiesa e della vita cristiana, arricchita e abbellita dalla pluralità dei carismi e ministeri. Certo, a leggere le sue lettere sul rinnovamento post-conciliare della Chiesa tridentina del suo tempo — accuratamente mai fatte arrivate ai destinatari —, Maria Maddalena non ne tace le infedeltà e le


S. Maria Maddalena di Firenze, teologa e mistagoga

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incoerenze. Ma non si ferma alla denuncia, anche se fatta con rispetto e dolcezza; ella con coraggio profetico, quello tipico dei mistici, nel senso autentico della parola, ne indica anche il cammino di riforma puntando sull’essenzialità della fede e sulla sobrietà dello stile di vita: la Chiesa è la sposa vestita di povertà, cioè di Cristo “humanato Verbo” e “svenato Agnello”. Dicevo che Maria Maddalena di Firenze è conosciuta più come “estatica” e “penitente” che come teologa. Sì, la possiamo considerare come una vera teologa. In lei mistica e teologia sono un tutt’uno. Affermava Divo Barsotti: «La nostra Santa ci insegna che l’esperienza mistica è inseparabile dalla teologia. Ha nociuto a Maria Maddalena il linguaggio, ma per chi sa superare un certo fastidio, gli scritti di Maria Maddalena rimangono fra i più ricchi di dottrina teologica»1.

La teologia di Maddalena è una teologia vissuta e somatizzata nella sua carne, ma direi anche “pensata” (non a livello sistematico, ovviamente) nell’ascolto orante della Parola di Dio e nella celebrazione liturgica partecipata assieme alle sue consorelle; teologia diventata poi — nel suo “dire in estasi” e nei colloqui personali con le sue consorelle, come pure nel suo scrivere le lettere per la “renovatione della Chiesa” — annuncio profetico per la Chiesa del suo tempo e per la sua comunità monastica. Riguardo alla teologia vissuta dei santi e dei testimoni della fede, Giovanni Paolo II parlava di “scientia amoris”, nella lettera apostolica “Divini Amoris Scientia” dell’ottobre 1997, scritta in occasione del riconoscimento ecclesiale di s. Teresa di Gesù Bambino come Dottore della Chiesa. «La scienza dell’amore divino — scrisse il Papa —, che il Padre delle misericordie effonde mediante Gesù Cristo nello Spirito Santo, è un dono concesso ai piccoli e agli umili, perché conoscano e proclamino i segreti del Regno, nascosti ai dotti e ai sapienti; per questo Gesù ha 1

C. VASCIAVEO, L’esperienza mistica come teologia. Intervista a don Divo Barsotti, in Horeb 46 (2007) 12.


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Egidio Palumbo esultato nello Spirito Santo, rendendo lode al Padre, che così ha disposto (cfr. Lc 10,21-22; Mt 11,25-26)»2.

La “scientia amoris” è conoscenza esperienziale del Mistero di Dio e del suo Regno. Attraverso l’esperienza e il magistero teologicospirituale dei santi e dei testimoni della fede, Dio manifesta efficacemente la sua presenza e il suo volto agli uomini, mostra nella nostra storia un segno certo della fecondità profetica della sua Parola. L’esperienza dei santi e dei testimoni della fede è perciò vero luogo teologico, dove — come afferma Dei Verbum 8 — il deposito della fede trasmesso dagli Apostoli progredisce e cresce sotto l’assistenza dello Spirito Santo, non solo attraverso lo studio e la riflessione dei credenti, che, come Maria (cfr. Lc 2,19.51), meditano nel cuore le parole-evento del Signore; non solo con la predicazione dei ministri della chiesa; ma anche con l’esperienza data da una profonda intelligenza delle cose spirituali, ovvero attraverso la “scientia amoris”. Una “scientia” che andrebbe accolta come voce profetica e che aiuterebbe non di poco il rinnovamento della teologia e della vita cristiana, anche in questi nostri anni di postconcilio.

2. UNA MISTAGOGIA SIMBOLICA Ma bisogna considerare un’altra dimensione dell’esperienza mistico-teologica di Maria Maddalena, interconnessa alla precedente. Chi si accosta alle sue opere, rimane certamente colpito sia dall’intensità della sua esperienza di fede che dal modo di comunicarla: ella si immedesima in quello che dice e lo comunica spesso attraverso simboli, metafore, come pure attraverso la gestualità e la postura del corpo. L’educazione ricevuta in famiglia e la formazione da parte dei direttori spirituali le hanno permesso di coltivare una certa sensibilità umanistica ed estetica, e, più in particolare, come ho già accennato, una passione per la meditazione delle S. Scritture, accompagnata dalla lettura dei Padri e dei Santi Dottori della Chiesa. 2

GIOVANNI PAOLO II, Divini amoris scientia, n. 1.


S. Maria Maddalena di Firenze, teologa e mistagoga

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Possiamo dire, allora, che Maria Maddalena mette il suo “genio artistico-estetico” e il suo “sapere” teologico-spirituale al servizio della mistagogia per la comunità: ovvero accompagna le sue sorelle nel Carmelo a gustare il Mistero del Dio vivente nell’oggi della vita cristiana e della Chiesa; una presenza di Dio non statica, ma comunicativa e dinamica, capace, per chi si lascia guidare dal “Movente” Spirito di Dio, di rinnovare la propria vita personale e la vita della Chiesa. Maria Maddalena, dunque, è una vera mistagoga. È una testimone appassionata, che comunica agli altri quello che lei stessa sperimenta e gusta per prima. Ciò che dice, lei l’ha maturato profondamente. E in ciò che dice, lei si sente personalmente interpellata e coinvolta. Proprio per questo è capace, con la sua mistagogia simbolica — ovvero espressa in simboli, figure, metafore, gesti e posture — di accompagnare gli altri sulle vie “pulchre e belle di Dio” e dell’“humanato Verbo”, di iniziare gli altri all’esperienza di Dio Trinità più biblicamente fondata e ad un’esistenza cristiana, forse meno attivistica, ma certamente più sensibile alla vita liturgica e al rinnovamento della Chiesa3. Certo, sorprende l’attualità di Maria Maddalena in quanto mistagoga. È da alcuni anni che la Chiesa del nostro tempo sta riscoprendo il carattere mistagogico dell’evangelizzazione. Giovanni Paolo II nella lettera apostolica del 2004 per l’Anno dell’Eucaristia, “Mane nobiscum Domine”, scrisse: «La via privilegiata per essere introdotti nel mistero della salvezza attuata nei santi “segni” resta poi quella di seguire con fedeltà lo svolgersi dell’Anno Liturgico. I Pastori si impegnino in quella catechesi “mistagogica”, tanto cara ai Padri della Chiesa, che aiuta a scoprire le valenze dei gesti e delle parole della Liturgia, aiutando i fedeli a passare dai segni al mistero e a coinvolgere in esso l’intera loro esistenza»4.

3 Mi permetto di rinviare a quanto ho già trattato su Maria Maddalena di Firenze in E. PALUMBO, Le vie del Signore sono pulchre e belle. La via della Bellezza, in C. VASCIAVEO (cur.), Danzare al passo di Dio. Santa Maria Maddalena di Firenze, Siena 2006, 169-182. 4 GIOVANNI PAOLO II, Mane nobiscum Domine, n. 17.


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Egidio Palumbo

Già nel 2001, i Vescovi italiani negli orientamenti pastorali “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” avevano scritto: «Al centro di tale rinnovamento [della pastorale] va collocata la scelta di configurare la pastorale secondo il modello della iniziazione cristiana, che — intessendo fra loro testimonianza e annuncio, itinerario catecumenale, sostegno permanente della fede mediante la catechesi, vita sacramentale, mistagogia e testimonianza della carità — permette di dare unità alla vita della comunità e di aprirsi alle diverse situazioni spirituali dei non credenti, degli indifferenti, di quanti si accostano o si riaccostano al Vangelo, di coloro che cercano alimento per il loro impegno cristiano»5.

Da ultimo, Benedetto XVI, nell’esortazione apostolica “Sacramentum caritatis”, scrive: «I Padri sinodali all’unanimità hanno indicato, al riguardo, la strada di una catechesi a carattere mistagogico, che porti i fedeli ad addentrarsi sempre meglio nei misteri che vengono celebrati. […] nella tradizione più antica della Chiesa il cammino formativo del cristiano, pur senza trascurare l’intelligenza sistematica dei contenuti della fede, assume sempre un carattere esperienziale in cui determinante era l’incontro vivo e persuasivo con Cristo annunciato da autentici testimoni. In questo senso, colui che introduce ai misteri è innanzitutto il testimone. Tale incontro certamente si approfondisce nella catechesi e trova la sua fonte e il suo culmine nella celebrazione dell’eucaristia»6.

Maria Maddalena di Firenze, vissuta nel tempo del post-concilio tridentino, comunica un magistero teologico-spirituale che merita di essere ascoltato, approfondito e reso attuale per noi che viviamo nel tempo del post-concilio Vaticano II. È quanto ci viene offerto dai contributi che seguono di Chiara Vasciaveo, dottore in teologia, su “L’esperienza di Dio Trinità” e su una raccolta bibliografica su Maria

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CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, n. 59. BENEDETTO XVI, Sacramentum caritatis, n. 64.


S. Maria Maddalena di Firenze, teologa e mistagoga

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Maddalena dal XVI al XXI sec., e di Alberto Neglia, docente di spiritualità al S. Paolo di Catania, su “Il rinnovamento della Chiesa”. Forse, dopo aver pazientemente studiato tutta la profondità dello spessore teologico del “corpus maddaleniano”, verrà il giorno in cui a Santa Maria Maddalena di Firenze sarà riconosciuto il titolo di Dottore della Chiesa. Lo speriamo fermamente.



Synaxis 1 (2009) 15-29

«LA SANTISSIMA TRINITÀ È QUELL’AMOR PURO E INFINITO CHE DI CONTINUO SPIRA E RESPIRA» NOTE DI TEOLOGIA TRINITARIA IN S. MARIA MADDALENA DI FIRENZE

CHIARA VASCIAVEO*

Secondo don Barsotti: «Poche Sante possono usurpare a Maria Maddalena il primato di una teologia più ricca. Sarà mai riconosciuta dottore dalla Chiesa? La nostra Santa ci insegna che l’esperienza mistica è inseparabile dalla teologia. Gli scritti di Maria Maddalena rimangono fra i più ricchi di dottrina teologia»1.

Fu stimata da beati e santi, dal laico fiorentino Ippolito Galantini († 1619) fino al dottore della Chiesa Teresa di Lisieux (1873-1897)2.

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Dottore in Teologia. C. VASCIAVEO, L’esperienza mistica come teologia. Intervista a don Divo Barsotti in Horeb. Tracce di spiritualità 1 (2007) 46, 12-15. 2 Cfr. TERESA DI GESÙ BAMBINO, Opere Complete. Scritti e Ultime Parole, Roma 1997, Ms A 183. 1


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Chiara Vasciaveo

La sua figura non ha mancato di interessare sia studiosi/e, in facoltà teologiche e laiche, che artisti, nel campo figurativo3, nella produzione musicale4 o teatrale5. Per Giovanni Pozzi: «Maria Maddalena de’ Pazzi con Angela da Foligno e Caterina da Siena è, fra le italiane, la scrittrice spirituale più conosciuta»6.

3 Cfr. C. VASCIAVEO, S. Maria Maddalena Icona della Chiesa di Firenze. Presentazione del ciclo iconografico su S. M. Maddalena di Firenze realizzato da Sr M. Benedetta …, Firenze 2007. 4 Da J. LAPINI, In divae M. Magdalenae de Pazzis honore. Carmen trochiaicum. A Jacopo Lepini Puppigena Presbiterum Florentiae decantatum, 1677 fino ai contemporanei: S. SCIARRINO, Infinito nero. Estasi di un atto, testo: Maria Maddalena de’ Pazzi, Milano 1998; prima esecuzione: Festival di Witten (1998); MOTUS, Visio gloriosa, testo: Maria Maddalena de’ Pazzi, regia E. Casagrande - D. Nicolò; prima esecuzione: Milano, CRT Teatro Arte (2000); B. PAMPHILI, S. Maria Maddalena de’ Pazzi, testo: B. Pamphili, musica G.L. Lulier; revisione moderna A. Fedi; prima esecuzione moderna: Firenze (2007). Salvo l’interesse che tali opere rivelano, opinabile è il volto della santa che presentano osservata talora secondo ottiche meramente rievocative, talora estremamente personali, comprensibili sotto il profilo dell’estro creativo, ma in qualche caso del tutto estranee alla realtà storica. 5 M. FERRARIS, Passio, atto unico rappresentato nel ciclo Dame a Boboli, Firenze (2003). 6 G. POZZI − C. LEONARDI (curr.), Scrittrici mistiche italiane, Genova 1988, 419. SANTA MARIA MADDALENA DE’ PAZZI, Quaranta giorni, a cura di Ermanno del SS. Sacramento, I, Firenze 1960 (QG); ID., Colloqui, II, a cura di C. Catena, Firenze 1961; ID., Colloqui, III, Firenze 1963 (CO II); ID., Revelatione e Intelligenze, a cura di P. Visentin, IV, Firenze 1964 (RE); ID., Probatione, a cura di G. Agresti, V, Firenze 1965 (PRO I); ID., Probatione, a cura di G. Agresti, VI, Firenze 1965; ID., “Constretta dalla dolce Verità, scrivo”. Epistolario completo, a cura di C. Vasciaveo, Firenze 2007 (LP = Lettere Personali; LR = Lettere sulla Renovatione; LRp = Proemio alle Lettere sulla Renovatione).


Note di Teologia trinitaria in s. Maria Maddalena di Firenze

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E non sono, certo, mancati illustri studiosi che hanno accostato, a partire dagli anni ’50, le fonti maddaleniane attraverso i cosiddetti “manoscritti originali”7 come Agresti8, Ancilli9 e Secondin10. Si è dato conto delle numerose novità testuali emerse dall’archivio monastico del suo Carmelo, negli ultimi due anni11, riguardo alle quali si sta procedendo con le pubblicazioni, anche se, purtroppo, durante la quarta celebrazione centenaria della sua morte, rispetto al contenuto teologico del suo dire, non di rado hanno prevalso un’attenzione verso la fenomenologia della sua esperienza o le interpretazioni barocche della sua santità. Uno scotto che anche i santi non mancano di pagare ai propri interpreti. Ma a parere di Barsotti, altrove sta il cuore pulsante della sua originalità: «Che Maria Maddalena ci parli di un’assunzione del Verbo nella Trinità è la grande novità nel senso assoluto. Il suo pensiero sulla Trinità rimane ancora nascosto. Quello che non si è fatto finora, impone che si faccia d’ora in avanti, perché finalmente si abbia una visione della sua grandezza, bene che è offerto alla Chiesa attraverso gli scritti di questa nostra Santa»12.

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C. VASCIAVEO, Radici ecclesiali dell’esperienza mistica di Maria Maddalena di Firenze. Note introduttive sulla biblioteca monastica, in Synaxis 1 (2006) 41-86. 8 G. AGRESTI, La dottrina dell’amore in S. Maria Maddalena de’ Pazzi. Dissertatio ad lauream, pro manuscripto, Roma 1959 (in seguito parzialmente edita in S. M. MADDALENA DE PAZZI, L’Amore non amato. Un’antologia delle sue opere, a cura di G. Agresti, Roma 1974). 9 E. ANCILLI, Studio positivo sui manoscritti originali di S. Maria Maddalena de’ Pazzi. Dissertatio ad lauream, pro manuscripto, Roma 1955 (poi edita in E. ANCILLI OCD, S. M. Maddalena de’ Pazzi. Estasi - Dottrina - Influsso, Roma 1967). 10 B. SECONDIN, S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Esperienza e Dottrina, Roma 1974. 11 Cfr. C. VASCIAVEO, Radici ecclesiali, cit., 80-82; ID., «Il donativo spirato dalle tre divine Persone». La teologia trinitaria in S. Maria Maddalena de’ Pazzi, in Rivista di vita spirituale 4-5 (2007) 399-417. 12 D. BARSOTTI, Omelia (25 maggio 1991), trascrizione, Careggi 2005.


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Chiara Vasciaveo

1. MISTICA COME TEOLOGIA Per quanto oggi si discuta sulla possibilità di individuare un tempo puntuale per evidenziare il separarsi tra riflessione teologica e evento mistico, nelle ultime ricerche si preferisce piuttosto evidenziare una tensione che attraversa l’intera storia della teologia e della spiritualità come fatica dialogica tra fede e ragione13. D’altra parte, è pur vero quanto affermano le Premesse al nuovo Martirologio Romano: «I santi sono uniti più intimamente a Cristo […] Nell’imitarli i fedeli, mentre seguono nel loro cammino le orme di Cristo verso il Padre, si impegnano ad aiutarsi sempre vicendevolmente; nel contemplare la loro vita in Cristo, cercano anche la luce per sondare i misteri di Dio […] In particolare, ciò risulta evidente in quei santi che, dotati di particolari doni dello Spirito Santo, rifulsero non soltanto per l’esemplarità di vita, ma anche per l’acutezza della dottrina. Ciò, peraltro, va ritenuto non unicamente rispetto alla scienza teologica, ma anche rispetto a quella “scienza d’amore” che promana dall’illuminazione dello Spirito Santo attraverso l’esperienza dei misteri di Dio (cfr. Giovanni Paolo II, Divini amoris scientia, 7; Dei Verbum 8)» (n. 18).

Occorre riscoprire un accostamento non agiografico alla testimonianza dei santi nell’ambito della teologia. E voci del calibro di Von Balthasar, non sono mancate riguardo al rilievo epistemologico dello studio delle fonti anche in ordine alla storia della santità: «La teologia, finché fu opera di Santi, rimase una teologia orante. A un certo momento si compì la svolta, e si passò dalla teologia prostrata in ginocchio a quella seduta a tavolino. In tal modo vi si introdusse anche la scissione, che si è descritta all’inizio. La teologia “scientifica” diviene estranea alla preghiera, mentre la teologia “edificante” corre il rischio di una mancanza di contenuto. Oggi non si tratta di rigirare addietro la ruota della storia. Ma se la storia non può andare a ritroso, tuttavia è

13 Cfr. C. STERCAL, Storia della teologia e storia della spiritualità in La teologia dal XV al XVII secolo. Metodi e prospettive, a cura di I. Biffi – C. Marabelli, Milano 2000, 27-53.


Note di Teologia trinitaria in s. Maria Maddalena di Firenze

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l’essenza della tradizione, e perciò della teologia, che il suo progresso si compia nel cimento più profondo e coraggioso con le fonti»14.

Da parte sua, Rahner richiamava il rilievo ecclesiale ed imperativo della incisività profetica della mistica, troppe volte misconosciuto: «La storia della teologia della mistica è la storia della svalutazione teoretica della profezia in favore della “pura”, non profetica “contemplazione infusa” […] La prima è più pericolosa ed esposta al rischio di un conflitto con l’autorità ecclesiastica […] Di fatto insieme al ministero ordinato, sempre deve esserci nella Chiesa la vocazione del profeta, dono che non è mancato, anche se ci fu il pericolo di “spegnere lo Spirito”»15.

A partire da tali chiavi metodologiche dell’evento mistico, si intende avvicinare la ricca oralità maddaleniana quale possibile e significativa fonte per la teologia.

2. LE TAPPE DEL CAMMINO SPIRITUALE Già sensibile al valore della Parola, s. Maria Maddalena (15661607), una volta entrata in Carmelo, si educò con sempre maggiore attenzione a sintonizzare la propria vita spirituale con il ritmo dell’anno liturgico. Esso ritma la sua esperienza spirituale: entrata in Carmelo per l’Avvento, inizia il postulantato per l’Immacolata, professa nella celebrazione della Trinità (1584), vive con intensità sempre nuova la Pentecoste, scava nella sua vocazione contemplativa e profetica per la solennità dell’Assunta, caparra della creatura divinizzata per grazia. Unica era la Parola rivelata accolta con passione tanto nel primo che nel secondo Testamento. Unico il respiro spirituale che vivificava cammino celebrativo comunitario e recezione perso14 15

H.U. VON BALTHASAR, Teologia e santità in Verbum Caro, Brescia 19855, 228. Cfr. K. RAHNER, Visioni e profezie, Milano 19952, 45-46.


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Chiara Vasciaveo

nale. Unico l’Amore trasformante che la giovane carmelitana intuiva effondersi in dinamiche comunionali dalla Trinità Santa, di cui tanto la creatura, quanto la Chiesa e la comunità religiosa erano frammenti e “parabole”. Dopo un inizio nettamente cristocentrico, alla scuola di Caterina da Siena, a partire dalla Pentecoste del 1585, l’intera avventura spirituale della mistica fiorentina fu dominata dal mistero trinitario. Durante l’anno successivo, il 1586, la carmelitana, per quanto consentito dalle strutture del tempo, maturò ulteriormente un «ansiato desiderio», un’ansia evangelizzatrice che ella giunse a percepire come strutturalmente unita alla propria vocazione profetica di donna contemplativa. Nell’arco di cinque anni, presero corpo le grandi prospettive della sua fede: la storia della salvezza, il «consiglio» trinitario della creazione della creatura, la preveniente azione dello Spirito, l’ansia evangelizzatrice fino ad un’ultima fase spirituale, segnata dalla beatitudine dei poveri in spirito Sembra, infatti, stando ai testi e non ai commenti, che il cuore del vissuto maddaleniano, a partire dal 1595 fino alla morte, non si concentrasse sulla sofferenza (generata anche dai problemi di salute e da un’ascesi poco equilibrata), ma consistesse nell’approfondimento teologale di un’alleanza sponsale con il Signore, capace di accogliere una sequela “a caro prezzo” non per i doni di Dio, il “salario” dell’ancella (bramati da taluni “spirituali” di ieri e di oggi), come si era firmata nel 1586, ma ricca di un «amore puro», «morto», ossia di sposa, come quello del Figlio, senza contropartite neppure psicologiche16.

3. LA TRINITÀ INCREATA E LA «NUOVA TRINITÀ» Nell’evidente primato di Dio che domina la riflessione credente di s. Maria Maddalena, fin dai primi passi nella formazione (giugno 1584), la Trinità fu sondata nel suo coinvolgimento verso ogni creatura 16

Cfr. C. VASCIAVEO (cur.), Danzare al passo di Dio. S. M. Maddalena di Firenze, introd. di D. Barsotti, Siena 2006, 23-156.


Note di Teologia trinitaria in s. Maria Maddalena di Firenze

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attraverso il dono dell’amor puro (QG, 127-128). Utilizzando dei materiali probabilmente provenienti dalla meditazione sul Cantico del Capocchi17, ella iniziava a soffermarsi sulle relazioni esistenti all’interno della Trinità, pervenendo ad una loro elaborata maturazione in Revelatione (giugno 1585): «Mi pareva poi vedere quella grande unione fra la S.ma Trinità è quell’Amor puro e infinito, che di continuo spira e respira del Padre nel Figliuolo e del Figliuolo nel Padre; et dal Padre e dal Figliuolo nello Spirito Santo; e dallo Spirito Santo nel Padre e nel Figliuolo. Et poi da tutta la S.ma Trinità è spirato prima in Maria Vergine e, dopo lei, in tutto il Paradiso; et [d]alla Vergine e da tutto il Paradiso è respirato in tutta la S.ma Trinità. Ma altra cosa è il gustare e altra cosa è il parlare di quello che è gustato. Però io conosco che, di quello che qui gustai, non ve ne so dire pure una parola, né anco troverrei vocaboli per i quali io ve lo sapessi o potessi esplicare» (QG, 154-155)18.

Con un sguardo unitario, per la carmelitana fiorentina, tanto l’intera storia della salvezza quanto la rivelazione cristologico-trinitaria19, non si esauriscono nel dramma storico della croce o nell’evento della risurrezione ma si compiono nella consegna dello Spirito alla Chiesa e all’umanità, fatto «scambievolmente insieme» (RE, 168) quale: «Donativo spirato dalle tre divine Persone» (RE, 76). Forse rischia di risultare una forzatura tentare un’elaborazione sistematica del suo pensiero, fino a distinguere una trattazione sulla Trinità “immanente” rispetto alla Trinità “economica”20, rispetto ad una contemplazione fondata sulla Parola certo, densa di contenuti teologici anche innovativi, ma più prossima alla “composizione di luogo” suggerita negli Esercizi di s. Ignazio.

17 Cfr. A. CAPOCCHI, Esposizione della Cantica, 2.2.IIIB.3, in Archivio S. Maria degli Angeli, Firenze [s. a.] (= CCT). 18 Cfr. CCT, 28r. 19 Cfr. RE, 168. 20 Cfr. E. VERBRUGGHE, The image of the Trinity in the works of St. Mary Magdalene, (excerpta ex dissertatione ad lauream), Roma 1984, 191-210.


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Egli, infatti, consigliava all’esercitante di: «Ricordare come le tre persone divine guardano tutta la superficie e rotondità del mondo intero […] decidono nella loro eternità che la seconda persona si faccia uomo per salvare il genere umano»21,

esortando, quindi, ad «ascoltare ciò che dicono le persone divine»22. Nella prevalente attenzione verso la Trinità economica, la santa elabora la sua posizione a partire dalla Scrittura, intesa come «regola» fondamentale del vissuto cristiano: «Si quis diligit me, sermonem meum servabit (Gv 14,23). Pacem relinquo vobis. Pacem meam do vobis non quomodo mundus dat, ego do vobis (Gv 14,27) […] Et che si contiene in questo tuo sermone, se non un compendio, e regola nostra? Un triangolo dove si ha a riposare l’anima. Una ferma e stabilissima pietra dove si ha a edificare quell’alto e bassissimo edifitio» (RE, 68).

Quindi, porta “in alto” il suo sguardo, educato dai Padri, rileggendo il dono dello Spirito attraverso le immagini della «pace» e del «bacio» (spesso congiunte), che un’estesa tradizione mistica da Origene a Bernardo le testimoniava: «Et fu data questa pace (Gv 14, 27) quando nel risguardo che facemo l’una Persona nell’altra si concepì il già concetto huomo. Et non trovando chi fussi capace di ricevere tal comunicatione, sendo io Dio comunicabile per me stesso, deliberammo di creare il già concetto huomo a nostra immagine e similitudine (Gen 1, 26). E così fu creata una nuova trinità acciò ancora in essa si potessi dare questa pace» (RE, 77).

21

IGNAZIO

DI

109-110. 22

Ibid., 112.

LOYOLA, Esercizi spirituali, a cura di P. Schiavone, Roma 1984,


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4. IL «CONSIGLIO AB AETERNO» Nel contesto dell’ottava di Pentecoste, la sapida riflessione maddaleniana ripercorre l’intera storia della salvezza al fine di capire chi è la creatura. Certo un corposo fondamento le era stato fornito dai testi biblici della veglia a partire dalla necessità di un esodo esteso alla Chiesa in tutti i suoi membri e in ogni epoca (Es 14-15). Ma ella introdusse un’originale sintesi tra l’evento dell’offerta di pace del Figlio (Gv 14) ed una predestinazione di grazia, tutt’altro che frequente nell’omiletica o nella sistematica del tempo, basandosi su un passaggio importante di Efesini (Vulgata). Infatti s. Maddalena rilesse la storia della salvezza, il progetto dell’incarnazione e la divinizzazione della creatura alla luce dell’espressione «secundum consilium voluntatis suae» (Ef 1,11). Con una grandiosa sintesi che innesta profondamente un’antropologia iconica in tutti gli eventi della vita del Figlio, la carmelitana esordiva: «Si quis diligit me sermonem meum servabit (Gv 14,23). Pacem meam do vobis. Pacem relinquo vobis: non quomodo mundus dat, ego do vobis (Gv 14,27)! Ma quante cose si contengono in questa: Pacem meam do vobis. Non come la dà il mondo, no, no, Verbo. Dò la dai e a chi la dai? Donativo tanto grande, donativo tanto sicuro, donativo spirato dalle tre divine Persone. Conferito dal Verbo humanato, preso dalla creatura rigenerata, assunta e attratta dall’unità della Trinità. Conferita e manifestata nella più secreta parte dell’idea tua» (RE, 76).

Dopo qualche istante di silenzio, si pose il problema del “quando” fosse stato deciso tale dono trinitario. E la risposta, strutturalmente comunionale, seguì: «Fu data questa pace (cfr. 2Cor 13,11s) imparadiso nel throno della Trinità, fra la divinità e l’humanità, fra il Verbo e Maria, fra Maria e il Verbo, fra il Verbo e la creatura, fra la creatura e il Verbo. Nel throno della Trinità fu data. Et quando? Ab eterno, non si può intendere né investigar il principio. È data con uno spirare del Padre nel Verbo, e del Verbo nel Padre e nello Spirito» (RE, 76).


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In questo «consiglio di pace» venne progettata la creazione degli angeli e della «trinità creata» insieme all’incarnazione del Verbo: «E così fu creata una nuova trinità acciò ancora in essa si potessi dare questa pace. E sì come la prima fu data nel throno della Trinità, così questa seconda fu data nel seno mio e nell’intrinseco del mio Verbo humanato inanzi che si humanassi, e nel cuore di esso Verbo, che era humanato, inanzi che la creatura fussi creata nell’essentia di essa Trinità» (RE, 77).

Quindi “il fiume della Pace” si allarga ancora, coinvolgendo la Vergine Maria e potenzialmente ogni creatura. Pur nella prevalente ottica redentiva23, sono di singolare interesse certe affermazioni sull’intenzionalità dell’incarnazione come cardine della rivelazione che mostrano una qualche conoscenza di argomenti tipici del pensiero scotista: «Et tutti essi doni e gratie gli ha havuti e conseguiti mediante Maria, sendo lei stata mezzana di questa recreatione fatta dal mio Verbo. Però che se bene innanzi che esso assumessi di Maria l’humanità, et patissi e morissi in essa, vi volevo dare la gloria, sì, e se Adamo non peccava, vi harei menato in paradiso, sì; et il Verbo si sarebbe incarnato, sì; ma non sarebbe stato trionfatore, ma glorificatore» (RE, 86)24.

La pace del Padre e del Verbo scaturisce, per la giovane carmelitana, da una creatura pensata e voluta come imago Trinitatis, basando, con rara originalità, l’impronta trinitaria non su una particolare facoltà psicologica, secondo lo schema agostiniano (Intelletto, Volontà o Memoria), ma sull’attitudine relazionale che assurge a categoria ontologica fondante. Libera da problematiche filosofiche inerenti le categorie aristoteliche, riguardo alla sostanzialità della categoria della relazione, è possibile che ella abbia tratto qualche suggestione in merito, dall’elaborazione di s. Bonaventura che, nel suo 23 24

Cfr. RE, 159-163. Cfr. anche CO II, 227.


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Itinerario della mente a Dio 25, rielaborando tesi neoplatoniche “apre” al «Dio Comunicativo» della mistica fiorentina. Nella riflessione di s. Maddalena, l’intera avventura del Verbo, dall’incarnazione al suo ritorno al Padre quale premessa della divinizzazione della creatura, diviene l’attualizzazione di tale dono della Pace, arrivando a sostenere che il Dio trinitario: «tutto ha fatto perché essa trinità creata, potessi andare a fruire la Trinità increata, che solo per questo fu creata la creatura» (RE, 77).

5. «GUARDI QUANTO È COMUNICATIVA» L’appello rivolto a tale «trinità creata» dal suo Creatore, è un’apertura originaria al dialogo, alla relazione e alla comunione della creatura verso il Creatore e verso il prossimo. Con singolare originalità nella storia della mistica, il fondamento trinitario tanto dell’antropologia iconica quanto di una contemplazione autenticamente cristiana, implica, per s. Maddalena, che culmine dell’evento mistico non sia un’introversione fosse pure divina, ma un’estroversione evangelizzante, disposta a subire la passione di una corresponsabilità comunionale offerta ma non sempre accolta: «Tanto interviene a questa trinità dell’anima. Nasce ancora in lei la comunicatione; dico che comunica e’ doni e gratie ricevute da Dio a’ suo prossimi, acciò sendone essi partecipi ne possin far frutto insieme con lei. Et se una vuol vedere quanto Dio si compiace in lei, guardi quanto è comunicativa» (RE, 284). 25 Cfr. SAN BONAVENTURA, Itinerario della mente a Dio. Le scienze ricondotte alla Teologia, a cura di E. Mariani OFM, Vicenza 1984, VI, 2, 120-122: «Vedi che dell’ottimo, che semplicemente è, non si può pensare nulla di meglio […] Infatti: se “il bene è diffusivo di sé” il Sommo Bene è sommamente diffusivo di sé […] Se dunque puoi con l’occhi della mente co-intuire il puro bene, atto puro del principio che ama di amore gratuito e insieme dovuto […] allora sarai in grado di capire che per la somma comunicatività del bene è necessario che vi sia la SS. Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo. È pure necessario che in queste vi sia la somma comunicatività e che dalla somma comunicatività derivi la somma consustanzialità».


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Non si tratta, quindi, di tema periferico nella sua esperienza di Dio. Eppure, stupisce il fatto che raramente è stato sottolineato, sin dai Processi, il crescere in capacità di comunicazione e di relazione della santa nel procedere della sua vita, tanto negli incontri con le sorelle in monastero quanto nella corrispondenza diretta a laici e religiosi/e fuori di esso. Pur tenendo conto delle perdite, delle ventisette lettere personali da lei inviate, venticinque sono state scritte dal 1590 in poi, nel contesto delle ultime fasi della sua vita spirituale. Un dato da non sottovalutare. Dall’essere stesso del Creatore discendeva per lei il fatto che: «Dove così come il Verbo è comunicante, et è tanto comunicante che non ha nulla in sé che non comunichi, comunicando se stesso; così l’anima è comunicante per essa gratia» (RE, 108).

Così, se la creatura è plasmata ad immagine di questo Dio Comunione, si comprende come a se stessa e a tutte le vere contemplative formulava l’augurio proposto a s. Caterina de’ Ricci nel 1586: «Dico che se Dio, è Comunicativo doviamo ancor noi esser Comunicative in Comunicare le illuminatione che Dio ci Comunica massimo quelle che possono Aiutare, a ridurre, a lui le sua Creature» (LR 9,29).

6. UNA CHIESA POLIFONICA Nel quadro di un significativo protagonismo dello Spirito («Va suavemente cantando con dolce pianto, va giubbilando piangendo, ricercando che ognuno sia disposto a ricevere esso Dono» RE, 61), pur in un contesto pienamente tridentino, quindi segnato ad un netto rilievo del ministero gerarchico e del carisma dei religiosi, s. Maria Maddalena maturò la necessità inderogabile di dinamismi di comunione che coinvolgessero nel rinnovamento ecclesiale tutte le vocazioni. In più circostanze si annota che a differenza di s. Teresa, s. Maddalena non riuscì a trasfondere in strutture “nuove” il dono rice-


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vuto, optando per eventuali cambiamenti solo “interiori” ed individuali. Che la conversione all’alleanza con la Trinità amante sia indispensabile, non è oggetto di discussione. Ma tale evento, se rimane fatto “individualistico”, rischia di risultare profondamente insufficiente non solo sul piano dell’efficienza, quanto, ciò che più importa, della verità testimoniale di un Dio che è Comunione. Dalla fede trinitaria di s. Maria Maddalena e da una conseguente antropologia iconica, scaturisce il dono/missione di una trasformazione profonda di tutte le relazioni della creatura in grazia, relazioni interpersonali innanzi tutto comunitarie (trattandosi di una religiosa) poi ecclesiali. Emerge, ad esempio, sul piano personale, nelle testimonianze delle religiose che vissero con lei, la maturazione da un’iniziale rigorismo verso una misericordia accogliente e creativa che affinò le sue doti di ascolto e di incontro con dotti e indotti, con regine e semplici contadine. Ma tanto la sua risposta che la sua preghiera sembrano evidenziare ben altro coinvolgimento desiderato tanto nella comunità religiosa che nella Chiesa. Fatto questo che, per vari motivi, occorre confessarlo, non divenne storia. La sua passione per il rinnovamento della Chiesa non fu accettata come essenziale “canone” della sua santità, finendo addirittura occultato. Ella a più riprese, nella preoccupazione sempre più accentuata dei suoi superiori, sentiva di dover aprire un confronto col suo vescovo e col papa, con religiosi e religiose, con i laici, anche nella ricchezza delle polarità donna/uomo, carismi/ministeri, in forza della vocazione profetica battesimale. Di ciò fanno fede le Lettere sulla Renovatione, al fine di coinvolgere tutte le vocazioni ecclesiali in un abbozzo di Chiesa comunione: «Cinque voce hanno a sclamare nella santa Chiesa, qual saranno 5 Gradi di persone che sono in essa. Il primo à essere il Vicario di christo: Il 2º Tutti gli altri Religiosi; Il 3º le Religiose; Il 4º e secolari, quelli pero che hanno lume; Il 5º Lo stato de Coniugati e Continenti. La Prima Voce ha sclamare Povertà, la 2ª Charità; la 3ª Purità; la 4ª Patientia; la


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Chiara Vasciaveo 5ª Perseverantia; Con queste 5 virtu s’ha renovare tutta la santa Chiesa» (LRp 42-43).

In un dialogo appassionato provò ad integrare il ministero di presidenza presbiterale con una necessaria corresponsabilità battesimale della martyria e della profezia, essenziali per una corretta sintassi ecclesiale. Senza volersi sostituire ad altri carismi/ministeri, ella tentò di pro-vocare tutte le vocazioni battesimali, in forza della comune testimonianza della Trinità Santa, ad una dialogía capace di ascolto e di risposta. Ad una Chiesa centralizzata e per taluni versi “irrigidita” da una ipertrofia canonistica, malgrado tutta la crisi generata dal libero esame della Scrittura proposta dai seguaci di Lutero, s. Maddalena continuò a riproporre un “imprudente” primario ascolto della Parola nella tradizione dei Padri, che non poteva non condurre ad un discernimento tanto personale quanto ecclesiale. Nella concezione maddaleniana, con un’originalità rara nella storia della spiritualità cristiana, la vera mistica non può non far maturare itinerari di dialogo e di comunione. Per lei, se Dio e la creatura sono Trinità, se Dio è una consegna di Pace e di Comunione, ogni creatura è interpellata a ricevere tale dono per comunicarlo/condividerlo. In tale concezione di mistica, non sono decisivi i doni extra-ordinari, mentre, lasciarsi incontrare dalla Comunione trasformante, attraverso il dono mistagogico del Battesimo-Confermazione-Eucaristia, dovrebbe essere evento normale della vita cristiana, maturato nell’ascolto amante della Parola, a vantaggio della Chiesa e del mondo. A tutti e a ciascuno è offerta la possibilità di scoprirsi sorellefratelli nella Trinità, per ascoltare/annunciare con la vita l’Evangelo della Comunione che se è dono consegnato dalla Verità, non può mancare di incidere sulla storia, perché si avvicini il regno del Figlio. Ma gli eventi ci attestano, per s. Maria Maddalena, tanto una vita donata in una missione accolta nelle profondità del suo spirito, quanto incompiuta nel vissuto della Chiesa del suo tempo. Dinanzi alle resistenze ecclesiali e ai ritardi della sua comunità, a lei rimase la misura della speranza nella Parola, nel dramma delle scelte umane:


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«Doppo non troppi giorni, sendo un dì questa benedetta Anima alquanto afflitta e mesta per conto dell’intelligentia havuta dal Signore dell’opera della renovatione della Chiesa, temendo non essere stata ingannata perché non vedeva adempirla come bramava per il desiderio che ha della salute dell’anime, fu dal Signore consolata con dirgli che considerassi l’Apocalipsi del suo diletto Apostolo, dove dice in certi luoghi: Cito veniet (Ap 11,14), presto verrà, e pure di molte cose hanno ancora a venire. E questo fa il Signore (sì come intese), perché a esso tutti e’ tempi son presenti e ancora molte volte ritarda le sua operatione per la poca dispositione delle creature, come intese far questa. Et così con questa intelligentia rimase consolata, rimettendo il tutto al beneplacito divino» (PRO I, 40).

Occorre tener conto di tale incompiutezza come segno di uno dei tanti doni dello Spirito consegnato alla vita ecclesiale e di fatto, mortificato nel suo sviluppo, forse, dalle scelte di una “prudenza” umana, prossima alla paralisi, di tanti uomini e donne di Chiesa. Anche a causa dell’occultamento delle Lettere sulla Renovatione (edite complessivamente solo nel 1884), ritenute “pericolose” per il quadro disincantato offerto del vissuto credente, il processo canonico dichiarò certamente santa suor Maria Maddalena, sulla base del suo spirito penitenziale, “oscurando” però la sua parola profetica. Rendere operativa, anche a livello comunitario, l’accoglienza/ testimonianza della Trinità, cuore dell’Evangelo, tanto per i concili che per i santi è meno facile della pur complessa elaborazione dottrinale. Infatti, la missione dello Spirito, espressa anche nella vita dei santi, rimane un’opera aperta, in piena coerenza con un Dio Vulnerabile, che solo nella ricezione della Chiesa può maturare e portare frutti nella misura in cui non ci si chiude al Dono.



Synaxis 1 (2009) 31-45

«DIO VUOLE CHE SI RINNOVI LA SUA SPOSA CHIESA» IL RINNOVAMENTO DELLA CHIESA

ALBERTO NEGLIA OCARM*

Nell’immaginario comune quando si parla di mistici si pensa a qualcuno o qualcuna che è favorito da Dio da fenomeni straordinari e che si apparta dal mondo per vivere col suo Dio. Le cose non stanno così, la mistica non si caratterizza per fenomeni straordinari, questi possono accompagnare il vissuto mistico — fenomeno che si verifica nell’esperienza di s. Maria Maddalena di Firenze — ma non appartengono all’essenza della vita mistica. Inoltre il vero mistico non si estranea dal mondo, anzi è colui che più degli altri prende sul serio la storia. Il mistico è abitato1 e posseduto da Dio e lui, a volte, nemmeno lo sa. Egli è visitato da una Presenza: «Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Chi consente a Dio “di prendere dimora”, di abitare nella sua vita e ne fa permanente esperienza, si ritrova come sequestrato, intrappolato da un Amore che lo pone in cammino e lo proietta oltre il limite. Non c’è più calcolo nell’esperienza del mistico. Egli sperimenta il dono, la gratuità di un abbraccio, e la sua vita è tesa a farsi epifania, trasparenza storica di questo

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Docente di Teologia Spirituale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. «È mistico — scrive M. De Certeau — colui o colei che non può fermare il cammino e che, con la certezza di ciò che gli/le manca, di ogni luogo e oggetto sa che non è questo, che qui non si può risiedere né contentarsi di quello. Il desiderio crea un eccesso. Eccede, passa e perde i luoghi. Fa andare più lontano, altrove. Non abita da nessuna parte. È abitato» (M. DE CERTEAU, Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, Bologna 1987, 404-405. 1


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abbraccio. Con la passione di Dio, quindi, il mistico si appassiona alla concretezza degli eventi, più di ogni altro prende sul serio la storia. È in questa prospettiva che Caterina da Siena (1347-1380), pur stando alla presenza dell’Amore di fronte al quale si riconosce come peccatrice, sta da appassionata sulle strade, attenta ai poveri e ai carcerati, e impegna ogni sua energia perché si ricomponga l’unità all’interno della Chiesa2. Ed ancora Caterina da Genova (nata Fieschi) (1447-1510) pur non uscendo dal suo “paradiso interiore” non si stanca mai di percorrere le strade della città natale alla ricerca dei poveri da soccorrere, di ammalati, di abbandonati e ripugnanti da curare, soprattutto durante la terribile peste del 14933. Potremmo continuare con le esemplificazioni. Desidero sottolineare che l’unione nell’amore non livella i mistici amanti, ma dà loro una individuazione ancora maggiore, legata alle proprie attitudini, alle proprie qualità umane e soprattutto al proprio ambiente storico che il mistico assume e sul quale influisce con la sua presenza e con la sua azione. È a partire da questa consapevolezza di essere abitata e coinvolta nella passione di Dio che Maria Maddalena de’ Pazzi4 si sente coinvolta nella storia della Chiesa del suo tempo. Pur vivendo in un monastero, si ha l’impressione, leggendo i suoi scritti, che l’esodo e il distacco dal mondo le abbiano conferito una sensibilità sociale che la strappa da ogni forma di indifferente solitudine, la rende partecipe della storia del suo tempo e le dà una grande capacità di espansione ecclesiale, che è il segno più sicuro della sua maturità spirituale e della sua esperienza mistica. È come se l’espe2 Cfr. M. O’ DRISCOLL, Caterina da Siena, in L. BORRIELLO – E. CARUANA – M.R. DEL GENIO – N. SUFFI (curr.), Dizionario di Mistica, Città del Vaticano 1998, 279-282. 3 Cfr. M. TIRABOSCHI, Caterina da Genova, in L. BORRIELLO – E. CARUANA – M.R. DEL GENIO – N. SUFFI (curr.), Dizionario di Mistica, cit., 278-279. 4 Per l’edizione delle opere di Maria Maddalena qui citate e le relative abbreviazioni: SANTA MARIA MADDALENA DE’ PAZZI, Colloqui, a cura di C. Catena, II, Firenze 1961 (CO I); ID., Colloqui, a cura di C. Catena, III, Firenze 1963 (CO II); ID., Revelatione e Intelligenze, a cura di P. Visentin, IV, Firenze 1964 (RE); ID., Probatione, a cura di G. Agresti, V, Firenze 1965 (PRO I); ID., Renovatione della Chiesa, a cura di F. Vallainc, VII, Firenze 1966 (RC).


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rienza di Dio avesse deposto nel silenzio della sua esistenza l’ansia e il tormento per i propri fratelli e per la Chiesa.

1. LA CHIESA TRA FEDELTÀ E TRADIMENTO La Chiesa appare alla santa come il punto d’arrivo di un mistero d’amore concepito in Dio Trinità, attuato in Cristo e reso presente dallo Spirito, appunto, nella Chiesa. Essa quindi dovrebbe essere trasparenza di questo mistero di amore, del vissuto trinitario, ma, purtroppo, facilmente invece di svelarlo, lo vela. M. Maddalena, pur vivendo in monastero è consapevole di questa incoerenza e del degrado presente nella società e nella Chiesa del suo tempo. Non chiude gli occhi! Il ’500 è un secolo di grande rinascita spirituale, basti pensare ai nuovi Istituti religiosi, tra questi i Gesuiti, e ai grandi santi, tra gli altri s. Carlo Borromeo (1538-1584)5 e s. Filippo Neri, (1515-1595) ma è anche il secolo della lacerazione della Chiesa d’Occidente: riforma luterana, guerra di religione in Francia (1562-1598), battaglia di Lepanto contro l’impero Ottomano (1571). Il ’500 è il secolo del Concilio di Trento (1545-1563) che si poneva come evento di rinascita per la Chiesa. Ma rimane un periodo di grande degrado soprattutto tra la gerarchia: molti vescovi-principi non risiedevano nella loro diocesi, (lo stesso Alessandro de’ Medici, discepolo di s. Filippo Neri, fatto vescovo di Firenze nel 1575, raggiunse la sua sede solo nel 1584) il vissuto dei preti e dei religiosi spesso era motivo di scandalo. Negli stessi monasteri a volte non si sapeva cosa fosse la povertà, l’oziosità dava occasione a pettegolezzi e discordie intestine. Le fanciulle a volte in età infantile erano messe in monastero, Maria Maddalena ne è a conoscenza, per cui esclama: «Ma, o Verbo, quelle povere parvoline che con tanta ignorantia vi son messe? O se io 5

Assurto a modello ideale di pastore secondo lo spirito del Concilio. Zelante nella restaurazione della disciplina ecclesiastica e nella repressione degli abusi nella propria diocesi e attento visitatore apostolico in altre (cfr. A. GENTILI – M. REGAZZONI, La spiritualità della riforma cattolica 5/C, Bologna 1993, 200).


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potessi, con le mia proprie mane ne le caverei!» (CO, II, 102), ove era facile trovare altre vittime desiderose di sottrarsi il più possibile a una vita evangelica6. Da un censimento del 1552, risulta che a Firenze c’erano 2786 suore, e questo su una popolazione di 60.000 abitanti. Ripeto, Maria Maddalena conosceva bene la lontananza della Chiesa dal progetto di Dio e forse questa schizofrenia la mise in crisi, la fece entrare nella lunga “notte della prova” la probatione che, con espressione biblica, chiama «lago dei leoni», che durò ben cinque anni (1585-1590). M. Maddalena, a 19 anni, illuminata dal mistero di Cristo, avverte la vocazione e la missione a ridare un volto evangelico alla Chiesa, ma nota la poca sensibilità delle sorelle del monastero a questa missione e l’indifferenza di chi è fuori del monastero, e, quindi si ritrova sola di fronte a una missione urgente, ma più grande di lei. Non comprende come Dio abbia potuto scegliere lei «a dar lume di tal opera, sendo che si conosceva la più vile di tutte le creature e al tutto inabile a dar aiuto in tal cosa» (PRO, I, 37). Si sente chiamata da Dio a riformare la Chiesa e, nello stesso tempo, ha l’impressione che Dio faccia silenzio, per cui le sorelle provano compassione «a vederla e sentirla; e stava a diacere su’r’un saccone, spesso dicendo come S.to Antonio quando era battuto da’ Demoni, cioè: Signor mio, dove sei tu?» (PRO, I, 37). È una missione a caro prezzo quella che il Signore affida alla mistica fiorentina. È la “notte oscura” (nello stesso periodo Giovanni della Croce 1542-1591, ne scrive in modo articolato) che fascia il suo vissuto e soprattutto il desiderio di fedeltà al progetto di Dio. Che la probatione sia legata alla “notte” ecclesiale, e al desiderio di ridare alla Chiesa un volto evangelico, si evidenzia da ciò che M. Maddalena scrive all’arcivescovo di Firenze nella prima lettera del 30 luglio 1586 esortandolo a impegnarsi per la riforma della Chiesa: «Dhe rimiri e risguardi quanto lo Agnello immaculato l’ama di particulare amore, volendogli fare intendere il suo volere e servirsi di lui a così grande opera. E lui lo sfuggie! Dhe non pigli, dhe non pigli queste 6

Cfr. P. PASCHINI, I monasteri femminili in Italia nel ’500, in Problemi della vita religiosa in Italia nel cinquecento, Padova 1960, 33.


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parole da creatura alcuna, ma dall’istesso Dio, ma dall’istesso Dio! Dhe non vogli credere e non gli caschi nella mente che la luna si vogli fare equale né maggior del sole, perché come la Reverentia vostra sa, gli huomini si servono e del lume della luna e di quel del sole, massimo si servon di quel della luna nel tempo della notte. Tanto fa hora quel che si chiamò tante volte Figliuol dell’huomo, che si compiace di servirsi per alquanto del lume della luna, massimo per hora in questo tempo che siamo nelle tenebre. E come sapete, per servirsi del piccol lume della luna non vien per questo in dispregio el lume e chiarezza del sole; ma anzi vien, per la piccolezza del lume suo, a manifestare maggiormente la grandezza del lume e chiarezza del sole» (RE, 77-78)7.

Benché sia notte Maria Maddalena non si sottrae alla missione! Nelle sue meditazioni ritorna spesso su questo tema, per esempio, il 6 maggio 1585 si sente coinvolta da Gesù: «Vieni, o sposa mia, vieni, che io voglio venga hora a rigenerare e rennovare col’ mio Sangue tutto il’ corpo della Santa Chiesa» (CO, II, 94). 7 La drammaticità della notte sarà evidenziata, alcuni secoli dopo, da E. Stein in questi termini: «Come la luce fa risaltare le cose con le loro caratteristiche visibili, così la notte le inghiottisce, minacciando di inghiottire anche noi. Ciò che si immerge in essa non è annientato; continua ad esistere, ma indistinto, invisibile e informe come la notte stessa, oppure sotto forma di ombre, di fantasmi e quindi gravido di minaccia. Inoltre il nostro essere non è minacciato soltanto esteriormente dai pericoli in agguato nella notte, ma colpito anche interiormente dalla notte in se stessa. Ci toglie l’uso dei sensi, ci blocca i movimenti, ci paralizza le energie, ci confina nella solitudine, riducendo anche noi in ombre e a fantasmi vaganti nel buio. È quasi un presagio della morte. Tutto questo complesso quindi non incide soltanto nel settore vegetativo ma anche su quello psicologico e spirituale» (E. STEIN, Scientia Crucis. Studio su S. Giovanni della Croce, Postulazione Gen. dei Carmelitani Scalzi, Roma 1982, 62). La stessa E. Stein annoterà l’importanza del chiarore della luna nella notte, aggiungendo ancora: «Alla notte oscura e inospitale, però, fa riscontro la notte incantata del chiaro di luna, bagnata di mite e tenera luce. Questa non inghiotte le cose, ma fa invece risaltare il loro aspetto notturno. Ogni durezza, angolosità e tagliente spigolosità delle cose risulta smussata e addolcita; si rivelano le linee essenziali che nella luce chiara del giorno non si riescono mai a cogliere. Si riescono anche a percepire delle voci che la rumorosità del giorno soffoca. Ma non è unicamente la notte chiara ad avere un suo apprezzabile valore: ce l’ha anche la notte oscura. Mette fine all’affanno e ai rumori del giorno, portando riposo e pace. Il che si avvera anche nella psiche e nell’anima» (l.c.).


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E rivolge spesso l’invito alle sorelle a pregare per la Chiesa e a farsene carico: «Una delle cause per le quali Dio v’ha chiamata alla Religione è perché siate in aiuto alla santa Chiesa e alla conversione de peccatori» (RC, 280). Nel 1586, quando ha appena vent’anni, questa vocazione si fa più esplicita e lei diventa audace, propositiva, facendo sua l’istanza del rinnovamento presente nella sensibilità ecclesiale del suo tempo8 . Tra il 25 luglio e il 4 settembre 1586 indirizza 12 lettere: al papa, ai cardinali di Curia, all’arcivescovo di Firenze, a religiosi e religiose9.

8 Su l’interesse per il rinnovamento della Chiesa nello stesso periodo, cfr. G. PENCO, Soria della chiesa in Italia, I, Milano 1977, 602 ss. In particolare a p. 607 egli scrive:«Va infine ricordato come l’ideale della riforma già sostenuto dal Savonarola continuasse in modo particolare nel movimento spirituale fiorentino rappresentato da S. Caterina de’ Ricci e da S. Filippo Neri — che veneravano il frate di S. Marco come un santo — e si concludesse in S. Maria Maddalena de’ Pazzi la quale alla fine del secolo scriverà al papa Sisto V per interessarlo alla riforma della Chiesa». E L.M. Di Girolamo aggiunge: «Alla luce della renovatio la santa (M. Madd.) si inserisce armonicamente nella schiera di donne che hanno avuto a cuore la riforma della Chiesa. Altre esponenti che l’hanno preceduto, come Caterina da Siena, della quale Maddalena subisce … un forte ed evidente influsso, o contemporanee, come Caterina de’ Ricci († 1590) […], offrono l’idea di un movimento e di un anelito che percorrono la storia della Chiesa» (L.M. DI GIROLAMO, Spunti mariani nell’esperienza spirituale di santa Maria Maddalena de’ Pazzi, in Marianum 69 [2007] 529). 9 Le sorelle annotano:«Havendo passato questa benedetta Anima il’ primo anno della sua probatione in tante afflitione interiore e esteriore, come brevemente si è narrato, […] addì 20 di luglio 1586, in choro con l’altre suore a dire il’ divino Offitio, di mentre che salmeggiava, fu in un subito rapita in spirito […]. Ma come ci conferì poi lei, questo non fu ratto di consolatione e gusto, ma sì bene d’afflitione e dolore, però che in esso intese come il’ Signore voleva, per insino a ottobre prossimo avenire, allentare un poco la sua probatione, cioè le tentatione e continue battaglie che haveva col’ Demonio, e dargli di queste unione con lui per fargli intendere in esse quello che già gli haveva cominciato a mostrare avanti che entrassi in essa probatione, cioè l’opera della renovatione della Chiesa e particularmente de’ religiosi, che esso gli mostra voler fare, mostrandogli ancora come ha eletto lei in aiuto a tal opera. […].//36// Scrisse ancora in astratione alcune lettere [dodici] sopra tal materia (a similitudine di Santa Catherina da Siena) al Sommo Pontefice, alla congregatione de’ Cardinali, al’ nostro R. mo e Ill. mo Cardinale e Arcivescovo di Firenze, al’ collegio de’ R. di Padri della Compagnia di Jesu, a quelli di San Francesco di Paula e a quelli di San Domenico, e ad altri pochi servi di Dio e religiosi privati» (PRO, I 35-36).


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2. IL RINNOVAMENTO COME CAMMINO DI CONVERSIONE M. Maddalena invita, quelli che coinvolge nella riforma della Chiesa, a fissare «lo svenato Agnello in croce» (RC, 66), per avere una spinta decisiva al rinnovamento, perché proprio Cristo, secondo M. Maddalena, sul legno della croce patì «sete di tal renovatione» (RC, 75). E nello stesso tempo li stimola ad avere un ardente zelo per la salvezza degli uomini perché Gesù fu «inchiovellato in sul durissimo legno della croce» (RE, 75) per ricondurre tutte le creature al Padre. Egli, lì sulla croce, dicendo: Sitio, dimostrò «non solo aver sete della presente, ma ancora di quelle (creature) che havevano a venire» (RC, 75). Questi motivi ritornano insistentemente in tutte le lettere. Per esempio, ai Cardinali della Curia romana scrive: «Come potranno sopportare che un’anima decorata col sangue di Dio vada in perdizione e sia privata di esso Dio?» (RC, 96). La mistica fiorentina, pur amando la Chiesa in modo appassionato, penso che mai di sua iniziativa avrebbe assunto il ruolo di riformatrice se a questa missione non l’avesse avvertita come chiamata esplicita di Dio. Però, nel momento in cui percepisce che il Signore «aveva eletto lei a manifestare e ad aiutare tal opera» (RC, 43), vi si impegna con tutte le sue energie e cerca di coinvolgere in questa missione tutti i soggetti ecclesiali: la gerarchia, i religiosi, i fedeli laici: «Cinque voce hanno a sclamare nella santa Chiesa, qual saranno 5 gradi di persone che sono in essa. ----- Il primo à essere il Vicario di Christo. Il 2º, tutti gli altri religiosi. Il 3º, le religiose. Il 4º, e secolari, quelli però che hanno lume. Il 5º, lo stato de coniugati e continenti. ---- » (RC, 48).

Lei vede il rinnovamento della Chiesa, come un rinascere a vita nuova di ogni credente. È proposta di conversione alla radicalità evangelica espressa in una vita virtuosa: «la povertà, la charità, la purità10, 10 Maddalena per “purità” intende non soltanto la castità e la continenza dei costumi ma, più sostanzialmente, un ritorno alle origini, consistente nella massima disponibilità ad ascoltare la voce di Dio. La purità è intesa come: santità e disponibi-


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la patientia, la perseverantia. Con queste cinque virtù s’ha renovare tutta la santa Chiesa» (RC, 48). Questo cammino di conversione, lei, lo propone a tutti i membri del popolo di Dio, ma soprattutto sollecita chi ha funzioni di responsabilità istituzionale o carismatica-profetica nella Chiesa a diventarne promotori e guide autorevoli11. È per questo che le lettere sull’urgenza del rinnovamento della Chiesa sono indirizzate a loro.

3. UN PROGETTO DI VITA PER IL PAPA E PER I CARDINALI 3.1. Per il papa Primo fra tutti c’è il papa12. A lui scrive una lettera il 27 luglio 1586 per ricordargli l’urgenza della riforma della Chiesa: «La inutile ancella dell’antica e nuova Verità, costretta dall’amoroso e svenato agnello e umanato Verbo, […] vi prega e sforza (per dir così) in virtù del sangue dello stesso humanato Verbo, con le viscere dell’anima sua, a voler intendere quel che lui ricerca da voi, suo vicaro…» (RC, 62). lità, cioè l’atteggiamento radicale di chi si lascia permeare dalla volontà di Dio (cfr. L.M. DI GIROLAMO, Spunti mariani, cit., 518. 11 La santa ha grande stima del papa, dei vescovi e dei sacerdoti, e, al riguardo scriveva al P. Pietro Blanca:«Et sapete come mi par che faccia il nostro clementissimo Dio in verso di noi? Che habbia suscitato una stella, come scrisse una volta il suo apostolo san Pietro, che suscitava in mezzo di loro un lume: Quasi lucerne lucenti in caliginoso loco, donec dies illucescat, et lucifer oriatur in cordibus vestris (2 Petr. 1,19). Tanto vorrebbe fussi hora il suo Vicario e sua ministri; […] ripieni di tanto lume e ornati di tante virtù che rendessino il lume a tutta la Chiesa. Il che non c’è, ma rimanga in voi; e se pur c’è, è in pochi, e quelli son perseguitati. Non bisogna, ancora, che si lascino opporre nugola alcuna di creature, amatore di loro stesse, che pur ce n’è in abbondanza» (RC, 88-89). 12 Quando M. Maddalena si sente coinvolta nel rinnovamento della Chiesa era papa Sisto V (un francescano) chiamato a questo compito nel conclave del 1585. La nostra Santa ripose molta fiducia in lui. In una visione lo contemplò con una grande croce sulle spalle, che andava raddrizzando le vie del mondo: «Vedeva uno vestito in habito pontificale, che era il Papa, dico Papa Sisto, di nuovo stato eletto, che portava


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Certamente questa lettera non è partita dal monastero, però la mistica fiorentina dimostra, attraverso quello che dice, di conoscere l’impegno e lo stile focoso del papa nel volere eliminare gli abusi presenti soprattutto tra la gerarchia e i religiosi. Sisto V, infatti, appena eletto papa incaricò tre Vescovi di visitare le chiese e i collegi romani. Ripristinò, con una bolla, la regolare visita dei vescovi alla tomba degli Apostoli a Roma. Insisteva perché i vescovi risiedessero nelle loro diocesi, e nel 1586 rimosse dalla carica il vescovo di Catania, Vincenzo de Cutellis, perché indegno. Nel 1588, proibiva ai religiosi di uscire in carrozza, essendo ciò contrari alla povertà. Nel 1590 un religioso che aveva avuto relazione colposa con una monaca, fu decapitato, ed anche la monaca, sebbene appartenesse a una nobile famiglia, ebbe la stessa condanna13. A questo papa, di cui conosce la passione per il rinnovamento, ma anche la durezza dei modi, la Santa rivolge l’invito a diventare povero e ad essere fedele imitatore di Cristo, e gli ricorda: «Spogliatevi tutto di voi stesso e vestitevi di Lui, […] sì come esso svenato Agnello in sul legno della croce vi dette esempio e sdimenticatosi in tutto di sé, dando la vita, il Sangue, l’honore e le ricchezze […] per le sue pecorelle delle quali voi dovete tenere somma custodia» (RC, 65-66).

E, nell’estasi tra l’11 e il 15 agosto 1586, che precede le lettere, gli traccia un vero programma di vita, ribadendo ancora l’urgenza di assumere uno stile di vita povero che sia di esempio per i cardinali e i vescovi: il papa dovrà rinunziare «all’honore delle creature» (RC, 48), dovrà essere più mite e misericordioso, mitigando «il rigor della giustizia» (RC, 49). Dovrà condurre una vita più povera elargendo «parte della sua ricchezza» (RC, 49). Dovrà stare lontano, staccato dai suoi «propinqui». La sua mente dovrà essere umilmente disposta, come s. Girolamo, «alla riprensione di un fanciullino di un anno» (RC, una gran croce in mano. Andando drizzava con essa il cammino, nel quale cammino inviava poi le persone acciò che potessino camminare sicuramente» (CO, II, 70-71). 13 Cfr. PASTOR, Storia dei Papi, vol. X, 96-101.


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49). In particolare dovrà essere umile con tutti, disinteressato e «pronto a por la vita» (RC, 49).

3.2. Per i cardinali I cardinali della Curia romana sono i più stretti collaboratori del papa nel delicato governo della Chiesa. Anche per essi M. Maddalena detta una lettera e li invita a uno stile di vita povero. Anch’essi debbono spogliarsi «d’ogni comodo terreno e di ogni rispetto di creatura» (RC, 93). E li sollecita a guardare come modelli, nel loro stato, i loro predecessori: «Il glorioso padre san Bonaventura, il tanto dotto e sapiente Hieronimo, e quello che ne’ tempi nostri ha lasciato tanto esemplo di santità e voi meglio di me lo sapete, però che deve pur haver parlato e conversato con voi, dico del beatissimo cardinal Buonromeo»14 (RC, 93).

3.3. Per l’arcivescovo di Firenze In modo esplicito coinvolge nel rinnovamento della Chiesa il cardinale arcivescovo di Firenze, al quale indirizza tre lettere. Nelle prime due c’è un pressante invito perché vada al monastero «a intendere il tanto importante, grato e utile voler di Dio» (RC, 112), nella terza, visto che l’arcivescovo non aveva dato alcuna risposta15, 14 San Carlo Borromeo era morto nel 1584, due anni prima che la santa scrivesse la lettera. Egli era stato tra i più convinti e coraggiosi realizzatori dei decreti del concilio di Trento, ma incontrò tanta opposizione tra gli uomini di chiesa e tentarono anche di ucciderlo. L’attentato più grave fu quello del 26 ottobre 1569, organizzato dagl Umiliati del convento di Brera. Mentre egli era nella sua cappella privata a pregare, uno di essi gli sparò un’archibugiata: la palla gli forò il rocchetto e la veste, all’altezza della spina dorsale, ma il Santo rimase miracolosamente illeso (cfr. A. SABA – A. RIMOLDI, San Carlo Borromeo, in Bibliotheca Sanctorum, vol. III, col 830). 15 Le tre lettere non sono partite dal monastero. Ma la santa troverà, con coraggio, il modo di parlare all’arcivescovo, malgrado le strategie delle sorelle per impedirglielo. Nella PRO, I, 38-39, ci viene raccontato: «Addì 28 del’ detto mese di


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M. Maddalena, prima di tutto lo invita ad ascoltare il Signore e non i “cortigiani” di curia: «Né manco attenderà alle lingue delle creature assistente a lui, le quale spesse volte mosse da charità, se ben non è charità, no, ma se l’ammantellano, gli dicessino parole che potessino impedire tal opera e voler di Dio» (RC, 118).

Traccia, poi, un vero programma di vita per il vescovo. Lo invita a prendersi cura, con la testimonianza e con l’insegnamento, dei fedeli: settembre 1586, che era la vigilia di San Michele Archangelo, fu per breve spatio rapita in spirito e intese come il’ Signore voleva che il’ dì sequente parlassi al’ R. mo e Ill. mo Cardinale Arcivescovo nostro di Firenze sopra l’opera della renovatione della Chiesa, come di sopra è detto, dovendo venir qui al’ nostro monasterio a fare la nuova priora. La qual cosa lei ci conferì [ai superiori] con gran dolore e pena, sendo che, come altrove è detto, non vorrebbe havere a far queste cose. E ancor noi, veramente, questo non haremo voluto, temendo che sua R. ma e Ill. ma Signoria non havessi qualche affanno e turbatione. Onde si fece quel che fu possibile perché non havessi a seguire; e fra l’altre il’ nostro r.do p. confessoro haveva dato ordine che lei non andassi a dare il’ suo voto dell’eletione della m. priora, per levare l’occasione. Ma perché non est consilium, non est sapientia, non est prudentia contra Dominum (Prov. 21,30), e non è chi possa far resistentia alla sua volontà, piacque a sua divina Maiestà che andandosi la mattina della stessa solennità delli Angeli [29 settembre, occasione prevista nelle Costituzioni per le nuove elezioni] a comunicare, rimase rapita in spirito tanto presto che con gran fatica scese gli scaglioni della finestrella della S.ma Comunione. E si fermò quivi alla grata di capitolo, dove si haveva a posare il’ R. mo e Ill. mo Cardinale. E tanto fu fermata e stabilita in quel luogo che non fu mai possibile poterla levare, ancor che si usassi in ciò grandissima diligentia [immobilità estatica]. E stette così inmobile undici hore continue, cioè dall’undici hore della mattina (alla qual hora si comunicò) sino a hore 22 della sera. Et in tale astratione parlò al’ R. mo e Ill. mo Cardinale in persona dell’eterno Padre (come altre volte ha fatto e si può vedere ne’ sua ratti e intelligentie), notificandogli come era la volontà di Dio che esso concorressi all’opera della renovatione della Chiesa e massimo alla riforma de’ religiosi; e circa questo gli disse molte e molte cose, però che durò una buona mezza hora ha parlargli. Le qual cose tutte udì sua R. ma e Ill. ma Signoria e a ciascuna poi gli rispose con grandissima humanità e benignità. E fra l’altre gli disse che ancor lui teneva gran desiderio di tal riforma de’ religiosi, ma per molte cause non gli pareva poterla fare, e massimo per non trovare dispositione nelle creature e per non havere punto d’aiuto dal’ braccio secolare».


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Alberto Neglia «non mancando con la dottrina e con l’esemplo nutrire e sudditi sua, dati a lui in custodia, facendolo con quella sapientia e prudentia che gli infonderà Dio» (RC, 117-118).

Dietro l’esempio di Cristo lo esorta a spendere la sua vita per le creature che il Signore gli affida: «Dhe voglia il mio rev.mo Padre far quello che in tal sera fece e ci mostrò il nostro creatore, governatore e sommo monarca dell’universo, CHRISTO JESU, lasciando sé per noi e dando sé a noi, non per un poco, no, ma per insino alla consumation del secolo (cfr. Mt. 28,20). Dhe, voglia il mio charissimo Padre, per chiamarlo per il più dolce nome che mi sia concesso, lasciar se stesso a Dio, sì come esso Verbo lasciò se stesso per noi, andando alla passione, sottomettendo la sua humanità nel volere e beneplacito del suo eterno Padre; e sì come si dette a noi lasciandosi nel S.mo Sacramento per nutrimento e cibo dell’anime nostre, così esso si voglia ancor dare alle creature sua» (RC, 116-117).

Gli ricorda che la sua vita sarà gradita a Dio e abitata da Gesù se si staccherà da tutto ciò che ha ricevuto: «Dico che esso Verbo piglierà diletto e habiterà in lui, quando si spiccherà in tutto dalle cose create dategli da Dio per sovenire alle creature sua» (RC, 120). Infine, la santa ricorda al vescovo di promuovere tra i fedeli un vivo apprezzamento per i sacramenti, perché per mezzo di essi «dovranno provocare le creature a amare Dio e a dare compimento alla renovatione dell’osservante vivere de religiosi e grato voler di Dio» (RC, 121).

4. LA VITA RELIGIOSA COME PROFEZIA PER LA CHIESA Delle dodici lettere, scritte da s. Maria Maddalena de’ Pazzi per la riforma della Chiesa, sette sono indirizzate a religiosi/e. In queste lettere, prima di tutto, c’è il richiamo a contemplare lo «svenato Agnello» e a camminare «con ogni rettitudine, con nuda verità e sincera parola» (RC, 55). Ma anche la provocazione ad essere di


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esempio a tutti soprattutto col vivere in modo responsabile i voti religiosi: «Cerchi quanto può dare a conoscere — scrive al superiore dei Minimi — e far intendere che e religiosi e religiose hanno a osservare e lor tre voti» (RC, 74). In pratica, per la mistica fiorentina, il rinnovamento della vita religiosa passa attraverso un vissuto coerente, da parte dei religiosi, con gli impegni pubblicamente assunti davanti a Dio e alla comunità ecclesiale con i voti di obbedienza, povertà e castità16. Nelle tre lettere scritte da s. Maria Maddalena a due religiose: una a suor Veronica da Cortona e due a suor Caterina de’ Ricci, (fu l’unica a rispondere invitandola a chiedere consiglio al suo direttore spirituale) ritornano le tematiche presenti nelle altre lettere, sempre lamenta la poca coerenze tra ciò che si professa e ciò che si vive. Queste lettere, però, evidenziano anche quale sia l’ufficio di chi vive in una struttura contemplativa nella Chiesa. Le religiose, scrive a s. Caterina de’ Ricci, sono «quelli che hanno a reggere il gran throno di Salomone, dico della santa Chiesa, sopra del quale si riposa il nostro Christo vero Salomone» (RC, 106). Per essere colonne solide, le contemplative debbono rivestirsi delle qualità dei leoni che reggevano il throno di Salomone, cioè: «Doviamo havere la fedeltà loro in mantenere tutte le promesse fatte a Dio […], inoltre, doviamo ancora essere fedele in conservare quel lume, doni e gratia che Dio ci comunica» (RC, 106-107). La qualità della loro vita, coerente e fedele è lieto annunzio ed è provocazione profetica per tutti i credenti. L’amore del Dio vivente nel cuore della contemplativa, sia «una voce tanto alta, vehemente e continua, quasi insopportabile in manifestar tal verità (dell’amore di Dio)» (RC, 107). Nei loro cuori bruci il fuoco della presenza di Dio «tanta sia la fiamma che esca dal lor monasterio, che provichino a riscaldare tanti cuori addiacciati nell’amor proprio e propria volontà e desiderio delle cose terrene» (RC, 105).

16 Per esempio, nei riguardi di alcuni religiosi afferma: «Ma quelli che non mantengono le promesse a te fatte, vorrei, se io potessi con le mie proprie mani cavar loero quel santo habito che tanto indegnamente tengono, perché fanno ingiuria a te, Verbo. Fanno una ipocrisia, una simulatione, mostrando di essere quelli che non sono e son causa che si disprezzagli altri religiosi e religiose buone» (CO, II, 44).


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E questo è possibile in quanto la vita contemplativa non è fuga dagli altri, mai, anzi: «se Dio è comunicativo, dobbiamo anche noi essere comunicative: comunicare le illuminazioni che Dio ci comunica, soprattutto quelle che possono aiutare a ricondurre a lui le sue creature. E ci dobbiamo ricordare e tenere in mente quel che dice l’innamorato Paolo: flere cum flentibus, gaudere cum gaudentibus (Rm 12,15), e persino “infermarsi con chi si inferma”» (RC, 108).

Se le religiose vivranno questo amore «le lor preghiere saranno tante saette che vulnereranno el cuore del nostro Sposo e lo provocheranno a mandar giù altre e tante saette dell’amor suo alle tanto disunite anime consacrate a Lui, che forse, una volta gli apriranno la porta del loro cuore, che tanto lui sta pulsando, e voi meglio di me lo sapete» (RC, 105).

Nella lettera che invia a sr. Veronica di Cortona (Cistercense) ricorda che la contemplativa ha quasi un ruolo materno nei riguardi della Chiesa ed è chiamata a diventare nutrice dei credenti: «Molti sono quelli che arrecano puzza e fetore al giardino col desiderio di possedere le cose create da Dio e di fare in tutto la loro maledetta volontà e si cibano di terra, col rischio di perdere il dono che è Dio. O, Madre mia carissima, che possiamo essere vere nutrici della Chiesa di Dio. E quand’anche dovessimo toglierci dalla bocca la dolcezza del seno del nostro dolce Sposo per ricondurre le creature a lui, lo dovremmo fare, perché è ben giusto che i più forti lascino il latte per darlo ai più piccolini e comincino a cibarsi di pane, a volte ben duro e secco. Ma c’è un vasello dal quale si può attingere: esso è il Corpo del nostro huamanato Verbo pieno d’innumerevoli piaghe, nelle quali possiamo nasconderci e da cui possiamo trarre ogni dolcezza. Che il nostro dono possa ricondurre tanti e tante consacrati a lui al suo seno, perché possano una volta almeno, gustar Dio: gustate e vedete quanto è dolce il Signore (Sal 33,9)» (RC, 99-103).


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5. PER CONCLUDERE La Chiesa è santa e peccatrice, sancta et meretrix, dicevano i Padri, proprio per questo ha bisogno continuo di conversione e rinnovamento sia individuale che di tutto il corpo ecclesiale. Maria Maddalena, più che sul momento storico, nel quale viveva e che conosceva e che certo non era dei migliori, ferma il suo sguardo su una visione generale di purificazione e di rinnovamento, che non si completano se non nell’ultimo momento della storia umana, nella resurrezione finale, nella quale Dio restaurerà in maniera definitiva la natura umana, riportandola nello stato di innocenza nel quale l’aveva posta all’inizio. Lei, da mistica, da serva e non da cortigiana, a caro prezzo, “consegnata” all’unico Signore, da serva “senza utile”, “morta” a qualsiasi interesse suo (amore morto), porta nella sua fragilità la stessa passione d’amore di Cristo, e quindi come «I’ Verbo muore in croce. E (così) muore ancora essa anima con quella perfetta relassatione che fa di se stessa in Dio, nulla intendendo, nulla sapendo e nulla, nulla volendo se non tanto quanto esso Verbo vuole che sia fatto in lei, per lei e da lei» (RE, 263).

Con questa disposizione ha invitato la Chiesa del suo tempo a volgere lo sguardo “all’humanato Verbo” per innamorarsi di Lui. Purtroppo inascoltata! Ora, coinvolge anche noi, che viviamo nel tempo (anche noi in un dopo Concilio) a fissare lo sguardo sullo “svenato agnello” e a dar vita a un cammino di conversione. Ci sollecita a non chiudere gli occhi sulle incrostazioni mondane della Chiesa e consegna a noi il suo sguardo profetico perché con coraggio e franchezza, con parresia direbbe l’apostolo Paolo, non ci stanchiamo di indicare a tutto il corpo ecclesiale la bellezza del Vangelo.



Synaxis 1 (2009) 47-98

BIBLIOGRAFIA RIGUARDANTE S. MARIA MADDALENA DE’ PAZZI

CHIARA VASCIAVEO*

Nella presente bibliografia, dedicata alla produzione di testi riguardo alla figura della santa fiorentina Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607), carmelitana e mistica, sono raccolte opere comprese tra il XVI e il XXI secolo. L’estensione cronologica della raccolta ha determinato la necessità di alcune scelte metodologiche di opportunità che tenessero conto delle peculiarità del libro antico rispetto a quello moderno. Si è distinta una sezione di fonti (1-5) da una di studi (6-8). Si è preferito ordinare il materiale cronologicamente. Per le fonti, si parte dalle produzioni più recenti, basate sul confronto dei manoscritti conosciuti e censiti (1) rispetto ad altri realizzati su fonti varie (2.1 fino a 2.5). Tutte queste produzioni, hanno il limite, infatti, di riportare testi desunti talora da manoscritti detti “originali”, senza sufficienti annotazioni critiche e talora da diversificate opere a stampa precedenti, non sempre rigorosamente autentiche e talora variamente interpolate. Anche dinanzi ai ritrovamenti degli ultimi anni1 è diventato più urgente la necessità di distinguere e precisare la fonte utilizzata.

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Dottore in Teologia. Cfr. C. VASCIAVEO, Radici ecclesiali dell’esperienza mistica di Maria Maddalena di Firenze. Note introduttive sulla biblioteca monastica, in Synaxis 1 (2006) 49-54; ID, Radici ecclesiali di una significativa esperienza mistica, in L’Osservatore Romano, 15 novembre 2006, 4; ID., Il donativo spirato dalle tre divine Persone. La teologia trinitaria in S. Maria Maddalena de’ Pazzi, in Rivista di vita spirituale 4-5 (2007) 399-417. 1


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Chiara Vasciaveo

Nel XX secolo, sono state distinte fonti inerenti ad una singola opera integrale della santa (2.1) da fonti antologiche. Queste ultime sono state articolate in antologie totalmente dedicate alla produzione maddaleniana (2.2) e antologie generaliste, con singole pagine dedicate alla santa (2.3). In tal caso, nell’indicazione delle pagine, ci si riferisce esclusivamente a queste ultime. Ogni gruppo prevede una sottosezione dedicata alle traduzioni e produzioni in lingua diversa dall’italiano (2.4 e 2.5). Seguono le biografie realizzate nel XX secolo (3.1 e 3.2 in altre lingue) in quanto, pur non essendo rigorosamente fonti, le più antiche riportano materiali inediti del contesto vitale della santa, spesso ripreso dalle testimonianze delle sorelle. Ad oggi manca una vera biografia critica a carattere scientifico. Per le fonti realizzate tra il XVI e il XIX secolo, si è dovuto necessariamente accorpare testi contenenti esplicitamente Opere complessive della santa con altri, intitolati Biografie, ma comprensivi di estese selezioni antologiche delle sue parole (4.1 e in altre lingue 4.3). A seguire sono riportate edizioni di singole opere (4.2 e in altre lingue 4.4). Minima è stata l’edizione di materiali dei processi (5). In ogni voce, dopo l’indicazione dell’autore (dove presente o comunque repertabile) e il titolo, segue il curatore, l’indicazione della tipografia o editore presso cui l’opera è stata stampata, la città e l’anno di edizione. In sequenza, in numeri arabi, il numero di pagine della prefazione e del testo separati da virgole. Si fa presente che nel libro antico è possibile trovare dei testi suddivisi in sezioni, nelle quali la numerazione ricomincia ad ogni sezione. In tal caso si incontrano vari numeri in successione separati da virgole (es. 23, 35, 23). Per gli studi, si distingue tra volumi (6), tesi (7) e articoli (8), ordinati cronologicamente dai più antichi ai più recenti, e distinti in sottogruppi tematici, senza distinzione linguistica. All’interno di ogni anno, la successione degli autori/ci è alfabetica. Si rinvia ad un lavoro successivo la schedatura dell’esteso materiale devozionale cui per secoli è stata affidata la trasmissione della conoscenza della santa, rispetto al suo pensiero effettivo e complessivo.


Bibliografia riguardante s. Maria Maddalena de’ Pazzi

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Pur negli inevitabili limiti di ogni schedatura bibliografica, necessariamente completabile particolarmente per le traduzioni e opere in lingue diverse dall’italiano, si ritiene che fosse improrogabile, per un corretto approccio scientifico allo studio anche accademico di santa Maria Maddalena, cominciare a disporre di un simile strumento.


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Chiara Vasciaveo

FONTI 1. TESTI DI S. M. MADDALENA CON REFERENZE CRITICHE S. MARIA MADDALENA DI FIRENZE, Epistolario completo, a cura di C. Vasciaveo, Firenze 20092, 242. EAD., Detti e Preghiere nella testimonianza delle prime sorelle, a cura di C. Vasciaveo, Firenze 2009, 242.

2. TESTI DI S. M. MADDALENA 2.1. Testi tratti dai manoscritti detti “originali” con parole di s. M. Maddalena SANTA MARIA MADDALENA DE’ PAZZI, Quaranta giorni, a cura di E. Ancilli, I, Firenze 1960, 282. ID., Colloqui, a cura di C. Catena, II, Firenze 1961, 456. ID., Colloqui, a cura di C. Catena, III, Firenze 1963, 435. ID., Revelatione e Intelligenze, a cura di Visentin, IV, Firenze 1964, 324. ID., Probatione, a cura di G. Agresti, V, Firenze 1965, 275. ID., Probatione, a cura di G. Agresti, VI, Firenze 1965, 283. ID., Renovatione della Chiesa, a cura di F. Vallainc, VII, Firenze 1966, 375. ID., La rinnovazione della chiesa. Lettere dettate in estasi, Roma 1986, 152. ID., I Quaranta giorni, a cura di M. Rolfo, con una nota di A. Marino, Palermo 1996, 233.

2.2. Antologie in italiano di parole di s. M. Maddalena (sec. XX) MARIA MAGDALENA DE’ PAZZIS, Amate l’amore. Pensieri, a cura di I. Ciarmatori, Roma 1993, 87. ID., Venite ad amare l’amore. Raccolta di brani dalle Estasi di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, a cura di P. Moschetti, Siena 1994, 112.


Bibliografia riguardante s. Maria Maddalena de’ Pazzi

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ID., La passione di Gesù vissuta da Maria Maddalena de’ Pazzi; trascrizione in italiano moderno, a cura di E. Monari, Carmelo S. Anna Carpineto R. 1998, 112. MARIA MADDALENA DI FIRENZE, Se Dio è comunicativo. Il rinnovamento della Chiesa nella fede di una donna, a cura di C. Vasciaveo, Siena 20092, 111. PORTA DEL LUNGO G. (cur.), Il corpo e l’estasi antologia mistica, Siena 1988, 138. S. MARIA MADDALENA DE’ PAZZI, Estasi e Lettere, a cura di I. Pannoncini, Firenze 1920, 14, 93. ID., Estasi e Lettere, a cura di I. Pannoncini, Firenze 19272, 14, 93. ID., L’amore non amato, a cura di G. Agresti, Roma 1974, 369.

2.3. Antologie generali in italiano con pagine riguardanti s. M. Maddalena (sec. XX) BESTINI G. (cur.), Testi rinascimentali di spiritualità spagnoli e italiani, Torino 1970, [M. Maddalena de’ Pazzi] 151-162. BROCCHI G.M., Vite de’ santi e beati fiorentini, Firenze 1742 [ristampa anastatica] Pagnini e Martinelli 2000, [M. Maddalena de’ Pazzi] 507-548. CALZOLAI C.C., Santi e beati fiorentini, Firenze 1965, 105-110. COMUNITÀ DI BOSE (cur.), Il libro dei testimoni: martirologio ecumenico, Milano 2002, [M. Maddalena de’ Pazzi] 669. ID., Maria: testi teologici e spirituali dal I al XX secolo, Milano 2000, [M. Maddalena de’ Pazzi] 931-932. GAMBA U. (cur.), Mistici di tutti i tempi. Pagine scelte, Padova 1995, [Maria Maddalena de’ Pazzi] 313-320. GOSSET T. (cur.), Donne mistiche II: età moderna (secoli XV-XVIII). Antologia, trad. di M.R. Del Genio, Milano 2002, [M. Maddalena de’ Pazzi] 89. ID., Women mystics of the modern era (cent. XV-XVIII), Londra 2003, [M. Maddalena de’ Pazzi] 96. MAURIZIO DI GESÙ B., I Quaderni di Padre Maurizio n. 1, Pessano 2000, [M. Maddalena de’ Pazzi] 235-239.


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Chiara Vasciaveo

PEPE E., Martiri e santi del calendario romano, Roma 1999, [M. Maddalena de’ Pazzi] 235-239. POZZI G. – LEOPARDI C. (curr.), Scrittrici mistiche italiane, Genova 1988, [Maria Maddalena de’ Pazzi] 419-446. S. M. MADDALENA DE’ PAZZI, Estasi (da Estasi e lettere, Firenze 1920) in FALLANI G. (cur.), La letteratura religiosa italiana: profilo e testi, Firenze 1963, 279-281. ID., [Sublime preghiera estatica Per “tutti gli stati delle creature”] in A.M. MORETTI – M. SCHIAVONE (curr.), Grande antologia filosofica, IX, Milano 1964, 2310-2316. ZOLLA E. (cur.), I mistici, Milano 1963, [M. Maddalena de’ Pazzi] 1159-1161.

2.4. Antologie in varie lingue di parole di s. M. Maddalena (sec. XX) DE TROOZ J., Pages Choisies tirées des Ouvres completes de S. M. Madeleine de Pazzi, Paris 1924, 408. Extases et Lettres de S. M. Madeleine de Pazzi. Traduction de M. M. Vaussard, Paris 1945, 221. MARIA MAGDALENA DE’ PAZZIS, Selected revelations, a cura di A. Maggi, New Jersey 1997, 512. ID., Selected revelations, a cura di A. Maggi, New York-Mahwah 2000, 368. ST. MARIE MADELEINE DE’ PAZZI, Les trois extases de la Passion de Jésus, a cura di G. Tuveri, Béllegros-en-Mauges 2003, 155.

2.5. Antologie generali con pagine riguardanti s. M. Maddalena (sec. XX) WINKELS E., De Heilige M. Magdalena de’ Pazzi, 29 Mei, in Met de Heilingen het jar rond, a cura di J. Huyben, I, Bussum 1953, 483486. EMPAIN L., Les saints nous parlent…, Namur 1958, [M. Maddalena de’ Pazzi] 147-148.


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URBEL J. DE, Año cristiano, Madrid 19595, [M. Maddalena de’ Pazzi] 829-833. PIESCH H., M. Maddalena de’ Pazzi, in Die Heilingen in ihrer Zeit, II, Mainz 1966, 273-276. BENZ E., Die Vision: Erfahrungsformen und Bilderwelt, Klett-Verlag, Stuttgart 1969 (Mary Magdalen de’ Pazzi), 19.49.318.395408.41.545. LOPEZ MELÙS R. M., Santas que amaron a la Virgen del Carmen, Onda 2001, [M. Maddalena de’ Pazzi] 154-161.

3. BIOGRAFIE DI S. M. MADDALENA (SEC. XX) 3.1. Biografie di s. M. Maddalena in italiano (sec. XX) UNA RELIGIOSA DEL SUO MONASTERO [SR GESUALDA], La Santa di Firenze presentata principalmente a’ suoi concittadini nel III centenario della sua morte da una religiosa del suo Monastero, Firenze 1906, 169. SR GESUALDA DELLO SPIRITO SANTO, S. M. Maddalena de Pazzi. Una carmelitana, Alba 1927, 161. ID., La Santa di Firenze S. M. Maddalena de Pazzi, Roma 1933, 316. VAN DEN EERENBEEMT, Compendio della vita di S. M. Maddalena de Pazzi, Civitavecchia 1935, 66. SR GESUALDA DELLO SPIRITO SANTO, S. M. Maddalena de Pazzi. Una carmelitana, Alba 1941³, 268. UNA CARMELITANA DI S. M. MADDALENA DE’ PAZZI [SR M. MINIMA], S. M. Maddalena de Pazzi, Firenze 1941, 390. ID., S. M. Maddalena de Pazzi, Firenze 1941, 60. ID., S. M. Maddalena de Pazzi, Firenze 1942, 390. ID., S. M. Maddalena de Pazzi, Firenze 1943, 390. S. M. MADDALENA DE PAZZI, Benedictus Deus: fatti e parole di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Prologo: D. M. Turoldo, Firenze 1957, 87 (doppie). [PAOLA M. DELLO SPIRITO SANTO], S. Maria Maddalena de’ Pazzi, illustrazioni di Mina Anselmi, Roma 1960, 325.


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LÒPEZ MELÙS R. M., Magdalena: espirito y vida, Saragozza 1966, 335. PAPASOGLI B. – SECONDIN B., La parabola delle due spose. Vita di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, pres.: D. Barsotti, Torino 1976, 10, 471. MOSCHETTI P. – SECONDIN B., Maddalena de’ Pazzi mistica dell’amore, Milano 1992, 228. BREZZI F., Dire l’indicibile, vedere la verità: Maria Maddalena de’ Pazzi, in La passione di pensare. Angela da Foligno, Maria Maddalena de’ Pazzi…, Roma 1998, [Maria Maddalena de’ Pazzi] 61-84. ID. (cur.), Maria Maddalena de’ Pazzi: invito alla lettura, Milano 2000, 92. GORI N., M. Maddalena de’ Pazzi: l’impazienza dell’amore di Dio, Cinisello Balsamo 2003, 115.

3.2. Biografie in varie lingue di s. M. Maddalena (sec. XX) Francese Vie de Marie-Madeleine de Pazzi d’après les Bollandistes et des documents inédits par la Vicomtesse de Beausire-Seyssel; préface par le baron Hennet de Goutel, Parigi 1913, 257. VAUSSARD M., Sainte Marie-Magdaleine de’ Pazzi (1566-1607), Parigi 1925, 175. ID., Sainte Marie Madeleine de Pazzi (1566-1607), Paris 19253, 175. Spagnolo UNA CARMELITANA DI S. M. MADDALENA DE PAZZI [SR M. MINIMA], S. M. Magdalena de Pazzis…, trad. spagnola del E. M. Bañon O. Carm., Madrid 1956, 427. LOPEZ-MELÙS R., Magdalena: spiritu y vida de una extraordinaria mujer, Roma 1966, 335.


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Inglese KLEY F. VAN DER, S. Marian Mystic: a short life of St. Mary Magdalen de’ Pazzi, Chicago 1957, 96. SR. MINIMA M., Seraph among Angels: The Life of St. Mary Magdalene de’ Pazzi, Chicago 1958, 363. ID., A saint in The city of Flowers. The life of S. M. Magdalene de’ Pazzi Carmelite, trad. inglese G. Pausback, Chicago 1959, 32. [PAOLA M. DELLO SPIRITO SANTO], Portrait of a Seraph: a pictorial life of Saint Mary Magdalen de’ Pazzi Carmelite and Mystic, illustrazioni di Mina Anselmi, trad. G. N. Pausback, sl 1965, 165. Altre lingue Geestelijk Raadgevingen van de H. Maria Magdalena de Pazzi tr. Vinc. van Wijk, Amsterdam 1938, 142. VAUSSARD M. M., Pazzi Szent Mària Magdolna élete, Budapest 1942, 116.

4. OPERE E BIOGRAFIE DI S. M. MADDALENA (SEC. XVII-XIX) 4.1. “Biografie” e Antologie in italiano di testi di S. M. Maddalena2 (sec. XVII-XIX) PUCCINI V., Vita della Madre Suor M. Maddalena de Pazzi fiorentina, Firenze 1609, 20, 353.

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Fino al XX secolo, le parole di SMM sono state mediate da raccolte effettuate da vari autori in forme antologiche attraverso molteplici modalità. Talora hanno subito sintesi; in qualche caso sono state amplificate e parafrasate in diversi passaggi; raccolte per temi a prescindere dalla cronologia sin dalla Vita del Puccini del 1609. Per tale peculiare storia della trasmissione non si può, a rigore, distinguere sulla base della titolazione formale, in base agli odierni criteri scientifici, tra vere biografie e fonti che per un lungo periodo convissero negli stessi testi.


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ID., Vita della Madre Sr. M. Maddalena de Pazzi fiorentina, Firenze 1611, 24, 184, 194, 40, 584. [II ed con l’aggiunta della III – IV – V – e VI parte] ID., Vita della Madre Sr. M. Maddalena de Pazzi fiorentina…, Milano 1611, 300, 12. ID., Vita della madre suor Maria Maddalena de’ Pazzi fiorentina, monaca dell’Ordine carmelitano […] Raccolta da […] Vincenzo Puccini, Milano 1615, 300, 12. ID., Vita della Beata Madre Sr. M. Maddalena de Pazzi fiorentina, Firenze 1620, 602, 28. ID., Vita della Veneranda M. B. Suor Maria Maddalena de’ Pazzi […] Con aggiunta d’alcuni nuovi miracoli occorsi sino al giorno di questa terza impressione, Firenze 1621, 16, 602, 30. ID., Compendio della vita e miracoli dell’estatica vergine suor Maria Maddalena de’ Pazzi…, Bologna 1622. ID., Vita, et miracoli della B. Maria Maddalena de Pazzi […] Beatificata…, Modena 1626, 8, 172. BARBA A., Il compendio della vita della beata soror M. Maddalena de’ Pazzi…, Napoli 1627. PUCCINI V., Vita della Beata M. Maddalena de Pazzi […] Ridotta in miglior ordine con aggiunta di molte azzioni virtuose e mirabili, cavate dai Processi formati per la sua canonizazione, Roma 1629, 436. [IV ed. completamente rielaborata dal Reconesi] ID., Vita della Beata M. Maddalena de Pazzi. Ridotta in miglior ordine con aggiunta di molte azioni virtuose e mirabili, cavate dai Processi formati per la sua canonizzazione. Con l’aggiunta dei Ratti, Firenze 1639, 12, 412, 10. [V ed.] ID., Vita della Beata M. Maddalena de Pazzi…, Napoli 1640, 475, 11. ID., Vita della beata Maria Maddalena de’ Pazzi. Vergine nobile fiorentina; monaca nel munistero di Santa Maria de gl’Angioli in borgo San Fridiano (oggi in Pinti) di Firenze, dell’Ordine Carmelitano Osseruante. Raccolta, e descritta dal sig. d. Vincenzio Puccini, confessore, e governatore di detto munistero. Ridotta in miglior’ ordine, con aggiunta di molte azzioni virtuose, e mirabili, cauate


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da i processi formati per la sua canonizazione. Et in questa sesta edizione migliorata, Venezia 1642, 12, 332. [VI ed.] BRANCACCIO L., Opere della B. M. Maddalena de Pazzi, carmelitana. Raccolte dal M. R. Maestro Fra Lorenzo M. Bancaccio carmelitano dell’osservanza di S. Maria della Vita in Napoli. Con due Prediche in lode dell’ istessa beata [In fine contiene: Compendio di tutta la teologia, cavato dall’opre della beata Maria Maddalena de Pazzi, della natura, & attributi divini; Predica del m. r. Bartolomeo Belvedere della Compagnia di Giesu. In lode della beata Maria Maddalena de Pazzi carmelitana; Predica in lode della b. M. Maddalena de Pazzi. Fatta dal m. r. maestro Lorenzo Maria Brancaccio; I pregi della beata Maria Maddalena de’ Pazzi […] Michele Orsi Academico Otioso], Napoli 1643, 16 sp, 524, 15, 25-50, 23, 28. [Si basa sull’edizione Puccini 1611 con numerose varianti ed elimina la biografia fino all’ed. del 1671] PUCCINI V., Vita della beata suor’ Maria Maddalena de Pazzi fiorentina dell’Ordine Carmelitano osservante nel monastero di S. Maria de gli Angioli di Borgo S. Frediano di Firenze. Raccolta, e descritta dal molto reuer. D. Vincenzo Puccini gouernatore, e confessore del detto monasterio, Napoli 1652, 16, 602, 30. ID., Vita della beata Maria Maddalena de’ Pazzi vergine, nobile fiorentina, monaca nel venerando munistero di Santa Maria de gl’Angioli in borgo San Fridiano (oggi in Pinti) di Firenze, dell’Ordine Carmelitano Osservante. Raccolta, e descritta dal sig. d. Vincenzo Puccini Et in questa settima impressione migliorata, & accresciuta, Venetia 1666, 8, 326. ID., Compendio della Vita e miracoli dell’estatica Vergine M. Maddalena de Pazzi…, Napoli 1666. FERRARO A. [DA CASTROREALE], Divini amoris spicula S. M. Magdalenae de Pazzis OC. Ex eiusdem divinis intelligentiis deprompta. Per R. Andream a Castro Regali, Napoli 1666, 330. [Antologia di testi maddaleniani tratti dal Puccini e tradotti in latino; esiste trad. ital 1674]


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CEPARI V., Vita de la xerafica Vergine S. M. Maddalena de Pazzi fiorentina. Scritta dal Virgilio Cepari SJ. Con l’aggiunta ricavata dai processi formati per la sua beatificazione e canonizzazione dal Giuseppe Fozi della medesima Compagnia. Data alle stampe dalle Monache della SS. Incarnazione del Verbo divino e dedicata alla Santità di nostro Signore Papa Clemente IX, Roma 1669, 440. FORNARA G. M., Vita di S. Maria Maddalena de Pazzi …, Milano 1669. ID., Un breve compendio della vita di S. Maria Maddalena de Pazzi…, Milano1669. PUCCINI V., Prodigiosa vita della sposa di Giesu S. Maria Madalena de Pazzi, fiorentina, carmelitana calzata: canonizata dalla Santità di N. S. Papa Clemente nono li 28 Aprile 1669 cavata dalla Vita già scritta dal M. Rev. Vincenzo Puccini…, Milano 1669, 7, 224. TOMASI CH. R., Cento estasi dei Santi Pietro di Alcantara e M. Maddalena de Pazzi, raccolte da don Carlo Tomasi. Chierico Regolare, Roma 1669, 108. FERRARO A. [DA CASTROREALE], Compendio della vita di S, Maria Maddalena de Pazzi…, Venezia 1669. [Si ha notizia di altre ed. nello stesso anno a Napoli e Palermo] LEON DE S. JEAN, Ristretto della serafica vita di S. M. Maddalena de Pazzi . Breve relatione delle feste fatte per la canonizatione…, trad. it. G. Fozzi SJ, Bologna 1669, 186, 47. ID., Ristretto della serafica vita di S. M. Maddalena de Pazzi…, trad. it. G. Fozzi SJ, Roma 1669, 155. PASSERONE F. M., Vita di S. M. Maddalena de Pazzi…, Torino 1669. BRANCACCIO L., Opere di santa Maria Maddalena de’ Pazzi carmelitana monaca del venerando munistero di S. Maria degl’Angioli di Firenze. Raccolte dal M. R. maestro fra Lorenzo Maria Brancaccio carmelitano dell’osservanza di S. Maria della Vita in Napoli. E divise dal medesimo in cinque parti. Con la vita della medesima santa descritta dal signor D. Vincenzo Puccini, Venezia 1671, 8, 320, 12. PAZZI DE MARIA MADDALENA (SANTA), Divinis Amoris Spicula…, a cura di Ferraro A. [da Castroreale], Napoli 1673, 143. BRANCACCIO L., Opere di santa Maria Maddalena de’ Pazzi carmelitana monaca del venerando munistero di S. Maria degl’Angioli di


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Firenze. Raccolte dal M. R. maestro fra Lorenzo Maria Brancaccio carmelitano dell’osservanza di S. Maria della Vita in Napoli. E divise dal medesimo in cinque parti. Con la vita della medesima santa descritta dal signor D. Vincenzo Puccini, Venezia 1675, 12, 288. FERRI G. CARM., Compendio della vita dell’estatica vergine S. M. Maddalena de Pazzi, aggiuntavi La Scuola Serafica e la devozione dei 5 venerdì. Del M. fra Gabriello Ferri da Bologna carmelitano osserv. della Congregazione di Mantova, Bologna 1676, 227, 1. [in: Avvertimenti e Avvisi, Roma 1683, 163] S. M. MADDALENA DE PAZZI, Vita e ratti di S. M. Maddalena de Pazzi. Nobile fiorentina. Fatti ristampare dalla Priora e Monache di S.M.A. dedicandola al Granduca di Toscana Cosimo III, Venezia 1688, 307, 193, 340, 286. [Vita basata su Puccini 1629 rivisto dal Reconesi con aggiunte] ANONIMO, Vita della gloriosa e prodigiosa vergine S. M. Maddalena de’ Pazzi carm. messa in rima da un suo devoto studioso, per cantari in sua lode, Firenze 1688, 96. FORNARA G. M., Anno memorabile dei Carmelitani…, I, Milano 1688, 464-735. ADIMARI L., Prose sacre contenti il Compendio della vita di S. M. Maddalena de Pazzi, e la relazione delle feste fatte in Firenze per la sua Canonizzazione…, Firenze 1706, 208. PUCCINI V., La vita di santa Maria Maddalena de’ Pazzi vergine, nobile fiorentina, monaca nel venerando Monastero di S. Maria degl’Angioli in Borgo San Fridiano (oggi in Pinti) di Firenze, dell’ordine carmelitano osservante. Raccolta, e descritta dal signor d. Vincenzo Puccini confessore, e governatore di detto monastero. Ridotta in miglior ordine, con l’aggiunta de’ miracoli cavati da’ processi formati per la solenne canonizazione, e de’ Detti, e Sentenze memorabili della santa, con due prediche in lode della medesima. In quest’ultima impressione ridotta in miglior ordine, con l’aggiunta de’ miracoli cavati da’ processi formati per la solenne canonizatione, e de’ detti, ratti, e sentenze memorabili della santa, Bologna 1707, 8, 312.


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BRANCACCIO L., Opere di santa Maria Maddalena de’ Pazzi carmelitana monaca del venerando monastero di s. Maria degl’Angioli di Firenze. Raccolte dal M. R. maestro fra Lorenzo Maria Brancaccio […] e divise dal medesimo in cinque parti. Con la vita della medesima santa descritta dal signor Vincenzo Puccini, P. III, Venezia 1712, 308, 271. [ristampa 1671] LEON CARM., Ristretto della serafica vita di S. Maria Maddalena de’ Pazzi fiorentina dell’Ordine carmelitano della Regola della prima Osservanza, scritto in lingua Francese dal R. F. Leone Carmelitano dell’Osservanza di Rennes, nella Provincia di Turena; trasportato nell’italiana dal Padre Giuseppe Fozi della compagnia di Gesù […] con l’aggiunta de’ miracoli cavati da processi formati per la solenne canonizazione, 1714, 135. S. M. MADDALENA DE’ PAZZI, Vita e ratti di S. M. Maddalena de’ Pazzi. Nobile fiorentina. Fatta di nuovo ristampare dalla Priora […] e dedicata alla Serenissima Principessa Anna M. L. di Toscana), L. Venturini (2 tomi - 4 parti), Lucca 1716, 806, 944. [ristampa S. M. MADDALENA DE’ PAZZI, Vita e ratti di S. M. Maddalena de’ Pazzi. Nobile fiorentina. Fatti ristampare dalla Priora e Monache di S.M.A. dedicandola al Granduca di Toscana Cosimo III, P. Brigonci, Venezia 1688] ANONIMO, Compendio della vita morte e miracoli di S. M. Maddalena de Pazzi, Firenze 1721, 168. ID., Vita della gloriosa e prodigiosa vergine S. M. Maddalena de’ Pazzi carm. messa in rima da un suo devoto studioso, per cantari in sua lode. Divisa in 5 parti, Firenze 1723, 96. ID., Breve ristretto della vita e virtù di S. M. Maddalena de’ Pazzi con la devozione de’ cinque venerdì [Segneri], Lucca 1726, 108, 70. CARISI F., Compendio della vita di S. Maria Maddalena de’ Pazzi nobile fiorentina monaca dell’ordine carmelitano calzato osserv. Posto nuovamente in luce dal Pellegrino Felice Carisi da Correggio, Modena 1728, 108. MONEGLIA A., Estratto di meraviglia delle azioni prodigiose dell’innocentissima vergine S. M. Maddalena de Pazzi […] con molti miracoli, alcune sue lettere, detti, e sentenze etc. fedelmente e


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nuovamente raccolti. Infine l’ammirabile devozione dei cinque venerdì […] Dal M. Paolo Antonio Moneglia del Carmine di Milano, Milano 1730, 480. ANONIMO, Breve ristretto della vita e virtù di S. M. Maddalena de’ Pazzi […] Devozione de’ cinque venerdì in ossequio di S. Ma Maddalena […] del Segneri sj…, Lucca 1731, 108, 70. ROSSI P., Ristretto della Vita di S. Maria Maddalena de’ Pazzi Vergine…, Modena 1738. BRANCACCIO L., Opere di santa Maria Maddalena de’ Pazzi carmelitana monaca del venerando monastero di s. Maria degl’Angioli di Firenze. Raccolte dal M. R. maestro fra Lorenzo Maria Brancaccio […] e divise dal medesimo in cinque parti… [Comprende: PUCCINI V., La Vita di S. Maria Maddalena de’ Pazzi Vergine… (rivista dal Reconesi e curata da F. Salvi); S. M. MADDALENA DE PAZZI, Lettere spirituali della gran maestra di spirito S. Maria Maddalena de’ Pazzi vergine dell’Ordine Carmelitano, a cura di F. Salvi], I-II, Venezia 1739, 12, 328. Con lettere sulla renovatione di S. M. Maddalna a Angelo Pientini e Alessandro de’ Medici]. PUCCINI V., La vita di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, vergine nobile fiorentina monaca nel ven. monastero di S. Maria degli angeli in Borgo S. Fridiano (oggi in Pinti) di Firenze dell’Ordine Carmelitano Osservante: ridotta in miglior ordine, coll’aggiunta dei miracoli cavati da processi formati per la solenne canonizazione, e di detti, e sentenze memorabili della Santa raccolta e descrita dal Sig. D. Vicenzo Puccini, confesore e governadore di detto monastero: dedicata al sigolar merito dell’Illmo Signor Don Giuseppe la Jacona, Venezia 1745, 22, 630. BRANCACCIO L., Opere di santa Maria Maddalena de’ Pazzi…, Napoli 1750. LA TERZA F.S., Ristretto della vita dell’estatica Vergine S. M. Maddalena de Pazzi […] Aggiuntevi per i cinque venerdì e per la novena…, Napoli 1753, 260. ID., Compendio della vita della serafica Vergine S. M. Maddalena de Pazzi…, Verona 1799, 24.


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FABRINI P., La Vita di S. M. Maddalena de Pazzi. Compilata dal Sac. Placido Fabrini, Firenze 1852, 536, 304. PUCCINI V., La Vita di S. M. Maddalena de Pazzi… con l’aggiunta delle di lei opere, Firenze 1854, 304, 11. FABRINI P., La Vita di S. M. Maddalena de Pazzi. Compilata dal Sac. Placido Fabrini, Napoli 1858, 536, 304. PUCCINI V., La Vita di S. Maria Maddalena de’ Pazzi Carmelitana osservante, I-II-III, Monza 1869, 205, 192, 164. SEGNERI P., Breve ristretto della vita e virtù di S. M. Maddalena de Pazzi, carmelitana. Scritta da Paolo Segneri SJ, Firenze 1869, 46. LEONARDI DI VERONA (D. FEDERICO), Breve compendio della vita di S. M. Maddalena de Pazzi. Estratta da quella compilata dal Sac. Don Vinc. Puccini, Verona 1879, 55. PUCCINI V., Vita di S. M. Maddalena de Pazzi […] del Sac. Vincenzo Puccini accresciuta dietro gli atti della canonizzazione, I-II-III, Monza 1883, 191, 184, 168. CEPARI V., Vita de la xerafica Vergine S. M. Maddalena de Pazzi fiorentina. Scritta dal Virgilio Cepari SJ. Con l’aggiunta ricavata dai processi formati per la sua beatificazione e canonizzazione dal Giuseppe Fozi della medesima Compagnia. Data alle stampe dalle Monache della SS. Incarnazione del Verbo divino e dedicata alla Santità di nostro Signore Papa Clemente IX Coll’aggiunta delle Lettere inedite dettate in estasi dalla Santa, Prato 1884, 540. [Contiene prima pubblicazione integrale delle Lettere della Renovatione] ELISEO DI SAN GIOVANNI DELLA CROCE, S. Maria Maddalena de’ Pazzi Vergine Carmelitana per F. Eliseo di San Giovanni della Croce, Carmelitano Scalzo della provincia Veneta, Bologna 1885, 136. S. M. MADDALENA DE PAZZI, Vita ed estasi di S. M. Maddalena de Pazzi con aggiunta delle Lettere e Ratti della Santa e con parole di prefazione dell’Em. Card. A. Bausa, arciv. di Firenze, I-II-III, Firenze 1893, 532, 590, 525.


Bibliografia riguardante s. Maria Maddalena de’ Pazzi

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4.2. Singole opere in italiano di S. M. Maddalena (sec. XVII - XX3) SOLLAZZI A., Avvertimenti e avvisi dati da S. M. Maddalena de Pazzi a diverse religiose mentre visse. Dati in luce da Antonio Sollazzi, Roma 1669, 132. ID., Avvertimenti di S. Maria Maddalena de’ Pazzi a diverse religiose mentre visse. Profittevoli ad ogn’anima, che desidera la perfettione, e la propria salute. Nuovamente corretti con l’aggiunta di varij documenti sopra l’amor proprio, regole di perfettione date da Christo alla santa, & c. Dati di nuouo in luce da d. Gio. Antonio Solazzi da Vetralla, beneficiato in S. Maria Maggiore di Roma…, Bologna 1676, 227 in FERRI G., Compendio della vita dell’estatica vergine S. M. Maddalena de Pazzi, aggiuntavi La Scuola Serafica e la devozione dei 5 venerdì. Del M. fra Gabriello Ferri da Bologna carmelitano osserv. della Congregazione di Mantova, Roma 1683, 163. VAGHI M. F., Detti e Avvertimenti morali e spirituali di S. M. Maddalena de Pazzi. Raccolti dal M. F. Vaghi, Parma 1688, 188. SOLLAZZI G. B., Avvertimenti di S. Maria Maddalena de’ Pazzi a diverse religiose. Coll’aggiunta di alcune regole di perfezione, che ella riceve da Gesu Cristo…, Firenze 1699, 175. S. M. MADDALENA DE PAZZI, Avvertimenti, et avvisi dati da S. Maria Maddalena De Pazzi a diverse religiose, mentre visse, profitteuoli ad ogn’anima, che desidera la perfezzione, e la propria salute. Con l’aggiunta di vari documenti sopra l’amor proprio, e regole di perfezzione date da Cristo alla santa, Roma 1717, 198, 6. ID., Sentenze e detti di […] per le religiose…, Firenze 1727, 7. ID., Lettere spirituali della gran maestra di spirito S. Maria Maddalena de’ Pazzi vergine dell’Ordine Carmelitano, a cura di Un religioso dell’Ordine [Salvi F.], Bologna 1729, 72. MONEGLIA A., Estratto di meraviglia delle azioni prodigiose dell’innocentissima vergine S. M. Maddalena de Pazzi […] con molti mira3 Si estende al XX secolo questa sezione in quanto raccolgono testi precedenti alla pubblicazione del materiale raccolto sotto la denominazione “manoscritti originali”, per quanto filologicamente non più accettabile.


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coli, alcune sue lettere, detti, e sentenze etc. fedelmente e nuovamente raccolti. Infine l’ammirabile devozione dei cinque venerdì […] Dal M. Paolo Antonio Moneglia del Carmine di Milano, G. Malatesta, Milano 1730, 203-274. S. M. MADDALENA DE PAZZI, Avvertimenti di S. Maria Maddalena de’ Pazzi a diverse religiose. Coll’aggiunta di alcune regole di perfezione, che ella riceve da Gesu Cristo…, Torino 1731, 162, 2. Lettere dei Santi e Beati fiorentini, a cura di A.M. Biscioni [F. Salvi], Firenze 1736, 376, LII. 293.350. [presenti tre lettere sulla renovatione A. Pientini e 2 ad A. de’ Medici] S. M. MADDALENA DE PAZZI, Lettere di S. M. Maddalena de Pazzi, a cura di A. M. Biscioni [- F. Salvi], Moücke, Firenze 1736, 62. ID., Avvertimenti di S. Maria Maddalena de’ Pazzi a diverse religiose coll’aggiunta d’alcune regole di perfezione, che ella riceve da Gesu Cristo, Torino 1737, 8, 159. ID., Lettere, Firenze 1772, 52. SOLLAZZI A., Avvertimenti e avvisi dati da M. Maddalena de Pazzi a diverse religiose mentre visse. Nuovamente corretti con l’aggiunta di alcune regole di perfezione che ella ricevé da G. C. Dati di nuovo in luce da D. Giov. Antonio Sollazzi; Devozione de’ Cinque Venerdì…, Firenze 1784, 262, 72. Lettere spirituali della gran Maestra di spirito S. M. Maddalena de’ Pazzi Vergine dell’Ord. Carmelitano, Crema 1795, 48. S. M. MADDALENA DE PAZZI, Sentenze e detti di S. M. Maddalena de Pazzi, Firenze 1797, 7. BROCCHI G.M., Vita di santa M. Maddalena de’ Pazzi, Pagani, Firenze 1832, 65. [estratto da: BROCCHI G.M., Vite de’ santi e beati fiorentini, Firenze 1742, 507-548] BISCIONI A.M., Lettere di Santi e beati fiorentini…, Milano 1839, 349415. [ristampa anastatica Firenze 1737] SOLLAZZI A., Avvertimenti e avvisi dati di S. M. Maddalena de Pazzi a diverse religiose mentre visse. Nuovamente corretti con l’aggiunta


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di alcune regole di perfezione che ella ricevé da G. C. e di un opuscolo di S. Alfonso M. de Liguori, Torino 1883, 116. ID., Avvertimenti di S. M. Maddalena de Pazzi a diverse religiose…, B. Lombardi, Firenze sd, 262. UNA RELIGIOSA DEL SUO MONASTERO [SUOR GESUALDA], La Santa di Firenze presentata principalmente a’ suoi concittadini nel III centenario della sua morte da una religiosa del suo Monastero, Manuelli, Firenze 1906, 97-98. [Contiene la prima pubblicazione della lettera della S M. Maddalena alla nipote M. Grazia Pazzi] SOLLAZZI A., Avvertimenti e avvisi dati di S. M. Maddalena de Pazzi a diverse religiose mentre visse. Nuovamente corretti con l’aggiunta di alcune regole di perfezione che ella ricevé da G. C. e di un opuscolo di S. Alfonso M. de Liguori, Torino-Roma 1923, 112. S. M. MADDALENA DE’ PAZZI, S. Maria Maddalena de’ Pazzi. Estasi e lettere scelte, a cura di M. Vaussard, Firenze 1924, 213. CIONI R., S. Maria Maddalena de’ Pazzi nelle estasi, ratti, colloqui, lettere riveduti sugli originali, Milano 1926, 11, 264. ID., S. Maria Maddalena de’ Pazzi nell’estasi. Ratti, colloqui, lettere riveduti sugli originali, Milano 1930, 264. S. M. MADDALENA DE PAZZI, I Quaranta giorni, a cura di O. Steggin, Roma 1952, 7, 33, 159. ID., [Estratti da Quaranta giorni e dall’epistolario], a cura di M. Bendiscioli – C. Marcocchi, La Riforma cattolica, Roma 1963, 267-272.

4.3. “Biografie” in varie lingue con testi di s. M. Maddalena (sec. XVIIXIX) Francese LEON DE S. JEAN, Les Vies de la tres illustre Duchesse de la Bretagne F. d’Amboise et de la bienhereuse Marie Magdalene de Pazzi, Poitier 1627. ID., La Vie de la bienhereuse Marie Magdalene de Pazzi…, Poitier 1627.


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DOMINIQUE DE JESUS OCD, Vie admirable de la B. Marie Madeleine de Pazzi…, Parigi 1628. LEON DE S. JEAN, La Vie de la bienhereuse Marie Magdalene de Pazzi…, 16312. ID., La Vie admirable de la S. M. Madeleine de Pazzi religieuse Carmelite de Florence…, Paris 16343, 30, 358. ID., La Vie admirable de la S. M. Madeleine de Pazzi…, Paris 16364. ID., La Vie admirable de la S. M. Madeleine de Pazzi religieuse Carmelite de Florence. Par le R. Leon Carm. religieus Carme de l’observance de Renne en la Province de Touraine, Paris 16595, 256. ID., La Vie admirable de la S. M. Madeleine de Pazzi religieuse Carmelite de Florence. Par le R. Leon Carm. religieus Carme de l’observance de Renne en la Province de Touraine, Paris 16696, 276. ID., La Vie admirable de la S. M. Madeleine de Pazzi religieuse Carmelite de Florence. Par le R. Leon Carm. religieus Carme de l’observance de Renne en la Province de Touraine, Bruxelles 1669. LEZIN DE SAINTE SCHOLASTIQUE, Abregé de la vie de S. M. Madeleine de Pazzi…, Paris 1669. ANDRE DE S. NICOLAS, La vie de S. M. Madeleine de Pazzi…, Clermont 1670. PUCCINI V., La vie de sainte M. Madeleine de Pazzi…, trad. fr. Lezin de S. Scholastique (C. de Bouchamps), Paris 1669, 259. ID., Vita della Madre Sr. M. Maddalena de Pazzi fiorentina, trad. fr. L. B. Bachelier, Paris 1670, 258. GREGOIRE DE S. MARTIN, La Vie toute celeste de la Vierge extatique S. M. Madeleine de Pazzi. Par le R. Gregoire de S. Martin religieus reformé de la même observance, Dovay 1671, 553. LEON CARM., La vie de S. M. Magdeleine de’ Pazzi…, Douay 17143, 552. CEPARI V., Vie de Sainte Marie-Magdeleine de’ Pazzi par le Cepari […] traduit des actes des saints par L’Abbé P***, ancien Vic.-Gén. D’Évreux, Lione 1837, 350. ID., Vie de Sainte Marie-Magdeleine de’ Pazzi par le Cepari […] traduit


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des actes des saints par L’Abbé P***, ancien Vic.-Gén. d’Évreux, 1854, 276, 262. ID., Vie de S.te M. Madeleine de Pazzi, Tournay 1856. ID., Vie de Sainte Marie-Magdeleine de’ Pazzi par le Cepari […] traduit des actes des saints par L’Abbé P***, ancien Vic.-Gén. d’Évreux, Ferrand 1860, 276, 262. ID., Vie de S.te M. Madeleine de Pazzi, Parigi-Lione 1862, 262. ID., Vie de Sainte Marie-Magdeleine de’ Pazzi par le Cepari […] traduit des actes des saints par L’Abbé P***, ancien Vic.-Gén. D’Évreux, Paris 1872, 276, 262. BRANCACCIO L., Opere di S. M. Maddalena de Pazzi, carmelitana. Raccolte dal M. R. Fra Lorenzo M. Brancaccio. Con la vita della medesima Santa descritta dal Sigr. Don Vincenzo Puccini, trad. fr. A. Bruniaux de la Chartreuse de Valbonne, I-II, Paris 1873, 516, 419. FABRINI P., Vie de S. M. Madeleine de’ Pazzi…, Lione-Parigi 1874. BRANCACCIO L., Oeuvres de S. M. Madeleine de Pazzi…, trad. fr. A. Bruniaux de la Chartreuse de Valbonne, Brugge 1878. FARRINGTON A., The life of St Mary Magdalen of Pazzi…, Dublino 1889, 346. Spagnolo PUCCINI V., Vida de la bienventurada […] Maria Magdalena de’ Pazzi […] Fr. Juan Bautista de Lezana, Saragoza 1650, 12, 576. FRANCISCUS ALBERTUS, Ristretto della vita [S. Maria Magdalena de’ Pazzis…], Saragoza 1738. Vida de la prodigiosa y estatica virgen Maria Magdalena de Pazzis, Monja carmelita […]; traducida […] Fr. Juan Bautista de Lezana, Madrid 1754, 491. CEPARI V., Vida de S. Maria Magdalena de’ Pazzis […] escrita por el rev.do p. Cepari…, Madrid 1891, 8, 413. CROISET J. SJ, Compendio della admirabile vida de S. M. Magdalena de Pazzi, carmelita Calzata par el R. Jean Croiset SJ, Barcelona 1892, 64.


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Altre lingue PUCCINI V., The life of the holy venerable Mother Suor M. Maddalena de Pazzi […] del Sac. Vincenzo Puccini…, a cura di M. Tobias, s.l. 1619, 292. GDOWSKEY S., Miraculum nostri speculi seu vita mirabilis B. Mariae Magdalenae, Praga 1626. MERTOLA L., Vida de B. Mariae Maddalena, Lisbona 1626, 16, 64. VAGHI M. F., Syllabus vitae et miraculorum B. M. Magdalenae Pactiae aut De Pazzi Breve narrazione della vita della nostra Beata venuta di Colonia in Lingua latina, Coloniae Agripinae 1627, 15. SEINER J., Compendium vitae B. V. Mariae Magdalenae de Pazzis […] latine et germanice, Colonia 1627. CZEPELIUS A., Vita, miracula et Transitus B. Mariae Magdalenae de Pazzis…, II, Cracovia 1628. PUCCINI V., Het leven van de halighe M. Magdalena de Pazzi […] van V. Puccinius, Ghendt 1628, 15, 192, 4. DOMINIQUE DE JESUS OCD, Vitae B. Mariae Magdalenae de Pazzi…, Parigi 1631. WEMMERS P., Het wondebaer Leven van de Salighe Maghet M. Magdalena de Pazzi…, Antwerpen 1643. MERTOLA L., Vida da B. madre soror Mariae Magdalena de’ Pazzi…, Lisbona 1642, 49, 195. MERTOLA L., Vida de B. Mariae Maddalena, Geraldo de Vinea, Lisbona 1642, 16, 64. WEMMERS P., Het wondebaer Leven van de Salighe Maghet M. Magdalena de Pazzi…,Antwerpen 16532, 966. LEON DE S. JEAN, Studium universalis sapientiae […] Vita beatae M. Magdalenae Pazzianae, a cura di I. Gregoire – I. Canier – P. Guillimin, III, Parigi 1656, 116-158. PUCCINI V., Das wundebarliche Leben der seeligen Jungfrawen Mariae Magdalena de’ Pazzi…, Colonia 1654, 664. DANIEL A VIRGINE MARIA, Brevis demostratio singularium virtutum, gratiarum […] quae Deus Largitus est S. M. Magdalena de Pazzis, Antverpiae 1669. [originale in olandese]


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DAVID AB OMNIBUS SANCTIS, Das Wunderbarliche Leben der […] M. Magdalena de Pazzi…, Monaco 1669, 204. PATRITIUS A S. JACOBO, Vita seraphicae virginis S. M. Magdalena de Pazzis…, Francoforte 1670, 318,17. DANIEL A VIRGINE MARIA, Speculum Carmelitarum…, Antverpiae 1680, 443-502. WEMMERS P., Leven van de Salighe Maghet M. Magdalena de Pazzi…, Brussel 1670. ID., Den Geluckighen wheg der eeuwiger saligheyt […] die H. M. Magdalena de Pazzi…, Antwerpen 1671, 286. JOSE DE SANTA TERESA, Flores del Carmelo… [S. Maria Magdalena de’ Pazzis…], Madrid 1678, 225-259. AUDOMARUS A S. BERTINO, Gulden schat van goddelijcke […] M. Magdalena de Pazzi…, Antwerpen 1687. PUCCINI V., The life of St. M. Magdalena de Pazzi…, Londra 1687, 134. WEMMERS P., Het wondebaer Leven van de Salighe Maghet M. Magdalena de Pazzi…, Antwerpen 16894, 281. JOSEPH A S. MARIA, Wunderliche Predig Cantzel […] Wunder-Leben der […] M. Magdalena de Pazzi…, Wurzburg 1693, 471. SYLVA SAMPATO A., A Flos de Florença […] s.ta Mariae Magdalena de’ Pazzi…, Lisbona 1730, 26, 231. TRENTA T.M., Compendium vitae S. Mariae Magdalena de’ Pazzis…, Lacae 1730. CEPARI V., Life of St. M. Magdalen of Pazzi…, Londra 1844. ID., The life of St. M. Magdalen of Pazzi…, Londra 1849, 14, 280. ID., Leven van H. M. Magdalena de’ Pazzi, Gent-Brugge 1856. ID., Leben der heiligen M. Magdalena von Pazzis […]V. Cepari, Regensburg 1857, 6, 369. ID., Leven der heilige M. Magdalena de’ Pazzi…, Amsterdam 1857, 369. ID., Leben van de H. M. Magdalena von Pazzis, door Cepari…, Gent 1861, 422. ID., Leben van de H. M. Magdalena von Pazzis […] door Cepari…, Gent 1891, 420. FABRINI P., The life of S. M. Madeleine de’ Pazzi…, trad. A. Isoleri, Filadelfia 1900, 469.


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GESUALDA DELLO SPIRITO SANTO, Haja ta S. M. Madalena de’ Pazzi…, Valetta 1907, 108. CEPARI V., Leben der heilige Carmelites M. Magdalena de’ Pazzi, Amsterdam 1917, 318. WIJK V., Geestelijke raadgevingen van de H. M. Magdalena de Pazzi…, Amsterdam 1938, 142. SCHAMONI W., The face of the saints, Londra 1948, 279, v. 180. ID., Das wahse Gesicht der Heiligen, Monaco 1950, 188. ID., El verdadero rostro de los santos, Barcelona 1951, 198. ID., Le vrai visage des saints, Parigi 1955, 173.

4.4. Singole opere di s. M. Maddalena in varie lingue (sec. XVIII-XX) Francese SOLLAZZI A., Avis spirituels donnez par Saint Marie-Magdeleine de Pazzi…, Paris 1670, 143. [Contiene anche: Avis de Ste Therese a ses religieus, 10.] ID., Avis spirituels donnez par Saint Marie-Magdeleine de Pazzi…, Liege 16703. ID., Avis spirituels donnés par Saint Marie-Magdeleine de Pazzi: sur Tous les Devoirs et Toutes les vertus de la Vie Religieuse traduits de l’italien de Jean-Antoine Sollazzi, Clermond-Ferrand 1865, 186, 32. ID., Avis spirituels donnés par Saint Marie-Magdeleine de Pazzi: sur Tous les Devoirs et Toutes les vertus de la Vie Religieuse traduits de l’italien de Jean-Antoine Sollazzi, Clermond-Ferrand 1885, 6, 175. SOLASSI J.A., Avis spirituels; Sainte Marie-Magdeleine de Pazzi, Casterman, Paris-Tournai sd, 212. MARIA MAGDALENA DE’ PAZZIS, Les Quarante jours, a cura di G. Tuveri, Grenoble 2002, 217. ID., Les Huit jours de l’Esprit Saint: révelations et lumières, a cura di G. Tuveri, Grenoble 2004, 237.


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Spagnolo SOLLAZZI A., Avisos espirituales de S. María Magdalena de’ Pazzi […] “Avertencias” de Santa Teresa y la “Maximas” de la B. Francesca Ambrosia, a cura di A. Estany, Barcelona 1892, 144. STEGGINK O., Los cuarenta días, Madrid 1956, 4, 214. S. M. MADDALENA DE’ PAZZI, Avisos, a cura di M. de Pilar de la Figuera y Lopez Casal, Madrid 1959, 134. ID., Avisos y enseñanzas, Onda 1991, 134. ID., Éxtasis, amor y renovación. Revelaciones e inteligencias. Renovación de la Iglesia, a cura di A. Yubero, Madrid 1999, 296. Inglese S. M. MADDALENA DE PAZZI, The Complete Works of Saint Mary Magdalen de’ Pazzi (1566-1607), trad. ingl. G. Pausback, I, Middle Park 1969, 332. ID., The Complete Works of Saint Mary Magdalen de’ Pazzi (15661607), trad. ingl. G. Pausback, II, Middle Park 1974, 314. ID., The Complete Works of Saint Mary Magdalen de’ Pazzi (15661607), trad. ingl. del G. Pausback, III, Middle Park 1975, 316. ID., The Complete Works of Saint Mary Magdalen de’ Pazzi (15661607), trad. ingl. del G. Pausback, IV, Middle Park 1971, 317. ID., The Complete Works of Saint Mary Magdalen de’ Pazzi (15661607), trad. ingl. del G. Pausback, V, Middle Park 1973, 314.

5. TESTI

RIGUARDANTI I PROCESSI DI BEATIFICAZIONE E CANONIZZA-

ZIONE

Acta Canonizationis S. Petri Alcantara e S. M. Magdalenae de Pazzis. A Dominico Cappello collecta, Roma, Typis Fabij de Falco, 1669, 364. Summarium actionum, virtutum et miraculorum S. Dei M. Magadalenae de Pazzis OC: ex Processu Remissoriali


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Desumptorum, Saggi L. (ed.), Institutum Carmelitanum, Roma 1965.

STUDI 6. LIBRI 6.1. Libri – Contesto MARCHI F., Vita del R. frate Alessandro Capocchi, Firenze 1583, 74. PUCCINI V., Trattato della proprietà e peculio de’ Regolari…, Firenze 1619, 95. SACERDOTE DELLA COMPAGNIA DI GESÙ, Vita della Venerabil Madre Suor Maria Bagnesi Nobile Fior. Del Terz’Ordine di S. Domenico…, Firenze 1747, 155. ANONIMO, Breve Compendio della vita della B. Maria Bagnesi Terziaria Domenicana…, Parma 1804, 22. SACERDOTE DELLA COMPAGNIA DI GESÙ, Vita della Venerabil Madre Suor Maria Bagnesi Nobile Fior. Del Terz’Ordine di S. Domenico…, Parma 1804, 189. SACERDOTE DELLA COMPAGNIA DI GESÙ, Compendio Istorico della vita infermità e morte della B. M. Bartolomea Bagnesi Nobile Fior. Del Terz’Ordine di S. Domenico estratto dalla di lei vita scritta da un sacerdote della Compagnia di Gesù, Firenze 1805, 28. ANONIMO, Breve ragguaglio della produzione d’olio seguita o scoperta il dì 30 Maggio 1806 nel Venerabile Monastero di S. M. degli Angeli e S. M. Maddalena de’ Pazzi della B. M. Bartolomea Bagnesi verg. Fior. Del Terz’Ordine di S. Domenico…, Firenze 1807, 14. LITTA P., Famiglie celebri italiane: Pazzi di Firenze, Milano 1850, fasc. 128-129. ALFONSI TOMMASO M., La B. Maria B. Bagnesi Vergine fiorentina del Terz’Ordine di S. Domenico, Firenze 1904, 31. TACCHI VENTURI , I direttori spirituali di Caterina Pazzi, in S. Maria


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Maddalena de’ Pazzi; Terzo centenario della morte, Firenze 1907, 11-13. GANAY M. C., Les Biehneureuses Dominicaines (1190-1577)…, Parigi 1924, [B. M. B. Bagnesi] 504-554. GESUALDA DELLO S. SANTO, Una gloria carmelitana: il monastero di S. Maria degli Angeli, Roma 1926, 169. CATENA C., S. Maria Maddalena de’ Pazzi. Orientamenti spirituali e ambiente in cui visse, Roma 1966, 143. ID., Le Carmelitane. Storia e spiritualità, Roma 1969, 491. PAPASOGLI B., Gli spirituali italiani e il “grand siécle”, Roma 1983, 758. SCATTIGNO A., Una comunità testimone. Il monastero di Sana Maria degli Angeli e la costruzione di un modello di professiore religiosa in I monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco, a cura di G. Pomata – G. Zarri, Roma 2005, 175-189.

6.2. Libri – Spiritualità THOR SALVIAT S., La dottrina spirituale di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Firenze 1939, 33, 270. POURRAT, S. Marie-Madeleine de’ Pazzi de l’Ordre des Carmes, in La spiritualité chrètienne, Parigi 1947, 368-373. ANCILLI E., L’unione con Dio secondo S. Maria Maddalena de’ Pazzi: excerpta ex dissertatione ad lauream, Roma 1957, 39. [pubblicato anche Ephemerides Carmeliticae 8 (1957) 376-406]. ALBERTO DE LA VIRGEN DEL CARMEN, St. Maria Magdalena de’ Pazzi; vida, obras, doctrina, Madrid 1957, 345. PETROCCHI M., L’estasi nelle mistiche italiane della Riforma cattolica, Napoli 1957, [I rapimenti di M. Maddalena de’ Pazzi] 69-77. COGNET L., Storia della spiritualità moderna, Catania 1959, [M. Maddalena de’ Pazzi] 79-81. THOR-SALVIAT S., Secrets of a Seraph: the spiritual doctrine of St. Mary Magdalene de’ Pazzi, carmelite and mystic, trad. Sister Mary Minima, carmelite; a cura di G.N. Pausback, Fatima 1961, 190.


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ANCILLI E., Santa Maria Maddalena de’ Pazzi. Estasi – dottrina – influsso, Roma 1967, 286. ID., Maria Maddalena de’ Pazzi, santa, in Bibliotheca Sanctorum, VIII, Roma 1968-1987, coll. 1107-1131. BARSOTTI D., I “Quaranta giorni” di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, in Nella comunione dei Santi, Vita e Pensiero 1970, 279-297. S. Maria Maddalena de’ Pazzi, in Santi del Carmelo. Biografie da vari dizionari, a cura di L. Saggi, Roma 1972, 276-294. SECONDIN B., S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Esperienza e Dottrina, Roma 1974, 524. COGNET L., La Spiritualità moderna. La scuola francese 1500-1650, VI/1, Bologna 1974, [M. Maddalena de’ Pazzi] 286-287. ANCILLI E., La passione di Cristo in S. Teresa d’Avila e in S. M. Maddalena de’ Pazzi, La Sapienza della Croce oggi, II, Leumann – Torino 1976, 197-209. ID., Marie-Madeleine de’ Pazzi, in Dictionnaire de Spiritualité, X, Paris 1980, coll. 576-588. VERBRUGGHE E., The image of the Trinity in the works of St. Mary Magdalene, (excerpta ex dissertatione ad lauream), Roma 1984, 12, 145. ARBORELIUS A., Den brinnand pilen. Karmels mystik genom tiderna, Tagarp-Glumslöv 1986, [Maria Magdalena de’ Pazzi] 193. ANCILLI E., M. Maddalena de’ Pazzi, in Dizionario Enciclopedico di Spiritualità, a cura di E. Ancilli, II, Roma 1987, 1512-1515. MEZZADRI L., L’Italia spirituale, in C. BROVETTO – L. MEZZADRI – F. FERRARIO – P. RICCA, La Spiritualità cristiana nell’età moderna, V, Roma 1987, [M. Maddalena de’ Pazzi] 51-52. BORRIELLO L., Il sangue di Cristo in S. M. Maddalena de’ Pazzi, in Il mistero del Sangue di Cristo nella liturgia e nella pietà popolare. Atti del 3° Convegno pastorale, Roma 27-30 Dicembre 1988, a cura di A.M. Triacca, I, Roma 1989, 337-366. LÒPEZ MELÙS R. M., S. Maria Magdalena de’ Pazzi, Carmelita: Su vida y u doctrina, Onda 1991, 335. GENTILI A., Il compendio della mistica estatica: Maria Maddalena de’ Pazzi, in ID. – M. REGAZZONI (curr.), La spiritualità della


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6.3. Libri – Spiritualità mariana KLEY F. VAN DER, Marian mystic: a short life of S. M. Maddalena de’ Pazzi, Chicago 1957, 96. DELLANDREA S., La Madonna nella vita e negli scritti di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Ala 1979, 64, 5. CANDELORI F., Il mistero di Maria nella vita e nelle opere di. Maria Maddalena de’ Pazzi, Roma 1986, 15, 164.


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6.4. Libri – Linguaggio mistico BALDINI M., Il linguaggio dei mistici, Brescia 1986, [S. M. Maddalena de’ Pazzi] 63-76. SCATTIGNO A., Maria Maddalena de’ Pazzi: tra esperienza e modello, in Donna. Disciplina, creanza cristiana dal XV al XVII secolo, a cura di G. Zarri, Roma 1996, 85-101. POZZI G., L’identico e il diverso in Maria Maddalena de Pazzi, in Grammatica e retorica dei santi, Milano 1997, [Maria Maddalena de’ Pazzi] 163-200. BALDINI M., Parole dell’estasi, Cinisello B. 1997, [S. M. Maddalena de’ Pazzi] 63-65; 72-73. PIEKARZ D., Osservazioni sul carattere letterario delle Opere di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, in Italianità e Italianistica nell’Europa Centrale e Orientale. Atti del II Convegno degli Italianisti dell’Europa Centrale e Orientale. Cracovia, Università Jagellonica, 11-13 aprile 1996, a cura di S. Widlak, Cracovia 1997, 137-141. MAGGI A., Uttering the word: The mystical performance of Maria Maddalena de’ Pazzi a renaissance visionary, Albany NY 1998, 201. ZARRI G., Le scritture religiose, in Carte di donne. Per un censimento regionale della scrittura delle donne dal XVI al XX secolo. Atti della giornata di studio Firenze, Archivio di Stato, 5 marzo 2001, a cura di A. Contini – A. Scattigno, Roma 2005, 45-58. PAGLIAI I., Gli archivi dei monasteri femminili fiorentini: tipologie e questioni di metodo, in Carte di donne. Per un censimento regionale della scrittura delle donne dal XVI al XX secolo. Atti della giornata di studio Firenze, Archivio di Stato, 5 marzo 2001, a cura di A. Contini – A. Scattigno, Roma 2005, 101-111.

6.5. Libri – Devozioni ALTOBELLI R., La meditazione delle sette effusioni di sangue di Cristo nella coroncina, in Il Mistero del sangue di Cristo nella liturgia e


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Chiara Vasciaveo

nella pietà popolare, II, Roma 1989, [Maria Maddalena de’ Pazzi] 24-25. SANTINA D., Preghiera al sangue di Cristo, in Il Mistero del sangue di Cristo nella liturgia e nella pietà popolare, II, Roma 1989, [Maria Maddalena de’ Pazzi] 130-131. AZZOLINI G, La saggia pazzia. Orazione duodecima in lode della B. Maria Maddalena de’ Pazzi, carmelitana osservante, in Scrittori salentini di pietà fra Cinque e Settecento, a cura di M. Marti, Galatina 1992, 145-159. ANCILLI E., Un adoratrice del sangue di Cristo: Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, in Il Sangue che rivela l’amore, Roma, 321326.

6.6. Libri – Arte RÈAU L., Iconographie de l’art chétien, II, Parigi 1955-1959, [M. Madeleine de’ Pazzi] 888-889. PACINI P., Alcune immagini inedite di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, in Scritti di storia dell’arte in onore di R. Salvini, Firenze 1984, 529535. ROSENBAUM – DONDAINE C., L’image de piété en France 1814-1914, II, Parigi 1984, [S. M. Maddalena de’ Pazzi] 74. PACINI P., Alcune immagini inedite di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, in Scritti di storia dell’arte in onore di R. Salvini, Firenze 1984, 529535. CORREA J., S. Agustín escribiendo en el corazón de S. Maria Magdalena de’ Pazzi, in Arte y mística del barroco…, México 1994, 385, [Maria Maddalena de’ Pazzi] 288-290. BARZMAN K., Sacred imagery and the religious lives of women 16501850 in Women and faith. Catholic Religious Life in Italy from late antiquity to the present, a ura di L. Scaraffia, Harvard University Press, Cambridge 1999, [S. M. Maddalena de’ Pazzi] 231-248; 358-360. VASCIAVEO C., S. Maria Maddalena Icona della Chiesa di Firenze. Presentazione del ciclo iconografico su S. M. Maddalena di


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Firenze realizzato da Sr M. Benedetta…, Firenze 2007. PACINI P. (cur.), S. Maria Maddalena de’ Pazzi. Santa dell’Amore non amato, Firenze 2007, 197.

6.7. Libri – Miscellanea La scuola di s. Maria Maddalena de’ Pazzi…, Modena, 1873, 116. Santa Maria Maddalena de’ Pazzi : ricordo del terzo centenario della morte…, Firenze 1907, 17. La mente e il cuore di S. Maria Maddalena de Pazzi, vergine fiorentina dell’ordine della BB. Vergine Maria del Monte Carmelo / opera compilata dal Pio M. Moncini del medesimo ordine in occasione del III centenario della morte della santa ricorrente il 25 Maggio 1907, Firenze 1906, 287. CASNATI F., I Mistici, Milano 1925, [S. M. Maddalena de’ Pazzi] 57-59. BUCCI G., S. Maria Maddalena de’ Pazzi, in Santi Italiani Mistici, a cura di J. De Blasi, Firenze 1947, [Maria Maddalena de’ Pazzi] 445471. SCHAMONI W., Das wahre Gesicht der Heiligen, New York 1975, [St. M. Maddalena de’ Pazzi] 258-259. BONDANI V., Ti rivelasti ai piccoli: Alessandro Berti [Affinità con S. M. Maddalena de’ Pazzi], Roma 1977, 190. Gebete grosser Menschen, a cura di Sr M. Lucia Mordestien OCD, Graz-Wien-Köln 1978, [S. M. Maddalena de’ Pazzi] 58.102.134135. DITTAMI M., St. Mary Magdalene de’ Pazzi in Family Lives of the Saints, Darien Illinois 1979, 161-165. LOPEZ-MELÙS R.M., Vida de Santa Maria Magdalena de’ Pazzi, Madrid-Siviglia 1980, 63. BUNICCI G., Sulle orme di una santa nel Chianti, fotografie di G. Conti Ginori, Firenze 1981, 93. VERAJA F., La beatificazione. Storia, problemi, prospettive, Roma 1983, [S. M. Maddalena de’ Pazzi] 64.87.108.125. POZZI G., Le parole dell’estasi, Milano 1984, 198.


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Esercitazione in Ascetica e Mistica, Pontificia Università Lateranense, pro manuscripto, Roma 1967-1968, 54. SECONDIN B., Gesù Cristo – Chiesa – Vita religiosa : esperienza e dottrina di S. M. Maddalena de’ Pazzi, Universitas Gregoriana, pro manuscripto, Roma 1974, 448. [edito: SECONDIN B., S. M. Maddalena de’ Pazzi. Esperienza e Dottrina, Inst. Carmelitanum, Roma 1974, 524] ZANINELLI T., S. Maria Maddalena de’ Pazzi e l’ambiente in cui visse, Tesi di licenza in Lettere, Università di Friburgo, pro manuscripto, Locarno 1986, 158. VERBRUGGHE E., The image of the Trinity in the works of St. Mary Magdalene, pro manuscripto, Gregoriana, Roma 1983, 325. [edito: VERBRUGGHE E., The image of the Trinity in the works of St. Mary Magdalene, (excerpta ex dissertatione ad lauream), Roma 1984, 12, 145] CANDELORI F., Il mistero di Maria nella vita e nelle opere di. Maria Maddalena de’ Pazzi, Marianum, pro manuscripto, Roma 1985, 417, 78. [edito: CANDELORI F. M., Il mistero di Maria nella vita e nelle opere di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, Marianum, Roma 1985, 15, 164] ANTONIOLI L., «Lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni Signore Gesu’!». Lo Spirito Santo nella vita e nel pensiero di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, Tesi di Licenza in Teologia Dogmatica, Gregoriana, pro manuscripto, 1999-2000, 179. SERENA E., Maria Maddalena de’ Pazzi e l’espressione dell’estasi, Tesi di laurea Facoltà di Lettere Padova, pro manuscripto, 2004-2005, 82. MONTI F., I Colloqui di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi: documento di “parlato riportato” fiorentino cinquecentesco, Tesi di laurea Facoltà di Lettere e Filosofia – Laurea Specialistica in Linguistica, Libera Università M. SS. Assunta, Roma, pro manuscripto, 2005-2006, 238. DONIEC G., Œwieta Maria Magdalena de’ Pazzi w barokowyn krakowie czyli analiza «Lilii Florenckiej albo cudownego ¯ywotu


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serafickiej panny…», Tesi di Magistero, Università Jagellonica – Dipartimento di Lettere, Cracovia 2007, 153. CAMILLERI C., Union with God as Transformation in Beauty. A Literary-Spiritual Analysis of the Colloquies of Santa Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607), Tesi di laurea in Teologia Spirituale, Gregoriana, pro manuscripto, Roma 2007, 223. LOIODICE V., Regola e Statuti delle Monache di S. Maria delli Angeli di Fiorenza, Tesi di laurea specialistica in Archivistica e Diplomatica, Università di Roma Tor Vergata, pro manuscripto, Roma 2009, 209. [Importante raccolta diplomatica di materiali inediti sui primi cento anni di vita del Carmelo fiorentino, fino alle Costituzioni del 1564]

8. ARTICOLI E RECENSIONI 8.1. Articoli – Fonti VINCENZO DELLA CROCE, Gli originali di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, in Rivista di Vita Spirituale 2 (1948) 447-463. GETTO G., La letteratura ascetico-mistica in Italia nell’età del concilio di Trento e della Controriforma, in Belfagor (1948) 51-77. ANCILLI E., I manoscritti originali di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, in Ephemerides Carmeliticae 7 (1956) 323-400. COLOSIO I., Il primo volume della edizione di tutte le opere di S. M. Maddalena de’ Pazzi, in Rivista di Ascetica e Mistica 6 (1961) 124-126. ERMANNO DEL SS. SACRAMENTO, “Il libro dei quaranta giorni”, in Rivista di Vita Spirituale 15 (1961) 88-93. PETERS C., De werken van M. Magdalena de’ Pazzi, in Tijdschrift voor Geestelijk Leven 17 (1961) 275-278. COLOSIO I., Il terzo volume delle opere di S. M. Maddalena de’ Pazzi, in Rivista di Ascetica e Mistica 10 (1965) 102-103. Una lettera di S. M. Maddalena de’ Pazzi ai Minimi di Firenze, in Bollettino Ufficiale dei Minimi 11 (1965) 274-285.


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DOGLIO M. L., S. Maria Maddalena de’ Pazzi: Opere, in Rivista di storia e letteratura religiosa 2 (1966) 353-359. ID., Recensione a: S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Opere, in Rivista di storia e letteratura italiana 2 (1966) 353-359. MARIA MADDALENA DE’ PAZZI, [Una lettera inedita] di SMMP, in E. ANCILLI (cur.), in Rivista di Vita Spirituale 21 (1967) 129-130. [datata 20.3.1602 in possesso delle domenicane S.M. del Sasso presso Bibbiena] BARSOTTI D., Il primo libro scientifico su tutta la dottrina di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, in Rivista di Ascetica e Mistica 12 (1967) 396-398. SECONDIN B., Tutte le opere di S. Maria Maddalena de’ Pazzi dai manoscritti originali, in Rivista di vita spirituale 21 (1967) 286-296. COLOSIO I., Rassegna delle principali edizioni critiche dei mistici italiani durante l’ultimo venticinquennio (1945-1970): II. I mistici dei secoli XVI, XVII, XVIII, in Rassegna di Ascetica e Mistica 23 (1972) 37-49. MARIA MAGDALENA DE PAZZIS, Selection from the writings of St. Mary Magdalen de’ Pazzi, in Carmel in the World 11 (1972) 62-75. VASCIAVEO C., Radici ecclesiali dell’esperienza mistica di Maria Maddalena di Firenze. Note introduttive sulla biblioteca monastica, in Synaxis 1 (2006) 41-86. [Individuate bozze di lavoro delle parole dettate dalla Santa]

8.2. Articoli – Biografia CANAL A., Biografia maddaleniana, in Palestra del clero 56 (1977) 9971004. ID., [recensione] B. PAPASOGLI – B. SECONDIN, La parabola delle due spose, in Presenza del Carmelo 13 (1977) 91-94. S.T.M., [recensione] B. PAPASOGLI – B. SECONDIN, La parabola delle due spose, in Rivista di vita spirituale 31 (1977) 352-367.


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8.3. Articoli – Contesto storico MINOCCHI R., Il Alessandro Capocchi, religioso domenicano di S. Maria Novella, in Memorie Domenicane 29 (1912) 431-445. CARMELO S. MARIA DEGLI ANGELI, Una novizia di S. M. Maddalena de’ Pazzi: suor M. Benedetta Vettori, in Il Monte Carmelo 28 (1942) 105-109. ID., Caterina Ximenes, novizia di S. M. Maddalena de’ Pazzi, in Il Monte Carmelo 28 (1942) 119-123. ID., Ginevra del Giocondo, novizia di S. M. Maddalena de’ Pazzi, in Il Monte Carmelo 28 (1942) 168-170. ID., Caterina Gianfigliazzi, novizia di S. M. Maddalena de’ Pazzi, in Il Monte Carmelo 29 (1943) 23-24. ID., Camilla de’ Pazzi, novizia di S. M. Maddalena de’ Pazzi, in Il Monte Carmelo 29 (1943) 87-91; 106-109. ID., Suor Maria Arcangela, connovizia conversa di S. M. Maddalena de’ Pazzi, in Il Monte Carmelo 32 (1946) 6-13. ID., La beniamina di S. M. Maddalena de’ Pazzi: Maria de’ Berti, in Il Monte Carmelo 32 (1946) 50-53. ID., Francesca Sommai, novizia di S. M. Maddalena de’ Pazzi, in Il Monte Carmelo 32 (1946) 81-86. ID., S. Maria degli Angeli, in Rivista di Vita Spirituale 4 (1950) 132-151. ID., S. M. Maddalena de’ Pazzi, in Rivista di Vita Spirituale 4 (1950) 152166. THERESA DEL NIÑO JESUS, Cinco siglos de vida carmelitana en Santa Maria de los Angeles, trad. C. Moreno, in El Santo Escapulario 47 (1951) 17-19; 43-45; 63-66; 84-85; 134-136; 164-166. CATENA C., Antiquae Constitutiones Monialium Carmelitanarum, in Analecta Ordinis Carmelitarum 17 (1952) 195-326. TERESA DEL B. GESÙ, La confidente di S. M. Maddalena de’ Pazzi, Suor M. Pacifica del Tovaglia, in Vita Carmelitana (Bari) 16 (1954) 13. CATENA C., Le donne nel Carmelo italiano, in Carmelus 10 (1963) 9-55. ID., Ambiente del monastero di S. Maria degli Angeli ai tempi di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, in Carmelus 13 (1966) 21-96. ID., Lo spirito del Carmelo in S. Maria Maddalena de’ Pazzi (15661607), in Rivista di Ascetica e Mistica 12 (1967) 449-460.


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LE BRUN J., Censure préventive et littérature religieus en France au début du XVIII siècle, in Revue d’historie de l’Eglise d France 61 (1975) 201-225, [Vita di S. Maria Maddalena de’ Pazzi del Puccini] 213. ZANINELLI T., Influssi culturali nell’esperienza mistica di S. Maria Maddalena de’ Pazzi, in Rivista di Ascetica e Mistica 61 (1992) 46-74. VERDE A., Il movimento spirituale savonaroliano fra Lucca – Bologna – Ferrara – Pistoia – Perugia – Prato – Firenze, in Memorie Domenicane NS 25 (1994) 5-206. STROPPA S., L’«Ars meditandi» nel Seicento mistico, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 3 (2005), 515-536. [Mistica – Ugo di Balmes o Balma – Riccardo di san Vittore – Jean Gerson – Giovanni Bona – Miguel de Molinos – Francois Malaval – Virgilio Cepari – Maria Maddalena de Pazzi] PACINI P., L’incontro di Maria de’ Medici con S. Maria Maddalena de’ Pazzi…, in Città di Vita 2 (2007) 125-149.

8.4. Articoli – Spiritualità DEI P. B., Le speranze di S. Maria Maddalena de’ Pazzi in Sisto V per l’opera della Rinnovazione della Chiesa. Estratto da Studi Francescani 4 (1922), Arezzo 1922, 24. BORDOY-TORRENTS M., La Santa de Floréncia, in La Paraula Cristiana 69 (1930) 224-233; 84 (1931) 506-516. CARMELO DI S. MARIA DEGLI ANGELI, S. M. Maddalena de’ Pazzi, in Rivista di Vita Spirituale 2 (1950) 132-151.152-166. JIMÉNEZ DUQUE B., St. M. Magdalena de’ Pazzi, in Revista de Espiritualidad 9 (1950) 161-166. ID., Santa Maria degli Angeli. St. M. Magdalena de’ Pazzi, in Rivista di Vita Spirituale 4 (1950) 132-151. ERMANNO DEL SS. SACRAMENTO, Offerta di tutte le creature al Verbo fatta in estasi da S. M. Maddalena, in Rivista di Vita Spirituale 6 (1952) 382-398. LARKIN E., Meet Saint Mary Magdalen, in The Sword 4 (1952) 46-49.


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INTRODUZIONE ALL’ETICA SACRAMENTARIA, OVVERO ANCORA SULLO SPECIFICO DELL’ETICA CRISTIANA

MAURIZIO ALIOTTA*

È possibile svolgere un “trattato” di etica sacramentaria?1. Tenteremo qui di giustificare come sia possibile farlo. Cominciamo con una explicatio terminorum, in quanto che con “etica dei sacramenti” si possono intendere cose diverse tra di loro. Il retto modo di celebrare i sacramenti (a) Il retto comportamento per ricevere i sacramenti (b) Il modo di essere che scaturisce dalla celebrazione dei sacramenti (c) Ci troviamo di fronte a tre punti di vista che non sono necessariamente contrastanti, anzi possono essere complementari, tuttavia indicano tre punti di vista certamente diversi tra di loro, che possono originare convinzioni inconciliabili e irriducibili l’una all’altra. Le differenze sono di ordine antropologico ed ecclesiologico. Quelle di ordine antropologico sono in relazione alla comprensione della persona umana nell’orizzonte dell’economia sacramentale; detto diversamente, significa che molto dipende da come si concepisce la propria identità personale a partire dall’esperienza della celebrazione liturgica. Quelle di ordine ecclesiologico sono in * Docente di Antropologia soprannaturale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 La domanda è retorica, poiché di fatto la ratio studiorum dello Studio teologico “San Paolo” di Catania la contempla come Teologia morale III (etica dei sacramenti).


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relazione alla comprensione dell’essere ecclesiale come istituzione o come “sacramento”. La prima accezione del genitivo (a) indica soprattutto un modo giuridicista e rubricistico di comprendere e vivere i sacramenti; la seconda (b) rinvia ad una comprensione moralistica in cui l’azione dell’uomo sta in primo piano; la terza (c) denota una antropologia dove in primo piano non c’è l’azione dell’uomo, ma la sua radice, cioè l’essere stesso dell’uomo; denota una ecclesiologia dove in primo piano vi è l’azione dello Spirito, che plasma l’essere personale. La proposta che formuliamo è di un corso di etica dei sacramenti che si muova nella prospettiva dell’identità personale fondata dall’esperienza cristiana, in particolare l’esperienza caratterizzante della “liturgia cristiana”, nella prospettiva della divinizzazione operata dallo Spirito che agisce nella Chiesa che “celebra”2.

1. IL QUADRO DI RIFERIMENTO ESSENZIALE 1.1. L’ethos Ethos anthrōpō daimōn: «l’ethos è all’uomo demone»3; così suona il noto frammento presocratico. Ciò significa che l’ethos è 2

A questo proposito bisogna ricordare che Sacrosanctum Concilium, senza titubanze, afferma che «Cristo è sempre presente nella sua Chiesa e in modo speciale nelle azioni liturgiche» (SC 7). Per la discussione teologica del dopo Concilio Vaticano II sulla presenza e l’azione di Cristo e dello Spirito nella Liturgia della Chiesa, cfr. C.E. O’NEILL, Incontro con Cristo nei sacramenti, trad. it., Assisi 1968, 28-45; M.G. WITCZAK, The Mainfold Presence of Christ in the Liturgy, in Theological Studies 59 (1998) 680-702; J.M. KUBICKI, Recognizing the Presence of Christ in the Liturgically Assembly, in Theological Studies 65 (2004) 817-837; M. RUBINI, Iniziazione cristiana e deificazione nella tradizione ecclesiale orientale, Terlizzi 2005. 3 Questa la traduzione proposta da G. RUGGIERI, La compagnia della fede, Torino 1980, 158; invece in A. PASQUINELLI, I presocratici I, Torino 1976, 192 leggiamo «Il carattere è il demone dell’uomo». L’aspetto della dimora prevale nell’interpretazione heideggeriana: «Der (geheure) Aufenthalt ist dem Menschen das Offene für die Anwesung des Gottes (des Un-geheuren)» (M. HEIDEGGER, Über den Humanismus, in ID., Platons Lehre von der Wahrheit, Bern2 1954, 106 ss.). La traduzione di ethos come carattere è esatta, ma è preferibile l’interpretazione di ethos come “dimora”,


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dimora dell’uomo, nel senso che è il «luogo dove egli dà dignità alla sua esistenza. Per questo l’ethos dell’uomo è anche il suo “carattere”, ma in un modo che va fino all’essenza dell’uomo, giacché nel luogo dove abitualmente l’uomo si colloca è la sua essenza che viene a manifestarsi. Invertendo allora i termini della traduzione sopra proposta si può dire: dio è dimora all’uomo. Il divino, il demoniaco, la potenza dentro cui si radica la peculiarità dell’essere umano è la sua dimora, il suo “carattere”»4. Questa “dimora” divina è il luogo abitato dal cristiano? Il cristiano abita, in realtà, molti luoghi e, di più, egli stesso è un “luogo abitato”: «[Cristo] annichilì se stesso prendendo natura di servo, diventando simile agli uomini …» (Fil 1,7); Dio prende una dimora “tra/in” noi. «Non sono più io che vivo, ma Cristo …» (Gal 2, 20). La metafora della “dimora”, per essere più precisi del “dimorare”, del “prendere dimora”, nella tradizione biblica rinvia ad una relazione tra Dio e il suo popolo. Il dimorare stabilisce una relazione tale che i soggetti coinvolti sono chiamati a riformulare la propria esperienza attorno ad un nuovo centro. (Non è un caso che il “carattere” del rapporto tra Dio e popolo venga descritto nelle Scritture anche con la metafora sponsale: nell’esperienza umana l’incontro sponsale invita a riformulare la propria stessa identità a partire dalla relazione con l’altro; i due sposi diventano l’uno dimora dell’altro). La presenza di Dio dà luogo ad una “nuova soggettività”! Nuova rispetto alla propria autocoscienza, alla percezione immediata di sé (segnata dal peccato), alla pretesa di autoaffermazione, Di “nuova soggettività” in realtà si può parlare in molti contesti, per es. nel contesto della modernità col cambiamento del concetto di natura, oggi di fronte ai tanti mutamenti culturali (e secondo alcuni di veri e propri mutamenti antropologici). La novità a cui ci riferiamo, nel nostro contesto, è quella dell’evangelo: l’apertura dell’uomo all’azione di Dio, al superamento dell’io autocentrato per aprirsi all’incontro con l’Altro e con gli altri, al riconoscimento dell’alterità come parte della data da Ruggieri, sulla scia di Heidegger. Nelle note che seguono tiriamo le conseguenze della prospettiva elaborata da G. Ruggieri nel testo sopra citato. 4 G. RUGGIERI, La compagnia della fede, cit., 158.


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stessa identità. L’alterità di Dio non è percepita come estraneità alienante, ma come gratuità datrice di senso e pienezza. Ora, storicamente l’uomo può sperimentare questa presenza che apre al “nuovo” nell’evento Gesù di Nazaret, dimora di Dio tra gli uomini, e nella comunità che ne è il prolungamento nella storia. È nella vita concreta di questa comunità, nei “luoghi” che manifestano la sua natura intima, che l’uomo ritrova il suo ethos. Da qui l’etica dei sacramenti, che nasce — nella prospettiva assunta — dalla logica stessa dei sacramenti. A questo proposito bisogna ricordare che la loro materia — secondo la teologia scolastica — è costituita dalla nostra realtà creaturale. Essi ci ricordano perciò la logica propria della fede cristiana. La salvezza umana — di cui i sacramenti sono “segno e strumento” — annunciata nel vangelo passa dall’assunzione della “carne”. Nell’incarnazione non vi è un atto creativo diverso rispetto a quello originario con cui il mondo è chiamato alla vita. Dio ha assunto l’umanità concreta, con il suo peccato, mostrando una condiscendenza che è, questa sì, atto di novità assoluta. La nuova creazione in Gesù Cristo è una ri-creazione, come insegnano i Padri. «Ciò sta a significare che la Chiesa, convocata a raccolta per annunciare alle nazioni e testimoniare in se stessa la salvezza preparata di Dio, annuncia e testimonia questa salvezza non già perché è capace di tirar fuori dal segreto un contenuto assolutamente inedito del desiderio umano, ma perché redime, ri-forma, conferisce una diversa logica, attinta nella fede e nella sequela del suo Signore, al desiderio della creatura storicamente configurato»5. La quintessenza della logica biblica della fede è, paradossalmente, il superamento del desiderio umano portandolo al suo pieno compimento.

1.2. I sacramenti Sono luogo/espressione del superamento e compimento del desiderio. Essi, infatti, accompagnano le tappe fondamentali dell’esi5

Ibid., 138.


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stenza umana, ne esprimono la sua peculiare coscienza (nascita, morte, amore, …) rispetto alle altre creature, nello stesso tempo, però non sono riducibili o identificabili con esse; le superano, hanno un significato “altro”, gratuito rispetto alla necessità naturale. I sacramenti posseggono questo carattere di duplicità dell’esperienza umana: la tendenza a restare chiusi in sé e ad uscire da sé. La loro struttura è teandrica: azione dell’uomo e azione di Dio agiscono in “sinergia”. Sono atti eminentemente umani, ecclesiali e divini, per la presenza dello Spirito che vi agisce. La dimensione etica dei sacramenti si deve comprendere in questa prospettiva, che a ben vedere è trinitaria6: dalla prospettiva trinitaria consegue che «la cooperazione divino-umana, che è obiettivamente messa in atto nel culto, dev’essere realizzata soggettivamente mentre la comunità è radunata e quando è dispersa»7. Questa affermazione di Rosato orienta la nostra riflessione nel senso voluto: etica dei sacramenti significa in definitiva considerare il rapporto tra liturgia e prassi, non in modo estrinseco ma intrinseco; si considerano cioè i rapporti tra l’essere ecclesiale che si manifesta nella liturgia e l’essere ecclesiale della persona, membro della comunità che celebra. Il rapporto tra liturgia e vita non è però un dato scontato, non solo per una questione di incoerenza personale, ma anche per una “tensione” costitutiva tra culto e vita nell’esperienza cristiana. Lo ha acutamente notato Chauvet8. È una “tensione autenticamente evangelica” (Chauvet), perché nasce dalle parole di Gesù, secondo cui noi siamo chiamati «ad adorare il Padre in spirito e verità» (Gv 4, 23-24). Non sempre il “sacro” è cristiano, anche se la fede non può metterlo da parte. Vi sono due modi di fraintendere il rapporto tra culto e vita: • Opponendo la pratica etica alla pratica rituale • Riducendo la tensione che deve esserci tra le due. 6 Cfr. l’Introduzione di Ph. ROSATO in T. GOFFI – G. PIANA (curr.), Corso di morale, V, Brescia 1995,13 ss. 7 Ibid., 71. 8 L.-M. CHAUVET, Simbolo e sacramento. Una rilettura sacramentale dell’esistenza cristiana, trad. it., Torino-Leumann 1990 [1987], 159-184.


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Dice a proposito Chauvet: «La prima tentazione è quella che oggi più ci minaccia: la “vita”, l’impegno profetico, la sincerità dell’intenzione, l’urgenza dell’evangelizzazione avrebbero l’aureola di tutti i prestigi dell’ “autenticità”, mentre i “riti, il “sacerdozio”, l’istituzione, la sacramentalizzazione porterebbero tutti i peccati del mondo: ricupero, alienazione, gli arcaismi più torbidi …»9. Una simile opposizione è giudicata da Chauvet antropologicamente ingenua e teologicamente insostenibile. Anche la negazione della tensione, però, è altrettanto perniciosa. Ancora Chauvet: «La Chiesa andava così bene quando supersacramentalizzava in modo sereno? E va così male, come si sente talvolta dire oggi, per la semplice ragione che gestisce le sue pratiche rituali in modo meno confortevole? Ma non è l’implacabile tensione tra il polo sacramentale dell’istituzione e il polo etico della verifica che la tiene evangelicamente in piedi e in buona salute sotto la “legge dello Spirito”?»10. Possiamo comprendere meglio le motivazioni profonde di questa tensione dialettica, che non possiamo negare né ridurre, collocandola nella prospettiva più ampia del rapporto tra legge e vangelo. Perché di questo in fondo si tratta11.

2. SACRAMENTI E MORALE CRISTIANA La prassi orientata al bene: così potremmo definire l’etica che si fonda sulla nuova soggettività che scaturisce dall’incontro con Dio. Come ho detto sopra, luogo privilegiato, sebbene non esclusivo, dell’esperienza “cristiana” è la liturgia. Come “culmine e fonte” della vita cristiana è l’esperienza che forma il soggetto, gli conferisce una identità peculiare, perché attraverso di essa l’uomo è “divinizzato”. 9

Ibid., 159. L.c. 11 Cfr. le osservazioni di G. RUGGIERI in La compagnia della fede, cit., 159 riprese poi in Legge e Vangelo, in ID., La verità crocifissa. Il pensiero cristiano di fronte all’alterità, Roma 2007, 141-157. 10


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2.1. Il binomio sacramenti – etica cristiana nella storia della morale La tradizione patristica ha legato fortemente la morale, come orientamento della prassi al bene, ai sacramenti precisamente per questo motivo: dalla liturgia, in primo luogo l’Eucaristia, ma anche gli altri sacramenti, deriva l’essere del cristiano. Una espressione evidente di questa concezione ce la fornisce la catechesi mistagogica. Così si esprime per es. sant’Ambrogio in un noto passaggio del suo trattato “Sui misteri”: «Ogni giorno abbiamo tenuto un discorso su temi morali mentre si leggevano o le gesta dei patriarchi o gli insegnamenti dei Proverbi, perché modellati e ammaestrati da essi, vi abituaste a entrare nelle vie degli antichi, a percorrere la loro strada e a obbedire agli oracoli divini, cosicché rinnovati dal battesimo teneste quella condotta che si addice ai battezzati. Ora è venuto il tempo di parlare dei misteri e di spiegare la natura dei sacramenti. Se lo avessi fatto prima del battesimo ai non iniziati, avrei piuttosto tradito che spiegato questa dottrina. C’è anche da aggiungere che la luce dei misteri riesce più penetrante se colpisce di sorpresa anziché arrivare dopo le prime avvisaglie di qualche sommaria trattazione previa»12.

In questo testo osserviamo quasi due livelli di insegnamento morale: quello che nasce dagli exempla dei padri nella fede, quello che deriva dai misteri celebrati. In questo secondo caso, si sottolinea la sua efficacia perché nasce da ciò che si è vissuto, non è frutto di un semplice insegnamento (moralismo), ma da un mutamento che il sacramento opera nella persona. Nella tradizione greca è presente l’idea di una funzione pedagogica e morale della liturgia. Ce ne fornisce un esempio significativo san Massimo il Confessore. Egli parla di un “apprendistato” e di un “insegnamento” dell’anima da parte della liturgia13. Ciò contribuisce ad una formazione concreta dell’anima, sia sul piano etico, il piano pratico, sia sul piano della contemplazione naturale, come la definisce 12 13

Sui misteri, nn° 1ss; SC 25 bis, 156 ss.; sottolineatura mia. Cfr. Mistagogia XXIII, PG 91, 700.


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san Massimo, anche se ancora in modo propedeutico. Di più, per Massimo il Confessore la liturgia agisce oggettivamente sull’anima, a motivo dell’azione della grazia dello Spirito Santo che vi opera: «[Oltre l’azione degli angeli, che è la prima, vi è quella] della grazia dello Spirito Santo, sempre invisibilmente presente, soprattutto in maniera speciale durante il tempo della santa sinassi, la quale cambia e trasforma ciascuno di coloro che vi si trovano, modellandolo veramente secondo ciò che vi è di più divino in lui e conducendolo verso ciò che è prefigurato dai misteri che si compiono, anche se lui stesso non lo avverte ancora ed è ancora tra quelli che sono fanciulli in Cristo, non potendo vedere né fino alla profondità di ciò che si compie, né la grazia stessa della salvezza che opera in lui, che si manifesta mediante ciascuno dei diversi simboli che si compiono, e che procede secondo l’ordine e la successione delle cose più prossime fino alla fine di tutto»14.

San Massimo afferma con forza l’azione trasformatrice della sinassi eucaristica. In un passaggio immediatamente successivo ricapitola gli effetti della liturgia sull’anima, specificando come questo cambiamento si opera nelle singole parti della liturgia. Così per es. «nella prima entrata, il rifiuto dell’incredulità, l’aumento della fede, la diminuzione della malizia, il progresso delle virtù, la scomparsa dell’ignoranza, lo sviluppo della conoscenza; udendo le divine parole, le disposizioni abituali e gli atteggiamenti fermi e immutabili delle cose che sono state dette, cioè a dire della fede, della virtù e della conoscenza; mediante il cantico divino che segue, il consenso deliberato dell’anima alla virtù e il godimento e la gioia intellettuale che questi fanno nascere in essa»15. La liturgia è presentata dalla Chiesa ai fedeli come via di perfezione nelle sue varie tappe e attraverso i suoi simboli. Con gli occhi della fede fa scorgere i misteri ultimi di cui faranno esperienza coloro che ne saranno degni. La dimensione escatologica non nega però la realtà attuale della liturgia: essa già ora permette di percorrere questa 14 15

Mistagogia XXIV, PG 91, 704 A. L.c.


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via di perfezione, nella misura in cui ciascuno è recettivo della grazia divina che comunica. In questo contesto diventa significativo l’impegno ascetico per conservare questa grazia nella purezza del cuore e farla fruttificare nella virtù e nella conoscenza. Secondo questa antropo-teologia la morale è “secondaria”, viene ciò come conseguenza di ciò che è “primario”: la grazia, a cui corrisponde l’azione dell’uomo. Questa azione si caratterizza almeno per due elementi fondamentali: • È un’azione ricettiva, nasce come risposta. Non è un’azione fondata sul desiderio proprio, da cui scaturisce per es. la ricerca della felicità; quest’azione è fondamentalmente risposta. Una conseguenza per la morale è che il soggetto morale non è un io auto-centrato, ma un io aperto, la cui identità anzi è strutturalmente connotata da questa apertura. Diversamente, con un io autoreferenziale, è difficile una vita eticamente connotata. • La responsabilità dell’uomo — il soggetto morale — non è diminuita o addirittura abolita, al contrario è fondata: oggi diremmo che diventa respons-abile, capace di rispondere. Secondo il pensiero di Massimo il Confessore, la liturgia mostra nei suoi momenti successivi le differenti tappe della vita spirituale che deve condurre il cristiano fino alla divinizzazione e, con la grazia di Dio che comunica, essa contribuisce a camminare verso di essa. Si può ben dire che la liturgia introduce al mistero della divinizzazione e che la divinizzazione appare come il termine della mistagogia liturgica. Pur limitandoci a questo esempio, in termini generali si può affermare che la morale dei Padri è fortemente legata all’idea di divinizzazione e al suo presupposto antropologico. Il Medioevo bizantino si pone in continuità con questa antropoteologia, legando fortemente l’etica alla vita spirituale, che ha il suo fondamento proprio nei sacramenti16. Nel medioevo latino la teologia 16

Cfr. l’opera di Nicola Cabasilas. In particolare N. CABASILAS, Interpretazione della divina liturgia , in PG 150, 392 e tutto il libro V della più nota Vita in Cristo, trad. it., Torino 1971. Cfr. A.G. KESSELLOPULOS, La Vita Spirituale secondo Nicola Cabasilas, in Santità: Vita nello Spirito, a cura di P. Zilio e L. Borgese, Magnano (BI) 2003.


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sacramentaria solitamente non partiva dal “rito” per riflettere sulla natura del sacramento. Si trattava soprattutto di una riflessione “intellettuale” sul sacramento in sé, considerandone la materia, la forma, l’efficacia prescindendo dalla concreta celebrazione, dal rito appunto. Ne consegue un certo indebolimento del legame tra sacramento e agire morale17. La cornice entro la quale si colloca la ricerca della salvezza non è più la prospettiva della divinizzazione entro la quale l’uomo è trasformato dall’azione dello Spirito divinizzante nei sacramenti, ma l’impegno dell’individuo mediante «un’organizzazione delle mediazioni umane e spirituali grazie alle quali l’uomo è in grado di percorrere il cammino della salvezza e di ritrovarlo se lo ha lasciato»18. Per comprendere il perché di questa diversa prospettiva rispetto alla tradizione patristica greca e orientale, in genere, bisogna ricordare il contesto socio-culturale dell’Occidente latino. Un elemento fondamentale, non l’unico ma certamente determinante, fu lo strutturarsi della vita socio-politica del mondo francogermanico (impero carolingio) in funzione delle tre relazioni fondamentali per l’esistenza umana, alle quali si è mostrata particolarmente sensibile la mentalità indoeuropea: uomo-natura, uomouomo, uomo-divinità. G. Lafont sostiene che «l’ambiente originale franco o germanico nel quale si è inserito il cristianesimo occidentale ha organizzato queste tre relazioni fondamentali secondo una trilogia di funzioni insieme simboliche e reali, le cui varianti sono infinite a seconda delle circostanze, ma che possono essere così caratterizzate: 17

Nel XIII secolo determinante fu l’influsso della filosofia aristotelica da poco riscoperta. L’applicazione alla teologia sacramentaria della dottrina ilemorfistica fece sì che per tutti i sacramenti si identificasse la materia, vale a dire l’elemento visibile, quindi mutevole e determinabile, e la forma, vale a dire la parola esplicativa e determinante del ministro. Ciò portò ad un indebolimento dell’interesse per il contesto liturgico e ad una prevalente attenzione a individuare l’essenziale di un sacramento per la determinazione delle condizioni indispensabili per la sua valida celebrazione (cfr. l’eccellente sintesi storica in H. VORGRIMLER, Teologia dei sacramenti, trad. it., Brescia 1992, 72-78. 18 G. LAFONT, Storia teologica della Chiesa. Itinerario e forme della teologia, Cinisello Balsamo 1997, 97-98; per le riflessioni che seguono sono debitore della sintesi di questo autore.


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coloro che pregano, coloro che combattono e/o governano, coloro che lavorano la terra; sacerdoti-guerrieri-signori-contadini. Una rivalità per la supremazia o per l’egemonia può esistere solo tra le prime due classi, mentre l’ultima si trova immancabilmente in fondo alla scala. Talvolta esiste una figura superiore, il re o il grande sacerdote, che è posto al di sopra delle altre classi, in altri casi si tratta soltanto di una figura che occupa la prima posizione nella classe considerata. Al di là degli aspetti specifici di questa prospettiva presente nel mondo franco-germanico, non solo essa si poteva armonizzare con l’idea di ordine e la mentalità gerarchica confluite nell’eredità cristiana, ma dava anche a questa idea e a questa mentalità uno spazio concreto di applicazione e permetteva l’articolazione di un’organizzazione sociale con una teologia»19. Si ha a che fare con un antropologia religiosa imperniata sulla figura gerarchica, in una società di diseguali. È necessario perciò conoscere le azioni mediatrici che servono agli uomini per liberarsi dal peccato, rimettersi sulla strada di Dio e desiderare di unirsi a Lui (escatologia). Queste azioni mediatrici sono precisamente i sacramenti, che occupano quindi il primo posto nella via della salvezza. Vengono poi le azioni privilegiate attraverso le quali si può realizzare con maggiore sicurezza questa stessa salvezza (l’agire morale). Questo spiega perché la liturgia e la sua teologia in questa epoca — nel suo insieme ovviamente — presenta quattro caratteristiche20: • La liturgia si universalizza: tende cioè a superare i confini delle singole chiese locali e le diverse culture. Diventa la liturgia della corte imperiale carolingia (con un reciproco uso strumentale della politica da parte della religione e della religione da parte della politica). • Ne risulta una individualizzazione dei sacramenti, caratteristica accentuata da un certo sviluppo della coscienza agostiniana del peccato e delle sue conseguenze. Segni di questo mutamento: rottura del processo di iniziazione, la moltiplica19

Ibid., 95-96 Cfr. ancora G. LAFONT, Storia teologica della Chiesa. Itinerario e forme della teologia, cit. 20


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zione delle messe “private” (senza comunità) celebrate per il solo loro valore propiziatorio, sviluppo della penitenza privata, … • I sacramenti sono in remedium, a motivo del loro legame con il peccato e la redenzione, rappresentano dei rimedi. A causa di questo carattere medicinale, si pone l’accento sulla loro efficacia. La loro interpretazione diventa più realistica e storicistica che veramente simbolica. Si può capire così una certa impostazione del rapporto tra etica e sacramenti, segnato da un certo rubricismo e giuridicismo, che sarà accentuato dalla teologia manualistica. Solo con il Concilio ecumenico Vaticano II si opera il rinnovamento che conosciamo, tracciato dalla Sacrosanctum Concilium.

2.2. I sacramenti fondamento della morale Cosa sia il “fondamento” ce lo suggerisce Mc 1,4ss. “Battezzare” (letteralmente: immergere), può significare due cose: o lavare (con acqua) o impregnare (con lo Spirito). Mentre il battesimo di Giovanni è di acqua, vale a dire un battesimo di penitenza (indicato dalla metafora del “lavare” per indicare un processo di purificazione), il battesimo di Gesù è nello Spirito e precede il cambiamento morale. Il fondamento della novità cristiana è Pasqua e Pentecoste. Questa novità di vita non è sul piano puramente morale: i cristiani non differiscono dai giudei/dagli “altri” per una supposta superiorità morale. Quando Gesù chiede la coerenza tra culto e vita, quando stabilisce la priorità della riconciliazione fraterna sul culto, il duplice comandamento dell’amore come chiave di lettura dell’intera Legge, non proclama qualcosa di nuovo rispetto al Primo Testamento. Altri rabbini all’epoca di Gesù insegnavano le stesse cose (…“vino nuovo in otri vecchi”…, cfr. Mc 2,21-22). La chiave della differenza cristiana non è morale, ma teologale. Paolo insegna esplicitamente in Galati e Romani che la giustificazione non è frutto delle nostre buone opere, ma è frutto dell’opera gratuita di Dio in Gesù Cristo. È grazie alla fede in Lui e non grazie alle opere


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della Legge che gli uomini sono salvati21; … è lo Spirito che cambia il cuore di pietra in cuore di carne. Anche i discorsi missionari di Pietro hanno questo contenuto: l’iscrizione della legge di Dio e della sua Parola nel cuore degli uomini, da parte dello Spirito effuso dal Cristo risorto (At 2, 33). La novità cristiana va cercata in questa nuova lettura delle Scritture: queste sono portate a compimento nella risurrezione di Gesù e nel dono dello Spirito. Per questo il suo fondamento non è morale ma teologale. Notevoli le conseguenze: la vita quotidiana investita dallo Spirito del Risorto può diventare “culto spirituale”. Bisognerebbe parlare di “liturgia del quotidiano”: l’amore fraterno come liturgia offerta a Dio. Se è vero che il luogo primario del culto cristiano è l’etica del quotidiano, santificato dalla fede e dalla carità teologali, allora il nuovo sacerdozio incaricato di offrirlo in sacrificio spirituale è costituito dall’insieme del popolo di Dio, come dichiara la Prima lettera di Pietro: i cristiani nel loro insieme, grazie alla fede e al battesimo, sono “impiegati” come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2,5). Dio non è destinato ad abitare tra le pietre materiali del Tempio, è presente invece in quel tempio spirituale formato dai cristiani, “pietre vive” edificate sul fondamento della “pietra viva” che è il Cristo (cfr. 1Pt 2,4). Anche Paolo scrive: “Noi siamo il tempio del Dio vivente” (2Cor 6,16); “non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1Cor 3,16). L’esistenza stessa di cristiani, dovrebbe diventare così contemporaneamente parola viva in cui si rivela Cristo e luogo del vero culto.

3. DIMENSIONI MORALI DEI SACRAMENTI Considerare le “dimensioni morali” dei sacramenti significa almeno due cose: guardare alla natura e alla struttura dei singoli sacra21

Cfr. cosa dice Paolo nel suo discorso missionario ad Antiochia di Pisidia: At 13, 32-33.38-39.


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menti e vederne la valenza etica, considerare le conseguenze etiche dei sacramenti. Occorre anche considerare alcuni elementi. Innanzi tutto lo spazio del sacramento, vale a dire la comunità che celebra. Da qui la sua dimensione “sociale”, in un duplice senso: il sacramento stabilisce una relazione tra i membri della comunità, la comunità che celebra costruisce la sua identità “sociale” attraverso la celebrazione. Questo duplice senso della “socialità” del sacramento implica la dimensione etica dei singoli sacramenti. Infatti la relazione tra i membri della comunità è connotata qualitativamente dal sacramento. La ragione prima che mi spinge all’incontro in questo caso non è un interesse personale nei confronti dell’altro, ma il desiderio/bisogno dell’incontro con l’Altro. In secondo luogo, la natura teologale della relazione con Dio: primato dell’iniziativa di Dio. Non è un afferrare, ma un farsi afferrare. Da questa modalità dell’essere incontrati dall’Altro, scaturisce quella di incontrare l’altro. Detto diversamente: se al centro della celebrazione del sacramento, di ogni sacramento, c’è la Parola di Dio, dall’ascolto della Parola nasce l’ascolto dell’altro riconosciuto come fratello. La relazione è la categoria chiave per comprendere la dimensione etica dei sacramenti. Senza relazione, infatti, è difficile anche solo immaginare i sacramenti. In effetti è la comunità che celebra i sacramenti e da essi trae la sua identità di fronte al mondo. I sacramenti sono azione della Chiesa: i sacramenti come celebrazione ecclesiale implicano una eccedenza rispetto al singolo individuo. Una concezione (e un vissuto) non caricaturale dei sacramenti mette in luce la loro natura comunitaria, il delicato equilibrio tra l’individuo che partecipa alla celebrazione da protagonista e la comunità come soggetto della celebrazione. Parlando di dimensione etica dei sacramenti non si può ignorare che non si tratta di un’etica individuale, ma comunitaria. Si può parlare di ethos del popolo di Dio, che nei sacramenti celebra i suoi atti fondamentali. Si potrebbe concludere che per la singola persona non dovremmo parlare di morale dei singoli atti, così per la comunità e il suo ethos: non sono i singoli atti che lo costituiscono, ma l’ethos permea i singoli atti.


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«La storia di fede cui partecipiamo non è riducibile alla somma di tante storie personali-individuali che poi per accidens si collegano, in base ad una identità di contenuti o ad una somiglianza di esperienza religiosa. In Israele prima e nella chiesa poi, la storia di fede è storia di fede di un popolo, di una comunità credente. Gli interventi salvifici di Dio sono creatori di una comunità di fede e come tali son compresi ed accolti. Già l’esperienza etica è un’esperienza solidarizzante. Il suo maturare in esperienza di fede, in forza del dono dell’incontro con Dio, porta con sé la consapevolezza della salvezza come storia di una comunione radicata in lui. […]»22.

Poiché i sacramenti introducono i singoli credenti in uno “spazio sociale vitale”, possiamo comprendere come essi siano portatori di una esigenza etica. Il sacramento spinge ad abitare il mondo. Il culto autentico diventa generatore di vita autentica. Così, per esempio, celebrare l’Eucaristia — espressione massima di libertà perché memoriale della Pasqua di Gesù: libera autodonazione di sé per il mondo — in un contesto storico di oppressione e illibertà, significa affermare uno spazio di libertà contestatore dell’oppressione23. Lo spazio di libertà che i sacramenti aprono chiama alla responsabilità personale dinanzi alla propria fede. I Padri della chiesa esprimevano la comprensione del legame tra celebrazione del sacramento e conseguenze etiche nella vita del credente attraverso la mistagogia24. Non si tratta di una acquisizione intellettuale di una verità astratta, ma della conoscenza della realtà vissuta, a partire appunto dall’esperienza che se ne è fatta. L’odierna riscoperta della mistagogia è dovuta alla situazione attuale caratterizzata dal tentativo di superamento dell’eredità illuministica che ha 22

S. BASTIANEL, Vita morale nella fede in Gesù Cristo, Cinisello Balsamo 2005,

153. 23 Ricordiamo che la traduzione di mysterium col termine latino sacramentum, nelle Bibbie africane contiene un momento etico-religioso, come emerge chiaramente in Tertulliano (160-220). Nella latinità profana sacramentum aveva anche il significato di giuramento di fedeltà. Rinvia perciò all’idea di un impegno assunto. 24 Mistagogia: “introduzione al mistero” – un condurre dentro la verità del mistero attraverso la sua realtà.


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condizionato anche la teologia, accentuando un carattere intellettualistico della fede. Vi è pure la necessità di recuperare una concezione integrale della persona: la comunicazione umana è sempre psicosomatica, mai solo intellettuale o solo emozionale. In questo contesto è ritornata in primo piano la consapevolezza del valore dell’esperienza. In conclusione, la catechesi mistagogica suppone un processo di iniziazione non puramente intellettuale da cui nasce una conoscenza sperimentale, un “passaggio” e una consapevolezza, da cui proviene la dimensione etica.


Synaxis 1 (2009) 115-151

AMORE E SAPIENZA IL LINGUAGGIO EROTICO NEL CANTICO DEI CANTICI E IN PROVERBI*

AGOSTINO GRECO**

Diverse lingue, antiche e moderne, conoscono una sola parola «Amore» per esprimere tutte le dimensioni possibili dell’amore stesso: dalla più ampia alla più erotica. Anche nella Scrittura alcuni termini sono utilizzati anche in altri ambiti, che non sono quelli in cui sono normalmente usati. È il caso, per esempio, del Cantico dei cantici e dei Proverbi dove alcuni termini tipici del linguaggio d’amore sono utilizzati e nei riguardi della donna e nei riguardi della Sapienza. Amore e Sapienza, Cantico e Proverbi: ciò che per il Cantico rappresenta l’amore, nei Proverbi lo rappresenta la sapienza. Amore e Sapienza, infatti, sono due riflessi del volto di Dio nel mondo, due strade diverse, ma complementari, per andare a lui. V. Cottini1, ispirato da alcuni commentari e studi2, ha ripensato *

Estratto della tesi di licenza in Teologia biblica conseguita il 20 giugno 2008 presso la facoltà di Teologia della Pontificia Università Gregoriana di Roma, relatore prof.ssa Nuria Calduch-Benages. ** Licenziato in Teologia biblica. 1 V. COTTINI, Linguaggio erotico nel Cantico dei cantici e in Proverbi, in Liber Annus 40 (1990) 25-45. 2 Ci sono alcuni studi, alcuni anche commentari, che trattano o Proverbi o Cantico o ne notano i paralleli letterari: J.-N. ALETTI, Séduction et parole en Proverbes I-IX, in Vetus Testamentum 27 (1977) 129-144; G. BARBIERO, Cantico dei Cantici. Nuova versione, introduzione e commento, Milano 2004; G. BAUMANN, Die Weisheitsgestalt in Proverbien 1-9, Traditionsgeschichtliche und theologische Studien, Tubingen 1996; A. BONORA, La donna eccellente, la sapienza, il sapiente (Pr 31,10-31), in Rivista Biblica 36 (1988) 137-164; C.V. CAMP, Wisdom and the Femminine in the Book of Proverbs, Sheffield 1985; M.T. ELLIOT, The Literary Unity of the Canticle, Frankfurt 1989; M.V. FOX, The Song of Songs and the Egyptian Love Songs, London 1985; N.C. HABEL, The Symbolism of Wisdom in Proverbs 1-9, in Interpretation 26 (1972) 131-157;


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la funzione del linguaggio erotico3 del Cantico dei cantici nel libro dei Proverbi. La ricorrenza di alcuni termini tipici del linguaggio amoroso anche nei riguardi della Sapienza è significativa. Perché i sapienti hanno usato questa terminologia? Come si sposa la severità talora pedante dei Proverbi con la levità e la passione del Cantico? Gli studi esistenti trattano o Proverbi o Cantico e notano i paralleli, ma non si chiedono “perché” Proverbi ha usato il linguaggio erotico di Cantico. Cottini suggerì alcuni spunti di riflessione in una direzione che fino ad allora era stata presa poco in considerazione. Il presente studio riprende gli spunti di Cottini, li sviluppa e apre prospettive nuove di indagine.

O. KEEL, Das Hohelied, Zurich 1986; A. MARIASELVAN, The Song of Songs and Ancient Tamil Love Poems. Poetry and Symbolism, Roma 1988; R.E. MURPHY, Wisdom and Eros in Proverbs 1-9, in Catholic Biblical Quarterly 50 (1988) 600-603; M.H. POPE, Song of Songs. A New Traslation with Introduction and Commentary, New York 1977; F. RAURELL, Lineamenti di antropologia biblica, Casale Monferrato 1986; G. RAVASI, Cantico dei cantici. Commento e attualizzazione, Bologna 1992; S. TERRIEN, The Elusive Presence.The Heart of Biblical Theology, San Francisco 1984; ID., Till the Heart Sings. A Biblical Theology of Manhood and Womanhood, Philadelphia 1985; R. TOURNAY, Quand Dieu parle aux hommes le langage de l’amour. Études sur le Cantique des cantiques, Paris 1982; N.J. TROMP, Wisdom and the Canticle. Ct 8,6c-7b: text character, message and import, in M. GILBERT (cur.), La sagesse de l’Ancien Testament, Lovanio 1979, 88-95; J.B. WHITE, A study of the language of love in the Song of Songs and Ancient Egyptian poetry, Missoula 1978. 3 Sarà bene chiarire subito il senso dell’aggettivo «erotico», che, almeno in italiano, sembra e può avere un significato peggiorativo. Si può prendere spunto dalle parole di Terrien: «the word eros designates the whole of the human urge to go beyond the self. It covers not only the sexual aspect of the human wish to live fully but also the thirst for knowledge, scientific curiosity aesthetic endeavour, religious instinct and an obscure longing for life beyond death. It is from this broad perspective that one may include sexuality within the whole realm of eros»: S. TERRIEN, Till the Heart Sings, cit., 29.


1. IL

Amore e Sapienza

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CANTICO

DEI CANTICI COME TERMI-

LINGUAGGIO EROTICO DEL

NOLOGIA DEL DIALOGO

Il Cantico dei cantici ha delle caratteristiche proprie, caratteristiche che lo differenziano dalla poesia amorosa egizia4. Una delle principali è il dialogo5. I due giovani, infatti, si parlano continuamente, nella realtà o nel sogno, e si chiamano con appellativi tipici del linguaggio erotico. Uno dei termini più importanti per dire l’amore nel Cantico è dwd Questo termine, nel Cantico, appare 33 volte6 al singolare e viene utilizzato per designare solamente il partner maschile ed è il modo abituale con cui egli viene chiamato dalla donna. Molte sono le incertezze che circondano l’etimologia del termine ebraico dwd. È possibile, che si tratti di una parola infantile (dad[u]) derivante dalla ripetizione della sillaba da, come succede spesso con nomi denotanti parentela7. Per individuare il significato di dwd nel Primo Testamento, è della massima rilevanza il problema dell’uso di dādu(m) nell’onomastica accadica8. Il vocabolario del Cantico dei cantici è determinato dalla tematica e dalla forma del genere letterario della poesia lirica amorosa. La 4

A. NICCACCI, Cantico dei cantici e canti d’amore egiziani, in Liber Annus 41 (1991) 61-85. 5 Di questa opinione è M.V. FOX, The Song of Songs and the Egyptian Love Songs, cit., 315-322; M.T. ELLIOT, The Literary Unity of the Canticle, cit., 240; F. RAURELL, Lineamenti di antropologia biblica, cit., 191. 6 Tra i vari autori vi è una discordanza nel riportare il numero delle presenza del del vocabolo. Secondo G. BARBIERO, Cantico dei cantici, cit., e G. RAVASI, Cantico dei cantici, cit., viene utilizzato 33 volte, per G. COLOMBO, Cantico dei cantici. Versione, introduzione e note, Cinisello Balsamo 19997, 32 volte, per V. COTTINI, Linguaggio erotico, cit., 31 volte. 7 J. SANMARTÍN ASCASO, dôd, in J. BOTTERWECK – H. RINGGREN (curr.), Grande Lessico dell’Antico Testamento, I, Brescia 1988, 163-179. A questo articolo ci si è rifatti per analizzare l’etimologia di questo termine. 8 Nella letteratura accadica il termine, al singolare, significa «amato», «prediletto, tesoro», e denota una persona oggetto dell’amore. Il termine è usato con riferimento agli uomini o, in ambito familiare, come appellativo generico per indicare i discendenti. D du(m) ricorre anche in accezione erotica, «amante, compagno», soprattutto nell’ambito della poesia amorosa.


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sorprendente frequenza con la quale si utilizza dwd è dovuta, in primo luogo, al genere letterario. Il singolare dwd denota costantemente il giovane innamorato e questo termine, nel Cantico, ha una forte impronta erotica. Esso è usato: • dalla donna in forma indiretta per indicare l’amato: 1,13.14; 2,3.8.9.10.16; 4,16; 5,2.4.5.6 (2x).8.10.16; 6,2.3 (2x); 7,10.119; • dalla donna in forma diretta per interpellare l’amato: 1,16; 2,17; 7,12.14; 8,14; • dalle «figlie di Gerusalemme»: 5,9 (4x); 6,1 (2x); 8,5 . Normalmente il termine dwd è utilizzato con il suffisso pronominale10 e compare sempre nelle forme ydIÞAD, %dEêAD, Hd”_AD. Hd”A_ D, «amato suo», è attestato una sola volta nel coro di 8,5; %dEAê D, «amato tuo» lo è in 5,9 e in 6,1; per il resto rimane soltanto ydIAÞ D, «amato mio» (24x), detto dalla giovane: come vocativo (2,8.17; 7,12.14; 8,14), come oggetto di una descrizione (quasi sempre in un paragone: 1,1314; 2,3.9; 5,15.16) o come semplice, naturale denominazione. L’amante viene messo in luce da due diversi punti di vista: si parla di lui alla terza persona (da parte della giovane innamorata, del coro e delle figlie di Gerusalemme come terze esterne al rapporto amoroso), oppure viene coinvolto in un dialogo diretto (apostrofato con il tu). Entrambi gli espedienti stilistici sono ben noti alla letteratura amorosa extrabiblica, e non hanno altra funzione che moltiplicare le possibilità espressive del poeta. Nel quadro sintagmico del Cantico i suffissi possessivi uniti al sostantivo (lessema) dwd formano un’unità semantica completamente nuova. Il suffisso pronominale legato al termine singolare esprime la relazione che la donna ha con il suo uomo e che cosa egli rappresenti per lei. Egli è esclusivamente «suo», come ella gli appartiene totalmente (2,16; 6,3; 7,11a) e costituisce l’oggetto esclusivo del desiderio di lui (7,11b). L’espressione di 2,16 Alê ynIåa]w: ‘yli ydIîAD, ripresa in 6,3 dove è 9 Il v 10 offre agli esegeti numerose difficoltà. Il TM ha ydIÞAdl. %lEïAh e non può essere pronunziato che dall’amata. Seguendo G. BARBIERO, Cantico dei cantici, cit., 332, il procedimento è inusuale: la donna interromperebbe il discorso dell’uomo inserendosi in esso con una proposizione secondaria. 10 Eccetto due volte in 5,9, dove viene introdotto un paragone sulla bocca delle «figlie di Gerusalemme»: dADêmi %dEåAD-hm;.


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invertito l’ordine delle due proposizioni yliê ydIäAdw> ‘ydIAdl. ynIÜa] e in 7,11 con una significativa variante At)q’WvT. yl;Þ[‘w> ydIêAdl. ynIåa], è un’altissima dichiarazione d’amore, un’espressione particolarmente intensa dell’esperienza amorosa. In 2,16 l’affermazione dell’appartenenza dell’uomo alla donna («il mio diletto è mio») è bilanciata da quella dell’appartenenza della donna all’uomo («e io sono sua»), sottolineando la perfetta reciprocità della relazione. L’autore vuole evidenziare — e il parallelo con 6,3 lo conferma — la perfetta parità degli amanti. Né l’uomo è schiavo della donna, né la donna dell’uomo. Secondo Barbiero11 si ha l’impressione che il Cantico riporti l’amore umano al tempo dell’Eden, prima del peccato. In questo senso la «formula di mutua appartenenza»12 di 2,16 trova corrispondenza nel grido di gioia di Gen 2,23: «Stavolta sì: osso delle mie ossa e carne della mia carne»13. Il significato della sessualità umana secondo il racconto di Gen 2 è quello di ricomporre l’unità primordiale14. L’uomo è un essere incompleto che cerca quella parte di sé che gli manca15. Trovando la donna, egli ritrova se stesso, ricompone l’unità perduta. La formula della mutua appartenenza non è qualcosa di preesistente che è inserito come un masso erratico in un contesto estraneo. La diversa forma che il ritornello presenta nei tre passi Ct 2,16; 6,13 e 7,11 si spiega con la mutata situazione contestuale16. 11

Cfr. G. BARBIERO, Cantico dei cantici, cit., 116. Così è chiamato Ct 2,16 da A. FEUILLET, La formule d’appartenance mutuelle (2,16) et les interprétations divergentes du Cantique des Cantiques, in Revue biblique 69 (1961) 5-38. 13 Ravasi, invece, accosta Ct 2,16 alla formula dell’alleanza tra YHWH e Israele, accostamento caro all’interpretazione allegorica (cfr. Dt 26,17-18; 29,12; Os 2,25, ecc): G. RAVASI, Il Cantico dei cantici, cit., 265, con riferimento soprattutto al citato articolo di Feuillet. Si veda anche A. LACOCQUE, Romance, She Wrote. A Hermeneutical Essay on Song of Songs, Harrisburg 1998, 90. 14 Questa concezione, secondo Barbiero, sembra corrispondere all’etimologia della parola «sesso». Il termine latino sexus deriva da secare (tagliare) ed esprime la divisione dell’umanità in due parti, che tendono naturalmente a unirsi e a ricomporre l’unità (G. BARBIERO, Cantico dei cantici, cit., 116). 15 Si veda, a questo riguardo, il Talmud: «Un uomo non sposato non è un uomo nel pieno senso della parola, perché sta scritto: “Egli li creò maschio e femmina, li benedisse e li chiamò uomo (~d”êa’)”» (cfr. Gen 5,2; b.Jebamot 62b). 16 Nel presente contesto esso si allinea alla serie di aggettivi possessivi di prima 12


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Il dwd è unico e incomparabile agli altri giovani (2,3; 5,9.10.16). In Ct 2,3 la giovane donna utilizza una similitudine17, come già aveva fatto il suo uomo al v.2, in maniera positiva per affermare l’unicità e l’incomparabilità del ydIAÞ D. E anche lei ricorre ad una pianta, ma ad una pianta coltivata, utile soprattutto per i suoi frutti: il melo18. In 5,9, invece, la domanda delle «figlie di Gerusalemme» introduce la descrizione del ydIÞAD (vv.10-16), che di tale domanda costituisce la naturale risposta. Le amiche chiedono che cosa abbia di speciale il diletto, e la donna lo spiega, descrivendo il suo uomo. Il legame tra domanda e risposta è segnalato dalla ripresa del termine dwd (v.9ac), all’inizio del canto della donna (v.10a). Quest’ultimo è, a sua volta, incorniciato da questa stessa parola (vv.10a.16c). Alle due ironiche menzioni da parte delle amiche, corrispondono due menzioni, in ben altro tono, da parte dell’amata. L’unico paragone valido del dwd è con realtà animali o vegetali, che ne pongono in rilievo la grazia, la preziosità, lo splendore, il profumo, il potere inebriante. In Ct 1,13-14 l’amante è «un sacchetto di mirra che passa la notte tra i suoi seni» e «un grappolo d’alcanna fra le vigne di Engaddi». In 7,10, invece, il palato del diletto è paragonato al «vino buono». Il dwd però, non solo è paragonato a realtà vegetali ma persona che caratterizza il brano 2,8-17: ydIêAD (vv. 8.9.10); ytiîy”[.r: (vv.10.13); ytiÞp’y” (vv.10.13), ytinú A” y (v.14). In 6,3 la «formula dell’appartenenza» è invertita rispetto a 2,16, forse per ribadire la perfetta reciprocità del legame amoroso (D. BERGANT, “My Beloved Is Mine and I am His”[Song 2,16]: The Song of Songs and Honor and Shame, in Semeia 68 (1994) 23-40: 30: «Everything about this love its mutual», citando in questo senso M.V. FOX, The Song of Songs, cit., 305-310). In realtà dal punto di vista del contenuto, le due formule si equivalgono. In 7,11, invece, la formula della mutua appartenenza presenta una singolare variante, At)qW’ vT. yl;Þ[‘w>. Il termine hq’WvT. appare nel Primo Testamento ancora solo due volte, in Gen 3,16 e 4,7. La rarità e l’importanza di questi passi rendono inverosimile una casualità dell’accostamento. Si deve pensare piuttosto a cosciente intertestualità. 17 Barbiero parla di «dinamica speculare tipica del Cantico» (G. BARBIERO, Cantico di cantici, cit., 88). 18 L’identificazione del x;WPT; con il melo non è indiscussa. Colombo traduce «cedro», ma commenta: «Può essere anche inteso come “arancio, melo, melograno”» (D. COLOMBO, Il Cantico dei Cantici, cit., 59). Per contro si veda L. KOEHLER – W. BAUMGARTNER et al., Hebraisches und aramaisches Lexikon zum Alten Testament, Leiden 1967-1995, 1632-1633.


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anche animali. Infatti in 2,9.17 e in 8,14 è paragonato ad un capriolo o a un piccolo di cervo. Il dwd è «bello». In Ct 1,16 la giovane replica all’esclamazione ammirata del suo amato con la stessa formula. Si ripete, così la stessa meraviglia per la bellezza e per il fascino che la creatura umana sprigiona: non per nulla si replica lo stesso aggettivo hp,yÛ ” «bello, incantevole», indirizzato al ydIAd. Ma la giovane aggiunge, sottolineandolo con una particella enfatica @a:,å un altro aggettivo sinonimo ~y[inê ” «dolce, delizioso». Se hp,yÛ ” esprime il lato estetico dell’amore, ~y[inê ” ne esprime quello fruitivo19. Questi aggettivi riassumono nella loro semplicità come egli le appare e dice il valore e l’importanza della fisicità20 nell’amore. La giovane riserva per il dwd tutti i suoi frutti migliori. In 7,14 infatti, la giovane amante, dopo aver esortato il suo amato ad uscire e ad andare in campagna (v.12), gli rivela di aver conservato per lui tutti i frutti «nuovi, anche vecchi». I frutti sono simbolo delle gioie che ella vuole dare al suo uomo nell’intimità amorosa21. La voce del dwd si distingue da tutte le altre e ha la capacità di eccitarla (2,8.10; 5,2) o di acquietarla in un dolce riposo. Quando il dwd si avvicina per l’incontro d’amore, o si allontana, suscita nella giovane innamorata sentimenti diversi. In 5,4 l’azione dell’amato di tendere la mano dall’apertura, suscita un’eco positiva nel cuore della donna, che l’interpreta non come un tentativo di violenza, ma come espressione d’amore. È «il diletto» a tendere la mano, perciò «le viscere fremono» per lui: alla mano tesa del diletto risponde la nostalgia profonda, «viscerale» dell’amata per lui. Quando invece, l’amato si allontana, è la disperazione, che la spinge ad una ricerca 19

Vedi a riguardo i due approcci, con forte sottofondo mitico, proposti da Lys e Müller e riportati da Barbiero. Nel valutare il rapporto mitico del termine ~y[iên” essi vanno in direzioni opposte, ma complementari e non alternative (G. BARBIERO, Cantico dei cantici, cit., 84). 20 Cfr. F. RAURELL, Lineamenti di antropologia biblica, cit., 214-215. 21 I frutti sono anzitutto «conservati» (il verbo ebraico !p;c’ significa propriamente «nascondere»): il termine è un accenno diretto alla castità e al riserbo, che sono qualità fondamentale del fascino femminile. La castità, però, non è sentita come una privazione: essa è una qualità dell’amore ed è a esso finalizzata. I frutti sono «custoditi» (!p;c’, v.14) per essere «donati» (!t;n,” v.13) alla persona amata.


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affannosa. Così sia in 3,1ss. che in 5,6 affiora il tema della «ricerca», che ha la sua espressione verbale nella coppia di verbi vq;B’ - ac’m,’ «cercaretrovare»22. La giovane donna si sente bene ed è felice solo quando è con il dwd. Questo «stare» con l’amato si concretizza in diversi modi. Þ ’ !yBe,î «fra i miei seni Innanzitutto nel riposo. In 1,13b il diletto !yliy( ” yd:v pernotta»: I due amanti sono, dunque, uno fra le braccia dell’altro, e trascorrono insieme la notte23. Al verso successivo, 14b, l’affermazione apparentemente innocente, ydIG)< !y[eî ymerÞ k> B; ,. «fra le vigne di Engaddi» si apre, parallelamente a quella del verso precedente, a un doppio senso. La «vigna» è, infatti, metafora del corpo femminile (cfr v.6). «Fra le vigne» acquista così un significato non molto diverso che «fra i miei seni»24. Ma l’amata è felice soprattutto quando sta con il diletto nell’amore. Così in Ct 2,16 e in 6,3, dopo la «formula della mutua appartenenza», l’amata afferma che solo il suo diletto, pascola tra i fiori di loto ) A; VB; h[,rÞ ho ). Leggendo i versi isolatamente, la funzione che riveste il (~yNIv «mio diletto» non è chiara25. Tenendo conto del contesto, il senso dovrebbe essere che il diletto-capriolo «si ciba» di fiori di loto26. 22

Per un approfondimento sull’argomento della «ricerca» e sulla dinamica «assenza – presenza», si veda G. RAVASI, Il Cantico dei cantici, cit., 285-288; 296-297. Cfr. anche F. RAURELL, Lineamenti di antropologia biblica, cit., 217-222. 23 A un orecchio abituato alla lettura della Scrittura non può sfuggire il rimando a Os 2,4: «Allontani i suoi adultèri di fra i suoi seni (h’yd<(v’ !yBeîmi)». Solo che in Osea l’espressione ha una connotazione chiaramente negativa — si tratta di adulterio — mentre nel Cantico non c’è ombra di riprovazione (cfr. A. LACOCQUE, Romance, She Wrote, cit., 80). 24 Forse anche il nome di «Engaddi» («fonte del capretto») ha un doppio senso. Il «capretto» ha, infatti, un significato erotico, e in Ct 4,5 i seni della donna sono paragonati a «due cuccioli, gemelli di una gazzella» (cfr. ancora 7,4). 25 Cfr. la discussione in M.H. POPE, Song of Songs, cit., 405-407. 26 Il fiore di loto (!v;Wv) è una pianta molto evocativa, in tutto l’oriente e in Egitto. Essa esprime il miracolo della vita che sorge dalla morte, ed ha, per il suo profumo e la sua bellezza una significato erotico. Nel Cantico, il fiore di loto è associato alle zone erogene del corpo di lui e di lei. «Pascersi di fiori di loto» (il loto era commestibile) significa fare esperienza d’amore e vita nuova nel gioco erotico (il «mangiare» è metafora primordiale per alludere al rapporto sessuale). Particolarmente esclusivo è il fatto che questa espressione, metafora del rapporto erotico, segue la «formula di appartenenza»: ciò esprime il privilegio, che appartiene al solo diletto,


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Al suo dwd, sentito in questo modo, la donna concede i suoi ~ydwd, i suoi amori o, meglio, il suo amore. Nel Cantico infatti, ~ydwd significa costantemente «amore»27. L’ebraico ~ydwd indica qualcosa di più che una innocente dimostrazione d’amicizia. È il gioco erotico che accompagna il rapporto sessuale. La parola ebraica è un plurale abstractionis28 derivante dalla radice dwd, la stessa di cui è composto il sostantivo dwod. Il passaggio dal singolare dwod al plurale ~ydwd ha nell’ebraico lo stesso effetto dell’italiano caro-carezza. ~ydwd esprime cioè il gioco erotico sotto l’aspetto della tenerezza, così tipico della psicologia femminile. La giovane amata concede al suo dwd, i suoi ~ydwd in una splendida cornice agreste, dove la natura partecipa festante alla gioia della coppia (7,12-13). L’uomo, che apprezza altamente l’amore di lei e ricorre, per descrivere la preziosità, ad immagini visive, gustative e olfattive (4,10), lo ricambia a sua volta, tanto che ella ne è come inebriata (1,2.4)29. Una funzione analoga al sostantivo dwd / ~ydwd svolge nel Cantico la radice bha, sia nella sua espressione verbale (sette volte) sia in quella sostantivale hbha30. di godere del corpo della sua donna. Poiché essa appartiene a lui, lui e lui solo, può «pascolare tra i fiori di loto». 27 I LXX hanno colto il tono erotico del testo ebraico, ma hanno tradotto male il termine (tranne che in 5,1) lo hanno sempre reso con mastoi,,, “seni”. Secondo J. SANMARTÍN ASCASO, dôd, cit., 175, non c’è motivo di abbandonare il TM. Il parallelismo con ~y[iêrE «amici» in 5,1 potrebbe indurre a considerare, in questo caso, ~ydwd un vero plurale. 28 Cfr. G. BARBIERO, Cantico dei cantici, cit., 64. 29 Sul richiamo al vino per suggerire il potere inebriante dell’amore cfr. 4,10 e 7,13 (dove viene nominata la vite). Cfr. anche il testo ebraico di Sir 40,20. 30 La radice bha ed i suoi derivati, nel Primo Testamento è attestata in tutte le forme letterarie ed è stata sempre in uso, sia pure con variazioni semantiche. Ora, il fatto che la radice, piuttosto rara negli altri dialetti semitici, sia invece nel Primo Testamento d’uso frequente senza per altro essere mai usata, come in quelli, per formare nomi, fa già supporre che l’uso linguistico biblico abbia conferito ad bha, per ragioni oggettive e teologiche, un particolare connotato semantico. Il verbo ricorre, nel Primo Testamento, 140 volte al qal, 36 al participio attivo qal (significando generalmente «amico»), 1 volta al participio nifal, 16 volte al participio piel (significando «amante»). Tra i sostantivi derivanti da questa radice abbiamo hb’Þh]a’ (50 volte), bh;a;, bh;ao (entrambi 2 volte).


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La forma verbale della radice bha viene usata nel Cantico, prevalentemente come formula stereotipa, in una proposizione relativa apposizionale che è l’esatto corrispondente di ydwd: yvi_p.n: hb’Þh]a’v, tae (letteralmente suona: «colui che la mia anima ama»). Questa espressione ricorre in 1,7; e 4 volte, una per ogni versetto, in Ct 3,1-4. La forma sostantivale hbha viene usata, invece, in quattro ambiti che sono strettamente collegati tra loro. Una prima caratterizzazione appare in Ct 7,7. Dopo la descrizione e la contemplazione del corpo di lei, da parte del giovane innamorato (vv.2-6), segue l’ammirazione stupita, globale, di ciò che è stato descritto nei particolari, e il desiderio di godere del corpo ammirato. Il diletto, al v.7, dopo un’esclamazione piena di ammirato stupore di fronte all’apparizione che gli sta davanti, identifica l’amore, hb’Þh]a;, con la sua donna31. Una seconda caratterizzazione si trova inserita in un ritornello presente in Ct 2,7; 3,5; 8,4. #P’(x.T,v, d[;î hb’Þh]a;h’-ta, Wr±r>A[*T.-~aiw>) Wry[ióT’-~ai. Questo ritornello, appartenente a quei ritornelli che annunziano la conclusione di un’unità, viene chiamato «ritornello del risveglio». In 2,7 e in 3,5 il ritornello è identico; in 8,4, invece, è ripreso con alcune differenze32. Il v.7 del cap.2 si collega logicamente con il v.6. Là era descritta l’unione, il «sonno» d’amore. Qui si chiede che questo «sonno» non sia disturbato, non sia svegliato. Oggetto dello «svegliare» è hb’Þh]a;h’ («l’amore»)33. Una terza caratterizzazione del Indubbiamente sia il TM (hb’Þh]a;h;’) che la LXX (avga,ph) hanno un astratto. Ma il contesto suggerisce che qui si indichi concretamente l’amata. Il «tu» a cui il diletto si riferisce al v 8 è una persona, non un principio astratto. Così hanno inteso, del resto sia la Syr sia la Vg. Secondo G. BARBIERO, Cantico dei cantici, cit., 325, non c’è bisogno di cambiare il TM; piuttosto si tratta di un caso di metonimia o sineddoche, cioè dell’uso dell’astratto per il concreto. 32 Nel TM manca la menzione delle «gazzelle» e delle «cerve dei campi» e il cambio della particella ~ai, tipica del giuramento, con l’interrogazione hm; (perché). 33 Secondo V. COTTINI, Linguaggio erotico, cit., 28-29, l’inserzione di hb’Þh]a;h’ nel ritornello è volutamente ambigua: non è chiaro, secondo lui, chi parla e a chi è indirizzato il termine. Se è l’uomo, hb’Þh]a;h’ può essere identificato con la donna; se è la donna, con l’uomo; se è il poeta, il termine hb’Þh]a;h’ può essere universale ma riferito concretamente al rapporto tra i due. L’indeterminatezza di significato, in questo ambito fortemente erotico, secondo Cottini, è voluta dal poeta sia per la «dinamica speculare», in forza della quale i due amanti si scambiano i medesimi appellativi o i 31


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sostantivo hb’h Þ a] h; ,’ inserita ancora in un ritornello (2,5; 5,8 ynIa)” hb’hÞ a] ; tl;Aî x) segue la stessa dinamica. La donna è «malata d’amore». Si è alla presenza di uno stereotipo, noto a tutte le culture: percepire l’innamoramento come una malattia è qualcosa di universalmente umano. Il testo poetico è limpido e immediato: l’essere malati di amore — genitivo di casa anche in ebraico — è un’immagine eterna e intensa. Il tema è generale ma, secondo Cottini34, diventa concreto in quanto questa «malattia» si riferisce all’assenza dell’amato. La «malattia» è dunque legata strettamente alla presenza-assenza dell’uomo35, oggetto-soggetto dell’amore. Un’ultima caratterizzazione appare in 8,6-7, dove il termine hb’Þh]a;h’ ricorre tre volte. Dato il loro carattere di mashal e la portata universalizzante, questi versetti possono costituire la «summa» del Cantico36. Questi versi si trovano nel cosiddetto epilogo del Cantico37, che comprende i vv.5-14 del cap. 8 e, precisamente, nella prima strofa dell’epilogo (vv.5-7). Qui l’amore umano è una forza vitale che contrasta la potenza della morte, un valore inserito da Dio nell’uomo. Quando due persone di sesso diverso sono attratte l’una verso l’altra, la loro relazione erotica concretizza la forza vitale dell’amore. Il significato della radice bha, dunque, sia nella sua espressione verbale che in quella sostantivale, è analogo a quello della radice dwd. I due termini si illuminano a vicenda e sono, in fondo, corrisponmedesimi motivi (M.T. ELLIOT, The Literary Unity, cit., 246-251), sia per rendere concreto l’amore generale e generale l’amore concreto. La proposta di Cottini è intrigante e suggestiva ma il riferimento all’uomo viene smentito dalla costruzione grammaticale della frase, in quanto il riferimento all’uomo è escluso dal genere femminile del verbo #P’(x.T,. 34 V. COTTINI, Linguaggio erotico, cit., 29. 35 Così anche S. TERRIEN, Till the Heart Sings, cit., 48. 36 N.J. TROMP, Wisdom and the Canticle. Ct 8,6c-7b: text character, message and import, cit., 88-95.; S. TERRIEN, Till the Heart Sings, cit., 48. 37 Per la struttura del Cantico vedi G. BARBIERO, Cantico dei cantici, cit., 32-38; M.T. ELLIOT, The Literary Unity, cit., 34. 38 Cfr. J. SANMARTÍN ASCASO, dôd, cit., 178. Secondo J. BERGMAN – A. HALDAR – G. WALLIS, ’ hab, in J.BOTTERWECK – H. RINGGREN (curr.), Grande Lessico dell’Antico Testamento, I, Brescia 1988, 105-128, la radice corrisponde in generale al significato classico di avgapa,w (110-111). In riferimento al Cantico, sembra pertinente


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denti38. Una divisione netta tra di loro, nonostante le versioni antiche e le speculazioni successive, secondo le quali dwd si riferirebbe all’amore come e;rwj e hbha all’amore come avga,ph, sembra, almeno nel Cantico, arbitraria: ambedue contraddistinguono l’autentico amore umano39. Se il termine dwd è l’appellativo abituale del partner maschile, questi chiama la sua donna con una terminologia più varia. Gli appellativi più qualificanti sono: twxa, hlk, hy[r40. twxa ricorre nel Cantico sette volte, di cui cinque sulla bocca dell’innamorato. In questi casi il termine è sempre provvisto di suffisso pronominale (ytwxa) e si trova in coppia quattro volte con l’appellativo hlk (4,9.10.12; 5,1) e una sola volta con hy[r (5,2). In Ct 4,9.10.12 troviamo l’appellativo ytwxa, «sorella mia». In realtà questo appellativo è classico per indicare l’amata, senza implicazioni di consanguineità ma forse con suggestioni archetipiche: nell’amore di coppia raggiungono il loro apogeo tutti i sentimenti, tutti i legami umani. Il rapporto di fraternità, tra l’altro, nell’Antico Oriente è visto come segno di intensità e di totalità, riassume in sé tutte le relazioni interpersonali. La donna amata è, perciò, vista come sorella, ma anche madre, figlia, amica, sposa concentrando su di sé tutta la potenzialità dell’amore. Non si deve pensare, quindi, a un matrimonio fra consanguinei, pratica diffusa in Egitto41 e anche il pensiero di Terrien: «The word agap , so we have been told, ignores the aggrandizement of the self and is concerned with the welfare of ‘the other’. As many writers insist, it designates the altruistic movement of the psych , a love which may go as far as self-sacrifice. Not a few theologians have made fashionable this contrast between er s and agap . Classical greek usage of the two words does not justify it. Nor does modern psychology. An untermeshing of emotions and motivations — pleasure given is pleasure revived — basically characterizes the human being. Indeed, the Bible knows that true er s is agap » (S. TERRIEN, Till the Heart Sings, cit., 29). Cfr. anche F. RAURELL, Lineamenti di antropologia biblica, cit., 187-190; 222-226. 39 L’equivalenza in negativo delle due radici dwd e bha è data dallo stretto parallelismo di Pr 7,18, sul quale si ritornerà in seguito. 40 Si dice più qualificanti perché esprimono relazioni interumane. A questi si potrebbero aggiungere gli epiteti tratti dal regno animale e vegetale, come ad esempio, hn”Ay (2,14; 5,2). 41 Così, ad esempio, G. RICCIOTTI, Il Cantico dei cantici. Versione critica del testo ebraico con introduzione e commento, Torino 1928, 45-49.


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nella famiglia estesa ebraica42. In questo caso l’appellativo ha un carattere simbolico. Sia nei testi mesopotamici del «matrimonio sacro», sia nei canti di amore egiziani43, «fratello» e «sorella» sono gli appellativi tipici dei due amanti44. Essi esprimono il particolare legame che l’amore crea tra due persone, in termini di legame di sangue. Da notare è, inoltre, il fatto che il termine ytwxa ricorre per ben quattro volte con il termine hlk, «sposa». Con questa parola si mette in evidenza che i due amanti appartengono a due diverse famiglie, che la donna è estranea alla famiglia dell’uomo. Con il termine ytwxa, si esprime l’appartenenza alla stessa famiglia. Come rileva Landy, i termini si contraddistinguono a vicenda45. Una stessa persona non può essere allo stesso tempo «sposa» e «sorella». L’accostamento è paradossale e non si spiega sul piano istituzionale, ma su quello simbolico. Da una parte la donna appartiene a un’altra famiglia, viene dal di fuori. Da una parte essa è «carne della mia carne e osso delle mie ossa» (Gen 2,23). Questa formula si riferisce al rapporto di consanguineità: l’amore, cioè, da una parte conduce uno fuori da se stesso, è un «esodo», dall’altro è un ritrovare le radici della propria esistenza, la parte perduta del proprio essere46. In 5,2 l’appellativo ytwxa, ripresa letterale di 5,1, è affiancato non più al sostantivo hlk, ma a hy[r, «amica mia». Per comprendere questo affiancamento dei due termini, bisogna riferirsi al contesto: il diletto si richiama non a un diritto, che egli ha di entrare nella sua vita, ma all’amore che lo unisce alla sua donna. A ogni modo il fatto che non sia usato il termine hlk corrisponde perfet42 Cfr. in questo senso, F. BROWN – S.R. DRIVER – C.A. BRIGGS, A Hebrew and English Lexicon of the Old Testament, Oxford 1951, 27 col. 2 (rinviando a Gen 20,12). 43 Secondo M.V. FOX, Song of Songs, cit., XII-XIII, i termini fratello e sorella nella poesia egizia e sorella nel Cantico vengono usati dagli amanti come espressioni di affetto. 44 Ed è probabilmente attraverso questa via che anche in Israele è invalso l’uso, come è attestato in Tb 5,22; 7,12.15; 8,4.7.21; 10,6.13 e in senso metaforico, in Pr 7,4 («Dì alla Sapienza: tu sei mia sorella!») e in Ger 22,18. 45 F. LANDY, Paradoxes of Paradise. Identity and Difference in the Song of Songs, Sheffield 1983, 97-98. 46 E. SALVANESCHI, Cantico dei cantici, cit., 109, parla di regressio ad uterum e commenta: «uomo e donna sono fatti fratelli in amore, affinità elettiva che si ri-crea come antico legame carnale, finche è inizio».


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tamente alla situazione: i due giovani evidentemente non vivono ancora insieme. L’appellativo twxa è dunque un’espressione del linguaggio erotico che sfrutta tutto il registro affettivo per mettere in parole l’intensità e la varietà di sfumature dell’esperienza dell’amore. L’appellativo più usato per la donna è hy[r: una volta in coppia con ytwxa (5,1) e otto volte da solo (1,9.15; 2,2.10.13; 4,1.7; 6,4). Il termine è reperibile solo nel Cantico e porta sempre il suffisso pronominale di prima singolare. Il termine è sempre pronunziato dal diletto ed è applicato unicamente all’amata47. La parola deriva da h[r, una radice che indica originariamente l’«amico», il «compagno» ed è la denominazione usuale per la donna del Cantico. Può essere considerato il corrispettivo femminile di dwd, di cui ripete le caratteristiche. Quindi, come il termine dwod, può essere considerato il «nome» dell’anonimo innamorato, così il sostantivo hy”[.r; può essere considerato il «nome» dell’innamorata nella relazione d’amore. L’appellativo hy”[.r; infine fa riferimento al registro dell’amicizia, con la sua caratteristica di tenerezza e di fedeltà48. Il linguaggio del Cantico dei cantici è, quindi, un linguaggio erotico. Rivela che il tema centrale del poema è l’amore, in tutta la varietà psicofisica delle sue manifestazioni. Viene valorizzata la dimensione fisica-erotico-sessuale dell’amore. L’equivalenza di fatto tra dwd (~ydwd) e bha (hbha) mostra che non c’è differenza netta tra i vari tipi di amore: ad esempio, tra amore erotico e amore agapico. Il linguaggio d’amore comprende tutto l’ambito della relazione uomodonna. Il linguaggio erotico è linguaggio globale: comprende, cioè, tutti i registri dell’amore interumano nelle sue espressioni più semplici e più belle. È tutta la persona, con la ricchezza delle sue relazioni, che viene coinvolta nel rapporto d’amore. L’amore in generale — che può essere familiare o amicale — si concentra e si concretizza in una figura singola che è quella della persona amata. Il Cantico gioca continuamente sui La formula maschile y[iêrE è usata una volta dalla donna per parlare del suo amato (Ct 5,16). Un’altra volta l’autore usa la forma plurale ~y[iêrE per indicare i due amanti (Ct 5,1). 48 Cfr. M.V. FOX, Song of Songs, cit., 103. 47


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due piani: l’universale e il particolare, l’astratto e il concreto. L’uno non esiste senza l’altro: non esiste l’amore senza la persona amata. Il linguaggio erotico si rivela al tempo stesso estremamente concreto e rarefatto. Il dwod o la hb’êh]a; o la hy”[._r; sono persone regali eppure anonime49. Sono persone regali eppure sono tutte le persone, anche le più oscure che iniziano un rapporto d’amore. Il linguaggio d’amore trasforma ogni relazione d’amore concreta in un poema universale. Chiunque ama può riconoscersi e specchiarsi nel Cantico. L’amore presentato nel Cantico è colto in un momento di piena, fresca felicità. L’amore è gioia e festa, la donna è creatura meravigliosa uscita dalle mani di Dio. Non vi è nessun accenno ad una istituzionalizzazione giuridica costringente, nessuna minaccia a causa dell’infedeltà; anzi, una ricerca continua della persona amata senza paura e senza vergogna. I due amanti si danno e si ricevono totalmente; non si vergognano della loro nudità, la celebrano, anzi, con stupore e ammirazione. La fedeltà non è richiesta ma offerta50. Il Cantico rifiuta le leggi imposte all’amore dall’esterno, sia dalla famiglia sia dalla società51: l’amore è legge a se stesso. Il rapporto d’amore è completo in se stesso, senza lo sbocco naturale nella fecondità. Ai due innamorati basta solo il loro amore, senza la preoccupazione delle conseguenze52. Ha fatto epoca la pole49 «Love makes lovers noble, even royal, and given greater than royalty» (M.V. FOX, Song of Songs, cit., 288). Il Cantico gioca su figure nobili e regali. Non è difficile notare, ad esempio, che dwd ha le medesime consonanti di David, che sono frequenti i riferimenti a Salomone e che in 7,1 la donna viene chiamata tyMiêl;WVå, le medesime consonanti di Salomone al femminile, ecc. (cfr. M.V. FOX, Song of Songs, cit., 157-158; M.T. ELLIOT, The Literary Unity, cit., 163). 50 Ciò non significa naturalmente, il libero amore nell’accezione moderna del termine, ma piuttosto che l’amore è di per sé fonte di gioia e di vita; cfr. anche A. M. DUBARLE, L’amour humain dans le Cantique des Cantiques, in Revue biblique 61 (1954) 67-86. 82-84. 51 I fratelli, che pretendono di stabilire per l’amata il tempo e le condizioni dell’amore, vengono bellamente presi in giro (1,5-6; 8,9-10), al pari di Salomone che si ripromette dal matrimonio vantaggi economici (8,11-12). E le figlie di Gerusalemme sono scongiurate, per ben tre volte, di non «svegliare» l’amore anzitempo, come sono solite fare, perché l’amore ha esso stesso le sue leggi, sa quando deve «svegliarsi» (2,7, 3,5; 8,3). 52 Questo dato è a prima vista sorprendente all’interno del Primo Testamento


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mica tra Helmut Gollwitzer e Pinchas Lapide al Kirchentag di Berlino del 1977. Lapide leggeva il Cantico come esaltazione dell’amore coniugale, Gollwitzer difendeva la tesi che l’amore non ha bisogno di legittimazione né da parte della società né della Chiesa. La tesi di Gollwitzer è stata ripresa recentemente da Lacocque, secondo cui: «The entire Song strums the chord of “free love”, neither recognized nor institutionalised»53. Non solo il rapporto maschio-femmina è paritetico nel Cantico, ma addirittura invertito. Basta confrontare le ricorrenze del termine dwod rispetto agli altri termini e la dinamica del poema per rendersi conto che il ruolo principale nel rapporto d’amore e l’iniziativa sono prerogativa particolare della donna54. È la donna che ha «recitato» la parte fondamentale del «dramma». È la donna del Cantico a tenere una lezione perfetta sul vero amore, sulla tenerezza, sull’eros, sul sentimento. È lei a confondere il sapiente, è lei a riannodare il filo interrotto dell’amore, è lei a svelare i segreti dell’intimità, è lei a far scoprire il senso ultimo della donazione totale reciproca.

2. IL LINGUAGGIO EROTICO NEL LIBRO DEI PROVERBI Il linguaggio erotico nel libro dei Proverbi appare soprattutto nella prima collezione, dove emergono in primo piano due figure femminili, che attirano con il loro messaggio: la Sapienza55 e la Stoltezza. Si vedrà tuttavia che la terminologia erotica si estende a ma non unico. Cfr. ad esempio, Gen 2,23-25. I richiami alla situazione paradisiaca, d’altra parte, abbondano nel Cantico (cfr. M.T. ELLIOT, The Literary Unity, cit., 264). 53 A. LACOCQUE, Romance She Wrote, cit., 8. 54 M.T. ELLIOT, The Literary Unity, cit., 237-238. 55 In tre punti di Pr 1-9 (1,20-33; 8,1-36; 9,1-6) appare con chiarezza la figura della sapienza personificata, la Signora Sapienza. Sui discorsi della Sapienza personificata cfr. A. BONORA, Il binomio sapienza-Torah nell’ermeneutica e nella genesi dei testi sapienziali (Gb 28; Pro 8; Sir 1.24; Sap 9), in A. FANULI (cur.), Sapienza e Torah, Bologna 1987, 31-48; R.J. CLIFFORD, Woman Wisdom in the Book of Proverbs, in G. BRAULIK, W. GROSS, S. MCEVENUE (curr.), Biblische Theologie und gesellschaftlicher Wandel, Freiburg-Basel-Wien 1993, 61-72; G. SEGALLA, Le figure mediatrici di Israele tra il III e il I sec. a.C. La storia di Israele tra guida sapienziale e attrazione esca-


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tutte le altre collezioni e che quindi si può forse parlare di un pattern comune — anche se non esclusivo — della letteratura sapienziale. Si può concordare con Lang nell’individuare il luogo di nascita del linguaggio erotico in Proverbi nell’ambiente educativo56. I maestri di sapienza avrebbero presentato ai loro discepoli la Sapienza come figura femminile per vari motivi: a) perché il termine hmkx è femminile57; b) per analogia con altre personificazioni femminili già note nella cultura ebraica58; c) perché Madama Sapienza («Frau Weisheit») può essere intesa come la divinità protettrice della scuola, come lo era dei re e dei funzionari; d) perché il rapporto con la «donna» Sapienza può essere così presentato con linguaggio erotico59. La terminologia erotica nei Proverbi si concentra primariamente nei capitoli iniziali, nei brani che riguardano la hr”_z” hV’äai, la «donna straniera»60. L’accento è posto sul pericolo che questa donna tologica, in G.L. PRATO, (cur.), Israele alla ricerca di identità tra il III sec. a.C. e il I sec. d.C., Bologna 1989, 13-65. 56 Cfr. B. LANG, Wisdom and the Book of Proverbs. An Israelite Goddess Redefined, New York 1986. 57 Sulla dimensione femminile della Sapienza cfr. G. BAUMANN, A figure with many facets: the literary and theological functions of personified Wisdom in Proverbs 1-9, in A. BRENNER – C.R. FONTAINE (curr.), Wisdom in Psalms, Sheffield 1998, 44-78; A. BRENNER, Some Observations on the Figurations of Woman in Wisdom Literature, in H.A. MCKAY (cur.), Of Prohpets’ Visions and the Wisdom of Sages, Sheffield 1993, 192-208; C.V. CAMP, Wisdom and the Femminine in the Book of Proverbs, cit., ID., Woman Wisdom as Root Metaphor: A Theological Consideration, in K.G. HOGLUND ET AL. (curr.,), The listening heart, Sheffield 1987, 45-76. 58 Cfr. le «figlie di Sion». 59 Questa motivazione è particolarmente interessante perché apre la strada ai paralleli letterari con Cantico, limitati alla terminologia scelta nel presente studio. 60 Per approfondire questa figura cfr. il panorama generale in M.V. FOX, Proverbs 1-9. A New Traslation with Introduction and Commentary, New York 2000, 134-141 e 252-262; B.K. WALTKE, The Book of Proverbs: Chapters 1-15, Grand Rapids – Cambridge 2004, 119-125. La figura della donna straniera ha attirato negli ultimi anni l’attenzione dei commentatori dei Proverbi, in particolare di molte esegete, che hanno riflettuto sulla femminilità di questa figura. Cfr. anche R.E. MURPHY, Wisdom and Eros in Proverbs 1-9, cit.; J.-N. ALETTI, Séduction et parole, cit.; J. BLENKINSOPP, The social Context of the ‘Outsider Woman’ in Proverbs 1-9, in Biblica 72 (1991) 457473; G.A. YEE, I have perfumed my Bed with Myrrh: the foreign woman in Pro 1-9, in Journal for the Study of the Old Testament 43 (1989) 53-58; M. HEJERMAN, Who Would


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rappresenta per l’incauto giovane. Si tratta di un motivo ben conosciuto nella letteratura egiziana e babilonese e ripreso più tardi dal Siracide61. Pr 1-9 dedica ben quattro passaggi ad ammonire i suoi ascoltatori di tenersi lontani dalla “donna straniera”: 2,16-22; 5,1-23 (in particolare 5,3-6 e 15-23); 6,20-35 e l’intero capitolo 7 che ne costituisce il climax. Si osservi che questi testi vanno in parallelo con l’avvertimento a tenersi lontani dagli uomini malvagi che appare in Pr 1,8-19; 2,12-15 e 4,10-19. Di nuovo, in Pr 9,13-18, si trova, proprio a chiusura dell’intero testo, una nuova figura negativa della donna: perché questa insistenza? Il testo del capitolo 7 appare come lo sfondo evidente di Pr 8, il testo della Sapienza personificata. Al capitolo 7 compare una sola volta il lessema62 plurale ~ydwd63, in un contesto interessante e con un parallelo altrettanto significativo; Pr 7,6-22 descrive l’adescamento di un giovane da parte della hr”_z” hV’äai. Il punto chiave della seduzione viene raggiunto dall’invito della donna a seguirla nel v.18: ~ybi(h’a\B’ hs’ªL.[;t.nI÷ rq,Bo+h;-d[; ~ydIdoâ hw<år>nI hk’Ûl.. +o -; d[; — che si riferiscono L’imperativo hk’lÛ . e la locuzione temporale rq,Bh anche al secondo stico — rivelano ormai con chiarezza la strategia dell’approccio: la donna invita il malcapitato giovane stolto (ble-( rs;x] r[;n,å: 7,7) a gustare con lei una notte d’amore. È da notare lo stretto parallelismo tra ~ydIdo // ~ybi(h’a\. Come in Cantico, non c’è differenza di significato tra i due termini e il senso è chiaramente erotico-sessuale64. Il plurale ~ydIdo viene usato costantemente nel senso di “amore”, più Blame Her? The ‘Strange? Woman of Proverbs 7, in A. BRENNER (cur.), A Feminist Companion to Wisdom Literature, Sheffield 1995, 100-109; C. MAIER, Die “Fremde frau” in Proverbien 1-9. Eine exegetische und sozialgeschichtliche Studie, Gottingen 1995; ID., Conflicting Attractions: Parental Wisdom and the “Strange Woman” in Proverbs 1-9, in A. BRENNER – C.R. FONTAINE (curr.), Wisdom and Psalms. A Feminist Companion to the Bible, Sheffield 1998, 92-108. 61 Cfr. Sir 9,1-9. 62 Il termine dwd singolare, basilare in Cantico per identificare la figura maschile, non compare mai in Proverbi. 63 In Pr 5,19 il TM va lasciato com’è. A questo proposito, V. COTTINI, Sulla composizione di Proverbi 5, in Liber Annus 37 (1987) 21-52: 41-42 afferma che il testo greco non va preso in considerazione perché è chiaramente una reinterpretazione. 64 A dimostrazione di ciò, questo è l’unico caso in cui i LXX hanno colto il tono


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precisamente di “rapporto amoroso fisico”. Qui il rapporto sessuale viene descritto plasticamente: ubriacarsi (hw<år>nI) di ~ydIdo e, parallela( a’ :\ esprimono la soddisfazione e l’ebmente, inebriarsi (hs’Lª [. t; n. )I con ~ybih brezza del piacere sessuale65. La donna promette un rapporto sessuale piacevole e prolungato fino al mattino seguente: mentre «l’amore per la vera moglie fa sentire l’uomo sempre amato, l’amore della hrz hva è transitorio; dura al limite fino al mattino, fino al ritorno del marito tradito»66, ha la parvenza di un rapporto coinvolgente e duraturo, ma è solo una fugace scappatoia. La seduzione rivela esplicitamente la cattiveria della proposta, ma maschera il fatto, riprorevole in sé, con l’offerta di un bene, il piacere fisico immediato67. Un’ulteriore indagine sulla terminologia dell’amore (bha) e sul motivo della ricerca (vqb o rxv e acm), ancorchè un po’ ripetitivo, porta a conclusioni analoghe. Il verbo bha ricorre in Pr 1,22; 3,12; 4,6; 8,17.21.36; 9,868. Dallo studio del verbo risaltano alcune idee importanti: “amare” indica un desiderio di prossimità fisica, di un legame stretto con la persona che si ama o con un oggetto o una realtà che rappresentano tale persona; erotico del testo ebraico, hanno ritenuto appropriato servirsi dei termini greci indicandi precisamente l’amore sessuale ed hanno tradotto ~ybi(h’a\ con e;rwj: cfr. J. BERGMAN – A. HALDAR – G. WALLIS, ’ hab, cit., 219. 65 In Pr 5,19 hwr esprimeva il piacere legittimo con il proprio marito. 66 G.A. YEE, I Have Perfumed My Bed, cit., 63. 67 Secondo alcuni autori, la donna di cui qui si parla avrebbe un doppio aspetto: letterale e simbolico insieme. Potrebbe essere ad esempio una straniera devota dei culti della fertilità. Secondo W. MCKANE, Proverbs. A New Approach, London 1970, 285, i due termini sono da prendersi come sinonimi; qui si parla di una outsider, una donna “etnicamente” straniera. Ma l’insistenza sul “linguaggio” seducente ed erotico della donna aiuta a uscire dalla gabbia di queste interpretazioni di carattere storico, per spostare l’accento su ciò che la donna realmente dice (cfr. G.A. YEE, I Have Perfumed My Bed, cit.; J.-N. ALETTI, Proverbes 8,22-31. Étude de structure, in Biblica 57 (1976) 25-37): essa va evitata perché conduce i giovani ebrei ad ascoltare parole che li allontanano da Dio (2,17). Essa sarebbe così il simbolo di una diversa sapienza, una sapienza «straniera» che, nella mente del traduttore greco, diventa probabilmente la sapienza greca (cfr. J. COOK, hrz hva (Proverbs 1-9 Septuagint): A Metaphor for Foreign Wisdom, in Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft 106 (1994) 458-476. 68 In Pr 10-31 il verbo bha ricorre anche in 12,1; 13,24; 14,20; 15,9.12; 16,13; 17,17.19; 18,21.24; 19,8; 21,17; 22,11; 27,6; 29,3.


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“amare” ha un contenuto fortemente pragmatico e rinvia sempre a azioni concrete (Pr 10,12; 17,9; 27,5). Il sostantivo hbha è presente in Pr 5,19 . Nell’ottava istruzione di Pr il saggio, sempre sotto le vesti di un padre premuroso, mette in guardia il figlio contro le lusinghe della donna altrui, descrivendone ampiamente le tristi conseguenze. A questa ammonizione il saggio aggiunge l’augurio per il figlio di un buon amore coniugale, descrivendogliene le serene gioie. Il rapporto erotico con la propria donna (5,15-19) e con la “straniera” sono delle esemplificazioni della “via” della Sapienza o della vita e la “via” della Stoltezza o della morte, nell’ambiente educativo. La fedeltà alla propria donna a sua volta trova immediata eco nella fedeltà alle parole dei maestri, mediante i quali è la stessa Sapienza che si esprime69. La “via della Sapienza” dunque percorre le strade della quotidianità di un duro insegnamento dato goccia a goccia . Come per l’amore nel Cantico, non esiste la percezione dell’universale senza quella del singolare; non esiste amore per la Sapienza senza amore per l’insegnamento dei saggi. La Sapienza va ricercata, per essa si deve faticare. Il topos della ricerca per la Sapienza ricorre spesso nei libri sapienziali. Il motivo della ricerca viene espresso attraverso l’utilizzo del verbo vqb o attraverso i due verbi rxv / acm. La radice vqb70 ricorre al tema pi’el, mentre in tre casi soltanto è usata la forma pu’al, come passivo del pi’el71. Il significato della radice verbale è «cercare», che presuppone come soggetto una persona e come oggetto una persona o una cosa. Questo processo tende ad individuare un oggetto esistente, o che dovrebbe esistere, e momentaneamente introvabile. vqb serve per esprimere l’eliminazione di uno stato di mancanza. «Cercare» è un’attività consapevole, finalizzata, che richiede a volte molto sforzo, intelligenza e 69 Sull’argomento, vedi A. BONORA, La donna eccellente, la sapienza, il sapiente (Pr 31,10-31), cit., 160-161. 70 A quanto è dato da vedere, vqb è una radice semitica impiegata principalmente nell’ambiente siro-palestinese, documentata già in ugaritico . Nel Primo Testamento ricorre più di 220x. La si incontra inoltre in fenicio, a Qumran e nei testi ebraici post-biblici. In tutte queste attestazioni, ad eccezione forse dei testi qumranici sinora conosciuti, vqb significa «cercare» nel senso proprio della parola. 71 Si tratta di Ger 50,20; Ez 26,21 ed Est 2,23.


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fantasia. Nel libro dei Proverbi, la radice verbale vqb ricorre la prima volta in 2,472. Il discepolo deve industriarsi per trovare la Sapienza ma anche deve unire il desiderio che anima chi cerca un tesoro. Il v.4 illustra con quanto interesse e amore si deve cercare la Sapienza. Come chi cerca un metallo prezioso, come l’oro o l’argento, si sottomette alle dure condizioni della miniera, così chi desidera la Sapienza deve cercarla con generosa dedizione. Se il discepolo cercherà la Sapienza la troverà73. La terminologia della “ricerca” viene espressa anche dalla radice verbale acm. La traduzione «trovare» rappresenta il significato principale dell’ebraico biblico. Il verbo acm («trovare») in Proverbi ricorre sempre in coppia con il verbo rxv (al pi’el «cercare»): appaiono in 1,28, in 7,15 e in 8,17. Il verbo acm, da solo, si trova in 1,13; 2,5; 3,4.13; 4,22; 6,31.33; 8,9.12.35. Cercare — trovare — amare la Sapienza equivale a cercare — trovare — amare Dio o meglio, secondo la “dinamica speculare” o reciprocità, tipica del linguaggio erotico, aprirsi ad essere cercati — trovati — amati dal Signore. Nella prima collezione di Proverbi dunque, ancora una volta, il dialogo tra i discepoli e la Sapienza o Stoltezza, mediante l’ascolto delle parole dei maestri, o rispettivamente, mediante l’ascolto della “straniera”, è sostenuto da un linguaggio erotico, basato sull’amore reciproco e sulla dinamica del motivo ricerca-ritrovamento. La terminologia erotica è disseminata in tutto il libro dei Proverbi. Anche nelle altre collezioni, infatti, ricorrono motivi analoghi. La Sapienza si trova sulle labbra del saggio e, contemporaneamente, egli l’ama. In Pr 10,12-13, in 12,1 e in 29,3 si trova infatti la radice bha usata sia nella sua forma verbale (12,1), che in quella sostantivata (10,12). Il saggio, però, non solo deve «amare» la sapienza ma la deve continuamente «cercare» e «trovare». In Pr 15,14 e in 18,15, infatti, ritorna la radice verbale vqb utilizzata al pi’el con il signiIl verbo vqb ricorre 13x nella seconda collezione di Pr 10-31: 11,27; 14,6; 15,14; 17,9.11.19; 18,1.15; 21,6; 23,35; 28,5; 29,10.26. 73 Cfr. M.V. FOX, The Pedagogy of Proverbs 2, in Journal of Biblical Literature 113 (1994) 233-243: 243. 72


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ficato, appunto, di «cercare». In Pr 21,21, invece, torna la radice verbale acm («trovare»), così come in Pr 18,22 e nel poema finale di Pr 31. Particolarmente interessante sono queste due ricorrenze perché il vocabolario utilizzato mette in parallelo la ricerca e il ritrovamento della Sapienza e della donna (o moglie). In Pr 18,22 il verbo ac’äm’ al qatal qal, significa che una vera moglie è rara e bisogna cercarla con grande attenzione, perché prima di sposarsi tutte le donne sembrano virtuose, generose e amabili, ma dopo sposate mettono fuori la loro vera indole e i loro difetti, così dice il mashal. Inoltre bAj+ ac’m’ä è una frase idiomatica per indicare prosperità e felicità . Trovare una buona moglie è una grande cosa nella vita di una persona, ma è anche un dono di Dio, che deve essere custodito e non gettato via. Ricevere questo dono comporta anche l’impegno dell’uomo nel cercarlo. Pr 31 è, invece, il poema finale del libro; qui la donna saggia e laboriosa altro non sarebbe se non l’immagine della Sapienza, già del resto personificata in Pr 1-9. Effettivamente, un’analisi dettagliata del testo può rivelare diversi punti di contatto tra la descrizione della donna e quella della Sapienza74. Non c’è sostanziale differenza, quindi, tra la prima collezione di Proverbi e le altre. I detti e le istruzioni che si trovano in Pr 10-31 costituiscono la sostanza delle istruzioni e dei discorsi di Pr 1-975. Ogni feriale esperienza distillata nei detti è già un incontro con la medesima Sapienza di Pr 8, che rimanda continuamente ad altri e più profondi incontri, secondo la dinamica dell’amore espressa dal linguaggio erotico del Cantico. Nessuno di questi incontri e nemmeno la loro somma può abbracciare tutta la Sapienza: la presenza di Dio nel

74 Per un’analisi di Pr 31, cfr. A. BONORA, La donna eccellente, la sapienza, il sapiente (Pr 31,10-31), cit. M. GILBERT, La donna forte di Pr 31,10-31: ritratto o simbolo?, in G. BELLIA – A. PASSARO (cur.), Il libro dei Proverbi. Tradizione, redazione, teologia, Casale Monferrato 1999, 147-167. 75 Giustamente M. GILBERT, Le discourse de la Sagesse en Proverbes, 8. Structure et cohérence, in ID. (cur.), La sagesse de l’Ancien Testament, cit., 202-218, 205. 215. 218, nota che in Pr 8 il discorso della Sapienza è più un invito all’ascolto che una presentazione di contenuti. Questi andrebbero cercati nelle raccolte di Proverbi successive.


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mondo rimane sempre “elusiva”, è presenza — assenza. Il frammento partecipa però del tutto, anche se non lo esaurisce76. In quest’ottica, scompare ogni distinzione netta tra “sacro” e “profano”, “religioso” e “laico” nella Sapienza di Proverbi77; come per l’amore in Cantico, l’approccio umano alla realtà del mondo è approccio globale. Ogni esperienza del mondo è esperienza di Dio e viceversa78.

3. L’ESEMPIO DI ALCUNI CANTICI E PROVERBI

PARALLELI LETTERARI TRA

CANTICO

DEI

Sia Cantico dei cantici che Proverbi appartengono all’ambito sapienziale. Questo fatto permette di stabilire, senza eccessivo pericolo di svarioni ermeneutici79, paralleli letterari. Praticamente tutti i commentari e gli studi su ciascuno dei due libri riportano motivi o espressioni comuni, anche se la ricerca rimane finora limitata quasi esclusivamente ai primi nove capitoli di Proverbi. Il primo parallelo letterario tra il linguaggio erotico di Cantico e di Proverbi si può trovare in Ct 4,11ab; Pr 5,3-4; Pr 24,13-14.

76

Cfr. A. BONORA, La donna eccellente, la sapienza, il sapiente (Pr 31,10-31), cit.,

161. 77

La suddivisione tra sacro, profano e reinterpretazioni yahvistiche è ancora piuttosto diffusa tra gli studiosi. Vedi, ad esempio, N. HABEL, The Symbolism of Wisdom in Proverbs 1-9, in Interpretation 26 (1972) 131-157, per quanto riguarda Pr 1-9 e il commentario di W. MCKANE, Proverbs, cit. Un’acuta critica a questa posizione si trova nello studio di F.M. WILSON, Sacred and Profane? The Yahwistic Redaction of Proverbs Reconsidered, in K.G. HOGLUND et al. (cur.), The Listening Heart. Essays in Wisdom and the Psalms in Honor of R.E. Murphy, Sheffield 1987, 313-334. Cfr. anche L. BOSTRÖM, The God of the Sages. The Portrayal of God in the Book of Proverbs, Stockholm, 1990, 33-41. 78 Cfr. G. VON RAD, La Sapienza in Israele, Torino 1965, 65. 79 Senza parlare ancora di genere letterario comune, A.-M. DUBARLE, L’amour humain dans le Cantique des Cantiques, in Revue biblique 61 (1954) 67-86, aveva già intuito che i paralleli letterari più immediati e più rispettosi del senso del Cantico andavano fatti con i libri sapienziali. Egli mette in guardia invece dai paralleli con altre teologie come quella, ad esempio, dei Profeti.


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Il contesto in cui è inserito Ct 4,11 è una lunga ed entusiastica dichiarazione d’amore chiamata «i due canti del diletto» (Ct 4,1-7 e 4,8-5,1) che corrispondono chiasticamente ai cosiddetti «due canti dell’amata» (Ct 2,8-17 e 3,1-5). Ct 4,11 inizia con uno stico di qualità sonora: %yIt:ßAtp.fi hn”p.JoïTi tp,nO° («miele vergine stillano le tue labbra»). tp,nO° non è il termine usuale per indicare il «miele» (che si chiama abitualmente vb;ÛD>, cfr. v.11b): il pensiero, dato il contesto (~ydIdo, al v.10ab), va naturalmente al bacio, di cui si mette in evidenza la dolcezza. Baciare è come suggere nettare o miele purissimo. Le labbra sono comparate a tp,nO°, cioè al nettare che stilla, al miele vergine, un segno di straordinaria dolcezza (Pr 27,7). Certo, è possibile che il rimando metaforico sia quello del linguaggio: le parole della donna sono dolci e tenere come miele, stillano come gocce di miele80. Ma il contesto che celebra l’eros della femminilità convince a vedere in questo miele vergine, che stilla dal favo senza bisogno d’esser spremuto, un’evidente immagine del bacio. L’immagine prosegue con la stessa intensità nello stico successivo: dalla lingua, come da sorgente sotterranea, fluisce il ruscello di «miele e latte». %nEAë vl. tx;Tä; ‘bl’xw’ > vb;DÛ > («miele e latte sono sotto la tua lingua»). Il pensiero va ancora anzitutto al bacio «umido» di due amanti, in cui la lingua gioca un ruolo importante81. Come sempre, nel Cantico l’immediatezza delle immagini si carica di risonanze colte e si sfrangia in molteplici allusività, senza per questo perdere la sua compattezza simbolica. L’elemento centrale resta il corpo nel suo valore di segno, ma accanto a questo significato si lascia anche qui percepire l’altro, legato alla funzione della lingua come strumento della parola. Antiteticamente, «sotto la lingua» dell’amata vi sono parole che nutrono l’amore («miele e latte»): si tratta della rappresentazione di un significato fortemente fisico, essendo una chiara espressione del piacere del bacio prolungato. Tra due amanti le parole non sono meno importanti dei baci! Ma si tratta qui di un senso secondario, perché il contesto parla del «gusto» e dell’«olfatto», non dell’«udito». Tuttavia il lessico scelto permette di aprire quell’atto 80

Cfr. Pr 14,24; Gb 29,22; Am 7,16; Ez 21,2.7; Mi 2,6.11. Cfr. B. PRITCHARD (cur.), Ancient Near Eastern Texts Relating to the Old Testament, Princeton 19693, 645 («The sated lover»). 81


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amoroso ad altre dimensioni, divenendo segno di felicità, di donazione, di amore totale, di trasparenza reciproca e persino di esperienza superiore, quella suggerita dal valore simbolico dei termini usati. È su questo delicato equilibrio di realismo e allusività, di corporeità e di spiritualità che costantemente si regge il Cantico con le sue immagini e le sue intuizioni. Il v.11a ha un sorprendente parallelo in Pr 5,3: «miele vergine stillano le labbra della straniera»82. In Pr il parlare mellifluo della hrz è pericoloso e causa della sua potenziale influenza sulle scelte del figlio-discepolo. La hrz infatti, non sembra essere pericolosa a causa della sua bellezza o delle sue grazie — questo potrebbe, è vero, essere dedotto indirettamente e per contrapposizione alle esaltate grazie della moglie legittima — ma soprattutto per quello che essa dice, a causa delle sue parole. Si è già ricordato precedentemente lo studio stimolante di J.-N. Aletti83, in cui fa acutamente notare questo mezzo di seduzione che è tipico di Pr 1-9, ed è tipico non per le parole in sé, ma perché per mezzo di esse emergono due mondi assiologici contrapposti. Il pericolo vero che è posto innanzi al discepolo in questo senso non è tanto quello di finire una volta tra le braccia di una prostituta o di un’adultera, ma piuttosto quello di mettere in dubbio la validità degli insegnamenti dei suoi maestri. Per questo, probabilmente, proprio in apertura del discorso, nel v.3, viene sottolineato il parlare mieloso e seducente della donna. Ma questo pericolo di seduzione per mezzo della parola appare in tutti i contesti in cui viene presentata la straniera, sempre in punti importanti dell’insegnamento e con elementi di vocabolario simili o identici84. Con la parola seduttrice la donna vuole ammaliare il discepolo, invitando a gustare le sue dolcezze, le quali, però, si rivelano, in un secondo momento, solo apparenza (v.4). La camuffata dolcezza viene smascherata nella sua cruda amarezza: l’immagine dell’assenzio 82 Fra l’altro, qui il parallelismo con il v.3b («più viscida dell’olio è la sua bocca») e l’antitesi con il v.2b («le tue labbra custodiscano la scienza») suggeriscono che si alluda più ai discorsi della donna che ai suoi baci. Sull’intertestualità tra il Cantico e Proverbi 1-9, cfr. M. PAUL, Die “fremde Frau” in Sprichwörter 1-9 und die “Geliebte” des Hohenliedes. Ein Beitrag zur Intertextualität, in Biblische Notizen 106 (2001) 40-46. 83 Cfr. J.-N. ALETTI, Séduction et parole, cit., 129-144. 84 Cfr. ad esempio Pr 2,16; 6,24; 7,21.


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normalmente adoperata per esprimere il dolore, la sofferenza, l’abbattimento, il castigo finale viene adoperata al v.4 per descrivere «la fine» (tyrIx]a;). Se l’appetito per la donna attraeva il discepolo, ora egli è colpito proprio nel gusto che si rivela l’esatto contrario di ciò che sembrava. Il padre, con la sua sapienza, conosce l’epilogo di questa attrazione fatale e per questo avvisa il discepolo che, nella sua inesperienza, confonde ancora la finzione con la realtà, ciò che dà la vita con ciò che dà la morte. La corrispondenza tra Ct 4,11ab e Pr 5,3-4 è così precisa, che è difficile pensare che si tratti di casualità o di espressione stereotipa. Questa connessione ha permesso a Robert di sostenere la dipendenza di Ct 4 da Pr 5 e quindi la sua datazione post-esilica, essendo Pr 1-9 di area cronologica abbastanza recente85. Tuttavia l’espressione comune ai due testi sembra avere formula stereotipa e perciò di difficile collocazione cronologica86. In Pr 24,13-14 viene adoperato ancora il medesimo tipo di linguaggio. Nella terza collezione del libro dei Proverbi (22,17-24,22), che comprende un’introduzione e trenta proverbi indirizzati in modo particolare ai giovani, si trovano i mashal riguardanti il destino dell’uomo e del malvagio (24,122). Ai vv.13-14 il giovane viene istruito sulle “conseguenze” dell’acquisto della Sapienza. Come il miele, simbolo di tutto ciò che è dolce e gradevole, è buono e dolce al palato, così è la Sapienza per l’anima e soave per la mente. Ma mentre il miele invecchiando si guasta, la Sapienza più invecchia e più diventa soave. In questo senso la speranza di chi si nutre di Sapienza non sarà inutile. Tra i tre testi, Ct 4,11ab è il passo più “neutro”. Non ha niente da dimostrare, nulla da promettere o da cui mettere in guardia. È sola85 Cfr. A. ROBERT – R. TOURNAY, Le Cantique des Cantiques. Traduction et commentaire, Paris 1963, 176-177. 86 Non è l’unico caso in cui, secondo Barbiero, il Cantico riprende un testo del Primo Testamento cambiandone il senso. Probabilmente si può riscontrare un’intenzione polemica: il Cantico vuole espressamente correggere una concezione negativa della sessualità, quale è presentata in altri libri primotestamentari. O, forse, vuole contrapporre all’amore della hrz (Pr 5,3) quello della hL’êK; (Ct 4,11a). L’accostamento dei due testi conduce a questa ipotesi. Il Cantico riprende parola per parola il testo di Pr 5, sostituendo solo alla fine hrz con hlk. Il processo di estraniazione del testo riguarda soprattutto queste due parole: cfr. G. BARBIERO, Cantico, cit., 185.


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mente espressione di amore intenso per la hlk; («sposa») ed esalta il piacere erotico mediante immagini di tenerezza e di dolcezza. È linguaggio erotico puro, che fornisce il supporto verbale e simbolico per ogni tipo di amore. Elliot nota che una delle caratteristiche del Cantico dei cantici è di intensificare i motivi — qui primariamente quello della dolcezza del cibo — rovesciandoli, cosicché la bocca (labbra e lingua) può esprimere l’organo del gusto e l’organo che viene gustato87. Ma la bocca, oltre che uno degli organi più importanti dell’amore, è anche il luogo tipico della parola88. In questo senso il linguaggio erotico diventa veicolo di un messaggio più ampio, che svela la pericolosità della «straniera» in Pr 5 e in Pr 7: la donna seduce non solo mediante la bellezza89 e la promessa implicita o esplicita di tenerezze amorose ma soprattutto mediante la parola melliflua, che propone una via contraria a quella della Sapienza (Pr 2,16; 6,24). Ancora lo stesso tipo di terminologia viene adoperata per la Sapienza stessa nel mashal di Pr 24,13-14, dove la bocca, questa volta, è quella del discepolo, invitato a gustare le dolcezze della Sapienza così come si gusta la bontà del miele o la donna amata. È questa la seduzione femminile alla quale il discepolo — o figlio — deve cedere, il richiamo amoroso al quale deve rispondere90. Il linguaggio erotico del Cantico viene quindi utilizzato in Proverbi come veicolo della seduzione sia da parte della hrz sia da parte della Sapienza. Da notare inoltre che il medesimo linguaggio unisce la prima collezione di Proverbi con la terza. Il rapporto amoroso con la bocca della “donna” ha tuttavia esiti (tyrIx]a;) diversi. Nel Cantico si apre all’amore totale: in 4,16 e in 5,1 vi è l’unione dei due amanti, descritta sotto la metafora dell’«olfatto» e del «gusto», già precedentemente preannunziata. In Pr 5 la fine è

87

Cfr. M.T. ELLIOT, The Literary Unity, cit., 241.246. Cfr. J.-N. ALETTI, Séduction et parole, cit., 129-144. 89 Cfr. Pr 6,25. 90 Cfr. Pr 8,6-8 dove alle parole (rBE+d:a]) della Sapienza corrispondono l’apertura delle labbra (yt;ªp’f.÷ xT;îp.mi), il palato (yKi_xi) e le parole della bocca (ypi_-yrEm.ai). 88


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amara: la hrz conduce nella sua dimora di morte il discepolo (vv.5.2223); al contrario, in Pr 24 conduce alla vita91. Un ulteriore parallelo letterario tra il Cantico dei cantici e i Proverbi può essere fatto sui brani, dove la bellezza dell’amore, anche fisico, è riconosciuta ed esaltata, con termini simili ad entrambi i libri. Ct 4,12-15 è la terza strofa del “secondo canto” del diletto (4,85,1): questa è strettamente unita alla quarta (4,16-5,1) dalla metafora del «giardino». La terza strofa continua il discorso del diletto iniziato al v.8 : al v.16 prende la parola la donna. La terza e la quarta strofa si distinguono fra loro non solo per il soggetto parlante ma anche per la diversa dinamica. La strofa92 è costituita di una cornice (vv.12.15), in cui si parla di «giardino» (!G:)ï e di «sorgente» (!y”[ï m. ); , e di una parte centrale (vv.13-14), in cui sono elencate le piante di questo meraviglioso giardino. I due vv.13 e 14 costituiscono le due sezioni dell’elenco. «Giardino chiuso, sorella mia». L’amata non è «come» un giardino. È essa stessa il giardino. L’identificazione della donna con il giardino è un caso particolare della sua identificazione con la terra, un tema ricorrente nel Cantico93. In parallelo con il «giardino», è posta la «fontana» (lG:ï). La donna è dunque non solo il giardino, ma anche l’acqua che lo irriga94. Come nel caso del «giardino», anche in quello dell’acqua è percepibile un doppio senso: l’acqua che placa la sete diviene metafora dell’amore di cui una donna può saziare il suo uomo. Il «giardino» e la «fontana» sono «chiusi» (lW[ßn)” . Il verbo descrive un oggetto chiuso dal di dentro con un chiavistello. Qui il punto di vista è quello della donna: la porta è aperta dall’interno; l’uomo, anche il proprio uomo, non vi può «entrare» senza chiedere il permesso. In questo senso l’accento enfa91 Sull’identità dell’approccio seduttivo e la diversità delle conseguenze, cfr. J.N. ALETTI, Séduction et parole, cit., 136-138. 92 Per la composizione letteraria dei vv. cfr. G. BARBIERO, Cantico dei cantici, cit, 188. 93 Come in tutto l’AVO, il «giardino» è da una parte il luogo dell’amore (cfr. 1,16b-17; 7,12; 8,5c), dall’altra, metafora della sessualità della donna. 94 In Medio Oriente un giardino è impensabile senza un bacino d’acqua: le piante dipendono totalmente dall’irrigazione, come è ricordato in Sal 1,13; Ger 17,8; Ez 47,12.


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ticamente posto sulla «chiusura» è un’indiretta richiesta di «aprire» il giardino. Soltanto dopo che la donna ha dato il suo consenso (v.16), l’uomo vi entrerà. Come mostrano i versi successivi, se la donna non apre, l’incontro non può avvenire: e il permesso si deve chiedere ogni volta, altrimenti l’incontro è violenza, non amore. In parallelo con «fontana» è posto nel v.12b il termine !y:å[.m; («sorgente») come è il caso anche al v.15, la donna non è soltanto la vasca che contiene l’acqua per l’irrigazione, ma anche la «sorgente» da cui quest’acqua proviene. Ciò vuol dire, come il v.15 espliciterà, che quest’acqua non è stagnante, ma corrente, «viva», e, d’altra parte, che il giardino è autonomo quanto a irrigazione: non deve attingere l’acqua da altrove. Ciò permette al giardino di essere veramente «chiuso». Questo fatto è ribadito dal participio ~Wt)x’ («sigillato»), che forma una parallelo con lW[ßn” (chiuso). Se quest’ultimo termine indica la chiusura dal di dentro, il «sigillo» indica la chiusura dal di fuori95. La figura del sigillo vuole esprimere l’esclusività dell’amore. Non è l’unico passo che il corpo dell’amata riceve nel Cantico un trattamento sul piano dell’immagine. I germogli di questo giardino si caratterizzano per la loro squisitezza e i loro aromi. Ed è evidente che il poeta non si perde in moine, poiché il linguaggio è diretto: l’uso del possessivo ‘%yIx;’l’v. («i tuoi germogli») indica chiaramente l’identificazione con alcune parti del corpo dell’amata96. Anche il «frutto» (yrIPå ). ha qui una connotazione chiaramente erotica97: il testo parla chiaramente delle gioie legate alla sessualità. Una terminologia simile viene utilizzata anche da Proverbi. Il “padre” espone più volte al “figlio” i pericoli che derivano dal 95 Il sigillo si apponeva all’esterno di una porta chiusa. Se uno voleva entrare doveva prima rompere il sigillo: il sigillo apposto a una porta impediva ingressi furtivi, non autorizzati. 96 Cfr. Ct 7,13. Sembra corretta l’opinione che il termine ebraico qui utilizzato costituisca un riferimento metaforico alla zona pubica. Ciò è confermato anche dal parallelo possibile con un canto d’amore sumero: V. MORLA, Poemi d’amore e di desiderio. Cantico dei cantici, Roma 2006, 240-241, cfr. anche la discussione e le varie posizioni degli esegeti in G. BARBIERO, Cantico dei cantici, cit., 192-193. 97 Cfr. Ct 2,3. Si tratta di una accezione diffusa nella letteratura amorosa dell’Antico Oriente, soprattutto in Mesopotamia, dove il «frutto» rappresenta la sessualità maschile o femminile: cfr. G. BARBIERO, Cantico dei cantici, cit., 194.


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frequentare la donna adultera, la hrz, e per distoglierlo maggiormente dal correre dietro ad essa, gli comanda una volta (5,15-19) di riversare tutto il suo amore alla sua donna. Questo è, infatti, l’unico passo che tratta positivamente ed esplicitamente dell’amore per la propria donna e, a differenza dei passi sulla «straniera», qui si trova un linguaggio immaginifico, altamente poetico ed erotico, che manifesta legami numerosi con il Cantico98. Il bere l’acqua rientra nel linguaggio che si riferisce alla sfera erotico-sessuale. L’acqua che placa la sete diviene metafora dell’amore di cui una donna può saziare il suo uomo. Se è la sete sessuale che spinge l’uomo verso l’adultera, la stessa lo deve spingere verso la propria moglie, poiché il dolce della prima non può placare la sua sete, mentre l’acqua della seconda la estingue. Come anche in Ct 4,12.15, la donna non è soltanto la vasca che contiene l’acqua per l’irrigazione, ma anche la «sorgente» da cui quest’acqua proviene. Per Blenkinsopp nell’intera sezione di Pr 1-9 si delinea una contrapposizione tra la Donna Sapienza e la donna straniera99; le acque del v.15 sono metafore delle due proposte sessuali, quella buona (Pr 5,15) e quella cattiva (Pr 5,16 e 9,17), che si presentano al giovane: «entrambe le donne usano lo stesso linguaggio metaforico, acqua della tua cisterna e acque nascoste, ma l’effetto nel primo caso è salvifico, nel secondo è mortifero. L’autore vuole combattere la “straniera” con le medesime armi, che usa ella stessa: la bellezza e il piacere. Qui la partner viene chiamata con il termine hV’ai («femmina, donna»), termine che in questo contesto assume un carattere marcatamente realistico e sensuale, anzi erotico. Mentre il godimento con un’estranea si rivela fallace, quello con la propria donna è sicuro e stabile perché può contare sull’esperienza fatta lungo gli anni.

98 Sui rapporti tra la «donna della giovinezza» e il Cantico, cfr. A. DE NICOLA, “La moglie della tua giovinezza” (Prov. 5,15-19), in Bibbia e Oriente 12 (1970) 153-183. 99 Cfr. J. BLENKINSOPP, The Social Context of the ‘Outsider Woman’ in Proverbs 1-9, in Biblica 72 (1991) 457-473: 466: «the Woman Wisdom in therefore in all essential respects a reverse mirror image of the Outsider Woman»; per l’autore la personificzione della Sapienza è una seconda elaborazione in rapporto alla donna straniera. Dello stesso parere è anche C.R. YODER, Wisdom as a Woman of Substance. A Socioeconomic Reading of Proverbs 1-9 and 31,10-31, Berlin-New York, 2001, 74.


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Vi sono altri paralleli tra il Cantico dei cantici e i Proverbi, anche se di minore importanza. Pr 6,25-34 rivela diversi riferimenti all’Epilogo del Cantico (8,6-7): in Pr 6,27 l’amore — anche se per un’altra donna diversa dalla propria moglie — è collegato, così come in Ct 8,6, al «fuoco» (va) ma anche alla ha’n>qi («gelosia»). Chi si lascia prendere da un amore furtivo, «dovrà consegnare tutti i beni della sua casa» (Pr 6,31, cfr Ct 8,7). Più espliciti sono i legami di Pr 7,1-27 con i due «notturni» del Cantico, 3,1-5 e 5,6-8. La hrz si aggira, «all’apparir della notte e del buio» (Pr 7,9, cfr. Ct 3,1), «fuori» (Pr 7,12, cfr. Ct 8,1), «per le piazze (Pr 7,12, cfr Ct 3,2) e «sulla strada» (Pr 7,8, cfr. Ct 3,2). Essa «cerca» (rxv, Pr 7,15, cfr. vqb, Ct 3,1.2; 5,6) e «trova» (acm, Pr 7,15, cfr. Ct 3,1.2.3.4; 5,6.7.8) il suo amante, l’«afferra» (Pr 7,13, cfr. Ct 3,4) e lo «bacia» (Pr 7,13, cfr. Ct 1,2; 8,1); lo invita all’«amore» (~ydIdoâ, Pr 7,18, cfr. Ct 1,2.4; 4,10; 7,13) sul suo «letto» (Pr 7,16; cfr. Ct 1,16; Pr 7,17, cfr. Ct 3,1), profumato di «mirra, aloe e cinnamomo (Pr 7,17, cfr. Ct 4,14: gli unici versi della Bibbia dove questi profumi ricorrono insieme). Ancora, come in Pr 5,3, ciò che nei Proverbi è attribuito alla «donna straniera», è riferito dal Cantico all’amata.

4. AMORE E DONNA, SAPIENZA E DONNA100 Il confronto del linguaggio erotico tra il Cantico e Proverbi trova senso e spiegazione se compreso in un orizzonte “sapienziale”. La terza motivazione dell’Epilogo del Cantico (8,7d-f) è un segnale piccolo ma estremamente prezioso per l’interpretazione complessiva. «Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore, non ne otterrebbe che disprezzo»: l’affermazione va collocata sullo sfondo della speculazione sul carattere della Sapienza. È principio diffuso nel Primo Testamento, specialmente nei libri sapienziali, che la Sapienza non ha prezzo, essa è superiore a tutte le ricchezze del 100

Sull’argomento cfr. N.J. TROMP, Wisdom and the Canticle, in M. GILBERT (cur.), La sagesse de l’Ancien Testament, cit., 88-95; A. NICCACCI, Wisdom as Woman, Wisdom as Men, Wisdom and God, in N. CALDUCH-BENAGES – J. VERMEYLEN (curr.), Tresaures of Wisdom Studies in Ben Sira and the Book of Wisdom, Leuven 1999, 369-385.


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mondo101. È interessante notare che in Proverbi stesso, e precisamente in Pr 20,15 («Possesso di oro e quantità di perle, ma tesoro prezioso sono labbra di saggezza») e in Pr 31,10 («Una donna forte chi la troverà? Superiore alle perle è il suo valore»), la preziosità superiore della Sapienza viene detta dalle labbra sagge e dalla «donna di valore. Questi passi dischiudono una prospettiva importante per l’interpretazione del Cantico. Da un lato, i libri sapienziali affermano che la preziosità della Sapienza è superiore ad ogni tesoro, come il Cantico afferma questo dell’amore. Dall’altro, Proverbi estende la preziosità della Sapienza a certe manifestazioni concrete della Sapienza stessa, quasi a delle sue personificazioni, tra cui in particolare la «donna forte». Ora nel Cantico l’amata afferma, accanto alla forza e alla invincibilità, la preziosità superiore dell’amore e lo fa in modo tale che in certa misura si auto identifica con esso, quasi parlando come una sua manifestazione o personificazione. Tutto lascia capire che lei si identifica — identificazione parziale ma vera — con l’Amore forza divina della vita. In pratica lei rivolge al suo lui una forte esortazione, anzi una richiesta: faccia la sua scelta per l’Amore, concretizzando questa scelta nella scelta della sua lei. La ragazza, quindi, sembra essere una sorta di personificazione o incarnazione dell’Amore forza divina della vita presente nel mondo. Non come Signora Sapienza che parla con autorità divina, o a nome di Dio, promettendo vita per chi l’ascolta e minacciando morte per chi non l’ascolta (Pr 8,35-36); la ragazza non si arroga tanta autorità benché parli con decisione e convinzione. La sua posizione è simile a quella della donna nella visione dei saggi, secondo la quale «comprare» la donna della propria vita è un primo passo per «comprare» la Sapienza dando tutto quello che uno possiede, anzi tutto se stesso. Tra i vari orientamenti interpretativi ebraici del Cantico, uno ritiene che i protagonisti siano Salomone e la Sapienza, più che Dio e Israele102. Questa identificazione, proposta da Rabbi Isaac Abravanel nel XVI sec., ha avuto un certo seguito, per quanto limitato. È stata rievocata recentemente a motivo di un ritrovamento di una raccolta di 101

In questo senso, il testo più vicino è Gb 28,15-19: cfr. A. NICCACCI, Giobbe 28, in Liber Annus 31 (1981) 29-58.


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Salmi biblici e di composizioni apocrife provenienti dalla grotta 11 di Qumran — indicata con la sigla 11QPsa — che ha richiamato l’attenzione per la sua somiglianza con Sir 51,13-20. La cosa ha fatto scalpore tra gli studiosi e suscita ancora discussioni103. Forse Ben Sira ha adattato al suo scopo un brano preesistente e lo ha reso parte del suo libro. Nel testo di Qumran vari studiosi hanno voluto vedere un linguaggio non solo erotico ma apertamente sessuale104, come quello utilizzato in Sir 26,12 per la donna cattiva. Molto probabilmente l’interpretazione sessuale del testo di Qumran e di quello di Ben Sira è legittima anche se non esclusiva, visto che per ogni parola si può dare un’interpretazione diversa. È vero però che Ben Sira utilizza il linguaggio erotico, accanto ad altri generi di linguaggio, per descrivere la ricerca della Sapienza. La cosa non è nuova, anzi è comune non solo ai Proverbi — come si è visto — e al Siracide ma a tutti i saggi più antichi. Ciò si capisce facilmente: il termine hm’k.x’, infatti, è di genere femminile sia in ebraico che in greco, come anche in italiano e l’insegnamento dei saggi, data la situazione sociale del tempo, era destinato sostanzialmente agli uomini. Il linguaggio erotico aveva perciò lo scopo di invogliare il giovane a fare una scelta di vita dura, estremamente impegnativa, che richiedeva la dedizione totale. Era necessaria una molla potente com’è l’amore giovanile, un trasporto pari a quello per la donna della propria vita. Questa accezione erotica della ricerca della Sapienza è un aspetto che accomuna la maggior parte dei libri sapienziali: Proverbi, Siracide, Sapienza, e Cantico dei cantici; restano fuori Giobbe e Qoelet, in cui la ricerca della Sapienza ha connotazioni di sofferenza e non di gioia.

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Cfr. M.H. POPE, Song of Songs, cit., 110. Cfr. A. NICCACCI, Siracide o Ecclesiastico. Scuola di vita per il popolo di Dio, Cinisello Balsamo 2000, 71-76. 104 Il primo a proporre questa interpretazione è stato T. MURAOKA, Sir 51,13-30: an erotic hymn to Wisdom?, in Journal for the Study of Judaism in the Persian, Hellenistic, and Roman Periods 10 (1979) 166-178. 103


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È conveniente fermarsi un momento su questo aspetto confrontando i tre testi seguenti: «Come inizio della Sapienza, compra (hnEåq.) la Sapienza e con ogni tuo possesso, compra l’intelligenza» (Pr 4,7). «Compra (hnq) una donna come inizio del (tuo) possesso, un aiuto, fortezza e colonna d’appoggio (greco: Colui che compra una donna inaugura il possesso, un aiuto adatto a lui e colonna di riposo)» (Sir 36,24). «(Parla la Sapienza) YHWH mi ha comprata (ynInq ” )’ come inizio della sua via, agli albori della sua attività, da allora» (Pr 8,22).

Questi testi stabiliscono un parallelismo sorprendente tra la Sapienza e la donna. Il giovane che desidera vivere secondo l’ideale dei saggi, deve anzitutto stabilire il suo possesso essenziale: in campo (Pr 24,27) e una donna (Sir 36,24); deve poi investire tutte le sue ricchezze per comprare la Sapienza, cioè anteporla a tutto il resto, come primo passo per trovarla (Pr 4,7); d’altro lato, l’umiltà porta al timore di Dio (Pr 15,33; 18,12; 22,4) e il timore di Dio porta alla Sapienza (Pr 1,7). Dio si è comportato in maniera simile all’inizio della sua opera, che è la creazione: ha acquistato anche lui la Sapienza. Non l’ha avuta da qualcuno ma l’ha generata egli stesso (8,22-25). Tuttavia dire che egli ha comprato la Sapienza significa che si è preparato scrupolosamente al suo lavoro, facendo un piano dettagliato di quello che avrebbe creato. Questo piano è la Sapienza, la prima creatura, sua assistente (Pr 8,30-31). Creando l’universo, egli «ha versato» la Sapienza in ogni sua opera, appunto perché tutto ha fatto secondo la sua Sapienza (Sir 1,9). Compito dell’umanità è scoprire la Sapienza versata in ogni creatura e in fondo conoscere Dio attraverso il creato. Il fatto di applicare a Dio il linguaggio umano del comprare rende Dio stesso il modello divino del saggio. In questo contesto comprare non ha il valore negativo che il termine riveste nella cultura odierna; significa al contrario acquistare con sforzo, impegno personale e quindi


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possedere con diritto. Si compra la moglie come si compra la Sapienza; questo parallelismo ha lo scopo di stimolare la dedizione totale della persona nel processo che porta a trovare la Sapienza, e ciò che mette in moto tale processo è l’Amore. Trovare la donna della propria vita è insieme modello e primo passo per trovare la Sapienza.

5. QUALCHE SPUNTO CONCLUSIVO Il Cantico dei cantici aiuta a scoprire la forza dell’amore presentando due amanti che attraverso un processo continuo di cercarsi, trovarsi, perdersi e di nuovo cercarsi vivono la gioia e la sofferenza dell’amore: come le realtà più profonde della vita, l’amore è per sua natura dialettico, paradossale105. Forse come pochi altri, l’autore del Cantico è consapevole di questo e fa del paradosso un elemento fondamentale della sua poetica. Elliot ha riconosciuto nella dinamica speculare («mirroring dynamic») uno dei principi compositivi del Cantico106. L’esperienza reciproca dei due giovani nel quadro della natura è per tutti gli uomini rivelazione dell’amore, forza divina presente nel mondo, amore che bisognerebbe scrivere con la A maiuscola. Ciò che per l’autore di Proverbi e per i saggi più antichi è la Sapienza, per l’autore del Cantico è l’Amore: una presenza di Dio nel mondo, che l’uomo deve acquistare vendendo tutto, che non si può comprare con le ricchezze, che solo può essere trovata con la dedizione della vita, «dando l’anima» per essa. In fondo quello che viene esaltato nel Cantico dei cantici è l’Amore, quello con la A maiuscola. Come la Sapienza che nessuna creatura conosce appieno né alcun tesoro può comprare, non è la sapienza umana ma quella divina, così l’Amore. L’Amore che muove la vita dei due amanti del Cantico è una realtà divina107. Nel loro amore si manifesta l’Amore che è forza 105 Il termine «paradossale» è derivato da F. LANDY, Paradoxes of Paradise. Identity and Difference in the Song of Songs, cit. 106 Cfr. M.T. ELLIOT, The Literary Unity, cit., 246-251. 107 A tal proposito risulta interessante l’approccio ermeneutico che Barbiero propone per una lettura del Cantico che non sia né allegorica né letteralista. Il suo


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cosmica, tesoro inestimabile, pegno di immortalità. Si trova qui la chiave interpretativa del Cantico, la ragione per cui è un libro sacro, per nulla profano. L’esperienza dei due giovani è l’icona più sincera e generosa dell’amore. Essi sono per l’umanità maestri di amore, come l’anziano è maestro di Sapienza. Il linguaggio erotico di Cantico è trasposto nei Proverbi e può costituire una chiave di lettura — anche se non l’unica — del libro dei Proverbi. Con il linguaggio tenero e appassionato del Cantico i sapienti hanno proposto ai discepoli un’esperienza vitale: l’ordine della creazione è come una donna che ama e che chiede di essere riamata. L’amore muove tutta la persona: è felicità e vita. L’esperienza della Sapienza analogamente è esperienza globale: genera vita e gioia. L’amore non divide ma unisce. L’esperienza della Sapienza non divide ma unisce mente e cuore, intelligenza e pietà. Non esiste un amore astratto senza una persona concreta che ne costituisca l’oggetto immediato, che ne sia come il simbolo vivente. Non esiste una Sapienza astratta che non sia percepibile nelle piccole cose di ogni giorno: le parole dei maestri, che amano il discepolo come un figlio, sono il distillato della Sapienza antica. Dio e uomo si rincorrono come due amanti mai sazi. Come l’amore femminile nel Cantico rimane a chiamare e cercare anche quando il suo amato si perde (Ct 3,1-4; 5,6), così la Sapienza — in quanto presenza di Dio nella creazione — rimane sempre a lanciare il suo richiamo: essa è fedeltà. I saggi hanno intuito che Amore e Sapienza sono contemporaneamente realtà divine e umane, che legano insieme Dio, uomo e mondo. Unendo insieme queste due realtà in un unico linguaggio, i saggi non hanno perduto nulla dell’umano — anzi, ne hanno svelato l’intimo valore — e non hanno sminuito in nulla la trascendenza e la grandezza del loro Dio. La rivelazione di Dio nella creazione non è alternativa a quella approccio al Cantico è definito «simbolico» o «metaforico», dove la dimensione teologica non è aggiunta al Cantico ma è inerente alla lettera stessa. È il senso letterale del Cantico, che ha una dimensione teologica: cfr. G. BARBIERO, Cantico dei cantici, cit., 48-53.419.421; cfr. anche ID., L’ultimo canto dell’amata, (Ct 7,10b-8,7): saggio di lettura “metaforica”, in Salesianum 53 (1991) 631-648: 643-648; S. PINTO, La natura teologica dell’amore umano. Cantico dei Cantici 8,5-7, in Rivista di Scienze Religiose 37 (2005) 5-31: 29-31.


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di Dio nella storia. Caso mai ne fornisce la cornice e la comprensione; nello stesso tempo non isola Israele dal contesto delle altre nazioni. La rivelazione nella storia ad Israele è un segno dell’amore di Dio per tutti i popoli. Diventa allora possibile comprendere come il Cantico dei cantici possa essere entrato nel canone biblico, senza ricorrere necessariamente all’allegoria: vi è entrato come vi sono entrate le autentiche esperienze del mondo, come quei detti di Proverbi che sono talora definiti ancora “profani” perché non contengono il nome di YHWH. Il linguaggio erotico per esprimere il rapporto con la Sapienza è una caratteristica dei saggi di Israele. Ciò che per i Proverbi rappresenta la Sapienza, nel Cantico lo rappresenta l’Amore. Sono due riflessi del volto di Dio nel mondo, due strade diverse, ma complementari, per andare a lui. È significativo notare come la Sapienza assuma il volto di una donna, che anch’essa non ha paura di andare per le strade e per le piazze in cerca dei suoi amanti (cfr. Pr 8,23), e «trova le sue delizie tra i figli dell’uomo» (Pr 8,31). I Proverbi traspongono alla Sapienza il vocabolario erotico del Cantico, indicando la somiglianza dei due aspetti: il vero e il bello si incontrano.



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IL MATRIMONIO TRA CATTOLICI E MUSULMANI IN ITALIA

GUGLIELMO GIOMBANCO*

INTRODUZIONE

In questi ultimi anni non sono poche le richieste di dispensa dall’impedimento dirimente di disparità di culto, inoltrate presso le Curie diocesane, al fine di garantire l’osservanza della forma canonica da parte di cattolici che intendono sposare musulmani in Italia1 . Il fenomeno della globalizzazione ha notevolmente orientato alla ricerca di forme di integrazione tra popoli e persone di cultura, di religione, come pure, di modelli di vita diversi.2 In tale contesto si inse-

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Docente di Diritto canonico presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Su questo argomento, a titolo semplificativo, segnaliamo la seguente bibliografia: CEI, Indicazioni della Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana concernenti i matrimoni tra cattolici e musulmani (= Indicazioni), in Notiziario CEI 5 (2005) 141-165; B. GHIRINGHELLI – A. NEGRI, I matrimoni cristiano-islamici in Italia. Gli interrogativi, il diritto, la pastorale, Bologna 2008; B. ZONTA, I matrimoni tra cattolici e musulmani, in Communio 147 (1996) 66-81. 2 «La stessa identità è messa in pericolo, in senso orizzontale, da una seconda forma di pluralismo: quello delle differenze. Questa forma di pluralismo è prodotta in modo particolare dalla globalizzazione che, come specificheremo in seguito, ha cambiato la concezione dello spazio e del tempo, ampliando il primo e riducendo il secondo, ed ha trasformato le comunità umane in società multietniche e multireligiose… La convivenza oltre che occasione di arricchimento culturale, di creazione di rapporti di solidarietà, di allargamento di orizzonti sociali, diventa spesso confronto — scontro di convinzioni religiose e politiche, confronto — scontro di modelli e paradigmi di civiltà. Con le distanze lunghe, gli altri rimangono “prossimo”. Con le distanze ravvicinate, gli altri diventano concorrenti» (I. SANNA, Identità aperta. Il cristiano e la questione antropologica, Brescia 2006, 42-43). 1


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risce il fenomeno degli immigrati che si trasferiscono nel nostro Paese e chiedono la celebrazione di matrimoni tra cattolici e musulmani3. Per rispondere a queste esigenze, il Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana ha emanato Indicazioni utili a favorire un’azione concorde dei Vescovi nell’affrontare casi così delicati e che rivestono particolare importanza sia dal punto di vista ecclesiale — pastorale che da quello civile. Nel presente articolo approfondiremo la riflessione e il confronto sulla concezione del matrimonio cristiano e musulmano considerando anche le prospettive giuridiche e pastorali contenute nelle Indicazioni della Conferenza Episcopale Italiana.

1. IL MATRIMONIO: REALTÀ UMANA E SEGNO DI SALVEZZA Nella storia della civiltà, il matrimonio, è stato sempre riconosciuto come l’unione tra l’uomo e la donna ed ha sempre avuto una sua dimensione religiosa, un qualche collegamento con la sfera del sacro. Il mistero che circonda l’origine della vita, e per tanti secoli, anche i meccanismi biologici della generazione, non poteva non rimandare ad un più ampio disegno divino che coinvolge l’uomo e la 3 È interessante notare quanto rileva Pacini sul fenomeno di immigrazione da parte dei musulmani in Italia: «Vi è una grande differenza in ordine alle tipologie di appartenenza religiosa e di relazioni con la società europea o italiana tra gli immigrati di prima generazione e quelli di seconda generazione, già nati in Italia o comunque secolarizzati in ambiente italiano. Mentre gli immigrati di prima generazione tendono a vivere il cosiddetto Islam etnico, ovvero a riprodurre a livelli diversi il vissuto religioso e sociale del paese di origine (consuetudini, ma anche interpretazioni socio politiche ecc.), i giovani di origine musulmana nati o secolarizzati in Italia e in altri paesi europei tendono a prendere le distanze dall’Islam etnico e cercano di elaborare modalità diverse di rapporto con l’Islam. Le diverse e complesse modalità dei giovani di rapportarsi con l’Islam hanno dunque un denominatore comune: il progressivo distacco dall’Islam etnico e l’affermarsi della logica individuale nel rapporto con la dimensione religiosa» (A. PACINI, I musulmani in Italia: profilo sintetico di una presenza e sfide pastorali per la Chiesa, relazione al Convegno Conoscere l’Islam per incontrarsi [Roma 20-22 gennaio 2007]. Atti del Convegno, www.usmi.pcn.net/convegni/islam_realzioni.htm). Si veda pure: C. GIUDICI, L’Italia di Allah. Storie di musulmani fra autoesclusione e desiderio di integrazione, Milano 2005.


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donna quando decidono di mettere reciprocamente in comune la loro esistenza4. Nella storia biblica del popolo di Israele, a cui più direttamente si ricollega la concezione cristiana, il matrimonio è ricondotto al progetto originario del Creatore che si realizza attraverso il dono dell’uomo nei confronti della donna. Tale unione, già nell’Antico Testamento, era vista come figura dell’alleanza tra Dio e il popolo di Israele. Nel Nuovo Testamento con l’opera redentrice di Cristo, il matrimonio viene elevato alla dignità di sacramento e diventa simbolo del mistero che unisce Cristo alla Chiesa. Simbolo non meramente formale e simbolico, ma espressione di autentica partecipazione, dell’uomo e della donna all’alleanza di amore tra Cristo e la Chiesa. Il matrimonio cristiano quindi esprime l’unione di una realtà umana con una realtà divina, un inserimento specifico dell’amore degli sposi nel mistero di amore che unisce Cristo alla sua Chiesa. Infatti insegna il Concilio Vaticano II: «L’autentico amore coniugale è assunto nell’amore divino ed è sostenuto e arricchito dalla forza redentiva del Cristo e dall’azione salvifica della Chiesa perché i coniugi, in maniera efficace, siano condotti a Dio e siano aiutati e rafforzati nello svolgimento della sublime mansione di padre e madre»5.

In questa prospettiva il matrimonio, come sacramento in senso stretto, è segno riconosciuto dalla Chiesa come dono della grazia di Cristo. Il sacramento non è dunque un semplice elemento essenziale che si affianca ad altri elementi importanti nella struttura del matrimonio cristiano, ma una caratterizzazione fondamentale che lo investe tutto, nella sua integrità, conferendo una speciale intensità a tutti gli aspetti che lo caratterizzano. L’amore che unisce i coniugi, il loro reciproco donarsi in vista della felicità dell’altro è proprio il compimento di un disegno creativo 4 Cfr. P. MONETA, Il matrimonio, in Il Diritto nel Mistero della Chiesa, Roma. 1992, 165. 5 GS, 48.


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che va oltre le loro persone. L’impegno irrevocabile di fedeltà a cui sono chiamati e il dono delle loro persone, vengono inseriti nella realtà sacramentale e gli sposi sono resi partecipi del mistero salvifico di Cristo6. Da qui si comprende come la sacramentalità costituisca una qualifica inerente all’essenza stessa del matrimonio cristiano, tanto da non poterne essere in alcun modo separata. Cristo infatti ha elevato il matrimonio alla dignità di sacramento come si evince anche dal dettato del can. 1055§1 del Codice di diritto canonico (= CIC) del 19837. Il legislatore, prendendo spunto dalla Gaudium et Spes 48, sottolinea qui chiaramente che tale comunità è di vita e di amore ed è «stabilita dall’alleanza dei coniugi, vale a dire dall’irrevocabile consenso personale». Il Concilio infatti conferma la dottrina delle proprietà essenziali del matrimonio, che la Chiesa da sempre ha sostenuto e senza le quali non può sussistere un valido sacramento del matrimonio8. Considerate le riflessioni sopra esposte sul sacramento del matrimonio, è facile comprendere che un cattolico che intende celebrare il matrimonio con una musulmana o viceversa, è chiamato a confrontarsi con una realtà completamente avversa alla sua formazione religiosa, culturale e sociale9, con concezioni diverse del ruolo di marito di moglie, dell’autorità paterna, del ruolo della madre, del posto 6 Per un approfondimento su questo aspetto si veda: E. SCHILLEBEECKX, Il matrimonio. Realtà terrena e mistero di salvezza, Milano, 1986. 7 Can. 1055§1: «Il patto matrimoniale con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinato al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole, tra i battezzati è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento». 8 Can. 1056: «Le proprietà essenziali del matrimonio sono l’unità e l’indissolubilità, che nel matrimonio cristiano conseguono una peculiare stabilità in ragione del sacramento». 9 «È bene ricordare infatti che tra le due religioni, quella cristiana e quella islamica, esistono diversità e talora divergenze antropologiche, religiose e giuridiche. Si tratta di un contesto complicato e molto differenziato con cui si devono confrontare sia le coppie sia coloro che si trovano ad accompagnare questi matrimoni. Non bastano nel primo caso l’amore, né nel secondo la buona volontà, sono necessari conoscenza e competenza. È allora molto importante trovare le strade per avvicinare la parte cattolica e la parte musulmana a una corretta riflessione sulla loro scelta e a un sereno e reale discernimento, così come aiutare le comunità diocesane e parrocchiali a cono-


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che occupano il bambino e l’anziano all’interno della famiglia. Tutte queste specificità creano conseguenze, anche gravi, sul piano personale e religioso e che non possono essere sottovalutate. Difatti, dopo dolorose esperienze maturate, la Chiesa, non incoraggia questi matrimoni, secondo una linea anche condivisa dai musulmani, al fine di evitare forti disagi all’interno della coppia10.

2. IL MATRIMONIO NELLA CULTURA E NELLA RELIGIONE ISLAMICA Tutto il sistema di vita dell’uomo e della donna islamici è legato al Corano e alla Sunna cioè la tradizione islamica, considerate scere, accogliere e accompagnare queste nuove coppie» (Cfr. B. GHIRINGHELLI – A. NEGRI, I matrimoni cristiano-islamici in Italia, cit., 101). 10 CEI, Indicazioni, 142: «La fragilità intrinseca di tali unioni, i delicati problemi concernenti l’esercizio adulto e responsabile della propria fede cattolica da parte del coniuge battezzato e l’educazione religiosa dei figli, nonché la diversa concezione dell’istituto matrimoniale, dei diritti e doveri reciproci dei coniugi, della patria potestà e degli aspetti patrimoniali ed ereditari, la differente visione del ruolo della donna, le interferenze dell’ambiente familiare d’origine, costituiscono elementi che non possono essere sottovalutati né tanto meno ignorati, dal momento che potrebbero suscitare gravi crisi nella coppia, sino a condurla a fratture irreparabili». Su questo aspetto sono importanti le indicazioni contenute nell’Istruzione Erga migrantes: «Per quanto riguarda poi il matrimonio fra cattolici e migranti non cristiani lo si dovrà sconsigliare, pur con variata intensità, secondo la religione di ciascuno, con eccezione in casi speciali, secondo le norme del CIC e del CCEO» (63). «I matrimoni tra cattolici e musulmani, avranno comunque bisogno, se celebrati nonostante tutto, oltreché della dispensa canonica, del sostegno della comunità cattolica, prima e dopo il matrimonio. Uno dei servizi importanti dell’associazionismo e del volontariato e dei consultori cattolici, sarà quindi l’aiuto a queste famiglie nell’educazione dei figli ed eventualmente il sostegno verso la parte meno tutelata della famiglia musulmana, cioè la donna, nel conoscere e perseguire i propri diritti» (67). Cfr. PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA PASTORALE PER I MIGRANTI E GLI ITINERANTI, Erga migrantes caritas Christi, in EV, 22/63, 67. Sulle possibili difficoltà che possono nascere nei matrimoni tra persone di fede diversa, riportiamo le parole di Giovani Paolo II: «Nelle famiglie in cui ambedue i coniugi sono cattolici, è più facile che essi condividano la propria fede con i figli. Pur riconoscendo con gratitudine quei matrimoni misti che hanno successo nel nutrire la fede sia degli sposi sia dei figli il sinodo incoraggia gli sforzi pastorali volti a promuovere matrimoni tra persone della stessa fede» (GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Oceania, in EV, 20/45).


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come le fonti religiose, spirituali, morali e giuridiche date da Dio agli uomini11. Ogni individuo è così segnato nel suo itinerario personale, nella sua vita familiare, nei suoi studi, nei suoi contatti con altri modi di vita, dalle norme di questi testi. La stessa cosa succede per ciò che riguarda il matrimonio e la sessualità. La sessualità è una realtà da organizzare in maniera tutta particolare in quanto si accompagna, alle passioni e può provocare gravi inconvenienti; ma, come ogni atto umano, essa deve essere vissuta in maniera lecita. Il matrimonio, infatti, si presenta nel Corano come una regolazione della sessualità, luogo della fecondità e dell’accrescimento della comunità islamica. In realtà se Dio ha creato gli uomini e le donne è perché egli vuole la fecondità attraverso una pratica corretta della sessualità12. L’uomo può e deve darsi ai piaceri della sessualità nel matrimonio e facendo questo egli compie l’opera di Dio e accresce i suoi meriti. Il celibato, nella cultura islamica, è una situazione ritenuta anomala per il credente13; appare quindi indispensabile vivere la vita sessuale, in quanto il desiderio sessuale è fortemente presente nell’uomo. Per ciò stesso gli uomini e le donne sono chiamati a regole di pudore molto precise14.

11 Per un’ analisi approfondita sull’argomento si veda l’articolo di B. ZONTA, I matrimoni tra cattolici e musulmani, cit. 66-81. 12 CORANO, 7,189: «È Dio che vi ha creati da una sola persona e ne trasse poi la sua consorte perché gli fosse compagna fidata. E dopo che si fu unito a lei, questa concepì». Ibid.,17, 72: «Dio vi ha dato delle spose, scelte fra voi, e dalle vostre spose vi ha dato figlie e nipoti e vi ha provvedute cose buone». Ibid., 2,223: «Le vostre donne sono per voi come un campo: andate dunque al vostro campo come volete, ma fate precedere qualche atto pio a vostro favore. Temete Dio e sappiate che un giorno lo incontrerete». 13 Ibid., 24,32-33: «Unite in matrimonio quelli di voi che non sono sposati e quelli dei vostri schiavi e delle vostre schiave che sono onesti; se sono poveri, Dio li arricchirà dei suoi favori». 14 Ibid., 24,31: «Dì alle credenti di abbassare lo sguardo, di essere costumate e di non mostrare i loro ornamenti, eccetto quelli esterni, di stendere il velo sul capo, sui seni e di non mostrare i loro ornamenti se non al marito o al padre del marito».


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2.1. Matrimonio e gruppo sociale Non è irrilevante il fatto che il matrimonio, nel pensiero islamico e in particolare nel diritto, è anzitutto un contratto, attraverso il quale un uomo si impegna a versare una dote a una donna e a provvedere al suo mantenimento; e in cambio può avere con lei rapporti intimi leciti. Il matrimonio non ha dunque un carattere sacramentale; non è nemmeno, come insegna il cristianesimo, una realtà umana a cui si accompagna una forte connotazione spirituale. È piuttosto una realtà naturale non sacra, che bisogna vivere in conformità con la volontà di Dio; essa è legata ad un certo numero di obblighi morali. I due sposi hanno dei doveri l’uno nei confronti dell’altro e dei diritti insieme a doveri15. L’uomo ha il compito di sovvenire ai bisogni della famiglia e ad assumere ruoli sociali. La sposa invece deve provvedere all’andamento della casa, ma non è tenuta a partecipare, con i suoi redditi personali ai bisogni della famiglia. Le donne sono in ogni cosa uguali agli uomini davanti a Dio, ma questi ultimi per il fatto dell’importanza del loro ruolo nella società islamica godono di una certa superiorità sulle prime16. 15 «Il matrimonio poggia su un contratto concluso, davanti a due testimoni ed eventualmente un cadi, fra un uomo e una donna rappresentata, secondo le regole di tre scuole giuridiche, da un tutore matrimoniale. Regolamentato dal Corano comporta un versamento da parte del marito, di una dote o sadaq che può essere pagata in più riprese, e che resta di proprietà della donna. La cerimonia non ha implicazioni cultuali, ma viene raccomandato di recitare in tale occasione dei versetti del Corano. Il marito, che deve mantenere sua moglie e ha autorità su di lei, in virtù di un versetto coranico, può, secondo il diritto religioso o fiqh, sposare quattro donne che deve trattare in maniera equa. Oggi la poligamia è sovente sottoposta ad alcune restrizioni, ma non è stata soppressa che in due paesi, in Turchia e in Tunisia. Nel Medioevo, il marito poteva prendere come concubine le schiave o jariya che egli desiderava, cosa che, al giorno d’oggi, non ha più ufficialmente valore. Esistono tre possibilità di rotture dei legami coniugali: il ripudio unilaterale da parte del marito e due forme di divorzio. Una forma di matrimonio temporaneo detto mut’a è ammessa dagli sciiti» (cfr. D. SOURDEL – J. SOURDELTHOMINE, Matrimonio [voce], in Vocabolario dell’Islam, Torina [EN], 2005, 144). 16 CORANO 4,34: «Gli uomini hanno autorità sulle donne, perché Dio ha preferito alcune creature ad altre e perché gli uomini spendono i loro beni per mantenere le donne. Perciò le donne buone sono obbedienti e hanno cura della propria castità


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Il matrimonio nell’Islam è visto prevalentemente come strumento di sviluppo sociale attraverso la procreazione. Infatti la comunità musulmana, denominata Ulma è un unico gruppo sociale. Perciò l’unione sessuale e il matrimonio che la rende legittima, sono fondamentali per la società islamica e non possono essere lasciati alla solo iniziativa del sentimento e dell’affetto. I bisogni del gruppo passano in primo piano. Così nelle società tradizionali musulmane, il matrimonio non può essere frutto della sola attrattiva affettivo-fisica dei partner, ma spesso è organizzata e preparata dai parenti o da coloro che sono preposti a gestire il clan familiare. Il matrimonio quindi non interessa soltanto a due persone, ma a tutta la comunità, in quanto l’unione degli sposi non riguarda solamente la coppia, ma si allarga ad una serie di rapporti che spaziano in vari campi come quello parentale, economico e sociale. Essa è finalizzata al gruppo e quindi deve garantirne la sopravvivenza con la generazione di nuovi membri; se ciò non fosse possibile per qualche ragione e principalmente per la sterilità, le persone possono subire emarginazione o rigetto.

2.2. Morale sessuale e poligamia Un discorso a parte, riguardo al matrimonio nell’Islam, merita la morale sessuale e la concezione poligamica del matrimonio stesso. È infatti noto che il musulmano ha diritto a quattro mogli, in merito il Corano è molto chiaro17, anche se esige dall’uomo un trattamento equo per ognuna, pur ammettendo la difficoltà a realizzarlo. È anche vero che molti musulmani rifiutano la prospettiva della poligamia perché sembra loro una situazione ormai superata. Rimane però il così come Dio ha avuto cura di loro. Se poi temete che alcune si ribellino, ammonitele, lasciatele solo nei loro letti e poi picchiatele; ma se poi vi obbediscono, non cercate pretesti per maltrattarle; perché Dio è grande e sublime». 17 Ibid. 4,3: «Se temete di non essere giusti con gli orfani, fra le donne che vi piacciano sposatene due o tre o quattro, e se temete di non essere giusti con esse, sposatene una sola, oppure sposate le schiave che possedete: è il modo migliore per non deviare dalla giustizia».


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principio della fedeltà che sia l’uomo come pure la donna sono tenuti ad osservare in maniera rigida, cosa che in realtà non sempre si può mantenere, perché in alcuni Paesi mediterranei esiste una certa esaltazione della sessualità maschile e a motivo di tale concezione si riscontra una certa tolleranza per ciò che riguarda il comportamento degli uomini sposati. Il Corano, tuttavia condanna severamente l’adulterio dell’uomo e della donna e considera ogni infedeltà come un comportamento gravemente colpevole18. Particolare rilevanza, nella cultura islamica, ha pure la nascita dei figli perché voluta da Dio e una numerosa posterità è segno della benedizione di Dio. La limitazione delle nascite, per molti musulmani, contraddice le leggi della natura e dunque la legge di Dio e del suo progetto sul mondo. Il problema delle nascite, nel mondo musulmano non è facile da affrontare, visto che sin dall’inizio, su certe pratiche anticoncezionali fu anche interrogato il profeta Maometto. Oggi alcuni studiosi della dottrina islamica e del suo diritto invitano le famiglie musulmane ad essere più responsabili in materia di natalità, ammettendo la liceità dei metodi contraccettivi. È pur vero che questi stessi studiosi condannano l’aborto, a meno che non si rende necessario per salvare la vita della madre. Come pure condannano i metodi di sterilizzazione adottati da uno dei due sposi. Il Corano comunque vieta la negazione della vita ai bambini e la Sunna, a proposito dell’aborto, lo definisce infanticidio19. Tuttavia non mancano oggi Paesi dell’area musulmana dove è permesso l’aborto e la sterilizza18

Ibid. 24,2: «L’adultero e l’adultera riceveranno cento colpi di frustra ciascuno […] Quelli che accusano donne oneste ma poi non portano quattro testimoni a conferma dell’accusa riceveranno ottanta colpi di frusta…Quelli che accusano le proprie mogli ma non hanno altri testimoni che se stessi, giureranno, quattro volte in nome di Dio di dire la verità. […] La donna accusata eviterà la punizione se giurerà quattro volte in nome di Dio che il marito ha mentito». 19 Ibid. 17,33: «Non uccidere le persone che Dio ha proibito di uccidere senza giusti motivi. Se uno è ucciso ingiustamente, noi diamo al suo erede la facoltà di vendicarlo. Egli però non ecceda nell’uccidere». Si veda pure SUNNA 6, 137.140.151: «I loro idoli hanno fatto credere a molti idolatri che è cosa bella uccidere i propri figli, per rovinarli e confondere la loro religione […] Si perderanno certamente quelli che, nella loro ignoranza, stoltamente uccidono i propri figli […] Dio vuole che non adoriate


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zione, oppure paesi dove si raccomanda di distanziare la nascita dei figli, piuttosto che la loro limitazione per assicurare la salute della madre del bambino e come pure la crescita demografica della comunità islamica.

2.3 La fine del matrimonio: morte, divorzio, ripudio La fine del matrimonio per il musulmano, si verifica in caso di morte, di divorzio o ripudio. Per quanto riguarda la fine del matrimonio, a causa della morte, del coniuge musulmano, è importante che il coniuge cristiano sia a conoscenza dei riti funebri musulmani e tenga ben presenti i desideri dei parenti musulmani. Ad esempio in Europa il coniuge cristiano può optare per l’inumazione o per la cremazione, la maggior parte delle chiese le ammettano entrambe. Il diritto islamico, invece, non ammette la cremazione. Inoltre, non sarà possibile per i coniugi essere sepolti nella stessa tomba. Come pure è da considerare che in un matrimonio, tra cattolici e musulmani, i possibili conflitti possono essere tanti. Essi sono causati da fattori psicologici e sociologici il che aumenta il numero di divorzi. A causa di malintesi c’è sempre motivo di conflitto e tensioni. Le donne in Europa godono di molta emancipazione, fanno carriera, si autorealizzano a differenza delle donne musulmane. Pertanto anche la rapida trasformazione sociale sta contagiando pure la società islamica, le donne di religione cristiana corrono il rischio di non trovare comprensione da parte del marito musulmano e dei suoi parenti. Conflitti, ad esempio, possono nascere per l’uso delle lingue in famiglia, per la scuola materna, per l’osservanza delle feste del mondo occidentale e possono provocare un’atmosfera tesa. Tutto questo può finire con un divorzio. Quando si arriva ad un divorzio, le donne di solito sono più svantaggiate degli uomini. Quando poi il giudice decide di affidare i figli alla madre, il padre può sentirsi tentato di rapirli e di portarli nel suo paese d’origine facendosi forte del suo ruolo di capo famiglia. altri dei accanto a lui, che siate buoni con i vostri genitori, che non uccidiate i vostri figli col pretesto che siete poveri provvederemo noi a voi e a loro».


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Il divorzio può essere chiesto a causa di una malattia fisica o psichica che rende difficile la convivenza, o per impotenza antecedente e insanabile. Come fa osservare Praeder: «la possibilità della moglie di ottenere la pronuncia giudiziale del divorzio per uno dei motivi previsti è tuttora limitata, specialmente in quei paesi ove il diritto matrimoniale è ispirato all’antico sistema patriarcale»20. Riguardo al ripudio, stando al Corano, il marito ha sempre il potere di decidere unilateralmente lo scioglimento del vincolo matrimoniale: lo può anche fare emettendo la formula di un ripudio per assimilazione incestuosa. Il ripudio può essere anche revocato dal marito ed egli può riprendere la donna prima che sia scaduto il tempo del ritiro legale. Durante il ritiro legale che segue il primo o secondo ripudio, la donna ha diritto all’alloggio e al mantenimento, mentre durante quello che segue il ripudio irrevocabile, essa ha diritto soltanto all’alloggio21.

3. I MATRIMONI INTERCONFESSIONALI Esistono molte proibizioni nei matrimoni dei musulmani con persone di altre fedi. Il matrimonio di un musulmano o di una musulmana con una persona di religione diversa anche se ebreo o cristiano, è vietato dal Corano22 e dalle scuole di diritto e dalle legislazioni islamiche attuali. Tale divieto si fonda sul fatto che un non musulmano non può avere autorità su un musulmano. Il diritto musulmano e la legislazione musulmana contemporanea fanno del marito il capo della famiglia. Quindi è inammissibile sottomettere all’autorità di un non musulmano una donna musulmana. Infatti se un non musulmano ebreo o cristiano, dovesse sposare una musulmana nei paesi islamici è 20 J. PRAEDER, Il diritto matrimoniale islamico e il problema del matrimonio fra donna cattolica e musulmano, in Migrazioni e diritto ecclesiale, 1992, 161. 21 CORANO, 2, 226-232. 22 Ibid., 2,221: «Non sposate donne idolatre, se prima non diventano credenti. È meglio una schiava credente che una donna idiota, anche se questa vi piace. E non date le vostre figlie in possesso agli idolatri, se prima esse non diventino credenti».


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costretto a fare l’abiura della propria fede prima di sposare la donna musulmana ed entrare a far parte della religione islamica. Come pure non è concepibile che una musulmana dia alla luce dei bambini che legalmente non saranno musulmani. Sono tutte situazioni che contrastano con i principi stabiliti dalle varie Carte dei diritti umani emanati dagli Stati. In particolare la Dichiarazione delle Nazioni Unite ha sancito i diritti umani basilari, la dignità e il valore di ogni uomo, definendo le libertà fondamentali di ciascuno e condannando ogni forma di discriminazione basata sulla razza, il sesso, la lingua o la religione23. Tale parità sul piano dei diritti e dei doveri, raccomandata dai documenti internazionali, non è prevista nell’Islam. In base ai principi dell’Islam l’uomo è il responsabile della famiglia e della gestione familiare. Non vi è parità tra l’uomo e la donna neanche nel campo delle sanzioni penali, infatti il prezzo pagato per l’uccisione di un uomo è il doppio di quello pagato per una donna; come pure la testimonianza di una donna in un processo, non ha lo stesso valore di quella di un uomo e non può ricoprire il ruolo di giudice. Appare quindi evidente che le differenze sulla concezione della donna che un musulmano ha, non sono dovute solo al diverso valore che si attribuisce ai due sessi, ma anche ad una concezione diversa di ruoli esistenziali e di ripartizione di diritti e doveri tra uomini e donne che non tiene conto dei principi di uguaglianza, già riconosciuti nella maggior parte dei Paesi24. Queste differenze creano non pochi problemi quando si tratta di celebrare un matrimonio tra un coniuge italiano e di fede cattolica e un altro o altra di fede musulmana. Perché non si può pensare ad un unione del genere senza tener conto della legislazione del paese di origine del coniuge musulmano. Infatti come riconosce Praeder, «nel mondo islamico dove tutto è regolato e determinato dalla religione, sia nella vita del singolo che nella vita sociale, anche il matrimonio e la famiglia sono permeati profondamente dalla religione islamica. Il Corano, la sacra scrittura dell’Islam, è il codice religioso e per buona 23

Universale dei diritti dell’uomo, 1948. Su questo aspetto si veda, H. MEHRPOUR, I diritti dell’uomo nelle Carte internazionali dell’ONU e nella Dichiarazione dell’Organizzazione della Conferenza Islamica: un confronto tra le due visioni da una prospettiva sciita e iraniana, in A. PACINI (cur.), L’islam e il dibattito sui diritti dell’uomo, Roma 2005, 80-102. 24

ONU, Dichiarazione


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parte anche civile dei musulmani. Il matrimonio, secondo la legge islamica la sharia, è in primo luogo un’istituzione giuridica per regolare l’ordine sociale. Esso fonda lo scopo del matrimonio nella prole legittima e nella legalizzazione dei rapporti sessuali, come pure definisce non solo i diritti del marito sulla moglie, ma anche il diritto della moglie alla sicurezza economica. E perciò anche le legislazioni di riforma più recente sono profondamente improntate al diritto islamico classico, non solo in quegli Stati ove l’Islam è religione di stato (quasi tutti paesi arabi), ma anche in altri paesi islamici»25. Bisogna pur riconoscere che in alcuni paesi islamici, a questo riguardo vi sono piccoli spiragli di aperture lasciando libertà di scelta a ciascuno; i passi però sono molto lenti e la meta è ancora lontana.

3.1. La prassi canonica per la celebrazione dei matrimoni tra cattolici e musulmani Le Indicazioni della CEI26, concernenti i matrimoni tra cattolici e musulmani, richiedono alcune condizioni necessarie da osservarsi, per permettere ai fedeli cattolici di celebrare il matrimonio con musulmani. Prima tra tutte si richiede da parte dell’Ordinario, la dispensa dall’impedimento di disparità di culto per il fatto che uno dei due nubendi è battezzato nella Chiesa cattolica27. Occorre però distinguere questa situazione che è diversa da quella dei matrimoni misti i quali vengono celebrati tra persone, entrambe battezzate, ma appar25

J. PRAEDER, Il diritto matrimoniale islamico e il problema del matrimonio fra donna cattolica e musulmano, cit.,161. 26 CEI, Indicazioni, 153. 27 L’impedimento matrimoniale canonico è quella circostanza, fondata su una prescrizione di diritto divino naturale o rivelato, dichiarata dal legislatore ecclesiastico, o su una prescrizione del supremo legislatore canonico, che rende una persona inabile a celebrare il matrimonio e che determina la nullità del matrimonio eventualmente celebrato. Il CDC così descrive l’impedimento dirimente di disparità di culto: «È invalido il matrimonio tra due persone, di cui una sia battezzata nella Chiesa Cattolica o in essa accolta e non separata dalla medesima con atto formale, e l’altra non battezzata» (can. 1086§1).


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tenenti a religioni diverse28. Il fondamento e la motivazione dell’impedimento di disparità di culto stanno nel fatto che con queste disposizioni si intende salvaguardare nel coniuge cattolico la fede, i valori dell’unità e dell’indissolubilità, la fedeltà e l’apertura alla prole. Sotto il profilo sistematico l’istituto della dispensa29 si traduce nell’esonero dal vincolo della legge (nel caso in specie, quella che sancisce l’esistenza di tale impedimento, che renderebbe nullo il matrimonio), di fronte al bene prevalente del fedele (nel caso in specie, perché questi non permanga in una convivenza di fatto o in un matrimonio civile), posto che si realizzino tutte le condizioni richieste per il consenso a un matrimonio integro nell’essenza, nei fini e nelle proprietà essenziali. L’Ordinario del luogo può concedere lecitamente la dispensa, che rimane in ogni caso un atto discrezionale e valido solo quando sussiste una giusta e ragionevole causa30, solo dopo aver verificato l’esistenza di alcuni requisiti: a) La parte cattolica, infatti deve essere pronta a evitare il pericolo, insito nel matrimonio con una parte non battezzata, di abbandonare la fede cattolica; inoltre essa deve promettere di fare quanto è in suo potere perché tutti i figli siano battezzati ed educati nella fede cattolica. Tali impegni da parte del nubente cattolico devono essere messi per iscritto attraverso dichiarazioni allegate alla domanda rivolta all’Ordinario per ottenere la dispensa31. Per facilitare tale prassi 28 «Il matrimonio tra due persone, di cui una sia battezzata nella cattolica o in essa accolta e non separata dalla medesima con atto formale, e l’altra invece sia iscritta a una Chiesa o comunità ecclesiale non in piena comunione con la Chiesa cattolica, non può essere celebrato senza espressa licenza della competente autorità» (can. 1124). 29 «La dispensa, ossia l’esonero dall’osservanza di una legge puramente ecclesiastica in un caso particolare…» (can. 85). 30 Cfr. can. 90§1. 31 Il can. 1086 stabilisce che anche per i matrimoni celebrati tra un cattolico e non battezzato si osservino le disposizioni contenute nel can. 1125: «1. La parte cattolica si dichiari pronta ad allontanare i pericoli di abbandonare la fede e prometta sinceramente di fare quanto è in suo potere perché tutti i figli siano battezzati ed educati nella Chiesa cattolica; 2. di queste promesse, che deve fare la parte cattolica,


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la Conferenza Episcopale italiana ha predisposto una modulistica, comprendente la dichiarazione sottoscritta dalla parte cattolica e l’attestazione di avvenuta informazione alla comparte32. Merita di essere sottolineata la differenza che caratterizza i due impegni assunti dalla parte cattolica: mentre la salvaguardia della fede cattolica è un valore assoluto che dipende fondamentalmente dalla coscienza rettamente formata e dalla forza morale del singolo, le scelte concrete in ordine all’educazione dei figli coinvolgono egualmente entrambi i genitori, e nel mondo islamico, il padre ad un titolo del tutto speciale. Può verificarsi pertanto l’eventualità che la parte cattolica pur avendo assunto un impegno sincero si trovi nella impossibilità di mantenerlo. Nel caso specifico si tenga presente che i musulmani osservanti ritengono di avere l’obbligo di educare senz’altro i figli maschi nel proprio credo33. Quindi è importante che la parte cattolica verifichi e approfondisca per quanto possibile, le reali intenzioni della comparte musulmana, senza accontentarsi di generiche rassicurazioni. b)La parte musulmana deve essere informata degli impegni che la parte cattolica è tenuta ad assumere e ciò deve constare negli atti. Nel rispetto della libertà di coscienza, non le viene richiesta alcuna sottoscrizione che la vincoli a impegni equivalenti, pur restando auspicabile che dia garanzie adeguate di tenere veramente un atteggiamento rispettoso nei confronti della parte cattolica lasciandola libera di mantenere gli impegni assunti. Le Indicazioni della CEI suggeriscono che non è conveniente attendere il momento dell’esame degli sposi, ma iniziare molto prima con opportuni incontri, per far sia tempestivamente informata l’altra parte, così che consti che questa è realmente consapevole della promessa e dell’obbligo della parte cattolica; 3. entrambe le parti siano istruite sui fini e le proprietà esenziali del matrimonio, che non devono essere escluse da nessuna o dei due contraenti». 32 «Spetta alla Conferenza Episcopale sia stabilire il modo in cui devono essere fatte tali dichiarazioni e promesse, sempre necessarie, sia determinare la forma per cui di esse consti nel foro esterno e la parte non cattolica ne sia informata» (can. 1126). 33 Nel matrimonio islamico i figli e le figli appartengono al padre, anche per quanto riguarda la religione. La filiazione (nasab) è quella che mette la prole in stretta dipendenza dal padre.


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conoscere alla parte musulmana gli obblighi a cui è tenuta la parte cattolica e dei quali anch’essa deve essere realmente consapevole34. c) Per quanto riguarda la celebrazione del matrimonio deve essere osservata la forma canonica, in ottemperanza ai cann. del CDC 1108 e seguenti, e in particolare ai cann. 117 e 1183§3 secondo le prescrizioni contenute nei libri liturgici. La forma è richiesta quando almeno una delle parti è battezzata nella Chiesa cattolica o in essa accolta. Non va tralasciato il fatto che in Italia i battezzati cattolici sono tenuti a celebrare il matrimonio concordatario, assicurando ad esso gli effetti civili35. In Italia la CEI ha stabilito che «le motivazioni che giustificano la dispensa sono, particolarmente, quelle relative al rispetto delle esigenze personali della parte non cattolica, quali, ad esempio, il suo rapporto di parentela o di amicizia con il ministro acattolico, l’opposizione che incontra nell’ambito familiare, il fatto che il matrimonio dovrà essere celebrato all’estero, in ambiente non cattolico, e simili»36. Nel caso della concessione della dispensa della forma canonica, le indicazioni della CEI richiedono che le nozze siano celebrate davanti ad un legittimo ministro di culto, e non solo con il rito civile, stante la necessità di dare risalto al carattere religioso del matrimonio. 34 La dichiarazione da parte del fedele musulmano contiene l’impegno a stabilire un legame indissolubile, che non può essere distrutto nel corso della vita. Come pure l’impegno a celebrare un matrimonio monogamico e irrevocabile. Altrettanto il musulmano si impegna alla fedeltà per tutta la vita e sarà per lui o per lei un vero sostengo e lui o lei sarà l’unica sposa o l’unico sposo. Cfr. CEI, Indicazioni, Scheda n. 3, 165. 35 CEI, Decreto generale sul matrimonio canonico, 5.11.1990, in ECEI, 4/50: «I cattolici che intendono contrarre matrimonio in Italia sono tenuti a celebrarlo unicamente secondo la forma canonica (cfr can. 1108), con l’obbligo di avvalersi del riconoscimento agli effetti civili assicurato dal Concordato» (1). Questa disposizione vale anche per i matrimoni misti o di disparità di culto come si legge nello stesso Decreto al n. 51: «Ai matrimoni misti celebrati nella forma canonica devono essere assicurati gli effetti civili, di norma, attraverso la procedura concordataria. Per grave motivo, come stabilito nel n. 1 del presente decreto, l’Ordinario del luogo può dispensare da tale obbligo». 36 Ibid., 50.


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3.2. Itinerario di verifica e di preparazione La CEI nelle Indicazioni37 propone un itinerario di verifica e di preparazione per le coppie che intendono contrarre il matrimonio di cui una parte è battezzata cattolica e l’altra è musulmana. Tra i primi suggerimenti pone la verifica sulla libertà di scelta dei contraenti con le dovute indagini iniziando con il colloquio con la parte cristiana la quale deve essere ascoltata dal sacerdote separatamente. È importante che il sacerdote che ascolta le parti abbia una buona conoscenza della cultura islamica, delle sue tradizioni e soprattutto della sua concezione del matrimonio. Se ciò non fosse possibile è auspicabile che in ogni diocesi vi sia un sacerdote esperto e in grado di affrontare casi del genere. Inoltre è da considerare che non è facilmente possibile l’incontro delle famiglie dei nubendi perché, nella cultura musulmana non è ammissibile che i membri della famiglia discutano del matrimonio: questo può generare forme di incomprensione e indurre a fare passi affrettati circa la celebrazione del matrimonio. In verità il dialogo è indispensabile come pure il tempo per una conoscenza approfondita che eviti la tentazione della fretta e soprattutto la strumentalizzazione del matrimonio per altri scopi, come acquisizione della cittadinanza, permesso di lavoro, asilo politico o altri vantaggi. L’approfondimento di questi aspetti è assai utile. In questo contesto di preparazione al matrimonio sembra importante quanto è scritto nel documento delle Conferenze delle Chiese europee e dal Consiglio delle Conferenze Episcopale d’Europa sui matrimoni tra cristiani e musulmani: «È importante sapere come l’uno vive e sperimenta la propria religione rispetto alla parte di un’altra religione. Il rapporto personale di ciascuna parte con Dio non dovrebbe essere un argomento tabù. Infatti esso appartiene all’essenza del problema. Strettamente connesse con questo argomento sono le domande: cosa pensa la donna dell’Islam, e cosa pensa l’uomo del cristianesimo? Si sono dati la pena di conoscere l’uno la religione dell’altro? Altre domande che si devono porre: che lingua usano 37

CEI, Indicazioni, 146-147.


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insieme? (se una delle parti è straniera). Hanno già provato seriamente a conoscere la lingua l’uno dell’altro? Molto spesso le coppie cercano di arrangiarsi con l’inglese anche se non è la lingua di nessuno di due. Una conoscenza limitata di una lingua comune è spesso causa di malintesi e di conflitti. Che consapevolezza hanno dei reciproci pregiudizi? Quando è possibile, la donna dovrebbe cercare di visitare il paese di origine del proprio fidanzato, ma non da turista, allo scopo di conoscere come uomini e donne vivono in quel tipo di società, e come mariti e moglie vivono la loro vita coniugale. Tale viaggio è a maggior ragione di importanza vitale quando è probabile che la coppia si trasferirà qualche tempo dopo il matrimonio nel paese di lui. Nei casi in cui l’uomo è un profugo che chiede asilo politico o un immigrato che viene da un paese che permette la poligamia, diventa assolutamente necessario venire a sapere se non è già sposato. La bigamia è già proibita nella maggior parte dei paesi europei»38.

3.3. L’ accompagnamento pastorale successivo al matrimonio islamocristiano Le Indicazioni della CEI propongono anche un itinerario, per la coppie islamo-cristiane, che riguarda non solo lo svolgersi della vita familiare ma anche la tutela del cammino di fede della parte cattolica, l’educazione dei figli e l’impegno ad evitare forme religiose di indifferentismo39. È proprio in un contesto, complicato e differenziato, che le coppie islamo-cristiane, debbono inserirsi. Grande sarà la fatica a vivere la vita familiare e coniugale in mezzo a tante difficoltà e talvolta a fronteggiare travagliate conseguenze del fallimento del loro matrimonio. Come pure non va sottovaluto il fatto che l’adattamento dell’uomo in un paese diverso da quello di origine è differente da 38 KEK – CCEE Comitato «Islam in Europa» Matrimoni tra cristiani e musulmani, in Il Regno Documenti, 13 (1997), 445. 39 Cfr. CEI, Indicazioni, 149.


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quello della donna, la quale dovrà affrontare notevoli difficoltà (dinamiche di vita di coppia, educazione dei figli e autorità su di loro, rapporto con la famiglia del marito, accettazione sociale della poligamia ecc.). Tra l’altro non va sottovalutato il reale disagio che la donna vivrà nello sforzo d’integrazione nell’ambiente. In questi casi è importante il ruolo che potranno svolgere le comunità cattoliche locali. Da esse la persona andrebbe aiutata fornendole anticipatamente riferimenti in loco40. La Chiesa Italiana, considerata la crescita del flusso migratorio già da diversi anni, ha raccomandato un particolare attenzione a queste situazioni come si legge nel Direttorio di pastorale familiare nella parte riguardante i matrimoni interreligiosi, dove i vescovi italiani chiedono di riservare: «particolare attenzione ai matrimoni tra cattolici e persone appartenenti alla religione islamica: tali matrimoni, infatti oltre ad aumentare numericamente, presentano difficoltà connesse con gli usi, i costumi, la mentalità e le leggi islamiche circa la posizione della donna nei confronti dell’uomo e la stessa natura del matrimonio. È necessario quindi, considerare attentamente che i nubendi abbiano una giusta concezione del matrimonio e in particolare della sua natura monogamica e indissolubile. Si abbia certezza documentata della non sussistenza di altri vincoli matrimoniali e siano chiari il ruolo attribuito alla donna e dei diritti che essa può esercitare sui figli. È bene esaminare al riguardo anche la legislazione matrimoniale dello Stato da cui proviene la parte islamica e accertare il luogo dove i nubendi fisseranno la loro permanente dimora»41.

È evidente, quindi che ogni comunità cristiana che accoglie una coppia islamo — cristiana deve conoscere la realtà riguardo a questo tipo di matrimoni. Tutti gli organismi pastorali a livello diocesano o parrocchiale, sono chiamati a formare una equipe veramente esperta in queste problematiche matrimoniali per aiutare tutti coloro che vivono situazioni matrimoniali del genere. Momenti privilegiati, sono la prepa40 41

Ibid., 149. CEI, Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia, Roma, 1993, 89.


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razione ai sacramenti dei propri figli, quando la parte musulmana permette l’educazione cristiana di essi, perché offrono l’opportunità ai pastori e agli operatori pastorali di entrare in contatto con le coppie miste42. Tale educazione, secondo le Indicazioni pastorali della CEI: «costituisce una parte molto importante e delicata. I coniugi dovrebbero sforzarsi di educare i figli nel rispetto della religione di entrambi, insistendo sui valori comuni: quali la trascendenza come dimensione essenziale della vita e la necessità di coltivare l’ambito spirituale, la preghiera, la carità, la giustizia, la fedeltà, il rispetto reciproco. Con altrettanta chiarezza, però dovrebbero formare i figli alla valutazione critica delle differenze sul piano della fede — decisamente spiccate — e su quello dell’etica, in particolare per quanto concerne la pari dignità fra uomo e donna, la libertà religiosa e l’integrazione»43

È importante sottolineare che gli aiuti pastorali, nei confronti delle coppie islamo-cristiane debbono essere proposti con un grande spirito di apertura civile, di realismo critico e di generosità cristiana, per aiutare tali coppie a sentirsi accolte e ad integrarsi con serenità in un ambiente dove le differenze culturali e religiose emergono con maggiore evidenza.

4. NODI

PROBLEMATICI PER LA TRASCRIZIONE CIVILE DEL MATRI-

MONIO TRA CATTOLICI E MUSULMANI IN ITALIA

Oggi non è facile garantire gli effetti civili ad un matrimonio celebrato in Italia tra una cattolica e un musulmano o viceversa, perché le difficoltà sono tante e non facilmente superabili. Infatti, non di rado accade che il matrimonio tra un cattolico e una ragazza musulmana non può essere trascritto in Italia per il semplice fatto che alla ragazza di religione islamica non è consentito sposare un non musul42 Su questo aspetto si veda: S. FERRARI – G. PEROTTI BORRA, I matrimoni islamo-cattolici in Italia. Aspetti giuridici e pastorali, Milano, 2003, 52-57. 43 CEI, Indicazioni, 150.


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mano e quindi, lo Stato islamico non le concede il necessario nulla osta perché possa celebrare matrimonio in Italia con la trascrizione a norma della legge civile, nello Stato italiano44. Per superare tale ostacolo la normativa italiana, consente di celebrare il matrimonio civile con una musulmana senza la dovuta documentazione e senza il “nulla osta” internazionale, in quanto la disparità di trattamento prevista dalla legislazione islamica, contrasta con la Costituzione italiana, secondo il principio della reciprocità45. Il Pese islamico concede la dovuta autorizzazione solo dopo che il contraente non musulmano ha emesso la professione di fede musulmana detta shahada46. Tale situazione non solo priva la persona della sua libertà di coscienza47, ma nello stesso tempo, giuridicamente costituisce, per il cattolico, un atto formale di abbandono della Chiesa cattolica48 il quale assume la sostanza di un vero delitto sanzionato dalla 44 CODICE CIVILE ITALIANO, art. 116: «Lo stranero che vuole contrarre matrimonio nello Stato deve presentare all’ufficiale di stato civile una dichiarazione dell’autorità competente del proprio paese, dalla quale risulti che giusti le leggi a cui è sottoposto nulla osta al matrimonio». 45 L’impedimento che vieta alla ragazza musulmana di sposare un non musulmano si pone in evidente contrasto con il principio di uguaglianza sancito, oltre che dalla Costituzione, anche da numerosi Trattati internazionali e in particolare quelli riferiti ai diritti dell’uomo. Siccome questo impedimento contrasta con l’ordinamento giudico italiano, l’autorità italiana potrebbe legittimamente invocare il limite dell’ordine pubblico il quale può giustificare la mancanza del “nulla osta” al matrimonio richiesto dall’art. 116 del Codice civile. 46 Shahada significa in arabo “testimonianza” (professione di fede) e la sua formulazione è la seguente: «Non c’è divinità all’infuori di Dio e Maometto è l’inviato di Dio”. Con la preghiera, il digiuno nel mese di Ramadan, l’elemosina e il pellegrinaggio alla Mecca è uno dei cinque pilastri fondamentali dell’Islam. Pronunciata in arabo e talora semplicemente sottoscritta davanti a due testimoni, è sufficiente per provare la conversione all’Islam, assoggettandosi ai diritti e doveri della comunità islamica. 47 DH, 2: «Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano…». Alle parole del Decreto conciliare fa eco il can. 219 del CDC: «Tutti i fedeli hanno il diritto di essere immuni da qualsiasi costrizione nella scelta dello stato di vita». 48 Il can. 751 definisce l’apostasia «ripudio totale della fede cristiana». La pena stabilita per questo delitto è la scomunica come stabilito dal can. 1364 §1: «L’apostata,


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legge canonica con la conseguente scomunica latae sententiae. Tale atto non può essere considerato un mero adempimento burocratico, ma un vero abbandono della fede cattolica e tale emissione esime sia dalla forma canonica, sia dall’impedimento di disparità di culto. Il cattolico che ha emesso la professione di fede musulmana per celebrare in uno dei paesi islamici il matrimonio con una ragazza musulmana, se deciderà, successivamente, di celebrare il matrimonio canonico dovrà, prima di celebrare il matrimonio, ritrattare formalmente quanto ha professato ed essere riammesso nella Chiesa cattolica. Il problema si pone normalmente, in Italia, quando si intenda contrarre matrimonio canonico a cui conseguono gli effetti civili; in tal caso può accadere che il consolato del Paese islamico non trasmetta i documenti all’ufficiale dello stato civile se prima non risulti che il contraente cattolico ha emesso la shahada.

5. ALCUNE CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Il matrimonio tra cattolici e musulmani pone non pochi problemi di carattere religioso, sociale e pastorale soprattutto in Italia dove la presenza dei musulmani con regolare permesso di soggiorno e clandestini raggiunge il milione. Da quanto è stato detto sulla concezione del matrimonio tra le due religioni completamente differenti non è facile trovare punti di incontro. Le diversità culturali, come pure il diverso concetto di persona, presentano due realtà molto distanti tra di loro. Particolare rilievo acquista il fatto che il matrimonio tra cattolici e musulmani, per la Chiesa, non è sacramento. Essendo uno battezzato e l’altro non, tra i due, secondo la dottrina della Chiesa non può sussistere un vincolo sacramentale. Perché vi sia il sacramento è necessario che entrambi i nubendi siano battezzati. Tale situazione incide non poco nella vita spirituale del fedele cattolico e crea in lui un notevole disagio interiore. Quindi un cattolico che decide di sposarsi con una persona di religione musulmana deve fare il possibile per conoscere come l’altro


Il matrimonio tra cattolici e musulmani in Italia

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concepisce il matrimonio e la famiglia, secondo la tradizione e la cultura di ognuno. «Come si vede — scrive Salvini — si tratta di un problema molto delicato e complesso, che va vissuto giorno per giorno, su molti piani — affettivo, religioso, sociale, culturale e giuridico — e che pone interrogativi per rispondere ai quali il più delle volte non basta la buona volontà anche di due persone che si amano sinceramente. Per questo non dove meravigliare l’affermazione già ricordata dai vescovi italiani (e condivisa anche dai musulmani): «L’esperienza maturata negli anni recenti induce in linea generale a sconsigliare o comunque a non incoraggiare questi matrimoni». Ma un matrimonio di questo tipo è anche un banco di prova della possibilità di realizzare un dialogo tra persone capaci di integrarsi nella loro diversità realizzando una unità profonda, senza rinunciare alla propria identità. Quando questa difficile impresa riesce, può diventare un esempio per un mondo pluralistico in cui sarà sempre più necessario imparare ad accettare la diversità degli altri, lavorando insieme. Ma riuscirci è un dono difficile e spesso fragile e a rischio»49.

l’eretico e lo scismatico incorrono nella scomunica latae sententiae, fermo restando il disposto del can. 194, §1,n 2;…». Sull’abbandono formale della fede cattolica si veda la Lettera Circolare del Pontifico Consiglio per i Testi legislativi dove si ribadisce che per esserci validamente l’actus formalis defectionis ab Ecclesia, deve concretizzarsi: a) nella decisione interna di uscire dalla Chiesa Cattolica; b) attuazione e manifestazione di questa decisione; c) ricezione da parte dell’autorità ecclesiastica competente di tale decisione. Cfr. PONTIFICO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, Actus formalis defectionis ab Ecclesia catholica, 13 marzo 2006, in Communicationes 38 (2006) 170-172. 49 G. SALVINI, I Matrimoni tra cattolici e musulmani in Italia, in La Civiltà Cattolica, 2005, IV, 56.



Synaxis 1 (2009) 177-201

TEOLOGIA DELLE RELIGIONI*

GIANNI COLZANI**

Introdurre un dibattito sull’attuale teologia delle religioni — è questo il mio compito — non è certo cosa agevole; per farlo, sceglierò di indicare e presentare alcuni nodi, alcuni punti cruciali. Per prima cosa vorrei però chiarire il termine “teologia delle religioni” con cui si indica abitualmente questa tematica. Se per teologia si intende una fides quaerens intellectum, non tutti gli autori che se ne interessano entrerebbero in questa accezione; molti si muovono in un quadro di storia comparata delle religioni, altri di filosofia della religione, altri ancora di fenomenologia e via dicendo. Poiché però il termine “teologia” è un termine greco che risale al IV sec. a.C.1 e sorge nel quadro di un dibattito precristiano sul posto che spetta a Dio nella organizzazione pubblica di una società, si può ritenere che la nozione di “teologia” abbia anche un senso ampio in grado di abbracciare una prospettiva non direttamente cristiana. In ogni caso, devo dire che quello che cercherò di presentare sarà una teologia cristiana delle religioni non-cristiane. Per offrire qualche indicazione sul senso ed il cammino di questo dibattito vorrei procedere per gradi ed il primo punto che mi sembra necessario chiarire è cosa si intenda per religione.

* Disputatio tenuta il 20 febbraio 2009 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Docente invitato di Teologia sistematica della Missione presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 PLATONE, La Repubblica 379a in ID., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano 1991, 1127.


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1. QUALE CONCEZIONE DI “RELIGIONE” È ovvio che non si possa parlare di teologia delle religioni senza intendersi prima su cosa sia la religione. Per quanto sia ovvio, la cosa resta spinosa perché fenomenologia e sociologia, filosofia e teologia hanno concezioni diverse di questo fenomeno2; un piccolo libriccino di R. Alves3 offre un quadro veloce e comodo di queste molteplici interpretazioni. Da parte mia, vorrei dire subito che la teologia prende atto del significato “culturale” che le religioni hanno assunto in determinati contesti sociali e storici così come della dinamica simbolica4 — propria dell’antropologia — che ne è all’origine ma che è proprio della teologia spingersi al di là di un quadro semplicemente antropologico o sociale. Senza sviluppare il dibattito originato dalle tesi di F. Schleierma5 cher e di E. Troeltsch6, credo abbia una certa importanza richiamare le tesi di R. Otto, W. James e G.W. Allport. Il primo7 ha ricondotto l’esperienza religiosa alla intuizione di quel «radicalmente altro» che è il 2 G. MURA – R. CIPRIANI, Il fenomeno religioso oggi. Tradizione, mutamento, negazione, Roma 2003. 3 R. ALVES, Religione, Bologna 2007. 4 Sul simbolo si vedano le osservazioni generali di Tillich che indica sei caratteristiche: è un segno che trascende se stesso ed indica altro; partecipa a quanto indica; apre livelli di realtà che altrimenti ci rimarrebbero preclusi; schiude così elementi e dimensioni della nostra anima corrispondenti ad aspetti della realtà; non nascono intenzionalmente ma sulla base dell’inconscio individuale o collettivo; muoiono quando non dicono nulla al gruppo che li ha originati (P. TILLICH, Dinamica della fede – Religione e Morale, Roma 1967, 44-45). In ambito teologico, se ne veda la ricezione ben conosciuta di K. RAHNER, Sulla teologia del simbolo, in ID., Saggi sui sacramenti e sulla escatologia, Roma1965, 51-107. 5 Dei suoi testi in traduzione italiana, ricordo qui F. SCHLEIERMACHER, Sulla religione: discorsi a quegli intellettuali che la disprezzano, a cura di S. Spera, Brescia 1989; ID., Lo studio della teologia, a cura di R. Osculati, Brescia 1978; ID., La dottrina della fede esposta sistematicamente secondo i principi fondamentali della chiesa evangelica, a cura di S. Sorrentino, 2 voll., Brescia 1981-85. 6 E. TROELTSCH, L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni, a cura di T. Rendtorff – S. Pautler, Brescia 2006; ID., L’autonomia della religione, Napoli 1996. 7 R. OTTO, Il sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale [1917], Bologna 1926.


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sacro, il numinosum; la radicale diversità del sacro si traduce nell’esperienza dei sentimenti opposti del tremendum e del fascinosum, della maiestas e della orgé che — quale esperienza religiosa originaria — sta alla radice di ogni successiva istituzionalizzazione. Dobbiamo a W. James8 il riconoscimento del carattere normale e totalizzante della condotta religiosa e la convinzione della centralità che queste dinamiche occupano nella psiche dei credenti. La dimensione affettivoemotiva che le accompagna conferisce loro una particolare vivacità e ricchezza psicologica; ne verrà una distinzione e, per certi versi, anche una qualche opposizione tra religione soggettiva, personale ed interiore e religione istituzionale. Su diversi aspetti del suo pensiero non sono d’accordo; in particolare la consapevolezza dei limiti della dimensione istituzionale non può equivalere alla sua inutilità o dannosità. Allport9, infine, ha illuminato il valore positivo della religione in una personalità matura: essa contribuisce infatti a porre l’individuo in un rapporto significativo con la totalità della realtà. Insistendo sulla componente cognitiva, Allport stacca la religiosità dalle pregiudiziali psicoanalitiche che, fondandola nell’inconscio, la riducono ad una erronea riposta ai bisogni di affetto, di difesa o di sicurezza. Queste prospettive hanno rinnovato profondamente il modo di pensare le religioni ed hanno posto le basi per una loro diversa comprensione. All’interno della teologia, questa visione ha portato ad abbandonare un linguaggio ed una concezione negativa che presentava le religioni come un unico insieme, il “paganesimo”, senza rispettarne le diversità. Anche abolendo i termini “infedeli” o “pagani”, resterebbe comunque da chiedersi se si debba parlare di “religioni non cristiane” o di “non cristiani”: data per scontata la valutazione cattolica dello statuto dei non cristiani nei termini di Lumen Gentium 16, resta aperta la problematica delle «religioni non cristiane» e, per quanto l’espressione sia semplicemente negativa, poiché non impegna giudizi di valore ed evita risonanze sfavorevoli, mi atterrò ad essa come fa la maggior parte degli autori. 8 W. JAMES, Le varie forme dell’esperienza religiosa. Uno studio sulla natura umana [1903], Brescia 1998; ID., La volontà di credere, Milano 1949. 9 G.W. ALLPORT, L’individuo e la sua religione [1950], Brescia 1972.


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L’ultimo autore ad offrire una Teologia del paganesimo è stato Maurier10 che, nella sua sintesi, ha costruito le sue tesi attorno all’analisi dei rapporti tra natura e grazia. Sotto la spinta di un nascente interesse per le religioni, G. Thils11 presenterà le religioni come un complesso organico di elementi interiori ed esteriori mentre J. Daniélou12 proverà a descriverne il significato storico-salvifico. Il giudaismo e l’Islam, l’induismo e il buddismo appaiono così complessi organici ed unificati, non privi di contraddizioni, divisioni, antinomie tanto che lo stesso studio delle religioni avrà difficoltà nel precisare il suo oggetto: da una parte sono delle istituzioni ma, dall’altra, rimandano ad una esperienza interiore profonda, anche mistica, secondo modalità e concezioni proprie di ogni religione. Mantenendosi in un quadro descrittivo molto ampio, Nostra Aetate 1 descriverà le religioni come «la risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che, ieri come oggi, turbano profondamente il cuore dell’uomo: chi sia l’uomo, quale il senso e il fine della nostra vita, che cosa sia il bene e il peccato, quale l’origine e il fine del dolore, quale la via per raggiungere la vera felicità, il significato della morte, del giudizio e della sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo». A questa concezione ampia di religione, che non menziona Dio, se ne può facilmente aggiungere una seconda, centrata proprio sulla nozione di Dio e, per alcuni, addirittura sul 10 H. MAURIER, Teologia del paganesimo, Torino 1968. A introduzione cita Meinrad P. Hebga, un gesuita camerunense che, nel 1963, denunciava il fatto che «oggi come ieri, gli africani si sentono alienati: essi hanno abbandonato la loro saggezza, i loro riti, i loro costumi, i loro nomi, la loro cultura cioè, in cambio degli apporti stranieri. Le religioni avite, che naturalmente dovevano venir corrette, modificate, convertite, sono trattate con disprezzo, oggi indulgente, ieri iconoclasta, sotto l’appellativo vago e confuso di paganesimo. Ci si è forse presa la briga di definire teologicamente il paganesimo?» (ibid., 13). 11 G. THILS, Religioni e Cristianesimo, Assisi 1976. 12 J. DANIÉLOU, Le mystère du salut des nations, Paris 1946; ID., Le mystére de l’Avent, Paris 1948; ID. Les saints paiens de l’Ancien Testament, Paris 1956; ID., Mythes païens, mystère chrétien, Paris 1966. A questi libretti va aggiunto il lavoro che riassume la sua ispirazione su questi problemi: J. DANIÉLOU, Essai sur le mystère de l’histoire, Paris 1953.


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carattere personale di Dio. Ne conseguirà che Giovanni Paolo II presenterà il confucianesimo ed il taoismo «come sistemi culturali e, insieme, sistemi etici» e parlerà del buddismo come «quasi esclusivamente una soteriologia negativa»13, provocando dure reazioni. Abbandonando ogni forma di eurocentrismo ed ogni teologia dell’adattamento14, K. Rahner prenderà atto del fatto che le religioni si presentano oggi in un quadro di pluralismo religioso, un quadro che ha portato ogni religione a diventare «una componente interna di ogni altro mondo e di ogni civiltà»15. Da parte sua, K. Rahner ne ricaverà l’urgenza di una riflessione teologica sulle religioni in un momento in cui esse sono «un problema e una profferta per chiunque»16. Collegando poi la dimensione storico-sociale delle religioni alla storicità ed alla socialità delle persone, Rahner le presenterà come oggettivazioni di una esperienza religiosa storico-sociale: ne verrà il riconoscimento della diversità delle varie religioni, non più presentabili genericamente come paganesimo, ed in questa visione prenderà avvio lo sforzo per ripensarle nell’ambito dell’azione salvifica di Dio17. Una simile prospettiva è preziosa. Senza entrare nella valutazione della diversità tra forma storica e forma mistica del monoteismo, 13

Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Milano 1994, 91. 95. Questi temi, opera un tempo di alcuni pionieri, sono oggi tesi comuni. Tra molti ricordo TH. OHM, II cristianesimo occidentale visto dagli Asiatici [1948], Brescia 1953; ID., Der Europäismus in der neuzeitlichen Asiensmission und seine Überwindung, in Ex contemplatione loqui. Gesammelte Aufsätze, Münster 1961, 132-149. 15 K. RAHNER, Cristianesimo e religioni non cristiane [1961], in ID., Saggi di antropologia soprannaturale, Roma 1965, 533-571 (citazione: 544-545). Presentato nel 1961, alla immediata vigilia del concilio, l’articolo sostiene che se la grazia, vista come entità soprannaturale e salvifica, possiede l’efficace capacità di raggiungere e cambiare la coscienza anche senza formare come tale oggetto diretto della riflessione, «non può essere che le religioni concrete, nella loro consistenza oggettiva, non portino alcuna traccia di questa azione da parte della grazia su tutti gli uomini» (ibid., 562). 16 K. RAHNER, Cristianesimo e religioni non cristiane, cit., 537. 17 È quanto proverà a fare con K. RAHNER, Sul significato salvifico delle religioni non cristiane, in ID., Nuovi Saggi. VII: Dio e Rivelazione, Roma 1981, 423-434. Presentata al Congresso internazionale di missiologia (Roma 1975), la relazione è negli Atti: K. RAHNER, Über die Heilsbedeutung der nichtchristlichen Religionen, in Evangelizzazione e Culture. Atti del Congresso internazionale scientifico di Missiologia (Roma 5-12 ottobre 1975), I, Roma 1976, 295-303. 14


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a suo tempo indicata da J. Ratzinger come previa a qualsiasi ulteriore sviluppo teologico18, Rahner si chiede se e come queste diversità possano venir mediate dal cristianesimo; al tempo stesso, la sua teologia pensa il ruolo del cristianesimo non nei termini ideologici dell’assolutezza ma in quell’ambito storico che consegue al riconoscimento di una volontà salvifica universale e della corrispondente azione della grazia. Una fede cristiana priva di attenzione per questo nodo storico-salvifico mostrerebbe di non prendere sul serio quell’incarnazione nella quale questo nesso è fissato una volta per tutte. Per indicare la decisività di questa svolta, P. Knitter userà l’immagine del passaggio del Rubicone e, sviluppandola, indicherà tre ponti che possono permettere di passare dalle sponde dell’esclusivismo o dell’inclusivismo a quelle del pluralismo19. Sono ponti o sfide o problematiche da affrontare se si vuole tenere conto del mutato clima culturale e che hanno il pregio di offrire un primo elementare elenco di problematiche: sono il ponte teologico-mistico o il mistero di un Dio che supera ogni comprensione e che continuamente viene approfondito dallo Spirito per renderne più vera la conoscenza; il ponte storico-culturale o la questione della relatività delle forme istituzionali assunte da esperienze religiose diverse tra loro e segnate dalla storia e dalla cultura; ed infine il ponte etico-pratico o il nodo della giustizia e della sua promozione come espressione del regno. Intese come questioni20, questi temi sono questioni serie che ogni teologo deve poter e saper affrontare.

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J. RATZINGER, Unità e molteplicità delle religioni. Il posto della fede cristiana nella storia delle religioni, in ID., Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Siena 2003, 13-43. Si tratta della riedizione di un articolo del 1964 pubblicato nella miscellanea per i sessant’anni di Rahner: J. RATZINGER, La fede cristiana e le religioni del mondo, in Orizzonti attuali della teologia, II, Roma 1967, 319-347. La riedizione del 2003 non ha particolari cambiamenti, salvo una introduzione in cui l’autore motiva la sua distanza dal pensiero di Rahner. 19 P. KNITTER, Prefazione, in J. Hick – P.F. Knitter (curr.), L’unicità cristiana: un mito? Per una teologia pluralista delle religioni, Assisi 1994, 52-57. 20 Su questi temi, si veda il giudizio duramente critico di A. Amato e quello mio più aperto in G. COLZANI, Assolutezza del cristianesimo? Sul pluralismo religioso in risposta ad Angelo Amato, in ATI, Cristianesimo religione, religioni. Unità e pluralismo


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2. COSA INTENDERE PER “SALVEZZA” Come la nozione di religione, nemmeno quella di salvezza è di facile precisazione. Se, nel passato, il mondo cristiano aveva dato per acquisito il contenuto della salvezza identificandolo con la vita divina donata all’uomo e consacrandovi un intero trattato, il De Gratia, oggi non è più così: lo stesso Giovanni Paolo II ha dovuto ammettere che «in un mondo fortemente secolarizzato è avvenuta “una graduale secolarizzazione della salvezza”, per cui ci si batte sì per l’uomo, ma per un uomo dimezzato, ridotto alla sola dimensione orizzontale»21. Nella stessa direzione, J. Werbick parlerà del nostro tempo come di un tempo alla ricerca di una salvezza senza Salvatore, di una redenzione senza Redentore22, ribadendo così una profonda distorsione di questa fondamentale esperienza cristiana. Da parte sua David J. Bosch23 imputerà alla storia del cristianesimo una individualizzazione ed una ecclesiasticizzazione della salvezza mentre J.C. Hoekendijk24 proverà a recuperarne l’originalità ed a renderla nuovamente significativa utilizzando la nozione di shalom. Se la salvezza equivale a quanto Dio sta facendo nel mondo, allora L. Rütti25 si sentirà autorizzato a concludere che ogni visione che esalti la Chiesa e la sua missione al di sopra del “popolo” e della sua storia vada bollata come ecclesiocentrismo. L’importanza di queste tematiche è indubbia: la salvezza è strettamente legata alla figura ed all’opera storica di Gesù e ne costituisce il fulcro presentato con molteplici categorie teologiche; proprio il rapporto tra la salvezza e la figura storica di Gesù sembra però oscudell’esperienza di Dio alle soglie del terzo millennio, a cura di M. Aliotta, Cinisello Balsamo (MI) 1999, 173-184. 21 Redemptoris Missio 11. 22 J. WERBICK, La crisi della soteriologia, in ID., Soteriologia, Brescia 1993, 9-59. 23 D. J. BOSCH, La trasformazione della missione. Cambiamenti di paradigma in missiologia, Brescia 2000, 304-310. 24 J.C. HOEKENDIJK, Kirche und Volk in der deutschen Missionswissenschaft, München 1967; ID., Die Zukunft der Kirche und die Kirche der Zukunft, Stuttgart 1964. Su di lui si veda G. COFFELE, J.Ch. Hoekendijk. Da una teologia della missione a una teologia missionaria, Roma 1976. 25 L. RÜTTI, Zur Theologie der Mission. Kritische Analysen und neue Orientierungen, Mainz-München 1972.


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rato in più di un autore, tanto che il magistero è intervenuto per mettere in guardia da forme di regnocentrismo26, termine che il magistero qualifica in base a tre affermazioni: il «passare sotto silenzio Cristo» per raccogliere persone e fede attorno ad una generica realtà divina, quale che sia il suo nome; un «privilegiare il mistero della creazione» così come si evidenzia nelle diverse culture, tacendo però sulla redenzione; un «emarginare o sottovalutare la Chiesa» per reazione ad un dichiarato ecclesiocentrismo. Da parte sua, la teologia da una parte osserva che il riportare ed il mantenere Cristo al centro della salvezza ha condotto al «superamento in radice del dualismo contestato spesso alla teologia del soprannaturale e la sua ignoranza o il suo silenzio su Gesù Cristo»27 ma, dall’altra, vede più di un autore optare decisamente per quelle forme di regnocentrismo da cui il magistero mette in guardia. La valenza attuale di questi temi è quella di uno scontro sul senso della vita e del mondo. Riconducendo la soteriologia cristiana ad un progetto illuministico, S. Natoli rivendicherà una concezione naturale di salvezza28 e, nei suoi lavori, proporrà una etica della finitudine, una antropologia dove l’uomo è all’altezza dei suoi limiti senza pretendere alcuna infinitezza. Dal moderno scomparire di Dio, Natoli non ricava né una apoteosi del nulla né il bisogno trionfalistico di prendere il posto di Dio ma, più semplicemente, un ridimensionamento delle proprie pretese: la salvezza in questione è la salvezza possibile e non una salvezza assoluta ed il bisogno di aiuto è il bisogno di quell’aiuto «che sarebbe bene gli uomini si scambiassero tra loro, resi scaltri e maturi dalla consapevolezza della loro comune fragilità». Questa secolarizzazione della redenzione chiede «etica non più Salvezza»29. 26 Redemptoris Missio 17. Il testo è poi ripreso in Dominus Iesus 19. Non è del tutto chiaro se i tre dati ricordati vadano considerati unitariamente separatamente. 27 G. COLOMBO, Soprannaturale, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, III, Torino 1971, 300. 28 S. NATOLI, La salvezza senza fede, Milano 2007. In pratica è una riedizione, ripensata, di temi già affrontati nel suo lavoro precedente: ID., I nuovi pagani. Neopaganesimo: una nuova etica per forzare le inerzie del tempo, Milano 1995. Per lo sviluppo storico si veda: Oeconomia salutis. Le metamorfosi dell’idea di salvezza nell’età moderna, in Ibid., 99-112. Diversamente da lui, il cristianesimo parla di una finitezza creaturale. 29 Ibid., 13-14. 15.


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A ben guardare, vi è qui un primo aspetto di dibattito, quello che affonda le sue radici nella problematica della modernità e della secolarizzazione, dinamiche che si sono aggravate con la fine dell’eurocentrismo e con l’avvento della globalizzazione e del pluralismo culturale e religioso. Ne è emblema Mark Heim30 che ridiscute l’intera problematica della salvezza facendo delle profonde differenze esistenti nel modo con cui le religioni e la società secolare pensano la salvezza, non il punto di arrivo ma quello di partenza della sua riflessione. Le differenze tra le diverse concezioni religiose non consistono soltanto nei mezzi di cui si servono ma anche nei fini che perseguono; ne viene una incommensurabilità reciproca che non permette di stabilire alcun nesso tra le religioni. Che cosa vi è di comune tra il nirvana e la visio Dei? Tra l’Eden biblico e lo Janna islamico? La coscienza di queste radicali diversità deve portare le religioni ad accettarsi così come sono; il rispetto della diversità va combinato con il rifiuto di ogni pretesa di unicità, universalità e assolutezza per essere preso sul serio. Andando ancora oltre, Mark Heim proverà a legittimare questa pluralità risalendo alla Trinità: superando l’esistenza di un unico Dio, la fede trinitaria ci presenterebbe persone divine diverse tra loro che, nella loro relazione, si accolgono e si accrescono al punto da trovare proprio in questo la loro identità31. È facile osservare che questa concezione trinitaria è inaccettabile. Heim non coglie il fatto che le persone trinitarie sono l’elaborazione dell’unico evento-Gesù e, per questo, sono la rivelazione di un unico Dio che tale rimane anche nella sua trinità personale. Per M. Heim, in fondo, la fede trinitaria appare come un modello adatto per ripensare i rapporti tra le religioni; alla luce di questo modello delinea una diversità unita ad una qualche forma di relazione che non esprime la fede nel Dio unitrino: in particolare non è «affatto necessaria»32 una qualche base veritativa perché ogni religione ha la sua dignità ed il suo valore che la relazione con le altre deve rispettare. In 30 S. MARK HEIM, Salvations. Truth and Difference in Religions, New YorkMaryknoll 1995. 31 ID., The Dept of Riches. A Trinitarian Theology of Religions Ends, Grand Rapids 2001. 32 Ibid., 269.


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pratica, le diverse religioni non hanno nulla in comune ed un terreno condiviso va costituito solo attraverso la vicendevole accoglienza ed il rispettoso dialogo; solo in questo modo dialogico, tutto sommato esteriore, le diverse realtà divine — JHWH, l’Abbá di Gesù, Brahman, Allah — acquistano una certa importanza per l’umanità intera e non solo per i loro credenti. Entrambi questi autori, S. Natoli e M. Heim, si muovono entrambi nell’ambito della modernità ed a loro potremmo aggiungerne facilmente altri, a cominciare da J. Hick e P. Knitter. Uno sguardo all’illuminismo diventa così necessario. Per quanto ci interessa, si può riassumere la modernità in due grandi fenomeni: l’inclusione della conoscenza di Dio e della sua realtà nell’ambito della ragione e la conseguente determinazione antropologica della religione. In questa visione antropologica, la stessa infinità di Dio è diventata cifra della partecipazione dell’uomo alla realtà illimitata dell’universo. Rousseau e Kant, Schleiermacher e Feuerbach sono stati i principali autori di questo radicale cambiamento. Se a questo aggiungiamo la postmodernità, con il suo rifiuto della universalità della ragione e la sua esaltazione del particolare, allora il quadro appare completo: ridotte a fenomeno particolare ed interne alla dinamica delle culture, le religioni sono studiate nel loro significato sociale e nel loro valore funzionale. In fondo valgono per coloro che le accettano — ad ognuna la sua — e questa visone “normativa” rinuncia formalmente ad esprimere un qualsiasi discorso veritativo ed universale. Tra gli autori che si muovono in questo senso si può ricordare, oltre a John Hick e Paul Knitter, anche Wilfried Cantwell Smith e Karl Heim. Si può offrire un esempio delle radici di questo pensiero analizzando le basi della riflessione di P. Knitter. In un suo lavoro degli anni ’80, Knitter analizzava la dialettica tra unità e molteplicità attraverso percorsi di filosofia, di sociologia e di politica che risalgono agli inizi del secolo XX e, addirittura, agli ultimi decenni del XIX33; il pluralismo messo così a fuoco non nasce dai limiti di una ragione che non riesce a tenere insieme l’uno e il molteplice ma scaturisce dalla struttura 33

P. KNITTER, L’uno di fronte al molteplice, in ID., Nessun altro nome? Un esame critico degli atteggiamenti cristiani verso le religioni mondiali [1985], Brescia 1991, 12-


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stessa della realtà storica: ne rappresenterebbe il segreto più profondo. Una simile prospettiva deciderà di tutto il suo cammino successivo34. Prima di lui, J. Hick aveva parlato di rivoluzione tolemaica per indicare quel cambiamento che passa «dal dogma che la cristianità è al centro alla percezione che è Dio a stare al centro e che tutte le religioni […], inclusa la nostra, servono questa centralità e girano attorno ad essa»35. Per questa via, con An Interpretation of Religions (1990), Hick approderà a forme di deciso pluralismo. G. D’Costa, studioso del pensiero di Hick36, ricondurrà la sua teologia ad un debito kantiano, in pratica alla separazione tra fenomeno e noumeno: la conclusione è una analisi delle religioni dove la realtà di Dio è separata dalle sue manifestazioni e viceversa. Per G. D’Costa, questo errore epistemologico condurrà la riflessione di Hick a forme di pensiero in cui il suo teocentrismo e la sua teologia delle religioni rimangano prigioniere delle conclusioni illuministe ferme ad una oggettivazione di Dio37 e approdano, per questa via, ad una intercambiabilità delle religioni. La sua conclusione è netta: «their 50. Il lavoro era stato anticipato in P. KNITTER, Towards a protestant theology. A case of study of Paul Althaus and contemporary attitudes (mit deutscher Zusammenfassung), Marburg 1974. Quest’ultimo lavoro era stato presentato in Italia da A. GIUDICI, Religioni e salvezza. Un confronto tra la teologia cattolica e la teologia protestante, Roma 1978 (si tratta di una tesi discussa alla Facoltà dell’Italia settentrionale di cui era apparso un estratto con il titolo Le religioni non cristiane nella teologia protestante, Roma 1978). 34 Si veda il suo ultimo lavoro: P. KNITTER, Introduzione alle teologie della religioni, Brescia 2005 in cui la sua posizione coincide con il quarto modello, quello della accettazione, che riassume nello slogan: «molte religioni vere e così sia» (ibid., 341). 35 J. HICK, God and the Universe of Faiths, London 1977, 131. 36 G. D’COSTA, John Hick’s Theology of Religions, London – New York 1987; ID., Christian Theology and other religions. An evaluation of John Hick and Paul Knitter, Roma 1993. Oltre G. D’Costa, si vedano anche CH. SINKINSON, The universe of faiths. A critical study of John Hick’s religious pluralism, Carlisle 2001; H. HEWITT, Problems in the Philosophie of religion. Critical studies of the work of John Hick, London 1991; W.H. MANOHAR, Towards a relevant christology in India today. An Appraisal of the christologies of John Hick, Jürgen Moltmann and Jon Sobrino, Frankfurth a.M. 2002. 37 Su questo si veda Processo all’oggettività di Dio. I presupposti filosofici della crisi dell’oggettività di Dio, Torino 1971: raccoglie i lavori di un dibattito organizzato dalle Facoltà domenicane di Le Saulchoir.


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God is modernity’s God»38. La pretesa illuminista di ricondurre ogni realtà alla ragione ed il complesso rapporto tra verità e storia, non adeguatamente risolto dalla proposta ermeneutica, spiegherebbero perché la religiosità umana abbia preso il posto della rivelazione divina. Non si tratta di reciproco rispetto tra le religioni ma della loro sostanziale equivalenza all’interno del primato della razionalità. Interno alla prospettiva illuminista, “questo” pluralismo non riesce a superarne l’epistemologia: il risultato è la riduzione di Dio alla religione e di questa alla coscienza del soggetto. Per questo la loro conclusione è quella di una cristologia normativa che, equiparata all’innamoramento, è come tale valida ed assoluta solo per chi vive questa relazione. Al di là di una affinità di affermazioni, credo che abbiano radici e prospettive diverse quegli autori che — come J. Dupuis e M. Amaladoss — si collocano sullo sfondo della tradizione indiana. Per quanto formati culturalmente in Europa, hanno però fatto del mondo indiano il loro punto di riferimento. Da questa cultura ricavano la convinzione di una sproporzione radicale tra il divino e quanto è storico ed umano: solo oltrepassando questa realtà terrena, si può pensare di entrare in rapporto con Dio. Ne viene una cristologia indubbiamente critica nei confronti della tradizione ma che potremmo ricondurre nell’ambito dei modelli cristologici propri della tradizione antiochena e apofatica: antiochena perché l’attenta salvaguardia della differenza tra il divino e l’umano è condizione necessaria per l’incontro con il divino ed apofatica perché, anche rivelandosi, il divino resta avvolto nel suo mistero che si impone come principio di adorazione e di sottomissione. Dupuis, ad esempio, ritiene che «l’operosità del Verbo oltrepassa i limiti che segnano la presenza operativa dell’umanità persino glorificata di Gesù come pure la persona del Verbo oltrepassa l’essere umano di Gesù Cristo»39; lo stesso aveva osservato prima di lui 38 Questo giudizio è netto anche se D’Costa ammetterà che «not all pluralists are modernists»: G. D’COSTA, The Meeting of Religions and the Trinity, New York 2000, in particolare la Introduction — ibid., 1-15 — da cui sono prese le citazioni. 39 J. DUPUIS, Il cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, Brescia 2001, 302 ma si veda tutto il brano: 301-304.


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R. Panikkar40. Partendo da questo, Dupuis distingue tra il Verbo ásarkos che illumina ogni uomo che viene nel mondo (Gv 1,9) ed il Verbo énsarkos fattosi uno di noi, distingue cioè tra una missione salvifica universale che raggiunge tutti gli uomini ed opera anche attraverso le loro religioni ed una missione storica che ha invece il passo della Chiesa apostolica fondata da Gesù e del suo cammino41. Solo il dialogo tra questi due modi di agire di Cristo corrisponderebbe, secondo Dupuis, alla pienezza dell’opera salvifica di Dio. Questa duplicità di azione salvifica è rifiutata in Dominus Iesus 10,5 ed è rifiutata perché non vi è, per noi, altro modo di conoscere l’agire salvifico di Dio che attraverso la persona e l’opera di Gesù; tutto quanto prescinde dalla sua figura incarnata o rivendica una qualche indipendenza o autonomia rispetto ad essa non corrisponde al disegno di Dio. Stanno qui i limiti di quella prospettiva antiochena e apofatica a cui si faceva cenno sopra; per avere un coerente progetto salvifico, occorre mantenere l’unità tra il Logos eterno e cosmico ed il Verbo fatto carne. Muovendosi in questa direzione, G. D’Costa42 parla di praeparatio evangelica43 più che di dialogo interreligioso. Il rapporto tra le diverse religioni è da lui ricostruito appoggiandosi alle formulazioni conciliari che parlano di un «purificare e restituire al suo autore», di un

40 Parlando dell’incontro tra cristianesimo ed induismo e richiamando le imperfezioni della mente ed i limiti del cuore umano, Panikkar scrive: «l’induismo dice che ci incontriamo soltanto nell’Assoluto; ci incontreremo solamente alla fine della nostra peregrinazione, quando avremo compreso che siamo una sola e medesima realtà. Non possiamo incontrarci nel tessuto delle nostre differenze; arriviamo a raggiungerci solamente in quel che ci unisce. Lasciamo ciò che ci rende diversi e rinunciamo alle nostre idee, alle nostre convinzioni e alle nostre pratiche, La Verità, il Silenzio, l’Amore: questi saranno gli unici dogmi della religione nuova in cui tutti gli uomini potranno incontrarsi» (R. PANIKKAR, Il Cristo sconosciuto dell’induismo [1964], Milano 1976, 52). Lo sviluppo del suo pensiero darà poi a queste idee forme alquanto sincretiste. 41 Pur mantenendo l’unità personale del Verbo, Dupuis pensa ad una duplice missione che Dominus Iesus 10 § 5-6 rifiuta. 42 G. D’COSTA, The Meeting of Religions, 104-109; ID., Revelation and “Revelations”: Beyond a Static Valuation of Other Religions, in Modern theology 10 (1994) 2, 165-184. 43 Lumen Gentium 16.


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«sanare elevare e perfezionare»44 e di un «purificare elevare e portare a compimento»45. Parlare delle altre tradizioni religiose «come di una risorsa», come di un locus theologicus che permette di approfondire la fede, pare al nostro autore un andare al di là del linguaggio conciliare ed un aderire a posizioni discutibili ed eccessive46. A questo riguardo molto dipende dalla maniera di intendere il valore dei semina Verbi; interpretandoli in termini intellettuali, come una particolare forma di conoscenza di Dio, D’Costa li chiarisce sulla base della Dei Filius del Vaticano I, che insegna una conoscibilità naturale di Dio, e sulla base dell’insegnamento scolastico circa i rapporti tra natura e grazia: in questo modo i semina Verbi non vanno oltre una attuazione della libertà umana all’interno della economia della grazia. Per questo la sua conclusione circa i semina Verbi sarà nitida: «this is a restatement of the Thomistic Principle: gratia non tollit naturam sed perficit»47. Di parere naturalmente contrario è J. Dupuis; poiché nega che i semina Verbi siano «da intendere soltanto come “addentellati” (pierres d’attente) umani, doni della natura, in attesa di una automanifestazione divina da verificarsi in un futuro indeterminato», può concludere che «l’operosità del Verbo oltrepassa i limiti che segnano la presenza operativa dell’umanità persino glorificata di Gesù come pure la persona del Verbo oltrepassa l’essere umano di Gesù Cristo»48. Sono due conclusioni diametralmente opposte così che rimane aperta sia la questione della interpretazione dei semina Verbi sia quella della loro interpretazione conciliare. Secondo G. D’Costa il concilio non ha inteso entrare nel merito del valore salvifico delle religioni noncristiane ma si è accontentato di precisare «that supernatural saving grace is operative in other religions and that in those other religions there is much that is true, good and holy, and much to be admired and

44

Ad Gentes 9. Lumen Gentium 17. 46 F.X. CLOONEY, Leggere il mondo in Cristo. Dal confronto all’inclusivismo, in G. D’COSTA (cur.), La teologia pluralista delle religioni: un miti? L’unicità cristiana riesaminata, Assisi 1994, 151-176: 151-157. 47 G. D’COSTA, The Meeting of Religions, 104l. 48 J. DUPUIS, Il cristianesimo e le religioni, Brescia 2001, 302. 45


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learned by the church»49. Abbiamo qui una interpretazione restrittiva dei semina Verbi50; per quanto il pensiero dei Padri non sia ben chiaro e risulti difficile precisare come e quanto il Logos cristiano abbia integrato quello della Stoà, come si debba intendere il suo ruolo educativo e quale critica comprenda delle religioni non-cristiane, cosa risalga a prima della venuta di Cristo e quanto continui anche dopo, il concilio sembra ragionare nel quadro di una partecipazione differenziata del Verbo alla creazione al punto che la sua attiva presenza nel creato esige una inclusione di quest’ultimo nella sua economia di grazia e di salvezza. Questa partecipazione rimanda ad «una condivisione in diversi gradi e in diversi modi della medesima realtà centrale di Gesù Cristo»51. Per questo l’assunzione dei semina Verbi quali criterio di dialogo investe l’autocoscienza di fede della stessa Chiesa: indica la strada tracciata dallo Spirito per vivere il vangelo.

3. IL DATO CONCILIARE E POSTCONCILIARE In un articolo dedicato al nostro tema52, Rahner riconosce l’importanza di Nostra Aetate, la considera una svolta teologica e ne indica 49

G. D’COSTA, The Meeting of Religions, 105. CH. SALDANHA, Divine Pedagogy: A Patristic View of non-Christian Religions, Roma 1984; si vedano inoltre M. FEDOU, Les Pères de l’Église face aux religions de leur temps, in PONTIFICIUM CONSILIUM PRO DIALOGO INTER RELIGIONES, Bulletin, 80, 27(1992) 2, 173-185; ID., Les religions selon la foi chrétienne, Paris 1996; P. HAECKER, The Religions of the Gentiles as Viewed by Fathers of the Church, in ID., Theological Foundations of Evangelization, St Augustin 1980, 35-60; ID., The Christian Attitude toward non-Christian Religions, St Augustin 1980, 61-77. 51 CH. SALDANHA, Divine Pedagogy: A Patristic View of non-Christian Religions, Roma 1984, 186. La stessa valutazione ritorna in Daniélou parlando di Giustino: appoggiandosi a R. Holte, scriverà che «ces semences sont une participation du Logos qui ensemence ainsi les intelligences» (J. DANIÉLOU, Message évangélique et culture hellénistique aux IIe et IIIe siècles, Paris-Tournai-New York-Rome1961, 45). 52 K. RAHNER, Sul significato salvifico delle religioni non cristiane, in ID., Nuovi Saggi. VII: Dio e Rivelazione, Roma 1981, 423-434. La relazione fu presentata al Congresso internazionale di missiologia di Roma del 1975 ed è pubblicata negli Atti: K. RAHNER, Über die Heilsbedeutung der nichtchristlichen Religionen, in Evangelizzazione e Culture. Atti del Congresso internazionale scientifico di 50


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la ragione nel fatto che la Dichiarazione guarda alle religioni non già nel quadro della unicità e diversità della fede cristiana da tutte le altre ma nell’ambito di un orizzonte salvifico aperto al mondo intero. Questa apertura universale non esclude la peculiarità di quel luogo particolare che è la chiesa ma ne esige un profondo ripensamento: «deve esistere un luogo — visibile, individuabile, verificabile — dove la salvezza del mondo ha il suo inizio: cioè dove il mondo comincia a diventare come Dio lo vuole. […]L’uomo deve avere la possibilità di venire e vedere; deve poter riconoscere il nuovo e verificarlo. E se poi vuole, può lasciarsi coinvolgere nella storia della salvezza che è messa in atto da Dio. Soltanto così viene rispettata la sua libertà»53. Questa apertura universale e questa attenzione alla concretezza del particolare ha spinto la teologia patristica ad insistere sulla specificità della economia cristiana, al punto da difendere l’originalità della Chiesa contrapponendola all’ebraismo ma mantenendola in continuità con quel disegno salvifico di Dio che comprende tutti i giusti: la Chiesa è ecclesia ab Adam e comprende tutti i giusti, dal giusto Abele fino all’ultimo eletto54. Tutti i giusti sono all’interno della economia dei doni divini e, per questo, appartengono a Cristo e alla sua chiesa: «entre les fidèles ou saints qui ont vécu avant Christ et nous-mêmes, il y a una même grâce — entendons: un même et unique propos de grâce, un même et unique processus de salut gratuitement accordé; Missiologia (Roma 5-12 ottobre 1975), I, Roma 1976, 295-303. Si veda tutta la parte seconda del volume, dedicata alle religioni non-cristiane, ed in particolare gli articoli di F. König, di C.B. Papali, e di E. Ancilli. 53 G. LOHFINK, Dio ha bisogno della Chiesa? Sulla teologia del popolo di Dio, Cinisello Balsamo (MI) 1999, 41-42. 54 Lemen Gentium 2. Su questo tema ecclesiologico si veda Y. CONGAR, Ecclesia ab Abel, in M. REDING (cur.), Abhandlungen über Theologie und Kirche. Festschrift für Karl Adam, Düsseldorf 1952, 79-108: l’autore vede questo tema come frutto di una polemica antigiudaica, che sarà poi approfondita dalla reazione antimarcionita, amtimontanista e antimanichea. Sulla salvezza universale dei giusti prima di Cristo si veda A.M. LANDGRAF, Sunde und Trennung von der Kirche in der Frühscholastik, in Scholastik 5 (1930) 210-247 e, soprattutto, G. PHILIPS, La grâce des justes de l’Ancien Testament, Bruges-Louvain 1948: questi, appoggiandosi ad Ireneo e Tertulliano, ricorderà la convinzione patristica che la Chiesa si trovava già in Paradiso e, cioè, in Adamo ed Eva prima della loro caduta.


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mais il y a différence dans les dons spirituels faits conformément à cette grâce»55. In questa antica tradizione, l’universalità della salvezza non era affatto contraria alla mediazione salvifica universale di Cristo; quelli avevano anzi un carattere personale e spirituale: era comunione con Cristo per mezzo del suo Spirito. In pratica tutti i giusti, comunque collocati nella geografia e nel tempo, sono in comunione con Cristo perché «lo Spirito santo dona a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale»56. Del resto è quanto Pietro stesso, nell’episodio della conversione di Cornelio, riconosce come opera di Dio: «in verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, é a lui bene accetto»57. La sistemazione teoretica più nitida di questa salvezza universale sarà la teologia delle religioni di Karl Rahner. Appoggiandosi alla dottrina dell’esistenziale soprannaturale, Rahner sosterrà che la grazia salvifica di Dio, in una forma ancora imperfetta, si manifesta «nelle religioni non cristiane» così che queste sono «vie salvifiche (Heilswegen) attraverso le quali gli uomini vanno incontro a Dio e al suo Cristo»58. Di conseguenza il nostro autore rifiuta di «considerare le religioni non cristiane come un puro e semplice agglomerato di metafisica teistica naturale»59; alla luce della universale forza salvifica della redenzione, può affermare che è impossibile un rifiuto ultimo e definitivo «dell’esistenzialità soprannaturale della storia da parte della libertà dell’umanità»60. In questo modo l’esistenziale soprannaturale non è alla base solo del “cristianesimo anonimo”: il suo scopo ultimo è l’impossibilità di un fallimento della storia della salvezza, impossibilità che non può essere spiegata solo nei termini della Chiesa visibile. Bisogna quindi 55

Y. CONGAR, Ecclesia ab Abel, 80-81. Gaudium et Spes 22. Si veda anche Ad Gentes 7. 57 At 10,34-35. 58 K. RAHNER, Sul significato salvifico delle religioni non cristiane, 434. 59 ID., Cristianesimo e religioni non cristiane [1961], in ID., Saggi di antropologia soprannaturale, Roma 1965, 562-563. 60 ID., Sul significato salvifico delle religioni non cristiane, 429. 56


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accettare che «la realtà incipiente del regno può trovarsi anche al di là dei confini della Chiesa nell’umanità intera, in quanto questa viva i “valori evangelici” e si apra all’azione dello Spirito»61. Il magistero riconoscerà addirittura che «non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine; esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari»62. Già prima di queste precisazioni magisteriali, Rahner aveva concluso che, «per quanto siano realtà imperfette, germinali e in parte depravate, [le religioni non cristiane] possono collocarsi in una storia positiva della salvezza e della rivelazione»63. La tesi di un’unica storia salvifica deve necessariamente coincidere con la storia dell’umanità intera; G. Gutierrez lo affermerà senza esitazioni: «non esistono due storie, una profana e l’altra sacra, “giustapposte” o “strettamente legate”, ma un solo divenire umano assunto irreversibilmente da Cristo, Signore della storia. La sua opera salvifica abbraccia tutte le dimensioni dell’esistenza conducendola al suo pieno compimento. La storia della salvezza è il contenuto stesso della storia umana»64. Redemptoris Missio 28-29 presenterà di conseguenza lo Spirito come all’opera in ogni tempo ed in ogni luogo65. Dupuis riprenderà queste tesi e le arricchirà con la visione patristica di una quadruplice alleanza, al cui interno si pone quella «alleanza noachica»66 che è frutto di una riflessione sulle “molte volte” e sui 61 Redemptoris Missio 20. Bisogna tener presente anche il monito seguente che ricorda come «tale dimensione temporale del Regno è incompleta se non è coordinata col Regno di Cristo presente nella chiesa e proteso alla pienezza escatologica». 62 Redemptoris Missio 5. 63 K. RAHNER, Sul significato salvifico delle religioni non cristiane, cit., 433. 64 G. GUTIERREZ, Teologia della liberazione. Prospettive, Brescia 1972 (citazione a p. 152). 65 Non a caso Ad Gentes 4 richiama che lo Spirito «operava nel mondo prima che Cristo fosse glorificato», prima ancora della Pentecoste e della venuta di Cristo. 66 «Ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi; con ogni essere vivente che è con voi, uccelli bestiame e bestie selvatiche, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca. Io stabilisco la mia alleanza con voi; non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio né più il diluvio devasterà la terra» (Gen 9,9-11). Per G. Rizzi (“Nohachismo” e teologia delle religioni, in Ad Gentes. Teologia e antropologia della missione 10 [2006] 1, 25-36), il nohachismo è una teologia ebraica delle religioni, senza diretto collegamento a Cristo.


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“diversi modi” della rivelazione di Dio di cui parla Eb 1,1-4. Va aggiunto che il tema della alleanza noachica è entrato nel documento della CTI «Il cristianesimo e le religioni»67 ed ha trovato la sua prima ammissione magisteriale nel Catechismo della Chiesa Cattolica68. In un contesto del genere, le cosiddette religioni cosmiche andrebbero guardate con rispetto e attenzione, come esse pure partecipi — in qualche modo — della storia della salvezza; con felice sintesi, Aloysius Pieris le indicherà come religioni cosmiche con soteriologie metacosmiche69. Una simile prospettiva è certamente nuova nella teologia moderna ma ha alle spalle più di una dottrina patristica e scolastica, a cominciare dalla dottrina patristica di una multiforme ordinatio ad populum Dei70. Congar richiamerà Pietro di Poitiers che, distinguendo in Cristo tra “caput” e semplice “principium”, formulava una cristologia legata alla chiesa e aperta al mondo intero: come “caput” vedeva concentrati in Cristo tutti i doni spirituali mentre, come “principium”, la sua grazia verrebbe distribuita a tutti i membri del “Corpo ecclesiale”. Una simile prospettiva avrebbe il merito di fare della gratia capitis il principio di spiegazione di questa apertura universale della salvezza senza nulla precludere alla realtà della Chiesa. Nella sua dimensione istituzionale, questa andrebbe pensata come ministerium, come servizio a questa comunione di beni spirituali. «Les éléments de l’institution ecclésiale sont considérés comme un ministère du salut, mais ils ne sont pas considérés indépendamment de la réalité spirituelle, […] comme s’ils avaient une sorte de consistence»71. Solo più tardi, abbandonata la prospettiva salvifica, quando l’ecclesiologia — verso la metà del XIII secolo — si radicherà nell’ambito del 67 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Il cristianesimo e le religioni. 30 settembre 1996, in EV 15/587. 68 Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 1992, 33-34 (nn. 56-58). Il testo di Dei Verbum 3 si limitava ad osservare che Dio «offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé» e che «ebbe costante cura del genere umano per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene». 69 A. PIERIS, An Asian Theology of Liberaation, New York – Maryknoll 1988, 71-73. 70 Lumen Gentium 16. 71 Y. CONGAR, Ecclesia ab Abel, 92.


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diritto con i decretisti ed i decretalisti, il quadro cambierà radicalmente: il diritto spingerà verso una chiesa considerata come a sé stante.

4. TEOLOGIA DELLE RELIGIONI Ho già ricordato come, per Rahner, l’importanza di Nostra Aetate risieda nel fatto che la Dichiarazione guarda alle religioni dal punto di vista dell’unità della storia salvifica: «trovarsi fuori della comunità di fede istituzionale ecclesiale non significa trovarsi fuori della storia della salvezza»72 ed, allo stesso modo, vivere la vocazione divina alla salvezza non significa necessariamente essere membri attuali ed effettivi della Chiesa istituzionale. La teologia di sfondo di un simile pensiero deve però badare a non fare di Gesù Cristo il rivelatore di una via di salvezza solo particolare: in Gesù si realizza definitivamente ed insuperabilmente l’unità solidale del Figlio fatto carne con l’intera umanità. Connotata da questa obiettiva solidarietà con Cristo, l’intera storia umana è rivolta a Lui: «nell’evento di Cristo si è rivelata la totalità superiore a cui debbono essere subordinati tanto l’avvenimento di salvezza della Chiesa quanto l’avvenimento della storia universale della salvezza e in lui essi trovano la loro unità»73. Inizialmente tesi teologica, questo dato della presenza della salvezza anche fuori dei confini della Chiesa visibile è oggi un insegnamento magisteriale: Redemptoris Missio 18. 20 riconoscono che «la realtà incipiente del Regno può trovarsi anche al di là dei confini della Chiesa, nell’umanità intera»74. Nonostante il concilio valorizzi quanto di vero e santo si trova in queste religioni e dichiari che la Chiesa «considera con sincero 72

J. FEINER, Chiesa e storia della salvezza, in Orizzonti attuali della teologia, II, Roma 1967, 364. 73 Ibid., 374. 74 Questo insegnamento era comparso in Gaudium et Spes 22 ed in Ad Gentes 7 ed è stato poi ribadito in modo netto in Redemptoris Missio 20. Lo stesso insegnamento è in Dominus Iesus 19. Il testo più autorevole resta Redemptoris Missio 20 le cui indicazioni sono ulteriormente precisate in Dialogo e Annuncio 35.


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rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini»75, a Rahner è ben chiaro che il concilio non si è impegnato sulle conclusioni che ne potrebbero scaturire76. Nonostante questo, rivendica come un diritto della teologia lo spingersi oltre — e lui dichiara di farlo — così da concludere che «le religioni concrete devono racchiudere in sé delle componenti soprannaturali e animate dalla grazia»77. È quanto vorrei qui ricostruire. Per Rahner l’universale e storica disposizione salvifica di Dio verso l’umanità esclude che tutto quanto esiste al di fuori di Israele e della Chiesa sia teologicamente qualificabile come idolatria, paganesimo, «empietà ed ingiustizia inescusabile»78. Si tratta piuttosto di una umanità che non è ancora stata messa nella condizione di esercitare una precisa decisione a proposito di Cristo e che, come tale, si può ritenere teologicamente vicina al «prima di Cristo». Se proprio si vuole parlare di colpa, l’orizzonte storico esigerebbe che si parlasse tanto delle colpe dei non-cristiani quanto di quelle dei cristiani come resistenza o rifiuto della grazia divina. Comunque si valutino questi impedimenti, resta il fatto che Dio ha obiettivamente mantenuto l’umanità nell’ambito di una universale storia di grazia e di salvezza. Nonostante questa visione positiva, il concilio non arrischierà conclusioni impegnative: «la dichiarazione lascia indeterminata la qualità propriamente teologica delle religioni non cristiane»79. Se non capisco male, la “qualità propriamente teologica” delle religioni non é altro che il loro valore soprannaturale e salvifico: il concilio non si pronuncia su questo punto ma il suo silenzio non impedisce ai teologi di assumersi in proprio questa responsabilità. Rahner lo farà presentando le religioni come “vie di salvezza”: la grazia salvi75

Nostra Aetate 2. «Nostra Aetate non dà comprensibilmente alcuna risposta a tali interrogativi. Eppure questi sono di estrema importanza[…] per la giusta impostazione del lavoro missionario» (K. RAHNER, Sul significato salvifico delle religioni non cristiane, cit., 427). 77 K. RAHNER, Cristianesimo e religioni non cristiane, cit., 562-563. 78 Rm 1,18-32 passim. 79 K. RAHNER, Sul significato salvifico delle religioni non cristiane, cit., 426. 76


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fica di Dio, sia pure in forma oscura ed imperfetta, si manifesta «anche nelle religioni non cristiane» fino a fare di loro «delle vie salvifiche (Heilswegen) su cui gli uomini vanno incontro a Dio e al suo Cristo»80. Per questo abbandonerà la prospettiva della praeparatio, che non gli pare sufficiente, e ricorrerà alle categorie teologiche del “prima di Cristo” e del “cristianesimo anonimo”: se ne servirà per spiegare la mediazione salvifica delle religioni non cristiane fino ad affermare che la grazia salvifica di Dio si manifesta anche in loro, sia pure in forma oscura ed imperfetta Di parere nettamente diverso resta G. D’Costa che critica a fondo la riduzione del divino nell’ambito dell’umano, propria della modernità; riconducendo la teologia delle religioni alla separazione tra fenomeno e noumeno di I. Kant od alla dinamica storico-religiosa di E. Troeltsch, D’Costa liquida, ad un tempo, la cultura moderna e la dimensione rivelativo-salvifica delle religioni. A lui spetta il merito di aver strettamente intrecciato la questione della salvificità con quella della verità; perché le religioni abbiano un indiscutibile valore salvifico, occorre il previo chiarimento del nodo teorico e pratico della loro verità. Non a caso, Dominus Iesus 4 denuncia come relativismo la tendenza a separare le due cose ed a restringere la questione della verità nell’ambito esclusivo delle proprie convinzioni. Il superamento di simili sistemi parte dalle tesi di R. Otto che fonda la religione sul sacro inteso come manifestazione di Dio ma chiede di essere poi coerentemente condotta a termine. Non mi pare accettabile l’ipotesi di C. Geffré che, nella sua ricerca di un criterio di unità e di riferimento per il dialogo inter-religioso, a partire dalle grandi diversità nel modo di pensare Dio, ritiene di poter concludere che «la credenza in Dio non è un criterio ecumenico per un dialogo interreligioso preso in tutta la sua dimensione, nella sua universalità»81. La sua proposta è quello di un criterio in grado di esprimere «l’umano autentico» che precisa come comprensivo di una valenza etica e di una dimensione mistica, «vale a dire l’apertura dell’essere 80

Ibid., 434. C. GEFFRÉ, Credere e interpretare. La svolta ermeneutica della teologia, Brescia 2002, 122. 81


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umano ad un certo altrove»82. Una simile indicazione non esprime la singolarità dell’uomo «Gesù» ma rischia di ridurlo ad un valore umanamente esemplare. Allo stesso modo non mi sembra adeguata una concezione che presenti Dio come il Trascendente, il Mistero, l’Ultimate Concern, l’Eternal One che per un verso sfugge e rimane inaccessibile e per un altro può essere espresso da rappresentazioni differenti che, per questo riferimento ultimo, non si escludono tra loro. A mio parere, la ricerca di un criterio per stabilire salvezza e verità delle religioni, pur ricercando l’accordo con le altre religioni, non può stabilirsi al di fuori del proprio campo di fede senza rischiare di essere, per questo stesso, marginale. Il ricorso allo “humanum” o al “Mistero ultimo”, al di là della fatica di precisarlo, non mi sembra convincente in linea di principio: il metodo deve sempre corrispondere al suo oggetto, cioè ad una religione di rivelazione. Per questo ritengo che l’inclusivismo, nella sua duplice forma di affermazione della pienezza insuperabile e definitiva di Cristo e della accessibilità universale di questa salvezza cristica, sia in grado di rispondere meglio al nostro tema: una religione di rivelazione comprende una universalità ed una totalità che non ammettono alternative. Avanzare il dato della limitazione del linguaggio o del pensiero umano è certo legittimo ma, in una religione di rivelazione, l’umanità di Gesù — pur limitata nella sua dimensione umana — è definitiva e insuperabile nella sua trascendente e costitutiva relazione al Verbo. Questo non esclude che singole interpretazioni possano essere erronee o che alcuni aspetti possano essere chiariti, magari meglio, da testi diversi da quelli biblici o da esperienze proprie di altre religioni. È il significato di quei semina Verbi che esprimono una «condivisione in diversi gradi e in diversi modi della medesima realtà centrale di Gesù Cristo»83. Per questo ritengo che l’inclusivismo possa rendere correttamente ragione sia al cristianesimo sia alle altre religioni. Occorre però 82

L.c. CH. SALDANHA, Divine Pedagogy: A Patristic View of non-Christian Religions, Roma 1984,186. La stessa valutazione ritorna in Daniélou parlando di Giustino: appoggiandosi a R. Holte, scriverà che «ces semences sont une participation du Logos qui ensemence ainsi les intelligences» (J. DANIÉLOU, Message évangélique et culture hellénistique aux IIe et IIIe siècles, Paris-Tournai-New York-Rome1961, 45). 83


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che la centralità della persona e dell’opera di quel Gesù, nel quale il Verbo si fa carne, venga illuminata vuoi da quell’amore del Padre che lega l’’umanità alla Pasqua secondo modalità «che Dio conosce»84 vuoi da quella azione dello Spirito che «è all’origine della domanda esistenziale e religiosa dell’uomo»85 e che è ritrovabile operante e «presente in ogni tempo e in ogni luogo»86. L’opera del Padre e quella dello Spirito rimandano ad una storicità che, per non essere escatologica, non è per questo meno cristologica. In termini di partecipazione, questi ampliamenti non tollerano né facili ottimismi né drammatici catastrofismi: chiedono invece di vivere l’intero mistero pasquale alla luce di una confessione di fede che comprende l’amore universale del Padre e l’universalità dei doni dello Spirito come espressione di quell’evento-Gesù nel quale trova realizzazione il divino disegno di salvezza cosmica. Abbiamo così un orizzonte salvifico-veritativo che non si limita alla sola Chiesa ma che, nella sua radice cristologica, è comprensivo anche delle altre religioni. In termini escatologici, la loro valorizzazione è una praeparatio ed una introduzione alla ricapitolazione ecclesiale di ogni cosa in Cristo ma, in termini storici ed ecclesiologici, il loro valore è legato alla rivelazione di quella verità che, nella sua forma di kenosis, si piega con amore per sostenere e servire ogni umana ricerca di bene e di pace, di comunione umana e divina. Sta in questo il carattere di “sacramento universale di salvezza” che la Chiesa è chiamata a far risuonare nella storia. Come sacramento — e cioè segno e strumento — dell’unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, la Chiesa incontra le domande esistenziali delle persone ed il loro mondo religioso, le ferite delle società e la loro guarigione; in questo incontro, lo Spirito non opera solo nella Chiesa ma «semina e sviluppa i suoi doni in tutti gli uomini e i popoli, guidando la Chiesa a scoprirli, promuoverli e recepirli mediante il dialogo»87.

84 85 86 87

Gaudium et Spes 22; Ad Gentes 7. Redemptoris Missio 28. Ibid., 29. L.c.


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In questo senso va interpretato il testo di Redemptoris Missio 55 per il quale il dialogo inter-religioso «fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa», rappresenta il metodo ed il mezzo «per una conoscenza ed un arricchimento reciproco» ed «ha speciali legami con la missione e ne è un’espressione». In questo modo lo Spirito di verità guida sia la Chiesa sia il mondo umano «alla verità tutta intera» ed a quelle «cose future»88 che sono il mondo nuovo originato dalla Pasqua di Gesù; allora l’amore universale del Padre e la missione storica del Figlio, rivolta al mondo intero, coincideranno nell’unico Spirito che manifesterà la pienezza di entrambi. Come ha detto Gesù, lo Spirito «mi glorificherà perché prenderà del mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve lo annuncerà»89.

88 89

Gv 16,13. Gv 16,14-15.



Synaxis 1 (2009) 203-226

AGOSTINO: LA PAROLA TRA COMUNICAZIONE UMANA E ILLUMINAZIONE DIVINA

SANTI LO GIUDICE*

«Quando poi mi si dice che tre sono le domande che si possono fare di una cosa: se esista, quale sia la sua natura, quale la sua quantità, io certo ritengo l’immagine dei suoni che formano queste parole, so che sono passate nell’aria con un determinato rumore e so che non esistono più. Quello però che è significato da quei suoni non ha avuto contatto con nessuno dei miei sensi, non lo ha veduto altro che il mio spirito, e nella memoria non ho deposto la sua immagine, ma la cosa stessa» (Sant’Agostino, Le confessioni, X, X)

«O verità […] fa’ che le mie tenebre non mi parlino! Mi ripiegai in esse e fui accecato; ma anche in quel buio, anche in esse io ti amai. Andai errando e mi sovvenni di Te. Udii la tua voce, dietro, che mi richiamava, ma la udii appena, per il tumultuare delle passioni violente. Ecco: ora ritorno assetato e anelante alla tua sorgente» (Ibid., XII, X)

PREMESSA Verbum è un temine molto presente nell’opera di Agostino di d’Ippona. Si rintraccia ora nell’accezione di verbum Dei1 ora in quella * Ordinario di Filosofia Teoretica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Messina. 1 Del verbum Dei rintracciamo nelle Confessioni alcuni degli aspetti di


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Santi Lo Giudice

di verbum hominis, o di riferimento a ogni espressione creaturale2. Uno sguardo dentro tale concettualizzazione non è cosa di poco conto. Agostino di ciò ha avuto piena coscienza. Scopo di questa breve ricerca è quello di accostarci alla scrittura di Agostino al fine di cogliere il nesso tra la duplice dimensione, corporale e spirituale, esteriore e interiore, del termine verbum. Certo, ciò non si rivelerà di maggiore rilevanza: «Et haec ad tempus facta verba tua nuntiavit auris exterior menti prudenti, cuius auris interior posita est ad aeternum verbum tuum […]. Verbum autem dei mei supra me manet in aeternum» (11, 6): «Codeste parole tue, pronunziate nel tempo, furono trasmesse da orecchio esterno alla facoltà intellettiva, il cui orecchio interiore si apre al tuo Verbo eterno […]. Mentre il verbo del mio Dio è sopra me e permane in eterno». «Ipsum est verbum tuum, quo et principium est, quia et loquitur nobis. Sic in evangelio per carnem ait, et hoc insonuit foris auribus hominum, ut crederetur et intus quaereretur et inveniretur in aeterna veritate, ubi omnes discipulos bonus et solus magister docet. Ibi audio vocem tuam, domine, dicentis mihi, quoniam ille loquitur nobis, qui docet nos, qui autem non docet nos, etiam si loquitur, non nobis loquitur» (11, 8): «Ed è proprio il tuo Verbo, che è pure principio perché parla anche a noi. Così egli ci disse nel Vangelo per il tramite dei sensi, e fu udito dalle orecchie esterne degli uomini, affinché si credesse, lo si cercasse nel nostro interno e lo si trovasse in quella verità eterna in cui, buono e unico maestro, istruisce tutti i discepoli. Là io sento la tua voce, o Signore; ed essa mi dice che chi non mi insegna nulla, anche se parla, in realtà non mi parla». Tra i molteplici riscontri al riguardo, si rinvia al De civitate Dei (11, 21), al Sermo (117, 2, 3) e al De Trinitate (15, 11, 20). 2 Del verbum hominis rintracciamo nelle Confessioni, “La voce delle creature”, il seguente dire: «Non dubia, sed certa conscientia,domine, amo te. Percussisti cor meum verbo tuo, et amavi te. Sed et caelum et terra et omnia, quae in eis sunt, ecce undique mihi dicunt, ut te amem, nec cessant dicere omnibus, ut sint inexcusabiles. Altius autem tu miserebis, cui misertus eris, et misericordiam praestabilis, cui misericors fuerit: alioquin caelum et terra surdis loquuntur laudes tuas» (10, 6): «Ti amo, Signore: ne ho assoluta certezza; hai battuto il mio cuore con la tua parola e ti ho amato: Però mi invitano ad amarti anche il cielo, la terra, tutto quanto è in essi rinchiuso, da ogni parte: e non cessano di ripeterlo a tutti perché tutti siano senza scuse. Però Tu sarai più preciso verso colui di cui hai già avuto pietà, continuerai ad usare misericordia a colui a cui già usasti misericordia: altrimenti il cielo e la terra cantano le tue lodi a sordi»; e poco oltre: «Quid autem amo, cum te amo? […]. Et tamen amo quandam lucem et quandam vocem et quendam odorem et quendam cibum et quendam amplexum, cum amo deum meum , lucem vocem, odorem, cibum, amplexum interioris hominis mei, ubi fulget animae meae, quod non capit locus, et ubi sonat, quod non rapit tempus, et ubi olet, quod non spargit flatus, et ubi sapit, quod non minuit edacitas, et ubi haeret, quod non divellit satietas.Hoc est quod amo, cum deum meum amo» (10, 6): «Che cosa amo quando amo Te? […]. Eppure amo in un certo senso la luce, il suono, il profumo, il


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alcuna utilità per la storia della linguistica3, ma a nessuno sarà dato negare la profondità delle intuizioni agostiniane, volte a una propositività riconducibile alla guida della formazione del carattere del cristiano. La parola come veicolo dell’insegnamento: non a caso, in un sermone dalla forte valenza dottrinale, Agostino, considera: «Si tibi vellem dicere quid sit verbum hominis, non explico, fatigor, haesito, succumbo; non possum explicare vim verbi humani»4.

1. Il parlante esplicita i suoi intendimenti tramite segni fonici e articolati5. Grazie alla prodigiosa attività mentale le parole infatti sono segni delle cose6, e le cose, in prospettiva linguistica, dettano la «vim cibo, l’amplesso quando amo il mio Dio, luce, suono, profumo, cibo, amplesso dello spirito; dove rifulge all’anima mia luce che non ha limiti di spazio, armonia che non svanisce nel tempo, profumo che il vento non disperde, gusto che la voracità non nausea, amplesso che la sazietà non scioglie. Tutto questo amo quando amo il mio Dio» . Nel capitolo 4, “Dio e le creature”, capitolo 11 si legge: « […] “Ideo sumus, quia facta sumus; non ergo eramus, antequam essemus, ut fieri possemus a nobis”»: «“In quanto esistiamo in quanto siamo stati creati; prima di esserlo, non esistevamo, quindi non abbiamo potuto farci da noi”». 3 Kurt Flasch, nella sua organica e compiuta monografia Agostino d’Ippona (trad it., Bologna, 2002) risponde a quanti hanno sopravvalutato la teoria linguistica di Agostino con il seguente argomentare: «Agostino tratta troppo da vicino la struttura della lingua oppure la considera da una eccessiva distanza speculativa. Ciò vuol dire che egli si ferma su singole questioni grammaticali, ed allora le discute in modo assolutamente privo di originalità seguendo la tradizione stoica, oppure si dedica alla metafisica della “parola” divina che è nello spirito — dove la parola, questo puro pensiero, riceve dalla tradizione in modo casuale il nome di “parola”, senza che Agostino faccia luce sull’analogia con la parola della lingua o con la lingua stessa. Tra una grammatica convenzionale di scuola da una parte ed una metafisica del logos dall’altra, che ha perduto il rapporto con la lingua degli uomini ancora presente in Platone, in Agostino non può svilupparsi una filosofia del linguaggio di qualche rilievo» (pp. 121-122 ). 4 Sermo, 237, 4, 4. 5 «Qui enim loquitur, suae voluntatis signum foras dat per articulataum sonum»: «Chi infatti parla, per mezzo di suoni articolati, esprima la sua volontà» (De Magistro, 1, 2). 6 «Constat ergo inter nos verba signa esse»: «Siamo d’accordo tra noi che le parole sono dei segni» (De Magistro, 2, 3); « […] cum memoria, cui verba inhaerent, ea


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verbi, id est significationem quae latet in sono»7. Il linguaggio è il risulto di una moltitudine di segni, ed è, a un tempo, per Agostino scienza («doctrina») e arte (peritia): «[…] Quae sit pulcritudo doctrinae qua continentur notitiae signorum omnium; et quae sit utilitas in ea peritia qua inter se humana societas sensa communicat ne sibi hominum coetus deteriores sint quavis solitudine si cogitationes suas conloquendo non misceant? Hanc ergo speciem decoram et utilem cernit anima et novit et amat, eamque in se perfici studet quantum potest quisquis vocum significantium quaecumque ignorat inquirit»8.

Definito il linguaggio come segno, ossia una realtà capace di richiamare alla mente a un’altra realtà, Agostino individua nell’«apprensione» e nella «reminiscenza» le principali funzioni del linguaggio: noi, si legge nel De Magistro, «abbiamo trovato che si parla o per insegnare o per ricordare, giacché anche quando s’interroga, a questo si mira che, chi è interrogato, apprenda ciò che vogliamo udire»9.

E poco più oltre Agostino fa presente che il linguaggio, in nessuno dei due casi, non è fondamento di conoscenza: «Fin qui valgon le parole; alle quali io concedo molto, se ammetto che ci avvisano, perché noi cerchiamo le cose; ma non le presentano, perché noi le conosciamo […]. Il ragionamento è giustissimo e perciò si dice pure giustamente che noi, quando si pronunciano delle parole, revolvendo facit venire in mentem res ipsas quarum signa sunt verba»: « […] mentre la memoria, a cui le parole sono attaccate, col farci ripensare alle parole, ci fa venire in mente le cose stesse, di cui le parole sono segni» (ibid., 1, 2). 7 «[…] il valore della parola, ossia il significato che si cela nel suono» (De Magistro, 10, 34). 8 De Trinitade, 10, 1, 2. 9 «[…] inventunque esse docendi commemorandive gratia nos loqui, quandoquidem nec cum interrogamus,aliud agimus quam ut ille qui interrogatur discat quid velimus audire» (De Magistro, 7, 19).


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o sappiamo quello che significano, o l’ignoriamo: se lo sappiamo esse ci ricordano, ma non ci insegnano; se non lo sappiamo, non risvegliano neppure il ricordo, ma forse stimolano a cercare»10.

Causa effettiva della conoscenza sono le cose. Solo se stabilmente associate a determinate cose, le parole possono svolgere una funzione strumentale riguardo al conoscere. Diversamente non impariamo nulla («nos nihil discere»). Agostino argomenta con un esempio che gli appartiene: «E perché tu più chiaramente lo comprenda, fa il caso che noi, per la prima volta, udiamo ora la parola capo, e non sapendo se sia soltanto una voce sonora, oppure se abbia un significato, ci domandiamo che cosa sia il capo — ricorda che noi vogliamo la cognizione non della cosa che è significata, ma del segno stesso, cognizione di cui certamente siamo privi, finché ignoriamo di che sia segno —: se dunque a noi, che poniamo tale domanda, si indicasse col dito la cosa; veduta questa, avremo la cognizione del segno, che soltanto avevamo udito, ma senza comprenderlo. Presentando, tuttavia, questo segno due cose, e il suono e il significato; il suono noi l’abbiamo colto non per il segno, ma per l’udito percosso dal suono stesso; il significato invece per la veduta della cosa significata. La tesa del dito infatti, non può significare altro che ciò, verso cui il dito è teso; ma il dito non è teso verso il segno, ma verso il membro che si chiama capo; perciò per la tesa del dito non posso conoscere la cosa che già conoscevo, né il segno verso del quale il dito non può essere teso»11. 10

« Hactenus verba valuerunt ,quibus ut plurimum tribuam, admonent tantum ut quaeramus res, non exhibent ut noverimus […] Verissima quippe ratio est, et verissime dicitur, cum verba proferuntur, aut scire nos quid significent, aut nescire: si scimus, commemorari potius quam discere: si autem nescimus, ne commemorari quidem, sed fortasse ad quaerendum admoneri» (ibid., 11, 36). 11 «Quod ut apertius intellegas, finge nos primum nunc audire quod dicitur,caput; et nescientes utrum vox ista sit tantummodo sonans, an aliquid etiam significans, quaerere quid sit caput ( memento nos non rei quae significatur, sed ipsius signi velle habere notitiam, qua caremus profecto quamdiu cuius signum est ignoramus): si ergo ita quaerentibus res ipsa digito demonstretur; hac conspecta, discimus signum quod audieramus tantum, nondum noveramus: In quo tamen signo cum duo sint, sonus et significatio, sonum certe non per signum percepimus, sed eo ipso aure pulsata; significationem


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Una trattazione linguistica puramente formale non ha, per Agostino, alcun senso. Una ricerca che ha la pretesa di trattare della struttura segnica del linguaggio, fuori cioè da precisi contenuti di riferimento, non è possibile. «Se ciò che non è segno non può essere parola; sebbene io la parola l’abbia udita, io non so se sia parola, finché non sappia che cosa significhi»12.

Questo significa, per Agostino, che «non si può conoscere perfettamente un segno, se non si conosce anche la cosa di cui è segno» 13.

All’uomo è concesso di imparare il valore della parola, ossia il significato di cui il suono è portatore, soltanto una volta che abbiamo conosciuto la cosa significata piuttosto che la cosa significata mediante tale significazione. «Quindi è necessario che si conosca il segno, cioè che si conosca che non è un puro nulla, ma che significa qualche cosa»14.

In prospettiva semantica esiste una relazione necessaria tra parola e cosa, tra segno linguistico e cosa significata; ma necessita, altresì, che tale relazione dev’essere conosciuta e accettata dagli interlocutori, diversamente non è possibile parlare né di parola e né di autem re, quae significatur, adspecta. Nam illa intentio digiti significare nihil aliud potest, quam illud in quod intenditur digitus: intentus est autem non in signum, sed in membrum quod caput vocatur: itaque per illam neque rem posum nosse quam noveram, neque signum in quod intentus digitus non est» (De Magistro, 10, 34). 12 «nam si ea quae signa non sunt, verba esse non possunt, quanvis iam auditum verbum, nescio tamen verbum esse, donec quid significet sciam» (ibid., 11, 36). 13 «neque ullum perfecte signum noscitur nisi cuius rei signum sit cognoscatur» (De Trinitate, 10, 1, 2). 14 «Iam itaque oportet ut noverit signum esse, id est non esse inanem illasm vocem sed aliquid ea significari» (l.c.).


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linguaggio. Agostino al riguardo è chiaro, tanto da ben sintetizzare quanto detto nel prosieguo dell’esempio sopra riportato: «Ma dicendosi spesso la parola “capo” notando e avvertendo, quando veniva pronunziata, scoprii che era il vocabolo di una cosa a me notissima per averla già vista»15.

Agostino, a rigore, è portatore di una teoria linguistica concentrata sulla singola parola. Una teoria che attribuisce valenza secondaria alla proposizione. Agostino, in sintonia con Platone, lega la proposizione all’unione di nome e verbo. Unione che può essere affermata o negata. Ma si badi: qui Agostino non intende sviluppare una teoria del verbo sulla base dell’analogia con il verbo divino. Ben considera Kurt Flasch quando, rapportandosi al De Magistro, dice che «la distinzione tra nome e verbo è considerata incidentalmente. Verbum, spiega, deriva da aurem verbere (“colpire le orecchie”), nomen da nosci (“essere riconoscibile”). Perciò il nomen è la parte intelligibile del vocabolo, mentre il verbum quella sensibile-uditiva. Quindi non si riesce a capire come possa chiamarsi verbum la parola divina»16.

E non si riesce a capire, argomenta Flasch, perché Agostino «non esamina la funzione del verbo all’interno del linguaggio né riesce a precisare il contenuto dell’analogia tra il verbo usato nelle proposizioni e quello divino. Quanto afferma a proposito di nome e verbo ha perciò il carattere di un excursus privo di risultati concreti. Chiama la seconda persona della Trinità “parola” senza riflettere sulla funzione grammaticale del verbo e rimanendo completamente fedele alla tradizione che parla di “parola” divina non in rapporto al verbo proposizionale, rhema, ma nel senso di “parola” o “espressione”»17. 15 «Sed cum saepe diceretur, caput, notans atque animadvertens quando diceretur, reperi vocabulum esse rei quae mihi iam erat videndo notissima» (De Magistro, 10, 33; cfr. anche De Trinitate, 11, 8, 14). 16 K. FLASCH, Agostino d’Ippona, cit, 123. 17 L.c.


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2. Questo argomentare di Agostino non si discosta in nulla da quanto Platone elabora nel Cratilo. Socrate, che rappresenta il personaggio principale di questo dialogo e che si fa portatore della posizione di Platone, in opposizione al convenzionalismo linguistico difeso dal sofista Ermogene, afferma che se i nomi fossero arbitrari anche la natura delle cose dovrebbe essere arbitraria, oppure ogni cosa dovrebbe possedere a un tempo e per sempre tutte le qualità. Ma entrambi le ipotesi sono false. «Se, pertanto, né per tutti gli uomini tutti gli esseri sono insieme e sempre allo stesso modo, né ciascuno degli esseri è per ciascuno un modo particolare, è chiaro che gli esseri stessi hanno una essenza stabile e non relativa a noi, né vengono trascinati da noi in su e in giù secondo la nostra immagine, ma esistono in sé secondo la loro essenza, in conformità alla loro natura […]. Anche gli atti, dunque, vengono compiuti secondo la loro natura, non in conformità con ciò che appare a noi. Per esempio, se intendiamo tagliare un oggetto, forse lo dobbiamo tagliare come e con lo strumento che vogliamo, oppure, se vogliamo tagliarlo secondo la natura del tagliare e dell’essere tagliato e in conformità con ciò che gli è naturale, allora lo taglieremo e ci riuscirà e agiremo correttamente, mentre, se andremo contro natura, falliremo lo scopo e non concluderemo nulla?»18.

Tale principio, continua Platone, vale anche per il parlare, perché il parlare è un’azione e il suo strumento è il linguaggio: «Il nome, allora, è uno strumento per insegnare e per distinguere l’essenza, come per la spola il tessuto»19.

Pertanto il linguaggio, a seguire Platone, svolge un compito strutturalmente simbolico e per questo ruolo possiede carattere mimetico: le parole sono imitazioni delle idee, le quali a loro volta imitano le cose.

18 19

Cratilo, 386 d - 387 a. Ibid., 388 b-c.


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«Il nome è […] un’imitazione per mezzo della voce di ciò che viene imitato, e colui che imita denomina per mezzo della voce ciò che imita»20.

In quanto i nomi non sono identici alle cose ma sono immagini imperfette di esse, spiega la ragione per cui i nomi possono condurre in errore. Per ovviare all’errore occorre tenere sempre lo sguardo fisso alle cose, anzi, ai loro modelli eterni, le Idee, nello specifico alle Idee di Bellezza: «pertanto, esaminiamo questo “in sé”, non per sapere se sia bello un volto o qualcosa di simile, tutte cose che sembrano scorrere; invece, del Bello in sé, non diremo che è sempre qual è»21.

In Agostino, come anche in Platone, la relazione linguistica va dalla parola alla cosa, sia perché nella memoria è presente «il verbo interno della mente», «verbum mentis», un concetto che «non est alicuius linguae»22, oggettivo, immanente e universalmente coinvolgente, «rerum veracem notitiam»23, sia perché tale notitia, «secondo la specie, è simile alla cosa conosciuta», «similis est rei quam novit»24. Alla luce di ciò Agostino considera: «Quando ergo concipis verbum quod proferas, rem vis dicere, et ipsa rei conceptio in corde tuo iam est verbum»25. Con precisa volontà, al fine di evidenziare l’azione materiale della parola sull’udito, Agostino chiede ad Adeodato se il «verbum» si generi da «verberare» (“percuotere”) e si differenzi dal «nomen». Di 20

Ibid., 423 b. Ibid., 439 d. 22 Sermo, 288. 23 De Trinitate, 9, 7, 12. 24 Ibid., 9, 10, 16. 25 In Io ev.Tract.,14, 7. La presente concettualità ha valore anche per l’uomo, di cui Agostino dice, « […] abbiamo quasi regolarmente fisso nella nozione della natura umana, secondo la quale tutto ciò che in tal modo vediamo, subito riconosciamo che è un uomo, oppure una forma di uomo» (De Trinitate, 8, 5). 21


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conseguenza, argomenta Agostino: «Tutto ciò che prorompe dalle labbra con qualche significato, per mezzo della voce articolata, tu vedi, come credo, che percuote l’orecchio per essere sentito, ed è affidato alla memoria per essere conosciuto»26. Quanto profferto con voce articolata e con significato preme sull’orecchio al fine di essere conosciuto. Agostino non ha dubbi al riguardo. Benché in possesso di un significato massimamente estensivo del termine insegnamento, tuttavia non va oltre ciò che questo termine aveva assorbito dalla tradizione patristica. Questo è il senso del suo chiedere ad Adeodato. E questo è il senso che si ricava dalla sua esperienza religiosa allorquando pone un’obiezione riguardante la funzione del linguaggio nella preghiera. La preghiera non è un discorso speciale, ma comune così come lo sono gli altri discorsi. Il compito della preghiera è quello di potersi ricordare di sé e per sé. Parlare, egli dice, significa emettere un segno della propria intenzione attraverso un suono articolato allo scopo di istruire, essere istruiti, ricordare a se stessi o agli altri. «(Il Maestro) non le parole, ma le cose insegnate dalle parole ebbe di mira per ricordare loro che si deve pregare e di che, quando nel segreto dell’anima pregavano»27.

Certo qui, per la prima volta affiora la parola «voluntas», che può creare ambiguità con quanto sostenuto. Ma, opportunamente, fa presente Flasch che, nel trascurare il carattere intellettualistico della teoria linguistica di Agostino, c’è il rischio di cadere in errore. Tale carattere «Agostino può sostituirlo con lo “spirito”, mens. Questo spirito comprende le cose e se vuole “esternare” le sue conoscenze si serve delle parole come strumenti adeguati». 26 «Omne quod cum aliquo significatu articulata voce prorumpit,animadvertis, ut opinor, et aurem verberare, ut sentiri; et memoriae mandari, ut nosci possit» (De Magistro, 5, 12; cfr., anche, De doctr. chr., 2, 4, 5; De mus., 6, 2, 2; De fid. et symb.,3, 3). 27 «Magister […] non enim verba, sed res ipsas eos verbis docuit, quibus et se ipsi commonefacerent, a quo et quid esset orandum, cum in penetralibus (ut dictum est) mentis orarent» (ibid., 1, 2).


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Pertanto, Agostino non pensa, continua Flasch, di dover attribuire al linguaggio una funzione stimolante o, al contrario, di freno nel processo dualistico: «il pensiero staccato dal linguaggio occupa lo spazio interiore, mentre le parole servono al pensiero per rapportarsi all’esterno col mondo sociale»28.

3. La relazione necessaria tra segno linguistico e cosa significata vale, ovviamente, anche per le parole scritte, che propriamente non sono «parole» «o, con più verità, non vanno prese per segni di parole»29. La voce, infatti non può essere colta se non dall’udito, sicché «avviene che, quando si scrive una parola, si fa un segno agli occhi, per il qual segno venga a mente ciò che si percepisce con l’udito»30.

L’utilità semantica dei «verba» scritti è, per Agostino, di gran lunga superiore ai «verba» parlati. La superiorità è dettata anche dal fatto che consentono e intensificano la comunicazione con gli assenti. Con i segni materiali ci esprimiamo sia agli occhi, sia alle orecchie di coloro ai quali parliamo, «le lettere invece furono inventate per poter mettersi in comunicazione anche cogli assenti; ma queste sono segni delle voci, mentre le parole che diciamo sono a loro volta segni delle cose stesse che pensiamo»31.

28

K. FLASCH, Agostino d’Ippona, cit. 122-123. De Magistro, 4, 8. 30 «[…] ita fit ut cum scribitur verbum, signum fiat oculis, quo illud quod ad aures pertinet, veniat in mentem » (l.c.). 31 «inventae sunt litterae per quas possemus et cum absentibus conloqui; sed ista signa vocum, cum isae voces in sermone nostro earum quas cogitamus signa sint rerum» (De Trinitate, 15, 10). 29


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E nel De ordine: «Sed audiri absentium verba non poterant; ergo illa ratio peperit litteras notatis omnibus oris ac linguae sonis atque discretis»32.

E c’è di più: mentre la parola pronunciata suona e scivola via, quella scritta mantiene il suo vigore e la sua importanza nel tempo. Agostino non ha dubbi: «[…] Quod lingua dicitur sonat et transit, quod scribitur manet»33. Tutta la seconda parte del De Magistro offre spunti di interessante attualità. Agostino ha coscienza di quanto i condizionamenti semantici, a cui il linguaggio umano può andar soggetto dal punto di vista strutturale e funzionale, siano innumerevoli. Di qui, sia che si volge lo sguardo nell’unico «Verbo eterno»34, che «colpisce il mio cuore senza ferirlo»35, «istruisce»36, sia nei confronti della «interiorem veritatem», che «ratione consulimus»37, come tutte le creature, «non “sono”»38 e «non c’insegnano»39 nulla, o poco, molto poco. Il suo ruolo è di scarsa rilevanza, in analogia con quella di un contadino nei confronti della pianticella di cui si occupa40. Invece, se prescindiamo dalla prospettiva divina, la parola «è» e la sua utilità è immensa (non parva est), al punto che Adeodato, in sintonia con quanto sopra, nel De Magistro conclude così:

32

De Ordine, 2, 12, 35. En.in ps., 44, 6. 34 Cfr., Le Confessioni, 11, 6. 35 Ibid., 11, 9. 36 Ibid., 11, 8; cfr.anche, De Magistro, 11, 38. 37 «Quod si et de coloribus lucem, et de ceteris quae per corpus sentimus, elementa huius mundi eademque corpora quae sentimus, sensusque ipsos quibus tamquam interpretibus ad talia noscenda mens utitur; de his autem quae intelliguntur, interiorem veritatem ratione consulimus» (De Magistro, 12, 39). 38 Le Confessioni, 11, 6, 8. 39 De Magistro, 11, 36. 40 In Io. Epist. ad parth., 3, 13, 35. 33


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«Io dall’ammonimento delle tue parole ho appreso che con le parole non si fa che ammonire l’uomo, perché apprenda, e che è molto poco che, attraverso la parola di cui parla, si riveli un po’ di pensiero. Se poi questa sia la verità, ce lo dica soltanto Colui che ci avverte, che abita dentro di noi, mentre al di fuori ci parla; ed io, colla sua grazia, tanto più ora l’amerò, quanto più andrò innanzi nell’imparare. Però di questo tuo continuato discorso ti rendo grazie, perché con esso hai prevenuto e risolto tutte le obbiezioni che ero preparato a farti, e nulla hai lasciato che potesse tenermi incerto, e a cui non rispondesse quell’interiore oracolo, come tu osservi»41.

Agostino ben coglie la struttura semantica del «verbum» quando considera che, «si non habeas rationem significantem, verbum non dicitur»42, e che «vox, si verbum non sit, strepitus est aurium forte, nam nec hoc dici posset»43. Fino a che ignoriamo il significato, la parola non è strumento di conoscenza; ossia, non può considerarsi veicolo di pensiero e strumento di comunicazione per il tempo «cuius signum est ignoramus»44. La necessità semantica è connaturata con l’origine medesima della parola e del linguaggio. In una bella pagina de Le Confessioni, “Le prime parole”, gravida di memorie, a riguardo di quando versava in fase adolescenziale, offre un quadro di semantica generale, non disgiunta da valenze etico-pedagogiche, difficilmente riscontrabile nella letteratura al riguardo. Racconta: «Con il progredire del tempo, infatti, dall’infanzia passai alla puerizia: se pur non si debba dire che essa venne in me succedendo all’infanzia. 41

«Ego vero didici admonitione verborum tuorum, nihil aliud verbis admoneri hominem ut discat, et perparum esse quod per locutionem aliquanda cogitatio loquentis apparet: utrum autem vera dicantur, eum docere solum, qui se intus habitare, cum foris loqueretur, admonuit: quem, iam favente ipso, tanto ardentius diligam, quanto ero in discendo provectior. Veruntamen huic orationi tuae, qua perpetua usus es, ob hoc habeo maxime gratiam, quod omnia, quae contradicere paratus eram, praeoccupavit atque dissolvit, nihilque omnino abs te derelictum est, quod me dubium faciebat, de quo non ita mihi responderet secretum illud oraculum, ut tuis verbis asserebatur » (De Magistro, 14, 46). 42 Sermo, 288, 3. 43 Ibid., 289, 3. 44 De Magistro, 10, 34.


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Santi Lo Giudice Né già questa se ne andò: dove mai sarebbe andata? Eppure non esisteva più. Non ero più un infante senza parola, ma un fanciullo che sa parlare: codesto lo ricordo; ma solo più tardi ebbi l’esperienza del come avevo imparato: Non mi venivano insegnate dalle persone anziane le parole in un determinato ordine logico, come in seguito per le lettere dell’alfabeto, ma io, da me, con l’intelligenza di cui mi hai dotato Tu, o mio Dio, con piagnucolii, con varie voci, con diversi movimenti delle membra avrei voluto esternare i sentimenti interiori per essere obbedito, ma non riuscivo a tutto ciò che volevo, né con tutti. Mi imprimeva nella memoria il suono con cui indicavamo qualche cosa e i movimenti del corpo corrispondenti a quel suono: vedevo e capivo che così essi chiamavano una cosa quando volevano indicarla. E che questo fosse il loro scopo appariva dal movimento del corpo, come da un linguaggio connaturale a tutti, che risulta dal volto, dal variar dello sguardo, dal gesticolare, dal tono della voce: cose tutte che rivelano i sentimenti dell’animo nel chiedere, nel possedere, nel rifiutare, nel rifuggire. Così venivo a poco a poco collegando le parole ripetute in varie espressioni e spesso udite con le stesse da esse significate, e la bocca già si piegava a manifestare con esse i miei desideri: e così cominciai a trasmettere a coloro tra i quali vivevo i segni rivelatori della volontà e procedetti oltre nella comunanza procellosa della vita umana, sottomesso all’autorità dei genitori e alla volontà dei più anziani»45.

Il valore di questa scrittura è, come si evince, di fondamentale rilevanza per il tema in oggetto: la relazione di significanza è una prerogativa fondamentale per la parola umana, la quale, seppur finalizzata a manifestare un contenuto di coscienza — «quando non habemus quid significemus, omnino stulte verbum aliquod promimus»: «ma quando noi non abbiamo nulla da significare, allora il metter fuori una parola è da stolti»46 — si fa carne, corpo, gestualità infinita, si fa corporeità. 45

Le Confessioni, 1, 8. De Magistro, 2, 3. Di certo è qui evidente il debito contratto da Wittgenstein nei confronti di Agostino allorquando, a chiusura del suo Tractatus logico-philosophicus, ricalca il dettato dell’Ipponate con il seguente celebre adagio: «su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere». Entrambi, di fronte alla mancanza di conoscenza, invitano al silenzio, ma con una sostanziale differenza: Agostino, che tutto legge in 46


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Ciò è veritiero in prospettiva naturalistica. Non appena, però, si varca la soglia della fede, l’autenticità della conoscenza non dipende né da noi, né dalle nostre parole, né dalle parole che ci provengono dai testi sacri, né dalle cose, ma dipende da Cristo, la guida interiore, «l’immutabile Virtù di Dio, e l’eterna Sapienza, il Cristo, il quale, diciamo, che abita nell’interno dell’uomo: e questa Sapienza ogni anima ragionevole la consulta; ma essa si rivela tanto, quanto glielo permette la buona o la cattiva volontà di ciascuno»47.

Una volta varcata la soglia della fede non è affatto vero, a seguire Agostino del penultimo capitolo del De Magistro, che le cose si semplifichino; anzi, a suo dire, testimoniano ancor più e meglio del carattere ambiguo del linguaggio. La medesima parola, fa presente l’Ipponate, può non essere raccolta, può essere intesa in modo diverso da come dovrebb’essere, può essere utilizzata per comunicare qualcosa di radicalmente antitetico a quanto si pensa, come si coglie nei mentitori e negli ingannatori, che «con le loro parole non aprono il vero animo loro». Nonostante il limitato apporto che il linguaggio può fornire alla conoscenza, nonostante l’ambiguità di cui è portatore oppure la confusione che sovente genera, Agostino ammette che tuttavia si tratta di uno strumento di rilevante utilità: «In tutte le cose che comprendiamo, noi non consultiamo la voce che al di fuori di noi rimbomba; ma la verità che presiede dentro la nostra mente, stimolata forse a consultarla dalle parole»48. prospettiva etica ed escatologica, manifesta i danni del parlare a vanvera; Wittgenstein, che attribuisce alle parole e alla logica delle parole un significato quasi assoluto, sembra non indicare altra via che non sia quella sintattico-grammaticale, dunque formale o logica tout court. 47 «Ille autem qui consulitur, docet, qui in interiore homine habitare dictus est Christus, id est, in commutabilis Dei Virtus atque sempiterna Sapientia: quam quidem omnis rationalis anima consilit, sed tantum cuique panditur, quantum capere propter propriam, sive malam sive bonam voluntatem potest» (De Magistro, 11, 38). 48 «De universis autem quae intelligimus, non loquentem qui personat foris, sed intus ipsi menti praesidentem consulimus veritatem, verbis fortasse ut consulamus admoniti» (De Magistro, 11, 38).


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L’«ambiguità» diventa «inadeguatezza» quando le parole umane vengono utilizzate per parlare di Dio. Sovente Agostino ritorna sull’impotenza della parola allorquando si misura con la realtà divina: «Quando parliamo di Dio non c’è da meravigliarsi se non lo comprendiamo. Tale ignoranza è più pia che una scienza temeraria. Attingere un pochino a Dio procura una grandissima soddisfazione; ma comprenderlo è assolutamente impossibile»49. Convincimento che ribadisce ancora una volta a conclusione del De Trinitate: «Certo che tra tutte le cose che io ho detto fin qui, nessuna la credo degna della somma e ineffabile Trinità, e tengo a confessare quanto la mia scienza ha guadagnato da essa, senza che io nulla abbia aggiunto a quella»50.

4. La visione di Agostino al riguardo del «verbum hominis», pur priva di una unitaria trattazione teoretica, si dispone a spunti interessanti in diverse direzioni di ricerca. Di certo è un’esagerazione ritenere il De Magistro, come considerato da taluni, il primo tentativo di fondare una scienza dell’espressione o linguistica generale. Agostino considera il linguaggio più nelle sue linee portanti che nei suoi riscontri storici particolari, quali sono i vari linguaggi, dei quali, come risulta dai suoi studi, intenso fu l’approccio all’ermeneutica biblica e alla traduzione dell’universo veterotestamentario e neotestamentario. Per il resto riteniamo del tutto inutile soffermarci sugli elementi linguistici relativi alle problematiche soluzioni di contrasto o di continuità presenti nella scrittura di Agostino, mentre di apprezzabile rilievo è cercare di comprendere le motivazioni, psicologiche, pedagogiche e sociali che portano a utilizzare “questa” invece di 49 50

Sermo, 117, 3. De Trinitate, XV, 27, 50.


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quell’“altra” parola. E qui concordiamo con la tradizione ermeneutica classica che apre al senso attraverso un’intelligibilità che, avendo come riferimento una “lingua” ben codificata, è nelle condizioni di appropriarsi della tradizione e del mondo culturale nei quali il «simbolo» significa e può essere decodificato. Agostino parla e scrive: e nell’uno come nell’altro caso la finalità è quella di indurre la ricezione a cogliere la prospettiva del suo messaggio. Agostino ha sempre di fronte l’altro, il comunicare con l’altro: comunicazione intesa come autentica comunione. Pertanto la scelta delle parole riguarda l’uso che se ne fa, per meglio esprimere quanto concepito in modo chiaro e il più compiuto possibile. Volendo rintracciare, nel corpo scritturale di Agostino, una teoresi linguistica, si potrebbe dire, a ragion veduta, che per l’Ipponate la «parola» è una voce significativa, «vox significans verbum est»51, un simbolo comunicativo di natura fonica, «quod cum aliquo significatu articulata voce profertur»52, una «con-vergenza» intenzionale e uno strumento altamente pedagogico per meglio consolidare le relazioni sociali, da cui non si usciva ieri e in base ai recenti studi di filosofia del linguaggio non si esce oggi. Pertanto si può confermare, senza ombra di dubbio, l’attualità prospettica della procedura e della funzionalità del suo metodo: «Namque illud, quod in nobis est rationale, id est quod ratione utitur et rationabilia vel facit sequitur, quia naturali quodam vinculo in eorum societate adstringebatur, cum quibus illi erat ipsa ratio communis — nec homini homo firmissime sociari posset, nisi conloquerentur atque ita sibi mentes suas cogitationesque quasi refunderent — vidi esse imponenda rebus vocabula, id est significantes quosdam sonos,ut, quoniam sentire animos suos non poterant, ad eos sibi copulandos sensu quasi interprete uterentur»53.

51 52 53

Sermo, 289, 4. De Magistro, 5, 11. De Ordine, 2, 12, 35.


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Tali caratterizzazioni, come si evince, si appropriano sia della struttura segnica e fonica del linguaggio parlato come anche della funzione intersoggettiva e cognitiva. Inoltre sono ben in vista i riverberi psicologici, sociologici e culturali in genere del linguaggio. Nel De catechizandis rudibus, nel tratteggiare i modi d’approccio alle persone sulla base delle loro caratteristiche, Agostino scrive: «Fieri es non potest, nisi aliter atque aliter afficiant locuturum atque dicturum, et ut sermo qui profertur, affectionis animi a quo profertur, quemdam quasi vultum gerat, et pro eadem diversitate diverse afficiat auditore, cum et ipsi se ipsos diverse afficiant invicem praesentia sua»54.

E poco prima, nel porre l’accento sull’importanza della reciprocità nelle relazioni affettive, argomenta: «Tantum enim valet animi compatientis affectus, ut cum illi afficiuntur nobis loquentibus, et nos illis discentibus, habitemus in invincem; atque ita et illi quae audiunt quasi loquantur in nobis, et nos in illis discamus quodam modo quae docemus»55.

Al riguardo del legame interpersonale della parola, nello specifico, è opportuno evidenziare che «sonus et intellectus vocis ad plures sine partitione pervenit»56 e che, tramite la materialità degli strumenti linguistici, «intelligibilia coniecimus»57. Si tratta di un rilievo, di palese irrilevante visibilità, ma invero, altamente indicativo di molti elementi che, ai fini della comunicazione interpersonale, è d’uopo elencare: a) una pluralità di soggetti intelligenti, b) il connubio nella parola tra l’elemento esteriore e sensibile e quello interiore e intelligibile, c) l’unione tra chi parla e chi ascolta, d) la capacità espressiva della parola come veicolo semantico, e) la trascendenza della parola e della

54 55 56 57

De catechizandis rudibus, 15, 23. Ibid., 12, 17. Sermo, 28, 4. L.c.


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verità rispetto ai soggetti in comunione dialogica. Così argomenta Agostino: «Ecce facio vobis verbum: ad omnes pervenit quod dico. Ut ad omnes perveniret quod dico,numquid divisisti quod dico? Si pascerem vos, ut non mentem vestram, sed ventrem implere vellem, et ponerem vobis panes quibus saturaremini; nonne panes meos divideretis inter vos?Nunquid possent panes mei ad unumquemque vestrum pervenire? Si ad unum pervenirent, ceteri nihil haberent: Ecce loquor, et omnes habetis. Parum est quia omnes habetis: et omnes totum habetis. Pervenit ad omnes totum, ad singulos totum. O mirabilia verbi mei!»58.

Grazie alla parola l’uomo si pone in comunione con gli altri uomini. Grazie alla parola l’uomo, per Agostino, rompe le frontiere egoico-narcisistiche e si dispone verso l’alterità: da soggetto diventa persona, persona aperta ad altre persone, essere razionale fondamentalmente sociale. La parola è un ponte che unisce due sponde, o meglio, che apre a più sponde per meglio comprendere e comprendersi: «Homines sumus et nos qui loquimur, et hominibus loquimur, et sonum vocis edimus. Ad aures hominum sonum vocis nostrae perducimus, et per nostrae vocis sonum et intellectum quomodocumque per aurem in corde […]. Dixi:quod dixit, procesit ad vos, et non recessit a me. Pervenit ad vos, nec separatum est a me. Antequam dicerem, ego habebam,et vos non habebatis: dixit, et vos habere coepistis, et ego nihil perdidi. O miraculum verbi mei!»59.

La parola sa di miracoloso, dice Agostino; e dice anche che, tramite essa, l’uomo si dispone a vincere la solitudine e ad elevarsi a forme di convivenza sociale sempre più prossime a relazioni fatte di comunioni d’intenti (sine partitione). Qui, infatti, si coglie l’aspetto rigorosamente funzionale della parola come verbum hominis. Aspetto che spiega la funzione noetica (o legge fondamentale) del linguaggio 58 59

Ibid., 120, 3. L.c.


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e dice che la fonte principale del conoscere non è il linguaggio ma sono le cose a cui le parole fanno riferimento. Le parole sono strumenti, segni che rinviano alle cose oppure a conoscenze acquisite precedentemente. Ma, come oramai per lo più gli studiosi da Saussure in poi hanno chiarito, la funzione noetica non è la sola funzione del linguaggio. Dagli elementi che lo costituiscono (soggetto, oggetto, interlocutore) si ricava che le funzioni basilari del linguaggio sono tre: rappresentativa e descrittiva (relativa all’oggetto), comunicativa (relativa all’interlocutore), espressiva o esistenziale (relativa al soggetto). Ma questo è un altro discorso che esula dal tema in oggetto. Tema che cerca una risposta intorno al perché Agostino tenda a una svalutazione del segno linguistico.

5. Agostino ritiene che il segno linguistico sia importante per relazionare e conoscere, ma sa anche dell’ambiguità del segno linguistico, come ben appreso da Platone e dallo Stoicismo e, soprattutto, dalla tradizione sofistica. Ambiguità che allontana dalla conoscenza della «verità». È vero che noi possiamo relazionare e conoscere attraverso i segni linguistici, ma è altresì vero che non è dato impossessarci del contenuto oggettivo di cui i segni sogliono rapportarsi di volta in volta. I segni indicano le cose ma non sono capaci di dirci tutto ciò di cui le cose sono portatrici. I segni si dispongono alla volontà del soggetto ma non di certo alla verità60.

60 La lezione agostiniana è stata ben compresa da Nietzsche. Questi in Verità e menzogna in senso extramorale non esita ad affermare che la parola «è il riflesso in suoni di uno stimolo nervoso» (F. NIETZSCHE, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, III/2, Milano 1973, 358), che ci fa comprendere il perché «ciascuno in ogni parola intende qualcosa di diverso, e ogni volta secondo il suo stato d’animo» (Frammenti postumi 1879-1881, in Opere, V/1, cit., fram. 4[149]) e pertanto anche il perché ogni parola è «anche una maschera» (Al di là del bene e del male, VI/2, cit., af. 289). Agostino e Nietzsche riferiscono intorno all’ambiguità della parola, entrambi caricano di senso (polisemia) questa ambiguità che leggono, il primo in prospettiva di Dio, senso primo e ultimo di ogni sentire interiore, il secondo in prospettiva vitalistica, senso primo e ultimo (attimo) di ogni pulsione interiore.


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Ora, se i segni linguistici non ci offrono né la conoscenza e né la verità, non significa dar ragione a sofisti e scettici. Significa, invece, che la via della conoscenza oggettiva e della verità è stata cercata, per lo più, attraverso percorsi errati o, quantomeno, disvianti. Agostino nel De Magistro non esita ad affermare che il fine primario del suo argomentare è quello di mostrare l’ambiguità ed i limiti di cui i segni linguistici sono portatori: «Ed io cerco principalmente di persuaderti, se mi riuscirà, che noi nulla impariamo per mezzo dei segni, che chiamiamo parole»61.

E una volta mostrato ciò Agostino si predispone, con soddisfazione, alla via retta, illuminata dalla parola divina. Al cospetto di tale illuminazione i segni linguistici sono di scarso rilievo e, paradossalmente, con una conversione ad ampio raggio, Agostino anticipa una delle prove dell’esistenza di Dio della più accreditata tradizione teologica: l’incertezza del verbum hominis apre alla certezza del verbum dei. Che la certezza della parola divina debba fondarsi sul limite della parola umana è un colpo di genio, di matrice logica, in linea con la posizione di Agostino. Questi sa della funzione comunicativa e conoscitiva, anche seppur limitata, del linguaggio, ma sa anche che relegare l’illuminazione del linguaggio divino al profilo propedeutico del linguaggio umano conduce alla verità che si trova nell’«interiorità» dello spirito. Il linguaggio appartiene sempre al tempo, mentre la verità al senza tempo, all’«interiorità» dello spirito, spinta «al colloquio forse dalle parole»62. Agostino riferisce dei vistosi limiti della parola, riconduce la povertà della parola all’arricchimento della parola stessa. Egli, come ben considerato da Flasch, «fa passare per debolezza del linguaggio la 61 «Et id maxime tibi nitor persuadere, si potero, per ea signa, quae verba appellantur, nos nihil discere» (De Magistro, 10, 34). 62 Ibid., 11, 38.


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sua polisemia»63. Nell’evidenziare l’incertezza di senso della parola nell’atto di essere recepita64, Agostino vuole condurre alla certezza di senso di cui la parola divina è portatrice. Vuole, in altri termini, nel dare ascolto alle riflessioni che giungono dall’interiorità del soggetto, garantire «l’identità semantica delle parole»65. Si tratta di un argomentare molto interessante sia per la semantica (e per i suoi piani ermeneutici) che per la storia della comunicazione in ambito antropologico. La «parola», seppur debole, incompiuta, limitata, resta pur tuttavia l’indiscusso tramite per la forza, la compiutezza, l’Illimitato. L’«interiorità», spirito divino, si fonda sull’«esteriorità», parola. Nel De Genesi contra Manichaeos, scritta in prossimità del De Magistro, Agostino rintraccia l’origine dell’incompiutezza del linguaggio nella conseguenza del peccato originale. Prima della «separazione», prima del peccato di «superbia», Dio comunicava direttamente con l’uomo. E comunicava per intellezione, senza suono, senza parola66. Prima della separazione il rapporto Dio-uomo non aveva bisogno della sfera dell’esteriorità e della sensibilità perché si alimentava dell’illuminazione dell’alito divino. Ma, per Agostino, si resta sempre all’interno del creaturale. Il peccato, la separazione, il suono, la parola con la sua povertà che apre all’infinita ricchezza dicono solo della verità interiore: perché il carattere convenzionale delle parole67, con l’incarnazione, con il Dio che si fa carne, sangue raggelato, resta tale e non è consentito che riferisca sull’Origine68. Qui, ancora una volta, riteniamo che Agostino voglia mettere l’accento sul generale più che sul particolare. A lui sta a cuore il problema dell’esperienza interiore, che va offerta come dimostrazione 63 64 65 66 67 68

K. FLASCH, Agostino d’Ippona, cit., 126. De Magistro, 13, 43. K. FLASCH, Agostino d’Ippona, cit., 126. De Genesi contra Manichaeos, II, 4, 5. De doctrina christiana, II, 1, 2-3. Ibid., I, 13.


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per favorire lo sviluppo di una esperienza già in atto, che trova difficoltà in una serie di condizionamenti negativi dentro e fuori di sé. Il continuo riferimento all’«interiorità», la tensione estrema dal di “fuori” al di “dentro”, dall’”esterno” all’“interiore”, dall’“apparire” all’“essere”, dal «maestro interiore», dalla «parola umana», dai «segni» a colui che insegna dentro, alla «Parola» che contiene e fa quello che dice, all’ambiguità della realtà significata, comporta una formazione che privilegi certi itinerari e determinati strumenti: formazione al silenzio, all’ascolto, al magistero di Cristo. «Gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi».

L’interesse giunge dal di fuori, da ciò che diciamo vita, mondo, relazioni, ed è importante avere coscienza di ciò; ma l’unione dell’insieme avviene dentro, quando ci soffermiamo sul valore delle singolarità. Per ben comunicare col basso e con l’alto bisogna, per Agostino, accettare la condizione in cui versiamo e coordinare con l’attenzione che ci è data dalle diverse componenti: il corpo, i sensi, il linguaggio, al servizio dello Spirito, e lo Spirito al servizio di Dio, restando fedeli alle esigenze e alle aspirazioni di cui Dio ci ha fatto dono. «Si tratta dell’ascolto, nella fede e nella docilità dell’obbedienza, di colui che, presente nell’uomo, parla all’uomo e gli rivela l’amore e lo invita a una risposta d’amore».

Bisogna imparare ad appropriarsi di Dio, ad ascoltarlo nel libro creaturale, nei fatti del tempo, nelle vicende familiari, intime, segrete. Dappertutto c’è una parte di verità e del suo amore. Bisogna, per la «parola» e per tutto il resto che ci appartiene, andare oltre l’apparire e i confini delle singole realtà ed esperienze: qui si manifesta l’autentica grandezza dell’uomo, compresa la sua degradazione quando si disperde dietro i bagliori della mondanità e dimentica di analizzare, trascendere, unificare.


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«Via, Verità e Vita»: è il Cristo e il suo Magistero: cifra assoluta e costante della formazione interiore è l’atteggiamento autentico di sollecita obbedienza e di rispetto per farci guidare dal Maestro che conta e che troviamo anche quando pensiamo di averlo smarrito.


Sezione miscellanea Synaxis 1 (2009) 227-260

IL CONTRIBUTO DI LA PIRA ALLA FORMAZIONE DEL DETTATO COSTITUZIONALE: POLITICA DEL DIALOGO ED IMPEGNO CRISTIANO

MARCO LUPPI*

In tempi di evidenti mutazioni come quelle che la società di oggi si trova a vivere, frutto di stravolgimenti che paiono rimettere in discussione le basi della convivenza umana, le certezze sulle quali sono stati consolidati stili di vita, equilibri politici ed economici a livello mondiale e nazionale, sviluppi più o meno pluralistici di una società fortemente tecnologizzata, pervasa da cambiamenti repentini ma attraversata anche da nuove domande di carattere etico ed esistenziale in tutti i campi, si cerca di presentare paradigmi convincenti, “ricette” che guardino al futuro in un presente che tuttavia appare complesso, non privo di incognite ed insidie. Quando faticano ad affermarsi modelli positivi e stentano a mettersi in moto quei meccanismi virtuosi di dialogo e di collaborazione che necessariamente debbono caratterizzare la costruzione dei pilastri di una società, l’evolversi delle generazioni alla ricerca della propria identità, più spesso si interroga la storia e coloro che ne sono stati i protagonisti. Non appare anomalo perciò riscontrare anche in un’Italia che si trasforma, che sembra necessitare di modifiche generali in merito ai propri assetti istituzionali, politici, socio-economici, una volontà di adeguamento della Costituzione del 1948, redatta al culmine d’un delicato e costruttivo percorso politico che all’indomani della seconda *

Docente di Storia contemporanea presso l’Università Kore di Enna.


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Marco Luppi

guerra mondiale fornì alla Repubblica appena formatasi una carta identitaria, sunto del rispetto verso i valori-base della persona e della convivenza umana, della visione generale della macchina statale e della scelta di precisi indirizzi e percorsi attuativi in vista della realizzazione di una compiuta democrazia politica. Certamente il dettato costituzionale richiede adeguamenti, attualizzazioni, soprattutto nella seconda parte e in riferimento a quelle voci che potrebbero ridisegnare strutture parlamentari, istituzioni di garanzia, poteri statali secondo criteri più consoni alla realtà odierna. Tuttavia l’Assemblea Costituente riunitasi al termine del secondo conflitto mondiale rimane un esempio di confronto, di ricerca del compromesso positivo tra appartenenti a partiti e schieramenti politici diversi (556 deputati eletti il 2 giugno 1946 ed al lavoro sul testo costituzionale fino alla votazione finale del 27 dicembre 1947), che rende l’intera vicenda una tappa significativa, caratterizzata dall’urgenza della storia ma al tempo stesso dalla disponibilità di politici e tecnici a realizzare un’operazione di alto livello istituzionale e morale al servizio dello Stato. L’esperienza costituzionale compiuta in Italia si innestava potentemente su un filone politico-giuridico che aveva già fornito numerosi esempi a partire dal secolo passato e che aveva presentato modelli differenti per svolgimento politico ed esiti attuativi. Da un lato era possibile rifarsi al precedente delle costituzioni nate al culmine delle rivoluzioni americana e francese, le quali si erano formate ed avevano trovato compimento secondo dinamiche associabili a ciò che si ritiene essere oggi un momento costituente: entrambe furono assemblee elettive che dopo un periodo di dibattiti tra i politici e con il coinvolgimento dell’opinione pubblica, portarono alla formulazione di una carta e di un testo costituzionale che, oltre a soffermarsi approfonditamente sull’organizzazione dello stato, dettava tutta una serie di principi politici e morali che designavano possibilità e limiti della comunità civile. Vi era poi l’esperienza della costituzione inglese, scaturita da una serie di norme politiche ed organizzative che erano state fissate in base alla consuetudine, alla presenza di fatti che riportavano a determinati comportamenti, materiale che in un secondo tempo aveva consentito ai legislatori di porre in essere progressivamente norme costituzionali le quali, con le inevitabili mutazioni,


Il contributo di La Pira alla formazione del dettato costituzionale 229

permettono la gestione di quello che viene considerato uno tra gli Stati a più elevato grado di democraticità. In Italia si erano avuti numerosi esempi di economisti, pubblicisti o politici che, soprattutto nel periodo risorgimentale, avevano prospettato il ricorso al metodo costituente, allorquando federalisti quali Cattaneo o Gioberti (i fautori di quella che era definita unità nella diversità) o repubblicani come Mazzini avevano auspicato la formazione di uno stato unitario che fissasse le proprie norme e regole partendo da un momento costituente, di democrazia dialettica. La concessione dello Statuto Albertino ai territori del regno sardopiemontese sotto la spinta dei movimenti politici e rivoluzionari che scossero mezza Europa a metà dell’800, costringendo diversi stati europei a concedere carte costituzionali o statuti di riferimento, fu un primo, timido passo verso un regime politico che comprendesse meccanismi legislativi e decisionali con al centro una struttura parlamentare. In seguito lo Statuto venne esteso a tutto il Regno d’Italia e messo in crisi ai primi del ’900 dall’affermarsi dei partiti politici di massa1 e, a maggior ragione, dalla dittatura fascista che ne mise a nudo contraddizioni e palesi vuoti normativi. La conclusione del ventennio assolutista portò con sé una riflessione profonda riguardo alla necessità di ricostruire la struttura statale a partire da principi non barattabili, da norme minuziose che potessero scongiurare una nuova deriva totalitaria. Il confronto specifico spinse verso l’idea di un’assise che garantisse la pluralità delle voci e delle provenienze politiche e che portasse alla formulazione compiuta di un testo di ampia prospettiva democratica per il futuro. Tra coloro che si prepararono a fondo in vista dell’appuntamento costituzionale ci fu anche Giorgio La Pira, siciliano nato a Pozzallo (RG) nel 1904, ma stabilitosi a Firenze nel maggio 1926 in 1 Con questa dizione, pensando alla temperie storico-politica di allora, si fa riferimento essenzialmente al PSI ed al nuovo coinvolgimento dei cattolici nelle elezioni amministrative del 1903 ed in modo sistematico dalle politiche del 1913 (le prime a suffragio universale maschile) in poi, le quali misero fine alla ripetuta anomalia della scarsa partecipazione politica ed elettorale da parte di una fetta consistente del popolo italiano a motivo del Non expedit di Pio IX del 1871.


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Marco Luppi

occasione della conclusione dei suoi studi universitari in giurisprudenza2 e che nel capoluogo toscano si fece apprezzare per i molti anni di servizio in qualità di sindaco (diverse amministrazioni tra il 1951 ed il 1965), per le capacità intellettuali messe a disposizione dell’ateneo fiorentino, ma anche per il forte impegno sociale in favore di emarginati e disagiati della città, con il suo ruolo di animatore in ambito cattolico toscano e nazionale all’interno della Congregazione S. Vincenzo de’ Paoli e tra i ranghi dell’Azione Cattolica. Ampiamente stimato, dal forte impegno antifascista prima e durante la seconda guerra mondiale3, di riconosciuta abilità nel districarsi all’interno di formulazioni giuridiche e regolamenti, La Pira venne contattato dalla sezione fiorentina della Democrazia Cristiana, che puntò ad una sua candidatura in vista dell’Assemblea Costituente, concretizzatasi puntualmente con la sua elezione4. Il presente articolo si prefigge l’ob2 La Pira si laureò presso l’Università degli Studi di Firenze il 10 luglio 1926 con una tesi dal titolo La successione ereditaria intestata e contro il testamento nel diritto romano. A partire dal dicembre 1933 ottenne la cattedra di Istituzioni di diritto romano presso il medesimo ateneo. 3 Quando si fa riferimento all’esperienza antifascista di La Pira, si cita soprattutto la pubblicazione della rivista «Principi», periodico mensile da lui diretto tra il gennaio 1939 ed il febbraio 1940, momento nel quale venne chiuso dalla censura fascista. Inserito quale supplemento alla rivista domenicana «Vita cristiana», il periodico rappresentò uno spazio di libero pensiero e di approfondimento ideologico, che partendo dal pensiero dei Padri della Chiesa non ebbe timore nel proporre una visione ed una prassi diverse dai totalitarismi imperanti. Del periodico esiste una ristampa completa contenuta nel volume Principi, Torino, 2001. Notevole la sottolineatura della testimonianza di «Principi» anche in P. POMBENI, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), Bologna 1979, 64-78. 4 La Pira venne eletto presso il Collegio di Firenze-Pistoia. Molti amici democristiani avevano spinto per una suo maggiore coinvolgimento nel partito in vista della Costituente. Per tutti valga uno stralcio della missiva con la quale Attilio Piccioni, vicesegretario della DC nazionale, il 24 febbraio 1946 accoglieva la notizia della candidatura avvenuta:« La prima cosa che faccio con grande piacere è di scrivere a te per comunicarti la grande gioia mia, di Dossetti, di Fanfani e degli altri per la tua decisione a entrare nella lista della D.C. […] Caro La Pira, noi dobbiamo tanto a te, ma questa tua ultima decisione e per il modo come la hai presa e per lo spirito di fervido apostolato che la anima, rende la nostra riconoscenza ancora più profonda e, oserei dire, più commossa». Lo stralcio della lettera è tratto dal volume G. LA PIRA, La casa comune, una costituzione per l’uomo, a cura di U. De Siervo, Firenze 1996, 39. La lettera di accet-


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biettivo di tracciare, per grandi linee, proprio il contributo specifico che La Pira seppe dare alla discussione ed alla stesura del testo costituzionale, andando ad indagarne brevemente modalità e percorsi esecutivi, anche in riferimento ai gruppi di lavoro di cui fece parte ed alle personalità politiche con cui si trovò a collaborare. Per tutti i costituenti risultava palese la necessità di incrementare un senso d’appartenenza e d’aspirazione all’unità che fino a quel momento aveva scarsamente caratterizzato il popolo italiano. Si consolidava nei politici la responsabilità di puntare verso un’esperienza di alto profilo, che rilanciasse la prospettiva di comunità civile e proponesse, forse per la prima volta in modo forte, la categoria, concreta ed ideologica, di bene comune. Tirare fuori il meglio della letteratura giuridica e politica in materia di costituzioni, norme, diritti, significò mobilitare una discreta macchina organizzativa e progettuale ben prima delle elezioni del 2 giugno 1946. Anche La Pira era parte integrante di un gruppo di lavoro, specificatamente legato all’Università Cattolica di Milano, compagine che annoverava personaggi come Dossetti, Fanfani, Colombo, Lazzati, e che aveva dato vita ad interessanti esperienze di approfondimento teoretico e politico durante gli avvenimenti bellici (valga per tutte l’attestata ed importante riflessione sui radiomessaggi natalizi di Pio XII)5, dimostrando un’acuta coscienza della crisi imperante ed una volontà tazione da parte di La Pira, quella che innesca la risposta calorosa e riconoscente di Piccioni, non è stata a tutt’oggi ancora rintracciata. 5 Il gruppo di “Casa Padovani”, come era conosciuto poiché si dava appuntamento presso l’abitazione del prof. Umberto Padovani, era legato alla figura di Padre Agostino Gemelli (fondatore della Cattolica), ma anche caratterizzato da un percorso di libertà intellettuale che li portò in quel periodo ad avvicinarsi alle importanti esperienze del personalismo francese di Maritain e Mounier, nonché alla riflessione sul nuovo approccio manifestato da Pio XII riguardo alle radici politiche della democrazia e alla formazione politica dei cattolici, tematiche approfondite nei radiomessaggi natalizi del biennio 1942-1944. Sul gruppo di Casa Padovani, l’Università del Sacro cuore e la formazione del futuro gruppo dossettiano cfr. P. POMBENI, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), cit., 17-96. Sulla parabola politica di Dossetti e Lazzati, con numerosi ricordi di quel periodo e dell’esperienza in Costituente, è utile L. ELIA – P. SCOPPOLA, A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista (19 novembre 1984), Bologna 2003.


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forte di partecipazione all’elaborazione di nuove categorie di pensiero e di percorsi metodologici e attuativi in campo politico ed economico. Gli animatori di quel gruppo, protagonisti del biennio 1946-1948, gettarono in anticipo basi interessanti di riflessione e studio, arrivando fortemente preparati ai lavori in assemblea ed in fondo animati da un’ideologia omogenea e condivisa da tutti. Il collante naturale divenne quella “palestra culturale” che fu «Civitas humana»6, associazione fondata nel settembre 1946, che rappresentò la volontà concreta di approfondire il dialogo iniziato, estendendolo ben al di fuori della cerchia ristretta dei primi partecipanti. L’intuizione fondamentale attorno alla quale si raccolse l’associazione (che per la verità si incontrò in modo unitario solo quattro volte), era quella di dare un’anima cristiana alle strutture della società, prospettando e lavorando alla costruzione di spazi fondati sulla partecipazione popolare e sulla giustizia sociale. Per questo si sottolineava il bisogno sempre più marcato che dall’elaborazione teoretica si passasse ad un percorso attuativo, giustificando probabilmente le vicende successive che avrebbero portato allo scioglimento dell’associazione stessa nella corrente politica che si ritrovò attorno alla leadership di Dossetti. Pensando a La Pira, dalle fonti si evince che questi approfondì anche autonomamente le sue ricerche in vista dell’appuntamento costituzionale. Tra coloro che lo testimoniano vi è Fioretta Mazzei (sua preziosa collaboratrice ai tempi delle amministrazioni comunali fiorentine), la quale ricorda quanto «La Pira lavorò alla Costituzione proprio a Fonterutoli nel 1946, riempì il tavolo di camera di edizioni ed edizioncine di tutti i Paesi, La fondazione di Civitas humana si fa risalire ad un incontro svoltosi a Roma, in via Monte della Farina, il 3 settembre 1946 e che vide tra i suoi partecipanti La Pira, Dossetti, Fanfani e Lazzati. Sulla storia dell’associazione si veda P. POMBENI, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), cit., 313-333; su Lazzati si veda M. MALPENSA – A. PAROLA, Lazzati. Una sentinella nella notte (1909-1986), Bologna 2005; su Fanfani i testi di L. RADI, La Dc da De Gasperi a Fanfani, Roma 2005 e V. LA RUSSA, Amintore Fanfani, Roma 2006; su Dossetti i lavori di E. GALAVOTTI, Il giovane Dossetti. Gli anni della formazione 1913-1939, Bologna 2006; G. CAMPANINI, Dossetti politico, Bologna 2004; L. GIORGI, Una vicenda politica. Giuseppe Dossetti 19451956, Milano 2003. 6


Il contributo di La Pira alla formazione del dettato costituzionale 233 consultò testi più antichi nella biblioteca di mio padre. Ebbe in mano, e fece soprattutto suo, un canovaccio di Mounier. Tornò dalla prima seduta alla Costituente, soddisfatto:“Sono l’unico ad avere in tasca la nuova Costituzione tutta pensata e scritta: per questo sono avvantaggiato, posso condurre le cose”»7.

All’interno di un’assemblea dai compiti essenzializzati8, ben presto si fece strada l’esigenza di istituire un calendario dei lavori, determinando l’ordine delle discussioni e le caratteristiche delle possibili commissioni all’interno delle quali si sarebbe svolto il confronto politico e lo studio delle regole. Con una mozione presentata da Dossetti in data 23 luglio9 ed approvata a larghissima maggioranza si affidò il compito di redigere la Costituzione ad una F. MAZZEI, La Pira. Cose viste e ascoltate, Firenze 1980, 66-67. Nel territorio di Fonterutoli, in piena provincia senese, si trovava la residenza di campagna della famiglia di Jacopo Mazzei, nella quale La Pira era solito ritirarsi per periodi di riposo e di studio. 8 All’assise costituente venne affidata la funzione, oltre che di formulare e stendere la Carta costituzionale, anche di studiare eventuali modifiche alla legge elettorale, di valutare e conseguentemente concedere il lasciapassare ai trattati internazionali ed infine esprimere il voto di fiducia sull’operato del governo, che in una situazione provvisoria aveva riservato per sé il potere legislativo con l’intento di sgravare di ulteriori funzioni la stessa Costituente. Sul tema della Costituente si veda L. ELIA, La Commissione dei 75. Il dibattito costituzionale e l’elaborazione dello schema di Costituzione, in Il Parlamento italiano. Storia parlamentare e politica dell’Italia, XIV, Milano 1989; V. ONIDA, L’ordinamento costituzionale italiano dalla caduta del fascismo all’avvento della Costituzione repubblicana, Torino 1991; P. POMBENI, La Costituente. Un problema storico-politico, Bologna 1995; N. ANTONETTI – U. DE SIERVO – F. MALGERI (cur.), I cattolici democratici e la Costituzione, Bologna 1998; E. CHELI, Il problema storico della costituente, Napoli 2008. Sul rapporto indispensabile, in vista della scrittura delle regole costituzionali, tra partiti politici e istituzioni vedi la raccolta di studi e saggi L. ELIA, Costituzione, partiti, istituzioni, Bologna 2009. 9 Il dato è espressamente riportato da P. POMBENI, La Costituente. Un problema storico-politico, cit., 105-107, all’interno di un lavoro ancora attuale e utilissimo nel comprendere i fatti inerenti lo svolgimento del lavoro costituente e le trame ideologiche, i confronti avvenuti all’interno della stessa sede. In merito alle regole delle commissioni per la Costituente, ripartizione e criteri dei temi da trattare e la discussione delle regole per le differenti commissioni vedi A. MELLONI (cur.), Giuseppe Dossetti. La ricerca costituente (1945-1952), Bologna 1994, 89-97. 7


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Commissione ristretta di 75 deputati. «La Commissione dei settantacinque», come venne chiamata, si divise in tre sottocommissioni: la prima, Diritti e doveri dei cittadini, fu quella dai contenuti più generali, quella che, partendo da tematiche filosofiche e di valore paradigmatico, potesse fornire alla nazione un insieme di articoli che mostrassero agli italiani possibilità e limiti nel proprio senso di appartenenza e di cittadinanza; la seconda sottocommissione, Ordinamento costituzionale della Repubblica, prevedeva un iter volto alla stesura di quella parte della costituzione che doveva sanzionare, sulla base dei tre poteri dello Stato, la formazione ed il funzionamento degli organi deposti alla concretizzazione del dettato costituzionale; la terza era quella sui Diritti e doveri economico-sociali, la quale si sarebbe assunta il compito per niente agevole di determinare quali sarebbero dovute essere dinamiche e realizzazioni per una migliore gestione dello Stato con le sue risorse umane e materiali. La Pira prese parte alla prima sottocommissione, quella che vide la partecipazione dei maggiori leaders di partito, tanto da divenire l’unità cardine dell’intero progetto preparatorio e potendo usufruire di maggiori spazi di manovra rispetto alle altre due commissioni, composte in larga misura da tecnici e da politici preparati sulle materie specifiche. Nella prima sottocommissione si svolsero perciò i dibattiti più accesi, tra i suoi banchi si giocarono le partite più importanti, e per questo è lecito ricordare che essa funse da polo di attrazione per tutto il lavoro. Soprattutto in questa sede si estrinsecò l’attività di analisi e di impegno politico da parte di La Pira, un lavoro di indubbia qualità che vide come sue radici di riferimento l’apertura al dialogo con deputati di convinzioni politiche e paradigmi culturali diversi, il tutto partendo dal secondo riferimento imprescindibile dell’operato del politico fiorentino: la profonda adesione ai valori del cristianesimo, ai quali egli seppe fare riferimento come ad un valore aggiunto, una spinta propulsiva per il confronto più che un agente frenante o un motivo di discriminazione. E vedremo in che senso sia possibile affermare ciò. Intanto è lecito domandarsi quali furono le fonti, le matrici ideologiche con cui La Pira diede sostanza alla sua preparazione. Se è indubitabile, anche a detta della storiografia disponibile sull’avvenimento,


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quanto egli abbia apportato un contributo tra i più rilevanti nella scrittura del testo costituzionale, sia per il suo lavoro appassionato che per la qualità dei suoi interventi, appare interessante gettare uno sguardo sulle motivazioni politiche, intellettuali, in qualche modo interiori che lo sollecitarono ad un ruolo da protagonista. All’interno della prima sottocommissione fu relatore in merito ai principi connessi ai rapporti civili; si espresse numerose volte e sugli argomenti più vari sia in sede di sottocommissione che nei lavori svolti in udienza plenaria; si rese protagonista di un ampio intervento nel corso della seduta generale, dando il suo parere positivo sul lavoro svolto e sul contenuto dell’intero progetto in discussione; successivamente intervenne sui temi riguardanti la giuria popolare ed il controllo di legittimità costituzionale delle leggi; infine, poco prima della votazione finale, prese la parola un’ultima volta per chiedere che venisse posta in qualità di preambolo alla costituzione la formula “In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente costituzione”. Quattro piani di lettura risultano essere fondamentali per inquadrare la strategia con cui La Pira si preparò e in seguito si mosse: il piano ideologico ed intellettuale, intessuto di continui rinvii al suo apparato conoscitivo e alla sfera delle sue ricerche10, il tutto illuminato dalla scelta tomista compiuta diversi anni prima; la forte carica di vissuto religioso con cui egli concepiva ogni azione concreta e razionale; sul piano politico si può constatare come egli operò seguendo una strategia comune a tutto il movimento cattolico, in base ad un sentire che era frutto di approfondimenti personali, ma anche della continua frequentazione degli ambienti base del cattolicesimo nazionale (Azione Cattolica, FUCI, Movimento Laureati11 e tutte le inizia10 Bagaglio piuttosto ampio che fin da giovanissimo lo aveva visto approfondire le opere cardine della letteratura laica e religiosa del mondo occidentale. La scelta tomista, di profonda vicinanza al pensiero di Tommaso d’Aquino, lo fece ragionare in termini di adesione al finalismo cristiano, alla riproposizione dei valori cardine di attenzione alla visione unicomprensiva della persona, profondo senso di giustizia sociale, approccio unitario del sapere. Sulla formazione giovanile di La Pira vedi V. POSSENTI, La Pira tra storia e profezia. Con Tommaso maestro, Genova 2004; V. PERI, Giorgio La Pira, Caltanisetta – Roma 2008. 11 Il Movimento Laureati fu fondato da Igino Righetti nel 1932 quale luogo di


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tive connesse), mostrando di contro un certo grado di libertà nei riguardi della DC, verso la quale La Pira non sentiva di possedere particolari legami precedenti alla sua candidatura; in ultimo vanno tenute presenti la sua indiscussa competenza nell’utilizzo degli strumenti tecnici, la conoscenza della prassi giuridica e la necessità di valutare attentamente le connessioni ed i forti richiami con la politica, il tutto equilibrato attraverso un aggiornamento costante, compiuto con studi personali e attraverso l’attenta lettura della documentazione preparata e messa a disposizione dal Ministero per la Costituente12. Partendo da un simile atteggiamento intellettuale e dai profondi convincimenti personali a cui si è fatto riferimento, La Pira lavorò in Costituente «proprio in vista della costruzione di una “casa comune” nella quale tutti i cittadini, e fra essi i credenti, possano in tutta tranquillità abitare, nel presupposto che non si possa e non si debba chiedere allo Stato più confronto, pungolo intellettuale per studenti cattolici all’interno degli spazi universitari e delle istituzioni culturali rivolte ai giovani. Di recente è apparso un interessante testo sui rapporti tra Lazzati ed il Movimento Laureati, in M. IVALDO (cur.), Dossier Lazzati (1909-1986), Roma 2007, che riporta tredici testi scritti da Lazzati per il Movimento Laureati e il MEIC (Movimento ecclesiale di impegno culturale); sul Movimento Laureati si veda anche F. PAOLO CASAVOLA (cur.), In ascolto della storia: l’itinerario dei laureati cattolici, Roma 1984. 12 Gli organismi politici “ufficiali” deputati allo studio e alla preparazione dei lavori costituzionali furono essenzialmente due: il Ministero per la Costituente e una Commissione di studi sulla riorganizzazione dello Stato. Il Ministero, formatosi a seguito del decreto luogotenenziale n. 435 del 31 luglio 1945, venne presieduto dal socialista Nenni e ad esso venne affidato sia l’incarico di preparare i lavori costituenti, sia quello di predisporre gli elementi per lo studio della nuova costituzione. Il Capo di gabinetto che presiedette la struttura fu il giurista Massimo Severo Giannini, il quale contribuì all’uscita puntuale di un «Bollettino» che vedeva le stampe ogni dieci giorni, «in cui si davano notizie sui lavori preparatori in corso nelle commissioni di studio, si pubblicavano informazioni sui lavori costituenti negli altri paesi e sulla politica in generale e si diffondevano testi di conferenze radiofoniche sui temi che si supponevano centrali per il futuro dibattito. Accanto a questo, il ministero fece stampare due collane di volumi che illustravano l’una le grandi costruzioni, l’altra problemi giuridici chiave: affidati a studiosi di sicura competenza, essi fornirono una documentazione di tutto rilievo»; cfr. P. POMBENI, La Costituente. Un problema storicopolitico, cit., 79.


Il contributo di La Pira alla formazione del dettato costituzionale 237 di quanto esso possa oggettivamente offrire, cioè un quadro generale di garanzia all’interno del quale la persona possa liberamente esplicarsi ed esprimere dunque anche i valori religiosi di cui è portatrice»13.

La visione architettonica di uno stato democratico ad ispirazione cristiana al quale il politico fiorentino sentì di lavorare, ritrovava nella Chiesa cattolica e nei suoi insegnamenti una guida insostituibile, ma venne segnata anche da un grado di autonomia che lo rendeva libero di portare avanti idee e progetti non dietro la pressione della gerarchia ecclesiastica, ma per onesta e studiata capacità culturale e razionale. In questo quadro prendono concretezza quelle che si possono considerare le componenti ideologiche a cui La Pira fece continuo riferimento nei suoi interventi e che costituirono i sostegni di base per tutti i suoi contributi scritti. Se ne possono rintracciare essenzialmente tre: a) l’esperienza antifascista maturata con l’uscita della rivista «Principi», che oltre a circondarlo di persone pronte a seguirlo nella via di opposizione al fascismo, contribuì alla sua presa di coscienza di come tutta la vita andasse impostata in modo da sottolineare i valori della pace, del rispetto della persona e del dialogo contro le logiche della guerra, dell’individualismo estremo e della chiusura aprioristica alle posizioni altrui; b) il personalismo della scuola francese che vedeva nei filosofi Maritain e Mounier (e nei loro lavori più apprezzati Umanesimo integrale e Rivoluzione personalista e comunitaria) i capiscuola di un modo di avvicinarsi alla vita sociale, politica ed economica che poneva al centro di tutto il valore ed il rispetto della persona umana con tutto il suo bagaglio interiore fatto di conoscenze, affetti, convinzioni religiose, ma che contemporaneamente lanciava il progetto di una “nuova cristianità” di ascendenza maritaniana, capace di recepire gli “insegnamenti laici” di un mondo col quale era necessario confrontarsi in vista del bene comune. Anche la critica dei tedeschi Von Ketteler e Vogelsang alle costituzioni individualiste o troppo garantiste del passato o il pensiero dell’italiano Toniolo esercitarono importanti influenze; c) la visione pluralistica dello Stato e dei suoi 13

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organismi principali, sempre collegata al pensiero della scuola francese d’area cattolica, la quale concepiva la società come un insieme organico e vitale che partendo dalla componente base della persona andava allargandosi, come in un gioco di cerchi concentrici, alla famiglia, al quartiere, alla città, fino allo stato e alle organizzazioni internazionali. Non va dimenticato poi che questa visione della società venne utilizzata anche in sede di discussione presso la Costituente francese del 1946, esperienza alla quale La Pira farà sovente riferimento nel corso di diversi suoi contributi. Ma anche un impianto ideologico meditato ed approfondito non avrebbe potuto dimostrarsi valido, sostenibile, se non si fosse riscontrata una convergenza tra La Pira ed altri costituenti. All’interno di un’assise fortemente concentrata sull’elaborazione e la scrittura delle norme costituzionali ed istituzionali, si crearono le condizioni perché risaltasse il lavoro del gruppo di studiosi che si erano riuniti attorno a Dossetti e che vedeva in La Pira e Fanfani i più diretti collaboratori, in Aldo Moro un nuovo, attento sodale. Le convergenze tra loro nascevano dal confronto cominciato anni addietro su argomenti vitali per l’esperienza in corso (la legislazione sociale sul lavoro e l’organizzazione ed il funzionamento dei nuovi organi istituzionali, ad esempio), dall’abilità tecnica e politica che dimostrarono di possedere, dalla capacità di confronto con orizzonti ideologici e partitici distanti dal proprio (in particolare con il mondo delle sinistre, PCI e PSI, in quel momento al governo in coalizione con la DC). A sostegno di questa sensazione giunge la convinzione di Campanini che, pensando al gruppo di deputati eletti nelle fila della DC, ha potuto affermare quanto essa «riuscì a raccogliere nelle sue file e a portare all’Assemblea costituente le migliori intelligenze giuridiche e politiche di quegli anni: dietro il nomignolo insieme ironico e ammirato di “professorini” attribuito ai giovani costituenti cattolici stava il riconoscimento di una preparazione e di una competenza che nessun altro gruppo in quegli anni poteva vantare»14. La prima tra le sottocommissioni, come detto, risultò essere il campo di prova circa la bontà del lavoro svolto. L’equilibrio e la 14

Ibid., 44.


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volontà di trovare i giusti compromessi si poté riscontrare soprattutto grazie al dialogo continuo tra Dossetti, Moro e La Pira da una parte, il comunista Togliatti ed il socialista Basso dall’altra, tutti coinvolti in un lavoro di cucitura dimostrato anche da una serie di preziose testimonianze. Da una parte Basso citava la continua ricerca d’accordo:«Ci si riuniva in sedute private in cui c’erano i tre professori della DC, La Pira, Dossetti e Moro, c’ero io per il PSI e Togliatti per il PCI. E quando eravamo d’accordo noi cinque, praticamente l’articolo era approvato»15; dall’altra La Pira documentava l’affaccendarsi alla ricerca dei giusti spiragli quando si trattò di trovare una mediazione convincente di fronte alle scadenze prossime: «Ci dividemmo il lavoro con Basso e stendemmo gli articoli […] elaborati tutti in quel mese di agosto con l’accordo, in qualche modo, di Dossetti, Togliatti, Marchesi ed altri»16.

Ciò che sorprende, pensando al ruolo centrale che i tre politici democristiani svolsero, è l’autorevolezza con cui, a dispetto della giovane età di ciascuno, esposero il proprio pensiero e vissero l’intera esperienza. Se la cosa potrebbe meravigliare in riferimento alla presenza di politici democristiani con ben altra militanza e diversa investitura nel partito, non stupisce se si ricorda il periodo propedeutico che vide il gruppo della Cattolica irrobustire la propria preparazione in un modo sconosciuto ad attivisti di più lunga data. Un’altra considerazione degna di nota porta a sottolineare come, eccezion fatta per Dossetti che aveva cominciato a ricoprire incarichi di rilievo nazionale17, gli altri fossero all’inizio della propria partecipazione e per un A. MELLONI (cur.), Giuseppe Dossetti. La ricerca costituente (1945-1952), cit. 33. Ibid., 33. 17 Dossetti venne eletto alla vicesegreteria della DC nel settembre del 1945 ed ancora nel 1949. Da quella posizione fece sentire la posizione sua e del gruppo che sentiva di rappresentare nel corso dei lavori del III Congresso nazionale della DC svoltosi a Venezia dal 2 al 6 giugno 1949. In questa sede chiese di accelerare la politica di riforme, mentre la maggioranza degasperiana elesse segretario Taviani, più ligio alle direttive della sezione centrale del partito. Sul Congresso DC di Venezia vedi F. MALGERI, Storia della Democrazia Cristiana, vol. II: De Gasperi e l’età del centrismo 15 16


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certo verso parevano aver accumulato meriti piuttosto all’interno del Movimento cattolico e tra le sue componenti che non accanto a De Gasperi e gli altri compagni di partito. In questo senso la costituente divenne l’occasione propizia per accrescere la credibilità intorno al proprio lavoro politico e per sfruttare le rispettive competenze a servizio della comunità civile. De Gasperi parve lasciar fare, perché impegnato nei difficili obblighi governativi e perché intorno all’operato dei “professorini” giunse il beneplacito neppure troppo nascosto della Segreteria di Stato vaticana guidata da mons. Montini. Pertanto Dossetti, La Pira, Moro e Fanfani, maturarono un progetto costituzionale organico attraverso un lavoro di confronto continuo e facendo valere le proprie indiscutibili capacità di dialogo nella collaborazione stretta con comunisti e socialisti. In sostanza furono loro ad indirizzare la metodologia dei lavori e a porsi quale punto di riferimento per gli altri colleghi: Togliatti, Marchesi e Basso apprezzarono certamente l’ottima preparazione e la grande disponibilità dei giovani DC, avvertendo come vi fosse la fiducia del partito attorno a loro, ma anche una certa indipendenza, tanto da saper discernere il lavoro concorde fatto in commissione dalle scelte politiche della Democrazia Cristiana che a metà del 1947, in seguito alle molteplici pressioni interne ed internazionali, scelse di porre fine alla politica di accordo tripartito con PCI e PSI. In tale circostanza maturarono ulteriormente importanti distinguo tra i “professorini” e la linea scelta da De Gasperi, quando il lavoro di limatura del dettato costituzionale avrebbe a detta dei primi consigliato maggiore prudenza politica ed una tattica concorde con i partiti impegnati nel lavoro stesso. Il luogo utilizzato da Dossetti per esprimere le proprie perplessità fu «Cronache Sociali», rivista apparsa nel mercato editoriale come rassegna quindicinale di sociologia e politica18, la quale fornì al gruppo dossettiano (ma non solo) la (1948-1954), Roma 1985, 80-89; G. BAGET BOZZO, Il partito cristiano al potere. La DC di De Gasperi e di Dossetti (1945-1954), Firenze1975, 276-295. 18 Sulla storia della rivista, il suo dialogo con i lettori e la diffusione nel mondo cattolico e politico si veda il lavoro di P. POMBENI, Le “Cronache Sociali” di Dossetti. Geografia di un movimento di opinione (1947-1951), Firenze 1976 e il brillante lavoro a cura di L. GIORGI, Le “Cronache sociali” di Giuseppe Dossetti. La giovane sinistra catto-


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possibilità di rivolgersi con maggiore assiduità ai temi politici ed economici, quelli che occuparono nella quasi totalità le colonne della rivista, e che, se spesso aveva come punto di partenza le vicende interne alla DC, gli sviluppi e le difficoltà in cui si dibattevano i governi centristi oppure la ripresa interna ed internazionale dello Stato italiano (del resto tutti ambiti nei quali La Pira, Dossetti e Fanfani si ritrovarono a recitare ruoli spesso importanti e decisivi), desiderava in realtà fornire delle coordinate più generali, meditare sulla fonte dei problemi, offrire delle chiavi di lettura che potessero, pur provvedendo a dare una risposta al problema contingente, aiutare ad affrontare ogni tematica con uno sguardo obiettivo ed un approccio scientifico. Con un articolo intitolato Fine del tripartito? Dossetti espresse la preoccupazione che la rinuncia alla coalizione comprendente i tre partiti di massa potesse alterare i risultati fino a quel momento conseguiti in sede di costituente, ma anche comportare l’abdicazione alle tanto auspicate riforme sociali, probabilmente più incisive se attuate con una maggioranza allargata alle diverse componenti sociali e partitiche19. lica e la rifondazione della democrazia italiana, Reggio Emilia 2007, con edizione anastatica completa di tutti i numeri della rivista. Stampata a Roma presso le Edizioni Servire e diretta da Giuseppe Glisenti, «Cronache Sociali» iniziò le sue pubblicazioni col numero del 30 maggio 1947 (nell’insolito formato di 30,5 x 21 cm), per cessarle il 31 ottobre 1951 dopo un vissuto redazionale intenso ma non sempre lineare. Si vedano anche le interessanti pagine in merito all’influenza di Maritain sul gruppo di «Cronache Sociali» in G. CAMPANINI, Cristianesimo e democrazia. Studi sul pensiero cattolico del ’900, Brescia, 1980, 153-164. 19 L’articolo Fine del Tripartito? apparve nel II numero di «Cronache Sociali» in data 15.6.1947. Certo non va esasperata la differenziazione tra la linea degasperiana della DC e una differente proposta del gruppo dossettiano. Ma posto ciò, è indubitabile che i redattori di «Cronache Sociali» pervenissero a conclusioni in parte differenti riguardo alla gestione dello Stato, che doveva qualificarsi non come accentratore, ma pluralista; al criterio di uguaglianza nel partito, che arrivava a concepire l’esistenza e l’alternanza di differenti sfumature e punti di vista riguardo ai temi politici di volta in volta in discussione; al riconoscimento di un valore pregnante al dialogo con i partiti di sinistra ed alla mediazione verso la cultura marxista, lontano dalla chiusura aprioristica che guidava altre componenti della DC, eccessivamente allineate a qualunque sollecitazione provenisse dal Vaticano. Sulla cultura politica del gruppo in riferimento alla rivista si veda P. POMBENI, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), cit., 374-387.


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Tornando al contributo specifico di La Pira si constata come egli fu presente e attivo fin dalle sedute preparatorie, quelle del 26-30 luglio 1946, nelle quali, prima della pausa estiva, si vollero delineare i compiti della commissione e definire un ordine di discussione degli argomenti da prendere in esame. La sua proposta fu quella di basare le discussioni sulla costituzione di Weimar del 1919 e su quella sovietica del 1936, che avevano in qualche modo superato la crisi delle carte uscite dal modello proposto dalla Rivoluzione francese e nelle quali si riscontravano quei primi germi di pluralismo che avrebbero reso efficace anche il tentativo che andava compiendosi in Italia. La convergenza su questo pensiero era assoluta con Dossetti e Moro, che si adoperarono altresì per dare un ordine ai lavori di discussione in merito alla successione degli articoli e ai temi da trattare. Il dibattito, molto acceso, si risolse con una proposta di Dossetti, il quale con rigore sistematico suggerì di distribuire il lavoro dei mesi seguenti in tre grandi blocchi: una prima parte riguardante l’uomo e il cittadino, a sua volta comprendente tre sezioni: i rapporti civili, i rapporti sociali ed economici, i rapporti sociali e culturali; quindi i temi riguardanti la famiglia; ed infine la terza parte con le questioni attinenti lo Stato e l’ordinamento giuridico. Lo schema venne accettato da tutti, compreso il metodo secondo il quale si sarebbe cominciato ciascun dibattito con l’ascolto di due relatori per ogni materia; tra essi anche La Pira, che con Basso avrebbe elaborato ed esposto le proposte sui principi dei rapporti civili. La Pira e i giovani DC esprimevano l’intenzione di scavalcare ogni velleità di limitare la carta costituzionale, in modo da riuscire a mettere in luce la vera essenza, il vero spirito democratico col quale si intendeva far rinascere la nazione e la società che stavano uscendo dal durissimo confronto col fascismo. Inoltre i tre giuristi, consapevoli del delicato terreno sul quale si svolgeva il dibattito, auspicavano la formazione di una costituzione che contenesse modelli politici e che desse indirizzi precisi nelle diverse materie in questione. Quale fosse il cuore della proposta che La Pira presentò durante il dibattito nella prima commissione lo troviamo contenuto in un saggio che egli scrisse al termine dei lavori costituzionali, intitolato Architettura di uno Stato democratico, opuscolo in cui era condensato il pensiero sulla necessità di una nuova costituzione e le idee per redigerla. Partendo


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dalla constatazione che fosse in atto in Italia una forte crisi legata all’inadeguatezza del dettato costituzionale allora vigente, schiavo della concezione individualista dello Statuto Albertino e dei tragici cambiamenti statalisti portati dal fascismo, La Pira pareva centrare il cuore della questione quando reclamava la necessità di un nuovo “abito giuridico”: «Quest’assetto giuridico, dunque, deve essere proporzionale all’uomo e alle essenziali strutture sociali che l’uomo crea ed i cui lineamenti sono configurati in parte dalla sua stessa natura ed in parte dalle condizioni economiche, politiche, sociali, culturali e spirituali di un determinato periodo storico. Considerando, infatti, l’integrale struttura dell’edificio sociale, quali piani essenziali vi si trovano? C’è anzitutto il piano familiare dal quale ineluttabilmente si inizia l’architettura sociale; vi è poscia tutta la gradazione dei piani sociali con la molteplicità crescente e coordinata degli organismi nei quali gli uomini si associano nel progressivo svolgersi della loro personalità: essa va dalle esigenze prime dell’economia sino ai vertici supremi della vita culturale, spirituale e religiosa! Cosa deve fare una costituzione? È evidente: nella sua prima parte rispecchierà in sé – affermandoli – i fondamentali rapporti ed i fondamentali diritti della persona e dei gruppi sociali; nella seconda parte determinerà le strutture e i meccanismi dei poteri statali mediante i quali quei diritti e quei rapporti sono presidiati e ove occorra, integrati o addirittura sostituiti»20.

L’assetto di cui La Pira si fece sostenitore doveva basarsi su un tipo di costituzione definito personalista e pluralista, secondo le suggestioni riprese dai cattolici francesi ed arricchite con apporti personali. Cosa significassero i due termini risultava chiaro dall’esame delle tre parti fondamentali d’ogni carta costituzionale: la base teoretica, il corpo sociale e l’assetto giuridico. Per La Pira la base teoretica trovava il suo fondamento nella concezione della persona umana, un 20 G. LA PIRA, Premesse della politica e Architettura di uno Stato democratico, Firenze 2004, 194-195. La LEF ha ripubblicato, soprattutto negli ultimi due anni, tante opere di La Pira, ed è grazie a tale accortezza che si hanno a disposizione e ampiamente fruibili testi fondamentali per la comprensione del pensiero politico del professore fiorentino.


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delicato equilibrio tra realizzazione di interiorità ed esteriorità, tra esigenze personali e inestinguibile vita sociale con tutti gli organismi (familiare, territoriale, lavorativo, politico, culturale, religioso) preposti alla realizzazione del lato sociale e solidaristico della persona, sintetizzato dalla finalità al bene comune, comprendente il bene del corpo collettivo ed al suo interno il bene integrale della persona. Messa in luce la condizione personalista e solidale della persona, si sarebbe passati al corpo sociale, vero soggetto e motore dei cambiamenti necessari per adeguare la carta costituzionale alle esigenze dello Stato ed ai bisogni primari d’ogni cittadino. Accertato come il corpo sociale fosse formato da una molteplicità di componenti aventi una propria struttura, una propria autonomia, dei fini e dei diritti, derivava automaticamente la concezione che ogni persona dovesse possedere tanti status quante erano le comunità essenziali e le componenti sociali di cui egli faceva parte, lasciando spazio alla concezione pluralista che tendeva a salvaguardare individui e corpi sociali insieme, perché l’uno richiamante l’altro e mai secondo un processo di subordinazione. L’assetto giuridico corrispondente a tali esigenze era individuato prima di tutto nel riconoscimento e nella tutela dei diritti naturali della persona umana, quei diritti che avevano trovato accoglienza fin dalla tanto criticata Rivoluzione francese e che risultavano presenti nella Carta dei diritti dell’uomo redatta nel 1789. Questi stessi diritti andavano certamente integrati con il nuovo senso di diritto naturale essenziale e di pluralismo giuridico, quell’unità di libertà e socialità che La Pira desiderava estendere come definizione più completa e corretta, laddove oltre ai diritti delle singole persone andavano accolti e contemplati anche quelli delle comunità naturali, i cosiddetti corpi intermedi, organismi in cui aveva la possibilità di crescere e svilupparsi la personalità politica e sociale di ogni individuo. La Pira, a conclusione del suo intervento, citava esplicitamente le fonti e le correnti ideologiche alle quali si era potuto rifare nella stesura della proposta, tutti studiosi dell’ultimo secolo che si erano mossi nel desiderio di provare a correggere gli errori di matrice individualista e statalista che parevano inficiare i progetti costituzionali recenti. Tra le fonti si potevano ritrovare sia le correnti giuridiche del cattolicesimo tradizionale che quelle più avanzate (Toniolo, Sturzo,


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Renard, Hauriou, Maritain), il socialismo progressista di Gurvitch e Delos, e il nome di Emmanuel Mounier, il pensiero del quale fu in certo modo ripreso anche da altri esponenti dell’area sinistra DC. In particolare La Pira faceva riferimento a quello che egli definì il progetto Mounier, che in realtà consisteva in un testo elaborato dal filosofo francese nel corso della Resistenza, con lo scopo di rispondere all’assoluto bisogno di integrazione del principio personalista nella gamma dei diritti. Alla citazione delle sue fonti La Pira faceva seguire l’elenco, punto per punto, degli articoli sui rapporti civili con la richiesta che la costituzione in discussione fosse un trattato lungo ed analitico, aperto da una premessa dedicata ai diritti e sviluppato in modo tale da non lasciare dubbi sulla posizione democratica ed innovatrice che l’Italia desiderava fosse intrapresa per il bene del paese e delle sue future generazioni. Ancora, il politico fiorentino riteneva indispensabile che le norme costituzionali fossero riconosciute con qualità superiori rispetto alle leggi ordinarie, sigillo di garanzia riguardo al permanere delle loro validità, ed in modo che fosse richiesto un iter specifico per la modifica dei precetti base. Seguì un dibattito acceso e su posizioni contrapposte che durò due giorni, risolto dal febbrile lavoro di mediazione tra le parti e sugli inviti a badare alla sostanza più che alla forma della proposta21. La discussione finale consisté nella valutazione della bontà dei due articoli che, salvo piccoli cambiamenti, furono approvati nella forma scaturita dall’accordo tra La Pira e il socialista Basso22. 21 Il confronto maturò fino alla verificata bontà che gli articoli introduttivi della costituzione comprendessero una premessa contenente un’ideologia comune di stampo antifascista o afascista, con chiaro riferimento alla precedenza della persona rispetto allo Stato; inoltre si ritenne importante sottolineare il riconoscimento della necessaria socialità delle singole persone in riferimento al loro sviluppo all’interno delle comunità intermedie; cfr. P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), cit., 231-234. 22 Ecco come risultarono i due articoli al termine del lavoro della sottocommissione: art. 1: La presente Costituzione, al fine di assicurare l’autonomia, la libertà e la dignità della persona umana e di promuovere ad un tempo la necessaria solidarietà sociale, economica e spirituale, riconosce e garantisce i diritti inalienabili e sacri dell’uomo sia come singolo, sia nelle forme sociali nelle quali esso organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona; art. 2: Gli uomini, a prescindere dalla


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Alla formulazione dei due articoli principali facevano da corollario brevi interventi nei quali La Pira spiegava la struttura del progetto e proponeva brevi ma significative aggiunte in materia di diritti civili23. Anche in questa fase, come nelle discussioni dei mesi successivi, su diversi degli altri articoli (tutta la complessa legislazione sul mondo del lavoro; l’ammissibilità e la regolamentazione del diritto di sciopero; importanti commi sulla proprietà privata e pubblica; ed altro ancora) si poté rilevare una discreta concordanza tra i “professorini” e gli esponenti del mondo di sinistra, soprattutto in riferimento all’on. Togliatti. La mediazione era frutto senza dubbio della volontà di puntare a quei valori comuni che non potevano mancare in una fase tanto delicata della vita parlamentare e politica dello Stato, proprio perché la nascita di un regime democratico non doveva scaturire da un semplice compromesso tra le forze politiche, ma piuttosto nascere quale frutto dei risultati comuni raggiunti, nello sforzo di armonizzare le differenti ideologie e filosofie politiche in una carta costituzionale che tenesse conto delle crisi degli ultimi anni per non rischiare di ripeterle e potesse condurre l’intera società verso quelle continue evoluzioni nelle quali la maggioranza del Paese si sarebbe potuta riconoscere. Prova evidente di questo atteggiamento costruttivo si può riscontrare nell’utilizzo, tra le fonti del lavoro svolto in commissione, della Costituzione sovietica del 1936 (della quale ci si avvalse più volte per completare ed integrare altri strumenti giuridici e costituzionali) e del punto di riferimento rappresentato dalla dottrina sociale della diversità di attitudini, di sesso, di razza, di nazionalità, di classe, di opinione politica e di religione, sono uguali di fronte alla legge e hanno diritto a uguale trattamento sociale. È compito perciò della società e dello Stato eliminare gli ostacoli di ordine economico-sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza degli individui, impediscono il raggiungimento della piena dignità della persona umana e il completo sviluppo fisico, economico, culturale e spirituale di essa. 23 La Pira proponeva la salvaguardia della libertà personale; delle garanzie giurisdizionali e di principi in materia penale (compresi il divieto di pene crudeli e sanzioni collettive, nonché l’intervento contro la pena di morte); del diritto d’asilo; di libertà, di domicilio e corrispondenza; infine in materia di libertà di stampa, manifestazione e pensiero, temi particolarmente ricchi di significato, visti gli abusi e le violenze arbitrarie subiti durante il periodo fascista; cfr. G. LA PIRA, La casa comune, una costituzione per l’uomo, a cura di U. De Siervo, Firenze 1996, 38-45.


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Chiesa e le encicliche dei papi per le discussioni sul mondo del lavoro, tanto da far scrivere a Giovagnoli che «c’era un terreno culturale comune, da Pio XII a Togliatti, da Basso a La Pira, malgrado le ovvie diversità: quella che si potrebbe definire “l’ideologia del lavoro”»24.

In materia di diritto al lavoro, infatti, La Pira fece sentire il suo punto di vista, sempre avendo come scopo principale la sottolineatura della centralità della persona nel campo lavorativo, in continuo riferimento alla sua realizzazione professionale e umana25. La franchezza sulla quale si basavano i rapporti tra i rappresentanti DC e PCI risultò determinante anche nella codificazione degli articoli sui rapporti sociali (culturali), dove al gruppo dossettiano non mancarono indicazioni giunte direttamente dal Vaticano a proposito della pluralità nel mondo della scuola con la garanzia del pieno riconoscimento delle istituzioni private o l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, tutte materie di discussione in merito alle quali si fecero presenti i limiti di manovra nei quali i democristiani erano costretti a muoversi, vista la grande sensibilità che attraversava l’intero ambiente cattolico in riferimento agli argomenti inerenti l’istruzione ed il mondo della cultura. Sul tema della famiglia, altro A. GIOVAGNOLI, La cultura democristiana tra Chiesa cattolica e identità italiana, Roma-Bari, 1991, 200. 25 In quest’ottica si spiegano i brevi interventi sul diritto alla retribuzione e la necessità che questa fosse adeguata al lavoro compiuto; sul diritto all’esistenza di invalidi e inabili al lavoro, inteso come sostegno necessario non solo sotto forma di assistenza e previdenza socio-sanitaria, ma anche come strumento di riconoscimento del precedente operato del lavoratore; sul diritto al periodo di riposo lavorativo; sulla necessità di condizionare il diritto di proprietà in funzione della garanzia del diritto al lavoro; sull’opportunità di negare i diritti politici a coloro che risultassero inadempienti riguardo ai propri doveri lavorativi; sul diritto allo studio e all’istruzione professionale; sul diritto per i non abbienti a mantenere il posto di lavoro in caso di assunzione o richieste per cariche pubbliche temporanee; sull’ammissibilità e sulla dignità del lavoro intellettuale; sul riconoscimento del valore sociale anche alle attività contemplative, con l’evidente convinzione da parte di La Pira su quanto l’uomo andasse sempre valutato nella sua integrità di corpo ed anima, così da considerare anche le attività religiose di tipo ascetico alla stregua di un vero e proprio lavoro. 24


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punto cardine sul quale il Vaticano ed il Movimento cattolico insistevano fortemente, le discussioni furono piuttosto accese, soprattutto di fronte al concetto di indissolubilità del vincolo matrimoniale. La Pira, all’unisono con tutto il gruppo, si mosse in modo tale da ancorare gli articoli su motivazioni giuridiche e non solo confessionali, mostrandosi rispettoso verso chi, per militanza politica avversa, era portato a sostenere tesi opposte, ma al tempo stesso riproponendosi con molta fermezza quando si trattò di ricordare i principi cardine dell’istituzione famigliare, come nel momento in cui ricordava che ciascuno, pensando alla propria famiglia, non possa non convenire: 1) che sia una collettività organica di persone; 2) che, come tale, abbia una sua costituzione e una sua finalità; 3) che esistano dei diritti che ne regolano la struttura e le finalità, immanenti all’organismo familiare ed anteriori all’ordinamento statale. […] Dal fatto che la famiglia abbia una sua costituzione e dei diritti ad essa connessi, discende il criterio della indissolubilità del vincolo26.

Al di là del fatto che poi il termine indissolubile sarebbe stato stralciato, sebbene con una maggioranza risicata, nel corso della seduta plenaria dell’Assemblea Costituente, l’attenzione alle tematiche della famiglia portò La Pira a partecipare attivamente a tutta la discussione riguardante l’argomento, con continui interventi volti a rimarcare l’esigenza di una nuova definizione della famiglia come “società naturale”; nella ricerca di adeguati aiuti economici alle coppie in difficoltà, vista l’importanza del nucleo famigliare all’interno delle strutture economiche; nella garanzia dell’unità familiare tramite il privilegio da concedersi al padre (principio del primus inter pares); nella certezza che i due genitori dovessero disporre di adeguate finanze per il diritto-dovere di nutrire, educare ed istruire la prole. 26 La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, VI, Roma 1971, 632 ss. Riguardo all’interesse e la partecipazione con cui l’Azione Cattolica seguì le discussioni in Costituente vedi in particolare M. CASELLA, Cattolici e Costituente. Orientamenti e iniziative del cattolicesimo organizzato, Perugia 1987, 307-360.


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Altro argomento molto delicato si rivelò la discussione sull’articolo 5 (poi articolo 7 della Costituzione): rapporti tra Stato e Chiesa, tema sul quale Dossetti27 cercò di adoperare tutta la sua competenza nel mediare tra le diverse ideologie presenti in commissione, laddove le forze antifasciste avevano sempre considerato i Patti Lateranensi come una conquista dello Stato totalitario. La conferma degli accordi del Laterano costituiva un punto dirimente per il Vaticano, dal momento che la pacificazione religiosa con lo Stato italiano e il sistema di contrappesi giuridici era acquisizione recente e non appariva produttivo ridiscutere tutto a distanza di così poco tempo. Il gruppo dossettiano operò in modo da riproporre il concetto per cui, come membro della comunità internazionale, l’Italia avesse il dovere di riconoscere gli ordinamenti giuridici degli altri stati, ivi compreso quello della Chiesa, che, secondo la moderna dottrina ecclesiastica, individuava anche nell’ordinamento canonico il titolo di ordinamento giuridico originario; il tutto per evitare successivi fraintendimenti e garantire eguale indipendenza e sovranità alla Chiesa e allo Stato28. 27 Per avvicinarsi ad un tema tanto delicato Dossetti, che era relatore con il demolaburista Cevolotto, preparò non una vera e propria relazione, ma un documento giuridico che risultava costituito da 11 articoli commentati divisi in due parti: una di sette articoli inerente “Lo stato come ordinamento giuridico e i suoi rapporti con gli altri ordinamenti”; l’altra di quattro articoli con titolo “Libertà di opinione, di coscienza e di culto”. Nella prima parte il professore di diritto ecclesiastico intendeva dare un ordine compiuto alle legislazione ed alle strutture giuridiche che avrebbero caratterizzato gli organi statali e, di riflesso, i rapporti successivi di questi con gli altri ordinamenti; la seconda, invece, avrebbe dovuto regolamentare tutta la materia concernente i rapporti con le altre confessioni religiose o l’esistenza di associazioni laiche che intendessero cercare un riconoscimento nell’ampio spettro dello Stato italiano. Per la discussione sul problema dei rapporti Stato-Chiesa si veda P. POMBENI, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), cit., 249-261. 28 Il vero cardine del discorso e dell’impianto preparato da Dossetti risultava essere il sesto articolo, secondo il quale «le norme di diritto internazionale, come gli accordi attualmente in vigore tra lo Stato e la Chiesa e gli altri che, eventualmente, secondo le modalità previste dalla presente Costituzione venissero stipulati in avvenire, fanno parte dell’ordinamento dello Stato senza che occorra emanarle con apposito atto. Le leggi dello Stato non possono contraddirvi»; cfr. P. POMBENI, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), cit., 252. Ci si rifaceva agli ordinamenti giuridici di altri paesi che fino a quel momento avevano già recepito la norma: la Germania di Weimar, Spagna, Svizzera ed Estonia. Alcuni interventi di


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Anche La Pira contribuì in modo determinante alla discussione, poiché riteneva indispensabile si riaffermassero due concetti: libertà religiosa per tutti; rapporti bilaterali fra i due ordinamenti originari della chiesa e dello stato. Per una inaspettata coincidenza, presso casa Montini (sua saltuaria dimora fin dal periodo della repressione fascista) La Pira ebbe modo di consultare un vecchia enciclica di Leone XIII, la quale parve offrire una possibilità concreta di risoluzione della situazione di impasse. Scrisse La Pira ad un amico molti anni dopo, ricordando quei momenti: Ricordi quella mattina dell’autunno, credo, 1946? In casa Montini, nella biblioteca Montini, La Pira prende un libro: lo apre: viene fuori il testo della Immortale Dei (se non sbaglio) di Leone XIII nel punto ove si distinguono le due sfere Chiesa-Stato (utraque est in suo genere maxima). Il testo latino viene tradotto in italiano da Monsignor Montini: il testo italiano viene poi presentato a Togliatti (che lo approva): e diventa così l’art. 7 della Costituzione italiana29.

La formula del primo comma con cui ci si presentò in commissione suonava in questa maniera:«Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». La Pira la ripropose a Togliatti che la approvò sentendola maggiormente vicina alla sua sensibilità e a Tupini che, in qualità di presidente della commissione, la mise ai voti, ottenendo una larghissima maggioranza sottolineata anche dall’intervento con parere positivo espresso dal comunista Marchesi. Sul secondo comma, riguardante la conferma dei Patti Lateranensi e dei suoi contenuti, risultò determinante la convergenza tra la componente degasperiana della DC e i partiti conservatori, che ottennero un voto di maggioranza risicato (10 a 7 a favore)30 dopo un Dossetti in merito all’articolo 5 sono contenuti in A. MELLONI (cur.), Giuseppe Dossetti. La ricerca costituente (1945-1952), cit., 241-258. 29 Stralcio ripreso da una lettera di La Pira ad un amico in data 8.8.1964; cfr. G. La PIRA, La casa comune, una costituzione per l’uomo, cit., 52-53. 30 Fatto votare, il testo del comma: «I loro rapporti sono regolati dai patti lateranensi» ottenne una maggioranza di 10 a 7, lasciando però scontenti parecchi deputati di entrambe le parti, dal momento che la formula non recepì né le richieste di


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acceso dibattito sulla necessità di mantenere la pacificazione religiosa. Nonostante le polemiche, che continuarono nel corso dei successivi passaggi, tanto la Commissione dei 75 che la seduta plenaria mantennero gli articoli nella stessa veste. Con la votazione inerente al rapporto tra Stato e Chiesa di fatto si chiuse il lavoro della prima sottocommissione (salvo l’approvazione di alcuni articoli minori); e sebbene le posizioni politiche portate avanti dalla nascente corrente dossettiana risultassero minoritarie all’interno del partito, è indiscutibile che il lavoro svolto da La Pira, Dossetti e Moro fosse di grande competenza, dal momento che gli articoli, nel corso dei vari passaggi, subirono semplificazioni nella forma e minimi, corposi aggiustamenti, assicurando nella sostanza una base di discussione e di valutazione completa e soddisfacente per la redazione del testo finale. Oltre l’intenso lavoro in commissione, La Pira si fece apprezzare per alcuni altri importanti interventi nel corso delle sedute in plenaria. Nella Commissione dei 75 numerose volte chiese la parola, come ad esempio in occasione della seduta del 28 novembre 1946, in cui si alzò dai banchi del Parlamento per rimarcare quale fosse il disegno architettonico che sottendeva il progetto costituzionale preparato nelle sottocommissioni e per spiegare la metodologia di lavoro che si era cercato di seguire, difendendo il lavoro dalle critiche di chi lo vedeva eccessivamente ampio e “figlio” di compromessi politici. La Pira interveniva con il convincimento che una costituzione avesse il fondamentale compito di tracciare una rotta istituzionale, fissare delle norme di convivenza civile e descrivere un modello di sistema eticopolitico, il quale doveva garantire come ogni disposizione fosse compatibile con le strutture politiche, economiche e sociali dello Stato. L’analisi di La Pira era centrata sulla certezza che fosse la realtà stralciare i patti portate avanti compattamente dalla sinistra, né prese in considerazione anche uno dei punti per i quali Dossetti si era battuto maggiormente, quello relativo alla connessione del Concordato al sistema di diritto internazionale, tanto che ancora oggi la materia concordataria risulta essere un sistema giuridico a sé stante, senza un debito inserimento in un impianto vitale di diritto. In merito alla votazione cfr. P. POMBENI, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (19381948), cit., 258-260.


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multiforme del presente a suggerire un approfondimento dei piani di lettura ed un lavoro giuridico ampio, articolato, frutto di uno studio sistematico e conoscitivo sugli errori del passato, contenente una parte etica e dottrinale che potesse spiegare ai cittadini il valore dei propri doveri, l’ampiezza dei propri diritti, la pregnanza delle scelte individuali rapportate a quelle della comunità civile. Altri interventi, solo citati per motivi di spazio, furono compiuti per difendere l’importanza degli enti associativi, organismi intermedi da salvaguardare quale motore di uno stato pluralista; per riaffermare l’importanza che il Senato del futuro Parlamento fosse espressione delle classi produttive, interpreti principali della crescita e del consolidamento del Paese (tema attualissimo nell’odierna riforma dell’ordinamento costituzionale su cui si confrontano le coalizioni). Durante la discussione generale in plenaria, invece, restano da rimarcare almeno due interventi significativi operati da La Pira. All’interno di un’assemblea nella quale si riproponevano lo scontro politico e la sterile opposizione preconcetta di puro e semplice schieramento, l’11 marzo 1947 egli si alzò per difendere l’impianto costituzionale dall’accusa di essere figlio di un totale compromesso tra democristiani e comunisti. Chiedendo di essere considerato non come uomo di parte ma in veste di esperto del mondo giuridico, La Pira analizzò la crisi cresciuta in seno all’Europa con l’affermarsi del suo volto autoritario, crisi costituzionale vasta che includeva l’intera civiltà contemporanea, la quale andava analizzata e compresa, ma verso la quale bisognava in ogni caso porsi con l’atteggiamento di trovare una soluzione forte e duratura. Una costituzione non presentava segnali di crisi nel momento in cui si presentasse buona proporzione fra l’assetto giuridico e quello umano-personale, tra edificio costituzionale e rapporti sociali. Ma a deporre in favore della validità e della durata di una costituzione era essenzialmente la propria radice teoretica, un indirizzo filosofico ben determinato di stampo socio-politico. Se la Costituzione del 1789, ad esempio, aveva alle spalle l’opera di Rousseau (Il Contratto Sociale fu «il catechismo, la base sulla quale la Costituzione del 1789 fu edificata»31); la 31

Da un intervento di La Pira in Assemblea Costituente in data 11 marzo 1947;


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Costituzione sovietica una teoretica di radice marxista e, dei due esempi costituzionali italiani uno, lo Statuto Albertino, affondava le sue radici in terra di Francia e l’altro, una costituzione non scritta ma elaborata compiutamente in tutte le sue parti dal regime fascista, si legava direttamente al pensiero individualista e statalista tratto dalla teoretica di Hegel, la nuova Costituzione doveva cercare di evitare gli errori del passato per puntare ad un percorso nuovo. Come fare?: «Cerchiamo questo tipo nuovo che evita le carenze dei due tipi in crisi. Se è vera la tesi che il primo ed il secondo tipo sono sbagliati, evidentemente dobbiamo cercarne un altro. Ma come lo cercheremo, con quale criterio? Con un criterio semplice: la proporzione. Bisogna che l’assetto giuridico sia proporzionato a quello sociale e quello sociale abbia una base teoretica salda. Ora, vedete, non c’è dubbio che in questi ultimi 10 anni, l’esperienza fascista, con tutte le sue tragiche cose, ha avuto come contrapposto un risultato, ed è questo: […] si resisteva sulla trincea della persona umana; ma non della persona umana considerata soltanto in astratto, come una questione di natura puramente celestiale ed eterea, ma come la pietra angolare dell’edificio politico»32.

Il modello costituzionale proposto stava nascendo a seguito delle violente battaglie ideologiche degli ultimi vent’anni, basandosi sulla persona umana come base teoretica, su una struttura pluralista ed un assetto giuridico che portasse in sé, come punto equilibratore, la convinzione di percorrere la strada migliore proprio nella misura in cui la carta si fosse occupata dei diritti e delle esigenze della persona e, al tempo stesso, della crescita equilibrata di un sano pluralismo sociale: «Se è vera questa struttura pluralista del corpo sociale, la conseguenza è questa: l’assetto giuridico non può essere né individualista, né statalista; è un assetto giuridico pluralista, che ha come conseguenza che la cfr. G. LA PIRA, La casa comune, una costituzione per l’uomo, cit., 238. In merito all’intervento di La Pira vedi anche P. POMBENI, La Costituente. Un problema storico-politico, cit., 129-131. 32 G. LA PIRA, La casa comune, una costituzione per l’uomo, cit., 242.


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Carta integrale dei diritti dell’uomo non è quella del 1789. Lì vi sono alcuni diritti dell’uomo, ma ne sono ignorati altri e fondamentali: i diritti sociali, cioè i diritti che sono collegati alla persona umana, non in quanto singolo, ma in quanto membro di queste collettività crescenti che vanno dalla famiglia allo Stato. Una Carta integrale dei diritti dell’uomo non può essere una carta dei diritti individuali, ma accanto ad essi deve porre questi diritti sociali, e quindi i diritti delle comunità e delle collettività di cui gli uomini fanno parte necessariamente per lo sviluppo della loro persona. Ecco, quindi, questa Carta costituzionale che vi appare come nuova, integrale, pluralista dei diritti»33.

La Pira concludeva riaffermando il valore del dettato costituzionale in esame, definendolo non certo frutto di logiche partigiane ma arricchito dal principio di proporzionalità e dall’attenzione all’equilibrio dello Stato in armonia alle esigenze della persona (comprese le radici cristiane che nei secoli avevano contribuito non poco a tale definizione); inoltre confermava la necessaria salvaguardia della laicità dello Stato pur difendendo l’esigenza di ratifica dei Patti Lateranensi, considerati una delicatezza politica in vista del mantenimento della pace religiosa. L’esistenza di un certo sentire comune venne sanzionata anche dalle parole pronunciate di seguito da Togliatti: «Meglio sarebbe dire che abbiamo cercato di arrivare ad una unità, cioè di individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse, ma un terreno comune che fosse abbastanza saldo perché si potesse costruire sopra di esso una Costituzione, cioè un regime nuovo, uno Stato nuovo e abbastanza ampio per andare al di là anche di quelli che possono essere gli accordi politici contingenti dei singoli partiti che costituiscono, o possono costituire, una maggioranza parlamentare. Ritengo questo sia il metodo che doveva e deve essere seguito se si vuol fare opera seria, e sono lieto che immediatamente prima di me abbia parlato l’onorevole La Pira, il cui discorso, nonostante le frequenti citazioni latine, io ho ascoltato con appassionato interesse, perché mi è parso che nella prima parte della sua esposizione l’onorevole La Pira 33

Ibid., 245.


Il contributo di La Pira alla formazione del dettato costituzionale 255 abbia dato un contributo molto efficace per scoprire non solo quale è la via per la quale noi siamo arrivati a questo tipo di costituzione e a determinate formulazioni concrete, ma anche quale è la via per la quale siamo arrivati a quella unità che ci ha permesso di dettare queste formulazioni»34.

Il segretario del PCI utilizzava la parola unità per sintetizzare come la franchezza ed a volte l’asprezza del confronto li avesse comunque condotti, attraverso un dialogo continuativo, ad un progetto costituzionale che rappresentava in modo eloquente diverse sensibilità. Furono posizioni come queste, vicine alla linea programmatica scelta dal partito, che in definitiva incoraggiarono il pronunciamento favorevole dell’intera assemblea anche verso temi fortemente controversi come l’inclusione dei Patti Lateranensi. Infine, risulta sintomatico, perché in linea con il tenore politico dell’esperienza costituente del deputato La Pira, riportare in quale modo si svolse la dinamica della sua ultima richiesta fatta in plenaria a poche ore dal voto sull’intero dettato costituzionale. La sera precedente La Pira aveva presentato al Presidente della Costituente, il comunista Terracini, la richiesta che fosse discussa la possibilità di inserire, in qualità di preambolo all’intera costituzione, una formula che riportasse queste esatte parole: In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione. Nonostante si fosse al limite temporale consentito, si procedette alla discussione parlamentare. Il politico fiorentino si era preoccupato di mettere al corrente circa la sua richiesta i capigruppo dei singoli partiti e, tramite loro, tutti i deputati presenti in assemblea; per questo esponeva il suo pensiero ad un assise già consapevole del gesto che avrebbe compiuto, per l’approvazione del quale non gli sembrava di riscontrare alcuna particolare controindicazione. Invece il fuoco di fila dei pareri contrari non si fece attendere. Per Togliatti, Marchesi e Calamandrei non si doveva mettere in pericolo l’unità di intenti della componente politica a poche ore dal voto finale; per Nitti non si 34

Intervento di Togliatti nella seduta dell’11 marzo 1947, in P. TOGLIATTI, Discorsi parlamentari (1946-1951), Roma 1984, 62-63.


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poteva mettere ai voti il riferimento alla figura di Dio; diversi dei democristiani parvero non volersi impegnare nella difesa del tentativo di La Pira, che venne accusato di misticismo e ingenuità. Questi cedette, ma non senza esprimere un certo rammarico: «A me non resta che partire dal presupposto e dal punto di vista dal quale mi ero mosso, e cioè che vi fosse una unità, un consenso in tutta l’Assemblea. Ma evidentemente se questo consenso non vi fosse, e vi dovessero essere motivi di screzio profondo, di disunione fra gli animi, non so veramente cosa dire, perché ciò va contro il punto di vista dal quale ero partito. Ripeto: perché ho presentato quella proposta? Perché sapevo che sarebbe stata presentata in altro modo e avrebbe allora provocato un profondo dissenso in seno all’Assemblea Costituente. E allora mi sono fatto portatore di pace e di unità. Ma se la pace e l’unità non si possono raggiungere, che cosa devo dire? […] Francamente, se tutto questo dovesse produrre la scissione nell’Assemblea, io per conto mio non posso dire che questo: che ho compiuto secondo la mia coscienza il gesto che dovevo compiere»35.

Il politico toscano si ritirava senza alimentare polemiche e senza manifestare particolari atteggiamenti di critica, pur soffrendo per l’impossibilità di marcare la Costituzione italiana con un richiamo spirituale che le avrebbe dato sostanza e autorità, secondo un’esigenza che, a suo dire, risultava essere così comune e famigliare alla sensibilità e alle scelte dell’assoluta maggioranza del popolo italiano. È certamente vero che La Pira raramente si tirava indietro quando si trattava di manifestare le proprie radici culturali ed intellettuali, anche in riferimento a disegni di legge o proposte specifiche; tuttavia pare azzardato etichettare l’impegno di La Pira come “clericale” e “spiritualista” (di questo tenore furono le repliche di altri deputati o di numerosi quotidiani di marca liberale nei giorni successivi) solo per il fatto di non aver nascosto la propria appartenenza religiosa.

35 G. LA PIRA, La casa comune, una costituzione per l’uomo, cit., 274-275. Sull’episodio del preambolo alla Costituzione vedi anche G. CAMPANINI, Cattolici e società, fra dopoguerra e postconcilio, cit., 39-40.


Il contributo di La Pira alla formazione del dettato costituzionale 257

La Costituzione, i 139 articoli che ne componevano il testo, venne approvata definitivamente con votazione a scrutinio segreto tenutasi il 22 dicembre 1947 e che vide, tra i 515 deputati aventi diritto al voto, 453 esprimere un voto favorevole e 62 voto contrario. Sebbene quella che entrò in vigore dal 1° gennaio del 1948 non fu la Costituzione nella sua integrità36, ad un Paese appena uscito dalla traumatica esperienza della guerra e da un ventennale regime autoritario era difficile chiedere più di quel che venne realizzato, assecondando la convinzione che il futuro avrebbe portato a maturazione quei frutti che al momento si sperava di aver seminato. La fine dei lavori, a votazione conclusa, portò con sé inevitabilmente giudizi e prese di posizione. Se in Vaticano ed in seno al movimentismo cattolico serpeggiava un moderato senso di soddisfazione, dal momento che alcuni risultati fondamentali si ritenevano raggiunti, La Pira sulle colonne de «Il Popolo» esprimeva soddisfazione, pur non tacendo i limiti dell’esperienza appena conclusa: «Cosa pensare del testo costituzionale ieri approvato? A me pare che si possa rispondere così: il testo costituzionale presenta indubbiamente qua e là lacune, ridondanze e disarmonie: e tuttavia queste deficienze non infirmano quel giudizio positivo che può e deve essere dato se si considera l’edificio costituzionale nel suo insieme e se si mettono in debita luce le linee essenziali e caratteristiche della sua architettonica […]»37.

Dagli altri schieramenti politici non si levarono cori unanimi di consenso: tanto a destra che a sinistra si fu portati a sottolineare le mancanze, i compromessi al ribasso che non puntavano al bene della 36 Diverse parti, come ad esempio il valore politico ed amministrativo delle nuove istituzioni regionali o l’esatta composizione e funzionalità della Corte Costituzionale, etc. hanno trovato piena esecuzione solo in un secondo tempo. Per un’analisi riguardo alla Costituzione e alle sue incompiutezze vedi P. CALAMANDREI, Questa nostra Costituzione, Milano 1995; M. PIZZORUSSO, La Costituzione. I valori da conservare, le regole da cambiare, Torino 1996. 37 G. LA PIRA, Un lavoro compiuto, in Il Popolo del 23.12.1947; cfr. R. RUFFILLI, Costituente e lotta politica. La stampa e le scelte costituzionali, Firenze 1978, 79.


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nazione; si sottolineava che mentre la gente non pareva curarsi di quanto successo in sede costituente, tutte le riforme, da quelle economiche a quelle sociali, rimanevano tra i progetti da ideare e realizzare. In aggiunta, anche quei partiti che maggiormente si erano spesi per garantire un lavoro coerente di collaborazione e di confronto nella scrittura del testo, PCI su tutti, per bocca del proprio leader Togliatti distingueva l’esperienza fatta in due periodi diversi: il primo all’insegna del lavoro concorde tra le diverse componenti partitiche; il secondo decisamente più travagliato e figlio delle decisioni dell’esecutivo De Gasperi che aveva posto fine all’avventura del governo tripartito DC-PCI-PSI, anche per la variabile della presenza statunitense che “vigilava” sul processo democratico in atto in Italia. In un contesto simile La Pira ed il gruppo della Cattolica si trovarono in minoranza dentro il partito, quella DC che spesso non rappresentava un coro unanime ma un organismo dalle molte componenti tra la destra e la sinistra delle sue correnti, in aggiunta sollecitata da più parti in occasione di un avvenimento tanto centrale come fu la Costituente. Di fronte al pontificato di Pio XII, tutto incentrato sull’opportunità di una supremazia sempre più consistente della dottrina sociale della Chiesa, le critiche che piovevano dal cuore della cristianità nascevano sull’onda dell’irritazione per il lavoro svolto in eccessivo accordo con i comunisti, ma anche per i mancati risultati nel campo del libero insegnamento, dei finanziamenti alle scuole private, della tutela del valore della famiglia. Tante realtà messe insieme hanno fatto emergere la convinzione che il progetto costituzionale sia rimasto in qualche modo inattuato, che la prima parte teorico-pratica sui diritti come sui valori non abbia trovato eguale riscontro in quelle seguenti, a volte troppo sbilanciate nell’evidenziare le esigenze del singolo contro quelle della comunità, la carenza di equilibrio tra i poteri dello Stato, la mancanza di rappresentatività di tutte le componenti statali (lavorative e associative) all’interno del Parlamento, etc. Da ciò la necessità di riforme costituzionali che ha attraversato e, probabilmente in modo corretto, continua ad attraversare i pensieri di uomini di governo, esperti di diritto, funzionari a più vari livelli e che alimenta un dibattito politico non sempre sereno ed obiettivo rispetto alle priorità e alle doverose riforme sulle quali fermare l’at-


Il contributo di La Pira alla formazione del dettato costituzionale 259

tenzione ed il lavoro del personale di Stato e della comunità civile. Va recuperato e tenuto presente il livello di maturità e di consapevolezza che animò tutto il primo anno di lavoro dentro l’Assemblea Costituente, periodo nel quale membri di partito, tecnici di settore, non dimenticarono che per mettere mano a determinati cambiamenti fosse necessaria una prova politica di solidarietà e di disponibilità, pronta anche a giungere ad un accantonamento delle differenze e degli scogli ideologici pur rispettando e salvaguardando come risorsa le differenze partitiche. Queste precisazioni sono funzionali alla sottolineatura che verificati difetti e comprensibili amarezze non possono sminuire la portata di un impegno che centrò l’obiettivo di dare una costituzione democratica allo Stato italiano e che Melloni ha definito come «un momento nel quale uomini e movimenti — selezionati non dal desiderio di rafforzare un interesse costituito, ma dalla ricerca della libertà a rischio della vita — hanno dato voce alla miglior cultura costituzionale occidentale»38.

Infine, è utile rilevare come l’impegno di molti politici cattolici, e La Pira tra costoro, si mosse seguendo comunque una certa autonomia, vincolati principalmente alla propria coscienza e alle personali priorità e convinzioni politiche, che se per un certo verso subivano le sollecitazioni e le pressioni della Santa Sede, tuttavia preparavano il terreno a quella che sarebbe stata un’importante sottolineatura del Concilio Vaticano II, laddove si ebbe modo di riconoscere come operante ma sempre più auspicabile una autodeterminazione da parte dei laici impegnati nella ricerca del bene comune, affinché con la propria assunzione di responsabilità potessero rendere un migliore servizio alla società ed alla Chiesa stessa. Con quasi 15 anni d’anticipo rispetto al decisivo Conclave, La Pira poté saggiare la credibilità che sarebbe stata alla base di quel concreto invito pastorale; e lo fece nello stesso campo di prova, la politica al servizio della società, e con le stesse caratteristiche, dialogo tra i partiti e necessario recupero di 38

A. MELLONI, Giuseppe Dossetti, La ricerca costituente (1945-1952), cit., 59.


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competitività , che, tra ricostruzioni, adeguamenti e riforme, richiese un suo forte impegno amministrativo e politico tanto nelle istituzioni nazionali come nella giunta del comune di Firenze, alla ricerca della giusta misura, a destra come a sinistra, del motivato compromesso per puntare alle esigenze dell’ora, alle urgenze imposte dalla società e alle scadenze proposte dalla storia.


Synaxis 1 (2009) 261-298

LA COSTRUZIONE DEL SEMINARIO DEI CHIERICI A CATANIA (dai primi dell’Ottocento alla fine del Novecento)

SALVO CALOGERO*

1. LE TRASFORMAZIONI OTTOCENTESCHE Nel 1793 il vescovo Corrado Maria Deodato scrisse al Santo Padre: «I superiori e i professori dell’ampio seminario operano con diligenza ogni giorno per la formazione dei giovani candidati al sacerdozio»1, confermando che l’edificio del Seminario era completo in tutti i suoi corpi di fabbrica. I lavori eseguiti nel Seminario dei Chierici ai primi dell’Ottocento riguardarono, prevalentemente, trasformazioni di magazzini e botteghe collocati nella «fabbrica nova alla marina»2. Questo corpo di fabbrica del seminario fu rappresentato da Sebastiano Ittar nel 1817 nella veduta della parte meridionale di Catania3, dalla quale si evincono i corpi di fabbrica esistenti a quella data (fig. 1).

*

Ingegnere specializzato nel restauro di edifici strorici e monumentali. Relazione del vescovo Corrado Maria Deodato il 6 novembre 1793 (traduzione A. LONGHITANO, Le Relazioni “ad limina” della diocesi di Catania [1779 – 1807], in Synaxis 12 [1994] 403). 2 Lavori eseguiti nel 1815, per il «novo magazinello alla marina». (A.S.S.A. CT, Sezione Amministrativa — Ven.le Seminario de Chierici di Catania — Giornale d’Introito ed Esito del Mese Settembre II ind. 1813 a tutto agosto II ind. 1814 e in esso giornale III ind. 1814 a tutto agosto 1815). 3 L’acquaforte è stata riprodotta in G. DATO, La città di Catania forma e struttura 1693-1833, Roma 1983, 149. 1


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Dalla pianta di Catania dello stesso Sebastiano Ittar4 del 1833 si evince, inoltre, la situazione esistente in quel momento; in particolare non è disegnato l’arco di S. Cristoforo — successivamente chiamato della Pescheria — e neanche il collegamento della via Pardo con la marina (fig. 2).

Fig. 1 – Particolare di “Catania – Veduta della parte meridionale” (S. Ittar, 1817).

4

La stampa fu prodotta come foglio sciolto a Parigi nel 1833. L’esemplare qui mostrato si conserva al Museo civico di castello Ursino di Catania, n. 65/3. Il museo conserva anche la lastra di rame. Questo esemplare è conservato intatto, mentre il più noto, esistente presso le Biblioteche Riunite Civica e Ursino Recupero, è colorato sul costruito di acquarello rosso che, coprendo i numeri di riferimento e altri segni, rende illeggibile molte parti della pianta (G. PAGNANO, Il disegno delle difese, Catania 1992, 120, scheda 22).


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Fig. 2 – Particolare della pianta topografica di Catania (S. Ittar, 1833).

Nel 1835 il Comune ebbe la necessità di demolire alcuni fabbricati di proprietà del seminario — tre case terranee appoggiate alla cortina — per l’apertura del nuovo arco di comunicazione della piazza della Pescheria con la Marina5. Queste case vennero demolite nel 1837 e, inoltre, con dispaccio del 25 ottobre 1838 lo stesso Comune intimò al vescovo di demolire altre fabbriche fatte sulle mura. Quindi l’attuale arco della Pescheria, ricavato prolungando l’arco di San Cristoforo, aprendo un varco nella cinta muraria, fu realizzato in questo periodo (fig. 3). 5

A.S.S.A. CT, Sezione legale, b. A 29 – citato in S. BARBERA (cur.), Recuperare Catania, Roma 1996, 308-311.


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Fig. 3 – Arco della Pescheria (foto di G. Leone, 1992).


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Questa apertura si aggiungeva alla porta dei Canali (detta anche di Carlo V), già esistente lateralmente all’arco di San Cristoforo che, alla fine del Settecento, fu coperta superiormente dal piano di calpestio del refettorio incassandola nel nuovo prospetto (fig. 4).

Fig. 4 – Cantonale sud-ovest del palazzo dei Chierici.

Con atto di appalto del 17 aprile 1839, rogato dal notaio Giuseppe Maria Ursino, furono eseguiti i lavori «in detta Casa Seminario Chierici per parte di levante alla Galleria della Marina sotto la direzione dell’ingegnere Mario Musumeci»6, mentre nel 1845 6 «lavori eseguiti in detta Casa Seminario Chierici per parte di levante alla Galleria della Marina sotto la direzione dell’ingegnere Mario Musumeci (atto di appalto del 17 aprile 1839 rogato dal notaio Giuseppe Maria Ursino): / Muro di


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l’architetto Andrea Vinciguerra diresse i lavori dell’«ultimo piano, detto quarto della Villeggiatura»7. Nel frattempo, nel 1843, il seminario stipulò una convenzione col monastero di S. Agata possessore del mulino addossato alla cortina di piazza Pescheria, presso le cucine dello stesso Seminario, per regolare l’apertura di alcune finestre da parte di entrambi8. Il 22 aprile 1846 un terremoto colpì Catania danneggiando molti edifici, ma i danni subiti dal nostro edificio non furono rilevanti9. I deputati del seminario, insieme alla riparazione dei danni provocati dal sisma, colsero l’occasione per trasformare i magazzini della marina in botteghe, su progetto dello stesso architetto Vinciguerra e la direzione lavori dell’ingegnere Salvatore Fragalà Battaglia10, che li seguì per tutto il 1847, fino al 184811. I lavori riguardarono «alcune restaurazioni a farsi in più botteghe dello stesso Seminario, e nel palazzo di prospetto a mezzogiorno, che dalla parte d’oriente confina colle case del Priorato»12. levante, dedotte le fabbriche vecchie ed incluse le testate / Muro di tramontana, dedotte parimente le vecchie fabbriche» (A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa, Conti e carte varie 1820-1867). 7 L.c. 8 A.S.S.A. CT, Sezione legale, b. P. 58 – citato in S. BARBERA (cur.), Recuperare Catania, cit., 310. 9 Già nel 1818 Catania era stata colpita da un altro terremoto. Le fabbriche del seminario subirono danni ammontanti a 600 onze, di cui non è stata reperita la contabilità dei lavori (E. BOSCHI – E.GUIDOBONI, Catania terremoti e lave dal mondo antico alla fine del Novecento, Bologna, 2001, 198). 10 12 aprile 1847: acconci e ripari diversi a don Salvatore Fragalà Battaglia ingegnere onze 8 che cedono onze 2.23 per di lui indennità ragionate al 5% su la spesa delli riattamenti fatti a causa del tremuoto del di 22 aprile 1846 specialmente nel refettorio di questa nostra Casa, ed onze 5.7 acconto dei progetti da lui fatti per mio ordine delle opere da eseguirsi in questa nostra casa (A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa, Registro dei Mandati dal 2 dicembre 1844, c. 57 v.). 11 A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa, Conti e carte varie 1820-1867. 12 «io infrascritto Ingegnere, per espresso incarico di questo Rev.mo Can.co Sig.r don Giovanni Guttadauro, Rettore del Seminario de’ Chierici, mi faccio a riferire la spesa necessaria per alcune restaurazioni a farsi in più botteghe dello stesso Seminario, e nel palazzo di prospetto a mezzogiorno, che dalla parte d’oriente confina colle case del Priorato. Catania il 30 Giugno 1848. Salvatore Fragalà Ingegnere» (A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa, Conti e carte varie 1820-1867).


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Un altro evento sismico colpì Catania l’11 gennaio 1848, danneggiando maggiormente l’edificio. I danni all’edificio furono descritti nella relazione redatta dallo stesso Fragalà Battaglia il quale era diventato tecnico di fiducia dei deputati del seminario. Nella suddetta relazione, oltre a individuare il quadro fessurativo prodotto dal sisma nell’edificio, il Fragalà descrisse gli ambienti dove si trovavano le lesioni, concentrate soprattutto nella «fabbrica nova alla marina». Da questa descrizione è possibile individuare: la “camera così denominata della campana”; la “stanza ad est della precedente”, che aveva un finestrone che si affacciava sulla marina, precisamente il “2° finestrone (procedendo da occidente ad oriente)”; il “Salone che giace ad est dell’atrio”; il “salone a nord-ovest” con tre balconi che si affacciavano ad ovest, probabilmente su via Etnea, e uno a nord; la “stanza ad oriente del salone”; il “salone a nord della ridetta stanza”; la “stanza a nord-est nel quarto di abitazione del sig. Rettore” con il “muro di prospetto a mezzogiorno”; la “stanza a sud delle precedenti” e la “camera sottostante alla cappella”. Tutti questi ambienti erano coperti da volte in pomice e gesso. Il riempimento delle reni e l’esistenza di controvolte sull’estradosso, sta ad indicare che si trattava di volte portanti sopra le quali vi erano ambienti calpestabili. Questa situazione strutturale dei luoghi fu segnalata dallo stesso ingegnere Fragalà Battaglia che scrisse: «Frattanto mi è venuto fatto di osservare la più parte delle volte, oltre a quella della camera sottostante alla cappella, trovasi gravate alle reni dall’enorme peso di una gran quantità di materiale a grave discapito della stabilità del Sistema; e che nel coverto della camera della campana, parimente che in quella delle stanze a settentrione, vi hanno molti legni infracidati, i quali vengono sostenuti da puntelli verticali, che tutti poggiano sulle volte sottostanti».

Nel piano superiore si trovava la cappella coperta da volta in gesso e canne, chiamata «centina della volta a graticci», con «l’intosta a mezzogiorno […] notabilmente fuori piombo». Inoltre è descritta la


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cucina che prospettava a est e il salone a nord-ovest (nell’ultimo piano superiore) in cui «la volta trovasi interrotta da un arco in pietra di taglio che vedesi rotto in tre parti». L’ingegnere formulò la seguente ipotesi progettuale: «Premesso le quali cose, è mio divisamento doversi demolire le controvolte all’estradosso delle volte della camera sottostante alla cappella, e le altre volte onde ricostruirle con pomice e gesso; atterrare le intoste che poggiano sulla volta del salone che giace ad oriente di quello di prospetto a nord-ovest come altresì l’intosta a mezzogiorno della camera della cappella; sgombrare dalle volte tutto il materiale onde vengono sopraccaricate e sostituirvi un riempimento di pomici da scegliersi tra le più leggiere, abbattere la parte orientale della volta della camera della campana e ricostruirla con pomici e gesso; togliere via tutti i puntelli verticali che poggiano sulla volta della camera della campana, e sopra quelle delle stanze a settentrione, sostituendo nei coverti nuovi legni a quelli che sono infracidati, ovvero prossimi a rompersi atteso il grado di loro inflessione; diroccare la volta della stanza la quale giace ad oriente del salone a nord-ovest nel 2° piano superiore, e sostituirvi un solaio; demolire nel salone a nord-ovest nell’ultimo piano superiore quella porzione di volta che dalla parte verso mezzogiorno vien terminata dall’arco in pietra da taglio, e ricostruirla con graticci e gesso; atterrare quell’arco onde ricostruirlo con canne, che verranno collegate a’ muri di legname; inzeppare a bagno di gesso tutte le lesioni qui in giro descritte, tranne quelle delle volte a demolirsi, e le fenditure che si appalesano nel muro ad oriente della cucina, nel muro a mezzogiorno della stanza che giace ad est della camera della campana e nell’angolo a sudovest del salone a nord-ovest nell’ultimo piano superiore, le quali esigono un risarcimento di fabbrica con pezzi allacciatori; ad assicurare alla per fine con catene di ferro orizzontale la stabilità di quei piedritti che verranno qui appresso partitamene indicati»13.

Fra gli interventi di tipo strutturale furono previste le catene nei muri perimetrali, in particolare: «Lavori di ferro/ Nella camera della campana debbono situarsi nei due 13

L.c.


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muri di settentrione e mezzogiorno due catene di ferro a verghe cilindriche della lunghezza di palmi 37 e del diametro di once 25. una di queste verrà collocata alla distanza di palmi 10 dalla parete ad oriente; e l’altra all’intervallo di palmi 24 del muro ad occidente in uno stesso piano orizzontale. Il peso di queste due catene compresi i paletti equivale a rotoli 4.12./ Nel salone a nord-ovest debbono apporsi altre cinque catene ai muri ad oriente ed occidente della lunghezza ciascuna di palmi 38 ed once sei e del peso di rotoli 2.11. comprese le palette cosicché il peso totale di queste cinque catene corrisponde a rotoli 10.55./ Per altre due catene della lunghezza di palmi 24; da collocarsi sotto l’ipostatura della volta del salone a levante del precedente, del peso ciascuna di rotoli 1.50. / Nella camera della cappella debbono situarsi due catene quali tangenti l’estradosso della volta sottostante, della lunghezza ciascuna di palmi 33.4; ed il peso di queste equivale a rotoli 3. 93./ Un’altra catena della lunghezza di palmi 38 deve collocarsi nel salone a nord-ovest nell’ultimo piano superiore prossimamente a muro a settentrione il peso della quale compreso sempre le palette equivale a rotoli 7.10/ omissis/ Catania li 31 agosto 1848/ L’ingegnere/ Salvatore Fragalà Battaglia»14.

I lavori furono eseguiti con lievi modifiche rispetto al progetto originario, mantenendo invariati gli interventi di consolidamento15.

2. LA CESSIONE DEL “PALAZZO DEI CHIERICI” AL COMUNE Nel corpo più antico, al piano nobile delle ali attorno al cortile e nell’ala fra piazza dei Canali o della Pescheria e la Marina, nel mese di aprile 1849 si insediarono i militari16 delle regie truppe borboniche e l’anno successivo, per ordine regio, il seminario venne requisito per l’alloggiamento definitivo dei militari17. 14 15 16

L.c. L.c. A.S.S.A. CT,

Sezione legale, b. C 45 – citato in S. BARBERA (cur.), Recuperare

Catania, cit., 310. 17

A.S.S.A. CT,

Catania, cit., 310.

Sezione legale, b. F23 – citato in S. BARBERA (cur.), Recuperare


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Con contratto di enfiteusi perpetua del 13 giugno 1851 venne concessa al Comune dal Seminario tutta la parte del fabbricato già occupata dai militari, corrispondente all’odierno palazzo dei Chierici. Nel contratto si legge che: «a titolo di concessione enfiteutica da oggi, ed in perpetuo assegnano al suddetto Signor Patrizio, e come tale rappresentante la Città di Catania, le pertinenze superiori di quella parte della Casa Magnatizia del Seminario suddetto, che formano un quadrato confinante per levante colla strada che scende alla marina, e col restante dello edifizio del Seminario, che in linea retta del magazzino ove è conservata la Bara trionfale di nostra Protettrice Sant’Agata scende alla Marina, per Ponente colla Piazza della Pescheria, ossia delli sette canali colla strada della Marina della parte ove è attualmente il refettorio, e con quartini di proprietà del Seminario edificati sopra il bastione laterale all’Arco di S. Cristofaro con entrata nel Piano dell’Indirizzo; mezzogiorno col piano della marina, tramontana col piano del Duomo, e piazza suddetta della Pescheria, o sia delli sette canali»18.

Le botteghe, i magazzini ed i magazzinini restarono di proprietà del seminario. In particolare i locali ceduti furono: il «Portone Grande nel piano del Duomo con corrispondente cortile, Due stanze terrane nel vano del suddetto portone, ed altre cinque simili aventi la entrata nel cortile suddetto, Scala grande magnatizia, L’intero quarto esposto nel piano del Duomo a tramontana, confinante da un lato con la strada che scende alla marina, e dall’altro colla piazza delli sette canali, ossia Pescheria con balconi sporgenti nel piano del Duomo. I cameroni di ponente aventi li balconi sporgenti da un lato sulla suddetta Piazza della Pescheria, o sette canali, e dall’altro nel cortile. Quell’altro di levante che sporge le aperture da un lato nella strada che 18 Concessione enfiteutica f. a. dalla Deputazione di questo Seminario dei Chierici alla Comune di Catania (Ufficio Patrimonio Comune di Catania, copia conforme dell’atto stipulato il 13 giugno 1851 presso il notaio Giuseppe De Marco di Catania rilasciata dall’archivio notarile il 8 marzo 1961 – vedi anche A.S.S.A. CT, Sezione legale, b. C45 e C47)


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scende all’arco della Marina, e dall’altro nel cortile suddetto. I due cameroni esposti a mezzogiorno con apertura nella galleria che dà nel piano della marina, ed aperture nel cortile di sopra mentovata. Il Refettorio esposto a ponente sopra l’arco San Cristofaro con le camere della cucina, ed altro ad esso annesso che ha le aperture per parte di tramontana nella Piazza delli sette canali, o Pescheria, e confina colli sopra mentovati quartini di proprietà del Seminario sul bastione con ingresso nel piano dell’indirizzo. Finalmente le stanze esistenti sopra l’arco della marina esposte da una parte a mezzogiorno, e dall’altra a tramontana limitati per il lato di levante con quella parte della casa del Seminario, che dal prospetto della Cattedrale in linea retta al magazzino della Bara va a terminare colla galleria esposta a mezzogiorno nel piano della marina, quale resterà per conto del Seminario insieme a tutte le botteghe, intrasoli, quartini, magazzini, e quant’altro non è stato compreso nella di sopra fatta descrizione delle pertinenze come sopra concesse ad eccezione delle due casette sotto l’arco dell’Amenano che sono in possesso, e percezione di frutti della suddetta Comune, e della casa destinata a studio di scultura del Sig. Calì»19.

Il periodo compreso fra gennaio 1848 e novembre 1851 riguardò soprattutto la riparazione dei danni causati dal terremoto e l’ampliamento del «nuovo edificio del Seminario col prospetto nella marina» per adattare i nuovi dormitori, i cui lavori furono eseguiti fino al 1851 costringendo i seminaristi a rimanere fuori dai loro alloggi20. I lavori per la “Nuova fabbrica” durarono fino al 1853 ristrutturando completamente l’edificio esistente21. Furono modificati pure gli appartamenti addossati alla cinta muraria, nella contrada di Santa Maria dell’Indirizzo e le botteghe rimaste di proprietà del seminario. Il compenso assegnato all’ingegnere Fragalà fu corrisposto in diversi tempi: alla fine del 1851 dopo aver completato il dormitorio, nel

19

L.c.

20

A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa, Registro dei Mandati dal 2 dicembre 1844,

c. 144 v. 21

Ibid., c. 152 r.


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1852 per i lavori nel terrazzo22 e nel 1853 con il completamento della copertura. Il 14 giugno 1852 l’ingegnere Salvatore Fragalà Battaglia ricevette «la somma di onze 44.8.2 a saldo d’altrettanto dovutogli per la perizia da lui fatta del locale del Seminario concesso a questa comune e spese di mandato eseguito del 24 aprile ultimo»23. Quindi dal 1849 in poi, dopo l’occupazione delle truppe borboniche, il Seminario si spostò nella parte nuova, iniziata negli anni Settanta del ’700, inserendovi un nuovo refettorio, la cucina, la cappella e tutti gli ambienti che prima erano collocati nell’attuale palazzo dei Chierici, nel frattempo ceduto in enfiteusi al Comune. Nella nuova sede, fra il 1856 e il 1859, il Seminario spese 1200 onze per «terminare il quarto superiore e, che ciò malgrado, sarebbe necessario ingrandirlo con aggiungervi nuove fabbriche»24. Nel frattempo — 1857 — vennero stanziati 514 ducati per allargare l’edificio verso est nella «Casa detta Priorato» concessa dal Capitolo della Cattedrale al seminario25. 22

Ibid., c. 153 v. Ibid., c. 162 v. 24 A.S. CT, Fondo Intendenza Borbonica, b. 3016. A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa, Conti e carte varie 1820-1867. 25 «Nel 31 agosto d’ogni anno, per censo enfiteutico irreversibile, […] per le case dette del Priorato di proprietà di detto Capitolo con tutte le fabbriche, officine, terreno, muri, diritti e pertinenze, e tutt’altro che le competono, tutto incluso, e niente escluso, nel modo, e con quei titoli come detto Capitolo la possiede, sita in questa città confinante per levante con la fabbrica del palazzo vescovile, e propriamente colla sala grande di entrata ove sbarca la scala di detto Vescovile Palazzo, da mezzogiorno con la strada pubblica della marina, da ponente con il fabbricato di questa Casa del Seminario dei Chierici, e da tramontana con fabbriche di questa Cattedrale chiesa ed atrio di detto Palazzo Vescovile, ed altri confini, è stata concessa a questa nostra Casa anzidetta, e per essa al rev. Decano Guttadauro don Giovanni, e dal Cantore don Domenico Riccioli Tedeschi nella qualità il primo di Rettore di detta Casa ed il 2° quale deputato della medesima, anche intervenuti con l’autorizzazione del rev.mo monsignore don Felice Regano Vescovo di questa città per lo capitale al 5% di onze 1770 4.19 delle onze 1800 4.19 risultato dalla perizia dall’architetto comune eletto don Gaspare Nicotra ed Amico del 30 Gennaro 1855 reg. al n. 307 mentre onze 30 furono detratti per lo capitale al 5% dell’onze 1.15 annuali, che attualmente corrispondesi all’Erario, per la sola fondiaria, meglio dell’Enfiteusi, con l’invenzione di detta Perizia rogata da questo Notar don Giuseppe di Marco del fu Notar don Vincenzo del 9 febbraio 1856. 23


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Si iniziò con l’apertura di quattro botteghe nella cortina che prospettava a sud della Marina (ultime quattro botteghe verso est)26. Nel 1859 la spesa prevista per la costruzione del suddetto ampliamento fu di onze 1080 secondo la relazione dell’ing. Fragalà Battaglia27, ma i lavori non vennero eseguiti lasciando “la fabbrica nova della marina” incompleta28. Lo stesso ingegnere fu pagato29 il 2 settembre 1860 «onze otto, per la nuova pianta del Priorato», ma non risultano certificati di pagamento relativi a questa nuova parte che tutt’oggi si vede nella sua forma settecentesca.

copia del quale d’unita alla omologazione del Governo conservasi» (A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa, Libro mastro antico del Seminario dei Chierici, c. 98 r.). 26 A.S.S.A. CT, Sezione legale, b. F23 – citato in S. BARBERA (cur.), Recuperare Catania, cit., 310. 27 A.S.S.A. CT, Sezione legale, b. F16 – citato in S. BARBERA (cur.), Recuperare Catania, cit., 310. 28 In un certificato di pagamento dello stesso architetto (7 Ottobre 1860 – ing. S. Fragalà Battaglia) si evince che i lavori riguardarono il corpo nuovo già realizzato e il fabbricato di S. Maria dell’Indirizzo. Inoltre: «29 febbraio 1860: onze 400 […] Ricevute in anticipo pella diroccazione della Casa detta del Priorato oggi di questo Seminario, e fabbricato d’essa sulla continuazione del Seminario giusta il disegno esistente, per li prezzi convenienti da scontarle in tempo in tempo a seconda i Certificati dell’Architetto che gli saranno fatti, e dette onze 400 gli si sono anticipate per acquisto della calce, cimenti, ed altro bisognevole in detto Edificio, che sorgerà per tutto li spazio di detta Casa detta Priorato» (A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa, Libro mastro antico del Seminario dei Chierici). 29 «Libro di introito ed esito/ 2 settembre 1860 = a don Salvatore Fragalà Ingegnere onze otto, per la nuova pianta del Priorato ed altri servizi» (A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa, Libro mastro antico del Seminario dei Chierici).


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Fig. 5 – Particolare della “Veduta di Catania dalla Marina” (L. Nerenstein, 1860).

La situazione è evidente in una foto scattata nel 186030, in cui la citata “fabbrica nuova della marina” si vede nella sua forma originaria (fig. 5). «A causa degli avvenimenti politici del 1860 e di una lite tra il Vicario Capitolare Gaetano Asmundo (1861-1867) e il rettore can. Gioacchino Russo, il Seminario fu chiuso e venne riaperto dal vescovo Giuseppe Benedetto Dusmet (1867-1894) il 1° dicembre 1868. Tuttavia, durante gli anni in cui il Seminario rimase chiuso i chierici si riunirono nella

30

La foto è stata pubblicata in G. PAGNANO, Il disegno delle difese, cit., 125.


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chiesa di S. Maria della Lettera e ricevevano le lezioni in casa dei singoli professori»31.

Nel 1860 il rettore del Seminario si rivolse all’Intendente chiedendo di intervenire contro il comune di Catania in merito ai danni provocati dall’occupazione delle truppe nei locali sottostanti a quelli concessi nel 1851, richiamando l’atto di cessione enfiteutica nel quale «fra gli altri patti enfiteutici espressamente si conveniva che la Comune per la detta Concessione non doveva recar danno, e molestia alle botteghe sottostanti rimaste in proprietà del detto Seminario»32.

Il Comune venne condannato al risarcimento dei danni33 provocati dai militari e il 25 novembre 1863 furono eseguiti i lavori «nel terrazzo a mezzogiorno e nelle botteghe oggi abitate da Isai e di Sapienza, quelle stesse accese che dalla Comune dovevonsi praticarsi giusta la sentenza»34.

Nella pianta della città di Catania rappresentata «con le più recenti innovazioni avvenute e progetti di prossima attivazione», edita 31 G. ZITO – C. SCALIA, Fonti per la storia della diocesi di Catania: l’Archivio Storico del Seminario, in Synaxis 1 (1983) 300; vedi anche G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Acireale, 1987. 32 «Catania 23 Gennaro 1860- sul giudizio tra Alfio Sciuto Russo, il Seminario dei Chierici e la Comune/ Sig. Intendente- Dal Patrocinatore di questa Comune sig. D. Giuseppe Crisafulli Pezzicora con rapporto di pari data segnato urgente mi è stato rappresentato quanto segue “Signore = Nel 13 Giugno 1851 presso questo Notar Marco Strano la Comune levava in Concessione un quarto di questo Seminario dei Chierici per servire di quartiere Militare, e fra gli altri patti enfiteutici espressamente si conveniva che la Comune per la detta Concessione non doveva recar danno, e molestia alle botteghe sottostanti rimaste in proprietà del detto Seminario» (A.S. CT, Fondo Intendenza Borbonica, b. 3016, c. 2 r.). 33 A.S.S.A. CT, Sezione legale, b. C45 – citato in S. BARBERA (cur.), Recuperare Catania, cit., 310. 34 A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa, Libro mastro antico del Seminario dei Chierici.


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nella seconda metà dell’Ottocento da Francesco Vallardi a Milano (fig. 6), è individuato con la lettera “l” il «Liceo e Ginnasio con Museo detto dal suo fondatore Recupero», corrispondente alla parte di edificio concesso al Comune nel 1851.

Fig. 6 – Pianta della città di Catania con le più recenti innovazioni avvenute e progetti di prossima attivazione, edita nella seconda metà dell’Ottocento da Francesco Vallardi a Milano.

3. L’INTERVENTO DI MARIO DI STEFANO NEL “PALAZZO DEI CHIERICI” Nella parte più antica del Seminario — cioè quella ceduta al Comune (palazzo dei Chierici) —, nel 1859 vennero fatti vari lavori per adattare l’edificio requisito a caserma (corpo di guardia, sala di


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disciplina e prigione dei soldati)35, ma a partire dal 1861 si destinarono a Ginnasio e Liceo. Con deliberazione del 14 novembre 1862 fu «incaricato l’Ingegnere Civile Signor Mario Distefano» di redigere «il progetto di vendita dell’area corrispondente sopra il palazzo destinato al Ginnasio ed al Liceo di questa Città». Il 30 aprile 1863 il consiglio comunale deliberò la sopraelevazione di un piano in quella parte di edificio di proprietà dello stesso (ali attorno al cortile), «in gran parte necessaria per completare il numero delle stanze inservienti a questi Istituti dove fra non quali deve collocarsi il gabinetto di storia naturale del Professore Maravigna, che si è deliberato acquistarsi, oltre ad un gabinetto Fisico, ed a quant’altro è necessario a perfezionamento dell’insegnanti Ginnasiali e Liceali. Che se nel momento il Municipio potesse assumere il peso della edificazione totale potrebbe dividerla in diverse Lezioni preferendo la parte di prospetto principale nello interesse del pubblico ornato»36.

Nella relazione presentata al consiglio comunale, il professore Di Stefano suggerì di non realizzare una seconda scala, già prevista in una precedente delibera, localizzata nell’ala est presso porta Marina, perché l’edificio sarà utilizzato solo per istituti maschili; propose inoltre di realizzare il prospetto della sopraelevazione con lo stesso stile del piano nobile su piazza Duomo, oppure di ridisegnare tutto il prospetto a cominciare dal portone d’ingresso.

35 Opere pubbliche Comunali di Catania/ Esercizio del 1859/ Quartiere Seminario. Dettaglio estimativo suppletorio per i lavori bisognevoli nel quartiere del Seminario dei Chierici per formarvi il Corpo di guardia degli individui di servizio, la sala di disciplina pei sotto-uffiziali, e la prigione dei Soldati./ Omissis/ Catania li 16 marzo 1859/ L’Architetto Capo-mastro Comunale/ Francesco Ronsisvalle (A.S. CT, Fondo Intendenza Borbonica, b. 3016, da c. 41 r. a 42 r. – citato in S. BARBERA [cur.], Recuperare Catania, cit., 310). 36 Deliberazione del Consiglio sull’area del palazzo addetto al Liceo e Ginnasio 30 aprile 1863 (A.S. CT, Fondo Prefettura, Serie II, inv. 1, fasc. 6).


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Il consiglio deliberò il 1° giugno 1866 di non tenere «conto della spesa della novella scala sul perché crede ottenersi dei risparmi nella parte di ornato della prospettiva» accettando il consiglio del Di Stefano riguardo alla sopraelevazione del prospetto37 (fig. 7).

Fig. 7 – Prospetto nord di palazzo dei Chierici (stato di fatto).

In realtà Mario Di Stefano completò l’ultimo piano di questa parte dell’edificio che era stata iniziata nel 1760 e rimasta incompleta fino a quel periodo. Il consiglio comunale deliberò «Che il disegno della prospettiva dello intero edificio sia modellato con quella esistente dal lato di tramontana di proprietà del Seminario Arcivescovile, onde avere una perfetta uniformità»38,

mentre il Di Stefano non si attenne a quanto deliberato riproponendo il disegno in stile delle finestre e delle paraste bugnate del 37 Compimento del piano superiore del Seminario dei Chierici (A.S. CT, Fondo Prefettura, Serie II, inv. 1, fasc. 6). 38 L.c.


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piano sottostante, diverse da quelle poste sopra la porta della Marina e del corpo addossato alla cattedrale, ancora di proprietà del seminario, innalzando, altresì, il cornicione e inserendo campi di intonaco bugnato (fig. 8).

Fig. 8 – Foto dei primi del ’900.


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Da un’analisi delle volte del chiostro rispetto a quelle dell’atrio del primo piano ci si rende conto che l’impianto della galleria, ideato per non fare percepire i fuori squadra dei corpi di fabbrica, fu modificato dall’architetto Di Stefano, separando l’atrio dal resto della galleria, per inserire la scala che collega il primo piano con il secondo. La stessa volta della galleria di ponente, nella parte che si unisce al corpo di tramontana, è costituita da un arco — nascosto dalla galleria — sopra il quale è alloggiata la scala del piano superiore. I locali affittati dal Seminario da settembre 1860 fino al 1864 furono i seguenti: «Bottega ai canali […], bottega alla marina […], Bottega nel duomo […], Bottega sotto l’arco di S. Cristofaro […], Bottega alla marina […], Due botteghe, una nel duomo e l’altra alla marina […], Quartino sopra la Bastia ai canali […], Casa intesa della trattoria […], Bottega nel duomo […], Bottega alla marina […], Magazzino che scende alla marina […], Due botteghe alla marina […], Bottega sotto l’arco della marina […], Casa intesa del cortillere sotto l’arco di S. Cristofalo oggi pescheria […], Bottega alla marina […], Quartino sopra la Bastia […], bottega che scende alla marina […], magazzino che scende alla marina […], casa sotto la Bastia […], bottega alla marina […], quartino sopra la bastia […], bottega alla marina […], casa sotto l’arco di S. Cristofalo […], casa sotto la Bastia»39.

4. LE LEGGI EVERSIVE E IL NUOVO SEMINARIO DEI CHIERICI Il 13 gennaio del 1865, il Demanio si impossessò dei locali di proprietà del Seminario confinanti con la Cattedrale e il palazzo Vescovile, nonostante le proteste fatte dal vicario capitolare. I locali vennero requisiti da un colonnello dell’esercito che li fece occupare in un primo momento dalla truppa consegnando la chiave al Prefetto. Da una perizia dell’ing. Salvatore Fragalà Battaglia, del 1865, relativa ai danni seguiti all’occupazione militare risulta che il 39

CRISTADORO JUN., Cronaca manoscritta, Venerdì 13 gennaio 1865.


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prospetto sud aveva una terrazza con ringhiera e 16 pilastri nei quali si previde il completamento ed il coronamento con vasi in terracotta40. Alla perizia per la valutazione dei danni seguirono due progetti: uno dell’architetto Giuseppe Spampinato41 del luglio 1865, l’altro dell’ingegnere Andrea Rapisardi Zappalà42 del settembre 1865. Nel 1865 venne effettuato nella cinta bastionata un taglio in continuazione della via Pardo che collegò la Pescheria con la strada della Marina (fig. 9) che comportò l’esproprio e la demolizione di alcune stanze di proprietà del Seminario.

Fig. 9 – Particolare della pianta di Catania nel 1875. Catasto Urbano. 40

A.S.S.A. CT,

Sezione legale, b. S 27 – citato in S. BARBERA (cur.), Recuperare

Catania, cit., 310. 41

A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa, Conti e carte varie 1820-1867. A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa, Conti diversi e carte amministrative 1820-1867. 42 «Catania li 28 dicembre 1865/ Io sottoscritto di Lao ricevo dal Professore Canonico don Gioacchino Russo Rettore di questo Seminario arcivescovile la


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La stima fatta il 1° agosto 1864 dall’ingegnere Fragalà descrisse, oltre alle opere da demolirsi, l’entità dell’intervento di ripristino43. Il 24 novembre 1868 il nuovo vescovo di Catania Giuseppe Benedetto Dusmet (1867-1894) convocò la deputazione del Seminario per comunicarle la sua intenzione di aprirlo ufficialmente il successivo 1° dicembre. Il Seminario occupava in quel periodo i locali di sua proprietà a levante di Porta Uzeda e quelli sulla Marina. Nella stessa riunione si stabilì che: «il fabricato avrà due destinazioni distinte, una parte addetta ai giovani delle scuole sacre e formerà propriamente il Seminario ecclesiastico, l’altra parte per le scuole inferiori e riceverà il nome di piccolo Seminario»44.

I lavori eseguiti dal 1867 al 1871 furono diretti dagli architetti Carmelo Sciuto Patti45 e Pasquale Tempio46. Nel 1872 i fratelli Papale Guarrera, proprietari dell’ex mulino di S. Agata, chiesero al Seminario la concessione dell’area residua del somma di onze otto, tarì sedici e grana 10, cedono per importo de’ diversi lavori in detto Seminario in occasione di doversi nuovamente alloggiare le truppe per ordine Superiore. Tali opere furono eseguite per impedire le comunicazioni nelle stanze ultimamente ristorate, ed abbellite per uso della Deputazione, meglio dallo Estimativo dello Ingegnere Sig. Andrea Rapisardi Zappalà del 13 Settembre 1865 …» (l.c.). 43 A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa. 44 Cfr. G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), cit., 162. 45 A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa. 46 «Novembre 1868/ Estimativo di lavori diversi di muratura fatto dallo Ingegnere (Pasquale) Tempio onze 698.25.19/ Idem di falegname […] onze 99.26/ Idem di marmoraro […] onze 4.12/ Omissis/ 15 maggio 1869 Estimativo dell’architetto Pasquale Tempio sui lavori da eseguire nel Seminario./ Indennità competenti a me sottoscritto architetto per le riparazioni urgenti eseguite in questo Seminario dei Chierici/ Su £. 11.466,50 le competenze furono 344,25 per il progetto e 100,00 per l’assistenza/ Catania primo Giugno 1869/ L’architetto Pasquale Tempio/ Lavori per la costruzione della nuova cucina nel primo piano al di sopra della stanza da ricevere, e per aver formato a refettorio l’antica cucina ed antecucina./ Omissis/ Catania 13 aprile 1870/ L’architetto Pasquale Tempio/ Catania 2 febbraio 1871/ L’architetto Pasquale Tempio» (A.S.S.A. CT, Sezione amministrativa).


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bastione tagliato per l’apertura di via Pardo47 e nel 1875 ebbero inizio le trattative per la vendita al Comune della cortina che dava sulla Pescheria. Nel 1876 le botteghe sulle vie pubbliche vennero adeguate all’ordinanza municipale del 3 agosto 1874 che prescriveva l’apertura dei battenti verso l’interno. Il Seminario chiese di poter trasformare in porta una finestra che prospettava sul lato orientale della piazza della Pescheria corrispondente alla bottega dell’angolo nord-est. Non avendo l’apertura corrispondenza con altra superiore chiese di poterla realizzare senza ornamento d’intaglio e con una semplice imposta in legno a filo della parete colorata come l’intonaco48. In questo periodo fu in atto la vertenza fra il Comune ed il Seminario per la proprietà dei bastioni; si aprirono porte interne di botteghe nei corpi bassi su piazza della Pescheria per le quali il Comune richiese i disegni per verificare che non pregiudicassero la stabilità dell’edificio. Il disegno delle porte venne approvato dal Comune e l’ala su piazza Pescheria, sopra la fontana dei Canali, fu utilizzata come sede del tribunale commerciale. Solo nel 1875 il Seminario, riconosciuto per sentenza del Pretore quale proprietario del bastione, accettò dal Comune l’indennizzo49 di £. 2.104,43 offerto dal Comune nel 1864. Nel 1877 venne presentata la relazione per ampliare il Seminario, temporaneamente con soli vani terranei in un terreno scoperto verso est dietro le mura fra l’ultimo magazzino del Seminario e l’Arcivescovado; si trattò delle ultime tre botteghe verso est che davano sulla Marina. Fra il 1877 e il 1878 il Seminario trattò la cessione della cortina della Pescheria e il rettore sollecitò il Comune a dare una risposta per l’acquisto. Nel 1882 il Seminario aprì le botteghe prospettanti verso ovest sulla piazza di comunicazione aperta dal Comune. Il Seminario aprì tre 47

A.S.S.A. CT,

Sezione legale, b. S36 – citato in S. BARBERA (cur.), Recuperare

Catania, cit., 310. 48 L.c. 49

A.S.S.A. CT,

Catania, cit., 310.

Sezione legale, b. C87 – citato in S. BARBERA (cur.), Recuperare


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Salvo Calogero

botteghe nella cortina a sud della piazza della Pescheria, contravvenendo alle ordinanze comunali che prescrivevano che «chiunque voglia costruire» doveva presentare il disegno al consiglio edilizio per l’approvazione. Nel 1889 vennero riscontrate lesioni nel prospetto di ponente che dava su piazza Pescheria, le quali provocarono un’ennesima causa tra il Comune e il Seminario50; quest’ultimo attribuva il dissesto alla trasformazione di alcune finestre in balconi (la prima e la terza apertura sono già balconi) e ad altri lavori effettuati dal Comune; il Comune, invece, lo imputò a lavori eseguiti nelle botteghe sottostanti. Nell’ala est, ancora appartenente al Seminario51, nel 1893 vennero eseguiti lavori e nel 1897 si progettò lo spostamento della cappella del Seminario il cui locale venne portato al piano superiore, al posto di un dormitorio52. La giunta municipale di Catania, nel 1899, approvò il disegno di un prospetto su piazza Pescheria che la stessa amministrazione comunale doveva realizzare e nel 1902 venne stipulata una convenzione con altro proprietario per realizzare il fabbricato per case d’affitto e botteghe ad ovest sulla piazza Pescheria53, affiancato all’omonimo arco. Durante l’episcopato Dusmet il rettore del Seminario Antonino Caff costruì a sue spese la sede estiva in S. Giovanni la Punta, a pochi chilometri da Catania, e ne fece dono allo stesso Seminario: l’inaugurazione avvenne nel 188154.

50

A.S.S.A. CT,

Sezione legale, b. C46 – citato in S. BARBERA (cur.), Recuperare

Catania, cit., 310. 51 A.S.S.A. CT, Sezione legale, b. C46 – citato in S. BARBERA (cur.), Recuperare Catania, cit., 310. 52 La cappella in questione era collocata in una delle due ali rimaste al Seminario cioè quella a sud della cattedrale sulle mura o quella ad ovest del primo tratto di via Etnea. (A.S.S.A. CT, Sezione legale, b. F19 – citato in S. BARBERA [cur.], Recuperare Catania, cit., 310). 53 A.S.S.A. CT, Sezione legale, b. F20 – citato in S. BARBERA (cur.), Recuperare Catania, cit., 310. 54 T. LECCISOTTI, Il cardinale Dusmet, Catania 1962, 211-220. Vedi anche G. ZITO – C. SCALIA, Fonti per la storia della diocesi di Catania: l’Archivio Storico del Seminario, cit., 300.


La costruzione del Seminario dei Chierici a Catania

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3. I LAVORI ESEGUITI NEL NOVECENTO E I PASSAGGI DI PROPRIETÀ Nel 1907 si completò il palazzetto per case d’affitto ad ovest su piazza Pescheria, angolo via Pardo (fig. 10).

Fig. 10 – Fabbricato per case di affitto affiancato all’arco della Pescheria.


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Nel 1900 i locali ceduti al municipio risultano destinati a scuole, uffici comunali, aula dei giudici conciliatori, direzione dei dazi civici, ecc55. In alcune foto aeree dei primi del novecento si vede l’edificio a questa data, cioè prima delle sopraelevazioni eseguite negli anni ’60. Da queste foto si evince che nel corpo posto a sud del refettorio esisteva una copertura a padiglione delimitata da un muro d’attico lasciando libere le finestre del refettorio; il corpo sopra il secondo ordine di porta Uzeda, la cui copertura oggi viene utilizzata come terrazza panoramica del Museo Diocesano, non era stato ancora realizzato (fig. 11).

Fig. 11 – foto aerea di Catania dei primi del Novecento.

55

G. RASÀ NAPOLI, guida alle chiese di Catania, Catania 1900, 78.


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In altre foto scattate nello stesso periodo viene ripresa la parte posteriore del coronamento della porta Uzeda in cui è evidente l’assenza del suddetto corpo di superfetazione con la soprastante terrazza panoramica (fig. 12).

Fig. 12 – Prospetto sud della “fabbrica nuova alla marina” ai primi del Novecento.

Il 28 maggio 1920 si procedette alla vendita56 dei corpi di fabbrica rimasti in possesso del Seminario alla banca Italiana di Sconto. Nel relativo atto furono allegate le piante rilevate dall’ingegnere Salvatore Sciuto Patti e la descrizione di tutti gli ambienti fu riportata nella perizia redatta dallo stesso ingegnere il 19 gennaio 1915.

56

UFFICIO PATRIMONIO DEL COMUNE DI CATANIA (= U.P.C. CT), Contratto di vendita ed altro con la Banca Italiana di Sconto dell’ex Seminario dei Chierici del 28 maggio 1920, copia conforme dell’atto stipulato il 28 maggio 1920 presso il notaio Carmelo Fazio di Catania rilasciata dall’archivio notarile il 26 luglio 1956).


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Dalla citata perizia si evince la situazione dei luoghi a quella data: «Bottega in piazza Duomo n. 1 […], Bottega in piazza Duomo n. 2 […], Bottega in piazza Duomo n. 4 […], Bottega in piazza Duomo n. 5 […], Vano sottostante al ritrovano della bottega descritta precedentemente con ingresso dalla pescheria n. 2 […], Magazzino con porta d’ingresso a levante sulla porta Uzeda n. 9 […], Magazzino sotterraneo sottostante al magazzino precedentemente descritto con ingresso dalle porte n. 5 e n. 7 di via Stesicorea […], Bottega sotto la porta Uzeda n. 1 e n. 3 di via Stesicorea […], Bottega in via Dusmet n. 9 […], Bottega in via Dusmet n. 7 […], Magazzino in via Dusmet n. 5 e n. 3 bis […], Bottega in via Dusmet n. 1 all’angolo con la piazza Pardo»57.

Fra il 1922 e il 1926, nei locali attigui alla cattedrale, giacché la rimanente parte, formata dal monumentale isolato fra Porta Uzeda e la Porta dei Canali (palazzo dei Chierici), era ormai passata al Comune, vennero realizzate nuove fabbriche riguardanti la cucina, refettorio, Cappella e scala58, su progetto dell’architetto Salvatore Sciuto Patti redatto nel 1915. Il nuovo arcivescovo, mons. Carmelo Patanè, non mancò di arrecare miglioramenti ai vecchi locali con opportuni riattamenti, ma con la guerra il corpo di fabbrica del Seminario che prospettava sulla Marina andò quasi completamente distrutto nel bombardamento aereo del 16 aprile 1943 e poi ancora fu colpito dal bombardamento navale del luglio successivo. Ciò rese necessaria la costruzione di un nuovo Seminario che si realizzò a partire del 2 aprile 194659, su progetto dell’architetto Salvatore Crisafulli, nell’attuale sede sopra la Circonvallazione di Catania inaugurata il 15 agosto 195160.

57 U.P.C. CT, copia conforme dell’atto stipulato il 28 maggio 1920 presso il notaio Carmelo Fazio di Catania rilasciata dall’archivio notarile il 26 luglio 1956. 58 A.S.S.A. CT, Sezione Amministrativa, Libri mastri. 59 La prima pietra fu posta l’8 dicembre 1945. 60 Cfr. G. ZITO – C. SCALIA, Fonti per la storia della diocesi di Catania: l’Archivio Storico del Seminario, cit., 300.


La costruzione del Seminario dei Chierici a Catania

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La parte del Seminario che si affacciava sulla marina, la cosiddetta “nuova fabbrica” rimase allo stato di rudere fino agli anni ’70. Infatti, dopo la proposta del 1957 dell’acquisto da parte del Comune di questo fabbricato61, e la valutazione dell’area edificabile in esso esistente effettuata dall’architetto Salvatore Crisafulli, nel 1975 si procedette alla sua ricostruzione con «la inderogabile necessità di rispettare, nella ricostruzione dell’edificio, le forme e le dimensioni della Architettura originaria»62.

Solo di recente anche la parte del Seminario che si affaccia a ovest sulla via Etnea è stata restaurata, riutilizzandola a Museo Diocesano. A partire dal 1923 l’edifico concesso in enfiteusi nel 1851 diventò definitivamente di proprietà comunale. Dal 1937 al 1943 divenne sede provinciale del Partito fascista, e fu in questa occasione (1937) che l’architetto Fichera e l’ingegnere Priolo riportarono i prospetti del Seminario alla loro originaria configurazione rimuovendo le bugne inserite durante l’intervento del Di Stefano. Nel 194663 l’Arcivescovo procedette alla vendita volontaria delle parti redditizie ancora di proprietà del Seminario e nel 1947 61

U.P.C. CT, Autorizzazione alla spesa di £. 115.000.000 per acquisto antico Palazzo di proprietà del Seminario dei Chierici della Curia Arcivescovile di Catania./ 22 maggio 1964, estratto del registro delle deliberazioni della giunta, deliberazione n.2021 del 22 maggio 1964. 62 «Relazione di stima/ Riguardante i corpi di fabbricato esistenti al piano ammezzato e la superiore area edificabile nell’antico Seminario al Duomo in Catania./ Piano ammezzato (a livello del cortile interno)/ Vani n°8 tutti di grande superficie: superficie media di ogni vano mq.65,00 con balconi tutti prospettanti a sud sulla via Dusmet. Omissis/ Area edificabile al di sopra del piano ammezzato./ Estensione dell’area: mq. 700 (salvo più esatta misurazione)/ Possibilità di ricostruzione secondo lo schema di prospetto preesistente. Prospetti: a sud sulla via Dusmet, a nord sul cortile del Seminario, fianco di ponente aderente alla parte centrale dell’edificio (porta Uzeda), fianco di levante libero. Omissis/ Catania 5 dicembre 1970 — firmato — Arch. Salvatore Crisafulli» (U.P.C. CT). 63 L.c.


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furono venduti i locali posti in angolo fra piazza Duomo e via Stesicorea64 al banco di Sicilia. Dopo l’incendio del palazzo Comunale (1944) e sino al suo restauro (1952) il nostro edificio ospitò la sede del Municipio. Inoltre, dopo il trasloco del Municipio al palazzo degli Elefanti, nei locali dell’ex Seminario, ormai chiamato “palazzo Chierici”, si istallarono gli uffici dell’Ente Siciliano di Elettricità65 che vi rimasero fino al 1961. In questa occasione fu redatto il progetto per un impianto ascensore66, mai realizzato, e furono inseriti il corpo di superfetazione sopra il corpo di mezzogiorno attiguo al refettorio e l’ampliamento del vecchio passetto posto sopra la porta Uzeda, costituiti da coperture a terrazza che risaltano nel complesso delle strutture barocche, già notevolmente stravolte nel corso dell’Ottocento. Recentemente è stato restaurato il refettorio e l’affresco della volta, precedentemente occultato da sovrastrutture riportate in una pianta del 1948 (fig. 14) che, confrontata con la restituzione storica alla fine del Settecento della pianta del seminario67 (fig. 13), mostra le modifiche apportate nel corso di un secolo, confermate dai risultati delle indagini eseguite nell’edificio che hanno evidenziato l’esistenza delle antiche volte attualmente nascoste dai controsoffitti posti a copertura delle stanze del primo piano di palazzo dei Chierici.

64 U.P.C. CT, Doppia nota di trascrizione per vendita a favore del Banco di Sicilia – Sede di Catania – contro – il Seminario dei Chierici di Catania, atto di vendita stipulato il 11 luglio 1947 presso il notaio Antonino Mirone di Catania. 65 L.c. 66 U.P.C. CT, proposta di deliberazione del 3 giugno 1961. 67 La restituzione storica è stata effettuata sulla base del rilievo del 1948 contenuto all’interno della carpetta “palazzo dei Chierici”, presso l’Ufficio Patrimonio del Comune di Catania, utilizzato come base per il disegno pubblicato in G. DATO, La città di Catania forma e struttura 1693-1833, cit., 195.


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Fig. 13 – Pianta del primo piano del Seminario dei Chierici alla fine del Settecento.

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Fig. 14 – Pianta del 1948 dell’ex palazzo dei Chierici (G. Dato, 1982).


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APPENDICE DOCUMENTARIA

A.S.S.A. CT, Sezione

amministrativa, Conti e carte varie 1820-1867.

Relazioni (pe’ i quartini all’Indirizzo) e pei danni del tremuoto del 1848 «A richiesta del Reve.mo canonico sig. don Giovanni Guttadauro, Rettore di questo Seminario de’ Chierici mi faccio a riferire io qui infrascritto Ingegnere i danni in quello edifizio accaduti per il tremuoto del di 11 Gennaro di quell’anno istesso, e la spesa necessaria per le analoghe ristaurazioni. 1. nella camera così denominata della campana si osservano all’intradosso della volta tre lesioni longitudinali, una delle quali attraversa la sommità della volta estendendosi quasi da un’estremo all’altro, e l’altre due a quella parallela intercettano le lunette onde la volta trovasi fianchegiuta. Alle altre fenditure si scorgono nelle medesime lunette in differenti direzioni e la parte orientale della volta è corsa di un gran numero di lesioni in ogni senso. 2. nel muro a mezzogiorno della stanza ad est della precedente vedasi una spezzatura che dall’architrave del 2° finestrone (procedendo da occidente ad oriente) protraesi fino alla trabeazione, manifestandosi più ampia nella parte di mezzo. Nella volta di questa stanza si hanno differenti fenditure che qui sarebbe superfluo descrivere, perché di poca considerazione. 3. nei muri ad ovest ed a Settentrione del Salone che giace ad est dell’atrio, si hanno diverse lesioni divergenti all’insù , ed altre due fenditure si scorgono per tutta la lunghezza degli spigoli di due angoli interni l’uno a nord-est l’altro a nord-ovest. 4. all’intradosso della volta del salone a nord-ovest (quasi ad un terzo dell’arco frapposto tra la chiave e l’imposta nella semi volta che poggia sul muro ad occidente) si osserva un’ampia lesione longitudinale la quale ha suo principio dallo spigolo a Settentrione della lunetta che corrisponde sul primo finestrone ad ovest, procedendo da sud a nord, e protraendo il suo corso verso tramontana va ad incontrare lo spigolo contiguo della 2 lunetta, donde poi ripiegando attraverso per buon tratto il perimetro della base di questa 2 lunetta, che vedesi sensibilmente distaccata dal muro. Altre due notabili lesioni si appalesano


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nel perimetro delle basi delle due lunette soprastanti agli altri due balconi di prospetto ad occidente, cosicché queste veggono sensibilmente separate dallo stesso muro ad ovest. Nella sommità delle basi a mezzogiorno della stessa volta ha suo principio una spezzatura serpeggiante, che protraendosi lungo l’intradosso, va sempre convergendo finché viene ad estinguersi prossimamente al centro dell’intradosso medesimo. A poca distanza dal vertice dell’estradosso da una parte e l’altra hanno principio le controvolte costruite in sazio di calce, le quali s’impostano nei muri di oriente e di occidente, e queste son tesse nel loro dorso merce due lesioni longitudinali che ambedue le semivolte si estendono da uno estremo all’altro. Nel muro a settentrione dello stesso salone si scorgono due lesioni, una delle quali ha principio dalla sommità dell’arco piano del balcone ivi esistente, e per breve tratto si estende quasi normalmente, nella medesima parete convergendo all’in su. La seconda di queste due fenditure ritrovasi a pochissimo intervallo dalla precedente dalla parte verso ovest, e convergendo pure all’insu va ad incontrare il perimetro della base della volta, e da li ripiegando verso oriente lo attraversa per breve tratto. Nell’angolo a sudovest del salone in disamina si osserva una lesione divergente all’ingiù la quale si manifesta in tutta la lunghezza dello spigolo. 5. all’intradosso della volta della stanza ad oriente del salone di uno si è tenuta ragione vi hanno tre lesioni longitudinali una delle quali si estende da un estremo all’altro dell’intradosso, e le altre due a quella parallele passano per il terzo dell’arco che includono dalle due semivolte si estende dall’imposta alla chiave. Queste tre lesioni appalesano pure sensibilmente all’estradosso e vengono intersecate obliquamente da un gran numero di altre fenditure, che nella più parte si estendono persino al centro della volta. 6. nella volta del salone a nord della ridetta stanza si osserva all’intradosso una lesione longitudinale che passa per il centro, ed altre piccole fenditure in differenti direzioni. Le contro volte dell’uno e l’altro lato sono rotte nel dorso mercé due lesioni che si estendono da uno estremo all’altro dell’estradosso disposto in un piano orizzontale questa volta trovasi gravata dal peso di due muri laterizi. 7. all’intradosso della volta della stanza a nord-est nel quarto di abitazione del sig. Rettore si osservano due fenditure, una delle quali ne


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attraversa la sommità per tutta la lunghezza e l’altra in direzione parallela alla precedente si estende dall’estremo a mezzogiorno per fino alla metà della lunghezza dell’intradosso medesimo. Nel muro di prospetto a mezzogiorno si veggono in differenti direzioni lesioni serpeggianti; altre due convergenti all’in giù se ne hanno nel muro ad oriente, e talune fenditure di non poca considerazione si scorgono nella parete a mezzogiorno. 8. nella stanza a sud delle precedenti avvi nell’angolo a sud-est una lesione la quale si estende per tutta la lunghezza dello spigolo. 9. nella volta della camera sottostante alla cappella vi hanno molte fenditure di antica data, le quali ora si sono rese più sensibili. Le controvolte sono costruite in sazio di calce e le reni della volta si veggono sopraccaricate da una gran quantità di materiale. 10. l’intosta a mezzogiorno (nella camera della cappella) trovasi notabilmente fuori piombo, e nella centina della volta a graticci, che vedesi rotta in più parti ha di bisogno di un supplemento di legname. 11. nel muro ad oriente della cucina si osserva nella faccia esterna una fenditura quasi verticale più ampia nel mezzo e convergente ai suoi due estremi. 12. nel salone a nord-ovest (nell’ultimo piano superiore) la volta trovasi interrotta da un arco in pietra di taglio che vedesi rotto in tre parti, e quella porzione di volta che vi poggia dalla banda verso settentrione è corsa di un gran numero di lesioni in ogni senso, ed in differenti direzioni. Vedesi inoltre un’ampia fenditura verticale nello spigolo dell’angolo a sud-ovest del medesimo salone. Frattanto mi è venuto fatto di osservare la più parte delle volte, oltre a quella della camera sottostante alla cappella, trovasi gravate alle reni dall’enorme peso di una gran quantità di materiale a grave discapito della stabilità del Sistema; e che nel coverto della camera della campana, parimente che in quella delle stanze a settentrione, vi hanno molti legni infracidati, i quali vengono sostenuti da puntelli verticali, che tutti poggiano sulle volte sottostanti. Premesso le quali cose, è mio divisamento doversi demolire le controvolte all’estradosso delle volte della camera sottostante alla cappella, e le altre volte onde ricostruirle con pomice e gesso; atterrare le intoste che poggiano sulla volta del salone che giace ad oriente di quello di prospetto a nord-ovest come altresì l’intosta a mezzogiorno della camera della cappella;


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sgombrare dalle volte tutto il materiale onde vengono sopraccaricate e sostituirvi un riempimento di pomici da scegliersi tra le più leggiere, abbattere la parte orientale della volta della camera della campana e ricostruirla con pomici e gesso; togliere via tutti i puntelli verticali che poggiano sulla volta della camera della campana, e sopra quelle delle stanze a settentrione, sostituendo nei coverti nuovi legni a quelli che sono infracidati, ovvero prossimi a rompersi atteso il grado di loro inflessione; diroccare la volta della stanza la quale giace ad oriente del salone a nord-ovest nel 2° piano superiore, e sostituirvi un solaio; demolire nel salone a nord-ovest nell’ultimo piano superiore quella porzione di volta che dalla parte verso mezzogiorno vien terminata dall’arco in pietra da taglio, e ricostruirla con graticci e gesso; atterrare quell’arco onde ricostruirlo con canne, che verranno collegate a’ muri di legname; inzeppare a bagno di gesso tutte le lesioni qui in giro descritte, tranne quelle delle volte a demolirsi, e le fenditure che si appalesano nel muro ad oriente della cucina, nel muro a mezzogiorno della stanza che giace ad est della camera della campana e nell’angolo a sud-ovest del salone a nord-ovest nell’ultimo piano superiore, le quali esigono un risarcimento di fabbrica con pezzi allacciatori; ad assicurare alla per fine con catene di ferro orizzontale la stabilità di quei piedritti che verranno qui appresso partitamene indicati. (OMISSIS) Lavori di ferro Nella camera della campana debbono situarsi nei due muri di settentrione e mezzogiorno due catene di ferro a verghe cilindriche della lunghezza di palmi 37 e del diametro di once 25. una di queste verrà collocata alla distanza di palmi 10 dalla parete ad oriente; e l’altra all’intervallo di palmi 24 del muro ad occidente in uno stesso piano orizzontale. Il peso di queste due catene compresi i paletti equivale a rotoli 4.12. Nel salone a nord-ovest debbono apporsi altre cinque catene ai muri ad oriente ed occidente della lunghezza ciascuna di palmi 38 ed once sei e del peso di rotoli 2.11. comprese le palette cosicché il peso totale di queste cinque catene corrisponde a rotoli 10.55. Per altre due catene della lunghezza di palmi 24; da collocarsi sotto l’ipostatura della volta del salone a levante del precedente, del peso ciascuna di rotoli 1.50.


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Nella camera della cappella debbono situarsi due catene quali tangenti l’estradosso della volta sottostante, della lunghezza ciascuna di palmi 33.4; ed il peso di queste equivale a rotoli 3. 93. Un’altra catena della lunghezza di palmi 38 deve collocarsi nel salone a nord-ovest nell’ultimo piano superiore prossimamente a muro a settentrione il peso della quale compreso sempre le palette equivale a rotoli 7.10 (OMISSIS) Catania li 31 agosto 1848 L’ingegnere Salvatore Fragalà Battaglia».

Ufficio Patrimonio del Comune di Catania, copia conforme dell’atto stipulato il 28 maggio 1920 presso il notaio Carmelo Fazio di Catania rilasciata dall’archivio notarile il 26 luglio 1956. Contratto di vendita ed altro con la Banca Italiana di Sconto dell’ex Seminario dei Chierici del 28 maggio 1920. «… Descrizione particolareggiata dei singoli corpi — Per rendere più chiara la descrizione dei singoli corpi, unisco alla presente relazione le piante topografiche disegnate nella scala 1:200 e 1:500 — Trovandosi il livello stradale in forte pendenza da piazza Duomo verso via Dusmet, e la Piazza della Pescheria di livello molto più basse della Piazza Duomo, è stato necessario tenerne conto nei detti rilievi topografici, sicché in pianta, partendo dalle botteghe a pianterreno in Piazza Duomo, sulla via Dusmet si troverà disegnato anziché il pianterreno il piano ammezzato soprastante. Unisco quindi alla presente le seguenti piante topografiche: TAV. Ia. Planimetria generale delle due sezioni a ponente ed a levante di Porta Uzeda del fabbricato del Seminario Arcivescovile, scala 1:500. TAV. 2a. Ove è rappresentato il pianterreno dei corpi a prospetto. Porta Uzeda, via Dusmet, via Pardo e Piazza della Pescheria, ed i vani sottostanti alle botteghe di piazza Duomo n.5, n.1 e via Stesicorea n. 9 TAV. 3a. Ove è rappresentato, il 1° piano superiore e ammezzato soprastante ai corpi della tavola precedente e le botteghe a prospetto in Piazza del Duomo (scala 1:200).


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TAV. 4a. Ove sono rappresentati i vani a 2° e 3° piano con ingresso dal portoncino di via Pardo n.21 (scala 1:200). (OMISSIS) Per estratto conforme alla perizia da me ingegnere redatta il 19 gennaio 1915 regolarmente bollata il 19 stesso mese, giurata avanti il Pretore del primo Mandamento di Catania con verbale del dÏ 23 gennaio 1915. Allegate le copie conformi disegnate su tela lucida, delle tavole n.2 e n.3 della detta perizia, regolarmente bollate in data 21 aprile 1920. Catania, 23 aprile 1920, Ing. Salvatore Sciuto Patti.


Recensioni Synaxis 1 (2009) 299-306

ARMANDO MATTEO, Presenza infranta. Il disagio postmoderno del cristianesimo, Cittadella Editrice, Assisi 2008, pp. 280, €19,00. La domanda di fondo che l’Autore di questo pregevolissimo studio si pone è: Si può essere cristiani senza metafisica, senza sacrificio e senza Chiesa? È possibile ed è, ancora di più, ragionevole, credere al messaggio di Gesù, senza rinunciare tuttavia ad essere uomini e donne del proprio tempo? Domande più che attuali e urgenti, a cui nessuno, tanto meno il pensare teologico, può sottrarsi o rinunciare. Il testo, che è sostanzialmente la riproduzione della tesi di dottorato in Teologia fondamentale discussa all’Università Gregoriana sotto la qualificata direzione del teologo e filosofo Elmann Salmann osb, ben articolato e strutturato secondo uno schema intelligente ed equilibrato, si suddivide in cinque capitoli, un prologo, un epilogo e un intermezzo, cuore dell’intera fatica di Matteo. Apre lo studio una breve ma intensa prefazione di Salmann: “Le rivoluzioni culturali e la metamorfosi del cristianesimo. La scommessa pascaliana dopo il Novecento”, in cui il teologo benedettino, con pochissime pennellate definisce i contorni di quella crisi che ha percorso la religione a partire dalla modernità e che è giunta sino al presente, in cui la sua visibilità e proponibilità deve fare i conti con la contestazione dei suoi stessi assunti e con la perdita del suo statuto maggioritario (p. 8). Guardare a questa crisi con coraggio e onestà sarebbe già tanto, ma l’opera di Matteo, come evidenzia lo stesso Salmann, va oltre l’analisi, seppure acuta e puntuale, della condizione attuale della fede, del cristianesimo e del loro ruolo nel mondo contemporaneo, e si sviluppa in una «proposta per poter pensare e vivere uno stile di fede cristiana» (p. 9) nell’oggi. Si tenta così di chiarire il significato del disagio attuale del cristianesimo grazie al riferimento ad alcuni importanti autori francesi, J.-L. Marion, R. Girard e M. de Certeau i quali, seppur molto


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diversi tra loro per formazione e indirizzo filosofico, ma anche resi insospettatamente vicini da Matteo grazie a opportuni e puntuali rimandi — mettendone in evidenza non solo gli elementi eterogenei, ma anche quelli convergenti — hanno saputo far luce sul disagio attuale del cristianesimo. Il primo capitolo (Il tempo della frattura. Postmodernità come rivelazione), in un primo passaggio introduce all’interessante quanto controversa discussione riguardante la “mentalità postmoderna” che vede l’affermarsi e il visibilizzarsi di un profondo disagio vissuto dalla religione cristiana che ormai è nel mondo una “presenza infranta”, e che è colta nelle sue coordinate fondamentali (svolta e mentalità antiplatonica, antiideologica, antiaristotelica, antiagostiniana e antiromana). In un secondo passaggio getta uno sguardo ai “credo” postmoderni (cristianesimo impossibile, potenziale, finito, gnostico/ agnostico, tragico), per poi concludere parlando dell’im-pertinenza teologica della postmodernità, avviando un’indagine, questa volta, sulle questioni di merito e soprattutto su quelle di metodo. Per quanto riguarda queste ultime, è illuminante, ai fini della comprensione dell’intero percorso del libro, quanto l’Autore precisa in un passaggio esplicativo: «[…] intendiamo ricercare le coordinate che illustrino il destino del cristianesimo sotto le condizioni della mentalità attuale, facendo leva essenzialmente su tre plessi tematici: la questione metafisica, la questione del sacrificio, e quella della mediazione ecclesiale nell’esperienza credente» (p. 69). Da queste premesse si afferrano benissimo le ragioni dei tre capitoli successivi in cui viene presentata in maniera critica e coinvolgente, senza concedere spazio a inutili divagazioni e a sterili digressioni, il pensiero dei tre autori succitati: J-L. Marion (cap. II); R. Girard (cap. III); M. de Certeau (cap. IV). Il capitolo dedicato a Marion, dal significativo titolo: Cristiani senza metafisica, tenta di aprire un confronto con un autore che ha voluto costruire un pensiero teologico postmetafisico, sorto dal crepuscolo della morte di Dio, e che ha voluto altresì affrontare il nodo della plausibilità teorica del cristianesimo, al fine di pensare il carattere non illusorio della rivelazione. Il capitolo riservato a Girard, dal titolo: Cristiani senza sacrificio, tocca invece la questione della proponibilità umanistica del credo


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cristiano che, come ha dimostrato l’antropologo francese nel suo brillante percorso filosofico, si comprende tuttavia come fortemente attratto nell’ordine del sacrificio e della rinuncia. Il capitolo IV, destinato a de Certeau, dal titolo: Cristiani senza Chiesa, si sofferma infine sull’opera di un pensatore che ha ordinato la sua riflessione all’individuazione e all’analisi delle ragioni per cui oggi la chiesa si trova a fare i conti con una debolezza del credere che si incarna alla fine nell’incapacità sperimentata dal magistero ecclesiastico a produrre nei credenti dei comportamenti coerenti con quanto ricevono dalle indicazioni della gerarchia. L’intermezzo (estraneità del cristianesimo), costituisce un momento fondamentale dell’intero percorso proposto da Matteo. Qui l’Autore suggerisce un cammino di approfondimento per cogliere con uno sguardo sinottico il lavoro svolto con e sui tre pensatori francesi, e così mettere in evidenza quegli «spiragli che potrebbero definire il destino dell’esperienza credente dopo la fine della cristianità» (p. 207). Vengono così individuati alcuni elementi, per “immaginare” il cristianesimo dopo la cristianità. Tali elementi potrebbero essere: la trama della donazione, l’appello alla nonviolenza e la configurazione esodale dell’esperienza credente (p. 213). Attraversando lo spazio dischiuso dal pensiero di questi tre grandi autori, il Nostro vuole perciò aprire la strada, o perlomeno tenta di individuarne il possibile percorso, per trovare e offrire buone ragioni per continuare, anche oggi, perfino nel nostro presente così incerto e frantumato, in cui sembrano essere venute definitivamente meno tutte le certezze e l’identità stessa del cristianesimo sembra essersi ormai del tutto e irrimediabilmente infranta, a scommettere sul vangelo, a guardare altrimenti il mondo, svelando così non solo l’estraneità della fede cristiana, ma anche la sua convenienza (p. 219). Continuare a scommettere sul vangelo in un’epoca come l’attuale, postmoderna, in cui si sono riscritte le regole fondamentali con cui gli uomini e le donne pensano e vivono il loro rapporto con se stessi, gli altri e Dio e in cui si avverte forte il malessere della fede cristiana. La postmodernità quale stile diffuso di pensiero e orientamento generale dell’esistenza del soggetto contemporaneo (p. 27), non solo ha operato il congedo dall’epoca della cristianità, ma segnala anche promettenti


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percorsi per immaginare forme nuove di cristianesimo e nuove opportunità, per accertare, dice Matteo, «quanto anche oggi la scommessa sulla parola del Vangelo sia pertinentemente umana» (p. 29). In questa epoca è offerta nondimeno anche la possibilità e addirittura l’occasione di una nuova lettura e di una nuova visione del cristianesimo ancora in grado di concedere non solo al presente, ma anche al futuro, i tratti originali della sua verità (p. 17). Il disagio attuale, infatti, può e deve trasformarsi per la fede cristiana in una chance per la rivisitazione di alcuni suoi aspetti originari e originali che in parte sono stati offuscati dall’epoca della cristianità (p. 23). È quanto Matteo propone nel quinto capitolo: La frattura instauratrice, in cui parla del cristianesimo come di una “scommessa aperta” anche per il nostro tempo (pp. 221-223) in cui deve darsi una “concentrazione agapica” dello stesso, e in cui si deve approfondire la “grammatica ospitale della fede” (pp. 250; 257). Non è possibile dare ragione della ricchezza di questo studio. Certamente la scrittura scorrevole e chiara facilita lo sforzo del lettore nella comprensione anche dei passaggi più impegnativi dell’opera che non è appesantita da inutili e troppo frequenti rimandi in nota, pur mantenendo intatto il valore scientifico dello studio. Nell’economia del libro non risulta tuttavia chiara sino in fondo la posizione che occupa l’epilogo, dedicato alla straordinaria figura del Card. C. M. Martini, nel quale sembra proprio che l’Autore intenda leggere quasi l’incarnazione, per usare un’iperbole, di quanto è andato dicendo nel corso della sua indagine in riferimento soprattutto alla forma che il cristianesimo dovrebbe assumere nel presente e nel futuro per essere ancora significativo per l’uomo. Ricondurre il tutto alla figura straordinaria e all’opera altrettanto eccezionale dell’ex arcivescovo di Milano, infatti, si rivelerebbe alla fine inevitabilmente riduttivo perché lascerebbe fuori dall’orizzonte importanti elementi e prospettive che per forza di cose non rientrano nella visione — per quanto vasta, comunque pur sempre limitata — del Card. Martini. Questo dato, che a giudizio di chi scrive ha il solo “difetto” di non comporsi perfettamente con un percorso che va giudicato nel suo insieme coerente, lineare e armonico, non toglie assolutamente nulla al pregio di quest’opera la cui lettura non potrà che procurare delle


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salutari crepe nelle mura ben fortificate di quella cittadella in cui si sono rinchiusi molti “cristiani” di oggi, divenuti ormai custodi gelosi delle proprie provviste e sicuri delle proprie, sempre meno copiose, scorte. Francesco Brancato

M. BELDA, Guidati dallo Spirito di Dio. Corso di Teologia spirituale, EDUSC, Roma 2009, pp. 479 (Collana di manuali dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare della Pontificia Università della Santa Croce); ed. or.: Guiados por el Espíritu de Dios. Curso de Teología Espiritual, Ediciones Palabra, Madrid 2006, pp. 366 (Pelícano). Poter studiare su un testo che esponga in maniera chiara e concisa una disciplina teologica è una delle esigenze maggiormente avvertite dagli alunni delle Facoltà teologiche e degli Istituti Superiori di Scienze Religiose. Tale richiesta si coniuga bene anche con la necessità che molti docenti avvertono, dopo un congruo numero di anni di insegnamento, di raccogliere in un volume la propria riflessione sulla materia insegnata. Da qui la pubblicazione dei manuali che non hanno certamente la pretesa di presentare in modo approfondito tutta la materia, ma che costituiscono per gli studenti una buona base di studio e di riferimenti bibliografici. Anche nell’ambito della Teologia spirituale si editano sovente dei manuali, il cui fine è assicurare una discreta conoscenza della scienza teologica che studia «la vita spirituale in quanto processo progressivo di comunicazione e unione di amore tra l’essere umano e la Santissima Trinità, sotto l’azione santificatrice dello Spirito Santo» (p. 7). Il manuale che presentiamo è la traduzione in lingua italiana di un testo in spagnolo scritto nel 2006 — che, a sua volta, riprende la Dispensa ad uso degli studenti redatta a Roma nel 2003 — dal prof. Manuel Belda Plans, Ordinario di Storia della Spiritualità preso la Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce (Roma). Il testo si compone di quattro parti — precedute da un primo capitolo su “Lo statuto scientifico della Teologia spirituale” — seguite


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da dodici pagine di Bibliografia, assenti nell’originale spagnolo, che presentano anche qualche testo pubblicato negli anni 2006 e 2007. Il volume, al dire dell’Autore, mostra «agli alunni che studiano per la prima volta questa disciplina scientifica […] gli argomenti fondamentali della Teologia spirituale» (p. 7) e cioè: la «chiamata di Dio alla creatura umana per stabilire una comunicazione di vita con essa» (p. 39); il «rapporto di ogni cristiano con ognuna delle Persone divine» (p. 39); i lineamenti della vita cristiana, ovvero le dimensioni costitutive determinate da «alcuni fattori che, essendo parte della economia salvifica, contribuiscono a configurare la fisionomia della vita spirituale cristiana» (p. 39): la Chiesa — nella sua dimensione liturgica e apostolica — Maria e il mondo; la «risposta umana all’offerta divina della grazia» (p. 40). Il manuale è una presentazione lineare e piana dei dati tradizionali studiati dalla Teologia spirituale. Ci saremmo aspettati, in realtà, un maggiore — e, a nostro avviso, necessario — sforzo per ridire con categorie contemporanee le sempre classiche e fondamentali acquisizioni della riflessione teologica sull’esperienza spirituale cristiana e un più congruo numero di pagine dedicate a tematiche oggi particolarmente avvertite, quali la Parola di Dio e la vita spirituale, la lectio divina, il discernimento, l’accompagnamento spirituale, ecc. Avremmo gradito anche una presentazione chiara, e non solo un rimando bibliografico (cfr. p. 30 nota 29), del rapporto della Teologia spirituale con la Teologia dogmatica e la Teologia morale, considerato che il manuale si rivolge innanzitutto a studenti di Teologia. Facciamo notare come, nella riflessione contemporanea sulle tematiche prese in esame, l’Autore si soffermi soprattutto sui testi del Vaticano II, su documenti magisteriali degli ultimi Papi, sul Catechismo della Chiesa Cattolica, sulle opere di José Maria Escrivá De Balaguer e su testi di membri della Prelatura dell’Opus Dei e della Pontificia Università della Santa Croce, tralasciando di menzionare il pensiero di numerosi altri teologi, scelta questa che avrebbe impreziosito di certo il volume. A questo si aggiunga, l’assenza di una certa apertura all’attualità, attraverso la presentazione di altre tematiche di teologia spirituale, in special modo quelle maggiormente emergenti nell’oggi


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socio-ecclesiale, quali, ad esempio, il dialogo con l’uomo e la donna contemporanei, con la loro insopprimibile sete di spiritualità, la dimensione della corporeità, il rapporto tra spiritualità e culture e quello con le scienze umane, prima tra tutte la psicologia, solo per fare alcuni esempi. Riguardo alla metodologia, leggendo il volume, ci siamo accorti che, a volte, l’Autore riporta la citazione di un libro attinta da un altro volume, anziché citarlo direttamente (ci riferiamo ad esempio, ai seguenti due testi: E. Stein, Il mistero del Natale — cfr. p. 367 nota 37 — ; la citazione della Regula Benedicti — cfr. p. 339 nota 27; a proposito di questa ultima nota, Belda sarà sicuramente incappato in una distrazione perché attribuisce a Benedetto la Regula Magistri, cosa che non ritroviamo, giustamente, nel testo del frate domenicano statunitense J. Aumann, dal quale l’Autore attinge la citazione). In ordine agli Autori citati, il prof. Belda motiva fin dalla Prefazione la preponderante presenza nel volume di riflessioni di Escrivá de Balaguer a causa della propria appartenenza alla Prelatura dell’Opus Dei. In realtà, scorrendo le pagine del testo, ci accorgiamo di come, accanto al fondatore dell’Opus Dei, numerose siano anche le citazioni di appartenenti alla Prelatura (A. Aranda, J.L. Illanes e F. Ocáriz, solo per fare i nomi dei teologi maggiormente citati), citazioni attinte oltreché da studi scientifici, anche da Romana, Bollettino interno alla Prelatura. Pensiamo che questa scelta abbia voluto privilegiare il pubblico al quale si rivolge soprattutto il volume: gli studenti dei Centri accademici della Prelatura dell’Opus Dei e della Pontificia Università della Santa Croce e gli appartenenti tout court alla sunnominata Prelatura. Avremmo desiderato, invece, in un manuale di Teologia spirituale, un più ampio orizzonte di riflessioni teologiche e un maggior numero di citazioni di studi di esperti della materia, senza privilegiare una sola appartenenza ecclesiale e una sola prospettiva teologica. E a proposito di questo, notiamo come nella Bibliografia, oltre ad essere menzionata soltanto un’esigua parte dei tanti studi prodotti sulla Teologia spirituale in questo primo decennio del XXI secolo, sono assenti alcune ponderose opere quali, ad esempio, il Corso fondamentale di Spiritualità edito dall’Istituto di Spiritualità di Münster e il voluminoso testo di K. Waaijman La spiritualità. Forme, Fondamenti e


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Metodi, ambedue apparsi nel 2000 e recentemente tradotti anche in lingua italiana. Tra gli autori non citati menzioniamo De Cea, Ferlay, Frosini, Gioia, Lethel, Sagne, Stercal, Trabucco e, soprattutto, Secondin — il docente della Pontificia Università Gregoriana viene citato soltanto come curatore, con altri autori, di importanti opere — certamente tra i più rinomati, propositivi e prolifici, in quanto a pubblicazioni, teologi spirituali contemporanei. Riguardo al rapporto tra liturgia e spiritualità, oltre ad I. Biffi e M. Augé, ci saremmo aspettati la citazione dell’ultimo testo di Castellano Cervera — Liturgia y vida espiritual. Teología, celebración, experiencia, CPL, Barcelona 2006 — che rappresenta il punto finale della riflessione di uno dei più fecondi studiosi che tanto hanno scritto ed insegnato sul summenzionato rapporto. Pochi sono anche gli articoli di riviste scientifiche presenti nella Bibliografia, mentre vi appaiono alcuni articoli apparsi su quotidiani e, come già scritto sopra, su bollettini interni. Il testo presenta anche qualche imprecisione, quale, ad esempio, il nome della De Miribel scritto per esteso (questo, in verità, lo troviamo anche nel testo, cfr. p. 291 nota 20 e p. 367 nota 37) ed alcune evidenti tracce dell’originale in lingua spagnola (cfr., ad es.: p. 101 nota 12; p. 387 nota 31 e p. 408 nota 15; p. 401 nota 1). Lamentiamo, infine, l’assenza di considerazioni critiche conclusive — e, in generale, della Conclusione — che avrebbero permesso all’Autore di presentare sinteticamente, al termine del percorso, le principali linee del proprio pensiero sulla Teologia spirituale e di lanciare ulteriori prospettive di ricerca su tematiche non trattate da quello che l’Autore stesso definisce «un testo d’iniziazione» (p. 7). Mario Torcivia


Synaxis 1 (2009) 307-310

NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

1. LICENZIATI IN TEOLOGIA MORALE Ha conseguito la Licenza in Teologia morale, il 17 marzo 2009: TOGLO KOSSI MAWUENA JEAN, Tutela del nascituro nella società orale degli Ewe (Sud Togo). Per una morale inculturata della vita nascente. (relatore prof. Mario Cascone)

2. BACCELLIERI IN TEOLOGIA Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia, il 6 febbraio 2009: BARNABA IRENE GIOVANNA, «L’amico dello Sposo che sta e ascolta gioisce per la voce dello Sposo» (Gv 3,29). La figura di Giovanni il Battista nei cc 1-3 del vangelo di Giovanni. (relatore prof. Attilio Gangemi) GALLINA LUCA, Francofonte religiosa tra ’800 e ’900. (relatore prof. Gaetano Zito) GENOVESE ALESSANDRO, Perché piange la Madonnina?. Alla ricerca dei significati delle lacrime di Maria a Siracusa per il popolo cristiano nei 50 anni dell’evento. (relatore prof. Salvatore Consoli)


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Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

HARERIMANA SEBASTIEN, La pace messianica in Is 9, 1-5 e Is 2,2-4. (relatore prof. Attilio Gangemi) RIZZO VITA VALERIA, L’utilizzazione del cap. 24 del libro del Siracide nel vangelo di Giovanni. (relatore prof. Attilio Gangemi) VITALE GIOVANNI, I sacramenti dell’iniziazione cristiana nelle “Costituzioni dei Santi Apostoli per mano di Clemente”. (relatore prof. Giuseppe Federico) PIZZO MAURIZIO, L’esperienza educativa della scuola di Barbiana e il suo contributo alla pastorale del ’900. (relatore prof. Antonio Fallico) PAVONE GIUSEPPE, L’obiezione di coscienza in don Lorenzo Milani. (relatore prof. Corrado Lorefice) VASSALLO SALVATORE FABIO, Il processo di Gesù davanti a Pilato. Confronto con i racconti sinottici (Mt 27,11-31; Mc 15,1-20; Lc 23,1-25); il racconto di Giovanni (18, 28-19,26) e l’analisi di Gv 19, 1-3. (relatore prof. Attilio Gangemi) TOSTO ANTONINO, La concezione del “Dialogo” nelle Apologie di Giustino. (relatore prof. Rosario Gisana) IACONO MICHELE, La povertà nella vita e negli scritti di Giorgio La Pira. (relatore prof. Corrado Lorefice)


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CATALANO CLAUDIO, Il fondamento cristologico nel’etica di Dietrich Bonhoeffer. (relatore prof. Corrado Lorefice) ULLO STEFANO, La formazione presbiterale ne progetto pastorale delle Chiese di Sicilia. Linee emergenti nei documenti ufficiali dal 1980 al 1995. (relatore prof. Maurizio Aliotta)

3. NOMINE EPISCOPALI In data 22 gennaio 2009, Benedetto XVI ha nominato vescovo di Nicosia SALVATORE MURATORE del clero dell’Arcidiocesi di Agrigento. In data 22 gennaio 2009, Benedetto XVI ha nominato vescovo di Noto ANTONIO STAGLIANÒ del clero della Diocesi di Crotone-Santa Severina.

4. DISPUTATIO Il 20 febbraio 2009 si è tenuto l’atto conclusivo della Disputatio sul tema: «Per una teologia delle religioni. Presentazione storica e teologica». Ha guidato questo momento don Gianni Colzani della Pontificia Università Urbaniana di Roma. All’incontro hanno partecipato docenti e alunni dello Studio Teologico S. Paolo che si sono confrontati in gruppi di Studio e in aula sui molteplici aspetti del tema.

5. COLLOQUIO INTERDISCIPLINARE Il 3 aprile 2009 si è tenuto presso lo Studio Teologico S. Paolo la terza ed ultima parte del Colloquio interdisciplinare sul tema «Definitività delle scelte, oggi, nella Chiesa».


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Sono intervenuti Franco Conigliaro “La mutabilità e fedeltà di Dio nella fede ebraico-cristiana”; Adolfo Longhitano “La questione oggi della mobilità dei vescovi e dei parroci”; Giuseppe Buccellato “Criteri di discernimento e accompagnamento spirituale per una scelta definitiva oggi”; ha moderato il colloquio Egidio Palumbo.




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