Synaxis 29 2 (2011) quaderni 27 cesifer 06

Page 1


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 1

QUADERNI DI SYNAXIS 27 SYNAXIS XXIX/2 - (2011)

QUADERNI DEL CeSIFeR 6 CENTRO DI STUDI INTERDISCIPLINARI DEL FENOMENO RELIGIOSO

CITTÀ APERTA Edizioni

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 2


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 3

LA PREGHIERA Manifestazione e/o fattore d’identità

a cura di Giuseppe Ruggieri


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 4

La preghiera : manifestazione e/o fattore d’identità / a cura di Giuseppe Ruggieri. – Troina : Città aperta ; Catania : Studio teologico S. Paolo, 2012. (Quaderni di Synaxis ; 27) (Quaderni del CeSIFeR ; 6) ISBN 978-88-8137-474-8 1. Preghiera – Atti di congressi. I. Ruggieri, Giuseppe. 248.32 CDD-22 SBN Pal0241394 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”

In copertina: ANGU WALTERS, The Evening Prayer (olio su tela).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 5

SOMMARIO

LE SORPRESE DELLA PREGHIERA: PER UN’INTRODUZIONE (Giuseppe Ruggieri) . . . . . . . .

7

PREGARE GLI DEI / PREGARE DIO. LA PREGHIERA COME FATTORE IDENTITARIO TRA PAGANI E CRISTIANI: I CASI DI ELIO ARISTIDE E POLICARPO (Teresa Sardella) . . . . . . . .

11

IDENTITÀ CRISTIANA, TEOLOGIA E GESTUALITÀ NELLA PREGHIERA DI TERTULLIANO (Giuseppe Ruggieri) . . . . . . .

.

39

EUCHÉ E NOÛS NEL CORPUS MACARIANUM (Francesco Aleo) . . . . .

.

.

53

.

.

69

PREGHIERA E CONCILI GALLICI TRA V E VI SECOLO (Rossana Barcellona). . . . . . .

.

95

SUPPLICHE E GRAZIA (Francesco Migliorino) .

.

.

119

.

.

139

EGIDIO COLONNA ROMANO (1243ca-1316) E LA SPIEGAZIONE DELLA PREGHIERA DEL SIGNORE (Roberto Osculati) . . . . . . . .

161

.

DESIDERIO E PREGHIERA IN GIOVANNI CASSIANO (Maurizio Aliotta) . . . . . .

.

.

.

.

PREGARE COI SALMI (NELL’ALDILÀ). SALMODIE ULTRATERRENE NELLA «COMMEDIA» DI DANTE (Sergio Cristaldi) . . . . . .


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 6

LA CONCEZIONE DELLA PREGHIERA IN KANT (Antonino Crimaldi) . . . . . .

.

201

LA PREGHIERA COME POESIA: GLI INNI ALLA NOTTE DI NOVALIS (Grazia Pulvirenti) . . . . . . .

.

215

IL RUOLO DELLA PREGHIERA NEGLI SCRITTI DI SOREN KIERKEGAARD (Luca Saraceno) . . . . . . .

.

229

IN PARTIBUS INFIDELIUM: FORME E SENSI DEL PREGARE NELL’ESPERIENZA LETTERARIA ITALIANA DELL’OTTO/ NOVECENTO (Antonio Sichera) . . . . . . .

.

243

LA PREGHIERA COME RICERCA DI IDENTITÀ NELL’ESPERIENZA DI SORELLA MARIA. VALERIA PIGNETTI (TORINO 1875— CAMPELLO 1961) (Arianna Rotondo) . . . . . . .

.

309

PER VISIBILIA IN INVISIBILIA. POESIA E PREGHIERA IN CRISTINA CAMPO (Rosa Maria Monastra) . . . . . .

.

327

INDICE

.

341

.

.

.

.

.

.

.

.

.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 7

LE SORPRESE DELLA PREGHIERA: PER UN’INTRODUZIONE

GIUSEPPE RUGGIERI*

Avere scelto la preghiera come argomento di un seminario del CeSIFeR che ha visto il suo esito nel colloquio svoltosi il 10 e l’11 maggio 2011, è stata una fonte di sorprese. La prospettiva scelta era quella del fenomeno della preghiera come manifestazione e/o funzione di identità. Il risultato ha positivamente verificato quella prospettiva, ma è diventato molto più ricco, sia pure limitatamente ai singoli ambiti presi in considerazione. E intanto le identità “differenti” dei vari oranti e dei vari teorici del fenomeno rafforzano al tempo stesso la sensazione di un fondo comune, per cui a volte risulta estremamente difficile stabilire se il piatto della bilancia penda dalla parte della differenza o dalla parte di ciò che accomuna. E così, nonostante le profonde differenze nei loro parametri concettuali e teologici, la preghiera del cristiano Policarpo e quella del pagano Aristide, esprimono una eguale volontà di abbandono al proprio Dio e attingono così a un comune sentire (Sardella). Ma prima ancora la parola “supplica” registra un’etologia del vivente in quanto tale, con la sua propensione a mostrare i segni della sottomissione tutte le volte che si imbatte in chi ha il potere di dare la morte o di lasciare vivere (Migliorino). Ciò non toglie che la preghiera quale manifestazione dell’identità della propria appartenenza religiosa *

Docente emerito di Teologia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 8

8

Giuseppe Ruggieri

diventi, come in Tertulliano, polemica nei confronti dell’altro, sia ebreo che pagano (Ruggieri). Alla preghiera poi appartiene storicamente un’altra funzione, quella di disciplinamento e regolazione sociale. Ovviamente questo può avvenire solo all’interno di un regime di cristianità. Così, nella Gallia tra V e VI secolo, la stabilizzazione di un uso liturgico, quale che sia, ha a che fare con la consapevole volontà di rendere più forte la compagine ecclesiastica e più coesa, e quindi governabile, la comunità; giova alle relazioni reciproche del clero e di questo con il territorio; è in definitiva anche un modo per piegare e/o far entrare la spiritualità cristiana nel fatto politico; è funzionale all’unità e all’ortodossia della fede, all’unità e alla stabilità del regno (Barcellona). Ma alla preghiera si attinse anche in un periodo di forti dilacerazioni religiose come fu il Cinquecento, riesumando un commento medievale al Padrenostro, che cerca di superare il piano della contrapposizione. L’alternativa proposta è quella di una teologia di carattere profondamente affettivo e pratico, basata sulla misericordia universale del Padre, sulla vita esemplare del Figlio e sui doni dello Spirito quali motivi di purificazione in attesa del regno di Dio (Osculati). Se poi guardiamo all’ambito più strettamente individuale, pratiche e concezioni della preghiera, lontanissime nel tempo le une dalle altre, svelano analogie illuminanti. Così negli scritti dello Pseudo-Macario, nella seconda metà del IV secolo, il pensiero diventa preghiera mentale introspettiva e la preghiera diventa pensiero orante d’amore, con la conseguenza di un’azione purificatrice vicendevole, sia del pensiero nei confronti della preghiera che della preghiera nei confronti della mente/cuore (Aleo). Alcuni decenni dopo, sarà un altro monaco, Cassiano, che importando in Occidente dall’Oriente l’ideale della preghiera, la propone come luogo della dialettica intima del desiderio umano. Se infatti la meta del monaco è l’intima unione con Dio, la preghiera traccia la strada lungo la quale, trascendendo i bisogni del corpo che lo legano al mondo, egli orienterà tutto all’unico grande desiderio dell’unione con Dio (Aliotta). A distanza di secoli invece è Kant che avverte la necessità, non oggettiva (Dio infatti conosce già


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 9

Le sorprese della preghiera: per un’introduzione

9

quanto noi gli chiediamo), ma soggettiva del pregare a sostegno della morale. Il pregare è infatti per l’uomo una via al raggiungimento della consapevolezza riguardo ai doveri e alle proprie disposizioni morali e un incentivo ad attirarle e rafforzarle. A differenza della preghiera sotto condizione, nella quale chiediamo cose determinate, la preghiera incondizionata è la preghiera di fede, la quale non ha un contenuto specifico, ma universale. In essa infatti si prega con l’assoluta certezza di essere esauditi, quando preghiamo per essere degni di tutti quei benefici che Dio è disposto a darci (Crimaldi). Ma sostanzialmente non aveva detto cose diverse Agostino, del quale tuttavia nel nostro seminario non si è parlato. Il legame tra esperienza poetica e preghiera, nella differenza delle età e dell’impianto, si manifesta come un altro fenomeno di lunga durata. Così Dante, nella Commedia, abbandonando la rigidità del trattatista che dichiarava impossibile rendere nella traduzione la dolcezza musicale dei Salmi si cimenta in una riscrittura creativa dove la dignità della lingua poetica corrisponde alla dignità della preghiera biblica (Cristaldi). In un altro contesto culturale, come quello del romanticismo tedesco attento alla creatività dello spirito umano, anche Novalis assimila la preghiera alla creazione poetica e vede un’analogia tra la creatività del senso religioso dell’uomo che conduce alla preghiera e quella che tramite il pensiero conduce alla filosofia. La preghiera viene cioè intesa come forma di percezione, e conseguente pratica mentale, di una realtà altra, non extracorporea, ma di una corporeità elevata mediante l’attivazione di facoltà mentali superiori (Pulvirenti). E, tra Ottocento e Novecento, si dà una forma poetica della preghiera, generata e come collocata nel cuore di un’assenza, di un mancare di Dio in quanto rassicurante e omogeneo orizzonte metafisico, ovvero quale cardine di un paradigma religioso, sociale e culturale capace di conferire un senso condiviso alla vita individuale e collettiva (Sichera). Infine vicinissima a noi Cristina Campo, unisce poesia e preghiera in una sofferta e progressiva condanna del moderno, visto come negazione del sacro e landa desolata da cui è assente ogni bellezza. La preghiera nella forma della poesia immette nel nostro


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 10

10

Giuseppe Ruggieri

mondo un’aura dell’altro, è distacco dal profano, concentrazione interiore e insieme atto comunitario (Monastra). E infine analogie e differenze ugualmente forti emergono nell’esperienza (giacché di tratta di due oranti nel senso autentico del termine) del luterano Kierkegaard (nell’Ottocento) e della cattolica Maria di Campello (nel Novecento). Ambedue vivono ai margini delle loro chiese, negatore della cristianità istituita Kierkegaard, appartenente ad un orizzonte spirituale che non si lasciava costringere dentro il cattolicesimo preconciliare Maria di Campello. Per Kierkegaard la preghiera è vera non quando l’orante prega perché Dio ascolti, ma quando l’orante persevera nella preghiera fino a che sia egli colui che ascolta. Il cristiano in particolare prega invocando l’aiuto del Cristo per la comunicazione della sua Parola che è fondamento di ogni vera comunicazione e forza per combattere l’insidia dell’identità. E tutto questo dentro una dialettica insanabile tra l’eternità di Dio e la finititudine umana (Saraceno). Per Maria di Campello invece l’originale esperienza eremitica si può definire una diuturna liturgia comunitaria che si configura come un cammino di perfezione all’insegna del sacrum facere, dove la natura entra in una comunione strettissima tra Dio e gli uomini tutti (Rotondo). Questo libro non è un’enciclopedia sulla preghiera. Gli ambiti di osservazione sono molto limitati. Per fermarci all’Occidente contemporaneo manca uno studio sulla critica alla preghiera da parte dei cultori della filosofia analitica. Sono assenti ancora analisi della preghiera all’interno delle grandi tradizioni religiose dell’umanità. Ed è assente qualsiasi considerazione paleoantropologica. Restano tuttavia, sia pure in un numero limitato di testimonianze, le sorprese che il fenomeno preghiera riserva a chiunque lo guardi con un po’ di attenzione: etologia del vivente o dimensione trascendentale dell’essere umano? Forse l’una e l’altra. Giacché i vari saggi mostrano la straordinaria e irriducibile ricchezza dei vari aspetti. E comunque un fenomeno umano da guardare con stupore anche quando non ci si volesse coinvolgere nella sua prassi.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 11

PREGARE GLI DEI / PREGARE DIO. LA PREGHIERA COME FATTORE IDENTITARIO TRA PAGANI E CRISTIANI: I CASI DI ELIO ARISTIDE E POLICARPO

TERESA SARDELLA*

1. CONFLITTO/CONTINUITÀ: UN PARADIGMA INTERPRETATIVO E LA PREGHIERA

Dal punto di vista antropologico, la preghiera, indicando una richiesta da parte di chi è in condizioni di sottomissione anche temporanee rispetto a colui cui chiede, non riguarda solo l’esperienza religiosa. Ma, essa connota lo specifico di ogni religione in quanto forma di comunicazione tra soggetti — l’orante e il suo dio — la cui strutturale caratteristica relazionale è la disparità1. In altre parole, se ogni forma di comunicazione con un dio non può essere altro che preghiera2, così come avviene anche per altre esperienze comuni alle * Docente di Storia del Cristianesimo antico e di Cristianesimo e Religioni presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Catania. 1 Nella complessiva difficoltà di trovare elementi definitori assoluti comuni a tutte le religioni, il rapporto con il sovraumano può essere generalmente inteso come quel «minimo comune denominatore» in grado di ricondurre a ‘categoria’ teorica le altrimenti irriducibili differenze storiche tra religioni; e, almeno per la cultura mediterranea e occidentale questo significa che divino e umano appartengono a differenti livelli, rapportabili rispettivamente a due livelli sperequati (cfr. G. FILORAMO, Che cosa è la religione. Temi metodi problemi, Torino 2004, 75 ss.; G. SFAMENI GASPARRO, Introduzione alla storia delle religioni, Bari 2011, 7 s.). 2 Anche alla preghiera si può riferire quanto afferma G. Filoramo, a proposito della religione (Che cosa è la religione, cit., 78): esiste un problema di definizione che


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 12

12

Teresa Sardella

diverse religioni, su di essa si gioca la battaglia identitaria3 e attraverso di essa, soprattutto là dove la riflessione teorica ne comporti una elaborazione critica4, è possibile seguire momenti significativi di tale percorso5. Anche in relazione al modo di pregare, dunque, giudaismo impone una riflessione su quello che si debba considerare, al di là delle autodefinizioni, preghiera. In quanto concettualizzazione di un pensiero o di un moto dell’animo, che può essere o meno espresso a parole, la preghiera non solo prevede varie modalità e forme espressive, la prima delle quali articola l’esperienza eucologica in preghiera personale — del cuore — e preghiera comunitaria — liturgica — (una breve schematizzazione, peraltro non completa è in G. RAVASI, La preghiera, in G. FILORAMO, Che cosa è la religione, cit., 374-378). Essa non è l’unica forma di comunicazione con il divino (G. SFAMENI GASPARRO (cur.), Modi di comunicazione tra il divino e l’umano. Tradizioni profetiche, divinazione, astrologia e magia nel mondo mediterraneo antico, Messina 21-22 marzo 2003, Napoli 2005) ed è anche apparentata con altre forme di comunicazione, meno legate alla parola, quali per esempio riti, culti e sacrifici (cfr. C. GROTTANELLI, Il sacrificio, Bari 1999). Interessanti spunti e riflessioni sulle trasformazioni religiose e sulle nuove forme di religiosità in G.G. STROUMSA, La fine del sacrificio. Le mutazioni religiose della tarda antichità, intr. G. Filoramo, Torino 2006. Cfr. anche T. SARDELLA, Sacrificare agli dei/sacrificare a un dio: il caso di Elio Aristide, in Miscellanea Sfameni, sotto stampa. 3 Una interessante lettura che, dal punto di vista antropologico, rileva i rischi di degenerazione insiti strutturalmente nel percorso di formazione del processo identitario e, soprattutto, nel suo radicarsi e rafforzarsi, è in F. REMOTTI, Contro l’identità, Bari 1996. 4 Come è noto la prima notazione critica utilizzabile dai cristiani è già in Mt 6,58. In quanto alla trattatistica, la prima riflessione, di Tertulliano, è rappresentativa della duplicità di percezione che i cristiani avevano del loro modo di pregare, per cui in Tertulliano si passa dall’Apologeticum (30, 4, CChL 1, 141: Illuc sursum suspicientes Christiani manibus expansis, quia innocuis, capite nudato, quia non erubescimus, denique sine monitore, quia de pectore oramus…), del 197, dove si rivendica al cristianesimo la superiorità della preghiera del cuore di contro al formalismo delle parole, al De oratione (scritto tra 200 e 206), dove il modo corretto di pregare è riferito a regole precise e minuziose, che riguardano atteggiamento spirituale, disposizione psicologica emotiva e sentimentale, postura del corpo, abbigliamento e le indicazioni prescrittive della liturgia del Pater lo ricollegano alla preghiera liturgica degli ebrei, nella consapevolezza — di età apostolica e dei primi due secoli — che la preghiera cristiana mutua dal giudaismo forme e modi, ma innova profondamente sul piano teologico soprattutto in funzione del ruolo di Gesù Cristo. 5 Questa doppia chiave di lettura rappresenta uno tra i principali filoni di ricerca della moderna storiografia sulla storia del cristianesimo antico: citiamo soltanto G. FILORAMO, Alla ricerca di una identità cristiana, in G. FILORAMO-D. MENOZZI, Storia del cristianesimo. L’Antichità, Roma-Bari 1997, 153-271; G.G. STROUMSA, La formazione dell’identità cristiana, a cura di P. Capelli, intr. G. Filoramo, Brescia 1999;


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 13

Pregare gli dei / pregare Dio

13

e «paganesimo»6 possono rappresentare uno dei territori privilegiati di confronto/ scontro con quell’altro da sé rispetto a cui il cristianesimo costruisce la propria identità in termini di rottura/continuità7. Così come il «paganesimo» costruisce le diverse posizioni «teologiche» in scontri culturali tra scuole filosofico-religiose8. in particolare, cfr. i volumi della rivista ‘Annali di Storia dell’esegesi’: La costruzione dell’identità cristiana (I-VII secolo), 20,1, 2003; Identità cristiane in formazione, 21, 1, 2004 e Come è nato il cristianesimo?, 21, 2, 2004; Dal II al VI secolo. Sviluppi e trasformazioni del cristianesimo, 23, 1, 2006; Identità cristiane in formazione, 24, 1, 2007; Conflitti e comunità nel cristianesimo antico, 27, 1, 2010). Per quanto riguarda specifici aspetti comparativi, da ultimo, cfr. G. SFAMENI GASPARRO, Dio unico, pluralità e monarchia divina. Esperienze religiose e teologie nel mondo tardo-antico, soprattutto il cap. Dio unico e unità del divino. Teologie tardo antiche fra “esclusione” e “inclusione”, Brescia 2010, 179 ss. 6 Il termine è usato in riferimento alle varie forme di religioni che non coincidono con giudaismo e cristianesimo, esso però conosce al proprio interno una varietà tale di esperienze religiose da essere oggi storiograficamente anche molto contrastato. Al suo posto molti studiosi ritengono preferibile la definizione di religioni ellenistiche o ellenistico—romane. Peraltro, da quando è entrato nell’uso, a partire dalle sue origini nel mondo antico di lingua latina, la continuità d’uso è ampiamente attestata, dal sia pur datato studio di Chr. MOHRMANN, Encore une fois: paganus, in VChr 6 (1952) 109121, passando attraverso studi quali J.J. O’DONNELL, Paganus, in Classical Folia 31 (1977) 163-169; P. CHUVIN, Sur l’origine de l’équation paganus=paien, in L. MARY – M. SOT (curr.), Impies et paiens entre Antiquité et Moyen Age, Paris 2002, 2-15, fino al più recente G. SFAMENI GASPARRO, Dio unico, pluralità e monarchia divina, cit., per cui vedasi soprattutto p. 185 e n. 15. 7 È noto come il dibattito storiografico sul rapporto tra paganesimo e cristianesimo sia stato negli ultimi decenni in parte rinnovato dal volume Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo (a cura di A. Momigliano) Torino 1975, dove i vari saggi leggevano questo rapporto, appunto, in termini di rottura e conflittualità. A distanza di trenta anni un convegno riconsidera la questione riprendendo criticamente le posizioni di questo volume e pervenendo alla conclusione che tale rapporto debba in realtà essere letto piuttosto in termini di continuità, sia pur segnata da elementi di rottura: F.E. CONSOLINO (cur.), Pagani e cristiani da Giuliano l’Apostata al sacco di Roma, Soveria Mannelli 1995 (interessante la conclusione di Calderone, che proprio a fare da contraltare a una lettura che poteva rischiare di essere letta in chiave troppo omogeneizzante, sottolinea anche gli elementi fortemente innovativi introdotti in alcuni campi dal cristianesimo). Tra i tanti studi sul tema, ricordiamo ancora soltanto l’ormai classico R. LANE FOX, Pagani e cristiani, trad. it., Bari 1991, orientato ad evidenziare il rapporto in termini di contrapposizione, là dove, soprattutto nelle forme pratiche, queste rappresentano maggiormente gli aspetti innovativi introdotti dal cristianesimo. 8 Esemplare è la diatriba letteraria tra i tre filosofi — epicureo, stoico e accademico —, sul senso e il valore della religione, nel De natura deorum di Cicerone. Su un piano


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 14

14

Teresa Sardella

Se rottura/continuità rappresentano il binomio interpretativo cui la storiografia affida la possibilità di meglio capire i rapporti tra giudaismo, religioni tradizionali e culti ellenistici, cristianesimo9, il titolo di questa ricerca è nel segno di una ipotesi interpretativa orientata da un lato tra una netta distinzione, quella che, in generale, oppone i sistemi religiosi dove vige il pluralismo, sia pure a base enoteistica10, ai monoteismi in generale e nello specifico al monoteismo cristiano11 — in particolare l’opposizione riguarda qui le religioni classica ed ellenistico-romana e il cristianesimo —; e, dall’altro, tende a identificare un rapporto dove la distinzione, se non opposizione religiosa tra queste due fedi diverse, spesso perde i colori del contrasto. Tutto ciò è sia in relazione alle dottrine che alle forme e ai filosofico è utile confrontare altri due personaggi, che, contemporanei ai nostri, l’uno «pagano» e l’altro cristiano, sono orientati all’acquisizione di nozioni filosofiche razionalmente fondate, al fine di aderire a una posizione religiosa: Luciano e Giustino, da prospettive differenti dal punto di vista religioso, partecipano parimenti della paideia ellenica (cfr. G. SFAMENI GASPARRO, Dio unico, pluralità e monarchia divina. Esperienze religiose e monarchia divina, cit., soprattutto il cap. VI: Dio unico e unità del divino. Teologie tardo antiche fra «esclusione» e «inclusione», 179 ss.). Cfr. F. REMOTTI, Contro l’identità, cit., 9. 9 P. BROWN, nel 1978, The Making of Late Antiquity, 7, parla di una koiné religiosa e culturale. A questa tesi si oppone R. LANE FOX, Pagani e cristiani, cit., 13. 10 Questi contesti religiosi vengono indiscriminatamente definiti politeistici e con essi sono confusi per l’uso indifferenziato del termine «politeismo», ma dal vero e proprio politeismo si distinguono. I contesti politeistici, a differenza dei sistemi enoteistici, contemplano una molteplicità di figure umane a carattere polifunzionale, che sovraintendono alle diverse attività umane, sono collegate da rapporti ‘parentali’ e stanno all’interno di una struttura gerarchicamente graduata: così è, per esempio, nel pantheon olimpico (G. FILORAMO, Che cosa è la religione, cit., 179). 11 L’enoteismo dei contesti di cui parliamo, per molti studiosi, va egualmente distinto dalla espressione «monoteismo pagano», quale essa è usata in P. ATHANASSIADI – M. FREDE (curr.), Pagan Monotheism in Late Antiquity, Oxford-Koln 1999): critici sono: M.J. EDWARDS, Pagan and Christian Monotheism in the Age of Constantine, in S. SWAIN – M.J. EDWARDS (curr.), Approaching Late Antiquity. The Transformation from Early to Late Empire, Oxford 2004, 211-342; G. SFAMENI GASPARRO, Dio unico e unità del divino. Teologie tardo antiche fra «esclusione» e «inclusione», in ID., Dio unico, pluralità e monarchia divina. Esperienze religiose e monarchia divina, cit., 181). Sulla necessità di distinguere l’enoteismo del contesto ellenistico dalla moderna definizione di monoteismo cf. anche le questioni di carattere generale e definitorio di G. FILORAMO, Diversità dei monoteismi: esclusivismo o dialogo?, in M. CROCIATA (cur.) Il Dio di Gesù Cristo e i monoteismi, Roma 2003, 24.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 15

Pregare gli dei / pregare Dio

15

modi della religiosità vissuta12. Così, la preghiera agli dei e quella a Dio non rappresentano solo due modi estranei di pregare o di intendere la preghiera: come per le dottrine, il problema è guardare oltre la diversità apparente o più precisamente sovrastrutturale e ideologica, per cogliere continuità o congruenze formali o profonde, oltre la eguaglianza delle forme per cogliere rottura o diversità quali quelle rappresentate dai nuovi significati attribuiti anche al linguaggio e dalle nuove forme comunitarie e, in genere, dalle pratiche. Così si spiega anche la nostra scelta del II secolo, territorio temporale di confine entro il quale si definisce l’identità cristiana. Posto che né la rottura né la continuità rappresentano un paradigma interpretativo assoluto e valido sempre allo stesso modo, il II secolo, in quanto non offre ancora condizioni strutturate, si presta meglio a evidenziare forme e modalità della coesistenza tra religioni tradizionali e cristianesimo. Negli stessi anni in cui i culti ellenistici di impostazione gerarchica e tendenza enoteistica facevano fronte all’«angoscia» dell’insicurezza materiale e morale dell’epoca rinviando a rassicuranti esperienze religiose, impostate sulla questione soteriologica13, la comunità cristiana in quasi tutte le sue componenti — gerarchiche, intellettuali, comunitarie — va ancora costruendo la propria identità in termini istituzionali14, teologici15 e liturgici16. E, come dimostrano le testimonianze martiriali, nonostante il progressivo inserimento del cristianesimo nei quadri istituzionali dell’impero17, la costruzione di tale identità in vista della salvezza ultraterrena ha anche costi di sangue, essendo il cristianesimo in Asia minore — così come 12

R. LANE FOX, Pagani e cristiani, cit., invece, distingue i vissuti e le pratiche e li ritiene il fronte lungo il quale il cristianesimo rompe con la continuità tradizionale. 13 Cfr. G. FILORAMO, Le religioni di salvezza nel mondo antico, Torino 1978; G. FILORAMO – M. MASSENZIO – M. RAVERI – P. SCARPI, Manuale di storia delle religioni, Bari 1998, soprattutto P. SCARPI, L’età ellenistico-romana, 125 ss. 14 IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Agli Smirnesi, 8, 1-2. 15 ID., Ai Tralliani, 9; POLICARPO, Ai Filippesi, 7, 1 16 Il riferimento è alla questione della Pasqua e al confronto con l’area giudaica del cristianesimo, da cui Ireneo di Lione arrivò a una determinazione in senso cristiano (cfr. G. FILORAMO, Alla ricerca di una identità cristiana, cit., 194 ss.). 17 Come dimostra Melitone di Sardi, al tempo di Marco Aurelio, testimone di un cristianesimo alleato dell’Impero (cfr. Eus., h. e. 4, 26, 6-11).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 16

16

Teresa Sardella

in Gallia e in Africa — sottoposto a persecuzioni. Nella ricerca di una salvezza che ciascuno configurava a suo modo, pagani e cristiani18 vivevano e pregavano il loro dio, divisi dalle fedi religiose, uniti dalla comune e molto umana percezione della sofferenza che in modi e per ragioni diversi li spingeva a rivolgersi ciascuno alla propria fede: due personaggi contemporanei e conterranei — legati alla stessa metropoli dell’Asia minore, la città di Smirne— uno fedele di Cristo, Policarpo vescovo e martire, l’altro di Asclepio, il retore Elio Aristide, ne rappresentano esempi significativi. Se consideriamo alcuni dati biografici, nonché il momento della stesura finale dei documenti, il primo testo è il resoconto del martirio di Policarpo, contenuto in una lettera della chiesa di Smirne, alla comunità cristiana di Filomelio, in Frigia, composta meno di un anno dopo il martirio di Policarpo stesso, avvenuto tra il 156 e il 16719. Il martirio di Policarpo non contiene solo la narrazione del processo e il racconto, in questi testi generalmente piuttosto cruento, dei terribili supplizi fisici culminanti alla fine con una morte altrettanto atroce, ma anche un breve resoconto della ‘caccia’ del martire da parte della polizia imperiale fino al momento della cattura20. Questo consente di allargare l’analisi del rapporto con il divino a una dimensione meno specificamente legata al momento ultimo, che è quello in cui l’esperienza religiosa del martirio e il suo resoconto letterario, per quanto storicamente attendibili, inevitabilmente fanno concessioni a manifestazioni di eroismo estremo, incoraggiato e sostenuto dalla mano soccorrevole di Dio. Testimone della fede secondo l’insegnamento del Vangelo e sul modello di Cristo21, prima del martirio, Policarpo vive, 18 Pagani e cristiani alla ricerca della salvezza (secoli I-III), XXXIV Incontro di studiosi dell’antichità cristiana (Roma, 5-7 maggio 2005), Roma 2006. 19 Martyrium Polycarpi, in Atti e passioni dei martiri. Introduzione di A.A.R. Bastiaensen, testo critico e commento a cura di A.A.R. Bastiaensen et alii (testo critico del Martyrium Polycarpi a cura di A.P.Orban, trad. di S. Ronchey), Milano 1987, 6-31. Cfr. Introd., 3. 20 Martyrium Polycarpi 5-6-7-8, ed. cit., 10 ss. 21 Martyrium Polycarpi 1, 1. Sul tema dell’imitatio Christi, per una prima informazione è sufficiente consultare A.A.R. BASTIAENSEN, Introd. a Atti e Passioni dei martiri, cit., soprattutto pp. XX ss.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 17

Pregare gli dei / pregare Dio

17

oltre che come martire, ancora e anche come uomo, provando umani sentimenti di incertezza, paura e sofferenza, testimoniando in modo che appare storicamente autentico forme e ragioni che lo spingevano a pregare. Non è un caso che il testo offra una delle testimonianze più ricche, tra tutti gli antichi Atti e passioni dei martiri, in fatto di documentazione eucologica22. Policarpo era già vescovo di Smirne, quando, nel 117, in una zona interna e spopolata, a nord—est della futura città di Hadrianutherae (Adrianutere), nasceva Publio Elio Aristide, di famiglia agiata, e per questo partecipe della vita politica della pur lontana Smirne23, retore di solida formazione, soprattutto uomo e intellettuale inquieto, agitato da forti tensioni religiose, ma anche profondamente sofferente nel corpo, oltre che nell’anima, per i perigli di una vita avventurosa ma anche per l’aspirazione del tutto terrena al raggiungimento della gloria e del successo professionali. In questa esperienza di angoscia e di sofferenza egli intrattiene un dialogo costante e continuo con il dio Asclepio, all’insegna di un rapporto diretto e personale, intimo ed esclusivo, vissuto come strumento di salvezza, dove sono in gioco la conquista e la padronanza della retorica, la fama e il recupero del benessero fisico. Di Aristide non si ha più notizia dopo il 180, nei primi anni dell’impero di Commodo, ma l’opera che ci interessa — Discorsi sacri24 — e, soprattutto, quanto vi è narrato — l’unico resoconto auto-

22

Significativa, per esempio, la differenza con la coeva testimonianza riguardante i martiri africani, praticamente priva di preghiere esplicitamente formulate (cfr. E. ZOCCA, Martiri e preghiera nell’agiografia africana, in La preghiera nel tardo antico. Dalle origini ad Agostino. XXVII Incontro di studiosi dell’antichità cristiana (Roma, 7-9 maggio 1998), Roma 1999, 549. 23 Per i suoi stretti legami con la città, di cui era anche cittadino, alcune fonti antiche lo indicano come smirneo (fondamentali: C.A. BEHR, Aelius Aristides and the Sacred Tales, Amsterdam 1968; S. NICOSIA, Introduzione e commento a Elio Aristide, Discorsi sacri, Milano 1984 (ed. usata 2008, 4a), 190, n. 20; G. SFAMENI GASPARRO, Elio Aristide e Asclepio, un retore e il suo dio: salute del corpo e direzione spirituale, in Oracoli Profeti Sibille. Rivelazione e salvezza nel mondo antico, Roma 2002, 203-254. 24 Edizione utilizzata: Aelii Aristidis Smyrnei quae supersunt opera omnia, ed. B. Keil, II, Berolini 1958, 376-466 e la traduzione italiana con introduzione e commento: Discorsi sacri, a cura di S. Nicosia, Milano 1984.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 18

18

Teresa Sardella

biografico antico di un’esperienza religiosa e onirica25 — erano iniziati nel 143 e si protrassero fino al 17126. Si tratta di testi che rappresentano esperienze religiose vive, sofferte, coinvolgenti, non di riflessione teoriche o di espressioni religiose di natura intellettualistica o dottrinale. Prima di trattati come quelli di Tertulliano, e fuori da considerazioni critiche e conflittuali, già presenti nei testi evangelici27, ci consentono un confronto ravvicinato tra esperienze di preghiera nel cristianesimo e nel mondo ellenistico. 2. COME PAGANI E CRISTIANI VEDEVANO PREGARE I LORO AVVERSARI DI FEDE

Sui rapporti tra preghiera giudaica, pagana e cristiana, il confronto storiografico sta all’interno di interpretazioni che non sempre seguono letture in chiave di conflitto/continuità28. 25 E.R. DODDS, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia. Aspetti dell’esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, trad. it., Firenze 1970, 40 ss. Una lettura in chiave psicologica dello stile dei Discorsi sacri è in D. GIGLI, Stile e linguaggio onirico nei «Discorsi sacri» di Elio Aristide, in Cultura e scuola 16 (1977) 214-224. 26 Si tratta degli Hieroi logoi che corrispondono alle orazioni XLVII-LII della numerazione tradizionale, ma alle quali si fa ormai usualmente riferimento in una numerazione che va dall’1 al 6 e che è quella che qui seguiremo. L’ordine cronologico degli avvenimenti in questo diario è quanto mai confuso e lacunoso. Anche la datazione degli eventi non è sempre certa e comunque vi sono un vuoto che va dagli anni 155 al 165, e un punto fermo, di cui si dirà meglio più avanti, e che riguarda i due anni di permanenza nel santuario di Pergamo, dal 145 al 147. Qui seguiamo la successione cronologica ricostruita da C.A. BEHR, Aelius Aristides, cit., 121 ss. Questa fissa al 118 d.C. la data della nascita di Elio Aristide e non precisa quella della morte, fissandola a un anno indefinito dopo il 180. Per queste date la precedente ricostruzione di A. BOULANGER, Chronologie de la vie du rhéteur Aelius Aristide, in RPhLH n.s. 46 (1922) 55, parlava rispettivamente di 117 e 187 circa. 27 Cfr. n. 4. 28 Prima e al di fuori dagli studi antropologico-religiosi lo stesso tema della preghiera era ben poco considerato dagli studiosi delle religioni classiche, mentre il confronto con quelle classiche sarebbe apparso quanto meno incongruo a studiosi di una cristianistica non ancora avvicinatasi agli studi storico-religiosi fortemente contrassegnati da una sensibilità antropologica. Dall’altro lato, tra gli storici delle religioni, soprattutto tra i rappresentanti della Religionsgeschichtliche Schule, quali Bousset e Reitzenstein, il rapporto con il mondo classico è stato inteso quale continuità indiffe-


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 19

Pregare gli dei / pregare Dio

19

Nel confronto, per come esso era storicamente vissuto e percepito, tra religioni tradizionali e cristianesimo, il dilemma in termini di conflitto/continuità non esisteva e i cristiani non mettevano in dubbio che esistesse una frattura con i culti pagani. Almeno a livello teorico dai testi evangelici alla trattatistica, a partire dalla riflessione tertullianea, differenza e superiorità della preghiera cristiana ai loro occhi erano indiscutibili. E, così, il gesto e la parola sono per Matteo rispettivamente ciò che distingue ebrei (ipocriti) e pagani (etnici) dai cristiani. I primi per l’esibizionismo ipocrita del loro ritualismo, i secondi per le inutili parole per le quali soltanto credono di essere ascoltati da Dio. «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli renziata, una sorta di trasposizione di antichi concetti e valori dentro un nuovo involucro, il cristianesimo. E, per esempio, la preghiera a Cristo, che anche un autore come Plinio aveva già visto come caratterizzata dalla diversità della sinaxi e della pietà cristiana (ep. 10, 96), è letta interpretando il ruolo di Cristo come quello di un mediatore e intercessore, il cui culto era del tutto appiattito su quello degli eroi divinizzati. Tra la vasta bibliografia, oltre alle voci dei Dizionari, e ai classici (F. HEILER, La prière, trad. fr., Paris 1931 e A. HAMMAN, La prière, voll. I-II, Tournai 1963), variamente utili: A.M. DI NOLA, La preghiera dell’uomo, Modena 1957; R. BOCCASSINO (cur.), La preghiera, Milano 1967; A.G. HAMMAN, La prière chrétienne et la prière paienne, formes et differences, in ANRW 2 (1980) 1190-1247; H. LIMET-J. RIES, L’expérience de la prière dans les grandes religions, Louvain-la-Neuve 1980; A.G. HAMMAN, La preghiera nella chiesa antica, trad.it., Torino 1994; G. FILORAMO, La preghiera nella storia delle religioni, in L’uomo davanti a Dio. La preghiera nelle religioni e nella tradizione cristiana, a cura di E. Guerriero, Cinisello Balsamo 1998; La preghiera nel tardo antico. Dalle origini ad Agostino. XXVII Incontro di studiosi dell’antichità cristiana (Roma, 7-9 maggio 1998), Roma 1999 (utili soprattutto i tre saggi introduttivi dal taglio comparativo di A.G. Hamman [La prière dans l’antiquité chrétienne. Un bilan des études sur la prière au XXe siècle, 7-23], E. Mazza [L’eucarestia: dalla preghiera giudaica alla preghiera cristiana, 275], G. Piccaluga [La preghiera nelle religioni del mondo classico, 53-65]: rispettivamente sulla preghiera cristiana, sui suoi rapporti con la preghiera giudaica e con la preghiera delle religioni classiche); S. PRICOCO – M. SIMONETTI (curr.), La preghiera dei cristiani, Milano 2000, con un’efficace sintesi introduttiva di S. Pricoco, XIX-XXX e che riguarda proprio il confronto storico tra pagani e cristiani. Deludente su questo tema è, invece, la consultazione di R. LANE FOX, Pagani e cristiani, trad. it., Bari 1991, che fa solo un fugace riferimento alla preghiera pagana (pp. 116-117) e indirettamente a quella cristiana (p. 298), ma senza utilità comparativa.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 20

20

Teresa Sardella uomini […] Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto […] Pregando, poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate»29.

Su questa stessa linea, sul finire del II secolo, Tertulliano descriverà la preghiera del cristiano come quella di colui che prega dal cuore e per tutti, compreso l’imperatore, senza usare alcuna formula ripetitiva, volgendo gli occhi al cielo, con le mani aperte e il capo scoperto. Ma già, alcuni anni dopo, lo stesso contraddirà questa libertà del cuore volendo imporre le regole di una preghiera vincolata a dettagli formali e obbligati dell’atto e della parola30. La descrizione degli ethnici come estimatori solo di un ritualismo liturgico fatto di gesti e di parole contraddice le affermazioni degli stessi sulla preghiera pagana della quale dicono di apprezzare la forma spirituale. Peraltro, là dove i pagani non sono solo generici nelle accuse contro i cristiani e il loro modo di riunirsi e pregare, applicano gli stessi criteri dei cristiani e giudicano con altrettanta severità proprio distinguendo tra fredda preghiera liturgica e preghiera intima; e vedono le preghiere dei cristiani come formule e pratiche magiche, con un evidente capovolgimento di valori rispetto alle accuse eguali e contrarie fatte dai cristiani nei loro confronti. Abbiamo un esempio di questo nella Passio Perpetuae, nel racconto di ciò che avviene nel carcere dove il trattamento dei prigionieri cristiani è duro nell’attuazione di adeguate contromisure contro l’ipotesi di fuga dei prigionieri, e nella convinzione, appunto, che questi potessero fuggire aiutandosi con formule e arti magiche, nelle quali mi pare non si possano vedere altro che le preghiere31. Quanto al fatto che i pagani fossero seguaci e osservanti solo in base a un formalismo liturgico fatto di preghiere ripetitive sul piano della forma, vuote su quello dei contenuti religiosi e civili a testimonianza di 29

Mt 6,5-8 Apologeticum 30,4 e De oratione 1,6. Cfr. supra. 31 Passio Perpetuae et Felicitatis 16,2.

30


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 21

Pregare gli dei / pregare Dio

21

una religione senza Dio, e che secondo i cristiani sarebbe proprio della preghiera pagana, si tratta di una accusa contraddetta dalla documentazione già per le religioni del mondo classico. Qui, la preghiera era presente sia come formula fissa orale e scritta, sia come preghiera spontanea, sia come semplice invocazione che nelle forme più complesse degli inni, i quali valgono peraltro sia come preghiera pubblica e liturgica che come preghiera privata32. Ma è soprattutto la mistica ellenizzante a introdurre forti elementi di interiorizzazione. Lo testimoniano Seneca33, che afferma la preferenza dei pagani a pregare in silenzio (tacite) e «tra noi stessi» (intra nosmet ipsos) e Plinio il Vecchio34 che recrimina a lungo e in modo molto critico contro il formalismo parolaio (quotiens precatio erraverit) e, ancora, Marco Aurelio che si oppone alla preghiera materialistica e interessata degli ateniesi35. Oltre il ritualismo formale delle diverse liturgie religiose, proprio dei culti tradizionali e preferito dalle gerarchie ecclesiastiche nel cristianesimo, e oltre la preghiera spirituale ed interiorizzata —quella che nasce dal cuore —, la preghiera, dunque, anche nella concezione religiosa tradizionale, supera i confini della sua dimensione più immediata, che è quella di un rapporto dialogico con dio fatto di parole. E approda alla dimensione del silenzio. O, meglio, di una comunicazione che può anche prescindere del tutto dalla parola36, concentrarsi in un gesto, una postura, un atteggiamento o una disposizione del corpo37, dell’animo, della mente. Di certo, più facilmente i termini del confronto eucologico si giocano a partire dagli elementi ‘sensibili’ — nel significato letterale del termine— della preghiera, dalle sue modalità formali, fatte di gesti e di parole — visibili e udibili — e che esprimono o un freddo, vincolato e vincolante formalismo, stretto in forme e modi già definiti, o una libertà della parola che pure tende a ripiegarsi sul silenzio. Nell’ambito di 32

G. PICCALUGA, La preghiera, cit., 55. De beneficiis 2, 1, 4. 34 Natur. Hist. 28, 3,10-3. 35 Ad se ipsum 5, 7. 36 E. ZOCCA, Martiri e preghiera, cit., 540. 37 Sulla diversità delle posture del corpo nelle varie religioni cfr. R. CIPRIANI – G. MURA (curr.), Corpo e religione, Roma 2009, soprattutto pp. 23 ss. 33


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 22

22

Teresa Sardella

questa essenziale distinzione i termini di confronto sono molteplici e ciascuno di questi molti aspetti riguardanti forme e modi della preghiera può comportare corrispondenze più o meno strette, variabili inconciliabili, continuità e rotture38. 3. PREGHIERA E SOTERIOLOGIA Un’analisi che si fermi alla forma esteriore — dalla lingua, alle forme e formule espressive, ai gesti e agli atteggiamenti fisici che la accompagnano e che possono essere in parte anche sovrapponibili — non tiene ancora conto del modo di relazionarsi alla divinità che, tra i molti aspetti intrinseci alla preghiera, costituisce un termine di paragone che segna un solco incolmabile avvertito come tale soprattutto dai cristiani — se non altro perché ne parlano più diffusamente — come il più distante dal punto di vista teologico e religioso. In effetti, tra gli elementi che possono maggiormente condizionare la realtà della preghiera e differenziare quella di pagani e cristiani al di là di apparenze simili nelle forme e nei modi, vi è la relazione che si stabilisce tra fedele e divinità, in quanto essa, a partire da specifici parametri teologici, entra nel vivo della più profonda esperienza religiosa, quella emotiva, quella che per definizione appare insondabile. Uno dei punti per più aspetti problematici della comparazione tra reli38

Uno di questi elementi — e ci pare che rappresenti un perfetto esempio di presa di distanza su cui incide fortemente una consapevole operazione intellettuale — è rappresentato dalla lingua. Basilare strumento di comunicazione, anche se non fra quelli ‘originari’, tra i quali metterei piuttosto il gesto e l’immagine, la lingua ha offerto ai cristiani straordinarie opportunità di riutilizzo di materiali, e proprio tra quelli più marcatamente segnati dalla cultura filosofica, nei quali la forma conteneva tutt’altro senso e valore, e la parola, dunque, assumeva tutt’altro significato, con straordinari casi di appropriazione culturale e di risemantizzazione. Per fare un solo esempio, in ambito filosofico religioso ricordo quanto avvenuto con il termine logos. Per quanto riguarda la preghiera, oltre al riutilizzo semantico di termini già utilizzati dai pagani (cfr. A. HAMMAN, La prière chrétienne et la prière paienne, cit.), si fa riferimento anche alla definizione di un vocabolario cristiano della preghiera che, smarcandosi del tutto dall’uso dei termini della preghiera pagana, attinge a un lessico fino ad allora non specifico e lo rende tale. CH. MOHRMANN, Etudes sur le latin des chrétiens, I, Rome 1961, 167


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 23

Pregare gli dei / pregare Dio

23

gioni ellenistiche e cristianesimo sta proprio nel valutare la sensibilità religiosa che sta dietro alla preghiera anche a quella pagana e non solo nelle sue manifestazioni liturgiche39. Incide profondamente in tale sensibilità religiosa la temperie spirituale che da età alessandrina in poi, con i nuovi culti e le nuove divinità ellenistico-orientali, rompe con il freddo contesto della religione grecoromana fondata o sulla estraneità degli dei dell’olimpo alle vicende umane o al più, sul principio di scambio (do ut des). In tale temperie religiosa e spirituale si introducono tensioni soteriologiche, che regalano agli adepti la rasserenante visione di superare la sofferenza e comunque la fiduciosa certezza di appartenere a un’élite in stretto contatto con la divinità. Il tema della salvezza entra anche a modificare culti tradizionali come quello di Asclepio che si offre alla devozione dei fedeli quale «salvatore» dalle malattie e da tutti i rischi del vivere, dunque, in riferimento a interessi e a una realtà materiali40. Ma il collegamento con il dio, che avviene di regola nella dimensione onirica, colloca il rapporto tra il fedele e il dio nell’ambito di un’esperienza profondamente emotiva se non propriamente spirituale. Una valenza fondamentalmente spirituale, sia pur connessa spesso a interventi di tipo medicale che fanno di Cristo il sostituto di Asclepio, ha, invece, il concetto di salvezza nel cristianesimo. Qui la soteriologia è il nodo teologico centrale del ruolo di Cristo come mediatore ultraterreno e connota lo speciale rapporto che unisce il fedele a Cristo, artefice e garante di tale salvezza nell’al di là celeste con la sua stessa morte41. 39 La cultura occidentale di matrice cristiana ha eluso lo studio della sensibilità religiosa insita nella preghiera pagana negandone la stessa esistenza e fermandosi al dato liturgico, come all’unico possibile e che la contraddistingue. G. PICCALUGA (La preghiera, cit., 57 s.) lamenta questo limite e riconosce che una sensibilità religiosa pertiene anche al formalismo delle pratiche cultuali, ma ritiene anche che la preghiera pagana, specie in alcune sue realizzazioni appare molto distante dal modo di pregare istituito da Cristo. 40 Sulle caratteristiche di Asclepio, assunte sulla spinta delle culture e delle tradizioni religiose del Mediterraneo, ormai omologato nella cultura, nell’intellettualità ellenistiche e nelle strutture socio economiche e politiche dell’Impero romano, cfr. G. SFAMENI, Elio Aristide e Asclepio, un retore e il suo dio, in EAD., Oracoli Profeti Sibille. Rivelazione e salvezza nel mondo antico, Roma, 2002, 205 ss. 41 Ciò non impedisce a Cristo di essere anche il mediatore di una salvezza in senso


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 24

24

Teresa Sardella

A questo punto, se la domanda è quella di valutare in questi due diversi contesti salvifici, presenza, ruolo, forme e modalità della preghiera, in relazione al rapporto con la divinità, diventa importante definirne i parametri ‘teologici’: una categoria — quella di ‘teologia’ — non utilizzabile per le religioni del mondo classico, valida, invece, per quelle della tarda antichità, sia pure nella consapevolezza delle differenze e dei limiti nel confronto42. Una più approfondita analisi della preghiera nella sua dimensione spirituale ed interiore è possibile a partire dalla riconsiderazione dei modi e delle forme di relazione tra fedele e divinità; per cui anche la natura delle divinità stesse va ulteriormente precisata. Ed è da questo punto di vista che Asclepio e Cristo, nel ruolo di mediatori di salvezza, pongono il problema di come i parametri teologici delle rispettive religioni possano influire sulle relazioni tra il fedele e il dio e su come queste si concretizzino nella preghiera. In questo contesto, escluso che la contrapposizione del divino in termini di contrapposizione tra l’uno e i molti possa essere intesa come quella tra monoteismo (o monoteismi) e politeismo, o che il primo, il monoteismo, possa comprendere tutte le varie forme religiose tendenti verso l’uno, meglio qualificabili come culti e religioni enoteistici43, siamo pur sempre in presenza di una koinè ideologico religiosa, dove non è la spiritualità delle offerte che costituisce un discrimine. Porfirio fisico e, in tal senso, di rappresentare sia pur con le dovute varianti teologiche la naturale prosecuzione nel cristianesimo del ruolo prima assunto da Asclepio. Nella tematica soteriologica cristiana è pregnante il riferimento all’azione salvifica e risanatrice di Gesù non solo nell’al di là ma anche in termini di salute del corpo: «Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni» (Mt 10,8), attraverso interventi di natura taumaturgica, la cui logica era sottesa a un tipo di antropologia per la quale il benessere dell’anima poteva dipendere dalla salute del corpo (Cristo e Asclepio. Culti terapeutici e taumaturgici nel mondo mediterraneo antico fra pagani e cristiani, a cura di E. dal Covolo – G. Sfameni Gasparro, Roma 2008, soprattutto EAD., Taumaturgia e culti terapeutici nel mondo antico: fra pagani, ebrei e cristiani, 13 ss. e G. FILORAMO, La vittoria di Cristo su Asclepio. Malattia e guarigione nella Storia filotea di Teodoreto di Cirro, 113 ss.). 42 G. SFAMENI GASPARRO, Dio unico, pluralità e monarchia divina, cit., soprattutto il cap. Dio unico e unità del divino. Teologie tardo antiche fra “esclusione” e “inclusione”, 179 ss. 43 Cfr. note 10 e 11.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 25

Pregare gli dei / pregare Dio

25

attribuisce a un certo uomo sapiente, probabilmente Apollonio di Tiana del trattato De sacrificiis, l’ammonimento a non offrire altro che un sacrificio spirituale al dio supremo «con un silenzio puro e con pensieri puri rivolti a lui». A questo theòs epì pàsi nulla di sensibile può essere offerto. «Al Dio che è sopra di tutti — come ha detto un uomo sapiente — non sacrificheremo niente di ciò che è sensibile né bruciando offerte né nominandolo: perché niente vi è di materiale che per l’essere immateriale non sia immediatamente impuro. Perciò a lui non è appropriata né la parola emessa con la voce né la parola interiore quando è insudiciata dalla passione dell’anima»44. E non solo la preghiera comunicata con le parole è inibita, come pare qui di capire, ma lo è anche qualunque forma di acclamazione e di lode: «né lo si nominerà con parole sensibili»45. Ma non è solo questo che qualifica la sensibilità religiosa dell’orante e il suo modo di avvicinarsi alla divinità attraverso la preghiera. Vi è anche la diversa collocazione del dio, in sistemi teologici dove la consonanza filosofico-culturale non annulla differenze fondamentali. Asclepio appartiene a un sistema teologico dove la realtà divina è intesa come trascendente e attiva al livello cosmico attraverso una molteplicità di potenze divine, che sono entità personali identificate con gli déi dei pantheon tradizionali. Sia Dione Crisostomo46 che Elio Aristide47 celebrano Zeus come sovrano universale, da cui derivano tutte le divinità che sovrintendono ai vari dipartimenti cosmici. Queste posizioni ideologico-speculative hanno un significato più propriamente storico in quanto si riflettono sulle varie forme di religiosità, e sono fattori capaci di modificare comportamenti etici e rituali degli individui. Infatti si tratta di una concezione monarchica della teologia distinta anche nella percezione 44 Sulla necessità che il culto e la preghiera agli dei siano del tutto esenti dalla richiesta di un utile o di un vantaggio personali, di qualunque natura essi siano, cfr. anche CIC., De nat. deorum 2, 28,72. 45 De abstinentia 2, 34, 2-3, in G. GIRGENTI – A.R. SODANO (curr.), Porfirio, Astinenza dagli animali, testo greco a fronte. Prefazione, Introduzione e apparati di G. Girgenti, traduzione e note di A.R. Sodano, Milano 2005, 182-185. 46 Or. 12 (o Discorso olimpico) del 97 d.C. 47 Or. 43.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 26

26

Teresa Sardella

dei fedeli dalle posizioni giudaico cristiane del dio unico che rifiuta di entrare in uno scenario di entità più o meno personali a lui omologhe in quanto alla natura. Pur con molte analogie, convergenze e somiglianze, teologia dei Greci e giudaico-cristiana si distinguono se non anche contrappongono48. La prima è centrata non tanto sul fatto che Dio sia Uno, nel senso di più grande, quanto sul fatto che Dio sta all’interno di una dimensione graduata intesa a conciliare l’Uno e i molti. La seconda, nel II secolo, con gli apologisti, soprattutto con Giustino, è centrata sull’adesione «non più a una dottrina, ma a una persona storica che, innestandosi sulla radice del monoteismo giudaico come Figlio di Dio e Messia è percepita come egualmente divina e unica fonte della soteria cui l’uomo aspira»49. In questa novità del ruolo e della funzione di Cristo sta la specificità della teologia cristiana del II secolo rispetto alle contemporanee posizioni filosofiche, incompatibili nonostante le molte analogie. I ruoli salvifici di Asclepio e Cristo, dunque, si collocano rispettivamente in sistemi soteriologici e teologici diversi, dove gli equilibri tra trascendenza e immanenza del sistema platonico e quello del Figlio di Dio fonte di salvezza si traducono in vissuti eucologici che tali sistemi teologici rappresentano. In altre parole, la aspirazione soteriologica, pur accomunando genericamente le propensioni del seguace di Asclepio e del seguace di Cristo, appare profondamente diversa nel significato, volto al soddisfacimento dei bisogni terreni nel primo caso, alla proiezione verso l’al di là nel secondo. Inevitabilmente, le preghiere avranno contenuti distinti, diversi saranno i contenuti ideologici e concettuali. Ma, nella comune temperie spirituale di un’epoca dominata dall’incertezza del vivere, ad essere confrontabili da vicino sono, invece, il piano emotivo della rela48 G. SFAMENI GASPARRO, Dio unico, pluralità e monarchia divina., cit., soprattutto il cap. Monoteismo pagano nell’antichità tardiva? Una questione di tipologia storico— religiosa, 131 ss.; 155 ss. 49 G. SFAMENI, Dio unico, pluralità e monarchia divina., cit., 190 ss. Negli altri apologisti questo spessore cristologico della identità cristiana si stempera e Cristo è presentato solo come Logos in funzione demiurgica e salvifica evitando riferimenti alla persona storica di Gesù.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 27

Pregare gli dei / pregare Dio

27

zione con il dio, intenso nella tensione verso un assoluto affidamento, in altre parole alcuni aspetti profondi della sensibilità religiosa. Così, speranza e promessa di salvezza determinano una similare tensione emotiva verso il dio, ma le domande del fedele hanno per oggetto sostanzialmente preoccupazioni diverse, sono volte a fini diversi, sono in parte vissute in modo diverso. 4. SOFFERENZA E PREGHIERA DI AFFIDAMENTO IN ARISTIDE E POLICARPO: UNA SENSIBILITÀ COMUNE La sofferenza — centrale nell’esperienza umana, dove è connessa ad una naturale tensione ad alleviare il dolore, ai cui tentativi sono deputate in special modo e direi anche come una delle loro principali funzioni, le religioni tutte50 — spiega tipologia forme e modi di una preghiera che si connota spesso, proprio in relazione alle diverse aspirazioni di salvezza, come supplica e affidamento del fedele al suo dio. Nella più generale articolazione in preghiera liturgica e comunitaria da un lato e preghiera intima e personale dall’altro, con le ulteriori suddivisioni che accomunano trasversalmente questi due gruppi51, la 50

Interessanti riflessioni sul tema della sofferenza e su come essa può essere diversamente percepita in relazione alle condizioni religiose sono in M. PICOZZI – L. VIOLONI – P. CATTORINI, Il significato della sofferenza: tre religioni monotestiche interpretano l’esperienza della malattia, Milano 2004. Sullo stesso tema, relativo soprattutto alla cultura occidentale e a come in essa sono rappresentati sofferenza e dolore, quale eredità di tradizioni, religioni, esperienze culturali e filosofiche, cfr. S. NATOLI, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Milano 20042, anche se l’inevitabile taglio filosofico—teoretico, dato il profilo scientifico del suo autore, vincola il lavoro alla ricerca di una sorta di ‘verità’ assoluta, secondo una impostazione che non coincide con la nostra prospettiva storica. Per cui, il volume, pur risultando utile per alcuni riferimenti ed agganci, non è storicamente fruibile (cfr., per esempio, quanto si dice a proposito di Epicuro, pp. 22-23: «la considerazione di Epicuro risulta vera solo se si guarda al rapporto tra vita e morte in termini di secca alternativa e di pura esclusione […] In ciò la sapienza cristiana è stata più perspicace di Epicuro»). 51 Alla base di queste stanno diversi statuti della preghiera (cfr. ibid., n. 2) determinati dal rapporto con dio (preghiera magica/mistica) o dalla funzione che la stessa preghiera assume nell’economia dell’esistenza umana e insieme della relazione con la divinità (lode/supplica). Sulla specifica forma di orazione, che implica una richiesta di


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 28

28

Teresa Sardella

preghiera collegata a situazioni di rischio o alla sofferenza — quelle che alimentano e dominano entrambe le esperienze di vita e/o di morte narrate in relazione a Aristide e Policarpo — è quella più frequente nei nostri testi. A partire dallo specifico retroterra teologico dei culti ellenisticoorientali da un lato e del cristianesimo dall’altro, con la connessa soteriologia, cambiano, dunque, sia il concetto di sofferenza che le modalità e l’aspirazione al suo superamento. Ma, non sempre sofferenza e salvezza sono rapportabili alle diverse dimensioni teologicoreligiose. Per esempio, anche il cristiano, soprattutto dopo i primi secoli ha fatto delle minute necessità quotidiane l’oggetto delle sue preghiere e come dimostra l’eredità lasciata da Asclepio a Cristo anche i cristiani hanno un concetto di salvezza e salute in termini materiali e concreti e anelano al benessere e alla salute del corpo52. E, in questo contesto, anche la sensibilità religiosa può apparire in parte consonante. Infatti, pur nella diversità teologica che distingue il gruppo degli déi e dei rispettivi culti cui fa riferimento Aristide da un lato e la dimensione cristocentrica del divino che appartiene a Policarpo dall’altro, la sensibilità religiosa del devoto di Asclepio e quella del fedele di Cristo sembrano anche alimentate dalla stessa emotività. Un territorio di difficile accesso soprattutto nelle fonti antiche — per questo un testo come la biografia di Aristide appare prezioso nella sua unicità di resoconto personale di un’esperienza intima e psicologica — ma del quale ci giungono segnali anche da altrove, come, per l’appunto, dal resoconto del martirio. Il punto più alto di questa consonanza emotiva, dove il senso del vuoto e della paura esistenziale rinviano all’angoscia dell’essere che trova sollievo nell’abbandono alla protezione divina, compare al culmine di queste esperienze di sofferenza che coincidono con la fine delle esperienze vissute o narrate accompagnate ciascuna da una preghiera. aiuto — una supplica — cfr. G. RAVASI, La preghiera, in G. FILORAMO, Che cosa è la religione, cit., 376: anche se l’autore, in realtà, fa riferimento a un genere di supplica più formale, perché strutturalmente più complesso e articolato, rispetto a quello di cui troviamo testimonianza nei testi analizzati. 52 Cfr. G. PICCALUGA, La preghiera, cit., 62.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 29

Pregare gli dei / pregare Dio

29

Nell’inverno del 170-17153, dopo decenni di una sofferenza che sembra concludersi proprio allora54, quando egli diede l’avvio alla stesura dei Discorsi sacri, Aristide prova senso di impotenza e disperazione per l’inutilità di ogni sforzo volto a mettere fine al dramma della sua vita. Questo percorso di sofferenza risaliva a 30 anni prima quando strani disturbi e fastidiosi malanni, che noi oggi leggiamo facilmente in chiave psico-somatica55, avevano cominciato ad assalirlo durante i suoi viaggi. Questi, in quanto strumento di crescita culturale, erano per lui iniziati ben presto compresi come erano — per un giovane della sua classe sociale — nello schema di formazione intellettuale, fatto di studi libreschi delle scuole di grammatica e di retorica e di apprendimenti scolastici, ma anche di esperienze più stimolanti come la conoscenza diretta delle principali sedi culturali dell’Impero e del mondo in genere, e la possibilità di verificare le proprie capacità per prepararsi all’affermazione e al successo come retore. Ma proprio i viaggi lo catapultarono nel disastro. Già dal primo soggiorno in Egitto (141/142) cominciò a manifestarsi una strana malattia. Si vide allora costretto a rivolgere le sue preghiere al dio guaritore per eccellenza, Serapide. In una orazione lo ringrazia per averlo salvato da una tempesta e gli chiede di continuare a proteggerlo56. Ancora più disastrosi per la sua salute furono il viaggio a Roma, iniziato nell’inverno del 143/144, a ventisei anni, e il ritorno in Asia. Tra un’avventura e l’altra le sue condizioni fisiche peggiorarono progressivamente fino a che non poté reggersi in piedi e solo faticosamente riuscì a raggiungere Smirne, pur senza averne pace. Messaggi rassicuranti di salvezza gli continuavano 53

C.A. BEHR, Aelius Aristides, cit., 205-206. Da ricordare il fatto che questo momento, in cui Aristide decide di abbandonarsi al dio, coincide pressapoco con l’inizio della stesura del racconto autobiografico: su questo utili suggestioni in G. STARACE, Il racconto della vita. Psicoanalisi e autobiografia, Torino 2004, oltre che lo studio specifico di D. GIGLI, Stile e linguaggio, cit. 55 Insuperata in tal senso specifico è la lettura che ne dà Dodds, Pagani e cristiani, cit., pp. 39 ss., ma interessanti considerazioni sono anche in D. GIGLI, Stile e linguaggio, cit. 56 Inno in prosa a Serapide (XLV K, Kofler, 1-4) (scritto nel 142: C.A. BEHR, Aelius Aristides, cit., 128). 54


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 30

30

Teresa Sardella

a venire da parte delle divinità salvatrici Iside e Serapide cui continuava a rivolgersi, ma nulla di risolutivo accadde. Di fronte all’inadeguatezza anche della medicina umana, nell’estate del 145, dovette ricoverarsi nel santuario di Pergamo, dove restò fino all’estate del 147. A questa soluzione fu costretto dalla ‘chiamata’ del dio Asclepio, al quale da questo momento in poi rivolse tutta la sua incondizionata devozione che pur non escludeva saltuari, ma momentaneamente anche intensi, rapporti con altre divinità57. Con Asclepio non era un rapporto escludente gli altri dei, ma esclusivo nella particolarità di una relazione, dove la preghiera era il dialogo ininterrotto fatto di richieste di Aristide, di risposte e soprattutto di ordini del dio, di giorno e di notte. Più di notte che di giorno. Di giorno Aristide era consumato dai fastidi fisici, ma era quando dormiva che implorava aiuto e pregava e in sogno il dio gli rispondeva con ordini che prevedevano strane diete alimentari e prove fisiche eccentriche fino a parere sadiche. Le preghiere, le richieste di Aristide e le sue domande, ma anche le lodi, i dialoghi che confermano e rassicurano dell’esclusività del rapporto, le comunicazioni e gli ordini del dio, avvengono, dunque, soprattutto nel sonno e in sogno58. Ma sonno e sogno si confondono e proseguono nella realtà o sono ad essa strettamente collegati59, perché, per quanto questi possano essere bizzarri e a volte incomprensibili anche nella logica della medicina antica, agli ordini di Asclepio Aristide dà seguito nella realtà; essi impostano la sua vita, orientano le sue scelte, la loro esecuzione assorbe in toto la sua giornata. E, ancora, sonno e veglia si confondono perché spesso il sogno sembra scivolare verso una visione da sveglio e la comunicazione — eucologica anche questa — passa attraverso parole non dette, pensieri comunicati attraverso lo sguardo, la tattilità del contatto fisico, l’emozione dei sensi e dell’anima, la gratificazione dell’intelletto, in una esperienza di fusione psico—fisica assoluta:

57

Apollo (4, 31); Iside (3, 45 e 49-50); Serapide (3, 48); Zeus (5, 47). Cfr., per esempio, 1,17; 1,22; 1,30, 1,33; 1,71; 2,7; 4,80. Ma, in realtà quasi tutto avviene in sogno. 59 Cfr. 2,52-53; 2,77; 3,39; 3,49, ma i casi sono numerosissimi. 58


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 31

Pregare gli dei / pregare Dio

31

«come negli infiniti altri casi in cui chiara ed evidente mi si è rivelata la presenza del dio: rientra infatti nella mia esperienza avere la sensazione come di toccarlo, e percepire distintamente il suo arrivo, e rimanere in uno stato intermedio tra il sonno e la veglia, e voler fissare lo sguardo su di lui, e trepidare per un suo prematuro commiato, e tendere le orecchie ad ascoltare, tra il sonno e la realtà, con i capelli ritti sulla testa, e versare lacrime di gioia, e sentire leggero il peso della mente. Quale essere umano è capace di esprimere tutto ciò a parole? Ma chi è iniziato, sa e comprende»60.

Questa fisicità della comunicazione è la perfetta traduzione eucologica di un tipo di sensibilità religiosa che arriva alla identificazione con il dio, allo scambio dei corpi e delle immagini: «Poi era come se proprio in quel pronao osservassi una mia statua; ed ora la vedevo come mia, ora invece mi sembrava addirittura di Asclepio, una statua grande e bella […] e la faccenda della statua ci sembrava un segno di grande onore»61.

In questa materialità delle preghiere sono comprese richieste di livello piuttosto ‘basso’, di piccina animosità vendicativa: «Signore, Asclepio, se è vero che io sono superiore nell’eloquenza, e lo sono di molto, concedi a me la salute, e fa’ che crepino gli invidiosi!»62.

Questo appello si accompagna al tentativo di forzare la volontà del dio da parte di Aristide che pone la sua condizione di pretesa eminenza nell’eloquenza in termini coercitivi per la volontà divina e vuole essere vincolante rispetto alla possibilità di essere esaudito: parole in libertà come forma e come sostanza rispetto alle formule protocollari delle richieste di tipo magico, ancorate, queste ultime, a parametri strutturati e a condizioni di formalismo tecnicistico precostituito, ma che per tale rapporto tra pretesa condizione e richiesta apparentano questa preghiera alla tipologia della preghiera magica63. 60

2,32-33, trad. it., 90. 1,17, trad.it., 62. 62 4,69, trad.it., 144. 63 Sullo statuto dell’orazione in tal senso, cfr. G. RAVASI, Preghiera, cit., 375. 61


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 32

32

Teresa Sardella

Ma, soprattutto, indicano quanto nulla di intentato sia lasciato per raggiungere il benessere. Infine, dunque, nell’inverno del 170-171, la stanchezza di tutto questo lo fa rivolgere al dio in modo nuovo e inconsueto. Impotenza e disperazione sono condensati in parole che rinviano a loro volta a una preghiera: «Consapevole di tutto ciò, avevo dunque deciso di abbandonarmi al dio veramente come ad un medico, perché in silenzio facesse di me ciò che voleva»64.

Questa decisione sembra voler chiudere con il fiume di parole che aveva alimentato un dialogo fino ad allora denso e continuo con la divinità; e alla divinità Aristide non vuole ormai più chiedere parole di conforto o soluzioni che lo costringano ancora una volta ad obbedire ed agire, per poi ritrovarsi ancora a dover richiedere. È la rinuncia alla dimensione del fare e dell’agire, sia pur solo per obbedienza. Pur entrando nella realtà della vita, il dialogo con Asclepio non era arrivato a modificare la realtà della sofferenza tant’è che il ricorso al dio si imponeva incessantemente: fino all’abbandono espresso dalla preghiera finale e conclusiva, dopo la quale sembra sciogliersi il dramma personale, ma anche non esserci più storia e finisce anche la tensione letteraria a raccontare quanto successo nella sua vita dopo questo momento, che è anche quello in cui egli aveva iniziato a scrivere per raccontare la sua esperienza fino a quel momento. La decisione di abbandonarsi al dio giunge dopo anni di una comunicazione fitta di preghiere di ogni tipo. In quanto a varietà, I Discorsi sacri, oltre agli altri scritti di Elio Aristide, nell’ampia offerta eucologica che rappresentano, richiedono di fare ricorso a varie tipologie classificatorie65. Dagli Inni alle espressioni di lode, dai versi composti da Aristide in onore della divinità, alle sue richieste di aiuto disperato, e che trovano sempre risposta, dalla ‘chiamata’ iniziale di Asclepio, che dà l’avvio a questo specialissimo rapporto, agli ordini incessanti e 64

1,4, trad.it., 58. Altre opere di Elio Aristide possono rientrare tra sue manifestazioni di esperienze eucologiche come gli Inni in onore degli dei. 65


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 33

Pregare gli dei / pregare Dio

33

spesso paradossali che il dio impartisce ad Aristide e ai quali egli immancabilmente obbedisce; ma vi sono anche forme apparentate con una preghiera vincolante per il dio e dunque di impostazione magica. La preghiera di ‘abbandono’ è quella che chiede una soluzione definitiva e concreta, che, a differenza dalle altre non lasci più spazio alla possibilità che gli vengano impartiti nuovi ordini, che gli si chieda di agire; è la preghiera perché il dio assuma la soluzione del suo caso, è espressione di un moto dell’animo, è rifiuto di una interazione, sia pure innervata su una passiva obbedienza. Attraverso una sorta di straniamento dei sensi, che tende all’immobilità anche inattiva e non più solo cieca e fiduciosa, è il desiderio di un affidamento totale che tocca le corde di un profondo sentire religioso. Questa preghiera finale, che conclude, in una dimensione di abbandono spirituale e nell’aspirazione al silenzio un dialogo sofferto e incalzante, di ossessiva comunicazione verbale, si differenzia, dunque, da tutte le altre preghiere, coinvolte nella percezione dei sensi66. Ed è soprattutto su questo fronte, che possono essere avvicinate le esperienze di Asclepio e quella di Policarpo. Anche per Policarpo, in un confronto che pure deve tenere conto della maggiore brevità del martyrium, ma soprattutto della grande differenza tra il racconto di un agiografo e un’autobiografia, la preghiera più interessante in termini di tensione verso una profonda spiritualità è quella finale. Ma molto è anche profondamente diverso. Recitata prima di essere arso sul rogo, essa è in rapporto e in funzione dell’inizio della vera vita e del superamento di tutti i mali che sono, per Policarpo, nella conclusione della vita terrena e delle sue sofferenze, passano attraverso la morte, e si ottengono abbandonandosi alla volontà di Dio; per Asclepio, inizio della vera vita e superamento di tutti i mali sono nella fine di una esperienza di sofferenza psico-fisica conclusa grazie all’abbandono a Dio, e al conseguente successo come retore. Per entrambi il punto di svolta è una condizione di spirituale, fiducioso, abbandono alla divinità.

66

1,17, trad.it., 61-62.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 34

34

Teresa Sardella «Signore Iddio onnipotente, padre del diletto e benedetto figlio tuo Gesù Cristo […] tu sia benedetto per avermi giudicato degno […] di prendere posto nel novero dei martiri, nel calice del tuo Cristo per la resurrezione alla vita eterna di anima e corpo nell’incorruttibilità dello Spirito Santo […] Per questo al di sopra di tutto io ti lodo, ti benedico, ti glorifico»67:

questi i passaggi salienti dell’ultima lunga preghiera di Policarpo, le cui parole vennero udite dagli astanti. È una preghiera di ringraziamento per la morte salvifica e per la sofferenza, dove i moti dell’animo e il sentire religioso, in questo momento estremo, si esprimono attraverso un fiume di parole. Si potrebbe dire che tale sensibilità verso una dimensione spirituale non ha bisogno di passare attraverso l’afasico abbandono che accompagnava l’annullamento di sé nell’ultima preghiera di Aristide, dove il silenzio pareva volto quasi a sottolineare per contrappasso la differenza con la verbosità delle esperienze eucologiche precedenti, intrise di fisicità. Con Policarpo, invece, sono proprio le parole espresse nella preghiera che introducono alla teologia e alla spiritualità del martirio. In sintesi, e per certi aspetti, una sorta di chiasmo. In Aristide, la spiritualità dell’abbandono — in assenza di parole e con una preghiera di cui non ci viene detto nulla delle condizioni materiali nelle quali è avvenuta, ma che esprime un moto dell’anima — lo condurrà a quel tipo di salvezza che era sempre stata nei suoi auspici e che riguardava le cose della vita, per cui egli avrebbe recuperato la padronanza della retorica. Specularmente, in Policarpo una lunga preghiera fatta di molte parole inizia come preghiera di lode ed esprime grazie per una morte fisica che, certa e ormai imminente, è sentita come il salvacondotto per la vita eterna, ultima agognata méta per ogni cristiano. Di questa preghiera conosciamo non solo il contesto storico nel quale è proferita — l’imminenza del martirio — ma anche la scenografia nella quale venne proferita — il rogo —, nonché elementi concreti che ne hanno preceduto e accompagnato la recitazione: la preparazione fatta dai carnefici sul corpo — legato non inchiodato —; la postura del corpo — con le braccia dietro il dorso —, l’espressione del volto — con 67

14,1, trad. it., 23


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 35

Pregare gli dei / pregare Dio

35

gli occhi levati in cielo —68. E, dunque, sono la fisicità del martirio e l’abbandono del corpo che conducono a una perfetta spiritualità. Il martyrium di Policarpo, pur nella sua brevità, offre numerosi riferimenti alla preghiera, che —intima o recitata ad alta voce e in presenza di altri — non è mai preghiera liturgica69. Anche le sue preghiere, come quelle di Aristide, si radicano in un’esperienza di rischio esistenziale su cui incombe l’umano sentimento della paura del dolore. Debilitante, angosciosa, palpabile nel lento procedere del resoconto onirico di Aristide, la paura sembra non comparire nel frenetico incalzare del racconto agiografico che passa con ritmo serrato dalla fuga alla cattura, al processo, alla proclamazione della condanna, fino alla messa a morte. O almeno della paura tace l’autore del testo, forse per accreditare al suo protagonista una serena visione della vita e soprattutto della morte e del martirio. Eppure così non è: di fatto, la paura, se pure non nominata, è in una prima fase costantemente evocata, si traduce nel bisogno di fuga e in un sentimento religioso che ha bisogno del sostegno e del rasserenamento e che per questo tende alla preghiera. In altri termini, anche per il cristiano Policarpo, le situazioni di pericolo alimentano umane passioni e un bisogno spirituale che lo spinge a pregare. E, così, se anche di fronte al rischio di essere catturato e costretto all’abiura o al sacrificio, Policarpo, all’inizio, «non si turbò» né ricercò la fuga70. E solo dopo le pressioni dei compagni di fede decise di 68

14,1. In ogni caso, la documentazione è particolarmente ricca e articolata, a differenza della quasi totale assenza di preghiere nei testi di età martiriale di area africana (su questi ultimi, cfr. E. ZOCCA, Martiri e preghiera, cit.) 70 5,1, 11. Molto si potrebbe dire sul tentativo dei cristiani, anche di coloro che poi furono martirizzati, di sottrarsi al processo e alla condanna. Notiamo soltanto alcuni punti di passaggio: a nostro giudizio, la questione deve essere diversamente interpretata se l’esperienza riguarda fatti e testi del II o del III secolo, più precisamente, è importante distinguere le esperienze e i racconti successivi alla persecuzione di Valeriano (257—258), quando anche uno scritto di circostanza (così Ch. MOHRMANN, Introd. a Vita Cypriani, in Vita di Cipriano Vita di Ambrogio Vita di Agostino, Milano 19812, XVII) come la Vita Cypriani (morto nel 258), di Ponzio, riferendo della fuga di Cipriano (cap. 7), sembra attendibile nel sottolineare l’importanza storica che i capi delle chiese si sottraessero alla condanna, evidentemente per non svuotare del tutto 69


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 36

36

Teresa Sardella

nascondersi. Lo fece andando in una piccola proprietà di campagna, vicino alla città, con pochi fedelissimi, «nient’altro facendo notte e giorno, se non pregare per tutti e per le chiese tutte dell’ecumene, com’era d’altronde suo solito»71.

Durante una preghiera ebbe una visione — il proprio cuscino arso dal fuoco — dalla quale dedusse che sarebbe stato arso vivo. Di fronte a questo rischio incombente anche perché avvertiva l’incalzare dei persecutori fuggì ancora, trasferendosi in un altro podere72. La polizia imperiale, dunque, non lo trovò quando giunse là dove riteneva che egli si nascondesse ancora; vennero, invece, arrestati due servi di cui uno, sotto tortura, rivelò il nuovo nascondiglio del vescovo. Il servo fu trascinato via dalle guardie e dai soldati a cavallo, che, usciti armati di tutto punto come se dovessero andare ad affrontare un brigante, lo condussero con loro nella caccia di Policarpo che alla fine fu raggiunto «in uno stanzino sotto il tetto». Da qui Policarpo avrebbe potuto fuggire di nuovo andando nella campagna73. Decise, invece, di concludere la sua fuga e sigillò questo periodo immediatamente precedente alla cattura con una breve preghiera di affidamento: «Sia fatta la volontà di Dio»74. Dunque, esclusa questa preghiera che anticipa il martirio, di tutte le altre preghiere precedenti all’arresto e che avevano accompagnato la sua fuga conosciamo solo i contenuti generali — prega per tutti e la dirigenza ecclesiastica. Diversa è la questione per un testo come il Martyrium Polycarpi. Anche se si tratta di un vescovo, e se tra tutti gli Atti più antichi è quello che lascia più spazio alla narrazione del periodo precedente al processo, i diversi tentativi di fuga mal corrispondono alla temperie spirituale della prima età martiriale, quando, sia pur in contesti geografici diversi, l’atteggiamento dei martiri — loro proprio o dell’agiografo — esprime una indiscussa propensione verso il martirio. Ci pare che in questa ottica debba essere interpretato il fatto che l’agiografo senta il bisogno di giustificare la fuga di Policarpo avvenuta in seguito alle insistenze di molti, proprio per non addebitare a lui un’azione che, in questo contesto, potesse sembrare men che virtuosa. Per lo stesso motivo, al momento della cattura, l’agiografo sottolineerà che Policarpo avrebbe potuto fuggire ancora (Martyrium Polycarpi 7,1). 71 5,1, trad. it., p. 11. 72 6, 1 ss. 73 7,1. 74 7,1 , trad. it., p.13.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 37

Pregare gli dei / pregare Dio

37

per le Chiese —, e, genericamente e in parte, anche le condizioni nelle quali venivano recitate, ma nulla di più preciso. Quelle precedenti erano, del resto, preghiere recitate spesso lontano da tutti e senza testimoni, come è facile pensare che fosse nella notte. Ma, non è solo questo che distingue tutte le altre dall’ultima preghiera di Policarpo. Prima di quest’ultima, l’agiografo non mette in bocca al martire parole precise né gli attribuisce sensazioni di paura, ma è pur vero che molte di queste preghiere vengono recitate in connessione con i momenti di maggiore pericolo e, comunque, tutte accompagnano l’incalzare dei persecutori, il rischio della cattura, l’avvicinarsi della morte annunciata dalla visione. Qualunque più specifico contenuto esse abbiano è dal rischio se non dalla paura che traggono alimento ed è in una complessiva e costante situazione di rischio che ad esse Policarpo ricorre. Preghiere esplicite in cui si chiedesse aiuto per salvare la propria vita o quella dei compagni di fede non avrebbero potuto trovare posto in questo contesto. Né si vuole qui fare esercizio di immaginazione nel cercare di riscostruire cosa altro contenessero. Ma, è un dato che esse accompagnano ininterrottamente il periodo della latitanza, la percezione e l’avvicinarsi del pericolo ed è anche da esse che in un continuo dialogo con Dio Policarpo trae forza per affrontare il martirio. Ciò che conta, del resto, è che di esse l’agiografo non ritenga di dover rendere miglior conto. Quando ogni dubbio, incertezza o dilazione nell’affrontare il martirio vengono superati, l’agiografo dà spazio alle parole. Non solo riferendo la breve formula: «Sia fatta la volontà di Dio», ma dandone conto più precisamente. Da quando decise di farsi arrestare e fu scovato dai segugi dell’Imperatore a quando gli stessi lo portarono via passarono forse poco più di due ore: e due di queste il vescovo le impiegò pregando. Mentre i suoi carcerieri banchettavano alla mensa da lui stesso loro offerta «chiese che gli concedessero il tempo di pregare con agio. Ottenutone il permesso, egli ristette in piedi, e prese a pregare, ed era così pieno della grazia di Dio che non potè tacersi per due ore»75. 75

7,2-3, trad.it., 13-15.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 38

38

Teresa Sardella

E fu una preghiera ad alta voce, durante la quale menzionò tutti coloro che avevano avuto rapporti con lui nonché tutti i fedeli della Chiesa universale. Non solo: in questa fase le preghiere non sono più unidirezionali, e il dialogo non è più solo la preghiera che si leva dal fedele al Dio, ma è anche comunicazione divina, è la parola di Dio verso il fedele. «Policarpo, forza e coraggio!»: è la voce che giunse dal cielo nel momento in cui il martire entrava nello stadio. Infine, le parole sgorgheranno fluenti e numerose all’approssimarsi del sacrificio. Né mancano in questo repertorio eucologico richieste meno ireniche. A suggerirle non è il protagonismo superbo ed egocentrico che aveva ispirato Asclepio, ma l’amore per i confratelli. Al proconsole che lo induceva a gridare: «Morte agli atei» con ciò evidentemente riferendosi ai cristiani, Policarpo risponde contraccambiando l’invettiva e ripetendola sì, per come gli era stato chiesto di fare, ma capovolgendone il significato e usandola come invocazione a Dio contro la folla dei pagani76. Un’invettiva che, proprio perché anomala nella sua genuina incoerenza rispetto a un profilo etico religioso scontatamente irenico e improntato all’umiltà evangelica, ci pare l’attestazione di una diretta infiltrazione testimoniale nella redazione degli Acta77. Soprattutto è la testimonianza di come anche nelle passioni umane oltre che nel sentire più profondo, che corrispondeva nel modo di abbandonarsi al dio nella preghiera, Aristide e Policarpo attingessero a un comune sentire religioso, sia pure articolato diversamente dal punto di vista dei parametri concettuali e teologici.

76 9,2, trad.it., 17: «…il proconsole gli chiese…«Dì: “Morte agli atei”». Policarpo guardò con volto severo tutta la folla di empi pagani che era nello stadio, alzò verso di loro il braccio, sospirò, levò gli occhi al cielo e disse: ‘Morte agli atei’». 77 Per quanto riguarda il rapporto tra storia e agiografia nella redazione di queste antiche testimonianze martiriali, cfr. A.A.R. BASTIAENSEN, Introduzione a Atti e Passioni, cit., XXXI ss.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 39

IDENTITÀ CRISTIANA, TEOLOGIA E GESTUALITÀ NELLA PREGHIERA DI TERTULLIANO

GIUSEPPE RUGGIERI*

Non è mia intenzione presentarvi un commento al trattatello di Tertulliano sul Padre Nostro1. Esistono a tale scopo ottimi strumenti, come il documentatissimo lavoro di Pier Angelo Gramaglia nel 19842 o la più recente e ricca, nella sua concisione, introduzione di Dietrich Schleyer all’edizione dell’opera di Tertulliano nella collana tedesca Fontes christiani del 20063. Mi limiterò soltanto a delineare quegli elementi che fanno del commento di Tertulliano una pregnante descrizione dell’identità cristiana, giacché proprio nell’esercizio della preghiera del Padre nostro, non nel testo in quanto tale di quello che egli chiama breviarium totius evangelii, si condensa per Tertulliano la specificità della fede cristiana, sia nei riguardi della superstitio ellenistica, sia nei riguardi della stessa religione giudaica. Ho detto nell’esercizio della preghiera e non nel testo. Non è un caso che Tertulliano dedichi la parte più estesa del suo sermone ai gesti, allo spazio e al tempo della preghiera. Giacché gestualità, spazio e tempo sono veicoli attraverso cui irrompe l’eidos, l’essenza *

Docente emerito di Teologia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Il testo che seguo è quello stabilito da G.F. DIERCKS, De Oratione, in Q. S. Fl. Tertulliani Opera (Corpus Christianorum SL 1), Turnholti 1954, 255-274. 2 TERTULLIANO, La preghiera, Introduzione, traduzione e note di P.A. Gramaglia, Roma 1984. 3 TERTULLIAN, De Baptismo. De Oratione. Übersetzt und eingeleitet von D. Schleier, Turnheou 2006. 1


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 40

40

Giuseppe Ruggieri

pura della preghiera e in essi si deve quindi riflettere la specificità dell’esistenza cristiana nella storia L’incipit di quel breve e meraviglioso saggio di Michel de Certeau, dal titolo L’homme en prière, «cet arbre de gestes», più prezioso di tante elucubrazioni astratte degli specialisti di spiritualità, pubblicato adesso nella raccolta La faiblesse de croire a cura di Luce Giard, recita: «La preghiera si crea uno spazio sacro: il “cerchio della preghiera” (inclusio in circulo) dei monaci dell’antichità, i cerchi (mandala) nei quali è introdotto il neofita indiano, la chiesa destinata a radunare i fedeli attorno all’altare, la cella nella quale il monaco raccoglie al “centro” le sue facoltà. La preghiera organizza questi spazi con i gesti che danno a un luogo le sue dimensioni e all’uomo il suo “orientamento” religioso. Essa ammobilia questo spazio con oggetti messi da parte, benedetti e consacrati, che compitano il suo silenzio e diventano linguaggio delle sue intenzioni. Si potrebbe dire ancora […] che, nella preghiera, i sentimenti costituiscano anche una topografia: la preghiera privilegia determinati aspetti e determinate manifestazioni della vita psicologica. Essa costruisce in tal modo, grazie ai resoconti di innumerevoli itinerari spirituali, una “carta” analoga alle “cartes du tendre” disegnate dopo le avventure dell’amore»4.

Nel sermone di Tertulliano sul Padrenostro manca l’indicazione del mobilio, ma non dei gesti, degli spazi e dei tempi atti a indicare l’orientamento antropologico dell’orante cristiano. La topografia disegnata dall’Africano ha le pareti nude, ma in essa sono segnati a tinte forti gesti, spazi e tempi. Dove tuttavia occorre notare un tratto che distingue fortemente questa topografia dalle cartes du tendre. Queste venivano disegnate sulla base dell’esperienza come tale. La carta di Tertulliano invece trae i criteri dell’impaginazione, del corpo e del formato dei caratteri, dalla grammatica stessa della preghiera. In lui infatti la dogmatica precede la fenomenologia, e affida proprio all’esegesi della preghiera insegnata da Gesù ai suoi discepoli quei contenuti dottrinali che determinano la prassi gestuale, secondo l’antica accezione della disciplina, dove il comportamento è frutto di un inse4

M. DE CERTEAU, La faiblesse de croire. Texte établi et présenté par Luce Giard, Paris 1987, cit. a p. 13.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 41

Identità cristiana, teologia e gestualità, nella preghiera di Tertulliano

41

gnamento, dove la dottrina e la prassi a loro volta sono le due facce della stessa realtà spirituale. Dio infatti vuole che noi “camminiamo secondo la sua disciplina (= dottrina)”: De or 4,2, e anche l’interpretazione corretta di ciò che chiediamo nella preghiera deve corrispondere alla spiritalis disciplina (6,3). In altri termini il Padre nostro comunica la orandi disciplina (1,3) la cui origine si trova in Gesù Cristo che è la parola, la ragione e lo spirito di Dio. 1. L’AUTORE DELL’IDENTITÀ Il De oratione di Tertulliano si apre (cap. 1) e si chiude (capp. 28-29) con un’esaltazione della novità ed eccellenza della preghiera del Padre nostro. È questa novità che costituisce l’identità specifica della fede, suggellata nel battesimo cristiano, rispetto alla sua preparazione remota (AT) e prossima (Giovanni Battista). Colui che ha operato questa novità è il Cristo. L’identità cristiana della preghiera e dell’esistenza del cristiano vengono quindi comprese sul registro della storia. Si tratta di una fase nuova dell’esistenza rispetto al passato giudaico o ellenista. Il lemma del nuovo ritorna ben 7 volte nel paragrafo primo del I capitolo e 2 volte nelle prime righe del II paragrafo: «Gesù Cristo, nostro Signore, spirito, parola e ragione di Dio, parola della ragione e spirito di ambedue, ha fissato una nuova forma di preghiera per i nuovi discepoli del nuovo Patto. Era infatti necessario che anche in quest’ambito il vino nuovo fosse riposto negli otri nuovi, che la pezza nuova fosse cucita sul vestito nuovo. Per il resto, ciò che c’era stato prima o è stato mutato, come la circoncisione, o è stato integrato, come il resto della legge, o è stato compiuto, come la profezia, o è stato condotto a perfezione, come la fede. Quando è sopravvenuto il vangelo, adempimento di tutto ciò che è antico, la grazia nuova di Dio ha fatto tutto nuovo con il passaggio allo spirituale di ciò che è carnale, consumando5 quanto di antico esisteva prima. Nel vangelo si è avuta la dimostrazione del Signore nostro 5

Preferisco tradurre con “consumare” il verbo “expungere” per lo più tradotto con “compiere”. Infatti il verbo contiene in sé l’idea del togliere da una lista una voce che ormai si è eseguita, e quindi contiene il motivo di ciò che non ha più ragione di essere nella lista proprio perché ormai attuato.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 42

42

Giuseppe Ruggieri Gesù Cristo, come spirito di Dio, sua parola e sua ragione: spirito per quello di cui fu capace, parola per quello che insegnò, ragione in forza della quale venne. Pertanto <la preghiera> ad opera di Cristo è stata costituita da tre elementi: dallo spirito per il quale può tanto, dalla parola con la quale viene articolata, <dalla ragione per la quale riconcilia>».

Ritengo che, per il chiarimento della nostra domanda sul rapporto tra preghiera e identità basterebbe commentare questi due paragrafi. In essi viene infatti concentrato quanto a Tertulliano sembra contraddistinguere l’esistenza cristiana. Questa sorge come effetto dell’opera di Cristo che si è presentato sulla scena umana come sermo, parola stessa di Dio all’uomo, ratio, logica intima che presiede alla parola detta, spiritus o virtus, potenza operativa con cui Dio stesso realizza la sua parola. In forza del suo vangelo infatti è sorta una novità nella storia umana che ha portato a compimento e al tempo stesso ha superato quanto esisteva prima. Il Pater, che è la forma della preghiera fissata dal Cristo e il fondamento di ogni altra preghiera cristiana, incorpora dentro di sé tutto il vangelo (breviarium totius evangelii: 1,6) di Cristo. Persino la preghiera di Giovanni, la cui esistenza noi conosciamo soltanto da Luca 11,1 e che distingueva i suoi discepoli all’interno del giudaismo, è scomparsa nel suo tenore, proprio perché ancora appartenente alla condizione carnale, mentre nel Pater appare ciò che è celeste e duraturo. Una sapienza celeste si riflette quindi anche nelle istruzioni di Gesù riguardanti la preghiera, l’esortazione cioè a pregare Dio nel segreto e senza impiego di molte parole. Nel segreto, giacché il cristiano sa che Dio è presente anche quando egli vive appartato (e quindi non soltanto nelle riunioni liturgiche). Senza impiego di molte parole, giacché il cristiano sa che non sono le sue parole a Dio ad avere efficacia, mentre è certo che Dio provvede da sé ai suoi (1,4-5). Già qui affiora come spazi e linguaggio della preghiera cristiana corrispondano alla ratio, alla logica intima dell’evento Cristo, ne sono per così dire l’espansione esterna. La specificità del cristiano, che si esprime nella forma propria della preghiera cristiana, è quindi frutto di una grande coerenza giacché procede dalla ratio che presiede all’annuncio stesso del vangelo, che è il Cristo in atto.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 43

Identità cristiana, teologia e gestualità, nella preghiera di Tertulliano

43

2. UN’IDENTITÀ POLEMICA In maniera conforme alla rigidità tipica dell’apologeta africano, dove l’identità diventa spesso contrapposizione, la novità storica dell’esperienza cristiana diventa a volte polemica. La pianta cristiana non arricchisce il bosco, sia pure sovrastandolo, ma tende a togliere aria e a far morire le piante vicine. E così la novità del vangelo ricevuto da Cristo diventa, almeno a volte, un’identità “contro” qualcun altro. Non tutto ciò che differenzia la preghiera cristiana da quella ebraica o pagana è infatti contro ebrei o pagani. Laddove ad esempio Tertulliano precisa che, obbedendo all’insegnamento di Gesù, i cristiani non debbono impiegare molte parole (1,5) o che, a differenza dei pagani, essi chiedono solo il pane necessario (6,3), ciò che emerge come elemento di identità è la semplice differenza dall’altro, non la contrapposizione. La differenza invece affiora a volte proprio come un essere contro l’altro. Questo appare soprattutto nel cap. II, laddove il fatto di rivolgersi a Dio come Padre, non è soltanto obbedienza al precetto di Cristo che ci ha rivelato la paternità di Dio e ci ha ordinato di pregarlo con questo nome, ma è al tempo stesso condanna degli Ebrei che non hanno riconosciuto questo Padre. “Beati coloro che riconoscono il Padre”. Questo è quanto viene rimproverato a Israele. E lo Spirito chiama a testimoni il cielo e la terra, quando dice «Ho generato figli ed essi non mi hanno riconosciuto!» (2,3: il riferimento è a Is 1,2). Questa inattesa venatura di condanna d’Israele implicita nell’atto stesso di invocare Dio come Padre, è motivata poi con un riferimento ad alcuni testi di Giovanni6, per il fatto cioè che invocando il Padre non possiamo non intendere anche il Figlio e la stessa madre, la Chiesa che mediante il battesimo ci genera al nuovo rapporto con Dio. La logica qui non funziona molto. Il fatto di essere figli di Dio di per sé non sottintende la mediazione del Figlio eterno del Padre. Gli Ebrei si sono considerati da sempre figli di Dio perché eletti da lui. Ma ritengo che qui sia il legame con il battesimo (il Padre nostro veniva dai catecumeni recitato nel contesto dell’iniziazione battesimale) che fa scattare 6

Gv 5,43: Sono venuto nel nome del Padre; Gv 12,28: Padre glorifica il tuo nome; Gv 17,6: Ho rivelato il tuo nome agli uomini.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 44

44

Giuseppe Ruggieri

il corto circuito polemico. Il Padrenostro in quanto espressione dell’identità della Chiesa cristiana si oppone alla Sinagoga. La conclusione è impressionante: «Con un unico modo o con lo stesso termine onoriamo Dio con i suoi (cioè con il Figlio e con la madre chiesa), ci ricordiamo del suo precetto e denunciamo coloro che si sono dimenticati del Padre».

Finale questa esegeticamente immotivata, essendo il Padre nostro un ricalco sia pure originale del Qadddish e de Le diciotto benedizioni ebraiche7, ma che rivela lo spirito antigiudaico del nostro e che svela altresì una possibilità storica: che lo stesso messaggio evangelico sulla paternità di Dio, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, venga invece distorto in funzione di un’identità polemica. È vero altresì che questa identità polemica della preghiera convive a volte con il suo contrario. Alla richiesta della “santificazione del nome”, Tertulliano non omette infatti di dare una connotazione universale. Infatti «noi chiediamo che sia santificato in noi, che siamo in lui, ma al tempo stesso anche negli altri che sono ancora attesi dalla grazia di Dio, in maniera che noi osserviamo questo precetto pregando per tutti, anche per i nostri nemici. Per questo omettiamo di dire “sia santificato in noi” e aggiungiamo invece “in tutti”» (4,1).

A difesa di Tertulliano potremmo quindi dire che il rimprovero degli Ebrei non significa che egli rifiuti di pregare anche per essi. Resta non meno vero che in lui possiamo ravvisare un anticipatore del vecchio rituale del Venerdì santo: preghiamo per i “perfidi” giudei. 3. UN’IDENTITÀ APOCALITTICA Il cap. 5 del De oratione, dedicato alla spiegazione della richiesta della venuta del Regno, ci riserva alcune difficoltà di comprensione. Esse sono almeno due. La prima sta nella traduzione di un testo 7

Cfr. G. RUGGIERI, Pregare il Vangelo. Per una introduzione al Padrenostro, Brescia 1999, 11-13.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 45

Identità cristiana, teologia e gestualità, nella preghiera di Tertulliano

45

dell’Apocalisse. La seconda sta invece nella coerenza di questo capitolo con altri scritti di Tertulliano stesso sulla preghiera. Il testo merita di essere citato quasi nella sua interezza: «Se la realizzazione del regno di Dio è volontà del Signore ancorché noi non sappiamo (il momento), com’è possibile che alcuni chiedano qualche dilazione per il mondo, dal momento che il regno di Dio di cui chiediamo la venuta implica la fine del mondo? Noi desideriamo regnare al più presto e non essere schiavi più a lungo. Quand’anche non fosse già predeterminato nella preghiera di chiedere la venuta del regno, avremmo da noi stessi proferito queste parole, bramosi come siamo di abbracciare la nostra speranza. Le anime dei martiri sotto l’altare gridano al Signore disonorandolo8: Fino a quando, o Signore, non vendicherai il nostro sangue sugli abitanti della terra? La loro vendetta infatti è regolata a partire dalla fine del mondo. Anzi, venga il più presto possibile o Signore il tuo regno, desiderio dei cristiani, vergogna delle nazioni, esultanza degli angeli, per il quale veniamo tormentati e per il quale, ancora di più, noi preghiamo».

Non ci soffermiamo ancora una volta sulla dimensione polemica (“vergogna delle nazioni”) che affiora sia pure in maniera indiretta anche qui. Il problema più grosso è invece il contrasto tra quanto qui viene detto e ciò che Tertulliano afferma altrove. Il commento di Gramagna documenta a sufficienza questo contrasto9. In Ad Scapulam 2,6, Tertulliano afferma che i cristiani desiderano che l’Impero duri, perché il mondo durerà finché ci sarà l’impero. A più ripresa in Apologeticum (32,1; 39,2) l’Africano sostiene inoltre che i cristiani pregano per la potenza di Roma e perché essa duri, giacché in questo modo si differisce la catastrofe finale. Invece nel De resurrectione mortuorum 22, 2 e nel De Spectaculis 29,1-2, egli manifesta pensieri più coerenti con il De oratione. La spiegazione secondo cui nei discorsi rivolti all’esterno, Tertulliano perseguirebbe una captatio benevolentiae, mentre in quelli rivolti all’interno manifesterebbe la 8 Corsivo mio con cui traduco il latino invidia, nell’espressione “clamant ad Dominum inuidia animae martyrum”, su suggerimento di A. BLAISE, Dictionnaire Latin—Français des Auteurs Chrétiens, Turnhout 1954, 471 ad v. “invidia”. Blaise traduce: semblant lui faire honte, attutendo quindi il senso della vergogna gridata dai martiri a Dio. 9 Cit., 172-175.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 46

46

Giuseppe Ruggieri

convinzione propria dei cristiani, in linea con il pensiero di Paolo espresso in 2Cor 5,6-9 (… preferiamo andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore), non mi convince. Risolvere il contrasto nella retorica strumentale del discorso ad extra, mi pare che non dia ragione della tempra di Tertulliano. Non è plausibile nemmeno l’ipotesi di un’evoluzione del pensiero. Se l’Apologeticum può essere datato al 198, l’Ad Scapulam che contiene in 3,3 un accenno all’eclissi di sole del 212, risale sicuramente ad anni successivi al De oratione che viene fatto oscillare tra il 198 e il 206. Il fatto che un’opera posteriore al De oratione contenga ancora una testimonianza della preghiera per l’Imperatore richiede una spiegazione diversa sia da quella della cronologia che da quella della retorica ad extra e ad intra. E allora la spiegazione che si impone non può annullare la contraddizione. Nelle comunità cristiane dell’Africa proconsolare esisteva, in analogia alla prassi delle comunità ebraiche, l’usanza della preghiera per l’imperatore. Questa preghiera non era un artificio retorico ad extra. Ma, così come le comunità dell’Apocalisse in Asia Minore, il cristiano Tertulliano, nella cui conversione aveva giocato moltissimo la testimonianza del martirio, aveva fatto sua un’attitudine teologico-politica contraria, che non poteva non manifestarsi laddove egli trattava appunto in recto dell’identità del cristiano. Egli, così come vedremo per la gestualità della preghiera, introduce allora consapevolmente dei correttivi alla prassi vigente nelle comunità del tempo. Il secondo problema che il testo del De oratione 5 pone, sta nell’aggiunta del termine invidia all’espressione mutuata dall’Apocalisse. Il testo di Tertulliano riprende infatti, forzandolo con il termine “invidia=disonore”, il testo dell’Apocalisse 6,9-11: «Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa. E gridarono a gran voce: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?” Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro».


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 47

Identità cristiana, teologia e gestualità, nella preghiera di Tertulliano

47

Di una modalità della preghiera cristiana che testimoni di un rimprovero a Dio, da parte degli oranti, noi non abbiamo alcuna conoscenza. Né abbiamo motivo di dubitare della lezione “inuidia”. Scrive opportunamente Gramaglia nella nota al testo: «La lezione invidia del codice A pare essere confermata da Apologeticum 40,15 (CCL 1,155: invidia caelum tundimus) che descrive appunto la preghiera dei cristiani. Anche nel de ieiunio 16,5 […] è forse da preferirsi la lezione idolis suis invidiam supplicem obiciunt […] che esprime i rimproveri con cui anche i pagani si lamentano presso i loro Dei nei momenti di bisogno».

Avremmo qui allora un indizio che ci apre un varco per comprendere lo stile personale del cristiano Tertulliano, proprio mediante l’ossimoro invidia supplex. Non mancavano del resto nella Scrittura appigli per giustificare questo atteggiamento, il libro di Giobbe in primis. Ma Tertulliano non si rifà ad esso. I rimandi a Giobbe, peraltro rari nel resto del corpus, sono del tutto assenti nel De oratione. Piuttosto sembra che nell’espressione sia presente un riverbero dell’atteggiamento specifico di Tertulliano, dai tratti tipicamente apocalittici. E l’atteggiamento apocalittico in questo caso non disdegna dal prendere in prestito un tratto della preghiera pagana. 4. GESTI, TEMPI E SPAZI DELLA PREGHIERA Come ho accennato all’inizio, Tertulliano dedica la maggior parte del suo commento al Padrenostro alla fenomenologia della preghiera cristiana in quanto tale. Ogni gesto, persino il tono della voce, racchiude per lui un significato, un eidos, ed è in funzione della sua espressione esterna. Valga ad esempio l’attenzione che egli dedica alla posizione delle mani e alla direzione degli occhi. L’uso comune, non solo ebraico, era di alzare le mani con gli occhi rivolti al cielo e in direzione dell’Oriente10. Tertulliano introduce tuttavia alcune modifiche. Occorre così alzare le mani con discrezione per imitare l’umiltà del pubblicano che si accosta a Dio consapevole dei propri peccati (17,1-2); e le mani alzate 10

Cfr. Gramaglia, 26-31.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 48

48

Giuseppe Ruggieri

raffigurano ormai Gesù in croce: «Nos vero non attolimus tantum, sed etiam expandimus, et Dominica passione modulata, tum et orantes confitemur Christo» (14). Il nesso tra braccia allargate e croce del resto non è originale. Esso si ritrova in Giustino, nelle Odi di Salomone, in Clemente Alessandrino e in Ippolito11. La forza dell’eidos interno che modula il gesto visibile rende inoltre superfluo il gesto comune a pagani ed ebrei di lavarsi le mani nell’abluzione rituale. I cristiani sono stati infatti lavati per sempre nel battesimo ed è la purezza del loro comportamento la vera abluzione che rende le mani degne di innalzarsi nella preghiera (13,1-2). Anche qui tuttavia la novità diventa polemica, nel terribile cap. 14. La gestualità infatti diventa anche qui implicita condanna. Gli Israeliti per quanto ogni giorno si lavino tutto il corpo non sono mai mondi. Le loro mani sono sempre contaminate e su di esse sta raggrumato per l’eternità il sangue dei profeti e dello stesso Signore. Il senso di colpa li rende quindi incapaci di alzare le mani al Signore. A dire il vero, l’alzare le mani al cielo nella preghiera non era un costume specifico dei cristiani12, e il fatto che, secondo Tertulliano, gli ebrei non alzassero le mani è dovuto forse ad un’usanza dell’ebraismo africano, iperinterpretata dal nostro. Ci muoviamo quindi nel campo delle ipotesi. Resta nondimeno chiara la volontà di saldare gesto ed eidos attraverso la tipicità dell’esperienza storica di cristianesimo ed ebraismo. Nella stessa direzione vanno le indicazioni sul tono della voce che deve essere sommesso, perché Dio che ha sentito la preghiera di Giona che stava nella pancia della balena non ascolta la voce, ma il cuore (17,3-5). E le parole non vanno moltiplicate, seguendo il precetto del Signore, che è sapienza di Dio (1,5). E con la stessa forza interna l’eidos cristiano della preghiera rende obsolete usanze, come quella del togliersi il mantello, o quella del mettersi a sedere, che non erano estranee al costume. L’abitudine di togliersi il mantello prima di pregare è frutto della superstitio della vecchia religione romana, ed è quindi da reprimere perché ci assimi11 12

Ibid., 213. Ibid., 213; (Gramaglia cita il Dölger di Sol salutis).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 49

Identità cristiana, teologia e gestualità, nella preghiera di Tertulliano

49

lerebbe ai pagani (“gentilibus adaequet”, 15,1): gestualità quindi vuota perché non trasmette l’eidos cristiano. La prassi del mettersi a sedere dopo la preghiera, tipica della pratica religiosa romana, aveva però un riscontro anche nella prassi cristiana, per la precisione in Erma (Sim 6,1,1; 5,1,1) forse perché si era convinti che da seduti si ricevevano rivelazioni13. Tertulliano demolisce anche le ragioni di questo gesto sia con il rimando ad un motivo di buona creanza (si manca di rispetto a Dio se si resta seduti) sia con l’appello all’angelo della preghiera che sia in Tb 12,12 che in Ap 8,34, assiste le preghiere rivolte a Dio dagli uomini. La prassi del velo delle donne viene invece fondata su quanto Paolo dice a tal proposito (20-22), mentre ci sono gesti che vanno regolati secondo le varie circostanze, come l’usanza del mettersi in ginocchio che va vietata la domenica e nel periodo che segue la Pasqua, fino a Pentecoste, perché in tale periodo non si addice l’espressione dell’angoscia e del dolore. Laddove il gesto manifesta poi il senso profondo della preghiera è nell’usanza cristiana del bacio della pace come segno di fraternità. La preghiera non ci pone soltanto davanti a Dio, ma proprio per questo istaura la fraternità fra gli uomini. Già nel vangelo c’era l’inconciliabilità tra la preghiera e l’inimicizia con i fratelli. E Tertulliano aveva ampiamente trattato questo motivo nel cap. 7 del suo trattato, relativamente alla richiesta di condono dei nostri debiti rivolta al Padre. Non sorprende quindi che Tertulliano consideri l’osculum pacis come il signaculum orationis (18,1), il suo sigillo, per cui la preghiera non è integra cum diuortio osculi (18,3). Nemmeno il digiuno esime quindi da questa pratica, per il semplice motivo che il Signore ci ha detto di nascondere agli altri i momenti di digiuno. Solo il Venerdì Santo, dove tutti digiunano, i cristiani si possono astenere dal bacio a conclusione della preghiera (18,7). Mani distese nella raffigurazione della croce, direzione dello sguardo mediante la quale si esprime la consapevolezza del proprio peccato, voce sommessa e sobrietà delle parole, bacio della pace, dipin13 Ibid., 220-222, (Gramaglia raccoglie i dati con riferimento sia a Dölger che a Peterson). Sulla questione connessa, della considerazione che aveva cioè Tertulliano del Pastore, se ispirato o meno, si veda in particolare lo stesso Gramaglia, 220-221.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 50

50

Giuseppe Ruggieri

gono così il quadro dell’orante. Iddio e gli umani ne sono parti integranti, anche se non presenti visivamente. Senza Dio e i fratelli il quadro sarebbe assente di prospettiva. Anche nella figura apparentemente solitaria è raffigurato il Crocifisso. È la croce l’eidos della preghiera cristiana. La figura così dipinta non è ferma, si muove nei vari luoghi della preghiera. Questi luoghi sono tutti condizionati dal precetto di Gesù di pregare nel segreto. L’esegesi che Tertulliano fa di Mt 6,6, è tutta antropologica e cristologica al tempo stesso. In quel precetto infatti si riflette la “sapienza celeste” di Cristo che lo pone alla base della preghiera, giacché esso è il sermo rationis che è il Cristo stesso (1,4 va letto in relazione con l’incipit di 1,1 di cui non è che la conseguenza). È questa sapienza celeste che esige la fede nella presenza di Dio in qualunque luogo noi veniamo a trovarci, e che esige ancora la modestiam fidei (che preferisco tradurre con “obbedienza della fede” secondo il suggerimento di Schleyer e non con “riservatezza” come Gramaglia) che sa di dare il proprio ossequio soltanto a Dio, nella fiducia che Egli ascolti e veda in qualunque luogo (1,4). È chiaro come con una siffatta premessa i luoghi della preghiera cristiana non possano essere circoscritti in nessun modo e che “nel segreto”, privato di ogni connotazione spaziale, non si opponga al precetto di pregare sempre (cfr. Lc 18,1, Ef 6,18 etc.). Sono soltanto l’opportunità e la necessità a fissare il luogo. In questo modo le case dei cristiani, ad es. in occasione delle visite che si scambiano, diventano luogo di preghiera comune (26). Sui tempi invece Tertulliano è particolarmente preoccupato che la preghiera scandisca il ritmo di vita del cristiano, secondo i vari diei interspatia (25). Infatti egli conosce oltre alla prassi delle stationes, la preghiera quotidiana di terza, sesta e nona. L’opportunità di questa scansione orante della giornata viene desunta, ancorché le narrazioni bibliche in questo caso non contengano un precetto di osservanza, dal momento in cui lo Spirito venne effuso sui discepoli nel giorno di Pentecoste all’ora terza del giorno (At 2,15), dalla visione di Pietro, nella quale venne invitato a predicare il vangelo anche ai pagani, all’ora sesta (At 10,9) e, per l’ora nona, dall’episodio di Pietro e Giovanni che vanno al tempio a pregare e guariscono il paralitico.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 51

Identità cristiana, teologia e gestualità, nella preghiera di Tertulliano

51

Qui Tertulliano è testimone di un’usanza dell’Africa cristiana ripresa dal giudaismo, anche se la preghiera di mezzogiorno non era oggetto di nessuna prescrizione giudaica. L’usanza invece di premettere una preghiera sia al cibo che al bagno manifesta il privilegio al ristoro e al nutrimento dello spirito rispetto a quelli della carne. Mi pare giustificato, dopo quest’analisi sommaria, affermare che i due aspetti della preghiera sottolineati dal nostro colloquio, manifestazione/fattore di identità, in Tertulliano non sono alternativi e non si contrappongono. La ragione sta nel carattere della preghiera come disciplina dettata da colui che è sermo, ratio et spiritus Dei.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 52


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 53

EUCHÉ E NOÛS NEL CORPUS MACARIANUM

FRANCESCO ALEO*

INTRODUZIONE Tomáŝ Ŝpidlík all’inizio del suo manuale sistematico dal titolo La spiritualità dell’Oriente cristiano1 osserva come l’etimologia della parola «Theologhìa», nell’uso degli antichi cristiani d’Oriente, rinvii alla definizione di una pratica all’interno della relazione personale con il Theòs, il Padre, attraverso il Logos, Cristo, nello Spirito Santo. Questa relazione personale veniva esercitata nell’orazione2. Ciò significa che, quella “pratica”, che è la teologia, non poteva prescindere dalla relazione personale con Dio Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e quindi dall’orazione, il che equivale a dire che non c’è vita per l’uomo dove manca l’acqua da bere o l’aria da respirare. Se, quindi, per Theologhìa s’intendesse quella “pratica” all’interno dell’orazione, si comprenderebbe, secondo Ŝpidlík, il fiorire, nell’Oriente cristiano, di una messe notevole e copiosa di insegnamenti e trattati quasi completi sulla preghiera, fino ai giorni nostri. Fra gli ultimi testimoni, in ordine di tempo, ma non per importanza, di questa ricca tradizione, è quell’originale ed anonimo trattato sulla preghiera, dal suggestivo titolo Racconti di un pellegrino russo, nel quale, fra gli autori ivi citati della Filocalìa, compare anche il nome di Macario Egizio detto il Grande, *

Docente di Patrologia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. T. ŜPIDLÍK, La spiritualità dell’oriente cristiano. Manuale sistematico, Roma 1985. In particolare, si rinvia ad Introduzione, 1 ed ai capitoli XII e XIII, rispettivamente alle pagine 263-279; 281-300. 2 L. c. 1


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 54

54

Francesco Aleo

sotto il cui nome sono giunti fino a noi gli scritti trasmessi e confluiti nel Corpus macarianum3. 1. EUCHÉ E NOÛS NEGLI SCRITTI DELLO PS.-MACARIO EGIZIO Proprio l’orazione, ci permette di definire il rapporto di questa con il noûs, termine designante ora la mente ora l’anima ora perfino il cuore — tanto che «mente», «anima» e «cuore» sono quasi sinonimi — negli scritti del Corpus macarianum, al cui autore viene assegnata anche la denominazione di Ps.-Macario Egizio,4 in attesa di ipotesi più convincenti sulla sua epoca, sul suo ambiente d’origine e sui destinatari dei suoi scritti5. Quello che si può dire, riguardo all’identità 3

Cfr. A. PENTKOVSKIJ (cur.), Racconti di un pellegrino russo, Roma 1997, 152. Sull’identità dello Ps.-Macario Egizio, sui problemi inerenti i suoi scritti, sull’ambiente ascetico nel quale è vissuto e sui suoi destinatari si rinvia a F. ALEO, Macario Alessandrino e Macario Egizio, in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, Genova – Milano 2006, II, 2949-2950; 2950-2952; PSEUDO-MACARIO, Discorsi, introduzione, traduzione e note a cura di F. Aleo, Roma 2009, Introduzione, 5-43; F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa. Basilio di Cesarea e lo Ps.-Macario Egizio: due prospettive ecclesiologiche a confronto, Firenze – Catania 2009, 13-42; 50-57. 5 I lògoi, le omilìai, le erotapokrìseis, posti sotto il nome di Macario Egizio, sono pervenuti in quattro collezioni, le cui edizioni critiche sono qui date di seguito. Per la Collezione I, vd. H. BERTHOLD (cur.), Makarios/Symeon. Reden und Briefe. Die Sammlung I des Vaticanus Graecus 694 (B), I-II, Berlin 1973; per la Collezione II, vd. H. DÖRRIES (cur.), Die geistlichen Homilien des Makarios, Berlin 1964; per la Collezione III, vd. E. KLOSTERMANN (cur.), Neue Homilien des Makarios/Symeon, I: Aus Typus III, Berlin 1961; per la versione francese, vd. PSEUDO-MACAIRE, Oeuvres Spirituelles. (Homélies propres à la Collection III). Introduction, traduction et notes par V. Desprez, Paris 1980 (Sources chrétiennes, 275), I, con l’omissione dei logoi nn. 2,5,9,11,13,14,23,28, presenti nelle altre Collezioni; sulla tradizione manoscritta degli scritti del Corpus macarianum, vd. Introduction, 13-31. Un’edizione critica dei logoi della Collezione IV è in corso di realizzazione. Altri testi, alcuni dei quali in forma di epistulae sono le cosiddette Omelie Harvard, vd. G.L. MARRIOTT, Macarii Anecdota. Seven Unpublished Homelies of Macarius, Cambridge 1918, 1-48; la loro autenticità, però, suscita forti dubbi. Un testo molto importante, del Corpus macarianum, per la dottrina ascetica, i problemi filologici, dottrinali e teologici della sua tradizione manoscritta, nonché per il suo rapporto con il De Instituto Christiano, attribuito a Gregorio di Nissa è l’Epistola Magna, vd. R. STAATS (cur.), Makarios-Symeon. Epistola Magna: eine Messalianische Monchsregel und Ihre Umschrift in Gregors von Nyssa “De Instituto Christiano“ bei Makarios-Symeon, Göttingen 1984. 4


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 55

Euché e noûs nel Corpus macarianum

55

dell’autore che per secoli si è celato sotto il nome di Macario Egizio, è ricavabile dagli elementi interni ai suoi scritti che illuminano sull’ambiente e sull’epoca in cui ha vissuto. La menzione del fiume Eufrate nel suo alto corso6 e di guerre fra Romani e Persiani7 induce a ritenere che il nostro autore vivesse nell’area siro—mesopotamica, probabilmente al confine dell’Impero Romano con l’Osroene, dopo la prima metà del IV secolo, prima o poco dopo la campagna dell’imperatore Giuliano contro i Persiani, avvenuta intorno al 363. La menzione del mese macedone Xanthikòs — che peraltro, non si spiega nell’Egitto del IV secolo d.C., quando il calendario macedone introdotto dai Tolomei era caduto in disuso da lungo tempo — tradotto nei nostri testi con il mese latino, traslitterato in greco di Aprìllios8 e la presenza di numerosi latinismi, farebbero pensare ad un ambiente fortemente romanizzato, come quello d’una colonia romana, ove l’uso del latino fosse regolare e nel quale l’autore vivesse. Inoltre, la menzione dei Goti insieme ai Persiani, come nemici comuni degli Imperatori9, indurrebbe a pensare che i Goti siano considerati dal nostro autore, ancora fuori dei confini imperiali, quindi prima della sconfitta di Adrianopoli del 378. Egli conosce bene il cerimoniale della corte imperiale10 ed i gradi dell’esercito11, nonché l’organizzazione interna del palazzo imperiale del IV secolo12. Dovrebbe appartenere, da altri indizi presenti nei suoi scritti, ad un ceto sociale elevato. Sembra inoltre, che l’autore faccia menzione di persecuzioni contro i cristiani, ma queste sembrano rivolte contro cristiani eretici13. La preghiera od orazione — i due termini, talvolta, sono sinonimi, anche se la prima riguarda l’esaudimento di un voto, mentre la seconda riguarda, più propriamente, la contemplazione — è designata 6

Lo¢goj, 14,26,27, (Coll. I), in H. BERTHOLD (cur.), Makarios/Symeon., cit., I, 169. Log., 4,29,6,20, (Coll. I), in H. BERTHOLD, I, 66. 8 'Omili¢a, 5,404, (Coll. II), in H. DÖRRIES (cur.), Die geistlichen Homilien, cit., 61. 9 Log., 34,11,4, (Coll. I), H. BERTHOLD, II, 39. 10 Log., 32,8,18,25—29, (Coll. I), BERTHOLD, II, 25. 11 Log., 8,4,2,10—13, (Coll. I), BERTHOLD, I, 122. 12 Log., 8,1,5,12—15, (Coll. I), BERTHOLD, I, 119. 13 Om., 15,160, (Coll. II), in H. DÖRRIES, 133. 7


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 56

56

Francesco Aleo

negli scritti del Corpus macarianum con il termine euché14. Mentre molto si è detto e studiato intorno al rapporto fra euché e kardìa, allo scopo di investigare il significato ed il ruolo del cuore o kardìa, nella mistica dello Ps.-Macario, altrettanto non si può dire del rapporto che lega l’euché al noûs e del significato e del ruolo della mente o noûs nella preghiera15. In rapporto con il cuore, la preghiera, negli scritti dello Ps.-Macario, si definisce come un cammino volto alla conoscenza di sé stessi ed al discernimento dei pensieri cattivi da quelli buoni: «Per il resto, ciascuno, se vuole mettere alla prova e conoscere sé stesso (psyché), da dove prende il suo nutrimento ed in cosa consiste il suo cuore (kardìa), perché, allora, dopo aver compreso ed aver acquistato discernimento, non si dona al bene con slancio? Ciascuno, allora, nel corso del suo cammino verso la preghiera (proseuché), scruti da dove provengono i pensieri del cuore (kardìa) e le energie dell’intelletto (diànoia), se dallo spirito del mondo (1Cor 2,12), oppure dallo spirito di Dio, quali procurano nutrimento al cuore (kardìa), quali vengono dall’alto oppure quali da questo mondo.»16.

Il brano menziona la proseuché e non l’euché, poi la diànoia e non il noûs. Diànoia si può tradurre con «intelletto», proseuché, sinonimo di 14

Un testo assai importante, risalente al III secolo, intorno alla preghiera, è il trattato di Origéne, intitolato per l’appunto Peri\ eu)xh¢j che distingue bene fra eu)xh/¢ e proseuxh¢ o fra esaudimento di un voto ed invocazione; fra de¢hsij ed eÃndeicij o fra domanda e supplica; e fra e)uxaristi¢a e prosku/nhsij o fra rendimento di grazie ed adorazione. Cfr. ORIGÉNE, De oratione, 14, T. 11,460 (Patrologia Graeca). 15 Cfr. A. GUILLAUMONT, Le Sens des Noms du Coeur dans l’Antiquité, in Etudes Carmelitaines 29 (1950), 41-81; IDEM, Coeur, in Dictionnaire de Spiritualité, II/2, Paris 1952, fasc. 14-15, coll. 2281-2288; C. MENGUS, Le «Coeur» dans les «Cinquante Homélies spirituelles» du Pseudo-Macaire, in Collectanea Cistercensia, 58-59 (1997), 3-18; 32-43. 16 Lo¢goj, 17,1,5,51-61 (Coll. III) in PSEUDO-MACAIRE, Oeuvres Spirituelles, I, 266: e)keiÍqen ga\r tre/fetai yuxh\ eÃnqa kaiì eÃstin, eÃnqa kaiì proskolla=tai, hÃtoi e)k tou= pneu/matoj “tou= ko/smou” hÄ e)k tou= pneu/matoj tou= qeou=, kaiì oÀqen tre/fetai e)keiÍqen kaiì zv=. to\ loipo\n eÀkastoj ei¹ bou/letai dokima/sai e(auto\n kaiì e)pignw½nai, po/qen tre/fetai kaiì e)n oiâj h( kardi¿a e)sti¿n, iàn’ ouÀtw sunh/saj kaiì th\n dia/krisin kthsa/menoj tv= e)piì to\ a)gaqo\n o(rmv= e(auto\n e)kd%½, poreuo/menoj eÀkastoj ei¹j th\n proseuxh\n katamanqane/tw tou\j logismou\j th=j kardi¿aj kaiì ta\ e)nergh/mata th=j dianoi¿aj po/qen e)sti¿n, e)k tou= pneu/matoj “tou= ko/smou” hÄ e)k tou= pneu/matoj tou= qeou=, kaiì ti¿nej prosfe/rousi tv= kardi¿# trofa/j, oi¸ aÃnwqen hÄ oi¸ e)k tou= ai¹w½noj tou/tou. Cfr. PSEUDO-MACARIO. Discorsi, cit., 151-152, per la versione italiana.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 57

Euché e noûs nel Corpus macarianum

57

euché, indica, nel NT, accanto ad altri termini attinenti all’eucologia, la preghiera, ricordiamo: «Raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano, suppliche, preghiere, richieste e rendimenti di grazie per tutti gli uomini.»17.

Con l’uso di diànoia e di noûs, il nostro autore prende le distanze dalla preghiera entusiasta, in particolare, da quella praticata presso i messaliani. Ad ogni modo, le attività dell’intelletto e quelle della mente hanno un ruolo rilevante nella preghiera dello Ps.-Macario; è la preghiera ad operare il discernimento o diàkrisis, consistente nell’individuazione e nell’esame dei pensieri (dialoghismòi) del cuore e delle operazioni o «energie» (energhémata) dell’intelletto, entro un cammino di perfezione individuale, spiccatamente ascetico e monastico. La preghiera stabilisce quale sia l’origine dei pensieri del cuore e quale l’origine delle operazioni dell’intelletto; riconosce, quindi, la loro qualità, se provengono dall’alto e quindi nutrono il cuore o se invece provengono dal mondo, non facendo consistere il cuore di una solida formazione e di un’adeguata capacità, in ordine al compimento del bene. Sono un cuore ed una mente purificati a fare un buono e retto uso della ragione, poiché, cuore e mente sono compresi l’uno nell’altro. Quelle di «camminare verso la preghiera» e «procurare nutrimento al cuore» sono fra le espressioni più belle della Patristica greca riguardanti la preghiera, configurando l’insegnamento pseudomacariano non semplicemente come un insegnamento “sulla preghiera” ma sul “pregare”. Il cammino dell’orante verso la preghiera è ovviamente tutto interiore e “spirituale”, nel senso che lo Ps.Macario dà a questo aggettivo oggi tanto abusato. Si può parlare di un cammino propriamente “esodale” nello Ps.-Macario, diretto verso la meta che è quella dell’esperienza personale dello Spirito Santo nel cuore, nell’anima ma anche nella mente, anche se alla “mente” riserva un’accezione particolare, quale quella tratta da Paolo, completandola con proprie personali ed originali considerazioni: «decaduti dalla gloria incontaminata, sappi che a causa della disobbedienza, divenuti schiavi delle passioni della carne, ci è stato precluso l’in17

Cfr. 1Tm 2,1: … deh¢seij, proseuxa¢j, e)nte¢uceij, eu)xaristi¢aj … .


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 58

58

Francesco Aleo gresso nella terra beata dei viventi […]. Non ci siamo “trasformati con il rinnovamento della nostra mente” (Rm 12,2), perché siamo ancora modellati sugli schemi di questo mondo “nella vanità della nostra mente” (Ef 4,17), […] .»18.

L’orante prega, dunque, camminando e lungo il suo cammino, discernendo i pensieri del cuore e le operazioni dell’intelletto, nutre il proprio cuore, centro psichico ed affettivo della sua persona. Pregando e discernendo, con l’apporto congiunto, quindi, dell’euché e del noûs, l’orante, secondo lo Ps.-Macario, distingue, riconosce i «pensieri del cuore» e le «energie dell’intelletto», accogliendo quelli buoni e respingendo quelli cattivi. Lo Ps.-Macario opera, così, un’inversione di significato nell’uso dei termini ed un ribaltamento di senso, attribuendo al cuore le operazioni della mente ed alla mente le operazioni del cuore, per dire che, nel cammino della preghiera, avviene una reciproca compenetrazione di mente e preghiera, di noûs ed euché. Nel “pregare” pensando con la mente e nel “pensare” pregando con il cuore consiste l’euché dello Ps.-Macario e l’apporto del noûs in essa. Il pensiero diventa preghiera mentale introspettiva e la preghiera diventa pensiero orante d’amore. È questa la «preghiera del cuore», praticata secoli dopo nei monasteri russi ed attestata nei Racconti di un pellegrino. Le versioni italiane dei testi del Corpus macarianum rendono noûs spesso e volentieri con il termine «cuore», mentre, in realtà, il termine noûs, nei luoghi da noi considerati, va reso con l’italiano «mente». Il termine noûs compare, il più delle volte, in erotapokrìseis o «domande e risposte», mostrandone il carattere gnomico, ascetico e monastico o più semplicemente, il carattere d’insegnamento sulla preghiera, come evidenziato da Ŝpidlík19. L’erotapòkrisis, nel Cfr. Om., 25,36-67 (Coll. II), in DÖRRIES, 200-202: … a)popeptwko¿tej th=j a)xra¿ntou do¿chj, gi¿nwske oÀti diaÜ th=j parakoh=j dou=loi tw=n th=j sarkoÜj paqw=n geno¿menoi a)peklei¿samen e(autouÜj th=j makari¿aj xw¿raj tw=n zw¿ntwn … . OuÃpw metemorfw¿qhmen t$= a)nakaini¿sei tou= noo¿j, eÃti gaÜr susxematizo¿meqa t%= ai)w=ni tou¿t% e)n t$= tou= nooÜj mataio¿thti. Cfr. PSEUDO-MACARIO. Spirito Santo e fuoco, 18

introduzione, traduzione e note a cura di L. CREMASCHI, Comunità di Bose 1995, 266268, per la versione italiana. 19 Sulla vita ascetica della comunità cui apparteneva lo Ps.-Macario Egizio, sulla formazione ascetica impartita dall’«anziano», sul valore e sulla funzione dell’


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 59

Euché e noûs nel Corpus macarianum

59

Corpus macarianum, presenta così la “pratica” della theologhìa, collocandola in uno scambio di domande e di risposte, fra l’«anziano» ed il discepolo, più confacenti ad un rapporto strettamente interpersonale che ad un dialogo; “luogo teologico”, di un’attività al servizio della preghiera, dove anche il noûs trova la sua giusta collocazione e la sua valorizzazione, in ordine a quello che è lo scopo e la finalità dell’euché, ossia l’esperienza dell’inabitazione personale dello Spirito Santo nell’anima del cristiano o dell’orante20. Iniziamo con un testo molto interessante che ci permette di entrare all’interno di una comunità monastica reale e concreta: «Ecco, all’esterno siamo tutti apotattici, stranieri, poveri e vergini; ecco, i fratelli devono dire che il corpo è in preghiera (eis euchén): anche la mente (noûs) concorda con il corpo? Come in genere gli artigiani e gli operai sono legati, con il corpo e con la mente (noûs), giorno e notte, alla loro arte, così tu sorveglia te stesso, e se il tuo corpo è straniero a questo secolo, anche la tua mente (noûs) sarà ad esso estranea, e non andrai in giro per il mondo. Ogni secolare, soldato o mercante, dove ha il corpo, ha anche la mente (noûs), e là è il tesoro: “Dov’è il tesoro, là è il suo cuore” (cfr. Mt 6,21).»21. e)rwtapo¢krisij nel monachesimo delle origini e nel Corpus macarianum, cfr.

M. GIRARDI, Le nozioni comuni sullo Spirito Santo in Basilio Magno (De Spiritu Sancto), in Vetera Christianorum 13 (1976) 269-288; V. DESPREZ, Maitres et disciples chez Macaire-Symeon, in Studia Patristica 18 (1989) 2, 203-208; M. GIRARDI, Erotapokrìseis neotestamentarie negli Ascetica di Basilio di Cesarea. Evangelismo e paolinismo nel monachesimo delle origini, in Annali di Storia dell’Esegesi 11 (1994) 2, 461-490; vd. F. ALEO, L’“Educare in una comunità monastica del IV secolo in Asia Minore: una Erotapòkrisis dello Ps.-Macario Egizio, in Laòs 15 (2008) 1-2, 39-60; ID., Educare l’umano alla vita divina nel Corpus Macarianum: paidagoghìa, diagoghé e pràxis, in A. ROTONDO (cur.), Humanitas e cristianesimo. Studi in onore di Roberto Osculati, Roma 2011, 83-91. 20 Sul lessico dell’inabitazione personale dello Spirito Santo cfr. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, cit., 76-81. 21 Lo¢g., 7,16,2,24-7 (Coll. I) BERTHOLD, I, 108-109: ¹Idou\ ga\r e)n toiÍj fainome/noij pa/ntej a)petaca/meqa kai¿ e)smen ce/noi kaiì a)kth/monej kaiì koinwni¿aj sarkikh=j e)sterhme/noi, loipo\n <i¹de\> to\ sw½ma keiÍtai ei¹j eu)xh\n o)fei¿lousin ei¹peiÍn oi¸ a)delfoi¿: aÅra t%½ sw¯mati kaiì o( nou=j sumfwneiÍ; wÐsper ga\r e)piì to\ pleiÍston oi¸ texniÍtai kaiì <oi¸> e)rgasthria/rxai eÃxousi to\ sw½ma a)podedeme/non ei¹j th\n te/xnhn, o(moi¿wj kaiì to\n nou=n nukto\j kaiì h(me/raj, ouÀtw kaiì su\ e)pi¿skeyai seauto/n, eÃxwn to\ sw½ma ce/non, aÅra eÃxeij kaiì to\n nou=n h)llotriwme/non e)k tou= ai¹w½noj tou/tou, kaiì ou) r(e/mbv ei¹j to\n ko/smon. kaiì ga\r eÀkastoj kosmiko/j, hÄ o( stratiw¯thj hÄ


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 60

60

Francesco Aleo

Il brano testé citato fa parte della risposta di un’erotapòkrisis alla domanda: «Quale timore e tremore?». Interessa notare la distinzione di scelte diverse di vita ascetica all’interno di quello stato di vita che è lo stato monastico. «Apotattici, stranieri, poveri e vergini» indicano le forme d’ascesi, vissute nella comunità dello Ps.-Macario, comunità mista di uomini e di donne, fatto comune, questo, nel monachesimo siriaco. L’«apotattico» designa il “recluso”, colui cioè che sceglie di vivere un’esperienza anacoretica all’interno della propria comunità ascetica. Lo «straniero» è colui il quale vive la xenitéia ossia l’erranza, vagando da un luogo all’altro. I «poveri» vivono il distacco e la privazione dei beni materiali; i «vergini», infine, sono indicati letteralmente nel testo come «coloro i quali sono privi della comunione carnale», designando più propriamente chi vive nella continenza. Queste forme d’ascesi, in una comunità monastica, diventeranno i consigli evangelici, quindi i voti monastici, rispettivamente quelli di obbedienza, povertà e castità, con l’obbligo della stabilitas loci per tutti i monaci, vietando loro di vagare da un monastero all’altro e con la proibizione di certe forme di vita ascetica estreme, come quella dei “reclusi”, all’interno dei monasteri. Quel «non andrai in giro per il mondo», si giustifica nel contesto di una vita ascetica non ancora rigorosamente normata, attraverso la disciplina ecclesiastica, nel monachesimo. L’«apotattico» e lo xénos fanno pensare ad asceti o monaci viventi nella comunità dello Ps.-Macario che subiscono o risentono dell’influenza di forme di vita ascetica presenti in movimenti ascetici radicali come quello degli encratiti o quello, maggiormente attestato nelle fonti del IV secolo in Asia Minore, del Messalianismo, eresia negante validità alla Chiesa visibile, a detrimento della fede nel Battesimo e nell’Eucaristia, i cui seguaci erano girovaghi e senza fissa dimora22. Il sospetto dell’eresia e eÃmporoj, oÀpou eÃxei to\ sw½ma, e)keiÍ eÃxei kaiì to\n nou=n a)podedeme/non, kaiì e)keiÍ o( au)tou= e)sti qhsauro/j. “oÀpou ga\r o( qhsauro/j, e)keiÍ eÃstai kaiì h( kardi¿a”. Cfr.

MACARIO/SIMEONE. Discorsi e dialoghi spirituali/1, introduzione, traduzione e note a cura di F. Moscatelli, Abb. Di Praglia 1996, I, 161-162 per la versione italiana; al termine «vergini» della versione italiana preferiamo il termine «continenti». 22 Sulle origini del Monachesimo in Asia Minore e sul Messalianismo, non volendo sovraccaricare il presente contributo di riferimenti a studi ed a bibliografie, vd. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, cit., Capitolo I, 14-74.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 61

Euché e noûs nel Corpus macarianum

61

precisamente di quella messaliana, è legato allo studio dei testi attribuiti a Macario Egizio ed alla loro recezione negli ambienti monastici dei secoli successivi. Paralleli testuali con le liste messaliane, sono stati riscontrati, fin dall’antichità, negli scritti del Corpus macarianum, ma da questo non si può concludere che il nostro misterioso autore sia un messaliano od addirittura, uno dei capi della setta. Di quest’opinione è invece H. Dörries che ha proposto il nome di Simeone di Mesopotamia, uno degli esponenti più in vista della setta eretica dei messaliani23. A stento le gerarchie ecclesiastiche d’Asia Minore esercitavano un controllo effettivo su certi eccessi ascetici. Il Messalianismo, però, sembra essere del tutto estraneo al nostro autore e la spiegazione della presenza delle proposizioni di quell’eresia nei suoi scritti è stata spiegata in tutt’altra maniera. Infatti, lo stesso autore, nelle sue omilìai e nei suoi lògoi, mette in guardia dagli eccessi nelle pratiche ascetiche e soprattutto dai falsi stati di grazia delle anime sciocche e vane, alludendo probabilmente alla stoltezza dei messaliani menzionata da Epifanio di Salamina. È nell’ambito di una comunità concreta che il nostro autore definisce il valore e l’apporto del noûs, la «mente», all’euché, la «preghiera», coinvolgendo anche il corpo. La menzione del corpo non è né ovvia né scontata. La preghiera entusiasta, propria dei Messaliani, chiamati nelle fonti antiche «oranti» (euchìtai) ma anche «danzatori» (choreutài), faceva letteralmente danzare gli oranti24. L’autore del Corpus macarianum invoca, così, il noûs, allo scopo di moderare certi eccessi dell’euché, ma, anche e soprattutto, di guidare, secondo un criterio, la scelta delle varie forme d’ascesi nella vita della comunità. La nozione di interno-esterno, nel presentare le forme d’ascesi, ricorre in altri luoghi del Corpus macarianum, in riferimento alla sua originale ecclesiologia pneumatica25. Sulla dialettica interno23 H. DÖRRIES, Symeon von Mesopotamien. Die Üeberlieferung der Messalianischen “Makarius“ schriften, in Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur 55 (1941) 1,1. 24 Basti pensare agli shackers, una setta cristiano-evangelica fondamentalista americana, dei primi decenni del secolo scorso o ai dervisci tournour, in Turchia, in ambiente musulmano, oppure a certe manifestazioni dei movimenti carismatici cattolici, per avere un confronto odierno. 25 Cfr. F. ALEO, Spirito Santo e Chiesa, cit., 92-119.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 62

62

Francesco Aleo

esterno si basa anche la mistica pseudomacariana che non prescinde mai da una chiara e perspicua visione ecclesiologica. Si deve però osservare come il ricorso a questa dialettica interno-esterno permetta al nostro autore di relativizzare in un certo senso l’ascesi, mostrando come un corpo sottomesso e ben disciplinato possa nascondere una mente in realtà ribelle e disordinata. Sottolineando il primato dell’inabitazione personale dello Spirito Santo nell’anima dell’orante o dell’asceta, il nostro autore distingue fra una Chiesa visibile ed una invisibile, fra l’uomo interiore e l’uomo esteriore, fra la mente ed il cuore, fra il tempio e l’altare del sacrificio e — nel brano appena considerato — fra la forma di vita ascetica scelta e vissuta dagli asceti, visibile e riconoscibile all’esterno ed il noûs che guida e sostiene l’asceta al suo interno, nel compiere il suo lavoro come fa ogni bravo artigiano od operaio. Più avanti si dice che: «Infatti Satana e i demoni trattengono la mente e l’anima.»26. Ossia Satana ed i demòni non lasciano libero il noûs che, rigorosamente unito al corpo, esercita la sua attività nella vita ascetica. Nella preghiera, corpo e mente devono lavorare insieme e vigilare per sfuggire al controllo dei demòni e delle passioni. Corpo e mente devono compiere l’episképsis o scrutatio, il lavoro proprio dell’asceta o del monaco che scruta la propria mente ed il proprio cuore. Cuore e mente, noûs e kardìa, non sono la stessa cosa: «Vai a pregare (euché), esamina il tuo cuore (kardìa), la tua mente (noûs) e cerca di mandare a Dio la preghiera (euché) in modo puro; vedi che non c’è nulla che lo impedisca, e la preghiera (euché) esce pura, poiché la mente (noûs) è intenta al Signore, come il contadino all’agricoltura, l’uomo alla moglie, il mercante al suo traffico. Di nuovo, pieghi le ginocchia alla preghiera (euchén) e altri disperdono i tuoi pensieri.»27. 26 Lo¢g., 7,16,3,10-11 (Coll. I), BERTHOLD, I, 109: o( satana=j ga\r kaiì oi¸ dai¿monej kate/xousi to\n nou=n kaiì periskeli¿zousi th\n yuxh/n. Cfr. MACARIO/SIMEONE,

Discorsi e dialoghi spirituali/1, cit., 162. 27 Lo¢g. 32,3,1,16-21 (Coll. I), BERTHOLD, II, 19: aÃpelqe ei¹j eu)xh\n kaiì e)pi¿skeyai¿ sou th\n kardi¿an kaiì to\n nou=n kaiì qe/lhson th\n eu)xh\n kaqarw½j a)nape/myai t%½ qe%½: ble/pe, oÀti e)keiÍ ou)de/n e)sti to\ e)mpodi¿zon, gi¿netai de\ e)keiÍ eu)xh\ kaqara/, oÀti h)sxo/lhtai¿ sou o( nou=j pro\j to\n ku/rion, oÁn tro/pon tou= gewrgou= periì th\n gewrgi¿an, tou= a)ndro\j pro\j th\n gunaiÍka, tou= e)mporou= pro\j th\n e)mpori¿an. pa/lin kli¿neij ta\ go/nata ei¹j eu)xh/n, kaiì tou\j logismou/j sou aÃlloi diarpa/zousin. Cfr.

MACARIO/SIMEONE, Discorsi e dialoghi spirituali/2, cit., 199.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 63

Euché e noûs nel Corpus macarianum

63

È nella preghiera che si compie l’episképsis, sia del cuore sia della mente. È la mente che può e deve dedicarsi al Signore con tutte quelle operazioni che le consentono di esercitare le più varie attività nel mondo: l’agricoltura, il matrimonio, il commercio. Se, dunque, la mente è intenta al Signore, la preghiera è pura e senza impedimenti. Il brano mostra come il cuore e la mente puri siano le condizioni necessarie per una buona preghiera. Lo stesso dicasi per quest’altro brano: «Deve innanzitutto credere fermamente nel Signore, dedicarsi con tutto se stesso ai suoi comandamenti e rinunciare in tutto al mondo affinché la sua mente (noûs) non sia occupato da alcuna delle cose visibili. Deve perseverare sempre nella preghiera (eis euchén) attendendo con fede il Signore, la sua visita e il suo aiuto, e deve custodire sempre la mente (noûs) intento a questo scopo.»28.

La purificazione della mente dall’attaccamento alle cose visibili e la sua custodia è necessaria alla preghiera che il nostro autore definisce come “attesa” del Signore. Ancora, la mente gioca un ruolo importante nella preghiera, come disposizione che la purifica e la rende immune da false aspettative: «Pietra angolare di ogni sollecitudine buona e vertice delle opere rette è la preghiera (proseuché) perseverante, per mezzo della quale ogni giorno possiamo acquistare anche le altre virtù chiedendole a Dio. Infatti, grazie all’energia dello Spirito, nasce in coloro che ne sono reputati degni, attraverso la preghiera (euché), una mistica comunione di santità nei confronti di Dio solo, una pura disposizione della mente (noûs), con indicibile amore verso il Signore.»29. 28 Om., 19,5-11 (Coll. II), DÖRRIES, 182-183: prw½ton pisteu/ein t%½ kuri¿% bebai¿wj kaiì e)pidou=nai e(auto\n e)c oÀlou toiÍj lo/goij tw½n e)ntolw½n au)tou= kaiì a)pota/casqai t%½ ko/sm% kata\ pa/nta, iàna mh\ peri¿ ti tw½n fainome/nwn oÀlwj o( nou=j a)sxolh=tai, kaiì ei¹j th\n eu)xh\n pa/ntote xrh\ au)to\n proskartereiÍn e)n pi¿stei prosdoki¿aj tou= kuri¿ou, th\n e)pi¿skeyin kaiì boh/qeian au)tou= pa/ntote e)kdexo/menon, to\n skopo\n tou= noo\j au)tou= ei¹j tou=to eÃxonta dia\ panto/j. Cfr. PSEUDO-MACARIO, Spirito Santo e

fuoco, cit., 241; al termine «cuore» della versione italiana preferiamo il termine «mente». 29 Log. 4,1,4,17-21 (Coll. I), BERTHOLD, I, 42: Kefa/laion de\ pa/shj spoudh=j a)gaqh=j kaiì korufaiÍon tw½n katorqwma/twn e)stiìn h( th=j proseuxh=j karte/rhsij, di’ hÂj kaiì ta\j loipa\j a)reta\j dia\ th=j para\ qeou= ai¹th/sewj o(shme/rai proskta=sqai duna/meqa. e)peidh\ pro\j qeo\n a(gio/thtoj koinwni¿a mustikh/ tij dia\ pneumatikh=j


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 64

64

Francesco Aleo

La preghiera o proseuché qui compare in presenza di un lessico mistico, denotante l’intervento e la presenza dello Spirito come esperienza d’amore ineffabile verso il Signore. Proseuché denota allora la preghiera nello Spirito; a differenza di euché — che compare in presenza del corpo e dell’attesa spirituale del Signore — proseuché denota la richiesta di acquisire le virtù e di raggiungere la perfezione. Inoltre, proseuché denota la preghiera incessante e perseverante, contrapponendosi a quella senza interruzione dei messaliani. Ma cos’è dunque la preghiera? Nel Corpus macarianum leggiamo: «Per coloro che possiedono la grazia nel profondo, ogni cosa è preghiera.»30. È l’inizio di una risposta articolata in più punti che si sofferma su una particolare funzione assegnata al noûs: quella cioè di riconoscere le visioni che provengono da Dio. Vi si aggiunge infatti: «Talvolta il corpo giace nel sonno e la mente (noûs) veglia e vive presso Dio, piange e vede dolci figure.»31. La mente dunque vigila anche quando il corpo dorme. La mente è contesa da Dio e da Satana, dagli angeli e dai demòni, inabitata dalla grazia o dal peccato: «Satana, che è fango e terra, spinge la mente (noûs) all’amore per il mondo ed ad azioni impure. L’energia che proviene da Dio, invece, è celeste, strappa la mente (noûs) alla terra e alle azioni carnali, e la spinge sempre al ricordo di Dio, all’amore, alla preghiera (euché), alla supplica (deésis) e al pianto. E come il lievito mescolato alla farina trasforma in lievito tutto l’impasto, così la grazia lievita con l’anima e la rende un solo impasto.»32. e)nergei¿aj kaiì suna/feia/ tij diaqe/sewj au)tou= tou= nou= e)n a)ga/pv a)rrh/t% pro\j ku/rion tv= eu)xv=. Cfr. MACARIO/SIMEONE, Discorsi e dialoghi spirituali/1, cit., 84. 30 Log. 5,4,1,18 ss. (Coll. I), BERTHOLD, I, 80: ToiÍj eÃxousi kata\ ba/qoj th\n xa/rin pa/ntote/ e)stin eu)xh/. Cfr. MACARIO/SIMEONE. Discorsi e dialoghi spirituali/1, cit., 127. 31 Ibid., vv. 20-22: eÃsq’ oÀte ga\r to\ sw½ma keiÍtai ei¹j uÀpnon kaiì o( nou=j e)grh/gore kaiì zv= pro\j to\n qeo\n kaiì klai¿ei kaiì o(r#= pro/swpa h(de/a. Cfr. MACARIO/SIMEONE,

Discorsi e dialoghi spirituali/1, cit., 128. 32 Ibid., 3,5-10, BERTHOLD, I, 81: o( satana=j wÔn u(lw¯dhj kaiì gew¯dhj e)lau/nei to\n nou=n ei¹j th\n a)ga/phn tou= ko/smou kaiì ei¹j musara\ pra/gmata. to\ de\ a)po\ tou= qeou= e)nergou=n ou)ra/nio/n e)sti kaiì a)posp#= to\n nou=n a)po\ th=j gh=j kaiì tw½n sarkikw½n pragma/twn, pa/ntote de\ to\n nou=n eÀlkei ei¹j mnh/mhn qeou=, ei¹j a)ga/phn, ei¹j eu)xh/n, ei¹j de/hsin kaiì pe/nqoj. kaiì wÐsper zu/mh a)leu/r% summigeiÍsa oÀlon to\ fu/rama ei¹j zu/mhn fe/rei, ouÀtw kaiì h( xa/rij zumou=tai meta\ th=j yuxh=j kaiì poieiÍ eÁn fu/rama.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 65

Euché e noûs nel Corpus macarianum

65

Possiamo qui vedere descritte le operazioni della mente; la mente ricorda Dio, lo ama, lo prega, lo supplica, piange per lui. La mente, infine, opera il discernimento delle visioni, distinguendo quelle provenienti da Dio e quelle invece provenienti da Satana: «Vedi dunque che l’attività (energhéia) è tutto, e che dall’attività che produce la mente (noûs) può distinguere le apparizioni, qual è di Satana e qual è della grazia?»33.

Da questo brano risulta evidente come Satana non attacca e colpisce prima l’anima, ma la mente e questa, contro Satana, deve sempre lottare. Ricordiamo, dunque, come non si possa trovare, negli scritti del Corpus macarianum, un insegnamento sulla preghiera, quanto piuttosto un insegnamento sul “pregare” come attività dell’anima ma soprattutto della mente. Il “pregare” non mette la mente al sicuro dalle insidie del Maligno: «Non bisogna perciò pensare (noéin) le cose in modo unilaterale o secondo un unico aspetto. Infatti alcuni riposano talmente nella grazia di Dio, da divenire più forti e valorosi del peccato che è con loro, ed hanno già ora preghiera (euché) e grande riposo in Dio, ma in un altro momento sono sotto l’influenza dei pensieri sporchi ed ingannati dal peccato, pur essendo sempre in grazia di Dio.»34.

Il “pensare” o noéin, inteso come esercizio del noûs, secondo lo Ps.Macario, non può essere a senso unico, non può essere esente dal male e dal peccato. Il Maligno, attraverso false immagini, disturba l’opera Cfr. MACARIO/SIMEONE, Discorsi e dialoghi spirituali/1, cit., 128; al termine «anima» della versione italiana preferiamo il termine «mente». 33 Ibid., VV. 20-22: o(r#=j ouÅn oÀti to\ pa=n h( e)ne/rgeia/ e)sti kaiì e)k th=j e)nergei¿aj du/natai o( nou=j diakriÍnai ta\j o)ptasi¿aj, poi¿a me\n eÃsti tou= satana=, poi¿a de\ th=j xa/ritoj; Cfr. MACARIO/SIMEONE, Discorsi e dialoghi spirituali/1, cit., 129. 34 Log. 16,1,9,4-9 (Coll. I), BERTHOLD, I, 180: monotro/pwj ouÅn ou) xrh\ noeiÍn ta\ pra/gmata ou)de\ monomerw½j lamba/nesqai. ei¹j tosou=ton ga/r tinej a)napau/ontai e)n tv= tou= qeou= xa/riti, oÀti a)ndreio/teroi kaiì gennaio/teroi gi¿nontai th=j sunou/shj au)toiÍj a(marti¿aj, kaiì eÃxontej eu)xh\n nu=n kaiì a)na/pausin pro\j to\n qeo\n pollh\n aÃllv wÐr# e)nergou=ntai u(po\ r(uparw½n logismw½n kaiì kle/ptontai u(po\ th=j a(marti¿aj, oÃntej e)n tv= tou= qeou= xa/riti. Cfr. MACARIO/SIMEONE, Discorsi e dialoghi

spirituali/2, cit., 68.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 66

66

Francesco Aleo

della preghiera nell’anima e nella mente. Lo stato della mente ora vigile e limpido ora torpido ed oscuro permette di riconoscere la buona dalla cattiva preghiera; leggiamo questo bellissimo brano: «Sforziamoci soprattutto di dirigere la nostra preghiera (euché) nella fede e nel timore di Dio, non fidandoci di atteggiamenti del corpo, di consuetudini di grida, di silenzio o di genuflessioni, mentre la mente è trattenuta, per volontaria indifferenza, nella confusione, nel turbamento, nel disordine, nell’oblio dell’intelligenza; sforziamoci invece, con ogni vigilanza, attenzione e buona sollecitudine, di rendere la mente desta e attenta, sempre, ma soprattutto nella preghiera (proseuché). Allontanandoci da ogni pensiero terreno, abbandonando tutti i ragionamenti carnali, dobbiamo attendere Cristo con tutta la mente dell’anima (noûs tés psychés), per mezzo della fede e della speranza;»35.

Pregare per lo Ps.-Macario è allora tener desta la mente, perché anche il corpo può ingannare ed ingannarsi. Il corpo, infatti, ossia l’esterno dell’orante, può ingannare ma l’interno dell’orante, abitato dalla mente e regolato dalle sue operazioni, pervaso dalla preghiera e dal “pregare”, attende la visita del Signore e l’esperienza personale dello Spirito Santo. Il controllo esercitato dalla mente sul corpo, durante la preghiera, con gesti e movimenti del corpo stesso, non deve illudere gli asceti e trarli in inganno, può essere infatti un’autosuggestione o un vano illudersi. È la «mente dell’anima» e non la «mente del corpo» a guidare la preghiera ed a dirigerla verso Dio, nell’attesa della venuta dello Spirito Santo. Ossia, alla luce delle moderne conoscenze e tecniche psicanalitiche, è la consapevolezza superiore, ricevuta nella preghiera, del rapporto della mente con il corpo e con l’anima che 35

Log. 29,1,3,12-20 (Coll. I), BERTHOLD, II, 260: ¹Ecaire/twj de\ th\n eu)xh\n h(mw½n e)n pi¿stei kaiì fo/b% qeou= katarti¿zein spouda/swmen, mh\ swmatikoiÍj eÃqesin e)mplhroforou/menoi hÄ sunhqei¿# kraugh=j hÄ sunhqei¿# siwph=j hÄ sunhqei¿# gona/twn, tou= noo\j e)n sugxu/sei kaiì taraxv= hÄ r(aqumi¿# kaiì lh/qv a)gnoi¿aj di’ e(kou/sion a)me/leian katexome/nou, a)lla\ meta\ pa/shj nh/yewj kaiì prosoxh=j kaiì meri¿mnhj a)gaqh=j th\n eÃreunan kaiì prosoxh\n tou= nou= e(ka/stote me/n, ma/lista de\ e)n tv= proseuxv= poieiÍsqai spouda/swmen, panto\j ghi¿+nou logismou= e(autou\j a)llotriou=ntej kaiì pa/saj u(lika\j e)nnoi¿aj a)postrefo/menoi kaiì oÀlon to\n nou=n th=j yuxh=j dia\ th=j pi¿stewj kaiì e)lpi¿doj ei¹j th\n prosdoki¿an Xristou= eÃxwmen.

Cfr. MACARIO/SIMEONE, Discorsi e dialoghi spirituali/2, cit., 171-172, vd. n. 9.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 67

Euché e noûs nel Corpus macarianum

67

permette alla mente di entrare in sé stessa e nell’anima, di operare l’episképsis, cioè di guardarsi dentro, di scegliere e di compiere il bene. Questo lo può compiere la preghiera; è l’euché che mette il noûs in cammino verso il discernimento o diàkrisis. CONCLUSIONI Il ruolo del noûs nell’euché non è così perspicuo negli scritti del Corpus macarianum come potrebbe sembrare ad un primo superficiale esame. Per poter affrontare il problema del rapporto che lega il noûs con l’euché si dovrebbe parlare dell’euché come posta nel noûs. Ossia, per lo Ps.-Macario, la preghiera è nella mente. Dopo la nostra brevissima rassegna di alcuni fra i testi più significativi, attestanti questo complesso rapporto che lega il noûs all’euché e l’euché al noûs, poiché è arduo trovare una chiarificazione precisa ed un’intesa chiara sull’uso di termini percepiti in modo così intimo e così personale dallo Ps.-Macario, si potrebbe invece parlare di esercizio dell’uno e dell’altro, ossia del “pensare” o noéin e del “pregare” o euchéin; l’uno e l’altro si intersecano e si compenetrano a vicenda. Questa prospettiva, tipica dello Ps.-Macario, proviene dalla sua “pratica” teologica, se così vogliamo chiamarla, fatta di incontri con gli asceti, basata sull’ascolto delle loro esperienze ascetiche, dei loro progressi spirituali, delle loro cadute e dei loro stati di coscienza. Non possiamo non pensare che al discernimento su altri si accompagnasse il discernimento su di sé, dal momento che tutti i suoi scritti risentono di una viva esperienza delle tematiche ivi trattate, specie di quelle inerenti l’esperienza dell’inabitazione personale dello Spirito Santo nel cuore o nell’anima santificati dalla grazia. Nel tentativo di dare una definizione al “pensare” ed al “pregare”, si può tentare di attribuire all’uno il carattere di “pensiero orante” ed all’altro quello di “preghiera introspettiva”, senza sperare di riuscire a fornire una compiuta spiegazione dei processi che presiedono all’esperienza mistica dello Ps.-Macario36. Tuttavia, il contributo più significativo che possiamo cogliere negli 36

Sulla cristologia pneumatica e sulla “mistica della luce” dello Ps.-Macario, vd. PSEUDO-MACARIO. Discorsi, cit., Introduzione, 37-43.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 68

68

Francesco Aleo

scritti del Corpus macarianum è forse quello di una Theologhìa, fondata sull’ascolto della Parola di Dio, insistente particolarmente sull’ ”esodalità”, ma attenta anche all’ascolto dell’altro, incline a decifrare i moti segreti del cuore ed a saper leggere nelle pieghe di una ragione pronta ad entrare in dialogo con il cuore. La preghiera fatta con la «mente dell’anima» costruisce la capacità di compiere il bene ed i comandamenti, quindi di saper scegliere fra il bene ed il male. È questa la vera e sola identità dell’orante, da costruirsi con la preghiera che attinge al noûs, perché l’euché nutra sempre il suo cuore e purifichi sempre la sua mente.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 69

DESIDERIO E PREGHIERA IN GIOVANNI CASSIANO

MAURIZIO ALIOTTA*

INTRODUZIONE Salvo giudizio migliore, tra gli scrittori cristiani antichi solo Agostino tematizza in modo compiuto il rapporto tra desiderio e preghiera. Commentando le parole di Paolo sulla necessità di pregare senza interruzione, egli osserva che se ci si riferisce alla preghiera che si esprime con gli atteggiamenti del corpo o a quella a cui si consacra un certo tempo in un certo luogo, allora non è possibile pregare senza interruzione, «ma c’è un’altra preghiera interiore che non conosce interruzione, ed è il desiderio. Qualunque cosa tu faccia, se desideri quel sabato, non smetti mai di pregare. Se non vuoi interrompere la preghiera, non cessar mai di desiderare»1. D’altronde per Agostino, tutta la nostra vita è un esercizio del desiderio2. *

Docente di Teologia morale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. «Est alia interior sine intermissione oratio, quae est desiderium. Quidquid aliud agas, si desideras illud sabbatum, non intermittis orare. Si non vis intermittere orare, noli intermittere desiderare» (Enarratio in psalmum 37,14). Il “sabato” a cui allude Agostino è il sabato per la cui commemorazione il salmo fu scritto dal “profeta Davide”. Agostino lo identifica con la ricerca della pace. Per quanto riguarda l’invito alla preghiera continua, l’Ipponate si riferisce al testo paolino di 1Ts 5,17. Agostino continua identificando il desiderio continuo con la carità: «Continuum desiderium tuum, continua vox tua est. Tacebis, si amare destiteris. Qui tacuerunt? De quibus dictum est: Quoniam abundavit iniquitas, refrigescet caritas multorum [Mt 24,12]. Frigus caritatis, silentium cordis est: flagrantia caritatis, clamor cordis est. Si semper manet caritas, semper clamas; si semper clamas, semper desideras; si desideras, requiem recordaris» (l.c.). 2 «Haec est vita nostra, ut desiderando exerceamur» (In Epistolam Ioannis ad Parthos tractatus decem, tr. 4.6). 1


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 70

70

Maurizio Aliotta

Sebbene in un contesto antropologico e teologico diverso, non si può negare tuttavia che il legame tra preghiera e desiderio sia in qualche modo considerato anche da autori diversi, soprattutto nel contesto delle riflessioni sulle passioni e le emozioni che connotano la vita spirituale. Un caso interessante è costituito da Giovanni Cassiano, contemporaneo di Agostino ma da lui distante per formazione ed esperienza, considerato uno dei padri del monachesimo occidentale, sebbene cresciuto nella tradizione del cristianesimo orientale. Cercheremo di cogliere negli scritti di Cassiano che trattano ex professo della preghiera il carattere “passionale” ed “emotivo” dell’esperienza umana che chiamiamo “preghiera”. Dopo una breve nota sul contesto sociale ed ecclesiale dell’Autore (1), vedremo in un secondo punto il suo pensiero sulla preghiera nella vita del monaco (2), per concludere considerando la dimensione emotiva della preghiera (3). 1. IL CONTESTO SOCIALE ED ECCLESIALE DI GIOVANNI CASSIANO La Regula Benedicti, scritta intorno al 540, attesta la notorietà di Giovanni Cassiano nell’antichità cristiana3. L’importanza che il Nostro riveste nella storia del monachesimo comporta però il rischio di far dimenticare la distanza culturale che lo separa da noi. I monaci a cui egli si rivolge sono ben diversi da quelli che noi conosciamo, come diversi lo erano già quelli del Medioevo. La necessaria contestualizzazione del pensiero dell’autore pone una prima questione: quale sia l’ambiente entro il quale considerarlo, quello dei destinatari o quello che verosimilmente costituì il suo humus culturale e religioso. Nel primo caso si tratta della ricca aristocrazia romana della Gallia meridionale dell’inizio del V secolo, nel secondo dell’ambiente monastico egiziano e palestinese della medesima epoca. In realtà non si possono ignorare né l’uno né l’altro contesto. Cassiano scrive in un’epoca di sconvolgimenti che allontanano inesorabilmente la Gallia dall’Impero Romano. Sebbene alcuni storici 3

Le due opere maggiori di Cassiano sono citate due volte: in Regula Benedicti 42.5 (Si autem ieiunii dies fuerit, dicta Vespera, parvo intervallo mox accedant ad lectionem Collationum, ut diximus) e in Regula Benedicti 73.5 (Nec autem et Collationes Patrum, et Instituta et Vitas eorum, sed et Regula sancti Patris nostri Basilii).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 71

Desiderio e preghiera in Giovanni Cassiano

71

moderni minimizzano i disagi che seguirono le invasioni germaniche del 405/6, l’impero romano in Occidente non perdura molto a lungo dopo il V secolo e la Gallia è divisa tra i re germanici. Quasi mezzo millennio di dominio romano vede una fine repentina. Tra la fine del IV e l’inizio del V secolo gli scrittori cristiani si propongono di dimostrare la plausibilità e l’accettabilità della carriera ecclesiastica per un aristocratico divenuto cristiano4. Ricordiamo che lungo il IV secolo il cristianesimo si è ben stabilito nelle principali città mediterranee. Il fenomeno più importante, secondo P. Brown, non è tuttavia la crescita numerica delle comunità cristiane. «Fu di maggior portata per l’immediato futuro del cristianesimo il fatto che i capi della chiesa cristiana, soprattutto nel mondo greco, scoprirono di potersi identificare con la cultura, le prospettive e le necessità del cittadino medio agiato. Da una setta che si schierava contro la cultura romana, o con una parte di essa, il cristianesimo era diventato una chiesa pronta ad accogliere un’intera società»5. A giudizio dello storico di Princeton questo fenomeno riguarda soprattutto il colto Oriente, il cui fascino non mancò di attirare gli occidentali. Tra la fine del IV e l’inizio del V secolo l’esplosione del monachesimo egiziano accompagna una tappa fondamentale per lo sviluppo del cristianesimo: il suo diffondersi anche nei villaggi fuori da un ambiente prevalentemente urbano. L’annuncio del Vangelo è rivolto a tutti, dotti e “semplici”6 In Occidente gli interlocutori sono ancora coloro che appartengono all’aristocrazia romana. Troviamo un esempio di ciò in autori contemporanei a Cassiano quali Sulpicio Severo († 420 ca), Ilario di Arles († 449), Eucherio di Lione († 450 ca). I primi due furono alunni del monastero di Lérins, a Eucherio furono dedicate le Conferenze di Cassiano. Sulpicio Severo fornisce la prima versione indigena della vita ascetica della Gallia e uno dei suoi più 4

Cfr. i noti studi di J. MATTHEWS, Western Aristocracies and Imperial Court: A.D. 364-425, Oxford 1975; R. MATHISEN, Roman Aristocrats in Barbarian Gaul: Strategies for Survival in an Age of Transition, Austin 1993; R. VAN DAM, Leadership and Community in Late Antique Gaul, Berkley 1985. 5 P. BROWN, Il mondo tardo antico, trad. it., Torino 1974, 63. 6 Interessante il parallelo tra le biografie di Plotino e Antonio, cfr. ibid., 74 ss.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 72

72

Maurizio Aliotta

intimi amici, Paolino da Nola († 431), fu nondimeno attivo e una fonte influente di ideali ascetici per i lettori contemporanei di Cassiano. Per presentare la propria visione della vita ascetica, Sulpicio scrisse due opere, la nota Vita Martini e i Dialogi, mentre Ilario scrisse la Vita Honorati. Queste opere non erano solo descrittive ma anche prescrittive, volendo dimostrare che un aristocratico cristiano poteva raggiungere la vera nobilitas senza abbandonare il suo status romano. Eucherio nel suo De contemptu mundi si rivolge ad un parente per convincerlo che la vera sicurezza sarebbe stata trovata solo in un impegno di vita cristiana. La conoscenza della storia e della letteratura di questo periodo è imprescindibile, dunque, per comprendere il pensiero di Cassiano7. Egli scrisse due opere, che nel suo intendimento dovevano costituire un tutto organico, per far conoscere e diffondere la tradizione monastica egiziana, con i necessari adattamenti alle condizioni climatiche e ambientali dell’Occidente. La prima, le Istituzioni (Institutiones), dovette essere scritta poco prima della condanna di Nestorio al Concilio di Efeso (431)8. Si compongono di dodici “libri”: i primi quattro contengono istruzioni sull’abito dei monaci e sulle preghiere, gli altri otto sono una esposizione sugli otto “pensieri malvagi” o, come si dirà prevalentemente in Occidente, “otto vizi principali”. Le Conferenze ai monaci (Collationes)9 furono scritte a completamento delle Istituzioni e, sotto la forma di un resoconto di un viaggio 7

Cfr. R.J. GOODRICH, Contextualizing Cassian. Aristocrats, Ascetism, and Reformation in Fifth-century Gaul, Oxford 2007. 8 Edizione critica con traduzione francese in J. CASSIEN, Institutions cénobitiques, a cura di J.-H. Guy, SC 109, Paris 1965 (ristampa riveduta e corretta 2001). Traduzione italiana con ottima “Introduzione” in Le istituzioni cenobitiche. De institutis coenobiorum et de octo principalium vitiorun remediis libri XII, intr. di A. de Vogüé, trad. e note a cura di L. d’Ayala Valva, Magnano (BI) 2007. Il curatore dell’edizione critica colloca la data senza riserve intorno al 415 (Introduzione, 7). I testi latini saranno citati dall’edizione critica di Sources Chétiennes (= SC) con Istit. indicando il libro in numero romano e il paragrafo in cifra araba; tra parentesi quadra la traduzione italiana. 9 Edizione critica in J. CASSIEN, Conferences, a cura di E. Pichery, Paris 1955, (SC 42), I-VII; Ibid., Paris 1958 (SC 54), VIII-XVII; Ibid., Paris 1959, (SC 64), XVIII-XXIV. Trad. it. in GIOVANNI CASSIANO, Conferenze ai monaci/1 (I-X), trad., intr. e note a cura di L. Dattrino, Roma 2000; GIOVANNI CASSIANO, Conferenze ai monaci/2 (XI-XXIV),


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 73

Desiderio e preghiera in Giovanni Cassiano

73

di istruzione intrapreso dallo stesso Giovanni Cassiano con l’amico fraterno Germano nel deserto egiziano, contengono gli insegnamenti degli “anziani” lì incontrati10. Quale dovette essere sul lettore proveniente dall’aristocrazia romana l’impatto della tradizione orientale che Cassiano introdusse in Occidente? Di quale autorità godette Cassiano, che definiva se stesso un uomo ”bisognoso e povero da ogni punto di vista”(omnique ex parte pauperrimum)11, per dettare le regole di un ascetismo autentico per il monachesimo della Gallia, che preesisteva al suo arrivo? La vita monastica descritta da Cassiano suppone una “morte” a questo mondo che si esprime in vari modi. Il monaco che rinuncia al passato deve separasi, per esempio, dalle piccole comodità che la vita fuori dal cenobio o lontano dal deserto gli avrebbe offerto. Uno dei primi impegni del novizio è quello di dimenticare i piaceri della vita passata e controllare i desideri del corpo12. Il cursus monastico non è pensato per «favorire il riposo, la sicurezza, i piaceri»13, piuttosto era la più difficile ed esigente delle vie. Riguardo al cibo non esiste, però, una dieta prescritta per tutti, ma secondo le esigenze e gli stati di vita14. Il criterio ultimo era quello di nutrirsi con cibi che si potevano ottenere facilmente e con poca spesa15.

trad., intr. e note a cura di L. Dattrino, Roma 2000. Il titolo di questa opera potrebbe essere anche “Conferenze dei monaci” poiché Giovanni Cassiano detta le sue istruzioni sotto forma di conferenze da lui stesso ricevute nel deserto. I testi latini saranno citati dall’ edizione critica di Sources Chétiennes con Conf. indicando il libro in numero romano e il paragrafo in cifra araba; tra parentesi quadra la traduzione italiana. 10 Per un breve profilo biografico dell’autore e un quadro sintetico del contesto culturale del monachesimo orientale, mi permetto rinviare a M. ALIOTTA – A. LIA, Giovanni Cassiano. Gli eroi della filosofia cristiana, Siracusa 2010. 11 Istit. Pref. 2. Lo dice paragonandosi a Chiram, lo “straniero” figlio di una vedova, che aiutò Salomone nella costruzione del tempio di Gerusalemme (cfr. 1Re 7,13-14). Identificandosi con lui, Cassiano lo chiama pauper et alienigenus vir (l.c.). 12 Istit. II.3.3. 13 «Non ad requiem, non ad securitatem, non ad delicias» (Istit. 4.38). 14 Cfr. Istit. V.1 e Conf. II.19. 15 Istit. V.23.1.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 74

Maurizio Aliotta

74

2. LA PREGHIERA NELLA VITA DEL MONACO Il Nostro dedica alla preghiera i libri II e III delle Istituzioni cenobitiche e le istruzioni IX e X delle Conferenze ai monaci. Si può subito notare che prima si tratta del come pregare e poi della natura della preghiera. Questa distinzione è intenzionale, come lo stesso Cassiano spiega nella sua prima opera: «Cinto dunque di questa doppia cintura [quella materiale e quella spirituale] di cui abbiamo appena parlato, il soldato di Cristo deve ora apprendere quale sia la misura fissata dai santi padri in oriente, fin dai tempi antichi, per le preghiere canoniche e per i salmi. Della natura di questa preghiera, poi, o di come sia possibile pregare senza interruzione (1Tess 5,17), secondo le parole dell’Apostolo, parleremo a tempo debito, quando cominceremo a esporre le Conferenze degli anziani, per quanto il Signore ce ne darà la forza»16.

Anche in quest’ultimo caso l’istruzione sulla preghiera è sempre preceduta dal racconto dell’esperienza della preghiera dei monaci incontrati da Cassiano nel deserto. In realtà la riflessione sulla preghiera è pervasiva di tutta la sua opera perché, come sostiene l’abate Isacco, «tutta la finalità del monaco e la perfezione del suo cuore tendono alla continua e ininterrotta perseveranza della preghiera e, in più, per quanto è concesso alla fragilità dell’uomo, all’immobile tranquillità della mente e ad una perseverante purezza, per effetto della quale noi andiamo in cerca instancabilmente ed esercitiamo continuamene non soltanto la fatica del corpo, ma anche la contrizione dello spirito»17. 16

«Duplici igitur hoc quo diximus cingulo Christi miles accinctus interim, qui modus canonicarum orationum psalmorunque sit in partibus Orientis a sanctis patribus antiquitus statutus, agnoscat. De qualitate vero earum vel quemadmodum orare secundum Apostoli sententiam sine intermissione possimus, suis in locis, cum seniorum conlationes coeperimus exponere, quantum Dominus donaverint, proferemus» (Istit. II.1 [trad. it. 47]). 17 «Omnis monachi finis cordisque perfectio ad iugem atque indisruptam orationis perseverantiam tendit, et quantum humanae fragilitati conceditur, ad inmobilem tranquillitatem mentis ac perpetuam nititur puritatem, ob quam omnem tam laborem


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 75

Desiderio e preghiera in Giovanni Cassiano

75

Egli la considera come la sorgente della teologia e il mezzo privilegiato dell’incontro con Dio. In ciò segue Evagrio Pontico, che afferma che «se sei un teologo, pregherai davvero; e se preghi davvero, sarai un teologo»18. La concezione della preghiera come via privilegiata della relazione con Dio non è prerogativa di Cassiano e dei monaci cristiani19, per quest’ultimo, però, “relazione con Dio” significa la relazione con il Dio Uno e Trino. La preghiera coinvolge perciò le tre persone della Trinità e, dunque, essa ha una dimensione cristologica e pneumatologica. 2.1. Come pregare L’insegnamento di Cassiano distingue chiaramente la preghiera comunitaria da quella individuale, sebbene le due forme di preghiera siano poi legate tra di loro. La preghiera comunitaria è caratterizzata innanzi tutto dalla sua valenza pedagogica: «Così, se educando i comportamenti dell’uomo esteriore gettiamo fin da ora, per così dire, le fondamenta della preghiera, quando poi cominceremo a parlare dello stato dell’uomo interiore, potremo con minor fatica elevarne l’edificio fino alle sommità20. […] e così, fintanto che ci vengono prolungati i giorni del nostro soggiorno terreno, tracceremo almeno alcune linee essenziali della preghiera che possano istruire un po’ soprattutto coloro che vivono nei cenobi»21. corporis quam contritionem spiritus indefesse quaerimus et iugiter exercemus» (Conf. IX.2 [trad. it. 1/351]). 18 Evagrio, Orat. 61 (ed. Tugwell [1981]: 12): E'i qeolo/goj ei), proseu/ch a)lhqw=j. kai\ ei) a)lhqw=j proseu/xh, qeolo/goj e)/sh. 19 Sulla centralità della preghiera nell’esperienza religiosa, cfr. l’opera classica dello storico delle religioni F. HEILER, La pière, Paris 1931 [trad. fr. sulla 3a ed. tedesca], in cui si mostra che, in definitiva, la preghiera è “fenomeno centrale della religione” e via che porta a Dio. L’autore nella Prefazione cita alcuni autorevoli esponenti della teologia evangelica e cattolica moderne per sostenere che «la preghiera è dunque il cuore, il punto centrale della religione» (p. 8). 20 Si riferisce alle Conferenze. 21 «ut formantes interim exterioris hominis motus et velut quaedam nunc orationi fundamenta iacentes minor post haec labore, cum coeperimus de statu interioris hominis disputare, orationum quoque eius fastigia construamus: […] ut, dum nobis huius commorationis tribuuntur indutiae, saltim quasdam tantisper orationum lineas


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 76

76

Maurizio Aliotta

C. Stewart ha osservato che dietro l’apparente semplicità della dichiarazione di intenti di Cassiano si cela una decisone pedagogica di grande importanza22. Gli scritti di Cassiano suppongono che impariamo dalla prassi e dall’osservazione delle conseguenze delle nostre azioni. Da qui l’importanza di una guida per chi vuole intraprendere la via dell’ascesi cristiana. Questa fondazione esperienziale dell’insegnamento di Cassiano è fondamentale per la sua stessa comprensione23. Come pregare e la funzione della preghiera sono due aspetti fondamentali della teologia della preghiera. Cassiano si riferisce prevalentemente alla preghiera dei monaci egiziani distinguendo la Tebaide e Tabennesi24 dal resto dell’Egitto25. I libri 2 e 3 delle Istituzioni sono dedicati alla preghiera comune nel cenobio, rispettivamente alla preghiera della sera e alla preghiera diurna. La necessità di una misura, una regola per la preghiera è pensata da Giovanni Cassiano per evitare la grande difformità tra cenobio e cenobio che notava nel monachesimo occidentale, in particolare nel contesto del monachesimo gallico. Il bisogno di uniformità non è motivato però solo da fattori disciplinari, precisamente dal rischio che ogni cenobio sia retto in base alle idee di chi lo dirige, ma da ragioni di ordine ascetico: «Nessuno infatti è autorizzato a presiedere una comunità di fratelli, per quanto piccola, e neanche a dirigere se stesso, prima di essersi non soltanto spogliato di tutti i propri beni, ma di aver addirittura riconosciuto praesignemus, quibus hi vel maxime, qui in coenobiis commorantur, valeant aliquatenus informari» (Istit., II.9.1 e 2 [trad. it., p. 58]). 22 Cfr. C. STEWART, Cassian the Monk, New York 1998, 37-39. 23 Cfr. A.M.C. CASIDAY, Tradition and Theology in St John Cassian, New York 2007, 162-176. Questa fondazione esperienziale della conoscenza è tipica, comunque, della tradizione dei padri del deserto a cui Cassiano si rifà. Una importante applicazione di questo principio pedagogico si ha nella stessa struttura della comunità monastica: «Ideoque nullus congregationi fratrum praefuturus eligitur, priusquam idem, qui praeficiendus est, quid obtemperaturis oporteat imperari, oboediendo didicerit, et quid iunioribus tradere debeat, institutis seniorum fuerit adsecutus» (Istit., II.3.3). 24 Cfr. Istit. II.3.1,4; IV.1,23, 30.2. 25 Cfr. Istit., Pref 3,8; II.2.2,3.1, 4.5.5; III.1; IV,17,30.2,30.4,31-32; V.24,36.1, 39.2; 10.22-23. Per l’ambientazione geografica, cfr. l’Introduzione di A. de Vogüé nella già citata traduzione italiana delle Istituzioni.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 77

Desiderio e preghiera in Giovanni Cassiano

77

di non essere più padrone neanche di se stesso, ovvero di non avere più alcun potere sulla propria persona»26.

Sembrerebbe così esserci la negazione della possibilità di legare ai propri desideri e alle passioni umane l’esperienza della preghiera a seguito di questa sorta di autoespropriazione della persona. L’unico desiderio che si deve coltivare è vivere in monastero: «Chi rinuncia al mondo, infatti, quali che siano i suoi beni e le sue ricchezze, deve avere un desiderio così forte di venire ad abitare nel cenobio, da non sentirsi affatto lusingato per tutto ciò che ha abbandonato o portato in monastero; deve quindi obbedire a tutti, al punto da convincersi di dover ritornare alla prima infanzia, secondo le parole del Signore (cfr. Mt 18,3), senza minimamente presumere di sé in considerazione della sua età o al numero degli anni che ha inutilmente sprecato nel mondo e che ritiene di aver perduto»27.

In realtà si vedrà che il monaco non è chiamato ad un rinnegamento psicologico di sé, ma alla libera adesione ad una forma di vita in cui la ricerca dell’assoluto è tutto. Per conferire maggiore autorevolezza alla scelta di seguire la prassi monastica egiziana Cassiano la fa risalire addirittura ai tempi apostolici, richiamandosi alla Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea28. 26 «Non enim quisquam conventiculo fratrum, sed ne sibi quidem ipsi praeesse conceditur, priusquam non solum universis facultatibus suis reddatur externus, sed ne sui quidem ipsius esse se dominum vel potestatem habere cognoscat» (Istit., II.3.1; [trad. it., p. 50]). Non senza una certa vena polemica Cassiano così conclude la sua argomentazione: «Ideoque diversitates typorum ac regularum per ceteras provincias cernimus usurpatos, quod plerumque seniorum institutionis esperti monasteriis praeesse audemus et abbates nos ante quam discipulos professi quod libitum fuerit statuimus, promptiores nostro rum invento rum exigere custodiam quam examinatam maiorum servare doctrinam» (ibid., II.3.5). 27 «Ita namque renuntiantem huic mundo quibuslibet facultatibus ac divitiis praeditum necesse est coenobi commorationem expetere, ut in nullo sibi ex his quae reliquit aut intulit monasterio blandiatur, sic obedire cunctis, ut redeundum sibi secundum sententiam Domini ad infantiam pristinam noverit, nihil sibi considerazione aevi vel amorum numerositate praesumens, quam in saeculo inaniter consumptam se reputat perdidisse» (Istit., II.3.2 [trad. it., p. 50]). 28 Cfr. Istit., II.5.3.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 78

78

Maurizio Aliotta

Costui attribuisce all’evangelista Marco, secondo la tradizione protovescovo di Alessandria, la prima regola monastica dell’Egitto29. La determinazione delle modalità concrete della preghiera era attribuita ad un intervento angelico, secondo una tradizione che troviamo attestata nella Storia lausiaca di Palladio30. La struttura formale della preghiera comune manifesta la sua funzione per i membri del cenobio. Innanzi tutto la preghiera della comunità sostiene il singolo nei suoi impegni. Lo stesso Cassiano, per esempio, sovente nei suoi scritti chiede alla comunità di pregare perché possa portare a compimento la sua opera31. Ancor di più affida se stesso alle preghiere dei monaci32. Sebbene non manchi in queste richieste una certa retorica tipica dei suoi contemporanei, non vi è dubbio però che per Cassiano il ricorso alla preghiera è un elemento fondamentale per la sua opera33. La preghiera contribuisce a costruire la comunità cristiana. La preghiera dell’uno per l’altro si intreccia con la preghiera con l’altro. Un caso molto particolare di preghiera per gli altri si riferisce a coloro che sono esclusi dalla sinassi eucaristica o a coloro che sono esclusi dalla preghiera stessa per le mancanze verso la Regola del cenobio; altro caso è la preghiera come forma di lotta contro i demoni. Considerando la preghiera per coloro che sono temporaneamente allontanati dalla preghiera comune emerge la differenza tra il “pregare con” e il “pregare per”. Mentre è auspicabile pregare per chi sbaglia, è contro la Regola pregare con essi e motivo di ammonizione da parte del superiore del cenobio. Le Istituzioni ne spiegano il motivo appoggiandosi al testo paolino di 1Cor 5,534. Non si può pregare con chi ha 29

Cfr. EUSEBIO DI CESAREA, Storia Ecclesiastica, II.16. Cfr. PALLADIO, Storia lausiaca 32.6; Vite greche di Pacomio III.29-33; in Palladio la vicenda è collocata ai tempi di Pacomio. Cassiano la anticipa ai tempi sub apostolici attribuendole così maggiore autorevolezza. 31 Istit. IV.10; V.1; Conf., Pref. 32 «Superest ut me pericolosissima hactenus tempestate iactatum nunc ad tutissimum silentii portum spiritalis orationum vestrarum aura comitetur» (Conf. XXIV.26): così conclude l’intera sua opera. 33 Questa è l’opinione di V. CODINA, El aspecto cristológico en la espiritualidad de Juan Casiano, Roma 1966, 118. 34 «Questo individuo sia dato in balìa di satana per la rovina della sua carne, affinché il suo spirito possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore». 30


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 79

Desiderio e preghiera in Giovanni Cassiano

79

commesso una colpa e, quindi, è stato allontanato dalla sinassi o dalla preghiera comune se prima non ha fatto penitenza e non sarà stato riconciliato pubblicamente con la comunità da parte dell’abate. Questo perché «chiunque, mosso da una pietà sconsiderata, avrà la presunzione di partecipare alla sua preghiera prima che egli sia riaccolto dal superiore, si fa complice della sua dannazione, consegnando volontariamente se stesso a Satana, al quale l’altro era stato abbandonato in vista della correzione del suo peccato: così, infatti, incorre in una colpa ancor più grave, perché unendosi a conversare o pregare con lui fomenta ancor di più la sua insolenza e alimenta in lui un’arroganza ancora peggiore. Procurandogli infatti un tale dannoso conforto, farà sì che il suo cuore s’indurisca ancor di più e gli impedirà di sentirsi umiliato per il fatto di essere stato segregato dalla comunità, con il risultato che costui o non terrà più in alcun conto il rimprovero del superiore, oppure fingerà di pentirsi e di chiedere perdono»35.

L’insistenza sulla preghiera per chi è allontanato dal servizio liturgico ci dice che questo grande rigore non è sinonimo di acredine per chi sbaglia. Nel dialogo con l’abate Sereno si pone la questione dell’atteggiamento nei confronti di chi è “abbandonato a Satana”36. L’abate Sereno insiste sulla necessità di pregare per chi è stato scomunicato, sottolineando la forza della preghiera sia per la riabilitazione del peccatore sia per scacciare i demoni37. Secondo l’insegnamento 35 «et quisquam orationi eius, antequam recipiatur a seniore, inconsiderata pietate permotus comunicare praesumpserit, complicem se damnationis eius efficiat, tradens scilicet semet ipsum volontarie Satanae, cui ille pro sui reatus emendazione fuerat deputatus: in eo vel confabulationis vel orazioni comunione miscendo maiorem illi generet insolentiae fomitem et contumaciam delinquentis in peius enutriat. Perniciosum namque solarium tribuens cor eius magis magisque faciet indurari nec humiliari enim sinet, ob quod fuerat segregatus, et per hoc vel increapationem senioris non magni pendere vel dissimulanter de satisfactione et venia cogitare» (Istit. II.16 [trad. it. 1/68]). 36 Conf. VII.27-30. 37 «Si habuerimus hanc scientiam, immo fidem quam superius conprehendi, ut et omnia per deum fieri et pro utilitate animarum dispensari universa credamus, non solum nequaquam despiciemus eos, sed etiam pro ipsis tamquam pro membri nostris incessanter orabimus eisque totis visceribus ac pleno conpatiemur adfectu (cum enim patitur unum membrum, conpatitur omnia membra [1Cor 12,26]), scientes nos absque illis utpote membris nostris omnimodis consummari non posse, quemadmdum legimus ne anteriores quidem nostros sine nobis repromisisonis summam consequi potuisse»


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 80

80

Maurizio Aliotta

dell’abate Pinufio la preghiera dei santi ottiene il perdono dei peccati degli altri38. Un caso particolare della forza dell’efficacia della preghiera per la conversione di chi è fuori dalla comunione ecclesiale è visto da Cassiano nell’esempio di Leporio39, accusato di essere nestoriano: Cassiano ritiene che la grazia di Dio agisce nella preghiera dei fedeli che chiedono la conversione degli eretici. La conversione, poi, è motivo di preghiere di ringraziamento a Dio40. La preghiera scandisce la vita del cenobio e le stesse istruzioni di Cassiano seguono il ritmo della preghiera comune41. Le regole del cenobio accompagnano il monaco anche nella sua vita solitaria, come attestato più volte nei racconti della vita dei monaci contenute nelle conferenze. Un esempio chiaro è dato nella storia di quel monaco che assiste ad un convegno di demoni radunati per dar conto dei loro successi: «uno dei nostri fratelli, in viaggio attraverso il deserto, venuta l’ora in cui il giorno volgeva al tramonto, imbattutosi in un antro, lì si fermò col fine di compiere la funzione della sera. E così, mentre egli, secondo l’uso (ex more), (Conf. VII.30). Si può scorgere qui in modo embrionale il concetto della “santa lotta con Dio” (il cristiano ripete il combattimento di Giacobbe di Gen 32,25) per la salvezza di tutti tipica della tradizione patristica dell’Oriente cristiano. Ne abbiamo una attestazione tardiva in uno straordinario testo di Simeone il Nuovo Teologo: «Fratelli, so di un uomo che si sforzava e si imponeva in mille modi, ora con la parola, ora con doni e aiuti di altro genere, di distogliere i confratelli, coi quali viveva, dalle loro tentazioni e cattive azioni. So anche che quest’uomo spesso piangeva e si rattristava per la sorte degli altri; spesso anzi si riteneva lui il colpevole e gemeva e si sprofondava in implorazione davanti a Dio. So finalmente di quest’uomo che ardeva di sì grande desiderio di salvezza degli altri da fargli spesso scongiurare il buon Dio con calde lacrime e dal profondo del cuore, con lo zelo di un Mosè, o meglio del Signore stesso, di concedere ad essi la salvezza, o di mandare dannato anche lui. Egli infatti si era congiunto spiritualmente nello Spirito Santo con sì tanta carità ai suoi fratelli, che non avrebbe voluto neppure entrare nel Regno dei cieli, a prezzo di doversi separare da loro» (Oratio 22). 38 Cfr. Conf. XX.8 con le numerose referenze bibliche a sostegno di questa dottrina. 39 Cassiano ne parla nel trattato sull’Incarnazione del Verbo. Accusato di essere nestoriano, Leporio lascia la Gallia per l’Africa del Nord. Qui grazie alle preghiere di un gruppo di chierici si converte alla fede ortodossa. Cfr. AGOSTINO, Ep. 219 (CSEL 57: 428-31). 40 Cfr. Conf. X.3. 41 Conf. XIII.1; XV.1; XVII.3; XXI.11; XXII.1.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 81

Desiderio e preghiera in Giovanni Cassiano

81

recitava i Salmi, passò la mezzanotte, e allora terminata quella funzione di regola, si distese un po’, volendo dare qualche riposo al suo corpo»42.

Il monaco prega i Salmi ex more, ma non è chiaro se Cassiano intenda riferirsi all’uso del cenobio o a quello del monaco da solo43. Questo episodio rinvia a due questioni: la stabilità del monaco presso il suo cenobio o la sua cella, nel caso degli anacoreti, e la lotta dei monaci contro il demonio nel deserto e la forza della preghiera per sconfiggerli. In via ordinaria non è considerato un fatto positivo lo spostarsi da un luogo all’altro44 e la preghiera è l’arma per sconfiggere o per lo meno indebolire la forza dei demoni45. La preghiera comune e per gli altri preserva i monaci dai violenti attacchi dei demoni. Anzi questa forza della preghiera comune indebolisce la forza degli spiriti malvagi nel tempo. Il senso della lotta contro i demoni mediante la preghiera merita una spiegazione. I demoni cercano di opporsi attivamente alla vita virtuosa e la preghiera li tiene a bada. Anche i più feroci sono allontanati dalla preghiera e dal semplice segno della croce46. 2.2. La natura della preghiera L’intera Conferenza IX è dedicata alla fondazione teologica della preghiera. Semplicità e umiltà costituiscono due fondamenti della 42

Conf. VIII.16 [trad. it. 1/330]. Casiday osserva che questa annotazione, forse, anticipa la Regola di Benedetto che prescrive di pregare l’ufficio comune anche fuori dal monastero nel caso in cui si esca per qualche motivo: Regula Benedicti 50 (A.M.C. CASIDAY, Tradition and Theology in St John Cassian, 172). 44 Cfr. Conf. VI.15, VII.23, XXIV.3. 45 Quando «eorum atrocitas grassabatur et frequentes ac visibiles sentiebantur adgressus, ut non auderent omnes pariter noctibus obdormire, sed vivissimo aliis degustantibus somnum alii vigilias celebrantes psalmis et orationibus seu lectionibus inhaerebant. Cumque illor ad soporem naturae necessitas invitasset, expergefactis aliis ad eorum qui dormituri erant custodiam similiter excubiae tradebantur» (Conf. VII.23). 46 Raccontando un episodio della vita di Antonio Cassiano conclude che, grazie alla forza della fede dei cristiani, quegli spiriti oscuri «quibus illae tam saevae et tam potentes umbrae, quas aestimabant solem lunamque, si ad eas directae fuissent, obdu43


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 82

82

Maurizio Aliotta

preghiera47 e determinano una circolarità tra preghiera e virtù. La simplicitas di cui si parla non è innanzi tutto una categoria moralistica. La descrizione che se ne dà la fa accostare piuttosto all’apatheia come svuotamento di ogni preoccupazione transitoria e legata agli impulsi naturali che possono distrarre l’uomo dalle preoccupazioni essenziali. Da questo punto di vista sembrerebbe che qui si sostenga la necessità di abolire ogni desiderio per una preghiera autentica. Ma andiamo per gradi. Cassiano sviluppa la sua riflessione utilizzando la trama della parabola evangelica della casa costruita o sulla sabbia o sulla roccia, secondo la tradizione lucana (Lc 14, 28 e Lc 6, 48). Semplicità e umiltà sono i pilastri su cui costruire l’intero edificio della vita spirituale identificata con la preghiera: «Colui che si appoggerà su tali fondamenti, anche se cadranno scrosci di pioggia rovinosa, anche se irromperanno violenti rovesci di persecuzione alla maniera di colpi d’ariete, anche se si scatenerà la terribile tempesta degli spiriti nemici, non solo non lo colpirà alcuna rovina, ma quell’urto non riuscirà in alcun modo a smuoverlo dalla sua fermezza»48.

È nell’enumerazione delle regole che consentono di conseguire la preghiera “pura e semplice” che emerge il senso della simplicitas come ricerca dell’essenzialità e dell’unità nella vita del monaco: «Anzitutto dev’essere bandita nel modo più completo la sollecitudine provocata dalle tendenze carnali, in secondo luogo non si deve ammettere alcuna preoccupazione di qualche affare o di qualche altro stimolo, ma neppure, e del tutto, il loro ricordo. Nel modo stesso vanno eliminate le detrazioni, i vani colloqui o quelli prolungati, come pure le scurrilità. In modo completo dev’essere rimosso l’insorgere dell’ira e della tristezza, cere potuisse, hunc non solum nihil laedere, sed ne ad punctum quidem de monasterio suo valuerint proturbare» (Conf. VIII.18). 47 Cfr. Conf. IX.2-3, Cfr. pure Istit. II.2 dove anticipa, senza però svilupparla, l’affermazione della semplicità come condizione per la preghiera del monaco. 48 «Fundamentis etenim talibus innitentem, quamvis passionum imbres largissimi profundantur, quamvis ei persecutionum violenti torrentes instar arietis inlidantur, quamvis inruat et incumbat adversariorurm spirituum saeva tempestas, non solum ruina non diruet, sed nec ipsa aliquatenus vexabit inpulsio» (Conf. IX.2 [trad. it. 1, 352]).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 83

Desiderio e preghiera in Giovanni Cassiano

83

così come dev’essere estirpato il dannoso fomite della concupiscenza carnale e della brama del danaro»49.

Si descrive un processo di “purificazione” finalizzato a raggiungere la condizione necessaria per la preghiera continua che deve caratterizzare la vita del monaco. Estirpare i vizi e le passioni è necessario perché essi tendono a ritornare alla mente e quindi interferire pesantemente con la preghiera50. La preghiera continua comporta il combattimento della vita spirituale51: combattimento e vita di preghiera sono in definitiva identici. La preghiera è essenziale per vincere il vizio, ma altrettanto per acquisire le virtù, come la castità52, l’obbedienza53, l’umiltà54, la moderazione55, l’astinenza56. 49 «Primum sollicitudo rerum carnalium generaliter abscidenda est, deinde nullius negotii causaeue non solum cura, sed ne memoria quidem penitus admittenda, detractiones, vaniloquia seu multiloquia, scurrilitates quoque similiter amputandae, ire prae omnibus sive tristitiae perturbatio funditus eruenda, concupiscentiae carnalis ac filargyriae noxius fomes radicitus evellendus» (ibid. IX.3 [trad. it. 1, 352]). 50 «Ex praecedenti enim statu mens in supplicatione formatur, eorumdemque actuum procumbentibus nobis ad precem, verborum quoque vel sensuum ante oculos imago praeludens aut irasci nos secundum praecedentem qualitatem aut tristari aut concupiscentias causave praeteritas retractare aut risu fatuo, quod etiam pudet dicere, cuiusquam scurrilis dicti vel facti titillatione pulsari aut ad priores faciet volitare discursus» (ibid. IX.3). 51 Si tratta della praktike¯ di Evagrio. 52 Cfr. Istit. 6.1, 17; «Ut puritatem cordis non otio nec securitate, sed iugi sudore et contritione spiritus adquiramus castitatemque carnis districtis ieiuniis, fame, siti ac vigilantia etenemus, directionem etiam cordis lectione, vigiliis, oratione continua et solitudinis squalore capiamus» (Conf. IV.12); XII.4 ricorda che la castità non è frutto delle nostre capacità, della nostra fatica, ma dono della grazia di Dio, perciò occorre che «ac perinde pro perpetuitate eius [castimoniae puritatem] cum omni contritione et humilitate cordis indefessis est orationibus excubandum». 53 Cfr. Istit. V.40: storia di due giovani monaci che portarono dei fichi a un malato senza assaggiarli e che per la fame morirono nel deserto. 54 Conf. XI.9. 55 «Ideo namque frequens lectio et iugis adhibetur meditatio scripturarum, ut exinde nobis spiritalis memoriae prebeatur occasio […] idcirco vigiliarum ac jejuniorum orationumque sedulitas adhibentur, ut extenuata mens non terrena sapiat sed caelestia contempletur» (Conf. I.17). 56 Conf. II.22.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 84

84

Maurizio Aliotta

È questo il motivo per cui Cassiano, tramite le parole dell’abate Isacco, nella conferenza dedicata alla preghiera afferma che «in realtà prega assai poco chiunque è solito pregare solamente nel tempo in cui i suoi ginocchi sono piegati a terra. E non prega affatto chiunque, anche tenendo le ginocchia a terra, si lascia distrarre con le divagazioni del proprio cuore. Pertanto, quali noi vogliamo essere trovati nel momento della preghiera tali dobbiamo essere prima di disporci a pregare. È infatti necessario che, nel momento della preghiera, la mente si trovi nello stato in cui si trovava in precedenza: ne segue allora che essa, disponendosi a pregare, o si eleverà alle sublimità del cielo, oppure sarà trascinata alle cose della terra, vale a dire rimarrà in preda ai pensieri, in cui essa prima s’era trattenuta»57.

L’invito biblico a “pregare senza interruzione” o quello ad “essere perfetti”, richiedono un incessante impegno lungo tutta la vita. “Lavorare” nella propria cella — soprattutto durante la notte — è una concretizzazione di questo sforzo58. Questa prassi richiama la regola ascetica dei “monaci insonni” di Costantinopoli. Nella Vita di Sant’Alessandro l’Acemeta si legge che il monastero da questi fondato «era chiamato il monastero degli “acemeti” [Insonni] a causa della loro continua e diuturna dossologia»59. 3. PREGHIERA ED EMOZIONI Nell’insegnamento di Giovanni Cassiano l’emozione è parte integrante dell’esperienza della preghiera. Sebbene non lo tematizzi, in 57 «Perparum namque orat, quisquis illo tantum tempore quo genua flectuntur orare consuevit. Nunquam vero orat, quisquis etiam flexis genibus evagatione cordis qualicumque distrahitur. Et idcirco quales orantes volumus inveniri, tales nos esse oportet ante tempus orandi. Necesse est enim mentem in tempore supplicationis suae de statu enim mentem in tempore supplicationis de statu precedente formari illisque eam cogitationibus orantem vel ad caelestia sublimari vel ad terrena demergi, quibus ante oratione fuerit inmorata» (Conf. X.14 [trad. it. 1/415]). 58 L. DATTRINO, Lavoro e ascesi nelle “Insitutiones” di Giovanni Cassiano, in Spiritualità del lavoro nella catechesi dei Padri del III-IV, a cura di S. Felici, Roma 1986, 165-184. 59 «[monasth\rion] to\ e)pilego/menon tw=n a)koimh\twn dia\ th\n a)kata/pauston au)tw=n kai\ pa/nth a)/upnon docologia/n» (Vita di Alessandro 53 [PO 6: 700-1]).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 85

Desiderio e preghiera in Giovanni Cassiano

85

numerosi passaggi si sofferma con cura su emozioni profonde che arricchiscono la vita di preghiera del cristiano. Un esempio significativo lo fornisce la descrizione delle vicissitudini della preghiera di Cassiano e del suo amico Germano nella domanda posta ad Abba Daniele: «Talvolta, stando in cella, ci sentivamo presi da tanta ebbrezza di cuore e da esuberanza di sentimenti santi che nessuna parola saprebbe significare né alcuna idea esprimere. […] Ma ecco, d’altra parte, e senza l’intervento d’alcuna causa, sentirci sorpresi da tanta improvvisa angoscia e oppressi da certa quale irrazionale mestizia al punto da riconoscerci del tutto inariditi nei nostri sensi»60.

Anche nel contesto dell’istruzione sulla lotta ascetica, là dove si approva l’uso della preghiera per vincere alcuni vizi peculiari di ciascuno, la preghiera si presenta nella forma di «offrire a Dio le lagrime incessanti della nostra orazione»61. Nello stesso luogo, Serapione raccomanda attenzione, sospiri, gemiti, veglie, meditazioni e petizioni62. In modo simile Cheramone offre una descrizione affettiva della preghiera63. In definitiva, le emozioni possono essere un potenziale alleato nella vita spirituale. Non troviamo, certo, una tematizzazione del rapporto tra preghiera e desiderio come in Agostino64, ma in Cassiano è interessante il tentativo di equilibrio tra emozione e razionalità. Abba 60 «Cur interdum residentes in cellula tanta alacritate cordis cum ineffabili quodam gaudio et exuberantia sacratissimorum sensuum repleremur, ut eam non dicam sermo subsequi, sed ne ipse quidem sensus occurreret […] ac rursum nullis exsistentibus causis tanto subito repleremur angore et inrationabili quadam maestitia premeremur, ut non solum nosmet ipsos huiusmodi sensibus arescere sentiremus» (Conf. IV.2 [trad. it., 1/176]). 61 Conf. V.14.1. Qui si sostiene che queste preghiere sono necessarie in quanto «Inpossibile namque est de qualibet passione triumphum quempiam promereri, priusquam intellexerit industria vel labore proprio victoriam certaminis semet obtinere non posse, cum tamen, ut valeat emundari, necesse sit eum die noctuque in omni cura et sollecitudine permanere» (l.c.). 62 L.c. 63 Cfr. Conf. XII.12.6-7 64 Cfr. sopra n. 2.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 86

86

Maurizio Aliotta

Isacco in maniera significativa lega puras ac ferventissimas supplicationes ad una mente più pura e ad un cuore più fervente65. È un tema caro ad Isacco, a giudicare da come lo sottolinea. Nella Conferenza IX Isacco lega la sua sublime descrizione della ineffabile preghiera alla visione della luce divina66. Le forme della preghiera sono tante quanti sono gli stati d’animo di chi prega67. A proposito delle specie di preghiera emerge un quadro di forte intensità emotiva: «La quarta [specie di preghiera] è adatta per coloro i quali, dopo avere ormai repressa nel loro cuore la spina punitrice della loro coscienza, divenuti sicuri, si dedicano ormai con mente purissima alla considerazione della generosità del Signore e alle misericordie da Lui concesse nel passato e che Egli elargisce nel presente e prepara per il futuro, e così si sentono attratti con cuore ferventissimo a quella preghiera infuocata che dalle parole non può essere né compresa né espressa»68.

In queste parole, attribuite ad Abba Isacco, la dimensione emozionale della preghiera è unita a quella intellettuale: coloro che si dedicano con “mente purissima” all’agire di Dio (“la generosità e la misericordia del Signore”), giungono con “cuore ferventissimo” ad una “preghiera infuocata”. In questa preghiera dalle forti tinte emotive, vi svolge dunque un ruolo fondamentale l’intelletto. Per questo puras ac ferventissimas supplicationes sono unite a una “mente purissima” e a un “cuore ferventissimo”. Il tema è ripreso subito dopo nel breve commento al “Padre Nostro”, mettendo in relazione questa preghiera con l’illuminazione della “luce divina”: 65

Cfr. Conf. IX.15.1. Conf. IX.25; cfr. V.35. 67 «Tot enim sunt quot in una anima, immo in cunctis animabus status queunt qualitates que generari» (Conf. IX.8). 68 «quarta ad illos qui iam poenali conscientiae spina de cordibus vulsa securi iam munificentias domini ac miserationes, quas vel praeterito tribuit vel in praesenti largitur uel praeparat in futuro, mente purissima retractantes ad illam ignitam et quae ore hominum nec conprehendi nec exprimi potest orationem ferventissimo corde raptantur» (Conf. IX.15 [trad. it. 1/365-366]). Ritorna il tema del’ineffabilità di questa esperienza di preghiera con l’impossibilità di verbalizzarla. 66


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 87

Desiderio e preghiera in Giovanni Cassiano

87

«Questa orazione del Pater, sebbene sembri contenere ogni pienezza di perfezione, appunto perché suggerita e fissata dall’autorità del Signore, tuttavia essa induce coloro che abitualmente la recitano, ad adottare la forma di preghiera più elevata, già da noi in precedenza richiamata; essa li induce progressivamente ad una orazione ardente, nota a pochissimi e da pochissimi sperimentata, anzi, per meglio esprimermi, ineffabile; tale orazione, trascendendo ogni senso umano, non si esprime con il suono della voce, con il movimento della lingua, o con la pronuncia delle parole, essa è tale che la mente, illuminata dall’infusione della luce celeste non la esprime con voci umane e ristrette, ma al contrario, essa la effonde come da una fonte copiosissima e la invia fino a Dio copiosamente e ineffabilmente, e produce tanta effusione in quel solo movimento, quanta la mente, una volta ritornata in se stessa, non potrebbe esprimere facilmente a parole, né ripercorrere»69.

L’accento è posto sull’illuminazione della mente (mens infusione caelesti illius luminis inlustrata), così da non sottacere il ruolo dell’intelletto, sebbene esso sia subordinato a Dio, tuttavia i sensi non sono passivi, ma agiscono insieme alla mente (conglobatis sensibus)70. L’ineffabilità dell’esperienza di questa preghiera rinvia a Rom 8,26 e altre descrizioni della preghiera confermano l’idea di Isacco che sia lo Spirito a muovere la preghiera dei cristiani71, in un modo che essi stessi non sanno comprendere. Si descrive un processo attraverso cui la persona si rivolge a Dio con l’aiuto di Dio stesso. Il Dio imperscrutabile 69

«Haec igitur oratio licet omnem videatur perfectionis plenitudinem continere, utpote quae ipsius domini auctoritate vel initiata sit uel statuta, provehit tamen domesticos suos ad illum praecelsiorem quem superius commemoravimus statum eosque ad illam igneam ac perpaucis cognitam uel expertam, immo ut proprius dixerim ineffabilem orationem gradu eminentiore perducit, quae omnem transcendens humanum sensum nullo non dicam sono uocis nec linguae motu nec ulla uerborum pronuntiatione distinguitur» (Conf. IX.25 [trad. it. 1/366-377]). Un esempio di questa preghiera “più sublime” è visto da Isacco nella stessa preghiera di Gesù sul monte (Lc 5, 16) e durante la sua agonia (Lc 22,44). 70 L’uso del verbo conglobo è inusuale, ma indica chiaramente un raccogliere insieme (cfr. A.M.C. CASIDAY, Tradition and Theology in St John Cassian, 204). L’espressione è usata da Plinio nella sua Storia naturale 10.84: homo [gestatur] in semet conglobatus inter duo genua naribus sitis. 71 Cfr. Conf. IX,15.2; X.10.12.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 88

88

Maurizio Aliotta

è paradossalmente all’opera nella preghiera. Si capisce allora perché Isacco può dire che la mens in semet ipsam reversa non è in grado di descrivere in maniera soddisfacente l’esperienza della preghiera. Considerando la preghiera il telos dell’intera vita del monaco non si vuole però affermare un volontarismo assoluto, quasi che la preghiera come le opere buone possano esser conseguite con la sola volontà dell’uomo. Contro questo pericolo il beato Daniele mette in guardia Giovanni e Germano: «Sotto questo riguardo viene dimostrato con ogni evidenza che sono sempre la grazia di Dio e la sua misericordia a operare in noi ciò che è buono; quando queste vengono a mancare, a nulla vale l’impegno di chi vi si adopera. Per quanto grande sia il fervore dell’interessato, senza un nuovo aiuto del Signore non sarà possibile ricuperare il precedente stato dell’anima e conservarlo in noi inalterato»72.

La tranquillitas mentis, condizione indispensabile per una preghiera autentica, si deve associare all’umiltà, al riconoscimento cioè dell’insufficienza della propria volontà. In questo possiamo scorgere la differenza sostanziale tra questa tranquillitas e l’apatheia dei filosofi, siano essi stoici o platonici sia epicurei73. L’humilitas (o simplicitas) e la tranquillitas fanno sì che il monaco raggiunga quella condizione di vita che l’Abate Isacco, proprio a conclusione della seconda delle due conferenze dedicate alla preghiera, chiama orationis status74, una disposizione abituale del cuore, uno stato di vita (la kata/stasij dei Padri greci). 72 «Per quae evidenter probatur gratiam dei ac misericordiam semper operari in nobis ea quae bona sunt: qua deserente nihil valere studium laborantis et quantamlibet adnitentis industriam sine ipsius iterum adiutorio statum pristinum recuperare non posse illudque in nobis iugiter adinpleri» (Conf. IV.5 [trad. it. 1/178]). 73 Potrebbe stupire l’accostamento agli epicurei ma al di dà degli stereotipi che li accompagnano anch’essi propugnavano una tranquillitas mentis. Essi sostenevano che il piacere, che costituisce il fine della vita umana, può esser identificato con l’assenza di sofferenza dal corpo e di ansia dalla mente (cfr. DIOGENE DI ENOANDA, fr. 33-51). La tranquillità epicurea, sebbene sia facilmente difendibile dall’accusa di volgare edonismo fatta dai suoi avversari, tuttavia appare come uno stato di rilassamento, una calma passiva, in contrasto alla vigilanza attiva con cui costruire la tranquillitas dell’ideale stoico e platonico (cfr. M. TRAPP, Philosophy in the Roman Empire. Ethics, Politics and Society, Hampshire 2007, 39-41). 74 Cfr. la già citata Conf. X.14.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 89

Desiderio e preghiera in Giovanni Cassiano

89

Nelle esperienze di preghiera che le Conferenze descrivono non vi è, dunque, contrapposizione tra intelletto ed emozione. La retta dottrina — frutto dello studio e della retta conoscenza — è necessaria per una preghiera che non sia preda delle fantasie e delle errate concezioni di Dio. I monaci possono diventare vittime dell’ignoranza e della semplicità, come accadde all’abate Serapione, «uomo consumatosi da anni nell’austerità e nella continua disciplina la più completa»75, la cui ignoranza però lo aveva indotto a cadere nell’eresia antropomorfita. Accadde così che quando egli fu istruito nella retta dottrina non riusciva più a pregare, tanto era abituato a pensare Dio in forma umana che durante la preghiera di ringraziamento a Dio per averlo ricondotto alla retta dottrina, il povero vecchio Serapione «si ritrovò talmente confuso di mente» (mente confusus) da prorompere «in singulti assai forti fino ad esclamare: “Misero me! Hanno tolto via da me il mio Dio, e così non so più a chi rivolgermi e non so più chi adorare e chi chiamare in mio aiuto”»76.

Resta da considerare come comprendere il processo di purificazione della mente, il suo uscire da sé o il suo rientrare in se stessa lasciando fuori di sé tutte le ansie e le preoccupazioni del mondo circostante per essere “continuamente” intenta nella preghiera. È stato notato un problema grammaticale, a cui ne soggiace uno teologico. L’accento posto sull’illuminazione della mente, nel discorso dell’Abate Isacco, pone la domanda sul senso da dare all’excessus mentis. Se si considera come genitivo soggettivo l’espressione non crea problema perché è coerente con l’uscita dalle preoccupazioni di questo mondo. Se si considera come genitivo oggettivo sorge qualche difficoltà perché si potrebbe accostare l’insegnamento di Cassiano alla preghiera estatica dei messaliani77. A questo proposito, Stewart nota che in questo 75

Conf. X.3 [trad. it. 1/393-394]. «ut in amarissimos fletus crebrosque singultus repente prorumpens in terramque prostrates cum heiulatu validissimo proclamaret: heu me miserum! Tulerunt a me deum meum, et quem nunc teneam non habeo vel quem adorem aut interpellem iam nescio» (Conf. X.3 [trad. it. 1/394.395]). 77 Cfr. C. STEWART, Working the Earth of the Heart: The Messalian Controversy in History, Texts, and Language to AD 431, Oxford 1991. 76


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 90

90

Maurizio Aliotta

Cassiano si discosta da Evagrio nella misura in cui adotta il linguaggio delle emozioni per descrivere l’esperienza della preghiera, diversamente dal linguaggio intellettuale di Evagrio78. I diversi testi in cui ricorre l’espressione mostrano in realtà come Cassiano mantenga legate le due dimensioni, intellettuale e emozionale. Si accentua talvolta un aspetto talvolta l’altro, ma senza mai affermare uno per negare l’altro. Si veda per es. quanto dice Pafnuzio, quando parla delle motivazioni che spingono alla scelta della rinuncia radicale al “mondo”: «Noi quindi meriteremo di conseguire la vera perfezione di questa terza rinuncia [“distrarre la mente da tutte le cose presenti e visibili per fissarla unicamente nella contemplazione delle realtà future e nel desiderio dei beni invisibili”] quando la nostra mente, infiacchita dal peso dell’azione carnale, ma purificata con abilissime eliminazioni da ogni affezione e inclinazione terrena attraverso la meditazione incessante delle realtà divine e le dottrine spirituali, potrà giungere alla visione (theorias) delle cose invisibili, e vi arriverà in modo tale che non avvertirà più d’essere avviluppata nella fragilità della carne e dalla presenza del corpo, tutta intenta come sarà alle realtà celesti e immateriali, e così essa sarà rapita come fuori di sé (rapiatur excessus) al punto che non soltanto non avvertirà più col suo udito alcuna voce sensibile né sarà attratta dalla visione delle cose che passano, né vorrà più posare lo sguardo, con i suoi occhi di carne, verso le cose effimere che la circondano e neppure sul cumulo di tutta la materia che le si offre»79.

Nel caso dell’Abate Giovanni (“eravamo rapiti con molta frequenza verso celesti trasporti”)80 si può notare che ci si libera dalle preoccupazioni terrene con l’intento della contemplazione: non è però del tutto 78

C. STEWART, Cassian the Monk, New York 1998, 108. «Huius ergo renuntiationis tertiae veram perfectionem tunc merebimur obtinere, quando mens nostra nullo carneae pringuedinis hebetata contagio, sed peritissimis elimationibus expolita ab omni affectu et qualitate terrena per indesinentem divinarum rerum meditationem spiritalesque theorias ad illa quae invisibilia sunt eo usque transierit, ut circumdatam se fragilitate carnis ac situ corporis supernis et incorporeis intenta non sentiat atque in huiusmodi rapiatur excessus, ut non solum nullas uoces auditu recipiat corporali nec in intuendis praetereuntium imaginibus occupetur, sed ne adiacentes quidem moles et ingentes materias obiectas oculis carnis aspiciat» (Conf. III.7 [trad. it. 1/149]). 80 Conf. XIX.5 [trad. it. 2/266]. 79


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 91

Desiderio e preghiera in Giovanni Cassiano

91

chiaro cosa significhi che qualcuno è trasportato oltre i limiti dei sensi e delle capacità espressive dell’uomo, ma è contemporaneamente impegnato nella complessa attività cognitiva della contemplazione81. L’Abate Isacco parla non solo di rapimento ma anche di una preghiera fervente e infuocata82. Cosa si supera con l’excessus mentis? Più volte Cassiano riferisce della stabilitas cordis, mentis83: cosa dunque si “supera”? Come concilia la “stabilità dei pensieri” con il “trasporto dello Spirito”? Per rispondere a queste domande occorre considerare il ruolo assegnato allo spirito Santo nella preghiera cristiana. Nella Conferenza VI si riporta l’insegnamento dell’Abate Teodoro, che sostiene l’importanza di estirpare i vizi mediante la pratica ascetica, la contemplazione delle realtà spirituali, il rifiuto delle distrazioni mondane e fervide preghiere a Dio84. Si riprende il pensiero di Evagrio Pontico, distaccandosene però nel linguaggio e per l’accento posto sul “desiderio ardente” e “l’ardore spirituale” che deve caratterizzare la preghiera del monaco. Lo stesso vediamo con l’insegnamento di Abba Isacco, con una importante differenza. Isacco è più fedele alla tradizione evagriana. Mentre si dilunga sulle virtù recitando il Sal 69(70), 1 descrive la «direzione della mia anima, la stabilità dei miei pensieri, la snellezza del mio cuore unitamente a una gioia ineffabile e al trasporto del mio spirito e tutto questo come frutto della visita dello Spirito Santo» e riferisce di una «esuberanza dei pensieri spirituali» e di «una illuminazione pressoché repentina del Signore» e di una «sovrabbondanza della rivelazione di concezioni in precedenza per me del tutto occulte»85. Il passaggio chiave del discorso di Isacco è il cenno alla «visita dello 81

A.M.C. CASIDAY, Tradition and Theology in St John Cassian, 206. Conf. IX.15. 83 Cfr. per esempio Conf. X.15. 84 Cfr. Conf. VI.10. 85 «Directionem rursus animae, stabilitatem cogitationum, alacritem cordis cum ineffabili gaudio et mentis excessu visitatione sancti spiritus me sentio consecutum, exuberantia quoque spiritalium sensuum redundare revelationem sacratissimorum intellectuum et antea mihi penitus occultorum repentina domini inlustratione percepi» (Conf. X.10 [trad. it. 1/408]). 82


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 92

92

Maurizio Aliotta

Spirito Santo», il cui intervento era già stato evocato nella Conferenza IX dallo stesso Isacco quando afferma che l’intervento dello Spirito Santo volge a Dio le nostre preghiere a nostra insaputa «con ineffabile profusione di suppliche così ardenti, quante in altro tempo la mente non saprebbe ripetere, non dico a parole, ma nemmeno nel ricordo»86.

L’intercessione dello Spirito e i “gemiti indicibili” ricorrono spesso in Isacco. Nel suo discorso sono due elementi costitutivi della preghiera pura87. Anche quando spiega come la mente si rivolga nella preghiera a Dio in termini di excessus cordis, Isacco introduce gemitibus inenarrabilibus atque suspiriis88. Questo insegnamento non è esclusivo di Isacco89; in modo simile Abba Cheremone rivolgendosi a Cassiano e Germano, li istruisce dicendo che lo Spirito Santo ispira le rivelazioni che portano alla gioia che è stata descritta90. Cheremone considera la preghiera non solo come necessaria per proteggere il progresso spirituale, ma anche come dono di Dio. Pure Abba Daniele, nella sua conferenza su “carne e spirito” parla della preghiera come “trasporto spirituale” e lotta contro i limiti della “carne”91. A questo punto della discussione Isacco identifica la condizione necessaria per una preghiera continua in spiritalem atque angelicam similitudinem92. In Evagrio la somiglianza del cristiano con gli angeli è evidente innanzitutto e soprattutto quando prega Dio, particolarmente in aiuto di altri93. Il monaco può dirsi simile agli angeli per due motivi: per la funzione di mediazione che svolge quando prega, per essere 86

«Quas ipse spiritus interpellans gemitibus inenarrabilibus ignorantibus nobis emittit ad deum, tanta scilicet in illius horae momento concipiens et ineffabiliter in supplicatione profundens, quanta non dicam ore percurrere, sed ne ipsa quidem mente valeat alio tempore recordari» (Conf. IX.15 [trad. it. 1/366]). 87 Cfr. pure Conf. IX.26. 88 Conf. X.11. 89 Cfr. Istit. II.10.1. 90 Cfr. Conf. XII.12 dove si cita 1Cor 2,10. 91 Cfr. Conf. IV.5: solo qui si usa l’espressine excessus spiritus. 92 Conf. IX.6. 93 Per i testi di Evagrio cfr. CASIDAY, p. 211 n. 286.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 93

Desiderio e preghiera in Giovanni Cassiano

93

“spirituale” quando lo Spirito Santo agisce nella sua preghiera94. Isacco concorda che universas orationum species absque ingenti cordis atque animae puritate et inluminatione sancti spiritus arbitror comprehendi non posse95. In altri termini, la preghiera è dono dello Spirito, che si riceve nella misura in cui il monaco si apre ad esso attraverso la rinuncia, correttamente intesa come svuotamento di sé. In questo senso dai testi emerge l’ambivalenza dell’excessus: quello causato dallo Spirito Santo è buono e porta alla salvezza; quello causato dalla libera volontà ed è espressione della pretesa autonomia spirituale, che si rivela inutile. In conclusione il contesto del misticismo di Cassiano si presenta come un’esistenza che sostiene i desideri del corpo. Non essere indulgenti con questi bisogni non significa negarli, ma orientarli verso ciò che non è precario. La meta del monaco è l’intima unione con Dio, attraverso la preghiera, trascendendo i bisogni del corpo che lo legano al mondo. Tutto deve essere orientato all’unico grande desiderio dell’unione con Dio.

94 Cfr. A. KEMMER, Charisma maximum. Untersuchung zu Cassians Vollkommenheitslehre und seiner Stellung zum Messalianismus, Louvain 1938, 34-38. 95 Conf. IX.8; Nelle Istituzioni la preghiera è chiamata “sacrificio spirituale” (II.9.3, 17; VIII.13).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 94


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 95

PREGHIERA E CONCILI GALLICI TRA V E VI SECOLO

ROSSANA BARCELLONA*

L’indagine sulle disposizioni conciliari in merito alla preghiera liturgica, emesse in territorio gallico nel corso dei secoli V e VI, nella quale mi sono inoltrata sullo stimolo del tema di quest’incontro, costituisce uno dei tasselli del mosaico che, da un po’ di tempo ormai, cerco di comporre. Si tratta del tentativo di costruire una rappresentazione della Gallia tardoantica attraverso una sorta di lettura storico/sociale della documentazione canonistica. Cioè attraverso il riflesso nelle norme di quella realtà che gli stessi vescovi, mentre legiferano durante le loro periodiche riunioni, elaborano e suggeriscono, guidando la nostra attenzione verso le direttrici dei temi emergenti come priorità, ma anche lungo le traiettorie di quelli apparentemente marginali. Nel passaggio di secoli, dal V al VI, l’orbita gravitazionale della Gallia si va allontanando dal grande e ormai usurato sistema imperiale, per spostarsi e stabilizzarsi lentamente ma progressivamente dentro nuovi, e diversamente circoscritti, assetti politici, dentro nuovi e ancora fluttuanti confini: quelli disegnati dal sorgere dei vari regni romano-barbarici. In questo laborioso processo, di trasformazioni conflitti e fratture, le strutture ecclesiastiche costituiscono un elemento di continuità e solidità, riconosciuto come tale anche dai nuovi poteri. I vescovi, ritrovandosi sempre più spesso alla direzione delle comunità urbane, in competizione e poi in collaborazione con i referenti politici *

Docente di Cristianesimo e culture del Mediterraneo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 96

96

Rossana Barcellona

e militari, operano per rendere più forte e unitario il tessuto connettivo dell’apparato che rappresentano. Di tale operato i concili e le rispettive norme offrono una testimonianza ricca e varia, che se evidenzia massimamente la cura verso la definizione del clero, con la costruzione di impalcature sempre più rigide e strutturate (stabilitas territoriale, alto clero celibatario, esclusione delle donne dal sacerdozio), mostra anche un’assidua attività di ‘impegno pubblico’ che si sostanzia in forme plurali di gestione e controllo del sociale, del mondo dei laici. Da questo punto di vista l’organizzazione e la regolamentazione di culti, riti e pratiche liturgiche in genere, benché si attestino su posizioni di minore spicco a confronto con altre questioni, rappresentano un momento significativo nel quadro degli interessi dell’episcopato gallico e dei suoi obiettivi. Fanno parte a pieno titolo di quel processo di integrazione sociale in senso, e di segno, cristiano agito dalle gerarchie ecclesiastiche, che nel corso dei secoli alla dimensione liturgica della preghiera hanno sempre assegnato un ruolo e una dignità speciali, incrementati progressivamente fino alla recente definizione della liturgia quale «fonte e culmine della vita cristiana», dettata dal Vaticano II. La preghiera nella sua forma di rito collettivo, codificato e obbligante, affianca la preghiera privata, intesa come libera effusione di sentimenti individuali, a partire dalle origini della storia del cristianesimo. Queste due diverse interpretazioni/espressioni della preghiera sono già rintracciabili nell’insegnamento evangelico, per essere poi variamente declinate, quanto a contenuti e intenti, nel tempo e nelle relative realtà geografiche. Sono entrambe vie percorse dalla tradizione cristiana come pratiche ufficialmente riconosciute per accedere alla comunicazione con la realtà divina. Tuttavia tra le diverse forme di preghiera, sperimentate e accolte dal cristianesimo, si possono riconoscere le stesse tensioni anche in altri ambiti attivate dalle altalenanti oscillazioni tra opposti quali controllo/libertà, pubblico/privato, esteriorità/interiorità, che si compongono ora in conflitto ora in intreccio dialettico, negli sviluppi teorici come nella realtà vissuta. Se la preghiera personale sgorgante in modo spontaneo de pectore, perciò affrancata da formule stereotipate, fissate e prestabilite, è rivendicata


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 97

Preghiera e concili gallici tra V e VI secolo

97

già da Tertulliano, nella famosa pagina dell’Apologeticum, come precipuo e nobilitante distintivo della religione cristiana versus quella pagana, poco più tardi lo stesso autore, nel trattato De oratione, non manca di fornire una precisa serie di regole perentorie, — altrettante condizioni qualificanti la preghiera come adeguata e beneaccetta a Dio —, che non lasciano reali spazi di libertà al fedele1. La preghiera come fatto privato e individuale, come colloquio intimo con il divino, traduce la religiosità del singolo, si colora di volta in volta di aneliti mistici, e/o istanze dottrinali, spesso è avvertita e presentata come più profonda e autentica e, come tale, viene periodicamente rilanciata e rivalorizzata a fronte dei più esteriori cerimoniali liturgici, ma la sua valutazione e il suo valore restano intrinsecamente connessi alla personalità e alla spiritualità dell’orante e viepiù a queste subordinati. Per tale ragione le gerarchie ecclesiastiche, innestandosi in modo sempre più stretto e radicato nelle strutture sociali, hanno precocemente individuato nella preghiera liturgica, oltre che un campo di competizione e sfida con riti espressi e praticati da religioni ‘altre’ — dove la dimensione cultuale rivestiva massima centralità — anche, e in certi momenti soprattutto, un importante strumento di visibilità e di controllo. La liturgia, servizio in favore del popolo già nel greco precristiano — secondo l’accezione etimologica —, in epoca ellenistica, presso le religioni cosiddette dei misteri, traduce il servizio che si deve offrire agli dei da persone incaricate allo scopo. Questo nucleo semantico, pur con slittamenti e arricchimenti, si conserva nel tempo e nel transito tra diversi sistemi religiosi di riferimento. Nella Bibbia dei Settanta si configura precipuamente come ufficio pubblico reso da sacerdoti/ leviti, e in senso cultuale-sacerdotale si ritrova, sebbene con un’incidenza relativamente ridotta, anche nel NT. Progressivamente nello sviluppo della nuova religione, liturgia vale a indicare il complesso di cerimonie pubbliche, sostanziate di azione e parola, compiute da chi è insignito di ordini sacri, in funzione di un gruppo. E proprio il

1

Con il richiamo a Tertulliano si apre la densa introduzione al volume S. PRICOCO – M. SIMONETTI (curr.) La preghiera dei cristiani, Milano 2000.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 98

98

Rossana Barcellona

gruppo, più dell’individuo singolo e anche più del ministro, appare condizione essenziale perché di ‘liturgie’ si possa parlare2. Le pratiche liturgiche occupano e costituiscono, dunque, per essenza uno spazio comune, legittimo e privilegiato, di incontro e confronto tra clero e comunità laica. Il primo ne è il ministro, la seconda utente, ma l’uno e l’altra ne sono ugualmente parte, devono in esse riconoscersi e identificarsi. Queste pratiche implicano una scansione ritmica temporale, un sistema di regole e disciplina, un forte impatto esterno visivo, nutrito di un congruo apparato gestuale e simbolico, luoghi adeguati e partecipazione di platee attive e preparate. In altri termini, implicano la costruzione di un codice liturgico, di formulari consolidati conosciuti e riconosciuti, insieme alla condivisione, a vasto spettro, delle coordinate umane per eccellenza, di tempo e di spazio, benché in una prospettiva teologica che ne annuncia e promette il superamento. Non a caso, nello stesso periodo bicentenario, fra V e VI secolo, mentre si consolidano l’organizzazione metropolitana e il ruolo dell’episcopato, in Gallia si registrano la nascita e lo sviluppo di usi liturgici particolari, abitualmente identificati con la denominazione di gallicani. Il primo a segnalare intrusioni liturgiche e usi difformi da Roma anche in Gallia è Innocenzo I, nella famosa decretale a Decenzio di Gubbio del 4163. Sono questi i secoli durante i quali si disegna con maggiore 2

Utili per una prospettiva generale le pagine di E. CASPANI, s.v. Liturgia, in Enciclopedia Italiana Treccani, 21, Roma 1949, 305-311; e di J. LECLERCQ, s.v. Liturgia, in Enciclopedia del Novecento Treccani, 3, Roma 1978, 1034-1045. 3 L’epistola è segnalata in tutti gli studi che si sono occupati del tema, a partire dai meno recenti: H. LECLERCQ, Gallicane (Liturgie), in Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, VI 1, Paris 1924, coll. 473-593: 475; F. CABROL, Les origines de la liturgie gallicane, in Revue d’histoire ecclésiastique 30 (1930) 949-962: 958; M. RIGHETTI, Manuale di Storia liturgica, I, Milano 19653 (1945), 147; E. GRIFFE, Aux origines de la liturgie gallicane, in Bulletin de littérature ecclésiastique 52 (1951) 17-43: 36. Innocenzo rivendica alla sede romana e al nome di Pietro l’evangelizzazione dell’Occidente come argomento fondamentale per richiamare, con il vigore dell’autorevolezza, all’uniformità di riti e preghiere la chiesa di Decenzio in primo luogo, ma in modo esplicito anche tutta l’Italia, le Gallie, le regioni spagnole, l’Africa e la Sicilia con le isole minori. Cfr. il testo in T. SARDELLA – C. DELL’OSSO, I canoni dei concili della chiesa antica, II. I concili latini, 1. Decretali, concili romani e canoni di Serdica, a cura di A. Di Berardino, Roma 2008, 143-155. Un certo spazio occupa il commento a


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 99

Preghiera e concili gallici tra V e VI secolo

99

evidenza la loro abbastanza circoscritta parabola4. Già verso la fine del VII secolo, quando diventano più abbondanti le testimonianze in merito, gli elementi più propriamente gallicani appaiono sostanzialmente ibridati da contaminazioni e prestiti derivati dalla liturgia romana. Il processo di erosione già avviato, si incrementa poi nel secolo successivo con l’avvento di Pipino il Breve, cui si deve l’inaugurazione di una ufficiale politica di romanizzazione, notoriamente proseguita dal figlio Carlo5. Tuttavia, non ci si propone in questa sede di affrontare il tema delle origini e dell’evoluzione della liturgia cosiddetta gallicana, tema spinoso e controverso, reso arduo soprattutto dal carattere frammentario e incerto delle fonti, come è stato rilevato da quanti se ne sono occupati in modo approfondito e circostanziato. Né si intende entrare nel merito dei suoi contenuti e delle sue specificità, per fornire un panorama di riferimento6, se non nel quadro di più larghe consideraquesta lettera all’interno della voce Innocenzo I, dell’Enciclopedia dei papi Treccani, I, Roma, 2000, 385-392, a firma di A. Pollastri. Più specificamente in tema di liturgia, cfr. B. CAPELLE, Innocent I et le canon de la messe, in Recherches de Théologie Ancienne et Médiévale 19 (1952) 5-16. 4 H. LECLERCQ, Gallicane (Liturgie), cit., a proposito della liturgia gallicana così sintetizzava, introducendo la lunga trattazione: «Si sa durée fut brève, sa destinée fut brillante et son souvenir demeure cher à quelques-uns; cependant son histoire reste obscure...» (col. 473). 5 Cfr. C. VOGEL, Les échanges liturgiques entre Rome et les pays Francs jusqu’à l’époque de Charlemagne, in Le Chiese nei regni dell’Europa occidentale e i loro rapporti con Roma fino all’800, CISAM VII, Spoleto 1960, 183-295 (part. 198-204). La rinascita dell’impero romano d’Occidente — secondo alcuni prima sintesi originale del Medioevo — avvenuta con Carlo Magno, fu anche l’esito dell’operato ecclesiastico durante i secoli VI e VII. La Chiesa assumendo molti compiti di supplenza nei confronti dello Stato, aveva da tempo cominciato una paziente attività di recupero e generale salvataggio culturale in senso lato, di una serie di elementi di matrice romano-latina nei quali si riconosceva e riconosceva le proprie più precipue radici. 6 Cfr. da ultimo, per un quadro d’insieme, M. MENDEZ, La messe de l’ancien rite des Gaules origine et restauration, Paris 2008. Su alcuni elementi della liturgia gallicana nello specifico ricordiamo gli studi recenti di M. SMYTH, La liturgie oubliée: la prière eucharistique en Gaule antique et dans l’Occident non romain, Paris 2003; ID., ‘Ante altaria’: les rites antiques de la messe dominicale en Gaule, en Espagne et en Italie du Nord, Paris 2007; ID., Priére eucharistique et christologie: le témoinage des liturgies gallicanes et hispaniques, in Revue des sciences religieuses 83 (2009) 219-238.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 100

100

Rossana Barcellona

zioni sulle categorie di ‘omogeneità’ e ‘diversità’, sempre dialetticamente concorrenti nei processi di definizione dell’identità. Quest’indagine sulle pratiche liturgiche include la preghiera nella sua dimensione più ampia, non necessariamente come elemento della liturgia ‘gallicana’ — sistema che si presenta, inoltre, poco unitario e coerente7 —. E si muove nell’ottica delle politiche ecclesiastiche, per cercare di valutarne i tentativi di imporre e diffondere l’omologazione rituale e cultuale, come strumento consolidante e identificante le comunità del contesto considerato. La preghiera liturgica nel suo farsi fenomeno storico, non come espressione e riflesso della teologia e a prescindere dalle sue implicazioni ecclesiologiche, assume così una precisa fisionomia dentro il quadro dei rapporti fra chiesa e società8. Si terrà conto per questo principalmente della dimensione giuridica, per così dire formalizzante e vincolante, della preghiera, esaminando come punto di vista privilegiato la normativa in merito espressa nei canoni dei concili di V e VI secolo. L’attenzione si focalizzerà sui momenti e sui luoghi dai quali si cerca di irradiarne e radicarne l’applicazione, in funzione distintiva/competitiva oppure assimilativa/ emulativa rispetto alla sede romana, ma anche nei confronti delle sedi galliche ‘altre’ da quelle dove si ‘legifera’ in proposito. Gli studi che hanno affrontato il tema della liturgia gallicana citano spesso i concili di questi secoli, come documentazione integrativa, che arricchisce il quadro e fornisce elementi di riflessione e punti fermi in uno scenario abbastanza mosso e frammentato. Non sembrano però prendere in considerazione i canoni nella loro specificità di documentazione normativa, strumento ‘da leggere’ nel suo preciso contesto storico geografico e ‘di lettura’ dello stesso. Poiché essi, come si diceva, oltre che alla struttura ecclesiastica, si rivolgono 7

Cfr. la voce: J. PINELL, Gallicana (liturgia), in A. DI BERARDINO (cur.), Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, II, Genova 20082 (edizione aggiornata e aumentata), coll. 2045-2050. Si tratta perlopiù di culti e riti specifici ma consistenti in un complesso di attività locali distinte, destinate a non trovare una vera e propria coordinazione a livello regionale. 8 Sebbene in relazione a un quadro storico di riferimento molto distante e diverso, troviamo utili considerazioni, in merito e di metodo, a proposito del nesso tra liturgia e società, in M. PAIANO, Liturgia e società nel Novecento. Percorsi del movimento liturgico di fronte ai processi di secolarizzazione, Roma 2000.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 101

Preghiera e concili gallici tra V e VI secolo

101

all’intera comunità — sia sul piano precipuo della religione che per quanto riguarda gli aspetti legati alle dinamiche sociali — costituiscono un interessante punto di osservazione. Ripercorrendo le varie tappe sul tema e allargando lo sguardo alla questione preghiera più in generale è, in effetti, possibile costruire una griglia di riferimento e provare a intuire quale progetto/politica il clero stia mettendo in atto attraverso i suoi provvedimenti. 1. CASTITÀ E PREGHIERA Fra le molte accezioni del termine e del relativo concetto di preghiera la prospettiva scelta offre una gamma di discreta entità, sulla quale campeggia — per le ragioni evidenziate — la preghiera intesa come liturgia, momento comunitario e in funzione della comunità, rito o culto organizzato secondo sequenze di atti e parole, elementi simbolici, momenti corali. La documentazione canonica sull’argomento si configura come esigenza ecclesiastica di disciplinare la preghiera pubblicamente condivisa, ma anche come espressione della disciplina ecclesiastica sottoforma di liturgia9. L’interazione intrinseca e necessaria fra clerici, in quanto ministri del sacro, e laici, in quanto di esso fruitori, che la liturgia comporta, funziona se si scongiura il rischio di confusione, se si svolge all’insegna della rigorosa distinzione di ruoli e competenze, che ne costituisce a sua volta il fondamento. Distinzione sociale che fa gioco anche alla crescita di prestigio e ascendente religioso di un clero che si prepara progressivamente a costituirsi e imporsi come classe dirigente, funzione spesso già svolta di fatto. Troviamo le prime disposizioni di ambiente gallico, chiaramente orientate in questo senso, nel canone di apertura del concilio riunitosi a Tours nel 461. E poi ripetute, qualche decennio più tardi, in occasione del concilio a carattere ‘nazionale’ tenutosi nel 506, presso la cittadina meridionale di Agde10. Esse insistono sulla incompatibilità tra attività 9 Significativamente proprio all’inizio della lunga trattazione, che vi dedica, Leclercq affermava «le culte toujours été affaire de discipline»; cfr. H. LECLERCQ, Gallicane (Liturgie), cit., coll. 473-593; 477. 10 Sulla città di Agde e su questo concilio, cfr. Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastique, I, 925-930; P. PALAZZINI (cur.), Dizionario dei concili, I, 7; e


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 102

102

Rossana Barcellona

sessuali e riti religiosi e, dunque, sul requisito della castità costante del clero con mansioni sacerdotali, come condizione distintiva e qualificante rispetto al popolo dei fedeli laici. Un’argomentazione in favore del celibato ecclesiastico che deve avere avuto un peso importante nella storia della sua istituzionalizzazione11. La purezza del corpo insieme alla purezza del cuore è presentata come obbligo per vescovi e ministri della chiesa (sacerdotes vel ministri ecclesiae), che vogliano meritare l’attenzione divina mentre elevano preghiere a suffragio del popolo (pro plebe supplicaturi preces suas ad divinum auditum) o servire al divino altare (sacerdotes Dei ac levitae divino mancipati altario; sacrificium offerre aut baptizare)12. Gli stessi concetti sono ripetuti ad Agde, dove si esplicita la conformità con le disposizioni la voce CH. MUNIER, Agde, in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, I, Genova 20062 (edizione aggiornata e aumentata), 125-127. 11 Cfr. T. SARDELLA, Eros rifiutato ed eros proibito. Ascesi dei monaci e celibato dei clerici, in S. PRICOCO (cur.), L’eros difficile. Amore e sessualità nell’antico cristianesimo, Soveria Mannelli (CZ) 1998, 197-238. 12 Tours 461, can. 1, CChL 148, 143-144: Primo ergo in loco sacerdotes vel ministri ecclesiae, de quibus dictum est: ‘Vos estis lux mundi’, ita in omni sancta conversatione a Dei timore actus suos dirigant, ut et divinae possint placere clementiae et bonum fidelibus praebeant exemplum, quia sicut: Vae eis ‘per quos nomen Dei blasphematur’, ita illi immortalitatis gloriam consequentur, per quorum actus nomen Dei benedicitur. Si enim universis fidelibus, secundum apostolicam doctrinam, castitas custodienda indicitur, ‘ut qui habent uxores ita sint quasi non habentes’, quanto magis sacerdotes Dei ac levitae divino mancipati altario, custodire debent ut non solum cordis verum etiam corporis puritatem servantes, pro plebe supplicaturi preces suas ad divinum introire mereantur auditum; quia secundum auctoritatem Apostoli: ‘qui in carne sunt, Deo placere non possunt; vos autem non estis in carne sed in spiritu’; et iterum: ‘omnia munda mundis, coinquinatis autem et infidelibus nihil est mundum, sed polluta est eorum et mens et conscientia’. Cum ergo laico abstinentia imperetur ut possit orationi vacans et Deum deprecans audiri, quanto magis sacerdotes vel levitae, qui omni momento parati Deo esse debent, in omni munditia et puritate securi, ne aut sacrificium offerre aut baptizare, si id temporis necessitas poposcerit, cogantur. Qui si contaminati fuerint carnali concupiscentia, qua mente excusabunt, quo pudore usurpabunt, qua conscientia, quo merito exaudiri se credent? Cfr. ora testo e traduzione in R. BARCELLONA – M. SPINELLI, I canoni dei concili della chiesa antica, II. I concili latini, 2. I concili gallici, 1, a cura di A. Di Berardino, Roma 2010, 198-199. Si tratta del primo di due volumi dedicati alle assemblee episcopali della Gallia — all’interno del piano di pubblicazione dei canoni di tutti i concili della chiesa antica progettato e promosso dal curatore —, contiene i testi dei canoni di IV e V secolo: da Arles 314 a Agde 506.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 103

Preghiera e concili gallici tra V e VI secolo

103

romane, suffragata dal rimando a Siricio e Innocenzo. Del secondo sono, infatti, riferiti ampli stralci tratti dalla decretale indirizzata a Esuperio di Tolosa nel 40513, dove Siricio e specialmente la sua lettera a Imerio di Terragona, del 38514, sono abbondantemente citati. L’astinenza imposta al clero per ragioni rituali è uno dei motivi dominanti tutta la documentazione in merito e già a partire dalla cosiddetta epistola Ad Gallos (fine IV secolo)15 assume la configurazione di argomento a supporto della condizione continente dei clerici come linea di demarcazione versus la cristianità laica. Ad Agde l’attenzione è tutta rivolta all’alto clero, all’equazione ‘ministro puro’/‘offerta pura’. Viene ripreso il confronto con i laici, ai quali è prescritta la castità solo in occasione delle preghiere (hoc… laicis praecepit), mentre ai clerici si richiede come condizione permanente. Essi, in quanto ufficiali ministri del ‘sacro’, devono esserne degni sempre, e in qualsiasi momento pronti a svolgere le ‘liturgie’ di loro competenza (sacerdotes… orandi et sacrificandi iuge officium est). Queste sono espresse con una certa varietà terminologica che pure tende a inglobarle in un’unica area semantica circoscritta, tendente a creare un rapporto circolare di interdipendenza e contiguità fra preghiera offerta e sacrificio. Le preces 13 Al testo del concilio, come annuncia il can. 9, è allegata l’introduzione della lettera di Innocenzo e tutto il primo capitolo (dedicato alla continenza del clero). Cfr. testo e traduzione in R. BARCELLONA – M. SPINELLI, I canoni dei concili della chiesa antica, II. I concili latini, 2. I concili gallici, 1, cit., 222-223. 14 Si tratta di un testo richiamato a Roma e altrove proprio per il suo carattere di documento organico e articolato, emanante decreta generalia. Cfr. l’introduzione di T. Sardella in T. SARDELLA – C. DELL’OSSO, I canoni dei concili della chiesa antica, II. I concili latini, 1. Decretali, concili romani e canoni di Serdica, cit., 62-63. 15 Giuntaci anonima e assegnata nel tempo a vari pontificati, è stata infine attribuita agli ultimi anni di Damaso (366-384) nella recente edizione di Duval, che sembra segnare un punto fermo: Y.-M. DUVAL, La décrétale Ad Gallos episcopos: son texte e son auteur. Texte critique, traduction française et commentaire, Leiden-Boston 2005, 2049. Cfr. testo e traduzione della lettera ai vescovi di Gallia in T. SARDELLA – C. DELL’OSSO, I canoni dei concili della chiesa antica, II. I concili latini, 1. Decretali, concili romani e canoni di Serdica, cit., 33-59, con relativa introduzione sulle questioni riguardanti l’autore e la data, ulteriormente approfondite nella nota 15, rispettivamente alle pagine 34-35 e 54-55. Duval rintraccia nel testo il contributo tangibile di Gerolamo e data lo scritto durante gli ultimi anni del pontificato di Damaso, ma il punto sul quale convergono gli studi è l’origine romana di questa decretale.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 104

104

Rossana Barcellona

sono connesse logicamente al verbo supplico, che in latino — anche in ambito precristiano — implica l’atto del supplice implorante che offre sacrifici; la congiunzione tra i verbi orare e sacrificare è amplificata dall’avverbio iuge che significa, prima ancora che continuamente, congiuntamente/unitamente; l’espressione offerre sacrificium si accompagna al baptizare, quasi configurando il sacramento in oggetto — già dono divino — come doppia offerta umana: dell’altro (dal punto di vista del battezzatore) e del sè (dal punto di vista del battezzando). A Tours i vescovi sfruttano la ricorrenza di S. Martino, che ha fornito la circostanza dell’incontro, per ripristinare principi disciplinari, a loro modo di vedere, già da troppo tempo obliati. I canoni di questo concilio presentano elementi di novità rispetto alla precedente normativa gallica, innanzitutto per essere espressi in forma lunga e articolata; per l’uso cospicuo di riferimenti neotestamentari (tutti dal corpus paolino); ma soprattutto per i riferimenti testuali, seppure taciti, alle decretali ricordate — donde provengono anche le citazioni paoline —, e alle relative elaborazioni teoriche in merito alle motivazioni della continenza del clero. Quest’ultimo dato sembra rivelare un nuovo indirizzo nei rapporti con la sede romana, in sintonia con il nuovo corso storico: Ilario di Arles, a lungo protagonista delle vicende galliche, è uscito di scena da qualche anno (muore nel 449), e con lui si sono eclissate le mire egemoniche a lungo tenacemente coltivate e i motivi di conflitto con i vescovi di Roma16. Quando si riunisce il concilio di Agde, all’inizio del VI secolo, il clima politico della regione e gli equilibri interni sono ancora mutati. Sebbene sia ancora un vescovo di Arles, Cesario, a convocare l’assemblea episcopale, anch’egli come l’energico Ilario con trascorsi monastici lerinesi, i rapporti fra le sedi galliche e fra queste e Roma hanno subito un notevole riassestamento. Il concilio voluto dal re dei Goti succeduto a Eurico, Alarico II, ha una nuova impronta e segna una importante tappa storica: il passaggio dalla chiesa gallo-romana alla chiesa gallo-franca. In questa sede il richiamo ai dettami di 16

Non a caso gli ultimi tre concili del V secolo si tengono in area settentrionale, a partire da quello di Angers del 453: le riunioni di questo e dei due successivi concili ci portano dalla Provenza al nord della Gallia, come se l’area gravitazionale delle attività ecclesiastiche si sia spostata o quantomeno decentrata.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 105

Preghiera e concili gallici tra V e VI secolo

105

provenienza romana sono aperti e come enfatizzati dalla lunga e centrale citazione. 2. LITURGIA BATTESIMALE I vocaboli ricorrenti per indicare le mansioni liturgico-ministeriali del clero nei canoni di Tours e Agde — come evidenziato — sono vari. Si parla in termini di orandi et sacrificandi iuge officium, di supplicare preces, di sacrificium offerrre aut baptizare. A sostegno di una omologazione territoriale proprio del baptizare ci sembrano da interpretare alcuni canoni della prima metà del secolo V. Il primo concilio a occuparsi di liturgia battesimale è quello di Orange del 441. Ci troviamo in una delle fasi più fortunate della politica di accentramento messa in atto da Ilario. I nomi dei vescovi partecipanti, fra i quali due metropoliti, Claudio di Vienne ed Eucherio di Lione entrambi vicini per diverse ragioni alla matrice monastica lerinese, suggeriscono che Ilario è riuscito a compattare l’area della Gallia centro-meridionale, proponendosi come capo ecclesiastico di tutta la regione compresa fra il Rodano e le Alpi. Il concilio si configura come ufficiale affermazione del primato della sede arelatense su questa parte della Gallia. Vari canoni sottoscritti in questa sede si occupano di disciplina ecclesiastica, e hanno mantenuto il carattere di regola fissata in modo definitivo. A proposito del battesimo, che occupa il secondo canone17, si formalizza l’uso indispensabile e non reiterabile del sacro crisma (semel chrismari), come applicazione presso le chiese rappresentate (inter nos placuit) di una pratica già comunemente riconosciuta (Nam inter quoslibet chrismatis ipsius nonnisi una benedictio est). 17

Così recita il testo del can. 2, CChL 148, 78: Nullum ministrorum, qui baptizandi recipit officium, sine chrismate usquam debere progredi, quia inter nos placuit semel chrismari. De eo autem qui in baptismate, quacumque necessitate faciente, non chrismatus fuerit, in confirmatione sacerdos commonebitur. Nam inter quoslibet chrismatis ipsius nonnisi una benedictio est, non ut praeiudicans quidquam, sed ut non necessaria habeatur repetita chrismatio. Anche il primo canone si occupa del battesimo, ma a proposito degli eretici: Haereticos in mortis discrimine positos, si catholici esse desiderant, si desit episcopus, a presbyteris cum chrismate et benedictione consignari placuit. Cfr. testi e traduzioni in R. BARCELLONA – M. SPINELLI, I canoni dei concili della chiesa antica, II. I concili latini, 2. I concili gallici, 1, cit., 138-139.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 106

106

Rossana Barcellona

Questo testo è solo un testimone del lungo processo evolutivo della liturgia battesimale, a proposito della quale Tertulliano è il primo a parlare di unzione (De baptismo 7). L’olio, elemento dal forte valore simbolico in tutta l’area circum-mediterranea anche in epoche precristiane, veniva consacrato dai vescovi per l’uso battesimale e chiamato crisma. Fra gli altri possibili impieghi si annoverano gli esorcismi, per i quali si adoperava l’oleum exorcismi. Ma, non sempre risulta leggibile nella documentazione questa distinzione. Fa riferimento all’olio santo per esorcismi — denominato qui indifferentemente anche crisma — ancora la famosa decretale Ad Gallos (cap. 11), dove alla fine di un passo piuttosto corrotto troviamo un’indicazione a proposito della somministrazione unica e non reiterabile dell’unzione. Di crisma battesimale parla, invece, Innocenzo nella lettera a Decenzio (416), nel cap. 3, dove insiste sulla distinzione di ruoli fra vescovi e presbiteri18, mentre nel cap. 8, discute di olio consacrato dal vescovo da usare secondo necessità e da somministrare come sacramento. Il contesto è però ancora diverso e riguarda le preghiere per i malati, si tratta dunque dell’olio degli infermi, che fa parte dell’assistenza da riservare loro19. Le indicazioni conciliari sembrano uniformarsi alla prassi occidentale dell’epoca, ai suoi orientamenti ancora in fase di precisazione, che tendono a valorizzare la centralità/unicità del battesimo nella vita di 18 I battezzati devono essere confermati solo dal vescovo, ma non si parla di uso unico e irripetibile (semel) del crisma battesimale. 19 Il segno sacramentale per eccellenza del battesimo consisteva nell’immersione in una vasca battesimale (la purificazione), veniva poi seguito da un altro segno, quello dell’unzione (la fortificazione). La prassi liturgica di iniziazione prevedeva un’unzione preparatoria al battesimo (con l’olio dell’esorcismo), ma non sempre una unzione post-battesimale con olio santo (o crisma). In seguito, si inserisce progressivamente l’uso di una doppia unzione, la prima eseguita da un presbitero, la seconda con l’olio santo era prerogativa del vescovo, il quale infine segnava il battezzato sulla fronte. Questi due momenti, lavacro e unzione con crisma, per un certo tempo vengono assimilati e indicati insieme con il nome unico di battesimo. Dopo il IV secolo queste due azioni tendono a distinguersi, con orientamenti dissimili tra Oriente e Occidente (in Occidente l’unzione è sempre più collegata al battesimo, mentre la seconda unzione, che anzi non sembra riconosciuta in questa fase — come suggerisce anche la raccomandazione di questo canone —, entra in uso probabilmente più tardi che in Oriente, dove invece si evidenzia l’unzione con olio santo). Ambrogio conosce solo una signatio senza unzione, mentre Innocenzo I vi annette l’unzione.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 107

Preghiera e concili gallici tra V e VI secolo

107

ogni cristiano e a conferirne la prerogativa al vescovo, salvo eccezioni legate a situazioni particolari20. Il sacro crisma deve essere richiesto ai vescovi della diocesi di appartenenza da parte di personale autorizzato e qualificato: un membro del clero, così è stabilito dal terzo canone del concilio successivo, tenuto a Vaison l’anno seguente21. Ritroviamo lo stesso riferimento alla liturgia battesimale nella raccolta nota come secondo concilio di Arles, nel can. 27 (26)22. Redatta probabilmente intorno alla metà del secolo da un privato, questa collezione ci giunge come primo tentativo realizzato in ambiente gallico di raccolta normativa, e si inquadra assai bene nei progetti di Ilario23. In essa, che riceve materiali di vari concili, l’eredità di Orange è la più visibile. Il canone in questione ripete alla lettera la regola, già stabilita in quella circostanza, di somministrare il crisma solo una volta e precisa che si tratta di un uso già precedentemente formalizzato da decisione conciliare, almeno nel territorio gallico: inter nos24. L’unificazione della liturgia, relativamente a uno dei primi e più importanti sacramenti, sembra riproporsi come esigenza organizzativa 20 Come quella del battesimo degli eretici considerata nel primo canone dello stesso concilio. Cfr. supra, nota 18. 21 Vaison 442, can. 3, CChL 148, 93: Per singula territoria presbyteri vel ministri ab episcopis, non prout libitum fuerit, a vicinioribus, sed a suis propriis per annos singulos chrisma petant, adpropinquante solemnitate paschali, nec per quemcumque ecclesiasticum, sed si qua necessitas aut ministrorum occupatio est, per subdiaconum: quia inhonorum est inferioribus summa committi, optimum autem est ut ipse suscipiat qui in tradendo usurus est; si quid obstat, saltem is cuius officii est sacrarium disponere et sacramenta suscipere. Cfr. traduzione con testo a fronte in R. BARCELLONA – M. SPINELLI, I canoni dei concili della chiesa antica, II. I concili latini, 2. I concili gallici, 1, cit., 156-157. 22 Arles II, can. 27 (26), CChL 148, 120: Nullum ministrum qui baptizandi recipit officium sine crismate usquam debere progredi, quia inter nos iuxta synodi constitutione placuit simel chrismari. Cfr. testo e traduzione in R. BARCELLONA – M. SPINELLI, I canoni dei concili della chiesa antica, II. I concili latini, 2. I concili gallici, 1, cit., 172-173. 23 Non a caso il canone 18 ribadisce il ruolo del vescovo di Arles nella convocazione delle assemblee conciliari e fonda questo diritto sui più gloriosi trascorsi storici della città. Il collegamento è segnalato anche dall’editore Munier, in CChL 148, 114. 24 Anche il canone che precede (can. 25) ricalca Orange, e precisamente il primo di questo concilio, a proposito della benedizione per mezzo del crisma di eretici che in punto di morte si convertano. Solo in assenza del vescovo questa benedizione può essere impartita da un presbitero.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 108

108

Rossana Barcellona

interna — come suggerisce il pronome personale di prima persona — a un piano egemonico facente capo ad Arles e al suo vescovo. La comunione delle sedi sulle quali prova a estendere il proprio controllo si realizza anche attraverso il coordinamento dei momenti liturgici: l’unità dei comportamenti è direttamente proporzionale al riconoscimento dell’autorità, significa accogliere una direzione unica e unificante. Il riproporsi delle medesime indicazioni indica il rilievo attribuito all’omogeneità liturgica, ma anche la persistenza di difformità naturalmente determinate dall’instabilità della situazione politica e dalla rivalità fra le città. Fatta eccezione per il periodo compreso nella prima metà del secolo, in cui Ilario si aggiudica i più significativi successi nelle contese per l’egemonia, grazie alla sua autorevolezza e al suo prestigio, in Gallia non si affermano mai durevoli strutture sovrametropolitane. Anche per questo, chi si sia inoltrato nello studio degli usi liturgici gallicani si è trovato di fronte a materiali che non sembrano avere conosciuto una compiuta fase di codificazione: «ogni sacramentario è il risultato di un tentativo diverso di comporre il libro principale della celebrazione eucaristica; tutti attingono a un fondo comune di libelli, ma la scelta e l’ordinamento avvengono con criteri distinti e altre volte divergenti»25. 3. VERSO L’UNIFORMITÀ Bisogna arrivare alla fine del V secolo per trovare espressa in modo chiaro, motivato e a più ampio raggio quella che si è definita ‘tendenza unificante’. La prima norma mirata a coordinare secondo una regola comune le celebrazioni liturgiche (inglobate nei termini: sacra, psallere, officia) si trova fra le deliberazioni emesse a Vannes, l’ultimo dei concili settentrionali e anche l’ultimo del secolo, riunito in una data imprecisata fra il 461 e il 491. Si avvia, finalmente, in questa circostanza un cosciente e dichiarato processo in questo senso, e con obiettivo esplicito, condensato dalla breve norma in tre vocaboli, con significato complementare e progressivo: ordo, consuetudo e regula (intra provin25

2047.

Cfr. J. PINELL, in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, cit., col.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 109

Preghiera e concili gallici tra V e VI secolo

109

ciam nostram sacrorum ordo et psallendi una sit consuetudo, ... unam et officiorum regulam tenemus). A pronunciarsi in merito è il can. 1526, elaborato a Vannes proprio negli anni che preparano e accompagnano l’ascesa al trono del goto Eurico. Il re barbaro con il quale la Gallia reciderà gli ultimi legami politici con Roma, e che rappresenta da un punto di vista più strettamente religioso un potere contaminato dall’arianesimo. Questo canone, che ne segue uno rivolto al clero sulla necessità di attenersi all’obbligo delle preghiere pena l’esclusione dalla comunione per sette giorni27, riconosce per la prima volta l’uniformità liturgica quale corollario della fede, unica e trinitaria (sicut unam cum Trinitatis confessione fidem tenemus)28. Il criterio della liturgia come norma della fede ortodossa, come regolatore del credere, era stato usato da Agostino nella polemica contro donatisti e pelagiani, e al suo seguito da Prospero d’Aquitania — autore non estraneo ad altre polemiche a sfondo dottrinale di ambiente gallico-provenzale — che lo sintetizza nella celebre formula legem credendi statuat lex supplicandi. 26 Vannes 461-491, can. 15, CChL 148, 155: Rectum quoque duximus, ut vel intra provinciam nostram sacrorum ordo et psallendi una sit consuetudo, et sicut unam cum Trinitatis confessione fidem tenemus, unam et officiorum regulam teneamus; ne variata observatione in aliquo devotio nostra discrepare credatur. 27 Vannes 461-491, can. 14, CChL 148, 155: Clericus quem intra muros civitatis suae manere constiterit et a matutinis hymnis sine probabili excusatione aegritudinis inventus fuerit defuisse, septem diebus a communione habeatur extraneus: quia ministrum sacrorum eo tempore quo non potest ab officio suo ulla honesta necessitas occupare, fas non est a salubri devotione cessare. Testo e traduzione di questo canone e del successivo n. 15, in R. BARCELLONA – M. SPINELLI, I canoni dei concili della chiesa antica, II. I concili latini, 2. I concili gallici, 1, cit., 212-213. Gli inni del mattino, cui si allude in questa circostanza sono verosimilmente quelli cui si fa riferimento più circostanziato in un concilio più tardo: Tours 567, can. 19 (18), sull’uniformità della salmodia, per stabilire quanti salmi per ogni antifona. Questi inni (canti di lode o laudes) facevano parte delle cosiddette preghiere notturne. Esistevano due specie di preghiere della notte: le vigiliae che cominciavano presto, già verso la metà della notte, alla ‘vigilia’ delle grandi feste, e gli hymni matutini per le domeniche e le feste minori, che si intonavano a partire dall’alba. Di queste preghiere ‘mattutine’ troviamo traccia in GREGORIO DI TOURS, De vitis Patrum VII; VIII; e De miraculis S. Martini I, 33; cfr. H. LECLERCQ, Gallicane (Liturgie), cit., coll. 562-563. 28 Come evidenziato da Vogel (Les échanges liturgiques, cit., 193). Il primo a trattare la liturgia come regola della fede è stato B. CAPELLE, Autorité de la liturgie chèz les Pères, in Recherches de Théologie ancienne et Médiévale 21 (1954) 5-22.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 110

110

Rossana Barcellona

Tale criterio poteva bene adattarsi a diverse situazioni conflittuali di scontri e confronti a vari livelli, così da essere chiamato in causa tutte le volte che la cristianità cattolica si sentiva minacciata da nuovi nemici. La crisi politica e religiosa concorre a sollecitare e allertare i vescovi, accentuando il bisogno di unità e compattezza: una diversa osservanza liturgica — recita il canone a scopo esplicativo — può indicare una devianza dalla fede. Ai problemi di relazione interni alla regione si sono sostituiti o aggiunti quelli con i nuovi dominatori. Vannes inaugura una linea che diventerà quasi costante, e viene alla ribalta già nella prima assemblea episcopale del secolo successivo, al concilio di Agde, dove alla questione viene dedicato il can. 3029. Qui si rinnova l’obbligo per ‘tutti’ (espressione generica ma più comprensiva possibile: convenit ordinem ecclesiae ab omnibus aequaliter custodiri), di seguire una liturgia unificata, riassumendone in sintesi alcuni dei momenti più solenni e altisonanti: antifone, inni, omelie e benedizioni. L’aspetto canoro, che qui trova riscontro normativo, si rileva come un elemento precipuo della liturgia gallicana, nutrita di cerimoniali ricchi e di forte impatto, per così dire, ‘popolare’. L’importanza di una liturgia partecipata da tutta la comunità si evidenzia nel can. 47, che istituisce l’obbligo per i laici di assistere alla messa domenicale fino alla benedizione, di regola somministrata dopo l’omelia, ma

29 Agde 506, can. 30, CChL 148, 206: Et quia convenit ordinem ecclesiae ab omnibus aequaliter custodiri, studendum est ut, sicut ubique fit, et post antiphonas collectiones per ordinem ab episcopis vel presbyteris dicantur et hymnos matutinos vel vespertinos diebus omnibus decantari et in conclusione matutinarum vel vespertinarum missarum post hymnos capitella de psalmis dici et plebem collecta oratione ad vesperam ab episcopo cum benedictione dimitti. Cfr. traduzione con testo a fronte, in R. BARCELLONA – M. SPINELLI, I canoni dei concili della chiesa antica, II. I concili latini, 2. I concili gallici, 1, cit., 230-231. Si prescrive la benedizione dopo l’omelia: collecta oratione. Si approvano in questa sede gli inni detti ambrosiani, come segnala Leclercq, (Gallicane [Liturgie], cit., col. 556), menzionati esplicitamente più tardi a Tours 567, can. 24, CChL 148 A, 192. Si occupano di regole liturgiche anche: can. 12 (a proposito del digiuno del sabato, già oggetto del capitolo 4 della lettera di Innocenzo I a Decenzio) e can. 13 (fa riferimento al giorno deputato per la cerimonia della traditio o redditio symboli, fissato il giovedì santo nel can. 46 di Laodicea).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 111

Preghiera e concili gallici tra V e VI secolo

111

prima dell’eucarestia30. I vescovi torneranno su questa disposizione ancora in due successivi concili di Orléans, nel 511 e nel 53831. L’esigenza espressa dai vescovi, soprattutto i metropoliti, di unificare l’uso liturgico nelle loro province, ribadisce la persistenza di differenze anche significative32, che si cercava di sopprimere o limitare proprio nei concili a carattere nazionale, connotati da una forte impronta politica. Dopo Agde, un richiamo in questo senso si trova in un altro concilio di grandi proporzioni: quello di Epaone, che riunisce nel 517 tutti i vescovi dei territori occupati dai Burgundi l’anno prima, cioè una buona fetta della Gallia sud-orientale, su convocazione del figlio e successore dell’ariano Gundobaudo, il re Sigismondo33. Con tale iniziativa, sull’esempio di ciò che Clodoveo aveva inteso fare al concilio di Orleans del 511, il nuovo sovrano, già convertitosi al cattolicesimo, promuove il primo concilio nazionale del suo regno. Il canone in questione contiene la prescrizione, rivolta ai vescovi provinciali, di osservare — nel celebrare i divini uffici — la sequenza cui si attengono i vescovi metropolitani34. Se, in effetti, si parla di uniformità dettata dai metropolitani non di unità cultuale a carattere nazionale, come si è notato35 ciò significa probabilmente che l’unità liturgica insieme con 30 Can. 47, CChL 148, 212: Missas die dominico a saecularibus totas teneri speciali ordinatione praecipimus, ita ut ante benedictionem sacerdotis egredi populus non praesumat; qui si fecerint, ab episcopo publice confundantur. Cfr. traduzione con testo a fronte, in R. BARCELLONA – M. SPINELLI, I canoni dei concili della chiesa antica, II. I concili latini, 2. I concili gallici, 1, cit., 236-237. 31 Cfr. Orléans 511, can. 26, CChL 148 A, 11; e Orléans 538, can. 32 (29), CChL 148 A, 125-126. 32 Cfr. H. LECLERCQ, Gallicane (Liturgie), cit., col. 562. 33 La data del concilio si ricava dalla lettera di convocazione del vescovo metropolita Avito di Vienne, in CChL 148 A, 22-23. Su questo concilio cfr. O. PONTAL, Histoire des conciles mérovingiens, Paris 1989, 58-71. Convertitosi al cattolicesimo alla morte del padre, Sigismondo assicurerà il successo dell’ortodossia. Il padre aveva promosso la fusione di burgundi e gallo-romani, manifestando la volontà di preservare le strutture romane, le istituzioni come l’organizzazione politica. 34 Epaone 517, can. 27, CChL 148 A, 30: Ad celebranda divina officia ordenem, quem metropolitani tenent, provincialis eorum observare debebunt. Cfr. ora testo e traduzione in P. PELLEGRINI, I canoni dei concili della chiesa antica, II. I concili latini, 2. I concili gallici, 2, a cura di A. Di Berardino, Roma 2011, 60-61. 35 Cfr. C. VOGEL, Les échanges liturgiques, cit., 193.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 112

112

Rossana Barcellona

quella religiosa — sulla base dell’intrinseco nesso unica liturgia/unica fede — veniva affidata nell’ottica della politica regale all’autorità e alla responsabilità ecclesiastica, che ne assumeva oneri e onori36. Un momento particolare rappresenta l’assemblea episcopale di Vaison, del novembre 529. Il concilio è presieduto da Cesario e interamente occupato da questioni di disciplina, (tralasciate al concilio di Orange dello stesso anno, dedicato alla dottrina della grazia), sulla soluzione delle quali si riverbera platealmente lo stato dei rapporti con la sede romana. Cesario, alla presidenza del suo quinto concilio (l’ultimo sarà quello di Marsiglia del 533), gode della tutela dell’allora vescovo di Roma, Simmaco, dal quale ha prima ricevuto conferma per la sua chiesa dei diritti metropoliti contro Vienne (nel 513), e poi i privilegi di vicario della Sede Apostolica per la Spagna e per la Gallia (nel 514). In quattro dei cinque canoni, che costituiscono i risultati di quest’assemblea episcopale, si registra il programmatico e ufficiale riconoscimento dell’autorità romana, si parla di adeguamento agli usi italici (can. 1) e della sede apostolica (cann. 3 e 5) e si introduce l’obbligo di fare menzione del ‘papa’ durante le celebrazioni (4). Il terzo canone in modo particolare argomenta e decreta sullo specifico dei contenuti liturgici37. La liturgia romana penetrando nei confini dei 36 Nel can. 29, dello stesso concilio, si stabilisce che lapsi e catecumeni debbano allontanarsi dalle funzioni insieme, dopo l’oratio (plebis). Conosciamo attraverso questo canone il rito di allontanamento dei catecumeni, cerimonia che avveniva probabilmente senza accompagnamento di preghiere, e dopo quella dei penitenti che solevano andare via prima — salvo eccezioni — stando a quello che si legge nel can. 6 di un concilio di Lione datato tra il 518 e il 523, CChL 148 A, 41. In questa circostanza, alla fine del can. 6, dopo le subscriptiones si autorizzavano eccezionalmente i penitenti in causa, Stefano e Palladia (cui è dedicato l’incontro conciliare), a trattenersi in chiesa usque ad orationem plebis quae post evangelia legetur (questo tipo di preghiera che segue la lettura del Vangelo è forse rintracciabile nella liturgia ambrosiana, che fa seguire il Vangelo da un triplice Kyrie eleison). Da questa indicazione del concilio lionese ricaviamo che solitamente i penitenti dovevano lasciare la messa prima di questa oratio plebis. 37 Vaison 529, can. 3, CChL 148 A, 79: Et quia tam i sede apostolica, quam etiam per totas Orientales adque Italiae provincias dulces et nimium salubres consuetudo est intromissa, ut Quirieleison frequentius cum grandi affectu et conpunctione dicatur, placuit etiam nobis, ut in omnibus ecclesiis nostri ista tam sancta consuetudo et ad matutinos et ad missas et ad vesperam Deo propitio intromittatur. Et in omnibus missis seu


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 113

Preghiera e concili gallici tra V e VI secolo

113

territori franchi entra in concorrenza, ma non in conflitto, con gli usi precedenti, noti come ‘liturgia gallicana’, nella diffusione della quale Cesario e la Gallia meridionale ebbero certamente un ruolo38. Questa è la fase dell’influenza e della contaminazione, determinate e modulate sull’onda di vari e diversi rapporti, intra o extra regionali, di forza, di alleanze, di compromessi. La ‘tendenza unificante’, avviatasi a Vannes, prosegue ancora lungo tutto il secolo. Nel senso di una omologazione liturgica possiamo leggere anche il can. 2 del più tardo concilio di Narbona, del 589. in matutinis seu in quadragesimalibus seu in illis, quae pro defunctorum commemorationibus fiunt, semper: ‘Sanctus, sanctus, Sanctus’ eo ordine, quomodo ad missas plublicas dicitur, dici debeat, quia tam sancta, tam dulces et desiderabilis vox, etiam si die noctuque possit dici, fastidium non poterit generare. Cfr. ora testo e traduzione in P. PELLEGRINI, I canoni dei concili della chiesa antica, II. I concili latini, 2. I concili gallici, 2, cit., 104-107. Si decreta l’inserzione in tutte le messe indistintamente del Kyrie eleison e del Santus Sanctus Santus, che fanno parte dei cantici d’apertura (cfr. su questo canone, H. LECLERCQ, Gallicane [Liturgie], cit., col. 541 e E. GRIFFE, Aux origines de la liturgie, cit., 39). Anche i due cann. successivi 4 e 5, che sono gli ultimi, danno indicazioni in merito alla preghiera comune, introducendo ufficialmente l’uniformità con la sede apostolica per la prima volta. Cfr. C. VOGEL, Les échanges liturgiques, cit., 194, secondo il quale l’incidenza blanda di provvedimenti in tema testimonia lo scarso interesse dei vescovi Galli per l’uniformità interna e con la sede apostolica. Secondo Griffe, (Aux origines de la liturgie, cit., 21) invece i concili hanno lentamente contribuito alla stabilizzazione delle consuetudines liturgiche. Nel can. 5, si decreta l’aggiunta sicut erat in principio al canto del Gloria, come per rimarcare contro gli eretici (propter hereticorum astutiam) — forse in funzione antiariana — la coeternità del Figlio rispetto al Padre; cfr. O. PONTAL, Histoire des conciles mérovingiens, cit., 83. 38 Con il can. 2, questo concilio prescrive la predicazione (l’omelia) non solo nelle sedi episcopali (cioè nelle città), ma anche nelle parrocchie rurali, concedendo così sanctorum Patrum expositiones publice recitare anche ai presbiteri e, in loro assenza, ai diaconi. In Gallia i preti predicavano, dunque, come i vescovi. Rimarca Leclercq (Gallicane [Liturgie], cit., col. 543) che papa Celestino (422-432) biasimava quest’uso dei vescovi provenzali. Con la decretale ai vescovi delle province di Vienne e Narbona, egli cerca di arginare l’influenza della congregazione monastica di Lerino, donde spesso monaci accedevano all’episcopato senza il canonico cursus («chi non cresce attraverso le singole funzioni, non può giungere al meritato grado di ciascuna funzione»). In questo quadro si legge l’annullamento della primazia di Arles già concessa nel 417 dal suo precedessore, Zosimo, che precisamente aveva conferito alla cittadina provenzale il diritto di sede metropolita sulla Narbonese e autorità sulle altre chiese di Gallia.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 114

114

Rossana Barcellona

Siamo nei pressi di Agde, in territorio goto. I Visigoti hanno appena celebrato, a Toledo durante il primo concilio della chiesa goto-ispanica, la loro conversione al cattolicesimo, già abbracciato dal sovrano Reccaredo dieci mesi dopo essere salito al trono (586-601)39. La seconda norma prescrive la recita del Gloria trinitatis alla fine di ogni salmo, e negli intervalli dei salmi più lunghi, normalmente divisi in due tronconi40. A questa preghiera faceva già riferimento il can. 5 di Vaison 529, dove si normava l’aggiunta della frase sicut erat in principio, per rimarcare il dogma trinitario. Anche in questa sede l’inserzione ripetuta di questo canto sembra svolgere la funzione di forte richiamo all’ortodossia, in un territorio e presso popoli che benché ufficialmente convertiti al cristianesimo cattolico, vengono dall’arianesimo se non da tradizioni religiose diverse. Le ragioni di questa ricerca di unità, intraviste nelle norme esaminate, sono come compendiate e riunite in un lungo canone, emesso circa un cinquantennio più tardi, ma che appare formulato sul calco di quello di Vannes, e vale la pena di ricordare benché vada oltre i limiti cronologici prefissati, e in parte anche oltre quelli geografici. Si tratta del can. 2 del IV concilio di Toledo, tenutosi nel 633, sotto la presidenza da Isidoro di Siviglia e su convocazione del visigoto Sisenando. In tale occasione si stilano nuove norme, sia civili che ecclesiastiche, e una casta episcopale sempre più potente riesce a imporre il principio della successione elettiva della monarchia, ingerendosi in modo autoritario sulla scelta e sull’elezione del re, affidate infine a un’assemblea congiunta di nobili e vescovi41. 39 Nella lettera introduttiva si fa riferimento al re gloriosissimo, per ordinationem del quale si tiene l’assemblea provinciale dei vescovi gallici, preoccupati soprattutto di ripristinare le regole e la disciplina della religione cattolica. 40 Narbona 589, can. 2, CChL 148 A, 254: Hoc itaque definitum est, ut in psallendis ordinibus per quemque psalmo gloria dicatur omnipotenti Deo; per maiores vero psalmos, prout fuerint prolixius, pausationes fiant, et per queque pausatione gloria trinitatis Domino decantetur. 41 Sisenando conseguì in questa circostanza un significativo successo, incrementando il potere regale e personale nello specifico e in generale quello dei Visigoti. Ottenne la conferma nel ruolo di re, mentre il suo predecessore, Suintila, venne dichiarato tiranno, esautorato e scomunicato, finendo col subire anche la confisca di tutti i beni. Nello stesso concilio furono abolite le tasse per tutto il clero. Leclercq (Gallicane [Liturgie], cit., col.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 115

Preghiera e concili gallici tra V e VI secolo

115

L’uniformità che il concilio gallico auspicava intra provinciam nostram è promossa qui in tutta la Spagna, con estensione a quella parte di Gallia, la Narbonese, all’epoca dipendente dal regno visigoto. Questo canone di Toledo amplia, commenta e spiega il vecchio testo normativo, lo conferma a distanza di un secolo e mezzo, ripristinandone e rinvigorendone l’attualità e la necessità di attuazione: ancora evidentemente nell’uso pratico le chiese manifestavano tendenze centrifughe da contrastare con provvedimenti che attivassero energie e spinte centripete42. Ancora più che sull’uniformità, si insiste sulla necessità di abolire ogni differenza e dissonanza in ecclesiasticis sacramentis. Tutti i vescovi (omnes sacerdotes) devono farsene carico. Essi, che sono deputati alla salvaguardia dell’unità della fede cattolica (qui catholicae fidei unitate complectimur), devono vigilare con il loro stesso esempio, per non avallare errori dottrinali con l’uso di formule liturgiche disomogenee, e scongiurare così il rischio di scismi e scandali. Continua a fare capolino in questa documentazione il problema delle contaminazioni religiose con forme di cristianesimo poco ortodosse ma forse anche con culti ‘diversamente sacri’. Poi per tre volte il testo ripete icasticamente l’aggettivo unus, riferito all’ordine di orazioni e salmodie, al modo di celebrare la messa e a quello delle preghiere del vespro e dell’alba (unus ergo ordo orandi et psallendi … unus modus in missarum solemnitatibus, unus in vespertinis, matutinisque officiis). Infine, all’unità liturgica già invocata come naturale appendice e complemento di 562) cita di seguito il can. 15 di Vannes, come conferma di questa tendenza ‘unificante’, ma non rileva un dato che va sottolineato: il concilio gallico precede quello spagnolo di più di un secolo e mezzo, si tratta di ben centosessantotto anni. 42 Toledo 633, can. 2: Placuit ut omnes sacerdotes qui catholicae fidei unitate complectimur, nihil ultra deversum aut dissonum in ecclesiasticis sacramentis agamus; ne quaelibet nostra diversitas apud ignotos seu carnales schismatichis errorem videatur ostendere, et multis exstet in scandalum varietas Ecclesiarum. Unus ergo ordo orandi et psallendi a nobis per omnem Hispaniam et Galliam conservetur; unus modus in missarum solemnitatibus, unus in vespertinis, matutinisque officiis: nec diversa sit ultra in nobis ecclesiastica consuetudo, quia una fide continemur et regno. Hoc enim et antiqui canoni decreverunt, ut unaquaeque provincia et psallendi, et ministrandi parem consuetudinem habeant. Cfr. Concilum Toletanum IV, in J. VIVES (et al. eds.), Concilios Visisigóticos e Hispano-Romanos, Barcelona-Madrid 1963, 186-225.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 116

116

Rossana Barcellona

quella dottrinale, se ne aggiunge apertamente un’altra: quella politica (quia una fide continemur et regno). La precisazione non costituisce certo una novità, se non nella sua esplicitazione: il sodalizio fra religione e ‘stato’ entra presto nella storia del cristianesimo. Nella parabola finale di questo percorso dentro le disposizioni conciliari, è interessante invece il posto tra fede (in Dio) e regno (degli uomini) ufficialmente attribuito alla preghiera liturgica. L’uniformità di sacramenti, riti e preghiere viene, infatti, a configurarsi come trait d’union, vero e proprio anello di congiunzione tra fede e istanze politiche. Tra una fede intima, privata e individuale (connotato caratterizzante il cristianesimo fin dalle origini), da un lato, e istanze politiche, pubbliche, collettive, della ragione di stato, dall’altro. La forza connettiva offerta dall’appartenenza al cristianesimo, in quest’epoca di mutamenti e incertezze, opera attivamente nell’imprescindibile spazio di incontro tra privato e pubblico creato e occupato dalla preghiera liturgica. I vescovi riuniti a Toledo, mentre si richiamano scientemente a ciò che antiqui canoni decreverunt, con implicito tributo all’autorevolezza dei provvedimenti legislativi fin qui trattati, di fatto ci offrono anche chiavi di lettura e conferme per l’interpretazione del quadro che si è cercato di tracciare. 4. RIFLESSIONI CONCLUSIVE Nel corso del periodo considerato, i canoni mostrano verso le pratiche liturgiche in genere un interesse quasi impercettibile all’inizio, o comunque blando, che va lentamente ma progressivamente crescendo. Le allusioni aperte alla necessità di realizzare una omologazione, a seconda dei momenti più o meno in conformità con la sede romana, cominciano a comparire nel passaggio dal V al VI secolo, mentre tramontano i tentativi aggreganti della sede di Arles e cominciano a succedersi regni e regnanti ‘barbari’. La tendenza all’uniformità procede in modo direttamente proporzionale al declino della giurisdizione romana sul territorio, e serve a costituire una nuova identità che non rinnega quella romana ma la assimila secondo diverse modalità. La stabilizzazione di un uso liturgico, quale che sia, ha a che fare con la consapevole volontà di rendere più forte la compagine ecclesiastica e


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 117

Preghiera e concili gallici tra V e VI secolo

117

più coesa, e quindi governabile, la comunità da un punto di vista della disciplina religiosa, ma non solo. Giova alle relazioni reciproche del clero e di questo con il territorio e con chi lo governa militarmente e amministrativamente, è in definitiva anche un modo per piegare e/o fare entrare la spiritualità cristiana nel fatto politico: giova all’unità e all’ortodossia della fede, giova all’unità e alla stabilità del regno. Luogo di intersezione dove sacro e profano si incontrano, dove clero e popolo laico interagiscono e si riconoscono in una condivisione che fa salve le differenze e fa lievitare il concetto stesso di identità, dove si verificano e certificano adesione e appartenenza, la preghiera pubblica è anche il momento del loro consolidamento e della loro ‘pubblicizzazione’. L’apparato di cerimonie che caratterizza soprattutto la liturgia gallicana per magnificenza, ricchezza e varietà di inni e canti, con conseguente impatto spettacolare, oltre che corrispondere al gusto locale con la sua matrice culturale e religiosa e contribuire a catturare l’attenzione dei sensi43, risveglia e mobilita il coinvolgimento personale e di gruppo, dando un’impronta forte e precisa, pubblicamente visibile alla comunità religiosa, che si identifica sempre più con l’intera società.

43 Leclercq, (Gallicane [Liturgie], cit., col 480), evidenzia l’aspetto della magnificenza della messa gallicana come caratterizzante, tanto da definirla come una cerimonia che si indirizza agli occhi e alle orecchie, un vero e proprio spettacolo: «La messe gallicane se déroule avec pompe; les lectures, les supplications prononcées à haute voix, les chants sont nombreux, longs, variés. La cerimonie s’adresse aux yeux et aux oreille. C’est un spectacle».


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 118


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 119

SUPPLICHE E GRAZIA

FRANCESCO MIGLIORINO*

1. ETOLOGIA DELLA PREGHIERA Supplica è una parola possente. Ha un che di pretenzioso e ambiguo, a metà strada tra il banale e il sublime. Il termine ha un così ampio spettro di significati e, soprattutto, di applicazioni da mostrarsi il più delle volte come vago e incerto. Vittima di una spudorata inflazione semiologica. Ha abbastanza risorse da farsi maneggiare con docilità dai cultori dei saperi più disparati. Eppure, si ostina a mantenere vaghezza e porosità, tracima da un campo all’altro con disinvolta infedeltà: dall’iconologia alla linguistica, dalla teologia al diritto, dalla liturgia alla diplomatica. Si potrebbe dire, con buoni argomenti, che essa proviene dalle fabulose radure dell’archetipo1. Si sa, l’uomo crede di essere al riparo quando espunge da sé la sua parte animale2. Eppure, proprio i gesti della supplica si inscrivono nell’etologia del vivente, con la sua propensione a mostrare i segni della sottomissione tutte le volte che egli si imbatte in chi ha il potere di dare la morte o di lasciare vivere. L’atto del pregare e del supplicare è il più umano tra i comportamenti ‘animali’ dell’uomo. Una strategia *

Docente di Storia del Diritto medievale e moderno presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania. 1 Cfr. G. KOZIOL, Begging pardon and favour. Ritual and political order in early medieval France, Ithaca-New York 1992, 11 ss. 2 Rinvio almeno a: G. AGAMBEN, L’aperto. L’uomo e l’animale, Torino 2002; E. ALLEVA, La mente animale. Un etologo e i suoi animali, Torino 2007.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 120

120

Francesco Migliorino

di difesa e di sopravvivenza, una condivisione delle gerarchie, una offerta di pace. Soprattutto, una richiesta di aiuto. Dopo il primo atto socratico che ha preteso di irrigidire il simbolo in una pura forma, si fa fatica ad ammettere che la supplica (come la preghiera) sia tenuta in vita da quella stessa costellazione di significanti che si incaricano di dare senso ai soggetti stessi, di dare valore appunto alla loro esistenza in quanto soggetti3. Avviene così che essa sia tanto più teatrale e drammatica quanto più il benefattore è lontano e assente. Lontano e assente come il grande Architetto. È un congegno che tiene insieme la possanza del padre e la finitudine del figlio, con tutti i loro rispecchiamenti reciproci4. Nel suo campo semantico militano fattori diversi che si contaminano con procedure d’intersezione e di sovrapposizione: il linguaggio della preghiera, i gesti della penitenza, l’intercessione dei santi, l’abitudine alla umiliazione di sé. Nel lungo medioevo la prostrazione è un atto di preghiera che assimilava la pratica mondana della grazia ad un archetipo che si sottrae da sempre al computo del tempo5. D’altronde, cos’altro è la supplica se non l’atto di chiedere una grazia o il perdono, che viene manifestato secondo i moduli rituali della preghiera? Preghiera e supplica sono più che sinonimi, si nutrono a vicenda. Ma c’è di più: la relazione tra l’ammissione della colpa e il gesto dell’umiliazione ha contribuito a fondare nel tempo uno dei più durevoli aspetti del rito cristiano della penitenza6. La contrizione accompagnata al proponimento di non cadere nel peccato diventava 3 I concetti danno valore agli oggetti conosciuti, «in funzione della loro utilità per i soggetti», all’opposto dei simboli che «danno senso e valore ai soggetti stessi, riempiono di senso la loro esistenza in quanto soggetti»: C. TULLIO-ALTAN, Soggetto, simbolo e valore: per un’ermeneutica antropologica, Milano 1992, 44. 4 La drammatizzazione, da sempre, è il più efficace strumento comunicativo dell’esperienza simbolica. Tanto più in quello stupefacente teatro di maschere che è il diritto: F. MIGLIORINO, Religiosità e comportamento nell’agire sociale pubblico, in Religiosità e civiltà. Le comunicazioni simboliche (secoli IX-XIII), a cura di G. Andenna, Milano 2009, 265-279. 5 Cfr. G. KOZIOL, Begging pardon and favour, cit., 12. 6 Geoffrey Koziol si sottrae al rischio di reificare il rito, mettendolo in rapporto con gli apparati simbolici di una società nel suo specifico contesto storico. Come fa rilevare giustamente G. ISABELLA, Rituali altomedievali: le ragioni di un dibattito, in


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 121

Suppliche e grazia

121

condizione necessaria del sacramento della penitenza che produceva i suoi frutti ex opere operato7. Nel campo secolare la preghiera era rivolta per lo più da un inferior nei confronti di un dominus e di solito si vestiva di gesti e di parole che mettevano in scena il rimorso e la soggezione: dalla semplice docilità del capo chinato fino alla completa prostrazione del corpo. Il rituale si adattava alle circostanze. I subordinati di solito supplicavano i signori, ma i signori talvolta supplicavano i loro pari, e occasionalmente i loro inferiori. I gesti potevano anche essere pressoché identici nei diversi casi. Ciò che però non poteva mancare era la formalizzazione del discorso. Solo a queste condizioni si rendevano manifeste e pubbliche due circostanze: l’umiltà del richiedente e la grazia del benefattore8. La supplica, dunque, mette allo scoperto il corpo e istituisce una relazione che è fatta di gesti e di riti. Il copione può essere violato a seconda delle circostanze. Esemplare è un episodio della vita di Lanfranco vescovo di Canterbury e antico maestro di Anselmo da Baggio, papa Alessandro II. Lanfranco si reca a Roma per ricevere il pallio dal pontefice. Alessandro lo riceve assiso sul suo trono, ma inaspettatamente si alza in piedi per accoglierlo affettuosamente e consegnargli, con le sue proprie mani, i segni della primazia di Canterbury su tutte le diocesi inglesi. Gesto inconsueto, perché il superior, che qui è addirittura il Vicario di Cristo, sembra quasi svestirsi del suo ruolo per mettersi alla pari dell’inferior. Come spiega lo stesso pontefice, quei gesti non appartenevano a quel preciso momento, erano come un tornare indietro nel tempo quando le parti erano rovesciate e il giovane tremulo Anselmo si nutriva, nell’abbazia di Bec, della sapienza del Magister Lanfrancus9. Storica 14 (2008) 41-42, 176, per il nostro autore «i rituali sono innanzitutto costruttori dell’identità sociale». 7 Su questo ci permettiamo di rinviare a F. MIGLIORINO, Il corpo come testo. Storie del diritto, Torino 2008, 49 s. 8 Cfr. G. KOZIOL, Begging pardon and favour, cit., 8. 9 MILONE CRISPINO, Vita beati Lanfranci, PL 150, 48-49: «Sequenti anno [1071] cum praefato archiepiscopo Romam ivit, et honorifice a sede apostolica susceptus est, liquide venienti papa assurrexisse dicitur, tum pro sua magna religione et eminenti scientia, tum quia, dum esset in Normannia, venientes Romanae Ecclesiae ministros honorifice susci-


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 122

122

Francesco Migliorino

Non c’è ragione di scomodare la metafora servo/padrone di Hegel, per affermare che proprio in virtù del rapporto asimmetrico che si instaura nello scambio tra supplica e grazia la procedura del riconoscimento rende possibile la costruzione sociale della soggettività. Di entrambi gli attori: del colpevole che china lo sguardo per invocare il perdono e del censore che corruga il suo volto tanto vendicativo quanto misericordioso10. Un sistema di idee che rifletteva e sosteneva una distribuzione oligarchica del potere. La Grazia come un atto simbolico di autorità che esigeva allo stesso tempo la partecipazione del governante e quella del suddito. Si può ben capire, allora, l’ampiezza e la rilevanza di quel genere di supplica con cui gli individui si rivolgevano a signori che facevano derivare la loro potestà da Dio. Di buon’ora, il modello della penitenza si incaricò di colonizzare la sfera politica e giuridica11. D’altronde, la Chiesa non aveva mai preteso di tenere per sé ogni forma di accesso alla grazia divina. Per la semplicissima ragione che la disseminazione del potere di eccezione, che è costitutivo della grazia, rendeva più fitti i legami sociali. La Grazia è uno stato di eccezione concessa su base individuale, è l’esercizio della dissimulazione della regola. Se fosse generale, sarebbe il contrario della giustizia. Data a migliaia o centinaia di migliaia di singoli casi, costruisce una rete di deroghe e dispense che fortificano la regola stessa. A fronte di un marcato pluralismo politico e giuridico, livelli plurimi di intermediazione convalidavano il congegno più che indebolirlo. In questo quadro, si pensi solo allo straordinario ruolo dei santi che consentivano al più umile dei laici un rapporto meno distante con la sfera del sacro e con l’inesauribile fonte della grazia12. Nel campo secolare, è stato sottolineato il ruolo dell’eccezione, che ha il suo fondamento nell’arbitrium piebat, et quosdam papae consanguineos studiose docuerat. Fertur etiam papa dixisse: “Non ideo assurrexi ei quia archiepiscopus Cantuariae est, sed quia Becci ad schola eius fui, et ad pedes eius cum aliis auditor consedi”». 10 Su tale linea di ricerca, cfr. F. MIGLIORINO, Il corpo come testo, cit., 23 ss. 11 Cfr. G. KOZIOL, Begging pardon and favour, cit., 93 ss., che parla di un vero e proprio paradigma. 12 Cfr. ID., Begging pardon and favour, cit., 96.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 123

Suppliche e grazia

123

del signore, e la sua incerta latitudine rispetto alla legge13. Come vedremo, a proposito delle dispense pontificie, la deviazione dalla regola (la grazia, appunto) doveva rispondere alla ratio aequitatis, o almeno alla necessitas e all’utilitas comune. Nella vita religiosa la supplica aveva un’efficace ubiquità e pervasività: i chierici erano supplicanti di professione, pregavano Dio per il perdono dei loro peccati, ma al contempo, come intercessori, invocavano il perdono dei peccati dei loro committenti. Come in un gioco di specchi, l’intermediario vestiva i panni del colpevole e viceversa. Cosmologia e antropologia. L’universo è ordinato e la provvidenza opera in esso con opere singolari. Vi è dunque una correlazione fra la supplica a Dio e quella ai regnanti nel nome di Dio. Fra la prostrazione dei penitenti e quella dei litiganti. Fra l’intercessione dei santi e quella dei patroni in favore dei clienti. Nel caso della supplica, la prostrazione di un re a Dio, la prostrazione di un conte al re, la prostrazione di tutti (omnes et singulatim) al sacro erano facce della stessa verità: Cristo aveva consentito di essere umiliato fino alla morte di croce (Fil 2,8) perché l’uomo fosse innalzato alla grazia14. La supplica era il solo rituale, l’unico sistema di valori, che era condiviso da laici e da chierici15. E sebbene non sia stata vista sempre nello stesso identico modo, l’ambiguità del discorso faceva sì da rendere tollerabili le possibili dissonanze16. Nella vita poteva capitare di dover supplicare qualcuno: nella penitenza e nella messa, durante un processo, per sancire una sottomissione dopo una ribellione, ma anche per corroborare la fedeltà a un signore17. Motivazioni prettamente politiche o giuridiche potevano dunque mescolarsi con moventi devozionali e di purificazione: con la consapevolezza — propria 13

Cfr. M. VALLERANI, La supplica al signore e il potere della misericordia. Bologna 1337-1347, in Quaderni storici 44 (2009) 2, 412 e s. 14 Cfr. G. KOZIOL, Begging pardon and favour, cit., 322. 15 Lo fa rilevare L. SCHMUGGE, Suppliche e diritto canonico. Il caso della Penitenzeria, in Suppliques et requêtes: le gouvernement par la grâce en Occident, 12.-15. siècle, sous la direction de H. Millet, Rome 2003, 230. 16 Cfr. G. KOZIOL, Begging pardon and favour, cit., 322 s. 17 Cfr. ibid., cit., 291.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 124

124

Francesco Migliorino

dell’età premoderna — che ogni faccia del mondo era il fedele segnacolo dell’armonia del mondo. Il diritto era uno straordinario serbatoio di concetti e di valori. Dal suo vocabolario, sceglieva le parole giuste per immaginare la società prima ancora di regolarla con divieti e sanzioni18. Diversamente dai nostri tempi, non temeva le contaminazioni, metteva in contesto le domande del teologo con le argomentazioni del filosofo, per guidare l’uomo nel suo tribolato cammino. L’armonia dalla dissonanza si nutriva del paradigma di ordine che adattava alle circostanze con i congegni della dispensa e dell’eccezione. In questo la Penitenzieria apostolica è stata un fertile campo di esperienza, ha prodotto uno straordinario investimento di sapere e di potere. Ha connotato la storia sociale, religiosa e istituzionale dell’intera Europa. Fino alle soglie della modernità, ha contribuito a costruire — con decine di migliaia di documenti prodotti in serie — una ragnatela fittissima di richieste di grazia e di perdono. Come vedremo nelle sue carte, il modello penitenziale della colpa e il dispositivo sociale della vergogna, sorreggendosi a vicenda, mettevano in scena il problema insolubile della virtù e del disonore. 2. IL «CONFESSIONALE DEL PAPA» La Penitenzieria apostolica è una delle istituzioni più antiche della Curia romana. Muove i suoi primi passi nella seconda metà del sec. XII, in un tempo in cui il diritto nuovo delle decretali riceveva un formidabile impulso dalla teoria e dalla pratica della plenitudo potestatis del Vicario di Cristo. Le risposte date alle pressanti domande di giustizia che giungevano da ogni parte d’Europa aggiornavano il diritto antico della Chiesa e lo adeguavano alla missione universale del papato medievale19. Nel frattempo, la scienza giuridica s’incaricava 18 Cfr. in proposito A.M. HESPANHA, Introduzione alla storia del diritto europeo, Bologna 1999, 61 ss. 19 I papi esercitavano già da tempo le loro prerogative giurisdizionali al modo degli antichi imperatori romani, attraverso mandata, commissoria e responsa inviati a singoli su casi particolari. Quando il papato post-gregoriano riprese con nuovo vigore la sua tradizionale missione universalistica, i ricorsi a Roma si erano moltiplicati


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 125

Suppliche e grazia

125

nelle scuole universitarie di coordinare le norme del Decreto di Graziano con le nuove disposizioni papali20. Il diritto penitenziale si strutturava entro il più generale processo di centralizzazione di uffici, di procedure, di liturgie. La Curia romana era ormai avviata a diventare una inesauribile fonte di grazia: «Well of Grace», secondo la felice espressione dell’inglese John Paston21. È stato calcolato che «tra il grande scisma e la riforma luterana (1378-1523)» sono state registrate nella Cancelleria apostolica «circa 1.4 milioni di suppliche»22. Si tratta, per lo più, di richieste di benefici o di litterae de gratia, volte ad ottenere una sorta di prelazione beneficiale per il futuro. A queste fonti, già conosciute, si sono aggiunte nel 1983 decine di migliaia di documenti riemersi quasi dal nulla, quando è stato aperto agli studiosi l’Archivio della Penitenzieria apostolica23. Un patrimonio archivistico di straordinario interesse su cui Filippo Tamburini, dal 1969, aveva richiamato l’attenzione degli storici con un mutando la natura stessa della decretale, che fu sempre meno un atto spontaneo del pontefice sui problemi del governo e dell’amministrazione ecclesiastica, per assumere nel tempo più i caratteri del responso ad una domanda di giustizia: cfr. G. FRANSEN, Les décrétales et les collections de décrétales, Turnhout 1972, 12 ss.; K.W. NÖRR, Päpstliche Dekretalen und römisch-kanonischer Zivilprozess, in Studien zur europäischen Rechtsgeschichte, a cura di W. Wilhelm, Frankfurt am Main 1972, 53-65. 20 La canonistica, a differenza della civilistica, non aveva a che fare con un oggetto di lavoro compiuto, né si era mai interrotta dopo la pubblicazione del Decreto la ricerca di nuove regole di diritto da applicare nell’amministrazione e nella giurisdizione ecclesiastica. Durante il pontificato di Alessandro III, ma soprattutto da Innocenzo III in poi, si rinsaldò la stretta collaborazione fra teoria e prassi, fra l’attività dottrinaria delle scuole e l’uso sempre più frequente della giurisdizione delegata attraverso la procedura canonica del rescritto: cfr. K.W. NÖRR, Päpstliche Dekretalen, cit., 53 ss.; S. KUTTNER, Quelques observations sur l’autorité des collections canoniques dans le droit classique de l’Eglise, Actes du Congrès de droit canonique (Paris, 22-26 Avril 1947), Paris 1950, 355. 21 Cfr. L. SCHMUGGE, Suppliche e diritto canonico, cit., 207. 22 Cfr. l.c. 23 Come fa rilevare F. TAMBURINI, Santi e peccatori. Confessioni e suppliche dai registri della Penitenzieria dell’Archivio Segreto Vaticano (1451-1586), Milano 1995, 12 s., le felici intuizioni di Charles H. Haskins e Emil Göller sul ruolo della Penitenzieria nella storia della Chiesa tardo medievale restarono, per buona parte del Novecento, delle voci isolate, fino a quando la serie dei Registri delle suppliche fu individuata e poi depositata come fondo autonomo presso l’Archivio Vaticano.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 126

126

Francesco Migliorino

impegno generoso e appassionato. Carte scandalose e storie maledette, suppliche di ecclesiastici e di laici che chiedevano al papa di essere perdonati (e graziati) di peccati gravissimi con lo scopo dichiarato di essere reintegrati nei loro uffici e nei loro privilegi. Le origini dell’Ufficio si fanno risalire alla riserva papale per i peccati che erano di particolare gravità e rinviano alla risalente tradizione dei pellegrinaggi penitenziali a Roma, dove i fedeli si recavano «quo citius et melius misericordiam Dei consequerentur», tanto da meritare giustamente l’appellativo di confessionale del papa. Va da sé, però, che solo nel contesto della chiesa postgregoriana fu possibile porre in maniera più pressante l’esigenza di assegnare ad un personale ‘specializzato’ il compito di dispensare in nome del papa l’assoluzione dei peccati nei casi espressamente riservati. Il rimorso della colpa e la ricerca della grazia, infatti, coinvolgevano un numero sempre crescente di peccatori, al punto tale che i cardinali presbiteri, a cui i papi affidavano i pellegrini penitenti, cominciarono ad essere affiancati da Poenitentiarii istituiti allo scopo. In questa pratica, documentata da un vetusto libro («in quodam antiquo libro») posseduto da papa Benedetto XII, si può intravedere l’emersione di due distinte figure: i penitenzieri maggiori e minori. A quel tempo non c’era ancora un ufficio stabile né erano codificate regole e procedure. Circolavano, al più, i primi formulari per istruire e decidere i casi di routine24. Si andava affermando, comunque, una certa propensione ad ampliare l’ambito delle competenze originarie, ben oltre la sfera sacramentale. Ciò anche in virtù delle concessioni di nuove facoltà accordate ai cardinali Penitenzieri dai pontefici «vivae vocis oraculo»25. Grazie agli studi (e alle analisi quantitative) di Ludwig Schmugge e dei suoi allievi e collaboratori, oggi siamo in grado di interrogare una documentazione sorprendente per i suoi contenuti e la sua mole, 24 Il cardinale Tommaso da Capua è l’autore del più antico formulario (1234-1243): ed. H.C. LEA, A formulary of the Papal Penitentiary in the Thirteenth Century, Philadelphia 1892. 25 Cfr. F. TAMBURINI, Le dispense matrimoniali come fonte storica nei documenti della Penitenzieria apostolica (sec. XIII-XVI), in Le modèle familial européen: normes, déviances, contrôle du pouvoir, Actes des séminaires organisés par l’École française de Rome et l’Università di Roma, 1984, Rome 1986, 9 s.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 127

Suppliche e grazia

127

finalmente sottratta al cono d’ombra in cui è rimasta velata per sua intrinseca astuzia. Un Repertorium di 20.000 richieste di grazia rivolte da supplicanti tedeschi dal 1431 al 148126; 38.000 istanze, dal 1449 al 1553, di aspiranti chierici volte ad ottenere una dispensa dalla irregularitas ex defectu natalium27; 42.560 supplicanti che, dal 1445 al 1492, chiedono la grazia alla Penitenzieria per derogare ai divieti del diritto canonico in materia matrimoniale28. Diversamente dai registri della Cancelleria, le carte della Penitenzieria dunque spaziano tra i campi più diversi: dall’assoluzione dei peccati già commessi alle indulgenze per quelli ancora da compiere, dalle dispense dalle condizioni di irregolarità alle licenze d’agire in deroga alle norme canoniche vigenti. Le assoluzioni, di norma, erano protette dal sigillo della confessione e perciò non andavano registrate, salvo quando le colpe avevano creato pubblico scandalo e si ponevano perciò sull’incerto confine tra il peccato e il crimine. Le dispense sollevavano, per casi singolari, dall’obbligo di rispettare i canoni e riguardavano, nella stragrande maggioranza dei casi, gli impedimenti matrimoniali29 e le inabilità all’ordine sacerdotale30. Le licenze scioglievano un religioso dal voto, consentivano a un laico di scegliere il proprio confessore, concedevano a un chierico di venir meno all’obbligo di residenza per avviarsi agli studi o per intraprendere un pelle26

L. SCHMUGGE et al. (cur.), Repertorium Poenitentiariae Germanicum, 6 voll., Tübingen 1996-2005. 27 ID., Kirche, Kinder Karrieren. Päpstliche Dispense von der unehelichen Geburt im Spätmittelalter, Zürich 1995. 28 ID., Deutsche Ehen vor römischem Gericht. Matrimonialdispense der Pönitentiarie aus deutschsprachigen Gegenden Europas (1455-1484), in The Roman Curia, the Apostolic Penitentiary and the partes in the Later Middle Ages, a cura di K. Salonen e C. Krotzl, Roma 2003, 118. 29 Le dispense matrimoniali erano registrate sotto la rubrica de matrimonialibus ed erano date, per lo più, in deroga al divieto dei matrimoni clandestini, agli impedimenti di parentela fino al quarto grado di affinità e consanguineità, alla proibizione della cognatio spiritualis: L. SCHMUGGE, Suppliche e diritto canonico, cit., 212 s. 30 Registrate sotto diverse rubriche (de defectu natalium, de uberiori gratia, de promotis et promovendis), dispensavano dal difetto della nascita illegittima o dall’età minima prescritta dai canoni e dal divieto di essere ordinati fuori dalla propria diocesi: L. SCHMUGGE, Suppliche e diritto canonico, cit., 214 s.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 128

128

Francesco Migliorino

grinaggio. Le indulgenze, fra l’altro, esentavano dall’obbligo di determinati esercizi penitenziali31. Tra foro interno della coscienza e foro esterno delle azioni, ogni singola littera Poenitentiariae, «inviata in genere ad una autorità religiosa o ecclesiastica e spedita per via postale o consegnata a mano, nel caso non infrequente che l’oratore fosse venuto personalmente presso la Curia papale» per perorare la sua richiesta di grazia, era un documento opponibile nel foro contenzioso e valeva a sanare una particolare condizione di irregolarità32. Nonostante ciò, non si può dire che la Penitenzieria fosse propriamente una corte giudiziaria. I penitentiarii agivano come confessori e nell’accogliere le ammissioni di colpa dei supplicanti le valutavano in rapporto alla congruità della richiesta di grazia, dando per presunta la veridicità delle loro affermazioni33. Seguiamo gli affanni del supplicante. Se poteva, egli si recava a Roma per affidare alle persone giuste la sua petizione. Vagava tra le tante apoteche (tra San Pietro, San Paolo e Santa Maria Maggiore) per farsi assistere da un procurator. Se era più risoluto, avvicinava uno dei penitenzieri minori. Presentata la supplica e ottenuta la grazia, dopo aver pagato per la confezione della lettera e la sua spedizione tornava finalmente a casa per far valere il beneficio della grazia ricevuta. Gli ufficiali della Penitenzieria provvedevano nel frattempo a inserire in forma abbreviata la supplica e la decisione, che solo in pochissimi casi era firmata dallo stesso papa34. Nel Quattrocento, con il superamento del conciliarismo, «la Penitenzieria apostolica diventò il più importante centro di distribuzione della grazia ecclesiastica». Com’è stato mostrato, «uomini e donne di tutti gli strati sociali, chierici e laici, dal cardinale fino alla semplice monaca, dal re al bambino esposto nella ruota di un orfanotrofio, erano i ‘clienti’ della Penitenzieria»35. Specialmente per gli scomunicati 31 Cfr. W.P. MÜLLER, Violence et droit canonique: les enseignements de la Pénitencerie apostolique (XIIIe—XVIe siècles), in Revue historique 131 (2007) 776. 32 Cfr. F. TAMBURINI, Santi e peccatori, cit., 11. 33 Cfr. W.P. MÜLLER, Violence et droit canonique, cit., 776. 34 Cfr. le dense pagine di K. SALONEN – L. SCHMUGGE, A sip from the “Well of grace”. Medieval texts from the Apostolic Penitentiary, Washington DC 2009, 69 ss. 35 Cfr. L. SCHMUGGE, Suppliche e diritto canonico, cit., 209.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 129

Suppliche e grazia

129

non vi era altro rimedio per essere ricongiunti alla comunione dei fedeli che la supplica al papa. Nei casi controversi e là dove era pendente un valido appello, poteva anche bastare una absolutio ad cautelam36. Per i chierici una condizione di irregolarità (ex culpa o ex defectu famae) faceva correre il rischio di perdere per sempre un beneficio. Per loro era oltremodo urgente la richiesta di essere reintegrati nello stato clericale. I benefici potevano pure restare vacanti, lo scandalo invece rischiava di infliggere una ferita ben più tagliente nella coscienza dei più37. Gli atti della Penitenzieria sono documenti confezionati ‘in serie’ secondo i collaudati criteri formulari di una istituzione che soffocava sotto il peso del suo stesso lavoro38. Noiosi e ripetitivi, come i peccati che, da sempre, si danno a vedere: tanto orrendi quanto banali. Nonostante ciò, quelle carte riservano agli storici sempre nuove sorprese, per la dovizia di informazioni e per la indicibile vena letteraria delle sue storie. Mi riferisco, soprattutto ma non esclusivamente, alle litterae 36 Ne fa un utile inquadramento il cardinale Bérenger Frédol nel suo Liber de excommunicacione, cap. de absolucione ad cautelam (ed. E. Vernay, Paris 1912), 1-18; in sintesi: «Ego autem Berengarius, consideratis omnibus que circa materiam istam notantur, talem breviter trado doctrinam quod ubicumque probabiliter dubitatur an aliquis excommunicatus vel non ut quia dicitur sentencia nulla et de hoc alique presumpciones apparent, non tamen constat, vel quia fama est quod aliquis est excommunicatus, non tamen aliter constat et talis vult anime sue vel fame consulere vel actum aliquem exercere a quo repelleretur excommunicatus, talis potest et debet ad cautelam absolvi» (7). 37 Le due regole apostoliche per la promozione al reggimento della diocesi e per l’ordinazione sacerdotale erano lette con limpida consapevolezza dagli interpreti. Oportet enim episcopum sine crimine esse e oportet autem illum et testimonium habere bonum diventavano il fondamento della distinzione tra l’irregularitas ex culpa e quella ex defectu famae. Nel primo caso l’impedimento derivava dalla criminalis infamia, concetto che serve da spartiacque tra il crimine e il peccato; nella seconda ipotesi, lo scadimento della fama presso la comunità dei fedeli impediva al pretendente di essere ordinato sacerdote: F. GILLMANN, Zur Geschichte des Gebrauchs der Ausdrücke “irregularis” und “irregularitas”, in Archiv für katholisches Kirchenrecht 91 (1911) 56 ss.; B. LÖBMANN, Der kanonische Infamiebegriff in seiner geschichtlichen Entwicklung, Leipzig 1956, 9 ss; F. MIGLIORINO, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Catania 1985, 184 ss. 38 Fondamentale per l’analisi diplomatica dei documenti prodotti dalla Penitenzieria papale K. SALONEN – L. SCHMUGGE, A sip from the “Well of grace”, cit., 84 ss.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 130

130

Francesco Migliorino

declaratoriae, che dal secolo XV compaiono in registri a parte dalle consuete forme di grazia delegate dal papa alla Penitenzieria (assoluzione, dispensa, licenza e indulgenza)39. Un serbatoio insaziabile di colpe e accomodamenti, di strategie personali e urgenze istituzionali, di regole incrollabili e dissimulazioni necessarie. Un fantasmatico teatro che mette in scena la vergogna e la colpa, che lascia sullo sfondo le storie miserabili dei suoi personaggi oscuri per effigiare — in una sorta di affresco tragico — la società e la sua cultura. 3. IL CRISANTEMO E LA SPADA Vorremmo ora raccontare alcune di queste storie. Hanno in comune una sollecitudine così grande per la perdita della buona fama da fare impallidire ogni parvenza di rimorso, nell’incerto e opaco confine fra la vergogna e la colpa. A volte i supplicanti si dichiarano responsabili di peccati nefandi e, tuttavia, portano il peso di una vergogna che sembra avere a che fare più «con la vista e l’essere visto» che con il «risuonare in se stessi della voce del giudizio»40. Chiedono una assoluzione o una dispensa per tornare ad essere quelli che erano, prima di essere stati giudicati e censurati dallo sguardo degli altri. Altre volte, proclamano la loro innocenza, ma piegati dal vento maligno della diffa39 Cfr. W.P. MÜLLER, Violence et droit canonique, cit., 780 s., che ne mette in evidenza, oltre all’ampiezza e alla cura del racconto, l’«enigmatico» inquadramento delle funzioni giuridiche. Dal nostro punto vista, la richiesta pressante (comune a molte suppliche) della restituito in integrum non è poi così enigmatica e si inscrive pienamente nella potestà papale di decidere contra ius per ragioni di necessità ed equità. In proposito, ci permettiamo di rinviare a F. MIGLIORINO, In terris ecclesiae. Frammenti di ius proprium nel Liber Extra di Gregorio IX, Roma 1992, 177 ss. 40 Cfr. B. WILLIAMS, Vergogna e necessità, trad. it., Bologna 2007, 105 (per la citazione), che mette in discussione la distinzione (inaugurata da Margaret Mead e resa celebre da un saggio insperato di Ruth Benedict: Il crisantemo e la spada. Modelli di cultura giapponese, trad. it., Bari 1968), tra shame culture e guilt culture. Come si sa, l’intuizione dell’antropologa americana, che aveva preparato il suo denso saggio in vista di un’invasione del Giappone da parte delle forze armate americane, ha ampliato la sua portata euristica per spingersi, forse più del dovuto, a spiegare l’emersione di una ragione morale nella coscienza dei Greci post-omerici: E.R. DODDS, I greci e l’irrazionale, trad. it., Firenze 1969 e A.W.H. ADKINS, La morale dei Greci: da Omero ad Aristotele, trad. it., Bari 1964.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 131

Suppliche e grazia

131

mazione aspettano almeno una dichiarazione che li metta al riparo da zelanti inquisitori o da interessati debitori. Quando, invece, l’infamia continua a produrre i suoi effetti di esclusione e inabilità, si spingono al punto da implorare comunque un’assoluzione, preferiscono essere liberati formalmente da una colpa non commessa piuttosto che subire l’onta di un discredito realmente operante. Siamo in Norvegia, nella diocesi di Nidaros (oggi Trondheim). Jean Albertsson, canonico agostiniano del monastero di Saint-Siège, viene convocato dal suo superiore per sostituire nella cura della chiesa parrocchiale di Verdal il presbitero Andrea che da tre anni è impedito da una grave malattia. Jean comincia a svolgere le sue funzioni di supplenza regolarmente e per sei mesi. La salute malferma di Andrea precipita e, alla sua morte, l’arcivescovo conferisce al vicario l’ufficio pastorale, gli chiede di occuparsi pienamente della cura e dell’amministrazione della parrocchia «tam in spiritualibus quam in temporalibus». Passa solo qualche giorno e scoppia una lite tra Jean e Margherita, una familiare del defunto Andrea che s’era insediata stabilmente nei locali della chiesa. Per reagire alle frasi ingiuriose della donna, il nuovo parroco l’ammonisce a parole e, poi, la colpisce tre volte con un innocuo bastone (così egli dice!) sulla parte superiore della gamba, sul braccio sinistro e, ancora, sulla mano destra. Non aveva tenuto conto che la donna era già sofferente per i traumi che si era procurata qualche tempo prima maneggiando con imprudenza un’ascia e un martello. Cinque giorni dopo l’aggressione di Jean, Margherita muore. Il rumore (la mala fama) dell’accaduto si propaga. Corre di bocca in bocca, si nutre delle malevole insinuazioni che la donna aveva disseminato per mettere in cattiva luce l’intruso. Il malcapitato ricorre alla Penitenzieria alla ricerca di un rimedio. Sa bene il rischio che corre per la corrente avversa e sinistra delle maldicenze. È regola indefettibile che la violenza non sia compatibile con lo stato clericale41. Il disonore, non meritato, lo pone in una condizione di inabilità a svolgere le sue funzioni. Ben consigliato sulla forma della supplica, egli dichiara la sua 41

In questa prospettiva la vicenda è messa in luce e studiata nel bel saggio di W.P. MÜLLER, Violence et droit canonique, cit., 781 ss.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 132

132

Francesco Migliorino

innocenza, chiede e ottiene dalla Penitenzieria (il 29 aprile 1498) una littera declaratoria «quatenus ipsum nullum homicidii reatum incurrisse» per mettersi al riparo dalla scomunica, dalla irregolarità e dalla nota d’infamia. Passano diciotto anni e continua a pesare nella pubblica opinione il sospetto della colpevolezza di Jean. Ancora una supplica alla Penitenzieria. Questa volta il defamatus non chiede una declaratoria, egli ha buone ragioni per dubitare che a causa di quell’evento possa ancora trovarsi in una condizione di irregularitas ex culpa che lo esclude da ogni aspirazione a un beneficio ecclesiastico. Diversamente dalla prima istanza, qui egli chiede (e ottiene) di essere assolto ad cautelam. La solenne e autorevole dichiarazione ottenuta nel 1498 serviva a spegnere la diffusione di voci infamanti che compromettevano la reputazione di Jean al punto tale da renderlo inabile all’esercizio pastorale. L’assoluzione che è invocata nella seconda supplica, invece, è di un individuo che dinanzi all’evento criminoso rinuncia a negare le sue responsabilità penitenziali e penali. Un percorso che si accompagna di volta in volta alla vergogna e alla colpa. Una strategia di difesa che — ben prima della segretezza barocca — lascia intravedere sullo sfondo e all’orizzonte l’uso disinvolto (e condiviso) della dis/simulazione42. Altri innocenti che invocano la restituzione della fama43. Pierre Le Gros, laico di Thérouanne, è un uomo «honeste conversationis et vite». Entro i limiti della umana fragilità, si è astenuto sempre dalla macchia del peccato. Persone invidiose e rivali che gli volevano male, lo accusano di avere commesso atti contro natura nei confronti di un fanciullo, diffamandolo «apud bonos et graves»44. 42 Per un quadro d’insieme, cfr. J.-P.CAVAILLÉ, Dis/simulations. Religion, morale et politique au XVIIe siècle, Paris 2002. 43 Per i tre casi che seguono, vedi F. TAMBURINI, Santi e peccatori, cit.: supplica di Pierre Le Gros (29 marzo 1452), doc. 3, 119 s.; supplica di Bratusia (31 agosto 1490), doc. 37, 185 s.; supplica di Antonello de Luca (21 febbraio 1552), doc. 87, 319 s. 44 Nella canonistica classica l’infamia facti coincide spesso con la decoloratio famae e nelle sue fasi formative è presupposto processuale per la purgazione canonica. Eppure, i suoi effetti sono rilevanti nella promozione agli ordini sacri, nell’esercizio degli atti legittimi, nella facoltà di muovere un’accusa o di prestare una testimonianza. Nelle opere dei decretisti l’infamia di fatto assume un ruolo crescente, ed è riferita ai luoghi (moltissimi) in cui le fonti antiche della Chiesa riferiscono di una non bona


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 133

Suppliche e grazia

133

Il supplicante si dichiara del tutto innocente e tuttavia sa bene quanto incerto sia il confine tra l’infamia irrogata da un tribunale e la diffamatio che viene dal mormorio malevolo dei più45. Narra di essersi messo volontariamente nelle mani della giustizia secolare al fine di purgarsi da un’accusa così ripugnante. In quella sede il fanciullo confessa di essere stato circuito dagli accusatori e di aver detto quello che ha detto perché istigato da loro. La nota dell’infamia e del disonore, però, resta in agguato. Qualche tempo dopo, infatti, un tale che doveva del denaro a Pierre, per non pagargli il debito lo accusa («diffamat») con malizia («maliciose») del peccato di sodomia. Nonostante non si sia insudiciato mai di tale crimine, l’oratore teme che presentandosi ancora all’autorità secolare sia posto alla tortura e costretto per paura a confessare colpe mai commesse. Seguendo quindi i buoni consigli di parenti ed amici, egli viene di persona presso la Curia romana, «exponens quatenus ut ipse in pace et quiete vivere valeat de cetero et ne ulterius super premissis indebite molestetur». Chiede anche l’assoluzione dal peccato di sodomia «saltem ad cautelam», con la cancellazione della macchia d’infamia — anche nel caso abbia meritato quella cicatrice senza saperlo («si quam contraxit») — e la restituzione alla piena e inviolata condizione giuridica. La Penitenzieria accorda la grazia. Bratusia, una donna della parrocchia di Bayons, nella diocesi di Embrun, espone di essere sempre vissuta onestamente e secondo i precetti cattolici. Mai era stata sospettata o accusata di eresia o di sortilegio. La sua fama era limpida e non compromessa. Nonostante ciò, inaspettatamente viene messa sotto processo come eretica e strega da Giacomo di Rampart, uno spietato inquisitore appartenente all’ordine dei Frati minori. A causa di tali accuse, Bratusia viene incarcerata e, in deroga al conversatio di persone che, a causa del loro scadimento morale, sono giustamente tenute fuori dai riti liturgici e da quelli mondani. Da qui, l’insistito richiamo delle fonti all’immagine di un’opinio dehonestata apud bonos et graves, per stigmatizzare quel defectum famae che è il risultato di una vita reprensibile e che non sempre è collegata a una condotta delittuosa: F. MIGLIORINO, Fama e infamia, cit., 171-197. 45 In proposito, cfr. P. LANDAU, Die Entstehung des kanonischen Infamiebegriffs von Gratian bis zur Glossa ordinaria, Köln-Graz 1966, 17 ss.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 134

134

Francesco Migliorino

rito giudiziario, sottoposta più volte ai tormenti. Lo strazio è senza misura ed eccede la sua stessa vita, la cella è così umida e angusta da lasciarla senza respiro. Non riesce neppure a darsi la morte, alla fine è costretta per disperazione a confessare colpe mai commesse. Il risultato? Fin troppo mite: viene condannata a compiere svariati pellegrinaggi penitenziali. La paura, però, non si sazia e la supplicante, benché ingiustamente inquisita, carcerata e condannata, sa bene che in futuro l’aspettano falsi testimoni e nuovi tormenti. È stupefacente, perciò, che nella supplica che rivolge alla Penitenzieria faccia riferimento soprattutto al timore di patire l’infamia. Ribadisce la sua innocenza, eppure ammette di avere abiurato il reato di eresia e di magia nelle mani dell’arcivescovo. Chiede di essere assolta dalla scomunica, dispensata dall’infamia e restituita nel seno della Chiesa. Il risultato: «Fiat de speciali et expresso»46. Antonello de Luca, canonico della Collegiata di S. Nicola di Nicosia, nella diocesi di Messina, è accusato falsamente da un uomo del suo paese e suo nemico, davanti all’Ordinario, del nefando crimine di sodomia. Ha cercato di dimostrare la sua innocenza ma, avendo saputo che per tale crimine era stato già citato in giudizio dalla curia del viceré di Sicilia, teme di non reggere di fronte alle false prove dei suoi avversari. Viene di persona a Roma e confida più nella misericordia della Chiesa che nella propria capacità di difesa. Implora di essere assolto «in utroque foro» dal delitto di sodomia. Non lo ha commesso quel crimine ma chiede la riconciliazione, si mette nei panni di chi lo ha commesso («quomodolibet commiserit»). La sua è una supplica sorprendente ma non inconsueta. La liberazione da tutte le censure è l’unica via di scampo per esercitare ancora il ministero dell’altare e per mantenere i benefici ecclesiastici. Altre volte vengono in soccorso la tolerantia e la dissimulatio, congegni formidabili che, ispirandosi alla necessitas e all’aequitas, tengono sospese — alla maniera della pipa di Magritte — le dure 46 La locuzione indica che il penitentiarius maior aveva ricevuto dal papa — vivae vocis oraculo — la delega a trattare un caso che era fuori dalla competenza ordinaria della Penitenzieria: K. SALONEN – L. SCHMUGGE, A sip from the “Well of grace”, cit., 75.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 135

Suppliche e grazia

135

prescrizioni della teologia morale e del diritto canonico. Uno stato d’eccezione. Come quando l’infamia canonica è rimessa direttamente dal papa (Pio II, in una grazia del 1463) per dispensare quattro tremuli supplicanti che da adulti portano ancora il fardello delle incolpevoli pulsioni di quand’erano adolescenti47. Accade anche — e non sono casi rari — che i supplicanti si dichiarino colpevoli e chiedano un’assoluzione o una dispensa per il pericolo di incontrare prima o poi lo sguardo (cioè il giudizio) degli altri. L’ammissione dunque della colpa ma anche la paura della vergogna (e quindi dell’infamia e delle sue nefaste conseguenze)48. Registro del 28 giugno 1492. Pietro di Peyto, maestro in teologia, frate professo dell’ordine dei Carmelitani, provinciale di Tolosa, «istigante diabolo» ha commesso l’abominevole peccato di sodomia («tam a posterioribus quam anterioribus partibus») con chierici, laici e religiosi del suo ordine. Dentro e fuori dal convento. Ha indotto svariate persone alla masturbazione reciproca di giorno e di notte, ha avuto rapporti carnali con donne. Teme di essere incorso nella scomunica promulgata dagli statuti del suo ordine per i reati commessi. Tuttavia, non è stato accusato o processato. È come se il peccato non avesse ancora valicato i confini della coscienza. Nell’ipotesi che sia effettivamente incorso nella scomunica — «si quam propter premissa forsan incurrerit» (sic!) — l’oratore chiede l’assoluzione nel foro penitenziale e contenzioso. Chiede anche la dispensa dalla irregolarità contratta e di poter mantenere l’ufficio di provinciale o altri incarichi che gli venissero affidati. Chiede altresì 47

Grazia del 3 giugno 1463: cinque uomini della diocesi di Vicenza, quattro ecclesiastici e un laico. Francesco presbitero, Domenico Conforti, Andrea diacono, Pietro di Antonio suddiacono, Girolamo di Crantano. Quando erano adolescenti, insieme ad altri coetanei, furono scoperti a commettere il crimine di sodomia. Processati e condannati ad una certa pena. Il tono della supplica: «Sed quia premissa sine magna infamia haberi non valent, supplicant S.V. iidem exponentes quatenus ipsos a dicto vicio absolvi secumque super irregularitate […] dispensare mandare dignemini omneque infamie maculam abolendo». Chiedono l’assoluzione, la dispensa dalla irregolarità e la remissione dell’infamia: F. TAMBURINI, Santi e peccatori, cit., doc. 14, 136. 48 Basterebbe scorrere la documentazione edita da F. TAMBURINI, Santi e peccatori, cit., 111-360.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 136

136

Francesco Migliorino

l’abolizione dell’infamia e di non essere più molestato dai giudici secolari o ecclesiastici. La decisione della Penitenzieria è condizionale: «Fiat de gratia speciali et expresso dummodo super premissis iudicialiter inquisitus citatus confessus aut convictus non fuerit»49. Alla fine, la grazia opera come salvacondotto da esibire, all’occorrenza, davanti a giudici e accusatori. I peccati occulti, dunque, devono esser confinati nel temibile colloquio che il penitente instaura con la sua coscienza, al cospetto di un amorevole ed esperto medico dell’anima. Lontani dai tribunali, dove rischierebbero di procurare, attraverso la comunicazione sociale, un danno ancora maggiore nella coscienza dei più. Tanto più quando il peccato si riveste di un attributo, quello dello scandalo, che minaccia, col cattivo esempio, ogni singolo cristiano nella sua coscienza e la società intera nella sua condizione ordinata. In tale contesto, l’infamia che si accompagna alla violazione del sigillo del segreto è la più autentica creatura dello scandalo50. Due storie diverse ma accomunate dalla speciale sollecitudine a lasciare velato (non visibile allo sguardo degli altri) il volto di chi si è autoaccusato dei propri peccati. 14 ottobre 1452: Michele di Epila, presbitero dell’Ordine dei Predicatori, professore di sacra teologia e confessore del re Alfonso d’Aragona, chiede la facoltà di assolvere una donna di Napoli, della quale non può fare il nome, dal reato di uccisione deliberata della prole. Egli chiede, dunque, una «gratia de speciali» per un caso riservato al papa. Il Penitenziere accorda la grazia («Fiat de speciali») con espresso riferimento al turbamento e allo scandalo che ne deriverebbero se si venisse a conoscere il nome della nobile: «Et quod nomen et cognomen dicte muliebri habeantur pro expresso cum si exprimerentur et factum huiusmodi manifestaretur magna exinde scandala verisimiliter orirentur»51. 49

Cfr. ID., Santi e peccatori, cit., doc. 39, 189-191. Per il notevole contributo dato in materia dai teologi salmantini, cfr. F. MIGLIORINO, Il corpo come testo, cit., 76 ss. 51 Cfr. F. TAMBURINI, Santi e peccatori, cit., doc. 6, 124 s. 50


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 137

Suppliche e grazia

137

14 marzo 1486: Ulrico Val de Eligen è un sacerdote della diocesi di Costanza. Un giorno, trovandosi in una bottega di barbitonsore a conversare con altri presbiteri suoi amici, racconta di avere ricevuto la confessione di una ventina di persone (venute dal Nord), che avevano avuto rapporti sessuali con bestie («cum quodam cane abhorrendum sodomie vicium») e anche fra loro e con una donna. Il vescovo di Costanza lo aveva privato del beneficio ecclesiastico e sospeso in perpetuo dall’esercizio degli ordini. Dopo averlo pubblicamente scomunicato e degradato, lo aveva fatto rinchiudere in carcere. Dopo tre mesi di prigione, era stato rilasciato per ordine dello stesso vescovo che aveva raccolto ulteriori informazioni. L’oratore ammette di essere stato quantomeno imprudente ma l’abominio di quei peccatori lo aveva scosso. Nonostante ne abbia parlato in pubblico, egli non ha violato il sigillo della confessione, né ha nominato alcuna persona in particolare. Implora perciò l’assoluzione dalla scomunica, la dispensa dall’irregolarità e dall’inabilità contratte. Chiede anche di essere liberato dalla macchia dell’infamia52. Nelle severe e segrete stanze della Penitenzieria apostolica si ricevono e si registrano storie di ordinaria miseria. Maneggiate con la puntigliosa precisione di giuristi e moralisti. Nel frattempo sono sempre al lavoro parole possenti che decidono della vita degli uomini.

52

Cfr. ibid., doc. 30, 170 s.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 138


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 139

PREGARE COI SALMI (NELL’ALDILÀ). SALMODIE ULTRATERRENE NELLA «COMMEDIA» DI DANTE

SERGIO CRISTALDI*

1. IL GRANDE DIVORZIO Dante si è sempre mostrato sensibile all’intersezione, per lui irrinunciabile, di preghiera e poesia, e l’ha anche tematizzata, con riferimento a uno dei libri biblici a riguardo più significativi, il libro dei Salmi. Nel Convivio, Davide, autore del Salterio, è accostato a Omero, primatista della poesia classica: il primo è nell’ordine della grazia ciò che il secondo è nell’ordine della natura, sicché i Salmi, manifestazione altissima preghiera, sono al tempo stesso esito assoluto di poesia1. Il trattato dantesco attribuisce così ai Salmi la caratteristica tipica del linguaggio poetico, il convergere di senso e bellezza, di semantica e forma, componenti che concorrendo al costituirsi dell’enunciato ne fanno un contenuto espresso al suo culmine, in pienezza. Come vuole l’estetica dell’ornatus, propria dell’epoca, la «sentenza» (il senso, appunto, dell’enunciato) possiede una consistenza autonoma e sempre enucleabile, mentre la «bellezza» interviene come splendida aggiunta, tanto da lasciarsi definire attraverso le metafore del rivestimento e della cosmesi. * Docente di Letteratura italiana presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Catania. 1 L’edizione di riferimento è DANTE ALIGHIERI, Convivio, a cura di F. Brambilla Ageno, 2 voll., Firenze 1995.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 140

140

Sergio Cristaldi

Val la pena fermarsi — lo stretto indispensabile — su questo secondo versante, per mettere a fuoco la nozione dantesca della forma poetica: essa consiste in quella «armonia» verbale che nel linguaggio è latente e che affiora nella pronuncia ispirata — e al tempo stesso accuratamente elaborata — dell’artefice. Producono questa armonia o «dolcezza» vettori diversi, di cui uno assolutamente specifico, non condiviso cioè dalla prosa (che pure aspira, secondo la sua misura, a risultati esteticamente apprezzabili): «lo numero delle parti», che nasce dal numero delle sillabe nel verso, dal numero dei versi nella strofa e ancora dal numero delle strofe in un componimento (Conv., II, XI, 9). Si attua qui un «legame musaico» (I, VII, 14), vale a dire una speciale connessione fra le parti, chiamate a rispondersi reciprocamente dal punto di vista melodico; come suggerisce l’aggettivo «musaico», da intendersi, secondo l’acuta decodifica di Pier Vincenzo Mengaldo, con riferimento non già alle Muse, bensì alla musica2. Se adesso interroghiamo, per ulteriori lumi, il De vulgari eloquentia, scritto in tempi attigui al primo trattato del Convivio, troviamo un approfondimento circostanziato delle categorie suddette. A norma dell’opera latina — che delimita e approfondisce come argomento specifico quello che altrove era un rapido sondaggio, nel suo percorrere tutta la filiera che partendo dalla linguistica tocca la retorica e la teoria della letteratura, per giungere agli istituti fondamentali dell’espressività poetica — armonia e musicalità nascono da tre elementi. Sono nozioni con cui ha confidenza chiunque si occupi di Dante3. Conta anzitutto la purezza melodica della singola parola, cui si aggiungono la disposizione eufonica della parola nella frase e l’accorta costruzione sintattica, con il finale sigillo della compagine metrica. Ma questi sono ancora parametri universali e, come tali, astratti; prendono corpo nel momento in cui sono verificati sul terreno della produzione in lingua di sì. Il De vulgari promuove i vocaboli piani, di misura trisillabica o prossima alla trisillabica, senza z o x, né doppia liquida, né incontro di muta più liquida: sono questi i vocaboli pettinati («pexa», 2

Cfr. P.V. MENGALDO, Parole di Dante: musaico, in Lingua nostra 30 (1969) 33-34. Fondamentale M. PAZZAGLIA, Il verso e l’arte della canzone nel «De vulgari eloquentia», Firenze 1967. 3


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 141

Pregare coi salmi (nell’aldilà)

141

II, VII, 4), fiori all’occhiello del corredo linguistico nostrano, tessere decisive per l’armonia dell’assieme da realizzare («armonia compaginis», II, VII, 5)4. Questo artificio viene ulteriormente raffinato dalla costruzione sintattica elaborata e sapida, con le sue accorte inversioni dell’ordine consueto di termini e proposizioni. Al culmine, l’organizzazione metrica, vettore specifico (come evidenzia anche il Convivio, l’avevamo già notato) della poesia: cucendo il verso e la strofa, il metro trova le sue migliori realizzazioni rispettivamente nell’endecasillabo e nella canzone, e rinsalda la compagine strofica con le rime, veicolo privilegiato, specie quelle variate, di una complessiva dolcezza armonica («ex hoc maxime totius armonie dulcedo intenditur», II, XIII, 4). Una simile armonia, secondo il Convivio, hanno posseduto i Salmi, nell’originaria formulazione davidica. A questo punto sporge però una pietra d’inciampo, che non si può smussare e ridimensionare. Noi, constata Dante nel trattato volgare, accostiamo i Salmi in traduzione, nella versione latina della Vulgata; ora, la bellezza come armonia verbale si incarna in un concreto veicolo linguistico, e con il trasferimento del testo da una lingua a un’altra il legame musaico si scioglie, il coefficiente melodico rimane azzerato. Il Salterio volto in greco e poi in latino trattiene certo la dimensione semantica, ma è interamente privo dell’originaria suggestione estetica che la assecondava ed esaltava, e questo deficit è dovuto non a contingente imperizia di traduttori inadeguati, bensì all’inevitabile inefficienza del tradurre quando si applichi alla poesia, per definizione intraducibile: «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza ed armonia. E questa è la cagione per che Omero non si mutò di greco in latino, come l’altre scritture che avemo da loro. E questa è la cagione per che i versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d’armonia: ché essi furono transmutati d’ebreo in greco e di greco in latino, e nella prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno» (Conv., I, VII, 14-16).

4

Si cita da DANTE ALIGHIERI, De vulgari eloquentia, a cura di P.V. Mengaldo, in Opere minori, III/1, Milano-Napoli 19962.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 142

142

Sergio Cristaldi

Non c’è dubbio, noi recepiamo il senso dei Salmi, preghiamo con i Salmi, ma non possiamo apprezzare un nativo convergere di senso e bellezza: nel Salterio a nostra disposizione, il senso resta appoggiato su una protesi, su una gruccia, non è più un contenuto espresso nella sua forma più bella, dunque nella sua pienezza. Ma il principio dell’intraducibilità della poesia è poi così tassativo e non negoziabile? Se passiamo dal nostro primo piano su Dante trattatista a un campo lungo in grado di abbracciare teorie antiche e moderne, ci rendiamo conto che tanto rigore è di solito mitigato dalle riflessioni più avvertite e prudenti. A monte, nella Tarda Antichità, san Girolamo — l’artefice appunto della Vulgata — ammette il trasferimento dell’enunciato poetico da un codice linguistico all’altro, a patto che i versi siano resi coi versi5. E a valle, nel calibrato ripensamento dell’estetica novecentesca, Benedetto Croce e Roman Jakobson, pur sensibilissimi al rischio di indebolimento e di perdita del poetico nelle traduzioni, aprono nondimeno sostanziosi spiragli: il primo contemplando una «ri-creazione» a partire dai nuovi sentimenti di chi traduce, il secondo con l’avallo a una «trasposizione creatrice»6. Dante, invece, non ha mai ammorbidito, in sede di teoria, il suo veto7. Solo che Dante non è esclusivamente un teorico, e da lui è inevitabile aspettarsi qualcosa di più, un rilancio su un altro tavolo, entro l’ambito della scrittura creativa; non negli altri trattati, dunque, che del resto sono in latino, e all’occorrenza citano i Salmi secondo la Vulgata, ma nel poema sacro, summa non meno stilistica che teologica, in cui cielo e terra promuovono tanto l’espressività quanto la consapevolezza. 5 Solo l’estetica moderna avrebbe sdoganato il ricorso all’oratio soluta nella traduzione della poesia. E cfr. C. CARENA, I turbamenti di san Gerolamo, in Paragone 40 (1989) 26-41: 26. 6 È stato il Roncaglia, sempre in margine al diniego del Convivio, ad annoverare la maggiore disponibilità di Croce e di Jakobson, nonostante le loro iniziali remore. Cfr. A. RONCAGLIA, De quibusdam provincialibus translatis in lingua nostra, in Letteratura e critica. Studi in onore di N. Sapegno, 5 voll., Roma 1974-1979, II, 1-36: 11. 7 La singolarità della posizione dantesca ha fatto pensare a un’esigenza contingente, maturata sul terreno della propria evoluzione di poeta. Secondo M. Chiamenti, Dante vuol difendere «l’irrevocabilità della sua scelta linguistica ed ideologica di comporre le canzoni morali in volgare, e di conseguenza la loro intraducibilità» (Dante Alighieri traduttore, Firenze 1995, 204).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 143

Pregare coi salmi (nell’aldilà)

143

2. DISSONANZE INFERNALI A prima vista, una porzione della Commedia sembra a sua volta non pertinente; si tratta, troppo ovvio, dell’Inferno, che nel migliore dei casi è teatro di una nostalgia del pregare irrisolta e frustrata — «se fosse amico il re de l’universo», confessa Francesca, «noi pregheremmo lui» (Inf., V, 91-92)8 —, e alle sue latitudini più cupe comporta sfaldamento di ogni espressività, regressione nel totalmente inarticolato, urlo, lamento, sospiro, singulto, al limite silenzio greve, inespressivo. Passeremmo dunque oltre se non ci fossero, a incuriosirci, a intrigarci, le parole del gigante Nembrotto, irriducibilmente astruse, incomprensibili per la disorientata competenza linguistica di Dante e Virgilio, e desolatamente prive di apprezzabile feed-back, ma a ben vedere (o udire) tutt’altro che irrilevanti: «”Raphèl maì amècche zabì almi,” cominciò a gridar la fiera bocca, cui non si convenia più dolci salmi». (Inf., XXXI, 67-69)

Non ci uniremo alla setta dei crittografi, fidenti nella versatilità del loro armamentario e decisi a enucleare il senso dell’enunciato di Nembrotto: la lingua di questo gigante è nota a lui solo, osserva poco dopo Virgilio, disattivando la curiosità, consolidando l’effetto di deriva asemantica, di un puro stridere di significanti. Certo, Virgilio in questo modo sta anche ammettendo che un codice è qui comunque implicato, che esso ha presieduto alla confezione di un vero e proprio messaggio, con regolare transito dall’asse paradigmatico all’asse sintagmatico, dalla langue alla parole. Si vorrà perciò sospettare che l’anomala favella sia padroneggiata, oltre che da Nembrotto, anche da Dante autore? È sentore che non conduce da nessuna parte: l’autore empirico, per non smentire la certificazione di assoluta incomprensibilità emessa dal savio gentil che tutto seppe, deve davvero formulare un enunciato non decodificabile, refrattario a qualsiasi grimaldello. Ciò 8

Si cita da DANTE ALIGHIERI, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, 4 voll., Milano 1966-1968, seconda ristampa riveduta Firenze 1994.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 144

144

Sergio Cristaldi

non significa, beninteso, che si sia abbandonato al puro arbitrio. Solo che il suo ammicco al buon intenditor, semplice lettore o navigato critico che sia, non riguarda il livello del contenuto, riguarda invece il livello dell’espressione. La letteratura medievale, sensibile al bilinguismo, curiosa delle sue molteplici risorse, attivava fra le varie declinazioni di Sprachmischung anche quella con lacerti più o meno ampi in lingue misteriose, attribuite a stranieri o a negromanti; ebbene, siffatti spezzoni glossolalici, di volta in volta vagamente affini al timbro di questa o quella parlata esotica, di sapore ebraico o arabo o greco, presentavano in ogni caso alcuni tratti fonici comuni. Le parole inventate per l’occasione non erano insomma escogitazioni del tutto anarchiche, seguivano una certa pista sonora. A questo codice sui generis, a questa langue asemantica ma fonicamente qualificata, partecipa anche la Commedia. Nel vociferare di Nembrotto si è voluta ravvisare un’aria in qualche modo protosemitica9; con maggior precisione si sono riscontrati alcuni elementi formali condivisi da tutto il corpus glossolalico, reiterazione della protovocale a (riscontrabile in ciascuna unità della frase del gigante), sillabe generalmente aperte, incontri consonantici abnormi10. Si può aggiungere, ed è per noi di peso ancor maggiore, che il furente enunciato perpetra una sistematica contraddizione dei principi del De vulgari, rovesciando le caratteristiche che quel trattato assegnava all’eloquio alto e nobile in lingua e poesia di sì. A questo riguardo, la strategia autoriale è positivamente documentabile. Nessuna delle parole scagliate dall’irascibile gigante è un trisillabo (salvo «amècche», su cui però dovremo tornare); tutte ostentano un consonantismo non certo felpato (sporge l’affricata di «zabì»); come se non bastasse, tre (su cinque) sono sicuramente ossitone, «raphèl», «maì», «zabì», e le altre due potrebbero a loro volta riuscire tali, se lette rispettivamente «amèch» e «almì», anch’esse dunque in base alla norma dell’ossitonia dei termini barbari, da Dante solitamente obbe9

Cfr. P. DRONKE, Dante and Medieval Latin Traditions, Cambridge 1986, trad. it. Dante e le tradizioni latine medievali, Bologna 1990, 84. 10 Cfr. L. RENZI, Un aspetto del plurilinguismo medievale: dalla lingua dei re magi a «Papé satan aleppe», in Omaggio a Gianfranco Folena, 3 voll., Padova 1993, I, 61-73: 72.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 145

Pregare coi salmi (nell’aldilà)

145

dita11. Ce n’è a sufficienza per terremotare l’onda melodica e ritmica del verso italiano. E forse non è tutto, forse assieme alla compagine del verso è sabotata anche quella strofica, e nel suo raccordo più sensibile, la rima. Se accediamo all’esecuzione integralmente ossitona, dobbiamo postulare una rima per l’occhio, un appiombo visivo ma non fonico di «almì» con «salmi» (e con il «palmi» del v. 65); clamorosa smentita anche questa delle raccomandazioni del De vulgari sulla rima come eminente vettore di concordante dolcezza. Si noti: la riluttanza di molti lettori ad accettare qui un’ossitonia generalizzata, la loro opzione per «àlmi», che impone per conseguenza un «amècche» con epitesi, a scansare l’ipometria, deriva proprio dal disagio verso quella rima sui generis. Disagio acuto, ben lieto di rifugiarsi in una soluzione rassicurante; a costo di ignorare che «almì» è stridula eco di «maì» (terminazione del primo emistichio, se consideriamo il verso in esame un endecasillabo a minore); a costo di cedere il parallelismo ritmico, su un comune andamento giambico, con l’altro inserto glossolalico della prima cantica, il vociare di Pluto «Papè Satàn, papè Satàn aleppe!» (Inf., VII, 1)12, che incarna la variante con clausola piana — e non tronca — della medesima scansione. Chiusa la porta a queste prospettive, si ripete che occorre sacrificare l’eccezione sull’altare della regola: come postulare a questo punto una rima per l’occhio quando tutto il resto della Commedia evita accuratamente di farvi ricorso? Solo che un simile hapax risulterebbe adeguato alla poetica del proprio contesto, svolgendone con coerenza l’impostazione discordante, portandola alle estreme conseguenze. Sia come si voglia, non v’è dubbio che Nembrotto, producendo un cumulo di effetti di dissonanza, contraddica vistosamente ogni armonia, fino a realizzare l’esatto negativo fotografico del volgare illustre di sì, delle sue morbide eufonie: qui non ci sono che asprezze intollerabili, e come abbiamo insinuato, le lezioni “moderate” introdotte dalla filologia più cauta rispondono forse al segreto bisogno di ammortizzare un’oltranza allarmante. 11 L’edizione della Commedia curata da G. Vandelli per il volume Le opere di Dante, Firenze 1921, legge appunto «Rafèl maý amèch zabì almì», senza arretrare di fronte alla conseguenza della rima per l’occhio. 12 Leggiamo questo verso secondo la citata edizione di G. Vandelli.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 146

146

Sergio Cristaldi

L’isolamento linguistico di Nembrotto ha un motivo evidente, era stato lui a promuovere il cantiere della torre di Babele, provocando la vendetta del cielo, l’eclissi dello strumento comunicativo universale fino a quel momento in dotazione agli uomini; a buon diritto, dunque, gli tocca quell’idioletto estraneo e opaco a chiunque altro, così s’osserva in lui lo contrapasso. Tanto meglio se l’inafferrabilità dei suoi isterismi solipsistici, di quelle esagitate antifone senza eco, è aggravata dalla rauca ferocia dei significanti rimastigli a disposizione. Alla sua bocca «non si convenia più dolci salmi»: la Commedia ha compiutamente trasvalutato l’estetica dell’ornatus in quella del conveniens, più maturo paradigma, che integra, e non appena giustappone, senso e suono; con una lingua discendente da un atto di superbia, e per questo sprofondata nell’impossibilità di incontrare i destinatari, fa lega una sonorità devastata. Ma che valore attribuire a quel coinvolgimento, per contrasto, dei «dolci salmi»? L’espressione, recita una vulgata postilla, sta genericamente per “frasi” di carattere “chiaro” e “gradevole”, quelle che appunto il gigante biblico è incapace di pronunziare, tagliato fuori per l’eternità da ogni affabile colloquio, anzi dal dialogo tout court. L’ironia, si sa, ama sposarsi con l’iperbole, e l’accentuazione iperbolica trova uno dei suoi sbocchi nella litote; l’inettitudine di Nembrotto a una civile conversazione verrà dunque bollata con la beffarda nota a margine su quel suo irto gracidare, che non è propriamente il massimo di una salmodiante soavità. Vero è che in questo modo, insieme al discorrere pacato e urbano, è comunque chiamato in causa, sia pure come termine iperbolico oggetto di rovesciamento, anche il sublime della più poetica preghiera. Se ne può dedurre che i Salmi configurano l’opposto linguistico dello stravolto passo glossolalico; o meglio, che in un’eventuale restituzione in lingua di sì, acquisterebbero tratti esattamente speculari. Ove questa restituzione, s’intende, venisse tentata. 3. SALMI DEGLI ESPIANTI Non c’è bisogno di ricordarlo: la Commedia, fuori dell’aura fosca, oltre il regno assordante o afono dei dannati, volentieri reinventa suppliche e lodi a Dio, rilanciando in modalità inedite la giunzione del


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 147

Pregare coi salmi (nell’aldilà)

147

pregare e del poetare. Fa anche altro, per la verità, e cioè ribadisce il ruolo delle preghiere canoniche, di Salmi, Inni, e altre orazioni della liturgia, con esperimenti singolari di impianto di quei testi nel tessuto linguistico del volgare13. Il terreno elettivo di siffatti esperimenti è ovviamente la seconda cantica, per sua natura sotto un’egida ascetica14. Il grande culto purgatoriale si articola in due dimensioni, l’appello di Dio all’uomo e il rispondere dell’uomo a Dio. L’invito divino è veicolato dalle Beatitudini evangeliche, proferite da angeli: per ogni cornice purgatoriale vi è una Beatitudine, esattamente antitetica al vizio in questione. La risposta dell’uomo si affida ai Salmi, agli Inni cristiani, alle preci mariane e in genere alle orazioni del patrimonio liturgico, tutte partiture eseguite dalle anime. Quanto agli enunciati in sé e per sé, Dante usa grande discrezione, ricalcando fedelmente i testi del repertorio ecclesiastico, senza allontanarsi quasi mai dal solco già segnato: i brani richiamati sono esattamente il Miserere, il Te Deum, il Pater noster, la Salve regina, il Gloria, l’Agnus Dei e così via. Attira anzitutto la nostra attenzione il Pater, anzi il Padre nostro, una traduzione appunto dell’oratio dominica, che viene messa in bocca ai superbi della prima cornice. Nelle sette terzine in cui essa è spalmata (Purg., XI, 1-21), si determina una continua integrazione del testo originario, secondo il modulo ben consolidato della parafrasi con farciture; riscontrabile, in quattro terzine su sette, una particolare e sintomatica declinazione del procedimento, per cui il primo verso della terzina traduce fedelmente un segmento del testo evangelico, mentre gli altri due versi hanno funzione di chiosa. Questo schema s’impone subito, seguito com’è regolarmente dalle prime tre terzine (sarà poi ripreso dalla quinta). Basterà leggere la terzina incipitaria:

13

Sulla dimensione liturgica del poema sacro si veda E. ARDISSINO, Tempo liturgico e tempo storico nella «Commedia» di Dante, Città del Vaticano 2009. 14 Cfr. G.M. VENEZIANO, La citazione dei salmi e delle preghiere nel «Purgatorio» dantesco, in «E ’n guisa d’eco i detti e le parole». Studi in onore di Giorgio Barberi Squarotti, 3 voll., Alessandria 2006, III, 1945-1952; G.L. PIEROTTI, Il «Purgatorio» e il «Paradiso» secondo il programma liturgico della settimana «in albis», in Testo 28 (2007) 29-45; F.M. ARCURI, «‘Asperges me’ sì dolcemente udissi». Il percorso liturgico di Dante alle origini dell’innocenza, Alessandria 2008.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 148

148

Sergio Cristaldi

«O Padre nostro, che ne’ cieli stai, non circunscritto, ma per più amore ch’ai primi effetti di là sù tu hai […]» (Purg., XI, 1-3)

Le postille accluse all’originale assolvono, come si vede, la funzione di enucleare e interpretare i significati, in ossequio al metodo tipico dell’esegesi biblica medievale15, e con l’ausilio di una teologia di schietta inflessione scolastica. La struttura strofica del poema scandisce con chiarezza i momenti dell’interpretazione: ufficio dominante assunto dalla segmentazione delle unità versali è quello di segnare l’avvicendarsi del testo parafrasato e della glossa che la parafrasi aggiunge, il che significa che la leva formale è qui asservita al sondaggio interpretativo, di cui evidenzia con chiarezza gli snodi. È nota la delusione dei lettori romantici e tardo-romantici che, biasimando appunto l’inflessione teologica e scolastica di questi versi, li reputavano inessenziali e meritevoli di espunzione; noi non ci sentiamo di condividere il loro pregiudizio antiscolastico, ma dobbiamo riconoscere che la parafrasi in parola risponde soprattutto a un’esigenza didascalica e solo in subordine a una necessità espressiva. Vagliamo adesso gli Inni, i Salmi, le beatitudini, le preghiere mariane che scandiscono la salita lungo il monte. In nessuno di questi casi vi è traduzione integrale: ciò che gli espianti recitano per intero non viene quasi mai trascritto nel poema per intero, ma per lo più segnalato attraverso l’incipit, e quando gli spiriti si limitano a recitare porzioni di un salmo o di un inno, come a volte accade, la porzione in causa viene indicata attraverso un solo versetto, o parte di un versetto, a meno che non sia brevissima. Nessuna traduzione integrale, dunque. Anzi, nessuna traduzione, poiché si cita senz’altro il testo latino della Vulgata. Delle preghiere liturgiche restano così scarne vestigia, che galleggiano nel continuum del nuovo enunciato: residui di minima entità, a stento in grado di occupare per intero un endecasillabo, spesso ridotti 15

2011.

Cfr. ora P. CHERCHI, La rosa dei venti. Una mappa delle teorie letterarie, Roma,


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 149

Pregare coi salmi (nell’aldilà)

149

a un emistichio, se non a un rapido sintagma. Ma proprio siffatti frantumi hanno un cospicuo potere di evocazione, posseggono l’intensità che è propria dell’accenno, specie se riferito a ciò che è già nelle orecchie di tutti, continuamente ascoltato e risillabato. E accresce l’incisività quella intatta divisa latina: se nel Convivio il latino della Vulgata restava screditato, almeno relativamente al Salterio, adesso si presenta come una risorsa: intersecando il volgare, vi immette la sua solennità, tanto più che, incanalato nell’alveo della metrica italiana, rientra nell’ambito del poetico. Portiamo la verifica almeno su un campione, l’invocazione attribuita ai golosi della sesta cornice e tratta dal salmo 50, per la precisione dal versetto 17, che nella sua integralità recita: «Domine, labia mea aperies, et os meum adnuntiabit laudem tuam». Ecco la resa dantesca: «Ed ecco piangere e cantar s’udìe “Labïa mëa, Domine” per modo tal, che diletto e doglia parturìe». (Purg., XXIII, 10-12)

L’articolarsi di contrizione e di lode si esteriorizza nella dualità del «piangere» e del «cantare», che provoca in chi ascolta le diverse reazioni di «diletto» e «doglia»: la rispondenza fra le due coppie, enfatizzata dal chiasmo, suggerisce che il rattristarsi dei golosi abbia senz’altro come canale il pianto, e che la loro gratitudine impregni totalmente il cantare. Il vettore canto ha l’effetto di dilettare, il che significa che possiede un’irresistibile bellezza, la dolcezza oggettiva della compagine musicale che diviene dolcezza come aspetto della ricezione. Un contenuto doloroso o anche ambivalente — le labbra di cui parla il Salmo 50 comportano qui un’allusione sia al peccato che al rendimento di grazie16 —, nel momento in cui viene investito dalla musica, può divenire, come musica, bello e portatore di diletto, tanto che a ricostituire l’equilibrio, a dare stimolo nel ricevente pure al 16 Secondo F. Zanini, Dante implicherebbe, assieme al peccatum gulae, anche il peccatum linguae. Cfr. Liturgia ed espiazione nel Purgatorio: sulle preghiere degli avari e dei golosi, in L’Alighieri, n.s., 50 (2009) 47-63: 57 ss.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 150

150

Sergio Cristaldi

dolore, indispensabile in una contemplazione ascetica e non solo estetica, deve intervenire il diverso spettacolo del pianto. Ma questa forma che si imprime sui significati, in che modo si incarnerà nell’assetto verbale del poema? Il segmento latino è dominato dai due sostantivi, entrambi di misura trisillabica, visto che «labïa» soggiace a intervento dieretico. Di maestà assoluta «Domine»; in sé e per sé centro gravitazionale indiscusso del lessico religioso, e qui collocato al centro del verso, non approssimativamente si badi, poiché la sillaba tonica della sublime parola coincide con la sesta sede, punto forte del ritmo dell’endecasillabo, e inoltre lo scadere delle tre sacre sillabe è anche quello del primo emistichio, in modo tale che dopo segua la pausa della cesura, a conferire ulteriore distinzione a quel nome, oggetto della richiesta e dell’omaggio. Fortemente voluta, questa posizione centrale: per ottenerla Dante non esita a modificare ad hoc l’ordine delle parole della Vulgata, con una flagrante inversione che fa slittare «Domine» dopo «labïa mea», consegnando all’eminente vocativo la chiave di volta del verso, in luogo del suo incipit. Ne abbiamo in mano la prova inconfutabile: l’obiettivo, in queste citazioni, non è tanto un ossequio scrupoloso a un exemplar da assecondare strettamente, costi quel che costi, è semmai una funzionalizzazione espressiva dell’exemplar, con ricorso, se necessario, a un non dissimulato intervento manipolatorio. Dante, del resto, è affascinato da questa strategica collocazione di una parola così decisiva: in Purg., XXX, 83, egli ottiene di nuovo lo stesso incastro mentre cita il Salmo 30, dettando «di subito “In te, Domine, speravi”»17; solo che qui non ha bisogno di manipolare l’originale, mentre all’altezza della sesta cornice l’alterazione si rende necessaria, ed è perpetrata senza esitazioni. Se il poeta è a sua volta ispirato da un impulso trascendente e parla con labbra mosse da Dio, perché non dovrebbe godere di questa licenza, interamente spesa per la maggior gloria (poetica) di Dio stesso? Se non che i due sostantivi-cardine dell’excerptum latino di Purgatorio XXIII sono l’uno e l’altro proparossitoni, e consumano perciò una 17

Salvo il fatto che qui la cesura cade presumibilmente dopo «di sùbito». Ma è cesura in sinalefe, non profonda, non lesiva dell’aggetto di «Domine».


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 151

Pregare coi salmi (nell’aldilà)

151

doppia infrazione al principio dell’eccellenza dei vocaboli piani. Principio vigente, beninteso, nell’ambito del volgare, anzi del volgare di sì, e non su altro terreno linguistico; ma nel passo in esame il segmento alloglotto, in sé e per sé non imputabile, è immerso nel tessuto italiano, e vi determina attrito. Si aggiunga che la dislocazione di «Domine» produce un primo emistichio sdrucciolo, per di più senza sinalefe con la parola che segue in avvio dell’emistichio successivo. Ora, il primo emistichio sdrucciolo è fenomeno di accertata rarità nella Commedia, che presenta come tipi largamente maggioritari e per così dire normali l’emistichio tronco (ed è il caso della cesura maschile) e quello piano (si ha allora la cesura italiana); ancor più raro che questa terminazione sdrucciola non venga ammortizzata da sinalefe, con ridimensionamento della pausa e confluenza nella porzione successiva del verso18. Dante non è per nulla intimorito dall’anomalia; può assecondare, del resto, ritmi ancor più di frontiera. Il primo emistichio sdrucciolo, quando ha, come in questo caso, l’ultimo accento sulla sesta sillaba, e coincide perciò con un settenario, costituendo la porzione inaugurale di un endecasillabo a maiore, è una rarità, non un hapax; vi è nella Commedia un gruzzolo rispettabile di occorrenze del medesimo genere, e integralmente italiane. Lo stesso non vale per un caso diverso, degno di essere chiamato adesso alla ribalta, anche se non riguarda propriamente un salmo. Lo scenario è la prima cornice, e in particolare il punto in cui sulla sua ripidissima parete sono intagliati dei gradini, il varco cercato da Dante e Virgilio per proseguire l’ascesa oltre quel settore appena visitato, con i suoi doloranti e mortificati superbi: «Noi volgendo ivi le nostre persone, “Beati pauperes spiritu!” voci cantaron sì, che nol diria sermone». (Purg., XII, 109-111)

A spandersi nell’aria, cantata con tutta probabilità da un angelo fuori campo, è dunque la beatitudine evangelica che magnifica l’umiltà, 18

Cfr. P.G. BELTRAMI, Cesura epica, lirica, italiana: riflessioni sull’endecasillabo di Dante, in Metrica 4 (1986) 67-107.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 152

152

Sergio Cristaldi

virtù opposta alla superbia e lezione finale da meditare e trattenere al momento del congedo dalla zona dove quel vizio capitale si espia. Soave modulazione di un insegnamento mansueto. Soave anche nella materialità della Commedia? Avviciniamo la lente d’ingrandimento al verso (quasi interamente) alloglotto, che mette in mostra tre trisillabi latini, due dei quali proparossitoni. Il primo emistichio («“Beati pauperes”») è sdrucciolo, e senza sinalefe, e come se non bastasse con l’ultimo accento sulla quarta sede, a fissare e delimitare un quinario, inaugurazione di un endecasillabo a minore. Non risultano altri fenomeni di questo tipo in tutto il poema, che ad aprire l’endecasillabo a minore chiama il quinario tronco o piano, eccezionalmente accetta un quadrisillabo piano, e se proprio deve acconsentire a un andamento sdrucciolo, allora vuole l’ultimo accento sulla seconda sillaba del verso (come ad esempio in «la vipera che Melanesi accampa», Purg., VIII, 80). Ma per Dante anche «pauper» merita enfasi (tornerà in «non decimas, quae sunt pauperum Dei», Par., XII, 93); fino alla forzatura del binario ritmico con produzione di un unicum. Siamo tenuti comunque a non calcare la mano e non abusare di una chiave espressivistica, che nella Commedia giova se adoperata con parsimonia, a tempo debito, e non riesce a far scattare ogni serratura. La terminazione dell’emistichio, con tutto il risalto che è doveroso riconoscerle, non ha la stessa importanza della terminazione del verso, e una rarità o un hapax di carattere ritmico al confine della cesura dell’endecasillabo, sia esso a maiore o a minore, equivalgono a turbolenze lievi, specie se vi è comunque conformità agli accenti canonici di quel verso in sesta o in quarta sede, e se l’esorbitanza si limita all’impennata della parola sdrucciola prima della cesura. Si aggiunga che la scossa prodotta dall’emistichio ritmicamente insolito può essere riassorbita in chiusura di verso. In Purg., XII, 110, rileviamo un rimante come «voci», incastonato al centro di una terzina che si apre e si chiude con i rimanti «persone» e «sermone», e sono tutte parole molto vicine al paradigma privilegiato da Dante nel De vulgari, il trisillabo piano senza incontri consonantici aspri, a cui è Dante stesso ad accostare il bisillabo, nonché quel trisillabo che, pur ospitando gruppi consonantici, non presenti liquide posposte a una muta. Torniamo adesso alla terzina di Purgatorio XXIII da cui il discorso aveva preso


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 153

Pregare coi salmi (nell’aldilà)

153

impulso. A compensare l’emistichio sdrucciolo stanno nel verso medesimo, e in quelli che rispettivamente lo precedono e lo seguono, rimanti per i quali si potrebbero ripetere le osservazioni appena avanzate. E non è tutto. Il fatto che queste parole siano piane, fatto apparentemente ovvio, legato com’è a una norma con poche eccezioni in tutto il poema, riesce meno scontato se si rileva che due di esse, «udìe» e «parturìe», sono in realtà originariamente tronche, e vengono qui sottratte alla loro ossitonia mediante l’epitesi. Era costume dantesco normalizzare le parole ossitone in rima con l’aggiunta di una vocale alla fine? Non sempre: nello stesso canto, a non grande distanza, occorre la serie, ugualmente in ì, Elì: dì: qui (Purg., XXIII, 74: 76: 78), e a voler esplorare la terza cantica, ci si imbatte in una serie ancor più sintomatica, udì: schiarì: dì (Par., XXV, 98: 100: 102), la quale, oltre a poggiare sulla medesima vocale, ostenta due perfetti, fra cui proprio «udì», versione tronca — normale secondo la grammatica, ma evidentemente ammissibile anche per la metrica — dell’«udìe» già caduto sotto il nostro sguardo. Se Dante costituzionalizza tramite epitesi la rima tronca, trasformandola in rima piana, lo fa non per routine, ma rispondendo alle esigenze di un preciso contesto, ad esempio là dove si richiede il riassorbimento, nel tono generale di una terzina, di un emistichio sdrucciolo. È stato detto che il bilinguismo possiede un alto potenziale di conflittualità19. Tuttavia la Sprachmischung non conosce l’unico esito della dissonanza: nella liturgia del Purgatorio, l’assortimento di latino e volgare va verso l’accordo, con il latino che porta in dote la sua maestà, e il volgare che ospita questa maestà nella sua compagine metrica, coinvolgendola nei propri ritmi. Il procedimento acquista un valore speciale quando sono in gioco i Salmi, a cui è restituita, attraverso la mescidanza linguistica, la bellezza perduta. Per rapide intermittenze.

19 È l’impostazione di P. ZUMTHOR, Langue et techniques poétiques à l’époque romane (XIe-XIIIe siècles), Paris 1963, trad. it.: Lingua e tecniche poetiche nell’età romanica, Bologna 1973.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 154

154

Sergio Cristaldi

4. INEFFABILE LODE Resta la terza cantica, dove le attese prefigurano una messe più abbondante. E invece, le citazioni di preghiere liturgiche sono qui assai rare, vere e proprie eccezioni che confermano la regola, e di solito eccezioni più apparenti che reali. Il fatto è che in questo contesto la preghiera si modella sulla temperie escatologica, asseconda la peculiare condizione della Chiesa trionfante. Ciò non significa, ovviamente, che non esista vera e propria salmodia nel regno dei beati, dove viene pur recitata la dossologia trinitaria — «“Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo”, / cominciò, “gloria!”, tutto ’l paradiso» (Par., XXVII, 1-2) —, regolare sigillo, sin dalla Tarda Antichità, di ogni salmo innestato nelle ore canoniche; va detto, invece, che la salmodia si attua qui secondo modalità particolari, in linea con lo status paradisiaco. Quale provvisoria anteprima di una rilevazione sistematica, proporremo un campione che ci pare indicativo: si tratta di una manifestazione di letizia espressamente assimilata al salmodiare terreno e inoltre relativa alla condizione delle anime e non del pellegrino. Nel cielo del Sole, dodici spiriti hanno formato attorno a Dante una corona luminosa, e il loro portavoce, Tommaso d’Aquino, ha preso a delineare, una dopo l’altra, le rispettive biografie. Quando questa rassegna si è conclusa, sorge da tutta la ghirlanda un concorde esultare: «Indi, come orologio che ne chiami ne l’ora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perché l’ami, che l’una parte e l’altra tira e urge, tin tin sonando con sì dolce nota, che ’l ben disposto spirto d’amor turge; così vid’ïo la gloriosa rota muoversi e render voce a voce in tempra e in dolcezza ch’esser non pò nota se non colà dove gioir s’insempra». (Par., X, 139-148)

Levandosi dopo la presentazione espletata da Tommaso, il commosso gioire esprime anzitutto la gratitudine che questi beati


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 155

Pregare coi salmi (nell’aldilà)

155

provano per la propria esistenza colma di doni celesti, il concorde trasporto verso Colui che li ha prescelti e in ciascuno ha portato a compimento la sua opera, fino all’assunzione nella gloria del Paradiso. Si tratta dunque di un momento e frammento del loro dialogo d’amore con Dio (diversamente da fede e speranza, la carità nell’escatologia non passa, anzi costituisce il clima permanente di tutte le relazioni, in primo luogo di quella con il Creatore). Vero è che questo traboccare della gioia è assolutamente spontaneo, del tutto svincolato da un ritmo regolare, da una prevedibile ricorsività, e sta a provarlo il fatto che lo spunto è la circostanza unica ed eccezionale della presenza in cielo del pellegrino, il quale sta scalando le sfere tolemaiche alla volta dell’Empireo. Se le anime sono liete per il proprio passato e la propria condizione attuale, insomma per se stesse in quanto gratificate da Dio, è anche vero che esprimono questa loro disposizione al cospetto di Dante, non senza incrementare la gioia di essere salvate con la gioia di poter accogliere nel cielo del Sole il singolare visitatore; non per nulla ruotano facendo di lui e di Beatrice che gli sta accanto il centro di quel loro movimento. È indubbio, l’esultante esternazione ha carattere estemporaneo, fuori da schemi o cicli. Tocca un vertice straordinario la «dolcezza» della melodia. «Dolcezza» è termine marcato; riporta a quell’eufonia già celebrata dal Convivio come esito del «legame musaico», e più volte sottolineata nel Purgatorio quale connotazione dei salmi e cantici intonati dagli espianti; un’armonia verbale, in primo luogo, anche se ben disposta a sposarsi con un’armonia propriamente musicale, come avviene in terra, come si verifica anche sulle cornici del santo monte. Ma in Paradiso X questa dulcedo è talmente superiore che il poeta la celebra sottolineandone lo scarto, rimarcando che essa può esser conosciuta solo da chi ne faccia esperienza in cielo; lo scarto produce l’ineffabilità, il riconoscimento dell’ineffabilità funziona come iperbole, rafforzando una differenza che non patisce riduzioni20. Anche l’innestarsi della danza è accennato in termini il più possibile scorporati. Le anime della corona avevano già danzato, e danzato in circolo, prima dell’in20

Cfr. il sondaggio sistematico di G. LEDDA, La guerra della lingua. Ineffabilità, retorica e narrativa nella «Commedia» di Dante, Ravenna 2002.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 156

156

Sergio Cristaldi

tervento di Tommaso; questa iniziale coreografia si era giovata del riferimento a donne immerse nei ritmi del ballo (Par., X, 79-81), inquadratura destinata a incontrare il favore di Foscolo21. Ma adesso ogni allusione a danze terrene tace e rimane il solo giro delle luci, prossimo semmai a quella circolazione diurna delle stelle in cui la filosofia antica, in particolare con Platone, scorgeva un’attuazione purissima del moto rotatorio, moto perfetto, ma tanto più sublime nella sua epifania celeste22. Adegua e potenzia questo clima il fatto che non vengono specificate le parole del canto. La voluta omissione lascia intendere, in primo luogo, che non si tratta di formule terrene, appartenenti all’una o all’altra preghiera della Chiesa militante, bensì di enunciati al di là di ogni mortale uso, forse in una loquela trascendente, chi sa come strutturata. Nel Purgatorio riapparivano preci già note, adesso siamo invece lontani dalle usuali sillabazioni dei Salmi, da quelle purgatoriali e tanto più da quelle terrene, fossero pure devotamente effuse entro conventi e cattedrali (il contesto, fra l’altro, in cui erano vissuti ben sette dei dodici spiriti della ghirlanda, Isidoro di Siviglia, Beda, Riccardo, Graziano, Pietro Lombardo, Alberto Magno e lo stesso Tommaso d’Aquino). La mancata menzione delle parole indizia inoltre un prevalere della componente musicale, anche se il senso indiscutibilmente resiste, attiene a quella gioia in cui riconoscevamo un’adesione senza riserve a sé e a Dio, gioia che finisce per definire in perifrasi il Paradiso stesso, sotto il profilo della condizione dei beati («colà dove gioir s’insempra»: il picco d’esultanza a cui stiamo assistendo si forma da un sottofondo di felicità inalterabile). Nella sua forma compiuta, l’esistenza escatologica è altra rispetto a quella che si conduce nel mondo, anche nella santità dei chiostri. 21

Cfr. D. CANFORA, Sul canto X del «Paradiso», in L’Alighieri, n.s., 50 (2009) 6580: 69. 22 F. Forti si limita ad annoverare la promozione del moto circolare a moto perfetto da parte di Aristotele (Il canto X del «Paradiso», in Lectura Dantis Scaligera, III, Firenze 1967, 349-386: 382); più ampia la perlustrazione di J. Freccero, cui spetta il rinvio a Platone e in particolare al Timeo (Dante. The Poetics of Conversion, Cambridge [Mass.] 1986, trad. it.: Dante. La poetica della conversione, Bologna 1989, 295 ss.).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 157

Pregare coi salmi (nell’aldilà)

157

Non così altra, tuttavia, da escludere ogni illustrazione analogica a partire da un correlativo terreno. Il passo su cui in questo momento ragioniamo, sondandolo progressivamente con diversi approcci, in modo da valorizzarne il più possibile il vario suggerimento, si presenta formalmente come una similitudine, dove è fatto ampio spazio — si noti ancora — al comparante, di squisito profilo e anche di notevole densità. Si guarda più da vicino e ci si rende conto che le realtà in gioco non sono due ma tre, a motivo di un’articolazione interna al comparante medesimo, che contempla già in se stesso un accostamento fra termini diversi, fatti sagacemente interferire. Da una parte abbiamo il rito erotico del “fare la mattinata”, svegliando la donna col canto eseguito sotto le sue finestre23, dall’altra il rito religioso del mattutino, che è la prima delle ore canoniche24; tra i due poli circola una corrente alternata che conduce l’eros alla caritas e per converso sottrae al culto ogni moralismo e formalismo, lo qualifica come insorgente manifestazione d’amore. La traslitterazione del profano nel sacro non lascia certo indenne l’immagine di partenza, la sottopone a una curvatura anche nel profilo esterno oltre che nel significato, e in questo modo ne fa palesemente un’immagine nuova, dove a elevare il canto è l’amata e non l’amante; per altro verso, la presenza ben riconoscibile dell’etimo del corteggiamento elettrizza il pio dovere dell’ufficio divino, trasfigurando un obbligo religioso in iniziativa nei confronti di un Dio da sedurre. A mediare fra i due campi semantici, e legittimarne la sovrapposizione, è l’archetipo del Cantico dei cantici, nonché la sua interpretazione allegorica che riconduceva la Sposa alla Chiesa e lo Sposo a Cristo. Il coinvolgimento del sostrato profano determina anche un forte accento sulla componente musicale: “fare la mattinata” è fondamentalmente cantare e suonare, con dislocazione del corteggiamento da un asse verbale e argomentativo a un diverso asse melo23 Non ci è stato possibile vedere P. ZUPAN, The New Dantean “Alba”. A Note on «Paradiso» X, 139-148, in Lectura Dantis 6 (1990) 92-99. 24 Da trattenere una notazione di A. Momigliano, anche se inficiata dalla risoluzione del rito nella rispondenza psicologica di un paesaggio e di uno stato d’animo: «Questa descrizione […] così isolata in un’aria di religioso silenzio mattutino, così infusa di pace e di fiducioso abbandono, dà veramente un’impressione di paradiso» (La Divina Commedia, commentata da A.M., Firenze 1945-1947, ad loc.).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 158

158

Sergio Cristaldi

dico, da una retorica della parola a una fascinazione propriamente sonora, nella quale la parola sussiste in quanto musicalmente riqualificata (dal canto e dall’accompagnamento di strumenti). Questa componente è connaturata anche all’ufficio delle ore, soprattutto nella recita comunitaria, ma è chiaro che l’intersezione fra serenata e salmodia conferisce al lato musicale di quest’ultima un risalto altrimenti impensabile. Così vivacizzato, il salmodiare di monaci e chierici dovrebbe essere a sua volta allineato al tripudio degli spiriti sapienti, con assunzione del primo come analogia del secondo, analogia imperfetta e approssimativa quanto si vuole, ma non immotivata25. Se non che, il testo dantesco consuma una deviazione: non è propriamente la recita del mattutino a costituire il comparante del canto paradisiaco, bensì il suono dell’orologio destatore che urge chierici e monaci all’ufficio divino26, e se questo spostamento non è così vistoso da estromettere l’immagine dall’ambito della salmodia, sicuramente la sottopone a forte torsione, ovviamente con un preciso obiettivo. Cerchiamo di capire quale. Sostituire alle parole recitate, o anche cantate, il tintinnio dell’orologio equivale a passare dal semantico all’asemantico, o più precisamente dalla sinergia di suono e senso (tipica dei testi del Salterio, anche quando spogli di rivestimento musicale) alla pura emanazione sonora; ma dobbiamo affilare ancor più la nostra formulazione, poiché le note che sollecitano gli oranti, lungi dal configurare una sonorità indeterminata, rappresentano un segnale orientato, volto a un preciso suggerimento. Si tratta pur sempre di un connubio fra dulcedo e indicazione semantica, con il ruolo del primo termine notevolmente intensificato, ma senza che questo comporti annientamento 25 Rafforzerebbe questo nesso l’ipotesi di N. Catelli, secondo il quale la danza dei sapienti va collegata a Davide, umile salmista che lietamente si abbassa a trescare davanti all’Arca: cfr. Coreografie paradisiache. Le danze dei sapienti («Par.» X-XIV), in L’Alighieri, n.s., 49 (2008) 119-138: 129 ss. 26 Si tratta di orologio meccanico; invenzione all’epoca recentissima, come indicato da F. BRAMBILLA AGENO, Strumenti per la misurazione del tempo nei paragoni della terza cantica, in Studi Danteschi 54 (1982) 113-120, ora in EAD., Studi danteschi, Padova 1990, 101-105. Sulle diramazioni di un’immagine nella letteratura e in genere nella cultura dell’epoca, cfr. S. RIZZARDI, Dante e l’orologio, in Studi e Problemi di Critica Testuale 60 (2000) 51-70.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 159

Pregare coi salmi (nell’aldilà)

159

del secondo, gratuita deriva di una dinamica musicale senza ragione alcuna al di fuori di se stessa. Colpisce il fatto che Dante abbia suggerito un fenomeno del genere offrendone un’equivalenza sensibile nel suo proprio enunciato. Egli ha voluto imitare verbalmente le note dell’orologio destatore attivando un’onomatopea, vale a dire aprendo il suo tessuto linguistico a un inserto pre-grammaticale; quando poi è passato dal pre-grammaticale al grammaticale, ha realizzato questa transizione con gradualità, il che significa in definitiva che ha prolungato per un certo tratto la prima dimensione nel vivo della seconda: l’onomatopea «tin tin» contagia il verbo successivo, «soNaNDo», che riproduce il nesso nasale-dentale, senza dire che «Dolce» e «noTa» confermano l’aggetto della dentale. Non è fortuito che il versante semantico di queste parole rimandi a sua volta alla musica e alla sua armonia, sicché il senso, al suo rinnovato decollo dopo l’onomatopea, è sostanzialmente in funzione del suono, ne rappresenta l’indicatore, non aggiungendo altro se non la delimitazione concettuale del suono stesso. In «sì dolce nota» cova però un nesso consecutivo destinato a imporsi nel verso successivo, «che ’l ben disposto spirto d’amor turge», con recupero del valore segnaletico del tintinnio e presumibilmente anche del surplus di persuasività annidato nella sua dolcezza, che non solo rammenta l’atto da compiere, ma stimola a eseguirlo. Tornando adesso ai versi sul cantare e il girare dei dodici beati, eviteremo di cercare troppo rigide corrispondenze con il comparante, e delimiteremo il più possibile il tertium comparationis, che è prudente, almeno in prima battuta, mantenere entro il perimetro segnato, a un estremo e all’altro, rispettivamente da «dolce nota» e da «dolcezza». Ci rendiamo conto, adesso, che la finale insistenza sull’ineffabilità dell’armonia celeste intende evitare un suo assorbimento entro il correlativo terreno; non smentisce peraltro la similitudine. La dolcezza celeste non è quella terrena, ma mantiene nell’alterità una certa somiglianza, preserva nella discontinuità un elemento di continuità. E allora, non sarà troppo audace una conclusione che cerchi di trarre profitto dalla comparatio in esame, e soprattutto dal singolare spostamento che in essa abbiamo constatato, lo spostamento dal risuonare del mattutino al risuonare dell’orologio. La salmodia propria del Paradiso, se non


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 160

160

Sergio Cristaldi

altro in certe sue punte, vede un forte rilievo della bellezza, della dulcedo, quasi a risarcimento della perdita di questo vettore consumatasi nella traduzione del Salterio dall’ebraico in greco e dal greco in latino. Se è così, Dante ha costantemente serbato fra le sue priorità il recupero della faccia nascosta dei Salmi, tentando diverse manovre di approccio: nel Purgatorio, la mirata commistione di latino e volgare; all’altezza della terza cantica, la polarità ulteriore di linguaggio inarticolato e articolato. Quest’ultima mossa mira anzi a lambire i Salmi celesti, un obiettivo ancor più ambizioso della reinvenzione di quelli davidici. In gioco è la prefigurazione della poesia non peritura, che perciò è fortemente poesia, ed evidenzia il tratto esclusivamente suo, incomunicabile a tutte le altre forme discorsive: la dolcezza verbale. Meglio se coadiuvata dal canto e dalla danza; ma in ogni caso, con l’indispensabile supporto di una pregnanza di senso. Tra le notizie che la Commedia ci offre sull’aldilà, non certo la meno importante.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 161

EGIDIO COLONNA ROMANO (1243ca-1316) E LA SPIEGAZIONE DELLA PREGHIERA DEL SIGNORE

ROBERTO OSCULATI*

Negli ultimi tempi del papato di Giulio III (1550-1555) il priore generale degli eremiti agostiniani, Cristoforo da Padova (1500-1569), progettava a Roma la pubblicazione di alcuni testi teologici caratteristici della secolare scuola monastica cui apparteneva1. Le controversie esegetiche, dogmatiche e giuridiche in cui da decenni si dibatteva il cristianesimo occidentale erano state scatenate da un monaco di quell’ordine, Martin Lutero, che proponeva una riforma ecclesiastica basata sulla teologia di Paolo e sulle tematiche agostiniane della grazia. In un periodo in cui le discussioni in proposito apparivano del tutto aperte sembrava opportuno mostrare quali fossero le idee di uno dei più grandi maestri agostiniani del passato, il romano Egidio Colonna. Venne intrapresa a Roma, sotto la direzione del priore generale, la stampa delle opere teologiche di colui che era stato allievo a Parigi di Tommaso d’Aquino e colà aveva insegnato, aveva ricoperto elevate cariche nella sua comunità e poi era divenuto vescovo in terra francese. In un periodo di contrapposizioni, di dubbi, di ricerca affannosa di soluzioni dottrinali e pratiche, egli poteva apparire quale rappresentante della più austera ed energica teologia dell’ordine. In particolare Cristoforo da Padova preparava personalmente e * Docente di Storia del Cristianesimo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania. 1 Vd. F. PETRUCCI, Cristoforo da Padova, in Dizionario biografico degli italiani, 31, Roma 1986, 92-94.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 162

162

Roberto Osculati

dedicava al cardinale Marcello Cervini, nei primi mesi del 1555, un ampio commento del maestro medievale alla lettera di Paolo ai romani, uno dei testi a quell’epoca più discussi. Poco dopo il prelato sarebbe stato eletto papa con il nome di Marcello II, ma sarebbe morto prestissimo. Il lungo commento di Egidio al difficile documento è di una chiarezza esemplare e risente in modo evidente dell’insegnamento di Tommaso. Scopo della lettera infatti sarebbe quello di togliere a chiunque, allora ed in seguito, qualsiasi motivo di vanto o di calcolo di fronte al mistero insondabile della grazia divina. Nessuna dignità naturale o legale, nessuna preminenza, nessun merito, nessuna pratica religiosa possono costituire un diritto nei confronti di una giustizia che è puro dono, ha la sua causa in se stessa, non esclude nessuno. Essa tuttavia coinvolge, per la sua intima forza, nella vita spirituale del mistico corpo di Cristo in attesa dell’esito apocalittico. Il maestro medievale mostra soprattutto la sua capacità di elevarsi oltre ogni concezione giuridica della chiesa per mettere in luce le ragioni ultime dell’evangelo. Nella medesima collezione veniva pubblicato a cura del monaco Agostino da Montalcino, un commento al Padre nostro, attribuito ad Egidio, dove è frequentissimo il ricorso a Paolo. Vi viene presentata una teologia di carattere profondamente affettivo e pratico, basta sulla misericordia universale del Padre, sulla vita esemplare del Figlio, sui doni dello Spirito, quali motivi della purificazione dal mondano in attesa del regno di Dio. Il gusto medievale delle divisioni e delle suddivisioni esige una lettura lenta e capace di penetrare ogni particolare prospettiva nell’insieme della trattazione. È stato pertanto fornito qui uno schema che la accompagni e che attraverso caratteri tipografici diversi mostri la connessione tra le diverse parti. Come spesso nella teologia di indirizzo monastico, contemplativo ed esistenziale il testo va capito secondo prospettive storiche diverse e complementari: l’insegnamento evangelico delle origini, la sua esposizione sistematica e pungente dell’epoca gotica, la sua ripresa nelle agitazioni del XVI secolo. Ma deve pure essere considerata la sua odierna attualità come invito alla ricerca dell’essenza più propria dell’evangelo oltre gli involucri ecclesiastici e civili che spesso lo ricoprono.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 163

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

163

Prologo: la preghiera 1. la causa: 1. il culto: i doni divini, la gratitudine umana, la frequenza della preghiera. 2. la condizione umana: l’affetto, il merito, il guadagno. 3. il testo evangelico: l’esempio di Gesù, il suo invito, il modo. 4. il frutto: riguardo a Dio, al prossimo, al diavolo. 2. la forma: 1. l’umiltà: il disprezzo di sé, la contrizione, il riconoscimento della colpa. 2. l’accompagnamento: l’elemosina, l’astinenza, le lacrime. 3. la richiesta insistente: la frequenza, la perseveranza, la veemenza. 4. la richiesta giusta: l’esclusione del male, il giusto motivo, la debita condizione. 3. la materia: 1. l’autore: il favore celeste, l’indigenza umana, l’insistenza. 2. la brevità: la semplicità, lo spirito e la verità, la sapienza. 3. l’efficacia: guarire, vincere, placare. 4. la compendiosità: i beni spirituali, i beni fisici, l’eliminazione del male. Spiegazione della preghiera del Signore Padre: il principio universale 1. l’onore 2. la sicurezza 3. la vergogna 1. la causa 2. la misericordia 3. la buona volontà


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 164

164

Roberto Osculati

1. la provvidenza 2. il dono perfetto 3. la benevolenza 1. l’essenza divina 2. le persone divine 1. l’adozione 2. la redenzione 3. la donazione 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

la dissipazione dell’eredità del Padre la ribellione l’ingratitudine la corruzione l’imitazione del diavolo l’illusione la disperazione

nostro: il principio specifico positivamente: 1. la comune provvidenza: l’amore reciproco, la riconoscenza verso i fratelli, il fine comune. 2. l’umiltà: il Padre eterno, il padre terreno comune, il padre proprio. 3. la dignità: Cristo fratello, la moltitudine, l’eredità. negativamente: 1. la superbia 2. l’avarizia 3. la cattiveria che sei nei cieli: il mistero incomprensibile 1. il mistero: la maestà, la felicità, la santità. 2. l’aspirazione della mente umana: le realtà celesti, la vita celeste, l’adorazione. 3. il vizio della temerità: scrutare il mistero divino, disprezzare il prossimo, disprezzare se stessi.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 165

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

165

sia santificato il tuo nome (prima richiesta): i beni spirituali 1. onorare Dio: nel cuore, con la bocca, con l’azione. 2. santificare: nella purezza, nella speranza, nella conformità con Cristo. 3. conoscere: con la sapienza, nella grazia, nella gloria. venga il tuo regno (seconda richiesta): l’approssimarsi del regno 1. la grazia: contro la superbia, la concupiscenza, l’avarizia. 2. la giustizia 3. la gloria: contro la malizia, il venir meno della giustizia, l’affievolirsi della pazienza. sia fatta la tua volontà (terza richiesta): l’adempimento del regno 1. la condizione: evitare l’errore, l’obbedienza, appellare alla clemenza (misericordia, benevolenza, efficacia). 2. il riconoscimento di se stessi: i servi, il castigo, la buona volontà, l’affetto, la conoscenza della verità, la purificazione, l’eredità celeste. 3. l’adempimento: la visione, la sicurezza, la fruizione. dacci oggi il nostro pane quotidiano (quarta richiesta): le realtà temporali necessarie 1. l’alimento fisico 2. l’alimento spirituale: il pane sacramentale, il pane spirituale delle Scritture, il pane eterno. rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori (quinta richiesta): eliminazione del male della colpa 1. riconoscere la colpa 2. chiedere misericordia 3. esercitare l’indulgenza non ci indurre in tentazione (sesta richiesta): eliminazione del male della lotta 1. mettere alla prova 2. essere messi alla prova 3. le prove della vita presente


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 166

166

Roberto Osculati

ma liberaci dal male (settima richiesta): eliminazione del male della pena 1. l’inferno 2. il purgatorio 3. il mondo 4. il diavolo Amen: la voce della chiesa.

Spiegazione della preghiera del Signore di Egidio Colonna romano, arcivescovo di Bourges e primate d’Aquitania, dell’ordine dei frati eremiti di Sant’ Agostino, dottore chiarissimo, corretta e pubblicata da frate Agostino da Montalcino2

Prologo “Occorre pregare sempre e non smettere” (Luca 18,1): tra tutte le condizioni necessarie alla salvezza, in base alla testimonianza di Cristo secondo le parole citate, è sommamente necessaria la preghiera, soprattutto la preghiera del Signore, che intraprendiamo ad esporre. Riguardo a questa necessità della preghiera dobbiamo considerare tre aspetti: dapprima la causa che induce alla preghiera, in secondo luogo la forma dell’atteggiamento di preghiera, in terzo luogo la materia intessuta nella preghiera del Signore ovvero Padre nostro che sei nei cieli... Quanto al primo aspetto si deve notare che quattro motivi devono indurci a pregare. Il primo è il culto divino: attraverso la preghiera infatti onoriamo e riconosciamo Dio. Pertanto “forse che quello che non è il suo popolo chiederà al suo Dio una visione a favore dei vivi o dei morti?” (Isaia 8,19), come se dicesse: Dio stesso volle che così pregassimo per tre motivi. Primo affinché riconosciamo ogni dono 2

AEGIDIUS DE COLUMNA ROMANUS, In sacrosanctam orationem dominicam et salutationem angelicam simplex et catholica explanatio, Roma 1555, 1-7.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 167

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

167

come proveniente da lui: “Ogni regalo ottimo ed ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre delle luci” (Giacomo 1,17). Infatti è solamente egli stesso a donare i beni della natura e i beni della fortuna, i beni della grazia e i beni della gloria. In secondo luogo affinché, una volta che abbia conferito un bene, se ne abbia gratitudine e lo si custodisca meglio: “Ecco, sei stato guarito. Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio” (Giovanni 5,14). In terzo luogo affinché ricorriamo con maggiore frequenza a lui: “Pregate senza interruzione” (I Tessalonicesi 5,17); “Signore, sei diventato un rifugio per noi di generazione in generazione” (Salmo 90,1). La seconda causa che deve muoverci a pregare é la condizione umana e la sua debolezza, dal momento che ci troviamo tra molte miserie, secondo le parole di Giobbe (14,1): “L’essere umano, nato da donna e vivente per un breve tempo, è ripieno di molte miserie”. Ugualmente ci troviamo tra molti pericoli: “Pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai connazionali” (II Corinzi 11, 26). Inoltre ci troviamo tra molte incertezze: “Infatti siamo avvolti da tenebre” (Giobbe 37,19). Pertanto è necessario che noi tutti ricorriamo a Dio per impetrare il suo aiuto: “Dal momento che ignoriamo ciò che dobbiamo fare, ci rimane solo questo: dirigere i nostri occhi a te” (2 Cronache 20,12); “Se qualcuno di voi ha bisogno della sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti in modo abbondante e non muove rimproveri” (Giacomo 1,5). Infatti, mentre preghiamo, l’affetto cresce, secondo il passo del Salmo 39, 4: “Il mio cuore si infiammò dentro di me e nella mia meditazione il fuoco diverrà ardente”. In secondo luogo cresce anche secondo il merito, in base al passo del Salmo 35,13: “La mia preghiera si raccoglierà nel mio petto”, dal momento che il merito della preghiera ritorna, attraverso la rimunerazione, nel petto di colui che prega. In terzo luogo aumenta anche il guadagno: “Si alzerà e darà loro quanti pani necessitano” (Luca 11,8). La terza causa che deve indurci alla preghiera è il testo evangelico, nel quale innanzitutto si legge che Cristo pregò molte volte, dandoci l’esempio della preghiera. Pertanto si dice che passava la notte in preghiera (Luca 6,12) ed affermava: “Vi ho dato infatti un esempio, affinché, come ho fatto io, così facciate anche voi (Giovanni 13,15). In secondo luogo poiché egli stesso nell’evangelo invita a chiedere e a


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 168

168

Roberto Osculati

pregare: “Fino ad ora non avete chiesto nulla a mio nome. Chiedete e ricevete, affinché la vostra gioia sia completa” (Giovanni 16,24) ed ancora: “Vegliate pertanto in preghiera in ogni momento” (Luca 21,36). In terzo luogo poi l’evangelo ci sollecita a pregare, poiché Cristo ne dà l’istruzione ovvero rende noto il modo della preghiera: “Quando pregherete, non sarete come gli ipocriti etc.” (Matteo 6,5). È chiaro dunque, in base a quello che abbiamo affermato, che concederà volentieri e abbondantemente e in fretta i suoi doni colui che così accuratamente, con il suo esempio la sua parola e con l’insegnamento rispetto al modo, ci incita alla preghiera. La quarta causa che ci induce a pregare è il molteplice frutto della preghiera, che può essere considerato sotto tre aspetti. Il primo è in ordine a Dio, che è fedele ed esaudisce la preghiera, se è diretta a lui. Pertanto, “quando seppellivi i morti e tralasciavi il tuo nutrimento e nascondevi i morti in casa tua e li seppellivi di notte, offrii le tue preghiere al Signore” (Tobia 12,12-13). Donde è manifesto che la preghiera è un fidato ambasciatore presso Dio. Il secondo frutto della preghiera si mostra nei confronti del prossimo, in qualunque condizione di bisogno si trovi, sia vivente sia defunto: “Pregate l’uno per l’altro per ottenere la salvezza” (Giacomo 5, 16); “Pregare per i defunti, perché siano liberati dalle loro colpe, è un pensiero santo e fonte di salvezza” (2 Maccabei 12,45). Il terzo frutto della preghiera è colto nei confronti del diavolo, poiché la preghiera è uno scudo ed un’arma contro il diavolo. Pertanto “quando mi aggredivano, mi rivestivo del cilicio, umiliavo con il digiuno l’anima mia e la mia preghiera si raccoglieva nel mio petto” (Salmo 33,13) e “siate sobri e vegliate (aggiungi: con le preghiere), perché il vostro avversario, il diavolo, come un leone ruggente, si aggira per cercare chi divorare. A lui resistete forti nella fede” (I Pietro 5,8-9) e “vegliate e pregate per non soccombere nella prova” (Matteo 26,41). Una volta considerato quali siano le cause che ci sollecitano a pregare, argomento che ci proponemmo soprattutto di chiarire, rimane da vedere in secondo luogo quale deve essere la forma caratteristica dell’atteggiamento di preghiera. Per la comprensione di questo argomento si deve osservare che la forma della preghiera deve possedere


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 169

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

169

quattro atteggiamenti affinché la preghiera sia efficace. Il primo atteggiamento della preghiera è l’umiltà: “La preghiera di chi si umilia penetrerà le nubi, non avrà pace finché non si avvicinerà, non si allontanerà finché l’altissimo non la prenda in considerazione” (Ecclesiastico 35,21). Tre sono poi i segni dell’umiltà: il primo, il disprezzo di se stesso; il secondo, la contrizione del peccatore; il terzo, il riconoscimento della colpa. Tutti questi segni sono indicati in modo ordinato nell’evangelo secondo Luca, quando al capitolo 18, 13 così si afferma del pubblicano: “Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: ‘O Dio, abbi pietà di me peccatore’”. Con l’affermazione che stava lontano e non voleva alzare gli occhi al cielo si indica il disprezzo di sé. Con l’affermazione che percuoteva il suo petto e diceva ‘ sii propizio a me peccatore’ si indica il riconoscimento dei peccati ed una vera contrizione del cuore riguardo ad essi. Il secondo atteggiamento della preghiera è l’accompagnamento dovuto. Alla preghiera infatti devono essere accompagnate l’elemosina, l’astinenza e le lacrime secondo il passo di Tobia: “È pregevole la preghiera, assieme al digiuno e all’elemosina, più che accumulare tesori d’oro etc.” (Tobia 12,8) ed anche secondo il passo di Gioele: “Convertitevi a me con tutto il vostro cuore, con il digiuno, il pianto e il lamento” (Gioele 2,12). Il terzo atteggiamento della preghiera è una richiesta insistente e tre sono i segni di questa insistenza. Il primo segno è la frequenza della preghiera: “Canta bene, ripeti il cantico, perché ci si ricordi di te” (Isaia 23,16). Il secondo segno della preghiera è la perseveranza: “Se continuerà a bussare, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua insistenza si alzerà a dargliene quanti ne occorrono” (Luca 11,8). Il terzo segno dell’insistenza è la veemenza della preghiera, quando la mente si accorda alla voce, secondo il detto di Paolo: “Pregherò con lo spirito, pregherò anche con la mente” (I Corinzi 14,15). E nel Salmo 63,2 si afferma: “L’anima mia ebbe sete di te, desidera te la mia carne”. Lo stesso é detto in Luca 11,9: “Bussate e vi sarà aperto”, cosa che dobbiamo fare non solo con la bocca, ma bussando anche con la mente. Il quarto ed ultimo atteggiamento della preghiera è una richiesta


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 170

170

Roberto Osculati

giusta e dignitosa, il che si verifica se colui che prega adempie a tre condizioni. Per prima cosa che egli stesso o colui per il quale prega non abbia un atteggiamento contrario, in base a quello che è affermato in Giovanni 9,30: “Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori”. Questo capita perché chiedono a favore di se stessi avendo una disposizione contraria alla grazia e tali sono i peccati. Che poi non sia una richiesta giusta se preghino per altri in cui si trova una disposizione contraria, è evidente in base a quanto è indicato in Geremia 7,11.14: “Non pregare per questo popolo e non intraprendere a loro favore lode e preghiera, poiché non la esaudirò etc.”. La seconda caratteristica richiesta per una preghiera giusta è che ciò che viene richiesto abbia un motivo giusto, in base al detto di un tale: “Chiedi ciò che è giusto e ciò che appaia dignitoso”. Cristo ha dichiarato con queste parole: “Per prima cosa cercate il regno di Dio e tutto vi sarà aggiunto” (Matteo 6,33) come ciò che viene affermato debba essere richiesto da noi al di sopra di tutto in modo giusto e razionale. Di alcuni che né cercano il regno di Dio né quanto ha un motivo giusto si dice (Giacomo 4,3): “Chiedete e non ricevete, perché chiedere male”. In terzo luogo affinché la richiesta di colui che prega sia ragionevole, si richiede sia osservata una debita condizione, in modo tale che in ogni preghiera si affermi: “Tuttavia sia fatta a tua volontà, non la mia”. Dotata di queste ali la nostra preghiera diviene giusta e razionale e vola presso Dio e riposa nel suo seno, secondo il detto del Salmo 55,5: “Chi mi darà le penne come alla colomba e volerò e riposerò?”. Dopoché abbiamo considerato dapprima quali sono le cause della preghiera ed in secondo luogo abbiamo mostrato gli atteggiamenti della forma della preghiera, rimane da indicare la materia contenuta nella preghiera del Signore. Quanto a questo bisogna considerare diligentemente ciò che l’apostolo afferma: “Infatti ignoriamo ciò che dobbiamo chiedere in modo conveniente” (Romani 8,26). Pertanto Cristo, il vero maestro, ci ha insegnato a pregare dicendo: “Pregherete così: ‘Padre nostro che sei nei cieli etc.’” (Matteo 6, 9-13). Questa preghiera si raccomanda per molti motivi. Innanzitutto in base all’autore, poiché è stata composta dalla bocca di Cristo. Pertanto questa preghiera può affermare quel detto di Ecclesiastico 24,3: “Sono uscita


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 171

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

171

dalla bocca dell’altissimo”. Questa preghiera contiene tre cose necessarie a noi che siamo posti nella chiesa militante. Innanzitutto indica il modo di ottenere il favore della corte celeste salutando Dio Padre. In secondo luogo insegna il modo di esporre nella preghiera la nostra indigenza. In terzo luogo insegna il modo di insistere con la ripetizione perseverante della preghiera. Quanto al primo aspetto Dio Padre volle insegnare la natura del saluto con quello che inviò attraverso l’angelo (Luca 1,27): “Ave, piena di grazia etc.”, dove la regina viene salutata dal re celeste. Quanto al secondo e al terzo aspetto volle insegnarci il modo di presentare con la preghiera la nostra indigenza e di insistere senza misura nel chiedere quanto desideriamo con quel Salmo in cui si ripete “Abbi pietà di me, Dio etc.” (Salmo 50). E queste tre sono le caratteristiche che rendono l’orazione perfetta. Le altre preghiere create dagli uomini non sono di così grande autorità: “Non l’ho imparato infatti né ricevuto da un essere umano, ma attraverso Gesù Cristo e Dio Padre” (Galati 1,12). Quanto è stato detto dall’apostolo Paolo a proposito dell’evangelo può essere inteso nel modo più conveniente della preghiera del Signore che intendiamo spiegare. Infatti le cose che gli esseri umani ci insegnano possono essere dannose sotto molti aspetti. Quelle invece che Dio ci insegna, come la preghiera indicata, non possono essere dannose, ma sono tutte utili in base al detto di Isaia 48,17: “Io, il Signore, che ti insegno cose utili”. In secondo luogo questa preghiera si raccomanda per la sua brevità (Matteo 6,7): “Quando pregate non usate molte parole”. Infatti giustamente il multiloquio è proibito nella preghiera, talvolta infatti toglie quella devozione della preghiera che deve trovarsi nel cuore di colui che prega. Cristo ha insegnato una preghiera breve per tre motivi. Innanzitutto volle che questa preghiera fosse breve affinché nessuno fosse scusato a motivo del suo carattere erudito e prolisso. Di questa preghiera meritatamente si può dire quanto Mosé affermò della legge (Deuteronomio 30) e Paolo affermò dell’evangelo (Romani 10): “Il comandamento, ossia della preghiera, che oggi ti impongo non è al di sopra di te né è posto lontano, così che possa dire ‘chi di noi è in grado di salire al cielo per portarlo a noi, perché lo ascoltiamo e compiamo? ‘Non è posto al di là del mare, perché possa lamentarti e dire ‘ chi di noi potrà passare il mare e condurlo fino a noi, perché


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 172

172

Roberto Osculati

possiamo ascoltare e mettere in pratica quanto è comandato?’ Ma è accanto a te, sono parole della tua bocca e del tuo cuore, perché lo metta in pratica”. Il secondo motivo della brevità della preghiera del Signore fu che in modo più efficace si potesse riconoscere la preghiera nella sua aspirazione se si compie secondo lo spirito e la verità, in base al detto di Giovanni 4,24: “Coloro che lo adorano devono adorarlo secondo lo spirito e la verità”, piuttosto che con la quantità delle parole. Infatti una preghiera breve, fatta in base alla fede e con devozione, penetra il cielo. Il terzo motivo per il quale Cristo ci insegna una preghiera breve fu che si apprezzasse la sapienza del suo autore, che in così poche parole unisce tutto quello che ci è necessario, come sarà chiaro nell’esposizione. Pertanto a questa preghiera si adatta ciò che si legge della manna (Sapienza 16,21): “Soddisfacendo il desiderio di ciascuno, era disponibile secondo quanto ognuno volesse”. In terzo luogo si raccomanda per l’efficacia. Infatti, se si trova qualche efficacia nelle erbe, nelle pietre e nelle parole, essa è la più grande nelle parole di Cristo secondo il detto del Salmo 68,34: “Ecco darà alla sua voce un suono efficace”. La parola di Dio infatti ha una triplice efficacia. Per prima cosa possiede un’efficacia speciale per guarire le malattie della mente e del corpo in base al detto di Sapienza 16, 12: “La tua parola, Signore, risana tutte le cose”. In secondo luogo per vincere le forze nemiche: “Le armi della nostra milizia non sono carnali, ma una forza che viene da Dio per distruggere gli oppositori” (II Corinzi 10,4) e “vegliate nella preghiera, perché il vostro avversario, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede” (I Pietro 5,8-9). E così un santo padre disse: “Come il serpente è avvinto dall’incantesimo, così il diavolo dalla preghiera”. In terzo luogo ha la capacità di placare l’ira del giudice: “Padre ho peccato contro il cielo e verso di te” (Luca 15,21). Donde consegue che il padre placato gli andò incontro e si buttò sul suo collo e lo baciò. Pertanto Girolamo afferma: “La preghiera addolcisce il Signore, la lacrima lo colpisce”. Per quarto ed ultimo motivo si raccomanda per il carattere compendioso. Infatti nella sua compendiosità (come abbiamo affermato sopra e sarà detto in seguito) sono contenute tutte le cose neces-


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 173

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

173

sarie alla salvezza, sia per quanto riguarda il raggiungimento di tutti i beni spirituali sia quanto all’acquisto di tutto ciò che è necessario al corpo, sia quanto all’esclusione di tutti i mali fisici e spirituali contrari. Così di questa preghiera si può affermare in modo molto conveniente il detto di Romani 9,28: “Il Signore ha mandato sulla terra una parola breve”. Indicati questi aspetti relativamente ai motivi della preghiera quanto al primo argomento, alle caratteristiche del modo di pregare quanto al secondo, alla disposizione della materia nella preghiera del Signore quanto al terzo, in base a ciò che ci eravamo proposti all’inizio, ci resta da procedere all’esposizione del testo.

Spiegazione della preghiera del Signore Padre. Questa preghiera del Signore si divide in due parti principali ovvero nel proemio e nella preghiera. Nella prima parte colui che prega cerca di ottenere la benevolenza del Padre celeste per mezzo della sua invocazione, nella seconda supplica il dono di tutte le cose che ci sono necessarie per la salvezza e chiede con insistenza che vengano assicurate. La seconda parte inizia con sia santificato il tuo nome. È dunque una preghiera che esprime fiducia ed è degna di ogni apprezzamento. In essa invochiamo Dio in modo così devoto e in modo così adeguato invochiamo i beni necessari e chiediamo con insistenza il conferimento e la conferma di essi. Pertanto si legge in Ester 14,13: “Dona alla mia bocca un modo ben compiuto di parlare affinché le mie parole siano gradite davanti al re”. Un modo di parlare ben compiuto è quello le cui parole siamo sicuri saranno gradite alla presenza del re celeste. Quanto alla prima affermazione, dove cerca di ottenere la benevolenza, fa tre cose. Anzitutto, quando dice Padre, indica il principio universale di tutta la creazione, perché, come dice l’apostolo in Efesini 3,14, “Da lui si nomina ogni paternità in cielo e in terra”. In secondo luogo indica uno specifico principio della creatura razionale dove dice nostro, in base al detto di Malachia 2,10: “Forse che non è unico il padre di noi tutti?”. In terzo luogo indica il mistero incomprensibile là dove dice che sei nei cieli.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 174

174

Roberto Osculati

Afferma pertanto Padre. E relativamente a questa affermazione dobbiamo considerare tre aspetti. Innanzitutto dobbiamo considerare l’onore che gli dobbiamo: “Se sono padre, dove è il mio onore?” (Malachia 1,6); “Onora il padre tuo” (Esodo 20,12). In secondo luogo dobbiamo considerare la sicurezza che possiamo avere di ricevere tutto con quella preghiera che è addolcita dal nome di padre ed avere fiducia nella preghiera riguardo alla soddisfazione delle nostre richieste: “Se voi che siete malvagi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà il suo Spirito a quelli che glielo chiedono” (Matteo 7,11; Luca 11,13). In terzo luogo dobbiamo considerare la vergogna che possiamo provare perché siamo figli degenerati rispetto ad un tale padre, in base all’affermazione di Luca 15,21: “Non sono degno di essere chiamato tuo figlio”, “poiché appunto sono degenerato rispetto ai tuoi costumi e alle tue virtù”. Ben a ragione pertanto può essere inteso di noi stessi il lamento indicato nel Salmo 18,46: “Figli estranei mi hanno ingannato, figli degeneri si sono corrotti ed errarono nel loro cammino”. Accanto a questi tre aspetti che abbiamo indicato come degni di attenzione, ne devono essere considerati altri tre. Innanzitutto con il fatto stesso che diciamo Padre, riconosciamo la sua natura di causa, in base al detto di Deuteronomio 32,6: “Forse non è il Padre tuo”, che ti ha fatto quanto al corpo, ti ha creato quanto all’anima e ti possiede quanto all’uno e all’altra? In secondo luogo esprimiamo la sua misericordia , che fu nota a tutte le generazioni. Pertanto: “Tu hai fornicato con molti amanti, tuttavia torna a me, dice il Signore, leva i tuoi occhi dinnanzi e osserva dove non ti sei inchinata. Sedevi presso le vie aspettandoli come un brigante nei luoghi solitari ed hai profanato la terra con le tue fornicazioni e le tue malvagità. Per questo sono state trattenute le gocce della pioggia e non ci fu pioggia serale. Ti è venuto un volto da prostituta e non sei arrossita. Ora almeno invocami, ‘Padre mio e signore della mia verginità tu sei. Forse che sarai adirato per sempre o persevererai fino alla fine?’” (Geremia 3,2-5). Inoltre: “Forse che la donna dimentica il suo bambino in modo da non avere pietà del figlio del suo ventre? Ma, se anche quella se ne dimenticasse, io non mi dimenticherò di te. Ecco ti ho scritto sulle mie mani, i tuoi muri sono sempre davanti ai miei occhi” (Isaia 49,15-16). In terzo luogo


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 175

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

175

mostriamo la nostra buona volontà di essere figli di questo padre, in base al detto di Geremia 3, 4-5, dove ci comandò di invocarlo come padre, se vogliamo essere suoi figli. Per questo afferma: “Mi chiamerai padre e non cesserai di seguirmi”. E in Efesini 5,1 si dice: “Siate imitatori di Dio come figli carissimi etc.” Possiamo poi, se vogliamo, aggiungere altri tre aspetti che è possibile prendere in considerazione quando diciamo Padre. Innanzitutto la provvidenza di questo Padre, in base al detto di Sapienza 14,3-4: “La tua provvidenza, o Padre, governa dall’inizio tutte le cose etc.”. In secondo luogo la generosità e la munificenza di questo Padre secondo quella affermazione di Giacomo 1,17: “Ogni regalo ottimo ed ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre delle luci”. In terzo luogo la benevolenza e la longanimità con cui aspetta pazientemente che ci volgiamo a penitenza secondo il passo di Romani 2,4: “Ignori che la benevolenza di Dio ti conduce alla penitenza?”. Tuttavia, ad ulteriore spiegazione di quanto è stato detto, si deve osservare che questo nome di Padre si intende in due modi: in base all’essenza e in base alla persona. Se viene inteso in senso essenziale, quando diciamo Padre si tratta dell’invocazione dell’unica Trinità e non di una singola persona divina. Infatti, come uno soltanto è Dio, in base al detto di Deuteronomio 6,4: “Il Signore Dio nostro è l’unico Dio”, così in base all’essenza è l’unico Padre di noi tutti, secondo il detto di Matteo 23,8: “Uno solo è il Padre vostro che è nei cieli”. Se però è inteso in senso personale, si tratta dell’invocazione della prima persona divina, poiché propriamente la prima persona della Trinità è Padre del Figlio naturale di Dio. Lo invochiamo in modo speciale come principio di tutta la Trinità e di tutte le cose in base al detto di Efesini 3,14: “Da lui si nomina ogni paternità sia in cielo sia in terra”. Si deve osservare in secondo luogo che tutti i caratteri comuni ed essenziali nella realtà divina, anche se allo stesso modo convengono a tutte e singole le persone divine, possono tuttavia talvolta essere appropriati ad una persona divina. Pertanto Padre, se viene inteso in base all’essenza, anche se conviene a tutte e singole le persone divine, può essere appropriato a ciascuna persona divina ed ogni persona divina può essere chiamata per appropriazione Padre. Innanzitutto Dio Padre, che è la prima delle persone divine, è detta per appropria-


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 176

176

Roberto Osculati

zione Padre nostro a motivo dell’adozione, poiché, come si afferma in Colossesi 1,13, “ci ha chiamato al regno del suo amato Figlio”. Anche il Figlio è detto Padre nostro a motivo della redenzione e di lui si afferma in Isaia 9,6: “Il suo nome sarà Padre del tempo futuro”. Anche lo Spirito Santo è detto per appropriazione Padre nostro a motivo della donazione, in base al detto di Ebrei 12,9: “Obbediamo al Padre degli spiriti e avremo la vita”. Ma si deve notare in aggiunta che si può diventare indegni del nome di un tale padre. Innanzitutto in base alla dissipazione della propria eredità: “Ormai non sono degno di essere chiamato tuo figlio” (Luca 15,19) e lo disse dopo aver dissipato tutte le sue ricchezze con una vita lussuriosa, come si afferma nel medesimo passo. In secondo luogo per ribellione alla volontà del Padre: “Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre e, benché l’abbiano castigato, non dà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita, e diranno agli anziani della città: ‘Questo nostro figlio è testardo e ribelle; non vuole obbedire alla nostra voce, è un ingordo ed un ubriacone’. Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà. Così estirperai da te il male e tutto Israele lo saprà e avrà timore” (Deuteronomio 21,18-21). In terzo luogo per l’ingratitudine verso la bontà mostratagli: “Ho nutrito e fatto crescere dei figli, ma essi mi hanno disprezzato” (Isaia 1,2). In quarto luogo per corruzione della dignità originaria, in base all’affermazione del Salmo 18,46: “Figli estranei mi hanno ingannato, figli estranei si sono depravati ed errarono nel loro cammino”. In quinto luogo per imitazione della malvagità del diavolo: “Voi provenite dal diavolo vostro padre e volete compiere i desideri del padre vostro” (Giovanni 8,44). In sesto luogo in base alla illusione della propria ricchezza: “Il figlio saggio” ovvero quello che accetta la correzione di suo padre “rende felice suo padre. Il figlio stolto” ovvero quello che non accetta la correzione del padre e non si ricorda dell’insegnamento di sua madre, ma ha fiducia nella sua abbondanza (come si legge riguardo al figlio prodigo che ‘partì lontano verso una regione straniera’ [ Luca 15,13]) “genera tristezza a sua madre” (Proverbi 10,1). In settimo ed ultimo luogo si diventa indegni del nome del Padre per


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 177

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

177

disperazione verso la promessa di salvezza: “Per questo l’ira di Dio si abbatté sui figli privi di fiducia” (Efesini 5,6). Tutti costoro che si rendono indegni del nome del Padre vengono detti figli della vergogna: “Colui che raccoglie all’epoca della mietitura è un figlio saggio, chi invece durante l’estate russa è figlio della vergogna” (Proverbi 10,5). Affinché pertanto non diveniamo indegni del nome del Padre, affinché non siamo indicati come figli della vergogna ed estranei, affinché, mentre diciamo Padre nostro, non ci troviamo ad essere figli bugiardi, dobbiamo prestare attenzione ed obbedienza alla divina ammonizione, secondo il detto di Paolo: “Noi non siamo però di quelli che vengono meno per la propria rovina, ma uomini di fede per la salvezza della nostra anima” (Ebrei 10,39) ed anche in base al detto di Isaia 51,2: “Guardate Abramo, padre vostro” e Giovanni 8, 39.42: “Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. Se Dio fosse vostro padre, amereste pure me”. In secondo luogo, quando dice nostro, indica il principio specifico della creatura razionale. A proposito di questa parola devono essere considerati tre aspetti. Innanzitutto consideriamo la comune provvidenza divina nei confronti di tutti i suoi figli. In base a questa provvidenza divina nei nostri confronti siamo ammoniti riguardo a tre comportamenti che dobbiamo a vicenda esercitare. Per prima cosa siamo ammoniti riguardo all’amore reciproco, dal momento che siamo fratelli e pertanto dobbiamo guardarci da ogni contrasto: “Non ci sia conflitto tra me e te, tra i miei pastori ed o tuoi, siamo infatti fratelli” (Genesi 13,8). In secondo luogo siamo ammoniti ad attribuire ogni santificazione ai fratelli che ci prestano aiuto, in base al detto di Proverbi 18,19: “Il fratello che è soccorso dal fratello è come una solida città etc.”. Infine, in base alla sua comune provvidenza, siamo ammoniti a tendere allo stesso fine e al comune possesso della gloria. In secondo luogo, in base alla prima suddivisione, siamo in questo modo ammoniti riguardo alla nostra umiltà, poiché tutti siamo figli del medesimo Padre: “Forse che non è unico il Padre di noi tutti? Forse che non ci creò un unico Dio? Perché allora disprezza ognuno di noi suo fratello violando il patto dei nostri padri?” (Malachia 2,10). Abbiamo infatti tre padri, Dio e Adamo, padri comuni di tutti noi, ed


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 178

178

Roberto Osculati

ognuno ha il proprio padre, da cui è stato generato. In relazione al Padre eterno, come Dio é, non abbiamo materia per insuperbire, poiché é Padre per grazia: “Non avete ricevuto infatti di nuovo uno Spirito di schiavitù per avere timore, ma avete ricevuto lo Spirito di figli adottivi, con il quale gridiamo ‘Abbà, Padre!’”(Romani 8,15). Se hai ricevuto, di che cosa ti glori, come se non avessi ricevuto? Riguardo al padre terrestre comune allo stesso modo non abbiamo materia di insuperbire, perché tu non appartenesti a lui diversamente dall’infimo contadino, poiché, come si dice in Sapienza 10,1: “Egli per primo fu plasmato da Dio come padre della sfera terrestre” ovvero di tutti gli uomini sulla terra e Romani 5,18: “Da uno tutti per la condanna”. Infine in relazione al proprio padre non abbiamo materia per insuperbire, poiché ognuno di noi può recitare quel passo del Salmo 51,7: “Sono stato concepito in mezzo ai peccati e nei peccati mi ha concepito mia madre” e di Efesini 2,3: “Tutti nasciamo come figli dell’ira”. Pertanto è vana ogni stima di sé in base al parto, all’utero e al concepimento come si dice in Osea 9, 11-14. E così afferma l’apostolo: “Uno non si gonfi contro l’altro” (I Corinzi 4, 6). In terzo luogo, in base alla divisione principale, quando diciamo nostro siamo ammoniti riguardo alla nostra dignità, che è triplice. La prima viene dalla grandezza di un così grande fratello, poiché Cristo non si vergogna di chiamarci fratelli, come è affermato in Ebrei 2,11. E pertanto con l’affermazione Padre nostro, egli si fa del nostro numero, in base al passo di Genesi 45,4: “Io sono Giuseppe, vostro fratello”. Benché infatti l’essere umano abbia ricevuto una grande dignità ed un grande onore, poiché fu fatto ad immagine e a somiglianza di Dio e ricevette il dominio sulle altre creature, tuttavia questa dignità fu causa di una grande felicità e di una dignità suprema: “Siamo chiamati e siamo davvero figli di Dio”, come afferma I Giovanni 3,1; “Se siamo figli siamo anche eredi” (Romani 8,17); “Ha dato loro il potere di diventare figli di Dio” (Giovanni 1,12). La seconda dignità proviene dalla moltitudine di un gran numero di fratelli: “Finché non abbiano compiuto il loro numero i loro compagni di servizio e i loro fratelli che devono essere uccisi” (Apocalisse 6,11). Tutti i santi infatti, passati, presenti e futuri, sono nostri fratelli: “Colui che avrà compiuto la volontà del Padre mio che è nei cieli, costui è mio fratello, sorella e


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 179

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

179

madre” (Matteo 12,50). La nostra terza dignità viene dal dono di una così grande eredità: “Infatti la mia eredità è per me splendida” (Salmo 16, 6); “Colui che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi” (I Pietro 1,3-4). Si deve osservare però che molte cose possono dividere questa fraternità o comunità di Dio e devono essere rifuggite da noi. Innanzitutto la superbia ovvero l’ira e l’invidia: “A causa dell’ira omicida la fraternità perisce” (Sapienza 10,3). In secondo luogo l’avarizia o la grande ricchezza: “La terra non poteva contenerli, in modo da abitare assieme. Infatti la loro ricchezza era grande e non potevano abitare in comunità” (Genesi 13,6), poiché dal mio e dal tuo sorgono i conflitti. In Atti 4,32 si dice dei buoni fratelli: “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era in comune”. In terzo luogo la cattiveria divide questa fraternità, in base al detto di Giobbe 30,29: “Sono diventati fratello degli sciacalli e compagno degli struzzi”. Dal momento che dicendo Padre nostro ci viene raccomandato soprattutto l’amore fraterno, dobbiamo rifuggire per quanto possiamo questi comportamenti che distruggono la fraternità. La terza richiesta, quando afferma che sei nei cieli, propone il mistero incomprensibile della natura celeste. Qui devono essere considerati tre aspetti. Per prima cosa accenna al mistero della divinità. In secondo luogo sollecita l’aspirazione della nostra mente. In terzo luogo respinge il vizio della temerità. Riguardo al primo aspetto si deve notare che per tre motivi si dice che Dio abita nei cieli. In primo luogo per la sua altissima maestà e pertanto nei cieli significa in luoghi sconosciuti, infatti cielo, secondo il Damasceno, viene da celo, celas: “Abita una luce inaccessibile” (I Timoteo 6,16) e “Davvero sei un Dio nascosto” (Isaia 45,15). In secondo luogo per l’abbondantissima felicità. Pertanto è nei cieli, come se dicesse in un’ abbondantissima dispensa e nella riserva di tutte le grazie: “Ricco verso tutti coloro che lo invocano” (Romani 10,12); “Saranno inebriati dalla ricchezza della


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 180

180

Roberto Osculati

tua casa e li abbevererai con un torrente di delizia” (Salmi 36,9). In terzo luogo afferma che è nei cieli a motivo della sua santità molto benigna. Benché egli infatti sia in tutte le sue creature in base all’essenza, alla potenza e alla presenza, tuttavia si afferma che sia nei cieli perché in essi in modo mirabile risplende la sua sapienza secondo il Salmo 18,2: “I cieli narrano lo splendore di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani”. In modo speciale tuttavia abita nei cieli ovvero negli esseri umani di natura celeste. Pertanto, se Isaia 66, 1 afferma: “Il cielo è la mia sede”, un’ altra interpretazione afferma: “L’anima del giusto è la sede della sapienza” e “ho alzato i miei occhi a te, che abiti nei cieli” (Salmo 122,1). Per quanto concerne il secondo aspetto si deve notare che l’aspirazione della nostra mente si eleva in un triplice modo. Innanzitutto nella ricerca delle realtà celesti: “Cercate le cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio; gustate le cose di lassù non quelle che stanno sulla terra” (Colossesi 3,1-2). In secondo luogo aumenta la nostra aspirazione a seguire una vita celeste: “Siate santi, poiché io sono santo, il Signore Dio vostro” (Levitico 19,7) e “La vostra luce brilli davanti agli uomini così che vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre vostro che è nei cieli (Matteo 5,16). In terzo luogo, dal momento che tutti i beni discendono da lui, in base al passo di Giacomo 1,17: “Ogni regalo ottimo ed ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre delle luci”, eleviamoci ad adorarlo in verità come autore di tutti i beni , secondo il passo di Giovanni 4,24: “Dio è spirito e coloro che lo adorano devono adorarlo secondo lo spirito e la verità”. Riguardo al terzo aspetto si deve notare che, quando diciamo che sei nei cieli, viene screditato il vizio della temerità in tre modi. Innanzitutto affinché non scrutiamo i segreti del nostro Dio: “Colui che ne scruta la maestà sarà travolto dallo splendore” (Proverbi 25,27) e “Dio infatti sta in cielo e tu sulla terra, pertanto siano scarse le tue parole (Ecclesiaste 5,1). In secondo luogo non abbia in abominio la debolezza del tuo prossimo, poiché Dio sta tra le persone giuste che sono povere e disprezzate: “L’eccelso e il sublime che abita l’eternità e santo è il suo nome, che abita in alto e nel santo, con il contrito e l’umile di spirito, affinché ravvivi lo spirito degli umili e ravvivi il cuore dei contriti” (Isaia 57,15). L’onore pertanto che rendi al prossimo lo rendi a Dio e,


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 181

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

181

al contrario, il disprezzo del prossimo è disprezzo di Dio: “Ciò che hai fatto ad uno dei miei più piccoli l’hai fatto a me” (Matteo 25, 40). In terzo luogo affinché non svalutiamo noi stessi e non siamo condotti a colpe turpi, dal momento che siamo un cielo che contiene Dio: “Voi siete tempio del Dio vivo” (II Corinzi 6,16) e “Non sapete che siete il tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in voi?” (I Corinzi 3, 16) e ancora “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prendendo dunque delle membra di Cristo ne farò membra di una prostituta? Così non sia. Ignorate che chi si congiunge con una prostituta diviene un corpo solo? ‘Saranno infatti, dice, due in una sola carne’. Chi invece aderisce al Signore è un unico Spirito” (I Corinzi 6,15-16). Sia santificato il tuo nome. Completato il proemio, nel quale ci ha insegnato ad attrarre all’inizio della preghiera la benevolenza del Padre celeste, qui inizia la preghiera stessa, in cui siamo istruiti a chiedere la grazia di tutte quelle cose che ci sono necessarie per la salvezza. Infatti l’essere umano all’inizio della preghiera ha invocato il Padre per ottenere, con una invocazione tanto dolce, tanto breve, tanto saggia, la benevolenza del Padre, il quale ci ama, a cui appartiene la cura di noi stessi, che è potente verso tutti coloro che lo invocano. Successivamente, con l’inizio della preghiera, espone la sua richiesta per impetrare la grazia e dice sia santificato il tuo nome. Questa grazia ha tre aspetti. Innanzitutto la conquista di tutti i beni spirituali. In secondo luogo il possesso di tutto ciò che è necessario sul piano temporale. In terzo luogo l’esclusione di tutti i mali opposti, sia fisici che spirituali. In base dunque ai tre tipi di beni in cui la grazia consiste, l’essere umano fa tre cose. Innanzi tutto chiede i beni spirituali. In secondo luogo ricerca i beni fisici. In terzo luogo chiede che siano allontanati da lui i mali opposti, sia fisici che spirituali. La seconda richiesta viene fatta dove dice il pane nostro quotidiano, la terza dove dice rimetti a noi i nostri debiti. Riguardo al primo aspetto, in cui supplica i beni spirituali, occorre sapere che tali beni spirituali sono tre. I primi consistono nella santificazione della divinità, riguardo alla quale innanzitutto presenta la sua richiesta quando dice sia santificato il tuo nome. I secondi consistono nell’approssimarsi della gloria eterna. I terzi nell’adempimento della


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 182

182

Roberto Osculati

volontà divina. Colui che prega dunque, mentre richiede questi beni, fa tre cose. Con la prima richiesta chiede la conferma della grazia, con la seconda l’approssimarsi della gloria, con la terza l’osservanza dell’obbedienza a Dio, intermedia tra la grazia e la gloria. La seconda inizia dove si dice venga il tuo regno. La terza dove dice sia fatta la tua volontà. La prima richiesta è rivolta la Padre, il cui nome chiediamo sia santificato in noi. La seconda è rivolta al Figlio, il cui regno chiediamo sia per noi anticipato. La terza allo Spirito Santo, il cui volere chiediamo sia da noi compiuto. Infatti da lui ovvero dal Padre, per mezzo di lui ovvero del Figlio ed in lui ovvero nello Spirito Santo tutte le cose esistono, come si afferma in Romani 11,36. E in Luca 11,9 ci viene comandato chiedete ovvero dal Padre, cercate ovvero dal Figlio, bussate ovvero dallo Spirito Santo. Per quanto riguarda la prima richiesta, che è sia santificato il tuo nome, si deve notare che con tale richiesta chiediamo tre cose, secondo la sua triplice spiegazione. Innanzitutto chiediamo la grazia di onorare Dio. Pertanto viene intesa così: sia santificato ovvero Dio sia glorificato da noi a motivo della sua grazia: “Glorificate il Signore degli eserciti” (Isaia 8,13). Il suo nome è onorato in un triplice modo. Innanzitutto nel cuore per mezzo della devozione, in base al passo di Luca 1,46: “L’anima mia magnifica il Signore”. In secondo luogo con la bocca per mezzo della esaltazione, in base al passo del Salmo 34, 2: “La sua lode sempre nella mia bocca”. In terzo luogo nell’azione attraverso l’edificazione del prossimo: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini in modo che vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre vostro che è nei cieli”. E riguardo a tutti e tre questi aspetti si afferma: “In tutte le cose sia onorato Dio attraverso Gesù Cristo” (I Pietro 4, 11) e “Santificheranno il Santo di Giacobbe ed annunceranno il Dio d’Israele” (Isaia 29,23). In secondo luogo chiederanno la grazia di santificare il nome di Dio in noi, il che avviene in tre modi. Innanzitutto attraverso la purezza: “Ognuno sappia conservare il suo corpo con santità ed onore” (I Tessalonicesi 4,4); “Colui che è santo si santifichi ancora” (Apocalisse 22,11). In secondo luogo attraverso la perseveranza: “Santificali per mezzo della verità” (Giovanni 17,17) ovvero confermali: “Conferma, o Dio, quello che hai fatto in noi” (Salmo 68,29). In terzo luogo attraverso la


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 183

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

183

conformità, in modo che la nostra vita si modelli su Cristo: “Non tratterai invano il nome di Dio” (Esodo 20,7); “Siate santi come io sono Santo” (Levitico 11,45). Ma, ahimè, oggi siamo ridotti ad una santificazione modesta: “Sarò per loro di una santificazione modesta” (Ezechiele 11,16), perché consiste solamente o nelle parole o nell’abito. In secondo luogo siamo santi con una santificazione inquinata: “Con la moltitudine delle tue iniquità e con l’iniquità del tuo commercio hai inquinato la tua santificazione” (Ezechiele 28,18). In terzo luogo con una santificazione abbandonata: “Come videro la santificazione abbandonata, piansero” (I Maccabei 4,38-39). In terzo luogo, in base alla prima divisione, chiediamo la grazia di conoscere il suo nome ovvero di giungere ad una chiara conoscenza di Dio stesso. Il che accade in tre modi. Innanzitutto attraverso il dono della sapienza riguardo alla legge e all’evangelo, secondo quanto si afferma nel Salmo 119,18. Pure questo Cristo chiede per noi: “Santificali per mezzo della verità” (Giovanni 17,17) in modo che possano conoscerla. In secondo luogo attraverso il dono della grazia, assieme alla fede e al merito: “Santificherò il mio grande nome tra le genti, affinché sappiano che io sono il Signore” (Ezechiele 36, 22-23) e “manifesterò loro me stesso” (Giovanni 14,21). In terzo luogo attraverso il dono della gloria, assieme alla speranza e al premio: “Sarò santificato in voi, quando vi condurrò alla terra d’Israele” (Ezechiele 20,42) ovvero alla visione di Dio: “Allora sarà santo chiunque sarà iscritto a Gerusalemme”, come si afferma in Isaia 4,3. Si deve notare soprattutto che viene santificato in noi il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Innanzitutto il nome del Padre, se siamo figli: “Diede loro il potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome” (Giovanni 1,12). Viene santificato il nome del Figlio, se siamo fratelli: “Non si vergogna di chiamarli fratelli quando afferma: parlerò del tuo nome ai miei fratelli” (Ebrei 2, 12). In terzo luogo infine viene santificato in noi il nome dello Spirito Santo: “Se viviamo dello Spirito, camminiamo pure secondo lo Spirito. Non diventiamo desiderosi di un futile vanto, provocandoci a vicenda, invidiandoci a vicenda”(Galati 5,25-26). In base a ciò che abbiamo detto, in modo speciale chiediamo la conferma della grazia del nome di Padre, che abbiamo invocato


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 184

184

Roberto Osculati

dicendo Padre nostro, in modo da essere figli: “Carissimi, ora siamo figli di Dio e non si è ancora manifestato quello che saremo” (I Giovanni 3,2). Pertanto, in base a questa spiegazione, chiediamo sia santificato il tuo nome in noi ovvero che appaia e sia evidente che egli è Padre nostro e noi suoi figli, condizione che non sarà perfetta se non nella gloria: “Mi chiamerai padre” (Genesi 3,4); “Accadrà che invece di dire loro ‘non siete il mio popolo, sarà detto loro figli del Dio vivente’” (Osea 1,10). In secondo luogo occorre notare che queste tre spiegazioni già offerte di tale richiesta sono desunte dalle triplice analogia di questo nome ‘santo’. Si afferma infatti anzitutto santo come se fosse agiós ovvero senza terra. Pertanto è detto santo poiché è elevato da terra e così è santificato il nome di Dio ovvero è esaltato da noi: “E non cessavano dal dire giorno e notte: ‘Santo, Santo, Santo’ etc.” (Apocalisse 4, 8); “Esaltiamo il suo nome insieme” (Salmo 34,4). In secondo luogo santo è lo stesso che puro e il nome di Dio viene santificato in noi quando noi stessi ci santifichiamo e purifichiamo in Dio: “Colui infatti che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da uno” (Ebrei 2,11). In terzo ed ultimo luogo santo significa solido, per così dire risanato. E così è santificato il suo nome in noi quando il suo nome è confermato in noi attraverso la rivelazione della verità: “Io santifico (ovvero confermo) me stesso in loro favore” (Giovanni 17,19). Si deve osservare in terzo luogo che queste prime tre richieste vengono poste in terza persona, non in prima, né in terza. Innanzitutto perché la grazia non esiste in noi in base al merito o alle nostre azioni, ma proviene esclusivamente da Dio. Oppure in secondo luogo non pose le richieste in prima persona poiché non si tratta solo di una nostra azione, e neppure nella seconda persona, come se si verificassero attraverso qualcosa d’altro, dal momento che non è esclusivamente opera di un altro, come Dio, ma in terza persona, affinché fosse mostrata come necessaria l’azione dell’uno e dell’altro ovvero di Dio e di noi stessi. La seconda richiesta si compie dove afferma venga il tuo regno. Qui in modo consequenziale, dopo la conferma della grazia e dell’adozione a figli attraverso il nome del Padre risanato e confermato in


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 185

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

185

noi, chiediamo l’approssimarsi e il possesso della gloria eterna come di quella somma e felicissima realtà che è l’eredità di figli: “Eredi infatti di Dio, coeredi di Cristo, se tuttavia partecipiamo alle sue sofferenze” (Romani 8,17). E pertanto chiediamo l’approssimarsi del regno ereditario perché, essendo figli del Padre eterno, siamo re del suo regno: “Ci ha reso un regno e sacerdoti per Dio e Padre suo” (Apocalisse 1,6); “Prendete il regno preparato per voi” (Matteo 25,34). Per una migliore intelligenza di tale richiesta occorre tuttavia notare che, sebbene questa richiesta si intenda in modo precipuo dell’approssimarsi e del possesso del regno eterno, tuttavia può essere intesa di un triplice regno. Innanzitutto del regno della grazia. In secondo luogo del regno della giustizia. In terzo luogo del regno della felicità eterna. Quanto alla prima interpretazione riguardante il regno della grazia chiediamo venga il regno della sua grazia ovvero che egli regni in noi attraverso la sua grazia: “Davvero è giunto a voi il regno di Dio” (Luca 11,20). Chiediamo venga tra noi questo regno della grazia affinché siamo liberati dal regno ovvero dalla multiforme tirannia del diavolo. Infatti il diavolo regna tra gli uomini in un triplice modo. In alcuni infatti il diavolo regna per mezzo della superbia: “Egli è re sopra tutti i figli della superbia” (Giobbe 41,25). In alcuni regna per mezzo della concupiscenza: “Non regni dunque il peccato nel vostro corpo mortale per obbedire alle sue concupiscenze” (Romani 6,12). In terzo luogo regna in alcuni attraverso l’avarizia: “Già siete diventati ricchi, regnate senza di noi” (I Corinzi 4,8). Questi sono i regni che il diavolo mostrò a Cristo: “Gli mostrò tutti i regni del mondo”(Matteo 4,8). E pertanto chiediamo di essere liberati dal regno di questo tiranno, affinché venga il regno di Cristo: “Ecco infatti il regno di Dio è tra voi” (Luca 17,21). In secondo luogo, in base alla divisione principale questa richiesta può essere intesa del regno della giustizia, che ora è disprezzato a causa della malizia. Pertanto si dice venga il tuo regno ovvero si mostri la giustizia del tuo regno: “Li governerai con scettro di ferro” (Salmo 2,9) ovvero con una giustizia inflessibile, come afferma la glossa. Da ultimo viene inteso riguardo al regno della gloria, del quale si dice: “Se ne andò” (Luca 19,12) ovvero Cristo per mezzo dell’ascensione ad assumere il regno ovvero il potere regale e tornare alla fine del mondo per il giudizio. I santi desiderano l’avvicinarsi di questo


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 186

186

Roberto Osculati

regno per tre motivi. A causa della crescente malizia, a motivo del venir meno della giustizia, a causa dell’affievolirsi della pazienza: “Fino a quando tu che sei santo e verace non rendi giustizia e non prendi vendetta del sangue dei nostri da coloro che abitano sulla terra?” (Apocalisse 6,10); “Dà la paga ai superbi” (Salmo 94,2). Quando sarà giunto questo regno glorioso che invochiamo, per prima cosa il re chiederà conto ai suoi servi: “Il regno dei cieli è simile ad un re che volle fare i conti con i suoi servi etc.” (Matteo 18,23). In secondo luogo disputerà con loro: “Radunerò tutte le genti e le condurrò nella valle di Giosafat e la disputerò con loro” (Gioele 3,2). In terzo luogo, dopo la disputa, introdurrà nel regno coloro che avranno operato bene: “Venite, benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno preparato per voi dalla creazione del mondo. Ebbi fame infatti e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere etc.” (Matteo 25, 34-35). Così con questa richiesta si esprime innanzitutto il desiderio di colui che prega: “Quando verrò e mi presenterò dinnanzi al volto di Dio?” (Salmo 42,3); “Anela e viene meno l’anima mia davanti alle dimore del Signore” (Salmo 84,3). In secondo luogo essa mostra il disgusto per la nostra pigrizia, dal momento che sollecitiamo il regno di Dio a venirci incontro velocemente. Tale pertanto può essere il significato di questa richiesta venga il tuo regno ovvero venga presto, con sollecitudine, e velocemente, poiché siamo così pigri che non possiamo avvicinarci o lo trascuriamo: “Fate penitenza perché si avvicina il regno di Dio” (Matteo 4,17). E pertanto secondo Apocalisse 21,2: “Vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, che discendeva dal cielo, da Dio, vestita come una sposa ornata per il suo sposo”. Viene indicata come discendente dal cielo, perché si intenda: come se si avvicinasse per accogliere i suoi cittadini. In terzo luogo si intende il dono della grazia per conferirci la dignità: a motivo di essa Dio non disprezza la nostra bassezza, ma “ci ha chiamato al regno del suo amato Figlio, attraverso il quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati”, come si afferma in Colossesi 1,13-14. La terza richiesta si trova dove si dice sia fatta la tua volontà, così in cielo come in terra. Qui in modo pertinente, dopo la conferma della


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 187

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

187

grazia, che abbiamo invocato con la prima richiesta, e dopo l’approssimarsi della gloria, che abbiamo supplicato con la seconda richiesta, chiediamo la conformità della nostra volontà e della volontà divina, in modo che sperimentiamo quale sia “la volontà divina, buona, benevola e perfetta”, come si dice in Romani 12,2. Anche tale richiesta, come le altre, viene esposta secondo tre aspetti. In primo luogo in modo che sia la condizione di tutte le nostre richieste. Dal momento infatti che spesso la nostra volontà è distorta, incurvata e malvagia, chiediamo che nelle nostre richieste non si compia la nostra volontà, ma quella di Dio, in base a ciò che Cristo ha insegnato nella sua preghiera: “Tuttavia non come io voglio, ma come tu vuoi. Padre, se questo calice non può passare senza che lo beva, sia fatta la tua volontà” (Matteo 26,39). Secondo questa richiesta quella condizione è indicata come da osservare in tutte le nostre richieste ovvero se sia conveniente, se non ponga ostacolo qualcosa di opposto, in base a quello che è affermato: “In modo che diciate: ‘Se il Signore l’avrà voluto, faremo questo o quello’” (Giacomo 4,15). Spesso infatti la sensualità muove, la volontà desidera, la ragione non distingue. Pertanto: “Figlio non seguire le tue passioni” (Ecclesiastico 18,30). Questa condizione deve essere posta in tutte le nostre richieste per tre motivi. Per prima cosa per evitare un errore nella richiesta. Infatti “non sappiamo che cosa pregare” (Romani 8,26). In secondo luogo per esprimere, da parte di colui che chiede, l’obbedienza, che non possiede una propria volontà. Pertanto Bernardo afferma: “Elimina la volontà propria e l’inferno scomparirà” (Sermone 3 sulla risurrezione); “Mi hai condotto secondo la tua volontà” (Salmo 73,24); “Non compio il bene che voglio” (Romani 7,19). In terzo luogo per addolcire la clemenza di colui al quale facciamo la richiesta, dal momento che ci conformiamo al suo beneplacito e, per quanto possiamo, accordiamo la nostra volontà alla sua volontà e non vogliamo null’altro che ciò che Dio vuole che noi vogliamo. E così si comprende il detto che è stato prima citato: “Affinché sperimentiate la volontà di Dio, buona, benevole e perfetta” (Romani 12,2). Nessuno infatti deve dubitare della volontà di Dio per tre motivi. Innanzitutto perché è più pronto alla misericordia, quando siamo solleciti nella ricerca del suo aiuto: “Non voglio la morte del peccatore,


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 188

188

Roberto Osculati

dice il Signore, ma che piuttosto si converta e viva” (Ezechiele 18,23).Dio non vuole la nostra morte e non gli offro volentieri la mia vita? In secondo luogo non dobbiamo dubitare della benevolenza di Dio, poiché nei confronti della salvezza è più universale e primordiale di quanto venga ritenuto dagli esseri umani: “Egli vuole che tutti gli esseri umani siano salvati ed arrivino alla conoscenza della verità” (I Timoteo 2,4). In terzo luogo perché possiede più efficacia nel compimento di ciò che vuole rispetto a qualunque volontà creata: “Ha fatto tutto ciò che ha voluto” (Salmo 115,3) in cielo, sulla terra e negli abissi. Tuttavia, per una comprensione più chiara di questo terzo aspetto, occorre notare con diligenza che è vero in base alla volontà di beneplacito, secondo quanto è affermato in Romani 9,16: “Non appartiene a chi vuole e si sforza, ma alla misericordia di Dio”. La volontà di Dio, benché sia semplicissima, tuttavia viene intesa secondo due aspetti, come abbiamo sostenuto nelle nostre questioni relative al primo libro delle Sentenze [ I Sentenze dist. 45, q. ultima; dist. 46, q. 1]. Infatti la volontà di Dio è di beneplacito e di segno. Di nuovo la volontà di beneplacito si divide, poiché l’una è antecedente, l’altra è conseguente. La volontà di segno è quella contenuta in questo verso: comanda o proibisce, permette, consiglia, adempie. Nei confronti di ciò che è presente infatti adempie ciò che è bene e permette ciò che è male; rispetto al futuro, riguardo a ciò cui non tutti sono tenuti, consiglia quanto appartiene ai consigli, come lasciare ogni cosa a motivo di Dio. E questa volontà non sempre consegue il suo effetto, poiché Dio comanda con volontà di segno alcune cose che non vuole noi compiamo, come è evidente riguardo al sacrificio di Isacco che impose ad Abramo (Genesi 22, 2). Non volle infatti il sacrificio, ma la fede e l’obbedienza del patriarca. La volontà di beneplacito che è chiamata antecedente è quella in base alla quale Dio vuole secondo il suo comando il bene della sua creatura in modo semplice, non considerando che il bene naturale. Con essa non nega alla sua creatura gli aiuti comuni necessari a conseguire il suo fine. Di questa volontà antecedente parla il saggio, quando afferma: “Si preoccupa in modo uguale di tutti” (Sapienza 6,8). Di questa volontà antecedente (quando venga considerata esclusiva-


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 189

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

189

mente da parte di Dio e concerna soltanto la natura e non le persone e gli aiuti generali e non quelli particolari né il raggiungimento del fine e neppure le nostre opere ovvero il buon uso del libero arbitrio, cose tutte necessarie alla salvezza) in tutta verità si afferma che non sempre raggiunga il suo scopo. La cosa è evidente in base al detto dell’apostolo: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati” (I Timoteo 2, 4). L’affermazione si intende riguardo alla volontà antecedente ed è evidente che non tutti gli uomini vengano salvati. Infine la volontà conseguente è quella in base alla quale Dio vuole le cose che vuole non solo in generale ma in base a tutte le circostanze, poiché concerne non solo l’imposizione ma anche l’esecuzione di un ordine, non solo la natura ma le persone, non gli aiuti comuni ma anche quelli particolari, non solo ciò che proviene da parte di Dio ma anche ciò che è richiesto da parte nostra affinché possiamo essere salvati, come il buon uso del libero arbitrio e l’osservanza dei precetti divini. E questa è la volontà di cui si parla nel Salmo 115, 3 citato sopra: “Ha fatto tutte le cose che ha voluto”. Di essa afferma l’apostolo: “Chi resiste alla sua volontà?” (Romani 9,19). E di questa volontà divina affermiamo sia fatta la tua volontà, della quale non dobbiamo dubitare in nessun modo, se non poniamo un ostacolo alla sua misericordia e alla sua beneficenza. In secondo luogo questa richiesta viene spiegata come un riconoscimento di tutti i nostri difetti nei confronti della volontà divina. Pertanto colui che prega dice sia fatta la tua volontà ovvero “fa’ che io faccia ed adempia la tua volontà, poiché da me stesso non lo posso senza il tuo aiuto”: “Senza di me non potete fare nulla” (Giovanni 15,5); “Insegnami a fare la tua volontà” (Salmo 143,10). E in base a questa interpretazione l’apostolo afferma: “Il volere è a mia disposizione, ma non trovo il compimento” (Romani 7,18). Si deve tuttavia osservare che, nonostante ci siano molte cose che ci allontanano dall’adempimento della volontà divina, sia la sensualità che trascina, sia la sensualità che stimola, tuttavia ci sono molti aspetti che devono indurci al suo adempimento. Il primo è la necessità della sottomissione dal momento che siamo servi: “Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato comandato, dite ‘siamo servi inutili, abbiamo fatto quello che


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 190

190

Roberto Osculati

dovevamo’ ”(Luca 17,10). Il secondo è la giusta punizione: “Quel servo che ha conosciuto la volontà del suo padrone e non si affrettò e non agì secondo la sua volontà, riceverà molte percosse” (Luca 12,47). Il terzo è la natura della buona volontà che è “buona, benevola e perfetta” (Romani 12,29). Il quarto è il benevolo affetto: “Colui che ha compiuto la volontà del Padre mio è mio fratello, sorella e madre” (Matteo 12,50). Il quinto è la conoscenza della verità: “Se qualcuno vorrà compiere la sua volontà, conoscerà riguardo al mio insegnamento se viene da Dio etc.” (Giovanni 7,17). Il sesto è il raggiungimento della purificazione: “Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione” (I Tessalonicesi 4,3). Il settimo ed ultimo è il premio dell’eredità: “Colui che avrà compiuto la volontà del Padre mio che è nei cieli entrerà nel regno dei cieli” (Matteo 7,21). In terzo luogo questa richiesta viene spiegata come adempimento di tutto quello che è per noi desiderabile. Così sia fatta la tua volontà ovvero si adempia perfettamente la tua volontà in noi e riguardo a noi. Ciò non avverrà se non quando si sarà adempiuta nei buoni la nostra aspirazione ovvero dopo questa vita. Pertanto la prima richiesta riguarda la visione immediata, attraverso la quale sarà santificata ovvero diverrà limpida la conoscenza del suo nome, poiché in Giovanni 17, 3 si dice: “Questa è la vita eterna, che conoscano te vero Padre e colui che hai inviato, Gesù Cristo”. La seconda richiesta riguarda la sicurezza del conseguimento senza alcuna nostra ribellione al momento dell’arrivo del regno di Dio. La terza concerne la fruizione completa, quando la volontà di Dio si compirà in noi e da parte nostra come da parte degli angeli. Allora infatti la nostra volontà sarà senza contrasto padrona di tutte le forze inferiori, pienamente soggetta senza ribellione rispetto a quelle superiori e pienamente libera rispetto a quelle interiori ed esteriori: “Voi, fratelli, siete stati chiamati alla libertà etc.” (Galati 5,13). Quanto all’aggiunta così in cielo come in terra, in base a tutte le spiegazioni fornite viene intesa alla stesso modo. Può dunque essere esposta secondo tre aspetti. Innanzitutto come in cielo così in terra ovvero come avviene tra gli angeli e da parte degli angeli così accada tra noi e da parte di noi, che rispetto a loro siamo sulla terra. Si può esporre in modo diverso: come in cielo avviene ovvero nella sinderesi,


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 191

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

191

che non erra mai, così accada in terra ovvero nelle forze inferiori. Oppure diversamente in un terzo modo si interpreti così: come in cielo ovvero in Cristo, che è nostro capo, così accada sulla terra ovvero nella chiesa, che è il mistico corpo. E pertanto il Cristo in preghiera afferma: “Desidero, Padre, che siano una cosa sola con me” ovvero per la conformità della volontà, “come io e te siamo una cosa sola” (Giovanni 17,21). Poi segue quella parte principale: dacci oggi il nostro pane quotidiano. In questa unica richiesta, dopo che nelle tre precedenti ha domandato tutti i beni spirituali, chiede nella preghiera il dono di tutte le realtà temporali necessarie. Con il pane quotidiano infatti si intende tutto quello che è necessario per l’alimento di ogni giorno, sia il cibo, sia la bevanda, sia il vestito, sia la casa, sia i mezzi economici, sia la salute del corpo etc.: “Base della vita dell’essere umano sono l’acqua, il pane, il vestito e la casa che protegge l’intimità” (Ecclesiastico 29,28). Ma fa’ attenzione alle singole parole di questa richiesta. Dal momento che si dice pane si esclude quella abbondanza che non si accontenta del pane: “Quando abbiamo gli alimenti e i vestiti, siamone soddisfatti” (I Timoteo 6,8). Con l’affermazione nostro esclude quello che non ci appartiene, poiché mangiare il pane non proprio, come il pane proveniente da un furto, è un peccato: “Se mangerai ciò che proviene dalle fatiche delle tue mani, sarai felice e ti andrà bene” (Salmo 128,2); “Colui che rubava non rubi più; piuttosto lavori compiendo con le sue mani quanto è buono” (Efesini 4,28). In quanto aggiunge quotidiano esprime qualcosa di necessario, senza cui è non è possibile condurre la vita presente, che ha necessità di alimenti quotidiani. Pertanto si dice in Ecclesiastico 29,28: “Base della vita dell’essere umano sono il pane, l’acqua etc.”. In quanto dice da’ mostra la generosità e la benevolenza di Dio, che non vende, ma dona gratuitamente e con larghezza: “Dà a tutti con abbondanza e non muove rimproveri” (Giacomo 1,5) e “Colui che dona il seme al seminatore darà il pane per mangiare e moltiplicherà il vostro seme e aumenterà il moltiplicarsi dei frutti della vostra giustizia” (II Corinzi 9,10). Infine, per quanto aggiunge pure oggi, esclude il desiderio smodato che raccoglie ed accumula per moltissimi anni secondo il detto


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 192

192

Roberto Osculati

di Luca 12,19: “Anima mia, hai molti beni raccolti per molti anni etc.”; “Non siate preoccupati per il domani” (Matteo 6,34). Per quanto riguarda, secondo un altro modo di intendere, l’affermazione sovrasostanziale, essa indica un certo carattere secondario, poiché non dobbiamo chiedere il cibo temporale essenzialmente per se stesso, ma in modo secondario e quasi incidentalmente ed in ordine alla vita eterna, secondo il detto di Matteo 6,33: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte le cose vi saranno date in aggiunta”. Ma questa richiesta può anche essere intesa in senso spirituale ed in tre modi. Innanzitutto riguardo al pane sacramentale: “Hai nutrito il tuo popolo con il cibo degli angeli e senza fatica hai fornito loro un pane preparato dal cielo, che ha in sé ogni gusto e sapore soave” (Sapienza 16,20). E questo pane ci è necessario ogni giorno: per questo motivo è detto viatico e pertanto deve essere da noi domandato ogni giorno con questa richiesta. In secondo luogo può essere inteso del pane spirituale, che è la parola di Dio, attraverso la quale l’anima viene nutrita: “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Matteo 4,4). L’uno e l’altro di questi pani rafforzano il cuore dell’essere umano, secondo il detto del Salmo 104,15: “Il pane rafforza il cuore dell’uomo”. L’uno e l’altro dobbiamo chiedere a Dio, poiché non solo è colui che ci dà da mangiare la sua carne, secondo il detto di Matteo 26,26: “Prendete e mangiate: questo è il mio corpo”, ma è anche colui che, in base al detto del Salmo 68,12: “Dona la parola a coloro che evangelizzano con grande forza”. In terzo luogo si può anche affermare che con tale richiesta domandiamo per noi da Dio il pane eterno, il cui sapore ci sarà dato lungo la via, ma il cui frutto e possesso si avrà nella patria. Per il suo sapore e possesso saremo beati, secondo il detto di Luca 14,15): “Beato chi mangerà il pane nel regno di Dio”. Poi segue la parte rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. In essa , dopo aver chiesto tutti i beni spirituali a noi necessari per la salvezza, e questo per quanto riguarda le prime tre richieste, ed ha supplicato tutti i beni fisici a noi necessari in questa vita, e questo per quanto concerne la quarta richiesta, domanda e supplica l’eliminazione di tutti i mali fisici e spirituali. Pertanto questa


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 193

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

193

può essere più una supplica che una preghiera, poiché la preghiera riguarda propriamente un bene da ottenere, ma riguardo alla eliminazione di un male, del quale genere è considerata questa parte, va indicata propriamente come supplica. Si deve poi osservare che i mali da cui desideriamo essere liberati si riducono a tre tipi: o ai mali della colpa o ai mali della lotta o ai mali della pena. E, affinché siamo liberati da tutti i mali, vengono fatte tre richieste nell’ultima parte della preghiera del Signore, che viene indicata come supplica. Innanzitutto nella quinta richiesta si supplica di essere liberati dal male della colpa. In secondo luogo di essere liberati dal male della lotta, in terzo luogo dal male della pena. La seconda domanda inizia al principio della sesta richiesta, dove afferma non indurci. La terza comincia all’inizio della settima ed ultima richiesta, dove afferma ma libera. Per quanto riguarda la prima di queste richieste, che nell’ordine è la quinta, occorre notare che dapprima rende palese la colpa, quando afferma i nostri debiti: “C’erano due debitori nei confronti di un prestatore” ovvero l’anima e il corpo nei confronti di Cristo, “l’uno doveva cinquecento denari e l’altro cinquanta. non avendo essi di che renderli, egli li condonò all’uno e all’altro” (Luca 7,41-42); “Siamo debitori non verso la carne e il sangue in modo da vivere secondo la carne etc.” (Romani 8,12). In secondo luogo chiede la misericordia, quando dice rimetti a noi: “Quel servo prostrato lo pregava dicendo: ‘Abbi pazienza verso di me e ti renderò tutto’. Il signore di quel servo, avendone avuto misericordia, lo lasciò andare e gli condonò il debito” (Matteo 18, 26-27). In terzo luogo si impegna ad avere indulgenza verso gli altri, per cui afferma come anche noi rimettiamo ai nostri debitori: “Servo malvagio, ti ho condonato tutto il tuo debito, poiché mi hai supplicato. Forse non era necessario che tu avessi misericordia del tuo compagno di servitù come anch’io ho avuto misericordia di te?” (Matteo 18, 32-33). Riguardo al primo aspetto occorre sapere che molti debiti ci tengono legati. Il primo debito riguarda ciò che ci è stato affidato, come i benefici di Dio che abbiamo ricevuto oppure i ministeri divini che abbiamo ricevuto in affidamento: “Un uomo ricco aveva un amministratore e questi fu accusato dinnanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: ‘che cosa sento dire di te? Rendi conto


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 194

194

Roberto Osculati

della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare” (Luca 16,1-2). Il secondo debito riguarda quello che abbiamo promesso, sia in generale con il battesimo, sia in modo speciale con un voto: “Rendi all’altissimo quello che hai promesso” (Salmo 50,14); “È meglio non fare voti che, dopo aver fatto voti, non offrire quanto è stato promesso” (Ecclesiaste 5,3). Il terzo debito riguarda ciò che è andato perduto sia con una omissione sia con una azione: “Dio condurrà al giudizio per ogni errore tutte le cose che esistono, sia per il bene che per il male” (Ecclesiaste 12,14). Oppure possiamo altrimenti indicare come debiti che ci legano in modo che consistano nel dovere della reverenza ed obbedienza, nel timore, nell’onore e nell’amore: “Se io sono Padre, dove è il mio onore? E se io sono Signore, dove è il timore di me?” (Malachia 1,6). Al prossimo poi dobbiamo la benevolenza dell’affetto e dell’effetto: “Non siate in debito di nulla con nessuno se non dell’amore reciproco” (Romani 13,8). In ultimo luogo dobbiamo a noi stessi la preoccupazione di contrapporci alla carne, al mondo e a Satana. Pertanto Paolo in I Timoteo 4,13 non solo disse “Dedicati all’insegnamento”, ma prima aveva detto “Pensa a te etc.”. Riguardo al secondo aspetto si deve notare che questi debiti ci vincolano come lacci, come febbri e come spini. Innanzitutto ci vincolano come lacci secondo il detto di Proverbi 5,22: “Le sue iniquità afferrano il malvagio ed egli è stretto dalle funi dei suoi peccati”. E pertanto chiediamo che perdoni spezzando i lacci: “Hai spezzato i miei vincoli: ti sacrificherò una vittima di lode” (Salmo 116,16-17); “Il laccio è stato spezzato e siamo stati liberati” (Salmo 124,7). In secondo luogo, dal momento che ci trattengono come una febbre, chiediamo che condoni scacciando le febbri: “Comandò alla febbre e la lasciò” (Luca 4,39). In terzo luogo, dal momento che i nostri debiti ci trattengono come spini, chiediamo che ce ne liberi bruciando gli spini: “Gli spini raccolti saranno bruciati dal fuoco” (Isaia 33,12). Non solo chiediamo gli uni per gli altri che siano bruciati in noi gli spini, siano cacciate le febbri, siano spezzati i lacci, ma anche i santi lo supplicano a favor nostro dicendo a Cristo: “Mandala via, poiché grida dietro a noi” (Matteo 15,23). Si deve tuttavia osservare che le preghiere dei santi a nostro favore vengono esaudite se avremo imitato le loro virtù e noi stessi con loro non smetteremo di pregare per noi: “Ti ho condonato


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 195

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

195

tutto il debito poiché mi hai pregato” (Matteo 18,32). Riguardo al terzo aspetto si deve osservare che, per quanto afferma come noi rimettiamo, la glossa ritiene che chi prega rende Dio debitore a se stesso e se stesso a Dio. Ed occorre comprendere come ovvero facilmente, senza molta insistenza o rimprovero; oppure come ovvero totalmente in modo che non conserviamo rancore né nell’aspetto né nel cuore; oppure come ovvero al presente, non in occasione della morte, non dopo essersi vendicati: “L’essere umano conserva l’ira verso l’essere umano e chiede rimedio a Dio” (Ecclesiastico 28,3); “Se non avrete perdonato agli esseri umani, neppure il Padre vostro perdonerà a voi le vostre colpe” (Matteo 6,15). Si deve tuttavia osservare che come non afferma né una uguaglianza né una imitazione totale della misericordia divina, dal momento che la misericordia divina, a motivo della quale vengono rimessi nostri debiti, supera immensamente quella nostra misericordia con la quale rimettiamo i debiti ai nostri debitori. Indica piuttosto tutto quello che è possibile allo sforzo umano con il quale dobbiamo imitare per quanto possibile la misericordia divina. Riguardo a questa richiesta qualcuno potrebbe sollevare il dubbio se colui che vive nell’odio pecchi mentre la formula. E sembra di sì poiché, se vive nell’odio e dice di rimettere ai suoi debitori, mente a Dio e chi mente a Dio pecca, pertanto etc. Si deve affermare che chi vive nell’odio, se formula questa richiesta, benché non sia esaudito, tuttavia non pecca, se non la formula con l’ostacolo di una disposizione contraria ovvero con l’ostinata perseveranza nell’odio. Che poi sia esente da colpa può divenire evidente in base a due procedimenti. Il primo procedimento si basa sul fatto che egli compie quella affermazione a nome della chiesa, che imitando il Cristo suo sposo condona ai suoi debitori e prega per loro. Il secondo procedimento si basa sul fatto che, nonostante egli viva nell’odio e non abbia completamente perdonato ai suoi nemici, non si deve per tale motivo affermare che mentre prega pecca, poiché esprime un suo desiderio per quanto imperfetto. Con un simile desiderio mostra di voler giungere ad una condizione tale da perdonare perfettamente e totalmente. E così appare evidente che possa essere affermato senza colpa anche da parte di coloro che vivono nell’odio.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 196

196

Roberto Osculati

In modo razionale poi questa richiesta è collocata dopo la richiesta di quanto è necessario sul piano temporale e spirituale, poiché soprattutto in base a queste esigenze siamo posti nella condizione di debitori, sia in relazione alla gratitudine sia in relazione ai doni che abbiamo ricevuto, se ne abbiamo fatto buon uso, sia in rapporto alle facili trasgressioni e ai cattivi adempimenti riguardo ad esse. La seconda supplica si trova là dove afferma non indurci in tentazione. Si tratta della sesta richiesta, nella quale colui che prega chiede di essere liberato dal male della lotta. Per la sua comprensione si deve osservare che la tentazione ha un triplice aspetto. Il primo è quello con cui tentiamo. Il secondo quello secondo il quale talvolta siamo tentati. Il terzo è quello senza il quale non è possibile condurre la vita presente. Riguardo alla prima tentazione si deve sapere che in molti modi accade che tentiamo Dio, sia provocandolo con una azione contraria sia non avendo fiducia nel potere di Dio: “Hanno tentato Dio ed hanno provocato il Santo d’Israele” (Salmo 78, 41). Oppure presumendo di sé mentre si deve chiedere un segno: “Non chiederò e non tenterò il Signore” (Isaia 7, 12), ma Acaz pronunciò quelle parole con diffidenza. Oppure domandando a Dio di provare se sia Dio: “Non tenterai il Signore Dio tuo” (Matteo 4,3). Oppure ignorando il consiglio ed il giudizio umani ed esponendosi al pericolo ed alla caduta. Così si spiega quel testo di Matteo 4,7: “Non tenterai etc.”, esponendoti alla caduta, e non comportarti come colui che tenta il Signore. Riguardo al secondo tipo di tentazione si deve pure sapere che, come nel primo tipo di tentazione avviene che noi tentiamo Dio in molti modi, similmente nel secondo tipo capita che siamo tentati da Dio e dagli uomini in molti modi. E innanzitutto ciò può verificarsi nel richiedere una prova per quelle realtà che possono essere conosciute in base all’intelligenza oppure attraverso i principi generali di una scienza, ignorando i quali la scienza è ignorata, ma pur riconosciutili, non necessariamente la si conosce. Oppure siamo anche tentati così come se, mettendo alla prova qualcuno sulla grammatica, chiedessi: che cosa è il nome? In base alle nozioni comuni si produce una prova dell’ignoranza non del sapere. Oppure siamo messi alla prova intorno alla conoscenza in base ai caratteri propri, saputi i quali necessaria-


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 197

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

197

mente è conosciuta la scienza, come se ponessi domande sulla coerenza o incoerenza di un discorso e di una espressione. E così proponendo delle prove si possiede la dimostrazione del sapere e dell’ignoranza. Esiste anche una prova per quanto riguarda le azioni possibili e questa ha lo scopo conoscere la quantità della virtù. Questo esperimento è utile per rendere umili, se in un essere umano la virtù è scarsa ma si crede sia grande, ed a sollecitare la speranza in Dio, se grande è la virtù nell’essere umano e si crede sia scarsa, e l’impegno pratico e l’esempio verso gli altri. In questo modo Dio mette alla prova o attraverso le sciagure o in altro modo, come mise alla prova Abramo, Tobia, Giobbe ed altri simili: “Poiché eri gradito a Dio fu necessario che la tentazione ti mettesse alla prova” (Tobia 12, 13); “Mettimi alla prova Dio e tentami, brucia i miei reni ed il mio cuore” (Salmo 26,2). Esiste anche una tentazione che induce a ciò che non è lecito, quando il diavolo con la motivazione di un bene apparente tenta di piegare l’assenso della nostra volontà sia attraverso realtà esteriori che interiori. Di essa l’apostolo afferma: “Se il tentatore non vi abbia tentato” (I Tessalonicesi 3,5). Pertanto Gregorio afferma: “Il Signore presenta al suo servo fedele tutte le macchinazioni dell’astuto nemico, tutto ciò che con l’oppressione svia, tutto ciò che con le insidie avvolge, tutto ciò che con le promesse inganna”. Di questa tentazione, che è quella della lotta, chiediamo sia impedito che si presenti, consci della nostra debolezza, come Paolo chiedeva che fosse allontanato da lui il pungolo della sua carne, come si trova in II Corinzi 12,7. Oppure chiediamo sia dominata, una volta che sia sopraggiunta, in base al detto di I Corinzi 10,13: “Ma Dio è fedele e non tollera che siate tentati al di sopra delle vostre possibilità. Ma con la tentazione concederà anche la vittoria, in modo che possiate star saldi”. Oppure chiediamo soccorso e conforto nella lotta della tentazione in base al passo di Efesini 6 10-12: “State saldi nel Signore e nella potenza della sua forza. Rivestite l’armatura di Dio, affinché possiate star saldi contro le insidie del diavolo, dal momento che non dobbiamo lottare contro la carne ed il sangue, ma contro i principati e i poteri etc.” e “Ti amerò, Signore mia forza, Signore mia fortezza e mio rifugio” (Salmo 18, 2-3).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 198

198

Roberto Osculati

Chiediamo dunque di non essere indotti in tentazione ovvero di non essere portati dentro la tentazione come nel mezzo di lacci e di nemici: “Tu sei il mio rifugio dalla tribolazione che mi ha attorniato; mio tripudio, liberami da quelli che mi assediano” (Salmo 32,7). Oppure la supplica può essere spiegata così come se fosse un modo di dire figurato: non indurci in tentazione ovvero non portare la tentazione dentro di noi, quasi che la tentazione venga come una tentazione che ferisca il nostro cuore: “La sua verità ti circonderà come uno scudo, non temerai l’orrore della notte” (Salmo 91,4-5). Oppure affinché non siamo indotti in tentazione dalla nostra concupiscenza, così da essere distolti dalla preghiera: “Infatti ognuno è tentato, distolto ed attratto dalla sua concupiscenza” (Giacomo 1,14). Ed in questi tre modi si intende che non induca in tentazione ovvero che non permetta che siamo vinti dalla tentazione. Quando infatti Dio invia la tentazione dobbiamo essere difesi dallo scudo della pazienza in base al passo di Lamentazioni 3,65: “Darai loro la tua fatica come scudo del cuore” ovvero darai loro l’esempio della tua fatica contro la tentazione permessa da Dio. In secondo luogo dobbiamo difenderci con la preghiera e la vigilanza in base al passo di Matteo 26,41: “Vegliate e pregate per non entrare in tentazione”. In terzo luogo dobbiamo premunirci con la fede per opporre resistenza: “Resistete saldi nella fede” (I Pietro 5, 9). La terza tentazione è quella senza la quale la vita presente non può essere condotta. Dal momento che proviene naturalmente da noi, non può essere evitata al punto da non presentarsi. E pertanto l’apostolo non la esclude in modo tale che non si presenti in noi, come è detto in I Corinzi 10,13: “Non vi raggiunge una tentazione se non umana”. Non è concessa a noi da Dio senza utilità, poiché costituisce l’itinerario dell’esercizio delle virtù: “Queste sono le genti che il Signore ha lasciato affinché con esse istruisse Gerusalemme e tutti coloro che non avevano conosciuto le guerre dei cananei” (Giudici 3,1). Così si può anche affermare dei moti della tentazione. Talvolta infatti, con il nome di tentazione senza la quale non viene condotta la vita presente, sono intesi gli stessi peccati veniali. E questi vengono perdonati attraverso la preghiera del Signore o con l’aspersione dell’acqua benedetta e attraverso la benedizione del sommo ponte-


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 199

Egidio Colonna romano (1243ca-1316)

199

fice o con la contemplazione del corpo di Cristo e simili pratiche, come sostiene Agostino. La terza ed ultima supplica si trova colà dove si dice ma liberaci dal male. Una volta liberati dal male della colpa e muniti contro il male della lotta, chiediamo l’eliminazione del male della pena. A questo riguardo occorre osservare che il male di questo tipo è triplice: dell’inferno, del purgatorio e del mondo. Il primo male della pena, in quanto male dell’inferno è il peggiore per tre motivi: primo a causa dell’eternità , secondo a causa della durezza, terzo a causa della molteplicità. Riguardo al primo motivo: “Andate maledetti nel fuoco eterno” (Matteo 25,41); riguardo al secondo: “Là sarà pianto e stridore di denti” (Matteo 13,50); quanto al terzo: “Fuoco e zolfo e venti tempestosi la loro parte di eredità” (Salmo 11,7). Il secondo male come male del purgatorio è pesantissimo, poiché è senza proporzione con le nostre forze. Non c’é alcun male del mondo che possa venire paragonato a quello. Oppure può essere detto pesantissimo a causa della durezza, dal momento che agisce immediatamente sull’essenza dell’anima. Poiché essa è semplice, patisce tutto ad opera della giustizia divina in base alla sua totalità. E con questa pena del purgatorio saranno bruciati il legno, l’erba, la paglia, come è affermato in I Corinzi 3,13: “Il fuoco metterà alla prova la natura delle opere di ciascuno”. Sono indicati come legno i peccati mortali, ricoperti qui ad opera della misericordia e quasi imprigionati ad opera della contrizione. Ma, non essendo stata compiuta la penitenza, saranno purgati colà. Come erba sono indicati i peccati veniali che provengono dalle concupiscenze carnali: senza di essi non è possibile condurre la vita presente. Come paglia vengono indicati i peccati veniali spirituali, come i leggeri moti della vanagloria o dell’ira o di qualcosa di simile: a motivo della loro aderenza anche nei confronti di chi è in possesso della carità sono transitori: “Siamo passati attraverso il fuoco e l’acqua” ovvero del purgatorio “e ci ha condotto al riposo” (Salmo 66,12). Il terzo è il male più comune ovvero quello del mondo, da cui tutti siamo avvolti. Da esso ci proviene un molteplice tipo di miserie, secondo il passo di Giobbe 14,1: “L’uomo nato da donna e vivo per un breve tempo è colmo di molte miserie”.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 200

200

Roberto Osculati

Dal primo male siamo liberati attraverso la contrizione , poiché per mezzo della contrizione la pena eterna viene commutata nella temporale, in base al detto del Salmo 86,13: “Hai liberato la mia anima dalle profondità dell’inferno”. Dal secondo siamo liberati con la confessione per l’efficacia delle chiavi, se tuttavia il giudizio del sacerdote non erra nella commutazione di una pena del purgatorio in una presente. Il sacerdote compie questa commutazione in base all’efficacia delle opere buone ed eccellenti raccolte per i meriti di Cristo e degli altri santi. Essi compirono opere sovrabbondanti conservate sotto le chiavi della chiesa come su una mensa. Per questo motivo Cristo consegnò Lazzaro risuscitato ai discepoli perché lo sciogliessero, come si legge in Giovanni 11,44. E in Daniele 3,88: “Ci ha tratto fuori dagli inferi e ci ha sottratto dalla mano della morte e ci ha liberato dal mezzo di una fiamma infuocata”. Dal terzo male siamo liberati attraverso la morte, quando passiamo dalla miseria alla gloria, secondo il passo di Romani 8,21: “La creazione stessa sarà liberata dalla servitù della corruzione per la gloriosa libertà dei figli di Dio” e il Salmo 25,22: “Libera, o Dio, Israele da tutte le sue iniquità” e il Salmo 124,7: “Il laccio è stato spezzato e siamo stati liberati”. Si deve notare tuttavia che la lezione del Crisostomo é liberaci dal maligno e, interpretando il tal modo questa richiesta, si intende: dall’attacco del diavolo, che per la sua grande malizia viene chiamato così. E, secondo questa interpretazione, tale richiesta sembra dipendere dalla precedente, che riguarda la tentazione. Da ultimo viene aggiunto da parte della chiesa amen. Si conferma così tutto quello che è stato richiesto in questa preghiera del Signore e si chiede da Dio che tutto ciò davvero si compia. Si afferma pertanto amen ovvero così avvenga in realtà, così Dio ci conceda. E con questo ha termine il modo di esprimersi della preghiera del Signore. Ne sia lode al Signore nostro Gesù Cristo3.

3

Sul genere letterario del commento alla preghiera del Signore vedi ad esempio Il Padre nostro fra antichità e medioevo, in Annali di scienze religiose 3 (2010) 8-112.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 201

LA CONCEZIONE DELLA PREGHIERA IN KANT

ANTONINO CRIMALDI*

Le osservazioni più significative sul tema della preghiera in Kant sono contenute nelle Lezioni di etica, lezioni svolte dal filosofo di Königsberg negli anni 1775-1780, ricostruite e pubblicate da P. Menzer nel 1924 sulla scorta dei manoscritti compilati da tre studenti che le avevano trascritte, stando all’uso dell’epoca, “quasi letteralmente”1. In queste lezioni Kant adoperò come sussidio didattico i due compendi di etica di A.G. Baumgarten, l’autore strettamente collegato alla filosofia di Wolff: gli Initia philosophiae praticae primae (1770) e l’Ethica philosophica (1740). La ripartizione degli argomenti contenuti nell’Etica baumgartiana ricalca uno schema che, oggi, ai lettori e agli studiosi italiani, e non solo italiani, non è certo familiare, ma che, fino a qualche decennio addietro, era ancora in auge presso non poche università ecclesiastiche. L’autore, infatti, suddivide la sua trattazione della materia in tre sezioni: Religio (doveri verso Dio), Officia erga te ipsum, Officia erga alia, compresi tra gli alia, gli officia, i doveri, erga alios homines. Sulla scorta di questa suddivisione dell’etica filosofica presente anche nel compendio di Baumgarten e comunemente seguita dalla manualistica del tempo, Kant affronta il tema della preghiera nel contesto della relazione che lega l’uomo a Dio, vale a dire nell’ambito della religio, ambito nel quale rientrano i doveri morali concernenti la * Docente di Storia della Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania. 1 Le citazioni dall’opera sono tratte dall’edizione italiana I. KANT, Lezioni di etica, traduzione e prefazione di A. Guerra, Roma-Bari 20044.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 202

202

Antonino Crimaldi

divinità e i mezzi del loro compimento, tra cui, come è ovvio, il culto e, come è meno ovvio, la preghiera stessa. Non mi soffermo qui sull’interesse che tali Lezioni di etica hanno suscitato e suscitano tra gli studiosi e gli specialisti di Kant, soprattutto per quanto concerne la ricostruzione dell’evoluzione del suo pensiero e lo sforzo di chiarirne meglio i contenuti dal punto di vista della sua concezione morale. Si è visto, per esempio, che la posizione kantiana sulla morale acquista la sua configurazione più propria, se non la più completa, ancor prima della elaborazione della sua “gnoseologia critica”, onde diversi interpreti sono stati indotti a ritenere che, come fa notare A. Guerra, non è essa, la gnoseologia critica o, per dirla in modo più netto, il criticismo nel suo complesso «a costituire il terreno risolutivo dei problemi etici kantiani», ma bensì sono «le questioni metafisico-teoretiche sollevate dal criticismo, a trovare sul piano morale la loro soluzione»2. E si è visto pure come le Lezioni di etica contengano una “casistica” illustrativa varia e molto aderente al reale, fornendo esempi concreti (il suicidio, la menzogna, la liceità o meno dei rapporti sessuali fuori dal matrimonio, liceità peraltro recisamente negata da Kant, ecc.) e calzanti di vita vissuta, atti a incarnare i principi della dottrina esposti in sede teorica, cosa di cui si lamenta, a torto o a ragione, la mancanza nelle opere maggiori dedicate alla ragion pratica. Si è visto altresì, come le suddette Lezioni, grazie alla distinzione introdotta e magistralmente argomentata dal filosofo tra moventi e motivi dell’agire morale, tra principi giustificativi (moventi) e condizioni o fattori condizionanti del comportamento morale strettamente connessi con la dimensione psichica, o le circostanze storiche sociali dell’essere umano, smentiscano efficacemente la tesi e cancellino l’immagine di un Kant per il quale la vita morale sarebbe «una semplice e pura obbedienza meccanica all’imperativo della ragione»3, tesi e immagine, manco a dirlo promananti dalle pagine della Critica della ragion pura. Su tale distinzione dovremmo pur dire qualcosa anche a proposito della preghiera, perché essa è alla base di una interpretazione dell’at2 3

A. GUERRA, Prefazione in I. KANT, Lezioni di etica, cit., XVI. Ibid., XVIII.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 203

La concezione della preghiera in Kant

203

teggiamento di chi prega, da parte di Kant, che si presta con molta efficacia ed acume a coglierne una motivazione psicologica non sempre affiorante alla consapevolezza e alla coscienza e quasi mai focalizzata nelle riflessioni che di solito le vengono dedicate. Ma con quale apriori concettuale Kant ci introduce alle sue considerazioni riguardanti la preghiera? Occorre metterlo in evidenza, questo apriori, altrimenti molte, se non la totalità, delle sue osservazioni al riguardo, si stenterebbe a capirle o risulterebbero stravaganti. Contrariamente a quanto si potrebbe ritenere stando a ciò che si è detto sopra, la ragione per cui Kant accosta il tema della preghiera in un corso di etica, e non, puta caso, trattando di religione, non risiede nel voler attenersi alla manualistica del tempo o al compendio di Baumgarten, soltanto per comodità didattica. Tutt’altro; in modo paradossale, bisogna pensare che egli opera così, più che per facilitarsi l’insegnamento col ricorso a schemi ben collaudati sotto il profilo didattico, per intima convinzione, per un convincimento teoretico che sarebbe emerso nitidamente nelle trattazioni successive sulla religione ut sic che già al tempo delle Lezioni egli aveva maturato e assunto in proprio. Kant non riterrà mai l’esperienza religiosa, la dimensione religiosa, una forma autonoma della coscienza umana, cioè una esperienza o una modalità di esperienza avente peculiarità proprie, e, quindi, distinta da altre esperienze caratterizzanti l’umano e irriducibile ad esse. Volendo esprimersi in un linguaggio fenomenologico, potremmo dire che egli non concepirà l’atto intenzionale della coscienza orientato al divino come avente un eidos proprio, una sua essenza, un profilo tutto suo nettamente e fenomenologicamente delineato e delineabile e dunque, come un atto o forma non assimilabile, irriducibile ad altri atti intenzionali, ma farà coincidere l’esperienza religiosa con l’esperienza morale, o meglio fonderà l’esperienza religiosa sulla morale, sicché essa in nulla si distinguerà da quest’ultima se non nel fatto che le conferisce una coloritura particolare. In concreto, la religiosità condivide quasi tutto con la moralità, intenzione ed esecuzione, principi e pratica comportamentale, risorse valoriali e contenuti, sia pure sotto una angolatura specifica, quella del “che cosa mi è lecito sperare” dopo aver compiuto integralmente il mio dovere. Infatti, per Kant la religione consisterà nel conoscere e considerare


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 204

204

Antonino Crimaldi

l’imperativo morale come comandamento divino, senza che ciò nulla aggiunga o nulla tolga al puro esserci dell’obbligazione morale, la quale è in se stessa e per se stessa vincolante per la ragion pratica, a prescindere da ogni riferimento religioso, essendo l’esperienza morale autonoma e frutto di una ragion pratica in grado di darsi legge a se stessa e secondo i principi che lei stessa scopre di possedere e di dover seguire. Se un ruolo specifico da Kant verrà assegnato alla religione è quello di essere il compimento della morale, non dunque causa, fine o scopo di essa, e men che mai surrogato. Compimento che però, se da un lato è necessario postulare, data la constatazione della insufficienza della moralità a garantire all’uomo giusto la felicità che meriterebbe e che solo l’esistenza di un Dio somma intelligenza e sommo bene e l’accesso ad una vita immortale può far sperare di raggiungere; dall’altro non sostituisce in nulla, non abolisce l’autonomia dell’agire morale, né il reggersi su se stesso dell’imperativo morale, il suo non aver bisogno d’altro, neppure dell’autorità divina, per imporsi alla coscienza. All’uomo, dal punto di vista morale, basta per essere giusto ubbidire alla legge del dovere: qualora, poi, ubbidendo all’imperativo categorico del dovere egli si rapporta ad esso come ad un comando rispondente ad una disposizione divina, al volere di Dio, e vive l’adesione a questo volere come l’unico culto degno di rendergli onore, allora egli assume anche la veste dell’uomo religioso. Ognuno vede così, come per il filosofo della ragion pratica l’uomo morale racchiuda in sé realmente se non formalmente tutti i tratti essenziali dell’uomo religioso, in quanto quest’ultimo non sperimenta nel vissuto un di più o un alcunché di diverso dall’uomo morale. Ho dovuto premettere questi chiarimenti per prevenire la reazione di delusione che qualche lettore potrebbe avere leggendo il testo kantiano e non riscontrando in esso, e nel modo di concepire la preghiera da parte dell’autore, nessuna di quelle risonanze affettive ed esistenziali che il credente in quanto “essere orante e adorante” è abituato a percepire e di conseguenza ad associare mentalmente nell’atto e con l’atto del porsi “in colloquio” con Dio, del porsi in adorazione davanti a Dio. Ciò non di meno, sento di dover affermare che la pagina di Kant affascina e presenta profili sconosciuti o ignorati della preghiera, del “fare orazione”. Soprattutto in forza dell’ottica da


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 205

La concezione della preghiera in Kant

205

lui adottata, che non solo non è abituale nelle riflessioni correnti sull’argomento, per lo più orientate a cogliere il lato devozionale, gli aspetti rituali, spirituali, teologici, edificanti ecc., ma tende di proposito a escluderli, tali aspetti, a “epochizzarli”, quasi fossero elementi spuri dai quali tenersi lontani. Kant punta la sua attenzione soltanto sulla tensione etico morale che, a suo parere, viene a manifestazione nella preghiera e si rivela a noi come la sua più intima essenza o ragione d’essere. Tensione morale che, a sua volta, si erge a criterio di validazione dell’autenticità della preghiera stessa, sicché Kant si occupa della preghiera esponendo soprattutto una valutazione morale su di essa e si prefigge di discutere le modalità dell’atto del pregare per rilevarne la compatibilità o meno con il sentire etico autentico. Egli tratta anzitutto della moralità della preghiera, non della preghiera in se considerata, e questa moralità a suo giudizio dipende dal grado di conformità che la preghiera assume in rapporto ai dettami della ragione morale. Per questo Kant cercherà nella sua esposizione di illustrare che cosa sia moralmente giusto e corretto domandare a Dio e che cosa non lo sia, quale intenzione sia pura e retta nell’atto del pregare e quale non lo sia, quale atteggiamento sia consono con i principi etici, quale atteggiamento sia moralmente ispirato e quale no, nel comunicare con Dio e soprattutto come tale “comunicare” possa essere non solo compatibile con la maestà divina ma anche con il rispetto dovuto a Dio. È dunque la ragion pratica a fornire alla riflessione il filtro critico, i parametri con cui giudicare, quando essa si occupa di questo particolare comportamento umano che afferisce alla sensibilità religiosa. Onde si dovrà giudicare autentica la preghiera che è conforme alla legge della moralità o che ne costituisce una risonanza particolare, inautentica quella che la ignora o la contraddice, inutile quella che surrettiziamente mira a sostituirsi all’esperienza morale. Non c’è, per Kant, un criterio religioso per valutare la bontà dell’atto del pregare, né egli ipotizza che ad esso possano essere applicati parametri di valutazione diversi da quello morale o più in sintonia “con la cosa stessa” e con la sua appartenenza alla sfera del religioso in sé. Occorre tuttavia precisare che egli nel testo delle Lezioni si occupa esclusivamente della preghiera di richiesta o di domanda, tralasciando le altre forme che sono ben note agli studiosi


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 206

206

Antonino Crimaldi

del fenomeno religioso. E forse è questo il motivo per cui l’accostamento ermeneutico a tale espressione religiosa risulta per Kant vincolato ad una precomprensione di tipo etico-morale, oltre che per i motivi dei quali si è parlato prima. E ciò non sembrerebbe affatto fuori luogo qualora si considerasse che, come si suole dire ed è incontestabile, i desideri espressi dagli uomini nelle preghiere, i doni che chiedono alla divinità sono di vario genere e, a volte, contrastanti tra loro e contrastanti con le richieste che gli altri rivolgono a Dio. Né servirebbe a decidere della legittimità di simili richieste l’intensità della fede, la fiducia con cui vengono formulate, il fervore e lo zelo religioso della persona che le inoltra a Dio: solo un criterio etico può aiutare a discriminarle. Basterebbe, dunque, una banale osservazione del genere a giustificare il punto di vista kantiano, sebbene sia difficile a quanti hanno presente la complessità e la ricchezza del fenomeno religioso, accettarne il carattere esclusivo implicitamente rivendicato dal filosofo. Kant apre le serie delle sue riflessioni sulla preghiera facendo notare che proprio la preghiera di richiesta, quella più nota e più praticata fino diventare per antonomasia la preghiera, è oggettivamente inutile e superflua. È inutile “esprimersi” in parole per esternare il proprio pensiero e presentare a Dio le nostre esigenze in rapporto alle cose di cui abbiamo bisogno. Dio, infatti, conosce già intimamente ed integralmente le nostre intenzioni, i nostri bisogni, le nostre aspirazioni, “la nostra miseria”. E tuttavia, malgrado il fatto che le preghiere siano oggettivamente inutili e superflue in quanto non sfugge a Dio la conoscenza di ciò che siamo e di ciò che vogliamo, le preghiere sono, a parere di Kant, “necessarie soggettivamente”, necessarie a causa della conformazione della nostra soggettività e per la nostra soggettività. Noi soggetti umani, sentiamo il bisogno di “rendere intellegibili” a noi stessi i concetti “traducendoli in parole”, avvertiamo l’esigenza di “rappresentare” a noi stessi “in maniera più viva” anche le nostre aspirazioni e le nostre attese. Ne segue che pure la preghiera risulta necessaria nella misura in cui viene incontro a questa esigenza della soggettività e svolge la funzione di apprestare alla soggettività stessa “una rappresentazione più viva” di quel che essa avverte dentro di sé, prova, auspica, teme, spera ecc. Ora, continua Kant, per quanto riguarda il complesso dei nostri bisogni e le cose che desideriamo otte-


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 207

La concezione della preghiera in Kant

207

nere, non ci occorre ricorrere alla preghiera per averne “una rappresentazione più viva”, perché già tale rappresentazione la possediamo spontaneamente, né, come si è visto, ci occorre farli conoscere a Dio, perché già li conosce. Il pregare, allora, non solo è inutile oggettivamente, ma sarebbe inutile anche soggettivamente qualora fosse semplicemente un “rivestire con parole” i nostri bisogni. Per questo Kant finirà col sostenere la necessità soggettiva della preghiera trasferendola, però, dal piano dei bisogni al piano ben più elevato ed universale delle disposizioni morali che ogni individuo umano, in quanto illuminato dalla ragion pratica e sottoposto alla legge del dovere, racchiude nella propria coscienza: e proprio queste disposizioni, forse, come mi sembra di capire dal testo kantiano, a causa della nostra connaturata fragilità morale, sentiamo il bisogno di “rappresentarci” in maniera più viva, allorché in essi facciamo “confluire le nostre aspirazioni e le nostre attese” e le facciamo diventare oggetto delle richieste del nostro pregare: «Le preghiere sono quindi necessarie a fini etici, quando debbono produrre in noi una disposizione morale, ma mai a fini pragmatici, come mezzi per soddisfare dei nostri bisogni. Esse servono ad accendere la moralità nell’intimità del cuore, come mezzi di devozione. La devozione, d’altra parte, consiste nell’addestrarci affinché, nella sfera delle cose da fare o da non fare, ci assista infiammandoci la conoscenza di Dio»4.

Dopo aver così giustificato il ricorso alla preghiera come sussidio alla soggettività, ma solo nel caso in cui tale ricorso serva ad essa per dare un “rivestimento in parole” alle sue aspettative più elevate, allo scopo di averne una “rappresentazione più viva” e tradurle in una disposizione morale, Kant compie un altro passo nella sua analisi per distinguere, nella preghiera, la lettera dallo spirito, scarnificando, semplificando ancor di più il complesso delle motivazioni che di solito vengono rilevate per spiegare questa pratica devozionale. Lettera è l’adoperare formule, parole, schemi verbali o altro mezzo espressivo per elevare a Dio le nostre richieste, lettera è “pregare ad alta voce”, usare “espressioni formali”. L’uomo, fa notare con disincantato realismo il filosofo, 4

I. KANT, Lezioni di etica, cit., 114.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 208

208

Antonino Crimaldi

normalmente non può fare a meno di ricorrere alla lettera, «perché è una limitazione» propria dell’uomo quella di «dover esprimere i propri pensieri mediante parole»5. Non è, perciò, da rigettare l’uso di formule rituali, cultuali, personali nell’atto o nell’esercizio del pregare, poiché esse non solo hanno attinenza con le nostre limitazioni soggettive e ne sono necessaria conseguenza, ma non compromettono di per sé in nulla il senso profondo del fare orazione. Kant, anzi, ponendo un esplicito riferimento alle assemblee liturgiche e al culto in chiesa, dove, come è ovvio, viene privilegiata ed esercitata la preghiera comunitaria con apposite formule, sostiene che la “lettera” in questa preghiera non è affatto biasimevole e che, pur essendo in sé e per sé morta, «produce grande effetto in ogni uomo»6. Effetto edificante, si intende: per esempio, pentimento e vergogna per le defezioni morali. Ma, aggiunge il filosofo, «se le disposizioni morali e devote posseggono nella persona una forza sufficiente, l’uomo non ha bisogno della lettera della preghiera», né «chi è già in grado di nutrire idee e intenzioni ha bisogno di servirsi di parole ed espressioni formali»7 in questi casi colui che prega non ricorre alla lettera e ne può benissimo fare a meno, in quanto il suo pregare avviene senza “il rivestimento in parole”. Tolta, quindi, la lettera, utile sì, ma non indispensabile, resta allora lo spirito della preghiera, questo sì in sé e per sé indispensabile all’adempimento del senso del pregare. E che cosa è lo spirito della preghiera se non «l’intenzione devota, la norma del cuore che si incammina a Dio, onde confidiamo nella fede che egli porrà rimedio alla nostra fragilità morale e ci concederà la felicità. Lo spirito della preghiera sussiste senza la lettera. La lettera, nei riguardi di Dio è priva di scopo, dal momento che Egli legge immediatamente nelle intenzioni»8. Alla luce delle precedenti osservazioni si può sintetizzare il contenuto del discorso di Kant sulla preghiera nel modo seguente. La sua analisi sembra rispondere alla domanda implicita: perché si prega, a quale scopo? Il filosofo esclude che il fine del pregare sia il piegare il 5

Ibid., 114. Cfr. ibid., 115. 7 L.c. 8 L.c. 6


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 209

La concezione della preghiera in Kant

209

volere divino al nostro volere o l’attirare l’attenzione di Dio sulle nostre necessità o propiziarci il suo favore per ottenere esaudimento ai nostri desiderata. Scopo del pregare non è affatto il modificare l’atteggiamento di Dio nei nostri riguardi, bensì quello nostro nei riguardi di Dio e della legge morale di cui lo riconosciamo garante, scopo del pregare è quello di renderci più vigili e trasparenti a noi stessi in rapporto al nostro dovere morale, e, di conseguenza, nel farci avvertire, coltivare e potenziare quelle disposizioni morali che solo se concretamente rivolte al compimento del bene sono efficaci e ci abilitano a realizzare l’unico culto realmente gradito a Dio, l’attuazione della legge morale. Sotto questo riguardo si può affermare che la religione stessa, anziché configurarsi in Kant come il principio e il surrogato della moralità, ne è piuttosto il pieno compimento, in quanto essa nella speranza assicura alla volontà buona dell’uomo giusto il trionfo del bene, se non nella dimensione terrena, nella dimensione ultraterrena. Essendo questo il fine che Kant pensa sia da scorgere nella preghiera e dal punto di vista della ragione e dal punto di vista della religione, non sembrerà frutto di una forzatura o di un impoverimento di prospettiva ermeneutica, quello che egli afferma a proposito del che cosa chiedere a Dio, quando “si parla” con lui. Poiché il pregare è per l’uomo una via al raggiungimento della consapevolezza riguardo ai doveri morali e alle proprie disposizioni morali e un incentivo ad attirarle e rafforzarle, le richieste che la persona che prega eleva a Dio devono in tutto o in parte, direttamente o indirettamente, concernere queste disposizioni morali. Dalla citazione precedente si deduce agevolmente ciò che Kant reputa giusto e doveroso domandare e demandare all’intervento divino: porre rimedio alla nostra ineliminabile fragilità morale, la quale ci impedisce di conformarci in pienezza allo statuto della volontà buona e, infine, concederci quella felicità che nessun essere umano, anche nell’ipotesi che attuasse in tutto l’ideale della bontà e della giustizia, potrebbe procurarsi con le sue sole forze. E siamo, in tal modo, rinviati con ogni evidenza alla concezione religiosa delineata dal filosofo nella Critica della ragion pratica, dove il postulato dell’esistenza di Dio come sommo bene trova il proprio fondamento proprio nell’esigenza della ragion pratica di reperire una garanzia assoluta per la felicità meritata, ma non ottenuta, dall’uomo


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 210

210

Antonino Crimaldi

giusto, sicché la stessa certezza pratica dell’esistenza di Dio viene a poggiare o a fondarsi sull’esigenza di completezza insita nell’esperienza morale, in quanto essa esaurisce in sé ed espleta le ragioni del dovere, non quelle del merito e della ricompensa. Ma il testo delle Lezioni di etica riserva ancora altre sorprese in fatto di anticipazione delle successive enunciazioni della dottrina morale kantiana e sorprese ben più visibili e notevoli di quelle su accennate. Infatti, a proposito del come pregare, Kant introduce una ulteriore distinzione, enunciandola in modo tale che nessun lettore tarderà a riconoscervi l’impronta di un “gergo” filosofico che sarebbe stato suo e soltanto suo. Si dà, per Kant, un modo di pregare categoricamente e incondizionatamente e un modo di pregare condizionatamente o sotto condizione. La “preghiera” sotto condizione, di per sé non dovrebbe mai essere praticata, perché appunto essa consiste nel chiedere cose particolari, e cose di cui avvertiamo la necessità nelle diverse, contingenti, situazioni della nostra vita e nelle diverse, contingenti, situazioni della nostra individualità, cose dal cui ottenimento ci attendiamo un mutamento in meglio della nostra esistenza dal punto di vista delle sue condizioni materiali. In breve la preghiera sotto condizione chiede beni terreni. Ma proprio per questo, osserva Kant, proprio perché tale preghiera invoca di essere esaudita nella sua richiesta di beni particolari e terreni, essa deve quantomeno fare ammettere implicitamente a chi la esprime la condizione di dover confessare a se stesso che le sue richieste «potrebbero anche essere sciocche e riuscirgli dannose». Inoltre, «le preghiere di contenuto specifico sono da considerare temerarie, perché la presunzione [che siano accolte da Dio] è perversa»9. Non di meno, tenuto conto della debolezza umana, persino il Vangelo consente, nelle occasioni terrene, la preghiera sotto condizione, sebbene la formula del Pater noster ci inviti a circoscrivere le nostre domande allo “stretto indispensabile dei nostri bisogni e a non essere verbosi”. Si prega, invece, categoricamente e incondizionatamente, e si prega con l’assoluta certezza di essere esauditi, quando il contenuto del nostro chiedere “riguarda le intenzioni morali”. Tale è proprio il caso della preghiera di fede, la quale non ha un contenuto specifico, ma 9

Ibid., 116.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 211

La concezione della preghiera in Kant

211

universale, ed è l’unica forma compatibile con la sensibilità morale e il rispetto dovuto a Dio, mentre la preghiera di carattere determinato contraddice e l’istanza morale e l’istanza religiosa. Infatti, «chi dà dei compiti a Dio e vorrebbe che le cose accadessero secondo i suoi desideri non nutre alcuna fiducia in lui… [così, le preghiere non devono essere considerate come un modo particolare di servire Dio, ma solo come un mezzo per suscitare la devozione in lui]. Noi non seguiamo Dio ricorrendo alle parole, a cerimonie o a smorfie, ma esprimendo nelle azioni la nostra devozione nei suoi riguardi»10. Inoltre, l’oggetto della preghiera deve essere universale e non particolare in modo che «la saggezza divina possa essere visibile nella sua estensione maggiore». E la preghiera ha carattere di universalità quando «preghiamo per essere degni di tutti quei benefici che Dio è disposto a darci; solo questa preghiera può essere esaudita, perché è morale e dunque conforme alla saggezza divina»11. Tra questi benefici Kant ne cita con insistenza uno, al quale egli annette la massima importanza: renderci degni di un aiuto integrativo alla nostra fragilità morale. E la cosa che “possiamo ragionevolmente sperare” che Dio ci conceda è solo questa richiesta che si accompagna «alla ferma convinzione che sia un oggetto che Dio ci accorderà». Perciò essa viene elevata in spirito di fede. La conclusione che Kant trae dall’analisi dell’atteggiamento giusto da tenere al cospetto di Dio è netta: «di conseguenza, quando gli uomini con fervida fiducia in Dio pregano in vista di beni terreni, simulando a tal fine le loro implorazioni, pronunciano preghiere mancanti di fede. Si può pregare con fede solo per diventare degni della bontà di Dio. È allora che noi possiamo credere senza ombra di dubbio che Dio ci esaudirà»12. In base a quel che si è cercato di mettere in evidenza, mi pare che, nonostante l’apparente rigidità dell’impostazione teoretica, Kant non demonizza, anzi tende a valorizzarlo, il ruolo delle aspettative soggettive che spingono gli uomini a rivolgersi a Dio. Come per l’agire morale egli distingue i moventi dai motivi, o per ricorrere ad un lessico 10

L.c. Ibid., 118. 12 L.c. 11


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 212

212

Antonino Crimaldi

caro a Erminio Juvalta, l’esigenza giustificativa dall’esigenza esecutiva dell’etica, il che cosa è giusto fare dal che cosa ci possa indurre ad agire in modo giusto, così anche per la preghiera egli, mi pare, distingua tra che cosa sia giusto chiedere a Dio e che cosa ci possa indurre a chiedere a Dio quel che è giusto chiedere. Penso che egli, considerando come l’accesso alla preghiera è quasi sempre propiziato da motivi “umani, troppo umani”, vale a dire da motivazioni impure, non ha escluso, tuttavia, la possibilità che detti motivi cedano il passo ad un movente, cioè ad una intenzione pura. Valga a dimostrarlo la seguente citazione «sebbene le preghiere con un oggetto determinato siano inutili, tuttavia l’uomo è un essere abbandonato, impotente, che vive immerso nell’incertezza della sua sorte futura; perciò non lo si deve biasimare [corsivo mio] se formula preghiere di contenuto specifico, per esempio in mare in condizioni di pericolo. Vi è allora una denuncia di esigenze da parte di una creatura che versa, priva di aiuto, nella sventura più grande. La preghiera intanto viene accolta, in quanto la fiducia fa si che o Dio la esaudisca o che conceda in altro modo il suo aiuto sebbene sia difficile credere con sicurezza che Egli concederà proprio ciò che gli è stato chiesto»13.

Per questo, per aver tenuto conto del lato psicologico del pregare, l’analisi di Kant non cade nell’astrattezza, ma acquista i colori vivi dell’accostamento ad una esperienza vissuta. Altra questione è se il tutto del senso del pregare sia riducibile al senso assegnatogli da Kant, cioè un aiuto potente, incisivo, per l’espletamento dei doveri morali. Ne dubito, ma credo non si possa dare in proposito alcun giudizio risolutorio e definitivo se non si risolve in limine il problema dell’impostazione kantiana della Religione dentro i limiti della semplice ragione, ove a suscitare perplessità non è, a mio parere, il dentro, ma ciò che circonda e circoscrive questo “dentro”, il suo fuori. Se l’espressione di Kant significa: fuori dalla ragione non c’è nulla che possa essere accettato in rapporto al fenomeno religioso, ma solo superstizione, menzogna, costruzioni fantastiche, proiezioni distorte di esigenze della soggettività ecc. la concezione di Kant paga pegno all’i13

L.c.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 213

La concezione della preghiera in Kant

213

poteca razionalista, al dogma del razionalismo, se non si nega aprioristicamente che il fuori possa essere abitato da altre certezze e che esse possano essere legittimate per altra via oltre a quella razionale, la visione di Kant dà una prova superba del potere liberante, della funzione purificatrice dell’argomentare razionale. Ad illustrazione di questo aspetto che mi pare si mostri in tutta evidenza nella funzione critica assegnata da Kant alla ragione filosofica si veda quanto egli afferma, per esempio, a proposito della vera fede religiosa: «Se manca la vera fede religiosa accade che gli uomini ricorrano a cerimonie, pellegrinaggi, mortificazioni, digiuni, quando è la consapevolezza della loro imperfezione che li dovrebbe indurre a credere invece nel soccorso integrativo del cielo; con quelle pratiche essi vorrebbero rimediare alla loro debolezza e trascurano, così, ciò che li potrebbe rendere degni dell’aiuto celeste»14.

14 Il brano riportato non figura nell’esposizione di Kant sulla preghiera, bensì in un paragrafo delle Lezioni concernente l’incredulità: ibid., 105. Non è sufficiente lo spazio di una nota per sottolineare la distanza abissale tra la posizione kantiana a proposito dell’aiuto di Dio e la concezione, nella prospettiva cattolica del cristianesimo, della grazia divina. Per Kant anche la grazia divina va meritata moralmente, per la teologia cattolica la grazia è gratuità assoluta o per meglio dire frutto gratuito dell’amore divino che non suppone nella creatura umana soccorsa, redenta e salvata alcun prerequisito, neppure quello del merito.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 214


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 215

LA PREGHIERA COME POESIA: GLI INNI ALLA NOTTE DI NOVALIS

GRAZIA PULVIRENTI*

«La preghiera è nella religione ciò che il pensiero è nella filosofia. […] Il senso religioso prega come l’organo del pensiero pensa»1.

Il senso religioso prega, come il pensiero pensa. Con questa riflessione, Novalis ci pone di fronte a questioni estreme, che riguardano il mistero di due delle attività principali dell’uomo di ogni epoca storica e di ogni latitudine geografica: il pensiero e la preghiera. Novalis, all’interno della sua similitudine, adopera con precisione concetti che richiedono una considerazione articolata e dialettica in merito al significato che egli vi attribuisce. Sul senso religioso Novalis precisa un po’ oltre nel brano citato in exergo: «La religione [...] ha un proprio mondo religioso, un proprio elemento religioso»2. A questo senso religioso, a questo mondo religioso conduce la preghiera intesa come forma di percezione, e conseguente pratica mentale, di una realtà altra, non extracorporea, ma di una corporeità * Docente di Letteratura tedesca presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania. 1 F. VON HARDENBERG, Fragmente vermischten Inhalts, in ID., Novalis Schriften, a cura di Friedrich Schlegel e Ludwig Tieck, Stuttgart 18264, 464: «Beten ist in der Religion, was Denken in der Philosophie ist. [...] Der religiöse Sinn betet, wie der Denkorgan denkt.». 2 «Religion [...] hat eine eigene religiöse Welt, ein eignes religiöses Element» (l.c.).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 216

216

Grazia Pulvirenti

elevata mediante l’attivazione di facoltà mentali superiori. La preghiera appare nella prospettiva novalisiana come un’attività fisiologica, diremmo oggi, innata e inscritta nel DNA dell’uomo, come il pensare lo è per il cervello. Se dunque il pensiero si estrinseca come azione complessa del cervello, in parte ancora incomprensibile anche ai neuroscienziati, la preghiera si esplica come funzione superiore di quello stesso organo da cui origina il pensiero, esprimendosi in un sentimento, il sentimento religioso, di cui ancor meno possiamo sapere in termini scientifici. Ma come definire il senso o sentimento religioso, alla luce del quale comprendere meglio l’accezione che Novalis attribuisce al termine preghiera? Il poeta ci soccorre in un lungo aforisma, il frammento 74 inserito nella raccolta Blütenstaub [Polline]: «La vera religione appare antinomica nella differenziazione fra panteismo e monoteismo. Mi permetto di adoperare il termine panteismo non in senso proprio, ma per indicare l’idea che tutto sia organo del divino, mediatore del divino, nel momento in cui io lo elevo a tale rango. Al contrario le religioni monoteiste ritengono che al mondo esista un solo mediatore del divino, il solo in grado di percepire Dio, che io sono costretto a scegliere quale mediatore, dal momento che senza di esso il monoteismo non sarebbe vera religione. Seppure panteismo e monoteismo appaiano forme inconciliabili, ebbene, in realtà si possono riunificare, considerando il mediatore del monoteismo come mediatore del mondo di mezzo del panteismo, e considerando questo mondo di mezzo come centrato in esso. Così entrambi sono indispensabili l’uno all’altro»3. 3 Ibid., 456: «Die wahre Religion scheint aber bei einer näheren Betrachtung abermals antinomisch getheilt in Pantheismus und Monotheismus. Ich bediene mich hier einer Licenz, indem ich Pantheism nicht im gewöhnlichen Sinn nehme, sondern darunter die Idee verstehe, daß alles Organ der Gottheit, Mittler seyn könne, indem ich es dazu erhebe: so wie Monotheism im Gegentheil den Glauben bezeichnet, daß es nur ein solches Organ in der Welt für uns gebe, das allein der Idee eines Mittlers angemessen sey, und wodurch Gott allein sich vernehmen lasse, welches ich also zu wählen durch mich selbst genöthigt werde: denn ohnedem würde der Monotheism nicht wahre Religion seyn. So unverträglich auch beyde zu seyn scheinen, so läßt sich doch ihre Vereinigung bewerkstelligen, wenn man den monotheistischen Mittler zum Mittler der Mittelwelt des Pantheism macht, und diese gleichsam durch ihn centrirt, so daß beyde einander jedoch auf verschiedene Weise nothwendig machen.»


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 217

La preghiera come poesia: gli Inni alla Notte di Novalis

217

Da tale riflessione evinciamo in primo luogo l’idea di matrice spinoziana di un’immanenza divina, spirituale della natura e del vivente, in base alla quale tutto è organo del divino e quindi strumento di mediazione. Ma a una condizione: che sia l’uomo a “innalzarlo” a tale ruolo, a consacrarlo, a “santificarlo”. Il senso religioso attinge alla dimensione spirituale, sacrale, presente nel vivente, seppur in uno stato di latenza. Si tratta di un senso che solo l’uomo può risvegliare in sé, e quindi intorno a sé, divenendone cosciente con un atto di consapevolezza. La consapevolezza spirituale è un senso potenziato per accedere alla dimensione divina dell’esistenza. Come il sentimento poetico lo è nell’atto di poetizzazione del mondo, di quel processo che rende il mondo “romantico”4, nel senso di un potenziamento qualitativo dell’esistente, che per Novalis è la missione dell’uomo a venire. A tal punto appare necessario indagare più a fondo le complesse valenze attribuite da Novalis al senso religioso inteso come consapevolezza del divino. Per scrutare a fondo tale complesso si rivela prezioso il testo in prosa poetica mista a versi delle Hymnen an die Nacht [Inni alla Notte], in particolare il primo inno. Qui Novalis dipana una complessa trama di significati in un gioco di iterazione e variazione del termine «Sinn»5, senso da un punto di vista percettivo, ma anche significato nel senso linguistico e, ancora, facoltà umana di conferire senso in termini ontologici. Interessante rilevare che tale sistema di rispecchiamenti semantici fra i vari aspetti di significato della parola «Sinn» costituisce il cardine di tutta la rivoluzionaria 4

Si ricordi il celebre frammento di Novalis in merito al significato del concetto di romantico: «Il mondo deve essere reso romantico. Così si ritroverà il suo senso primigenio. Rendere romantico non è altro che un potenziamento qualitativo. […] Il mondo viene reso romantico nel momento in cui io conferisco un senso elevato a ciò che è banale, un’apparenza misteriosa a quanto è comune, la dignità dell’ignoto al noto, e al finito un senso infinito». ID., Fragmenten und Studien 1799-1800, in ID., Novalis. Werke, Tagebücher und Briefe Friedrich von Hardenbergs, a cura di H.-J. Mähl – R. Samuel, München-Wien 1978. [«Die Welt muß romantisirt werden. So findet man den ursprünglichen Sinn wieder. Romantisiren ist nichts, als eine qualitative Potenzierung. […] Indem ich dem Gemeinen einen höhen Sinn, dem Gewöhnlichen ein geheimnißvolles Ansehen, dem Bekannten die Würde des Unbekannten, dem Endlichen einen unendlichen Schein gebe so romantisire ich es.»]. 5 ID., Hymnen an die Nacht, in ID., Novalis Schriften, cit., 227-242, qui 227.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 218

218

Grazia Pulvirenti

teoria della conoscenza esposta negli Inni alla Notte. Nel primo inno, di fatto, Novalis opera, con grande effetto retorico, il ribaltamento della visione sensualista settecentesca, aprendo uno squarcio nell’edificio gnoseologico dell’illuminismo: nega la validità della conoscenza sensoriale e introduce quale strumento conoscitivo l’intuizione, affidata agli «occhi infiniti»6 che si aprono nello spazio imperscrutabile della notte, ovvero nella cessazione della relazione sensoriale fra soggetto e mondo circostante. In tale disposizione contemplativa, circoscritta dalle tenebra, si attivano facoltà mentali superiori di astrazione e speculazione. La Notte è figurazione di uno spazio conoscitivo alternativo e complementare a quello logico, estraneo e parallelo allo stato cosciente. A tale spazio corrisponde quella facoltà conoscitiva, oggi definita blending, che di fatto diviene immaginazione creatrice nel momento in cui ciò che viene conosciuto attraverso un atto intuitivo viene poi elaborato in figurazioni che affiorano da uno spazio oscuro dell’essere, innescando le facoltà poietiche del mondo immaginale. La Notte assurge a metafora della creazione in generale, e, rispetto alla dimensione umana, delle potenzialità della mente di reiterare l’atto creativo in quanto atto in grado di conferire senso alle cose e di ricavare un senso delle cose a un livello superiore. Al centro di tale “cosmogonia” della creazione poetica intesa come intuizione dell’essenza delle cose e rivelazione del senso ultimo dell’esistenza, della dimensione spirituale, si colloca la figura dell’uomo che, in un gioco di parole, allusivo e multivago, viene definito al secondo verso come «Sinnbegabter», letteralmente dotato di senso e, al v. 25, «mit den sinnvollen Augen», ovvero con occhi pensosi, attenti, secondo una valenza antica del termine, ma anche ingegnosi, e, scomponendo il termine nei suoi semi costitutivi, come suggerisce Novalis mediante l’enfasi anaforica posta sul termine «Sinn», «colmi di senso». La figura dell’uomo è introdotta come «vivente dotato di senso»7, ovvero come colui che rispetto alle altre manifestazioni di vita del regno minerale, vegetale e animale, precedentemente passate in rassegna, si caratterizza per la 6 7

L.c. [«unendlichen Augen»]. L.c. [«Lebendige(r), Sinnbegabte(r)»].


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 219

La preghiera come poesia: gli Inni alla Notte di Novalis

219

duplice facoltà di acquisire dati d’esperienza tramite la percezione del mondo circostante e di rielaborarli in un conferimento di senso. Ma successivamente l’uomo, in una ripresa di un motivo biblico (Salmo 118), viene caratterizzato anche come, straniero, «Fremdling», rispetto al mondo della terra, quasi a voler indicare la sua provenienza da altre regioni dell’essere non manifesto. A questa apostrofe si accompagnano tre caratteristiche dello straniero: «gli occhi colmi di senso, il passo fluttuante e le labbra dolcemente chiuse ricche di suono»8. Con tali immagini Novalis segna la differenza dell’uomo rispetto alle altre forme viventi e pone come vera essenza dell’essere umano la sua facoltà poietica: in primo luogo con il motivo degli occhi, organo della percezione9, metafora dell’anima e inoltre, come si è appena accennato, colmi di senso, in quanto predisposti alla conoscenza sensoriale del mondo, nonché pensosi, intelligenti, in grado di attribuire significato al percepito e creare senso, un senso che gli consente di accedere allo spirito rinvenendolo nell’esistente; poi, con la descrizione del passo, della dimensione motoria, sospesa fra terra e cielo, indice di una tensione che trascende la terra; infine con l’immagine della bocca ricca di suoni, citazione dalle Metamorfosi di Ovidio a indicare Apollo, dio della poesia per antonomasia (Metamorfosi, 11,1-66). Nell’essere l’uomo dotato di senso, «con occhi colmi di senso», Novalis indica l’esistenza di un potenziale d’intuizione spirituale, attraverso cui si attivano facoltà superiori latenti nell’essere umano e cioè l’accesso al “senso” misterioso dell’esistenza e l’estrinsecazione di tale “senso” nella preghiera intesa come atto poetico. Il “senso” religioso appare quindi innato nell’uomo, come ogni altra facoltà che egli attiva nel superamento dell’inganno sensoriale, nel quale è irretito nella dimensione diurna della vita. In tale prospettiva, il ciclo degli Inni alla Notte si configura come forma poetica di preghiera: nell’invocazione alla Notte, al senso della vista subentra una superiore conoscenza interiore, intuitiva. Proprio questa conoscenza consente all’uomo di percepire con la stessa chiarezza ed evidenza del modo in cui percepisce la 8 L.c. [«den sinnvollen Augen, dem schwebenden Gange, und den zartgeschlossenen, tonreichen Lippen»]. 9 Nel Settecento si riteneva che la visione avvenisse attraverso l’emissione di raggi dall’occhio all’oggetto.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 220

220

Grazia Pulvirenti

roccia, l’acqua, il colore del cielo e delle cose, la dimensione dello spirito, del divino. Ciò avviene tramite l’attivazione di quel senso “latente”, ma onnipresente nell’umano, che gli fa cogliere il divino in sé e nell’esistente: «La preghiera, o il pensiero religioso, si esplica attraverso un processo di astrazione e di progressione. Ogni cosa può essere tempio dello spirito. Lo spirito di questo tempio è a sua volta esso stesso sacerdote supremo, il mediatore monoteista, che è in rapporto diretto con il divino»10.

La preghiera è esito di una forma di percezione superiore a quella sensoriale, rivolta a realtà non esperibili attraverso gli organi corporei, ma attraverso facoltà mentali superiori. La preghiera è un atto progressivo di astrazione, in quanto nell’astrazione è dato il superamento del limite della conoscenza della dimensione materiale dell’esistente. Il suo santuario è l’ovunque, lo spazio dell’essere nella sua totalità. Il sacerdote di tale santuario è immanente allo spirito della cosa e del soggetto percipiente. Il poeta dischiude all’uomo comune il senso del sacro. Ma tale funzione di “mediazione” da parte del poeta non preclude all’uomo l’accesso diretto a tale diversa modalità esperenziale del reale: l’uomo comune, qualsiasi uomo, è in grado di entrare in contatto con il divino, di divenire egli stesso figura di mediazione del divino, che si manifesta all’uomo in virtù del sentimento d’amore potenziato dalla preghiera. Ecco che si schiude il senso della preghiera alla Notte, in una sintesi straordinaria che conduce il poeta dalla sofferenza, vissuta nella propria esistenza per la morte prematura dell’amata, alla conquista di una dimensione interiore, figurata dalla Notte, nella quale la separazione è ricongiungimento, la privazione conquista, la morte vita. A tale trasformazione conduce la preghiera che è ascolto profondo, sconfinamento verso regioni altre, impenetrabili tramite la mente cosciente 10 F. VON HARDENBERG, Fragmente vermischten Inhalts, cit., 457. [«Das Gebet, oder der religiöse Gedanke besteht also aus einer [...] aufsteigenden, untheilbaren Abstrakzion oder Setzung. Jeder Gegenstand kann dem Religiösen ein Tempel [...] sein. Der Geist dieses Tempels ist der allgegenwärtige Hohepriester, der monotheistische Mittler, welcher allein im unmittelbaren Verhältnisse mit der Gottheit steht.»].


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 221

La preghiera come poesia: gli Inni alla Notte di Novalis

221

e razionale, percezione intuitiva di una dimensione di totalità e unione esperita nella meditazione del sentimento d’amore: «Cosa sgorga all’improvviso, pieno di presagio nel cuore e cancella il tenue soffio della nostalgia? […] Balsamo prezioso sgorga dal tuo mazzo di papaveri. Sollevi le ali pesanti dell’animo. In maniera oscura, indicibile tocchi il nostro animo — ed ecco felice e spaventato vedo un volto grave che si china su me assorto e dolce, e mostra, fra riccioli infinitamente intrecciati, l’amata giovinezza della Madre. […] Lode alla regina del mondo, sublime messaggera di mondi sacri, tutrice di amore beatificante, è lei che ti manda a me, dolce amata, amorevole sole nella notte, e ora, solo ora, io sono veramente desto, io sono tuo e tu sei mia — mi hai annunciato che la notte è vita, mi hai reso uomo. Si strugge il mio corpo con ardore spirituale, affinché io ormai aria mi mescoli a te e duri eterna la notte d’amore»11.

In tale iter l’uomo attinge la sua vera identità, superando il limite di ogni inganno percettivo e accedendo a esperienze interiori, fra cui al culmine si colloca quella d’amore, che spiazzano tanto la mente razionale, quanto i dettami delle religioni confessionali: «L’intera nostra vita è servizio divino: un legame che neanche la morte può dissolvere. La nostra vita è uno sposalizio continuo che ci concede una compagna per la notte. La massima dolcezza dell’amore si attinge nella morte: per l’amante la morte è notte nuziale, il mistero dei misteri»12.

11 F. VON HARDENBERG, Hymnen an die Nacht, cit., 228. [«Was quillt auf einmal so ahndungsvoll unterm Herzen, und verschluckt der Wehmuth weiche Luft? [...] Köstlicher Balsam träuft aus deiner Hand, aus dem Bündel Mohn. Die schweren Flügel des Gemüths hebst du empor. Dunkel und unaussprechlich fühlen wir uns bewegt — ein ernstes Antlitz seh ich froh erschrocken, das sanft und andachtsvoll sich zu mir neigt, und unter unendlich verschlungenen Locken der Mutter liebe Jugend zeigt. […] Preis der Weltköniginn, der hohen Verkündigerinn heiliger Welten, der Pflegerinn seliger Liebe — sie sendet mir dich — zarte Geliebte — liebliche Sonne der Nacht, — nun wach ich — denn ich bin Dein und Mein — du hast die Nacht mir zum Leben verkündet — mich zum Menschen gemacht — zehre mit Geisterglut meinen Leib, daß ich luftig mit dir inniger mich mische und dann ewig die Brautnacht währt.»]. 12 ID., Fragmente vermischten Inhalts, cit., 465. [«Unser ganzes Leben ist Gottesdienst. Eine Verbindung, die auch für den Tod geschlossen ist, ist eine Hochzeit, die uns eine Genossin für die Nacht giebt. Im Tode ist die Liebe am süßesten; für den Liebenden ist der Tod eine Brautnacht, ein Geheimnis der Mysterien.»].


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 222

222

Grazia Pulvirenti

Nella prospettiva novalisiana i termini della percezione sensoriale e della conoscenza logica sono ribaltati e solo attraverso tale ribaltamento acquista ragion d’essere il suo concetto di preghiera inteso come strumento di conoscenza potenziata e creazione realizzata dall’uomo con la parola, in quel cammino che Novalis, nel brano precedentemente citato, definisce «servizio divino». Alla base di tale ribaltamento è l’esperienza dell’intuizione di un mutato rapporto fra vita e morte: «La vita è l’inizio della morte. La vita è finalizzata alla morte. La morte è fine e inizio allo stesso tempo. Commiato e riunificazione più profonda»13.

Un paradosso per le nostre menti, come l’intera conoscenza che Novalis dischiude nei suoi scritti, in cui può ben apparire una frase come «l’acqua è una fiamma bagnata»14. Tale complesso gnoseologico è retto però da una visione senza fratture e contrasti, in cui ogni cosa si inscrive in una paradossale dimensione di “immanente trascendenza”, che si basa sull’assioma, secondo cui «Tutto è di per sé eterno»15. Novalis, in questo suo iter dalla conoscenza intuitiva all’evoluzione dell’io tramite la preghiera, appare una sorta di precursore ed estremizzatore della recente prospettiva dell’embodied mind, della visione incarnata dei processi mentali dell’uomo. Tale prospettiva, centrale alle odierne scienze cognitive, considera in generale ogni atto prodotto dall’essere umano come radicato nella dimensione corporea, da esso determinata e a sua volta in grado di condizionarla, in una attivazione congiunta di fenomeni precedentemente ritenuti indipendenti e attribuiti a funzioni diverse, come emozione e cognizione, per fare un solo esempio. Con gli studi del neurobiologo Damasio16, anticipati da intuizioni di diversi pensatori e filosofi nel corso dell’Ottocento, si è ormai 13 Ibid., 454-455. [«Leben ist der Anfang des Todes. Das Leben ist um des Todes willen. Der Tod ist Endigung und Anfang zugleich. Scheidung und nähere Selbstverbindung zugleich.»]. 14 Ibid., 371. [«Wasser ist eine nasse Flamme»]. 15 Ibid., 345. [«Alles ist von selbst ewig»]. 16 A. DAMASIO, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano (1994), Milano 1995; ID., Emozione e coscienza (1999), Milano 2000; ID., Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, Milano 2003.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 223

La preghiera come poesia: gli Inni alla Notte di Novalis

223

consumato il superamento della tradizionale dicotomia fra cuore e ragione, fra pensiero e fisiologia del corpo, fra materia e spirito. Negando l’opposizione cartesiana fra mente e corpo, da Dilthey (1883), che aveva ricondotto la vita spirituale alla totalità psicofisica dell’uomo, alla visione monistica di Bergson (1896) a quella olistica di “psichismo fisiologico” di Keyserling (1919), si definisce una nuova concezione dell’essere umano in cui il pensiero non è disgiunto dalla fisiologia del corpo, la sfera razionale non è contrapposta all’emozione, all’ambiente naturale e alla società, lo spirito al corpo: «Come il corpo è profondamente interrelato con il mondo, così l’anima lo è con lo spirito: entrambi tali sentieri partono dall’uomo e conducono a Dio»17.

Novalis, in grande anticipo sui tempi, compie il salto mortale che oggi hanno realizzato alcuni scienziati, giungendo a una visione incarnata dello spirito: «L’intero corpo umano è costituito da sensi ed energia e dai loro organi: nervi e muscoli. L’uomo deve abituarsi non solo a stimoli sempre più forti, ma anche a mutamenti sempre più rapidi. Tali questioni fanno parte della scienza dell’immortalità. […] Il potenziamento e l’educazione dei sensi costituiscono la parte fondamentale del miglioramento del genere umano, dell’evoluzione dell’umanità. L’educazione e il potenziamento dell’anima è l’impresa primaria e più importante. […] I sensi sono molto più animati che gli altri organi, per cui l’intero corpo deve star dietro alle loro sollecitazioni. A loro volta i sensi devono essere stimolati e potenziati finché saranno in grado di raggiungere l’infinito»18. 17 F. VON HARDENBERG, Fragmente vermischten Inhalts, cit., 366. [«Wie der Körper mit der Welt in Verbindung steht, so die Seele mit dem Geist. Beide Bahnen laufen vom Menschen aus und endigen in Gott.»]. 18 Ibid., 372-373. [«Der ganze menschliche Körper besteht aus Sinn und Kraft, und ihren Organen: Nerv und Muskel. Der Mensch muß nicht allein an stärkere Reize, sondern auch an schnellere Abwechselungen gewöhnt werden. Diese beiden Gesichtspunkte gehören in die Kunstlehre der Unsterblichkeit. [...] Vermehrung und Ausbildung der Sinne gehört mit zu der Hauptsache der Verbesserung des Menschen-


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 224

224

Grazia Pulvirenti

Tutto ciò si esprime tramite la capacità creativa della parola poetica, parola creatrice, preghiera in forma di poesia: «Religione è poesia come atto di conoscenza. La poesia è tra le esperienze della sensibilità quel che la filosofia è in rapporto al pensiero»19.

Per Novalis, in una visione antropologica organicista, poesia e fantasia sono esperienze esse stesse incarnate nella natura: «La fisica non è altro che la scienza della fantasia»20. La fantasia è una “facoltà cognitiva” in grado di condurre all’esperienza spirituale dell’io che riscopre la dimensione interiore come spazio di conoscenza e superamento del limite: «La fantasia pone il mondo a venire o in alto o in basso, o, ancora, in un processo di metempsicosi verso noi stessi. Sogniamo viaggi nell’universo: ma dov’è l’universo se non in noi? Sconosciamo le profondità del nostro spirito. Il sentiero misterioso conduce verso l’interiorità. In noi, o in nessun altro luogo, è l’eternità con i suoi mondi, passato e futuro. Il mondo esteriore è un mondo d’ombre e getta la sua ombra sul regno della luce. Certamente adesso a noi lo spazio interiore appare oscuro, deserto, privo di forme, ma ben altro vi scorgeremo, quando saremo in grado di superare questo ottenebramento in cui viviamo e il corpo d’ombra si sarà dissolto. Allora proveremo una gioia sconosciuta, poiché il nostro spirito non sarà più deficitario di nulla» 21.

gechlechts, der Graderhöhung der Menschheit. Bildung und Vermehrung der Seele ist das wichtigste und erste Unternehmen. […] Die Sinne im strengeren Sinn sind viel animirter, als die übrigen Organe; der übrige Körper soll ihnen nachfolgen, und sie sollen zugleich mehr animirt werden, und so ins Unendliche.»] 19 Ibid., 461. [«Religionslehre ist wissenschaftliche Poesie. Poesie ist unter den Empfindungen, was Philosophie in Beziehung auf Gedanken ist.»]. 20 Ibid., 359. [«Die Physik ist nichts als die Lehre von der Phantasie.»]. 21 Ibid., 454. [«Die Phantasie setzt die künftige Welt entweder in die Höhe, oder in die Tiefe, oder in der Metempsychose zu uns. Wir träumen von Reisen durch das Weltall: ist denn das Weltall nicht in uns? Die Tiefen unseren Geistes kennen wir nicht. — Nach Innen geht der geheimnisvolle Weg. In uns, oder nirgends ist die Ewigkeit mit ihren Welten, die Vergangenheit und Zukunft. Die Außenwelt ist die Schattenwelt, sie wirft ihren Schatten in das Lichtreich. Jetzt scheint es uns freilich innerlich so dunkel, einsam, gestaltlos, aber wie ganz anders wird es uns dünken, wenn


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 225

La preghiera come poesia: gli Inni alla Notte di Novalis

225

Il percorso conoscitivo tracciato da Novalis si articola per gradi progressivi di affinamento e potenziamento delle esperienze della percezione, in una interazione di facoltà primarie sensoriali, cerebrali, e di funzioni superiori, di pensiero, sentimento e immaginazione, precorrendo recenti conclusioni delle neuroscienze. Le facoltà in passato ritenute antitetiche della ragione, dell’emozione e dell’immaginazione appaiono, in diversi ambiti della ricerca scientifica attuale, integrate in fenomeni complessi che determinano l’emergenza di nuove idee e attribuzioni di senso. La dimensione emotiva, per Novalis veicolata attraverso l’attività fantastica, da molti studiosi, fra cui Terrence Deacon22, per citare un solo esempio, è ritenuta implicita in ogni forma di conoscenza, non distinta dalla cognizione e non dissociabile da essa. Alla reazione emotiva dell’individuo è oggi riconosciuta una valenza cognitiva, come afferma Goodman quando scrive che «le emozioni funzionano cognitivamente»23. L’emozione svolge un ruolo centrale nel processo metaforico dato che la conoscenza estetica implica una manipolazione rappresentazionale delle esperienze emotive. Così Novalis: «Una chiara razionalità unita a fervida fantasia è il più autentico nutrimento dell’anima, ciò che reca la vera salute. La ragione compie solo certi passi prevedibili. Pensare non è forse distinguere? Sentire è unire. Il pensiero autonomo è forse un processo che dura una vita intera: un processo di unione e distinzione a un tempo, pensare e sentire contemporaneamente»24. diese Verfinsterung vorbei, und der Schattenkörper hinweggerückt ist. Wir werden mehr genießen als je, denn unser Geist hat entbehrt.»]. 22 Cfr. T. DEACON, The Aesthetic Faculty, in M. TURNER, The Artful Mind, New York 2006, 21-53, qui 37. 23 N. GOODMANN, I linguaggi dell’arte (1968), Milano 1998, 213. 24 F. VON HARDENBERG, Fragmente vermischten Inhalts, cit., 372. [«Klarer Verstand mit warmer Phantasie verschwistert, ist die ächte, Gesundheit bringende Seelenkost. Der Verstand thut lauter vorhergesehene bestimmte Schritte. Ist Denken auch Absondern? Dann ist Empfinden vielleicht Treffen. Selbstdenken ist vielleicht ein Lebensprozeß; Treff— und Absonderung—Prozeß zugleich; Denken und Empfinden zugleich.»].


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 226

226

Grazia Pulvirenti

Anche secondo le riflessioni basate sulla blending theory di Fauconnier e Turner25, l’atto creativo, cognitivo ed emotivo a un tempo, presuppone un’interazione e un’interdipendenza delle due funzioni mentali di cognizione ed emozione, un tempo ritenute distinte, dal momento che i processi di trasformazione simbolica li implicano entrambi26. L’elemento simbolico è ormai considerato strumento cognitivo dato che opera una scelta fra simulazioni mentali, in una sorta di performance tanto dei dati esperiti quanto delle emozioni trasfigurate in immagini. L’operato simbolico risulta centrale in ogni processo gnoseologico implicato dall’estetica considerata dallo stesso suo fondatore quale «scienza della conoscenza sensibile»27, oggi come «scienza dei sensi»28. In tale complesso fenomeno cognitivo rientra per Novalis l’esperienza spirituale, che si esplica quale forma potenziata di conoscenza immaginativa e simbolica, di consapevolezza superiore, attivata nella preghiera che ridesta la fede: «La fede è esperienza del risveglio e della conseguente facoltà di agire in un altro mondo. Una fede pratica, applicata alla terra è volontà. La fede è percezione della volontà realistica»29.

La preghiera si configura in primo luogo come una modalità dell’azione e dell’intervento dell’uomo rispetto alla realtà che lo circonda, articolandosi in una prospettiva puramente soggettiva, interiore, e in una oggettiva mediante la creazione immaginifica e poetica:

25 G. FAUCONNIER – M. TURNER, The Way we think: Conceptual Blending and the Mind’s hidden Complexities, New York 2002. 26 T. DEACON, The Aesthetic Faculty, cit., 41. 27 A. GOTTLIEB BAUMGARTEN, Aesthetica (1750), trad. it. Estetica, Palermo 2000, §1. 28 M. ROLLINS, What Monet meant: Intention and Attention in Understanding Art, in The Journal of Aesthetic and Art Criticism, numero speciale Art, Mind and Cognitive Science, 62 (2004) 2, 175-188, qui 175. 29 F. VON HARDENBERG, Fragmente vermischten Inhalts, cit., 491-491. [«Glaube ist Empfindung des Erwachens und Wirkens in einer anderen Welt. Angewandter, irdischer Glaube ist Willen. Glauben ist Wahrnehung des realistischen Willens.»].


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 227

La preghiera come poesia: gli Inni alla Notte di Novalis

227

«Con la preghiera interiore e una decisa determinazione, molto è possibile. Se incominci ad essere pervaso da immagini tristi, paurose, incomincia a pregare. Se dapprima non riesci a fugarle, poi, col tempo, per certo, ci riuscirai»30.

L’altro aspetto della preghiera riguarda la sua funzione di sconfinamento rispetto al limite posto all’uomo dalla sua dipendenza dalla materia, in un ribaltamento della concezione di reale e immaginario, rispetto a cui l’immaginario si colloca come soglia della realtà vera, a cui tendere in un processo di superiore evoluzione. Anche per comprendere tali apparenti illogicità della concezione novalisiana soccorrono le neuroscienze e le conclusioni della fisica quantistica. Oggi si ritiene che il mondo non abbia una sua irrefutabile consistenza31, ma sia un costrutto mentale, prodotto come immagine a partire dall’elaborazione cerebrale di dati sensoriali, e che si tratti di un mondo di immagini inesauribili, nel complesso inconoscibile se non come atto creativo della mente che trasforma i dati dell’esperienza in fatti dell’immaginazione emotiva, incarnata in una dimensione fisica specifica. Alla base di ciò è, come secondo le teorie di Lakoff32, il pensiero metaforico, in quanto forma specifica di funzione del pensiero umano e di interrelazione fra ambiti diversi delle facoltà cerebrali, da cui emergono forme nuove di pensiero immaginativo. Il che comporta la visione della poesia come una delle precipue modalità d’esistenza dell’essere umano, un’esistenza “metafisica”33: 30 Ibid., 464. [«Mit innigem Gebet und festem Vorsatz ist vieles möglich. Sobald du ängstlich wirst, und traurige, bängliche Vorstellungen sich dir aufdringen, so fange an recht herzlich zu beten. Gelingt es die ersten Male nicht, so gelingt es gewiß mit der Zeit.»]. 31 Si veda fra tutti il recente lavoro: E. BELLONE, Qualcosa, là fuori. Come il cervello crea la realtà, Torino 2011. 32 Cfr. G. LAKOFF, The contemporary Theory of Metaphor, in A. ORTONY (cur.), Metaphor and Thought, Cambridge – New York – Melbourne 1993, 205-251. 33 In merito al concetto di metafisica nell’ambito delle scienze cognitive si vedano le precisazioni di Lakoff e Johnson che destrutturano il significato classico, intendendo con l’uso dello stesso termine un sistema di traslazione metaforica del reale a opera dei meccanismi inconsci del pensiero. Cfr. G. LAKOFF – M. JOHNSON, Philosophy in the Flesh. The embodied Mind and its Challenge to Western Thought, New York 1999.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 228

228

Grazia Pulvirenti

«La poesia è la vera protagonista della filosofia. La filosofia innalza la poesia a principio generale, insegnandoci a riconoscere il vero valore della poesia. La filosofia stessa non è altro che teoria della filosofia. Ci mostra cosa sia in realtà la poesia: la poesia è uno e tutto. La separazione fra filosofo e poeta è solo apparente e di fatto reca nocumento a entrambi. È segno di una malattia, di una disposizione malata. La filosofia suona come la poesia, poiché ogni grido lanciato verso lontananze diviene vocale e tutto nella lontananza diviene poesia: monti lontani, uomini lontani, accadimenti lontani, etc. (tutto diviene romantico). Da ciò si evince la forza poetica primigenia della stessa natura. Poesia della Notte...»34.

La poesia della Notte, che è preghiera alla Notte, è momento di identificazione dell’io con la totalità dell’esistente, superamento della concezione limitata e limitante dell’individuo della modernità scissa, tensione al riconoscimento di una dimensione superiore dell’esistente. In essa si compie il processo evolutivo dell’io, il trascendimento della sua realtà dissociata e frantumata, il ritorno alla totalità, utopia di perenne validità nella ricerca d’identità dei romantici, che è ricerca della più autentica e profonda identità dell’essere umano.

34 F. VON HARDENBERG, Fragmente vermischten Inhalts, cit., 424-425. [«Die Poesie ist der Held der Philosophie. Die Philosophie erhebt die Poesie zum Grundsatz; sie lehrt uns den Werth der Poesie kennen. Philosophie ist die Theorie der Poesie; sie zeigt uns, was die Poesie sey; daß sie Eins und Alles sey. Die Trennung con Philosoph und Dichter ist nur scheinbar und zum Nachtheil beider. Es ist ein Zeichen einer Krankheit und krankhaften Konstitution. Philosophie klingt wie Poesie, weil jeder Ruf in der Ferne Vokal wird. So wird alles in der Entfernung Poesie; ferne Berge, ferne Menschen, ferne Begebenheiten u.s.w. (alles wird romantisch); daher ergiebt sich unsere urpoetische Natur. Poesie der Nacht …»].


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 229

IL RUOLO DELLA PREGHIERA NEGLI SCRITTI DI SOREN KIERKEGAARD

LUCA SARACENO*

INTRODUZIONE «Il devoto ingenuo pensa che la cosa principale nella preghiera, il punto a cui soprattutto bisogna tendere, è che Iddio senta ciò di cui egli Lo prega. Tuttavia, nel senso eterno della verità, le cose stanno proprio all’inverso. La vera situazione della preghiera non è quando Dio sta ad ascoltare ciò che noi Gli domandiamo; ma quando l’orante persevera ad orare fino a che sia egli colui che ascolta, che ascolta ciò che Dio vuole. L’orante immediato abbisogna di molte parole, ed è per questo in fondo che quando prega egli è tanto esigente; il vero orante sta puramente in ascolto»1.

Soren Kierkegaard sembra avere sui lettori lo stesso effetto da ortica che egli attribuiva al vero cristianesimo: se uno volesse afferrarlo, non farebbe altro che pungersi! Mi avvio pertanto alla trattazione del tema della preghiera negli scritti del filosofo danese con questa im-prudente consapevolezza, tra ingenuo coraggio e precaria stabilità. La pagina riportata, tratta dai Diari del 1846, disegna emblematicamente il senso profondo della preghiera. In queste righe il nostro filosofo demarca in modo deciso la linea di confine esistente tra la preghiera autentica, fatta di puro ascolto della volontà di Dio, e una *

Docente di Filosofia presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. S. KIERKEGAARD, Papirer, trad. it. Diario, a cura di C. Fabro, 12 voll., Brescia 1980, VII A 56. 1


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 230

230

Luca Saraceno

tipologia di preghiera intesa come una “ingenua devozione”, recitata da chi ritiene che pregare significhi pretendere di essere ascoltato in quanto richiede. Nel riprendere questa pagina, vengo attratto dall’aggettivo “devoto”, che desidero riportare alla positività probabilmente taciuta o comunque velata dal filosofo danese a motivo del retrogusto hegeliano che porta con sé. La “devozione” dell’orante diventa l’effetto di un ritorno, entro cui la preghiera cristiana trova la sua totalità e il suo culmine, ritorno perché c’è un movimento originario, un prima che parte da Dio e che suscita il dopo del dono, della consegna e della risposta dell’orante. Il termine “devozione”, logorato da tanto linguaggio religioso, va al contrario restituito — come sembra suggerire Hegel — alla sua origine semantico-simbolica: Andacht è il termine tedesco per indicare questa attitudine orante, nel senso più proprio di una “direzione del pensiero”. Preghiera dunque come orientamento del pensiero che parla più il tono dell’invocativo, che quello dell’accusativo, che si esprime cioè volgendosi direttamente “a te, o mio Dio”, più che all’oggetto di un discorso argomentato. La preghiera, autentico evento linguistico, anche se meglio si esprime nella forma del silenzio e dell’ascolto, sembra così trovare la sua giusta collocazione all’interno dell’orizzonte filosofico. Tommaso sembra andare verso questa direzione quando afferma: «oratio est proprie religionis actus»2. La preghiera in quanto atto, accadimento fondamentale della relazione religiosa appartiene inevitabilmente alla condizione dell’essere umano e dunque cade anche sotto la lente d’ingrandimento della riflessione filosofica. Questo preambolo serve a me solo per giustificare e chiarire la pretesa da parte della scienza filosofica di entrare, in generale, di diritto come partner per il contributo alla riflessione sulla preghiera. Per Kierkegaard, in particolare, la preghiera assume un’evidente centralità nel pensiero, che fa tutt’uno con la critica del razionalismo moderno: non tenta di fondare speculativamente la preghiera ma insiste piuttosto sull’analisi esistenziale di essa, mostrando come la preghiera sia il “filo continuo” che raccoglie in unità, dinanzi a Dio, gli elementi sparsi della nostra vita. Tutti gli aspetti della speculazione 2

TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q.83, art.3.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 231

Il ruolo della preghiera negli scritti di Soren Kierkegaard

231

kierkegaardiana vengono in certa misura a convergere sul tema della preghiera: la libertà e la trascendenza divina, la temporalità e l’istante, il peccato e lo scrupolo, il paradosso e la fede vengono puntualmente riferiti alle preghiere che costellano le opere di Kierkegaard. Ci troviamo dunque di fronte a un pensatore che non si limita a riflettere sulla preghiera, ma che nei suoi scritti prega a più riprese: e del resto egli era restio a farsi chiamare “filosofo” (di chiara matrice filosofica idealista), preferendo il titolo di “scrittore religioso” o di “poeta penitente”. 1. PREGHIERA TRA VITA E PENSIERO «Il pregare ci rende anche leggeri nel rapporto a Dio, altrimenti Egli ci sopraffarebbe completamente»3.

La preghiera in Kierkegaard va sottoposta anzitutto al giudizio verso il quale far convergere, come in un unico sguardo di sintesi, l’intera esistenza reale dello stesso filosofo danese frammentata nei suoi rapporti più cari. La malinconia trasmessa dal padre e l’amore temporalmente impossibile per la giovane Regina Olsen costituiscono la spinta che liberano Kierkegaard al suo compito di scrittore religioso sofferente. Il Diario, proprio negli anni della morte del padre e della rottura del fidanzamento con Regina, è disseminato di preghiere rivolte a Dio dove Kierkegaard tenta di ricomporre i cocci dei suoi rapporti infranti, i quali divengono paradossalmente ciò che gli consente di esprimere la sua vivacità intellettuale nella scrittura e di affidarsi a Dio, il suo unico confidente. In sintesi è possibile affermare che costitutiva della preghiera in Kierkegaard sia una insuperabile differenza qualitativa tra la libertà che si realizza nel modo della mortalità nell’uomo e l’infinita pienezza della libertà eterna divina che entra in gioco in ogni accadimento della storia umana, in quanto aperta al futuro. Filosoficamente soltanto questa storicità è il campo sul quale la preghiera conquista la propria razionalità e sensatezza. La preghiera può essere compresa solo come 3

S. KIERKEGAARD, Papirer, IX A 193.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 232

232

Luca Saraceno

momento della temporalizzazione dell’esserci umano. Le sue condizioni di possibilità infatti, oltre la dimensione temporale, sono la struttura finita dell’uomo e l’infinita differenza qualitativa tra l’uomo e Dio, elementi tutti che ritroviamo nell’incedere kierkegaardiano. La preghiera in lui diventa pertanto la cifra simbolica di una tensione dialettica che v’è anzitutto tra l’universale e il particolare (il pensiero per se stesso è tensione verso l’universale ma a un tempo può farlo solo riflettendo nello spazio della propria singolarità), tra il singolo e la comunità, il tempo e l’Eterno, la contingenza e precarietà del finito e la notizia dell’Infinto che si da proprio nel finito. Un nesso dove partecipazione e differenza vengono a determinarsi reciprocamente. Tutto questo è proprio da Kierkegaard riconosciuto con l’indicazione di una figura che sta al vertice di ogni partecipazione: la figura della preghiera appunto, dove la più profonda intimità riposa all’interno della più radicale differenza. «L’adorazione è il maximum per esprimere il rapporto dell’uomo a Dio e insieme la sua somiglianza con Dio, poiché le qualità sono assolutamente differenti. Ma l’adorazione significa precisamente che Dio è assolutamente tutto per l’uomo e che l’adorante è a sua volta colui che si distingue assolutamente»4.

Una sintesi mai sintetica, dove i due poli del rapporto devono tenersi nella loro reciprocità. In quanto atto originario dell’uomo, la preghiera è così resa unicamente accessibile attraverso un’ermeneutica dell’esserci dell’uomo. Si rivela dunque necessario andare alla costituzione dell’essere dell’uomo per Kierkegaard, alla sua antropologia, là dove si scopre che è proprio dell’uomo essere un rapporto di sintesi tra elementi eterogenei. «L’io è la sintesi cosciente dell’infinito e del finito, che si mette in rapporto con se stessa, il cui compito è divenire se stessa, compito che non si può risolvere se non mediante un rapporto con Dio. Ma diventare se stesso vuol dire farsi concreto. Farsi concreto, poi, non è né diventare finito né diventare infinito, perché ciò che deve farsi concreto è una sintesi. Lo 4

ID., Postilla conclusiva non scientifica a Briciole di filosofia in C. FABRO (cur.), Opere, Firenze 1972, 487.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 233

Il ruolo della preghiera negli scritti di Soren Kierkegaard

233

sviluppo, dunque, deve consistere nello staccarsi infinitamente da se stesso, rendendo infinito l’io e nel ritornare infinitamente a se stesso, rendendolo finito. Se invece l’io non diventa se stesso è disperato, sia che lo sappia o no»5.

Nella pagina iniziale della Malattia per la morte, sotto la mentita e graffiante scrittura di Anticlimacus, Kierkegaard disegna l’uomo come spirito. L’uomo in sé stesso è un rapporto, una sintesi, i cui elementi sono il finito, il temporale e la possibilità da una parte e l’infinito, l’eterno, la necessità dall’altra. L’io kierkegaardiano non è l’“unità” hegeliana della realtà particolare assorbita nell’Assoluto universale, ma una sintesi che si costituisce come un doppio rapporto dentro a un rapporto. Perché l’uomo possa determinarsi come spirito occorre che la sintesi venga a coscienza, che il rapporto cioè nel duplice rapportarsi (al finito e all’infinito, al temporale e all’eterno, alla possibilità e alla necessità) non sfumi nell’uno o nell’altro dei termini eterogenei, ma si rapporti a se stesso come il terzo positivo. Però a fondare l’io non è lo spirito, né può essere l’io stesso: l’io non si attua in sé stesso ma può raggiungere lo stato di equilibrio e di quiete solo se, mettendosi in rapporto con sé, si mette in rapporto con un altro che ha posto il rapporto, ossia riflettendosi infinitamente nel rapporto con la potenza che l’ha posto. L’io kierkegaardiano è il risultato di una relazione, è un rapporto non autofondativo ma derivato, posto in essere da un altro. L’io può far ritorno a se stesso solo operando la decisione di affermare o di negare, di riconoscere o disconoscere, il fondamento che l’ha posto in essere e nell’esercizio concreto di tale scelta si attua la sua piena e reale libertà. 2. PREGHIERA TRA PSEUDONIMIA E AUTENTICITÀ «Giustamente gli antichi dicevano che pregare è respirare. Qui si vede quanto sia sciocco voler parlare di un “perché”. Perché io respiro? Perché altrimenti morrei. Così con la preghiera. E come respirando non presumo 5

ID., La malattia mortale, trad. it. a cura di M. Corssen, Milano 1991, 32.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 234

234

Luca Saraceno

di trasformare il mondo, ma solo di riprodurre in me stesso la vitalità e di “essere rinnovato”, così con la preghiera in rapporto a Dio»6.

Kierkegaard amava definirsi uno “scrittore religioso”. La lunga lista di pseudonimi con cui egli ha siglato gran parte dei suoi scritti, quelli della cosiddetta comunicazione indiretta, da Victor Eremita a Joannes de Silentio, da Vigilius Haufniensis a Nicolaus Notabene, passando per Hilarius Bogbinder e Frater Taciturnus, Climacus e AntiClimacus, non sono semplici nomi di comodo e neppure fatui artifici letterari. I diversi nomi sono maschere emblematiche per dire delle diverse possibilità dell’esistenza umana, tutte peraltro sottese da una profonda tensione religiosa. Gli pseudonimi fanno parte degli scritti della cosiddetta comunicazione indiretta. Kierkegaard ama i suoi pseudonimi, anche se a debita distanza, giusto per cogliere, attraverso di essi, il problema che a loro fa rivivere. Il filosofo di Copenhagen si può in questo senso definire “autore di autori”. Ora quanto qui interessa cogliere è un dato abbastanza evidente ad un attento lettore dei testi kierkegaardiani: negli pseudonimi della comunicazione indiretta, tra gli autori cioè che si misurano con l’istantaneità della vita estetica, uno tra gli stadi possibili del “cammino della vita”, non v’è traccia alcuna di preghiere. Ma non ve ne può essere! L’esteta non prega né può pregare perché vive nello spazio dell’istante privo di eterno, la sua vita evapora come un effluvio di bollicine, la sua scelta di non scegliere è la celebrazione del culto della pura possibilità di potere senza pervenire ad una consistente attualità. L’improvviso è il tempo dell’esteta: è l’uomo che vive un’immanenza priva di trascendenza. Ma nemmeno gli pseudonimi che firmano le opere dello stadio etico riportano preghiere nelle loro opere. Se l’esteta manca del generale e dell’ideale, l’uomo dell’etica manca esattamente della singolarità, della contingenza, della finitudine. L’uomo dell’etica si adegua all’universale rinunciando ad essere eccezione. Non può pregare chi fa della vita un’obbedienza a un comando generale.

6

ID., Papirer, cit., IX A 462.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 235

Il ruolo della preghiera negli scritti di Soren Kierkegaard

235

«Quanto spesso non ho pensato quale tormento dobbiamo noi uomini essere per Iddio, noi che a ogni momento siamo lì ad importunarlo con le nostre piccole angustie e le piccole gioie, pretendendo ch’Egli si rallegri con noi quando Lo ringraziamo di qualche beneficio! “Cos’è mai l’uomo perché Dio si rammenti di lui?” Ma invece di stare a predicare del dovere di pregare Dio, non sarebbe più giusto ammonire gli uomini del privilegio immenso che è il poter parlare con Dio?»7.

La preghiera dunque non si trova entro le coordinate della dimensione etica! Così è solo firmando con lo pseudonimo di Anticlimacus il “dittico del cristianesimo” (Malattia per la morte e Esercizio del cristianesimo) e con la sua vera identità di Soren Kierkegaard gli scritti edificanti, Vangelo delle sofferenze e Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo, senza dimenticare le numerose pagine dei Diari, che ritroviamo le preghiere come incipit delle opere, nella funzione di sintesi programmatica, e alcune a conclusione delle stesse. Solo l’uomo religioso può pregare perché l’uomo religioso porta in sé una ferita sempre aperta, quella di avere sempre torto davanti a Dio. L’uomo religioso vive lo spazio della sofferenza nel sapersi in un rapporto verso l’ignoto telos che lo attrae e al contempo lo respinge. L’uomo dello stadio religioso è il solo che nel dire Io include la relazione a un Tu: «bisogna avere di nuovo il coraggio di dire ‘io’», il che implica il «rivolgersi a un ‘tu’». Il non pieno compimento sintetico degli elementi che lo costituiscono genera l’affidamento che decide. La preghiera così può vivere solo nello spazio della fede. «Padre celeste! In molti modi Tu parli ad un uomo: Tu l’unico che hai sapienza e intelligenza, vuoi tuttavia renderti comprensibile a lui. Tu parli anche quando taci; perché parla anche colui che tace per provare l’amato; parla anche colui che tace affinché l’ora del capire sia tanto più intima quando essa verrà. Padre celeste, non è forse così? Oh, quando tutto tace, quando un uomo se ne sta solo e abbandonato e più non sente la Tua voce, allora forse è per lui come se la separazione dovesse essere eterna. Oh, nel tempo del silenzio quando un uomo languisce nel deserto e non sente la 7

Ibid., VIII A 159.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 236

236

Luca Saraceno

Tua voce: allora è forse per lui come se essa fosse quasi del tutto svanita. Padre celeste, è però solo il momento del silenzio dei confidenziali colloqui. Così fa’ che sia benedetto anche questo tuo silenzio come ogni parola che Tu rivolgi all’uomo; che egli non dimentichi che Tu parli anche quando taci. Donagli, mentre è in attesa di Te, la consolazione di capire che Tu taci per amore come Tu parli per amore, do modo che, sia che Tu taccia o parli, sei sempre il medesimo Padre, sia che ci guidi con la Tua voce o ci educhi col tuo silenzio»8.

3. PREGHIERA TRA SINGOLO E AGAPE «In continuità diretta col gregge, il Cristianesimo è impossibile»9.

L’urto tra il Cristianesimo e la folla è introdotto dal medesimo cristianesimo nell’atto stesso in cui pone il concetto di “spirito”. Infatti nel mondo dello spirito conta la qualità, ossia la differenza, che è appunto proprio quel criterio che il mondo del numero nega in favore della quantità. «Diventare cristiani, ovvero entrare nella dimensione dello spirito e della singolarità, non può pertanto attuarsi né attraverso la mediazione e l’accomodamento, né seguendo l’omogeneità e l’assimilazione, ché in tal caso si rientrerebbe in quella mondanità dalla quale proprio il cristianesimo esige che si esca»10. La folla «causa irresponsabilità e spregiudicatezza» perché per un verso «svigorisce la responsabilità per il Singolo riducendolo a un frammento», per l’altro «è nessuno, anonimo l’autore, anonimo il pubblico». La folla è identificata con la falsità «di voler agire col numero, di voler fare del numero l’istanza di ciò che è la verità»11. Ora il Singolo invece è stato reso possibile nel suo rapporto a Dio. Mettersi in rapporto a Dio significa certamente rompere ogni rapporto con la folla, ma proprio per questo, implica guadagnare il Ibid., VII1 A 131. 9 Ibid., XI A 16. 10 G. MODICA, Una verità per me. Itinerari kierkegaardiani, Milano 2007, 206. 11 Cfr. S. KIERKEGAARD, Il punto di vista della mia attività letteraria, trad. it. a cura di C. Fabro, Roma 1982, 195-207. 8


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 237

Il ruolo della preghiera negli scritti di Soren Kierkegaard

237

rapporto con quella dimensione sociale, di spessore etico-religiosa, che è rappresentata dalla comunità. E la comunità non è, come il pubblico, la somma quantitativa o numerica degli elementi che la compongono, bensì quella somma assurta al livello di qualità grazie al suo essere costituita da singoli, ovvero da individui o unità che si rapportano a Dio, anche se il risultato dell’esperienza di fede rimane pur sempre per Kierkegaard la solitudine, configurata come isolamento, come l’essere “soli-con-Dio” (da Giobbe ad Abramo, da Maria di Nazareth a Gesù Cristo). Se per Kierkegaard il prossimo va inteso come la negazione della folla, la comunità va compresa come la negazione di quella Chiesa fondata sulla “cristianità stabilita”. Di qui l’implicazione reciproca che il danese pone fra l’amore per Dio e l’amore per il prossimo. Quasi tutte le preghiere composte da Kierkegaard sono concepite e scritte al plurale delle assemblee di comunità12. Il Diario dà una continua testimonianza della partecipazione dello stesso filosofo alle adunanze religiose, non solo per ascoltare le prediche del vescovo Mynster ma anche per vivere l’atmosfera comunitaria dell’agape cristiana. Il Singolo di Kierkegaard è il membro spiritualmente formato della comunità, il quale in virtù del suo rapporto a Cristo, si mette in rapporto al prossimo nella Chiesa, intesa come adunanza di singoli. Nelle preghiere Kierkegaard riviveva lo spirito comunitario dell’agape del cristianesimo primitivo contro la “cristianità stabilita” del compromesso col mondo. 4. PREGHIERA TRA INTERIORITÀ E HUMOR «Il punto di Archimede fuori del mondo è una cella di orazione dove un orante prega con tutta la sincerità del cuore: costui muoverà la terra. Se esistesse al mondo un simile orante, è incredibile quel che potrebbe fare quando si ritira nella sua cella»13.

12 13

Cfr. ID., Atti dell’amore, trad. it. a cura di C. Fabro, Milano 1983, 91 ss. ID., Papirer, cit., IX A 115.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 238

238

Luca Saraceno

Lavorare in direzione dell’interiorizzazione è definito come il compito di chi vuol rendere testimonianza al cristianesimo autentico14. «La solitudine, che si prospetta come lo stato proprio dell’interiorizzazione, viene configurata come il contrassegno della spiritualità dell’uomo, ovvero di chi uscito dal gregge, ha assunto il coraggio della singolarità»15. E l’interiorità, dal punto di vista teoretico, diventa la chiave di volta per intendere la verità. «La verità è l’incertezza oggettiva mantenuta nell’appropriazione della più appassionata interiorità»16. L’interiorizzazione non solo non è negatrice dell’alterità, ma anzi è la forma della sua prima manifestazione. Non a caso l’io è prospettato da Kierkegaard come quel rapporto che si rapporta a se stesso e rapportandosi a se stesso «si fonda trasparente nella potenza che l’ha posto»17. «La vera scelta concreta è quella grazie alla quale nel medesimo istante in cui mi scelgo uscendo fuori dal mondo, mi scelgo di ritorno nel mondo»18: la vera scelta dell’interiorità è contemporaneamente un chiudersi e un aprirsi e la verità della scelta è fatta risiedere da Kierkegaard nell’identità dell’isolamento e insieme della continuità. Non a caso chi si ferma al primo movimento semplicemente evapora, sfuma, si dissolve, non diventa un io. Scelgo l’esempio di tre brani che possano esplicitare tale verità. 1) In L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità a firma di Victor Eremita, Kierkegaard presenta la figura del mistico19. Il comportamento del mistico, il quale ritiene che amare Dio implichi disdegnare l’esistenza, dimenticando non solo che in tal modo compie un tradimento, un inganno contro quel mondo nel quale egli vive, un inganno contro le persone con le quali è legato ovvero con le quali avrebbe potuto entrare in rapporto, ma anche che disprez14

Cfr. Ibid., X A 121. G. MODICA, Una verità per me, cit., 215. 16 S. KIERKEGAARD, Postilla conclusiva non scientifica, cit., 169 s. 17 ID., Malattia mortale, cit., 13. 18 ID., L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, in A. CORTESE (cur.), Enten-Eller, V, Milano 19873, 139. 19 Ibid., 226 ss. 15


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 239

Il ruolo della preghiera negli scritti di Soren Kierkegaard

239

zando la realtà attuale in cui Dio l’ha posto egli disprezza lo stesso amore di Dio. «Per Kierkegaard il mistico coglie giustamente la nullità del finito rispetto a Dio, ma anziché sottolineare la nullità che gli deriva dal suo essere peccatore, si mostra sensibile piuttosto alla nullità del mondo e dell’esistenza»20. Il mistico insomma fugge dal mondo ma non sa ritornare nel mondo e perciò non sa compiere quel doppio movimento che connota invece la fede autentica di cui Abramo è l’emblematico cavaliere21. Il cammino dell’interiorità non può attuarsi come fuga dalla storia ma come attuazione di una missione, ovvero che non astrae dall’esistenza né la fugge perché ne conosce la precarietà, ma che anzi scegliendola l’accetta come la condizione reale su cui edificare la dimensione dell’interiorità. 2) Nella Postilla conclusiva non scientifica dello pseudonimo Climacus, il danese descrive la figura del monaco medievale, il quale sacrifica ogni saggezza di vita e si decide per la follia di chiudersi in un chiostro per poter vivere unicamente il telos assoluto. Climacus rileva il movimento contradditorio che si nasconde dietro al monachesimo: il monaco si chiude nel chiostro per essere nient’altro che interiorità ma deve pur sempre far leva sul mondo che si lascia alle spalle per potersene distaccare e ciò lo riporta inevitabilmente sul mondo, a dover contare sul mondo e sul modo con cui il mondo vede il chiostro. L’interiorità monastica così resta alla mercé dell’esteriorità. 3) Nella Malattia per la morte, eminente opera di Anticlimacus, Kierkegaard disegna la disperazione dell’infinito come la mancanza del finito. «L’io conduce un’esistenza fantastica in un’infinità astratta o in un isolamento astratto sempre in mancanza del suo io , dal quale si allontana sempre di più. Questo per esempio succede nella preghiera religiosa. Mettersi in rapporto a Dio significa rendersi infinito; ma rendendosi infinito l’uomo può essere fantasticamente trascinato a tal punto che non ne risulta altro che una specie di ebbrezza. È un uomo che non sa ritornare a se stesso, diventare se stesso»22. 20

G. MODICA, Una verità per me, cit., 219. Cfr. S. KIERKEGAARD, Timore e tremore, in C. FABRO (cur.), Opere, Firenze 1972. 22 ID., Malattia mortale, cit., 33. 21


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 240

240

Luca Saraceno

Il diniego della finitezza non può intendersi come un annullamento. Si tratta invece di vivere nella finitezza ma senza avere la vita in essa, vivere nella distanza e ad un tempo nella cura, nella disillusione che strappa le radici e insieme nella quotidianità più operosa. Kierkegaard ne parla nei modi dello humor23, che implica il guardare alla finitezza che vuole avere radici in se stessa con la forza dell’ironia. Lo humor lascia trasparire il difficile equilibrio tra distacco e impegno, il digiuno dalla finitezza per tener ferma la custodia dell’eternità. Occorre scegliere l’abitudinario abito dello humor perché la notizia dell’infinito costituisce la passione della finitezza, ma la stessa finitezza costituisce ad un tempo l’insuperabile nascondimento dell’Infinito. Lo humor è la risposta di Kierkegaard al dilemma del rapporto finito-infinito, che si risolve nel tenere ferma la differenza salvandone la relazione. 5. PREGHIERA TRA TEMPORALITÀ E PARADOSSO «Più si prega e più ci si persuade che l’ultima nostra consolazione è il pensiero che Dio ha ordinato che si “deve” pregare. Perché Dio è così infinito che appena per pochi momenti oseremo pregarLo, per quanto lo volessimo fare volentieri»24.

Porsi nella prospettiva della religiosità non significa alienarsi dal tempo ma considerare il tempo dal punto di vista della sua conclamata autosufficienza e insieme della sua sostanziale insufficienza. Ora «ciò di cui il tempo ha bisogno è nel senso più profondo l’eternità». Il che è tanto più vero quanto più si constata che «la disgrazia del nostro tempo è precisamente ch’esso è diventato solo il tempo, la temporalità, che nella sua impazienza non vuol sentire nulla di eternità»25. Nel tempo, l’istante diventa il punto dove la tangente dell’eterno tocca il cerchio del tempo, aprendolo alla decisione. Ci si può rapportare all’Eterno perché l’Eterno è entrato nel tempo. L’Eterno è Eterno nel tempo, non lo si può incontrare fuori dal tempo. Il rapporto 23

Cfr. V. MELCHIORRE, Saggi su Kierkegaard, Genova 1998, 169-174. S. KIERKEGAARD, Papirer, cit., IX A 192. 25 ID., Il punto di vista della mia attività letteraria, cit., 190. 24


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 241

Il ruolo della preghiera negli scritti di Soren Kierkegaard

241

all’Eterno può dunque avvenire esclusivamente nel tempo! così come lo spirito nel corpo di carne, la necessità nella contingenza. In particolare si evince da questo il senso della contemporaneità di e in Cristo. La vita di Cristo è solo un minuscolo tratto del tempo, ma l’Eterno nel tempo è il futuro di ogni tempo, anche di quello passato. Ogni altro tempo resta in attesa di venire messo in movimento da questo paradosso per poter iniziare la propria vita nuova. Si apre in tal modo un’inaudita visione della storia che vuole che tutti gli uomini diventino contemporanei di Cristo. Ogni istante diventa kairos. E la preghiera è lo spazio di accoglienza del kairos: nel tempo, il tempo favorevole per rapportarsi all’Eterno. «L’assurdo è che la verità eterna è divenuta nel tempo, che Dio è divenuto, è nato e cresciuto»26. Concludendo, ritroviamo proprio nel paradosso la dimensione autentica che custodisce e dispiega il senso e il ruolo della preghiera negli scritti kierkegaardiani. Perché questa è la vera cifra del cristianesimo per lo scrittore danese: il paradosso, in quanto rappresenta la storicizzazione dell’eterno e l’eternizzazione di una realtà storica. Il concetto di paradosso è spesso, ma non esclusivamente, usato da Kierkegaard in funzione anti-hegeliana. Contro il sistema, che appariva ai suoi occhi come il tentativo grandioso, ma estremamente pericoloso, di assorbire il tempo nel concetto, il finito nell’infinito, lo storico nel filosofico, Kierkegaard tiene ben ferma la distinzione contro la sintesi hegeliana, l’aut-aut contro l’et-et, tra contingente e necessario, storico ed eterno, possibilità e necessità. Vi è una distanza che deve essere mantenuta, pena il ricadere nell’idealismo, pur nell’intima relazione: immanenza sempre trascendente e trascendenza sempre immanente. L’Esercizio del Cristianesimo si conclude con una preghiera che è al tempo stesso universale ed ecclesiale. Qui è lo stesso Kierkegaard che prega, perché in fondo non si può che pregare in nome proprio, per potersi, in nome di Dio, aprire all’amore per ogni alterità. La preghiera proprio perché universale invoca l’aiuto del Cristo per la comunicazione della sua Parola: fondamento di ogni vera comunicazione,

26

ID., Postilla conclusiva non scientifica, cit., 372.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 242

242

Luca Saraceno

comunicazione di verità, alimento di interiorità, forza per combattere l’insidia dell’identità, apertura all’amore per le infinite differenze. «Così noi ti preghiamo per tutti: non possiamo però chiamarli ciascuno per nome. E chi mai sarebbe capace di nominare tutte le nostre differenze? Ti preghiamo per i servitori della Parola, per quelli la cui missione è di attirarci a te, per quanto è possibile all’uomo: ti preghiamo di benedire la loro opera ma così che possano, compiendola, essere anch’essi attratti a te, affinché nel loro zelo di attirare gli altri a te, non siano trattenuti lontano da te. E ti preghiamo per i cristiani della comunità affinché, attirati a te, non abbiano affatto di se stessi un’idea meschina, come se non fosse loro concesso anche di attirare altri a te, per quanto è possibile a un uomo. Per quanto un uomo ne è capace: infatti tu solo puoi attirare a te, anche se puoi servirti di tutto e di tutti per attirare a te»27.

27

ID., Esercizio del cristianesimo, in C. FABRO (cur.), Opere, Firenze 1972, 316 s.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 243

IN PARTIBUS INFIDELIUM: FORME E SENSI DEL PREGARE NELL’ESPERIENZA LETTERARIA ITALIANA DELL’OTTO/NOVECENTO

ANTONIO SICHERA*

1. PREMESSA Inizio spiegando il titolo, e magari precisandolo. L’arco temporale racchiuso nel mio intervento sarà quello intercorrente fra Otto e Novecento, perché solo considerando lo sviluppo dell’esperienza letteraria dall’insorgere del moderno all’età più propriamente contemporanea è possibile rendersi conto dei fenomeni in questione da un punto di vista storico. «In partibus infidelium» significa che sceglierò di concentrarmi su una serie di scrittori la cui esistenza, biograficamente intesa, non è stata caratterizzata da un’esplicita adesione di fede, o comunque da una qualsiasi forma di credenza in un dio trascendente, bensì da un abbandono, da un rifiuto, da una distanza ovvero da una serena indifferenza. Sceglierò i miei autori nel novero dei poeti, per la maggior perspicuità della lirica — data la sua incisività ‘scultorea’ e la sua relativa brevità — in vista della conduzione di un discorso che sia al contempo ampio ma di estensione ‘tipografica’ necessariamente circoscritta. Si tratterà dunque di una serie di testi in forma di preghiera o di componimenti comunque segnati dall’atto del

*

Docente di Letteratura italiana contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 244

244

Antonio Sichera

pregare, messi su carta però da uomini che di norma1 non hanno vissuto l’orazione come pratica esistenziale, e che pure si sono trovati — a partire da una diversa sostanza, da un differente livello del sé, molto più vicino al corpo e al suo abisso prezioso e insondabile — a immettere o addirittura a formulare preghiere nel loro concreto, vitale actus scribendi. Queste brevi considerazioni spiegano il motivo per cui fra i poeti di cui mi occuperò non ci saranno ad esempio Manzoni o Tommaseo, l’Ungaretti post conversione, Luzi e Betocchi, ma nemmeno ovviamente Turoldo, Guidacci, Campo (nonché la variegata produzione ‘religiosa’, e spesso orante, di Alda Merini). Per comodità espositiva e per questioni di equilibrio interno ho scelto due autori ‘fondamentali’ per ogni fase storica considerata: Foscolo e Leopardi per il primo Ottocento, Carducci e D’Annunzio per il secondo, Montale e Quasimodo per la prima metà del Novecento, Pasolini e Caproni per gli anni più vicini a noi. Di tutti ho naturalmente considerato l’estensione integrale dell’opera, anche qualora travalicasse i limiti temporali prefissati. Mi pare utile inoltre anticipare qui, in premessa, una sorta di descrizione fenomenologica generale dei testi che saranno poi analizzati in dettaglio. È lecito infatti, da parte del lettore di queste pagine, chiedersi (e chiedere) sin da subito se si troverà di fronte ad un insieme linguistico variegato e privo di profonda unità (eccetto quella del tutto esterna fornita dal tema proposto), ovvero se dall’osservatorio della parola orante i testi in gioco potranno apparire disposti all’interno di un unico orizzonte storico ed ermeneutico. Credo di poter anticipare una risposta certamente positiva a questa domanda. La preghiera dei poeti che ascolteremo sembra infatti generata e come collocata nel cuore di un’assenza, di un mancare di Dio in quanto rassicurante, omogeneo orizzonte metafisico, ovvero quale cardine di un paradigma religioso, sociale e culturale capace di conferire un senso condiviso alla vita individuale e collettiva. È all’interno della fine irrimediabile della cristianità e dell’avvento di una modernità incipiente che si può inten1 Dico «di norma» perché ovviamente non sono trascurabili in questo contesto, sul versante biografico, l’esperienza foscoliana da seminarista, la tradizione devota in cui è innestato Leopardi, la formazione cattolica di un poeta come Pasolini.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 245

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

245

dere e collocare lo spazio originario, il porto immaginario da cui i nostri testi prendono il largo, facendo i conti con i primi segnali dell’assenza — ancora non percepiti dalla consapevolezza sociale del tempo (si pensi alla situazione tipica di tanto Ottocento, ancora legato, nelle sue percezioni e nelle sue espressioni socialmente diffuse, ad una resistente tradizione di riti, usi e simboli ‘religiosi’) — e giungendo poi a confrontarsi con la massiccia secolarizzazione contemporanea e con le sue contraddizioni ‘postmoderne’. Senza la «morte di Dio», insomma, i testi che prenderemo in esame non ci sarebbero, o non avrebbero comunque assunto la forma attuale, che è quella di una reazione di diversa fattura e di diverso indirizzo ad un unico evento capitale. Anzi, considerando come terreno comune di coltura di queste sofferte e atipiche orazioni, di queste proiezioni verso il Magnus Absens tentate in una zona imperscrutabile e nucleare dell’esserci, le tipologie giudeocristiane della preghiera, e dunque, in primo luogo, la preghiera biblica, si potrebbe sostenere che — eccettuata l’orazione o l’invocazione ‘neopagana’ di D’Annunzio (e per altri versi di Carducci) — tutti gli altri testi siano riunibili sotto il segno di una preghiera di tipo ‘getsemanico’, ovvero ‘staurologico’. Voglio dire cioè che fra tutti i verbi usati dal NT per indicare l’atto del ‘pregare’ è certamente il verbo «krazein» — equivalente dell’italiano ‘gridare’, ma con una connotazione quasi espressionistica legata all’etimologico ‘gracchiare’, ovvero ‘alzare un grido stridulo, aspro, sensibilmente rauco’ — quello che più si avvicina all’esperienza comunicataci dai poeti in esame2. E «krazein» è il verbo del grido di Gesù sulla croce prima di morire («palin kraxas phone megale apheken to pneuma»: «gridando di nuovo a gran voce rese lo spirito», Mt 27,50), quel grido ritenuto dagli esegeti come una forma estrema di preghiera da parte di Gesù, che ha appena levato al Padre le parole del Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». In quel grido vengono accolte e raccolte tutte le urla, tutte le voci forti e spesso disperate che si alzano dalla terra verso il cielo nella distretta mortale. 2 Cfr. W. GRUNDMANN, krazo, in G. KITTEL – G. FRIEDRICH (curr.), Grande Lessico del Nuovo Testamento, ed. it. a cura di F. Montagnini – G. Scarpat – O. Soffritti, vol. V, fasc. I, Brescia 1969, 957-974.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 246

246

Antonio Sichera

In quel grido Gesù si assimila alle tante donne e ai tanti uomini che, incontrandolo sulle strade della Palestina, non hanno trovato altro modo per pregarlo, per invocare il suo aiuto, che «gridare». «Krazein» è — non per nulla — il verbo della preghiera dei due ciechi sulla via di Gerico («krazontes kai legontes. eleeson hemas, hyios Dauid»: «gridando e dicendo: “Figlio di Davide, abbi pietà di noi”», Mt 10,27), della donna cananea per la figlia morente («ekrazen legousa. eleeson me, kyrie hyios Dauid»: «gridava: “Abbi pietà di me, Signore figlio di Davide”», Mt 15,22), del padre del ragazzo indemoniato («euthus kraxas o pater tou paidiou eleghen pisteuo boethei mou te apistia»: «grida e dice: “Io credo: aiutami nella mia incredulità», Mc 9,23). Ma «krazein» è anche uno dei due verbi greci (insieme a «boan») con cui i Settanta traducono i verbi della radice ebraica «s‘q/z‘q», che ricorrono nell’AT per dire l’invocazione del popolo o del singolo credente a Dio, nella difficoltà e nell’angoscia. Si tratta — secondo Hasel — «di uno degli aspetti principali della preghiera dell’AT»3. Israele d’altronde non poteva dimenticare di essere nata da un grido levato a Dio nell’angoscia dal popolo schiavo in Egitto (Es 2,23), e dunque non può sorprendere che «zā‘aq», ovvero «krazein» siano le parole giuste per dire, ad esempio, il grido dell’orante dei Salmi. Di quel salmista, soprattutto, la cui invocazione non trova ascolto («Signore, Dio della mia salvezza / davanti a te grido giorno e notte […] Ma io a te, Signore, grido aiuto […] Perché Signore mi respingi?», Sal 87,2.14.15)4. Mi riferisco anzitutto all’orante del Salmo 87, che sente Dio irrimediabilmente lontano, addirittura nemico, e che alza la sua voce come nel deserto, in un’assenza disperante di soccorso. Il grido del salmista — alla stessa maniera del grido di Giobbe (Gb 19, 7) — è rivolto al Dio che non ascolta, ad un Dio inspiegabilmente muto, che non viene incontro alla preghiera accorata del giusto, che non aiuta il suo fedele. È in quest’orbita — credo — che si possono collocare le parole poetiche di cui ora andremo ad ascoltare l’eco. Parole di uomini che 3 G. F. HASEL, za¯ ‘aq, in G.J. BOTTERWECK – H. RIINGREN (curr.), Grande Lessico dell’Antico Testamento, ed. it. a cura di P.G. Borbone, vol. II, Brescia 2002, 667-678. 4 Per un’interpretazione del Salmo 87 (88) sintonica con il nostro ambito di ricerca cfr. G. RAVASI, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, II, Bologna 1986, 803-819.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:07 Pagina 247

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

247

‘pregano’ — al di là di sé stessi, potremmo dire — dinanzi ad un Dio che viene meno, ad un Dio che non si può più identificare come una presenza certa, ad un Dio che sembra allontanarsi fino a scomparire del tutto. A lui si alza forte da questi testi un grido, che può divenire invocazione accorata ovvero celata, dolente, a volte compiaciuta, ma anche amante e dignitosa, e infine acuminata sino all’ironia5. 2. IL PRIMO OTTOCENTO: FOSCOLO E LEOPARDI. DA JACOPO AL PASTORE ERRANTE

2.1. Foscolo. Sul limitare del transito Le antenne più sensibili della letteratura italiana moderna ai grandi rivolgimenti della cultura europea sono senza ombra di dubbio quelle di Foscolo e di Leopardi. In essi la facies dolorosa del trapasso 5

L’itinerario che ci accingiamo a tracciare non può far profitto di precedenti, solide acquisizioni della critica. L’interrogazione ermeneutica sulla preghiera in quanto specifica, diffusa forma testuale (diverso sarebbe il discorso da fare nel caso, ben più ‘largo’, dell’approfondimento di possibili istanze metafisiche) non conosce infatti sinora uno sviluppo organico, almeno in campo italiano. Fa (luminosa) eccezione la lunga ricerca di Giovanni Pozzi, che ha toccato più volte il nostro tema. Si pensi ad un saggio come I nomi di Dio nei «Promessi sposi», ospitato in Alternatim (Milano 1996, 315-389), dove fra l’altro la preghiera maxima è quella di Renzo nel lazzaretto, «la cui formulazione verbale è quanto di più alto esista nella graduatoria dei modi in cui l’uomo interpella Dio: la preghiera dalla sintassi incoerente, dal lessico confuso, inaccettata dall’umana sufficienza, della quale solo Dio può essere ascoltatore benevolo e interprete». Una preghiera, insomma, quale apice del «gemito del cuore» posto a «fondamento dell’orazione cristiana» (316-317). Si tratta, come si vede, di una tipologia di preghiera eminentemente getsemanica o staurologica, in quanto basata sul grido e sull’espressione corporea, al di là di ogni precisione verbale. Nondimeno, Pozzi preferisce, nei suoi percorsi, attenersi di consueto all’analisi di materiali testuali di matrice esplicitamente cristiana: dagli studi su Francesco all’analisi del linguaggio eucologico del popolo cattolico italiano in epoca tridentina, fino agli studi sulle esperienze mistiche di grandi donne come Maddalena de’ Pazzi o Veronica Giuliani (G. POZZI, Grammatica e retorica dei santi, Milano 1997). Nella nostra ottica, invece, hanno un rilievo centrale le preghiere dei poeti che non hanno pensato mai ai propri testi in termini confessionali o naturalmente credenti, e che quindi portano nel tema una prospettiva meno inquadrabile, ma piena di fascino, sul linguaggio della fede —


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 248

248

Antonio Sichera

moderno si rende luminosamente visibile, facendo della loro opera la testimonianza viva di una temperie delle cui conseguenze ci sentiamo ancora investiti. È questo il motivo profondo che consente alla lirica foscoliana, del tutto interna alla tradizione petrarchesca e improntata al più rigido classicismo, di risuonare ancor oggi ai nostri orecchi con una melodia ben diversa da quella di tutta la produzione settecentesca, o anche di quella coeva (pensiamo a un Monti). Il segreto della prossimità di Foscolo non si scopre dunque sul piano linguistico né dell’innovazione formale. Foscolo ci è vicino perché avverte che un mondo sta finendo e che un equilibrio diverso — o meglio un programmatico squilibrio — si sta appressando, e su questo crinale egli si pone in quanto soggetto di domanda, di ricerca, di coraggiosa risposta. La morte sarà ‘il tema’ unico, quasi assoluto, delle sue opere maggiori, non per mera automatica assimiliazione ad un habitus diffuso nella lirica europea (inglese in primo luogo: da Young, a Grey, a Keats), bensì perché, come va confusamente emergendo nell’Europa del tempo, è la fine dell’esistenza il terreno di battaglia e la cartina di tornasole del cambiamento. Se Dio viene meno, la morte non è più protetta, garantita da un ordine ulteriore, e la giustizia non è più assicurata, almeno in una dimensione altra della vita. Se Dio manca, si è posti invece di fronte alla possibilità del nulla, alla forza devastante di un evento che non può essere sanato da un intervento superiore, da una mano soccorritrice. Il disgregrarsi dell’orizzonte metafisico e sociale della cristianità è avvertito da Foscolo con una intensità così profonda, con un’angoscia che solo la via della poesia eternatrice potrà placare. Sarà questo l’approdo dei Sepolcri — idealmente collegato a quello di Né più mai toccherò le sacre sponde, il celebre sonetto A Zacinto —, a cui Ugo perverrà al termine di un’indagine serrata che sempre avrà di mira il morire. Ma la strada verso la sua personalissima soluzione sarà non poco accidentata. E, su di essa, una tappa fondamentale, in quanto espressione di tutti i travagli e le contraddizioni della sua scrittura, sarà rappresentata dall’Ortis. Il nostro viaggio comincia da qui, con l’unica eccezione al programma di letture rigosulla sua persistenza sotterranea o sulla sua messa fuori gioco — in un tempo segnato dall’eclissi del Dio della metafisica tradizionale.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 249

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

249

rosamente poetiche che ci siamo dati. Ma è un’eccezione indispensabile, se l’Ortis è — come mi pare — uno snodo essenziale o addirittura un abbrivio di tutto il dinamismo successivo. Per una fortunata coincidenza, d’altronde, la prima edizione (rifiutata) del libro di Jacopo porta la data del 1798 (la stessa degli esordi di «Athenaeum»), mentre il primo Ortis approvato dall’autore sarà quello del 1802. Ad esso farò riferimento, visto il suo specifico equilibrio, che lo differenzia dall’edizione zurighese del 1816 come ha mostrato la Terzoli6. Ma su questo punto avremo modo di tornare. *** Non bisogna mai indulgere alla critica biografica, e fare dei personaggi dei romanzi o dei soggetti che dicono ‘io’ nella poesia il rispecchiamento dei loro autori. Questo saggio è d’altronde tutto poggiato sul convincimento opposto. Ma non si può nascondere come la scomoda posizione di confine in cui viene a trovarsi Jacopo Ortis sia in verità molto simile a quella sperimentata dal suo autore. Nato a Zante, introdotto agli studi ecclesiatici, attento e costante lettore della Bibbia, poi catapultato nella giovinezza in un contesto europeo fibrillante di modernità sorgiva, a motivo della Rivoluzione di Francia e soprattutto della sua ‘esportazione’ ad opera delle truppe del generale Bonaparte, Foscolo si forma alla frontiera fra la Scrittura e il ‘mestiere’ usuale di tanti letterati della tradizione da un lato, e l’immersione dall’altro in un mondo in subbuglio, dove egli si fa militare, uomo di mondo e intellettuale impegnato in una battaglia culturale e politica che ruota attorno ai destini dell’Italia. D’altronde, il motivo politico occuperà a ragione una zona importante del romanzo epistolare giovanile. Ma sarebbe un errore di prospettiva ridurre l’Ortis all’espressione tumultuosa di un disagio politico ed esistenziale, dispiegato, lungo il romanzo, nel pellegrinaggio di Jacopo esule e nella sua sfortunata storia d’amore con Teresa. Una tale lettura rischierebbe infatti, come è accaduto per altri versi ad ogni 6

Mi riferisco all’importante ed originale contributo di A.M. TERZOLI, Il libro di Jacopo, Roma 1988.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 250

250

Antonio Sichera

ermeneutica rapsodica dei Sepolcri, di non cogliere il motivo interno unificante del romanzo, che lo tipizza e lo distingue nel contesto culturale coevo. Ciò vuol dire che Jacopo soffre — è vero — per la libertà della patria conculcata e tradita a Campoformio, e vive un dolore mortale per la perdita della donna che rappresenta l’anima a lui elettivamente compagna, ma il suo dolore è reso davvero comprensibile e paradossalmente unificato proprio dalla diffrazione, dalla lacerazione interiore che lo regge e lo sostanzia. Si tratta, nel romanzo, di una lotta continua e senza esclusione di colpi fra le due istanze costitutive del sé di Jacopo, del suo corpo e della sua storia: il cuore e la ragione. Guardato da quest’angolo visuale, l’itinerario dell’Ortis è chiaro. Jacopo è costitutivamente un uomo del cuore, perché in una fresca, dolce amicizia con le creature è collocata la sua infanzia («Io non ho l’anima negra; e tu il sai, mio Lorenzo; nella mia prima gioventù avrei sparso fiori su le teste di tutti i viventi […] Quanto mi sta d’intorno richiama al cuore quel dolce sogno della mia fanciullezza»)7. Ma, crescendo, la durezza della vita, la sofferenza dei giusti, la sventura politica della sua patria lo hanno ferito e gli hanno aperto gli occhi sopra una diversa verità. Nel mondo visto sub specie rationis la Natura è un meccanismo impietoso di generazione e distruzione degli esseri (della cui «brama di vita» approfitta), la società un’inesorabile nemica dell’individuo, la storia un insieme di eventi insensato e ripetitivo, la morte un liberatorio ingresso nel nulla (che permette a Jacopo di ridere anche dell’onnipotenza di Dio)8, la religione una creazione illusoria dell’uomo, nata dal bisogno degli infelici. L’apparizione di Teresa funziona però nel romanzo alla stregua di un’attivazione rinnovata dell’ordo cordis, che riporta Jacopo ad una esistenza riscaldata dalla passione e dall’amore. Torna l’impeto iniziale, quello di una passione ardente per l’umano, che lo fa vibrare per gli spiriti eletti e per le grandi anime (come quella di Parini), lo accalora in difesa del bene e del giusto, gli fa sentire profonda 7 U. FOSCOLO, Ultime lettere di Jacopo Ortis, in ID., Opere, a cura di F. Gavazzeni, t. II, Milano-Napoli 1996, 604, 622. 8 «Uscirò, uscirò dall’inferno della vita; e basto io solo: a questa idea rido e della fortuna, e degli uomini, e della stessa onnipotenza di Dio» (ibid., 625).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 251

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

251

compassione per gli sventurati, per gli indigenti, lo fa reagire dinanzi all’arroganza dei potenti, gli pone soprattutto nuovamente davanti agli occhi lo spettacolo di una Natura bella, edenica, una Natura ‘creata’ da Dio, illuminata dal sole che di Dio è immagine mirabile. Un Dio che soccorre gli umili e viene incontro alle preghiere dei suoi figli. È una rigenerazione dovuta a colei che incarna la bellezza celeste e la purezza di cuore, e che innalza nuovamente l’anima dell’amante, assorto in contemplazione. Si tratta di un’esperienza dai contorni chiaramente petrarcheschi — non sfugga la costante considerazione di Petrarca come «padre» di Jacopo, sin dal pellegrinaggio ad Arquà —, che ripropone in chiave definitivamente moderna il conflitto che aveva segnato, nella lirica e nella cultura europea del XIV secolo, l’incipienza di un tempo nuovo. Un tempo che ora, con Jacopo, definitivamente si installa. L’alto vissuto spirituale dell’amore per Teresa (Lauretta ne è non per nulla la prima raffigurazione, in quel Frammento che è la mise en abyme del romanzo) pare a Jacopo un dono e una benedizione della Natura e di Dio sulla sua vita. Teresa è la donna-angelo, la Venere celeste che solleva l’amato in una zona dell’essere ben diversa da quella abitata dall’eros volgare. Ma l’illusione dura poco. La promessa di matrimonio ‘sacrificale’ a cui Teresa è costretta dal padre per vili motivi economici, e che la costringerà a sposare l’ottuso e mai amato Odoardo — in uno con la chiara percezione dell’inutilità di ogni lotta di liberazione della patria — prostrano Jacopo e lo riaprono alla convinzione della vanità universale, della speranza impossibile, della via del sepolcro, perseguita e attivamente realizzata, come l’unica liberazione offerta all’infelice. Le preghiere di cui è punteggiato l’Ortis sono l’espressione più alta e decisiva di questa divaricazione interiore, di questa ferita dell’anima di Jacopo. Se il conflitto fra il cuore e la ragione simboleggia il contrasto lacerante fra un ordine edenico, infantile, e il verbo della modernità calcolatrice e demistificante che a grandi passi si fa spazio e si afferma, è proprio la dimensione religiosa — quella della fede di Jacopo e della sua preghiera — il luogo ideale nel quale sommamente la tensione si esprime. La religio cordis della tradizione, con la sua immagine consolidata di Dio, e l’attacco moderno al sacro e al Dio garante — sole e perno dell’universo — si confrontano e si scontrano


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 252

252

Antonio Sichera

nelle tante orazioni di Jacopo, il cui rilievo fondante è stato spesso sottovalutato dalla critica. L’Ortis non è semplicemente il romanzo epistolare di una irrisoluzione giovanile e di una delusione politica e amorosa irrimediabile. Il libro di Jacopo rappresenta altresì, ben più in profondità, il segnalatore luminoso di un passaggio epocale, un documento fondamentale in cui si ospita ancora tutto il lievito del passato ed intanto si è posti di fronte ad un futuro diverso. È ad un crinale culturale che l’Ortis presiede, quasi alla maniera — almeno nel suo nucleo orante, religioso — di una riscrittura moderna delle Confessiones agostiniane: un lungo, inesausto colloquio con Dio, in cui non si afferma però il passaggio dall’uomo pagano all’uomo cristiano, dall’antico che finisce al medioevo che avanza, dagli dei della religione greca e latina al Dio della vera religio, bensì si apprende, si sperimenta nel vivo della carne e della parola dell’orante il transito inevitabile e doloroso dal Dio della Bibbia e della traditio al Dio assente, al Dio mancante ovvero alla sua moderna eclissi. La grandezza di Jacopo sta nel non ‘dire’ tutto questo alla maniera di un saggista o di un filosofo, ma nell’aver trasformato il dissidio in materia incandescente di un’orazione in cui il Dio che si invoca è al contempo il Dio che scompare. *** Cerchiamo di capire. Come ho già detto, nell’Ortis Jacopo prega, a lungo e ripetutamente, in forma dialogica, diretta, o anche in maniera indiretta, citando solo l’oggetto, la modalità o il motivo di una preghiera che non viene però rivolta al Padre. Le orazioni di Jacopo sono riconducibili alla dicotomia, alla diffrazione unificante fra cuore e ragione, fra tradizione e modernità, che regge tutto il libro. Da un lato troviamo infatti il Dio della religione del cuore, il Dio vivente e rassicurante dell’antica fede. Questo Dio ha deliberatamente creato in Jacopo il cuore adatto all’amore per Teresa («Teresa è mia, tutta; tu me l’hai conceduta perché mi creasti un cuore capace di amarla immensamente, eternamente»)9; si comporta da pedagogo con le sue creature, usando la sofferenza come educatrice della virtù («So 9

Ibid., 614.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 253

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

253

che quando hai mandato sulla terra la virtù tua figliola primogenita le hai data per guida la sventura»)10; dona la morte come una grazia liberatrice a chi sia stretto in un cerchio di sofferenza insopportabile («Ti ringrazio, eterno Iddio, ti ringrazio! Tu dunque hai ritirato il tuo spirito, e Lauretta ha lasciato alla terra le sue infelicità; tu ascolti i gemiti che partono dalle viscere dell’anima,e mandi la morte per isciogliere dalle catene della vita le tue creature perseguitate e afflitte»)11; conosce il dolore estremo della sua creatura («Frattanto Dio ha conosciuto ch’ella non poteva reggere più»)12, che a Lui si rivolge con forza, ma solo per liberare dal peso la propria anima («Piangendo e invocandoti cerco soltanto di liberare quesr’anima»)13; ascolta il gemito di chi lo invoca («Ormai non so che supplicare il sommo Dio, e supplicarlo co’ miei gemiti, e cercare qualche aiuto fuori di questo mondo dove tutto ci perseguita o ci abbandona»)14. A questo Dio il cuore dell’orante torna anche involontariamente nel dolore («Abbandonato da tutti non chiedi aiuto dal cielo? non t’ascolta; eppure nelle tue afflizioni il tuo cuore torna involontario a lui»)15. A Lui chiede il refrigerio del pianto («Mio Dio, mio Dio, concedimi il refrigerio del pianto»)16. Di Lui professa la fedeltà, nella certezza che pure nella morte non ritirerà il suo sguardo dall’amante infelice («Consolati, Teresa, quel Dio a cui tu ricorri con tanta pietà, se degna d’alcuna cura la vita e la morte di una umile creatura, non ritirerà il suo sguardo neppure da me»)17. Dall’altro c’è il Dio a cui si leva la voce dell’orante nell’abbandono, un Dio che viene meno, assente e al limite nemico, verso cui grida colui che ha conosciuto la durezza del mondo, il gelo del calcolo, la forza devastante del dubbio. Jacopo sente che qualcosa si è rotto, che un equilibrio secolare è finito, ma lo dice, mirabilmente, ancora con le parole 10

L.c. Ibid., 620. 12 Ibid., 621. 13 Ibid., 631. 14 Ibid., 637. 15 Ibid., 672. 16 Ibid., 686. 17 Ibid., 691. 11


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 254

254

Antonio Sichera

della Bibbia, appoggiandosi alla preghiera di Giobbe e di Ezechia, all’invocazione del Salmista e alla desolata saggezza del Qoelet. Quali sono però in concreto le parole della preghiera ‘getsemanica’ di Jacopo? Cerco di parafrasarla e di citarla insieme, per non sottrarle in nessun modo intensità e potenza. Mio Dio, ci sei tu ancora per noi o sei un padre che non ha più cura degli uomini («Eterno Iddio, esisti tu per noi mortali? o sei tu padre snaturato verso le tue creature?»)18? E perché ci fai conoscere la felicità e poi ce ne privi («ahi adesso! e perché farmi conoscere la felicità s’io doveva bramarla sì fieramente, e perderne la speranza per sempre?»)19? Perché i giusti devono essere sottoposti alla prova, senza che tu dia poi loro la forza di resistere («So che quando hai mandato sulla terra la virtù tua figliuola primogenita le hai dato per guida la sventura. Ma perché poi lasciasti la giovinezza e la beltà così deboli da non poter sostenere le discipline di sì austera istitutrice?»)20? Perché non mi ascolti, mi condanni all’agonia e mi fai maledire i miei giorni, mentre io sono innocente? («Dio non mi ode. Mi condanna anzi ogn’istante all’agonia della morte; e mi costringe a maledire i miei giorni che pur non sono macchiati di alcun delitto. / Che? se tu se’ un Dio forte, prepotente, geloso, che rivedi le iniquità de’ padri nei figli, e che visiti nel tuo furore la terza e la quarta generazione, dovrò io sperar di placarti? No. Manda in me l’ira tua con la quale siedi nell’inferno soffiando le fiamme che dovranno ardere milioni e milioni di popoli ai quali non ti se’ fatto conoscere. Ahi, sento pure che ho bisogno di te. Ma spogliati degli attributi di cui gli uomini ti hanno vestito per farti simile a loro. Non sei tu il padre della natura e il consolatore degli afflitti?»)21. È a partire da queste domande radicali che si dispiega il travaglio interiore di Jacopo. Il Dio che gli aveva donato Teresa gli appare ora come un Dio giudice, che considera peccato l’agostiniana (e petrarchesca) conversio ad creaturam di Jacopo («Piangendo e invocandoti cerco soltanto di liberare quest’anima: — di liberarla? oh non mai: ella 18

Ibid., 614. L.c. 20 L.c. 21 Ibid., 630-631. 19


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 255

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

255

è piena; ma non di te. Ecco o Lorenzo, fuor delle mie labbra il delitto per cui Dio ha ritirato il suo sguardo da me. Io non l’ho adorato mai, come Teresa. Bestemmia! pari a Dio costei che sarà a un soffio scheletro e nulla? Vedi l’uomo umiliato! Devo io anteporre Teresa a Dio stesso?… Ah da lei si spande beltà celeste e immensa, beltà onnipotente! Io lancio uno sguardo su l’universo, e contemplo con occhio attonito l’eternità; tutto è caos, tutto sfuma e si annulla, Dio stesso mi diventa incomprensibile… ma Teresa mi sta sempre davanti»)22. Davanti a questo Dio l’orante sta con il suo corpo, già da morente («giaccio con gli occhi spalancati. Mio Dio, mio Dio!»)23, e mentre si trova sulla soglia del nulla lo sente ormai lontano e inconoscibile, seppur unico, paradossale aiuto nell’angoscia («io scenderò nel nulla […] E così nel mio furore e nelle mie superstizioni io mi prostendo su la polvere a scongiurare orrendamente un Dio che non conosco, ch’io non offesi, di cui dubito sempre… e poi tremo e l’adoro. Dov’io cerco aiuto? non in me, non negli uomini: la terra è insanguinata, e il Sole è negro»)24. A Lui chiede conto del suo dolore, nonché giustificazione per un suicidio imminente, che è agli occhi di Jacopo la conseguenza inevitabile del silenzio del Padre di fronte al suo grido, al suo desiderio di non bere il calice amaro («dopo mille speranze ho perduto tutto!… Godi tu Padre dei gemiti dell’umanità; pretendi tu che ella sopporti le sventure quando sono più violente delle delle sue forze?... Egli sa ch’io non posso resistere più… ed ha udito con quante preghiere l’ho supplicato, perché mi allontanasse questo calice amaro. Addio, dunque… addio all’universo!»)25. E alla fine, quando si trova ormai sul limitare dell’abisso, Jacopo sancisce — rivolgendosi a Teresa, ma ancora indirettamente innalzando a Dio la sua estrema preghiera — il proprio definitivo congedo dal conflitto paterno, dal dissidio del Secretum («Tutto è preparato; la notte è già troppo avanzata… addio… fra poco saremo disgiunti dal nulla, o dalla incomprensibile eternità. Nel nulla? — Sì, sì; poiché sarò senza di te, io prego il sommo Iddio, se non ci 22

Ibid., 631. Ibid., 640. 24 Ibid., 669. 25 Ibid., 692. 23


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 256

256

Antonio Sichera

riserba alcun luogo ov’io possa riunirmi teco per sempre, lo prego dalle viscere dell’anima mia, e in questa tremenda ora della morte, perché egli m’abbandoni soltanto nel nulla. Ma io moro incontaminato, e padrone di me stesso, e pieno di te, e certo del tuo pianto! … Perdonami, Teresa, se mai… Addio, addio… accogli l’anima mia»)26. La scelta di Jacopo in favore di Teresa, il suo decidersi per il nulla contro l’ipotetica eternità di Dio e del suo regno, qualora dovesse costargli la perdita della sua amata, segna un mutamento di paradigma ormai decisivo per l’uomo entrato nella Stimmung del moderno. La fedeltà al tempo e all’altro — che è fedeltà alla fragilità della relazione terrena, del suo senso limitato e del suo dono — si contrappone infine alla fiducia dell’orante nel Dio che accoglie e compensa, in un’intemporalità inattingibile, l’esistenza ferita del suo figlio. Jacopo muore «padrone di sé», e lo stesso affidamento finale della sua anima («Addio, addio… accogli l’anima mia»), a differenza di quel che sarà nell’edizione zurighese («Teresa è innocente. — Ora tu accogli l’anima mia»)27, non ha nel 1802 i caratteri ‘ortodossi’ della citazione evangelica («Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito», Lc 23,46), ma lascia in una voluta apertura il destinatario dell’appello, quasi a non voler distinguere l’amata a cui la lettera è rivolta da Colui al quale i morenti si rivolgono religiosamente in hora mortis. Comunque si voglia sciogliere tale deliberata ambiguità, non si resta lontani dal vero sostenendo che dove Dio non è più un ‘tu’ a cui consegnare la vita e soprattutto la morte sta per iniziare la storia di una consistenza autonoma della soggettività e di una giustificazione intramondana dell’esserci. *** Si misura qui inoltre più marcatamente la distanza fra Jacopo e il Werther goethiano. È inutile ricordare ovviamente quanto numerose e significative siano le convergenze fra i due romanzi e come innegabile sia la portata del debito dell’Ortis verso i Leiden, di caratura impa26

Ibid., 694. U. FOSCOLO, Ultime lettere di Jacopo Ortis, in ID., Opere. Prose e saggi, ed. dir. da F. Gavazzeni, testo stabilito e annotato da M.A. Terzoli, I, Torino 1995, 138. 27


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 257

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

257

ragonabile rispetto a quello contratto da Foscolo con le tante altre ‘fonti’ individuate dalla critica (da Rousseau a Sterne, da Wieland a Barthélemy, da Richardson e dalla letteratura sepolcrale inglese all’Ossian; senza però dimenticare, ad intra, lo stesso epistolario foscoliano)28. Un debito tanto importante ed acclarato da far dedicare la foscoliana Notizia bibliografica, posta in appendice all’Ortis 1816, proprio ai rapporti del romanzo italiano con il suo antesignano tedesco (questione risolta, secondo Ugo, con la distinzione fra vero reale e perfezione ideale, fra Arte e Genio, per cui l’Ortis avrebbe preso a modello la ‘forma’ del Werther — in primo luogo l’intuizione dell’unico destinatario delle lettere — a fronte di una sua diversa, personalissima ‘sostanza’ ideale e spirituale). È d’altronde facile mostrare come per lunghi tratti del libro Jacopo segua le tracce del suo fratello maggiore, sulla cui bocca Goethe mette parole che saranno certamente presenti al giovane eroe foscoliano. Si pensi, trascegliendo quasi a caso fra i tanti accostamenti possibili, alla vibrazione dell’Onnipotente avvertita dinanzi all’incanto della Natura creata, che provoca a propria volta il compiacimento di Dio («Quando la cara valle intorno a me vapora e la luce del sole, già alto, s’adagia sulla impenetrabile oscurità della mia selva […] sento la presenza dell’Onnipossente, che ci fece a Sua immagine, lo spiro dell’Infinito Amore che in perenne delizia c’innalza e ci conduce […] Dai monti impervi, e dai deserti che nessun piede calpestò, fino al termine degli oceani inesplorati, va il respiro dell’Eterno Creatore, e si compiace iin ogni granello di polvere che lo riceve e ha vita»)29; al rifiuto dei libri e di un sapere ormai inservibile di fronte all’urgenza della vita («Tu mi chiedi se mi devi mandare i miei libri. Caro, per amor di Dio te ne prego, lasciali dove sono e che non mi vengano fra i piedi. Non voglio più farmi condurre, spronare, infervorare dai libri; ché questo cuore già 28 Basti ricordare qui, solo come esempi ‘classici’ di individuazione di larghi ‘debiti’ foscoliani, W. BINNI, Il «Socrate delirante» del Wieland e l’«Ortis» del Foscolo, in La Rassegna della letteratura italiana, maggio-agosto (1959) 219-234; e C. GOFFIS, Il «Sesto Tomo» e la formazione letteraria del Foscolo, in Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino 88 (1953-1954) 1-65. 29 J.W. GOETHE, I dolori del giovane Werther, in Id., Romanzi, a cura di R. Caruzzi, Milano 2003, 9, 60.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 258

258

Antonio Sichera

bolle abbastanza di per sé»)30; all’attacco deciso ai benpensanti («O gente benpensante! […] Passione! Ebrietà! Follia! Voi ve ne state tranquilli, impassibili, voi gente morale! Condannate l’ubriaco, inorridite del pazzo, e passate oltre come fanno i preti per la vostra strada, ringraziando Dio con animo fariseo che non v’ha fatto come uno di questi»)31; al lamento per la sventura che colpisce senza motivo tante creature («Ecco, Alberto, la storia di parecchie creature. E dimmi, non è come la malattia? La natura non trova via d’uscita dal labirinto di forze confuse, contraddittorie; e la creatura deve perire. Sciagurato colui che può assistere e dire: Insensata!»)32; allo sgomento per l’«Abisso del Sepolcro» che gli si apre davanti e gli fa apparire come «un Mostro» la natura con la sua «forza di morte»33; al tema persistente del ritratto («Aspettavo notizia quando fosse il giorno della vostra nozze, e m’ero proposto di togliere, quel giorno stesso, con la massima solennità, la siluette di Carlotta dalla parete dove sta appesa, e di seppellirla fra le altre carte. Ma ora siete sposati, e il suo ritratto è lì ancora»)34. Eppure, come già sosteneva il ‘bibliografo’ della Notizia, le divergenze di fondo fra l’Ortis e il Werther emergono ai nostri occhi con altrettanta chiarezza. Alla linearità della vicenda wertheriana — in cui un cuore aperto e sensibile giunge progressivamente a conoscere la ferita dell’amore impossibile — si contrappone la lacerazione fra cuore e ragione che fa di Jacopo, sin dall’inizio, un uomo segnato dal gelo della ratio e al contempo dotato di un cuore appassionato ed ‘edenico’. All’esemplarità morale dell’eroe di Goethe, costantemente esibita nei Leiden, fa da contraltare la consapevolezza ortisiana del peccato, connesso alla Spaltung (petrarchesca) fra Dio e Teresa. Rispetto al substrato essenzialmente ‘laico’ della scrittura goethiana funge da decisivo contrappeso il tessuto biblico dell’Ortis, impareggiabile connettivo e vera ‘fonte’ occulta di tutta la lingua del romanzo, 30

Ibid., 10. Ibid., 54. 32 Ibid., 57. 33 Ibid., 60. 34 Ibid., 77. 31


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 259

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

259

come ha mostrato ad abundantiam la Terzoli35. Ma è proprio sul piano della preghiera che si sente uno scarto decisivo. Certo, anche Werther, come poi Jacopo, prega più volte nelle sue lettere. Prega per Carlotta («Io non ho più preghiere se non per lei»)36. E prega Dio, sentendosi al suo cospetto come una fonte inaridita («Ma ahimè! Io sento che Dio non dà la pioggia e il sereno all’insistenza delle nostre preghiere»)37, senza vergognarsi di gridare a lui come Gesù in croce («Non è la voce della creatura, tutta chiusa in se stessa e sfuggente a se stessa e ruinante senza posa, quella che dai baratri profondi dove le ultime forze si dibattono invano, geme: Dio mio! Dio mio! perché m’abbandonasti? Io dovrei vergognami di questo grido, avere orrore di questo istante, quando non lo evitò Colui che avvolge i cieli come una tela?»)38, sperimentando il senso del peccato e il dubbio sul peccato («Ah, vedi, c’è come una muraglia davanti alla mia anima. Questo Paradiso… e poi… l’abisso, per scontarvi il peccato… / Peccato?»)39, sperando che il Padre, che pur non conosce, non lo respinga («Padre! ch’io non conosco. Padre! che altra volta mi empivi tutta l’anima e adesso hai distolto la tua faccia da me! chiamami a te! non restar muto ancora!»)40. Eppure, alla fine, la preghiera di Werther è ben diversa da quella di Jacopo. Il protagonista dei Leiden, infatti, muore convinto di andare al Padre, come il Figlio risorto («Io ti 35 È merito precipuo infatti della sua ricerca quello di aver messo in luce lo sfondo biblico del vocabolario e dello stile di Jacopo, che è il vero basso continuo del libro. Ciò non toglie che i risultati del lavoro della Terzoli possano ulteriormente essere precisati (ad esempio, l’acribia di Lorenzo – «Cercai quasi con religione pari tutti i vestigi dell’amico mio nelle sue ore supreme, e con pari religione io scrivo quelle cose che ho potuto sapere» – rimanda in maniera ancora più stringente non alla Prima Lettera di Giovanni ma all’introduzione del Vangelo di Luca: «così ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato») o magari in qualche caso attenuati rispettoalla certezza della fonte e del debito relativo. Ciò nulla toglie alla portata e al valore del contributo della studiosa all’intendimento del «libro di Jacopo». 36 Ibid., 63. 37 Ibid., 98. 38 Ibid., 100. 39 Ibid., 101. 40 Ibid., 105.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 260

260

Antonio Sichera

precorro! Io vado dal Padre mio, dal Padre tuo. A Lui confiderò il mio lagno, ed Egli mi consolerà»)41, e arriva a ringraziare Dio per il fervore degli ultimi istanti, sicuro che l’Eterno lo terrà al suo cuore («Io ti ringrazio, Dio, che ai miei ultimi istanti dai questa forza, questo fervore»)42. Jacopo no. Se Werther può ancora sentirlo vicino, per Jacopo Dio è ormai (pressoché irrimediabilmente) lontano. Se all’epistolografo dei Leiden si apre la prospettiva del cielo, dinanzi all’uomo dell’Ortis si spalanca il nulla. E non come uno spettro, bensì, al limite, come una scelta consapevole dinanzi all’ipotesi di un’eternità senza Teresa. E se Werther muore consegnandosi, Jacopo finisce padrone di sé, in un affidamento aperto e problematico, dopo aver chiesto a Lorenzo una sepoltura ‘irreligiosa’, senza sepolcri e senza riti, solo con Teresa accanto («Fa’ ch’io sia sepolto, così come sarò stato trovato, in un sito abbandonato, di notte, semza esequie, senza lapide, sotto i pini del colle che guarda la chiesa. Il ritratto di Teresa sia sotterrato col mio cadavere»)43. Di fronte alla cristologia in fin dei conti gloriosa del Werther, quella pur innegabile dell’Ortis è dunque segnata dal primato della croce, ovvero della sofferenza del Figlio dinanzi all’abbandono del Padre e al calice amaro che questi inopinatamente gli offre: un’identificazione col Christus patiens che giunge, nell’Ortis 1802, fino ai limiti di una protesta e di un distacco potenti. Tanto da consigliare al Foscolo ‘zurighese’ una curvatura del sacrificio di Jacopo in senso espiatorio e soprattutto — nella Notizia bibliografica allegata — un’esplicita, rivelatrice apologia della ‘religiosità’ dell’Ortis, scambiato a suo dire da molti per un libro irreligioso a causa di colpevoli tagli testuali operati nelle edizioni ‘rifiutate’ («Inoltre dove pare che l’Ortis diffidi della religione, hanno per lo più lasciato interi que’ passi; dove invece pare ch’ei ne fidi, gli hanno tolti e mutati; forse per andare a versi a’ lettori d’allora a’ quali ne’ libri non piaceva la religione»)44. Ma non solo. Si tratta 41 Ibid., 136. È un calco delle parole del Risorto a Maria di Magdala: «Io salgo al Padre mio e Padre vostro» (Gv 20, 17). 42 Ibid., 142. 43 Ibid., 693. 44 U. FOSCOLO, Notizia bibliografica, in ID., Opere, cit., 147.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 261

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

261

di una religiosità rafforzata (e forzata) dal ‘bibliografo’ del 1816 con un’ermeneutica devota della morte di Jacopo, in cui tutti i dati delle ultime ore vengono letti — ‘contro’ Werther — i termini di rapporto confidente e sereno con Dio, in linea con il nuovo explicit del libro45. E se si fa caso alla facile risoluzione della cristologia wertheriana in un accordo fra il dolore dell’uomo e l’accoglienza di Dio, l’intepretazione foscoliana del 1816 sembra collocarsi ai limiti del capovolgimento del primitivo spirito ortisiano. In verità Werther, morendo, si libera dal senso di colpa, e lasciando sul comodino l’Emilia Galotti di Lessing tende probabilmente ad accreditare la propria fine volontaria come un’estrema preservazione della virtù46. La Bibbia chiusa posta sul comodino di Jacopo — quella Bibbia su cui si è affannato, negli ultimi giorni di vita, a tradurre Giobbe, Qoelet e il cantico di Ezechia —47 immette certo la sua storia sulla scia dei grandi sofferenti (e dei grandi oranti) della Scrittura. Ma la sua irrevocabile chiusura ci rimanda non alla pia consuetudine dell’uomo devoto, bensì più verosimilmente alla sanzione della fine di 45

«Ha sul tavolino la bibbia chiusa, e sovr’essa l’oriuolo dal quale aspetta il momento prefisso; e spirò mandando a Dio l’ultimo sguardo. […] Werther fu portato alla sepoltura e nessun sacerdote lo accompagnò. L’Ortis fu dall’amico sotterrato sul monte de’ pini piantati da suo padre, e trapiantati da lui, sotto l’ombra de’ quali egli avea tante volte desiderato riposare» (U. FOSCOLO, Notizia bibliografica, cit., 198-199). 46 Cfr. R.T. ITTNER, Werther und Emilia Galotti, in The Journal of English and Germanic 41 (1942) 418-426. 47 «Per entro la Bibbia si trovarono, assai giorni dopo, le traduzioni zeppe di cassature e quasi non leggibili di alcuni versi del libro di Job, del secondo capo dell’Ecclesiaste, e di tutto il cantico di Ezechia» (U. FOSCOLO, Ultime lettere di Jacopo Ortis, cit., 678).Le letture che accompagnano la fine della vita di Jacopo sono dunque quelle sapienziali della Bibbia. Da un lato Giobbe, dall’altro Qoelet (e in particolare il capitolo secondo, sulla vana ricerca della gioia e del piacere, che si tramuta infine in «vanità» e in un inutile «inseguire il vento»), e infine Ezechia, re di Giuda, il cui cantico di ringraziamento è contenuto nel libro del profeta Isaia (Is 38,9-20): qui infatti il fedele sull’orlo della morte sperimenta in extremis il soccorso divino («Ecco, la mia infermità si è cambiata in salute. Tu hai preservato la mia vita / dalla fossa della distruzione, / perché ti sei gettato dietro le spalle / tutti i miei peccati»; «ecce in pace amaritudo mea amarissima tu autem eruisti animam meam ut non periret proiecisti post tergum tuum omnia peccata mea» Is, 38, 17). Come se Jacopo avesse cercato di specchiarsi, nel passaggio decisivo della sua esistenza, sia nella protesta di Giobbe che nella disillusione di Qoelet e, perché no, nella speranza di Ezechia.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 262

262

Antonio Sichera

un’energia ispirativa dell’oratio che è anche la fine di un tempo, un lungo tempo millenario in cui quella preghiera poteva ancora sperare di essere ascoltata. 2.2. Leopardi. Oratio a solitudine Lo si è capito. Nel nostro itinerario, Jacopo Ortis rappresenta lo snodo iniziale, colui che pone le premesse di una profonda novità. In questo senso, le parole di Leopardi che adesso ascoltiamo sono come la presa d’atto del cambiamento. Hanno il sapore del farsi carico, da parte di chi non può tirarsi indietro e decide di addossarsi sino in fondo il pericolo e lo stile, il taglio penetrante della svolta. Non ci sono perciò nei Canti testi che possano essere assimilati propriamente a delle orazioni, così come era stato nell’Ortis. Eppure il lungo Canto del pastore che vaga per le steppe asiatiche — il meraviglioso Canto notturno — può certamente essere letto in una chiave eucologica. Ma vale la pena averlo integralmente davanti, per ripercorrerlo nella nostra ottica: Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga Di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita La vita del pastore. Sorge in sul primo albore; Move la greggia oltre pel campo, e vede Greggi, fontane ed erbe; Poi stanco si riposa in su la sera: Altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale Al pastor la sua vita, La vostra vita a voi? dimmi: ove tende Questo vagar mio breve,


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 263

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare Il tuo corso immortale? Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo, Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle, Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, Al vento, alla tempesta, e quando avvampa L’ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela, Varca torrenti e stagni, Cade, risorge, e più e più s’affretta, Senza posa o ristoro, Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva Colà dove la via E dove il tanto affaticar fu volto: Abisso orrido, immenso, Ov’ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale È la vita mortale. Nasce l’uomo a fatica, Ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento Per prima cosa; e in sul principio stesso La madre e il genitore Il prende a consolar dell’esser nato. Poi che crescendo viene, L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre Con atti e con parole Studiasi fargli core, E consolarlo dell’umano stato: Altro ufficio più grato Non si fa da parenti alla lor prole. Ma perchè dare al sole, Perchè reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura Perchè da noi si dura?

263


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 264

264

Antonio Sichera

Intatta luna, tale È lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, E forse del mio dir poco ti cale. Pur tu, solinga, eterna peregrina, Che sì pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno, Il patir nostro, il sospirar, che sia; Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno Ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi Il perchè delle cose, e vedi il frutto Del mattin, della sera, Del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore Rida la primavera, A chi giovi l’ardore, e che procacci Il verno co’ suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, Che son celate al semplice pastore. Spesso quand’io ti miro Star così muta in sul deserto piano, Che, in suo giro lontano, al ciel confina; Ovver con la mia greggia Seguirmi viaggiando a mano a mano; E quando miro in cielo arder le stelle; Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono? Così meco ragiono: e della stanza Smisurata e superba, E dell’innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni terrena cosa,


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 265

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare Girando senza posa, Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so. Ma tu per certo, Giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, Che degli eterni giri, Che dell’esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors’altri; a me la vita è male. O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perchè d’affanno Quasi libera vai; Ch’ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perchè giammai tedio non provi. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, Tu se’ queta e contenta; E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, E un fastidio m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Sì che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perchè giacendo A bell’agio, ozioso, S’appaga ogni animale; Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

265


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 266

266

Antonio Sichera

Forse s’avess’io l’ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo, Più felice sarei, dolce mia greggia, Più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, È funesto a chi nasce il dì natale.

Certo, non c’è più Dio né un credente che a lui si volga, in questo Canto. C’è un uomo che abita un deserto e da lì, dallo spazio simbolico dell’abbandono e della solitudine, ‘dice’ e ‘si dice’ di fronte ad un fantasma, un’immagine del dio che ha ormai, giusta il verbo di Hölderlin, abbandonato la terra. È questo forse il motivo di fondo per cui una ciclica ondata di interrogazioni fa da ritornello al Canto notturno. Il pastore non può ‘chiedere’ nulla alla maniera dell’orante biblico, non può attendersi nulla, ma solo presentare le domande aperte per lui a partire da una condizione di finitudine accettata e indiscutibile. E dunque non c’è angoscia, non c’è più grido nella sua parola rivolta verso il cielo. La sua nenia potente e soave è come un ‘osso di seppia’ montaliano: è quel che resta della preghiera dopo il lavorio scarnificante del moderno, dopo che il sentimento dell’abbandono e della distanza sia stato metabolizzato ma non rimosso o comunque ritenuto ininfluente. L’attacco del Canto è in tal senso indicativo. La preghiera biblica era essenzialmente un dialogo, uno dei modi in cui il credente si metteva nella fede in un reale rapporto con il suo Dio. La domanda che apre il testo («Che fai tu, luna, in ciel, dimmi che fai, / silenziosa luna?») è certo ancora il tentativo di cominciare un dialogo. È un dialogo impossibile, perché l’interlocutore celeste è già dato per muto e contro il suo silenzio non si può ricorrere nel grido, chiamandolo in giudizio come fa l’uomo sofferente della Scrittura. Eppure è come se non si potesse concepire il volgersi dello sguardo dell’uomo verso il cielo se non immaginando un Altro con cui poter parlare, sebbene si


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 267

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

267

sappia già che l’Altro — o meglio l’Altra — non dirà nulla e non verrà incontro all’inchiesta del pastore. Siamo di fronte insomma, all’ombra, al residuo di una struttura dialogica che non può più presupporre la relazione, ma semplicemente istituirla nell’assenza, muovendo dall’apertura interiore di colui che leva la sua voce. È in quest’ordine che bisogna collocare anche il dinamismo fondamentale della prima strofa del Canto. Il pastore prova ad identificare la propria esistenza con quella della luna: «Somiglia alla tua vita / la vita del pastore». Cerca cioè di annodare un legame, di creare una base comune, ma soprattutto di avvicinare la siderale distanza che lo separa dalla sua supposta interlocutrice. Se la tipicità dell’immagine biblica di Dio consisteva proprio nella sua sconvolgente umanità, il pastore asiatico inizia il suo canto tentando di dare alla luna i tratti del proprio esserci, non certo nel senso di una parola o di un sentimento umani, bensì nel risvolto del tutto esterno del fare quotidiano, del moto e del compito di ogni giorno, nella sua velata, esasperante fissità. Solo se l’Altro è posto in qualche modo ‘di fronte’, e condivide una comune condizione, è possibile levare una domanda che lo raggiunga: «Dimmi, o luna: a che vale / al pastor la sua vita, / la vostra vita a voi?». L’orante biblico per eccellenza, e cioè il grande Salomone, fu lodato da Dio perché salendo al trono aveva chiesto in dono la sapienza48. Il pastore, che da quel cielo chiuso sa già in anticipo di non poter ricevere nulla, si pone idealmente sulla sua strada, non più attendendo la luce di un sapere impossibile, ma ponendo sin da principio la speranza che qualcuno nell’universo sappia. Che cosa? È il tema delle due strofe successive. Il pastore vorrebbe conoscere il senso di un’esistenza su cui cala il gelo dell’ordo rationis, quel gelo che aveva inquietato i giorni di Jacopo. La «vita mortale», guardata dall’osservatorio neutrale del sapere moderno, altro non è che una fatica titanica, un dolore continuo, una corsa senza sosta, il cui protagonista (il «vecchierel» petrarchesco) è in fondo un Christus patiens, dal corpo ferito e piagato («lacero, sanguinoso»), soggetto a continue cadute e a tentativi di ripresa («cade, risorge, e più e più s’affretta»). La sua meta è l’abisso. Un vortice «orrido, immenso» da cui 48

Sap 9,1-18.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 268

268

Antonio Sichera

sarà inghiottito, senza che nulla rimanga, senza nemmeno un ricordo di quanto ha fatto e lottato («il tutto oblia»). E se tale è la fine, non diverso appare l’inizio dell’avventura umana. Già la nascita è insidiata dalla morte («Nasce l’uomo a fatica, / ed è rischio di morte il nascimento»), e il fatto stesso di vivere richiede un’offerta altrui di sostegno e di coraggio («la madre e il genitore / il prende a consolar dell’essere nato»). Eppure, di fronte a questo quadro, l’uomo non desiste, non si abbatte, non trae le naturali conclusioni della sua incomprensibile condizione. Infatti, «se la vita è sventura, / perché da noi si dura?». L’inchiesta del pastore non riguarda dunque il dipanarsi di una vicenda le cui tappe inesorabili gli sono inequivocabilmente chiare. L’interrogazione viene per lui dal conflitto fra ciò che vede e sa, fra quel che uno sguardo spassionato (puramente razionale, appunto) gli suggerisce, e il testardo, implacabile desiderio, la voglia di vivere e di generare che abita gli umani. Già Montaigne e Pascal l’avevano messo in chiaro. C’è qualcosa che spinge l’uomo, c’è un’energia che viene dal corpo, incomprensibile alla pura ratio, ma innegabile nella sua potenza al di là di ogni convinzione, di ogni astratto sapere. La vita è sventura, ma gli uomini la ‘durano’, la portano avanti con convinzione apparentemente cieca e testarda, perché una dynamis li conduce, la cui portata rimane indominabile al puro intelletto. È interessante notare come la medesima contraddizione dell’Ortis venga così rimodulata nel Canto notturno. La quarta strofa del testo leopardiano propone un punto di vista diverso da quello del nulla della ragione. Ma mentre si trattava per Jacopo dell’individuazione di due piani alternativi, ferocemente contrapposti, nel pastore leopardiano lo slancio infinitivo — la sua oblatio cordis — non si oppone frontalmente alla verità che lo mina e lo mette in crisi, bensì è alimentato proprio dalla consapevolezza della finitudine. È dall’interno della fragilità, della precarietà assoluta che si genera la domanda sull’oltre. È perché si sa la propria condizione — il proprio essere murati, sottratti ad ogni ulteriorità sul piano del sensibile — che si leva l’interrogativo sull’incommensurabile dell’esistenza e dell’universo tutto. Finito e infinito non si affrontano nel Canto come potenze estranee, ma si richiamano e sgorgano l’una dal seno dell’altra. E così, pur dichiarando senza remore la percezione negativa del proprio


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 269

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

269

essere nel mondo («a me la vita è male»), l’immaginario poeta della steppa può al contempo porre la questione di uno sguardo totale, gestaltico, che non gli appartiene («Mille cose sai tu, mille discopri, / che son celate al semplice pastore […] Ma tu per certo, / Giovinetta immortal, conosci il tutto»). La finitudine accolta è consapevolezza della parzialità e dunque ammissione di una indominabilità del tutto. Da qui il miracolo di una trasfigurazione lirica, eppur integralmente fedele alla finitezza, di quell’esistenza prima descritta secondo i tratti di una fenomenologia impietosa del comune destino. Se già piena di pathos era stata — come un anticipo — la descrizione amorosa del compito paterno e materno («Poi che crescendo viene, / l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre / con atti e con parole / studiasi fargli core, / e consolarlo dell’umano stato: / altro ufficio più grato / non si fa da parenti alla lor prole»), dove di fronte al dolore della nascita si poneva come un argine amoroso il sostegno familiare, l’holding di un incoraggiamento, di un ‘far cuore’ per proiettare il figlio nella vita (che è poi il senso profondo di ogni autentica avventura genitoriale), ora — nel quarto movimento del canto — le stesse realtà delle due strofe precedenti, senza venir sottratte in alcun modo alla luce crepuscolare e malinconica del finito, assumono una nuova intensità di sentimento. Il «viver terreno» infatti non è più qui solo l’affannoso affrettarsi verso la fossa ma, colto dall’interno del Leib, si muta ora in un «patir», un «sospirar», un’effusione dolorosa dell’anima. La morte, d’altronde, non coincide semplicemente con un abisso orrendo. Dal delicato, intimo osservatorio del corpo vivente, essa appare ora come un «supremo scolorar del sembiante». Morire è un «perir dalla terra», ora raffigurato però come il «venir meno / ad ogni usata, amante compagnia», un lasciare la vita intesa dunque nella sua costitutiva componente relazionale, nel suo essere spazio sereno e consueto di un farsi compagnia intessuto d’amore. Lo stesso vale per la natura, per l’avvicendamento inesausto delle stagioni, dove vengono ora in primo piano il «dolce amore» e il sorriso della primavera, «l’ardore» dell’estate e la potenza oscuramente generativa del ghiaccio invernale. Il passaggio dalla fenomenologia dell’esteriorità sensibile alla fenomenologia del corpo vivente provoca d’altronde uno sguardo sull’universo centrato sull’esperienza soggettiva del tempo e dello spazio, vissuti dal pastore


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 270

270

Antonio Sichera

come un «infinito andar», un’«aria infinita», un «infinito seren». È un vocabolario dell’infinito la cui pronunzia non smentisce in alcun modo la ferita dell’assenza. Come a dire che il pastore non vive una contraddizione patente, ma pone semplicemente, dinanzi al dio silenzioso e inconcepibile, la domanda generata dall’incomprensibile, dal tutto inafferrabile e aperto a possibilità ignote — seppur per lui inattingibili — di fronte alla crudele fragilità, all’insensatezza apparente dell’esistere. È quanto la stanza finale ribadirà, ma con il mirabile colpo di teatro della semantizzazione del suffisso «-ale»49. Quest’uomo ormai fissato alla terra, umilmente soggetto al ‘basso’ rispetto all’‘alto’ di un cielo muto ma ancora appellato nella notte, svela infine — pur con la necessaria deminutio del dubbio — la tensione ultimativa del suo domandare. Nel «Forse s’avess’io l’ale» del pastore asiatico si lascia infatti intravedere il desiderio forte ed impossibile di un raggiungimento. Si tratta certo di una levitazione capace di portare l’orante di questo doloroso deserto che è diventato il mondo abbandonato dagli dei, al medesimo punto da cui la sua interlocutrice — colei che certo ‘conosce’ e ‘comprende’ il tutto — guarda l’universo e se ne spiega il senso. Ma mentre chiede follemente di risolvere l’enigma, il pastore errante ‘si dice’ infine, più profondamente, in quella ripetizione dell’aggettivo incredibile («più felice sarei, dolce mia greggia, / più felice sarei, candida luna»), che sposta nuovamente sul piano vitale del corpo e del sentimento il desiderio di sapere, e ne fa un’aspirazione dirompente alla fine del vagabondaggio terreno e ad un’erranza felice accanto alla «candida», «eterna peregrina». Senza che nulla si tolga, si possa togliere, alla funeste terrestrità dell’essere. In questo senso, l'ultimo movimento del Canto, affiancando in maniera repentina e bruciante — in forza della ripetizione del “Forse” e dell’ “ale” — la natura infinitiva del desiderio e l’inflessibile apprensione del finito, porta sapientemente all’akmé le due polarità inestricabili della grande lirica leopardiana. E se a chiudere l'ultimo movimento del Canto è il puntuale 49 Su questo punto, e sulla storia filologica del Canto, restano fondamentali le osservazioni di G. SAVOCA, Dall’autografo (e dal Meyendorff) al finale del Canto notturno, in ID., Leopardi. Profilo e studi, Firenze 2009, 217-244.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 271

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

271

rovesciamento della massima tradizionale antica per cui il dies mortis era in verità il dies natalis (ora invece mutato in giorno funesto e mortifero), a sigillarne l'incipit c'è un ottativo del volo, che trasforma in una meravigliosa ipotesi del terzo tipo l'indicativo del naufragio posto a sentinella dell’Infinito. 3. IL SECONDO OTTOCENTO. CARDUCCI E D’ANNUNZIO. DALLA PREGHIERA AD OMERO ALLA REAZIONE NEOPAGANA Nel quadro della nostra breve storia letteraria delle forme e dei sensi del pregare, tutta svolta in partibus infidelium, la coppia di scrittori del secondo Ottocento che ora prendiamo in considerazione apre dinanzi ai nostri occhi uno scenario nuovo. A diverso titolo, infatti, Carducci e D’Annunzio rappresentano una modalità di fronteggiamento dell’eclissi di Dio ben diversa da quella che Foscolo e Leopardi ci hanno offerto all’inizio del XIX secolo. Non per nulla, la linea del krazein a quest’altezza si interrompe, per dar vita ad una reazione, e a forme di preghiera che potremmo chiamare ‘neopagane’. Non si vuole naturalmente conferire alla definizione alcuna marca negativa, ma solo sottolineare uno scavalcamento deciso dell’angoscia di Jacopo e dell’inchiesta del pastore errante, coerentemente con una presa d’atto indiscussa del Gottes Tod. Se nei poeti (non esplicitamente credenti) del Novecento di cui parleremo, i conti dell’orante con Dio e con il suo nascondimento (o «inesistenza», per dirla con Caproni) saranno totalmente riaperti, in Carducci e in D’Annunzio si assiste ad un movimento diverso, ma idealmente convergente, di matrice romantica, teso ad affidare alla poesia un ruolo numinoso in limine mortis (Carducci) o a ricostruire una dimensione religiosa per l’uomo moderno su un fondamento classico, e dunque sui valori e le divinità di un Olimpo pagano. 3.1. Carducci. Dalla finitudine alla «divina poesia» Partiamo da Carducci. Sarebbe, com’è ovvio, completamente inutile e al limite fuorviante un’excursus dell’opera carducciana in ottica eucologica. Ciò non toglie che, in uno dei suoi testi più alti —


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 272

272

Antonio Sichera

che è poi anche l’ultima poesia del vate di Valdicastello — ci sia consentito di essere tout à coup posti dinanzi ad un’emergenza sorprendente (e innegabilmente autentica), di un atteggiamento orante che si sente subito, ben al di là di ogni retorica antireligiosa o di ogni apologia di Satana. Il testo di Presso una certosa è notissimo, ma vale la pena rileggerlo: Da quel verde, mestamente pertinace tra le foglie Gialle e rosse de l’acacia, senza vento una si toglie: E con fremito leggero Par che passi un’anima. Velo argenteo par la nebbia su ’l ruscello che gorgoglia, Tra la nebbia ne’ 1 ruscello cade a perdersi la foglia. Che sospira il cimitero, Da’ cipressi, fievole? Improvviso rompe il sole sopra l’umido mattino, Navigando tra le bianche nubi l’aere azzurrino: Si rallegra il bosco austero Già de ’l verno presago. A me, prima che l’inverno stringa pur l’anima mia Il tuo riso, o sacra luce, o divina poesia! Il tuo canto, o padre Omero, Pria che l’ombra avvolgami!

Non è possibile né utile in questa sede condurre un’analisi puntuale della lirica. Sappiamo che il poeta è vicino alla morte, e che proprio in prossimità del vaglio finale la sua voce poetica acquista una notevole, riconosciuta incisività, insieme con una splendida nitidezza di accento. Ed è proprio sul limitare della fine che il poeta ‘prega’, in quelli che sono gli ultimi quattro versi del suo corpus. In questa preghiera Dio non c’è. Non perché dichiarato assente, ma in quanto tenuto del tutto fuori dall’orizzonte testuale, dal movimento eucologico del soggetto che dice ‘io’ in questo componimento. Il modo di porsi di fronte alla sua eclissi non è qui quello del grido, della domanda o dell’inchiesta. In Presso una certosa, semplicemente, l’asse dell’orazione viene


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 273

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

273

spostato in un’altra direzione, su un diverso versante. Quello dell’antichità pagana, di una mitica grecità tipica del classicismo romantico, in cui la poesia e la sua incarnazione, ovvero il grande padre Omero, diventano le uniche manifestazioni del divino invocabili nella distretta. Non sfugga infatti che pure il testo di Carducci prende le mosse dal confronto con la fragilità dell’esserci, dall’esistenza esposta alla morte. E non in una disquisizione filosofica, ma nell’urgenza vitale del singolo che sente prossima la fine. L’abisso di Jacopo e del pastore asiatico non sono lontani da qui. Anzi si potrebbe dire con buona approssimazione che la questione è la stessa. Solo che il modo di avvicinarla (e, in qualche modo, di risolverla) è diverso. A chiudere il corpus (e il corpo) di Carducci non è più la preghiera ancora giudeocristiana. di Jacopo, né l’appello al dio silenzioso del pastore, bensì l’invocazione alla poesia come nuova divinità, istanza ultima nell’angoscia della morte. Una morte a cui non si può sfuggire, che si approssima inesorabilmente. Di fronte alla quale non si chiede un’ulteriorità, una salvezza oltremondana. Non si protesta per la distanza di Dio, né ci si interroga sul senso del tutto, elevando verso il cielo il dubbio (e il desiderio di infinito) generato dalla duplicità del nostro esserci. In Presso una certosa la morte è lì, ineluttabile, raffigurata alla maniera degli antichi e pronta ad ingoiare l’uomo nel gorgo. Le foglie sono infatti, anzitutto, quelle di Omero («Come le stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini; / le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva / fiorente le nutre al tempo di primavera; / così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua»)50. Il ruscello è la forma gentile, naturale, dell’abisso. Eppure c’è tristezza ma non sgomento in questa visione ‘neopagana’ della vita e della morte. Solo accettazione dolorosa del destino. Senza stoicismi ma senza indulgenza al grido o alla disperazione. L’uomo appartiene alla natura e si esaurisce come ogni elemento del suo ciclo. Come la foglia, dunque, a cui può rassomigliare il trapasso, il passaggio dell’anima. La similitudine pone volutamente la rappresentazione della morte tipica del platonismo cristiano (il ‘passaggio’ dell’anima, ormai liberata dal corpo) in correlazione con il ciclo della natura, e la 50

Iliade VI, 146-149.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 274

274

Antonio Sichera

riassorbe nel ‘come’ («par che passi»). Non vi è alcuna adesione all’imago mortis della tradizione. Essa viene utilizzata qui come una modalità mitica utile per dire quel che in una coerente visione neopagana si dice e si vede attraverso la natura e il suo moto inesausto. D’altronde, l’io lirico di Presso una certosa non trae dalla fragilità della foglia nessuna considerazione sulla vanità di un’esistenza che avrebbe per questo bisogno di riscatto. Il ciclo è questo. La vita si svolge secondo questi ritmi, che riguardano tutti gli esseri. Pensare o sperare di sottrarsi è inutile e insensato. La cosa è triste, getta un velo di malinconia autunnale sull’esistenza, ma appare infine accettabile ed equa. Per questo, l’invocazione dell’ultima quartina interviene quale appello per l’oggi, per il ‘qui ed ora’ di questa vita, destinata a finire ma resa bella dalla poesia. Non vi si chiede salvezza né intendimento di un senso celato, ma solo frescura e luce per i momenti finali. Perché anche i giorni ultimi siano vissuti sotto il medesimo segno di bellezza e di conforto che la «divina» parola della poesia ha impresso su questa esistenza. Così come un raggio di luce attraversa il bosco sul finire dell’autunno, quando ormai l’inverno è alle porte, così la luce della poiesis penetri ancora il buio che va addensandosi sulla vita del poeta, e gli doni un attimo di gioia. Nulla ormai da fare o da dire dunque sul dopo, sul senso. Solo ‘questa’ vita. Da vivere bene, da sentire rischiarata sino alle soglie del suo esaurirsi. ‘Dammi ancora e sino all’ultimo la luce che mi hai dato, e dunque donami il canto!’ Un appello come un’orazione, che identifica la poesia con Omero e conferisce così un volto paterno a colui al quale la preghiera è rivolta. Ma anche una dichiarazione di fedeltà. Il canto è stata la luce della sua vita, quel raggio di grazia per il quale è valsa per lui la pena di vivere. Non lo abbandoni e lo accompagni fin sulla soglia di un inevitabile consegnarsi alla madre e al suo ciclo vitale. Il padre non potrà preservarlo dall’ombra, ma infondergli la sua virtù sino alla fine. E questo basta. 3.2. D’Annunzio. L’invocazione dalla potenza del moderno Abbiamo deliberatamente messo sotto una medesima categoria generale sia Carducci che D’Annunzio. Ma l’atteggiamento colto in


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 275

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

275

Presso una certosa non può certo essere assimilato alla vis del paganesimo dannunziano. Nel testo di Rime e ritmi, il riferimento all’antico, ai Greci, si dà pur sempre all’interno di una considerazione severa dell’esistenza e del suo destino. Si tratta di una presa di coscienza della morte che non invoca salute dall’alto, ma chiama in aiuto la poesia quale ristoro e rischiaramento di una vita soggetta al buio, attraversata da una corrente fredda e negativa, esiziale qualora le venisse a mancare il soccorso del canto. L’accento ‘neopagano’ di Carducci si configura alla maniera di un soffio, una lama di luce, un supporto spirituale indirizzato all’oggi, ma concepito — lo abbiamo visto — in forma di invocazione nella distretta. Per D’Annunzio, naturalmente, il discorso è diverso. Perché il modo in cui i suoi testi si pongono nei riguardi della vita, il nerbo della loro accoglienza della physis in poesia, è tutto teso verso una resa mitica della totalità del reale, dove ogni cellula dell’essere è come assemblata in un corpo che si vuole glorioso. Mi riferisco — com’è ovvio — ai libri poetici maggiori, al D’Annnunzio delle Laudi. Un tale tipo di attitudine è solo presentito infatti nel D’Annunzio ‘paradisiaco’, in cui le parole del campo semantico della preghiera e l’atto eucologico stesso hanno ancora una portata ermeneutica notevolmente bassa. Fa eccezione — all’inizio dei Rurali nella Chimera — una poesia intitolata Agli olivi51. Qui gli alberi d’ulivo vengono invocati quali divinità efficaci, appartenenti allo spazio del sacro («Olivi, alberi sacri»), «intenti» ad ascoltare l’universo — dal mare al firmamento col suo «verbo arcano» — e dunque capaci di ascoltare anche la preghiera dell’uomo («udite, udite / la preghiera dell’uomo»). Il loro dono è la pace. Essi non solo la significano, ma possono anche conferirla agli oranti. Il sacro viene così attivato religiosamente, in quanto non agisce solo sul piano simbolico bensì anche su quello dell’opus efficace nei confronti degli umani. Lo sfondo greco dell’operazione viene sancito poi dai versi finali («gravi di tale maestà ch’io penso / l’antichissima dea Pallade Atena»), dove l’associazione fra la dea e gli olivi rimanda a Virgilio (Georgiche, I, 18), ma in maniera ancor 51

G. D’ANNUNZIO, Agli olivi, in Chimera, in ID., Versi d’amore e di gloria, ed. diretta da L. Anceschi, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, t. I, Milano 1993, 563.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 276

276

Antonio Sichera

più pertinente al Frammento autobiografico di Giannantonio Campano, vescovo e poeta quattrocentesco, prediletto di Pio II, che ricordando il suo soggiorno giovanile da precettore a Venafro, apostrofa gli olivi quali «palladia munera» («Fontibus exundens oleumque insigne Venafrum / Palladia ingenio munera prima dedit»). A lui D’Annunzio si accoda: «O voi, palladia / munera, o voi più sacri della vite»52. Per il resto, i componimenti della Chimera e del Poema paradisiaco in cui si registrano occorrenze del ‘pregare’ rimandano ad usi e a sensi eucologici largamente denotativi, interni ad un cosmo religioso tradizionale, mai investito di una carica emotiva profonda. La pura strumentalità di questo vocabolario emerge chiaramente in testi come Ave, sorella, nella Chimera, con il suo ritratto di Gabriele fanciullo orante («quando ne la serena puerizia orava»)53, o In votis, nel Poema, con la sua profusione di tutto il languore paradisiaco nelle «preghiere lente», che «vanno sole» nelle «sere lente»54. Ma lo stesso dicasi di componimenti come L’ora o Suspiria de profundis (che chiude il Paradisiaco), dove la speranza dell’ascolto divino («Oh se Iddio l’ascoltasse»)55 o l’invocazione delle «care mani» a Dio e poi alla morte, in favore del poeta («Oh fatemi dormire, / pallide mani! Alzatevi al mio Dio / congiunte, e voi pregatemi la morte / se troppo è dolce al mio peccato il sonno»)56, trasudano di umori narcisistici, magari riversati nello speculum nella donna amata e sofferente. Ben altro è il valore del paganesimo rinascente nelle Laudi. In relazione al nostro oggetto, una particolare incidenza ha senza dubbio il primo (in verità il terzo in ordine di composizione) dei libri delle Pleiadi, e cioè Maia. «Sempre la Grecia si risveglia in fondo all’anima umana, nei momenti fortunati della vita; sempre la vita si rinnova e fiorisce come in quella meravigliosa primavera dell’anima umana»57. 52 Sulla figura di Giannantonio Campano cfr. F. DI BERNARDO, Un Vescovo umanista alla Corte Pontificia. Giannantonio Campano (1429-1477), Roma 1975. Il testo del Frammento si legge in Appendice A del volume (pp. 412-416). 53 G. D’ANNUNZIO, Ave, sorella, in Chimera, cit., 578. 54 ID., In votis, in Poema paradisiaco, cit., 606-607. 55 L’ora, in ibid., 637-640. 56 Suspiria de profundis, in ibid., 693-696. 57 A. CONTI, La beata riva. Trattato sull’oblio preceduto da un ragionamento di


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 277

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

277

In cerca di una «forma nuova», D’Annunzio — sulla scia del mitizzato viaggio del 1895 — si volge alla Grecia quale fonte primigenia di una nuova cultura. Sulla Grecia infatti il poeta ulisside (quello del «Navigare è necessario, vivere non è necessario») non si attarderà con la nostalgia dei classicisti, ma costruirà un edificio diverso, poggiato al contempo sulla più potente manifestazione moderna dello spirito greco: quel Rinascimento sbocciato lungo il XVI secolo in una Firenze che rinnovava già nel nome (se Florentia equivale, a dire di D’Annunzio, ad Anthinia) i fasti dell’antica Atene (sarebbe questo, in fondo, il senso dell’inserto del Ver blandum in Maia). Ma non solo. I fasti greci e rinascimentali sono da ritenere per D’Annunzio puramente funzionali alla riconfigurazione del mythos nella modernità: «Oggi […] dopo innumerevoli turbamenti della coscienza umana, è da noi saputo con certezza inoppugnabile quel che dai greci era sentito e dagli italiani contemporanei di Leonardo era intuito»58. Applicando lo schema triadico della Scienza Nuova (e dello storicismo hegeliano) D’Annunzio si presenta come colui che risuscita oggi il dio ucciso prima dalla chiesa e poi dalla scienza moderna, «il grande Pan», e ne prepara un’epifania definitiva e potente. È la buona novella dell’Orazione agli Ateniesi: «Ogni volta che in questo suolo sacro la ricerca assidua degli adoratori discopre una nuova statua […] v’è in Italia un poeta religioso che palpita d’una indicibile ansietà e pensa: “Fu dunque ritrovato nel grembo della Madre Ellade un dio calmo e possente, il quale dormì nei secoli un lucido sonno, ed ora si sveglia per dirci alfine la parola della Risurrezione?” […] Tale è il potere delle creature che sono sepolte nella vostra terra […] Un giorno — e sia domani — taluna di loro dirà forse a un poeta e a un eroe la parola della Risurrezione; e il poeta e l’eroe la ripeteranno alle genti»59. Bisogna interpretare in tale contesto le grandi preghiere di Maia. Gabriele D’Annunzio, Milano 1900, XXV. Oggi riedito a cura di P. Gibellini, Venezia 2000. 58 U. OJETTI, Alla scoperta dei letterati, Milano 1895, ora in G. D’ANNUNZIO, Prose giornalistiche, a cura di A. Andreoli, II, Milano 2003, 1389. 59 G. D’ANNUNZIO, Orazione agli Ateniesi [IX Febbraio MDCCCXCIX], in L’allegoria dell’Autunno, in ID., Prose di ricerca, a cura di A. Andreoli e G. Zanetti, t. II, Milano 2005, 2208-2210.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 278

278

Antonio Sichera

La Laus vitae, intanto, quale inno furente levato alla vita nel suo flusso inarrestabile di forme diverse e sempre disponibili alla forza plasmatrice del soggetto («O Vita, o Vita, / dono terribile del dio, / come una spada fedele, / come una ruggente face […] Nessuna cosa / mi fu aliena; / nessuna mi sarà / mai, mentre comprendo. / Laudata sii, Diversità / delle creature, / sirena del mondo!»)60. Ma poi, soprattutto, le tre grandi preghiere che punteggiano il libro. Quella rivolta a Zeus caduto, sconfitto da Prometeo — la Preghiera al Cronide —, in cui l’orante invoca il ritorno della religione olimpica e del suo antico equilibrio («O Zeus, Tiranno più grande, / tu carico di delitti / e d’oltraggi, ingombro di prede, / tu solo sei l’alta Innocenza. / Risolleva l’Olimpo / e poi risorridi alla Terra […] rinnova per lei l’orizzonte / cui volgere io possa la prora / scolpita cantando il mio canto. // Così pregai nel mio cuore / notturno»)61, contro la religione dell’Uomo crocifisso, nella quale è stato infamato il grande simbolo ermetico della croce, «segno del Fuoco / primerio»62. Il dio vive nel petto del poeta e nell’olimpica notte. E l’indovino di Zeus lo invita a trasfigurare i mostri in fanciulli divini. Alla fine egli sente che la sua preghiera è accolta, la terra è più bella e si è finalmente rivelata la faccia di Pan («Subitamente si tacque / in me l’audace tumulto, / come se la preghiera / accolta mi fosse e compiuto / il desiderio e mutato / già l’orizzonte in cintura / più bella e mondata la Terra / e disvelata la faccia / di Pan che conduce / nei tempi il Ritorno eternale»)63. Dove è chiaro che il ritorno di Zeus e di Pan è legato all’opera del poeta capace di mutare di segno le potenze abissali, così come Zeus sconfisse i Titani. Ancora più forte e decisiva, su questa linea, è la Preghiera a Erme. L’orante invoca il figlio di Maia perché venga tra gli uomini. Ma la sua preghiera non si innalza da una condizione di indigenza. Ermes è infatti invitato ad udire e a vedere le meraviglie di cui ora la terra rampolla, nel trionfo del moderno, rispetto al tempo antico: «la Terra 60

ID., Laus vitae in Maia, in Versi d’amore e di gloria , t. II, cit., 13-14. ID, Preghiera al Cronide, in Maia, cit., 64-67. 62 Ibid., 66. 63 Ibid., 69. 61


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 279

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

279

/ è oggi un’àgora immensa / ove non si tendono reti / di belle parole ma guerra / si guerreggia furente / per la ricchezza e l’impero»64. La preghiera diventa così un’esaltazione della civiltà della macchina, della fabbrica e del metallo, che rende ormai vano il sudore di Efesto: «Le città splendono di fabbri / come un astro è cinto di aloni. / Col rombo il traino amplia la notte»65. La nuova alba del mondo, che Ermes contemplerà tornando fra i mortali, sarà dunque un tempo di tanto più grande ed entusiasmante di quello degli dei dell’Olimpo. Perché i moderni hanno moltiplicato all’infinito, e non annullato, le premesse e le promesse dell’antico. Così la parola cara ad Ermes ora varca gli oceani, grazie alla radio. I nuovi strumenti musicali, emuli di quelli del dio, risuonano mirabilmente in grandi orchestre e in portentose sinfonie. Cose insomma così meravigliose e sorprendenti che se l’orante poeta morisse, Ermes Psicagogo lo tratterrebbe sulla riva di Lete in virtù dell’opulenza che traspare dal suo canto: «Tanti adunque sopra la Terra / deserta d’iddii può la vita / anco esser ricca, Ombra d’aedo?»66. È questo il passaggio per noi decisivo. La terra abbandonata dagli dei, la terra deserta di Hölderlin e di Leopardi, non è più qui lo spazio dell’inchiesta e della dolorosa mancanza, perché il canto dell’aedo può dare forma mitica al mondo, rendendo divino il presente e conferendo al moderno i tratti del tempo di Pan. La religione del grande dio della natura non è un sogno da realizzare, ma una realtà viva nello squilibrio creativo del moderno, romanticamente innalzato all’altezza del mito. Nessuna assenza straziante, nessuna domanda di senso, ma anche nessun buio di morte incipiente bisognoso della luce della poiesis, in questa terra che ha ritrovato i suoi dei. Non più divinità olimpiche, inattingibili e diverse, ma uomini elevatisi con il loro lavoro e il loro ingegno all’altezza di dio. E infine, dopo l’apostrofe a Delo, a chiudere il libro è la Preghiera alla Madre immortale. «Natura, mia Madre immortale / che anche tu mi dài vita breve / e immensi disegni mi poni / nel cuore, tu nata la prima, / di te medesima nata, / a tutti comune ma sola / incomunicabile, 64

ID., Preghiera a Erme, cit., 80. Ibid., 89. 66 Ibid., 94. 65


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 280

280

Antonio Sichera

m’odi»67. Il poeta sapiente chiede di distendersi in grembo alla madre e di tornare leggero ed ignaro. Assimilato a Dioniso, rinato dal cuore di Zagreo — il figlio di Proserpina e di Giove dilaniato dai Titani — l’orante chiede alla Madre di dormire, di riposare «in te che mi dài signoria / a pacificar mia discordia»68. Ma non si tratta per lui di un rifugio sepolcrale e regressivo, bensì della preparazione ad un nuovo slancio. Egli conosce bene l’opera «che dentro mi nasce e si nutre / del misterioso licore»69, l’opera che ancora deve compiere. In vista di essa chiede alla Madre di accrescere il suo sangue e di affinarlo: «moltiplica questo mio sangue / doglioso, perché più mi ferva / l’anima e più mi sia divina»70. Il «poeta religioso» di Maia prega in fondo perché la Madre faccia di lui il capostipite di quell’umanità fervida e fibrillante che rinnova le gesta di Dioniso e riporta nel suo stesso corpo il grande Pan sulla terra. 4. IL PRIMO NOVECENTO: QUASIMODO E MONTALE. Con l’avvento dei due poeti ‘infedeli’ da me prescelti per testimoniare le forme del pregare dentro lirica primonovecentesca, si chiude la parentesi del neopaganesimo, almeno nella sua esplicitezza dannunziana. Ci troviamo ad affrontare così testi in cui il rivolgersi del poeta a Dio, ovvero al Padre, torna a configurare una Gestalt eucologica consueta. Nondimeno, fra la preghiera ospitata nei primi libri di Quasimodo e l’orazione montaliana (che si snoda dagli inizi sino all’epilogo della sua produzione) è facile misurare una notevole distanza. Quella che si dà fra un atto metafisico centrato sulla sofferenza del poeta e sulla sua conseguente apertura al canto, e una pratica spinta fino alla dissimulazione e all’ironia, al fine di preservare però il fondo umano, misterioso e inattingibile, di una presenza totalmente ‘altra’.

67

ID., Preghiera alla Madre immortale, cit., 250. Ibid., 251. 69 L.c. 70 Ibid., 252. 68


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 281

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

281

4.1. Quasimodo. Il poeta orante tra sofferenza e narcisismo Da Acque e terre a Erato e Apollion, la lirica quasimodiana si è più volte modulata secondo il linguaggio della preghiera. Il suo cardine è sempre l’io dolorante del poeta, il suo atto di fede un’accettazione quasi stoica del soffrire, il suo telos ultimo la poesia. Non per caso, d’altronde, da un’analisi sequenziale dei componimenti si ricava il senso di una perfetta inclusione, a cui si giunge però seguendo un andamento parabolico della semantica interna, che da un vertice già raggiunto in esordio discende verso un’esperienza cruda del soffrire, per poi risalire ad una rinnovata consapevolezza del senso poietico del dolore. Tutto ciò senza che però mai si dissolva del tutto il vasto residuo di ambiguità narcisistica che tale dimora ostentata nel dolore comporta, sino all’autogiustificazione lirica. È in Acque e terre che per la prima volta il poeta di Modica leva il proprio canto sotto le specie dell’orazione. La poesia si intitola Avidamente allargo la mia mano: «In povertà di carne, come sono / eccomi, Padre; polvere di strada / che il vento leva appena in suo perdono. // Ma se scarnire non sapevo un tempo / la voce primitiva ancora rozza, / avidamente allargo la mia mano: / dammi dolore cibo cotidiano»71. È dunque nella povertà della sarx, nella biblica debolezza mortale, che il poeta si presenta al Padre, come alla fine del cammino, ridotto a null’altro che a «polvere» (ancora un lemma genesiaco), ma animato dal vento della poesia (simbolo centrale in Quasimodo), che solleva e perdona. Il dolore funziona già qui come una pedagogia della voce, che troppo rozza e spessa un tempo, ora sa invece nutrirsi della quotidianità del dolore. Lo stesso senso di «pena» attraversa la prima ‘preghiera’ di Oboe sommerso, in origine, nel 1932, dedicata ad Eugenio Montale: Curva minore. «Perdimi, Signore, ché non oda / gli anni sommersi taciti spogliarmi, / sì che cangi la pena in moto aperto: / curva minore / del 71

Tutte le citazioni sono tratte da S. QUASIMODO, Poesie e Discorsi sulla poesia, a cura di G. Finzi, Milano 1987, 30. In presenza del titolo del componimento e della raccolta nel corpo del testo, si indicheranno solo le pagine di riferimento nel suddetto volume.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 282

282

Antonio Sichera

vivere m’avanza»72. La sofferenza è qui quella degli anni che passano e la cui curva residua inesorabilmente si assottiglia. Per questo il poeta invoca Dio: per sfuggire al flusso del dolore e ottenere di mutarsi in una qualsiasi figura del divenire (dal «vento che naviga felice» al «seme d’orzo o lebbra»), mirabile o cruda che sia. Il movimento salvifico rimane però incompiuto. Il cercatore scalzo e vacillante sperimenta infine un doloroso abbandono e una chiusura invalicabile da parte dell’Assente («ognuno si scalza e vacilla / in ricerca. // Ancora mi lasci; sono solo / nell’ombra»). Questa preghiera di uscita dall’esistenza verso una fusione con il vento e la natura diveniente, in tutte le sue forme, si conclude con un senso di abbandono dell’orante, dove il dolore non è riscattato dal canto. Ma il vertice di questa solitudine, di questa aridità del soffrire senza ricompensa alcuna è senza dubbio la celebre Lamentazione d’un fraticello d’icona73, chiaramente ispirata alle Lamentazioni bibliche (e dunque, secondo la tradizione, alla preghiera sconsolata del profeta Geremia), ancora contenuta in Oboe. Il suo attacco è eloquente: «Di assai aridità mi vivo, / mio Dio; / il mio verde squallore». Qui addirittura il verde quasimodiano cambia di segno e diventa attributo di «squallore». Come se il colore della primavera e della speranza diventasse emblema dell’aridità, in un capovolgimento vertiginoso. Il contesto temporale è quello di una notte assordante e soffocante. L’abito del monaco poeta è una «tunica marcia di orbace» (il tessuto sardo di lana grezza, molto pesante e impermeabile, che era usato per la versione invernale della divisa fascista). Ma sebbene il fraticello se ne spogli, il senso di aridità e di consumazione è annidato nel suo corpo, se la sua carne è soggetta ad una cardatura e tarlata dagli acari, fino alla prefigurazione della morte («Mi cardo la carne / tarlata d’acaridi: / amore, mio scheletro»). Anzi, l’aberrazione e l’umiliazione raggiungono livelli così alti, che il fraticello poeta si pente di aver dato il proprio sangue al Signore, al quale poi però, in un brusco, finale, contraddittorio renversement, si appella come fonte di asilo e di

72 73

Ibid., 47. Ibid., 50.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 283

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

283

speranza di misericordia («Mi pento / d’averti donato il mio sangue, / Signore, mio asilo: // misericordia!»). È dall’abisso della Lamentazione che ha inizio in Oboe sommerso un movimento di risalita verso il senso, il cui primo germe è La mia giornata paziente74. «La mia giornata paziente / a te consegno, Signore, / non sanata infermità, / i ginocchi spaccati dalla noia. // M’abbandono, m’abbandono; / ululo di primavera, / è una foresta / nata nei miei occhi di terra». Scritta come un Salmo per l’angelo infernale, questa lirica del 1932, dopo la ‘caduta’ simbolica di una genuflessione protratta fino a ‘spaccarsi i ginocchi’ (molto vicina al masochismo incombente del fraticello), conosce alla fine un grido animalesco di rinascita, mentre negli occhi del poeta, come fossero terra, nasce una foresta, probabile allusione, nel vocabolario quasimodiano, alla poesia e al canto. Sulla stessa linea della Mia giornata (e a rafforzarne l’intepretazione di caduta-rinascita, immersione-risorgimento), troviamo due altre liriche ‘oranti’. La prima appartiene, pur con tutte le delicatezza del caso, al registro tipicamente cattolico della preghiera ai santi. In verità, la Metamorfosi nell’urna del santo75 è un testo di ispirazione foscoliana, in cui il poeta, in visita alla tomba del santo (si tratta chiaramente dell’urna vitrea esposta talvolta nelle chiese), interpreta la morte come processo di «maturazione/devastazione» (idea teosofica: «mi devasta oscura mutazione, santo ignoto»). A tale processo partecipa la vita stessa dell’io in forma di seme («gemono al seme sparso / larve verdi»), grazie ad un dinamismo che include nel sepolcro i simboli ‘celesti’ della «luce» e degli «alberi», nonché appunto il «verde» della «primavera». Si tratta di un patimento, di una riduzione a «reliquia», da cui «nasce» dal «buio» della «memoria» un canto lontano e schermato: i «timpani sepolti» altro non sono infatti che una diversa forma dell’oboe sommerso. Anche in Seme76 la «terra», in una «notte» ‘astrale’, si popola di «alberi», di «isole» e di «acque», mentre «un suono d’ali» (che rimanda all’angelo) «si apre» sul «cuore» del poeta. Egli accoglie in sé ogni cosa 74

Ibid., 57. Ibid., 58. 76 Ibid., 69. 75


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 284

284

Antonio Sichera

morente, quasi vivificandola. Da qui la preghiera: «Tu mi vedi: così lieve son fatto, / così dentro alle cose / che cammino coi cieli; // che quando Tu voglia / in seme mi getti / già stanco del peso che dorme». La leggerezza raggiunta — ovvero la paradossale coincidenza fra l’essere «dentro» alle cose e il camminare «coi cieli», che mette insieme l’‘alto’ e il ‘basso’ — consente il levarsi di una preghiera al Tu di assimilazione al «seme», che è versione pienamente mirifica della condizione già descritta in Metamorfosi. Le orazioni di Oboe sommerso (lasciando da parte la Preghiera alla pioggia, il cui rilievo eucologico è evidentemente molto flebile) completano la loro parabola inclusiva con l’Amen per la Domenica in albis77, che è anche l’ultimo testo della sezione dedicata all’Oboe nell’antologia Ed è subito sera: «Non m’hai tradito, Signore: / d’ogni dolore / son fatto primo nato». Come in un perfetto pendant con Avidamente allargo la mia mano, si sancisce qui definitivamente la necessità del dolore e si ringrazia il Signore perché il cibo quotidiano del dolore non è mancato. Di ogni dolore il poeta è fatto «primo nato»: egli nasce cioè dall’utero del dolore, ma ne è il primogenito, colui che ne è fra tutti toccato (e dunque generato) per primo. Un segno indiretto di elezione quasi ‘cristologica’, chiaramente in vista del canto. Non sfugga però che la sezione Erato e Apollion di Ed è subito sera — nonché dunque, idealmente, l’esperienza più propriamente ermetica di Quasimodo — si conclude con un’ultima preghiera: Del peccatore di miti: «Del peccatore di miti, / ricorda l’innocenza, / o Eterno; e i rapimenti, e le stimmate funeste. // Ha il tuo segno di bene e (di male, / e immagini ove si duole / la patria della terra»78. È un testo in forma di preghiera biblica: il «ricordati» appartiene infatti originariamente all’orazione di Israele, specialmente nel momento della richiesta di perdono (la festa dello Yom Kippur). Ma qui il peccato è fittizio, e l’orante (soggetto di rapimenti estatici e di «funeste stimmate», alla maniera dei mistici) si sente in verità ‘innocente’: la sua ricerca è fonte di giustificazione e di salvezza. L’Eterno deve ricordarsi di lui perché si trova addosso il segno della contraddizione etica tipica degli umani 77 78

Ibid., 76. Ibid., 97.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 285

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

285

e da Dio stesso voluta. Ma, soprattutto, il peccatore poeta ha le immagini che servono a dare rappresentazione al dolore della terra-patria (se il genitivo «della terra» è, come pare, soggettivo). Per la sua dedizione, per la sua creazione mitica, il poeta merita dunque la memoria divina. Ma qui il ruolo si estenua e il dolore si estetizza totalmente, proiettando sull’amartolos poietes un fastidioso fascio di luce narcisistica. In ogni caso, anche in quest’ultimo testo, il messaggio ‘orante’ di Quasimodo rimane invariato: il canto generato dal dolore dell’abbandono di Dio, che immerge nella sofferenza il poeta, agisce come sorgente di purificazione e di salvezza. 4.2. Montale. Dall’orazione getsemanica all’antiteologia mistica La prima qualità riconoscibile della ‘preghiera’ ospitata nei testi montaliani è certamente, a un secolo circa dai Canti leopardiani, la sua perfetta congruenza con una semantica getsemanica. Ciò significa, in altri termini, che dopo le deviazioni dannunziane (e carducciane) e la morbidezza ermetica del dolore quasimodiano, la lirica di Montale ci propone per converso un affresco dell’orazione seriamente innestato nel giardino degli ulivi. Né si deve dimenticare come il lessico della preghiera intrida di sé proprio l’incipit della poesia montaliana, insediandosi nell’ultima quartina di In limine, la lirica di esordio degli Ossi: «Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! / Va, per te l’ho pregato, — ora la sete / mi sarà lieve, meno acre la ruggine»79. Sono versi celeberrimi, di cui si è sottolineato ad abundantiam il valore programmatico — spinto fino alla vulgata — nel contesto del mondo montaliano. Ma se si pone l’accento sul «per te l’ho pregato», si guadagna forse nella lettura una prospettiva relazionale diversa: il poeta vi si fa soggetto eucologico, che vede la liberazione come un’uscita, un esodo possibile non più per un popolo biblico (la cattività rimane infatti una condizione collettiva: «ci stringe»), bensì per un solo graziato, che l’intercessione dell’orante potrebbe accompagnare e sostenere nel balzo verso la libertà. In limine si chiude 79

E. MONTALE, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano 1984, 7. Anche in questo caso si fornirà in nota solo la pagina della poesia riferita all’edizione citata.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 286

286

Antonio Sichera

insomma con un’oratio intercessionis, in cui il poeta letteralmente ‘si mette in mezzo’ per garantire all’altro una possibilità di salvezza. Un gesto mosaico quasi, ovvero latamente cristologico, se la preghiera per la salute del ‘tu’ allevierà la «sete» dell’orante, quella sete che è anche l’estremo desiderio del crocifisso («Gesù disse: “Ho sete”»), posto dal vangelo di Giovanni in stretta correlazione con l’opus salutis. La preghiera per l’altro disincrosta il cuore e allevia il tormento del desiderio, al di là di ogni eventuale (impossibile) compimento dell’invocazione. Gli Ossi cominciano da un’orazione e da un «per» che orienta la parola del poeta verso l’altro prima che verso l’alto, dove ciò che conta non è l’ascolto ma l’intercessione stessa. Si prefigura dunque sin da subito, in Montale, una declinazione della preghiera quale voce levata nel silenzio, nell’assoluta mancanza di risposta, ma in ogni caso segnata dall’appello per la salvezza dell’altro. E tutti i componimenti del primo tempo montaliano in cui la preghiera o il pregare si affacciano sulla scena del testo possono leggersi sulla scia delle premesse fissate da In limine. Con un’opportuna rimodulazione della ‘salvezza’ della lirica introduttoria, però, nel senso di sostegno orante nella prova, dinanzi alle pressanti richieste del destino, al confronto con l’ultimità della vita e della morte. Più che di salvezza, insomma, si tratta di aiuto o di scampo nel peirasmòs, nel momento decisivo dell’esistenza, che è poi anche, inevitabilmente, fronteggiamento della morte e del morire. Così è per l’Esterina di Falsetto80, creatura leggiadra, marina, solare, sulla quale però si addensano i «venti autunni» e il viluppo di «andate primavere», mentre rintocca per lei «un presagio» (presumibilmente di morte) «nell’elisie sfere». Per lei il poeta prega: «Un suono non ti renda / qual d’incrinata brocca / percossa!; / io prego sia / per te concerto ineffabile / di sonagliere». Qui il presagio—rintocco, pauroso segnale sonoro della fragilità costitutiva dell’esistere, che tocca anche la bellezza e la gioia di vivere — perché non si sfugge all’ontologia della «canna» pascaliana o della «giara» del grande agrigentino81 — 80

Ibid., 14. La brocca percossa rimanda infatti alla fragilità del roseau pascaliano e, sulla sua scia, a quella della giara della nota novella pirandelliana, ma ancor prima (e meglio) 81


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 287

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

287

viene ‘sperato’ e, almeno nella preghiera del poeta, trasformato, in un «concerto ineffabile di sonagliere», dove l’abbassamento del suono mirabile delle sfere celesti al terrestre tintinnare dei sonagli delle bestie da soma non indica una perdita, una caduta, bensì un guadagno vitale nell’aderenza all’umile, indicibile, musica della vita. E così è anche per l’io lirico di Incontro82 — ancora negli Ossi —, a cui «sembra / che attorno mi si effonda / un ronzio qual di sfere quando un’ora / sta per scoccare». Qui è lui a chiedere compagnia persistente al ‘tu’ femminile fatto «tristezza» («Tu non m’abbandonare mia tristezza»), o almeno forza nella prova, se lei è ormai «sommersa», «sparita»: «Prega per me / allora ch’io discenda altro cammino / che una via di città, / nell’aria persa, innnanzi al brulichio / dei vivi; ch’io ti senta accanto; ch’io / scenda senza viltà». La preghiera per l’altro si fa qui preghiera dell’altro, anzi dell’altra, perché il poeta sappia affrontare con dignità la discesa verso la foce, che è poi la morte, la fine della vita, e non ceda alla tentazione della dispersione, ovvero dello stesso cammino brulicante dei vivi su «una via di città». Il milieu doloroso, getsemanico della preghiera montaliana non viene meno neanche nelle Occasioni, sebbene vi si trovi una sola occorrenza del ‘pregare’. Si tratta di una difficile poesia ambientata a Siena, durante la grande corsa estiva, e per questo intitolata Palio83. Il suo attacco («La tua fuga non s’è dunque perduta / in un giro di trottola / al margine della strada»), se letto nel contesto globale del componimento, cambia definitivamente il segno della «fuga» di In limine, perché qui non si tratta più di uno slancio verso la salvezza, bensì di un andare nella direzione di un traguardo posto al di là del «giorno dei viventi», che richiede il coraggio di alzarsi e di fissare l’invisibile, nell’attesa certa della fine, ma anche nella speranza della non inutilità dell’avventura terrena («Il presente s’allontana / ed il traguardo è là […] e tu lo fissi. Così alzati, / finchè spunti la trottola il suo perno / ma il solco resti inciso. Poi, all’enigmatico personaggio di Giaracannà nella prima edizione del Fu Mattia Pascal. A questo proposito mi peremetto di rimandare ad A. SICHERA, Ecce Homo! Nomi, cifre e figure di Pirandello, Firenze 2005. 82 Ibid., 98-99. 83 Ibid., 187-189.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 288

288

Antonio Sichera

nient’altro»). In questo quadro, in cui il palio senese funziona da sfondo figurale rispetto allo svolgimento criptico della relazione fra l’io e il tu, la «preghiera» appare in parentesi, in un momento di ricordo del passato infantile della donna, che si sovrappone al presente della gara: «Torna un’eco di là: ‘c’era una volta…’ / (rammenta la preghiera che dal buio / ti giunse una mattina) // ‘non un reame, ma l’esile / traccia di filigrana / che senza lasciarvi segno / i nostri passi sfioravano. // Sotto la volta diaccia / grava ora un sonno di sasso, / la voce dalla cantina / nessuno ascolta, o sei te. // La sbarra in croce non scande / la luce per chi s’è smarrito, / la morte non ha altra voce / di quella che spande la vita’». A seguire dunque, in un diverso corpo tipografico, la menzione della preghiera giunta dal buio è, in un primo tempo, una fiaba, in seconda battuta un richiamo alla condizione attuale del ‘tu’. Molte sono le riprese dei simboli presenti nei versi ‘senesi’: il «reame» si connette al «sigillo imperioso» che il poeta scopre fra le dita della donna; il disegno impalpabile di pur preziosi filamenti, ovvero «l’esile traccia di filigrana», al «ghirigoro d’aste» e alle «immagini» «nell’acqua del rubino»; l’oppressione della «volta» ghiacciata all’«orrore» del prigioniero; la «sbarra della croce» alle aste che «s’incrociano». Né manca un fondamentale rimando interno fra «la voce» inascoltata e la voce della morte, coincidente con quella che «spande la vita»: un’«altra voce», come «altra» è la voce che mette in fuga l’orrore carcerario. Il senso complessivo della scena pare il passaggio da una leggerezza fiabesca e inconsapevole (la stessa che si respira in Piazza del Campo e che l’«altra voce» dichiara) ad un regime di pesantezza e di oscurità (contro la luce diffusa della piazza), segnato da una voce che giunge dal profondo (la cantina) e che potrebbe coincidere con la donna stessa. La sua rivelazione — intimamente connessa alla memoria della preghiera arrivata dal buio — riguarda in fondo l’insospettabile carattere mortuario di quella leggera vitalità (se per gli smarriti, i dannati dall’«ergotante balbuzie», la croce non «scande» la luce di Pd VIII, 97), che la donna portatrice del sigillo deve oltrepassare in vista di un compimento, di un traguardo posto oltre la «selva dei gonfaloni» e «lo scampanìo / del cielo irrefrenato». Un forte contrasto caratterizza invece le due occorrenze del


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 289

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

289

‘pregare’ nella Bufera. Per un verso infatti, in Proda di Versilia84, la compagnia della preghiera nella distretta assume un rilievo escatologico, dolce, improntato ad una serena ‘comunione dei santi’: «I miei morti che prego perché preghino / per me, per i miei vivi com’io invoco / per essi non resurrezione ma / il compiersi di quella vita che’ebbero / inesplicata e inesplicabile, oggi / più di rado discendono dagli orizzonti aperti». In un testo di natura anamnestica, il poeta riannoda i fili di un’infanzia ‘marina’, fatta di anni «gravi di miele», di accudimento premuroso, di sonno confortato dalla presenza dei propri cari, di cibo familiare, preparato con perizia e con amore, un’infanzia di «vite ancora umane / e gesti conoscibili», contrapposta al «mare / infinito, di creta e di mondiglia» in cui è immerso il presente del ri-cordante. Ed è l’avvento dei suoi morti la molla dello scatto memoriale, in uno scambio di orazioni in cui il poeta prega per il superamento di una condizione di irrisolutezza che conduca i suoi cari verso il compimento di una vita leopardianamente «arcana», mentre chiede loro al contempo di assistere lui e i suoi vivi nelle vicende di un’esistenza inafferrabile e infangata. Per altro verso, a divenire prova, e addirittura «supplizio», è la preghiera stessa in Su una lettera non scritta85. Si descrive qui la condizione del poeta, che si trova lontano dalla donna, non solo fisicamente. Se ella è infatti nello spazio escatologico di Finisterre, e partecipa di una vita fragile ma abitata dalla speranza e da una vastità marina («Per un formicolio d’albe, per pochi / fili su cui s’impigli / il fiocco della vita e s’incollani / in ore e in anni, oggi i delfini a coppie / capriolano coi figli?»), lui si sente in un mondo opposto, tutto terreno («Ben altro è sulla terra»), per cui quasi spera di non incontrare la voce e la luce dell’amata, provenienti da un ordine troppo diverso («Oh ch’io non oda / nulla di te, ch’io fugga dal bagliore / dei tuoi cigli»). In realtà, il desiderio di sfuggire esprime l’agitazione e l’indecisione di chi è lontano. Per lui, infatti, «la sera si fa lunga / la preghiera è supplizio e non ancora / tra le rocce che sorgono t’è giunta / la bottiglia del mare». Il suo messaggio di naufrago, la sua bottiglia, non è giunta a Finisterre, 84 85

Ibid., 253-254. Ibid., 199.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 290

290

Antonio Sichera

ed è questo in verità a non dargli pace. La preghiera che rimane inascoltata si muta dunque in «supplizio». Nemmeno nell’orazione, si potrebbe dire, sostantivizzando l’avverbio grazie all’appoggio dell’enjambement, l’io trova un «àncora» di serenità e di speranza. *** Che cosa c’è di nuovo nella semantica eucologica, se ora ci volgiamo dal ‘primo’ al ‘secondo’ Montale, quello che si snoda da Satura in poi? L’istanza di fondo, che potremmo definire incarnazionistica, rimane immutata. Lo sguardo orante resta rivolto verso la concretezza della vita. Quel che si accentua enormemente è il senso di una radicale terrestrità, intesa però nella sua facies più umile e quotidiana, e dunque lontana da ogni forma di sublime ‘alto’ e da ogni sottolineatura drammatica dei momenti apicali dell’esistenza, interpretati nei primi libri — lo abbiamo visto — alla maniera di un più o meno nitido peirasmòs. Non che si perda la qualità getsemanica dell’orazione montaliana, ma essa viene come filtrata e innestata nel flusso più usuale e prossimo dell’esserci, nel volto più umano e ‘medio’ del nostro vissuto, dove si gioca la vita di tutti e non la scommessa dei pochi eletti. L’esistenza è ancora in questione, ma traguardata nel suo inalterato rischio dal lato opposto, dalla parte degli uomini comuni. È così che la leggerezza e l’ironia possono attraversare l’indubbia profondità di poesie tanto spiazzanti e contemporanee. D’altronde, la distanza dall’insidia della vetta conduce il poeta al rifiuto programmatico di qualsiasi ‘rappresentazione’ di Dio, di ogni forma di raffigurazione dell’Altro. Era un tema già implicitamente vivo nei primi tre libri montaliani (dove vige un assoluto rispetto del nome, ed è di norma la maiuscola pronominale l’unico modo per distinguere la presenza di Dio all’interno dei versi), ma ora, a partire da Satura, enormemente amplificato. Il discorso sulla preghiera non potrà non riflettere questo atteggiamento sistematicamente negativo nei confronti dell’esperienza banalmente sensibile dell’Oltre. Incarnazione radicale e antiteologia speculativa sono quindi i corni di un lavoro poetico di altissimo profilo, di cui ora incontreremo alcune significative testimonianze testuali. La prima viene dagli Xenia.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 291

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

291

«“Pregava?”. “Sì, pregava Sant’Antonio / perché fa ritrovare / gli ombrelli smarriti e altri oggetti / del guardaroba di Sant’Ermete”. / “Per questo solo?”. “Anche per i suoi morti / e per me”. / “È sufficiente” disse il prete”.»86. Si tratta di uno dei componimenti che Montale — negli Xenia, mirabile canzoniere — dedica alla moglie morta, la «donna miope» riapparsagli nella nebbia, una sera, mentre sta leggendo il libro della consolazione di Israele, il cosiddetto Deuteroisaia. Il ritorno di lei rappresenta per il poeta l’opportunità di una profonda revisione esistenziale e poetica. Mettendosi alla scuola della sua nuova (o forse immutabile) Musa, infatti, il soggetto che dice ‘io’ in questi versi impara ad apprezzare una presenza dell’oltre tanto reale quanto impercettibile, mentre apprende un atteggiamento di gratuità e di accoglienza verso ogni espressione della vita. Dominati dalla donna miope — dalla sua quotidiana cura del mondo, dal suo legame con oggetti inutili e personaggi improponibili, dalla sua custodia testarda dei poveri ricordi dei morti e dei vivi — questi componimenti (e molti altri di Satura e dei libri successivi) vivono di un continuo, salutare conflitto fra un registro umanamente (e diversamente) sublime, del sentimento e del dolore, e un registro basso, della medietà e del sorriso. Il lutto e la mancanza non vi sono in nessun modo rimossi, ma come tenuti sul confine dei segni della consolazione, attraverso una memoria viva e rivivificante. Per questo, la parola si mostra negli Xenia nel suo versante amichevole e colloquiale, senza però perdere nulla della propria carica figurale originaria, in una dedizione ostinata alla litote rispetto ad ogni determinazione positiva della condizione oltremondana della donna. In tale contesto, lo xenion sulla preghiera tende a fare della moglie il typos dell’orante, e l’unico medium possibile del senso autentico dell’orazione. La scena è quella di un colloquio fra il poeta e un prete, quasi una forma di verifica dell’‘ortodossia’ di Mosca, o almeno della possibilità concreta di un perdono e di un’accoglienza di lei in quell’indicibile «altro mondo». Ora, la preghiera di questa donna umile e sapiente è quanto di più popolare si possa immaginare, ai limiti della superstizione folcloristica. Ma è la preghiera di tante donne che 86

Ibid., 298.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 292

292

Antonio Sichera

hanno imparato di generazione in generazione la preghiera rivolta ai santi per trovare aiuto nelle più banali circostanze della vita. Ed è anche la preghiera a martiri antichi ed improbabili come Ermete, a cui è intestato una sorta di modesto, familiare reliquiario. Ma c’è dell’altro. Sul registro intimo del testo si situa la preghiera di Mosca per i morti, che nessun altro ricorda, e per il poeta. Ed è questa preghiera, col suo segreto, tutto centrato sull’ammirevole semplicità del ‘per’, quanto basta per rendere commendevole la fede della donna miope. La preghiera per l’altro — la preghiera degli Xenia — è qui l’orazione quotidiana e non ortodossa, il pensiero umano semplice e costante per chi non c’è più, per chi non è ricordato (il ricordare è la vera azione di Dio, a cui Mosca si assimila) e per chi si ama. La preghiera reinterpretata nella sua più profonda verità come pensiero amorevole per l’altro, ri—cordo che coglie il cuore dell’azione di Dio, è il perno eucologico di questi testi. Ed è, per questo, «sufficiente». Lasciando gli Xenia, e addentrandoci in Satura, ci imbattiamo nell’unico testo in cui il secondo Montale si rivolge direttamente ad un’entità a proprio modo oltremondana. Si tratta dell’Angelo nero87. Quest’angelo è una forma davvero singolare di messaggero divino: «O grande angelo nero / fuligginoso riparami / sotto le tue ali, / che io possa […] inginocchiarmi / sui tizzi spenti se mai / vi resti qualche frangia / delle tue penne». Il testo, antitetico ad ogni angelologia alta, di ascendenza rilkiana, si gioca tutto su un consapevole, acuto riuso, ma in minore, dei grandi cardini biblici della preghiera e della manifestazione divina, applicati ad un angelo che è l’altra faccia, sporca ed improbabile, di Jahvè sabaoth. Si pensi già alla richiesta di riparo sotto le ali, che rimanda alla più intima invocazione dell’orante nella Scrittura: quella di Giobbe («All’ombra delle tue ali nascondimi», Gb 40, 13) e del salmista («all’ombra delle tue ali mi rifugio», Sal 56). Ma dello stesso ordine è l’invocazione all’angelo, immagine della «trascolorante, difforme e multiforme» energia della vita stessa, perché si mostri : «o angelo nero disvélati / ma non uccidermi col tuo fulgore». A quest’angelo, a questo messaggero divino, ma «non celestiale né umano», piccolo, inafferrabile e incomprensibile, è chiesto dunque di rivelarsi 87

Ibid., 378-379.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 293

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

293

nelle stesse modalità e con gli stessi riguardi tipici dell’epifania sinaitica («Farò passare davanti a te tutto il mio splendore […] Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo», Es 33,19-20). E non solo. «Non dissipare la nebbia che ti aureola, / stampati nel mio pensiero» — prega il poeta —, evocando la nube della manifestazione ma soprattutto chiedendo all’angelo quasi la grazia di un rapporto simile a quello richiesto al pio israelita («Questi precetti che oggi ti do ti stiano fissi nel cuore», Dt 6,6; e prima: «con tutta la tua mente»). Il poeta prega che i segni umili della presenza di questa forma a prima vista irriverente del divino, e anzitutto il suo senso, gli rimangano impressi. Perché la sua rivelazione non ha ovviamente a che fare con il piano del sensibile: «Se ti prendessi un’ala e la sentissi / scricchiolare / non potrei riconoscerti come faccio / nel sonno, nella veglia, nel mattino». Non è toccando la cenere, l’umile sostanza di quelle ali che l’angelo può essere riconosciuto. Il suo rinvenimento è possibile solo nel semplice dinamismo del quotidiano (il sonno, la veglia, il mattino richiamano ancora l’esortazione del Deuteronomista: «quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai», Dt 6,7). Ed è assimilabile al miracolo del cammello che passa per la cruna di un ago: «perché tra il vero e il falso non una cruna / può trattenere il bipede o il cammello». Come se nel passaggio verso la verità nemmeno se a far da porta ci fosse una cruna essa potrebbe impedire l’incredibile passaggio del cammello. Appoggiandosi ancora antifrasticamente alla parola biblica (qui quella di Gesù in Lc 18,25) L’Angelo nero pare dire infine un imporsi paradossale della verità, nascosta nello sporco e nel banale, nel fumo e nella cenere dei camini, che il grande angelo si impegna a ripulire, quale antitesi polemica del numinoso, ma anche in quanto sua efficace, quotidiana alternativa. Ancora ponendosi sulla medesima ‘via negativa’ si comprende un altro lungo componimento ospitato nel Quaderno di quattro anni: Ai tuoi piedi88. Qui il poeta pare trasferirsi, fantasticando, sullo stesso piano (contrassegnato nel testo con «quassù») di un Tu naturalmente non nominato e invisibile («non si vede nulla di te»). La scena è del 88

Ibid., 594-595.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 294

294

Antonio Sichera

tipo ‘confessio post mortem’, in attesa di giudizio: «Mi sono inginocchiato ai tuoi piedi […] ed ho chiesto perdono per i miei peccati / attendendo il verdetto». Ma l’anticamera del giudizio perde ogni connotazione di ansietà, in questa prova generale della fine, perché il verdetto «sarà lungo o breve grato o ingrato / ma sempre temporale e qui comincia / l’imbroglio perché nulla di buono è mai pensabile / nel tempo». Tanto che il penitente si distrae e finisce per concentrarsi sugli oggetti lasciati nel «quaggiù», ovvero su quel «nulla vivente» che ha circondato il suo soggiorno terreno e che rimane forse la sua vera consistenza, mentre il suo «corpo incorporeo» «quasi si addormenta». È solo nei Diari del ’71 e del ’72 che si possono intravedere i tratti di un’eucologia montaliana, pur sempre enormemente sobria, ma non schermata da procedimenti ironici o da ribaltamenti polemici. Il primo dei due componimenti di cui ci occupiamo chiude il Diario del ’71 e ha per titolo una sigla — p.p.c.89 —, facilmente scioglibile, sulla scorta della Bufera e del titolo della sua ultima sezione, Conclusioni provvisorie, in «per provvisoria conclusione». «La mia valedizione su voi scenda / Chiliasti, amici! Amo la terra, amo // Chi me l’ha data // Chi se la riprende». Non si tratta propriamente di una preghiera, ma nella sua concisione folgorante questo testo delinea senza ombra di dubbio un atteggiamento vitale di tipo orante. Di fronte ai suoi amici millenaristi, il poeta dichiara a gran voce il proprio amore alla terra, a Colui che gliel’ha data e che gliela riprende. Il «Chi» della Bufera torna infine assimilando quest’uomo sul limitare della vita alla madre e alla sua oblazione in Voce giunta con le folaghe («amor di Chi la mosse e non di sé»). Ora è lui ad amare senza riserve Colui che non si può nominare. Di fronte al Chi il poeta è adesso nella condizione di ridire — ma nella sola maniera possibile all’interno di una rigorosa negazione del sensibile e del rappresentabile, e con ben altra consapevolezza — le parole di Giobbe: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore» (Gb 1,21). E che in p.p.c. si prefiguri un atteggiamento orante viene a chiarircelo l’altro testo dei Diari, nonché l’ultimo della nostra tappa monta89

Ibid., 468.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 295

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

295

liana. In Il mio ottimismo90 il poeta attacca infatti con violenza il preteso «Deus absconditus» dei chierici, che in realtà «ha barba, baffi e occhi a miliardi», mentre schizza il ritratto del suo Dio innominabile: «Il mio Artefice no, non è un artificiere / che fa scoppiare tutto, il bene e il male, / e si chiede perché noi ci siamo cacciati / tra i suoi piedi, non chiesti, non voluti / meno che meno amati. Il mio non è / nulla di tutto questo e perciò lo amo / senza speranza e non gli chiedo nulla». Dopo aver ridicolizzato ogni pretesa di finta teologia negativa, il poeta dei Diari si sposta bruscamente dal piano della teoria a quello dell’esistenza e della sua posizione vitale dinanzi al mai nominato. Se sul piano teologico si disputa su tutto oziosamente, su quello eucologico non c’è che l’amore a decidere del nostro essere dinanzi a colui che il poeta non ardisce chiamare. Perché non di nomi si tratta, ma di consegna di sé nelle mani dell’altro. Ogni preghiera di domanda sarebbe in quest’ottica una forzatura inconcepibile, oltre che un cedimento, o almeno un’allusione velata, ad un risorgente fantasma dell’Onnipotenza, del potere divino sul mondo. Il rispetto e l’amore autentici esigono una rigorosa, serena rinunzia ad ogni forma di compenso o di contraccambio. Il Dio senza nome è il Dio da amare senza sperare nulla, senza chiedere, senza chiedergli nulla. Il Dio da amare per sé, nella più assoluta inconoscenza. E qui il poeta si incontra inauditamente col mistico. 5. IL SECONDO NOVECENTO: PASOLINI E CAPRONI Nel panorama della letteratura secondonovecentesca, Pasolini e Caproni rappresentano due infideles di indole completamente diversa. Pasolini documenta infatti le modalità di orazione possibili in un poeta di retroterra cattolico, che abbia poi lasciato ogni forma di pratica ma che mantenga lungo i suoi testi una costante identificazione e un continuo confronto, anche eucologico, con le figure del Figlio e del Padre, interpretate quali ‘superfici riflettenti’ la sua condizione personale e soprattutto la sua vocazione poetica. In Caproni, invece, si dispiega la vicenda lirica estrema (e per questo conclusiva della 90

Ibid., 508.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 296

296

Antonio Sichera

nostra ‘storia’) di una preghiera innalzata, in regime di «morte di Dio», da un poeta orante che invoca l’Altro muovendo paradossalmente dalla sua scontata «inesistenza». L’impronta del religioso e del cristianesimo in quanto residuo agente nella contemporaneità del vecchio equilibrio del sacro, e la proiezione verso il Dio assente e apprentemente ininfluente dell’uomo pienamente postmoderno, appaiono icasticamente ai nostri occhi, a dire l’odierna contraddizione della ricerca religiosa fra l’ineliminabilità del sacro e la persistenza della questione di Dio oltre ogni soluzione filosofica o culturale. 5.1. Pasolini. L’Altro della prossimità e della distanza L’itinerario pasoliniano comincia, sin dalle Poesie a Casarsa, da un côté religioso molto esplicito, in cui la realtà del Cristo assume immediatamente un’importanza decisiva. Con una differenza chiara, però, fra i segnali cristologici della primissima raccoltina edita dalla Libreria Antiquaria Mario Landi di Bologna nel 1940 e la successiva produzione friulana e in lingua, il cui arco cronologico copre il ventennio fra il quaranta e la fine degli anni cinquanta. È la Domenica uliva91 il testo che fa da cartina di tornasole della diversità. Nella prima redazione del dialogo sacro fra la Madre e il Figlio con cui si chiudono le Poesie a Casarsa, il desiderio impossibile del Figlio di farsi uguale ai padri viene accolto e mediato dalla Madre in un’orazione («MADRE (parla) E FIGLIO (ripete) Jo soi còme che tu mi às fat, Crist: / ciànt e plànt ’a son ’na ròbe in tè. / Ta la tò cros inclàudimi, Crist: / jo soi sènze remèdi tò»), in cui il Figlio è invitato ad assimilarsi al sacrificio del Cristo in un regime di mancanza di guida paterna che genera una chiamata ‘al’ e ‘del’ dolore. Sulla stessa linea si collocano due testi dispersi del 1941. soprattutto la Preghiera al non Creduto92, che appoggiandosi in epigrafe a Michelangelo, misura ancora una distanza lancinante dal Padre, oltre a ribadire l’oscurità di un futuro non assisitito («Tu, governami, m’inchioda sulla croce, / oscura il mio futuro»). 91

Tutte le citazioni sono tratte da P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, 2 voll., Milano 1993, 1209-1219. Anche in questo caso da ora in poi si indicheranno solo le pagine dei componimenti 92 Ibid., 1948-1949. L’altro è In te mi penta, 1950-1951.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 297

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

297

Ma già nella versione della Domènia93 rielaborata per Tal cour d’un frut la preghiera materna è una riformulazione del Padre nostro («MARI E FÌ Pari nustri lontàn / ta la mari dal sèil / nu dal còur da la ciera / come in sun ti ciantàn. // Benedèt il To Nòn / colàt tal nustri lavri / e tal lavri dai fradis / parsè si perdonani. // Dani il pan ogni dì / fin al dì da la muart / quan’ ch’i vignìn tal sèil / par no vivi pì»), in cui la lontananza paterna è riequilibrata dalla «matrice del cielo» e dal celeste approdo finale nella morte, che assume dunque i caratteri di un ritorno alla madre più che di una relazione filiale con un’autentica figura genitoriale maschile. Certo, non manca nelle liriche di ambientazione friulana antologizzate in La meglio gioventù l’eco di un’epica biblica, trasportata sulla pagina in obbedienza ai paradigmi di Esodo e dei Salmi (Il quaranta quatri, Il quaranta sinc, La miej zoventùt)94. Il respiro collettivo di questi testi è assicurato dal modello scritturistico, ripercorso con vivacità e grande senso dell’avventura da parte di un popolo in mezzo ai travagli della guerra. Si tratta però di una linea laterale. Da quest’altezza in poi infatti, in maniera indiscutibilmente prioritaria, le poesie in dialetto come anche i testi in lingua dell’Usignolo della Chiesa cattolica tenderanno a smorzare fino all’annullamento la tensione all’imitatio Christi — facendo insensibilmente del corpo dell’io lirico il prolungamento / rispecchiamento del corpo del Cristo —, e ad accentuare enormemente i caratteri materni della sua vocazione, nella quale il padre si mostrerà nelle vesti tipiche dell’antagonista edipico, pronto a punire il figlio per il peccato sessuale. Un gioco complesso e narcisistico di turbamenti sensuali e di complessi di colpa occupa la scena di questi testi, dove né la ricerca del Padre, né la passione del Figlio fuoriescono da una tendenziale egolatria materna del fanciullo poeta. Gli esempi sono numerosi, proprio sul versante dell’orazione. Si pensi ad un testo come La passione95, dove Cristo è apostrofato come «Sereno poeta, / fratello ferito»), con un azzeramento della distanza radicale così viva nelle Poesie a Casarsa ed una forma estenuata di appaiamento dei corpi 93

Ibid., 1355-1364. Ibid., 165-170. 95 Ibid., 291-295. 94


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 298

298

Antonio Sichera

giovinetti del nazareno e del poeta, in quanto entrambi filii matris. Ovvero ai Madrigali a Dio96, che segnano l’esplosione di un conflitto adolescenziale con il padre/dio («Idiota Dio, decreta / la mia disonestà […] E allora, o Genitore, / uccidimi: o vuoi che Ti derida»), nella logica di una drammatizzazione fittizia e infantile (nel senso deteriore del termine). Fino al Dies irae97, cupa ammissione di una dipendenza dall’automatismo carnale e soprattutto negazione sofferta della tentazione di tornare alla voce del padre/barbaro («Voi lo sapete, o angeli, che tenta / la mia voce il barbaro che stette / dinanzi ad una terra d’albe e di gemme […] / O Dio, c’è / già in me il mio fantasma, il mio automa, / che mi soppianterà»). È con la svolta degli anni sessanta che la posizione pasoliniana inizia a mutare, riacquistando una dimensione relazionale grazie al dolore (non più negato) per l’assenza paterna, e vivendo in termini sempre meno estetici l’identificazione con il Christus patiens. Da Accattone e da Poesia in forma di rosa in poi, la rilettura dell’Evangelo (il cui frutto più alto sarà certamente La ricotta) e i viaggi africani nei luoghi della prigionia del padre, ‘registrati’ con grande sofferenza in poesia, provocheranno un ripensamento che si riverserà anche sul piano dell’orazione. Si pensi ad esempio, già nel 1960, ai testi di Giro a vuoto. In Cristo al Mandrione98, ad esempio, una povera donna del popolo chiede considerazione al «Re dei Re» dal fondo di una esplicita debolezza creaturale, bisognosa del soccorso del Figlio («Fileme, se ce sei, Gesù Cristo / guardeme tutta sporca de fanga, / abbi pietà di me, / io che nun so’ niente, e te er Re dei Re»). Il motivo della perdita e della fine del Dio delle campagne e della civiltà contadina è poi elaborato nella Preghiera su commissione99. Ma il luogo simbolico in cui la cristologia pasoliniana ‘recita’ la propria novità è senza dubbio Bestemmia100, un poema che trae il titolo dall’Usignolo, in cui la bestemmia, insieme all’eresia, era considerata l’«unica dolce memoria di Cristo». 96

Ibid., 395-397. Ibid., 360-361. 98 Ibid., 1701. 99 Ibid., 879-880. 100 Ibid., 1824-1830. 97


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 299

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

299

Si tratta di un testo di grande impatto. Ciò che racconta questo inedito «poema in forma di sceneggiatura» è infatti una vera e propria esperienza di contemplazione — ovvero la forma più alta di preghiera — il cui soggetto è appunto Bestemmia, un popolano dal sesso potente (possiede sei sorelle contadine in una sola notte) e dal corpo segnato dagli stenti. L’oggetto contemplato, nel frammento testuale rimastoci, è nientemeno che il corpo del Cristo crocifisso, con il quale Bestemmia vive un dinamismo di identificazione/distanziamento: Cristo è di fronte a lui, è altro da lui, e al contempo Cristo è lui, è Bestemmia stesso, chiamato a rispecchiarsi nel Crocifisso visto nella maniera più realistica possibile, quella di un vero corpo morente, mentre si leva la preghiera in canto delle prostitute e dei peccatori, secondo la parola di Gesù nei Vangeli. Pasolini da ‘sceneggiatorepoeta’ coglie l’occasione per riepilogare qui la storia del suo rapporto con Cristo: La cultura si secca, appassisce: l’orto ben coltivato torna selvaggio. […] All’origine di un’educazione che scatenò le passioni, non avrei potuto trattenermi, incontinente, dall’immaginare il Cristo d’una visione, scolpito con luci e ombre, e colori, il tetro morello o l’ocra, o il sangue di bue o il blu di Prussia, disteso come un manto prezioso tra mura scolorite di case contadine lontane; […] Oggi, la mia cristologia non più imberbe ma ancora barbarica (e vuol esserlo) teme di fallire se non suscita invece un’idea di Cristo anteriore a ogni stile, a ogni corso della storia […] voglio non solo non conoscere il Dante o il Masaccio o il Pontormo che a lungo hanno dominato i miei occhi e il mio cuore, i miei sensi: ma non voglio neanche conoscere la liingua e la pittura.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 300

300

Antonio Sichera

Voglio che quel Cristo si presenti come Cristo in realtà. Non è forse una buona ragione perché questo sia un film, non un poema? […] Lingue e stili! Ma io con un uomo in carne e ossa, con una vera croce di legno, con dei chiodi veri, e — vorrei — con vero sangue e vero dolore, evocherò la realtà con la realtà. […] Così Bestemmia vide Cristo — e per forza! Lo vide com’era lui: un corpo; non c’è carnale differenza fra Bestemmia e ciò che vede. Si tratta soltanto di voltare la macchina da presa. […] Bestemmia dunque se lo vide davanti come un altro. Aveva la sua stessa natura e, tacendo, parlava con lui. Era prossimo suo, figlio d’un’altra madre; ancora giovane; ma cosa diceva il linguaggio della sua Carne? Che moriva. Lo dicevano gli occhi rovesciati, le guancie tese e grige di mummia, i capelli coperti di un sudore denso come pus, il piccolo torace d’uomo sapiente squarciato con le labbra della ferita orlate di marciume, le braccia disperatamente tese, e tutto il corpo tirato giù dal suo peso come una vittima nuda sul trogolo, le gambe bagnate di orina gocciolata giù come alle bestie, fino sui piedi, a mescolarsi col sangue, le feci incollate alle coscie puzzolenti, le nuove sopra le vecchie, già secche, perdute dal povero ano senza più volontà. Io non voglio però snaturare Bestemmia. A ragione la religione non prende troppo sul serio la poesia. Perciò io devo vedere lui come lui vide Cristo,


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 301

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

301

— un oggetto che parla senza parlare, con la sua semplice presenza, con la sua semplice azione, con il suo semplice esserci. Egli è un oggetto.

Citazione lunga, ma necessaria. La storia della ‘preghiera’ pasoliniana — nella sua dimensione cristologica — viene qui acutamente riassunta. Partito, nelle prime poesie casarsesi, dalla percezione di una lontananza che non escludeva il fascino e la chiamata, ma collocava il figlio orante in un’oscurità irrisolvibile, il giovane Pasolini aveva virato verso una facile identificazione sul piano adolescenziale, leggendo nel corpo del Cristo sofferente i segni della comune origine materna. Ma nella dialettica fra alterità e prossimità, mentre la prima rende possibile il dialogo e l’atteggiamento orante, in quanto posizione della distanza e della differenza, la veloce assimilazione di sé all’oggetto religioso configura una simbiosi in cui nessun vero rapporto io/tu è possibile. Com’è ormai chiaro in Bestemmia, lo snodo degli anni sessanta si è incaricato di riportare progressivamente il poeta bolognese verso un distanziamento («Bestemmia se lo vide davanti come un altro»), che non impedisce la partecipazione fisica e sensoriale alla sorte di un corpo e di un uomo lontani dalla stilizzazione della grande cultura italiana («Era prossimo suo»). L’aspirazione alla rappresentazione della realtà del morente dice l’anelito ad un’assimilazione tanto profonda quanto impossibile. Ed è qui che si istituiscono paradossalmente le condizioni di una preghiera senza parole (contro la verbosità estenuata dell’Usignolo), di un desiderio che deve rimanere amante e inappagato. 5.2. Caproni. Ovvero: De oratione in morte Dei Con Caproni siamo di fronte alla poesia più contemporanea, più interna al clima attuale (Res amissa, il suo ultimo libro, pur postumo, è del 1991). In verità, la ricerca di Caproni prossima al nostro tema data già dal Muro della terra, la raccolta del 1975 dal titolo di sapore dostoevskijano (vi si sente chiara infatti l’eco delle Memorie del sottosuolo), dove c’è già tutta la percezione della invalicabilità della terra,


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 302

302

Antonio Sichera

dell’impossibilità sofferta di ogni metafisica. Nel mezzo ci sono altri due libri Il franco cacciatore (1982) e Il conte di Kevnhüller (1986), centrati entrambi attorno alla medesima questione. Eppure non bisogna guardare questi testi con gli occhi del dramma in atto. Perché essi ci appaiono anzitutto come poesie della leggerezza, dell’ironia diffusa, poesie la cui voce sottesa non rappresenta il dramma del moderno o la ricerca di una pur contestatrice, lieve antiteologia speculativa, alla maniera di Montale. L’uomo di Caproni è già al di là del metafisico e del religioso, al di là del grido della follia del nunzio nietzscheano. Per quest’uomo, Dio si è già assentato e la sua perdita è già stata metabolizzata. Non si può parlarne come di un morto ‘fresco’, ma discorrerne con una sorta di ‘fulminea distensione’, intessuta cioè di testi tanto insistenti quanto spesso folgoranti, che magari utilizzano i topos pascaliani, come la caccia, e nietzscheani, in primis l’uccisione (spesso fusi in un unico crogiuolo: «Il guardacaccia / con un sorriso ironico: // — Cacciatore, la preda / che cerchi io mai la vidi. // Il cacciatore / imbracciando il fucile // — Zitto, Dio esiste soltanto / nell’attimo in cui lo uccidi»)101, quali arnesi di una rappresentazione il cui pathos sembra già esaurito, consumato, delibato sino in fondo: «Vi sono casi in cui accettare la solitudine può significare attingere Dio. Ma v’è un’unica stoica accettazione più nobile ancora: la solitudine senza Dio. Irrespirabile per i più. Dura e incolore come un quarzo. Nera (e tagliente) come l’ossidiana. L’allegria ch’essa può dare è indicibile. È l’adito — troncata ogni netta speranza — a tutte le libertà possibili. Compresa quella (la serpe che si morde la coda) di credere in Dio, pur sapendo — definitivamente — che Dio non c’è e non esiste»102. È in questa contestualizzazione che risiede il fascino della ricerca di Caproni. Che potrebbe condensarsi tutta in un ‘perché’, ovvero: perché un uomo che ha già ‘digerito’ l’eclissi di Dio, che è già al di là 101

G. CAPRONI, Ribattuta, in ID., Tutte le poesie, Milano 1999, 418. D’ora in poi tutte le citazioni si intederanno tratte dalla suddetta edizione. Per comodità del lettore si indicheranno però sia il titolo del componimento (di norma non presente nel corpo del saggio) sia la pagina relativa. 102 Inserto (?), 439.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 303

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

303

del ‘dolore’ per la sua perdita, rimane a parlarne e a pensarci, a scriverne e a discuterne come del tema principale della sua esistenza e delle sua ricerca? E in che forma accade tutto questo? Dio si assottiglia, è ridotto a un puro nome (e «il nome non è la persona. / Il nome è la larva»), un flatus vocis, eppure di Lui non si può tacere, Lui non si può archiviare. Come se Caproni rappresentasse e desse voce ad un paradosso del postmoderno, senza però alcuna indulgenza al ritorno di Dio o del religioso: il paradosso dell’ineliminabilità della questione, che permane anche quando è risolta, che sollecita anche al di là della propria fine, della propria apparente irrilevanza. Di Dio non si fa a meno. Ma in questa poesia non si tratta della supplenza, di un nuovo appello perché qualcosa manca senza Dio, di un bisogno che ritorna. No. La sottrazione del pathos, l’annullamento dell’emotività fino alla sua quasi assoluta anestesia, sembrano funzionare quali antidoti ad ogni tentazione del religioso, ad ogni ritorno della preghiera stessa nella sua forma tradizionale. L’onestà terribile e fascinosa di questi testi è quella di chi sa che non c’è un dopo, un altro mondo («We would not leave / our native home / for any world / beyond the tomb»)103, che a Piero si dà l’addio per sempre («Ho anch’io / detto le mie preghiere / di rito. / Ma solo, / Piero, per dirti addio / e addio per sempre, io / che in te avevo il solo e vero / amico, fratello mio»)104, che l’abisso è scoperchiato («“Enfasi a parte: deo amisso, / che altro può restare in terra / a far da coperchio all’abisso?”»)105, e che pure non chiude la partita come ogni ateo tranquillo, come gli atei del mercato della Fröhliche, ma non può più nemmeno gridare come il folle di Nietzsche. Tutto è compiuto, nel senso del trionfo del nulla e dell’imperdonabile inesistenza di Dio («Il bambino che vinta / infine la vergogna nera / di credere […] / come potrà, mio Dio, / come potrà poi senza / odio perdonarti il furto / della tua inesistenza?»)106, eppure questa poesia sta lì come testimonianza paradossale che nulla finisce, che la questione è aperta al di là di ogni soluzione. Ed essa torna nel discorso in maniera 103

Versi incontrati poi, 372. Atque in perpetuum, frater, 462. 105 Enfasi a parte, 829. 106 Cantabile (ma stonato), 339. 104


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 304

304

Antonio Sichera

fluviale, incontinente, proprio quando non dovrebbe trovare più cittadinanza, se l’assenza è certificata e ormai accettata. In questo senso, la mancanza di Dio, la sua non esistenza, è certo un dato per Caproni — non sarebbe mai possibile fare di lui in alcuna maniera un credente — eppure, al contempo, i suoi testi non rappresentano in nessun modo la conferma di un puro venir meno della fede, bensì la permanenza paradossale e assorbente dell’Assente proprio nella sua assenza e non contro di essa. Dio non c’è, Dio si è ucciso («Un semplice dato: / Dio non s’è nascosto. / Dio s’è suicidato»)107, Dio manca, eppure sulle labbra del poeta Dio resta, Dio non se ne va, il suo Nome non si esaurisce, il suo spazio si dilata. Non in vista di un ritorno all’antico, ma come definizione indispensabile della soggettività, di colui che dice io nei testi e che è come il modello più puro di un uomo (e di un poeta) immersi negli anni della contemporaneità postmoderna. Di Dio non si può più parlare alla maniera antica, non lo si può più cercare e invocare come un tempo, eppure le parole del suo antagonistico dialogo con l’uomo, persino le parole della preghiera continuano ad essere pronunciate («Dio di volontà, / Dio onnipotente, cerca / (sfòrzati), a furia d’insistere / — almeno — d’esistere»)108. Questa poesia non si costruisce dunque a partire dalla rinunzia a parlare di Dio, a partire dall’assenza, in vista del rifugio nella forma. Era stata questa in fondo la via primaria della modernità romantica: partire dal presupposto del Gottes Tod e porvi rimedio, arginarla o contrapporsi ad essa riorientando il proprio sforzo verso la lingua, verso la forma, facendo della morphé lo Streben di ogni atto estetico in parole (e non solo). Quella di Caproni è in questo senso la poesia più ‘antiromantica’ della lirica italiana contemporanea. Non perché non accetti i presupposti della Romantik, ma in quanto non li concepisce più come tali, bensì li riporta al centro e ne fa l’oggetto di tutta la sua ricerca, l’unico obiettivo della sua parola. Dopo, a cose compiute, a giochi fatti. Dio è morto, e Dio non se ne va («lui, / che loro hanno ucciso, qui / più vivo e più incombente / (più 107 108

Deus absconditus, 349. Preghiera d’esortazione o d’incoraggii lamento, 383.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 305

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

305

spietato) che mai»)109. Dio è introvabile, eppure Dio si cerca sapendo di non poterlo rintracciare («Aveva posato / la sua lanterna sul prato. / […] Era scoraggiato. / “Come / può farmi lume, / pensava. “Come / può forare la tenebra, / in tanta inondazione / di luce?” / Piangeva, / quasi. S’era / coperta la faccia. / Si premeva gli occhi. / Aveva / perso completamente, / con la speranza, ogni traccia»)110. Dio si prega, anche se non può rispondere, anche se si tratta di un rito che non può dare speranza nella morte (è il senso di Atque in perpetuum), ma almeno per esortarlo ad esistere, dopo essersi lamentati della sua mancanza: unendo la propria voce, sotto traccia, a quella del salmista e di Gesù (si compie così l’itinerario di Jacopo Ortis: «Ah mio Dio, Mio Dio. / Perché non esisti?»)111, tentando pur invano di pregare nel protiro di un Nome o di un Nume (l’unico spazio sacro possibile per quest’uomo, grazie alla sua natura vestibolare, introduttoria: «Scappai. / Mi rifugiai / nel protiro della cattedrale. / Tentai di pregare. / Cercai d’ordinare la mente. […] // Riprovai — ma invano — a pregare, / nel protiro della Cattedrale. // (Nel Protiro, forse, della Preda stessa?... // Di un Nome?... / Un Nume?... / Forse / di un qualsiasi animale?...»)112, cedendo al sentimento della sera, a quello che si infiltra e che mette per un attimo in una posizione orante («Non c’è sembianza — è detto — / che affermi la sostanza. // Un rondone / raso l’acqua ne lima / col suo grido la spera. // Due alianti altissimi. // Nera / e perduta la cima / resecata. / Venere / che già la sovrasta. / Richiudo / — con cautela — il portone. / Ne trapassa il legno la sera, / inumidendo l’androne. / Recito la mia preghiera. / Al Nume? // (Forse / — perdutamente e senza / revoca — // al vacuo: // al Nome.»)113, erodendo come fa un topo la la logica, apparentemente implacabile, della solitudine senza Dio («Per quanto tu ragioni, c’è sempre un topo — un fiore — a scombinare la logica. Direi che tutto nel tuo ragionamento è perfetto, se non avessi davanti questo prato di trifoglio. E sarei anche d’accordo con te, se nella mente 109

Lui, 419. Il cercatore, 341. 111 I coltelli, 331. 112 Nel protiro, 599-600. 113 Abendempfindung, 655-656. 110


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 306

306

Antonio Sichera

non mi bruciasse (se non mi bruciasse la mente — con dolcezza) quest’odore di tannino che viene dalla segheria sotto la pioggia: quest’odore di tronchi sbucciati (d’alba e d’alburno), e non ci fosse il fresco delle foglie bagnate come tanti lunghi occhi, e il persistente (ma sempre più sbiadito) blu della notte»)114. È forse in questa riserva estrema di sentimento trattenuto, in questo rodere la logica da parte del mondo che si manifesta e appare, e soprattutto nell’esistenza donata di chi giorno per giorno ha cura del mondo («Ha fatto tutto da sola. // Ha costruito una casa / e l’ha confortata. // Giorno / per giorno. // Stanza / per stanza. // Ha eretto / i figli. // Ha detto / la sola giusta parola, / e nessun’altra. / Insiste nell’affermarla, senza / ripeterla… // Per lei, / e solo grazie a lei, esiste / dunque uno spiraglio ancora / di qua d’ogni inerte speranza?...»)115, nell’esistenza di Rina («Se il mondo prende colore / e vita, lo devo a te, amore…»)116, il principio della domanda e della speranza al di là di ogni inerte speranza, il motivo della parola che ritorna. Anche in Caproni dunque, alla stessa maniera di Montale, lo sbigottimento e l’incanto dinanzi alle vite plasmate nel dono e dal dono rappresentano l’estrema via di accesso alla speranza, quel che impedisce di chiudere, e anzi sempre riapre, l’inchiesta. Il fatto che ci siano donne che offrono tutta la loro esistenza per gli altri, senz alcun riguardo per sé, provoca il ritorno della parola impossibile e inaudita. Che fa della cosa perduta, della res amissa, la ‘cosa’ della vita e della poesia. Che fa della perdita acquisita ancora il motivo di un ‘insensato’ cercare («Mi piacciono i colpi a vuoto»)117, di un ‘insensato’ pregare («Appunto perché lo preghi, / fratello, Dio lo neghi»)118, posto sta al di là della logica («”E allora, sai che ti dico io? / Che proprio dove non c’è nulla / — nemmeno il dove — c’è Dio”»)119 e forse — sembra lasciar intendere Caproni —, più forte di noi, più forte di Lui. «Dio di 114

Altro inserto, 511. Laudetta, 672. 116 A Rina, II, 949. 117 Consolazione di Max, 601. 118 Monito dello stesso, 744. 119 Pronta replica, o ripetizione (e conferma), 702. 115


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 307

In partibus infidelium: forme e sensi del pregare

307

bontà infinita. / Noi preghiamo, per te. / Preghiamo perché ti sia lunga / e serena la vita. / Ma anche tu, se puoi, / prega, qualche volta, per noi. / E rimettici i nostri debiti / come noi rimettiamo i tuoi»120. La voce di un non credente orante si leva verso il Dio che non esiste augurandogli una lunga vita, in un vertiginoso capovolgimento di ruoli e di appelli, se gli oranti pregano per Dio e Dio è invitato a pregare qualche volta per loro, supponendo dunque che ci sia qualcuno o qualcosa a cui rivolgersi al di là della relazione duale fra il ‘popolo’ e il suo Dio. È in questo fattore neutro, in questa variabile indefinita, in questa istanza ammessa e inammissibile, che al di là della fede e di Dio stesso la preghiera si dà (e forse si giustifica) in quanto movimento di libertà. Oltre ogni barriera teorica, senza ossequi al logos. Una pura richiesta di aiuto e di sostegno nella fatica dell’esistere, che l’uomo pare elevare di per sé, non per un mero bisogno ma come per uno scatto dell’anima, un’espressione sovrana dell’esserci. Dopo la fine della metafisica e dopo la scomparsa di qualsiasi garanzia, perché il dinamismo del ‘per’, dell’essere rivolti ad altri e dello sperare ‘per’ altri ci appartiene, ci configura in quanto umani. La parola orante si leva per l’altro, dinanzi al pericolo e alla distretta, quale invocazione verso il Nome, perché non siamo lasciati soli nella prova («Mio Dio, anche se non esisti, / perché non ci assisti?»121; «Signore, anche se non ci sei, / egualmente proteggi / e assisti me e i miei»)122. Da qui si ritorna, o forse si resta, ancora, a Getsemani.

120

Dio di bontà infinita, 897. Invocazione, 954. 122 La stessa in termini più prolissi di giaculatoria, 955. 121


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 308


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 309

LA PREGHIERA COME RICERCA DI IDENTITÀ NELL’ESPERIENZA DI SORELLA MARIA. VALERIA PIGNETTI (TORINO 1875— CAMPELLO 1961)

ARIANNA ROTONDO*

«Innanzitutto vogliatemi perdonare se non mi esprimo col cerimoniale d’uso. Avrei un senso di tristezza nell’adoperarlo. […] Sono una vecchia eremita. Vivo con alcune compagne in un antico eremo francescano nel cuore dell’Umbria, che i frati minori avevano lasciato e che cadeva in rovina, e noi abbiamo reso abitabile con indicibile travaglio. Il luogo è solitario, sul colle che sovrasta il Clitunno, in posizione bellissima, e vi si accede per un aspro sentiero dalla via Flaminia (non abbiamo luce, né acqua potabile che occorre trasportare dal basso a dorso di somaro)»1.

Con queste parole sorella Maria, al secolo Valeria Pignetti, presenta se stessa e la sua comunità a papa Pio XII in una lettera del 21 giugno 1942. Proveniente dalla media borghesia torinese, Valeria, nata nel 1875, è figlia di un insegnante, morto prematuramente, che le lascia una profonda passione per la poesia dantesca, e di una rampolla dei Valerio, famiglia benestante torinese di ferventi patrioti risorgimentali. Come amico dello zio Lorenzo le rimane familiare la figura di Mazzini, per il quale nutre stima, apprezzandone il pensiero e gli ideali. Riceve * Ricercatore in Storia del Cristianesimo e delle Chiese presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania. 1 F. ARONICA, Sorella Maria e il suo Eremo tra opposizione e ostilità. Storia del rapporto tra l’Eremo e l’autorità ecclesiastica dagli anni ‘20 agli anni ‘50, Messina 1993, 100.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 310

310

Arianna Rotondo

un’educazione religiosa dalla nonna, sorella del vescovo d’Alba. Amante della lettura e della musica, della natura e della montagna, proprio durante un ritiro a La Salle nel 1900 scopre la sua vocazione religiosa ed è accolta, col nome di Maria Pastorella, tra le francescane missionarie di Maria, istituzione recente e dal carisma missionario. Il duro regime di vita della congregazione la prova molto nel fisico ma non nello spirito. Le vengono affidati ruoli di responsabilità, ma le è preclusa la missione per la salute cagionevole. Mentre lavora nell’ospedale angloamericano di Roma nel 1918 conosce Ernesto Buonaiuti, Ginepro nel gergo francescano di Maria. Cercando un confronto con l’amico, gli confida la nuova vocazione che sente farsi spazio dentro di sé: «fu un ineffabile. Uno di quei tocchi misteriosi che l’anima avverte nella sua profondità». L’amico l’accoglie e la incoraggia. Ella sente di avere bisogno di un più ampio respiro, come avrà modo di ripetere spesso, e all’età di 44 anni, è il 1919, lascia la congregazione col consenso di Benedetto XV e dà inizio con l’unica consorella che la segue, Immacolatella, alla sua avventura, quella che chiama la sua «alba»: desiderava trovare «un luogo ove tutti potessero essere accolti senza distinzione, con fraternità, con rispetto. Dove si vivesse in semplicità e povertà». Dopo numerosi spostamenti, sceglie l’Umbria, la terra di Francesco. Si aggiungono altre compagne e il primo approdo è il cosiddetto Rifugio san Francesco, a Poreta, vicino Spoleto. Nel 1926 finalmente la compagnia della «allodole», formata da cinque donne, sorella Maria, Jacopa, cieca dalla nascita, Immacolatella, Angeluccia e Rosa, approda nell’eremo di Campello sopra le fonti del Clitunno. Il luogo dall’antica e gloriosa tradizione monastica, pare che perfino Francesco vi sostò, è inospitale e ha bisogno di un restauro. Sono anni difficili sia per l’acquisto dell’immobile sia per le spese che lo rendano agibile. La comunità si inserisce nel territorio, sebbene l’eremo sia isolato e fuori mano. Le maggiori angustie però derivano dall’ostruzionismo della diocesi di Spoleto, che vieterà per decenni alle Allodole la celebrazione della Messa, proibendo ai sacerdoti di prestarvi il loro servizio. Maria paga così l’amicizia con il modernista Buonaiuti. Nonostante la forte opposizione, l’indifferenza, il sospetto di eterodossia e il conseguente continuo monitoraggio, ella dà vita ad una comunità che si può definire “ecumenica”: quasi tutte sono


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 311

La preghiera come ricerca di identità nell’esperienza di Sorella Maria

311

terziarie francescane, v’è una terziaria carmelitanana e una domenicana; Amy Turton è anglicana, l’americana Miriam Shaw è un’episcopaliana di Boston. Riprendendo il contenuto della lettera da cui abbiamo preso le mosse, Maria spiega a Pio XII lo spirito che anima la sua eterogenea comunità di Allodole, usando queste parole: «per me la fraternità riverente verso le chiese cristiane, verso i fratelli separati, verso ogni esperienza religiosa sincera, se pur diversa dalla nostra, è mandato inflessibile ed è anche luce sul cammino». L’eremo di Campello è aperto a tutti gli uomini in cammino, qualunque sia la loro provenienza e il loro credo. Sorella Maria ammette: «io sono riconoscente e in venerazione per la Chiesa della mia nascita e della mia famiglia, ma la Chiesa del mio cuore è l’invisibile Chiesa che sale alle stelle, che non è divisa da diversità di culti, ma è formata da tutti i cercatori di verità». Nell’eremo si sperimenta «un vita fraterna, regolata e custodita dalla disciplina religiosa che serve alla formazione del carattere, al risparmio del tempo, all’armonia interiore ed esteriore». Molti sono gli amici dell’eremo, i non conviventi: Giovanni Vannucci, Primo Mazzolari, chiamato Ignazio (con riferimento a Ignazio di Antiochia, “frumento di Cristo”), don Orione, Giovanni Semeria, Brizio Casciola, il frate minore Girolamo Mele, David Maria Turoldo, Zeno Saltini, fondatore di Nomadelfia. Ne furono frequentatori ed estimatori, Giuseppe Lanza del Vasto, Annalena Tonelli e ancora Giorgio La Pira. Nell’eremo, in anticipo sui tempi, ecumenismo e dialogo interreligioso, consuetudini monastiche e ospitalità fraterna sono sperimentate con naturalezza, nel fermo proposito di vivere il vangelo sine glossa. Lo spirito e la presenza dei «Grandi», come li chiama sorella Maria, ne fa un luogo che valica i confini dello spazio e del tempo, per diventare un’esperienza guardata con ammirazione e speranza dalle più lontane terre del mondo. Pur non muovendosi dall’eremo la Minore usa la corrispondenza per intrecciare amicizie straordinarie e sodalizi spirituali che continueranno anche dopo la sua morte: Gandhi e Albert Schweitzer sono di certo i suoi più lontani e importanti interlocutori. Le fonti che hanno permesso di conoscere l’esperienza dell’eremo di Campello e il pensiero della Minore sono rappresentate in primo luogo dall’imponente carteggio delle sue corrispondenze: con


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 312

312

Arianna Rotondo

Vannucci2, con Mazzolari3, con altri presbiteri venuti a contatto con l’eremo per varie ragioni, con la diocesi di Spoleto e con i Grandi. Vi sono poi gli appunti e le lettere dettate, dalla stessa sorella Maria, impossibilitata a scrivere per le sue precarie condizioni di salute; e ancora il diario e gli appunti scritti in un braille veloce di sorella Jacopa, chiamata l’unanime, avvezza a prender nota di tutto, registrando ogni parola della Madre. Buona parte delle corrispondenze è stata pubblicata, molti testi che riguardano la storia dell’Eremo sono pro manuscripto, dunque di difficile reperibilità, mentre le altre fonti documentali insieme al Diario di sorella Jacopa sono ordinate nell’Archivio dell’Eremo di Campello. Il materiale sulla liturgia e la preghiera è contenuto nella cartella “bigia”, chiamata così da sorella Maria per il suo colore, e custodita nell’Archivio dell’Eremo insieme ad altre in cui sono raccolti tutti i documenti che attestano pensieri e riflessioni della Madre su temi diversi: Gesù, Vita e morte, Perdono, Preghiera, Pace, Sofferenza, Amicizia, Servizio, Fede cristiana, Fede e religiosità altrui — Ecumenismo, Fraternità, Riforma secondo il vangelo, Silenzio, solitudine, raccoglimento. 1. LA PICCOLA RIFORMA Nella Lettera all’Ecclesia, di cui dirò più diffusamente dopo, conservata fra i documenti più importanti nell’Archivio dell’Eremo, scritta il 9 maggio 1945 da sorella Maria per aver ottenuto dopo tanti anni di richieste respinte che fosse celebrata la Messa all’Eremo, si legge: «Noi siamo tutti convinti, è vero, della necessità di riformare noi stessi, cioè l’ecclesia. “Restaurare tutto in Cristo”»4. La via piccola per realizzare questa riforma, che è prima di tutto riforma di sé nella concezione della Minore, è quella della preghiera e della fraternità: solo fondandosi sulla propria identità, riconosciuta e costruita, si può rispettare la diversità dell’altro. Questo è il modo d’essere di Sorella Maria, 2 Il canto dell'allodola. Lettere scelte 1947-1961, a cura di P. Marangon, Qiqajon 2006. 3 L'ineffabile fraternità. Carteggio 1925-1959, a cura di M. Maraviglia, Qiqajon 2007. 4 Ibid., 124.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 313

La preghiera come ricerca di identità nell’esperienza di Sorella Maria

313

avversa alle polemiche e costruttrice di unità, al punto da bacchettare senza remore anche i suoi più cari amici, contestando l’irruenza dei toni, mai giustificata nemmeno a scopo di difesa. Molto critica si dimostra verso il temperamento dell’amico Ernesto Buonaiuti, che sente di dover richiamare, nonostante la dura repressione personale che lo prova, al rispetto verso i suoi interlocutori: in una lettera del 1943 su Benedetto Croce, pur ammettendo un certo fastidio nei confronti dell’opuscolo Perchè non possiamo non dirci cristiani, (già il titolo le era sembrato sgradevole al punto da affermare: «tanto viva la ripugnanza per quell’affermativo, e forse, pur ignara come sono, per il modo di pensare del filosofo e dei suoi seguaci»)5 e, pur condividendo le critiche mosse da Buonaiuti, biasima i toni della disputa. «Io vorrei che pur nella difesa intransigente, di cui hai preciso mandato, — scrive all’amico — tu temperassi il tono acerbo. Croce è un vecchio, un lavoratore mi dicono. Un libero, e forse un sincero nella sua insipienza. Vi è dunque motivo a rispetto». E più avanti, dopo aver richiamato ad una riflessione sulla drammaticità di quegli anni («l’ora è così disperata, così mortalmente triste per tutti»)6, aggiunge: «[…] Noi pure siamo vecchi Ginepro: il nostro cuore è giunto ad una maturità di consapevolezza che ci fa sentire sacro oltre tutto l’incommensurabile debito della pietà verso l’uomo, verso il fratello, verso il compagno di questo oscuro pellegrinaggio. Pur vegliando in armi per la difesa e la confermazione del Vangelo, cerchiamo di non contristare!»7.

Essere cristiani per sorella Maria è certo frutto di un innamoramento, ma è anche una questione di stile: è più efficace una testimonianza silenziosa, che si cura di non aggredire l’altro, rispetto agli strali acuti della polemica, alle astratte dottrine, alle pretese rivoluzioni troppo rumorose o peggio violente. Nel racconto di sorella Jacopa si legge un esempio di quest’intuizione della Minore: 5

Uno stralcio della lettera da cui si cita è riportato in R. MOROZZO DELLA ROCCA, Maria dell’eremo di Campello. Un’avventura spirituale nell’Italia del Novecento, Milano 1998, 18. Si lamenta l’assenza di un riferimento bibliografico a cui riferire la citazione; l’Autore non cita con precisione le fonti che usa . 6 L.c. 7 Ibid.,19.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 314

314

Arianna Rotondo

«Quanti di tali spiriti le ho visto incontrare nei 28 anni da che ormai la seguo! E quanti gliene ho visti richiamare al riconoscimento della virtù nutritiva di quell’unico Pane, non magnificandolo mai a chi non voleva sentirne parlare; ma procurando con delicatissima, invisibile opera che il sapore inconfondibile ne fosse riconosciuto anche in altri alimenti»8.

Con la sua intuizione profetica Maria di Campello avverte l’urgenza di una riforma interiore, di una conversione intima, prima che una riforma delle istituzioni ecclesiastiche, di una rivoluzione dottrinale e teologica che non le interessa: essere rivoluzionati e non rivoluzionare, questo è il suo invito. Fra i pensieri di sorella Maria, contenuti nel Fascicolo intitolato Riforma secondo il Vangelo9, custodito insieme agli altri nell’archivio dell’eremo di Campello, si legge: «Non vi sarà riforma della Chiesa, del mondo, se ciascuno non darà l’umile necessario contributo della riforma di sè»10. Sorella Maria dimostra, spesso a differenza dei suoi interlocutori di cui apprezza l’impegno, il coraggio, le intuizioni, che l’unica azione possibile rimane la testimonianza minore, nell’ombra e nella libertà, nel solco dell’intuizione francescana. Il rifiuto del contrasto non le impedisce una lucida e realistica visione della Chiesa del suo tempo, che nella provinciale realtà spoletina le aveva mostrato ottusità e pregiudizi, rendendo difficile e doloroso il suo progetto di condivisione fraterna. In una lettera a don Brizio Casciola del 4 novembre 1925 auspica un cammino «senza le strettoie e le oppressioni di quella che il Gratry chiama “la maschera di ferro della Chiesa”»11. 2. LA LITURGIA L’originale esperienza eremitica, voluta da Sorella Maria, si può 8 Lettera di Sorella Jacopa a Padre Ceresi del 20 gennaio 1952 conservata nell’Archivio dell’Eremo e citata in M. BORGOGNONI, Sorella Maria. Selvatica e libera in Cristo, Assisi 2007, 163 nota 49. 9 Sorella Maria parla. Raccolta di pensieri di Sorella Maria (1924-1961), Pro manuscripto, Eremo di Campello. 10 Ibid.,10. 11 F. ARONICA, Sorella Maria e il suo Eremo tra opposizione e ostilità., cit., 64.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 315

La preghiera come ricerca di identità nell’esperienza di Sorella Maria

315

definire una diuturna liturgia comunitaria, che si configura come un cammino di perfezione all’insegna del sacrum facere. I luoghi, i tempi e i gesti sono interpretati attraverso una lettura simbolica che mira a fare della vita delle Allodole una voce concorde, allineata al canto del cosmo, al coro di tutte le creature: «l’armonia è una nota celeste; — afferma la Minore — finchè avrò vita lotterò contro ogni disarmonia». Tutto riceve un nuovo nome: la stanza dei vestiti è “la stanza dei gigli”, salire la scala è salire la scala di Giacobbe, la cella è il “San Basilio” di ognuna. C’è una straordinaria femminilità alla base di questo senso del sacro, continuamente cercato ed esperito: sorella Maria trova nella ricerca di esso il contenuto del servizio religioso; l’attenzione, la delicatezza, la diligenza pur nelle piccole cose, la puntualità che è forma di rispetto e gentilezza, la prontezza nell’accogliere rendono l’ordinario uno spazio in cui il divino si rivela, e il cosmo una realtà sacra e armoniosa. Ci si rivolge allora alla ricerca di una bellezza che è cura per i dettagli, per l’ordine e per la pulizia: gli arredi sacri sono confezionati con scrupolo, ogni Allodola deve essere decorosa nella cura essenziale di sé. L’ordine in funzione dell’armonia è un tratto precipuo dell’Eremo: bisogna, pur nell’essenzialità di una vita semplice e povera ,non trascurare l’eleganza e la finezza, respingere la sciatteria, l’insipienza, la distrazione. Un esempio di questa tensione a sacralizzare ogni gesto quotidiano, aspetto caratteristico della vita claustrale, e in questo caso anche il lavoro, si può trarre dall’attività di sartoria e ricamo che le Allodole portano avanti nell’Eremo. Sorella Maria fa installare due grandi e preziosi telai, in ricordo dell’attività tessile dei primi terziari francescani: i tessuti e i ricami confezionati nell’eremo di Campello non sono di comune fattura, essi riproducono i simboli tratti da un secentesco libro sull’arte paleocristiana, intitolato: Simboli inscrittioni et monogrammi che si uedono nelle Catacombe di Roma12. Appaiono singolari altri gesti ispirati a consuetudini antiche, talvolta locali o tratte dalla sapienza popolare, che sorella Maria include nella ritualità comunitaria: lasciare pane, acqua, vino e due legni nel giorno dei Defunti presso il focolare, o ancora «cospargere il terreno di lumini nella sera 12

R. MOROZZO DELLA ROCCA, Maria dell’Eremo di Campello, cit., 53.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 316

316

Arianna Rotondo

della festa di Tutti i Santi, in segno di vicinanza al riposo dei santi, seguendo una tradizione umbra; […] la “fila”, cioè il raccogliersi ordinatamente per l’andare al coro, alla mensa, alla veglia, al riposo, sentendosi per un attimo in pellegrinaggio “verso il monte di Dio”»13. La spiritualità francescana e le modalità di vita monastica d’ispirazione benedettina costituiscono la Regula non scritta della piccola comunità di Campello. In luogo di norme sorella Maria propone consuetudini disciplinate, invece della professione di voti specifici l’impegno libero di vivere in obbedienza, povertà e castità, trovando nella vita comunitaria una continua verifica di fedeltà: la libertà di questa scelta di donazione e condivisione, di accoglienza dell’amico e del contrario, non corre il pericolo di degenerare nell’anarchia e nel disordine, perché — dice sorella Maria — «se ci chiamiamo sorelle è perchè in verità ci vogliamo bene come sorelle»14. Non è necessaria un’ufficialità quando di una Regula, quella francescana in questo caso, si condivide lo spirito, patrimonio comune di tutti i cristiani. É in quest’ottica che bisogna considerare l’appartenenza, pregressa alla fondazione dell’Eremo, di alcune Allodole al terz’ordine francescano. La via minore «di una liturgia che torni ad essere davvero azione comunitaria e che, attraverso ciò, ridefinisce un’idea di Chiesa come corpo di Cristo e popolo di Dio»15 è la tensione che anima sorella Maria nella sua creativa elaborazione di quelle consuetudini che rappresentano il respiro della vita eremitica di Campello. Gli ospiti della comunità delle Allodole, considerati sacri perchè nell’ospite «si sente il Cristo che viene»16, sono coinvolti e rimarranno affascinati da una ritualità che l’estro di sorella Maria ha reso femminile e originale, con l’intento di conferirle un valore universale, per accogliere e far convivere spunti diversi, tradizioni diverse, in nome di uno sconfinato amore per il bello: anche il «padre Dante» — come lo chiama sorella Maria, iniziata fin da piccola alla lettura della Commedia, un testo davvero sentito come Divino — suggerisce parole per la preghiera del Crepus13

Ibid., 56-57. Ibid., 61. 15 M. BORGOGNONI, Sorella Maria, cit., 60. 16 R. MOROZZO DELLA ROCCA, Maria dell’Eremo di Campello, cit., 56. 14


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 317

La preghiera come ricerca di identità nell’esperienza di Sorella Maria

317

colo; come la musica di Bach o di Beethoveen accompagna i migliori momenti di meditazione e contemplazione: «talvolta nel giorno del Signore, durante la mezz’ora di silenzio che precede il Lucernarium, viene ascoltata con grande diletto di tutti buona musica incisa su dischi»17. La musica ispira anche la danza, che sorella Maria ama particolarmente e che rappresentava una delle distrazioni preferite della sua giovinezza: anche nell’Eremo i momenti scherzosi non mancavano e la danza li accompagnava. Sorella Maria avverte l’importanza della liturgia come modus vivendi e soprattutto come strumento di unità per i cristiani troppo spesso separati da forme esteriori e dimentichi di un’identità che li rende inevitabilmente membra dello stesso corpo. Di fronte all’urgenza e alla necessità dell’essere in Domino cadono gli steccati confessionali, non esistono divergenze. Nella sua esperienza personale di servizio all’ospedale angloamericano di via Nomentana, durante il primo conflitto mondiale, il luogo in cui conosce Ernesto Buonaiuti accorso al capezzale del suo allievo prediletto Biamonti, sorella Maria, allora Maria Pastorella, sperimenta la condivisione della sofferenza anche attraverso una liturgia che non conosce, quella ortodossa. Data la presenza di numerosi soldati serbi ella pensa di invitare un pope ortodosso per celebrare il rito funebre, a cui partecipa ella stessa, non senza suscitare imbarazzo e biasimo. L’importanza data alla liturgia come strumento di riconoscimento della Chiesa una, corpo mistico di Cristo, la vede in linea con quel movimento per il rinnovamento della liturgia, che grazie alle sue figure più carismatiche, soprattutto Lambert Beauduin (1873-1960), aveva contribuito a mostrare il monachesimo come risorsa spirituale importante per un’opera di riconciliazione fra le chiese e a veicolare quelle istanze ecumeniche, di cui la stessa Minore si farà instancabile portavoce nel silenzio del suo eremo. A Beauduin sorella Maria è legata da profonda stima, ne legge la rivista Irenikòn e a lui pensa addirittura di affidare l’Eremo restaurato qualora fosse stata costretta a lasciarlo18. Bisogna precisare che la 17

Ibid., 60 (cita un articolo di Anna de Micco pubblicato nel 1947 nella rivista valdese Ali). 18 Ibid., 54.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 318

318

Arianna Rotondo

lettura dell’esperienza monastica come dell’ecumenismo data da sorella Maria è molto originale e personale: l’esperienza monastica è intesa come il cammino preferenziale nella ricerca dell’assoluto, un percorso che non può irrigidirsi entro la scrupolosa osservanza di norme e la cui legittimità e autenticità non passa solo attraverso il riconoscimento canonico né nella scelta di rimanere solitari entro mura claustrali. É prima di tutto un’esperienza di costruzione di una solida identità personale, che deve tradursi poi in testimonianza dell’unum necessarium. E tale testimonianza trova una sua prassi naturale nella fraterna accoglienza, che abbatte ogni distanza o diversità. Nella circolare del 21 marzo 1943, conservata nell’Archivio dell’Eremo di Campello, sorella Maria scrive: «Sono io monaca? Sì, mi sembra, nel senso essenziale della parola. Viviamo in un luogo solitario, di antichissima tradizione monastica. Osserviamo, quanto è possibile nella nostra pochezza, i quattro punti cardinali del monachesimo: preghiera, studio, lavoro, comunione fraterna»19.

Integra questa affermazione la riflessione di sorella Jacopa, che così spiega l’esperienza dell’eremo nell’ispirazione della sua fondatrice: «La nostra è una vita fraterna di spirito monastico antico, su radici benedettine e francescane. É clausura senza chiusura. É disciplina senza apparato di autorità e senza l’aiuto dei mezzi tradizionali come i voti, la regola, i termini reverenziali. Non siamo né monache né suore. Non abbiamo una regola speciale ma seguiamo con semplicità e amore il pensiero di San Francesco: “procuriamo di viverlo con animo virile — scriveva sorella Maria — per quanto possa essere concesso a donne”. Se pure non siamo monache nel senso specifico della parola, lo siamo nel senso essenziale […]»20.

L’aspirazione a diventare «donne virili» appare un’esigenza per il corretto esercizio di una vita contemplativa e attiva, fatta di preghiera e di lavoro, di povertà e di silenzio. 19 20

Ibid., 56. Ibid., 46.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 319

La preghiera come ricerca di identità nell’esperienza di Sorella Maria

319

3. LA PREGHIERA Al centro di tutta la vita dell’eremo, come una sorta di collante individuale fra anima e corpo, e comunitario fra spiriti, è la preghiera. La preghiera è un esercizio continuo, una disposizione, un lavoro su se stessi, una vera e propria riforma interiore attuata giornalmente con impegno e sacrificio, nel dominio di sé. L’obiettivo è diventare preghiera. Perchè pregare? Risponde sorella Maria: «[…] perchè il Padre benedica gli sforzi che vogliamo risolutamente compiere per continuare il nostro cammino verso l’Eremo. Pregare senza dubitare che il Padre possa darci, anche in breve tempo, l’aiuto sufficiente. Pregare con cuore libero, pronte ad essere pur sempre ospiti e pellegrine… e nella gioia perfetta. Ma pregare non basta; occorre lavorare. Innanzitutto su noi stesse, sul nostro carattere, che dobbiamo formarci a costo di qualsiasi sforzo; la nostra missione lo esige imperiosa; il tempo stringe»21.

La preghiera deve essere breve, perchè deve accompagnare ogni momento della giornata, e non deve contemplare parole inutili e superflue. Anche il silenzio è uno spazio della preghiera («il silenzio è il mezzo migliore per imparare a parlare, […] prepara la preghiera, alimenta la contemplazione; […] abitua al dominio di se stessi»)22, mentre il motore che la rende spontanea e continua è l’amore: «non si può non pregare quando si ama»23. La preghiera accompagna tutte le scansioni in cui si articola una giornata nell’Eremo di Campello. Ce ne dà testimonianza dettagliata una delle figure più importanti nella storia di questa comunità, l’anglicana Amy Turton. Nella sua storia dell’Eremo di Campello la Turton racconta dell’inizio del giorno al suono della campana, alle 6.30, cui segue il canto di sorella Maria, «il richiamo della Minore alle altre 21 Lettera di Sorella Maria alle sorelle dell’Eremo del dicembre 1925, in un momento di indigenza. Ibid., 40 22 R. MOROZZO DELLA ROCCA, Maria dell’Eremo di Campello, cit., 54. 23 M. BORGOGNONI, Sorella Maria, cit., 85 nota 12.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 320

320

Arianna Rotondo

allodole». Alle 7.30 la campana suona per la preghiera comunitaria, in coro. Alle 8 la colazione in silenzio; dopo ognuna riordina la cella e inizia il suo lavoro, che deve essere compiuto entro le 9.30, quando suona la campana che precede la verifica di sorella Maria. Fino alle 12 segue il momento silenzioso del lavoro svolto in comunità, nella stanza del fuoco. Alle 12 l’Angelus dinanzi alla Madonna e il canto. Segue la mensa e la rigovernatura della cucina fino alle 13,30; poi la recita del rosario e la ripresa del lavoro fino alle 17, in silenzio. Dalle 14 alle 15 se possibile si sta all’aperto, dedicandosi alla raccolta dei frutti della terra. Alle 5 al suono dell’Ave Maria dinanzi al camino si prega insieme fino alle 6. Segue la cena e la ricreazione attorno al fuoco, filando e ascoltando letture, soprattutto della corrispondenza. Alle 9 è il coprifuoco, si rimette in ordine, ci si saluta col bacio di pace, si porta il saluto comunitario a Maria, chiedendole la benedizione. Tutte si ritirano nelle celle, solo la Minore va su e giù per i corridoi fino al tacere di ogni rumore. Allora accende il lanternino dinanzi a Gesù, il Guardiano delle allodole, e intona un breve canto24. La preghiera rientra fra le consuetudini disciplinate: il canto e il salmeggiare ne sono parte integrante, insieme all’esercizio di imparare a memoria pericopi delle Scritture, soprattutto dei Vangeli (il vangelo è «pane») o di altri testi «per l’edificazione reciproca»25, che possano rendere l’orazione continua e l’orante unificato in essa. La ripetizione a scopo mnemonico è un modo per pregare con la Parola rivelata, che la renda familiare. Da Gandhi e da un suo discorso sulla Gita, sorella Maria riprende l’immagine della Scrittura come Madre «che illumina e alimenta, purifica e perdona»26. I momenti più importanti della preghiera comune sono per la Minore il vespro e il mattutino, legati al simbolismo dell’oscurità: la preghiera illumina il cammino verso la luce. «Dovunque è il senso religioso, il sacro si crea […]. Io che amo resuscitare le antichità pagane o 24 A. TURTON, Storia dell’eremo...,131-132 citato in M. BORGOGNONI, Sorella Maria, cit., 83-84. 25 R. MOROZZO DELLA ROCCA, Maria dell’Eremo di Campello, cit., 60. 26 Discorso di commemorazione di Bapu all’Eremo il 29 febbraio 1948 citato in M. BORGOGNONI, Sorella Maria, cit.,175.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 321

La preghiera come ricerca di identità nell’esperienza di Sorella Maria

321

cristiane, ho resuscitato anche questa parola: lucernarium»27. Difatti l’Ufficio del Vespro è celebrato da sorella Maria come il più antico e sacro; ne ricorda la storia e ne spiega il significato simbolico in questi termini: «É l’ufficio del tramonto. Il corpo lacerato del Cristo, disceso dalla Croce, riposa in grembo alla Madre. É l’ora del “sacrificium vespertinum», l’ora dell’incenso e dei lumi. L’antico “Lucernarium” esprimeva quest’ora. A Gerusalemme nel IV secolo, non c’era altro alla sera che il grande ufficio del Lucernarium, così penetrato di poesia e di bellezza. All’accendersi delle lucerne aveva luogo la benedizione del fuoco, dei lumi e dell’incenso che ora si fa il Sabato santo. […] Ricordiamo anche l’ “eucharistia lucernalis” come era chiamata l’elevazione delle mani di Gesù in croce […]. Verso il V secolo il Lucernarium si scisse e ne uscirono l’ufficio del Vespero e quel gioiello liturgico che è Compieta»28.

Ancora una riflessione sul significato dell’Ufficio mattutino: «Cerchiamo innanzitutto di giungere ad una chiarezza riguardo all’Ufficio notturno, il più antico e il più sacro insieme al Vespro. Le riunioni nelle catacombe si tenevano all’incirca fra la mezzanotte e l’alba. Voi sapete. Quello che ora è impropriamente chiamato Mattutino, era detto invece Vigilia. Questa preghiera della notte ricorda le ore più tragiche della passione di Cristo […]. Creature mie, la passione del Figlio dell’uomo è una realtà perenne. Quante sofferenze e ansietà e rimorsi si accentuano nelle ore notturne! Quanti combattimenti estremi! Quante contaminazioni! Quanta stanchezza e sforzo e trepidazione in chi deve vegliare, per protrarre il lavoro e lo studio, per assistere i malati, per un posto di responsabilità o di servizio! E anche quanta bellezza della notte! […] A tutto, creature mie, gettiamo un pensiero di riverenza, di partecipazione, di offerta: e sentiamoci solidali, responsabili, tremanti dinanzi all’abisso e al cielo. Ecco la vigilia notturna, ecco l’Ufficio chiamato inesattamente Mattutino»29.

27 Sorella Maria parla. Fascicolo Gesù, 11, citato in M. BORGOGNONI, Sorella Maria, cit., 174. 28 M. BORGOGNONI, Sorella Maria, cit., 86. 29 Ibid., 86-87 nota 13.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 322

322

Arianna Rotondo

La liturgia delle ore è esposta da sorella Maria in una sorta di breviario chiamato Vademecum, custodito nell’Eremo. I salmi, gli inni e le preghiere sono organizzati con creatività dalla Minore, all’insegna di un’accoglienza di tradizioni diverse. Vi si trovano testi della chiesa anglicana, episcopaliana, luterana; inni che provengono dall’Egitto, dall’India, dalla Russia; dalla Cina testi confuciani30. Compone ella stessa preghiere, inni, invocazioni, testi liturgici: vi è centrale la figura di Cristo, invocato con la semplicità del linguaggio francescano, con immagini desunte da un universo poetico tutto personale, cosmico si direbbe; vi si colgono anche echi della poesia di Leopardi, poeta tanto amato. La preghiera è un raggio di consolazione delle fatiche quotidiane: è insostituibile il conforto della «breve e pura salmodia», definita come fonte preziosa nell’aridità dei mesi brucianti. In tempi in cui la liturgia era in latino, precorrendo le innovazioni conciliari, sorella Maria pensa di preparare la salmodia trascrivendone le traduzioni e semplificandola, perchè fosse breve e pura: la prepara con cura come preparava, quand’era in salute, il pane. E il lavoro di preparazione del pane è un ulteriore gesto che fa parte delle consuetudini disciplinate, il pane preso dalla mensa—altare e posto a tavola, con tutte le valenze simboliche che implica un rito funzionale al sacrum facere. Sorella Maria lavora perchè le sue sorelle possano pregare con la Parola: nell’eremo si leggono diverse edizioni della Bibbia, con predilezione per quella cattolica del Cardinal Ferrari e quella del valdese e amico Luzzi. Si confrontano le traduzioni, si approfondisce la conoscenza dei Vangeli, non si trascura la lettura degli apocrifi, della Didachè («gioiello di semplicità pura»), della Lettera a Diogneto (sussidio per «camminare verso il Regno di Dio»). I Salmi, che conosce a memoria (i preferiti e più citati sono il 9 e il 118) sono sopra tutto nutrimento e guida della preghiera («devono esserci cari i salmi perchè erano i canti di Gesù, di Maria. Perciò invece di tante preghieruzze che non si sa di dove sono uscite e sono tante melensaggini, si dovrebbe conoscere i salmi appunto per ricordo di Gesù»)31; 30

R. MOROZZO DELLA ROCCA, Maria dell’Eremo di Campello, cit., 126-127. M. BORGOGNONI, Sorella Maria, cit., 177. Pensiero tratto dal Fascicolo Preghiera, 9 (Sorella Maria parla). 31


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 323

La preghiera come ricerca di identità nell’esperienza di Sorella Maria

323

poi insiste sull’importanza dell’Ave Maria evangelico (privo della seconda parte), e soprattutto del Padre Nostro. In un appunto del 1949 scrive: «Fate sì che il Pater sostenga per tutta la vita e accompagni la vostra ricerca religiosa. E allora il Pater Noster diverrà per voi una luce che condurrà il vostro cuore verso l’apertura universale e cattolica che è la meta del nostro cammino religioso e di figli della Chiesa cattolica»32.

In questa guida alla ruminatio della Parola un posto è riservato anche al Rosario, avvertito come un bisogno. É «una perla», legata alla devozione mariana, che non deve apparire come un “necessario”, rischiando così cedimenti mariolatrici; in tal senso la Minore afferma: «nessuna preghiera devozionale ha per me l’importanza di un tratto biblico»33. L’atto centrale del culto è la Messa, definito «un tutto, un atto cosmico della vita perenne, insostituibile»34, «il fuoco sacro cui accendere le nostre lucerne vacillanti». Ad esso sorella Maria dedica importanti riflessioni nella Lettera all’Ecclesia35, cui si è già accennato, del maggio 1945. Questa lettera, che contiene le sue idee su una possibile riforma della liturgia della Santa Messa, idee profetiche rispetto a quanto accadrà vent’anni dopo nel Concilio Vaticano II, è indirizzata a Mazzolari e a pochi altri amici ed è scritta in un momento da lungo tempo atteso, ma che trova sorella Maria critica prima che entusiasta. Viene celebrata la prima Messa all’Eremo, e Maria si domanda: «perchè non rendere più cristiano questo supremo atto di culto?». Fa subito degli esempi per chiarire il suo proposito. Il primo appunto riguarda il Confiteor, una formula che definisce «calcificata» e che bisognerebbe rendere «espressione viva, personale e collettiva, del nostro pentimento, del nostro gemito, della nostra supplica per ottenere il perdono!». Occorre snellire: «il prete ha il suo Confiteor 32

Appunto citato in ibid.,177. Sorella Maria parla, Fascicolo Preghiera, 9, citato in M. BORGOGNONI, Sorella Maria, cit., 176 nota 24. 34 F. ARONICA, Sorella Maria e il suo Eremo, cit.,109. 35 Tale lettera è riportata in ibid.,123-126. 33


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 324

324

Arianna Rotondo

prima di salire all’Altare. Noi fedeli abbiamo il nostro Confiteor al momento del Communio. E sufficit. “Non moltiplicate le parole” dice il Maestro unico». Ognuno può avere nel cuore il suo Confiteor, pur attenendosi alla formula: sorella Maria riporta il suo, a riconoscimento della sua persona. La seconda questione riguarda il Pater. Biasima, presa da «doloroso stupore», che il prete pronunci tale preghiera «più o meno in fretta e a bassa voce, e che i fedeli non lo dicono con lui […]. Ma perchè, se i discepoli del Signore (e noi pure vogliamo esserlo) gli hanno chiesto: “Insegnaci a pregare” e il Signore ha risposto: “Direte così...” non sentiremo il bisogno di ripetere concordi ciò ch’Egli ha insegnato? […]. Non sarebbe questo l’atto religioso più cosciente? La sola preparazione degna dell’Eucaristia? Dio mio, quanto siamo ottusi, e tardi di cuore!».

L’ultima obiezione riguarda l’utilità delle formule ripetute dopo la Messa. Le considera «superflue e quasi depauperanti il raccoglimento profondo che dovrebbe essere il frutto della nostra partecipazione al Sacrificio». Auspica invece la semplicità e la concisione di una formula «non ripetuta tre o cinque volte, ma “pura e breve”, detta con tono rispettoso, chiaro, con senso cosciente della responsabilità d’ogni orazione collettiva». E conclude, con pudore per aver osato esprimersi e per l’insufficienza di quanto espresso, con queste parole: «Ma “un atto di amore giova più alla chiesa di tutte le altre opere riunite insieme”. E non sarebbe questa pur piccola riforma un atto di amore verso la comunità dei fedeli, verso quella veneranda Chiesa romana che “presiede all’agape” e che vorremmo sentire più umile e più cosciente, più forte nella fede antica, più irreprensibile nella purezza del messaggio cristiano e nel culto?».

La preghiera, semplice e raffinata nel desiderio di sorella Maria, sostegno della continua ascesi fra capacità di gioire e di soffrire, accompagnamento silenzioso della relazione col prossimo, condizione del perdono nella consapevolezza che gli altri non si possono riformare, diventa infine contenuto della fede: l’unanime ricorda che Sorella Maria non credeva ad un periodo di pace sulla terra, piuttosto


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 325

La preghiera come ricerca di identità nell’esperienza di Sorella Maria

325

al miracolo della pace di un’anima, alla preghiera autentica, la preghiera dell’eremita, della chiesa primitiva, Kyrie eleison. L’esperienza di Maria di Campello, come ha scritto nel 1987 Andrea Riccardi in una lettera a sorella Brigitte, che rappresenta la seconda generazione delle allodole dell’eremo dopo la morte di sorella Jacopa, è «la storia di una “piccola” via, ma non banale e mediocre, una via che è voluta andare al fondo della vita secondo il vangelo. Quindi non un episodio della storia del modernismo, non un disegno di reformatio Ecclesiae, non un centro ecumenico...ma un pozzo scavato da alcune donne alla ricerca dell’ “acqua” per dissetare sé e i propri amici. Per cogliere la profondità bisogna avere il coraggio di fare la piccola storia, senza vedere quello che non c’è»36. Mi piace concludere ancora con le parole della Minore, parole rivolte a Buonaiuti, con le quali sente di dover definire se stessa spiritualmente e che rappresentano, a mio parere, un’eredità profetica consegnata ai posteri: «Ignazio, io sono pancristiana. Voi lo sapete, o più esattamente sono panica, né potrei non esserlo. Considero che le diverse Chiese cristiane o i membri coscienti di queste chiese, sono chiamati a dare un loro contributo allo spirito ecumenico, gettando sale nelle acque malsane o insipide della nostra Cattolicità romana».

36

Lettera citata in R. MOROZZO DELLA ROCCA, Maria dell’Eremo di Campello, cit., 99.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 326


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 327

PER VISIBILIA IN INVISIBILIA. POESIA E PREGHIERA IN CRISTINA CAMPO

ROSA MARIA MONASTRA*

«Due mondi — e io vengo dall’altro». (C. CAMPO, Diario bizantino)

1. IL VALORE DELLA POESIA Non è folto il corpus poetico lasciatoci da Cristina Campo1. Lei viva, apparve qua e là per riviste una manciata di componimenti, undici dei quali furono convogliati dall’autrice nella breve silloge Passo d’addio (edita da Scheiwiller nel ’56). Dopo la sua morte, Élemire Zolla, che le era stato a lungo legato affettivamente e spiritualmente, ne pubblicò l’ultima produzione su Conoscenza religiosa del gennaio-marzo 1977. Infine avanzano alcuni inediti da un quadernetto donato all’amica Margherita Pieracci per il Natale del ’54. In totale si tratta di una trentina di liriche2: poca cosa, all’apparenza. E invece non c’è dubbio che proprio la poesia abbia costituito il fulcro, il centro d’interesse fondamentale nell’attività e nella vita stessa di * Docente di Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Catania. 1 Com’è noto, si tratta del nom de plume preferito dalla scrittrice (che in realtà si chiamava Vittoria, Maria Angelica, Marcella, Cristina Guerrini). 2 Questi testi, unitamente a un vasto campionario dalle traduzioni poetiche, si possono leggere nel volume La Tigre Assenza, a cura e con una nota di M. Pieracci Harwell, Milano 1991. Più recentemente un altro inedito è venuto fuori grazie a


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 328

328

Rosa Maria Monastra

Cristina. A parte l’eventualità che dell’altro si sia perduto per l’incuria degli eredi3, quel che conta è la totale dedizione della Campo alla scrittura: lavorando prevalentemente come traduttrice, infatti, non ha fatto altro che agire e riflettere sul linguaggio poetico, non solo sul piano tecnico ma anche a un livello più complesso ed essenziale. (Del resto lei stessa si rifiutava di distinguere tra forma e contenuto, convinta che così dovesse fare ogni «lettore semplice, di cuore intero». Più in generale, c’è da dire che tutte le questioni formali — dalla gestualità quotidiana alla liturgia — venivano da lei ricondotte a ragioni sostanziali: come amava dire citando Zolla, la forma «è la pelle: e nessuna creatura vivente può sussistere un’ora senza la sua pelle»)4. L’estremo rilievo conferito al discorso poetico è certamente da collegare, almeno in parte, agli anni fiorentini, trascorsi in stretto contatto con l’ambiente ermetico attraverso personaggi come Mario Luzi e — soprattutto — Leone Traverso, con il quale fin dagli anni ’40 la Campo intrattenne un intenso dialogo culturale che sarebbe sopravvissuto all’amarezza della rottura sentimentale. Fu appunto Leone Traverso a iniziarla ai segreti della traduzione, intesa come trama finissima di corrispondenze ed equivalenze intessuta da una lingua all’altra. E fu certamente Traverso, insigne germanista, a dischiuderle un orizzonte di grandi voci affini in ambito austro-tedesco: in primis Hofmannsthal, ma anche Kleist, Hölderlin, Benn… È vero d’altra parte che la giovane allieva maturò presto una sua decisa fisionomia etico-letteraria, che le consentì di rapportarsi felicemente col mestiere di traduttore facendone un’occasione e un mezzo di espressione personale (laddove a Traverso accadeva talora di sentirsene schiacciato, come se il fatto di arrovellarsi sulla poesia altrui lo condannasse a una «vita di riflesso»)5. Scegliendo i suoi autori, la M. Pertile, in T. ROMANO E A. DONATI (cur.), L’opera di Cristina Campo al crocevia culturale del Novecento europeo, Palermo 2007, 72. 3 Cfr. C. DE STEFANO, Belinda e il mostro, Milano 2002, 183-184. 4 Cfr. l’intervista apparsa sul Tempo del 16 aprile 1972, ora in C. CAMPO, Sotto falso nome, a cura di M. Farnetti, Milano 1998, 178; EAD., Lettere a Mita, a cura e con una nota di M. Pieracci Harwell, Milano 1999, 193. 5 Cfr. la lettera di Leone a Cristina pubbl. in C. CAMPO, Caro Bul. Lettere a Leone Traverso (1953-1967), Milano 2007, 73.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 329

Per visibilia in invisibilia. Poesia e preghiera in Cristina Campo

329

Campo si costruiva una patria spirituale: trovava parole autentiche, da contrapporre al «paese di specchi» dove esse «hanno altro significato da quello vero»6. Nell’iperuranio dei testi amati, insomma, scopriva un linguaggio che aveva lo spessore dell’«era primaria», l’unico a cui le interessasse arrivare essendole «inabitabili» — diceva — «tutti gli altri strati geologici del vocabolario»7. A quel punto per lei non c’era più differenza tra generi letterari, addirittura nemmeno tra forme d’arte. La stessa saggistica le si poteva presentare come poesia, musica e pittura. Ecco una sua dichiarazione d’intenti a proposito di Il flauto e il tappeto: «Vorrei che in realtà non si trattasse di un libro di saggi ma di un solo discorso in più tempi, come una serie di pezzi musicali dove tornano sempre gli stessi temi e addirittura le stesse parole. O una “camera picta” con gli stessi paesaggi e personaggi visti successivamente e circolarmente»8.

Se la scrittura ci proietta nell’invisibile, dove il frammentario e il discontinuo si risolvono armoniosamente intorno a un centro, allora è evidente che essa ha qualcosa in comune con la preghiera. Ma per capire meglio i termini in cui la Campo prospetta tale affinità sarà opportuna qualche chiarificazione preliminare. 2. MODERNITÀ E TRADIZIONE Conservatrice e aristocratica, si è detto di lei. Non è il caso qui di insistere sulle eventuali ripercussioni che potrebbe aver avuto in tal senso il modello familiare (specie paterno)9: quel che conta è piuttosto il fatto che la Campo — superando le pregiudiziali strettamente ideologiche — si sia riconosciuta in quel vasto ed eterogeneo filone culturale che al disagio della massificazione ha risposto con una forte 6

EAD., Lettere a Mita, cit., 122. Ibid., 150. 8 Ibid., 247. 9 Questo delicato aspetto è ben lumeggiato in C. DE STEFANO, Belinda e il mostro, cit., 34-42. 7


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 330

330

Rosa Maria Monastra

accentuazione elitaria, coniugando inevitabili ambiguità con una affilata critica del presente. Per la nostra scrittrice il precipitare della storia può riassumersi in una parola, “perdita”: perdita di ogni aggancio con la vera realtà, con ciò che è immutabile e sacro. In un primo momento, tuttavia, nelle sue pagine tale processo distruttivo non appare connotato in maniera del tutto negativa, in quanto lo si ritiene comunque capace di suscitare un rimpianto, una produttiva nostalgia nei confronti di ciò che è venuto a mancare. Rifacendosi a Simone Weil, per la quale nutrì a lungo una smisurata ammirazione, la Campo inizialmente volle illudersi che la miseria contemporanea — icasticamente rappresentata dallo squallore delle chiese moderne — in qualche modo potesse servire a mantenere un rapporto col passato: «Partire dalla tabula rasa di un tempo “où l’on a tout perdu”, dalla chiesa nuova e brutta di Cristo Re, o di Los Angeles, nel pomeriggio canicolare, e sia il più possibile anonima quella chiesa, come un ospedale, un planetario o una stazione, per ricordarcelo che veramente “l’on a tout perdu”, fuorché la verità che abita in quel luogo — e che mai potremo ritrovare senza essere spogliati di ogni ornamento — senza aver accettato l’anonimo, la nudità di questo tempo che è la sola sua forza. Non altrimenti potremo compiere il cerchio, riallacciare la fine del nostro tempo al suo principio perduto»10.

La waste land di una società e di un pensiero sempre più secolarizzati, insomma, alla Campo degli anni ’50 sembra ancora consentire qualche oasi di sentimenti forti, tanto più ammirevoli e suggestivi in quanto votati allo scacco, quasi «gesta di cavaliere errante alla difesa di un culto sul punto di scomparire, di uno splendido e vuoto sepolcro»11. Le sembra ancora possibile una letteratura in grado di far brillare misteriosamente l’idea nel simbolo, di trasformare in bellezza lo strazio della fine, di rovesciare il distacco in «fedeltà» e «ritorno»12: 10

C. CAMPO, Lettere a Mita, cit., 29-30. EAD., Parco dei cervi [1953-62], in EAD., Gli imperdonabili, Milano 1987, 148. L’immagine del cavaliere errante, nella fattispecie, è riferita all’opera di Proust. 12 «Non conosco poesia universale senza una precisa radice: una fedeltà, un ritorno» (ibid., 146). 11


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 331

Per visibilia in invisibilia. Poesia e preghiera in Cristina Campo

331

«Eppure amo il mio tempo perché è il tempo in cui tutto viene meno ed è forse, proprio per questo, il vero tempo della fiaba. E certo non intendo con questo l’era dei tappeti volanti e degli specchi magici, che l’uomo ha distrutto per sempre nell’atto di fabbricarli, ma l’era della bellezza in fuga, della grazia e del mistero sul punto di scomparire, come le apparizioni e i segni arcani della fiaba: tutto quello cui certi uomini non rinunziano mai, che tanto più li appassiona quanto più sembra perduto e dimenticato»13.

Presto però le cose sarebbero cambiate. Nel corso degli anni ’60, infatti, la condanna del presente diviene categorica, senza appello: per la Campo si tratta di un «tempo di orrori e di crolli spirituali»14, che minaccia rovine irreversibili. Attribuisce la maggiore responsabilità alla Chiesa, in quanto, anziché custodire gelosamente la tradizione, col Concilio Vaticano II le ha inferto un colpo mortale. In prima linea nel tentativo di salvare il rito romano, si fa defensor fidei contro la gerarchia cattolica: «Perché siamo noi, gli uomini d’oggi: immersi fino alle labbra nella vita moderna, nella cultura moderna, gli uomini d’oggi mai interpellati da questi nostri pastori che in nostro nome discettano e distruggono. Ai quali pastori, come ha scritto Jean Maritain, noi non chiediamo tardive e goffe contraffazioni di una cultura moderna che fin troppo conosciamo, ma qualcosa di ben diverso: l’unum necessarium, la grazia e il sacro che questa vita e questa cultura ci sottraggono da ogni lato»15.

Si accosta a monsignor Lefèbvre. Propone letture tetragone, che diano certezze senza ombre: il breviario, la Philokalia, i Detti e fatti dei Padri del deserto, gli anonimi Racconti di un pellegrino russo trascritti dall’abate Passy16… E non esita a esprimersi duramente a proposito di 13

Ibid., 151. EAD., Lettere a Mita, cit., 216. 15 Cfr. C. DE STEFANO, Belinda e il mostro, cit., 131. La citazione proviene da un articolo apparso sul numero unico Una Voce, capodanno 1968. 16 Scriveva all’amica Margherita Pieracci nel ’65: «Obbedienza, obbedienza, obbedienza – e come sola lettura la Philokalia (due grossi volumi inglesi) e il meraviglioso Breviario» (C. CAMPO, Lettere a Mita, cit., 193). E cfr. Racconti di un pellegrino russo, trad. di M. Martinelli, introd. di C. Campo, Milano 1973, e Detti e fatti dei Padri del 14


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 332

332

Rosa Maria Monastra

alcuni scrittori che una volta le erano carissimi in quanto psicopompi, mediatori tra il mondo visibile e l’invisibile (come Čechov o la stessa Weil), e che ora invece considera colpevoli di laicismo: «Da un po’ di tempo mi accade qualcosa di tanto strano. L’altra sera ho preso in mano i Taccuini del Dr. Čechov un libro che fino a 2 anni fa era la mia delizia, e dopo 10 minuti l’ho riposato. Una volgarità impalpabile, sottile, la volgarità del laico, dell’incredulo, evaporava da certe piccole osservazioni di quell’uomo senza bassezze, di quell’uomo per tanti versi adorabile. Così, per rallegrarmi senza la minima ombra di noia (la volgarità è veramente di una noia desertica), ripresi una grande biografia del Curato d’Ars». «Io faccio colazione la mattina studiando i canoni del Concilio di Trento (sublimi, di queste cose Simone non capiva nulla), a mezzogiorno sto ancora leggendo il Sacramentarlo Leonino e la sera pranzo con il Concilio di Nicea, per addormentarmi sulla “Pascendi” o sulla vita di Sant’Atanasio»17.

Addirittura liturgia e poesia diventano per la Campo facce di una stessa medaglia: «liturgia — come poesia — è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile», dichiara18. E dal rito ortodosso, in cui si rifugia una volta perduta la battaglia anticonciliare, trae ispirazione per le sue ultime liriche, poi pubblicate da Zolla (tra cui Diario bizantino, donde abbiamo tratto l’epigrafe posta a introduzione di questo saggio). Scriveva a Rodolfo Quadrelli la «vigilia di Pentecoste» del ’67 (ed è già di per sé significativa la tendenza degli ultimi anni a datare le missive in relazione alle feste religiose): «Certo ormai la liturgia mi viene sotto la penna qualunque cosa io scriva. Soprattutto quando nel discorso entra in qualche modo il destino. Frequentare Chiese orientali mi ha confermato (se ce ne fosse stato deserto, a cura di P. Draghi e C. Campo, introd. di C. Campo, Milano 1975 (le due introdd. ora in EAD., Gli imperdonabili, cit., 211-230). 17 EAD., Lettere a Mita, cit., 210-211, 216-217. 18 EAD., Note sopra la Liturgia [1966], in EAD., Sotto falso nome, cit., 127. (A suo tempo il saggio fu pubblicato con un altro pseudonimo, condiviso con Zolla: quello di Bernardo Trevisano).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 333

Per visibilia in invisibilia. Poesia e preghiera in Cristina Campo

333

bisogno) che la liturgia è l’archetipo supremo del destino e non solo del destino dei destini, quello di Cristo, ma del destino, semplicemente. È per così dire, la suprema fiaba quella a cui non si può resistere»19.

“Destino”, è questa forse la parola-chiave di tutta la vicenda intellettuale (e psicologica) della Campo: una parola che ritorna quasi ossessivamente nelle sue pagine, tradendo il bisogno e l’ansia di dare un senso alla vita. La triangolazione destino-liturgia-fiaba significa infatti che, se la liturgia perpetua la vicenda di morte e resurrezione dell’Uomo-Dio in quanto «destino dei destini», per suo tramite il destino dei comuni mortali potrà aprirsi anch’esso alla rigenerazione. Se la storia di Cristo è l’archetipo di tutte le fiabe, il nostro rapporto con la fiaba potrà modellare una personale salvezza. 3. IL DESTINO, LA FIABA, LA GRAZIA E LA GRAZIA Ma quale destino intravedeva per sé la scrittrice? Intitolando Passo d’addio il suo primo (e unico) libretto di poesie, la Campo nel ’56 intendeva mettere in risalto la fine di una stagione, una svolta necessaria nella propria esistenza: come infatti avrebbe subito chiarito Leone Traverso recensendo la plaquette, passo d’addio «è il nome con cui si indica il saggio che le ballerine eseguono alla fine della loro formazione per prendere congedo dalla scuola e dalle compagne»20. A leggere quelle poesie (non a caso siglate da un’epigrafe tratta dai Four Quartets di Eliot)21, ci si accorge però che l’intonazione è tutt’altro che lieta: più che aprirsi al futuro, esse ripiegano malinconicamente sul passato: 19 Cfr. M. FARNETTI – F. SECCHIERI – R. TAIOLI, Appassionate distanze. Letture di Cristina Campo con una scelta di testi inediti, Mantova 2006, 81. 20 La recensione, apparsa su Letteratura del gennaio-aprile 1957, si può leggere ora in appendice a M. FARNETTI – G. FOZZER (curr.), Per Cristina Campo, Milano 1998. 21 «For last year’s belong to last year’s language / And next year’s words await another voice». Come documenta l’epistolario, i Four Quartets furono importantissimi per la Campo: e se ne comprende bene la ragione (basti pensare a versi come questi: «And what you thought you came for / Is only a shell, a husk of meaning / From which the purpose breaks only when it is fulfilled / If at all»).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 334

334

Rosa Maria Monastra

«Ora non resta che vegliare sola col salmista, coi vecchi di Colono; il mento in mano alla tavola nuda vegliare sola: come da bambina col califfo e il visir per le vie di Bassora. Non resta che protendere la mano tutta quanta la notte; e divezzare l’attesa dalla sua consolazione, seno antico che non ha più latte. Vivere finalmente quelle vie — dedalo di falò, spezie, sospiri da manti di smeraldo ventilato — col mendicante livido, acquattato tra gli orli di una ferita»22.

I salmi e l’antica tragedia greca, dunque, dovranno nutrire l’adulta, come le Mille e una notte avevano nutrito la bambina: la consapevolezza della vanità e del dolore nella solitudine subentra a un mondo avventuroso, popolato da creature affascinanti. E d’altra parte in quel mondo favoloso era già racchiusa la cifra del futuro: la figura del mendicante, predizione di una povertà, di una continua ricerca. Riflettendo appunto sulla fiaba in un saggio il cui primo nucleo risale al ’53, la Campo ne evidenziava il carattere profetico, collegandolo al ruolo e alla natura stessa della vera poesia: «A sei anni si può leggere tutto il giorno le fiabe, ma perché quel ritorno caparbio, ipnotizzato, a certe immagini che un giorno verranno riconosciute emblemi ricorrenti, vere imprese araldiche di una vita? Bellezza e paura. […] (Così, nella poesia, la figura preesiste all’idea da colarvi entro. Per anni essa può seguire un poeta: favolosa e domestica, sgomentevole e familiare. Quasi sempre un’immagine della prima infanzia: l’etichetta ammaliante su un vecchio albero del parco, il ritorno, nella veglia e nel sogno, di una figura di donna che dispone frutta su un tavolo. Immutabile e soave, essa aspetta pazientemente che la rivelazione — che il destino — la colmi)»23. 22 23

C. CAMPO, La Tigre Assenza, cit., 24. EAD., Della fiaba [1953-1971], in EAD., Gli imperdonabili, cit., 39-40.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 335

Per visibilia in invisibilia. Poesia e preghiera in Cristina Campo

335

In questa sorta di platonismo, tratteggiato tra Hofmannsthal e Eliot, tra Proust e la Weil, quel che colpisce è l’impossibilità di staccarsi davvero dalla propria infanzia: la maturità è una ferita, che la poesia non può sanare, ma solo addolcire gettando un ponte tra allora e ora, tra il tempo delle fiabe e quello della mendicità. A un certo punto questa visione avrebbe assunto un aspetto addirittura mistico — portando alle estreme conseguenze un’inclinazione che aveva cominciato a delinearsi già alla fine degli anni ’50 (In una lettera del 2 giugno 1959 a Margherita Pieracci la Campo diceva di leggere unicamente i mistici medievali: «e soprattutto maestro Eckhart e Angela da Foligno», che giudicava «i più grandi». E non dimentichiamoci delle traduzioni che Cristina approntò per l’antologia dai Mistici dell’Occidente a cura di Zolla) 24. «A che cosa si riduce ormai l’esame della condizione dell’uomo, se non all’enumerazione, stoica o atterrita, delle sue perdite? […] L’intero quadro appare quello di una civiltà della perdita […]. La perdita delle perdite, seme e circonferenza di tutte le altre, è però, come sempre, quella di cui non si fa il nome. Potrebbero d’altra parte, creature che furono mutilate dell’organo stesso del mistero — Pasternak direbbe l’orecchio dell’anima — riconoscere di aver perduto il proprio destino? […] In realtà ciò che fa del destino una cosa sacra è lo stesso elemento che distingue il sacro, lo stesso che distingue la poesia: la sua esclusione, segregazione, l’estatico vuoto in cui si compie. […] Come la manna di sant’Andrea nella cavità dell’ampolla, il destino si forma nel vuoto in virtù delle stesse leggi complementari che presiedono al nascere della poesia: l’astensione e l’accumulo. La parola che dovrà prender corpo in quella cavità non è nostra. A noi non spetta che attendere nel paziente deserto, nutrendoci di miele e locuste, la lentissima e istantanea precipitazione. Che è breve e non ripetibile»25.

E ancora:

24

Per la lettera alla Pieracci si veda Lettere a Mita, cit., 134. L’antologia dei Mistici uscì nel ’63 presso Garzanti. 25 EAD., Il flauto e il tappeto [1971], in EAD., Gli imperdonabili, cit., 113-19.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 336

336

Rosa Maria Monastra

«Certo, la voce del flauto è remota È quasi sempre quasi impercettibile. Terribilmente tramata alle mille voci del tempo, alle musiche discordemente streganti del concerto mondano. […] Come, dove discernerla? Nella voce dei morti, prima di tutto […]. Nei quattro tesori che i morti ci legano e per i quali non sembra molto gettare la propria vita se al di fuori di essi è un astro morto la vita: il paesaggio, il linguaggio, il mito, il rito. […] Poi nei segni e nei misteri, negli avvisi e negli inviti: la similitudine che torna e torna attraverso gli anni, visitatrice assillante col cappuccio calato sugli occhi; bambini, quella sola e unica fiaba, angosciosamente deliziosa, chiesta e richiesta ai nonni, rappresentata nei giuochi, rivisitata nei sogni: la fiaba araldica della quale un’infanzia si fregia quasi riconoscendo in anticipo il suo blasone futuro […]»26.

La fiaba, come la poesia, è governata dall’altro mondo, quello trascendente: il mondo che abitano e conoscono i morti, ma che a noi si dischiude in modo enigmatico, chiedendoci attesa e abbandono. Il poeta “dittatore” («I’ mi son un che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo, / ch’e’ ditta dentro vo significando») deve accogliere l’ispirazione-kairós. L’attaccamento infantile a una specifica fiaba è rivelazione di una vocazione. Per altri versi la convinzione che occorra guardare al di là del terreno, del fenomenico, del temporale, verso l’ordine ultimo e immutabile, induce la Campo a farsi paladina di un particolare dandismo in cui l’ideale cinquecentesco di “sprezzatura” acquista il valore di una vera e propria ascesi. E le rende caro ogni tipo di cerimoniale, ogni gestualità codificata e rarefatta che sappia alludere con eleganza al nulla in cui ci muoviamo e al Tutto cui aspiriamo. «Con lieve cuore, con lievi mani», è il motto che desume da Hofmannsthal: la “grazia” dell’atteggiamento e della parola, liberandoci dall’utile e dal pratico, ci apre alla Grazia. «Si direbbe che la grazia sia la materia prima della Grazia e indubbiamente i santi avventurieri, rilucenti eroi di fiaba che con lieve cuore, con 26 Ibid., 136-138. Significativa la spiegazione della doppia metafora contenuta nel titolo da parte della stessa autrice in una lettera alla Pieracci: «Sono due immagini del destino, una secondo il Salmista (Ps. 37), una secondo varie tradizioni (anche Hofmannsthal le raccolse, nella famosa immagine del tappeto della vita)» (EAD., Lettere a Mita, cit., 247).


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 337

Per visibilia in invisibilia. Poesia e preghiera in Cristina Campo

337

lievi mani gettarono la vita nell’Immutabile erano tagliati di quella stoffa. Joy, largüeza, proeza — i canoni della poesia provenzale informano tutta intera la giovinezza di Francesco d’Assisi. […] Convertito, richiesto dal padre dei suoi averi e citato dinanzi al vescovo, dispiegò una sprezzatura smagliante spogliandosi nudo in pieno episcopio e gettando a terra le vesti. […] Potrei continuare attraverso l’intero martirologio, fino ai nomi più umili, più timidi. La nota di cristallo della sprezzatura vi tintinna da un capo all’altro [...], e non si vede come potrebbe non essere così, se la vita e la morte di quelle scintillanti miriadi non fu se non un volgersi e rispecchiare la Fonte stessa della luce. Della sprezzatura del Cristo non mi sembra si sia detto molto, ma non so come potremmo chiamare diversamente qualcosa che incontriamo in ogni pagina dei Vangeli — nelle ultime sopratutto, là dove, appunto, l’umana agonia stringe il Verbo più da vicino»27.

La poesia costituisce dunque per la Campo il perno del proprio destino, perché attraverso di essa può trasformare la perdita in acquisto: se dalle fiabe ha appreso che le sarebbe toccato “gettare la propria vita nell’Immutabile”, ora appunto nella poesia trova modelli di “imperdonabile”28 grazia che le spianano il cammino. 4. LA PREGHIERA La preghiera immette nel nostro mondo un’aura dell’altro. «C’est comme une longue respiration, avant d’entrer dans la chambre du malade», affermava la Campo nel ’56 sulle orme dell’amico dottor Schlimmer29, proponendo così una concezione della vita come malattia che il balsamo della preghiera aiuti ad affrontare. Ancora un paio d’anni dopo, d’altra parte, “preghiera” significava per lei essenzialmente “poesia”: più che all’offerta rituale, si aggrappava alle epifanie 27

EAD., Con lievi mani [1971], in EAD., Gli imperdonabili, cit., 108-110. Con quest’aggettivo mi riferisco evidentemente al saggio della Campo intitolato appunto Gli imperdonabili (ora riprodotto nel vol. dallo stesso titolo, cit., 73-88), dove si analizzano le ragioni dell’incomprensione, anzi addirittura dell’ostilità che la vera poesia incontra nel mondo moderno. 29 EAD., Lettere a Mita, cit., 28. 28


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 338

338

Rosa Maria Monastra

del divino che il discorso poetico riesce a dischiudere. Scriveva alla Pieracci nel luglio del ’58: «Ma io non ho, davvero, che la poesia come preghiera — ma posso offrirla? E quando mai la sentirò così vera (non dico pura, ma è differente?) da poterla deporre a quell’altare — di cui non vedo e forse non vedrò mai che i gradini — come un cesto di pigne verdi, una conchiglia, un grappolo? Di giorno in giorno mi persuado sempre più che non ho altro rosario, altra spada, altro libro, altro cilizio che questo. E non parto dall’amore di Dio — sto nel buio; ma vorrei fare qualche cosa che agli altri sembrasse nato alla luce»30.

La connessione tra poesia e preghiera si sarebbe mantenuta intatta fino agli ultimi anni. «Preghi perché io possa riprendere a scrivere, cara», chiederà alla Pieracci nel novembre del ’71: «Ne ho un bisogno da piangere. Più che della salute. Più che della pace. È la mia preghiera quella — e come vivere senza pregare?»31.

Tuttavia, nel nuovo contesto che abbiamo delineato — quello cioè di un attaccamento crescente, addirittura esclusivo, ai vecchi riti — la poesia non sarà più un succedaneo dell’amor di Dio, uno sforzo doloroso verso un’irraggiungibile “purezza”. Permeandosi di riferimenti alla simbologia sacra (nella fattispecie ortodossa), la poesia ora diventa davvero preghiera, come lo era stata quella di certi antichi scrittori (per es. di Jacopone, carissimo alla Campo). I gradini dell’altare non sono più lontani, sono anzi il luogo in cui frequentemente trova rifugio e conforto. All’amica Mita, in pena per la salute del marito, promette: «Martedì, festa della Dormizione, o della Assunta, andrò in chiesa per voi, per voi arderà il cero dinanzi a Colei che i greci chiamano appunto Oikonomissa — la Dispensatrice, l’Economa. L’icona classica, che lei certo conosce, la raffigura addormentata nel letto mentre l’altra Lei, piccola 30 31

Ibid., 107. Ibid., 252.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 339

Per visibilia in invisibilia. Poesia e preghiera in Cristina Campo

339

come una bimba e vestita di bianco, si rannicchia tra le braccia del Figlio trionfante. Così io voglio pensare a Lei, a voi, a tutte le anime che amo; così piccole e rannicchiate nella sola certezza»32.

Non occorre soffermarsi sulle motivazioni psicologiche di questa corsa verso la chiesa, una chiesa di antico e complicato rito come il Russicum di Roma: è evidente e dichiarato infatti il bisogno di «certezza», di un’indefettibile protezione (potremmo dire sostitutiva e compensatrice, rispetto a quella — perduta — degli amatissimi genitori)33. Spesso, attraverso l’epistolario e le testimonianze di chi la conobbe, vediamo la scrittrice in atto di accendere ceri, di prosternarsi, di partecipare alle orazioni liturgiche. Su questo punto la sua critica alla Weil è perentoria: «Ciò che più sorprende, in questa contemplativa nata, cui si deve uno dei massimi commenti al Pater Noster, è la quasi totale inconsapevolezza della potenza comunicante della preghiera. Di nuovo: è la Carmelitana, è il Trappista che tace o salmeggia durante l’intera sua vita, “separato dal comune degli uomini”? Parlò mai a Simone Weil Padre Perrin, e come le parlò, del grande dogma della Comunione dei Santi? Il “corpo mistico” (parola di cui Simone Weil socialmente diffida), che cosa è se non un altro nome dello stesso mistero, del quale il Nuovo Testamento trabocca? […] È la beata e terrificante interdipendenza degli spiriti e persino dei corpi, per cui ogni gesto, ogni parola o pensiero dell’uomo “traversa l’intera terra, penetra i cieli e si propaga nei mondi”. È la oikonomía-oikodomía di Paolo: il sistema planetario misterioso e perfetto nel quale ogni anima regge l’altra; è quell’ “edificio della salute” al quale l’Occidente diede il nome tanto frainteso di Provvidenza»34. 32

EAD., Lettere a Mita, cit., 264. Per i quali appunto la Campo scrisse la sua lirica più dolente, La Tigre Assenza: «Ahi che la Tigre, / la Tigre Assenza, / o amati, / ha tutto divorato / di questo volto rivolto / a voi! La bocca sola / pura / prega ancora / voi: di pregare ancora / perché la Tigre, / la Tigre Assenza, / o amati, / non divori la bocca / e la preghiera…» (cfr. C. CAMPO, La Tigre Assenza, cit., 44). E si veda anche la bellissima lettera a María Zambrano del 15 agosto 1965, in EAD., Se tu fossi qui. Lettere a María Zambrano 19611975, a cura di M. Pertile, Milano 2009, 42 ss. 34 Cfr. l’introd. (apparsa sotto lo pseudonimo Bernardo P. d’Angelo) a S. WEIL, Attesa di Dio [1972], ora in C. CAMPO, Sotto falso nome, cit., 159-160. 33


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 340

340

Rosa Maria Monastra

Molto probabilmente, alla base di queste convinzioni è da riconoscere l’influsso di Giovanni Vannucci, che la Campo aveva conosciuto a Firenze nei primi anni ’50. La preghiera come distacco dal profano, come iniziazione al mistero dell’Eternità, come compenetrazione con l’esistenza di tutti, come concentrazione interiore e insieme atto comunitario: sono questi i capisaldi dell’insegnamento di Vannucci, che la scrittrice dovette recepire in profondità. Per qualche tempo infatti gli era stata estremamente vicina: in una lettera del ’59 la vediamo pregare insieme a padre Giovanni per una sconosciuta gravemente ammalata, la vediamo impegnata nell’organizzazione di una piccola cerchia di oranti, col garbo di chi sa che la preghiera non può essere pretesa bensì è atto di solidarietà spirituale («Non si deve sperare nulla, ma pregare sì, non è vero?»)35. In altre lettere dei primi anni ’60 la troviamo indaffarata nel seguire le vicende editoriali della Filocalia a cura del padre servita: una pubblicazione certo importante per lei, che già conosceva e amava la raccolta inglese e non poteva non desiderare una versione italiana di questa «guida incomparabile alla preghiera ininterrotta»36. Il fatto che una differente valutazione del Concilio Vaticano II abbia poi finito col diradare tale rapporto37 non implica affatto un cambiamento di direzione: anzi sempre più la Campo, proprio come le aveva insegnato Vannucci, avrebbe messo la preghiera al centro della propria vita. Naturalmente seguendo la sua personale inclinazione: se già Vannucci dava grandissimo rilievo spirituale all’arte come rivelazione di una verità superiore, la Campo andava oltre, radicalizzandone la convergenza con le pratiche del culto. La poesia «è figlia della liturgia», affermava, «come Dante dimostra da un capo all’altro della Commedia»; e si cullava in un sogno: «Poter scrivere, anche una sola volta nella vita, qualcosa che ricordasse appena un poco la più semplice, la più umile delle antiche, delle eterne liturgie, d’Occidente o d’Oriente…»38. 35

C. CAMPO, Lettere a Mita, cit., 132. La Filocalia. Testi di Ascetica e Mistica della Chiesa Orientale, a cura di G. Vannucci, Firenze 1963. 37 Così riferisce la Pieracci in una nota di Lettere a Mita, cit., 346-347. 38 Cfr. C. CAMPO, Sotto falso nome, cit., 180. 36


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 341

INDICE

SOMMARIO

.

.

.

.

.

.

.

.

5

LE SORPRESE DELLA PREGHIERA: PER UN’INTRODUZIONE (Giuseppe Ruggieri) . . . . . . . .

7

PREGARE GLI DEI / PREGARE DIO. LA PREGHIERA COME FATTORE IDENTITARIO TRA PAGANI E CRISTIANI: I CASI DI ELIO ARISTIDE E POLICARPO (Teresa Sardella) . . . . . . . . 1. Conflitto/continuità: un paradigma interpretativo e la preghiera . 2. Come pagani e cristiani vedevano pregare i loro avversari di fede . 3. Preghiera e soteriologia . . . . . . 4. Sofferenza e preghiera di affidamento in Aristide e Policarpo: una sensibilità comune . . . . . .

11 11 18 22 27

IDENTITÀ CRISTIANA, TEOLOGIA E GESTUALITÀ NELLA PREGHIERA DI TERTULLIANO (Giuseppe Ruggieri) . . . . . . . 1. L’autore dell’identità . . . . . . 2. Un’identità polemica . . . . . . 3. Un’identità apocalittica . . . . . 4. Gesti, tempi e spazi della preghiera . . .

. . . . .

39 41 43 44 47

EUCHÉ E NOÛS NEL CORPUS MACARIANUM (Francesco Aleo) . . . . . Introduzione . . . . . 1. Euché e noûs negli scritti dello Ps.-Macario Egizio Conclusioni . . . . .

. . . .

. . . .

53 53 54 67

.

.

69

. . . .

DESIDERIO E PREGHIERA IN GIOVANNI CASSIANO (Maurizio Aliotta) . . . . . .


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 342

Introduzione . . . . . . 1. Il contesto sociale ed ecclesiale di Giovanni Cassiano 2. La preghiera nella vita del monaco . . . 2.1. Come pregare . . . . . 2.2. La natura della preghiera . . . 3. Preghiera ed emozioni . . . .

. . . . . .

. . . . . .

69 70 74 75 81 84

PREGHIERA E CONCILI GALLICI TRA V E VI SECOLO (Rossana Barcellona). . . . . . 1. Castità e preghiera . . . . . 2. Liturgia battesimale . . . . . 3. Verso l’uniformità . . . . . 4. Riflessioni conclusive . . . .

. . . . .

. . . . .

95 101 105 108 116

SUPPLICHE E GRAZIA (Francesco Migliorino) . 1. Etologia della preghiera 2. Il «confessionale del papa» 3. Il crisantemo e la spada

. . . .

. . . .

119 119 124 130

. . . . .

. . . . .

139 139 143 146 154

EGIDIO COLONNA ROMANO (1243ca-1316) E LA SPIEGAZIONE DELLA PREGHIERA DEL SIGNORE (Roberto Osculati) . . . . . . . .

161

LA CONCEZIONE DELLA PREGHIERA IN KANT (Antonino Crimaldi) . . . . . .

.

201

LA PREGHIERA COME POESIA: GLI INNI ALLA NOTTE DI NOVALIS (Grazia Pulvirenti) . . . . . . .

.

215

IL RUOLO DELLA PREGHIERA NEGLI SCRITTI DI SOREN KIERKEGAARD (Luca Saraceno) . . . . . . . Introduzione . . . . . . . 1. Preghiera tra vita e pensiero . . . . .

. . .

229 229 231

. . .

. . . .

. . . .

. . . .

PREGARE COI SALMI (NELL’ALDILÀ). SALMODIE ULTRATERRENE NELLA «COMMEDIA» DI DANTE (Sergio Cristaldi) . . . . . . 1. Il grande divorzio . . . . . 2. Dissonanze infernali . . . . . 3. Salmi degli espianti . . . . . 4. Ineffabile lode . . . . .

.


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 343

2. 3. 4. 5.

Preghiera tra pseudonimia e autenticità Preghiera tra singolo e agape . . Preghiera tra interiorità e humor . Preghiera tra temporalità e paradosso

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

233 236 237 240

IN PARTIBUS INFIDELIUM: FORME E SENSI DEL PREGARE NELL’ESPERIENZA LETTERARIA ITALIANA DELL’OTTO/ NOVECENTO (Antonio Sichera) . . . . . . . . 1. Premessa . . . . . . . . 2. Il primo Ottocento: Foscolo e Leopardi. Da Jacopo al pastore errante 2.1. Foscolo. Sul limitare del transito . . . . . 2.2. Leopardi. Oratio a solitudine . . . . . 3. Il secondo Ottocento. Carducci e D’Annunzio. Dalla preghiera ad Omero alla reazione neopagana . . . . . 3.1. Carducci. Dalla finitudine alla «divina poesia» . . . 3.2. D’Annunzio. L’invocazione dalla potenza del moderno . 4. Il primo Novecento: Quasimodo e Montale . . . . 4.1. Quasimodo. Il poeta orante tra sofferenza e narcisismo . 4.2. Montale. Dall’orazione getsemanica all’antiteologia mistica . 5. Il secondo Novecento: Pasolini e Caproni . . . . 5.1. Pasolini. L’Altro della prossimità e della distanza . . 5.2. Caproni. Ovvero: De oratione in morte Dei . . .

271 271 274 280 281 285 295 296 301

LA PREGHIERA COME RICERCA DI IDENTITÀ NELL’ESPERIENZA DI SORELLA MARIA. VALERIA PIGNETTI (TORINO 1875— CAMPELLO 1961) (Arianna Rotondo) . . . . . . 1. La piccola riforma . . . . . 2. La liturgia . . . . . . 3. La preghiera . . . . . .

. . . .

309 312 314 319

. . . . .

327 327 329 333 337

. . . .

PER VISIBILIA IN INVISIBILIA. POESIA E PREGHIERA IN CRISTINA CAMPO (Rosa Maria Monastra) . . . . . . 1. Il valore della poesia . . . . . . 2. Modernità e tradizione . . . . . 3. Il destino, la fiaba, la grazia e la Grazia . . . 4. La preghiera . . . . . . .

243 243 247 247 262


Synaxis-2-2011-45_Synaxis 12/02/12 16:08 Pagina 344


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.