Synaxis 27 3 (2009)

Page 1

Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 1

SYNAXIS XXVII/3 – 2009

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 2


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 3

SOMMARIO

Sezione teologico-morale TEOLOGIA E STORIA. LA CHIESA DINANZI AI “VARI MODI DI PARLARE DEL NOSTRO TEMPO” (GS 44) (Rosario La Delfa) . . . . . . . 1. Il significato dell’espressione «segni dei tempi» . . 2. Il ruolo del teologo . . . . . 3. Requisiti e atteggiamenti del discernere . . 4. Criteri di discernimento . . . . . Conclusione . . . . . . .

. . . . . .

7 11 19 22 23 25

L’INIZIO E LA FINE DI TUTTE LE COSE. IL PENSIERO DI LUIGI STURZO (Francesco Brancato) . . . . . . Introduzione . . . . . . 1. Nel Fiat divino il senso della creazione . . . 2. La creazione sotto il segno del peccato . . . 3. La creazione sotto il segno della salvezza: creatio ex amore 4. La vitalità divina e la creatio continua . . . 5. La creatio nova . . . . . . 6. Il mistero della morte . . . . . 7. La risurrezione di Cristo e quella del cristiano . . Conclusione . . . . . . .

. . . . . . . . . .

27 27 30 32 33 39 43 49 52 60

IL MINISTERO SACERDOTALE NEL PENSIERO DEL VESCOVO MARIO STURZO: FORMAZIONE E SPIRITUALITÁ DEI SACERDOTI (Pasquale Buscemi) . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . 1. I fermenti culturali al tempo dell’episcopato di Mario Sturzo . 2. La formazione teologica, culturale e spirituale dei sacerdoti .

63 63 65 67


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 4

3 La missione e l’identità del sacerdote . . . 4. Il Seminario . . . . . . 5. Caratteristiche e attitudini del seminarista nella lettera pastorale Il Seminario . . . . . 6. La formazione dei seminaristi e il curriculum studii . 7. I compiti del sacerdote nella lettera pastorale Il Seminario 8. La Congregazione degli Oblati di Maria . . 9. L’identità sacerdotale e la spiritualità degli Oblati . 10. La spiritualità sacerdotale nel pensiero di Mario Sturzo. LO SVILUPPO DELLA CATEGORIA DI LOGOS NELLA TEOLOGIA DI JOSEPH RATZINGER (Alfio Cristaudo) . . . . . . . Introduzione . . . . . . . 1. I presupposti agostiniani per lo sviluppo della teologia di Ratzinger . . . . . . . 2. La sintesi di Introduzione al cristianesimo . . 3. L’accentuazione della prospettiva ontologica della creazione nel concetto di Logos . . . . . Conclusioni . . . . . . .

. .

73 79

. . . . . .

87 94 99 103 111 114

. .

121 121

. .

123 132

. .

149 156

. . . . .

157 157 159 163 165

Sezione miscellanea ORIGINE ED ECOLOGIA DELLA VITA E DELLE COMUNITÁ DI ORGANISMI: UN APPROCCIO ECOSISTEMICO TRA COEVOLUZIONE E SINERGIE RELAZIONALI (Giuseppe Giaccone) . . . . . . Premessa . . . . . . . 1. La nicchia ecologia dell’origine della vita . . 2. Habitat attuali di ecosistemi primordiali . . 3. Speculazioni in libertà . . . . .

RELAZIONI ED EVOLUZIONE NELL’UNIVERSO: UN APPROCCIO CONOSCITIVO ALLA BASE DEL RAPPORTO UOMO-NATURA (Daniele Spadaro) . . . . . . . .

171


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 5

IL CONTRIBUTO SPECULATIVO DI ARMANDO RIGOBELLO (Enrico Piscione) . . . . . . . .

181

Nota FRANCO VOLPI FILOSOFO:UN RICORDO (Salvatore Latora) . . . .

.

.

.

.

185

Recensioni .

.

.

.

.

.

.

.

.

193

Presentazione

.

.

.

.

.

.

.

.

203

.

.

207

NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 6


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 7

Sezione teologico-morale Synaxis 3 (2009) 7-26

TEOLOGIA E STORIA LA CHIESA DINANZI AI “VARI MODI DI PARLARE DEL NOSTRO TEMPO” (GS 44)* ROSARIO LA DELFA**

Sebbene l’oggetto della teologia sia senza tempo, il discorso che la fede elabora è legato esclusivamente al tempo, ovvero alla comprensione mai esauribile del mistero che si comunica agli uomini fin dalla creazione. La teologia ha come soggetto la Chiesa, e in quanto atto dell’uomo, è perciò sempre cosciente della dimensione peculiare dell’esistere, e di questa coglie permanentemente e specificamente lo spessore teologale. Alla luce della rivelazione essa rende ragione della connessione tra vita e fede, tra credere e agire. In tal senso, nel cuore di ogni atto teologico si pone l’esigenza di una conoscenza interiore della realtà che sia frutto di discernimento, capacità cioè di leggere sempre la storia anche come storia di salvezza1. Tre testi conciliari sembrano essere decisivi a questo scopo: il primo, tratto dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo moderno, Gaudium et spes 4, identifica come dovere proprio della Chiesa, per continuare,

*

Prolusione tenuta in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Accademico dello Studio Teologico S. Paolo di Catania il 6 novembre 2009. ** Docente di Ecclesiologia presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia S. Giovanni Evangelista. 1 Cfr. G. RUGGERI, La teologia dei «segni dei tempi»: acquisizione e compiti, Associazione Teologica Italiana, Teologia e storia: l’eredità del ’900, a cura di G. Canobbio, Milano 2002, 33-77.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 8

8

Rosario La Delfa

sotto la guida dello Spirito, l’opera di Cristo2, non solo l’ascolto del Vangelo, ma anche il “compito” di scrutare e interpretare i “segni dei tempi”, una espressione, che già a partire da Giovanni XXIII si riempie di significato3 e trova spazio nella riflessione magisteriale posteriore, specialmente conciliare: «Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche»4.

Il secondo testo, riscontrabile in Gaudium et spes 11, richiama la necessità di leggere nelle situazioni temporali con la luce dello Spirito i segni della presenza di Dio nella storia: «Il popolo di Dio, mosso dalla fede, per cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, e perciò guida la intelligenza verso soluzioni pienamente umane»5.

Il terzo passo, da Gaudium et spes 44, specifica il soggetto chiamato a questo impegno e il suo scopo:

2 Cioè: «[…] continuare, sotto la guida dello Spirito Paraclito, l’opera stessa di Cristo, […]»: Gaudium et Spes 3, in EV 1/1325. 3 Cfr. GIOVANNI XXIII, Humanae salutis, Documento di indizione del Concilio ecumenico Vaticano II, 25 dicembre 1961, in AAS 54 (1962), 5-13: EV 1/1*-23*. 4 Gaudium et Spes 4, in EV 1/1324. 5 Gaudium et Spes 11, in EV 1/1352.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 9

La Chiesa dinanzi ai “vari modi di parlare del nostro tempo” (GS 44) 9 «È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta»6.

Alla Chiesa giunge dal Concilio un imperativo categorico: leggere i segni dei tempi è suo dovere imprescindibile e «permanente», non un compito marginale e occasionale. Soggetto del compito di leggere… è più marcatamente tutto il popolo di Dio «soprattutto […] pastori e […] teologi»7. Quindi tutta la comunità dei credenti «mossa dalla fede», sia pure con ruoli differenziati secondo doni, carismi e ministeri, [e tra questi la teologia] partecipa a questo compito fondamentale, che è «atto teologale, attivazione di un dono dello Spirito»8. Scrive U. Vanni: «Non è privilegio di nessuno, e nessuno può ritenersene estraneo»9. È una comune responsabilità che ha come fondamento il senso della fede, di cui ogni credente è dotato, in forza dello Spirito Santo, «suscitato e sorretto dallo Spirito di Verità»10. Si tratta di un impegno esigente perché la Chiesa si autocomprenda al servizio della Verità rivelata e si autodefinisca «come mediatrice di essa nel mondo»11. Dal documento conciliare Gaudium et Spes si ricava, inoltre, non l’idea di una Chiesa onnisciente, che presume di sapere tutto, ma 6 Gaudium et Spes 44, in EV 1/1461. Per precisare ancor meglio i soggetti che, secondo il Concilio, sono adeguati a svolgere la funzione di leggere ed interpretare i segni dei tempi, bisogna far riferimento anche ad altri testi: Presbyterorum Ordinis 9, in EV 1/1271-1276: “sacerdoti e laici” ed Unitatis Redintegratio 4, in EV 1/508-509: “fedeli cattolici”. 7 Gaudium et Spes 44. 8 S. LANZA, Introduzione alla teologia pastorale 1. Teologia dell’azione ecclesiale, Brescia 1989, 213. 9 U. VANNI, Discernimento e comunità negli scritti giovannei, in Servizio della Parola 114 (1983) 33, cit. da S. LANZA, Introduzione alla teologia pastorale, cit., 212. 10 Lumen Gentium 12, in EV 1/317. 11 Cfr. R. FISICHELLA, La rivelazione: evento e credibilità. Saggio di Teologia fondamentale, Bologna 1985, 347.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 10

10

Rosario La Delfa

quella di una Chiesa che ha piuttosto la sapienza di essere e di riconoscersi pellegrina nel tempo insieme con l’uomo alla ricerca dell’autentica volontà di Dio, che opera, mediante il Suo Spirito, anche al di là dei cancelli della cattolicità e sconfina nel territorio dei non credenti. Oggetto materiale e formale della teologia è dunque anche ascoltare, discernere, interpretare e giudicare i vari modi di parlare del nostro tempo, come segni nel tempo della presenza di Dio (cfr. Gaudium et spes 11). Paolo VI, nel discorso di chiusura del Concilio, tuttavia mette in guardia contro un’interpretazione di maniera dei segni dei tempi, che ne limiterebbe il significato riducendolo all’«attualità passeggera», alle mode in materia di cultura, alle necessità contingenti, e dichiara che «il culto dell’uomo» è il «nuovo umanesimo» della Chiesa e l’amore del «Samaritano» è il «modello di spiritualità del Concilio»12. È certo che l’ingresso della formula «segni dei tempi», presente nella lettera e più nello spirito dei testi conciliari e del magistero prima, durante e a conclusione del Concilio, ha avuto, per così dire, una forza dirompente, quella, cioè, di sradicare una certa «spiritualità» astorica e di radicare sempre più nelle coscienze la convinzione che non c’è fede senza la storia, come non c’è salvezza e non si può fare neanche teologia senza la storia. G. Gennari, in un suo scritto sul tema, suggerisce: «La teologia nasce nella storia, si legge nella storia, è orientata alla storia, perché Dio si è fatto parola ed evento solo nella storia, e il Cristianesimo non è un sistema di idee, ma un’economia di salvezza»13.

12

C. BOFF, Segni dei tempi, Roma 1983, 78. G. GENNARI, Segni dei tempi, in Nuovo dizionario di spiritualità, Cinisello Balsamo 1985, 1400-1422: col. 1404. 13


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 11

La Chiesa dinanzi ai “vari modi di parlare del nostro tempo” (GS 44) 11

1. IL SIGNIFICATO DELL’ESPRESSIONE «SEGNI DEI TEMPI» 1.1. Senso storico – sociologico Quando il Concilio parla di segni dei tempi, non ne parla in maniera univoca: le determinazioni semantiche variano da un testo all’altro. A questo proposito mi servo dell’analisi che del significato fa C. Boff14. La sua indagine enuclea quattro accezioni. La prima suggerisce che segno del tempo è Gesù Cristo; è il significato esegetico, cioè escatologico-messianico, propriamente cristologico, che troviamo in Mt 16,3. La seconda implica che segni dei tempi sono gli eventi storici, in quanto rivelatori della storia di Dio; è il significato strettamente teologico, che si coglie attraverso l’articolazione di un processo: vedere l’evento storico, giudicare tale evento alla luce della fede, proporre come conseguenza le linee di un agire. Risulta la connotazione senza dubbio più ricca, anche se non è con sufficiente esplicitazione «denotata». La terza accezione suppone che segni dei tempi sono le «questioni di ordine temporale»15, i problemi dell’era moderna: «i grandi problemi del nostro tempo»16. È il significato corrente dell’espressione, che equivale al nome religioso dei fatti storici. La quarta indica che segni dei tempi sono i fatti, e qualsiasi fatto, significativi: è l’espressione che è entrata nel linguaggio giornalistico ed è l’equivalente profano di un termine nato in ambito religioso. Ad ogni modo l’espressione «segni dei tempi» fa riferimento a fatti carichi di un significato che li rende segni, e segni del processo di evoluzione dell’umanità, per cui, come suggerisce R. Fisichella: «[…] il credente è confermato nel verificare l’immutato e drammatico agire di Dio nella storia, e il non credente è orientato ad individuare scelte sempre più vere, coerenti e fondamentali a favore di una promozione globale dell’umanità»17. 14

Cfr. C. BOFF, Segni dei tempi, cit., 100. GIOVANNI XXIII, Humanae salutis, cit., in EV 1/1*-23*. 16 CH. MOELLER, L’élaboration du Schéma XIII. L’eglise dans le Monde de ce temps, Paris 1968, 132, cit. da C. BOFF, Segni dei tempi, 100. 17 R. FISICHELLA, La rivelazione: evento e credibilità, Bologna 1985, 349. 15


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 12

12

Rosario La Delfa

Ogni segno è mediazione, relazione fra una realtà non immediatamente percepibile che si manifesta proprio mediante il segno, e un soggetto che, mediante il segno, può captare o leggere la realtà significata. Il segno, perciò, ha il limite di non essere la realtà stessa, ma nel contempo ha la capacità di rendere possibile la conoscenza di quella realtà che altrimenti rimarrebbe nascosta. Se vogliamo approfondire il senso dell’espressione «segni dei tempi» come essa è stata assunta dal Concilio, dobbiamo considerarla dal punto di vista sociologico prima che teologico. Osserva M. D. Chenu: «Anche se trasferita nell’ambito delle realtà religiose, l’espressione “segni dei tempi” non perde nulla del suo contenuto sociologico; fa parte dunque di una sana teologia prendere in considerazione l’analisi che di essa hanno potuto fare, a livello fenomenologico, storici e filosofi»18.

e non solo. La mediazione dell’analisi storico-sociologica è un momento necessario al discorso teologico19. Considerando i segni dei tempi antropologicamente, si può accettare la classificazione, sia pure generica, che ne fa Chenu. Egli li distingue in naturali, convenzionali e storici. Chiama naturali quei segni che sono legati alla natura delle cose, come un’orma nella neve, una pianta nel deserto, il fumo, che ci rimandano immediatamente alla realtà significata. Chiama segni convenzionali quelli che sono frutto dell’iniziativa dell’uomo, come stringere la mano o dare un bacio o i vari segni del linguaggio, perché tra questi segni e la realtà significata esiste una relazione di conoscenza e libertà, quindi contingente. Chiama, infine, segni storici quei fatti che hanno come protagonista 18

M.D. CHENU, I segni dei tempi, in La Chiesa nel mondo contemporaneo, Brescia 1966, 85-102: 92. 19 Lo affermano con decisione L. BOFF e C. BOFF, Come fare teologia della liberazione, Assisi 1986, 43, anche se si riferiscono ad un aspetto particolare della teologia: «Perciò conoscere il mondo reale dell’oppresso fa parte (materiale) del processo teologico globale. É un momento o mediazione indispensabile, ancorché insufficiente, per una ulteriore e più profonda comprensione, che è il sapere della fede».


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 13

La Chiesa dinanzi ai “vari modi di parlare del nostro tempo” (GS 44) 13

l’uomo e assumono una portata diversa: si tratta di veri e propri «eventi» che valgono non tanto per quello che sono in se stessi, ma per il significato che racchiudono. La presa della Bastiglia, ad esempio, fu sì una rivolta di un gruppo di ammutinati parigini, ma diventò un evento tanto significativo da essere assunto come simbolo di una rivoluzione, la cui ripercussione è durata per un secolo in tutto il mondo20. Fra il segno storico e la realtà significata si instaura così una relazione fondata nella coscienza collettiva e, in certa misura, universale. Perciò quando si parla di segni dei tempi, non ci si riferisce ai fatti in se stessi, ma in quanto eventi, cioè fatti o situazioni carichi di significato. E il significato va cercato, più che nel succedersi degli accadimenti, nell’esplosione delle aspirazioni profonde e universali di cui gli uomini di una certa epoca prendono coscienza come di una realtà collettiva. Come le nuvole che non diventano pioggia fin quando la densità non trasforma il vapore in acqua, così le aspirazioni umane, quando c’è la coscienza della loro universalità, acquistano una tale densità, in profondità ed estensione, che non è più possibile frenarne la manifestazione esterna, ed esplodono determinando un’epoca, un momento della storia. Può accadere che un fatto, compiuto da pochi, provochi un consenso, perché, agendo da catalizzatore di desideri e di tendenze, suscita quella coscienza collettiva che, in altre circostanze, sarebbe rimasta sopita, imprigionata. Dice M. Midali a questo proposito: «[…] i segni dei tempi sono per così dire le linee di forza di un’epoca, sono quegli eventi che manifestano gli orientamenti di fondo che soggiacciono ai fatti contingenti e che mostrano, sia pure parzialmente, le prospettive caratteristiche di un’epoca, le sue sensibilità, i suoi punti di vista preferiti, le sue aspirazioni e attese. Di conseguenza cogliere i segni dei tempi significa comprendere lo spirito di un’epoca»21.

20

Cfr. M.D. CHENU, I segni dei tempi, 93. M. MIDALI, Teologia pastorale o pratica. Cammino storico di una riflessione fondante e scientifica, Roma 1991, 126. 21


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 14

14

Rosario La Delfa

Nel momento in cui individuiamo i segni di una realtà che li supera, gli eventi non vengono svuotati, però, del loro contenuto immediato, non perdono il loro carattere di fenomeni o di eventi particolari; il significato degli eventi e dei fenomeni è incarnato nella stessa realtà storica, non è una sovrapposizione: essi sono segni in se stessi, nella loro piena e caratteristica concretezza. Perciò bisogna rispettarli e non strumentalizzarli, ascoltarli, seguendo le leggi loro proprie, senza tendere ad una prematura valutazione22.

1.2. Senso teologico Il significato teologico dato all’espressione «segni dei tempi» dal Concilio Vaticano II ha come fondamento un presupposto: la storia umana e la storia della salvezza non sono due storie sovrapposte o parallele o contrapposte, ma l’unica storia dell’umanità in cui si attua il disegno di salvezza voluto dal Padre in Cristo23. Il Dio che ha creato tutte le cose è lo stesso Dio che ha voluto salvare l’umanità perché giungesse alla sua pienezza. Perciò la storia della salvezza si inserisce e si sviluppa nella storia dei popoli e, sebbene non si identifichi con essa, non accade fuori o al margine di essa. M. Midali, commentando la frase del documento conciliare «negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni […] del nostro tempo» occorre discernere «i segni della presenza […] di Dio»24 e tenendo presenti le interpretazioni non univoche di tanti teologi, osserva, a buon diritto, che si è spesso equivocato sul concetto di «segni dei tempi», per cui è utile precisarlo, chiarendo i termini chiave di «storia» e di «presenza». Anzitutto i segni dei tempi emergono da una storia che non si deve considerare come una «miniera di 22

Cfr. G. RUGGERI, Tempi dei segni e segni dei tempi: dalla Humanae salutis alla Gaudium et spes, in Parola spirito e vita 1 (2003) 253-264. 23 Cfr. G. RUGGERI, I segni dei tempi: una prospettiva teologica, in Leggere i segni dei tempi. Europa, culture, religioni. Atti della XL sessione di formazione ecumenica, Chianciano Terme, 26 luglio – 1 agosto 2003, a cura del Segretariato Attività Ecumeniche, Milano 2004, 40-55. 24 Gaudium et Spes 11, in EV 1/1352.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 15

La Chiesa dinanzi ai “vari modi di parlare del nostro tempo” (GS 44) 15

fatti o esempi utili per illuminare una dottrina». Tali fatti perciò non possono avere una mera funzione strumentale, in quanto sono vita vissuta, «eventi» che presuppongono libere scelte umane e che diventano materia di riflessione teologica, perché suscitano «una nuova consapevolezza» e stimolano «una presa di posizione di fronte a una misteriosa presenza operativa di Dio che si rivela appunto in tale vissuto». Ma come intendere tale presenza? Dio non è una specie di «super-agente della storia accanto agli uomini piccoli protagonisti», né è Colui che opera in settori particolari della storia: «l’azione di Dio investe l’intera esistenza umana, nel rispetto delle cause seconde», né può essere intesa «come una sovrapposizione», nel senso che «essa punterebbe ad una finalità evangelica» e, quindi, «l’avvenimento diventerebbe un appello». Queste considerazioni prospetterebbero una visione dualistica, che la Gaudium et Spes ha cercato di superare. Il punto di vista di Midali è enunciato con chiarezza: «La presenza di Dio significata dai segni dei tempi va intesa […] come incontro della libertà divina e della libertà umana nel santuario della coscienza degli uomini»25.

Aveva già osservato G. Gennari: «l’ingresso così spontaneo e insieme così prepotente della formula segni dei tempi nella lettera e soprattutto nello spirito del magistero conciliare e della teologia contemporanea è uno degli effetti rilevanti di quella che può essere definita la più grande e definitiva presa di coscienza esplicita ed organica della storicità come categoria fondamentale ed universale, che quindi viene a segnare di sé tutta la concezione della rivelazione, della fede, della chiesa, della salvezza, della teologia»26.

25 M. MIDALI, Teologia pastorale o pratica. Cammino storico di una riflessione fondante e scientifica, 127-128. 26 G. GENNARI, Segni dei tempi, col. 1403.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 16

16

Rosario La Delfa

Più avanti, volendo precisare l’intimo rapporto tra Rivelazione e segni dei tempi lo stesso autore affermava: «La Rivelazione non è solo teofania, apparizione di Dio che si vede e parla, ma teo-ergia, presenza di Dio che opera»27.

Non vale soffermarsi qui a descrivere il senso e la portata di ciò che si è andato affermando, ma non è possibile dimenticare che una certa «spiritualità» astorica ha impregnato la riflessione teologica passata, presupponendo che l’incontro con Dio, la salvezza, si collocasse su un piano meta-storico, in una certa regione dell’anima umana, non inquinata dal tempo e dallo spazio; di conseguenza le vicende storiche sono state spesso viste come marginali o parallele, comunque esterne alle vicende della salvezza. «E invece nella riflessione teologica degli ultimi decenni» — l’affermazione è ancora di Gennari — «per merito particolare di teologi come Newman, Teilhard de Chardin, Congar, Chenu, Daniélou, Rahner, De Lubac, Schillebeeckx, ecc. si impone sempre più la consapevolezza che il tempo entra pienamente nella vita dello spirito umano, e costituisce una caratteristica essenziale di ogni esperienza umana, anche dell’esperienza della fede, che ha come oggetto permanente e come luogo di realizzazione una “economia” di salvezza realizzata nella storia stessa. […] La fede è risposta ad un evento, la salvezza è evento essa stessa, la teologia può esistere solo prendendo le mosse dai fatti, da Abramo a Cristo e alla chiesa viva nel tempo e nello spazio […]. Il senso vero della storia è l’incontro storico e reale di Dio e dell’uomo. La salvezza viene nella storia e attraverso la storia, sicché tutta la storia diventa segno possibile della venuta salvifica, segno del tempo prezioso della salvezza»28.

Il principio teoretico fondativo di questa lettura teologica della storia è certamente il «principio d’incarnazione»: sulla portata totalizzante del «principio d’incarnazione», insisterà lungo tutto il suo pontificato Giovanni Paolo II, che già in Redemptor hominis, la sua 27 28

Ibid., col. 1410. Ibid., coll. 1404-1405.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 17

La Chiesa dinanzi ai “vari modi di parlare del nostro tempo” (GS 44) 17

prima enciclica, metteva «[…] in stretto parallelismo Cristo e l’uomo come “via” della Chiesa»29, e non l’uomo astratto, astorico, ma reale, storico, concreto, nella singolarità irripetibile della sua identità personale e nello spessore concreto della sua situazione30. Si tratta allora di fare un’interpretazione profetica della storia, come si evince da quanto si è andato dicendo, che intende cogliere nei segni dei tempi la presenza dell’azione dello Spirito Santo: «azione che non si sovrappone né si giustappone a quella degli uomini, ma è rinvenibile sempre e soltanto in e attraverso la loro stessa azione (legge dell’incarnazione – storicità della rivelazione)»31.

La lettura attenta dei segni dei tempi, il loro discernimento, la loro interpretazione e il giudicarli alla luce della Parola di Dio, afferma F. Morton32, porta ad un duplice risultato: evangelizza la chiesa, perché «la Verità rivelata viene capita sempre più a fondo e viene meglio compresa», e l’aiuta nella evangelizzazione, perché la stessa Verità «può venir presentata in forma più adatta» agli uomini di ogni cultura e generazione33. Lo studioso ribadisce un concetto che è presente in altri teologi, con una accentuazione dell’azione dello Spirito Santo; afferma, infatti, che: «Il fondamento ultimo di questo scambio vitale tra parola scritta, letta nella Chiesa, e parola non scritta, letta nella storia, è la presenza dello stesso Spirito di Dio nella Scrittura, nella Chiesa, nelle culture, nelle religioni e nel cuore degli uomini»

29

L.c. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Redemptor hominis 13, in EV 6/1207: «Gesù Cristo è la via principale della Chiesa […]»; 14, in EV 6/1209: «L’uomo […] è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’incarnazione e della redenzione». 31 S. LANZA, Introduzione alla teologia pastorale 1. Teologia dell’azione ecclesiale, cit., 82. 32 Cfr. F. MORTON, Una chiesa evangelizzata per evangelizzare, in Credere oggi 67 (1992) 1, 66. 33 Gaudium et Spes 44, in EV 1/1461. 30


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 18

18

Rosario La Delfa

e non risparmia la citazione di molti testi conciliari di riferimento: «(crf. AG 3.11.15; GS 10.11.22.26.38.41.91-93; RM 29-29). La chiesa ha il dovere di lasciarsi evangelizzare dallo Spirito, qualunque sia il luogo da cui vuole parlare: questa disponibilità a “imparare” dalla storia le permetterà di penetrare sempre più a fondo la parola di Dio e di annunciarla con maggiore efficacia»34.

La Chiesa, la comunità dei credenti, allora, in base alla dottrina dell’incarnazione, non può non prendere in considerazione i segni dei tempi, e li dovrà leggere nella loro attualità, anzi sarà capace di percepirli solo se sarà presente in questi tempi, addirittura se sarà «in affettuosa comunione» con essi35. Nel processo di interpretazione di questi segni la tradizione non va considerata soltanto come un deposito di passato da conservare, ma anche «in relazione con gli eventi del mondo, con le diverse culture dei popoli in cui la Chiesa si inserisce nel corso dei secoli. È chiaramente percepibile il rapporto tra la tradizione vivente e l’azione di Dio che prosegue nella storia»36.

Giacché «la chiesa», commenta Chenu, «è in atto il luogo teologico della verità presente nel Vangelo; è in atto, oggi, il segno dell’economia della salvezza nella storia. Il tempo le offre i segni dell’attesa attuale del Messia già venuto, i segni della coerenza del Vangelo con le speranze degli uomini»37.

Si supera così un certo dualismo o una forma di occasionalismo, derivati da una concezione della grazia e della natura, per cui la natura 34

F. MORTON, Una chiesa evangelizzata per evangelizzare, cit., 66-67. Cfr. M.D. CHENU, I segni dei tempi, cit., 94. 36 La frase è di mons. F. Marty, arcivescovo di Reims, cit. da M.D. CHENU, I segni dei tempi, cit., 97, nota 9. 37 Ibid., 97. 35


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 19

La Chiesa dinanzi ai “vari modi di parlare del nostro tempo” (GS 44) 19

è considerata per se stessa e la grazia come qualcosa d’estrinseco, senza alcun rapporto né con la natura né con la storia, «come se la grazia si adagiasse sulla natura! Come se il Regno di Dio si posasse sul mondo, semplice impalcatura di una città futura!»38

(s’intende qui il dualismo annessi-dottrina; natura-sopranatura; storiametafisica). Data questa unicità della storia che non vuole negare l’autonomo agire dell’uomo e di Dio, si capisce perché gli avvenimenti, senza nulla perdere del loro significato sociologico, possono essere letti ed interpretati alla luce della fede; non che la fede aggiunga qualcosa che senza di essa non ci sarebbe, ma solo grazie ad essa si può penetrare in profondità il piano di salvezza di cui sono segno. Così, in quello che gli uomini considerano il corso della storia, il cristiano scopre il piano di Dio: la stessa realtà che ha un significato naturale e storico, ha anche un significato trascendente e percepibile solo nella fede. Gli stessi avvenimenti si presentano così come una coscienza, sia per la Chiesa che per il mondo. Manifestano un’apertura ai valori spirituali mediante i quali l’uomo si trova sul cammino che lo conduce al Dio vero, trascendente e personale. Sono fenomeni umani impregnati della capacità di accogliere il Vangelo e di cui Dio si serve per sviluppare, non solo nell’uomo preso isolatamente, ma nell’intera umanità, tutta la «capacitas Dei», la disponibilità alla vita divina39.

2. IL RUOLO DEL TEOLOGO La comunità mossa dallo Spirito, ciascun membro al suo interno e «soprattutto pastori e teologi» ascoltano, discernono, interpretano e giudicano. L’espressione «soprattutto pastori e teologi» non è un inciso, vuole piuttosto significativamente indicare il ruolo insostituibile di guida autorevole dei pastori e dei teologi in una comunità, pur 38 39

Ibid., 98. Cfr. ibid., 98-99.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 20

20

Rosario La Delfa

dotata, a diversi livelli, del senso della fede in forza dell’unzione dello Spirito. Già le Scritture attestano che il discernimento era una esigenza della comunità: veniva raccomandato alle prime comunità cristiane di cogliere nello Spirito le indicazioni per agire. Paolo nella lettera ai Romani esorta: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi, per potere discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto» (Rm 12,2) e nella prima lettera ai Tessalonicesi: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie, esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Ts 19,21) e Giovanni nella sua prima lettera invita a mettere alla prova le ispirazioni «per saggiare se provengono veramente da Dio» (1Gv 4,1). Dopo il Concilio Vaticano II discernimento è diventato: «[…] espressione dinamica della comunione ecclesiale e metodo di formazione spirituale, di lettura della storia e di progettazione pastorale […]»40.

Non può ridursi ad una disquisizione teorica o accademica, né può esaurirsi, come giustamente scrive B. Seveso, unicamente in una riflessione teologica. Esso «[…], è coesteso all’agire ecclesiale in tutta la sua ampiezza»41. B. Forte individua una triplice esigenza del discernere: «[…] di riconoscere i segni della presenza del Mistero, di denunciare la miopia di quanto vi si oppone e di aiutare la chiesa a crescere nella comunione e nel dialogo della carità con la comunità degli uomini»42.

Oggetto di discernimento è questo tempo, kairoév: non il tempo 40 CEI, Con il dono della carità dentro la storia. La Chiesa in Italia dopo il convegno di Palermo, Milano 1996, 21. Per gli ulteriori sviluppi nella riflessione pastorale italiana, cfr. G. COLZANI, La speranza scelta pastorale della Chiesa italiana (Itinerari), Bologna 2008. 41 B. SEVESO, Edificare la Chiesa. La teologia pastorale e i suoi problemi, Torino 1982, 404. 42 B. FORTE, La teologia come compagnia, memoria e profezia, Cinisello Balsamo 1987, 160.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 21

La Chiesa dinanzi ai “vari modi di parlare del nostro tempo” (GS 44) 21

atmosferico e cronologico (kronos), ma il tempo della salvezza, cioè il tempo che è costituito dall’evento Cristo. Questo discernimento fondamentale fornisce sempre alla comunità credente il quadro di riferimento: Cristo è la pietra di paragone, di inciampo. Altrimenti il discernimento è solo giudizio umano, frutto di prudenza, di buon senso, apprezzabile certamente, ma non cristiano. Nel cristiano, come dono dello Spirito, esso è atto teologale. Questo però non significa che deve mancare al cristiano l’impegno della conoscenza, della competenza, il diligente e costante tirocinio della ricerca, dell’assunzione della complessità della storia. «Lungi dal chiudersi in un tranquillo castello di facili certezze, la teologia, coscienza critica della chiesa tutta impegnata a discernere i segni dei tempi, dovrà vivere sulla breccia della storia, nel dialogo e nella compagnia esigente e feconda con gli uomini, che fanno la reale vicenda in cui è posta»43.

Anche la Parola, per essere ascoltata fedelmente, è oggetto di discernimento. Essa, nel discernimento «[…] si lascerà rischiarare di risonanze nuove, di echi impensati, in una fusione di orizzonti fra la testimonianza originaria e il presente, che è vera esperienza di apertura al nuovo di Dio. È così che l’avvento cammina con l’esodo: […]»44.

Nella prospettiva dell’esodo chi discerne può avanzare proposte certamente provvisorie, ma ugualmente credibili, «[…] perché radicate nella fedeltà all’uomo e nell’esigente e normativa fedeltà alla Parola di Dio. Leggendo la storia nel Vangelo, il discernimento teologico viene a leggere analogamente il Vangelo nella storia: […]»45.

43 44 45

Ibid., 162. L.c. Ibid., 163; cfr., CEI, Rinnovamento della Catechesi, cap. 9, parte I (n. 160ss).


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 22

22

Rosario La Delfa

In fondo il punto di fusione tra il testo di Matteo 16, 3 («Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi? ») e i segni dei tempi, di cui parlava Giovanni XXIII si situa, a mio parere, nel momento in cui la Chiesa negli avvenimenti coglie l’evento che dà significato al tempo (kairoév). Ed è allora che la teologia viene posta in una situazione interpretativo-creativa dalla teologia pastorale, che assume le caratteristiche di una kairologia46.

3. REQUISITI E ATTEGGIAMENTI DEL DISCERNERE Il quadro di riferimento del discernimento è l’ecclesiologia di comunione; perché spirituale, il discernimento è prima di tutto comunitario 47. Il primo requisito è la convinzione che il discernere è dono dello Spirito, quindi l’atto del discernere è atto teologale. Esige perciò, una continua conversione, che anche Paolo raccomanda: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto» (Rm 12,2). E il rinnovamento della mente cui Paolo si riferisce non è un fatto solo intellettuale, ma coinvolge tutto l’uomo, il suo rapporto con se stesso, con Dio e con gli altri. Si tratta di un atteggiamento di disponibilità radicale all’azione dello Spirito, che ha come condizione «[…] una forte caratura spirituale, […] la coltivazione della dimensione contemplativa della vita»48. Un altro requisito quasi consequenziale è «[…] una solida maturità sapienziale, [che è] una condizione psicologico-spirituale delle persone dal saldo orientamento di vita»49,

46

Cfr. S. LANZA, Introduzione alla teologia pastorale 1. Teologia dell’azione ecclesiale, cit., 218; anche Convertire Giona. Pastorale come progetto (Appunti di teologia, 5), Roma 2005, passim. 47 S. LANZA, Progetto, discernimento, verifica pastorale, in Creatività dello spirito e programmazione pastorale, Roma, 1998, 71-113: 108. 48 L.c. 49 Ibid., 108-109.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 23

La Chiesa dinanzi ai “vari modi di parlare del nostro tempo” (GS 44) 23

persone, cioè, dinamiche, aperte a nuove esperienze, ad interrogare ed ascoltare le esperienze altrui. Ciò implica preparazione umile e paziente, libertà e pulizia interiore, apertura al nuovo, «[…] disponibilità alle imprevedibili sorprese della manifestazione di Dio»50, capacità di dialogo, di accoglienza e quindi discrezione, quell’atteggiamento che B. Forte definisce «caritas humilis» e «caritas discreta»51, che è la traduzione delle espressioni paoline: «La carità è paziente, è benigna la carità […]» (1Cor 13,4). Il discernere non può concludersi con la vittoria di una parte sull’altra; deve avvenire sempre nella logica evangelica dei servi «inutili» (cfr. Lc 17,10). Questo atteggiamento non deve tuttavia ingenerare pigrizia, al contrario l’impegno deve essere radicale, e per assolverlo si richiede il requisito della competenza, competenza teologica e possesso di «appropriati strumenti culturali» perché la carità sia resa «capace di vagliare criticamente il senso degli eventi civili e dei fatti di Chiesa alla luce della contemplazione del disegno di Dio per questo nostro tempo»52. «[…] Un discernimento senza competenza — scrive Lanza — è come una carità senza giustizia, una fede senza intelletto»53.

4. CRITERI DI DISCERNIMENTO Considerato che il discernere è un processo dinamico sia in relazione al mutare delle situazioni di cui chi discerne si mette in ascolto, sia in relazione ai sempre nuovi suggerimenti dello Spirito, è difficile, anzi praticamente impossibile, fissare dei criteri che abbiano valore di 50 B. MAGGIONI, I vangeli sinottici: situazioni e modalità di discernimento, in Servizio della Parola 191 (1987) 41, cit. da S. LANZA, Introduzione alla teologia pastorale 1. Teologia dell’azione ecclesiale, cit., 214. 51 Cfr. B. FORTE, La teologia come compagnia, memoria e profezia, cit., 164. 52 CEI, La forza della riconciliazione, 1.3.4, cit. da S. LANZA, Progetto, discernimento, verifica pastorale, cit., 109. 53 S. LANZA, Introduzione alla teologia pastorale 1. Teologia dell’azione ecclesiale, cit., 215.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 24

24

Rosario La Delfa

regole normative ed esaustive. Peraltro, dalla Scrittura non ci perviene nessuna regola normativa in proposito; ci giungono solo indicazioni che possono tuttavia costituire degli utili punti di riferimento per un procedimento operativo adeguato. Ed è perciò possibile fissare dei criteri, sia pure generici, che servano come punti di orientamento. Se leggiamo le Proposizioni del Sinodo dei vescovi sulla famiglia54, troviamo indicazioni utili: «la nostra interpretazione deve sempre avere presente: la continuità della storia della salvezza, come si manifesta in forma più eminente nelle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento; l’analogia della fede; il magistero della chiesa; e i giusti dettami della prudenza umana (cfr. GS 4.11.37)».

Il primo criterio che si evidenzia è quello della tradizione, della memoria storica, cioè «[…] delle gesta divine per gli uomini [che sono le sole capaci] di dare nella maniera più vera il senso e la misura delle cose, illuminandole e trasformandole»55;

seguono «l’analogia della fede», cioè il complesso dei valori cristiani in cui si è consolidata l’interpretazione dell’esistenza da parte della fede e i criteri espressi dal Magistero della chiesa in ordine all’edificazione e all’utilità comune, criteri spirituali e pastorali della diaconia e della corresponsabilità; a questi si aggiunge il dato antropologico-culturale. Insomma «il discernimento fa tesoro dell’esperienza consolidata e fa riferimento all’orizzonte interpretativo dell’esistenza umana in cui la fede cristiana incontra la riflessione della filosofia e delle scienze umane e considera attentamente il momento giuridico e normativo»56. 54

SINODO DEI VESCOVI, Proposizioni, su “I compiti della famiglia cristiana”, 24 ottobre 1980, in EV 7/ 699, proposizione 5. 55 B. FORTE, La teologia come compagnia, memoria e profezia, cit., 167. 56 S. LANZA, Progetto, discernimento, verifica pastorale, cit., 111. Vedi anche


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 25

La Chiesa dinanzi ai “vari modi di parlare del nostro tempo” (GS 44) 25

Tutto questo in un quadro di comunione ecclesiale, che deve essere sempre promossa e mai lacerata. Nessuno di questi criteri costituisce, però, come si è detto, una regola da applicare meccanicamente, ma tutti a loro volta sono soggetti a discernimento. Questo ci dice la fatica, l’umiltà e anche il rischio del discernere che, se è vero che non parte completamente da zero, non è mai un compito concluso. Inoltre, bisogna dire che il discernimento, dal momento che è orientato alla prassi, non deve limitarsi a formulare obiettivi generali, ma deve formulare obiettivi praticabili e verificabili la cui realizzazione richiede la determinazione di alcuni elementi: i soggetti, le caratteristiche di ciò che si vuole raggiungere, i risultati che si attendono, le condizioni in cui si deve operare per raggiungere gli obiettivi, le tappe dell’itinerario, gli strumenti. L’esperienza, infatti, insegna che la proposta pastorale fallisce o perché si vogliono immediatamente operativi gli obiettivi generali o perché non si segue un metodo rigoroso rispettando con pazienza la gradualità dei processi e la lentezza del cammino o perché non si ha, talvolta, l’umiltà di rivedere gli obiettivi in considerazione della realtà della situazione e in ascolto dei suggerimenti dello Spirito. Il discernimento ha, insomma, carattere aperto e dinamico, secondo quel dinamismo che è proprio dello Spirito libero e creativo, di cui è dono.

CONCLUSIONE Il rapporto tra Teologia e Storia è saldato insieme dalla necessità di assumere e discernere i segni dei tempi nella elaborazione della riflessione ecclesiale. Infatti, letti alla luce della parola di Dio, orientano a una interpretazione più piena della rivelazione dalla quale non solo non si discostano, ma da cui sono illustrati come segni della permanente presenza e azione di Dio nella creazione e nella storia degli uomini. Inoltre l’attenzione riservata dal soggetto ecclesiale al discernimento dei segni dei tempi sul piano della fede costituisce la G. DALLA TORRE, Dio e Cesare. Paradigmi cristiani nella modernità (Idee / politica, 3), Roma 2008.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 26

26

Rosario La Delfa

garanzia di una vigilanza profetica sulle realtà del mondo in quanto abilita la Chiesa ad esprimere un giudizio sul presente alla luce della parola di Dio senza tempo e parlata nel tempo, Cristo stesso. Infine proprio perché segni dei tempi e profondamente innestati nella storia, essi indicano con chiarezza l’orizzonte escatologico della fede perché illustrano il compimento definitivo della storia. Agendo da segni, rimandano infatti a realtà interiori alla storia la cui totale comprensione è tuttavia da cercarsi oltre i tempi. La teologia così, più che costituire un esercizio ozioso del pensare la fede, si rappresenta come l’azione dinamica del pensare stesso della fede. Rappresenta pertanto un atto rilevante per tutti gli uomini, e non solo per quelli che sono all’interno della comunione ecclesiale, dal momento che il proprio oggetto è pur sempre dentro la storia ma si evolve verso un compimento.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 27

Synaxis 3 (2009) 27-61

L’INIZIO E LA FINE DI TUTTE LE COSE. IL PENSIERO DI LUIGI STURZO

FRANCESCO BRANCATO*

INTRODUZIONE Luigi Sturzo non ci ha lasciato trattazioni sistematiche di teologia, né su temi generali, né su problematiche particolari, sebbene nelle sue opere non manchino riflessioni di natura squisitamente teologica in cui si registra chiaramente l’attenzione alle discussioni teologiche del suo tempo e alla dottrina tradizionale della Chiesa. Ciò vale anche per quanto riguarda la sua riflessione sull’inizio e la fine di tutte le cose, sulla concezione cristiana del mondo, la sua origine e il suo destino; sulla concezione cristiana dell’uomo, il suo posto nella creazione e la sua destinazione finale. In questo contributo, tenterò di delineare i caratteri principali del pensiero del sacerdote calatino sul senso del mondo come creazione e sul compimento ultimo di tutte le cose, facendo riferimento esclusivamente ad alcuni dei suoi scritti più importanti, dove è possibile rinvenire rilevanti considerazioni di natura non solo teologica, ma anche spirituale e perfino pastorale su queste tematiche meno conosciute del suo pensiero, ma non per questo meno importanti1. Credo, anzi, che siano proprio queste prospettive teologiche a informare tutto il suo pensiero che attende di essere maggiormente scandagliato. * Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Cfr. a questo proposito F. COSTA, La spiritualità di Don Sturzo, in Luigi Sturzo: saggi e testimonianze, in Civitas 11 (1960) 227-232; F. D’AMBROSIO, Pensieri religiosi di Luigi Sturzo, Napoli 1961.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 28

28

Francesco Brancato

Facendo questo, spero di offrire un ulteriore contributo alla conoscenza e alla comprensione della vastissima opera di Sturzo, soprattutto sulle questioni più propriamente teologiche. In una breve serie di passaggi che fanno parte del ricchissimo scambio epistolare tra Luigi e il fratello Mario, vescovo di Piazza Armerina, che ha dato vita ad un interessantissimo carteggio, è condensato, almeno credo, l’intero percorso che proporrò in questo contributo. Mons. Mario Sturzo, il 28 ottobre del 1930, giorno in cui partì il treno inaugurale Piazza Armerina-Caltagirone, parlando dell’opera teatrale del fratello Luigi, Il Ciclo della creazione2, suggeriva al fratello sacerdote alcuni interventi che, a suo giudizio, avrebbero favorito l’opera: «Io sopprimerei il prologo — egli scriveva. Senza l’uomo la natura è muta. Ora il canto della natura sarebbe la umanizzazione della medesima. Alla creazione non devono precedere che pure tenebre»3.

Qualche giorno dopo, l’8 novembre, ritornava sullo stesso argomento: «Circa il prologo volevo consigliarti a levarlo via senz’altro, perché la natura, senza l’uomo o altro conoscente, è muta, non ha né colore né suoni ecc.. Per me il prima della creazione non è rappresentabile, perché non è pensabile. Sai tu cos’è il mondo fuori dal nostro conoscere? Quando tu credi di rappresentare quel prima, tu rappresenti il poi. Ora io farei così il prologo (breve però). Farei cantarlo da cori di angeli. Essi canterebbero sulla natura che manca del suo compimento che è l’uomo»4.

2 L. STURZO, Il ciclo della creazione. Tetralogia cristiana. Poema drammatico in un prologo e quattro azioni, Paris 1932. 3 L. STURZO e M. STURZO, Carteggio (1924-1940), a cura di C. Angiolas, Soveria Mannelli, 2006, 200. 4 Ibid., 201.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 29

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

29

Sono frasi lapidarie che non necessitano di particolari commenti. Sottolineano il posto centrale dell’uomo nel mondo, la sua condizione unica ed esclusiva, ma anche il suo compito: egli dà voce alla natura, esprime il suo anelito, la sua domanda e la sua tensione, ne è l’interprete e il compimento. A queste osservazioni risponde il fratello Luigi dal suo esilio londinese. Nel novembre del 1932 scrive una lettera-cartolina in cui mostra di non rigettare affatto le quanto mai opportune osservazioni del fratello Mario, ma le completa e arricchisce ancora di più: «Non credo poter sopprimere il Prologo — scrive. Sento che nell’economia del lavoro si deve cominciare e finire con Dio. La creazione non può mancare»5,

come a dire: non si può parlare veramente dell’uomo se non si parla di Dio; si può parlare dell’uomo e quindi del mondo, solo in rapporto al Dio creatore. Questi è il vero fine di tutte le cose, e solamente in questo fine l’uomo stesso diviene comprensibile. Se dunque l’uomo, in quanto essere materiale e spirituale insieme, è il punto più alto del cammino dell’evoluzione, solamente Dio rimane il fine ultimo del cammino dell’uomo e del cosmo. In effetti, l’intera riflessione sturziana ci porta a considerare creazione e fine di tutte le cose come “momenti” dell’unico e inscindibile piano salvifico di Dio, del suo progetto di bene per l’uomo e per il mondo. Questi hanno il loro senso ultimo esclusivamente in rapporto alla sorgente e alla meta del loro stesso essere e del loro cammino: Dio in Cristo. È Dio, infatti, l’alfa e l’omega dell’uomo e del mondo, nella loro stretta solidarietà e nel loro vincolo di comunione nella distinzione. Tutto il pensiero di Sturzo su questa questione, come vedremo, si raccoglie perfettamente in questa convinzione profonda.

5 L. STURZO e M. STURZO, Carteggio (1932-1934), a cura di G. De Rosa, Roma 1985, 165.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 30

30

Francesco Brancato

1. NEL FIAT DIVINO IL SENSO DELLA CREAZIONE Il concetto di creazione secondo Luigi Sturzo contiene due fondamentali idee negative: ci dice che il mondo non si è prodotto da sé, e quindi — seconda idea — che non è emanazione di un principio assoluto. Il medesimo concetto racchiude in sé soprattutto due idee positive: il mondo ha avuto inizio per l’atto di potenza e volontà divina, e pertanto — questa è la seconda idea — è relativo al principio che gli ha dato l’essere ed è dallo stesso dipendente6. Questo concetto secondo il Nostro è conforme alla razionalità umana, è percepibile dalla ragione. In ogni caso, per parlare dell’origine di tutte le cose da Dio, senza scadere nelle diverse forme di materialismo, di dualismo o di monismo, egli giudica indispensabile mantenere e preservare un termine sui generis, “creazione”, nell’accezione propria della tradizione ebraica e cristiana, perché esprime, come nessun altro termine, l’idea della produzione di tutte le cose dal niente. È la dottrina della creatio ex nihilo, della creazione, cioè, di tutte le cose dal nulla, per il solo ordine divino, per il Fiat iniziale di Dio che nella sua sovrana libertà chiama all’esistenza le cose che prima non erano7. Chiama all’esistenza il mondo, nella ricchezza della sua realtà e vitalità, e in esso chiama all’esistenza, al di sopra di tutto, l’uomo. Quella di Sturzo è dunque un’attenzione al mondo e innanzitutto all’uomo. Un mondo visto come creazione di Dio, opera delle sue mani. Un uomo, considerato in se stesso e nel suo imprescindibile rapporto con gli altri (“sociologia” del soprannaturale) e con la realtà mondana di cui è parte integrante. Un uomo che ha come fine, iscritto nel suo stesso essere, a lui connaturato, il raggiungimento del bene supremo, la vita soprannaturale della grazia, quale vera trasformazione della sua esistenza creaturale e della sua attività nel mondo. A lui è ordinato lo stesso bene comune nell’ordine temporale. L’uomo compie, inoltre, atti creativi per il fatto che “costruisce” la propria vita, e la costruisce in rapporto al fine cui è ordinato. Egli è perciò creatore per analogia, in quanto, attraverso la sua continua attività intelligente e volitiva, 6 7

Cfr. L. STURZO, Problemi spirituali del nostro tempo, Bologna 1961, 49. Cfr. ibid., 51.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 31

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

31

contro ogni forma di determinismo, sviluppa quel processo che viene chiamato storia e umanizza pertanto la realtà creata8. Su questo sfondo Sturzo tratta nella sua opera La vera Vita, di questioni inerenti alla creazione e in particolare alla creazione dell’uomo, al di là della riflessione che può essere offerta dalla teologia naturale. Infatti non può darsi, secondo il Nostro, una vera e propria teologia naturale per la semplice ragione che “naturale e soprannaturale” sono strettamente intrecciati. In realtà, già questo mondo e specialmente l’uomo, sono sotto il segno della grazia sin dall’inizio, dal primo istante della creazione, e vengono colti nel loro significato ultimo solamente se accostati da questa singolare prospettiva. Il mondo si trova sotto il segno della grazia; questo mondo concreto, quale realtà che raccoglie in sé tutte le concupiscenze malsane dell’uomo, quale simbolo dell’opposizione a Dio e al suo amore, e simbolo, al contempo, della transitorietà della vita. Un mondo che tuttavia anela alla salvezza attraverso una triplice via di liberazione: la naturale, l’artistica e la religiosa. Tale liberazione ha la sua ragion d’essere e la sua causa in Cristo crocifisso che detiene il primato cosmico e conduce tutte le creature a partecipare alla sua stessa gloria divina, una volta liberate dalla corruzione della morte. Cristo opera tutto ciò per la sua Pasqua, ma ancor prima per la sua Incarnazione, per mezzo della quale egli, Verbo eterno di Dio, si è inserito nella storia, cambiando lo statuto del mondo, il suo significato profondo. Emerge proprio qui, con chiarezza, il cristocentrismo della riflessione sturziana, a cui si affianca anche un altrettanto esplicito antropocentrismo. L’uomo di cui egli parla è l’uomo in Cristo, elevato alla vita divina, con un fine soprannaturale a cui tendere, compene8 Cfr. ibid., 6. Cfr. anche G. GUARNIERI, Naturale e soprannaturale nella sociologia di Luigi Sturzo, Bologna 1990; P. MAZZAMUTO, La sociologia del soprannaturale in Luigi Sturzo, in Nuovi Quaderni del Meridione 10 (1972) 257-263; P. LA CORTE, Il soprannaturale nel pensiero di Luigi Sturzo, in Sophia 17 (1949) 315-324. Sulla concezione della storia Sturzo fa esplicito riferimento agli studi di alcuni autori a lui particolarmente cari quali J. Maritain e il suo Umanesimo integrale, e ai lavori di C. Boyer su Il concetto di storia secondo il tomismo, nonché Il valore della storia di N. Petruzzellis, come vita del genere umano nella totalità delle sue manifestazioni. Secondo Sturzo, infatti, questi studi hanno fatto fare un grande passo alla concezione cristiana e moderna della storia (cfr. L. STURZO, La vera vita. Sociologia del soprannaturale, Bologna 19782, 181).


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 32

32

Francesco Brancato

trato dalla grazia, poiché «l’uomo non è solo una parte qualsiasi del creato, ma il compendio e l’interprete»9. «L’uomo è il termine della creazione del mondo»10, ma lo è in quanto unito strettamente a Cristo. In rapporto all’uomo il mondo acquista, anche qui, il suo più vero e autentico significato. Si dà perciò una solidarietà strettissima tra mondo e uomo. Entrambi sono per la volontà creatrice di Dio. Per questa medesima volontà il cosmo non precipiterà nel nulla, ma sarà trasformato. Quando il giudizio sugli empi sarà partecipato a tutte le cose, il mondo, associato alla colpa dell’uomo, teatro delle sue azioni peccaminose, simbolo dell’opposizione a Dio, sarà condannato, mentre il creato rimarrà.

2. LA CREAZIONE SOTTO IL SEGNO DEL PECCATO Il cosmo, creato in Cristo e che ha nell’uomo il suo centro, ha un ritmo vitale che tende all’unificazione. Tale compimento, che ha la sua realizzazione nella vita soprannaturale, di per sé eccede i limiti del creato stesso che deve perciò muoversi verso l’increato, verso Dio stesso11. Questo cammino è purtroppo segnato dalla terribile esperienza del peccato commesso dall’uomo e che ha introdotto nel mondo un profondo squilibrio, una seria devastazione e un forte turbamento non solo nel primo uomo, e in lui nell’umanità intera, ma anche nel mondo, portando l’uomo in uno stato sub-naturale in cui si palesa un sempre crescente deterioramento della sua condizione originaria12. Lo stato di peccato in cui l’uomo dopo la colpa si è venuto a trovare, secondo Sturzo non è perciò definibile solamente attraverso categorie etiche secondo cui l’uomo peccatore sarebbe “semplicemente” in una condizione di deficit morale, ma chiede il ricorso a categorie ontologiche, poiché il peccato ha posto l’uomo in uno stato sub-umano, sottoumano e gli ha in qualche modo sottratto la sua 9 10 11 12

L. STURZO, La vera vita, cit., 218. Ibid., 228. Cfr. ibid., 16. Cfr. ibid., 25.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 33

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

33

stessa umanità, il suo essere uomo in ciò che è di più vero e profondo, ovverossia la relazione con Dio e l’amicizia con lui. Uno stato, questo, in cui il male, che ha la sua radice nel fatto che l’uomo si valuta al di là della sua finitezza, va crescendo sempre di più. La colpa, infatti, produce negli uomini un disordine che «si ripercuote psicologicamente in loro stessi, socialmente negli altri, misticamente in tutto il creato nella sua intima subordinazione al creatore»13,

secondo quanto Paolo ha espresso nell’ottavo capitolo della sua Lettera ai Romani a cui il Nostro fa esplicito riferimento. Nella visione sturziana, il creato non è, quindi, una realtà neutra posta di fronte all’uomo; uno scenario asettico di quanto si consuma esclusivamente nell’intimità più nascosta di quest’ultimo, ma partecipa sia del suo destino di gloria che della sua condizione di decadenza. La stretta solidarietà dell’uomo, creatura di Dio, con tutte le altre realtà create, è solidarietà anche nel suo stato di decadenza e de-creazione a causa del peccato. Il suo posto centrale nella creazione è, infatti, sventuratamente centrale anche in ordine al male che a causa sua raggiunge tutte le dimensioni della realtà creata.

3. LA

CREAZIONE SOTTO IL SEGNO DELLA SALVEZZA: CREATIO EX

AMORE

Nel creare, Dio pone ogni cosa nel proprio grado. Ciò vale anche per la natura umana che è passivamente ordinata a ricevere un altro principio che la perfezioni e la spinga verso il primo principio14. Quale può essere mai questo principio, si chiede Sturzo, se non l’agape divina? L’inizio di tutte le cose è infatti l’amore. All’origine dell’atto creatore c’è unicamente l’amore che per sua natura tende all’assoluto, tende a Dio. 13 14

Ibid., 32. Cfr. ibid., 68.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 34

34

Francesco Brancato «Il vero assoluto è Dio; se egli fosse solo un principio fisico o metafisico, il primo logico, il primo motore immoto, noi non avremmo alcuna comunione con lui che possa indurci all’amore, nessun amore che possa arrivare all’unione comunicativa. Ma il nostro Dio è personale nella sua misteriosa Unità-Trinità; ci ha dato la prova di amarci creandoci»15.

La creazione è dunque non solo frutto dell’amore sovrabbondante di Dio, ma ne è l’espressione, la manifestazione. Per questa ragione tutto parla dell’amore di Dio, dell’amore che è Dio. Nella realtà creata Dio ha rivelato il suo amore sovrabbondante, la ricchezza della sua vita divina che è comunione d’amore. L’uomo è la creatura che massimamente esprime, nel suo stesso essere, l’amore creativo di Dio, poiché egli è stato creato da Dio a sua immagine e somiglianza, cioè a immagine e somiglianza del Dio uno e trino, dal Dio amore e perciò stesso amante della vita: «Noi siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio proprio in quanto noi siamo creature viventi che conoscono e che amano», dice infatti Sturzo»16.

La grandezza dell’uomo consiste proprio nell’essere simile a Dio a motivo della sua capacità di conoscere, di indagare l’universo e l’origine della vita, il suo senso profondo; il senso della vita e della morte. L’uomo è grande soprattutto per la sua capacità di amare, di compiere, cioè, atti assolutamente gratuiti di autodonazione: nell’amore l’uomo realizza se stesso come immagine di Dio, come creatura fatta per conoscere, servire e amare Dio. Nell’amore si ha dunque la verità più profonda dell’uomo, del suo essere, e dell’essere di tutte le cose, poiché tutto il creato si risolve nella vita di comunione con Dio-amore e non ha altro destino immaginabile o prefigurabile.

15 16

Ibid., 80. ID., Problemi spirituali, cit., 60.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 35

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

35

3.1. Il fine della creazione in Cristo è la lode Il destino dell’uomo in solidarietà con l’universo è la piena partecipazione alla vita di gloria del Creatore, è la lode perfetta e senza fine. Di questo destino, dice Sturzo, il mistico è un testimone privilegiato. Egli, infatti, riversa sulla terra — non solo sugli altri uomini, ma anche sugli animali, sulle piante e su tutte le cose inanimate — un raggio di luce divina e di spiritualità in cui si rivela l’impronta del creatore17. Cuore dell’esistenza del mistico e, in definitiva, della vita di ciascun uomo, chiamato alla perfezione della vita mistica, è la lode, nella quale l’essere umano risolve il suo stesso essere, e questo perché in essa egli si riconosce come creatura di fronte al proprio Creatore, in comunione e in intima relazione con lui. Dio è degno di lode perché ha creato tutte le cose (cfr. Ap 4,11) che hanno ricevuto il loro stesso essere da lui. Non solo esse sono perché originariamente Dio le ha chiamate all’esistenza dal nulla, ma anche perché il loro stesso permanere nell’essere è dovuto alla libera volontà del Creatore che, nel misterioso decreto della sua mente, ha determinato il loro essere e la modalità della loro esistenza18. Ogni cosa deve pertanto riflettere il pensiero divino, secondo la sua natura e capacità. Ogni cosa deve esprimere l’intrinseca razionalità dell’universo. Solamente il “pensiero pensante” è tuttavia in grado, a motivo del suo speciale modo di essere, di raccogliere il messaggio del creato e di farne un inno di lode al Creatore. Questa è la ragione per cui l’uomo è posto al centro del mondo, e perché nel mondo deve svolgere una funzione sacerdotale, un ministero assolutamente inderogabile. Egli infatti eleva a Dio, a nome dell’intero creato, un ininterrotto e consapevole inno di ringraziamento e di adorazione19. Egli ha un compito sacerdotale nel mondo perché è l’interprete della natura nel lodare Dio. Il creato non solo riflette il pensiero divino, ma trova nel pensiero del Creatore la sua ragion d’essere: è per il fatto di riflettere il pensiero del proprio 17 18 19

Cfr. ID., La vera vita, cit., 108. Cfr. ibid., 111. Cfr. ibid., 112.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 36

36

Francesco Brancato

Creatore, per la semplice ragione che la realtà che vive in tutto il creato non è altro se non «l’idea creatrice realizzata»20. Il Verbo eterno di Dio è però l’unico e vero sacerdote di tutto il creato, poiché egli, Sapienza increata di Dio, è colui nel quale la creazione è perfetta glorificazione di Dio. La lode a Dio, per ciò stesso, è partecipazione alla lode eterna della Sapienza, del Figlio. Per mezzo della Sapienza il creato, e soprattutto la creatura intelligente, effettuano l’offerta di sé a Dio nell’adorazione. Per questo Cristo è posto al centro della creazione: «Tutto il cosmo celebra il suo linguaggio, come conoscenza e amore, ma solo attraverso il mediatore, redentore, sacerdote eterno, Gesù Cristo, Dio e uomo»21,

secondo l’espressione di Col 1,15-20. Gesù è colui per il quale e in vista del quale tutte le cose sono state fatte; è colui grazie al quale tutte le cose, uomo compreso, sono lode perfetta e rendimento di grazie a Dio creatore che ha impresso nell’universo il suo logos eterno. Forte di queste convinzioni, il cristiano possiede una fede che si mantiene equidistante dal materialismo e dall’idealismo, perché vede nel creato l’impronta di un’intelligenza e di una volontà divine, e comprende la natura come uno specchio che riflette il Creatore, sia nell’infinitamente piccolo che nell’infinitamente grande22.

3.2. Il fine della creazione è Cristo Tutta la creazione, in comunione con l’uomo, riflette ed esprime l’intelligenza infinita nella sua armonia e nella sua bellezza23. Il fine della creazione è la manifestazione piena della perfezione divina, la lode del creatore, e solo in Cristo, nel mistero della sua incarnazione 20 21 22 23

Ibid., 112. Ibid., 124. Cfr. ID., Problemi spirituali, cit., 142. Cfr. ibid., 145.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 37

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

37

e nel suo mistero pasquale, questo fine è stato anticipato per l’uomo e per il mondo. Sturzo, per ciò stesso, ritiene affascinante e più che plausibile la posizione teologica — egli preferisce parlare di “ipotesi” teologica fortemente radicata nella tradizione patristica — secondo cui il Verbo si sarebbe ugualmente incarnato anche nel caso in cui l’uomo non avesse peccato, per ricapitolare tutte le cose e porre tutto il creato sotto il suo dominio24. L’incarnazione del Verbo, quale manifestazione della gloria di Dio e compimento della creazione, è la più «sublime delle opere ad extra della Trinità», e questo perché «è l’Incarnazione il fine teocentrico di tutta l’opera creatrice di Dio e in Cristo si ricapitola l’universo tutto»25.

Un’azione, questa, che Cristo compie non solo per gli uomini, ma anche per tutte le altre creature, compresi gli esseri intelligenti che hanno vissuto o continuano a vivere e vivranno in futuro sugli astri e sui corpi celesti dell’universo. Quest’ultima affermazione, estremamente forte e per molti versi sorprendente, scaturisce dalla convinzione propria di Sturzo il quale si dice convinto del fatto che il cosmo sia molto più ampio del mondo terrestre che l’uomo, creatura intelligente, si trova ad abitare, per cui non è possibile pensare che l’azione creatrice di Dio, la sovrabbondanza della sua vitalità e la generosità della sua azione, siano esclusivamente riservate a questo nostro mondo e siano riducibili a questo pianeta. Da qui la speranza e insieme la convinzione che altri pianeti o corpi celesti siano abitati da esseri intelligenti, anch’essi oggetto dell’amore e della benevolenza del Creatore, finalizzati, anche loro, alla lode della multiforme Sapienza divina26. Tutto questo in una visione che per certi versi si trova apparentata con alcune delle principali intuizioni del pensiero teilhardiano, in quanto anche l’universo di cui parla il Nostro, come quello tratteggiato a più riprese dallo scienziato gesuita, è dotato di un’energia inesauribile e sprigiona attività benefiche che tendono verso un unico 24 25 26

Cfr. ID., La vera vita, cit., 125. Ibid., 160. Cfr. ibid., 136; 142; 160; 219; 235.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 38

38

Francesco Brancato

fine: la glorificazione del creatore27. La grazia divina è presente nel cosmo, pervade e raggiunge tutte le cose. È questo l’“ambiente divino” di cui ha parlato P. Teilhard de Chardin e tanta teologia che ha delineato i tratti fondamentali della presenza cosmica della grazia che opera non solo nell’intimo dell’uomo, ma nei popoli e nel cosmo, perché tutte le cose vengano ricondotte a Dio attraverso un cammino di maturazione sempre crescente28. Nella stessa finalità che impronta tutte le cose e che eleva tutte le cose verso la loro pienezza ultima, è possibile vedere “l’impronta creatrice” che porta ogni cosa verso l’unificazione finale. Il disegno che caratterizza la realtà creata, rimanda al Dio creatore che ha immesso in essa, creandola, un moto che la conduce verso la pienezza finale non secondo una cieca tendenza, ma secondo il pensiero divino che la pervade e l’idea che in essa si realizza. La finalità che il creato deve realizzare è proprio la volontà e il pensiero del suo creatore, ovverossia l’amore che rende possibile e consegue la solidarietà cosmica in cui l’uomo è implicato più di ogni altra cosa. In tal senso, secondo un’idea che nulla vuole togliere all’antropocentrismo della teologia contemporanea, il Nostro parla dell’uomo non tanto come del fine ultimo dell’universo e della creazione, quanto piuttosto come di «uno dei gradi di finalità dove si ferma, come in una sosta, il processo di solidarietà del creato»29 che ha solamente in Cristo, nella sua pienezza e nel suo primato cosmico, il punto di approdo. Cristo è infatti il fine del movimento universale. Affermazioni, queste, nelle quali difficilmente non si vede straordinariamente anticipata la comprensione dell’antropologia alla luce dell’evento cristologico propria della Costituzione pastorale del Vaticano II, Gaudium et Spes e in particolare il suo numero 22.

27

Cfr. ibid., 141-142. Cfr. P. TEILHARD DE CHARDIN, L’ambiente divino. Saggio di vita interiore, Brescia 2005. 29 L. STURZO, La vera vita, cit., 142. 28


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 39

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

39

4. LA VITALITÀ DIVINA E LA CREATIO CONTINUA Parlare di creazione significa parlare di qualcosa che non può essere perfettamente e compiutamente compreso nel solo atto creativo dell’inizio, poiché la creazione ha origine dal «fiotto incessante di vita»30 che deve ancora continuare verso nuove manifestazioni del medesimo pensiero creatore. Questo ha impresso nella natura sempre nuove e inesauribili finalità che si attuano attraverso le sempre nuove trasformazioni e variazioni delle cose e il loro radicale rinnovamento. In questo quadro anche la questione del male incontra una certa, mai esaustiva, spiegazione. Il mistero del male si palesa come il drammatico tentativo di condurre la natura verso contro-finalità, verso orizzonti lontani dalla finalità sua propria. Il male è l’opposizione tragica al progetto originario e finale di Dio sul mondo e sull’uomo, è il tentativo di frenare e ancor più di far volgere altrove il cammino del mondo verso l’infinito. Questo cosmo è infatti itinerante esattamente come lo è l’uomo, e procede verso la pienezza finale nella continuità senza termine di un processo pur sempre temporale e non eterno. Una volta cessato il suo cammino sarà trasformato oppure andrà incontro alla totale distruzione. Una distruzione che tuttavia non può assolutamente smentire la volontà creatrice di Dio. Dire questo, secondo Sturzo, significa riconoscere che con il cessare di questo mondo non verrà a cessare la forza vitale della creazione perché destinata a perdurare per sempre. «Se cessa la vita in un astro come la terra, nessuno può escludere la possibilità che essa non si sviluppi, o sia sviluppata di già, in altre miriadi di astri»31

dove si siano già create o si creeranno in futuro le condizioni più adatte per l’apparizione di esseri dotati di vita e intelligenza. Se questo è vero o almeno possibile, continua il Nostro, non è allora irragionevole o contraria alla sana dottrina l’idea secondo cui si dà una persi30 31

Ibid., 142-143. Ibid., 220.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 40

40

Francesco Brancato

stenza cosmica che per gradi e per cicli rende possibile l’esistenza di creature intelligenti come l’uomo e che come lui hanno un inizio e una fine, un cammino storico segnato e condotto dalla provvidenza divina che opera perché tutti concorrano alla glorificazione dell’unico Creatore nel quale il mondo era, anche quando questo nostro mondo non era. Questa riflessione è rinvenibile, nelle sue linee portanti, seppure con accenti diversi, nella ricca riflessione di M. Blondel circa il pensiero cosmico, a cui Sturzo, tra l’altro, fa esplicito riferimento per sostenere che in definitiva il cosmo è una realtà infinitamente più ampia dell’uomo e del suo pianeta, «una sempre più larga e continua manifestazione del pensiero creatore», dice lui32, che è inesauribile e dà alla creazione una spinta continuativa incessante, sia estensivamente che temporalmente33. 32 L.c. Il riferimento sturziano è a M. BLONDEL, L’Action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique, Paris, Alcan, 1893; ristampa anastatica per le Presses Universitaires de France, 1950, 1973, 1993; trad. it.: L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, Cinisello Balsamo, 1993. Si veda inoltre: ID., La Pensée. I. La genèse de la pensée et les paliers de son ascension spontanée, Paris, Alcan, 1934; trad. it.: Il pensiero. I. La genesi del pensiero e i gradi della sua ascensione spontanea, a cura di M. F. Sciacca, Brescia 1954. 33 Concetto, questo, ripreso poeticamente a conclusione del prologo della sua opera teatrale Il ciclo della creazione. Si tratta di un dramma in quattro atti in cui l’autore intende esprimere poeticamente la sua fede: la storia umana, dalla creazione, attraverso il peccato e la redenzione, fino al giudizio universale (dunque: da Dio a Dio), è intesa come un dramma d’amore che si svolge tra Dio e l’umanità. La storia si qualifica, dopo la ribellione dell’uomo a Dio, come il terreno sul quale si scontrano le potenze del bene e del male. Solo alla fine sarà possibile contemplare il definitivo trionfo del bene sul male nella manifestazione del giorno del Signore, quando apparirà Cristo risorto nella gloria del Padre suo: Ebbe la vita inizio da infinita Potenza, ma fine non avrà lo spirito che pensa, la forza che percorre i spazi immensi, ma fine non avrà, nel ciclo eterno della vita, che sempre s’innovella per mano di Colui che disse FIAT! e l’evocò dal nulla. Forze del cielo e forze della terra, spirti veggenti, presenti e futuri,


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 41

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

41

In questa visione dal respiro così universale e cosmico, quale posto continua ad occupare l’uomo? Secondo Sturzo affermare l’inesauribile energia creativa divina anche oltre — non a prescindere o in sostituzione — questo nostro mondo, non significa affatto mettere in questione l’equilibrato e irrinunciabile antropocentrismo proprio della teologia cristiana, in quanto anche nella visione appena delineata l’uomo rimane pur sempre «il termine della creazione del mondo ed è il termine della venuta del Figlio di Dio nel mondo. Se l’umanità sulla terra verrà a cessare è perché questo mondo come esso è, condizione naturale della vita umana, verrà a cessare»34.

La risoluzione dell’antropocentrismo viene dunque a coincidere con la fine di questo mondo. Il cosmo non è limitato al pianeta Terra e neppure al sistema solare, ma è esteso agli innumerevoli sistemi che compongono l’universo intero su cui Dio creatore esercita il suo dominio eterno. La vita perciò continuerà a essere disseminata in tutto il cosmo, a favore degli esseri intelligenti che man mano troveranno le condizioni ideali per la loro esistenza sui più diversi astri celesti. Se questo mondo forse finirà, il cosmo quale creazione di Dio è sicuramente destinato alla salvezza, a essere trasformato, una volta liberato e purificato da tutto il male che l’ha attraversato e segnato, fino a quando farà armonia con la giustizia che abiterà i nuovi cieli e la nuova terra35. È l’intero cosmo, nelle sue successive e molteplici determinazioni e nella sua globalità, a essere pervaso e mosso dalla «circolazione vitale»36 che ha in Dio la propria sorgente e pienezza. Con l’uomo anche tutti gli altri esseri intelligenti sparsi nell’universo, sono «creature itineranti verso Dio», nel «roteare di un’immensa e perenne vita-

34 35 36

la nostra voce canti, nell’armonia perenne del creato, all’eterna Sapienza l’inno di lode e di riconoscenza (L. STURZO, Il ciclo della creazione, cit., 14). L. STURZO, La vera vita, cit., 228. Cfr. ibid., 233. Ibid., 235.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 42

42

Francesco Brancato

lità cosmica»37. L’uomo non è dunque isolato in questo dinamismo cosmico, e neppure è l’unico liturgo del creato, perché, come si diceva, a esserlo è propriamente Cristo, Verbo eterno di Dio, che opera nell’universo. A nessuno è dato di porre limiti all’azione salvifica dell’incarnazione del Verbo, alla sua influenza sull’intero universo, tanto che, congettura il Nostro, in un crescendo che sembra non arrestarsi, nulla ci vieta di pensare che a tutti gli esseri intelligenti che abitano l’universo sia stata addirittura rivelata l’incarnazione del Verbo e il mistero della Trinità, e che pertanto tutti gli esseri intelligenti sparsi nell’universo, siano chiamati alla vita soprannaturale e alla visione beatifica di Dio38. Queste affermazioni, che immediatamente suscitano in chi le incontra come incastonate nell’argomentare lucido e lineare di Sturzo, una certa reazione spontanea in cui si incrociano e si scontrano fascino e sospetto, in realtà danno ragione della straordinaria visione sturziana della creazione, del mondo e dell’uomo ad opera di Dio mediante il suo Logos eterno. In questa sua visione non è affatto difficile leggere ancora una volta non solo l’influenza blondeliana, ma pure quella, inespressa ma altrettanto forte, di P. Teilhard de Chardin. È la visione che si radica sulla convinzione secondo cui il Logos eterno che opera nell’universo intero e che conduce il cosmo verso la sua pienezza ultima nella lode perenne al Creatore, è proprio il Verbo incarnato, Cristo Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo, il cui nome, secondo l’espressione paolina della Lettera ai Filippesi — non menzionata esplicitamente da Sturzo ma qui indubbiamente presente tra le righe, come è presente, tra l’altro, la riflessione del prologo del vangelo giovanneo — viene proclamato da ogni lingua nei cieli, sulla terra e sottoterra (cfr. Fil 2,1-11). Il Nostro è affascinato dal pensiero che in tutto il cosmo possa essere conosciuto e lodato il nome di Gesù, per sempre, ovunque39. Non solo nell’universo intero (universalità), ma anche per tutti i secoli (eternità). La lode universale e perenne a Cristo e, per-luiin-lui, al Padre, è la lode cosciente degli esseri intelligenti quali 37 38 39

Ibid., 235-236. Cfr. ibid., 236. Cfr. l.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 43

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

43

«anime itineranti»40 che si fanno interpreti dell’intero universo e del suo anelito all’infinito. Questa lode ha il suo perfetto compimento e la sua forma adeguata solamente nell’amore che trasformerà ogni cosa e darà ad ogni cosa la vera vita. Questa ricca e multiforme riflessione viene ripresa, in forma poetica, anche ne Il ciclo della creazione. Da una scena oppressa dall’oscurità, a significare ciò che di per sé è insignificabile e irrappresentabile, il nulla, per il Fiat divino appare la luce. La creazione, dice Sturzo, non può infatti esprimersi che nel passaggio dalle tenebre della non-esistenza, alla luce del cosmo pieno di vita e di movimento per l’atto creatore di Dio41. L’armonia del cosmo, per il roteare delle stelle e dei pianeti, diventa anche armonia della terra per la vitalità degli esseri viventi che la popolano e per l’uomo, “spirito che pensa”, il quale, nell’armonia perenne del creato, può rivolgersi all’eterna Sapienza e cantare l’inno di lode e di riconoscenza al Creatore. L’uomo — atteso da una natura tremante perché riconosce in lui, maschio e femmina nella gioia del rapporto reciproco, colui che è stato creato a immagine e somiglianza del Creatore, centro del mondo creato e capace di rivolgersi a Dio nella sua solitudine — è infatti parte di una solenne liturgia cosmica, e partecipa alla grande danza del creato42.

5. LA CREATIO NOVA 5.1. Verso un mondo pienamente rinnovato Specialmente nell’ultimo capitolo de La vera vita, dal titolo Nuovi cieli e nuova terra, Sturzo affronta più direttamente la tematica escatologica, con una riflessione che ha al centro, come sempre, l’interesse per l’uomo concreto colto nel suo reale cammino storico. Una riflessione che tuttavia si apre al vasto orizzonte dell’universo e del 40 41 42

L.c. Cfr. ID., Il ciclo della creazione, cit., 7-10. Cfr. ibid., 97.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 44

44

Francesco Brancato

suo destino di salvezza. L’intera creazione è infatti destinata alla gloria di Dio, una volta liberata dalla corruzione della morte e purificata di ogni residuo di male e di peccato. La creazione nuova non sarà una nuova e assolutamente inedita creazione destinata a soppiantare e sostituire semplicemente la prima creazione, ma sarà la pienezza di quel cammino che l’umanità va percorrendo, e con essa il mondo intero, il cosmo. Quello dell’uomo e del mondo non è perciò una sorta di vagabondaggio cieco e senza meta. Esso è, al contrario, intrinsecamente finalizzato: il fine verso cui l’umanità e il mondo si muovono, è infatti iscritto nel fondo della coscienza stessa dell’uomo, nello stesso modo in cui è iscritto il loro inizio. Un tempo senza meta sarebbe un tempo insensato, privo di senso e di valore. Sarebbe una non storia, e il cammino stesso dell’umanità un cieco vagare senza ragione. Sarebbe il soccombere dell’uomo al ciclo sempre ritornante della natura, alla ripetizione e riedizione dell’uguale, alla riproposizione di ciò che è stato e che sempre sarà43. Tutto ciò non corrisponde però, come è facile intuire, al contenuto della novità cristiana. Ciò che per il messaggio cristiano veramente conta è invece il tempo che si è aperto tra la prima e la seconda venuta di Cristo, salvatore e giudice. Ecco perché secondo Sturzo non si dà una semplice fine fisica del mondo o una sua trasformazione ma, su un piano spirituale, il compimento degli eletti che hanno ascoltato la voce del Figlio di Dio e l’hanno seguito, o il mancato compimento dei reprobi che invece hanno rifiutato la salvezza. L’uomo, con il suo destino eterno, è il termine della creazione e della stessa venuta storica del Verbo, e la sua salvezza o perdizione ha un valore indiscutibile e reale per il futuro stesso di questo mondo che è o cessa di essere in rapporto o meno alla sua esistenza. L’escatologia cristiana si risolve quindi nella venuta ultima di Cristo e nell’attesa della parusia da parte della comunità ecclesiale. Un’attesa che è dell’universo intero. Una venuta che sarà preceduta da segni precursori che indicheranno il sopraggiungere della fine e l’apparizione dei cieli nuovi e della nuova terra. Tale compimento è non solo per l’uomo, ma anche per il mondo intero, per tutto il cosmo il cui destino, ancora una volta, non è affatto la distruzione e il nulla, ma la 43

Cfr. ID., La vera vita, cit., 197.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 45

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

45

sua trasformazione finale. Allora il naturale e il soprannaturale, così come lo storico e l’escatologico, il reale e il simbolico, si uniranno in una sorta di riconciliazione e ricapitolazione universale.

5.2. La speranza nel cuore del mondo Nell’attesa che la storia si risolva nella riconciliazione e nella ricapitolazione universale, ai cristiani è richiesto di rimanere vigilanti, secondo le pressanti esortazioni evangeliche44. Questa loro attesa è carica di speranza e di gioia perché colui che aspettano è il Giudice misericordioso che verrà a giudicare i vivi e i morti. La speranza cristiana ha pertanto un fondamento ben preciso che è costituito dalla serena certezza che colui che per primo l’uomo incontrerà nella vita eterna, dopo la sua morte, è Cristo Gesù45. Questa prospettiva è la sola in grado di instillare fiducia nel cuore dell’uomo chiamato prima o poi ad affrontare il transito della morte, e infonde in lui la solida speranza di poter sperimentare il perdono rigenerante di Dio. Una speranza che s’irrobustisce di fronte alla possibilità che anche dopo la morte, nel Purgatorio, potranno essere purificati gli effetti di quelle colpe che qui sulla terra non hanno ricevuto completa espiazione. Il Purgatorio è, quindi, un “crogiuolo necessario” in quanto non è possibile che qualcosa di impuro venga associato alla vita divina e venga reso partecipe della visio beatifica. La speranza non delude perché l’uomo non è mai abbandonato alla sua solitudine, ma partecipa del mistero della comunione dei santi che incessantemente intercedono per chi è ancora in cammino. Lo stesso «Purgatorio [è] una società mistica, in cui si pregusta, soffrendo, l’amore e l’unione della società celeste»46.

44 45 46

Cfr. ibid., 229. Cfr. ibid., 237. Ibid., 238.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 46

46

Francesco Brancato

Esso prepara a prendere parte pienamente alla comunione con Dio e con gli altri fratelli salvati, poiché in Dio la società è perfetta ed è estesa a tutti i beati che compartecipano tutti i beni spirituali agli altri fratelli redenti dal sangue di Cristo e che hanno accolto il suo vangelo di salvezza. La gioia di uno sarà quella di tutti e la beatitudine di tutti raggiungerà tutti gli esseri creati, per la maggiore glorificazione di Dio. È nella lode finale e perfetta che la comunione dei santi trova il proprio compimento e la propria adeguata espressione e realizzazione, e la speranza cristiana è sostenuta dalla fiducia nel raggiungimento di questa meta. È solo nell’attuazione universale di questo disegno di salvezza che quanto è donato al singolo dopo la sua morte troverà piena conferma e manifestazione. Allora si realizzerà il giudizio e la resurrezione dei morti nei loro corpi resuscitati, trasformati. L’uomo integralmente considerato, nella sua dimensione spirituale e corporea, personale e comunitaria, relazionale, parteciperà della vera vita che è amore, intimità indissolubile tra Dio e l’uomo reso partecipe della sua pienezza di vita; l’amore che solamente può garantire il permanere dell’identità personale di ciascuno, chiamato alla comunione indissolubile con Dio47.

5.3. Il destino dell’uomo nella gloria L’eschaton porterà con sé l’esaltazione massima dell’uomo. Il destino di questi non è quello di una generica dispersione nel tutto, 47

M. Pennisi, è dell’idea che per Sturzo «il messaggio cristiano comporta la salvezza non solo di tutti gli uomini, nei quali egli vedrà operante l’azione invisibile della grazia, ma anche di tutto l’uomo: anima e corpo. Il cristianesimo non può ridursi a una vaga elevazione alle cose dello spirito che serva a dare afflato mistico alla vita morale dell’individuo, né all’incerta scommessa su una vita ultraterrena che lasci immutata la vita temporale; ma è un messaggio di salvezza che influisce nella vita morale sia pubblica che privata e che riguarda l’uomo sia nella sua vita presente che in quella futura. Il riferimento costante alla croce di Cristo e alla dimensione escatologica del cristianesimo, servì a liberare Sturzo dalla volontà di affermazione e di successo a ogni costo e impedì che la sua “utopia politica” venisse presentata come la “panacea” di tutti i mali» (M. PENNISI, Fede e impegno politico. Un dovere morale non può essere una cosa sporca, in L’Osservatore Romano, 21 gennaio 2009, 5).


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 47

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

47

nell’essere senza fondo, ma è qualificato dalla relazione che sarà rapporto di amicizia e di alleanza eterna con Dio che lo ama e lo interpella. Un uomo che nella libertà avrà risposto all’appello di Dio e si sarà aperto alla sua offerta di comunione. Nessuna costrizione, dunque, ma esaltazione dell’identità più profonda dell’uomo nella sua dignità più propria48. La nuova creazione, la creazione ultima, ha inizio per l’uomo, e attraverso di lui per il mondo intero, già nella rinascita battesimale, come recita il testo paolino di Rm 6,3-11, esplicitamente richiamato da Sturzo il quale, a partire dalle suggestive espressioni paoline, parla del battesimo come di una vera rinascita nella quale l’uomo è rigenerato, salvato e trasportato a nuova vita nella quale e della quale tutto il suo essere comincia sin da adesso a respirare49. Il battesimo è, infatti, il sacramento in cui si realizza la morte e la resurrezione spirituali dell’uomo, quale simbolo e preparazione del passaggio da questa all’altra vita50. L’uomo può sperare in questa salvezza finale in forza della redenzione dalla colpa originaria ad opera di Cristo e della volontà salvifica di Dio che vuole che tutti gli uomini siano salvi. Il cristiano sa con certezza che in mezzo alle tribolazioni e agli affanni del suo oggi, la sua vita è nascosta sin da adesso con Cristo in Dio; sa anche che quanto è temporaneo è già accolto gradualmente nell’eterno, di modo che l’attuale stato di comunione con Dio, Uno e Trino, sia una reale partecipazione a quella pienezza di gloria che ha nello status viae il suo reale inizio e nel futuro la sua definitiva consumazione51. Se l’esistenza dell’uomo è un cammino verso l’assoluto e l’eterno, si comprende la ragione per cui «l’amore è sollecitato dalle attrattive della speranza, così nell’ordine soprannaturale come nell’ordine naturale: la speranza di un bene»52.

48 49 50 51 52

Cfr. L. STURZO, La vera vita, cit., 113. Cfr. ibid., 33. Cfr. ID., Problemi spirituali, cit., 170. Cfr. ID., La vera vita, cit., 70. Ibid., 75.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 48

48

Francesco Brancato

Questo bene non può essere conseguito compiutamente nel corso dell’esistenza storica e finita dell’uomo, per cui, «nell’ordine soprannaturale la speranza, che ci è data in questa vita, a mezzo della fede […], si perfeziona nell’altra con il possesso del Bene eterno, felicità delle anime elette»53.

Se ciò non avvenisse, prosegue Sturzo, allora il desiderio e la ricerca dell’uomo rimarrebbero per sempre frustrati, senza alcun senso, e lo condannerebbero a un’esistenza irrealizzata e irrealizzabile54. Ciò però non è possibile. La vita del credente è nondimeno posta sotto il segno della ricerca, dell’approfondimento e dell’assenso, ma non della visione e del possesso. Quella del credente, proprio perché tale, è un’esistenza caratterizzata da un interrogarsi incessante, da un modificare continuamente i propri concetti e le proprie visioni, nella continua aspirazione verso il Bene supremo, che nell’oggi si offre realmente, non nell’evidenza del dato, ma solo nella speranza, nella fede e nella carità. La felicità di cui si sta parlando è allo stesso tempo visione e amore. È verità intuita, è amore di fruizione, mentre ora è verità creduta ed è amore di elezione che è legato a una conoscenza di fede e a una speranza che si esprime nell’attesa, è un amore che purifica per l’attesa del futuro possesso del Bene sperato55.

5.4. La verità ultima dell’uomo e del mondo è l’amore L’amore è il contenuto della vita eterna, come lo stesso Paolo di 1Cor 13,4-7, ripreso da Sturzo, afferma. La carità è infatti comunione con Dio, che resterà per sempre, anche quando la fede farà spazio alla visione e la speranza al possesso. Ma se l’amore sarà il contenuto della vita eterna, nell’oggi della storia esso è anche la sostanza della vita cristiana, tanto che Gesù 53 54 55

Ibid., 76. Cfr. ibid., 143. Cfr. ibid., 80.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 49

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

49

«descrive il giudizio finale come basato su quel che ciascuno avrà fatto al suo prossimo, come fatto allo stesso Figlio di Dio e re di tutti»56.

L’amore per il prossimo è espressione e incarnazione dell’amore per Dio nel quale solamente trova la sua adeguata rassegnazione. La vita eterna è dunque amore di Dio, amore per Dio, amore per i fratelli. Se nel suo presente l’uomo vive di questo amore, non ha nulla da temere. Il problema per lui non è né il sopraggiungere della morte, né ciò che avverrà dopo la morte. Per chi vive nell’amore, infatti, l’avvenire non può avere i colori del terrore e della paura. È quanto ribadisce Sturzo in un passaggio particolarmente suggestivo, scritto con accenti non lontani da quelli che si possono riscontrare tra l’altro nella riflessione escatologica di un grande teologo come H.U. von Balthasar: «L’avvenire? È Dio che lo fa; quando arriva è Dio che lo vuole. La morte? Venga come e quando Dio permetterà. Il Purgatorio? Il premio? Accettati e voluti nella volontà divina. Per l’abbandono in Dio non si riguarda il premio in sé per la nostra soddisfazione, ma come adesione incondizionata, completa, totale alla volontà di Dio, alla trasformazione in lui, in cui tutto è compreso, tutto è annegato, nella fede pura e nel puro amore»57.

È infatti Dio il vero premio della sua creatura, la comunione con lui è la vita eterna, e la beatitudine consiste nell’adesione totale a lui, resa possibile dall’amore puro, dal legame d’amore che ha nella grazia santificante il suo seme e nella vita di fede, speranza e carità, su questa terra, il suo anticipo.

6. IL MISTERO DELLA MORTE L’oggi dell’uomo è segnato tragicamente dal mistero della morte, questione e interrogativo che il mortale non può eludere e che 56 57

Ibid., 78 (cfr. Mt 25,37-40). Ibid., 101.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 50

50

Francesco Brancato

sembra far naufragare ogni ragionevole attesa di un autentico futuro di salvezza e di bene. La morte segna non solo l’esistenza dell’uomo, ma anche quella di tutti gli altri esseri viventi; la sua azione si impone sull’universo intero e nulla sembra potersi sottrarre al suo potere. Solo chi è chiamato beato da Dio perché mansueto, misericordioso, puro, pacifico, sarà beato nel suo intimo e sarà liberato non solamente dalla tortura del rimorso, ma anche dalla paura della morte. Questa è presente in tutte le dimensioni della vita, anche se il suo pensiero — denuncia Sturzo — è messo da parte nell’educazione moderna, con grande danno per la stessa formazione umana dell’uomo e la maturazione della sua coscienza etica58. Il pensiero della morte, infatti, è essenziale per la vita, poiché ne illumina il significato più vero e profondo. Per esperienza diretta nessuno sa che cosa sia la morte, nessuno la può conoscere facendone esperienza sulla propria pelle sino in fondo. Ciò che della morte si può sapere è che essa soltanto può trasferire l’uomo dal mondo creaturale al mondo divino e all’infinità increata. Se da un lato essa suscita timore e spavento, dall’altro è accolta dall’uomo di fede con serenità, non tanto perché, evento terribile, abbia mutato i tratti del suo volto, quanto piuttosto perché l’uomo di fede la incontra con una «confidenza illimitata» in Dio59. Anzi, «il pensiero della morte, che non può mancare mai a ciascuno di noi, contribuisce a formare l’orientamento della propria attività»60,

non paralizzando l’uomo nella sua azione, responsabile nel mondo e per il mondo, con gli altri e per gli altri. Ciò di cui Sturzo sta parlando comunque non è la morte quale evento in sé e per sé sempre assurdo e assolutamente negativo, ma la morte vissuta nella fede e nella speranza riposte in Cristo. È solamente la fede in Cristo, infatti, a rendere sopportabile per il mortale il pensiero della morte e il suo sopraggiungere. Questa fede, egli 58 59 60

Cfr. ID., Problemi spirituali, cit., 109. Cfr. ID., La vera vita, cit., 237. ID., Problemi spirituali, cit., 7.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 51

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

51

continua, anticipando sorprendentemente per linee generali una riflessione che sarà propria addirittura di Gaudium et Spes (n. 18), risponde pienamente a una domanda che ha già nel cuore dell’uomo, nella sua voce interiore, una prima eppure significativa risposta, nella misura in cui l’uomo, prima ancora di aprirsi al dono della fede, sente che non è possibile che con la morte tutto muoia e la vita si estingua totalmente e definitivamente. È quell’istinto del cuore di cui parla il testo conciliare, e che fa giudicare rettamente quando fa aborrire il pensiero che con la morte tutto abbia fine; un istinto che comunque nell’annunzio della resurrezione di Cristo incontra tuttavia l’unica possibile risposta alle sue più radicali ansietà. A motivo del peccato, la morte ha fatto il suo ingresso nella vita dell’uomo ed ha mostrato sempre più il suo potere. La sua azione, in ogni caso, non può nulla sulle anime che dopo la morte continueranno un’esistenza di cui poco ci è dato sapere. Certo è che tutto ciò che si dice riguardo all’ipotesi di una morte che riguarda anche le anime, o riguardo alla loro trasmigrazione in altri corpi, non può essere preso in seria considerazione da un cristiano, e neppure da chiunque abbia uso della ragione, perché tali tentativi di risposta non costituiscono per nulla delle soluzioni degne di attenzione per l’uomo e le sue ansietà. L’unica risposta possibile al mistero della morte è invece quella che viene dalla fede, e in particolare dalla sempre crescente convinzione, già propria del pensiero ebraico giunto a maturazione, di «un’immortalità completa che spetta all’uomo e che porta implicitamente l’idea della resurrezione dopo la morte corporale»61,

la convinzione, cioè, che ciò che attende l’uomo e in cui questi può ben sperare è la resurrezione dei corpi, la pienezza dell’immortalità e la vita eterna, che Gesù ha chiaramente rivelato nel suo messaggio e nella sua stessa persona.

61

ID., La vera vita, cit., 121.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 52

52

Francesco Brancato

7. LA RISURREZIONE DI CRISTO E QUELLA DEL CRISTIANO 7.1. La Resurrezione sorgente di speranza Di fronte al mistero della morte e del suo sempre improvviso sopraggiungere, ciò che veramente conta non è il come e il quando l’“ultimo nemico” che giungerà pur sempre come un ladro, sarà la mia morte, la morte della persona amata o, semplicemente, la morte di qualcuno, ma il fatto che «il primo che incontreremo, dopo la morte, è il nostro Signore e Fratello, Gesù»62 che si rivelerà come il giudice misericordioso. Per questo motivo il cristiano ha buone ragioni per confidare nel perdono. Per lui, infatti, la morte è passaggio verso Dio in Cristo, essere da lui accolto perché da lui da sempre atteso. Anche quando all’incontro con la morte l’uomo giunge con il cuore macchiato da una qualche colpa, può ancora sperare nella purificazione di quei residui di colpa che non gli è stato possibile espiare durante la vita e che, una volta definitivamente cancellati, lo renderanno pronto per partecipare compiutamente alla communio sanctorum63. Questa comunione sarà perfetta con la resurrezione finale che ha la sua radice e il suo fondamento nella resurrezione di Cristo, secondo l’insegnamento paolino di 1Cor 15, a cui Sturzo fa esplicito riferimento. Le parole dell’Apostolo — egli dice — «non ci spiegano il mistero, che oltrepassa l’umano intendimento, ma ci danno i termini di quel che sarà la resurrezione dei corpi e la loro discriminazione in incorrotti e trasformati e incorrotti ma non trasformati, i primi destinati alla gloria, gli altri alla pena»64.

Il vero contenuto della speranza cristiana è dunque la resurrezione di Cristo che rende possibile la resurrezione dei morti, poiché

62 63 64

Ibid., 237. Cfr. ibid., 126. Ibid., 239.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 53

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

53

«Gesù Cristo è risorto immortale, rivestendo il suo corpo reso glorioso. Così egli ha vinto la morte e ci ha dato il segno del come noi vinceremo la morte; non sul piano naturale, ma su quello soprannaturale, riunendo insieme anima e corpo, perché tutto l’uomo nella sua natura fosse salvo»65.

Nella vera morte di Cristo è stata espiata la colpa che ha condotto l’uomo alla morte, e nella sua resurrezione all’uomo è stata aperta la via della “vera vita”. Questo mistero è partecipato all’uomo mediante il battesimo, nel quale muore, viene sepolto e risorge con Cristo per andare incontro al suo destino ultimo, alla beatitudine piena. Tale beatitudine, poi, conosce una gerarchia di gradi a seconda della perfezione e dei meriti raggiunti da ciascuno durante il corso della sua esistenza terrena. L’uomo è infatti interpellato direttamente e personalmente in relazione all’esito della sua esistenza storica; il suo destino eterno non sarà affatto arbitraria decisione di Dio, ma anche frutto della sua libertà di fronte alla quale si delineerà la possibilità della dannazione o la salvezza eterne66. Tutto ciò lungi dal creare ingiuste discriminazioni e inique suddivisioni nell’assemblea dei santi e dei beati, si traduce invece in una «scala di bellezze celesti» che forma la gloria eterna «nella quale tutti canteranno le lodi a Dio e tutti si fisseranno in lui, nell’Unità-Trinità infinita nella cui vita è unita la umanità del Verbo»67.

Riflessioni suggestive, queste, anche se ritengo che sia più interessante quanto Sturzo aggiunge in un passaggio successivo della sua riflessione, quando parla della carità di cui vivranno i beati in eterno. Questi, egli dice, saranno «in una unione sempre più intima e crescente, di chiarezza in chiarezza»68. Nessun immobilismo, dunque, nessuna quiete immobile, e nessun assonnato e annoiato contemplare 65 66 67 68

Ibid., 122. Cfr. ibid., 128. Ibid., 111. L.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 54

54

Francesco Brancato

essenze eterne, ma unione intima sempre crescente, dinamismo vitale inarrestabile, gaudio incontenibile, poiché la visione di Dio significa sì il “raggiungimento” di Dio nella comunione da parte dell’uomo e, ancora più propriamente, l’essere posseduto da Dio e l’essere pieno di Lui da parte dell’uomo rigenerato dalla grazia, ormai reso partecipe della gloria69. La visione è pertanto il completamento e il perfezionamento della grazia che ha afferrato l’anima, l’ha purificata e capace di vedere Dio, di contemplare la sua gloria, secondo l’adagio della teologia medievale secondo cui gratia est inchoatio vitae aeternae e, secondo quanto amava dire un teologo come J. H. Newman: “Grace is glory in exile. Glory is grace at home”, massime sicuramente presenti nella mente del Nostro. Quello della contemplazione non è perciò un atto esclusivamente intellettivo, ma implica anche la presenza, unitamente alla conoscenza70, nel senso che la beatitudine, nella sua verità profonda, oggetto dell’attesa e della speranza dell’uomo in Cristo, è adesione e vita, è incontro e relazione d’amicizia, non certo nella confusione tra Dio e l’uomo, nella dispersione di quest’ultimo nella insondabile e abissale vita divina, nella sparizione dell’umano nel divino, nel grande oceano dell’essere, ma nel contatto amoroso71. Dire questo significa sostenere che la sorte dei salvati è la comunione dei santi, già anticipata qui sulla terra, pienamente consumata nella parusia. Come anche ribadiranno i numeri 49-50 di Lumen Gentium, qui singolarmente anticipati nelle loro linee essenziali e portanti, Sturzo precisa: «La comunione dei santi si estende all’altra vita, arrivando alle anime purganti per modo di suffragio […]. Si va così formando il corpo mistico di Cristo in cielo, come continuazione e perfezione del corpo mistico sulla terra»72.

69 70 71 72

Cfr. ID., Problemi spirituali, cit., 140. Cfr. ibid., 140-141. Cfr. ibid., 150. ID., La vera vita, cit., 126-127.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 55

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

55

Tra la terra e il cielo non c’è quindi alcun muro divisorio, ma in Cristo la comunione è reale tanto che sembra esserci tra questi due ordini della realtà una sorta di “scala di Giacobbe” che rende possibile la comunicazione dei beni spirituali tra coloro che già godono della visio Dei, coloro che passano attraverso il fuoco purificatore di Dio e coloro che vivono ancora il loro pellegrinaggio terreno.

7.2. I cieli nuovi e la nuova terra La resurrezione di Cristo Gesù dalla morte è rigenerazione dell’uomo e del mondo intero, è l’inizio della creazione nuova nella quale il male, il peccato e la morte, non saranno più. «I Vangeli rivelano una fine del mondo, un giudizio universale con una speciale glorificazione del Cristo. Il mistero avvolge questa verità, un mistero di salute; quando ciò avverrà appartiene a Dio; non lo sa neppure il Figlio, cioè l’umanità del Verbo. Ma quel che noi possiamo comprendere — scrive Sturzo in un passo che rivela una certa vicinanza alle vaste visioni teilhardiane, e ancora più e meglio alla ricca escatologia paolina — è che questa natura, sulla quale è edificata la soprannatura, va a compiere il suo viaggio solidale e deve riconoscersi unificata in Cristo, confessare Cristo suo capo, essere da Cristo giudicata»73.

La vita eterna non sarà perciò l’esistenza di una realtà puramente spirituale, assolutamente emancipata dallo spazio e dal tempo, dal riferimento all’universo materiale, creato da Dio, acosmica, ma in essa l’uomo porterà con sé qualcosa di temporale quando risorgerà con il suo stesso corpo, a immagine di Cristo risorto. Tale trasformazione non può avere un significato esclusivamente spirituale, poiché, in realtà, la speranza cristiana, poggiante sulle promesse di Dio e su quanto si è realizzato nella morte e resurrezione di Cristo, attende il rinnovamento dell’intero cosmo che sarà trasformato nei cieli nuovi e nella nuova terra in cui avrà stabile dimora la giustizia e dove la lode 73

Ibid., 127.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 56

56

Francesco Brancato

a Dio sarà perfetta. Allora l’uomo, e con lui tutti gli esseri corporei che sono fatti per lui, cesseranno di essere nello stato di generazione e corruzione, e la natura umana sarà finalmente posta nel suo fine74. E questo per il fatto che all’uomo, integralmente considerato, colto nella verità e nell’unità del suo essere e della sua esistenza concreta, è annunciata la salvezza eterna. La resurrezione, in quest’ottica, è la condizione di vita che egli spera e attende per la fine dei tempi, quando sarà reso perfettamente partecipe dello stesso destino di Cristo, quando la sorte del Capo sarà anche quella di tutte le sue membra. Tale destino sarà quello della gloria, della beatitudine piena che non sarà solamente continuo accrescimento della comprensione e dell’amore, ma sarà, più propriamente, un passaggio di luce in luce, di gloria in gloria. Anche i sensi verranno coinvolti in questa beatitudine promessa, poiché è l’uomo intero ad esserne associato, in un processo che non può essere inteso come passaggio dalla potenza all’atto, poiché si è nella pienezza del possesso e del bene, ma di atto che si accresce all’infinito75. Se la beatitudine si arricchisce all’infinito, anche il dolore per la dannazione eterna subisce il medesimo destino. Per quanto riguarda in particolare l’Inferno, Sturzo preferisce però parlare di “perpetuità” piuttosto che di eternità, e questo perché in realtà l’Inferno è una condizione negativa che non può essere definita se non attraverso il suo contrario, e si caratterizza come mancanza di fruizione del bene e assenza della stessa speranza di poterlo mai ottenere. Il destino della creazione tutta è invece la vita. Ciò che Dio ha preparato per l’uomo è la sua stessa vita divina e la comunione piena con Lui e con gli altri fratelli. La perdizione è al contrario il fallimento, per l’uomo, di questo progetto originario e finale di Dio, è la consumazione del no pronunciato dall’uomo all’offerta di amicizia da parte del suo Creatore. Ecco perché questa condizione “innaturale” non può essere espressa se non negativamente. Qui sta anche la ragione per cui sull’Inferno il sacerdote calatino non dice di più, diversamente da quanto appartiene invece a buona parte della riflessione teologica del passato, troppo 74 75

Cfr. ibid., 234. Cfr. ibid., 226.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 57

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

57

attenta a questo argomento ed eccessivamente preoccupata di dire quanto più possibile intorno ad un mistero che invece richiede sobrietà e attenzione. La discrezione che caratterizza le scarne riflessioni di Sturzo sulla delicata questione dell’Inferno rispecchia infatti la posizione della stessa Scrittura che si caratterizza per la misura con cui tratta di un tema tanto spinoso quanto drammatico e di difficile comprensione, soprattutto se messo in relazione con il vangelo della grazia e con la rivelazione del volto misericordioso di Dio da parte di Gesù. Un tema che comunque non può essere eluso, perché palesa la serietà e la radicalità della chiamata di Dio all’amicizia con lui e la corrispondente serietà e radicalità della risposta libera e responsabile dell’uomo. Una questione-limite, dunque, di cui bisogna parlare con equilibrio e moderazione, senza cedere alla tentazione di dire più di quanto la stessa testimonianza biblica e la più sana tradizione patristica e teologica hanno detto. In questo, con il suo silenzio consapevole e deliberatamente mantenuto, Sturzo ci dice su questo argomento molto più di tante inutili e spesso inopportune e dannose speculazioni. Sturzo sa, infatti, che soltanto quella che conduce alla vita eterna può dirsi e sarà vera resurrezione per la quale l’uomo avrà un corpo, un vero corpo, un “corpo perenne” com’è vero e perenne quello di Gesù risorto e glorioso76. La resurrezione ha perciò una valenza profondamente cristologica, ed è resurrezione per la vita e per la beatitudine eterna. Solo impropriamente e cedendo a diverse forzature si può parlare anche di resurrezione per la morte e la perdizione eterne. Se la moderazione è il principio primo per accostarsi alla questione della perdizione, lo stesso discorso vale, secondo il Nostro, anche per quanto concerne ciò che può essere detto riguardo alla fine del mondo. Anche qui Sturzo è dell’avviso che se ne possa parlare esclusivamente attraverso il ricorso alla Scrittura. Questa non intende offrirci delle informazioni circa la sua conclusione fisica, quanto piuttosto vuole parlarci della sorte finale dei giusti e degli empi, una sorte dalla quale il mondo materiale non è escluso, in forza della stretta solidarietà tra l’uomo, termine della creazione e della venuta del Verbo eterno di Dio, e l’intera realtà creata. Il mondo, come già è emerso, alla 76

Cfr. ID., Problemi spirituali, cit., 170.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 58

58

Francesco Brancato

fine verrà a cessare per il semplice fatto che così come esso è, quale condizione naturale della vita umana, non avrà più motivo di essere. È una verità, ci dice Sturzo, tratteggiata tra l’altro in diversi brani scritturistici come Mt 24,35; 2Pt 3,7; 3,10; 1Ts 5,2 e, ancora prima, nel Salmo 10177. In 2Pt 3,10 e in 1Ts 5,2, poi, ci viene anche detto il modo in cui il Figlio dell’uomo verrà alla fine, “come un ladro”, mentre altri brani ci parlano dei segni che precederanno la sua ultima venuta, ed esortano a vivere con fede e sobrietà nell’attesa che questi eventi si verifichino. Ciò che comunque ci è dato di sapere, conclude Sturzo, è che tutti gli eventi della storia, animati dalla forza della grazia, e quindi gli stessi eventi finali, conducono a Dio e sono animati da una “forza unificatrice” che raccoglie quanto nel corso della storia e nel mondo si trova disperso. Ciò che conta è dunque il fine e la meta78. La meta da raggiungere è l’incontro definitivo con Dio. È quanto risulta dalle stesse parole con le quali Gesù inizia il suo ministero pubblico: “Il regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc 17,21), e che per Sturzo sono da intendersi in riferimento ad una verità fondamentale nonché al contenuto della speranza cristiana secondo cui, piuttosto che di attesa del ritorno di Cristo alla fine dei tempi — Gesù in verità non si è mai allontanato dal mondo — bisogna parlare, più correttamente, del nostro ritorno, il ritorno dei redenti, a Cristo79. La storia, in questa prospettiva nuova, è proprio il cammino di ritorno a Dio in Cristo. Alla luce di tale fine, ogni momento intermedio, seppure carico di significato e denso di contenuto, viene inevitabilmente relativizzato. L’attesa della resurrezione non affievolisce comunque l’impegno del cristiano nel mondo, anzi, egli agisce nel mondo senza alienazioni e fughe, ma animato dalla speranza del raggiungimento della meta del suo cammino, testimoniando la sua fede e vivendo il comandamento dell’amore, con la consapevolezza che «qui comincia la nuova vita»80. Già nel suo oggi, in questa creazione che mostra anche i segni dell’irredenzione, ma che soprattutto porta in sé il germe della rinascita e il lievito della vita nuova. 77 78 79 80

Cfr. ID., La vera vita, cit., 228. Cfr. ibid., 229. Cfr. ID., Problemi spirituali, cit., 164. Ibid., 183.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 59

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

59

L’anima della vita del cristiano e del mondo intero è l’attesa della venuta finale di Cristo. Una venuta che si verifica già nella morte, sempre vicina, quale incontro personale con Cristo giudice. Un giudizio che alla fine dovrà diventare manifesto e interessare l’uomo nell’integrità della sua natura spirituale e materiale. È il giudizio universale che attende l’umanità intera dopo la resurrezione dei morti e che si realizzerà quando Cristo verrà nella gloria del Padre suo per giudicare i vivi e i morti. Tale venuta, oggetto centrale della speranza della Chiesa primitiva che l’attendeva come imminente, è sempre prossima in quanto può sempre avvenire, in ogni istante, tanto che «l’hora novissima è tutto il periodo dalla prima predicazione del vangelo nel mondo in poi»81. «Così potrà dirsi che “il giorno del Signore” è per arrivare, perché il Signore è presente e conforta i suoi alla battaglia e dà vigore per resistere alle seduzioni e non permette che siano tentati oltre le loro forze; come pure che “il giorno del Signore” non è ancora arrivato, perché “tutto ciò non sarà che l’inizio dei dolori”»82.

Anche qui, ciò che in fondo conta è l’amore, quale misura della vita cristiana vissuta secondo Cristo e il suo insegnamento, nella dedizione a Dio e ai fratelli. «Il cammino del cielo parte dall’amore e arriva all’amore […], tutto ci conduce a Dio. […] Non c’è altra via: chi non ama rimane nella morte […]. La vera vita è amore»83.

L’amore è il contenuto della vita umana nel suo cammino e nella sua meta, sulla terra e in Dio, nella terra fatta di peccato e bisognosa di redenzione, e nei cieli nuovi e nella nuova terra, quando «tutto sarà trasformato dall’amore»84. 81 82 83 84

ID., La vera vita, cit., 230. Ibid., 232. Ibid., 241. L.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 60

60

Francesco Brancato

Queste riflessioni sono espresse liricamente dal Nostro nella parte finale de Il Ciclo della creazione dal titolo Apocalisse in cui viene riletto praticamente l’ultimo libro della Bibbia in un’ambientazione scenica in cui la luce, i colori, i suoni, il ritmo, sono posti a servizio di un messaggio chiaro: l’avvento della fine nel suo duplice e irriducibile aspetto di terrore, paura e angoscia, ma soprattutto di gioia, salvezza e gloria. Una fine, quella del mondo, preceduta da tutta una serie di segni che parlano soprattutto della forza dell’Anticristo che si scatena sul mondo, del suo potere di seduzione. Ora i cieli vengono sconvolti e tutto sembra essere avvolto da una tetra e terribile cappa di angoscia e disperazione. Ma in questa situazione di estremo dolore e di terrore, trova ancora spazio l’invocazione del Sole di giustizia perché illumini, riscaldi e strappi alla vera morte e all’annientamento coloro che hanno continuato a credere perfino nelle tribolazioni. Il fuoco divino diventa perciò fuoco purificatore e fuoco sacrificale insieme. Un fuoco che consuma il male del mondo e fa dell’universo un’offerta a Dio gradita per la sua lode perenne. La scena finale è infatti quella della vittoria definitiva di Cristo su tutte le potenze, l’affermazione del suo dominio regale e l’adorazione di tutte le genti e dell’universo intero nella gloria della Trinità85.

CONCLUSIONE La riflessione teologica di Luigi Sturzo, sempre attenta a quanto la Scrittura ci dice, si apre e si espande in una visione che abbraccia inizio e fine, principio e compimento di tutte le cose. La creazione delle origini si riannoda così alla nuova creazione, e il mistero di Cristo, nel quale il mistero dell’uomo incontra la sua vera luce, ricapitola in sé tutte le cose. Il mistero dell’Incarnazione del Verbo ha avviato la consumazione del processo di unificazione dell’umanità intera, ha inaugurato i tempi ultimi e ha dato inizio al mondo nuovo. Cristo è infatti l’alfa e l’omega della storia, la sua sorgente e la sua meta, il suo senso e il suo significato profondo. 85

Cfr. ibid., 234.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 61

L’inizio e la fine di tutte le cose. Il pensiero di Luigi Sturzo

61

La prospettiva da cui Sturzo si accosta alla complessità e alla ricchezza incontenibile di questo mistero è propriamente teo-logica, e quindi cristologica e per ciò stesso antropologica e cosmologica. Il Dio creatore è il Dio-Amore, la Sapienza eterna che è all’origine di tutte le cose e della storia, e che continua a operare nel mondo perché tutto venga ricondotto a Dio. È il Dio della historia salutis che ha creato tutte le cose perché abbiano solo in lui il loro senso ultimo e il loro vero fine, e perché in lui, tutto in tutte le cose (cfr. 1Cor 15,28), raggiungano il loro destino di salvezza in solidarietà con l’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, ricreato a immagine di Cristo, vertice e cuore del creato; un uomo chiamato a una speranza certa perché fondata sul mistero pasquale di Cristo, mistero di morte e resurrezione. È Maria, colei nella quale il progetto originario e finale di Dio sull’uomo si è manifestato con insuperabile chiarezza e profondità in una creatura umana. Infatti, con la sua assunzione al cielo, anima e corpo uniti, conclude Sturzo, «ci richiama al pensiero della nostra meta nel cielo, con il Figlio suo Gesù, nella visione beatifica di Dio»86.

86

ID., Problemi spirituali, cit., 203.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 62


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 63

Synaxis 3 (2009) 63-120

IL MINISTERO SACERDOTALE NEL PENSIERO DEL VESCOVO MARIO STURZO: FORMAZIONE E SPIRITUALITÀ DEI SACERDOTI

PASQUALE BUSCEMI*

INTRODUZIONE Il rinnovamento voluto dal papa della Rerum Novarum, Leone (1878-1903), esigeva la concreta e fattiva collaborazione del clero, il quale necessitava di una formazione adeguata ai tempi e alle nuove esigenze socio-culturali presenti nel XIX sec.; la Chiesa non poteva rimanere indifferente di fronte alle nuove istanze e alle sempre frequenti provocazioni. L’azione pastorale della Chiesa collegata alla situazione nuova in cui si trova in questo periodo è compito primario del clero. Mons. Sturzo era convinto che la crisi era frutto anche della disorganizzazione del sistema parrocchiale siciliano e della distribuzione anomala del clero nel territorio, condizionata ancora da vecchie strutture municipali e familiari che lo legavano al proprio paese d’origine. Da un clero nuovo dedito al ministero della Parola e dei sacramenti e all’impegno sociale doveva venire la riforma della vita religiosa del popolo. L’episcopato siciliano guidato dai cardinali Nava e Lualdi e da vescovi come Giovanni Blandino di Noto e Mario Sturzo di Piazza Armerina, rimaneva ancora sulla linea di una pastorale sociale e culturale della Chiesa nella società siciliana. L’appoggio al clero e al laicato democratico cristiano era vivo, così come era viva la speranza di una rigenerazione della Chiesa a partire dal popolo1. XIII

*

Docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr. F.M. STABILE, L’episcopato siciliano, in La Chiesa di Sicilia dal Vaticano I al Vaticano II, I, Caltanissetta-Roma 1994, 157-158. 1


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 64

64

Pasquale Buscemi

Si avvertiva il bisogno di rinnovamento. Se dai moti risorgimentali e poi con l’unità d’Italia, la Chiesa si era chiusa in se stessa, come una roccaforte, continuamente minacciata da movimenti anticlericali e massonici che proponevano uno stato liberale, laico, svincolato da condizionamenti religiosi e da infiltrazioni clericali; dall’altra la Chiesa si difendeva da questi attacchi impedendo ai cattolici di impegnarsi in politica; proibiva di collaborare per la organizzazione della giovane nazione che così, nasceva all’insegna di movimenti anticlericali, i quali favorivano sempre più la crescita e la maturazione di atteggiamenti, mentalità e prese di posizioni antiecclesiali. Si assisteva sempre più a un continuo scollamento tra Chiesa e popolo, tra Chiesa e istituzioni civili, tra Chiesa e cultura, tra Chiesa e società. Il fenomeno della secolarizzazione, già in atto in pieno Ottocento, è favorito da questo clima di attrito e di lotta tra Chiesa e società. In questo periodo la coscienza cattolica si ribellava alla prospettiva di una emarginazione della Chiesa nella società e di una riduzione della religione allo spazio della interiorità individuale2. La Chiesa siciliana si adoperò in una vasta attività di formazione religiosa attraverso la rieducazione catechistica e morale e la testimonianza della carità ad opera di diversi sacerdoti che danno vita a numerose congregazioni e istituti religiosi con finalità caritative. Essa scese anche sul terreno dell’organizzazione sociale e politica e s’impegnò a riaffermare il valore di tale presenza in un momento particolare della vita nazionale, allorché offrì il suo sostegno ai ceti popolari sui quali pesavano le conseguenze negative di una economia precaria3. C’è uno sforzo di purificazione della vita cultuale come anche il desiderio di un impegno in campo politico e sociale dei cristiani.

2

Cfr. R. LA DELFA, Linee ecclesiologiche nel pensiero di Mons. Mario Sturzo, in C. NARO (cur.), Mario Sturzo. Un vescovo a confronto con la modernità, Caltanissetta-Roma 1994, 187. 3 Cfr. ibid., 188.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 65

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

1. I FERMENTI STURZO

CULTURALI AL TEMPO DELL’EPISCOPATO DI

65

MARIO

Se agli occhi di Sturzo l’ora presente appariva desolante è perché era consapevole di un grave fenomeno presente anche nella sua diocesi con i sintomi che preoccupano il pastore: la secolarizzazione che offrì una reinterpretazione globale del messaggio cristiano4. Il processo di secolarizzazione5 ha permeato la cultura del mondo moderno: se da una parte ha indicato come l’esperienza religiosa debba necessariamente inserirsi nel ritmo quotidiano dell’esistenza ed individuare forme sempre nuove di presenza e di azione, dall’altra ha aggredito violentemente il modo di concepire la fede, consentendo l’insorgere di una mentalità antitetica e pervenendo a una visione “autonoma” dell’uomo nel mondo, senza altri riferimenti di natura religiosa. In contrapposizione ai processi di sacralizzazione che avevano ritualizzato ogni aspetto delle realtà temporali, la progressiva rivendicazione di libertà del mondo immanente lascia intravedere nuovi orizzonti di comprensione dell’esistenza, senza il disincanto di rinnovate mitizzazioni. Il termine secolarizzazione alla fine dell’Ottocento ha inteso esprimere il distaccarsi dalla cultura ecclesiastica e il permanere di impulsi cristiani nel contesto sociale e spirituale della modernità: si chiama in causa la questione del ruolo pubblico della religione, ossia del posto che la fede cristiana, il Cristianesimo e la Chiesa occupano nella società moderna. La secolarizzazione si presenta come un processo storico di profonda trasformazione dell’uomo e del mondo, del modo con cui l’uomo si rapporta a se stesso e al mondo. Con il progredire della secolarizzazione viene meno anche l’idea di un ordine trascendente e si cerca di fondare tutto sulla realtà umana senza Dio6. Il vescovo Sturzo è convinto, fin dai suoi primi anni di episcopato, che non si trova a lottare contro il male in quanto male, 4 Cfr. A. PARISI, Il ruolo pubblico della religione, in V. SORCE, Un vescovo per il nostro tempo, Caltanissetta 2007, 15-30. 5 Su questo argomento Cfr. H. LUBBE, La secolarizzazione. Storia e analisi di un concetto, Bologna 1970. 6 Cfr. A. PARISI, Il ruolo pubblico della religione, cit., 15-18.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 66

66

Pasquale Buscemi «in quanto funesto retaggio della colpa di origine che condanna la società umana di tutti i tempi e di tutti i luoghi; per nostra sventura ci troviamo di fronte alle conseguenze di lunghi rivolgimenti più gravi dei primi e più disastrosi dei primi. Il cristiano oggi, quasi svegliandosi da lungo sonno, mentre crede di trovarsi nella stessa società, in seno alla quale si era addormentato, in vetta di colpe varie gravi, se vuolsì, ma cristiana, se non in tutto l’ordinamento dei rapporti, almeno nello spirito: si trova invece in una società nuova, cristiana ancora nel nome, ma pagana nello spirito; nella quale i cristiani vivono già la nuova vita senza quasi sentirne il disagio […]; mentre l’opera di chi per missione, avrebbe dovuto impegnare tutte le sue forze a salvare, la coscienza di coloro che si tenevano fedeli alle tradizioni cristiane, si era ridotta spesso a un ministero senza vita, nella compiacente convinzione che il male sarebbe stato spazzato via […] e che il popolo avrebbe conservata inviolata la fede. Ed ecco che […] salta il bisogno di un lavoro organico e profondo […] che deve mirare a costruire una vita nuova, rispondente ai nuovi bisogni: la quale sia cristiana nello spirito nell’essenza, rispondente ai nuovi bisogni»7.

Mario Sturzo avverte la gravità del momento storico, da buon studioso ha chiare le cause, ha studiato gli effetti ma da buon pastore ricerca le soluzioni; è preoccupato di identificare nuovi metodi per un lavoro pastorale idoneo. Nel ministero presbiterale identifica una provvidenziale soluzione del problema, infatti così afferma: «I sacerdoti attendano alle solite opere: che vuol dire tanta depravazione insieme a tanta operosità? È l’ambiente sociale corrotto o che corrompe. Il lavoro dei sacerdoti non è qual dovrebbe essere, non basta a salvare la società, forse basta appena a salvare pochi fortunati»8.

Da qui l’invito formulato da Leone XIII e fatto proprio da questo vescovo leoniano:

7 8

M. STURZO, II Lettera Pastorale, Piazza Armerina 1904, 4. ID., I Lettera, Piazza Armerina 1904, 26.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 67

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

67

«Uscite di sacrestia»: il motivo di questa scelta pastorale consiste nel cercare la pecorella smarrita e nel vedere il ministero in una dimensione missionaria e non preoccupato solamente dell’aspetto religiososacrale, ma anche sociale»9.

Mario Sturzo, prima ancora di diventare sacerdote, nella sua Caltagirone si era preoccupato di inserirsi in modo attivo in questo agone culturale. All’interno delle parrocchie istituisce circoli culturali atti a creare una nuova mentalità e a formare una nuova coscienza sociale e morale nei cristiani. La stessa preoccupazione lo accompagna nell’impegno al di fuori dell’istituzione ecclesiale. Da giovane sacerdote nominato docente e formatore in seminario si preoccupa di adeguare gli insegnamenti attraverso le discipline insegnate in modo da offrire ai futuri presbiteri formazione e strumenti idonei per un efficace esercizio del ministero. In vista anche di una nuova mentalità collabora per la divulgazione della buona stampa, perché tutti potessero appropriarsi di quel patrimonio di vita e di pensiero contenuti negli insegnamenti evangelici custoditi dalla Chiesa. La problematica sopra descritta viene avvertita da Mario Sturzo in modo molto chiaro l’indomani della sua ordinazione episcopale avvenuta nel 1903, quando viene mandato a Piazza Armerina: lì si rende conto della mole di lavoro che l’aspetta e della situazione nuova nella quale si trova, in cui deve lavorare e verso la quale destinare le sue risorse di pastore e di padre10.

2. LA FORMAZIONE TEOLOGICA, CULTURALE E SPIRITUALE DEI SACERDOTI

L’11 ottobre del 1903 prende possesso canonico della Diocesi di Piazza Armerina e scrive una lettera a Pio X per implorare il conforto di una speciale benedizione e per manifestare al papa la profonda venerazione e l’illimitata obbedienza. Il papa risponde offrendo al giovane vescovo che ha appena 42 anni, consigli e obiettivi da raggiun9 10

Cfr. ibid., 26. Cfr. ibid., 3-4.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 68

68

Pasquale Buscemi

gere: tra questi vengono menzionati il seminario e il clero. Sturzo così scrive al papa nella sua I Lettera Pastorale: «Comincerò dal seminario, come Vostro Beatissimo ha prescritto, il clero sarà la mia cura suprema; con l’aiuto del quale potrò, piacendo a Dio concorrere, benché in minima parte, all’attuazione della Democrazia Cristiana, e Vostro Beatissimo a imporre parole così sapientemente delineate, cioè alla restaurazione della società in Cristo Gesù. Beatissimo Padre, io sono giovane e indegno dell’alto mandato, e perciò sento il bisogno di stringermi alla cattedra di San Pietro e di vedere avvalorata l’opera mia da una benedizione specialissima di Voi Beatissimo»11.

Mario Sturzo è convinto che il clero e la sua formazione devono essere messe al primo posto, è la sua prima preoccupazione, in modo da avere collaboratori zelanti e concordi. Invita a pregare per il seminario e per le vocazioni12. Sturzo nella sua I Lettera parla di opera di restaurazione, intesa come riedificazione del bene dell’uomo e domanda la fattiva collaborazione di tutti in modo particolare dei sacerdoti della diocesi invitandoli a essere suoi coadiutori, allo stesso modo di lui che si percepisce tale all’interno del piano divino13. È sua convinzione che la Chiesa, espressione della nuova umanità, ha una missione religiosa spirituale e sociale; infatti essa vive nel mondo e ha come obiettivo la felicità eterna di ciascun individuo: la sua missione consiste nell’influire sull’umana società perché si organizzi secondo i due ambiti speciali garantiti dalle leggi di natura e da quelle di grazia14. La Chiesa realizza all’interno della società quella missione importante che viene identificata dal suo fondatore con le immagini evangeliche del sale e del lievito; anche se essa è combattuta e avversata, tuttavia si manifesta come madre, per cui anche se combatte e a 11 12 13 14

Ibid., 31. Cfr. ibid., 31. Cfr. ibid., 5-6. Cfr. ibid., 17-18.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 69

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

69

sua volta assale non lo fa contro la società civile, ma contro il male che la corrompe. Da questa missione, secondo Mario Sturzo, deriva l’inesauribile fecondità del suo apostolato, la sua perenne giovinezza e la virtù di intendere tutte le civiltà, di prevenire ogni progresso e di adattare la sua potenza informatrice e trasformatrice alle condizioni speciali dell’umanità15. Sturzo parla della testimonianza resa dai primi cristiani a Roma: irrompevano da apostoli ad annunciare la nuova morale e la nuova religione. Per il rinnovamento della società, la Chiesa ha certamente da svolgere la sua missione; se alla fine dell’Ottocento era la questione sociale che agitava gli animi come prima era stata la rivendicazione di libertà per i popoli, la Chiesa sia precedentemente con il liberalismo, che adesso con il socialismo, ha la missione di tenere i popoli fedeli a Gesù Cristo: da qui la necessità di scendere nel campo sociale e di aiutare la società a uscir fuori dai mali che tali movimenti hanno causato, proponendo un sistema conforme allo spirito del Vangelo. Tale sistema è la Democrazia Cristiana, intesa come una cospirazione di forze sociali, giuridiche ed economiche rivolte a proteggere, rispettare, elevare il popolo: essa viene vista come attuazione sociale del Cristianesimo16. La Chiesa, rispetto a tutte le altre istituzioni è animata e mossa da un fine più alto: il bene spirituale dell’anima, la loro eterna salvezza, per cui il suo operare appare più disinteressato ed efficace, come più apostolica deve apparire l’opera della Chiesa17. Mario Sturzo prende in esame l’operato dei sacerdoti, definiti nel corso della sua I Lettera “buoni”, perché non hanno cessato di attendere alla santificazione delle anime. Occorre tenere conto del cambiamento in atto molto evidente, in quanto la vita cristiana andava sempre più scadendo, la fede si attenuava, i costumi tendevano a degenerare e corrompersi, la pratica religiosa andava sempre più scemando. Gli appariva desolante la panoramica culturale nella quale viveva la Chiesa: 15 16 17

Cfr. ibid., 19. Cfr. ibid., 22-23. Cfr. ibid., 26.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 70

70

Pasquale Buscemi «Tanta depravazione ma tanta operosità da parte dei sacerdoti i quali attendono alle solite cose, utilizzando le campane che annunziano le solite feste»18.

Queste testuali parole espresse dal vescovo giovane entusiasta, ma certamente consapevole del momento storico in cui vive e delle problematiche che deve affrontare ci aiutano a identificare la prassi pastorale del tempo, la vita ecclesiale e il ministero svolto dai sacerdoti: per un verso in essi c’è la preoccupazione viva di mantenere il senso religioso portando avanti le attività pastorali che vengono svolte secondo criteri e modalità del tempo ormai anacronistiche; in modo particolare è viva l’attenzione verso quella religiosità popolare dell’ambiente in cui è vissuto Mario Sturzo fatta di processioni, novene, suoni di campane che annunciano le feste realizzate con solennità e grande afflusso di popolo; per altro verso ci si rende conto che tutto ciò non è più sufficiente. La formazione catechistica viene giudicata come lacunosa perché i ragazzi del catechismo identificati come “tanti angioletti” prendono “la via larga” e si perdono con molta facilità. Anche le donne che sono le custodi all’interno delle mura domestiche di una religiosità trasmessa di generazione in generazione sono anch’esse svogliate e mostrano indifferenza. Per Sturzo il momento presente è veramente preoccupante, utilizza un termine che esprime tutto il pathos del pastore: «l’ora presente appare desolante» perché la gente scappa da tutte le parti19. Sturzo accusa la grave carenza di una pastorale condizionata da tanti problemi, bisognosa di un rinnovamento ed adeguamento alla nuova sensibilità culturale e sociale; è una voce che si aggiunge a quelle di tutto l’episcopato del tempo che manifestava tutto lo sforzo nel purificare la vita cultuale e le feste religiose. Tanti documenti importanti vengono pubblicati da Pio X come quello sulla musica sacra, la pubblicazione del nuovo catechismo, destinati a rinnovare il volto della Chiesa e la vita della comunità. Si stabilirono norme per la formazione del clero alla liturgia; si dettero indicazioni per la parteci18 19

Ibid., 26. Cfr. l.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 71

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

71

pazione del popolo alle celebrazioni ed alle preghiere. Si vuole fare della Chiesa l’ambiente privilegiato della preghiera, proibendo tutto ciò che aveva visto una degenerazione. Una particolare attività di cura pastorale per il popolo si individuò nella riforma delle confraternite e nella condanna della stampa pornografica con la creazione di associazioni per la diffusione della buona stampa20. Nel 1916 si tenne la prima conferenza preparatoria al concilio plenario siculo che si terrà nel 1920 dove si definirono sempre più i modi per la partecipazione del popolo alla liturgia; si ripeté che erano necessarie missioni popolari e la presenza di missionari itineranti come erano per esempio gli Oblati in alcune diocesi del Nord21. Il vescovo, così, delinea i tratti del ministero presbiterale: non può preoccuparsi soltanto del sacro (= sacrestia), né realizzare una pastorale destinata a conservare quanti si trovano dentro il perimetro sacro della Chiesa, ma un ministero da esercitare al di fuori dell’area sacra (= “uscite di sacrestia”) e che possa entrare nel mondo ormai distante dalla fede, da vero protagonista attivo, sapendo di svolgere una parte importante e necessaria per l’economia salvifica dei singoli, della Chiesa e della società. Non viene identificato solamente un modello di sacerdote prettamente sociale, dedito a curare le molteplici attività che servono a rendere la vita dell’uomo sempre più umana, promuovendo l’attività e realizzando progetti che lo associano quasi alla figura dell’operatore sociale. L’obiettivo della missione presbiterale è prettamente pastorale: il presbitero infatti è il pastore che esce di sacrestia cioè dal luogo proprio legato al suo ministero, per cercare la pecorella smarrita e riportarla all’ovile, cioè al sicuro. Il preoccuparsi della pecorella da riportare a Dio significa il fare attenzione alla vita della persona e a tutto ciò che la caratterizza. L’espressione “pastore in traccia della smarrita pecorella” ha un matrice culturale biblica: siamo di fronte a una categoria cristologica che serve a identificare Gesù. Adesso tale categoria, applicata al ministero presbiterale, rende chiaro l’obiettivo al quale vuole pervenire Mario Sturzo: il presbitero è come Gesù, nel ministero presbiterale è Gesù che 20 21

F.M. STABILE, L’episcopato siciliano, cit., 163-164. Cfr. ibid., 163-165.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 72

72

Pasquale Buscemi

continua la sua missione salvifica. Il pastore di oggi parte da una consapevolezza ancora più grave rispetto a quella presente nel vangelo, perché le pecore al sicuro sono poche; il resto del gregge, che corrisponde alle tante masse che vivono ormai fuori dal gregge e non più si identificano con esso a causa di scelte di vita, di sistemi etici e filosofici non più conformi ai principi evangelici e agli insegnamenti della Chiesa, sono di più rispetto a chi condivide tutto questo. Da qui l’invito accorato rivolto ai suoi diretti collaboratori, ma indirettamente a tutta la diocesi: «Scendiamo tutti zelo in mezzo alle turbe, raccogliamole in associazione all’ombra della croce, rechiamo loro lo spirito di Gesù Cristo. Il peccatore oggi difficilmente cerca il sacerdote. Come ieri il liberalismo ci alienò le classi abbienti, così oggi il socialismo ci aliena il popolo. Quando avremo fondato delle associazioni e avremo aiutato il popolo a risorgere dalla miseria che l’opprime; quando l’avremo fatto nostro e noi ci saremo fatti suoi salvatori, allora, dopo trattati gli interessi del corpo, ci sarà agevole trattare gli interessi dell’anima. Creeremo nelle nostre associazioni un ambiente nuovo, pieno di fede, di Gesù Cristo»22.

È interessante notare come Sturzo leghi l’impegno pastorale presbiterale alla promozione di una cultura nuova fondata su valori evangelici in vista di una società nuova, più equa, moralmente sana dove esistono rapporti armoniosi, dove vengono superate divisioni, sfruttamenti, distinzione di classi: una società di fratelli che viaggia verso la patria del cielo, in vista di quella unità e comunione con il Padre comune che è Dio. L’impegno per il sacro, per una pastorale sacramentale non può essere disgiunto dalla promozione umana e culturale, perché l’opera di evangelizzazione porta a sentirsi missionari fuori dalle mura della Chiesa, lì dove vive l’uomo23.

22 23

M. STURZO, I Lettera, 27. Cfr. ibid., 24.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 73

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

73

3 LA MISSIONE E L’IDENTITÀ DEL SACERDOTE Se il ministero del sacerdote si svilupperà adeguatamente e sarà una costante proposta del messaggio evangelico, esso avrà come conseguenza e come effetto la demolizione di ciò che Mario Sturzo chiama «la congerie degli errori, dei falsi sistemi che impediscono l’attuazione sociale del Cristianesimo: ricostruire l’edificio del bene socialmente, come uno dei mezzi per richiamare al bene gli individui»24.

È chiaro l’invito che Mario Sturzo fa a tutti e in modo particolare ai sacerdoti: è lo stesso invito pronunciato solennemente da Leone XIII: «Uscite di sacrestia»; anzi nel corso della sua I Lettera non esita a dire «Usciamo»25. Il bisogno di scendere in campo e di svolgere il suo mandato episcopale al di fuori dei luoghi tradizionali, e di buttarsi in prima persona nell’agone culturale e sociale del tempo viene avvertito come urgente anche per la sua persona. È convinto che il suo ministero non può ispirarsi al modello di vescovo chiuso nel suo episcopio, distante dal popolo, indifferente alle gravi situazioni in cui versa la sua gente, incapace di far sentire la sua voce di apostolo mandato a evangelizzare, santificare e governare il popolo a lui affidato: in poche parole non si può preoccupare solamente dei suoi interessi e di quelli interni alla gestione della diocesi. Da qui poi l’impegno personale che maturerà quando comincerà a pensare alle lettere pastorali, al settimanale diocesano, alle lettere circolari indirizzate ai suoi sacerdoti, ai convegni, ai sinodi, alle continue visite pastorali come occasioni per scendere tra la sua gente; non si sottrarrà ai continui inviti a predicare interi quaresimali e predicazioni varie perché bisogna uscire di sacrestia. Da questo punto di vista Mario Sturzo può essere considerato un antesignano della realtà mediatica del tempo di oggi perché utilizza tutti gli strumenti a sua disposizione per essere vicino alla gente, per entrare in 24 25

Ibid., 26. Ibid., 27.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 74

74

Pasquale Buscemi

ogni famiglia, in ogni associazione e parrocchia e far sentire la sua parola di pastore e maestro. Delinea chiaramente le modalità per realizzare il ministero ordinato, perché ha davanti a sé una situazione culturale diversa dalla precedente, con prospettive, difficoltà e possibilità che sono da attenzionare. «Ciò che più si lamenta oggi è che i più si rimangono tappati in se stessi, a impegnare tutta la loro attività per poche donne, buone per altro, ma poche e donne. Ciò è desolante. Usciamo di sacrestia, per rendere la società tutta un gran tempio»26.

L’esercizio del ministero presbiterale non si può limitare solamente a quanto si realizza dentro le mura della Chiesa, ma ci sono ben altri ambiti e modalità che non si possono trascurare, altrimenti si rischia di snaturare l’identità del sacerdote e soprattutto la missione stessa della Chiesa. Nel corso della sua I Lettera rivolgendosi ai parroci, così afferma: «Voi parroci avete il principale dovere di farvi apostoli della restaurazione sociale in Gesù Cristo. Quando avete passato delle ore confessando e fatta l’omelia e i dì festivi e dato il segno di Gesù Cristo a chi nasce e benedetto a chi crea famiglia e a chi si diparte da questo mondo, voi non avete compito il vostro dovere, se parte di vostri parrocchiani sta lontano da Dio. Con nuovi e anche più gravi disagi siete tenuti a recare la carità di Gesù Cristo ai figli peccatori che né vi invocano, né vi vogliono. Neanche quando tutti gli sforzi vi sarebbero riusciti vani, potreste posarvi, perché allora vi resterebbe di vegliare le notti ai piè di un crocifisso nella preghiera e nel pianto»27.

I parroci in forza del loro ministero hanno questi compiti mai pienamente soddisfatti; non di meno i sacerdoti che non sono in cure 26 27

L.c. Ibid., 27-28.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 75

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

75

d’anime, sono esenti da questi doveri che comunque scaturiscono dal sacramento dell’Ordine, a prescindere dalle forme giuridiche e dalle modalità pastorali in cui si possono esercitare. Nel corso della sua I Lettera si rivolge a questi e ribadisce la necessità di un impegno missionario serio: «Anche a voi che non avete cura d’anime è rivolta la nostra parola. Il sacerdote non è di sé, né della famiglia, né peggio poi, del mondo»28.

Se i cambiamenti culturali e sociali in atto all’interno di una società creano fermenti, disagi, novità, al vissuto del singolo come dell’intera società, è importante stabilire quali devono essere i fondamenti ontologici della persona, perché dalla chiarezza di tale identità dipende la ricerca o l’adeguamento delle modalità di realizzazioni concrete e quindi la dimensione morale che ognuno nella propria condizione di vita realizzerà nella quotidianità. La questione ruota attorno alla domanda fondamentale: Chi è il sacerdote e che visione di Chiesa si ha perché il ministero presbiterale si svolga nella Chiesa, per la Chiesa e per la società? Le modalità di realizzazione del ministero presbiterale o i ruoli e le funzioni del sacerdote dipenderanno dalla risposta data a tale questione. Se dovessimo affermare che il sacerdote è solamente l’uomo del culto o è chi si fa carico dei problemi della comunità affidatagli, avremo certamente identificato aspetti importanti del ministero presbiterale, ma non completamente esaustivi; se fermiamo l’attenzione a un aspetto, potremmo ridurre il presbitero all’ambito del sacro, tutto dedito al culto; nell’altro caso il sacerdote potrebbe essere identificato a un operatore sociale, preoccupato a sovvenire alle necessità del suo popolo e a studiare forme e modalità per aiutare la sua comunità nei bisogni concreti. Modelli diversi di ministero presbiterale, che hanno riferimento a visioni ecclesiologiche; modelli che storicamente si sono realizzati perché sollecitati da situazioni storiche particolari e quindi rispondenti a istanze ecclesiali o sociali particolari. Leone XIII affermava nella Rerum Novarum che bisogna uscire dalla sacrestia e impegnarsi in favore 28

Ibid., 28.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 76

76

Pasquale Buscemi

della società, del mondo operaio, dei ceti sociali deboli e creare una società restaurata dall’opera redentrice di Cristo, caratterizzata dalla presenza di valori cristiani, i quali venivano trascurati dalle nuove ideologie e quindi dal nuovo contesto culturale che si era venuto a formare. Queste affermazioni leoniane, destinate a sottolineare l’impegno della Chiesa nel sociale, presuppongono una nuova concezione ecclesiologica: non una Chiesa chiusa in se stessa, curante del culto e poco attenta ai problemi dell’uomo, ma una Chiesa più preoccupata del sociale, che sia fermento della stessa società e faccia sentire alta la sua voce, che svolga la sua missione evangelica in modo da costruire una società fondata su veri valori, restaurata in Cristo. È evidente che il ministero del presbitero si realizzerà e maturerà tenendo conto di questi nuovi impulsi, nuove istanze teologiche ed ecclesiologiche e fermenti culturali nuovi. Ma chi è il sacerdote per mons. Mario Sturzo? Fin dalla sua I Lettera del 1903 rivolgendosi ai sacerdoti identificati come suoi essenziali collaboratori, egli afferma: «Il sacerdote non è di sé, né della famiglia, né peggio poi, del mondo. Egli è l’uomo di Dio per il bene degli uomini: pro hominibus constitutur (Eb. 5,1). Anche voi stringe il dovere di tornare Gesù Cristo a regnare nelle anime della società. I teologi, dopo di aver studiato il caso, se il sacerdote non ancora abilitato alle confessioni perché gli manca la dottrina, abbia o no il dovere di rendervisi idoneo, e, dopo aver difeso e combattuto le varie opinioni, son concordi in ultimo nell’affermare, che se c’è urgente bisogno di confessori ha certo grave obbligo di rendersi idoneo alle confessioni, appunto perché sacerdote. Generalizziamo il caso. Non urge il dovere solo quando i figli chiedono il pane di vita eterna e non c’è chi lo spezzi; urge anche di più quando i figli sono divenuti stolti che non solo non chiedono il pane, ma lo respingono. Oggi adunque nessuno potrebbe dire con buona coscienza di non lavorare per non avere obbligo di giustizia. C’è la carità che ci spinge forse con più forza: caritas Christi urget nos. Nei tempi anormali, adunque, il semplice sacerdote, con debiti riguardi può considerarsi non obbligato. Quando l’opera dei parroci non basta più, ogni sacerdote diviene un parroco e come nei casi di estrema necessità anche il semplice sacerdote ha l’obbligo di soccorrere all’altrui anima anche col pericolo della propria vita; così nei casi di grave necessità ha l’obbligo


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 77

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

77

proporzionato di cooperare al bene dei popoli. E che si sia nella grave, lasciate che ripetiamo grave necessità, nessuno è che ne dubita»29.

In questa citazione è chiaro il riferimento non all’esercizio solamente del ministero, ma alla dignità e identità del sacerdote e al dovere che scaturisce dall’essere sacerdote e che consiste nel non rimanere indifferente di fronte all’urgente necessità di esercitare il proprio ministero, perché il momento storico viene definito come veramente delicato. Il clero chiamato ad essere in comunione con il pastore, ma unito anche a tutto il laicato ha una sola preoccupazione: rendere la diocesi una Chiesa viva. È interessante la concezione ecclesiologica presente in Mario Sturzo e la sottolineatura insistente sull’aspetto comunionale: laici e chierici costituiscono la realtà della Chiesa. «Anche a voi del laicato è rivolta la nostra parola, perché anche di voi abbiamo bisogno per l’opera della restaurazione sociale in Gesù Cristo, che ridonda principalmente a vostro vantaggio temporale e più, spirituale. Voi delle classi alte, voi delle classi umili, voi spiriti eletti, dedicati allo studio, voi anime semplici consacrate al lavoro manuale, tutti appelliamo, tutti vogliamo cooperatori, tutti stringiamo al seno come fratelli e figli in Gesù Cristo. L’opera vostra e quella del clero disposta, renderanno presto, codesta illustre diocesi l’oasi fortunata in mezzo al deserto della odierna desolazione»30.

Il rinnovamento della società auspicato da Mario Sturzo esigeva una nuova formazione di coscienze: questo è soprattutto il compito del sacerdote: «Aggiungiamo subito che la formazione delle coscienze deve stare in cima a tutti i pensieri e quindi che ogni associazione, qualunque sia per essere la sua indole e il suo fine prossimo, deve assegnare un posto segnalato alla cultura non solo religiosa, ma anche civile e sociale […] i sacerdoti in modo speciale e i buoni laici ai quali Dio concede la grazia di questo apostolato, nella esuberante carità del loro cuore,

29 30

Ibid., 28-29. Ibid., 29.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 78

78

Pasquale Buscemi sapranno trovare e moltiplicare i mezzi di cultura e formazione della mente e del cuore. Ma, come evidente, per formare gli altri, bisogna prima aver formato se stessi. Per quel che riguarda i doveri religiosi c’è poco da osservare. Essendo in essi ogni sacerdote maestro; non è così per l’altra parte di cultura; quindi vogliamo che in ogni comune della diocesi si fondino circoli di cultura aventi principalmente ed anche esclusivamente il fine di formare dei veri e propri apostoli propagandisti»31.

Per Mario Sturzo l’idea di un clero formato, aperto a comprendere le provocazioni culturali della società in pieno fermento, è assillante. E se riconosce che ogni sacerdote è maestro per ciò che concerne i doveri religiosi, per altro verso si accorge che non è così per la formazione culturale. Da ciò si evince che il vescovo abbia l’impressione di avere un clero competente su ciò che riguarda il sacro, sulla pastorale sacramentale, sul culto, mentre lo stesso clero è difettoso e incompetente in altri ambiti, perché privo di una formazione culturale adeguata. Il bisogno di fondare circoli di cultura, di istituire biblioteche parrocchiali con buoni libri di formazione e con la diffusione della buona stampa è determinato dal bisogno di creare un nuovo ambiente culturale. La buona stampa è destinata a combattere lo spirito ateo e pagano che va avanti attraverso una colluvie di libri, opuscoli, giornali che ormai sono presenti dappertutto, corrono per le mani di tutti, penetrano nelle famiglie e diventano pascolo quotidiano delle tenere vite che dovrebbero schiudersi alla luce del vero. È necessario diffondere la buona stampa. I sacerdoti sono invitati a diventare apostoli della buona stampa con la parola e con l’esempio32. Mario Sturzo scommette continuamente sull’assistenza amorosa e illuminata del clero in vista di un’opera di santificazione da realizzare per tutta la diocesi. Nelle sue prime lettere, Sturzo manifesta la profonda convinzione che la soluzione del problema dello sviluppo della Sicilia e della 31 32

M. STURZO, II Lettera, 5. Cfr. ibid., 5-6.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 79

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

79

sua promozione fosse innanzitutto una questione culturale, morale, religiosa, per cui manifesta l’impegno per fare recuperare una nuova dimensione pastorale alla missione del suo clero in modo da far rinascere nel popolo una fede convinta da cui far derivare coerenti atteggiamenti morali. Sturzo è convinto che per operare una riforma profonda di costume e mentalità tra la gente bisogna iniziare dal prete. Delinea già la figura di un prete culturalmente preparato, spiritualmente formato, pastoralmente attivo, vicino alla gente, pronto ad interessarsi della salvezza integrale dell’uomo, sull’esempio di Cristo. La missione sacerdotale se non si riduce ad essere solo un mestiere redditizio per accrescere il prestigio sociale ed economico del proprio parentado, da molti preti è sprecata nell’organizzazione di feste rumorose di sapore barocco, e in interminabili liti di sacrestia. Tutti questi condizionamenti ambientali, aggravati dal mantenimento di condizioni anacronistiche, accettate dalla maggior parte dei preti in modo acritico, influiscono negativamente sui preti33.

4. IL SEMINARIO L’8 dicembre 1902 Leone XIII pubblica una lettera enciclica rivolta all’episcopato italiano dal titolo Fin da principio34 sulla formazione del clero in Italia. Di fronte alle mutate condizioni sociali Leone XIII considera urgente il dovere di curare l’educazione del clero, per restaurare la vita cristiana nel popolo. La preoccupazione del papa è quella di preservare il clero da influenze perniciose, richiamando i veri principi che debbono regolare l’educazione ecclesiastica e tutto il ministero sacro. Viene ribadito il principio che il sacerdozio cattolico, divino nella sua origine, soprannaturale nella sua essenza, immutabile nel suo carattere, non è adattabile alle opinioni e ai sistemi umani. Il sacerdozio è una istituzione soprannaturale, superiore a tutti gli isti33

Cfr. M. PENNISI, I movimenti laicali in Sicilia. Sturzo e la Sicilia, in La Chiesa di Sicilia., cit., 906-907. 34 LEONE XIII, Lettera Enciclica sulla formazione del clero in Italia Fin da principio, 08.12.1902.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 80

80

Pasquale Buscemi

tuti terreni, è partecipazione al sacerdozio eterno di Gesù, istituito per perpetuare la sua missione. Il mandato del sacerdote è operare la salute eterna delle anime. Il sacerdote viene definito come un “altro Cristo”, “legato”, “ministro di Cristo”, “dispensatore dei suoi misteri”, “intermediario tra il cielo e la terra”, “maestro”, “medico”, “pastore delle anime che guida a un fine che supera il tempo presente”. Il clero si deve adeguare ai bisogni del tempo, e non cedere a correnti deplorevoli quali il naturalismo, il socialismo, e il fascino di ogni novità. A tal fine viene raccomandata la cura dei seminari che sono destinati a preparare i giovani non ad uffici umani ma all’alta missione di ministri di Cristo. Leone XIII invita ad attenersi agli studi filosofici e teologici così come stabilito dalla Santa Sede; a ospitare in seminario solamente coloro che devono consacrarsi al ministero i quali, separati da tutti, devono evitare contatti con l’esterno. Si parla di espulsione di coloro che manifestano tendenze poco convenevoli alla vocazione e per l’ammissione dei candidati si domanda di essere ponderati. La cura e la formazione viene estesa nei primi anni di ordinazione; i giovani candidati devono essere pure ammaestrati su questioni sociali e sulla Democrazia Cristiana. Di cura di vocazioni sacerdotali e della pastorale destinata a far maturare germi vocazionali ne parla pure Mario Sturzo in una lettera del dicembre del 1940 dal titolo Vocazioni35, che la scrive dopo aver ricevuto una lettera della Congregazione dei Seminari con la quale si invoca l’opera a favore delle vocazioni, perché di anno in anno diminuiscono. Il motivo della crisi mons. Sturzo lo identifica principalmente nello scadimento della vita cristiana in famiglia. Il lavoro di apostolato deve comporsi a unità. Il punto specifico di questa unità è la vocazione: vocazione al cielo, vocazione alla santità alla quale siamo tutti chiamati, vocazione al sacerdozio e al matrimonio36. Per avere vocazioni sacerdotali mature e motivate è importante la cura dell’ambiente e di una sana educazione, così afferma pure nella lettera L’educazione nelle sue ragioni supreme:

35 36

M. STURZO, Vocazioni, in Alla scuola di Gesù, Torino 1941, 233. Ibid., 234-235.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 81

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

81

«Chi abbraccia lo stato religioso lascia il mondo, esce dal mondo. Così si dice comunemente […] e si dice anche di quelli che in realtà restano nel mondo, come sono i preti secolari […] restano nel mondo e ciò nonostante escono dal mondo, perché si separano almeno con lo spirito, non solo dalle vanità del mondo, ma anche dai suoi raggi, da una serie di beni che non sono il meglio e di cui fruiscono e godono quelli che non abbracciano nessuno stato religioso»37.

La buona educazione prepara la scelta vocazionale, perché essa è educazione al cielo e poi educazione alle varie scelte particolari38. Nella sua I Lettera mons. Sturzo manifesta la volontà di prestare attenzione ai presbiteri, che sono i suoi diretti collaboratori e al Seminario, semenzaio di speranza per tutta la diocesi. La preoccupazione del vescovo veniva anche avvalorata dall’invito del papa ad attenzionare clero e Seminario. Da notizie ricavate da documenti inediti e da lettere riservate si sa che gli ultimi anni di episcopato del vescovo Mariano Palermo (1887-1903), predecessore di mons. Sturzo, la diocesi tutta aveva vissuto un periodo di rilassamento generale, a causa dei cambiamenti culturali e sociali in atto: siamo nella II metà dell’Ottocento, dopo i fatti legati all’unità d’Italia, la presa di Roma, la confisca dei beni ecclesiastici e la soppressione di tanti ordini religiosi, conventi e attività sociali legati all’ambiente ecclesiastico. Si respira un forte clima di ostilità e indifferenza verso la Chiesa. Il Seminario non è esente da questi forti contrasti e accese contraddizioni che sono presenti nella società e nella Chiesa. La responsabilità della formazione dei futuri sacerdoti, mons. Mariano Palermo la affidò a un suo nipote, Biagio Palermo, che secondo testimonianze orali ricevute, non avendo le capacità idonee a tale ufficio, portò l’intera comunità del Seminario a un rilassamento generale e a un declino ormai irreversibile. Molti che entravano in Seminario avevano altri interessi che quello di diventare sacerdoti e quindi uomini di Dio; altri guardavano 37 38

M. STURZO, L’educazione nelle sue ragioni supreme, Torino 1938, 132. Cfr. ibid., 125-128.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 82

82

Pasquale Buscemi

solamente ai vantaggi materiali che ne venivano per se e per le famiglie e la possibilità di una sistemazione economica sicura; altri attenzionavano il prestigio sociale che ne derivava per l’interessato o per la famiglia qualora uno di essi accedesse al sacerdozio; c’erano però quelli che volevano fare sul serio e ricevere una formazione spirituale, teologica, culturale idonea allo svolgimento del ministero per il quale si sentivano chiamati e per accedere al sacerdozio con competenza, dignità e serietà. Il nuovo vescovo, al suo arrivo in diocesi, ha chiara la situazione in cui versa il Seminario: vede la gravità del problema e il pericolo immane che ne deriva per tutta la diocesi. L’unica decisione da prendere con urgenza è quella di purificare e rinnovare il Seminario: questa è l’occasione per cui scrive una delle sue lettere pastorali più toccanti e sofferte che ci aiuta a comprendere la concezione di presbitero che mons. Sturzo ha, le caratteristiche fondamentali che deve possedere, l’iter di formazione spirituale, teologica e umana che il futuro presbitero deve seguire e gli obiettivi importanti che il ministero ordinato deve raggiungere nella e per la Chiesa. La decisione di rinnovare e riordinare il Seminario comportava l’atto di epurarlo e per arrivare a ciò occorreva licenziare i seminaristi e chiuderlo temporaneamente, in attesa di una nuova riorganizzazione interna. I seminaristi che erano in sacris continuarono il loro corso di formazione e di studi, mentre tutti gli altri furono dimessi. La decisione di mons. Sturzo fu molto sofferta, perché sollevava un gran polverone di proteste, di lamentele; prestava il fianco ad amari attacchi e velenose critiche violente nei suoi confronti: un gesto che a distanza di tempo, lo si può considerare profetico, altamente terapeutico, profondamente coraggioso, ma certamente indispensabile in un momento particolare. Prima di prendere una tale decisione si preoccupa di informare la Santa Sede, il Capitolo della Cattedrale, i Superiori e gli insegnanti del Seminario. È una decisione grave, ma un atto di coraggio forte che il vescovo compie nei confronti del suo Seminario; tutto ciò fatto con amarezza, profondo dolore, spirito di fede e preghiera. Nella lettera scritta per l’occasione manifesta tutto ciò apertamente:


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 83

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

83

«Intenti al riordinamento del nostro Seminario in un lavoro continuo, intenso, trepido, erano […] trascorsi i primi mesi del nostro episcopato; quando ad un tratto la nostra mano, che tutti i giorni si era levata benedicendo con affetto paterno i giovani leviti, la parte prediletta del nostro gregge, si dovette ancora levare, non più per benedire, ma per firmare un decreto di generale espulsione. Quale sia stato lo schianto del nostro cuore non riusciamo ad esprimerlo; come non riusciamo, senza che lo schianto non si rinnovi, a ripensare che giovani, i quali s’avviano al sacerdozio della mitezza e della carità, abbiano potuto insorgere contro quell’Autorità, che è posta dallo Spirito Santo a governare la diocesi, ed alla quale avrebbero più tardi dovuto promettere obbedienza e riverenza»39.

La decisione di chiudere il Seminario è un atto sofferto, che amareggia il vescovo perché molti seminaristi e molti familiari di seminaristi, non comprendendo il provvedimento, si ribellavano protestando accanitamente e spesso con violenza. Tuttavia Mario Sturzo ha la convinzione che il Signore sa trarre da tutto ciò un beneficio per la sua Chiesa, per questo motivo chiede consiglio, ma invoca preghiere non solamente dal papa, ma anche dai suoi collaboratori, a cominciare dal capitolo dei canonici, per arrivare ai parroci. Ha ricevuto unanime consenso e grande solidarietà, fino al punto di commuoverlo e da fargli dire: «I vostri telegrammi, le vostre lettere singolari o collettive, lo slancio col quale vi siete stretti attorno al vostro Pastore, quasi per sostenere l’opera sua, ci hanno edificato e commosso. Ringraziato sia Dio! Vediamo bene che la Diocesi tutta riconosce il dovere che noi abbiamo di dare alla Chiesa sacerdoti pii ed illuminati»40.

Il degrado nel quale è pervenuto il Seminario corrisponde al degrado che si constata nella società; le cause possono essere diverse, ma alla fine si possono sintetizzare in una sola: l’egoismo.

39 40

Ibid., 3-4. Ibid., 6.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 84

84

Pasquale Buscemi «Per via dell’egoismo è possibile che venga smarrito l’ideale del sacerdozio e capovolti i termini: — a misura che il puro ideale del sacerdozio viene smarrito, è impossibile che la società non se ne risenta più o meno profondamente: — ogni corruzione del pensiero umano in quanto etico o avente relazione con le fila della vita, trova la sua origine naturale nella corruzione dei sacerdoti»41.

A causa di questo male, che potremmo dire atavico, nel tempo si è affievolito il vero ideale che deve accompagnare qualunque percorso educativo e formativo, per cui è venuta meno anche la volontà di colui che deve prepararsi al sacerdozio, perché non ha motivazioni chiare e forti. Venendo meno l’ideale o motivazione sacerdotale, scade di tono l’iter formativo e degenera la realizzazione o tipologia del sacerdote da incarnare nella Chiesa e nella società. L’umanità tutta è soggetta alla legge della corruzione e purtroppo anche il sacerdozio non ne è esente, perché l’umanità è decaduta. A causa di tutto ciò spesso il sacerdozio, che brilla di luce propria, viene sfigurato sia nella mente che nel vissuto dei singoli. Secondo mons. Sturzo a volte capita di trovare individui che scelgono il sacerdozio come una professione tra le altre, o come possibilità e mezzo per accumulare ricchezze ed onori o per pervenire ad un livello sociale più felice: in poche parole il considerare il sacerdozio per l’individuo e per i suoi vantaggi e non l’individuo per il sacerdozio42. Sturzo pensa che delineare l’ideale del Seminario sia un suo «gravissimo dovere»43. «L’ideale di ogni Seminario non è e non deve essere che il Sacerdozio: come l’ideale del sacerdozio non è che la gloria di Dio e la salvezza delle anime»44.

Alla luce di questo principio teologico ed ecclesiologico sul ministero ordinato esamina e verifica le diverse concezioni di sacer41 42 43 44

Ibid., 13. Cfr. ibid., 7. Ibid., 6. Ibid., 7.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 85

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

85

dozio realizzate nella storia, espresse da tipologie differenti, per cui chi differisce da tale visione o ideale, alla fine si può considerare condizionato e strumentalizzato da questi traviamenti che sono retaggio della corruzione45. Sturzo afferma che nel passato erano tanti quelli che cercavano il sacerdozio per motivi esclusivamente personali e materiali, come i grandi onori o le pingui prebende. Coloro che arrivavano al sacerdozio con queste motivazioni, dovevano arrivarvi già con gli animi corrotti, guasti e incapaci di adempiere i doveri legati al proprio stato di vita, per cui si ebbero nella Chiesa le piaghe della simonia e del concubinato46. Le ripercussioni si ebbero anche all’interno della società; in quel periodo storico è facile che la nobiltà fomentasse la corruzione. La Chiesa ebbe grandi eroi, ma il male inquinava anche la stessa società fino a provocare scissioni, apostasie, la separazione dello Stato dalla Chiesa e l’ateismo. È evidente il bisogno d’un ministero, che continui l’opera di Gesù Cristo, che abbia la funzione speciale di derivare sugli uomini i tesori della Redenzione47. Proprio perché l’umanità è decaduta a causa del peccato, il Signore ha pensato al sacerdozio e mons. Sturzo utilizzando la 1Cor 4,1 ed Eb 4,1-3 lo definisce quale continuazione del ministero salvifico di Cristo e i sacerdoti quali dispensatori del mistero di Dio48. Al fine di sottolineare il dovere del chiamato di conformare tutta la sua vita all’ideale abbracciato, mons. Sturzo fa una distinzione tra il sacerdozio-ministero e il sacerdozio-apostolato. Per quanto riguarda il sacerdozio-ministero, il sacerdote con la sua bontà o malvagità in nulla modifica l’essenza del sacerdozio, ragion per cui la Parola e i sacramenti amministrati da un sacerdote cattivo producono gli stessi effetti e hanno lo stesso valore di quelli celebrati dal sacerdote giusto. Potremmo dire che la efficacia sacramentale non dipende dall’ex opere operantis, ma dall’ex opere operato,

45 46 47 48

Cfr. ibid., 7-8. Cfr. ibid., 8. Cfr. ibid., 15-16. Cfr. ibid., 16.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 86

86

Pasquale Buscemi

cioè dal mistero stesso e non da chi amministra in quel momento la parola e i sacramenti49. Però il sacerdozio è anche apostolato, non è un fatto meccanico, che produce i suoi effetti indipendentemente dalle disposizioni o dalla volontà degli uomini: il sacerdote è un mediatore, perché placa e rende propizio Dio ed impetra le grazie; nello stesso tempo dispone gli uomini perché ricevano le grazie e liberamente cooperino50. «Anche la sua missione per riguardo agli uomini è quella di indurli a conoscere e volere»51.

Egli compie questa parte della sua missione o ufficio in due modi: con l’esempio e le opere di zelo. Per quanto riguarda l’esempio va notato che il sacerdote ha il doppio dovere di non porre ostacolo alla corrispondenza degli uomini alla grazia e, inoltre, di rendere questa corrispondenza più agevole e anche concorrere a determinarla52. Per mons. Sturzo queste distinzioni non sono superflue, perché il sacerdote ha l’obbligo grave di adoperarsi per la salvezza delle anime e anche di non causare nessun danno ad esse. Non tutti i sacerdoti intendono il dovere di conformare la loro vita all’ideale del sacerdozio; per questo mons. Sturzo sottolinea l’amara constatazione di parecchi sacerdoti che manifestano contraddizioni e forti contrasti tra quello che sono e quello che fanno, tanto da divenire di ostacolo alla corrispondenza dei fedeli. Se molti non hanno un vissuto coerente, ciò non attenua il dovere che abbiamo tutti a corrispondere, tanto che Gesù mette in guardia i discepoli (Mt 23,23) dal non fare come fanno gli scribi e i farisei, a non badare alla loro vita, ma a come loro insegnano, cioè alla loro dottrina. Cita pure Rm. 14,13-15.19-20 che mette in guardia dal provocare scandali. Mons. Sturzo sintetizza quanto detto con una frase: «Il Vangelo del popolo è la vita dei sacerdoti»53. 49 50 51 52 53

Cfr. l.c. Cfr. ibid., 16-17. Ibid., 17. Cfr. l.c. Ibid., 18.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 87

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

87

Per il popolo la vita dei sacerdoti diventa testimonianza efficace e credibile di quello che annunciano e purtroppo quando succede il contrario, si viene a formare qualche scandalo ed è lo stesso popolo che afferma: «Fanno perdere la fede»54. Viene così dimostrato il contrario: tanto più l’insegnamento è avvalorato dalla testimonianza coerente del sacerdote tanto più il suo ministero è efficace ancora di più. «Anzi possiamo affermare che l’influsso della grazia cresce in proporzione dell’accostarsi della vita dei sacri ministri all’ideale del sacerdozio. Di modo che quando la corrispondenza è piena, abbiamo anche la pienezza dell’apostolato, che commuove i popoli, li fa quasi uscir di sé, li rigenera; lasciando di sé tracce luminose ed imperiture»55.

Se il ministero sacerdotale consiste nel disporre gli animi a ricevere le grazie, senza l’opera del sacerdote i divini misteri da nessuno sarebbero ricevuti, per cui è fondamentale l’esercizio di tale ministero e sarebbe un gravissimo errore pensare che la vita del sacerdote sia superiore ai divini misteri, ma il sacerdote e il suo operato sono in funzione dei divini misteri, per cui tutti i sacerdoti hanno i medesimi poteri e nelle mani di ciascuno di loro stanno i tesori della grazia56.

5. CARATTERISTICHE E ATTITUDINI DEL SEMINARISTA NELLA LETTERA PASTORALE IL SEMINARIO L’esercizio del ministero sacerdotale è così importante che Gesù stesso invita a farne oggetto di preghiera. Cita Mt 9,36-38 in quanto l’esempio della messe richiama alla mente la necessità dell’opera dell’agricoltore, del pastore che guida il gregge stanco o facile a smarrirsi.

54 55 56

Ibid., 19. L.c. Cfr. ibid., 19-20.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 88

88

Pasquale Buscemi

Il sacerdozio è idoneo alla santificazione, se vi sono dei sacerdoti zelanti così come insegna Paolo in 2Tm 4,2 di conseguenza la corruzione dei sacerdoti è una delle più funeste cause di pervertimento sociale, così l’opera di restaurazione in Cristo Gesù diviene difficile. «Il sacerdote, come continuatore dell’opera di Gesù Cristo non potrà corrispondere convenientemente alla sua missione, se prima non farà suo lo spirito di quell’opera sovrumana»57.

Per Sturzo «Il sacerdozio ha la missione di convertire e santificare le anime; […] la società secondo lo spirito del Cristianesimo; missione alla quale non potrà corrispondere, se non concepirà il sacerdozio come apostolato del tempo, in cui si svolge. Il quale concetto però non deve prendersi come parziale, ma come integrale, perché riguarda tanto la vita individuale, quanto la collettiva»58. «Ed è per questo che la religione cattolica non fu e non potrà mai essere un affare personale e privato, né potrà mai perdere la sua virtù trasformatrice anche dei rapporti che restano nei rapporti del puro naturale: ciò posto non sarà mai fruttuoso un apostolato, se non riguarda l’umanità nella sua sintesi e non si adopera a santificare la vita collettiva. I santi Pietro e Paolo andarono a Roma per esercitare nella città capitale del mondo il loro apostolato. È questo un fatto provvidenziale che spiega a meraviglia quel che noi diciamo. Perché il cristiano che non avesse rigenerato tutta l’umanità nell’esplicazione di tutti i rapporti della vita, dal campo speculativo, al pratico; dalla famiglia allo stato; sarebbe rimasta una religione sterile, destinata a perire. Infatti l’uomo come essere razionale è anche socievole; e come socievole, non può non vivere la vita della collettività»59.

57 58 59

Ibid., 22. Ibid., 24. Ibid., 22-23.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 89

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

89

Per il vescovo di Piazza Armerina il concetto di sacerdozio è importante perché determina la concezione del Seminario60. «L’uomo in questo cammino dal tempo all’eternità, trova aiuto o contrasto, è portato avanti o spinto verso l’abisso dalla forza dell’ambiente. Quindi il sacerdote per essere l’apostolo della restaurazione in Gesù Cristo degli individui per sé, dell’ambiente per gli individui, deve di necessità essere l’apostolo del suo tempo»61.

La missione del sacerdote è la santificazione delle anime, purtroppo molti intendono ciò in modo molto ristretto e si crede che quando si è annunziata la legge evangelica o se ne è inculcata l’osservanza o in modo generico si è segnalato il male, si crede che non ci sia altro da fare. «Se pure la costoro attività non si consumi in rimpiangere il passato, condannare in blocco senza distinzione, tutto il presente, scusare la propria inerzia col gelato “non si può far nulla”; contenti di occuparsi senza troppo affanno dei pochi o delle poche, che chiedono l’opera loro sacerdotale; convinti che la fede del popolo cercanti feste più esterne, che interne, più civili, che religiose, più spettacolo che feste, sia vera fede e non piuttosto espressione tradizionale d’una fede seppellita nel fondo del cuore, languida, senza luce, senza coscienza, adagiantesi comodamente a partecipare, così alla festa di un Santo, come ad una dimostrazione contraria alla religione del Dio dei santi; fede che potrebbe essere ravvivata da una vero apostolo, ma che potrà essere spenta del tutto da un soffio più violento del male»62.

Abbiamo così due tipi di sacerdoti: «Il primo si limita alla scienza di un tempo, credendo che essendo scienza assoluta, si corrompa con il moto; il secondo, distinguendo nella scienza di ciò che è assoluto da ciò che è relativo, si muove con il pensiero, con l’umanità, con lo spirito di Dio che lo conduce: deri60 61 62

Cfr. ibid., 25. Ibid., 28-29. Ibid., 29-30.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 90

Pasquale Buscemi

90

vando da ciò che è assoluto […] le nuove applicazioni per la restaurazione di ciò che è relativo […] Il primo è come il contadino, che si affatica solo a tagliare le male erbe; il secondo è come l’agricoltore, che strappa le male erbe sin dalla radice e si adopera nel medesimo tempo alla cultura generale e scientifica dei campi. Il primo guarda come nemica la società che gli sta attorno; il secondo come inferma; il primo vorrebbe, se fosse possibile, staccare gli individui dalla società, il secondo si adopera a ricomporre la società secondo le leggi di carità e di giustizia, affinché gli individui gli possano esplicare tutte le attività di natura e di grazia; il primo rimpiange il passato; il secondo prepara l’avvenire; il primo vive con i morti; il secondo si immola per i vivi; il primo volendo creare eroi, non crea neanche cristiani veri; il secondo, attenendo a formare i cristiani nello spirito e nelle opere, prepara anche la via agli eroi; il primo è come straniero in mezzo ai cittadini; il secondo diviene il primo dei cittadini. La conseguenza è, per la legge del moto la società si allontana dal primo; mentre il secondo non solo si muove con quella, ma riprende il posto che gli tocca per missione, di precederne e di indirizzarne il cammino. Il sacerdote-apostolo mette con Pietro il dito nelle ferite sanguinanti dell’umanità; entra con Paolo nell’aeropago; affronta Attila con Leone; incivilisce il barbaro con Benedetto; anima alla liberazione del Santo Sepolcro con Pietro l’Eremita; entra negli ospedali e proclama in un secolo egoista la legge di carità con Vincenzo de’ Paoli; si spinge con i figli del popolo con Don Bosco; con la Rerum Novarum in mano, si mette alla testa degli oppressi con Manning […] ed il primo? Che cosa gli resta da fare, se non fa tutto questo?»63.

Nel corso della lettera si parla del sacerdote-apostolo in questi termini: «Il sacerdozio è così connesso con l’umanità che, se non la santifica, la corrompe o se la vede corrompere da sé come corpo, dal quale si sia separato il principio vitale; che non ha da sé la virtù santificatrice, ma che è dispensatore dei tesori santificanti della Redenzione ed ha la missione di disporre gli uomini a riceverli; che la sua azione è diretta

63

Ibid., 30-31.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 91

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

91

alle anime per sé ed alla società per le anime; e finalmente che il suo apostolato non è ordinato alle anime ed alle società astrattamente prese; ma a date anime ed a data società; che è quanto dire, che egli è l’apostolo del suo tempo»64. «Ed ecco sgorgar spontanea la necessità del tirocinio e la convenienza che questo tirocinio sia corso con disciplina e con sistema: l’origine, la convenienza, la morale necessità, l’ideale dei seminari»65. «Essendo il sacerdozio per sé, per gli effetti che produce, per le disposizioni e le corrispondenze che richiede, tutto un insieme di grazie e di doni; non possiamo parlare d’apparecchio e d’abilitazione, senza tener conto della divina vocazione»66,

per cui Sturzo afferma che come nell’ordine della natura dispone la natura o l’uomo vi si abilita con le forze della stessa natura: così è per l’ordine della grazia. Sturzo utilizza due categorie importanti: “vocazione e grazia” che a suo parere si connettono intimamente, richiamandosi. A tutti Dio concede le grazie necessarie per convertirsi e ricevere la fede, perché tutti gli uomini sono chiamati già alla fede. La grazia è un dono gratuito, non conseguibile con le forze della natura, tuttavia non viene da sé senza il concorso della volontà dell’uomo, che consiste non nel semplice consenso o accettazione, ma nella cooperazione, al punto che la grazia e l’uomo divengono come unico fattore delle opere soprannaturali. Il concorso umano non si avrà mai senza la vocazione67. «Or fate che in Seminario entrino giovani senza vocazione, che cosa avverrà? Che essi non saranno capaci di disporsi alle grazie necessarie del sacerdozio. Ciò posto, l’opera dei superiori, che soprattutto consiste nel concorrere a tale disposizione, sarà senza frutto. La conseguenza inevitabile è che si avranno giovani cattivi, chierici nell’abito che indos64 65 66 67

Ibid., 31-32. Ibid., 32. Ibid., 33. Cfr. ibid., 33-34.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 92

92

Pasquale Buscemi sano, ma non nel cuore; neanche capaci di una bontà comune, come quelli che per la via presa, sono obbligati a una bontà speciale, e per non essere vocati, sono rei di tentata violenza ai disegni di Dio»68.

Sturzo non soltanto sottolinea il male che essi si provocano con tali disposizioni inadeguate nel tempo presente e in quello futuro, eterno; ma parla pure del male arrecato al Seminario. Distingue tre categorie di seminaristi: • coloro che entrano in Seminario per studiare, non per giungere al sacerdozio, ma per avere una buona educazione; • coloro che vanno in Seminario per giungere al sacerdozio ma non per propria scelta, ma per scelta dei parenti; • coloro che per propria scelta vogliono accedere al sacerdozio non solo per fini naturali69. Per quanto riguarda la prima categoria molti pensano che la scelta non sia negativa specialmente per quelle città che sono sprovviste di altri istituti di educazione. Per Sturzo ciò è da condannare perché si verifica uno stridente contrasto di ideali perché il cammino educativo del Seminario è orientato alla formazione sacerdotale e non a un ideale generico di vita; qui infatti il tenore della disciplina è speciale sin dal principio e gli anni dell’infanzia sono i più preziosi come i più plasmabili in vista dell’impronta da offrire70. A tal proposito cita i canoni del Concilio di Trento dove si parla di ammettere al Seminario solamente quei giovani disposti a servire Dio e la Chiesa. Per quanto riguarda l’altra categoria di seminaristi che stanno in Seminario per volontà non propria ma dei familiari, questi vedranno il sacerdozio come una vera condanna, andranno vagheggiando altri ideali e nella lotta tra il dovere e la viltà, saranno sempre dei vili, dei pusillanimi; la categoria di seminaristi che stanno in Seminario per motivi e fini umani, è la peggiore, perché umanizza un ideale tutto soprannaturale71. 68 69 70 71

Ibid., 34. Cfr. ibid., 35. Cfr. ibid., 36. Cfr. l.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 93

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

93

«I primi insegneranno ai compagni a odiare il sacerdozio; i secondi a sfigurarlo; dai primi usciranno più facilmente gli apostati; i secondi, se non giungeranno a tanto, saranno piaga non meno fatale alla Chiesa e alla società: i concubinari, gli usurai, i trafficanti, in una parola i corruttori d’ogni legge umana e divina»72.

Per Sturzo c’è un’altra considerazione da fare. Il Seminario ha il compito di far maturare ancora di più i germi delle vocazioni attraverso la serenità dell’ambiente, illuminato da unica luce e riscaldato da unico fuoco. Ragion per cui mons. Sturzo può affermare che c’è una certa analogia tra sacerdozio e Seminario, per cui come è speciale il sacerdozio, così deve essere speciale l’educazione che deve dare il Seminario. Il giovane non vocato non sarà in grado di conformarsi a un tale ideale che richiede un tirocinio costante di abnegazione. Morire a se stessi, avanzarsi verso una vita di sacrifici non è un fatto di eroismo, ma è un fatto normale: «Giungere quasi spiritualizzato a un ministero, tutto spirituale, superiore alla stessa virtù angelica, partecipazione al sacerdozio eterno di Gesù Cristo: sarà per lui l’esercizio di ogni giorno»73.

Per Mario Sturzo il popolo esige che la vita del sacerdote sia esemplare, per essere guidato non da uomini ma da angeli. Quello stesso popolo per effetto di egoismo, quando si ritrova ad avere parenti chierici scorretti e viziati, si affanna a invocare la legge del compatimento, si appella alla storia della fragilità umana, insiste perché i superiori del Seminario ammettano ai sacri ordini anche quelli privi di virtù ed è in grado di maledire vescovo e superiori giudicandoli senza cuore, capricciosamente rigorosi74. Per Sturzo il sacerdote deve vivere nel mondo il suo apostolato. In tempi di pace si potrebbe anche tollerare un chierico che non abbia se non il minimum delle virtù necessarie, ma in tempi difficili, perché 72 73 74

Ibid., 36-37. Ibid., 37. Cfr. ibid., 38.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 94

94

Pasquale Buscemi

tempi di lotta o di persecuzione, come è il presente, il minimum non risponde al bisogno, sia perché il sacerdote verrebbe travolto dal male e circondato di miserie, e poi perché non si sarebbe atti a nutrire la corrente del bene santificatrice della società. Sturzo fa l’esempio dei lottatori, tanto più aspra è la lotta, tanto più robusti si cercano i campioni. A tal proposito Gesù Cristo impetrò dal Padre una speciale infusione di Spirito Santo75.

6. LA FORMAZIONE DEI SEMINARISTI E IL CURRICULUM STUDII Dopo aver trattato del bisogno di motivazioni forti e mature e di un vissuto virtuoso all’altezza della dignità e missione del sacerdote, mons. Sturzo tratta della formazione che chiama scienza e alla luce di questo tema legge Mt 5,15-16 e attribuisce al ministero sacerdotale il compito di essere sale e luce del mondo. Gesù «con la parola “siete” accennò alla natura del sacerdozio; col dire “sale e luce” insegnò che il sacerdozio sarebbe stato ministero di cooperazione e di dispensazione; col dire “così risplenda la vostra luce dinanzi agli uomini”, indicò che la vita sacerdotale deve corrispondere alla natura del sacerdozio; con l’unire nel medesimo discorso le due immagini di sale e luce, con unificare le ultime conseguenze in una sola: “acciocché gli uomini vedendo le vostre buone opere”, glorifichino Dio (cioè operino anch’essi bene)”; mostrò che non la sola bontà basta, non la sola dottrina; ma che in tutto il sacerdote deve essere luce»76.

Per mons. Sturzo l’immagine di luce è la più espressiva e comprensiva; la scienza e la pietà nel sacerdote non sono mezzi di abilitazione durante il tirocinio clericale, ma vanno congiunte e integrate, oggetto di quotidiano e perenne esercizio in vista sempre di un continuo perfezionamento, necessarie alla propria e altrui salvezza.

75 76

Cfr. ibid., 38-39. Ibid., 39.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 95

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

95

L’impegno verso la propria formazione, mons. Sturzo lo chiama “scienza”, è un dovere fondamentale e una volta così concepito illumina di conseguenza l’ideale del Seminario e si capisce così come non sarà mai esagerata la sollecitudine che si ha per rendere buoni e dotti gli alunni, ma per generare in loro l’abito dell’orazione e dello studio77. Mons. Sturzo dà orientamenti ben dettagliati per l’organizzazione della formazione del seminarista. «La scienza propria del sacerdozio è la sacra; quindi le scuole proprie del Seminario son quelle delle scienze sacre. Questo però non esclude la forma normale del tirocinio […] che per essere completo e rispondente al suo fine deve avere tre stadi: le lettere, le scienze umane, le divine»78.

Lo studio delle lettere non è fine a se stesso, ma per la vita. Il sacerdozio non ha la missione dell’arte né della scienza, ma è per Dio: il vero e il bello sono impegnati a cantare le lodi di Dio. Tuttavia il sacerdozio ha bisogno dell’arte e della scienza come mezzo e come sussidio. Mons. Sturzo sottolinea l’importanza di tale bisogno che appartiene al sacerdozio e non alla parola di Dio. Ed anche se la parola rozza di un ignorante converta e santifichi meglio di quella di cento dotti, ciò non significa condannare l’arte e la scienza ma lo spirito del mondo e dimostra che la natura aiuta gli individui a disporsi a ricevere le infusioni della grazia. L’architettura della Chiesa come anche la liturgia si sono serviti dell’arte, della musica, della poesia: ma tutto ciò è sussidiario. In tempo di persecuzioni le conversioni avvenivano grazie alle testimonianze coraggiose dei primi cristiani. Nella vita normale però il sacerdote che volesse trascurare di proposito questi sussidi, peccherebbe. La grandezza di Dio richiede che la sua parola, i suoi misteri, le sue grazie siano trattate col massimo decoro e che la natura si inchini al suo trono e che dove è Dio

77 78

Cfr. ibid., 40. L.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 96

96

Pasquale Buscemi

o si trattano le cose di Dio, l’uomo senta come un’aura di austera bellezza, veda che tutto alla presenza di Dio si colora e si abbellisce79. Mons. Sturzo afferma che nel Seminario le lettere vanno curate con sano discernimento per rendere gli alunni idonei ad avvalersi del sussidio dell’arte, ordinatamente però al fine del sacerdozio. La preoccupazione di garantire un’adeguata formazione agli studenti è motivata dal fatto che molti lasciando il Seminario possano non trovare difficoltà nell’essere ammessi in altre scuole. Dopo il ginnasio e prima del corso di teologia c’è un tirocinio di due-tre anni dedicato allo studio della filosofia. Tale tirocinio viene chiamato da mons. Sturzo “perfezionamento” e non liceo, proprio perché dev’essere specifico, cioè ordinato al sacerdozio: dev’essere visto come completamento del corso ginnasiale e di avviamento agli studi teologici80. La disciplina principale e lo studio preponderante è la filosofia, propedeutica alle sacre scienze, infatti in questa scienza il fondamento scientifico è altamente filosofico: speculativo nella dogmatica, pratico nella morale. Il diritto canonico e l’ermeneutica sacra si governano con criteri misti. Da qui la necessità dello studio della filosofia in tutti i suoi rami, dalla logica alla sociologia; altrimenti non si avrebbe più studio scientifico, ma catechismo di cattivo stampo. Inoltre lo studio della filosofia è utile per acquisire una parte di quella cultura generale che conferisce decoro al sacerdozio e che lo rende più idoneo a svolgere la sua missione sociale81. Mons. Sturzo sottolinea la necessità di avere non un biennio ma un triennio dedicato al corso di perfezionamento82. Mons. Sturzo passa subito a parlare del corso teologico con lo studio delle scienze sacre. Punto di partenza è l’affermazione chiara che il possesso di tale disciplina corrisponde al patrimonio intellettuale dell’ecclesiastico e che lo studio di essa dev’essere considerato come un vero e proprio corso universitario, al termine del quale ognuno dev’essere considerato un vero e proprio maestro e dottore. 79 80 81 82

Cfr. ibid., 42-43. Cfr. ibid., 43-44. Cfr. ibid., 44-45. Cfr. ibid., 45.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 97

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

97

Ragion per cui lo studio va considerato con sacro rispetto e non lo si può giudicare alla leggera, quasi come il rifugio degli ignoranti o dei reietti delle comuni università dalle quali non si apprende che la scienza della vita presente, che è molto fugace83. È scontata, per mons. Sturzo, la necessità di studiare tutte le discipline. «Così come non ci sarebbe neanche da temere che qualche spirito piccolo potesse più sognare, che per essere sacerdote basti un po’ di teologia morale appresa malamente […] È pur fermo la teologia morale cattolica comprende verità da credere, leggi da osservare; onde chi conoscesse solo queste ultime e in modo incompleto, al più potrebbe giudicare delle opere. Ma oh che giudizi! E quanto al resto cosa potrebbe fare? Chi non ha parole di vita eterna, come potrebbe chiudere la bocca ai nemici della religione? Come spezzerebbe ai popoli affamati il pane della vita, chi appena sa che quel pane esiste? Resterebbe privo delle grazie del sacerdozio, che egli ricevette contro l’ordine stabilito da Dio, non maestro in Israele, non lampada sul candelabro, non l’angelo del Dio degli eserciti; ma come paralitico tra i nemici; tra i fedeli come estraneo»84.

Mons. Sturzo parla di eccezioni che si potrebbero fare a questi orientamenti offerti per la formazione dei seminaristi; le eccezioni non interessano gli individui aspiranti al sacerdozio, ma soltanto qualche città sprovvista di sacerdoti85. Né si può obiettare affermando che la vocazione potrebbero averla anche le intelligenze limitate. Mons. Sturzo risponde a tale obiezione facendo un’osservazione teologica fondamentale: Dio che procede in tutto con sapienza ed ordine, quando chiama ad uno stato dà le grazie e i doni convenienti e tra questi l’intelletto è uno dei doni indispensabili per il sacerdozio. Nel caso in cui si dovessero avere tali difficoltà, allora per mons. Sturzo si dovrebbe parlare non di vocazione al sacerdozio ma alla vita religiosa, al convento. 83 84 85

Cfr. ibid., 45-46. Ibid., 46-47. Cfr. ibid., 47.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 98

98

Pasquale Buscemi

Se si dovesse fare un’eccezione è per venire incontro ai bisogni degli altri; tuttavia occorre intendere il tutto con attenzione e molta limitazione, perché da una parte il candidato dovrebbe compensare la scienza che gli manca con un’esuberante santità; dall’altra non dovrebbe essere privo di quella che i teologi chiamano “sufficienza”, la quale consiste nell’essere in grado di risolvere i casi comuni e di dubitare negli ordini nei quali si invocherebbe il sussidio di libri o dei maestri86. E se di eccezioni bisogna parlare, per mons. Sturzo, i casi del genere non possono limitarsi solamente a studiare la teologia morale trascurando la dogmatica o altre discipline essenziali. Secondo mons. Sturzo per fare un serio discernimento vocazionale per il Seminario, in vista di un presbiterio maturo e fortemente motivato, occorre un lungo lavoro di formazione della coscienza in modo tale che i candidati come il popolo abbiano modo di concepire il sacerdozio nella sua interezza. Dopo aver fatto questo lungo lavoro di formazione, nessuno troverebbe lungo il corso degli studi, giudicherebbe duri i criteri del vescovo; nessuno sognerebbe di pensare al corso di studi per metà o per un terzo. Tutti guarderebbero il sacerdozio con profonda venerazione e sul punto di avviarsi al sacerdozio o di pervenirvi si proverebbe una specie di sacro terrore. Inoltre le vocazioni non diminuirebbero, al contrario verrebbero purificate e per la virtù fecondatrice della santità, le moltiplicherebbe; e sbarrando il cammino ai non vocati, regolerebbe quello dei vocati87. A conclusione della lettera, il vescovo si rivolge al suo presbiterio con espressioni altamente commoventi e toccanti. In tali parole è facile leggere la concezione che il vescovo ha sul sacerdozio. Intanto chiede la collaborazione dei suoi sacerdoti; da qui la convinzione che il vescovo necessariamente è unito al suo presbiterio e questi senza il vescovo non può sussistere, è convinto che la comunione tra vescovo e presbiterio è previa a qualunque piano pastorale o riforma pastorale che si voglia attuare in una Chiesa locale; ciò è 86 87

Cfr. ibid., 47-48. Cfr. ibid., 48.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 99

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

99

dimostrata dal fatto che il vescovo prima di intraprendere la decisione di riformare il Seminario interpella gli organismi addetti a collaborare con lui per la gestione delle diocesi, quale il Capitolo dei canonici, i parroci, gli insegnanti del Seminario. A conclusione della lettera si rivolge ai suoi sacerdoti chiamandoli a collaborare in modo da raggiungere il fine; chiede collaborazione anche perché le disposizioni che il vescovo darà, come il desiderio di rinnovarlo, siano condivisi dal popolo88.

7. I COMPITI SEMINARIO

DEL SACERDOTE NELLA LETTERA PASTORALE

IL

Il sacerdote è colui che vive la vita di Gesù Cristo: se la vita in Dio è offerta a tutti con il battesimo e per mezzo dei sacramenti celebrati e vissuti nella Chiesa, il sacerdote a maggior ragione vive tale mistero, perché ogni giorno si nutre delle carni santissime di Gesù, è l’uomo che vive di Eucaristia, non solamente perché celebra ma anche perché è a diretto contatto con questo dono. È il ministro della Parola, a servizio di quella Parola che è nutrimento per la propria e altrui mente. Attraverso la predicazione è colui che tratta i misteri divini ed è quindi dispensatore di tali doni e di tanta ricchezza agli altri. È l’uomo di preghiera; respira aria di paradiso quando prega pubblicamente, durante la preghiera liturgica o da solo; conosce i segreti palpiti del cuore amatissimo di Gesù, cioè sa quali sono i progetti e i sentimenti presenti nel cuore del Figlio di Dio ed ha la cura immediata di quelle persone affidatele dal vescovo, perché è suo collaboratore. Il sacerdote è tale per il carattere impresso dal sacramento, ma anche per lo spirito che da lui è posseduto; ha viva questa autoconsapevolezza, per cui viene invitato ad aiutare il vescovo in questa opera che serve a formare i successori dei sacerdoti89.

88 89

Cfr. ibid., 47-48. Cfr. ibid., 49.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 100

100

Pasquale Buscemi

Alla fine offre con l’autorità che gli proviene dal suo essere vescovo alcune indicazioni che hanno un carattere non più parenetico, ma imperativo, e le fa in vista del fine che vuole raggiungere: riformare il Seminario; per il bene della Chiesa, avere sacerdoti dotti e santi, ministri autentici di Dio e per realizzare uno dei compiti propri del vescovo che consiste nel curare questa parte prediletta del suo gregge90. Offre quattro indicazioni ben precise. 1. Far maturare nelle menti la convinzione che il sacerdozio è quanto di più alto, di più profondo, di più immenso, di più santo, di più potente si possa immaginare. Perché si generi tale convinzione i parroci e tutti i sacerdoti devono spiegare al popolo la lettera pastorale. 2. Adoperarsi perché gli indegni e i non vocati si allontanino dal Seminario. Le possibilità di un sacerdote in cura di anime sono tante, come per esempio la confessione, la direzione spirituale. Il dovere di avvisare personalmente il vescovo sulle motivazioni al sacerdozio del candidato o di familiari o sul comportamento dei chierici prima di entrare in Seminario o durante le vacanze trascorse in famiglia. Mons. Sturzo giudica peccato gravissimo, la cui assoluzione è riservata al vescovo, la costrizione nei confronti del giovane a entrare in Seminario e ciò non solo per la moralità dell’azione, ma anche per il danno recato per effetto alla Chiesa e alla società. 3. La III indicazione è in vista della pastorale vocazionale diocesana, che deve discernere, agevolare il nascere e lo svolgersi delle vocazioni. Ogni parroco ma anche ogni zelante sacerdote istituisca il gruppo di fanciulli e si prenda cura perché si evitino cattive compagnie o altre occasioni di corruzioni; si favorisca la loro crescita spirituale attraverso il catechismo e quella umana attraverso il gioco e oneste ricreazioni in modo da generare il senso e il gusto della cristiana pietà. Dove queste associazioni sono presenti i frutti secondo mons. Sturzo sono certi. Nelle singole parrocchie si abbia cura di coloro che mostrano segni certi di vocazione e 90

Cfr. ibid., 3.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 101

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

101

«si istituisca una specie di probandato, lungo il quale i giovanetti, previo nostro permesso, porteranno il collare, ascolteranno la Messa tutti i giorni ed assisteranno alle funzioni parrocchiali. Noi, normalmente, non riceveremo nel nostro Seminario chi non abbia fatto almeno un anno di lodevole probandato»91.

4. Con la IV indicazione invita i sacerdoti a collaborare perché le vocazioni siano favorite anche materialmente, bussando presso le case dei benestanti per far passare un po’ della loro ricchezza verso il Seminario, al fine di santificare le loro ricchezze e permettendo di fare un bene che servirà a sfamare chi manca del pane della vita eterna. Il benestante deve pensare al povero affamato di pane, ma anche all’indigenza spirituale inoltre l’elemosina fatta in ordine al soprannaturale rifluisce copiosa anche sulla natura. Avere sacerdoti santi, agevolare la loro formazione significa cooperare perché l’umana famiglia sia restaurata secondo lo Spirito di Cristo Gesù. A tal proposito istituisce la colletta annuale da farsi in tutte le Chiese a favore del Seminario e spesso nelle sue lettere pastorali menziona l’importanza della giornata proseminario, della colletta a suo favore, della associazione proseminario92. Compone una breve preghiera per il Seminario da recitarsi dopo la benedizione eucaristica, tutt’ora utilizzata. Alla fine della lettera mons. Sturzo offre indicazioni per il curriculum studii in vista dell’ordinazione. 1. – Stabilisce che il corso di perfezionamento sia di tre anni e quello delle scienze sacre di 4 anni. I corsi siano organizzati in modo tale che siano adeguati alle esigenze del tempo presente, che non manchi nessuna materia. – ciascun alunno deve studiare tutte le materie e di essi sostenere gli esami. Le eccezioni saranno valutate direttamente dal vescovo, dopo aver ascoltato il consiglio scolastico e quello disciplinare. 91 92

Ibid., 51. Cfr. M. STURZO, La via della salute, Catania 1934, 66.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 102

102

Pasquale Buscemi

– Il suddiaconato sia conferito alla fine del II anno e il presbiterato alla fine del IV anno. Per essere promossi agli ordini sacri si deve dare esame speciale davanti al vescovo o a un suo delegato. Ed offre anche le indicazioni sulle materie da presentare all’esame e sulle qualità. – Prima di essere ammessi agli esami della sacra ordinazione gli alunni devono presentare il certificato di promozione. – Nei casi particolari si dispensa in tutto o in parte dagli esami di ordinazione coloro che si saranno resi meritevoli di tale grazia. 2. I parenti accettino i regolamenti disciplinari e scolastici. 3. Le borse di studio normalmente siano date previo concorso e in parità di meriti morali ed intellettuali, siano preferiti i più poveri. 4. Il vescovo desidera e ordina che siano scrupolosamente osservate le leggi pontificie: circa l’azione cattolica esterna, frequentare università laiche, la lettura dei giornali. 5. Che nessuno chieda al vescovo o faccia chiedere i sacri ordini; il chiederli sarà considerato come rendersene immeritevoli. Il Seminario per mons. Sturzo non può che essere concepito così e non si è liberi di mutare e sfigurare l’opera di Dio; infatti esso è tale perché trae la sua forma dal sacerdozio che è tutta opera di Dio. Il vescovo è convinto che davanti a sé ci sono tanti e non lievi difficoltà, ma è certo di essere appoggiato dal suo presbiterio e dalla preghiera di tante buone persone; confida nell’aiuto di Dio. La cooperazione e la benedizione divina avranno per effetto l’esclusione e l’allontanamento dei giovani non vocati, prima cagione dei mali di ogni Seminario. Così resteranno solo coloro che hanno avuto la grazia della vocazione che sapranno corrispondere meglio alle cure degli educatori. Nella lettera il vescovo si dimostra addolorato, ma anche speranzoso, poiché intravede il ripopolamento del Seminario di «Novelli Samueli, dall’anima pura, dagli ideali santi, dai palpiti infuocati, vagheggianti il sacerdozio con quel senso di fede, che umilia e solleva: che fa guardare la polvere, dalla quale si è tolti, per meritare


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 103

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

103

il soglio della gloria, al quale si è destinati; che fa scomparire l’uomo e sorgere l’apostolo: noi li vediamo docili e diligenti, assetati di virtù e di sapere, impazienti di spingersi tra il popolo, non per posarsi e godere gli agi del sacerdozio, ma per infondere quella vita di totale abnegazione, che tutta si consacra al bene del prossimo»93.

Al Seminario dedicò tutte le cure necessarie perché ogni candidato possedesse quel patrimonio spirituale, teologico e culturale necessario per lo svolgimento del ministero presbiterale. Assisteva personalmente agli esami di fine corso, partecipava ai momenti liturgici o di festa; ricercava superiori e docenti idonei e tante volte personalmente si impegnò nell’insegnamento di discipline filosofiche e teologiche: fu così importante che nominò il Seminario suo erede universale.

8. LA CONGREGAZIONE DEGLI OBLATI DI MARIA Se la formazione teologica, spirituale e culturale dei presbiteri stava tanto a cuore di mons. Sturzo, altrettanto forte fu il desiderio di istituire una Congregazione dei preti diocesani Oblati, al pieno servizio del vescovo e della diocesi, sull’esempio di congregazioni sorte fuori dell’isola e di iniziative condivise anche da altre diocesi. Anche nel 1939 la Conferenza Episcopale Siciliana affrontò il tema e studiò il progetto di uno statuto di Congregazione di preti Oblati o missionari diocesani da adottare in tutte le diocesi dell’isola94. L’iniziativa era mirata non solamente a un maggiore inserimento del clero nella vita pastorale, ma anche per avere un clero preparato alla vita pastorale, libero da vincoli familiari, pronto ad accorrere in ogni parte della diocesi secondo il volere del vescovo, perché legati da un voto speciale di obbedienza. Si delineò un modello di prete devoto, supportato da una vita ascetica di distacco e di abne93

Ibid., 55-56. Cfr. C. NARO, Mario Sturzo, le Chiese di Sicilia e il mondo moderno, in: ID. (cur.), Mario Sturzo. Un vescovo a confronto con la modernità, Caltanissetta-Roma 1994, 35-37. 94


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 104

104

Pasquale Buscemi

gazione, ma nello stesso tempo pieno di amore per le anime, per la Chiesa, per Gesù Cristo. Un prete sempre più legato alla vita parrocchiale, all’altare e alle iniziative interne della Chiesa, più che attento alla vita sociale95. Gioacchino Federico, uno degli Oblati, e primo superiore così scrive: «Perché le parrocchie siano ben fornite di pastori d’anime, il vescovo pensa ad essi: a formare una schiera di sacerdoti che siano disposti ad andare ovunque lo richieda il bisogno e legati al vescovo col voto e non solo con la promessa di ubbidienza. Li chiamò “Oblati” fin dal 1918 e attese alla loro formazione con costante intelletto d’amore […]»96.

In una lettera del 1937 inedita, dattiloscritta ma firmata ed indirizzata a tutti gli Oblati così scrive: «La Congregazione degli Oblati nacque pel bisogno della diocesi di vita più veramente e profondamente cristiana. A tal fine l’azione ordinaria in una mediocrità di vita spirituale non basta; occorre la vera santità. Né questa si promuove con un semplice cenno della volontà, ma creando nuclei d’anime, nuclei di apostoli di potenzialità superiori. Così fece Sant’Agostino nell’Africa, San Benedetto e San Francesco in Italia […] gli uomini formati alla loro scuola […] avviarono quelle correnti di riforma che poi si propagarono in tutta la società. La Congregazione degli Oblati in questa diocesi dev’essere quello che furono i religiosi […] di tutti i santi formatori e riformatori. Ma quei religiosi furono potenti in opere e in sermone, unicamente perché vissero in modo più perfetto nell’unione con Gesù Cristo, dell’unità delle loro congregazioni, nella più piena sottomissione e adesione ai propri superiori. Voi, figli miei, siete appena venti, però se saprete attuare l’ideale veramente cristiano e sacerdotale in voi, sarete più che bastevoli alla riforma del clero e santificazione della diocesi. E voi genererete col vostro esempio e colla vostra parola nei vostri confratelli sacerdoti e nel popolo la volontà dell’unione con Gesù Cristo e la 95 Cfr. M.F. STABILE, L’episcopato siciliano, in La Chiesa di Sicilia, cit., I, Caltanissetta-Roma 1994, 176. 96 G. FEDERICO, Il vescovo Sturzo, Caltanissetta 1960, 29.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 105

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

105

perfetta conformità di sentire e volere col vescovo. Affinché però questa parte dell’apostolato, che è la principale, riesca veramente efficace, dovete darne voi l’esempio spinto fino alle più alte forme di eroismo ...»97.

Nel corso della lettera pastorale per la Quaresima del 1934 alla fine si rivolge agli Oblati, definendoli figli di predilezione, speranza della diocesi, corona del povero vescovo che è negli ultimi giorni della sua vita terrena, milizia scelta, guardia del corpo ai cenni del pastore, senza desideri, ambizioni e preferenze. «Voi sarete quali il Signore vi vuole, quali vi sogna il vostro vescovo, quali vi aspetta la diocesi, solo se saprete essere sacerdoti di orazione […] sacerdoti tutti di Dio, così uniti tra voi in Dio da formare una cosa sola come Gesù Cristo […] da non cercare che la gloria di Dio […] e la salute delle anime»98.

Nella lettera circolare per gli Oblati del 07.10.1940, Mario Sturzo afferma: «Gli Oblati in quanto la loro Congregazione è stata ordinata secondo lo spirito di San Carlo Borromeo […] il quale volle che i suoi Oblati fossero riconoscibili al solo vederli per lo spirito interno della loro santità e delle loro vive virtù sacerdotali, volle […] che fossero così abnegati da essere contenti d’aver nella Congregazione garantiti il pane come cibo, l’acqua come bevanda, e la paglia come letto […] essi sono le membra di un corpo spirituale il cui capo è il vescovo. Devono dunque spogliarsi misticamente della loro personalità, cioè del loro giudizio e della loro volontà, per vivere del giudizio e della volontà del vescovo»99.

La Congregazione degli Oblati istituita da Sturzo in diocesi accoglie nel suo seno i sacerdoti diocesani che vogliono vivere in 97 98 99

M. STURZO, Lettera inedita agli Oblati del 1937. ID., La via della salute, 64. ID., Lettera inedita agli Oblati del 07.10.1940.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 106

106

Pasquale Buscemi

modo più perfetto; hanno il solo voto di ubbidienza e la vita comune, tranne per quei sacerdoti che il vescovo destina altrove. Don P. Giuliana in una sua opera su Sturzo riporta la coroncina della Madonna degli Oblati dove sul retro si legge: «La Congregazione degli Oblati di Maria in Piazza Armerina è la prima che sorge in Sicilia e risponde a un bisogno urgentissimo della religione. Il prete in casa è stato sempre fuori posto, e oggi più che per il passato. Secondo il concetto cristiano il sacerdote è per il popolo e per essere tutto per il popolo è necessario che non sia di nessun altro. Gli Oblati non sono sacerdoti secondo il puro concetto cristiano, ma hanno qualcosa di più e di meglio “il voto di obbedienza al vescovo”. Non sono monaci, ma non sono più preti secolari nel senso usuale, sono la milizia scelta, e per le diocesi che hanno la fortuna di averli, come per esempio Milano, sono una delle più grandi benedizioni del cielo. Fu fondata il 19.01.1921; la casa madre fu cominciata a fabbricare nel febbraio dello stesso anno»100.

Sono brevi note, offerte dal libretto di preghiere, certamente di propaganda, destinate a far conoscere la Congregazione, e invitare a pregare per essa; in essa abbiamo in sintesi quanto Sturzo aveva già scritto nella sua pastorale Il Seminario: il sacerdote, uomo di Dio, consacrato per il popolo, unito spiritualmente al vescovo col voto di obbedienza, libero da vincoli affettivi e familiari, per essere disponibile in modo completo e radicale alla Chiesa, pronto ad andare lì dove il bisogno pastorale lo richiedesse. La Congregazione fu per mons. Sturzo motivo di sano orgoglio e di profonda gratitudine al Signore. In una lettera scritta al fratello Luigi afferma: «Oggi si è chiuso il primo capitolo generale degli Oblati di Maria e del ritiro annuale dei padri Oblati, nel quale io ho fatto le istruzioni. Posso dire con San Paolo: Superabundo gaudio. La Congregazione ha ormai le sue costituzioni, almeno le fondamentali, ha i suoi superiori […] il capitolo mi ha rassicurato sul buon spirito dei padri e sulla concordia degli animi e attaccamento alla Congregazione e al vescovo. Più 100

P. GIULIANA, Mario Sturzo. vescovo e uomo di Dio, Caltanissetta 1993, 224.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 107

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

107

grande misericordia il buon Dio non poteva osare a me e alla diocesi, l’avvenire della quale posso reputare assicurato. Il Seminario è tutto in mano degli Oblati; i seminaristi in gran maggioranza aspirano alla vita di Oblati. Gli Oblati sostengono e rallegrano la mia vecchiezza. La diocesi gode un’insolita pace. Anche gli altri sacerdoti, e segnatamente i parroci, sentono l’influsso benefico della Congregazione. Il popolo cerca di preferenza gli Oblati. Prostrato nella polvere del mio nulla, ringrazio il Signore e adoro i suoi arcani […] il mio spirito è tutto pieno del grande evento […] ringrazia con me il Signore»101.

Leggendo le costituzioni della Congregazione, approvate nel 1932, che constano di tre capitoli e un’appendice, ci sono alcuni elementi che vanno sottolineati: • La Congregazione istituita il 29.05.1920, canonicamente l’08.01.1929, rientra in quelle associazioni previste dal Codice di Diritto Canonico; l’essenziale di questa Congregazione è il voto perpetuo di obbedienza. I suoi fini sono la santificazione dei suoi membri e il servizio spirituale della diocesi in modo più organico in stretta dipendenza dall’Ordinario diocesano. Essa ha per fine anche il servizio al Seminario. Il mezzo fondamentale per il raggiungimento di questi fini è la vita comune. Supremo superiore e moderatore della Congregazione è il vescovo. • Si parla dell’ordine e del funzionamento della Congregazione, la quale comprende: aspiranti, novizi, Oblati e coadiuvatori. Gli aspiranti sono i seminaristi che chiedono di essere ammessi e sono animati dallo spirito di castità e obbedienza: ogni anno faranno questi voti. Essi si distinguono per virtù ed intelligenza; l’aspirantato finisce con il suddiaconato. L’aspirantato è periodo di prova e di formazione, per cui si richiede un maggiore impegno di vita interiore e una maggiore diligenza nello studio. I risultati favorevoli ottenuti sia nell’ambito della formazione spirituale che culturale sono la prova 101 M. STURZO, Lettera al fratello Luigi dell’08.10.1932, in P. GIULIANA, Mario Sturzo. Vescovo e uomo di Dio, cit., 229-230.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 108

108

Pasquale Buscemi

richiesta durante questo periodo. Si richiede che essi compiano i propri doveri non per timore ma in coscienza; l’aspirante deve possedere alcuni atteggiamenti fondamentali come l’obbedienza, il silenzio che favorisce il raccoglimento, la bontà con tutti e la cortesia. Eviteranno la caparbietà, l’arroganza, l’orgoglio, il campanilismo. Non ambiranno onori e cariche e si dedicheranno a letture formative; eviteranno amicizie particolari e anche in famiglia si dimostreranno distaccati in modo da far sentire ai familiari che essi appartengono alla famiglia di Dio. Si sottolinea pure che gli aspiranti in quanto seminaristi, non sono a se stanti, ma assieme agli altri costituiscono lo stesso corpo. Il noviziato dura almeno sei mesi, vi si accede dopo aver ricevuto il suddiaconato; il novizio emette voto di obbedienza temporaneo. Gli Oblati normalmente sono sacerdoti preparati alla vita Oblatizia nel Seminario diocesano. I coadiuvatori sono coloro che emettono i voti perpetui di castità e obbedienza attendendo al servizio e alla vita di pietà102. • Vengono offerte indicazioni e suggerimenti per organizzare il cammino spirituale degli Oblati, al punto da dare indicazioni dettagliate sulla giornata tipo dell’oblato. I padri si alzino alle 5.30. Prima della celebrazione della Messa fanno almeno mezz’ora di orazione mentale. Dopo il pranzo fanno la visita al Sacramento; l’esame di coscienza due volte al giorno; la lettura spirituale verso la metà della serata su di un libro approvato e scelto dal superiore. Si confessano di regola una volta alla settimana. Almeno una volta al mese sentiranno i consigli del loro direttore spirituale e faranno in comune il ritiro103. • Nel III capitolo della costituzione si parla anche dello spirito degli Oblati: essi fanno il voto di obbedienza, ma devono possedere altre virtù, non solamente perché sacerdoti, ma perché chiamati a lavorare per un efficace rinnovamento del clero e della diocesi. Essi non devono voler altro che la gloria 102 103

Cfr. P. GIULIANA, Mario Sturzo. vescovo e uomo di Dio, cit., 229-237. Cfr. ibid., 237.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 109

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

109

di Dio e delle anime; saranno distaccati da tutto: dai parenti, dai beni materiali, dagli onori, dalla patria, da se stessi e ogni cosa ameranno in e per Dio. Non chiederanno cariche, ma non le ricuseranno, non avranno preferenze tranne che per il loro sacerdozio custodito puro di ogni scoria mondana. Saranno prudenti, caritatevoli, ordinati di tutto e puntuali, osserveranno il silenzio e le regole di buona creanza. Essi si ameranno, compatiranno, assisteranno, correggeranno. Eviteranno l’ozio e non trascureranno mai lo studio, soprattutto della Sacra Scrittura, della Teologia Dogmatica, della Teologia Morale e dell’Ascetica. Nessuna giornata passerà senza avere dedicato almeno un’ora allo studio. Si invita a non aver familiarità con donne e con secolari: verso i superiori avranno cuore di figli e verso i confratelli e ogni altra persona cuore di fratelli104. • Per quanto riguarda l’esercizio del ministero, gli Oblati annunzieranno la Parola di Dio qual è, in semplicità, umiltà, carità, brevità. Nelle prediche come nei discorsi l’unica preoccupazione è la gloria di Dio, non il proprio vantaggio ma il bene della propria anima e di quello degli altri. L’oblato si preparerà sempre, sia quando predica o tiene conferenza o lezione per sperare di parlare bene; nulla fa per vanità e nulla tralascia per timore della vanità. Avranno una preferenza per gli uomini di cultura, perché di essi non si occupa nessuno e perché a volte la cultura porta ad essere ostili alla religione. Con i non credenti non devono avere atteggiamenti di sapientoni, e non confidino nel potere dell’umana sapienza. Gli Oblati cercheranno prima di tutto le vie del cuore sull’esempio di San Francesco di Sales105. • Per quanto riguarda la gestione economica, viene aggiunta una postilla nell’ottobre del 1933 dove viene affermato che l’economia della Congregazione non va vista come pura materialità ma va esaminata alla luce della spiritualità. Gli Oblati non 104 105

Cfr. ibid., 238. Cfr. ibid., 239-240.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 110

110

Pasquale Buscemi

emettendo il voto di povertà, conservano la libera amministrazione dei propri beni patrimoniali, invece quanto guadagnato con l’esercizio dell’attività ecclesiastica è da offrire alla Congregazione. Lo spirito della Congregazione consiste nella perfezione cristiana, che è spirito di disinteresse, di carità, di fraternità, di previdenza, che si oppone all’egoismo, all’invidia, alla cupidigia e alla imprevidenza. Tutti i padri e tutti i coadiuvatori sono nella condizione di parità che consiste nella sicurezza circa i momenti di sventura. La Congregazione è considerata come una famiglia dove ci sono persone efficienti, valide, ma ci possono essere anche invalidi, anziani e ammalati. La carità fa superare le disuguaglianze e tutti godono della stessa considerazione e tutti lavorano con lo stesso ardore come se tutto dipendesse dalla propria diligenza e previdenza, senza lasciarsi vincere dall’accidia. Il fine principale della Congregazione è la rigenerazione integrale del clero, per cui deve essere resa agevole e possibile la vita interiore, l’ordine di lavoro, lo studio. Anche la parte economica deve essere ordinata, facendo sì che il vero economo della Congregazione sia il buon Dio. Le costituzioni parlano di vocazione Oblatizia che comporta il pieno distacco da ogni cosa che non sia la Congregazione. Come è Dio che chiama, così è Dio che orienta verso i fini della Congregazione. Dio che per natura ci lega ai parenti e alla patria, per grazia quando chiama ce ne separa. Gli Oblati se sono chiamati non possono pensare al bisogno dei parenti, perché è Dio che li chiama e anche Dio che provvede. L’oblato che lascia tutti e si distacca da tutti per Dio, sa che lascia tutti sotto l’amorosa provvidenza di Dio. Essi devono restare estranei a tutto ciò che riguarda la parte economica, ma responsabili del lavoro e dei compiti da svolgere con competenza. La Congregazione è come una grande madre che si occupa delle realtà spirituali e temporali della famiglia106.

106

Cfr. ibid., 240.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 111

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

111

9. L’IDENTITÀ SACERDOTALE E LA SPIRITUALITÀ DEGLI OBLATI Il vescovo oltre ad essere il superiore della Congregazione è anche il responsabile della formazione. Costruisce la casa madre attaccata all’episcopio e al Seminario, detta le meditazioni durante il ritiro o durante le conferenze quindicinali di formazione e a quanti non potevano essere presenti perché residenti altrove, invia le lettere circolari. Queste ultime sono dei veri e propri trattati sul sacerdozio, sul cammino di formazione e sulla spiritualità sacerdotale. In una lettera del 17.12.1937 così scrive: «Corro spesso col pensiero che lavorate nella diocesi lungi dagli occhi del pastore e dai confratelli che formano il nucleo principale della Congregazione. Sento tutta la pena della lontananza e la mia pena si fa maggiore, perché non posso far dire a voi la mia povera parola, come la faccio dire ai padri che dimorano in questa, non perché io conti sulla mia povera parola, ma perché io parlo loro in nome di Dio e loro comunico la stessa Parola di Dio. Quel che non posso fare in modo immediato, sento il bisogno di farlo almeno per lettera […] parlai loro dell’essenza della santità che consiste nella perfetta conformità della nostra volontà alla santissima volontà di Dio […] questo dissi ai vostri amatissimi confratelli e questo scrivo brevemente a voi affinché ne facciate oggetto delle vostre meditazioni. I padri Oblati tengano presente nella mente e più nel cuore che devono essere santi, non solo perché ciò è dovere dei sacerdoti, ma perché uno dei fini della Congregazione è quello di adoperarsi con l’esempio e con la preghiera alla rigenerazione del clero diocesano. E perciò i padri Oblati si guardino […] non solo dall’obbedire […] ma anche dal discutere l’ordine del superiore […] noi non solo saremo santi, ma saremo santificatori, perché saremo potenti in opere et sermone»107.

Alla fine della lettera raccomanda che si legga in comune, ma ciascuno la conservi per poterla rileggere e rinnovare i santi propositi. In un’altra circolare del 29.09.1940 dopo aver parlato della fede per vivere e avere uomini di fede nel tempo presente, uniti a Gesù Crocifisso, così afferma: «Se voi sapete fare in modo conveniente con 107

M. STURZO, Lettera inedita agli Oblati del 17.12.1937.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 112

112

Pasquale Buscemi

ogni generosità, il sacro ritiro per voi sarà la nuova Pentecoste: dal medesimo voi uscirete come uscirono gli Apostoli dal Cenacolo dopo la discesa dello Spirito Santo, e riprodurrete, ciascuno nel campo del vostro lavoro, le meraviglie dei tempi apostolici»108. In un’altra lettera del 03.10.1940 parlando dell’abnegazione e della Croce afferma: «Fratelli e figli del mio cuore, il tempo del ritiro spirituale […] è anche tempo di esame di coscienza […] voi dovete non solo cercare il male che può annidarsi […] ma anche le cause prossime e remote del male […] è chiaro che io parlando ai sacerdoti Oblati non credo dover considerare lo stato di colpa grave, perché contrasta troppo col sacerdozio. Il solo pensarvi io tremo, perché mi suonano forte nell’anima le parole dell’antico padre: Peccasti in sacerdotio, periisti. Però non posso non accennarvi per dirvi che, se il sacerdote peccatore si volge a Dio con cuore veramente contrito, non perirà, perché Dio è infinitamente misericordioso e perché Gesù Cristo si rivestì anche dei peccati dei poveri sacerdoti […]»109.

Nel corso delle lettere spesso richiama situazioni di vita di alcuni sacerdoti per correggere o anche rimproverare severamente: la motivazione è legata sempre alla santità di vita del sacerdote il quale deve offrire tutto a Dio e portare nel sacrificio eucaristico: «Se io vi dico, figli miei amatissimi, che voi non avete mai considerato il dovere di sacerdoti Oblati in questa luce, non credo di farvi ingiuria, perché non rivelo nessun segreto: le opere parlano. Nei primi anni della Congregazione, che furono anni di maggiore fervore, d’ogni parte della diocesi si facevano le lodi dei padri Oblati, e tutte le parrocchie avrebbero voluta l’opera dei medesimi. Quali giudizi si facciano oggi di voi non sarò io a dirvelo, perché ve lo dice l’intera diocesi. Umiliamoci nella polvere del nostro nulla e piangenti diciamo: Pater, peccavi. E allora nessun oblato più si permetterà di dire: Non osservo tale articolo delle costituzioni […] voi figli miei questo dovete fare perché Dio, come più volte vi ho ripetuto, dà il velle et perficere; […] volgete l’occhio alla Congregazione degli Oblati […] mediterete […] 108 109

ID., Lettera inedita del 29.09.1940. ID., Lettera inedita del 03.10.1940


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 113

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

113

parte dell’insegnamento del grande vescovo di Milano che voleva che d’ogni intorno spirasse la santità della vita e le vive virtù sacerdotali che mostrasse degni dell’unione col proprio vescovo […] dico a voi: meditate sopra la dignità della vostra vocazione di Oblati sopra la sovrumana altezza, sopra lo splendore della sua luce e concluderete la vostra meditazione col dire: se Dio non mi ha respinto da sé per le mie grandi miserie e invece mi ha chiamato alla più trasumanante unione con il mio vescovo affinché più perfetta e più santificante sia la mia unione con Gesù Cristo, non voglio resistere più alla grazia, […] costi pure la vita»110.

A conclusione della lettera pastorale La via della salute dove parla della preghiera la quale assicura la via della salvezza, si rivolge agli Oblati, quale figli di predilezione e speranza della diocesi: «Oh voi avete nel sacerdozio scelto la parte migliore, avete lasciato la famiglia e la patria, avete rinunziato a tutte le cure terrene, vi siete consacrati a Dio e alla diocesi […] siete la milizia scelta, la guardia del corpo ai cenni del pastore […] pensate che voi sarete quali il Signore vi vuole, quali vi sogna il vostro vescovo […] solo se saprete essere sacerdoti d’orazione […] sarete sacerdoti tutti di Dio, così uniti a Lui, […] tra voi […] da non cercare che la gloria di Dio e […] la salute delle anime»111.

L’esperienza introdotta in diocesi dalla Congregazione degli Oblati fu determinante e segnò la spiritualità sacerdotale di quelli che vi aderirono, ma anche di tutto il presbiterio. Furono tanti i sacerdoti che si lasciarono ispirare da questo tipo di formazione; molti degli Oblati ricoprirono incarichi importanti in diocesi promuovendo sempre il rinnovamento e la rigenerazione del clero diocesano, proposta da Mario Sturzo. La Congregazione cessò di esistere con la morte del vescovo Sturzo e soprattutto con l’avvento del nuovo vescovo; diversi possono essere i motivi come il legame forte alla persona del vescovo, per cui morto il fondatore si sfalda il gruppo;

110 111

L.c. ID., La via della salute, 64.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 114

114

Pasquale Buscemi

forse perché il successore di Sturzo voleva impostare e organizzare in modo nuovo il presbiterio diocesano; forse perché i tempi cambiavano e quindi si richiedeva il rinnovamento del clero; forse perché all’interno della diocesi si era creata una spaccatura tra chi aderiva alla Congregazione e chi non aderiva, per cui si desiderava creare unità nel presbiterio in modo da renderlo più armonioso: difficile identificare la soluzione per spiegare tale fenomeno, sta di fatto che la Congregazione degli Oblati si esaurì.

10. LA SPIRITUALITÀ SACERDOTALE NEL PENSIERO DI MARIO STURZO Così scrive in una lettera del 07.10.1940 dove si parla della preghiera che alimenta la spiritualità sacerdotale, ed è essenziale per la vita interiore del sacerdote, essenziale per la sua santità che è l’unione con Dio. «Io, figli miei amatissimi, credo poter dire in due parole quale debba essere la vostra orazione, affinché sia conveniente al vostro stato e vi meni efficacemente e rapidamente alle vette della santità: dev’essere finalistica ed eucaristica […] deve mirare all’unione con Gesù Crocifisso […] questo perfezionamento per sé lo fa l’Eucaristia […] la santità cristiana consiste nell’unione con Gesù Crocifisso. Questa unione è iniziata dal Battesimo e perfezionata dall’Eucaristia. I sacerdoti devono tenerlo presente quando adorano l’Eucaristia e celebrano il sacrificio della Santa Messa, affinché essi si tengano nelle condizioni corrispondenti al fine del sacramento […] La finalisticità è nella natura elevata e santificata dalla grazia; l’Eucaristia è tutta nella grazia […] i sacerdoti devono reputarsi gli eredi più genuini dello spirito apostolico […] affinché […] diventino sacerdoti santi, capaci di operare miracoli di santificazione, devono tenersi sotto gli sguardi di Dio in atteggiamento di orazione finalistica ed eucaristica tutta la giornata […] voi per poter vincere in modo assoluto l’insidia dell’amor proprio, dovete diventare anime eucaristiche. Quando siete alla presenza della Santissima Eucaristia, dentro e fuori della Messa, dovete domandare come grazia principale che l’unione dell’anima vostra con Gesù Crocifisso diventi d’ora in ora sempre più intima e perfetta […] a


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 115

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

115

questo fine Gesù diede l’Eucaristia; per l’attuazione di questo fine voi eserciterete il culto eucaristico»112.

Il sacerdote vive di Eucaristia ed è a servizio dell’Eucaristia: «Se il dovere di vivere di Gesù Eucaristia per amarlo, onorarlo, consolarlo, conoscerlo, farlo conoscere, cibarsene, fa che tutti se ne cibino frequentemente, riguarda principalmente i sacerdoti, li riguarda in modo speciale per la funzione che essi compiono nella Chiesa di ministri dell’Eucaristia […] l’unico vero maestro delle anime è Dio […] solo Lui salva le anime; pure in via ordinaria Egli non le salva che pel ministero d’altri uomini, e, in modo ufficiale pel ministero della Chiesa e dei sacerdoti […] il sacerdote è come un canale. Affinché l’acqua divina della grazia arrivi alle anime, è necessario che nei canali non trovi impedimento […] affinché i sacerdoti possano al cospetto del Padre, rappresentare la persona di Gesù Cristo, devono in tutto essere conformi a Lui, devono essere rivestiti di Lui, anzi devono essere totalmente morti a se stessi, da non vivere in loro che Gesù Cristo»113.

Per questo tipo di spiritualità sacerdotale che è cristologica ed eucaristica, come anche per l’esercizio di un apostolato sacerdotale veramente efficace, Mario Sturzo rimanda all’orazione mentale intesa come contemplazione acquisita che è dono gratuito del Signore che porta ad avere quei doni importanti perché il sacerdozio venga vissuto come dono per gli altri: un canale perché l’acqua divina arrivi fino alle anime e non trovi impedimento nelle imperfezioni e nei peccati del sacerdote114. Il sacerdote è come Gesù, buon pastore, che raccoglie le pecore disperse, custodisce il gregge affidatogli dal vescovo, chiama tutti con la parola e con la testimonianza a conversione, indica a tutti la meta alla quale il Signore chiama che è la santità, propone i mezzi per raggiungere tale obiettivo: tutto questo il sacerdote lo fa attraverso il ministero al quale è chiamato e con il suo stile di vita. 112 113 114

ID., Lettera inedita agliOblati del 07.10.1940. ID., Orazione e adorazione, in ID., Per la vita interiore, Torino 1940, 3.7-8. Cfr. ibid., 8.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 116

116

Pasquale Buscemi «La domanda angosciosa che anima […] tutto il mio lavoro episcopale è sempre una: Come dar le ali a chi si contenta semplicemente di correre […]? Come dar la volontà del progresso alle anime intristite […]? Come dar la volontà della penitenza alle anime che giacciono nel peccato senza più avvertire i gemiti dell’anima dolorante? Come dare la volontà di volerci udire a coloro che, perduta la grazia col peccato e la fede coll’errore, respingono la nostra parola e ci voltano le spalle? Il lavoro di formazione ambientale […] metterà le anime nella situazione di fatto propizia ad accogliere la grazia che il Signore comunica per mezzo dei suoi Apostoli, a misura che questo lavoro di apostolato collettivo sarà efficace e profondo, a misura che renderà unita a quelli che si consacrano a questo apostolato più coerente e più armonico tra il lavorare per la propria santificazione e il lavorare per l’altrui […] la vita cristiana è santità […] diverse potranno essere le vie, le vocazioni, le rinunzie, unica è e sarà la sostanza. La santità di cui parlo, importa l’attuazione fedele dell’insegnamento di Gesù Cristo contenute in quelle tre divine parole: abnegazione, croce e sequela […] così Gesù Cristo disse a tutti […] noi ameremmo le anime a noi affidate come la pupilla dei nostri occhi […] ameremmo più le anime affidate al Signore, ma sotto un altro aspetto imiteremo il buon pastore del Vangelo […] il quale non si dà requie né si dà pace sino a che non avrà trovata la pecorella smarrita […] i peccatori ostinati, i pubblici peccatori […] quelli che hanno perduta la fede […] siano oggetto delle nostre apostoliche, amorose preferenze. Amiamoli compatendoli, compatiamoli nella carità di Cristo che trasforma il compatimento in confidenza. Non ci diamo tregua sino a che non avremo trovato le vie del cuore […] i peccatori ostinati sono nella Chiesa di Gesù Cristo le piaghe più purulente […] nel campo del nostro apostolato pubblici peccatori non ce ne dovranno essere e noi dobbiamo lavorare per raggiungere questo fine […] noi, lavorando per la salute delle anime, diremo a noi stessi […] non sono io che lavoro, per me lavora Cristo Gesù e a me non resta che stare strettamente unito a Lui […] il nostro apostolato sia quello dei primi Apostoli: intensa applicazione all’orazione e all’apostolato […] non avrà vera efficacia se la nostra vita non avrà vera santità»115.

115 ID., Il mistero della conversione, in ID., Alla scuola di Gesù, Torino 1941, 133.141.166-167.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 117

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

117

Il sacerdote ha avuto affidato per divina misericordia il dono inestimabile del sacerdozio e ha ricevuto la missione della Parola e dei sacramenti. L’opera del sacerdote non fallisce se questi è santo, cioè ripieno dello Spirito del Signore116. Mario Sturzo invita i sacerdoti a preoccuparsi della propria santificazione e di quella altrui. Propria santificazione significa innanzitutto prendersi cura della propria vita interiore. Ciò comporta il preoccuparsi di studiare con il cuore la Parola di Dio per saperla insegnare a tutti, iniziando dalle scuole di catechismo. Anche gli adulti hanno bisogno della Parola di Dio che offre l’oggetto della fede e le norme per l’azione per cui i sacerdoti hanno il compito di organizzare il catechismo per gli adulti117. Il sacerdote è ministro dell’Eucaristia: per il suo ministero si perpetua nel mondo la presenza reale di Gesù Cristo e solo per mezzo del sacerdote i fedeli ricevono la Santa Comunione. Il ministero della Parola esige che il ministro sia santo, a maggior ragione il ministero dell’Eucaristia118. L’altare è il primo pulpito e la predicazione che meglio santifica i fedeli è la predicazione dell’esempio all’altare. «La scuola di tutti gli altri doveri sacerdotali, la fonte da cui si attinge la forza per compiere fedelmente sono la Parola di Dio e Dio nella sua Parola, lo studio della Scrittura, il culto dell’Eucaristia, la meditazione della prima, la meditazione per la seconda, il culto della predicazione della Parola di Dio, il culto della celebrazione della Messa. Attendete a questi due supremi doveri […] e saprete attendere a tutti gli altri doveri e, così facendo santificherete voi e le anime affidate alla vostra comunità»119.

Il sacerdote è reso partecipe dell’unico sacerdozio di Cristo, separato dal mondo per diventare porzione eletta per Dio e per le anime. 116 117 118 119

Cfr. ID., La pastorale collettiva, Asti 1935, 53. Cfr. ibid., 53-56. Cfr. ibid., 57-59. Ibid., 59.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 118

118

Pasquale Buscemi «Quando si posarono sul vostro capo le mani […] e fu invocato lo Spirito Santo; quando le vostre mani furono unte del sacro olio, voi foste separati dal mondo e resi partecipi dell’eterno sacerdozio di Gesù Cristo. Da quel felice istante voi foste trasformati in altri uomini, a voi fu dato per ministero l’orazione, la predicazione, l’amministrazione dei sacramenti. Foste sottratti alla materia dello Spirito […] alle vanità del tempo per i beni dell’eternità; foste fatti sacerdoti, la vostra porzione irrevocabilmente fu Dio, e per Dio, furono le anime. Dio vi diede al sacerdozio, e voi foste consacrati sacerdoti in eterno, il vostro sacerdozio non sarà mai tolto da voi pel peccato»120.

Il sacerdozio sarà fecondo per l’orazione, per cui la preghiera assume un carattere tutto speciale e diventa un dovere che, se dovesse mancare il sacerdote è come se fosse sterile o a metà. Il sacerdote che non prega corre maggiore pericolo degli altri, nell’avere una vita tiepida o addirittura traviata; le cose sante fatte dal sacerdote possono diventare fredda consuetudine. La recita del breviario come la meditazione della Sacra Scrittura invitano alla preghiera e il sacerdote senza preghiera è sacerdote senza carità, è un mondano che ha seppellito il suo talento121. Il sacerdote che prega diventa santo e la santità è la nota importante richiesta da Gesù al Padre durante la preghiera del Giovedì Santo; quella santità che è vera e consiste nella vita interiore, per la quale l’anima si dà a Dio e Dio si dà all’anima122. Il sacerdote è chiamato a vivere la preghiera e a dedicarsi alla predicazione, la predicazione non sarà efficace senza la preghiera, perché la preghiera unisce a Dio e Dio a tutte le anime123. La fecondità del sacerdozio non dipende solamente dal sapere intellettuale del sacerdote e dai sani ragionamenti che saprà fare, ma solo dalla luce dello Spirito e dai miracoli che il sacerdote saprà sprigionare: i miracoli delle resurrezioni o delle guarigioni che avvengono

120 121 122 123

ID., La via della salute, 59. Cfr. ibid., 59-61. Cfr. ibid., 61-63. Cfr. ibid., 63.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 119

Il ministero sacerdotale nel pensiero del vescovo Mario Sturzo

119

quando Dio vuole e per mezzo di cui Egli vuole. Ma i sacerdoti non possono confidare in questi miracoli ma in quelli della vita interiore124. Certamente il sacerdote risente della grave crisi religiosa del tempo in cui vive e opera; di fronte a tale crisi potrebbe prevalere lo scoraggiamento che determina la sua attività e potrebbe avere il sopravvento su di essa. Così scrive: «Ho udito la desolante risposta: Il popolo non viene! È un fatto! Il popolo ha perduto il gusto della predicazione eucaristica […] gli altri che sono i più, uomini principalmente, non vanno più a predica, non vanno più a Messa, non più frequentano i sacramenti, e sempre pochi quelli che fanno la Pasqua. Che mezzi ci rimangono per richiamare il popolo in Chiesa? […] La nostra non è missione puramente umana; principalmente è missione divina. Se noi faremo con fede e amore la nostra parte, Dio farà il resto, anzi Dio farà tutto. Ai reverendissimi parroci […] dico: Vengono solo poche persone […] sempre le stesse? Non disperate per questo […] perseverate fidenti nel compimento di questo che è uno dei principali doveri; perseverate anche se al vostro catechismo venga una sola persona, […] questo singolare modo di procedere non resterà ignoto nella parrocchia […] la vostra fede, la vostra carità non lascerà indifferente Dio […] a tal fine rendete la vostra vita sempre più interiore, sempre più mortificata, sempre più santa»125.

Il sacerdote testimonia con la sua vita e traduce quello che insegna con la vita: «Il popolo ha bisogno che la legge del Signore sia tradotta in vita; esso ha bisogno di leggere nel vostro esempio la legge del Signore prima di dirla al vostro labbro o di leggerla nel catechismo. Il popolo ha bisogno di trovare l’Eucaristia nel vostro cuore prima di trovarla nell’altare […] o meglio ha bisogno di trovare la legge del Signore nel vostro esempio e nel vostro labbro e nel catechismo in modo congiunto […]

124 125

Cfr. ibid., 63-64. ID., La pastorale collettiva, 12-13.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 120

120

Pasquale Buscemi il popolo ha bisogno della vostra santità per santificarsi con la Parola rivelata e con la Santissima Eucaristia»126.

Rivolgendosi ai fedeli invita a prendersi cura dei propri sacerdoti, sapendo che dove esso manca, manca anche l’Eucaristia. I fedeli devono ammirare nel sacerdote il sacerdozio, venerare i sacerdoti tutti indistintamente, pregare per loro. «Ma dovete anche aiutarli a vivere. Essi lavorano per voi, son tutti consacrati a questo lavoro […] perché questo è il loro dovere, perché per questo son sacerdoti. Essi non sono più del mondo, non son più della famiglia, non son più di se stessi; son per voi son tutti per voi, hanno tutto lasciato per essere tutto per voi. Chi penserà al loro sostentamento […]? chi serve l’altare è giusto che vive dell’altare […] ma oggi l’altare è nudo […] i nostri sacerdoti mancano del pane quotidiano»127.

Invita i fedeli ad essere caritatevoli verso il sostentamento dei propri sacerdoti perché Dio non si lascia vincere in generosità128.

126 127 128

Ibid., 78-79. Ibid., 65-66. Cfr. ibid., 67.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 121

Synaxis 3 (2009) 121-156

LO SVILUPPO DELLA CATEGORIA DI LOGOS NELLA TEOLOGIA DI JOSEPH RATZINGER*

ALFIO CRISTAUDO**

INTRODUZIONE Il 12 settembre del 2006, presso l’Aula Magna dell’Università di Regensburg, papa Benedetto XVI tiene una «Lectio magistralis» ai Rappresentanti della scienza: essa, insieme alle omelie pronunciate rispettivamente alla spianata della Neue Messe in München e presso l’Islinger Feld di Regensburg, costituisce parte di un’inscindibile «trilogia»1 dedicata ad uno dei maggiori temi d’interesse dell’intera produzione del teologo Joseph Ratzinger: il rapporto tra fede e ragione. Il clima di recezione del discorso di Regensburg è stato condizionato da una lettura parziale che ha fatto leva sui toni polemici contro l’Islam, evidenziati nella citazione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo2. In realtà, la citazione del Paleologo ha contribuito a mettere in risalto una delle principali categorie di pensiero del teologo bavarese, riassunto nel concetto di Logos. Ciò significa che il riferimento al Paleologo, più che collocarsi primariamente nell’orizzonte ermeneutico del dialogo interreligioso, si presta meglio a rias* Estratto della tesi di Baccalaureato discussa il 26 giugno 2009 presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, relatore il prof. Giuseppe Ruggieri. ** Baccelliere in Teologia. 1 J.H.H. WEILER, La tradizione giudaico-cristiana tra fede e libertà, in Dio salvi la ragione, Siena 2007, 171. 2 Cfr. K. LEHMANN, Chancen und Grenzen des Dialogs zwischen den „abrahamitischen Religionen“, in A. ZIMMER (cur.), Glaube und Vernunft. Die Regensburger Vorlesung, Freiburg 2006, 120-121. Per il testo del Paleologo, vd. MANUELE II PALEOLOGO, Logos. La ragione in Dio. Dialoghi con un musulmano, testo critico a cura di Théodore Khoury, trad. it. a cura delle Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2008.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 122

122

Alfio Cristaudo

sumere il nucleo dell’intera impostazione della teologia di Ratzinger, contraddistinta dall’intrinseco legame tra fede e razionalità greca: «Gott hat kein Gefallen am Blut […] und nicht vernunftgemäß, nicht „suén loégw3“ zu handeln, ist dem Wesen Gottes zuwider»4.

Nella seconda parte della lezione viene delineato lo sviluppo storico del moderno programma di de-ellenizzazione del cristianesimo, perseguito inizialmente dal protestantesimo, proseguito dalla teologia liberale del XIX sec. e oggi auspicato in forme ancora più radicali da alcuni orientamenti della teologia contemporanea, dove il papa, al contrario, ribadisce l’inscindibile legame che congiunge la fede biblica con la ragione greca5. Sorgono alcune domande: il Logos di cui parla Ratzinger si traduce principalmente come «parola» o come «ragione»? La traduzione scelta da Ratzinger è coerente con i dati dell’esegesi contemporanea? E ancora, tale concezione di Logos si pone in modo uniforme nello sviluppo generale del pensiero di Ratzinger oppure ha conosciuto una sua specifica evoluzione? L’impianto della riflessione si muove all’interno di una prospettiva di metodo diacronica: oggetto privilegiato di indagine resta il pensiero del teologo Ratzinger con la deliberata esclusione del magistero e degli insegnamenti papali, che costituiscono un ambito di ricerca a sé stante. Ovviamente, nel presente contributo è stato necessario limitare l’esposizione dei contenuti soltanto a quei passaggi ritenuti più rappresentativi. 3

Sic. BENEDETTO XVI, Glaube, Vernunft und Universität. Erinnerungen und Reflexionen, in C. DOHMEN (cur.), Die „Regensburger Vorlesung“ Papst Benedikts XVI. im Dialog der Wissenschaften, Regensburg 2007, 17. 5 Circa la reazione di gran parte del mondo protestante, che ravvisa nella lezione di Regensburg il tentativo da parte del papa di attuare «eine radikal antiprotestantische religionspolitische Agenda», vd. W. KASPER, Glaube und Vernunft. Zur protestantischen Diskussion um die Regensburger Vorlesung von Papst Benedikt XVI., in K. WENZEL (cur.), Die Religionen und die Vernunft. Die Debatte um die Regensburger Vorlesung des Papstes, Freiburg 2007, 71-84. 4


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 123

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 123

1. I PRESUPPOSTI AGOSTINIANI RATZINGER

PER LO SVILUPPO DELLA TEOLOGIA DI

Già all’inizio degli anni di formazione a Freising, il giovane Joseph Ratzinger ebbe modo di confrontarsi con la lettura dello scritto di Romano Guardini sulla liturgia — Der Geist der Liturgie — pubblicato nel 1918 dall’abate I. Herwegen di Maria Laach e subito divenuto un classico del movimento liturgico6. Il contenuto dell’opera di Guardini avrebbe esercitato una duratura influenza sul pensiero di Ratzinger, soprattutto in riferimento alla tesi del primato del Logos sull’Ethos7. Le idee suscitate dalla lettura di Guardini conseguirono sviluppo fecondo nel confronto con la teologia degli apologisti del II secolo e, in modo particolare, con la riflessione di Agostino. Infatti, nel contesto delle ricerche effettuate per la tesi di laurea, discussa nel 1951 sotto il titolo di Volk und Haus Gottes in Augustinslehre von der Kirche, Ratzinger si confrontò con la triplice distinzione della teologia operata da Varrone, riportata da Agostino nel De civitate Dei: dalla meditazione dell’opera, il teologo bavarese recepì la lezione agostiniana, comune a diversi Padri della Chiesa, che colloca il cristianesimo sul versante della filosofia contro la superstizione delle religioni pagane. È in questo contesto che interviene la categoria di Logos, intesa come esercizio di purificazione illuministica della conoscenza, finalizzata alla ricerca della verità universale: aver fede nel Logos significa intraprendere un cammino di purgatio.

6 Cfr. J. RATZINGER, Introduzione allo spirito della liturgia, trad. it., Cinisello Balsamo 2001, 5; ID., La mia vita. Ricordi (1927-1977), trad. it., Cinisello Balsamo 1997, 43. 7 Vd. R. GUARDINI, Lo spirito della liturgia, trad. it., Brescia 20039, 99-110. Sull’interpretazione ratzingeriana dello sviluppo del pensiero di R. Guardini, vd. J. RATZINGER, Dalla liturgia alla cristologia. Il principio teologico di Romano Guardini e la sua forza assertiva, in ID., Perché siamo ancora nella Chiesa, trad. it., Bergamo 2008, 239-264.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 124

124

Alfio Cristaudo

1.1. Il rapporto tra fede cristiana e metafisica greca Nel tentativo di rispondere alla domanda circa la natura ecclesiale della conversione di Agostino, Ratzinger affronta la questione del rapporto tra fede e ragione, o meglio tra Rivelazione divina e riflessione filosofica: ne consegue per Ratzinger la sedimentazione di un’impostazione di pensiero, contraddistinta da specifiche categorie concettuali, che permarranno costanti nello sviluppo successivo della sua riflessione, tra le quali, in primo luogo, l’assoluta convinzione del legame strutturale tra fede cristiana e metafisica greca, designato dal prof. Söhngen come «verità in doppio contrappunto»8.

1.2. Culto religioso e indagine metafisica nell’antichità pagana Nella cultura pagana la religione viene percepita come insieme di riti e di pratiche cultuali che vertono non tanto su Dio quanto sul civis, al fine di salvaguardarne il retto coordinamento con la compagine statale9. Prendendo le mosse da tale concezione, lo scrittore repubblicano Varrone sviluppa la sua celebre riflessione sulle tre tipologie di teologia; esiste, infatti, una «theologia mythica» (qeologòa muqikhé), una «theologia naturalis» (qeologòa fusikhé) ed una «theologia civilis» (qeologòa politikhé), dove per theologia si intende la «ratio, quae de diis explicatur, cioè la rispettiva comprensione del senso del divino»10. Rispetto al contenuto, la «theologia mythica» ha per oggetto le favole sugli dèi, la «theologia civilis» il culto pubblico e la «theologia naturalis» la natura degli dèi11. 8 Cfr. ID., Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino, trad. it., Milano 20052, 21. Circa l’influenza esercitata dal prof. Gottlieb Söhngen sul giovane Ratzinger, vd. ID., La mia vita, cit., 55-56; A. LÄPPLE, Benedetto XVI e le sue radici, trad. it., Venezia 2009, 78-82; G. VALENTE, Ratzinger professore. Gli anni dello studio e dell’insegnamento nel ricordo dei colleghi e degli allievi (1946-1977), Cinisello Balsamo 2008, 35-39. 9 Cfr. J. RATZINGER, Popolo e casa, cit., 274. 10 L.c. 11 Cfr. ibid., 275.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 125

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 125

Per il mondo pagano, dunque, religione e filosofia restano ambiti impenetrabili e reciprocamente incomunicabili. Un tentativo di «aggancio» tra religione e filosofia fu intrapreso dai neoplatonici mediante il ricorso alla categoria di «purgatio»12. Con questo termine — sottolinea Ratzinger — non si intende semplicemente un processo di purificazione «morale» ma una vera e propria «ascesa metafisica»13, distinta in due fasi: la «purgatio intellectualis», o «via regale» che è riservata a pochi privilegiati, i filosofi e la «purgatio spiritualis» o «universalis via» che comprende la «grande massa degli uomini», circoscritta alla conoscenza dei «riti magico-sacrali»14. La dottrina neoplatonica continuava a presentare uno stridente sdoppiamento per nulla risanato; ma ormai — nota Ratzinger — rispetto all’indagine razionale, «era aperta la porta per la religione»15.

1.3. La mediazione degli apologisti Il varco per la reciproca implicanza tra religione e ricerca filosofica fu operato definitivamente col cristianesimo, ad opera degli apologisti. Agli apologisti, infatti, si deve l’identificazione del principio filosofico dell’a\rché e del prw%ton kinou%n con il Dio personale della tradizione biblica16. Il rifiuto degli dèi pagani e delle consuetudini cultuali ad essi connessi comportò per i cristiani l’accusa di ateismo, apparendo come trionfo dell’illuminazione e del razionalismo17. Dall’interpretazione del pensiero degli apologeti qui delineata, Ratzinger attinge la rivendicazione di una strutturale esigenza razionale della fede cristiana che esprimerà mediante il ricorso alla categoria di Logos. Bisogna però notare che sebbene Ratzinger, nelle note al testo del presente studio, dimostri di attingere anche alle opere di

12 13 14 15 16 17

Cfr. ibid., 17. L.c. L.c. L.c. Cfr. ibid., 16. Cfr. ibid., 16-17.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 126

126

Alfio Cristaudo

Giustino e di Atenagora18, il termine Logos qui non viene ancora impiegato, essendo sostituito da termini di area semantica affine.

1.4. Conversione di Agostino e purgatio intellectualis Con la tesi di laurea del 1951, Ratzinger si inserisce all’interno del dibattito sviluppatosi tra la fine del XIX sec. e gli inizi del secolo scorso proteso a chiarire l’identità della conversione di Agostino: si trattò di un evento che prese forma attraverso la mediazione della ecclesia o bisogna interpretarlo, piuttosto, nell’orizzonte di un cambiamento di prospettiva filosofica?19. La questione —sottolinea l’autore — è di fondamentale importanza, perché «[…] il cammino spirituale di un uomo non è separabile dalla sua azione, nata appunto da tale spirito»20.

In effetti — commenta Ratzinger — chiunque si accosti alla lettura delle Confessiones potrà subito avere l’impressione che nella conversione di Agostino la Chiesa rivesta un ruolo assolutamente marginale: d’altra parte, è lui stesso a intravvedere retrospettivamente l’inizio della sua conversione nella lettura dell’Ortensius di Cicerone, al cui ricordo esclama: «Surgere coeperam ut ad te redirem»21. Anche la frase con cui si esprime nei Soliloquia, rimasta celebre, denota la mancanza di una coscienza ecclesiale: «Deum et animam scire cupio. Nihilne plus? Nihil omnino»22. Appare chiaro, dunque, che la conversione del 386 rispose principalmente ad un’esigenza di natura intellettuale; questa lettura viene confermata da quanto afferma lo stesso Agostino nel VII libro delle Confessiones, dove l’autore presenta alcuni dei motivi di natura gnoseologica che lo trattennero dal muovere il passo decisivo verso la fede. Agostino — prosegue 18 19 20 21 22

Cfr. ibid., 21. Cfr. ibid., 15. ID., Popolo e casa, cit., 13. Ibid., 15. L.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 127

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 127

Ratzinger — sperimenta una vera e propria «infirmitas» «contro cui la filosofia non lo protegge»23: è in questa condizione di oscurità razionale che egli si aggrappa a Cristo, in cui scorge la definitiva risoluzione alle proprie difficoltà. Il ruolo di Cristo nel cammino di Agostino viene configurato principalmente alla funzione di «auctoritas»24: la «sapientia» di per sé inaccessibile gli si schiude nella mediazione sensibile della carne, perché, in ultima analisi, Cristo e «sapientia» si identificano25. Analogamente, Agostino comprende che la «vivente presenza» dell’auctoritas di Cristo viene perpetuata nelle forme sensibili della Chiesa26. Perché l’uomo, mediante l’atto di fede in Cristo, possa passare dalla conoscenza del mondo visibile a quella dell’invisibile è necessario presupporre una condizione di humilitas: soltanto in questo modo è possibile il riconoscimento di Cristo come vera auctoritas. L’atteggiamento di humilitas consiste nell’entrare a far parte della Chiesa nella sua configurazione di «popolo di Dio»: esso, però, non viene inteso nella prospettiva storico-salvifica della Scrittura, ma si identifica piuttosto con quella «massa»27 guardata con altezzoso distacco dall’intellettuale28. Con ciò, Agostino si inserisce sulla via tracciata dagli apologisti: egli rinuncia alla «via regale dei filosofi» per incamminarsi sulla «via religiosa del popolo comune»29. La categoria neoplatonica di «purgatio» entrava così a far parte del bagaglio concettuale della fede cristiana30: essa si era configurata come un processo di ascesi metafisica e cosmica che attraverso la purificazione dalle scorie della realtà sensibile intendeva condurre l’uomo fino alla penetrazione più compiuta dell’essere e ad uno stadio purificato di conoscenza31. 23 24 25 26 27 28 29 30 31

Ibid., 18. Vd. ibid., 31.37. Cfr. ibid., 18. Cfr. ibid., 31.37. Vd. ibid., 17. Cfr. ibid., 32-33. Ibid., 17. Cfr. ibid., 19. Cfr. ibid., 219.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 128

128

Alfio Cristaudo

Dal momento che tale cammino era riservato a pochi, ne risultava esclusa la maggioranza del popolo. Ma proprio qui Agostino apre la breccia per la mediazione col pensiero cristiano: i neoplatonici, infatti, affermavano che la basilikh o è |doév — la via regale — si attui mediante il patrikoèv nou%v che per Agostino altri non è che il Logos del Padre, il quale, avendo preso carne, è divenuto forza purificatrice di quanti credono in Lui32. Non è dunque la superbia dei filosofi a dischiudere la via della conoscenza, ma l’humilitas della fede33.

1.5. Risoluzione di Agostino al problema della triplice distinzione varroniana della teologia Agostino, che nel De civitate Dei aveva riportato la triplice distinzione varroniana della teologia, non esita a collocare la fede cristiana nell’ambito della «theologia physica»: ciò gli è reso possibile dal ricorso, sebbene in modo vago, ad una distinzione sconosciuta alla filosofia precristiana: la teologia, cioè, non comprende solo la «fisica», ma si estende anche alla «metafisica»34: «la teologia è ratio non naturae sed Dei. Quamvis enim, qui verus Deus est, non opinione, sed natura sit Deus: non tamen omnis natura est Deus»35.

È vero che il Dio della speculazione filosofica precedeva la civitas degli uomini: non era frutto delle loro invenzioni come nel caso degli dèi cantati dai poeti; questo Dio, però, ridotto a principio di intuizione intellettiva, rimaneva imperturbabile e inaccessibile ad ogni forma di culto e, in fin dei conti, incapace di istaurare con l’uomo un rapporto di autentica religio. Agostino può giungere alla conciliazione 32 33 34 35

Cfr. l.c. Cfr. l.c. Cfr. ibid., 277. L.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 129

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 129

del Dio della filosofia con il Dio della religione perché presuppone che questo stesso Dio sia entrato nella storia36.

1.6. L’«intelligere» come conseguenza del «credere» Il riconoscimento di Cristo come «auctoritas» comporta una svalutazione delle capacità intellettive dell’uomo: «Cosa significa questo se non che noi dobbiamo affidarci all’autorità perché non ci si può fidare della capacità intellettiva?»37.

L’«humilitas» della fede conferisce una luce che dispiega il senso della realtà sensibile e, progressivamente, conduce fino ad una comprensione più perfetta della luce stessa38. Lo «stare sotto» l’auctoritas diventa allora una «forma accessoria di compimento umano»39. A questo punto, Ratzinger si domanda se dall’opera di Agostino emerga una priorità dell’«intelligo ut credam»; la risposta, stando a quanto abbiamo già detto, non può che essere negativa: non esiste alcuna precedenza dell’intelligere sul credere perché «l’intelligere è un atto che esige un determinato stato di salvezza dell’uomo al cui raggiungimento la fede è l’unica via»40.

Agostino può esplicitare il suo pensiero ricorrendo all’espressione contenuta nel libro di Isaia: «Nisi credideritis non intelligetis»41. Ne segue un confronto di Ratzinger con la differente impostazione della «teologia moderna» — la neoscolastica — che insiste sulla distinzione

36 37 38 39 40 41

Cfr. ibid., 278. Ibid., 31. Cfr. ibid., 32. L.c. Ibid., 36. Cfr. ibid., 32.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 130

130

Alfio Cristaudo

tra «natura» e «sopranatura», la cui eco sarà recepita nei documenti dogmatici del Vaticano I42. Per Agostino, all’uomo caduto in balìa del peccato e incapace di porre atti di intellezione perfetta non resta altro che una conoscenza attuata dagli organi sensoriali: la percezione sensibile è l’unica facoltà che resti intatta nell’uomo allo stato decaduto43. Per questo Dio ha scelto di salvare l’uomo attraverso la mediazione sensibile del Cristo incarnato, la cui descrizione viene equiparata da Agostino a quella della Chiesa; in fin dei conti, tra Cristo storico e Chiesa non c’è alcuna differenza: in entrambi i casi si tratta della «presenza del divino in forma sensibile»44. Man mano, però, che la fede progredisce verso l’evidenza, l’auctoritas sensibile diventa «superflua»: «Dove c’è evidenza c’è libertà e con ciò la fine di ogni autorità»45. Adesso l’auctoritas interiore di Cristo può manifestarsi come «magister intus docens», cioè «al posto dell’autorità esterna della fede», subentra «l’interiore autorità della ragione»46: si tratta con ciò dell’«intima forza della verità», di natura principalmente metafisica, comune ad ogni uomo, ma percepibile soltanto da chi ha fatto esperienza dell’autorità esterna di Cristo nella Chiesa47. In questo modo, Ratzinger ripercorre la soluzione agostiniana al problema del rapporto tra fede storica e metafisica: Agostino, infatti, impara a «toccare» nella «fides historica» la «veritas incommutabiliter vivens»48.

42 43 44 45 46 47 48

Cfr. ID., Popolo e casa, cit., 36. Cfr., l.c. Ibid., 37. L.c. L.c. Cfr. l.c. L.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 131

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 131

1.7. La dimensione ecclesiale della celebrazione eucaristica come «sacramento dell’illuminazione» Alla riflessione sull’evoluzione dei fondamenti della fede, Ratzinger accosta l’«apprezzamento»49 agostiniano sulla Chiesa. Nella prima fase la Chiesa viene descritta mediante il ricorso all’espressione «Descendite ut ascendatis»50: essa appare principalmente come uno strumento mediante cui la Sapienza eterna di Dio si rende percepibile all’uomo51. Nella fase della maturità, Agostino sviluppa ulteriormente il discorso sulla Chiesa partendo dalla visione di Cristo come Logos di purificazione: adesso l’atto di fede non è più inteso come preambolo ad una conoscenza di tipo superiore: piuttosto realizza un’unione interiore con Cristo che «in quanto nou%v del Padre» dice «un assai intimo esser-uno con la sapienza di Dio, con lo stesso mundus intellegibilis»52. La «fides purgans» si trasforma allora in «caritas illuminans»: «amando il prossimo purifichiamo i nostri cuori per poter vedere Dio e per amare lui stesso»53. Nell’eucaristia si compie il «sursum cor»54: la «caritas» opera una purificazione degli occhi che consente all’uomo di giungere alla visione di Dio55. Per questo motivo la celebrazione eucaristica assume il connotato di «sacramento dell’illuminazione»56. Poiché nostra patria è il «mundus intellegibilis», la Chiesa costituisce in terra un’«isola intellegibile»57 che fa pregustare all’uomo, attraverso l’eucarestia, la meta finale del suo cammino58.

49 50 51 52 53 54 55 56 57 58

Cfr. ibid., 19. L. c. Cfr. ibid., 18. Ibid., 220. L.c. Cfr. ibid., 221. Cfr. ibid., 220. Ibid., 221. Cfr. ibid., 247-248. Cfr. ibid., 221.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 132

132

Alfio Cristaudo

2. LA SINTESI DI INTRODUZIONE AL CRISTIANESIMO Einführung in das Christentum è costituita dall’insieme delle lezioni introduttive ai misteri principali della fede cristiana, tenute da Ratzinger a Tübingen nel semestre estivo del 196759. La raccolta, pubblicata l’anno successivo, rappresenta la rielaborazione sistematica più compiuta e, indubbiamente, più originale del pensiero del teologo bavarese. Inoltre, come ha sottolineato Maximilian Heinrich Heim, l’Einführung contiene una sintesi di quei capisaldi dottrinali che eserciteranno una duratura influenza su tutto il sistema teologico di Ratzinger, compresa la riflessione ecclesiologica60.

2.1. La rivendicazione del Dio-Assoluto come esigenza di verità Il cristianesimo delle origini, assumendo come centrale per la cristologia la categoria di Logos, inteso come l’«Assoluto» da cui dipende il senso e la consistenza del cosmo, operò una scelta che ebbe per effetto l’attuazione di una purificazione dall’immaginario poetico degli dèi pagani61. I cristiani non adorano un dio, ma unicamente l’Essere stesso («das Sein selbst»); essi venerano quell’unico e solo («einzig und allein»), al quale i pagani non prestano culto, ma di cui hanno parlato i loro filosofi. In questo modo, il cristianesimo esprime l’opzione per il Dio dei filosofi contro il Dio delle religioni62. Ritorna a questo punto la domanda circa la legittimità dell’identificazione tra il Dio della fede e il Dio dei filosofi, largamente

59 Cfr. J. RATZINGER, Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das Apostolische Glaubensbekenntnis. Mit einem neuen einleitenden Essay, München 20079, 28. 60 Cfr. M.H. HEIM, Joseph Ratzinger – Kirchliche Existenz und existentielle Theologie. Ekklesiologische Grundlinien unter dem Anspruch von Lumen gentium, Frankfurt 20052, 469. 61 Cfr. J. RATZINGER, Einführung, cit., 127. 62 Cfr. l.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 133

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 133

perseguita dai Padri63. In effetti, già la stessa radicale del nome biblico di Dio — Jahvè — rende attuabile un’apertura verso una prospettiva ontologica. Appare del tutto irrilevante se l’etimologia di Jahvè nel senso di «essere» venga supportata da valide testimonianze filologiche oppure, com’è più probabile, rappresenti una rilettura in prospettiva teologica: resta il fatto che qui ci troviamo di fronte ad una spiegazione significativa, poiché la radice «Haja», nella lingua ebraica, significa appunto «essere»: utilizzando il nome di «Jahvè», Israele sente l’esigenza di esprimere in termini più universali l’esperienza di assolutezza del proprio Dio64. La rilettura esegetica dei Padri, allorché si ebbe a confrontare con Es 3,14, tradotto dagli alessandrini con la perifrasi: }Egwé ei\mié o| w"n — «Ich bin, der ich bin», «Ich bin der Seiende» — trovò una conferma per la commistione tra fede e pensiero («Glaube und Denken»), filosofia e fede («Philosophie und Glaube»)65: d’altra parte, erano già stati i traduttori alessandrini, impregnati di spirito greco, a credere di trovare in Es 3,14 un aggancio valido per mediare la concezione biblica di Dio con la filosofia greca66. Diversamente da quanto detto, l’esegesi contemporanea interpreta il passo in questione in senso storico-salvifico67. Inoltre — prosegue Ratzinger — nel progresso della Rivelazione biblica è possibile scorgere un certo parallelismo tra la critica profetica contro i culti idolatrici in Israele e la critica filosofica contro i miti in Grecia. Ciò significa che contemporaneamente allo sviluppo di un illuminismo filosofico greco («philosophische Aufklärung»), soprattutto attraverso la letteratura profetica e sapienziale, si afferma un’opera di «Entmythologisierung» delle divinità a favore dell’unico Dio68. Proprio per questo, anche per la letteratura biblica, è possibile parlare di un movimento del Logos contro il Mythos69, dove, però, 63 64 65 66 67 68 69

Cfr. l.c. Cfr. ibid., 107-108. Cfr. ibid., 109. Cfr. ibid., 108-109. Cfr. ibid., 118. Cfr. ibid., 127. «die Bewegung des Logos gegen den Mythos». Ibid., 128.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 134

134

Alfio Cristaudo

ragione e sentimento, che dal paganesimo erano state dissociate, qui vengono ricondotte ad unità70. La questione del rapporto tra fede e religione, dissociate dal paganesimo, ma riunificate dalla fede cristiana, dà occasione a Ratzinger di ribadire la necessità del ritorno alla questione della verità, soprattutto in riferimento all’odierno panorama teologico. La religione pagana, lontana dal percorrere la via del Logos, veniva semplicemente identificata con l’insieme delle tradizionali forme rituali che continuavano a sussistere pur prescindendo da un’effettiva credenza negli dèi. Tuttavia — citando Tertulliano — Ratzinger ricorda che Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine71. Anche oggi, la dissociazione tra verità e religione, che sembra tanto ricordare l’antica concezione pagana, rischia di essere nuovamente introdotta all’interno della professione di fede cristiana. Tale processo va sempre più accentuandosi per l’accresciuto sviluppo di due precisi fenomeni; in primo luogo assistiamo ad una ritirata della questione della verità dalla religione la quale, a partire da un orientamento esplicitamente affermato da Schleiermacher, viene ora circoscritta nell’ambito dei sentimenti72. In secondo luogo, sembra diffondersi la concezione di un «Interpretationschristentum» che tende a trasformare lo scandalo della realtà cristiana in una visione inoffensiva e rinunciataria73.

70

Cfr. l.c. Cfr. ibid., 130. 72 Cfr. ibid., 131. 73 Cfr. l.c. A parere di Kasper, l’invettiva di Ratzinger contro l’«Interpretationschristentum» ricorda la polemica di Kierkegaard contro i seguaci di Hegel. Cfr. H. MYNAREK – W. KASPER, Das Wesen des Christlichen. Ein Fundamental-Theologe und ein Dogmatiker zu dem Buch von Joseph Ratzinger: Einführung in das Christentum, in Theologische Revue 3 (1969) 183. 71


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 135

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 135

2.2. Il Logos come pensiero, amore e libertà Il cristianesimo, invitando a prestare l’atto di fede nel Logos, rivendica non solo la priorità di un senso costitutivo della realtà, ma esprime pure l’opzione per una visione personificata di tale senso74: così facendo, l’identificazione del Logos con una persona implica al contempo l’assoluto primato del particolare sull’universale75. Ne consegue che il valore supremo del reale non è deducibile da un concetto universale, ma dall’identità personale e particolare del Logos, contraddistinto da pensiero, libertà e amore («der Logos, das heißt der Gedanke, die Freiheit, die Liebe»)76. Ma il primato del Logos deve necessariamente essere correlato con l’affermazione di una preminenza del particolare e della libertà: in caso contrario si cadrebbe nell’idealismo77. La molteplicità di significati attribuiti al Logos, ora inteso come verità («Wahrheit») o comprensibilità («Verstehbarkeit»), ora come decisivo significato («maßgebende Bedeutung»), senso («Sinn»), nonché origine e potenza che abbraccia tutto l’essere («die Ursprung gebende und umgreifende Macht allen Seins») evidenzia la posizione originaria e fondante che esso assume rispetto al cosmo78. Ripercorrendo gli attributi di pensiero, libertà e amore sopra elencati, Ratzinger insiste in primo luogo sulla concezione del Logos come pensiero creatore («schöpferisches Denken»): la professione di fede nel Dio Creatore, inteso come presupposto e fondamento di tutto l’essere («Voraussetzung und Grund allen Seins»), implica il riconoscimento di un principio cosciente di sé stesso e capace al contempo di ripensare la propria attività pensante79. Il Logos, il pensiero fontale, non solo non resta rinchiuso nell’eterna contemplazione beatifica di se stesso, ma nell’intraprendere l’opera della creazione, viene mosso

74 75 76 77 78 79

Cfr. J. RATZINGER, Einführung, cit., 146. Cfr. l.c. Cfr. ibid., 140. Cfr. ibid., 146-147. Cfr. ibid., 140. Cfr. ibid., 147.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 136

136

Alfio Cristaudo

dall’amore: proprio in quanto ama, il Pensiero che tutto regge non può essere configurato come un principio astratto, ma come una persona. Ma se il Logos è ad un tempo pensiero e amore, egli non può che essere anche libertà («Freiheit»). Ciò vale ad affermare che il principio supremo del mondo, rispecchiato nella struttura della realtà, non si configura come necessità cosmica («kosmische Notwendigkeit»)80, quasi si trattasse di una forma di determinismo, ma come libertà. La visione del cosmo non si esaurisce entro gli angusti limiti di una concezione di stampo logico-matematico81; esso, piuttosto, appare caratterizzato dall’incalcolabilità («Unberechenbarkeit»)82, implicita nella libertà, dove al contempo luce e tenebra, amore e componente demoniaca si trovano reciprocamente mescolati83.

2.3. Il Logos come senso costitutivo del reale 2.3.1. Significatività e conoscibilità della razionalità dell’essere Ratzinger, riallacciandosi alla visione antica e medievale dell’essere, afferma che il reale, in quanto pensato da Dio, dall’Intelletto per antonomasia («der Intellekt schlechthin») porta con sé un’intrinseca significatività, per cui esso è realmente vero e conseguentemente conoscibile: «ist das Sein selbst wahr, das heißt erkennbar»84. L’uomo è dotato di una facoltà razionale che lo rende capace di ripensare l’essere: egli, infatti, è partecipe del supremo Intelletto divino nel senso che la sua ragione è logos del Logos; pertanto, la principale attività della conoscenza razionale deve coincidere con la penetrazione del più intimo senso delle cose85. Ad immagine del Dio-Logos, l’uomo è anche in grado di agire sul creato; tuttavia, il suo «fare», la sua capacità di produzione, viene 80 81 82 83 84 85

Cfr. l.c. Cfr. ibid., 148. Cfr. l.c. Cfr. l.c. Cfr. ibid., 53. Cfr. l.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 137

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 137

ridotta al rango di una semplice abilità tecnica, i cui prodotti sono misti di Logos e di illogicità, in quanto privi dell’intrinseca significatività dell’essere86. Così, l’uomo rischia di rimanere attanagliato al fenomeno sensibile, a quanto appare immediatamente afferrabile e controllabile, trascurando di investigare la più intima realtà dell’essere87.

2.3.2. Il Logos come realtà in divenire nella svolta del pensiero contemporaneo All’assioma medievale «verum est ens»88, che implica consequenzialità tra verità e realtà, viene sostituito, in epoca moderna, quell’atteggiamento di priorità del soggetto conoscente che Giambattista Vico ha ben riassunto con l’espressione: «verum quia factum»89. In questo modo viene detto che l’uomo ha la possibilità di conoscere unicamente attraverso le cause: «Ich kenne eine Sache, wenn ich ihre Ursache kenne»90. Ora, ciò che rientra nella sfera della diretta esperienza dell’uomo e di cui egli può conoscere le cause, altro non è se non l’insieme di quelle «cose» fabbricate dalle sue mani91. Tuttavia, l’uomo non poteva esaurire l’identificazione del senso della propria esistenza nella ricerca retrospettiva di quanto appartiene al passato. Per questo motivo, l’assioma di Vico, sotto impulso della filosofia marxista, viene programmaticamente mutato nell’espressione «verum quia faciendum»92. In questo modo, il senso dell’uomo viene identificato con la prassi in quanto tale, con la facoltà, che egli stesso si accorda, di manipolare le cose attraverso il progresso della tecnica,

86 87 88 89 90 91 92

Cfr. l.c. Cfr. ibid., 68. Ibid., 52. Ibid., 56. Ibid., 54. Cfr. ibid., 54-55. Ibid., 57.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 138

138

Alfio Cristaudo

con la conseguenza di ignorare il Logos, il senso specifico della realtà, proteso com’è, alla costruzione di un surrettizio futuro utopico93. La fede biblica, al contrario, presenta la conversione come un’opzione di svolta che implica il riconoscimento di una preminenza dell’invisibile («das nicht zu Sehende») su ciò che si vede («dem Sichtbaren»), tale da spingere l’uomo a superare quella forza di gravità naturale che lo attanaglia costantemente al visibile94.

2.3.3. Il cristianesimo a confronto con l’idealismo e il materialismo Il cristianesimo, a differenza dell’idealismo, lascia coincidere la Coscienza universale con la Coscienza creatrice («schöpferisches Bewusstsein»), che rimane comunque distinta dalla realtà95. La visione cristiana della realtà non concepisce l’essere esclusivamente come pensiero, come se gli enti fossero contenuti da un’unica coscienza; è piuttosto la libertà creatrice a chiamare all’esistenza gli enti, ponendoli in rapporto di autonomia. Hegel e Schelling, ritenendo che il linguaggio della teologia trinitaria costituisca un adeguato mezzo di comunicazione per esprimere in modo simbolico la struttura dialettica della realtà, giunsero ad identificare il processo del divenire della storia con il divenire di Dio stesso. A partire da tale concezione, il Logos non può più essere inteso come significato permanente di ogni essere, ma come immagine del processo della storia in divenire: questa non scaturisce più da Dio, non si configura più come un prodotto del Logos; al contrario, è la storia stessa a produrre il Logos96. Il sistema elaborato da Karl Marx costituisce il naturale esito delle premesse contenute nell’idealismo: infatti, dopo aver negato la visione totalizzante che riduce le cose esistenti a manifestazioni del pensiero, Marx passa ad elaborare una concezione puramente mate93 94 95 96

Cfr. ibid., 56-61. Cfr. ID., Einführung, cit., 45. Cfr. ibid., 145. Cfr. ibid., 157.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 139

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 139

riale della realtà, ugualmente mossa dal quel medesimo principio dialettico che adesso la orienta verso il compimento di un futuro prossimo dipendente dalle mani dell’uomo97.

2.4. Il Logos profferito come presupposto dell’agire relazionale di Cristo 2.4.1. L’apporto della lettura giovannea all’innovazione del concetto greco di «essere» All’interno della sezione dedicata all’esposizione del dogma trinitario, Ratzinger parte col sottolineare che la concezione cristiana di un Dio dialogante, da non intendersi semplicemente come pensiero o senso («nicht nur Gedanke und Sinn»), ma come parola interloquita («Gespräch und Wort im Zueinander der Redenden»), giunge a scardinare il concetto aristotelico di sostanza. In questo modo, la più intima natura del Logos viene rinvenuta nella relazione dinamica, fatta di parola e di colloquio; essa, dunque, non consiste in una sovrapposizione accidentale all’essere di Dio, costituendone, al contrario, la più intima natura98. Dio non è semplicemente definibile come Logos, ma come dia-logos; ciò significa che la relatio assurge a forma originaria della significatività dell’essere99. In questo modo, la riflessione sul Logos apre il varco per l’elaborazione di una teologia della «missione», che trova il proprio fondamento nella designazione di Cristo come Parola di Dio («„Wort“ [Logos] Gottes»)100. L’identità relazionale della fede cristiana — prosegue Ratzinger — risulta ben espressa dal termine Logos, utilizzato nello stesso vangelo di Giovanni, dove viene recepito in connessione agli influssi semantici provenienti dal mondo culturale greco ed ebraico101. 97 98 99 100 101

Cfr. l.c. Cfr. ibid., 170. Cfr. ibid., 169-170. Cfr. ibid., 175. Cfr. l.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 140

140

Alfio Cristaudo

Rispetto alla sensibilità culturale del tempo che racchiudeva prevalentemente nella categoria di Logos il significato di perenne razionalità e di significatività di ogni essere («die ewige Rationalität […] die Durchwirktheit alles Seins»), Giovanni opera un’appropriazione innovativa allorché impiega principalmente il termine Logos per indicare la singola persona di Cristo: «er kennzeichnet diesen Menschen»102. Il Logos, dunque, che per il mondo greco si esauriva nel significato di «ratio», qui viene rapportato al campo semantico del «Verbum», nel senso, cioè, di essere-profferito («Gesprochensein»). Sulla base di tali premesse, l’esistenza storica di Gesù intesa in modo totalmente relativo («seine Existenz als gänzlich relative ausgelegt wird»), in quanto essere-da-qualcuno («Sein von») ed essere-perqualcuno («Sein für»)103, non resta indifferente di fronte al problema della significatività dell’essere, ma lo trasforma dall’interno collocandolo in una dimensione nuova104. Di fronte al vangelo di Giovanni è possibile parlare di un’ontologizzazione, di un riaggancio dell’agire all’essere («„Ontologiesirung“, ein Rückgriff auf das Sein»), in quanto le azioni compiute da Gesù non sono svincolate dal suo «essere»; al contrario, l’essere strutturalmente relativo del Figlio, in quanto Logos-Parola profferita dal Padre, costituisce il presupposto per l’agire storico-relazionale di Cristo105. Giovanni presenta l’evento della croce come massima espressione dell’agire relativo di Cristo: lì, il radicale esser-relativo di Cristo verso il Padre si compie nel suo radicale esser-relativo verso gli uomini106. In questo modo — secondo Aidam Nichols — Ratzinger può conciliare la contrapposizione tra una cristologia dell’Incarnazione, di 102

Ibid., 176. Cfr. ibid., 211 104 Forse dice la stessa cosa Ioannis Zizioulas quando afferma che le categorie greche, inclini ad esprimere i tratti di perennità e di stabilità, siano entrate legittimamente a servizio della fede biblica, allorché furono impiegate per collocare la gracile categoria di relatio, proveniente dall’esperienza storica del linguaggio semitico, nell’ambito della persistenza dell’essere. Cfr. I. ZIZIOULAS, L’essere ecclesiale, trad. it., Magnano 2007, 129.132.139. 105 J. RATZINGER, Einführung, cit., 212 106 Cfr. ibid., 196. 103


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 141

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 141

stampo giovanneo, e una cristologia della croce, nella forma radicale in cui è presentata da Paolo o dai riformatori del XVI sec.107. Resta il fatto che l’Incarnazione del Logos continua a rappresentare uno scandalo per la ragione umana108: qui, infatti, si verifica un mostruoso abbinamento tra Logos e sarx, tra senso e singola configurazione nella storia («von Sinn und Einzelgestalt der Geschichte»)109. In altri termini, il senso che tutto sostiene diviene un punto all’interno del tempo e si manifesta nel volto di un uomo. Tutto ciò si pone in contrasto con l’odierna mentalità positivista in quanto la professione di fede nel Logos fatto carne equivale ad affermare che l’intero senso dell’esistenza e della storia, viene fatto dipendere da un uomo, da un singolo evento della storia110. Tuttavia, pur all’interno della storia, il Logos incarnato rimane la parola («Wort») e il senso («Sinn») sul cui fondamento si regge il mondo («[…] der Grund, worauf die Welt steht»). Attraverso l’atto di fede nel Logos fatto carne, l’uomo ha la possibilità di incontrare la personificazione del senso che tutto sostenta e dal quale siamo mantenuti in essere111.

2.4.2. L’agire relazionale di Cristo come misura del compimento dell’uomo L’uomo viene realmente costituito come tale nel momento stesso in cui il Logos entra all’interno della storia: tale stadio qualitativamente diverso dello sviluppo umano si manifesta nella capacità dell’uomo di dare del «Tu» a Dio. Ciò significa che soltanto l’Incarnazione, l’ingresso totale del Logos di Dio nella storia, può rappresentare la misura massima dell’umanizzazione112. 107

Cfr. A. NICHOLS, Joseph Ratzinger, trad. it., Cinisello Balsamo 1996, 137-138. Cfr. J. RATZINGER, Einführung, cit., 182. 109 Cfr. ibid., 181. 110 Cfr. ibid., 182. 111 Cfr. ibid., 194. 112 A parere di Christian Modemann, il modo in cui Ratzinger affronta il problema del Vollendung risente di un’evidente influenza esercitata dal pensiero di 108


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 142

142

Alfio Cristaudo

Abbiamo già visto che l’essere-autenticamente-uomo di Gesù coincide col suo essere-totalmente-relativo. Ma se la massima espressione dell’identità relazionale di Cristo si manifesta sulla croce, anche l’essere-relativo dell’uomo, nella misura in cui è conforme alla più intima natura dell’essere, si esprime nella dimensione quotidiana della croce che implica lo sfondamento delle pareti della propria esistenza, dietro cui l’«io» si rinchiude in se stesso. L’uomo che vive cristianamente è l’uomo del sacrificio («der Mensch im Opfer»): ciò — precisa Ratzinger — ha poco a che fare «mit fröhlicher Fortschrittsromantik»113.

2.4.3. L’atto di fede nel Logos come dispiegamento di senso del reale Sulla base dell’impostazione generale dell’opera, sembra che Ratzinger intenda riproporre la soluzione agostiniana al problema del rapporto tra storia della salvezza e metafisica che, a partire dagli anni ’30, divenne uno dei principali oggetti di dibattito in campo teologico. Ratzinger si era già confrontato con il pensiero di Agostino al tempo della sua tesi di laurea: secondo il dottore d’Ippona, è la «fides historica» della Chiesa che può condurre l’uomo a «toccare» la «veritas immutabiliter vivens»114. Teilhard de Chardin, d’altra parte espressamente citato dal teologo bavarese. Modemann distingue due differenti fasi di recezione dell’impostazione di Teilhard in Ratzinger. Una prima fase ha inizio con l’articolo del 1967 Heilsgeschichte und Eschatologie e perdura ancora nell’Einführung: qui, la persona di Cristo è concepita come fine cronologica del tempo, nel senso che in Cristo «[…] transzendiert die Vollendung die irdische Zeit und läßt sich deshalb nicht auf einer Zeitachse einordnen». Nella seconda fase, con una sempre maggiore presa di distanza da Teilhard, Ratzinger considera Cristo come compimento finale: «[…] bezeichnet Vollendung das zukünftige, Menschheit und Kosmos umfassende Handeln Gottes am Ende der Zeit». In Ratzinger, dunque, la concezione escatologica di Cristo rispecchia due differenti accentazioni: Cristo «als Ziel» e Cristo «als Ende der Zeit». Cfr. C. MODEMANN, Omegapunkt. Christologische Eschatologie bei Teilhard de Chardin und ihre Rezeption durch F. Capra, J. Ratzinger und F. Tipler, Berlin 2004, 75. 113 Cfr. J. RATZINGER, Einführung, cit., 227. 114 Andrea Bellandi afferma che la tesi di Ratzinger rappresenti un tentativo di «sintesi tra elemento storico e fondamento ontologico, che possa superare la moderna antitesi sviluppata dalla dialettica barthiana e accettata, sostanzialmente, dall’attuale


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 143

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 143

Anche nell’Einführung il problema viene condotto sullo sfondo della teologia agostiniana sebbene attraverso l’assunzione di categorie concettuali provenienti dalla filosofia contemporanea e, nello specifico, da Martin Heidegger. Il filosofo di Freiburg afferma che l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla realtà possa comportare due possibili esiti: può limitarsi alla constatazione della fattualità empirica, e in questo caso ci troveremmo di fronte ad un «rechnendes Denken», ma può anche scendere fino in fondo a scandagliare il senso dell’essere, e allora ci troviamo di fronte ad un «besinnliches Denken»115. Ogniqualvolta l’uomo manifesta un atteggiamento di riflessione verso la realtà, egli ha già attuato una decisione verso di essa: il suo cominciar-a-credere in qualcosa, che è diretta conseguenza di una presa di posizione, costituisce per lui il principio di orientamento di tutta la sua esistenza. Anche il linguaggio della fede — prosegue Ratzinger — appartiene al campo delle decisioni fondamentali perché «jeder Mensch muss auf irgendeine Art „glauben“»116. La fede è dunque una Grundform, una forma fondamentale di accostamento alla realtà che implica l’opzione per cui il vedere, l’udire e l’afferrare non esauriscono in nessun modo l’ambito di esperienza del reale. Essa implica la decisione per cui quanto non appare immediatamente visibile («das nicht zu sehende»), non è affatto irreale («das Unwirkliche»), anzi è l’autentica realtà («das eigentlich Wirkliche»)117. Attraverso la fede, l’uomo prende una posizione di fronte al visibile che implica il riconoscimento di un primato dell’invisibile, del senso costitutivo non costruito empiricamente dall’uomo, ma giunto dal di fuori, sul fenomenico, su quanto appare immediatamente tangibile e calcolabile118.

esegesi che vede soccombere l’ontologia, a favore della storia». A. BELLANDI, Fede cristiana come «stare e comprendere». La giustificazione dei fondamenti della fede in Joseph Ratzinger, Roma 1996, 89-90. 115 Cfr. J. RATZINGER, Einführung, cit., 63-64. 116 Ibid., 64. 117 Cfr. ibid., 44. 118 Cfr. ibid., 66.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 144

144

Alfio Cristaudo

Nell’atteggiamento di fede, l’uomo accoglie come senso costitutivo della realtà e della propria esistenza il Logos, il permanente fondamento dell’essere di tutte le cose e impara a rileggere i dati del fenomenico secondo la più certa e stabile luce dell’invisibile: «Ich glaube an dich, Jesus von Nazareth, als den Sinn („Logos“) der Welt und meines Lebens»119.

Per questo motivo, la fede non è correlabile all’ambito del rapporto tra sapere e fare, ma a quello dello stare («Stehen») e comprendere («Verstehen»)120. Il comprendere che scaturisce dall’atto di fede nel Logos è un processo più ampio che mira ad afferrare come senso («Sinn») quanto si è ricevuto come fondamento («Grund»)121. La breccia per una comprensione razionale della fede nonché per il diritto di cittadinanza della ragione greca all’interno della prospettiva storico-salvifica della fede biblica, era stata già aperta con i LXX, soprattutto in riferimento alla traduzione del versetto del profeta Isaia 7,9: «Se non crederete, non comprenderete». L’esegesi moderna, riaccostandosi direttamente al testo ebraico, considera errata questa traduzione e interpreta il noto versetto di Isaia con locuzioni del tipo: «Wenn ihr nicht glaubt (wenn ihr euch nicht an Jahwe festhaltet), dann werdet ihr keinen Halt haben»122. La fede — continua Ratzinger — non è stata per nulla snaturata dall’apporto dell’intelletto greco: lo «stare» di cui parla Isaia esprime il significato di «avere stabilità» ed è connesso a significati del tipo come «poggiare» in riferimento alla base portante che sostiene il mondo. In questo modo, termini come Logos, amen, stehen e verstehen risultano correlati da un’ermeneutica affine123.

119 120 121 122 123

Ibid., 73. Cfr. ibid., 70. Cfr. l. c. Ibid., 62. Cfr. l.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 145

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 145

2.5. Problemi e risvolti ermeneutici nell’interpretazione dell’opera di Ratzinger L’impostazione di Einführung in das Christentum rappresenta un evidente superamento del rischio di sdoppiamento tra fede e filosofia evidenziato da Hansjürgen Verweyen nel commento alla prolusione di Bonn del 1959124. Infatti, nel testo della lezione inaugurale l’assunzione delle categorie filosofiche da parte della fede avrebbe potuto prestarsi ad un’interpretazione ambigua: secondo Verweyen il ricorso alla filosofia appare come uno strumento ausiliario rimasto esterno alla fede125. Nell’Einführung, al contrario, lo stesso atto di fede è simultaneo all’esercizio della facoltà razionale, in quanto la fede nei confronti del Dio cristiano implica al contempo un’opzione a favore della razionalità: l’affermazione «„Ich glaube daran, dass Gott ist“» comporta il riconoscimento che pensiero, libertà e amore costituiscono il presupposto della realtà126. Non si può credere senza al contempo muovere la ragione; non si può «stare» («stehen») senza «comprendere» («verstehen»). La fede nel Logos implica l’assenso ad una visione razionale del creato ed alla priorità del pensiero sulla materia127. Il modello di ragione che opera nel processo di comprensione avviato dalla fede resta quello greco. È la fede a rivitalizzare la ragione, riabilitandola a pensare secondo criteri di validità e di evidenza universale. La lezione del linguistic turn, che colloca la fede 124 Cfr. ID., Der Gott des Glaubens und der Gott der Philosophen. Ein Beitrag zum Problem der Theologia Naturalis, in S. O. HORN et al. (curr.), Vom Wiederauffinden der Mitte. Grundorientirung Texte aus vier Jahrzehnten, Freiburg – Basel – Wien 1997, 40-59. 125 In quanto costituiscono due ambiti distinti, fede e filosofia, così come emerge dalla presente prolusione, potrebbero essere descritti in rapporto di sovrapposizione: la filosofia, cioè, rimanendo una scienza esterna ed ausiliaria alla fede applica il proprio bagaglio concettuale al Dio della Rivelazione biblica al fine di renderlo meglio comprensibile all’esterno. Verweyen, commentando il testo della lezione inaugurale, ha rilevato un certo circolo vizioso («in einen vitiösen Zirkel») Cfr. H. VERWEYEN, Joseph Ratzinger-Benedikt XVI. Die Entwicklung seines Denkens, Darmstadt 2007., 31. 126 Cfr. J. RATZINGER, Einführung, cit., 140. 127 Cfr. l.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 146

146

Alfio Cristaudo

nell’ordine dei linguaggi, aventi ciascuno una razionalità propria e relativa128, non viene qui recepita. Nella dialettica tra visibile e invisibile, tra senso e realtà afferrabile, tra Logos e materia, Kasper ha ravvisato la presenza di una marcata influenza platonica129. Già nella tesi di laurea su Agostino, Ratzinger aveva messo in risalto la dimensione di un primato dell’invisibile sul visibile, rimandando direttamente alla sfera di influenza platonica. Ma nello stesso momento aveva esortato il lettore a non considerare ciò semplicemente come un errore: esiste, infatti, un dualismo cristiano che può essere riletto legittimamente alla luce delle categorie platoniche. La realtà è in fin dei conti un riverbero dell’invisibile, cui deve costantemente rimandare per essere colta nella sua significatività. In che senso, dunque, si può parlare di un’eventuale influenza platonica su Ratzinger? O in altri termini, per qual motivo Ratzinger, dopo aver riagganciato l’essere alla storia, ha sentito l’esigenza di sottolineare il primato dell’ideale sull’evento quasi sganciandolo platonicamente dalla stessa storia? Il teologo bavarese ci fornisce una pista di lettura nella risposta alla recensione di Kasper del 1969: suo scopo principale fu quello di sottolineare il primato della verità, salvaguardandone l’intangibilità di fronte alle strumentalizzazioni efficientiste dell’agire storico. Sembra, piuttosto — prosegue Ratzinger — che quanti affermano di tenere le distanze da un presunto platonismo restino influenzati dalle idee della corrente neomarxista, secondo cui, all’interno di una visione della realtà in continuo movimento, non esiste alcun concetto stabile di verità («beständige Wahrheit»)130. Il problema non è quello di svalutare la realtà sensibile o gli eventi della storia della salvezza rispetto ad un’eventuale contemplazione dell’ideale; Ratzinger, piuttosto, fin dalla tesi di laurea su Agostino, si è prefissato l’obiettivo di conciliare dimensione cosmica e dimensione storica della fede. In questo modo, l’agire terreno di Gesù 128 Sul problema della narrazione della fede in ordine alla molteplicità dei linguaggi nel panorama contemporaneo vd. G. RUGGIERI, La verità crocifissa. Il pensiero cristiano di fronte all’alterità, Roma 2007, 45.55. 129 Cfr. H. MYNAREK – W. KASPER, Das Wesen des Christlichen, cit., 184. 130 Cfr. J. RATZINGER, Glaube, Geschichte und Philosophie, cit., 537.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 147

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 147

di Nazareth, vissuto secondo un orizzonte oblativo, non è da intendere come l’esito imprevisto e contrario alla naturale inclinazione dell’essere; all’opposto, si tratta della più intima legge del cosmo, dell’autentico significato del reale che ha per presupposto l’identità relazionale del Logos, mediante il quale è stato creato il mondo. L’agire di Cristo, configurato come esodo, trasformazione131 e amore132, non è un agire qualunque, ma coincide con la dinamica stessa dell’essere, dal momento che è la realtà «ideale» a dare ragione dell’evento concreto. Per questo motivo è lo stesso Ratzinger ad affermare che se per platonismo si intende l’affermazione di un primato della verità sull’agire, allora egli è pronto a considerarsi volentieri un «platonico»133. Il «senso» della realtà rimane collocato in Dio, che ha creato ogni cosa tramite il Logos. Da qui si spiega la poca attenzione di Ratzinger verso il «diritto naturale» che presuppone una concezione metafisica orientata in senso tomista. Nella prefazione all’edizione del 2000, Ratzinger pone con una certa urgenza la questione dell’etica, affermando la necessità di un criterio per il discernimento di ciò che è buono e di ciò che è cattivo, dal momento che la negazione di Dio ha privato l’etica di ogni fondamento giustificabile. Ratzinger ravvisa la soluzione all’interno di un atteggiamento di re-sponsabilità (Ver-antwortung) come risposta (Antwort) all’appello che la Parola (Wort) originaria rivolge all’uomo134. Per questo motivo, più che pensare a un diritto naturale, Ratzinger, soprattutto nei contributi successivi, preferisce insistere sulla necessità del riconoscimento di una rilevanza pubblica delle grandi tradizioni religiose dell’umanità. 131

Cfr. H. VERWEYEN, Joseph Ratzinger, cit., 48. Mynarek individua nell’«ordo amoris», ricondotto all’influenza del neoagostinismo di matrice scheleriana, il principio ermeneutico di tutta la teologia di Ratzinger. Cfr. H. MYNAREK - W. KASPER, Das Wesen des Christlichen, cit., 182. Tuttavia, nell’articolo Der Weg der religiösen Erkenntnis nach dem heiligen Augustinus, in P. GRANFIELD – J. A. JUNGMANN (curr.), Kyriakon. Festschrift J. Quasten, II, Münster 1970, 553-564, Ratzinger mette in evidenza le differenze che contraddistinguono la concezione agostiniana dell’amore come principio della conoscenza rispetto alla via della «conoscenza religiosa» di Scheler, da cui sembra prendere le distanze. 133 Cfr. J. RATZINGER, Glaube, Geschichte und Philosophie, cit., 537. 134 Cfr. ID., Einführung, cit., 24-25. 132


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 148

148

Alfio Cristaudo

A questo punto, bisogna richiamare il problema del nesso tra teologia del Logos nella creazione e teologia del Logos come relazione all’interno della riflessione trinitaria. Credo che Ratzinger mantenga distinte le due prospettive: l’indagine sul Logos inteso come presupposto della creazione si muove entro i confini dell’ambito apologetico, mentre la riflessione sulla dimensione relazionale del Verbo risponde più da vicino all’esigenza di presentare in positivo i contenuti fondamentali della fede. Potremmo affermare che nella prima sezione dell’Einführung, all’interno del più generale contesto sulla dottrina della creazione, la riflessione di Ratzinger sulla categoria di Logos non scaturisce direttamente dall’elaborazione di un’ipotetica teologia trinitaria. Il termine Logos viene impiegato in prospettiva apologetica per rimandare a Dio come principio Assoluto, senza la preoccupazione di appropriarlo al Figlio. A questo punto si tratta di chiarire il nesso tra l’impiego apologetico della categoria di Logos, prevalentemente inteso come «senso» a partire dal quale è creato il mondo, e il significato relazionale dello stesso termine, sviluppato nel contesto della riflessione teologica sul dogma trinitario e cristologico. In effetti, le due prospettive non vengono poste in rapporto di esplicita continuità: il Logos che presiede alla creazione è l’identità per mezzo della quale l’essere creato riceve consistenza e senso. Ma di quale senso si tratta? L’essere è significatività intrinseca soltanto in riferimento alla fondazione dei valori morali, oppure l’identità relazionale del Logos avrebbe richiesto una maggiore esplicitazione del fine del cosmo come tensione alla relazione che trova compimento nel raggiungimento della piena comunione con Dio? Questo problema resta non chiarito. A ciò si aggiunge l’ulteriore «stranezza» che nell’Einführung la dimensione liturgica viene quasi del tutto sottaciuta, nonostante Ratzinger, attraverso la tesi di laurea su Agostino, possa essere annoverato tra i principali pionieri dell’ecclesiologia eucaristica135.

135 Cfr. R. TURA, Joseph Ratzinger, in P. VANZAN – H. J. SCHULTZ (curr.), Lessico dei teologi del secolo XX, trad. it., Brescia 1978, in Mysterium salutis, XII, 718.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 149

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 149

3. L’ACCENTUAZIONE DELLA PROSPETTIVA ONTOLOGICA DELLA CREAZIONE NEL CONCETTO DI LOGOS Gli interventi composti da Ratzinger dopo la pubblicazione di Einführung in das Christentum (1968) presuppongono un contesto socio-politico e culturale profondamente mutato con la conseguente comparsa di nuove problematiche teologiche: l’esperienza delle rivolte studentesche del ’68, alimentate da un utopismo di matrice marxista136, i primi albori della teologia della liberazione, protesa all’instaurazione di un compimento terreno, nonché la migliore comprensione delle implicanze etiche della teoria dell’evoluzionismo, retrospettivamente applicate al nazismo e nuovamente identificabili nell’ideologia del progresso scientifico, propugnarono un’immagine della realtà in continuo movimento, sganciata dai valori etici tradizionali, tanto da lasciar apparire inconsistenti gli antichi presupposti filosofici per una loro fondazione universalmente vincolante. Durante il periodo dell’insegnamento a Bonn — come ha sottolineato Hansjürgen Verweyen — Ratzinger manifestò particolare interesse per i risultati delle ricerche scientifiche di Albert Mitterrer, di Max Karl Planck, di Werner Heisenberg e di Albert Einstein. Conseguentemente, in questa fase iniziale, il teologo bavarese si aprì seriamente alla fiducia che la ricerca scientifica potesse costituire un valido mezzo per ricondurre il dibattito culturale sulla questione di Dio. Tuttavia, già durante il periodo della permanenza a Tübingen, Ratzinger mette in evidenza i limiti di un metodo scientifico che rischia di rinchiudersi sull’investigazione di quanto risulta immediatamente tangibile e sperimentabile, trascurando così di affrontare la più grande questione relativa al senso dell’essere137. In quegli stessi anni, la pubblicazione di Caso e necessità aveva conferito nuovi impulsi alla corrente 136

«Wer hätte zu Beginn der sechziger Jahre voraussehen mögen, dass 1968 eine Wende eintreten würde, die den Existenzialismus nun ihrerseits als bürgerlich verwarf und stattdessen eine leidenschaftliche Zuwendung zum Marxismus mit sich brachte?». J. RATZINGER, Glauben im Kontext heutiger Philosophie. Ein Gespräch mit dem Philosophen Vittorio Possenti, in Internationale Katholische Zeitschrift Communio, 31 (2002) 269. 137 H. VERWEYEN, Joseph Ratzinger, cit., 108.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 150

150

Alfio Cristaudo

scientifica del neodarwinismo: nell’opera di Jacques Monod lo sviluppo della vita umana era stato presentato al di fuori di ogni progetto teleologico precostituito, unicamente sulla base del caso, della materia e della selezione naturale138. Per questo motivo, a partire dagli scritti del periodo di Regensburg, Ratzinger sembra privilegiare la riflessione sulla creazione rispetto a quella sulla relazione.

3.1. Posizione originaria del Logos e teoria dell’evoluzione in Dogma e predicazione Il vangelo di Giovanni sintetizza nel concetto di Logos la teologia veterotestamentaria sulla creazione: il Logos è «die Tatsache aller Tatsachen»139 e «die eigentliche Kraft»140. L’affermazione della priorità del Logos sulle realtà materiali intende rivendicare il valore fontale dello spirito141. Il Logos, inoltre, è la mente («Sinn») che presiede all’ordine della creazione, allo stesso modo in cui la mente umana previene le nostre azioni142. Se le cose stanno così, allora il cristianesimo, come suo fatto germinale, ha a che fare con la ragione («Vernunft»)143. A differenza dell’Einführung in das Christentum (1968), dove Ratzinger insiste sul significato innovativo di «Wort», di cui fa prevalente uso l’evangelista Giovanni recependo il termine Logos, fino a quel momento impiegato esclusivamente nel lessico filosofico greco, in Dogma und Verkündigung (1973), sembra emergere una sensibilità differente, dal momento che l’ermeneutica di «parola» risulta non tanto prevalente 138 Cfr. L. GALLENI, Monod, in Enciclopedia filosofica, VIII, diretta da Virgilio Melchiorre, Milano 2006, 7584-7585. 139 Non ho consultato la versione tedesca integrale di Dogma und Verkündigung. Mi sono limitato a consultare alcuni brani tratti dalla seguente antologia: H. HOPING – J.-H. TÜCK, Die anstößige Wahrheit des Glaubens. Das theologische Profil Joseph Ratzingers, Freiburg 2005, 77. 140 L. c. 141 Cfr. l.c. 142 Cfr. l.c. 143 Cfr. l.c.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 151

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 151

quanto semplicemente aggiuntiva rispetto a quella di «ragione»; Giovanni — afferma il teologo bavarese — non intende esclusivamente il Logos come Ratio, Vernunft, ma anche come Verbum, Rede144. Inoltre, è questo uno dei primi brani in cui Ratzinger accosta al termine Logos la traduzione tedesca di Vernunft. Nella Tesi II sulla predicazione, Ratzinger afferma che Dio deve essere annunciato come «Schöpfer» e «Herr». Se Dio è Creatore, ciò significa che compito primario della fede consiste nel ridestare la capacità della ragione di penetrare la significatività del creato: l’intelletto sarà così in grado di ricercare la «ragione» delle cose come riverbero della Ragione creatrice145. È necessario — afferma Ratzinger rifacendosi al pensiero di Bonaventura, già esposto nella tesi di abilitazione146 — recuperare la visione del creato come «immagine»147: ciò implica una presa di distanza dall’odierno metodo scientifico che attribuisce rilevanza soltanto a quanto risulta immediatamente verificabile e falsificabile148. In effetti, l’aspetto problematico della teoria dell’evoluzione proposta da Charles Darwin alla metà del XIX sec. consiste nel rifiuto di riconoscere la persistenza delle forme create da Dio149. Una concezione della realtà in evoluzione annulla la distinzione tra essere e tempo: soltanto il «divenire» diventa criterio ultimo per il discernimento della realtà; essa si presenta così in continuo movimento, rendendo impossibile l’affermazione di una misura stabile di valutazione morale150. 144

Cfr. ibid., 78. Cfr. ibid., 75. 146 J. RATZINGER, San Bonaventura. La teologia della storia, trad. it., Assisi 2008. 147 ID., Dogma e predicazione, trad. it., Brescia 20052, 81. 148 Cfr. ibid., 77. 149 Cfr. ibid., 125. 150 Cfr. ID., Dogma e predicazione, cit., 133. Nel contributo pubblicato per la prima volta in Frankfurter Allgemeine Zeitung dell’8 gennaio del 2000 e poi concesso alla rivista MicroMega, nel più ampio contesto del progetto del direttore, Paolo Flores D’Arcais, di realizzare un volume dedicato al dialogo tra fede e ragione, teologia e filosofia, Ratzinger afferma che la dottrina evoluzionistica, elevata a «philosophia universalis», comporti l’affermazione di un «ethos crudele», caratterizzato dalla «lotta per la sopravvivenza», intesa come «vittoria del più forte» sul più debole. Cfr. 145


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 152

152

Alfio Cristaudo

In ultima analisi, la concezione cristiana della realtà professa la dipendenza dell’essere dalla significatività originaria del Logos. In questo senso, tutta la realtà dell’essere, nel suo divenire temporale, è opera di creazione e non soltanto al suo atto iniziale: credere nella creazione significa ripensare il divenire alla luce della fede151. Tuttavia, l’affermazione rimane isolata: non viene ulteriormente approfondita dalla possibilità di un confronto col pensiero di Teilhard De Chardin, né viene messa in rapporto con la categoria di relatio.

3.2. La comunità credente della Chiesa come condizione di possibilità per la rivitalizzazione della ragione In Kirche, Ökumene und Politik (1987), Ratzinger formula un’esplicita correlazione tra fede e ragione: all’interno della fede cristiana «si manifesta» la ragione e, allo stesso modo, la ragione «presuppone» la fede come «spazio vitale»152. Dalla prima affermazione si deduce che il compito della fede non si esaurisce nel ripensare la logica della «propria ragione», quanto maggiormente esso consiste nel condurre l’uomo alla Suprema Ragione, da cui scaturisce la stessa «razionalità del reale». Ratzinger, però, intende andare oltre, nel tentativo di inserire la riflessione sul Logos all’interno di una prospettiva più marcatamente ecclesiologica, fin’ora soltanto presupposta e non esplicitamente sviluppata. La ragione vive della fede come del suo «spazio vitale» e, conseguentemente, essa è destinata a dissolversi qualora pretenda di rendersi autonoma. Non è ammissibile un concetto astratto e astorico di ragione, dal momento che essa si trova necessariamente inserita all’interno di specifici «condizionamenti storici e sociali». Ciò ID., Verità del cristianesimo?, in Il fondaco di Micromega – Dio esiste?, supplemento al n. 2/2005 di MicroMega, 65. 151 Cfr. ID., Dogma e predicazione, cit., 134. 152 Cfr. ID., Chiesa, ecumenismo e politica. Nuovi saggi di ecclesiologia, trad. it., Cinisello Balsamo 1987, 148.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 153

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 153

comporta che la Chiesa, intesa come comunità dei credenti che vive nella storia, rappresenti l’autentico contesto in cui è possibile rivitalizzare l’uso della ragione153: «La Chiesa […] si comprende come lo spazio concreto della ragione in cerca di senso»154.

3.3. Rilevanza pubblica della fede nel Logos In Wendezeit für Europa? (1991) Ratzinger esprime la preoccupazione per una «diffusa mancanza di valori etici adeguati alla sfera del comportamento individuale»155. Di fronte al progressivo mutamento dello scenario socio-politico contemporaneo che, dalla fine degli anni tra le due guerre, ha vissuto la divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi, uno marxista e l’altro liberalcapitalista, ed ora, passando per il crollo del muro di Berlino (1989), con cui è stata dimostrata l’inconsistenza dell’ideologia marxista156, comincia persino a registrare i primi sintomi di azione del fondamentalismo islamico157, Ratzinger ribadisce la necessità di una più stabile fondazione dei valori etici tradizionali. Il pensiero contemporaneo mette l’uomo di fronte ad una duplice possibilità di scelta: può ostinarsi a considerare la materia come principio originario della realtà, ed allora sarà pure indotto ad affermare che lo spirito è un sottoprodotto della materia158; in questo primo caso, la negazione della libertà, attuata sistematicamente dai regimi marxisti, non può essere considerata un «abuso», trattandosi invece della logica conseguenza di tali premesse159. Nella seconda 153

Cfr. ibid., 152. Ibid., 157. 155 ID., Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti, trad. it., Cinisello Balsamo 1992, 20. 156 Cfr. ibid., 5. 157 Cfr. ibid., 135-139. 158 Cfr. ibid., 68.85. 159 Cfr. ibid., 70. 154


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 154

154

Alfio Cristaudo

ipotesi, l’uomo può anche decidere di mettersi in ascolto della razionalità del reale, optando per la posizione fondante del Logos, la «ragione creatrice»160, la «misura del bene»161 per mezzo del quale tutto ciò che esiste è razionale e che «riempie di significato le cose»162. La Scrittura presenta il Servo di Jahvè come colui che porta la Mispat — diritto — alle nazioni: il termine ebraico può essere tradotto anche con legge o giustizia, da intendersi principalmente come «la “norma data da Dio” per assicurare una società ben ordinata»163: solo nella conformità al diritto stabilito da Dio, alla legge naturale, l’uomo può conseguire l’autentica libertà. Il preambolo della Costituzione della Repubblica Federale Tedesca facendo diretto riferimento alla «propria responsabilità di fronte a Dio e agli uomini»164, ha inteso ribadire l’esistenza di «convinzioni che essa da sé non può prescrivere», ma che può soltanto «presupporre»165. Tale riferimento diventa particolarmente significativo in Germania, di fronte all’esperienza di abuso del positivismo giuridico che si verificò durante gli anni di Regime del Terzo Reich166. Anche oggi è necessario che lo Stato accordi rilevanza pubblica all’Ethos, inteso come concetto sintetico dell’esigenza morale di ogni uomo. Compito della Chiesa, allora, non sarà quello di imporre i propri principi etici con la forza167: essa deve piuttosto intervenire nella discussione pubblica per formare le coscienze, creare spirito di «convinzione»168 e corroborare l’autentica «ricerca del senso del vero»169. Nella conferenza tenuta insieme al filosofo J. Habermas il 19 gennaio del 2004 presso la Katholische Akademie in Bayern, il card. Ratzinger sottolinea che l’«ethos» non è mai frutto di una costruzione 160 161 162 163 164 165 166 167 168 169

Ibid., 84. Ibid., 115. Ibid., 84. Ibid., 58. Ibid., 123. Cfr. l.c. Cfr. ibid., 122-123. Cfr. ibid., 46. Cfr. ibid., 45. Cfr. ibid., 44.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 155

Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di J. Ratzinger 155

arbitraria, effettuata sulla base di una ragione scientifica o pragmatistica170: esistono, infatti, valori che sussistono come tali, in quanto iscritti nella comune «essenza dell’uomo»171. Tuttavia, la possibilità di un immediato riconoscimento della loro evidenza è divenuto oggi un fatto assolutamente problematico. In passato, la Chiesa, auspicando un dialogo con il mondo laico, finalizzato a promuovere un’«intesa» sui valori fondamentali, ha fatto ricorso alla dottrina del «diritto naturale», che presupponeva una certa reciprocità tra natura e ragione172. Oggi, nel contesto di una «società pluralistica “secolare”», risulta inutile appellarsi alla cogenza di un diritto naturale, dal momento che tale categoria è stata scardinata dalla teoria dell’evoluzionismo; scrive Ratzinger: «questo strumento purtroppo risulta spuntato, e io quindi non vorrei far leva su di esso in questo dialogo»173.

Inoltre, bisogna pure ammettere che la pretesa validità universale della «ratio» risulta condizionata da modelli concettuali propri di una determinata cultura, tali da non renderla «riproducibile» e «riconoscibile» sempre e allo stesso modo «in tutta l’umanità»174. Di fronte a tale situazione, la ragione occidentale deve mostrarsi capace di superare la condizione di «hybris» in cui si trova attanagliata; essa deve imparare ad assumere piena consapevolezza dei propri «limiti», mettendosi in ascolto delle «grandi tradizioni religiose dell’umanità»175.

170

Cfr. ID., Ciò che tiene unito il mondo, in J. RATZINGER – J. HABERMAS, Etica, religione, cit., 42. 171 Cfr. ibid., 44-45. 172 Cfr. ibid., 50. 173 L.c. 174 Cfr. ibid., 54. 175 Cfr. ibid., 55.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 156

156

Alfio Cristaudo

CONCLUSIONI Alla luce di quanto detto, credo di poter affermare che il concetto di Logos, nello sviluppo della teologia di Ratzinger, abbia subito differenti accentuazioni: per questo motivo, appare realmente difficile elaborare una definizione conclusiva, capace di sintetizzare l’insieme di tutte le sfumature assunte; sarebbe riduttivo intendere il concetto di Logos semplicemente con il binomio «ragione e amore»; si tratta certamente di aspetti centrali ma che non dicono ancora la prospettiva di fondo in cui si muove il teologo bavarese. Ritengo che il modo più corretto per intendere il contenuto di Logos nella teologia di Ratzinger sia offerto dallo sfondo dell’esegesi patristica: il Logos, ora inteso come la persona stessa di Cristo, ora come «senso» oppure come «ragione», rimanda sempre ad un processo maieutico di purificazione della conoscenza avviato dalla fede. Il Logos è un atto di purgatio e di illuminatio finalizzato alla liberazione dalle scorie della non-conoscenza della verità cristiana: in Ratzinger, Logos, verità ed universalità sono sinonimi. Da questo punto di vista, anche se il termine, soprattutto nella prima fase della produzione di Ratzinger, almeno fino all’Einführung, non viene tradotto esplicitamente con Vernunft, resta comunque legato al campo semantico della razionalità, nel senso di un processo illuminato di conoscenza finalizzato al raggiungimento della verità.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 157

Sezione miscellanea Synaxis 3 (2009) 156-169

ORIGINE ED ECOLOGIA DELLA VITA E DELLE COMUNITÁ DI ORGANISMI: UN APPROCCIO ECOSISTEMICO TRA COEVOLUZIONE E SINERGIE RELAZIONALI

GIUSEPPE GIACCONE*

PREMESSA Il progresso dell’ecologia nel corso del 1900 si è realizzato lungo percorsi epistemologici che si possono riassumere nelle varie formulazioni del concetto di nicchia ecologica. La presenza di una nicchia idonea condiziona, infatti, il successo dell’emergenza evolutiva di una specie ed il suo inserimento in un habitat1. In ecologia la definizione di specie comprende un insieme di individui con una occupazione comune, cioè con una stessa strategia per procurarsi le risorse dall’ambiente e raggiungere così la fitness o idoneità riproduttiva, per permanere in un ambiente di vita favorevole alla discendenza. Questo comune ruolo degli individui di una popolazione, cioè di una specie, nel più ampio contesto della comunità, si chiama nicchia ecologica. Nella presente speculazione si vuole presentare una prima sintesi delle opinioni di vari ricercatori, che si sono cimentati nella ricostruzione degli ambienti, che hanno determinato, favorito o semplicemente accolto il nascere o l’insediarsi delle prime forme di vita sul nostro * Docente di Scienze ecologiche presso il Dipartimento di Botanica dell’Università degli Studi di Catania. 1 P. COLINVAUX, 2000.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 158

158

Giuseppe Giaccone

pianeta. Oltre ad un ambiente idoneo, perché una popolazione si mantenga nel suo habitat, è necessario che entri a fare parte di una comunità di popolazioni di organismi che stabiliscano relazioni, che ne esaltano le sinergie nella produzione e nell’uso delle risorse e ne riducono la competizione. Una specie, infatti, non può emergere con successo nel processo evolutivo, se da una parte non trova una risorsa da utilizzare e dall’altra non trova chi la utilizza come risorsa. Questa seconda condizione mantiene la sua densità di popolazione al di sotto della capacità portante dell’ambiente e rende possibile la sua permanenza nell’habitat; diversamente la specie si estingue per esaurimento delle risorse, causato dalla crescita esponenziale della sua discendenza2. Questo meccanismo di induzione della biodiversità è alla base del “principio del raccolto” enunciato da Paine nel 1981. Applicando questo principio dell’ecologia dell’origine delle specie ed utilizzando il metodo dell’attualismo, l’origine della vita, cioè della prima specie vivente, postula fin dai primordi la coesistenza di specie differenti e quindi di una biodiversità iniziale, composta da progenoti in relazione che danno inizio ad un processo evolutivo essenzialmente di natura mutualistica. La nicchia fondamentale, infatti, degli organismi viventi è definita dal set specifico di capacità di estrarre risorse, di sopravvivere alle difficoltà, di competere, unito ad un corrispondente set di bisogni3; ma l’emergere nell’evoluzione è reso possibile dalla contestuale presenza di un set di condizioni ecologiche, sotto le quali una specie può sfruttare una sorgente di energia effettivamente sufficiente a riprodursi ed a colonizzare altri siti4. La nicchia realizzata di una specie è, invece, data dalla sua posizione nell’ambiente biotico, cioè dal suo ruolo nella comunità, che non solo si afferma in un habitat, ma lo costruisce con un insieme di relazioni5 essenzialmente mutualistiche6.

2 3 4 5 6

1959.

G. GIACCONE, 2001. Concezione genetica di Grinnel del 1904. Concezione energetica di Mac Fayden del 1957. G. GIACCONE, 1997. Concezione sociologica di Elton del 1927, completata da Hutchinson nel


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 159

Origine ed ecologia della vita e delle comunitá di organismi

159

1. LA NICCHIA ECOLOGIA DELL’ORIGINE DELLA VITA La sintesi prebiotica dei precursori molecolari della vita7, nelle sue varie tappe, richiede un ambiente esterno (come le microcavità dei feldspati e di altri minerali), condizioni energetiche ed una composizione della materia con gli elementi (H, O, C, N, P, S,…) che, in seguito a reazioni, danno origine (per es. su minerali di magnetite che possono catalizzare la combinazione di idrogeno e azoto per formare ammonio) ai composti organici prebiotici (metano, acido cianidrico, formaldeide, ammonio, ecc…), ai monomeri (lipidi, glucidi, amminoacidi, ecc…), probabilmente su impalcature di fillosilicati delle argille; per passare, infine, (con l’intervento di enzimi del tipo aconitasi contenenti ferro e zolfo) ai polimeri prebiotici (carboidrati, oligonucleotidi, proteinoidi, ecc…) in ambienti con fenomeni vulcanici sottomarini, protetti dalle radiazioni ultraviolette, capaci di scindere, invece, gli aggregati molecolari nelle acque superficiali. La chiralità è possibile che sia stata acquisita su facce di cristalli con funzioni di stampo, come è risultato dagli esperimenti fatti in laboratorio da Hazen (2001) su facce speculari di cristalli di calcite che selezionano fino al 40% di amminoacidi (acido aspartico) sinistrorsi da una miscela omogenea delle due forme chirali. Per iniziare la biogenesi delle macromolecole con struttura complessa (polinucleotidi, polipeptidi, polisaccaridi, ecc…) è necessario che si formi un nuovo parametro di nicchia, l’ambiente interno, e che di conseguenza si sviluppino nei polipeptidi la capacità di espletare molteplici funzioni e che nei polinucleotidi si sviluppi la potenzialità di memoria e di traduzione in dialogo con i complessi enzimatici. Quindi, restando soltanto sul pianeta Terra, si possono individuare ambienti idonei ed importanti proprietà di nicchia ecologica lungo il percorso evolutivo che va dai precursori molecolari alle macromolecole prebiotiche. Una tappa fondamentale in questo processo è data dalla formazione di RNA con capacità autocatalizzanti (ribozima munito di capacità di memoria e di funzione, come quello isolato da Tetrahimena thermophila) per attivare sia la propria duplicazione che la formazione di 7

GALLIEN, 1995.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 160

160

Giuseppe Giaccone

polipeptidi. Per la costituzione della prima protocellula, infine, è necessario che si sviluppi la capacità di relazione tra i polimeri biogenetici, finalizzata all’espletamento di funzioni complesse: metabolismo, crescita, riproduzione, ecc.; unite alla capacità di regolare l’ambiente interno, di selezionare gli elementi ed i composti dell’ambiente esterno e di cambiare tutte le funzioni con l’ambiente che cambia. Questa ultima capacità è espletata nei Procarioti dai plasmidi, aderenti alla membrana cellulare. In sintesi, è necessario che si formi la membrana lipoproteica e che emerga la capacità di relazione, di adattamento e di evoluzione, costitutiva soltanto degli esseri viventi, assente nel mondo minerale. Queste caratteristiche da Regina Rossa, secondo la metafora della favola di Carrol usata da Van Valen (1973), cioè le capacità di cambiare , di evolvere in sincronia ed in sintonia con la dinamica della nicchia ecologica realizzata, sono la chiave del successo della vita sul pianeta: dalla protocellula all’uomo (fig. 1). Le condizioni ambientali per le sintesi prebiotiche sono oggetto di speculazioni, basate anche sui risultati di pochi, ma a volte eccessivamente enfatizzati, esperimenti di laboratorio. Gallien (1985) riporta le tappe principali di questo processo speculativo e sperimentale, che di seguito sintetizzo. L’unitarietà dell’evoluzione del mondo abiotico e del mondo biotico è stata intuita e postulata da Teilhard de Chardin (1916), da Oparin (1924, 1936, 1967), da Haldane (1929); la sperimentazione di laboratorio a supporto di queste intuizioni è data dalle sintesi di Miller e Urey (1953: composti organici prebiotici), di Fox (1958: proteinoidi), di Oro (1960: adenina), di Ponnamperuma (1963: purina, guanina, ribosio), di Katchalsky e Lahan (1978 sintesi di oligopolipeptidi su argille), di Sagan e Ponnamperuma (1980: ribonucleotidi), di Orgel (1980: nucleotidi attivati e capaci di replicazione), Eigen (1983: filiere di reazioni con formazione di oligopolinucleotidi capaci di autoreplicarsi), di Hazen (2001: sintesi dell’acido decanoico e di altre molecole organiche in presenza di minerali di solfuro di ferro in soluzione acquosa, che in natura proteggono gli amminoacidi dalla degradazione termica nelle sorgenti idrotermali marine), ecc… Ma le tappe fondamentali, per ottenere le varie molecole prebiotiche in laboratorio, sono distinte le une dalle altre e richiedono l’uso di protocolli sperimentali spesso tra di loro incompatibili, che quindi non


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 161

Origine ed ecologia della vita e delle comunitá di organismi

161

permettono di ipotizzare che in natura possano essersi realizzate in successione diacronica unitaria e in un ambiente omogeneo (come il presupposto brodo originario di molecole organiche prebiotiche in una laguna costiera). La sintesi prebiotica, quindi, richiede processi di condensazione e di assorbimento di molecole organiche su ambienti formati da superfici capaci di catalizzare diverse reazioni chimiche. Le speculazioni sull’esistenza di questi “ambienti” nelle prime fasi di origine della vita sul pianeta sono sintetizzate da Hazen (2001). Essi si possono riassumere: le nubi primitive, le lave calde in acque litorali, le sorgenti idrotermali dei camini vulcanici nelle dorsali sottomarine, i cristalli di argille dei fondi oceanici o incluse nelle lave porose. Cairns – Smith (1985) ha ipotizzato che i cristalli di argilla, dotati di capacità catalizzanti, di accrescimento e di replicazione, avessero trasferito queste capacità (genetic takeover) alle molecole organiche prebiotiche che avrebbero dato origine alle prime strutture precellulari. Questa ipotesi è stata sottoposta a sperimentazione di laboratorio nell’ultimo decennio da Ferris e da Arrhenius. Essi hanno scoperto che le argille come supporto di reazione possono catalizzare la formazione degli elementi dell’RNA. Secondo alcune ipotesi queste strutture precellulari primitive sono i protoribosomi, che acquisirono un codice genetico, capace di assemblare le Proteine più complesse. Si sarebbero quindi formate le membrane lipoproteiche attorno all’RNA, con il risultato di isolare l’ambiente interno dall’ambiente esterno e di regolarne gli scambi: si originarono così i primi progenoti, dotati di un metabolismo ancora rozzo, ma già simile a quello dei Procarioti. Tutti questi processi della chimica prebiotica, per arrivare alla formazione di progenoti e poi alle protocellule, hanno avuto bisogno, per passare dal caos organico primitivo (in ambienti interstellari, interplanetari, atmosferici, terrestri o marini) al cosmos cellulare, di una “progettazione evolutiva”, praticamente impossibile da realizzare invocando semplicemente eventi probabilistici, applicando magari i più sofisticati metodi matematici a fenomeni complessi di tipo stocastico. L’emergere di nuove proprietà nelle reazioni del mondo abiotico inorganico ed organico e nelle relazioni del mondo biotico, proprietà che trascendono quelle della semplice somma delle entità di origine,


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 162

162

Giuseppe Giaccone

ha fatto formulare ipotesi di modelli cibernetici, con progettazione finalistica, per l’intero universo ed in particolare per il fenomeno della vita, incluso il fenomeno umano8. L’esigenza di un telos (fine) e di un escathon (destino ultimo) nell’evoluzione dell’universo, ed in particolare della biosfera, è presente anche nelle riflessioni conseguenti all’evidenza naturalistica, sociologica e metafisica che la relazionalità è una caratteristica di tutti gli esseri non viventi e viventi. In particolare l’evoluzione di questi ultimi è basata su fenomeni relazionali sia all’interno dei comparti cellulari, sia all’esterno nella costruzione di popolazioni e comunità. La relazionalità è, infatti, alla base: • delle interazioni tra l’ambiente esterno e le lipoproteine delle membrane e tra le forme funzionali di RNA e il DNA negli ambienti interni del citoplasma e del nucleo o del nucleotide e dei plasmidi, rispettivamente negli Eucarioti e nei Procarioti; • del differenziamento e dello sviluppo di tessuti e di organi nell’ontogenesi degli organismi pluricellulari; • dell’evoluzione filogenetica dagli Archaea, ai Bacteria, agli Eukarya attraverso anche processi di mutualismi con simbionti che assumono alla fine del processo la natura di organuli cellulari; • della produzione di biomassa negli ecosistemi attraverso la simbiosi funzionale (tra le alghe e gli antozoi nelle barriere coralline, tra funghi micorrizici e le erbe delle praterie o gli alberi dei boschi); • della promozione della biodiversità attraverso il mutualismo dell’impollinazione zoocora in natura e delle pratiche agricole e zootecniche nelle civiltà umane. La scienza ecologica evidenzia che sia l’origine della biodiversità sia lo sviluppo delle comunità viventi sono di natura relazionale nel loro stesso fondamento, che comporta un flusso energetico che attraversa una rete di nodi interattivi, costituiti dalle componenti abiotiche e biotiche degli ecosistemi. Lo studio delle relazioni e dei loro 8

Principio sintropico di Fantappiè del 1944 e ripresentato dagli Arcidiacono nel 1991, principio antropico di Carter del 1974 e rivisitato da Barrow e Tipler nel 1986, principio cristico di Teilhard de Chardin del 1954, in Cuénot nel 1962, e riconsiderato da Pasolini nel 1966.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 163

Origine ed ecologia della vita e delle comunitá di organismi

163

molteplici effetti a cascata negli ecosistemi9 comincia ad essere affrontato oggi con la matematica applicata alla geometria dei frattali e più in generale ai fenomeni complessi non lineari. Riprenderò la tematica sulla struttura relazionale degli esseri e degli ecosistemi nel paragrafo finale di questa relazione.

2. HABITAT ATTUALI DI ECOSISTEMI PRIMORDIALI L’habitat delle prime comunità biotiche in ambiente acquatico anaerobico era probabilmente simile a quello osservabile oggi nelle sorgenti idrotermali sottomarine. Gli organismi ancestrali dovevano avere caratteristiche metaboliche e relazioni sociologiche simili a quelle delle comunità di Archaea litoautotrofi, in grado di vivere oggi a temperature relativamente elevate e di utilizzare come fonte di energia i composti ridotti dello zolfo presenti nei fenomeni di vulcanismo secondario10. I micropaleontologi individuano le tracce della presenza degli Archaea nei sedimenti di origine antica11, attraverso dei marcatori derivati dai dieteri e dagli eteri del glicerolo, costitutivi peculiari delle membrane degli Archaea, insieme a lipidi non polari derivati da composti isoprenoidi. La presenza di organismi è rivelata, inoltre (per es. nei sedimenti di Issua e di Akila presso la Groenlandia), dal ritrovamento, in minerali di apatite, di un rapporto isotopico tra il carbonio — 12 ed il — 13 che evidenzia la presenza di organismi, che discriminano tra i due isotopi, preferendo quello più leggero. I discendenti di questi organismi litoautotrofi, con alcuni significativi caratteri ancestrali conservati, sono riconoscibili tra gli Archaea ipertermofili che si sviluppano soltanto a basso pH (tra 1 e 5) e ad elevate temperature (tra 100 e 113 °C). Questi organismi sono stati isolati anche nelle solfatare sottomarine dell’isola di Vulcano (arcipelago delle Eolie), dalle quali viene emessa acqua riscaldata geotermicamente a temperature tra 90 e 103°C, ma non ancora bollente per effetto della pressione dell’acqua sovrastante. 9 10 11

COHEN et al., 1990. G. WAECHTERSHAEUSER, 1990. 3,850 miliardi di anni secondo SCHIDLOWSKI, 1988; MOJZSIS et al., 1996.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 164

164

Giuseppe Giaccone

Gli Archaea sono associati a comunità fitobentoniche di diatomee, di cianobatteri e di alghe pluricellulari che vivono in ambienti con pH compreso tra 4,5 e 7,5, formando feltri filamentosi e mucillaginosi e associazioni vegetali (fig. 2) con una biomassa apprezzabile12. Gli Archaea ipertermofili attuali sono considerati i candidati più probabili a rappresentare i discendenti più simili alle prime forme di vita del pianeta. La loro organizzazione genomica è, infatti, molto conservativa, come risulta dalla comparazione delle loro sequenze genetiche degli RNA 16 S con quelle degli altri Procarioti o degli Eucarioti. Si ritiene che le ragioni di questo fenomeno conservativo siano correlate alle esigenze del mantenimento di una nicchia ecologica in un habitat estremo, come quello rappresentato dalle bocche vulcaniche sottomarine. La biomassa originata dai processi metabolici chemioautotrofi di questi Archaea è paragonabile a quella degli organismi fotoautotrofi e sostiene una comunità di pogonofori, anellidi, cirripedi e di molluschi filtratori, che a loro volta alimentano una diversificata fauna delle oasi dei deserti abissali nelle dorsali oceaniche13. Nelle condizioni in cui attualmente si origina e si mantiene la biodiversità, non solo è necessario al successo evolutivo di una nuova specie, la presenza di una nicchia ecologica idonea e disponibile (assenza di fenomeni di competizione esclusiva), ma anche la presenza o l’emergenza più o meno contestuale di un utilizzatore della nuova risorsa costituita dalla nuova specie14. L’evento evolutivo, nel quale le due emergenze biotiche (preda – predatore, pascolo – erbivoro, chemioautotrofo – mixotrofo) si sono formate, dovette avvenire in tempi relativamente brevi. Probabilmente dopo l’emergenza dell’organismo litoautotrofo si manifestò l’emergenza di un organismo mixotrofo, magari facoltativo, che utilizzava la biomassa morta o vivente (predatore primitivo) della popolazione del primo organismo autotrofo. Si suppone che le successive tappe evolutive nell’oceano primordiale abbiano compreso eventi di endosimbiosi e di scambi trasversali di geni e di plasmidi, che in un primo momento fecero evol12 13 14

G. GIACCONE, 1969. ATTENBOUROUGH, 1984; HESSLER et al., 1988; SOUTHWORD, 1989. PAINE, 1981.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 165

Origine ed ecologia della vita e delle comunitá di organismi

165

vere l’organismo genetico verso un organismo genomico e successivamente dagli organismi genomici si formarono i tre Urkindom: Archaea, Bacteria, Eukarya.

3. SPECULAZIONI IN LIBERTÀ La struttura relazionale dell’essere in generale, e dell’essere vivente in particolare, ha fatto sviluppare percorsi epistemologici in vari campi del sapere. In questo contesto, in particolare, sembra utile rivisitare alcune riflessioni teologiche che affiorano tutte le volte che si fa divulgazione di tematiche legate all’origine dell’universo ed in particolare della vita sul pianeta. La natura di Dio nella religione cristiana è rivelata come DioAmore15. L’unica natura di Dio, cioè, è relazione-amore tra il Padre, sorgente dell’Essere, il Figlio, per mezzo del quale tutto è stato creato e che è manifestazione e immagine del Padre, lo Spirito Santo, che vivifica tutto il creato e che è la relazione-amore tra il Padre e il Figlio, ma anche tra tutti gli esseri creati16. La Teologia della creazione insegna che la natura delle creature è fatta sul modello della natura divina e pertanto è di tipo relazionale e porta in se l’orma, le vestigia della relazione-amore. Dio, cioè, crea altri esseri a sua immagine17. sant’Agostino, nella catechesi ai cristiani dei primi secoli, così si esprimeva: «È necessario, che conoscendo il Creatore per mezzo delle sue opere, ci eleviamo alla Trinità, di cui la creazione, in una certa e giusta proporzione, porta la traccia»18.

S. Tommaso D’Aquino in termini teologici così esprime lo stesso concetto: «Le Processioni delle Persone (cioè le relazioni trini15 16 17 18

Cfr. 1Gv. CAMBÒN, 2000; RONDINARA, 2000. Cfr. Gen. La Trinità, 6, 10, 12, trad. it., Roma 1973, 287.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 166

166

Giuseppe Giaccone

tarie) sono ragione della produzione delle creature»19. Nella visione escatologica cristiana, che ha come oggetto il destino della creazione, l’universo è concepito come realtà dinamica che si trascende nelle fasi diacroniche dello spazio-tempo, per prendere coscienza nell’uomo, ma con un destino dell’uomo alla divinizzazione, alla filiazione divina in Cristo, l’Uomo-Dio, fine ultimo dell’evoluzione, ricapitolazione del creato (secondo la teologia di s. Paolo ). Tutti gli esseri creati, incluso l’uomo, nel processo evolutivo sono in cammino per ritornare nel seno del Padre, nella fonte dell’Essere relazionale, non per annullarsi, ma per realizzarsi nella vita di relazione col Padre e in una pienezza di rapporti con tutto il creato. Quindi secondo la Teologia cristiana della creazione la natura dell’essere, che in ecologia si scopre relazionale, ha il fondamento nella fonte dell’Essere, nel Dio Evolutore, come lo chiama Teilhard de Chardin. Il modello cibernetico del Pianeta Terra (conosciuto come Gaia ipotesi), ipotizzato anche per l’intero Universo, trova fondamento, secondo questa concezione teologica, nella paternità di Dio, che non solo partecipa l’essere alle creature, per mezzo del Figlio, ma in quanto amore si manifesta come provvidente e vivificatore, per mezzo dello Spirito Santo, per sostenerle nell’espletamento delle relazioni reciproche, senza le quali non è possibile rimanere nell’essere, che per sua natura è relazionale. Nelle ipotesi scientifiche (ipotesi di Cairns – Smith, esperimenti di Katchalsky e Lahan, di Hazen , di Arrhenius, ecc…) che postulano le argille dei fondi oceanici o delle lave porose nelle dorsali sottomarine come culla della vita primordiale, e nel racconto biblico della Genesi che parla di argilla come materiale usato da Dio per plasmare la vita, c’è — senza volere fare alcun concordismo — un’assonanza di terminologia: l’argilla come catalizzatore delle molecole prebiotiche, l’argilla come materia per dare forma alla vita. Ma in entrambi i casi ancora non c’è la vita, che nasce dalle relazioni tra i protoorganuli, gli altri componenti cellulari e con l’ambiente esterno, nel primo caso e da un soffio vivificatore che immette l’essere relazionale vitale nell’argilla, nel secondo caso. Certamente non si vuole qui affermare che questi antichi testi religiosi contengano ipotesi o teorie scientifiche, ma 19

Summa Theologiae, I, 45, 6 ad secundum.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 167

Origine ed ecologia della vita e delle comunitá di organismi

167

semplicemente che danno suggestioni sull’origine della natura relazionale dell’essere ed in particolare dell’essere vivente nella vasta fenomenologia dell’universo. Questi testi sono il fondamento dell’etica ambientale per almeno tre miliardi di uomini credenti, con un credo religioso monoteista. In tutte le religioni monoteiste ed in molte di quelle tradizionali, infatti, le realtà dell’universo, animate, inanimate, viventi, non viventi sono manifestazione di Dio, sono sue creature, traccia del suo Essere, che attraverso di esse si rivela e si manifesta; su questo i credenti fondano il valore di tutte le relazioni, costitutive degli ecosistemi. Sono relazioni reali e come tali da promuovere non solo con rispetto, ma soprattutto con amore, perché è amore di Dio in esse. Conoscere l’universo allora diventa un conoscere con amore e questo produce sapere che, nel suo significato etimologico (dal latino sapere, avere gusto), significa acquisire una conoscenza che ha gusto e che dà gioia; la gioia, che in s. Francesco si esprimeva in un rapporto di famiglia tra tutti gli esseri, chiamati fratelli e sorelle, perché scoperti vitalmente come figli dello stesso Padre, fonte dell’essere e delle relazioni fra gli esseri. In questo contesto scienza e religione non sono certo la odd couple, la strana coppia spaiata di Wertheim (1999), ma un diverso modo di conoscere, che aspira alla pienezza del sapere, sperimentabile soltanto nell’unità relazionale con la Sapienza incarnata. Questa aspirazione sostiene la speranza e genera l’ottimismo cristiano nel rapporto dell’uomo con la natura, come è confermato anche dall’enciclica di Benedetto XVI Spe salvi (2007) al paragrafo 35: «Possiamo liberare la nostra vita e il mondo dagli avvenimenti e dagli inquinamenti che potrebbero distruggere il presente e il futuro. Possiamo scoprire e tenere pulite le fonti della creazione e così, insieme con la creazione che ci precede come dono, fare ciò che è giusto secondo le sue intrinseche esigenze e la sua finalità. Ciò conserva un senso anche se, per quel che appare, non abbiamo successo o sembriamo impotenti di fronte al sopravvento di forze ostili».

Queste speculazioni in libertà vogliono essere soltanto la testimonianza, semplicemente vissuta, di un uomo di scienza che vuole


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 168

168

Giuseppe Giaccone

dare a se stesso e agli altri le ragioni della propria speranza, secondo la raccomandazione della prima lettera di Pietro: gli uomini accompagnano il creato nel suo ritorno alla casa del Padre, verso cieli nuovi e terra nuova, dove le relazioni saranno pienamente relazioni d’amore, perché Dio-Amore sarà tutto in tutti.

Fig. 1 − Evoluzione cosmica, molecolare e biologica (secondo Gallien, 1995, modificato).


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 169

Origine ed ecologia della vita e delle comunitá di organismi

Fig. 2 − Sorgenti termali sulfuree nel mare dell’isola di Vulcano (Isole Eolie). Habitat per gli Archaea.

169


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 170


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 171

Synaxis 3 (2009) 171-179

RELAZIONI ED EVOLUZIONE NELL’UNIVERSO: UN APPROCCIO CONOSCITIVO ALLA BASE DEL RAPPORTO UOMO-NATURA

DANIELE SPADARO*

Desidero fare una premessa all’inizio della mia comunicazione. Nelle note introduttive al corrente seminario CESIFER e nelle linee di sviluppo proposte si accenna alla paura, quasi all’angoscia, indotta dalla capacità acquisita dalla scienza moderna di poter intervenire sulla natura e di manipolarla in maniera, a volte, indiscriminata. Questa paura, a mio avviso, è abbastanza fondata e diffusa nell’uomo contemporaneo, e richiama l’urgenza di una nuova e più ampia comprensione del rapporto tra l’uomo e la natura, che possa portare a superare le pericolose derive manifestatesi recentemente e a recuperare, con un motivato approccio razionale, i guasti ambientali prodotti dall’uso abbastanza incontrollato del progresso tecnologico e delle risorse energetiche. Ritengo che l’approfondimento dell’immagine della natura che ci forniscono le scienze naturali (fisica, astronomia, chimica, biologia, …) possa contribuire ad acquisire tale comprensione e a stimolare alcune applicazioni pragmatiche importanti per attenuare il senso di angoscia che spesso viene indotta dalle condizioni di salute del nostro ecosistema e dai risultati più eclatanti e sconvolgenti che provengono dai laboratori di ricerca sparsi sul pianeta. Concentrandosi sull’ambito della fisica, più precisamente dell’astrofisica, i risultati più importanti emersi a partire dal secolo scorso evidenziano un quadro dell’Universo in cui sembra prevalere l’aspetto relazionale: ogni cosa è in rapporto con un’altra. Abbiamo il Sole e i *

Istituto Nazionale di Astrofisica – Osservatorio Astrofisico di Catania.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 172

172

Daniele Spadaro

vari pianeti legati nel Sistema Solare, questo fa parte di un insieme più vasto di stelle, gas e polveri, la Via Lattea, la nostra Galassia. Iniziano ad emergere evidenze osservative dell’esistenza di altri sistemi planetari, legati a stelle prossime al Sole. Le stelle nell’ambito della Galassia non sono distribuite a caso, bensì sono raggruppate in associazioni e ammassi stellari, più o meno concentrati (ammassi globulari e aperti, rispettivamente), per i quali è evidente un legame reciproco di tipo gravitazionale. Le galassie, a loro volta, sono anch’esse legate gravitazionalmente e raggruppate in ammassi e super-ammassi, secondo strutture via via più articolate e complesse. Potremmo sintetizzare questo quadro nell’espressione: nessuna entità fisica è “sola nell’Universo”. Le quattro interazioni fisiche fondamentali: forza di gravità, forza elettromagnetica, forza nucleare forte, forza nucleare debole, costituiscono una rete di “rapporti” che legano le varie entità fisiche tra loro nell’ambito dell’Universo, il quale acquista pertanto un quadro unitario, marcatamente relazionale e di reciproca interdipendenza. Vorrei descrivere un paio di esempi che contribuiscono a mettere in luce l’aspetto a cui ho appena accennato. Innanzitutto la dipendenza, sia energetica che elettromagnetica, della Terra dal Sole. È ampiamente noto che la comparsa e il mantenimento della vita sul nostro pianeta dipende criticamente dalle caratteristiche della sua orbita attorno al Sole e dal fatto che questo emetta con continuità energia raggiante, che viene quindi trasmessa ai vari sistemi organici che si sviluppano nella biosfera terrestre. Una minima variazione nella quantità di tale energia potrebbe avere notevoli conseguenze, sia dal punto di vista climatico, con apprezzabili mutamenti delle condizioni meteorologiche medie, che da quello biologico, con effetti sulla sopravvivenza o meno di un gran numero di specie vegetali ed animali. Ma anche dal punto di vista elettromagnetico il Sole ha una significativa influenza sull’alto contenuto tecnologico degli standard di vita delle società più ricche. Infatti il pianeta Terra è come immerso nell’atmosfera di una stella, il nostro Sole, che emette un flusso continuo di particelle elettricamente cariche (elettroni, protoni, particelle alfa ed altri ioni) e di campi magnetici che si estendono fino alle


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 173

Relazioni ed evoluzione nell’universo

173

estremità del Sistema Solare e costituiscono la cosiddetta eliosfera. Tale flusso può subire notevoli perturbazioni, più frequenti durante i periodi di massima attività magnetica del Sole, che producono vere e proprie tempeste elettromagnetiche che possono investire l’ambiente circumterrestre, dando luogo ad eventi luminosi spettacolari e unici, quali le aurore polari, visibili solo a latitudini elevate in prossimità dei poli terrestri, ma anche esercitando effetti molto negativi sui sofisticati sistemi tecnologici che sono ormai diventati partner privilegiati dei nostri stili di vita (black-out delle reti di distribuzione elettrica, malfunzionamento dei sistemi di telecomunicazioni, errori nei dati forniti dai navigatori GPS, telefonini muti, impossibilità di effettuare voli aerei sulle rotte polari, e così via). Occorre quindi tener conto dell’interazione con il Sole nella gestione di tali sistemi tecnologici; infatti sempre più negli ambiti scientifici e tecnologici si affrontano le varie problematiche legate al cosiddetto “space weather”, una sorta di climatologia spaziale, che studia gli effetti indotti dall’attività magnetica solare sull’ambiente circumterrestre e le relative conseguenze per il funzionamento dei vari apparati elettronici ed elettromagnetici, al giorno d’oggi sempre più diffusi. Ciò può indurre a riflettere sull’impossibilità di costruire uno sviluppo tecnologico “isolato” e circoscritto al nostro pianeta, che non tenga conto del fatto che viviamo in una continua interazione gravitazionale ed elettromagnetica con una stella, la quale procura tanti effetti benefici, ma anche alcuni “disturbi” che vanno presi in seria considerazione. Un secondo esempio è legato al concetto di massa di un corpo. La forza gravitazionale, che si manifesta come un’attrazione reciproca tra i corpi, è proporzionale alla quantità della loro massa e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. Proporzionale alla massa di un corpo è anche la sua inerzia, cioè la resistenza che una massa materiale oppone ad una forza che tende a muoverla e a darle una certa velocità. Il secondo principio della dinamica enunciato da Newton si esprime infatti con F = ma (un corpo di massa m sottoposto all’azione di una generica forza F, viene accelerato con un’accelerazione pari ad a). A parità di forza agente, maggiore è la


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 174

174

Daniele Spadaro

massa, minore è l’accelerazione assunta dal corpo. Da qui il termine di inerzia di un corpo. Possiamo allora dire che la massa è la quantità che in un certo senso esprime quasi “l’identità” del corpo, definendone l’attitudine ad assumere un dato comportamento dinamico, se sollecitato da forze esterne, o a rimanere nel proprio stato di quiete o di moto, in assenza di tale azione. Ma che cosa è la massa, allora? Una definizione “operativa” è stata data dal filosofo Mach nel XIX secolo, definizione successivamente ripresa da Einstein nella sua Teoria generale della Relatività e chiamata appunto “Principio di Mach”. La massa di un punto materiale, che entra in gioco nel caratterizzare la sua inerzia, è la risultante dell’azione gravitazionale esercitata su quel dato punto dall’intera materia sparsa in tutto l’Universo. Cioè, un corpo è inerte proporzionalmente alla propria massa, a causa dell’azione gravitazionale che tutte le altre masse dell’Universo hanno su di esso. L’insieme totale della materia, tutto l’infinito numero di galassie distribuite per miliardi e miliardi di anni-luce (o meglio, l’infinità di protoni, neutroni ed elettroni che ne compongono tutti gli elementi), creano un campo universale di gravitazione che si esprime, in ogni punto, con l’inerzia di ogni singola massa. Applicando il principio di Mach, si può affermare che la nostra massa è definita dalla totalità delle altre masse; ed è anche vero che la nostra massa, a sua volta, contribuisce pur essa a definire l’intero Universo. Si rivela così un’essenziale situazione d’unità, determinata dalla rete di relazioni a cui danno luogo le varie interazioni fisiche: ogni parte costituisce il tutto, ma è anche … costituita dal tutto. Questa è certamente la più profonda e la più essenziale condizione di esistenza dell’Universo, che ne caratterizza la natura, sia alle scale spaziali più piccole (atomi, particelle nucleari, quark) che a quelle più grandi (galassie). Su questa dinamica di relazioni si innestano gli aspetti evolutivi, un’altra caratteristica specifica dell’Universo alle varie scale, nei quali


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 175

Relazioni ed evoluzione nell’universo

175

è possibile cogliere il dispiegarsi di fenomeni prevalentemente collettivi, con alcuni tratti particolari su cui vale la pena di riflettere. Anche in questo caso mi rifaccio ad un esempio ben noto, che rientra tra gli argomenti fondamentali degli studi di astrofisica degli ultimi decenni. Riporto quindi una storia cosmica, che riguarda le supernovae e delinea il loro ruolo nell’evoluzione della composizione chimica dell’Universo. In natura si riscontra attualmente un notevole numero di elementi chimici (più di 100): alcuni sono particolarmente importanti per la biologia (carbonio, azoto, ossigeno, magnesio, potassio, … ferro) o per l’elettronica (silicio, gallio, arsenico, …). Vale proprio la pena di chiedersi come si sono formati tali elementi. La loro presenza nell’Universo è infatti il frutto di un lungo processo che descrivo qui brevemente. Secondo il modello cosmologico che descrive l’origine e l’evoluzione dell’Universo più ampiamente accettato (Big Bang), anche la composizione chimica ha subito una notevole evoluzione rispetto alle condizioni iniziali. Il Big Bang (singolarità inziale) non fa metalli (così sono denominati in astrofisica gli elementi chimici con numero atomico maggiore o uguale a 3, cioè dal litio in poi). Infatti le fasi evolutive iniziali dell’Universo hanno dato vita solo ad idrogeno, elio, un po’ di litio (il cosiddetto litio primordiale, la cui quantità è tuttora oggetto di accese e controverse discussioni tra gli astrofisici), tracce di berillio, boro. Nient’altro! Come si è giunti allora alla composizione chimica media dell’Universo attuale? Come si sono formati gli elementi più pesanti? In particolare, quelli presenti negli organismi viventi… Ad esempio il ferro, costituente base dell’emoglobina che si trova nel nostro sangue. Un aiuto importante per rispondere a tali domande è venuto dallo sviluppo delle conoscenze riguardo alla fisica nucleare nel corso del XX secolo. Tali ricerche hanno permesso di individuare i processi che


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 176

176

Daniele Spadaro

danno luogo alla cosiddetta nucleosintesi degli elementi pesanti, attraverso una serie di reazioni di fusione nucleare che consentono di ottenere nuclei di elementi più pesanti dalla interazione di due o più nuclei più leggeri. Per esempio, facendo reagire due protoni (nuclei di idrogeno) e due neutroni si ottiene un nucleo di elio (particella α) più una certa quantità di energia che viene liberata sotto forma di raggi. Una possibile applicazione dei processi di fusione nucleare riguarda la produzione di energia nucleare “pulita”, cioè senza la rimanenza di scorie radioattive, come invece avviene nei reattori a fissione nucleare. Negli anni ’30 il fisico Gamow dimostrò che reazioni di nucleosintesi via via più complesse, fino alla produzione degli elementi del picco del ferro, avvengono all’interno delle stelle. Tali reazioni sono la sorgente dell’energia che si propaga verso la superficie della stella e viene successivamente irraggiata nello spazio. Avvengono principalmente (quasi solamente) nel nucleo centrale delle stelle, perché richiedono condizioni estreme di temperatura e pressione. All’interno del Sole, per esempio, la temperatura è di circa 17 milioni di gradi e la pressione pari a quasi 130 miliardi di atmosfere. Esistono addirittura casi di stelle, molto più massicce del Sole, in cui la temperatura nel nucleo centrale è di circa 100 milioni di gradi. Il resto della stella non è coinvolto dal processo, nella maggior parte dei casi. Inoltre, il mescolamento turbolento del gas stellare non è in grado di portare in superficie il materiale “riprocessato”, che quindi resta intrappolato all’interno della stella e non entra direttamente in gioco nei processi di scambio di materia con l’ambiente circostante (venti stellari, nebulose planetarie, stelle novae). Eppure la composizione chimica del gas interstellare, da cui si formano le stelle più giovani, non mostra solo la presenza di idrogeno ed elio. Gli elementi più pesanti sono presenti in quantità significative, anche se quanto detto sopra sembrerebbe escludere tale possibilità. Rimane quindi la domanda formulata inizialmente: come si è evoluta la composizione chimica dell’Universo? A questo punto entrano in gioco le “supernovae”, ultima fase di


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 177

Relazioni ed evoluzione nell’universo

177

stelle che in quanto più massicce delle altre e, in particolare, del Sole (la loro massa è pari a 10-20 volte quella del Sole), si evolvono più rapidamente, con un maggiore tasso di reazioni di fusione nucleare, dando vita alla nucleosintesi di elementi più pesanti (ossigeno, magnesio, silicio, ferro, soprattutto). Esplodendo e disintegrandosi quasi completamente al termine della loro vita, disperdono tali prodotti nel mezzo interstellare, arricchendone il contenuto di metalli. Infatti, le prime stelle formatesi nelle galassie, più massicce e più calde, avevano una composizione chimica iniziale analoga a quella primordiale dell’Universo. Esplodendo al termine della loro evoluzione nella fase di supernovae e quindi praticamente disintegrandosi, hanno disperso i metalli prodotti al loro interno dalla nucleosintesi nel mezzo interstellare, da cui si sono formate nuove stelle con una composizione chimica più evoluta. Tra queste le più massicce, a loro volta, hanno sintetizzato al loro interno elementi via via più pesanti, per poi disperderli al termine della loro vita, come supernovae, nel mezzo interstellare, arricchendone sempre più la composizione chimica. E così via, con un ciclo quasi continuo di nascita e distruzione completa di stelle…, fino all’attuale composizione chimica del gas che costituisce la nostra e le altre innumerevoli galassie che popolano l’Universo. Gli elementi così formatisi sono anche presenti nella struttura e nell’atmosfera dei vari pianeti del Sistema Solare, compresa la Terra. Anche grazie alla loro presenza si sono potute formare associazioni di atomi, le molecole, via via più complesse, fino a quelle strutture chimiche che costituiscono i mattoni fondamentali del fenomeno vita. Secondo le nostre conoscenze, quindi, gli elementi pesanti (metalli) attualmente presenti in natura sono la conseguenza di una serie di processi di formazione e distruzione di stelle, con ogni distruzione (equivalente ad una vera e propria morte) fonte di arricchimento di metalli per il mezzo interstellare circostante, a sua volta pronto a favorire la formazione di nuove stelle con un maggior contenuto di metalli rispetto a quelle formatesi in precedenza. Ecco come hanno avuto origine gli elementi chimici.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 178

178

Daniele Spadaro

Potremmo riassumere il discorso fatto fin qui con il titolo di una nota ed orecchiabile canzone di venticinque anni fa circa, “Figli delle stelle”. Sembra proprio che questo appellativo ci riguardi direttamente! Il fenomeno evolutivo appena descritto evidenzia quindi un comportamento “collettivo e coordinato” da parte degli oggetti stellari più massicci, i quali complessivamente hanno contribuito, e continuano a contribuire, a determinare la composizione chimica media dell’Universo attuale. Anche in questo caso viene in rilievo un quadro unitario e relazionale, in cui ogni componente dipende costitutivamente dal ruolo svolto dagli altri componenti. La natura non è certo fatta di monadi, come sembrano mostrare i dati dell’indagine scientifica attuale. Questa dipendenza può risultare in alcuni casi estremamente delicata e critica, e va presa seriamente in considerazione quando, per esempio, vogliamo porre le basi per una nuova visione del rapporto uomo-natura. La criticità di tali dipendenze, infatti, dovrebbe indurci ad abbandonare la figura dell’uomo dominatore della natura, sfruttata esclusivamente per il proprio interesse ed in nome di un progresso tecnologico ed economico sempre più sfrenato ed indiscriminato. La delicata rete di relazioni che è stata tratteggiata sinteticamente nelle righe precedenti potrebbe essere compromessa da un tale approccio, con conseguenze addirittura catastrofiche per l’intero ecosistema in cui ci troviamo a vivere, uomo compreso. I problemi legati al riscaldamento globale del pianeta sono un esempio evidente in cui la notevole alterazione della composizione chimica dell’atmosfera, indotta dalle attività della società industriale, si sta ritorcendo sulle condizioni di vivibilità dell’ambiente terracqueo. Mi sembra che l’uomo contemporaneo debba svolgere un ruolo certamente di guida e di orientamento nei confronti della natura, cercando di trarne tutto il giovamento che la capacità razionale di cui è dotato gli consente. Non possiamo rimanere passivi spettatori di una natura che pretendiamo di preservare inalterata. Dobbiamo agire su


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 179

Relazioni ed evoluzione nell’universo

179

di essa, plasmarla per quanto è possibile secondo una funzionalità quanto più utile al progresso armonioso, equo e solidale dell’intero genere umano, ma mantenendo ferma la consapevolezza che anche noi facciamo parte di quella rete di relazioni e di interdipendenze che permea tutta quanta la struttura della natura, come ho cercato di mettere in luce abbastanza sinteticamente nella mia comunicazione. “Non posso ferirti senza far male a me stesso”. Si esprimeva più o meno così Gandhi, per descrivere il profondo legame che intercorre tra gli essere umani. Azzarderei l’estensione di questa espressione anche al rapporto tra l’uomo e la natura. Ogni ferita infertale si può trasformare in un pericoloso boomerang per l’umanità. La comprensione di un più corretto rapporto tra l’uomo e la natura non può certo limitarsi a queste poche righe. Innumerevoli sono le sfaccettature di questo problema che andrebbero prese in considerazione, con tutte le implicazioni non solo scientifiche e tecnologiche, ma anche filosofiche, sociologiche e religiose che esse comportano. Con il mio intervento ho voluto semplicemente portare all’attenzione alcuni esempi, dedotti dai risultati dell’astrofisica, che contribuiscono a delineare la dimensione prevalentemente relazionale e unitaria della natura. Acquisire la consapevolezza di questa dimensione, in cui anche noi siamo attivamente inseriti, costituisce a mio avviso il presupposto per un sereno, consapevole, razionale e rispettoso rapporto dell’uomo con la natura, in gran parte ancora da costruire, che aiuti a superare quel senso di paura e di angoscia che frequentemente serpeggia nelle nostre società come conseguenza dei guasti che uno sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecniche incontrollato e privo di riferimenti etici certi ha spesso provocato.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 180


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 181

Synaxis 3 (2009) 181-184

IL CONTRIBUTO SPECULATIVO DI ARMANDO RIGOBELLO

ENRICO PISCIONE*

Col presente lavoro intendiamo delineare il percorso teoretico di Rigobello1 e soffermarci soprattutto sulle svolte che esso presenta. La posizione speculativa di Rigobello prende le mosse dalla discussione così viva, negli anni ’50, nell’Università di Padova, sul personalismo proposto da Luigi Stefanini, suo maestro, e sulla ripresa della metafisica classica propugnata in un primo momento da Umberto Antonio Padovani e poi da Marino Gentile. Rigobello, autore nel 1955 di una notevole monografia su Mounier, avverte ben presto che le accuse di filosofia indigenziale e, al limite, fideistica mosse al personalismo non sono prive di fondamento. Da qui il tentativo da parte del Nostro di elaborare una logica del personalismo che ha come peculiari caratteristiche: «l’esigenza di una precisa impostazione del discorso e di un suo coerente svolgimento; la necessità di realizzare la massima comunicazione tra gli uomini, la messa fra parentesi di ogni compiacenza retorica»2.

L’esigenza di un fondamento gnoseologicamente forte del personalismo trova risposta nel triennio 1961-63 quando l’autore ha modo a Monaco di Baviera, nella cerchia del prof. Helmut Kühn, di *

Docente di Logica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Chi volesse approfondire il contributo filosofico di Rigobello può proficuamente leggere il volume A. PIERETTI (cur.), Estraneità interiore e testimonianza. Studi in onore di Armando Rigobello, Napoli 1995. 2 A. RIGOBELLO, Introduzione ad una logica del personalismo in Struttura e significato, Padova 1971, 328. 1


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 182

182

Enrico Piscione

approfondire la nozione del trascendentale kantiano come punto nevralgico della storia della filosofia europea. Frutto di questa ricerca è il volume I limiti del trascendentale in Kant del 1963 e poi la prima parte del libro Oltre il trascendentale che è del 1994. Dopo la fase personalistica e gli studi kantiani, Rigobello si accosta ad Husserl di cui approfondisce, in un primo momento, soprattutto la feconda nozione di «Lebenswelt». Lo scritto che compiutamente esprime questo periodo rigobelliano è il volume Legge morale e mondo della vita del 1968. Per delucidare tale passaggio dell’itinerario speculativo del Nostro ci serviamo delle stesse parole scritte da Rigobello nell’introduzione del libro che è il contributo attorno a cui ruota per alcuni anni il suo insegnamento di Filosofia morale all’Università di Perugia. Così si esprime: «Dal personalismo, quindi, all’antropologia fenomenologica. Ma con la consapevolezza di non rovesciare una posizione, bensì di ripetere un problema. Siamo consapevoli delle difficoltà di aprirsi una strada nel senso indicato, tanto più che non si tratta di due anime da giustapporre ma di un guadagno speculativo da ottenere radicalizzando il metodo prescelto»3.

In seguito, approfondendo i temi già ricordati, Rigobello pubblica nel 1977 un volume che si intitola L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana. In tale scritto l’autore intende individuare la connessione fra analisi interiore e struttura trascendentale e sottolinea che una siffatta operazione speculativa spinge ad un impegno, appunto l’impegno ontologico. A partire dal 1988 segnaliamo nel Nostro un interesse squisitamente antropologico, come è testimoniato dal volume Autenticità nella differenza. Si tratta, suggerisce egli stesso, di un’ «antropologia ‘in dürftiger Zeit’; non quindi di un trattato di antropologia filosofica che richiede la serenità e il distacco da cui nascono le 3

ID., Legge morale e mondo della vita, Roma 1968, 10.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 183

Il contributo speculativo di Armando Rigobello

183

opere di vasto respiro sistematico, ma di una riflessione sulla condizione umana»4.

Il titolo stesso dell’opera richiama la diade heideggeriana di identità e differenza che Rigobello con forte rigore speculativo trasforma nella formula «autenticità nella differenza». Nella conclusione di Autenticità nella differenza Rigobello affronta varie tematiche come il problema di Dio, della morte e del piacere e della felicità prendendo le mosse dai noti paragrafi 42, 43 e 44 delle Meditazioni Cartesiane (la V) di Husserl. Il volume L’estraneità interiore del 2001 costituisce una felice e originale ripresa dell’interiorità agostiniana che trova la sua mirabile sintesi nell’affermazione di Dio come «interior intimo meo» (Conf. III, 6 11). Il successivo lavoro Immanenza metodica e trascendenza regolativa del 2004 si può considerare come l’ultima opera di una trilogia filosofica. In esso l’immanenza viene presentata come quella metodologia che pone l’accento sulla limitatezza della condizione umana e la trascendenza assume il valore di un’apertura alla sfera dell’ulteriorità. I due termini possono non contrapporsi purchè s’interpreti l’analitica, per dirla con Ricoeur, come «un’analisi in ascolto» che sola riesce a dare compimento all’esigenza, tutta filosofica, di un trascendimento regolativo e a intravedere così un orizzonte propriamente religioso. Un’altra suggestiva proposta teoretica rinveniamo nel volume L’apriori ermeneutico. Domanda di senso e condizione umana del 2007 dove Rigobello, prendendo posizione contro il relativismo cui può approdare una certa filosofia ermeneutica, sostiene che l’attività interpretativa trova il suo fondamento ultimo nella domanda di senso sulla condizione umana e quindi non può mai ridursi alla sconcertante affermazione di Nietzsche secondo cui «non esistono fatti ma solo interpretazioni»5. L’autore è convinto che ne L’âge herménetique de la raison, per dirla col titolo di un famoso volume di J. Greisch, nell’attuale arido 4

ID., Autenticità nella differenza, Roma 1989, 8. F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1885-87 in Opere, trad. it. di S. Giammetta, vol. 8, tomo 1, 1975, 299-300 (frammento n. 7 [60]). 5


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 184

184

Enrico Piscione

clima speculativo, è necessario riproporre una forma di metafisica che, per quanto scarna possa essere, sia essenziale e «nel cui ambito poi si situa l’ampio spazio dell’ermeneutica e della testimonianza»6. Il percorso speculativo di Rigobello è ancora in pieno fervore intellettuale, come dimostra la sua ultima fatica intitolata Prossimità e ulteriorità. Una ricerca ontologica per una filosofia prima del 2009. In questo volume il Nostro, confrontandosi soprattutto con Lévinas con atteggiamento tanto critico quanto aperto, giunge alla conclusione che l’ulteriorità può essere vissuta nella prossimità e che la sfera dell’ulteriore così concepita rinvia a quella scienza teoretica chiamata da Aristotele «filosofia prima». Superando ogni forma di pensiero decisamente antimetafisico il Nostro insiste sulla necessità di elaborare una «metafisica non certo debole ma umile in cui si concretano le innumerevoli singolarità dell’avventura umana»7.

La lunga e feconda attività di Rigobello continua tuttora come testimonia la recentissima pubblicazione del volume dal titolo L’intenzionalità rovesciata. Dalle forme della cultura all’originario. Si resta certamente colpiti — e non lo diciamo appena per devozione di allievo — dal vasto e impegnativo itinerario teoretico di Rigobello e in particolare dalla profondità del livello speculativo in cui egli colloca la propria rigorosa riflessione, ove la filosofia si fa vita e, quindi, testimonianza morale e il bios theoretikòs si trasforma, per ciò stesso, in paideia.

6

ID., L’apriori ermeneutico. Domanda di senso e condizione umana, Soveria Mannelli, 2007, 81. 7 ID., Prossimità e ulteriorità. Una ricerca per una filosofia prima, Soveria Mannelli, 2009, 30.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 185

Nota Synaxis 3 (2009)185-192

FRANCO VOLPI FILOSOFO:UN RICORDO

SALVATORE LATORA*

Un balordo e purtroppo mortale incidente ha tolto la vita a Franco Volpi, mentre si trovava in sella alla sua bicicletta a San Germano dei Berici (Venezia), trasportato all’ospedale di Vicenza, entra in coma e muore il 15 aprile. Aveva 57 anni, era titolare di Storia della filosofia nell’Università di Padova; uno dei maggiori studiosi della filosofia tedesca a partire da Heidegger, di cui ha tradotto Essere e tempo. Opera riedita di recente, 2009, nei Classici del Pensiero occidentale 15, (edizione speciale per il Corriere della Sera). Autore con Berti della Storia della filosofia, vol. III; e delle opere: Il Nichilismo, Dizionario delle opere filosofiche, Hegel e i suoi critici, La rinascita della filosofia pratica in Germania, Heidegger e Brentano, Heidegger e Aristotele, Sulla fortuna del concetto di “decadence” nella cultura tedesca. Il suo maestro, Enrico Berti, nel momento doloroso del ricordo, ripercorre le tappe di una carriera che aveva portato lo studioso vicentino a raggiungere la fama mondiale e i tratti salienti del suo pensiero: «Era particolarmente interessato alla Filosofia pratica e, dopo il periodo iniziale, aveva imboccato con le ricerche sul Nichilismo, una strada propria: da allora non riuscii più a consideralo un semplice allievo, ma un prezioso collaboratore e amico». *

Docente emerito di Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 186

Salvatore Latora

186

Condividiamo il seguente giudizio di Berti su Franco Volpi: «Studioso di Heidegger senza essere heideggeriano, cultore di Aristotele senza essere aristotelico, conoscitore del Nichilismo, senza essere nichilista e neppure con la metafisica lo si poteva rinchiudere negli spazi di una categoria. Era un uomo libero capace di vivere in prima persona la meraviglia della filosofia, nella consapevolezza che le domande da essa poste non abbiano soluzione, ma solo storia».

Ci sembra significativo soffermarci sul volume Il Nichilismo, che affronta la storia del concetto e del problema di quest’ospite inquieto e inquietante che ormai da molti anni si aggira tra di noi e in noi: è un itinerarium mentis in nihilum. Secondo Nietzsche, che ne è stato il profeta e il teorico, il Nichilismo: è la mancanza del fine e di ogni perché, significa che i valori supremi perdono ogni valore; è dunque la situazione di disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al “perché” e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo… Il fuoco appiccato da Nietzsche divampa oggi dappertutto. Chiunque può vedere che il Nichilismo non è più soltanto il fosco esperimento di stravaganti avanguardie di intellettuali, ma fa parte ormai dell’aria stessa che respiriamo1. «Il nichilismo — una parola riservata fino a qualche tempo fa a poche élites — è oggi espressione di un profondo malessere della nostra cultura: che si accavalla, sul piano storico-sociale, ai processi di secolarizzazione e di razionalizzazione, quindi di disincanto e di frantumazione della nostra immagine del mondo, e che ha provocato sul piano filosofico, in merito alle visioni del mondo e ai valori ultimi, la corrosione delle fedi e il diffondersi del relativismo e dello scetticismo. E quale che sia l’atteggiamento che si assume nei suoi confronti, di accettazione o di rifiuto, di tolleranza o di reazione, chiunque può

1

F. VOLPI, Il Nichilismo, Bari 2004, 4.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 187

Franco Volpi filosofo: un ricordo

187

vedere quanto la storia abbia riempito il nichilismo di sostanza di vita vissuta, di azioni e di dolori»2.

Dinanzi a questo fenomeno che consiste, come è stato detto da Luhmann, in un Paradigm lost (Paradigma perduto) molti sono stati gli sforzi per oltrepassarlo specialmente sul piano morale e dell’etica e a questo è dedicato l’ultimo capitolo, il 17° del libro, dal titolo Oltre il Nichilismo? Ma, esaurito un paradigma interpretativo, un altro vi subentra e lo sostituisce: è il paradigma tecnico-scientifico: «la scienza e la tecnica — che raccorciano lo spazio e velocizzano il tempo, che alleviano il dolore e allungano la vita, che mobilitano e sfruttano le risorse del pianeta — forniscono una guida molto efficace».

Bisogna riconoscere però che non è questo il solo modello che si impone, perché avanza prepotente una richiesta di etica, anzi, afferma l’A., con una regolarità quasi astronomica a ogni fine di secolo ritorna prepotente questa richiesta di etica. Si possono infatti vedere sia nella tradizione del pensiero continentale, proposte come il neoaristotelismo di Gadamer o l’etica dell’argomentazione di Habermas e Apel, o l’etica della responsabilità di Hans Jonas; sia nel campo della filosofia anglo-americana, dove si diffondono il neocontrattualismo, la metaetica, l’etica pubblica, la bioetica e l’etica dell’ambiente. Il Nichilismo, se da un lato ha corroso le verità (è diffusa ormai la terminologia: perdita del centro; svalutazione dei valori; crisi di senso ecc.) e indebolito le religioni, dall’altro ha dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma del lògos che ci rende capaci di navigare tra gli scogli del mare della precarietà (la generale gara di solidarietà in seguito alla catastrofe del terremoto in Abruzzo ne è una prova!). Del resto già Husserl attribuiva questa crisi a

2

Ibid., 173-174.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 188

188

Salvatore Latora «un tradimento dell’originaria idea di ragione, un imbarbarimento e un impoverimento di quel lògos, che con Socrate, Platone e Aristotele aveva saputo imporsi sul nichilismo di Gorgia»(p. 177).

1. LA SVOLTA DELLA FILOSOFIA PRATICA L’Autore lavorò più di dieci anni su questo tema e i suoi risultati sono condensati in un lungo saggio: Che cosa significa neoaristotelismo? La riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella crisi della modernità. Tale studio si trova in E. BERTI (cur.), Tradizione e attualità della filosofia pratica, Genova 1988, 111-136. E già prima con La nascita della filosofia pratica in Germania, in PACCHIANI (cur.), Filosofia pratica e scienza politica, Abano (Padova) 1980, 11-97. «In generale, egli scrive, per riabilitazione della filosofia pratica si intende un ampio dibattito avviatosi in Germania agli inizi degli anni Sessanta, nel quale si è affermata in ambito filosofico, una ripresa dell’interesse per i problemi dell’agire umano, in particolare per le grandi questioni della morale, della società, del diritto e della politica, congiuntamente all’esigenza di riattivare in tutti questi ambiti una competenza critico-normativa della filosofia»3.

E ciò ha la sua matrice in Aristotele che ha riconosciuto alla filosofia pratica, comprendente l’etica (distinta dalla morale), l’economia e la politica, dignità di scienza conoscitiva, pur distinta dal sapere teoretico e dal sapere poietico. Contro la pretesa di estendere a tutto lo scibile il metodo matematico della scienza e della tecnica, che si configura come comprensione descrittiva e avalutativa e porta a un generale disincantamento del mondo (Max Weber), e a un atteggiamento manipolativo della natura. E, per quanto riguarda la politica, si mostra refrattaria all’idea moderna di Stato di tipo machiavelliano o hobbesiano, che rappresenta l’antitesi più potente alla concezione aristotelica della politica come sapere pratico. 3

E. Berti (cur.), Tradizione e attualità della filosofia pratica, Genova 1988, 118.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 189

Franco Volpi filosofo: un ricordo

189

Non è difficile, pertanto, vedere in Europa e nel mondo globalizzato il diffondersi del secolarismo, del nichilismo, del relativismo dei valori, etc. Tale ripresa della filosofia pratica, oltre che in Germania, viene sostenuta in Italia, da Enrico Berti, Franco Volpi ad altri, mentre si additano Autori come, Hannah Arendt di Vita activa, Hans Georg Gadamer, Hans Jonas, Otto Apel, Jürgen Habermas etc. È vero che nuovi paradigmi sono stati inventati dagli scienziati, da sostituire o aggiungere a quello della scienza classica, ma essi hanno poco modificato a livello di ethos vissuto e specialmente nel campo politico, quel diffuso nichilismo di cui si diceva. Per questo, più significativa in rapporto agli sviluppi futuri è la ripresa della filosofia pratica, che rappresenta una critica alternativa all’unilateralità degli sviluppi moderni dell’idea di ragione, riproponendo modelli di razionalità pratica, come la phronesis, il sensus communis e la prudentia, secondo cui la politica non può essere ridotta a mera tecnica per la conservazione del potere, ma ha da guardare alla forma migliore di vita, al vivere bene dei cittadini. Infatti: «I neoaristotelici sostengono la diversità e quindi l’autonomia del sapere pratico, proprio dell’etica e della politica, rispetto al sapere delle discipline descrittive-constatative» (ibid., 124).

e manipolative della scienza e della tecnica. Tre sono i criteri distintivi che da essi vengono enucleati: «1) La diversità del fine, che nella teoria è la constatazione del vero, mentre nella praxis è la riuscita della praxis stessa, cioè l’agire bene, il vivere bene. 2) La diversa modalità dell’essere dell’oggetto abbracciato: nel caso della teoria gli oggetti considerati hanno un carattere di stabilità maggiore rispetto all’azione umana con le quali ha a che fare il sapere pratico; queste ultime non sono qualcosa di necessario, qualcosa che non può essere altrimenti da com’è, né accadono secondo il caso; il loro accadere ha la regolarità relativa di ciò che accade per lo più. 3) Il sapere pratico non può e non ha da conseguire la stessa precisione ottenibile, ad esempio, nelle matematiche, ma la minore precisione in esso conseguibile non inficia la scientificità del sapere pratico;


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 190

190

Salvatore Latora esso è un sapere soltanto verosimile non nel senso di essere approssimazione al vero, bensì nel senso che esso è verità del probabile. Nelle sue procedure argomentative, il sapere pratico non si struttura in modo apodittico, bensì in modo topico-dialettico. Come, ad esempio, il sillogismo pratico che, pur avendo la stessa cogenza logica di quello apodittico, non parte come quest’ultimo da premesse vere e necessarie, ma da premesse soltanto probabili, da opinioni notevoli, e non può di conseguenza arrivare che a conclusioni altrettanto probabili; per questo esso avrebbe un carattere topico-dialettico» (cit., 124-125).

Si additano come esemplari di questo filone di pensiero, oltre agli Autori sopra nominati, Hannah Arendt e Simone Weil, come esempi dell’impolitico, perché gli ambiti usualmente considerati, cioè la dimensione morale della giustizia e quella conflittuale della forza per il potere, non siano più sufficienti a comprendere il fenomeno della politica, infatti, la caratteristica dell’azione riguarda questione di senso (Arendt); di giustizia e di carità (Weil). Per il problema dell’impolitico cfr. gli studi di Esposito (la politica non è tutto; il non perfettismo della politica, secondo Rosmini). Ma è significativo a tal proposito il pensiero e l’opera di Luigi Sturzo e la sua sociologia storicistica, che può essere additata come un esempio valido di sociologia umanistica come filosofia pratica o politica non meno interessante di quella indicata dagli Autori stranieri sopra citati. Le opere principali di Luigi Sturzo da cui si può trarre la giustificazione di tale tesi sono: La società sua natura e leggi (1960); Chiesa e Stato (1959, 2 voll.); La vera vita. Sociologia del soprannaturale (1943); Politica e morale; Coscienza e politica; Note e suggerimenti di politica pratica (1952); La comunità internazionale e il diritto di guerra (1928). Bisogna anche ricordare che egli applicò tale progetto nella fondazione concreta del Partito Popolare, e prima ancora nell’esperienza di amministratore locale, ma soprattutto ha saputo costruire un modello teorico-pratico di sociologia storicista. Non può esistere vera sociologia, secondo Sturzo, che non sia filosofia:


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 191

Franco Volpi filosofo: un ricordo

191

«La sociologia è nata positivista, scriveva al fratello Mario nel 1934, A. Comte inventò questa parola mezzo latina e mezzo greca. Ancora oggi non si riesce a svincolarla dal positivismo. I sociologi disprezzano i filosofi e viceversa. Secondo me non può esistere vera sociologia che non sia filosofia. Perciò il mio sforzo è di ricercare gli elementi sociologici che non patiscono ulteriore risoluzione. Lì si incontra la filosofia, cioè si fa della filosofia facendo della sociologia. Non sono due scienze né opposte né indipendenti; la sociologia è una branca della filosofia e si appoggia su tutte le indagini fornite dalle scienze positive. Io non la chiamerei sociologia, ma antropologia sociale»4.

Come concepisce Sturzo la sociologia storicista? Egli ritiene, come anche in Aristotele, che l’uomo è sempre associativo ed associato e che la società non è altro che la realtà stessa dell’uomo. «È questa la mia tesi. — scriveva in altra lettera del 29 marzo 1932 da Londra, al fratello Mario, vescovo di Piazza Armerina, contro la concezione di una sociologia ontologica, sia positivista (società-ente biopsichico) sia idealista (società-spirito-Ente; Stato, etc.) — Io perciò nego la sociologia e ammetto l’antropologia sociale».

Miseria dello storicismo, potrebbe dire con Popper; la storicità di Sturzo, non è quella di Croce, bensì quella di Vico. Sturzo sostiene un’antropologia integrale: «Vera vita è quella completa per ogni lato, che corrisponde a tutte le nostre aspirazioni più profonde e forma la più alta sintesi delle nostre potenzialità e attività… La vita soprannaturale non è per l’uomo una mera aggiunzione o una sovrapposizione accidentale alla sua vita di natura, è una vera trasformazione dell’esistenza ed attività umana»,

si legge nella Introduzione a La vera vita. Sociologia del soprannaturale che, insieme con La società sua natura e leggi e ai due volumi di Chiesa e Stato, costituiscono una trilogia essenziale per comprendere 4

Carteggio, Lettera 1485, vol. III, Roma 1985.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 192

192

Salvatore Latora

il pensiero di Sturzo; se poi si aggiunge il programma del Partito popolare ci si può fare convinti che in Sturzo, più che in Hannah Arendt si può legittimare un vero esempio di filosofia pratica. Con l’auspicio di una migliore conoscenza dell’opera dei fratelli Sturzo, chiudiamo queste note di filosofia pratica, tanto necessaria per una rinnovata dignità scientifica della filosofia politica.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 193

Recensioni Synaxis 3 (2009) 193-201

R. GUARDINI, L’opera d’arte, Morcelliana, Brescia 20083. L’uscita della terza edizione del breve saggio di Romano Guardini sull’opera d’arte — una sorta di “abbozzo” su ciò che il teologo italo-tedesco scomparso quarant’anni fa definisce una “realtà poliedrica”, un’entità “irreale” ed “efficace” allo stesso tempo, “superflua” e tuttavia “indispensabile” (p. 13) — ci offre l’occasione per riprendere in mano un intenso studio in cui viene quasi compendiata l’estetica e il pensiero del grande teologo, maestro anche di Joseph Ratzinger, sull’opera d’arte colta nella sua valenza storico-metafisica. Questo breve saggio è la trascrizione di una conferenza tenuta da Guardini all’Accademia delle Arti Figurative di Stoccarda, sebbene presenti delle aggiunte postume e delle precisazioni su diversi punti operate dallo stesso teologo. I lineamenti della sua estetica sono ben tracciati attraverso alcuni suggestivi passaggi tanto veloci quanto incisivi: il costituirsi della forma artistica, le immagini, il senso, il nesso tra etica e bellezza, il rapporto con la realtà. Di tutto ciò l’Autore ce ne dà conto negli otto brevissimi capitoletti in cui viene presentata innanzitutto la questione fondamentale che si intende trattare, nella sua complessità irriducibile (cap. I); quindi l’incontro e la costituzione della forma, ovverosia il movimento per cui l’artista, protendendosi verso ciò che si trova al di fuori di lui al fine di ricrearlo, coglie l’essenza della cosa, e in tale movimento coglie anche se stesso (cap. II). Nel cap. III si affronta la questione delle immagini, quali elemento originario dell’esistenza che continua a influire nella vita dell’uomo, mentre nel cap. IV la questione della totalità dell’esistenza, in quanto ogni opera d’arte non è una semplice porzione di ciò che esiste, ma è, appunto, una totalità, ragion per cui in ogni opera d’arte è il mondo stesso che sorge e in essa risuona il tutto dell’esistenza. Andando avanti ecco la riflessione intorno allo scopo e al senso dell’opera d’arte, cioè a dire: l’opera d’arte


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 194

194

Recensioni

esiste per essere una forma che rivela, e non tanto per utilità tecnica o per vantaggio economico o per un miglioramento didattico-pedagogico (cap. V); quindi l’esigenza etica e la bellezza, in quanto quest’ultima deve informare la vita dell’uomo perché questi divenga ciò che è chiamato ad essere (cap. VI); il rapporto dell’opera d’arte con la realtà nella quale tuttavia l’opera d’arte, col suo nucleo più proprio, non risiede, in quanto essa dimora nell’ambito della rappresentazione (cap. VII), e infine si studia la promessa che rivela il destino proprio dell’ente che nell’opera d’arte raggiunge la sua piena verità e in cui la realtà è sottomessa all’essenziale (cap. VIII). Ognuno di questi passaggi nasconde delle veloci pennellate che con poche parole sanno dire molto. Su un punto particolarmente interessante vale la pena spendere qualche parola di commento, per il resto la chiarezza e l’acume delle riflessioni del teologo non abbisognano di ulteriori chiarimenti. Quando Guardini si sofferma sull’importanza delle immagini per esprimere il senso stesso dell’esistenza, facendo riferimento al mito delle Norne, analoghe alle Parche, in cui la vita di ogni uomo è vista come una sorta di filo dipanato, svolto e infine tagliato proprio da quelle donne, afferma: «Essendo però un elemento originario dell’esistenza, l’immagine sopravvive al crollo del pensiero mitico e continua a influire nella vita, benché in modo più velato, più confuso, più debole. La credenza nelle filatrici del destino può dunque perire; l’immagine del filo invece è indistruttibile e indispensabile per la comprensione della propria esistenza» (p. 23). In tal senso l’opera d’arte deve essere una forma che rivela. «La bellezza è qualcosa di definitivo» (p. 38) e perciò stesso è per sua natura escatologica, appartiene al mondo a venire. L’opera d’arte è chiamata a lasciar trasparire questa luce che si sprigiona e che è propria dell’ente ormai giunto nel suo stadio definitivo o colto nella prospettiva di ciò che deve essere. L’opera d’arte, quindi, ha come proprietà essenziale quella di non risiedere, col suo nucleo più proprio, nella realtà, ma è posta oltre la soglia del reale. «In essa l’ente raggiunge la sua piena verità e la realtà è sottomessa all’essenziale […] suscita la speranza che sorga un giorno effettivamente il mondo come dovrebbe esserci». Dire questo, aggiunge il Teologo, significa sostenere che «l’arte delinea in anticipo


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 195

Recensioni

195

qualcosa che non è ancora presente. Essa non può dire come diventerà; tuttavia garantisce in modo misteriosamente consolante che avverrà» (pp. 47-48). Consiste proprio in questo il carattere profetico e di promessa proprio dell’arte: in essa e per essa, il mondo a venire in qualche modo riluce già nel mondo attuale e questo mondo intravede il suo stadio definitivo. Se le possibilità proprie del mondo si svilupperanno esclusivamente all’interno del suo esser-ci, per la semplice ragione che il mondo da sé non può oltrepassare il limite della sua stessa datità, per cui il futuro non è a sua completa disposizione, e con il futuro l’essere che le cose sono destinate ad essere, è pur vero che «l’esser-ci non ottiene da se stesso quello a cui mira. Ciò, il vero futuro, deve realmente “arrivare” a noi da Dio: in quanto “nuovo cielo e nuova terra” in cui si manifesta l’essenza delle cose […]. Di quest’essere nuovo parla l’arte» (p. 49). Per questa ragione, ed è questa una conclusione che apre a scenari davvero affascinanti, l’arte ha di per sé un carattere religioso che le è per ciò stesso insito e connaturale. Essa è intrinsecamente religiosa per il suo rimando al futuro che tuttavia non può essere fondato a partire dal mondo. Se questo è vero, si ha ancora una volta la conferma di quanto detto poco prima: «Ogni autentica opera d’arte è essenzialmente “escatologica” e proietta il mondo al di là, verso qualcosa che verrà» (p. 49). Non è solo rivelazione del mondo che verrà, sipario aperto sul mondo futuro, ma più ancora forza che muove il mondo attuale verso ciò che deve essere, verso la meta del suo dinamismo. Se l’opera d’arte è tale, allora essa porta l’uomo ad avere il presentimento di ciò che egli è in verità, e lo conduce a credere nella promessa che un giorno, nonostante le brutture che segnano il presente storico del mondo, attraversato da mille contraddizioni e da infiniti contrasti spesso irriducibili, insopportabili, estremamente dilanianti, giungerà ad essere perfettamente ciò che è nella sua identità più profonda e inalienabile. L’arte, pertanto, secondo il Nostro, lungi dall’essere una via di fuga strategica per schivare momentaneamente le brutture del mondo, è invece la via privilegiata perché la Bellezza trasfiguri il presente grazie alla memoria riconoscente del passato e alla promessa carica di speranza del futuro. Da queste brevi sottolineature, risulta palese che quello di Guardini è un testo che attraverso il suo stile inconfondibile, proprio


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 196

196

Recensioni

di una delle più rappresentative figure della storia culturale del XX sec., continua a dire anche al nostro presente, sempre più preda di una deriva nichilista, che è quanto mai vero che sarà proprio la bellezza a salvare il mondo. Francesco Brancato

F.D. TOSTO, La letteratura e il sacro. I Storia – Fonti – Metodi (secc. XIX – XX), prefazione di Giorgio Barberi Squarotti, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2009. Il libro di F. Tosto, con prefazione di G. Barberi Squarotti (firmatario anche di un lucido e acuminato saggio sul perenne significato umano e religioso della letteratura, inserito tra gli Interventi in appendice al volume), colma una lacuna da tempo avvertita da parte degli studiosi dell’argomento. Non che mancassero in materia ricerche approfondite e interessanti accostamenti ermeneutici al rapporto letteratura-sacro: tutt’altro; la produzione è così abbondante, come del resto dimostrano i puntuali riferimenti bibliografici dell’autore, che sembra ormai sterminata e, a volte, indominabile. Si sentiva, invece, l’esigenza di una visione d’insieme delle varie tematiche in questione e di una ricognizione complessiva dei diversi punti di vista da cui muovono le interpretazioni concernenti, non solo l’essenza del sacro in quanto tale, bensì pure i molteplici “canali” mediante i quali esso penetra, per così dire, nel testo letterario, anche là dove esso apparentemente se ne tenga lontano o risulti refrattario a qualsivoglia sua recezione. Ed è merito dell’autore l’aver pazientemente e diligentemente seguite e rilevate le tracce visibili e meno visibili di questi percorsi aperti o segreti che rivelano, ad occhi attenti, le reali e possibili modalità di feconda contaminazione tra ispirazione esteticopoetico-artistica e religiosità. Le questioni, di contenuto e di metodo, delineate e affrontate nel volume, hanno un’importanza teorico-pratica decisiva, e dico “pratica”, perché perfino i lettori più interessati al problema, seppure dotati di sicuro intuito, non sempre riescono a reperire e applicare


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 197

Recensioni

197

criteri ermeneutici idonei a orientarsi nel mare largo del mondo letterario, e a sollecitare correttamente i testi a rispondere nella direzione da loro auspicata, senza “violentarli”. Ciò deriva, in parte, dagli esiti ambigui delle discussioni teoretiche sul rapporto letteratura e sacro. Le quali oscillano di solito tra due tesi estreme: la tesi massimale o massimalista, secondo cui la poesia e l’opera d’arte in genere sarebbe costitutivamente intrisa di religiosità, costitutivamente aperta, nel modo dell’accettazione o della negazione, alla dimensione del sacro, sicché ispirazione poetica e sentire religioso vengono a comporre un tutt’uno inscindibile di diritto e, per ciò stesso, inseparabile di fatto; e la tesi minimalista, che, all’opposto, tende a rimarcare come tra letteratura e sacro, stante la funzione autonoma e autosufficiente della letteratura, possano sussistere solo rapporti episodici, sporadici, accidentali, estrinseci e, in ultima analisi, rilevabili soltanto da indagini che muovono da interessi estranei a quelli estetici. Sembra, invece, esserci una terza prospettiva o visuale, molto più feconda e più “praticabile” dal punto di vista interpretativo; ed è quella in cui si colloca Tosto. Essa distingue e individua, nell’attività “poietica”, il concorso di due fattori: la sensibilità estetica e la sensibilità umana dell’artista-autore. Mentre la sensibilità estetica, potendo investire qualsiasi contenuto, è formalmente indipendente da o “indifferente” ad ogni contenuto, la sensibilità umana dell’artista, trasfigurata per il tramite dell’elaborazione estetica, è, per sua natura, “multiversa ”, capace, cioè, di incorporare le più disparate inclinazioni o propensioni dell’animo. Quando essa appare spontaneamente disposta a proporre, riproporre e accogliere gli interrogativi radicali sul senso dell’esistenza umana, può riverberare nell’opera, in modo affatto proprio e originale, una sintonia, può portare a manifestazione una forte affinità con il vissuto tipico della sfera religiosa; ed è tale affinità, da accertare caso per caso, che apre lo spazio teorico per la ricerca, l’esplicitazione e la comprensione dei rimandi alla religiosità racchiusi nelle produzioni letterarie. Il libro dedica due capitoli fondamentali, rispettivamente, al tema del sacro nell’esplorazione letteraria e agli itinerari storiografici e prospettive metodologiche di tale esplorazione. Dà conto, nel capitolo terzo, del dibattito critico intorno alla poesia religiosa. Affronta nel capitolo quarto la questione della ispirazione biblica nella lette-


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 198

198

Recensioni

ratura. Si occupa, nel capitolo quinto, della possibilità di un fruttuoso confronto tra la teologia e le domande radicali sulla condizione umana emergenti dal testo letterario. Da segnalare, ancora, i capitoli concernenti i plurimi risvolti del rapporto tra cristianesimo e letteratura, sia per ciò che riguarda le “voci cristologiche” raccolte in essa dai critici letterari di matrice cattolica e laica, sia per ciò che concerne quanto dell’immaginario collettivo alimentato dalla religiosità popolare (angeli, santi, demoni) trova riscontro nella produzione letteraria italiana del Novecento. Di particolare interesse il capitolo decimo, dedicato alle immagini mariane nelle forme letterarie: l’indagine varrebbe a dimostrare come l’umanissima figura della Vergine, suggestivamente evocata in molte opere della letteratura italiana, nella prospettiva alta della tradizione teologica e nella prospettiva umile della devozione popolare, dia occasione a contributi poetici “significativi e di grande religiosità”, e fornisca la riprova del fatto che «la teologia, la devozione e la religiosità, non riescono a volte a comunicare, in forma adeguata, molte nozioni che, invece, la letteratura è capace di manifestare». Uno dei tanti motivi per cui ritengo che l’opera sarà sicuramente apprezzata dai lettori è l’equilibrio con il quale Tosto ha accostato l’argomento: accantonando la pretesa sterile di “colonizzare” il territorio della letteratura per annetterlo a un ambito che non è suo, quale potrebbe essere quello teologico o confessionale, o, addirittura, la presunzione di “giudicarlo” con i parametri del dogma codificato, egli ha voluto porsi in ascolto del testo letterario rispettandone l’autonomia e raccogliendone con onestà intellettuale e intensa partecipazione le molteplici provocazioni, i molteplici stimoli che esso offre alla riflessione sull’esperienza religiosa in genere, e cristiana in particolare. Il volume si conclude con una serie di interventi di vari autori, volti a illustrare, da prospettive differenti, aspetti peculiari del tema affrontato, nonché con un’intervista, molto ricca e suggestiva, a Mario Luzi, che rappresenta una delle ultime testimonianze da lui rese al suo modo di far poesia come “liberazione dai condizionamenti del vivere” e alla tensione religiosa ad essa pertinente. La concezione di Luzi esprime in maniera esemplare l’opinione comunemente diffusa e condivisa che addita nelle “complicazioni”


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 199

Recensioni

199

dell’esistenza, nei dolori, nelle paure e nelle angosce della condizione umana e nel bisogno indomabile di trovare risposte alle domande cruciali che ne derivano, la radice più profonda della dimensione religiosa (e questa sarebbe, secondo “i maestri del sospetto”, la sorgente impura che conferisce a ogni credo religioso una valenza consolatoria persistente, ancorché illusoria). Ma, e lo evidenziano, per esempio, le risonanze di alcuni Salmi, il Magnificat del Vangelo di Luca, la perfetta letizia di Francesco d’Assisi, le pagine sublimi di alcuni mistici, la religione può scaturire anche dalla gioia di una vita in se stessa e con se stessa conciliata. Né la cosa è sfuggita all’attenzione dell’estensore del libro, come si può evincere in base a talune considerazioni sapientemente sparse nel saggio. D’altro canto, non è certo da imputare a carenze del suo accostamento ermeneutico se, nella letteratura, mentre risulta relativamente facile “vedere” indizi della religiosità afferenti alla prima radice, raramente è dato vedere segni visibili e consistenti della seconda: sempre e comunque, nella poesia e nella letteratura in genere, è rintracciabile la coscienza acuta dell’incompiutezza dell’umano. Antonino Crimaldi

R. NARDIN – A. SIMÓN (curr.), La vita benedettina, prefazione di N. Wolf, Città Nuova, Roma 2009. Vi sono testi che, seppur trascorsi alcuni decenni dalla loro redazione, mantengono sempre viva la loro attualità, perché fonte perenne della vita di singoli e/o di comunità. Il volume che presentiamo appartiene a questa categoria di scritti perché riporta, in una fedele traduzione italiana dell’originale francese, pubblicato nel marzo 1968, un documento fondamentale per la vita monastica benedettina. Celebratasi l’assise conciliare, la Chiesa tutta si adoperò per tradurre nel vissuto concreto quanto emerso dalla ricchezza dei documenti del Vaticano II. Anche l’Ordine benedettino avvertì immediatamente l’esigenza di applicare nella propria vita comunitaria le risoluzioni conciliari.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 200

200

Recensioni

Celebrati così due Congressi degli Abati benedettini (Roma 1966 e 1967) su «l’adeguato rinnovamento della vita monastica in accordo con le direttive emanate dal Vaticano II» (p. 14), il 30 settembre 1967 fu editato il documento La vita benedettina «testo significativo perché nelle elaborazioni delle nuove Costituzioni delle varie Congregazioni monastiche, nel rinnovamento richiesto dallo stesso Concilio, questo documento divenne un punto di riferimento» (pp. 8-9). A quarantadue anni dalla pubblicazione del documento, Enrico Mariani, attento e fine studioso del mondo monastico benedettino, specialmente olivetano, ci propone la traduzione del testo, accompagnata da tre contributi. Il primo, traduzione dall’originale in lingua spagnola, riguarda la storia del documento (A. SIMÓN, La vita benedettina: Genesi e formazione del documento, 11-43); il secondo è un commento critico (R. NARDIN, La vita benedettina: un dono sempre attuale del Signore alla sua Chiesa, 103-139); l’ultimo contributo è la riproposizione di un articolo già pubblicato nel 2005 sullo sviluppo della spiritualità monastica (R. NARDIN, Spiritualità monastica, 141168). La Prefazione di Notker Wolf, Abate Primate della Confederazione Benedettina, e la Premessa dei due curatori del volume, l’olivetano Roberto Nardin e Alfredo Simón, della Congregazione di Solesmes, ambedue docenti di teologia, completano il testo che presentiamo. Dopo un’Introduzione su Unità e pluralismo nella Confederazione, il Documento presenta tre punti, «i pilastri della vita benedettina» (p. 105). Il primo su: Vocazione universale alla santità e vocazione benedettina; il secondo, articolato su tre capitoli, su: La spiritualità benedettina; il terzo, infine, anch’esso diviso in tre capitoli, su: L’istituzione benedettina. Il documento La vita benedettina, tenacemente ideato e preparato, tra gli altri, dall’indimenticato abate di Montserrat dom Gabriel Brasó, oltre all’apporto dato al rinnovamento monastico, si rivela fondamentale per la vita monastica benedettina tout court perché propone «alle varie comunità e Congregazioni dei principi essenziali di vita e spiritualità benedettina» (p. 11). E questo «al di là delle molteplici letture della Regola di san Benedetto con cui le varie Congregazioni o i singoli monasteri, hanno interpretato e fatto proprio il principale codice della vita monastica d’Occidente» (p. 133) ed


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 201

Recensioni

201

avendo chiaro che «La chiave ermeneutica con cui il nostro Documento interpreta la Regola è il Concilio Vaticano II» (l.c.). Per questo «Significativa […] è la receptio del Vaticano II che il Documento accoglie e che inserisce e amalgama nel contesto delle riflessioni sulla Regola» (p. 134). Elaborato subito dopo la chiusura del Vaticano II, La vita benedettina, oltre a presentare diverse note positive attinte dai documenti conciliari, risente certamente di alcuni limiti metodologici, contenutistici e lessicali che Nardin non nasconde nella parte finale del suo commento al Documento (cfr. pp. 136-138) ma che non imputa ad esso, «quanto alla carenza di appropriati studi specifici sulle fonti, la storia, la spiritualità e l’istituzione monastica al momento della redazione del Documento stesso» (p. 139). Ciò nonostante, «La vita benedettina presenta una notevole e articolata sintesi dell’identità benedettina, meritevole, quindi, di essere riletta anche oggi […] per una sempre più profonda riscoperta ed attualizzazione del carisma e dell’istituzione monastica che pone nella Regola di san Benedetto il proprio sicuro riferimento» (l.c.). Concludiamo, facendo nostro l’augurio degli stessi curatori del volume: «che questo lavoro contribuisca a far conoscere e apprezzare la vita monastica in chi non è monaco, e di stimolare un rinnovato amore al proprio genere di vita in chi monaco lo è […]» (p. 9). Mario Torcivia


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 202


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 203

Presentazione Synaxis 3 (2009) 203-206

G. ZITO (cur.), Storia delle chiese di Sicilia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009.

La dedica alla memoria di mons. Cataldo Naro, sostenitore dell’opera come arcivescovo di Monreale, intellettuale e storico di chiara fama, insieme alla curatela di Gaetano Zito, sono ottime premesse per la lettura del volume Storia delle chiese di Sicilia. Il corposo tomo si presenta come il risultato finale di un progetto, patrocinato dalla Conferenza Episcopale Siciliana, che ha inteso riunire diverse competenze con l’intento di colmare la lacuna, unanimemente avvertita, di una storia delle chiese dell’isola. Il volume appare concepito come uno strumento a servizio di due tipologie di destinatari, così precisa G. Zito nella sua Premessa: intende rivolgersi da una parte agli specialisti, agli studiosi, a tutti i possibili fruitori per passione ed esigenze di studio di questo genere di ricerche; dall’altra alle comunità ecclesiali, che possano trovare in esso un deposito imprescindibile di memoria storica ed un riferimento per il proprio operato. Tre criteri hanno orientato la costruzione dell’opera. Un criterio relativo alla struttura dei contributi sulle diciotto chiese locali siciliane (Acireale, Agrigento, Caltagirone, Caltanissetta, Catania, Cefalù, Mazara del Vallo, Messina, Monreale, Nicosia, Noto, Palermo, Patti, Piana degli Albanesi, Piazza Armerina, Ragusa, Siracusa, Trapani) è stato desunto dalla precedente esperienza del Dizionario delle diocesi d’Italia. In merito al contenuto si è adottato un criterio di coerenza col titolo stesso dell’opera, che ne chiarisce programmaticamente i confini e le peculiarità: «superare la prevalente prospettiva ecclesiastica del termine “diocesi” […] a favore della visuale ecclesiologica consegnataci dal Concilio Vaticano II» (p. 9). Si tratta di una ricostruzione storica che intende andare oltre i processi istituzionali, riservando


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 204

204

Presentazione

attenzione anche agli uomini che hanno operato all’interno di essi, nel tentativo di far emergere «i tratti salienti della storia delle comunità ecclesiali particolari […], i diversi stati di vita del popolo cristiano». Infine si segnala un terzo criterio relativo alla struttura compositiva di ogni singola scheda storica, organizzata attraverso una scansione per periodi o fasi storiche, un prospetto statistico di dati essenziali sulla chiesa locale, una cronotassi episcopale e un repertorio bibliografico suddiviso in fonti e studi. La Nota storica sulle diocesi italiane di Emanuele Boaga introduce con uno sguardo panoramico agile e chiaro alla specificità dei contributi seguenti, rendendo conto della storia delle diocesi dalle loro origini fino ai nostri giorni e articolandola in sette tranches che ne individuano gli snodi più importanti: secc. I-IV; V-VI; IX; X-XII; XIII-XVI; XVII-XIX; XX. A seguire il corposo contributo di Gaetano Zito, una rigorosa sintesi della storia delle diocesi siciliane, senza dubbio il saggio più pregevole e articolato del volume. I dati generali premessi alla trattazione si riferiscono a quelli forniti dall’Archivio dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero e per la parte attuale a quelli dell’Annuario Pontificio del 2008. La storia della nascita e dello sviluppo delle diciotto chiese locali siciliane e la loro fisionomia giuridica sono analizzate con chiarezza espositiva, con attenzione ad alcune questioni peculiari della chiesa siciliana, in particolare al periodo della rinascita dopo la conquista normanna. Il contributo si apre con una sintesi del I millennio di storia cristiana nell’isola, confermando l’anticipazione ad un’epoca posteriore all’età apostolica della nascita della struttura ecclesiastica siciliana. Il consolidamento del cristianesimo in età costantiniana vede l’episcopato isolano configurarsi compatto in una linea coerente di ortodossia e rispetto della chiesa romana. Del VII-VIII sec. sono i primi e unici papi siciliani, tra cui il primo, Agatone (678-681), in una Sicilia ormai bizantina, e l’ultimo, Stefano II (768-777). Appaiono evidenti le lacune sul primo millennio del cristianesimo siciliano, dal momento che della sua cristianizzazione fino alla sua bizantinizzazione si è ancora ricostruito poco. Si passa alla trattazione dello snodo critico rappresentato dall’inizio della dominazione musulmana, che dall’827 porta ad un’islamizzazione dell’isola e ad una sopravvivenza difficoltosa del


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 205

Presentazione

205

cristianesimo. Si dispone di qualche fonte in più sul periodo saraceno, nonostante la ridimensionata presenza cristiana. Certamente si configura come una tappa determinante la conquista normanna (1061), che inaugura la ricostituzione delle diocesi a partire da Troina. L’opera di Ruggero consentì il recupero delle sedi episcopali distrutte e per l’indipendenza acquisita dal conte rispetto all’autorità romana permise un’autonoma organizzazione ecclesiastica. Questo cambiò il quadro delle diocesi dell’isola, che Ruggero determinò scegliendo con opportunismo politico e gestionale. Alla questione dell’Apostolica Legazia è riservata un’attenzione particolare, come specificità della chiesa siciliana, una peculiarità che fa da cartina di tornasole del rapporto conflittuale fra chiesa e potere politico. Ancora al periodo normanno, per il favore dimostrato verso il monachesimo benedettino, si lega un altro dato al quale è riservato largo spazio: la presenza e il ruolo svolto dagli ordini religiosi. Ai benedettini e agli ordini mendicanti, non manca di ribadire Zito, si deve la ricristianizzazione dell’isola. Alla fine del XII sec. la Sicilia presentava una mappa diocesana che sarebbe rimasta più o meno inalterata fino al XIX sec., epoca fino alla quale si spinge con lucidità la trattazione. Molto ricco il repertorio delle appendici di cui è corredato il saggio iniziale; vale la pena darne conto nel dettaglio. La prima appendice è una mappatura della diffusione degli Istituti religiosi e dell’operato di monaci e frati nell’isola, determinante, come si è già detto, per la storia religiosa siciliana. L’elaborazione e l’interpretazione dei dati relativi ai monasteri e ai conventi maschili nel 1650 ha permesso a Zito di trarre conclusioni importanti, che si possono “leggere” visivamente grazie all’efficace elaborazione di una relativa cartina (p. 184). La seconda appendice dà conto dei monasteri e conventi ordinati per luogo (214 sedi); la terza, di monasteri e conventi ordinati per data di fondazione. La quarta è una schedatura, a cura di E. Boaga, dei conventi carmelitani in Sicilia dal sec. XIII al 2008. La quinta raccoglie i dati sulle diocesi siciliane della regia visita di Giovanni Angelo de Ciocchis (1741-1743) alle istituzioni ecclesiastiche isolane di patronato regio. Gli atti del De Ciocchis permettono di ricostruire un quadro dell’irregolare fisionomia delle diocesi nel territorio ed estrapolare dati interessanti come la concentrazione di monasteri basiliani nella diocesi


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 206

206

Presentazione

di Messina; ancora una testimonianza dell’incidenza del potere regio sulla struttura ecclesiastica siciliana. La sesta appendice è un indice dei Santi e beati siciliani; la settima, un elenco degli Istituti religiosi maschili, femminili e secolari nel 2005, un modo per sintetizzare fino ai nostri giorni un dato rilevante nella storia religiosa dell’isola. Nel corso della presentazione del volume presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania, avvenuta il 10 maggio 2009 e a cui hanno partecipato con le loro riflessioni storici di rango come Giuseppe Giarrizzo, Mario Rosa e Horst Enzensberger, oltre al curatore Gaetano Zito e Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana, l’interrogativo da cui ha preso l’avvio la discussione è stato: perché storia delle chiese di Sicilia? E non delle diocesi ad esempio? Perché si tratta di una storia del popolo cristiano di Sicilia, del suo vissuto, si è risposto. Nonostante le oggettive difficoltà di un progetto così ambizioso, nonostante le diverse sensibilità e competenze che vi hanno collaborato e che hanno reso eterogenei e talvolta irregolari i risultati ottenuti, appare innegabile il raggiungimento del proposito contenuto nel titolo. È una sintesi preziosa, un volume che rappresenta un punto di raccolta e insieme un punto di partenza per nuovi sviluppi. Si tratta di un tentativo coraggioso, di una sistemazione di dati spesso lacunosi e complessi, in taluni casi mai fatta prima; le difficoltà oggettive incontrate nell’elaborazione di una cronotassi dei vescovi siciliani ne sono l’esempio più evidente. Arianna Rotondo


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 207

Synaxis 3 (2009) 207-210

NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

1. LICENZIATI IN TEOLOGIA MORALE Hanno conseguito la Licenza in Teologia morale, il 26 giugno 2009: MODICA ANTONIO STEFANO, Per una Chiesa alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi. Accentuazioni teologiche e prassi ecclesiale nella riflessione di Mons. Tonino Bello. (relatore prof. Corrado Lorefice) Il 9 ottobre 2009: DEGUENONVO ERNEST, Amore umano, contraccezione e cultura della vita nel magistero di Giovanni Paolo II. (relatore prof. Mario Cascone) OCHOA OCHOA MIGUEL, P. Félix de Jesùs Rougier, M.Sp.S. Gli anni precedenti la fondazione dei Missionari dello Spirito Santo (19041914). (relatore prof. Mario Torcivia) SCOLARO PIETRO, Aborto ed eutanasia nel magistero cattolico a confronto con le posizioni di alcune chiese protestanti. (relatore prof. Mario Cascone)

2. BACCELLIERI

IN TEOLOGIA

Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia, il 26 giugno 2009:


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 208

208

Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

CAPRINO CAMPANA ROBERTO, La finanza etica: è possibile coniugare economia ed etica? (relatore prof. Corrado Lorefice) CRISTAUDO ALFIO GIOVANNI, Lo sviluppo della categoria di Logos nella teologia di Joseph Ratzinger. (relatore prof. Giuseppe Ruggieri) Il 9 ottobre 2009: CAMERA MARIO ROSARIO, La ricezione del Concilio Vaticano II nella diocesi di Acireale (fino al 1979). (relatore prof. Gaetano Zito) CANNAVÒ LUCIO, Il discernimento spirituale dei «segni dei tempi». (relatore prof. Giuseppe Buccellato) CASELLA MARIOLA GAETANO MAURIZIO, Lo Spirito di Dio nell’Antico Testamento con particolare riferimento a Ezechiele 36,2527. (relatore prof. Candido Dionisio) GRECO MARIA GRAZIA, Gen.1,1-2,4A: metodo storico-critico e interpretazione midrashica a confronto. (relatore prof. Carmelo Raspa) MAZZOLI FRANCESCO, Esperienza cristiana e vita teologale in fra’ Gabriele Maria Allegra Ofm. Sguardo ai Corsi di esercizi spirituali e alle Lettere allo “zio parroco” e alla “sorella Sarina”. (relatore prof. Salvatore Consoli) RUSSO ANDREA SALVATORE, La comunità degli uomini. L’antropologia teologica del capitolo II parte I della Gaudium et spes. (relatore prof. Maurizio Aliotta)


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 209

Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

209

3. INAUGURAZIONE ANNO ACCADEMICO Il 6 novembre 2009 si è tenuta l’inaugurazione del 42° anno accademico dello Studio Teologico S. Paolo. La mattina si è svolto il consueto incontro tra la Presidenza, i Docenti, i Rettori dei seminari e i Vescovi delle Chiese che aderiscono al S. Paolo. Il pomeriggio si è tenuto l’atto accademico; alla solenne concelebrazione eucaristica presieduta dall’Amministratore Apostolico di Caltagirone e Vescovo eletto di Cefalù, Vincenzo Manzella, sono seguiti: il saluto del Moderatore dello Studio, l’Arcivescovo Salvatore Gristina, la relazione del Preside mons. Gaetano Zito e la prolusione accademica su «Teologia e Storia. La Chiesa dinanzi ai vari modi di parlare del nostro tempo (GS 44)» tenuta dal prof. Rino La Delfa, Preside della Facoltà Teologica di Sicilia.

4. CONVEGNO CON L’UNIVERSITÀ DI CATANIA Nei giorni 26 e 27 novembre 2009 si è tenuto nell’aula magna della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania, il Convegno di studi su: Modi dell’identità. Il convegno, caratterizzato da un taglio interdisciplinare, si inserisce nell’ormai tradizionale e consolidata collaborazione biennale dello Studio Teologico S. Paolo con l’Università di Catania.

5. PRESENTAZIONE VOLUME Venerdì 8 maggio 2009, presso l’aula magna della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania, è stato presentato il volume del prof. Francesco Brancato, docente dello Studio Teologico S. Paolo, Creazione ed evoluzione: Galileo, Darwin e la teologia. Ne hanno discusso con l’autore: Giuseppe Vecchio, Preside della Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Catania; Ludovico Galleni, dell’Università di Pisa; Daniele Spadaro, dell’Istituto


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 210

210

Notiziario dello Studio Teologico S. Paolo

Nazionale di Astrofisica; Francesco Conigliaro, dello Studio Teologico S. Paolo.

6. NECROLOGIO Il 24 agosto 2009, prematuramente, è tornato alla Casa del Padre il dott. Angelo Cafaro. Per diversi anni ha tenuto apprezzati seminari di Bioetica. Lo Studio Teologico gli è debitore anche dell’impianto del Corso di Antropologia ed Etica medica che, doverosamente, è stato a Lui intestato.


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 211


Synaxis_3-2009_+ corr_ok copia_Synaxis 12/11/10 10.39 Pagina 212


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.