Synaxis 28 1 (2010) - quaderni 24 cesifer 05

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QUADERNI DI SYNAXIS 24 SYNAXIS XXVIII/1 - 2010

QUADERNI DEL CeSIFeR 5 CENTRO DI STUDI INTERDISCIPLINARI DEL FENOMENO RELIGIOSO

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA


Immagine di copertina: Interpretando la Gerusalemme celeste con i colori di PAUL KLEE, Giardino di rose, 1920, olio su tela.


QUESTO MONDO, IL MALE, L’APOCALISSE

a cura di Giuseppe Ruggieri


Questo mondo, il male, l’apocalisse / a cura di Giuseppe Ruggieri. - Troina : Città aperta ; Catania : Studio teologico S.Paolo, 2011. (Quaderni di Synaxis ; 24) ISBN 978-88-8137-466-3 1. Apocalisse. I. Ruggieri, Giuseppe. 236 CDD-22 SBN Pal0232635 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”


SOMMARIO

DALLA POTENZA DEL MALE ALL’APOCALITTICA. PER UN’INTRODUZIONE ALLA LETTURA (Giuseppe Ruggieri) 1. Premessa: ha un senso l’apocalittica?

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2. Le vie d’uscita illusorie

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3. Apocalittica e/o mistica contro la crisi

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4. L’ apocalittica letteraria

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5. I teorici dell’Apocalisse

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6. La ragione e l’apocalittica

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NATURA E PAURA NELLA DIMENSIONE RELIGIOSA DI PAGANI E CRISTIANI. I CASI DI ELIO ARISTIDE E PERPETUA (Teresa Sardella)

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Premessa

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1. Due visioni diverse in un unico contesto storico

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2. Aristide

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3. La ‘Passio Perpetuae et Felicitatis’

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BRÁS VIEGAS ( 1554-1599) E BENITO PERERA (1535-1610) COMMENTATORI DELL’ APOCALISSE (Roberto Osculati)

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1. Brás Viegas (1554-1599)

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2. Benito Perera (1535-1610)

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MUTAMENTO, CRISI, RIVOLUZIONE: IL PROBLEMA DELL’ESPERIENZA SPIRITUALE NELL’ETÀ MODERNA (Marilena Modica)

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L’APOCALISSE NELLA LIRICA EBRAICA PRIMONOVECENTESCA DI LINGUA TEDESCA (Grazia Pulvirenti)

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L’APOCALISSE ILAROTRAGICA DI GUIDO MORSELLI (Rosa Maria Monastra) 1. Un romanzo “autobiografico” 2. Una storia “stravagante” 3. Un titolo cifrato 4. Amore, “charitas” e “socialidarietà” 5. Karpinsky 6. Da Giobbe a Berg 7. Una postilla su Morselli e Calvino

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L’ESCATOLOGIA DI H. I. MARROU (Maurizio Aliotta) 1. Introduzione 2. La storia 3. L’escatologia

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IL MESSIANISMO APOCALITTICO DI JACOB TAUBES (Giuseppe Ruggieri) 1. Dalla rivelazione dell’anima alla metafisica della storia, alla rivoluzione 2. Disputando con Scholem 3. Taubes e Schmitt

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LA RIFLESSIONE DI E. SEVERINO SULLA TECNICA (Giuseppe Schillaci) 1. L’essenza del nichilismo occidentale 2. La questione della tecnica in Heidegger 3. Lo scopo della tecnica 4. Nota conclusiva

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DALLA POTENZA DEL MALE ALL’APOCALITTICA. PER UN’INTRODUZIONE ALLA LETTURA

GIUSEPPE RUGGIERI*

1. PREMESSA: HA UN SENSO L’APOCALITTICA? I testi raccolti in questo volume rappresentano una duplice sfida: la sfida che studiosi diversi, divisi non solo dalla loro sensibilità, ma soprattutto dal loro ambito di ricerca e di competenza, possano pensare alla stessa cosa; la sfida che questa cosa, distesa tra la natura e la sua fine, tra questo mondo e la sua interruzione, possa essere pensata, trasferita cioè dentro una soggettività umana per riceverne luce e per essere affrontata. Dove bisogna stare attenti al fatto che i due poli, la natura e questo mondo da una parte, fine e interruzione dall’altra, non sono sullo stesso piano, giacché, mentre il primo polo è scontato, è solo il secondo che ha bisogno di essere “pensato”, non tanto per esistere di fatto, ma per diventare operante in quanto pensato appunto. E allora il problema si può anche formulare così: cosa diventa questo mondo quando viene pensato a partire dalla sua fine (imminente), cosa diventa cioè il mondo in una prospettiva apocalittica e perché il mondo può o addirittura deve essere pensato, secondo alcuni, in prospettiva apocalittica. L’apocalittica infatti è un modo, tra i tanti, di cui l’uomo storicamente si è avvalso e continua ad avvalersi per affrontare la realtà, per resistere alla potenza del male che da essa si sprigiona o di essa ha

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Docente di Teologia fondamentale e dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Giuseppe Ruggieri

preso possesso (giacché sono aperte ambedue le possibilità) e, conseguentemente, per pensare la fine possibile di questo male. Non è facile rompere la crosta dura e frastagliata dell’immaginario apocalittico per penetrarne il senso. E per questo si rende necessario dire anzitutto alcune cose sull’origine del termine “apocalittica”. La sua radice etimologica non pone problemi, perché rimanda al greco ri-velare e in concreto designa prevalentemente le rivelazioni sulla fine del mondo che alcuni veggenti ricevono da Dio o, più spesso, dai suoi messaggeri (angeli etc.). Tra gli studiosi della Bibbia, l’interesse per la letteratura “apocalittica” si accese in particolare agli inizi del secolo diciannovesimo, dopo la scoperta e la pubblicazione del primo libro di Enoc, in lingua etiopica. Lücke nel 1832 pubblicò il Tentativo di un’introduzione completa all’Apocalisse di Giovanni e a tutta la letteratura apocalittica1. Sotto l’ombrello dell’apocalittica vennero così raccolti scritti caratterizzati dallo stesso genere letterario, nel quale un narratore, identico o meno con il veggente, racconta le sue visioni sulla fine di questo mondo e il sorgere di un mondo nuovo per un’iniziativa di Dio. Le visioni contenevano soprattutto descrizioni di grandiose trasformazioni cosmiche ed erano popolate da esseri “celesti”, che abitavano cioè quel “mondo di mezzo” tra Dio e l’uomo, dove il mito dell’Antico Oriente poneva le “potenze” reggitrici del mondo di sotto, della terra abitata dagli uomini. Un passo avanti nella chiarificazione del termine fu tuttavia compiuto da Klaus Koch nel 19702. Egli sottolineò come non ci si potesse limitare a vedere nella letteratura apocalittica un genere letterario, ma che occorreva vederla anche come fenomeno culturale particolare, come espressione di un preciso gruppo che, usando del genere letterario, prendeva le sue distanze da altri gruppi dai quali era diviso da una diversa considerazione della realtà e del modo di collocarsi in essa. Questa posizione, che in Italia è condivisa da Paolo Sacchi, sia pure con una visione più attenta al variare e al divenire delle varie 1

F. LÜCKE, Versuch einer vollständigen Einleitung in die Offenbarung Johannes und in die gesamte apokalyptische Literatur, Bonn 1832. 2 K. KOCH, Ratlos von der Apokalyptik, Gütersloh 1970 (trad. it. Difficoltà dell’apocalittica, Brescia 1977).


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apocalissi3, è stata precisata nella discussione ulteriore (P.D. Hanson, M.A. Knibb, etc.), ma non smentita nella sua sostanza: senza voler dare una definizione astratta dell’apocalittica, è inevitabile vedere ogni volta, dietro le singole espressioni e combinazioni immaginarie della fine “apocalittica” di questo mondo, un “movimento” culturale dietro cui si esprimono soggetti storici, presi da una “impazienza” nei confronti dell’assetto attuale del mondo degli uomini. Koch da parte sua aveva enumerato, per così dire, gli snodi centrali e costitutivi delle varie narrazioni apocalittiche, anche se non presenti tutti ogni volta e con la stessa intensità. Elementi essenziali del genere apocalittico sono: l’attesa di un cambiamento repentino di questo mondo, nel quale la fine si presenta per lo più come catastrofe cosmica; il tempo finale nella sua stretta connessione con la storia passata dell’umanità e del cosmo; il tempo universale diviso in sezioni rigide, il cui contenuto è stato predeterminato fin dal giorno della creazione e a cui i profeti alludono in un linguaggio cifrato; la storia terrena, che anche se appare chiara per tutti gli uomini è invece saldamente dipendente da una storia ultraterrena e invisibile, di cui solo i veggenti prescelti sono a conoscenza. Passata la catastrofe, spunterà una nuova salvezza, con caratteri paradisiaci. Il resto del popolo di Dio sarà salvato nell’aldilà. La salvezza futura verrà partecipata anche a quelli che non sono appartenuti a Israele, in quanto non si attribuisce al popolo come tale l’eredità della salvezza escatologica: anche nel popolo di Israele i giusti verranno separati dagli increduli. Il passaggio dallo stato di perdizione a quello di salvezza definitiva è visto come decreto che promana dal trono di Dio. Con la fine del tempo sarà abolita la distinzione tra storia celeste e storia terrena, ma soprattutto vale che con l’intronizzazione del regno di Dio saranno aboliti i regni terreni. Spesso viene introdotto inoltre un intermediario con funzioni regie, quale esecutore e garante della salvezza finale. L’intermediario può essere una figura umana, ma anche una figura angelica. Viene adoperato il termine “gloria” per indicare lo stato finale avulso dal presente e per presagire una fusione totale tra la 3

P. SACCHI, L’apocalittica giudaica e la sua storia, Brescia 1990.


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sfera terrestre e quella celeste. Verranno infine meno le strutture sociali e politiche del presente4. Attraverso tutte queste immagini una cosa tuttavia preme particolarmente al veggente/narratore apocalittico: la fine di questo mondo. L’apocalittica cioè è un genere letterario appropriato ad esprimere un’esperienza fondamentale dell’essere dell’uomo nel mondo. Il fuoco della narrazione apocalittica non sta tanto nella rivelazione del momento della fine (che nella ripresa neotestamentaria dell’apocalittica nessuno conosce, nemmeno gli angeli e nemmeno il Figlio, ma solo Dio: Mc 13,32), quanto in uno stato d’animo di impazienza e negazione dell’assetto attuale di questo mondo. Quando si parla di una fine di questo mondo, occorre ancora notare che il mondo è da intendere anzitutto come Lebenswelt, mondo vissuto dall’uomo. Giacché non bisogna necessariamente pensare alla distruzione di questo mondo. E nemmeno, nel senso in cui la possono intendere i fisici nostri contemporanei, come eventuale cessazione della vita biologica in seguito al progressivo raffreddamento dell’universo, come fine quindi determinata dalle leggi stesse che presiedono alla materia. Giacché la fine a cui pensano i veggenti apocalittici è frutto di un intervento diretto di Dio, finalizzato alla sottomissione della potenza del male che rende disumana l’esperienza umana. Non a caso il senso originario del termine “satana” è quello dell’avversario (dell’uomo e di Dio). Il senso della fine del mondo è allora la distruzione della potenza nemica dell’uomo, la distruzione del Satana. E, per quanto riguarda questa “potenza” nemica dell’uomo, occorre fare attenzione a quanto ha evidenziato lo studio di H. Schlier, Principati e potestà nel Nuovo Testamento5. La potenza del male, il 4

Non tutti gli elementi di questo quadro vengono ugualmente sottolineati dai vari interpreti. Così resta indeterminata la continuità tra presente e futuro. Infatti l’eone futuro è già operante anche se in maniera occulta. La stessa condizione futura a volte viene descritta nel contesto di una resurrezione dei corpi, ma a volte anche in quello di una diversa condizione delle anime immortali. Si veda, per queste variazioni, P. SACCHI, L’apocalittica giudaica e la sua storia, cit., 31-78. 5 Brescia 1967 (or. ted. Mächte und Gewalten im Neuen Testament, Basel 1963).


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nemico dell’uomo, Satana, che si diversifica in una moltitudine di potenze, angeli, demoni etc., costituisce “l’aldilà di quel che si vede quaggiù, l’invisibile per quanto sempre afferrabile, che si perde in ciò che non è a nostra disposizione (sottolineatura mia, perché questo mi sembra il punto cruciale). I cieli non sono l’abitazione di Dio, ma l’abitazione delle potenze dalla quale esse, pur create da Dio, agiscono in modo contrario a Dio piegando la realtà stessa delle cose. La loro natura è un’intelligente volontà di potenza che tende ad attuarsi “impadronendosi” dell’uomo (si vedano i racconti degli ossessi nei Sinottici), della natura in cui fanno apparire gli “elementi” dei cieli come dei, dello Stato con le sue istituzioni e le sue persone che sono impregnate dello spirito satanico (vedi l’Apocalisse). Satana vive del suo potere trasmettendolo alle potenze politiche (Il drago e la bestia). La sua potenza è tale da penetrare anche nella chiesa, tra i falsi apostoli e predicatori. Non si tratta in tutto questo di un patrimonio biblico originario, ma del mondo apocalittico-gnostico che gli ebrei hanno conosciuto dapprima durante l’esilio e poi man mano al contatto con l’ellenismo. E tuttavia, il punto centrale della comprensione di queste potenze non sta ancora qui, ma nel fatto che il Nuovo Testamento «si interessa della regione delle potenze o dei demoni solo in quanto deve difendersene e proteggere contro di essi il mondo […] percepisce la natura delle apparizioni demoniache solo nella misura in cui questa si traduce in esperienza di attacco e di difesa»6. Non è un quadro metafisico del mondo che viene cioè dispiegato nelle visioni apocalittiche, ma la lotta dell’uomo con ciò che lo sovrasta, la potenza del peccato, che non si lascia vincere dall’energia a disposizione dell’uomo. Nel mito c’è in altri termini l’espressione di un’esperienza umana fondamentale e collettiva, segnata dalla lotta dell’uomo storico con il male di questo mondo che egli non riesce ad accettare come condizione definitiva dell’esistenza. Non è il destino del singolo in discussione, ma il senso di questo mondo.

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Vedi le pp. 12-17 di Schlier (trad. it.)


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La conclusione apocalittica potrebbe apparire paradossale: se questo mondo ha un senso, garantito dal suo Creatore, allora questo mondo deve avere una fine e il tempo che ci resta è abbreviato, perché passa la “figura” di questo mondo (cfr. 1Cor 7,31). L’intenzione di Dio sul mondo, cioè il senso del mondo, può essere salvaguardata solo a patto che Dio distrugga questo mondo. Non siamo ai limiti del paranoico? La logica del racconto apocalittico, infatti, ha il suo presupposto nel postulato che Dio non ha voluto il male che domina il mondo, ma resta pur sempre il creatore di quelle potenze che introducono il male nel mondo. Il primo scritto apocalittico ebraico che noi conosciamo, il Libro dei vigilanti, contenuto nell’Enoc etiopico, sembra rimandare ad uno sconosciuto Libro di Noè 7, di cui si hanno tracce nella tradizione jahwista della Genesi: «Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla faccia della terra e furono loro nate delle figlie, avvenne che i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e presero per mogli quelle che si scelsero fra tutte. Il Signore disse: “Lo Spirito mio non contenderà per sempre con l’uomo poiché, nel suo traviamento, egli non è che carne; i suoi giorni dureranno quindi centoventi anni”. In quel tempo c’erano sulla terra i giganti, e ci furono anche in seguito, quando i figli di Dio si unirono alle figlie degli uomini, ed ebbero da loro dei figli. Questi sono gli uomini potenti che, fin dai tempi antichi, sono stati famosi. Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo. Il Signore si pentì d’aver fatto l’uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo. E il Signore disse: “Io sterminerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato: dall’uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti”. Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore» (Gen 6,1-8). In questa descrizione mitica, sono i “figli di Dio”, cioè gli angeli, i responsabili ultimi del male del mondo. Ma non sono anch’essi creature di Dio e da dove viene quindi originata la loro volontà perversa? Gli autori successivi si videro costretti quindi ad introdurre un primo peccato angelico, ma per noi è difficile rispondere a queste questioni, e soprattutto ci pare che in questo modo il 7

Cfr. P. SACCHI, L’apocalittica giudaica e la sua storia, cit., 49-55.


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rapporto tra il male, la creazione e Dio venga solo spostato. E soprattutto, con l’esasperazione della coerenza o incoerenza logica della risposta apocalittica, non cogliamo il senso del mito. Il paradosso invece scompare, o perde almeno la sua asprezza, non appena poniamo attenzione al fatto che il vero soggetto storico della narrazione è il giusto, oppresso dal male del mondo. C’è un meraviglioso testo di Tertulliano che ci spiega la vera molla delle varie narrazioni apocalittiche, una molla che non arretra davanti al “ritardo di Dio”. Il testo si trova nel suo De oratione, 5, come commento alla richiesta del Padre nostro “Venga il tuo regno”: «Come mai alcuni chiedono un prolungamento del tempo, dal momento che il regno di Dio, per il cui avvento preghiamo, tende alla consumazione del tempo?. Desideriamo di regnare al più presto e di non servire più a lungo. Ma anche se non fosse stato prescritto nella preghiera di chiedere l’avvento del regno, pronunceremmo spontaneamente quelle parole per affrettarci all’abbraccio della nostra speranza. Le anime dei martiri sotto l’altare gridano al Signore disonorandolo 8 : Fino a quando, o Signore, non vendicherai il nostro sangue sugli abitanti della terra? La loro vendetta infatti è regolata a partire dalla fine del mondo». Il testo di Tertulliano riprende, forzandolo con il termine “invidia = disonore”; il testo dell’Apocalisse 6, 9-11: «Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?”. Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro». 8 Corsivo mio con cui traduco il latino invidia, nell’espressione “clamant ad Dominum inuidia animae martyrum”, su suggerimento di A. BLAISE, Dictionnaire Latin-Français des Auteurs Chrétiens, Turnhout 1954, 471, ad vocem. Blaise tuttavia tende ad attenuare il senso della vergogna gridata a Dio da parte dei martiri, aggiungendo un “semblant”: semblant lui faire honte. Ma l’addolcimento dell’espressione è assente dal testo di Tertulliano.


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Sta in questo testo dell’Apocalisse, ripreso e forzato ai limiti della bestemmia nel testo di Tertulliano, la ragione ultima del racconto apocalittico: esso è il racconto delle vittime per amore della giustizia, che esigono “vendetta” da Dio. Il senso del racconto apocalittico è il suo soggetto, la massa delle vittime del male, che anche se vinte e scomparse dalla scena di “questo” mondo non si rassegnano a scomparire dalla memoria di Dio e degli uomini. E chi racconta la fine del mondo lo fa per assumere il loro punto di vista e vive in un “tempo abbreviato”, per usare l’espressione di Paolo9. Ormai si vive nell’impazienza, e si aspetta un “altro mondo”. E questo vale anche per i cristiani, per coloro che credono alla vittoria di Cristo, già avvenuta, sul male di questo mondo. Infatti per essi vale che Cristo ha sconfitto le potenze, ma non le ha distrutte e queste continuano quindi ad operare ancora, secondo l’analogia di quell’immagine suggestiva creata da Oscar Cullmann, che scriveva a ridosso dell’esperienza del maquis contro i nazisti, per cui anche nella Resistenza si continuava a combattere nonostante la battaglia decisiva fosse stata già vinta10.

2. LE VIE D’USCITA ILLUSORIE Era necessaria questa lunga premessa perché si potesse cogliere quel frammento di luce che emana da ognuno dei contributi presenti in questo volume. Essi sono ordinati cronologicamente, in maniera corrispondente al periodo studiato. Si tratta di un ordinamento di comodo, il più neutrale possibile. Ma già così, per il puro caso della successione cronologica, giacché questa successione è qui un puro caso e non corrisponde a nessun ordine logico, è interessante che l’ultimo contributo riproponga in una versione totalmente secolarizzata l’attualità della narrazione apocalittica, suscitata dalla “potenza” della tecnica.

9 G. AGAMBEN, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Torino 2000, 29, traduce l’espressione di Paolo con “Il tempo si è contratto”. 10 O. CULLMANN, Christ et le temps, Neuchâtel 1957, 137-150


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La riflessione sulla tecnica di Emanuele Severino, presentata da Giuseppe Schillaci, ripropone infatti sotto altra forma, quella della teoresi filosofica, l’immaginario apocalittico. Il nemico dell’uomo, l’avversario, non abita più le regioni celesti, ma è ormai la tecnica che ponendo se stessa non come mezzo, ma come scopo, minaccia radicalmente l’umano. È essa la potenza “avversaria” dell’umano, cioè alla lettera, cioè, come avrebbero detto gli apocalittici, “satana”. È essa che si im-pone contro ogni umanesimo storico, da quello cristiano a quello capitalistico. Il servo di una volta, strumento nelle mani dell’uomo per raggiungere i suoi scopi, è diventato adesso Signore. Heidegger aveva intravisto il pericolo. Nella sua famosa intervista pubblicata postuma nel settimanale tedesco Der Spiegel, il filosofo tedesco, aveva formulato un pensiero che ripropone anch’esso la logica dei narratori apocalittici: «Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra. Non so se Lei è spaventato, io in ogni caso lo sono appena ho visto le fotografie della terra scattate dalla luna. Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto. Tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la terra quella su cui oggi l’uomo vive». L’uomo si trova a vivere come in uno stato di necessità per cui il pensiero tradizionale, la filosofia, non può più nulla: «la filosofia non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo. E questo non vale soltanto per la filosofia, ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all’apparire del Dio o all’assenza del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)». Severino rifiuta la conclusione di Heidegger, giacché per lui l’era della tecnica non è che uno degli episodi della storia nichilistica dell’Occidente. La difesa contro la fine del mondo sta invece nella verità come permanenza e identità dell’essere contro ogni divenire, in ogni suo istante. Vien quasi da dire: perit mundus dum vivit veritas: il mondo perisce, mentre la verità vive e resiste. Ma questa verità non è quella di un “altro” mondo rispetto a questo, non è vita reale vissuta dagli


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uomini da qualche parte, ma l’ideale formalità della permanenza dell’essere che il sacerdote dell’essere continua a proclamare contro ogni evidenza. Si tratta di un’illusione? In ogni caso si tratta di una maniera di evitare la lotta contro il potere dell’avversario dell’uomo nella sua concretezza drammatica. Ma questo atteggiamento non è esclusivo di una parmenidea metafisica dell’immanenza. L’uomo può escogitare altre strade per ignorare il dramma. È provocatorio da questo punto di vista il raffronto che Teresa Sardella fa, tra i Discorsi sacri del pagano Elio Aristide, retore greco del II secolo, e la quasi contemporanea Passio Perpetuae et Felicitatis (il martirio ebbe luogo nel 203). Il retore pagano sperimenta il male del mondo nella forma della malattia fisica. La natura appare quindi, nei suoi elementi stessi, soprattutto l’acqua, il vero nemico. Da questo nemico lo libera il dio Asclepio che, nella forma del sogno, gli dà indicazioni perché egli astenendosi o usando degli elementi possa venire a capo del male. I suoi Discorsi sacri costituiscono una specie di autobiografia onirica dove viene documentato il suo cammino terapeutico. Non è un certo uso degli elementi della natura in quanto tale che garantisce il superamento del male. È piuttosto l’obbedienza al dio (che può dare anche ordini contraddittori) il mezzo salvifico. Nell’opera di Aristide si riflette la crisi più generale tra uomo e natura che diventa lacerante nel II secolo dell’era cristiana e che provoca composizioni differenti nei vari movimenti filosofici e religiosi dell’epoca. Anche la Passio Perpetuae presenta l’esperienza onirica come il luogo privilegiato in cui la martire viene a capo del suo pavor di fronte al proprio destino di morte. Ma il principale nemico di Aristide, l’acqua, è ormai risignificato dal rito cristiano del battesimo e dal suo simbolismo e diventa fonte di salvezza e fattore di una soteriologia ultraterrena. I nemici di Perpetua vengono evocati nel sogno sia attraverso gli animali utilizzati come strumenti di morte per i martiri (orso, leopardo, cinghiale, vacca) sia attraverso le figure umane mostruose dove si intravedono i carnefici. Il sogno dà a tutto un senso, trasformando il pavor in dolor, la paura in sofferenza accettata. Per la martire la fine è liberazione e salvezza.


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Aristide e Perpetua diventano così due testimoni contrastanti della resistenza dell’uomo al male del mondo, ma uniti nel ricorso alla mediazione religiosa come luogo decisivo per il superamento della sottomissione al male, rappresentato nel primo caso dalle forze della natura stessa, nel secondo dal potere di questo mondo nemico della nuova fede. Sembra scomparire la dimensione catastrofica di ogni racconto apocalittico, ma resta l’esperienza che lo rende possibile, l’esperienza cioè di un mondo/natura nemico.

3. APOCALITTICA E/O MISTICA CONTRO LA CRISI Il saggio di Roberto Osculati presenta due letture cattoliche dell’Apocalisse giovannea, scritte a ridosso della crisi del XVI secolo, determinata dalla lacerazione protestante e dalla dilatazione dell’universo umano seguita alla conquista dell’America. In Bras Viegas (1554-1599), nel contesto storico portoghese della fine del XVI secolo, solo una lettura della profezia apocalittica è in grado di proporre una sapienza storica e morale che si richiami ad un esempio fondamentale e lo proponga oltre dimensioni anguste e convenzionali. Sulle dispute religiose, ecclesiastiche e politiche dell’Europa occidentale sembra calare un profondo silenzio, superato solo a favore del decreto tridentino sulla grazia. Esso appare come la sintesi più attuale della teologia neotestamentaria e come base fondamentale di un cristianesimo veramente ecumenico. A questa polarità positiva e concreta della vicenda umana, osservata da un punto di vista propriamente profetico, si oppone il male della colpa, della distruzione e della morte. Il messaggio definitivo della Bibbia ebraico-cristiana si configura nell’immagine di una lotta estrema in cui ogni individuo è coinvolto. La profezia, accompagnata dalla sapienza concreta e sperimentale di ogni individuo, dal linguaggio multiforme dei simboli, dai percorsi drammatici della storia, è in grado di fornire una prospettiva universale. Da questa ultima specola, come si esprimevano spesso i teologi dell’epoca barocca, tutta la complessità dell’esperienza umana assumeva una prospettiva unitaria, un ordine ideale. In Benito Perera (1535-1610) l’esegesi dell’Apocalisse è molto


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più dottrinale che filologica. La struttura ecclesiastica e la sua storia tormentata appaiono quasi come un involucro terrestre del dogma e dell’esperienza religiosa soggettiva. Due sono le prospettive che l’esegeta raccoglie da una lunga tradizione interpretativa. La chiesa degli apostoli e dei martiri continua il suo itinerario fino al presente nelle diverse forme di fedeltà al dettato evangelico. In particolare sono sottolineate le funzioni essenziali dei ministri ecclesiastici, qualora siano veri imitatori del Cristo, e la prospettiva missionaria esercitata nei tempi più recenti dalla Compagnia di Gesù anche al di fuori dei confini esteriori della cristianità. A questo aspetto evangelico e missionario si accompagnano nel corso del tempo imponenti strutture giuridiche, economiche, politiche e militari. L’impero cristiano e il papato romano, la prosperità materiale della chiesa, i successi della monarchia spagnola contemporanea, l’ attività dell’Inquisizione. Tuttavia questo trionfo esteriore è sempre contrastato dalle opposizioni provenienti dai nemici della cristianità politica e dottrinale: dai barbari di un tempo fino ai turchi del presente. L’ analisi storica della vita ecclesiastica, suddivisa per attività spirituali ed eventi esteriori, indica una condizione sempre presente fino all’estremo giudizio. È impossibile rilevare dal testo apocalittico il succedersi di avvenimenti futuri nelle loro circostanze esteriori. Rimane chiaro però l’impegno per la testimonianza e l’evangelizzazione in attesa delle persecuzioni finali sia dell’Anticristo che dei suoi imitatori e collaboratori. Il saggio di Marilena Modica intravede invece nella mistica seicentesca un’alternativa all’apocalittica, come via d’uscita dalla crisi. La rottura dell’universalismo cristiano provocato dalla Riforma protestante fu un trauma profondo che conobbe certamente declinazioni “apocalittiche”, una percezione da fine dei tempi (si ricorderà l’immagine di Lutero come l’Anticristo in ambito cattolico e la medesima cosa, da parte luterana fu detta del papa) che caratterizzò, almeno nella fase iniziale, le sette radicali e, in primo luogo, quella degli anabattisti. Riflessi e toni apocalittici troviamo in Germania nella rivolta contadina del 1524-25, nella predicazione dei profeti di Zwickau e nell’esperimento della città di Münster, la nuova Sion. Segno di una rottura del tempo e dell’ordine tradizionali fu, ancora, il


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sacco di Roma ad opera dei lanzichenecchi a servizio di Carlo V, nel 1527. In altri luoghi e in altre condizioni, ma nel medesimo arco temporale, la percezione della fine dei tempi, accompagnata dalla fiducia nel compimento del messaggio cristiano della conversione di tutti i popoli, ispirò l’evangelizzazione francescana nelle terre del Nuovo Mondo. Per la cristianità europea del primo Cinquecento (almeno per parte di essa) il tempo e la storia si fermarono nell’attesa della fine. La dimensione tragica delle guerre di religione in Francia, la lacerazione del corpo stesso dello stato e della società alle prese con una lotta fratricida, potrebbero essere viste nella medesima prospettiva, se non fosse che, già alla fine del Cinquecento, l’aspetto traumatico (se si vuole, apocalittico) era stato in certo qual modo assorbito nella percezione di un conflitto il cui esito non preludeva né alla fine della storia né alla fine del mondo. Sulla scia di questa percezione, alternativa alla soluzione apocalittica, si pone l’eccedenza mistica del Seicento, di cui il quietismo è un’espressione. La crisi della soggettività religiosa determinata dalle lacerazioni del Cinquecento trova qui un esito diverso. Che si possa valutare la “dissonanza” manifestatasi nel quietismo come una crisi nel processo di secolarizzazione della soggettività religiosa (il problema dell’individualismo economico, proprietario, che la cultura del Settecento porterà a maturazione ebbe le sue radici nello scorcio del Seicento) è forse azzardato. Sembra, tuttavia, che la stessa polverizzazione della tradizione mistica in tanti frammenti — il linguaggio dei corpi, il controllo medico, giudiziario e teologico sulla fenomenologia straordinaria, la pervasività degli strumenti e delle tecniche di lettura dell’interiorità, la tendenza spiccata a chiudere i dati dell’esperienza nel codice classificatorio dell’ortodossia — rappresenti uno dei molteplici elementi che caratterizzarono, nella seconda metà del Seicento, la ridefinizione del rapporto tra individuo e potere, sia quello dello Stato che quello della Chiesa: una transizione la cui drammaticità cogliamo — al di là della retorica difensiva messa in atto durante il processo — nel desolante interrogarsi dell’imputata siciliana Teresa di San Geronimo sulla verità della propria esperienza. Ma così, nella differenza, evidenziata nei due saggi di Osculati e Modica, tra la lettura apocalittica della storia e la fuoruscita mistica


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dalla crisi, risulta confermata quella che all’inizio ho chiamato la molla di ogni racconto apocalittico stesso: l’impazienza davanti al male di cui l’esperienza umana non viene a capo, un male che si incarna in poteri, in figure singole, in sovvertimenti sociali. Sarebbe facile ridurre il senso di questa impazienza trascolorandola in una fuga irrazionale. Ché essa, al contrario, di per sé equivale soltanto al rifiuto dell’irrazionalità del male. Ma, di questo, che mi pare il vero nodo del discorso, più avanti. Giacché, ancora prima, bisogna prestare attenzione all’emergere del racconto apocalittico nel Novecento. E non solo in ambienti cattolici, segnati dal rifiuto dell’umanesimo moderno, e dei quali può essere considerato tipico rappresentante, il cattolico convertito dall’anglicanesimo, Robert Hugh Benson ne Il Padrone del mondo (1907).

4. L’ APOCALITTICA LETTERARIA Nel Novecento infatti il genere apocalittico non si spegne e nemmeno resta confinato dentro orizzonti confessionali che vivono con angoscia il trionfo dell’irreligiosità negli ambienti colti, ma, fatto ancora più significativo, emerge anche in un contesto culturale segnato dall’assenza di Dio, dal suo silenzio. Ne sono testimonianza sia l’analisi della poesia ebraica del primo Novecento ad opera di Grazia Pulvirenti, che quella, ad opera di Rosa Maria Monastra, del romanzo Dissipatio H.G. di Guido Morselli. I poeti ebraici del primo Novecento vedono nella parola poetica l’ultimo luogo dell’apocalisse. Già Ernesto De Martino nelle sue appassionate considerazioni di La fine del mondo, identifica l’epoca moderna tout court con un’abnorme distruzione dei valori dell’umano, scorgendo in essa i segnali dell’apocalisse, nel senso di catastrofe senza rimedio. Ma, nel caso specifico della poesia ebraica primonovecentesca di lingua tedesca, la prospettiva risulta ancora più ampia, seppur è assolutamente valida la riflessione sulla diffusione del concetto di apocalisse in letteratura come conseguenza delle forme deteriori della modernità sin dalla fine dell’Ottocento. In epoca moderna, l’apocalisse


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riappare nel suo senso primigenio di rivelazione e non può prescindere dalla realtà del nulla di Dio, la sola esperienza del divino concessa a questo nostro tragico tempo. Nel tempo della storia, la memoria della rivelazione è stata cancellata e riesce a riaffiorare solo come labile traccia, oscura parvenza nel regno delle ombre. L’apocalisse, nel senso tragico di declino, è prodotto dell’oblio, mentre il riscatto dell’uomo, nell’epoca della crisi, potrà avvenire solo in virtù di una riconquista della memoria. La memoria è il raggio che penetra nel regno delle parvenze e si manifesta nella parola poetica, ultimo luogo della rivelazione. L’elemento della memoria, come resistenza al male e alla distruzione dell’umano, emerge qui non come momento isolato e isolabile. Tutta la riflessione ebraica del Novecento ne è segnata e la Shoah imporrà nella seconda metà del Novecento l’attualità del motivo ben oltre i confini della cultura ebraica. Il romanzo di Morselli analizzato da Rosa Maria Monastra, Dissipatio H.G., quasi un annuncio anticipato del suicidio dell’autore, sembrerebbe da situare nell’ambito della narrativa post-apocalittica: in realtà si tratta di ben altro. Del resto, tra professione di modestia e canzonatoria supponenza, il romanzo non manca di avvertircene: «Non ho velleità di scienza; nemmeno, lo noto a mio onore, di fantascienza. Non ho pensato a un genocidio a mezzo di raggi-della-morte, a epidemie sparse sulla Terra da Venusicoli malvagi, a nubi nucleari da remote esplosioni». La questione fondamentale di Morselli è quella dell’origine del male. Fin da Realismo e fantasia egli aveva sostenuto con decisione — contro Agostino — che il male esiste: non è mero limite dell’essere, ma concreta realtà. E aveva citato il libro di Giobbe come testo principe donde si evince che la sua presenza, «in un universo creato da Dio, è mistero inscrutabile». Poi, in Fede e critica, era andato oltre, affermando che Dio può essere indulgente verso chi, come Giobbe, insorge, ma non verso chi, come Eliphaz, Sophar e Baldad, pretende di chiarire il mistero: può perdonare la ribellione, non una presuntuosa apologetica. Presto però anche questo tentativo di risolvere il problema si sarebbe rivelato insoddisfacente: se Dio è buono e giusto,


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cioè conoscibile, non può essere imperscrutabile; se è inconoscibile, come vuole la teologia negativa, allora saltano «la nozione di Provvidenza e quelle, connesse, di bontà e di giustizia». La presenza del male è uno scandalo non per l’ateo, ma per il credente: per quest’ultimo, «se ha coerenza, si tratta di mettere d’accordo la bontà di Dio con lo “stato di cose”»; «chi davvero non crede in Dio, non ha bisogno di “mettere d’accordo” un bel niente». Si ha l’impressione che il dramma di Morselli sia consistito appunto nel fatto che egli non è mai riuscito ad essere davvero ateo e ha continuato a reclamare presso Dio un appagamento al proprio desiderio di felicità. Una delle chiavi del romanzo appare nei molteplici richiami alla cantata n. 60 di Bach nella ripresa moderna fattane da Alban Berg, in occasione della morte della giovanissima Manon, figlia di Walther Gropius e Alma Mahler. In relazione all’uso che ne ha fatto Berg, il corale di Bach perde ogni contatto con la «luminosa cantata» da cui proviene per assumere invece un carattere «disperato»: parla di un dolore senza giustificazione, di una stanchezza mortale. Modellando su di esso la vicenda, Morselli sostanzialmente ripropone l’antica ribellione di Giobbe, ma per stemperarla in una dimessa prosaicità che non è propriamente rassegnazione bensì (per dirla alla Manganelli) «delibazione teoretica dell’addio». L’impazienza di fronte al male e al non senso si declina qui come volontà di morte. Non c’è la certezza apocalittica dell’altro mondo, ma resiste il nucleo più caldo dell’apocalittica stessa: il rifiuto del male.

5. I TEORICI DELL’APOCALISSE Il Novecento ha conosciuto non solo gli esegeti e gli storici dell’Apocalisse, non solo i poeti e i narratori, ma anche coloro che hanno cercato di dare una spiegazione più sistematica all’apocalittica all’interno di una concezione generale della storia. Gli esempi presentati sono quelli del cattolico Marrou e del rabbino Taubes. La nozione di incoazione, di sviluppo progressivo, secondo Marrou, permette di stemperare il carattere catastrofico dell’apocalittica, dell’evento messianico, che è in fieri, pur essendo perfettamente


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reale. La storia, quella che ha un senso, non si compie in uno spazio empiricamente osservabile: «Non abbiamo quaggiù una città permanente, ma siamo in cammino verso quella che deve venire» (Eb 13,14). La teologia della storia non può non sfociare, per Marrou, in una spiritualità del Marana tha: «Sì, vieni Signore Gesù. Che la grazia del Signore Gesù sia con voi» (Ap 22,20b-21). Questa è l’invocazione finale con cui si chiude il canone biblico cristiano. Come concepire allora l’ultimo giorno? Alla questione Marrou dedica esplicitamente l’articolo La fine del mondo non è per domani (1953) e la sua risposta è chiara: la fine del mondo non è per domani, perché in verità ogni giorno, nella prospettiva messianica è già l’ultimo giorno: «L’ “ultimo giorno”, l’eschatia non è soltanto un momento, nella catena del tempo, un giorno determinato di un anno che porterà il suo millesimo, secondo l’era in vigore presso gli storici del tempo. Esso è anche il fatto del compimento totale del disegno di Dio sulla sua creatura. Ma se questo compimento non sarà ultimato in quel famoso Giorno, sarà falso immaginare che sia riservato interamente a questo futuro: in realtà, questo compimento accompagna e sostiene la durata storica, è presente in lei e raccoglie il frutto di tutte le lacrime e di tutti gli slanci d’amore. È il tempo tutto intero che si trova così a rivestire una partecipazione alla qualità escatica». Sulla base dei testi neotestamentari che riportano le dichiarazioni di Gesù, Marrou non concepisce il regno di Dio come un impero senza termine che sostituisce quelli storici, lo comprende invece come qualcosa che sta già compiendosi fin da adesso. Per questo egli conclude affermando che «la fine del mondo non è per domani (per nessun “domani” definibile), lo è, ciò che più conta, in un certo modo, già per oggi». L’impressione che si prova davanti a questa sintesi è quella di un trascoloramento, dove il futuro dei volti senza lacrime viene trasformato nella sublimazione attuale della sofferenza. E la posizione del Marrou non può essere astratta da tutta la discussione che, in misura più marcata nella teologia protestante e un pò meno nella teologia cattolica, agitò i cristiani nel Novecento, in seguito alla riscoperta della dimensione apocalittica come elemento centrale della predicazione del Gesù storico. Quella del cattolico Marrou potrebbe essere inter-


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pretata come la difesa cattolica contro lo scandalo della riscoperta di un Gesù apocalittico. Giacché fu questo il dato centrale degli studi su Gesù di tutto il Novecento: Gesù fu un predicatore apocalittico, mosso dalla consapevolezza al tempo stesso del proprio ruolo unico nell’avvento del Regno di Dio. Ma forme di difesa possono essere considerate anche la riduzione, iniziata da Bultmann, dell’attesa imminente ad “esistenza escatologica”, segnata già adesso dal superamento del limite dell’uomo nella fede alla Parola. E un’ altra forma di difesa potrebbe essere considerata quella generosissima di Albert Schweitzer che ritenne obsoleta la predicazione apocalittica di Gesù, per accettarne invece l’etica connessa e tirarne le conseguenze pratiche fino alla decisione di trascorrere la sua vita tra i lebbrosi del Gabon. Invece gli studiosi ebraici, dopo il tramonto della cultura dell’assimilazione, lungo il Novecento andavano riscoprendo le ricchezze della loro tradizione, dove messianismo e apocalittica avevano giocato un ruolo centrale. Il nome più illustre di questo rinnovamento è senz’altro quello di Gershom Scholem ed è ad un discepolo di Scholem, il rabbino Jacob Taubes, che dobbiamo una delle sistematizzazioni e attualizzazioni al tempo stesso più rigorose della tradizione apocalittica, dove in primo piano emergono le conseguenze per il ripensamento dell’esistenza dei credenti dentro l’ordine attuale che regge il mondo, soprattutto lo Stato e quanto ad esso si riconduce direttamente o indirettamente, cioè l’azione politica nella città. Si tratta di quelle regole fissate in Occidente a partire dal XVI-XVII secolo, quando proprio lo Stato laico, secondo l’interessante lettura di Gauchet, pone se stesso come entità sacrale accanto alle chiese, recuperando così per altre vie quella sacralità che apparteneva allo Stato antico e al suo sovrano. L’apocalittica, con l’interpretazione del messianismo che ne fa elemento essenziale, per Taubes costituisce la vera teologia politica, quella che cioè pensa in maniera corretta i rapporti tra il Regno annunciato dai profeti e la storia “profana”. La dimostrazione di questo assunto, volto contro Carl Schmitt, ma al tempo stesso contro tutti i tentativi di cercare una qualche mediazione tra Regno e storia, è stata formulata in un drammatico seminario, condotto mentre il


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cancro, che avrebbe portato Taubes alla morte, era ormai allo stadio terminale. Contro Schmitt, che vedeva nello Stato l’ultima forza capace di fermare il caos e vedeva così giustificata la sua esistenza dal cristianesimo a partire da Paolo, Taubes fa valere invece che Paolo scrive la sua Lettera ai Romani come espressione dell’opposizione irriducibile, ancorché passiva, dei cristiani allo Stato. La Legge, nella Lettera ai Romani, sta per il nomos che reggeva il mondo di allora, il potere dei Cesari. Ma Paolo può pensare questo perché, da ebreo, ha accettato il fallimento del messia Gesù. In questo accoglimento del messia crocifisso egli vede il senso stesso del messianismo apocalittico, come necessaria interiorizzazione dell’attesa, proprio di fronte alla smentita che la storia concreta fa di essa. Il messia, legittimamente messo a morte secondo la legge, rappresenta la fine della legge stessa e dà origine all’Israele vero, quello interiore, secondo lo Spirito. Nuova, in questa ennesima interpretazione del messianismo non era tanto la tesi dell’interiorizzazione, quanto quella della Legge. Il “male radicale” che attraversa la storia degli uomini e delle donne tutte, quella collettiva delle varie epoche e quella individuale, richiede una vigilanza e un’attenzione costante da parte di quanti vogliano vivere responsabilmente la loro avventura umana. Le battute finali della discussione tra Schmitt e Taubes in questa direzione sembrano aprire uno squarcio. Esse mettono a nudo ancora oggi un compito che le religioni, nel loro fondamento apocalittico, più comune di quanto spesso non si pensi, potrebbero assumere di fronte al trionfo del Leviatano attuale tanto più pericoloso, quanto ammantato e nascosto per lo più dal trionfo di una pseudo razionalità.

6. LA RAGIONE E L’APOCALITTICA In questa introduzione abbiamo volutamente tenuto a bada un’obiezione che potrebbe mettere in discussione tutto il senso dell’apocalittica. E l’obiezione è questa: la reazione apocalittica alla presenza del male nella storia degli uomini non è una maniera ultimamente “debole” di resistere al male stesso? Non occorre piuttosto


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cercare di opporsi razionalmente al male e combatterlo adesso, senza rimandare ad un’ipotetica fine, oltre tutto non operabile dagli uomini stessi ? L’obiezione tenuta a bada non era ignorata, ma adesso è il momento di trattarla esplicitamente. Lo farò rimandando ad una risposta che ritengo insufficiente e ad un’altra che ritengo invece feconda e produttiva. In un’intervista del 2007, pubblicata in italiano per Transeuropa Edizioni nel gennaio 2010 con il titolo Prima dell’apocalisse, René Girard chiede di riportare al centro del pensiero occidentale la dimensione apocalittica del cristianesimo. Egli parte dal dinamismo mimetico che, nell’impossibilità di essere soddisfatto, genera un antagonismo che diventa insopportabile fino a quando l’esplosione della violenza non produca una catarsi. All’origine c’è l’interpretazione della mimesis in Aristotele. La violenza inoltre si concretizza in un gesto profondamente irrazionale, nella ricerca del colpevole, del capro espiatorio (tragedia: canto del capro) che dopo la morte viene considerato la fonte stessa della pace e della conciliazione che esso istaura. La natura del religioso è appunto fondamentalmente sacrificale. Questo meccanismo è stato rotto da Gesù, vittima innocente e volontaria, che con la sua morte svela come la violenza è opera delle potenze umane e non di Dio. Con questa negazione radicale del meccanismo vittimario il cristianesimo ha introdotto il progresso umanistico dell’Occidente. L’11 Settembre, con l’attentato alle Torri gemelle, costituisce invece la reintroduzione, nell’ambito religiosopolitico, della giustificazione della violenza, grazie all’Islam che, pur non essendo apertamente una religione, ha mantenuto certi caratteri delle religioni arcaiche e pone in Dio una volontà di violenza. Ma per ciò stesso — nella situazione attuale di progresso tecnologico, il fondamentalismo islamico rende possibile la distruzione del mondo. I cristiani occidentali non reagiscono in maniera abbastanza coerente. Affidando infatti il loro futuro alla deterrenza, sono incoerenti con il principio che non può essere Dio l’autore della violenza. Credere tuttavia che la violenza manterrà la pace, è una presunzione, è falsa. Per Girard, allora proprio per evitare l’apocalisse, bisogna pensarla come imminente.


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Perché ritengo che la posizione di Girard, per quanto fascinosa e provocatoria, come tutto il suo sistema, non costituisca tuttavia un ripensamento rigoroso dell’apocalittica? Per un semplice motivo: perché essa persegue l’intento opposto a quello di ogni tradizione apocalittica, che è appunto non quello di evitare la fine del mondo, ma quello di proclamarla come reale ed effettiva. Il senso della tradizione apocalittica non è quello della finzione escogitata per impaurire e tenere gli uomini lontani dal male, ma quello di proclamare la fine di “questo” male. Ben altra consapevolezza aveva invece una proposta di Johann Baptist Metz, formulata nel 1977 11. Egli è convinto che l’apocalittica costituisca un “correttivo” necessario nella cultura attuale dell’Occidente. Questa cultura è infatti dominata dalla fiducia in un progresso indefinito reso possibile dalla ragione umana e dalla tecnica. Ma questa cultura è una cultura radicalmente incapace di tener conto delle vittime che i forti provocano nella storia. Essa è tutta sotto il primato del futuro dove le vittime e i morti non hanno alcun posto nella memoria umana. Il “correttivo” introdotto dalla memoria pericolosa del passato ha invece esattamente questa funzione, di guardare dal punto di vista dei vinti e delle vittime. Le varie “tesi” che Metz formula per illustrare questo assunto fondamentale vanno dal ripensamento della fede in Gesù Cristo (tesi 25: «La cristologia senza apocalittica si trasforma in ideologia di vincitori. Non hanno dovuto sperimentarlo abbastanza dolorosamente proprio coloro le cui tradizioni apocalittiche sono state con troppa sicumera (allzu sieghaft verdrängt) fatte fuori dal cristianesimo: gli ebrei?»), a quelle sull’etica sotto il segno dell’attesa della fine (tesi 28: «L’attesa appassionata del “giorno del Signore” non porta né ad una danza sognante pseudo apocalittica, nella quale dimenticare e far evaporare tutte le esigenze 11 J.B. METZ, Glaube in Geschichte und Gesellschaft. Studien zu einer praktischen Fundamentaltheologie, Mainz 1977, 149-158: Speranza come attesa imminente, ovvero la lotta per il tempo perduto. Tesi inopportune sull’apocalittica. Purtroppo la traduzione italiana (La fede nella storia e nella società, Brescia 1978) di questo testo obiettivamente difficile non è molto felice.


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pratiche della sequela, né spinge la sequela a quel radicalismo insensato per il quale le preghiere della nostalgia e dell’attesa sarebbero forme evidenti della rinuncia e dell’autoillusione. […] La coscienza apocalittica non sta primariamente sotto l’aspetto della minaccia e dell’angoscia paralizzata della catastrofe, ma sotto l’istanza della solidarietà pratica con “i fratelli più piccoli”, come vengono chiamati nel vangelo di Matteo»). Quest’ultimo pensiero del Metz illustra forse meglio di ogni altro l’attualità del pensiero apocalittico. Il suo senso non è di costruire un’alternativa al grande programma “illuministico” di una liberazione dell’umano con l’impiego della ragione, ma di introdurre un “correttivo” senza del quale quel programma diventa inevitabilmente disumano: la prospettiva delle vittime che non possono essere ridotte a strumento delle nostre vittorie, a ciottoli impiegati per costruire le strade sui quali far passare i nostri mezzi corazzati. Giacché questo è il nocciolo di ogni racconto apocalittico, che l’asse della storia siano proprio loro, le vittime, i vinti, i caduti sotto il ferro dei vincitori, e che la loro memoria è la spina piantata nel fianco di ogni vittoria e di ogni progresso. I veggenti dell’apocalisse sono soltanto custodi della memoria di quanti, come scriveva Tertulliano, «gridano al Signore disonorandolo: Fino a quando, o Signore, non vendicherai il nostro sangue sugli abitanti della terra?».


NATURA E PAURA NELLA DIMENSIONE RELIGIOSA DI PAGANI E CRISTIANI. I CASI DI ELIO ARISTIDE E PERPETUA

TERESA SARDELLA*

PREMESSA Il tema che ci siamo dati è vasto e complesso e, come sempre avviene in questi casi, può essere variamente interpretato, sia per quanto riguarda senso e significato di ciascuno dei termini sia per il possibile reciproco rapporto tra loro. Vorrei chiarire quindi la mia prospettiva, sia rispetto al senso di ciascuno degli elementi in causa sia rispetto al loro rapporto, la cui compresenza e il cui nesso intenderei lasciare intatti in questa riflessione anche se ciò può parere quanto mai problematico. Infatti, ciascuno di questi aspetti di una possibile prospettiva o visione del mondo — quello della natura, della paura e del rapporto con la dimensione religiosa, in versione profetica e apocalittica — è in grado di mobilitare una quantità tale di questioni e problemi da assorbire in sé l’interezza delle domande e delle risposte di un’intera visione antropologica e cosmologica. La complessità e la diversità del reale, modelli e principi di vita e i loro opposti, sono incarnati nel solo termine natura. Tale termine comprende nell’antichità classica concetti vari e diversi e ha un’estensione più vasta di quella che gli riconosce la posteriore evoluzione del pensiero. Esso comprende il vitalismo teleologico di Aristotele e degli stoici così come la concezione meccanicistica e materialistica degli *

Docente di Storia del Cristianesimo antico presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Catania.


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atomisti e degli epicurei. Dal concetto onnicomprensivo di physis comprendente l’intero universo nella sua indiscriminata totalità, la sofistica e la filosofia socratica passarono a una determinazione particolare del concetto di physis, designante ora solo un dato aspetto del reale e in confronto al quale è svalutato il regno del nòmos, cioè quello delle convenzioni sociali contro cui inceppano i liberi impulsi naturali dell’uomo. La concezione neoplatonica, filtrata attraverso il tardo stoicismo, influenzò anche il pensiero cristiano nella comune svalutazione della realtà sensibile e materiale rispetto a Dio. In età moderna, lo sviluppo delle scienze — le biotecnologie — ha reso ancora più complesso il concetto di natura, senza peraltro mai discuterlo in modo radicale, anzi ponendo fine a una riflessione filosoficamente autonoma del concetto di natura. Mentre le dinamiche innestate dai mass media rendono ancora più deflagranti gli effetti di tale rapporto1. Almeno in certi contesti, considerare la natura in reciproca relazione con l’apocalittica — con gli inevitabili risvolti in cui il mistero si incrocia con la paura — appare quanto mai coerente. Infatti, se assumiamo l’apocalittica come una condizione storico-culturale, tipica di precisi contesti e che determina una certa visione del mondo e dei destini umani, centrata sui grandi temi delle origini e della fine dell’uomo e del cosmo, il tema della natura e quello della paura appaiono inevitabilmente e indissolubilmente associati a tale condizione e a tale visione. Alla base dell’esperienza umana primordiale e storico-culturale, individuale e collettiva, e, dunque di ogni visione antropologica, vi è la natura o, meglio, il rapporto con essa, a partire dal quale l’uomo ha consapevolezza e definisce i propri limiti. Natura, peraltro, è termine pluricomprensivo e ambiguo, che contiene la dinamica di inizio e fine, di vita e morte, riferibile a tutto ciò che riguarda la fisicità e il mondo materiale, che non è direttamente controllabile dall’uomo, è causa imperitura e continua di situazioni che possono essere di violenza, 1 Innumerevoli i modi in cui il tema è stato affrontato nell’ambito di diverse discipline scientifiche, umanistiche e non — ma anche dal punto di vista letterario e cinematografico —. Citiamo soltanto, per quanto riguarda la sofistica G. CASERTANO, Natura e istituzioni umane nelle dottrine dei sofisti, Napoli-Firenze 1971; più in generale: D.L. ALTHEIDE, Creating Fear: News and the Construction of Crisis, NewYork 2001.


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sofferenza e morte. In tal senso, il tema della natura, in quanto in stretto rapporto con la riflessione sulle origini e soprattutto sulla fine di ogni esistenza, innesca varie forme di correlazione con la paura. Questa nasce in parte anche dal mistero delle origini e soprattutto della fine, soprattutto dal senso di vertigine e dall’impossibilità come anche dal bisogno estremo di tentare di esercitare una qualche forma di aggancio o di controllo, sia pure solo cognitivo e gnoseologico, su quest’ultima. Natura e paura sono parte integrante di ogni visione apocalittica. Certamente nel significato più specifico che si dà al termine di apocalittica, in riferimento alla relativa letteratura di ambito giudaico e cristiano, confinata entro limiti di tempo che sono fissati ormai tra il III secolo a.C. e il II d.C.2. Ma, il significato di apocalittica può anche prescindere dalla designazione specifica degli scritti che, fra III a.C. e II d.C., in ambiente giudaico e cristiano, si propongono di spiegare i misteri dell’origine e della fine del mondo. Né si tratta solo di delimitare il contenuto apocalittico dei grandi temi cosmici che riguardano il destino del mondo e dell’umanità3. È possibile infatti dare ad esso anche un senso più strettamente antropologico4, con una specifica attenzione non alla macroantropologia, alla grande antropologia (ontologia e metafisica), 2 Cfr. W. SCHMITHALS, L’apocalittica. Introduzione e interpretazione, trad.it., Brescia 1976; K. KOCH, Difficoltà dell’apocalittica, trad.it., Brescia 1977; P. SACCHI, L’apocalittica giudaica e la sua storia, Brescia 1990; E. NORELLI, Apocalittica: come pensarne lo sviluppo?, in R. PENNA (éd.), Apocalittica e origini cristiane. Atti del V Convegno di studi neotestamentari, Bologna 1995 (Ricerche storico-bibliche 1995/2), 163-200; M. POLIA – G. MARLETTA, Apocalissi. La fine dei tempi nelle religioni, Milano 2008. Per una breve sintesi dell’argomento cfr. C. NARDI (cur.), Introd. a Il Millenarismo. Testi dei secoli I-II, Firenze 1995, 9-51. Sui limiti alti di questa datazione, dopo il 1976, si risale dal II al III secolo (cfr. P. SACCHI, Credereoggi 14 [1994] 80, 3244). Ci fermiamo a queste sole indicazioni bibliografiche. 3 Impensabile indicare la bibliografia se non nelle poche indicazioni generali già date: superata l’alternativa tra apocalittica come genere letterario o come contenuti speculativi, illusoria la possibilità di partire da una definizione rigida, la possibilità stessa di definire quello che è apocalittica può anche derivare da studi comparativi tra contesti e religioni diversi e l’indagine comparativa per decenni ha confrontato ambiente orientale (iranico) e temi dell’ellenismo greco-romano. 4 M.V. CERUTTI, Antropologia e apocalittica, Roma 1990.


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ma alla microantropologia, rappresentata dall’uomo come individuo inserito nella storia e da una varietà di forme e modi che disvelano il senso della vita e il destino finale, spesso in un momento in cui si incrociano la sofferenza, che è legata al corpo, e la paura. In questo significato apocalittica assume il valore di ‘rivelazione’ di un destino, che è solo individuale, ma i cui confini sono estensibili in quanto influenzati da ciò che sta attorno. La relazione dell’uomo, dal punto di vista storico culturale religioso e filosofico, con la natura, oscilla tra poli dialettici — positivo/negativo — tra i quali quello con la paura non sempre è presente. Basti un solo esempio. Già nell’antichità classica, ben prima della ottimistica e quasi onnipotente visione di Spinoza5 — “attraversare la vita non con paura e pianto, ma in serenità, letizia e ilarità”(Epistola XXI a van Blijenbergh) — e degli illuministi, e oltre la contrapposizione physis/nomos dei sofisti, il rapporto con la natura, conosce una dimensione fondata su un rapporto di equilibrio rasserenante. Il rapporto con la divinità, peraltro non sempre presente come referente del rapporto tra uomo e natura, introduce a una possibile rivelazione divina, che esprime o una pacificazione in atto o lo svelamento di una sofferenza, come lenimento che espleta una funzione medica, che può trascendere in molti modi uno specifico significato spirituale e religioso. Il II secolo rappresenta un periodo in cui il rapporto tra uomo, natura e Dio, con tutto ciò che questo comporta in merito alle possibili e diverse modalità di rivelazione appare per molti aspetti interessante. In primo luogo lo rendono tale la compresenza tra il paganesimo — religione tradizionale ma ormai profondamente trasformata a partire dall’ormai plurisecolare incontro con il mondo e le religioni ellenisticoorientali nonché in relazione agli sviluppi della filosofia soprattutto delle scuole platonica e stoica — e il cristianesimo dilagante ma non ancora trionfante6. Un periodo denso di fermenti ideologici e socio5

P. VINCIERI, Natura umana e dominio. Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Ravenna

1997. 6 D. BABUT, La religion des Philosophes grecs de Thalès aux Stoiciens, Paris 1974; U. BIANCHI – M.J. VERMASEREN (edd.), La soteriologia dei culti orientali nell’Impero romano. Atti del Colloquio Internazionale su La soteriologia dei culti orientali


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politici che decideranno le sorti del mondo tardo antico e della cultura occidentale, ma anche un’età di angoscia7, attraversata da complessi fermenti religiosi e da profonda inquietudine spirituale, in cui la struttura sociale e politica, funzionale al mondo antico, disgregata, sopravvive in forme statiche e svuotate di contenuti8. A questo contesto appartengono due scritti in cui la natura si esprime come sofferenza fisica e individuale, come paura del vivere e del morire. E solo grazie all’intervento divino, realizzatosi attraverso forme di rivelazione di diversa natura, si ricostituisce un equilibrio. Questi scritti sono I discorsi Sacri di Elio Aristide, resoconto autobiografico di un’esperienza onirica che era anche esperienza profondamente religiosa9, e la Passio Perpetuae dove si legge il diario di prigionia della martire cristiana in attesa dell’interrogatorio e del supplizio10. nell’Impero romano (Roma, 24-28 settembre 1979), Leiden 1982; R. TURCAN, Les cultes orientaux dans le monde romain, Paris 1989; D. BABUT, Du scepticisme au dépassement de la raison: philosophie et foi religieuse chez Plutarque, in D. BABUT, Parerga. Choix d’articles de Daniel Babut (1974-1994), Paris 1994; W. BURKERT, Plutarco: religiosità personale e teologia filosofica, in I. GALLO (ed.), Plutarco e la religione. Atti del VI Convegno plutarcheo (Ravello, 29-31 maggio 1995), Napoli 1996, 11-28. 7 A questa fa riferimento il titolo del saggio epocale di E.R. DODDS, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia. Aspetti dell’esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, trad.it., Firenze 1970. 8 Per un confronto sulle problematiche interpretative del cambiamento e della trasformazione della Tarda Antichità, citiamo soltanto A. MOMIGLIANO (cur.), Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, trad.it., Torino 1975 e F.E. CONSOLINO (cur.), Pagani e cristiani, Soveria Mannelli (Cz) 1975. Cfr. l’ormai classico R. LANE FOX, Pagani e cristiani, trad. it., Bari 1991. 9 Testo in Aelii Aristidis Smyrnei quae supersunt omnia, II, Berolini 1958, 376477. Cfr. traduzioni commentate di C.A. BEHR, Aelius Aristides and The Sacred Tales, Amsterdam 1969; S. NICOSIA, Elio Aristide. Discorsi sacri, Milano1984 e A.-J. FESTUGIÈRE, Aelius Aristide. Discours sacré. Rêve, religion, médicine au IIe siècles après J.-C., Paris 1986. Gli Hieroi logoi corrispondono alle orazioni 47-52 della numerazione tradizionale. Qui li indichiamo con l’ordine 1-6. 10 Testo in A.A.R. BASTIAENSEN ET ALII (curr.), Atti e Passioni dei martiri, Milano 1987. Cfr. A. FRIDH, Le problème de la passion des saintes Perpétue et Félicité, Stockholm-Goeteborg-Uppsala 1968. Sul problema dei rapporti tra la Passio e gli Acta Brevia, cfr. di recente G. GUAZZELLI, Gli Acta brevia sanctarum Perpetuae et Felicitatis: una proposta di rilettura, in Cristianesimo nella Storia 30 (2009) 1-38.


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1. DUE VISIONI DIVERSE IN UN UNICO CONTESTO STORICO Una breve presentazione di autori e documenti serve a inquadrare questa nostra riflessione. Elio Aristide, sofista greco del II d.C., riferisce nei Discorsi Sacri delle numerose e differenti malattie di cui ha sofferto per tutta la durata della sua vita e del modo in cui è stato curato nel santuario del dio Asclepio a Pergamo. Durante l’impero di Marco Aurelio, nell’inverno del 170-17111, già autorevole e famoso retore, Elio Aristide teneva il resoconto dei suoi rapporti notturni con il divino guaritore Asclepio. I Discorsi Sacri costituiscono un documento originale rispetto a un’esperienza psicoterapeutica di guarigione per mezzo della letteratura, la prima e unica autobiografia religiosa che il mondo pagano ci abbia lasciato. Aristide era nato nel 117 d.C. da una famiglia di agiati proprietari terrieri dell’interno della Misia (Asia minore) in una regione impervia e spopolata lontana dalle città della costa e dalle più importanti vie di comunicazione in una casa di campagna e poco distante da un santuario di Zeus Olimpio, di cui il padre era sacerdote. La preminenza sociale della famiglia è dimostrata dalle molte proprietà, dalla partecipazione alla cittadinanza romana e alla vita politica della lontana Smirne. Da fanciullo, tra i suoi istitutori vi erano stati uomini pii e in contatto con gli dei, capaci di ricordare interi responsi ricevuti in sogno o destinatari di messaggi divini12. Complessivamente persone e luoghi della fanciullezza erano tali da predisporre e alimentare religiosità e misticismo nell’ambito di una fede nei sogni che segnerà la sua vita e la sua opera. La sua formazione giovanile, secondo le migliori tradizioni della sua classe sociale, sarà tutta orientata verso gli studi di retorica e di grammatica, completati da ricche esperienze di viaggio, quale quest’ultimo era inteso, come strumento di crescita culturale e di apertura alla diretta conoscenza del mondo. Durante un soggiorno in Egitto compare una imprecisata malattia che lo costringe a tornare a 11 Per una sintesi delle problematiche cronologiche relative, cfr. G. SFAMENI GASPARRO, Elio Aristide e Asclepio, un retore e il suo dio: salute del corpo e direzione spirituale, in Oracoli Profeti Sibille. Rivelazione e salvezza nel mondo antico, Roma 2002, 203, n.1. 12 4, 54 e 3,15.


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Smirne. Non si rivolge ai medici ma solo a Serapide dio guaritore. Il malessere fu l’inizio di un ripiegamento religioso, che sarà una condizione costante di fronte ai suoi mali fisici. A ventisei anni intraprende (inverno del 143-144), sempre per ragioni di studio, un viaggio a Roma, centro di vita politica dell’impero. La valenza che questo doveva certamente avere nel giovane e ambizioso Aristide non trova riscontro in quanto di questa esperienza egli scrisse, cioè nulla. Nessun evento particolare è ricordato di quella permanenza di sei mesi a Roma, mentre oggetto di insistenza ossessiva sono le peripezie del viaggio di andata e ritorno, con una ancor più ossessiva e ipocondriaca attenzione rispetto all’insorgere e consolidarsi della malattia da cui non si libererà più. Partito per Roma quando era già sofferente di qualche malessere da raffreddamento, durante il viaggio si aggravò anche per le condizioni atmosferiche avverse. Assalito dai dolori ai visceri e ai polmoni, da brividi di febbre, arrivò a Roma dopo un viaggio durante 100 giorni, durato cioè più di tre volte il normale. Pensò dunque al ritorno in patria che affrontò, insieme a disperati compagni di viaggio, in condizioni atmosferiche peggiori del viaggio di andata. Sfuggiti per miracolo alla morte per naufragio, dopo terribili traversie sbarcarono a Mileto. Aristide non poteva nemmeno reggersi in piedi. Raggiunse da lì a tappe Smirne. Era passato un anno dall’inizio del viaggio e passeranno ancora alcuni mesi prima di rendersi conto dell’inadeguatezza della medicina umana e ricoverarsi nel santuario di Pergamo, dedicato ad Asclepio, dove era stato chiamato dal dio stesso, nell’estate del 145. Durante i mesi trascorsi a Smirne aveva avuto molti segnali di salvezza da Iside e Serapide, ai quali si era rivolto13. Ma, fu quando, la prima volta, gli si rivelò anche il dio guaritore per eccellenza — Asclepio —, che la sua vita cambiò realmente. Il dio gli apparve in sogno, dandogli il primo di una serie di ordini incredibili — quello di camminare a piedi nudi —. Aristide seguì ciecamente l’ordine divino al grido di: «Asclepio è grande»14. Fu l’inizio di un rapporto che sarebbe durato tutta la vita e in cui tutti gli atti dell’esistenza di Aristide, quotidiani ed eccezionali, sarebbero stati dominati dalla presenza di Asclepio. E tutta la vita di 13 14

3, 45-46. 2,7. Il testo è sempre citato dall’edizione italiana con trad. a cura di Nicosia.


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Aristide sarebbe stata da ora in poi regolata dal dio guaritore, che gli appariva in sogno, e godeva di una fede assoluta da parte del fedele, convinto della onnipotenza del dio suo protettore e sua unica ancora di salvezza, dopo che la malattia lo aveva costretto ad abbandonare i suoi sogni di gloria. Il santuario e il dio sono l’unico contesto in cui egli sapeva di poter risolvere i problemi fondamentali della sua sopravvivenza: il recupero della salute e la realizzazione di una vocazione retorica tanto forte quanto frustrata. Tale autobiografia onirica15 è il risultato di un’esperienza di vita che aveva visto Aristide affrontare malattie, sofferenze e difficoltà enormi e di fronte alle quali egli si era sentito schiacciato. Ma aveva trovato una compensazione a tutte le sue sofferenze e un significato alla sua esistenza nella gioia di avere trovato un protettore. Non più disperato e solo nella solitudine del nevrotico, aveva trovato un protettore e una compensazione nella dimensione onirica che gli regalava il rapporto con Asclepio. L’atteggiamento cristiano verso i sogni non era in linea di principio diverso16. L’incubazione in un tempio di Asclepio fu sostituita dall’incubazione nella cappella di un martire o di un santo. E sogni di contenuto religioso erano frequenti e presenti nella chiesa delle origini e dei martiri. Essi avevano un’importanza fondamentale in quanto erano ritenuti strumento di comunicazione privilegiata con il divino. I sogni più famosi dal punto di vista psicologico furono quelli attribuiti a Perpetua17, una donna di ventidue anni, madre di un piccolo ancora lattante, che subì il martirio a Cartagine, molto probabilmente il 7 marzo 203. Essi stanno all’interno della Passio Perpetuae et Felicitatis18, imperniata su due documenti raccontati in prima 15 S. NICOSIA, L’autobiografia onirica di Elio Aristide, in G. GUIDORIZZI, Il sogno in Grecia, Bari 1988, 173-189. 16 Della vastissima bibliografia sul tema, citiamo soltanto Sogni, visioni e profezie nell’antico cristianesimo. Atti del XVII Incontro di studiosi dell’antichità cristiana (Roma, 5-7 maggio 1988), Roma 1989 (Augustinianum 29) e G. SFAMENI GASPARRO, Oracoli Profeti Sibillle. Rivelazione e salvezza nel mondo antico, Roma 2002 con bibliografia. Cfr., da ultimo, L. CANETTI, L’incubazione cristiana tra Antichità e Medioevo, in Rivista di Storia del Cristianesimo 1 (2010) 149-180. 17 DODDS, 47 ss. 18 Testo critico a cura di A.A.R. BASTIAENSEN, trad. G. Charini, Milano 1987, 114 ss.


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persona. Uno di questi è una specie di diario di prigionia tenuto da Perpetua in attesa di essere martirizzata e include il racconto di quattro sogni e delle circostanze in cui essi avvennero; l’altro è una visione raccontata da Satiro, che subì il martirio nella stessa occasione. Questi documenti furono messi insieme da un redattore anonimo che vi aggiunse alcuni elementi — un elenco di martiri, alcuni dati e un lungo resoconto di raccordo —. Il diario è libero dall’elemento meraviglioso e i sogni hanno le caratteristiche di autentici sogni19. Il redattore e Perpetua rappresentano due diversi profili biografici culturali e religiosi. La testimonianza di umanità e di coraggio nelle vicende di cui Perpetua è protagonista è ben lontana da quelli che possono essere considerati gli squilibri nevrotici di Aristide. Altre volte e per varie ragioni questi testi sono stati messi in parallelo: in particolare per l’analisi delle esperienze oniriche e religiose20, e per il tipo di rapporto con il mondo soprannaturale cui entrambi fanno riferimento secondo modalità e parametri che ne attestano la partecipazione ad una comune temperie culturale e religiosa, dove il dato più evidente è rappresentato dall’alienazione del sé, che viene proiettato in una nuova realtà identitaria in cui l’Io si riconosce nella partecipazione a un’esperienza divina più ancora che semplicemente metafisica21. Inutile dire che molti elementi distinguono anche e profondamente le due esperienze religiose. Innanzi tutto il concetto di «salvezza», che pertiene sì in modo generalizzato agli orizzonti religiosi di età ellenistico-romana, ma che parimenti assume connotati diversi per Aristide e per Perpetua: un profilo materiale contraddistingue le aspirazioni soteriologiche di Aristide, il quale lega il concetto di salvezza, oltre che al benessere fisico, alla gloria ‘eterna’, ma certo anche molto umana e terrena che il successo come retore gli può dare, mentre è legato alla vita oltre la morte nella dimensione martiriale della cristiana Perpetua. 19

Una analisi di tipo psicanalitico in tal senso in DODDS, 50 ss. E.R. DODDS, Pagani e cristiani, cit., 37 ss. 21 Sulla temperie spirituale del secolo, cfr. DODDS, cit.; LANE FOX, Pagani e cristiani, trad.it., Bari 2006. Cfr., inoltre, G. SFAMENI GASPARRO, Elio Aristide e Asclepio, un retore e il suo Dio: salute del corpo e direzione spirituale, in Oracoli Profeti Sibille. Rivelazione e salvezza nel mondo antico, Roma 2002, 203 ss. 20


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Queste e altre vicende dello stesso periodo sono già state confrontate sulla base del fatto che il contatto con la divinità dà luogo a esperienze personali straordinarie22. Esse avvengono all’interno di spazi religiosi di fedi diverse, ma lungo territori di confine che segnano comuni appartenenze: sono i contesti religiosi tradizionali ed ellenistici e quelli delle nuove forme di ambito cristiano23, diversi sul piano della fede e del credo religioso in senso stretto, ma non del tutto estranei gli uni agli altri nella percezione di una spiritualità più consapevole, intima e personale, financo con tratti eminentemente teologici e filosofici talvolta parzialmente sovrapponibili. Esperienze religiose diverse perché esprimono fedi diverse — quella del dio Asclepio e quella del dio dei cristiani —, ma che stanno all’interno di una comune cultura: tant’è che la storiografia variamente interpreta i loro rapporti nell’ambito di una irrisolta dialettica di continuità/discontinuità religiosa e culturale e che si snoda lungo una molteplicità di percorsi identitari religiosi e culturali24. Tra le varie dinamiche culturali quella del rapporto tra natura e fede religiosa appare degna di attenzione. Tale rapporto, al di fuori dell’età classica, andò incontro a un capovolgimento. La rottura di equilibrio tra materia e spirito, corpo e anima, che il mondo classico aveva fissato come fondamento e principio culturale, spezzava il rapporto con la natura come entità materiale e rinviava a una dimen22 Altri casi contemporanei sono quelli di Alessandro di Abunotico e di Peregrino, in ambito della religione tradizionale, e quello di Montano nel cristianesimo. Ma, in questi ultimi casi, il contatto straordinario con la divinità avviene in forme di profetismo diurno con rivelazioni di varia natura, mentre solo nel caso di Aristide e di Perpetua abbiamo il resoconto onirico di un rapporto privilegiato con la divinità. 23 Il contesto montanista, cui probabilmente appartiene Perpetua, oltre che l’indefinitezza delle forme religiose cristiane più che mai marcata in questo periodo, legittima la definizione che rinvia al pluralismo delle forme (cfr. B.D. EHRMAN, I cristianesimi perduti. Apocrifi, sette ed eretici nella battaglia per le Sacre Scritture, trad.it., Roma 2005). 24 Cfr. gli ormai classici momenti di un dibattito ricchissimo, rappresentati dai volumi già citati e curati da Momigliano. Per quanto riguarda la discussione sulle questioni identitarie citiamo soltanto G.C. STROUMSA, La formazione dell’identità cristiana, Brescia 1999 e i volumi tematici della rivista Annali di Storia dell’esegesi, La costruzione dell’identità cristiana (I-VII secolo), 20,1, 2003 e Identità cristiane in formazione, 24,1, 2008.


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sione non più di equilibrio ma di destabilizzazione che apriva baratri della coscienza e dell’anima. Anche il rapporto con la malattia e con la morte — che rappresentano la dimensione dolorosa della rottura di questo equilibrio — diventa più problematico. La medicina scientifica dell’antichità non è più in grado di affrontarlo25. Spezzatosi l’equilibrio con la physis, sia come entità esterna sia come fisicità ed equilibrio del corpo26, la vita del corpo diventava la morte dell’anima. Il cristianesimo stabilì che la salvezza consisteva nel mortificare il corpo stesso. Con l’annientamento del corpo e delle sue esigenze, ascetismo e monachesimo realizzeranno pienamente un processo già avviato nel clima culturale del II secolo. Né solo dal cristianesimo.

2. ARISTIDE La disarmonia con la natura in Aristide si esprime in una visione della stessa come nemica e portatrice di ansie e angosce, soprattutto sotto forma dell’elemento acqua, mentre ogni possibile ricomposizione di equilibrio si realizza solo attraverso l’intervento del dio protettore. La natura non ha identità, non è né amica né nemica ma solo strumento di mediazione divina. Anche là dove essa appare portatrice di benessere, non lo è in sé, in quanto tale, ma in quanto inserita in un progetto divino. Né questo è di carattere cosmico, ma rientra nello specifico della relazione fra Aristide e Asclepio. E tutto ciò che possiamo definire come attinente alla natura può essere fonte di terrore e dolore. Può esserlo anche di benessere e salute, purché sia mediato dal dio protettore. Serenità danno i prodotti della terra, portati in sogno dalla nutrice ad Aristide, perché egli potesse cibarsene: Che bellezza le cose della campagna! 27. Ma, paura procura il 25

Cfr. E. DAL COVOLO – G. SFAMENI GASPARRO, Cristo e Asclepio. Culti terapeutici e taumaturgici nel mondo Mediterraneo antico fra pagani e cristiani. Atti del Convegno Internazionale. Accademia di Studi Mediterranei (Agrigento 20-21 novembre 2006), Roma 2008. 26 DODDS, 29: «L’unità psicofisica si era scissa in due anche in pratica: una parte trovava soddisfazione nel tormentare l’altra…». 27 1,45, p. 70.


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sogno di fichi creduti avvelenati, e perciò vomitati in gran fretta28, così come altro cibo creduto avvelenato procura angoscia29. A differenza dai testi cristiani sia di età martiriale che della successiva epoca dominata dagli ideali ascetici, e a differenza anche di un diffuso simbolismo pagano, il terrore procurato dalla natura non si incarna in forme bestiali né è rappresentato da animali30. Rari sono, infatti, i sogni in cui gli animali simboleggiano il male e si materializzano in forme di pericolo, producendo terrore. Solo in un sogno, per esempio, Aristide viene inseguito da un toro che gli procura una grave ferita. E la paura svanisce nel sogno stesso alla comparsa di Teodoto, un medico del santuario di Asclepio31. Ma, sono soprattutto le condizioni meterologiche che diventano tormento e sono fonte di terrore. Le tempeste sono assunte a metafora dello sconquasso anche personale e intimo, mentre il mare, una volta placato, e l’acqua, in determinati contesti e forme e in condizioni di quiete, rappresentano la metafora del benessere o della salvezza. Natura e paura sono al punto di incrocio delle rivelazioni del dio e tra il prima e il dopo c’è solo l’intervento divino. (Mi sembrava … che fosse … come se, dopo aver attraversato a nuoto tutto il mare, mi si costringesse a rendere conto … della qualità dell’acqua … che mi aveva salvato32). Sia nei sogni che nella realtà, l’acqua è l’elemento principale in cui immergersi per sanarsi: oltre all’acqua del mare, ci sono l’acqua del lago, lo stabilimento termale33, fiumi e fontane per accedere al bagno34. E l’acqua rappresenta una sorta di confine tra la fase in cui Aristide si affidava alle cure della medicina umana e quella in cui si affida totalmente ad Asclepio35. L’acqua costituisce il punto di passaggio. L’acqua è ‘provata’, sentita, percepita e ‘gustata’ in mille sfumature fisiche, che fanno supe28

1, 54, p. 72. Orat. 1, 54, p. 73. 30 Cfr. M.P. CICCARESE, Animali simbolici. Alle origini del bestiario cristiano, 3 voll., Bologna 2002-2007; A.M.G. CAPOMACCHIA, Animali tra mito e simbolo, Roma 2009. 31 Orat. 1, 13, p. 61. 32 Orat. 1, 2-3, pp. 57-58. 33 Orat. 1, 18 ss., pp. 62-63. 34 Orat. 1, 59, p. 74. 35 Orat. 2, 7-8. 29


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rare la paura e danno gioia, in quanto segno della benevolenza divina: ‘… non troppo fredda, ma azzurra e di aspetto gradevole. ‘Bella!’, esclamai, riconoscendo appunto la bontà dell’acqua … E a proposito del santuario di Pergamo e della sua fonte: quanto è bello accostarvisi e bere, o anche vedere un altro che beve, o semplicemente vederla! Questa conversazione mi pareva di fare, e anche di sentirmi dire che se mi fossi messo nelle mani del dio avrei avuto speranze36. L’astensione dal bagno è privazione di un’esperienza che dà piacere e benessere. E, in apparente contraddizione con questo dato, è anche causa di aggravamento di malessere, soprattutto, dei dolori di stomaco di cui Aristide soffre37. Perciò, è spesso suggerita o ordinata dal dio, talvolta tramite interposta persona che appare in sogno38, talvolta si tratta anche di una decisione autonoma, sia pur come conseguenza di precedenti indicazioni divine39. In tal senso l’astensione rientra tra le pratiche curative, in grado di ricostituire l’equilibrio naturale e di dare salute in virtù di una forma di compensazione: Aristide si priva di una esperienza desiderata e piacevole e, in compenso, guadagna salute. Anche il bagno può avere la stessa valenza, purché suggerito dal dio e purché avvenga in condizioni quasi disperate: in pieno inverno, con una cupa tramontana che alimenta un vento gelido e i ciottoli del fiume in cui immergersi sono simili piuttosto a una lastra di ghiaccio40. I bagni, il più delle volte imposti in condizioni che appaiono ai limiti della tollerabilità fisica e incomprensibili alla luce di una equilibrata razionalità umana41, rappresentano il leit-motiv delle prescrizioni divine e paiono scelti per mettere alla prova il grado di resistenza, ma soprattutto di totale condiscendenza di Aristide, al quale il dio impone bagni da fare vicino alle sorgenti termali di acqua calda, ma dentro le acque fredde del fiume42. Il male fisico che questi 36

Orat. 1, 43, p. 69. Cf. anche 1, 19; 1, 21; 1, 22. Orat. 1, 9 e 1, 27. Cf. anche 2, 74. 38 Orat. 1, 22 (il governatore Quadrato) e 1, 27 (l’istitutore Zosimo). 39 Orat. 1, 6-8. 40 2, 19 e 2, 50. 41 2, 75 e 2, 79: così i bagni nel fango e nell’acqua talmente ghiacciata da rendere difficile lo stesso gettarvisi dentro. 42 Orat. 2, 50-51 e 53. 37


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bagni talvolta producono43 è la prova che alla salute e alla salvezza Aristide arriverà sì attraverso di essi, ma non in quanto questi costituiscano uno strumento diretto in grado di produrre benessere. Piuttosto essi, in quanto prove estreme volute dal dio, gli guadagneranno un tipo di rapporto tale che sarà in sé portatore di salvezza e di ammirazione da parte della folla. A Efeso, un bagno freddo ordinato dal dio produrrà ammirazione nella folla che vi assiste, che se ne stupirà tanto quanto dei discorsi dello stesso Aristide, per l’unica ragione che entrambi provengono dal dio44. Né ha molta importanza che questi eventi appartengano al sogno o alla realtà, dal momento che il piano della visione spesso si sovrappone e si sostituisce a quello della realtà45. Del resto, era proprio in sogno che, in alcuni casi, i consigli del dio in merito ai bagni venivano dati per bocca di medici che, per di più, li riferivano come prescrizioni di Ippocrate46. Dopo dieci anni di malattia, a Pemaneno, sede di un rinomato santuario di Asclepio, vicino alle terme dell’Esepo, il regime cambia: gli ordini sono soprattutto di astenersi dai bagni, mentre le purificazioni avvenivano non più attraverso i bagni, ma attraverso libagioni e vomito. L’elemento acqua ritorna come pericolo nelle grandi manifestazioni naturali rappresentate da tempeste e uragani47. L’acqua, o meglio la mancanza della stessa, è, ancora, causa di dolore, anche nel sogno, là dove l’impossibilità di bere, determinata dai consueti paradossi onirici, reitera condizioni di sofferenza per la sete inappagata48. All’opposto, dall’impossibilità di bere si passa all’obbligo di bere all’infinito, in un ingorgo fisico che, anche all’interno, rivela la dinamica di un rapporto fluido, di immersione cosmica e individuale, nella liquidità dell’acqua. Pochi i casi in cui rientrano anche altri elementi, funzionali a questo ininterrotto rapporto tra il fedele e il suo dio, rapporto che vive nel sogno e nella realtà in una continua rivelazione. In questo tema del bere e del non-bere, presente 43 44 45 46 47 48

Orat. 2, 60. Orat. 2, 82. Orat. 2, 18. Orat. 4, 49-52. Orat. 4,32 e 35. Orat. 1, 9.


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soprattutto nel terzo discorso, si avvicendano l’obbligo di bere moltissima acqua, e solo acqua, con l’ordine divino di bere vino, sia pure soltanto in quantità preordinate49. Attorno all’acqua, o alla liquidità di altri elementi, avvengono i sogni di compensazione, angoscia, gratificazione ed essa entra come elemento simbolico onnicomprensivo, centrale e secondario. Il sogno, in cui l’incontro con gli imperatori rappresenta un processo di gratificazione totale per Aristide — come uomo e come oratore —, è pieno di elementi in tal senso. Gli imperatori, nel sogno, lo portano a fare un giro con loro per ispezionare un fossato che stavano facendo scavare attorno alla città per prevenire i danni delle inondazioni50. Un lungo giro intorno alla città, occasione per molteplici riconoscimenti, si chiude in uno stabilimento balneare, dove in vista di un incontro con gli imperatori, Aristide si prepara con un bagno51. Nonostante ciò, si prefigura la possibilità di un viaggio a Pergamo che viene ostacolato da una palude fangosa e da piogge torrenziali52. L’astensione dal bagno, la pioggia e la tempesta corredano il sogno di riconoscimento. E tutto il racconto è accompagnato da precipitazioni atmosferiche e da ordini e divieti in relazione ai bagni53. Le interdizioni dal bagno sono imposte per cinque anni e alcuni mesi ininterrotti, salvo passare a ordini divini che il bagno lo imponevano, purché d’inverno, nel mare nei fiumi o nelle fontane. A tali drastici regimi ‘esterni’, in relazione al corpo si accompagnavano purificazioni all’interno del corpo, perché questo appare il significato del vomito, di cui Aristide ebbe a soffrire due anni e due mesi, così come tale appare il significato del digiuno o di un’alimentazione scarsa, dei clisteri o delle flebotomie54. E, ancora, il significato dell’acqua, come elemento naturale di diretta derivazione divina e come alternativa opposta nel rapporto natura-cultura, è espresso con chiarezza in un passo che, a prima vista, può apparire anacronistico, più vicino ai problemi di oggi e del nostro mondo, che del II secolo, dal 49 50 51 52 53 54

Orat. 3, 6 e 32. 1,47. 1, 50. 1, 51-52. 2, 52-54. 1, 59-60.


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momento che esprime la preoccupazione di trovare acqua non inquinata dalla città55. Tra gli elementi naturali, non le forme bestiali di animali, ma le forze violente della natura, soprattutto sotto forma di acqua, ma anche gli innocui prodotti della terra, rappresentano un pericolo e alimentano la paura. L’aver mangiato in sogno dei fichi prefigura la paura di un avvelenamento e un’angoscia irrimediabile per qualunque altro cibo che, comunque, avrebbe potuto contenere veleno. Rispetto a questo pericolo, la possibilità di difendersi era, come nel caso dell’acqua e del bagno, ancora una volta, l’astensione o il vomito56. La natura, in forma di acqua o di prodotti della terra, perché possa dar luogo a purificazioni e a un processo di crescita nell’avvicinamento ad Asclepio, necessita di astensione, di lontananza o di drastici e drammatici avvicinamenti. Anche i prodotti della natura si presentano, oltre che in forma di pericolo mortale, come aiuto: un ordine del dio impose ad Asclepio di mangiare verdure selvatiche, che si dimostrarono un alimento non solo digeribile, ma anche capace di dare vigore57. Durante il ritorno in patria di Aristide, che era stremato dalla malattia, l’acqua e le tempeste marine rivelavano un dramma di rovina e salvezza: un naufragio simulato, seguito a un intervento soprannaturale in cui Aristide si salvava, diventava indispensabile perché si potesse realizzare una vera salvezza da un vero naufragio.

3. LA ‘PASSIO PERPETUAE ET FELICITATIS’ La dicotomia tra corpo, la materialità della natura umana, e spirito è, in parte, un dato antropologico. Ma, mentre in certi contesti storici essa appare ricomposta in un naturale equilibrio, in altri contesti essa diventa lacerante. Tale essa appare nel II secolo, nella fase iniziale della Tarda Antichità58, quando, da questo punto di vista, è 55

2, 52. 2, 48. 57 1, 73. 58 Citiamo soltanto P. BROWN Il corpo e la società Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani, trad.it., Torino 1992; S. PRICOCO, Monaci filosofi e santi. Saggi di storia della cultura tardoantica, Soveria Mannelli (Cz)1992. Cfr., inoltre 56


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possibile che differenze di carattere religioso, come quelle tra la religione tradizionale e la nuova religione, sembravano parimenti soffrire per uno scardinamento totale rispetto ai tranquillizzanti parametri culturali e politici dell’epoca precedente. Questo scardinamento, che è un dato culturale del periodo, e che si esprime in manifestazioni individuali e psicologiche, e che si ricompone in unità spirituale sul piano religioso — come l’unità che si realizza tra Aristide e il suo dio — assume aspetti diversi tra i cristiani. Tra questi non sono testimoniate esperienze di fidelizzazione religiosa e di complementarietà psicologica, rispetto al rapporto con Dio, del tipo di quella analizzata e che, come quella, siano in grado di ricomporre l’unità psicofisica del fedele. Soprattutto nel IV secolo, il cristianesimo esprimerà un movimento culturale e religioso come quello dell’ascetismo monastico, tendenzialmente orientato verso una percezione irrisolta del rapporto con la natura: perché irrisolta era la lacerazione tra anima e corpo. Tra i cristiani del IV secolo, il rapporto con il corpo è nel segno di quanto affermato, un paio di secoli dopo il periodo analizzato, da un padre del deserto: ‘Io lo (il corpo) uccido perché esso uccide me’. Dietro questa avversione verso il corpo, che la religione tradizionale non conosce, c’è un diverso rapporto con la natura, con una diversa percezione emotiva degli abissi angosciosi che essa determina, e un diverso modo di affidarsi al divino per superare questa dissociazione. Ne è testimonianza proprio il testo che, per altre ragioni, al precedente è stato avvicinato a esso, a sostegno della tesi che, oltre e al di là delle differenze di fede, pagani e cristiani vivevano in una stessa dimensione culturale di incertezza e dove solo l’affidamento al divino poteva essere considerato come soluzione dei mali. Eppure angoscia e paura — tra pagani e cristiani — sono di natura e origine diversa, e diverso è il rapporto con la natura e con il divino. Anche il redattore della Passio rivela una diversa percezione del rapporto con il divino e della rivelazione profetica, rispetto a quella vissuta da Aristide. Totalmente diverso è infatti il forte, esaspeT. SARDELLA, Strutture temporali e modelli di cultura: rapporti tra antitradizionalismo storico e modello martiriale nel prologo alla “Passio Perpetuae et Felicitatis”, in Augustinianum 30 (1990) 259-278.


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rato, individualismo di Aristide, rispetto alla sensibilità corale del redattore della Passio, che pensa alla salvezza e alla rivelazione dello Spirito Santo a favore di tutti i fedeli; così come diverso è il concetto della natura di questa salvezza che in Aristide è esclusivamente terrena, con riferimento alla salute del corpo e al successo letterario e professionale, mentre per il redattore è riferita a una realtà proiettata nella fine dei tempi59. Ma, protagonista di un’esperienza straordinaria di relazione con il divino, esperienza in tal senso parallela a quella di Aristide, non è il redattore della Passio, ma Perpetua. Già arrestata con i compagni e nelle mani dei carcerieri, ma non ancora rinchiusa in carcere, Perpetua, madre di un bambino ancora lattante, rifiuta di abiurare e sa che la attendono le torture e il supplizio. «Lo Spirito Santo mi fece comprendere che, a partire da quel momento, non v’era altra grazia da implorare dall’acqua battesimale se non quella di saper resistere al dolore del corpo»60. Né solo al dolore del corpo. La folla, la pressione dei carcerieri, la preoccupazione per il piccolo, la gettano nella paura e nell’angoscia61. Il comportamento in carcere rappresenta una prova di coraggio, che consente a Perpetua di poter essere lei stessa a chiedere una visione a Dio per sapere se si salverà. «Chiesi la grazia ed ebbi questa visione»62: le molte immagini simboliche di un suo arrivo in Paradiso fanno capire a Perpetua che morirà. Ma, da questo momento in poi non il pavor, ma il dolor domina la esperienza di Perpetua, sia in carcere che tra i supplizi. Peraltro, un dolor che si riferisce meno all’esperienza di sofferenza da lei stessa provata e più a quella derivante dalla emotiva partecipazione al dolore provato per lei o per se stesse dalle persone a lei vicine63. Se per paura (pavor) si intende l’angoscia che una situazione ignota e misteriosa può produrre, il dolor si riferisce, invece, a una sofferenza tangibile e concreta, sia essa fisica o dell’anima, nel ricordo passato, nell’angoscia presente o nella preoccupazione futura. Dopo la visione in cui capisce che dovrà affrontare il martirio, Perpetua non ha 59 60 61 62 63

1,1. 2,5. 2,5 e 2,8. 4,1. Passio 6,5; 7, 1 e 7,8; 9,2.


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paura, ma soffre per la sofferenza altrui: del padre, del figlioletto, del fratellino già morto64. La proiezione della propria sofferenza vissuta solo in quanto riflesso della sofferenza altrui è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto alla sofferenza dovuta alla paura e alle frustrazioni compensate dai sogni megalomaniaci quali sono vissute da Aristide. A fronte di visioni e rivelazioni divine che, nel caso di Aristide, costruiscono e saldano un rapporto esclusivamente personale fatto di riconoscimenti reciproci sulla base di temi e problemi del tutto individuali, nella Passio troviamo, invece, oltre che simboli e immagini bibliche, come nel caso della scala di bronzo e del serpente65, che rinviano a una apocalittica legata ai grandi temi della cosmologia e della salvezza, a un rapporto con dio in cui la protagonista intercede per gli altri piuttosto che per se stessa, come nel caso in cui prega per il fratellino Dinocrate già morto66. In quanto alla presenza della natura, nelle varie forme in cui abbiamo ipotizzato di individuarne il rapporto con la paura e le rivelazioni, anche qui l’acqua rappresenta, sia pur meno presente rispetto ai Discorsi di Aristide, l’elemento naturale di maggiore significanza. Essa non è, però, così invasivamente presente come nei Discorsi sacri. E non si tratta solo del numero di volte in cui se ne parla, e che è anche proporzionalmente molto maggiore nei Discorsi sacri rispetto alla Passio. Il fatto è che il ruolo dell’elemento acqua nei Discorsi di Aristide ha le dimensioni apocalittiche di una forza della natura distruttiva, ed è anche elemento terapeutico di uso comune, la chiave risolutiva utilizzata dal dio per intervenire nella soluzione dei problemi fisici e psicologici di Aristide. Nella Passio essa non ha esclusivamente tali dimensioni di forza della natura o di strumento terapeutico nelle mani degli uomini o del dio. Compare la prima volta come elemento liturgico e sacrale con una sua diretta forza terapeutica (… non v’era altra grazia da implorare dall’acqua battesimale se non quella di saper resistere al dolore del corpo 67) e non è solo strumento passivo nella mani del dio. È anche elemento naturale, protagonista assoluto di 64 65 66 67

Passio 5,6; 7,1. 4,3 e 4,36. 7,2 ss. 3, 5.


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visioni della martire, elemento simbolico e apocalittico nei suoi significati metaforici, rivelatore di condizioni di salvezza che non riguardano la martire, ma dove il simbolismo profetico riveste forme di una semplice quotidianità piuttosto che immagini dalle dimensioni cosmiche. Così è il caso di alcuni sogni in cui Perpetua sogna Dinocrate, il fratellino morto a sette anni, sogni dai quali il simbolismo dell’acqua come salvezza le rivela la condizione del bambino. In un primo sogno, infatti, il bambino si trova davanti a una vasca piena d’acqua e vorrebbe bere, ma non vi riesce per difficoltà dovute all’altezza eccessiva della vasca. In un sogno successivo, le condizioni cambiano e Dinocrate, che gioca anche con l’acqua, sazia la sete direttamente dalla vasca, che ora è bassa quanto basta per consentirgli di bere68. Inoltre, nella Passio, la natura assume aspetti terrorizzanti non solo in forma di animali feroci — orso, leopardo, cinghiale, vacca69 — realmente utilizzati come strumento di morte per i condannati70, ma anche in forma di figure umane mostruose e con caratteristiche di forza eccezionale — come l’egiziano dall’aspetto ripugnante e i suoi accoliti — sognato da Perpetua71. Tutti questi simbolismi — reali ed onirici — di una natura terrorizzante mostruosa ed eccezionale, ma ricondotta a forme di diretto contatto con la martire sono il modo in cui si traduce nella realtà e nel sogno la drammatica esperienza di un martirio che, in cambio della morte del corpo, conquista la vera vita. Ma è soprattutto attraverso la percezione dell’elemento acqua, che si evidenzia una percezione della natura diversa, rispetto a quella che aveva il pagano Aristide. Per quest’ultimo, l’acqua rappresentava un elemento di dimensioni cosmiche — dalle tempeste marine ai luoghi dei paesaggi onirici e reali — ma veniva ricondotto sempre alla esclusiva fruizione della sua dimensione biografica umana, sia fisica che spirituale. Per Perpetua, invece, l’acqua, presente soprattutto nella dimensione onirica, assume i valori simbolici di una soteriologia ultraterrena. 68 69 70 71

7, 6 ss. e 8, 1 ss. 19, 2-5 e 20, 1. 10, 5. 10, 6.


BRÁS VIEGAS (1554-1599) E BENITO PERERA (1535-1610) COMMENTATORI DELL’ APOCALISSE

ROBERTO OSCULATI*

1. BRÁS VIEGAS (1554-1599) A Roma nel 1627 Cornelio a Lapide, il più noto esegeta biblico della Compagnia nei secoli XVII e XVIII, si accinge a stendere il suo commento all’Apocalisse e propone alcune indicazioni sulle opere analoghe del passato disponibili nella sua fornitissima biblioteca romana. Egli assicura di averle lette, ne dà un rapido giudizio e, per quanto riguarda la recente e voluminosissima opera del gesuita portoghese B. Viegas, ritiene che essa proceda succulente et moraliter. L’autore infatti è soprattutto interessato ad un’interpretazione morale del testo ma, proprio per questo, «indulge in modo troppo libero alla propria concezione e divaga, non insiste a sufficienza sul senso letterale, che deve essere il fondamento posto alla base ed insieme solido di ogni significato morale e mistico»1. Il collega della generazione precedente, dopo essere stato inviato nel 1575 a studiare teologia presso il Collegio Romano della Compagnia, era tornato in patria dove avrebbe insegnato per quindici anni a Coimbra e ad Evora. *

Docente di Storia del Cristianesimo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania. 1 CORNELIO A LAPIDE, Commentaria in Apocalypsim, in Commentaria in Scripturam Sacram, X, Parigi-Lione 1854, 1024. L’elevato interesse di cui era oggetto la profezia neotestamentaria nelle istituzioni accademiche dei gesuiti è testimoniato da altri celebri commentari dell’epoca, come F. RIBERA, In Apocalypsim commentarii, Salamanca 1591 e L. ALCÁZAR, Vestigatio arcani sensus in Apocalypsi, Anversa 1614. Sulla figura del gesuita portoghese vedi C. SOMMERVOGEL, Viegas B., in Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, VIII, Lovanio 1960, coll. 652-653; J. VAZ DE CARVALHO, Viegas B., in Diccionario historico de la Compañía de Jesús, IV, Madrid-Roma 2001, 3947.


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Noto per il suo fervore spirituale e per la sua predicazione attraente oltre che per l’attività esegetica, fu sorpreso presto da una morte prematura. Un suo massiccio e complicato commento all’Apocalisse era rimasto manoscritto ed avrebbe visto la luce nel 1601 ad Evora con una stampa curata dai colleghi e sostenuta dal preposito generale Claudio Acquaviva. Il volume ebbe subito un grande successo internazionale, fu ristampato l’anno successivo ed ancora poco dopo a Venezia e a Lione, in seguito a Parigi e a Tournai. Raggiunte in poco tempo undici edizioni in tutta l’Europa cattolica cadde poi nell’oblio.

1.1. Universae ecclesiae status Più che di un commentario letterale si tratta di una intera enciclopedia che sviluppa, a partire dal testo apocalittico, una serie di visioni teologiche in cui si esprime la sensibilità fortemente emotiva ed immaginaria dell’interprete. Egli stesso sembra imitare il metodo dottrinale attribuito all’autore del testo. Si tratterebbe infatti di sette visioni interiori che si sarebbero formate nello spirito del profeta per indicare i veri caratteri della fede cristiana vissuta in una lunga storia di durissime prove. Iniziate con la sofferenza di Gesù stesso, sono continuate nel corso del tempo, sono sempre presenti e si accentueranno nel futuro e soprattutto negli ultimi tratti della vicenda umana terrestre. L’anticristo infatti porterà al suo culmine la lotta delle forze demoniache contro l’evangelo, ma ne seguirà la vittoria definitiva, già iniziata con la risurrezione di Cristo, la sua presenza efficace nella chiesa, la diffusione mondiale dell’evangelo. Si tratta così, secondo il predicatore e l’esegeta, di una teologia della storia espressa attraverso un linguaggio immaginario e simbolico. Il suo fine ha un carattere morale: i discepoli di Cristo devono seguirne l’esempio, sostenere le stesse lotte, percorrere la strada della prova per uscirne vincitori, senza lasciarsi sgomentare dalle persecuzioni e dalle difficoltà. Infatti: «argomento del libro sono la condizione della chiesa fondata da Cristo e i vari tipi di persecuzione che in parte ha subito nella sua prima origine, in parte patisce anche ora, in parte poi patirà alla fine del


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mondo, ed insieme le splendide vittorie e i successi della medesima chiesa. Tutte queste cose sono trattate affinché i cattivi siano distolti dai vizi, i buoni invece siano spronati a perseverare nel bene e, qualunque cosa infine accada, non si perdano di coraggio, nella speranza che tutte queste sciagure della chiesa ottengano i beni eterni»2.

Al seguito dello schema proposto da Beda nel suo commentario, Viegas ritiene di poter dividere il testo in sette visioni, quasi altrettanti scenari pittorici o teatrali che presentano la difficile via della chiesa nel mondo. Una prima scenografia (capp. I-III) mostra il trionfo di Cristo, vincitore della morte, sostenitore e maestro delle sue chiese nel loro difficile e talvolta contraddittorio cammino terrestre. La seconda (capp. IV-VII) concerne le persecuzioni promosse dalle autorità civili e subíte nel corso del tempo dalla comunità dei giusti in attesa della vittoria finale. La terza (capp. VIII-XI) mostra le persecuzioni organizzate dagli eretici e dai loro sostenitori politici fino agli ultimi tempi. Il quarto spettacolo (capp. XII-XIV) formatosi nella mente del profeta indica ancora una volta la chiesa oppressa dalle forze malvage e capace di opporsi alla loro violenza. Il quinto (capp. XV-XVI) apre la prospettiva degli ultimi tempi e dello sconvolgimento universale che ne conseguirà. Il sesto (capp. XVII-XIX), attraverso l’immagine della grande prostituta, indica il castigo ultimo che si abbatte sulle forze sataniche. Il settimo infine (capp. XX-XXI) descrive l’esito di questa lunga lotta tra le forze divine del bene e quelle diaboliche del male ormai annullate. È quasi incredibile il numero degli autori e delle opere che l’esegeta ha consultato per individuare il vero carattere dei diversi simboli usati dal profeta neotestamentario. Una intera e ricchissima biblioteca gesuitica della seconda metà del XVI secolo appare continuamente dietro le lunghe schedature di ipotesi interpretative, ampiamente discusse e giudicate in conformità con la tesi del commentatore. Tra i teologi della chiesa antica vengono in particolare utilizzati Origene, Tertulliano, Cipriano, Basilio, Ambrogio, Giovanni Crisostomo, 2

1608,4.

B. VIEGAS, Commentarii exegetici in Apocalypsim Joannis apostoli, Venezia


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Girolamo, Agostino, Ticonio, Leone Magno, Gregorio Magno, Areta, Andrea di Cesarea. Tra i medievali Ansberto, Beda, Aimone, Teodoreto, Pietro Damiani, Riccardo di San Vittore, Ruperto di Deutz, Bernardo, Gioacchino da Fiore, Nicola di Lira3. Tra i più recenti è nominato spesso l’esegeta spagnolo Alfonso Tostado (1400-1455), con la denominazione usuale di Abulensis desunta dal suo episcopato di Avila. Egli era notissimo nel XVI secolo per la sua capacità di stendere commenti enciclopedici ai libri biblici, dove qualsiasi affermazione poteva dar luogo a molte quaestiones dottrinali o morali di attualità. È citato spesso anche il certosino Dionigi di Rijkel (1402/3-1471), con la sua capacità di passare dall’esegesi biblica, alla dogmatica, alla morale e alla mistica. Il contemporaneo Cesare Baronio (1538-1607) appare importante per la sua presentazione storica del cristianesimo dei primi secoli. Non manca talvolta, a dimostrazione della cultura umanistica caratteristica dei gesuiti, il ricorso a Platone, Filone, Plutarco, tra i sapienti della Grecia, e a Cicerone e Marziale, tra i latini.

1.2. Ad pedes Christi Il tema fondamentale dell’opera è espresso soprattutto nella prima visione ed é costituito dal Cristo, dominatore della nuova creazione purificata dal male e dalla morte e posto al centro delle sue chiese di ogni tempo e luogo. Egli da una parte è totalmente unito al divino, mentre dall’altra la sua umanità lo ha rivelato agli esseri umani. La simbologia che accompagna la sua figura é lungamente esposta dall’esegeta, per il quale egli costituisce il significato ultimo del cosmo e della storia. Al seguito della tradizione teologica espressa dalle lettere di Paolo ai Colossesi e agli Efesini, l’esegeta moderno sottolinea la figura del Cristo mistico come sapienza completa e definitiva, come vero sovrano ed unico salvatore dell’umanità, come suprema verità 3 Oltre alle opere di questi autori più noti il gesuita utilizza largamente una vasta raccolta di testi e documenti antichi e medievali come la Sacra bibliotheca sanctorum patrum seu scriptorum ecclesiasticorum, a cura di M. De la Bigne, I-XI, Parigi 1575-1576, II ed 1589. La grande silloge può essere largamente percorsa attraverso un utilissimo indice biblico ed un vastissimo indice degli argomenti.


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oltre le fantasmagorie sataniche del mondo. Tutti gli aspetti della descrizione apocalittica indicano la sua regalità misericordiosa ed insieme giusta. Ecco ad esempio come viene commentato il simbolo della cintura d’oro che fascia le sue mammelle (Apocalisse 1,13): «Dal momento che Cristo in tutta questa profezia dell’Apocalisse si presenta come supremo capo e reggitore della chiesa, fu conveniente che mostrasse in se stesso i due aspetti principali in cui consiste tutto il suo governo ovvero la misericordia e la giustizia, in modo tale da elevare i fedeli, attraverso la misericordia, alla speranza di conseguire la felicità e da allontanarli, attraverso la giustizia, dal compiere ed accettare azioni malvage. Poichè però, non solo quando promette misericordiosamente ma anche quando punisce secondo giustizia i peccati, è mosso non da odio ma da amore verso gli esseri umani, pertanto l’una e l’altra regola del suo governo viene espressa dalle mammelle, che sono unite al cuore, dove si trova la sede dell’amore»4.

Anche se la chiesa è ristretta nella persecuzione e nella solitudine, come mostra nella sua stessa persona il profeta esiliato a Patmos, i veri seguaci del vincitore della colpa e della morte hanno scoperto la via della vera giustizia che conduce oltre le mire diaboliche. La chiesa sofferente e perseguitata deve stringersi al suo maestro, attenersi al suo insegnamento, identificarsi con lui, infine cadere ai suoi piedi, come fa il profeta apocalittico5. Se ci si chiede infine perchè il profeta si abbatta tamquam mortuus (Apocalisse 1,17), il commentatore è pronto ad addentrarsi anche in questo particolare: «Che Giovanni dunque cada come morto ai piedi dell’angelo significa che la chiesa deve battere le orme di Cristo, morta al mondo e ai vizi. Giustamente infatti si dice come morto e non morto, poiché, anche se eletti, per seguire le sofferenze del loro redentore, i fedeli muoiono al mondo e ai vizi. Tuttavia si afferma che vivono spiritualmente per Dio. Pertanto Paolo ai Galati (2, 20) dice: io vivo, ma non io; in verità vive in me Cristo. E ai Romani (12, 1): vi supplico per la misericordia di Dio

4 5

B. VIEGAS, Commentarii exegetici, cit., 68. Ibid., 21-97.


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di offrire i vostri corpi come sacrificio vivente. E ai Colossesi ( 3,3): siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio»6.

Questo strettissimo legame del singolo e delle comunità con la figura mistica di Gesù è caratteristico dell’esegesi gesuitica tra gli ultimi decenni del XVI secolo ed i primi di quello successivo. E si manifesta nella vita ecclesiastica attraverso le figure dei vescovi fedeli al loro compito, la celebrazione dell’eucaristia, l’impegno di una grazia accolta con una partecipazione viva ed operosa. Con le lettere inviate alle sette chiese dell’Asia Minore il Cristo si rivolge a tutte le comunità sparse nel mondo e di ogni tempo. Il linguaggio apocalittico acquista subito una evidente attualità di fronte ai problemi del presente. Pur senza alcuna osservazione critica nei confronti di alcuno, il gesuita richiama quelle che ritiene le strutture originarie della teologia cristiana e della vita ecclesiastica. I canoni fondamentali sono stati stabiliti dalla profezia neotestamentaria, che ha spinto il suo sguardo dalle origini alla fine, dal Cristo agnello sacrificale al giudice e sposo degli ultimi tempi. Il linguaggio della profezia, con le sue immagini e la sua emotività, traccia la linea definitiva che, attraverso le contraddizioni della storia umana, conduce alla piena rivelazione teorica e pratica della verità. Prima di essere iscritta in leggi, riti, usi, tempi e modi, essa possiede una sua realtà universale che non può essere confusa con le infedeltà delle chiese. Esse sono continuamente richiamate alle loro origini sia storiche che spirituali7. Rispetto alle dispute del tempo intorno alla grazia divina e alla libertà umana ecco come viene interpretata l’immagine del Cristo che afferma di se stesso: ecce sto ad ostium et pulso (Apocalisse 3,20): «Cristo aggiunge che sta alla porta del cuore sia attraverso una influenza e una parola interiori, che i teologi chiamano grazia preveniente e sollecitante, oppure attraverso una chiamata esteriore, come possono essere l’esortazione di un predicatore, un suggerimento oppure altre cose simili che attengono alla medesima grazia solleci6 7

Ibid., 94. Ibid., 101-228.


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tante, benché non siano sufficienti senza quella mozione interiore. Ma poi, se uno attraverso l’assenso della sua volontà avrà aperto, egli afferma di entrare nel suo animo per mezzo della grazia santificante e di cenare con lui attraverso la felicità spirituale e la dolcezza della coscienza che ottiene la giustificazione. É un dono divino ed un nutrimento celeste con cui la mente del giustificato è nutrita e allietata in modo meraviglioso. Infine se egli persevererà nella grazia, Gesù afferma che cenerà con lui nella gloria celeste per mezzo della visione beatifica che gli donerà»8.

Fissato, oltre ogni categoria mondana, il cardine spirituale della fede e della vita morale, lo sguardo del profeta, secondo il suo commentatore barocco, si spinge a delineare in modo immaginoso i tratti della corte divina. Il libro chiuso con i sette sigilli è lo stesso volume che il profeta propone alla sua comunità e a tutte le chiese. Vi è contenuta la vicenda drammatica che si svolge tra l’evangelo e le potenze mondane. In particolare si inizia con la storia dei rapporti tra la comunità dei fedeli e il principato romano. La liturgia dell’apertura del volume, che si svolge davanti al trono divino, indica innanzitutto la condizione della chiesa dei martiri, autentici seguaci dell’agnello sacrificato e vincitore. Dodici furono le persecuzioni cui fu soggetta la chiesa tra l’epoca delle origini e la metà del IV secolo. Il cavallo bianco segnala l’ostilità di Caligola e insieme la prima diffusione dell’evangelo tra le genti. Il cavallo rosso indica le stragi perpetrate da Nerone; il cavallo nero ricorda la distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito; il cavallo pallido allude a Domiziano. Il quinto sigillo rammenta il martirio dei veri seguaci di Cristo da Traiano a Decio e Valeriano, mentre il sesto allude al tentativo di Diocleziano di distruggere i testimoni dell’evangelo. Dopo la parentesi di Costantino e l’acquisizione della libertà segue la persecuzione di Giuliano9. I quattro angeli il cui potere deve essere trattenuto per ordine divino rappresentano le potenze mondane che contrastano con l’evangelo. Ad esse si oppone la regalità vittoriosa di Cristo e dei suoi seguaci. 8 9

Ibid., 202. Ibid., 237-343.


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La solenne liturgia degli angeli, che fanno risuonare le loro trombe, denota il conflitto tra la predicazione apostolica e coloro che si oppongono ad essa. Le persecuzioni possono anche provenire dai fomentatori di eresie e dagli ipocriti che si fingono seguaci di Cristo. Questa condizione contraddittoria della chiesa terrestre, combattuta tra la fedeltà all’insegnamento evangelico, simboleggiata da Enoch ed Elia, e la sua perversione durerà fino al termine della storia ed andrà aumentando nei tempi dell’anticristo10. La visione della donna feconda posta al centro del cosmo e perseguitata dal drago infernale, secondo l’esegeta portoghese, non rappresenta Maria, piuttosto vuole indicare la chiesa assediata dall’anticristo. Il potere malvagio imperversa sulla terra per distruggere le opere divine e la sua violenza va sempre più aumentando. Amantissimo della simbologia biblica, Viegas intrattiene il lettore con lunghe spiegazioni riguardanti il sole che avvolge la figura di donna, la luna posta sotto i suoi piedi, le dodici stelle che coronano il suo capo11. Tutte le immagini sono testimonianze di una lunga storia che si concentra sull’evangelo e ne delinea i tratti salienti. Sebbene l’interpretazione della figura apocalittica quale madre di Gesù venga classificata come allegorica, l’erudito commentatore non può evitare di esporre i caratteri dogmatici ed emotivi della sua devozione nei confronti della vergine-madre. Il tema centrale è quello dell’incarnazione del divino attraverso il corpo umano di Maria ed il maestro di tanto entusiasmo è soprattutto Bernardo di Chiaravalle accompagnato dalle devozione certosina di Dionigi di Rijkel. La testimonianza più fervida di questa teologia affettiva può essere rilevata nella descrizione accurata della bellezza fisica di Maria, segno evidente della sua bellezza interiore. Così l’esegeta barocco riprende il linguaggio del Cantico biblico e descrive accuratamente la bellezza del capo, delle labbra, dei capelli, del collo, degli occhi, dei gioielli, delle guance, del petto, del ventre, delle calzature e dell’incedere della donna ideale in cui il divino ha preso forma umana12. È evidente il suo 10 11 12

Ibid., 344-470. Ibid., 473-523. Ibid., 523-677.


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desiderio di porre davanti agli occhi del lettore, forse anche un predicatore in cerca di ispirazione, il contrasto tra la deformità delle opere sataniche, che raggiungerà il suo culmine nell’epoca finale della storia, e la bellezza sublime della creazione divina. Essa non può venire deturpata dal maligno e raggiunge il suo culmine terrestre nella fecondità sublime di Maria. L’universo e l’umanità, dall’inizio alla fine, hanno sempre due volti che occorre saper riconoscere per partecipare alle opere della creazione e della grazia, sottraendosi alla mostruosità invadente e tronfia del demoniaco. Esso, d’altra parte, smascherato nella sua deformità ed impotenza, non deve essere motivo di paura o di viltà.

1.3. Antichristus La visione successiva, dominata dalla figura della donna perversa e crudele, indica i caratteri più evidenti dell’anticristo. L’esegeta si sforza di definirne la figura storica e rifiuta innanzitutto la sua identificazione con il papa romano. Ma non si deve attribuire questo ruolo neppure a Maometto oppure a Lutero. E qui si vede la propensione dell’interprete per l’abbandono di facili identificazioni polemiche, suggerite dai conflitti con la religione islamica o con i riformatori nordici. L’apocalittica esprime, secondo lui, condizioni universali e perenni della comunità dei giusti e ad esse occorre guardare senza farsi abbagliare dalle angustie presenti e dalle facili polemiche religiose e politiche. Lo strumento demoniaco degli ultimi tempi sarà certamente un essere umano, investito dalla forza diabolica scatenata, ma è impossibile conoscerne il nome. Si può presumere che sarà di origine giudaica, ma non sarà un osservante della legge di Mosè. Dopo la sua apparizione tutti o quasi tutti i figli d’Israele si volgeranno con fede a Gesù. I segni della sua imminente comparsa saranno la caduta dell’impero romano, la defezione di Roma dal papato, l’universale predicazione dell’evangelo, la persecuzione dei seguaci di Gesù, l’universale corruzione13. La vera fede tuttavia si manifesterà con la vergi-

13

Ibid., 693-714.


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nità di molti suoi aderenti e con la capacità di sopportare il martirio, come accadde agli inizi della predicazione dell’evangelo14. Il tema finale di questa serie di scenografie teatrali, così ricche di simbologia spirituale, di enfasi predicatoria e di emotività personale, si ricollega all’inizio: l’umanità di Cristo, luogo eminente della manifestazione del divino, è posta al centro della storia del mondo e domina tutto e tutti oltre ogni conflitto, persecuzione o costruzione mondana. A quella deve rivolgere lo sguardo la profezia come arte di interpretare la storia universale degli esseri umani, la lunga vicenda della chiesa e quella della propria individualità15. Non manca infine un tratto nazionalistico ed apologetico: è dedicato alla provvidenziale attività dei sovrani portoghesi nel favorire la diffusione dell’evangelo nei diversi continenti. E qui lo sguardo dell’esegeta si volge all’America, all’Africa, all’Asia e alle nuove dimensioni della cristianità16. L’indirizzo prevalentemente pratico ed omiletico dell’esegeta, sempre evidente anche sotto le apparenze di una grande erudizione, gli fa preferire il ricorso assiduo ai libri sapienziali della Bibbia, nei quali egli riscontra continue analogie con il profeta neotestamentario. I Salmi, soprattutto, gli sono molto familiari quale continua coscienza della condizione umana di fronte alla misericordia e alla giustizia divina. Largamente presente è Giobbe, il libro della sofferenza, della prova e della fiducia, assieme alla sapienza pratica e concreta dei Proverbi e alla simbologia affettiva ed appassionata del Cantico. Accompagnano questa predilezione per la sapienza concreta gli ideali messianici di Isaia e la teologia della grazia e della giustizia di Romani.

1.4. Conclusioni Se si colloca questa lettura dell’Apocalisse nel contesto storico della fine del XVI secolo e dell’attività ormai intercontinentale della Compagnia di Gesù, possono esserne colti meglio i tratti distintivi. 14 15 16

Ibid., 717-743. Ibid., 784-787. Ibid., 825-828.


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Considerate soprattutto dal Portogallo le dimensioni del mondo avevano subíto nel giro di un secolo una enorme dilatazione. Quella che poteva sembrare una provincia marginale dell’Europa erede della civiltà greca e latina si trovava ormai affacciata a dimensioni mondiali. L’Oceano Atlantico, che fino quasi al termine del secolo precedente appariva come una estensione sconfinata e non percorribile, era diventato verso occidente la via per recarsi nell’immenso e in gran parte sconosciuto continente americano. Insieme, verso sud, dava accesso ad altre regioni ignote dell’Africa equatoriale, per condurre poi all’India, alla Cina e al Giappone a tutte le infinite coste dell’Oceano Indiano e Pacifico. La Compagnia di Gesù, fin dai suoi primi passi, aveva percepito in maniera molto viva questo ampliarsi delle dimensioni geografiche del mondo. L’appello dell’evangelo, che era sorto sulle rive del Mediterraneo e all’interno delle culture che vi si affacciavano, doveva ora affrontare cammini ben più lunghi, verso genti, culture, religioni sconosciute. Pure i contrasti politici e religiosi delle nazioni europee potevano sembrare, da questa nuova prospettiva, molto ristretti e meschini. Erano caratteristici di una cristianità invecchiata, ripiegata su se stessa, contraddittoria, contorta, ingannevole e crudele17. L’evangelo era nato e si era diffuso all’inizio in un modo ben diverso e gli Atti degli apostoli testimoniavano il suo carattere missionario, ecumenico ed apostolico, la sua capacità di rivolgersi a chiunque, di non essere racchiuso in confini civili ed ecclesiastici fissati una volta per sempre. La necessità di affrontare nuove genti, nuove culture, religioni diverse implicava l’esigenza di costruire sulla base delle fonti cristiane primitive una filosofia della storia e della vita umana che avesse i caratteri dell’universalità, della dedizione personale, della coerenza, della fiducia. Una lettura della profezia neotestamentaria 17 Una viva e diretta testimonianza dell’orizzonte culturale gesuitico negli ultimi decenni del XVI secolo è costituita dall’opera organizzativa e letteraria di J. Acosta (1540-1600). Vedi in particolare la sua Historia natural y moral de las Indias, a cura di E. O’ Gorman, Città del Messico 1979, edita per la prima volta nel 1590 e tradotta negli anni successivi in italiano, francese, tedesco, inglese e fiammingo. La centralità del Cristo apocalittico e la percezione delle ultime e decisive fasi della storia umana sono illustrate nelle sintesi De Christo revelato e De temporibus novissimis, pubblicate anch’esse nel 1590, dopo un lungo soggiorno americano.


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come quella di Viegas tenta di fornire una sapienza storica e morale che si richiami ad un esempio fondamentale e lo proponga oltre dimensioni anguste e convenzionali. Sulle dispute religiose, ecclesiastiche e politiche dell’Europa occidentale sembra calare un profondo silenzio, superato solo a favore del decreto tridentino sulla grazia. Esso appare come la sintesi più attuale della teologia neotestamentaria e come base fondamentale di un cristianesimo veramente ecumenico. L’etica dell’evangelo e della vera universale umanità ha avuto, nel percorso terrestre del suo massimo protagonista, la sua formulazione ultima e superiore ad ogni confine. A questa polarità positiva e concreta della vicenda umana, osservata da un punto di vista propriamente profetico, si oppone il male della colpa, della distruzione e della morte. Il messaggio definitivo della Bibbia ebraico-cristiana si configura nell’immagine di una lotta estrema in cui ogni individuo è coinvolto. La profezia, accompagnata dalla sapienza concreta e sperimentale di ogni individuo, dal linguaggio multiforme dei simboli, dai percorsi drammatici della storia, è in grado di fornire una prospettiva universale. Da questa ultima specola, come si esprimevano spesso i teologi dell’epoca barocca, tutta la complessità dell’esperienza umana assumeva una prospettiva unitaria, un ordine ideale. Gli infiniti particolari in cui l’umano sembrava separarsi e dilaniarsi potevano alla fine essere ordinati e giudicati per mostrare un lungo percorso positivo in cui le origini e la fine di componessero in un unico disegno. L’intricata foresta di simboli in cui l’esegeta portoghese si addentra è resa da lui ancora più complicata da una lunga e spesso fantasiosa tradizione interpretativa in cui si immerge continuamente con gusto vivace e piglio energico da oratore, letterato e poeta quale era. Ma proprio quella raccoglie ed ordina una lunga storia e dà al testo una continua serie di risonanze, che esaminate ad una ad una delineano un disegno comprensibile ed unitario. Esse stesse nella loro varietà rispecchiano le infinite complicazioni della storia e dell’esperienza, ma alla fine di un paziente lavoro si ritrova un punto di vista unitario. Questa continua oscillazione tra la varietà e mobilità dei simboli ed una visione unitaria è il pregio di questa enciclopedia, che ricorda le opere architettoniche, scultoree e decorative dell’epoca e dell’ambiente iberico e dell’estetica dei gesuiti, quale si esprime in


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molti edifici ecclesiastici18. Tutto ciò che appare molteplice, relativo o addirittura fantasioso, è percorso da una medesima forza spirituale che lo conduce oltre se stesso verso una unità ultimativa ed originaria, altrimenti diventa preda del negativo e della morte.

2. BENITO PERERA (1535-1610) Lo spagnolo Benito Perera (Pererius in latino oppure Pereyra), dopo aver aderito alla Compagnia di Gesù ed aver terminato il suo corso di studi, insegnò per molti anni retorica, filosofia e teologia presso il Collegio Romano. Pubblicò nel 1562 un trattato De communibus rerum naturalium principiis, più volte riedito. Lo seguirono Commentariorum in Danielem prophetam libri XVI, del 1587, anch’esso frequentemente ripubblicato. La sua opera principale è Commentariorum et dissertationum in Genesim…, uscita in quattro volumi tra il 1591 e il 1598. La seguirono Selectarum disputationum in S. Scripturam…, dal 1591 al 1610 nei cinque volumi dedicati all’Esodo (I), alla Lettera ai romani (II), all’Apocalisse (III) e all’Evangelo di Giovanni (IV-V). Le Disputationes super libro Apocalypsis videro la luce per la prima volta a Lione nel 1606 ed erano state dedicate al cardinale Cesare Baronio19.

2.1. Prolegomena Prima di affrontare il testo, il sottile esegeta sottopone all’attenzione del lettore una serie di Prolegomena suddivisi in undici Disputationes di carattere metodologico. Si tratta, come nel corso di tutta l’opera interpretativa, di schede fortemente schematiche e sinte18 Profondamente affine a questo spirito sembra essere ad esempio la Chiesa del Gesù di Palermo, iniziata nel 1564 e ampliata tra il 1591 e il 1633. 19 Sull’attività di questo operoso gesuita vedi C. SOMMERVOGEL, Pereyra B., in Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, VI, Lovanio 1960, coll. 499-507; F. DE P. SOLÀ, Perera B., in Diccionario historico de la Compañía de Jesús, III, Madrid-Roma 2001, 3088-3089.


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tiche Le prime tre ricordano una lunga serie di commentatori dell’opera profetica lungo il corso della storia cristiana, soprattutto nell’epoca antica e medievale. La quarta illustra il seguente argomento: De multiplici atque ingenti utilitate quae ad sanctam Christi ecclesiam ex libro Apocalypsis promanat ed afferma come: «davvero l’utilità di questo libro sia evidente per chi pensi e consideri quale sia stata l’intenzione divina nel comunicare l’Apocalisse. Attraverso le sette visioni e rivelazioni descritte in questo libro Dio volle senza dubbio quasi adombrare ed indicare tutto lo svolgimento e l’itinerario della chiesa dalla sua origine fino al suo tramonto in terra divisi in sette età della chiesa. Esse dovevano distinguersi tra loro per mezzo di diversi intervalli di tempo. Nello stesso tempo Dio volle indicare quasi tutti i più notevoli e memorabili avvenimenti ed eventi, sia favorevoli che avversi, che sarebbero accaduti nelle singole età della chiesa. Avrebbe procurato la massima utilità e felicità contemplare, attraverso questa Apocalisse come con un solo sguardo e quasi da un osservatorio, tutto questo»20.

D’altra parte le visioni profetiche con cui termina il Nuovo Testamento riprendono lo schema letterario dell’Antico, suddiviso nelle sue quattro parti: la legge, la storia, la morale, la profezia, a cui corrispondono gli evangeli, gli Atti, le lettere ed appunto l’Apocalisse. Le sette visioni indicano sette calamità e sette successi della chiesa nel corso della sua storia. Le prime vogliono illustrare le difficoltà sorte ad opera 1) degli ebrei all’inizio, 2) poi dei romani, 3) degli eretici e degli apostati fino al presente, 4) delle popolazioni barbariche fino a quelle turche, “quae adhuc cervicibus nostris incumbunt”, 5) del conflitto tra il cristianesimo occidentale ed orientale, 6) dell’anticristo , 7) degli oppositori residui dopo la sua caduta. Nello stesso tempo tuttavia si manifestano sette caratteristiche positive della vita ecclesiastica. Essa è innanzitutto 1) dotata dei carismi spirituali, che sono attivi negli apostoli, nei martiri, nei dottori, negli anacoreti e nei monaci, nei pastori e prelati fedeli, nelle vergini, negli ordini mendicanti, a cui 20

B. PERERA, Centum octoginta tres disputationes selectissimae super libro Apocalypsis Beati Ioannis apostoli, Venezia 1642, 10.


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segue “in hoc saeculo nostra societas, ut novissima, sic etiam minima”. I carismi delle diverse condizioni ecclesiastiche 2) furono circondati, ad opera di Costantino dalla tutela politica dell’impero e da allora si formarono le due istituzioni cristiane fondamentali del potere politico centrale e del potere religioso del papato. Ne seguì 3) una grande prosperità materiale della chiesa. Questo processo vede il suo apice nel XVI secolo 4) con i regni di Filippo II e Filippo III in Spagna, 5) con le vittorie militari contro i turchi come a Lepanto, 6) con l’afflusso delle ricchezze dal nuovo mondo e l’apertura di ampi orizzonti all’attività missionaria, 7) con l’efficiente impegno dell’Inquisizione a difesa della fede. Tutto ciò riguarda il passato ed il presente, ma lo sguardo sul futuro deve rinunciare a certezze storiche stringenti. In definitiva l’Apocalisse parla “de ultimis ecclesiae et mundi temporibus”, quando le opere della grazia divina si manifesteranno in modo definitivo dopo una estrema sofferenza21. La disputatio octava è dedicata alle diverse interpretazioni, che vengono divise in quattro categorie fondamentali. Una prima presenta un carattere allegorico e mistico: un’immagine viene isolata dal contesto e utilizzata per approfondire l’esperienza spirituale del lettore indipendentemente da qualsiasi visione progressiva della chiesa e della storia. L’Apocalisse trova, in questo caso, la sua interpretazione più propria nell’immediata esistenza di ogni discepolo di Cristo. È una storia dell’anima nel suo rapporto con il divino, che è indicato da una serie di simboli. A questa interpretazione si sono dedicati in particolare Ticonio, Primasio, Beda, Aimone, Ansberto, Anselmo e Ruperto. Il gesuita afferma in proposito: «In questo genere di interpretazione, a mio giudizio, ha facilmente il primato Ruperto. Sicuramente la sua interpretazione sembra più vasta e più solida, più prudente e più ricca di contributi diversi ed eruditi, e pertanto più probabile e lodevole»22.

21

Ibid., 11-14. Ibid., 18. Il XVI secolo vede una intensa attività editoriale riguardante gli scritti esegetici del monaco tedesco fino all’ Opera omnia del 1577. 22


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Un secondo tipo di interpretazione preferisce considerare la prospettiva degli ultimi tempi della chiesa con la venuta dell’anticristo ed il giudizio. A questa metodica appartengono Vittorino, in parte Beda, Alberto Magno e Ribera. Un terzo tipo di esegeti usa interpretare la storia apocalittica della chiesa secondo l’evoluzione degli stati ecclesiastici dominanti nei vari periodi fino alla prevalenza degli spirituali nella forma del monachesimo o degli ordini mendicanti. Ne sono testimoni Gioacchino, Ubertino da Casale, Serafino da Fermo. Una quarta forma predilige vedere nel testo profetico l’evolversi delle diverse età della chiesa nel corso del tempo. Pietro Aureolo, Nicola di Lira, Dionigi Certosino e Giovanni Annio ne sono i maestri più autorevoli. Due ulteriori disputationes propongono una serie di regole interpretative. Secondo Perera la maggior parte delle predizioni apocalittiche si sono già avverate. Ormai alla fine del mondo manca un tempo più breve rispetto a quello già passato dalle origini cristiane. Riguardo al passato occorre considerare i fenomeni più universali sia nel loro carattere favorevole sia per quello avverso, riguardo al futuro occorre esercitare una grande prudenza, non distaccarsi dalle interpretazione tradizionali, considerare il fine generale della profezia. È necessario poi saper seguire, sul piano dell’espressione letteraria, i caratteri della parola profetica, che anticipa, ricapitola, trapassa, regredisce, riprende, balza in avanti. Le stesse affermazioni sono fatte attraverso una molteplicità di simboli, “così le similitudini e le immagini si moltiplicano per indicare la stessa realtà sotto ogni aspetto in modo più pieno e chiaro”. La profezia ebraica è il più immediato riferimento letterario di quella cristiana e già il testo apocalittico indica talvolta come interpretare le proprie figure. Infine non deve mai mancare un atteggiamento di umiltà, come suggerisce Ruperto. Se infatti la Scrittura è la terra santa dei discepoli di Cristo, essa è riservata a coloro che vi entrano con la piena coscienza della loro miseria, senza arroganza e pretese di dominio23. Conclude questa parte introduttiva la divisione del testo secondo sette visioni: a quella iniziale del Cristo Signore della chiesa, della storia e dell’universo, seguono i sette sigilli, le sette trombe, la donna, le sette 23

Ibid., 23-24.


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coppe, la prostituta, la Gerusalemme celeste. Ovvero la storia della chiesa è dominata dal primato universale di Cristo, della sua grazia e della sua giustizia sempre presenti ed operanti; passa attraverso le vicende mondane sia avverse che favorevoli; arriva, con la purificazione dal male, allo splendore della città di Dio tra gli uomini.

2.2. Principium creaturae Dei Proprio alla figura di Cristo, posta al centro delle chiese e dell’umanità, sono dedicati i commenti ai primi tre capitoli. Tutte le immagini proposte dal profeta illustrano il mistero della sua divinità, che effonde luce e calore, della sua umanità benevola e soccorrevole, del suo insegnamento ed esempio, della sua misericordia e provvidenza, del dono continuamente rinnovato dello Spirito, del suo eterno sacerdozio in favore dei peccatori, del suo giudizio inflessibile verso chi non accoglie la sua grazia. E qui gli accenti carismatici del teologo barocco riprendono esplicitamente quelli della teologia monastica del XII secolo con Ruperto e Gioacchino oltre che della teologia antica con lo pseudo Ambrogio. L’eterno sacerdozio di colui che rivela e comunica il divino deve diventare d’altra parte il modello dei ministri ecclesiastici, come ricordava Gregorio Magno, un altro autore a cui il gesuita ricorre volentieri quando vuole sottolineare il carattere spirituale ed etico della fede cristiana. Colui che sta sempre al centro della chiesa di ogni tempo e luogo agisce attraverso l’abbondanza dei suoi doni soprannaturali, si manifesta in particolare nel sacramento dell’eucaristia e nella testimonianza fedele dei suoi ministri. Appaiono evidenti le preoccupazioni teologiche fondamentali dell’erudito e appassionato gesuita. La fede cristiana, in qualsiasi vicenda storica sia coinvolta, deve guardare alle sue origini, alla sua fonte universale, alla rivelazione del divino nell’umanità di Cristo, alla presenza continua della sua grazia. A questa realtà originaria si aderisce nell’accoglienza interiore dei doni spirituali quali sono delineati dalle Scritture, nella celebrazione del sacramento fondamentale del culto cristiano, nell’esercizio coerente del ministero ecclesiastico. Il ricorso ad una lunga tradizione esegetica e alle sue diverse inter-


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pretazioni non deve far dimenticare questa prospettiva dominante. Neppure le vicende e le strutture storiche devono essere prese come una conformazione ultimativa della fede cristiana. Occorre sempre elevarsi ad una visione più universale. L’esigenza teorica e pratica di un’interpretazione positiva del cristianesimo pone pure in secondo piano le dispute caratteristiche dell’epoca, anche quelle nei confronti dei protestanti. La centralità di Cristo e della sua grazia, la sua presenza liturgica e ministeriale devono essere vissute e mostrate, dal momento che non possono essere frutto di affermazioni puramente concettuali e di formalità giuridiche. Ad esempio la definizione di Cristo come principium creaturae Dei (Apocalisse 3,14) è occasione per indicarne il carattere divino in rapporto a tutta la creazione naturale. A questo primo significato cosmico si aggiunge la predestinazione come scelta di grazia oltre la colpa, attuata da colui che è pure uomo e redentore dell’umanità, perché infine si arrivi alla creatura spirituale pienamente associata al Cristo evangelico. Infatti: «con questa designazione il Cristo è detto principio della creatura sia in quanto è Dio, che è la causa principale della creazione spirituale e di ogni santità, sia in quanto è uomo, che attraverso la sua morte ne fu causa meritoria, e come efficace strumento congiunto della divinità. Infatti la sua santissima umanità fu un organo efficacissimo della divinità per compiere la salvezza di tutti gli uomini, in quanto nella persona del Verbo era unita alla divinità»24.

Con la sua capacità di cogliere le analogie tra le diverse immagini del Nuovo Testamento l’esegeta individua in questa espressione apocalittica un parallelo con quella deuteropaolina primogenitus omnis creaturae (Colossesi 1,15), a cui dedica le due disputationes successive. L’intenso rapporto che intercorre tra l’anima umana ed il suo Salvatore è ulteriormente approfondito in occasione di altre immagini caratteristiche della lettera alla chiesa di Laodicea: la condizione umana di tiepidezza, la necessità di acquistare il vero collirio per 24

Ibid., 151.


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ottenere la vista, l’insistenza di colui che bussa sempre alla porta (Apocalisse 3,15. 18.20). La coscienza viva del peccato fa ricorrere più facilmente alla grazia che non la superficialità ipocrita di coloro che credono di essere giusti ma lo sono solo nell’apparenza, come i farisei rimproverati negli evangeli. Sempre il Cristo bussa alle porte dell’anima con tutte le sue sollecitazioni interiori ed esteriori. L’esegeta vede in questa ultima immagine amicale una sintesi di quanto il Concilio di Trento aveva proclamato nel suo decreto sulla giustificazione: il Salvatore vuol farsi amico ed ospite dell’anima colpevole e, se essa riconosce la sua miseria, è pronto a fornirle tutti i suoi doni. La grazia evangelica antecede, sollecita, ispira l’esercizio positivo della libertà individuale, finchè il Cristo stesso prende dimora nel cuore umano e ne costituisce la più vera ricchezza. L’immagine della cena apocalittica richiama poi il comportamento del Gesù di Luca nei confronti di Zaccheo e dei pellegrini di Emmaus25. Il linguaggio appassionato dell’esegeta e le numerose citazioni bibliche attraverso le quali egli argomenta fanno vedere che vengono individuati in questa esperienza spirituale e personale il messaggio più autentico dell’Apocalisse e il centro effettivo della vita ecclesiastica. Le immagini di rovina che il testo proporrà in seguito costituiscono un ammonimento nei confronti dell’arroganza e della ipocrisia, mentre indicano la necessità della prova. L’interprete si rivela così un fedele seguace della più antica teologia del suo ordine, basata sulla conversione individuale e sull’intimità con il maestro evangelico indipendentemente da qualsiasi condizione esteriore ecclesiastica o civile.

2.3. Ecclesiae progressus ac decursus Prima di affrontare la visione successiva dei sette sigilli, l’esegeta ricorda che la profezia si riferisce “a tutte le condizioni della chiesa e a tutti i suoi periodi dal suo inizio alla fine” e chiarisce di voler unire le interpretazioni usuali nella prospettiva generale di un lungo percorso storico in cui la chiesa ha assunto forme diverse, ricco di osti25

Ibid., 155-177.


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lità e di successi, proteso verso il regno di Dio atteso26. Il canto nuovo dei quattro esseri viventi e dei ventiquattro anziani è un’altra occasione per rifarsi a Ruperto nell’esaltare la regalità universale del Cristo sacrificato e vincitore della morte27. L’interpretazione dei sette sigilli richiede un lungo esame della tradizione esegetica, che viene catalogata secondo sette caratteristiche principali. 1) Vittorino vede il susseguirsi degli eventi tra l’annuncio evangelico universale e la pace messianica. La guerra, la fame, la peste, l’anticristo mettono alla prova la fedeltà dei santi durante il lungo percorso della storia della chiesa. Ma alla fine essi trionferanno con il loro Signore vittorioso. 2) Andrea di Cesarea ed Areta individuano nei sette sigilli la chiesa degli apostoli e dei martiri, seguita dalla corruzione, continuata dai santi, perseguitata dall’anticristo e finalmente giunta alla sua meta. 3) Beda e 4) Gioacchino seguono con qualche correzione i due esegeti orientali, ma il secondo propone il problema delle persecuzioni islamiche. 5) Lo pseudo Ambrogio individua sette età del mondo, quattro dell’Antico Testamento e tre del Nuovo. 6) Ruperto invece ritiene che si adombrino sette misteri dell’umanità di Cristo, mentre infine 7) Pietro Aureolo vi vede le persecuzioni condotte dall’impero romano contro i cristiani da Tiberio fino a Giuliano. Dopo questa schedatura di opinioni tradizionali il gesuita tenta una sua interpretazione. I primi quattro sigilli, indicati dai quattro cavalieri, mettono in luce quattro diverse condizioni morali della cristianità: la fedeltà della chiesa primitiva (cavallo bianco), la violenza persecutrice di Roma e la fortezza dei martiri (cavallo rosso), le invasioni barbariche e il diffondersi dell’eresia (cavallo nero), la potenza dei saraceni e il moltiplicarsi dell’ipocrisia (cavallo pallido). La chiesa degli imitatori di Cristo è in ogni tempo quella degli apostoli e dei martiri, messa alla prova dall’esterno dai regni di questo mondo e dall’interno dall’eresia e dall’ipocrisia. Le caratteristiche più evidenti di un certo periodo mostrano un carattere permanente della vicenda ecclesiastica.

26 27

Ibid., 181-184. Ibid., 260-261.


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Il quinto sigillo dà occasione di parlare della condizione dei giusti dopo la morte e prima del giudizio universale. Il sesto mette in luce la sorte dei malvagi e la predestinazione dei giusti. Proprio perché essi devono provenire da tutte le genti, tribù, popoli e lingue (Apocalisse 7,9), si deve ritenere che la fine del mondo non sia tanto vicina. Molti esseri umani che vivono ai margini della cristianità o la cui conoscenza è recentissima non hanno ancora potuto apprezzare l’evangelo in modo appropriato. Ma anche tra loro ci sono di certo molti eletti che è necessario accogliere nel regno di Dio. Esempio ne è la Cina: «Nè infatti si deve dubitare che a quelle estesissime regioni dei cinesi l’evangelo di Cristo non sia ancora stato annunciato come è necessario, nonostante che, a motivo dei viaggi navali e dei commerci dei portoghesi e della lunga dimora di alcuni padri della Compagnia di Gesù in quelle regioni e della familiarità coi cinesi, qualche notizia della fede e della religione cristiana abbia sfiorato quelle genti quasi fosse una brezza leggera»28.

Il settimo sigillo è sottoposto ad una lunga trattazione, dal momento che indica il breve tempo immediatamente anteriore alla rivelazione del regno di Dio dopo la sconfitta dell’anticristo. I discepoli fedeli si riposeranno dalle lotte sostenute e gli empi avranno ancora un’ultima possibilità di convertirsi. A questo punto (Apocalisse 8,1) l’esegeta considera esaurito il suo compito di illustrare la storia umana dalla specola astronomica della profezia biblica o dal suo centro spirituale ed evangelico. Le visioni successive delle sette trombe e delle sette coppe sono una ripresa, tipica della profezia, di quanto è già stato illustrato nel commento ai sette sigilli: la chiave ermeneutica che li rende comprensibili ormai è stata fornita. Ma, a proposito dell’interpretazione della profezia, Perera scrisse subito dopo un’altra serie delle sue erudite disputationes per controbattere l’identificazione della potenza musulmana con l’anticristo, quale era stata sostenuta dal domenicano Giovanni Annio 28

Ibid., 376.


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(1432-1502)29. Secondo il teologo gesuita basta leggere le lodi altissime che Maometto eleva nel Corano alla figura di Gesù e di sua madre per escludere questa possibilità. Analizzando poi la storia del potente, pericoloso e duraturo movimento islamico si possono individuare otto ragioni del suo ormai quasi millenario successo, che non dava per il momento alcuna speranza di interrompersi. Al confronto l’impero romano, i barbari e gli eretici si erano dimostrati molto più deboli. Dietro al dilagare dell’Islam si devono vedere alcune ragioni sia religiose che politiche. Esso infatti 1) ha svolto una funzione provvidenziale contro l’idolatria, 2) ha permesso la libertà della fede cristiana nei territori del suo dominio, 3) ha costretto i cristiani ad usare la prudenza e la forza nella difesa di se stessi. Ma insieme è una punizione delle loro infedeltà e una prova cui sono sottoposti, mentre 4) è un castigo per i cristiani d’oriente ribelli contro il papato. 5) Di fronte alla potenza unitaria del principato musulmano i cristiani hanno messo in luce le loro discordie e la propensione a far guerra tra loro anziché contro un comune nemico. Sul piano etico e politico l’Islam 6) professa un’etica concreta, sensibile, basata sul successo personale, 7) ha provveduto a fornirsi di una grande potenza militare e 8), sotto la guida dei turchi, ha creato un efficiente ed autorevole governo tirannico30. Anche qui chi ha imparato e vedere le cose dall’alto e dal centro si guarda bene dalle declamazioni o dalle denigrazioni: in ogni aspetto della storia si rivelano, dal punto di vista teologico, aspetti positivi e negativi che vanno valutati con realismo, umiltà e fiducia. Sono sempre un richiamo alle necessità della conversione personale e della testimonianza missionaria, nello stesso tempo esigono di liberarsi dal difetto principale della cristianità: l’ipocrisia di coloro che ritengono di essere giusti mentre contravvengono nel modo più evidente al dettato evangelico.

29 B. PERERA, Liber trium et viginti disputationum adversus Ioannem Annium Viterbensem, Venezia 1607. 30 Ibid., 432-434. La Biblioteca Civica e Ursino Recupero di Catania, oltre alle due opere apocalittiche citate, possiede edizioni del 1585, 1586 e 1591 del De communibus principiis; edizioni del 1587, 1588 e 1591 del commento a Daniele; una edizione degli anni 1599-1602 del trattato sulla Genesi.


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2.4. Conclusioni I. In questa esegesi, molto più dottrinale che filologica, viene posta in rilievo la figura di colui che è entrato nella storia umana e nelle sue vicissitudini con la forza vittoriosa della sua divinità. Oltre ogni apparenza positiva o negativa della storia occorre guardare all’origine e alla meta dell’umanità liberata dal male: dietro ogni fenomeno si nascondono la realtà divina e la sua compartecipazione alla salvezza dei predestinati da tutte le genti. L’aspetto mistico e dogmatico dell’evangelo viene messo continuamente in evidenza. II. Il Cristo glorificato dell’Apocalisse, parallelo a quello di Paolo e Giovanni, si fa amico di ogni essere umano che voglia accoglierne i suoi doni. La teologia gesuitica dell’amicizia e dell’imitazione assume un notevole rilievo e sottolinea la vicenda personale ed universale della comunione con il divino. III. La struttura ecclesiastica e la sua storia tormentata appaiono quasi come un involucro terrestre del dogma e dell’esperienza religiosa soggettiva. Due sono le prospettive che l’esegeta raccoglie da una lunga tradizione interpretativa. La chiesa degli apostoli e dei martiri continua il suo itinerario fino al presente nelle diverse forme di fedeltà al dettato evangelico. In particolare sono sottolineate le funzioni essenziali dei ministri ecclesiastici, qualora siano veri imitatori del Cristo, e la prospettiva missionaria esercitata nei tempi più recenti dalla Compagnia di Gesù anche al di fuori dei confini esteriori della cristianità. A questo aspetto evangelico e missionario si accompagnano nel corso del tempo imponenti strutture giuridiche, economiche, politiche e militari. L’impero cristiano e il papato romano, la prosperità materiale della chiesa, i successi della monarchia spagnola contemporanea, l’ attività dell’Inquisizione. Tuttavia questo trionfo esteriore è sempre accompagnato dalle opposizioni provenienti dai nemici della cristianità politica e dottrinale: dai barbari di un tempo fino ai turchi del presente. Ma anche all’interno del cristianesimo pubblico allignano sempre l’eresia e l’ipocrisia. La vita effettiva delle comunità ecclesiastiche deve essere analizzata secondo una molteplicità di prospettive. Esse indicano una realtà che può essere anche contraddittoria o, quanto meno, ambigua. L’analisi storica della vita


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ecclesiastica, suddivisa per attività spirituali ed eventi esteriori, indica una condizione sempre presente fino all’estremo giudizio. E’ impossibile rilevare dal testo apocalittico il succedersi di avvenimenti futuri nelle loro circostanze esteriori. Rimane chiaro però l’impegno per la testimonianza e l’evangelizzazione in attesa delle persecuzioni finali sia dell’anticristo che dei suoi imitatori e collaboratori.


MUTAMENTO, CRISI, RIVOLUZIONE: IL PROBLEMA DELL’ESPERIENZA SPIRITUALE NELL’ETÀ MODERNA

MARILENA MODICA*

Il dispiegamento delle infinite possibilità concentrate nella tecnologia contemporanea — rivelazione propria del secondo Novecento — ha dotato la scienza di uno sviluppo il cui carattere fondamentale sembra essere quello di una ineluttabilità senza controllo. È un processo accelerato e senza limiti, governato quasi esclusivamente dalla propria forza interna, un punto di non ritorno rispetto ai ritmi conosciuti del progresso scientifico e tale da giustificare il riferimento al concetto di apocalissi: termine divenuto polisemico, trasversale, modellabile in campi differenti perché ciò con cui ha a che fare è il tempo individuale e collettivo (la sua fine o la sua “eternità”) e la condizione umana alle prese con il significato da dare al mondo, alla natura, alla storia. Ha a che fare con un mutamento sovvertitore dell’ordine conosciuto e della tradizione, tanto da presentarsi col carattere di radicalità traumatica e da produrre angoscia e paura. Si tratta di una rottura ma, anche, di una “transizione” la cui profondità può venire misurata non tanto (o non solo) dagli esiti risolutivi futuri più o meno pacificanti (l’installarsi di una nuova o di più visioni del mondo e della storia attraverso quello che Freud ha chiamato principio di costanza, o abitudine1) ma nel tempo tragico dello spaesamento e della “perdita”. Quanto, in una tale prospettiva, il

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Docente di Storia moderna presso l’Università degli Studi di Catania. Si veda, a questo proposito, F. RELLA, Il silenzio e le parole. Il pensiero nel tempo della crisi, Milano, 1981. 1


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concetto mantenga (o perda) le sue radici dentro la religione, è problema forse irrisolvibile: ma è uno dei problemi di fondo. D’altra parte, la pratica storica — la storia in senso stretto — intrattiene con la questione del tempo, delle transizioni, delle continuità e delle rotture, un rapporto la cui tensione problematica appare quasi costitutiva. E tuttavia non sembra accoglierne (non del tutto almeno) la valenza interpretativa di tipo apocalittico. Essa opera nelle pieghe, nelle piccole e grandi sconnessioni che le trasformazioni introducono nelle concezioni tradizionali del mondo e della natura; e nel lavorìo, a volte sommesso, dei processi di ricomposizione e di reinterpretazione, delle perdite, dei residui, del loro definitivo abbandono o della loro futura riemersione: dove, infine, si manifestano tutti quegli slittamenti di significato che coinvolgono modi e qualità dell’esperienza individuale e collettiva e soprattutto il linguaggio, il cui senso può cambiare impercettibilmente, ma dentro l’intelaiatura di una continuità con il passato e la tradizione. È, questo, uno dei problemi che la ricerca storica — in particolare quella che possiamo circoscrivere alla storia delle idee — si è trovata ad affrontare esaminando il rapporto fra teologia e nuova razionalità scientifica nella cultura europea del Seicento. Sembra quasi inevitabile, da questo punto di vista, chiamare in causa il tema complicatissimo della secolarizzazione (o laicizzazione), che richiede cautela e sorveglianza critica nell’uso dell’attrezzatura filologica a disposizione della disciplina storica. Mi limiterò solo a segnalare le riflessioni di Amos Funkenstein esposte in un saggio importante dal titolo Theology and the Scientific Imagination from the Middle Ages to the Seventeenth Century. Lo sgretolamento, impercettibile, di quella che egli chiama «la cintura protettiva attorno alla teologia» si verificò nel XVI secolo, quando i laici colti cominciarono, attraverso il crescente peso delle discipline scientifiche nell’insegnamento universitario, a sconfinare nel campo della teologia sottraendole il «primato professionale». Lungo e dettagliato, il discorso di Funkenstein sottolinea come, a partire dal Seicento, la «costante tendenza al trasferimento di modelli dalla matematica alla fisica e dalla fisica alla psicologia alla teoria sociale», nel favorire la nascita dell’ideale di un sistema unitario della conoscenza, non poté non includervi anche le materie teologiche.


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Così, mentre cessava di essere «monopolio esclusivo dei teologi», la teologia si espose a tutti gli smottamenti derivanti dal diverso peso che, nella speculazione scientifica e filosofica, vennero assumendo il concetto (anzi, i diversi concetti) di razionalità e l’uso sempre più critico della ragione. E quando, in ambito cattolico, la difesa dall’incipiente laicizzazione fu affidata ad argomenti che tendevano a indebolire la «fiducia nell’uso autonomo della ragione», ciò finì col provocare l’indebolimento della stessa «concezione della teologia come impresa razionale». Denso di implicazioni, questo progressivo ridimensionamento del primato professionale dei teologi ad opera dei laici costituisce il punto di diramazione di percorsi diversificati che andarono, già dalla seconda metà del XVI secolo, ridisegnando criteri di razionalità che il senso comune storiografico ha assegnato al concetto di “moderno” (categoria, anch’essa, non esente da ambigue semplificazioni) e che sperimentarono — in maniera contrastata e non sempre consapevole — il distacco dalla religione come prospettiva totalizzante e del sapere e dell’esperienza2. Pensiamo solo all’emergere di quelle tendenze matematizzanti che, nate nel campo della fisica e dell’astronomia (un nome per tutti è quello di Galileo) conobbero poi per la loro valenza sistematica e generalizzante, una pensabilità e applicabilità valida per altre scienze; oppure, ancora, pensiamo alla forza innovatrice che i criteri di chiarezza ed evidenza manifestarono nel pensiero di Cartesio. È noto come sulla rivoluzione scientifica della prima età moderna, per l’appunto, si siano concentrati gli elementi di una riflessione critica lungamente feconda, pur con inevitabili aggiustamenti, per gli storici modernisti: un vero e proprio banco di prova dei modelli interpretativi delle crisi, delle rivoluzioni e dei mutamenti dei paradigmi della conoscenza. Ed è noto altresì come la rivoluzione scientifica rientri nella più ampia tematica della cosiddetta “crisi del 2 A. FUNKENSTEIN, Teologia e immaginazione scientifica dal Medioevo al Seicento (tr. it.) Torino, 1996. si veda anche V. FERRONE, La rivoluzione scientifica in N. TRANFAGLIA – M. FIRPO (cur.) La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, IV/2: L’Età Moderna. La vita religiosa e la cultura, Torino, 1986, 503 ss. Ancora V. FERRONE, Scienza natura religione: mondo newtoniano e cultura italiana nel primo settecento, Napoli, 1982.


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Seicento” e della “crisi della coscienza europea”, la cui fortunata formulazione dobbiamo a Paul Hazard3. E quel saggio fu pubblicato in Francia nel 1935, nel pieno di un’altra drammatica crisi: l’Europa usciva stremata dal primo conflitto mondiale e si apprestava a misurare per intero la portata tragica dei totalitarismi. L’uso ampio del concetto di crisi mette in relazione più ambiti della condizione umana e conferma il nesso tra mondo fisico (la scienza), sfera intellettuale e dimensione religiosa: una articolazione dialettica regge due filiere di problemi: 1) naturalismo – scienza – conoscenza; 2) paura – religione – apocalittica. È in questa prospettiva che trova giustificazione il taglio della mia riflessione; “obliqua”, dicevo, per via del suo punto di partenza, che consiste nel tentativo di guardare ai possibili circuiti in cui l’esperienza religiosa cristiana (in questo caso, la mistica come scienza ed esperienza di Dio) si trovò immessa nella seconda metà del XVII secolo: nel momento in cui la cultura europea addensava energie intellettuali — trasversali, peraltro, ai due mondi cristiani, cattolico e protestante — e sperimentazioni nel pensiero scientifico e filosofico che certamente giustificano l’immagine di laboratorio come la più adeguata a dar ragione degli esiti settecenteschi e della cultura dei lumi. E non solo. I fermenti dissolutori del modello aristotelico-tomista e l’emergere di forme di autonomia dal dogmatismo teologico nei processi di conoscenza agirono, con minore o maggiore visibilità, proprio nel cuore del Seicento. E posero l’esperienza mistica — per vie contrastanti, e tuttavia segnate da una diversa percezione della soggettività — nelle condizioni di segnalare una possibile “fuoriuscita dalla religione”. Accostarsi, d’altra parte, alla storia religiosa — in particolare a quelle espressioni devozionali e cultuali radicate nella sensibilità e nella psicologia individuale e collettiva, nelle rappresentazioni simboliche destinate a promuovere e mantenere nel tempo modelli di edificazione — significa fare i conti con una sorta di “vischiosità” del mutamento e con processi di lunga durata che rendono il tempo della religione quasi immobile. Il che non vuol dire, naturalmente, che il 3

P. HAZARD, La crise de la conscience européenne, Paris, 1935.


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cristianesimo europeo dell’età moderna sia da leggere esclusivamente sotto questa luce: se non altro, perché la rottura dell’universalismo cristiano provocato dalla Riforma protestante fu un trauma profondo che conobbe declinazioni “apocalittiche”, una percezione da fine dei tempi (si ricorderà l’immagine di Lutero come l’Anticristo in ambito cattolico e la medesima cosa, da parte luterana fu detta del papa4) che caratterizzò, almeno nella fase iniziale, le sette radicali e, in primo luogo, quella degli anabattisti. Riflessi e toni apocalittici troviamo in Germania nella rivolta contadina del 1524-25, nella predicazione dei profeti di Zwickau e nell’esperimento della città di Münster, la nuova Sion5. Segno di una rottura del tempo e dell’ordine tradizionali fu, ancora, il sacco di Roma ad opera dei lanzichenecchi a servizio di Carlo V, nel 1527. In altri luoghi e in altre condizioni, ma nel medesimo arco temporale, la percezione della fine dei tempi, accompagnata dalla fiducia nel compimento del messaggio cristiano della conversione di tutti i popoli, ispirò l’evangelizzazione francescana nelle terre del Nuovo Mondo6. Per la cristianità europea del primo Cinquecento (almeno per parte di essa) il tempo e la storia si fermarono nell’attesa della fine. La dimensione tragica delle guerre di religione in Francia, la lacerazione del corpo stesso dello stato e della società alle prese con una lotta fratricida, potrebbero essere viste nella medesima prospettiva, se non fosse che, già alla fine del Cinquecento, l’aspetto traumatico (se si vuole, apocalittico) era stato in certo qual modo assorbito nella percezione di un conflitto il cui esito non preludeva né alla fine della storia né alla fine del mondo. Quel conflitto produsse, semmai, una riflessione 4

Ancora intorno al 1562, la valenza apocalittica del messaggio di Lutero veniva richiamata all’interno di gruppi di spirituali italiani che, inizialmente toccati da quel messaggio, se ne sarebbero poi allontanati, manifestando la loro fedeltà alla chiesa di Roma con il richiamo al «leone che rugge» dell’Apocalisse giovannea. Si Veda M. FIRPO, Gli affreschi di Pontormo a san Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Torino, 1997, 203. 5 Si veda il bel saggio, ancora attuale, di V. MARCHETTI, I movimenti ereticali nell’Europa del Cinquecento, in N. TRANFAGLIA – M. FIRPO (cur.), La Storia. L’età Moderna. La vita religiosa e la cultura, II, Torino, 1986, 213 ss. 6 A. PROSPERI, America e Apocalissi e altri saggi, Pisa, 1999.


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sul problema generale del potere politico sovrano e delle sue articolazioni (Parlamenti e Stati Generali) in relazione alla necessità di riportare la pace nel regno approntando gli strumenti con i quali realizzarla e aprendo per questa via, seppur tortuosamente, la grande questione della tolleranza. Sul piano intellettuale, il rivolgimento civile e religioso della società francese ebbe esiti di lunga durata, tali cioè da dare spazio progressivamente ad una cultura che avrebbe affinato l’esercizio della critica e accelerato lo sganciamento dalla dogmatica teologica7. A tali esiti appartengono anche il recupero e la rielaborazione di quel filone di pensiero “scettico” che Montaigne e Charron avevano coniugato con la visione tutta umanistica della saggezza. Interrogarsi sulla spiritualità mistica del secondo Seicento in relazione al quadro sempre più mosso della modernità europea, solleva più ordini di questioni. Una riguarda, intanto, il suo rapporto con la valenza quasi metastorica che il concetto e il termine mistica hanno assunto nel ritenerne il fondamento enigmatico e oscuro come costitutivo: «Cet obscur objet de notre science» è intitolato, significativamente, il primo capitolo di un saggio di Émile Poulat (L’Université devant la Mystique) comparso in Francia nel 1999. Qui, nel seguire «les tribulations d’un mot» e nell’illustrare i percorsi della cultura francese del primo Novecento — stretta fra l’insufficienza del paradigma positivista, da un lato, e l’ampliamento delle scienze umane verso l’etnologia, la linguistica, l’antropologia e la sociologia, dall’altro — lo studioso sottolinea come in Francia la riflessione universitaria sul misticismo finisse con l’associare quel tipo di esperienza alla «mentalité prélogique». Non solo. Lo slittamento subìto dal significato di mistica è riassunto nelle osservazioni fatte da Gustave Le Bon nel 19138: la fede del mistico e la sua logica, eredità dell’umanità primitiva, non temono alcuna assurdità razionale, ma non si limitano alla religione; esse imperversano tra gli artisti, i radicali, gli anti-clericali, i settari e la stessa classe operaia è dominata da un intenso misticismo9. 7 Significativa, ad esempio, la voce Critique curata da Marmontel per l’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des art set des métiers, IV, Paris, 1754, 447 ss. 8 Ne parla É. POULAT, L’Université devant la mystique. Expérience du Dieu sans mode, Transcendence du Dieu d’Amour, Paris, 1999. 9 Citato ibid., 30.


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Solo in apparenza improprio, questo riferimento chiarisce almeno uno dei termini problematici dell’oggetto di questo intervento e cioè, da un lato, l’ambivalenza nel misticismo secentesco del concetto di razionalità e la profondità delle sue implicazioni future e, dall’altro, la scelta di un ambito e di un contesto ben definiti. L’arco temporale è quello, grosso modo, dell’ultimo trentennio del XVII secolo che, nell’esaurirsi della fase tridentina, registrava — con echi di antiche e recenti eresie, dai begardi agli alumbrados di Spagna — il conflitto tra mistici e anti-mistici, culminando poi nella repressione inquisitoriale del quietismo dei primi anni ottanta del Seicento. Più che altre forme di devianza religiosa — nelle quali è possibile individuare latenze e suggestioni consapevolmente dissidenti — il quietismo esprimeva un legame forte, direi costitutivo, con la scienza teologica e la pratica spirituale mistico-contemplativa, compresi gli elementi poi interpretati in senso ereticale. Fu infatti quella lunga tradizione a garantire la sopravvivenza dei modelli mistici di santità nella chiesa della controriforma, proposti — dopo le turbolenze e le tensioni di quello che Massimo Firpo ha chiamato lo «sperimentalismo religioso» del Cinquecento — come esempi edificanti e cifra della riconquista delle anime e dei corpi. Modelli, tuttavia, segnati da una tale sovrabbondanza di fenomeni straordinari da apparire paradossalmente quasi un argine alle suggestioni spiritualistiche e interiorizzate emerse in quella intensa stagione: estasi, visioni, rivelazioni, resero sempre più l’esperienza dei mistici una questione di visibilità di corpi incisi dai segni della passione di Cristo o espropriati dai gesti della devozione ordinaria, sempre in bilico tra naturale e sovrannaturale: corpi e linguaggio, insomma, portatori di una eccedenza che trascriveva l’irruzione del divino, ma declinandola in forme più dimesse (“private”, si potrebbe dire) nell’armamentario profetico del posseduto da Dio. L’addensamento secentesco di queste pratiche e di questi modelli — sull’onda di quella che Henri Bremond ha chiamato invasion mystique — è parallelo ad una forte accentuazione degli elementi normativi e disciplinari da un lato e, dall’altro, all’affermarsi della sua qualità soggettiva, sempre più coincidente con l’affinamento di


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tecniche introspettive che la pedagogia spirituale dei gesuiti, in particolare, perfezionò sul lascito ignaziano degli Esercizi Spirituali. La percezione di una eccedenza insita nel misticismo si fa evidente, d’altra parte, nella strutturazione della sua teologia, anzi nella separazione della Teologia Mistica dalla Teologia Scolastica. Riassunta efficacemente nei trattati del cardinale Giovanni Bona, comparsi in pieno Seicento, la differenza tra le due vie per le quali «itur ad Deum», assegnava alla mistica una dotazione di razionalità imperscrutabile, il cui movimento restava misterioso, non leggibile con gli strumenti propri della Scolastica. E se l’una (la Scolastica) «a scientia acquisita […] procedit», l’altra (la Mistica) proviene «a donis infusis Spiritus Sancti». E, ancora, se la prima «angusta est, limites non excedens humanae speculationis», la mistica «cor dilatat ad infinita, et omnem modum naturalis cognitionis trascendit. Illa longa, laboriosa et difficilis; haec brevis, expedita et facillima est»10. Erano gli stessi mistici ad appellarsi ad una razionalità di tipo diverso: «une autre méthode», per il gesuita francese Jean Joseph Surin. Il riferimento ad un “altro metodo”, la cui verificabilità passava in primo luogo attraverso il soggetto che sperimentava la conoscenza di Dio non era certo nuovo, ma quella scienza sperimentale, affermata nel pieno di processi di lenta affermazione di un nuovo paradigma della conoscenza, si riverberava sulle pratiche spirituali di tipo mistico, rendendone più fragile la tenuta. E certo non è casuale che proprio la contrapposizione tra orazione mentale discorsiva — fulcro di una pratica religiosa razionalmente organizzata sul modello della Scolastica e fondata sulla scansione graduale e metodica del cammino di perfezione — e orazione mentale passiva, sganciata da ogni “metodo” che non fosse abbandono totale al volere di Dio, è all’origine della vicenda quietista11. Quella via «brevis, expedita et facillima», da un lato divenne 10

G. BONA, Via Compendii ad Deum (Romae, 1657), in Opera Omnia, Venezia, 1752, 62. 11 La condanna del prete spagnolo Miguel de Molinos, autore della Guida spirituale che aveva conosciuto uno straordinario successo, rappresenta il punto di condensazione di un dibattito dalle molteplici sfumature, soprattutto in area francese dove aveva incrociato, ancor prima del successo delle idee di Fénelon e Guyon, le suggestioni spirituali di François de Sales.


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la chiave di un accesso generalizzato alla pratica mistica, dall’altro riportava al centro del dibattito teologico il problema del senso da dare all’esperienza e alla verità di cui essa era portatrice. Proprio sul concetto di esperienza, sulla sua potenziale carica di autonomia nella formazione del giudizio, interveniva Bossuet, prendendo una netta posizione contro gli “anti-mistici”. Il loro continuo appellarsi all’esperienza, diceva, «non tende a niente meno che a rendere questi dottori indipendenti dalle censure e da’ giudici della chiesa, perché non si giungerà mai a sapere che siano questi giudici sperimentati i sentimenti de’ quali sarà mestieri di seguire […] una chiara cosa è, indipendentemente da queste pretese Esperienze, che nella Chiesa v’ha delle regole sicure per giudicare delle buone e cattive orazioni e che tutte l’esperienze, in contrario, sono illusioni»12. La necessità di una normazione dell’eccedenza mistica — sfiorata, quest’ultima, proprio dal riemergere di una percezione autoritativa del soggetto in nome della verità dell’esperienza — si trova, sul finire del Seicento, all’incrocio di un mutamento della sensibilità collettiva e individuale, di cui non è semplice individuare la portata. Il peso della tradizione è, da un lato, talmente preponderante da rendere invisibili le faglie apertesi, oltre che nella teologia, nella pratica spirituale dei fedeli. D’altro canto, la proliferazione di operette teologiche e di devozione dal contenuto mistico sempre più sistematizzato e sorvegliato nei suoi parametri ortodossi, è l’espressione di un movimento che procede senza pause, quasi incalzato dalla sua stessa capacità di fascinazione: la “macchina agiografica” messa in moto dal tridentino fu assai meno genere letterario che moltiplicatore di suggestioni, oltre che formidabile strumento di promozione religiosa di ordini, comunità monastiche e cittadine. Che, in un quadro di questo tipo, riemergesse il problema della simulazione di santità — come inganno consapevole o suggestione diabolica — era nell’ordine delle cose. Semmai, si fece più evidente l’addensamento giudiziario intorno al problema dell’accertamento del 12

J. B. BOSSUET, Istruzione sopra gli stati d’orazione, Venezia, 1734, V. La prima edizione comparve a Parigi nel 1697.


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vero e del falso che saldò in un unico circuito gli strumenti di controllo sulle coscienze da parte di confessori e direttori d’anime e dei giudici dei tribunali ecclesiastici, in particolare degli inquisitori. La scienza della discretio spirituum acquistò un peso preponderante e la leggibilità dei corpi mistici e della fenomenologia straordinaria fu sostenuta da un apparato concettuale che chiamava in causa tutta la teologia (la Morale, la Scolastica e la Mistica), la scienza medica, le procedure giudiziarie di accertamento del vero. E, tuttavia, questa accanita opera di normazione, l’«ossessione classificatoria» che dominava la manualistica teologica e inquisitoriale sul discernimento del vero e del falso, riposava sulla percezione di una quasi impossibile presa razionale del cammino di unione con Dio. La vita spirituale, dice Giovanni Bona nel suo De discretione spirituum, «plena latibulis est»; e, per quanta diligenza si possa usare, «saepe insolubilibus nodis ita eludit ut modo elabatur e manibus quod inventum est, modo rursus appareat, et iterum elabatur»13: più si affinavano i criteri del discernimento, più quell’eccedenza scritta sui corpi e sulle anime sembrava sfuggire ad ogni ordine di certezze. Dei tanti corpi di mistici e mistiche raccontati nei segni che li avevano incisi e sui quali medici e teologi posavano lo sguardo indagatore, basterà qui ricordare quello di Veronica Giuliani, nella testimonianza che ne fece un teste ascoltato nella causa di beatificazione. I teologi chiamati ad esaminare la piaga del costato, chiesero a Veronica di accostarsi alla grata del parlatorio: «ella venne con la tonaca tagliata […] tenendola chiusa con due laccetti di cordoni che vi aveva attaccati e datole ordina di slacciare […] la tonaca, di aprirla e far vedere […] ella ubbidì e si vidde, osservò e riconobbe esservi in distanza e più basso di circa un palmo del collo, al di sopra della zinna una piaga longa quanto è lungo il dito piccolo di una mano, fatta a foggia di bocca essendo largo nel mezzo e puntuta nelle due estremità aperta con due bellissimi labbri rubicondi […] accostando il candelino fu veduto e osservato che dalla medema esciva il fiato […] e ciascheduno di noi altri suddetti testimoni osservassimo

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G. BONA, De discretione spirituum (1672), in Opera Omnia, cit. 136.


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benissimo, vedessimo e riconoscessimo […] e restassimo ammirati di vedere una cosa tanto prodigiosa»14.

I rimedi suggeriti per chiudere le piaghe della religiosa dovevano provare se «fossero cosa naturale ò artificiosa», ma non produssero alcun effetto. Anzi, «alla fine conosciuti inutili tali rimedi furono tralasciati e giudicati dalli Medici e Chirurghi cosa soprannaturale». Se, in questo caso, furono “medici” e “chirurghi” a dare l’avallo e la prova della straordinarietà divina dei segni sul corpo di Veronica, quella scienza poteva però anche dichiararsi incompetente sul piano teologico. Con due implicazioni sostanziali: nel caso fosse affermata l’insufficienza della scienza medica, il pronunciamento del giudizio teologico acquistava piena rilevanza e legittimità. Viceversa, l’acquisizione crescente di competenze e credibilità scientifica da parte del sapere medico, rese via via meno solida l’alleanza tra teologi e medici. La dimensione straordinaria del misticismo non riposava solo sui corpi segnati. La medesima trama eccedente li legava al linguaggio in un intreccio costitutivo, in un andare e venire della “figura” come immagine e come parola. E quel linguaggio, che conservava la cifra enigmatica della comunicazione divina — quelle espressioni “esorbitanti” degli Eckart e dei Taulero che lo stesso Bossuet invitava a ridimensionare — divennero l’oggetto di una ambigua codificazione. La Pro Theologia Mystica Clavis del gesuita Sandaeus ne è la testimonianza forse più significativa: vero e proprio vocabolario di termini modellati sulla retorica dell’inesprimible, la Clavis vi inglobava però quasi una nuova percezione dell’individualismo del soggetto. I termini meitas, ipsitas, egoitas definivano sul piano lessicale e concettuale lo spazio interiore dell’esperienza e, al tempo stesso, ne strutturavano il codice: era lo spazio proprio delle passioni che, spiritualizzate nel loro timbro umano, di questo evocavano il “disordine” solo per farsi tramite e lettura della sfera soggettiva nel suo rapporto con Dio. Si poteva, così, definire «adulterium mysticum […] quando contemplativus in tantum se dat, adquirendum a Deo dulcedinem spiritualem, 14

Sacra Rituum Congregatione, Beatificationis et Canonizationis Ven. Servae Dei de Iulianis Monialis Cappuccina de Terra Mercatell. Positivo super dubio, Romae, 1745.


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consolationem, revelationes…»15; e la lussuria spirituale, una «inordinata quaedam naturalis amoris propensio», un percorso, cioè, non del tutto purificato dalle “dilettazioni sensibili”. L’aspetto più marcato dell’operazione di Sandaeus resta, in ogni caso, la messa in evidenza del codice proprio della scienza mistica che possiede «suas loquendi formulas, dictionem propriam et phrasim». Nel corso del Seicento, l’esperienza mistica e la sua teologia come scienza sistematica occuparono uno spazio trasversale, circoscrivendo di volta in volta la propria leggibilità dentro lo sguardo medico-scientifico, il codice retorico-linguistico, la cifra psicologica, il paradigma ortodosso e i modelli accreditati della santità, sullo sfondo di un complesso meccanismo di accertamento giudiziario: dove per giudiziario non si intende necessariamente l’operato dei tribunali veri e propri, ma le diverse sedi di formazione del giudizio: ed è noto come una di queste fosse costituita dal rapporto dei mistici con la direzione spirituale, guide, maestri d’anime e confessori16. Se il problema della normazione del misticismo passò attraverso il consolidamento di un metodo costruito sul gradualismo dell’orazione mentale discorsiva in grado di saldare ascesi, via contemplativa e via unitiva, la comparsa sulla scena secentesca (o ricomparsa, se si vuole) dell’orazione di quiete, disordinava quell’assetto in nome di “un altro metodo”: agli occhi degli anti-mistici (e soprattutto, degli inquisitori) esso apparve come una sorta di volontario sottrarsi alla visibilità, dunque, all’onere della prova. Non solo. Si rafforzava, per questa via, il paradigma della simulazione di santità, ma nella variante della dissimulazione, del nascondimento dei “moti interni”. Consegnata all’orazione di quiete, l’esperienza mistica rinviava ad una leggibilità senza riscontri esterni, poggiante non sull’autorità della chiesa, ma sulla verità affermata da chi la sperimentava. Significativa, da questo punto di vista, la discussione sviluppatasi nelle riunioni della Giunta 15 M. SANDAEUS, Pro Theologia Mystica Clavis elucidarium onomasticon vocabulorum et loquutionum, Coloniae Agrippinae, 1640 (rist. anastatica: Lovanio, 1963), 30. 16 Si veda A. PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, 1996.


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dei Qualificatori della Suprema madrilena (1685) impegnata ad esaminare la Guida Spirituale di Miguel de Molinos, in vista di una possibile censura. Una devozione non sostenuta da «discursos» impediva di distinguere tra un cattolico e un «ateista». E privava, oltretutto, i fedeli di quei “segnali della santità”, utili al mantenimento della religione17. I quietisti riportarono al centro della pratica mistico-contemplativa, la dimensione intuitiva della conoscenza di Dio, l’ineffabilità, la non comunicabilità (né verbale né gestuale) dell’esperienza. Pur consapevole della «fuerza rigurosa de los terminos teologicos», l’imputata siciliana suor Teresa di san Geronimo — processata dal Sant’Ufficio di Palermo alla fine degli anni novanta del Seicento — ammetteva di non essere in grado di esplicitarli. E non solo per ignoranza, ma per la natura straordinaria, quasi ingovernabile, della comunicazione divina. Il mutamento emergente dal misticismo secentesco appare come una sottile difformità dalla tradizione: così, in particolare, venne percepita dai custodi dell’ortodossia, impegnati a difendere su più versanti la tenuta degli assetti culturali tridentini. Dal ricco arsenale della devozionalità mistico-contemplativa, i “nuovi mistici” attinsero tutti quegli elementi che consentivano di coniugare “affetti” e slanci propri della colloquialità religiosa con la dimensione inesprimibile ed enigmatica della conoscenza divina. Entrambe le modalità possedevano, tuttavia, una carica destrutturante, segnalata proprio dalla predilezione per l’orazione di quiete. Spostando l’accento dal “metodo discorsivo” — dunque dalla meditazione organizzata per gradi — ad una disposizione mentale “vuota” (il no pensar nada di Francisco de Osuna) essi adombravano il rifiuto, probabilmente inconsapevole, di forme disciplinate della devozione. Il confronto con i “tribunali della coscienza” e con l’Inquisizione — laddove, come in Sicilia, questa intervenne con l’avvio massiccio di procedimenti giudiziari — fu duro. Il senso di perdita, lo spaesamento di fronte alle accuse emergono dai processi siciliani nel segno di un conflitto irriducibile con i giudici ma soprattutto — ed è un fatto denso di significati — come dissidio interno. 17

Un riferimento al dibattito dei qualificatori della Suprema, in M. MODICA, Infetta dottrina. Inquisizione e quietismo nel Seicento, Roma, 2009, 25-26.


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Marilena Modica «Dìos bueno si en aquel estrado estava en error y en ofensa de Dìos, como el no se appartò de mi? Me imagino que quiza no era Dìos lo que entendìa en mi, sino el Demonio, y despues imagino, si este era el Demonio, todas a quellas comunicaciones de amor y padecer que entendìa en mi, todas las hacìa el Demonio: però anque yo padezca dichas dudas, el Alma despues vee alguna verdad y los efectos que pudiera dexar el Demonio, y los efectos que dexa Dìos»18.

Così si espresse suor Teresa di san Geronimo nelle pagine del Memoriale, consegnato durante la carcerazione, agli inquisitori. Lo spaesamento della religiosa non riflette solamente la perdita di antiche certezze: era uno strappo profondo che lacerava l’intera trama di un percorso cui la tradizione cristiana aveva assegnato una verità indiscutibile. I giudici la costringevano a credere che il demonio, non Dio, avesse agito in lei: «y es para mi este un afàn de Infierno que no puedo explicarle». Il terrore dell’inganno subito, a dispetto di un’esperienza vissuta come autentica, finiva col compromettere irrimediabilmente il suo passato, la sua linea de uno estilo: «y es tanto el afàn y el dolor que tambien pierdo las fuerzas del cuerpo […] dolor que se derrama en todos los huessos como si todos estuviessen llenos de axensos y de amargura»19. Che si possa valutare la “dissonanza” manifestatasi nel quietismo come una crisi nel processo di secolarizzazione della soggettività religiosa (il problema dell’individualismo economico, proprietario, che la cultura del Settecento porterà a maturazione ebbe le sue radici nello scorcio del Seicento) è forse azzardato. A me sembra, tuttavia, che la stessa polverizzazione della tradizione mistica in tanti frammenti — il linguaggio dei corpi, il controllo medico, giudiziario e teologico sulla fenomenologia straordinaria, la pervasività degli strumenti e delle tecniche di lettura dell’interiorità, la tendenza spiccata a chiudere i dati dell’esperienza nel codice classificatorio dell’ortodossia — rappresenti uno dei molteplici elementi che caratterizzarono, nella 18 ARCHIVO HISTÓRICO NACIONAL DE MADRID, Copia sumaria del proceso contra sor Teresa de san Geronimo, Legajo 1747¹, fasc. 13. 19 L.c.


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seconda metà del Seicento, la ridefinizione del rapporto tra individuo e potere, sia quello dello Stato che quello della Chiesa: una transizione la cui drammaticità cogliamo — al di là della retorica difensiva messa in atto durante il processo — nel desolante interrogarsi dell’imputata siciliana sulla verità della propria esperienza.



L’APOCALISSE NELLA LIRICA EBRAICA PRIMONOVECENTESCA DI LINGUA TEDESCA

GRAZIA PULVIRENTI*

Il discorso sull’apocalisse esige specifiche articolazioni e definizioni tematiche, dal momento che, nella nostra cultura postmoderna, è invalsa la tendenza a indicare con apocalisse il complesso della fine del mondo nella contemporaneità, con diverse varianti che il concetto assume a seconda della prospettiva adottata, antropologica, filosofica, della filosofia della storia, dei fenomeni millenaristici, della psicopatologia esistenzialista, della teologia, della escatologia cristiana, della escatologia giudaica, delle arti e della letteratura. Una efficace sintesi della problematica è fornita dagli appunti di Ernesto De Martino: «Apocalisse = svelamento del futuro, nella tradizione giudaicocristiana, rappresentata per eccellenza dall’Apocalisse di Giovanni, significa la fine del mondo umano e la istituzione della nuova Gerusalemme, per opera di Dio. La fine del mondo e ciò che la precede come annunzio. L’apocalisse moderna è «crisi», giudizio (Barth), o significa la fine di una civiltà e l’avvento di un nuovo medioevo, o semplicemente significa il preannunzio di ciò che accadrà sicuramente all’Europa e agli europei se essi non prenderanno le necessarie misure e non faranno qualche cosa prima che sia troppo tardi. Guerra, terrore atomico, decolonizzazione, statolatria, burocrazia, pianificazione, cultura di massa, pubblicità. Gli apocalittici talora ex marxisti, talora ex comunisti, talora esiliati»1.

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Docente di Letteratura tedesca presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università degli Studi di Catania. 1 E. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Torino 1972, ristampa 2002, 494-495.


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Nelle sue appassionanti considerazioni, De Martino identifica l’epoca moderna tout court con un’abnorme distruzione dei valori dell’umano, scorgendo in essa i segnali dell’apocalisse nel senso di catastrofe senza speranza. Ma, nel caso specifico della poesia ebraica primonovecentesca di lingua tedesca, la prospettiva risulta troppo ampia, seppur è assolutamente valida la riflessione sulla diffusione del concetto di apocalisse in letteratura come conseguenza delle forme deteriori della modernità sin dalla fine dell’Ottocento. Nel coacervo delle difficoltà poste dall’uso del concetto di apocalisse, una riflessione preliminare esige una breve individuazione delle diverse accezioni di tale complesso nella riflessione teologica. Pur se in maniera assai sommaria, possiamo individuare il nucleo di una ambivalenza che segna il dibattito otto-novecentesco e l’immaginario che ne deriva: in ambito giudaico-cristiano l’apocalisse appare come forma di rivelazione in una età di fatto priva di rivelazioni, come pare intendere Auberlen2 nel 1854, concetto ripreso in studi più recenti, come risulta dalle parole di Ebach: «Non la profezia del futuro era lo scopo del profeta, ma la formulazione di ciò che è, la rivelazione dei nessi contemporanei alla luce delle conseguenze — se si continuerà così 3».

Nella ricezione dell’Apocalisse biblica, si cristallizza un’antinomia fra senso di catastrofe e senso di rinascita utopica in un nuovo regno4, con sostanziali differenziazioni fra la prospettiva anticogiudaica5 e quella cristiana. Nel primo caso, l’apocalisse appare come 2

C.A. AUBERLEN, Der Prophet Daniel und die Offenbarung Johannis in ihrem gegenseitigen Verhältniß betrachtet und in ihren Hauptstellen erläutert, Basel 1854. 3 J. EBACH, Apokalypse. Zum Ursprung einer Stimmung, in Entwürfe, 2 (1985) 5-61: 13. 4 Cfr. G.M. MARTIN, Weltuntergang. Gefahr und Sinn apokalyptischer Visionen, Stuttgart 1984, 121; R. SCHÄFFLER, Vollendung der Welt oder Weltgericht. Zwei Vorstellungen vom Ziel der Geschichte in Religion und Philosophie, in H. ALTHAUS (cur.), Apokalyptik und Eschatologie. Sinn und Ziel der Geschichte, Freiburg-BaselWien 1987, 73-104. 5 Nel caso dell’apocalittica giudaica si veda K. Koch – J. M. Schmidt (curr.), Apokalyptik, Darmstadt 1982.


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una fase di passaggio e premessa del cristianesimo, una sorta di fenomeno di transizione fra un Israele caratterizzato dalla profezia del tempo a venire e l’escatologia del primo ebraismo6. Per una certa tradizione ebraica l’apocalittica si identifica con una forma di escatologia riferita nello specifico al popolo ebraico, in contrapposizione alla prospettiva universalistica cristiana. In tal senso appare come una forma erronea e fuorviata di escatologia, poiché riguarderebbe vicende della storia e le specificità delle sorti di un popolo, sostituendo alla prospettiva ultramondana quella terrena, all’eternità la storia. Wilhelm Bousset7 precisa il concetto di apocalisse nel rapporto fra mondo giudaico e cristiano, contrapponendo alla visione messianica di attesa, una escatologia di tipo veterotestamentaria di natura apocalittica. Ma all’interno della stessa prospettiva ebraica, l’attesa di una rinascita nazionale sotto l’avvento del Messia viene sostituita, nella modernità, dall’attesa dell’avvento di un regno dello spirito, dalla fiducia in una ricompensa individuale nell’aldilà, implicando, nel Novecento, una sensibile trasformazione del concetto nazionalistico e mondano della visione antico-giudaica in una prospettiva spirituale e universale. L’apocalisse appare come la fine dell’epoca della rivelazione del suo senso compiuto e si diffonde l’idea di un’equivalenza salvifica fra epoca della fine e ritorno alla purezza primigenia8. Viene così veicolato, come costitutivo del motivo dell’apocalisse, il concetto di apocatastasi, presupponendo sul piano filosofico il principio dell’eterno ritorno e su quello escatologico il riferimento a un telos collettivo. Nella dimensione dell’apocatastasi, il nucleo del discorso apocalittico non verte più sulla profezia della fine del mondo, ma sulla rivelazione e il rinnovamento dell’uomo. La distruzione finale è premessa per la Gerusalemme celeste, come nel testo di Giovanni, dove Satana viene sconfitto definitivamente prima che l’angelo mostri

6 A. HILGENFELD, Die jüdische Apokalyptik in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Jena 1857, 16. 7 Cfr. W. BOUSSET, Die Religion des Judentums im neutestamentlichen Zeitalter, Berlin 1903. 8 Cfr. F. MUSSNER, Die Idee der Apokatastasis in der Apostelgeschichte, in Lex tua Veritas: Festschrift für Hubert Junker, Trier 1961, 296-298.


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a Giovanni la città celeste, come Dürer ha sapientemente illustrato in una delle incisioni sull’Apocalisse di Giovanni di Patmos:

«Vidi poi un angelo che scendeva dal cielo con la chiave dell’Abisso e una gran catena in mano. Afferrò il dragone, il serpente antico — cioè il diavolo, satana — e lo incatenò per mille anni; lo gettò nell’Abisso, ve lo rinchiuse e ne sigillò la porta sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni, fino al compimento dei mille anni. Dopo questi dovrà essere sciolto per un po’ di tempo. Poi vidi alcuni troni e a quelli che vi si sedettero fu dato il potere di giudicare. Vidi anche le anime dei decapitati a causa della testimonianza di Gesù e della parola di Dio, e quanti non avevano adorato la bestia e la sua statua e non ne avevano ricevuto il marchio sulla fronte e sulla mano. Essi ripresero vita e regnarono con Cristo per mille anni»9. 9

Ap 20,1-4.


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In ambito letterario, il discorso apocalittico si è spesso fuso con la prospettiva utopica, come nel caso del celebre testo di Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung10 [Il principio Speranza], anche se il discorso risulta particolarmente complesso alla luce della dinamica storica, poiché la prospettiva utopica sposta i termini della palingenesi e del rinnovamento in una dimensione metastorica. Martin Buber ha evidenziato tale paradosso da cui consegue il pessimismo della riflessione connessa al tema dell’apocalisse: «Non sussiste nella prospettiva apocalittica alcuna speranza di inversione di marcia del processo storico, che possa venire provocata dall’uomo, o su cui egli possa influire. […] Non esiste cioè un futuro storico in senso stretto. […] La fine della storia è vicina»11.

Per Buber la questione si pone solo nei seguenti termini: «Oso l’impossibile o mi adatto all’inevitabile?»12. Tali antinomie segnano la visione dell’apocalisse nella modernità letteraria, all’interno della quale essa si diffonde sin dalla seconda metà del XIX secolo, come dimostra l’opera di autori di natura diversa, quali Nietzsche, Dostojevskj, lo storico dell’arte Jacob Burckhard, e prima ancora Poe e Baudelaire, acutizzandosi negli anni che precedono la prima guerra mondiale. Ma, pur circoscrivendo l’ambito del dibattito e il periodo, la questione appare estremamente complessa e contraddittoria, dal momento che implica una interdisciplinarietà che sposta di continuo i termini stessi della riflessione: «Il tema dell’apocalisse, della fine del mondo, appare con vario significato e sfumatura nella filosofia, nella filosofia della storia, nella teologia, nella sociologia, nella poesia, nella narrativa, nel teatro, nella saggistica. Ma c’è da chiedersi se il fenomeno non sia molto più vasto 10 E. BLOCH, Das Prinzip Hoffnung, Berlin 1954-59. Per il dibattito critico sul nesso fra apocalisse e utopia nell’opera di Bloch si veda A. MÜNSTER, Utopie, Messianismus und Apokalypse im Frühwerk von Ernst Bloch, Frankfurt a.M. 1982. 11 M. BUBER, Prophetie und Apokalyptik, in ID., Werke, IV: Schriften zur Bibel, München-Heidelberg 1964, 925-942: 937. 12 Ibid., 928.


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Grazia Pulvirenti e cioè non concerna molte altre manifestazioni culturali come l’apocalisse figurativa della pittura e della scultura, l’apocalisse melodica della musica, la grande fortuna dell’inconscio, la teorizzazione freudiana dell’istinto di morte, il marxiano salto nel regno della libertà, il relativismo culturale, i millenarismi dei popoli coloniali in movimento, il terrore atomico, e infine certi sviluppi della scienza fisica come la legge dell’entropia, la relatività, il principio di indeterminazione, la crisi del principio di causalità. D’altra parte se tutti questi fenomeni sono fra di loro in un rapporto percepibile, c’è da chiedersi se tutti siano a loro volta in rapporto con il Weltuntergangserlebnis messo in luce dalla psicologia esistenzialistica»13.

In tale prospettiva tutti i fenomeni artistici della modernità appaiono come conseguenza ed espressione della consapevolezza apocalittica del tempo, seppur è ovvio che esperienze di profonda innovazione formale e artistica, come quelle primonovecentesche, generate dal mutamento dei paradigmi gnoseologici del Novecento, non siano interpretabili in toto come esito di un processo di distruzione. Tuttavia la mutata visione del mondo e dell’uomo da cui derivano è carica del sentimento della fine. Adottiamo allora un’ulteriore restrizione della prospettiva soffermandoci sulla declinazione poetica del tema: la percezione della fine si mescola con il motivo della rinascita e, in particolare, di quella particolarissima rinascita che ha luogo nella parola, come si evince da svariate liriche scritte nel periodo della prima guerra mondiale. Dopo gli annunci di metà secolo di Poe, che interpreta le manifestazioni moderne della «widest ruin» come prezzo per la «highest civilization»14, e di Baudelaire che scrive «Le monde va finir»15, il motivo della fine dei tempi riaffiora con virulenza in ambito tedesco e per la penna di scrittori di origine ebraica sullo scorcio della Grande Guerra, quando il motivo della fine di un’epoca di decadenza si salda con il tema della rivoluzione e della distruzione del passato. 13

E. DE MARTINO, La fine del mondo, cit., 493. E.A. POE, The Colloquy of Monos and Una (1841), in ID., The Complete Works of Edgar Allan Poe, a cura di J. Harrison, IV, New York 1902, 204. 15 C. BAUDELAIRE, Œvres complètes, Paris 1961, 1262. 14


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In queste liriche “dell’apocalisse” emergono due aspetti contraddittori: parecchi testi sono pervasi dal motivo della catarsi, dell’apocatastasi finale, del rinnovamento della storia e della rinascita dell’umanità in una nuova epoca di fratellanza: «Irrompe il nuovo mondo»16, scrive Walter Hasenclever, in sintonia con molti versi di Franz Werfel e Leonhard Frank, per citare solo pochi esempi. Altre volte prevale, soprattutto in relazione all’esperienza della Grande Guerra, il tema della distruzione senza speranza, come in una delle liriche più drammatiche del Novecento tedesco, Grodek, paradigmatico affresco dell’apocalisse bellica, scritta nel 1914 nell’ospedale di guarnigione a Cracovia, da Georg Trakl che, lì ricoverato per osservazione delle sue condizioni psichiche, vi avrebbe trascorso le ultime tre settimane di vita: «A sera risuonano i boschi d’autunno di armi mortali, i piani dorati e le acque d’azzurro più cupo vi rotola il sole; avvolge la notte guerrieri morenti, l’aspro lamento di bocche squarciate. Ma quieto nel bosco di salici s’addensano, nuvole rosse, in cui vive un dio irato, il sangue sparso, freddo lunare. Tutte le strade finiscono in nera putredine. Sotto i rami dorati della notte e le stelle scivola via l’ombra della sorella nel bosco silente, a salutare gli spettri degli eroi, le loro teste sanguinanti; piano risuonano fra le canne i flauti oscuri d’autunno. O lutto più fiero! Voi altari di bronzo la fiamma dello spirito oggi arde e alimenta un possente dolore i nipoti non nati»17. 16 W. HASENCLEVER, Antigone, in ID., Gedichte, Dramen, Prosa, a cura di K. Pinthus, Rheinbeck bei Hamburg 1963, 190. [«Die neue Welt bricht an»]. 17 G. TRAKL, Grodek, in ID., Sämtliche Werke und Briefwechsel. Innsbrucker Ausgabe. Historisch-kritische Ausgabe mit Faksimiles der handschriftlichen Texte Trakls, a cura di E. Sauermann – H. Zwerschina, 6 voll., Frankfurt a.M. 1995, vol. IV/2, Frankfurt a.M. 2000, 333 ss.; trad. it. Poesie, a cura di Grazia Pulvirenti, Venezia 1999,


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Composto dopo la battaglia di Grodek, cioè fra l’11 settembre e il 7 ottobre 1914, il testo, mirabile testamento poetico di Trakl, ricorda per l’ultima volta la bellezza della vita ormai negata dalla fine imminente, commemora i valori dello spirito, essi stessi destinati al sacrificio dell’estinzione giacché la fine di un’epoca coincide, in una visione dalle tinte apocalittiche, con la fine dei tempi, in una sconvolgente intuizione del nulla: i «nipoti non nati». Tale immagine, pur indicando probabilmente la generazione di coloro che sarebbero stati i discendenti dei caduti sul fronte, ovvero la generazione stessa dei combattenti — intendendo quindi il “non nato” come innocente, in quanto escluso dalla pienezza della vita che corrompe — assurgono a metafora del sacrificio vano dell’umanità e di tutti i suoi valori sugli altari della storia. In ritmi liberi, scanditi dal respiro di versi ad andamento metrico incostante e dalle tre pause di rilievo segnate dal punto, il poeta crea una intensa e cupa musicalità, in cui si spegne, con l’improvvisa frattura dell’ultimo verso, ogni voce, ogni suono, nel silenzio di un’apocalisse che fagocita la storia, l’uomo, ogni speranza di futuro. Sia nell’accezione di apocalisse come rinascita o, per contro, come fine senza futuro, la guerra viene subita come evento apocalittico, seppur di rigenerazione. Ricorrono catene metaforiche che alludono alla distruzione materiale, convergendo nell’immagine dell’esplosione, della frammentazione, della disarticolazione: «Il cielo rintuona, esplosioni di nuvole, un fulmine detona attraverso la notte e fa deflagrare il mondo in mille frantumi»18. 352. [«Am Abend tönen die herbstlichen Wälder / Von tödlichen Waffen, die goldnen Ebenen / Und blauen Seen, darüber die Sonne / Düstrer hinrollt; umfängt die Nacht / Sterbende Krieger, die wilde Klage / Ihrer zerbrochenen Münder. / Doch stille sammelt im Weidengrund / Rotes Gewölk, darin ein zürnender Gott wohnt / Das vergossne Blut sich, mondne Kühle; / Alle Straßen münden in schwarze Verwesung. / Unter goldnem Gezweig der Nacht und Sternen / Es schwankt der Schwester Schatten durch den schweigenden Hain, / Zu grüßen die Geister der Helden, die blutenden Häupter; / Und leise tönen im Rohr die dunkeln Flöten des Herbstes. / O stolzere Trauer! ihr ehernen Altäre / Die heiße Flamme des Geistes nährt heute ein gewaltiger Schmerz, / Die ungebornen Enkel.»]. 18 KLABUND, Gewitternacht, in ID., Die Himmelsleiter. Neue Gedichte, Berlin


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Sulle macerie della distruzione si leva l’urlo dell’uomo solo, l’uomo di Albert Ehrenstein, poeta di origini ebraiche che, nella raccolta, Der Mensch schreit [L’uomo urla] del 1916, guarda al motivo dell’apocatastasi attraverso la lente del dolore universale e della lotta combattuta da ogni singolo individuo per la sopravvivenza quotidiana. Ma per il futuro dell’uomo moderno, nell’epoca della morte e dell’autodistruzione, la «rote Zeit», il tempo rosso, come recita il titolo della terza raccolta di liriche apparsa nel 1917, non si profila alcuna possibilità di sopravvivenza. In realtà a reggere le sorti del mondo, forse solo per distruggerlo, è la personificazione dello spirito del male, un Ares impietoso e crudele che, ad uno sguardo attento, appare come la quintessenza della stessa malvagità umana. Da questo tragico corpus19 di liriche sulla guerra di Ehrenstein si delinea, nei termini di un linguaggio visionario e in una ossessiva figurazione di morte senza redenzione, il complesso di un mondo attanagliato da un male prodotto dalla forza di aggressione degli uomini, dalla storia della fine dei tempi [Tramonto dell’umanità, Campo di battaglia]. Allo spegnersi dell’urlo dell’uomo, il silenzio, un silenzio metafisico e apocalittico, cancella il suono delle parole, le parole di quel Lied che il poeta, come una mesta cicala, canta solo per se stesso [Il poeta e la guerra]. Ma nello spazio di un’impossibile speranza si profila il desiderio dell’utopia, un’utopia in cui poi confluirà il messaggio rivoluzionario e socialista maturato da Ehrenstein nelle

1916, 95. [«Der Himmel donnert, Wolke kracht, /Ein Blitz knallt nieder durch die Nacht / Und schmeißt die Welt in Scherben»]. 19 Si vedano le liriche della raccolta L’uomo urla: Der Kriegsgott [Il dio della guerra], Der Dichter und der Krieg [Il poeta e la guerra], Der Mensch schreit [L’uomo urla], Menschheitsdämmerung [Tramonto dell’umanità], Walstatt [Campo di battaglia], Frage [Interrogativo], Tod auf dem Schlachtfeld [Morte sul campo di battaglia], Dialog [Dialogo], Ende [Fine], Tataren sind wir alle [Tartari siamo tutti], Den Feinden [Ai nemici], Die Götter [Gli dèi], Entwandlung [Enantimorfosi] in A. EHRENSTEIN, Werke, a cura di H. Mittelmann, München 1989, Gedichte (1997), 93-111. Si veda pure la prima sezione della raccolta Il tempo rosso, intitolata Das sterbende Barbaropa [Barbaropa muore] (ibid., 115-150).


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poesie scritte fra il 1917 e il 192020 e annunciato dalla seguente invocazione: «quando fiorirà l’azzurro / oltre le nuvole di sangue?»21. Un caso particolare all’interno delle poesie belliche che abbiamo definito “dell’apocalisse” è rappresentato dalla scrittura dei poeti che presero parte alla guerra, e che vissero l’evento bellico come catastrofe epocale, spesso in toni di mesta e rassegnata disperazione. L’esperienza della Grande Guerra consumata sul fronte italiano da Franz Janowitz, praghese di origine ebraica, si riflette in alcuni testi scritti fra il 1915 e il 1917: una ventina di liriche, nelle quali il discorso poetico a volte viene affidato a un immaginario fiabesco, veicolo straniante dell’apocalisse storica, altre volte si muove fra squarci visionari, costruiti sulle asprezze di un linguaggio pietroso e con schegge di immagini ricomposte in figurazioni di pena: «Macerie fumanti nel sole […] solo ali di tenebra volavano sopra il mio capo in eterno e invocavano lutto quando maledissi il nuovo giorno»22.

Domina in questo gruppo di liriche una simbologia della pietra, cifra della fine dei tempi, dell’estinzione di ogni valore umano

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Si vedano i testi contenuti in quella raccolta di poesie, glosse, racconti grotteschi e saggi, animata da un nuovo messaggio Den ermördeten Brüdern [Ai fratelli assassinati]. 21 A. EHRENSTEIN, Frage, in ID., Werke, cit., 98. [«...wann blüht es blau / über Blutwolken dahin?»]. 22 F. JANOWITZ, Da ich war, wie ich einst werde, in ID., Auf der Erde und andere Dichtungen. Werke, Briefe, Dokumente, a cura di D. Sudhoff, Innsbruck 1992, 98. [«Die rauchende Trümmerstätte lag / In der Sonne - / Und nur die finsteren Flügel / Hinüber verlangender Trauer / Ewig über mir kreisten; / Da ich den morgenden Tag verfluchte»].


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nell’irrigidimento della morte: «[…] sotto la volta / di un sonno di pietra»23; «[…] di pietra è il suono di questo giorno»24. La pietra e il processo di pietrificazione sono immagine-chiave di una poetica della corruzione della purezza primigenia, nella quale coincidono due antitetiche realtà, la memoria delle smarrite origini e la terribile realtà della storia della fine dei tempi. In particolar modo nelle liriche di Janowitz tale tema affiora in una sorta di metafisica della parola, che rivendica la sua scaturigine da una più elevata regione di luce, rispetto alla quale le parole della storia sono testimonianza di un processo di corruzione e degrado: «Queste parole sono germogli di un paradiso lontano, divenute pietre quando le portai su questa nostra terra»25 [Der Glaube und die Kunst / La fede e l’arte]. Ecco che la parola-fiore priva di tempo diviene la parolapietra della realtà della storia: con la parola-pietra il poeta riesce a riprodurre il male del mondo, lo stravolgimento dei tempi, che, con toni sarcastici e dolorosamente ironici, attribuisce alle leggi demoniache che dominano il mondo, Das Reglement des Teufels [Il regolamento del demonio], come recita il titolo di una raccolta di aforismi del 1917. Il mondo della storia è il mondo del demonio, il mondo del male, un mondo di parole che non possono dire la storia, la vita, ma solo la fine dei tempi, l’apocalisse, fermandosi forse un attimo prima, nel non detto, nel non scritto, nel non-compiuto. Ecco che il silenzio si profila in alcune liriche di Auf der Erde [Su questa terra] come luogo primigenio in cui scaturisce la capacità di dire di un linguaggio che, nell’esperienza del superamento del limite, attinge la sua facoltà significativa, il suo potere ontologico di fondazione dell’esistente. Si tratta di un silenzio inteso come premessa per la ricerca, sul piano linguistico, di quel sogno di una «purezza primigenia» [«Reinheit des Ursprungs»] condiviso con Kraus, nella rielaborazione poetica della condizione della totalità perduta. Il 23

Ibid., 93. [«… unter der Wölbung / Steinernen Schlafes»]. Ibid, 105. [«… steinern hallt dieser Tag»]. 25 Ibid, 133. [«Diese Worte sind Blüten eines fernen Paradies, die zu Steinen wurden, da ich sie in unsere Sphäre trug»]. 24


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motivo che, in toni a volte carichi di pathos, lascia risuonare la nostalgia di uno stato di fusione con la natura, l’esclamazione a tratti ebra ed estatica del ricongiungimento con la madre terra, si alimenta del suo contrario, la percezione ossessiva e lacerante della frantumazione di una unità delle origini ormai distrutta, i cui frammenti affiorano nel segno poetico lacerato e alla deriva: «Non da sempre dura questa disgregazione e il volo disperato delle parole una volta era bene una volta era un tutto adesso solo frammenti, macerie»26.

Tale poetica del silenzio si ricollega a un altro dei temi fondamentali della lirica di Janowitz, il silenzio del divino, espressione del sentimento di abbandono cosmico e della perdita della condizione primigenia. Nella lirica Abschied vom Leser [Congedo dal lettore], tragico testamento poetico di Janowitz, si dipana, in un movimento circolare, quel percorso che, dalla dimensione della disgregazione e dell’apocalisse, conduce a una utopica rinascita, costruita nella precaria dimensione di un segno alla deriva nei tempi e nei luoghi della storia. La parola è lo spazio dell’apocatastasi per l’uomo che vive nella dimensione della morte, ma la sua consistenza è quella dei sogni, illusione d’un istante, traccia di un lento e inesorabile scomparire in uno smarrimento che è naufragio verso ignote regioni: «Con il tuo lamento saluta allora la morte e affida la tua parola alle stelle!» 27.

Il silenzio del divino come espressione del nulla della rivelazione ritorna, nel periodo postbellico, al centro del dibattito fra Scholem e Benjamin intorno a Kafka, come si evince anche da un 26

Ibid, 32. [«Nicht immer war dies dunkle Entzweit, / nicht der Worte verzweifelter Flug. / Einst war es gut, / einst war nur eins, / jetzt erst, Stück, gibt es Stücke!»]. 27 Ibid, 83. [«Klagend dann grüße den Tod / und knüpfe dein Wort an die Sterne!»].


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testo poetico dello stesso Scholem, del 1933, inviato a Benjamin, da cui estrapoliamo le seguenti strofe: «La tua parola può essersi spenta Nel vuoto di Sion – O non esser mai penetrata in questo regno di parvenze ? […] Solitaria la rivelazione s’irradia Nel tempo che ti ha cacciato. Solo del tuo nulla si può fare esperienza. Solitaria nella memoria affiora la dottrina che penetra la parvenza: l’inoppugnabile lascito del tribunale celato. Dal centro della distruzione balugina un raggio di luce, ma nulla indica la direzione che la legge ci impone»28.

In epoca moderna, l’apocalisse riappare nel suo senso primigenio di rivelazione e non può prescindere dalla realtà del nulla di Dio, la sola esperienza del divino concessa a questo nostro tragico tempo. Nel tempo della storia, la memoria della rivelazione è stata 28 Cit. in B. MAJ, Scrittura e teologia, in G. RUGGIERI (cur.), Io sono l’altro degli altri. L’ebraismo e il destino dell’Occidente, Firenze 2006, 73-117: 84-85. [«Kann dein Wort denn so verklungen / in der Leere Zions sein – / oder gar nicht eingedrungen / in dies Zauberreich aus Schein? // [...] // So allein strahlt Offenbarung / in die Zeit, die dich verwarf. / Nur dein Nichts ist die Erfahrung, / die sie von dir haben darf. / So allein tritt ins Gedächtnis / Lehre, die den Schein durchbricht: / das gewisseste Vermächtnis vom verborgenen Gericht. // [...] // Aus dem Zentrum der Vernichtung / bricht zu Zeiten wohl ein Strahl, / aber keiner weist die Richtung, / die uns das Gesetz befahl»].


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cancellata e riesce a riaffiorare solo come labile traccia, oscura parvenza nel regno delle ombre. L’apocalisse, nel senso tragico di declino, è prodotto dell’oblio, mentre il riscatto dell’uomo, nell’epoca della crisi, potrà avvenire solo in virtù di una riconquista della memoria. La memoria è il raggio che penetra nel regno delle parvenze e si manifesta nella parola poetica, ultimo luogo della rivelazione.


L’APOCALISSE ILAROTRAGICA DI GUIDO MORSELLI

ROSA MARIA MONASTRA*

Conscio della tua dignità e collocato pertanto su un piano intemporale, tu celebri, nel fumo della tua aromatica ustione interiore, tutti gli addii possibili, come già accaduti. Delibi la qualità teoretica dell’addio. (Giorgio Manganelli, Hilarotragoedia)

1. UN ROMANZO “AUTOBIOGRAFICO” È quasi impossibile leggere Dissipatio H.G. senza pensare a quella browning calibro 7 e 65 che a brevissima distanza di tempo avrebbe definitivamente chiuso i conti tra Morselli e l’esistenza. Non si tratta di cacciarne a forza l’ultimo romanzo entro il cono d’ombra di una scelta autodistruttiva che un differente configurarsi di circostanze avrebbe forse potuto rinviare o addirittura evitare; si tratta piuttosto di attraversare il testo fino alle sue implicazioni inequivocabilmente drammatiche, fino al fondo di oscura pena che la deminutio ironica del discorso mira a dissimulare. Diciamo che quand’anche quel fatidico 31 luglio 1973, al rientro dalla sua vacanza a Macugnaga, lo scrittore avesse trovato più confortanti risposte dagli editori e quindi una sufficiente spinta ad andare avanti1, non per questo l’opera avrebbe potuto dare un’impressione diversa, di promettente vitalità * Docente di Letteratura italiana presso la Facoltà di Lingue dell’Università degli Studi di Catania. 1 E invece, com’è noto, trovò due lettere di rifiuto. Sulla sfortuna editoriale del romanziere molte informazioni si possono trovare in V. FORTICHIARI, Introduzione, in G. MORSELLI, Romanzi, I, Milano 2002, XXXIX ss.


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anziché di tanatofilia. Insomma, anche a volerci conformare a un’ipotesi controfattuale (niente suicidio), avvertiremmo comunque in queste pagine un’atmosfera di stanchezza e rinuncia, di inappartenenza: come di chi guardi al mondo da «un’orbita di parcheggio»2. Sapere che il grilletto accarezzato dal protagonista della fictio3 è stato poi premuto a fondo dall’autore fornisce solo la conferma empirica (ma quanto turbatrice e terribile!) di un itinerarium in mortem già idealmente pervenuto a maturazione. A guardar bene, infatti, una strategia d’addio, di congedo dalla vita, Morselli l’aveva avviata da molto tempo: perlomeno da quel Capitolo breve che, negando la possibilità stessa del suicidio come atto di libertà, faceva, dell’uccidersi, quasi un esito naturale, uno sbocco legittimo alla sofferenza, giustificabile perfino attraverso la Bibbia («Meglio la morte che una vita amara, / e il riposo eterno che un continuo dolore», recitano i due versetti dell’Ecclesiasticus, 30, 17-18, scelti — e forse tradotti — dallo stesso Morselli ad accompagnamento del saggio)4. Già altri ha collazionato i frequenti luoghi della produzione morselliana in cui — marginalmente o centralmente — si pone il tema del suicidio; né sono passati inosservati i precoci segnali di una sindrome da disfatta affioranti in pagine private di fine anni ’505. Al di 2 G. MORSELLI, Dissipatio H.G., Milano 2006 [1977], 144. In attesa del secondo volume dei Romanzi, dobbiamo rifarci a quest’edizione, sebbene lasci abbastanza a desiderare (in generale, sui criteri editoriali del Morselli postumo, cfr. quanto segnalava D. VITTOZ, Guido Morselli: problemi di integrità editoriale, in Allegoria, 10 [1998] 28, 156-64). Per alcuni passaggi più complessi faremo riferimento alla documentazione conservata presso il Centro di ricerca della tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia (= CMP). 3 G. MORSELLI, Dissipatio H.G., cit., 28: «L’ho sollecitata col dito, una prima volta. Non abbastanza a fondo. E una seconda volta, sempre con la bocca sulla sua. Non la terza, perché d’un tratto l’ombra mi ha avvolto. E la quiete». (Ma, come vedremo, l’«ombra» e la «quiete» potrebbero anche alludere a un effettivo passaggio al regno dei morti). 4 Cfr. ID., La felicità non è un lusso, a cura di V. Fortichiari, Milano 1994, 159. Gli stessi versetti furono trascritti da Morselli nei suoi quaderni in data 25 agosto 1956 (ID., Diario, pref. di G. Pontiggia, testo e note a cura di V. Fortichiari, Milano 1988, 169). 5 Cfr. soprattutto V. FORTICHIARI, Il suicidio in Guido Morselli, in Guido Morselli dieci anni dopo (1973-1983), Gavirate 1984, 91-99 (poi in calce a G. MORSELLI,


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là degli aspetti psicologici particolari di cui tali occorrenze possono essere sintomo, e al di là delle connesse vicissitudini sulle quali a tutt’oggi sappiamo pochissimo, quel che conta maggiormente, dal nostro punto di vista, è l’evidente delinearsi di due momenti specifici di crisi, affrontati dallo scrittore con modalità che purtroppo non sarebbero state per lui davvero risolutive: anzitutto l’esperienza della guerra, vissuta in Calabria da ufficiale e poi, dopo l’8 settembre, involontariamente da imboscato, sotto il segno di una delusione storica che avrebbe comportato per sempre una netta diffidenza nei confronti di tutte le ideologie, e con essa una crescente solitudine intellettuale6; quindi, fin verso la metà degli anni ’50, il tentativo di comporre “fede” e “critica” in maniera da dare una risposta all’angoscioso problema del male, un tentativo però effettuato in termini di radicale antitesi (Dio come l’assolutamente altro rispetto ai concetti umani di bontà e giustizia) e pertanto votato a una rapido collasso, con ferite che non si sarebbero più sanate7. Per alcuni aspetti indubbiamente conservatore, per altri invece fortemente innovatore, comunque scevro da conformismi e pregiudizi, Morselli si offre al nostro giudizio con grande pudore e insieme con estrema audacia, consapevole delle proprie contraddizioni, dei propri conflitti e deciso a guardarci dentro. Uno scrittore “autobiografico” in certo senso8, nella direzione da lui stesso indicata sin dal libro giovaIl suicidio e Capitolo breve sul suicidio, Pistoia 2004, 23-29); EAD., Introduzione a G. MORSELLI, Romanzi, I, cit., XXXIV ss. 6 Su queste vicende si veda quanto scrive D. VITTOZ, Mourir avant le 8 septembre 1943, in Novecento 21 (1998) 129-42. È un fatto che da giovane Morselli aveva condiviso certe posizioni del regime: cfr. ancora, della VITTOZ, Guido Morselli: premières armes de journaliste dans «Libro e Moschetto», in Revue des études italiennes 31 (1985) 1-4, 116-26. Per una ricostruzione complessiva: EAD., Contribution à l’étude de l’après-fascisme: idéologie et engagement chez Guido Morselli, in Novecento 18 (1994) 131-76. 7 Com’è noto, Morselli aveva progettato addirittura una trilogia teologica, Fede e critica, di cui postuma è stata pubblicata la seconda parte, che reca il medesimo titolo (Milano 1977). Come ha osservato S. COSTA (Guido Morselli, Firenze 1981, 28), la denominazione Fede e critica potrebbe essere ispirata a Ragione e fede di Piero Martinetti. 8 Non è questa la sede per un approfondimento di quest’aspetto, che andrebbe


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nile su Proust: dove per autobiografismo si intendeva non registrazione diretta di eventi, corrispondenza con luoghi e persone reali, bensì creazione di un mondo saturo di esperienza personale. La Recherche, diceva allora Morselli, «ci attesta che sensazioni, sentimenti, prima di essere annotati si sono impressi nell’animo e nella carne» dello stesso Proust9; e d’altra parte osservava come, innalzandosi a «raffinatissima psicologia», l’incandescente materia intima vi si raggelasse quasi in figurazioni allegoriche10. E ancora: «L’opera d’arte è per l’artista strumento di una particolare forma di conoscenza, la sola che rivelandogli l’essenza della sua vita profonda, gli faccia toccare la vera realtà, la realtà qual è per lui. Quindi è anche il solo mezzo col quale gli uomini possano comunicare fra loro, ciascuno di noi avendo una propria visione delle cose, non esprimibile, e perciò non comunicabile, con l’usuale linguaggio logico»11.

Ecco, a suo modo anche la narrativa e la stessa saggistica di Morselli si muovono lungo una simile filigrana, proiettando le schegge di vissuto e le inquietudini dell’anima su uno schermo neutro, distante, in cui tutto acquista autosufficienza artistico-speculativa senza nulla perdere delle motivazioni private. Certo, col passare del tempo si minutamente indagato. Un buon avvio si può trovare in D. VITTOZ, Guido Morselli e la figura dell’autore, in Autografo 14 (1998) 37, 23-48. 9 G. MORSELLI, Proust o del sentimento [Milano 1943], a cura di M. Piazza, note al testo di M. Francioni, Torino 2007, 95. 10 Cfr. ibid., 214: «Notevoli certe rispondenze e attività che si riscontrano tra l’ingenuo mondo del Roman de la Rose e quello evolutissimo di Proust. Nell’uno e nell’altro dominano Convoitise Tristesse Jalousie: le quali, se nella Recherche non compaiono come astratte personificazioni, in quanto temi o “motivi” prevalenti vi assumono però un tal rilievo, da divenire elementi rappresentativi altrettanto essenziali che i personaggi concreti. La raffinatissima psicologia di Proust non esclude del resto la fissazione in tipi, secondo il vecchissimo procedimento, di tendenze e atteggiamenti, come appare da alcune delle figure che si muovono intorno a Marcello. Saint-Loup, Mme de Guermantes, Françoise hanno nella vita di lui una funzione precisa dalla quale pur nella varietà del loro comportamento non si discostano mai e che finisce con fare di essi dei caratteri, non radicalmente dissimili da Ami, da BelAccueil, da Raison, dell’allegoria medioevale». 11 Ibid., 85.


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direbbe che il percorso del nostro scrittore seguisse strade sempre più estranee alla Recherche; eppure che quella sintesi magistrale di soggettivismo e studio analitico abbia continuato a suggestionarlo è testimoniato proprio da Dissipatio H.G., dove il cenno — apparentemente dispregiativo — al «tremulo Marcel Proust»12 vale in effetti come conferma di un modello, e sia pure ora nei termini stravolti di un pungente, sliricato disincanto. Ai fini di una lettura di Dissipatio in chiave “autobiografica” non è senza interesse il fatto che l’autore, se per un verso marca vistosamente l’alterità del suo personaggio, per l’altro invece dissemina nel romanzo indizi che inducono a sospettare un’identificazione: gli dà infatti un fisico e un’estrazione sociale diametralmente opposti ai propri, ma lo assimila a sé attraverso tanti dettagli (la già menzionata browning 7 e 65, e poi i ghiri rumorosi, l’incombente autostrada, la polemica contro un giornalismo autoreferenziale…). Soprattutto è significativo che ne faccia un intellettuale deluso, e gli attribuisca (o gli accosti senza darlo a vedere) titoli che lui stesso ha pensato in proprio: Psicologia del conscio, Sassi in piccionaia, Brave borghesi. (Addirittura nei materiali preparatori questa strategia sfociava in un doppione metaletterario, in quanto al protagonista veniva attribuita la pubblicazione di un racconto intitolato appunto Dissipatio humani generis)13. Potremmo dire che, eclissandosi dietro un personaggionarratore assolutamente solo sulla scena, Morselli ha avuto modo di potenziare al massimo l’ambiguità insita nella sua vocazione a intrecciare scrittura dell’io, gusto inventivo e riflessione: un po’ uomo del sottosuolo e un po’ snob, «fobantropo» e bisognoso di contatti umani, nevrotico e loico, il protagonista del romanzo infatti ha tutta l’aria di essere stato concepito dall’autore davanti allo specchio. Ma non dobbiamo dimenticare che si tratta di un autore disposto anche a farsi 12

ID., Dissipatio H.G., cit., 68. Significativamente a Proust viene accomunato il «belante Frédéric Amiel», altro scrittore amatissimo da Morselli, nella cui biblioteca troviamo un’edizione in due volumi del Journal intime ampiamente sottolineati e chiosati: cfr. Il fondo Morselli, catalogo a cura della Biblioteca Civica di Varese, S. Vittore Olona 1984, 14. 13 CMP, Fondo Morselli, DHG, 1, 7. E cfr. S. D’ARIENZO, Il cantiere della «Dissipatio H.G.»: ipotesi di lettura degli appunti preparatorî, in Autografo 14 (1998) 37, 9-21.


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le boccacce pur di non cadere nell’effusività narcisistica del confessionalismo romantico-decadente.

2. UNA STORIA “STRAVAGANTE” A prima vista, Dissipatio H.G. sembrerebbe da situare nell’ambito della narrativa post-apocalittica: in realtà, come abbiamo già ventilato e come cercheremo di mostrare meglio in seguito, si tratta di ben altro. Del resto, tra professione di modestia e canzonatoria supponenza, il romanzo non manca di avvertircene: «Non ho velleità di scienza; nemmeno, lo noto a mio onore, di fantascienza. Non ho pensato a un genicidio a mezzo di raggi-della-morte, a epidemie sparse sulla Terra da Venusicoli malvagi, a nubi nucleari da remote esplosioni»14.

La parodia del filone catastrofico emerge anche sul piano dell’organizzazione narrativa. Laddove infatti in quel tipo di romanzi solitamente si fa ricorso all’espediente della relazione o del diario, la cui fruizione viene resa plausibile più o meno macchinosamente (e si pensi soprattutto a The Purple Cloud di Shiel, nei cui confronti per certi versi il romanzo di Morselli parrebbe debitore), in Dissipatio il problema della verosimiglianza è esplicitamente accantonato e addirittura ridicolizzato. L’idea di mettere per iscritto la propria avventura risulta sciocca prima ancora di aver prodotto qualche riga: «Trovo in un cassetto, nel mio chalet, un quadernino, incominciato una decina di giorni fa, col titolo: “Io, e un’ipotesi stravagante”. L’ipotesi stravagante è, si capisce, la situazione in cui io vivo dopo il 2 giugno. Ho fatto bene a non andare più in là del titolo. Non perché “scrivere sia sempre un falsificare” come proprio io scrivevo

14

G. MORSELLI, Dissipatio H.G., cit., 58.


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quand’ero giovane. Ma perché avrei scritto, stavolta, senza avere niente da scrivere»15.

Vero è che più avanti troveremo il protagonista concentratissimo nel registrare quel che gli accade, e poi addirittura alle prese con una portatile: ma pur sempre arroccato nella propria solitudine («A chi destino, io, questo? A Karpinsky? Non mi pare. Mi pare che se penso, osservo, ecc., lo faccio, e sono ben contento di farlo, soltanto per me. Io sono il destinatario, non il provvisorio consegnatario»), senza alcun progetto di comunicazione («In quale bottiglia-a-mare infilerò i miei dattiloscritti, a quali onde li affiderò. Non mi sono posto la domanda»)16. Nessuna volontà di testimonianza, dunque. Piuttosto una sorta di monologo per il quale, se non si può sperare in un interlocutore, né umano né divino, vale comunque l’intenzione di recuperare dal passato un orecchio attento e affettuoso. Non il futuro — apocalitticamente — si dischiude all’intenzionalità di questo romanzo, bensì — proustianamente — un brandello di tempo perduto. Prima di affrontare quest’aspetto essenziale di Dissipatio, tuttavia, sarà bene vedere con quali tecniche e sotterfugi Morselli abbia sviluppato la sua «ipotesi stravagante». Come osservava Manganelli in una sua densa, partecipe recensione, siamo infatti di fronte a un «astratto e lucido gioco intellettuale, un gioco mortale e tuttavia capace di una intima grazia, oserei dire letizia»17: una sorta di ingegnoso e inquietante rebus, disegnato con leggerezza su un abisso di infelicità. La vicenda si svolge tra una città ironicamente ribattezzata Crisopoli e i suoi alpestri dintorni. Concordemente la critica vi ha scorto un travestimento della Svizzera: in particolare in Crisopoli ha riconosciuto Zurigo. A un esame più attento, però, accanto alle connotazioni indubbiamente elvetiche, ne emergono altre, austriache, tedesche, e soprattutto lombarde: Widmad somiglia per certi versi a 15

Ibid., 71. Ibid., 73 e 133. 17 G. MANGANELLI, Nel gioco di Morselli solo la morte è viva, in Tuttolibri (supplem. n. 72 di La Stampa), 26 marzo 1977, 6. 16


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Gavirate, e Crisopoli potrebbe anche essere Milano18. Insomma, i nomi di fantasia non sembrano tanto rivolti a mascherare una realtà geografica determinata, quanto piuttosto dettati da un intento di polivalenza in relazione ai luoghi della propria vita (e vien fatto di pensare nuovamente a Proust, a quanto lo stesso Morselli osservava intorno alla topografia “concentrata” della Recherche)19. Ancor più infide si rivelano le indicazioni cronologiche. Alcuni passaggi sembrerebbero condurre al trentesimo secolo: si dice infatti che «un millennio» prima in un certo caffé di Crisopoli si erano seduti Trotzky e Lenin; poi si parla del 1919 come di un tempo «remoto»20. Ci sono però buoni motivi per credere che si tratti di un avvenirismo solo apparente, giacché non solo manca in Dissipatio qualsiasi invenzione ipertecnologica, ma più in generale sappiamo quanto Morselli detestasse le «solite prospezioni immaginose del futuro»21. Il «millennio» insomma potrebbe anche leggersi come una dilatazione 18 Forse è stato solo in corso d’opera che Morselli ha pensato di sovradeterminare l’atmosfera, inserendo altri elementi allusivi e sfumando quelli più specificamente svizzeri. Un indizio in tal senso potrebbe essere costituito dai cambiamenti apportati al toponimo principale: prima Sankt Wilmar, poi Wilmad, infine Widmad (cfr. CMP, Fondo Morselli, DHG, 1, 20). 19 G. MORSELLI, Proust o del sentimento, cit., 97: «Chiese e chiesette sparse intorno a Illiers, nella bella e nobile terra della Beauce, frequentate da Proust bambino al tempo delle vacanze, si son congiunte, ciascuna con il suo ricordo, a formare la chiesa di Combray: la quale non solo è realtà ma è una concentrazione di realtà sentimentale. Il palace e il lungomare di Balbec, il trenino “d’intérêt local” (il “tortillard”) risultano da una concentrazione analoga. Inutile cercare nelle carte topografiche il “côté” di Guermantes e quello di Méséglise, la Vivonne e i campanili di Martinville. Quei luoghi — siamone pur certi — non sono inventati, sono quelli dell’infanzia di Proust ed esistono in qualche parte dell’Îlede-France: soltanto, strade e case, piante e prode e fiorite siepi, sono nel libro di Proust riunite e disposte secondo un ordine dedotto dal sentimento, a configurare un paesaggio reale e ideale insieme, sfondo e occasione al racconto di una vita che Proust sentiva soprattutto come svolgimento spirituale». 20

ID., Dissipatio H.G., cit., 12 e 30. ID., Contro-passato prossimo, Milano 2008 [1975], 119. È vero che con Roma senza papa il nostro scrittore si era un po’ spinto in avanti: ma solo fin verso la fine del Novecento, e con l’intenzione non di fantasticare liberamente, bensì di portare a una fase ulteriore certe tendenze del dibattito contemporaneo, e vederne le conse21


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“sentimentale”, iperbolica (quanto doveva sembrare lontana, già nei primi anni ’70, la Grande Guerra!). Ovvero è assai probabile che il nostro scrittore, mentre per un verso ammicca alle cronologie differite tipiche della letteratura apocalittica e post-apocalittica, per l’altro invece voglia definire un bilancio del tutto attuale. Questa impostazione a trompe-l’oeil non concerne soltanto le coordinate spazio-temporali ma investe l’intera forma del racconto: tra citazioni false e riferimenti occulti, suggestioni ora confermate e ora invece smentite, affermazioni e negazioni parimenti sospette, il lettore si trova continuamente spiazzato, e deve più volte tornare sui propri passi per venirne in qualche modo a capo e cogliere, dietro il divertimento letterario, l’amara linfa che lo nutre. Quando l’azione comincia, l’Evento — la scomparsa dell’umanità — si è già verificato da due settimane. A ritroso, il personaggionarrante, l’unico sopravvissuto (almeno così parrebbe), ci racconta come abbia trascorso quella fatidica notte, tra 1 e 2 giugno. Essendo la vigilia del suo quarantesimo compleanno, aveva deciso di suicidarsi, appunto per non compiere i quarant’anni (ed è quasi superfluo rimarcare il significato simbolico di questa cifra, tempo biblico dell’attesa ed età canonica della conversione, della mutatio vitae: basti ricordare che il pianificatore Saverio di Uomini e amori stabiliva di sposarsi proprio «al compiersi del quarantesimo anno»)22. La morte sarebbe dovuta avvenire per acqua, in un lago nascosto dentro una caverna, il lago della Solitudine (designazione di per sé trasparente, ma ancora più significativa quando nel suddetto lago si scorga una concrezione allegorica di «quello che Proust chiama “le lac interne” o “le lac inconnu”, dell’animo»)23. Quali le ragioni di una così drastica decisione? Ragioni futili, parrebbe: lo «schifo» per essere caduto «nel racket della “diagnosi precoce”», il timore di perdere la propria tranquillità a causa della nuova autostrada. Eppure è proprio in questa futilità il risvolto guenze (si veda in proposito C. SEGRE, Guido Morselli e i mondi alternativi, in Guido Morselli dieci anni dopo, cit., 19-30). 22 G. MORSELLI, Romanzi, I, cit., 5. 23 ID., Proust o del sentimento, cit., 80.


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“tragico” di una cronaca che si presenta con tono “ilare”: quando vivere non ha senso perché non c’è un rapporto positivo con gli altri uomini né tra gli uomini e la natura, neanche il morire può avanzare pretese; anzi diventa irrilevante che ci si ammazzi o meno. Nessuna meraviglia dunque che sul più bello il nostro personaggio abbia cambiato idea. Nel tornare indietro, però, dava «una capata» contro la roccia, e proprio nello stesso istante ecco «un fragore di tuono»24: al momento la spiegazione è la più ovvia e banale («Il primo temporale della stagione»), ma più avanti i molteplici riferimenti alla cantata N°60 di Bach (O Ewigkeit, du Donnerwort) faranno lievitare ben altre implicazioni, in un groviglio di dolorose risonanze (Es ist genug) e di scettico dileggio (l’eternità «è scarsa di aspetti arcani, non risuona con parole di tuono, come s’immaginava Bach»). A casa, a letto, altro impulso suicida, stavolta, come sappiamo, con la browning 7 e 65: di nuovo sembra che non se ne sia fatto nulla, ma in seguito emergerà qualche dubbio (il sangue sul cuscino proveniva davvero dalla contusione alla testa o non piuttosto da un proiettile andato a segno?). Si susseguono intanto le indicazioni numeriche allusivamente attestate soprattutto sull’1, il 2 e il 3 (non solo la notte tra 1 e 2 giugno, alle 2 e zero minuti, ma anche la progressione «a coppie» o meglio «a terne» di visite specialistiche/radiografie/analisi cliniche, 333 un Amico nella Notte, 11 l’Ora Esatta…), quasi una cabala personale per mettere tutto sul tappeto: monismi, dualismi, logiche ternarie25. Inizia la ricerca degli “altri”: dove sono andati? ci sarà ancora qualcuno da qualche parte, magari sottoterra, nelle miniere? Più si va avanti e più 24

Notiamo per inciso che la meticolosa cronometria presenta una smagliatura: se infatti il protagonista è uscito di casa «a mezzanotte e trenta» (p. 23), non può essersi trovato in riva al lago «alle 0 e 15» (p. 24). L’incongruenza deriva probabilmente dal fatto che in realtà la partenza dapprima era stata collocata da Morselli «alle 23 e 30» (CMP, Fondo Morselli, DHG, 17, 15): effettuata la correzione in «mezzanotte e trenta», lo scrittore deve aver dimenticato di intervenire consequenzialmente sulle successive indicazioni di orario. 25 Sotto questo profilo fa riflettere il fatto che in un primo momento Morselli abbia situato l’Evento apocalittico nella notte tra 2 e 3 giugno (CMP, Fondo Morselli, DHG, 17, 14): l’anticipazione di ventiquattr’ore si potrebbe spiegare infatti con l’idea che al compleanno del protagonista meglio si convenga il segno della dualità, dell’antagonismo, piuttosto che la luce della perfezione trinitaria.


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la narrazione si aggroviglia, al punto che risulta impossibile ordinarla lungo un coerente asse temporale: e non senza una ragione. Se Robinson, «da uomo moderno», era «sospeso tra due incredulità», l’incredulità nel vecchio senso organico e quella nel nuovo Ich-Zeit, e perciò si aggrappava alla “realtà” incidendo tacche in un palo, il protagonista di Dissipatio, suo estremo erede, rifugge ormai da tutti gli «scanditori artificiali», aspira piuttosto a recuperare «una dimensione effettiva»26: e quale forma questa può avere nella più completa solitudine, se non la forma di un diagramma frastagliato, in cui il prima e il poi siano sempre ribaltabili o sovrapponibili? A poco a poco dunque egli si rende conto di essere rimasto solo: sarà elezione o condanna, occasione salvifica o ribadita esclusione? Con la paura, il sollievo: al punto che, al colmo dell’euforia, egli improvvisa un derisorio «epicedio alle genti» («L’ideologia, oppio dei popoli, requiem; il consumismo, loro pane avvelenato, requiem»…), e quindi, con improvvisa (ma poco credibile) compunzione, innalza un simbolico cenotafio in memoria della sparita, insopportabile umanità: «Ci ho lavorato un paio di giorni: un furgoncino commerciale e una Mercedes coupé, formano la base del monumento, una ventina di televisori, tolti al Grande Emporio, il corpo. Sulle TV qualche apparecchio fotografico e di cinepresa, ceste di bottiglie di cocacola. In cima, all’altezza di tre metri circa da terra, un cartellone enorme che riempiva una vetrina all’Agenzia di Viaggi. Un Kodachrome di metri 3x2, con la famosa arena bianca delle Bahamas, e l’invito: «Voliamo laggiù — dove la vita è migliore». Un po’ sull’aria della canzone tahitiana: Native Gods are calling, To them we belong»27.

E ancora lo sgomento, un lento lasciarsi andare, una “dissipazione” di giorni innumerati. Affiora dalla memoria l’immagine dell’unico uomo buono, animato da vera pietà, che il nostro abbia conosciuto: un ebreo polacco, medico dell’anima, Karpinsky. Costui è morto da tempo, nel vano tentativo di dirimere una rissa, ma può tornare: anzi il romanzo si chiude affermandone l’immancabile 26 27

ID., Dissipatio H.G., cit., 92-93. Ibid., 54 e 69-70.


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parusia. Si tratta, evidentemente e indubitabilmente, di una figura Christi, non solo per l’iconografia cui fa riferimento, ma anche e soprattutto per quella mescolanza di humilitas e sublimitas che conferma in Morselli un attento lettore di Auerbach: «Non spero. Tuttavia, sono venuto a Crisopoli per vederlo (il mio primo incontro cosciente con lui), e sento che lo vedrò. Vero e presente. Ritto nel suo camice bianco, macchiato di sangue sul petto dove lo hanno colpito. A braccia aperte. Ma la testa china, come quando, nella mia camera, mi ascoltava, appoggiato alla finestra; e sotto il camice spunteranno i calzoni sgualciti. Non parlerà. Inutile chiedergli, come gli chiedevo in clinica, “Mi terrete qui ancora? Non sono guarito?”. Perché lui non viene per rispondere a dubbi, per fare annunci. È il piccolo, semplice uomo di allora. Viene, semplicemente, a cercarmi, e è già in cammino. La mia è una certezza, non propriamente un’attesa, e mi libera da ogni impazienza»28.

Intanto, dal terriccio che ora comincia a ricoprire l’asfalto, «qualcosa verdeggia e cresce»: «il Mercato dei Mercati si cambierà in campagna». Si esprime, da tutto questo, una residua speranza di uscire dal cerchio della solitudine? Oppure (visto che sta scritto: «non spero») si tratta piuttosto di una funeraria «certezza», quella di un ricongiungimento nel nulla della morte? E «ranuncoli» e «cicoria in fiore» indicano un’apocatastasi, o non invece — come interpretava Manganelli — una vita leopardianamente «anonima e lieta di sé», finalmente liberata dai suoi devastanti inquilini/padroni?29 Per dare delle risposte, bisogna andare oltre la superficie testuale. E magari riflettere di più su alcune circostanze apparentemente marginali. A cominciare dal titolo.

28

Ibid., 154. Sul leopardismo di Morselli, in parte mediato attraverso Rensi, molte osservazioni interessanti si leggono in A. CORTELLESSA, «Es ist genug». Guido Morselli sull’estrema soglia, in La Scrittura (inverno 1996-97) 5-16. 29


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3. UN TITOLO CIFRATO Immaginiamo un lettore privo di informazioni sul romanzo che ha in mano: sulle prime sarà probabilmente incuriosito dallo strano titolo Dissipatio H.G., riguardo a cui non saprà cosa pensare. Poi pian piano, posto di fronte al tema del mondo senza gente, sarà in condizione di fare qualche congettura: ma dovrà arrivare a metà del libro per avere delle spiegazioni dal narratore. E che spiegazioni! Del tutto inattendibili: o meglio contaminate e ingarbugliate a bella posta, in modo da suggerire — ma solo ai più attenti e sospettosi — altre piste semantiche. A pagina 81 dell’edizione corrente, infatti, si parla di una Dissipatio Humani Generis, presentata come versione latina di un’opera di Giamblico. A quale Giamblico si fa riferimento, all’autore della Vita di Pitagora o a quello delle Storie babilonesi? Certamente al primo, come attesta il manoscritto, dove, accanto al nome, si legge: «il filosofo pitagoriano (plotiniano?)»: ma sotto una cancellatura, il che ci induce a inferire, in Morselli, una precisa volontà di confondere vieppiù il lettore togliendogli ogni pezza d’appoggio30. D’altra parte è vero che nessuno dei due Giamblico ha mai scritto nulla che abbia qualche nesso con la dissipatio morselliana: il termine stesso dissipatio, in chiave apocalittica, farebbe piuttosto pensare alla Bibbia (vedi Isaia, 24, 3: «dissipatione dissipabitur terra»). E difatti subito dopo da Giamblico si passa all’ebraismo, e dall’ebraismo a un Salviano da Treviri, che si dice «vissuto nel III o IV secolo» e autore di una lettera al suo vescovo De Fine Temporum. Anche questa seconda citazione tuttavia nasconde delle trappole. L’unico Salviano conosciuto è del V secolo, e sicuramente non era nato a Treviri («Certe Trevirensis non erat», si legge nella Patrologia latina di Migne), ma fu presbitero a Marsiglia (come Salvianus Massiliensis lo ricordava anche Montaigne nei suoi Essais, ben noti e cari a Morselli, II, 18). C’è di più: tra le epistole di Salviano nessuna porta il titolo De Fine Temporum, né in alcuna di esse si parla mai di

30

CMP, Fondo

Morselli, DHG, 17, 72.


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una futura sublimatio dell’umanità. Perché allora Morselli ha imbastito un simile pasticcio? Si può fare qualche supposizione sulla base delle carte autografe. Nelle prime redazioni non troviamo Salviano, ma «Priscilliano Gallo o Gallico»: quando Morselli, nell’ultima stesura, ha deciso di operare la sostituzione, ha scritto correttamente «Salviano di Marsiglia», e solo in terza battuta — dopo aver cassato con una sbarra orizzontale «Marsiglia» — ha inserito «Treviri»31. Tutto induce a ritenere che egli, sotto panni tardoantichi, abbia inteso satireggiare le principali ideologie contemporanee, e in questo quadro sia andato omogeneizzando via via i propri peregrini riferimenti: all’eretico e gnostico Priscilliano, suggerito probabilmente dalla graffiante riesumazione fattane dal Buñuel di La voie lactée, a un certo punto dunque ha fatto subentrare il buon Salviano di Marsiglia in quanto più credibile come «agiografo e apologeta», compassato autore di un’epistola De Fine Temporum; quindi, fermo restando Salviano, ha preferito la discussa opinione di una nascita a Treviri32 perché siffatta provenienza gli consentiva di alludere a Marx, ossia al grande protagonista del dibattito politico-culturale postbellico sul cui sfondo egli stesso — tra attrazione e polemica — aveva concepito i romanzi Incontro col comunista e Il comunista, nonché la commedia Marx. Rispedito a Treviri, insomma, Salviano poteva costituire una sorta di arguto e dotto senhal per indicare non solo la visione giudaicocristiana ma anche quella marxiana, visioni entrambe fondate su una temporalità lineare, con un’arché e un éschaton, ossia appunto una finis temporum33. 31

Ibid., 17, 11-12. Tanto il nome Salviano quanto la città di Treviri si trovano comunque nella biografia del gallego Priscilliano: Salviano infatti si chiamava un vescovo suo difensore, e a Treviri Priscilliano fu giustiziato. 33 Può darsi che a suggerire un tale titolo per la pseudoepistola di Priscilliano/Salviano abbia anche contribuito la nuova opera di Carl Orff, De temporum fine comoedia. Questa avrebbe esordito a Salisburgo qualche settimana dopo la morte di Morselli, nell’agosto del ’73, ma comunque se ne faceva un gran parlare già da diverso tempo (e Morselli, come avremo modo di vedere, non solo era un esperto in campo musicale, ma appunto a rinvii di tal fatta ha affidato il senso profondo, il segreto di Dissipatio). 32


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Immutati (o meglio, con ritocchi più che altro formali) rimanevano, sotto la nuova indicazione di paternità, i passi attribuiti prima a Priscilliano. Quanto alla collocazione cronologica, anziché scendere verso il secolo successivo (il V), Morselli sceglieva di risalire ancora un po’ più indietro (tra III e IV), forse per avvicinare Salviano a Giamblico. Ma allora il suddetto Giamblico a sua volta che cosa vorrà segnalare? Stando a De Ruggiero, fondamento certo della cultura filosofica di Morselli34, Giamblico, col suo neoplatonismo /neopitagorismo ad andamento ternario, può essere considerato il punto di partenza dell’idealismo. Vogliamo dire che Giamblico qui sta al posto dell’hegelismo? Sembra del tutto verosimile: la dialettica hegeliana è sempre stata la bestia nera di Morselli, convinto sostenitore di una tesi dualistica (ossia di un’opposizione Individualità vs. Esistenza per la quale non si darebbero superamenti ma solo una faticosa — e per nulla scontata — ricerca di equilibrio). In tale contesto può essere utile richiamare una pagina del 1969, in cui il nostro scrittore, dopo avere espresso forti riserve sull’idea di una «disastrosa apocalisse», provvedeva a differenziare le proprie posizioni da ogni ottimismo idealistico/evoluzionistico ipotizzando una parabola discendente, dall’uomo al rettile e ancora più giù: «L’umanità deve finire in una disastrosa apocalisse. Scienza e religione, e del resto anche gli ignari dell’una e dell’altra, concordano in questa previsione catastrofica. (Fanno eccezione soltanto i filosofi; il loro professionale ottimismo non si occupa che del progresso di questo ottimo fra i mondi possibili: non ammette di occuparsi della sua fine). Dunque scomparsa catastrofica e più o meno rapida e improvvisa, della nostra razza, vuoi per cause naturali, come ci si immaginava sino all’estate 1945, vuoi per cause artificiali, ossia prodotte dalla forza distruttiva scatenata dall’uomo stesso.

34

Di De Ruggiero Morselli possedeva, oltre a La filosofia contemporanea (con connessa appendice Filosofi del Novecento), il Sommario di storia della filosofia antica, medioevale e moderna, che risulta da lui riccamente postillato (cfr. Il fondo Morselli, cit., 91-92). E la Storia della filosofia laterziana è abbondantemente citata nel Diario.


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Rosa Maria Monastra Per conto mio, direi invece che l’uomo non è destinato a vedere la propria fine. Non precisamente che io condivida la tesi degli idealisti moderni (la razza umana eterna in quanto di fatto identificata con l’eterna Idea, con lo Spirito). Direi che la fine della nostra razza sarà registrata, a modo loro, dai nostri successori. Ossia dalle scimmie. O dai successori di queste, mammiferi inferiori. Perché (e è strano che nessuno ci abbia pensato, col chiacchierare che pur si è fatto di “ritorni”) l’evoluzione non è un processo ascendente all’infinito, non è un meccanismo che debba seguitare per sempre, a meno che non si ammetta, appunto, che percorra una parabola, nel senso matematico del termine. E che a un certo momento non volga “all’ingiù”. Non si trasformi in involuzione. È l’ipotesi più giudiziosa, come la più normale. [...] Un bel giorno, senza che nessuno se ne accorga, né abbia più voglia o attitudine per rifletterci e impressionarsene, ci rimetteremo a camminare a quattro zampe. Potrebbe essere il ritrovamento dell’età dell’oro. Poi scenderemo ancora, ci sorprenderemo (per modo di dire) a strisciare per terra: rettili. Il mare primordiale ci aspetta, o piuttosto i laghi o le paludi o le lagune, che nel frattempo si saranno redenti dalle nostre perfide polluzioni. Da ultimo, i protozoi, e le “macromolecole”. Qualcosa degli antichi istinti (umani) sornuoterà? È probabile o se non altro possibile [...]. Un nuovo Archaeopterix “à rebours”, che abbia doni pappagallacei, chissà che non scandisca nella selva natale due fatidiche sillabe: He-gel»35.

Dunque non ci sarà una «catastrofe finale» per l’umanità: in ciò hanno ragione gli idealisti, ma non ci sarà neppure la pseudoeternità che questi ultimi vorrebbero guadagnarle dissolvendola nello Spirito. Come si vede, sono le stesse osservazioni che in Dissipatio commentano il presunto scritto di Giamblico, di cui per un verso si apprezza la sobrietà («niente diluvio, niente olocausto “solvens saeclum in favilla”, assimilabile oggi a un’ecatombe atomica»), ma per l’altro si deride la pretesa di cambiare tutt’a un tratto la gente «in uno spray o gas impercettibile (e inoffensivo, probabilmente inodoro)» (lo Spirito, appunto!). Insomma, attraverso Giamblico e Salviano nel romanzo si ironizza su tutte le ideologie antropocentriche, volte a costruire un fine 35

G. MORSELLI, Diario, cit., 329-31.


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glorioso per l’umanità: si tratti dell’«evaporazione» idealistica o della «sublimazione» giudaico-cristiana (sublimazione celeste) e marxiana (sublimazione terrena). Avremo modo di tornare più avanti su alcuni aspetti di questa polemica. Qui vogliamo intanto concludere il discorso sul titolo. Dissipatio H.G. sta per Dissipatio Humani Generis, d’accordo: ma perché quel mezzo acronimo? Il gusto delle sigle bislacche, storiche o inventate, è molto forte nell’ultimo Morselli: ma in questo caso la scelta di ridurre alle iniziali la seconda parte di un sintagma appare davvero strana. Viene il sospetto che il mezzo acronimo sia anch’esso sovradeterminato: che non si riferisca cioè solo al “genere umano” ma anche a qualcos’altro. E a spingerci in questa direzione è il testo stesso, laddove, senza apparente motivo, mette in campo un’iniziale, “H”, l’iniziale di Henriette, l’ultima fiamma del protagonista-narrante: «Fingo di non accorgermi che in diciotto ore non ho avuto un compagno d’attesa, che il piazzale, i locali dove mi aggiro sono nell’abbandono, come i tavolini del bar su cui posa la polvere, spessa, e ci ho tracciato col dito, per il solito automatismo sciocco, tanti H, l’iniziale del nome della mia “ex”»36.

“H” come la terribile bomba? Solo per boutade: abbiamo visto che Morselli non paventava catastrofi nucleari. Piuttosto, “H.G.” come Henriette e Guido, la cui relazione si è “dissipata”, dissolta miserevolmente. Da sempre il tentativo di conciliare Individualità e Esistenza, soggettivismo e interazione sociale, è stato posto dal nostro scrittore a partire proprio dal rapporto uomo/donna. E nel romanzo il fallimento amoroso costituisce appunto la prima avvisaglia di un più vasto e irrimediabile échec.

36 ID., Dissipatio H.G., cit., 43-44. La scena in parte riprende quella di Divertimento 1889 (Milano 1975, 88) in cui Umberto I, vacanziere in incognito, scrive su un sasso una data («9-89») e un’iniziale («M»): è evidente però che mentre in Divertimento il gesto comporta dubbi, prospezioni e conseguenze, in Dissipatio siamo di fronte a un dettaglio insignificante sul piano dell’intreccio, tale dunque da esigere una diversa motivazione.


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4. AMORE, “CHARITAS”

E “SOCIALIDARIETÀ”

Nel saggio giovanile Realismo e fantasia Morselli aveva compiuto un grande sforzo teorico (e psicologico) per ricomporre in un quadro armonioso la propria visione conflittuale, le proprie convinzioni dualistiche. Anche la riflessione sull’amore vi aveva la sua parte. Premesso che il sentimento amoroso non comporta abnegazione bensì espansione dell’io, l’autore infatti ne traeva conseguenze comunque positive: l’«iificazione» compiuta dall’amante gli appariva in definitiva come un modo per giungere ad una «umana solidarietà e comprensione», qualcosa di affine alla mistica e in grado di bilanciarne le due opposte tendenze (esaltazione dell’individuo vs. smarrimento nella Totalità). Insomma un primo passo verso lo «zelo della charitas»: «[…] Codesta perfezione dell’amore può darsi in germe anche nel più terreno degli affetti, quello che lega l’uomo alla donna, e dico nello stesso atto carnale: il quale è fatto meramente fisiologico solo per l’ignaro che vede una dicotomia tra la “carne” e l’ “anima”, ed è un fenomeno che non trascende la comune sfera psichica solo per chi lo spirito restringa nei limiti di una psicologia grettamente sperimentale. L’amore, per cui talvolta l’uomo esalta la propria individualità sino a fare dell’oggetto l’alter ego, e cioè una proiezione del proprio io, e insieme la supera sino a confondersi, tramite l’amato, col Tutto, può riunire in sé gli elementi della duplice rivelazione mistica. […] L’amore non è solo uno smarrirci nella carnalità, come non è soltanto un’esaltazione orgogliosa, un’ebbrezza dell’io, quantunque sia stato identificato or con l’uno or con l’altro di questi suoi “valori”, specie dai romantici. Esso riunisce due estremi, e nasce da una duplicità di impulsi analoghi a quelli nel cui equilibrio consiste la charitas»37.

In realtà già allora probabilmente nel giovane saggista agiva la percezione di un insanabile dissidio, il timore che tale meta di «equilibrio» fosse solo un miraggio (come starebbe a indicare la scelta stessa del nome Sereno, nome all’apparenza senza ombre, ma in effetti 37

ID., Realismo e fantasia. Dialoghi, Milano 1947, 413.


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saturo di inquietudine in quanto ispirato al melanconico e attediato destinatario del De tranquillitate animi senechiano). Certo è che nel romanzo Uomini e amori, scritto più o meno nello stesso giro di anni, tra guerra e dopoguerra, ogni maniera di amare finisce in abbaglio e sbaglio: da una parte Vito Cambria, sensualmente abbandonato al ritmo dell’Esistenza, trascura e perde il meraviglioso dono di sé che gli offre Lucia; dall’altra Saverio Maggio, rigorosamente dedito alla costruzione etica della propria Individualità, vede a poco a poco allontanarsi la moglie Nene, che si sente meglio capita dal trepidante Vincenzo Canova. Dunque la pienezza dello scambio è negata a entrambi: Vito, prima di morire, trova un breve conforto in Marirò, selvatica figura di amante/madre che simbolicamente ne prepara l’imminente ritorno alla terra; Saverio, rimasto «solo, senz’altro aiuto che in sé stesso, e in quello dello Spirito», si rifugia nei suoi compiti di ufficiale medico. Buona parte dei romanzi successivi dà posto all’eros nelle sue molteplici varianti (ivi comprese quelle che solitamente vengono considerate perversioni), con un accanimento analitico che alla fine però può approdare solo alla vanificazione del suo oggetto. L’amourpassion infatti si assimila sempre più a qualsiasi altro desiderio, quale può essere quello che «ci lega a una casa, a un paesaggio, a un cavallo, ai nostri libri, ai nostri amici, ai nostri vizi»38. Quanto alla sessualità, le sue attrattive vanno scemando rapidamente: secondo Morselli la sua liberalizzazione ne annuncia il tramonto, essa tende a divenire semplicemente motivo di curiosità e di studio. Quanto più la materia si fa scabrosa, tanto più lo sguardo del narratore è ravvicinato, freddo e preciso, quasi da entomologo (e pensiamo ancora una volta all’ammirazione del giovane Morselli nei confronti di Proust, nella fattispecie per la «scientifica austerità» con cui l’autore della Recherche aveva rappresentato gli approcci tra omosessuali: vi è — scriveva egli allora, e potremmo trasferire l’osservazione a molte delle sue stesse pagine — «qualche cosa della involontaria liricità di certi capitoli di Fabre sugli usi e i costumi e gli accoppiamenti di coleotteri e imenotteri»)39. 38 39

ID., Diario, cit., 202. ID., Proust o del sentimento, cit., 191.


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A tratti l’atteggiamento dello scrittore appare addirittura beffardo, si direbbe che ai suoi occhi le strategie e manovre erotiche si riducano a una fenomenologia compulsiva. Da ultimo, nella primavera del ’73, egli avrebbe intrapreso il progetto di un nuovo romanzo, Uonna, con l’intento di cogliere il gioco quasi meccanico del possedere/essere posseduti, al di là di ogni differenziazione sessuale, anzi in un’ottica dichiaratamente post-sessuale. Per quanto è possibile giudicare da appunti e piani di lavoro40, parrebbe che Morselli volesse ancora una volta ironizzare su certe linee di tendenza prospettandole come paradossalmente realizzate: senza inutili moralismi e senza complici ambiguità, piuttosto convertendo in leggerezza narrativa la desertificazione dei sentimenti. Già in Dissipatio, peraltro, tale parabola appare sufficientemente delineata. Il protagonista infatti vi rievoca la prima e l’ultima partner, entrambe passate attraverso la sua vita sostanzialmente da estranee: la prima, Tuti, è colei che lo ha iniziato al sesso, senza però riuscire a farsi amare; l’ultima, la già menzionata Henriette, è figura dell’egocentrismo e dell’aridità contemporanei, una che si abbandona alla passione solo per potersene disfare al più presto (p. 64): «[…] lei mi confidava con candore, sul posto, che il desiderio che aveva avuto era in realtà il bisogno di “mettermi da parte”. Ci risi su, ma avevo torto, stavolta Henriette parlava bene e chiaro: l’aspirazione a possedere materialmente una cosa o una persona, nasconde, con qualche approssimazione, il nostro intento di liberarci di essa, di passare a altro».

Le ragioni di Henriette, insomma, sono purtroppo una verità: e non solo per il personaggio narrante di Dissipatio ma anche per l’autore, per lo stesso Morselli, il quale già nel ’61 nei suoi quaderni, in 40 In parte pubblicate da D. VITTOZ, «Uonna» (1973): de l’uni-sexualité à la postsexualité. Le dernier parcours utopique de Guido Morselli, in Franco-Italica (série contemporaine) 6 (1994) 109-36. Più in generale, cfr. E. BORSA, Il femminile e la femminilità, in Guido Morselli: i percorsi sommersi. Inediti, immagini, documenti, a cura di E. Borsa – S. D’Arienzo, Novara 1999, 55-75.


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margine alla Phénoménologie de la perception di Merleau-Ponty, aveva avanzato una tesi del genere, e sarebbe poi tornato a proporla appunto lavorando a Uonna41. L’antico vagheggiamento, sulle orme di Proust, di una creatura «à la fois opposée et complémentaire»42 si è concluso brutalmente con una serie di falsi contatti, che confermano separazione e chiusura. Il fatto allora che a un certo punto il protagonista del romanzo decida di indossare abiti femminili, come «il grande attore giapponese Omagàta»43, potrebbe anche alludere parodicamente all’androgino platonico: non ci è dato di trovare da nessuna parte quello che ci manca, ognuno è prigioniero di se stesso, della deforme totalità costituita dal suo stesso porsi come individuo. L’orientamento pessimistico non riguarda solo i rapporti uomo/donna ma investe l’intero campo delle relazioni umane. Se una volta Morselli aveva confidato in un’etica della partecipazione modellata sui Vangeli44, col tempo ha finito col separare le due cose, ritenendo più realistica ed efficace una solidarietà a base utilitaristica (o “socialidarietà”)45. E tuttavia una simile proposta, nonostante i tentativi di apprezzamento pragmatico, non poteva non risultare desolante nel confronto con la charitas. Basta leggere, in Roma senza papa, la discussione tra il buon don Costantini, rappresentante del «vecchio clero in sottana», e il giovane, modernissimo Cogan, «in gabardine nocciola», l’uno partigiano della carità («La carità è divina, e generosa»), l’altro della socialidarietà («La carità cristiana ha lasciato sussistere guerre, lotte di classe, eccetera, per venti secoli. La socialidarietà le sta

41

Cfr. G. MORSELLI, Diario, cit., 220; D. VITTOZ, «Uonna» (1973), cit., in Franco-Italica (série contemporaine) 3 (1994) 109. 42 Cfr. ID., Proust o del sentimento, cit., 170; Realismo e fantasia, cit., 275; Un dramma borghese, in Romanzi, I, cit., 671-72. 43 Ibid., 141. Secondo R. RINALDI (I romanzi a una dimensione di Guido Morselli, in Critica letteraria 91-92 [1996] 667-91, poi parzialmente rielaborato in Mors – Morselli, in Transalpina 5 [2001] 129-42), il narratore si traveste da donna «per indicare in sé l’ultimo rappresentante dell’umanità maschile e insieme femminile», mentre il riferimento all’attore giapponese rinvierebbe a L’empire des signes di Roland Barthes. 44 Cfr. G. MORSELLI, Realismo e fantasia, cit., 308 ss. 45 ID., Diario, cit., 266-68 e 351-52.


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abolendo»), per capire da quale parte battesse il cuore dell’autore46. E si vedano qui, in Dissipatio, le amare conclusioni del protagonista: «In altri tempi, prevedevo a breve scadenza una solidarietà necessaria fra gli uomini di ogni razza e residenza (la chiamavo “socialidarietà”, socio-solidarietà, remota dall’umanitarismo e dalla charitas), che il restringersi dello spazio avrebbe imposto al Pianeta dell’Economia, mettendo fine al vuoto sermoneggiare di amore e di pace su basi mistiche o giuridiche. Questo, molti anni fa, e sono stato debitamente deluso»47.

È appunto in tale contesto che la figura di Karpinsky acquista rilievo e valore. È in Karpinsky che ancora si avverte, quasi impercettibile ma sempre dolcissima, un’eco di quel Vangelo giovanneo che aveva profondamente suggestionato il nostro scrittore («Io rifletto» — aveva annotato una volta nei suoi quaderni, in data 26 dicembre 1959 — «che è stato un immediato seguace di Gesù, un essere ispirato da Gesù, quel Giovanni Evangelista che ha trovato, per definire Dio e i nostri rapporti con Dio, le più alte, le più soavi, le più persuasive parole che mai siano state dette: “Chi ama è nato da Dio, e conosce Dio. Chi non ama non conosce Dio; perché Dio è l’amore”»)48.

46

ID., Roma senza papa [Milano 1974], Milano 1981, 71-73. Questo il commento del personaggio narrante, don Walter: «In fondo io parteggiavo, io parteggio, per lui [= per don Costantini]. Lasciamo stare l’insegnamento evangelico. (Che però stavolta è preso di petto, “messo in crisi”, nei suoi princìpi più sacri. Altro che matrimonio monosessuale!). È la tracotanza, tecnologico-socio-economicistica, della tesi socialidaristica, che mi urta. Il suo colore acciaio al cromo-nikel. Quella sua inflessibilità, quello stile ideologico troppo netto. D’altra parte: come negare tre decenni di storia mondiale? I miei, i nostri, gli ultimi che abbiamo vissuto?». (Ma ricordiamoci che l’azione è ambientata appunto «tre decenni» più avanti, sicché i meriti “storici” del socialidarismo risultano in effetti del tutto immaginari o quantomeno ipotetici). 47 ID., Dissipatio H.G., 147. 48 ID., Diario, cit., 183.


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5. KARPINSKY Karpinsky dunque è un estremo riflesso del Cristo evangelico. Il finale del romanzo è chiarissimo in proposito: il fatto che non lo si possa trovare in nessuno dei luoghi del culto ebraico-cristiano, dalla sinagoga alla chiesa avventista, significa appunto che nessuna istituzione religiosa è in grado di perpetuarne l’autentico messaggio; il fatto poi che il protagonista sia comunque certo di doverlo rincontrare comporta il riconoscimento di una traccia interiore indelebile. Dei tratti che rinviano all’iconografia di Cristo — del Cristo in croce — abbiamo già detto: la testa reclinata, le braccia aperte, la macchia di sangue sul petto… Potremmo aggiungere la «barba castana […] bella, folta», come «una stimmata». D’altra parte certe connotazioni moderne (i «pantaloni sgualciti», la passione per le moto di grossa cilindrata e per le gauloises) fanno somigliare questo alter Christus a un qualche disadattato e randagio eroe del cinema, a metà strada tra i malinconici sconfitti di tanti film francesi, da Clouzot a Truffaut, e le grandi icone americane dell’insofferenza giovanile (vedi il Marlon Brando di The Wild One o il Peter Fonda di Easy Rider). Il fatto poi che Karpinsky sia introdotto nelle vesti di uno psicoanalista «eterodosso», disposto anche «a accantonare la P.A.», ci apre un’altra pista. Il rapporto di Morselli con la psicoanalisi, com’è noto, è stato un rapporto molto combattuto: per un verso di grande interesse, per l’altro di forte critica. Non sopportava, lui così preso dal bisogno di essere padrone di se stesso e di coltivare liberamente la propria razionalità, non sopportava — dicevamo — di dover soggiacere alla tirannia dell’inconscio, di doversi ammettere gestito da forze incontrollabili (da qui appunto l’idea polemica di una Psicologia del Conscio). E lo irritava enormemente la pretesa freudiana di ricondurre il disagio esistenziale, il male di vivere, a una faccenda di sessualità, alla Libido (e basti vedere, in proposito, la sarcastica conclusione di Contro-passato prossimo, in cui il povero Walter von Allmen deve subire la delirante diagnosi di Karl Abraham). Tuttavia lo sforzo compiuto dalla teoria psicoanalitica per comprendere la sofferenza, per curare il disagio, non poteva non attrarlo: dal suo punto di vista, allora, bisognava solo lasciarne cadere il sistema concettuale, il codice


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pseudoscientifico, e farne un atteggiamento morale, di disponibilità e sostegno — che è appunto quello che caratterizza il «dottorino» di Dissipatio. Già fin qui il lavoro di contaminazione compiuto da Morselli appare abbastanza singolare. Ma deve esserci ancora dell’altro: il nome stesso Karpinsky, infatti, così peregrino, sembra voler richiedere un supplemento di indagine. La matrice slava ha fatto pensare a Dostoevskij: e certo qualcosa dell’idiota Myskin abita nel personaggio di Morselli. Direi però che può esserci anche una filigrana di riferimenti fondata su una più precisa, letterale corrispondenza. Karpinsky, infatti, non è nome inventato: in età romantica troviamo un Franciszek Karpinsky (o Karpinskij o Karpinski), polacco, poeta idillico-religioso e traduttore dei Salmi, assai popolare nel suo paese; ai primi del Novecento, in Svizzera, un Vjačeslav Alekseevič Karpinsky, amico e sostenitore di Lenin, più tardi fucilato da Stalin. La Polonia e la Svizzera, e poi la sensibilità e la delicatezza, il coraggio di combattere per un mondo più giusto fino a doverne morire: ci sono, mescolati e trasfigurati, tutti gli ingredienti-base del personaggio morselliano. Quest’ultimo insomma per certi versi sembra nato in margine agli studi dello scrittore sulla storia del comunismo: studi non specialistici, ma ad ampio raggio, attenti alle pubblicazioni recenti (e tra queste c’era sicuramente la traduzione italiana delle opere di Lenin apparsa presso Editori Riuniti, comprendente tra l’altro diverse lettere a V.A. Karpinsky). Diciamo che del marxismo rivoluzionario, come del cristianesimo, il Karpinsky di Morselli intende mantenere l’originaria dedizione e purezza, lo spirito di giustizia: perciò lo troviamo accostato alla «più radicale» fazione anarchica, che «esigeva la rinuncia alla prole» («Se siete uomini, sterilizzatevi») e profetizzava l’uguaglianza sociale («Capitalisti, è finita!»)49. Questa sommatoria di riferimenti, sul comune denominatore della charitas, appare peraltro intenzionalmente immersa in un alone di nostalgia. Karpinsky — tutto ciò che Karpinsky rappresenta — può tornare solo nel soprassalto della memoria involontaria:

49

Ibid., 153.


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«Sentivo una voce, la sua. […] Nella visione o evocazione involontaria, o apparizione, sentivo ripetere quelle stesse parole. Ma era una voce viva. Non posso dire che avessi mai dimenticato i personaggi di Villa Verde: li ricordavo, a cominciare da Wanhoff, direttore eponimo, sino agli “ospiti”, fra cui Mylius: ora però ne scoprivo uno. Uno, che s’interiorizzava e si attualizzava. Riviveva come esperienza, fuori e lontano dalla memoria-cronaca»50.

Non c’è, nel protagonista (nell’autore?), nessuna voglia di ricominciare51: i nuovi inizi appartengono alla natura, non all’uomo disfatto dal dolore. Il piano “letterale” — la scomparsa dell’umanità — viene intercettato da un più complesso livello di discorso, filosoficoteologico e insieme personale: il mondo non è stato fatto per gli uomini, continuerà benissimo senza di loro; ma è proprio questo sapersi inessenziali, non toccati da alcun piano provvidenziale, che rende desiderabile la fine. Siamo al nodo ultimo della lunga riflessione di Morselli sulla questione del male: sulla questione di Dio.

6. DA GIOBBE A BERG Nel suo saggio su Proust, qui da noi già più volte citato, Morselli aveva definito la Recherche «un palazzo di Minosse, e per soprassello a più piani, in ciascuno dei quali un diverso filo di Arianna può essere il buono»52. Ecco: a qualcosa del genere somiglia — pur nella sua 50 Ibid., 62-63. Alla «memoria-cronaca» invece sembra appartenere la conversazione con Mylius (pp. 76-80). La distinzione tra i due tipi di memoria ha un’evidente matrice proustiana. 51 Significativa al riguardo la parodia del mito di Deucalione (p. 84): «Mi sento in dovere di riseminare (sì, riseminare) la specie, emblematicamente, col metodo di Deucalione. Il quale usò i sassolini che poi si trasformarono in esseri umani. Usando compresse di mepobramato, conto di propiziare una razza più calma, meno rissosa (di quella estinta)». 52 ID., Proust o del sentimento, cit., 134.


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ridotta misura — anche Dissipatio, per la cui decifrazione, come si è potuto vedere, occorre muoversi a differenti livelli. Un romanzo-labirinto, dunque: con al centro il suo terribile Minotauro. Ossia appunto il male (che per il nostro scrittore è essenzialmente la sofferenza, ad essa potendosi ricondurre anche il cosiddetto male morale). Unde malum? Fin da Realismo e fantasia Morselli aveva sostenuto con decisione — contro Agostino — che il male esiste: non è mero limite dell’essere, ma concreta realtà. E aveva citato il libro di Giobbe come testo principe donde si evince che la sua presenza, «in un universo creato da Dio, è mistero inscrutabile»53. Poi, in Fede e critica, era andato oltre, affermando che Dio può essere indulgente verso chi, come Giobbe, insorge, ma non verso chi, come Eliphaz, Sophar e Baldad, pretende di chiarire il mistero: può perdonare la ribellione, non una presuntuosa apologetica. Presto però questo tentativo di risolvere il problema si sarebbe rivelato insoddisfacente: se Dio è buono e giusto, cioè conoscibile, non può essere imperscrutabile; se è inconoscibile, come vuole la teologia negativa, allora saltano «la nozione di Provvidenza e quelle, connesse, di bontà e di giustizia»54. La presenza del male è uno scandalo non per l’ateo, ma per il credente: per quest’ultimo, «se ha coerenza, si tratta di mettere d’accordo la bontà di Dio con lo “stato di cose”»; «chi davvero non crede in Dio, non ha bisogno di “mettere d’accordo” un bel niente»55. Si ha l’impressione che il dramma di Morselli sia consistito appunto nel fatto che egli non è mai riuscito ad essere davvero ateo e ha continuato a reclamare presso Dio un appagamento al proprio desiderio di felicità. Di questo ci parlano tutte le sue opere: anche quando non lo danno tanto a vedere o addirittura ostentano sull’argomento un giocoso distacco. Così accade appunto in Dissipatio. Nell’unico passaggio in cui esplicitamente si fa riferimento alla questione del male, infatti, la

53 54 55

ID., Realismo e fantasia, cit., 416. ID., Diario, cit., 190 ss. Ibid., 319-20.


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cornice ironica potrebbe far pensare a una completa assenza di partecipazione intellettuale ed emotiva: «Potrei votarli al Nulla. Peggio assai, precipitarli anzitempo in quell’ordinatissimo Chaos che è l’entropia. Invece, sono ottimista. Lontane frequentazioni teologiche m’incoraggiano a un’ipotesi lusinghiera per loro. Sin troppo. La loro scomparsa si risolverebbe in gloria. Sarebbe a scopo rimunerativo. Che soffrissero, che siano vissuti in mezzo a guai di ogni genere, mi sembra certo. Kosmos olos en tòo poneròo kèitai, tutto il mondo giace nel male. “Male”non in senso morale, si capisce; il male morale comincia e finisce col moralismo, il solo male è la sofferenza. Un individuo che soffre, a cui manca quello che gli occorre per essere. Ma in questo senso ristretto e concreto, il male li assediava da ogni parte, a ogni istante, in ogni loro atto, e anche pensiero, visto che l’attesa della sofferenza, la paura, è perfetta sofferenza. Ci si sono macerati, purificati, remotissimi dal saperlo, dal volerlo. Erano maturi i tempi per la ricompensa, i diritti dell’ecologia umana sarebbero stati infine riconosciuti, reintegrati»56.

E invece un intenso pathos vibra anche in queste pagine: ma sottotraccia, condensato in una filigrana musicale. Abbiamo già detto dei molteplici richiami alla cantata N°60 di Bach: dobbiamo ora aggiungere, per cogliere appieno il senso di tale Leitmotiv, che essi confluiscono in una ripresa moderna, quella fattane da Alban Berg nel concerto per violino e orchestra To the Memory of an Angel. La cantata di Bach era costruita come un dialogo tra Furcht e Hoffnung: dissipata la paura dall’intervento di Cristo, il corale Es ist genung chiudeva esprimendo, con la stanchezza di vivere, anche la gioia di salire al cielo. Appunto questo corale è stato ripreso da Berg nel suo concerto, con effetti strabilianti di contaminazione tra dodecafonia e sistema tonale: «In iscatola, ho il vecchio Alban Berg, e l’ho riascoltato . Il concerto per violino, una struttura di suoni tenuta su con una serie di quinte 56

ID., Dissipatio H.G., cit., 66 (la citazione greca viene da Giovanni, Ep., I, 5, 20).


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perfette, che si alternano. La specialità è, che qui Berg veniva a patti con l’ancien-régime, ciò che a un conservatore come me non dispiace. Tre suoni successivi formano una triade maggiore, altri tre una triade minore, e così si apriva una breccia al ritorno della tonalità. I quattro suoni finali della serie sono elementi della scala di un tono. Nel movimento finale, Berg metteva in risalto i quattro suoni per introdurre (con le armonie originali quasi immutate) il corale “Es ist genug”, “Ora basta”, estratto dalla luttuosa cantata di Bach O Ewigkeit, du Donnerwort»57.

Quello che qui non ci si dice, ed è invece essenziale per il senso profondo del romanzo, è che il concerto in questione è stato composto da Berg in un’occasione tragica: la morte della giovanissima Manon, figlia di Walter Gropius e Alma Mahler. Perché Dio lascia soffrire e morire gli innocenti? Perché non si cura dei giusti? Erano questi gli interrogativi sottesi a una così complessa e insieme nitida organizzazione musicale: e sono appunto gli interrogativi senza risposta intorno a cui si addensa la sfuggente tematica di Dissipatio. Quando dunque Morselli avanza il dubbio che l’«ipotesi stravagante» del suo personaggio (ovvero sua propria) derivi da Bach/Berg, in effetti sta consegnandoci una chiave di lettura58. In relazione all’uso che ne ha fatto Berg, il corale di Bach assume un carattere «disperato»59: parla di un dolore senza giustificazione, di una stanchezza mortale. Modellando su di esso la vicenda, Morselli sostanzialmente ripropone l’antica ribellione di Giobbe, ma per stemperarla in una dimessa prosaicità che non è propriamente rassegnazione bensì (per dirla alla Manganelli) “delibazione teoretica dell’addio”. «Es ist genung; Herr, wenn es dir gefällt, so spanne mich doch aus! Mein Jesus kömmt; nun gute Nacht, o Welt! 57 58 59

Ibid., 72-73. Ibid., 73. Ibid., 107.


L’apocalisse ilarotragica di Guido Morselli

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Ich fahr ins Himmelsahus, ich fahre sicher hin mit Frieden, mein großer Jammer bleibt danieden. Es ist genung»60.

«Il mio Gesù viene», «buona notte, Mondo»: è evidente a questo punto che la parusia di Karpinsky ha una connotazione funeraria61. «Ora basta»: lo scarso gruzzolo di charitas che si è potuto racimolare, se non serve a sostenere la vita, è però un obolo sufficiente per disporsi a morire.

7. UNA POSTILLA SU MORSELLI E CALVINO È ben nota la vicenda di Il comunista, su cui Calvino — che fino ad allora si era mostrato interessato e disponibile — espresse un drastico non placet 62. Svaniva così assai dolorosamente per Morselli, insieme con la gratificante aspettativa di una pubblicazione prestigiosa, l’illusione di aver trovato un interlocutore d’eccezione. E tuttavia egli dovette continuare a guardare a Calvino come a un J.S. BACH, Neue Ausgabe Sämtlicher Werke, Serie I (Kantaten), Bd. 27, Kassel-Basel-Paris-London-New York 1968, 28. 61 In questa direzione, del resto, va anche qualche altro, più esplicito indizio. Per esempio (Dissipatio H.G., cit., 127) il fatto che il protagonista creda di udire da una cabina telefonica la voce del dottore pronunciare queste parole: «So che lei ha bisogno, io le verrò in aiuto. Spero che c’incontreremo presto, dove lei non ha potuto seguirmi» (il che, detto da un morto, si può interpretare solo come un’allusione ai falliti tentativi di suicidio compiuti dal personaggio narrante). Inoltre ci sembra significativo anche il fatto che si rovescino i termini dell’attesa rispetto al Godot di Beckett (p. 132): «“En attendant Karpinsky”? Giusto il contrario. È Karpinsky che aspetta me». 60

62 Tanto la lettera di Calvino quanto la risposta di Morselli si possono leggere nella citata introd. di V. FORTICHIARI a Romanzi, I, XLI-XLVIII. E cfr. anche I. CALVINO, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, introd. di C. Milanini, Milano 2000, 739-40 e 887-90. Su tutta la vicenda si veda A. BALDINI, Le ragioni dell’inattualità. «Il comunista» di Morselli e «La giornata di uno scrutatore di Calvino», in Allegoria 17 (2005) 50-51, 191-203.


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modello: anzi addirittura come a uno scrittore-specchio, qualcuno che per molti versi gli assomigliasse. Fatto sta che tra le carte di Dissipatio si trova un intrigante ritaglio di giornale: la recensione di Geno Pampaloni a Le città invisibili. Come mai è finito lì dentro? O meglio: data la meticolosità con cui Morselli allegava i materiali che riteneva utili a questo o quello dei suoi lavori63, per quali ragioni il “pezzo” di Pampaloni sul romanzo di Calvino gli è sembrato da inserire nella carpetta di Dissipatio? Basta stralciare i passaggi principali dell’articolo per rendersi conto della pertinenza che il nostro scrittore deve avervi avvertito rispetto a quello che egli stesso stava facendo: «Ogni città è come una carta cifrata, un nuovissimo tarocco; nelle parole che la evocano, l’improbabile si mescola con il realistico, il fantastico con l’allegorico, l’aforisma morale con lo struggente impossibile, la sensuale memoria con l’azzardo scintillante e niveo dell’assurdo. […] Si sa che gli scrittori del nostro secolo sono maestri di ambiguità: come se la ragione, oggi, vivesse di uno splendido crepuscolo, ove le idee e gli eventi tralucono, nella distanza, al tempo stesso cristallini e definitivamente misteriosi»64.

“Cristallino” e “misterioso” voleva essere appunto il Morselli di Dissipatio: a suo modo, naturalmente; e con intenzioni e implicazioni che — come si è visto — erano soltanto sue. Ma l’idea di un’affinità con Calvino era fondata: e noi oggi possiamo assumerla anche come un’indicazione di valore. 63 Tra i ritagli acclusi a Dissipatio c’è per esempio un articolo apparso su Oggi illustrato in cui si deridono gli “orrori” della Biennale. E si veda in Dissipatio, cit., 40, la sarcastica descrizione di una mostra d’arte altrettanto bislacca o addirittura becera. 64 G. PAMPALONI, Una favolosa cronistoria del Caos nel nuovo libro di Italo Calvino. Le città invisibili, in Corriere della sera, 26 novembre 1972. Ineludibile, per Pampaloni, il richiamo a Borges: quel Borges più volte menzionato anche dall’autore di Dissipatio con un interesse che rasenta l’emulazione (addirittura troviamo citato un passo dell’Apocalisse come proveniente da un’epigrafe scelta dallo scrittore argentino: il che non corrisponde a verità, e però esprime un gioco testuale schiettamente borgesiano).


L’ESCATOLOGIA DI H. I. MARROU

MAURIZIO ALIOTTA*

1. INTRODUZIONE 1.1. Nota biografica Henri Irenée Marrou nasce il 12 novembre 1904 a Marsiglia, dove compie i suoi studi primari e secondari, compreso il corso propedeutico all’Ecole Normale Supérieure. Qui orienta i suoi studi alla storia antica, sotto l’influenza di Jérôme Carcopino. Muore il 11 aprile 1977. La sua vita di studioso è scandita da alcune tappe fondamentali: entra alla Scuola normale superiore nel 1925, ottiene l’aggregazione in storia, piazzandosi al secondo posto, nel 1929. Dal 1930 al 1932 soggiorna all’École française di Roma e dal 1932 al 1937 all’Institut français di Napoli. Trascorre un anno all’Università del Cairo (19371938). Ottenuto il dottorato nel 1937 è nominato all’Università di Nançy per un anno (1938-1939). Dopo la mobilitazione del 1939-1940 è nominato all’Università di Montpellier, prima (1940-1941), e in quella di Lione, dopo (1941-1945). Infine per trent’anni insegnerà alla Sorbona (1945-1975). Insegna con regolarità anche all’estero, a Montréal per l’esattezza. Uomo di vastissime letture, coltiva molteplici interessi, ottiene numerosi riconoscimenti a motivo del valore della sua ricerca e dell’influenza che nel corso degli anni esercitò. Occorre ricordare pure, secondo le testimonianza di coloro che lo

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Docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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conobbero come maestro e amico, il suo tratto umano cordiale e pieno di humour1. La sua attività di storico prende corpo in una consistente produzione letteraria: dodici libri, 180 articoli, senza contare le pubblicazioni di carattere letterario, musicale, politico e religioso. Collabora fin dall’inizio alla pubblicazione della collana di traduzioni dei testi patristici Sources chrétiennes, iniziata nel 1942 presso Cerf di Parigi ad opera di Danielou e de Lubac. Altri collaboratori iniziali furono von Balthasar e Hugo Rahner.

1.2. La terminologia: apocalittica e escatologia Prima di esporre la concezione escatologica di Marrou, è opportuna una precisazione terminologica. Parlo solo di escatologia e non di apocalittica, perché in Marrou di escatologia si tratta e non di apocalittica. Sebbene l’autore non ponga questa distinzione, è chiaro infatti che egli non possiede un pensiero apocalittico, bensì escatologico. Vi è, come è noto, differenza tra escatologia e apocalittica soprattutto in ordine alla concezione della storia e del suo compimento. Le “realtà ultime” vengono comprese alla luce della concezione del mondo e della storia che differiscono, a volte radicalmente, nell’apocalittica e nell’escatologia. Per l’apocalittica il mondo e la storia umana sono radicalmente cattivi, la storia è “male”, essa non può essere redenta. La “fine del mondo” è l’annichilimento di questo mondo perché un altro eone possa venire. Le conseguenze sono evidenti: non ha alcun senso l’impegno storico, come ogni tentativo di migliorarlo. La concezione radicalmente negativa del mondo si inserisce, in genere, in un contesto dualista che svaluta ogni forma materiale, il corpo umano e il suo mondo innanzi tutto. L’escatologia considera le cose diversamente. Pur nelle diverse forme in cui essa si può esprimere non possiede in sé una concezione radicalmente negativa della storia. Vede piuttosto in essa un telos che 1 Per la biografia dell’autore, cfr. P. RICHÉ, Henri Irenée Marrou, historien engagé, Paris 2003.


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la orienta, che la relativizza perciò, ma non la nega in linea di principio. In alcune escatologie, anzi, la storia assume un ruolo determinante per la retta comprensione delle “realtà ultime” e l’impegno dell’uomo in essa svolge un ruolo fondamentale, mediante la cultura, la costruzione delle civilizzazioni, le forme religiose che le connotano2. Il nostro autore sviluppa la sua riflessione escatologica, in modo sistematico e compiuto, nel libro della sua maturità, scritto nel 1968, Théologie de l’histoire. Gli elementi fondamentali del suo pensiero, però, sono presenti fin dall’inizio del suo lavoro intellettuale, precisamente nella sua opera di storico dell’antichità cristiana, con il suo contributo su Saint Augustin et la fin de la culture antique (è la tesi di dottorato pubblicata nel 1938 con una retractatio del 1949), per proseguire con un altro studio su Saint Augustin et l’augustinisme del 1955. Degli stessi anni sono lo studio fondamentale De la connaissance historique (1954) e l’articolo La fin du monde n’est pas pour demain pubblicato su Lumière et Vie nel settembre 1953. Una menzione merita pure un altro scritto giovanile, pubblicato nel 1934, sotto lo pseudonimo di Henri Davenson, Fondaments d’une culture chrétienne, che il ventenne Marrou scrive per i suoi compagni studenti della JEC che lui stesso aveva contribuito a fondare. Nell’articolo citato l’autore esordisce così: «In tutte le città della Francia, durante le terribili settimane di giugno del 1940, niente era più difficile che trovare in libreria la piccola edizione commentata dell’Apocalisse del Padre Lavergne, tanto era richiesta. Tutto sembrava crollare intorno a noi: la Patria, lo Stato, i valori che ci erano più cari e la civiltà cristiana stessa, o almeno la sua possibile esistenza. Come riconoscere, nella catastrofe in cui si inabissa il nostro paese, i segni del cataclisma annunciato dalla profezia del Nuovo Testamento? Improvvisamente le parole folgo2

Per l’apocalittica, la sua differenza con l’escatologia, le sue diverse espressioni, rinvio a W. SCHMITHALS, L’apocalittica. Introduzione e interpretazione, trad. it., Brescia 1976 [ed. or. 1973] per una introduzione generale e i problemi di interpretazione; R. BULTMANN, Storia ed escatologia, trad. it., Brescia 1989 [vers. ted. 1958] per una riflessione sul rapporto con la storia; per le concezioni escatologiche ed apocalittiche nella Bibbia, cfr. K. KOENEN – R. KÜHSCHELM, La fine dei tempi. Escatologia tra presente e futuro, trad. it., Bologna 2001 [ed. or. 1999]; D.C. SIM, Apocalyptic Eschatology in the Gospel of Matthew, Cambridge 1996.


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ranti del Veggente di Patmos cessavano di essere delle semplici “immagini” — quelle che i Primitivi fiamminghi rappresentavano con minuziosa cura — ma terribili e precise realtà»3. In questo breve scritto come in tutta la sua opera, l’autore si propone di analizzare “a sangue freddo”, come lui stesso dice, questo sentimento di spaesamento e di paura che pervade gli uomini e le donne di ogni epoca nei momenti di trasformazione e di particolari catastrofi. Lo fa da storico e proprio dal concetto di “storia” prendiamo le mosse.

2. LA STORIA 2.1. Cosa è “storia” «Che cosa è, dunque, la storia? Proporrei di rispondere: La storia è la conoscenza del passato umano», così il Nostro definisce la storia nel suo notissimo testo su La conoscenza storica4. La conoscenza di cui si parla è «la conoscenza scientificamente elaborata del passato»5, precisando che la scienza in questione in relazione alla storia «non è nel senso dell’episteme ma in quello di tekhnè»6. Con questa precisazione Marrou spiega che la conoscenza storica non è conoscenza nel senso comune di informazione su dei fatti, ma una conoscenza elaborata in funzione di un metodo sistematico e rigoroso. Il suo scopo è quello di elaborare una filosofia della storia, non però nel senso hegeliano ma in quello di R. Aron di una “Filosofia critica della storia”7. Marrou si pone sul piano del superamento dell’opposizione variamente espressa dalle coppie Geschichte/ Historie, Kultur/Zivilization, Gemeinschaft/Gesellschaft, Storia/ 3 La fin du monde n’est pas pour demain, in Lumière et Vie, septembre 1953, 7799: 77. Qui nella traduzione italiana, La fine del mondo non è per domani, Milano 2005, 5. 4 H.-I. MARROU, De la connaissance historique, Paris 1954, 29 [trad. It. La conoscenza storica, Bologna 1990]. 5 Ibid., 31. 6 L.c. 7 Cfr. R. ARON, La Philosophie critique de l’histoire, Paris 1938.


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Storiografia, … Lo interessa il “reale”, vale a dire «la presa di coscienza del passato umano ottenuta nel pensiero mediante lo sforzo dello storico; non si situa né nell’uno né nell’altro dei due poli ma nel rapporto, nella sintesi che stabilisce, tra presente e passato, l’intervento attivo, l’iniziativa del soggetto conoscente»8. Potremmo dire che è il tentativo di evitare la falsificazione del passato umano sia con il suo uso strumentale e quindi ideologico a sostegno di una tesi sia nelle sue varie forme di revisionismo. La preoccupazione costante è la “verità” della conoscenza storica, contro il disprezzo della verità storica, asservita ad ogni forma di totalitarismo e di “caccia delle streghe”9.

2.2. La storia e lo storico Compito dello storico non è quello di far riviere il passato, ma di conoscerlo in quanto passato, coglierne il senso. Il senso storico è propriamente questa capacità «di sentire in modo ugualmente acuto e la realtà del passato e la sua distanza che resta»10. Si delinea pure il ruolo dello “storico”: «Non bisognerebbe immaginare che lo storico vada a spasso attraverso le ricchezze del passato come un visitatore sfaccendato davanti alle vetrine di un museo, fermandosi qui e là a seconda che la sua curiosità o il suo interesse si manifesti — legandosi in questo modo ad un eroe, un’epoca, un problema, un incontro, un’avventura, un’amicizia. Le cose non vanno così, poiché la persona dello storico non è un individuo astratto come definito nella prospettiva del liberalismo, ma un essere impegnato che, con tutte le fibre del suo essere, si radica nell’ambiente umano al quale appartiene — ambiente sociale, politico, nazionale, culturale — che lo ha reso ciò che è e al quale tutto ciò che fa ritorna e trae profitto»11. Questa lunga citazione ci mostra quanta rilevanza abbia avuto nel mestiere di storico la fede 8

H.-I. MARROU, De la connaissance historique, 37. L’autore non esita ad associare i casi delle dittature conclamate con le vicende di alcune democrazie, come per es. le vicende per lui recenti degli U.S.A., cfr. ibid., 11-12. 10 Ibid., 41. 11 Ibid., 267-268. 9


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cristiana dell’Autore, che considera la storia un “combattimento dello spirito”, un’avventura «che non conosce che successi parziali, relativi, da cui l’uomo ricava il senso del suo limite»12. Ciò che Marrou dice sull’ “unità della vita del filosofo” a proposito di Agostino, si potrebbe applicare alla sua persona13. Dall’esigenza di sapere e di comprendere il passato dell’umanità nasce la possibilità di una visione della storia aperta, non chiusa su se stessa, stretta nei confini della parzialità del proprio punto di vista, per forza di cose limitato e tendente a ripiegare su se stesso. La storia di Marrou è storia aperta, che tende ad un telos che non coincide, però, con le transizioni. Il telos relativizza la storia e nello stesso tempo la apre al superamento continuo di sé. Fin dalla sua tesi dottorale, Marrou coglie chiaramente questo aspetto. Considerando la “decadenza” delle culture e delle civilizzazioni afferma che «la decadenza non è solamente sclerosi e invecchiamento, è anche la condizione di una metamorfosi»14. Egli vede il germe dell’inizio nella fine. Così quando analizza la fine dell’antichità vi vede la preparazione del Medioevo. Molti elementi della cultura medievale derivano «dall’evoluzione naturale di quella antica»15. Successivamente questo concetto è ripreso come chiave interpretativa delle crisi storiche e motivo di comprensione dell’orizzonte escatologico della storia: «Le grandi crisi di carattere storico, rivoluzioni, guerre, invasioni, che sono l’opera dell’uomo, non sono mai pura negazione, ma quale che sia il posto che occupano distruzioni, sofferenza e morte, presentano sempre un certo aspetto positivo, un elemento ricostruttivo, di rinnovamento, — di bene. Qui inviterei di nuovo il mio lettore a meditare sull’ambivalenza essenziale del tempo della storia dove il Bene e il Male, la morte e la vita, l’annientamento e la creazione sono indissolubilmente uniti quanto il grano e il loglio 12

Ibid., 52. Cfr. Saint Augustin et la fin de la culture antique, Paris 1983 (ristampa dell’ed. 19584), 194 [tr. it. Agostino e la fine della cultura antica, Milano 1994]. 14 Saint Augustin et la fin de la culture antique, V. 15 Saint Augustin et la fin de la culture antique, X. Altro testo che esamina le transizioni culturali è Décadence romaine ou Antiquité tardive?IIIe – VIe siècle, Paris 1977 [tr. it. Decadenza romana o tarda antichità ? III-IV secolo, Milano 1987]. 13


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della Parabola evangelica, “perché la città di Dio e la Città del Male sono intimamente intrecciate e mescolate l’una all’altra per tutta la durata della storia del mondo — fino a che il giudizio universale le verrà a separare” [Sant’Agostino, Città di Dio I, 35]»16. La conoscenza storica permette a Marrou di professare una fede cristiana senza integralismi, ancorata alla Scrittura e alla tradizione senza archeologismi e sempre capace di cogliere il senso del presente, proprio in virtù della conoscenza storica. Il rigore e la disciplina del mestiere di storico gli permette di poter fare una lettura teologica della storia, senza negare l’autonomia della ricerca storica. Anzi proprio questa autonomia gli consente di elaborare una genuina teologia della storia, senza che questa sia “inghiottita dall’escatologia” (per usare un’espressione riconducibile a R. Bultmann) e tuttavia la dimensione escatologica è quasi costitutiva della sua concezione della storia.

2.3. L’orientamento del pensiero di Marrou La collocazione del pensiero di H.-I. Marrou non è semplice, perché in realtà non è facilmente identificabile con una corrente o una parte del dibattito filosofico, politico, religioso dell’inizio del ’900. Dal punto di vista filosofico e teologico, per es., egli è certamente discepolo di sant’Agostino, non per questo però si può dire tout court che sia antitomista. La sua collaborazione regolare alla rivista Politique17 lo inserisce nella cerchia del filosofo Maurice Blondel, però il suo vero interlocutore resta sant’Agostino, verso cui è attirato molto presto. Piuttosto egli avversa il neotomismo, vicino all’Action française, che rifiuta, decisamente schierandosi con la causa repubblicana e collaborando perciò a Politique. Ciò che lo fa discepolo di Agostino non è soltanto la considerazione dello scontro tra la civilizzazione romana e la barbarie, ma il modo in cui all’interno di questo scontro germoglia e cresce, anche se 16

La fine del mondo…, 11-12; cfr. H.I. Marrou, L’ambivalence du temps de l’histoire chez saint Augustin, Montréal-Paris 1950. 17 Fondata nel 1927 da Marcel Prélot, vicina alla corrente democratica cristiana.


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lentamente, la Città di Dio nella storia dei popoli. In questo senso per Marrou la storia umana non si comprende se non in un orizzonte escatologico, che per il cristiano significa un’apertura alla Gerusalemme celeste; in una nota del 20 giugno 1928 scrive: «Tutte le culture sono mortali perché non sono che umane, tentativi di realizzazione di un ideale che non è di questo mondo. Tutte le Gerusalemme terrestri devono crollare: se può esservi qualcosa di eterno in esse è d’essere immagini e prefigurazione di una Gerusalemme celeste il cui giorno non é ancora venuto»18. La conoscenza storica e la coscienza che ne deriva fanno sì che si riesca a distinguere tra gli avvenimenti e la percezione che di essi ne hanno i contemporanei. Marrou coglie sempre le transizioni da un’epoca a un’altra come transizione, vale a dire come fine e inizio contemporaneamente, mai solo come fine. Da studioso dell’antichità romana e cristiana sa bene che ciò che finiva era un nuovo inizio, tuttavia questo non lo porta a concepire la storia come ciclica ma nel suo sviluppo verso il suo telos, inteso come fine della storia nel suo insieme, non come fine di un’epoca. Questa prospettiva escatologica rivaluta la storia e la speranza cristiana che in essa si vive.

2.4. Il senso della storia Quando Marrou parla di “senso” della storia lo fa ricordando il duplice significato di “senso”, uno tratto dalla matematica, l’altro dalla semantica. Questo si riferisce al significato, alla ragione, al valore che possa giustificare gli sforzi umani, le sofferenze, il sangue versato, i tanti apparenti fallimenti, l’altro ad una direzione orientata e a uno scopo19. 18

Cfr. H.-I. MARROU, Carnets posthumes, Carnet VIII, XIV, 2, Paris 2006, 76; cfr. pure una nota del 18 giugno 1940: X, 134, 231-232. La nota del 18 giugno 1928 è indirizzata a Jean Zyromski (1890-1975), avvocato, membro dello SFIO, ma vicino ai comunisti. Si iscriverà al PCF nel 1945, ma rinunciando a ogni mandato politico a partire dal 1948. 19 Cfr. Théologie de l’histoire, Paris 2006, 15 [prima edizione del 1968; trad. it. Teologia della storia, Milano 1979].


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Vi è però la possibilità di perdere o non riconoscere il “senso” della storia. La principale causa dello smarrimento di questo senso è vista da Marrou nell’individualismo teologico. L’insistenza sulla salvezza individuale, la “salvezza della propria anima”, ha comportato una “atrofia della speranza escatologica”. Marrou ricorda che questa insistenza unilaterale sul destino personale viene da lontano, dalla polemica di Agostino contro i pelagiani, passando dal giansenismo20. Da qui la difficoltà della teologia di fronte a questioni come la predestinazione personale intesa da Agostino isolatamente da quella del “Cristo totale”. Solo il rinnovamento teologico degli anni trenta, recepito poi dal Concilio Vaticano II, consente di recuperare la dimensione comunitaria della salvezza, all’interno dell’ecclesiologia che assegna «un posto centrale alla nozione di Chiesa come comunità, ‘popolo messianico’ della nuova alleanza»21. Ma per rispondere seriamente alla domanda su cosa sia il “senso” della storia, bisognerebbe essere Dio, perché bisognerebbe avere la possibilità di gettare uno sguardo complessivo sull’intera storia22.

20 L’Autore cita il Pascal del Mystère de Jesus: “Je pensais à toi dans mon agonie; j’ai versé telles gutte de sang pour toi?”, in Théologie de l’histoire, 20. 21 Théologie de l’histoire, 19; Marrou prende le mosse dall’opera del 1938 di H. de Lubac, Catholicisme, les aspects sociaux du dogme, e ricorda come nella traduzione tedesca di H.U. von Balthar il sottotitolo è Katholizismus als Gemeinschaft, per giungere poi alla redazione finale di Lumen gentium. È del 1974 il libro del p. Y. Congar, Un peuple messianique, Paris 1974. In una nota databile tra il 28 ott. e il 1 nov. 1928, il giovane Marrou mostra di cogliere la questione di fondo: «La Chiesa non è una cooperativa della salvezza. La vita religiosa non è limitata a questo aspetto egoistico della salvezza, ma è la collaborazione con Cristo nella deificazione del mondo: giustificazione della Chiesa visibile» (Carnet VIII, XVIII, 5, in: H.I. MARROU, Carnets posthume, Paris 2006, 85). 22 «Bisognerebbe poter abbracciare con un solo sguardo la totalità di ciò che è accaduto, di ciò che accade e di ciò che accadrà nel tempo vissuto dagli uomini — sì, bisognerebbe essere Dio, o| w"n, Colui che era, che è e che viene (Ap 1,4), e lo storico, questo umile mestierante, ricorda ai suoi fratelli uomini che ci è solamente dato di pensare da mortali, qnhtaè fronei%n! Da qui la sua avversione profonda, viscerale per ogni tentativo di filosofia della storia che si è succeduto in Occidente da due secoli» (Théologie de l’histoire, 27).


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3. L’ESCATOLOGIA Il credente Marrou ha una forte coscienza escatologica, formata dalla conoscenza delle fonti cristiane e dalla conoscenza e coscienza storica. Nella sua Teologia della storia, egli allude al dibattito della teologia europea del dopoguerra sull’escatologia, ad esso idealmente si riallaccia nel formulare la sua riflessione. È necessario dunque richiamare brevemente le grandi linee di questo dibattito. A partire dall’ultima decade dell’800 l’esegesi mise in luce la struttura apocalittico escatologica della predicazione di Gesù, la centralità dell’attesa della fine nel cristianesimo primitivo, l’influsso della coscienza di fede della comunità del ritardo della parusia. La teologia sistematica, tuttavia, rimase impermeabile a questo nuovo approccio. In ambito cattolico le tematiche escatologiche erano trattate ancora entro gli angusti schemi della neoscolastica, incapace di dialogare con il pensiero contemporaneo; in ambito protestante la teologia liberale era giunta ad una radicale deescatologizzazione della fede stessa. Però «mentre la dogmatica della teologia scolastica trattava i temi escatologici quasi senza farsi sfiorare dalle questioni aperte dal pensiero moderno, la teologia liberale cercava di sviluppare la propria identità proprio all’interno di questo pensiero»23. Marrou si differenzia sia dalla corrente cosiddetta “escatologista” sia da quella “incarnazionista”24. La sua coscienza storica lo porta a considerare l’escatologia come “relativa” all’evoluzione storica. Sa che certi fenomeni si ripetono, anche se mai allo stesso modo e sa distinguere perciò il piano oggettivo dello svolgersi degli avvenimenti e la percezione soggettiva che di essi si ha. Nell’articolo 23 H. ROLFES, Escatologia, in Enciclopedia di teologia fondamentale, Genova 1987, 711 24 Questa distinzione, peraltro sommaria, fu proposta dal gesuita belga Luis Malevez in un articolo del 1949 dal titolo Due teologie cattoliche della storia. La teologia escatologica rinvia ad una teologia della storia che sosteneva la discontinuità tra progresso umano e regno di Dio; la teologia dell’incarnazione a una teologia della storia che sosteneva una continuità in quanto vedeva nei valori terrestri, frutto dello sforzo umano, una preparazione e anticipazione del Regno, per un sintetico ma puntuale resoconto cfr. R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, Brescia 1992, 271-269.


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La fine del mondo non è per domani, sostiene che «la nostra esperienza della storia, […] ci permette con l’aiuto del passato, di denunciare l’illusione che di volta in volta, ha spinto i contemporanei e soprattutto le vittime, a estrapolare da una crisi la propria esperienza ed a conferirle un significato escatico»25. Il presupposto della sua fede cristiana è esplicitato quando pone la domanda «se la fede che [il cristiano] professa in funzione della rivelazione che gli è stata data non gli apporti qualche luce da proiettare sulla questione [del senso della storia]»26. Il suo intento è perciò di abbozzare una “teologia cristiana della storia” o piuttosto di aiutare il lettore a riscoprirla27. È anche vero che la coscienza storica porta Marrou a vivere una fede fortemente incarnata, una fede che si scopre nel “senso” della storia. Da questo reciproco influsso derivano due costanti nel suo pensiero: a) una visione unitaria della storia (la storia nel suo insieme tende al telos); b) la correlazione tra transizione e compimento (una cosa sono le transizioni epocali, altra il compimento finale della storia). Marrou prende le distanze28 da J. Weiss, A. Schweitzer e Werner29 quando parlano di escatologia “conseguente”, non condivide nemmeno l’escatologia “esistenziale” di Bultmann30 né accetta l’esca-

25 26

La fine del mondo non è per domani, 11.

Théologie de l’histoire, 18. Cfr. Théologie de l’histoire. 28 Cfr. ibid., 89. 29 Johannes Weiss (1863-1914), teologo evangelico, è considerato colui che con l’opera Die Predigt Jesu vom Reiche Gottes (1892) pone le basi della contemporanea interpretazione escatologica del cristianesimo. Albert Schweitzer (1875-1965) prende le mosse dalla critica alla teologia liberale per quel che concerne la sua interpretazione della predicazione di Gesù, in particolare sul tema centrale del regno di Dio. Schweitzer elabora la cosiddetta “escatologia conseguente”, in cui l’eschaton altro non é che la conseguenza imminente della storia di Gesù. Il messaggio di Gesù è connotato apocalitticamente: egli annuncia la fine del mondo con la predicazione del regno di Dio, che irrompendo nel mondo lo conduce alla sua fine (cfr. A. SCHWEITZER, Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, Hamburg 1906 [tr. it. Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Brescia 1986]). 30 R. Bultmann presenta una radicalizzazione esistenziale dell’escatologia, concependo l’intera esistenza umana del credente come esistenza che va escatologi27


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tologia “realizzata” di Dodd31 così come quella di Culmann32. Si colloca piuttosto nella prospettiva tracciata da G. Florovsky33, il quale parla di escatologia “inaugurata” e più ancora concorda con l’ “escatologia in procinto di realizzarsi” (sich realisende Eschatologie) di E. Haenchen e J. Jeremias34. Il nostro rifacendosi ad Agostino parla così di teologia “incoativa”35. La nozione di teologia incoativa che Marrou adotta è coerente con la sua visione storica. La storia come sviluppo del tempo dell’uomo ha un dinamismo che deriva dalla sua incompiutezza: «La storia non è compiuta e spetta a noi, ora, al nostro sforzo, alla nostra azione cui appartiene ormai di contribuire a scriverla, di lavorare per la nostra parte al suo compimento»36. Teologia incoativa significa che i tempi ultimi sono cominciati ma devono ancora compiersi. Qui c’è lo spazio per il tempo della Chiesa37. La conseguenza è che la vita cristiana non è attesa passiva, ma attesa attiva.

camente interpretata. Per l’escatologia di Bultmann cfr. W. SCHMITHALS, La teologia di Bultmann, trad. it., Brescia 1972, 301-329. 31 L’esegeta anglicano C.H. Dodd sostiene che l’annuncio di Gesù del regno di Dio è la proclamazione di un evento già a “disposizione” degli uomini. Il regno “escatologico” viene affermato da Gesù «come evento presente che gli uomini debbono riconoscere, sia che in pratica lo accettino o lo respingano» (Le parabole del Regno, Brescia 19762, 45). 32 O. Culmann, riformato, con Cristo e il tempo (1946) si propone di presentare l’elemento centrale del messaggio cristiano, che individua nella rivelazione di Dio in una storia della salvezza. Questa impostazione storico-salvifica gli permette di mediare le proposte di Schweitzer e Bultmann, rispettivamente la prospettiva “conseguente” e “presentica” dell’escatologia. L’evento Gesù Cristo ha determinato una nuova divisione del tempo, tuttavia nonostante il centro sia stato già conquistato, la fine è non ancora giunta. 33 Georgij Vasil’Evic Florovskij (1893-1979), teologo e prete ortodosso, studioso del pensiero russo ortodosso, che reinterpreta alla luce del pensiero moderno. 34 J. Jeremias sebbene condivida quanto sostenuto da Dodd, ritiene di dovere completare la sua interpretazione delle parabole del Regno, perché condurrebbe ad una concezione riduttiva dell’escatologia (cfr. J. Jeremias, Le parabole di Gesù, Brescia 19732). L’espressione “escatologia realizzata” deve essere corretta con “escatologia realizzantesi” (espressione mutuata da E. Haenchen). 35 «[…] inchoatis in nobis primitiis mentis» (Enarr. In Ps. 64,4). 36 Théologie de l’histoire, 38. 37 Cfr. Théologie de l’histoire, 37.


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Nella riflessione sull’ambiguità dell’azione umana nella storia emerge la radice agostiniana del pensiero di Marrou. Nella sua prospettiva credente, nell’opera Saint Augustin et l’augustinisme (1955) osserva che l’uomo non è sulla terra per se stesso o per la terra, ma per Dio. Non è una specie animale la cui funzione sarebbe semplicemente quella di perpetuarsi nel tempo, di sostituire una civiltà con un’altra. Attraverso le opere provvisorie degli uomini, l’architetto divino costruisce la Città del “riposo eterno”38. La consapevolezza di questa ambiguità e della tensione tipica dell’escatologia incoativa (già e non ancora) «tende ad annullarsi nei periodi, nei centri di civiltà prosperi, tranquilli, felici (nel senso relativo che questa parola può avere fra i figli degli uomini). Venendo meno la tensione escatologica, però, si può giungere — anche fuori del cristianesimo — all’idolatria della civiltà e, attraverso di essa, di se stessi»39. La tensione, però, è essenziale al cristianesimo e all’annuncio del Vangelo40. Sulla base del dato scritturistico e di Agostino, Marrou sottolinea la tensione tra il già e il non-ancora per affermare che questa tensione non dovrebbe generare una idea troppo passiva di “tempo della Chiesa”. Così come non è pura attesa, pura speranza: «al contrario indica una attività positiva, una realizzazione, ancora una volta solamente incoativa, ma che già si iscrive nell’essere, sì nell’essere definitivo, quello che consumerà, consacrerà l’escatologia»41. Il tempo che viviamo è già un tempo messianico: l’azione dello Spirito continua e contemporaneamente relativizza e valorizza l’azione umana nella storia: questo è il senso dell’incoazione, di ciò che è già cominciato, ma deve essere ancora compiuto. 38

Saint Augustine et l’augustinisme, Paris 2003 (1955), 77 [trad. it. Agostino e l’agostinismo, Milano 1960] dove ci cita il Sermo 362,7 di Agostino: Architectus aedificat machinas transituras domum manentem. 39 La fine del mondo non è per domani, 10. 40 «Ciò che è essenziale al Vangelo, come lo intende la Chiesa, è di annunciare che in un modo misterioso l’escathia, gli ultimi tempi sono già cominciati: il presente vissuto nella Chiesa, nella fede, nel battesimo e negli altri sacramenti, nella grazia – la Salvezza, è già un compimento (certo incoativo e imperfetto), ha già i caratteri degli ultimi tempi» (La fine del mondo non è per domani, 27s.). 41 Théologie de l’histoire, 91.


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Per esprimere compiutamente il senso dell’impegno del cristiano nella storia, Marrou si rifà all’immagine evangelica del “sale della terra” e della sua interpretazione patristica. Egli ricorda, perciò, che il primo significato dell’immagine è di ordine liturgico. «Essa suppone un riferimento implicito alla prescrizione rituale della Legge antica: “Tutto ciò che tu presenterai come offerta sarà salato, tu non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio nella tua offerta; su tutte le tue offerte offrirai il sale” (Lev 2,13; cfr. Num 18,19; Ez 43,24). E sì, la terra, il mondo, l’umanità, la storia non possono diventare questa offerta gradita se non è salata dal nostro sale. Non si tratta di giocare con le parole, ma riscoprire nella sua terribile semplicità il senso profondo della responsabilità storica del cristiano»42. Anche la vita e le strutture della Chiesa possono essere rilette nella prospettiva dell’escatologia incoativa: «Incoativa ma reale è l’inabitazione della grazia nell’uomo; se fosse necessario, è qui che bisognerebbe richiamare tutta la nostra teologia dei sacramenti, del ministero gerarchico, della struttura istituzionale della Chiesa, ma non dobbiamo insistere su ciò tanto la cosa è evidente; invece resteremo nel cuore del nostro argomento se raccomandiamo al lettore di meditare seriamente sulla nozione così precisa, che san Paolo ci porge come di passaggio, di “caparra” dello Spirito, “acconto”, “anticipo” […], primizia già ricevuta dell’eredità a venire, — nozione che sottolinea contemporaneamente e la realtà e il carattere solamente incoativo di questa partecipazione alla vita divina e fin da ora, in questa durata storica destinata a cancellarsi un giorno davanti al sabato eterno»43. Il capitolo della Teologia della storia sulle “Note del tempo presente” declina le conseguenze della prospettiva escatologica tracciata. Vi è un motivo preciso: «come ogni teologia, la nostra teologia della storia deve, se non è un raziocinio vano, sfociare nel gettare le basi di una spiritualità: quali conseguenze comporta per il cristiano il fatto d’essere cosciente del suo inserimento nella storia della salvezza? Come può e deve vivere quotidianamente questa verità?»44. 42 43 44

Ibid., 105. Ibid., 94. Ibid., 95.


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Il tempo della Chiesa è descritto come tempo della missione, della convocazione, del kerygma, dell’annuncio della “buona notizia”. È dunque il tempo dell’evangelizzazione, non è di fuga dal mondo, ma neanche del trionfalismo45. Riemerge l’idea centrale che la prospettiva escatologica relativizza l’opera creativa dell’uomo, ma non la sminuisce: «Poiché è ben vero che la tentazione maggiore che l’umanità incontra, nel corso del suo pellegrinaggio attraverso il tempo della storia, è di dimenticare — sedotti come siamo dallo splendore così autenticamente reale dei valori propriamente terrestri — quale è lo Splendore supremo di Dio e quale è lo scopo, la Fine, del viaggio. L’artista farà della sua arte un idolo, l’amante del suo amore, l’uomo di azione della città che è suo dovere costruire»46. La teologia della storia non si fonda su una congettura umana, ma sulla Rivelazione47. Lo sguardo del cristiano dovrebbe essere sempre prospettico, non volgersi al passato con una nostalgia che contraddice «l’attesa impaziente e gioiosa dell’avvenimento sperato»48. L’azione del cristiano nella storia si giustifica proprio in prospettiva escatologica, il cristiano si impegna nella storia per amore di Dio e del prossimo. Poiché l’uomo è creatura capax Dei porta nel suo sforzo di costruire le civilizzazioni una componente di assoluto, che possiamo scoprire in ogni azione anche la più temporale: «ogni civilizzazione cerca di realizzare un certo numero di valori che fanno la sua grandezza e, nella prospettiva teologica entro cui siamo collocati, la sua giustificazione teologica»49. In questa prospettiva, secondo Marrou, il problema dell’azione si trova risolto appena lo si pone: «ciascuno di noi deve lavorare al suo meglio, nel campo tecnico dove possiede qualche competenza, per servire l’amore di Dio e l’amore dei suoi fratelli gli uomini e ciò precisamente in questa città temporale, in questa situazione storica in cui si scopre posto»50. Il 45 46 47 48 49 50

Ibid., 91.98s. Saint Augustine et l’augustinisme, 76 s. Théologie de l’histoire, 107. Ibid., 150. Ibid., 149. Ibid., 150.


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pensiero “reazionario” camuffato da cristianesimo non sa fare altro che deplorare “le disgrazie dei tempi” volgendosi indietro e dimenticando la speranza cristiana51.

3.1. Escatologia incoativa e fine del mondo La nozione di incoazione, di sviluppo progressivo, secondo Marrou, permette di comprendere che il suo carattere messianico è in divenire, in fieri, pur essendo perfettamente reale52. La storia, quella che ha un senso, non si compie in uno spazio empiricamente osservabile: «Non abbiamo quaggiù una città permanente, ma siamo in cammino verso quella che deve venire» (Eb 13,14). La teologia della storia non può non sfociare, per Marrou, in una spiritualità del Marana tha: «Sì, vieni Signore Gesù. Che la grazia del Signore Gesù sia con voi» (Ap 22,20b-21). Questa è l’invocazione finale con cui si chiude il canone biblico cristiano. Tuttavia resta da esporre ancora un punto: come concepire l’ultimo giorno! Alla questione, come sappiamo, il Nostro dedica esplicitamente l’articolo La fine del mondo non è per domani (1953) e la sua risposta è chiara: la fine del mondo non è per domani, perché in verità ogni giorno, nella prospettiva messianica è già l’ultimo giorno: «L’ “ultimo giorno”, l’escathia non è soltanto un momento nella catena del tempo, un giorno determinato, di un anno che porterà il suo millesimo secondo l’era in vigore presso gli storici del tempo; è anche il fatto del compimento totale del disegno di Dio sulla sua creatura. Ma se questo compimento non sarà ultimato in quel famoso Giorno, sarà falso immaginare che sia riservato interamente a questo futuro: in realtà, questo compimento accompagna e sostiene la durata storica, è presente in lei e raccoglie il frutto di tutte le lacrime e di tutti gli slanci d’amore. È il tempo tutto intero che si trova così a rivestire una partecipazione alla qualità escatica»53. 51 52 53

L.c. Cfr. ibid., 91. La fine del mondo non è per domani, 26. La punteggiatura della traduzione


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Sulla base dei testi neotestamentari che riportano le dichiarazioni di Gesù, Marrou non concepisce il regno di Dio come un impero senza termine che sostituisce quelli storici, lo comprende invece come qualcosa che sta già compiendosi fin da esso. Per questo egli conclude affermando che «la fine del mondo non è per domani (per nessun “domani” definibile), lo è, ciò che più conta, in un certo modo, già per oggi»54.

italiana citata è stata rivista basandomi sul testo originale in La fin du monde n’est pas pour demain, 97. 54 Ibid., 28.



IL MESSIANISMO APOCALITTICO DI JACOB TAUBES

GIUSEPPE RUGGIERI*

Questo saggio è essenzialmente un collage di testi, anche quando essi non vengono citati integralmente, ma sintetizzati. L’intenzione è quella di far cogliere come il ripensamento dell’apocalittica conduca inevitabilmente al ripensamento dell’esistenza dei credenti dentro l’ordine attuale che regge il mondo, soprattutto lo Stato e quanto ad esso si riconduce direttamente o indirettamente, cioè l’azione politica nella città, secondo le regole fissate in Occidente a partire dal XVI-XVII secolo, quando proprio lo Stato laico, secondo l’interessante lettura di Gauchet1, pone se stesso come entità sacrale * Docente di Teologia fondamentale e dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Sigle usate per gli scritti di J. Taubes (in ordine cronologico sec. l’originale): E: Escatologia occidentale, Milano 1997 (or. Abendländisce Eschatologie, Bern 1947). Messianismo: Messianismo e cultura. Saggi di politica teologia e storia, Milano 2001 (Vom Kult zur Kultur: Bausteine zu einer Kritik der historischen Vernunft. Gesammelte Aufsätze zur Religions- und Geistesgeschichte, Hrsg. von A. Assmann, J. Assmann, W.-D. Hartwich, München 1996). Il prezzo: E. STIMILLI (cur.), Il prezzo del messianesimo. Lettere di Jakob Taubes a Gershom Scholem e altri scritti, Macerata 2000. In div acc: In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, Macerata 1996 (Ad Carl Schmitt. Gegenstrebige Fügung), Berlin 1987. Teol pol: La teologia politica di San Paolo. Lezioni tenute dal 23 al 27 febbraio 1987 alla Forschungsstätte della Evangelische Studiengemeinschaft di Heidelberg, Milano 1997 (Die politische Theologie des Paulus: Vorträge, gehalten an der Forschungsstätte der evangelischen Studiengemeinschaft in Heidelberg, 23.-27. Februar 1987, Hrsg. von A. Assmann und J. Assmann, München 1993). 1 M. GAUCHET, Le désenchantement du monde. Une histoire politique de la religion, Paris 1985; La religion dans la démocratie. Parcours de laïcité, Paris 1998; Un monde desenchanté ?, Paris 2004.


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accanto alle chiese, recuperando così per altre vie quella sacralità che apparteneva allo Stato antico e al suo sovrano. Questo tragitto viene percorso, rileggendo gli scritti principali di uno dei più acuti interpreti della apocalittica stessa: Jacob Taubes, il rabbino svizzero, poi professore universitario in America e quindi in Germania a Berlino, dove fu uno dei “compagni” di cammino della rivoluzione studentesca. Esiste un particolare motivo per studiare la concezione apocalittica di Taubes. Per lui infatti l’apocalittica offre l’unica chiave capace di aprire il segreto della storia nel suo nodo centrale: la lotta al male di cui gli uomini non sanno venire a capo. Kant, alla fine della sua speculazione filosofica che ruota attorno all’autonomia della ragione, si era già scontrato con il male radicale, che non trova spiegazione in nessuna delle sistematizzazioni della ragione pura. La Religione dentro i limiti della semplice ragione rappresenta, da questo punto di vista, forse il grido più alto contro il male che l’uomo occidentale abbia estratto dai suo polmoni spirituali, avidi della chiarezza dello Spirito puro. Giacché ivi l’uomo si confessa ultimamente incapace di esprimere in concetti quell’ultimo male radicale, evocato nei vari miti della caduta iniziale. Infatti la fondazione concettuale ultima del male ci dice soltanto che il male è una massima contraria alla legge. In ultima analisi noi possiamo qualificare come male solo l’uomo, cioè la sua massima contraria alla legge. Ma non abbiamo concetti per pensare quest’origine del male nell’uomo. Ogni azione cattiva, quando viene riportata all’indietro, alla sua origine razionale, deve essere considerata come se l’uomo fosse arrivato ad essa direttamente dallo stato d’innocenza. Ricoeur glosserà così il pensiero di Kant: «Tutto dipende da questo come se. Si tratta dell’equivalente del mito della caduta. Cioè il mito razionale (questi corsivi sono miei) della venuta all’essere del male, del passaggio dall’innocenza al peccato. Siamo noi a dare origine al male come Adamo e non già in Adamo»2. Occorre ben comprendere i “limiti” che Kant pone alla religione in nome della sola ragione. Come egli stesso ha chiarito nei suoi 2

P. RICOEUR, Guilt, Ethics and Religion, in Royal Institute of Philosophy Lectures, II, Talk of God, London … 1969, 100-117, cit. a p. 111.


Il messianismo apocalittico di Jacob Taubes

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Prolegomena a ogni metafisica futura, il limite non costituisce la negazione di ciò che resta al di là dei limiti stabiliti, non è la Schranke. Noi non possiamo andare al di là del limite, ma dobbiamo accettare di restare al di qua. Dobbiamo quindi semplicemente constatare che non abbiamo concetti per pensare la volontà originaria del male. Ma con Ricoeur dobbiamo allora affermare che qui abbiamo la riproduzione filosofica moderna della confessione del peccato che è la base dei miti della caduta. «La dottrina kantiana del male radicale rappresenta il tentativo di ricatturare filosoficamente l’esperienza che si esprime nel mito»3. Ma che ne è se, superato il pregiudizio verso il linguaggio mitico, se stabiliamo una lettura fenomenologica del mito illuminandolo come espressione di un’esperienza storica che accompagna da sempre l’uomo, ne scandagliamo così la profondità e cerchiamo di interpretarlo? L’interpretazione dei miti non è anch’essa un compito razionale?4 Sta qui l’interesse del pensiero di Taubes.

1. DALLA RIVELAZIONE DELL’ANIMA ALLA METAFISICA DELLA STORIA, ALLA RIVOLUZIONE

Come per molti altri nella nostra epoca, anche per Taubes il vero iniziatore delle conoscenze sul messianismo apocalittico fu Gershom Scholem, padre destinato ad essere “ucciso” dal figlio che volle diventare adulto5. Ma ritengo che sia di fondamentale importanza, anche per comprendere il dibattito Taubes-Scholem che risulta centrale per la visione che dell’apocalittica svilupperà Taubes, ricordare la prima

3

Ibid., 110. Da un punto di vista filosofico teologico mi sia sufficiente rimandare a K.K. HÜBNER, Die Wahrheit des Mythos, München 1985; I.U. DALFERTH, Jenseits von Mythos und Logos, Frankfurt 1993; G. CAMURI, Mito, in Enciclopedia filosofica, VIII, Milano 2006, 7492-7507. 5 Del rapporto controverso con il suo maestro, possiamo conoscere qualcosa attraverso alcune lettere pubblicate in Il prezzo … 107-151. 4


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grande opera di Hans Urs von Balthasar, frutto della dissertazione di dottorato in germanistica del futuro teologo6.

1.1. Rivelazione dell’anima Credo infatti che sia illuminante anzitutto l’ermeneutica del mito proposta da von Balthasar, per il quale il termine “apocalittica” equivale a quello di escatologia, con una nota di accentuata concretezza7, come svelamento del destino eterno dell’uomo, «come consapevolezza dello spirito concreto di stare davanti alla sua realtà ultima, ma che resta velata e si dovrà svelare come sua apocalisse in autorealizzazione»8. L’apocalisse dell’anima a se stessa è al tempo stesso apocalisse del fine, dell’eschaton. «Rivelazione dell’anima e rivelazione di Dio formano nella loro rigorosa coordinazione una storia soltanto, come lo scoccare della scintilla da centro dell’essere a centro dell’essere e, in questo scoccare, radura dove si aprono alla luce (Lichtung) i due centri […] Ogni dimensione apocalittica nella natura e nella storia del mondo, ogni squillo di trombe, ogni colata di ira e ogni spalancare di abissi, ogni incendio del mondo, ogni distruzione e ogni paradiso sono soltanto la scena montata, la strumentazione e i simboli dell’apocalisse reale, quella dell’uomo. E pertanto il punto di partenza giace nel soggettivo, nella misura in cui questo deve espandersi nell’oggettivo, in maniera tale tuttavia che l’elemento decisivo più esattamene e più profondamente è costituito dal fatto che ogni escatologia esca dall’’atteggiamento dell’anima’ davanti al suo destino 6

Per una presentazione generale di quest’opera e la sua recezione, cfr. ALOIS M. HAAS, Zum Geleit, in H.U. VON BALTHASAR, Apokalypse der deutschen Seele. Studien zu einer Lehre von letzten Haltungen. Band I: Der deutsche Idealismus, Einsideln-Freiburg 1998, XXV-XLVIIII. Quest’edizione dell’opera balthasariana è la terza e riproduce in maniera immutata (rispettando lo stesso numero di pagina) la prima del 1937-1939, composta tuttavia in caratteri gotici. 7 La concretezza viene indicata dall’uso del termine “anima” preferito a quello di “spirito”, proprio per indicare la vicenda esistenziale, nel senso del “salvare anime”, piuttosto che salvare “uomini” o “spiriti”: BALTHASAR, Apokalypse, 4. 8 BALTHASAR, Apokalypse, 12.


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ultimo e alla possibilità che essa ha di essere tutto, anziché dal fatto che essa esca da ‘oggettive’ possibilità della fine»9. L’impresa di von Balthasar consisteva quindi nella critica alla pretesa dell’immanentismo tedesco di voler ignorare il fatto per cui il destino dell’uomo sfugge all’uomo stesso, mostrando quindi dal di dentro, dal percorso dell’idealismo immanentista, il dinamismo vero, ma inconfessato, che lo muove. L’apocalisse dell’anima tedesca allora stava allora a significare il movimento inerente ad ogni spirito concreto verso il senso ultimo, l’illuminarsi del destino eterno dell’uomo, il divenire della rivelazione come compimento e verità dell’uomo, proprio attraverso l’analisi della produzione letteraria. Balthasar distingue due modi di avvicinarsi all’escatologia: quello scientifico che reperisce, ordina e interpreta tutti i testi, compresi i miti, in cui l’uomo ha cercato di pensare la fine, dai Veda fino alle attese contemporanee. I miti giacciono qui come conchiglie morte sulla sabbia della storia. Ma si dà anche l’approccio esistentivo, in cui l’anima, chiudendo gli occhi davanti a questa marea di immagini, riflette dentro se stessa sul suo eschaton concreto, sulle vie possibili del proprio autosvelamento e, a partire da qui, sulle vie dello svelamento di ogni anima. Ma giacché la sua apocalisse non è ancora avvenuta, essa può comprendere il logos del suo eschaton solo in maniera velata. Sia che lo formuli essa stessa (nella filosofia, o nell’arte), sia che le venga detto da Dio come logos di Dio (nella teo-logia), essa non può comprenderlo se non mediante immagini. Questa seconda escatologia, esistentiva, sarà quindi afffidata al mito come la precedente, come quella storico scientifica. Ma qui, a differenza dei miti morti che giacciono come conchiglie vuote sulla sabbia della storia, il mito è il modo concreto con cui l’anima si pone concretamente davanti al suo destino. L’escatologia esistentiva si lascia dire dal Cristo che quel giorno e quell’ora nessuno la conosce se non il Padre: «Essa quindi chiarirà tutto solo nella misura in cui lo chiarisce la situazione in cui l’anima va incontro alla sua apocalisse. […] Non le condizioni oggettive di un altro mondo (… tempo e modo della fine del mondo …) attireranno la sua attenzione, ma, in tutto questo e attraverso tutto questo, il valore 9

Ibid., 5.


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espressivo per quanto è realmente inteso: la sua concreta collocazione dentro il suo Ultimo. Mai può essere strappato il filo che conduce dall’immagine a ciò che è rappresentato»10. L’apocalisse balthasariana è quindi un ripensamento esistentivo del mito attraverso cui è dato di “intendere” (meinen) il destino davanti al quale l’anima è inevitabilmente posta. Balthasar, nella sua ponderosa opera in tre tomi, prendeva come punto di partenza l’unità della visione escatologica medievale che progressivamente viene a perdersi nel prosieguo della cultura occidentale, sia nella sua fase prometeica (dall’illuminismo all’idealismo tedesco) che nella crisi dionisiaca (a partire da Kierkegaard e Nietzsche in lotta vicendevole per l’alternativa Cristo-Dioniso). L’unico che lo seguirà con la pretesa di rileggere la storia tutta a partire dall’escatologia sarà Jacob Taubes, che radicalizza per così dire lo stesso progetto balthasariano.

1.2. Metafisica della storia Taubes si mette sulle tracce di von Balthasar nel suo primo (ed unico!) libro, frutto della sua tesi di dottorato: Escatologia occidentale (1947). A differenza di Balthasar, Taubes non parte tuttavia dall’anima e quindi dalla coscienza del soggetto, ma con ampio e disinvolto uso di autori come Otto Weininger (l’ebreo diventato protestante che scrisse non solo un libro come Geschlecht und Charakter, ma anche Über die letzten Dinge, ambedue nel 1903, anno del suo suicidio all’età di 23 anni), Heidegger, Jonas, Barth, lo stesso von Balthasar, ricerca l’essenza della storia, e cioè prescindendo dai singoli eventi, «guarda a una cosa soltanto: come è possibile in generale la storia, qual è la ragione sufficiente della storia in quanto possibilità»(E 23). Ma per rispondere a questa domanda occorre partire dall’eschaton, perché solo nell’eschaton la storia oltrepassa il proprio limite e diventa visibile a se stessa. La storia si svolge nel tempo. Il tempo è l’ordinamento del mondo. Ora c’è un ordinamento esterno ed uno interno. Il tempo 10

Ibid., 7.


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misura la distanza tra l’interno e l’esterno, nel senso che mentre gli ordinamenti esterni passano l’ordinamento interno permane e quindi il tempo misura la distanza tra la struttura interna dell’ordinamento e gli eventi che si succedono. Il tempo è undirezionale e irreversibile, come la vita, diretto cioè ad una fine. Questa unidirezionalità del tempo si fonda sulla volontà che è direzionata e determina quindi il senso del tempo. Tempo e volontà hanno in comune la direzione e quindi la prima dimensione del tempo è il futuro perché il non voluto vergeht, trapassa. La seconda dimensione è il passato e noi mediante la decisione tra passato e futuro, tra ciò che intendiamo che passi e ciò che vogliamo, ordiniamo il tempo. Ma questa decisione avviene nell’atto, che quindi segna il medium in cui interferiscono passato e futuro. Tempo e storia si presuppongono a vicenda perché vengono dalla stessa origine (Ur-sprung) e vanno alla stessa fine: l’eternità. Il tempo sorge quando l’eternità dell’origine è perduta ed è destinato a finire con l’avvento dell’eschaton. Il tempo è il principe della morte, come l’eternità è il principe della vita. Ma questo vuol dire che l’eternità, per sconfiggere il tempo, deve scendere nella storia. Nella storia si scontrano quindi la vita e la morte, l’eternità e il tempo. Apocalisse è lo svelamento della vittoria dell’eternità: «Audacemente l’intravisto è posto in parole, per alludere anticipatamente a ciò che non è ancora compiuto». E giacché la vittoria dell’eternità si compie sulla scena della storia, quando alla fine della storia, viene sconfitto il tempo che è principe della morte, allora fa il suo ingresso la Endzeit, il tempo della fine, il compimento finale (Voll-endung). Nell’eternità/compimento non si dà decisione, ma indifferenza, mentre la storia si situa nella decisione sulla verità (E 24-25). Il nesso tra storia e verità è fondato nella libertà. L’uomo decide della verità e si rivela quindi Dio nella libertà, come la rivelazione di Dio all’uomo ha luogo nella libertà11: «L’essenza della storia è la libertà» (E 25)12. Solo la libertà eleva l’umanità dall’ambito della 11 12

libro?

Vedi la citazione di Osea e di Nikolaj Berdiajev: E 25. È questa la risposta alla domanda sull’essenza della storia con cui iniziava il


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natura al regno della storia e soltanto l’uomo che è nella libertà è storico. Ma dire libertà significa dire Abfall, caduta, perché solo la parola dell’uomo nella sua Ant-wort alla parola di Dio, che in sostanza è un no, attesta la libertà umana. Ed è per questo che entra la storia, giacché così si decade dall’eternità13. Ma se l’essenza della verità si fonda nella libertà, allora è possibile sia il velamento che il disvelamento della verità e quindi l’errare attorno alla verità. Taubes distingue una libertà finita nel tempo, da una libertà infinita nell’eternità. Ma non è chiaro il fondamento della distinzione (E 26). La rivelazione è il soggetto della storia e la storia è il predicato della rivelazione14. La rivelazione è il fuoco che rischiara la radura tra Dio e il mondo. Nel fuoco della rivelazione si può sentire la voce di Dio, ma non si può vedere nessuna figura (differentemente da von Balthasar). La rivelazione non è nient’altro che la voce di Dio. L’uomo non può vedere Dio. Il cammino dell’uomo nel tempo è la storia in quanto rivelazione dell’uomo. Nell’eone del peccato ha inizio l’essere come tempo, rivolto alla morte. Solo nel tempo della fine, quando la caducità stessa trapassa, l’eternità vince sul principio mortale del tempo. Unire l’eternità al tempo è opera di magia, la cui ultima propaggine è l’arte. Il paradiso viene evocato nell’eone del peccato, eludendo la sorveglianza dei cherubini che vigilano sull’ingresso. Nella visione la realtà viene dominata dallo sguardo, così come il suo peso e tutto può essere risolto interiormente, perché non è richiesto alcun atto che infranga l’incantesimo dell’interiorità (E 28-29).

1.3. Libertà e rivoluzione All’apocalittica non interessa sostituire il mondo attuale con uno migliore, ma opporre alla totalità del mondo un’altra totalità. Sin dall’antichità il cosmo è stato considerato una struttura armonica, mentre l’apocalittica afferma che il mondo è la pienezza del male: il 13 14

Ma questo vuol dire che la natura resta nell’eternità? Con rimando a Barth: E 27.


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mondo si determina contro il divino. Il mondo è anti-divino e Dio è anti-mondano. Nel mondo Dio è sconosciuto ed estraneo. Il dio sconosciuto al mondo è il Dio “nuovo”, estraneo al mondo. Per questo il Dio antimondano, che-non-è, annunciato dallo gnosticismo, nega il mondo per manifestarsi in tutta la sua potenza (E 30-31). L’apocalittica è rivoluzionaria perché annuncia come imminente la svolta. Le forze del mondo si aggregano opponendosi al principio distruttivo. Quindi per un verso il principio apocalittico tende a distruggere le forze del mondo, ma per altro verso le aggrega. Secondo il momento prevale una o l’altra delle componenti. Ma la rivoluzione affonda nel nulla se non appare la “nuova alleanza”. Se la rivoluzione non tende a nulla fuori di sé, finisce nel vuoto nulla. Una “rivoluzione del nichilismo” non tende ad alcun telos, ma trova nel movimento stesso il proprio scopo e così facendo si avvicina al satanico15. Proprio perché tende ad un telos assoluto, la rivoluzione deve superare qualsiasi forma. E così l’u-topia può diventare realtà solo in una topia. Questo spiega perché il principio rivoluzionario passa instancabilmente da una forma all’altra (E 31-32).

1.4. Spirito e storia Israele ad un certo punto si distacca dalla sfera vitale mitica, che vive dell’origine alla quale sempre si ritorna (e quindi dalla natura) e si pone la domanda dell’a che. L’essenza del tempo è quella di andare avanti. Ma l’a che è la domanda dello spirito che non è chiuso entro i limiti dell’origine. Nell’eterno ritorno dell’uguale domina l’eros che avvicina il sopra e il sotto. Nel tempo irreversibilmente unidirezionale domina invece lo spirito che tende in avanti (richiamo a Tillich). L’uomo condivide la gettatezza (Geworfenheit) dell’origine con la necessaria ciclicità della natura, ma alla gettatezza originaria egli contrappone il pro-getto (Ent-wurf) dello spirito. La storia è l’elemento dello spirito. La storia viene alla sua essenza solo nello spirito.«Lo spirito è, nella sua essenza, nell’elemento della libertà. Il 15

Viene citata l’Apocalisse di Enoc 91, 5-10: E 31.


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progetto dello spirito è la storia, la quale supera i limiti della natura. In Israele si opera una frattura tra la forza dell’origine e il radicamento al territorio. È così che Israele può diventare un popolo senza spazio» e non perdersi, in quanto sa di essere il “popolo del tempo”, sottratto al radicamento al territorio. Il tempo giunge qui alla sua essenza e viene elevato al di sopra dello spazio. Viene orientato, procede verso qualcosa che non è stato, ma che sarà e che, una volta raggiunto, non andrà nuovamente perduto. Il mondo in quanto tempo procede verso «un nuovo cielo e una nuova terra». Il nuovo supera il ciclo dell’origine. Il nuovo è nell’elemento della storia. Dal punto di vista della storia l’origine diventa un inizio, cui seguono un centro e una fine. La storia stessa è il centro tra creazione e redenzione (E 33). Il singolo avvenimento serve da passaggio tra creazione e redenzione, non ha senso in se stesso, ma rimanda all’eschaton. L’eschaton è l’Allora (Einst) in senso duplice: l’Allora della creazione (assiologia) e l’Allora della redenzione (teleologia). Assiologia e teleologia debbono restare in dialettica. L’equiparazione tra assiologia e valore contraddistingue lo storicismo che secondo Ranke viene corredato da un significato teologico perché tutte le epoche sono ugualmente vicine a Dio. L’indifferente vicinanza a Dio trascura la storia come storia della salvezza, come cammino fra la creazione e la redenzione (E 34). Fondamento della storia è la memoria, senza la quale presente, passato e futuro sarebbero definitivamente separati. La memoria strappa un evento al flusso del tempo. L’uomo costruisce “in memoria di”, oltre la mortalità. Il desiderio di immortalità è intimamente connesso alla memoria. Esso dà origine alla paura della morte. L’evento strappato al flusso del tempo mediante la memoria, viene fissato e non sparisce. Attraverso la memoria noi diventiamo consapevoli del fatto che non esiste un termine (Ablauf: lo spirare del tempo) e questo è possibile solo perché nella memoria il tempo viene superato. Trovandosi al di là del tempo, la memoria riconosce il tempo come caduco (E 35). Nell’escatologia la memoria rappresenta quel principio che combatte il tempo in nome dell’eternità. Oblio per Israele significa caduta e morte. Il Deuteronomio ruota attorno al tema dell’oblio: guar-


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dati dal dimenticare il Signore che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto. “Ricordati e non dimenticare” è il motivo ricorrente. Nella storia si ha rivelazione di Dio all’uomo e rivelazione dell’uomo a Dio16. La storia punta all’unità fra Dio e l’uomo. Solo il principio della libertà può far sì che il mondo si riveli come limitazione di Dio. Il mondo è stato creato per la manifestazione della libertà. Il tutto di Dio deve trasformarsi in mondo, affinché Dio in libertà sia tutto in tutti. Ma questo avverrà solo nella redenzione. La dialettica fa da guida sul cammino della storia, dalla creazione alla redenzione. La possibilità insita nella dialettica deriva dall’essenza della libertà. La libertà esiste solo quando è anche libertà di negare. La storia è dialettica, perché manifesta in sé l’enorme potenza del negativo. La potenza del negativo costringe all’accettazione dell’antitesi e spiega perché il regno di Dio non si realizza al momento della tesi. La differenza tra la tesi in cui Dio è tutto — deus sive natura — e la sintesi, che fa che Dio sia tutto in tutti, è il principio della libertà (E 36).

1.5. Israele come luogo della rivoluzione Israele è il luogo storico dell’apocalittica rivoluzionaria; aspira e sperimenta la “conversione”. La conversione dell’interno, con un rivolgimento, si manifesta all’esterno. Il rapporto essenziale di Israele con la vita è determinato dal pathos della rivoluzione. La speranza di Israele culmina nel potere assoluto di Dio. Nell’apertura della festa dell’incoronazione di Dio, all’inizio dell’anno e alla fine di ogni servizio religioso, la comunità ebraica prega: «Noi speriamo di poter cambiare il mondo attraverso il potere dell’Onnipotente». La voce di Dio risuona come incitamento all’azione, a preparare il deserto del mondo per il Regno. Dicendo “vogliamo fare e ascoltare”, le tribù stringono sul Sinai l’alleanza con Dio.

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Ripresa del motivo balthasariano.


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Israele è l’elemento inquieto della storia universale, mentre in Egitto e Mesopotamia la vita si compie nell’eterno ritorno dell’eguale. “Tale simbolo torna ad affiorare alla fine della storia d’Europa, quando la sostanza apocalittico-cristiana si è consumata” (sottolineatura mia).

1.6. L’ambito mondano dell’apocalittica Nella profezia di Israele si manifesta un nuovo principio: lo spirito dell’apocalittica. Questo nuovo canone trova espressione nelle visioni apocalittiche e nei sistemi gnostici, Con una forza indicibile il sentimento apocalittico del mondo esplode di colpo e contemporaneamente sugli ampi spazi dell’idioma aramaico. Il principio apocalittico cerca affannosamente un’espressione propria, ma il suo destino è segnato dal fatto che nella sua propaggine occidentale si imbatte con le forze dell’ellenismo. La conseguenza è che per lungo tempo questa nuova esperienza non riesce autonomamente a dar forma ai suoi simboli. Lo spirito dell’apocalittica e della gnosi deve allora costruire la sua simbologia utilizzando elementi preesistenti, che provengono dall’ambito concettuale già ben consolidato dell’ellenismo. La patina ellenistica che ha ricoperto il mondo aramaico mette a repentaglio lo sviluppo del logos apocalittico che, anche per questo, per un periodo piuttosto lungo, non giunge all’autocoscienza. Ancora oggi questa sovrapposizione ostacola una chiara conoscenza dello spirito gnosticoapocalittico, e alcuni studiosi risentono della conoscenza dell’alfabeto greco (E 44). Ma sono i persiani e gli ebrei che manifestano lo spirito dell’apocalittica, che interpreta la storia come luogo nel quale si incontrano il principio del bene e quello del male. I simboli del Figlio dell’Uomo, di Satana e degli angeli, dei libri di Dio e della corte divina, del giudizio dei singoli dopo la morte e del Giudizio universale, sono versioni persiane della simbolica apocalittica. Ma quando i persiani succedono agli assiri e ai babilonesi, il principio antimondano dell’apocalittica comincia a scemare, mentre le gravi difficoltà e le persecuzioni gettano negli ebrei il seme dell’apocalittica.


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La condizione degli ebrei rappresenta infatti il clima adatto per l’anima dell’apocalittica. Le apocalissi e le attese messianiche compaiono nelle epoche in cui la tensione giunge allo spasmo. Il tormento di Antioco Epifanio porta all’Apocalisse di Daniele. Sotto il giogo del popolo romano nascono le Apocalissi di Baruch e del Quarto Esdra. L’Apocalisse di Giovanni è scritta da un martire per dei martiri. La chiesa cristiana ha sempre tenuto a mantenere il nesso tra la venuta di Gesù e sub Pontio Pilato. In Israele i flussi messianici di Gesù, Menahem, Bar Kochba fino a Molcho, Sebbatai Zwi e Franck sono intimamente connessi all’“orrore della distruzione”. Tra i popoli che si esprimono nel linguaggio aramaico emerge una nuova idea di nazione, in cui il legame tra popolo e territorio viene sciolto. Le nazioni aramaiche che non potevano mettere radici in un territorio preciso perché deportate (la deportazione dei popoli comincia con gli Assiri) debbono gettare le loro ancore nello spirito. Nel mondo aramaico è la professione di fede a decidere l’appartenenza ad una determinata patria: Dio non è più venerato come l’idolo di un luogo, ma ovunque i credenti si incontrino insieme, in “sinagoga”, qui è la patria (E48). A partire da piccole unioni in tribù, gli ebrei e i persiani durante il periodo dell’esilio crescono fino all’inverosimile grazie alla conversione. La missione è l’unica forma di conquista per una nazione senza patria. Tra gli ebrei la missione viene condotta da gruppi animati da una spiritualità apocalittica. La letteratura apocalittica viene composta per scuotere tutti gli animi senza distinzioni: mentre le scritture canoniche delle singole nazioni-chiese sono nazionali, gli scritti apocalittici sono internazionali nel vero senso della parola. In essi è raccolto tutto ciò che scuote gli animi più profondamente.

1.7. Le parole originarie dell’apocalittica Le parole originarie dell’apocalittica chiariscono il suo senso principale in maniera più netta delle visioni. L’introduzione generale di quasi tutti gli scritti mandei inizia così: «In nome della prima, grande vita straniera, originata dai superiori mondi di luce, che sta al di là di


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tutte le opere». In questo esordio appare la parola chiave in cui risuona il tema dell’autoestraneazione, Selbstentfremdung. Die Fremde, l’estraneità, è la prima grande parola originaria dell’apocalittica ed è totalmente nuova nella storia del linguaggio umano. All’uomo straniero dei mandei corrisponde il Dio straniero di Marcione, il Dio sconosciuto della gnosi, il “velato” delle Apocalissi e infine l’aldilà di tutto della filosofia neoplatonica. Il fondamento comune è l’estraniazione di Dio e mondo e con ciò l’autoestraneazione dell’uomo. La vita straniera che si riconosce in un qui, si perde (irrt) nella Fremde. Ma può anche capitare che la vita straniera si trovi bene qui e quindi sentendosi a casa si allontana/estranei (entfremdet) alla sua origine propria. L’estraneità come dolore diventa estraneità come colpa e si perde. Se tuttavia emerge il ricordo che la sua origine non è qui, comincia il ritorno a casa. Il ritorno a casa, caratterizzato dal motivo della salvezza è la storia metafisica della luce esiliata dalla luce. La storia è il cammino della luce che entra nel mondo, lo attraversa e ne esce. Nella parola originaria “estraneo” sono nascosti tutti gli elementi concettuali dell’apocalittica. La vita del mondo è straniera, la patria della vita è al-di-là del mondo. Se il mondo viene descritto come un sistema chiuso, chiude in sé il Tutto e c’è solo il mondo. Ma se il mondo non esaurisce il Tutto, allora esso diventa “questo” mondo al quale si oppone un “altro” mondo. Questo mondo può diventare plurale: “i mondi” nei quali ci si può perdere. All’immagine spaziale di mondo corrisponde il concetto temporale di “eone”. Tempo e spazio rappresentano i gradi di distanza dalla luce che la vita deve superare per raggiungere la meta: «Vedi o figlio, attraverso quanti corpi, quante cerchie di demoni, quante concatenazioni e corsi di stelle dobbiamo passare per arrivare al solo e unico Dio» (Corpus hermeticum IV, 8). Il Salvatore deve peregrinare per “mondi e generazioni”, per arrivare alle porte di Gerusalemme. Lo spazio tra cielo e terra viene riempito da forze demoniache e il mondo diventa il teatro delle battaglie fra Dio e il mondo. Anche Paolo afferma che le forze demoniache sono i “signori di questo mondo”. Luce e tenebre sono le sostanze di cui sono composti questo


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e quel mondo. Questo mondo è una mescolanza di luce e di tenebre. Tuttavia le tenebre hanno la meglio. Ed è proprio la mescolanza di questo mondo a rendere possibile il dramma della salvezza. La mescolanza ha origine dalla “Caduta” che è per un verso volontario abbassarsi dell’anima alle tenebre dove poi si trova invischiata, ma per altro verso è destino, un “essere gettato”, uno dei simboli più ricorrenti nell’apocalittica. «Perché mi avete portato via dal mio luogo, mi avete messo in cattività e gettato in un corpo puzzolente?» (citazione dal Ginza dei Mandei). Sono le potenze del mondo a ingannare gli uomini. Ma è lo stesso rumore del mondo, che dovrebbe intimidirlo nell’intenzione dei demoni, a svegliare il mondo dal suo sonno e dalla sua ebbrezza. Il rumore del mondo fa “impaurire” l’uomo e così, contro la volontà delle potenze, l’uomo sente la chiamata alla vita. Il Salvatore chiama “da fuori”. L’Aldilà che nel qui del mondo non è familiare, si fa sentire come “chiamata”. La chiamata è un simbolo fondamentale per la cerchia gnostico-apocalittica: «Ha chiamato con voce celeste nel frastuono del mondo» (Il libro mandeo di Giovanni). Ecco perché ascoltare e chiedere sono connessi. La religione mandea e quella manichea, quella ebraica e quella cristiana, nonché l’Islam, appartengono allo stesso ceppo: sono religione dell’ascolto, della chiamata: hanno in comune il fondamento apocalittico.

2. DISPUTANDO CON SCHOLEM17 Gershom Sholem è il grande storico della Cabbala, colui che l’ha appunto restituito alla storia del popolo ebraico. Taubes rompe 17 Sulla critica di Taubes a Scholem si vedano: Il buon Dio sta nel dettaglio, in Il prezzo, 29-36 (or. 10.12.1977, articolo apparso in Die Welt); Il prezzo del messianismo, ibid., 37-44 (or. 1982); Una revisione critica delle tesi di Scholem sul messianismo, ibid., 45-56 (or. 1982); Walter Benjamin, un marcionita moderno? Scholem interprete di Benjamin: un esame alla luce della storia delle religioni, in ibid., 57-71 (or. 1986). Sulla polemica Taubes-Scholem, si vedano: Th. MACHO, Der intellektuelle Bruch zwischen Gershom Scholem und Jacob Taubes. Zur Frage nach dem Preis des Messianismus, in R. FABER – E. GOODMAN-THAU – TH. MACHO, Abendländische Eschatologie. Ad Jacob Taubes, Würzburg 2001, 531-543; G. BONOLA, Taubes contro Scholem, in Humanitas LX (2005) 1-2, 122-152.


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con Scholem nel 1951, come sappiamo da una lettera di Scholem, dopo un periodo di rapporti intensissimi che iniziano nel 1947, con una lettera scritta dopo pochi mesi dalla conclusione della sua tesi di dottorato, che sarà pubblicata poco dopo18. I motivi della rottura non sono del tutto chiari. Ma qui ci interessa solo l’aspetto oggettivo della disputa. Di questo contrasto hanno scritto sia Bonola che Macho: più partigiano il primo a favore di Scholem; più equanime il secondo, pronto a cogliere la fondatezza delle obiezioni a partire dalla natura stessa del problema che non si lasciava risolvere nei termini di Scholem. Più tardi, la critica più obiettiva all’impostazione di Scholem sarà quella di Moshé Idel19, che forse avrebbe fatto pendere la bilancia, sia pure parzialmente a favore di Taubes. I termini del dibattito stesso che oppose Taubes al suo maestro sono racchiusi in due conferenze: la prima, di Scholem, risale al 1959 e si trova pubblicata in italiano nel libro di Scholem dedicato ai Concetti fondamentali dell’ebraismo20, la seconda, di Taubes, risale al 1979, proprio al Congresso mondiale del giudaismo tenuto a Gerusalemme, vivente Scholem (che morrà nel 1982, prima ancora della pubblicazione di quella conferenza)21. È bene anzitutto illustrare la tesi centrale di Scholem, riportando direttamente il suo pensiero nella formulazione che egli ne dà all’inizio della conferenza sopra ricordata: «L’ebraismo rigetta e combatte con inflessibile determinazione proprio ciò che il cristianesimo proclama come il fondamento glorioso della sua intelligenza e come conquista positiva del suo messaggio. In tutte le sue forme e costruzioni, l’ebraismo si è infatti sempre attenuto a un concetto di redenzione come evento pubblico che si compie sulla scena della storia e nel cuore della comunità. Insomma, come evento che si produce essenzialmente nel mondo del visibile e che al 18

Il carteggio completo è pubblicato in Il prezzo, 107-151. D. BANON, Messianismi o messianismo? Il dibattito Idel-Scholem, in Humanitas cit. 111-121. 20 Genova 1986, 105-147. 21 Il prezzo del messianismo, in Taubes, Il prezzo del messianismo, 37-56. 19


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di fuori di questo suo manifestarsi nel visibile è impensabile. Al contrario, il cristianesimo concepisce la redenzione come evento che accade nell’ambito dello “spirituale” e dell’invisibile: come un accadimento che si produce nell’anima, nell’universo del singolo, inducendo una misteriosa trasformazione interiore che non necessariamente corrisponde a un mutamento esteriore dell’ordine del mondo. Anche la Civitas Dei di Agostino, che pure, nel quadro della dogmatica cristiana, rappresenta il tentativo di gran lunga più audace di conservare — nello stesso tempo reinterpretandole radicalmente nell’interesse della chiesa — le categorie ebraiche della redenzione, è definita come una comunità di uomini misteriosamente redenti all’interno di un mondo irredento. Dunque, ciò che per l’ebraismo si situava irrevocabilmente alla fine della storia, nel punto della sua estrema prospettiva, per il cristianesimo si colloca piuttosto nel vero centro del processo storico, innalzato ormai al titolo specialissimo di “storia della salvezza”. La chiesa si convinse di aver superato, con questa idea della redenzione, un concetto estrinseco di essa legato alla dimensione materiale, contrapponendogli una visione di superiore dignità. Ma è proprio a questa convinzione che l’ebraismo ha sempre negato l’apprezzamento e il valore di un progresso. La reinterpretazione delle promesse profetiche della Bibbia che prende radicalmente le distanze dal loro contenuto riferendole soltanto alla sfera dell’interiorità, è sempre apparsa ai pensatori religiosi dell’ebraismo come un’anticipazione illegittima di ciò che, tutt’al più, può apparire come interfaccia di un processo che si decide, però, comunque all’esterno: come un evento interiore, cioè, che al di fuori di questo processo resta viceversa impossibile. Quella che il cristiano considerava una concezione più profonda dell’evento esteriore, appariva invece agli occhi dell’ebreo come la totale liquidazione di esso e una forma di evasione per cui, nella cura di una pura interiorità che non esiste, si tentava di sottrarsi alla verifica (Bewährung) dell’istanza messianica nelle sue forme (Kategorien) più concrete»22.

Taubes non contesta i risultati dell’indagine storica di Scholem, anzi si avvale di essi, ma li interpreta diversamente (soprattutto facendo tesoro degli studi di Scholem sul sabbatianesimo). Di per sé egli non reagisce al contrasto forte tra cristianesimo e giudaismo, ma 22

G. SCHOLEM, Concetti…, 107-108.


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alle conseguenze che ne deriverebbero per la comprensione della storia del giudaismo stesso. Anzitutto la tesi dell’interiorizzazione come alternativa al messianismo viene controbattuta da Taubes con una sua precisa interpretazione del ruolo storico di Paolo (che per Taubes resta all’interno dell’ebraismo, come interpretazione di esso). Questa esegesi di Paolo sarà poi ripresa nella sua forma più acuta e dettagliata in “La teologia politica di San Paolo” contro Schmitt, ma è già annunciata nella conferenza del 1979: «La statica opposizione che Scholem mette in atto tra la concezione ebraica della redenzione e quella cristiana oscura la dinamica inerente all’idea messianica stessa. L’interiorizzazione non è affatto una linea di demarcazione tra “ebraismo” e “cristianesimo”. Essa piuttosto indica una crisi all’interno dell’escatologia ebraica nel momento stesso dell’attualizzazione — nella fase del cristianesimo paolino, come anche nel movimento sabbatiano del XVII secolo. Una volta che il Messia abbia fallito nel suo tentativo di redimere il mondo esteriore, come definire altrimenti la redenzione se non come rivolgimento interiore? Contrapponendomi a Scholem, vorrei mostrare che la strategia di Paolo di abolire la Legge non è stata dettata da motivazioni pragmatiche, un cedere a un “impulso proveniente dall’esterno”23, essa, piuttosto, segue alla lettera la “logica immanente” di Paolo, che ha accettato un messia giustamente crocifisso secondo la legge. Tanto peggio per la legge, sostiene Paolo. Per questo deve sviluppare la sua teologia messianica in forma “totalmente antinomica”, che culmina nella dichiarazione che il messia crocifisso è “la fine della legge” (Rom 10, 4). La crisi dell’interiorizzazione obbliga Paolo a distinguere tra un ebreo che è tale solo “esteriormente”, e un ebreo che lo è anche “interiormente” (Rom 2, 28) — il termine “cristiano”, per lui, non esiste ancora. La crisi è un evento totalmente ebraico. La crisi dell’escatologia diventa, Per Paolo, una crisi di coscienza»24.

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Taubes si riferisce con queste e con le seguenti parole tra virgolette a G. SCHOLEM, Die Krisis der Tradition im jüdischen Messianismus, in Judaica III, Frankfurt/M. 1973, 152-197. 24 Il prezzo, 38-39.


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Ma accanto a Paolo viene interpretato in modo diverso da Scholem il significato storico del sabbatianesimo e del suo assorbimento nel chassidismo. Scholem ha dedicato molti studi al femeno sabbatiano del XVII secolo25. Proprio avvalendosi degli studi del suo maestro, Taubes tuttavia propone un’interpretazione diversa. Anche qui come per Paolo, Scholem non fa altro che opporsi «alla conquista del regno dell’interiorità e alla speranza messianica, mentre, da un punto di vista storico, aprire il varco al regno dell’interiorità è la sola strada per evitare le assurde e catastrofiche conseguenze dell’idea messianica. […] Se la comunità messianica non vacilla, grazie alla sua certezza interiore, allora l’esperienza messianica deve volgersi all’interno; la redenzione deve essere concepita come un evento nel regno spirituale, come un evento che si riflette nell’animo umano […] L’interiorizzazione, o l’apertura di un regno interiore, fa essenzialmente parte della storia di questa ‘idea’, se essa deve avere una storia in un mondo irredento e non ridursi in “ognuna delle sue manifestazioni ad absurdum” […] Gli unici movimenti che hanno una durata, sono quelli in cui la vita del messia viene interpretata: dove lo scandalo rispetto alla normale attesa del messia (la morte o l’apostasia)26 viene “interpretato” per la comunità dei “credenti”. Il messia è solo il tema, la sinfonia, la sinfonia viene scritta da spiriti audaci come Paolo di Tarso e Nathan di Gaza»27. 3. TAUBES E SCHMITT28 Taubes è stato sempre attratto dal pensiero di Schmitt. Tralascio qui i dettagli del loro rapporto che sono stati resi noti nella loro 25 Vedi adesso in italiano G. SCHOLEM, Sabbetay Sevi. Il messia mistico 16261676, Torino 2001 (or. eb. 1957). 26 Cioè la morte di Gesù per Paolo e l’apostasia di Sebbatay per il chassidismo. 27 Il prezzo, 40-41. Paolo sarebbe cioè colui che interpreta il fallimento rappresentato dalla morte del messia Gesù, mentre Nathan di Gaza interpretò il fallimento rappresentato dall’apostasia del messia Sebbatay. 28 Sul dibattito con Carl Schmitt cfr. J. REIPEN, “Gegenstrebige Fügung”? – Jacob Taubes und Carl Schmitt, in Abendlandische Eschatologie, 509-529.


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completezza dallo stesso Taubes. Mi limito a esprimere la sintesi del rapporto nella versione che ne ha dato lo stesso Taubes: «Schmitt è guidato da un unico interesse: che il partito, che il caos non venissero a galla, che permanesse lo Stato. A tutti i costi. Per teologi e filosofi ciò è difficilmente accettabile, ma per il giurista vale un’unica regola: finché è possibile trovare anche solo una formula giuridica, non importa con quale artificio, è necessario applicarla, è necessario applicarla, altrimenti il caos dilaga. Il giurista è ciò che egli in seguito chiama kat-echon, colui che trattiene, che impedisce al caos di emergere. Non è questa la mia concezione del mondo, né la mia esperienza. Come apocalittico immagino che direi: vada pure a fondo. I have non spiritual investment in the world as it is. Ma capisco che un altro possa investire in questo mondo, e, qualunque ne sia la forma, veda nell’apocalisse l’avversario, facendo di tutto per soggiogarla e sottometterla, poiché c’è il rischio che da essa si sprigionino forze che non siamo in grado di controllare. Capite che cosa volevo da Schmitt? Volevo mostrargli che la divisione tra potere terreno e potere spirituale è assolutamente necessaria e che senza questa delimitazione l’Occidente esalerà il suo ultimo respiro. Questo volevo che capisse, contro il suo concetto totalitario»29.

29

Teol pol 177-189.


LA RIFLESSIONE DI E. SEVERINO SULLA TECNICA

GIUSEPPE SCHILLACI*

1. L’ESSENZA DEL NICHILISMO OCCIDENTALE Emanuele Severino nasce a Brescia nel 1929. Allievo di Gustavo Bontadini si laurea a Pavia con una tesi su Heidegger e la metafisica. Insegna filosofia all’Università Cattolica di Milano dal 1954 al 1970. Nel 1970 viene allontanato dalla predetta Università dopo una inchiesta condotta da tre censori nominati dalla Santa Sede (J.B. Lotz, C. Fabro sostituito da V. Miano e C. Nicoletti). Di questo allontanamento Severino ha parlato in un suo articolo pubblicato nel 1971 dal Giornale Critico della Filosofia Italiana1. Il punto controverso, per cui il nostro filosofo è costretto a lasciare l’insegnamento, riguarda in particolare il tema della creazione, da cui scaturiscono conseguenze speculative non indifferenti per la dottrina della Chiesa Cattolica, in quanto inerisce alla questione di Dio e alla sua trascendenza. L’essenza del pensiero, della cultura e della civiltà occidentale, secondo Severino, è il nichilismo. Nella sua opera Essenza del nichilismo, costituita da un insieme variegato di contributi, vi troviamo una visione sintetica, assolutamente unitaria e rigorosa del suo percorso filosofico. Il tema del nichilismo sembra essere una chiave di lettura fondamentale per inoltrarsi nella sua produzione letteraria. L’essenza insuperata del nichilismo occidentale consiste nel credere al divenire delle cose. Ciò significa che l’essenza del nichilismo si annida nella concezione stessa del divenire. Tutto, invece, secondo Severino è *

Docente di Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. L’articolo adesso è pubblicato nel suo saggio, Essenza del nichilismo, Milano 1995, con alcuni documenti ufficiali inerenti l’inchiesta, 317-387. 1


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eterno! «Il centro a cui si rivolgono i miei scritti è l’eternità di ogni cosa, di ogni istante, di ogni situazione. Se l’istante non è una semplice forma vuota, ma è tutto ciò che appare in un certo istante, ogni istante è eterno. E non solo è tutto ciò che appare in ogni istante, ma anche tutto ciò che non appare»2. Il pensiero di Platone è l’inizio di questo percorso nichilista dell’Occidente. In particolare, questo inizio è collocato nel famoso parricidio che Platone ha messo in atto con la sua opera Il Sofista. È con questo scritto che viene introdotto l’altro dall’Essere, cioè il Nulla. L’Occidente — con il posto di rilievo che il cristianesimo occupa nella sua storia — pensa fondamentalmente ed essenzialmente che «le cose del mondo divengono, cioè escono dal nulla e vi ritornano»3. La storia dell’Occidente è contrassegnata pertanto da questa linea di pensiero comune secondo la quale: «il mondo è fatto di cose che nascono e muoiono, che prima di nascere erano niente e tornano ad essere niente dopo la loro morte. In relazione ai differenti modi con cui le cose escono dal niente, si dice che sono ‘prodotte’, ‘create’, ‘costruite’, ‘fabbricate’, ‘fatte’, ‘realizzate’. Per la metafisica grecocristiana, Dio è il creatore del mondo (e l’uomo continua nel mondo la creazione divina); per l’immanentismo moderno il creatore del mondo è l’Uomo; la civiltà della tecnica non si limita ad affermare l’assoluta creatività dell’Uomo, ma gli dà gli strumenti per operare e progettare la modificazione più radicale delle cose. Lo sfondo di ogni approfondimento dell’indagine tecnico-scientifica è ormai il progetto della costruzione-distruzione del mondo intero. ‘Dio’ e la ‘tecnica’ sono i due modi fondamentali con cui la civiltà occidentale ha affer-

2 I. TESTONI (cur.), La follia dell’Angelo. Conversazioni intorno alla filosofia, Milano 1997, 41. La follia dell’Occidente è per Severino appunto la follia dell’Angelo, secondo la quale le cose nascono e muoiono, sono create e distrutte. La sostanza del nichilismo è tutta qui. Per cui ancora egli può ulteriormente affermare che «la dominazione della tecnica, a cui è destinata ad approdare la storia dell’Occidente, è pertanto la forma più rigorosa della Follia estrema»: N. IRTI – E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Roma -Bari 2001, 40. 3 E. SEVERINO, Il destino della tecnica, Milano 1998, 256.


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mato la produzione delle cose. Cioè sono i due modi fondamentali del nichilismo. La storia dell’Occidente è la storia del nichilismo»4. Questo è il fulcro attorno a cui ruota il suo cammino filosofico; è con questo pensiero unico che occorre fare i conti se si vuole affrontare la sua non sempre agevole riflessione speculativa. L’Occidente è rimasto prigioniero della permanente novità del cambiamento, dell’esperienza e del divenire, quindi cammina nelle secche del nichilismo. L’Occidente ha perduto il senso dell’essere, della verità incontrovertibile che sola può fugare il dubbio e superare i limiti. Di tutto questo, a parere di Severino, «la metafisica è la maggiore responsabile dell’eclissi della verità dell’essere, e la téchne è il parto naturale della metafisica»5. Egli individua, quindi, quale responsabile dell’eclissi della verità dell’essere la metafisica classica che ha introdotto il concetto di essere diveniente. Di contro l’assoluta incontrovertibilità dell’essere eterno non ammette il divenire, il tempo, la storia. Noi occidentali, secondo Severino, siamo coloro che abitano, si muovono dentro questa interpretazione malata che non riesce a vedere altro che divenire e cambiamento quando invece tutto è eterno: «l’annientamento degli enti non è qualcosa che si mostra con evidenza, ma è un’interpretazione malata di ciò che si mostra»6.

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ID., Essenza del nichilismo, 137. Severino precisa che «nichilismo significa affermare che le cose sono niente, ossia che il non-niente è niente. Sin da Platone, la metafisica ha identificato le cose al niente: affermando che escono e ritornano nel niente, afferma che sono state e tornano ad essere niente. Il mondo è la dimensione in cui il non-niente è niente, e ove Dio o l’Uomo hanno la capacità di operare l’identificazione del non-niente e del niente. Forza-cultura, religione-ateismo, cristianesimoanticristianesimo, metafisica-antimetafisica, materialismo-spiritualismo, moralismoimmoralismo, assolutismo-democrazia, capitalismo-comunismo, servo-padrone, umanesimo-tecnicismo formano i grandi contrasti che si svolgono all’interno della comune alienazione nichilistica dell’Occidente»: l.c. 5 Ibid., 136. 6 E. SEVERINO, Il destino della tecnica, 291.


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2. LA QUESTIONE DELLA TECNICA IN HEIDEGGER Per cercare di cogliere e contestualizzare la riflessione di Severino sulla tecnica, pare non si possa fare a meno di un riferimento al pensiero di Martin Heidegger. Soprattutto, credo, occorra prendere in considerazione il suo contributo, pubblicato in Saggi e discorsi, dal titolo significativo: La questione della tecnica (Die frage nach der Technik). Ci troviamo davanti un testo degli anni cinquanta, che si colloca, quindi, nel periodo della cosiddetta ‘svolta’ del pensiero heideggeriano. Il filosofo tedesco in questo saggio mette in evidenza come la tecnica non si identifica con l’essenza della tecnica: «secondo un’antica dottrina, l’essenza di qualcosa è il che cosa una certa cosa è. Poniamo il problema della tecnica quando domandiamo che cosa essa sia. Tutti conoscono le due risposte che si danno alla nostra domanda. La prima dice: la tecnica è un mezzo in vista di fini. L’altra dice: la tecnica è un’attività dell’uomo. Queste due definizioni della tecnica sono connesse. Proporsi degli scopi e apprestare e usare i mezzi in vista di essi, infatti, è un’attività dell’uomo. All’essenza della tecnica appartiene l’apprestare e usare dei mezzi, apparecchi e macchine, e vi appartengono anche questi apparati e strumenti stessi, come pure i bisogni e i fini a cui essi servono. La totalità di questi dispositivi è la tecnica. Essa stessa è un dispositivo o, in latino, instrumentum»7. Un mezzo in vista di un fine, posto dall’uomo, così sembra presentarsi immediatamente la tecnica alla nostra riflessione. Ora, però, la tecnica non è solo mezzo, è anche disvelamento, secondo il filosofo tedesco. Egli cerca di arricchire la questione partendo dall’esame etimologico della parola greca teécnh, la quale, secondo l’accezione classica, «non è solo il nome del fare artigianale e della capacità relativa, ma anche dell’arte superiore e delle belle arti. La teécnh appartiene alla produzione, alla poiéhsiv; è qualcosa di poietico (Poietisches)»8. Secondo 7 M. HEIDEGGER, Saggi e discorsi, trad. it., Milano 1991, 5. Il testo in lingua originale è del 1954. I testi presenti in questo volume sono stati tutti composti intorno agli anni ’50, sulla scia dell’annunciata Kehre, ‘svolta’, proposta dalla più nota Lettera sull’umanismo che è del 1949. 8 Ibid., 10. Poco prima, Heidegger ha precisato questo disvelamento facendo riferimento alla parola verità, in greco alhéqeia, in latino veritas, in tedesco Wahrheit


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questa concezione la tecnica si accompagna all’epistéme. Questi termini indicano entrambi il conoscere ed è il conoscere che dà apertura, secondo la particolare sottolineatura di Heidegger, che, però, individua nella tecnica moderna più che la poiesis classica la pro-vocazione: «il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una pro-vocazione (Herausfordern) la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta (herausgefördert) e accumulata»9. Per cui, «questa pro-vocazione accade nel fatto che l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto, ciò che così è messo allo scoperto viene trasformato, il trasformato immagazzinato, e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni. Mettere allo scoperto, trasformare, immagazzinare, ripartire, commutare sono modi del disvelamento»10. A questo punto, Heidegger si domanda: «chi compie il richiedere pro-vocante mediante il quale ciò che si chiama il reale viene disgelato come ‘fondo’? Evidentemente l’uomo. In che misura egli è capace di un tale disvelamento? L’uomo può bensì rappresentarsi questa o quella cosa in un modo o in un altro, e così pure in vari modi foggiarla e operare con essa. Ma sulla disvelatezza (Unverborgenheit) entro la quale di volta in volta il reale si mostra o si sottrae, l’uomo non ha alcun potere. Il fatto che a partire da Platone il reale si mostri nella luce delle idee non è qualcosa che sia stato prodotto da Platone. Il pensatore ha solo risposto (entsprechen) a ciò che gli ha parlato (zusprechen)»11. L’essenza della scienza moderna risiede, precisa ancora meglio il filosofo tedesco, nell’im-posizione la quale però «non è nulla di tecnico, nulla di simile a una macchina. È il modo in cui il reale si disvela come ‘fondo’. Di nuovo domandiamo: questo disvelamento accade in (intesa come esattezza Richtigkeit della rappresentazione), per cui egli domanda e si domanda: «ma dove siamo andati a perderci? Il nostro problema è quello della tecnica, e ora siamo invece arrivati all’alhéqeia, al disvelamento. Che ha da fare l’essenza della tecnica con il disvelamento? Rispondiamo: tutto. Giacché nel disvelamento si fonda ogni pro-duzione»: ibid.,9. 9 Ibid., 11. 10 Ibid., 12. 11 Ibid., 13.


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qualche luogo di là dall’attività dell’uomo? No. Ma d’altra parte, esso neppure accade solo nell’uomo e in modo decisivo per opera sua»12. La questione della tecnica viene riportata al disvelamento della alétheia: «essa non è dunque soltanto un’attività dell’uomo, né un puro e semplice mezzo all’interno di tale attività. La concezione puramente strumentale, puramente antropologica, della tecnica, diventa caduca nel suo principio; né si può completarla mediante la semplice aggiunta di una spiegazione religiosa o metafisica»13. L’essenza della tecnica si mostra nell’im-posizione e consiste nell’im-posizione. Il pericolo, secondo Heidegger, sta proprio nel Bestellen (im-porre), cioè nel domino che scaturisce dall’im-posizione: «L’im-posizione maschera il risplendere e il vigere della verità. Il destino che ci invia nel modo del Bestellen, dell’impiego, è così il pericolo estremo. Il pericolo non è la tecnica. Non c’è nulla di demoniaco nella tecnica; c’è bensì il mistero della sua essenza. L’essenza della tecnica, in quanto è un destino del disvelamento, è il pericolo. Il senso modificato della parola Ge-stell, im-posizione, ci risulta forse già un po’ strano, ora che pensiamo l’im-posizione nel senso del destino e di pericolo (Geschick und Gefahr). La minaccia per l’uomo non viene anzitutto dalle macchine e dagli apparati tecnici, che possono avere anche effetti mortali. La minaccia vera ha raggiunto l’uomo nella sua essenza. Il dominio dell’im-posizione minaccia fondando la possibilità che l’uomo possa essere negato di raccogliersi ritornando in un disvelamento più originario e di esperire così l’appello di una verità più principale. Così, dunque, là dove domina l’im-posizione, vi è pericolo nel senso supremo»14. Il destino si chiama destino, nella riflessione di Heidegger, non perché dotato di necessità, di fato, ma «perché è un modo di essere globale in cui il pensiero già da sempre si trova»15. Heidegger, in questo suo contributo, suggerisce di prestare attenzione all’essenza della tecnica e non alle cose tecniche. Tuttavia egli nota che «l’essenza della tecnica è in alto grado ambigua. Tale 12 13 14 15

Ibid., 17; il corsivo è nel testo. Ibid., 15-16. Ibid., 21; il corsivo è nel testo. G. VATTIMO, Introduzione, XI, in M. HEIDEGGER, Saggi e discorsi.


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ambiguità richiama all’arcano (Geheimnis) di ogni disvelamento, cioè della verità. Da un lato, l’im-posizione pro-voca a impegnarsi nel furioso movimento dell’impiegare, che impedisce ogni visione dell’evento del disgelare e in tal modo minaccia nel suo fondamento stesso il rapporto con l’essenza della verità. D’altro lato, l’im-posizione accade da parte sua in quel concedere il quale fa sì che l’uomo — finora senza rendersene conto, ma forse, in modo più consapevole in futuro — duri nel suo essere l’adoperato-salvaguardato per la custodia dell’essenza della verità. Così appare l’aurora di ciò che salva. L’inarrestabilità dell’impiegare e il ritenimento di ciò che salva si passano accanto come, nel corso degli astri, le traiettorie di due stelle. Solo che questo loro passarsi accanto è l’arcano della loro vicinanza. Se guardiano entro l’essenza ambigua della tecnica scorgiamo la costellazione, il movimento astrale dell’arcano. La domanda circa la tecnica è la domanda circa la costellazione in cui accade disvelamento e nascondimento, in cui accade ciò che costituisce l’essere della verità. Ma a che cosa ci serve il guardare entro la costellazione della verità? Noi guardiamo entro il pericolo e scorgiamo il crescere di ciò che salva. Con ciò non siamo ancora salvati. Ma siamo richiamati da un appello ad aspettare con speranza nella luce crescente di ciò che salva»16. L’uomo, comunque, è posto nella condizione di continuare a pensare, che costituisce il suo domandare. Un pensare che non è più da ricondurre ad un soggetto consapevole dei suoi oggetti, ma che si consegna e si abbandona (Gelassenheit) a quanto di problematico e degno di essere domandato vi sia. Questo è l’atteggiamento che conduce l’uomo a non chiudersi davanti alla minaccia e al pericolo: «quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva, e tanto più noi domandiamo. Perché il domandare è la pietà (Frömmigkeit) del pensiero»17. Irrompe nel percorso esistenziale dell’uomo un altro pensiero. La domanda che nasce spontanea è in cosa esso consiste. L’altro pensiero, secondo Heidegger, intanto non sarebbe più una filosofia ma, esatta-

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M. HEIDEGGER, Saggi e discorsi, 25. Ibid., 27.


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mente, la pietà del pensiero che rende possibile l’apertura: si intende l’uomo pio che si tiene aperto…18. Heidegger nell’intervista a Der Spiegel, del 23 settembre 1963, pubblicata però postuma il 13 maggio 1976, secondo quanto era stato concordato, risponde a colui che lo intervista, precisando che la tecnica nella sua essenza non è qualcosa di cui l’uomo può disporre, vale a dire che l’uomo si trova dinanzi una realtà che non controlla più: «la tecnica nella sua essenza è qualcosa che l’uomo di per sé non è in grado di dominare»19. La tecnica dei tempi moderni non ha più a che fare con gli strumenti e i mezzi, che cadono sotto il controllo e il domino dell’uomo, non rientra più in quei mezzi che l’uomo utilizza in vista di uno scopo. In tale prospettiva, l’uomo nella età della tecnica, secondo Heidegger, non è più il dominus, colui che controlla e utilizza quanto lo circonda, ma si presenta progressivamente come un uomo sradicato: «tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra. Non so se Lei è spaventato, io in ogni caso lo sono appena ho visto le fotografie della Terra scattate dalla Luna. Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto. Tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la Terra quella su cui oggi l’uomo vive»20. L’uomo si trova a vivere come in uno stato di necessità per cui il pensiero tradizionale, la filosofia, non può più nulla: «la filosofia non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo. E questo non vale soltanto per la filosofia, ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità, quello di 18 Cfr. M. HEIDEGGER, Ormai solo un Dio ci può salvare, Parma 1987, 140-141. Il riferimento esplicito a questo altro pensiero è a conclusione del testo sopra citato sul problema della tecnica: «Denn das Fragen ist die Frömmigkeit des Denkens». 19 Ibid., 132. L’intervista, perciò, ora si trova nel volume sopra citato. 20 Ibid., 134. Heidegger riferendo quello che gli ha confidato il poeta francese René Char, a proposito dell’installazione delle basi missilistiche in Provenza, sottolinea che «lo sradicamento dell’uomo che qui si compie è la fine di tutto, a meno che (ancora una volta) il pensare e il poetare non prendano il potere con lo loro forza non violenta»: l.c.


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preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all’apparire del Dio o all’assenza del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)»21. Quello che noi possiamo fare, in tale contesto, è risvegliare la disponibilità dell’attesa, l’apertura: «l’essenza della tecnica io la vedo in ciò che chiamo l’im-pianto, un’espressione spesso derisa e forse poco elegante. Il dominio dell’im-pianto significa: l’uomo è collocato, impegnato e provocato da una potenza che diviene palese nell’essenziale della tecnica e che egli stesso non signoreggia. Far capire questo: di più il pensiero non pretende. La filosofia è alla fine»22. La filosofia non può far altro dunque che risvegliare il pensiero e «preparare questa disponibilità e tenersi aperti per l’avvento o la contumacia del Dio. Anche l’esperienza di questa contumacia non è che sia nulla, ma è una liberazione dell’uomo da ciò che in Essere e tempo io chiamai lo scadimento dell’ente»23. Poiché la filosofia è alla fine, secondo Heidegger, nel pensiero moderno ad assumere prestigio e potere nell’ambito del sapere sono le scienze e tra queste acquista un posto di particolare importanza la cibernetica. La tecnica prende in tal modo sempre più il posto della filosofia perché nella natura di questo sapere si realizza coagulandosi quanto è nella pretesa di una soggettività che cerca il dominio del mondo. È la volontà di potenza a tradurre questa tendenza di una soggettività tutta protesa a impossessarsi della realtà che la circonda.

3. LO SCOPO DELLA TECNICA La nostra epoca viene di conseguenza sempre più contrassegnandosi per questo dominio della tecnica, riconosciuto da una mentalità ed incrementato da uno stile di vita, uno strapotere che ormai pervade e condiziona le varie dimensioni della nostra esistenza. La nostra è l’epoca nella quale la tecnica acquisisce sempre più 21 22 23

Ibid., 136. Ibid., 137. Ibid., 139.


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prestigio, potenza. Questa potenza si caratterizza soprattutto per la peculiarità di una radicale inversione del rapporto mezzo — scopo. La potenza della tecnica costituisce oggi non più un mezzo di cui servirsi ma lo scopo supremo. Scrive Severino: «le grandi forze della tradizione occidentale — cristianesimo, umanesimo, sapere filosofico, illuminismo, capitalismo, democrazia, comunismo, la stessa coscienza che scienza e tecnica hanno oggi di se stesse — concepiscono la tecnica, guidata dalla concettualità della scienza moderna, come strumento, mezzo. Per lo più si riconosce che essa è anzi lo strumento, il mezzo per eccellenza di cui l’uomo moderno può disporre e da cui oggi dipende la sopravvivenza della Terra»24. In particolare in una situazione, come quella occidentale, di conflittualità permanente, ciascuna delle tradizioni evocate, se vuole continuare ad esistere, deve evitare «di ostacolare o indebolire l’apparato scientifico-tecnologico di cui essa in vari modi si serve». Ora, però, secondo Severino «evitare che il fine ostacoli e indebolisca il mezzo significa assumere il mezzo come scopo primario, cioè subordinare ad esso ciò che inizialmente ci si proponeva come scopo. Le grandi forze della tradizione occidentale si illudono dunque di servirsi della tecnica per realizzare i loro scopi: la potenza della tecnica è diventata in effetti, o ha incominciato a diventare, il loro scopo fondamentale e primario. E tale potenza — che è lo scopo che la tecnica possiede per se stessa, indipendentemente da quelli che le si vorrebbero assegnare dall’esterno — non è qualcosa di statico, ma è indefinito potenziamento, incremento indefinito della capacità di realizzare scopi […]. Ogni altro scopo è più o meno consapevolmente, più o meno direttamente subordinato a questo scopo supremo: la crescita infinita della potenza; che ormai non può più prodursi al di fuori dell’apparato della tecnica. In tale subordinazione consiste la dominazione della tecnica nel nostro tempo, la destinazione al dominio»25. Il destino della tecnica è il dominio! 24 E. Severino, Il destino della tecnica, 10: «ognuna delle forze della tradizione intende servirsi di tale mezzo per realizzare il fine che le è proprio e che la definisce, cioè un mondo che di volta in volta vuol essere mondo umano o cristiano, capitalistico o comunista, totalitario o democratico. Tali forze sono dunque tra loro in conflitto. Sono in conflitto perché i loro fini sono conflittuali»: l.c. 25 Ibid., 11.


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C’è però un ostacolo, che si oppone alla potenza e al domino della tecnica, secondo Severino: l’ideologia. La tecnica si pone oggi come la forma più potente di salvezza dell’uomo. «Proprio per questo non può rimanere un semplice mezzo subordinato ad altri scopi e quindi logorato da essi (visto che, nel rapporto mezzo-scopo, lo scopo è ciò che si vuol far permanere, mentre il mezzo viene usato e logorato per far vivere durevolmente lo scopo): è destinata a diventare lo scopo supremo»26. La tecnica presentandosi come scopo supremo mostra il suo carattere salvifico: la sua trasformazione da mezzo a fine! Paradigma della potenza e del domino della tecnica è tutto quello che concerne l’universo onnipresente e polimorfo della comunicazione. Parliamo di un mezzo che ha acquistato una potenza notevole nel nostro tempo, al punto che il medium è divenuto il messaggio: «al di là della consapevolezza che Marchall McLuhan può averne avuto, questo è il significato più profondo dell’affermazione che ‘il medium è il messaggio’. Dire che l’apparato della tecnica è destinato a trasmettere la propria capacità di trasmettere qualsiasi messaggio significa che è destinato a trasmettere la propria destinazione al dominio. Infatti — si riassuma così — è destinato al dominio perché è destinato a diventare lo scopo supremo. Ma il dominio esige la conoscenza del dominato e la memoria globale. E dunque esige la capacità di impedire che le forze della tradizione si impadroniscano di tale memoria. E questa capacità esige a sua volta che al centro della dimensione informatico-telematica — che è la dimensione pubblica della comunicazione — sia posto il messaggio della destinazione della tecnica al dominio e a quella forma di dominio che è la capacità di trasmettere messaggi. Tutti gli altri messaggi, da fini, diventano mezzi»27. In questa logica di dominio si muove la scienza contemporanea, la quale mostra tutta la sua potenza attraverso il riconoscimento pubblico del proprio metodo. Infatti una delle acquisizioni comuni del pensiero e della cultura occidentale vede la scienza affermarsi oltre che per i connotati di obiettività, da cui scaturiscono sia il discorso che il metodo scientifico, anche per il riconoscimento pubblico di cui viene 26 27

Ibid., 16. Ibid., 17.


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sempre più rivestendosi. Si può dire che la stessa obbiettività della scienza dipende da questo riconoscimento pubblico. Il nostro autore ribadisce che: «l’obbiettività della scienza dipende dal riconoscimento pubblico del valore della conoscenza scientifica. Popper si riferisce al senso dell’obbiettività della scienza. Ma anche per lui — affinché vi sia scienza è necessario che, oltre all’obiettività, vi sia anche la potenza. La scienza è potenza. Così, sin dai suoi inizi la scienza moderna concepisce se stessa. […] Il metodo scientifico è il metodo della potenza scientifica, che è ormai la forma dominante della potenza obbiettiva. […] La potenza è reale e dunque è potenza della scienza, solo se è pubblicamente riconosciuta. Pertanto la scienza non è un semplice dominio sulle cose, che possa prescindere, nei suoi contenuti, dalla presenza della coscienza — cioè dalla coscienza che è inclusa nel riconoscimento intersoggettivo — : la scienza può dominare le cose solo se domina, con-vince la coscienza che ne riconosce la potenza»28. Questa potenza del sistema informatico e telematico, ma anche della scienza e nello specifico della tecnica, viene ricondotta da Emanuele Severino alla dialettica hegeliana del signore e del servo. La lotta per la vita è la lotta per il riconoscimento (Anerkennung). Il riconoscimento pubblico per eccellenza oggi è dato dal sistema dei grandi mezzi di comunicazione: «la potenza dell’uomo è desiderio di questo riconoscimento. Il desiderio umano vincente è il Signore; quello perdente è il Servo. Il Signore ha bisogno del riconoscimento del Servo. Altrimenti il Signore non esiste. Come Dio non esiste come Signore senza il riconoscimento dell’uomo, che è il Servo di Dio. Come non c’è legge senza riconoscimento umano di essa. Ma il discorso di Hegel può essere prolungato dicendo che il Signore ha bisogno del riconoscimento del Servo, come la potenza della scienza ha bisogno del riconoscimento pubblico, e dunque della sua forma oggi più elevata: i grandi mezzi di informazione e il sistema telematico-informatico. Hegel vede che la storia è fatta dai Servi. Dopo la vittoria, il Signore non si protende più direttamente verso le cose. Le ottiene mediante il lavoro del Servo. E nel lavoro il Servo inventa le tecniche, il sapere, la filosofia, la scienza. Oggi — aggiungiamo — il riconosci28

Ibid., 23-24; il corsivo è nel testo.


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mento pubblico della potenza della scienza va acquistando un carattere sempre più scientifico. Le tecniche dell’informazione sono prodotti scientifici, e tra i più elaborati. Il riconoscimento della potenza della scienza è oggi un aspetto di tale potenza: ha come contenuto se stesso»29. Il Servo diventa Signore! L’apparato telematico informatico è il mezzo che diventa fine, che non ha più bisogno di essere riconosciuto da altro da sé, ma da se stesso: «il riconoscimento della potenza del Signore è, nel Servo, una coscienza che — mentre la potenza del Signore va declinando — non soltanto sviluppa il lavoro e la scienza, ma anche il riconoscimento della loro potenza, che crescendo in sapienza diventa sempre meno servile. ‘La paura del Signore è l’inizio della Sapienza’, ripete Hegel col Salmo III (e Nietzsche rimane in questo ambito tematico quando pone la paura all’origine della scienza). Ma l’apparato scientifico-tecnologico sta diventando esso il Signore; che peraltro non deve più accontentarsi del riconoscimento di un Servo, ma riesce ad essere riconosciuto anche dal Signore cioè da se stesso — oltre che dai Servi, ossia dalle forze della tradizione occidentale, che illudendosi di servirsi della tecnica sono destinate a servirla. Anche la tecnica sta venendo ‘nella sua gloria’»30. In tal modo, con l’accrescimento sempre più potente dell’apparato scientifico-tecnologico, praticamente e teoreticamente, scompare Dio dall’orizzonte del pensiero occidentale e compare il paradiso della tecnica: «tramonta il Dio della tradizione occidentale e albeggia il Dio della tecnica, scompare il paradiso cristiano e si profila il paradiso dell’Apparato scientifico-tecnologico. C’è posto, in quest’ultimo paradiso, per ciò che è stato costruito dall’uomo in vista del paradiso ultra29

Ibid., 27-28. Ibid., 28. Nella nota Severino precisa che «quando gli uomini soddisfano il loro desiderio, si acquietano. L’inquietudine, che li travaglia sin tanto che restano inappagati, è la Storia. Ha dunque senso parlare di ‘fine (cessazione) della Storia’. […] Se intelletto, ragione, tecnica, filosofia, scienza sono opera del servo, che deve lavorare e industriarsi per il signore ozioso e guerriero e senza futuro storico, la Storia è l’opera dei servi. Anche il cristianesimo nasce dal ‘desiderio servile della vita a tutti i costi, sublimato nel desiderio di una vita eterna’, e dunque, da ultimo, ‘dall’angoscia del Servo davanti al Nulla, al suo nulla’»: ibid., 28-30. 30


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terreno — per esempio la bontà, la bellezza, la sapienza, la trascendenza religiosa. C’è posto per tutti i valori della tradizione occidentale, meno che per la verità dell’epistéme»31. Questo paradiso della tecnica, dunque, che pure ha in sé i valori della tradizione occidentale, non ha tuttavia la verità dell’epistéme. Per cui troviamo dinanzi a noi una felicità senza verità, vale a dire senza fondamento. In definitiva, secondo il nostro autore anche «quando l’Apparato della scienza e della tecnica avesse risolto tutti i ‘problemi dell’uomo’ si farebbe avanti — essenzialmente insoddisfatto e quindi essenzialmente angosciante — il bisogno essenziale, il bisogno della verità incontrovertibile e indefettibile. Ma questa assicurazione non può essere data dalla logica ipotetica della scienza e della tecnica. Se la verità che dal punto di vista del paradiso della tecnica potrebbe assicurare la felicità, e di cui in essa si sente il bisogno, è quella verità dell’epistéme che è destinata al tramonto, il paradiso della tecnica è ancora più angosciante di quello cristiano, perché a differenza di esso non può più illudersi di avere come sfondo l’epistéme, dove la somma felicità sia vista ‘faccia a faccia’, ossia incontrovertibilmente»32. Per la mancanza di verità, questo scopo, questo ultimo paradiso, farà aumentare l’infelicità nell’uomo perché, senza verità, non c’è sicurezza della felicità. Il paradiso della tecnica si rivela così per l’uomo un inferno: «l’ultimo paradiso avverte la mancanza di verità, ma la verità dell’Occidente non può soddisfare il bisogno di verità», perché questo è immerso nel divenire cioè dentro la contraddizione, dentro l’impossibilità dell’epistéme. «Ma uno spiraglio rimane aperto, perché al culmine dell’angoscia del paradiso della tecnica può forse venire incontro il senso inaudito della verità: la verità del destino. Che non è un futuro, ma da sempre circonda l’isolamento della terra dalla verità e l’isolamento delle cose dall’essere»33. La tecnica perviene in tal modo al nulla che la attende, per cui essa si manifesta come l’ultima espressione del nichilismo dell’Occidente.

31 32 33

Ibid., 265; il corsivo è nel testo. Ibid., 267. Ibid., 268; il corsivo è nel testo.


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La riflessione heideggeriana, che costituisce un riferimento e un punto di partenza, come abbiamo visto, comprende il dominio della tecnica all’interno del destino dell’essere, ovverosia all’interno della manifestazione e del nascondimento della verità: questa è la cifra che permette di cogliere i nessi fondamentali della realtà della tecnica. Heidegger utilizza su tale questione due espressioni: tecnica e essenza della tecnica. Ora, Emanuele Severino fa notare come il filosofo tedesco a proposito di tecnica e essenza della tecnica, «non fornisce alcun chiarimento sul loro rapporto. Qualsiasi lettore le prende per equivalenti. Nemmeno gli intervistatori mostrano di percepire in esse qualche differenza. Eppure per Heidegger ‘la tecnica’ non è ‘l’essenza della tecnica’. Ne La questione della tecnica (1953) Heidegger mostra che ‘l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico: ma è il ‘disvelamento’ (das Entbergen, ciò che i greci chiamano alétheia e che noi impropriamente traduciamo con verità). Il disvelamento, l’apparire del mondo. È per questo motivo che, per Heidegger, la tecnica, nella sua essenza, non è qualcosa di cui l’uomo possa disporre e dal cui dominio possa salvarsi. ‘Ormai, solo un dio ci può salvare’, egli dice. Ma la gran questione incomincia a questo punto. Perché l’uomo non può disporre del disvelamento della manifestazione delle cose? Perché la tecnica non può impadronirsi e far funzionare lo stesso apparire del mondo? Perché ci devono essere dei limiti alle capacità operative della tecnica? Io ritengo che la filosofia di Heidegger non sa e non può rispondere a queste domande»34. La riflessione di Severino, invece, ha la pretesa di rispondere a queste domande e lo fa mettendo sempre più in evidenza la potenza della tecnica, nella sua essenziale trasformazione da mezzo a scopo. Nella tecnica, lo spirito prometeico trova l’incarnazione più potente, quello spirito di dominio e di potere che conduce l’uomo ad andare oltre sé, ad oltrepassarsi. La tecnica così intesa non è un soffocamento per l’uomo, ma il suo massimo dispiegamento. L’uomo manifesta tutte le sue potenzialità proprio attraverso la tecnica. Ciò che, invece, soffoca e coarta l’uomo è l’ideologia e non la tecnica. Sistemi come il cristianesimo, il comunismo, la metafisica, il capitalismo, presentano 34

E. SEVERINO, Il destino della tecnica, 74.


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un’immagine di uomo sempre più oppresso, prigioniero, soffocato. L’uomo di oggi è sempre più capace di coordinare il mezzo e i fini e, soprattutto attraverso la tecnica, egli manifesta la volontà di incrementare all’infinito la capacità di realizzare scopi: «tale volontà è pura volontà di trascendenza, soddisfa cioè le istanze più profonde di trascendenza che sono espresse dalla coscienza religiosa, artistica, filosofica. L’incremento infinito della potenza riguarda le potenze del ‘corpo’ e quelle dello ‘spirito’, ed è capace di produrre prospettive ed esperienze sempre nuove e più ampie. Il bisogno di portarsi al di là di ogni esperienza è soddisfatto dalla potenza di realizzare nuovi scopi. Il ‘bisogno di Dio’ è innanzitutto il bisogno di essere una potenza che cresce indefinitivamente su se stessa e che conduce sempre al di là di ogni scopo realizzato»35. La felicità cui aspira la tecnica è però, come già notato, una felicità senza verità e perciò stesso angosciosa: «quanto più in alto il paradiso della tecnica si porta, quanto maggiore è la felicità e la pienezza materiale e spirituale che esso produce, tanto più è angosciosa la conoscenza, da esso posseduta, della possibilità che esso frani e precipiti. Un paradiso ‘illusorio’, almeno quanto quello cristiano»36. La tecnica, nel pensiero di Severino, si presenta come quella realtà che ha come suo scopo essenziale e primario di realizzare l’incremento infinito della potenza umana. Mi sembra di capire che risulta pericolosa — così come la evidenzia la riflessione del nostro autore — la tecnica gestita ideologicamente, non si può dire la stessa cosa quando la tecnica si manifesta nella sua possibilità infinita di realizzare scopi. Gli aspetti distruttivi della tecnica non riguardano pertanto la tecnica in quanto tale, ma la sua gestione ideologica. La potenza della tecnica, che si dispiega in quanto tale in tutta la sua potenza, non è in sé pericolosa. Non ci si salva tuttavia nella e con la tecnica. Anzi questa mostra il volto di un paradiso illusorio in quanto privo della verità. La riflessione di Severino sottolinea, inoltre, come andiamo sempre più verso un’epoca in cui non è più il profitto capitalistico che utilizza la tecnica, ma al contrario è la tecnica che si serve del profitto 35 36

Ibid., 265-266; il corsivo è nel testo. Ibid., 266.


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capitalistico, per aumentare sempre più la sua capacità di realizzare scopi. La tecnica punta decisamente all’incremento della propria potenza. Tuttavia, proprio per questo motivo, tale incremento infinito della potenza umana mostra come la tecnica si afferma risolutamente come l’erede legittimo del pensiero greco. Soprattutto nella misura in cui si considera il pensiero greco — così come fa il nostro autore — intrinsecamente legato alla convinzione che le cose escono dal nulla e al nulla ritornano. La capacità di guidare questa oscillazione tra essere e nulla, oggi, non è più in mano al Dio creatore del cristianesimo, ma alla tecnica e alla sua potenza. Severino offre nella sua riflessione, a suo dire, la comprensione autentica della inevitabilità di un processo che dalle radici della tradizione filosofica occidentale, conduce al dominio della tecnica di oggi. La tecnica è l’ultima espressione del nichilismo occidentale. L’Occidente, come mettevo in luce all’inizio, è il nichilismo. Tutti sono colpevoli di aver consegnato l’essere al niente, vale a dire ad una logica di violenza e di sopruso, al divenire. A questo, per Severino, ha contribuito la metafisica classica, il cristianesimo, la democrazia, il capitalismo, il marxismo… La tecnica, che oggi si dispiega in tutta la sua potenza ha preso decisamente il posto di questi sistemi. Essa tuttavia, come capacità infinita di realizzare scopi, non ha in sé la ragione di sé, non ha quell’unicum che è la verità.

4. NOTA CONCLUSIVA In conclusione, mi pare si possa dire che Emanuele Severino, nella sua riflessione sul tema in questione, non si discosta da una visione immanentistica che, con la sua difesa ad oltranza dell’identità del pensare, tende a comprendere ogni cosa dentro l’incontraddittorietà dell’essere eterno; egli si arresta al primato assoluto della teoreticità a cui, in ultimo, riconduce ogni complessità dell’esistenza. Nella sua riflessione non c’è spazio per il paradosso, per la contraddizione… Ci troviamo dinanzi ad un pensiero puro, logico, incontrovertibile, che padroneggia il discorso e a cui bisogna ricondurre ogni realtà. Il formalismo della sua riflessione si basa sul principio parmenideo di


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identità o di non-contraddizione, mai abbandonato, che guida ogni passo del suo percorso filosofico. Le sue tesi asciutte e rigorose hanno la pretesa di illuminare tutto il reale, anche se non sempre risultano chiare. In ogni modo egli si sottrae allo scacco, all’enigma, al mistero, per affermare risolutamente una razionalità formale; una razionalità che egli riduce, a mio avviso, continuamente ad un sistema monolitico e nozionale, che perde ogni riferimento alla vita ordinaria, finita, fragile e pur tuttavia complessa, con la quale ognuno di noi è chiamato continuamente a fare i conti: «la forza della critica di Severino viene dalla sua formalità. Ora questa appartiene alla nostra cultura, poco attenta alla realtà data, attratta dai fatti che può creare il suo pensiero slegato da ogni predato. Forse si potrebbe vedere qui la ragione del profondo accordo tra Severino e la nostra cultura della tecnica, e il successo dei suoi libri il cui pensiero è tutt’altro che di facile accesso popolare. Però, la formalità del pensiero non sarebbe, nel caso di Severino, uno strumento per andare al di là della sola determinazione logica? È chiaro lo statuto della logica formale nella sua opera»37. Severino, collocandosi complessivamente nella linea della scolastica più pura, scorge nella filosofia, in ultima istanza quell’arte del pensare che si preoccupa esclusivamente della formalità del linguaggio. Rimarca ancora Paul Gilbert: «è in questa scuola che Severino ha elaborato la sua idea di filosofia, che si compiace della formalità pura, a rischio di demolire con una logica serrata, più che i suoi maestri, le esitazioni delle nostre esistenze»38. L’attenzione che Emanuele Severino presta alla tecnica e al suo destino, in fondo, mira a mettere in luce l’incontrovertibilità della verità. L’ultima parola è della verità e non della tecnica. Una verità contro lo scarto, contro la fede…, che conduce alla negazione di ogni alterità, di ogni differenza, che si preoccupa di risolvere ogni paradosso e ogni inquietudine di cui comunque è intriso tutto ciò che riguarda la nostra esistenza finita, la storia, il linguaggio… Ci troviamo 37

P. GILBERT, Emanuele Severino e il linguaggio cristiano, in La Scuola cattolica (1996) 658-659. 38 ID., Sapere e sperare, Milano 2003, 161-162.

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dinanzi alla costruzione di un puro theorein che, sebbene ponga in rilievo alcune questioni inerenti la vita e il suo significato, inesorabilmente espelle la vita dalla sua riflessione, non ritrovandone cosĂŹ neppure il senso.





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