Synaxis 28 3 (2010)

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SYNAXIS XXVIII/3 - 2010

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA


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SOMMARIO

Sezione teologico-morale LE ALLUSIONI VETEROTESTAMENTARIE NELLA PREGHIERA DI GESÙ (Enzo Barrano) . . . . 1. Il Salmo 15 (16) . . . 2. Il Salmo 39 (40) . . . 3. I Salmi 41-42 (42-43) . . 4. Altri testi . . . . 5. Confronto con Gen 3,1-6 . . 6. Conclusione . . .

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PER UN’ANTROPOLOGIA CRITICA: APPUNTI (Giuseppe Ruggieri) . . . . .

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7 9 26 39 45 55 60

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LA LECTIO DIVINA E LA SPIRITUALITÀ SACERDOTALE: RIFLESSIONI DI UN MONACO (Guido Innocenzo Gargano) . . . . . 1. Una proposta di lectio divina . . . . 2. “Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo” 3. Presupposti per una corretta lectio divina . .

IL DONO DELLO SPIRITO: BATTESIMO ED IMPOSIZIONE DELLE MANI NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI (8,14-17; 19,1-7) (Salvatore Magrì) . . . . . . . . 1. Premessa . . . . . . . . 2. La visione tradizionale della confermazione come sacramento separato dal battesimo . . . . . . 3. La confermazione come completamento del battesimo . . 4. Ipotesi circa l’esistenza di due distinte tradizioni dell’Iniziazione cristiana . . . . . . . .

119 119 126 132 136


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5. La prospettiva ecclesiologica 6. Conclusione . .

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Seminario interdisciplinare Società, Economia, Vangelo. Rileggiamo la «Caritas in Veritate» CARITAS IN VERITATE. LINEE TEOLOGICHE (Francesco Brancato) . . . . . . 1. Introduzione . . . . . . 2. La caritas per l’impegno nella giustizia e nella pace . 3. La comunione trinitaria fonte e culmine della comunione tra i popoli . . . . . . . 4. Conclusione . . . . . .

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LA CARITAS IN VERITATE NEL CONTESTO DEL MAGISTERO SOCIALE DELLA CHIESA (Piero Sapienza) . . . . . . . 1. La Caritas in Veritate tra innovazione e tradizione . 2. La valenza socio-politica della carità . . . 3. Strutture di peccato e responsabilità dell’uomo . . 4. Vocazione dell’uomo per lo sviluppo integrale . . 5. Il lavoro: dimensione fondamentale dell’uomo sulla terra 6. Conclusione . . . . . .

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QUADRO BIBLICO DELL’ENCICLICA DI BENEDETTO XVI “CARITAS IN VERITATE” (Carmelo Raspa) . . . . . . . 1. Lavoro, progresso e sviluppo nella Bibbia . . 2. L’impianto biblico dell’enciclica . . . .

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185 185 190

IL PATHOS DELLA VERITÀ NELL’ENCICLICA CARITAS IN VERITATE DI BENEDETTO XVI (Antonino Crimaldi) . . . . .

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Sezione miscellanea SOLIDARIETÀ COME VALORE (Francesco Furnari) . . . . . . . 1. Introduzione . . . . . . 2. Meditazione sulla lettura di Luca 10,29-37 e di Matteo 18,1-5; 18,10-14;19,13-15 . . . . . . 3. La narrazione come ricerca dell’identità . . 4. Il fondamento del valore . . . . . 5. Rapporto tra essere e amore. Verso una metafisica agapica 6. Conclusione . . . . . .

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201 201

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203 210 212 214 217

UNA RIVISTA INGIUSTAMENTE NEGLETTA. LA SICILIA SACRA DI MONS. BOGLINO (Gaetano Nicastro) . . . . .

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Recensioni .

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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO


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Sezione teologico-morale Synaxis 3 (2010) 7-61

LE ALLUSIONI VETEROTESTAMENTARIE NELLA PREGHIERA DI GESÙ*

ENZO BARRANO**

I tre vangeli sinottici ci informano che, prima della cattura, al Getsemani, Gesù si scostò un poco dai discepoli e si mise in preghiera. Al Padre chiese che passasse il calice, ma poi aderì pienamente alla sua volontà. Giovanni, come è noto, non ha questa preghiera, ma certamente non la ignora: la smembra ed inserisce i vari elementi in diversi punti del suo vangelo1. Sono note, a riguardo della stessa preghiera, anche le differenze tra i tre evangelisti. Matteo e Marco presentano un racconto più ampio, alla cui base ci sta, probabilmente, una tradizione più ampliata rispetto a quella conosciuta e seguita da Luca. Limitandoci soltanto alle somiglianze e differenze più importanti, i tre evangelisti concordano, pur con diversità di linguaggio nel contenuto della preghiera e nell’esortazione ai discepoli a vegliare e pregare per non cadere in tentazione. Le differenze poi sono le seguenti: anzitutto, Matteo e Marco2 ci informano che Gesù cadde in una tristezza mortale, e la manifestò ai

* Estratto della tesi di Licenza in Teologia morale discussa il 12 febbraio 2010 presso lo Studo Teologico S. Paolo di Catania relatore il prof. Attilio Gangemi. ** Licenziato in Teologia. 1 Cfr. A. GANGEMI, La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni, in Synaxis 21 (2003) 215-281. 2 Cfr. Mt 26,38; Mc 14,33.


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discepoli con le parole: «la mia anima è triste fino a morire»3. Di tale tristezza Luca non dice nulla. Inoltre Matteo ci riferisce tre preghiere di Gesù al Padre e tre viaggi ai discepoli; Marco menziona due preghiere, di cui la prima comprende due parti, rispettivamente narrativa e dialogica, e tre viaggi. Luca infine comprende soltanto una preghiera e un viaggio. La preghiera al Getsemani è importante perché, per mezzo di essa, i tre evangelisti mostrano che solo apparentemente la passione fu guidata dalla cattiveria umana; in realtà era segnata da un disegno di Dio contenuto già nelle Scritture. Inoltre in tutto il doloroso cammino dal Getsemani alla sepoltura Gesù non fu condotto dagli uomini, bensì dalla volontà del Padre, alla quale, dopo un primo momento in cui chiese che passasse il calice, Gesù aderì in maniera incondizionata. Una lettura più attenta dei racconti della preghiera al Getsemani, evidenzia come in essa sono contenute diverse allusioni alle Scritture, soprattutto, ma non solo, ai Salmi. Ciò è molto importante perché rivela che tutto ciò che avvenne su Gesù era già previsto nelle Scritture, inoltre che l’adesione di Gesù alla volontà del Padre non fu passiva rassegnazione, bensì profonda e fiduciosa accettazione, nella certezza che, come annunziavano le stesse Scritture, il Padre non lo avrebbe lasciato nella morte. Ciò ci permetterà anche di comprendere, per quanto è possibile, la dimensione spirituale di Gesù, e anche di cogliere la dimensione di totale obbedienza, ma anche di totale fiducia e abbandono al Padre, con cui Gesù affrontò la terribile esperienza della passione. In realtà tutta la narrazione della passione è piena di allusioni alle Scritture. Nel nostro lavoro ci fermiamo soltanto alla preghiera di Gesù al Getsemani, contenuta in Mt 26,36-46; Mc 14,32-42; Lc 22, 3946. Ci riferiremo specificamente ai seguenti testi: 1. Il Salmo 15 (16), 2. Il Salmo 39 (40), 3. I Salmi 41.42 (42-43), 4. I Salmi 22 (23); 26 (27), 3

Cfr. Mt 26,38; Mc 14,34.


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Le allusioni veterotestamentarie nella preghiera di Gesù

5. 6. 7. 8.

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Il terzo canto del servo (Is 50,4-10), Il Salmo 142 (143), I due testi del libro di Isaia (Is 44,28; Is 55,10-11), Il testo di Gen 3,1-6.

1. IL SALMO 15 (16) Al Sal 15 (16) siamo rimandati per la nozione di “calice (toè pothérion)”. Leggiamo infatti, nel v. 5a del Salmo (LXX), la seguente espressione: «Il Signore (è) la parte (h| meròv) della mia eredità (th%v klhronomòav mou) e del mio calice (kaì tou% pothròou mou)». Riconosciamo tuttavia che non è immediatamente ovvio il fatto, menzionando il calice nella sua preghiera al Getsemani, che Gesù alluda al Sal 15,5a. È utile perciò stabilire un certo confronto con altri usi del termine, sia nel NT che nell’AT. La nozione di “calice”, in questi testi è complessa. Gli autori notano che esso è una metafora che, nell’AT, indica talora punizione o retribuzione. Nei racconti del Getsemani invece esso implicherebbe sofferenza e morte4. 1.1. La nozione di “calice (toè pothérion)” nella tradizione neotestamentaria L’uso preponderante, nel NT, del termine pothérion (calice) è nei vangeli sinottici, dove esso si legge ben diciotto volte5, contro i tredici usi del resto del NT.

4 Cfr. D. HILL, The Gospel of Matthew, Grand Rapids 1981, 341 e anche H. ANDERSON, The Gospel of Mark, cit., 320. 5 Cfr. Mt 10,42; 20,22.23; 23,25.26; 26,27.39; Mc 7,4; 9,41; 10,38.39; 14,23.36; Lc 11,39; 22,17. 20.20.42. Gli usi più numerosi si leggono nel vangelo di Matteo, sette usi; segue poi Marco con sei usi e Luca con cinque.


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1.1.1. Il termine pothérion nei vangeli sinottici A riguardo del termine pothérion, prescindendo dal suo uso nel contesto dei racconti del Getsemani, possiamo distinguere, nei vangeli sinottici, diversi aspetti, specificamente due: uno materiale ed uno simbolico. In senso materiale, esso si legge in Mt 10,42, nelle parole di Gesù: «se qualcuno darà da bere ad uno di questi piccoli un bicchiere (pothérion) d’acqua fresca […], non perderà la sua ricompensa»6. In senso materiale possiamo citare ancora Mt 23,25 dove Gesù rimprovera ai farisei: «pulite l’esterno del bicchiere (tou% pothròou)»7. Infine, sempre in senso materiale, il termine pothérion è menzionato nel contesto della cena, in relazione al calice che Gesù benedice e dà ai suoi discepoli8. In senso simbolico il calice è menzionato nelle parole rivolte da Gesù ai figli di Zebedeo, che, direttamente o attraverso la madre, gli chiedevano di potersi sedere alla sua destra o alla sua sinistra, nel suo regno. A loro, in Mt 20,22, Gesù chiede: «potete bere (toè pothérion) il calice che io sto per bere?»9. Subito dopo Gesù aggiunge: «il mio calice (toè meèn pothérioén mou) lo berrete»10. L’allusione, in quest’ultima serie di testi, è chiaramente alla Passione, e il calice di Gesù, che i discepoli, assieme a Lui, berranno è quello menzionato al Getsemani. Questi testi, però, non illuminano il nostro racconto, ma, al contrario, da esso sono illuminati e possono essere compresi a partire da esso. Possiamo allora concludere che nessuno degli usi del termine pothérion, nei vangeli sinottici, illumina lo stesso termine nel suo uso in bocca a Gesù nel racconto del Getsemani. Prescindendo dai testi dove il pothérion è oggetto della cura esteriore dei farisei, che non illuminano certo i testi riguardanti il calice proposto da Gesù ai figli di Zebedeo, questi invece si spiegano alla luce dei racconti del Getsemani: ai figli di 6 7 8 9 10

Cfr. Mc 9,41. Cfr. v. 26 e anche Mc 7,4 e Lc 11,39. Cfr. Mt 26,27; Mc 14,23; Lc 22,17-20. Cfr. anche Mc 10,38. Cfr. anche Mc 10,39.


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Zebedeo infatti Gesù propone lo stesso calice che Egli dovrà bere. Nemmeno illuminano i testi della Cena: in essi Gesù dà ai discepoli da bere il calice con il suo sangue; nei racconti del Getsemani invece è Lui che beve il calice.

1.1.2. Il termine pothérion nel resto del NT Nel resto del NT il termine pothérion si legge dodici volte, nel seguente modo: Gv 18,11; 1Cor 10,16.21.21; 11,25.25.26.27.28; Ap 14,10; 18,19; 17,4; 18,6. Oltre l’uso di Gv 18,11, tutti gli altri sono concentrati nella prima lettera ai Corinti (otto usi) e nell’Apocalisse (quattro usi). In Gv 18,11 leggiamo le parole rivolte da Gesù a Pietro che era intervenuto con la spada: «il calice (toè pothérion) che ha dato a me il Padre forse che non lo beva»? Benché Giovanni non riferisca la preghiera di Gesù, non c’è dubbio che questo passaggio giovanneo si ricollega ad essa11. Il quarto evangelista propone però una reinterpretazione di quei racconti. Mentre infatti nei Sinottici Gesù prima chiede che passi il calice, ma poi si adegua alla volontà del Padre, per Giovanni invece è fuori discussione il fatto che Gesù lo beva. Il motivo per cui Gesù deve bere il calice è contenuto in un’altra reinterpretazione proposta dal quarto evangelista. Mentre nei vangeli sinottici non si dice mai da dove proviene il calice a Gesù, il quarto evangelista invece esplicitamente dichiara che esso proviene dal Padre. Di ciò Gesù è massimamente cosciente: per questo non può non berlo. I sette usi paolini poi sono tutti compendiati nei cc. 10-11 della prima lettera ai Corinzi. Nel cap. 10 il termine si legge solo due volte, nei vv. 16 e 21. In questi testi l’allusione fondamentale è al calice della benedizione (toè pothérion th%v eu\logòav): si tratta del calice che stabilisce una comunione (koinwnòa) con il sangue di Cristo (v. 16) e che è incompatibile con quello dei demoni (v. 21). Nel contesto dei vv. 25-28

11 Cfr. A. GANGEMI, La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni, cit., 267-274.


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del c. 11 il termine pothérion è usato cinque volte12. In questi testi l’apostolo evoca la cena del Signore, nella quale Egli diede il calice della nuova alleanza stipulata nel suo sangue e che nessuno deve bere indegnamente, altrimenti beve la propria condanna. Gli ultimi quattro usi del termine pothérion, nel NT, infine, si leggono nel libro dell’Apocalisse, dove però il termine stesso ha una accezione negativa. In Ap. 14,10; si tratta del “calice dell’ira (e\n t§% pothrò§ th%v o\rgh%v au\tou%)”. In 16,19 si tratta ancora del “calice del vino del furore dell’ira (tou% oi"nou tou% qumou% th%v o\rgh%v)”, che a Dio venne in mente di dare alla Babilonia la grande. In 17,4 il termine è riferito alla grande prostituta, che ha in mano una coppa di oro (poth%rion crusou%n), piena di tutti i suoi abomini (bdelugmaétwn) di tutte le sue fornicazioni (taè a\kaéqarta th%v porneòav au\th%v). Infine in 18,6, il termine pothérion è riferito ancora alla Babilonia: ad essa bisogna rendere il doppio, nella coppa (e\n t§% pothrò§) nella quale ella fece le sue libagioni: si tratta della coppa delle sue fornicazioni. Nessuno di questi usi del termine pothérion può essere accostato al nostro della preghiera di Gesù al Getsemani. In essi il termine pothérion ha un senso metaforico ed è riferito a due aspetti: all’ira di Dio che si riversa su quanti hanno seguito la bestia e sulla Babilonia (14,10; 16,19) e a tutti gli abomini e fornicazioni da essa compiuti. Il calice (pothérion) è il ricettacolo degli abomini compiuti da Babilonia, la città grande, e anche il ricettacolo dell’ira di Dio che su di essa si abbatte. In nessun modo il calice del Getsemani può essere il calice dell’ira del Padre che si abbatte su Gesù e, meno che mai, il calice degli abomini da Lui commessi. La conclusione, a nostro parere, si impone: non solo negli usi dei vangeli sinottici, ma anche in quelli degli altri testi del NT è assente qualsiasi parallelo che, in qualche modo, possa illuminare l’immagine del calice che, secondo Giovanni, Gesù ha ricevuto dal Padre e che, perciò non può non bere, e che, secondo i Sinottici, almeno in un primo momento, chiese che passasse. Estendiamo perciò la nostra indagine all’AT.

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Cfr. vv. 25 (bis).26.27.28.


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1.2. La nozione di “calice (toè pothérion)” nell’AT Il termine pothérion, nell’AT, non è frequentissimo ma nemmeno è troppo raro; ricorre complessivamente trentuno volte e, dove il termine greco corrisponde al termine ebraico, traduce quasi sempre il termine sowK13. Pure nell’AT il termine pothérion è usato in diversi sensi. In senso più materiale è usato in Gen 40,11.13.21 (la coppa del faraone); 2Sam 12,3; 1Re 7,24-26; 2Cr 4,5 (un utensile del tempio); Esd 1,7 (i vasi di oro e di argento del tempio). Talora, in senso metaforico, è usato come immagine riferita all’ira e alla punizione di Dio; così nel Sal 74(75),9: «poiché nella mano del Signore c’è un calice (pothérion) ricolmo di vino drogato»14. In Ger 16,7, benché in forma negativa, si parla anche del calice della consolazione, cioè, simbolicamente, della consolazione: «non si spezzerà il pane all’afflitto per consolarlo del morto e non gli si darà da bere il calice per la consolazione (pothérion ei\v paraéklhsin)». Come simbolo di uno strumento di punizione, simbolicamente il calice è menzionato in Ger 28 (51),7: «Una coppa d’oro (pothérion crusou%n) era Babilonia in mano del Signore, con la quale Egli inebriava tutta la terra». Escluso il senso materiale, che non si adatta all’immagine del calice menzionato dai Vangeli Sinottici, tentiamo di stabilire un confronto con i testi in cui il termine pothérion è usato in senso simbolico. Escludiamo però anche il senso di “calice della consolazione”: il movimento dei testi evangelici è esattamente contrario: non può essere infatti calice di consolazione quel calice davanti al quale Gesù, non senza una certa insistenza, chiese al Padre che passasse. Rimane, negli usi veterotestamentari, il senso del calice come simbolo dell’ira e della punizione di Dio. Ma dobbiamo escludere anche questo aspetto: nulla infatti c’è, nei racconti sinottici, che minimamente riveli che il calice, che Gesù chiede “che passi”, sia il calice 13

Traduce syiK in Pr 23,31; yil:K in Est 1,7; ta(aBuq in Is 51,17. Cfr. inoltre Ab 2,16; Is 51,17.22; Ger 29 (49),12; 32 (25),15.17.28; Lam 4,21; Ez 23,31-33. 14


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dell’ira o della punizione divina, fosse anche per i peccati degli uomini, di cui Gesù si è caricato.

1.3. Qualche uso particolare nei Salmi Riteniamo utile adesso stabilire un confronto con qualche uso particolare del termine pothérion, nei Salmi, più pertinente al nostro scopo, dove il termine, pur in senso metaforico, è usato in senso positivo. Citiamo anzitutto il Sal 115 (116),4, dove l’orante ringrazia Dio con le parole (LXX): «un calice di salvezza (pothérion swthròou) prenderò e il nome del Signore invocherò». In questo testo soggiace l’immagine di una libagione conviviale: si alza non una coppa materiale, ma la stessa salvezza che, come motivo di lode, si attribuisce a Dio. Questo testo però male si applica ai racconti del Getsemani, dove invece si nota l’aspetto contrario: Gesù non alza “il calice della salvezza”, ma chiede che “passi il calice”. Un altro testo dove è usato il termine pothérion, in senso metaforico, è il Sal 22 (23),5, dove leggiamo le seguenti parole dell’orante (LXX): «hai preparato davanti a me una mensa di fronte ai miei nemici, hai cosparso di olio il mio capo, il tuo calice (toè pothérioén sou)15 inebriante (mequéskon) come eccellente (w|v kraétiston)». Benché il testo del Sal 22 (23) possa applicarsi globalmente a tutta la narrazione della passione, nulla, però, nel testo evangelico, suggerisce una specifica allusione ad esso nella menzione del calice al Getsemani. Ancora una volta possiamo notare come nel Sal 22 (23) il calice è simbolo di abbondanza e di gioia; nei racconti evangelici invece Gesù chiede che passi il calice.

15 Il testo dei LXX, che scrive toè pothérioén sou, è più difficile da comprendere. Il scrive invece: hfyfw:r yisowK (il mio calice [è] sazietà): si tratta di un calice riempito in maniera abbondante.

TM


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1.4. Relazione al Salmo 15 (16) Fermiamo la nostra attenzione soprattutto nel Sal 15(16),5, dove (v. 5a) leggiamo: «Il Signore [è] la parte della mia eredità e del mio calice». In questa parte il TM e la versione greca dei LXX praticamente coincidono16. Nel v. 5b però si nota tra i due testi qualche differenza. Nel TM leggiamo l’espressione: «tu tieni ferma la mia sorte»17; i LXX traducono: «tu sei colui che ristabilisci la mia eredità a me»18. Un motivo particolare induce a riferirci al Sal 15 (16): il fatto che esso non è assente nella riflessione neotestamentaria; più precisamente, è ripreso, in modo massiccio, soltanto dal libro degli Atti degli Apostoli. In At 2,25-28 infatti, Pietro, riferendo il Salmo a Davide, afferma che, essendo questi un profeta, alluse a Gesù, prevedendo la Resurrezione.

1.4.1. Il testo del Sal 15 (16),8-11 in At 2,25-28 In At 2,25-28 Luca mette in bocca a Pietro i vv. 8-11 del Sal 15 (16). Essi sono introdotti in seguito al suo annunzio della resurrezione: «ma Dio lo ha resuscitato, avendo sciolto (luésav) i dolori (taèv w\dònav) della morte». Nello stesso v. 24 Pietro spiega perché Dio ha resuscitato Gesù: «non era possibile (ou\k h&n dunatoén) che Egli fosse trattenuto (krate_sqai au\toén) da essa (u|p’au\tou%)», cioè dalla morte. Possiamo notare l’espressione ou\k h&n dunatoén (non era possibile); essa richiama le espressioni analoghe della preghiera al Getsemani. Gesù aveva chiesto al Padre che, se era possibile (dunatoén), passasse da Lui il calice. Si avverte una certa complementarietà: impli16

17 18

Possiamo stabilire un confronto tra il TM e la versione greca dei LXX: TM LXX: hfowh:w (il Signore) Kuériov (il Signore ) -tfn:m (parte) h| merìv ([è] la parte) yiiq:lex (porzione) th%v klhronomòav mou (della mia eredità) yisowK:w (e mio calice) kaì tou% pothròou mou (e del mio calice). Cfr. TM: yilfrowG |yimowT hfTa). Cfr. LXX: suè eù o| a\pokaqistw%n thèn klhronomòan mou e\moò.


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citamente nei racconti del Getsemani, si diceva che il calice non poteva passare; Pietro afferma adesso che “non era possibile” che la morte trattenesse Gesù. A conferma di tutto ciò, Pietro, mediante l’espressione: «Davide infatti dice a suo riguardo (ei\v autoén)», introduce, in At 2,25-28, la lunga citazione dei vv. 8-11 del Sal 15 (16), alla lettera secondo la versione greca dei LXX. In At 2,31 abbiamo un’altra ripresa, più abbreviata ed anche un po’ modificata. É ripreso, questa seconda volta, il v. 10, che Pietro, o l’autore di Atti per lui, però esprime in maniera più indefinita19, sempre a conferma dell’annunzio della resurrezione20. Dal momento che in At 2,25-28 il testo del Salmo è citato alla lettera secondo il testo dei LXX, riteniamo sufficiente riferirci, nella nostra riflessione soltanto al testo greco, anche perché il testo dei LXX presenta qualche modifica rispetto al testo originale. In questo testo del Salmo, citato nel libro degli Atti, il salmista, nel v. 25, introduce una dichiarazione che esprime la posizione che Dio precedentemente aveva nei suoi confronti: «prevedevo (prowrwémhn) il Signore davanti a me in tutto (diaè pantoév)». Poi passa a descrivere (v. 25b)21 la sua posizione presente: «è alla mia destra, cosicché io non vacilli (i$na mhè saleuqw%)». Infine passa a menzionare la gioia che egli ha provato: «a causa di ciò (diaè tou%to) gioì (hu\fraénqh) il mio cuore (h| kardòa mou) ed esultò (h\galliaésato) la mia lingua (h| glw%ssaé mou)» (vv. 26ab). La gioia poi trova il suo fondamento sulla speranza; continua infatti il testo del Salmo citato (v. 26c): «anche la mia carne (kaì h| saérx 19

L’autore passa dallo specifico “non lascerai (ou\k e\gkataleòyeiv)”, riferito ovviamente a Dio, del Sal 15(16), al più generico “non fù lasciato (ou"te e\gkateleòfqh)”. E’ omessa nel v. 31 l’espressione “la mia anima (thèn yuchén mou)”. Infine il testo del Salmo è applicato esplicitamente a Gesù: esso infatti scrive : «nè darai (ou\deè dwéseiv) che il tuo Santo veda (i\de_n) corruzione”; il testo di At 2,31, in riferimento a Gesù scrive: «né la sua carne vide la corruzione (ou"te h| saérx au\tou% e_den diafqoraén)». Un’ultima allusione al Sal 15 (16) è in At 13,35, come perno dell’argomentazione dei vv. 34-37. Si cita la stessa espressione di 2,31, nel v. 10: «non darai che il tuo Santo veda corruzione». 20 Cfr. At 2,31: «avendo previsto (proi=dwén) parlò della resurrezione (perì th%v a\nastaésewv au\tou%)». 21 Per comodità citiamo il Salmo secondo il testo di Atti.


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mou) riposerà (kataskhnwései) sulla speranza (e\p’e\lpòdi)». L’oggetto della speranza, sulla quale riposerà la carne del salmista, o di Gesù nella sua applicazione, è una plurima opera che Dio compirà nei suoi confronti. Si tratta di quattro opere parallele, rispettivamente due negative e due positive. Le due opere negative sono parallele e coordinate: «non lascerai (ou\k e\gkataleòyeiv) la mia anima (thèn yuchén mou) nell’Ade (ei\v ç$dhn), né darai (ou\deè dwéseiv) che il tuo Santo (toèn o$sioén sou) veda la corruzione (i\de_n diafqoraén)». Le opere positive sono ancora due, legate in maniera asindetica. Esse sono: «Mi hai indicato (e\gnwérisaév moi) i sentieri della vita (o\douèv zwh%v); mi riempirai (plhrwéseiv me) di gioia (eu\frosuénhv) con la tua presenza (metaè tou% proswépou sou)». Queste quattro frasi presentano un certo parallelismo alternato: 1. Non lascerai la mia anima nell’Ade; 2. Né darai che il tuo Santo veda corruzione; 3. Mi hai indicato i sentieri della vita; 4. Mi riempirai di gioia con la tua presenza. Al fatto di non lasciare l’anima nell’Ade corrisponde l’avere indicato i sentieri della vita; all’assenza di corruzione corrisponde la pienezza della gioia alla presenza del Signore. Per tanti versi, il testo del Sal 15 (16) appare più vicino al nostro testo della preghiera di Gesù al Getsemani. Infatti nei versi seguenti l’orante esprime la sua fiducia di superare il dramma del sepolcro e di ricevere da Dio l’indicazione circa i sentieri della vita. Questi elementi possono richiamare, e di fatti richiamano, il mistero della sepoltura e della resurrezione di Gesù. Da questo Salmo iniziamo così la nostra riflessione, nel tentativo di illuminare la nozione di calice nei nostri racconti. Nel testo di At 2,25-28 il Salmo è ripreso nella sua seconda parte per esprimere il superamento della sepoltura, l’elusione della corruzione e la speranza della vita. Rimane, però, sempre la domanda se la tradizione sinottica riprese da questo Salmo la nozione del calice. Due motivi, in particolare, suggerirebbero di no: nella tradizione sinottica anzitutto il calice è una entità oggettivamente diversa e distinta dal Padre; nel Salmo invece il calice si identifica con Dio stesso. Inoltre, nella tradizione sinottica il calice appare come una


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realtà negativa, al punto che Gesù chiede al Padre che passi; nel Salmo, invece, relazionato al termine “eredità (th%v klhronomòav mou)”, assume un carattere profondamente gioioso. Queste due differenze inducono a considerare più specificamente il v. 5 del Sal 15(16), dove appunto si legge il termine “calice”, ma prima è utile una presentazione globale del Sal 15 (16).

1.4.2. La prospettiva globale del Sal 15 (16) Come appare fin dalla prima espressione, il Sal 15 (16) è un Salmo di fiducia; il Salmista, fiducioso, si abbandona in Dio. Il Salmo comincia con una invocazione: «proteggimi, o Dio (fuélaxoén me)»; di essa egli dà anche una motivazione: «poiché su di te ho sperato (o$ti e\pì soì h"lpisa)»22. Il seguente v. 2 continua ancora nella prospettiva del fondamento dell’invocazione: l’orante può chiedere a Dio che lo protegga, perché lo ha scelto come suo Signore23. Il v. 3 è ancora sulla linea del precedente v. 2: l’orante vuole legittimare la sua richiesta a Dio di proteggerlo considerando però il suo rapporto non più con Lui ma con gli altri. Nemmeno questo v. 3 però è esente da difficoltà testuali. Nel TM leggiamo l’espressione: «per i Santi che in terra essi ed egregi di tutto il mio amore»24. I LXX traducono: «per i santi che nella terra di lui, ha reso mirabili tutte le sue 22

Il TM si esprime in maniera un po’ diversa: |fb

yityisfx-yiK

(poiché ho confidato

in te). 23

Nel v. 2: «ho detto a Dio: Signore mio sei tu (TM: hfTf) yfnodA) hfwh:yal :T:ramf); LXX: eùpa t§% kurò§: Kuérioév mou eù sué». La seconda parte del v. 2 però è più difficile e presenta nel TM una discrepanza rispetto al testo dei LXX; anzi, il testo stesso presenta delle difficoltà di lettura. Così come si trova, il testo ebraico dovrebbe essere tradotto alla lettera: «il mio bene non presso di te (!yelf(-laB yitfbow+)». Per questo la versione di Simmaco, Girolamo e il Targum proporrebbero la lettura: «il mio bene non senza di te (!yedf(:liB laB)». I LXX traducono più a senso: «poiché dei miei beni non hai bisogno (o$ti tw%n a\gaqw%n mou ou\ creòan e"ceiv)»; questa traduzione si sforza di superare l’incongruenza del TM ma non concorda pienamente con il contesto. Non ci interessa risolvere questo problema: esso però fa percepire che nel Salmo ci sono delle difficoltà testuali. 24 Cfr. TM: {fb-yic:pex-læK y”ryiDa):w hfM”eh jerf)fB-re$A) {yi$owd:qil:


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volontà in essi»25. Questo verso suona molto duro e si avverte la differenza tra il TM e la versione dei LXX. Evidentemente fin dai tempi antichi esso doveva suscitare difficoltà. Le edizioni critiche propongono anche delle correzioni26. Il senso globale però è comprensibile: l’autore dichiara che tutto il suo amore e la sua compiacenza sono rivolti verso i Santi che sono in terra; questi ovviamente sono coloro che appartengono a Dio. L’autore ritiene di essere orientato verso di loro, cioè di avere orientato verso di loro i suoi affetti, di appartenere a loro. Ciò però non toglie le difficoltà testuali. La difficoltà emerge ancora di più dal testo dei LXX che più direttamente ci interessa, e che propone, come abbiamo sopra già notato, una lettura diversa rispetto al testo ebraico. Le differenze tra il TM e la versione greca dei LXX sono diverse27, ma interessa soprattutto notarne una: mentre il TM si esprime alla prima persona singolare, sottolineando, così, il rapporto dell’orante verso i Santi, il testo dei LXX si esprime invece alla terza persona singolare, introducendo un diverso soggetto, verosimilmente Dio. Si esprime, così, nei LXX, il rapporto di Dio verso i Santi: in essi egli ha reso mirabili (e\qaumaéstwsen) le sue volontà (paénta taè qelhémata au\tou%). Con il termine “volontà (qeélhma)” i LXX hanno tradotto il termine ebraico yic:pex-læK, che abbiamo tradotto con “amore” e che può intendersi anche, con “propensione”, “cura”28. Il testo dei LXX, pur divergendo dal TM, non é senza una logica interna. Esso introduce una contrapposizione tra l’espressione «dei miei beni non hai bisogno (o$ti tw%n a\gaqw%n mou ou\ creòan e"ceiv)» e l’espressione «ai santi 25

Cfr. LXX: to_v a|gòoiv to_v e\n t+% g+% au\tou% e\qaumaéstwsen paénta taè qelhéma au\tou%

e\n au\to_v. 26

Cfr. R. KITTEL – P. KAHLE (edd.), Biblia Hebraica Stuttgartensia, Stuttgart 1966 , ad locum. La considerazione di queste ricostruzioni però direttamente non rientra nel nostro lavoro. 27 Per esempio i LXX verosimilmente traducono con il verbo diretto all’aoristo (e\qaumaéstwsen) l’aggettivo ebraico y”"ryiDa):w che abbiamo tradotto con “egregi”. 28 Di per sé il termine ebraico jepax include il senso di qeélhma adottato dai LXX. Mentre però nel TM si tratta dell’amore o della propensione dell’orante verso i santi, nel testo dei LXX si tratta della volontà di Dio, che si manifesta mirabile, che opera, cioè, cose meravigliose nei santi. 14


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(to_v a|gòoiv)», quelli nei quali (e\n au\to_v) Dio ha reso mirabili le sue volontà. Sembra che nella versione greca si voglia dire che Dio non ha bisogno delle cose umane ma, al contrario, quello che lui vuole lo ha realizzato, in modo mirabile, nei santi. In altre parole si tratta non di Dio che riceve, ma di Dio che vuole e opera cose mirabili. In questo senso l’orante fa buon calcolo ad affidarsi a Dio avendo in lui sperato.

1.4.3. La relazione della preghiera di Gesù al Sal 15 (16) Diversi elementi inducono a pensare che, nella preghiera, Gesù al Getsemani, menzionando il calice, alluda al Sal 15(16), secondo la versione greca dei LXX. Anzitutto il termine stesso pothérion; tuttavia osserviamo che questo elemento, da solo, non è sufficiente a fondare un rapporto. Inoltre il termine qeélhma, che, nel testo dei LXX, si legge nel v. 3. Nella preghiera di Gesù al Getsemani troviamo infatti accostati appunto i due termini: pothérion e qeélhma, ma in ordine inverso: prima è menzionato il “calice (toè pothérion)” poi la “volontà di Dio”29. Ancora un terzo elemento, che può suggerire, nella preghiera di Gesù al Getsemani, la ripresa del Sal 15 (16), è la menzione dell’eredità. Nel v. 5 infatti, secondo la versione dei LXX, leggiamo l’espressione: «Il Signore [è] la parte della mia eredità (th%v klhronomòav mou) e del mio calice (tou% pothròou mou); tu sei colui che ristabilisci la mia eredità (thèn klhronomòan mou) a me». Nel testo del Salmo l’eredità è menzionata tre volte30; sono anzi accostati, nel v. 5, i due termini klhronomòa e pothérion31. Il termine klhronomòa o affini non si legge però nel 29

30 31

Si può notare il seguente rapporto schematico: Sal 15 (16) Preghiera di Gesù toè pothérion (v. 3b) taè qelhémata (v. 5) toè pothérion qeélw (qeélhma). Il termine klhronomòa, nel contesto del salmo si legge tre volte: v. 5a, v. 5b, v. 6b. Possiamo notare anche il seguente schema: th%v klhronomòav mou tou% pothròou mou thèn klhronomòan mou .


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contesto della preghiera di Gesù al Getsemani, ma il suo riferimento a Gesù non è assente nel NT. Possiamo tuttavia notare come nel NT si parla anche di Gesù erede o dell’eredità conseguita da Gesù32. Il quarto elemento infine è quello che è costituito il punto di partenza della nostra riflessione: la lunga citazione, fatta alla lettera, secondo il testo dei LXX, del Sal 15(16),8-11b, in At 2,25-28. Questa lunga citazione, introdotta da Pietro, o da Luca per lui, per spiegare, alla luce delle Scritture, la Resurrezione, ci dice, come abbiamo già osservato, che il Sal 15 (16) era presente nella riflessione primitiva. Riconosciamo che nessuno dei quattro elementi sopra indicati da solo è sufficiente a mostrare la presenza del Sal 15 (16) nel contesto della preghiera di Gesù al Getsemani. Riteniamo tuttavia che i quattro elementi, messi assieme, confermano che il calice, che Gesù menziona al Getsemani, sia appunto quello di cui parla il Sal 15 (16).

1.4.4. Rilettura del Sal 15 (16) È ovvio che il Sal 15 (16), se è ripreso dalla tradizione evangelica, è ripreso, riletto e adattato alla luce del mistero di Cristo. In particolare la tradizione neotestamentaria avrebbe adattato soprattutto il v. 5a. Leggiamo in questo verso: Kuériov h| meròv th%v klhronomòav mou kaì tou% pothròou mou (Il Signore [è] la parte della mia eredità e del mio calice). Secondo il testo del Salmo, il Signore stesso è l’eredità del Salmista: quello cioè che egli si aspetta di ottenere; nello stesso tempo 32

Il verbo klhronomeéw è riferito a Gesù, in Eb 1,4, nella prospettiva di glorificazione pasquale. In questa stessa prospettiva è riferito a Gesù, in Eb 1,2, il termine klhronoémov e anche in Rm 8,17 (sugklhronoémoi) Questo stesso termine, metaforicamente, è riferito al “Figlio” nel contesto della parabola dei cattivi vignaioli, in Mt 21,38; Mc 12,7; Lc 20,14; nello stesso contesto, nei testi evangelici sopra citati, si legge il termine klhronomòa (eredità). L’allusione è certo alla glorificazione di Gesù; infatti, il proposito dei cattivi vignaioli è quello di uccidere il “Figlio”, e Gesù, come risposta cita il Sal 118. Tuttavia non é certo che la nozione di “erede” o di “eredità”, riferita a Gesù, derivi dal Sal 15(16) o almeno, esclusivamente, dallo stesso Salmo. Si può infatti citare il Sal 2,8 che sembra essere meglio presupposto in Eb 1,2.4. Però anche a riguardo di questi testi si può discutere se la nozione di erede derivi soltanto dal Sal 2 o non ci possa essere allusione anche al Sal 15 (16).


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però il Signore è il suo calice: il motivo cioè, e anche l’oggetto, della sua gioia. La riflessione neotestamentaria avrebbe così operato, sul testo del Salmo, soprattutto due mutamenti. Anzitutto sarebbe passata dal Signore che “è” «la parte dell’eredità e del calice»33, al Signore che “dà” la parte dell’eredità e del calice. Inoltre avrebbe invertito gli elementi: prima avrebbe menzionato il calice poi l’eredità34. In questo modo, calice e eredità avrebbero potuto essere facilmente riferiti ai due misteri di morte e resurrezione. Il calice avrebbe potuto facilmente evocare la passione, mentre invece non avrebbe potuto evocare la resurrezione. Al contrario, la resurrezione poteva essere evocata bene dall’immagine dell’eredità. Possiamo allora cercare di ricostruire nel seguente modo la riflessione della tradizione evangelica fondata sul Sal 15 (16). Dio è la parte di eredità e del calice del salmista e lo è anche per Gesù. A Gesù però Egli, nella prospettiva di donargli l’eredità, si presenta donandogli il calice. Possiamo anche dire che il “Dio-calice”, si presenta a Gesù con il volto di un calice concreto, quello della passione, e questo calice Egli gli dona da bere. Non però da solo, ma in vista dell’eredità che per Lui ha riservato dopo che Egli ha bevuto il calice. In questa prospettiva si possono leggere i vv. 8-11 del Salmo, citati in At 2,25-26. Gesù ha bevuto il calice che il Padre gli ha dato ed ora, nel suo sepolcro, attende l’eredità. Nel suo sepolcro Gesù prega con le parole del Sal 15 (16). Dichiara cioè che la sua carne (h| saérx mou) riposa (kataskhnwései) sulla speranza (e\p’e\lpòdi). Egli infatti è sicuro che il Padre, il cui calice ha bevuto, non lascerà (e\gkataleòyeiv) la sua anima (thèn yuchén mou) all’Ade (ei\v ç$dhn), né darà al suo santo (ou\deè dwéseiv toèn o$sioén sou) di vedere la corruzione (i\de_n diafqoraén). Al contrario, gli ha 33

Possiamo notare nell’espressione Kuériov h| meròv il seguente rapporto sintat-

tico: Kuériov: h| meròv:

soggetto, predicato. Si sottintende il verbo e\stòn. 34 Nel Salmo prima è menzionata l’eredità poi il calice. Forse tale ordine vorrebbe dire che la parte riservata al salmista (eredità) è il Signore, il quale, Signore, per lui è fonte di gioia (il calice).


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indicato (e\gnwérisaév) le vie della vita (mou o|douèv zwh%v) e lo riempirà (plhrwéseiv) di gioia (eu\frosuénhv) con il suo volto (metaè tou% proswépou sou). Il volto stesso di Dio costituisce la gioia di Gesù. Non rimanere nell’Ade, non provare la corruzione, andare verso la vita e gioire della contemplazione del volto di Dio, sono l’eredità che Gesù attende nel suo sepolcro, dopo avere bevuto il calice della passione con la cui immagine il Padre gli si è presentato. Osserviamo però un elemento. Riprendendo il testo del Sal 15 (16),811, il testo degli Atti non lo riprende tutto. Il Salmo infatti continua con una espressione ancora: terpnoéthtev e\n t+% dexiç% sou ei\v teélov (appagamento nella tua destra senza fine). L’eredità di Gesù comprende quindi un ulteriore elemento: ottenere appagamento pieno e definitivo alla destra di Dio. L’eredità di Gesù culmina perciò nella sua posizione alla destra di Dio. L’autore degli Atti però probabilmente ha omesso quest’ultimo verso del Sal 15 (16), per recuperare, per altra via, l’elemento della destra di Dio. Scrive in 2,33 infatti che Gesù «essendo stato innalzato (u|ywqeòv) con la destra di Dio (t+% dexiç% ou/n tou% qeou%)». L’aspetto della destra di Dio che “innalza” non si riconduce al Sal 15 (16), bensì, meglio, al Sal 117 (118), 16a: dexiaè Kuròou u$ywseén me (la destra del Signore mi ha innalzato). Subito dopo, nel seguente v. 34, l’autore però cita il Sal 109 (110),1, dove si parla della sessione di Gesù alla destra di Dio (kaéqou e\k dexiw%n mou).

1.4.5. La preghiera di Gesù al Getsemani alla luce del Sal 15 (16) Possiamo infine tentare di rileggere la preghiera di Gesù al Getsemani alla luce del Sal 15 (16). Ci riferiamo soprattutto alla prima parte del Salmo, ai vv. 1-6; i vv. 8-11 infatti, citati da Pietro nel discorso della Pentecoste, nel c. 2 del libro degli Atti, si collocano meglio in bocca a Gesù che, dopo avere bevuto il calice, attende nel suo sepolcro di essere risvegliato e di essere guidato per i sentieri della vita nella resurrezione. Non tutto, ovviamente, nei vv. 1-6, giova al nostro scopo. Individuiamo soltanto tre punti particolari: i vv 1-2a; il v. 3; il v. 5. Il


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primo punto è costituito dai vv. 1-2a, dove leggiamo le seguenti parole (LXX): «custodiscimi, Signore, poiché in te ho sperato. Dissi al Signore: Signore mio sei tu». In queste parole si colgono tre aspetti progressivi, che si evidenziano meglio leggendo le tre espressioni in maniera inversa35. In questo modo, il progresso si percepisce facilmente: il salmista riconosce e professa che Dio è il suo Signore; di conseguenza può sperare in Lui; dal momento che ripone in Lui la sua speranza, può chiedergli di custodirlo. Il secondo punto è costituito dal v. 3. Prescindendo dal TM e leggendo il testo del v 3 secondo la versione dei LXX, il soggetto del verbo principale, e\qaumaéstwsen, formulato alla terza persona singolare, non può essere se non Dio. A Dio debbono quindi riferirsi i pronomi di terza persona singolare nel contesto. Ci riferiamo specificamente all’espressione e\n t+% g+% au\tou% (nella sua terra) e all’espressione taè qelhémata au\tou% (le sue volontà). Si tratta quindi dei santi che dimorano nella terra di Dio e che sono oggetto della sua volontà. Al centro del v. 3 troviamo il verbo e\qaumaéstwsen che abbiamo tradotto con “ha reso mirabili”: Dio ha reso mirabili le sue volontà nei confronti dei santi che sono nella sua terra. Tutto il testo dei vv. 1-6 del Salmo si rivela alquanto lacunoso. Si parla di una volontà di Dio a riguardo dei suoi santi. Il testo però non dice in che cosa consista questa volontà; si limita soltanto ad indicare la presa di coscienza del salmista del fatto che Dio ha una volontà a riguardo dei suoi santi. Il terzo punto è costituito dal v. 5, testo che abbiamo già ampiamente considerato. In questo verso, come abbiamo osservato, il salmista riconosce che la parte di eredità che egli ha scelto per sé è il Signore e il Signore stesso inoltre è il motivo della sua gioia, il suo calice. Il salmista sa però che, avendo scelto il Signore come sua eredità, da Lui non resterà deluso. Per questo nel seguente v. 5b può dire: «tu sei colui che ristabilisci (o| a\pokaqistw%n) la mia eredità a me».

35

La maniera inversa è la seguente: 3. Dissi al Signore: Signore mio sei tu (eùpa t§% Kurò§: Kuérioév mou eù sué); 2. In te ho sperato (e\pì soì h"lpisa); 3. Custodiscimi, Signore (fuélaxoén me, Kuérie).


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Riepilogando, il Sal 15 (16), come abbiamo ripetuto, si presenta alquanto lacunoso; è difficile perciò stabilire chi lo ha scritto e quale situazione esso presupponga. Le parole iniziali del v. 1: «custodiscimi o Dio» e quelle del v. 10: «non lascerai la mia vita all’Ade» rivelano che alla base del Salmo ci sia una situazione difficile, quasi mortale, che il salmista sta attraversando. Il salmista però si affida a Dio che si è scelto come sua eredità ed è sicuro che Egli lo libererà. Il Salmo, soprattutto nei vv. 1-6, può costituire però uno schema coerente su cui è costruita la preghiera di Gesù al Getsemani. Gesù si trovò di fronte alla passione e, come appare dagli stessi racconti evangelici, fu assalito da profondo turbamento e angoscia. La stessa preghiera di Gesù, in cui Egli chiese che passasse il calice, rivela che Egli provò la tentazione di eluderlo. Dietro il calice però c’è il Padre; come appare soprattutto da Gv 18,11: è Lui che glielo dona. Possiamo dire anche che il Padre, che Gesù ha scelto come “suo calice”, si presenta con il volto della passione. Gesù, che ha fatto del Padre la sua eredità e il suo calice, non può perciò non accettare la passione36. Gesù scorge dietro il calice, che il Padre gli presenta da bere, la Sua volontà, quella volontà, di cui parlava il Salmo, in favore dei Santi sulla sua terra. Gesù non può così disattendere la volontà del Padre, ad essa si adegua ed accetta di bere il calice. Egli così accetta e va incontro ad esso in atteggiamento di profonda fiducia e speranza nel Padre; Egli ha sperato in Lui e gli chiede di custodirlo, così come il Salmo indicava (v. 1). Dopo avere bevuto il calice, Gesù, nel suo sepolcro, benedice il Padre (eu\loghésw, cfr. v. 7) che gli ha fatto comprendere (sunetòsantaé me), ed ora, nel suo sepolcro, la sua carne poggia sulla speranza (v. 9c): la speranza che il Padre non lascerà la sua vita nell’Ade, non lo farà passare attraverso la corruzione, gli indicherà la via della vita e lo farà gioire alla presenza del suo volto. Il Padre non ha deluso Gesù, ma il terzo giorno lo ha risvegliato, lo ha resuscitato e lo ha fatto sedere poi presso di Lui, alla sua presenza. 36 Cfr. nel testo di Gv 18,11 l’interrogativa retorica: ou\ mhè pòw au\toé (forse che non lo beva)?


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2. IL SALMO 39 (40) Accanto al Sal 15(16), in relazione alla preghiera di Gesù al Getsemani, si può citare anche il Sal 39 (40). Il legame del Sal 39 (40) con il Sal 15 (16) è stabilito dal termine qeélhma.

2.1. L’indole del Salmo Anche per questo Salmo è utile una presentazione previa globale. Esso incomincia con una evocazione storica da parte del salmista. Egli ricorda la sua situazione drammatica nella quale ha posto la sua fiducia nel Signore ed Egli gli ha risposto salvandolo. Questa rievocazione storica si protrae dal v. 1 fino al v. 4a. Egli ricorda come il Signore lo ha tratto dalla fossa della morte e dal fango della palude; ha stabilito i suoi piedi sulla roccia, ha reso sicuri i suoi passi ed ha messo sulla sua bocca un canto nuovo, una lode al Signore nostro Dio. I vv. 4b-5 hanno un indole piuttosto sapienziale. Il salmista esprime la sua fiducia che molti, stimolati dalla sua propria esperienza, possano essere indotti a confidare nel Signore e riporre in Lui la loro speranza. Il v. 5 infatti contiene una beatitudine: il salmista chiama beato colui che spera nel Signore e non si schiera con i superbi. Nel v. 6 il salmista torna ancora a contemplare i prodigi che il Signore ha operato in suo favore. Essi sono tali che manifestano la grandezza di Dio, al punto che nessuno si può paragonare a Lui. Inoltre sono così abbondanti e numerosi che è impossibile enumerarli e proclamarli tutti. Tra il v. 6 e il v. 7 il salmista implicitamente esprime una esigenza e pone una domanda: bisogna ringraziare il Signore, ma come ricambiarlo per tutto quello che Egli ha fatto? La risposta, stavolta esplicita, è introdotta nel v. 7. La maniera più semplice potrebbe essere quella di offrirgli dei sacrifici. L’orante però si rende conto che non sono essi ciò che Dio gradisce; è inutile perciò offrirglieli. Ciò che Dio vuole non sono i sacrifici di animali. Il salmista li elenca tutti: il sacrificio cruento (qusòan), quello vegetale (prosforaén), gli olocausti (o|lokauétwma), i


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sacrifici per il peccato (perì a|martòav); tutto l’ordinamento sacrificale è da Dio praticamente rifiutato. Ciò che Dio vuole, lo ha già Lui stesso indicato mediante una azione che Egli ha compiuto: Egli orecchie (w\tòa) ha predisposto (kathrtòsw) al salmista (moò), lo ha cioè disposto all’ascolto e all’accoglienza della sua legge. L’orante accondiscende al desiderio di Dio e dichiara appunto che la Sua legge è nel mezzo delle sue viscere, cioè nel suo più profondo intimo37.

2.2. I vv. 7-9 I vv. 7-9 sono quelli che più interessano al nostro scopo. Li leggiamo sia secondo il TM, sia secondo la versione greca dei LXX.

2.2.1. Il Testo Masoretico Secondo il TM, le parole del Salmo suonano nel seguente modo: (sacrificio e offerta non gradisci) yiL ftyirfK {iyan:zf) (le orecchie hai aperto a me) fT:lf)f$ )ol hf)f+Axaw hflow( (olocausto e sacrificio per il peccato non hai chiesto) yit)fb-h”¢Nih yiT:ramf) zf) (Allora dissi: ecco vengo) yælf( bUtfK rep”"s-taLig:miB (sul rotolo del libro è scritto a mio riguardo) yiT:cfpfx yaholF) !:nowc:r-tOe&A(al (fare la tua volontà ho desiderato) yf(am |owt:B !:tfrowt:w (e la tua legge in mezzo alle mie viscere). Il TM del Sal 40 (39),7-9 rivela delle anomalie38; ne indichiamo soprattutto due. Anzitutto l’espressione yiL t f yirK f {iyn a z : ) f (le orecchie hai fT:capfx-)fl hfx:nimU xab:z

37 Contrapponendo i sacrifici all’osservanza della legge, il Salmo rivela una contraddizione che sarà superata poi dal NT: è proprio la legge, da Dio desiderata, che prescrive tutti i sacrifici da Dio rifiutati. 38 Le difficoltà testuali ed interpretative dei vv. 7-9 del Sal 40 (39) sono evidenziate da Kraus, cfr. H.J. KRAUS, Psalmen, I, Neukirechen-Vluyn 19896, 461.


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aperto a me) interrompe l’elenco dei sacrifici che, senza questa espressione, costituirebbe un verso organico in due parti39. Desta pure un certo sospetto la ripetizione del verbo japfx, alla seconda persona del perfetto all’inizio del v. 7 (fT:capfx) e alla prima persona del perfetto quasi alla fine del v. 9 (yiTc : p f x f ). L’anomalia più forte però riguarda l’infinito costrutto to& e ( A l a , per il quale si pone la domanda da chi dipende. Esso infatti può dipendere da tre espressioni: dal verbo yit)fb40; oppure dal participio qal passivo bUtfK41; oppure dal seguente verbo al perfetto yiT:cfpfx42. Queste osservazioni suggeriscono che il testo attuale del Salmo non sia quello originale, ma in esso sia stata apportata qualche aggiunta. Riteniamo di potere individuare il seguente testo originale: fT:lf)f$ )ol hf)f+Axaw hflow(

fT:capfx-)fl hfx:nimU xab:z

(sacrificio e offerta non gradisci olocausto e sacrificio per il peccato non hai chiesto) yaholF) !:nowc:r-toe&A(al

yit)fb-hӢNih yiT:ramf) zf)

(Allora dissi: ecco vengo a fare la tua volontà) Otteniamo, così, un distico, in cui ogni verso ha due parti. Si nota anche una coerenza dal punto di vista strutturale e metrico. Le due parti del primo verso sono parallele. Ciascuna comprende due oggetti coordinati, seguiti da due forme verbali negative introdotte dalla particella )ol: xab:z (sacrificio) hflow( (olocausto) hfx:nimU (e offerta) hf)f+Axaw (e vittima per il peccato) fT:capfx-)fl (non gradisci) fT:lf)f$ )ol (non hai chiesto) Le due parti, messe insieme, presentano quattro sacrifici: il sacrificio cruento, l’offerta vegetale, l’olocausto e il sacrificio per il 39

(sacrificio e offerta non gradisci) (olocausto e sacrificio per il peccato non hai chiesto). 40 Si otterrebbe così l’espressione tO&A(al […] yit)fb (vengo […] a fare la tua volontà). 41 Si otterrebbe così l’espressione tO&A(al […] bUtfK (è scritto […] di fare la tua volontà). 42 Si otterrebbe così l’espressione yiT:cfpfx […] tO&A(al (fare [la tua volontà] […] desidero). fT:capfx-)fl hfx:nimU xab:z

T:lf)f$ )ol hf)f+Axaw hflow(


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peccato, indicando così tutto l’ordinamento sacrificale ebraico. Le due parti del secondo verso presentano un progresso: nella prima parte il salmista manifesta la sua decisione di “venire”; nella seconda parte invece è indicato il motivo che induce a venire: il desiderio di fare la volontà di Dio: yiT:ramf) zf) (allora dissi) -tOe&A(al (a fare) yit)fb-h”¢Nih (ecco vengo) !:nowc:r (la tua volontà). I due versi presentano, l’uno rispetto all’altro, una contrapposizione: il salmista esclude che, per i suoi benefici, Dio possa essere ringraziato con dei sacrifici materiali; ritiene invece che ciò che a Dio è gradito è rendersi disponibili alla sua volontà. Sono così contrapposti i sacrifici e l’adesione alla volontà di Dio. I primi Dio non gradisce, la seconda invece Egli cerca. Non interessano a Dio i sacrifici di animali, interessa piuttosto che si compia la sua volontà. Abbiamo notato come probabilmente il salmo 40 (39) in seguito fu riletto e furono anche apportate al testo originale delle aggiunte. La prima aggiunta può essere individuata nell’espressione: yiL ftyirfK {iyan:zf) (le orecchie hai aperto a me); essa sembra anticipare una tematica che apparirà meglio poco dopo: l’adesione alla volontà di Dio in atteggiamento di ubbidienza. La seconda aggiunta inoltre può essere individuata nell’espressione: ylf( bUtfK rep”"s-taLig:miB (sul rotolo del libro di me è scritto) (v. 8b), che si presenta senza alcuna connessione sintattica nel contesto e sembra costituire una espressione parentetica. La terza aggiunta è costituita infine dall’espressione: yf(am |owt:B !:tfrowt:w (la tua legge [é] nel profondo del mio cuore) (v.9b). Quest’ultima aggiunta mira a identificare la più generica volontà di Dio con il più specifico amore per la legge. Per potere poi introdurre quest’ultima aggiunta, il glossatore riprese, dal v. 7, alla prima persona singolare, il verbo japfx (yiT:cfpfx) creando però uno squilibrio nella connessione sintattica delle espressioni. Possiamo allora ricostruire il TM nel seguente modo: Testo Aggiunte T:capfx-)fl hfx:nimU xab:z yiL ftyirfK {iyan:zf) T:lf)f$ )ol hf)f+Axaw hflow( yit)fb-h”¢Nih yiT:ramf) zf)


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Enzo Barrano ylf( bUtfK rep”"s-taLig:miB yaholF) !:nowc:r-tOe&A(al yiT:cfpfx yf(am |owt:B !:tfrowt:w

2.2.2. La versione dei LXX La versione greca dei LXX traduce nel seguente modo: qusòan kaì prosforaèn ou\k h\qeélhsav

(sacrificio e offerta non hai voluto), w\tòa deè kathrtòsw moi

(orecchie hai formato a me), o|lokauétwma kaì perì a|martòav ou\k +"thsav

(olocausto e sacrificio per il peccato non hai chiesto), toéte eùpon }Idouè h$kw

(allora dissi: ecco vengo), e\n kefalòdi biblòou geégraptai perì e\mou%

(nel frontespizio del libro è stato scritto a mio riguardo), tou% poih%sai toè qeélhmaé sou, o| qeoév mou, e\boulhéqhn

(fare la tua volontà, o mio Dio, volli), kaì toèn noémon sou e\n meés§ th%v koilòav mou

(e la tua legge nel mezzo del mio ventre). Leggendo il testo greco dei LXX, si scorge un testo greco molto duro e magari anche di difficile divisione nelle varie espressioni. Possiamo tuttavia dividere il testo dei vv. 7-9, in sei frasi a due a due: 1a. qusòan kaì prosforaèn ou\k h\qeélhsav (sacrificio e offerta non hai voluto), 1b. w\tòa deè kathrtòsw moi (orecchie hai formato a me), 2a. o|lokauétwma kaì perì a|martòav ou\k +"thsav (olocausto e sacrificio per il peccato non hai chiesto), 2b. toéte eùpon }Idouè h$kw (allora dissi: ecco vengo), 3a. e\n kefalòdi biblòou geégraptai perì e\mou% (nel frontespizio del libro è stato scritto a mio riguardo),


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3b. tou% poih%sai toè qeélhmaé sou, o| qeoév mou, e\boulhéqhn (fare la tua volontà, o mio Dio, volli), In queste sei frasi si può evidenziare anche una certa logica che forse può avere guidato i traduttori greci. La prima, la terza e la quinta frase (1a. 2a. 3a.) mettono in evidenza l’atteggiamento di Dio; la seconda, quarta e sesta frase (1b. 2b. 3b.) evidenziano invece gli effetti nell’uomo, il salmista. Le prime due frasi (1a. 2a.) sono negative, («non hai voluto» [....] «non hai cercato»), la terza (3a.) è positiva («nel frontespizio […] a mio riguardo “). Dio ha rifiutato tutti i sacrifici, ma ha affidato al libro quello che Lui vuole. Il Salmo però non esplicita immediatamente ciò che Dio vuole, ma contiene qualcosa che riguarda il salmista. L’atteggiamento – risposta del salmista, descritto nelle frasi pari, seconda, quarta, sesta (1b.2b.3b), è triplice: Il primo evoca un’azione di Dio su di lui: «le orecchie mi hai aperto»; il secondo esprime invece una decisione positiva del salmista: «ecco io vengo»; il terzo infine è l’esplicita adesione alla volontà di Dio. Questi tre atteggiamenti presentano quasi un progresso: 1. Dio ha aperto l’orecchio, 2. Il salmista viene, 3. Vuole fare la sua volontà. Quale sia però concretamente questa volontà di Dio il Salmo, almeno esplicitamente, non lo dice. Dopo l’ultima espressione, se ne legge un’altra, una settima: kaì toèn noémon sou e\n meés§ th%v koilòav mou (la tua legge nel mezzo del ventre). Ma questa espressione non pare indicare il contenuto della volontà di Dio, perché non descrive un’azione concreta ma esprime la posizione di qualcosa, la legge, che è nel cuore del salmista e diventa principio di azione. Probabilmente al salmista non interessa definire concretamente la volontà di Dio; gli è sufficiente sottolineare la contrapposizione tra l’aspetto più cultuale, che Dio rifiuta, e l’aspetto più personale che Dio desidera. In altre parole Dio non vuole i sacrifici ma che si aderisca alla sua volontà Vedremo però come il NT sposta l’accento: non contrappone più l’aspetto cultuale e l’aspetto personale, ma contrappone due tipi di sacrifici: quello che Dio rifiuta e quello che invece gradisce.


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2.3. Il Sal 39 (40) nel NT Nel NT il Sal 39 (40) è citato esplicitamente soltanto una volta, in Eb 10,5-7. Mediante l’espressione ei\sercoémenov ei\v toèn koésmon leégei, riferita a Cristo, benché esplicitamente non menzionato, nella sua incarnazione, l’autore in Eb 10,5-7 introduce la lunga citazione del Sal 39 (40), 7-9. La citazione è fatta alla lettera secondo il testo dei LXX; l’autore introduce soltanto due mutazioni. Cambia anzitutto il termine w\tòa (orecchie) con il termine sw%ma (corpo), di modo che Dio ha formato a Gesù non le orecchie bensì un corpo43. Inoltre sostituisce il verbo +"thsav (hai chiesto) con il verbo eu\doékhsav. Le orecchie evocano la capacità di ascolto e richiamano perciò l’obbedienza44; il termine sw%ma prepara già il riferimento al sacrificio di Gesù. C’è infine una terza differenza tra la lettera agli Ebrei e il Salmo. Nel Salmo leggiamo il vocativo o| qeoév mou tra il sostantivo toè qeélhma e il verbo e\boulhéqhn. L’autore della lettera agli Ebrei anticipa invece il vocativo o| qeoév prima del sostantivo toè qeélhma e dopo l’infinito tou% poih%sai, omette il pronome mou%, omette soprattutto il verbo e\boulhéqhn e tutta l’espressione seguente in cui il Salmista dichiara che la legge di Dio è nel suo cuore. Fermiamo la nostra attenzione soprattutto sul passaggio dal sostantivo w\tòa al sostantivo sw%ma. A Gesù Dio ha preparato non le orecchie bensì un corpo. Ciò conferma quanto abbiamo già osservato; l’autore della lettera agli Ebrei stabilisce un nuovo rapporto di opposizione: non più tra i sacrifici di animali e l’osservanza della legge, ma tra i sacrifici di animali, che Dio rifiuta e il sacrificio di Gesù che invece a Lui è graditissimo. 43 L’espressione globale però rimane identica. Possiamo stabilire tra il Salmo e la lettera agli Ebrei il seguente confronto: Salmo Ebrei

w\tòa de kathrtòsw moi

sw%ma deè kathrtòsw moi.

44 Cfr. H.J. KRAUS, Psalmen, I, cit., 461 e anche A. WEISER, I Salmi, I, trad. it., Brescia 1984, 353.


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Del resto la lettera agli Ebrei, in questa maniera, risolve una contraddizione, alla quale abbiamo già accennato, che si percepisce nella prospettiva del Salmo. Dio rifiuta i sacrifici e vuole che si osservi la sua legge. Ma è proprio la legge che comanda i sacrifici; questi perciò rientrerebbero nella volontà di Dio. La contraddizione invece è tolta nel fatto che la contrapposizione è posta su due tipi di sacrifici: quello di animali e quello del Figlio fondato sull’obbedienza. Dopo avere proposto, in 10,8-9, un breve commento sul Salmo, l’autore della lettera agli Ebrei, nel v. 10, conclude: «In questa volontà siamo stati santificati mediante l’oblazione del corpo di Cristo una volta per sempre». Altrove il Sal 39 (40) non è più esplicitamente citato. Forse però possiamo pensare che ad esso possono essere ricondotte le varie espressioni poie_n toè qeélhma che troviamo in diversi altri testi del NT. Nel Sal 39 (40),9 infatti leggiamo l’espressione: tou% poih%sai toè qeélhmaé sou. Possiamo citare, riferiti a Gesù45, alcuni testi che contengono questa espressione, specificamente del vangelo di Giovanni: cfr. 4,3446; 6,39 47; 9,31.

2.4. L’accostamento dei Salmi 15 (16) e 39 (40) I due salmi, il Sal 15 (16) e il Sal 39 (40), pur diversissimi in se stessi, permettono tuttavia, in relazione alla preghiera di Gesù al 45 Talora l’espressione è riferita ai discepoli, cfr. Mt 7,21; 12,50; 21,31; Mc 3,35; Eb 13,21; 1Gv 2,17. 46 Cfr. 4,34: «Il mio cibo è fare ( i$na poihésw) la volontà (toè qeélhma) di colui che mi ha mandato e portare a compimento la sua opera». 47 Cfr. 6,38: «Sono sceso dal cielo non per fare (ou\c i$na poiw%) la mia volontà (toè qeélhma toè e\moén) ma la volontà di colui che mi ha mandato». Quest’ultimo testo permette un parallelismo strutturale più diretto con il testo del Salmo: Salmo Gv 6,38a 6,39

toéte eùpon \Idouè h$kw tou% poih%sai toè qeélhmaé, sou, o| qeoév mou

katabeébhka a\poè tou% ou|ranou% ou\c i$na poiw% toè qeélhma toè e\moén

a\llaè toè qeélhma tou% peémyantoév me


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Getsemani, un reciproco accostamento, che determina anche una reciproca illuminazione. Possiamo, infatti, notare i seguenti elementi. Anzitutto nel Sal 15 (16),3 secondo la versione greca dei LXX leggiamo la seguente espressione: «per i santi, che [sono] nella sua terra, ha reso meravigliose tutte le sue volontà (paénta taè qelhémata) in loro». Leggiamo in questa espressione il termine qeélhma, che si legge anche nel Sal 39 (40),9: «ecco vengo […] a fare (tou% poih%sai) la tua volontà (toè qeélhmaé sou)». Inoltre nel Sal 15 (16),5 il Salmista dichiara: «Il Signore [è] parte della mia eredità e del mio calice»; appunto perché parte del suo calice, egli non può non fare quello che Dio vuole (cfr. v. 3). Nel Sal 39 (40),9, il Salmista dichiara di essere venuto a fare la volontà di Dio. In entrambi i Salmi l’ideale del salmista appare essere appunto quello di fare la volontà di Dio. Notiamo infine, in entrambi i Salmi, una analoga prospettiva tematica, legata però ad un aspetto di contrapposizione. L’analoga prospettiva tematica è l’adesione a Dio. Nel Sal 15 (16),5 il salmista dichiara che Dio è la parte della sua eredità e del suo calice; nel Sal 39 (40), 8-9 il salmista dichiara di essere venuto a fare la volontà di Dio e di avere la sua legge nell’intimo delle sue viscere. Quanto poi alla contrapposizione, nel Sal 15 (16),4 questa è agli idoli, da cui l’autore dichiara di prendere totalmente le sue distanze e di non pronunziare nemmeno i loro nomi con le sue labbra. Nel Sal 39 (40),7 la contrapposizione è ai sacrifici antichi, che Dio rifiuta e che, di conseguenza, l’autore omette di offrire. Gli elementi che abbiamo sopra indicato mostrano che non è difficile accostare i due Salmi, e nulla impedisce di pensare che essi siano stati tacitamente accostati nella preghiera di Gesù al Getsemani. Possiamo infatti rileggere coerentemente la preghiera di Gesù alla luce di tale accostamento. L’elemento fondamentale che unisce i due Salmi è soprattutto la menzione della volontà di Dio, specificamente la parola qeélhma, usata però, nei due testi, in modo differente. Nel Sal 15(16),3 essa si legge prima della menzione del calice nel v. 5; nel Sal 39 (40) si legge invece al v. 9, dopo cioè il rifiuto dei sacrifici da parte di Dio.


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Possiamo allora stabilire il seguente schema: Sal 15(16),3 1.toè qeélhma (taè qelhémata); Sal 15(16),5 2. toè pothérion; Sal 39 (40), 3. Rifiuto dei sacrifici (ou\k h\qeélhsav); Sal 39 (40),9 4. toè qeélhma I due salmi, così accostati, concordano sul tema della volontà. Nello sfondo di questa tematica emergono le due realtà contrastanti e opposte: il calice e il rifiuto dei sacrifici. Queste due realtà si illuminano a vicenda e ci permettono di comprendere quale sia la volontà di Dio. Il Sal 15(16) parla del calice e lo identifica con il Signore stesso; il Sal 39 (40) parla di rifiuto dei sacrifici proponendo, in contrapposizione, la generica volontà di Dio. Alla luce del Sal 15 (16), la volontà di Dio diventa bere il “calice”; alla luce poi del Sal 39 (40) la volontà di Dio è quella di non offrire sacrifici di animali. La volontà di Dio perciò è quella non di offrire tali sacrifici, bensì di bere il calice. L’accostamento tra il calice che Dio vuole che Gesù beva e i sacrifici che invece non vuole che si offrano, fa sì che il “calice” diventi un sacrificio, diverso però da quelli che Dio rifiuta. Emerge la stessa prospettiva di Eb 10,5-10.

2.5. Rilettura della preghiera di Gesù alla luce del Salmi 15 (16) e 39 (40) Rileggendo la preghiera di Gesù alla luce dei due Salmi sopra citati, possiamo cogliere in essa degli aspetti che, altrimenti, non sarebbe stato possibile evidenziare. Anzitutto il Gesù che prega al Getsemani, che chiede in un primo momento al Padre che il calice passi, ma che poi si adegua alla volontà di Dio, è colui al quale competono le parole del Sal 15 (16),5: «il Signore mia parte della mia eredità e del mio calice». Inoltre è colui che pronunzia le parole del Sal 39 (40),8: «ecco vengo […] a fare il tuo volere». Notiamo però un mutamento rispetto alle parole del Sal 15 (16). L’accostamento dei due Salmi, il Sal 15 (16) e il Sal 39 (40), illuminati anche dagli eventi concreti di Gesù, smembra e divide Dio e il calice.


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Il calice non si identifica più con Dio stesso, bensì con la sua volontà, che, secondo il Sal 39 (40), è scritta nel rotolo del libro. In questo modo, il calice da bere diventa la precisa volontà di Dio che viene proposta a Gesù e che questi deve compiere. Con la sua preghiera, Gesù ha concretamente dichiarato di essere colui che è venuto a compiere la volontà di Dio (Sal 39 [40]); il Padre gli mostra qual è la sua volontà: Egli ha rifiutato tutti i sacrifici di animali (Sal 39 [40]) e chiede che Gesù beva il calice e compia lui un sacrificio. Gesù non può rifiutarsi, essendo colui che è venuto a compiere la volontà di Dio. In un primo momento Gesù chiede che passi il calice, ma poi aderisce alla volontà del Padre. Tenteremo più avanti di spiegare questo elemento alla luce di Gen 3,1-5. Tutta la narrazione della passione, alla luce di questi Salmi, è vista così come la grande adesione di Gesù alla volontà del Padre e come il calice che Egli gli ha presentato da bere e che Gesù beve fino all’ultima sua goccia. Gli stessi Salmi però, il Sal 15 (16) e il Sal 39 (40), aprono la passione di Gesù, vista come il calice da bere e come la volontà del Padre a cui aderire, ad una grande prospettiva. Nel Sal 15 (16), come abbiamo già osservato, l’adesione del salmista a Dio, scelto come proprio calice, e alla sua volontà, è descritta nella prima parte del Salmo, nei vv. 1-6. I vv. 7-11 descrivono invece l’epilogo di colui che ha fatto la volontà di Dio. a costui è riservata la via della vita e la gioia alla presenza del Signore. Pietro, o Luca per lui, in At 2,25-28, mette idealmente le parole del Sal 15 (16),7-11 in bocca a Gesù appunto nel suo sepolcro, dove Gesù giace sulla speranza di trovare la via della vita. Nel Sal 39 (40) invece abbiamo schema inverso. Nei primi sei versi (vv. 1-6) il salmista evoca il fatto che il Signore lo ha tratto dalla fossa della morte e dal fango della palude; ha stabilito i suoi piedi sulla roccia ed ha reso sicuri i suoi passi. Gli ha messo sulla bocca un canto nuovo. Nei versi seguenti invece il salmista si chiede come ringraziare Dio, dal momento che Egli rifiuta i sacrifici; comprende che la maniera migliore sia quella di aderire alla sua volontà. Nel Sal 15 (16) il salmista aderisce alla volontà di Dio e si apre alla speranza che il Signore lo guiderà verso la vita; nel Sal 39 (40)


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invece evoca il fatto che il Signore lo ha liberato e lui ringrazia aderendo alla sua volontà. Possiamo allora proporre il seguente schema: Sal 15 (16): Adesione alla volontà di Dio (vv. 1-6); Speranza della vita e della gioia (vv.7-11); Sal 39 (40) Il Signore ha liberato il salmista (vv. 1-6); Egli ringrazia aderendo alla sua volontà (vv 7-9). Nel Sal 15 (16) l’adesione alla volontà di Dio è compiuta nella prospettiva della vita; nel Sal 39 (40) la volontà di Dio è compiuta come ringraziamento del fatto che Dio ha liberato dalla fossa della morte. Nell’applicazione a Gesù, il Sal 15 (16) è applicato in modo diretto: la volontà di Dio è compiuta nella prospettiva della vita; il Sal 39 (40) invece è applicato in modo inverso: Gesù compie la volontà di Dio e Dio lo libera dalla fossa della morte. Gesù al Getsemani aderì alla volontà di Dio e accettò di bere il calice che il Padre gli aveva dato. Alla luce del Sal 15 (16), il cammino di Gesù verso la passione è un cammino verso la morte, ma in realtà è un cammino verso la vita. Nel suo sepolcro Gesù fa sue le parole del Sal 15 (16): la sua carne poggia non su una fredda pietra tombale, ma sulla speranza. Egli è certo che la sua anima non resterà nell’Ade né che la sua carne vedrà corruzione. Egli attende che Dio gli indichi il cammino verso la vita e che Egli possa gioire nella contemplazione del Suo volto. Analogamente, alla luce del Sal 39 (40), letto però all’inverso, Gesù, che aderì alla volontà di Dio e andò verso la morte, vi andò nella fiducia di essere liberato dalla fossa della tribolazione (e\k laékkou talaipwròav) e dal fango della palude (a\poè phlou% i\luéov). La “fossa della tribolazione” e “il fango della palude” possono ricondursi, come immagini, al mistero della morte. Nei due Salmi emerge un’altra prospettiva, quella della fiducia in Dio e quella della speranza. Nel Sal 15 (16), già nel v. 1 leggiamo l’espressione e\pì soì h"lpisa (su di te ho sperato); nel v. 9c leggiamo poi l’espressione: «anche la mia carne (kaì h| saérx mou) riposerà (kataskhnwései) sulla speranza (e\p’e\lpòdi)».


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Enzo Barrano

Le due espressioni, poste rispettivamente all’inizio e alla fine del Sal 15 (16), costituiscono come una inclusione48: tutto il Salmo è collocato, dai LXX, nella prospettiva della speranza. Quale sia poi l’oggetto della speranza, è indicato dai vv. 10-11. Nel Sal 39 (40) il verbo e\lpòzw si legge nel v. 4d. Nei vv. 4cd leggiamo: «vedranno molti e temeranno e spereranno (e\lpiou%sin) nel Signore». Alla luce dell’esperienza del salmista molti saranno indotti a sperare nel Signore. Ciò significa che anche il Salmista ha sperato in Lui e la sua speranza non è rimasta delusa. La speranza di cui si parla nei Salmi non è semplicemente l’augurio di una realtà ipotetica, come nel linguaggio umano, ma è l’attesa di una realtà certa che immancabilmente dovrà verificarsi. Tale nozione di speranza deve poggiare sulla fiducia. Tale fiducia è espressa, fin dall’inizio, nel Sal 39 (40): u|pomeénwn u|peémeina toèn Kuérion (mi sono fondato sul Signore). Gesù, al Getsemani, accettò di bere il calice che il Padre gli dava, nella profonda fiducia, come certezza, che Egli lo avrebbe liberato dalla morte e lo avrebbe incamminato verso la vita e verso la gioia. Emerge una dimensione fondamentale della figura di Gesù al Getsemani: la profonda fiducia in Dio, con cui Egli accettò di bere il calice che il Padre gli dava. Evidentemente i Salmi 15 (16) e 39 (40) e la loro fusione, pur fondamentali a illuminare la preghiera di Gesù al Getsemani, non sono sufficienti a caratterizzarla interamente; dovremo perciò, più avanti, riferirci anche ad altri testi. Concludendo il nostro accostamento al Sal 39 (40), leggiamo nel v. 8b l’espressione e\n kefalòdi biblòou geégraptai perì e\mou% (nel frontespizio del libro è stato scritto a mio riguardo). L’immagine del “frontespizio del libro” indica che si tratta di una realtà fondamentale e ben visibile; è evidente perciò che si rimanda non ad un volume materiale, bensì ad un misterioso libro il cui contenuto, o il cui tema centrale è appunto compiere la volontà di Dio. 48

Cfr. v. 1: e\pì soì h"lpisa v. 9c: h| saérx mou kataskhnwései e\p’e\lpòdi.


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Che cosa sia, nel Sal 39 (40), questo misterioso libro non è chiaro, tanto più che, come abbiamo osservato, tale frase si rivela una aggiunta. Alla luce però di tutto il NT, questo misterioso libro può identificarsi con tutta la Scrittura dell’AT. A riguardo di Cristo, Dio ha delineato, in tutto l’AT la sua volontà. Qui possiamo richiamare le varie immagini veterotestamentarie che prefigurano la passione: il sacrificio di Isacco (Gen 22), l’Agnello pasquale (Es 12), il servo di Jahvé (Is 53).

3. I SALMI 41-42 (42-43) Un’altra categoria di Salmi, che possiamo adesso considerare, sono i due 41-42 (42-43).

3.1. Il testo Questi Salmi, che, nel testo attuale, sia il TM sia i LXX, si presentano smembrati, forse all’origine costituivano un solo Salmo. Ciò è suggerito dall’espressione che, in maniera identica, si ripete tre volte, in 41(42),6.12; 42 (43),5. L’espressione, che riferiamo sia secondo il TM che secondo i LXX, è la seguente:

49

TM

LXX

yixAxowT:$iT-ham

i$na tò peròlupov eù

(perché ti rattristi)

(perché triste sei)

yi$:pan

yuché,

(anima mia)

(anima)

yflf( yimEheTaw

kaì i$na tò suntaraésseiv me;

(e ti agiti su di me)49

(e perché mi agiti?)

yilyixowh

e"lpison

(attendi)

(spera)

{yihol)”"l

e\pì toèn qeoén

(il Signore)

(nel Signore)

I testi dei Salmi leggono: yimEheT-ham:w.


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40

Enzo Barrano dow(-yiK

o$ti

(poiché ancora)

(poiché)

UNedow)

e\xomologhésomai

(lo loderò)

(confesserò) au\t§%

(a lui) tow(U$:y

swthérion

(salvezze)50

(salvezza)51

wyfnfP

tou% proswépou mou

(del suo volto)52 (del mio volto) yfholE)53. o| qeoév mou (mio Dio). (Dio mio). Sostanzialmente il TM e la versione dei LXX coincidono; come pure coincidono, con qualche differenza già notata, i tre testi del TM; si diversificano ancora meno i tre testi della versione greca. Seguiremo ancora la versione greca.

3.2. Confronto con i testi evangelici In Mt 26,38 e Mc 14,34 leggiamo le parole che Gesù rivolge ai discepoli e con cui Egli manifesta il suo animo. L’espressione nei due testi è identica: peròlupoév e\stin h| yuché mou e$wv qanaétou (la mia anima è triste fino a morire). Non c’è dubbio che essa derivi dai testi dei Salmi. L’espressione che direttamente ci interessa è identica nei due evangelisti; è sufficiente perciò stabilire il confronto soltanto con un testo: Salmi Mt 26,38; Mc 14,34 i$na tò peròlupov eù 50 51 52 53

peròlupoév e\stin

I testi dei Salmi leggono: to(U$:y (salvezza). Il testo del Sal (LXX) legge h| swthròa. I testi dei Salmi leggono: yanfP (del mio volto). I testi dei Salmi leggono: yfhol)”w (e mio Dio).


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Le allusioni veterotestamentarie nella preghiera di Gesù yuché

41

h| yuché mou e$wv qanaétou

Dei quattro elementi che caratterizzano la nostra espressione, ben tre sono presenti nel testo dei Salmi: l’aggettivo peròlupov, il verbo ei\mò pur in diversa persona, il termine yuché, ampliato dal pronome mou%54. Non si legge nei nostri Salmi il quarto termine: qaénatov; esso può dipendere da altri testi che, in questa espressione, possono essere allusi55. Emerge però una particolare differenza tra il testo dei Salmi 4142 e i testi evangelici. Nel testo dei Salmi il salmista, mediante una forma interrogativa, si autoesorta, esorta cioè la sua stessa anima a superare la propria tristezza; la stessa forma interrogativa: “perché ( i$na tò)…” rivela che quella tristezza dell’anima è ingiustificata e, perciò, non ha motivo di esistere. Gesù invece manifesta tutta la tristezza, nella quale è coinvolta profondamente la sua anima: si tratta infatti di una tristezza mortale (e$wv qanaétou).

3.3. La prospettiva dei Salmi Per potere comprendere la maniera con cui è ripresa nelle parole di Gesù l’espressione dei due Salmi, è utile considerare la loro prospettiva. Prescindendo dalle espressioni sopra indicate, che tornano quasi identiche in 41 (42),6.12 e 42 (43),5 ed hanno anche il carattere di un ritornello, e considerando i due Salmi come un tutt’uno, possiamo individuare tre parti: 41 (42),1-5; 41 (42), 7-11; 42 (43), 1-4. 54

In 41,7 si legge però l’espressione h| yuché mou. Ci riferiamo specificamente al Sal 6, dove, nei vv. 3-8, leggiamo: «guariscimi, Signore, poiché sono state sconvolte (e\taraécqh) le mie ossa e la mia anima (h| yuché mou) è stata sconvolta (e\taraécqh) assai, e tu, Signore, fino a quando […]? Libera la mia anima (thèn yuchén), salvami a causa della tua misericordia. Non è nella morte (e\n t§% qanaét§) colui che ti ricorda […]». Diversi elementi del Sal 6 sono riscontrabili nei nostri testi evangelici. Altri testi di Salmi da cui può provenire, nella nostra espressione, la menzione della morte, sono: Salmi 9,14; 12 (13),4; 21(22),16; 32 (33),19; 54 (55),5; 87 (88), 4-13; 114,3-8 (116,3-8). 55


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Nei vv. 1-5 del Sal 41 (42) il salmista rivela la sua sofferenza determinata da struggente nostalgia: egli ha sete del suo Dio e tale sete è intensa. Egli brama il suo Dio così come la cerva, assetata, anela all’acqua (vv.1-2). Tale anelito si acuisce ancora di più, fino a tradursi in lacrime, per il fatto che gli chiedono ironicamente, verosimilmente coloro tra i quali egli vive esiliato, dov’è il suo Dio. Il fatto che altri gli fanno notare l’assenza di Dio, acuisce ancora di più la sofferenza e risveglia il ricordo di altri tempi, quando, in corteo gioioso, era uno dei primi tra coloro che, con canti, andavano alla casa di Dio. Nei vv. 7-11 il salmista manifesta il suo abbattimento. Il v. 7 rivela quasi un circolo: il ricordo, confrontato con la situazione presente, provoca l’abbattimento; ma questo acuisce ancora di più il ricordo. Alla sua situazione interiore il salmista torna ancora nel v. 11: sentendosi chiedere dov’è il suo Dio, egli si sente profondamente ferito dai suoi nemici, fin nel suo più profondo essere, al punto da sentirsi infrante tutte le sue ossa. Decide allora di rivolgersi a Dio (v. 10), magari in tono di rimprovero: gli chiede perché lo ha abbandonato, provocando così la sua tristezza interiore e l’insulto da parte dei suoi nemici. La decisione del v. 10 di rivolgersi a Dio diventa preghiera concreta nel Sal 42 (43), 1-4. Il salmista si rivolge a Dio, non però in tono di rimprovero, come aveva progettato nel v. 10, ma con una intensa supplica, che trova il suo culmine nel v. 3, dove gli chiede di mandare la sua verità e la sua luce, perché lo guidino e lo riportino al Suo monte santo e alla sua dimora, lo riportino cioè al tempio dove egli potrà incontrare di nuovo il suo Dio. In questo sfondo drammatico si colloca il nostro ritornello di 41 (42),6.12; 42 (43), 5, in cui, come abbiamo già osservato, il salmista, mediante una duplice interrogativa, si autoesorta a non abbattersi: «perché ti rattristi, anima, e ti agiti su di me? Attendi al Signore ({yihol)”"l yilyixowh)56 poiché ancora lo loderò: salvezza del mio volto, mio Dio». Egli si rivolge alla sua anima e le chiede perché si lascia abbattere; simile duplice forma interrogativa rivela appunto che non c’è alcun motivo per abbattersi. 56

Cfr. LXX: e"lpison e\pì toèn qeoén (spera nel Signore).


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Il motivo per cui non bisogna abbattersi è espresso subito dopo: «attendi il Signore ({yihol)”"l yilyixowh)». Questa esortazione contiene la tacita convinzione del salmista che, nonostante la sensazione espressa nel v. 10 di essere da Lui abbandonato, in realtà il Signore è presente. La speranza in Lui dona al salmista la certezza che egli potrà ancora lodarlo, potrà cioè recarsi ancora nel suo tempio, che è pur lontano dalla terra di esilio. Questa speranza deve dissipare qualsiasi abbattimento e tristezza. Dio è riconosciuto e celebrato come salvatore: bisogna soltanto sperare e attendere. L’abbattimento del salmista perciò non è una tomba in cui egli è destinato a morire, ma è come un terreno arido, da cui spunta il germe della speranza. Il messaggio del Salmo allora è chiaro: pur nel massimo abbattimento, non bisogna cessare di sperare nel Signore e tale speranza deve dissipare ogni tristezza: il Signore tornerà ancora a salvare.

3.4. L’applicazione a Gesù Abbiamo già notato la differenza tra l’espressione dei due Salmi e la loro applicazione a Gesù. Mentre, nei Salmi, il salmista si autoesorta a superare qualsiasi forma di abbattimento e di tristezza, sul fondamento della propria speranza e sul proprio fiducioso affidamento a Dio, Gesù invece esprime davanti ai discepoli tutta l’amarezza della sua anima. Abbiamo osservato che il salmista si esorta a superare la tristezza mediante la propria speranza in Dio. Possiamo allora notare un progresso nelle tre parti: • La tristezza: «Le lacrime sono mio pane giorno e notte (41,2)»; • La preghiera di rimprovero: «perché mi hai dimenticato (41,11)?»; • La supplica: «manda la tua verità e la tua luce (42,3)». È appunto nella preghiera che il salmista riscopre la sua fiducia in Dio e, pur nell’amarezza della situazione presente, supera la propria tristezza.


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I vangeli ci presentano Gesù nel cuore di una tristezza, ancora più forte di quella in cui i due Salmi collocavano il salmista: si tratta di una tristezza mortale, che già gli fa provare quella morte che Egli già prevede e verso la quale si sente già incamminato. Nello sfondo di questa tristezza, Gesù va a pregare; avvertirà la presenza del Padre e a lui si affiderà. Nella preghiera Gesù comprenderà che il suo cammino, che pur passa attraverso la morte, non finisce nella morte, ma, come dicono i Salmi, culminerà nella casa di Dio (42,2). Nella preghiera Gesù potrà intravedere anche il culmine del suo cammino, che è quello espresso in 42 (43),4: «verrò all’altare di Dio, al Dio della mia gioia e del mio giubilo». Si crea quasi un dialogo tra Gesù e il Salmo. Davanti ai discepoli Gesù ha espresso tutta la sua tristezza mediante l’espressione: «triste (peròlupoév) è la mia anima (h| yuché mou) fino a morire (e$wv qanaétou)». Il Salmo, che dev’essere affiorato nel cuore di Gesù, mentre gli offre il linguaggio per caratterizzare la situazione dell’anima, d’altra parte lo aiuta a superarlo. Ripensando al Salmo, Gesù, nella sua tristezza, può dire a se stesso: «perché (i$na tò) triste sei (peròlupov), anima (yuch)». Sul fondamento della fiducia e della speranza in Dio, Gesù può non restare imprigionato nella sua tristezza mortale57.

57

Sia in 41,6.12 e 42,5, secondo la versione dei LXX, le domande del salmista a se stesso sono due: i$na tò peròlupov eù, yuché, i$na tò suntaraésseiv me.

La prima domanda è ripresa dai vangeli di Matteo e Marco; la seconda domanda invece è ripresa probabilmente da Gv 12,27. Salmi Gv 12,27 yuché, i$na tò suntaraésseiv me

nu%n h| yuché mou tetaéraktai

Cfr. A. GANGEMI, La preghiera di Gesù al Getsemani e il vangelo di Giovanni, cit., 227-253.


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4. ALTRI TESTI Abbiamo considerato nei paragrafi precedenti specificamente il Sal 15 (16) e il Sal 39 (40) perché questi sembrano essere più direttamente presenti nella preghiera di Gesù al Getsemani. Se ne possono però citare anche altri che probabilmente non sono allusi in maniera diretta, ma che, in maniera più generica, possono costituire lo sfondo in cui la preghiera si colloca. Possiamo distinguere questi testi in due categorie, secondo le due tematiche emergenti dalla considerazione dei tre Salmi precedenti: l’abbandono fiducioso in Dio e il compimento della sua volontà.

4.1. L’abbandono fiducioso Dalla rilettura della preghiera di Gesù al Getsemani alla luce dei Salmi 15 (16) e 39 (40), quale abbiamo condotto nei paragrafi precedenti, è emerso che una caratteristica fondamentale di Gesù nell’obbedienza al Padre e quindi nell’intraprendere il cammino della passione, fu un atteggiamento di totale fiducia e abbandono in Lui. Tale atteggiamento emerge anche da altri testi, quali il Sal 22 (23), il Sal 26 (27), il terzo canto del Servo del Signore (Is 50, 3-7).

4.1.1. Il Sal 22 (23) Non troviamo alcun elemento nella narrazione della passione che richiami esplicitamente il Sal 22 (23); sembra tuttavia che lo sviluppo del Salmo sia analogo a quello della passione, per cui è possibile rileggere questa alla luce di esso. Il Salmo 22 (23) presenta sostanzialmente quattro quadri: Il primo quadro è contenuto nei vv. 1-3a e costituisce quasi una professione di fede nel Signore che agisce come un pastore (poimane_) e perciò, con la sua guida, non si può mancare di nulla (ou\deén me u|sterhései). Egli fa riposare in un luogo di pascolo abbondante, in un


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luogo di erbaggio (ei\v toépon cloéhv) e conduce ad acque di riposo (e\pì u$datov a\napauésewv). Il secondo quadro, nei vv. 3b-4, descrive l’azione di guida del Dio pastore. Egli guida per un cammino giusto, per “sentieri di giustizia (e\pì tròbouv dikaiosuénhv)”, a causa (e$neken) della fedeltà e coerenza con il suo stesso nome: il suo stesso nome lo induce a guidare per strade giuste. Non ci si può smarrire, anche se bisogna attraversare un buio mortale58. Nemmeno in questo caso bisogna temere alcun male, perché c’è il Signore (o$ti suè met’e\mou% eù)59, il suo bastone e il suo vincastro, che egli batte a terra, confortano. Il pastore non si vede, ma si sente il rumore del bastone che, battuto a terra, in maniera cadenzata, rivela la sua presenza. Il terzo quadro è contenuto nel v. 5. Anche se il cammino è faticoso e bisogna passare attraverso un buio fitto paragonabile a morte, il termine del cammino sarà di gioia. Tale gioia è descritta con l’immagine di una mensa in cui il salmista, che ha attraversato il buio fitto, è un commensale di onore; il suo capo, infatti, è cosparso di olio e il suo calice è traboccante. È importante la menzione di quelli che procurano tribolazioni e maltrattano (tw%n qliboéntwn me). Evidentemente il salmista, a causa di costoro, ha dovuto attraversare momenti difficili; ma egli è stato guidato dal Signore che ha agito da autentico pastore, gli ha permesso di superare quel momento e lo ha condotto ad una situazione di felicità. Il quarto quadro, contenuto nel v. 6, descrive lo stato del salmista nella situazione alla quale il Signore lo ha condotto. La grazia del Signore (toè e"leoév sou) lo accompagnerà per tutti i giorni della sua vita (paésav taèv h|meérav th%v zwh%v mou), e abiterà nella casa del Signore (e\n oi"k§ kuròou) per una lunga distesa di giorni (ei\v makroéthta h|merw%n). Nella casa del Signore evidentemente il salmista sarà preservato da qualsiasi attacco dei nemici. Benché, come dicevamo, non si riscontri alcun diretto elemento di contatto letterario con la narrazione della passione, tuttavia il Sal 22 58 Cfr. LXX: e\n meés§ skia%v qanaétou (nel mezzo di ombra di morte); TM: (ombra di morte, cioè buio mortale, che è paragonabile alla morte). 59 Cfr. TM: yidfMi( hfTa)-yiK.

tewfm:lac


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(23) si adatta molto bene in bocca a Gesù che intraprende il cammino della passione e ne costituisce anche lo schema. Egli inizia il suo cammino nel più totale abbandono e nella più totale fiducia in Dio. Sarà Dio a guidarlo come un pastore e, di conseguenza, il cammino che sta per intraprendere, anche se passa attraverso la sofferenza e la morte, in realtà conduce verso la felicità e la vita. Il cammino nel quale Gesù da Dio è guidato è il vero cammino; sono quelle “strade di giustizia” di cui parla il Salmo. Quest’ultimo considerava l’ipotesi di attraversare “un’ombra di morte”. Gesù sa benissimo che dovrà attraversare lo spessore di buio fittissimo che è la passione; sa però anche che Dio è con Lui e perciò non ha timore di nulla. La passione sarà oscurissima, al punto da offuscare la stessa percezione di Dio e fare esclamare a Gesù sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»60. Gesù però è fiducioso in Dio. Il Sal 22 (23) aveva preannunziato che quel cammino sarebbe culminato nella felicità descritta con l’immagine di un banchetto imbandito davanti ai nemici. Si può intendere in questo senso la professione di fede del centurione61 che, nei racconti evangelici, emerge in un contesto totale di scherni? La speranza di Gesù è quella di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della sua vita. Ciò avverrà nella resurrezione, quando Egli entrerà nella dimora di Dio e siederà alla sua destra: per sempre, perché «Cristo, risorto da morte, non muore più; la morte non ha su di Lui alcun potere»62.

4.1.2. Il Sal 26 (27) Il Sal 26 (27) comprende due parti. La prima parte (vv. 1-6) ha il carattere di una riflessione, fondata su una profonda convinzione; il salmista infatti esordisce mediante una affermazione che ha anche

60 61 62

Cfr. Mt 27,46-47; Mc 15,34-35. Cfr. Mt 27,54; Mc 15,39; Lc 23,47. Cfr. Rm 6,9.


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il carattere di una professione di fede: «Il Signore è mia luce e mia salvezza». Questa affermazione, che si radica appunto su quella profonda convinzione, induce il salmista a restare impavido di fronte ai suoi nemici. Afferma infatti (v. 3) che, anche se attorno a lui si accampa un esercito, il suo cuore non teme, e se, contro di lui, si scatena una battaglia, saranno i suoi nemici a inciampare e cadere. Queste dichiarazioni tradiscono il fatto che il salmista, al momento presente, è accerchiato da nemici; egli però al Signore ha chiesto quella serenità e quella pace che si può avere soltanto quando si abita nella sua casa. Ha chiesto perciò di potere abitare nella casa del Signore tutti i giorni della sua vita (v. 4). Il Signore offre al salmista un rifugio nella sua casa e perciò la sventura non potrà prevalere su di lui: nella sua dimora, il Signore lo nasconde e gli permette di sollevare la testa, di restare cioè impavido davanti ai suoi nemici (v. 5). In questo modo, egli può alzare la testa, con coraggio e senza temere nulla, di fronte ai nemici; al Signore poi promette di ringraziarlo offrendogli sacrifici gioiosi ed elevandogli anche un inno di lode (v. 6). Nella seconda parte (vv. 7-14) invece prevale la supplica. L’orante si rivolge a Dio: gli chiede di ascoltare la sua voce e lo implora perché abbia misericordia (e\leéhsoén me)63. Lo supplica di non nascondergli il volto e di non respingerlo con ira (v. 9a). Lo prega di non lasciarlo, di non abbandonarlo (v. 9d), essendo stato abbandonato da suo padre e da sua madre (v. 10a) ed essendo stato da Lui raccolto (v. 10b). Al contrario, il salmista chiede positivamente al Signore di mostragli la sua via e di indicargli il retto cammino: ciò a causa dei suoi nemici, per non essere esposto alla loro brama (v. 11). Il salmista sta facendo un’amara esperienza; si trova circondato 63

Possiamo notare i quattro verbi del v. 7 disposti in maniera concentrica: ei\saékouson […] mou e\keékraxa e\leéhson ei\saékouson […] mou.


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da nemici (v. 12a) i quali, per opprimerlo, ricorrono anche a testimoni iniqui (maérturev a"dikoi) (v. 12b), ma ha mentito (e\yeuésato) l’iniquità (h| a\dikòa) a se stessa (e|aut+%) (vv. 12bc; LXX). Il salmista però pone nel Signore la sua fiducia e, nell’ultima strofa, esprime anche la sua speranza, che è anche certezza: «credo (pisteuéw) di contemplare (tou% i\de_n) le cose buone del Signore (taè a\gaqaè kuròou) nella terra dei viventi (e\n g+% zwéntwn)». Questa certezza gli permette di autoesortarsi a perseverare e rafforzarsi nella speranza. Il Salmo si chiude infatti con quattro imperativi, strutturati in maniera concentrica: «Spera nel Signore (u|poémeinon toèn Kuérion); Sii forte (a\ndròzou); si rafforzi il tuo cuore (krataoiuésqw h| kardòa sou); e spera nel Signore (kaì u|poémeinon toèn kuérion)». La chiave di comprensione del Salmo sembra essere la penultima strofa, l’ultima frase della strofa precedente: «a causa dei miei nemici (e$neka tw%n e\cqrw%n mou)». Il salmista si sente oppresso da loro; contro di lui, per accusarlo e condannarlo, sono insorti anche falsi testimoni assai furenti; egli si sente abbandonato da tutti. Solo Dio è con lui e a Lui egli si affida, per questo lo invoca e gli chiede di proteggerlo. Nel Signore il salmista pone perciò la sua fiducia; forte di questa protezione, egli è certo di non morire, ma di potere contemplare la bontà del Signore nella terra dei vivi. Nella prima parte, il salmista, per il fatto che il Signore è sua luce e sua salvezza ed è anche difesa della sua vita, sfida i suoi nemici; egli erge la testa contro di loro e non teme quando lo assalgono per sopprimerlo, per straziargli la carne. La prima parte del Salmo si colloca meglio dopo la seconda: prima il salmista supplica il Signore (seconda parte), e poi, forte della sua protezione, sfida i suoi nemici (prima parte). Nulla impedisce di pensare che forse all’origine fosse questo l’ordine delle due parti. Qualche elemento ci permette di stabilire un legame con la narrazione della passione. Ci riferiamo specificamente a tre. Cominciando, il salmista supplica Dio perché non lo consegni (mhè parad§%v me) nelle mani di coloro che lo tormentano; spiega il motivo (o$ti) per cui rivolge questa preghiera: contro di lui sono insorti (e\paneésthsaén


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moi) testimoni iniqui (maérturev a"dikoi) e ha mentito (kaì e\yeuésato) l’iniquità (h| a\dikòa) a se stessa (e|aut+%).

In Mt 26,60 leggiamo che il Sinedrio non trovò alcun motivo per condannare Gesù, nonostante che si facessero avanti molti falsi profeti (pollw%n proselqoéntwn yeudomartuérwn). Alla fine se ne presentarono due che posero la questione del tempio. Pure Marco, in 14,56, nota che si presentarono molti falsi testimoni contro Gesù, ma le loro testimonianze non erano concordi. Luca esplicitamente non parla di falsi testimoni; anzi in 22,71 fa dire a Caifa: «che bisogno abbiamo ancora (e"ti) di testimoni?»; ciò indica che, anche secondo Luca si cercarono, ma senza alcun successo. Un secondo elemento è contenuto nel v. 2, dove, sempre secondo i LXX, il salmista scrive: «nell’avvicinarsi a me (e\n t§% e\ggòzein e\p’e\meé) quelli che fanno il male (kakou%ntav) per mangiare le mie carni (tou% fage_n taèv saérkav mou), quelli che mi tribolano (oi| qlòbonteév me) e i miei nemici, essi (au\toò) si indebolirono (h\sqeénhsan) e caddero (e"pesan)». Questo elemento non ha alcun richiamo nel Vangeli sinottici. Possiamo però citare Gv 18,6, dove, appena Gesù disse: “io sono”, quelli che erano venuti ad arrestarlo indietreggiarono (a\ph%lqon ei\v taè o\pòsw) e caddero (e"pesan) a terra (camaò). La prospettiva tra i due testi è analoga; i nemici del salmista che vengono a straziargli la carne e quelli venuti contro Gesù a catturarlo, secondo il Salmo si indeboliscono e cadono; secondo il testo evangelico indietreggiano e cadono. Possiamo notare in entrambi i testi anche lo stesso verbo e"pesan64. Un terzo elemento, infine, è più tematico ed è contenuto nei vv. 3-6, specialmente nei vv. 3 e 6. Nel v. 3 leggiamo: «se si porrà attorno a me una cinta, non temerà il mio cuore; se divampa attorno a me la battaglia, in questa io spero»; nel v. 6a poi leggiamo: «e ora ha sollevato il mio capo sui miei nemici». Questi passaggi, che esprimono la sicurezza del salmista davanti ai nemici, quasi una sfida davanti a loro, possono stare alla base della sicurezza di Gesù che va incontro a quelli che erano 64

Possiamo notare anche il seguente parallelismo: Salmo Testo di Giovanni h\sqeénhsan e"pesan

a\ph%lqon ei\v taè o\pòsw e"pesan camaò (a terra).


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venuti a catturarlo. Gesù non si oppone alla cattura, anzi rimprovera il tentativo di un tale che interviene con la spada a difenderlo; è lui che domina gli eventi ed è lui che, in certo senso, autorizza la cattura. Al di là di questi singoli elementi, possiamo cogliere nel Salmo un progresso strutturale che ricalca quello della passione, nei seguenti punti particolari: 1. La dichiarazione del salmista: «Il Signore è mio luminare (fotismoév) e mio salvatore (swthér)¸ chi temerò?»; 2. I nemici del salmista si indeboliscono e cadono; 3. Il salmista si erge con sicurezza davanti ai suoi nemici; 4. Contro il salmista sono insorti falsi testimoni; 5. Esprime infine la sua fiducia di potere vedere i beni del Signore nella terra dei viventi. Alla luce di questo schema, possiamo rileggere la passione di Gesù. 1. Come narra Giovanni, davanti a Gesù i suoi nemici retrocessero e caddero a terra; 2. Gesù affronta, a testa alta, i suoi nemici; 3. Davanti al Sinedrio si presentano falsi testimoni; 4. Qui emerge un vuoto nel Salmo che possiamo colmare alla luce dei racconti evangelici. Gesù è condannato a morte dal Sinedrio, Pilato sancirà la condanna e questa sarà eseguita al Calvario. 5. Gesù va alla morte con la certezza del Salmista: egli vedrà i beni del Signore nella terra dei viventi. Di fatti il terzo giorno Egli risorge. In questa prospettiva, le parole iniziali del Salmo: «Il Signore è mio luminare (fotismoév) e mio salvatore (swthér)¸ chi temerò?» possono richiamare bene la preghiera, carica di abbandono fiducioso in Dio, che Gesù pronunzia al Getsemani, al momento di affrontare la passione.

4.1.3. Il terzo canto del Servo del Signore (Is 50,4-10) Benché il terzo canto del Servo esplicitamente non sia una preghiera, bensì una riflessione, e benché esso direttamente si riferisca


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meglio agli avvenimenti seguenti che non alla stretta preghiera al Getsemani, esso tuttavia è importante perché ci aiuta a comprendere quale sia stato l’atteggiamento profondo interiore che ha guidato Gesù in tutto il cammino della passione. Come il primo e il secondo, ma a differenza del quarto, anche il terzo canto presenta il servo che parla. Egli narra come il Signore gli ha dato una lingua da iniziati, per potere rivolgere una parola allo sfiduciato (v. 4a); ricorda nello stesso tempo che il Signore ogni mattina fa attento il suo orecchio perché ascolti come iniziati, come persona cioè avvezza ad ascoltare (v. 4b). Il Signore ha reso il suo servo un abile parlatore, ma, nello stesso tempo, e, prima ancora, lo ha reso un attento ascoltatore. Il servo perciò ha la missione di parlare, ovviamente dopo avere ascoltato. Il canto, quale è pervenuto oggi a noi, a più attenta lettura si rivela lacunoso65. Lo sviluppo che abbiamo però ci induce a ricostruire nel seguente modo. Il fatto che Dio lo ha reso attento ascoltatore ed abile parlatore, ha indotto il servo a parlare. Ciò gli ha attirato l’ostilità degli uomini che lo hanno maltrattato (v. 6) Il servo però non desiste. Egli sa benissimo di andare incontro ad ostilità e maltrattamenti; ma continua la sua missione, abbandonandosi fiducioso al Signore (v. 7). Proprio questa fiducia in Dio non solo lo induce a perseverare nella sua missione, ma anche lo rende forte di fronte ai nemici: egli rende la sua faccia come pietra sapendo di non restare deluso. Il terzo canto può essere riferito a tre eventi della vicenda di Gesù. Anzitutto alla sua attività previa di parlare, che gli attirò, prima della passione, l’ostilità dei giudei, stimolando anche la congiura; inoltre agli scherni e alla flagellazione nel contesto della narrazione della sua passione, e infine, come suggeriscono i vv. 8-9 che alludono ad un processo, ai due processi subiti da Gesù, dai quali Egli uscì condannato. Al nostro scopo interessano soprattutto i vv. 7.9.10. Nel v. 7 (LXX) leggiamo le seguenti parole del servo: «Il Signore divenne mio 65 Cfr, A. PILATO, Il terzo canto del servo di Jahvè (Is 54,4-9) e la sua ripresa nelle narrazioni evangeliche della passione di Gesù, Tesi inedita, Catania 2002, passim.


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aiuto (bohqoév mou), per questo non ho receduto, ma ho posto la mia faccia come dura pietra, sapendo che non resterò deluso (ou\ mhè ai\scunqw%)». Nel v. 9 il servo pone ancora la domanda in seguito ad una affermazione previa. La domanda è: «chi mi potrà fare del male (tòv kakwései me)?». L’affermazione previa alla domanda è: «ecco il Signore mi aiuta (bohqe_ moi)». Dal momento che il Signore aiuta, la risposta alla domanda è ovvia: nessuno potrà fare del male. Il v. 10 è di diversa indole rispetto ai versi precedenti. In questo non è più il servo che parla, bensì qualcuno che riflette sulla sua esperienza. Il servo, che, avendo posto la sua fiducia in Lui, ha fatto esperienza del Signore e della sua salvezza, adesso è divenuto maestro di vita e, come tale, è presentato: «Chi tra voi teme il Signore? Ascolti la voce del suo servo; quelli che camminate nella tenebra, e non è a loro luce, confidate (pepoòqate) nel nome del Signore (e\pì t§% o\noémati kuròou) e appoggiatevi (a\ntisthròsasqte) su Dio (e\pì t§% qe§%)». Il servo, che ha posto la sua fiducia nel Signore, sperimenta il suo aiuto; egli sa che non resterà deluso; continua perciò nella sua missione, rendendosi duro come pietra davanti ai suoi nemici. Ancora una volta, benché non direttamente in un contesto di preghiera, appare bene, alla luce dell’atteggiamento del Servo, la dimensione spirituale di Gesù: quella del totale abbandono fiducioso in Dio. Questa prospettiva però nasconde, non solo nel terzo canto del Servo del Signore, ma anche negli altri testi sopra proposti, un’altra convinzione ancora più profonda: l’orante nei Salmi, o il servo del Signore, non sono in balia dei nemici, come potrebbero apparire in un primo momento. La loro storia è in mano a Dio, anche se, per un momento, sembra che gli uomini prevalgano. A Dio perciò possono affidarsi, sicuri di non essere travolti negli intrighi degli uomini.

4.2. Il compimento della volontà di Dio Che Gesù dovesse compiere la volontà di Dio, oltre che dal Sal 39 (40) e, prima ancora, dal Sal 15 (16), è indicato anche da altri


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testi della Scrittura che, così, in Lui trovano il loro compimento. Di ciò Gesù stesso ne fu pienamente cosciente; ai discepoli infatti, che lo esortavano a mangiare, dichiarò che il suo cibo era fare (i$na poihésw) la volontà (toè qeélhma) di colui che lo aveva mandato (Gv 4,34).

4.2.1. Il Sal 142 (143) Possimo citare anzitutto il Sal 142 (143),10 dove, secondo la versione greca dei LXX il salmista prega nel seguente modo: «insegnami a compiere (poie_n) la tua volontà (toè qeélhmaé sou)». Il motivo di questa preghiera è indicato subito dopo: «poiché tu sei il mio Dio». Anche la prospettiva di questo Salmo può concorrere a caratterizzare la descrizione del Getsemani. Il movimento del Salmo, infatti, non é contrario alla prospettiva di quei racconti. In un momento, che pare assai drammatico, in cui si sente oppresso dai suoi nemici, il salmista, fin da principio, supplica il Signore: «Signore, ascolta la mia preghiera» (v. 1). Continua ancora dopo spiegando il motivo della preghiera: «Il nemico mi perseguita». Mentre però, da una parte, il salmista chiede di essere liberato, dall’altra chiede anche che Dio gli manifesti (gnwérison) la via (o|doén) in cui camminare (v. 8) e che gli insegni a fare la sua volontà (tou% poie_n toè qeélhmaé sou), riconoscendo che in essa consiste l’unica strada verso la vita66. Tuttavia c’è una differenza tra la preghiera del Salmo e la preghiera di Gesù al Getsemani. Mentre nel salmo il salmista chiede a Dio che gli insegni la sua volontà, nel Getsemani Gesù, in un primo momento, chiese al Padre che passasse il calice; in un secondo momento poi egli aderì e si uniformò pienamente alla sua volontà. Il Sal 142 (143) non pare che sia direttamente alluso nei racconti del Getsemani; esso però si adatta bene a quel contesto, sia perché propone la volontà di Dio come un ideale da perseguire, sia anche perché il compimento della volontà appare come l’unica via verso la vita. 66

Cfr. v. 11: «per il tuo nome Signore mi farai vivere (zhéseiv me)».


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4.2.2. Due testi del libro di Isaia (Is 44,28; 55,11) Ci riferiamo specificamente sia ad Is 44,28 che ad Is 55,11. In Is 44,28 è indicato il progetto di Dio al riguardo di Ciro: «egli compirà (poihései) tutte le mie volontà (paénta taè qelhémataé mou)». Ciro, quasi certamente a sua insaputa, appare come colui la cui missione è quella di eseguire la volontà di Dio a riguardo del suo popolo. Questo testo si rivela importante perché sembra che il NT, specificamente Paolo nel discorso ad Antiochia di Pisidia, riferito da Luca in At 13, faccia su di esso una trasposizione; dal primitivo riferimento a Ciro, passa poi a riferirlo a Gesù. A questo testo infatti allude probabilmente At 13,22, quando, in riferimento a Davide, Paolo dichiara che Dio lo “resuscitò (h"geiren)” come “re (ei\v basileéa)”. Davide, figlio di Iesse, è definito da Dio come «un uomo secondo il mio cuore» e ancora: «che compirà (o£v poihései) tutte le mie volontà (paénta taè qelhémataé mou)». Davide è capostipite e prefigura anche Gesù; nel verso seguente infatti leggiamo: «Dalla stirpe di costui Dio, secondo la promessa, dedusse (h"gagen) per Israele, come salvatore (swth%ra) Gesù»: dalla stirpe di Davide Dio fece uscire Gesù come Salvatore per Israele. L’altro testo a cui ci riferiamo in questo paragrafo è Is 55,11 si parla della Parola uscita dalla bocca di Dio (e\k tou% stoématoév mou), che non torna a Lui senza avere compiuto quello che Lui ha voluto (o$sa h\qeélhsa). Questo testo però forse è più presente nella tradizione giovannea che non nella tradizione sinottica67.

5. CONFRONTO CON GEN 3,1-6 Diversi elementi notiamo nella preghiera di Gesù al Getsemani, specialmente nella forma tramandataci da Matteo e Marco, che non rientrano in nessuno dei testi precedentemente considerati. Specifi67 Cfr. A. GANGEMI, L’utilizzazione del c. 55 del libro di Isaia nel vangelo di Giovanni, in Synaxis 7 (1989) 7-90: passim.


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camente essi sono: la drammaticità stessa della preghiera, la richiesta al Padre di far passare il calice, l’esortazione ai discepoli di vegliare e pregare per non entrare in tentazione. Sono soprattutto illuminanti le parole dette da Gesù ai discepoli: «vegliate e pregate per non cadere in tentazione»68. L’osservazione riguarda il fatto che Gesù indica la preghiera come il mezzo per non cadere in tentazione; la conclusione che tiriamo dalle parole di Gesù consiste allora nel fatto che, se Egli vegliò e pregò, vuol dire che quello fu per Lui il momento della tentazione. Ciò ci induce a stabilire un confronto con l’unico testo che, a nostro parere, può costituire un parallelo: il testo genesiaco della tentazione dei primi uomini (Gen 3,1-6).

5.1. Il testo genesiaco Il testo di Gen 3,1-6 si colloca nello sfondo più ampio di tutta la narrazione Jahvista, contenuta nei cc. 2-3 del libro della Genesi.

5.1.1. Il c. 2 Secondo il racconto di Gen 2, nello sfondo di una situazione caotica, il Signore Dio comincia la sua opera dalla creazione dell’uomo (v. 7); poi, nel v. 8, si dice che piantò un giardino in Eden a oriente ed ivi pose l’uomo che aveva plasmato. Nel v. 9 il narratore descrive i tre tipi di alberi che il Signore Dio fece spuntare dalla terra: ogni albero bello a vedersi e buono da mangiare, l’albero della vita nel mezzo del giardino e l’albero per essere conoscitore del bene e del male (tou% ei\deénai gnwstoèn kalou% kaì ponhrou%). Poi, nel v. 15, dopo la parentesi del racconto dei quattro fiumi (vv. 10-14), il narratore ripete che Dio pose l’uomo nel giardino69. Il v. 15 aggiunge però un ulteriore elemento; indica cioè lo scopo per cui 68 69

Cfr. Mt 26,41; Mc 14,38; Lc 22,40.46. Si può notare la seguente relazione strutturale:


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l’uomo fu posto nel giardino: lavorarlo e custodirlo (e\rgaézesqai au\toèn kaì fulaéssein). I vv. 16-17 sono fondamentali: in essi è descritto il comando del Signore (e\neteòlato) ad Adamo: di mangiare da ogni albero che si trova (tou%) nel paradiso; ma di non mangiare dell’albero orientato verso la conoscenza (tou% ginwéskein) del bene e del male. Alla trasgressione è legata la morte; Dio infatti continua dicendo: «nel giorno che ne mangerete (faéghte), certamente morrete (qanaét§ a\poqane_sqe)». Nei vv. 18-25 è descritta la creazione della donna, presa dall’uomo e che l’uomo riconosce “osso delle mie ossa e carne della mia carne (v. 23)”. Il testo si apre ad una prospettiva catechetica: i due debbono formare una carne sola; l’uomo deve lasciare suo padre e sua madre ed unirsi alla sua donna.

5.1.2. Il testo di Gen 3,1-6 Nello sfondo di tutta l’opera di Dio, descritta nel c. 2, il narratore colloca la descrizione della tentazione in 3,1-6. Egli introduce anzitutto la figura del serpente, definita come la più astuta di tutte le bestie della terra che il Signore Dio aveva fatto. É il serpente che interpella, in maniera subdola, la donna, estendendo a tutti gli alberi del giardino la proibizione di Dio di mangiare. La donna risponde precisando che la proibizione, a cui è legata la morte, riguarda soltanto l’albero nel mezzo del giardino (v. 2). Il serpente contraddice Dio, negando che il mangiare di quell’albero conduce alla morte; ricollega piuttosto il comando alla gelosia di Dio; fa così apparire alla donna il frutto proibito buono a mangiarsi e piacevole agli occhi da vedere. La donna trasgredì il comando, mangiò e ne fece mangiare anche all’uomo. I loro occhi si aprirono, non però per fare esperienza di essere come Dio, bensì per accorgersi di essere nudi. v. 8: v. 15:

e"qeto e\ke_ toèn a"nqrwpon o£n e"plasen toèn a"nqrwpon o£n e"plasen kaì e"qeto e\n t§% paradeòs§.


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5.2. Confronto con i racconti del Getsemani Il confronto tra il racconto della tentazione dei primi uomini, secondo Gen 3,1-6, e la preghiera di Gesù al Getsemani, secondo i tre vangeli sinottici, si stabilisce meglio sul piano strutturale che non su quello strettamente letterario. Troviamo infatti una analogia strutturale tra i due racconti, che possiamo proporre nei seguenti elementi. Anzitutto stanno a confronto due uomini: Adamo e Cristo. Veramente nel testo di Gen 3,1-6 il soggetto primo, dopo il serpente, non è l’uomo, bensì la donna: l’uomo è semplicemente coinvolto dalla donna nella trasgressione. Il NT però pone il confronto non tra la donna e Cristo, bensì tra Adamo e Cristo70. Ambedue gli uomini si trovano in un giardino. Adamo si trova nel giardino che Dio aveva piantato in Eden e dove era stato posto da Dio stesso; Gesù si trova nell’orto degli ulivi, dove Lui stesso è entrato assieme i discepoli. I due uomini ricevono un comando. Quello di Adamo è esplicitamente formulato in Gen 2,16-17: «e comandò (e\neteòlato) il Signore Dio ad Adamo dicendo: da ogni albero del giardino mangerai (faég+); dall’albero del conoscere (tou% ginwéskein) il bene e il male non mangerete da esso (ou\ faégesqe a\p’au\tou%)». Il comando adamitico perciò è “non mangiare” dell’albero della conoscenza del bene e del male. Questo comando è ben noto ai primi uomini, come appare dalla precisazione della donna, in 3,3, di fronte all’estensione di esso da parte del serpente. Almeno nel contesto dei racconti al Getsemani, e prescindendo dal vangelo di Giovanni, a Gesù non è dato un comando esplicito. Esso però si deduce bene dalla sua stessa preghiera: se Egli chiede che passi il calice, vuol dire che il comando riguarda appunto bere il calice. Adamo non deve mangiare; Gesù invece deve bere. Nel racconto genesiaco interviene il serpente che, da una parte, smentisce Dio; dall’altra addita il frutto proibito come attraente. Dio appare così bugiardo e nemico di quella felicità che l’uomo invece deve rivendicare appunto mediante la trasgressione. Tutto ciò nel racconto 70 Cfr. Rm 5,14; 1Cor 15,12.45. Implicitamente il confronto tra i due uomini è stabilito anche in Fil 2,6-8.


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del Getsemani non è detto; possiamo richiamare però, ancora una volta, la deduzione sopra già indicata: se Gesù esorta a vegliare e pregare per non entrare in tentazione, e se Egli ha pregato, vuol dire che quello per Lui fu il momento della tentazione. Quale poi sia stata la tentazione che Gesù subì, si può dedurre dallo stesso contenuto della sua preghiera. Se Gesù pregò chiedendo che passasse il calice, vuol dire che la tentazione gli suggerì appunto di eludere il calice. Possiamo stabilire allora il seguente parallelismo tra i due uomini: Adamo Cristo Comando: non mangiare bere Tentazione: mangiare non bere. Al di là del contenuto specifico, la tentazione nei due uomini coincide nel fatto di trasgredire la volontà di Dio. Ad Adamo Dio disse di non mangiare; la tentazione invece lo indusse a mangiare. A Gesù Dio disse di bere il calice: la tentazione cercò di indurlo a non bere. Qui però emerge la differenza tra i due uomini. L’Adamo genesiaco cedette alla tentazione, credette veramente che Dio lo ingannava, rivendicò il suo diritto, da Dio leso con il comando, di diventare come Dio e trasgredì mangiando il frutto, qualunque esso sia nel contesto del racconto genesiaco. Gesù invece non cedette alla tentazione che, come appare dai racconti di Matteo e Marco e anche dall’aggiunta di Lc 22,43-44, dovette in quel momento rivelare, con molta crudezza, l’entità dei patimenti. Gesù non perdette la propria fiducia nel Padre; a Lui rivolse, come preghiera, quello che la tentazione gli suggeriva. Non eluse il calice; chiese al Padre invece, magari in maniera drammatica, come appare dal racconto di Marco, di mutare il suo decreto. Nella preghiera Gesù ottiene diverse cose. Anzitutto comprende che il calice non può passare; inoltre trova la forza di aderire alla volontà del Padre e di accettarla; ancora si rafforza nella fiducia verso il Padre che, contrariamente a quanto verosimilmente cercava di fargli credere la tentazione, ma come diceva il Sal 15 (16), non lo avrebbe lasciato nel sepolcro, non gli avrebbe fatto provare la corruzione, ma gli avrebbe indicato i sentieri della vita.


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6. CONCLUSIONE La serie di testi dell’AT, che abbiamo considerato e alla cui luce abbiamo cercato di rileggere la preghiera di Gesù al Getsemani, ci permette di evidenziare alcuni punti conclusivi. Il primo punto anzitutto è l’adesione di Gesù alla volontà del Padre, solennemente da Lui dichiarata al Getsemani. In ciò Gesù è in piena sintonia con tutta la Scrittura. Questa prevedeva un atto di profonda adesione alla volontà di Dio da parte del Salmista o di qualche altro personaggio. Il NT ci mostra che questo personaggio è appunto Lui, Gesù. Come appare dal Sal 39 (40), la missione fondamentale di Gesù è quella di compiere la volontà di Dio; ciò, secondo il Salmo, è già scritto fin nella prima pagina, sul frontespizio, e Gesù è venuto appunto a questo scopo. Al Getsemani Egli perciò appare come colui che porta a compimento la sua missione: compiere un atto di profonda adesione alla volontà di Dio. Egli perciò non può sottrarsi a questa missione. Soprattutto nel Sal 39 (40), la volontà di Dio consisteva specificamente nell’osservanza della legge. Pure per Gesù la volontà di Dio ha un contenuto preciso: si tratta di bere il calice. Alla luce del Sal 15 (16), Dio per Gesù è la parte della sua eredità e del suo calice. Il Padre però si presenta a Lui con il volto della passione. Gesù non può rifiutarsi di berlo: rifiutarsi di bere il calice significa rifiutare il Padre che glielo presenta. Di ciò, come appare da Gv 18,11, Gesù è pienamente cosciente; dichiara infatti in questo testo: «Il calice che il Padre mi ha dato, forse che non lo beva?». Come per l’Adamo genesiaco, anche per Gesù sembra intervenire la tentazione. Il tentatore, non menzionato nei racconti evangelici, ma, alla luce di Gen 3,1-6, non assente, ha cercato di stabilire, come per l’Adamo genesiaco, una contrapposizione tra Gesù e il Padre. A differenza però dell’Adamo genesiaco che trasgredì, Gesù non contrappone se stesso al Padre, ma, al contrario, antepone il Padre a se stesso. Non solo non si ribellò, ma preferì alla sua la volontà di Lui. La preghiera di Gesù fu assai intensa. Matteo e Marco menzionano il travaglio del suo animo; nel testo lucano poi, l’aggiunta dei vv. 43-44 ci informa che, divenuto in agonia, più intensamente pregava. Lo


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spasimo interiore dovette tradursi in un sudore abbondante e denso, simile a sangue. Nella preghiera Gesù non solo superò la tentazione; non solo aderì alla volontà del Padre, ma anche si rafforzò nella fiducia in Lui. Gesù intraprende il cammino della passione in atteggiamento di totale abbandono fiducioso nel Padre. Superata la tentazione, Gesù ancora prega. La sua preghiera, che lo accompagna in tutto il cammino della passione, è appunto quella dell’abbandono fiducioso; la preghiera del Sal 15 (16); del Sal 39 (40); del Sal 22 (23); del Sal 26 (27); dei Salmi 4142, allusi, come abbiamo notato, nel racconto evangelico. La fiducia nel Padre, fondata su una incrollabile fede in Lui, accompagnerà Gesù in tutto il suo cammino, e non verrà meno neanche sulla croce, quando esclama, con le parole del Sal 21 (22),2: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Proprio il Sal 21 (22) guiderà Gesù a più profonda fiducia nel Padre, nonostante che gli scherni sotto la croce indurrebbero ampiamente a dubitare della sua presenza. La citazione del v. 2 suggerisce che la preghiera di Gesù sulla croce fu appunto quella del Sal 21 (22). In questo salmo drammaticità e fiducia si intrecciano. Nel v. 8 del Salmo, ripreso da Mt 27,43, il salmista, o Gesù, è schernito per il fatto di essersi affidato al Signore; ma proprio questo scherno determina una supplica fiduciosa più intensa. Lo supplica di non stare lontano (v.12), avendolo Egli tratto dal grembo (v. 10) e di non differire il suo aiuto (v. 20). I nemici lo avevano schernito, bestemmiando, perché Gesù aveva posto la sua fiducia (peépoiqen) in Dio; ma Dio, come diceva ancora il Salmo, è intervenuto in suo aiuto: non ha disprezzato né sdegnato la preghiera del povero e non gli ha nascosto il suo volto (v. 25). Gesù, sulla croce e nella sepoltura, sa che il Padre non lo avrebbe deluso, non avrebbe lasciato la sua vita nel sepolcro e non avrebbe permesso che il suo Santo subisse la corruzione, ma gli avrebbe indicato i sentieri della vita (Sal 15[16],11). A Gesù perciò possono essere riferite propriamente le parole del Sal 26 (27),13: «sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi» e anche quelle del Sal 21 (22),30: «la mia anima (h| yuché mou) per lui (au\t§%) vive (z+%)».


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PER UN’ANTROPOLOGIA CRITICA: APPUNTI*

GIUSEPPE RUGGIERI

Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo. (Sal 89, 10)

E due versetti dopo il salmista continua: insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo la saggezza del cuore. I miei anni sono stati e continuano a essere pieni di fatica, ma per fortuna sul dolore ha prevalso la gioia. Ma, nonostante questo disaccordo col salmista, volentieri faccio mia la sua preghiera. Anch’io vorrei avere in dono dal Signore il discernimento dei giorni passati e di quelli che mi restano. A 70 anni compiuti, di cui 51 passati sulla teologia, cioè sul sapere che ha sempre accompagnato l’esperienza credente dei cristiani, da Paolo fino ad oggi, la preghiera si concretizza in una domanda: quali sono i giorni della teologia che mi è toccato di vivere? Giacché posso sperare la saggezza del cuore solo se saprò contare questi giorni, se riuscirò ad apprendere il senso di un cammino che mi ha coinvolto e se a partire da questa conta saprò muovere i passi che il buon Dio mi concederà ancora di fare. 1. Permettetemi quindi come premessa a questa prolusione, alcune note personali. Non ricordo esattamente quando, ma agli inizi * Testo della prolusione all’anno accademico 2010-2011, pronunciata da Giuseppe Ruggieri a conclusione del suo insegnamento (1969-2010) presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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degli anni ’80 del secolo passato, Giuseppe Alberigo mi passò un inedito di Giuseppe Dossetti, con la preghiera di annotarlo. Si trattava della trascrizione di una conferenza tenuta il 14 settembre 1966 presso l’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna, pubblicata poi con il titolo di “Appunti per un’antropologia critica o del profondo” in L’«officina BOLOGNESE» 1953-2003, a cura dello stesso Alberigo1. Di quella conferenza non ebbi un’impressione positiva. Stesi per dovere di amicizia alcune note sobrie, poi riprese integralmente da Alberigo nell’edizione del testo, ma gli espressi anche la mia insoddisfazione e il mio giudizio netto: quel testo era a mio avviso molto debole e non andava pubblicato. Infatti se a me risultava convincente la denuncia che Dossetti vi faceva di una carenza antropologica della costituzione Gaudium et spes, giudizio già espresso del resto anche da Congar nella sua introduzione a La vie selon l’Esprit, condition du chrétien, una raccolta di saggi di I. De la Potterie e St. Lyonnet pubblicati nel 1965 nella gloriosa collana Unam Sanctam, sbrigativa mi sembrava invece la riflessione positiva di Dossetti. Questa ignorava semplicemente tutta la produzione novecentesca sull’antropologia teologica, quella che per intenderci aveva preso l’avvio dalla recezione di Blondel nella teologia cattolica, che poi aveva tuttavia percorso strade diverse come quelle di De Lubac da una parte e di Rahner dall’altra parte. Per me l’episodio si chiuse lì, o meglio si chiuse provvisoriamente. Giacché le vicende del postconcilio nella chiesa cattolica richiedevano e richiedono, almeno da parte dei teologi, un tentativo di comprensione e di discernimento, sono queste vicende, la conta dei giorni che viviamo, dalla fine del concilio fino ad oggi, che mi hanno imposto di ritornare a quel testo. Mi sono accorto del solito sbaglio nei confronti di Dossetti. Infatti, quando taceva, spesso non ignorava, ma dissentiva. A differenza del Tridentino, la cui recezione fu guidata e controllata dalla Curia romana, mediante l’istituzione ad hoc della Congregazione pro executione et interpraetatione concilii Tridentini, con la secretazione secolare delle carte conciliari, la recezione del 1

Bologna 2004.


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Per un’antropologia critica: appunti

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Vaticano II vive di una sana dialettica tra curia romana, chiese locali, teologi, storici e studiosi del concilio stesso. Merito di questo va attribuito in gran parte alla decisione di Paolo VI di non secretare le carte e di stabilire per l’archivio del Vaticano II regole diverse da quelle vigenti per gli altri archivi ecclesiastici e per l’Archivio Segreto Vaticano in particolare. A tutt’oggi, anche dopo l’integrazione dell’Archivio conciliare nell’Archivio Segreto, la sua volontà è stata rispettata. Si aggiunga a questo la conoscenza delle fonti presenti altrove e le quali come massa superano ampiamente quelle raccolte a Roma2. Questa possibilità di accedere alle fonti consegna per così dire il concilio nelle mani di tutti e permette di misurare la portata stessa della recezione dell’evento conciliare. La comprensione teologica della recezione del concilio va misurata infatti sulla comprensione del concilio stesso. Ora è indubbio che, a parte la ripresa di una concezione della chiesa più tradizionale, centrata sulla liturgia come azione comune dell’assemblea, concezione questa legata alla tradizione patristica e con una presa di distanza critica al tempo stesso dall’ecclesiologia controversista e societaria dell’epoca postridentina (emblematica la bocciatura dello schema preparatorio sulla chiesa3), a parte ancora la riproposizione anch’essa tradizionale della centralità della Scrittura e della sovranità della Parola di Dio nella chiesa, un altro tratto caratteristico del concilio fu il nuovo rapporto con la storia degli uomini, anzi con la storia del nostro tempo. Solo così si spiegano la Dichiarazione sulla libertà religiosa, il nuovo approccio alle religioni non cristiane, l’ecumenismo come scelta irreversibile della chiesa cattolica. “Aggiornamento” e “pastorale”, nel programma che Giovanni XXIII consegnò al concilio mediante l’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia, furono le cifre di questo nuovo rapporto. Stando alle sue parole, la sostanza viva del vangelo deve assumere forme sempre nuove perché il vangelo appaia agli uomini in tutta la sua freschezza. Questo compito appartiene 2

G. TURBANTI – M. Faggioli, Il concilio inedito . Fonti del Vaticano II, Bologna

2001. 3 G. RUGGIERI, Il difficile abbandono dell’ecclesiologia controversista, in G. Alberigo (dir.), Storia del concilio Vaticano II, 2, Leuven-Bologna 1996, 259-293.


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soprattutto al magistero, la cui natura è preminentemente pastorale. Nel linguaggio di papa Giovanni il termine “pastorale” perdeva il suo significato di “applicazione” concreta dei principi dottrinali. Piuttosto, con il duplice rimando alla figura del buon pastore del IV vangelo e alla figura di Carlo Borromeo, traduceva la preoccupazione di non far mancare il nutrimento vivo al gregge, e quindi indicava il programma di un’ermeneutica sempre rinnovata della parola del vangelo, superando le forme letterarie dei suoi rivestimenti passati. Occorrerebbe fare qui tutta un’analisi accurata dell’arcaico linguaggio roncalliano4 per liberarlo dalle incomprensioni superficiali di quanti non hanno mai afferrato la portata dottrinale del suo magistero. Ma almeno una cosa va aggiunta per comprendere il senso dell’aggiornamento: la sua visione positiva della storia. Superando la concezione che fino allora aveva dominato, a partire da Gregorio XVI, il magistero romano e che aveva trovato la sua espressione autorevole nel proemio della costituzione Dei Filius del Vaticano I, concezione secondo cui la storia moderna era una sequela progressiva di errori determinata dalla negazione dell’autorità della chiesa, papa Giovanni vedeva invece nella storia concreta la continua presenza vittoriosa del Cristo e definiva i giudizi di quanti vedono solo prevaricazione e rovina nei tempi moderni «insinuazioni di anime pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante e di misura» (Gaudet Mater Ecclesia, 8). In questa storia concreta occorreva invece cogliere i segni dei tempi5, le tracce della presenza del Regno. E papa Giovanni lasciò un esempio eloquente di questo atteggiamento nella Pacem in terris, vera premessa al riconoscimento della libertà di coscienza, anche in campo religioso, che poi la Dignitatis humanae avrebbe fatta sua anche se nei limiti di una visione prevalentemente giuridica.

4

Io ho tentato di farla soprattutto in due saggi: Appunti per una teologia in papa Roncalli, in G. ALBERIGO (cur.), Papa Giovanni, Roma-Bari 1987, 245-271; Esiste una teologia di papa Giovanni?, in FONDAZIONE PER LE SCIENZE RELIGIOSE GIOVANNI XXIII DI BOLOGNA (cur.),Un cristiano sul trono di Pietro. Studi storici su Giovanni XXIII, Bergamo 2003, 253-274. 5 Per il significato di questa espressione, vedi G. RUGGIERI, La verità crocifissa. Il pensiero cristiano di fronte all’alterità, Roma 2007, 81-114.


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Per un’antropologia critica: appunti

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E allora: la sostanza viva del vangelo va ogni volta scoperta, riassimilata, in un discernimento della storia concreta degli uomini alla luce del Regno che viene. Emerge così una figura del credente che si avvicina molto alla sentinella di Isaia (21, 11-12) o al giusto che vive della fede/emunah del profeta Abacuc (2, 4). Colui che nella speranza attende il Regno e si immerge nella storia per discernerne i segni, poggia sulla emunah, sulla stabilità della promessa, senza cedere alla banalità, senza prendere sul serio le proprie sofferenze, ma prendendo sul serio le sofferenze di Dio nel mondo (Bonhoeffer), vegliando con Cristo nel Getsemani fino alla fine del mondo (Pascal + Bonhoeffer)6. Se guardiamo all’oggi della chiesa questo appare tuttavia un orizzonte lontano. Questa visione della storia e l’antropologia corrispondente, ripensata a partire da Gesù di Nazaret e dal suo annuncio della vicinanza del Regno, risulta infatti estranea rispetto ad una predicazione oggi dominante che, soprattutto nelle voci più autorevoli della gerarchia cattolica, sembra ritornare ai vecchi tempi della restaurazione e dell’intransigentismo. Nella visione negativa della storia di ottocentesca memoria, l’evoluzione delle società moderne veniva condannata in quanto perversione del diritto naturale, la cui conoscenza deriva dalla retta ragione, di cui a sua volta è ultimamente custode il magistero ecclesiastico. Per riprendere il controllo sulla società, perduto dopo la Rivoluzione francese, non potendo imporre la visione evangelica della vita, che per definizione è dono di Dio, la chiesa infatti rivendicava la propria competenza sulla conoscenza della natura nel disegno del Creatore, conoscenza che ormai, a causa del peccato, non era pienamente accessibile all’uomo fuori dalla rivelazione soprannaturale di cui la chiesa è depositaria. Chi volesse comprendere la logica di questo giudizio non ha che da rileggersi la Quanta cura di Pio IX, l’enciclica che accompagna il Sillabo, dove il papa si fa avvocato della «nozione autentica della giustizia e del diritto umano, oscurata e perduta laddove dalla società civile fu rimossa la religione e ripudiato l’insegnamento e l’autorità della divina rivelazione» (Denzinger-Schönmetzer: 2890). 6 D. BONHOEFFER, Resistenza e Resa. Lettere e altri scritti dal carcere (Opere di D. Bonhoeffer, 8), Brescia 2002, 503-505.


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Nel mutare dei tempi, appare quindi strano risentire la stessa logica nei vari appelli che oggi vengono fatti alla morale naturale, con uno spirito polemico nei confronti della storia presente. E questo non perché la storia non contenga gli errori denunciati, ma perché non si ascolta più il saggio consiglio di papa Giovanni: la storia stessa correggerà i suoi errori, mentre sta a noi cercare prima il Regno di Dio e la sua giustizia (Gaudet Mater Ecclesia, 8-12). Invece, nella temperie attuale, il magistero cattolico, soprattutto in Italia, preferisce usare due pesi e due misure: la predicazione del vangelo è per così dire riservata al destinatario intraecclesiale, mentre verso l’esterno ritorna il vecchio linguaggio del rimando alla legge morale naturale. La sensibilità del vecchio pastore che, superando il regime delle condanne, ebbe il coraggio di indire un concilio di aggiornamento per la chiesa cattolica come condizione per la testimonianza del vangelo agli uomini tutti, appare oggi desueta. Non è qui il luogo di documentare questo ritorno all’indietro, ma basterà citare un solo esempio recente, come l’appello che il Presidente della CEI ha rivolto in occasione del recente Consiglio permanente della Conferenza episcopale: «Ricorrente è, nella nostra cultura pubblica, un certo interrogarsi sui cattolici: dove sono, come si pongono, cosa fanno. Anche nell’ultima estate queste domande sono ritornate. Risposte, magari interessanti, suonano spesso unilaterali, condizionate fatalmente dal punto di osservazione. Ebbene, vorremmo che fosse il bene comune la bandiera che nel cuore si serve, la divisa che consente di identificare là dove sono i cattolici, ma — ripeto — non solo loro. Non dimentichiamo, infatti, che “la ragione è capace” di distinguere “ciò che è bene fare e ciò che è bene non fare per il conseguimento di quella felicità che sta a cuore a ciascuno, e che impone anche una responsabilità verso gli altri” (Benedetto XVI, All’Udienza generale, 5 agosto 2010). È proprio l’esperienza condotta dal di dentro delle cose, in nome della ragione e quindi della morale naturale, che diventa il giudizio più evidente sul relativismo secondo cui non ci sarebbero riferimenti etici da privilegiare né alcuna gerarchia di valore». (Prolusione del Card. Bagnasco al Consiglio permanente della CEI del 27-30 settembre scorso). Dall’altra parte, quello che mi piace chiamare il progressismo cattolico, sembra propugnare una scelta per l’umano in quanto tale,


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così come esso si configura nelle correnti più avanzate della storia di oggi: democrazia, solidarismo, ecologia e difesa della terra, diritti umani, soprattutto della donna e delle minoranze. Lungi da me il criticare questi valori. Essi, laddove si parla del solidarismo e della difesa della terra, nonché dei diritti dei più deboli, sono oltre tutto comuni alle preoccupazioni più vive del magistero ufficiale. Ma spesso ciò che appare difficile cogliere negli uni e negli altri è l’orizzonte dell’annuncio di Gesù, nella sua diversità, per dirla con le parole dei sinottici, rispetto alla logica che domina l’agire dei “governanti delle nazioni”. La prospettiva qui presente è quella di una costruzione dal basso del Regno di Dio, che richiama molto la filosofia della storia di Immanuel Kant. 2. Di fronte a questi atteggiamenti predominanti, l’ermeneutica conciliare della storia e la visione dell’uomo in essa implicita sembrano così essere finite in un binario morto, senza più futuro. A dire il vero, alcuni segni del disagio erano apparsi già nell’ultima fase del concilio, durante la preparazione della costituzione della Chiesa nel mondo contemporaneo, la Gaudium et spes7. Erano in molti infatti che, come base di una considerazione della chiesa nel mondo, postulavano una riflessione sull’antropologia cristiana. La soluzione adottata, quella che adesso è depositata nel cap. I, fu approvata in mancanza di meglio8. Dove stava la difficoltà? Questa, a mio avviso, stava in una scarsa maturazione teologica della nuova problematica che si apriva con la desueta apertura al mondo inaugurata da papa Giovanni. La teologia della prima metà del Novecento aveva recuperato per così dire il gap che la separava dall’antropologia della modernità, costruendo delle antropologie dinamiche e aperte, nelle quali la rivelazione cristiana non si imponeva dall’esterno, ma rispondeva al desiderio più profondo della creatura (De Lubac e Rahner, e i loro seguaci, per vie diverse avevano fatto proprio questo). Ma la rifles7 Cfr. G. RUGGIERI, Delusioni alla fine del Concilio. Qualche atteggiamento nell’ambiente cattolico francese, in J. DORÉ – A. MELLONI (cur.), Volti di fine concilio. Studi di storia e teologia sulla conclusione del Vaticano II, Bologna 2000, 193-224. 8 G. TURBANTI, Un concilio per il mondo moderno. La redazione della costituzione pastorale «Gaudium et spes» del Vaticano II, Bologna 2000.


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sione teologica si era fermata qui. La storia concreta degli uomini restava nelle varie antropologie dell’immanenza fuori dall’orizzonte e per ciò stesso restava fuori dal loro orizzonte la stessa antropologia biblica, quella che per intenderci è depositata nel cap. 8 della lettera ai Romani, dove il gemito della creazione tutta è legata all’attesa della liberazione dei figli di Dio. Lo stesso De Lubac aveva in qualche modo tradito le premesse poste nel suo capolavoro, quel Catholicisme (1938) dove venivano enucleate le dimensioni sociali del dogma. Le Surnaturel (1946), quanto mai inviso a Roma, ma per motivi diversi da quelli qui ricordati, rappresentava in questo senso un restringimento personalistico dell’orizzonte. Se la premessa antropologica alla Gaudium et spes era quindi incapace di supportare un’ermeneutica cristiana della storia, le cause risalivano a prima del concilio. E aveva sostanzialmente ragione J.B. Metz quando, dopo avere già scritto un libro sull’antropocentrismo cristiano, frutto del suo lavoro di dottorato presso Rahner (1962)9, poi nel suo manifesto programmatico della “nuova” teologia politica10 denunciava la “tendenza al privato” presente nella teologia trascendentale del suo maestro, come nell’interpretazione esistenziale del grande lume della teologia protestante di quel momento, R. Bultmann. Metz supportava la sua visione con il primato biblico dell’escatologia, con il motivo della memoria pericolosa della croce di Cristo e di tutte le vittime della storia e con il richiamo al correttivo dell’apocalittica contro ogni riduzione evoluzionistica della storia della salvezza. In dialettica amica con lui, di lì a poco i teologi latino americani della liberazione avrebbero messo al centro della riflessione il tema dei poveri. In modo vario veniva ripreso in questo modo il tema dei poveri come “asse della storia” che invano Lercaro aveva cercato di far passare in Concilio come programma del concilio stesso, che lo aveva recepito sì in un capoverso (il capoverso 3 del cap. 8 della Lumen Gentium), ma che lo aveva disatteso nel suo valore programmatico, preparando così, anche se involontariamente, l’inefficacia 9 10

1965).

J.B. METZ, Christliche Anthropozentrik, München 1962. Adesso in J.B. METZ, Sulla teologia del mondo, Brescia 1971, 105-122. (Or. ted.


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sostanziale di quel motivo nel magistero successivo e soprattutto nella prassi delle chiese occidentali. L’accusa di marxismo contro i teologi della liberazione, con il tempo, si è dimostrato, se non strumentale, per lo meno evanescente e non vale a surrogare la loro ispirazione fondamentale, che (va sottolineato) fu quella condivisa dalla maggioranza dei vescovi e delle chiese latino americane tra gli anni settanta e ottanta del secolo passato, lo slogan vulgato, che suona letterario, dell’opzione privilegiata per i poveri. Un’opzione è appunto una scelta, non è un elemento costitutivo dell’identità cristiana. Ma il vangelo annunciato da Gesù per sua natura stessa appartiene ai poveri e la fede in questo vangelo non può quindi prescindere da questo suo codice genetico (Mc 1, 15: convertitevi e credete al vangelo!) In questo contesto la costruzione di un’antropologia della sentinella credente, del giusto che vive della fede/emunah nella promessa del Regno, dei figli di Dio che attendono la liberazione e la gloria condividendo il gemito della creazione sottomessa contro voglia alla caducità, giacendo assieme ad essa nel travaglio del parto (synodinein è il verbo usato da Paolo), vegliando con Gesù nel Getsemani fino alla fine del mondo, incorre nelle stesse difficoltà in cui si dibatterono i padri conciliari. Era quindi nel giusto Dossetti quando denunciava la carenza di un’antropologia teologica critica o del profondo. Per lui questa antropologia non si poteva limitare all’ovvio o alla rincorsa verso gli ideali della modernità, ma si sarebbe dovuta fondare nel mantenimento della prospettiva escatologica come base dell’esistenza cristiana e nel dispiegamento di tutte le valenze storiche dell’amore di Dio per l’uomo. 3. Non è mia intenzione riprendere qui quel saggio di Dossetti. Nonostante la mia rivalutazione postuma, esso mi sembra condizionato da una lettura eccessivamente sincronica della Bibbia, poco attenta ad una lettura storica che coglie la varietà delle prospettive, la loro evoluzione e il loro intreccio. Preferisco partire invece da un dato limitato, che è oggetto di consenso comune per lo meno tra gli esegeti, ma che attende a mio avviso di essere sviluppato in tutta la sua portata teologica. Il dato è la riscoperta del Gesù storico, distinto sia


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dalla cultura religiosa giudaica del suo tempo che dall’interpretazione credente delle primitive comunità cristiane. Dopo la conferenza programmatica di Käsemann nel 195311, l’esegesi critica, sia cattolica che protestante, ha progressivamente delineato i tratti di questo Gesù. Il grosso lavoro in 4 volumi del gesuita americano John P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, permette oggi di avere una visione comprensiva dei risultati di queste ricerche, non sempre identici, ma tali da delineare un consenso di fondo. Elemento comune a tutte queste ricerche, intravisto già da alcuni studiosi tra fine dell’Ottocento e inizi del Novecento (J. Weiss, A. Schweitzer), è la costatazione che il centro della predicazione di Gesù è costituito dal Regno di Dio che deve venire, ma con una collocazione assolutamente originale nel contesto religioso del suo tempo, soprattutto per la pretesa centrale di Gesù, che assegnava alla sua vicenda personale la funzione decisiva della venuta del Regno stesso. La natura di questo Regno è descritta nelle Beatitudini, come promessa di un mutamento della condizione dei vari poveri della storia, dei miti, degli assetati di giustizia e via dicendo. Per questo la predicazione di Gesù è rivolta ai peccatori, agli emarginati di ogni genere che “passano” (al tempo presente: Mt 21, 31) avanti a tutti gli altri nel Regno dei cieli. Una spiritualizzazione di questo Regno nel dominio interiore dell’uomo, è semplicemente impossibile. Tuttavia, per quanto riguarda il suo rapporto con i tempi della storia umana, la collocazione di questo Regno nella predicazione di Gesù appare, per usare il termine impiegato dal già citato Meier, paradossale. Per un verso infatti Gesù aspettava come imminente una venuta futura del regno di Dio, e ciò fino alla fine della sua vita12. «Solo un’esegesi contorta può eliminare l’escatologia futura dalla predicazione di Gesù, riflessa nell’unica preghiera che egli ha insegnato ai suoi discepoli»13. Per altro verso, e sta qui il paradosso, Gesù ha predicato anche la presenza di questo Regno nella sua attività di tauma11

E. KÄSEMANN, Das Problem des historischen Jesu, adesso in Exegetische Versuche und Besinnungen 1, Göttingen 1964, 187-214. 12 J.P. MEIER, Un ebreo marginale, 2, Brescia 2002, 368. 13 Cit. 369.


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turgo. Che Gesù sia stato infatti un guaritore, anche se è difficile definire esattamente la portata delle guarigioni operate, è un dato che nessun esegeta critico oggi mette in discussione. Meier si rifiuta di risolvere il paradosso in maniera sistematica. Egli si limita a dire che, quali che siano i termini che noi impieghiamo per stabilire il nesso tra la presenza attuale del Regno e la sua dimensione futura, «il punto importante, […] è che Gesù scelse intenzionalmente di indicare che la potenza miracolosa del suo ministero costituiva una realizzazione parziale e preliminare del dominio regale di Dio, che si sarebbe presto manifestato nella sua pienezza»14. Fin qui l’esegeta. Ma il teologo non può considerarsi soddisfatto. Se Gesù aspettava la venuta imminente del Regno e se questo d’altra parte non si è realizzato, resta allora da concludere che egli si sia illuso? Questa fu soprattutto la conseguenza che tirarono molti esegeti protestanti all’inizio del Novecento, proprio quelli che avevano per così dire scoperto il carattere radicalmente escatologico del messaggio di Gesù. E la loro conclusione aleggia, anche quando non viene dichiarata come tale, in tante analisi esegetiche contemporanee, sia protestanti che cattoliche. Ma così viene messa radicalmente in crisi l’immagine antropologica della sentinella cristiana, costretta a indicare sempre e soltanto delle anticipazioni del Regno che non si realizzerà mai. Dobbiamo dire allora che l’antropologia cristiana sia compiutamente espressa da quei versetti della lettera agli Ebrei che indicano come modello del credente la figura dei patriarchi, i quali «tutti morirono nella fede, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Infatti, chi dice così dimostra di cercare una patria; e se avessero avuto a cuore quella da cui erano usciti, certo avrebbero avuto tempo di ritornarvi! Ma ora ne desiderano una migliore, cioè quella celeste; perciò Dio non si vergogna di essere chiamato il loro Dio, poiché ha preparato loro una città». (Eb 11, 13-16)? A mio avviso questo è insufficiente, anche se ritengo che questo testo sia importante, se non lo si legge tuttavia in modo riduttivo (dimenticando cioè che l’orizzonte 14

Cit. 589.


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della Lettera agli Ebrei è la sequela di Gesù “che è autore e realizzatore perfetto della fede”). Per sfuggire comunque alla difficoltà, nel cristianesimo, con il passare dei tempi, sono sorti molti surrogati all’attesa imminente del Regno, un Regno che si rendeva presente tuttavia nell’attività di Gesù. Questi surrogati hanno per così dire un binomio costitutivo: per un verso i cristiani hanno sempre ritenuto che anch’essi pregustano nella loro vita a imitazione di Gesù la presenza del Regno che deve venire. La chiesa stessa cos’è, se non il luogo in cui il Regno viene anticipato? Per altro verso hanno tuttavia ridotto l’attesa imminente del Regno futuro alla sua dimensione individualistica e interiore, rimandando al futuro assoluto di Dio il compimento dell’attesa imminente. Ma in questo modo il significato del Regno per la storia degli uomini diventa evanescente. La riduzione privatistica del messaggio cristiano denunciata da Metz si mostra così con chiara evidenza. E nemmeno risulta soddisfacente la riduzione ecclesiale del messaggio, quasi che la chiesa sia la realizzazione piena del Regno nella storia. Nonostante tutte le imprese apologetiche in tal senso la storia smentisce questa pretesa. E soprattutto si perde di vista l’asse fondamentale della Bibbia tutta e del Nuovo Testamento, che non è nello stato beato del singolo dopo la morte, o nella creazione di uno spazio beato su questa terra, ma nell’interpellazione della storia a partire dalla promessa di Dio che, in Gesù, non fu un sì e un no, ma il sì definitivo di Dio all’umanità (2Cor 1, 19-22). E appare ancora non plausibile la riduzione del messaggio pubblico del cristianesimo al richiamo alla legge naturale, mentre i cristiani, come Paolo, non dovrebbero conoscere altro in mezzo agli uomini e alle donne del loro tempo, se con Gesù Cristo, e Cristo crocifisso (cfr. 1Cor 2, 2). E se Gesù (e con lui Paolo) invece non si fosse illuso? Se il senso dell’attesa imminente del Regno non verte sul momento e l’ora che nessuno conosce, nemmeno il Figlio, ma in qualcosa d’altro? Prima di rispondere a questa domanda è necessario sottolineare ancora due carenze nella discussione attuale. Per un verso la riscoperta del Gesù storico sembra essere diventata solo appannaggio degli esegeti. I teologi si limitano a prenderne atto. Purtroppo pesa da questo punto di vista un presupposto, creato anch’esso alla fine


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dell’Ottocento e cioè che il Gesù storico non abbia diritto ad esistenza propria, separata dalla fede della chiesa (la vecchia tesi di Kähler15) e che quindi il Gesù storico sia solo la premessa presupposta, ma non conosciuta, della lettura credente. Per la logica dell’incarnazione stessa bisogna invece ribadire che Gesù, nella sua umanità concreta, trascende ogni interpretazione credente e che bisogna quindi sempre ritornare a lui. La cristologia classica dei grandi concili, la cristologia esistenziale dei moderni, ma anche le cristologie di Paolo, dei Sinottici e di Giovanni sono attualizzazione limitata e parziale del mistero dell’uomo Gesù nel quale abita, secondo la convinzione dei credenti, tutta la pienezza della divinità. Noi, per comprendere ulteriormente e di nuovo, dobbiamo sempre ritornare a lui, alla sua umanità di predicatore, taumaturgo, amico compassionevole degli uomini e delle donne del suo tempo, soprattutto dei peccatori, condannato al supplizio per essere rimasto fedele alla missione ricevuta dal Padre. La seconda carenza sta nel considerare con un certo fastidio l’orizzonte apocalittico della predicazione storica di Gesù. Si preferisce l’astratto “escatologia”. Si veda ad esempio come persino un esegeta della portata di J. Dunn liquidi il problema, dopo una disamina veloce di alcuni studi recenti sull’apocalittica: «L’uso più comune (anche al di fuori di ambienti teologici) dell’aggettivo ‘apocalittico’ per indicare uno scenario futuro di interventi soprannaturali nella storia umana, accompagnati da scene di orrori e violenze inaudite e senza precedenti, dovrebbe essere accuratamente evitato. Molto più appropriato è invece l’aggettivo ‘escatologico’, benché ci si ritrovi davanti alla scarsa chiarezza di cui sopra»16. Ma Gesù si è espresso in quel linguaggio, che quindi va attentamente esaminato, ha impiegato quelle immagini ed è il senso di queste che occorre indagare per penetrare il senso esatto della sua predicazione e la sua stessa messianità. Noi lo proclamiamo come Cristo, Messia, ma non comprendiamo più che 15

M. KÄHLER, Der sogenannte historische Jesus und der geschichtliche biblische Christus , Leipzig 1892. 16 J. DUNN, Gli albori del cristianesimo. 1, La memoria di Gesù. 2 La missione di Gesù, Brescia 2006, 442.


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cosa questo attributo voglia veramente dire. E quindi non siamo in grado di afferrare il senso particolare del messianismo di Gesù e l’esistenza messianica di coloro che si mettono alla sua sequela per vivere anch’essi quella che possiamo chiamare un’esistenza messianica, fino a quando non sia perfetta in essi la “forma” del Messia Gesù. 4. A questo punto potrei anche fermarmi. Perché ciò che resta da dire in gran parte lo debbo ancora imparare, appartiene ai passi che mi restano da compiere. Ho cominciato a intravedere tuttavia appena alcune stazioni fondamentali del cammino. Ne enumero tre. 4.1. Una premessa per l’interpretazione coerente della predicazione di Gesù è la comprensione del linguaggio apocalittico17. La recente rassegna di Berndt, peraltro utilissima, dà l’impressione di un ultimo limite al quale gli esegeti arrivano. Essi cioè riescono a valicare la pura critica letteraria per ricostruire in qualche modo il Sitz im Leben dei gruppi portatori delle attese apocalittiche, il loro rifiuto del presente, la crisi di identità, l’attesa di un mutamento radicale etc18. Ma una penetrazione effettiva, capace di arrivare a una comprensione dell’eidos, di ciò che costituisce l’essenza colta nel linguaggio apoca-

17

Questo resta purtroppo un campo sostanzialmente inesplorato da un punto di vista squisitamente teologico. Si veda ad esempio la reazione nervosa dei discepoli di Bultmann alla tesi dell’altro grande discepolo dello stesso maestro E. Käsemann, sull’apocalittica come madre di ogni teologia cristiana, nel presupposto che l’apocalittica introdurrebbe un dualismo inaccettabile tra l’aldiquà e l’aldilà (per questa discussione cfr. K. KOCH, Difficoltà dell’Apocalittica. Scritto polemico su d’un settore trascurato dalla scienza biblica, Brescia 1977, 91-105 (or. ted.: Gütersloh 1970). E che il Gesù “apocalittico” sia un rospo difficile da digerire è ben documentato dalla rassegna sugli studi del Novecento in proposito: ibid., 71-120. Il tentativo recente di G. TAXACHER, Apokalyptische Vernunft. Das biblische Geschichtsdenken und seine Konsequenzen, Darmstadt 2010, è insoddisfacente, soprattutto per due motivi: il rifiuto programmatico di analizzare la letteratura apocalittica estracanonica e l’ignoranza di quello che costituisce il centro di ogni “apocalisse”, che non è solo una concezione della storia a partire dalla sua fine prevista da Dio, ma una concezione della fine del male e della contraddizione che domina la storia, fine che solo Dio può operare. 18 S. BERNDT, Apokalyptik – Versuch einer systematischen Definition, in Theologie der Gegenwart 52 (2009) 219-236.


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littico, resta ancora fare19. L’affermazione sopra citata di Dunn mostra come sia possibile una sua banalizzazione. Se effettivamente il significato dell’immaginario apocalittico fosse quello di «indicare uno scenario futuro di interventi soprannaturali nella storia umana, accompagnati da scene di orrori e violenze inaudite e senza precedenti», allora occorrerebbe concludere all’impossibilità attuale di far nostro questo aspetto della predicazione di Gesù. Così fece il grande Albert Schweitzer, che pose alla base della sua vita solo l’etica interinale del Cristo e l’unione mistica con lui e coerentemente passò il resto della sua vita con i lebbrosi africani20. Il primo e fino adesso quasi solitario interprete sistematicoteologico del linguaggio apocalittico è stato Jakob Taubes. Taubes era un ebreo21. La sua fu un’impresa giovanile, che si irrobustì tuttavia man mano nel dialogo critico condotto con G. Scholem22. Il suo tentativo contiene a mio avviso intuizioni feconde, anche se la preoccupazione dominante di una rilettura critica del pensiero occidentale alla 19

Provocatorio, ricchissimo di intuizioni, ma carente nella sua sinteticità di un’effettiva analisi dell’apocalittica, resta il saggio di J.B. METZ, Hoffnung als Naherwartung oder der Kampf um die verlorene Zeit. Unzeitgemässe Thesen zur Apokalyptik, in Glaube in Geschichte und Gesellschaft, Mainz 1977, 149-158, 20 A. SCHWEITZER, Von Reimarus zu Wrede. Eine Geschichte der Leben-JesuForschung, Tübingen 1906 (seconda edizione nel 1913, ripresa nella VI del 1950 e trad. in it. da F. Coppellotti: Storia della ricerca sulla vita di Gesù , Brescia 1986; ID., Die Mystik des Apostel Paulus, mit e. Einf. von Werner Georg Kümmel. – Neudr. d. 1. Aufl. von 1930. – Tübingen: Mohr, 1981. 21 Di lui vanno almeno ricordate due opere: la tesi di dottorato Escatologia occidentale, pubblicata nel 1947 (l’edizione italiana, con un’introduzione a mio avviso riduttiva di M. Ranchetti, è della Garzanti nel 1997) e il dibattito con Carl Schmitt, pubblicato postumo e tratto dalla registrazione di un seminario, La teologia politica di San Paolo. Lezioni tenute dal 23 al 27 febbraio 1987 alla Forschungstätte della Evangelische Studiengemeinschaft di Heidelberg, edito in Italia da Adelphi nel 1997; cfr. il mio saggio su Jacob Taubes: Il messianismo apocalittico di Jacob Taubes, in G. RUGGIERI (cur.), Questo mondo, il male, l’apocalisse, Troina-Catania 2011, 151-170. 22 J. TAUBES, Il prezzo del messianesimo, Macerata 2000. Cfr. Th. MACHO, Der intellektuelle Bruch zwischen Gershom Scholem un Jacob Taubes. Zur Frage nach dem Preis des Messianismus, in R. FABER – E. GOODMAN-THAU – Th MACHO (HRSG.), Abendländische Eschatologie. Ad Jacob Taubes, Würzburg 2001, 531-543; G. Bonola, Taubes contro Scholem. Una diatriba sul messianismo ebraico, in Humanitas XL (2005) 1-2, 122-152.


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luce del pensiero apocalittico, gli impedisce a volte di cogliere nella loro completezza le intenzioni dei gruppi storicamente portatori della concezione apocalittica della storia. Senza la pretesa di assolvere compiutamente questo compito, mi limito qui a introdurre alcune considerazioni elementari, tratte dalle fonti cristiane23. Il punto centrale della preoccupazione del veggente/narratore apocalittico è il desiderio/affermazione della fine di questo mondo. L’apocalittica cioè è un genere letterario appropriato ad esprimere un’esperienza fondamentale dell’essere dell’uomo nel mondo. Il fuoco della narrazione apocalittica non sta tanto nella rivelazione del momento della fine (che nella ripresa neotestamentaria dell’apocalittica nessuno conosce, nemmeno gli angeli e nemmeno il Figlio, ma solo Dio: Mc 13, 32). E nemmeno la percezione della “crisi”, che è certamente il motore di tanto linguaggio apocalittico, può essere ridotta a una “crisi di identità” del singolo o del gruppo, come parecchi esegeti

23

La discussione fra gli esegeti, inaugurata dal libro di Klaus Koch citato sopra, non si è arrestata. Vedi la rassegna sopra citata di Berndt. Una bibliografia ampia con le voci principali di questa discussione si trova in P. SACCHI (cur.), Apocrifi dell’Antico Testamento 2 voll., Torino 2006, sia in coda all’introduzione generale che prima di ogni singolo libro. Ma cfr. dello stesso P. SACCHI, L’apocalittica giudaica e la sua storia, Brescia 1990. Per ciò che riguarda l’età coeva al NT cfr. in particolare la bibliografia citata da J.J. COLLINS, L’Apocalittica nei Rotoli del Mar Morto, Milano 1999 (or. ingl. 1997), 218-222. Una buona sintesi di questa discussione si trova nell’introduzione all’edizione italiana di D.S. RUSSEL, L’apocalittica giudaica (200 a.C. – 100 d.C.), Brescia 1991, 7-20. Insostituibile per un’introduzione generale alla problematica resta la voce Apokalyptik-Apokalypsen, TRE Bd. 3., 189-289 Berlin – New York 1978. E last but not least occorre ricordare il ruolo che ha avuto, per la riflessione teologica, E. Käsemann, Die Anfänge der christlichen Theologie, nella ZThK del 1960 e ripreso nel II volume di Exegetische Versuche und Besinnungen Göttingen 1964, 82-104 (cfr. sopra nota 17). Eppure, a mio modesto avviso, in tutta questa letteratura si è troppo enfatizzata l’oggettività degli enunciati apocalittici senza chiedersi ulteriormente quale fosse il riferimento soggettivo ultimo di questi enunciati. Il “registro” del linguaggio apocalittico invece viene colto solo se si chiarisce questo nesso. Detto in termini elementari: gli enunciati apocalittici non vogliono dire soprattutto “qualcosa”, ma vogliono esprimere in primo luogo un sentimento e un giudizio sulla realtà vissuta dal veggente. La demitizzazione invocata da Bultmann e discepoli dovrebbe, ma fuori da un contesto personalistico soltanto e comprensivo invece della dimensione della storia, essere fatta valere anche in riferimento al linguaggio apocalittico.


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sembrano suggerire24. A volte avviene esattamente il contrario: è la consapevolezza forte della propria identità che si ribella e genera uno stato d’animo d’impazienza e negazione dell’assetto attuale di questo mondo. Nei termini di Paolo, si tratta di una apokaradokia, di un’attesa sincera e forte della creazione tutta che aspetta la liberazione dei figli di Dio, perché è stata sottomessa controvoglia alla caducità (Rom 8, 16-25). I giusti attendono che questo mondo finisca. Quando si parla di una fine di questo mondo, occorre ancora notare che il mondo è da intendere anzitutto come Lebenswelt, mondo vissuto dall’uomo. Giacché non bisogna necessariamente pensare alla distruzione di questo mondo. E nemmeno, nel senso in cui la possono intendere i fisici nostri contemporanei, come eventuale cessazione della vita biologica in seguito al progressivo raffreddamento dell’universo, come fine quindi determinata dalle leggi stesse che presiedono alla materia. Infatti la fine a cui pensano i veggenti apocalittici è frutto di un intervento diretto di Dio, finalizzato alla sottomissione della potenza del male che rende disumana la nostra vita. Non a caso il senso originario del termine “satana” è quello dell’avversario (dell’uomo e di Dio). Il senso della fine del mondo è allora la distruzione della potenza nemica dell’uomo, la distruzione del Satana. La conclusione apocalittica potrebbe apparire paradossale: se il mondo ha un senso, garantito dal suo Creatore, allora questo mondo deve avere una fine e il tempo che ci resta è abbreviato, perché passa la “figura” di questo mondo (cfr. 1Cor 7, 31). L’intenzione di Dio sul mondo, cioè il senso del mondo, può essere salvaguardata solo a patto che Dio distrugga questo mondo! Non siamo ai limiti del paranoico? La logica del racconto apocalittico infatti ha il suo presupposto nel postulato che Dio non ha voluto il male che domina il mondo, ma resta pur sempre il creatore di quelle potenze che introducono il male nel mondo. Il paradosso invece scompare, o perde almeno la sua asprezza, non appena poniamo attenzione al fatto che il vero soggetto storico e al tempo l’oggetto proprio della narrazione è il giusto, oppresso dal 24 Cfr. la rassegna di S. Berndt, Apokalyptik – Versuch einer systematischen Definition, cit.


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male del mondo. C’è un meraviglioso testo di Tertulliano che ci spiega la vera molla delle varie narrazioni apocalittiche, una molla che non arretra davanti al “ritardo di Dio”. Il testo si trova nel suo De oratione, 5, come commento alla richiesta del Padre nostro, “Venga il tuo regno”: «Come mai alcuni chiedono un prolungamento del tempo, dal momento che il regno di Dio, per il cui avvento preghiamo, tende alla consumazione del tempo? Desideriamo di regnare al più presto e di non servire più a lungo. Ma anche se non fosse stato prescritto nella preghiera di chiedere l’avvento del regno, pronunceremmo spontaneamente quelle parole per affrettarci all’abbraccio della nostra speranza. Le anime dei martiri sotto l’altare gridano al Signore disonorandolo25: Fino a quando, o Signore, non vendicherai il nostro sangue sugli abitanti della terra? La loro vendetta infatti è regolata a partire dalla fine del mondo». Il testo di Tertulliano riprende, forzandolo con il termine “invidia=disonore”, il testo dell’Apocalisse 6, 9-11: «Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?”. Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro». Ma si potrebbe ricordare Lc 18, 1-8. Sta in questo testo dell’Apocalisse, ripreso e forzato ai limiti della bestemmia nel testo di Tertulliano, la ragione ultima del racconto apocalittico: esso è il racconto delle vittime per amore della giustizia, che esigono “vendetta” da Dio. Il senso del racconto apocalittico è il suo soggetto, la massa delle vittime del male, che anche se vinte e 25 Corsivo mio con cui traduco il latino invidia, nell’espressione “clamant ad Dominum inuidia animae martyrum”, su suggerimento di A. BLAISE, Dictionnaire Latin-Français des Auteurs Chrétiens, Turnhout 1954, 471, ad vocem. Blaise tuttavia tende ad attenuare il senso della vergogna gridata a Dio da parte dei martiri, aggiungendo un “semblant”: semblant lui faire honte. Ma l’addolcimento dell’espressione è assente nel testo di Tertulliano.


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scomparse dalla scena di “questo” mondo non si rassegnano a scomparire dalla memoria di Dio e degli uomini. E chi racconta la fine del mondo lo fa per assumere il loro punto di vista e vive ormai in un “tempo abbreviato”, per usare l’espressione di Paolo (ho kairos synestalmenos estin: 1Cor 7, 29)26. Ormai si vive nell’impazienza, e si aspetta un “altro mondo”. È un’impazienza che è nutrita dalla memoria della sofferenza. «È noto che agli Ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruiscono invece nella rammemorazione. Ciò liberava per loro dall’incantesimo il futuro, quel futuro di cui sono succubi quanti cercano responsi presso gli indovini. Ma non perciò il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia»27. E questo vale anche per i cristiani, per coloro che credono alla vittoria di Cristo sul male di questo mondo che è già avvenuta. Infatti per essi vale che Cristo ha sconfitto le potenze, ma non le ha distrutte e queste continuano quindi ad operare ancora, secondo l’analogia di quell’immagine suggestiva creata da Oscar Cullmann, che scriveva a ridosso dell’esperienza del maquis contro i nazisti, per cui anche nella Resistenza si continuava a combattere nonostante la battaglia decisiva fosse stata già vinta28. 4.2. In questo contesto occorre situare la messianità di Gesù. Egli ha fatto sua l’impazienza del mondo. Gli studiosi del NT si sono concentrati su aspetti che ultimamente risultano secondari per la comprensione di Gesù Messia. Per loro resta primaria la risposta alla domanda che si chiede se Gesù si sia considerato Messia o meno. Più 26

G. AGAMBEN, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Torino 2000, 29, traduce l’espressione di Paolo con “Il tempo si è contratto”. 27 È questa un formulazione che Benjamin voleva apporre alla tesi XI della sua riflessione sulla storia: W. BENJAMIN, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola – M. Ranchetti, Torino 1997, 56-57. 28 O. CULLMANN, Christ et le temps, Neuchâtel 1957 (prima edizione 1945), 137150. Quell’importantissimo libro è tuttavia inficiato da una grave omissione: l’assenza di qualsiasi riferimento alla prospettiva apocalittica nella quale sono storicamente situate la predicazione e l’attività di Gesù.


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importante mi sembra un’altra questione: a quale concezione del Messia (perché ce n’erano diverse nel giudaismo del tempo) egli si sia eventualmente riferito e/o in quale senso la prima comunità giudeocristiana ha inteso questa messianità. Il Magnificat, il cantico socialmente più eversivo di tutto il NT, qui è abbastanza eloquente. Il contesto è cioè quello di un innalzamento degli umili e di un rovesciamento dei potenti dai troni. Si impone allora la grande strada del dialogo con il pensiero ebraico contemporaneo, sia quello teologico che quello storico: da W. Benjamin a F. Rosenzweig, da G. Scholem a M. Idel, per non citare che i più significativi. Ritengo che solo questi interpreti della tradizione ebraica ci permettano di “sentire” la sensibilità del popolo della prima Alleanza sull’attesa del Messia. Fa parte di questa sensibilità il motivo di un messia sofferente per il “suo” popolo. E i vangeli ci offrono un tratto dell’agire terreno di Gesù che ruota attorno al motivo della compassione. Come ha ben chiarito Scholem, il grande storico del giudaismo, «nell’apocalittica messianica, le antiche promesse e tradizioni e i nuovi motivi, interpretazioni e reinterpretazioni che le confermano, si ordinano in maniera quasi spontanea secondo quelle due facce che l’idea messianica assume ora e manterrà sempre per la coscienza ebraica. Questi due aspetti, che in fondo già le parole dei profeti presentavano in maniera più o meno evidente, riguardano da un lato la natura catastrofica e distruttiva della redenzione, e dall’altro il carattere utopico del contenuto delle tradizioni messianiche […] Gli elementi catastrofici e le visioni di rovina trovano singolare dispiego all’interno della visione messianica. Essi vengono riferiti da un lato all’idea di trapasso o di distruzione in cui viene a nascita la redenzione messianica — è per tale periodo che l’ebraismo usa il concetto di ‘doglie messianiche’ —, dall’altro agli orrori del giudizio finale, che in molte di queste rappresentazioni conclude l’epoca messianica anziché accompagnarne l’esordio. Così agli occhi dell’autore apocalittico l’utopia messianica si presenta sovente sotto un duplice aspetto. Il nuovo eone e i giorni del Messia non costituiscono più (come in alcuni scritti di questa letteratura) un tempo unico, bensì configurano due periodi, di cui l’uno — il regno del Messia — propriamente appartiene ancora a questo mondo, mentre l’altro fa


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parte già completamente del nuovo eone che comincia col giudizio finale»29. Gesù si è collocato in maniera originale dentro questa corrente di pensiero. Progressivamente egli ha preso coscienza della sua fine e del suo fallimento storico, ma è vissuto sempre in una partecipazione sofferente alla condizione del suo popolo, di quelle pecore perdute della casa di Israele a cui si è sentito inviato. Se cioè l’orizzonte di Gesù è stato quello dell’attesa apocalittica, è stato d’altra parte tipico della sua azione il fatto che egli abbia teso ad anticipare il carattere non catastrofico, ma positivo della venuta del Regno. Per questo è inscindibile nella sua predicazione l’annuncio del Regno che viene con l’azione della cacciata dei demoni e della guarigione dalle malattie. Il vangelo predicato da Gesù è infatti una parola di liberazione e di riammissione nella convivenza umana. Nella risposta agli inviati del Battista, Gesù sottolinea che è venuto per adempiere la profezia di Isaia sui ciechi che ricuperano la vista, gli storpi che camminano e i poveri a cui è annunciata la buona novella (Mt 11, 2-6); ugualmente nel discorso nella sinagoga di Nazaret egli si presenta come colui che adempie la promessa di liberazione di Is 61 (Lc 4, 16-20). Questo annuncio e quest’attività di liberazione dal male che opprime l’uomo, nell’uomo Gesù è originato ancora, e questo ai fini dell’antropologia messianica è fondamentale, da una partecipazione alla sofferenza umana che dobbiamo chiamare “fisica”, “corporea”. Il termine che usano i vangeli per designare questa partecipazione alla sofferenza umana da parte di Gesù è infatti quello del verbo splanchnizomai (alla lettera: commozione delle viscere; in siciliano: si ci sbutaru i uredda), applicato esclusivamente a Gesù (con pochissime eccezioni che confermano l’uso cristologico). Ricordo velocemente le occorrenze del termine, reso dai traduttori italiani con un innocuo aver pietà, aver compassione: Mt 9, 36 (par Mc 6, 34): Vedendo le folle, ne ebbe compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Mt 14, 14: Gesù, smontato dalla barca, vide una gran folla; ne ebbe compassione e ne guarì gli ammalati. 29

G. SCHOLEM, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Genova 1986, 114-115.


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Mt 15, 32 (par Mc 8, 2): Gesù, chiamati a sé i suoi discepoli, disse: «Io ho compassione di questa folla; perché già da tre giorni sta con me e non ha da mangiare; non voglio rimandarli digiuni, affinché non vengano meno per strada». Mt 18, 27: Il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Mt 20, 34: Allora Gesù, commosso, toccò i loro occhi e in quell’istante ricuperarono la vista e lo seguirono (i 2 ciechi di Gerico). Mc 1, 41: Gesù, impietositosi, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio; sii purificato!» (episodio del lebbroso già letto sopra). Mc 9, 22, nell’episodio della guarigione dell’indemoniato che i discepoli non hanno potuto guarire, il padre dell’ossesso chiede compassione a Gesù: «Ma tu, se puoi fare qualcosa, abbi compassione di noi e aiutaci». Lc 7, 13: 11 Poco dopo egli si avviò verso una città chiamata Nain, e i suoi discepoli e una gran folla andavano con lui. 12 Quando fu vicino alla porta della città, ecco che si portava alla sepoltura un morto, figlio unico di sua madre, che era vedova; e molta gente della città era con lei. 13 Il Signore, vedutala, ebbe compassione di lei e le disse: «Non piangere!». Lc 10, 33: Ma un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione; avvicinatosi, fasciò le sue piaghe, versandovi sopra olio e vino; poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui. Lc 15, 20: Egli dunque si alzò e tornò da suo padre; ma mentre egli era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione: corse, gli si gettò al collo, lo baciò. Il quadro apocalittico messianico è così modificato da Gesù, ma non annullato. Gesù attende ancora l’evento finale che comporterà la distruzione di questo mondo. Inequivocabili sono le sue parole sul Figlio dell’uomo che verrà sulle nubi per giudicare il mondo (immagine ripresa da Daniele). Ma egli sposa la visione del messianismo apocalittico in due tempi: la venuta del Messia non coincide con il momento finale, ma introduce un periodo penultimo e anticipatore, dove la sua compassione, la sua commozione viscerale per la sofferenza dell’uomo, si traduce in prassi di liberazione. L’attesa imminente


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della venuta del Regno è allora solo il risvolto linguistico della sua partecipazione “viscerale” alla sofferenza umana. Gesù non si è illuso, ma ha partecipato con tutto se stesso, fin nelle viscere, all’attesa della creazione sottomessa controvoglia alla vanità. 4.3. Un’antropologia messianica, immersa nella storia degli uomini ha quindi un suo orizzonte, quello stesso del Gesù storico, dove al peccatore si annuncia la misericordia, al povero la buona novella, al sofferente la liberazione, alla vittima la fine del mondo che l’ha cancellata dalla faccia della terra. Il suo orizzonte non è quello etico, ma quello del vangelo. Non già che ignori l’ingiustizia, ma al contrario si oppone ad essa tramite la partecipazione al dolore degli uomini che ne sono oppressi. Un’adeguata descrizione di questa antropologia, che è un’ermeneutica critica della storia tutta posta sotto il dominio del peccato, è quella di Rom 8,16-29. Mi si permetta per finire una brevissima e sommaria interpretazione di questo brano. La partecipazione alla gloria del Cristo, da parte dei figli di Dio e coeredi quindi del Cristo, è condizionata dalla partecipazione delle sue sofferenze: se patiamo con lui (sympaschomen): cfr. v. 17. Ma al v. 18 Paolo non parla delle sofferenze del Cristo, della sua morte etc. Apparentemente egli cambia argomento, perché parla invece delle sofferenze della creazione e degli stessi figli di Dio. Che la sofferenza dei figli di Dio possa essere intesa solo come il con-patire dei credenti con Cristo, forse è possibile, ma questo non può valere della sofferenza della creazione, delle sofferenze del momento presente. Infatti la creazione non soffre per partecipare alle sofferenze di Cristo, ma perché è stata sottomessa controvoglia — per il volere di un misterioso “colui” che l’ha sottomessa (ma si tratta di Adamo o, secondo altre tradizioni presenti anch’esse nella Bibbia, degli angeli stessi che, con il loro peccato hanno consegnato la creazione alla caducità). Si tratta di una sofferenza subita, della sofferenza apocalittica per le conseguenze della caduta iniziale. Ma allora qui si parla della sofferenza del mondo. I vangeli, come abbiamo visto, ci parlano del Cristo come di colui che non solo patisce per salvare il mondo, per redimerlo, ma che anzitutto patisce con il mondo, fin nelle viscere.


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Quando Paolo specifica il senso di questa compassione comune, si serve di due verbi che si trovano in questo brano soltanto in tutto il NT: systenazein, synodinein (gemere assieme, giacere assieme nelle doglie). L’idea è quella di una fecondità della compassione. Si comprende così l’atteggiamento messianico di Gesù, il motivo per cui gli autori del NT lo abbiano considerato come il Messia sofferente. Gesù ha portato vicino a noi il Regno di Dio perché, partecipando alla sofferenza del mondo, ne ha reso possibile la liberazione: questo è il senso del guarire come momento essenziale del suo annuncio, assieme alla liberazione da Satana e al perdono dei peccati, con un potere di cui ci ha reso partecipi. Egli dimostra questo potere nell’episodio relativo alla guarigione del paralitico di Cafarnao (Mt 9, 1-7 parr.), ma questo potere di rimettere i peccati è anche dato ai discepoli tutti in Mt 18, 18, a conclusione della descrizione della prassi della comunità nell’ammettere il peccatore. Quest’ultimo brano forse non appartiene al Gesù storico, ma è una testimonianza eloquente dell’autoconsapevolezza dei primi discepoli.

Conclusione L’apertura conciliare alla storia è la grande novità della chiesa cattolica dopo quella catastrofe che fu la II guerra mondiale e il suo esito nella contrapposizione dei due blocchi. Per impulso di papa Giovanni i padri conciliari, in un’esperienza che qualcuno ha definito teologale30, si misero davanti alla storia del loro tempo, cercando di guardarla non con gli occhi della dottrina sociale della chiesa, della quale evitarono accuratamente persino il nome, elaborata attorno ai principi della sana ragione, ma con la sovranità misericordiosa del vangelo. Non poterono, per una carente elaborazione teologica, sviluppare tutte le conseguenze antropologiche di quello sguardo 30 M. FÉDOU, Le concile Vatican II: un enjeu d’interprétation, in Vatican II sous le regard des historiens. Colloque du 23 septembre 2005. Centre Sèvres – Facultés jésuites de Paris, sous la direction de Chr. Teobald, s. l. 2006, 137-157. Ma cfr. soprattutto di CH. THEOBALD, La réception du concile Vatican II. 1: Accéder à la source, Paris 2009, 49-273.


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antico e nuovo al tempo stesso: antico come Gesù, come Gregorio, come Francesco, ma desueto in tempi più recenti. Quello sguardo nel postconcilio si è appannato nel succedersi di avvenimenti sconvolgenti e nuovi: la cosiddetta globalizzazione del mercato (ammesso che si debba chiamare così), la fine della contrapposizione fra i due blocchi nel 1989 con la caduta del muro di Berlino, l’esasperazione del pluralismo culturale ed etico all’interno dell’Occidente, le nuove sfide della biologia e dell’ingegneria genetica, il dissesto ecologico del pianeta. Alcuni di questi avvenimenti, sono tali da “secolarizzare” per così dire la concezione apocalittica. Essi infatti fanno intravedere, come operatore della fine della storia, non Dio, ma l’uomo stesso capace di distruggere l’opera stessa di Dio31. Sono avvenimenti che suscitano paura, impongono scelte, esigono una riflessione critica. Il compito dei cristiani dovrebbe essere quello di partecipare ancora adesso alle sofferenze della creazione tutta con la commozione di Gesù. Il compito umile del teologare dovrebbe invece consistere nell’interpretazione della storia umana, sempre nuova, e dell’esistenza credente impegnata in essa, sempre piena di sfide, alla luce della conoscenza di Gesù Messia e Messia crocifisso, ma proprio per questo elevato alla destra del Padre. Un’antropologia critica non può che essere allora un’antropologia della compassione32.

31 La riflessione su questa “secolarizzazione” dell’apocalittica è solo agli inizi. Su una tale prospettiva è ad esempio basato il libretto di R. GIRARD – J.-P. DUPUY, Prima dell’apocalisse, Massa 2010. 32 Il tema della compassione come risvolto di una concezione apocalittica del tempo emerge nella XXVIII e nella XXVIII delle “tesi inattuali sull’apocalittica di J.B. METZ, Glaube in Geschichte und Gegenwart, cit. 156.


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LA LECTIO DIVINA E LA SPIRITUALITÀ SACERDOTALE: RIFLESSIONI DI UN MONACO

GUIDO INNOCENZO GARGANO*

1. UNA PROPOSTA DI LECTIO DIVINA At 6,2: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense (ou)k aresto/n e)stin h(ma=j katalei/yantaj to\n lo/gon tou= qeou= diakonei=n trape/zaij)». Mc 3,13-15: «Salì poi sul monte (a)nabai/nei ei)j to\ oãroj), chiamò a sé quelli che egli volle (kai\ proskalei=tai ouÁj hÃqelen au)to/j) ed essi andarono da lui (kai\ a)ph=lqon pro\j au)to/n). Ne costituì Dodici che stessero con lui (kai\ e)poi/esen dw/deka, iàna wåsin met’ au)tou=) e anche per mandarli (kai\ iàna aposte/ll$ au)tou\j) a predicare (khru/ssein) e perché avessero il potere (e)cousi/an) di scacciare i demoni». Penso che si possano o si debbano considerare come punto determinante di partenza della nostra riflessione proprio questi due passi fondamentali del Nuovo Testamento che stanno all’origine di ciò che noi chiamiamo abitualmente oggi vocazione sacerdotale. Si tratta, nel primo testo, del famoso passo degli Atti degli Apostoli là dove i Dodici (hoi d deka), messi di fronte al rischio di un disordine ingiustificato, che si sta creando nella prima comunità cristiana di Gerusalemme nella “distribuzione quotidiana” (en t -i diakonia-i t -i kath merin -i), decidono unanimemente: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense (ou)k aresto/n e)stin h(ma=j katalei/yantaj to\n lo/gon tou= qeou= diakonei=n trape/zaij)» (At 6,2). *

Roma.

Docente di Teologia spirituale presso la Pontificia Università Urbaniana di


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Il riferimento ai Dodici, voluto espressamente dall’autore degli Atti, rimanda spontaneamente alla loro elezione, voluta da Gesù stesso, che la tradizione più antica, registrata dall’evangelista Marco, descriveva con queste espressioni precise: «Salì poi sul monte (a)nabai/nei ei)j to\ oãroj), chiamò a sé quelli che egli volle (kai\ proskalei=tai ouÁj hÃqelen au)to/j) ed essi andarono da lui (kai\ a)ph=lqon pro\j au)to/n). Ne costituì Dodici che stessero con lui (kai\ e)poi/esen dw/deka, iàna wåsin met’ au)tou=) e anche per inviarli (kai\ iàna aposte/ll$ au)tou\j) a predicare (khru/ssein) e perché avessero il potere (e)cousi/an) di scacciare i demoni» (Mc 3,13-15). Ciascun verbo utilizzato da Marco in questo brevissimo brano e perfino le preposizioni che lo accompagnano, possono aiutare a compiere un’esegesi appropriata della decisione presa dai Dodici e registrata nel libro degli Atti. Anche se è del tutto scontato che la sensibilità del monaco si fermi soprattutto su alcuni di essi. Intanto li elenchiamo brevemente: 1. “Salì sul monte”; 2. “chiamò a sé quelli che egli volle”; 3. “andarono da lui”; 4. “ne costituì dodici”; 5. “che stessero con lui” 6. “e anche per inviarli”; 7. “a predicare”; 8. “e a padroneggiare sui demoni”. Si tratta di otto affermazioni che delineano l’insieme di un contenuto su cui è possibile fondare una vera e propria «spiritualità sacerdotale».

1.1. “Salì sul monte” Il presbitero, ci viene suggerito da Marco, è qualcuno che accompagna Gesù che sale sul monte. Ora, noi sappiamo molto bene che il riferimento al monte, o alla montagna, richiama, oltre all’implicito riferimento a Mosé ed Elia, non soltanto silenzio e solitudine, con la distanza che Gesù cerca di porre fra sé stesso e il clamore della folla,


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ma anche lo spazio cercato insistentemente per il suo dialogo col Padre. E che l’elezione dei Dodici sia stato frutto di questo particolarissimo dialogo lo rivela chiaramente l’evangelista Luca che scrive: «In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli» (Lc 6,12-13). Ciò che intendiamo rilevare con questo riferimento, a proposito dell’elezione dei Dodici, è la esplicita volontà degli evangelisti di porre l’elezione dei Dodici in strettissima connessione con un progetto preciso che il Figlio ha condiviso col Padre. L’elezione cioè appartiene in tutto e per tutto a quell’oikonomìa ad extra che manifesta, secondo l’interpretazione di un grande teologo contemporaneo, l’oikonomìa ad intra che costituisce da sempre la condivisione dialogale del Padre con il Figlio nello Spirito Santo. Credo che per un presbitero possa essere molto importante ritrovarsi in questo ineffabile abbraccio trinitario, perché così egli comprende meglio che, quale che siano stati i modi e i tempi nei quali e con i quali ha vissuto la sua chiamata, si è trattato comunque di un invito in cui, come direbbe il nostro poeta nazionale Dante Alighieri, “han posto mano cielo e terra”. La chiamata cioè non viene dal basso, ma dall’alto, quale che sia stato l’itinerario personale di ciascuno di coloro che sono stati chiamati. D’altra parte, non possiamo fare a meno di notare anche la presenza, fra gli eletti, di colui che, come ricorda anche Luca, “fu il traditore” (Lc 6,16). Quest’ultima ammissione, presente in tutti gli evangelisti, non permette a nessuno di sentirsi al coperto di fronte all’eventualità di ritrovarsi sì nel numero dodici, ma con la possibilità realistica, purtroppo, di finire in compagnia di chi «ha abbandonato per andarsene al posto più appropriato alla sua identità (ei)j to\n to/pon to\n iãdion)» (At 1,25).

1.2. “Chiamò a sé quelli che egli volle” Anche in questo caso siamo di fronte ad una scelta che viene fatta generosamente, e in modo del tutto gratuito, direttamente dal


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Signore. Le analogie bibliche sarebbero tantissime, ma possiamo riferirci a tutto ciò che siamo abituati a chiamare historia salutis, a partire dalla creazione del mondo, giù giù fino ad Adamo, Abele, Noé, Henoc, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosé, Aronne, Davide e, soprattutto Maria, la kecharit men . I personaggi appena elencati evocano eventi decisivi per la storia di Israele e del mondo intero, che potremmo vedere accomunati nella straordinaria beatitudine riconosciuta da Elisabetta a Maria: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto (makari/a h( pisteu/sasa oÐti eÃstai telei/wsij toi=j lelalhme/noij au)t$= para\ Kuri/ou)» (Lc 1,45). Né andrebbe trascurata la presenza, nel testo di Luca, di quel famoso hoti che permette di indagare più a fondo nel processo vocazionale di ciascun presbitero scoprendovi, probabilmente con stupore, la possibilità di ritrovarsi in compagnia di Maria nella doppia accezione, dichiarativa o causativa, voluta forse dallo stesso evangelista per indicare la misteriosità di quell’adesione al progetto di Dio che Maria aveva sintetizzata tutta nel famoso «Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum» (Lc 1,38).

1.3. “Andarono da lui” Questa espressione sembra voler evidenziare l’immediatezza della risposta data da ciascuno degli Apostoli, come suggeriscono alcuni racconti paralleli che descrivono vocazioni di singoli. Si pensi, per esempio, a ciò che racconta Marco a proposito dei primi quattro discepoli: «Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedeo sulla barca con i garzoni, seguirono lui» (Mc 1,20); o, in modo ancora più plateale, a proposito di Levi: «Nel passare vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Segui me». Egli, alzatosi, seguì lui» (Mc 2,14 = Mt 9,9). Luca lascia intuire anche lui la stessa immediatezza nella descrizione della chiamata dei primi quattro discepoli seguita alla pesca miracolosa: «Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e seguirono lui» (Lc 5,11).


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Ma è l’evangelista Matteo che sottolinea in modo più evidente forse degli altri l’immediatezza, adoperando l’avverbio «subito» (euthe s) sia a proposito di Pietro e Andrea: «E disse loro. Seguitemi, vi farò pescatori di uomini. Ed essi subito, lasciate le reti, seguirono lui» (Mt 4,19); sia a proposito di Giacomo e Giovanni: «e li chiamò. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, seguirono lui» (Mt 4,22). La disponibilità sembra dunque immediata e totale. E’ una caratteristica che ha impressionato le prime comunità cristiane che, perciò, non hanno potuto fare a meno di registrarla? Si tratta comunque di una nota da non trascurare. Le scelte vocazionali sono spesso accostate al «fulmine a ciel sereno» dal quale vengono spesso colpiti — si dice — gli innamorati a prima vista, quando hanno la sensazione di aver incontrato finalmente la persona giusta con cui condividere «senza se e senza ma» l’intera vita.

1.4. “Ne costituì dodici che stessero con lui” Dopo aver descritto la reazione dei dodici, l’evangelista ritorna di nuovo a sottolineare che il protagonista di tutto è Gesù, anzitutto, con due espressioni che evidenziano sia l’atto costitutivo propriamente detto — e si tratta di una investitura particolare che lascia intravedere una sorta di consolidamento dei dodici intorno a Gesù — fino a farne una sorta di tutt’uno con lui, sia che questo stesso consolidamento su di lui e intorno a lui, è voluto espressamente da lui come prima manifestazione della sua elezione: «perché (hina) stessero con lui». La preposizione finale greca (hina) indica lo scopo inteso dal protagonista. Si potrebbe quasi concludere che l’elezione dei dodici abbia come primo obiettivo, in Gesù, quello di averli accanto come persone chiamate a fruire della sua stessa intimità come lui fruisce della loro. I testi di riferimento potrebbero essere rintracciati soprattutto nella narrazione della notte drammatica del Getsemani quando Gesù scopre senza pudori la propria debolezza davanti ai dodici e chiede espressamente: «Sedetevi qui, mentre io prego» (Mc 14,32), con quel che segue: «li trovò addormentati e disse a Pietro: “Simone, dormi?”


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Non sei riuscito a vegliare un’ora sola» (Mc 14,37). Più chiaramente in Matteo: «Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me”» (Mt 26,38) che prosegue: «e li trovò che dormivano. E disse a Pietro. “Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?”» (Mt 26,40). Che l’intimità con Gesù faccia parte integrante dell’identità stessa dei discepoli, che sarebbero stati equiparati agli apostoli, lo evidenzia in modo eccezionale il vangelo di Giovanni che, per sottolineare tutto questo, è capace di costruire contesti dalle profondità mistiche davvero eccezionali. Scrive, per esempio, a proposito della chiamata dei primi discepoli: «Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “ecco l’agnello di Dio!” E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò (strafei\j de\ o( 'Ihsou=j) e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”. Gli risposero: “Rabbì — che tradotto, significa Maestro — dove dimori (pou= me/neij)?”. Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove egli dimorava (pou= me/nei) e quel giorno rimasero con lui (Par’au)t%= eÃmeinan); erano circa le quattro del pomeriggio (wÐra hån w(j deka/th)» (Gv 1,35-39). L’approfondimento della tematica del rimanere (menein) così determinante in tutto il vangelo di Giovanni, comporterebbe una lectio divina assai più estesa. Non si può fare a meno, in ogni caso, di ricordare i due capitoli, 10 (la similitudine del pastore) e 15 (la similitudine della vite), e i capitoli 14-17, di una profondità straordinaria che contengono il discorso (o i discorsi) d’addio, da sempre ritenuto come «Discorso sacerdotale» per eccellenza. Questi ultimi testi, nei quali l’evangelista Giovanni prorompe in immagini ed espressioni di una intimità dichiarata, richiesta e promessa, che mettono perfino in imbarazzo, tanta è la commozione che producono anche nel più insensibile dei lettori, rivelano fino a che punto potrebbe arrivare un rapporto fra maestro e discepolo, quando si tratti di Gesù e di coloro che lui stesso si è scelti come «suoi». Infatti arriva perfino a chiedere: «Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi» (Gv 17,11), adombrando per i suoi inviati (apostoli – presbiteri)


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la possibilità di una intimità paragonabile a quella ineffabile intimità che da sempre il Figlio vive nel suo rapportarsi col Padre. Impressione che viene ulteriormente rafforzata da ciò che l’evangelista ripete appena qualche versetto dopo: «La gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità» (Gv 17,22-23). Con quanto segue: «Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo […] E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17, 24. 26). Come monaco, perché questo taglio particolare ci siamo impegnati di dare alla mia comunicazione, penso di potermi fermare qui. Ciò che avete sentito finora era un brevissimo saggio di come si possa fare lectio divina limitandosi ad una semplice e quasi elementare collatio di testi richiamati da una pagina biblica scelta a partire dalla prospettiva propria di un sacerdote cattolico. È del tutto ovvio che, a questo punto bisognerebbe che io mi sottraessi ritirandomi in punta di piedi per fare spazio a quella misteriosissima compunctio cordis che è la mèta stessa di una lectio divina. Ciascuno potrebbe esprimere così, liberamente la propria oratio nelle forme più appropriate alla reazione interiore. E questo confermerebbe che la Parola del Signore si è fatta strada nel cuore. Significherebbe infatti che la fessura provocata da questa vera e propria violenza, fatta al testo, avrebbe costretto ques’ultimo a spremere in nostro favore quel succo misterioso trattenuto fra le sue fibre che Gregorio Magno avrebbe chiamato medulla (midollo in italiano), ceduto soltanto dopo una durissima lotta. E così l’incontro-scontro fra lettore e testo biblico si rivelerebbe chiaramente per ciò che veramente è: qualcosa di molto analogo alla misteriosissima lotta che il patriarca Giacobbe sostenne lungo tutta la notte al guado del torrente Iabbok. La saga di Israele ricordava: «Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado


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dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e portò di là anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: “lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto”. Gli domandò: “Come ti chiami?” Rispose: “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”. Giacobbe allora gli chiese: “Svelami il tuo nome”. Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome?”. E qui lo benedisse» (Gen 32,23-30). Forse è per questo che Gesù dichiarò, sconcertando tutto il suo uditorio: «Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono?» (Mt 11,12). L’intuizione che vi ho appena comunicato mi viene da Clemente Alessandrino1, maestro di Origéne, a sua volta maestro di tutti gli esegeti cristiani che si sono succeduti dal terzo secolo in poi nella Chiesa. Non so se adesso mi concederete di dirvi anche qualche altra cosa su ciò che mi nasce in cuore, come monaco, quando penso alla spiritualità che dovrebbero esprimere i nostri presbiteri oggi nella Chiesa cattolica. Se me lo permettete inizio subito con esporre alcune convinzioni che ho maturato in questi anni sul rapporto fra Parola di Dio e nutrimento spirituale, che potrebbero, o forse dovrebbero, caratterizzare la vita di un presbitero in questa nostra Chiesa post-Conciliare.

2. “PER NOI UOMINI E PER LA NOSTRA SALVEZZA DISCESE DAL CIELO” Noi cristiani facciamo questa precisa professione di fede riferendoci alla Persona di Gesù nato dalla Vergine Maria e confessato come Cristo, Signore, Figlio di Dio. 1 Cfr. Quis dives salvetur, 3,1, disponibile nella versione italiana di M.G. BIANCO (cur.), Clemente Alessandrino. Quale ricco si salverà?, Roma 1999, 24-25.


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Dal momento però che Gesù, individuo di Nazaret, è la pienezza della manifestazione del Figlio che si esprime nella Parola del Vangelo e si rende presente nella Chiesa, la stessa professione può legittimamente riferirsi, fatte le debite precisazioni teologiche, non soltanto all’Eucarestia, ma anche alla Parola biblica, e infine alla Parola divenuta annunzio, catechesi e vita nei presbiteri e nei santi delle Chiese di Dio. Siccome poi ciascuna di queste presenze della Parola del Signore nutre di fatto, a volte in modo straordinariamente intenso, la preghiera comunitaria e personale del credente, si può dedurne che la preghiera stessa, che suppone ed esprime l’adesione piena dell’uomo, e dunque del presbitero, alla volontà di Dio, nasce, si sviluppa e matura, come ascolto accogliente della Parola del Signore, nelle sue molteplici forme, e come risposta a quella stessa Parola nella vita. La preziosità di queste forme diverse, con le quali la Parola di Dio si rivolge a noi, è talmente importante che la Chiesa ha dovuto porle intorno delle siepi protettive, chiamate norme canoniche, rischiando, in certi casi, di far interpretare quelle stesse norme, si pensi all’obbligo per i presbiteri di «recitare» il cosiddetto Ufficio divino o breviario e alle numerosissime rubriche liturgiche, in veri e propri impedimenti all’intimità dell’incontro desiderato. Quelle stesse siepi, costruite per difendere la dignità della Parola di Dio, e facilitare la preghiera intesa come ascolto della Parola e conseguente risposta, si sono infatti trasformate, per alcuni presbiteri, almeno in certi periodi della storia cristiana, in vero e proprio muro invalicabile al raggiungimento della preghiera stessa. Alcuni teorici della vita mistica cristiana hanno persino difeso la necessità di andare oltre la preghiera “liturgica”, e dunque “sacramentale”, e dunque «presbiterale», per raggiungere le vette più alte dell’esperienza mistica!

2.1. I rischi dei surrogati alla Parola biblica Intere generazioni di presbiteri hanno cercato altrove, cioè in altre pratiche di pietà e devozioni personali o comunitarie, quell’e-


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sperienza di intimità col Signore che avevano a portata di mano nelle letture bibliche che accompagnavano ogni giorno la loro celebrazione dell’Eucaristia e la loro preghiera quotidiana, intessuta, nel breviario, di letture bibliche e di Salmi2. Fortunatamente, la Chiesa non ha mai smesso di considerare la venerazione dei testi biblici come parte integrante della sua tradizione e fonte irrinunciabile delle sue leggi canoniche e del suo insegnamento, segno che essa ha ritenuto costantemente il libro delle Scritture, Antico e Nuovo Testamento, base indispensabile del contenuto della fede e scrigno in cui sono contenuti i suoi tesori più sacri. E tuttavia, si deve con onestà ammettere che non sempre questo principio oggettivo è stato tradotto nella pratica di una direttiva precisa nell’educazione dei chierici, orientati al presbiterato e, di conseguenza, nella vita quotidiana dei presbiteri stessi.

2.2. La riscoperta della Bibbia come fonte di «spiritualità» Si dovette attendere addirittura la metà del secolo XX per trovare in documenti ufficiali della Chiesa un testo come quello che fu divulgato il 13 maggio 1950 dalla Pontificia Commissione Biblica Sanctissimus Dominus sul De Sacra Scriptura recte docenda, perché venisse ricordato ai futuri presbiteri che non possono in alcun modo pretendere di esporre e illustrare rettamente e con frutto i sacri Libri «se essi medesimi negli anni dei loro studi in seminario non si sono imbevuti di un attivo e perenne amore alla sacra Scrittura (sacrae Scripturae actuosum ac perennem imbiberint amorem)»3. In quel testo si proseguiva: «Il professore di Sacra Scrittura, non contento di insegnare ai suoi alunni notizie di argomento biblico utili e necessarie, deve cogliere l’occasione per ammaestrarli bene su come, da una solida conoscenza della Scrittura, dalla lettura assidua (assidua lectione), dalla pia meditazione, si possano alimentare, conso2 Cfr. G.I. GARGANO, La lectio divina nella vita dei credenti, Cinisello Balsamo (MI) 2008, 79-97. 3 Enchiridion Biblicum (=EB), 584.


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lidare e promuovere la santità della propria vita sacerdotale e rendere fecondo il ministero apostolico, massimamente della sacra predicazione e dell’istruzione catechetica»4. Quella stessa Istruzione raccomandava poi di non limitarsi, nella spiegazione delle singole parti della Scrittura, «al criterio della pura erudizione, esponendo piuttosto le parti dell’uno e dell’altro Testamento in cui viene manifestata e definita la dottrina», avvalorando il suo pensiero con una bellissima citazione di San Gregorio Magno che ricordava di evitare, nella meditazione biblica, di «rosicchiare la scorza senza raggiungerne il midollo: “ut ait Gregorius, corticem rodat, medullam autem non attingat”»5. Il documento raccomandava inoltre: «Abbia cura (l’insegnante) di spiegare bene anche il senso spirituale delle parole (bibliche) […] ricordando che tanto più facilmente il professore comprenderà e fedelmente esporrà ai suoi alunni questo senso spirituale, chiarito con tanto amore dai Santi Padri e dai grandi interpreti, quanto maggiori saranno in lui la purezza del cuore (cordis puritate), l’elevatezza dello spirito, il rispetto e l’amore verso Dio che si rivela»6.

2.3. L’insegnamento del Vaticano II Nel testo appena citato del 1950 troviamo il nucleo originario di tutto ciò che si cominciava ormai a respirare qua e là nelle diverse realtà della Chiesa cattolica e che avrebbe trovato il suo culmine negli insegnamenti solenni della Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, il quale al n. 8 della stessa Costituzione scriveva: «La tradizione di origine apostolica progredisce [proficit] nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito santo: cresce (crescit) infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19.51), sia con l’esperienza data da una più profonda intelligenza 4

EB, 601.

5

EB, 597.

6

EB, 599.


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Guido Innocenzo Gargano delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto il carisma sicuro della verità. La Chiesa cioè, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità [Ecclesia scilicet, volventibus saeculis, ad plenitudinem divinae veritatis iugiter tendit], finché in essa vengano a compimento le parole di Dio [donec in ipsa consummentur verba Dei]. Le asserzioni dei Santi Padri attestano la vivificante presenza di questa tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega [in praxim vitamque credentis et orantis Ecclesiae transfunduntur] […] Così Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto [cum dilecti Filii sui Sponsa colloquitur], e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti in tutta la verità e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza».

Anche solo fermandosi un attimo a considerare questo testo straordinario, ci si accorge che un presbitero ordinato dopo il Concilio Vaticano II ha a propria disposizione delle indicazioni di metodo pastorale e di cammino spirituale sensibilmente diverse da quelle possedute dai suoi confratelli educati e nutriti con i metodi precedenti. E in ogni caso si constata che abitualmente si fa tesoro oggi — grazie a Dio — di questa nuova prospettiva nei contesti formativi dei candidati al sacerdozio cattolico; contesti dei quali ogni giorno di più osserviamo le ricadute positive sul piano della pastorale e della vita spirituale nella situazione dei presbiteri in tutto il mondo cattolico. Da questa impostazione dovuta al Vaticano II è nato, fra le altre cose, anche un approccio diverso alla sacra Scrittura che ha permesso, intanto, di non ridurre più il testo biblico a puro magazzino apologetico da utilizzare a conferma dell’esposizione o per la difesa della fede e della morale cattolica. I presbiteri hanno ripreso in mano la Bibbia riscoprendola, infatti, come vera e propria fonte primaria e archetipo di riferimento sia per il nutrimento spirituale dei singoli sia per il servizio omiletico, sia per individuare i criteri del discernimento necessario a giudicare evangelicamente la storia. La lettura della Bibbia ha cominciato così ad essere considerata


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di nuovo come la strada più appropriata perché i presbiteri possano trovare una via d’uscita più sicura dal labirinto delle infinite scelte di vita imposte dalle relazioni umane in tutti i campi, sia per il proprio servizio pastorale sia per il proprio cammino spirituale.

2.4. La scoperta della Lectio Divina La lettura della Bibbia si è progressivamente configurata, negli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II, come pratica di lectio divina. Ma di cosa in realtà di tratta? In poche Parole, si potrebbe dire che la lectio divina è un esercizio conosciuto fin dall’antichità e praticato soprattutto dai monaci, teso a trasformare il credente in «Parola di Dio fatta carne», assumendo come modello di riferimento Maria di Nazaret, la madre di Gesù. Il primo scrittore cristiano antico che propose nel concreto questo obiettivo ai cristiani sembra sia stato Origéne (m. 253), il quale sosteneva la possibilità, per ogni cristiano, di diventare a sua volta «Madre del Verbo di Dio», attraverso un processo di assimilazione della Parola, ottenuta grazie alla frequentazione dei pozzi inesauribili dell’acqua viva della Parola di Dio presente nelle Scritture ispirate. Origéne leggeva, nei verbi utilizzati dai Sinottici, e soprattutto dall’evangelista Luca, a proposito dell’atteggiamento vissuto da Maria di Nazaret nei confronti delle parole di Gesù o di quelle che si riferivano a lui, altrettante indicazioni di metodo per accostarsi in modo fruttuoso e vitale alla pagina biblica. Per raggiungere un’analoga maternità relativa alla Parola di Dio, Origéne, e dopo di lui altri Padri della Chiesa, indicarono delle vere e proprie tappe progressive di realizzazione di una maternità misteriosa che, dalla fase del concepimento, arrivavano al parto7. Il discepolo di Gesù veniva così posto in condizione di sentire come rivolta a sé stesso la risposta data da Gesù alla donna che, bene7

Cfr. C. VAGAGGINI, Maria nelle opere di Origene, OCA 131, Roma 1942.


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dicendo Maria, «alzò la voce e gli disse: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!”, ma egli disse: “Beati piuttosto coloro che ascoltano (akouontes) la parola di Dio e la osservano” (phylassontes)» (Lc 11,27), con tutto l’arricchimento che proveniva dai verbi «akou , tere , symball , phylass , poie », utilizzati dai Sinottici nei testi paralleli (cfr. Lc 8,21; Mt 12,46-50; Mc 3,31-35), i quali erano facilmente interpretabili con riferimento al processo proprio della formazione di un bimbo nel grembo materno fino alla maturazione del parto. La frequentazione del testo biblico veniva accostata così all’occasione opportuna da non perdere per arrivare a stipulare un vero e proprio fidanzamento tra il credente e la Parola contenuta nella Bibbia, con riferimento alle Matriarche del libro della Genesi8 e alla samaritana incontrata da Gesù al pozzo di Sichem (cfr. Gv 4,26), che frequentavano i pozzi per incontrare l’amore.

2.5. Una mistica «presbiterale»? In linea con ciò che abbiamo appena appreso da Origéne e dagli antichi Padri della Chiesa, ci sembra di poter porre una interpretazione che potrebbe apparire vertiginosa ai nostri occhi, delle nozze mistiche celebrate, come lasciano intuire alcuni Padri della Chiesa, e soprattutto alcuni testi liturgici orientali, fra Gesù crocifisso, nuovo Adamo e Maria, nuova Eva, adombrate nella misteriosissima scena raccontata dall’evangelista Giovanni che in 19,26-27 scrive: «Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé». L’indicazione implicita che comporta questo testo può essere che primo frutto delle nuove nozze, celebrate in questa nuova creazione, sia proprio il discepolo amato che accoglie Maria come parte integrante e inalienabile della propria identità di discepolo. Si noti, 8 Cfr. M.I. DANIELI (cur.), Origene. Omelie sulla Genesi, Roma 1978. Cfr. anche G.I. GARGANO, Le Scritture sorgenti della vita. Il pozzo di Giacobbe in Origene, in Parola Spirito e Vita 5 (1982) 276-285.


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però, che, mentre la traduzione italiana dice: «E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé»; il testo greco ha: eis ta idia, che significa letteralmente: «fra quelle proprietà che lo identificavano appunto come discepolo!». Accostando i testi appena riportati col metodo della Lectio Divina credo si possa concludere che essa indica in realtà nient’altro che l’identità stessa del discepolo. Si tratta dunque, se vogliamo riferirlo al presbitero, da analogare al «discepolo amato», di un modo di essere e di un modo di vivere appartenente all’identità stessa del sacerdote cattolico.

2.6. Le conseguenze per una «spiritualità presbiterale» San Giovanni Crisostomo faceva notare che, a differenza di Mosé che scese dal monte Sinai con in mano le dieci parole di Dio incise su tavole di pietra, i discepoli, inviati da Gesù risorto nel mondo intero ad annunziare il vangelo, portavano semplicemente sé stessi, dal momento che, grazie al dono dello Spirito Santo, la frequentazione e l’intimità stabilita col Verbo di Dio fatto carne in Gesù di Nazaret, erano divenuti anch’essi presenza viva della stessa Parola di Dio nel mondo9. Nessun presbitero, però — e lo constatiamo tutti ogni giorno — può pretendere, nonostante il dono sacramentale, di possedere, per scienza infusa, la conoscenza della Parola di Dio, senza la frequentazione delle Scritture ispirate con cui può rivivere, in qualche modo, la familiarità stabilita con Gesù dai suoi diretti discepoli e dagli Apostoli. Tutti i presbiteri sanno infatti, per esperienza, di aver bisogno anch’essi, come ogni altro battezzato, della mediazione della Chiesa che, come amavano ripetere i Padri, «tenet et legit librum Scripturarum». In ogni caso, questo libro, adesso, non soltanto è posto nelle loro mani, ma li spinge ogni giorno a trasformare in «quel» libro la loro stessa vita. Hanno però tutti i presbiteri la consapevolezza della 9 S. ZINCONE (cur.), Giovanni Crisostomo. Omelie sul Vangelo di Matteo, 1,1, Roma 2003, 33.


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dignità misteriosissima che comporta l’impegno ad essere loro stessi questo prezioso liber Scripturarum messo a disposizione della gente?

2.7. Le analogie dell’«ispirazione» La convinzione di fede della Chiesa insegna che il libro della Bibbia non è un libro come tutti gli altri. Si tratta infatti di un libro definito “ispirato”. La Chiesa esplicita in modo addirittura drammatico questa sua convinzione prescrivendo una cura particolarissima nel trattare con “questo” libro. E infatti prescrive di introdurlo solennemente nelle nostre assemblee liturgiche. In alcune occasioni, come per esempio nella consacrazione di un vescovo, «questo» libro viene posto con estrema solennità e tensione spirituale sul capo dell’ordinando a testimonianza che, da quel momento in poi, libro “ispirato” e presbitero “consacrato” vanno considerati come uno penetrato dall’altro e immedesimato con l’altro. Capire ulteriormente tutto questo sembra importante. Vediamo brevemente di accennare a qualche approfondimento. Dire, a proposito della Bibbia, che si tratta di un libro “ispirato” significa, certo, che quando l’agiografo lo ha composto era sotto la garanzia dello Spirito Santo. Come quando qualcuno intende realizzare una costruzione e l’architetto, dopo averlo ascoltato, gli schizza su un foglio un modello di ciò che ha capito dalle parole del committente, completandolo con la sua intuizione creativa oppure presentandogli un modellino appropriato. Da qui una prima conclusione: l’opera realizzata manifesterà in questo caso sia l’intenzione del committente (che nel caso nostro è lo Spirito), sia la capacità dell’esecutore (che nel nostro caso è l’autore umano). Ma «ispirazione» può significare anche un’altra cosa. Pensiamo, per esempio, a un recipiente in cui venga versato un contenuto prezioso che lo nobilita e lo supera sul piano del valore. In questo caso può darsi anche che Il contenitore sia composto con un materiale privo affatto di qualunque valore, e dunque molto scadente, e tuttavia


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il contenuto, che è la cosa che interessa di più, ha, al contrario, un valore assolutamente inestimabile. Se teniamo conto di questo secondo esempio non è difficile dedurre che un libro scritto sotto “ispirazione” rimandi inevitabilmente al contenuto di pensiero o di creatività che attraverso il testo scritto ci raggiunge. Inoltre si potrà facilmente constatare che la Parola, e dunque il contenuto, che quello stesso testo scritto permette di udire attraverso la mediazione di un lettore, va decisamente oltre la pura e semplice materialità del contenitore che, però, proprio grazie alla materia umile della quale è composto, può facilmente essere trasportato da un luogo all’altro, superando i limiti del tempo e dello spazio, senza che il suo contenuto venga in qualunque modo corrotto o deturpato. Possiamo così legittimamente concludere che un testo ritenuto “ispirato” non può ridursi ad essere soltanto ciò che l’artista umano ha realizzato fornendogli un contenitore più o meno appropriato. E questo neppure quando l’artista o architetto sia talmente geniale da interpretare alla perfezione, inevitabilmente umana, ciò che il committente, identificato con lo Spirito stesso di Dio gli ha richiesto di fare. E bisogna anche aggiungere che, trattandosi di un’energia spirituale e divina, non si può mai pensare che esista al mondo alcun contenitore che la possa imprigionare senza che essa spinga, in qualche modo dall’interno, per riversarsi irresistibilmente al di fuori del contenitore stesso. Non succede forse altrettanto anche a proposito di un profumo intensissimo che permea le pareti stesse del suo contenitore più o meno perfettamente sigillato?

2.8. Le convinzioni dei monaci I Padri della Chiesa, ma soprattutto i monaci, consideravano la Parola di Dio, contenuta nel testo scritto della Bibbia, come una realtà che non soltanto era presente nel testo, ma che dal testo anche emanava! Se, in ogni caso, si accetta una proposta simile, si arriva a conclu-


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dere che la Parola di Dio non è soltanto contenuta nelle Scritture, ma anche che dalle Scritture promana, ferma restando la necessità del contenitore, senza il cui servizio preziosissimo, la Parola stessa verrebbe facilmente mistificata. Da qui la legittimità di dedurre che lo Spirito, da noi confessato come realmente presente nel testo sacro, è simultaneamente sia lo Spirito del cosiddetto Gesù storico, nel quale noi riconosciamo la presenza della Parola di Dio fatta carne, sia lo Spirito di Gesù risorto che, a partire dall’evento pasquale, è stato donato ai discepoli per introdurli gradualmente in tutta la verità (cfr. Gv 16,13), fino alla fine dei tempi. Era convinzione comune dei Padri della Chiesa che, lasciandosi educare dallo Spirito contenuto nelle Scritture, ricevute e trasmesse dalla Chiesa, si acquistano di fatto quegli occhi nuovi, quelle capacità uditive e visive, e perfino tattili, olfattive e gustative nuove, che permettono di scoprire infallibilmente la presenza dello stesso Spirito nella storia e di individuarlo non soltanto nei provvidenziali segni dei tempi, ma anche, e soprattutto negli uomini di Dio, chiamati in latino viri Dei, i quali sono a tal punto trasformati dallo Spirito del Signore risorto da manifestarlo al mondo con la loro vita. Fu la constatazione di questo processo di trasformazione dell’uomo di Dio o del vir Dei che convinse Gregorio magno a coniare il bellissimo assioma: Viva lectio vita bonorum10. E fu per lo stesso motivo che si affermò soprattutto in Oriente, ma anche il Occidente, la convinzione assai presente nella pietà popolare che i santi ritenuti «divinizzati, trasfigurati in Dio (theioi)», come si amava dire nell’Oriente cristiano greco, emanavano il profumo della resurrezione anche dopo morte grazie al dono dell’incorruttibilità o aphtharsia. Se il presbitero entra anche lui in questo processo operato dall’energia trasformativa della Parola di Dio, che agisce nella sua lectio divina, passa dall’obiettivo mirato (skopòs) all’obiettivo raggiunto (telos) e vede aprirsi davanti a sé la strada della realizzazione del secondo motivo voluto da Gesù nella chiamata dei Dodici 10 Moralia in Job, V, 34,16 in P. SINISCALCO (cur.), Gregorio Magno. Commento morale a Giobbe / 3 (XIX-XXVII), Roma 1997, 354.


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sintetizzato nell’ultimo versetto del passo del vangelo di Marco con cui abbiamo aperto la nostra lectio che si esprime così: «e anche per inviarli (kai\ iàna a)poste/ll$ au)tou\j) a predicare (khru/ssein) e perché avessero il potere (e)cousi/an) di scacciare i demoni» (Mc 3,15).

3. PRESUPPOSTI PER UNA CORRETTA LECTIO DIVINA Rapportarsi col testo biblico ritenuto per fede come «ispirato» comporta la necessità di non considerarlo soltanto come semplice oggetto di studio da analizzare con tutti gli strumenti scientifici, i più adeguati possibile, ma anche come interlocutore «vivo» del cammino di fede.

3.1. Le fasi di una corretta lectio divina La Lectio Divina intende sottolineare, soprattutto, il secondo aspetto della tesi appena enunciata. Il che non significa in nessun caso sottovalutare l’importanza del primo approccio, perseguito con la massima serietà scientifica possibile. Tutt’altro! Significa, però, considerare «questo» libro come un ferro incandescente, che brucia le mani e mette in movimento il cuore di chiunque lo accosti lasciandoselo dispiegare dal Signore risorto (cfr. Lc 24,32). Il primo corollario di un simile approccio, che verrebbe richiesto al presbitero cattolico, che accetta questa tesi è quello di preferire «questo» libro ad ogni altro libro superando la tentazione o l’illusione di poter servire due padroni come avverte l’evangelista Matteo (6,24). Decidere di fare una simile scelta significa forse dimenticare la storia e il cammino quotidiano degli uomini nostri compagni di viaggio? Tutt’altro! In realtà, come lascia supporre la narrazione dei discepoli di Emmaus incontrati da Cristo risorto (cfr. Lc 24,13-35) è proprio la storia, la nostra storia, quella dei drammi e delle tragedie quotidiane che rischiano di indebolire la fede fino a rischiare l’incredulità, lo strumento con il quale si può rintracciare quella fessura


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apparentemente invisibile che permette di individuare quell’«oltre» dalla dizione letterale del testo (textus = tessuto) che apre all’incontro con la Parola che, dietro quell’intreccio, misteriosamente si nasconde. Il monaco che frequenta quotidianamente le Scritture e le compulsa senza sosta, con pazienza e perseveranza, non è mosso dalla curiosità dello studioso, ma piuttosto dalla sua sete della Parola di Dio e tuttavia è pienamente consapevole che senza quell’acqua necessaria che sgorga dal testo, da «quel» testo, non riuscirebbe mai a togliersi la sua sete di vita che lo ha condotto a compiere una scelta tanto radicale. Forse sta soltanto in questo il messaggio che un monaco potrebbe lanciare all’amico presbitero con estrema umiltà, ma anche con la ferma consapevolezza che si tratti nientemeno che dell’unum necessarium dal quale tutto il resto riceve consistenza ed efficacia. Entrando, perciò, davvero in punta di piedi nella vostra stanza personale, mi permetto di indicare alcune tappe comuni ad ogni lectio divina, non necessariamente monastica, che potrebbero essere utili a qualcuno che intenda intraprendere questo particolare itinerario spirituale. Esse possono essere indicate così: a) il primato della fede Riconoscere che il libro biblico è diverso da ogni altro, significa che dietro, dentro e oltre il libro scritto dell’Antico e del Nuovo Testamento occorre riscoprire una presenza a suo modo «reale» del Signore Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria, in analogia a tutto ciò che la pietà cattolica ha collegato con la presenza di Gesù-Eucaristia adorato nel Santissimo Sacramento dell’Altare. Si potrebbe perfino suggerire ai principianti di trovare il modo di rispettare e venerare il libro biblico imitando appunto i monaci dell’antichità e dei tempi nostri che custodivano e custodiscono il codice biblico con venerazione analoga (dico analoga e non eguale) a quella che si riserva abitualmente in tutte le parrocchie cattoliche al Corpo Santo del Signore. Si è già ricordato, del resto, che la Liturgia stessa della Chiesa tratta sempre con estremo rispetto il libro delle Scritture. Infatti lo introduce con la massima solennità nell’assemblea, lo incensa, lo bacia


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con affetto, e lo «ostende» alla venerazione dei fedeli come fa con il Corpo sacramentale del Signore. Il presbitero potrebbe, per esempio, trovare il modo di porre in evidenza con accorgimenti appropriati nelle chiese, ma anche nella sua casa canonica, la particolarità di «quel» libro, e soltanto di quello, sottolineando che proprio a proposito del contenuto di «quel» libro è scritto: «lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Salmo 119, 105). b)l’attenzione al testo Nell’antichità cristiana, spesso il libro delle Scritture Sante veniva ricopiato in tutto o in parte, personalmente. I martiri lo portavano sul petto e lo custodivano con estrema attenzione, considerandolo il tesoro più prezioso ricevuto dalla comunità. Un suggerimento potrebbe essere, a questo proposito, quello di proporre ai futuri presbiteri, o anche ai presbiteri stessi, di sottomettersi umilmente alla trascrizione precisa, fatta manu propria, del testo come avveniva, e qualche volta avviene ancora, nello scriptorium dei monasteri. Non si tratta di un ritorno nostalgico ai metodi, ormai superati per sempre, del medioevo, ma piuttosto di un invito a raggiungere, con questa fatica (ponos), l’indispensabile stabilitas corporis, animae et mentis attraverso un allenamento continuo (ask sis), che, unico, permette di raggiungere l’obiettivo dell’attenzione (prosoch ) unanimemente considerata, nell’antichità, condizione necessaria per ottenere il dono della preghiera (proseuch ). c) la dimensione sacramentale Scriveva San Girolamo: “La carne del Signore è vero cibo e il suo sangue vera bevanda: è questo il vero bene che ci è riservato nella vita presente: nutrirsi della sua carne e bere il suo sangue, non solo nell’Eucarestia, ma anche nella lettura della sacra Scrittura. E’ infatti vero cibo e vera bevanda la parola di Dio che si attinge alla conoscenza delle Scritture”11. 11

GIROLAMO, Commentarium in Ecclesiasten, III, 12/13 in PL 23,1039A.


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Il pane, di cui parla Gesù nel capitolo 6 del Vangelo di Giovanni (Gv 6, 31-71), è nello stesso tempo la sua persona divina presente nella carne avuta da Maria, il dono del pane eucaristico, del quale Gesù dice: «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna» (Gv 6,54), ma è anche il dono dell’insegnamento di Lui, così come viene riconosciuto dagli Apostoli, che constatano: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai Parole di vita eterna» (Gv 6,68). Il presbitero è nella condizione ottimale per valorizzare la dimensione «sacramentale», inerente al libro delle Scritture ispirate. Tutto questo mi sembra determinante per elaborare oggi, nella nostra Chiesa postconciliare, una appropriata spiritualità presbiterale. Se non partissimo da qui sarebbe estremamente difficile far capire perché ci dovremmo impegnare in un cammino di lectio divina per crescere nella maturità della fede. E sarebbe difficile anche, o addirittura impossibile accettare che la lectio divina non è una pratica di pietà fra tante altre; non è spiritualità monastica; non è un essere aggiornati perché ormai va di moda questo modo nuovo di pregare, ma è semplicemente impegno a nutrirsi quotidianamente col pane sostanzioso garantito dal Signore per la vita della sua Chiesa. d) la fiducia nella Parola O la Chiesa è fondata sulla roccia della Parola o, altrimenti, potremo aspettarci da un momento all'altro che la furia dei tempi, come un uragano, spazzi via la nostra casa fino dalle fondamenta. (Cfr. Mt 7,24-27). Ricordiamo la parabola di Marco: «Diceva: “Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come. Egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura”» (Mc 4,26-29). Frutto di quest’azione nascosta della “Parola seminata in noi” sarà il raggiungimento, pian piano, di una vera e propria identificazione dei nostri pensieri con i pensieri di Dio, delle nostre fantasie con le immagini scritturistiche. E succederà, con estrema naturalezza, che la Parola di Dio resti con noi durante le molteplici occupazioni quoti-


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diane, di notte e di giorno, crescendo dentro di noi e manifestandosi al di fuori nelle nostre scelte e nelle nostre proposte. «Come? Egli stesso non lo sa»(Mc 4,27). I Padri della Chiesa, lasciandosi influenzare da certe intuizioni mistiche già presenti in Israele, proponevano volentieri, in questo contesto, immagini sponsali estremamente ardite che si possono leggere nelle opere dei grandi commentatori antichi della Bibbia fino a raggiungere livelli vertiginosi in personaggi a noi familiari, come Bernardo di Chiaravalle, Giovanni della Croce o Teresa d’Avila. Ma il denominatore comune a tutti questi santi è stato sempre la frequentazione del testo biblico come se si trattasse della frequentazione della casa dell’amata da parte dell’amante innamorato. e) la Comunione con la Chiesa Il libro della Bibbia non lo si va a comprare nelle librerie, non lo si va a prendere dallo scaffale di una biblioteca, ma lo si riceve. È determinante riceverlo, e riceverlo dalle mani della Chiesa, perché questo libro deve trasmetterci tutto l'amore della Chiesa, tutta la responsabilità della Chiesa, tutta la fede della Chiesa, tutta l’ermeneutica della Chiesa. Soltanto la Chiesa fondata sugli Apostoli possiede e legge autenticamente il testo delle Scritture12. Al di fuori di questa accoglienza del libro dalle mani della Chiesa, è facile infatti correre il rischio di appropriarcene come cosa nostra e di considerarlo un testo come tutti gli altri. La mediazione di persone vive, che trasmettono la Parola viva di Dio da bocca a bocca è talmente necessaria che i Padri cristiani antichi non si vergognavano di descrivere tutto questo utilizzando immagini perfino sconcertanti. Riferendosi, per esempio, alle parole del Cantico dei Cantici: «Mi baci con i baci della sua bocca» (Ct 1,2), Origéne commentava: «Si parla al plurale di baci proprio perché noi comprendiamo che l’illuminazione di ogni concetto oscuro è un bacio che il Verbo di Dio dà all’anima perfetta. Forse in questo senso diceva la mente profetica e 12 UGO DI ROUEN, Dialogorum Libri, V,12 in tenet librum Scripturarum».

PL

192,1206D: «Ecclesia legit et


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perfetta: «Ho aperto la mia bocca e ho attirato lo spirito». Invece per bocca dello sposo intendiamo la facoltà con la quale egli illumina la mente e quasi avendole rivolto parole di amore, se essa merita di accogliere la presenza di facoltà così grande, le rivela ogni cosa sconosciuta e oscura: questo è il più vero e proprio e santo bacio che lo sposo, il Verbo di Dio, rivolge alla sposa, l’anima pura e perfetta. Immagine di questo è il bacio che nella chiesa ci scambiamo gli uni con gli altri, allorché celebriamo i misteri»13. Una comunione che Origéne si permette di descrivere con parole così incandescenti non può ridursi ovviamente alla semplice e fredda ripetizione di formule di fede concentrate in un testo catechistico quale che sia. Essa ha bisogno, infatti, di un presbitero che vive ciò che celebra. La Chiesa glielo ricorda con la massima solennità, all’atto stesso della sua consacrazione sacerdotale. E i monaci potrebbero umilmente ricordare, col loro semplice «esserci» nella Chiesa, che si è autentica comunità «apostolica» soprattutto quando si vive concretamente more apostolico. f) fides quae creditur et fides qua creditur La comunione intesa dalla Chiesa, se da una parte richiama la necessità di camminare nella fede professata dagli Apostoli, a livello formale e verbale; dall’altra richiama anche la necessità di vivere quella stessa comunione di cui vivevano gli Apostoli. I risvolti pratici di questa convinzione sono estremamente importanti anche nell’esperienza della lectio divina. Essi riguardano, infatti, la correttezza o meno di una interpretazione anche quando si tratta di semplice «lettura spirituale» della bibbia. Per i Padri della Chiesa era dato per scontato che l’interpretazione di un eretico o di uno scismatico dovesse essere considerata necessariamente falsa. Nel primo caso, perché non c’era una corretta fides quae creditur e nel secondo caso, per la mancanza della fides qua creditur. Si aveva, dunque, a portata di mano un criterio di discernimento che era, nello stesso tempo, sicuro e semplicissimo, ma con qualche 13 Commentarium in Canticum, I,1 in M. SIMONETTI (cur.), Origene. Commento al Cantico dei Cantici, Roma 1976, 76.


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inconveniente, perché il criterio veniva applicato anche in senso inverso. Il che comportava che, quando ci si trovava di fronte ad una fede correttamente confessata e coerentemente vissuta, si concludeva che anche l’eventuale interpretazione del testo biblico, spesso “accomodata”, data da un simile “fedele”, dovesse essere necessariamente legittima e perfino determinante. Sant’Agostino14 aveva dichiarato che, anche qualora l’interpretazione data da un simile fedele non fosse comprovata affatto dal senso letterale del testo, essa dovesse comunque essere accettata. Non è forse la “carità” — spiegava il grande vescovo di Ippona — «lo scopo per cui un testo come quello biblico è stato dato all’uomo?». Se dunque dall’interpretazione del testo, qualcuno ricava un orientamento che genera “carità” il testo ha raggiunto comunque lo scopo, quali che siano state le strade che quel “fedele” ha potuto percorrere. Questo principio, accettato quasi universalmente nella prassi comune dei fedeli, stava spesso alla base anche del cosiddetto passaggio dal “senso letterale” al “senso spirituale” del testo biblico, senza rendersi conto che tutto questo sta o cade a condizione che vi sia una verifica seria e completa della corrispondenza ineliminabile fra fides quae creditur e fides qua creditur del sostenitore di una determinata interpretazione. Di eretici integerrimi è piena la storia della Chiesa ed Agostino stesso dovette fare un’esperienza molto dura con il suo antagonista Pelagio. Da qui l’oggettiva necessità di fare riferimento ad un magistero vivo presente nella Chiesa e garantito dal carisma veritatis certum come ha giustamente richiamato nel numero 8, da noi citato, la Costituzione Conciliare Dei Verbum. g) i rischi della superficialità «spirituale» Nell’assenza, o forse, qualche volta, nella latitanza di questo riferimento necessario, la strada della lettura individualista o spiritualista della Scrittura può divenire travolgente come un torrente in piena. La storia medievale e moderna della Chiesa ha dovuto far fronte a tanti movimenti tumultuosi che generavano individualismi ad oltranza che 14

Cfr. AGOSTINO, De Doctrina christiana, I, 36. 41, NBA VIII, Roma 1992, 54.


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sfociavano in gruppi o correnti chiaramente “ereticali o scismatici”, vagamente definiti “devoti o spirituali”. Ci sono voluti secoli per trovare una risposta sicura a situazioni spesso molto drammatiche. E potrebbe essere curioso dover ammettere che la risposta è venuta alla fine da dove nessuno si aspettava che arrivasse. Forse dobbiamo pronunciare un vocabolo che susciterebbe ancora in qualcuno delle rimostranze: “Illuminismo”. La rinascita dello spirito critico, dovuto certamente in radice a ciò che noi in Italia chiamiamo “Umanesimo e Rinascimento”, ha prodotto, con l’affermazione dell’Illuminismo, una rilettura totale di tantissime cose date per acquisite dalla tradizione che però, adesso, non si poteva più fare a meno di rivisitare, osservandole da altre prospettive più rispettose della ragione umana. I risvolti che tutto questo avrebbe causato nel giudizio sulla storia dell’esegesi cristiana hanno fatto un po’ di fatica ad ottenere cittadinanza piena nella chiesa cattolica, ma poi, a partire dalla Divino Afflante Spiritu del 1943 si sono affermati impetuosamente quasi ovunque, dando origine a un numero sconfinato di studi biblici prodotti con scrupoloso rispetto del metodo storico-critico da autori pienamente cattolici che si sono imposti come autori riconosciuti e apprezzatissimi dalla comunità scientifica internazionale. Il Vaticano II si sarebbe poi incaricato di aggiungere il crisma e l’autorevolezza di un Concilio Ecumenico ad un cammino lungo, sofferto, ma che aveva trovato finalmente il suo sbocco definitivo. Si trattava adesso di rivisitare però, anche con sguardo critico, ma più sereno, la tradizione patristica nel tentativo di recuperare ciò che proseguiva comunque a costituire un patrimonio prezioso da non ignorare del tutto. h) un ritorno ai Padri? Come avrebbe potuto un presbitero nutrirsi personalmente e nutrire i suoi fedeli col pane della Scrittura ispirata senza rendersi conto che la fede stessa della Chiesa sta o cade a partire proprio da una «seconda» lettura del testo biblico compiuta alla luce della risurrezione di Gesù Cristo Signore? Gli studi, anch’essi compiuti col metodo storico-critico, sull’ese-


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gesi dei Padri, a partire almeno dalla seconda metà del XIX secolo, rendevano tutti gli studiosi consapevoli che non si dovesse fare, della loro esegesi, di ogni erba un fascio. E infatti si cominciò a rendersi conto dell’importanza della lettura “tipologica” della Bibbia intimamente intrecciata al patrimonio liturgico della Chiesa, “fonte e culmine”, come scrive lo stesso Vaticano II, di ogni altra manifestazione ecclesiale. Ma, soprattutto, ci si rese conto di quanto fosse fondamentale per la fede cristiana l’assioma dei Padri sull’unità dei due Testamenti. Il metodo storico-critico non bastava da solo a rendere ragione di tutto il patrimonio cristiano. E, d’altra parte, bisognava anche non trascurare, insieme alla lettura “tipologica” del testo biblico, la sua lettura correttamente “spirituale” che la tradizione aveva sempre coniugata con ciò che, in termini tradizionali, veniva chiamata più specificamente lettura “allegorica” della Scrittura ispirata. Elementi che non si potevano certo ignorare, ma che tuttavia avevano bisogno di particolare attenzione perché una lettura “accomodata” alle pretese individualistiche superate dal metodo storicocritico cacciato dalla porta non rientrasse poi dalla finestra, come si dice in Italia. i) la riscoperta della lectio divina Nel pieno del dibattito in corso fra esegeti, patrologi e cultori della teologia spirituale degli anni successivi al Concilio Vaticano II, è rinato un profondo e trascinante interesse alla lectio divina nelle quattro scansioni individuate da Guigo il certosino nel XIII secolo di lectio-meditatio-oratio-contemplatio. I Documenti ufficiali della Chiesa, che fino ad allora ne avevano parlato quasi con pudore e limitandosi a piccoli suggerimenti pratici diretti ai candidati al sacerdozio o alla vita consacrata si sono fatti più espliciti a cavallo del passaggio del Millennio, soprattutto per impulso di Giovanni Paolo II. Ho scritto un libro su questo argomento15 e non intendo certo ritornarci sopra, ma non posso fare a meno di notare che proprio 15

2008.

G.I. GARGANO, La lectio divina nella vita dei credenti, Cinisello Balsamo (MI)


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questo particolare approccio alla Scrittura ispirata, mentre sembra proporre una via d’uscita agli studiosi del testo biblico16, sta offrendo simultaneamente la possibilità di proseguire a gustare con la misura giusta anche l’insegnamento dei Padri17.

3.1. L’«Epiclesi» è una necessità Soltanto con i presupposti della fede e dell'amore, insegnavano i Padri, possiamo aprire il libro delle Scritture Sante ma, anche in questo caso, non senza chiedere insistentemente di conoscere i segreti, e dunque anche i significati autentici nascosti fra le righe delle Scritture ispirate, all’Unico che scruta i misteri di Dio (cfr. 1Cor 2,11), con l’invocazione allo Spirito Santo. Bisogna chiedere. «Chiedete e otterrete, bussate e vi sarà aperto perché chi cerca trova, a chi bussa sarà aperto» (cfr. Mt 7,7-12). E si chiede il dono dello Spirito Santo con la fiducia di ottenerlo davvero. Insegna Luca: «Se voi dunque che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono?» (Lc 11,13). E si tratta dello Spirito promesso da Gesù: «Vi manderò lo Spirito che vi introdurrà in tutta la verità» (Gv 16,13). Nessun altro può conoscere i segreti di Dio se non colui che viene dalle profondità di Dio (cfr. 1Cor 2,11). Stupisce la possibilità stessa che avverte un presbitero di porre questa invocazione a proposito del testo biblico accanto ad un’altra invocazione che ripete sul pane, sul vino, e poi sull’intera assemblea, in ogni celebrazione eucaristica: «Manda il tuo Spirito su questo Pane e su questo Vino perché diventino per noi il Corpo e il Sangue ecc.». 16 È ciò che si sta tentando di fare da diversi anni. Si vedano, per esempio, riviste come «Parola Spirito e Vita» edita dalle EDB di Bologna fin dal 1981 e tuttora animata congiuntamente da esegeti biblici, patrologi ed esperti di teologia spirituale. 17 Cfr. le tante pubblicazioni delle edizioni Qiqajon fondate dalla comunità di Bose sotto la direzione del geniale autore spirituale italiano Enzo Bianchi, ma ultimamente anche vedi: G.I. GARGANO, Il sapore dei Padri della Chiesa nell’esegesi biblica. Introduzione a una lettura sapienziale della Scrittura, Cinisello Balsamo (MI) 2009.


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Oppure: «perché tutti noi che ci nutriamo di questo pane e condividiamo questo vino diventiamo un unico corpo». Se il dono dello Spirito va chiesto proprio allo stesso modo con cui lo si chiede sul Pane, sul Vino o sulla comunità orante delle nostre celebrazioni eucaristiche, non vorrà forse tutto questo insegnare implicitamente che, grazie alla nostra personale epiclesi compiuta in comunione con tutta la Chiesa, il libro delle Scritture assume di fatto una qualità particolare tale da permetterci di intenderlo con lo stesso Spirito (eodem Spiritu) con cui è stato scritto e consegnato alla comunità di fede? La possibilità di accostare il testo biblico agli altri doni concessi dal medesimo Spirito alla comunità del Signore, perché se ne nutra e cresca fino alla piena maturità di Cristo (cfr. Ef 4,13), suggerisce la natura salvifica che accompagna sempre ogni comprensione della Scrittura ispirata. Infatti, qualunque comprensione personale trova conferma della sua autenticità, unicamente, quando viene verificata dall’accoglienza della cattolicità della Chiesa. Gregorio Magno, già nel VI secolo, va perfino oltre nello sviluppo di questo concetto. Un “oltre” che non voglio privarmi del piacere di indicarvi quasi a suggello di questa mia comunicazione. Dice Gregorio: «So che per lo più molte cose nella sacra Scrittura, che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli (quae solus intellegere non potui, coram fratribus meis positus intellexi). Attraverso questa scoperta ho cercato di indagare anche questo per rendermi conto per merito di chi io ricevessi tale capacità di comprensione. È chiaro infatti che ciò mi è dato a pro di coloro che mi sono vicini. Ne consegue, per dono di Dio, che il senso cresce e lì orgoglio diminuisce, quando per voi imparo ciò che in mezzo a voi insegno; perché — è la verità — per lo più ascolto con voi ciò che a mia volta vi dico (propter vos disco quod inter vos doceo, quia — verum fateor — plerumque vobiscum audio quod dico)»18.

18

GREGORIO MAGNO. Omelie su Ezechiele, II, 1, Roma 1993, 49.


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IL DONO DELLO SPIRITO: BATTESIMO ED IMPOSIZIONE DELLE MANI NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI (8,14-17; 19,1-7)

SALVATORE MAGRÌ*

1. PREMESSA La confermazione è un sacramento che ha sempre suscitato grande interesse sotto molti aspetti: da quello storico-teologico a quello liturgico, da quello catechistico-spirituale a quello pastorale. La produzione scientifica e divulgativa1, ultimamente, si è sforzata di mettere in luce alcuni importanti elementi del sacramento poco evidenziati nel passato, quali la sua appartenenza all’Iniziazione cristiana e la sua collocazione nella prospettiva della storia salvifica. Ormai è maturata la convinzione che per una esatta concezione del sacramento della cresima non vi è altra strada che situarlo nel quadro globale della prassi dell’Iniziazione cristiana. L’esigenza metodologica di studiare unitariamente la confermazione nel contesto dell’Iniziazione cristiana nasce soprattutto nell’ambito degli studi di carattere storico nei quali l’intuizione di una prossimità della confermazione con il battesimo da una parte e con *

Docente di Liturgia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr. A. CAPRIOLI, Rassegna di teologia sul sacramento della cresima, in La Scuola Cattolica 91 (1963) 131-146; ID., Saggio bibliografico sulla confermazione nelle vicende storico-teologiche dal 1946 al 1973, in La Scuola Cattolica 103 (1975) 645-659; A. M. TRIACCA, Per una trattazione organica sulla «confermazione»:verso una teologia liturgica, in Ephemerides Liturgicae 86 (1972) 128-181; A.G. MARTIMORT, Dix ans de travaux sur le sacrament de confirmation: 1967-1977, in Bullettin de Littérature Ecclésiastique 2 (1978) 127-139; A. CECHINNATO, Celebrare la Confermazione. Rassegna critica dell’attuale dibattito teologico sul sacramento, Messaggero, Padova 1987; R. FALSINI, Sette anni di studi sulla cresima: 1980 - 1987, in Rivista di pastorale liturgica 144 (1987) 67-77; A. NOCENT, La Confirmation. Questions posées aux théologiens et aux pasteurs, in Gregorianum 72 (1991) 689-702. 1


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l’eucaristia dall’altra trova sempre più conferma nelle ricerche sulla prassi antica di Iniziazione cristiana. Nello stesso tempo tale intuizione si rivela oggi particolarmente feconda per la soluzione stessa del problema della natura teologica dei sacramenti dell’Iniziazione oltre che dei problemi connessi di carattere pastorale. Una storia unitaria dei sacramenti di Iniziazione cristiana, vista nel contesto globale della vita ecclesiale, è dunque oggi il luogo interpretativo più adeguato per ritrovare il senso del sacramento della confermazione e delle sue modalità di celebrazione e di pastorale. Pur tenendo presente questa prospettiva metodologica, nel presente studio, a noi interessa concentrare l’attenzione sulla confermazione che, ancora oggi, resta un sacramento “difficile”. La sua difficoltà tocca la riflessione teologica, la sua collocazione all’interno dell’itinerario dell’Iniziazione Cristiana, il rito e la sua mistagogia, la pedagogia della preparazione. Nella prassi attuale, infatti, il rapporto della confermazione con gli altri sacramenti dell’Iniziazione cristiana non è ancora sufficientemente recepito con la conseguente abitudine a considerare i sacramenti ciascuno a sé stante e a mantenere in vita quella “anomalia” che fa trasferire la confermazione a dopo l’eucaristia. A tutto ciò si aggiunga che anche dal punto di vista storico la confermazione è un sacramento assai complesso e controverso2; esso

2 Cfr. R.B. PIERRET, La liturgie du sacrament de confirmation d’apres le Pontifical Romain, in Les questions liturgiques et paroissiales 16 (1931) 119-128; P. BERNARD, Confirmation du VII au XII siècle , in A. VACANT et al. (cur.), Dictionnaire de théologie catholique, 3, Paris 1938, 1058-1070; D. VAN DEN EYNDE, Notes sur les rites postbaptismaux dans les Eglises d’occident, in Antonianum 14 (1939) 257-276; ID., Les rites liturgiques latins de la Confirmation, in La Maison Dieu 54 (1952) 3-10; P. M. GY, Histoire liturgique du sacrement de confirmation, in La Maison Dieu 58 (1959) 135-145; A. NOCENT, Vicessitudes du ritual de la confirmation, in Nouvelle revue théologique 104 (1972) 705-720; S. RIGGIO, Liturgia e pastorale della confermazione nei secoli XI, XII, XIII, in Ephemerides Liturgicae 87 (1973) 445-472; A. MACCARRONE, l’unità del battesimo e della cresima nelle testimonianze della liturgia romana dal III al XVI secolo, in Lateranum 51 (1985) 88-152; V. PERI, Una anomalia liturgica: la cresima dopo la prima comunione, in Rivista Liturgica 76 (1986) 251-291; ID., La cresima ieri ed oggi. Considerazioni storiche e pastorali, in Rivista Liturgica 76 (1989) 153-213.


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Il dono dello Spirito: battesimo ed imposizione delle mani

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è stato affrontato in modo diverso nelle Chiese d’Occidente e d’Oriente e non è stato riconosciuto nelle Chiese protestanti3. Nelle Chiese d’Oriente, rimaste fedeli all’antica prassi unitaria, questo sacramento è ancora oggi integrato in un processo di Iniziazione cristiana che, anche nel caso di bambini piccoli, mantiene l’unità tra battesimo e confermazione anche quando è il semplice presbitero a conferire il battesimo e senza premettere una catechesi separata. Nella cristianità occidentale invece tale prassi ha avuto una storia diversa. Anticamente il battesimo è normalmente accompagnato dal conferimento del dono dello Spirito e i riti battesimali si susseguono senza soluzione di continuità, dalle rinunce a satana fino all’eucaristia. Ciò accadeva sia nel caso dei convertiti al cristianesimo da adulti, sia nel caso dei bambini. Tale consuetudine rimase in vigore fino all’epoca medioevale. Alla confermazione come rito “separato” dal battesimo si arriva sotto l’influsso di due convergenti fattori: la diffusione del cristianesimo nei territori lontani dalla città, con il costituirsi di comunità rette da un presbitero e la generalizzazione del battesimo dei bambini nei primi giorni della nascita. La diffusione del cristianesimo fuori dalla città ha portato progressivamente ad un distacco dalla liturgia della cattedrale collocando la vita sacramentale nel contesto di una comunità cristiana dove il presbitero assume la funzione liturgica e presidenziale del vescovo come suo cooperatore e vicario. Il moltiplicarsi dei battesimi ai bambini al di fuori delle date fisse e in luoghi lontani da un immediato riferimento al ministero episcopale aumentava le difficoltà alla celebrazione unitaria della confermazione con il battesimo. Inoltre la generalizzazione del battesimo ai bambini nei primi giorni di vita 3

Cfr. R. FALSINI, Il rito della confermazione nella chiesa latina, in Rivista Liturgica 4 (1967) 463-475; ID., L’iniziazione cristiana e i suoi sacramenti (Collana di teologia e di spiritualità 2), Milano 19924, 153-154; L. LIGIER, La Confirmation en Oriente t en Occident. Autor du Nouveau Rituel romain , in Gregorianum 53 (1972) 267-321; A. ELBERTI, Lo Spirito e il sacramento della confermazione nella tradizione della Chiesa, Roma 2001; ID., La Confermazione nella Chiesa latina, Cinisello Balsamo, 2002.


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poneva sempre più l’esigenza di una loro formazione cristiana dopo il battesimo. In questo contesto si colloca il rinvio della prima comunione e della confermazione all’età della discrezione. Ancora una volta, quindi, la relazione con il battesimo, che dapprima era visibilmente chiara, gradualmente si oscurò. Il rinvio del completamento dell’Iniziazione cristiana all’età della discrezione appare legato all’esigenza di un catecumenato alla fede della Chiesa, dal quale la prassi ormai generalizzata del battesimo ai neonati appariva slegata. Questo catecumenato per così dire “postbattesimale” era un momento di istruzione rivolto ai bambini e tende, di conseguenza, ad assumere quelle istanze e caratteristiche che sono proprie di questa età. Con il passaggio dalla società medioevale alla società moderna comincia a venir meno il tessuto formativo alla fede della Chiesa, la quale, anche sotto i colpi della Riforma protestante, cominciò a ripensare la prassi di Iniziazione cristiana. Con tre canoni4 sul sacramento della confermazione il Concilio di Trento esclude ogni interpretazione protestante del sacramento: non vuole che si veda nella confermazione ricevuta dal battezzato una cerimonia superflua, ma piuttosto un sacramento nel senso tecnico della parola; non vuole che si scorga soltanto una catechesi, durante la quale gli adolescenti darebbero, per così dire, conto della loro fede dinanzi alla Chiesa; condanna in ultimo coloro che offendono lo Spirito Santo, escludendo qualsiasi efficacia della crismazione e coloro che non ritengono essere il solo vescovo il ministro ordinario della confermazione. Di fatto, però, la Chiesa all’epoca del Concilio di Trento accoglie l’istanza di una adeguata formazione del battezzato alla fede e, pur condannando la tesi erasmiana5 in quanto interpreta il ruolo della confermazione solo come conferma da parte del battezzato della fede battesimale per 4 CONCILIUM TRIDENTINUM, sessio VII (3 marzo 1547), Decretum de sacramentis, in H. DENZINGER- H. HÜNEMANN (edd.), Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, ed. bilingue, Bologna 1995, 1628-1630. 5 Erasmo da Rotterdam aveva avanzato la proposta di considerare la confermazione come la “ratifica” da parte del battezzato del battesimo ricevuto da piccolo, tale da comportare un periodo di istruzione nella fede della Chiesa analogo al catecumenato antico, e solo dopo questa ratifica la possibilità di accedere alla stessa eucaristia.


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poter accedere all’eucaristia, e non anche come sacramento che conferisce la grazia6, Trento, tuttavia, accoglie l’istanza teologicopastorale di una catechesi previa all’eucaristia. In questo modo, il Concilio ha affermato sul piano disciplinare-pastorale un adeguato differimento della prima eucaristia per i battezzati da piccoli, confermando e giustificando il dettato del Concilio Lateranense IV, contro l’antica prassi della comunione ai piccoli nel giorno stesso della celebrazione battesimale. La situazione così si complicava ulteriormente in ordine al modo di vedere e di amministrare il sacramento della confermazione. Tenendo conto dei molteplici problemi che tutt’ora travagliano la comprensione di questo sacramento e non ignorando l’attuale orientamento di studi che induce i ricercatori a non trattare più la confermazione come sacramento a sé stante, ma all’interno del processo di Iniziazione cristiana, ci siamo proposti di fare una ricerca un po’ diversa. Proporremo una serie di articoli che non vogliono trattare della confermazione in modo generale, né da un punto di vista teologico o pastorale. La nostra ricerca si colloca nell’ambito degli studi sull’aspetto celebrativo della confermazione, con l’intento di far luce su un elemento particolare della celebrazione del sacramento, ossia il rapporto tra imposizione delle mani e la crismazione della fronte. Coerentemente con il nostro scopo, in questa ricerca ci lasceremo guidare da contributi di tipo storico-liturgico, partendo dai dati biblici neotestamentari per poi passare alla definizione di questo rapporto lungo i secoli attingendo alle fonti. Prima di passare all’argomento specifico di questo articolo che tratterà degli aspetti biblici del tema, ci è sembrato opportuno delineare uno “status quaestionis”. Un panorama storico della dottrina biblica e tradizionale sulla confermazione ci è offerto da un articolo di M. B. Carra de Vaux Saint

6 CONCILIUM TRIDENTINUM, sessio VII (3 marzo 1547), Decretum de sacramentis, cit., 1627.


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Cyr7. Ancora più ricco è un volume di B. Neunheuser su battesimo e confermazione nel quale l’autore, benedettino e noto liturgista, ha dato il meglio della documentazione biblica e patristica sui due sacramenti8. J. Coppens ha studiato il rito di imposizione delle mani, menzionato in Atti 8,14-17, in relazione a tutto il NT e nelle sue origini giudaiche9. Non mancano, poi, buone raccolte di testi patristici riguardanti la confermazione10. Molto interessante è lo studio della confermazione nel II secolo che rappresenta l’anello di congiunzione tra l’età apostolica e la tradizione liturgica del III secolo. Purtroppo gli scritti che ci sono rimasti sono pochi e assai criticati11. Per quanto riguarda lo studio della tradizione liturgica e del “rituale” della confermazione, un buon contributo è quello di M. Righetti12. Agli inizi del secolo scorso, infatti, il problema preso in considerazione dagli storici era quello della presenza o meno, nel rituale battesimale, del rito di imposizione delle mani. Ecco i termini della questione: anticamente nel rito di confermazione si faceva uso di un gesto di imposizione, oppure rito di confermazione era considerata l’unzione? A tal proposito potremmo distinguere due gruppi tra gli studiosi: c’è chi sostiene la presenza del rito di imposizione delle mani 7 Cfr. M. B. CARRA DE VAUX SAINT CYR, Le sacrament de la confirmation. Notes historiques, in Lumen et vie 51 (1961) 23-42. 8 Cfr. B. NEUNHEUSER, Taufe und Firmung (Handbuch der Dogmengeschichte. Sacramente 4/2), Freiburg 1956. 9 Cfr. J. COPPENS, L’imposition des mains et les rites connexes dan le Nouveau Testament e dans l’église ancienne, Wetteren-Paris 1925. 10 Cfr. G. BAREILLE, Confirmation d’après les Pères grecs et latins, in A. VACANT et al. (curr.), Dictionnaire de Théologie Catholique, 3/1, Paris 1938, 1026-1058; J.LECUYER, La confirmation chez les Pères, in La Maison Dieu 54 (1958) 23 - 52. 11 A. BENOIT, Le baptême chrétien au second siècle. La théologie des Pères, Paris 1953. L’autore, essendo protestante, con quest’opera risponde a Coppens dimostrando di non aver trovato presso i Padri studiati nessuna traccia di una unzione e di una imposizione delle mani il cui scopo sarebbe di conferire il dono dello Spirito. Ma una tale conclusione non supera forse le premesse stesse? Non si può infatti escludere un rito di confermazione distinto dal battesimo dalla conoscenza dei Padri del II secolo per il semplice fatto che la letteratura rimastaci non ne parla. 12 M. RIGHETTI, Manuale di storia liturgica, IV. I sacramenti, Milano 19592 (rist. an. Milano 1998), 147-168.


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nel rituale battesimale come elemento costante di ogni tradizione liturgica, sia occidentale che orientale13; c’è poi chi ha visto nel rito della unzione o crismazione postbattesimale il rito essenziale della confermazione, sostenendo che questo era il rito di confermazione, almeno in base ai documenti liturgici dell’antica liturgia battesimale nelle Chiese non romane (Spagna e Gallia), mentre il rito di imposizione delle mani sarebbe completamente ignorato14. Per parecchio tempo si è discusso sull’essenza del rito della confermazione: è l’imposizione delle mani, è l’unzione, è la segnazione o è la combinazione di due o di tre o di tutti e tre gli atti insieme?15. Lo scopo di questa serie di articoli, quindi, vuole essere quello di tentare una ricostruzione storico-genetica e una riflessione critica sull’evoluzione liturgica del sacramento della confermazione a partire 13 Cfr. P. GALTIER, La consignation à Carthage et à Rome, in Recherches de Science Religieuse 2 (1911) 350-383; ID., Onction et Confirmation, in Revue d’Histoire Ecclésiastique 13 (1912) 450-466; ID., La consignation dans les églises d’Occident, in Revue d’Histoire Ecclésiastique 13 (1912) 261-270; ID., Absolution ou confirmation, in Recherches de Science Religieuse 5 (1914) 339-394; ID., Imposition des mains, in A. VACANT et al. (curr.), Dictionnaire de Théologie Catholique, 7/2, Paris 1927, 13021425; J. COPPENS, L’imposition des mains et les rites connexes dan le Nouveau Testament e dans l’église ancienne, Wetteren-Paris 1925; H. ELFERS, Gehört die Salbung mit Chrisma im ältesten Initiationsritus zur Taufe oder zur Firmung?, in Theologie und Glaube 34 (1942) 334-341; P. M. GY, Histoire liturgique du sacrament de la confirmation, in La Maison Dieu 58 (1959) 135-145. 14 Cfr. J. DE PUNIET, Onction et confirmation, in Revue d’Histoire Ecclésiastique 13 (1912) 450-466; ID., Confirmation, in F. CABROL-H. LECLERCQ (curr.), Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et de Liturgie, 3/2, Paris 1914 2515-2544; R. WELTE, Die Postbaptismale Salbung, ihr symbolischer Gehalt und ihre sakramentale Zugehörigkeit nach den Zeugnissen der alten Kirche (Freiburger Theologische Studien 51), Freiburg 1939; D. VAN DEN EYNDE, Baptême et confirmation dans les Costitutions Apostoliques VII, 44, 3, in Recherches de Science Religieuse 27 (1937) 196-212; ID., Notes sur les rites postbaptismaux dans les églises d’Occident, in Antonianum 14 (1939) 257-276; ID., Les rites liturgiques latins de la confirmation, in La Maison Dieu 54 (1958) 53-78; ID., Notes sur les rites latins de l’initiation et de la réconciliation, in Antonianum 33 (1958) 415-422. 15 Cfr. F. GISTELINK, Doopbad en Geestesgave bij Tertullianus en Cyprianus, in Ephemerides Theologicae Lovanienses 43 (1967) 532-555; B. KLEINHEYER, Le nouveau rituel de la Confirmation, in La Maison Dieu 110 (1972) 51-71; ID., Handauflegung zur Geistmitteilung oder: Der Geist weht, wo die Kirche feiert, in Liturgisches Jahrbuch 30 (1980) 154 -173.


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da un elemento che, non solo ha caratterizzato lo sviluppo storico di questo sacramento, ma è anche molto importante ai fini di una sua comprensione nella tradizione occidentale. Tale elemento, appunto, è il rapporto tra l’uso della imposizione delle mani (o della mano) e l’uso dell’unzione della fronte con il sacro Crisma. L’esatta comprensione di questo aspetto, allora, sarà in grado di spiegare le apparenti contraddizioni che presentano le fonti. Il metodo che useremo sarà quello storico-genetico. Con esso cercheremo di ricostruire la storia e l’evoluzione del rituale della confermazione attraverso l’analisi delle principali fonti che abbiamo a disposizione e dalle quali attingeremo quelle informazioni che ci possono aiutare a far luce sulle anomalie che la storia di questo sacramento presenta. Partiremo dalla testimonianza degli Atti degli Apostoli, daremo un’occhiata alle varie tradizioni liturgiche e magisteriali dei primi secoli quando non esisteva ancora la separazione rituale tra riti battesimali e riti post-battesimali; passeremo, poi, alla prassi descritta dalle prime fonti liturgiche e a quella medievale per giungere infine al rituale tridentino e a quello attuale. Questi contributi, tuttavia, non pretenderanno di dare una soluzione definitiva sul tema, anche perché le fonti su questo punto sono spesso discordanti e presentano non poche difficoltà di interpretazione. Alla fine, pur non proponendo nessuna soluzione definitiva sull’argomento, vogliamo dare un contributo per fare un punto della situazione attuale circa gli studi che hanno cercato di mettere in luce il rapporto tra questi due gesti che costituiscono l’essenziale del linguaggio non verbale del sacramento della confermazione.

2. LA VISIONE TRADIZIONALE

DELLA CONFERMAZIONE COME SACRA-

MENTO SEPARATO DAL BATTESIMO

La tradizionale teologia cattolica poneva come fondamento biblico del sacramento della confermazione i passi di At 8, 14-17 e At 19, 1-7. Partendo da queste testimonianze si è giunti alla conclusione


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che secondo la Scrittura il “gesto” tradizionale mediante il quale si conferiva questo sacramento era unicamente l’imposizione delle mani. In Occidente questa imposizione delle mani viene presa direttamente in considerazione fino al XII secolo. In seguito si conoscerà soltanto una generale estensione delle mani (extensio manuum) con l’invocazione dello Spirito Santo e la richiesta dei suoi sette doni all’inizio del rito della confermazione16. Soltanto nel XX secolo il Rituale Romano di Pio XI (1925) riprenderà in considerazione l’imposizione individuale della mano (impositio manus)17. Il nuovo rito della confermazione, invece, accoglie il rito della imposzione delle mani facendone insieme all’unzione con il crisma il “segno materiale” del sacramento. Paolo VI, infatti, nella Costituzione Apostolica «Divinae consortium naturae», considera i due testi degli Atti degli Apostoli sopracitati come la testimonianza biblica di un rito postbattesimale, consistente nell’imposizione delle mani, mediante il quale viene comunicato ai battezzati il dono dello Spirito Santo. Esso coinciderebbe con l’inizio del nostro sacramento della confermazione. Il Pontefice stesso, inoltre, afferma che nell’imposizione delle mani narrata dagli Atti degli Apostoli «ex traditione catholica merito agnoscitur initium Sacramenti Confirmationis, quod gratiam pentecostalem in Ecclesia quodam modo perpetuat»18. Il brano di At 8,14-17 riferisce l’episodio di Samaria nel quale si racconta come ai neoconvertiti che avevano ricevuto il battesimo da Filippo vengono inviati dalla comunità di Gerusalemme gli Apostoli Pietro e Giovanni, i quali «pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora sceso sopra nessuno di loro, ma 16 Cfr. Le Pontifical Romain au moyen - âge, III. Le Pontifical de Guillaume Durand, ed. M. ANDRIEU (Studi e Testi 88), Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1940, 333-335, nn.1-8. 17 Cfr. Rituale Romanum Pauli V Pontificis Maximi jussueditum atque auctoritate Pii Papae XI ad normam Codicis Juris Canonici accomodatum, Editio juxta typicam, Roma-Tornaci-Parisiis 1926, 106, 112. 18 PAOLO VI, Constitutio Apostolica de sacramento confirmationis «Divinae consortium naturae», in Acta Apostolicae Sedis 63 (1971) 659.


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erano soltanto stati battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo»19. Di primo acchito potrebbe sembrare tutto chiaro e semplice: un rito che segue il battesimo, compiuto dagli Apostoli per conferire lo Spirito Santo; ma fra poco vedremo come l’interpretazione esegetica di questo brano non è poi così semplice e pacifica. Il brano di At 19,1-7 ci porta nella comunità di Efeso dove, a coloro che erano stati battezzati secondo il battesimo di Giovanni, viene dato il battesimo nel nome di Gesù a cui segue, da parte dell’Apostolo Paolo, l’imposizione delle mani per il dono dello Spirito Santo. Questo brano tradizionalmente si presenta come la conferma del precedente ed entrambi i testi sembrano decisivi circa l’esistenza di un rito distinto e separato dal battesimo. Di fatti, in questo senso, li hanno letti molti autori. J. Coppens20 metteva in luce le origini giudaiche del rito della imposizione delle mani insieme ai suoi molteplici significati. N.A. Andler21, senza trascurare le successive interpretazioni patristiche sia latine che orientali dei passi degli Atti degli Apostoli sulla imposizione delle mani, ha saputo mettere in atto una ricerca ben impostata dal punto di vista del metodo storico arrivando a delle conclusioni interessanti per la stessa teologia della confermazione. Di fatti, collocato nel suo contesto, il passo di At 8,14-17 rivela che la confermazione è in particolare rapporto con il battesimo e con l’ecclesiologia soggiacente al libro degli Atti. La confermazione vi appare come il normale completamento del battesimo nel senso che l’azione dello Spirito, che già ha portato i battezzati ad accogliere la fede che salva e a costituire per ciò il nuovo popolo di Dio, effondendo su di loro i suoi doni particolari o carismi, li chiama a partecipare alla missione stessa della Chiesa. L’intervento degli Apostoli Pietro e 19

At 8,15-17. Cfr. J. COPPENS,, L’imposition des mains dans les Actes des Apôtres, in J. KREMER (cur.), Les Actes des Apôtres. Tradition, rédaction, théologie (Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium 48), Leuven-Louvain 1979, 405-438. 21 Cfr. N.A. ANDLER, Taufe und Handauflegung. Eine exegetisch-theologische Untersuchung von Apg 8,14-17 (Neutestamentliche Abhandlungen 19, 3), Münster 1951. 20


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Giovanni viene perciò ad avere il significato di “riconoscimento” di una Chiesa “particolare” come quella di Samaria nata anch’essa per opera dello Spirito tramite l’annuncio di fede ed il battesimo dato da Filippo; una comunità capace anch’essa di esprimere la missione dell’unica Chiesa nel mondo. L’intervento degli Apostoli Pietro e Giovanni viene perciò ad avere il significato di incorporazione della comunità di Samaria all’unica Chiesa di Gesù Cristo. L’unità tra le due comunità religiose, separate a partire dallo scisma che si era avuto in occasione della divisione di Israele nei due regni del nord e del sud con la defezione delle tribù di Samaria, già promessa dai profeti per i tempi messianici22 viene ora ricomposta tramite l’azione dello Spirito ed il ministero degli Apostoli. Altri autori, in riferimento ad At 8, 14-17, parlano di una seconda venuta dello Spirito andando persino oltre nell’interpretazione di questo brano, fino a vedervi l’imposizione delle mani come gesto riservato agli Apostoli23 e fino ad affermare quanto effettivamente il testo non dice. Ancora su questa linea della identificazione tra imposizione delle mani e confermazione si muove il Righetti nel suo manuale di Storia della Liturgia. L’autore, dai fatti descritti da At 8,14-17 e At 19,1-7, deduce due cose: 1. che battesimo e cresima, quantunque siano due elementi rituali nettamente distinti, formano un tutt’uno nel quadro dell’Iniziazione cristiana voluta ed attuata dagli Apostoli. Ragione per cui, se il battesimo viene da Cristo, anche la cresima rivendica la stessa divina origine. 2. Che il conferimento della cresima si presenta sin dal principio come una istituzione con fisionomia propria e permanente, pacificamente e universalmente ammessa nella Chiesa; ciò che difficilmente potrebbe spiegarsi senza risalire ad una tassativa disposizione di Gesù Cristo. La critica razionalista ha preteso che l’imposizione delle mani 22

Cfr. Ez 16,46-54.59-61. Cfr. P.T. CAMELOT, Confirmation, in MCDONALD W.J. et al. (curr.), New Catholic Encyclopedia, 4, Waschington 1967, 145; R. M. RIGGS, The Spirit Himself, Springfield 1949, 52. 23


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sia stata creazione delle chiese paoline in opposizione a quelle giudeocristiane. Ma il racconto dell’episodio di Efeso, fatto da Luca, compagno di Paolo nei suoi viaggi attraverso le comunità asiatiche e macedoni, è in piena armonia con la prassi tenuta da Pietro e Giovanni verso le chiese giudaizzanti della Samaria24. Recentemente, S. Panimolle, in un suo articolo su At 8, 4-25 ha messo in evidenza la “problematica sacramentale” suscitata da questo brano: problemi teologici sul rapporto tra battesimo e dono dello Spirito, sul significato dell’imposizione delle mani, sul ministro proprio di questo rito25. Subito dopo l’autore mostra come gli esegeti dei nostri tempi risolvono tali questioni in modo spesso divergente. Quindi nella prima parte del suo studio fa una breve rassegna dei diversi problemi e delle posizioni di alcuni tra i più noti biblisti e teologi che hanno trattato simile tema26. Così egli esamina, fra l’altro, la posizione di teologi protestanti come R. Bultmann, O. Cullmann, L. J. Leenhardt e quella di teologi cattolici come Y.Congar, J. Guillet, H. Küng, E. Käsemann, M.A.Chevalliem, M. Quesnell mettendo in evidenza come la separazione della confermazione presenta molte difficoltà e come la maggior parte dei teologi odierni considera il gesto della imposizione delle mani ad opera degli Apostoli come un segno di aggregazione ufficiale alla Chiesa motivato dalla preoccupazione di mostrare la necessità dell’unione con la Chiesa apostolica. Tuttavia, l’autore, non tralascia di citare alcuni autori che non hanno alcuna difficoltà ad ammettere la separazione tra il battesimo e il dono dello Spirito Santo, tra questi W. Wilkens, G. Haya-Prats, S. Brown27. Anzi lui stesso alla fine ammette la distinzione tra il battesimo d’acqua e il dono dello Spirito pentecostale. Sempre su questa linea di distinzione tra battesimo e dono dello Spirito Santo si muove un altro autore che in riferimento ad At 8,1517 dice che oltre al battesimo, sacramento necessario per conseguire 24

M. RIGHETTI, Manuale di storia liturgica, IV, cit., 88-89. Cfr. S. PANIMOLLE, Il Battesimo e la Pentecoste dei Samaritani, in G. FARNEDI (cur.), Traditio et Progressio: studi liturgici in onore del prof. A Nocent (Studia Anselmiana 95), Roma 1988,413-436. 26 Ibid., 413-422. 27 Ibid., 420-422. 25


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personalmente la salvezza operata dallo Spirito «agente del tempo escatologico», occorreva un altro rito ben distinto dal rito battesimale per poter partecipare dello Spirito “profetico” concesso ai discepoli il mattino di Pentecoste28. Questo rito consisteva nell’imposizione delle mani da parte dei primi Apostoli su coloro che erano stati già battezzati. Se i convertiti della Samaria già avevano ricevuto il battesimo da parte di Filippo (vv.12-13), essi avevano certo ricevuto anche lo Spirito come «agente» della loro salvezza personale. Dunque questo nuovo, ulteriore dono dello Spirito, ottenuto quel giorno mediante l’imposizione delle mani, doveva logicamente ricollegarsi all’avvenimento della Pentecoste. Fu cioè la loro partecipazione personale allo Spirito “profetico” già concesso al gruppo dei primi discepoli e la loro chiamata individuale a diventare partecipi della missione di annuncio e testimonianza, inaugurata ormai dalla prima comunità cristiana. Questa pagina, inoltre, precisa che questi due gesti rituali differenti e tra di loro indipendenti potevano anche essere conferiti separatamente, come avvenne effettivamente per i primi convertiti di Samaria. La tradizione successiva ha riconosciuto nel rito compiuto da Pietro e Giovanni il secondo sacramento dell’Iniziazione cristiana, quello cioè che sarà poi denominato cresima o confermazione. Si trattò, quindi, di una Pentecoste personale grazie alla quale anche i cristiani successivi potevano beneficiare, attraverso i primi Apostoli, dello Spirito “profetico” già concesso a Gesù nel Giordano e alla Chiesa a Pentecoste. Era un dono ulteriore e più particolare dello stesso Spirito: si trattava di quello Spirito concesso in vista dell’attività di evangelizzazione e di testimonianza, affidata ai dodici e all’intera comunità cristiana. In riferimento ad At 19, 1-7 lo stesso autore29 sostiene che evidentemente Paolo aveva ricevuto dai primi Apostoli di Gerusalemme30 la

28

Cfr. P. DACQUINO, Un dono di Spirito Profetico. La cresima alla luce della Bibbia, Leumann-Torino 1992, 86-89. 29 Ibid., 91. 30 Cfr. Gal 2, 7-9.


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potestà di partecipare agli altri cristiani successivi anche lo Spirito della Pentecoste mediante l’imposizione delle mani. Anche in questa pagina il gesto è ben distinto da quello battesimale che lo aveva preceduto; si tratta dunque di un dono ulteriore e più particolare dello Spirito, diverso da quanto aveva loro comunicato il battesimo. Anche in questo passo tutto ci riconduce allo Spirito “profetico”, già disceso sulla Chiesa dei primordi e ora partecipato ai cristiani successivi per mezzo di quel rito. P. Dacquino, allora, arriva alla conclusione che la formula «ricevere lo Spirito Santo» ha significati diversi secondo il contesto. Può infatti designare il dono dello Spirito Trinitario e del suo influsso per mezzo del battesimo31; può indicare lo Spirito “profetico” concesso alla Chiesa dei primordi il mattino di Pentecoste32; oppure quello dato ai cristiani successivi mediante l’imposizione delle mani33. Può infine designare anche solo i segni esteriori dello Spirito34 senza ancora effetti salvifici, come nel caso di Cornelio35. Non si può escludere ed è anzi molto probabile che in questi brani degli Atti ci sia una eco della liturgia cresimale di quel tempo (70 d. C.) caratterizzata anzitutto da una preghiera di supplica a Dio perché concedesse ai nuovi battezzati lo Spirito, e poi dall’imposizione delle mani ai singoli da parte di chi presiedeva la Chiesa locale36.

3. LA CONFERMAZIONE COME COMPLETAMENTO DEL BATTESIMO Alla linea che abbiamo fin qui esposto si oppone quella di tanti altri autori che leggono diversamente questi due episodi degli Atti degli Apostoli e sono contrari ad interpretare questi testi come un’autorizzazione a separare il sacramento della confermazione da quello del battesimo o come il fondamento della presenza obbligatoria degli 31 32 33 34 35 36

Cfr. At 2,38. Cfr. At 11,15 b; 15,8 b. Cfr. 8,15-17. Cfr. At 10,47. Cfr. P. DACQUINO, Un dono di Spirito profetico, cit., 94. Ibid., 111.


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Apostoli per l’imposizione delle mani con cui veniva dato lo Spirito37. Su questa linea di contrasto con l’interpretazione tradizionale sono stati impostati gli studi più recenti i quali si basano sulla convinzione che la confermazione come sacramento distinto dal battesimo, secondo la nozione teologico-sacramentale recente, non trova fondamento nei testi del Nuovo Testamento. H. Küng, per esempio, puntualizzando i dati del Nuovo Testamento e della tradizione storico-teologica si chiede che cosa essi insegnano sulla confermazione, affermando che il Nuovo Testamento non conosce un sacramento distinto dal battesimo per il dono dello Spirito Santo. Non esiste un solo testo, una parola o un segno di Gesù, che riferisca sulla istituzione di una confermazione da parte di Gesù. Né sembra che nel Nuovo Testamento ci siano accenni indiretti che permettano di dedurre un tale evento. In tutto il Nuovo Testamento — e in maniera particolarmente chiara in Paolo e Giovanni — la comunicazione dello Spirito è connessa con il battesimo, che viene designato come battesimo nell’acqua e nello Spirito. Ciò vale anche per Luca e i suoi Atti degli Apostoli38: proprio il racconto della Pentecoste — che per gli Apostoli rappresenta una specie di battesimo dello Spirito — congiunge, per i nuovi credenti, la comunicazione dello Spirito con il battesimo; ora in esso non si parla di imposizione delle mani e tanto meno di una confermazione. A torto perciò si definisce la Pentecoste “confermazione originaria”. Di fronte a questa situazione generale i due testi degli Atti degli Apostoli, sui quali si vorrebbe fondare un autonomo sacramento della confermazione, appaiono come delle eccezioni che, proprio per la loro irregolarità, rivelano l’identità di battesimo e recezione dello Spirito: sia per il racconto dell’imposizione delle mani da parte degli Apostoli in Samaria39 che per quello dei discepoli di Giovanni ad Efeso40, un battesimo che non conferisca lo Spirito non è, in fondo, un vero batte37 Cfr. G.W. H. LAMPE, The Holy Spirit in the Writings of St. Luke, in D.E. NINEHAM (cur.), Studies in the Gospels, Oxford 1955, 198; F. BOVON, Luke the Theologian, Allison Park 1987, 231. 38 Cfr. At 1,5; 2,38; 9,17ss; 11,16. 39 Cfr. At 8,14-17. 40 Cfr. At 19,1-7.


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simo, ma deve essere integrato dalla recezione dello Spirito. Questi due testi straordinari, le cui oscurità e contraddittorietà storiche sono state discusse ampiamente dai commentatori, possono essere compresi soltanto alla luce del loro scopo e della concezione teologica globale degli Atti degli Apostoli, in quanto opera lucana: interessata non solo all’unità della Chiesa, minacciata da gnostici ed eretici, ma anche alla continuità della storia della salvezza; fu evidentemente lo stesso Luca a strutturare i racconti originari in modo da poterli inserire nella propria esposizione, teologicamente orientata, della storia della comunità primitiva41. A questo punto Küng espone due congetture con le quali sostiene la sua interpretazione ecclesiologica dei brani in questione: 1. Dai discepoli di Giovanni, che in effetti non sapevano nulla del ruolo di precursore del Battista né dello Spirito, nacque quel tipo anomalo di cristiani (“discepoli”, “credenti”) che, stranamente non sanno nulla dello Spirito e che ora vengono accolti nella Chiesa apostolica mediante l’imposizione delle mani, per cui non possono più apparire come dei concorrenti dei discepoli di Gesù. 2. La Chiesa di Samaria, praticamente evangelizzata da Filippo senza esplicito mandato e relativamente autonoma, doveva essere accolta, in occasione della visita degli Apostoli, nella comunione con la Chiesa apostolica e con Gerusalemme, quale centro della sua unità; soltanto allora, secondo Luca, le venne accordato lo Spirito. Quei testi, quindi, avrebbero per oggetto l’incorporazione degli outsiders ecclesiastici di Samaria ed Efeso nell’unica Chiesa posta sotto il primato di Gerusalemme e della cerchia dei dodici. Il loro centro non è costituito dall’idea di battesimo, ma dall’idea di Chiesa, vista sullo sfondo di una storia della salvezza che, a partire dall’Antico Testamento, culmina in Gerusalemme e, nella pienezza dei tempi, parte da Gerusalemme. Questi due testi, teologicamente comprensibili, ma storicamente problematici, fanno perciò apparire a priori illegittima una separazione del battesimo dalla comunicazione dello Spirito. Di fronte all’unanime testimonianza neotestamentaria circa l’unità di 41

Cfr. H. KÜNG, Che cosa è la confermazione?, Brescia 1976, 7-9.


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battesimo e comunicazione dello Spirito essi non possono rappresentare un fondamento per un distinto sacramento della recezione dello Spirito42. In base a questa prospettiva, qual è il senso della confermazione? A questa domanda Küng risponde dicendo che dall’attenta ricerca esegetica e storica risulta come idea fondamentale che l’attuale rito della confermazione si è sviluppato dal rito del battesimo. Il suo significato è percepibile solo in stretto rapporto con il battesimo, come sviluppo, conferma e compimento del battesimo. La confermazione, così, non è un sacramento autonomo, autarchico, indipendente dal battesimo, ma una sua partecipazione, la fase conclusiva di un rito di Iniziazione, che precede l’ammissione all’Eucaristia43. Anche Schneider, commentando Atti 8,14-17, dice che la comunicazione dello Spirito dopo la preghiera e mediante l’imposizione delle mani da parte degli Apostoli è intesa come completamento del battesimo. Battesimo e ricezione dello Spirito sono quindi in stretto rapporto, e il narratore non vuole porre in dubbio che al battesimo cristiano è legata di norma la recezione dello Spirito. Luca prende dalla tradizione la connessione tra battesimo e comunicazione dello Spirito, ma sottolinea la libertà dello Spirito, che non si lega al battesimo44. L’interesse di Atti 8,14-17 non sta nel rito di imposizione delle mani da parte degli Apostoli, ma nel legame con Gerusalemme. Tuttavia gli Apostoli a Gerusalemme non fungono da autorità di controllo, bensì — mediante i loro due delegati — come anello di congiunzione immediata tra Gesù e la comunità dei Samaritani45.

42

Ibid., 9-10. Ibid., 42-47. 44 Cfr. At 2,1-4; 10,44; 18,25. 45 Cfr. G. SCHNEIDER, Commentario Teologico del Nuovo Testamento. Gli Atti degli Apostoli, Brescia 1980, 683-684. 43


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4. IPOTESI CIRCA L’ESISTENZA DI DUE DISTINTE TRADIZIONI DELL’INIZIAZIONE CRISTIANA M. Quesnell, in una tesi di dottorato presentata nel 1984 all’Istituto cattolico di Parigi, e pubblicata nel 198546, ha cercato di aprire un nuovo spiraglio su Atti 8,14-17 e At 19,1-7. Secondo questo autore Luca cerca di integrare due tradizioni differenti dell’Iniziazione cristiana: una propria dell’ambiente cristiano d’origine pagana e di Paolo, rappresentata dall’episodio del battesimo dei Samaritani e degli Efesini; l’altra propria dell’ambiente cristiano d’origine giudaica, rappresentata in Atti 2,38-39 e 10,44-48. La chiave di lettura della distinzione sta nella differente terminologia greca usata47. Sulla base delle differenze rilevate, Quesnel sostiene che c’era una diversità nei riti e nell’interpretazione dei loro effetti. Entrambi comprendevano il battesimo con acqua, ma il rito giudeo-cristiano comprendeva la conversione, il pentimento e l’effusione dello Spirito senza l’imposizione delle mani48. Il rito paganocristiano, invece, non aveva legami con il pentimento e con la remissione dei peccati; in esso si riteneva che ad effondere lo Spirito fosse l’imposizione delle mani, non il precedente battesimo con acqua49. La prassi pagano-paolina venne seguita nel battesimo di Saulo50, dei Samaritani51, dell’Etiope52 e degli Efesini53. In tutti questi episodi lo Spirito Santo si trasmette solo con l’imposizione delle mani. Il merito dello studio di Quesnel sta, innanzitutto, nel modo in cui egli chiarisce la differenza tra le due espressioni usate a proposito del battesimo cristiano e pone in risalto la probabilità che esistesse una diversità nei primi riti d’Iniziazione cristiana, ma il resto resta difficile da dimostrare. 46

M. QUESNEL, Baptisés dans l’Esprit. Baptême et Esprit Saint dans les Acts des Apôtres, Paris 1985. 47 Ibid., 101. 48 Ibid., 180. 49 Ibid., 118-119. 50 Cfr. At 9,17-18. 51 Cfr. 8,9-19. 52 Cfr. At 8,26-40. 53 Cfr. At 19,1-7.


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5. LA PROSPETTIVA ECCLESIOLOGICA Le interpretazioni fatte da Quesnel sulla base di questa intuizione sono difficili da sostenere. Va pertanto abbandonata l’ipotesi che il battesimo impartito da Filippo non avrebbe potuto in alcun modo trasmettere lo Spirito. Cosa c’era allora che non andava? Due ragioni, che non si escludono a vicenda, vengono chiamate in causa per spiegare questa situazione anomala. La prima si basa sul fatto che la disposizione interiore dei Samaritani era tale da annullare l’effetto del battesimo. Luca suggerisce questa spiegazione, accostando la reazione che i samaritani ebbero nei confronti di Filippo a quella che ebbero gli Apostoli nei confronti di Simone il Mago, la cui magia aveva incantato tante persone, e che dopo il battesimo si era infatuato di Filippo e dei suoi miracoli. La seconda ragione ha a che fare con il principale scopo teologico di Luca. È agli Apostoli che Gesù aveva detto: «mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria...»54. Filippo, allora, non svolgeva la sua missione in Samaria per incarico degli Apostoli; egli si era semplicemente allontanato da Gerusalemme a causa della persecuzione. Gli avvenimenti successivi sollevano una nuova questione riguardante l’incorporazione di questa missione attraverso la “supervisione” degli Apostoli. L’assenza dello Spirito in Samaria e la sua venuta attraverso gli Apostoli Pietro e Giovanni, permette di realizzare a pieno il mandato di Gesù. Era agli Apostoli non a Filippo, che Gesù aveva dato l’incarico di essere testimoni. Ciò mantiene quindi l’unità della Chiesa apostolica sotto la loro guida. Certamente Luca considera come insolita la situazione verificatasi in Samaria, e perciò non valida come modello per la prassi cristiana. Né, d’altra parte, si può concludere che, per ricevere lo Spirito, fosse necessaria l’imposizione delle mani da parte degli Apostoli, poiché Saulo riceve il battesimo da Anania55. È difficile che Luca abbia fatto dell’imposizione delle mani, da parte degli Apostoli, una condizione universale per donare lo Spirito, ed abbia subito dopo raccontato della conversione dell’eunuco e del battesimo impartitogli 54 55

At 1,8. Cfr. At 9,17.


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da Filippo senza la presenza degli Apostoli. È importante per Luca, invece, mettere la missione in Samaria sotto l’autorità dei dodici. Però interpretare questo testo come un’autorizzazione a separare il sacramento della cresima da quello del battesimo, o come il fondamento della presenza obbligatoria degli Apostoli per l’imposizione delle mani, con la quale veniva donato lo Spirito, va oltre i limiti esegetici. Ciò che si può dire, è che Luca, preoccupato per l’unità della Chiesa sotto i primi dodici, considera un ministero cristiano autentico solo quello svolto sotto l’autorizzazione degli Apostoli o almeno in comunione con loro. La sola conclusione che si può trarre, allora, è che il dono dello Spirito Santo era considerato un elemento essenziale dell’Iniziazione cristiana56. Lo stesso vale per Atti 19,1-7, che lungi dal dimostrare una separazione tra l’Iniziazione battesimale ed il dono dello Spirito porta ad una conclusione opposta. Sebbene in questo caso lo Spirito scenda quando Paolo impone le mani sul battezzato, il gesto dell’imposizione delle mani segue immediatamente il battesimo e viene considerato parte integrante del rito di Iniziazione che dona lo Spirito57. Possiamo riassumere tutto questo dicendo che come rito di Iniziazione cristiana, c’è un solo battesimo, un rito integrale che comprende l’acqua e il dono dello Spirito Santo. Il rito di Iniziazione può aver subito mutamenti, e non è certo se l’imposizione delle mani sia stata sempre praticata, ma quando lo era, faceva parte del rito di Iniziazione. I testi di Luca non ci permettono di sostenere l’esistenza di una vera distinzione tra l’effetto del battesimo (perdono dei peccati) e l’imposizione delle mani (dono dello Spirito). È possibile che le prime comunità cristiane abbiano avuto diverse concezioni degli effetti specifici dei due riti, ammesso che, all’epoca, siano state fatte tali distinzioni. Inoltre, secondo il punto di vista di Luca, non si può sapere se lo Spirito è stato donato se non si manifesta esteriormente. Perciò il battezzato, quando riceve lo Spirito attraverso il ministero della comunità, di solito condivide in qualche modo, la sua nuova 56 K. MCDONNEL – G.T. MONTAGUE, Iniziazione cristiana e battesimo nello Spirito. Testimonianze dei primi otto secoli, Roma 1993, 52-54. 57 Ibid., 58.


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esperienza con la comunità per l’edificazione della stessa. Anche per la prima comunità il fatto che lo Spirito si sia effuso sui discepoli una volta, non esclude ulteriori effusioni. E per vivere tali esperienze non è necessario ripetere il battesimo: la preghiera è sufficiente58. La prospettiva ecclesiologica è sostenuta anche da un altro grande studioso italiano della confermazione quale è R. Falsini. Egli, commentando i due brani che abbiamo citato più volte, scrive: «I due testi sembrano decisivi circa l’esistenza di un rito distinto e separato dal battesimo, anche se in stretto rapporto, per il dono dello Spirito Santo. Due segni rituali, battesimo di acqua ed imposizione delle mani, equivalenti ai due sacramenti del battesimo e della cresima. Ma di fatto i due episodi biblici non si riferiscono ai due sacramenti: sarebbe una interpretazione anacronistica. Secondo l’esegesi più accreditata, lo scopo dei due casi “eccezionali” è diverso, si riferiscono cioè non al rito per il dono dello Spirito ma alle due comunità. Si vuole affermare che non esistono due comunità ecclesiali, una di tipo privato e una di tipo apostolico, bensì una sola Chiesa alla quale si appartiene mediante il dono dello Spirito comunicato dagli Apostoli. Dietro i due episodi vi è un problema ecclesiale non rituale o sacramentale... Lo Spirito dunque non è legato necessariamente ad un rito esteriore e distinto dal battesimo. Ma è chiaro, secondo la dottrina neotestamentaria, che ogni battezzato, per la sua incorporazione alla Chiesa, sulla quale è stato effuso il dono messianico dello Spirito, deve possedere lo Spirito Santo: questo viene attribuito ora allo stesso battesimo e ora al gesto dell’imposizione delle mani da parte degli Apostoli e talora, in via eccezionale, a nessun segno rituale»59.

Ci sono, infine, altri due autori60 che recentemente hanno sostenuto per l’ennesima volta l’interpretazione ecclesiologica dei brani in questione. Secondo loro la comunità di Samaria, di cui parla Atti 8,14-17, fu confermata come comunità ecclesiale soltanto quando andarono gli Apostoli a imporre le mani per effondere lo Spirito. Da 58

Ibid., 59-61. R. FALSINI, L’Iniziazione cristiana e i suoi sacramenti, cit, 123-125. 60 Cfr. P. TENA – D. BOROBIO, I sacramenti dell’Iniziazione cristiana: battesimo e confermazione, in D. BOROBIO (cur.), La celebrazione nella Chiesa, 2. I sacramenti, Leumann 1994, 113-115. 59


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quel momento, la comunità di Samaria è riconosciuta come ekklesia, poiché i suoi membri partecipano al dono dello Spirito, comunicato dal ministero apostolico. Esiste pertanto una chiara differenza tra l’essere soltanto battezzati e il ricevere lo Spirito. Dal punto di vista liturgico è anche vero che questa pericope non è mai stata valorizzata come catechesi sacramentale nella Chiesa primitiva e neanche nei più antichi lezionari. Gli esegeti non mettono in discussione che nell’episodio di Samaria venga donato lo Spirito Santo con l’imposizione delle mani, ma che nella Chiesa primitiva l’imposizione delle mani fosse un momento costitutivo dell’itinerario iniziatico per significare il dono dello Spirito. Tutto questo pare dimostrato da Atti 10,44 ss. e da Atti 9,17, i quali mostrano come il fatto che il dono dello Spirito si manifesti prima del battesimo è una prova della libertà divina, che spesso negli Atti precede l’iniziativa apostolica. Anche il brano di Atti 19,5-6 accentua la relazione tra l’imposizione delle mani e il dono dello Spirito. I. Biffi, invece, ha cercato di mettere insieme le due prospettive fin qui esposte. Commentando Atti 8,14-17, scrive: «Il testo sta ad indicare sia un modo particolarmente solenne di donare lo Spirito, come a rinnovare l’effusione avvenuta a Pentecoste, sia un riconoscimento e una conferma di quei battezzati da parte degli Apostoli e della Chiesa madre, quella di Gerusalemme»61.

6. CONCLUSIONE Ritengo che questa breve rassegna possa bastare a farci rendere conto di quali siano le problematiche che girano attorno a quei testi del Nuovo Testamento che la tradizione cattolica ha posto come fondamento biblico del sacramento della confermazione e quali siano le interpretazioni che oggi gli esegeti sostengono. Se si vogliono, poi, rintracciare le radici bibliche delle confermazione, non ci si deve fermare ai due testi che abbiamo ampiamente commentato, ma biso61 I. BIFFI, Battesimo Cresima Eucarestia e Penitenza. La storia e il rito. Catechesi in breve, Milano 1995, 23.


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gnerebbe considerare la prassi e il senso del battesimo nei diversi testi significativi del Nuovo Testamento per individuare, nel contesto battesimale, come è stata concepita l’effusione dello Spirito Santo, quale è il suo carattere e quali gli effetti. Ma questo ci porterebbe un po’ fuori dallo scopo della nostra ricerca, per cui non ci soffermeremo su questa questione, rinviando ad un articolo di P. R. Tragan che la affronta magistralmente mettendo in evidenza come solo il battesimo nello Spirito, di cui abbiamo abbondantemente parlato, può costituire l’autentico nucleo teologico per determinare l’origine e precisare la comprensione di un sacramento che nel Nuovo Testamento non trova una sua configurazione indipendente62. Tuttavia, anche se le prove degli Atti degli Apostoli sono poche ed insufficienti, possiamo affermare che nella Chiesa primitiva il battesimo e la confermazione non sono ancora chiaramente distinti, ma sono strettamente legati perché facenti parte di un unico processo di Iniziazione.

62 P.R. TRAGAN, Le radici bibliche del sacramento della confermazione, in Rivista Liturgica 76 (1989) 214-231.


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Seminario interdisciplinare Società, Economia, Vangelo. Rileggiamo la «Caritas in Veritate»

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CARITAS IN VERITATE. LINEE TEOLOGICHE

FRANCESCO BRANCATO*

1. INTRODUZIONE In questo contributo tenterò di far emergere solamente alcune questioni, tra le tante possibili e interessanti, che nel loro insieme costituiscono l’impianto teologico di fondo dell’enciclica Caritas in veritate (= CV)1. Innanzitutto l’enciclica ci parla dell’amore trinitario quale origine dell’amore umano e dell’impegno dell’uomo nel mondo. L’amore di Dio è infatti amore creatore e chiama l’uomo a collaborare *

Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Come fa notare correttamente Edouard Herr, in un articolo apparso su La Civiltà Cattolica dal titolo «Una lettura dell’enciclica Caritas in Veritate» (I, 2010, 531543), anche se il documento magisteriale affronta i maggiori problemi contemporanei, il filo conduttore non è solo socio-economico ma soprattutto teologico. Benedetto XVI nella sua ultima enciclica dichiara che il fondamento dello sviluppo umano integrale è la carità nella verità. A partire da questa asserzione centrale, il papa sviluppa tutta intera la sua riflessione che si svolge seguendo un filo rosso: innanzitutto afferma che la crescita della persona in tutte le sue dimensioni esige un’apertura al trascendente (cap. 1); poi ci ricorda che la globalizzazione costituisce un’opportunità se è orientata verso una civiltà dell’amore (cap. 2); quindi scrive che l’economia deve essere regolata dalla legge della gratuità e del dono (cap. 3), per giungere a dire che la cura della natura e dell’uomo stesso è la risposta all’intervento creativo di Dio (cap. 4). Da qui, continua il papa, si comprende il perché l’unità della famiglia umana si fondi sulla paternità universale di Dio (cap. 5) e, infine, le ragioni per cui la tecnica deve rispettare l’ordine voluto da Dio (cap. 6).


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alla costruzione del mondo a venire. Inoltre ci parla della tendenza insita nella natura umana verso l’assoluto poiché l’uomo è creatura intelligente e libera, e in quanto tale partecipa all’azione creatrice di Dio. Infine ci ricorda che il mondo a venire è possibile se il progresso riguarda la persona umana integralmente considerata, nella sua relazione con gli altri (logica del dono e della fraternità) e nel suo rapporto con il mondo (questione ecologica), nella lotta contro la persistente presenza del peccato e delle sue manifestazioni, nel servizio al regno escatologico di Dio. Sono argomenti, questi, centrali e particolarmente intensi, a cui il papa dedica ampio spazio nel suo intervento magisteriale e che costituiscono per molti versi il background dell’intera riflessione della dottrina sociale della chiesa qui ripresa e approfondita da papa Ratzinger. Ma prima di approssimarci alla presentazione di questi punti, è utile proporre alcune premesse di carattere generale.

1.1. Il principio orientativo La dottrina sociale della chiesa è la parola della chiesa in re sociali, la sua voce autorevole in un particolare tempo e per rispondere a particolari problemi, per «esaminare con obiettività lo spessore umano dei problemi» (CV, 22). Dà conto del «reciproco appello che si fanno continuamente il vangelo e la vita concreta, personale e sociale, dell’uomo» (CV, 15 riprendendo l’Evangelii Nuntiandi di Paolo VI). «La verità preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia» (CV, 5). «Lo sviluppo, il benessere sociale, un’adeguata soluzione dei gravi problemi socioeconomici che affliggono l’umanità, hanno bisogno di questa verità». La caritas in veritate ci parla perciò del principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in «criteri orientativi dell’azione morale» (CV, 6). La dottrina sociale, per la sua identità teologico-pastorale, è il “luogo” privilegiato per verificare la capacità che la chiesa ha di consegnare alle diverse generazioni la ricchezza unica e sempre nuova del vangelo di salvezza, rivolto all’uomo concreto, raggiunto nella sua


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storia e nelle sue reali condizioni di vita, personalmente e comunitariamente, in stretta solidarietà con il mondo. «Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità» (CV, 1) a cui la chiesa non può sottrarsi perché tra l’altro stanno alla base della sua stessa esistenza e della sua missione. La voce della chiesa su questioni sociali è per un tempo ben preciso, ma non per questo il suo è un momentaneo ed estemporaneo affacciarsi su problemi che in definitiva le rimangono estranei e che, superato faticosamente il momento contingente, non richiederanno più una luce per essere rischiarati. La sua dottrina sociale non vuole essere un corpus dottrinale organico e completo da riproporre sempre negli stessi termini, una sorta di depositum a cui attingere costantemente senza preoccuparsi della legge dell’incarnazione e dell’inculturazione del vangelo e della fede, quasi si trattasse di una risposta preconfezionata e ingessata alle più mutevoli condizioni storiche. Al contrario, per la sua “dimensione sapienziale” (cfr. CV, 31), la dottrina sociale della chiesa vuole essere un’istanza critica e un tentativo di discernimento dei bisogni del tempo a partire dall’ispirazione e dalla forza che derivano dal vangelo di salvezza. Non è infatti un caso che il papa sin dall’inizio abbia la preoccupazione di mostrare la coerenza profonda dell’insegnamento della chiesa, nel corso del tempo, in re sociali. Non siamo, infatti, di fronte al tentativo di rispondere di volta in volta a problemi contingenti e passeggeri, ma di tradurre per i diversi contesti storici l’unico messaggio salvifico del vangelo. Esprimere, cioè, entro le vicende sempre nuove della storia, la forza liberatrice del cristianesimo, vissuto secondo carità nella verità, la forza del mistero pasquale di Cristo. Ratzinger pone così in evidenza il filo rosso della continuità tra il magistero pontificio precedente e quello di Paolo VI e, soprattutto, la profonda sintonia di quest’ultimo con l’insegnamento del Concilio Vaticano II, in particolare con Gaudium et Spes, mettendo ulteriormente in atto quell’ermeneutica della riforma tanto importante nell’economia del pensiero teologico dello stesso Ratzinger. Questi, in un discorso pronunciato di fronte alla Curia romana nel dicembre del 2005, pochi mesi dopo la sua elezione, dopo aver fatto un bilancio sintetico dei primi mesi del suo pontificato, ricordando inoltre il 40°


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anniversario della chiusura del Concilio, parlò dei problemi della ricezione del Concilio secondo lui legati a una questione in parte ancora oggi aperta: la convinzione comune a tanti teologi e intellettuali secondo cui prima, durante e dopo la chiusura dell’ultimo concilio si sarebbero trovate a confronto e si sarebbero addirittura scontrate due ermeneutiche contrarie, due opposte visioni del rapporto tra tradizione e riforma, tra sguardo rivolto al passato e attenzione al presente e alle prospettive del futuro. «Da una parte un’ermeneutica della discontinuità e della rottura, dall’altra l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino»2. All’ermeneutica della discontinuità, secondo i sostenitori della contrapposizione irriducibile, si oppone inevitabilmente l’ermeneutica della riforma. In queste chiare espressioni, è contenuto anche il senso da dare a quanto il papa si propone nella sua enciclica, nel momento in cui non solo si riallaccia, ma anche costruisce la sua riflessione sull’apporto offerto dai suoi predecessori, specialmente Paolo VI, riguardo alla dottrina sociale della chiesa.

1.2. Una fedeltà dinamica La dottrina sociale della chiesa secondo il papa, proprio a partire da quanto è stato detto poco prima, esprime e incarna una fedeltà dinamica alla tradizione. La Caritas in veritate è un approfondimento di tale magistero nella continuità della vita della chiesa: questa è traditio tradens che pertanto richiede “naturalmente” un’ermeneutica che non produca o semplicemente marchi le rotture rispetto al passato, ma ritrovi sempre più quella continuità creativa che le consente di potersi rinnovare alle origini. Per fare questo la chiesa sa che l’unica strada da percorrere è quella di rileggere i suoi principi dottrinali alla luce della Parola di Dio, norma costante e criterio primo 2

BENEDETTO XVI, Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2005.


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di verifica dei suoi asserti. Solo da questo indispensabile e non negoziabile punto di partenza essa può accostarsi e di fatto si accosta al tempo presente, penetra in esso non solo per comprenderlo nelle sue interne dinamiche, leggendo tra le pieghe del suo tessuto più profondo, ma anche per maturare impulsi per un agire responsabile e per un’autentica prassi liberatoria. In tal senso si dà continuità e discontinuità insieme: continuità a livello di principi e discontinuità a livello dei giudizi storici e delle decisioni contingenti. Proprio questi ultimi richiedono la pratica di un discernimento storico e Benedetto XVI ha inteso fare proprio questo: leggere la situazione attuale, proporre soluzioni e vie di salvezza, attingendo alla testimonianza immutabile della Parola di Dio e alla Tradizione viva della chiesa per continuare a dire qualcosa all’uomo di questa generazione, in forza del mandato ricevuto da Cristo, servendo il vangelo e vivendo nella speranza della pienezza finale. Ma quali sono quindi i principi irrinunciabili a cui il papa si richiama con il suo insegnamento? Il tentativo di trovare una risposta a questo interrogativo costituisce il cuore di questo contributo.

2. LA CARITAS PER L’IMPEGNO NELLA GIUSTIZIA E NELLA PACE La chiesa ha la missione di annunciare il vangelo di Cristo, Lumen gentium, quale forza sanante e generatrice di vita nuova, capace di orientare il cammino dell’uomo e dei popoli verso la pienezza della vita divina. Lo afferma sin dall’inizio il papa nell’intensa e ricca introduzione all’enciclica: «La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera» (CV, 1). Questo incipit è la chiave di lettura dell’intera enciclica, in cui il papa non vuole affatto proporre soluzioni puntuali e tecniche ai tanti problemi che affliggono il mondo contemporaneo, ma intende indicare nell’amore, nella caritas, la «forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace» (CV, 1). Un amore, si affretta a precisare, che «è una forza che ha la sua


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origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta» (CV, 1); che ha la sua sorgente, cioè, nello stesso amore trinitario, nella vita divina, nella communio Trinitatis: «La carità è [infatti] amore ricevuto e donato. Essa è “grazia” (cháris). La sua scaturigine è l’amore sorgivo del Padre per il Figlio, nello Spirito Santo. È amore che dal Figlio discende su di noi. È amore creatore, per cui noi siamo; è amore redentore, per cui siamo ricreati. Amore rivelato e realizzato da Cristo (cfr. Gv 13,1) e “riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” (Rm 5,5). Destinatari dell’amore di Dio, gli uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere la carità di Dio e per tessere reti di carità» (CV, 5).

Come aveva già scritto nella sua prima enciclica, la Deus caritas est (CV, 2), è dalla carità divina che non solo proviene ogni cosa, ma, in ragione di questa provenienza, tutto prende la forma stessa della carità verso la quale la realtà creata tende. Anche nella presente enciclica papa Ratzinger vuole muovere dalla carità divina, manifestata in Cristo e consegnata al vissuto della chiesa, per comprendere la radice, la modalità e il fine dell’azione sociale della chiesa nel mondo e a favore del mondo e dell’intera famiglia umana. La prospettiva che egli predilige è perciò teologica, trinitaria, e quindi cristologica ed ecclesiologica, e solo in un secondo momento, indirettamente, sociologica. Si ha, qui, un ripensamento della prospettiva ecclesiologica, antropologica e soprattutto cristologica della dottrina sociale in termini agapici. Dalla comunione trinitaria prende origine e forma la communio ecclesiae che è posta a servizio della comunione dell’intera famiglia umana. Da qui si comprende perché la dottrina sociale venga collegata al centro del mistero trinitario, mostrando così come la caritas teologale si irradia in re sociali, con tutte le conseguenze che ne derivano.

2.1. La centralità dell’amore L’enciclica deve essere collocata nel quadro più generale del magistero di Benedetto XVI e in fondo del suo stesso pensiero teolo-


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gico. Già nella Deus Caritas est (la cui parte centrale è espressamente dedicata alla dottrina sociale della chiesa, tanto che può essere definita “una piccola enciclica sociale”)3, il papa, volendo sottrarre la caritas ad una interpretazione riduttiva che la condannerebbe ad una posizione decisamente irrilevante in ordine alle scelte e all’agire dell’uomo e delle nazioni nel mondo, la innestava nell’amore trinitario, nella comunione delle persone divine quale suo “naturale” luogo natio. Già allora, proprio all’inizio del documento magisteriale, rinveniva nella carità la sorgente della vita cristiana e del cammino che l’uomo è chiamato a percorrere nella sua esistenza verso la piena realizzazione di sé e la pienezza del mondo. La carità, veniva detto, è la via maestra per ricucire lo scostamento tra le molteplici e accresciute capacità operative dell’uomo, che riguardano ormai la vita stessa, e il quadro di senso, i principi morali che dovrebbero ispirare il suo agire, sempre più soggetto alle regole di una tecnica che tende a liberarsi da ogni ipoteca e a servizio di una equivoca logica di mercato per un progresso a tutti i costi. Le parole di 1Gv 4,16: «Dio è amore chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui», esprimono il cuore della fede cristiana, ciò su cui poggia per intero il suo messaggio e il suo lieto annunzio; rivelano, cioè, non solo l’immagine cristiana di Dio, ma, conseguentemente, anche l’immagine dell’uomo: chi egli sia e chi sia chiamato ad essere, cioè il cammino che è chiamato a percorrere (cfr. Deus caritas est, 1)4. 3

Cfr. Card. R. MARTINO, Testimoni di carità, costruttori di giustizia, intervento tenuto alla conferenza inaugurale dell’assemblea generale di Caritas Internationalis, 4 giugno 2007. 4 Cfr. a questo proposito G. MUCCI, L’ambivalenza della tecnica nell’enciclica Caritas in Veritate, in La Civiltà Cattolica, 2009, IV, 319-326, in cui si afferma la necessità che la tecnoscienza sia mantenuta entro i confini delineati da quella specifica visione antropologica che guarda all’uomo come all’essere che è orientato alla trascendenza, e faccia attenzione alla legge morale, senza cedere alla pretesa di essere il criterio unico per l’una e per l’altra. In questo contesto l’autore accenna ad alcuni gravi pericoli per l’umanità che potrebbero derivare specialmente da tutta quella serie di ricerche e applicazioni scientifiche, soprattutto nel campo della biomedicina, nella misura in cui si ritenessero autonomi dalla legge morale. Mucci si dice perciò convinto, alla luce delle riflessioni dell’enciclica papale, che la ragione, assorbita totalmente e ammaliata dal “fare” tecnico, senza la fede sia destinata a perdersi nell’illusione della propria onnipotenza.


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L’uomo è nato dall’amore di Dio e per lui questo amore è l’unica via per raggiungere la propria pienezza e la pienezza del mondo. Bisogna perciò rifuggire un’interpretazione sentimentale dell’amore, come bisogna evitare una sua eventuale riduzione e marginalizzazione rispetto ai rapporti sociali, alla costruzione della vita sociale e alla creazione del mondo. La carità non è infatti un mero correttivo rispetto al principio della giustizia, base su cui poggiano di fatto i rapporti sociali, ma va compresa in rapporto alla verità. Da ciò consegue che i rapporti sociali sono giusti non solo se dànno a ciascuno ciò che gli spetta, ma soprattutto se si radicano nella carità fraterna e nella ricerca del bene comune, via maestra per la realizzazione della persona umana. Ma perché gli altri non siano ridotti a mezzi, ma, al contrario, siano sempre e soltanto riconosciuti come fini, sarà necessario che il cammino percorso dalla persona verso l’assoluto passi attraverso l’altro, porti, cioè, all’incontro con l’altro colto nella sua alterità irriducibile, amato per se stesso. Tutto ciò comporta l’assoluta rinuncia a ogni forma di dominio dell’altro, di possesso e di comprensione, in quanto l’altro rimane pur sempre indisponibile nella sua alterità e allergico perfino al tentativo messo in essere per assimilarlo e assorbirlo. Così intesa la carità avrà un risvolto pubblico e un valore politico, perché presiederà e alimenterà il rapporto sociale. La conseguenza di questa riflessione porta papa Ratzinger ad affermare che la verità va cercata, trovata ed espressa nell’economia della carità e questa va compresa, avvalorata e praticata alla luce della verità: veritas in caritate, secondo l’espressione paolina di Ef 4,15, e caritas in veritate. La carità, infatti, è illuminata dalla verità, e non si dà carità esclusivamente nel rispetto della verità dell’uomo e del mondo, cioè nella considerazione dell’essenziale tensione dell’uomo verso l’Assoluto, con tutto ciò che questo implica, poiché è l’Assoluto che in definitiva conferisce senso e significato all’esistenza dell’uomo e all’esistenza di tutte le cose, tanto che «ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto […] egli trova la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (cfr. Gv 8,32)» (CV, 1). Tale vocazione è posta da Dio nel suo cuore e nella sua mente


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(amore e verità, ma anche agape e logos), ed è Gesù che purifica e libera la ricerca dell’amore e della verità e rivela all’uomo il progetto preparato da Dio per lui5. «In Cristo, la carità nella verità diventa il Volto della sua Persona, una vocazione per noi ad amare i nostri fratelli nella verità del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la Verità (cfr. Gv 14,6)» (CV, 1). Qualunque considerazione su questo punto, deve partire da Cristo, deve costantemente verificare la sua coerenza con il messaggio e la prassi di vita di Gesù di Nazareth, e deve guardare a lui per maturare e portare frutti, poiché non ci si viene a trovare di fronte ad un insieme di insegnamenti astratti più o meno utili e di valore, né ci si imbatte in un concentrato di riflessioni speculative più o meno articolate o interessanti, ma si è di fronte al Volto di Cristo nel quale poter vedere il volto concreto di tutti gli altri. La carità con la quale Dio ha tanto amato il mondo da dare a noi il suo Figlio, e che ha spinto Gesù a dare se stesso per noi, è «la via maestra della dottrina sociale della Chiesa. Ogni responsabilità e impegno delineati da tale dottrina sono attinti alla carità» (CV, 2). Essa dà sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo, ed è il principio non solo delle micro-relazioni instaurate dalla persona, cioè i suoi rapporti di amicizia, i vincoli familiari o all’interno di un gruppo ristretto di persone, ma anche delle macro-relazioni, ovverosia i rapporti sociali, economici e politici6. A partire da queste premesse si comprende la ragione ultima per cui non si dà alcun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Non solo, ma chi volesse sbarazzarsi dell’amore si disporrebbe addirittura a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo. È dunque urgente reagire contro la tendenza a separare l’amore del prossimo dall’amore per Dio, la carità dalla giustizia, e si 5

Il retroterra di queste considerazioni del papa sono chiare. Non è infatti difficile leggere tra le righe la ricca riflessione di Gaudium et Spes e specialmente del n° 22 in cui il testo conciliare recita: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (cfr. Rm 5,14) e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione». 6 Cfr. F. VIOLA, Non c’è carità senza giustizia, non c’è giustizia senza carità, in Carità globale. Commento alla “Caritas in Veritate”, Città del Vaticano 2009, 63-77.


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può farlo indicando la ragionevolezza e la superiorità di una proposta di vita in Dio-Amore, quale è stata offerta e viene offerta ancora in Cristo ad ogni uomo. L’etica dell’amore al prossimo, infatti, acquista una consistenza unica e una profondità speciale quando si apre all’amore di Dio e quando da questo amore viene costantemente vivificata. In Dio e per il suo amore, gli altri sono amati per se stessi, disinteressatamente, così come Dio li ama, cioè nella modalità del dono disinteressato e senza misura e nella comunione di vita7. Questo nuovo modo di intendere la carità, posta alla radice non solo della vita della persona umana, ma della stessa vita sociale e politica, rende possibile quella ri-significazione dei grandi principi organizzativi e orientativi di ogni società, che rivelano e in cui s’incarna il valore teologale e salvifico dell’impegno a favore della giustizia da parte del cristiano nel mondo. Un impegno che deve essere di tutti gli uomini di buona volontà perché risponde a una legge morale naturale, all’aspirazione ad un bene umano universale, che è immanente nella coscienza dell’uomo e nello stesso tempo trascendente rispetto ad essa. Nell’io dell’uomo è impressa l’immagine del Creatore, l’originaria tensione verso il bene e la verità, l’ordo ad Deum, la vocazione ultima all’amore e alla comunione, la capacità di riferire le regole morali, le intenzioni e le azioni al Dio trascendente, creatore e redentore. Tutto questo — ci dice il papa, ed è un elemento-cardine dell’enciclica — non può e non deve riguardare solamente l’uomo colto nella sua singolarità, ma chiama in causa l’intera comunità umana fondata sulla fraternità, destinata alla fraternità (dono e compito) e animata dalla ricerca e dalla costruzione del bene comune, realizzazione dell’essere stesso della persona umana8. La radice di tutto questo è Dio che è «il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di più”» (CV, 29). La strada della carità conduce a 7

Cfr. M. TOSO, Una nuova etica per la globalizzazione e i mercati, in Carità globale, cit., 29. 8 Cfr. a questo proposito F. G. BRAMBILLA, Lo sviluppo integrale dei popoli come questione antropologica, in Carità globale, cit., 39-52.


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questo “di più”; è essa stessa il “di più” che realizza l’aspirazione profonda della persona umana e la fraternità universale.

2.2. Le relazioni sociali informate dalla carità La carità deve animare l’intera esistenza dei fedeli laici, la loro vita spirituale così come la loro attività politica che deve essere vissuta come autentica “carità sociale”. Ciò su cui insiste Benedetto XVI è infatti la convinzione profonda secondo cui alla carità va riconosciuto un rilievo politico: essa è, ci rivela, infatti, sia la radice della società umana, sia la sua destinazione ultima, in quanto la carità è in definitiva la forma che la comunità sociale deve assumere. Quest’ultima è chiamata a comporsi secondo la logica della fraternità, della comunione, della solidarietà, della sussidiarietà, dell’attenzione al più debole, della partecipazione, dello scambio e del dono. La carità è in tal senso la forma della società e del mondo a venire, perché solamente nella costruzione di autentiche relazioni sociali si offre quella mediazione che consente il formarsi dell’identità dell’individuo il quale giunge a se stesso unicamente nella prossimità con gli altri, nella relatio con gli altri. Portando alle estreme conseguenze queste considerazioni insite nella riflessione del papa, si può dire che la persona umana persegue il proprio bene ricercando il bene comune, realizza se stessa realizzandosi con gli altri, per gli altri. L’ego sum diviene così ego cum, ego per, ego sum in quanto ex-positum. L’Io dell’uomo è pertanto un Io espropriato di sé e interessato esclusivamente all’altro e al suo bene, perché in fondo il bene comune è il bene supremo della persona, un bene partecipato e non posseduto egoisticamente dal singolo. Il riferimento a Dio quale origine e fine della tensione trascendente della persona al cui servizio deve essere posto lo sviluppo, permette di vedere nell’altro non tanto e non solo l’altro, cioè l’estraneo o, peggio ancora, il nemico, colui che con il suo stesso esserci è un pericolo e una minaccia costante per il singolo e per la comunità, ma colui che è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio, nel cui volto si riflette perciò il volto stesso di Dio e in fondo il volto dei fratelli. Solo da questo punto di partenza irrinunciabile l’altro viene


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scoperto come altro non nell’estraneità, ma nella fraternità, non nell’ostilità, ma nell’amicizia, nell’ospitalità, nell’accoglienza. Qui l’amore si manifesta come «cura dell’altro e per l’altro» (CV, 11) e l’azione sociale, ancora una volta, si realizza come “carità politica”, come la forma più alta di servizio nell’amore a tutti gli altri. La questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica, scrive il papa (CV, 75), e la questione antropologica può essere veramente illuminata se non rimane solamente tale, ma si apre alla dimensione teologica. Infatti, «senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia» dice il papa a conclusione della sua enciclica (cfr. CV, 78) rimandandoci almeno indirettamente ad un altro passaggio fondamentale della Costituzione pastorale del Vaticano II, in cui leggiamo: «La creatura senza il Creatore svanisce» (Gaudium et Spes 36). La questione antropologica, poi, deve aprirsi a quella cristologica, in quanto, come veniva ricordato poco prima, solamente in Cristo, l’éschaton Adàm, l’uomo conosce se stesso e il suo destino e viene introdotto nel suo futuro ultimo. Cristo è davvero l’uomo esemplare in quanto, come Ratzinger scriveva già nella sua Introduzione al cristianesimo: «L’uomo è tanto più presso di sé quanto più è presso gli altri; egli perviene a se stesso solo staccandosi da sé; perviene a se stesso solo attraverso l’altro e grazie all’essere presso l’altro»9. Facendoci aiutare ancora dal pensiero di Ratzinger per esplicitare tutti i contenuti insiti nella riflessione proposta nella Caritas in veritate, possiamo aggiungere che quanto è stato detto prima ci conduce a ritenere che in realtà chiudersi a Dio per l’uomo vuol dire in definitiva chiudersi anche ai fratelli, fatti a sua immagine e somiglianza; la disponibilità verso Dio, al contrario, apre agli altri e dilata lo spazio perché si costruisca un umanesimo umano, un umanesimo dell’altro uomo. È l’unico umanesimo ancora possibile per il mondo a venire, edificato attraverso l’amore nella verità e nell’accoglienza del 9

J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Brescia 2005, 224. Cfr. anche, a questo riguardo, il documento della COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Alla ricerca di un’etica universale: uno sguardo sulla legge naturale, Città del Vaticano 2009.


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prossimo che può continuare a realizzarsi nonostante tutti gli egoismi e le violenze che segnano e attraversano l’esistenza dell’uomo, grazie alla esperienza condivisa e originaria dell’accoglienza da parte di Dio a cui apparteniamo, da cui veniamo e a cui tendiamo nella compagnia degli altri uomini divenuti fratelli, nel mondo e con il mondo, ormai redento, casa comune, dimora accogliente. Affermare che l’essere umano è ordinato all’altro, a colui che è totalmente Altro, cioè a Dio, significa confessare che egli è tanto più presso di sé quanto più è presso Dio: ciò è, gli è offerto, nel momento in cui diviene totale apertura verso Dio. È quanto si è realizzato perfettamente in Gesù, il quale è l’uomo totalmente uscito da se stesso, veramente pervenuto a se stesso, per cui «il pieno divenireuomo dell’uomo presuppone il divenire-uomo di Dio»10. In Gesù, infatti, è già avvenuto il superamento dei limiti dell’essere-uomo, del suo isolamento monadico, e si è realizzata la massima apertura dell’uomo e la sua più integra personalizzazione. In Cristo, infatti, l’uomo incontra il proprio vero futuro e il significato ultimo della propria esistenza perché lui è il Figlio di Dio, l’uomo venturo; non l’uomo che è e vive per sé, ma l’uomo che è piena apertura, che è incondizionatamente aperto agli altri perché le “pareti” della sua esistenza sono integralmente passaggio, pasqua: in lui, cioè, si sono attuati compiutamente il dono e l’accoglienza. La realizzazione piena dell’uomo si ha nel sì che questi rivolge a Dio in risposta al suo sì originario e gratuito. Il sì creatore di Dio è per la creatura appello, invito a intraprendere un cammino verso il proprio destino soprannaturale (cfr. CV, 18). Lo sviluppo, di conseguenza, deve essere compreso come vocazione da parte di Dio creatore a cui l’uomo liberamente e responsabilmente risponde con il suo sì personale e comunitario. È questa la ragione ultima su cui poggia e si giustifica l’esigenza dello sviluppo integrale sia della persona umana sia dei popoli, uno sviluppo che è veramente “integrale” se coinvolge direttamente anche l’intera realtà creata.

10

J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, cit., 225.


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2.3. Per uno sviluppo autentico dal volto umano I nn. 48-51 dell’enciclica trattano della delicata questione del rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale e dei doveri del primo nei confronti di quest’ultimo. È, questo, uno degli elementi-cardine dello sviluppo. Il mondo, scrive il papa, «è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l’umanità intera. Se la natura, e per primo l’essere umano, vengono considerati come frutto del caso o del determinismo evolutivo, la consapevolezza della responsabilità si attenua nelle coscienze». «Nella natura — continua — il credente riconosce il meraviglioso risultato dell’intervento creativo di Dio» (CV, 48). Quella delineata in questo passaggio è una prospettiva che non può essere per nulla trascurata, e il suo valore non può rischiare di essere attenuato, perché qualora ciò accadesse l’uomo finirebbe per accostarsi alla natura con un atteggiamento estremamente ambiguo e negativo: o la natura verrebbe ad essere ridotta ad un tabù intoccabile o, al contrario, ad un cumulo di cose senza alcun valore, totalmente esposta di fronte a chi vuole abusarne, signoreggiandola senza alcuna regola. Per rifuggire questo duplice pericolo sempre in agguato, specialmente nel mondo contemporaneo in cui si assiste da un lato a un processo di crescente sacralizzazione di Madre Natura, a una sorta di ipostatizzazione di Geo e dall’altro all’inarrestabile dominio della tecnica, la società deve orientare lo sviluppo a favore dell’uomo avendo come punto di riferimento irrinunciabile la dignità unica di quest’ultimo quale immagine di Dio, fine e vertice della creazione, per cui nulla deve essere fatto in contrasto con questo dato fondamentale, e tutto deve essere fatto per la sua crescita integrale. Lo sviluppo deve riguardare anche la natura, espressione di un disegno divino di amore e di verità, e deve avvenire secondo quelle direttive che sono iscritte nella sua realtà profonda, secondo quelle regole e quella grammatica che la costituiscono. Lo sviluppo della natura, è anzi essenziale per la crescita e la maturazione della stessa persona che a sua volta implica e richiede il progresso dell’intera realtà creata. La natura «ci precede e ci è donata da Dio come ambiente di vita. Ci parla del Creatore (cfr. Rm 1,20) e del suo amore


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per l’umanità. È destinata ad essere “ricapitolata” in Cristo alla fine dei tempi (cfr. Ef 1,9-10; Col 1,19-20» (CV, 48). Anch’essa, continua il papa riprendendo una bella espressione di Giovanni Paolo II, è una vocazione, perché «è (sì) a nostra disposizione (ma) non come “un mucchio di rifiuti sparsi a caso”, bensì come un dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo ne tragga gli orientamenti doverosi per “custodirla e coltivarla” (Gn 2,15)» (CV, 48). Non solo l’uomo, quindi, ma anche la natura è e deve essere compresa come un dono. Nella natura, come nell’essere dell’uomo, sono iscritte le leggi fondamentali che devono regolare l’azione responsabile delle nazioni, della società, della politica e della finanza a favore dello sviluppo del mondo e della persona umana. La natura senza l’uomo è muta, ma un uomo senza l’ambiente naturale che lo circonda, in cui vive e di cui vive, è impensabile. Al n. 51 dell’enciclica il papa riprende il discorso, già ricordato, che aveva tenuto di fronte alla Curia Romana nel dicembre del 2005. In quell’occasione il papa aveva affermato che la Chiesa, specialmente nei suoi interventi a favore della salvaguardia del creato, «deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere anche l’uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come un’ecologia dell’uomo, intesa nel senso giusto, quale condizione per la ricerca della giustizia e della pace per l’uomo e per il creato. […] La dottrina sociale della Chiesa ha un suo specifico apporto da dare, che si fonda sulla creazione dell’uomo “ad immagine di Dio” (Gn 1,27)».

È quanto ha ribadito recentemente nel messaggio per la giornata mondiale della pace, il 1 gennaio del 2010, dal titolo: Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato. Qui Benedetto XVI afferma testualmente: «Il rispetto del creato riveste grande rilevanza, anche perché la creazione è l’inizio e il fondamento di tutte le opere di Dio e la sua salvaguardia diventa oggi essenziale per la pacifica convivenza dell’umanità.


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Francesco Brancato Se, infatti, a causa della crudeltà dell’uomo sull’uomo, numerose sono le minacce che incombono sulla pace e sull’autentico sviluppo umano integrale […], non meno preoccupanti sono le minacce originate dalla noncuranza — se non addirittura dall’abuso — nei confronti della terra e dei beni naturali che Dio ha elargito. Per tale motivo è indispensabile che l’umanità rinnovi e rafforzi quell’alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino»11.

Per i credenti il mondo non è frutto del caso né della necessità, ma di un progetto di Dio. Da questo dato fondamentale nasce per loro il dovere di impegnarsi, assieme agli uomini delle diverse fedi religiose e di tutti gli uomini di buona volontà, «affinché questo mondo corrisponda effettivamente al progetto divino: vivere come una famiglia, sotto lo sguardo del Creatore» (CV, 57). L’azione responsabile del credente nel mondo viene così fondata sulla fede nel Creatore e sull’ascolto del linguaggio della creazione, il cui disprezzo sarebbe un’autodistruzione dell’uomo stesso e dell’intera opera di Dio: se la creatura senza il Creatore svanisce, secondo quanto recita il già ricordato n° 36 di Gaudium et Spes, è conseguentemente vero che la perdita della “ecologia umana” comporta, infatti, inevitabilmente, la perdita dell’ecologia ambientale (cfr. CV, 51). Il libro della natura è infatti uno e indivisibile, sia sul versante dell’ambiente che su quello della vita e della persona umana. I doveri verso l’ambiente si legano a quelli verso la persona, e quanto accade a quest’ultima deve riguardare l’intera realtà creata. L’uomo, infatti, per usare un’immagine cara a papa Ratzinger, è il lettore del grande libro della natura, un libro che è leggibile perché è scritto da Dio; ci parla di lui e del suo amore creativo, ci dice di un’intelligenza creatrice e di un senso ultimo. L’uomo è però colui che corre costantemente il rischio di operare un pericoloso salto di qualità: da lettore e interprete del libro della natura sente forte la tentazione di farsene correttore. Egli, cioè, si trova a fare i conti con la tentazione di riscrivere dal suo punto di vista meglio e più chiara11

BENEDETTO XVI, Messaggio per la giornata mondiale della pace, 1 gennaio 2010: Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato.


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mente intere parti di questo libro, attraverso una grammatica che non è quella del libro stesso, ma creata da lui, a seconda dei suoi particolari bisogni e delle sue esigenze. Questo rischio viene attenuato solo se il suo rapporto con il mondo si configura e si costruisce come una relazione responsabile, cioè nella misura in cui egli impara a relazionarsi con la realtà creata riferendola al suo Autore originario e unico, Dio, rispondendo a lui della sua azione nel mondo e per il mondo, della sua custodia. Ecco perché il papa ribadisce che la fonte ultima della dignità della persona e del valore del creato non dipendono in ultima analisi dall’uomo, ma da Dio, da colui che è Verità e Amore (cfr. CV, 52). La stessa vocazione allo sviluppo è iscritta in un piano che ci precede e che è non solo per l’uomo, ma anche per le società, le nazioni e i popoli, un dovere che deve essere accolto come dono.

3. LA

COMUNIONE TRINITARIA FONTE E CULMINE DELLA COMUNIONE

TRA I POPOLI

Emancipandosi dall’unico fondamento, l’uomo sperimenta la frantumazione dell’unica famiglia umana: relazione con il Fondamento e relazione con gli altri sono le due facce della trascendenza dell’uomo che è tale per la sua originaria apertura all’Assoluto e agli altri. Non è infatti isolandosi che l’uomo valorizza se stesso, ma «ponendosi in relazione con gli altri e con Dio» (CV, 53). La relazione rende più trasparenti gli uni verso gli altri e maggiormente uniti nelle legittime diversità. Questo, sottolinea Benedetto XVI, vale non solo per le relazioni tra le singole persone, ma, fatto alquanto sottaciuto e non preso sufficientemente in considerazione, anche per tutti i popoli, chiamati a formare l’unica comunità della famiglia umana. Il modello e la radice di questa prospettiva è il mistero della comunione trinitaria. La Trinità, infatti, è relazione pura delle Tre Persone divine. A questo legame d’amore Dio vuole associare anche l’uomo, tutti gli uomini, l’umanità intera, in una comunione piena di cui la chiesa è nel tempo segno e strumento. Il mistero trinitario è sorgente e modello della comunione da cui la famiglia umana è stata generata e a cui è chiamata, superati gli ostacoli dell’egoismo e del peccato (CV, 54). La


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fratellanza universale, così intesa, nella sua origine e nella sua destinazione, passando per la sua realizzazione e progressiva costruzione, non è la risposta a esigenze organizzative, a strategie di difesa e a programmi internazionali, ecc., ma è l’attuazione del germe divino posto nel profondo dell’humanum dell’uomo e dei popoli. È «la carità nella verità [a porre] l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. Il dono, quale esigenza originaria dell’uomo ad aprirsi e a consegnarsi all’altro, rivela la falsità e l’inganno propri di chi pensa di bastare a se stesso e di costruire da sé, in assoluta autonomia la propria vita e quella della società. È una presunzione, questa, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende dal peccato delle origini» (CV, 34)12. Il mondo è perché è dal Dio che non è pensiero esclusivamente auto-contemplante — come può essere il Dio filosofico che fa riferimento essenzialmente a se stesso — ma è dal Dio che è definito dalla categoria della relazione. Ogni singolo ente è perché è pensato da Dio, e in quanto pensato è lógos, è verità partecipata. Verità partecipata e lógos — scrive Ratzinger in un interessante passaggio della sua Introduzione al cristianesimo che ci appare illuminante — per il fatto che Dio «è apertura creatrice, che abbraccia il tutto. In questo modo sono posti un’immagine e un ordinamento del mondo completamente nuovi: quale suprema possibilità dell’essere non appare più la libertà assoluta di uno che basta a se stesso e vive per se stesso. La suprema modalità dell’essere include invece l’elemento ‘relazione’»13. Quest’ultima è la modalità originaria del reale, dell’essere. Perché piena di verità, la carità può essere dall’uomo compresa nella sua ricchezza di valori, condivisa e comunicata. «La verità, infatti, è “lógos” che crea “diá-logos” e quindi comunicazione e comunione» (CV, 3-4), 12 Da qui deriva anche un modo assolutamente nuovo di gestire perfino i rapporti economici internazionali: l’unica economia sostenibile risulta essere quella della gratuità e della fraternità; l’unica economia quella reciprocità fraterna e della solidarietà che consiste nell’essere e nel sentirsi tutti responsabili di tutti (CV, 39). L’economia verso cui devono essere orientati gli sforzi dell’uomo, della società e delle nazioni, è dunque un’economia globalmente responsabile, guidata dalla giustizia e dal bene comune quali criteri fondamentali e inalienabili (CV, 6). 13 J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, cit., 138.


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e il dialogo è apertura all’altro per una relazione agapica, è uscire da se stessi per ammettere l’universo dell’altro, porre in causa il proprio essere attraverso la parola dell’altro, la parola che è l’altro, perché l’altro, con la sua stessa presenza, ci interpella, ci chiama alla responsabilità. Dialogo significa accettare il rischio che la forma dell’altro ci rimodelli, per cui contempla l’esigenza del sacrificio del proprio universo per accogliere l’universo dell’altro. Ciò significa anche che in realtà il vero dialogo non si dà soltanto e prima di tutto nello scambio tra due coscienze, tra due universi mentali, tra due mondi in lotta per l’affermazione di sé, ma nella costruzione di un mondo nuovo che è un mondo comune, condiviso, il mondo a venire, la creatio nova. L’uomo, generato dalla carità divina, dall’amore trinitario diffusivo di sé, è chiamato a vivere la caritas in veritate nel mondo, nella ricerca del bene comune e nella costruzione della fratellanza universale, nell’apertura dialogica agli altri, nella lotta contro il peccato e le sue molteplici manifestazioni e incarnazioni. Egli può farlo, tuttavia, con la consapevolezza di non avere qui una città stabile e di vivere nell’attesa di quella futura (cfr. Eb 13,14), con la certezza che ancora deve farsi carico del momentaneo e leggero peso della tribolazione per l’edificazione del regno escatologico di Dio (cfr. 2Cor 4,17), di quei cieli nuovi e terra nuova in cui avrà stabile dimora la giustizia (cfr. 2Pt 3,13). L’uomo, cioè, vive la caritas in veritate in una forte tensione escatologica verso una pienezza che non concede quiete, che non si appaga in nessuna delle mete intermedie, che non è accomodante e non ammette di considerare come definitivo il già ottenuto, quanto già si possiede, i risultati raggiunti, ma apre a un futuro di salvezza che è dono, che viene dall’alto, che va invocato e cercato, che va costruito senza presunzione, nella speranza e nella fiducia, in una speranza operosa, in una fede che opera per mezzo della carità. Infatti, «quando la carità lo anima, l’impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell’impegno soltanto secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso s’inscrive in quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l’eterno. L’azione dell’uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all’edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana» (CV, 7), poiché


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«senza la prospettiva di una vita eterna — aggiunge Benedetto XVI — il progresso umano in questo mondo rimane privo di respiro» (CV, 11).

4. CONCLUSIONE Molto di quanto è stato detto sino ad ora, può essere rinvenuto sorprendentemente nel pensiero di un grande statista e, soprattutto, di un uomo di fede come il servo di Dio Don Luigi Sturzo del quale nel 2010 è stato celebrando il 50° anniversario dalla morte. In questa figura straordinaria di uomo di fede e di sacerdote, prima ancora che di statista e studioso di problemi sociali e politici, troviamo anticipate molte questioni prese in considerazione più o meno direttamente nell’enciclica sociale di Benedetto XVI. Sarebbe impossibile, ovviamente, darne conto in maniera adeguata e puntuale nello spazio ridottissimo di questo contributo, per cui in questa sede possiamo limitarci a indicare qualche suggestione su cui sarebbe davvero interessante ritornare in un altro momento. La carità è il cuore della riflessione sociologica e politica del sacerdote calatino: è la carità politica, la politica come carità e la carità che si traduce nell’azione politica, quale ricerca del bene comune, del bene della persona e della sua ricerca dell’assoluto. È la carità unita alla verità che ha la sua origine nella comunione trinitaria: «La società tra il Padre e il Figlio — scrive Sturzo nella sua opera La vera vita — società di unione intima (che è lo Spirito di verità e carità) si prolunga in certo modo nei rapporti umani basati sulla verità e sulla carità»14. La vera politica, pertanto è «partecipazione del cittadino alla vita pubblica» e «contiene due elementi: cooperare al bene comune nella misura delle proprie forze (carità) e adempiere […] il mandato di cui si è stati rivestiti (giustizia comunitaria)»15. Tutto ciò è possibile perché il cristiano, abitante della città dell’uomo, trae la sua ispirazione, la sua forza e il suo orientamento da Dio che è misteriosa Unità-Trinità, e che ha dato la prova di amare l’uomo creandolo, rivelandosi a lui, invian14 15

L. STURZO, La vera vita. Sociologia del soprannaturale, Bologna 1978, 97. Ibid., 315.


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dogli il suo Figlio per redimerlo, comunicandogli il suo Spirito d’amore. Noi non abbiamo visto Dio, scrive il Nostro, ma vediamo i fratelli, e il primo fratello è Gesù che ci invita a farci carico del suo giogo. Ma quale mai potrà essere questo giogo dolce e questo carico leggero, si chiede Sturzo? È la legge dell’amore, risponde. L’amore, virtù teologale per cui amiamo Dio sopra ogni cosa e per se stesso e il prossimo come noi stessi e per amore di Dio, come Cristo ci ha amato è di conseguenza il cuore della vita di fede del cristiano e della sua azione nel mondo. Non solo, perché l’amore è in fondo il cuore della vita della chiesa, communio caritatis, nata e continuamente generata dal sacramentum caritatis, l’Eucarestia, e posta a servizio della carità e della verità (servitium veritatis et charitatis), posta cioè, a servizio dell’annuncio del vangelo della carità, della testimonianza della carità, a servizio degli uomini e del mondo nella carità. Annuncio, testimonianza, servizio, o, detto altrimenti, azione profetica e prassi di liberazione, ortodossia e ortoprassi; lex credendi, lex orandi e lex vivendi come strettamente e profondamente unite nel cristiano attivo nel mondo. Se tutto ciò è vero, è allora vero che l’attività sociale e politica del cristiano deriva dalla natura teologale della carità che è stata effusa nel suo cuore dallo Spirito. L’amore al prossimo è, infatti, l’elemento fondante di ogni società che voglia basarsi sul rispetto della persona umana e dei suoi diritti fondamentali, scrive Sturzo in un’altra sua opera: La società: sua natura e leggi. Sempre in quest’opera egli afferma che «è errore considerare nell’amore del prossimo solo il carattere individuale e non quello sociale; è questo — egli dice — uno dei tanti errori che derivano dal tenere distaccati l’individuo e la società o farne due entità distinte […]. L’amore al prossimo è un vincolo sociale, che rafforza tutti gli altri vincoli e li perfeziona, dall’economico al politico, dal nazionale all’internazionale, dal familiare al religioso»16. In definitiva, l’attività sociale e politica non sono altro se non la manifestazione e la concretizzazione dell’amore che non può essere vissuto solo nella sfera intima della coscienza individuale, ma, se autentico, caritas in veritate, deve trasfondersi nell’ambiente sociale, fecondando e informando di sé il mondo intero. La carità nella verità 16

L. STURZO, La società: sua natura e leggi, Bologna 1935, 222.


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esprime dunque la forma piena della vita umana, personale e sociale, nell’apertura al trascendente: la “vera vita”, direbbe Sturzo. Potremmo asserire che probabilmente consiste in questa affermazione, tanto antica, la res nova dell’enciclica di Benedetto XVI.


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LA CARITAS IN VERITATE NEL CONTESTO DEL MAGISTERO SOCIALE DELLA CHIESA PIERO SAPIENZA*

1. LA CARITAS IN VERITATE TRA INNOVAZIONE E TRADIZIONE Caritas in Veritate, firmata il 29/6/2009 (pubblicata il 7 luglio), è la terza enciclica di Benedetto XVI, dopo Deus Caritas est (25.12.2005) e Spe salvi (30.11.2007). È un’enciclica sociale che sarebbe dovuta uscire due anni prima (2007) per commemorare i 40 anni dalla pubblicazione della Populorum progressio (1967) di Paolo VI, ma la crisi finanziaria mondiale ne aveva ritardato la pubblicazione. Essa va ad arricchire il corpus dottrinale della dottrina sociale della Chiesa, che pur affondando le sue radici nella Sacra Scrittura e nei Padri della Chiesa, si è andata costituendo e sviluppando organicamente dalla Rerum novarum (1891) di Leone XIII fino ad oggi, raccogliendo, di volta in volta, le sfide che emergevano dagli scenari della Storia. Bisogna notare che la Caritas in Veritate, mentre da alcuni è stata accolta favorevolmente come “l’enciclica sociale del Terzo millennio”, viceversa negli ambienti di Wall Street è stata accolta in modo freddo e anzi giudicata “astrusa”. D’altronde, in quegli stessi ambienti, non era stato riservato un giudizio migliore alla Populorum progressio, che venne definita “tardobolscevica”! Benedetto XVI, coerente con la sua interpretazione del Vaticano II, vuol collocare la sua nuova enciclica nell’unico orizzonte in cui si è sviluppata, da quasi 120 anni a questa parte, la dottrina sociale della Chiesa. Per il Pontefice, infatti, quello della dottrina sociale è un «unico

* Docente di Dottrina sociale della Chiesa presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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insegnamento coerente e nello stesso tempo sempre nuovo»1. E infatti, la nostra enciclica si cala nel contesto dei complessi problemi che emergono dalla globalizzazione, prendendo spunto dalle tematiche della Populorum progressio, che papa Ratzinger non esita a definire, per la sua portata storica, «la Rerum novarum dell’epoca contemporanea, che illumina il cammino dell’umanità in via di unificazione»2. E infatti, gli insegnamenti di quella enciclica, pur nelle mutate coordinate socioeconomiche e storiche, conservano la loro forte valenza ed esigono ancora di essere attualizzati3. Per questo, la Caritas in Veritate intende affrontare le problematiche connesse con lo sviluppo dei popoli, come si sono andate delineando nei nuovi scenari mondiali: globalizzazione, crisi finanziaria ed economica, l’economia di mercato, lavoro e delocalizzazione, questione antropologica, che può essere definita il nome nuovo della questione sociale4, con gli annessi temi “eticamente sensibili”. Lo “sviluppo”, pertanto, inteso come “sviluppo integrale” dell’umanità, è il filo rosso che percorre tutto il documento. Tenendo presenti queste precisazioni, notiamo che Benedetto XVI, soffermandosi, in particolare, sul rapporto che intercorre tra la Populorum progressio e il Concilio Vaticano II, evidenzia che l’enciclica paolina non può essere vista come «una cesura tra il Magistero sociale di Paolo VI e quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il Concilio costituisce un approfondimento di tale magistero nella continuità della vita della Chiesa»5. A tal proposito, Benedetto XVI stigmatizza «certe astratte suddivisioni della dottrina sociale della Chiesa che applicano all’insegnamento sociale pontificio categorie ad esso estranee». Queste posizioni, infatti, «non contribuiscono a fare chiarezza». Bisogna allora precisare che «non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo»6. Ciò non equivale a un semplice appiattimento e ad una pura 1 2 3 4 5 6

BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, 12. Ibid., 8. Cfr. l.c. Cfr. ibid., 75. Ibid., 12. L.c.


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omologazione, e, quindi, non significa annullare la specificità dei singoli documenti e il loro impatto nelle concrete situazioni storiche. Infatti, la dottrina sociale della Chiesa proietta la luce del Vangelo e ne mostra le conseguenze nel campo sociale, economico, politico, culturale, declinando orientamenti e indicazioni per la prassi, focalizzati nel contesto storico particolare. Pertanto «è giusto rilevare le peculiarità dell’una o dell’altra Enciclica, dell’insegnamento dell’uno o dell’altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell’intero corpus dottrinale». E il Papa chiarisce cosa vuol dire “coerenza”: «Coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta. La dottrina sociale della Chiesa illumina con una luce che non muta i problemi sempre nuovi che emergono. Ciò salvaguarda il carattere sia permanente che storico di questo “patrimonio” dottrinale che, con le sue specifiche caratteristiche, fa parte della Tradizione sempre vitale della Chiesa»7. In altri termini, gli orientamenti offerti dalla dottrina sociale sono fondati su principi immutabili e universali, quindi, sempre validi in sé. Tuttavia tali principi si traducono in giudizi contingenti, che rispondono alle sfide mutevoli della Storia, in cui devono essere concretamente calati ed attuati. Si può dire che la luce proiettata dagli immutabili principi etici sul piano sociale è sempre la stessa, ma cambia la sua incidenza (cioè la traduzione storica del valore morale) a secondo del grado di inclinazione dello stesso piano. E affinché ciò non sia confuso con un facile relativismo etico, oggi di moda, si esige l’applicazione di un rigoroso e attento discernimento.

2. LA VALENZA SOCIO-POLITICA DELLA CARITÀ Il titolo stesso dell’enciclica offre a Benedetto XVI lo spunto per ricordare che, con la sua dottrina sociale, la Chiesa non intende ritagliarsi spazi di potere né esercitare un’ingiustificata ingerenza nella vita degli Stati, bensì portare avanti la sua missione evangelizzatrice. Infatti, tale dottrina è «annuncio della verità dell’amore di Cristo nella 7

L.c.


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società […], è servizio della carità, ma nella verità». E il Papa ne dà la motivazione: «La verità preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia»8. In questo senso, l’enciclica si ricollega con quanto si legge nel Compendio: con la dottrina sociale, la Chiesa mette in pratica il suo diritto-dovere, fondato sull’amore per l’uomo, di «far risuonare la parola liberante del Vangelo nel complesso mondo della produzione, del lavoro, dell’imprenditoria, della finanza, della cultura, delle comunicazioni sociali, in cui vive l’uomo»9. Pertanto, «Caritas in veritate», sottolinea Benedetto XVI, «è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi dell’azione morale»10. All’interno di queste coordinate, non meraviglia che nella presente enciclica emerga una nuova definizione (o piuttosto una sottolineatura) di dottrina sociale della Chiesa: «Essa è caritas in veritate in re sociali»11. La carità, quindi, costituisce la motivazione di fondo che spinge all’impegno per la giustizia e il bene comune (e su questi due valori, in particolare, legati all’impegno «per lo sviluppo in una società in via di globalizzazione»12, il Papa si sofferma). «L’amore — “caritas” — è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta»13. Su questo concetto di carità, vista come “forza” per realizzare concretamente una vita sociale degna della persona umana, cioè la “buona società”14, il Papa ritorna spesse volte nel documento. Nella carità si trova, quindi, una ragione forte per l’impegno socio-politico dei cattolici, in modo particolare. E riecheggia qui l’espressione di Paolo VI che, nella 8

Ibid., 5. PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano 2004, 70. 10 BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, 6. 11 Ibid., 5. 12 Ibid., 6. 13 Ibid., 1. 14 Ibid., 4. 9


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Octogesima adveniens, definiva l’impegno politico come una delle più alte forme di carità: «La politica è una maniera esigente — ma non è la sola — di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri»15. Si comprende, allora, il valore socio-politico della carità. A tal proposito, ci sembra interessante risalire all’insegnamento di S. Ambrogio che, declinando sapientemente la tradizione cristiana con quella umanistica romana, affermava, con chiaro riferimento al concetto ciceroniano di giustizia intesa come caritas generis humani, che mentre l’atto di carità (in pratica, l’elemosina, la “beneficenza”) rivolto al singolo aiuta a risolvere un problema limitato e, per giunta, in modo episodico, invece la carità politica, realizzando la giustizia nelle istituzioni sociopolitiche, mira, in modo permanente, al bene di tutta la moltitudine di persone, che compongono la comunità. Scriveva Ambrogio: «La natura del vincolo sociale presenta due aspetti, la giustizia e la beneficenza […]». E precisava: «La giustizia si riferisce alla società e comunità del genere umano». E aggiungeva, per questo motivo: «La giustizia mi sembra più elevata […]». E infatti, «è posta così in alto da avere ogni cosa soggetta al suo giudizio: soccorrere gli altri, offrire denaro, non rifiutare assistenza, affrontare i pericoli altrui». Perciò, concludeva, si può dire che «grande è lo splendore della giustizia», che «sostiene la nostra comunità sociale»16. Il Compendio sottolinea che una genuina carità non può essere ristretta dentro l’ambito «delle relazioni di prossimità, o limitata agli aspetti soltanto soggettivi dell’agire per l’altro», ma esige, per essere vista nella sua completezza, di «essere riconsiderata nella sua autentica valenza di criterio supremo e universale dell’intera etica sociale»17. Infatti «per rendere la società umana, più degna della persona, occorre rivalutare l’amore nella vita sociale — a livello politico, economico, culturale —, facendone la norma costante e suprema dell’agire»18. In altri termini, l’amore per il prossimo, specie più indigente, 15

PAOLO VI, Lett. ap. Octogesima adveniens, 46. AMBROGIO, I doveri, c. 28, n.130 e n. 136. 17 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, cit., 204. 18 Ibid., 582. Cfr. anche 581. 16


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più debole ed emarginato, deve spingere il cristiano laico a ricercare tutti quegli strumenti validi perché si realizzi un autentico progresso umano, fondato su strutture socio-politiche rispondenti ai criteri di giustizia e di solidarietà, a favore dello sviluppo integrale di ogni persona umana e di tutta intera la società. A tal proposito, scrive Paolo VI: «colui che è animato da una vera carità è ingegnoso nello scoprire le cause della miseria, nel trovare i mezzi per combatterla, nel vincerla risolutamente»19. E per realizzare in modo compiuto questo obiettivo non è sufficiente che i cattolici si fermino sulla soglia della politica, limitandosi a ruoli prepolitici, anche se lodevoli. Pertanto, lasciarsi alle spalle l’impegno politico significa rinunciare ad esercitare una “esigente” e “qualificata” forma di carità20. Benedetto XVI sottolinea questa responsabilità del fedele laico allorché afferma: «Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella polis. È questa la via istituzionale — possiamo anche dire politica — della carità, non meno qualificata e incisiva di quanto lo sia la carità che incrocia il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della polis»21. Queste affermazioni si ricollegano al magistero sociale di Giovanni Paolo II che, senza mezzi termini, afferma: «Per animare cristianamente l’ordine temporale […] i fedeli laici non possono affatto abdicare alla partecipazione alla politica […], sia pure con diversità e complementarietà di forme, livelli, compiti e responsabilità». E inoltre, sgombrando il campo da ogni equivoco, aggiunge: «Le accuse di arrivismo, di idolatria del potere, di egoismo e di corruzione» rivolte agli uomini politici, come pure l’opinione che «la politica sia un luogo di necessario pericolo morale, non giustificano minimamente né lo scetticismo né l’assenteismo dei cristiani per la cosa pubblica»22. Da quanto finora illustrato si evince che una società per essere pienamente giusta deve coniugare giustizia e carità. Nella comunità 19

PAOLO VI, Lett. enc. Populorum progressio, 75. PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, cit., 565. 21 BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, 7. 22 GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. post-sinodale, Christifideles laici, 42. 20


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socio-politica, quindi, non si può fare a meno della carità, che dà un’impronta fraterna alle complesse relazioni che l’attraversano. Benedetto XVI, a tal proposito, denuncia la mentalità corrente che emargina la carità dalle relazioni socio-politiche: «In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico […], viene dichiarata facilmente l’irrilevanza della carità a interpretare e a dirigere le responsabilità morali»23.Si tratta di una carità, svuotata di senso, che, in quanto tale, viene estromessa perché ritenuta inadatta ad affrontare, in modo adeguato, i problemi specifici di questi ambiti. Il Pontefice, invece, evidenzia l’intreccio profondo che intercorre tra giustizia e carità: «la giustizia è inseparabile dalla carità, intrinseca ad essa». Infatti, occorre rilevare che «La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio” all’altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all’altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso « donare » all’altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro»24. Pertanto, bisogna concludere che «non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla carità», ma anzi essa «[…] è la prima via della carità» ovvero « la misura minima » di essa, ribadisce il documento, citando un’espressione di Paolo VI25. Da un lato, perciò, la carità esige e presuppone la giustizia, ma dall’altro lato la supera e la completa. Perciò occorre ricordare che «la “città dell’uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione»26. A mio avviso, nelle parole del Pontefice, si può leggere il recupero di quell’intuizione della tradizione classica greca (e in particolare di Aristotele), secondo cui l’amicizia civile deve essere posta come fondamento necessario che sottende la stessa giustizia e i molteplici rapporti della comunità politica27. E in effetti, la netta divi23 24 25 26 27

BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, 2. Ibid., 6. L.c. L.c. Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VIII, 1155 a 25-30.


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sione, alla quale siamo abituati, tra giustizia, come fatto che riguarda l’ambito pubblico, regolata dalla freddezza delle leggi, e amicizia, come qualcosa di privato, che resta limitata alla sfera dei rapporti interpersonali tra singoli individui è una dicotomia, che giunge a noi dalla modernità, e che la Caritas in veritate propone di superare, evidenziando, fra l’altro, che il valore umano del gratuito dono reciproco, viene completato nella forma della carità che, avendo la sua sorgente in Dio, «dà valore teologale e salvifico a ogni impegno di giustizia nel mondo»28. In questo orizzonte si inscrive il ruolo educativo e formativo della Chiesa, la cui missione è quella di annunciare il “Vangelo della carità”. Per questo, come scrivono i vescovi italiani, «non vi può essere un’autentica azione pastorale che non sia anche azione sociale, che non interagisca cioè con le persone, la società, la cultura, il territorio», e infatti la virtù della carità «punta alla società e al suo cambiamento»29, perché l’uomo è «la prima fondamentale via della Chiesa», e ad essa sta a cuore il suo destino e la sua concreta condizione di vita nella Storia30. E infatti, come precisa Benedetto XVI, «Cristo è venuto per salvare l’uomo reale e concreto, che vive nella storia e nella comunità, e pertanto il cristianesimo e la Chiesa, fin dall’inizio, hanno avuto una dimensione e una valenza anche pubblica»31.

3. STRUTTURE DI PECCATO E RESPONSABILITÀ DELL’UOMO Le strutture socio-politiche, economiche, culturali possono favorire il genuino sviluppo della persona, il rispetto e la promozione dei suoi diritti fondamentali oppure, al contrario, potrebbero essere oppressive e lesive della dignità umana: in tal caso si tratta di «strut28

BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, 6. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, COMMISSIONE ECCLESIALE GIUSTIZIA E PACE, Nota pastorale, Stato sociale ed educazione alla socialità, 31. 30 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, cit., 62. Cfr, anche GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Redemptor hominis, 14. 31 BENEDETTO XVI, Discorso al Convegno ecclesiale di Verona (19.10.2006), in Una speranza per l’Italia. Il diario di Verona, supplemento Avvenire (2006), 20. 29


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ture di peccato», come le definisce Giovanni Paolo II32. Pertanto, la carità, che dà senso sia alla relazione con Dio, sia alle relazioni con il prossimo, deve implicare delle conseguenze sul piano socio-politico. Essa, infatti, non si può fermare solo sul versante delle «micro-relazioni», e quindi attenzionare soltanto ciò che riguarda i «rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo», ma si deve estendere anche sul piano delle «macro-relazioni», interessando, quindi, i «rapporti sociali, economici, politici»33, che investono le strutture e le istituzioni. Ciò è reso necessario dal fatto che lo sviluppo è inteso come sviluppo integrale: di tutto l’uomo (i suoi beni materiali, morali, spirituali e religiosi), e di tutti gli uomini, altrimenti non può essere vero sviluppo. Esso deve comprendere, quindi, l’aspetto economico, sociale, culturale e politico, ma anche quello morale, spirituale e religioso: infatti solo l’apertura a Dio assicura la verità dello sviluppo, che si invera, quindi, «in un umanesimo trascendente», finalizzato «all’essere di più»34; diversamente si «finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato»35. E questo è il pericolo che attualmente la società globale sta attraversando, avendo adottato da tempo un modello di sviluppo sganciato dai valori umani universali e assolutizzando il potere della tecnologia. Questo quadro si presenta così inquietante, per le sue molteplici ripercussioni sulla concezione della vita umana (dall’aborto alle manipolazioni genetiche, dalla ibernazione all’eutanasia, solo per citare alcuni dei temi “eticamente sensibili”), tanto da indurre Benedetto XVI ad affermare che oggi «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica»36. Ed è appunto attorno a tale questione che si intrecciano gli altri grandi problemi: la crisi economica e finanziaria, l’assolutizzazione del mercato e la globalizzazione, la precarietà del lavoro e la disoccupazione legate alle questioni della delocalizzazione, la salvaguardia del creato, una politica che non mira al bene comune, che «è il bene di quel “noi-tutti”»37. 32 33 34 35 36 37

GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc., Sollicitudo rei socialis, 36. BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, 2. Cfr. ibid., 18. Ibid., 11. Ibid., 75. Ibid., 7.


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Date queste premesse, si richiede, con urgenza, «una nuova sintesi umanistica»38, che ponga la persona umana, con la sua inviolabile dignità, perché creata ad immagine di Dio, come cardine della vita sociale. Infatti, ogni persona è un tutto che si relaziona ad un altro tutto. Di conseguenza, l’uomo non può essere considerato come una parte che viene assorbita e stemperata nel tutto, che è lo Stato. Non può essere visto come un numero o un ingranaggio dello Stato, della società, dell’impresa ecc. Benedetto XVI, in questo modo, si ricollega alla tradizione del pensiero sociale cristiano (a tal proposito nell’enciclica, al n 53, viene citato S. Tommaso), in linea con il precedente magistero sociale della chiesa, in cui si sottolinea che la persona umana ha il primato rispetto allo Stato; è lo Stato che deve servire lo sviluppo e la promozione della persona umana, la quale conserva sempre la sua ragione di fine e, pertanto, non può mai essere ridotta a mezzo e strumentalizzata per gli scopi dello Stato o di qualsivoglia società. Nell’enciclica si afferma: «[…] la ragione trova ispirazione e orientamento nella rivelazione cristiana, secondo la quale la comunità degli uomini non assorbe in sé la persona annientandone l’autonomia, come accade nelle varie forme di totalitarismo, ma la valorizza ulteriormente, perché il rapporto tra persona e comunità è di un tutto verso un altro tutto. Come la comunità familiare non annulla in sé le persone che la compongono e come la Chiesa stessa valorizza pienamente la “nuova creatura” (Gal 6,15; 2 Cor 5,17) che con il battesimo si inserisce nel suo Corpo vivo, così anche l’unità della famiglia umana non annulla in sé le persone, i popoli e le culture, ma li rende più trasparenti l’uno verso l’altro, maggiormente uniti nelle loro legittime diversità»39.

4. VOCAZIONE DELL’UOMO PER LO SVILUPPO INTEGRALE La problematica dello sviluppo integrale di tutto l’uomo e di tutti gli uomini è connessa con il tema della vocazione: Dio chiamando l’uomo all’esistenza gli affida il compito di continuare l’opera della 38 39

Ibid., 21. Ibid., 53.


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creazione, attraverso l’impegno per lo sviluppo (pensiamo Gen 2,15: l’uomo è posto nel giardino dell’Eden per “coltivarlo e custodirlo”). Ciò costituisce la motivazione teologica, che fa capire perché la Chiesa si interessa dello sviluppo: esso, infatti, non comprende solo aspetti tecnici, che non competono alla Chiesa, ma il senso stesso del cammino dell’uomo nella Storia e la sua meta ultima. In questo modo abbiamo due criteri per stabilire il vero significato dello sviluppo. Innanzitutto, «esso nasce da un appello trascendente», e di conseguenza «è incapace di darsi da sé il proprio significato ultimo»40. Diversamente si snatura, sarebbe piuttosto uno sviluppo distorto, che, in definitiva, si ritorce contro l’uomo stesso e la società. Inoltre, al principio che lo sviluppo è vocazione, corrisponde un altro principio, che attraversa tutta l’enciclica: quello di responsabilità. Se Dio chiama, l’uomo deve rispondere in modo libero e responsabile. Da qui la conseguenza che le cause del sottosviluppo, che affligge «i popoli della fame», non sono frutto del caso o della necessità storica, come alcuni pretendono di sostenere. Le condizioni di sottosviluppo di alcune parti del mondo non possono essere liquidate, frettolosamente, attribuendole alla forza ineluttabile delle leggi del mercato e dell’economia, in maniera fatalistica. Come pure, allo stesso tempo, bisogna sottolineare che il sottosviluppo non può essere addebitato esclusivamente alle strutture e alle istituzioni economiche ingiuste, come vogliono far credere quelle ideologie politiche improntate a «messianismi carichi di promesse, ma fabbricatori di illusioni», come notava Paolo VI (citato nella nostra enciclica al n. 17). In ambedue i casi, non bisogna dimenticare che entra in gioco la responsabilità dell’uomo, che può decidere di orientare le sue scelte verso l’assoluto profitto o verso il bene comune e la solidarietà41. Pur non negando l’importanza e il peso delle strutture economiche e delle istituzioni, occorre ricordare che esse da sole non bastano a determinare una buona società o, viceversa, una società ingiusta, senza l’intervento decisivo della libertà umana42. Ci sembra importante notare che nella 40 41 42

Ibid., 16. Cfr. ibid., 21. Cfr. ibid., 17.


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citazione di Paolo VI, sopra riportata, traspare la critica a quelle ideologie “utopistiche e perfettistiche”, che, a più riprese, vanno facendo capolino lungo il corso della Storia. Spesso nel passato, anche recente (pensiamo al Novecento) sotto forma di sistemi politici, oggi, dopo il tramonto delle grandi ideologie, nelle sembianze dello scientismo tecnologico, che tende esso stesso a diventare «un potere ideologico» (come denuncia chiaramente Benedetto XVI)43. Già Rosmini, a suo tempo, aveva denunciato duramente l’utopia perfettistica, scoprendone il fondamento in una falsa antropologia, che sosteneva la possibilità della perfezione nelle cose umane, in genere, e in quelle politiche in particolare. Il roveretano aveva smascherato l’inganno di quelle teorie filosofiche e politiche (specialmente dei socialisti utopisti, ma anche di Rousseau), le quali ritenevano che gli uomini potessero creare a tavolino strutture socio-politiche del tutto giuste e perfette, che, sostituendo quelle oppressive e inique, da sole avrebbero assicurato, in modo definitivo, giustizia sociale, benessere e felicità per tutti i cittadini. Una tale visione era giudicata da Rosmini semplicemente utopistica, perché riponeva una esagerata fiducia nelle strutture sociopolitiche, dimenticando che in definitiva i responsabili del bene o del male sociale sono gli uomini, segnati dal loro limite creaturale e dal “guasto” derivante dal peccato originale, con le sue conseguenze sul piano morale44. Giovanni Paolo II, nella Sollicitudo rei socialis, affrontando la questione del rapporto tra strutture ingiuste e qualità della vita socio-economica-politica, sostiene che esse hanno un peso molto forte, che condiziona e determina la vita e le relazioni umane all’interno di una società. Ma, allo stesso tempo, evidenzia che l’origine del male sociale è, comunque, da ricercarsi sempre nel cuore umano e, quindi, nelle azioni personali: infatti, le « “strutture di peccato” […] si radicano nel peccato personale e, quindi, sono sempre collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere»45. E ancora lo stesso Pontefice ribadisce: «Una 43

Cfr. ibid., 70. Cfr. a tal proposito P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Acireale (CT)1990. 45 GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc., Sollicitudo rei socialis, 45. 44


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situazione — e così un’istituzione, una struttura, una società — non è, di per sé, soggetto di atti morali; perciò, non può essere in se stessa buona o cattiva»46. E ancora, nella Centesimus annus (1991), a qualche anno di distanza dalla caduta del muro di Berlino (1989), denunciando l’utopia marxista, e in genere le concezioni politiche perfettistiche, scriveva: «Quando gli uomini ritengono di possedere il segreto di un’organizzazione sociale perfetta che renda impossibile il male, ritengono anche di poter usare tutti i mezzi, anche la violenza o la menzogna, per realizzarla. La politica diventa allora una ‘religione secolare’, che si illude di costruire il paradiso in questo mondo»47. In definitiva, possiamo dire che, nella visione antropologica cristiana, il cambiamento e il miglioramento della società e delle sue strutture si prospetta come conseguenza del cambiamento dell’uomo e del suo perfezionamento morale. La Caritas in veritate, nel solco di questo insegnamento, ribadisce che la vera causa del sottosviluppo deve essere ricercata nella responsabilità dell’uomo, il quale con la sua volontà sceglie di non attuare «i doveri della solidarietà», e con il suo pensiero non riesce a vedere il vero bene e la giustizia, per orientarvi il proprio volere48. Sulla scia della tradizione etica aristotelico-scolastica, quindi, si pone nell’uomo la distinzione tra intelletto e volontà. Il primo potrebbe “vedere”, individuare, il bene, ma la volontà potrebbe scegliere liberamente di non attuarlo e, anzi, di agire nella direzione opposta. Giovanni Paolo II, nella Centesimus annus, notava: «L’uomo tende verso il bene, ma è pure capace di male; può trascendere il suo interesse immediato e, tuttavia, rimane ad esso legato»49. Entriamo così nei delicati e complessi territori della questione antropologica, di quel “mistero” che è a se stesso l’uomo, con conseguenze che arrivano a toccare anche il piano socio-politico. Infatti, «l’ordine sociale sarà tanto più solido, quanto più terrà conto di questo fatto e non opporrà l’interesse perso-

46 47 48 49

Ibid., 46. ID., Lett. Enc. Centesimus annus, 25. BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, 19. GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Centesimus annus, 25.


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nale a quello della società nel suo insieme, ma cercherà piuttosto i modi della loro fruttuosa coordinazione»50. Ed è appunto questa mancanza di coordinazione che fa aggiungere a Benedetto XVI che alla radice del sottosviluppo sta «la mancanza di fraternità tra gli uomini e i popoli»51. In questo modo il quadro antropologico si completa. Pertanto, se non si tengono in debito conto gli elementi adesso accennati, non si può giudicare in modo corretto l’andamento del sottosviluppo, e se non si riesce a individuarne le cause è evidente che non si possono trovare i rimedi opportuni per superare la crisi. È perciò necessario porre sull’orizzonte della riflessione la verità sull’uomo. E allora possiamo capire l’aiuto che la Rivelazione cristiana dà alla ragione: Cristo «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo» e gli fa nota la sua altissima vocazione52. Ciò implica che si deve riconoscere sia la grandezza dell’uomo (perché è imago Dei), ma anche i suoi limiti: quelli ontologici come anche quelli morali (questi ultimi conseguenza del peccato originale, come già sopra ricordato). Questi limiti, spesso, non permettono all’uomo di discernere correttamente qual è il vero bene, né di riconoscerlo e di realizzarlo con la sua volontà, nella prassi. In modo particolare, Benedetto XVI evidenzia il ruolo negativo che esercita il peccato originale nella vita socio-politica ed economica e come pesa nel bloccare o deviare l’autentico progresso umano, facendo prevalere la spinta egoistica dell’uomo che lo inclina a non tener conto del principio di fraternità nelle relazioni tra le persone e i popoli53. Come già aveva ricordato Giovanni Paolo II, perciò, la dottrina del peccato originale «non solo è parte integrante della Rivelazione cristiana, ma ha anche un grande valore ermeneutico, in quanto aiuta a comprendere la realtà umana»54. In definitiva, la verità sull’uomo ci 50

L.c. BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, 19. 52 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22. Cfr. BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, 18. 53 BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, 34. 54 GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Centesimus annus, 25. 51


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fa comprendere quale deve essere la vera direzione dell’autentico sviluppo umano, fondato inevitabilmente sulla carità fraterna, la quale ha la sua sorgente nella paternità di Dio Padre, che è Amore55.

5. IL LAVORO: DIMENSIONE FONDAMENTALE DELL’UOMO SULLA TERRA Il Compendio ricorda che, attraverso i secoli, la Chiesa ha sviluppato la sua riflessione sul senso del lavoro umano, in rapporto ai diversi contesti storici. Ma certamente i nuovi problemi sorti con “la rivoluzione industriale”, connessi con l’inedita “questione operaia”, costituirono per la Chiesa «una grande sfida, alla quale il Magistero sociale rispose con la forza della profezia, affermando principi di validità universale e di perenne attualità, a sostegno dell’uomo che lavora e dei suoi diritti»56. Possiamo, allora, dire che cominciando dalla Rerum novarum di Leone XIII, che costituisce come il primo tassello del corpus dottrinale dell’insegnamento sociale della Chiesa, fino alla Caritas in Veritate dell’attuale Pontefice, «la Chiesa non ha mai smesso di considerare i problemi del lavoro all’interno di una questione sociale che ha assunto progressivamente dimensioni mondiali»57. Occorre, però, rilevare che nei documenti sociali della Chiesa, il lavoro si caratterizza a partire dalla visione personalista, approfondita in modo particolare nella Laborem exercens di Giovanni Paolo II. Infatti, l’uomo realizza la sua esistenza sulla terra attraverso il lavoro, il quale ha un valore etico, perché il soggetto che lo compie è appunto la persona umana. Pertanto, sottolinea Benedetto XVI, in sintonia con tutto il magistero sociale precedente, «primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità». E, citando il n. 63 della Gaudium et spes, ricorda: «L’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale»58. Queste affermazioni 55

Cfr. BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, 19. PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, cit., 267. 57 Ibid., 269. 58 BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, 25. 56


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includono conseguenze molto importanti che toccano la stessa concezione del lavoro umano, del valore e del senso che esso ha per la vita dell’uomo. Ne accenniamo una, che il Papa riassume come precisa richiesta di “lavoro decente” (appello, peraltro, lanciato da Giovanni Paolo II all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel Giubileo del 2000). Quindi, non si tratta di pensare a un lavoro qualsiasi, ma “decente”, consono al suo valore etico. Benedetto XVI spiega cosa intende con questo termine, mostrandone la molteplicità dei significati in esso racchiusi: «Significa un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa»59.Su questi aspetti, purtroppo, sono tanti i nervi scoperti nella nostra società, dove molto spesso, specie per i giovani e le donne, il lavoro sembra un miraggio. Cosa accade, infatti, oggi in un mondo globalizzato e con un mercato, che pretende di essere svincolato da ogni norma etica? Sappiamo, purtroppo, che, molte volte, non solo non c’è un lavoro decente, adeguato alla dignità della persona e alle esigenze della famiglia, non c’è un lavoro che si possa coniugare con il tempo della festa (pensiamo ai turni massacranti degli ipermercati), ma non c’è nemmeno un lavoro. È sempre più riconosciuto il dato che la disoccupazione è “strutturale”. L’enciclica denuncia la “delocalizzazione” attuata per la produzione di beni a basso costo, come pure la conseguente “deregolamentazione del mondo del lavoro”60. Tra le altre conseguenze negative, bisogna elencare: «la riduzione delle reti di sicurezza sociale in cambio della ricerca di maggiori 59 60

Ibid., 63. Cfr. ibid., 40 e 25.


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vantaggi competitivi nel mercato globale, con grave pericolo per i diritti dei lavoratori, per i diritti fondamentali dell’uomo e per la solidarietà attuata nelle tradizionali forme dello Stato sociale»61. La gravità della situazione «è accresciuta dalla mancanza di protezione efficace da parte delle associazioni dei lavoratori». Infatti «l’insieme dei cambiamenti sociali ed economici fa sì che le organizzazioni sindacali sperimentino maggiori difficoltà a svolgere il loro compito di rappresentanza degli interessi dei lavoratori, anche per il fatto che i Governi, per ragioni di utilità economica, limitano spesso le libertà sindacali o la capacità negoziale dei sindacati stessi»62. Ma proprio tenendo conto di questi fattori, la dottrina sociale della Chiesa invita i sindacati a non scoraggiarsi e ad “onorare oggi ancor più di ieri” l’impegno per la difesa e la promozione dei diritti dei lavoratori63. Benedetto XVI mette in guardia dai pericolosi rischi in cui si può incorrere se non si affronta seriamente il modo per superare la crisi occupazionale. Infatti la disoccupazione e l’insicurezza per il lavoro (la mobilità lavorativa) implicano almeno due ricadute negative gravi: una sul piano personale e l’altra sul piano sociale. In primo luogo, il documento elenca con acutezza quegli elementi che possono compromettere il sereno e armonico sviluppo della persona umana. Infatti, «quando l’incertezza circa le condizioni di lavoro […] diviene endemica, si creano forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell’esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio. Conseguenza di ciò è il formarsi di situazioni di degrado umano, oltre che di spreco sociale […]. L’estromissione dal lavoro per lungo tempo, oppure la dipendenza prolungata dall’assistenza pubblica o privata, minano la libertà e la creatività della persona e i suoi rapporti familiari e sociali con forti sofferenze sul piano psicologico e spirituale»64. Si tratta, purtroppo, di situazioni esistenziali che interessano tanti uomini e donne, e che oggi non sfuggono a nessun attento osservatore. In secondo luogo, la precarietà e la mancanza 61 62 63 64

Ibid., 25. L.c. Cfr. l.c. L.c.


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di lavoro producono conseguenze pericolose sul piano sociale: «L’aumento sistemico delle ineguaglianze tra gruppi sociali […], l’aumento massiccio della povertà in senso relativo, non solamente tende a erodere la coesione sociale, e per questa via mette a rischio la democrazia, ma ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del «capitale sociale», ossia di quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile». Per questi motivi, «la dignità della persona e le esigenze della giustizia richiedono che […] si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti»65. Ma, il Papa sottolinea che «ciò è esigito anche dalla «ragione economica». Infatti, «una strutturale situazione di insicurezza genera atteggiamenti antiproduttivi e di spreco di risorse umane, in quanto il lavoratore tende ad adattarsi passivamente ai meccanismi automatici, anziché liberare creatività». Bisogna perciò tenere presente che «i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani» 66. In altri termini, non ci si deve lasciare illudere e incantare dai risultati economici che si possono ottenere “a breve termine”, perché se per raggiungere questo obiettivo si sacrificano i diritti dei lavoratori, allora si priva tutta la comunità dello “sviluppo di lunga durata”67. Come operare un’inversione di tendenza per andare verso il vero sviluppo integrale? In primo luogo, deve cambiare il modello di impresa. Nel disegnare questo nuovo profilo, è necessario mettere in evidenza innanzitutto la responsabilità sociale dell’impresa: «la gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento […]; l’ambiente naturale […]». E a tal proposito, Benedetto XVI ricorda che «Paolo VI invitava a valutare seriamente il danno che il trasferimento all’estero di capitali a esclusivo vantaggio personale può 65 66 67

Ibid., 32. L.c. Cfr. ibid., 32 e 40.


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produrre alla propria Nazione»68. In questo senso la gestione dell’impresa deve rispondere a determinati criteri etici. Per questo motivo, «Giovanni Paolo II avvertiva che investire ha sempre un significato morale, oltre che economico»69, e inoltre, che il profitto da solo non può essere l’unico indicatore del buon andamento di un’azienda, la quale è innanzitutto “una comunità di uomini”70. Pertanto ai lavoratori deve essere data la possibilità di partecipare all’impresa: «a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il proprio apporto in modo che egli stesso «sappia di lavorare “in proprio”». Non a caso Paolo VI insegnava che «ogni lavoratore è un creatore»71.

6. CONCLUSIONE Da quanto esposto emerge la necessità di un impegno attivo e responsabile perché su tutto il pianeta venga portato avanti uno sviluppo integrale, che non esclude nessuno. Benedetto XVI ha sottolineato, come sopra notato, che il sottosviluppo non è conseguenza delle leggi economiche e della necessità ferrea del mercato, ma tocca il responsabile esercizio della libertà umana. Pertanto, l’amore vero deve essere «ingegnoso nello scoprire le cause della miseria, nel trovare i mezzi per combatterla, nel vincerla risolutamente»72. Dicendo ciò si vuol dire anche che la carità agisce nella verità, nel senso che occorre un’attenta ricerca per conoscere e capire i fenomeni socio-economici e orientarli verso il bene comune. Un nuovo umanesimo richiede un sapere che non sia solo tecnico, ma sia «“condito” con il «sale» della carità»73. Indicazione questa di grande portata nell’era dell’uomo tecnologico-informatico. Infatti, «il fare è cieco senza il sapere e il sapere è sterile senza l’amore»74. Di fronte ai gravi e 68 69 70 71 72 73 74

Ibid., 40. L.c. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Centesimus annus, 70. BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, 41. Ibid., 30. Cfr. l.c. L.c.


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complessi problemi che emergono nel mondo odierno, bisogna saper cogliere le sfide che provengono dalla globalizzazione come “una grande opportunità”, che può far sprigionare un “impegno inedito e creativo” per edificare la città dell’uomo improntata alla «civiltà dell’amore, il cui seme Dio ha posto in ogni popolo, in ogni cultura»75.

75

Ibid., 33.


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QUADRO BIBLICO DELL’ENCICLICA DI BENEDETTO XVI “CARITAS IN VERITATE”

CARMELO RASPA*

1. LAVORO, PROGRESSO E SVILUPPO NELLA BIBBIA Le Scritture si aprono con il meraviglioso racconto della creazione del mondo ad opera di Dio in sei giorni (Gen 1,1-2,4a): il sigillo che si pone al senso dell’uomo e della sua storia è quello stesso di Dio: «e Dio vide che era cosa buona […] E Dio vide che era cosa molto buona» (vv. 4.10.12.18.21.25.31). Se il mondo è ricevuto da Dio come dono, l’uomo lo abita e vi imprime la sua azione allo stesso modo di Dio. Il vedere di Dio e la sua compiacenza dinanzi allo spettacolo del creato, espresso dall’aggettivo “buono” e dal superlativo “molto buono” fondano l’alterità completa e l’autonomia necessaria della natura e della storia1: nell’ambiente, dal quale è tratto e nel quale è immesso, l’uomo compie le stesse azioni di Dio, poiché è detto degli uomini: «voi siete déi» (Sal 82/81,6); azioni che si riassumono nella fatica del lavoro e nel riposo. Lavorare e riposare non stanno tra loro in posizione antitetica: in Gen 1, il Sabato è il senso verso cui si orienta il lavoro, che dal Sabato trae il suo significato. La Scrittura non concepisce un lavoro *

Docente di Esegesi biblica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. D. HARTMAN, Sub specie humanitatis, Elogio della diversità religiosa, Reggio Emilia 2004, 144 scrive: «La creazione implica una separazione irriducibile tra il mondo e Dio. Essa ci incoraggia a prendere entrambi, Dio e il mondo, con estrema serietà nella loro radicale separatezza. Nella storia biblica della creazione, Dio conferma e legittima la finitudine: “E Dio vide tutto ciò che aveva fatto, ed era molto buono” (Gen 1,31). Se l’esistenza nella sua alterità da Dio è detta buona, allora la nostra finitudine ha intrinseca dignità e significato». 1


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per poter riposare ed un riposo per poi lavorare di più: lavoro e riposo testimoniano la dimensione unitaria dell’uomo, che nel lavoro trova il senso della sua esistenza e nel riposo esprime la perfezione e la compiutezza di quanto ha prodotto. La festa del Sabato, il quale è un’opera di Dio creata attraverso la benedizione e la santificazione, è un respirare l’armonia e l’ordine cui il lavoro è destinato2. Il peccato non rende il lavoro una maledizione, poiché quest’ultimo è una realtà presente prima della caduta3. Quello che il peccato sconvolge è la relazione tra la terra (’adamah) e l’uomo (’adam), che diverrà sempre più ostile. Con Caino, fratricida, eppure protetto da Dio, inizia il tempo della cultura: Caino è costruttore di città. Ma nella città il nome di Dio scompare. E la cultura sfocia nella violenza estrema di Lamech, segno del deteriorarsi delle relazioni tra uomo e uomo, dopo la frattura armonica della relazione terra-uomo4. Presenza di Dio nel mondo del lavoro, giusto rapporto con l’ambiente, relazionalità sono temi che percorrono l’enciclica. Essi vengono svolti sotto il profilo antropologico e filosofico: manca, per questi temi, l’inquadramento biblico. La Scrittura pone drammaticamente, in linea con la rivelazione che insegna, l’interrogativo circa gli esiti dell’autonomia della natura e della storia degli uomini, ambiti nei quali Dio è estromesso: la soluzione che fornisce non è esauriente né esaustiva, muove altri interrogativi e, quando sembra che tutto

2 A. J. HESCHEL, Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Milano 19992, 22: «il Sabato non serve ad accrescere l’efficienza dell’uomo nel lavoro. “Ultimo nella creazione, primo nell’intenzione”, il Sabato è “il fine della creazione del cielo e della terra” […]. Non è un interludio, ma il culmine del vivere». 3 G. VON RAD, Genesi. La storia delle origini, Brescia 1993, 108 nota: «È superfluo sottolineare che queste parole non considerano il lavoro in sé come una pena ed una maledizione. L’uomo era tenuto al lavoro anche nel paradiso (2,15). Ma l’agiografo ritiene una dissonanza all’interno della creazione, che non può essere spiegata con l’ordine originario voluto da Dio, il fatto che questo lavoro renda così faticoso il vivere, i fallimenti e le delusioni che lo minacciano e spesso lo fanno apparire privo di senso, come pure la sproporzione esistente tra la fatica che esso esige e l’effettivo rendimento». 4 Cfr G. L. PRATO, La nascita della città nella genealogia di Caino (Gen 4,17), in Parola, Spirito e Vita 2 (2004) 50, 11-30.


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Quadro biblico dell’enciclica di Benedetto XVI “Caritas in Veritate”

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richiami l’armonia degli inizi, l’uomo sconvolge ancora i piani attraverso una libertà che non conosce confini. E infatti, anche la terra promessa è conquista e morte data ai nemici (Gs 6,17-21) e l’ordine delle tribù e del giusto possesso di una parte di essa per ogni figlio di Israele è trasgredito dal desiderio di assimilazione ai grandi regni vicini (1Sm 8,1-22). Nessuna invettiva profetica contro non solo le sperequazioni sociali, ma le feste celebrate tra ingiustizie economiche ed oppressioni di poveri, è presente nell’enciclica, mentre probabilmente non sarebbero passate inascoltate agli orecchi di tutti i cristiani e degli uomini di buona volontà le parole di un profeta come Is 1,10-20: «Udite la parola del Signore,voi capi di Sòdoma; ascoltate la dottrina del nostro Dio, popolo di Gomorra! “Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero?” dice il Signore. “Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova”. “Su, venite e discutiamo” dice il Signore. “Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto,diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana. Se sarete docili e ascolterete, mangerete i frutti della terra. Ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete divorati dalla spada, perché la bocca del Signore ha parlato”».

Il profeta Aggeo riprende la predicazione isaiana, notando come l’anteporre il proprio benessere personale alla relazione con Dio, significata dalla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme al ritorno dall’esilio, diminuisca le prospettive di accrescimento non solo della ricchezza, ma anche di quanto è necessario per vivere (cfr. Ag 2,15-19).


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I sapienti denunciano il male insito in un lavoro che non gode del senso che ad esso dà la festa: ricordando il comandamento di Es 20,8-11 e Dt 5,12-15, che destina il lavoro al Sabato, liberandolo dalla schiavitù dell’alienazione, Qohelet riflette «ho visto che anche tutta la fatica e tutto l’impegno che l’uomo mette nelle sue opere non è che gelosia reciproca» (Qo 4,4) e conclude «questo è quel che ho visto: la perfetta felicità è che uno mangi e beva e conosca la felicità per mezzo di tutto quel che possiede, per cui egli si affatica sotto il sole durante i pochi giorni della sua vita, che Dio gli dona» (5,17). Il sapiente invita certo al lavoro: «Va’ dalla formica, o pigro, guarda come fa e diventa saggio» (Pr 6,6), ma senza l’ansia delle ricchezze, che possono arrivare anche senza sforzo: «la benedizione del Signore arricchisce, ma niente vi aggiunge lo sforzo» (10,22). I salmi celebrano, infatti, il Dio che dona pane ai suoi amici mentre questi dormono, contro lo sforzo di coloro che si svegliano presto al mattino e tardi vanno a riposare mangiando un pane di sudore e di fatica, senza gusto e senza gioia (cfr. Sal 127). Invito al lavoro, ma senza eccessi e ansie per accumulare ricchezze, è quello che, in linea con la corrente sapienziale veterotestamentaria, proviene dal NT. Paolo invita i Tessalonicesi, oziosi sotto il pretesto dell’imminente parusia, a lavorare in pace (2Ts 3,6-13). Lo stesso Gesù mette in guardia da un’occupazione affannosa e tesa all’accumulo in Mt 6,19-34): «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore. La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra! Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a mammona. Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro


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celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena».

La libertà del cuore nei confronti non solo delle ricchezze, ma anche del proprio lavoro, è data da un rapporto di fiducia in Dio, esperito come provvido, secondo la parola del Salmo: «Tu apri la tua mano e sazi la fame di ogni vivente» (Sal 145,16). La constatazione drammatica che il NT opera di un lavoro affannato e senza orizzonti di senso è racchiusa nelle parole di Gesù riferite da Mc 8,36: «Che cosa giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se perde la propria vita?». La lettera di Giacomo, in continuità con la predicazione gesuana, denuncia un amore del mondo che non può conciliarsi con quello verso Dio (Gc 4,1-4); e contro i ricchi lancia una dura invettiva in Gc 5,1-6: «E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza».

Lavoro, proprietà, sviluppo sono colti nella verità della loro transitorietà, come testimonia il passo di 1Cor 7,29-31:


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Carmelo Raspa «Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!».

Questo perché si è in attesa dei cieli nuovi e della terra nuova, dove la città non sarà più opera dell’uomo, ma scenderà da Dio: in essa non esisterà più l’affanno (cfr. Ap 21,1-4; Is 65,17).

2. L’IMPIANTO BIBLICO DELL’ENCICLICA L’enciclica non conosce, nella sua strutturazione, un fondamento biblico alle questioni che affronta. I passi scritturistici sono citati a conferma di una proposizione di pensiero, ma la riflessione muove piuttosto da presupposti filosofici, antropologici e di economia politica e sociale, con i quali si intrecciano poi, in brevi citazioni, i dati della rivelazione biblica. Il titolo è volutamente una citazione all’inverso di Ef 4,15: se l’Apostolo parla di una veritas in caritate, il Papa, preoccupato della verità oggettiva, anche della carità, preferisce l’adagio caritas in veritate. Le due espressioni stanno in una contrapposizione ermeneutica così lette: la prima intende il fatto che la verità consiste nell’amore, la seconda che l’amore si risolve nella verità. La citazione del testo di Ef è in realtà una parafrasi: il testo nell’originale greco presenta un participio presente, a\lhjeuéontev, che la Vulgata traduce con “veritatem autem facientes”, cui segue un e\n a\gaép+ unito ad un congiuntivo aoristo, au\xhéswmen, che la Vulgata traduce “in caritate crescamus”. Segue poi un complemento di luogo ed un accusativo assoluto. Il verbo crescere è posto tra lo stativo “nell’amore” e il moto a luogo “verso di lui”, per cui si è incerti se intendere “cresciamo nell’amore” o “cresciamo verso di lui”. Un confronto con i vv. 12-13, che presentano un’abbondanza di complementi di moto a luogo, nel contesto della costituzione del corpo di Cristo nella varietà di carismi e mini-


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steri, fa propendere per la prima possibilità, indicando in tal modo una crescita dei cristiani nell’amore, crescita orientata a Cristo in ogni aspetto (ta èpaénta). Anche a voler interpretare comunque l’e\n a\gaép+ come connesso al participio “dicenti la verità”, il senso dell’espressione, come notato, non è quello definito dal Papa, non fosse altro per il solo fatto che i termini sono invertiti, operazione teologica alquanto dubbia, pur se giustificata con il ricorso alla categoria di complementarietà. La verità, a detta dell’Apostolo, consiste nell’amore, il quale, a sua volta, conseguentemente di essa si compiace. La verità è poi, definita dal Papa, come adesione al progetto di Dio: il Pontefice cita Gv 8,32, lì dove la verità coincide con la parola di Gesù, che è poi la parola del Padre, secondo la teologia giovannea (cfr. Gv 17,17). Il brano di Mt 6,9-13, la preghiera del Padre nostro nella versione più lunga rispetto a quella di Lc 11,2-4, è citato solo nelle ultime battute della conclusione dell’enciclica. La richiesta del pane e della remissione dei debiti, inserita nell’invocazione che si realizzino il regno e la volontà di Dio sulla terra allo stesso modo che nel cielo, avrebbe forse potuto aprire e ispirare il percorso di una enciclica attenta allo sviluppo economico di un’umanità della quale la Chiesa desidera prendersi cura. La preghiera del Padre nostro rappresenta infatti, prima ancora che il proprium del cristiano, un’invocazione che si potrebbe giudicare universale, attenta alla concretezza del vivere: non a caso il centro della preghiera è costituito proprio dal dono del pane. E questo in continuità con la tradizione salmica, che celebra Dio come il datore del pane ad ogni carne, poiché memore del suo dsx, del suo amore (cfr. Sal 136,25). Gesù stesso presenterà il Padre in termini universalistici, come colui «che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45). L’enciclica, pertanto, avrebbe potuto far derivare la sua dottrina sociale primariamente dalla parola che genera la sua stessa fede, e non soltanto da un tipo di analisi antropologica e filosofica: una parola che dona seme al seminatore e pane da mangiare (cfr. Is 55,10).


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IL PATHOS DELLA VERITÀ NELL’ENCICLICA CARITAS IN VERITATE DI BENEDETTO XVI

ANTONINO CRIMALDI*

La ricchezza di motivi e di tematiche veicolata dall’enciclica e l’interdipendenza delle dimensioni umane o degli aspetti dell’umano che essa mette in luce rende molto difficile la focalizzazione in un discorso breve di un argomento qualsiasi e qualunque tentativo di esporlo ed esaminarlo in maniera accettabile. Punterò, pertanto, la mia attenzione, su taluni risvolti della articolata e complessa visione antropologica sottesa all’impianto dell’enciclica e alla sua spiegazione dell’umano, con particolare riferimento alla parte introduttiva. Concezione antropologica che, a sua volta, poggia sui capisaldi di una antropologia teologica dedotta dai principi e dai contenuti della rivelazione cristiana e della tradizione. E lo ricordo, per l’ovvio motivo che si tratta pur sempre di un documento del magistero: rivolto sì, oltre che ai credenti cristiani, anche agli uomini di buona volontà, e però mosso da un intento pastorale in cui è marcatamente presente la preoccupazione dottrinale, ossia l’intento di riproporre la retta dottrina e i contenuti autentici della fede cristiana nella loro interezza, rivendicandone il carattere di verità assoluta e definitiva sulla totalità dell’umano. Che sarebbe il minimo da aspettarsi da un pontefice romano. In realtà ciò non è affatto scontato, se ci sforziamo di capire sino in fondo il perché di questa preoccupazione, chiaramente affiorante dalle affermazioni preliminari dell’enciclica. In esse, infatti, si legge in filigrana un atteggiamento apologetico difensivo, dietro al quale sicuramente si cela il convincimento che lo stato attuale dell’umanità sia caratterizzato dall’incombenza di una seria minaccia. Ed è ripercorrendole con una *

Docente di Filosofia presso lo Studio Teologico San Paolo di Catania.


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Antonino Crimaldi

certa sollecitudine che possiamo comprendere da quali pericoli, in ultima analisi, il papa Ratzinger cerca di tenere lontani i contemporanei e a quali fraintendimenti egli pensa sia esposta, oggi, la verità cristiana. Già dalle parole che ne enunciano il tema, caritas in veritate, si intuisce la direzione imboccata. Il papa non si limita a dischiudere a credenti e non credenti l’orizzonte della caritas, l’amore come forza che viene dall’alto, da dio, e “spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace” bensì sente l’urgenza di dovere precisare e aggiungere che la caritas è tale se è vera caritas e che l’uomo la vive in maniera autentica solo se la vive nella verità. Del resto l’amore in quanto caritas ha la sua origine in dio proprio perché dio è amore eterno e verità assoluta. Il papa difende tenacemente questo abbinamento di amore e verità, partendo da un dato esperienziale incontestabile, il fatto che gli uomini avvertono l’interiore impulso ad amare in modo autentico. E solo la verità conferisce all’amore la garanzia dell’autenticità. Il papa cita il Paolo di Ef. 4,15 dove si esorta a perseguire la verità nella carità, additando, tuttavia, come necessaria, anche la “direzione inversa e complementare” quella, appunto, che consiste nel vivere la carità nella verità. Il papa constata “gli svuotamenti di senso a cui la carità è andata incontro nel mondo contemporaneo” e si dichiara consapevole degli “sviamenti” che inducono a fraintenderla; egli sottolinea, a mio parere in maniera efficace, come l’effetto a cui approda lo svuotamento di senso della carità stessa sia non solo la sua scomparsa dalla vita pratica, bensì anche la giustificazione teorica, tipica dell’ideologia e della falsa coscienza, della sua inutilità e irrilevanza proprio in quei campi in cui, da quello sociale a quello giuridico, dall’economico al politico al culturale, si considera che essa sia del tutto superflua “a interpretare e dirigere le responsabilità morali”. Onde, solo la restituzione della carità e dell’amore alla verità può rappresentare la legittimazione teoretica, umana e religiosa del suo esercizio. La verità libera l’amore dai suoi sviamenti e fraintendimenti. Quali sviamenti? L’emotivismo e il fideismo. Regressione all’immediatezza e allo spontaneismo delle emozioni che rendono l’amore “un guscio vuoto da riempire arbitrariamente”, il primo; regressione “all’opinione contingente” e alle vedute soggettive che lo privano “di respiro umano e


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universale”, il secondo. E in una “cultura senza verità”, chiara allusione cultura della società contemporanea, i rischi degli sviamenti dell’amore sono fatali. La carità, afferma il papa, è strettamente collegata alla verità, poiché (cfr. n. 3) la “verità è la luce cha dà senso alla carità”. E siccome la luce della verità la si attinge attraverso la ragione e la fede, l’uomo, grazie all’intelligenza, perviene “alla verità naturale e soprannaturale”, seguendo insieme le indicazioni della ragione e della fede. È tale rapporto alla verità che conferisce respiro universale alla carità, come respiro universale tra la ragione e la fede. Per cui, la luce della verità, in quanto emanante dall’universalismo della ragione e della vocazione cristiana, spinge l’uomo a dare alla carità quel giusto riconoscimento che la fa riconoscere “come espressione autentica e come elemento di fondamentale importanza nelle relazioni umane”. Ancora: la luce della verità rende “un servizio alla carità” e questa, “illuminata dalla verità” e compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità, contribuisce ad accreditare la verità, come potere di persuasione e di autenticazione erga omnes e nella concretezza della vita associata. Universalità, oggettività, irrefutabilità del vero sul piano umano e soprannaturale faranno sì che venga recuperata alla dimensione razionale quel “potere di persuasione” che le viene contestato da un clima sociale e culturale che “relativizza la verità, diventando spesso di essa incurante e restio”. Sul versante specificamente cristiano, la stretta correlazione tra verità e carità è e deve essere considerata, secondo il papa, la salvaguardia più efficace dal pericolo di fraintendere la carità stessa. L’annuncio e la testimonianza cristiana della carità consiste appunto nel proclamare e mostrare la verità che “apre e unisce le intelligenze nel logos dell’amore”. Questa stretta correlazione compresa, vissuta e proclamata tutela anche l’autenticità della carità praticata nel cristianesimo, dal momento che “un cristianesimo di carità senza verità, può venire scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali”. Senza il riferimento alla verità verrebbe, inoltre, escluso “un vero e proprio posto per dio nel mondo” e ciò, come dimostra ampiamente l’enciclica nel prosieguo, impedirebbe seriamente e ostacolerebbe quello sviluppo integrale di tutto l’umano in ogni uomo, quella realiz-


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zazione di un umanesimo integrale che, se vuole essere tale, non può escludere nell’uomo la relazione con dio, con l’assoluto. Ora, se questo va detto per difendere la necessità di rispettare e valorizzare il ruolo della religione nell’edificazione di un mondo umano a misura d’uomo, a maggior ragione va detto in riferimento alla testimonianza cristiana della carità: «Nell’attuale contesto sociale e culturale, in cui è diffusa la tendenza a relativizzare il vero, vivere la carità nella verità porta a comprendere che l’adesione ai valori del cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale». Insomma, senza la verità anche l’adesione cristiana finirebbe con il confondersi con un vago umanitarismo e ricadrebbe nel fideismo del meramente soggettivo e opinabile, cioè sarebbe una tra le ideologie tra le tante, una fede tra le tante. Con il che viene in chiaro come il motivo di fondo che detta la scansione agli argomenti dell’enciclica è la polemica e la lotta contro il relativismo, contro il politeismo dei valori, contro il disincanto del mondo contemporaneo, contro il ripudio dell’assolutezza della verità origine e causa principale dello sbandamento della società odierna. Io non posso richiamare neppure per sommi capi tutti i temi effettivamente importanti e coinvolgenti che vengono affrontati nell’enciclica, il cui chiaro intento è offrire un apporto decisivo alla riflessione sulle possibilità di costruzione di un mondo umano improntato alla giustizia, sulla coappartenenza di verità e giustizia, sul legame tra carità e giustizia, su che cosa intendere per “bene comune” nell’epoca della globalizzazione, sugli aggiornamenti da apportare alla dottrina sociale della Chiesa, sull’instaurazione di una economia non votata esclusivamente al beneficio del profitto, ma alla crescita e potenziamento dell’umano nell’uomo ecc. Né posso qui valorizzare la bellissima affermazione che apre la considerazione antropologica del numero 55 dove si mette in primo piano che «la rivelazione cristiana sull’unità del genere umano presuppone un’interpretazione metafisica dell’umanum, in cui la relazionalità è elemento essenziale». Voglio soltanto fare qualche osservazione proprio riguardo a quel pathos della verità che a me sembra improntare lo spirito dell’enciclica e che svela da solo un tratto peculiare del magistero di Benedetto XVI, vale a dire la sua costante diffidenza e attitudine polemica contro la cultura contempo-


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ranea, la quale è sicuramente espressione problematica della tradizione inaugurata dalla modernità, ma non può costituire il bersaglio permanente su cui dirigere gli strali polemici e a cui rimproverare tutte le reali e presunte deficienze e nefandezze dell’umanità attuale, non ultimo il congedo dagli assoluti promessi dalla ragione e proposti dalla religione. Sarebbe, questo congedo, una ricaduta nel relativismo o non piuttosto l’estremo recupero di una onestà intellettuale che distingue l’assoluto dalle nostre interpretazione dell’assoluto, che ci fa prendere contezza della relatività e, dunque dell’inadeguatezza di ogni nostra rappresentazione dell’assoluto? D’altronde, non si dice sempre che è proprio l’assolutezza della pienezza della verità divina rivelata nel Cristo e dal Cristo a renderla per noi sempre inarrivabile e quindi eccedente ogni qualsivoglia formulazione categoriale e dottrinale che la concerne? Ora, qui sta il nocciolo della questione antropologica sollevata non tanto dall’enciclica, quanto dall’essenza della verità cristiana: mentre la carità, quando è agape, amore veniente dall’alto e vissuto fino al totale dono di sé, gode in ogni momento del tempo di uno splendore e di una pienezza propria (chi, per grazia, testimonia l’agape con la vita può dire sempre “tutto è compiuto”), mentre l’agape ha in sé il suo compimento non così la verità, la cui acquisizione è processo infinito, come costante è il nostro limite e infinita la nostra ignoranza. Io credo che dietro la presa di posizione di Benedetto XVI lavori ancora quell’attitudine ostile verso la modernità, che ha caratterizzato le posizioni della Chiesa gerarchica nei confronti del mondo e ne ha determinato spesso l’arroccamento e la chiusura alle sue istanze più autentiche. Considerando la questione sotto il profilo filosofico, mi piace, poi, ricordare che la ricognizione fenomenologica degli atti intenzionali della coscienza ci ha fatto scoprire come ogni atto intenzionale porti in se stesso il principio di distinzione e di convalida della sua correttezza, sicché esso ha in se stesso la misura della sua autenticità. Così, l’atto intenzionale dell’amore reca in sé anche il criterio della sua rettitudine e della sua distinzione da altri atti intenzionali che sono simili e, tuttavia, distinti da esso. Sia la verità, sia l’amore sono misura di se stessi e del loro contrario. Sicché l’amore, se è amore e non qualcosa d’altro, non può che essere retto amore, ovvero amore mirante al bene in sé. E siccome anche la verità è un bene in sé, non c’è ricerca


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umana che non presupponga l’amore disinteressato per la verità stessa. Insomma, sto cercando di dire che l’aggiunta alla caritas della precisazione “in veritate” è pleonastica. Sento, inoltre, di dovere manifestare qualche altra perplessità. La distinzione dell’amore dal sentimento e il suo aggancio all’intelligenza teoretica per evitare appunto il sentimentalismo, rischia di togliergli quella dimensiona affettiva che rappresenta una risorsa dell’anima, della spiritualità in genere, e della spiritualità cristiana in particolare. L’amore è anche sentimento, come la giustizia è anche carità, sebbene né il sentimento sia il tutto dell’amore né la giustizia sia il tutto della carità nella misura in cui, pur includendola necessariamente, la sorpassa di gran lunga e la completa. E in quanto sentimento che è cosa ben altra dall’emozione, l’amore non è cieco come si suol dire dei sentimenti, bensì, Scheler insegna, sa cosa vuole e perché lo vuole e approva le ragioni per cui vuole, come del resto ogni sentimento che si rispetti. La preoccupazione magisteriale e dottrinale di papa Ratzinger fa emergere a mio parere un nodo problematico nel modo in cui il magistero papale, post-conciliare, nella figura dei due ultimi pontefici ha interpretato e interpreta il compito del servizio “pietrino” che il papa deve rendere alla Chiesa. La Chiesa, secondo Giovanni XIII è Mater et Magistra: si attende ancora una presa di posizione più netta ed esplicita rispetto alle priorità imposte da questa concezione ecclesiale. Ovvero, deve ancora emergere al livello di magistero e di prassi ecclesiale se la Chiesa sia da considerare anzitutto madre e proprio perché tale, anche maestra, Chiesa che, essendo soprattutto madre, diffonde e testimonia con la vita, con la pratica, la sapienza dell’amore visibilizzandolo, o viceversa sia da considerarsi principalmente magistra e madre in quanto magistra, cioè essenzialmente impegnata a trasmettere e propagare la retta dottrina e, con la dottrina e nella dottrina, guidando ed educando, ammaestrando ed istruendo essere anche madre, madre, che però, dà a i figli in primis il nutrimento della dottrina. Benedetto XVI mostra chiaramente in quale direzione si muove il suo servizio pietrino. Ma va nella stessa direzione l’attesa di una cultura senza verità (come egli lascia intendere che sia la nostra, mentre io preferirei definirla piuttosto una cultura senza pretesa di verità)? C’è da dubitarne. Non vuole rinunciare, questa cultura, ad


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essere adulta, non si fa condurre da guide autorizzate e illuminate, non sente la necessità di avere maestri; o forse vorrebbe meno maestri e più umili cercatori di verità; forse sente semplicemente il fascino emanante da homines religiosi che siano tali, non gestori di un potere sulle coscienze bensì testimoni di esperienza vissuta del divino; sente, questa cultura, che l’incontrovertibilità del vero, l’assolutezza del vero appartiene alla verità stessa e non all’uomo che la proclama e al modo in cui la proclama, come assoluto è solo l’assoluto stesso. E tuttavia, l’enfasi riposta dal papa sulla verità, se guardata da un’ottica diversa, può offrire spunti di condivisione allorché la si mette in relazione non tanto con il presunto status di cultura senza verità attribuito a quella dell’Occidente, quanto piuttosto alla situazione di degrado dell’etica pubblica che caratterizza, tra le altre, la società italiana contemporanea. Richiamare la divaricazione, enorme, tra valori conclamati e pratiche di vita attiene all’esigenza, messa in luce nelle battute finali dell’introduzione, di difendere, appunto, la verità: è operazione di servizio alla verità puntare l’attenzione sull’indifferentismo morale, sul civismo dei comportamenti là dove vengono riscontrati. Come pure un servizio alla verità mi sembra non tanto la denuncia del relativismo, fenomeno più conclamato che accertato, quanto piuttosto l’accentuazione della verità della carità, vale a dire il riconoscimento della sua funzione indispensabile e della sua intrinseca validità oggettiva. Isaia Berlin ha fatto osservare come J. Bentham abbia volutamente ignorato nel suo progetto di ingegneria sociale l’apporto alla massimizzazione della felicità recato dalla “fratellanza”, pur avendo valorizzato gli ideali di libertà e di eguaglianza, e l’umanitarismo illuminista, che pure culmina nella proclamazione dei tre ideali della Rivoluzione francese, non ha avuto, nell’evoluzione storica successiva, una forza di convincimento tale da rendere la fraternità un fattore necessario alla pianificazione e organizzazione della vita pubblica; la fraternità è stata relegata nell’ambito dell’esperienza privata. Ora, il fatto che Benedetto XVI insista sull’idea che la carità debba diventare il pilastro delle relazioni sociali nel mondo contemporaneo per edificare un modello di società a misura d’uomo, può contribuire a dare alla progettualità sociale nel suo complesso quel supplemento d’anima da tutti auspicato e da nessuno considerato realisticamente spendibile


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oggi, finché il dogma dell’autarchia del mercato resta l’ultimo oggetto invincibile di una fede planetaria irrazionale. In relazione alla riproposta centralità della carità nella vita collettiva si potrà anche riconsiderare il ruolo che può svolgere la religione per l’edificazione della città terrena, purché essa, lungi dal presentare le sue verità assolute e i suoi valori non negoziabili (ogni religione ha le sue verità e i suoi valori non negoziabili: il papa dice che non tutte le religioni sono uguali e che vanno giudicate per il grado di verità e di moralità che esprimono; ma come possono coesistere se ognuna oppone alle altre i suoi valori e verità non negoziabili?). Venga testimoniata e vissuta nella sua capacità o attitudine “profetica”, nella sua capacità di individuare, caso per caso, situazione per situazione, il “non ancora” del compimento della speranza operante nel “già” del presente storico.


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SOLIDARIETÀ COME VALORE*

FRANCESCO FURNARI**

«Siccome nessuno è maggiormente prossimo di colui che guarì le nostre ferite amiamolo come Signore, ma amiamolo anche come prossimo; nulla è tanto prossimo, quanto il Capo alle membra. Amiamo anche chi è imitatore di Cristo, amiamo chi ha compassione dell’altrui indigenza secondo l’unità che vige nel corpo. Effettivamente, non è la parentela che fa il prossimo, ma la misericordia, perché la misericordia corrisponde alla natura; non c’è altra cosa che corrisponda tanto alla natura quanto prestare aiuto a chi è partecipe della stessa natura» (S. AMBROGIO, Esposizione del vangelo secondo Luca, VII,84).

1. INTRODUZIONE Posiamo considerare il racconto lucano del buon Samaritano come una catechesi sulla solidarietà1. Solidarietà a vari livelli: personale, interpersonale, sociale-istituzionale. * Relazione tenuta il 6 aprile 2010 al 1° Corso multidisciplinare UNICEF di Educazione allo sviluppo. ** Già Docente di Psicologia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Cfr. D. TETTAMANZI, Non c’è futuro senza solidarietà. La crisi economica e l’aiuto della Chiesa, Cinisello Balsamo 2009.


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A livello personale (“vide e ne ebbe compassione”): ci insegna ad entrare profondamente in empatia pur restando se stessi. Ciò che è accaduto all’altro è accaduto a me. Attraverso la lettura di questa esperienza apprendiamo che l’altro è così importante per me che tutto il resto viene dopo e che la solidarietà incomincia all’interno di noi, nel nostro cuore. A livello interpersonale (“lo portò in albergo”): le dieci azioni descritte da Luca: vede, si commuove, fascia, versa, lo prende con sé sulla cavalcatura, lo porta in un luogo che tutti accoglie (pandocheion), lo consegna all’albergatore a cui dà istruzioni per prendersi cura di lui, promette di ritornare e compiere ciò che manca alla sua solidarietà, ci descrivono come la solidarietà personale si prolunga facendosi comunità solidale. A livello sociale-istituzionale (“gli portano via tutto”). L’ingiustizia economica e la violenza fisica hanno come conclusione l’abbandono del malcapitato per lasciarlo morire solo. Questo ci porta ad affermare che la solidarietà deve essere in grado di mutare il corso delle istituzioni stimolando la persona a impegnarsi per il bene comune. Resta vero il fatto che il motore di tutto questo dinamismo che avvia il processo solidale è il cuore, che è la sede del sentimento della compassione. A questo punto,per comprendere l’azione solidale, che nasce dalla compassione, bisogna introdurre, commentando altri brani evangelici come quelli di Mt 18,1-5;18,10-14;19,13-15, il concetto di “piccolezza”che spiega quell’interscambio compassionevole nello spazio di un incontro tra chi “ scendeva” e chi “saliva” da Gerusalemme a Gerico e viceversa. Solo chi si fa “piccolo” può sentire e avere compassione, può avere il cuore aperto all’altro. In quel luogo sospeso tra Gerusalemme e Gerico, il tempo di Dio che sale e dell’uomo che scende si incontrano. In quel luogo sospeso due stranieri si incontrano e si riconoscono come “uno”, come “identico”,perché l’uno serve l’altro. Dopo l’incontro con i testi citati di Luca e di Matteo, ci soffermeremo su alcune riflessioni che possiamo trarre dai medesimi testi.


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Partendo dalla narrazione come ricerca dell ‘identità, concluderemo con alcune riflessioni sulla solidarietà come valore, ipotizzando una “metafisica agapica”.

2. MEDITAZIONE SULLA LETTURA DI LUCA 10,29-37 E DI MATTEO 18,15;18,10-14;19,13-15 La parabola del Samaritano: Lc 10,29-37. Questa parabola può essere considerata come una miniatura di quel volto di Dio che Gesù rivela pienamente nel suo: «Chi ha visto me ha visto il Padre»2. È rivolta al leghista, perché veda l’amore Padre-Figlio aperto ai piccoli. Chi pone la domanda è uno che si sforza di amare Dio e il prossimo, però giustamente si chiede: “ma a me chi mi vuol bene?”. Questa domanda è lecito che ce la facciamo tutti noi, tutti quelli che vogliono sentirsi solidali e praticare la solidarietà, per evitare di incappare in proiezioni e attribuzioni che non aiutano affatto. È importante,infatti, che prima di amare gli altri dobbiamo sentirci amati3. 2

Gv 14,9. Il sentirsi amato e accettato incondizionatamente ha avuto nell’arco del pensiero psicologico una certa evoluzione, a partire dalla teoria delle pulsioni inconsce che non fa altro che riconoscere l’integrità individuale e l’importanza della natura che agisce nell’uomo. La psicoanalisi si profila così come un tentativo di mediare tra le tensioni pulsionali dell’individuo e le istanza culturali della comunità per pervenire nella cura ad un adattamento razionale alla realtà. Così mentre Freud ha accolto il bisogno dell’uomo moderno di essere riconosciuto nella sua basilare dimensione pulsionale e inconscia, la psicoanalisi post-freudiana si è più aperta a sostenere la piena espressione della persona, come luogo della affettività e del significato. Per superare il disagio frutto di una civiltà malata non è sufficiente una rinuncia consapevole e razionale, nel passaggio dal principio del piacere a quello della realtà, quanto piuttosto, recuperando l’importanza principio della relazionalità e della reciprocità e dell’attaccamento,quello di accogliere la persona in difficoltà nel suo bisogno di appartenenza accogliente, nel suo bisogno di sentirsi amato incondizionatamente e di essere rispettato nella sua individualità. Cfr. R.D. LAING, L’Io e gli altri, Firenze 1969; Cfr. G. SALONIA, Dialogare nel tempo della frammentazione, in F. ARMETTA – M. NARO (curr.), Impense adlaboravit, Palermo 1999, 571-585; Cfr. H. KOHUT, La guarigione del 3


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La domanda: “che fare per ereditare la vita?”4 riceve un ordine: “va e anche tu fa lo stesso”5 che potrebbe essere preso per una beffa, se non passasse per quella parabola appena raccontata da Gesù: in lui il samaritano-Dio si è preso cura di me e mi ha amato; perché anch’io, guarito dal mio male, possa amare lui con tutto il cuore e i fratelli come me stesso. Il seguace della legge che ha risposto esattamente su ciò che è “scritto” è chiamato ora a “leggere”6 che quanto è scritto si va compiendo sotto i suoi occhi e le sue orecchie mentre ascolta Gesù e il suo racconto. Racconto che rivela la sua identità. C’è uno bollato come samaritano che, accogliendo i peccatori, va oltre ogni limite per farsi vicino all’uomo, a qualsiasi uomo che fugge e si nasconde da Dio, fuggendo così dalla sua autentica libertà. Si noti il doppio senso di circolazione: un uomo scende-scappa da Gerusalemme a Gerico, mentre il samaritano sale verso Gerusalemme per rivelare sul Golgota l’amore del Padre. Da quando lui mi si è fatto vicino e fratello, posso amare Dio e l’uomo con lo stesso e identico amore con cui il Figlio e il Padre si Sé, Torino 1980. Cfr. S.A. MITCHELL, Il modello relazionale. Dall’attaccamento alla intersoggettività, Milano 2002; Cfr. G. BATESON, Verso un’ecologia della mente, Milano 1976; Cfr. P. WATZLAWICK – J.H. BEAVIN – D.D. JACKSON, Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi, Roma 1971; Cfr. V.F. GUIDANO, il Sé nel suo divenire. Verso una teoria cognitiva post-razionalista, Torino 1992; fr. D.H. WALLIN, Psicoterapia e teoria dell’attaccamento, Bologna 2009; Cfr. M.D.S. AINSWORTH, Modelli di attaccamento e sviluppo della personalità, Milano 2006; Cfr. G. ATTILI, Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente. Normalità, patologia e terapia, Milano 2007. 4 Lc 10,25. Il “che fare” fa da inclusione a tutta la catechesi di Gesù in viaggio verso Gerusalemme (18,18; cfr. anche vv. 37; 3,10-14;6,46; 8,21; 16,4; At 2,37; 16,30). La terra promessa, pur restando un Dono, è sempre legata a un “fare” come risposta di amore al donatore. Se siamo figli, l’eredità non non è una conquista ma ci spetta dall’amore del Padre. Ciò che ci spetta dall’amore del Padre è una vita piena con Dio oltre la morte (cfr. Dn 12,2; 2Mac 7,9).Lui è infatti la vita di chi vive la sua parola (cfr. Dt 30,20) e ne fa il suo pane (cfr. Dt 8,3b). 5 Lc 10,37. Ora il leghista, che ha chiesto: “a me chi è vicino?”, sa la risposta. Vicino a lui, mezzo morto sulla strada che scende da Gerusalemme, c’è uno che porta al “pandocheion, al “tutto accoglie”. Da lì può partire per fare altrettanto. 6 Lc 10,26.


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amano. Così il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo non è più una legge impossibile ma una lieta notizia, dono per tutti: coloro dei quali il samaritano si è preso cura sono abilitati a percorrere ormai lo stesso cammino. Luca non dice che i due comandamenti sono simili7 o uno solo8, ma ci porta a vedere e ad accogliere quell’amore di Dio per noi che ci permette di amare gli altri. Per questo gli occhi che vedono il samaritano sono chiamati beati9. Nel racconto c’è tutto un dissolversi di un personaggio nell’altro, quasi una sovraimpressione progressiva: l’uno si fa l’altro fino a diventare una sola e identica persona. Dio ci si è fatto vicino ed è diventato il percosso e il ferito che eravamo in modo che noi, guariti, diventassimo il samaritano nei confronti di lui, che, nel frattempo, si è fatto bisognoso di noi. Questa parabola ci parla di un cammino di chi si prende cura del male del mondo e trova rifugio in un uno che tutti accoglie, in questa fragile casa, sospesa tra Gerico e Gerusalemme, che nasce ovunque uno è disposto ad accogliere tutti, a partire dai più deboli e indifesi. Mt 19,13-15 (“Di questi è il regno dei cieli”); 18,1-5 (“se non diventerete come bambini”); 18,10-14 (“Non è volontà del Padre che si perda uno solo di questi bambini”). E tra i più deboli e indifesi da accogliere in questa fragile casa ci sono i bambini, i piccoli, qualsiasi “piccolo” emarginato ed escluso. “Di questi è il regno dei cieli”, Gesù lo dice dei bambini che accorrono e si avvicinano a lui. Questo dei “piccoli” e dei bambini è un concetto che Matteo ha già espresso nel c. 18 e che è ripetuto qui nel c. 19, ai versetti 13-15. Si potrebbe pensare di saltarlo e non tenerne conto, Invece no. La ripetizione ci dice che è una sosta voluta sull’argomento e quindi di fondamentale e particolare importanza. Il c. 18, che parla della comunità, si svolge nella casa dove lui sta con i suoi discepoli e al centro ha posto un bambino con il quale si identifica10. Su questo c. 18 torneremo più avanti. 7 8 9 10

Cfr. Mt 22,39. Cfr. Rm 13,9; Gal 5,14. Cfr.Lc 10,23. Cfr. Lc 18,1-5.


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Qui, nel c.19, dopo aver parlato di matrimonio11 si parla di bambini, non solo perché dal matrimonio possono nascere i figli responsabilmente desiderati, ma anche perché riconoscersi figli rende possibile diventare padri-madri. Infatti, chi non accetta di essere figlio, non ha la propria vera identità ed è, così, incapace di relazioni autentiche. Il presupposto di un corretto rapporto con gli altri e con le cose è quello di riscoprire la fondamentale importanza del rapporto che l’uomo ha con il “primo-Altro”. In questa scena, Matteo12 ripropone la centralità dei bambini (centralità e soggettività riscoperta dopo secoli nell’epoca moderna) all’interno della vita nuova credente. Colui che nella tradizione giudaico-ellenistica era considerato come una appendice della donna — e questa, a sua volta, come possesso del maschio — sta al centro della fede cristiana. Nel bambino sta l’essenza dell’uomo: egli esiste in quanto accolto ed amato, e diventa adulto quando accetta di essere accolto ed amato nella sua specifica piccolezza. Solo allora sa accogliere ed amare i piccoli: è figlio e si fa fratello13. 11

Cfr. Lc 19,1-12. Cfr. Mt 19,13-15. 13 Cfr.Mc 10,13-16. Per essere padre, il piccolo dell’uomo deve passare psicologicamente e spiritualmente attraverso un processo di “separazione-individuazione”. Questo processo deve essere avvenuto primariamente nella coppia genitoriale,per potere instaurare relazioni affettive liberanti nel processo educativo di crescita, superando così i legami di dipendenza simbiotica funzionale, dove il Sé rimane anestetizzato e imprigionato (cfr. V.L. CASTELLAZZI, La materializzazione del mondo adolescenziale del mondo adolescenziale e giovanile. Sue ripercussioni sul vissuto religioso. Un approccio psicoanalitico, in C. NANNI – C. BISSOLI [curr.], Educazione religiosa dei giovani all’alba del terzo millennio, Roma 2001,99-118). La domanda che pone il dottore della legge al samaritano: “ma a me chi mi ama?” è profondamente significativa dell’importanza che ha per il bambino di essere amato e di sentirsi amato e incondizionatamente accettato e accolto in sé e per sé. Ma questo dimostra,altresì, il pericoloso cammino dell’amare rettamente e in modo liberante. Il sentirsi amati veramente passa attraverso l’equilibrio della funzione materna con quella paterna. La Bibbia come espressione del vissuto religioso dell’umanità è spesso un condensato dello psichismo umano. Già le opere di Freud sulla religione hanno messo in evidenza come il volgersi della madre verso il Padre sono “ una vittoria della spiritualità sulla sensibilità “(S. FREUD, L’uomo Mosè e la Religione Monoteistica: tre saggi, 12


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in OSF, XI,Torino 1979, 331-453:432) mostrando così come la funzione propria del padre suscita nell’uomo anche la rappresentazione di Dio (cfr. A. VERGOTE, Psicologia religiosa, Roma 1967). “Il Padre è colui che riconosce il figlio”(ibid.,199) conferendogli la propria personalità con una parola che è insieme legge, così come parentela spirituale e promessa (cfr. F. PERGOLA [cur.], In attesa del padre. Psicodinamica della funzione paterna, Roma 2010). Secondo i Vangeli, nelle resurrezioni narrate ad opera di Gesù Cristo, inteso non nel suo senso ontologico o teologico ma come percezione della paternità divina a livello psicologico individuale e collettivo, come rappresentazione oggettuale interna (cfr. A.M. RIZZUTO, La nascita del dio vivente. Studio psicoanalitico, Roma 1994), il morto è in realtà uno che “dorme”, come uno che è bloccato nel suo sviluppo; blocco cagionato da una non sana elaborazione del complesso di Edipo, che inficia il felice superamento nel periodo adolescenziale del secondo processo di separazione-individuazione, e quindi il suo desiderio. È un adolescente agli albori della sua vita il cui Sé appare come anestetizzato. In questa direzione psicologico-ermeneutica e in una prospettiva di meta psicologia cattolica (cfr. D. MUGNAINI – S. LASSI, Metapsicolgia cattolica, Bologna 2009) possono essere letti gli episodi del figlio della vedova di Naim e della figlia di Gairo. Un simile “puer” patisce così di un “complesso materno”, giacchè la sua soggettualità è come inghiottita da una madre divorante e non è mai del tutto venuta fuori, non è mai nata. Tali resurrezioni rappresentano la “nascita psichica del Sé”: che restituisce finalmente al soggetto il suo diritto all’esistenza, ad essere visibile. Marco nel suo “lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite”, così come Matteo nei passi citati in questo studio, vedono in Gesù la voce del Padre che intende staccare i figli dai propri genitori per farli accedere alla completa separazione-individualzione (F. DOLTO, Psicoanalisi del Vangelo, Milano 1978). Sull’ermeneutica di Marco da un punto di vista psicoanalitico, cfr. E. DREWERMAN, Il Vangelo di Marco. Il transito da uno stato puberale a quello adulto, attraverso una sorta di rito di iniziazione (cfr. V. LINGIARDI, Compagni di amore, Milano 1997) è favorito dalla funzione paterna, dal Nome del Padre. Azione che può essere esercitata dall’educatore, che può condurre l’adolescente nella casa degli uomini (cfr. C.G. JUNG; Aion.Ricerche sul simbolismo del Sé, in Opere, IX, Torino 1980). Cosìcché, se è vero che “la madre è la stabilità del focolare”, è altrettanto vero che il padre è la” vivacità della strada” (cfr. D.W. WINNICOTT, La preoccupazione materna primaria, in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Firenze 1975). Nell’accompagnare il puer in questo transito, genitori ed educatori devono stare attenti a non considerarlo come una tabula rasa in cui proiettare le proprie proiezioni narcisistiche o vivere il figlio come “capro espiatorio”. Nel Nome del Padre è anche da rintracciare la via, nel campo filosofico-teologico, della questione del “soggetto” al crocevia della crisi e della ripresa (cfr. F. D’AGOSTINI, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trenta anni, Milano 1997, 83-122; Cfr. J.I. PIEDADE, Il soggetto al crocevia della crisi e della ripresa. Approccio ad alcuni pensatori contemporanei, in Rassegna di Teologia, LI (2010) 2, 181-195; e cfr. anche il n. 222 del mese di ottobre-dicembre 2009 della rivista Communio).


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Questa comunità, dove i si accoglie come lui ci ha accolti, è il vero tributo che dobbiamo e possiamo rendere a Dio: è la fraternità,presenza del Figlio e del padre nello Spirito, salvezza di ogni uomo. Ciò che mantiene l’unione della comunità non è l’accordo impeccabile e perfetto, ma il perdono costantemente ricevuto e accordato. I vv. 1-5 costituiscono il principio e fondamento del nuovo modo di stare insieme:l’obiettivo da perseguire è, paradossalmente, diventare bambini. Chi è piccolo ha bisogno di essere accolto per crescere, chi è grande deve farsi piccolo per accogliere — e il piccolo è il più grande. La comunità ha al suo centro come valore assoluto, colui che si è fatto ultimo e servo di tutti. Il Crocifisso, rivelazione di Dio che si è fatto piccolo per accogliere i piccoli. I vv. 14-18,posti anche essi al’interno del discorso sulla comunità, vogliono stimolare gli uditori ad accogliere i piccoli, i fratelli deboli e smarriti per non farli sentire emarginati, e come Gesù metterli al centro della propria attenzione. La comunità è fatta di piccoli che facilmente si smarriscono: se nessuno li cerca, sono perduti. Il piccolo non è solo da accogliere; è anche da non scandalizzare se è debole, da cercare se è smarrito, da correggere se è deviato, da perdonare settanta volte sette se ha peccato. Questo significa accogliere l’altro nella sua dignità di figlio. Cemento della comunità è vivere i limiti propri e altrui come luogo di comunione, di aiuto e di perdono reciproco. Il limite accettato, l’altro che incontriamo o con cui ci scontriamo, le difficoltà, le contraddizioni, etc. sono quel passo obbligato, malgrado tutto, che ci conduce verso l’autorealizzazione e al senso di sé. Dall’intrapsichico al sociale passando per l’interpersonale l’esperienza del limite come difficoltà aiuta a riconoscere le differenze dell’altro e ad essere riconosciuto da lui nella propria specifica differenza ed identità. Il mancato riconoscimento di identità è causa di patologia psichica14. 14 Il limite non solo rende possibile il dono ma è anche un aspetto essenziale del reciproco relazionarsi. Tutti abbiamo bisogno di qualcosa che non possediamo e che a noi è necessaria per crescere e formarci. Questo “qualcosa” ci rimanda alla nostra


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La comunione tra gli individui in cui si radica il dono di sé e della gratuità è resa possibile dalla reciprocità relazionale, su cui si fonda la intersoggettività. Entrare in comunione con l’altro, che è un passo più profondo della reciprocità relazionale, implica oltre al riconoscimento anche la vicendevole accettazione e presume che l’altro sia ospitato da me totalmente. Il limite che si può provare nel perseguire una reciprocità comunionale è sentire una non corrispondenza che può essere causata anche da me. In tutti i casi, l’assunzione del limite nella vita di relazione e comunitaria, che è una maniera di farsi “piccolo”, sta all’origine del senso di sé e della propria autorealizzazione.

finitezza ed è il marchio della nostra reciproca dipendenza. L’altro come dono è la fonte anche della nostra realizzazione personale. Tale prospettiva è condivisa da diversi autori nel campo psicologico come Nuttin e Fromm. Si cfr. V. FRANKL, Alla ricerca di un significato della vita, Milano 1990). Nel dono percepiamo la perdita di noi stessi, cosa questa che ci fa essere ciò che non sapevamo di essere e ci identifica come presenza unica e irripetibile. Cfr. C.G. JUNG, Il Simbolismo della messa, Torino 1979; Cfr. S.COLA, Morte e resurrezione:la dinamica del saper perdere per lo sviluppo integrale della persona, in Nuova Umanità XXIII (2001-2) 134, 229-246. Per l’adesione alla realtà come senso del limite e come criterio di maturità psichica, cfr. M. ALETTI, Psicologia, psicoanalisi e religione, Bologna 1992; cfr. P. RICOUER, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Milano 1965; cfr. S. FREUD, Psicoanalisi e fede: carteggio col pastore Pfister, Torino 1970. Al coraggio di esporsi alla sconfitta e l’esperienza della sofferenza costituiscono un passaggio obbligato per la maturazione psichica,mentre il contrario, la chiusura e la resistenza bloccano la crescita e alimentano i sintomi nevrotici, Cfr. F.S. PERLS – R.F. HEFFERLINE – P. GOODMAN, Teoria e pratica della terapia della Gestalt, Roma 1971. Sul dono come sacrificio della intenzione del ricambio, cfr. C.G. JUNG, Il Simbolismo della messa, Torino 1979. Nell’epoca postmoderna, l’individuo sembra ripiegato narcisisticamente su se stesso,orfano dell’altro. In questo contesto, nell’ultimo novecento, la psicologia asserisce che la mente è relazionale e che si nutre costantemente di reciprocità. Si cfr. S. MAGARI – P.A. CAVALIERI, IL senso di sé, l’incontro con l’altro e l’accettazione del limite, in Nuova Umanità XXXI (2009) 3, 377-394,183; P.A. CAVALIERI, L’autorealizzazione nella società postmoderna, in Nuova Umanità XXXI (2009) 3, 395-416. Sulla stessa linea si trovano le scoperte delle neuroscienze. Cfr. D.J. SIEGEL, La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, Milano 2001.


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3. LA NARRAZIONE COME RICERCA DELL’IDENTITÀ Se mi metto dal punto di vista della narrazione evangelica della parabola del samaritano o di altre parabole, la prima cosa che mi chiedo è il “chi” fa l’azione. Ponendoci la domanda del “chi” è come porsi la domanda della identità. Rispondere alla domanda “chi?”, come aveva detto con forza H. Arendt, vuol dire raccontare la storia di una vita, la storia raccontata dice il chi dell’azione. L’identità del chi è a sua volta un’identità narrativa”15. Ricoeur ci ha insegnato che l’identità si forma, si conquista leggendo il testo in cui consiste la nostra vita che ultimamente è biografica. Noi impariamo a essere noi stessi come altro16, cioè impariamo dall’altro, dalla diversità, dalla storia attraverso i racconti e le narrazioni di quelli che furono le sue vittime. Così hanno appreso gli apostoli: dalla parola vissuta e raccontata, attraverso paradossi, metafore e parabole, dalla esperienza di vita, dai miracoli e,infine, dalla morte e resurrezione di Gesù. A sua volta gli Evangelisti, raccontandoci la loro esperienza condensata nella scrittura dei vangeli, operano, nei confronti di chi legge, come educatori che stimolano un processo di costruzione di una identità narrativa che diventa tanto più se stessa o medesima, quanto più perde la propria identità narrativa, quanto più perde la propria ipseità, il proprio Sé. Questo discorso è stato poi ripreso da Levinas. La vera autonomia nasce dalla eteronomia. Qualcuno ha affermato17 che “la unicità dell’io, la sua soggettivazione etica nasce dalla responsabilità di fronte al volto del sofferente”. La filosofia moderna ci ha consegnato il concetto di autonomia basata su un cogito orgoglioso, sovrano capace di darsi una propria legge. Levinas inverte questo paradigma: il momento fondazionale della soggettività non è l’autonomia di kantiana memoria bensì la eteronomia. È necessario deporre il proprio 15 P. RICOEUR, Tiempo y narracion, vol. III: El tiempo narrado. Mexico 1997, 997 (trad. it. Tempo e racconto, vol. III: Il tempo raccontato, Milano 1998). 16 Cfr. ID., Sé come un altro, Milano 2002 (ultima ristampa 2005). 17 Cfr. A. SUCASAS, Redencion y sustitucion:el sustrato biblico de la subjetivacion etica en E. Levinas, in Cuadernos salmantinos de filosofia 22 (1995) 238.


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ego per essere se stessi. Questa è la base della responsabilità etica. L’infinito del volto dell’altro, dell’Altro è opposto alla totalità e al totalitarismo. La trascendenza, la esteriorità che fondano l’etica eteronoma rendono paradossalmente possibile l’autonomia. L’io diventa etico quando si prostra davanti all’altro da sé, al diverso, allo straniero e lo accoglie. Autonomia ed eteronomia non si escludono a vicenda, ma l’autonomia dipende da una precedente eteronomia, da una responsabilità originaria, precedente a ogni consenso. Non è vero che non siamo responsabili di nostro fratello ma lo siamo nostro malgrado. Con la parola “insegnamento” noi enunciamo la relazione tra maestro e discepolo. Anche tra gli apostoli e Gesù esisteva questo tipo di relazione. Si dice che Gesù insegnava con autorità, però il suo insegnamento non stimolava nel discepolo, come Platone, la reminiscenza ma operava una rottura dell’io come una risposta all’altro. L’altro, così come il samaritano malcapitato, è l’enunciazione dell’infinito come fragilità e vulnerabilità. È vulnerabile perché non impone mai, domanda solamente, si appella e si allontana s e nessuno gli risponde18. La solidarietà vissuta ed espressa dal samaritano nei confronti dell’uomo malmenato dai briganti ci vuole trasmettere a noi, attraverso la memoria, un’etica della’attenzione, che non è per non dimenticare o per esigere vendetta ma per poter raccontare la cronaca dei vinti. Però mentre la storia è amorale, la memoria è etica perché formata dai nomi di quelli per i quali si deve osservare il lutto, la compassione, il rispetto. L’altro con cui il samaritano si relaziona gli permette di entrare in uno spazio asimmetrico di alterità, come fonte di responsabilità e di risposta alla sua chiamata, è un altro che reclama con lui una relazione di ospitalità, una relazione disinteressata e gratuita. Richiede una relazione di donazione e di accoglienza. L’altro non chiede il riconoscimento dei suoi diritti, ma si appella alla sua capacità di accoglienza,così come chiede l’uomo assalito dai briganti e abbandonato solo e mezzo morto a terra.

18 Cfr. C. CHELIER, Judaisme et altérité, Paris 1982; Cfr. E. LEVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Milano 1983.


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4. IL FONDAMENTO DEL VALORE I brani evangelici che abbiamo scelto per la nostra riflessione mettono in evidenza quello che dell’intelligenza è una sua fondamentale caratteristica: la vigilanza19. Questa competenza ci permette di vivere come in una “casa trasparente” mettendoci in relazione gli uni con gli altri. Dalla vigilanza si genera quella capacità relazionale che rappresenta per la persona la ricerca di senso delle cose, del mondo,della vita. All’alfabeto che ci consente di codificare il senso della nostra esistenza possiamo dare il nome di “valore”che possiamo definire come rappresentazione mentale del desiderabile, di scopi che danno senso alla vita e sul piano operativo costituiscono l’essenza dei fini di ciascuno,con conseguenze di tipo psico-sociale20. Questa concezione del desiderabile è iscritta nel nostro DNA che trova il suo punto fondamentale e di partenza nell’incontro personale con il samaritano, con Gesù di Nazaret, il Signore. Da questo incontro sono possibili e fondati tutti gli altri incontri-relazioni intersoggettive. Gli altri rappresentano il nostro sguardo critico e ci aiutano, in un processo circolare di scambio, a scorgere la nostra identità come in uno specchio. L’incontro con il samaritano non è un incontro che chiude il rapporto solidale solamente nell’interazione “IO-TU”, ma riapre al “NOI”, al sociale, al politico instaurando un circolo virtuoso nell’ordinamento sociale, uscendo fuori sia dall’individualismo sia dal collettivismo, tra diritti civili( o di libertà) con quelli sociali( o di giustizia e di solidarietà), tra il principio di sussidiarietà e di solidarietà. L’incontro con il samaritano (“se lo caricò sulla sua cavalcatura e… lo consegnò all’oste”) fonda i presupposti antropologici ed etici dell’economia civile, dove bene comune e libera iniziativa si possono mettere in relazione costruttiva21. 19

Cf. E. LAEGER, La mente consapevole, Milano 1989. Cfr. M.J. ROKEACH, The nature of human values, New York 1973. 21 La tradizione della “economia civile”, che si è sviluppata a Napoli con Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri e a Milano con Pietro Verri e Cesare Beccaria, non esitava a definire la scienza economica come “la scienza della pubblica 20


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Ciò che qualifica infatti l’economia civile è l’impegno a creare relazioni sociali sempre più ampie, andando ben oltre il puro perseguimento del benessere materiale e soggettivo o al solo perseguimento di un modello puramente tecnico di sviluppo, mirando alla promozione umana globale da estendere alle generazioni future. E su questo il Signore ci chiederà conto quando ritornerà e se abbiamo speso di più di quando egli ci aveva lasciato, ci rifonderà tutto quello che abbiamo speso. Questa visione può cambiare tutta la logica di mercato, mettendo in primo piano il miglioramento qualitativo della vita. Visto che lo scambio è una forma di reciprocità che non può che avvenire tra persone, obbliga a dare il primato alla gratuità che proietta il legame tra persone oltre il valore d’uso, in cui è preminente la logica dell’interesse. Consegnandolo all’oste, il samaritano restituisce a tutti noi come società civile quel ruolo che ci compete: la capacità di apertura alla reciprocità, sviluppando una forma di solidarietà dal basso che si coniuga con le istituzioni conferendole un aspetto familiare e non burocratico, non dimenticando il dovere di dare voce anche agli esclusi di tutti i generi, a coloro che non sono o non riescono a inserirsi nelle reti. Se nella Scrittura non si incontra l’espressione “bene comune”, tuttavia c’è il suo corrispettivo dell’apertura di amore all’altro come fratello:proteggere il debole, ridistribuire le ricchezze e le risorse per evitare disagio e povertà, questo è il bene da ricercare, andando persino oltre l’idea di semplice solidarietà ed equità. Il concetto di bene comune non può, comunque, essere separato da quello di solidarietà, che con quello della dignità della persona e della sussidiarietà costituiscono i quattro principi fondatori della Dottrina Sociale della Chiesa, tra loro uniti,connessi e ordinati22. felicità”. Cfr. L. BRUNI, Il prezzo della gratuità, Roma 2006. Sullo stesso tema segnaliamo: P. DONATI (cur.), La società civile in Italia, Milano 1997; R. DAHRENDORF, Moralità e società civile, Torino 1992. Cfr. G. PIANA, Efficienza e solidarietà. L’etica economica nel contesto della globalizzazione, Cantalupa 2009. 22 Cfr. PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Città del Vaticano, 2004.


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Benedetto XVI ha recentemente affermato come il principio del bene comune tocchi quello della solidarietà, che unisce gli uomini nella famiglia umana, e quello della sussidiarietà, che la rafforza dal di dentro23. Il Papa ha voluto avvertire che i principi di solidarietà e di sussidiarietà alla luce del vangelo24 non sono semplicemente orizzontali o sociali, ma entrambi posseggono una dimensione verticale o religiosa. Questa è la dimensione verticale della solidarietà: sono spinto a farmi meno dell’altro per soddisfare le sue necessità25, proprio come Gesù si è umiliato per permettere agli uomini e alle donne di partecipare alla sua vita divina con il Padre e lo Spirito26. Se si rispetta il naturale desiderio di autogovernarsi basato sulla sussidiarietà, si lascia spazio non solo alla responsabilità e alla iniziativa individuale, ma soprattutto si lascia spazio all’amore, che resta sempre la via migliore di tutte27. Il Bene comune non è da considerare come qualcosa a se stante ma ha soprattutto un valore se è in riferimento al raggiungimento dei fini ultimi della persona ed al bene comune universale dell’intera creazione28.

5. RAPPORTO TRA ESSERE E AMORE. VERSO UNA METAFISICA AGAPICA «Ora un samaritano, viaggiando, venne presso di lui; e, visto, si commosse e, avvicinatosi, fasciò le sue ferite, versando sopra olio e

23 Cfr. BENEDETTO XVI, Discorso alla Pontificia Accademia delle scienze sociali, 3 maggio 2008. 24 Cfr. Gv 5,26; 6,57. 25 Cfr. Gv 13,14-15. 26 Cfr. Fil 2,8; Mt 23,12. 27 Cfr. 1Cor 12,31. 28 Cfr. PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, cit., 170; cfr. G. QUINZI – U. MONTISCI – M. TOSO (curr.), Alla ricerca del bene comune. Prospettive teoretiche e implicazioni pedagogiche per una nuova solidarietà, Roma 2008.


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vino; e, caricatolo su ciò che si era acquistato, lo condusse nel tuttiaccoglie e si prese cura di lui»29. Le azioni compiute dal samaritano manifestano l’intima relazione tra l’azione umana e l’azione di Dio, relazione intima che si evince e si avvalora nel “caricarsi” il malcapitato su “ciò che si era acquistato”, su ciò che era di sua proprietà. E cosa si era acquistato a caro presso se non il suo proprio corpo?Infatti gli costò tutto ciò che era, lo svuotamento e la rinuncia alla forma di Dio per prendersi quella di servo30. Da ricco si fece povero, per acquistare un corpo su cui caricare il nostro peso per arricchirci della sua divinità31. Nell’azione del samaritano si può notare «l potere di manifestare l’amore e di raggiungere Dio»32 È nell’agire che si può trovare la forma più elevata dell’essere e che «la più completa maniera d’agire è soffrire e amare, che la vera forma di amare è aderire a Cristo»33. Quel samaritano sta andando nella direzione opposto del malcapitato. Il suo viaggio verso Gerusalemme, nel quale si svolge la seconda parte del vangelo di Luca, è l’esodo di cui parlano Mosè ed Elia sul monte della trasfigurazione34, per ricondurre gli esuli in patria. Solo l’adesione a Cristo ci consente di amare veramente. Nel samaritano potremmo trovare il fondamento,per dirla con Blondel, della “metafisica della carità”. Che rapporto c’è tra essere e amore? Afferma Blondel in una sorta di sillogismo deduttivo: «l’essere è amore; quindi se non si ama non si conosce niente»35. In effetti, da un punto di vista antropologico, e prendendo atto della relazione interpersonale,sulla quale è costantemente messa in gioco l’interpretazione dei sentimenti altrui, è il legame affettivo che 29

Lc 10,33. Cfr. At 23,24. 31 Cfr. 2 Cor 8,9. 32 M. BLONDEL, Carnets intimes, 2 voll., Paris 1961 e 1960, cit. in R. LATOURELLE, L’uomo e i suoi problemi alla luce di Cristo, Assisi 1982, 210. 33 Lc. 34 Cfr. Lc 9,30 ss. 35 M. BLONDEL, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, Roma 1993, 553. L’affermazione si trova nella parte V al cap.3, dal titolo: “Il legame tra la conoscenza e l’azione nell’essere”. 30


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fonda l’apertura verso l’altro che, facendoci entrare in relazione empatica, permette di superare i naturali egoismi, come anche le singolarità e la differenza di ciascun individuo. «In me — scrive Blondel — c’è qualcosa che sfugge agli altri e che mi innalza al di sopra di tutto l’ordine dei fenomeni. E anche negli altri, se sono come me, c’è qualcosa che mi sfugge, e che sussiste solo s emi è inaccessibile. Io non sono per loro come sono per me, ed essi non sono per me come sono per loro. L’egoismo è sconvolto dalla sola idea di tenti egoismi antagonistici. E, nonostante, tutta la luce della nostra scienza, rimaniamo avvolti nella solitudine e nell’oscurità»36. Nell’esperienza del samaritano apprendiamo che solo la carità ci fa superare l’inaccessibilità, la solitudine e l’oscurità altrui. La carità si dona a tutti e tutti arricchisce37. 36

L.c. «Soltanto la carità, collocandosi nel cuore di tutti, vive al di sopra delle apparenze, si comunica fino all’intimità delle sostanze. E risolve completamente il problema della conoscenza dell’essere. Essa ha quello straordinario privilegio per cui, senza privare nessuno di ciò che gli appartiene e partecipando con la semplice intenzione al bene degli altri, fa proprio tutto quello che essi hanno a livello di vita e di azione» (ibid., 553-554). In questo passo di Blondel si può vedere quello scambio degli sguardi tra il samaritano e il malcapitato- abbandonato, quel dissolversi di un personaggio nell’altro, quasi una sovraimpressione dove l’uno si fa l’altro fino a diventare tutti un’unica persona. La carità, dunque, oltre ad essere un principio attivo di partecipazione e di inabitazione, perché si colloca nel cuore di tutti gli uomini, e ad essere un principio ontologico, perché si comunica fino all’intimità delle sostanze, e un principio di verità, perché al disopra delle apparenze, non è ladra ma arricchisce gli altri, risolvendo il problema della distanza tra l’io e il tu, e della comunicazione dell’essere, praticando il motto «ognuno in tutti tranne che in sé» e «l’arte di ricevere, che è più difficile e forse superiore alla scienza del dare». Alla domanda «come possiamo conferire l’atto e l’essere ad altri noi stessi?», Blondel così risponde nello stesso luogo citato a pagina 554: «È necessario che, facendoci per così dire oggetto impersonale e strumento dedito al servizio degli altri, arriviamo fino a quell’amore che abbraccia le caratteristiche spesso così urtanti dell’individuo. Ognuno in tutti tranne che in sé, è questo il motto della carità, la quale accorda agli altri la tenerezza indulgente che rifiuta a sé e non contenta di essere buona con loro, accetta egualmente sia la loro ingratitudine, perché vince facendo del bene a chi non è buono, sia la loro bontà,perché vince altresì diventando obbligata nei loro confronti e praticando l’arte di ricevere, che è più difficile e forse superiore alla scienza del dare» È partendo da questa relazione umana in 37


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Con Nedoncelle38 possiamo anche dire che «l’essere vero è atto; l’atto vero è amore». Nell’azione il samaritano manifesta il suo essere, la sua identità ed è un’identità non chiusa, autoreferenziale, ma con una apertura all’essere,come unità molteplice, come a dire che la differenza nella azione del samaritano non è esteriore alla sua identità personale, ma ne è l’elemento costitutivo. L’altruismo del Samaritano si base sul riconoscimento dell’altro nel sua singolarità” e nella correlazione tra correlazione stretta tra percezione e promozione dell’altro. Quindi calarsi nella situazione sofferente dell’altro, è promozione del suo essere per farsi riconoscere da parte dell’altro; è l’atto che istituisce la reciprocità, reciprocità che, pur passando attraverso le possibili tentazioni della negazione, del rispetto su noi stessi, e dell’individualismo, fonda sempre la possibilità che abbiamo di aprirci e comunicare con gli altri.

6. CONCLUSIONE Identificandoci con l’uomo malmenato, derubato e lasciato mezzo morto mentre “scendeva” da Gerusalemme a Gerico, abbiamo appreso che l’esperienza soggettiva della sofferenza vissuta dal malcapitato — abbandonato poteva essere percepita — sentita, da chi la esperiva, come indicibile e poteva risultare indecifrabile, incomprensibile, se non ci fosse stato quell’incontro con lo straniero- samaritano che saliva verso Gerusalemme, che ha ascoltato quel silenzio che strazia e che, diversamente, sarebbe rimasta una sofferenza muta perché inascoltata.

atto tra il samaritano e il malcapitato-abbandonato, che si può intravvedere una possibile fondazione di una “metafisica agapica”. 38 Con Nedoncelle,che si rifà a Bergson, Blondel e Lavelle, si delineano i pilastri di questa “metafisica agapica” dove l’essere-per sé e l’essere per l’altro sono complementari,e convergono nell’amore. All’inizio c’è la relazione che non è sostanza chiusa ma movimento circolare del reciproco donarsi dell’uno all’altro.


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Questa situazione di abbandono, di solitudine, di silenzio è come un grido, un’invocazione al soccorso di un altro, e come un voler riannodare la trama di quell’esistenza, della nostra esistenza39. La parabola del Samaritano ci induce a concludere sull’impossibilità per l’individuo di realizzarsi senza l’altro, ed è proprio questo senso del “limite” e la sua conseguente accettazione che fonda il “senso di sé”, la nostra propria identità. Il samaritano ci ha insegnato che la relazione di reciprocità, che si basa sul dono di sé e della gratuità, è all’origine non solo della mente umana, così come una certa psicologia post-freudiana ci ha insegnato, ma anche della salute psichica e condizione indispensabile per il pieno realizzarsi della personalità individuale e sociale. L’incontro con il Samaritano ci ha fatto riscoprire, ripescando la filosofia di Nedoncelle, come l’essere-per-sé e l’essere-per-l’altro siano complementari, anzi convergono nell’amore. In questo equilibrio tra l’in-sé e e il fuori-di-sé la persona trova la sua possibilità di realizzazione. L’esperienza umana dell’incontro tra il samaritano e l’abbandonato ci ha fatto riscoprire, tradotto in termini ontologici, come l’essere non è sostanza chiusa e autosufficiente o impersonale, ma movimento circolare del reciproco donarsi dell’uno all’altro. Questo ci porta a concludere che, partendo sempre dal racconto lucano del samaritano, l’essere può e deve essere ripensato in quanto amore (agape), così come ci suggeriscono l’esperienza filosofia di Blondel e del personalismo francese. Dalle considerazioni fatte a partire dalla lettura della parabola lucana del samaritano, sembra così che si possa ipotizzare una psicologia, antropologia e filosofia dell’amore, che richiama,esige una sintesi tra scienze umane e cristologia. Infine, le considerazioni fatte, a partire dalla parabola del Samaritano e dei capitoli di Matteo, ci hanno fatto riscoprire che è dal “senso del limite” che nasce la “comunità” ed inoltre che la solidarietà come dono di sé nella gratuità e reciprocità non si ferma al rapporto 39 Cfr. F. DOLTO, Psicoanalisi del Vangelo, cit.; Cfr. E. SEVERINO, Il grido, in Il parricidio mancato, Milano 1985.


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interpersonale ma si allarga al più vasto difficile piano sociale e istituzionale. Quel “lo consegnò all’oste” ci impegna a poter ripensare l’economia come un segno tangibile della speranza di poter realizzare la giustizia e la pace, già a partire da questa terra.


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UNA RIVISTA INGIUSTAMENTE NEGLETTA. LA SICILIA SACRA DI MONS. BOGLINO

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Ad un .trentennio dalla terza edizione della Sicilia Sacra di Rocco Pirri, protratta fino ai suoi tempi da .Antonino Mongitore1, si sentiva già la necessità o, quanto meno, l’opportunità di ulteriori precisazioni e di un nuovo aggiornamento. Morto il Mongitore (Palermo 1663-1743), sin dal 1761 si era costituita a Palermo, presso la Biblioteca Comunale, appena inaugurata l’anno precedente (1° settembre 1760), una apposita commissione allo scopo di correggere e continuare l’opera, di cui si erano fatti promotori alcuni dei maggiori protagonisti della vita intellettuale siciliana del Settecento, Domenico Schiavo (†1773), il primo bibliotecario, Gabriele Lancellotto Castelli, principe di Torremuzza (†1792), Francesco Tardia (†1778), Tommaso Angelici (†1809), il benedettino Salvatore Di Blasi (†1814) e il suo discepolo Giovanni D’Angelo (†1832)2. Raccolta una serie di documenti, erano *

Cultore di Storia siciliana. R. PIRRI, Sicilia Sacra disquisitionibus et notitiis illustrata, editio tertia emendata et continuatione aucta cura et studio Antonini Mongitore, apud haeredes Coppulae, Panormi, 1733 (rist. an. con introd. di F. Giunta, Forni, Bologna 1987). Per le mende di tale edizione il Mongitore e l’Amico avevano ristampato le aggiunte in volumi autonomi: Siciliae Sacrae libri quarti integra pars seconda, tertia et quarta reliquiae abbatiarum ordinis S. Benedicti, quae in Pirro desiderantur notitiae complectens…, Catanae, tipys Bisagni, 1733; Siciliae Sacrae celeberrimi abatis netini D. Rocchi Pirri additiones et correctiones, Panormi, typis A. Felicella, 1755. 2 Il D’Angelo ha scritto una biografia del Di Blasi, inserita nel terzo volume dell’opera di G.E. ORTOLANI, Biografia degli Uomini Illustri della Sicilia, Gervasi, Napoli 1819 (rist. an. Forni, Bologna, 1988), ad vocem. Per tutti: D. SCINÀ, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo (introd. di V. Titone), Ed. Reg. Sic., Palermo, 1969, vol. II, pp. 85-96; vol. III, 140-145; 151-153; G.M. MIRA, Bibliografia 1


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state predisposte alcune memorie che per la maggior parte non avevano visto la luce a causa di varie difficoltà, soprattutto di natura economica, e giacciono manoscritte presso quella Biblioteca3. L’iniziativa fu ripresa4, nel secolo successivo, da Luigi Boglino (Palermo 1850-1917), canonico della Chiesa metropolitana di Palermo, professore di storia ecclesiastica nel locale seminario e bibliotecario della Comunale (diretta all’epoca, e fino alla morte, da Gioacchino Di Marzo)5, già noto ed apprezzato non solo per le funzioni esercitate ma altresì per l’edizione di un carteggio inedito del Meli6, di alcuni saggi su Pietro Fullone7 e di storia .ecclesiastica8 e di altri articoli che avevano visto la luce .sull’Archivio Storico Siciliano sin dal 18849. La maggiore notorietà di studioso era collegata soprattutto alla pubblicazione di un Siciliana ovvero Gran Dizionario Bibliografico, Gaudiano, Palermo 1875 e 1881 (rist. an. Forni, Bologna, 1973), vol. I, pp. 40, 109-110 e 196-198; vol. II, pp. 396-397; Dizionario dei Siciliani illustri, F. Ciuni, Palermo, 1939, pp. 109-110 (Castelli) e 409 (Schiavo). 3 Soprattutto ai segni: Qq F 148, Qq H 121, Qq H 122, Qq C 17 a-b. 4 Già nel 1860 Girolamo Di Marzo Ferro aveva pubblicato uno Stato presente della Chiesa di Sicilia ossia continuazione della Sicilia sacra di Rocco Pirri, Off. Tip. Lo Bianco, Palermo. 5 Fra i pochi e scarni scritti sul Boglino: Dizionario dei Siciliani illustri, Palermo, 1939, ad vocem, 74-75; C. FRATI, Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari e bibliografi italiani dal sec. XIV al XIX, Firenze, 1933, 104-105; M. PARENTI, Aggiunte al Dizionario … di Carlo Frati, vol. I, Firenze, 1957, p. 150; G. D’ANNA, in www.comune.palermo.it/archivio_biografico_comunale/schede/luigi_boglino; S. BUTTÒ – A. BRESCIANI (cur.), Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari italiani del XX secolo, www.aib.it/aib/editoria/dbbi20/boglino. 6 L. BOGLINO, Carteggio inedito di Giovanni Meli sugli autografi, Tip. del Giornale Il Tempo, Palermo, 1881. 7 ID., Intorno ad un poemetto inedito in ottava rima di Pietro Fullone, Montaina, Palermo, 1878; ID., Di alcune notizie su Pietro Fullone: lettera al prof. Giuseppe Pitrè, «Nuove Effemeridi Siciliane», vol. 10, 1881. 8 ID., Palermo e Santa Cristina: memorie e documenti, Letture Domenicali, Palermo, 1881 (2 ed. 1882); ID., La Sicilia e i suoi cardinali: note storiche, Tip. dell’Armonia, Palermo, 1884; ID., Di San Filippo diacono cittadino palermitano e del suo culto in Sicilia, Tip. Tamburello, Palermo, 1887. 9 ID., Di un codice messale della prima metà del duodecimo secolo esistente nella Biblioteca Comunale di Palermo, A.S.S. n.s., IX, 1884, pp. 257-305; ID., Sopra un codice penitenziale del XII secolo posseduto dalla Biblioteca Comunale di Palermo, A.S.S. n.s., X, 1885, 341-369; L’ambasceria di Enrico Chiaramonte e di Fra Paolo dei Lapi al Re


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catalogo dei Manoscritti della Biblioteca Comunale di Palermo indicati secondo le materia, iniziato nel 1884 e giunto al secondo volume10, con una accurata descrizione degli stessi, che aveva costituito un importante progresso rispetto alla precedente opera iniziata da G. Rossi e proseguita dal Di Marzo11, ed aveva ricevuto ottima accoglienza e positive recensioni (A.S.S. n.s., X, 1885, pp. 166-168). La particolare conoscenza dei manoscritti della Comunale lo poneva inoltre in condizione di utilizzare al meglio quel prezioso materiale. Occorreva assicurare all’opera una certa sicurezza non solo economica ma altresì mediante il coinvolgimento di collaboratori idonei alla ricerca negli archivi locali. Per concretizzare la sua idea il Boglino attese quindi l’inizio delle annunciate Conferenze dei vescovi siciliani che si sarebbero tenute in Palermo nel 1891 al fine di .esporla ai Presuli e ad ottenerne il sostegno. All’inizio .della prima tornata, con una lettera (in verità alquanto ampollosa) al cardinale Michelangelo Celesia che la presiedeva espose l’idea di pubblicare una Effemeride della Chiesa di Sicilia, un periodico mensile che servisse di continuazione all’opera del Pirri. Alla lettera era allegato il programma, per il quale i lavori da pubblicare si sarebbero dovuti condurre lungo tre direttrici: retrospettiva, allo scopo di meglio illustrare, integrare ed eventualmente correggere i dati del Pirri; continuativa, per estendere le ricerche alle epoche successive, e contemporanea, con una compiuta panoramica attuale. Il progetto era ambizioso, anche se alquanto complesso ed in parte velleitario, prevedendo la distribuzione dei saggi in cinque serie, di cui la prima dedicata ai “lavori generali”, da suddividersi in tre classi, la seconda ai “lavori per servire alle correzioni ed Martino ed alla Regina Maria per la sommessione alla regia ubbidienza delle città di Palermo e Monreale, A.S.S. n.s., XV, 1890, 169-178. Ivi anche (A.S.S. n.s., VII, 1882, 354409) la pubblicazione di un manoscritto della Biblioteca Comunale contenente una Relazione sincrona dei fatti di Giuseppe d’Alessi. 10 Al vol. I (A – C), pubblicato nel 1884, era seguito nel 1889 il vol. II (D – L); l’opera sarà poi continuata nel 1892 col vol. III (M – Q) mentre il vol. IV (R – Z) apparirà nel 1900. M.E. ALAIMO, Ricordo di Luigi Boglino bibliotecario palermitano, «Almanacco dei Bibliotecari Italiani. 1967», Roma, 1967, 141-147. 11 G. ROSSI – G. DI MARZO, I manoscritti della Biblioteca comunale di Palermo indicati e descritti dal can. Gaspare Rossi (il primo) e poi dall’ab. Gioacchino Di Marzo (gli altri), Palermo 1873-1934.


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aggiunte od ampliamenti alla Sicilia Sacra”, divisa in ben quindici classi, la terza ai “lavori continuativi dal secolo XVII al secolo XX”, la quarta ai “lavori completivi”, costituita da dieci classi, e la quinta destinata alla “cronistoria” (Prospetto sinottico sistematico dei lavori de La Sicilia Sacra, in Sic. Sacra, I, pp. 16-20). L’iniziativa era apprezzata dal Cardinale, che già in precedenza ne era stato messo a parte dal Boglino, e fu subito comunicata .agli altri vescovi, ben consci dell’importanza della stampa e della speciale utilità di quella cattolica, come avrebbero sottolineato nelle loro discussioni e nei deliberati finali. Si stabilì di incaricare l’arcivescovo di Monreale, mons. Domenico Gaspare Lancia di Brolo, di esaminare il programma e di riferirne in una delle successive Conferenze (Le Conferenze episcopali della Regione Sicula tenute in Palermo nell’aprile del 1891. Lettera pastorale, Tip. Boccone del Povero, Palermo 1891, p. 20). La scansione temporale tra le Conferenze impose un lasso di tempo di ben sette anni12 perché l’arcivescovo di Monreale potesse presentare una relazione, nettamente positiva, ai Confratelli. Il plauso e l’incoraggiamento di ciascuno giunse spontaneo e convinto; vi si associarono mons. Vincenzo Di Giovanni, presidente dell’Accademia di Scienze Lettere ed Arti di Palermo e Vice presidente della Società Siciliana di Storia Patria, cultori di storia e l’influente Segretario di Stato di Leone XIII, il cardinale siciliano Mariano Rampolla del Tindaro, che di lì a poco avrebbe sfiorato il Soglio pontificio13 (Sic. Sacra, I, pp. 6-16). I vescovi approvavano quindi l’iniziativa lasciando al proponente ogni libertà in ordine alla organizzazione del periodico e dei mezzi (Le Conferenze episcopali della Regione Sicula tenute in Palermo nel settembre del 1898. Lettera pastorale, Tip. Boccone del Povero, Palermo 1898, p. 21)14. Nel ringraziare, il Boglino non mancava 12 Oltre a dedicarsi al terzo volume dei Manoscritti, il Boglino aveva ancora pubblicato, nel 1894, una Storia della cappella di S. Pietro della reggia di Palermo e nel 1897 un Discorso recitato nella metropolitana di Palermo: Il ringraziamento a Dio per l’anno 1896. 13 Sul cardinale Rampolla del Tindaro, da ultimo: C. CERAMI (cur.), La figura e l’opera del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, Caltanissetta, 2006 (Storia e Cultura di Sicilia, 19). 14 Sulle .Conferenze episcopali del 1891 e del 1898: F. G. SAVAGNONE, Concili e


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di richiederne la collaborazione per l’individuazione e per la segnalazione di soggetti .idonei a contribuire all’opera o che si impegnassero a comunicare gli avvenimenti delle Chiese locali da inserire in una apposita rubrica. La rivista vide la luce agli inizi del 1899, col fascicolo di «gennaro» e con il titolo «La Sicilia Sacra. Effemeride per la Storia della Chiesa Siciliana», sotto la direzione del Boglino, il quale aveva provveduto a raccogliere già un congruo numero di memorie; la copertina era incorniciata da un ricco fregio con un doppio riquadro centrale — in alto con la Trinacria ed in basso con l’Aquila di Palermo — e da due riquadri laterali; era prevista una periodicità mensile, in fascicoli in 4° piccolo, ciascuno di tre sedicesimi, per complessive quarantotto pagine; la stampa era affidata alla Scuola Tipografica «Boccone del Povero», da poco fondata da Giacomo Cusmano (1834-1888), elevato agli onori degli altari nel 1983, e dalla sua «Congregazione Missionari Servi dei Poveri» (1887)15 per dare una istruzione tecnica ai giovani e garantire loro un lavoro, la quale ha continuato a stamparla fino all’ultimo numero. Il periodico era offerto in abbonamento a £. 5,00 annue, ma la direzione concedeva particolari facilitazioni .ai sacerdoti che lo potevano ottenere, previa autorizzazione, dedicando sei messe secondo le intenzioni del direttore ed inviando il relativo attestato; il volume annuale, rilegato, era posto in vendita a £. 10,00 (£. 8,00 per i nuovi abbonati). Della Sicilia Sacra sono state pubblicate sei annate, dal 1899 al 1904, riunite in sei volumi, ciascuno dei quali contenente 568 pagine di testo, ed 8 pagine, con numerazione romana, di frontespizio ed indici, forniti alla fine dell’anno unitamente alla copertina: sino alla fine è stato mantenuto quindi l’impegno inizialmente assunto, anche se talvolta due dispense sono state unificate in un unico fascicolo, riduSinodi di Sicilia, Atti R. Acc. Sc., Lettere e Belle Arti di Palermo, III s., 9 (1908-1911) 200-202; 204-206. 15 Preceduta, sin dal 1867, dalla «Associazione del Boccone del Povero». Sul Cusmano, fra i tanti: T. GRZESZCZYK, Giacomo Cusmano. Medico Sacerdote Fondatore Padre dei Poveri, Roma, 1982; M.T. FALZONE, Giacomo Cusmano, Caltanissetta, 1992 (Studi del Centro “A. Cammarata”, 4); gli Atti dei vari Convegni Cusmaniani e l’ampio Epistolario, Boccone del Povero, Palermo, 1952 ss..


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cendo questi a sei nel quarto e nel quinto anno (1902-1903) ed a quattro nel sesto (1904). Nei fascicoli, con numerazione progressiva delle pagine, non è ripresa la macchinosa partizione in serie ed in classi del programma, che riemerge negli indici annuali; le varie serie sono precedute da «articoli d’introduzione», destinati ad illustrare la vita della rivista, e concluse con due rubriche fisse: «Movimento intellettuale della Chiesa Siciliana» e «Cronaca della Chiesa Siciliana». Dalla seconda alla quarta di copertina, oltre al sommario, l’elenco degli associati e la corrispondenza con gli autori (accettazione di manoscritti da pubblicare od osservazioni circa la loro adeguatezza o meno) e con i lettori, non scevra da .sollecitazioni alla collaborazione e da altre — più generiche — a far pervenire l’importo dell’abbonamento o l’attestato delle messe celebrate. La rivista ebbe subito, sin dal suo primo apparire, accoglienze favorevoli, con recensioni positive su diversi altri periodici, quali la Poliantea Oratoria (a. XX, fasc. 17), il Cittadino (a. IX, n. 26), Il Zelatore Cattolico (a. V, fasc. 2), la sturziana Croce di Costantino (a. 1899, n. 23) ed i più diffusi La Sicilia Cattolica (a. XXXI, n. 265) e Letture Domenicali, che in un lungo articolo, pubblicato sul n. 18 del 6 maggio 1900, riconosce al direttore di avere ereditato lo spirito del Pirri e del Mongitore sottolineando la ricchezza dei documenti inediti portati alla luce; della stessa si interessarono altresì periodici a diffusione nazionale, quali la Civiltà Cattolica, e stranieri, come gli Annales Catholiques (a. XXX, fasc. 1): recensendo il primo volume, appena completato, nel fascicolo del 17 febbraio 1900, la Civiltà Cattolica afferma che ogni argomento vi «è trattato svolto ed illustrato con istudio degno di lode e di ammirazione» e che «quando sia condotta al termine quest’opera farà certamente onore al Clero della Sicilia ed arrecherà grande utile così agli scrittori, come agli amatori della storia ecclesiastica e delle patrie notizie». Anche il Pontefice Leone XIII espresse il suo plauso, augurando, con una lettera del 31 gennaio 1900: «fortasse etiam quamdam imitationis sollertiam in aliis regionibus excitabit» (Sic. Sacra, III, 1). Non si potrebbe dire altrettanto del successo finanziario, che doveva fare i conti con la limitata diffusione della stampa in genere e di quella specialistica in particolare: dagli elenchi pubblicati risulta che gli abbonati in regola nell’abbonamento per il secondo anno erano 301, per


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la maggior parte sacerdoti, fra cui qualche religioso (legittimo presumere per il convento dell’Ordine), anche se non mancavano dei laici. Nei sei anni di vita del periodico sono state pubblicate ben 3.408 pagine di testo, e .137 saggi di varia estensione, distribuiti spesso in più fascicoli, talvolta anche di anni successivi: si va dall’opera del Boglino sulla Metropolitana di Palermo, di ben 315 pagine, ad altre di poche pagine; una loro analisi evidenzia che 4 saggi (oltre quello citato del Boglino) raggiungono o superano le 100 pagine, per sfiorare le 200, altri 7 superano le 50 pagine e 13 le 30; gli altri 108 articoli occupano, quindi, le rimanenti 1.418 pagine, con una media ancora consistente di 13,12 pagine ciascuno. Il maggiore aggravio fu sempre del .direttore (indicato .anche con la sigla M.L.B. e talvolta anonimo) cui si devono 15 articoli su 26 nel primo anno (57,69%), benché egli attendesse ancora alla sua opera maggiore sui manoscritti della Comunale. Questa percentuale diminuisce negli anni successivi, allorché egli stesso si compiace per l’aumento delle collaborazioni esterne: i suoi contributi assommano, comunque, a 58 su 137 articoli, pari al 42,33% del totale. Gli autori (come i lettori) sono normalmente sacerdoti o religiosi, alcuni ben noti nell’ambito scientifico (basti citare Vincenzo Strazzulla), le cui opere più corpose hanno avuto, anche di recente, edizioni autonome, eventualmente ampliate (così L’Alcamo Sacro di Giovan Battista Bembina16, La Mazara Sacra di Pietro Safina17, l’opera di Francesco Pulci sulla Chiesa di Caltanissetta18, o quelle su Poggioreale, di Nunzio Caronna19, e su Castroreale, di Mario Burrascano20, rimasta incompiuta sul periodico), sicché può affermarsi che la rivista è stata anche, 16 G.B. BEMBINA, Alcamo Sacro, con note di P. M. Rocca, riv. ed accr. da F.M. Mirabella, Acc. di Studi Cielo d’Alcamo, Alcamo, 1956. 17 P. SAFINA, La Mazara Sacra, Palermo, 1900, e in V. INGRASCIOTTA (cur.), Annali del Liceo Gian Giacomo Adria, 7, 1993, 1-121. 18 In F. PULCI, Lavori sulla storia ecclesiastica di Caltanissetta, a cura di C. Naro, Caltanissetta 1977, parte prima, cap. 1. 19 Ristampata come Memorie storiche di Poggioreale, Stab. Tip. Marsala, Palermo, 1901. 20 M. BURRASCANO, Memorie storico ecclesiastiche di Castroreale, Tip. Nobile, Palermo, 1900 (pubblicato quale “estratto” de La Sicilia Sacra, ma in realtà più completo).


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in alcuni casi, di stimolo per ulteriori approfondimenti. Non mancano i contributi di studiosi laici, come il giurista Luigi Sampolo (sul preteso vescovato di Carini), fondatore presso la locale università di quel «Circolo Giuridico» che alla sua morte ne prenderà il nome, o autori che, avendo già affrontato un determinato argomento, riassumono l’esito dei loro studi, come l’avv. Alceste Roccella per i saggi su Piazza Armerina. Gli articoli, come in tutte le opere collettive, sono di vario spessore culturale per il diverso rilievo dei singoli autori, ed hanno, normalmente, carattere descrittivo, secondo la prospettiva propria della storiografia dell’epoca. Gli stessi contengono spesso un notevole numero di documenti originali sino allora inediti (per ampiezza di documentazione si segnala l’opera dello Schirò su Contessa Entellina); molti, soprattutto del direttore, si fondano sui manoscritti della Biblioteca Comunale di Palermo (alcuni dei quali portati per la prima volta a conoscenza dei lettori e pubblicati integralmente), alla cui descrizione il Boglino aveva dedicato e dedicava la sua attività di studioso. Gli argomenti spaziano su vari temi, anche se incentrati soprattutto sulla storia delle Chiese locali per l’epoca successiva all’opera del Pirri-Mongitore, fornendo .notizie difficilmente rintracciabili e su argomenti successivamente solo sfiorati o non più adeguatamente trattati, come il saggio del Di Pietro sui Mercedari; nel primo volume è inserito un Prospetto della Chiesa di Sicilia nella fine del secolo XIX, su dati forniti dagli ecclesiastici designati dai vescovi, anche se non tutti avevano tempestivamente risposto all’invito del direttore, costretto a lamentarne l’incompletezza (Sic. Sacra, I, 128-129). La rubrica «Movimento intellettuale del clero siciliano» contiene sostanzialmente una serie di recensioni spesso di opere ed opuscoli di limitato rilievo o di circostanza. Non manca tuttavia la presentazione di opere di solida cultura, che anche successivamente sono state ritenute degne di essere ripubblicate, o quali l’articolo di Paul F. Kehr appena pubblicato su Nachrichten von der Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen, Phil.-Hist. Kl., 1899, pp. 338-368), le opere di diritto canonico del Lo Re, i «regesti» dello Gnoffo per gli «Atti della Città di Palermo», alcune lettere pastorali (di mons. Nicola Audino, del 1899, Giovanni Blandini, del 1901, Gaetano


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D’Alessandro, del 1902, e così via), opere (di Nunzio Caronna, Salvatore Di Bartolo, Francesco Fisichella) che si inscrivono nel dibattito sorto a seguito della presentazione al Parlamento italiano dei disegni di legge per l’istituzione del divorzio, o che si inseriscono nell’ambito dell’azione sociale della Chiesa siciliana (quale la Lettera di mons. Bartolomeo Lagumina del 1899 sulle Casse rurali), il Bollettino della Società Antischiavista21. Il titolo dell’ultima rubrica — «Cronaca della Chiesa siciliana» — ne indica chiaramente il contenuto: sono descritti, per ciascuna diocesi, nomine ed incarichi di curia, e, spesso con abbondanza di particolari, cerimonie, processioni ecc., la cui presenza fornisce un completo panorama dell’attività, quanto meno formale, delle Chiese locali. Con la fine del sesto anno cessa la vita della rivista. L’impresa non aveva, nei propositi del suo ideatore, carattere indefinito, prefiggendosi un obiettivo determinato, l’aggiornamento e l’integrazione dell’opera del Pirri. (Sic. Sacra, V, 1-3), anche se non si può nascondere che ci sarebbe stato ancora molto o moltissimo da fare o da poter fare. Sin dall’anno precedente mons. Boglino aveva considerata già «ottenuta la comune aspettazione a quelli che furono voti a principio»; la lettera «Ai Nostri Lettori», sul primo fascicolo del 1904, costituisce quasi un consuntivo del lavoro svolto, i cui primi cinque volumi erano stati presentati all’Episcopato nel corso della terza Conferenza svoltasi l’anno precedente22. Il direttore non nasconde tuttavia una certa amarezza per non aver ricevuto quel sostegno che gli era stato promesso, che si aspettava e che continuava ad auspicare («nessun movimento serio e sistematico ci è dato rilevare a favore del nostro periodico», che «si attende ai fatti quello incoraggiamento che fu promesso dallo episcopato»), affermando che «la responsabilità del vuoto cadrà tutta su quelle diocesi che esistettero, come non fossero esistite durante la compilazione del nostro lavoro» (Sic. Sacra, VI, 1-2)23. 21 Sostituiva, dal 1891, il Bollettino del Comitato Centrale Antischiavista di Palermo per la Sicilia, sorto nel 1888 nell’ambito del precedente Comitato nato .ad iniziativa del cardinale Michelangelo Celesia. 22 F.G. SAVAGNONE, cit., 206-209. 23 La cessazione della pubblicazione non era sicuramente nelle intenzioni del Boglino sin dall’inizio dell’anno, tant’è che alcuni saggi (Burrascano, Di Salvatore) sono


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La ricchezza di dati e documenti fornita dalla rivista è rimasta a lungo, per circa un secolo, quasi negletta, anche se quei dati e quei documenti sono stati talvolta utilizzati, se non saccheggiati, senza indicare la fonte e solo di recente si avverte una ripresa di interesse24. La storia della Chiesa in Sicilia ha visto, negli ultimi decenni, un accrescersi di ottimi contributi, attraverso riviste a carattere nazionale25 e di altre, espressione di Istituzioni universitarie pontificie26, di intere collane27 e di convegni28, oltre che di importanti opere singole, che sarebbe lungo elencare. Riteniamo tuttavia possa risultare utile un indice della Sicilia Sacra, che possa riportare alla luce contributi ancora validi approntando agli studiosi uno strumento indispensabile per la sua utilizzazione e stimolandone l’approfondimento.

rimasti interrotti. Il Boglino, che aveva già completatato l’opera sui Manoscritti (tranne i promessi «indici», che non vedranno la luce), darà ancora alle stampe: La monumentale chiesa di Santa Maria in Valverde in Palermo: sacra al culto di Santa Lucia, Palermo, 1907; e, con altri: Sulla proposta di affrancamento di un’annua prestazione dovuta dalla Mensa arcivescovile di Palermo al clero della collegiata, Palermo, 1913. 24 Precisi riferimenti sono contenuti, ad esempio, nelle bibliografie dei saggi della Storia delle Chiese di Sicilia, a cura di G. Zito, Città del Vaticano, 2009. 25 Ci riferiamo soprattutto, ovviamente, alla Rivista di Storia della Chiesa in Italia, ma anche alle riviste degli Istituti Storici dei vari Ordini religiosi. 26 Quali le riviste Ho Theológos, della Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia, o Synaxis, dello Studio Teologico San Paolo di Catania. 27 Da ricordare, anzitutto, le edizioni del Seminario di Caltanissetta, curate dal compianto mons. Cataldo Naro, gli Studi del Centro “A. Cammarata”, la Collana del Centro per lo studio della storia e della cultura di Sicilia “mons. Travia”, i Quaderni di Synaxis, le pubblicazioni dell’Officina di Studi Medievali di Palermo, incentrati soprattutto sul Francescanesimo, ecc.. 28 Fra questi gli Atti dei tre convegni su Chiesa e Società in Sicilia organizzati dall’arcidiocesi di Catania nel 1992 (L’età normanna), nel 1993 (I secoli XII – XVI) e nel 1994 (I secoli XVII - XIX), a cura di G. Zito, Torino, 1995.


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P. WUST, L’uomo e la filosofia, cura di E. Piscione – M. Tamburino, Roma 2009, pp. 112. La filosofia è sempre un rapporto di dialogo meditativo con i filosofi, un esercizio, come si dice, di con-filosofare. Proprio perciò questo libro, che è un’opera postuma dell’Autore, quasi l’esito finale più maturo di tutto il suo cammino di pensiero, è da considerarsi un’utile occasione per riflettere sulle problematiche eterne della ricerca filosofica. L’opera assume un particolare valore educativo specialmente in tempi come i nostri di crisi globale ed epocale, merito, va detto, del prefatore e del traduttore, non solo perché hanno voluto far conoscere in Italia un pensatore pressoché sconosciuto, ma anche per la pregevole sintesi introduttiva e per la resa chiara ed efficace della traduzione dal tedesco. Diciamo subito con Wust, che il compito della filosofia è quello di condurre l’uomo ad una metanoia, cioè ad un cambiamento di mentalità, dall’empirico al metafisico, la cui conquista è frutto di una lotta continua, di una ascesi, per raggiungere quella visione alta della vita e dell’esistente alla luce della verità che ci farà apparire noi stessi e il mondo nella vera realtà. La struttura del testo consta di sette capitoli, la cui articolazione è quella della dialettica platonica di diàiresis e synagoghè (divisione e unificazione); ogni capitolo è diviso in due parti come a sua volta ogni questione è divisa in modo dicotomico. Ma il tutto concatenato in modo organico. La finalità è quella di farci scoprire la perfetta coincidenza tra il procedere della filosofia con lo sviluppo e maturazione dell’uomo e qui sta il valore pedagogico della filosofia, il cui carattere autentico, che muove dalla sua radicale criticità, inficia le varie assolutizzazioni sia delle scienze come di ogni altra pretesa simile.


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Cerchiamo ora di indicare brevemente alcuni temi del rapporto tra: «L’uomo e la filosofia» che si svolgono nei vari capitoli del testo. Non ci si può non chiedere, innanzi tutto, cosa sia la filosofia. Il pensiero del nostro filosofo va inquadrato nell’indirizzo a lui contemporaneo della Filosofia esistenzialistica i cui rappresentanti, richiamati dall’autore stesso sono: Kierkegaard, Heidegger, Jaspers. Rigore logico impone, a questo punto, chiedersi se la filosofia possa essere considerata una scienza? La risposta è positiva, ma la ricerca filosofica va ritenuta un sapere del tutto particolare, in quanto come scienza essa non progredisce mai, rivolta com’è a dar risposte a problemi di sempre e fra questi, principalmente quello di Dio. Alla sfera metafisica, caratterizzata, secondo il pensatore di Münster, da insecuritas humana si contrappone però una sicuritas humana propria della matematica, affermazione che non deve essere considerata in modo dogmatico, perché Wust conosce bene, che anche il sapere matematico poggia su principi insicuri per la “crisi dei fondamenti”. Si può dunque parlare di una certezza razionale della matematica fondamentalmente sicura e di una certezza razionale filosofica fondamentalmente insicura, in quanto essa deve ripensare sempre le sue origini, il fondamento della propria certezza per autocostituirsi come scienza del tutto particolare, di carattere metafisico, e per ciò come la prima scientia o la regina scientiarum. Esiste, secondo Wust, una stretta relazione fra filosofia come scienza e la filosofia come potere culturale e formazione umana, cioè, come saggezza. Tra le due espressioni della filosofia si deve instaurare, secondo il Nostro, un rapporto tensivo. Bisogna ancora guardarsi dai rischi e pericoli insiti nella stessa filosofia e propri dell’ambiguità dell’umano. In primo luogo il rischio di una possibile mancanza di moderazione, per cui la ragione può facilmente dirigersi verso la smoderatezza. L’altro rischio speculativo è costituito dal nichilismo che rappresenta, per dir così, il rischio dei rischi. Wust, tuttavia, mostra tutta la portata e la profondità del suo pensiero nel sapersi lealmente confrontare persino col negativo e nel valorizzarlo.


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Da quale corrente filosofica, ci chiediamo infine, può emergere una integrale antropologia? Proprio dal pensiero esistenziale che ha riproposto il problema del significato del soggetto nelle due polarità dell’intelletto e della volontà, della riflessione e della devozione, dello “spirito avventuroso” e di “ritorno a casa”, e in questa dialettica si muove la filosofia, tra l’atto della conoscenza e l’atto della dedizione, tra l’atto della chiarezza e l’atto dell’amore. Ma proprio per l’ambiguità o misterioso paradosso della struttura della persona si può correre il pericolo della unilateralità o assolutizzazione di ciascuno dei due poli, di una reflexio sine devotione, come nelle filosofie immanentistiche e antimetafisiche e nelle epistemologie contemporanee. L’altro rischio è quello di una devotio sine reflexione come è il caso di una religione che voglia fagocitare la filosofia. Wust propone invece una sintesi virtuosa di una reflexio cum devotione: nulla è conosciuto che non sia prima amato, e viceversa, nulla è amato che non sia prima conosciuto. Quando all’anelito di verità dell’uomo si accompagna l’amore rispettoso dell’essere e dell’oggettività, allora l’essere umano si potrà avviare verso la misteriosa regione del soprannaturale, senza rinunciare alla propria libertà di pensiero. Al vertice della sua rigorosa riflessione il filosofo di Münster giunge ad affermare che non è il sapere che realizza l’uomo, ma l’amore. «L’uomo in quanto tale, infatti, non può mai essere valutato e misurato in relazione a quello che sa o sulla quantità del suo sapere, bensì soltanto sulla base di quanto ha amato e sulla sua disponibilità e capacità di amore totale». Salvatore Latora


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M. GAGLIARDI, Lumen Gloriae. Studio interdisciplinare sulla natura della luce nell’Empireo dantesco, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, pp. 188. Il volume di Mauro Gagliardi analizza i canti della Divina Commedia in cui Dante descrive la sua visita nel cielo Empireo (Paradiso XXVIII-XXXIII), con lo scopo di comprendere, attraverso un approccio interdisciplinare, la natura della luce che lo caratterizza. Approccio interdisciplinare perché l’Autore prende in considerazione il “tema” della luce dal punto di vista letterario (poetica della luce) nella prima parte del suo studio; dal punto di vista scientifico (fisica della luce) nella seconda parte; dal punto di vista filosofico (metafisica della luce) nell’ultima parte del suo saggio, dimostrando come la luce sia, proprio negli ultimi canti del Paradiso, uno strumento letterario disponibile a diverse declinazioni. Tutto ciò avendo sempre chiaro lo sfondo culturale su cui i canti vanno compresi. Gagliardi, attraverso un’analisi puntuale tenta una sintesi poetica tra fede, arte e cultura non solo correggendo alcune valutazioni classiche del luminismo dantesco, ma anche dimostrando che la natura della luce nell’Empireo descritto dall’Alighieri sia da definire mediante la categoria teologia del lumen gloriae, ovverosia quella luce soprannaturale che permette alle anime beate di vedere e conoscere l’essenza divina. Il tema della luce “viene studiato a cavallo tra letteratura e filosofia, utilizzando, come ponte tra le due, le scienze positive” (p. 7). Dal canto XXVIII in poi, sino al canto XXXIII, vertice strutturale di tutto il Paradiso, il tema della luce non solo assume un’importanza centrale, ma si connette sempre più direttamente a Dio, fonte stessa della luce. Per questa ragione gli ultimi canti del Paradiso sono accomunati dal crescendo della visione di Dio sino a giungere allo stato di perfezione nella visio beatifica (p. 8); una visione, cioè, a cui non si accede per speculum et in aenigmate, secondo l’espressione palina, ma mediante una visione immediata e intuitiva della realtà divina, propria della scienza dei beati i quali senza alcuna intermediazione contemplano Dio, intensissimo punto di pura luce da cui scaturisce ogni altra luce. A partire dall’analisi condotta nella prima parte dello studio, Gagliardi giunge a una importante conclusione: “La


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poetica della luce non è un elemento accessorio in questi ultimi canti del Paradiso: non è un accidens, in mancanza del quale la struttura generale del dettato dantesco si reggerebbe in piedi con uguale solidità. Qui la poetica della luce è essenziale: l’Empireo è regno di luce, quella luce che proviene da Dio, anzi che è Dio” (p. 32). Dire questo significa affermare che per Dante, così come per i suoi contemporanei, la luce non può affatto essere spiegata sulla base di un’investigazione dei soli processi fisici che la riguardano. Ma allora, si chiede lo stesso Autore nella sue riflessioni conclusive, “in che modo Dante intende la luce negli ultimi canti del Paradiso?” (p. 167). Se da una parte alcuni critici vedono nella Commedia una traduzione in versi della teologia e dell’opera di San Tommaso d’Aquino, dall’altra si incontrano diversi altri studiosi che prediligono un’influenza bonaventuriana e in definitiva neoplatonica sull’opera dantesca, mentre un terzo gruppo di analisti ritengono che sia invece la via mediana quella da prediligere: Dante fu in realtà un eclettico e un sincretista che fece dialogare elementi filosofici eterogenei (p. 167). Gagliardi, da parte sua, seppure riconosca che il pensiero dell’Aquinate costituisca un elemento imprescindibile per la comprensione dell’opera dantesca, è anche convinto che “qualche dantista operi la sua interpretazione degli ultimi canti del Paradiso proprio in base a semplificazioni eccessive” (p. 168) mentre, a ben guardare, è possibile riscontrare nell’opera dantesca affinità sia con la tradizione aristotelica che con quella neoplatonica, senza per questo uniformarsi ad una scuola particolare o abbracciarne totalmente i presupposti teorici o le conclusioni. Dante, in tal senso, “mette insieme elementi eterogenei, appartenenti a diverse tradizioni di pensiero” (p. 174) seppure, aggiunge Gagliardi, c’è da dire che nel fare questo il Sommo Poeta non si consegna ad un’operazione arbitraria, ma porta avanti un disegno preciso in base ad un elemento unificante: la fede cristiana, sia come fides qua che come fides quae: “La luce dell’Empireo è irradiazione della gloria di Dio su Maria, sugli angeli, sui beati. È il lumen gloriae dei teologi scolastici, il raggio di grazia, risalendo il quale si giunge alla fonte, che è Causa Prima e Causa Finale, essendo l’Ipsum Esse Subsistens e il Sommo Bene” (p. 175). Dire questo significa riconoscere che la figurazione della luce nella pericope dantesca analizzata da Gagliardi (non una metafisica, ma una


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simbolica della luce) descrive la progressiva purificazione della vista spirituale che da Dio stesso viene resa “capace” di vedere il Sommo Bene, la Sorgente della luce, e di fissarsi definitivamente e perfettamente in Lui. In conclusione, lo studio di Gagliardi, arricchito da una bibliografia essenziale posta alla fine dell’opera, si contraddistingue non solo per la chiarezza e la linearità dell’esposizione che non toglie nulla alla profondità dell’analisi critica del testo dantesco e degli studi che lo riguardano, ma anche perché regala al lettore, sempre più sottoposto alle continue “vessazioni” derivanti dalla pubblicazione di libri e studi non sempre indispensabili e arricchenti, la “grazia” di riaccostarsi alla Commedia dantesca che non smette mai di consegnarci straordinarie e inedite suggestioni. Francesco Brancato

F. ARMETTA (cur.), Dizionario enciclopedico dei pensatori e dei teologi di Sicilia. Secc. XIX-XX, 6 vol., Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2010, pp. 3326 + CLX (Collana Storia e Cultura di Sicilia del Centro per lo studio della storia e della cultura di Sicilia “Mons. Travia” della Facoltà Teologica di Sicilia). 754 voci; 209 autori; 96 ritratti a colori di personaggi oggetto delle voci del Dizionario: questi i numeri di un’opera che si impone nel panorama culturale siciliano, e non solo, alla fine del primo decennio del 2000. Presentare diverse centinaia di personaggi e coinvolgere numerosissimi estensori delle voci, rappresenta un innegabile merito di chi ha avuto la pazienza e la tenacia di curare l’opera che presentiamo. Come scrive don Rosario La Delfa, Preside della Pontificia Facoltà Telogica di Sicilia, nella Presentazione dell’opera, «Il Dizionario enciclopedico rappresenta un passo di eccezionale importanza nel cammino intellettuale ed ecclesiale della nostra terra e la sua pubblicazione si qualifica come l’offerta di una sintesi compiuta della prospettiva contemporanea sugli eventi e il pensiero della modernità, e in particolare delle risonanze e delle conseguenze


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che queste ha prodotto nella Sicilia. Esso può così divenire uno strumento a disposizione di tutti per una conoscenza ampia e articolata del patrimonio culturale che si è ac[c]umulato nella Sicilia lungo questi due secoli» (p. XVI). Due, a nostro avviso, i principali pregi del Dizionario. Il primo è dato dalle più di settecento voci che presentano uomini e donne che, in questi ultimi due secoli, hanno fatto crescere la Sicilia grazie alla loro competenza nelle più variegate forme di cultura e che hanno arricchito certamente la crescita di questa nostra Isola. Aver raccolto tutti questi personaggi è sicuramente un valore, di cui beneficeranno tutti i lettori di questa monumentale opera. Il secondo è la volontà di presentare il pensiero dei personaggi attingendo, sovente, direttamente ai loro scritti, spesse volte inediti. Dare la parola ai protagonisti dei sei volumi che compongono l’opera è certamente una scelta meritoria perché permette di attingere alle fonti dirette per rintracciare l’autentico pensiero degli uomini e delle donne oggetto delle singole voci del Dizionario. Pienamente consapevoli dell’importanza e della preziosità dei volumi, desideriamo muovere due notazioni critiche. La prima riguarda il titolo dell’opera. Nell’Introduzione, Armetta, oltre a precisare il senso ampio dato ai concetti di “pensatore” e “teologo”, presenti nel titolo dell’opera, menziona anche la presenza di quei letterati che si sono poste «le cosiddette “domande radicali”» (p. XX). Stando così le cose, se nell’idea del curatore era presente la volontà di menzionare le tante persone che hanno dato lustro alla Sicilia, sarebbe stato più esatto, ad esempio, intitolare l’opera: “Dizionario enciclopedico degli uomini di cultura nella Sicilia dei secoli XIX-XX”. E scrivo “nella Sicilia”, considerato che diverse figure non sono nate nell’Isola e/o vi hanno trascorso solo poco tempo. La seconda critica riguarda il rigore scientifico in ordine alla scelta delle voci, a nostro avviso un po’ carente trattando di una pubblicazione inserita in una collana di una Facoltà Teologica. La presenza e/o l’assenza di alcuni personaggi, ci porta a pensare che, probabilmente, il criterio seguito dal curatore sia consistito nella conoscenza sia dei personaggi sui quali scrivere che degli estensori delle


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singole voci. Criterio, questo, a nostro avviso non strettamente scientifico, che non dà conto di molti altri «filosofi e teologi, letterati e scienziati, santi e beati, fondatori e fondatrici di ordini religiosi» (p. XVI), che risultano in questo modo “sfortunati” in ordine al loro imperituro ricordo, perché non si rende «giustizia riscattando la loro damnatio memoriae» (p. XX). E riferendomi particolarmente ai “teologi” — non avendo una specifica competenza per parlare dei “pensatori” e dei letterati, anche se mancano tra le voci quelle relative allo scultore Nunzio Morello e al pittore fra Teodoro Russo, OAD — si sarebbe dovuto contattare un maggior numero di esperti, appartenenti all’intera realtà isolana, studiosi delle singole diocesi siciliane e degli istituti di vita consacrata ivi presenti, perché lo studio risultasse capillare e preciso. Ma entriamo in medias res ed evidenziamo alcuni esempi che renderanno manifesto quanto testé affermato. Parlando dei teologi, Armetta scrive come tra questi ultimi «rientrano i personaggi i cui scritti presentano una qualche riflessione o elaborazione personale su problemi religiosi e teologici» (p. XX). Ci domandiamo come mai nell’opera siano presenti alcune figure che ci hanno lasciato soltanto dei testi inediti (Anna Orsi, Emanuele Sinagra, Francesco Spoto, Pina Suriano) e risultino assenti altre personalità (Generoso Fontanarosa, CP, Giuseppina Balsamo, O.P.), di alcune delle quali è stato pubblicato, per di più, l’epistolario (Isidoro Fiorini, CSSR). Riguardo ai vescovi, ci chiediamo, solo per fare due nomi, come mai sia stata consacrata una voce al salesiano Domenico Amoroso, vescovo di Trapani, nella cui bibliografia troviamo solamente i progetti, i piani e le lettere pastorali scritte per la Diocesi, e una voce a Giovanni Guttadauro, vescovo di Caltanissetta, nella cui bibliografia si dà notizie dell’esistenza di scritti inediti, oltre a studi a lui dedicati, e non si trovino le voci riguardanti la totalità dei vescovi delle diocesi siciliane del XIX-XX secolo (un nome per tutti: l’oratoriano Giovanni Battista Arista, vescovo di Acireale), considerato che tutti i Presuli hanno scritto lettere pastorali ai fedeli della Chiesa nella quale sono stati Pastori, e quasi tutti hanno lasciato scritti inediti, custoditi negli archivi storici diocesani.


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Quanto finora detto, riguarda anche i presbiteri — che troviamo appartenenti a tutte le diocesi siciliane, tranne a quelle di Noto e Ragusa. Tanti di loro hanno scritto diari, omelie, conferenze pubblicati in bollettini e/o periodici, quali quelli stampati nei Seminari o nelle parrocchie e/o santuari, ecc. e/o rimasti inediti. Perché, pertanto, consacrare una voce soltanto a qualcuno di essi (mi riferisco, ad esempio, a Salvatore Pizzitola e a Francesco Sparacio) e non fare una ricerca accurata nelle diocesi siciliane? Sempre a proposito di presbiteri, una nota sull’inserimento di Giuseppe Puglisi. Pur comprendendo tutti la motivazione della voce dedicata al presbitero palermitano ucciso dalla mafia, sarebbe stato più consono al tenore di un Dizionario, perché non restasse quello di Puglisi un inserimento legato soltanto all’affetto e alla conoscenza avuta del presbitero palermitano, inserire altre voci sulle altre figure sacerdotali vittime dell’odio mafioso, quali, ad esempio, don Giorgio Gennaro. Per quanto concerne le figure di religiosi, notiamo l’assenza di diversi membri di Istituti di Vita Consacrata (IVC), sia come “oggetto” di singole voci, che come loro estensori. Per esempio, riguardo agli uomini, troviamo la presenza di alcuni IVC (Agostiniani, Agostiniani Scalzi, Basiliani, Benedettini, Minori, Conventuali, Cappuccini, Terz’Ordine Regolare, Domenicani, Carmelitani, Minimi, Gesuiti, Filippini, Teatini, Scolopi, Redentoristi, Salesiani, Claretiani, Bocconisti) — anche se sono assenti alcuni personaggi, quali lo scrittore p. Samuele Cultrera, OFMCap., lo scotista p. Pietro Migliore, OFMConv., il “rivoluzionario” p. Francesco Lo Cicero, TOR, il direttore spirituale p. Stanislao Restivo, TOR, l’agiografo e storico Giovanni Parisi, TOR, lo storico p. Amedeo-Carmelo Naselli, CP, il missionario p. Giuseppe Cataldo, SJ, ma l’elenco potrebbe continuare… — e l’assenza di altri, quali i Mercedari, col polemista Agostino Passalacqua. Se volgiamo, poi, la nostra attenzione agli Istituti religiosi femminili, ci accorgiamo di come tanto poche siano le suore — non fondatrici — alle quali è stata dedicata una voce: una Visitandina (Fazio), una Figlia della Croce (La Grua), una Salesiana (Morano), una Figlia di Sant’Anna (Orsi), una Suora del S. Cuore di Gesù (Scribano). Anche riguardo ai fondatori/trici di congregazioni religiose, troviamo incomprensibili assenze. Ci riferiamo, anche qui, solo per


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fare alcuni esempi, a: Madre Florenza Profilo, fondatrice delle Suore Francescane dell’Immacolata Concezione, Madre Giuseppina Arcucci, fondatrice delle Suore dello Spirito Santo, Madre Rosa Majo, fondatrice delle Francescane Missionarie dell’Eucaristia, Madre Veronica Briguglio, confondatrice delle Suore Cappuccine del Sacro Cuore, Madre Teresa Cortimiglia, fondatrice delle Suore Francescane di Santa Chiara, Madre Maria Immacolata di S. Giuseppe, fondatrice del Carmelo Teresiano siciliano dopo la soppressione del XIX secolo, can. Vincenzo Morinello, fondatore delle Suore dei Poveri di Don Morinello, don Giovanni Messina fondatore delle Orsoline Congregate. Presentiamo ora due osservazioni finali. A volte, nonostante quanto affermato dal curatore (cfr. p. XX), la bibliografia riportata alla fine delle singole voci non si presenta aggiornata. Due esempi di assenze: un articolo su Maria Antonia Lalìa, pubblicato su Claretianum nel maggio 2009 e una biografia di Francesco Maria Di Francia pubblicata nel 2003. Facciamo notare alcuni errori che abbiamo incontrato leggendo i tomi: p. Marco Cottone (cfr. vol I, p. XXIV) è un frate minore simpliciter dictus e non un frate minore conventuale; trattando del calatafimese Antonio Cesarò, l’antica sigla dei frati minori conventuali — M.C. — è stata “rivoltata” in C.M., col risultato che il suddetto frate è diventato, per l’autore della voce in questione, un membro della Congregazione della Missione/Vincenziani (cfr. vol. II, pp. 601-602)!; il paese di Cesarò si trova in provincia di Messina e non di Enna (cfr. vol. III, p. 937); i Chierici Regolari Teatini e il Terz’Ordine Regolare sono Ordini e non Congregazioni (cfr. vol. IV, pp. 1488 e 1807), mentre le Suore del Sacro Cuore di Gesù sono una Congregazione e non un Ordine (cfr. vol. VI, p. 2963); di suor Rosina La Grua non «è stata aperta l’inchiesta diocesana sulla vita e la virtù della serva di Dio in vista del processo di beatificazione» (vol. IV, p. 1635); il paese di Melilli si trova in provincia di Siracusa e non di Catania (cfr. vol. IV, p. 1749); il s. Rocco era un Collegio e non un Seminario (cfr. vol. V, 2328) o un Istituto (cfr. vol. VI, p. 2879); Carlo Rodriguez visse nella prima metà del XIX e non del XX secolo e fu canonico della chiesa di Lipari e non abate (cfr. vol. VI, p. 2667); trattando di Santi Eugenio Salomone, l’au-


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tore della voce scrive che «Fa parte delle Scuole Pie»; in realtà, la dicitura usuale per identificare gli appartenenti ai Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie è Scolopi o Piaristi (cfr. vol. VI, p. 2783); riguardo alle ultime note biografiche di suor Scribano Santina di Gesù si afferma che la suora «viene dichiarata da Giovanni Paolo II Serva di Dio»; in realtà il suddetto titolo non viene conferito dal Pontefice, ma ogni candidato agli onori degli altari lo riceve dopo l’introduzione della Causa di beatificazione e canonizzazione in fase diocesana (cfr. vol. VI, p. 2961). Concludiamo, augurandoci che il previsto Dizionario riguardante i secoli precedenti a quelli oggetto dei volumi da noi recensiti, presenti un rigore metodologico più stringente, che andrà a tutto vantaggio dell’opera. Mario Torcivia


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1. LICENZIATI IN TEOLOGIA MORALE Hanno conseguito la Licenza in Teologia morale il 12 febbraio 2010: FIANYAH GIDEON KOFIE, The eucharist and morality in the teachings of Pope John Paul II. (relatore prof. D. Candido) DONZELLO GIANNI, Dalla legge all’agape. Il passaggio dalla legge del peccato e della morte alla legge dello Spirito della vita nella lettera ai Romani. (relatore prof. A. Gangemi) PILATO ANNA, «Amiamoci a vicenda perchè l’amore è da Dio» (1 Gv 4,7). L’amore di Dio e l’amore fraterno nella prima lettera di Giovanni. (relatore prof. A. Gangemi) WAMBEREKI JEAN BILONGO, La malnutrition des enfants au diocese de Butembo-Beni. Tradition, responsabilite et bioethique. (relatore prof. S. Consoli) BARRANO ENZO, La preghiera di Gesù al Getsemani secondo i vangeli Sinottici (Mt 26,36-46; Mc 14,32-42; Lc 22,39-46). Aspetti redazionali, fondamenti veterotestamentari, aspetti tematici. (relatore prof. A. Gangemi)


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Il 25 giugno 2010: VEGLIO DOMENICO, La mistica sponsale nel diario spirituale di don Giuseppe Quadrio. (relatore prof. G. Buccellato) NICHOLAS AMUTHA MARY, La non violenza in Gandhi alla luce del Discorso della Montagna. (relatore prof. M. Cascone) NDAYIZEYE GERARD, La visione personalista del matrimonio in Giovanni Paolo II. (relatore prof. C. Lorefice) FISICARO DOMENICO, La maturazione della teologia della pace in Angelo Giuseppe Roncalli. (relatore prof. C. Lorefice) LEONARD ASHOK PERERA, The value of slilankan family in the socio-ecclesial life . In the Concerned Magisterial Teaching of the Church with reference to the Sri Lankan Culture. (relatore prof. D. Candido) AMUSIOGO DONATUS UCHENNA, Marriage in Igbo tribe (Nigeria) and the discernment of the churh. Afro-Christian approach. (relatore prof. P. Buscemi) L’8 ottobre 2010: BASILE GIOVANNI, Roboetica. Un nuovo ponte verso la conoscenza. (relatore prof. M. Cascone) GRODYA LOMBU FAUSTIN, Amore coniugale, fedeltà e indissolubilità alla luce della Gaudium et spes una scelta definitiva in un mondo che cambia. (relatore prof. C. Lorefice)


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RAMASINDROAVULA JEAN VENANCE, Il mistero del peccato e l’appello alla conversione. Approccio teologico-morale alla luce dell’Esortazione apostolica “Reconciliatio et paenitentia” (relatore prof. S. Millesoli) BUCOLO SALVATORE, La ricezione della prospettiva personalistica del matrimonio nel Diritto della Chiesa, nelle catechesi di Giovanni Paolo II e nella giurisprudenza rotale. (relatore prof. G. Giombanco) 2. BACCELLIERI IN TEOLOGIA Hanno conseguito il Baccalaureato in Teologia il 12 febbraio 2010: SAVAGLIA SALVATORE, Il lessico sostantivale del “servo” nel Deutero-Isaia. Diversità tra il Testo Masoretico e la LXX. (relatore prof. C. Dionisio) FRANCO COPPA ROBERTO, L’autorivelazione di Jhwh a Mosè in Es 3,14. (relatore prof. C. Dionisio) SIRONI OLINKA, La “piccola via” come itinerario alla santità in Teresa di Lisieux. (relatore prof. G.A. Neglia) ALAGNA CRISTINA, La descrizione simbolica del cammino spirituale nel castello interiore di Teresa d’Avila. (relatore prof. G.A. Neglia) RACITI DANIELE, L’embrione umano. Considerazione antropologico-teologica e compito per la responsabilità nei documenti della Pontificia Accademia per la Vita. (relatore prof. S. Consoli)


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ZAPPULLA ANDREA, Il ruolo del corpo nella dinamica degli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Loyola. (relatore prof. G. Buccellato) MUZIO VINCENZA, Habermas tra etica comunicativa e critica al post-modernismo. (relatore prof. A. Crimaldi) RAPISARDA SALVATORE, «Ritengo che non sono paragonabili i patimenti del tempo presente con la gloria futura». Aspetti strutturali, contesto neotestamentario e aspetti tematici di Rm 8,18. (relatore prof. A. Gangemi) BRUNO DAVIDE, Il valore alto del celibato sacerdotale. Implicanze umano-psicologiche e significato teogico. (relatore prof. S. Raciti) GIACONA GIANLUCA, Il sacerdozio comune dei fedeli e i loro carismi in Lumen gentium 10-12 . Aspetti ecclesiologico-pastorali”. (relatore prof. N. Capizzi) PARTITO GUIDO, «Gesù Nazareno Re dei Giudei». Il titolo della croce di Gesù secondo il vangelo di Giovanni. Relazione ai vangeli Sinottici e aspetti tematici di Gv 19,16 b-22. (relatore prof. A. Gangemi) GANGEMI MARIA, Il mistero del drago e delle due bestie in Ap. 12-13. Analisi esegetico-teologiche dei capitoli 12-13 dell’Apocalisse di Giovanni. (relatore prof. A. Gangemi) Il 25 giugno 2010: CAPONNETTO GIUSEPPE, Testamento biologico. Un dialogo problematico tra diritto ed etica. Breve sguardo panoramico. (relatore prof. S. Consoli)


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SERRA VINCENZO, La vita teologale in Francesco di Paola. Il pensiero e il vissuto. (relatore prof. S. Consoli) PIZZO PIETRO, Albino Luciani. La regolamentazione delle nascite. (relatore prof. C. Lorefice) RAMOS IRELINA FRANCISCO, L’adorazione al Padre in Spirito e Verità. Analisi strutturale, esegetica e teologica in Gv 4,19-26. (relatore prof. A. Gangemi) BERCADES IGNACIO BARRREDO JR, «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». I “piccoli” e i “fanciulli” nella tradizione evangelica. (relatore prof. A. Gangemi) FRISINA NICOLETTA, « Lo Spirito Santo scenderà su di te». La maternità di Maria per opera dello Spirito Santo. Analisi esegeticoteologica di Lc 1,35. (relatore prof. A. Gangemi) D’ALBA VINCENZO, La Parola di Dio costruisce la Comunità nella Regola del Carmelo. (relatore prof. E. Palumbo) PAPPALARDO MARIO, «Fiumi dal suo seno scorreranno di acqua viva (Gv 7,38)». La visione di Ez 47,1-12 in Gv 7,37-39. (relatore prof. A. Gangemi) L’8 ottobre 2010: PIETRA PAOLO, La Parola di Dio nel cammino spirituale di Elisabetta della Trinità. (relatore prof. G.A. Neglia)


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FURNÒ ANNALISA, Ebraismo e cristianesimo nel saggio “Due tipi di fede” di Martin Buber. (relatore prof. C. Raspa) STRACQUADANIO MICHELA, Sofferenza, ferite e guarigioni fra tradizione biblica e tradizione rabbinica. (relatore prof. C. Raspa) PUCCIO MARIA ANTONINA, Motivazioni antropologiche e vocazione al matrimonio. Considerazioni e riflessioni per un itinerario di maturazione verso il matrimonio cristiano. (relatore prof. G. Buccellato) MARCHESE GIOVANNI, Gli anziani nel Magistero della Chiesa. Qualche indicazione per la loro valorizzazione. (relatore prof. S. Consoli) PUGLISI GAETANO ROBERTO, Renè Girard: demistificazione del meccanismo vittimario nel Nuovo Testamento. (relatore prof. A. Crimaldi)

3. CAFFÈ FILOSOFICO Organizzato dalla comunità studentesca dello Studio Teologico S. Paolo, giovedì 17 dicembre 2009 si è tenuto il I Caffè filosofico su Giordano Bruno e la filosofia del Rinascimento italiano. Al termine della proiezione di un breve filmato si è tenuta una Tavola rotonda animata da Antonio Crimaldi.

4. PRESENTAZIONE VOLUME Martedì 1 marzo 2009, presso il Museo Diocesano di Catania, è stato presentato il volume di Adolfo Longhitano, docente emerito dello Studio Teologico S. Paolo, Le Relazioni «al limina» della diocesi


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di Catania. Presente l’autore, ne hanno discusso, coordinati da Gaetano Zito, Preside dello Studio teologico S. Paolo: Francesco Coccopalmerio, Arcivescovo, Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi; Salvatore Fodale, dell’Università di Palermo; Enrico Iachello, dell’Università di Catania.

5. SEMINARIO INTERDISCIPLINARE Il 2 e il 3 marzo 2010 si sono tenute presso lo Studio Teologico S. Paolo le due sessioni del Seminario interdisciplinare: Società, Economia, Vangelo. Rileggiamo la «Caritas in veritate». Nella I sessione – Dimensione antropologica sono intervenuti: Antonio Crimaldi “Condizione socio-economica e destino dell’uomo”; Ivan Lo Bello “Impresa, lavoro e società”; Rosario Faraci “Azienda e responsabilità sociale”. Nella II sessione – Dimensione teologica sono intervenuti: Carmelo Raspa “Il quadro di riferimento biblico”; Francesco Brancato “Il quadro di riferimento teologico”; Piero Sapienza “L’enciclica nel contesto del magistero sociale della Chiesa”; moderatore di entrambe le sessioni è stato Corrado Lorefice.

6. PRESENTAZIONE CORSO Sabato 6 marzo 2010 si è tenuta presso i locali dello Studio Teologico S. Paolo la presentazione di Curare la persona malata non solo la malattia, Corso di antropologia ed etica medica “Dr. Angelo Cafaro”. Durante la presentazione è stata fatta memoria del dr. Angelo Cafaro.

7. PRESENTAZIONE VOLUME Venerdì 20 maggio 2010 si è tenuta presso l’auditorium Giancarlo De Carlo del Monastero dei Benedettini, in collaborazione con lo Studio Teologico S. Paolo, la Libreria Editrice Vaticana e la


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Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania, la presentazione del volume Storia delle chiese di Sicilia a cura di Gaetano Zito. Presente il curatore, sono intervenuti: Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana; Horst Enzensberger, dell’Università di Bamberg; Mario Rosa, della Scuola Normale Superiore di Pisa; Giuseppe Giarrizzo, Accademico dei Lincei.

8. CONVEGNO DI STUDI Martedì 24 maggio 2010 presso la Chiesa San Benedetto di Catania, lo Studio Teologico S. Paolo, la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania e il Monastero San Benedetto di Catania hanno tenuto un Convegno di studi su Da cento anni… nel cuore della città. Le Benedettine dell’adorazione perpetua a Catania (1910-2010).

9. COLLEGIO DOCENTI Il 18 giugno 2010 il preside, su proposta del Collegio dei Docenti e ottenuto il benestare del Moderatore, ha nominato Docente incaricato il prof. Corrado Lorefice, docente di teologia.

10. PRESENTAZIONE VOLUME Giovedì 15 luglio 2010 si è tenuta presso la Chiesa del SS. Salvatore – Mausoleo di Don Luigi Sturzo a Caltagirone, in collaborazione con lo Studio Teologico S. Paolo, la diocesi di Caltagirone e Città Aperta Edizioni, la presentazione del volume di Salvatore Millesoli, docente incaricato dello Studio S. Teologico S. Paolo, Il dovere della speranza. Don Sturzo e la dimensione politica della vita cristiana. Presente l’autore, sono intervenuti: Calogero Peri, vescovo di Caltagirone; Francesco Pignataro; sindaco di Caltagirone; Gaetano Zito, Preside dello Studio Teologico S. Paolo; Francesco Parisi, Presidente dell’Istituto di Sociologia L. Sturzo di Caltagirone;


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Giovanni Barbagallo, deputato dell’ARS; Emilio Barbera, direttore di Città Aperta Edizioni. Ha moderato Massimo Cappellano.

11. INAUGURAZIONE ANNO ACCADEMICO Il 29 ottobre 2010 si è tenuta l’inaugurazione del 43° anno accademico dello Studio Teologico S. Paolo. La mattina si è svolto il consueto incontro tra la Presidenza, i Docenti, i Rettori dei seminari e i Vescovi delle Chiese che aderiscono al S. Paolo. Il pomeriggio si è tenuto l’atto accademico; alla solenne concelebrazione eucaristica presieduta dal Vescovo di Nicosia, Salvatore Muratore, sono seguiti: il saluto del Moderatore dello Studio, l’Arcivescovo Salvatore Gristina, la relazione del Preside mons. Gaetano Zito e la prolusione accademica su «Elementi per un’antropologia teologica critica» tenuta da Giuseppe Ruggieri, docente emerito dello Studio teologico S. Paolo.

12. COLLOQUI ROSMINI Giovedì 18 novembre 2010 si è tenuto, presso lo Studio Teologico S. Paolo, il I Convegno dei Colloqui Rosmini su Crisi antropologica oggi? La lezione di Antonio Rosmini. Hanno introdotto: Piero Sapienza, “Perché i Colloqui Rosminiani”; Salvatore Latora, “Rosminianesimo in Sicilia. Hanno relazionato: Antonio Crimaldi, “La crisi antropologica nell’era della globalizzazione”, Umberto Muratore, “Rosmini e il fondamento della questione antropologica”; Lino Prenna, “Rosmini e la visione integrale dell’uomo”; Antonio Staglianò, “La visione antropologica rosminiana di fronte alla sfida educativa”.


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