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XXXIII/2-3 – 2015

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XXXIII/2-3 – 2015

Sommario

• M. CROCIATA, Il ministero del vescovo nella Chiesa di oggi • S. BUCOLO, Concupiscentia buona? Precisazioni circa una nota concezione antropologica agostiniana • M. CASCONE, Bioetica e pastorale. Le provocazioni del futuro • C. TERNULLO, La nozione di iusticia fra ordine politico e cosmologico nelle Glosae super Platonem di Bernardo di Chartres e Gugliemo di Conches • F. ALEO, Il De beata vita di Agostino d’Ippona. La ricerca della felicità tra plenitudo ed egestas • S. CONSOLI, Il dovere cristiano della gioia dalla Gaudium et spes alla Evangelii gaudium. Fondamento teologico e modalità nell’odierna società • A. MINARDO, Felicità e salvezza. Riflessioni teologiche a margine di una corrispondenza possibile • F. ALEO, Le immagini ed i simboli del potere nei mosaici della Villa Romana del Casale di Piazza Armerina • RECENSIONI • NOTIZIARIO

EDIZIONI GRAFISER TROINA

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA


SYNAXIS XXXIII/2-3 – 2015

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO - CATANIA EDIZIONI GRAFISER - TROINA 2015



SOMMARIO

IL MINISTERO DEL VESCOVO NELLA CHIESA DI OGGI (Mariano Crociata) 9 Assume senza dubbio importanza il Concilio Vaticano II riguardo alla comprensione del ministero del vescovo, di cui va ricordato soprattutto un aspetto: il nesso tra il servizio della Parola e la nota della apostolicità. Si giustifica allora la scelta di individuare nel servizio della Parola o nella dimensione profetica l’aspetto cruciale del ministero del vescovo nella Chiesa di oggi. Si delinea così oggi un quadro in movimento nel quale convivono sensibilità e forme di aggregazione spesso ben distanti tra loro. Si richiede al vescovo allora la capacità di accompagnare le diverse esperienze favorendo obiettivi e percorsi di comunione attorno all’unico centro personale propriamente cristologico della realtà ecclesiale. Non far morire ciò che sopravvive, individuare ciò che sta germinando per aiutarlo a crescere, seminare generosamente: in questo consiste oggi il ministero del vescovo. The Vatican Council II undoubtely plays an important role concerning the comprehension of the Bishop’s Ministry of which above all we must remind an aspect: the link between the service of the Word and the apostolicity feature. Thus we can justify the choice to individuate either in the service of the Word or in the prophetic dimension the crucial feature of the Bishop’s Ministry in today’s Church. This way today we can delineate a dinamic picture where there coexist sensibility and those forms of aggregations which are often far one from the other. Therefore the Bishop is required to accompany the various experiences favouring goals and paths of communion surrounding the only individual centre definitely christological of the ecclesiastic reality. Nowadays the Bishop’s Ministry consists in: to obstacle the death of what survives, to identify what is arising in order to help it to grow and last to sow generously.

Sezione teologico-morale CONCUPISCENTIA BUONA? PRECISAZIONI CIRCA UNA NOTA CONCEZIONE ANTROPOLOGICA AGOSTINIANA (Salvatore Bucolo) 33 L’ampia trattazione agostiniana sul tema della concupiscentia evidenzia come la questione vada oltre a ciò che il peccato di Adamo e di Eva ha ereditato alla natura umana (comunemente chiamata filia peccati e, di conseguenza mater peccatorum). La visione


manichea di concupiscenza come malum naturale e quella pelagiana di bonum naturale hanno fatto maturare in Agostino l’affermazione di concupiscentia come vitium substantiae bonae, evidenziandone la sua non assoluta estraneità alla natura umana e al contempo la sua perversione di sostanza buona già esistente in natura. Tali considerazioni rappresentano la base per accogliere la possibilità dell’esistenza allo stato innocente originario di una concupiscenza non qualis nunc est e della persistenza della sua presenza nella condizione postlapsaria dell’uomo attuale, cui dà il nome di concupiscentia nuptiarum, quale ordinatrice dei desideri più profondi della creatura umana. Per tale ragione in essa Agostino intravede anche il segno del destino stesso dell’uomo (concupiscentia beatitudinis): alla fine dei tempi, con la concupiscenza guarita pienamente dalla grazia (omni ex parte sanandam) e mai separata dalla natura (non separandam), Dio elargirà al cuore dell’uomo il dono di raggiungere l’Amato desiderato ardentemente. Abudant Augustinian treatment about the theme of the concupiscentia evidences that the question goes beyond which the sin of Adam and of Eve inherited to human nature (generally called filia peccati and, consequently, mater peccatorum). The Manichean vision of concupiscence as malum naturale and that Pelagian of bonum naturale matured in Augustine the affirmation of concupiscentia as vitium substantiae bonae, evidencing her not absolute extraneousness at human nature and in the same time her perversion of good substance already existent in nature. These considerations represent the base to grant the possibility of the existence at innocent original state of a concupiscence non qualis nunc est and of the persistence of her presence in postlapsaria condition of actual man, which he calls concupiscentia nuptiarum, like ordering of the most profound reach desires of humane creature. For this reason, in that Augustine looks also at the sign of man’s destine (concupiscentia beatitudinis): at the end of the time, with the concupiscence, healed fully by the grace (omni ex parte sanandam) and never separated from the nature (non separandam), Good will give to the man’s heart the gift to reach the Loved ardently desired. BIOETICA E PASTORALE. LE PROVOCAZIONI DEL FUTURO (Mario Cascone) 91 Il problema centrale dell’attuale dibattito bioetico è quello del “fondamento”. Si confrontano da tempo il modello ontologico-personalista e diversi modelli relativistici, che mettono in discussione concetti essenziali, come quelli di “natura” e di “persona”. A proposito di quest’ultimo concetto autori come Rachels, Engelhardt e Singer si pongono di fatto nell’area del “post-umano”, auspicando la scomparsa stessa del concetto di “specie umana”, che ai loro occhi appare come razzista nei confronti degli animali. Altri autori, come Habermas, Apel e Jonas, chiedono invece il superamento di questi modelli relativistici, a favore di un’etica della responsabilità, che coniughi la libertà di scelta con la verità ontologica. La nostra azione pastorale è chiamata perciò a porsi essenzialmente sul versante educativo, mirando a formare le coscienze alla responsabilità, nella convinzione che le nuove scoperte in campo biotecnologico possono recare vantaggi solo se continueranno ad essere guidate dall’uomo, sulla base di rigorosi parametri etici. The central problem of the current public debate on bioethics is the "Foundation". For a long time the ontological personalist model and different relativistic models have been


compared to discuss essential concepts such as those of “nature” and “person”. As regards the latter concept, authors such as Rachels, Engelhardt and Singer put themselves, actually, in the "posthuman” field, hop-ing the disappearance of the concept of "species", which, in their view appears, to be racist towards animals. Other authors, such as Habermas, Apel and Jonas, asking instead the overcoming of the-se relativistic models, in favour of an ethic of responsibility, including freedom of choice with the ontological truth. Our pastoral action must, therefore, operate essentially on the educational side, aiming to form consciences to liability, in the belief that new discoveries in the field of biotechnology may bring benefits only if they continue to be guided by man, on the ba-sis of strict ethical parameters. LA NOZIONE DI IUSTICIA FRA ORDINE POLITICO E COSMOLOGICO NELLE GLOSAE SUPER PLATONEM DI BERNARDO DI CHARTRES E GUGLIEMO DI CONCHES (Claudio Ternullo) 101 In questo lavoro esamino la ragioni dell’identificazione, da parte di Guglielmo di Conches e di Bernardo di Chartres, della iusticia naturalis come argomento del Timeo. Attraverso un’analisi delle fonti primarie (Platone stesso) e secondarie (la tradizione neoplatonica e, in particolare, il commentarius di Calcidio, che tradusse il Timeo in latino fra il IV e il V sec.), ricostruisco brevemente il processo storico (e logico) in seguito al quale la densa trattazione di argomenti naturali del Timeo poté essere inquadrata e definita dai due attraverso il riferimento, per noi oscuro, alla iusticia naturalis e, nello stesso tempo, mostro come la nozione stessa di iusticia dei due autori abbia subito una risemantizzazione specifica, legata a considerazioni teologiche ed ermeneutiche. In this work i examine the reasons why Guglielmo di Conches and Bernardo di Chartres identify “iusticia naturalis” as one of Timeo’s subjects through an analysis of the primary sources (Plato himself) and the secondary ones (the Neoplatonic traditions and in particolar Calcidius’s commentaries the one who translated Timeo into latin between the 4th and the 5th c.) shortly reconstructing the historical (and logical) process after which Timeo’s thick treatment of natural subjects could be set and defined by the two authors by referring, what for us is not clear, to iusticia naturalis and the same time I demonstrate how the two authors very notion of iusticia has undergone a specific resemantization linked to theological and hermeneutical considerations. IL DE BEATA VITA DI AGOSTINO D’IPPONA. LA RICERCA DELLA FELICITÀ TRA PLENITUDO ED EGESTAS (Francesco Aleo) 135 Il De beata vita di Agostino d’Ippona richiama i grandi temi della filosofia antica e ripresenta il Dialogo quale metodo e mezzo per la ricerca della verità. Ricchezza e povertà, abbondanza e privazione, plenitudo ed egestas comprendono nella loro tensione e dialettica aspetti che la felicità intesa da Agostino come ricerca della verità racchiude ed esprime nella prospettiva esistenziale della vita in Dio.


The Augustine of Hippo’s De beata vita appeals important themes of ancient phylosophy and represents the Dialogue as method and mean to research the truth. Wealth and poorness, plenty and deprivation, plenitudo ed egestas embrace in their tension and dialectic aspects of the Augustinian bliss as truth’s research, containing and expressing the life into God as existential perspective. IL DOVERE CRISTIANO DELLA GIOIA DALLA GAUDIUM ET SPES ALLA EVANGELII GAUDIUM. FONDAMENTO TEOLOGICO E MODALITÀ NELL’ODIERNA SOCIETÀ (Salvatore Consoli) 165 Lo studio parte dalla constatazione che l’attuale società, pur essendo contrassegnata dal benessere e dalla tecnica, suscita solo piacere e non gioia, pertanto ha immerso l’uomo in una grande tristezza. Alla luce della Gaudium et spes e della Evangelii gaudium, l’articolo si sofferma sulle gioie umane che scaturiscono dalla creazione stessa, e sulla gioia che nasce dalla conoscenza e dalla comunione con Dio nonché dall’esperienza del suo amore. Altra fonte di gioia è poi quella che Cristo stesso dona attraverso la rivelazione di sé quale uomo perfetto, e quella gioia che è frutto della vittoria che il Risorto riporta sul male e sulla morte, queste sì, fonte di tristezza e di angoscia. La gioia si sperimenta e si rinnova nella preghiera, nell’Eucaristia, nel dono quotidiano di sé agli altri e nel vivere in armonia e in comunione con la natura e con gli altri. Il cristiano ha il compito di comunicare la gioia che proviene dal Vangelo – evangelii gaudium - con la testimonianza di una vita che ha trovato in Cristo il senso nonché le vie e la possibilità della propria perfezione o riuscita. This study starts from the observation of the present society which, thanks to wellness and progress offers pleasure and not happiness, sinking man in a deep sadness. Inspired by Gaudium et spes and Evangelii gaudium, it speaks about the human joy coming from the Creation and the joy coming from the knowledge and the communion with God and the consequent experience of his love. Another source of joy is the revelation made by Christ about the perfect man and the victory of the Risen One over evil and death, sources of sadness and anguish on their turn. Joy is experienced and renewed through the prayer, Eucharist, the everyday gift of yourself to the others and a life led in harmony and communion with nature and other people. The Christian has got the mission of spreading up the joy which comes from the Gospel – evangelii gaudium- through a life which witnesses the meeting with Christ resulting in the discovery of the sense of the existence together with the ways to and the possibility of your own perfection or success. FELICITÀ E SALVEZZA. RIFLESSIONI TEOLOGICHE A MARGINE DI UNA CORRISPONDENZA POSSIBILE (Adriano Minardo) 183 L’articolo, dopo aver esposto le principali riflessioni sulla felicità elaborate lungo la storia del pensiero occidentale, intese come desiderio di pienezza, tenta di accostarle al bisogno di salvezza che parimenti emerge dal cuore dell’uomo. La teologia cristiana, lungi dal considerare entrambe le istanze all’interno di un’opposizione irriducibile, ci pare le raccordi in un orizzonte di senso sullo sfondo dello stile e del messaggio di Gesù di Nazaret.


This article, after describing the main reflections on happiness formalized through the history of Western thought, as desire for fullness, attempts to think of them next to the need for salvation which also emerges from the human being. Christian theology, far from considering both instances within an irreducible opposition, can fit them in a horizon of meaning in the background of the message of Jesus of Nazareth.

Cronache LE IMMAGINI ED I SIMBOLI DEL POTERE NEI MOSAICI DELLA VILLA ROMANA DEL CASALE DI PIAZZA ARMERINA. (Francesco Aleo)

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Recensioni

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NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO

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INDICE

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Synaxis XXXIII/2-3 (2015), pp. 9-32

IL MINISTERO DEL VESCOVO NELLA CHIESA DI OGGI1

MARIANO CROCIATA2

Il ministero del vescovo oggi Il ministero del vescovo e il munus profetico Tra le molte cose che non mi propongo di fare in questa prolusione, c’è anche quella di svolgere una teologia dell’episcopato; una cosa che va certamente richiamata in questa circostanza è, invece, senza dubbio, l’importanza che il Concilio Vaticano II assume per la comprensione del ministero del vescovo, di cui va ricordato soprattutto un aspetto, e cioè il nesso tra il servizio della Parola e la nota della apostolicità. Nella indivisibile unità del ministero del vescovo, il n. 20 della Lumen Gentium non manca di sottolineare che la qualifica di «successori» degli apostoli inerisce ai vescovi «poiché il Vangelo che essi devono predicare è per la Chiesa il principio di tutta la sua vita in ogni tempo». Intendiamo bene che, nella circolarità e reciproca presupposizione dei tria munera, l’annuncio del Vangelo rimane il centro attorno a cui si struttura la vita ordinata della comunità credente sotto la guida pastorale del vescovo, trovando la sua piena concrezione nell’evento sacramentale che, in un certo senso, vede continuare a ‘farsi Prolusione dell’anno accademico dello Studio Teologico San Paolo. Catania, 28 novembre 2014. 1

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Vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno.


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Mariano Crociata

carne’ la presenza personale del Verbo eterno nella storia degli uomini. Non diversamente, del resto, il n. 7 della Dei Verbum dichiara che «gli apostoli poi, affinché l’Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i vescovi, ad essi “affidando il loro proprio posto di maestri” [S. Ireneo]». L’uso linguistico del termine ‘magistero’ per indicare sia il compito dell’insegnamento sia il soggetto dell’esercizio di tale compito all’interno del più vasto servizio di guida pastorale nella Chiesa3, denota comunque il nesso tra le due accezioni e il ruolo determinante del servizio della Parola nell’adempimento del più complessivo ministero pastorale. Chiedo che basti questo accenno, per giustificare – o almeno non considerare del tutto arbitraria, sul piano delle premesse – la scelta di individuare nel servizio della Parola o nella dimensione profetica l’aspetto cruciale del ministero del vescovo nella Chiesa di oggi. Detta in questa maniera, la scelta adottata può apparire perfino ovvia. La teologia e la prassi di questa stagione post-conciliare – per non parlare dell’insegnamento pontificio, dalla Evangelii nuntiandi4, alla Pastores gregis5, alla Evangelii gaudium6 – hanno fatto dell’annuncio e della predicazione una nota qualificante del ministero episcopale. Nondimeno, ciò che vorrei mettere in evidenza – anche in questo, senza pretesa di chissà quale originalità – è un aspetto specifico di tale dimensione del ministero episcopale, al riguardo del quale ho già evocato l’espressione ‘dimensione profetica’, non del tutto ignaro delle potenzialità e dei rischi di cui è gravida. Vorrei poter intendere tale dimensione nel senso che ci viene – anch’esso – dall’evento conciliare, come capacità dell’annuncio di raggiungere il possibile uditore cogliendolo nella sua situazione storica, sul piano personale e sociale, come un destinatario non indistinto ma riconoscibile nella verità della sua condizione, fatta di drammi, attese e speranze. Sarebbe davvero semplicistico condensare in tal 3 Cf. M. Löhrer-B. Studer, Portatori della mediazione, in Mysterium salutis, 2, Queriniana, Brescia 1977, 84-85. 4

Cf. Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, n. 68.

Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Pastores gregis, 16 ottobre 2003, nn. 26-31. 5

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Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, nn. 30-31.


Il ministero del vescovo nella Chiesa di oggi

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modo anche l’intento della Gaudium et Spes, se non addirittura dell’intero Vaticano II7? Sulla base di quella lezione, dovrebbe risultare ormai evidentemente necessario coniugare predicazione e intelligenza del tempo8, ascolto di Dio e ascolto della storia, non solo in funzione della specifica azione di annuncio del Vangelo, ma ancora di più nell’esercizio della guida pastorale di una comunità ecclesiale come una diocesi. Da anni ormai si discorre con alterne valutazioni di progettazione e di programmazione pastorale, oscillando tra la sua assunzione in termini obbliganti di tipo quasi giuridico-burocratico e la sua deprecazione, quasi si fosse dinanzi a una dissoluzione della gratuita e imprevedibile iniziativa divina. Tale vicenda è in realtà un caso esemplare, rivelatore della condizione obiettivamente disorientata in cui si può trovare un pastore nello svolgimento del suo ministero nella Chiesa di oggi. Egli è chiamato a pervenire alla coscienza della situazione della fede della comunità affidata alla sua guida e delle condizioni per portare avanti la missione cristiana nel contesto sociale e culturale in cui la stessa comunità si trovi collocata: egli dovrebbe assurgere a punta avanzata della coscienza della Chiesa e del suo cammino, in mezzo alla varia umanità che fa da ambiente e contesto alla sua esistenza nello spazio più vasto dell’epoca. Non è esagerato ritenere che in questa capacità di coscienza risiede il punto più rilevante e delicato della qualità del ministero episcopale nella Chiesa di oggi. Con o senza programmazione formalizzata, con o senza documenti orientativi, la questione che si pone riguarda la capacità del vescovo di maturare una visione all’interno della e insieme alla comunità ecclesiale a cui egli presiede9. Non gli è estraneo il rischio, infatti, di cercare di condurre la comunità in una qualche direzione, purchessia, ma Cf. G. Routhier, Un Concilio per il XXI secolo. Il Vaticano II cinquant’anni dopo, Vita e Pensiero, Milano 2012, XVI-XVII. 7

Un rimando pertinente, qui, può essere fatto al tema dei segni dei tempi (cf. Gaudium et Spes, n. 4; anche n. 11). 8

«In una tale situazione di crisi e di mutamento occorre soprattutto una visione. Ogni persona, ogni comunità e ogni popolo possono sopravvivere solo se sono animati da una visione e se coltivano un sogno. Questo vale anche per la Chiesa» (W. Kasper, Tornare al primo annuncio, in «Il Regno documenti» 54/11 [2009] 336). 9


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Mariano Crociata

senza il processo di discernimento personale e comunitario da cui soltanto emerge una visione pertinente e propulsiva e può essere abbracciata una prospettiva capace di dilatare lo sguardo ed il cuore. Non minore è il rischio di adottare formule e parole d’ordine prese altrove, magari in sedi più che autorevoli e significative, ma prive – quelle formule e parole – di un raccordo significante e coinvolgente l’effettivo cammino della comunità ecclesiale di riferimento. In questo senso, a una santità privata scevra di visione pastorale del cammino di Chiesa è difficile riconoscere i tratti tipici di una spiritualità cristianamente incarnata e la figura di una esemplarità ministeriale. Una tentazione a cui è facilmente esposto un pastore oggi è quella di ridursi a generico amministratore o moderatore – una sorta di manager – di una organizzazione estremamente complessa per strutturazione ed eterogenea per ambiti di competenza. All’opposto egli subisce la sollecitazione a inseguire l’interminabile rassegna di temi che drammaticamente interpellano credenti e non credenti, conseguenza dei mutamenti profondi nella coscienza collettiva e nei rapporti sociali, quali – per citarne solo alcuni – la frammentazione di un ethos e di una antropologia condivisi, la pluralizzazione delle etiche e l’assolutizzazione dei diritti individuali, il significato e l’impatto dei nuovi media, gli effetti antropologici e sociali della ricerca scientifica e delle innovazioni tecniche, non ultime quelle bio-tecnologiche, il disagio sociale prodotto dalle sperequazioni sistemiche e da una crisi economica di cui tutto si può dire tranne che sia una contingenza di breve durata. Senza sminuire il rilievo di tali esigenze e questioni, va ribadita come prima istanza l’affermazione che un vescovo è innanzitutto ed essenzialmente una guida, un maestro, un padre; in questo senso va salvaguardato il primato – sempre relazionale – del munus profetico, in cui risalta il primato della parola, e precisamente della parola significativa rispetto a quella indicativa o prescrittiva10. 10 Tutt’altro che superata la carrellata di interventi ‘minori’, sotto il titolo Fare il vescovo oggi, proposta in Argomenti 14 (1989), sul cui ispiratore cf. Non facciamo come lo struzzo. L’impegno intellettuale di Cataldo Naro tra ricerca storica, analisi sociologica e ripensamento della prassi, a cura C.C. Canta e S. Rizza, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2009, del quale merita di essere citato un brano da una intervista rilasciata il 22 maggio


Il ministero del vescovo nella Chiesa di oggi

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Sotto la superficie delle mille incombenze che tendono a soffocare la giornata di un vescovo, si agitano domande che riguardano le prospettive secondo cui elaborare e dare attuazione alla missione pastorale della comunità ecclesiale. Di queste domande vorrei soprattutto parlarvi, dal punto di osservazione offerto da una diocesi del centro Italia – non dissimile per tanti versi da altre sparse in tutta Italia – e alla luce dell’esperienza maturata negli anni. Ringrazio della opportunità che mi viene offerta di farlo in una sede autorevole quale è una istituzione accademica come quella in cui ci troviamo. L’insieme delle domande possibili si lascia facilmente racchiudere in quella sul futuro; e la domanda sul futuro è l’altra forma del discernimento 2004: «il compito del vescovo è quello di essere portatore della tradizione nel significato letterale del termine, ossia ciò che viene trasmesso (tradere), che è il messaggio cristiano, il Vangelo. Ma nello stesso tempo è colui che con le antenne abbastanza tese dovrebbe essere in grado di ridire questa eredità del Vangelo, questo passato cristiano nell’oggi al fine di tramandarlo alle nuove generazioni [...]. Ogni generazione accoglie in maniera nuova il Vangelo e lo ricomprende [...] se non c’è questa accettazione nuova si spezza la catena e non c’è più trasmissione. Sono rimasto sempre impressionato da una considerazione di Ferdinand Braudel [...], che non è credente, osserva che il cristianesimo in confronto all’Islam ha questo di particolare: crea società estremamente fragili. Sono società che devono re-inventarsi ad ogni generazione. È proprio nella natura stessa del cristianesimo perché cristiani si diventa. Ogni generazione accoglie il cristianesimo, lo reinventa e costruisce una cultura» (ib., 67-68). Già nel 1995, lo stesso C. Naro scriveva: «uno dei più rilevanti mutamenti indotti dal Vaticano II è stato il mutamento della figura del vescovo e del suo porsi nei confronti della Chiesa da lui presieduta. [...] Ma l’abbandono delle forme paludate del presentarsi del vescovo e il prevalere di un modo più semplice e dimesso, tendenzialmente più evangelico e, comunque, più rispondente alla sensibilità ecclesiale dei nostri giorni, hanno indotto anche una crisi del “governo” del vescovo nella sua Chiesa, o almeno del modo tradizionale di esercitare il ministero episcopale. Credo che sia difficilmente negabile una crisi del governo episcopale nelle nostre Chiese. Prima del concilio i vescovi erano più seguiti e spesso anche più amati. [...] Ma io credo che questa crisi attiene ad una fase di trapasso che è ancora in corso. Non ci si deve meravigliare di questa crisi. [...] Gradualmente si arriverà a nuove più stabili forme di esercizio dell’ufficio episcopale» (C. Naro, Sul crinale del mondo moderno. Scritti brevi su cristianesimo e politica, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2011, 545-546). Sobrio e incisivo anche il testo di C.M. Martini, Il vescovo, Rosenberg & Sellier, Torino 2011. Sulla sintonia di tali sensibilità con l’insegnamento conciliare, cf. J.W. O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II. Continuità e riforma nella Tradizione della Chiesa, in «Rivista del Clero Italiano» 91/3 (2010) 187-201; più diffusamente e approfonditamente, dello stesso autore, Che cosa è successo nel Vaticano II, Vita e Pensiero, Milano 2010.


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sul presente e, in funzione di esso, il frutto di un’incessante ricognizione del passato. Nel loro insieme, le forme temporali configurano la coscienza storica del credente; non è pensabile, infatti, una fede separata, posta ai margini della storia, nella quale, invece, sono intimamente radicati l’essere umano e l’incarnazione del Verbo che struttura l’evento cristiano. Sembra cosa risaputa, questa, e invece riaffermarlo è annuncio di verità e denuncia nei confronti di mai scomparse pratiche religiose che alimentano fughe dal reale, alla ricerca di un qualche sollievo, di tipo spiritualistico se non miracolistico, dalla pesantezza talora insopportabile proprio della condizione umana e della storia. La situazione della Chiesa Sul futuro della fede La domanda sul destino della fede è per il credente la forma della domanda sul futuro, ha radice evangelica11 e conosce non poche vicissitudini storiche con cui confrontarsi. A ogni stagione essa si ripropone, unitamente al bisogno di chiedersi come decifrare l’oggi e orientarsi in esso. Il credente si avvale, a tal fine, di un’intelligenza che opera nell’orizzonte dell’esperienza della fede e attinge all’ascolto di Dio che parla attraverso la realtà tutta e, in modo speciale, attraverso la testimonianza della sua Parola nella Sacra Scrittura proclamata e compresa dentro la comunità ecclesiale. Nello scrutare il caso serio del destino della fede, seppure in modi diversi, siamo implicati tutti nella Chiesa, poiché esperienza credente e riflessione intellettuale si reclamano reciprocamente, non essendoci autentica esperienza senza un barlume di intelligenza e sapere della fede fuori dell’orizzonte di una esistenza credente. Ponendoci alla ricerca di un punto in cui condensare la comprensione della situazione della fede oggi e delle sue prospettive, dobbiamo rilevare un dato con cui la realtà costringe a misurarsi, pur in presenza di una molteplicità di interpretazioni del momento storico. Tale punto consiste nel riconoscimento della lunga transizione storica da un regime sociale di 11

Cf. Lc 18,8.


Il ministero del vescovo nella Chiesa di oggi

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cristianità a una condizione secolarizzata12 o, in un’ottica sociologica, da una società integrata a una società complessa13. Tutte le distinzioni, che sarebbe necessario introdurre per comprendere una evoluzione storica e una trasformazione sociale e culturale lunga e articolata, non inficiano quello che si configura come un processo in fase di avanzata consumazione. A voler fissare in una sorta di istantanea una realtà sottoposta a un movimento di accelerato mutamento, siamo già oltre la fine della identificazione della Chiesa con la società; non c’è più sovrapposizione e copertura tra società e Chiesa, né è pensabile che il processo di distanziamento o di differenziazione tra l’una e l’altra sia più arrestabile. Anche a volerne attenuare la portata radicale, tale transizione non viene annullata nemmeno dalla forte persistenza religiosa, di rilievo prevalentemente culturale, che legittima a parlare ancora di – più o meno residuale

«Con “cristianità” intendiamo qui ogni modello [...] sociale, politico, culturale nel quale alla fede cristiana e alle istituzioni delle chiese vengano riconosciute in linea di diritto competenze dirette di vario tipo nelle istituzioni politiche, sociali, culturali. Quando si parla di cristianità non si allude affatto, quindi, a una qualsiasi ipotetica società nella quale i cristiani siano la maggioranza, se non la totalità, e apportino il loro contributo alla vita sociale, culturale e politica. Ci si riferisce, invece, a un fenomeno, datosi di fatto nella cultura europea e occidentale, [...] e che consiste nel fatto che le chiese e le istituzioni cristiane sono soggetti politici, che esse hanno una presa diretta sul livello politico e sociale, che esercitano una egemonia culturale e che ad esse viene riconosciuto il diritto di dare forma anche legislativa alla vita associata» (M.C. Bartolomei, Pratiche sacramentali e cristianità: un rapporto speculare?, in Fine della cristianità? Il cristianesimo tra religione civile e testimonianza evangelica, a cura di G. Bottoni, Il Mulino, Bologna 2002, 95). G. Ferretti (Tentativi di fuoriuscita dalla cristianità nella filosofia e nella cultura, ib., 141-159), da parte sua, distingue quattro tipi di cristianità: inculturazione, dogmatizzazione della cultura, religione civile, “instrumentum regni”; cf. anche G. Ferretti, Essere cristiani oggi. Il “nostro” cristianesimo nel moderno mondo secolare, Elledici, Leumann (TO) 2011, 11-34. 12

«La società attuale è l’esito del superamento/rovesciamento del principio di società organica, cioè strutturata in modo che tutti gli ambiti sono ricondotti a un nucleo centrale di valori percepito come garanzia di ordine, progresso, razionalità. La realtà del nostro tempo è molto più complessa [...] esito finale è quello della frammentazione» (G. Chiosso, I significati dell’educazione. Teorie pedagogiche e della formazione contemporanee, Mondadori, Milano 2009, 2). 13


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– cattolicesimo popolare14. La categoria di cattolicesimo popolare viene applicata all’Italia e, con le dovute differenziazioni, anche ad altri Paesi, perché una delimitazione geografica è concettualmente necessaria, ma la sua consistenza e configurazione sono non facilmente definibili. D’altra parte, pur con gli influssi e gli intrecci di un mondo globalizzato, la fede cristiana conosce destini molto diversi nei vari continenti del nostro pianeta, sia nel suo insieme che nelle sue articolazioni confessionali e denominazionali. Ciò che risalta nel processo in atto nel nostro Paese è la coscienza del carattere di novità del profondo mutamento in atto rispetto alla sua storia. Alla fine dell’epoca moderna, alla coscienza del cattolicesimo italiano, e ancor più occidentale, si presenta un fenomeno nuovo: una società e una cultura plasmate e fortemente impregnate dal Dio cristiano che, nella generale indifferenza, lo abbandonano e se ne sbarazzano, in alcuni casi mostrandosi perfino ansiose di rimuoverlo15. Un fenomeno inedito in questa forma quanto meno per il nostro Paese, per quanto qualcuno possa far valere analogie con passaggi simili della storia cristiana, che hanno visto in vario modo il cristianesimo scomparire come religione maggioritaria in varie regioni anticamente o per lungo tempo cristiane. Analogie o differenze non riescono, comunque, ad assimilare il fatto che tale processo si compia attorno a quello che, non solo simbolicamente, ha ininterrottamente rappresentato e continua a rappresentare il centro della cristianità fin dalle sue origini. Proveniamo per lo più da un passato che ci ha fatto vivere il cristianesimo come attore di un’inarrestabile espansione o almeno di un inespugnato mantenimento. Ora ci troviamo nel bel mezzo di una fase di inesorabile ridimensionamento del cattolicesimo ecclesiale a minoranza proprio nel punto del globo che nell’immaginario collettivo e nel fatto istituzionale ne rappresenta fin dagli inizi il centro propulsore. Le parole adoperate dicono la necessaria circospezione da tenere nell’etichettare e definire una situazione che espone al rischio delle approssimaCf. L. Diotallevi, I laici e la Chiesa. Caduti i bastioni, Morcelliana, Brescia 2013, 75-85; M. Crociata, Pensare da credenti. Sfide e prospettive pastorali per la Chiesa in Italia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2013, 14-18. 14

15 Cf. G. Brunelli-P. Segatti, Italia: da cattolica a genericamente cristiana, in Chiesa in Italia, «Il Regno», Annale 2010, 67-87.


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zioni semplificatorie. Dietro le differenti interpretazioni – che privilegiano ora l’esaurimento di un ciclo storico, ora all’opposto la persistenza di una grandezza socio-culturale, ora il vitalismo della religiosità popolare – si attestano senza dubbio insediamenti sociali di forme di cristianesimo variamente consistenti, da quello strettamente ecclesiale, a quello popolare della pietà, a quello religioso-naturale, religioso-culturale, religioso-civile. La scomparsa di una società cristiana non è ancora la scomparsa del cristianesimo come grandezza anche sociale. La caratteristica della secolarizzazione postmoderna, se così vogliamo chiamarla, sta proprio nel suo essere non alternativa ma intrecciata con la religione ormai diffusa in una molteplicità di forme; non dunque una secolarizzazione come superamento della religione, bensì come condizione e modalità nuove dell’essere religiosi. Per essere meglio compresa, la situazione ha bisogno di fare i conti con la natura del processo di secolarizzazione che impregna questa fase della storia della cultura. In questo senso, bisogna riferirsi a quella visione della secolarizzazione, la cui elaborazione si deve soprattutto a Charles Taylor16, intesa come radicale soggettivizzazione dell’opzione religiosa quale una fra le altre, e quindi una delle opzioni possibili, così da produrre una destrutturazione culturale dell’esperienza religiosa, la quale si vede consegnata alla scelta della libertà ma anche al gioco delle preferenze rigorosamente individuali e private. Se la riduzione di grandezza e di rilievo sociale si accompagna al moltiplicarsi di altre presenze culturali e religiose, la secolarizzazione come radicale soggettivizzazione delle opzioni rende imponderabile la qualità delle appartenenze ed evanescente la coesione delle aggregazioni. I legami diventano tipicamente fluidi, perché non irreversibili ma piuttosto intercambiabili, togliendo così il terreno sotto i piedi a ogni forma di stabilità delle unità sociali. Prevale il coagulo spontaneo e provvisorio, facilmente surrogabile da nuove forme di affiliazione, tutte più o meno regolarmente Cf. C. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2010; a questa posizione bisogna però accostare l’interpretazione precedente della secolarizzazione come effetto della differenziazione delle diverse sfere o sistemi sociali, a opera di N. Luhmann, Funzione della Religione, Morcelliana, Brescia 1991. Cf. G. Ferretti, Il grande compito. Tradurre la fede nello spazio pubblico secolare, Cittadella, Assisi 2013, 13-33; anche R. Repole, Come stelle in terra. La Chiesa nell’epoca della secolarizzazione, Cittadella, Assisi 2012, 11-40. 16


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suscitate o alimentate dalla comunicazione mediatica e in particolare dai social media. In tale clima, le forme tradizionali di comunità non riescono a dissimulare le difficoltà che patiscono. Un passaggio epocale La consapevolezza di tali profondi rivolgimenti non è di oggi. Si deve risalire allo stesso evento conciliare del Vaticano II per rilevarne l’emersione al livello di avvertenza ecclesiale diffusa. Sappiamo quanto siano complesse le vicende ermeneutiche accumulatesi a suo riguardo, tanto più se non ci limitiamo ai conflitti interpretativi delle accademie, ma mettiamo in conto anche le ermeneutiche delle decisioni autorevoli e delle prassi diffuse: una storia già fin troppo vasta e complicata alla vigilia del cinquantesimo della conclusione della storica assise ecclesiale. Il Concilio – credo si possa dire – cerca di comporre insieme un movimento di ritorno alle fonti (ressourcement, aggiornamento), frutto peraltro di un lavorio almeno pluridecennale, e uno di attenzione aperta e positiva alla contemporaneità. Si tratta di un’indicazione di atteggiamento e di metodo che rimane attivo punto di riferimento per la stagione ecclesiale successiva fino ad oggi17. Seppure a rischio di semplificare, ma nello sforzo di evidenziare alcuni passaggi paradigmatici della storia degli effetti del Vaticano II, credo si possa raccogliere in forma schematica qualche indicazione al riguardo nel magistero pontificio. Giovanni Paolo II coltiva tenacemente l’idea di poter invertire l’ondata secolarizzante, di rivitalizzare le radici al punto da ridare consistenza sociale e grandezza storica al cristianesimo in Occidente, ricompattando la forza istituzionale e organizzativa della Chiesa18. Benedetto XVI, a sua volta, nutre la convinzione che è possibile ricostituire e ristabilire una base comune sul piano culturale e sociale, con un mondo ormai riconosciuto in movimento di allontanamento dalla fede cristiana, a Cf. G. Routhier, Il Concilio Vaticano II. Recezione ed ermeneutica, Vita e Pensiero, Milano 2006, 295-319. 17

Cf., tra molti altri interventi, Giovanni Paolo II, Atto europeistico, Santiago di Compostela, 9 novembre 1982. Prende spunto anche dalla posizione qui richiamata per una riflessione sul cristianesimo in Europa B. Seveso, Cristiani in Europa. Sulle tracce di un riorientamento, in «Teologia» 38/2 (2013) 215-239. 18


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partire dalla ragione naturale e dalla natura dell’essere umano19. Di fronte alla percezione acuta della crisi della fede, avverte prepotente l’esigenza di conservare integra la tradizione e la preoccupazione di salvaguardarne e riproporne compiutamente i contenuti essenziali20. Papa Francesco presenta una visione che ha rinunciato a ogni velleità di restaurazione o di riconquista; senza cedere sui contenuti essenziali della dottrina, si muove con la libertà di chi non teme di perdere nulla e invece ha fiducia di poter raggiungere tutti. Egli propone di ripartire dal nucleo centrale della fede cristiana e dalle sue origini, e ne rilancia la missione volta a far abbracciare la fede per attrazione più che per proselitismo. Propugna l’idea fondamentale che rivitalizzazione della fede e trasmissione del Vangelo vanno di pari passo e che l’incontro con l’altro è parte integrante della comunicazione del credente21. Il cammino della Chiesa in Italia, a sua volta, può ben essere condensato nell’impegno di riscoperta e rilancio dell’evangelizzazione, assunto con la tipica colorazione di una adesione al Papa sentita come parte integrante del proprio compito storico. Emerge, insieme all’istanza della missione, per lo più coniugata, però, dentro un sistema ordinato di trasmissione della fede sociologicamente connotato, più nella forma dell’‘inquadramento’ che in quella della ‘rigenerazione’22, la preoccupazione per il mutamento antropologico in atto, che fa venir meno i presupposti necessari per riproporre un annuncio riconoscibile e condivisibile della fede cristiana. Ne fanno fede 19 Anche qui, uno per tutti, valga il rimando al discorso di Regensburg: Benedetto XVI, Incontro con i rappresentanti della scienza nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg, 12 settembre 2006.

20 La scelta dei temi delle sue encicliche parla da sola in tale senso, fino alla Lumen fidei, espressamente collegata da papa Francesco al suo predecessore. Quanto alla crisi di fede, rimane impressionante la lucidità dell’analisi svolta da Benedetto XVI, per esempio, nel Discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2011 e nell’Omelia del 31 dicembre 2011.

L’esortazione apostolica Evangelii gaudium raccoglie e sviluppa diffusamente tali prospettive. 21

Categorie elaborate da A. Fossion, Evangelizzare in modo evangelico, in «Notiziario UCN» 3 (2008) 38-53; dello stesso autore cf. anche Il Dio desiderabile. Proposta della fede e iniziazione cristiana, EDB, Bologna 2011 e Annuncio e proposta della fede oggi, in «La Scuola Cattolica» 140/3 (2012) 291-313. 22


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i temi dell’educazione e dell’umanesimo che dominano l’orientamento pastorale del decennio in corso23. Fare pastorale in tempi di crisi Sullo sfondo di queste considerazioni, la domanda sul futuro pone la questione su come si delinei l’esercizio della responsabilità pastorale in una situazione caratterizzata da tendenza inerziale alla conservazione, se non alla sonnolenta abitudinarietà, assuefazione alla cultura ambiente mediaticamente modellata ed erosione culturale fomentata dalla secolarizzazione tipicamente postmoderna. Ancor prima, la domanda sul futuro solleva il problema di come gestire la lacerante tensione prodotta dal misto di attese e di richieste, non raramente inespresse, che sale da una massa che supera il 90% di battezzati sulla popolazione totale e scende al di sotto del 20%, nel migliore dei casi, e ben oltre, al di sotto del 10%, nella maggior parte delle diocesi, di fedeli assidui alla vita ecclesiale24. Opportunamente si fa osservare la paradossale coesistenza di «vitalità della religione e crisi del cristianesimo»25, e l’accumularsi di fattori che tendono a ridurre anche il cristianesimo, e in specie il cattolicesimo, a una «religione a bassa intensità»26, lasciando degradare le «tradizioni religiose ad alta pretesa ex23 Cf. CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, 4 ottobre 2010; Comitato preparatorio al V Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, Invito al Convegno, 11 ottobre 2013, e ora, sempre a opera del Comitato, Una traccia per il cammino verso il 5° Convegno ecclesiale nazionale, 9 novembre 2014.

Molti si sono cimentati da tempo a seguire l’evoluzione sociologica del fenomeno cattolico e religioso in Italia; da un punto di vista esterno all’orizzonte credente si possono vedere R. Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, Il Mulino, Bologna 2011; M. Marzano, Quel che resta dei cattolici. Inchiesta sulla crisi della Chiesa in Italia, Feltrinelli, Milano 2012; M. Marzano-N. Urbinati, Missione impossibile. La riconquista cattolica della sfera pubblica, Il Mulino, Bologna 2013, 15-61. In un’ottica più sintonica con la sensibilità del mondo cattolico, cf. F. Garelli, Religione all’italiana. L’anima del Paese messa a nudo, Il Mulino, Bologna 2011. 24

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L. Diotallevi, I laici e la Chiesa, cit., 52.

L. Diotallevi, Le trasformazioni in corso nel clero cattolico. Un contributo sociologico in riferimento al caso italiano, 67ma Assemblea CEI, Assisi, 10-13 novembre 2014, supporto digitale. 26


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trareligiosa», tipiche del cattolicesimo, a «beni religiosi [a cominciare dai sacramenti] a bassa compatibilità»27. Vitalità della religione e difficoltà dell’istituzione suggeriscono, dunque, di non lasciarsi ingannare dal molto da fare religioso. Qualsiasi offerta pastorale, peraltro, rischia di essere insoddisfacente per tutti a motivo della condizione differente in cui trova i destinatari. La scelta di una pastorale che privilegi la massa tende ad attestare la qualità del cristianesimo su un livello diluito o stemperato, che può essere identificato, a preferenza, come pietà o religiosità popolare, fino alla religione naturale e alla religione civile; all’opposto, l’opzione privilegiata per il gruppo di fedeli qualificato per consapevole appartenenza e responsabile affiliazione ecclesiale si espone al rischio del settarismo o comunque della selezione elitaria ed esclusiva. Non è consigliabile, al riguardo, introdurre rigidi sistemi selettivi, se non al prezzo di un tradimento dell’apertura universale dell’offerta della fede e di un abbandono a se stessa di una massa di battezzati su cui non è possibile emettere preventivamente un giudizio generalizzato circa la chiusura alla fede o, all’opposto, il grado di personale relazione di fede con la Chiesa. Il dramma di un pastore sta nella responsabilità nei confronti di un gregge che non può essere abbandonato a se stesso, ma che non è nemmeno più nell’atteggiamento e nell’orientamento culturale di farsi guidare tutto insieme in modo unitario, anzi non ha più in varia misura nessuna disponibilità a lasciarsi guidare da alcuno, per indifferenza se non per scelta positiva. Il problema è acuito dal fatto che la mentalità che permea qualsiasi forma di rapporto religioso è segnata da un pregiudizio generico a favore della opzione preferenziale del singolo, avvertita come diritto, naturalmente esprimibile, mutabile, insindacabile. In tal modo, là dove non arriva l’appartenenza sociologicamente definita, giunge l’approccio soggettivo in quanto criterio ultimo di giudizio e di scelta. In queste condizioni qualsiasi iniziativa, che abbia pure scontato la condizione differente dei destinatari e abbia raggiunto la capacità di rendersi intellegibile al maggior numero di fedeli, deve misurarsi con un clima culturale che tende a snaturare o, comunque, ad alterare la recezione e la risposta, se non altro nel modo di 27

L. Diotallevi, I laici e la Chiesa, cit., 55.


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una qualche aleatorietà che aleggia su tutto, e spesso anche per la incoerenza, se non contraddittorietà, delle fonti da cui provengono indicazioni e risposte a richieste e circostanze analoghe. Si deve aggiungere che un’insidia di non poco conto è costituita dalla rappresentazione schematica invalsa nella mente di molti, che contrappone chi fa parte della Chiesa e detiene la responsabilità nello svolgimento della sua missione (non solo ministri ordinati) e i destinatari; nella realtà, la mentalità che assorbe la cultura dell’illimitata opzionalità soggettiva permea tutti in maniera pervasiva, così che qualsiasi iniziativa nei confronti di altri – considerati o definiti lontani – non può essere pensata prescindendo dalla consapevolezza di essere parte di una totalità culturale più grande che avvolge chi intraprende la missione non meno che i suoi destinatari e perciò altera – o quantomeno condiziona – la comunicazione e il messaggio. Va tenuta in attenta considerazione, perciò, una reciprocità e circolarità tra ministero episcopale e situazione della Chiesa; non c’è un ministero che possa in maniera astorica guardare al futuro quasi da una posizionalità estranea alla corrente che tutto trasporta. Il ministero è in questione nella sua autocomprensione e nella sua prassi, anche se esso trova la sua determinazione decisiva alla sua origine, a sua volta non estranea alla storicità dei processi di comprensione. Il compito del vescovo nella Chiesa di oggi Nodi da affrontare Di fronte a un rapporto tra cattolicesimo ecclesiale e società che vede infranta la sua forma tradizionale, la domanda sul destino della fede si ripropone come domanda sulle condizioni di possibilità che la fede continui a essere anima di una comunità e presenza storica efficace. La fede non può rinunciare a tale efficacia storica, che è apertura cattolica e irriducibile insediamento popolare, pena il rinnegamento della sua identità, destinata a plasmare l’esistenza personale e comunitaria in tutte le sue dimensioni. Per quanto vigano – e non debbano essere cancellate prima del naturale esaurimento della loro funzione storica – forme istituzionalizzate eredi di una qualche forma di cristianità, che vede il rapporto


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tra Chiesa e società configurarsi anche come quello tra due entità in qualche modo omologhe, il futuro non sembra essere rappresentato in via preminente dalla loro continuità. Per questo, proprio alla luce di tale sommario tentativo di diagnosi del momento ecclesiale, ciò che risulta è un quadro in movimento e profondamente modificato rispetto a un passato nemmeno molto lontano, e nello stesso tempo la persistenza di forme diverse di cattolicità in una stratificazione non facilmente districabile al suo interno. Tra le varie esigenze pastorali cui far fronte, bisogna mettere in campo quella di individuare una direzione appropriata e scegliere un percorso che non introduca rotture traumatiche nel cammino del popolo dei credenti. Fa parte di queste condizioni previe, la necessità di mantenere, finché le condizioni storiche lo consentiranno, il rapporto istituzionale – come appena accennato – tra la Chiesa e lo stato nella sua configurazione attuale costituzionalmente sancita, pur essendo mutati il posto e la percezione della Chiesa nella società di oggi. Al di là del reciproco rispetto formale e delle reali attenzioni su questioni pure sostanziali, appare inesorabile la progressiva perdita di incidenza dell’istituzione ecclesiastica sia sull’andamento complessivo della conduzione delle istituzioni della società civile e politica, sia su questioni specifiche di particolare rilievo per la sensibilità dei credenti e per la libertà di azione della Chiesa. In connessione con il profondo mutamento culturale che ormai tocca la collettività come tale e con l’affermarsi di un pluralismo religioso ed etico in tutti gli strati della società, l’iniziativa ecclesiastica di tipo istituzionale si trova ad essere fisiologicamente sempre più ridimensionata. Nondimeno questa non è una buona ragione per rinunciare ad esercitare un ruolo morale nella dinamica dei rapporti che regolano l’azione pubblica e la formazione delle opinioni e delle decisioni che interessano il bene di tutti. L’esercizio di tale ruolo non va confuso con un’azione di lobbying, per i contenuti su cui ordinariamente il pubblico intervento dell’episcopato si esercita e per la responsabilità che esso detiene nei confronti di una presenza popolare di non scarso rilievo, qualitativa oltre che quantitativa, perché portatrice di una visione che ha il diritto e il dovere di contribuire al formarsi delle decisioni concernenti l’interesse generale in una società democratica. La riserva mai sopita nei confronti di tale


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presenza e iniziativa è in verità sempre meno aggressiva, in corrispondenza con il calo di influenza constatabile, ma ha ancora una incidenza considerevole nella resistenza, se non nella preclusione, a considerare componibili esperienza religiosa e società civile, e più specificamente fede e vita pubblica, coscienza e cultura antropologica. Gli effetti di una eredità come quella moderna, per lo più di netta separazione tra l’una e l’altra, si fanno ancora sentire su una religione che dovrebbe essere destinata a rimanere relegata nel privato e una convivenza regolata da criteri e norme meramente procedurali, incapaci di rendere ragione delle motivazioni dello stare insieme e delle loro radci ideali28. Accanto a questa prima, una seconda condizione previa va assicurata, questa volta sul piano intra-ecclesiale, e cioè la necessità di considerare le diversificazioni delle esperienze di fede, dei loro raggruppamenti e delle forme di appartenenza ecclesiale: oltre che un valore e una ricchezza espressiva della vitalità spirituale della fede cristiana, esse non sono omologabili tra loro se non altro per effetto di una pluralità legittimata anche dallo spirito del tempo. La situazione, anche interna all’orizzonte religioso cattolico, può venire rappresentata come un quadro in movimento nel quale convivono sensibilità e forme di aggregazione spesso ben distanti tra loro, ma accostate l’una all’altra in una improbabile ma insuperabile contemporaneità. Anche in questo si richiede al vescovo la capacità di accompagnare le diverse esperienze favorendo obiettivi e percorsi di comunione attorno all’unico centro personale propriamente cristologico della realtà ecclesiale. Al suo interno una attenzione peculiare egli deve riservare alla pietà popolare, per il suo essere allo stesso tempo serbatoio di risorse religiose e punto di incrocio tra senso del sacro e intuito credente29.

28 Cf. G. Angelini, Vangelo del Regno e legami sociali: la difficile ricomposizione, in Cristianesimo e Occidente. Quale futuro immaginare?, Glossa, Milano 2011, 93-115; anche E.-W. Böckenförde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione [1967], Morcelliana, Brescia 2006. Cf. pure E. Galli della Loggia, Moderno e postmoderno: il travagliato rapporto del cristianesimo con la libertà, in «Teologia» 35/4 (2010) 549-562. 29 Cf. R. Tagliaferri, Il travaglio del cristianesimo. Romanitas christiana, Cittadella, Assisi 2012, 259-281.


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I compiti pastorali La domanda da cui siamo partiti riguarda dunque la fede ecclesiale nel suo modo di essere fattore storico e di stare nella storia di questo tempo e della società plurale in cui viviamo. Come plasmare una cultura in modo evangelico in assenza di strutture di cristianità? La direzione della risposta sembra dover essere cercata lungo vie che passano attraverso i misteriosi sentieri della coscienza e i tracciati delle relazioni suscitate dalla fede, che soli danno luogo a esistenze significative e a comunità testimonianti il senso cristiano della vita e della storia. In tale contesto, l’esercizio del ministero – e di quello episcopale in modo particolare – non può, però, limitarsi a conservare ciò che la storia consegna e a salvaguardare l’esistente; esso affida compiti, che riassumiamo ancora una volta in una triade, nei quali sembrano poter essere assunte e inglobate anche le condizioni previe appena richiamate. Il primo di tali compiti può essere condensato nell’espressione “imparare il discernimento”. Esso tocca in primo luogo il tema della libertà nell’intreccio tra persona e comunità. Si conferma sempre di più ciò che viene percepito come l’opportunità privilegiata di questo tempo, e cioè la possibilità di far crescere persone che liberamente abbracciano la fede, sia essa ricevuta da bambini30 o incontrata nel corso della vicenda biografica31. Emerge una nuova consapevolezza e una possibilità di libera scelta da parte del credente; ma la sfida dell’individualismo e di una libertà senza radici e senza legami sta tutta dinanzi a noi. Posto che non c’è più spazio per una appartenenza ecclesiale che non passi attraverso un percorso di 30 Cf. B. Seveso, Il diventare cristiani dei figli di cristiani. L’azzardo sostenibile, in «Teologia» 36/2 (2011) 194-226.

31 Significativa l’affermazione che, al riguardo, ha fissato Benedetto XVI nella sua Lettera alla città e alla diocesi di Roma sul compito urgente dell’educazione (21 gennaio 2008): «A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell’ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell’uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale».


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conversione e un atto di responsabilità personale, anche il credente si trova stretto nella morsa formata da una libertà individualistica senza regole e un tessuto sociale anonimo e spersonalizzante. La proposta cristiana deve mostrare la sua originalità riannodando libertà e responsabilità, scelta personale e legami. Solo così la dimensione indivisibilmente libera e relazionale che collega persona e comunità è suscettibile di diventare la manifestazione più eloquente della congruità tra umano e cristiano e della costitutiva destinazione dell’uno all’altro. Proprio tale intrinseca congruità viene a mettere in evidenza l’esaltazione della libertà. L’unità che la teologia cattolica ci consegna tra creazione e storia della salvezza, obbliga a preoccuparci dell’umano nel duplice senso di leggerne l’intimo dinamismo e di trovare in esso gli spazi che attendono di accogliere il compimento che viene da Gesù Cristo e dal suo stile unico e inconfondibile32. Rendere possibile e ricercare un nuovo contatto con l’umanità di Cristo: questa è la promettente possibilità della proposta cristiana. La riscoperta della sua umanità non è solo una via per la rigenerazione dell’annuncio e della missione cristiana, ma non meno la condizione per attingere la qualità genuina dell’umano comune e della vita buona. Un annuncio che non prendesse in carica le implicazioni antropologiche dell’incontro con Cristo e della fede rischierebbe fatalmente l’irrilevanza e la vanificazione della novità e della differenza cristiana33. Nella valorizzazione dell’umano comune34, come luogo in cui congiuntamente fioriscono la persona e la sua fede, si coglie la tempestività e la fecondità della scelta dei vescovi italiani di abbracciare per questo decennio il compito educativo come l’urgenza pastorale e culturale per eccellenza35. 32 Cf. C. Theobald, Il cristianesimo come stile, La teologia nella post-modernità, in «Il Regno attualità» 52/14 (2007) 490-501. 33 Cf. D. Albarello, L’umanità della fede. Credere in Dio nell’epoca del disincanto, Effatà, Cantalupa (To) 2011.

Cf. F.G. Brambilla, Introduzione. Il futuro del cristianesimo in Occidente, in Cristianesimo e Occidente, cit., VII-XX. 34

Cf. sul tema educativo, tra altri, Comitato per il progetto culturale della CEI, La sfida educativa, Laterza, Bari-Roma 2009; di G. Angelini, Il figlio: una benedizione, un compito, Vita e Pensiero, Milano 1991; Educare si deve, ma si può?, Vita e Pensiero, 35


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Abbiamo bisogno di imparare e di attivare processi di interpretazione credente del nostro tempo, a cominciare dalle domande circa l’appello di Dio contenuto nell’impoverimento di personale, di partecipazione e di risorse di cui soffrono tante nostre realtà. Spesso viene il dubbio che non sia proprio per zelo pastorale che ci adoperiamo, ad esempio, per reperire personale variamente assortito o assemblare dispositivi e strutture pastorali studiati a tavolino ma non pensati e condivisi nei presbitèri e nelle comunità coi fedeli, in realtà mettendo così in sordina la domanda che Dio ci pone attraverso la crisi in atto. In una prospettiva specificamente ecclesiale, l’esigenza più importante e urgente insieme consiste nella capacità della comunità di diventare soggetto del proprio cammino spirituale e pastorale. Qui sta probabilmente lo snodo decisivo del cambiamento in corso nel rapporto tra Chiesa e società in Italia. Tocca, infatti, il ruolo dei presbiteri (e dei loro presbitèri)36, la presenza dei laici37 e, non secondariamente, la responsabilità dei vescovi. Bisogna rinunciare a immaginare in anticipo quali modificazioni questo introdurrà nello stile di vita e nella stessa struttura ecclesiastica ai suoi vari livelli; cercare di predeterminarlo direttivamente riproporrebbe la deriva verso cui tante esperienze attuali inclinano, privilegiando una sorta di ingegneria burocratico-ecclesiastica a scapito di un processo di discernimento lungo il quale soltanto cammino ecclesiale e intelligenza pastorale si sposano per una crescita armonica del nuovo volto della Chiesa. L’efficacia storica della fede cristiana passa attraverso comunità nelle quali Milano 2002; L’educazione è ancora una questione?, in A. Toniolo-R. Tommasi (a cura), Il senso dell’educazione nella luce della fede, Messaggero, Padova 2011, 61-88; Di generazione in generazione: l’educazione e il paradigma parentale, in M. Signore (a cura di), Ripensare l’educazione, Pensa Editore, Lecce 2013, 87-109.

Un motivo centrale della vita di una Chiesa particolare e della guida pastorale di un vescovo è senza dubbio il presbiterio, come luogo sacramentale dell’unità dei presbiteri attorno al vescovo e segno efficace della comunione ecclesiale. Su questo, l’ultima assemblea straordinaria dei vescovi italiani ad Assisi, dal 10 al 13 novembre, ha puntato in maniera particolare l’attenzione. Cf. Conferenza episcopale italiana, “Strumento di lavoro” sulla vita e la formazione permanente dei presbiteri, 67a Assemblea generale, supporto digitale. 36

Cf. L. Diotallevi, I laici e la Chiesa, cit., rispettivamente 49-100 e 151-194. In particolare il tema del laicato conosce una ormai vastissima letteratura, sia in riferimento alla recezione conciliare, sia in riferimento alle vicende recenti della Chiesa in Italia. 37


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le relazioni interpersonali non si limitano alla dimensione funzionale e nemmeno si cristallizzano in gruppi chiusi, ma rimangono autentiche e aperte, per pervenire a scelte che sono compiute da chi ne ha ultimamente la responsabilità ma a seguito di un cammino di condivisione, attuato negli organismi di partecipazione e in quelle forme sinodali idonee a sostenere processi di maturazione delle decisioni ecclesiali. Il secondo compito può essere formulato come “testimoniare il primato di Dio”. L’opera della santificazione è affidata innanzitutto all’azione della grazia, a cui ci si espone incondizionatamente in maniera esemplare nella celebrazione dei sacri misteri, già di per se stessa insieme luogo di massima intimità divina per la comunità e di efficace e significativo annuncio della fede ecclesiale. In essa si innesta la necessità di intrecciare con la preghiera ogni processo di discernimento, di decisione, di testimonianza e di missione. Il primato di Dio professato in modo eminente nella celebrazione liturgica e nella preghiera salvaguarda da ogni forma di scorciatoia spiritualistica, che si illude di perseguire una salvezza disincarnata e svuotata di ogni responsabilità, speculare alla opposta pretesa sufficienza della riforma delle strutture e delle organizzazioni ecclesiastiche, che tratta la realtà ecclesiale alla stregua di una qualunque costruzione sociale. A voler sottolineare l’unità dei compiti di un pastore, qui va dichiarato che un adeguato discernimento è condizione di ogni valida riforma, ma anche che non c’è autentico discernimento fuori dello spazio spirituale dell’ascolto di Dio e dell’invocazione di lui38. Anche qui vale il principio della circolarità e della reciproca presupposizione tra conversione e discernimento, tra santità e intelligenza credente della storia, tra santità e riforma dei costumi e delle strutture della Chiesa. E a completare tale quadro di unitarietà, sta il richiamo a vedere radicata nella dimensione orante la stessa azione di governo pastorale del vescovo. Una delle capacità e delle iniziative a lui maggiormente congeniali e richieste, forse soprattutto in questa stagione, è quella di individuare, sostenere e collegare i cammini più significativi e le esperienze radicali di Significativamente W. Kasper sottolinea con forza che la questione ecclesiologica è innanzitutto ed essenzialmente oggi una questione teologica; cf. W. Kasper, Crisi e futuro della Chiesa, in «Il Regno documenti» 57/21 (2012) 652-658. 38


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vita cristiana, di vita religiosa e monastica, di scelta esemplare personale o comunitaria in risposta a una chiamata speciale del Signore in qualsiasi stato di vita; in altre parole, di cogliere e raccordare tutti i germi di santità disseminati nel vario e spesso dispersivo tessuto ecclesiale. Un santità impastata di storia ha il potere di creare la sua contemporaneità e di esercitare la sua capacità di incidere sul presente in maniera culturalmente originale e pertinente, poiché la santità, quando è vera, è già essa stessa una sintesi riuscita di discernimento del presente e di piena adesione al Signore. Il terzo compito lo condenserei nell’impegno ad “adempiere la missione percorrendo le vie dell’accoglienza, dell’incontro e del dialogo”. Tutto deve cominciare dal riconoscimento del valore e dall’apprezzamento della persona, di ogni persona; e cominciare quindi dallo sforzo di conoscenza dell’altro, mossi dalla domanda su come Dio opera in lui, ma anche su come Dio chiede a noi una fede più vigorosa e profonda, che possa raggiungere l’altro toccandolo nell’intimo. Un vescovo è uno che si sente inquietato dalla domanda su come coltivare e condividere la convinzione che anche oggi la fede cristiana è una possibilità e una necessità per tutti. Si tratta di un atteggiamento richiesto a ogni singolo credente, ma esso ha bisogno di diventare stile e opera di comunità, resa così luogo e fermento di nuova socialità. E se vogliamo qui reintrodurre il tema dell’annuncio, allora dobbiamo sapere che un annuncio si fa significativamente parola se parte da un corrispondente stile di vita, personale e di comunità. Scontata l’esigenza pratica di comporre insieme riduzione di risorse e complessificazione dei compiti, non bisognerebbe cadere preda delle scorciatoie suggerite da ricette che abbiano la pretesa sbrigativa di essere risolutive. È senza dubbio necessario ridare primato all’annuncio, e in particolare al primo annuncio, e all’evangelizzazione nelle sue molteplici forme e espressioni39. Non si dovrebbe nondimeno trascurare che l’annuncio subisce anch’esso il condizionamento dei processi culturali in atto. Pertanto, insieme allo sforzo di fare dell’evangelizzazione l’anima di ogni attività pastorale e di ogni iniziativa missionaria, nella consapevolezza che 39 È la prospettiva dominante la posizione di S. Dianich, quale riespressa in La Chiesa cattolica verso la sua riforma, Queriniana, Brescia 2014, specialmente 9-54.


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Mariano Crociata

la fede si rigenera quando la si comunica40, un impegno di largo respiro e di lungo periodo deve essere rivolto ad aggredire e attraversare l’attuale temperie spirituale salvaguardando la verità, la significatività e l’autenticità della parola. È imprescindibile, poi, di fronte ai segni che provengono dai fenomeni che vedono intrecciarsi crisi economica globale, incontrollabili flussi migratori e crescente anomia sociale, porre la questione del rapporto tra la Chiesa e i poveri, e quindi tra il vescovo e i poveri, in un senso che non può essere ridotto a ciò che spesso finisce con l’essere una delega nei confronti di organismi caritativi priva di ritorni esistenziali. Uno sguardo improntato alla speranza «Abbiamo sempre più passato e sempre meno futuro», cita Jürgen Werbick41. Il pensiero va alla parabola del volontariato, alla fantasia della carità, alla creatività nel segno della missionarietà, dell’esplosione della solidarietà nazionale e internazionale dei decenni scorsi; e va a ciò che ora incombe nella forma della razionalizzazione delle risorse, al peso della gestione amministrativa a fronte di un ingente patrimonio culturale, ai tentativi di risistemazione della rete di organizzazione parrocchiale, al ricorso rilevante alla collaborazione di preti stranieri. Non basta più la cura di ciò che persiste e resiste, senza per questo nulla abbandonare a se stesso di ciò che ci è stato consegnato. Avvertiamo, piuttosto, la chiamata a passare dall’archeologia dei frammenti, degli schemi, dei mattoni culturali cristiani disseminati lungo la tradizione che si accumulano sulla soglia dell’attualità ecclesiastica, alla propiziazione della capacità generativa credente dentro le novità della società e della cultura. È cresciuta, e non da ora, la capacità di ricognizione, di reperimento, di ricostruzione dell’originaria ispirazione cristiana che ha suscitato imponenti strutture ed elementi di pensiero e di cultura nella storia europea e occidentale; adesso, però, c’è bisogno di 40 Qui il riferimento duplice obbligato è a Benedetto XVI, Lettera apostolica Porta fidei, 11 ottobre 2011, in particolare n. 7; e a Evangelii gaudium, nn. 20-24. 41 J. Werbick, Il futuro della religione in Europa. Riflessioni di un teologo cattolico, in «Il Regno attualità» 50/16 (2005) 558.


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porre mano alla costruzione di qualcosa di nuovo, c’è bisogno di suscitare e far nascere una nuova storia culturale42. Comprendiamo sempre di più che non è la secolarizzazione a far regredire la religione, ma eventualmente l’incapacità di questa di essere all’altezza dell’evoluzione della cultura. Dobbiamo chiederci fino a che punto questo non valga per il nostro cattolicesimo. Scrive Gilles Routhier: «Un processo di secolarizzazione si sviluppa (ovvero si può osservare il regresso del religioso) quando il cristianesimo non è in grado di trovare una nuova forma di espressione in una situazione culturale nuova e quando resta legato allo stato precedente della cultura entro il quale una delle sue figure storiche si è sviluppata»43. La risposta va trovata cambiando atteggiamento nei confronti del mondo di oggi: non nostalgia o senso di perdita, ma fede e progetto, ravvivando il senso di cattolicità che ci è proprio, e che non si restringe nella dimensione diacronica, ma recupera uno sguardo positivo sull’umano senza indulgere e tantomeno lasciarsi incantare dalle mode ideologiche, a cominciare dalla ricorrente idea sentimentale e buonista di un amore disgiunto dalla verità, ma seguendo l’onesto e critico percorso di esplorazione del mistero dell’umano. Se dovessi condensare in una formula sintetica il ministero di un vescovo nella Chiesa di oggi, allora, lo riassumerei così: non far morire ciò che sopravvive, individuare ciò che sta germinando per aiutarlo a crescere, seminare generosamente. Ma la Chiesa è del Signore: alla fine, dopo aver provveduto a tutto ciò che a nostro giudizio ci toccava pensare e fare, oltre a dichiararci – e sentirci davvero – «servi inutili»44 dobbiamo conservarci aperti al positivo45 e disponibili alle sorprese.

42 P. Henrici, La filosofia moderna, l’uomo moderno e la Chiesa, in P. Gilbert (ed.), L’uomo moderno e la Chiesa, GBP, Roma 2012, 429-443. 43 G. Routhier, Il cristianesimo nelle società “secolarizzate”, in «Il Regno documenti» 57/17 (2012) 574. 44

Lc 17,10.

È la prospettiva suggerita da C. Theobald, Identità cristiana: tra dispersione e discernimento. I riferimenti testimoniali della fede, in «Il Regno attualità» 59/4 (2014) 123-129. 45



Synaxis XXXIII/2-3 (2015), pp. 33-90

Sezione teologico-morale

CONCUPISCENTIA BUONA? PRECISAZIONI CIRCA UNA NOTA CONCEZIONE ANTROPOLOGICA AGOSTINIANA

SALVATORE BUCOLO1

Introduzione «Appetito dell’anima per il quale ai beni eterni si preferiscono i beni temporali»2: con tali parole il Santo Dottore Agostino delinea nel De mendacio ciò che l’uomo eredita dalla caduta nel peccato di Adamo ed Eva, pervenendo a uno stato di radicale menzogna del suo essere. Così egli spiega: Ma se è vero che l’uomo tanto più si allontana dall’eternità quanto più si allontana dalla verità, è cosa quanto mai assurda asserire che uno allontanandosi dalla verità possa conseguire un qualsiasi bene. Ovvero, se c’è un qualche bene che sia eterno senza che rientri nella verità, questo non è un vero bene, e pertanto, siccome è un bene falso, non è nemmeno un bene3.

Dottore in S. Teologia con specializzazione in scienze del Matrimonio e della Famiglia. 1

2 3

S. Augustinus, De mendacio, 7, 10 (NBA 7/2, 333; CSEL 41, 428). S. Augustinus, De mendacio, 7, 10 (NBA 7/2, 333; CSEL 41, 428).


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Salvatore Bucolo

A giudizio di Agostino, raggiungere un vero bene senza avere come riferimento ciò che è eterno è impossibile, perché l’allontanarsi dall’eternità (ab aeternitate discedat) significa acconsentire ad un bene che non sarà mai vero (non erit verum), e che, quindi, non sarà mai tale (nec bonum erit). Egli descrive così tale stato di disordine ispirandosi a 1 Giovanni 2, 16 -17: perché tutto quello che è nel mondo - la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita - non viene dal Padre, ma viene dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno.

Il termine qui citato di concupiscentia carnis delinea la condizione dell’uomo postlapsario: essa non proviene da Dio né conduce all’eternità, ma dal mondo, ovvero è entrata nel mondo a causa della disobbedienza del primo uomo. Questa è l’accezione più diffusa del termine concupiscentia all’interno della dottrina agostiniana. Tuttavia, non mancano dichiarazioni che danno adito ad un’interpretazione più ampia e complessa, come nel De nuptiis et concupiscentia, dove sembra ipotizzarsi la presenza di una concupiscenza all’interno del paradiso: “Forse dirai, scrive ancora, che non esisterebbe alcuna concupiscenza, se l’uomo non avesse prima peccato, mentre il matrimonio esisterebbe anche se nessuno avesse peccato”. Non ho detto che non esisterebbe alcuna concupiscenza, perché esiste una concupiscenza spirituale, degna di lode, per la quale si aspira alla sapienza. Ho detto invece che non esisterebbe alcuna concupiscenza vergognosa4.

Rispondendo ad una critica rivoltagli da Giuliano, Agostino afferma di non escludere la possibilità di un’eventuale esistenza della concupiscenza allo stato paradisiaco che prescinda dal peccato di Adamo ed Eva, a condizione che essa sia spirituale (spiritalis), degna di lode (glorianda) e desiderosa della sapienza (concupiscitur sapientia), requisiti totalmente diversi da quelli attuali (pudenda). A fronte di tale ipotesi orientata allo stato primigenio dell’uomo, in altri testi traspare un’altra accezione proiettata 4

308).

S. Augustinus, De nuptiis et concupiscentia, II, 30, 52 (NBA 18, 157; CSEL 42,


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verso il futuro, verso la condizione escatologica dell’umanità redenta, che leggiamo nel Contra secundam Iuliani responsionem imperfectum opus: La concupiscenza della carne, per la quale la carne ha desideri contrari allo spirito e si chiama anche libidine, io dico che è cattiva e che adesso in questa carne è da frenare e da attenuare con una buona abitudine, e che nella vita eterna dovrà invece essere guarita completamente, e non separata da noi, quasi fosse stata aggiunta o mescolata a noi mediante una qualche sostanza cattiva, come vaneggiano i manichei5.

Quella stessa concupiscentiam carnis, cui si dà la qualifica di mala, giacché immette nell’uomo desideri contrari allo spirito, sembra essere destinata a guarire completamente (omni ex parte sanandam) nella vita eterna e non a essere separata (non separandam) dalla natura umana, come affermano i manichei, quasi fosse la mescolanza o l’aggiunta (addita vel commixta) di una sostanza cattiva (aliqua mala substantia). Intento della nostra ricerca, quindi, è l’approfondimento dello status quaestionis aperto da dichiarazioni che mostrano un ampio raggio semantico della parola concupiscentia, e messo in evidenza anche da Langa Aguilar6. Articoleremo così il nostro lavoro in tre parti. Nella prima si parlerà della concupiscenza nella sua condizione postlapsaria, mostrandone l’intrinseca relazione con il peccato di Adamo ed Eva e con i conseguenti peccati di tutto il genere umano, e il suo interagire con la vita attuale dell’uomo. Nella seconda parte, invece, metteremo in evidenza il significato e il valore che Agostino dà alla possibilità dell’esistenza di una concupiscenza prelapsaria che prescinda dalla disobbedienza genesiaca. Infine, nella terza ed ultima parte, cercheremo di comprendere in che senso il nostro autore parli di risanamento della concupiscenza come elemento caratterizzante del tempo escatologico della redenzione dell’uomo. Nel presente lavoro il metodo adottato nell’analisi dei testi agostiniani è essenzialmente sincronico. Tale scelta non intende chiaramente negare la 5 S. Augustinus, Contra secundam Iuliani responsionem imperfectum opus, III, 167 (NBA 19/1, 589.591; CSEL 85/1, 470).

6 P. Langa Aguilar, San Agustín y el progreso de la teología matrimonial, Estudio Teologico de S. Ildefonso, Toledo 1984, 260.


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presenza nei suoi scritti di un’evoluzione e di una conseguente maturazione della tematica in oggetto. La complessità di tale questione, la novità della ricerca e il contesto frequentemente polemico in cui è trattata la tematica, hanno fortemente favorito la scelta della raccolta sincronica dei testi attinenti alla questione a prescindere dalla loro datazione. Bisogna anche constatare che a motivo degli accenti piuttosto polemici contro i pelagiani a volte alcune affermazioni vengono da Agostino sostenute, poi lasciate e infine nuovamente riprese, rendendo di non semplice lettura l’evoluzione del suo pensiero. Certamente è auspicabile in futuro, per la preziosità di tale questione, poter meglio analizzare tale tematica attraverso il metodo diacronico, per dare alla stessa antropologia agostiniana la possibilità di approfondire i suoi orizzonti sempre illuminanti e attuali nei confronti del pensiero odierno. 1. La concupiscentia carnis Nel De nuptiis, dove è affrontato in modo più specifico il problema della concupiscentia carnis, all’accusa rivoltagli dai pelagiani di demonizzare il matrimonio Agostino risponde: Chiunque nasce da questa concupiscenza della carne, che, sebbene nei rigenerati non sia più imputata a peccato, si trova tuttavia nella natura solo a causa del peccato, chiunque nasce, dicevo, da questa concupiscenza della carne in quanto figlia del peccato e, quando le si acconsente per cose disoneste, anche madre di molti peccati, è in debito del peccato originale, a meno che non rinasca in Colui che una Vergine concepì senza questa concupiscenza e che per questo motivo fu il solo a nascere senza peccato, quando si degnò di nascere nella carne7.

Viene messa in evidenza l’intrinseca relazione tra la generazione umana e la concupiscentia carnis, posto che non esiste uomo che non nasca senza riceverla in eredità. Lo stesso fatto che Cristo si incarni nel seno verginale di Maria per nascere sine ista concupiscentia comprova tale intrinseco 7

S. Augustinus, De nuptiis, cit., I, 24, 27 (NBA 18, 61; CSEL 42, 240).


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legame. Così, come sottolinea Langa Aguilar8, Agostino chiama la concupiscenza della carne, contro i manichei, filia peccati, indicandone l’origine nel peccato di Adamo ed Eva, e, contro i pelagiani, mater multorum peccatorum, per evidenziarne la capacità di generare nell’uomo tanti peccati qualora egli vi acconsenta. Anche nei battezzati, pur essendo loro condonato il debito del peccato originale, sussiste la concupiscentia carnis. Tutto ciò mostra come essa, pur essendo in intima connessione con il peccato, ne sia una realtà ben distinta. Figlia del peccato di Adamo ed Eva trasmessa a tutto il genere umano, madre di tutti i peccati attraverso il libero consenso dell’uomo, convivente, nonostante nel battesimo sia condonato il peccato originale: queste tre asserzioni saranno oggetto di riflessione nelle seguenti pagine. 1.1 La concupiscentia carnis, filia peccati 1.1.1. La trasmissione del peccato adamitico al genere umano Hugo9 evidenzia come la nozione agostiniana di concupiscentia sia principalmente teologica in quanto rende manifesta la relazione dell’uomo con Dio. Nel De Genesi ad litteram infatti leggiamo: Io non credo che, ricorrendo a quelle foglie, pensassero che fosse conveniente coprire con esse le loro membra che sentivano già il prurito della concupiscenza, ma nel loro stato di turbamento furono spinti a quell’atto da un impulso occulto, di modo che anche a loro insaputa esso fu un segno del loro castigo che, dopo essere stato provato, doveva convincerli del loro peccato, e, venendo narrato dalla Scrittura, avrebbe dato un insegnamento al lettore10.

Proprio nello stesso istante in cui Adamo ed Eva si ribellano al comando di Dio, subito si percepiscono occulto instinctu ad hoc illa conturbatione 8

Langa Aguilar, San Agustín, cit., 263.

J. J. Hugo, J. J., St. Augustine on nature, sex and marriage, Scepter, Chicago – Dublin - London 1969, 61-62. 9

10

S. Augustinus, De Genesi ad litteram, XI, 32 (NBA 9/2, 611; CSEL 28/1, 366).


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compulsi e con membra prurientia. Dubreucq11 osserva come Agostino sviluppi la questione dell’origine dell’anima attraverso il susseguirsi delle generazioni umane, per comprendere come il peccato adamitico si trasmetta a tutto il genere umano controbattendo, così, la visione manichea dell’esistenza del male sostanziale12. Dedica l’intero Liber X del De Genesi ad litteram a tale scopo13, presentando una triplice ipotesi sull’origine dell’anima. Nella prima ipotesi14 l’affermazione dell’esistenza di una ratio generalis omnium animarum o di una ratio gignendi in hominibus, significherebbe credere che le anime si generino tramite angeli o una sorta di cielo corporeo, oppure tramite qualcosa di inferiore a quest’ultimo, prescindendo così in toto dal dato scritturistico. Nella seconda ipotesi15, invece, riferendosi questa volta al dato biblico, Agostino evidenzia come la diversa modalità di creazione di Adamo e di Eva attesterebbe che Dio crea una sola anima in quanto soffia soltanto sul volto dell’uomo, plasmato poco prima con la polvere, mentre non soffia alcuno spirito vitale sulla donna, in quanto tratta dalla costola di lui e, quindi, già dotata di anima. Tutte le anime sarebbero create (ex illa iam caeterae crearentur animae hominum) con l’unica anima di Adamo fatta da Dio (unam animam Deus fecerit). Tale congettura, però, a giudizio di Agostino, è facilmente obiettabile16, in quanto il silenzio della Scrittura sull’anima di Eva attesterebbe che alla donna non accade nulla di diverso dall’uomo, ma che lei riceve l’anima da Dio. Diversamente, nel testo genesiaco accanto all’esclamazione «questa volta è osso dalle mie ossa, carne della mia carne» ci sarebbe stata probabilmente anche la frase «et anima de anima mea». Infine, la terza ipotesi affermerebbe che «sono create successivamente nuove anime, di cui non fu costituita precedentemente neanche la ragione causale nelle opere originarie di Dio

11 E. Dubreucq, “Chair, corps et ame. Les formulations de la question de l’ame chez s. Augustin”, in Recherches de Science Religieuse 84 (1996), 351-372, 356-357. 12 13 14 15 16

Dubreucq, “Chair, corps et âme”, cit., 366.

S. Augustinus, De Genesi ad litteram, X, 1 (CSEL 28/1, 295). S. Augustinus, De Genesi ad litteram, X, 3 (CSEL 28/1, 298). S. Augustinus, De Genesi ad litteram, X, 1 (CSEL 28/1, 295). S. Augustinus, De Genesi ad litteram, X, 1 (CSEL 28/1, 296).


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del sesto giorno»17, ovvero si ipotizzerebbe l’idea che, dopo la creazione originaria dei sei giorni, Dio continui ancora la sua opera creando novas animas. Ancora una volta Agostino manifesta le sue perplessità18, poiché non solo si andrebbe contro lo stesso racconto genesiaco della creazione in sei giorni, ma l’ipotesi stessa sarebbe anche priva di senso, perché le altre anime create dopo non sono affatto di diversa specie (non alterius generis creatura) da quelle create il sesto giorno; non si comprenderebbe in che senso Dio continui a creare senza alcun compimento. Pertanto, passati in rassegna vari testi della Scrittura, Agostino giunge alla conclusione che è Dio a creare l’anima e a darla al primo uomo, ma non è possibile ricevere dal testo scritturistico alcun’altra informazione19. La medesima asserzione si può riscontrare anche nel De libero arbitrio20. Confrontando, così, le ultime due ipotesi con il testo di Romani 5, 1221, egli afferma che anche se non risolve la questione dell’origine dell’anima, non si può contraddire l’asserzione paolina in quo omnes peccaverunt, nella quale si afferma la trasmissione del peccato di Adamo a tutto il genere umano. Analizzandone i contenuti, Agostino cerca di comprendere a cosa realmente l’apostolo assimili il peccato: riferirlo solo alla carne significherebbe far derivare l’anima non dai genitori (non ex parentibus animam) ma da Dio per essere senza alcuna macchia di peccato; riferirlo, invece, solo all’anima, renderebbe incomprensibile come la propagazione del peccato possa realizzarsi senza un coinvolgimento della carne. In entrambe le interpretazioni sussiste un errore di fondo22: affermare che Dio infonda l’anima in una carne nella quale non può non peccare oppure in una carne, nella quale, pur dimorando il peccato, non ne riceve alcun influsso, significherebbe fare del Creatore l’auctor peccati, giacché la responsabilità del peccato dell’uomo cadrebbe su di Lui, ma anche negare la necessità della grazia di Cristo.

17 18 19 20 21 22

S. Augustinus, De Genesi ad litteram, X, 3 (NBA 9/2, 503.505; CSEL 28/1, 298). S. Augustinus, De Genesi ad litteram, X, 3 (CSEL 28/1, 299).

S. Augustinus, De Genesi ad litteram, X, 10 (CSEL 28/1, 307).

S. Augustinus, De libero arbitrio, III, XX, 56 (CSEL 74, 135-136). S. Augustinus, De Genesi ad litteram, X, 11 (CSEL 28/1, 308). S. Augustinus, De Genesi ad litteram, X, 11 (CSEL 28/1, 308).


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1.1.2. L’originaria prassi ecclesiale di battezzare i bambini La complessità della questione spinge Agostino a trovare la soluzione non in una teoria, ma nella stessa prassi della vita ecclesiale, per cui scrive: Ma noi vediamo che la Chiesa universale conserva costantemente quest’usanza d’accorrere con i [bambini] viventi e di soccorrerli per evitare che, una volta morti, non possa farsi più nulla per la loro salvezza; non vediamo quindi come possa spiegarsi diversamente quest’usanza se non ritenendo che ogni bimbo non è altro che Adamo quanto al corpo e quanto all’anima e perciò gli è necessaria la grazia di Cristo23.

L’usanza ormai diffusa nella Chiesa di battezzare i bambini per evitare di lasciarli senza battesimo nel caso di morte improvvisa rappresenta, a suo giudizio, una chiara testimonianza che ogni uomo al momento della nascita non è altro che un Adam et corpore et anima, pertanto, anche se a quell’età è nell’impossibilità di fare alcunché di bene o di male, egli riceve in eredità anche il peccato adamitico24. Alla domanda su come e da dove esso gli sia trasmesso Agostino risponde: la causa della stessa concupiscenza carnale non risiede solo nell’anima, bensì risiede molto meno solo nella carne. Essa infatti deriva dall’una e dall’altra: dall’anima poiché senza di essa non si percepisce alcun godimento, dalla carne poi per il fatto che senza di essa non si può sentire alcun piacere carnale25.

Tale idea è ampiamente trattata nell’intera opera agostiniana. Nell’In Iohannis Evangelium tractatus, ad esempio, egli scrive: «Nascendo da Adamo, ne ha ereditato il peccato che in lui è stato concepito. Il primo uomo cadde; e tutti i suoi discendenti ereditarono da lui la concupiscenza della carne»26. Nell’In Epistulam Iohannis ad Parthos Tractatus ancora leggiamo: «Siamo nati con la concupiscenza e, prima ancora di aggiun23 24 25 26

36, 26).

S. Augustinus, De Genesi ad litteram, X, 11 (NBA 9/2, 521; CSEL 28/1, 308-309).

S. Augustinus, De Genesi ad litteram, X, 11 (CSEL 28/1, 309).

S. Augustinus, De Genesi ad litteram, X, 12 (NBA 9/2, 521; CSEL 28/1, 309).

S. Augustinus, In Iohannis Evangelium tractatus, III, 12 (NBA 24, 57.59; CCSL


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gere i nostri debiti, nasciamo con quella condanna. Se non fosse vero che nasciamo con addosso il peccato, perché mai corriamo a far battezzare i bambini per liberarli dal peccato?»27. La consuetudine dei genitori cristiani di far battezzare al più presto i loro bambini è oggetto specifico di riflessione nel De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum, dove Agostino scrive: colui nel quale tutti muoiono, oltre ad essere esempio d’imitazione per coloro che trasgrediscono volontariamente un precetto del Signore, ha pure corrotto in sé per la marcia segreta della sua concupiscenza carnale tutti coloro che verranno dalla sua stirpe […]. Questo è proprio della propagazione e non dell’imitazione; perché, se dell'imitazione, direbbe: “A causa del diavolo”. Ora, nessuno mette in dubbio che parli del primo uomo chiamato Adamo. E così, dice, ha raggiunto tutti gli uomini28.

Usando il verbo tabificavit per distinguere la propagatio adamitica dall’imitatio tanto sostenuta dai pelagiani, il vescovo d’Ippona evidenzia come il peccato di Adamo attraverso l’occulta tabe carnalis concupiscentiae suae corrompa realmente tutti gli uomini, da cui l’affermazione: «Ma nessuno rinasce nel corpo del Cristo, se prima non nasce nel corpo del peccato»29. La nascita nel corpo del peccato è così per ogni uomo la condizione per la rinascita nel corpo di Cristo, anche qualora si nasca da genitori già battezzati: come i peccati propri non nuocciono al genitore perché è rinato spiritualmente, così al suo figlio noceranno i peccati che ha contratto da lui se non rinascerà alla stessa maniera. Perché, da una parte i genitori dopo esser stati rinnovati non generano carnalmente in virtù delle primizie dello stato nuovo, ma in forza dei resti dello stato vecchio; dall’altra parte i figli, immersi totalmente nello stato vecchio a causa dei suoi resti nei genitori e generati nella carne del pec-

S. Augustinus, In Epistulam Iohannis ad Parthos Tractatus, IV, 11 (NBA 24, 1725; PL 35, 2011). 27

S. Augustinus, De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum, I, 9, 10 (NBA 17/1, 29; CSEL 60, 11-12). 28

29

S. Augustinus, De peccatorum meritis, cit., I, 29, 57 (NBA 17/1, 95; CSEL 60, 56).


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Salvatore Bucolo cato, evadono dalla condanna dovuta all’uomo dello stato vecchio mediante il sacramento della rigenerazione e della rinnovazione spirituale30.

Come osserva Sfameni Gasparro31, i genitori, pur essendo rinnovati nel battesimo, generano carnalmente non in virtù delle primizie dello stato nuovo (non ex primitiis novitatis) ma in forza dei resti del vecchio stato (ex reliquiis): i figli nascono nella condizione di peccato, e non possono liberarsene se non mediante la ricezione personale del sacramento della rigenerazione. In Enchiridion ad Laurentium de fide, spe et charitate, il vescovo d’Ippona parlando del peccato di Adamo in termini di prima privatio boni32 scrive che qualsiasi discendente, nato da lui e dalla sua sposa (condannata anch’essa, essendo stata per lui occasione di peccato) tramite quella concupiscenza carnale, in cui veniva fatta corrispondere una pena simile alla sua disobbedienza, avrebbe tratto con sé il peccato originale33.

1.1.3. Il peccato è originale non naturale L’ampia e frequente insistenza di tale argomentazione procura ad Agostino l’accusa di ragionare come un manicheo, come si legge nel Contra secundam Iuliani: Dunque si dice con ragione, ed è necessario che tu lo confessi, che è sparito il peccato naturale, inventato da Manicheo, ma che tu, cambiato il nome, chiami peccato originale. Né in questo peccato crede dall’antichità la fede cattolica, 30 S. Augustinus, De peccatorum meritis, cit., II, 27, 44 (NBA 17/1, 183.185; CSEL 60, 115). 31 G. Sfameni Gasparro, “Concupiscenza e generazione: aspetti antropologici della dottrina agostiniana del peccato originale”, in Atti del Congresso Internazionale su S. Agostino nel XVI centenario della conversione, Roma,15-20 settembre 1986, II, Institutum Patristicum Augustinianum, Roma, 1987, 225-255, 239-240. 32

46, 63). 33

S. Augustinus, Enchiridion ad Laurentium de fide, spe et charitate, 8, 24 (CCSL S. Augustinus, Enchiridion ad Laurentium, cit., 8, 26 (NBA 6/2, 505; CCSL 46, 63).


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la quale non dubita e che i bambini siano fatti da Dio, e che nessun male sia fatto da Dio34.

Giuliano accusa il vescovo d’Ippona di essere ipocrita nel chiamare peccatum originale quel male naturale (peccatum naturale) sostenuto dai manichei, contraddicendo così la stessa antica fede cattolica che vede nei bambini l’opera esclusiva di Dio in quanto nessun male è creato da Lui. A tale accusa Agostino risponde affermando: Peccato originale più significativamente che peccato naturale noi diciamo, perché non si intenda un peccato dell’opera divina, ma un peccato della origine umana, soprattutto per significare quel peccato che entrò nel mondo a causa di un solo uomo35.

Egli dà intenzionalmente al male presente nell’uomo il nome di peccatum originale e non naturale, proprio per evidenziare che esso non è un’opera di Dio, ma ha origine umana ed entra nel mondo proprio a causa della disobbedienza di un uomo: Lo spirito invece della concupiscenza i manichei dicono che è una sostanza cattiva, non un vizio di una sostanza buona, per cui la carne concupisce contro lo spirito: il che noi lo diciamo per riprovare i manichei, e voi lo negate per aiutarli. Poiché infatti dimostrano, anche contro la vostra opposizione, che la concupiscenza per cui la carne concupisce contro lo spirito è un male, se essa non è, come voi ritenete, un vizio di una sostanza buona, si penserà che sia una sostanza cattiva36.

Per Agostino lo spiritum concupiscentiae non è affatto una sostanza cattiva (substantiam malam), ma un vitium substantiae bonae, causa di quel disordine che stimola la carne a bramare contro lo spirito (caro concupiscit adversus spiritum). Tale definizione permette di cogliere la compresenza di tre verità fondamentali della dottrina agostiniana: la prima 34 35

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., V, 9 (NBA 19/2, 869; CSEL 85/2, 177). S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., V, 9 (NBA 19/2, 869; CSEL 85/2, 177).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., III, 176 (NBA 19/1, 597; CSEL 85/1, 476). 36


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è che la substantia è soltanto bona, in quanto tutto ciò che esiste è opera esclusiva del Creatore; la seconda, conseguenza della prima, è che se tutto è stato creato dal Creatore, non esiste alcuna substantia mala; la terza, infine, è che la concupiscentia è soltanto un vitium che appartiene non ad una sostanza cattiva, ma ad una buona. Pertanto, Agostino, ponendosi perfettamente in linea con la fede cattolica37, secondo cui Dio è il creatore di tutto l’uomo (totum hominem), di tutta l’anima (totam animam) e di tutto il corpo (totum corpus), sottolinea che il diavolo non crea alcuna natura umana né una parte di essa, ma la vizia soltanto (vitiasse naturam), ragion per cui il termine concupiscentia carnis non mette affatto in dubbio la provenienza divina della carne, la quale, invece, viene «da Dio perché Dio la crea, viene dall’uomo perché l’uomo la genera, viene dal peccato perché il peccato porta il vizio»38. Stesso pensiero riscontriamo anche nel Sermo 154, dove afferma che la concupiscenza è «non infatti una carne non mia, o una carne di natura diversa, o una carne che abbia avuto altra origine, o anche, un’anima che ha avuto origine da Dio e una carne che ha avuto origine dal popolo delle tenebre. Certamente no»39. In termini più espliciti, nel Sermo 151, Agostino scrive che «non è quasi un’altra natura, come vaneggiano i Manichei. È la nostra infermità, il nostro vizio. Separato da noi non esisterà in altro luogo ma, eliminato, non sussisterà più»40. La concupiscentia carnis è un vitium che l’uomo eredita, ma che non esiste separato da lui, non avendo in sé alcuna sussistenza. Agostino si pone così in chiara contrapposizione sia ai manichei che ai pelagiani con queste parole: La Cattolica però, per evitare i manichei e i pelagiani, dice che il male non è per niente una natura e sostanza, ma non nega che da un male volontario,

37

S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., V, 7, 26 (PL 44, 800).

S. Augustinus, Contra Iulianum haeresis Pelagianae defensorem, II, 4, 8 (NBA 18, 525; PL 44, 678). 38

39 40

S. Augustinus, Sermones, 154, 9, 13 (NBA 31/2, 521; PL 38, 839).

S. Augustinus, Sermones, 151, 3, 3 (NBA 31/2, 463.465; PL 38, 816).


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il quale a causa di un solo uomo passò in tutti gli uomini, sia stata viziata la nostra natura e sostanza, mutevole proprio perché non è la natura di Dio41.

Langa Aguilar42 sottolinea come nella dottrina agostiniana non esista alcun male naturale o sostanziale, ma un male compiuto dalla volontà di un solo uomo che vizia e corrompe la natura e la sostanza mutevole, qual è quella umana. 1.1.4. La concupiscentia carnis pena conseguente alla condanna genesiaca Giuliano nella sua contrapposizione si spinge oltre affermando anche che «la concupiscenza naturale, senza la quale non ci può essere la mescolanza dei sessi, è stata istituita da Dio, che è il creatore e degli uomini e delle bestie»43. Come evidenzia Lamberigts44, Giuliano chiama la concupiscenza naturalis, considerandola un’opera istituita da Dio stesso (institutam a Deo), ragion per cui egli scrive: Quindi, poiché la concupiscenza naturale né ha potuto essere accusata per l’obbrobrio del pudore ed è stata difesa per la dignità del suo Creatore, con questo solo fine che, sottratta al diritto dei demoni, fosse collocata tra le opere di colui che ha fatto il mondo e i corpi, non come un bene grande, essendo comune appunto agli uomini e agli animali, ma come uno strumento necessario ai sessi45.

L’evidente impossibilità di compiere un’unione coniugale senza la concupiscenza è, a suo giudizio, la prova che essa sia parte della natura dell’uomo, quale strumento quasi necessario (quasi necessarium sexibus 41 S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., V, 25 (NBA 19/2, 925; CSEL 85/2, 218-219). 42 43

Langa Aguilar, San Agustín, cit., 252-253.

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., V, 5 (NBA 19/2, 863; CSEL 85/2, 172).

M. Lamberigts, “Julien d’Eclane et Augustin d’Hippone : deux conceptions d’Adam”, in Augustiniana 40 (1990), 373-410, 377-378. 44

45

70-71).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., IV, 67 (NBA 19/2, 729; CSEL 85/2,


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instrumentum) per l’adempimento dell’atto sessuale46; quindi, come i corpi, i sessi e l’unione sessuale, anche la concupiscenza proviene dalle mani dell’Unico Creatore: dinanzi a tale asserzione non mancano posizioni teologiche attuali47 che vedono nella dottrina pelagiana l’affermazione di una concezione personalistica della sessualità, facendo diventare Giuliano quasi il difensore della vera antropologia cristiana48. Egli, infatti, scrive che è dunque sempre un bene la concupiscenza per se stessa, come vuoi tu, sia che uno concupisca con essa il matrimonio o concupisca un adulterio; perché se concupisce il matrimonio fa uso buono di un bene, se concupisce l’adulterio fa cattivo uso di un bene49;

considerando la concupiscenza come un bene per se stessa (bonum est ergo ipsa semper) e vedendone un uso buono (bono bene utitur) nel matrimonio, cattivo (bono male utitur) nell’adulterio, il male, come osserva Langa Aguilar50, diventa per Giuliano una mera questione di eccedenza (excessum) dell’uso della concupiscenza51; unica osservanza da seguire è la giusta misura dell’uso della concupiscentia naturale52. A tale posizione Agostino controbatte: Ma, o uomo litigioso, il limite della concupiscenza, che tu dici concesso, non si rispetta quando alla concupiscenza impellente si acconsente o si cede e si va nella sua eccedenza, per non andare nella quale si resiste al male. Chi

46 M. Lamberigts, “Competing Christologies: Julian and Augustine on Jesus Christ”, in Augustinian Studies 36/1 (2005), 159-194, 167.

47 P. Vassiliadis – M. Konstantinou, “Agostino - Paolo - La Legge. Il problema della sessualita umana”, in L. Bianchi (a cura di), Sant’Agostino nella tradizione cristiana occidentale e orientale, Atti del XI Simposio intercristiano, Roma, 3-5 settembre 2009, Edizioni San Leopoldo, Padova 2011, 167-201, 186. 48

Vassiliadis - Konstantinou, “Agostino - Paolo - La Legge”, cit., 187.

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., III, 209 (NBA 19/1, 631; CSEL 85/1, 503). 49

50 51 52

Langa Aguilar, San Agustín, cit., 258.

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., IV, 25 (CSEL 85/2, 26). S. Augustinus, De nuptiis, cit., II, 19, 34 (CSEL 42, 288).


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dubiterà infatti che sia male ciò a cui obbedendo fai il male e a cui resistendo fai il bene?53

Egli, infatti, non comprende come l’uso eccedente di un bene possa trasformarsi in un male, né concepisce come si possa opporre resistenza all’utilizzo di un bene che in quanto tale non solo non va ostacolato ma promosso nella sua crescita54: Che tu la chiami come ti piace, o concupiscenza naturale o concupiscenza carnale, noi vituperiamo la concupiscenza per cui la carne concupisce contro lo spirito e ci attrae ad azioni illecite, se anche lo spirito non concupisce contro la carne ancora più fortemente. Questo dissenso noi diciamo che non è esistito nel paradiso, quando coloro che vi si trovavano erano nudi e non se ne sentivano confusi. Che tale dissenso cominciò ad esistere dopo il peccato lo grida la realtà stessa, dal momento che dopo il peccato si coprirono le membra pudende che prima di allora non erano state pudende55.

Pertanto, qualunque nome si possa dare alla concupiscenza, sia naturale che carnale, non si può negare l’evidente dissenso che essa produce nell’uomo stimolando la carne a concupire contro lo spirito (concupiscit adversus spiritum). Tale dissenso, come evidenzia Burke56, assolutamente inesistente nel paradiso, si rende presente solo dopo il peccato, motivo per cui Agostino pone in rilievo l’incoerenza della tesi di Giuliano: Se non sbaglio, anche tu ti trovi in questa lotta. E poiché pensi di lottare fedelmente, temi di essere sconfitto. Da cosa temi di essere sconfitto? Da un bene o da un male? O forse a tal punto temi di essere sconfitto da me da continuare a negare un male ed a lodare come bene quello da cui temi di essere sconfitto?57

53 S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., IV, 25 (NBA 19/2, 667; CSEL 85/2, 26). 54 55

S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., III, 21, 49 (PL 44, 727).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., V, 5 (NBA 19/2, 863; CSEL 85/2, 172).

C. Burke, “San Agustín y la sexualidad conyugal”, in Augustinus 35 (1990), 279297, 283. 56

57

S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., III, 21, 44 (NBA 18, 631; PL 44, 724).


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R. Orbe Garicano58 evidenzia come la semplice resistenza che la concupiscenza oppone alla volontà umana sia per Agostino la dimostrazione dell’assurdità del pensiero di Giuliano, il quale mentre loda la concupiscentia come un bene (bonum laudes) al contempo la combatte come un male (malum neges): «Non vedo come possa compiere fedelmente l’una e l’altra cosa insieme, lodarla cioè come amica e combatterla come nemica»59. L’errore di fondo di Giuliano60, secondo Agostino, è che egli dà il nome di naturalis ad una concupiscenza che invece è carnale (carnis), tentando di collocare tra le opere di Dio ciò che in 1 Giovanni 2, 16 si afferma non provenire dal Padre. La constatazione che la carne concupisce contro lo spirito attesta che la concupiscentia carnis non fa parte della originaria natura dell’uomo (non praecedens natura hominis instituti), ma è pena conseguente alla condanna genesiaca (consequens poena damnati): Questo male dunque, per cui la carne concupisce contro lo spirito, l’eretico Giuliano lo dice un bene; l’altro eretico Manicheo dice che questo male è stato mischiato in noi dalla natura aliena del male; il cattolico Ambrogio, dicendo che a causa della prevaricazione del primo uomo questo male si è convertito nella nostra natura, vince Giuliano e Manicheo61.

Ciò che Giuliano stima un bene naturale e il manicheo disprezza come un male sostanziale e alieno, mischiato alla natura dell’uomo, viene chiamato dai cattolici, di cui Ambrogio è per Agostino un insigne rappresentante, vitium: conseguenza della prevaricazione del primo uomo, esso s’innesta nella natura umana (in nostram vertisse naturam) corrompendola.

R. Orbe Garicano, “San Agustín y el problema de la concupiscencia en su marco histórico”, in Revista española de Teología 1 (1940/41), 313-337, 334-335. 58

59

728). 60 61

173).

S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., III, 21, 50 (NBA 18, 637.639; PL 44, 727S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., IV, 67 (CSEL 85/2, 71).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., V, 5 (NBA 19/2, 863; CSEL 85/2,


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1.2. La concupiscentia carnis, mater multorum peccatorum 1.2.1. La concupiscentia carnis chiamata anche peccatum A volte Agostino chiama la concupiscentia carnis anche peccatum, non perché essa sia peccato, ma perché, oltre ad essere un suo effetto (filia peccati), ha la tendenza a generare una molteplicità di peccati (mater multorum peccatorum), come scrive nel De peccatorum meritis: Questa legge poi del peccato, legge che l’Apostolo chiama anche peccato quando scrive: Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale si da sottomettervi ai suoi desideri, non rimane nelle membra di coloro che sono rinati dall'acqua e dallo Spirito come se non fosse stata fatta la sua remissione nel sacramento dove la remissione dei peccati si fa assolutamente piena e perfetta, uccise tutte le inimicizie che ci separavano da Dio, ma rimane nello stato vecchio della carne come peccato vinto e morto, se per illeciti consensi non risorge in qualche modo e non è ristabilito nel proprio regno e dominio62.

L’esortazione paolina di Romani 6, 12 offre ad Agostino la possibilità di comprendere come la concupiscenza della carne non solo abbia un legame intrinseco con l’atto umano del generare, ma permanga anche in coloro che rinascono nel battesimo. Certamente, il sacramento produce la remissione dei peccati, ma persiste nella vetustà della carne (manet in vetustate carnis) una qualche presenza di concupiscenza nella qualità di peccato che, pur essendo superato e distrutto (superatum et peremptum), risorge nella misura in cui si dà l’assenso a cose turpi. Nel De nuptiis leggiamo: Ma poiché, secondo un certo modo di parlare, è chiamata peccato, perché è frutto del peccato e, nel caso che prevalga, è causa di peccato, il suo reato sussiste in chi è generato: reato che la grazia di Cristo, attraverso la remissione di tutti i peccati, non lascia sussistere in colui che è stato rigenerato, se costui non le ubbidisce quando comanda in qualche modo azioni cattive63.

62

116). 63

S. Augustinus, De peccatorum meritis, cit., II, 28, 45 (NBA 17/1, 185; CSEL 60, S. Augustinus, De nuptiis, cit., I, 23, 25 (NBA 18, 59; CSEL 42, 238).


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La tendenza diffusa a chiamare peccatum la concupiscenza, attesta la sua origine dal peccato genesiaco e, allo stesso tempo, il suo essere causa di peccato, nonostante la grazia di Cristo non lasci sussistere tale reato adamitico in chi è generato, se costui non obbedisce al comando di compiere azioni malvagie. Nel Contra duas epistulas Pelagianorum Agostino, indagando64 sulle cause che spingono l’uomo a consentire alla concupiscenza di dominare ancora sull’agire umano nonostante la remissione ricevuta nel battesimo, afferma che la concupiscenza è peccatum nel momento in cui è mossa dal piacere di peccare (peccandi delectatione moveatur), anche se il piacere di giustizia (delectatione iustitiae) oppone una resistenza tale da non permettere alcun consenso. Da ciò comprendiamo tre cose fondamentali: la prima, la delectatio peccandi sprona la concupiscenza a generare il peccato ancor prima dell’assenso ad essa e dell’esecuzione di un’azione turpe; la seconda, la delectatio iustitiae è un altro piacere che si oppone al primo; la terza ed ultima, il solo piacere del peccato è in grado di prendere il sopravvento nonostante la resistenza del piacere di giustizia. Appare evidente, pertanto, come la dannazione o la redenzione dell’uomo dipendano dalla delectatio rispettivamente di peccato o di giustizia. 1.2.2. L’azione persuasiva della concupiscenza della carne Nel Contra Iulianum Agostino riprende di pari passo l’insegnamento di Ambrogio, il quale afferma che nel battesimo, con la remissione di tutti i peccati, i vizi muoiono, ma in certo qual modo dobbiamo curarne la sepoltura. Anche se sono morti noi abbiamo con essi un conflitto così aspro che finiamo per non fare quello che vogliamo, ma quello che abbiamo in odio. Il peccato ci costringe a fare molte cose contro la nostra volontà e spesso risorgono vive le passioni65.

Ambrogio, mettendo in evidenza il fatto che, oltre la morte dei vizi (mortua vitia) operata dal battesimo attraverso la remissione dei peccati, 64 65

S. Augustinus, Contra duas epistulas Pelagianorum, I, 13, 27 (CSEL 60, 446). S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., II, 9, 32 (NBA 18, 563; PL 44, 695-696).


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sia necessario curarne anche la sepoltura (curare debere sepulturam), sostiene che i vizi, sebbene morti, possano sempre rigenerarsi nell’uomo, costringendolo a fare non ciò che desidera, ma ciò che odia, rigenerando così le stesse passioni (resurgere voluptates). Nel Contra secundam Iuliani Agostino ribadisce che la concupiscenza fa concupire il peccato (concupiscuntur illicita), anche se non vi si acconsente (nulla consensione) né si compie nessun atto (nullo opere)66, e mostra in modo completo e dettagliato l’azione della concupiscenza sulle varie facoltà dell’uomo: Si dice legge del peccato perché persuade ai peccati e li comanda, per così dire; e si pecca senza scusanti se con la mente ci si mette a suo servizio. Si dice peccato perché è stata causata dal peccato e appetisce di peccare. Il suo reato è stato sciolto dalla rigenerazione, il suo conflitto è stato lasciato in essere per esercitazione67.

I verbi qui elencati, come suadet, iubet e appetit, riferiti tutti ad un medesimo soggetto, suggeriscono come la concupiscenza non solo faccia desiderare di peccare, ma eserciti anche un’opera persuasiva, nei confronti della mente, tale da ordinare all’uomo il peccato. Il reato adamitico, infatti, pur essendo sciolto dalla rigenerazione nel battesimo, permane (relictus est) ancora nel suo essere conflittuale (conflictus eius) e come tale va affrontato (ad agonem). 1.2.3. Nell’atto coniugale la bontà del matrimonio e il male della concupiscentia carnis In tale condizione conflittuale lo stato di ignoranza e di debolezza (per ignorantiam vel infìrmitatem), in cui l’uomo si trova spesso, gli impedisce

66

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., I, 72 (CSEL 85/1, 87).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., I, 71 (NBA 19/1, 101.103; CSEL 85/1, 84). 67


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di poter impegnare tutte le forze della sua volontà, cedendo così alle azioni illecite68, soprattutto quando si arriva all’atto della procreazione, quella stessa unione, lecita e onesta, non può essere compiuta senza l’ardore della passione, sì che si possa compiere ciò che è proprio della ragione e non della passione. Sia che segua sia che prevenga, è certamente solo questo ardore che muove, quasi di sua autorità, le membra che la volontà non riesce a muovere. In questo modo esso si rivela non come il servo agli ordini della volontà, ma come pena di una volontà ribelle, che deve essere eccitato non dal libero arbitrio, ma da qualche stimolo allettante. È questa la ragione della sua vergogna69.

A causa della concupiscentia carnis, nell’unione coniugale la voluntas cede l’imperium alla libido: chi muove, dirige e stimola la realizzazione di tale atto non è più la volontà dell’uomo ma l’ardore della libidine: «questo male è necessario agli sposati, perché senza di esso non si può avere il bene della generazione»70; in altre parole, il bene della procreazione dei figli non sussiste senza passare attraverso il male della concupiscenza dei coniugi. Tale asserzione scatena l’accusa ad Agostino, da parte dei pelagiani, di compromettere la bontà stessa del matrimonio, perché ravvisano in essa l’affermazione della peccaminosità dell’unione coniugale e del suo essere strumento di propagazione del peccato di Adamo ed Eva attraverso la procreazione dei figli71. A tale accusa, nel De nuptiis, il vescovo d’Ippona risponde che si deve distinguere, per quanto Dio si degnerà di aiutarmi, dalla bontà del matrimonio il male della concupiscenza carnale, a causa della quale l’uomo, che per essa nasce, contrae il peccato originale. Questa vergognosa concupiscenza, che dagli spudorati viene spudoratamente lodata, non esisterebbe neppure se l’uomo non avesse peccato; il matrimonio, invece, esisterebbe lo stesso, anche se nessuno avesse peccato, giacché la generazione dei figli nel corpo di quella

68 69 70 71

S. Augustinus, De peccatorum meritis, cit., I, 39, 70 (CSEL 60, 71).

S. Augustinus, De nuptiis, cit., I, 24, 27 (NBA 18, 61; CSEL 42, 239-240). S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., IV, 2, 8 (NBA 18, 667; PL 44, 740). S. Augustinus, De nuptiis, cit., I, 1, 1 (CSEL 42, 211).


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vita avverrebbe senza questo morbo, senza del quale ora, nel corpo di questa morte, non può avvenire72.

La distinzione del male della concupiscenza carnale (carnalis concupiscentiae malum), che non esisterebbe se l’uomo non avesse peccato, dalla bontà del matrimonio (bonitate nuptiarum), che sussisterebbe a prescindere dal peccato adamitico, lo conduce a concludere che «la concupiscenza carnale, invece, non deve essere ascritta al matrimonio, ma vi deve essere tollerata. Non è un bene proveniente dalla natura del matrimonio, ma un male sopravvenutogli dall’antico peccato»73. La carnis concupiscentia, pertanto, pur condizionando profondamente l’atto unitivo e procreativo dei coniugi, non fa assolutamente parte della natura del matrimonio né, come evidenzia Burke74, va identificata con il piacere sessuale. L’uomo, pur essendo generato con la ferita della concupiscenza carnale inflitta dal diavolo, ha una natura che è sempre originata da Dio (non est nisi ex Deo) e distinta dal condannabile vizio che la corrompe (propter damnabile vitium, quo vitiata est) a causa della disobbedienza adamitica75: «nello stesso uomo c’è una natura buona e un vizio cattivo»76, in cui bonam è la natura umana in quanto generata dal bene del matrimonio (bonum nuptias), mentre malum è il vizio derivante dalla concupiscenza (de vitiata origine attractum)77. In definitiva, dato che la concupiscentia carnis non è peccatum in senso proprio, ma deriva da esso e ad esso tende e permane, dopo il battesimo, nella natura umana in qualità di vitium, capace di risvegliarsi e di suscitare disordine nell’uomo, possiamo definire due gli ambiti particolari in cui la concupiscenza diventa mater multorum peccatorum: il primo, le facoltà dell’uomo nelle quali la dilectatio peccandi esercita sulla mente un’azione persuasiva a peccare, rendendo la volontà impotente e incapace di comandare dinanzi al peccato; il secondo, l’atto unitivo e procreativo attraverso 72 73 74 75 76 77

S. Augustinus, De nuptiis, cit., I, 1, 1 (NBA 18, 23.25; CSEL 42, 212). S. Augustinus, De nuptiis, cit., I, 17, 19 (NBA 18, 51; CSEL 42, 232). Burke, “San Agustín y la sexualidad conyugal”, cit., 284.286. S. Augustinus, De nuptiis, cit., I, 23, 26 (CSEL 42, 238).

S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., III, 21, 47 (NBA 18, 633; PL 44, 726). S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., III, 21, 47 (PL 44, 726).


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il quale si genera una natura umana bona, derivante da un’unione degna di lode così voluta da Dio e, al contempo, una natura vitiata dalla concupiscenza ereditata dal genere umano in una modalità di atto coniugale in cui si rende manifesto il dominio di tale vitium. 1.3. Malo bene utitur 1.3.1. Nel matrimonio il male della concupiscenza si converte in un bene grandissimo La condizione attuale del battezzato è così sinteticamente delineata da Agostino: Distrutti tutti i peccati, sciolto anche il reato della concupiscenza che fin dall’origine li deteneva come vinti, la concupiscenza stessa rimane durante questa vita per essere combattuta, senza che possa nuocere minimamente a coloro che non le prestano ascolto in azioni illecite78.

La concupiscenza della carne, oltre ad essere filia peccati e mater multorum peccatorum, è anche una sorta di “convivente” (manet), in quanto dimora stabilmente con l’uomo per tutti i giorni della sua vita: è una presenza da contrastare continuamente (ad agonem) ma incapace di recar danno (nihil nocitura) se non le si dà ascolto compiendo azioni illecite, come si legge nel Contra duas epistulas: Ma credo che costoro s’ingannino o ingannino sul conto di questa concupiscenza della carne contro la quale anche al battezzato, che pur metta tutta la sua diligenza nel progredire e si lasci guidare dallo Spirito di Dio, è necessario combattere con animo pio79.

La concupiscenza, pur riguardando ogni settore dell’essere umano, è studiata da Agostino a causa delle controversie soprattutto in ambito co78

73-74). 79

S. Augustinus, De peccatorum meritis, cit., II, 4, 4 (NBA 17/1, 121; CSEL 60, S. Augustinus, Contra duas epistulas, cit., I, 13, 27 (NBA 18, 215; CSEL 60, 445).


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niugale, dove spesso egli utilizza in modo indifferente i termini di concupiscentia carnis e libido parlando della condizione postlapsaria dell’unione coniugale. Lungi dall’identificare la concupiscenza con il sesso o con il piacere sessuale80, tale accostamento terminologico intende evidenziare soprattutto il grande sconvolgimento che il peccato ha provocato nell’attività sessuale. Infatti, nel De peccatorum meritis, leggiamo: Il bene dunque del matrimonio non è il fervore della concupiscenza, ma un certo modo lecito e onesto di fare uso di quel fervore, ordinato a propagare la prole, non ad appagare la libidine. Propria delle nozze è quella volontà e non questa voluttà. Il male dunque del peccato con il quale nasce ogni uomo è precisamente il fatto che il fervore della concupiscenza si muove disobbedientemente nelle membra del corpo di questa morte e tenta di trascinare tutto l’animo dopo d’averlo a sé assoggettato, e non insorge quando la ragione vuole né si calma quando la ragione vuole81.

Quando Agostino afferma che il fervor concupiscentiae non rappresenta un bonum coniugii e che, per questo motivo, se ne consente soltanto un uso lecito e onesto (quidam licitus et honestus illo fervore utendi modus), quale la propagazione della prole (propagandae proli)82 e non l’appagamento della libidine (explendae libidini), egli non esclude il piacere sessuale dalla vita coniugale83, né lo minimizza o lo demonizza, perché «altro è la facoltà di sentire, altro il vizio di concupire»84. Il fervor di cui Agostino parla è un piacere disordinato, che dimora nell’uomo con il peccato, si muove in

80 M. García Grimaldos, El nuevo impulso de san Agustín a la antropología cristiana (Collana Studia Ephemeridis Augustinianum 94), Institutum Patristicum Augustinum, Roma 2005, 382. P. R. L. Brown, The body and society, Augustine of Hippo: a biography, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1967, 419. 81 82

S. Augustinus, De peccatorum meritis, cit., I, 29, 57 (NBA 17/1, 95; CSEL 60, 56). S. Augustinus, De nuptiis, cit., I, 16, 18 (CSEL 42, 230).

V. Grossi, “Il contesto del De bono coniugali di S. Agostino a proposito della sessualità umana in alcuni movimenti cristiani del tardo antico”, in Rassegna di teologia 47 (2006), 873-892, 889. 83

84 S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., IV, 29 (NBA 19/2, 671; CSEL 85/2, 29); Contra secundam Iuliani, cit., IV, 69 (CSEL 85/2, 73).


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modo disobbediente nelle sue membra ed è autonomo da ciò che la ragione vorrebbe. Ancora nel De gratia Christi egli scrive: Nella misura in cui le nozze sono buone, nella stessa misura esse convertono in un bene grandissimo anche il male della libidine, perché della libidine non si serve bene la libidine, ma la ragione. La libidine poi, come si rammarica l’Apostolo, sta in quella legge delle membra disobbedienti che muove guerra alla legge della mente. La ragione invece che usa bene della libidine sta nel cuore stesso della legge delle nozze85.

Si afferma un’intima relazione fra il bonum delle nuptiae, il malum della libido e la ratio: la bontà delle nozze consiste principalmente nel convertire in un bene grandissimo (plurimum boni) anche il male della libido, e ciò si rende possibile non quando la libidine si serve bene di se stessa (ciò sarebbe impossibile perché un male non può servirsi bene del male), ma quando la ragione si serve bene della libido86. Questa costituisce la legge stessa delle nozze (ipsa est in lege nuptiarum). Leggiamo ancora: «Ma l’atto coniugale, che anche le tavole matrimoniali indicano destinato alla procreazione dei figli, è buono per se stesso in senso assoluto e non solo in confronto alla fornicazione»87. Qui si ricorda la finalità (causa) fondamentale dell’unione coniugale, la procreazione dei figli, riconosciuta dalle stesse tavole matrimoniali e, allo stesso tempo, si afferma la bontà assoluta dell’atto coniugale a prescindere da qualsiasi altro elemento. Invece, il malum delle nozze si realizza «quando non attendono a procreare figli per la volontà di propagare il genere umano, ma si asserviscono a saziare la concupiscenza per la voluttà di sfogare la lascivia»88, ovvero l’appagamento della concupiscenza sostituisce la volontà procreativa. Agostino, pertanto, è convinto della compresenza nella condizione postlapsaria di queste due realtà: 85 S. Augustinus, De gratia Christi et de peccato originali, II, 34, 39 (NBA 17/2, 253.255; CSEL 42, 197-198). 86 87 88

Hugo, St. Augustine on nature, cit., 88-90.

S. Augustinus, De gratia Christi, cit., II, 38, 43 (NBA 17/2, 259; CSEL 42, 201). S. Augustinus, De gratia Christi, cit., II, 38, 43 (NBA 17/2, 259; CSEL 42, 201).


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l’onestà della lodevole unione con la quale si generano i figli e la disonestà della vergognosa libidine, a causa della quale i generati devono essere rigenerati per non essere condannati. Pertanto, chi si unisce lecitamente nella vergognosa libidine fa buon uso di una cosa cattiva, chi invece si unisce illecitamente fa cattivo uso di una cosa cattiva89.

In altre parole, bisogna primariamente separare il bene della lodevole unione (bonum laudandae coniunctionis) con la quale si generano i figli, dalla vergognosa libidine (malum pudendae libidinis), di cui i coniugi devono servirsi per generare coloro che nel battesimo sono rigenerati per non essere condannati, e di conseguenza distinguere la liceità del buon uso della libidine, che è sempre una cosa cattiva (malo bene utitur), dalla illiceità del suo cattivo uso (malo male utitur). Agostino, confrontando così la sua visione con quella pelagiana, scrive: Subito dopo spieghi di che osservazione si tratta scrivendo: “Chi conserva la moderazione della concupiscenza naturale, fa buon uso di un bene; chi invece non la conserva fa cattivo uso di un bene; chi poi per amore della santa verginità, disprezza anche la moderazione, fa meglio a non servirsi di un bene, perché la fiducia nella sua salvezza e nella sua forza gli ha fatto disprezzare il rimedio, onde poter affrontare gloriose lotte”. A queste tue affermazioni, rispondo in questi termini: chi conserva la moderazione della concupiscenza carnale, fa buon uso di un male; chi invece non la conserva fa cattivo uso di un male; chi per amore della santa verginità disprezza anche la moderazione fa una cosa migliore non facendo alcun uso di un male, perché la fiducia nell’aiuto e nel dono di Dio gli ha fatto disprezzare i deboli rimedi onde poter esercitare lotte ancor più gloriose. Tutto il nocciolo della nostra controversia sta qui: far buon uso di un bene o di un male?90

89 90

S. Augustinus, De nuptiis, cit., II, 21, 36 (NBA 18, 133; CSEL 42, 290).

S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., III, 21, 42 (NBA 18, 627; PL 44, 723).


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1.3.2. Dal bono bene utitur di Giuliano al malo bene utitur di Agostino Sia Giuliano che Agostino concordano sull’idea che l’uomo non può non convivere con la concupiscentia e, di conseguenza, non utilizzarla, divergono, invece, riguardo alla sua identificazione. Per Giuliano, infatti, la concupiscenza è esclusivamente un bonum naturale, «recepito come puro sentire naturale»91, segno di quella irresistibile inclinazione dell’uomo verso il bene, di cui Pelagio scrive nella sua Epistula de castitate92. Di essa si può fare un buon uso (bono bene utitur) conservando una certa moderazione (modum tenet), un cattivo uso (bono male utitur) non mantenendo alcuna moderazione (modum non tenet) o un uso migliore con la verginità, senza più porsi il problema di alcuna moderazione (bono melius non utitur), per assumere così una condizione degna di Dio (amplectenda res homini quae Deo digna est), come si legge ancora nella stessa epistola pelagiana93. Agli antipodi è la visione agostiniana, la quale, considerando la concupiscenza un male, ritiene che sia possibile utilizzarla in modo buono (malo bene utitur) o cattivo (malo male utitur) non più in base alla sua moderazione ma alla sua finalità; nella verginità, invece, si fa cosa migliore proprio perché non si utilizza ciò che di per sé è un male (malo melius non utitur). A giudizio di Grossi94, ridurre la concupiscenza carnale ad una libido eccessiva significherebbe per Agostino affermare la presenza di un naturalismo inesistente e negare il valore redentivo della grazia sulla dimensione concupiscente dell’uomo. Evidenziata la differenza fra le due posizioni e dimostrate le contraddizioni del pensiero di Giuliano, il vescovo d’Ippona chiarisce la sua visione: V. Grossi, “Il Libro XIV del De civitate Dei”, in Studia Ephemeridis Augustinia(a cura di), Lettura del De civitate Dei Libri XI-XVI. Lectio Augustini XXI-XXXII. Settimana Agostiniana Pavese (2005-2006), Institutum Patristicum Augustinianum, Roma 2009, 105-126, 110. 91

num

92 Pelagius, Epistula de castitate (a cura di A. Cerretini), Morcelliana, Brescia 2007, I, 1 (60). 93

Pelagius, Epistula, cit., III, 3 (62.64).

V. Grossi, “A proposito de la sexualidad humana en la tradicion patristica”, in Ramos-Lissón, D. - Viladrich, P.-J. - Escrivá-Ivars, J. (a cura di), Masculinidad y feminidad en la patristica, Universidad de Navarra, Pamplona 1989, 170-191, 189. 94


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«sono convinto che non sempre è peccato fare uso della libidine, perché far buon uso di un male non è peccato. Allo stesso modo una cosa non è buona per il solo fatto che il buono ne fa buon uso»95. Fare buon uso di un male, come la libidine, non significa che esso sia un bene (nec res ideo bona est), né che il suo buon uso lo renda tale (non eum bonum facit), ma semplicemente si pone un male al servizio di un’opera buona (operi bono servire)96, mentre utilizzare male un bene significa compiere un male97, come fanno gli impudichi, i quali generalmente compiono un’opera malvagia servendosi male di un bene quale il corpo (male uti corporis bono). Fatte queste delucidazioni, Agostino afferma che «il fare buon uso di questo male rende l’unione onesta e veramente nuziale; il desiderio invece del piacere e non della prole rende l’unione colpevole, ma solo venialmente nei coniugi»98. Alla radice della possibilità di un buon uso della libido sussiste un elemento fondamentale: La castità coniugale trattiene la concupiscenza, bramosa di ricavare piacere sia dal lecito che dall’illecito, dal fare cose illecite e la guida verso cose lecite, verso un bene cioè non suo ma di chi ne fa buon uso. L’azione della concupiscenza in se stessa, l’infiammare cioè indifferentemente verso il lecito o verso l’illecito, è indubbiamente un male. Di esso la castità coniugale fa buon uso, ma la continenza verginale fa molto meglio a non farne uso affatto99.

Proprio la pudicitia coniugalis, contrastando (frenat) la concupiscentia, sempre bramosa (inhiantem) di ricavare piacere sia dal lecito che dall’illecito (sive de illicito sive de licito percipere voluptatem), ne consente un suo buon uso (bene utentis bonum est), mentre la continentia virginalis non ne fa alcun uso (melius non utitur)100. Secondo Sfameni Gasparro, «sebbene la concupiscenza abbia […] una dimensione molto ampia nella prospettiva agostiniana, l’accezione 95 96 97 98 99 100

S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., V, 16, 60 (NBA 18, 847; PL 44, 817). S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., IV, 29 (CSEL 85/2, 29).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., V, 13 (CSEL 85/2, 184).

S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., V, 16, 63 (NBA 18, 851; PL 44, 819). S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., IV, 2, 7 (NBA 18, 667; PL 44, 739).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., V, 17 (CSEL 85/2, 198-199).


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sessuale di essa risulta del tutto peculiare e decisiva»101 cosicché «presenta il carattere ineliminabile di causa sine qua non per l’attività umana della generazione, assumendo un’efficacia strumentale nei confronti di quest’ultima»102. Appare evidente «una certa persistenza nella prospettiva agostiniana di temi e atteggiamenti maturati in quella tradizione dell’enkrateia a fondamento protologico»103. A mio avviso, però, l’idea agostiniana del singolare condizionamento della concupiscentia carnis sulla vita coniugale, tale da rendere impossibile un’unione sessuale senza di essa e necessario il suo buon uso ai fini della realizzazione di tale coniugio (malo bene utitur), attesta il profondo valore teologico della dimensione sessuale dell’uomo: in altre parole, il peccato non può scegliere bersaglio migliore da colpire più di quel luogo in cui l’humanum si congiunge con il divinum, ovvero quella dimensione erotica della sessualità esistente nella sua integrità allo stato originario e non totalmente corrotta nella condizione postlapsaria104. 1.4. La concupiscentiam carnis distinta dalla concupiscentia nuptiarum Secondo una accurata ricerca di J.-M. Duval105, tra le 29 Epistulae ritrovate posteriori alle 270, l’Epistula 6* è indirizzata ad Attico, il vescovo di Constantinopoli successore di S. Giovanni Crisostomo dal 406 al 425. Gli argomenti trattati in tale epistola mostrano chiaramente il retroscena della controversia pelagiana di Agostino con Giuliano. Difficile è, invece, individuare un’esatta datazione di tale scritto, dando adito a diverse ipotesi106.

101 G. Sfameni Gasparro, “Concupiscenza e generazione: aspetti antropologici della dottrina agostiniana del peccato originale”, in Atti del Congresso Internazionale su S. Agostino nel XVI centenario della conversione, Roma,15-20 settembre 1986, II, Institutum Patristicum Augustinianum, Roma, 1987, 225-255, 241. 102 103 104

Sfameni Gasparro, “Concupiscenza e generazione”, cit., 247. Sfameni Gasparro, “Il tema della concupiscentia”, cit., 169.

La piena comprensione di tali asserzioni richiede una lettura integrale del testo.

J.-M. Duval, “Notes complémentaires. Lettre 6*” in J. Divjak (a cura di), Œuvres de Saint Augustin. Lettres 1*-29*, 46/B, Études Augustiniennes, Paris 1987, 444-456, 444. 105

106

Duval, “Notes complémentaires. Lettre 6*”, cit., 447.


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Come affermano più studiosi, come J.-M. Duval, M.-F. Berrouard107 e G. Bonner108, con l’Epistula 6* Agostino intende prevenire la propagazione della dottrina pelagiana tra i vescovi dell’Oriente a causa dell’esilio di Giuliano in tali ambienti. Lo stile e il tono della lettera sono molto più morbidi e pacati rispetto agli altri scritti antipelagiani, perché, come afferma Brown109, non è uno scritto polemico, ma un’esposizione chiara e concisa della sua dottrina in materia di sessualità e matrimonio maturata in parecchi anni di dibattiti e controversie: A causa di questo errore i pelagiani non distinguono la concupiscenza insita nel matrimonio - cioè la concupiscenza propria della castità coniugale, la concupiscenza pertinente alla propagazione della prole secondo la legge di Dio, la concupiscenza della vita comune con cui si legano tra loro i due sessi - e la concupiscenza della carne che s’infiamma indifferentemente del desiderio per i piaceri leciti e illeciti, e che, dal desiderare quelli illeciti, è raffrenata per mezzo della concupiscenza matrimoniale, che fa buon uso di essa e si rilassa solo per i piaceri leciti. […] Cotali eretici dunque nel modo più sfrontato possibile lodano la concupiscenza della carne nella quale è solo il desiderio del coito, senza distinguerlo dalla concupiscenza matrimoniale, in cui risiede il dovere di generare, mentre ne provarono vergogna i primi esseri umani allorché si coprirono con le foglie di fico le membra di cui non dovevano arrossire prima del peccato110.

Duval111, commentando tale testo, evidenzia come, in modo unico e singolare, non riscontrabile in nessun’altro suo scritto, Agostino operi 107 M.-F. Berrouard, “Les Lettres 6* et 19* de saint Augustin. Leur date et les renseignements qu’elles apportent sur l’évolution de la crise «pélagienne»”, in Revue des Études Augustiniennes 27 (1981), 264-277, 275-276.

108 G. Bonner, “Some remarks on Lettres 4* and 6*”, in Études Augustiniennes (a cura di), Les Lettres de Saint Augustin découvertes par Johannes Divjak : communications présentées au Colloque des 20 et 21 Septembre 1982, Paris 1983, 155-164, 159-161.163164. 109

Brown, The body and society, cit., 423-424.

S. Augustinus, Epistulae ex duobus codicibus nuper in lucem prolatae, 6*, 5 (NBA 23/A, 55.57; CSEL 88, 34). 110

111

Duval, “Notes complémentaires. Lettre 6*”, cit., 452.


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una sostanziale e chiara distinzione espressa sinteticamente con queste parole: «Questa concupiscenza della carne, dunque, dev’essere distinta con saggezza e prudenza dalla concupiscenza matrimoniale»112, vale a dire che nell’uomo allo stato postlapsario oltre alla concupiscentia carnis è possibile individuare e distinguere un’altra concupiscenza qui chiamata concupiscentia nuptiarum. Se la concupiscentia carnis è vitium ereditato nella natura umana dal peccato di Adamo, la concupiscentia nuptiarum è, invece, qualcosa di totalmente diverso con caratteristiche proprie. Sono quattro le peculiarità di tale concupiscenza delineate nella presente Epistula. La prima, la concupiscentia nuptiarum è propria della castità coniugale (pudicitiae coniugalis), per cui non esiste alcun dissidio tra castità e concupiscenza, ma, anzi, un loro pieno connubio per cui la prima si esprime nella seconda e la seconda ha la sua ragione d’essere nella prima. La seconda peculiarità, la concupiscenza è pertinente alla propagazione della prole (concupiscentiam legitime propagandae prolis), ne consegue che la procreazione è intrinseca alla natura stessa della concupiscenza. La terza, la concupiscentia nuptiarum, essendo propria della vita comune (vinculi socialis), con cui si legano tra loro i due sessi (concupiscentiam, quo uterque inter se sexus obstringitur), ha un ruolo fondante nel vincolo e nel legame coniugale uomo-donna; si comprende così che l’appellativo di nuptiarum intende affermare come essa sia congenita all’istituto matrimoniale e sia sempre essa a consentire allo stato coniugale di realizzare il suo modo d’essere con l’adempimento dei cosiddetti tria bona coniugii. La quarta peculiarità, infine, la concupiscentia nuptiarum, al posto della ragione o della volontà, assume il ruolo di raffrenare l’impeto della concupiscenza carnale (frenatur ab illicitis), facendo un buon uso di essa (hac bene utitur) e rilassandosi solo per i piaceri leciti (ad sola licita relaxatur), ragion per cui si è dinanzi al dissidio non più tra concupiscenza e volontà/ ragione, ma all’interno della concupiscentia stessa lasciata in eredità dal peccato di Adamo; inoltre, Agostino scrivendo chi mai tra i cattolici affermerebbe che la concupiscenza inerente al matrimonio è collegata a un’azione diabolica, dal momento che proprio per l’impulso di 112

S. Augustinus, Epistulae ex duobus, cit., 6*, 5 (NBA 23/A, 57; CSEL 88, 34).


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essa si sarebbe propagato il genere umano anche se nessuno avesse peccato, di modo che si adempisse la benedizione [di Dio] espressa con le parole: Crescete e moltiplicatevi113,

afferma che se l’uomo non avesse peccato, si sarebbe servito in ogni caso per la propagazione del genere umano, della concupiscentia nuptiarum, che non è affatto un’azione diabolica o un frutto del peccato: asserendo ciò Agostino attribuisce tale posizione non solo a sé, ma a tutta la Chiesa cattolica (quis catholicus dicat). Tali considerazioni spingono a pensare all’esistenza di una concupiscenza prima della caduta nel peccato, diversa dalla concupiscentia carnis. Questo è quanto svilupperemo nelle pagine seguenti. 2. La concupiscentia ante peccatum Prospettare la possibilità di una concupiscenza già esistente nel paradiso terrestre, prima ancora della caduta nel peccato, dopo aver ampiamente trattato della concupiscentia in termini di filia e mater peccati e, infine, di malum non sostanziale, con il quale l’uomo postlapsario è costretto a convivere permanentemente sin dalla nascita, sembrerebbe voler evidenziare l’ambiguità della dottrina agostiniana. Diversi studi, avendo individuato tale discordanza nei suoi scritti, l’hanno interpretata come semplice modo retorico del suo argomentare, ragion per cui egli fa tale concessione, per tentare un’opera di convincimento delle sue tesi nei confronti dei suoi avversari, in particolare dei pelagiani. In realtà, a mio giudizio, qui c’è più di un artificio stilistico o di una semplice concessione: in continuità con quanto finora analizzato, Agostino cerca di comprendere meglio ciò che il peccato genera nella natura umana, senza eliminare quegli elementi fondamentali dell’humanum che uniscono lo stato d’innocenza originaria con quello postlapsario. Tra questi la concupiscentia rappresenta un luogo teologico e antropologico rivelativo di vitale importanza.

113

S. Augustinus, Epistulae ex duobus, cit., 6*, 3 (NBA 23/A, 53.55; CSEL 88, 33).


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2.1. Aut de peccato natam, aut de peccato esse vitiatam 2.1.1. L’ipotesi di una concupiscenza originaria viziata dal peccato Abbiamo già visto come Agostino parli della corruzione della natura umana causata dalla disobbedienza di Adamo ed Eva in termini di natura vitiata. Nei suoi scritti, infatti, leggiamo affermazioni come «dal merito del peccato, dal quale nel primo uomo fu viziata la natura umana»114 oppure «tutti questi mali sono attribuiti dall’autorità divina e dalla evidente verità razionale alla natura viziata dal peccato, che Dio creò buona»115. La medesima cosa afferma anche dell’origine dell’uomo, luogo in cui il peccato si trasmette a tutto il genere umano nel momento stesso della generazione. Egli scrive, infatti, che «il male invece non esisterebbe nei bambini, se la volontà del primo uomo non avesse peccato e se a causa dell’origine viziata non si contraesse il peccato originale»116. Chiaramente tutto ciò che è viziato va sempre ricondotto a un vitium che Agostino individua nella concupiscentia carnis. Nel tempo, il dibattito con i pelagiani lo spinge ad ampliare l’uso del termine vitiata, così come leggiamo nel Contra secundam Iuliani: Poiché questa concupiscenza che ti piace tanto, con il suo stesso combattere contro il quale combatte anche la pudicizia coniugale, facendo buon uso di essa solo allo scopo di procreare figli e resistendo invece agli altri suoi movimenti, poiché dunque questa concupiscenza con cotesto suo combattere tenti di ammetterla o di immetterla anche nella pace del paradiso, non ti proponi di entrare tu stesso nel paradiso. Per quanto protetta dalla tua difesa e adornata di lodi, essa o è vizio o è viziata117.

Evidenziando l’illogicità del ragionamento di Giuliano, il quale ammette (admittere) e immette (immittere) la concupiscentia nella pace del 114 S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., VI, 3 (NBA 19/2, 1027; CSEL 85/2, 294). 115 116

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., IV, 1 (NBA 19/2, 639; CSEL 85/2, 4). S. Augustinus, De nuptiis, cit., II, 29, 50 (NBA 18, 153; CSEL 42, 305).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., II, 218 (NBA 19/1, 411; CSEL 85/1, 330). 117


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paradiso (in paradisi pacem), e mostrandone il carattere conflittuale (cum ista sua pugna), Agostino afferma che la concupiscenza, oltre ad essere un vitium, può essere considerata vitiata, come la natura e l’origine dell’uomo. Le medesime dichiarazioni sono riscontrabili anche per la libido, termine usato spesso indifferentemente a quello di concupiscentia per tracciare la condizione postlapsaria dell’unione coniugale. Gli stessi tanti movimenti importuni e reprimenti delle membra (multis suis importunis et coercendis motibus) attestano come anche la libidine possa essere considerata o vitium oppure vitiata118: Per quale ragione dunque la libidine nell’uomo resiste allo spirito, mentre non lo fa nella bestia, se non per la ragione che nella bestia la libidine appartiene alla sua natura, nell’uomo invece appartiene alla pena, sia per la sua presenza che non ci sarebbe altrimenti, sia per la sua resistenza, perché sarebbe stata sottomessa, se non fosse stata causata o viziata dal peccato?119

La resistenza che la libido oppone allo spirito (spiritui resistit in homine), manifesta la sua non appartenenza alla natura umana e, quindi, il suo carattere prettamente penale (ad poenam). Se la libidine, però, non fosse causata o viziata dal peccato (peccato facta vel vitiata), certamente non produrrebbe nell’uomo tale conflitto. Leggiamo ancora: In che modo dunque si dice un bene la libidine che, se non le si resiste, spinge e costringe l'uomo a fare il male? Ti avvedi o no che la tua esimia pupilla nella natura dell’uomo o è nata dal peccato o è stata viziata dal peccato, e da qui viene il fatto che coprirono le pudende dopo il peccato i primi uomini che prima del peccato erano nudi senza sentirne confusione?120

La libido, spingendo (urget) e costringendo (compellit) l’uomo a compiere il male (facere malum), attesta la sua origine dal peccato (ex peccato 118

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., V, 17 (CSEL 85/2, 198).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., IV, 41 (NBA 19/2, 689; CSEL 85/2, 42). 119

120 S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., IV, 41 (NBA 19/2, 689.691; CSEL 85/2, 42).


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natam) oppure il suo essere viziata dallo stesso (peccato vitiatam). La medesima affermazione riscontriamo anche riguardo alla concupiscentia121: Ora, la concupiscenza della carne, dalla quale viene provocato il getto dei semi carnali, o fu nulla in Adamo prima del peccato o fu viziata in lui a causa del peccato. Infatti o senza di essa, se allora fu nulla, potevano e i genitali muoversi in modo congruo e il seme infondersi nel grembo della coniuge; o, se c'era, poteva anch’essa obbedire al comando della volontà. Ma se tale fosse adesso, la carne non concupirebbe mai contro lo spirito. Dunque o essa stessa è un vizio, se fu nulla prima del peccato; o essa stessa fu senza dubbio viziata dal peccato, e quindi attraverso di essa si trae il peccato originale122. 2.1.2. Nella concupiscenza il segno creaturale di una tensione verso la pienezza Agostino avanza solo due ipotesi possibili affinché la coppia paradisiaca potesse vivere in modo pacifico e ordinato l’unione coniugale: la prima, l’inesistenza (nulla) della concupiscentia carnis in Adamo prima del peccato, ovvero considerare la concupiscenza semplicemente come un vitium subentrato nella natura umana con la disobbedienza adamitica; la seconda, la possibilità di una concupiscenza viziata dal peccato (vitiata peccato), ovvero asserire la sua esistenza e, di conseguenza, la sua presenza nel paradiso terrestre, senza recare alcun disturbo o danno alla quiete paradisiaca e, a causa della prima disobbedienza, il suo essere corrotta dalla caduta nel peccato. Agostino marca l’esposizione di quest’ultima ipotesi scrivendo sine dubio per evidenziarne una maggiore ragionevolezza. Infatti, come evidenzia Clark123, tale congettura è ripresa in modo preponderante nella citata Epistula 6*:

121

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., V, 14 (CSEL 85/2, 188).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., VI, 22 (NBA 19/2, 1127; CSEL 85/2, 371). 122

123 E. A. Clark, St. Augustine on marriage and sexuality, The Catholic University of America Press, Washington 1996, 99.


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Or dunque, poiché [la nostra concupiscenza] non è come quella [del paradiso terrestre] ed è necessario che la castità lotti con tutte le forze per vincere la sua opposizione, [i pelagiani] devono riconoscere ch’è stata viziata dal peccato con il risultato che il suo stimolo riempì di vergogna [i progenitori] che prima erano nudi e non avvertivano alcuna vergogna124.

Opponendosi ai pelagiani, assertori dell’esistenza della concupiscentia nel paradiso terrestre, Agostino contesta loro la necessità di riconoscere (fateantur) che la concupiscenza dell’uomo postlapsario sia viziata dal peccato (eam peccato esse vitiatam). Siamo dinanzi ad un rilevante cambiamento di stile perché ciò che prima è presentato solo come ipotesi plausibile, adesso assume le sembianze di condizione fondamentale, rivolta ai suoi avversari, per un’autentica comprensione della verità sull’uomo. A conferma di ciò, anche nel Contra duas epistulas leggiamo: Voi però, non per ragione religiosa, ma per discussione litigiosa, non in difesa del pudore umano, ma in difesa del vostro furore settario, perché non si creda che sia stata viziata almeno la concupiscenza della carne e che da essa si contragga il peccato originale, con le vostre discussioni vi sforzate di far rimontare la concupiscenza al paradiso assolutamente tale e quale è adesso e di sostenere che le sarebbe potuto accadere d’esservi o sempre assecondata da un disonesto consenso o frenata talvolta da un afflitto dissenso125.

La visione dei pelagiani, nei suoi principi fondamentali, non ammette che si possa credere (credatur) in una concupiscenza della carne viziata dal peccato (ne vel ipsa concupiscentia carnis vitiata) e che, di conseguenza, da essa si possa contrarre il peccato originale. Riconoscere ciò significherebbe confessare un assioma da loro escluso a priori: la possibilità che il peccato di Adamo ed Eva generi una certa alterazione della natura umana e, in particolare, una corruzione della stessa concupiscenza in quanto parte della natura stessa dell’uomo. Alla luce di suddette considerazioni, l’affermazione agostiniana di una concupiscentia vitiata apre la nostra discussione a tre deduzioni fondamentali. La prima, l’ammissione di una 124 125

S. Augustinus, Epistulae ex duobus, cit., 6*, 8 (NBA 23/A, 63; CSEL 88, 38).

S. Augustinus, Contra duas epistulas, cit., I, 17, 35 (NBA 18, 225; CSEL 60, 452).


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concupiscenza viziata significherebbe dichiarare in qualche modo che il peccato genesiaco corrompa e vizi una realtà già esistente. La seconda, legata alla prima, vede il peccato originale che, viziando semplicemente ciò che già esiste, non immetterebbe nella natura umana una realtà nuova del tutto estranea all’uomo, confermando il già citato assioma agostiniano secondo cui la concupiscenza non è una substantia mala ma soltanto un vitium substantiae bonae, come commenta anche Boyer: Senza dubbio la concupiscenza è un male, ma questo male non è una sostanza, è soltanto una privazione. Ora, una mancanza, una privazione non possono di certo trovarsi nella natura divina, ma si possono trovare in una creatura […]: dunque Sant’Agostino ammette che Dio avrebbe potuto creare l’uomo con la concupiscenza126.

In altre parole, la concupiscenza manifesta lo stato creaturale dell’uomo, il quale, essendo ancora in uno stato di incompiutezza, tende verso il raggiungimento della sua pienezza. In tal senso la concupiscenza non è né un bene, come affermano i pelagiani, né un male, come asseriscono i manichei, ma l’assenza di un bene fondamentale desiderato dalla creatura umana a fini del suo compimento127. Infine, la terza e ultima deduzione, l’affermazione della possibilità dell’esistenza di una vera e propria concupiscenza nel paradiso terrestre, prima della caduta nel peccato, a condizione, però, che sia diversa da quella attuale. Questo è quanto approfondiremo nelle pagine seguenti soprattutto nel dibattito fra Agostino e i pelagiani.

126 C. Boyer, “Concupiscence et nature innocente”, in Augustinus Magister. Congrès International Augustinien, Paris, 21-24 septembre 1954, III, Etudes Augustiniennes, Paris 1954, 309-316, 313 (traduzione propria). 127

Boyer, “Concupiscence”, cit., 314-315 .


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2.2. Prima del peccato la concupiscentia non qualis nunc est 2.2.1. Le quattro ipotesi di una probabile presenza della concupiscenza allo stato originario I due libri del De nuptiis, scritti tra l’altro in tempi diversi, sono prova dell’evoluzione del pensiero agostiniano riguardo alla questione della concupiscenza. Infatti, rispondendo alle pressanti provocazioni pelagiane, egli introduce il Liber I esplicitando subito la sua posizione: «Questa vergognosa concupiscenza, che dagli spudorati viene spudoratamente lodata, non esisterebbe neppure se l’uomo non avesse peccato»128. Agostino non ha alcun dubbio sul fatto che se l’uomo non avesse peccato la concupiscenza non sarebbe neppure esistita, ragion per cui ciò che rende l’attuale matrimonio differente da quello dei nostri progenitori è proprio la presenza della concupiscentia carnis, non esistente prima del peccato (nec ante peccatum fuit) né permessa dopo lo stesso (nec post peccatum permissa est)129. Nel Liber II, invece, riscontriamo una certa apertura ad altre ipotesi: “Forse dirai, scrive ancora, che non esisterebbe alcuna concupiscenza, se l’uomo non avesse prima peccato, mentre il matrimonio esisterebbe anche se nessuno avesse peccato”. Non ho detto che non esisterebbe alcuna concupiscenza, perché esiste una concupiscenza spirituale, degna di lode, per la quale si aspira alla sapienza. Ho detto invece che non esisterebbe alcuna concupiscenza vergognosa. Si rileggano le mie parole, citate anche da lui, affinché appaia con quanta falsità siano da lui ricordate. Ma la chiami pure con il nome che vuole. Io ho detto che, se l’uomo non avesse peccato, non esisterebbe quella concupiscenza, di cui arrossirono nel paradiso coloro che coprirono le loro vergogne e che nessuno nega esser seguita al precedente peccato di disubbidienza 130.

A causa della falsa interpretazione delle sue asserzioni, Agostino deve precisare di non aver affatto detto (non dixi) che, se l’uomo non avesse peccato non sarebbe esistita alcuna concupiscenza, perché per lui esiste una 128 129 130

S. Augustinus, De nuptiis, cit., I, 1, 1 (NBA 18, 25; CSEL 42, 212). S. Augustinus, De nuptiis, cit., I, 16, 18 (CSEL 42, 230).

S. Augustinus, De nuptiis, cit., II, 30, 52 (NBA 18, 157; CSEL 42, 308-309).


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concupiscenza spirituale (concupiscentia spiritalis), degna di lode, grazie alla quale si aspira alla sapienza (qua concupiscitur sapientia), mentre è inesistente nel paradiso la pudenda concupiscentia. Tuttavia, é importante non tanto quale sia il nome più adatto da dare alla concupiscenza (quo voluerit eam nomine appellet), quanto, piuttosto, chiarire soprattutto l’estraneità al paradiso di quella concupiscentia che spinge i nostri progenitori a provare vergogna e a coprirsi le membra a seguito del peccato di disubbidienza. I sensi della carne e delle membra (etiam sensus carnis et membra), invece, essendo parte integrante della vita coniugale, sono doni propri che Dio dà all’uomo al momento della sua creazione (procul dubio munera sua) e che non gli sottrae mai neppure con il peccato (non detraxit)131. Agostino, infatti, sembra disposto a non riconoscere la libidine come vizio (si non vult concedere vitium esse libidinem), a condizione che si riconosca la corruzione della concupiscenza carnale (ipsam vitiatam esse carnis concupiscentiam) generata dalla disubbidienza di quei primi uomini. È a causa di essa, infatti, che quei movimenti, originariamente sottomessi e ordinati (oboedienter et ordinate), diventano ribelli e disordinati (nunc inoboedienter ìnordinateque), sfuggendo persino anche alla volontà di coniugi casti. Dunque, Adamo ed Eva, in cambio della loro disubbidienza (inoboedientes illi) ricevono (receperunt) la disubbidienza della concupiscenza (eius inoboedientiam), che per generazione è trasmessa a tutto il genere umano (propagine transfuderunt)132. Agostino, così, tentando di immaginare quale tipo di vita avrebbero potuto condurre i nostri progenitori senza il peccato (qualem velitis in paradiso vitam illorum hominum), prospetta, nel Contra duas epistulas, quattro probabili risposte133 (unum de his quattuor rebus eligite)134: si potrebbe ipotizzare che Adamo ed Eva praticassero la copula spinti dalla libidine (quotiescumque libuisset), oppure che reprimessero la libidine (frenarent libidinem) quando la copula non fosse necessaria, o ancora che avessero una libido così sottomessa alla volontà da risvegliarsi a un loro cenno (ad 131 132 133 134

S. Augustinus, De nuptiis, cit., II, 32, 54 (CSEL 42, 311).

S. Augustinus, De nuptiis, cit., II, 35, 59 (CSEL 42, 318.

Cfr. Duval, “Notes complémentaires. Lettre 6*”, cit., 444-456.

S. Augustinus, Contra duas epistulas, cit., I, 17, 34 (CSEL 60, 450).


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nutum voluntatis consurgeret) ogni qualvolta, per una casta prudenza, presentissero la necessità della copula, oppure, infine, che non avessero assolutamente nessuna libidine (nulla ibi omnino existente), avendo così i genitali pienamente sottomessi alla loro volontà (genitalia iussis volentium servissent) senza affrontare alcuna difficoltà (sine ulla difficultate)135. Prospettate le quattro ipotesi, Agostino osserva come i pelagiani, stando alla loro prospettiva, non possano non respingere le prime due (duo priora respuetis). Infatti, la prima, proponendo l’uomo originario nella condizione di servire (servitur) e di seguire sempre l’iniziativa della libido (praecedentem semper sequendo libidinem), negherebbe quella splendida onestà (praeclara honestas) e quel decoro dell’illimitata beatitudine propria del paradiso terrestre (tantae illius beatitudinis decus) e vedrebbe smarrire quella pace pienissima originaria (plenissimam pacem), a causa delle permanenti resistenze della libidine (ei resistendo). La seconda ipotesi, invece, suggerendo la totale e assoluta repressione della libido (repugnatur), ostacolerebbe il raggiungimento di una felicità così grande (tam magna felicitas)136. Agostino pone la medesima constatazione anche con la quarta ipotesi non perché, a differenza delle prime due, vi riscontri un pensiero non ortodosso, ma perché si rende conto che affermare l’inesistenza della libidine nel giardino dell’Eden significherebbe maggiormente disturbare la sensibilità dei pelagiani (iam vos ei fecit vestrarum disputationum impetus inimicos)137. Invece, della terza ipotesi egli scrive: vi piacerà almeno la risposta che abbiamo messa al terzo posto: la concupiscenza della carne, il cui movimento giunge fino all’estrema voluttà che vi diletta tanto, non insorgerebbe mai nel paradiso se non dietro il comando della volontà quando fosse necessaria a generare. Se una concupiscenza siffatta vi piace collocare nel paradiso e se vi pare che per mezzo d’una tale concupiscenza della carne, che né previene né ritarda né sorpassa il comando della volontà, si sarebbero potuti generare figli in quella felicità, noi non ci opponiamo. Per la questione infatti che stiamo trattando basta che la concupiscenza non sia

135 136 137

S. Augustinus, Contra duas epistulas, cit., I, 17, 34 (CSEL 60, 450-451). S. Augustinus, Contra duas epistulas, cit., I, 17, 34 (CSEL 60, 451). S. Augustinus, Contra duas epistulas, cit., I, 17, 35 (CSEL 60, 451).


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Salvatore Bucolo adesso negli uomini tale e quale voi concedete che avrebbe potuto essere nel luogo di quella felicità138.

A giudizio di Hugo139, Agostino afferma esplicitamente di non opporsi all’idea di collocare nel paradiso quella carnalis concupiscentia tanto bramata dai pelagiani (quae vos multum delectat), il cui movimento giunge fino all’estrema voluttà (cuius motus ad postremam pervenit voluptatem), a condizione che essa non insorga mai nel paradiso (numquam in paradiso exsurgeret), se non dietro il comando della stessa volontà quando sia necessaria per generare (nisi cum ad gignendum esset necessaria, ad nutum voluntatis). Chiaramente tale concupiscenza, che non previene (nec praeveniret), non ritarda (nec tardaret), né prevarica (nec excederet) il comando della volontà (imperium voluntatis), attualmente non è negli uomini così come (nunc talis in hominibus non est) i pelagiani credono che sia nel luogo di quella felicità (qualem in illius felicitatis loco esse potuisse conceditis). 2.2.2. L’ipotesi di una concupiscenza prelapsaria diversa dall’attuale Il Contra Iulianum offre una profusione di espressioni che sembrano rivelare un certo tono accondiscendente da parte di Agostino nei confronti della posizione pelagiana. Infatti, leggiamo: Al pari delle altre membra, anche i genitali sarebbero stati mossi dalla volontà e non eccitati dalla libidine, oppure, se vogliamo, sarebbero stati mossi dalla libidine (non intendiamo rattristarvi troppo a suo riguardo) ma non quale essa è, bensì da una libidine posta al servizio della volontà140.

Egli dichiara l’intento di non voler rattristare troppo i suoi avversari e di essere propenso a riconoscere nel paradiso la presenza originaria della stessa libidine dei sensi carnali (ibi credatur carnalium sensuum fuisse 138 139 140

S. Augustinus, Contra duas epistulas, cit., I, 17, 35 (NBA 18, 223; CSEL 60, 451). Hugo, St. Augustine on nature, cit., 91.

S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., IV, 11, 57 (NBA 18, 729; PL 44, 765).


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libidinem), a condizione che essa sia in tutto soggetta alla volontà razionale (omni modo rationali subdita voluntati), presente solo per servire la salute del corpo o la propagazione della stirpe (per illam vel saluti esset corporis, vel stirpis propagini consulendum) e in misura tale da non distrarre per nulla la mente dalla gioia della celeste contemplazione (nulla ex parte mentem de supernarum cogitationum delectatione deponeret)141. Agostino, in tal modo, invita i pelagiani a riconoscere in quel luogo di felicità soltanto una libido sottomessa al comando della volontà (subdite voluntatis imperio)142. Giuliano, allora, si oppone a tale visione perché la stessa eccitazione suscitata nello sguardo di Eva per la bellezza di un pomo (cum pomi decore oculos incitasset) e il conseguente ardore della speranza di un giocondo sapore (spem etiam iucundi irritavit saporis), sono per lui la chiara dimostrazione (res illa declarat) che la concupiscenza, quella stessa di cui l’uomo attuale fa esperienza, non è frutto del peccato (non fructus esse peccati), ma esiste già nel paradiso prima del peccato143. Agostino, però, domandandosi se «la concupiscenza della carne, quale è adesso, quale la vediamo lottare contro lo spirito, tale fu anche nel paradiso prima del peccato»144, afferma che é inconcepibile credere che la concupiscenza della carne, la lotta, come quella attuale contro lo spirito, possano essere anche nel paradiso prima del peccato, quindi invita Giuliano ad ammettere che non si può collocare nel paradiso una concupiscenza che, anziché aiutare lo spirito a obbedire e godere di Dio (spiritum oboedientem Deo, ac fruentem Deo), stimoli invece ad appetire avidamente (inhianter), umiliando lo stesso spirito (spiritum deicit)145. Una concupiscenza, per la quale la carne ha desideri contrari allo spirito, è indubbiamente cattiva (malam esse dico)146.

141 142 143 144 145 146

S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., IV, 14, 69 (PL 44, 772-773). S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., V, 7, 29 (PL 44, 802).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., I, 71 (CSEL 85/1, 81).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., VI, 14 (NBA 19/2, 1079). S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., I, 70 (CSEL 85/1, 80).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., III, 167 (CSEL 85/1, 470).


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Porre nel paradiso, luogo di tanta beatitudine, una concupiscenza simile a quella attuale147, e aggiungere ad essa la qualifica di “nuziale” (addis nuptiali, et dicis de concupiscentia nuptiali) con il semplice scopo di rivestire dell’onesto nome delle nozze ciò che in realtà suscita solo vergogna (ut vestias pudendam susceptam tuam nomine honesto nuptiarum)148 appartiene alla menzogna pelagiana. Lo stesso testo genesiaco, raccontando l’assenza di vergogna della nudità da parte di Adamo ed Eva (propter quod eum nudum esse nihil pudebat), comprova come prima della loro caduta nel peccato la loro concupiscenza della carne non avrebbe resistito affatto allo spirito (spiritui non resistebat)149, né la loro carne avrebbe disprezzato ciò che lo spirito le comanda (hoc solum carnem liberet, quod mens iuberet)150, né la loro libidine sarebbe stata pudenda, né essi avrebbero provato vergogna per le membra del corpo sollecitate o mosse dall’istinto della libidine, né, infine, avrebbero avuto alcun motivo di coprire le proprie nudità151. Come sottolinea Grossi152, ci troviamo dinanzi ad una distinzione tra una concupiscenza originaria ordinata e quella attuale disordinata. 2.2.3. Nello stato edenico una concupiscenza propria del matrimonio Nella già citata Epistula 6* Agostino offre una descrizione unica e singolare di quali caratteristiche avrebbe dovuto avere una concupiscenza esistente nel paradiso prima del peccato. All’inizio riprende elementi già affermati in altri scritti: Se dunque nel paradiso terrestre esisteva questa concupiscenza carnale […] essa non era certamente uguale a quella attuale, capace, con il suo impulso, di 147 148 149 150 151

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., III, 187 (CSEL 85/1, 488). S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., IV, 19 (CSEL 85/2, 19). S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., IV, 79 (CSEL 85/2, 82).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., V, 14 (CSEL 85/2, 188). S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., V, 16 (CSEL 85/2, 195.

V. Grossi, Baio e Bellarmino, interpreti di S. Agostino nelle questioni del soprannaturale (Collana Studia Ephemeridis Augustinianum 3), Studium Theologicum Augustinianum, Roma, 1968, 229. 152


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bramare indifferentemente azioni lecite e illecite […], ma in una meravigliosa armonia non avrebbe trasgredito l’ordine della volontà in modo che non si sarebbe fatta sentire mai, tranne quando fosse stato necessario; mai si sarebbe insinuata, nello spirito d’uno che riflettesse, con un piacere disordinato e illecito, non avrebbe avuto nulla di riprovevole da frenarsi con le briglie della temperanza ed essere vinta con lo sforzo della virtù ma, qualora fosse stato necessario, avrebbe, con facile e completa ubbidienza, assecondato la volontà di colui che ne avesse fatto uso153.

Sulla base di tali considerazioni, Agostino ipotizza allo stato edenico l’esistenza di una concupiscenza propria del matrimonio che conservava il tranquillo amore tra i coniugi e che, allo stesso modo con cui la decisione dello spirito dà ordini alle mani e ai piedi perché compiano le azioni rispettivamente conformi a quelle membra, così comandava anche agli organi genitali perché generassero, di modo che nel paradiso la prole sarebbe stata procreata in modo mirabile senza gli ardori della passione carnale come anche sarebbe nata in modo mirabile senza i dolori del parto154.

Certamente, bisogna ammettere l’unicità e la singolarità di tali asserzioni, presenti come un unicum nell’intera opera agostiniana e che quindi non possono essere ridotte quasi ad una sintesi del lungo, articolato e complesso pensiero agostiniano. Esse tuttavia rimangono, e rinviano ad una questione che avrà seguito nella tradizione cristiana e che Tommaso d’Aquino stesso riprenderà nella questio 98 articulus 2 utilizzando quanto Agostino afferma nel De civitate Dei155: Il secondo aspetto da considerare è una certa deformità della concupiscenza smoderata. Questa sarebbe mancata nello stato di innocenza, quando le forze inferiori sottostavano totalmente alla ragione. In questo senso S. Agostino dice: “Lungi da noi il sospetto che non si potesse generare la prole, senza il disordine della libidine. Ma quelle membra si sarebbero mosse a un cenno della volontà, 153 154 155

S. Augustinus, Epistulae ex duobus, cit., 6*, 8 (NBA 23/A, 63; CSEL 88, 38). S. Augustinus, Epistulae ex duobus, cit., 6*, 7 (NBA 23/A, 59; CSEL 88, 36). S. Augustinus, De civitate Dei, XIV, 26 (CSEL 40/2, 54).


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Salvatore Bucolo come le altre, senza il divampare dello stimolo libidinoso, con tranquillità di animo e di corpo”156.

Anche il Dottore Angelico, come Agostino, non ha dubbi riguardo all’inesistenza della deformità della concupiscenza immoderata (quaedam deformitas immoderatae concupiscientiae) nella condizione paradisiaca, in uno stato in cui tutte le forze inferiori sottostanno totalmente alla ragione (inferiores vires omnino rationi subdebantur). Da notare la comunanza di visione espressa con un linguaggio scolastico, tanto diverso da quello agostiniano. Sviluppando ulteriormente la questione, Tommaso scrive: Ma nello stato di innocenza non c’era nulla che sfuggisse al freno della ragione; non che fosse minore il piacere dei sensi, come dicono alcuni (poiché sarebbe stato tanto maggiore il diletto sensibile, quanto più pura era la natura e più sensibile il corpo); ma perché il concupiscibile non si sarebbe gettato così disordinatamente su tale piacere, essendo regolato dalla ragione. Alla quale ragione non spetta rendere minore il piacere dei sensi, ma impedire che la facoltà del concupiscibile aderisca sfrenatamente al piacere; e sfrenatamente qui significa oltre i limiti della ragione. Così l’uomo sobrio nel cibarsi moderatamente non ha un piacere minore dell’uomo goloso; ma il suo appettito concupiscibile si abbandona meno a tale piacere. Questo è il senso delle parole di S. Agostino, che non vogliono escludere dallo stato di innocenza l’intensità del piacere, ma l’ardore della libidine e il turbamento dell’anima157.

Il fatto che nello stato di innocenza nulla sfugga al freno della ragione, non significa che sia minore il piacere dei sensi. Anzi, proprio perché la natura umana è in una condizione di maggiore integrità (esset purior natura) e, allo stesso tempo, il corpo ha una maggiore sensibilità (corpus magis sensibile), il diletto sensibile dovrebbe essere tanto maggiore (enim tanto maior delectatio sensibilis). A questo si aggiunge che la vis concupiscibilis (così chiamata da Tommaso per intendere la concupiscentia agostiniana) non si getterebbe così disordinatamente su tale piacere (non immoderate 156 S. Thomas Aquinatis, Summa theologiae, I, q. 98, a. 2, co., in Sancti Thomae Aquinatis Opera omnia iussu edita Leonis XIII P.M, t. V, Ex Typographia Polyglotta S. C. De Propaganda Fide, Romae 1889. 157

STh., I, q. 98, a. 2, ad 3.


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delectationi inhaereat), perché regolata dalla ragione (regulata per rationem): compito, infatti, della ratio è quello non di rendere minore il piacere dei sensi, ma di impedire che la facoltà della vis concupiscibilis aderisca sfrenatamente al piacere, ovvero oltre i limiti della ragione (praeter mensuram rationis). Tommaso conclude dicendo di non fare altro che esplicitare il senso delle parole di Agostino (hoc sonant verba Augustini), secondo cui non si vuole affatto escludere dallo stato di innocenza l’intensità del piacere (a statu innocentiae non excludunt magnitudinem delectationis), ma l’ardore della libidine e il turbamento dell’anima (ardorem libidinis et inquietudinem animi). Questa ripresa tomista del pensiero di Agostino ci consente di comprendere come la questione della presenza della concupiscentia o della vis concupiscibilis nello stato di originaria innocenza dell’uomo non rappresenti un elemento accessorio, retorico o ipotetico all’interno della stessa dottrina agostiniana. Essa getta luce sulla sua integrale e profonda visione dell’uomo nella condizione originaria, in cui la sessualità non solo è pienamente posseduta dalla ragione ma anche è totalmente vissuta nella pienezza del suo piacere. Per questo è possibile giungere ad una tale dichiarazione: Se infatti codesta concupiscenza fosse tale da non precedere e da non eccedere con il suo turbamento carnale la volontà dell’uomo, ma ne seguisse sempre l’arbitrio, certamente né Manicheo troverebbe che cosa riprendere giustamente in essa, né alcuno di noi sosterrebbe che i coniugati non l’avrebbero potuta avere nel paradiso, né Ambrogio direbbe che noi l’abbiamo tratta dalla prevaricazione del primo uomo, perché non la vedrebbe concupire contro lo spirito158.

A giudizio di Agostino, anche lo stesso Ambrogio, dinanzi ad una concupiscenza che non concupisce più contro lo spirito (quia concupiscere contra spiritum non videret), non avrebbe avuto più motivo di affermare la sua origine dalla prevaricazione del primo uomo (nec Ambrosius de praevaricatione primi hominis eam traxisse nos diceret). Tutto ciò dimostra come il nostro autore non compia affatto una battaglia contro la concupi158

490).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., III, 187 (NBA 19/1, 615; CSEL 85/1,


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scentia carnis, ma soltanto voglia evidenziare la condizione di disordine in cui l’uomo si trova a vivere dopo il peccato e il suo bisogno fondamentale della grazia di Dio ai fini della propria redenzione. Certamente, gli scritti di Agostino manifestano spesso un tono conflittuale a causa della controversia con i pelagiani, i quali cercano di collocare nel paradiso una concupiscenza qualis nunc est. Egli, però, domandandosi se «non è forse vero che la concupiscenza della beatitudine è concupiscenza naturale»159, mostra la sua disponibilità a chiamare la concupiscenza anche naturalis, purché sia quel desiderio autentico di felicità e beatitudine vera che Dio ha messo nel cuore dell’uomo160. In tale asserzione quindi usciamo fuori da quella visione agostiniana dell’humanum piuttosto razionalista, in cui sentimento, desiderio, sensazione, piacere e atto sessuale appaiono considerati tali, essendo esclusivamente ordinati dalla ragione. Il suo pensiero è, così, più caratterizzato da una concezione teologica della dimensione concupiscente dell’uomo, come afferma J. Brachtendorf: Non solo le passioni umane non sono necessariamente errate, ma dipendono dal generale orientamento della volontà che le rende degne di lode. Se la volontà è rettamente diretta al reale bene supremo, che è Dio, allora tutte le sue manifestazioni emotive saranno anche giuste. Ma se la volontà è diversamente orientata, scegliendo un bene inferiore a quello supremo, precipitando in questo modo verso il male, tutte le sue mozioni saranno sbagliate. […] Per Agostino, l’amore di un bene inferiore al posto di quello supremo si manifesta nella cattiva cupiditas, laetitia, timor, and tristitia, mentre l’amore del summum bonum conduce alla buona cupiditas161.

Pertanto, affermare l’esistenza originaria di una concupiscentia beatitudinis o di una concupiscentia nuptiarum significa sostenere soprattutto l’intrinseco e originario legame della dimensione concupiscente con il divinum. 159 S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., IV, 67 (NBA 19/2, 729; CSEL 85/2, 71). 160 M. Lamberigts, “Augustine, Julian of Aeclanum and E. Pagels’ Adam, Eve, and the Serpent”, in Augustiniana 39 (1989), 393-435, 407-409. 161 J. Brachtendorf, “Cicero and Augustine on the Passions”, in Revue des Études Augustiniennes 43 (1997), 289-308, 301 (traduzione propria).


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3. La concupiscentia sananda e il vulnus caritatis Come l’analisi sulla condizione dell’uomo postlapsario induce Agostino a ritenere possibile l’esistenza in paradiso di una concupiscenza non qualis nunc est, anche la natura stessa della ricerca lo spinge a indagare su quale possa essere la condizione della concupiscenza alla fine dei tempi. Ciò mostrerà come quella concupiscenza che, in quanto filia peccati e mater peccatorum, è luogo principale della dannazione dell’uomo, è anche il pilastro portante della sua redenzione. Lo sguardo al futuro diventa essenziale per una comprensione integrale di tale questione. 3.1. La concupiscentia nec separanda sed sananda 3.1.1. La concupiscenza come affezione di una cattiva qualità La concupiscentia carnis ereditata dal peccato genesiaco pone l’uomo in una condizione di infirmitas tale da essere continuamente tentato di commettere una molteplicità di peccati (plura committit)162. Ciò chiaramente non lo priva della capacità di compiere il bene (non facere bonum non adiacet), perché, come si legge nel De perfectione iustitiae hominis, tutte le volte che egli non acconsente al peccato è in grado di fare un’opera buona, anche se non più capace di adempierla in modo perfetto (Ei tamen perficere bonum non adiacet)163. Medesima condizione si manifesta anche nella sua relazione con Dio, ragion per cui, fino a quando rimarrà qualche traccia di tale concupiscenza, gli verrà sempre preclusa la possibilità di amare Dio in modo assoluto (non omni modo ex tota anima)164 con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente165. Per evitare, però, ogni fraintendimento, nel Sermo 154, Agostino scrive:

162 163 164 165

S. Augustinus, De natura et gratia, 30, 34 (CSEL 60, 258).

S. Augustinus, De perfectione iustitiae hominis, 11, 28 (CSEL 42, 27-28). S. Augustinus, De perfectione, cit., 8, 19 (CSEL 42, 18). Matteo 22, 37.


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Salvatore Bucolo Non infatti una carne non mia, o una carne di natura diversa, o una carne che abbia avuto altra origine, o anche, un’anima che ha avuto origine da Dio e una carne che ha avuto origine dal popolo delle tenebre. Certamente no. L’infermità è incompatibile con la salute. Un uomo giace tra la vita e la morte sulla via, viene poi curato, sono guariti tutti i suoi mali166.

In altre parole, a suo giudizio, bisogna guardarsi dal credere che nell’uomo possa sussistere una carne non appartenente alla sua natura (non enim caro non mea) e proveniente da un’origine diversa da Dio. Tutto quanto esiste nell’uomo fa parte della sua natura e la concupiscenza va intesa semplicemente come una malattia (languor) che debilita lo stato d’integrità della creatura umana e che, se curata (curatur adhuc), risana da tutti i mali derivanti da essa (sanantur omnes languores eius). Agostino parla spesso della concupiscentia in termini di malattia ingenerata nella natura umana dal peccato: «Affermo che il vizio per cui la carne ha voglie contro lo spirito, è stato ingenerato da un’origine viziata, come la cattiva salute»167. Adopera questa terminologia per prendere le debite distanze dai manichei i quali nei riguardi di quella concupiscenza di cui essi per la lotta dei casti e per la testimonianza degli Apostoli dimostrano la malvagità, concludano che essa non come qualità cattiva da sanare, ma come sostanza cattiva da separare, non sia un’accidentalità accaduta alla natura buona, ma sia stata mescolata alla natura buona come una sostanza anch’essa, derivata dalla gente delle tenebre e da una sostanza cattiva coeterna a Dio168.

Essi, infatti, escludendo l’idea di qualità cattiva da sanare (non malam qualitatem sanandam), intendono la concupiscenza come una sostanza negativa esistente dall’eternità169, mescolatasi alla natura buona e, come tale, destinata a separarsi dall’uomo (malam substantiam separandam) per 166 167

S. Augustinus, Sermones, 154, 9, 13 (NBA 31/2, 521; PL 38, 839).

S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., VI, 18, 55 (NBA 18, 937; PL 44; 855).

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, III, 170 (NBA 19/1, 593; CSEL 85/1, 472-473). 168

169

S. Augustinus, Contra duas epistulas, cit., II, 2, 2 (CSEL 60, 461).


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recuperarne l’integrità perduta. Opposta, invece, è la posizione pelagiana, che non considera vizio la concupiscentia carnis, lodandola come un bene naturale170. Agostino risponde ad entrambe con la dottrina cattolica: La Cattolica redarguisce gli uni e gli altri dicendo ai manichei: Non è natura, ma vizio, e dicendo ai pelagiani: Non viene dal Padre, ma dal mondo, perché gli uni e gli altri permettano la cura di questa sorta di malattia, smettendo i manichei di credere inguaribile la natura e i pelagiani di celebrarne le lodi171.

L’asserzione agostiniana secondo cui la concupiscenza deve essere non separata dalla natura umana (separandum) ma risanata dalla misericordia di Dio (Dei miseratione sanandum), vuole contraddire da una parte la tesi manichea che sostiene l’impossibilità del risanamento della concupiscenza (nec sanari posset omnino), ritenuta un male eterno e immutabile, dall’altra quella pelagiana che afferma la non necessità che la concupiscentia debba guarire (nec medicina opus haberet) in quanto già in uno stato di sanità tale da meritarne grande lode172. In altri termini, la concupiscenza non va considerata una sostanza come un corpo o uno spirito, ma è semplicemente l’affezione di una cattiva qualità (affectionem quamdam malae qualitatis), come la malattia173, e, in quanto tale, sanabile, vale a dire passibile di un intervento redentivo174. Sanato il vizio (omni vitio sanato), la natura umana rimane assolutamente integra175. 3.1.2. La concupiscenza sanabile dalla grazia In tale contesto, la più volte ripetuta espressione nec separanda sed sananda, esprime sinteticamente due principi fondamentali della dottrina di Agostino. Il primo, l’idea della non-esistenza sostanziale del male, a 170 171 172 173 174 175

S. Augustinus, Contra duas epistulas, cit., II, 2, 2 (CSEL 60, 461).

S. Augustinus, Contra duas epistulas, cit., II, 2, 2 (NBA 18, 239; CSEL 60, 461). S. Augustinus, Contra duas epistulas, cit., III, 9, 25 (CSEL 60, 517-518). S. Augustinus, De nuptiis, cit., I, 25, 28 (CSEL 42, 240).

S. Augustinus, De civitate Dei, XIV, 6 (CSEL 40/ 2, 11-12).

S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., VI, 18, 53 (PL 44, 854).


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motivo del quale ogni possibile separazione tra bene e male non è altro che un puro fatto concettuale della mente umana (quamvis malum a bono intellegentia separemus)176: diversamente si cadrebbe nell’errore manicheo. Il secondo, il fatto che l’uomo percepisca dei desideri della carne contrari a quelli dello spirito non implica affatto l’esistenza nel suo essere di una natura a lui estranea (aliena natura), ma di un’unica natura, quella umana, succube di una resistenza (quod nobis resistere sentimus in nobis) che, in quanto tale, va sanata177, contrapponendosi così alla posizione pelagiana. Inoltre, il termine sananda indica non solo l’eliminazione della malattia, ma anche la guarigione di un qualcosa che è malato. C’è da chiedersi, allora, quale sia quella parte malata della natura umana colpita dalla concupiscentia che va sanata. Certamente la concupiscenza ferisce ciò che in natura è vulnerabile alla sua azione: ciò significa che principalmente essa rende disordinata quella dimensione umana che originariamente spinge a desiderare in modo sano e ordinato, vale a dire la concupiscentia carnis ferisce quella concupiscenza che in origine era non qualis nunc est. Adesso tale concupiscenza, disordinata dal peccato, può o, ancor più, deve essere sanata dalla grazia divina178. Nel De spiritu et littera leggiamo: Ecco perché l’Apostolo ha scelto il comandamento: Non desiderare a principio generale in cui abbraccia tutto, come se esso fosse la voce della legge che tiene lontani da ogni peccato, e di fatto nessun peccato si commette se non per concupiscenza: perciò è buona e lodevole la legge che comanda così. Ma quando non aiuta lo Spirito Santo, suscitando al posto della concupiscenza cat176 177

S. Augustinus, Contra secundam Iuliani, cit., III, 37 (CSEL 85/1, 376-377). S. Augustinus, Contra Iulianum, cit., VI, 18, 57 (PL 44, 857).

La questione della guarigione del desiderio per opera della grazia divina è diffusa nella letteratura patristica. Anche Clemente Alessandrino ne parla in una celebre pagina del libro terzo degli Stromati, che possiamo considerare il più antico trattato di morale esplicitamente svolta sull’argomento: «Ένκράτεια τοίνυν σώματος ύπεροψία, κατά τήν προς θεόν όμολογίαν» (tradotto in latino: «Est ergo continentia, corporis despicientia secundum confessionem in Deum»). (Clemens Alexandrinus, Stromatum, III, 4, 1 (PG 8, 1103-1104). Nel contesto antignostico dello scritto egli afferma che l’enkrateia come le nozze devono orientarsi in diverso modo alla guarigione del desiderio, intesa come purificazione del cuore, che solo uno sguardo proveniente dalla fede può donare. Tale purificazione appare, infatti, di diversa natura dal semplice controllo razionale dei sensi. 178


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tiva la concupiscenza buona, ossia riversando nei nostri cuori la carità, allora quella legge, per quanto buona, con la sua proibizione accresce il desiderio del male179.

Agostino osserva che se l’apostolo Paolo pone la centralità sul comandamento “non desiderare”, è perché per lui in tale precetto l’uomo gioca il suo destino. Tale divieto, infatti, non solo abbraccia tutti i possibili peccati che il genere umano possa compiere (quo cuncta complexus est) a causa della concupiscentia carnis, ma allo stesso tempo testimonia che solo lo Spirito Santo è in grado di suscitare nel cuore dell’uomo una concupiscenza buona al posto di quella cattiva (adiuvat Spiritus inspirans pro concupiscentia mala concupiscentiam bonam), riversandovi quella carità (hoc est caritatem diffundens in cordibus nostris) che gli apre le porte della redenzione. Tutto ciò ci permette di constatare come nel pensiero agostiniano la grazia divina non solo risana quella concupiscenza buona che l’uomo possiede allo stato originario e che il peccato ha disordinato rendendola persino mater peccatorum, ma, soprattutto, manifesta il suo ruolo singolare nel congiungimento dell’uomo a Dio. 3.2. Vulnerata caritate 3.2.1. Nel risanamento della concupiscenza il raggiungimento della pienezza Agostino descrive anche lo stato di carnis infirmitas dell’uomo postlapsario in termini di vulnus: Resta da sopportare l’infermità della carne, che nessuno di noi, finché vive in questo mondo, può allontanare da sé. Che farai? Quando è ferita la carne, potrà il cuore non sentirne dolore? È, questa, una ferita connaturale all’infermità umana, finché non riceva la veste dell’'immortalità. Ed ecco qui una grande lotta180.

179 180

S. Augustinus, De spiritu et littera, 4, 6 (NBA 17/1, 261; CSEL 60, 158).

S. Augustinus, Sermones novi, Dolbeau 13, 4 (NBA 35/1, 251; NBA 35/1, 250).


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La parola vulnus, pur richiamando direttamente la dimensione carnale dell’uomo (Iam in carne est), non esclude certamente la sua incidenza nei confronti dell’anima: quando la carne è tormentata, anche l’anima è colpita da vicino (Quando caro cruciatur, anima de proximo pulsatur)181. Riscontriamo la stessa terminologia anche nelle Enarrationes in Psalmos, in cui egli cita una frase del Cantico dei Cantici: «Che sono malata d’amore!»182. In linea con la tradizione patristica, anche Agostino intravede in queste parole l’esclamazione che la Chiesa, Sposa di Cristo (in persona Ecclesiae sponsa Christi), rivolge al suo Sposo183. Così, commentando tale frase, egli scrive: Dice di essere ferita dall’amore: perché amava qualcosa e non ancora lo possedeva; e perciò soffriva, perché non ancora aveva. Dunque se si doleva, era ferita: ma da questa ferita era innalzata alla verace salute. Chi non è stato ferito da tale ferita, non può pervenire alla vera salute. Dunque costui sarà sempre ferito da tale ferita?184

Qui la ferita è causata dall’amore, da qualcosa che si ama (amabat enim quiddam), ma che ancora non si possiede (nondum tenebat). Si soffre per ciò che ancora non si ha (dolebat, quia nondum habebat), ma allo stesso tempo tale vulnus è la condizione per pervenire alla vera salute (ad veram sanitatem non potest pervenire). Ma alla domanda su come l’amore apra questa ferita nel cuore dell’uomo, Agostino risponde: Possiamo perciò anche intendere che le saette infisse sono le tue parole che si sono infisse nel mio cuore, parole che hanno fatto sì che io mi ricordi del sabato; ma questa commemorazione del sabato, che non è ancora possesso, fa sì che io non possa ancora gioire, e debba riconoscere che né nella carne c’è la sanità, né lo posso dire, se paragono questa sanità a quella salute che avrò nella

181 182 183 184

S. Augustinus, Sermones novi, Dolbeau 13, 4 (RB 102, 290-291). Cantico dei Cantici 5, 8.

S. Augustinus, Enarrationes in Psalmos, 37, 5 (CCSL 38, 386).

S. Augustinus, Enarrationes, cit., 37, 5 (NBA 25, 849 ; CCSL 38, 386).


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pace eterna, quando questo corpo corruttibile rivestirà l'incorruttibilità, e mi avvedo che, a paragone di quella salute, questa sanità è malattia185.

La ferita è aperta da quelle saette infisse (infixas sagittas) da Dio, che sono esattamente le Sue parole: esse ricordano all’uomo del sabato (recordatio sabbati), cioè del fatto che egli ancora non possieda quella pace eterna, nella quale il suo corpo corruttibile potrà essere rivestito d’incorruttibilità, perciò la sanità di cui gode adesso paragonata al destino futuro è soltanto una malattia (ista sanitas morbus est). Constatiamo, così, come l’uomo, oltre alla piaga ricevuta in eredità nella propria natura dal peccato di Adamo e di Eva, vale a dire la concupiscentia carnis, si trova ad avere un’altra ferita, la vulnus caritatis di cui stiamo trattando. Chiaramente, mentre la prima riguarda lo stato di disordine immanente dell’uomo, in cui i desideri dello spirito si trovano in conflitto con quelli della carne, la seconda, invece, indica il richiamo esplicito di una ferita provocata dall’assenza di quell’unico Amore che trascende l’uomo e lo conduce alla pienezza. Entrambe, però, si riferiscono al medesimo desiderio dell’uomo, disorientato da una parte e in continua ricerca di un compimento dall’altra. Il risanamento della concupiscenza, in tal senso, non è affatto una mera opera di restaurazione di un’integrità originaria perduta con il peccato, ma riguarda principalmente il raggiungimento di quell’Amato, che il cuore umano ferito per l’assenza (vulnus caritatis) desidera e geme186. 3.2.2. Lo Sposo risana la carne ferita della Sposa infiammandola d’amore Le parole di Dio simboleggiate dalle frecce che trafiggono il cuore, non fanno altro che suscitare amore (verba cor transfigentia, amorem excitantia)187 per ricordare all’uomo il suo destino e allo stesso tempo orientarlo verso la giusta direzione, fino a quando, raggiunta la meta (cum pervenerimus), il dolore scompare totalmente e l’amore resta sempre immutato 185 186 187

S. Augustinus, Enarrationes, cit., 37, 5 (NBA 25, 849; CCSL 38, 386). S. Augustinus, Enarrationes, cit., 37, 13 (CCSL 38, 391). S. Augustinus, Enarrationes, cit., 44, 16 (CCSL 38, 504).


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(tunc transit dolor, non deficit amor)188. Come afferma G. Lettieri189, ciò che potrebbe sembrare soltanto una metafora, in realtà per Agostino nasconde una verità profonda, che è anche esperienza di vita personale. Infatti, adoperando lo stesso lessico per raccontare ciò che Dio opera in lui subito dopo la sua conversione, nel Liber IX delle Confessiones egli scrive: Ci avevi bersagliato il cuore con le frecce del tuo amore, portavamo le tue parole conficcate nelle viscere, e gli esempi dei tuoi servi, che da oscuri avevi reso splendidi, da morti vivi, ammassati nel seno della nostra meditazione erano fuoco che divorava il profondo torpore, per impedirci di piegare verso il basso. Tanto ne eravamo infiammati, che tutti i soffi contrari delle lingue perfide avrebbero rinfocolato, non estinto l’incendio190.

Le frecce, simbolo delle parole, rinviano all’immagine di un Dio sagittario (sagittaveras), che manifesta la capacità di ardere (urebant), di accendere (accendebant) e di infiammare (inflammare) in modo inestinguibile (non exstinguere) il cuore dell’uomo della Sua carità. Come evidenzia lo stesso Lettieri191, siamo alla presenza di un Dio che con la sua grazia mostra una potente forza di attrazione sul cuore umano, perché è proprio l’intimo dell’humanum, luogo in cui sono custoditi i desideri più profondi dell’uomo, il bersaglio primario cui è diretta la sua azione di grazia. Tale opera divina, però, è caratterizzata soprattutto da una grande novità, che Agostino presenta sempre nelle Confessiones con il linguaggio del Cantico dei Cantici. Infatti, servendosi della scena dello sposo che, da dietro il muro, guarda dalla finestra e spia dalle inferriate l’amata del suo cuore192, egli scrive: 188

S. Augustinus, Sermones, 298, 2, 2 (PL 38, 1366).

G. Lettieri, “Il corpo di Dio. La mistica erotica del Cantico dei Cantici dal Vangelo di Giovanni ad Agostino”, in Guglielmetti, R. E. (a cura di), Il Cantico dei Cantici nel Medioevo. Atti del Convegno Internazionale dell’Università degli Studi di Milano e della Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino, Gargnano sul Garda, 22-24 maggio 2006, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, Firenze 2008, 3-91, 4. 189

190 191 192

S. Augustinus, Confessiones, IX, 2, 3 (NBA 1, 257; CSEL 33, 198). Lettieri, “Il corpo di Dio”, cit., 18. Cantico dei Cantici 2, 9.


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egli ci guardò attraverso la rete della carne, c’infiammò d’amore con le sue carezze, e noi corriamo dietro il suo profumo. Ma quando apparirà, saremo simili a lui, perché lo vedremo com’è. Vederlo qual è, Signore, è il nostro retaggio, che non è ancora in nostro possesso193.

La retia del Cantico dei Cantici, attraverso cui lo sposo guarda l’amata, è identificata da Agostino, che si ispira ad Origene194, alla carne assunta dal Verbo: se con le sue carezze (blanditus) Dio infiamma d’amore (inflammavit) l’uomo, lo fa soprattutto attraverso la carne del Verbo incarnato. La carne ferita della Sposa, così, è infiammata d’amore e finalmente risanata da Dio nella carne dello Sposo195. Pertanto, Agostino osserva che le parole del Salmo 29 «Signore, mio Dio, a te ho gridato e mi hai guarito», poste sulle labbra di Cristo durante la sua preghiera sul monte prima della passione, attestano come la guarigione richiesta a Dio e a Lui accordata sia indirizzata non a Lui in quanto Verbo di Dio e quindi divinità, ma alla carne mortale (mortem carnis portabat) da Lui assunta. Così, assumendo la carne, Cristo si fa carico anche della sua ferita (vulnus tuum portabat), risanata finalmente (sanata est autem caro) con la Sua risurrezione (cum resurrexit)196. Conclusione L’ampia trattazione sul tema della concupiscentia mostra come Agostino vada oltre la semplice questione di ciò che il peccato di Adamo e di Eva lascia alla natura umana e, di conseguenza, oltre la questione della necessità della grazia divina ai fini della redenzione dell’uomo. In tale dibattito travagliato e complesso, certamente, la polemica con i pelagiani ha un ruolo fondamentale nello sviluppo del suo pensiero. Infatti, l’idea pelagiana della concupiscenza come bonum naturale rappresenta per lui la 193

S. Augustinus, Confessiones, XIII, 15, 18 (NBA 1, 469; CSEL 33, 359).

Origene, Commento al Cantico dei Cantici, trad. it. M. Simonetti, Città Nuova, Roma 1976, 249. 194

195 196

Lettieri, “Il corpo di Dio”, cit., 16-18.

S. Augustinus, Enarrationes, cit., 29, II, 12 (CCSL 38, 182).


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palese negazione dei fondamenti della dottrina cattolica, quali la trasmissione del peccato genesiaco a tutto il genere umano e la consequenziale necessità della grazia per la remissione di tale peccato. Questa visione, pertanto, lo spinge a prendere una chiara ed esplicita posizione, opponendosi ripetutamente all’idea della bontà della concupiscenza e della sua appartenenza alla natura dell’uomo: è evidente per lui che ciò che crea disordini immorali alla condizione umana attuale non possa esistere in un luogo di profonda quiete e grande pace quale il giardino dell’Eden. Allo stesso tempo, però, egli cerca di difendersi dalle possibili accuse di manicheismo, giacché l’asserzione dell’assoluta malvagità della concupiscenza potrebbe far intendere quest’ultima come malum naturale. L’affermazione di vitium substantiae bonae, pertanto, rappresenta una sintesi importante, su cui si fonda il suo pensiero, e tramite cui, contro i pelagiani, ribadisce la natura viziosa della concupiscenza a causa del peccato, contro i manichei, invece, evidenzia come essa non possa essere considerata un male sostanziale, giacché tutto ciò che esiste è esclusivamente buono in quanto frutto delle mani creatrici di Dio. Quest’ultima presa di posizione contro l’errore dualista del manicheismo conduce Agostino ad affermare l’idea della non assoluta estraneità della concupiscenza alla natura umana e, quindi, della perversione di una sostanza buona già esistente in natura. Con le parole di Thonnard, si potrebbe definire la concupiscentia agostiniana come quella tendenza innata, che spinge l’uomo verso un piacere indipendente da Dio197. Il dramma dell’uomo, quindi, non è tanto lo slancio di brama verso il piacere (delectatio), di cui egli è costituito strutturalmente, ma la rottura con il divino, fondamento e compimento di questa sua tensione strutturale198. Tali considerazioni rappresentano per il Santo d’Ippona quella base per accogliere la possibilità che in paradiso possa esistere la concupiscenza a una sola ed esclusiva condizione: che sia non qualis nunc est, vale a dire diversa da quella attuale, che provoca all’uomo soltanto disordine e vergogna. In tale dichiarazione c’è più di un semplice gioco 197 F.-J. Thonnard, “La notion de concupiscence en philosophie augustinienne”, in Recherches Augustiniennes 3 (1965), 59-105, 95. 198 F.-J. Thonnard, “La vie affective de l’âme selon saint Augustin”, in L’Année Théologique 13 (1953), 33-55, 52.


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letterario o di uno stile retorico per raggirare la tesi del suo avversario e convertirlo alla sua dottrina. Infatti, Agostino non solo afferma di essere ben disposto a mettere da parte l’insegnamento di un grande maestro, come Ambrogio, purché la concupiscenza, che si colloca in paradiso e che chiama concupiscentia ante peccatum, non faccia concupire la carne contro lo spirito, ma anche (nella sola Epistula 6* indirizzata al vescovo di Constantinopoli Attico) con maggiore chiarezza e determinazione parla di una concupiscentia nuptiarum presente nell’uomo allo stato postlapsario, che compie un’opera di gestione nei confonti della concupiscentia carnis dalla quale è ben distinta. Tali asserzioni conducono la nostra riflessione a quattro considerazioni fondamentali: la prima, la conferma che la concupiscenza faccia parte piena dello stato originario dell’uomo (la protologia); la seconda, il peccato ferisce tale concupiscenza originaria ma non può eliminarla (il limite del peccato); la terza, tale dimensione concupiscente è parte fondamentale della natura umana (il desiderio); la quarta, la concupiscentia è caratterizzata principalmente dalla sua natura originaria nuziale e soprattutto esprime all’interno della sessualità coniugale il suo destino (la nuzialità). Così, l’affermazione dell’esistenza della concupiscenza disordinata nella condizione attuale e ordinata allo stato originario, consente ad Agostino di fare un ulteriore passo in avanti: la possibilità dell’esistenza, alla fine dei tempi, di una concupiscenza completamente guarita (omni ex parte sanandam) e non separata dalla natura umana (non separandam) per non ricadere nell’errore manicheo del male sostanziale. Si evince, pertanto, come la concupiscenza giochi un ruolo fondamentale nel destino dell’uomo: ciò che con la caduta nel peccato è diventato filia peccati e mater peccatorum, con la redenzione necessita di essere risanato, non cancellato, né eliminato dalla natura umana, per cui «non venga soppresso il desiderio, ma si cambi»199. Solo così non esisterà più nessuna lotta tra lo spirito e la carne e nessun uomo sarà più carnale (nullus erit carnalis), ma la sua stessa carne sarà resa spirituale200, meritando così anche il nome di sostanza spirituale (quando et ipsa spiritalis vocabitur)201. Il risanamento 199 200 201

S. Augustinus, Sermones, Denis 14, 2 (NBA 33, 669; MA 1, 66). S. Augustinus, De continentia, cit., 11, 25 (CSEL 41, 174). S. Augustinus, De continentia, 8, 19 (CSEL 41, 163).


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di cui parla Agostino non è un’opera per se stessa, racchiusa nella sua immanenza e finalizzata esclusivamente al recupero di un’integrità originaria perduta con il peccato. Essa diventa, invece, il luogo primario in cui l’humanum si ricongiunge finalmente al divinum: in altre parole, risanando con la sua grazia la ferita della carne inflitta dal peccato, Dio elargisce al cuore dell’uomo il dono di raggiungere l’Amato desiderato ardentemente. Non a caso, infatti, Agostino, rivolgendosi a Giuliano, afferma che se si deve parlare di concupiscentia naturalis l’unica naturale è la cosiddetta concupiscentia beatitudinis, a significare sia il compimento della concupiscenza in Dio (dimensione teologica) sia il suo ruolo determinante nell’adempimento del destino originario dell’uomo (dimensione escatologica).


Synaxis XXXIII/2-3 (2015), pp. 91-100

BIOETICA E PASTORALE. LE PROVOCAZIONI DEL FUTURO

MARIO CASCONE1

La bioetica non è solo uno dei settori più vivaci dell’attuale dibattito morale, ma anche una disciplina che in questi decenni ha contribuito a mettere in discussione l’impostazione fondamentale dell’etica stessa. Diversi autori vedono nella bioetica una sorta di spartiacque fra la vecchia e la nuova morale, ossia fra l’etica dei divieti e dei valori assoluti e quella sostanzialmente relativistica, centrata sulla comprensione delle situazioni individuali. Secondo M. Mori la bioetica è il nome da dare al decisivo passaggio dalla tradizionale etica della sacralità della vita alla nuova etica della qualità della vita 2. Per H.T. Engelhardt la bioetica deve elaborare la sua riflessione in un contesto caratterizzato dal pluralismo e «privo di un’ortodossia imposta» dall’alto3, essendo ormai tramontata «l’idea di una possibile uniformità delle concezioni morali»4. 1

Presbitero della diocesi di Ragusa

Cfr. M. Mori, Bioetica. Nuova scienza o riflessione morale?, in Mondo operaio 11 (1990), 120-128; Id., La bioetica: che cos’è, quand’è nata e perché. Osservazioni per un chiarimento della “natura” della bioetica e del dibattito italiano in materia, in Bioetica 1 (1993), 115-143. 2

3 4

H.T. Engelhardt, Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1991, 16. Ibidem, 9.


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Ci troviamo, dunque, in un contesto di pluralismo etico, che, facendo riferimento a differenti concezioni morali, trova di fatto risposte diverse ai singoli problemi. In generale si può affermare che alla classica impostazione ontologico-personalista si oppongono oggi i modelli dell’utilitarismo, dello scientismo neo-positivista, del contrattualismo, che sono tutti accomunati da un sostanziale relativismo, in quanto poggiano sull’idea di una libertà intesa in termini individualistici, che si riduce alla mera capacità di scelta spontaneistica, sulla base di un’autodeterminazione priva di fondamenti ontologici e assiologici. Natura e persona Alla luce di queste considerazioni è chiaro che i singoli temi di etica e di bioetica rimandano alla questione fondativa, ossia alla meta-etica e alla meta-bioetica. È questo il nodo cruciale attorno al quale oggi si svolge il dibattito morale. Il dialogo per cercare soluzioni comuni ai vari casi morali non può prescindere dal riferimento al modello etico a cui ci si ispira. A questo riguardo il primo concetto fondamentale che necessita di un chiarimento è quello di “natura”, e quindi anche di “legge naturale” e “diritto naturale”. Il dibattito su questo tema va avanti da diversi anni e ha conosciuto qualche importante sviluppo. In generale possiamo dire che si va sempre più nella direzione di una concezione meno “fissista” e meno “biologista” del concetto di “natura”, per fare posto a un’idea meno astratta, più legata alla dimensione storica e all’esistenza concreta, ma probabilmente anche meno rigorosa sul piano teoretico. In ogni caso i concetti classici di natura e legge naturale, espressi col tradizionale linguaggio metafisico, appaiono obsoleti e poco comprensibili per l’uomo contemporaneo. Più che sul concetto di “natura”, su cui risulta più problematico trovare una possibilità di dialogo e di consenso, molti autori preferiscono concentrarsi sul termine “persona”, che appare più concreto e direttamente coinvolto nella problematica etica e bioetica. Ma anche su questo concetto si fa fatica oggi a trovare adeguati punti di convergenza, perché


Bioetica e pastorale. Le provocazioni del futuro

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se da un lato tutti sono d’accordo nel voler tutelare la dignità della persona, dall’altro lato non c’è unanime accordo sul significato da attribuire al termine “persona”. Definizione e valore della persona La problematica sulla definizione e sul valore della persona è oggi molto dibattuta e conosce molte risposte. Ne vediamo sinteticamente qualcuna. Il neo-darwinista James Rachels parte dall’idea che bisogna abbattere il mito di un uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio. Nella sua opera Creati dagli animali egli scrive che nel futuro «la vita umana non sarà più oggetto di quel genere di superstiziosa riverenza di cui gode nel pensiero tradizionale e le vite non-umane non saranno più guardate con indifferenza. Ciò significa che la vita umana verrà in un certo senso svalutata, mentre il valore attribuito alla vita non-umana aumenterà»5. Secondo Rachels ciò che conta non è la vita biologica, ma quella biografica, ossia non è “essere vivo”, ma “avere una vita”. Su questa base egli propone di superare il concetto di “specie”, perché ciò che conta non è l’appartenenza a una specie, ma «la ricchezza e la complessità della vita individuale»6. L’attenzione perciò va posta su tutti quelli che hanno una vita biografica, ivi compresi gli animali, senza farsi condizionare dal concetto di “specie umana”. Anche per il filosofo australiano Peter Singer la differenza di specie non è moralmente rilevante, ma anzi è da considerare come una forma di razzismo, perché può dare adito ad inaccettabili differenze di trattamento nei confronti degli animali, molti dei quali possiedono un valore più grande di alcuni esseri umani. Singer è convinto che non ci sia nulla di speciale nel fatto che una vita sia umana7, perché la vera distinzione non 5 J. Rachels, Creati dagli animali. Implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità, Milano 1996, 8. 6

Ibidem, 222.

P. Singer, Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, Il Saggiatore, Milano 1996, 114-115. Cfr. anche M Cascone, Diakonìa della vita. Manuale di bioetica, Ed. Università della S. Croce, Roma 2004, 75-78. 7


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è quella fra uomini e animali, ma tra esseri che possiedono uno statuto ontico forte e altri che invece ne hanno uno debole. Nella prima categoria egli inserisce le persone umane dotate di autocoscienza e razionalità, ma anche alcuni animali non umani “superiori”, quali lo scimpanzé, il delfino, la balena e il maiale. Lo statuto ontico debole invece è attribuito agli esseri viventi capaci di sentire il piacere o il dolore, ma non in grado di autocoscienza e razionalità, quali ad esempio i neonati, i cerebrolesi e gli animali non umani “inferiori”8. Su questa base Singer ritiene «più grave uccidere uno scimpanzé, piuttosto che un essere umano gravemente menomato, che non è una persona». Di conseguenza «anche un aborto a gravidanza avanzata per le ragioni più banali è difficile da condannare in una società che massacra forme di vita di gran lunga più sviluppate per il sapore della loro carne»9. Facendo leva sulla distinzione fra vita umana biologica e vita umana personale, H. T. Engelhardt sostiene che non tutti gli esseri umani sono persone e non tutte le persone devono essere necessariamente esseri umani10. Si possono considerare esseri personali soltanto quelli che possiedono razionalità, autocoscienza e capacità decisionale. Di conseguenza non solo i feti non sono persone, ma neanche i bambini fino a una certa età, i malati di Alzheimer, i dementi senili. Per Engelhardt il valore di una persona consiste essenzialmente nella sua capacità di scelta autonoma, ossia di autodeterminazione. Di conseguenza egli guarda con entusiasmo alla prospettiva che in futuro «saremo in grado di plasmare e creare la nostra natura umana a immagine e somiglianza dei fini scelti dalle persone»11. Il che significa che ci potranno essere diverse specie di uomini e tante nature umane12. In generale queste teorie, che sono di stampo relativistico, fanno riferimento a una definizione “nominale” di persona, perché pongono le 8 9

P. Singer, Etica pratica, Liguori, Napoli 1989. Ibidem, 122.

H.T. Engelhardt, Manuale di bioetica, op. cit., 126-128. Cfr. M Cascone, op. cit., 70-75. 10

11

H.T. Engelhardt, op. cit., 429.

Ibidem, 434. Cfr. anche G. Savagnone, Antropologia e bioetica, in G. Russo (a cura di ), Enciclopedia di bioetica e sessuologia, Elledici, Leumann (TO) 2004, 212-220. 12


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proprietà del soggetto non sul piano dell’essere, ma su quello dell’avere. Acutamente E. Agazzi mette in luce che l’assenza temporanea di una proprietà non priva la persona della sua natura e del suo valore. Per esempio un uomo che perde la vista non diventa per questo motivo una statua, ma rimane in tutto e per tutto un soggetto personale, che si chiama “cieco” proprio perché di per sé dovrebbe avere la vista. Questo vale anche per la coscienza, che è certamente una proprietà della persona, la cui perdita occasionale però non modifica la natura del soggetto. Agazzi dice: «La coscienza non è qualcosa di astratto che possa essere attribuito a qualsivoglia entità, rendendola persona: la coscienza è primariamente coscienza umana e può essere estesa ontologicamente ad altri esseri, ma le sue connotazioni ontologiche le sono attribuite da questi esseri e non viceversa»13. Oltre il relativismo La deriva individualista e relativista delle teorie di Rachels, Engelhardt, Singer e di altri autori contemporanei, è stata criticata da coloro i quali si rifanno al personalismo di ispirazione cristiana, ma anche da autorevoli filosofi “laici”, a cominciare da J. Habermas, il quale vede in queste teorie «lo scenario spettrale di una società dove sarebbe compromessa l’unità della natura umana, in base alla quale gli uomini finora hanno potuto intendersi e mutuamente riconoscersi quali membri di una stessa comunità morale»14. La negazione di una natura comune a tutti gli uomini e di valori condivisi rende di fatto impossibile il dialogo fra le persone e il loro confronto sui temi morali, come hanno messo in luce gli autori della cosiddetta “etica del discorso”, fra cui lo stesso Habermas e Karl Otto Apel15. Partendo da una prospettiva cognitivista, l’etica del discorso ritiene possibile conoscere 13

E. Agazzi, L’essere umano come persona, in Per la filosofia 9 (1992), 35.

J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2001, 44. 14

Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Bari 2009; K. O. Apel, Etica della comunicazione, Jaca Book, Milano 1992; C. Vonzun, L'etica del discorso. La Gestalt di H.U. von Balthasar in dialogo con l'etica del discorso, Città Nuova, Roma 2012. 15


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le norme morali e proporle, su un fondamento razionale comune a tutti gli uomini, come valide per tutti. Le persone umane, infatti, sono in grado di conoscere le verità morali in forza della loro ragione, grazie alla quale possono pervenire ad un comune patrimonio di norme condivise. Questa teoria aiuta a superare la visione di un’etica intesa in senso individualistico per fare posto ad un’etica pubblica, che sia capace di coinvolgere tutti i dialoganti in un clima di responsabilità e corresponsabilità. Su questa scia si pone Hans Jonas, il quale, mostrandosi preoccupato delle conseguenze deleterie di alcune nuove tecnologie applicate alla vita umana, considera la bioetica nell’ottica del “principio responsabilità”. L’imperativo categorico di questo principio è di agire in modo tale che gli effetti dell’azione di ognuno siano compatibili con la continuazione sulla terra di una vita autenticamente umana16. Jonas cerca di andare alle radici della responsabilità morale, che in primo luogo riguarda la sopravvivenza stessa dell’uomo, minacciata oggi da una tecnologia spregiudicata, che non è sempre capace di arrestarsi di fronte ai pericoli che può generare. In secondo luogo Jonas pensa al “principio responsabilità” come la strada da percorrere per prospettare un’etica condivisa da tutti gli uomini e capace di tutelare la dignità della persona, in un clima di corresponsabilità. Libertà, verità e responsabilità Lo sforzo di pensatori come Habermas e Jonas è quello di superare i limiti e i pericoli di una formulazione nominalistica del concetto di persona, così come si manifesta nel pensiero di Engelhardt, Rachels e Singer, che di fatto scivola nel relativismo etico e rende impossibile il confronto sui temi morali. La difficoltà a dialogare in modo particolare sulle nuove frontiere della bioetica minaccia il futuro stesso dell’umanità, e più precisamente la possibilità stessa di una vita che possa ancora definirsi umana. Ora, al fondo di questo pericolo c’è una difficoltà teoretica oggi molto diffusa: quella che sgancia la libertà dalla responsabilità e dalla verità. 16 H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 2009.


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Se la libertà viene privata del suo fondamento metafisico, finisce con l’autodistruggersi o col diventare strumento di lotta in una guerra infinita fra interessi individuali contrastanti, in cui rischia di prevalere la “legge del più forte”. Questo accade perché la libertà soggettiva viene dissociata dalla responsabilità, riducendosi così ad una mera capacità di scelta spontaneistica, che non risponde alla verità dell’essere umano, quella verità che ciascuno scopre nell’intimo della sua coscienza e che gli detta le norme morali oggettive, seguendo le quali la persona conosce e realizza la sua vera identità e contribuisce al perseguimento del bene comune17. La libertà non è fine a se stessa, né può essere considerata come la fonte dei valori; essa è piuttosto la facoltà mediante la quale il soggetto assume quelle decisioni che rispondono alla verità del suo essere. Da qui deriva la responsabilità: dalla possibilità di rispondere liberamente a quei valori morali, che ogni persona conosce in forza della sua ragione e scopre all’interno della sua coscienza come senso profondo del suo essere e come vero imperativo etico18. Sulla base della verità che fa liberi (cfr. Gv 8,32) si può fondare l’etica della responsabilità, che per sua natura non è mai individualistica, ma sempre interpersonale e relazionale. Ogni uomo, infatti, è responsabile non solo di perseguire il suo bene personale, ma anche il bene degli altri e dell’intera società. In modo schematico si può dire che l’etica è responsabilità e la responsabilità è sempre una corresponsabilità in funzione del bene comune. Bioetica come “ponte verso il futuro” L’etica intesa nella dimensione della corresponsabilità trova oggi una sua urgente e particolare applicazione nelle problematiche della bioetica. La manipolazione genetica, le biotecnologie, l’uso delle intelligenze ar17

Cfr. M Cascone, op. cit., 48-51.

Cfr. A. Bausola, Libertà e responsabilità, Vita e Pensiero, Milano 1980; A. Alici - F. Botturi - R. Mancini, Per una libertà responsabile, Messaggero, Padova 2000; A. Alici - M. Chiodi - R. Mancini - F. Riva, Interpersonalità e libertà, Messaggero, Padova 2001. 18


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tificiali, la creazione di macchine sub-umane possono recare dei grandi vantaggi all’umanità solo a condizione che continuino ad essere guidati dall’uomo, sulla base di rigorosi parametri morali, che si fondino sul principio della responsabilità. Il termine “bioetica” è stato coniato nel 1970 da V. R. Potter proprio con quest’idea: essere un “ponte verso il futuro”, un progetto di speranza per la sopravvivenza dell’uomo sulla terra. Scrive a tal proposito Potter: «Il genere umano necessita urgentemente di una sapienza come guida per l’azione, un sapere come usare la conoscenza per il bene e il futuro della condizione umana: di una scienza della sopravvivenza, la bioetica, col requisito fondamentale di promuovere la qualità della vita»19. La bioetica viene intesa da Potter come una nuova saggezza, fondata sull’umiltà e sulla responsabilità; una saggezza capace di dare «la conoscenza di come usare la conoscenza», in modo da garantire un futuro per l’umanità20. È in quest’ottica che D. Callahan propone la formulazione di una bioetica culturale che si contrapponga alla bioetica individualista21. Le problematiche della bioetica non possono essere affrontate in chiave individualistica, perché investono i modi di pensare e di vivere della gente, ossia i modelli culturali, attorno ai quali ruotano i processi educativi. Per tale motivo devono sempre più inserirsi nelle dinamiche culturali e formative della nostra società. Promuovendo una “bioetica culturale” si sfugge al pericolo di contrapporre l’etica pubblica a quella personale, mettendo in luce che l’etica personale non è mai “privata”, proprio perché riguarda la persona, che è sempre da concepire come un essere relazionale e sociale. Quale mondo lasceremo alle generazioni future? Quelli che verranno dopo di noi avranno la possibilità di vivere un’esistenza che possa ancora definirsi umana? Quali sono i confini da osservare nel campo delle manipolazioni sul genoma umano e dell’ingegneria genetica? Quale rispetto si esige per la difesa dell’ambiente e degli ecosistemi? Queste e altre V.R. Potter, Bioethics: Bridge to the Future, Prentice–Hall, Englewood Cliffs 1971, 1. 19

Cfr. G. Russo, Speranza e bioetica, in G. Russo (a cura di ), Enciclopedia di bioetica e sessuologia, op. cit., 1618-1623. 20

21

Cfr. D. Callahan, La medicina impossibile, Baldini & Castoldi, Milano 2001.


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domande simili sono all’ordine del giorno del dibattito etico e interpellano quotidianamente tutti noi, innescando un confronto appassionato e vivace, che dovrebbe sempre mirare alla ricerca di una convergenza, al fine di favorire il bene comune. Pastorale come educazione La bioetica come “ponte verso il futuro”, nel quadro di una morale della corresponsabilità, chiede alla nostra azione pastorale di agire soprattutto sul versante della formazione delle coscienze. In un contesto di “emergenza educativa”, quale è quello nel quale viviamo, risulta ancora più urgente formare le persone a un discernimento critico, che le aiuti a non affrontare i problemi etici e bioetici con un approccio emotivistico e pietistico, incapace di cogliere la reale consistenza dei problemi stessi. Una pastorale intesa come educazione morale mira a favorire in tutti l’assunzione delle proprie responsabilità, mettendo in luce che la vita della singola persona non è solo un bene privato, affidato all’autodeterminazione di ognuno, ma anche un bene condiviso, da comprendere in un’ottica di solidarietà e di corresponsabilità. L’azione pastorale è chiamata a percorrere quest’itinerario formativo, ispirandosi a quello che i Vescovi italiani dicono negli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020: «Impegnandosi nell’educazione, la Chiesa si pone in fecondo rapporto con la cultura e le scienze, suscitando responsabilità e passione e valorizzando tutto ciò che incontra di buono e di vero. La fede, infatti, è radice di pienezza umana, amica della libertà, dell’intelligenza e dell’amore. Caratterizzata dalla fiducia nella ragione, l’educazione cristiana contribuisce alla crescita del corpo sociale e si offre come patrimonio per tutti, finalizzato al perseguimento del bene comune»22. Schematizzando possiamo dire che fare pastorale significa educare; e l’educare è sempre un fatto morale, che fa leva sulla fiducia nell’uomo e nella sua capacità di fare il bene. Promuovere un’azione pastorale sapiente e feconda significa favorire la crescita degli uomini nella conoscenza 22

CEI, Educare alla vita buona del vangelo, n. 15.


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della verità che libera e nell’esercizio di una libertà che si coniuga con la responsabilità, al fine di conseguire quel bene comune, che è il bene di tutti e di ciascuno, in un contesto nel quale «tutti siamo responsabili di tutti»23.

23

Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n. 38.


Synaxis XXXIII/2-3 (2015), pp. 101-134

LA NOZIONE DI IUSTICIA FRA ORDINE POLITICO E COSMOLOGICO NELLE GLOSAE SUPER PLATONEM DI BERNARDO DI CHARTRES E GUGLIEMO DI CONCHES1

CLAUDIO TERNULLO2

1. Le Glosae e il tema della iusticia 1.1 Osservazioni metodologiche Nel prendere in esame due commenti latini al Timeo platonico del XII sec., da parte di due autori appartenenti alla scuola di Chartres, mi sembra necessario e utile menzionare alcuni dati di natura storica e affrontare, introduttivamente, alcune questioni metodologiche. Se nell’ambito della storiografia meno recente c’era un ampio consenso sull’esistenza di una scuola filosofica chartrense dotata di uno sviluppo e di tratti dottrinali omogenei, in quella più recente si è fatta avanti, con sempre maggiore convinzione, l’ipotesi che la “scuola di Chartres” abbia rappresentato tutt’altro che un blocco omogeneo di pensatori e di dottrine 1 Una versione preliminare di questo lavoro è stata presentata e discussa presso il Dip.to di Filosofia dell’Università di Pisa all’interno del programma di Dottorato di Ricerca in “Discipline filosofiche” nell’anno accademico 2003-2004. Desidero ringraziare il prof. Stefano Perfetti per l’aiuto nella stesura di questo lavoro, il prof. Rosario Lo Bello e il prof. Rosario Pistone per ulteriori preziosi consigli e suggerimenti. 2 Kurt Gödel Research Center for Mathematical Logic, Vienna (claudio.ternullo@ univie.ac.at).


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in relazione reciproca. L’immagine che ne proposero, ad esempio, Gilson o Le Goff, di un centro intellettuale fra i più importanti del XII sec., motore di una vigorosa affermazione della teologia scolastica e della ripresa degli studia humanitatis in un’Europa ancora parzialmente avvolta dalle tenebre dell’Alto Medio Evo, è stata, parimenti, quasi completamente accantonata3. Di Bernardo di Chartres abbiamo notizie scarsissime, e nessuna opera gli si può attribuire con assoluta certezza. Su di lui la nostra fonte principale di informazione è Giovanni di Salisbury, che gli attribuisce quella famosa frase sui “nani che stanno sulle spalle di giganti” che tanta fortuna avrà nella storia del pensiero. Il commentarius al Timeo che qui analizziamo, se realmente suo, rafforzerebbe la convinzione che Bernardo, se non il più “compiuto” dei platonici come voleva Giovanni di Salisbury4, avesse, almeno, un forte interesse verso Platone. Informazioni più solide abbiamo circa Guglielmo di Conches, che sarebbe stato maestro di Giovanni di Salisbury e allievo di Bernardo. L’attribuzione a Guglielmo delle Glosae super Platonem, di cui qui trattiamo, non sembra sia da dover sottoporre a revisione, e conferma ulteriormente l’interesse chartrense verso Platone e verso il Timeo, su cui Guglielmo produce un commento molto più ampio di quello di Bernardo5.

Per questo ed altri problemi di natura storica e filologica concernenti la “scuola di Chartres”, i suoi caratteri, le sue dottrine e figure fondamentali, si vedano, in particolare, fra i lavori più recenti: É. Jeauneau, Rethinking the School of Chartres, Toronto, University of Toronto Press, 2009 (in cui le posizioni di Gilson e Le Goff riportate sopra sono prese in esame); R. Southern, The Schools of Paris and the School of Chartres, in R. Benson - G. Constable - C. Latham, Renaissance and Renewal in the Twelfth Century, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1982; P. Ellard, The Sacred Cosmos: Theological, Philosophical, and Scientific Conversations in the Twelfth Century School of Chartres, Scranton, University of Scranton Press, 2007. 3

4

Cf. Iohannis Saresberiensis, Metalogicon, IV, 35.

Su Bernardo di Chartres e Guglielmo di Conches, le loro biografie e dottrine, oltre al già citato Jeauneau, Rethinking the School of Chartres, op. cit., si veda il recentissimo volume curato da I. Caiazzo e B. Obrist Guillaume de Conches: Philosophie et Science au XIIème Siècle, Sismel Edizioni del Galluzzo, Firenze, 2011 e le introduzioni ai rispettivi commentarii di Dutton e Jeauneau, per cui vedi infra, nota 3. 5


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Ora, benché l’interesse di alcuni degli chartrensi verso un’opera platonica fondamentale quale il Timeo e, in generale, per speculazioni cosmologico-naturalistiche, sia pienamente attestato, tali interessi e speculazioni non sono necessariamente definibili unitariamente come espressioni di una forma di platonismo dai caratteri determinati, il “platonismo chartrense”, né questo platonismo è collegabile a una più ampia conoscenza dei testi platonici, o ad uno stimolo ad esaminare le fonti con maggiore scrupolo. In realtà, come vedremo nelle pagine successive, l’esiguità di studi interpretativi, l’indeterminatezza semantica e concettuale del testo, la lontananza degli autori del XII sec. dalla classicità e da una sua corretta ricezione hanno tutti degli effetti rilevanti sull’ermeneutica “chartrense”, e valgono, piuttosto, come fattori di stimolo a produrre esegesi e dottrine autonome, la cui riconducibilità al pensiero platonico è da valutare caso per caso. Lo studio dei commentarii che sono oggetto di esame in questo articolo, quindi, si rivela interessante non tanto per descrivere un momento della manifestazione e dell’arco di sviluppo del platonismo medievale, quanto, piuttosto, per capire l’emergere di fenomeni e fermenti nuovi nell’ambito della filosofia del XII sec., per esempio, quello del passaggio dalla lectio monastica alla lectio scholastica, quest’ultima il prodotto dell’affermarsi del nuovo istituto delle scuole cattedrali, che sembra preludere a quello, anch’esso, peraltro, imminente, delle università. Nel rapportarsi ad una tradizione autorevole e, allo stesso tempo, oscura quale quella platonica, gli chartrensi, da un lato, sopperiscono ad una penuria di testi concernenti problemi filosofici giudicati essenziali, quali quello della natura e struttura intellegibili del cosmo, e, dall’altro, guadagnano la possibilità di esercitarsi in speculazioni logiche, linguistiche, grammaticali, esegetiche e, addirittura, “pastorali”, assolutamente nuove. Il testo offerto dalla tradizione diviene, così, materia di sperimentazioni “filologiche”, soprattutto in assenza di altri testi che offrano un quadro più preciso e, soprattutto, in assenza di studi che aiutino a comprendere un quadro dottrinale complesso quale quello platonico. Questo lavoro esamina un esempio specifico di uso e interpretazione peculiari di Platone nel XII sec., in particolare di un testo platonico complesso e contorto quale quello del Timeo, che i due filosofi di cui


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parleremo, Bernardo e Guglielmo, ritengono parli di iusticia, di “giustizia”, laddove interpreti, studiosi e lettori, che hanno oggi pieno accesso al testo greco nella sua completezza, sanno che il Timeo è il dialogo platonico in cui, più estesamente, si discute di problemi di fisica, di natura, di creazione e, se proprio di “leggi”, caso mai di leggi cosmiche. È evidente, quindi, che Bernardo e Guglielmo interpretino la nozione di “legge” in un’accezione inconsueta, molto ampia, se non altro. Ma, come vedremo, è proprio tramite la messa a fuoco di questa “legalità” cosmica che i due potranno vedere, nel dispiegamento della Creazione divina, la straordinaria manifestazione di una “giutizia” che agisce a più livelli, per gli esseri umani e le loro comunità, per gli animali, per le entità fisiche e il cosmo nella sua interezza. Non sorprende, dunque, che, in questo quadro suggestivo, si sia vista la manifestazione di un atteggiamento proto-umanista, nel quale l’interesse per il Timeo sembra svolgere un ruolo centrale. Come abbiamo detto, tuttavia, i due chartrensi sono tutt’altro che dei sottili umanisti, nel senso storicamente assodato del termine: la loro conoscenza delle fonti, della lingua e delle caratteristiche della civiltà classica è troppo esigua per consentire loro un’ampiezza e accuratezza di vedute che si affermerà solo quando l’Europa potrà fruire di originali e di una filologia sufficientemente sviluppata da poter illuminare appropriatamente il testo delle opere platoniche e, in generale, di quelle dei filosofi antichi. Quindi, l’identificazione della iusticia quale argomento del Timeo platonico è, soprattutto, come si è detto, una delle testimonianze cruciali di una nuova, autonoma visione del mondo, che si estrinseca anche, ma non esclusivamente, in un rinnovato interesse nelle fonti antiche, interpretate attraverso peculiari filtri “filologici”. Non è un caso che il culmine delle speculazioni esegetiche di Bernardo e Guglielmo sul Timeo possa essere identificato con la formulazione della teoria dell’integumentum, della “copertura”, che Platone avrebbe, secondo i due, utilizzato dentro le proprie opere, per tenere celati dettagli dottrinali e teorie troppo audaci. Indicare la iusticia naturalis come argomento dell’opera consiste, per Bernardo e Guglielmo, quindi, in un’operazione, letteralmente, di detectio, nel far riemergere, cioè, il significato smarrito di un’opera e di una dottrina il cui


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contenuto e valore possono essere pienamente guadagnati ai nuovi fermenti teorici della Cristianità del XII sec. 1.2 Il Platone di Chartres Fra i numerosi “commenti” di opere filosofiche e letterarie che costituiscono il corpus glossale chartrense, quelli al Timeo platonico, attribuiti a Guglielmo di Conches e a Bernardo di Chartres, costituirebbero, con tutte le riserve esposte sopra, una delle più interessanti testimonianze del cosiddetto “risveglio platonico” del XII sec., della ripresa, cioè, di interesse verso il filosofo greco in ambito scolastico6. In questo rinnovato interesse verso Platone il Timeo ha un ruolo preminente. E questo, naturalmente, non è un caso. L’estensione del Plato latinus si limita, infatti, per la prima metà del XII sec. a due traduzioni (di cui una, quella calcidiana, parziale) del Timeo e ad un eterogeneo corredo di testimonianze di autori classici7. Nemmeno la “preservazione” della traduzione del Timeo oltre la fine del mondo antico e fino al basso Medio Evo, era frutto del caso. Gradualmente, infatti, l’opera aveva acquisito, per via delle diverse mediazioni platoniste, ciascuna legata a scelte teoretiche ben precise e spesso concetPer uno studio completo e accurato sull’attribuzione delle Glosae a Guglielmo, il “giallo” delle due redazioni differenti e le relazioni fra l’opera glossatoria e quella teoretica del maestro di Chartres, vedi l’introduzione di Guillaume De Conches, Glosae super Platonem (d’ora in poi GGlo), a cura di É. Jeauneau, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris, 1965. La storia dell’attribuzione delle glosse sul Timeo a Bernardo di Chartres, proposta da P. E. Dutton, è minuziosamente ricostruita dallo stesso nel lungo studio introduttivo a The Glosae of Bernard Of Chartres (d’ora in poi BGlo. Si tenga presente che <1>= “Accessus ad Timaeum”, <2>= “Glosae super Proemium Chalcidii”, <3>= “Recapitulatio Socratis et narratio Critiae”), Pontifical Institute of Medieval Studies, Toronto, 1991. La questione dell’argomento dell’opera, discussa nell’accessus di queste glosse, e che tanta importanza ha in questo mio lavoro, è trattata diffusamente da T. Gregory in Platonismo medievale. Studi e ricerche, Istituto di Studi Medievali, Roma, 1958 ed un breve riferimento alla questione della iusticia si può trovare in E. Garin, Studi sul platonismo medievale, Le Monnier, Firenze 1958. Per tutti i passi citati delle Glosae di Bernardo e Guglielmo, nonché quelli successivi di Calcidio e di Proclo, la traduzione è mia. 6

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L’altra traduzione è quella di Cicerone del I a.C., per cui cfr. infra, p. 13.


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tualmente divergenti fra di loro, lo status ambiguo di summa del pensiero del filosofo, tale da assurgere a cristallizzazione enciclopedica dell’intera sua produzione. Si aggiunga, inoltre, che la necessità, tutta medievale, di testi appetibili sul piano dottrinale per coerenza interna e per unità problematica ed espositiva poteva ben essere soddisfatta e appagata dallo studio e dal commento di un’opera quale il Timeo, non a caso cimento, ormai da molti secoli, di svariate generazioni di “commentatori”. Decontestualizzato dalla dinamica diacronica del pensiero platonico, il Timeo si prestava facilmente ad essere considerato un'epitome compiuta ed esaustiva della filosofia di Platone, un exemplar quasi antonomastico, uno schema “tipizzato” del suo modo di concepire la realtà tutta e la conoscenza, nell’esibire nettamente quel processo “ipostatico”, tanto caro ai neoplatonici, che conduce dalle nozioni ontologiche generalissime e più astratte agli enti singolari e determinati, per poi risalire nuovamente agli axiomata, alle verità più certe. Ma da questa sua peculiarità concettuale derivava, per gli antichi come per i medievali, l’irriducibile complessità ed oscurità della materia trattata, se non il suo carattere esoterico, che offriva facilmente il destro a speculazioni mistiche e numerologiche, a divagazioni erudite, alla ricerca di “chiavi” segrete e sotterranee di decodificazione di un testo, che certo, come dice Calcidio, era per Platone assolutamente patente, e che la polvere dei secoli aveva reso di difficile accesso8. Che nell’analisi del Timeo fosse implicito, quindi, un accostamento al “misterioso”, all’ “ignoto”, ad una trama labirintica, che avrebbe condotto dritto ai misteri della Creazione, rendeva l’interpretazione di quest’opera ancora più affascinante e feconda. Forniti di una formazione nei più svariati campi del sapere (e le testimonianze in proposito sono concordi), curiosi ed avidi di conoscenza, gli chartrensi erano pronti a riesumare dal passato 8 Cfr. Chalcid., (in Timaeus a Chalcidio translatus commentarioque instructus, a cura di J.Waszink, Warburg Institute, London & E.J.Brill, Leiden 1962. Una traduzione italiana recente si trova in C. Moreschini, (ed.), Commentario al Timeo di Platone, Bompiani, Milano, 2003) Comm., I, 1-6: «Timaeus Platonis et a veteribus difficilis habitus atque existimatus est ad intelligendum, non ex imbecillitate sermonis obscuritate nata - quid enim illo viro promptius? -, sed quia legentes artificiosae rationis, quae operatur in explicandis rerum quaestionibus, usum non habebant stili genere sic instituto, ut non alienigenis sed propriis quaestionum probationibus id quod in tractatum venerat ostenderetur.»


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questa intricata “enciclopedia” delle scienze, trarre da essa un nuovo spirito problematico, nuova forza di pensiero. Certo, il lavoro da fare richiedeva una “rifondazione” ermeneutica globale e poneva non pochi problemi, come dice eloquentemente Guglielmo nel suo prologo: Sebbene non dubitiamo che molti abbiano commentato o glossato Platone, tuttavia, poiché da un lato i commentatori si attengono soltanto al contenuto [soli sententie serviunt] senza esporre la lettera del testo, anche nelle sue connessioni [literam nec continuantes nec exponentes], mentre, dall’altro, i glossatori appaiono vanamente scrupolosi [superflui] nelle cose di scarso interesse, e del tutto privi di chiarezza o manchevoli in quelle importanti […], ci siamo proposti di dire qualcosa sul predetto argomento, togliendo il superfluo altrui, aggiungendo ciò che è stato omesso, delucidando ciò che è oscuro, rimuovendo ciò che è detto male, ed accogliendo ciò che è ben detto9.

Nel tentativo di garantire unità d’intenti, appropriatezza semantica e adeguatezza interpretativa all’impresa, era necessario coordinare e fare operare sinergicamente le due competenze, quella del glossatore e del commentatore, entrambe costantemente esposte al rischio di fraintendimenti e di omissioni che ne avrebbero potuto inficiare l’obiettività. Questa nuova consapevolezza “filologica” è perfettamente in linea con le nuove istanze razionalistiche del pensiero chartrense. Laddove la tradizione si muoveva lacunosamente, senza una previa valutazione delle peculiarità e delle difficoltà testuali, Guglielmo rivendica la necessità di un atteggiamento accorto e prudente verso il testo, non scevro da precise considerazioni di carattere semantico e terministico (definibili, in chiave medievali, di tipo grammaticale) che egli ha ottimamente compendiato e sistematizzato nella teoria, già citata, dell’involucrum (o integumentum), di cui avrò modo di parlare più avanti. Non tutto Platone era, evidentemente, accoglibile e digeribile a fini teoretici, né poteva essere esaltato senza un apposito maquillage “pastorale” e moralista, che tendeva a farne una figura dall’altissimo valore spirituale ed etico, un virtuoso cocciuto, che intitola le sue opere a terzi, per evitare di macchiarsi di superbia, o di insubordinazione nei confronti del magistero socratico, tema su cui sia

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GGlo, I, 1.


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Bernardo che Guglielmo si diffondono a lungo e volentieri10. Occorre quindi ai due spendere qualche riga sull’origine dell’opera, sul contesto in cui viene scritta, sulla scelta del nome, sugli interlocutori, come faremmo, d’altronde, noi in una moderna introduzione, cercando di intramare coerentemente i dati della tradizione, giustificando la struttura narrativa dell’opera, l’andamento della discussione, presentando, insomma, la cornice “materiale” del dialogo. 1.3 La struttura delle Glosae. Nel cercare un modello redazionale quanto più adeguato possibile, oltre che, ovviamente, per la lettura del testo, essi si avvalgono direttamente e, talora, in maniera abbastanza pedissequa, della fonte principale di cui dispongono, ovverosia la traduzione e il commento di Calcidio, risalenti verosimilmente alla prima decade del V sec.11 L’opera di Calcidio consiste sostanzialmente di tre parti: 1. Una epistula dedicatoria, indirizzata ad un non meglio noto vescovo spagnolo, Osio, dal quale egli riferisce di aver ricevuto la “commissione” della traduzione, e di cui esalta l’amicizia e la stima. 2. La traduzione del testo, che si interrompe bruscamente12. 3. Il commentarius, nel cui proemio egli elenca gli argumenta dell’opera (ben 27) e fornisce brevi indicazioni introduttive. Cfr. GGlo, VI, 7: «Titulus talis est: Incipit Thimaeus Platonis. Dicitur sic a quodam discipulo Platonis. Mos enim fuit Platonis intitulare volumina a nominibus discipulorum ut conferret illis honorem vel ut vitaret arrogantiam et ut subtraheret emulis occasionem reprehendendi» e BGlo, <3>, 12 : «Inscripsit etiam hoc opus nomine Timaei discipuli pro more philosophorum, vitando scilicet arrogantiam. Vel ideo ne per appostionem nominis sui aemulos contra se incitaret, sicut Apostolus tacet nomen suum in epistula ad Hebreos. Vel etiam ne Socrati magistro contraire vel praeferri videatur, qui non Platoni sed Timaeo hoc iniunxerat. Sed quia Timaeus non sufficiebat tanto operi, Plato locum et personam gerit discipuli, salva reverentia magistri Socratis.» 10

Per la cronologia dell’opera proposta, che la faceva oscillare fra il 350 e l’inizio del VI sec. d.C., cfr. l’introduzione di Waszink, op. cit. Se non è più sostenibile che Calcidio scrivesse nell’età teodosiana, è parimenti caduta, e converso, l’ipotesi che egli fosse un epigono neoplatonico, contemporaneo, se non più anziano, di Proclo e Sinesio. 11

12

La traduzione calcidiana va da Tim., 17A a Tim., 54D.


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Bernardo e Guglielmo si rifanno a questo schema, apportandovi, tuttavia, delle modifiche secondo le proprie esigenze: dopo aver fornito delle indicazioni generali sull’opera (nell’accessus), si soffermano sul proemio calcidiano (ovverosia la lettera dedicatoria), da cui traggono, in particolar modo Guglielmo, cospicuo materiale interpretativo, per poi passare alle glosse al testo vere e proprie. Guglielmo fa precedere l’accessus da un breve prologo esplicativo e si diffonde maggiormente sul proemio calcidiano e sulla struttura del Timeo13. Entrambi seguono la divisio textus calcidiana, condensando tuttavia gli argumenta in una serie di tractatus quasi separati. La frammentazione tematica testuale risaliva alla tradizione platonica stessa, che Calcidio doveva necessariamente conoscere e che sarà ripresa e riarticolata, di lì a poco, da Proclo14. Pur trattandosi tecnicamente di “glosse”, il lavoro analitico dei due, come accennato, non si esaurisce nella mera spiegazione del testo, livello che già Calcidio dichiarava potenzialmente deformante o insufficiente rispetto alla complessità dell’opera, ma è costantemente integrato da commenti, digressioni e addirittura discettazioni più o meno lunghe, nelle quali il materiale filosofico platonico è sottoposto ad elaborazioni teoriche autonome, distanti, talora, dallo spirito e dalla lettera del testo15. D’altronde, la compresenza nell’opera di questioni che rimandavano ai più disparati ambiti del sapere implicava, oltre ad uno sforzo sintetico unitario del commentatore, anche una sua abilità e competenza versatile, una sua, per così dire, capacità plastica di connettere sapientemente le parti immaginandole nel tutto del pensiero platonico. A proposito della delimitazione “disciplinare” del Timeo dice Bernardo: 13

Sono le Glosulae in proemium Chalcidii.

Per la questione della divisio textus in Proclo, cfr. A. Lérnould, La divisio textus du Timée dans l’In Timaeum de Proclus (sur la physique pythagoricienne du Timée selon Proclus), in Images de Platon et lectures de ses oeuvres, a cura di A. Neschke-Hentschke, Éditions Peeters, Louvain-Paris, 1997 14

15 Cfr. Chalcid., Epistula Osio, 5: «Itaque parui certus non sine divino instinctu id mihi a te munus iniungi proptereaque alacriore mente speque confirmatiore primas partes Timaei Platonis aggressus non solum transtuli sed etiam partis eiusdem commentarium feci putans reconditae rei simulacrum sine interpretationis explanatione aliquanto obscurius ipso exemplo futurum.»


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[…] Rimanda d’altronde all’etica, per il fatto che tratta della giustizia naturale e dell’ordinamento dello stato. Tiene conto della logica, giacché attraverso le opinioni altrui fonda le proprie argomentazioni. Si volge alla fisica, poiché parla delle figure piane e dei corpi solidi, della discesa in un corpo dell’anima del mondo e delle altre, e del moto perpetuo di queste, dei movimenti regolari e irregolari dei corpi celesti16.

Gli fa eco Guglielmo: […] Quindi, in quest’opera è contenuto qualcosa di ogni parte della filosofia: di quella pratica nella ricapitolazione della giustizia positiva; della teologia quando discute della causa efficiente, formale, finale del mondo e dell’anima; della matematica, quando, invece, tratta dei numeri e delle proporzioni; della fisica a proposito dei quattro elementi, della creazione degli animali e della materia primordiale17.

Cercando, dunque, quanto più possibile di mediare fra le diverse esigenze esplicative, Guglielmo e Bernardo devono utilizzare tutte le loro risorse, senza appesantire il commento di frequenti o gratuiti riferimenti alla tradizione patristica o classica latine, e nel contempo cercando di non cadere nella ricerca fine a sé stessa dell’originalità ermeneutica. 1.4 La ricerca di una trama unitaria dell’opera: la “giustizia” Nei passi citati precedentemente, si accenna al fatto che il Timeo riveli un contenuto di natura etica patente, laddove esso si occupa della questione della “giustizia”. Questa affermazione, in realtà, è integrata da una serie di altre, più incisive e più categoriche, sulla vera natura unitaria del progetto platonico, tutte tese a dimostrare la sostanziale priorità tematica della questione della iusticia. Nell’accessus, imprevedibilmente, lungi da ogni appiattimento sul filone fisico-naturalistico e cosmologico, i due affermano che il Timeo tratta di “giustizia naturale”. Ma rifacciamoci al testo. Bernardo: 16 17

BGlo, <1>, 56. GGlo, VI, 1.


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[…] Come materia ha dunque la giustizia naturale [Materiam…naturalem iusticiam]; che discuta, infatti, della positiva è accidentale. La sua intenzione è trattare di quella, ovverosia educarci al culto della giustizia naturale. Il modo è quello che abbiamo segnalato prima. L’utilità: comprendere a cosa valga, cosa apporti l’uso della giustizia naturale. Altri pongono come argomento il governo [rem publicam], […]. O, secondo altri, la generazione del mondo sensibile, nella quale si investiga la giustizia naturale, attraverso la quale gli dei concordino fra di loro e questo mondo e le sue cose sono rette da loro concordamente18.

Come si vede, per quanto si ammetta una pluralità di possibili determinazioni tematiche, tutte quante, in ultima istanza, sono chiaramente riferibili alla dimensione della politica, ed in definitiva all’etica. Vediamo cosa dice Guglielmo: […] Il motivo della composizione di quest’opera fu, d’altronde, questo. Giacché fra coloro che filosofano rettamente è certo che la giustizia abbia il primato nella preservazione dello stato, il loro sforzo nell’indagine di questa fu grandissimo […]19.

Ora, la “giustizia” è positiva e naturale. Quella positiva è stata trattata precedentemente da Socrate nella Repubblica. E quindi, Platone, il suo discepolo, dopo aver composto dieci libri sullo stato, volendo completare quello che il suo maestro aveva precedentemente delineato, compose quest’opera [i.e. il Timeo]. Ma poiché questa [i.e. la giustizia naturale] si rivela soprattutto nella creazione del mondo, si volge a questa. Ne deriva che possiamo dire che la materia di questo libro è la giustizia naturale, ovverosia la creazione del mondo: e di questa, attraverso la giustizia naturale, tratta20.

18 BGlo, <1>, 40. Il latino respublica non è utilizzato da Guglielmo e Bernardo secondo un’accezione semantica unitaria, ed è soggetto quindi ad una traduzione variabile. Qui ho tradotto governo, ritenendolo il termine più adatto possibile; altrove si potrà trovare politica, stato, o addirittura repubblica nel senso platonico. 19 20

GGlo, II, 4. Id., III, 11.


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Il proemio del Timeo, com’è noto, ci fornisce alcune scarne indicazioni di tipo riepilogativo. E tuttavia, per la delimitazione dell’argomento e dello scopo dell’opera esse, per Bernardo e Guglielmo, sono sufficienti. La Repubblica, che essi non conoscono materialmente, ma di cui sono informati attraverso altri autori latini, trattava sostanzialmente della giustizia positiva, ovverosia dello stato, del governo. Il fatto che gli interlocutori del dialogo continuino ora l’indirizzo tracciato precedentemente, giustifica, almeno preliminarmente, l’idea che vi sia una chiara saldatura tematica tra le due opere. Vedremo più avanti in che modo la declinazione semantica e concettuale dell’idea di giustizia li aiuti in questo. Per il momento, dobbiamo cercare di chiarire in che modo questa articolazione progressiva che è postulata essere la struttura argomentativa del discorso platonico, sia giustificata schematicamente e, per così dire, “filologicamente” da Bernardo e Guglielmo. L’intero campo discorsivo sulla iusticia è, per i due, esaurito da due ambiti specifici, quello della giustizia naturale e quello della giustizia positiva. Ora, la disamina platonica ha preso le mosse dal concetto di giustizia in sé, secondo il classico metodo analitico socratico. Il contenuto di questa disamina si trova quasi completamente nel I libro della Repubblica, nel dibattito che vede protagonista il sofista Trasimaco21. Bernardo e Guglielmo riportano introduttivamente l’esito di questo dibattito. Socrate ha dibattuto del governo in dieci libri. A questa trattazione egli arrivò incidentalmente, ovverosia per determinare che potere avesse e a chi giovasse maggiormente la giustizia, su cui verteva la disputa. Il retore Trasimaco, infatti, diceva che essa giovava a coloro che erano più potenti; Socrate, al contrario, a chi era più debole. E per dimostrarlo, scelse di assegnare la forza della giustizia non all’interesse privato di qualcuno, ma ad un certo governo civile. […] La giustizia è infatti ciò per cui si dà a ciascuno il suo. Una forma di essa è positiva, ovverosia consuetudinaria, attinente alle istituzioni umane, sia scritte che non scritte; l’altra naturale, quella che insegna ad avere rispetto di Dio e degli antenati e ad amare soprattutto ciò che è giusto amare. La positiva rifugge le cose spregevoli, determina i costumi, soprattutto tramite il timore, ovverosia commisurando, a seconda dei meriti, i premi e le pene. La naturale, comune 21

Cfr. Plat., Resp., I, 10-24.


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a Dio e agli uomini, opera più tramite l’amore, rifugge ciò che dev’essere evitato, desidera ciò che è desiderabile22.

Fin qui Bernardo. Guglielmo dice: Fra loro, il retore Trasimaco così la definì: «La giustizia è quella che giova maggiormente a colui che è più potente», alludendo al fatto che per la conservazione della giustizia il governo dello stato viene dato a colui che è più potente. La definizione di questa, riferita nelle scuole socratiche, dice: «No. Anzi, la giustizia è quella che più giova a colui che è meno potente. Chi infatti ha più potere, conserverebbe sé stesso e le sue cose senza nessuna giustizia, ma chi lo è meno pochissimo. […] La giustizia è, infatti, da una parte positiva e dall’altra naturale. Ed è positiva quella che è stata stabilita dagli uomini, come l’impiccagione dei ladri ecc. La naturale, invece, è quella che non è stata stabilita dagli uomini, come l’amore verso i genitori e cose simili23.

Come si vede, la ricostruzione “generativa” del passaggio dalla “giustizia in sé” alla sua divisione in “naturale-positiva” avviene per mezzo di un dispositivo definitorio dialettico, che determina l’irradiazione da un concetto generale delle sue forme particolari. In questo passaggio formale, e nella sua linearità logica e concettuale, Bernardo e Guglielmo reperiscono l’irriducibile unità semantica della scansione tematica di Repubblica e Timeo. Mentre la prima, muovendo da un problema generale, la definibilità della “giustizia”, passa a delineare un quadro pratico e politico corrispondente ad una parte della definizione, il Timeo ne costituisce il naturale complemento nella esibizione della sua “facoltà” naturale. E, come i due hanno detto sopra (BGlo, <1>, 56 e GGlo, VI, 1), la giustizia naturale si palesa soprattutto nella Creazione. Ed il cerchio ora è chiuso. La compenetrazione argomentale e narrativa fra Timeo e Repubblica è 22

BGlo, <1>, 1.

GGlo, II, 7. Naturalmente la ricostruzione dello scambio Trasimaco-Socrate del I della Repubblica da parte di Bernardo e Guglielmo è assolutamente schematica. Se Trasimaco effettivamente sostiene che la giustizia è «… οὐκ ἄλλο τι ἤ τὸ τοῦ κρείσσονος συμφέρον» (Resp., I, 12), «nient’altro che l’utile del più forte», la posizione socratica è naturalmente più sfumata e complessa e tendente, semmai, a dimostrare che l’utile del più forte (di chi governa) coincide con il bene pubblico. 23


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ora garantita dall’interpretazione unitaria del loro contenuto, secondo lo schema che è stato esibito. Le due opere affrontano due aspetti della medesima questione. La loro fondazione, di tipo concettuale, del Timeo sulla questione della “giustizia” riceve suggello tramite una derivazione tematica. Ma ora si impone a noi di spiegare in che senso, dal punto di vista concettuale, questa interpretazione tematica unitaria sia realmente e adeguatamente fondabile. Il punto di partenza dev’essere, ancora una volta, il Timeo, ma prima sarà necessario verificare l’apporto delle fonti, per così dire “storiche”, in proposito. 2. Il Timeo da Platone ai commentarii neoplatonici di Calcidio e Proclo 2.1 Il “progetto” platonico24 Nel Timeo, per quanto si possa cercare, non si troverà alcun riferimento al problema della “giustizia” (“τὸ δίκαιον” o, più in generale, “δικαιοσύνη”). Nella parte proemiale, che nella divisio delle glosse è detta “Recapitulatio Socratis et narratio Critiae”, la “ripresa” del dialogo fra gli interlocutori è preceduta da una breve riepilogazione della Repubblica, e di alcuni dei suoi argomenti “topici”25. L’introduzione alla lunga ῥῆσις di Timeo è costituita da una serie di espedienti narrativi che mirano a chiamare in causa il misterioso interlocutore su problemi di natura cosmologica e ontologica. Sebbene il proemio tracci una connessione di temi che rinviano, originariamente, a questioni di natura squisitamente politica, tutto questo materiale iniziale è talmente scarno e vago da non poter essere 24 Chiarisco anticipatamente, come poi avrò modo di sottolineare in questo stesso capitolo, che il riferimento a Proclo e al suo commento al Timeo esulerebbe, per così dire, da una trattazione retrospettiva delle fonti di Bernardo e Guglielmo, essendo egli e la sua opera ignoti a Calcidio e, a fortiori, ai due medievali. Mi è parso, tuttavia, che valesse la pena spendere qualche riga sul suo commento per due ragioni: 1) esso ci consente di vedere in che modo, alla fine dell’età antica, si interpreti un’opera quale il Timeo e, in particolar modo, il suo proemio; 2) il testo procliano contiene larghi riferimenti alla tradizione commentaristica neoplatonica sull’opera (in particolar modo Giamblico e Porfirio, i cui commenti Calcidio doveva conoscere) ed il suo contenuto è fortemente influenzato da essa. 25

Cfr. Tim., 17A-19A.


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ritenuto in grado di delineare un “ponte” teoretico e concettuale concreto fra la πολιτεία di Repubblica e il grandioso affresco del Timeo. Ma, a ben vedere, la questione è più complessa. Dal momento che Platone immagina la Repubblica, il Timeo ed il Crizia in una cornice dialogica “unitaria” e secondo un profilo tematico approssimativamente “continuistico”, è giocoforza chiedersi se vi sia, alla base, un’interpretazione altrettanto unitaria, concettualmente, dei temi posti in discussione nelle tre opere e se, per caso, la nozione di “giustizia”, adeguatamente calibrata al contesto teoretico platonico, vi svolga realmente un ruolo fondamentale, come sostengono Bernardo e Guglielmo. Ora, se ci affidiamo al testo, vediamo che all’inizio del dialogo Socrate si dichiara insoddisfatto della sua lunga analisi politica. Ciò che gli manca, ora, è un modello “vivente” di essa, o, se vogliamo, una attestazione storica della possibilità di un simile modello26. Crizia si dichiara disponibile ad intervenire e a soddisfare questa richiesta, riportando il “mito” (le cui fonti, tuttavia, egli cita come assolutamente attendibili) dell’Atene protostorica e della sua guerra con Atlantide27. Ma ad un certo punto sembra che egli si fermi, come avesse compreso che la scansione degli argomenti, per essere esauriente, debba partire da una prospettiva più generale e originaria. Al termine del suo intervento egli dice: E i cittadini e la città, che tu ieri ci hai descritta come una favola, noi la trasferiremo nella realtà e la porremo qui, come se fosse questa, e i cittadini, che tu hai concepiti nella mente, noi diremo che son quei veri nostri antenati, di cui parlava il sacerdote. In tutto concorderanno, né diremo noi un’assurdità affermando ch’essi sono gli stessi di quel tempo. E tutti insieme, distribuite le parti, 26 Tim., 19B3. Dice Socrate: «E ora udite come io mi sento animato verso questa repubblica, che abbiamo percorsa. Mi è parso d'essere così animato, come se alcuno, vedendo in qualche luogo begli animali, sia raffigurati dalla pittura, sia anche veramente viventi, ma in riposo, venisse in desiderio di vederli muoversi e combattere una di quelle lotte che sembrano convenire ai loro corpi: così anch’io son animato verso la città che abbiamo percorsa. Perché volentieri udirei qualcuno che esponesse com’essa affronta contro le altre città quelle lotte che combattono le città, e come nobilmente muove in guerra, e come nel guerreggiare si mostra degna dell'istruzione e dell'educazione propria, sia operando nei fatti sia trattando nei discorsi con le singole città. […]» (trad. di C. Giarratano, in Platone, Opere complete, vol. 6, Laterza, Roma-Bari, 19836). 27

Tim., 20D7-26E.


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tenteremo di compiere convenientemente, secondo le nostre forze, quello che ci hai commesso. Occorre dunque considerare, o Socrate, se quest’argomento ci piace o se è da cercarne un altro in sua vece28.

Socrate gli conferma il suo interesse e gli ribadisce la volontà di ascoltare il suo racconto, ma Crizia, ora, gli fa un’altra proposta, che valuta essere decisamente più adeguata allo scopo: Guarda dunque, o Socrate, la disposizione dei doni ospitali per te, come l’abbiamo ordinata. Si è stabilito che Timeo, che tra noi è il più dotto dell’astronomia e più studio ha speso nel conoscere la natura dell’universo, parli il primo, cominciando dall’origine del mondo, e finisca alla natura degli uomini. Io, dopo di lui, quasi ricevendo da lui gli uomini generati dalla sua parola e in parte da te egregiamente educati, li condurrò secondo la storia e la legge di Solone dinanzi al nostro tribunale, e li farò cittadini di questa città, come se fossero quegli Ateniesi d’allora, che la memoria delle sacre scritture ha richiamati dall’oblio, e in seguito ragionerò di loro come di concittadini e di Ateniesi29.

Ora il quadro risulta più completo. Per introdurre il discorso di Timeo, Crizia è costretto, per così dire, a sovvertire la scansione degli interventi degli interlocutori che si sta producendo in maniera spontanea e naturale, e che, muovendo da Socrate, e dalla comunità politica ideale, sarebbe stata completata dalla sua descrizione del mito atlantideo. Ma questa apparente sovversione della cornice dialogica è finalizzata ad una delineazione più consequenziale della materia trattata, che incorpori una “fondazione” epistemica più generale, e che proceda secondo dei livelli di analisi, ancora una volta, di tipo dialettico, dal massimo di generalità (l’essere, il cosmo e l’uomo) alle determinazioni particolari (lo stato e la storia). Non sappiamo se Platone introduca questa “diversione” sul momento, contingentemente o voglia semplicemente rendere più giustificabile sul piano della necessità espositiva l’intervento di Timeo. Sicuramente, egli ora ha chiaro il quadro di riferimento entro cui vanno “letti” i suoi salti teorici dallo stato alla natura del cosmo, dalla politica alla 28 29

Tim., 26D5-E.

Tim., 27A2-B6.


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fisica, dal filosofo-re all’uomo naturale ed è esattamente questo schema interpretativo che vuole proporre al suo lettore. Così, il lavoro di Repubblica, Timeo e Crizia va valutato sulla base di uno sforzo organico di tracciare una indagine a più livelli, in cui la dimensione fisico-cosmologica venga letta come “fondazione” massima e generalissima della legislazione e della giustizia terrena. Lo schema cosmogonico e il processo di genesi delle forme si riverberano, per Platone, sulla struttura dello stato e sulla anamnesi del passato storico in cui questa triplice “solidarietà” dei livelli si è manifestata concretamente (ovverosia l’Atene antica criziana). Questa stratificazione, che costituisce, in tal modo, davvero la summa, l’interezza della filosofia platonica, era, sul piano tematico, solamente accennata nella Repubblica, che pure manifestava, in sé, una certa compiutezza, una certa vastità ed esaustività tematica. E tuttavia, se qui l’unità è garantita su un piano teorico più generale e strettamente corrispondente ad una logica di “sistema”, non c’è realmente nessun tipo di riferimento ad un ipotetico trait d’union costituito dalla nozione di “giustizia”. Né, naturalmente, si può sostenere, solo sulla base della lettura dell’opera platonica, che il Timeo parli di “giustizia” naturale, che esso completi la Repubblica, nel senso che ne sia una sorta di suo “simmetrico” dalla parte della natura. Insomma, mi sembra indubbio che la prospettiva platonica sia abbastanza differente, e che l’interpretazione dei due chartrensi sia, rispetto al progetto generale che abbiamo delineato, assolutamente originale. 2.2 Le interpretazioni neoplatoniche 2.2.1 Calcidio. Fra la redazione del Timeo e l’ultimo platonismo tardoantico intercorrono circa sei secoli. Nel frattempo l’opera ha continuato a tenere banco fra i testi del filosofo, a tal punto che uno dei più importanti rappresentanti del platonismo romano, Cicerone, l’ha tradotta nella sua lingua30. Nell’am30 Apuleio, esponente del platonismo medio e anticipatore di certi temi teurgici e mistici del neoplatonismo, nel suo De Platonis dogmate (Liber II, Cap. VII), riserva un


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bito delle scuole che vengono definite neoplatoniche, si sente l’esigenza, tuttavia, di riaccostarsi criticamente a questa fonte commentandola diffusamente. Alcuni tra i principali esponenti del platonismo tardo, Porfirio, Giamblico e Proclo ce ne forniscono un eloquente esempio31. Fra questi si inserisce la seconda traduzione latina di Calcidio ed il suo vastissimo commento. Sebbene si ritenga che Calcidio fosse cristiano, è assolutamente indubbia la matrice neoplatonica del suo intervento32. Con Calcidio, che, ricordiamolo, costituisce l’unica fonte “platonista” di Bernardo e Guglielmo, giungiamo ad una svolta di tipo interpretativo e ad una “ristrutturazione” semantica del problema. Per la verità, egli dedica scarso spazio alla parte introduttiva del Timeo nel suo commento, entrando nel vivo della disamina teorica dell’opera soltanto con l’analisi del problema della generazione del mondo sensibile. Ciononostante, le sue brevi “formulazioni” contengono molte indicazioni di grande rilievo sulla questione della “giustizia”. Anzitutto, egli introduce l’idea che il Timeo costituisca una sorta di enciclopedia del brevissimo capitolo al concetto di iustitia, in cui, in maniera per noi molto interessante, dice: «[…] Est et illa iustitia quae quartum vulgata divisione virtutum locum possidet, quae cum religiositate id est ὁσιότητι copulatur: quarum religiositas deum honori ac suppliciis divinae rei mancipata est, illa vero hominum societatis et concordiae remedium atque medicina est. Duabus autem aequalibus de caussis utilitatem hominum iustitia regit, quarum est prima numerorum observantia et divisionum aequalitas et eorum quae pacta sunt symbole: ad haec ponderum mensurarumque custos et communicatio opum publicarum: secunda finalis est et veniens ex aequitate partitio, […]». L’accostamento della iustitia (intesa nell’accezione “positiva” e giuridica) alla religiositas (ὁσιότης), come fossero determinazioni di una medesima virtù, prelude effettivamente alla divisione fra naturalis e positiva di Calcidio, Bernardo e Guglielmo. Anche qui assistiamo, come si vedrà più avanti per l’ambito neoplatonico, ad una “risemantizzazione” in chiave “religiosa” e morale del termine, molto vicina a quella chartrense di svariati secoli dopo. 31 Frammenti dei perduti commenti di Porfirio e Giamblico si trovano nel commento di Proclo e in altre opere del tardo platonismo del V-VI sec. Quelli di Porfirio sono raccolti in Porphyrii in Platonis Timaeum Commentariorum Fragmenta, a cura di A. Sodano, Napoli, 1964 e quelli di Giamblico in Iamblichi Calcidensis in Platonis dialogos Commentariorum Fragmenta, a cura di J. M. Dillon, E. J. Brill, Leiden, 1973.

A tale proposito, si veda lo studio introduttivo di J. Waszink all’edizione di Calcidio, op. cit. e J. McEvoy, Présence et absence de Platon au Moyen-Âge in Images de Platon et lectures de ses oeuvres, op. cit. 32


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sapere, tale che è molto difficile cercare di fare una delimitazione argomentale della sua materia. Eguale difficoltà avranno Bernardo e Guglielmo secoli dopo. D’altra parte, poiché in questo libro si discute della condizione [statu] di ogni cosa e si mette in evidenza la causa e la ragione di tutto ciò che il mondo abbraccia, necessariamente sorsero varie e numerose dispute [quaestiones]: sulle figure piane, sui corpi solidi, sulla discesa in un corpo dell’anima che vivifica il mondo sensibile, del suo movimento e della sua perpetua attività [agitatione], sui moti regolari e irregolari delle stelle. […] Sembra da ciò che quest’opera sia stata scritta quasi per soli coloro che erano esperti nell’uso e nell’esercizio di scienze siffatte33.

Più avanti, a proposito della parte proemiale, egli chiarisce in questo modo la sua posizione: E per concludere, non ho detto nulla dell’inizio del libro, nel quale era contenuta una semplice menzione delle fatiche precedentemente intraprese e di fatti antichi, e tuttavia ritenni opportuno illustrare la ragione di tutta l’opera, il proposito del suo autore e l’ordinamento del libro34.

Per Calcidio, dunque, il commento di questa parte poteva essere tranquillamente omesso, stante, tuttavia, la necessità di fornire delle indicazioni di tipo introduttivo. Ma sono proprio queste, tuttavia, che ci riservano le “sorprese” più grosse. Dopo aver spiegato brevemente l’antefatto dell’opera (il contenuto della Repubblica), rimarcando l’importanza della discussione intorno alla “giustizia” di Socrate e Trasimaco, Calcidio dice: E dunque, poiché in quei libri sembrava si ricercasse e si trovasse la giustizia che vige nelle cose umane, rimaneva tuttavia da investigare sulla giustizia naturale [aequitatis naturalis fieret investigatio], […]. Da cui appare che in questo libro si tratti principalmente di questo: dell’analisi non della giustizia positiva, ma bensì di quella giustizia ed equità naturale, che conferisce un fondamento di autentico equilibrio [quae…tribuit ex genuina moderatione 33 34

Chalcid., Comm., II. Ibid., IV, 26.


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substantiam] se iscritta nelle leggi che devono istituirsi e nelle norme che vanno tracciate e, allo stesso modo in cui Socrate parlando della giustizia di cui gli uomini si avvalgono, descrisse un’immagine dello stato civile [civilis rei publicae], così Timeo di Locri, perfettamente esperto di una disciplina come l’astronomia, volle indagare, seguendo il magistero di Pitagora, in una sorta di città e repubblica comune di questo mondo sensibile quella giustizia che il genere divino usa per sé [qua divinum genus adversum se utitur]35.

Per il nostro commentatore, dunque, è, per così dire, assodato che il Timeo sia un complemento della Repubblica, che esso ne colmi, in qualche modo, una “lacuna” teorica. Peraltro, Calcidio introduce un’ambiguità concettuale e semantica quando parla della iustitia in termini di aequitas. In questa definizione, in questa equazione terminologica, c’è, evidentemente, una stratificazione polisemica, che non è riducibile alla nozione di “giustizia” in senso strettamente politico. Ma anzitutto, occorre rilevare che la giustizia “naturale”, come già in Apuleio, ha ascendenze divine. A mio avviso, questa affermazione va interpretata nel senso che la giustizia naturale debba essere intesa come “modello”, come εἶδος, come idea generale di “giustizia”, nell’accezione classicamente platonica di “idea”. In tal senso, la giustizia positiva sarebbe un’imitazione, un’ipostasi umana della giustizia assoluta, della giustizia in sé. Questa divaricazione “gerarchica” e derivativa delle “giustizie” sarebbe ancora una volta garantita da un procedimento di tipo dialettico, per l’appunto squisitamente platonico. Ma qui la subalternità logico-concettuale dell’una all’altra si carica di un’ulteriore distanza ontologica: il mondo degli uomini e quello divino sono nettamente separati e funzionano secondo modelli di giustizia diversi. Ma se così fosse, non potrebbe esservi comunicazione fra queste due sfere e l’uomo non avrebbe potuto “inoculare” l’elemento divino nell’artificio positivo della sua nomotesi storica. Ed ecco che allora la giustizia naturale si arricchisce di un’ulteriore sovradeterminazione concettuale, divenendo la pietas cristianizzata che Bernardo e Guglielmo descrivono eloquentemente come “dilectio parentum”36, o più semplicemente, come “dilectio diligendis”37, che implica, in definitiva, la scelta morale dell’uomo, 35 36 37

Ibid., VI.

Cfr. GGlo, III, 3.

Cfr. BGlo, <1>, 14.


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nella quale si riverbera quel richiamo al divino, che costituisce propriamente lo sfondo e la dimensione generale, assoluta di ogni giustizia38. In questo modo, il Timeo e la Repubblica divengono aspetti complementari e simmetrici di una medesima istanza problematica, quella di rendere concettualmente la natura di un mondo rigorosamente dualistico e tuttavia non privo di isomorfismi di tipo derivativo (o, neoplatonicamente, emanativo). L’intervento calcidiano, dunque, è la chiave primaria per la comprensione dell’operazione ermeneutica dei due filosofi chartrensi, che, tuttavia, nella sua forma finale, investirà ancora altri universi di senso. Nel commento procliano, scritto alla fine dell’età antica, verso la seconda metà del V sec., viene fissata definitivamente l’immagine sistematica del Timeo e formulata chiaramente l’idea secondo cui l’opera contenga, entro di sé, tutti quanti gli elementi disparati della filosofia platonica. 2.2.2 Proclo Il commento di Proclo è un’opera di sintesi, l’estremo prodotto di più di 700 anni di platonismo, e come tale costituisce una testimonianza di particolare efficacia della costante ripresa interpretativa del Timeo. Se si considera, inoltre, che esso contiene ben più che l’analisi del suo autore, ma anche una miriade di citazioni dagli altri due principali commenti neoplatonici perduti, quelli di Porfirio e Giamblico, si capisce come quest’opera cositituisca un interessantissimo palinsesto di “critica” neoplatonica. Come anticipato, rispetto al nostro quadro filogenetico, Proclo si pone eccentricamente, in quanto non è conosciuto dagli chartrensi e, verosimilmente, neppure da Calcidio. La prossimità concettuale di quest’ultimo ad elementi al neoplatonismo, e la quasi contemporaneità dei due commenti, tuttavia, mi induce a citare qualche brevissimo estratto procliano, che ci può far rendere conto dello stato, per l’appunto, della critica del Timeo alla fine dell’età antica. Così inizia la sua analisi: Cfr. BGlo, <1>, 36: «[…] Deinde creatis hominibus eos moribus instruit, virtutibus exornat, sic ostendens quando naturalis iusticia maxime viguit in hominibus, prima scilicet aetate. Et per haec omnia nos invitat ad naturalis exercitium iusticiae.» 38


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Che il progetto del Timeo platonico abbracci lo studio dell’intera natura [τῆς ὅλης φυσιολογίας ἀντέχεται] e che giunga ad una descrizione del tutto [ὡς πρὸς τὴν τοῦ παντὸς ἀνήκει θεωρίαν], perseguendo quest’obiettivo dall’inizio alla fine, a me pare che sia evidente a chi non sia del tutto ottenebrato39.

E più avanti, a proposito della determinazione dell’argomento dell’opera: Questo dialogo ha interamente come scopo in tutto se stesso lo studio della natura, osservando le medesime cose in immagine ed in modello, negli interi e nelle parti40.

Assodato, dunque, che lo scopo del dialogo è lo studio della natura (benché il termine φυσιολογία implichi un ambito che va ben al di là della mera natura fisica), Proclo afferma che esso giunge, poi, a “contemplare” il tutto, ad abbracciarlo completamente, quasi facendo eco al «cum…omniumque eorum quae mundus complectitur causa et ratio praestetur» di Calcidio41. Ma lo fa, dice Proclo, secondo dei filtri concettuali particolari (le εἰκόνες [immagini] e i παραδείγματα [modelli] del testo citato sopra) e secondo una partizione di tipo “mereologico” (nel “tutto” e nella “parte”). Questa formulazione concettuale sarà chiara fra un momento. Abbracciando ogni cosa, è giocoforza ritenere, quindi, che il Timeo faccia riferimento alla politica e allo stato ideale e, in definitiva, alla giustizia. Ed ecco come Proclo riesce a dare un’interpretazione rigorosamente unitaria dell’opera, riuscendo a “guadagnare” ad essa anche la parte proemiale. Questo è lo scopo, dunque, che noi asseriamo persegua il Timeo, e di questo genere, come dicemmo. Ed è in maniera conforme a questo genere di scopo che, all’inizio, l’ordine del tutto viene mostrato [ἡ τοῦ παντὸς ἐπιδείκνυται τάξις] in immagini [ἐν εἰκόσι], a metà viene descritta tutta quanta la genesi del cosmo e verso la fine gli oggetti singolari [τὰ μερικά] e gli obiettivi della creazione si intessono con gli interi [συνυφαίνεται τοῖς ὅλοις]. La ripresa della Repubblica e il racconto di Atlantide mostrano la contemplazione del Procl., In Tim., I, p.1(Diehl), 1 (in Procli diadochi in Platonis Timaeum Commentaria, a cura di E. Diehl, Teubner, Leipzig, 1903). 39

40 41

Ibid., I, 17.

Cfr. Chalcid., Comm., II.


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cosmo tramite le immagini. E se volessimo vedere ridotti ad unità la molteplicità dei principi cosmici, diremo che la Repubblica, che Socrate riprende per sommi capi [ἀνακεφαλαιοῦται] è l’immagine dell’unità [τῆς ἑνώσεως εἰκόνα], mostrando preventivamente la solidarietà che pervade il tutto42.

Dunque, nel Timeo ogni cosa, presa nella sua interezza, è notomizzata nelle sue parti costituenti. Ma la sua “totalità” ontologica, ricostruita nelle sue partizioni interne, è tale solo nella totalità compiuta del cosmo, che, tuttavia, trapela solamente nella parte finale dell’opera, in cui l’atto creativo, poietico del Demiurgo, analizzato nella molteplicità delle sue estrinsecazioni singole e parziali, è ricondotto ad unità. Ma l’unità [ἕνωσις] che consegue a questa dinamica discensionale e ascensionale è “raffigurata” e preceduta, nella parte iniziale dell’opera, da un’immagine compiuta, un “modello” verosimile della totalità cosmica, e cioè la πολιτεία precedentemente tratteggiata e ripresa brevemente da Socrate. Nello schema embricato delle gerarchie interne all’essere, nella complessità dei prodotti della creazione, nella duplice dialettica e dinamica del singolare e dell’universale, si staglia pienamente compiuta l’immagine dell’unità cosmica, della totalità dei principi dell’essere che promana da una compresenza e coordinazione dei livelli: questa immagine è quella della comunità politica. In questo modo, Proclo istituisce una complementarietà effettiva fra Repubblica e Timeo, ma senza richiamarsi alla dimensione della iusticia, che è pure sottesa, evidentemente, all’idea della società politica ideale. Nel garantire una unità compiuta allo schema teoretico e tematico del Timeo, egli vi introduce anche l’immagine della Repubblica perfetta, ma ancora una volta seguendo quella logica di “sistema”, multiorientata, che reperimmo nelle indicazioni di Platone stesso nella parte finale dell’intervento criziano. Al di là, comunque, della sua difformità rispetto al paradigma calcidiano, la disamina di Proclo tradisce la necessità di uno sforzo intepretativo semanticamente unitario, sforzo che è possibile anche grazie ad una chiarificazione concettuale della parte proemiale dell’opera.

42

Procl., In Tim., I, p.4 (Diehl), 6.


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3. La “risemantizzazione” del concetto nel XII secolo 3.1 Cristianità e platonismo. Il percorso teorico fin qui tracciato, che costituisce l’antecedente immediato dello sforzo ermeneutico di Bernardo e Guglielmo, ci ha fornito sufficienti indicazioni per comprendere in che modo la nozione di giustizia si inserisca a pieno titolo nella ricerca, da parte dei due, di una interpretazione unitaria del Timeo. In particolare, abbiamo visto come già Calcidio ne sottolineasse, in qualche modo, il valore pratico e politico, e come giungesse ad una sua delimitazione tematica completamente incentrata sulla questione delle due giustizie, la naturale e la positiva. E si è detto di come in questa operazione interpretativa emergesse un’esigenza di tipo “eticizzante”, che faceva convergere l’elaborazione cosmogonica del Timeo verso il “divino”, verso la “divinità” naturale che si manifesta nell’esercizio dell’azione morale. A proposito di questo, più sopra, ho parlato di cristianizzazione della iusticia, intendendo che nell’epoca in cui scrive Calcidio, l’indagine politica non ha più quella autonomia che le veniva garantita, nell’ambito della cultura greca, dalla mera considerazione dei suoi principi e delle sue finalità, ma era, inevitabilmente, trascinata nell’idea di un ordine “globale” caratterizzato dalla presenza del trscendente, sia vissuto in chiave dualistica e contrappositiva (nel senso agostiniano della polarità fra civitas Dei e civitas hominis, fra positività “artificiale” umana e naturalità etica, fra storia divina, immutabile e finalizzata alla Redenzione e storia umana, effimera, convulsa e “dispersa” in un intrico di trame fallaci e caotiche), sia visto come “transizione” ad un ordine superiore, come passaggio verso l’Assoluto, come mero strumento carnale di esecuzione del progetto soterico. Per Bernardo e Guglielmo, questi elementi dogmatici e fideistici non sono, evidentemente, di scarso rilievo. Benché nelle glosse entrambi mantengano un atteggiamento, per così dire, distaccato e “razionalista” riguardo alle possibili implicazioni teologiche della dottrina platonica, non sono impermeabili rispetto a necessità che potremmo definire di carattere squisitamente dottrinale. La “risemantizzazione” del concetto di giustizia


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passa, dunque, attraverso il filtro teologico propriamente cristiano indicato, in qualche modo, secoli prima da Calcidio. Ma, come dicevamo, la giustizia naturale non è semplicemente una manifestazione dell’atteggiamento morale umano. Anzi, originariamente e genericamente essa è, caso mai, riferibile a quel genus divinum che manifesta nella sua assolutezza uno iustum naturale, una concordia genuina, una armoniosa convivenza e “convenienza” di parti. E parrebbe quanto meno strano, ancora una volta, che il divino riveli in sé qualcosa come la giustizia, concetto tipicamente umano, che allude ad un equilibrio di cose in dissidio, una discrasia fra agenti contrapposti, al ristabilimento di un ordine. È vero che nella giustizia divina si adombra un ordine, ma non come frutto o conseguenza di una precedente atassia. Piuttosto, è importante sottolineare che la giustizia abbia anzitutto a che fare con la nozione di ordine in sé, che essa rappresenti la “norma”, il criterio, la legge del Creato, perché è proprio su questa eguaglianza che si fonda, a mio avviso, l’attribuzione, da parte di Bernardo e Guglielmo, sulla scia di Calcidio, di una “giustizia” al divino. Che la Creazione possa essere concepita come una emanazione della giustizia divina sarebbe legittimo sia sul piano semantico che concettuale: ciò che è giusto è concorde, è armonico e compiuto, è formato. “Creare” viene qui quindi inteso nel senso platonico di “dare forma”, di istituire dei principi, di costituire un equilibrio interno nelle cose, che è per l’appunto ciò che il Demiurgo fa nel Timeo. Nell’idea che la iusticia costituisca l’estrinsecazione della vita “divina”, si coglie, dunque, tutta la portata e l’importanza della “risemantizzazione” del concetto. Nell’opera di Platone, la giustizia riveste un ruolo fondamentale. La dottrina formulata nella Repubblica è pienamente vertebrata dall’idea che una società “ben formata”, che persegua il bene dei suoi membri, deve avere a cuore anzitutto la preservazione del valore della giustizia. Questa incorporazione della giustizia nel sistema politico avviene, nella πολιτεία platonica, a vari livelli e secondo diverse “direzioni”. Ma in generale, tutto il sistema è informato ad essa. La Giustizia si identifica con il Bene e la Verità. La comunità politica è, quindi, posta sotto la “tutela” di un meccanismo trascendente, nel suo tendere, quanto più possibile, ad un modello “eidetico”. Addirittura, come abbiamo visto in


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Proclo, la città ideale non è altro che l’immagine della totalità cosmica, una sorta di immagine “omotetica” del Tutto. Bernardo e Guglielmo colgono, evidentemente, questo aspetto, ma lo radicalizzano, fino a pensare che la vita stessa divina, che si esplica nella Creazione, possa definirsi in termini di giustizia. La “risemantizzazione”, se così si può dire, avviene, quindi su più fronti, oltrepassa Platone, lo rilegge in chiave “modernista”, cioè neoplatonica, e si incentra sulla progressiva e secolare sovradeterminazione di un concetto e di un termine, quello, per l’appunto, di iusticia. 3.2 La teoria dell’“involucrum”. Per rendere meglio giustificabile l’adozione di certi termini o meglio dimostrare la polarizzazione del problema attorno ad essi, Bernardo e Guglielmo si avvalgono della teoria dell’involucrum, che implica il riconoscimento di una “stratificazione” di sensi all’interno dell’opera. Quello letterale, che è per l’appunto la “copertura” (l’integumentum) di un più ampio bacino referenziale, deve essere ricondotto, secondo il dispositivo operativo di questa teoria, alla sua sotterranea e segreta ricchezza. Sebbene già attestato nella cultura latina medievale più antica, qui esso si carica di un più solido fondamento, quello della costante pratica testuale, della costante “attenzione” filologica. Ma vi sono altre due ragioni: anzitutto la familiarità di Bernardo e Guglielmo con questioni di carattere propriamente linguistico e terminologico, e poi la possibilità di utilizzare la teoria dell’involucrum per l’interpretazione di posizioni e idee contrarie alla fede. Ma nell’integumentum non c’è, evidentemente, solo una “diversione” capziosa e falsificatrice del senso reale dei termini e del loro genuino riferimento denotativo: c’è anche una una gerarchia di sensi che si richiamano fra di loro, che per lo più alludono a realtà complesse e derivate l’una dall’altra. Vediamo, dunque, delle “applicazioni” concrete di questo metodo. In apertura della Recapitulatio Socratis, Bernardo fornisce un’intepretazione generale della “cornice letteraria” del dialogo.


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Platone tratta la materia di cui si è detto prima tramite l’involucro di un certo banchetto [per involucrum cuiusdam convivii]. […] E rammenta, con parole sue, le opinioni che Socrate ha esposto sullo stato. Fa anche partecipare al dialogo Timeo ed altri che rispondano a Socrate e che gli saldino il debito conviviale. Ma non è vero che essi abbiano discusso in questo modo [Quos non habet veritas sic disputasse]43.

Cui fa eco così Guglielmo: Platone, in procinto di trattare della giustizia naturale ricapitola quello che ha detto della positiva, affinché sia uno e continuo il trattato sulla giustizia. E lo fa in questo modo: introduce quattro personaggi, Socrate, Timeo, Ermocrate e Crizia sotto questa finzione [sub tali figmento] (i.e. quella della festa e del banchetto, di cui parla dopo)44.

Questo è un primo livello. Quello della finzione dell’azione dialogica, che viene detecta, viene “smascherata” immediatamente. Ad essa fa seguito la digressione sul titulus, in cui abbiamo visto prima come Bernardo e Guglielmo cerchino di giustificare moralisticamente il fatto che Platone non “firmi” con il proprio nome le opere che scrive. Anche in questo c’è, per i due, un’intenzione recondita45. Subito dopo, c’è un’interessante interpretazione della prima battuta di Socrate nel dialogo, che dice: «Uno, due, tre: e dov'è, caro Timeo, il quarto di quelli che ieri convitai e che oggi mi convitano?»46

43

BGlo, <3>, 1.

GGlo, XII, 1. In traduzione ho riportato solo il passo più saliente. Il testo, immediatamente dopo, spiega la natura del figmentum: «Cum esset mos inter Athenienses ut, festa die Palladis, in domum alicuius philosophi convrenirent ut ab eodem in aliquo instruerentur, confingit Thimeum, Hermocratem et Critiam quartumque cuius nomen hic reticet, die festo Palladis in domum Socratis convenisse et ab eodem in positiva iusticia instructos esse; finitoque tractatu quesitoque ab eis mutuo, id est tractatu de naturali iusticia, promissoque, in crastinum venit.» 44

45 46

Cfr. supra, nota 5. Tim., 17A.


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Bernardo interpreta così il passo: Inizia quindi così Uno, due, tre, e allude ai filosofi stessi che invitati il giorno prima da Socrate a banchettare, a loro volta, venissero a pagare il debito. Per cui Socrate, contando coloro che avevano preso parte al suo banchetto, ne cerca uno che gli pare manchi, ma forse non realmente, ma sottendendo un certo significato [non forsitan realiter, sed sub significatione]. Infatti, tolto il quarto, rimangono le parti che, assieme, fanno il primo numero perfetto, ovverosia il sei, e quindi inizia da ciò che è perfetto, per sottolineare la perfezione dell’opera47.

E Guglielmo: Ci chiediamo per quale motivo Platone, che è noto non faccia nulla senza causa [quem constat nichil sine causa fecisse], inizi il suo libro dai numeri; e, se si doveva inziare dai numeri, perché proprio da questi e non da altri, e perché tre numeri e non di più, e perché per cardinali e non per ordinali abbia richiamato quelli48.

Questa intepretazione “pitagorizzante”, numerologica della prima battuta socratica illustra adeguatamente il secondo livello dell’involucrum. Qui esso è di natura propriamente teorica e si riferisce all’“evocazione”, nascosta (intecta), di entità matematiche (come i rapporti intervallari musicali) o semplicemente di relazioni aritmetiche che dovrebbero prefigurare, secondo i due, la perfezione dell’opera. Ma c’è anche un involucro che è realmente mistificatorio e che, quindi, deve essere scoperto per essere neutralizzato e “sostituito” con il suo senso genuino. A proposito di certe “indicazioni” della Repubblica sulle donne e sui figli, dice Bernardo: Delle nozze comuni dice realmente [in re], nel senso che qualunque uomo possa accedere liberamente a qualunque donna voglia, come alla propria [sicut ad propriam], […]. Ma secondo questa intepretazione, lo stato descritto da Socrate sembrerebbe essere né giusto né onesto. Diciamo, dunque, che questa affermazione sia detta in maniera coperta [per involucrum]: ed ammette che sia detta contro la consuetudine. Quando Socrate ha, infatti, discusso, di nozze comuni e 47 48

BGlo, <3>, 21. GGlo, XII, 13.


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di prole comune, una cosa dice e un’altra ne intende [aliud dixit, aliud intendit]. E se dicesse, non accetto questo carnalmente, ma solo affettivamente [non….in re carnaliter, sed in sola affectione], tolta ogni turpitudine, io vorrei che in ogni stato ciascuno amasse l’altro come un figlio, o un fratello, o un padre e la moglie altrui come la propria, seguendo in questo la dottrina della chiesa [sequendo in hoc prelatorum doctrinam]49.

Egualmente Guglielmo intende: Ma noi diciamo che Platone non ha comandato la turpitudine ma l’affetto. Non disse infatti che fossero in comune, ma che si ritenessero in comune [Non… quod essent communes sed reputarentur]50.

In questo modo essi garantiscono la “decenza” del discorso platonico e la sua accettabilità a livello dottrinale. Questo livello di detectio, decisamente più radicale dei precedenti, gli consente di non procedere ad una atetesi moralista del testo e, nello stesso tempo, di attuare una valorizzazione autentica e congrua ai loro tempi dell’insegnamento morale platonico. Come si vede in tutti questi esempi, la “risemantizzazione”, oltrepassando il confine del mero arricchimento connotativo dei termini e dei problemi, è una vera e propria operazione di integrazione teorica del passato nel presente. Ed anche la ritematizzazione del Timeo, attraverso la nozione di iusticia, non è essa stessa una “scoperta” del tema autentico dell’opera ed un avvicinamento di quel paradigma concettuale ai tempi e agli stimoli intellettuali di cui essi cercano di farsi interpreti? All’inizio di questo lavoro ho messo in luce i problemi che essi si trovano ad affrontare nel commentare il Timeo: la scarna conoscenza dei testi di Platone, i pericoli insiti nell’interpretazione letterale, la necessità di fondare un quadro unitario dell’opera, l’attualizzazione dei temi discussi. Mi pare che ciò che è stato delineato fino ad ora possa rispondere adeguatamente a queste difficoltà. Facendo maturare i risultati della loro competenza linguistica e terminologica, creando il quadro di una interpretazione unitaria e “filologicamente” corretta, credo che Bernardo e Guglielmo 49 50

BGlo, <3>, 75-87 passim. GGlo, XVIII, 26.


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siano riusciti realmente a innestare la loro interpretazione di Platone, da un lato, sulla tradizione platonista stessa, ma, soprattutto, dall’altra, sui temi e le istanze problematiche della filosofia loro contemporanea e della loro personale concezione del mondo. 4. Ordo mundi et ordo reipublicae Cerchiamo, a questo punto, di riepilogare brevemente i risultati del lavoro svolto finora e di proporre delle brevi considerazioni conclusive. Anzitutto, abbiamo chiarito in che senso la giustizia possa essere ritenuta il tema centrale del Timeo, secondo l’intepretazione di Bernardo e Guglielmo. Da una parte, si è visto come questo fosse il risultato di una deduzione di tipo “filologico”, condotta sul testo, che faceva loro supporre una contiguità tematica fra l’opera e Repubblica. La ragione di questo accostamento risiedeva nel fatto che la parte proemiale del Timeo si richiamava apertamente all’analisi svolta nella Repubblica. Abbiamo spiegato, poi, come questa costruzione ipotetica si fondasse sull’individuazione di una unità semantica effettiva fra le due opere, il che oltrepassava e confermava decisamente l’idea di una mera saldatura tematica: in entrambe emergeva nettamente la questione della giustizia, nelle sue determinazioni, rispettivamente, naturale e positiva. A questa posizione si era giunti attraverso un processo storico di “accumulazione” intepretativa, che aveva il suo “epicentro” nel commento di Calcidio, trait d’union fra le esegesi neoplatoniche e il punto di vista cristiano. A loro volta, Bernardo e Guglielmo, seguendo l’indirizzo calcidiano, avevano ridato forza e attualità a questo paradigma, garantendogli piena cittadinanza nella filosofia e teologia del XII secolo. Infine, la persistenza della interpretazione politico-cosmologica dell’opera era quindi passata anche attraverso la loro competenza glossatoria e le loro specifiche attitudini teoriche, intrise di rinnovato interesse verso l’analisi linguistica e formale dei problemi ermeneutici ed, in generale, filosofici. In questo quadro che essi hanno delineato, si coglie pienamente un’esigenza “sistematica”. La ripresa di Platone, come si è detto introduttivamente, era caratterizzata da una scarsa disponibilità di suoi testi latini.


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Per quanto paradossale possa sembrare, era soprattutto questo elemento di “rarità” e di “scarsità” che facilitava una ricostruzione del suo pensiero, un riutilizzo proficuo delle sue categorie concettuali, una sua reimmissione a pieno titolo in un circuito filosofico originale. Senza entrare nel merito delle specifiche teorie e opere degli chartrensi e limitandoci al solo Timeo, dobbiamo ricordare come esso, già di per sé, potesse soddisfare una quantità innumerevole di interrogativi filosofici, come incarnaresse l’idea di un sistema di pensiero globale, adatto ai campi più svariati. Il fatto che la comunità politica, che essi immaginavano non già come un modello di polis antica, di “comunità” ristretta, di centro autarchico e autonomo, ma come una vera e propria repubblica umana “globale”, si collegasse pienamente con una repubblica “divina” da cui era scaturito l’ordine delle cose, dava loro l’idea del raggiungimento di una reale compiutezza problematica. Guglielmo, nell’accessus, riproduce uno schema di tutto il sapere, tracciando una sorta di “albero” di tutte le scienze51. Per lui il Timeo segue, parimenti, questa articolazione, riflettendo, entro sé stesso, l’immagine dell’arbor, che è anche emblema della fisiologia naturale e della natura stessa che viene così dettagliatamente sottoposta ad esame nell’opera. L’ordo reipublicae che, proclianamente, rinvia all’ordo mundi attraverso un dispositivo iconico, ritorna e si rispecchia pienamente nell’immagine dell’albero del sapere. Fra di essi non c’è più soluzione di continuità, così come nel pensiero dei due chartrensi non deve più essercene fra l’ordine politico e quello cosmico. Questa immagine che racchiude la totalità, e che avrà tanta fortuna nel platonismo rinascimentale, rinvia, peraltro, anche alla realtà storica del tempo. Nel mondo gerarchizzato medievale, ogni parte esprime un collegamento diretto con un’autorità celeste, di cui l’ordine politico è la corrispondente adaequatio. La dimensione gerarchica della società feudale si prestava bene ad essere schematizzata e, in un certo senso, legittimata attraverso quella, più ampia, della cosmologia tutta. Gli chartrensi trovano nell’opera platonica un rispecchiamento, quindi, dell’ordine esistente, una trama, per così dire, analogica.

51

GGlo, V.


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L’enfasi posta sulla questione della iusticia ha presumibilmente anche a che fare con il nuovo interesse verso i dispositivi regolativi, a livello sociale, delle comunità umane, alla “riscoperta” del valore del diritto, dello ius. Guglielmo e Bernardo hanno, a mio avviso, ben chiara questa istanza quando separano le due sfere della giustizia e ne danno esempio eloquente quando dicono che, per esempio, la iusticia positiva si occupa del potere conferito alle istituzioni umane attraverso il diritto, il quale prevede, per l’appunto, la «….suspensio latronum et cetera» (GGlo, III, 2) e che «….mores instruit, maxime ex timore, scilicet ex meritis poenas pensans et praemia.» (BGlo, <1>, 15). Qui la giustizia positiva è vista come regolazione e fissazione della sfera del lecito, per l’appunto come applicazione del diritto penale, in questo modo contrapponendosi nettamente a quella naturale, che si basa sul mos. Mentre la positiva agisce «…maxime ex timore» e cioè attraverso la coazione, quella naturale «... ex dilectione magis operatur» (BGlo, <1>, 17) attraverso, cioè, l’amore naturale che esiste in interiore corde. Le due sfere, potremmo dire, quindi, sono nettamente separate secondo una visione del diritto e delle sue pertinenze estremamente chiara. Anche i riferimenti del Timeo a specifiche disposizioni concernenti lo stato, la tripartizione della popolazione secundum officium (GGlo, XIV, 19) o l’idea che i sapientes debbano reggere la repubblica, sono, per i due, tranquillamente attualizzabili nella società del loro tempo. E si potrebbero citare molti altri passi che si accordano perfettamente con questo quadro. Cosa dire, allora, conclusivamente del “mistero” apparente dell’argumentum Timaei, ovverosia della iusticia naturalis, da essi individuata nell’accessus, da cui avevamo preso le mosse? A questo punto credo che sia apparso chiaro come la questione non sia priva di importanza ai fini di un’interpretazione globale di queste glosse. Per comprendere, infatti, quello che ad essi sembrava del tutto naturale, abbiamo dovuto ripercorrere il cammino storico delle interpretazioni del Timeo, cercando in esse degli elementi che giustificassero la visione di Bernardo e Guglielmo. Ma anche questo non è stato di per sé sufficiente. Abbiamo visto all’opera anche una vera e propria “ricarica” semantica dell’idea di giustizia, che dipendeva da svariati fattori, non ultimo la particolare dimensione politica e culturale del Medio Evo. A quel punto, credo si sia capito che eravamo di fronte ad una stratificazione storica abbastanza complessa,


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che oltrepassava il confine delle necessità ermeneutiche, rispetto al Timeo, di Bernardo e Guglielmo. Anzi, si può azzardare che la nozione di iusticia che essi pongono al centro delle loro analisi e che ritengono, da ultimo, il reale scopo dell’opera possa definirsi autenticamente una chiave privilegiata per la comprensione dell’atteggiamento di questi pensatori nei confronti dell’opera platonica. Lungi dall’essere una gratuita forzatura ermeneutica, l’identificazione della iusticia come argomento del Timeo si rivela un mezzo concreto per gettare dall’opera di Platone un ponte dentro il vivo della filosofia del XII sec. E a proposito dell’importanza di queste glosse, si può vedere come la sua connessione diretta con le proprie dottrine mature venga sottolineata da Guglielmo nel prologus, quando presentando il lavoro ai suoi studenti lettori egli dice: […] Se qui si troverà qualcosa che sia già contenuta nella nostra Philosophia, non penso che mi si debba per questo biasimare. Infatti per questa ragione abbiamo scritto quest’opera, perché sappiamo che non tutti possiedono quella e che non tutti quelli che ce l’hanno sanno discernere ciò che di essa sia necessario per questa o sappiano riferirlo adeguatamente ai passi corrispondenti. [… nec omnes qui habent convenienter quid huic operi necessarium fuerit inde eligere vel electum ad locum convenientem transferre]52.

L’opera nella quale egli ha maggiormente riposto le sue speranze di filosofo, sembra dirci Guglielmo, non può essere adeguatamente contestualizzata senza le Glosae. Anzi, egli sembra suggerire che, quand’anche non si possedesse la sua Philosophia, questo commento del Timeo sarebbe già in grado di riproporre alcuni dei problemi fondamentali che in essa erano stati indagati. In questo modo, egli intende rimarcare il fatto che il suo lavoro glossatorio non è semplicemente propedeutico a quello teoretico vero e proprio, ma che, piuttosto, i frutti maturi del suo pensiero possono essere visti come naturale prolungamento della sua riflessione sul Timeo, e che ad esso, per comprenderne adeguatamente le radici e la sostanza, devono essere costantemente ricondotti.

52

Id., I, 12.


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Così come Platone aveva sviluppato il pensiero del suo maestro cercando di non tradirne lo spirito, ed invocandone costantemente il “patrocinio”, allo stesso modo gli chartrensi sembrano concepire il rapporto con il loro antico, ideale magister: una sua costante rievocazione e “presentificazione” in nuove indagini che si accordino con il suo lascito perenne.


Synaxis XXXIII/2-3 (2015), pp. 135-164

IL DE BEATA VITA DI AGOSTINO D’IPPONA. LA RICERCA DELLA FELICITÀ TRA PLENITUDO ED EGESTAS

FRANCESCO ALEO1

Introduzione Come ci informa con dovizia di particolari Jérôme Carcopino, nel suo classico ed insuperato studio dal titolo La vie quotidienne à Rome à l’apogée de l’Empire, edito nel 1939 in Francia, presso l’editore Hachette ed apparso in traduzione italiana nel 1941, in un momento che non concesse a questo libro nel nostro paese, il dibattito e la discussione che meritava, gli antichi romani trascorrevano la giornata attendendo nelle thermae l’ora della cena, corrispondente al pasto principale della giornata o al nostro pranzo pomeridiano che i romani consumavano invece la sera. Val la pena di riferire alcune espressioni di Carcopino cui vorremmo riferirci, nel prosieguo e nello svolgimento del presente contributo. Alla fine del suo studio, Carcopino annota come: «I bagni offrivano ai romani quasi un compendio dei beni che rendono la vita felice e bella.»2. I balnea che erano i bagni privati o domestici da distinguere dalle balneae, i bagni pubblici, posti nelle grandiose thermae dell’età imperiale nell’Urbe, erano, secondo lo studioso francese, l’indice dell’apertura dei romani verso l’atletismo e la cultura del corpo proveniente dai greci. Invece, riguardo alla cena, così 1

Docente stabile di Patristica presso lo Studio Teologico S. Paolo

J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’Impero, Roma-Bari 1986, 293. 2


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Francesco Aleo

si esprime: «… un gran numero di romani erano abituati a trasformare il pranzo che coronava la loro giornata in una festa discreta e piacevole, in cui lo spirito aveva la sua parte come il corpo e in cui la meticolosa etichetta non escludeva né la misura, né la semplicità.»3. La convivialità della cena romana solo apparentemente mostrava spontaneità e distensione, dal momento che grande importanza era riservata sia all’identità, al rango sociale, alla disposizione ed alla postura dei convitati sia alla preparazione, all’accostamento dei sapori dei cibi e delle vivande, all’ordine delle portate, alla quantità di cibo da ingerire e di vino da bere. Ci sembra che le considerazioni di Carcopino, nonostante la distanza temporale che da lui ci separa e la rivoluzione storiografica delle Annales, sorta proprio in Francia che ha segnato la storiografia del Secolo breve, siano ancora oggi calzanti ed oltremodo attuali. L’attenzione alla cura del corpo, all’alimentazione ed alla qualità del cibo, senza scomodare i riferimenti alla diffusione delle palestre, della chirurgia estetica, al cibo “biologico” ed all’Expo di Milano, ci sembrano segnare in maniera assai più marcata che in altre epoche la dimensione antropologica del vivere quotidiano dei nostri giorni. A questo si aggiunga il dato per il quale nessun’altra epoca della storia dell’umanità, quale quella che oggi sta vivendo il nostro Occidente, secolarizzato e laicista, è stata caratterizzata dalla ricerca nonché dal diritto per ciascun uomo alla felicità. Un raffronto nella sua storia remota, tenendo presente il superamento doveroso e necessario di una prospettiva eurocentrica, può forse essere rintracciato proprio all’apogeo della potenza imperiale romana, nel II secolo dell’era cristiana, quando tutto il mondo allora conosciuto o l’oikouméne era unito sotto un’unica legge, un’unica moneta ed una sola lingua o un idioma bivalente, corrispondente al greco od al latino, nel corso del primo esperimento di globalizzazione riuscita nella storia dell’umanità4. Proprio la ricerca della felicità è l’intento che si propone 3

Ibidem, 311.

Proprio in considerazione degli spunti offerti nel nostro tempo dalla globalizzazione, vanno rivisitate ed in parte riviste le nostre conoscenze storiche sull’Impero Romano, vd. P. Veyne, L’Impero greco-romano. Le radici del mondo globale, Milano 2007; Idem, Quando l’Europa è diventata cristiana (312-394). Costantino. La conversione, l’impero, Milano 2008. Allo scopo di mettere in discussione l’eurocentrismo, in vista di un atteggiamento nuovo che consenta di apprezzare la storia e le “storie” di altri popoli e di altre civiltà, 4


Il De beata vita di Agostino d’Ippona.

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dopo la conversione al cristianesimo ma prima di ricevere il battesimo, Agostino d’Ippona, negli anni della sua residenza milanese, nell’avanzato IV secolo. Se, tuttavia, ai nostri giorni, il culto del corpo e della forma fisica, l’attenzione alla dieta ed all’alimentazione ci inducono spesso e volentieri ancora a gratuite e scontate considerazioni sulla “perdita del senso” o sul “relativismo edonista” della nostra epoca, proprio i balnea e la cena della fine del IV secolo, oppure la cura del corpo e la convivialità, in un Impero d’Occidente ormai avviato al tramonto, sono insieme i luoghi ed i nuclei ermeneutici che permettono di leggere oggi e di attualizzare il De beata vita di Agostino d’Ippona, allo scopo di trarne alcune chiavi di lettura, utili a nostro modesto avviso, a porre al giorno d’oggi, il problema della ricerca della vera felicità e le condizioni del suo perseguimento ed in certa misura, del suo possibile raggiungimento5. vd. A. Toynbee, Il mondo e l’Occidente, Palermo 1992; L. Di Fiore-M. Meriggi, World History. Le nuove rotte della storia, Roma-Bari 2011, in particolare alle pp. 91-106; E. J. Hobsbawn, Il secolo breve 1914/1991, Milano 2012; N. Ferguson, Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà, Milano 2012; E. J. Hobsbawn, La fine della cultura. Saggio su un secolo in crisi d’identità, Milano 2013. Sui prodotti e gli effetti nei secoli, operati nell’Occidente romano quindi medievale, dalla “svolta costantiniana”, avvenuta con l’Editto di Costantino del 313, vd. G. Zamagni, La “Fine dell’era costantiniana” in F. Heer-M.-D. Chenu (19381963). In tre quadri e un epilogo al Concilio vaticano II, in Cristianesimo nella Storia 29 (2008) 1, 113-138; Idem, Fine dell’era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico, Bologna 2012; M.-D. Chenu- M. Pesce, La fine dell’era costantiniana, Brescia 2013; M. Borghesi, Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson. La fine dell’era costantiniana, Milano 2013.

Ovviamente, non è possibile fornire una Bibliografia di studi esaustiva sull’Impero Romano, ci limitiamo, pertanto, alla citazione generale di tre fonti patristiche, a delle indicazioni bibliografiche recenti e ad alcune sommarie considerazioni che riteniamo capaci di illuminare ed individuare alcune dinamiche sociali e prospettive storiche di fondo significative, per quanto tenteremo di sviluppare nel corso del presente contributo. Eusebio di Cesarea, nella sua Historia Ecclesiastica, in pieno IV secolo, constata il beneficio che le strade e la Pax Romana dell’Impero, fondato da Augusto, avevano apportato alla diffusione del Vangelo. L’ordine pubblico, la manutenzione delle strade, le fortificazioni e, cosa importante, la riscossione delle tasse, erano compiti formalmente delegati ai consigli municipali (curiae) di alcune delle 2500 città (civitates) sparse per tutto l’Impero, tanto che questo è definito da Elio Aristide, nel suo Panegirico di Roma, a metà del II secolo, come una confederazione di città o «una sola città». Secondo il nostro modello di Stato moderno, quello dell’Impero Romano si può denominare uno “Stato minimale”, uno Stato 5


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cioè pronto a delegare alle élites locali (curiae) e provinciali (provinciae) quasi tutte le attività di governo, ad eccezione della comminazione della pena di morte (ius gladii) e del comando dell’esercito, quest’ultimo riservato all’imperatore (imperator), cfr. P. Brown, Per la cruna di un ago. La ricchezza, la caduta di Roma e lo sviluppo del cristianesimo, 350-550 d.C., Torino 2014, 7. L’esercito era uno dei pilastri o forse l’unico vero pilastro dell’Impero Romano, vd. G. Breccia, I figli di Marte. L’arte della guerra nell’antica Roma, Milano 2012, il cui pronto intervento in tutte le province era reso possibile proprio dalle strade (stratum) che consentivano rapidità e facilità di spostamento da un capo all’altro del vastissimo Impero, cfr. G. Uggeri, Sulle strade di San Paolo in Anatolia. Il secondo e il terzo viaggio, in S. Patitucci Uggeri(cur.), Paolo di Tarso. Il messaggio, l’immagine, i viaggi. Studi in memoria di Luigi Padovese. Atti del Seminario di Studi (Borgo Sant’Angelo 19 novembre 2009), Palermo 2011, 125-173. Per una riflessione su questo come su altri aspetti dell’Impero Romano e Tardo-Romano, si rinvia all’importante opera storica di A.H.M. Jones, The Later Roman Empire (284-602). A Social Economic and administrative survey, Oxford 1964, 3 vv., ancora assai valida, specie per le considerazioni sull’amministrazione centralizzata e l’economia dirigistica nel IV secolo ed alla recensione che ne ha scritto P. Brown, Religione e società nell’età di Sant’Agostino, Torino 1975, 37-53, in particolare, rinviamo alle sue puntuali osservazioni e riflessioni sui trasporti, alle pp. 44-46. Sulla viabilità in Sicilia in età tardo-antica, cfr. V. Messana-V. Lombino, Vescovi, Sicilia, Mediterraneo nella Tarda antichità. Atti del I Convegno di Studi (Palermo, 29-30 ottobre 2010), Caltanissetta-Roma 2012, 38, n. 76. Il Diritto Romano, capace di venire incontro alle comunità locali, fondato sullo Ius e sulla Lex, ma aperto all’accoglienza della Consuetudo, permetteva e sanciva azioni e rapporti sociali e civili nuovi e diversi, fra i quali, nell’Impero costantiniano, furono annoverati quelli all’interno delle comunità (ecclesiae) cristiane. Su un piano diverso da quello regolamentato dallo Ius e dalla Lex si costruivano e si muovevano le relazioni ed i rapporti sociali ordinari, specie quelli fra i ricchi ed i poveri, ma ambedue cittadini (cives) romani. Ricordiamo il fenomeno del patrocinium, che consentiva l’imporsi dell’influenza di potenti patroni nel tessuto sociale urbano delle città anche a discapito della Lex, come avveniva nel IV secolo e ci testimonia lo Ps. – Macario Egizio, alla periferia dell’Oriente romano, vd. F. Aleo, Legge naturale e legge divina in un Logos dello Pseudo–Macario Egizio (Log. I, Coll. III). Comunicazione tenuta l’11 maggio 2012 al XL Incontro di Studiosi dell’Antichità Cristiana, presso l’Institutum Patristicum Augustinianum, Pontificia Università Lateranense (Roma 10-12 maggio 2012), apparsa in Augustinianum LIII (2013) 2, 427-439 ma anche lo stesso Agostino, posto, come apprendiamo dalle sue Confessiones, sotto la protezione di un potente patronus quale Romaniano, per proseguire i suoi studi a Cartagine. Atteggiamenti e comportamenti dei patroni verso i loro clientes continuarono ad esistere ed a perpetuarsi, anche se con profonde mutazioni, nella persona e nella figura dei vescovi, quali nuovi patroni che si occupavano ora dei loro fideles, nelle comunità cristiane. Tali relazioni e rapporti avevano il loro perno e movente proprio sulla cura del corpo (nelle thermae e nelle balneae) e sulla fornitura di cibo (institutio alimentaria ed annona), nonché sui giochi e sugli spettacoli (ludi e spectacula),


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Il De beata vita di Agostino d’Ippona Il 13 novembre del 386, in una comoda Villa romana, dotata di balnea, ma anche di aulae o sale, entro eleganti thermae private, ubicata presso Cassiciacum, nei dintorni di Milano (Mediolanum), si svolge una discussione sulla felicità o sulla vita buona cui Agostino darà forma di Dialogus, dal titolo De beata vita6. Occorre fare un passo indietro, per riandare al momento in cui Agostino, dalla Provincia d’Africa, precisamente dal municipium di Tagaste dov’era nato nel 354 e dalla civitas di Cartagine, dove aveva compiuto gli studi, giunse nel 384 a Milano, allora capitale imperiale dell’Impero Romano d’Occidente. Agostino appena trentenne, a Milano trovò un ambiente culturalmente ed intellettualmente stimolante. Vi incontrò circoli di letterati per lo più pagani, ma interessati al cristianesimo; vi si coltivava la retorica ma anche la filosofia, in particolare il neoplatonismo, infine, il cristianesimo era rappresentato da uomini di una

offerti alle plebi (plebs) urbane dall’imperatore, prima a Roma poi a Costantinopoli e dalle élites provinciali nelle principali città dell’Impero, quali patroni. Sull’importanza delle thermae o dei balnea sia pubblici che privati, siamo informati da tutta una serie di fonti, comprese quelle archeologiche, recentemente venute alla luce, analizzate ed esaminate da prospettive inedite da Brown, nel suo Per la cruna di un ago, cit., 275-275.305, ove i ricchi frequentatori dei bagni erano soliti salutarsi con le parole salvus lotuso «in salute e lavato!» e si esaltava il benessere e lo stato di forma fisica. Sull’alimentazione della plebs o plebs frumentaria che aveva diritto all’annona civica, si giocava il consenso e la fortuna dell’aristocrazia senatoria di Roma, in particolare di quella divenuta cristiana, che doveva garantire la securitas populi Romani, dalla fame e dalla carestia, cfr. Ibidem, 97.156. Sulla disposizione e sulla tipologia architettonica delle sale da pranzo (triclinium o trichorium) ove ci si avvaleva non del sedile ma del letto (lectus triclinaris) o del divano (stibadium), si dilunga il sagace studioso britannico, il quale osserva come il modello della sala da pranzo romana (diaeta) rimanesse la colazione all’aperto, proprio come si può verificare nel De beata vita di Agostino. Inoltre, una pratica comune dell’aristocrazia romana, residente nelle fastose Villae di campagna di loro proprietà, era quella dello scambio di xenia, piccoli regali di cibo e frutta, creando e determinando vere e proprie strategie relazionali, politiche e sociali, ad un livello superiore, cfr. Ibidem, 272.273. L’identificazione di Cassiciacum è ancora oggi discussa, opinando gli studiosi tra i siti di Cassiago sopra Varese e Cassago in Brianza, richiamanti entrambi il toponimo latino, cfr. O. Perler, Lesvoyages de Saint Augustin, Paris 1969, 179-196. 6


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certa levatura, fra i quali il vescovo Ambrogio7. Agostino ebbe la possibilità di assistere al trionfo del vescovo Ambrogio sui suoi nemici nella corte imperiale milanese ed all’ascesa progressiva della sua autorità religiosa e politica8. Ancora manicheo, entrò in ascolto dell’omiletica del vescovo di Ovviamente, su Agostino d’Ippona, la Bibliografia degli studi è sterminata, si rinvia soltanto a C. Moreschini-E. Norelli, Storia della Letteratura cristiana antica greca e latina. Dal concilio di Nicea agli inizi del Medioevo, Brescia 1996, II/2, 509-571 ed a S. Döpp-W. Geerlings (curr.), Dizionario di Letteratura cristiana antica, Roma 2006, 18-42, per le notizie più importanti riguardanti la vita e le opere. Sulla vita di Agostino d’Ippona, si rinvia a P. Brown, Agostino d’Ippona, Torino 2005, in particolare alle pp. 104-117, a tratti discutibile in certi passaggi ed affermazioni, purtuttavia, ci fornisce un ritratto vivido della romanitas di IV e V secolo, in cui Agostino visse ed a A. Pincherle, Vita di Sant’Agostino, Bari 1988, in particolare alle pp. 70-82, che consente una buona conoscenza dell’intreccio delle vicende personali di Agostino con lo svolgersi della sua riflessione ed indagine filosofica e teologica. Sull’incontro di Agostino con Ambrogio a Milano, vd. Idem, Ambrogio ed Agostino, in Augustinianum XIV (1974) 3, 385-407. 7

Ricordiamo la contesa che impegnò a Milano il vescovo Ambrogio con l’imperatore fanciullo Valentiniano II, dietro il quale, in realtà, si faceva forte l’imperatrice madre Giustina, reggente del figlio ed ariana, per il possesso di una basilica, nota come la Basilica portiana, assegnata dalla corte imperiale agli ariani. Ambrogio si rifiutò recisamente di consegnare questo come altri edifici di culto ad Aussenzio, il vescovo ariano di Milano; le truppe gotiche circondarono la basilica, mentre all’interno il vescovo coi suoi fedeli cantavano Inni da lui stessi composti, vi furono dei tafferugli, ma alla fine la corte imperiale cedette e rinunziò alle sue pretese. È il Sermo contra Auxentium de tradendis basilicas a restituirci il rapporto di Ambrogio, vescovo ed ex governatore della Liguria, con il potere imperiale gestito ancora dall’imperatore d’Occidente. Se Ambrogio riconosce all’imperatore la riscossione dei tributi gravanti sulle proprietà agrarie in possesso della Chiesa, rivendica però alla Chiesa la distribuzione di sussidi ed aiuti ai poveri (cfr. PL 16, 1017B-C, 33-35). Come afferma P. Brown, Per la cruna di un ago, cit., 171, nell’Impero Romano d’Occidente, nel IV secolo, al potere degli aristocratici senatori si sostituisce ormai quello dei vescovi cristiani, solleciti ambedue verso i bisogni del popolo, in primo luogo dei poveri, per cui davvero: «Sotto la guida di un vescovo come Ambrogio, una nuova forza aveva fatto il proprio ingresso nelle città del mondo romano.». Così, allo Ius, regolante la societas romana, si oppone la Scriptura, regolante l’ecclesia cristiana, alla figura del ricco Patronus pagano si sostituisce quella del santo Episcopus cristiano, per cui Ambrogio non teme di rispondere all’imperatore col dire che: «Il tributo è di Cesare non si nega: la Chiesa è di Dio non dev’essere destinata a Cesare; poiché diritto di Cesare non può essere il tempio di Dio.». Ed ancora e qui concludiamo per ragioni di brevità: «L’imperatore infatti è dentro la Chiesa non sopra la Chiesa; è buono l’imperatore che chiede aiuto alla Chiesa non chi lo rifiuta. Questo umilmente diciamo, costantemente tale lo esponiamo.» (PL 16,1018B,36). 8


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Milano che gli permise di accostarsi alla Sacra Scrittura e di comprendere quanto il cristianesimo fosse una realtà spirituale, diversamente da quanto professava il manicheismo. Agostino, così, accostandosi al neoplatonismo cristiano milanese e maturando la sua riflessione sull’esistenza di un solo Dio, si allontanò definitivamente dal dualismo manicheo. Inoltre, venendo a conoscenza della riflessione sul Logos, suprema sapienza e razionalità, cominciò a distinguere fra la dottrina del Prologo del Vangelo secondo Giovanni e quella dei neoplatonici, cui mancava pur sempre la fede nel Verbo incarnato, unico mediatore fra Dio e gli uomini. Lo impressionarono in questo periodo alcuni esempi di conversione al cristianesimo: quella di Antonio la cui Vita può davvero considerarsi un best seller del IV secolo, riscuotendo un grandissimo successo sia in Occidente che in Oriente; quella di due ufficiali della corte imperiale di Treviri, impressionati a tal punto dalla lettura della Vita Antoni, da decidersi per la vita ascetica; infine, la conversione di Mario Vittorino, intellettuale e neoplatonico come Agostino. Quando, tra la fine dell’estate e l’autunno del 386, Agostino si ritira con sua madre Monica ed un gruppo di amici, nella Villa del suo amico Verecondo a Cassiciacum, è ancora convinto di poter raggiungere un equilibrio tra neoplatonismo e cristianesimo9. L’Agostino del De beata vita e degli 9 Il ritirarsi in un luogo appartato per coltivare gli otia o gli studi filosofici non era iniziativa isolata ed un po’ eccentrica di pochi e riservati spiriti eletti della Tarda antichità. Abbiamo testimonianze, appartenenti al IV secolo, afferenti, tuttavia, agli esponenti dell’aristocrazia senatoria, quali Nicomaco Flaviano che si ritirò in una sua Villa siciliana apud Hennam per commentare ed emendare una nuova edizione delle opere di Tito Livio o Manlio Teodoro, cui Agostino dedica il De beata vita, posto all’inizio del Dialogo, che si dedicò agli otia, allo scopo di scrivere un trattato di metrica latina, giunto fino a noi. Numerosi manoscritti medievali della I Decade delle Historie di Tito Livio ci restituiscono sottoscrizioni e note, risalenti tutte all’inizio del V secolo, testimonianti lo sforzo congiunto di emendare e curare la pubblicazione, quindi la conservazione dell’opera storica di Tito Livio, da parte delle Gentes dei Simmaci e dei Flaviani, entrambi di altissima aristocrazia senatoria, vd. O. Jahn, Über die Sub scriptionen in den Handschriften römischer Classiker, in Berichte der sächsische Gesellschaft der Wissenschaftzu Leipzig. Philologische-historische Klasse, 3 (1851), 327-372, ancora fondamentale. Nicomaco Flaviano, tre volte Praefectus Urbis, preannunzia così l’opera dei monaci benedettini dell’Alto Medioevo, di conservazione e di trasmissione della cultura antica. L’opuscolo di Manlio Teodoro, dal titolo De metris, è accessibile in H. Keil, Grammatici latini, Cambridge 2010, 8 voll., l’ultima edizione riproducente la prima, pubblicata tra il 1855 ed il 1880; nella prima edizione, il De metris si


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altri Dialogi è un uomo non più giovanissimo, un rétore di belle speranze e ricercato, il quale ha rinunciato a tutto. Come apprendiamo dal racconto della sua vita, scritto parecchi anni dopo nelle sue Confessiones, redatte tra il 397 ed il 401, Agostino a quel tempo ha rinunciato ad un matrimonio con una ricca ereditiera, combinatogli dalla madre Monica con i buoni uffici del vescovo cristiano di Milano Ambrogio. Ha rinunciato alla cattedra di retorica a Milano, ottenutagli dai maneggi dei manichei con i buoni uffici del Praefectus pagano di Roma Simmaco. Ha rinunciato a vivere con la sua compagna dalla cui lunga convivenza ha avuto il figlio Adeodato. Ha rinunciato anche alla pratica ed all’esercizio della sua professione e della sua cultura retorica; di lì a poco, chiederà al vescovo di Milano Ambrogio di essere iscritto fra i competentes, per chiedere il battesimo10. In tutti i suoi trova nel vol. VI del 1874, alle pp. 585-601. Se dunque gli aristocratici pagani si dedicavano alla salvaguardia della cultura pagana ed antica dal tracollo della loro epoca, nella quiete e negli agi delle loro eleganti Villae residenziali, al centro, talvolta, delle loro immense proprietà agrarie o latifundia, gli aristocratici cristiani si dedicavano ad altre attività o pratiche, come la costruzione di chiese e santuari per custodire le reliquie o le spoglie dei santi. È il caso di Paolino, il quale si ritirò a vita ascetica, edificando prima e dopo la sua elezione episcopale, il santuario di S. Felice, presso Nola, testimone di una pietà “eversiva” oltre che della nascita della poesia cristiana, cfr. P. Brown, Per la cruna di un ago, cit., 289311. È ancora il caso dei coniugi Melania e Piniano, della Gens Valeria, che si ritirarono a vita ascetica, sulle orme dell’insegnamento dei monaci del deserto egiziano, dopo aver venduto il patrimonio avìto per darlo ad opere caritative ed assistenziali, testimoni di una carità “eversiva” oltre che tra i primi pellegrini ai sancta loca della vita di Gesù, in Terra Santa, vd. C. Soraci, Patrimonia sparsa per orbem. Melania e Piniano tra errabondaggio ascetico e carità eversiva, Acireale-Roma 2013.

10 Cfr. Agostino d’Ippona, Le Confessioni. Traduzione e note di C. Carena, Roma 2000 (Opere di Sant’Agostino I), 5,13,23;6,6,9, 138-139.154-155 e P. Brown, Agostino d’Ippona, cit., 105. Interessa notare la menzione da parte dello stesso Agostino, rispettivamente, della evectione publica, messagli a disposizione da Simmaco e delle proprie cupiditates. L’usufruire dei mezzi imperiali di comunicazione e di trasporto o cursus publicus segnava l’ascesa ed il rango sociale di chi vi viaggiava ed indubbiamente, Brown è nel vero, quando coglie nelle cupiditates di cui bramava il giovane Agostino, rétore affermato a Milano, aspettative in gran parte sociali. Vi rinveniamo gli honores o le cariche politico-istituzionali ed amministrative, afferenti alla carriera nell’amministrazione imperiale o cursus honorum, i lucra o i guadagni della professione retorica ed il coniugium ovvero il matrimonio, che nella società tardo-romana era una prerogativa oltre che una meta da raggiungere, per una posizione sociale sicura e realizzata. Nelle Confessiones, un posto im-


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Dialogi, costruisce intelligenti, a tratti deliziosi, quadretti di vita conviviale tra amici, con la presenza anche dei suoi fratelli, del proprio figlio Adeodato e della madre Monica. Il suo intento è quello di presentare, sul modello dei Dialogi platonici - in primo luogo del Simposio di Platone - la Filosofia e la sua sapienza come accessibili a tutti. La forma del Dialogus gli consente di esprimere, liberare e rivelare le relazioni ed i caratteri di amici e familiari. Come nota Peter Brown, vari e diversi sono i temperamenti ed i tipi di questi «laici cristiani», riuniti attorno ad Agostino a Cassiciacum. In realtà, non occorre premurarsi di stabilire la loro appartenenza ad una filosofia o ad una chiesa oppure di chiarire se siano cristiani od ancora pagani: sono cives Romani della tarda antichità, pienamente inseriti nella società di un Impero prossimo al disfacimento, ma non decadente, almeno non nel senso che diamo noi a questo aggettivo11. Quelli presenti nei Dialogi di Agostino portante assume la concupiscentia, legata, secondo Brown, alla scelta tra il coniugium ed il concubinatus. Poco o nulla aveva a che fare il coniugium con l’amore o con quello che noi moderni intendiamo per amore. Al coniugium veniva spesso preferito il concubinatus che era dettato all’uomo dal desiderio di vivere con una donna, in quella che per noi moderni si accosterebbe ad una convivenza o ad una coppia di fatto, riconosciuta dal Diritto romano ed accettata anche presso i cristiani. Nel concubinatus, Agostino visse una relazione d’amore autentica, nella fedeltà alla sua compagna e nella paternità vissuta, allevando il figlio Adeodato. La debolezza provocata dalla sessualità di cui è intriso il corpo, propugnata e sostenuta da Tertulliano, tra la fine del II e l’inizio del III secolo, si riaffaccia nel pensiero di Agostino ed in particolare, nell’ultima fase del suo pensiero e della sua vita, come possiamo vedere nel De nuptiis et concupiscentia, scritto tra il 418 ed il 419, intendendo il coniugium come remedium concupiscentiae. Forse, però, non si è prestata sufficiente attenzione anche alla concupiscentia manducandi et bibendi, in Le Confessioni, cit., 10,31,47, 340-341, ove si coglie la dimensione sia fisica che creaturale dell’homo viator o dello stesso Agostino, nel suo cammino verso la conversione e la santità. Questo periodo storico di passaggio d’epoca o di transizione culturale, sociale, economica, politica e religiosa che si suol denominare Tardo-antico, fino a pochi decenni fa si soleva definirlo come Basso Impero, considerato, dall’Umanesimo in poi, solo come decadenza. La tesi storiografica della decadenza o del declino, quindi della caduta dell’Impero Romano, raggiunse il suo apice nel XVIII secolo con la monumentale History of the decline and fall of the Roman Empire di E. Gibbon. Nel corso del XX secolo, il giudizio degli storici si è ribaltato, tanto da parlare con H.I. Marrou del IV secolo come del “secolo d’oro” della tarda antichità, vd. Decadenza romana o tarda antichità?, Milano 1987. Sugli studi inerenti il Tardo-antico, ci limitiamo a segnalare alcuni importanti lavori, vd. P.E. Hubinger, Spätantike und Frühesmittelalter. Ein historishes Problem, Bad Hamburg 11


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sono cittadini dell’Occidente romano, con tutti i diritti ed i doveri annessi e connessi al loro status ed al loro grado d’istruzione. Leggono i libri degli autori del loro tempo e conoscono la letteratura antica, in primo luogo Virgilio e l’Eneide, come conoscono le Sacre Scritture, in primo luogo i Salmi; sono ascoltatori delle Omelie di Ambrogio e conoscitori dei suoi scritti. Studiano Cicerone ed imitano lo stile delle sue opere; apprezzano l’arte di un mosaico; ascoltano e scrivono di filosofia; si appagano dei profumi delle rose. Sono agiati cittadini di un gruppo di livello sociale ed urbano medio-alto, entro i limiti ed i condizionamenti di uno Stato strutturato ed all’apparenza solido e stabile. Così Romaniano, protettore di Agostino, ha perso una causa nel tribunale di Milano, nonostante l’intervento dei suoi potenti patroni; suo figlio Licenzio, che canta un Salmo nella latrina, scandalizzando Monica, sogna di diventare un giorno console e pontefice pagano. Verecondo, tornato a Milano per l’inizio dell’anno scolastico, mettendo a disposizione di Agostino e dei suoi amici la propria Villa, è un maestro di scuola (grammaticus) e Nebridio è il suo assistente; Alipio è adsessor del comes sacrarum largitionum, equivalente oggi ad un sottose1959; A.H.M. Jones, Il tramonto del mondo antico, Bari 1972; P. Brown, Il mondo tardo antico, Torino 1974; S. Mazzarino, Antico, tardoantico, era costantiniana, I, Bari 1974; A. Carandini - L. Cracco Ruggini - A. Giardina, Storia di Roma. L’età tardoantica. I luoghi e le culture, III/2, Torino 1993; A. Giardina, Esplosione di tardoantico, in Studi Storici 40 1 (1999) 157-160; P. Brown, Genesi della tarda antichità, Torino 2001; G. Fowden, L’elefantiasi del tardo-antico, in Journal of Roman Archeology 15 (2002) 681-686; H. Brandt, L’epoca tardoantica, Bologna 2005. Tuttavia, sulla tesi della continuità, ultimamente si sta affermando, specie con il contributo dell’archeologia e lo studio della cultura materiale del Tardo-antico, la tesi della cesura violenta o della fine di un’epoca cui ne segue un’altra che non raggiunge più gli standards di quella precedente, soprattutto per quanto riguarda il genere di vita urbano, vd. B. Ward Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà, Roma-Bari 2008. Sul versante della storiografia è innegabile un’inversione di tendenza, nel considerare il Tardo-antico, effettivamente, come un’epoca finale di un ciclo, con un mutamento radicale degli assetti sociali e culturali, vd. P. Heather, La caduta dell’impero romano. Una nuova storia, Milano 2006; A. Baldini, L’impero romano e la sua fine, Bologna 2008; A. Goldsworthy, La caduta di Roma. La lunga fine di una superpotenza dalla morte di Marco Aurelio fino al 476 d.C., Roma 2011; G. Ravegnani, La caduta dell’impero romano, Bologna 2012. Interessanti considerazioni pone P. Brown, Per la cruna di un ago, cit., 10, sullo sfaldamento dell’Impero Romano d’Occidente, in particolare nel Capitolo XXIV, alle pp. 534-566, in specie sulla contrapposizione, ripresa da Heather, fra «romanità locale» e «romanità centrale».


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gretario del Ministero delle Finanze; Evodio è agens in rebus o funzionario della polizia segreta imperiale. Sono questi gli amici di Agostino, alcuni dei quali prenderanno altre vie e scompariranno dalla sua vita come Romaniano e suo figlio Licenzio oppure altri, non presenti nei Dialogi, diventeranno vescovi insieme con lui come Alipio ed Evodio. I personaggi del De beata vita sono, oltre allo stesso Agostino, sua madre Monica e suo figlio Adeodato, Navigio, il fratello maggiore di Agostino, Lastidiano e Rustico suoi cugini, Licenzio e Trigezio, discepolo e concittadino di Agostino. Si tratta, quindi, di un gruppo di famiglia o di africani, coeso al suo interno, a motivo della loro ascendenza familiare ed etnica. Sono pur sempre dei «provinciali» ma che hanno discretamente accesso alle opportunità messe loro a disposizione dallo Stato imperiale d’Occidente. Il Dialogo si protrae per tre giorni dal 13 al 15 novembre, inizia nel pomeriggio nelle thermae, lì vi continua nel secondo giorno e si conclude nel pomeriggio del terzo giorno, all’aperto. Date le nostre premesse cercheremo di ricostruire lo svolgimento del Dialogo agostiniano, tentando di rinvenire nella tensione tra plenitudo ed egestas e nel portato ideologico e culturale del contesto nel quale si svolge, segnato da nuclei ermeneutici quali le thermae e la cena romane, un indirizzo che ponga l’uomo e l’umano ad un tempo, quale soggetto protagonista e contenuto essenziale della ricerca della vita buona o della felicità. La ricerca della felicità nel De beata vita Come afferma Henri Hirenée Marrou nel suo classico studio su Agostino d’Ippona dal titolo Saint Augustin et la fin de la culture antique, con il periodo di Cassiciacum, nel 386, comincia il periodo filosofico di Agostino che termina nella primavera del 38712. La sua conversione al cristianesimo a Cassiciacum è ormai avvenuta, ma precede pur sempre il battesimo13. 12

Cfr. H.-I. Marrou, S. Agostino e la fine della cultura antica, Milano 1987, 154.

Ovviamente, non possiamo dilungarci sulla celebre “scena del giardino” e sulla conversione di Agostino, sulla quale sono stati scritti fiumi d’inchiostro, cfr. Le Confessioni, cit., VIII,8,19-30, 237-251; cfr. A. Pincherle, Vita di Sant’Agostino, cit., 67-69, n. 57, le cui considerazioni ci sembrano più complete e puntuali rispetto a quelle poste da P. 13


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Essa non può essere separata dalla sua conversione alla filosofia, iniziata da giovanissimo con la lettura casuale dell’Hortensius di Cicerone - opera perduta ed a noi non pervenuta se non in pochi frammenti - come lo stesso Agostino ricorda all’inizio del De beata vita14. Centrale, nel pensiero di Agostino, è il problema della felicità, questione del resto cara a tutta la filosofia antica; proprio la felicità fu il tema essenziale della filosofia ellenistica dal III secolo a.C. in poi, sia presso gli epicurei che presso gli stoici15. Ci pare opportuno ripercorrere i passaggi e le battute della discussione nel Dialogo agostiniano che si dipana tra le domande e le risposte proprie e dei suoi amici e parenti, nella Villa di Verecondo. Nel De beata vita, se ai balnea è annessa la cura del corpo, alla cena è annesso l’ordine delle vivande o delle portate; in realtà, non vi troviamo un riferimento diretto ai balnea ed alla cena. Il Dialogo ha luogo, in realtà, in un’aula adiacente i balnea, posti all’interno delle thermae della Villa di Verecondo ed i presenti partecipano al prandium, posto a Mezzogiorno o nel primo pomeriggio e non alla cena, che era il pasto principale della giornata, posto alla sera. Tuttavia, Agostino tiene presente il portato culturale, sociologico ed ideologico dei balnea e della cena, ponendo la vicinanza ai balnea e la presenza al prandium come un genere di vita alternativo, cosicché alla vita nel mondo, Agostino oppone la vita filosofica, capace tuttavia, di non rinunciare alla cura del corpo ed alla convivialità. A nostro modesto avviso, i vani termali, la menzione dei pasti e del cibo non fungono semplicemente da fattori di ambientazione o da elementi di colore del Dialogo agostiniano, ma sono degli indizi coi quali Agostino segna la via per la quale, Brown, Agostino d’Ippona, cit., 94-96 che ci invitano, tuttavia, a considerare lo stato di salute anche fisica di Agostino, di certo seriamente provato nel corpo e nello spirito dalle vicende personali di quegli anni.

14 Cfr. Agostino d’Ippona, Dialoghi. Introduzione, traduzione e note a cura di D. Gentili, Roma 1970 (Opere di Sant’Agostino III), De beata vita, 1,4, 186-187. Si rinvia a Sant’Agostino, La vita felice (De beata vita), Torino 1997, una recente versione italiana con un’Introduzione di M. Barracano.

Cfr. H.-I. Marrou, S. Agostino e la fine della cultura antica, cit., 159 e n. 47 ed Appendice. Nota B, Scientia e sapientia nella lingua di Sant’Agostino, 453-459. Sulle filosofie ellenistiche, cfr. C. Levy, Le filosofie ellenistiche, Torino, 2002; su Epicuro e Zenone di Cizico, cfr. F. Adorno, La Filosofia antica, Milano 1991, II, 174-220. 15


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la Filosofia ed il filosofare nella convivialità o nella pratica dell’umano vivere trovano il loro senso e la loro utilità. Così, Agostino ammette la possibilità di rinfrescarsi nei balnea, durante o dopo la discussione, senza allontanarsi dall’aula o disertare l’impegno filosofico e permette ai suoi amici e familiari la partecipazione ad un prandium leggero e gustoso, nella diaeta o sala da pranzo, dentro la Villa oppure fuori da essa, sul prato, come avviene il terzo ed ultimo giorno. Il senso e l’utilità della ricerca della felicità senza trascurare i comforts della vita urbana della Tarda antichità, in vista del raggiungimento della vita buona o della felicità, sono condensati da Agostino in una parola: sapientia. Proprio questo termine è presente nel Dialogo in esame, in due accezioni: quella di sapientia intesa come stato dell’anima o modus animi e quella intesa come lo stesso Figlio di Dio, Verbo incarnato16. Possiamo subito osservare, allora, come la felicità per Agostino s’identifichi con la Sapientia o il Verbo incarnato che nell’anima di chi lo ascolta e lo segue introduce il modus o «equilibrio», consentendo di essere felici come di vivere in stato di felicità. La tendenza alla felicità Dopo la dedica a Manlio Teodoro ed un consistente ed articolato Prologo, nel quale Agostino pone la Filosofia in stretta connessione con la felicità, denominando l’una portum e l’altra beata vita, egli inserisce le metafore della navigazione, tratta ovviamente da Platone, e dei naviganti, distinti in tre categorie, allo scopo di spiegare quali sono gli uomini che si accostano alla Filosofia. Della terza categoria fanno parte gli uomini che: È di coloro che o fin dall’adolescenza, ovvero dopo essere stati a lungo e duramente sballottati qua e là, tengono lo sguardo volto ad alcuni fari e, sebbene fra i marosi, si ricordano della patria diletta e con dritto corso senza inganni e senza indugi vi ritornano. O più spesso lasciando la retta via a causa delle nebbie o fissando lo sguardo su stelle che declinano all’orizzonte o presi da

16

Cfr. De beata vita, 4,33.34, 220-223.


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qualche allettamento, rimandano il tempo propizio alla navigazione, errano piuttosto a lungo e spesso anche rischiano di naufragare17.

Non si può far a meno di notare nel testo appena sopra riportato la partecipata, quasi accorata, nota autobiografica. Di questa terza categoria fa parte Agostino, più avanti, infatti, sempre rivolgendosi a Manlio Teodoro, riepiloga i suoi trascorsi giovanili e le sue esperienze, fino all’incontro con le opere di Plotino che lo hanno ancor più acceso di entusiasmo per la Filosofia. Agostino, però, non indugiando ulteriormente, inizia la discussione, ponendo in forma sintetica ma efficace, il tempo ed il luogo del Dialogo ovvero la data e l’ambientazione: il 13 novembre, data del suo compleanno e le thermae della Villa di Verecondo, precisamente i balnea, come troviamo nel testo. Ovviamente, si deve pensare ad una comoda aula o sala adiacente i bagni privati delle thermae della Villa, scelta come luogo di riunione e di svago, anche a motivo della piacevole frescura, dovuta all’acqua fredda che verosimilmente, nei mesi estivi, abbassava la temperatura interna degli ambienti18. Agostino connota non soltanto il luogo dei balnea, con la denominazione di locus secretus o «luogo appartato», in cui discutere di questioni filosofiche, ma anche il momento della giornata, dicendo che ci si 17 Ibidem, 1,2, 184-185: Est autem genus inter haec tertium eorum, qui vel in ipso adolescentiae limine, veliam diu multum que iactati, tamen quaedam signa respiciunt et suae dulcissimae patriae, quamvis in ipsis fluctibus recordantur et aut recto cursu in nullo falsi et nihil morati, eam repetunt; aut plerumque vel inter nubila deviantes, vel mergentes contuentes sidera, vel nonnullis illecebris capti, bonae navigationis tempora differentes errant diutius, saepe etiam periclitantur.

18 Ricordiamo la composizione e la tipologia architettonica delle Thermae, la cui fonte principale per le nostre conoscenze è il Libro V del De architectura di Vitruvio, vissuto in età augustea, nel I secolo d.C. Le thermae private erano dotate di balnea ossia di bagni ad immersione in acqua fredda o frigidarium, dopo i quali, usciti dalle vasche d’immersione, si passava nel tepidarium, un ambiente il cui pavimento era sostenuto da pilae di mattoni quadrati e le cui pareti, sotto l’intonaco, presentavano tegole cave o tubuli per far circolare in tutto l’ambiente, uniformemente, l’aria calda riscaldata dai furnia, posti fuori, secondo il sistema dell’hypocaustum. Dal tepidarium si passava nel calidarium, un ambiente dove l’aria calda poteva raggiungere temperature elevate ed era assimilabile ad una sauna. In tal modo, si compiva all’entrata, il passaggio dal freddo al caldo ed all’uscita, dal caldo al freddo, che, secondo la farmacopéa antica, favoriva, attraverso il sudore, la fuoriuscita degli umori cattivi ed il loro riequilibrio all’interno dell’organismo.


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era radunati tutti insieme dopo un pranzo frugale o post tenue prandium19. I bagni ed i pasti sono allora le premesse e le condizioni con le quali il corpo e l’anima dei partecipanti possono apprestarsi a discutere e ad occuparsi di questioni filosofiche. Ha inizio, così, il vero e proprio Dialogo che esordisce con la prima domanda di Agostino, riguardante proprio l’anima ed il corpo, rivolta ai presenti: «Ritenete come evidente che siamo composti di anima e di corpo?». Navigio non sa cosa rispondere e manifestando il dubbio dei filosofi scettici, si trova d’accordo con Agostino nell’avere un corpo, non senza prima aver manifestato il dubbio sul fatto se nell’uomo non vi sia un altro componente oltre che all’anima ed al corpo. Infatti, stabilito che non si dà l’uomo senza l’anima ed il corpo, Agostino pone un argomento importante, teso a portare avanti la discussione ed a farla uscire dalle secche dello scetticismo di suo fratello Navigio. Un argomento siffatto è quello del cibo, posto davvero all’inizio del Dialogo agostiniano; sono così i cibi di un prandium, frugale e semplice, a differenza della cena, il pasto principale della giornata, particolarmente abbondante, a dare inizio alla discussione e ad essere il contesto delle questioni affrontate. Agostino quindi afferma: «Ora, poiché siamo tutti d’accordo che non si dà l’uomo senza il corpo e senza l’anima, propongo a tutti il quesito per quale dei due desideriamo il cibo.»20. Il cibo, infatti, che serve alla vita – e che il corpo dell’uomo viva della sua vita non si può dubitare – è oggetto di desiderio, ma questo desiderio da chi è posto? O meglio, chi ha bisogno del cibo: l’anima o il corpo? Subentra tra i presenti un’altra discussione ed altre obiezioni: se la vita si dice dell’anima, come si può attribuirla al corpo? Qual è la vera vita: quella dell’anima o quella del corpo? Se l’anima è eterna ed immortale ed il corpo, invece, è perituro e mortale, il corpo vive della vera vita? Di quale vita vive allora il corpo? E di quale vita vive l’anima? Ma Agostino seda sul nascere la discussione, rendendo evidente il fatto che il cibo induce un effetto visibile e verificabile: fa crescere ed irrobustire il corpo di chi lo mangia. Subito, si fa avanti Licenzio con una 19

Cfr. De beata vita, 1,6, 188-189.

De beata vita, 2,7, 190-191: Nunc illud iam ex omnibus quaero, cum fateamur cuncti neque sine corpore, neque sine anima esse posse hominem, cibos propter quid horum appetamus. 20


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obiezione cui risponde Agostino, anticipando la linea di risposta principale del Dialogo: «Perché io non sono cresciuto in proporzione al cibo ingurgitato?». Gli risposi: «Tutti i corpi hanno un proprio limite imposto loro dalla natura e non possono violare quella misura; sarebbero tuttavia di minor grandezza se mancassero loro gli alimenti. Con tutta evidenza lo costatiamo negli animali. E nessuno può dubitare che il corpo di tutti gli animali deperisce con la sottrazione del cibo.» «Deperisce» obiettò Licenzio «ma non perde la propria grandezza.» «Basta al mio intento» gli risposi «Il quesito è se il cibo è di pertinenza del corpo. E n’è di pertinenza poiché con la sua sottrazione si ha il deperimento.»21.

Agostino anticipa e pone la linea di risposta lungo la quale si dipana tutto il Dialogo. Il De beata vita scaturisce dall’accostamento e dalla tensione tra alimentazione e digiuno, tra nutrizione e denutrizione, tra sazietà e fame, tra sterilità e fecondità, tra ricchezza e povertà, tra plenitudo ed egestas. Il cibo è connesso con la vita del corpo e questo è un fatto verificabile con l’osservazione empirica: infatti, se un animale non mangia, il suo corpo deperisce fino a morire. Inoltre, sempre dall’osservazione degli effetti del cibo ingerito sugli animali, si conclude che esista una misura o modus nell’assunzione del cibo, posto dalla natura, cosicché il corpo degli animali non può crescere a dismisura od all’infinito, in proporzione alla quantità di cibo ingurgitata. Esiste, allora, un modus inscritto nella natura, cui tutte le creature, compreso l’uomo, si sottomettono e che osservano. Dagli assunti fatti precedentemente, ne consegue che, se nell’uomo oltre al corpo esiste l’anima e se il corpo ha bisogno di cibo, allora anche l’anima ha bisogno di nutrimento e questo nutrimento - sul quale si trova d’accordo Monica - è la scientia o la conoscenza. La scientia costituisce, allora, gli alimenta propria dell’anima. È Monica, con la sua semplicità ed immediaIbidem: Cur ego non pro edacitate mea crevi? Modum, inquam, suum a natura constitutum habent omnia corpora, ultra quam mensuram progredi nequeant: tamen ea mensura minora essent, si eis alimenta dufuissent; quod et in pecoribus facilius animadvertimus. Et nemo dubitat cibis sub tractis omnium animantium corpora macescere. Macescere, inquit Licentius, non decrescere. Satis est mihi, inquam, ad id quod volo. Etenim quaestio est utrum ad corpus cibuspertineat. Pertinet autem, cum eo subducto, ad maciem deducitur. 21


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tezza, a fugare i dubbi di Licenzio ed a fondare la propria argomentazione sul cibo e sull’atto del mangiare. Ella dice, infatti, rivolta a Licenzio, che: «Hai detto che soltanto a un certo punto del pranzo ti sei accorto della qualità del vasellame che stavamo adoperando perché stavi riflettendo su non saprei quale cosa; tuttavia continuavi a muovere mani e mascelle sulla tua porzione di vivande. Dove era dunque la tua mente in quei momenti in cui, pur mangiando, non vi badavi? Credimi da questa sorgente e di queste vivande, cioè delle proprie riflessioni e pensieri, si pasce la mente nell’atto in cui con essi si può rappresentare l’oggetto»22.

Dunque, prima il corpo dev’essere nutrito, affinché l’anima cominci ad avere scientia ovvero conoscenza di ciò che la circonda, delle stoviglie, della mensa, dei cibi, della realtà immediata che circonda chi mangia. Solo dopo aver nutrito il corpo, l’anima può esercitare la sua attività, vivere e potersi nutrire di scientia. Questa consiste per Monica, curis et cogitationibus, in «pensieri e riflessioni» che consentono all’anima di nutrirsi e quindi di percipere o «percepire» la realtà immediata attorno a sé. In mezzo ai dubbi non precisati ed espressi che si agitano tra i presenti, Agostino pone una domanda importante: «Non ammettete forse che la mente delle persone veramente colte ha una formazione e sviluppo superiore a quella degli illetterati?», la cui considerazione è evidente a tutti i presenti, cui segue la conclusione di Agostino: «Quindi giustamente possiamo ritenere che la mente di coloro che sono ignoranti di ogni sapere e non hanno nozioni nelle arti liberali è digiuna e per così dire affamata.»23. Al che Trigezio osserva come, in realtà, le anime degli illetterati e degli incolti non siano digiune, bensì piene di vizi e d’immoderatezza o vitiis atque nequitia. Ibidem, 2,8, 190-193: Nam post aliquantam prandii partem te dixisti advertisse quo vasculo uteremur, quod alia nescio qua cogitasses, nec tamen ab ipsa ciborum parte abstinueras manus atque morsus. Ubi igitur erat animu tuus, quo tempore illud, te vescente, non attendebat? Inde, mihi crede, et talibus epulis animus pascitur, id est curis et cogitationibus suis, si per eas aliquid percipere possit. 22

Ibidem, 2,8, 192-193: Nonne, inquam, conceditis hominum doctissimorum animos multo esse quam imperitorum quasi in suo genere pleniores atque maiores? ... Recte igitur dicimus eorum animos, qui nullis disciplinis eruditi sunt, nihilque bonarum artium hauserunt, ieiunos et quasi famelicos esse. 23


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Questa considerazione attira il commento di Agostino, il quale fa osservare a Trigezio: «Ma anche tale stato è sterilità (sterilitas) e fame della mente. Il corpo, mancando il necessario alimento, va soggetto a malattie e deperimento che in esso sono indici di fame che consuma. Così lo spirito di quei tali è pieno di mali coi quali rende palese la mancanza di nutrimento.»24.

Un digiuno di tal fatta è sterilità e fame nelle anime. Come il corpo a digiuno e privo di nutrimento finisce per deperire, ammalarsi, quindi morire, così anche l’anima senza il nutrimento della scientia finisce per ammalarsi e morire anch’essa. Così, le anime che sono sterili, prive di tutto o senza «alcunché», in latino nequidquam, di cui nutrirsi, possiedono la nequitia che, etimologicamente, Agostino fa derivare dall’«alcunché» o nequidquam. A partire dall’etimologia di nequidquam, Agostino può fare la seguente considerazione: «Difatti gli autori classici hanno insegnato che l’immoderatezza (nequitiam), madre di tutti i vizi, è stata denominata dal motivo che è il non qualche cosa (nequidquam).»25. Contraria alla nequitia che porta al nulla o al non essere è la frugalitas, derivante da frux «frutto» che si oppone inoltre alla sterilitas indotta dalla nequitia. L’anima di chi ha scientia è dotata di facoltà e di volontà tali che la rendano in grado di nutrirsi di scientia e di quel cibo immateriale, a somiglianza di quello materiale che permette al corpo di vivere. Allora, in ultima analisi, nutrimento dell’anima che la porta all’essere ed alla vita che le è propria, con i suoi frutti, è quella facoltà o virtus che, quindi, permette all’anima di vivere, di opporsi al non essere, al nulla o all’alcunché (nequidquam). La conclusione cui arriva Agostino è che due sono gli alimenti dell’anima: uno che porta alla vita, l’altro che porta alla morte o che:

Ibidem: Istaipsa est, inquam, crede mihi, quaedam sterilitas et quasi fames animorum. Nam quemadmodum corpus detracto cibo plerumque morbis atque scabie repletur, quae in eo vivam indicant famem, ita et illorum animi pleni sunt morbis quibus sua ieiunia confitentur. 24

25 Ibidem: Et enim ipsam nequitiam matrem omnium vitiorum, ex eo quod nequidquam sit, id est ex eo quod nihil sit, veteres dictam esse voluerunt.


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«E se l’argomento è più complesso di quanto voi potete comprendere, per lo meno potete accordare che, anche data l’ipotesi d’una certa sazietà della mente degli stolti, si danno due tipi di alimenti tanto naturali che spirituali: l’uno di quelli che producono salute e vita; l’altro di quelli che producono infermità e morte.»26.

La metafora del cibo e della sazietà, della fame e del digiuno consente ad Agostino in maniera essenziale di porre il problema del nutrimento dell’anima. Proprio perché l’anima insieme al corpo compone l’uomo ed ambedue abbisognano di nutrimento, è giocoforza nutrire il corpo e nutrirlo bene, non senza una certa ironia, con un lauto pranzo, come può leggersi nel prosieguo del testo. Un pranzo, però da apparecchiarsi non soltanto per il corpo ma anche per l’anima. Così, sulla base della fame del corpo, Agostino prepara l’argomento del desiderio dell’anima di essere felice, sempre accogliendo la metafora del pasto con una domanda di Licenzio: «Dovresti indicarci che cosa, per esser felice, l’uomo deve desiderare e di quali cose è opportuno abbia il desiderio.» Gli risposi: «Invitami, se vorrai nel tuo compleanno ed io mangerò volentieri ciò che mi offrirai. Io ti chiedo di pranzare oggi con me alla stessa condizione e di non chiedermi una vivanda che non è stata ammannita.» Egli accettò il richiamo a rientrare rispettosamente nei suoi limiti. Allora continuai: «Finora è stato accettato fra noi che non può esser felice chi non ha ciò che desidera e che non necessariamente è felice chi consegue ciò che desidera.»27.

26 Ibidem: Sed si hoc obscurius est quam ut id iam vos videre possitis, certe illud conceditis, quia si animi imperitorum etiam ipsi pleni sunt, ut corporum, ita animorum duo alimentorum genera inveniuntur, unum salubre atque utile, alterum morbidum atque pestiferum.

Ibidem, 2,10, 194-195: Sed dicendum, inquit, tibiest, ut beatus sit quisque, quid velle debeat, et quarum rerum eum oporteat habere desiderium. Invita me, inquam, natali tuo, quando dignaberis; quidquid apposuerit libenter sumam. Qua conditione hodie apud me ut epuleris peto, nec flagites quod fortasse non est paratum. Quem cum modestae ac verecundae commonitionis suae poeniteret: Ergo illud, inquam, convenit inter nos, neque quemquam beatum esse posse, qui quodvult non habet; neque omnem qui quod vult habet beatum esse? 27


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L’invito al compleanno consente ad Agostino di seguire un percorso, tale che gli dia il tempo di rispondere alla domanda pertinente di Licenzio. Intanto, Monica, che nel Dialogo rappresenta la sapientia cristiana, posta sulla bocca e nelle menti degli umili e dei semplici, ha poco sopra dimostrato che chi desidera il bene è felice e vive bene; chi, invece, desidera il male, è infelice e vive male. Da questo si può inferire che non tutti coloro i quali ottengono ciò che desiderano sono felici. L’osservazione di Monica è importante, da questa Agostino trae un’altra linea che porterà avanti sino alla fine del suo Dialogo. È altrettanto vero che non può esser felice chi non ha ciò che desidera. Ma qual è ciò che rende felici? Qual è il bene il cui desiderio può procurare felicità? Verso questa domanda si orienta il prosieguo del Dialogo e la ricerca dei presenti, i quali, sotto la guida di Agostino, sono condotti alla formulazione od alla definizione di importanti argomenti, sotto l’aspetto del cibo da servire al convito. La metafora del cibo materiale del corpo si sovrappone, quasi confondendosi, con il cibo immateriale dell’anima, ma vien servita, si può ben dire, dai passaggi e dalle battute del Dialogo di Agostino. Questi può dire perciò che: «Io penso che l’uomo deve tendere all’oggetto che può possedere quando lo desidera.», soggiungendo: «Dev’esser dunque un bene stabile non dipendente dalla fortuna, non condizionato ai vari accadimenti. Infatti non possiamo assicurarci quando e per tutto il tempo che vogliamo ciò che è perituro e caduco.»28. Segue quindi l’obiezione di Trigezio, il quale osserva che esiste al mondo chi accumula e gode di beni perituri e cadùchi, pur tuttavia, costui non manca di alcuno dei beni che ha desiderato e desidera. Costui, allora, può considerarsi felice? La domanda sottesa da Trigezio suscita la controdomanda di Agostino, il quale pone saggiamente Trigezio dinanzi all’eventualità che costoro possano perdere i beni fragili accumulati, vivendo nel timore di perderli e chi vive nel timore (timet), non può considerarsi davvero felice. Quei beni da loro desiderati ed ottenuti sono tutti beni soggetti al caso o fortuita, a non poter garantire la beata vita. È Monica ad illustrare felicemente ed efficacemente tale condizione: «Anche se fosse siIbidem, 2,11, 196-197: Nam id, opinor, ei comparandum est, quod cum vult, habet. … . Id ergo, inquam, semper manens, nec ex fortuna pendulum, nec ullis subiectum casibus esse debet. 28


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curo di non perdere le proprie sostanze, tuttavia non ne può essere saziato. Quindi intanto è infelice in quanto è sempre bisognoso.». Agostino pone a sua madre un’altra domanda per esentarla dall’equivoco di far dipendere la felicità dall’abbondanza di beni, così le chiede: «Non ritieni che possa esser felice se, abbondando e traboccando di tante ricchezze, stabilisse un limite al desiderio e, contento di esse, ne goda convenientemente e gioiosamente?». Al che, Monica risponde: «Non è felice per il possesso delle sostanze ma per la moderazione (moderatione) del suo desiderio.»29. Dalla risposta di sua madre, Agostino trae la conclusione che è davvero felice chi gode del possesso di beni stabili, che non deperiscano e non siano soggetti agli accadimenti ed alle circostanze, questi beni deve assicurarsi colui il quale desideri la felicità. Ora il bene eterno, imperituro, non soggetto alla varietà degli accadimenti o delle circostanze è Dio. Agostino può quindi concludere che chi ha Dio è felice30. Dio e la felicità Segue quindi un intermezzo, centrato sui vari pareri e sulle varie opinioni, espresse da quanti partecipano al Dialogo. Ancor più chiaramente, qui, Agostino si serve della metafora del cibo e del pasto, paragonando i suoi amici e familiari a quanti si gettano famelici sulle vivande imbandite, rischiando un’indigestione. Questo intermezzo consiste proprio in un pasto o prandium, giunto alla sua ultima portata, il cui confronto con la cena riteniamo sia presente alla mente di Agostino. Il miele, la torta, la farina, le mandorle aiutano Agostino ad invitare i presenti a non puntare la loro attenzione su argomenti di contorno ma ad affrontare la discussione su di un tema importante del Dialogo. Questo tema è la bella porzione (portio) del vero pranzo loro imbandito che Agostino invita i presenti a mangiare Ibidem: Hoc loco autem mater: “Etiam si securus sit” inquit “ea se omnia non esse amissurum, tamen talibus satiari non poterit. Ergo et eo miser quo semper est indigus. Cui ego: “Quid”, si inquam “his omnibus abundans rebus atque circum fluens, cupiendi modum sibi statuat, eis que contentus decenter iucunde que perfruatur, nonne tibi videtur beatus?”. “Non ergo” inquit “illis rebus, sed animi sui moderatione beatus est. 29

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Ibidem: “Deum igitur”, inquam, qui habet, beatus est.


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ovvero la discussione sul tema della felicità, da affrontare e da portare a termine. Il tema su cui si apprestano a discutere ha partorito nella precedente discussione conviviale, posta alla fine del pranzo o prandium od al momento di servire i dolci in tavola, ben tre opinioni: 1. «Alcuni hanno ritenuto che possiede Dio chi compie le opere che egli vuole.» 2. «Altri hanno affermato che possiede Dio chi vive bene.» 3. «Altri, infine, furono d’opinione che Dio è in coloro in cui non è lo spirito denominato immondo.»31. Abbiamo detto all’inizio che un nucleo ermeneutico nel De beata vita è la cena, eppure si può notare come Agostino citi sempre il pranzo o prandium, posto a metà giornata o nel primo pomeriggio. In realtà, l’accezione di prandium, nel Dialogo agostiniano, tiene presente la cena romana, precisando come il prandium sia stato particolarmente leggero: «L’indomani, sempre dopo pranzo (post prandium) ma un po’ più tardi del giorno antecedente, ci adunammo i medesimi e nel medesimo luogo. «Oggi», cominciai, «siete arrivati tardi al banchetto (convivium); ed io penso che il fatto non dipenda dalla cattiva digestione, ma dalla certezza della scarsezza delle vivande. Siete convinti che non dovete iniziare a prendere all’ora consueta un cibo che, a vostro avviso, potete ingoiare in pochi bocconi. Ed era ovvio pensare che non fossero rimasti avanzi d’un pranzo che nel giorno stesso della festa era stato frugale. E forse avete ragione.»32.

Dinanzi ai suoi uditori o convitati, abituati a ben altri pasti, prandium o cena, assai più abbondanti, Agostino fa osservare il vantaggio di un pasto frugale. Non vi sono infatti stati degli avanzi del prandium o della cena Ibidem, 3,17, 202-205: Nam partim placuit Deum habere illum qui ea faceret quae Deus vellet. Quidam autem dixerunt quod is Deum haberet, qui bene viveret. Reliquis vero in eis Deus esse visus est, in quibus immundus qui appellatur spiritus non est. 31

Ibidem: Postridie autem cum item post prandium, sed aliquanto quam pridie serius, iidem ibidem que consedissemus: Tarde, inquam, venistis ad convivium: quod vobis non cruditate accidisse arbitror, sed paucitatis ferculorum securitate, quod non tam mature aggrediendum visum est, quod cito vos per esuros putastis. Non multum enim reliquiarum credendum erat remansisse, ubi die ipso atque solemnitate exiguum repertum erat. Fortasse recte. 32


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del giorno prima, raccolti e conservati per il giorno dopo. Chiaramente, la metafora conviviale od il pranzo vero e proprio sono un pretesto, di modo che, avendo chiarito alcune questioni ed alcuni concetti, l’anima dei presenti è sgombra da preconcetti e perplessità oppure dopo aver consumato un pasto frugale, il loro corpo non è appesantito ed ambedue, anima e corpo, possono affrontare l’argomento filosofico in questione. Agostino, non senza una certa ironia, fa riferimento al dovere di colui che invita ad un pranzo, di imbandire un pranzo abbondante e non nega di sentirsi nel torto o in difetto. Agostino ricorda l’obbligo dell’etichetta rigorosa della cena, da osservarsi dinanzi ai convitati, suoi amici e parenti. Questi, delusi dal pranzo precedente, ritardando ed indugiando, sono giunti al pranzo di questa giornata, non tanto allo scopo di manifestare il loro disappunto per la scarsità del pranzo del giorno prima, quanto piuttosto per la certezza di rimpinzarsi in un tempo breve, vista l’esiguità delle portate. Tuttavia, Agostino tiene a precisare che: «V’è un Altro che non manca di preparare a ciascuno ogni vivanda e soprattutto quelle di questo tipo. Siamo noi che assai spesso manchiamo di nutrirci o per debolezza o per sazietà o per affari. E ieri, con sentimento religioso e con fondamento logico, siamo rimasti d’accordo che egli, con la sua presenza negli uomini, li rende felici. Il nostro ragionamento ha infatti accertato, senza dispareri fra di voi, che è felice chi possiede Dio.»33.

Questo passo che introduce la sezione del De beata vita, dedicata a Dio ed alla felicità, è molto importante, perché mostra come l’analogia del pasto e del cibo sia adoperata da Agostino per rendere in termini accessibili ed efficaci ai presenti un discorso su Dio e sulla felicità, tali da mettere insieme e da collegare l’uno all’altra, fede e ragione. Un accordo ed un’intesa allora sono possibili, oltre che sul rapporto esistente tra fede e ragione o tra Dio e la felicità, anche sulla condivisione di un piano di Ibidem: 3,17, 202-203: Alius est enim qui omnibus cum omnes, tum maxime tales epulas praebere non cessat: sed nos ab edendo, velim becillitate, velsaturitate, vel negotio plerumque cessamus: quem manentem in hominibus beatos eos facere, inter nos heri, ni fallor, pie constanterque convenerat. Nam cum ratio demonstrasse te beatum esse qui Deum haberet, nec huic quisquis vestrum sententiae restitisset, quaesitum est quis nam vobis videretur Deum habere. 33


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umanità e di quotidianità, quale quello conviviale di un prandium leggero, non di una cena sontuosa. Agostino si tiene adeguatamente lontano dagli eccessi della cena, tipici del costume romano, rifuggendo ormai, dopo la conversione, dalle crapule e dai banchetti sontuosi, spesso accompagnati da comportamenti poco appropriati. Le riunioni ed i pasti, nella Villa di Verecondo, sono improntati, invece, all’ironia ed alla letizia, nello stare con i suoi amici e parenti intorno alla mensa, adagiati sui comodi stibadia34. Si giunge, così, ad una prima conclusione, con l’aiuto della madre Monica, la quale, sulla scorta del figlio Agostino, arriva ad affermare che: «Ma nessuno può raggiungere Dio se non lo cerca.», al che Agostino risponde affermando che: «D’accordo. Tuttavia chi ancora cerca, non ha ancora raggiunto Dio, tuttavia già vive bene. Dunque non di necessità chi vive bene ha Dio.». Ma Monica ritiene di puntualizzare: «Ritengo che ognuno ha Dio, ma l’hanno propizio coloro che vivono bene e avverso coloro che vivono male.». Agostino, così, conclude: «Dunque, non a rigore di logica abbiamo ammesso che è felice chi ha Dio poiché ogni uomo ha Dio e tuttavia non ogni uomo è felice.»35. A questo punto, comincia a profilarsi il tema del rapporto tra plenitudo ed egestas, in quanto sorge nei presenti il dubbio se la ricerca di Dio non sia in realtà un pieno possesso di Dio ma una privazione. Ed allora, non sarebbe possibile ammettere che chi ricerca Dio è felice, andando contro tutte le precedenti conclusioni. Agostino, dopo uno scambio con Monica, arriva alla seguente conclusione: «Si avrà pertanto, la seguente classificazione: chi ha trovato Dio e lo ha propizio è felice; chi cerca e lo ha propizio non è ancora felice; chi infine con vizi e colpe si rende estraneo a Dio, non solo non è felice ma non vive neppure nel favore di Dio.»36. 34

Cfr. J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’Impero, 309-310.

De beata vita, 3,19, 206-207: Sed nemo, inquit, potest pervenire ad Deum, nisi Deum quaesierit. Optime, inquam. Tamen qui adhuc quaerit, nondum ad Deum pervenit, et iam bene vivit. Non igitur quisquis bene vivit, Deum habet. Mihi, inquit, videtur Deum nemo non habere, sed eum qui bene vivunt, habent propitium, qui male, infestum. Male igitur, inquam, hesterno die concessimus eum beatum esse qui Deum habet: si quidem omnis homo Deum habet, nec tamen omnis homo beatus est. 35

36 Ibidem, 3,21, 208-209: Ista igitur, inquam, distribution erit, ut omnis qui iam Deum invenit et propitium Deum habeat, et beatus sit; omnis autem qui Deum quaerit


Il De beata vita di Agostino d’Ippona.

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Tuttavia, resta ancora da chiarire come può essere felice chi non ha Dio e ne sperimenta quindi la privazione o l’egestas, dal momento che si è stabilito all’inizio del Dialogo che è infelice colui che non ha i beni che desidera ed è felice, invece, chi possiede quei beni. Allora, chi non ha Dio, ma lo cerca è infelice? E, se chi cerca Dio anche se non lo ha è felice, allora, anche chi può essere soggetto a privazione o egestas, può essere felice? Plenitudo ed egestas Il terzo ed ultimo giorno del Dialogo, la scomparsa della nebbia rende possibile ad Agostino ed a tutti gli altri di uscire dalle thermae e continuare la discussione sul prato, fuori della Villa. Alle domande od alle questioni, rimaste in sospeso il giorno precedente, Agostino ed i presenti rispondono con il motivo e l’argomento dell’uomo saggio o sapiens, il quale, sapendo distinguere tra i beni necessari e quelli non necessari alla vita sia del corpo che dell’anima, riesce ad essere felice. Allora, la felicità o l’infelicità non dipendono dalla privazione dei beni o dall’egestas, ma dalla facoltà o dalla disposizione interiore dell’uomo saggio, facoltà che, precedentemente, nel Dialogo è stata definita ora scientia ora virtus e che si va sempre più precisando. Così, Agostino si sente in dovere di precisare che: «Dunque, nessuno dubita che è infelice chi soggiace alla privazione. Non costituisce ovviamente difficoltà la soggezione anche degli uomini saggi ai bisogni materiali. Non lo spirito, in cui alberga la felicità, soggiace a tali bisogni. Esso infatti è perfetto e l’essere perfetto non ha bisogni. Per quanto riguarda i beni indispensabili alla vita fisica, il saggio li userà se ci sono e se non ci saranno non si lascerà abbattere dalla loro scarsezza. Il saggio infatti è forte e l’uomo forte non teme.»37. propitium Deum habeat, sed nondum sit beatus, iam vero quisquis vitiis atque peccatis a Deo se alienat, non modo beatus non sit, sed ne Deo quidem vivat propitio. Ibidem, 4,25, 210-211: Ergo, inquam, miserum esse omnem qui egeat, dubitat nemo, nec non terrent quaedam sapientium corpori necessaria. Non enim eis eget ipse animu, in quo posita est vita beata. Ipse enim perfectus est; nullus autem perfectus aliquo eget et quod videtur corpori necessarium sumet, si adfuerit; si non adfuerit, non eum ista37


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Il Dialogo si avvia ormai alla conclusione: si è stabilito ormai per certo che l’infelicità è privazione o egestas. Tuttavia, l’uomo saggio che sa vivere nella privazione dei beni o egestas, mostrando di essere felice, dimostra che la felicità e l’infelicità non dipendono dall’egestas, bensì dal fatto che l’uomo saggio è forte. Si sottolinea allora ancor di più quella facoltà interiore che sola può consentire all’uomo di essere felice e di non essere infelice. Il Dialogo prosegue, quindi, nella ricerca di un termine che si opponga ad egestas. Quel termine lo si trova nella pienezza o plenitudo, cosicché, chi possiede un bene ha la plenitudo, chi non lo possiede ha l’egestas. Agostino, citando Cicerone, adduce l’esempio di Orata, il quale era un personaggio ricchissimo, nulla gli mancava e tutto investiva sagacemente per il proprio benessere fisico; eppure era infelice, per il timore di perdere tutto quanto possedeva, da un momento all’altro38. Ora, qual è il bene sommo, superiore a tutti gli altri beni, che non passa mai? È Dio; e poiché colui il quale ha Dio è felice e nulla gli manca, costui è portato all’essere ed all’esistenza, non al nulla; ora, chi è indotto all’essere produce frutto ed esistenza, dunque, chi ha Dio va verso l’essere ed il frutto o frux, quindi possiede frugalitas e virtus. Ma poiché chi ha Dio ha la virtus più grande ovvero la sapientia, questa si avverte nell’anima come modus ovvero come senso della misura perché l’anima sosti e viva, in vista del suo benessere e della sua felicità, tra la plenitudo e l’egestas. Colui che godeva della plenitudo nel possesso di tanti beni materiali, in realtà, come si è visto, era infelice, perché temeva di perderli da un momento all’altro e pur essendo in lui plenitudo di beni, in lui, in realtà, era egestas, poiché mancava del vero bene posseduto dall’uomo saggio: la sapientia. Così, Agostino può spiegare: «Ma forse voi chiedete che cosa sia la saggezza, poiché il pensiero umano, per quanto gli è possibile in questa vita, ha già tentato di analizzare e chiarire anche il suo significato. Non è altro che la misura dello spirito con cui esso

rum rerum franget inopia. Omnis namque sapiens fortis est; nullus autem fortis aliquid metuit. 38

Cfr. Ibidem, 4,26-28, 212-217.


Il De beata vita di Agostino d’Ippona.

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raggiunge l’equilibrio in maniera da non effondersi nel troppo né restringersi al di sotto del limite della pienezza.»39.

La sapientia è modus animi, consente di rimanere in Dio, attraverso l’equilibrio, da raggiungere sempre, tra plenitudo ed egestas; ma la sapientia è anche il Figlio di Dio, dunque, colui il quale ha sapientia ha Dio e Dio è Gesù Cristo, il quale ha detto di essere la Verità (cfr. Gv 14,6). La verità è dunque un modus, una misura, che consente di distinguere e di discernere i veri beni necessari alla vita del corpo e dell’anima, servendosi del possesso e della privazione, dell’abbondanza e dell’indigenza, di plenitudo e di egestas. Questo è in sintesi il resoconto del Dialogo agostiniano De beata vita che si conclude fuori dalle thermae di una Villa, sul prato, nel pomeriggio. Agostino, quale colui che invita, non pone fine al Dialogo, senza aver prima detto di essere sazio e di essere stato saziato dai suoi stessi convitati, portando sino alla conclusione del De beata vita la metafora conviviale. Conclusione Agostino nel De Beata Vita, piuttosto che della felicità o della vita felice, si occupa della tendenza, insita nell’uomo e nell’anima, a raggiungere la felicità. Il ricercarla, è il fondamento ed il criterio stesso del suo raggiungimento o della sua realizzabilità. Tale ricerca consiste in un continuo superamento del corpo e dell’anima o dell’uomo tutto intero, contenuto entro i termini ed i confini della plenitudo e dell’egestas, oppure nel passaggio dal non essere all’essere. L’essere dell’uomo, la sua vita, quella del corpo e quella dell’anima, è soggetto a mutamento o a plenitudo e ad egestas, alla vita ed alla morte. Questa condizione è comune a tutte le creature ed a tutti i beni terreni, perituri e fragili, solo Dio quale Sommo Bene non muta, è imperituro ed eterno. La plenitudo è la pienezza o l’abbondanza dei beni, l’egestas, invece, è l’indigenza o la privazione dei beni. In tale Ibidem,4,33, 220-223: Si autem quaeritis quid sit sapientia (iam et ipsam ratio, quantum in praesentia potuit, evolvit atque eruit) nihil est aliud quam modus animi, hoc est, quo sese animus librat, ut neque excurrat in nimuim neque infra quam plenum est coarctetur. 39


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situazione, i beni e l’uomo sono in balìa della fortuna, Dio, invece, no, quindi possedere Dio significa partecipare della sua immutabilità ed immortalità e non essere soggetti alla fortuna ed al caso. Ecco allora che solo l’anima immortale ed eterna che non muore con il corpo può conoscere Dio. L’anima come il corpo, ha anch’essa bisogno di nutrirsi e di sostentarsi, non con il cibo e gli alimenti materiali, ma con la scientia, questa permette all’anima di conoscere e di cercare i beni imperituri ovvero di giungere ad avere Dio od habere Deum. L’opinione di Agostino, espressa nel De beata vita, conserva oggi tutta la sua validità; deve tuttavia fare i conti anche con l’idea secolarizzata di Dio, dell’anima e della felicità. Conscio, infatti, della necessità di un mutamento o di una trasformazione dal non essere all’essere, l’uomo “liquido” e post-moderno tenta oggi di mutare sé stesso, trasformando il suo corpo, scegliendo arbitrariamente cosa mangiare, cosa essere, oggi o domani, assurgendo a Dio ed a creatore di sé stesso. Mentre per Agostino, l’uomo conosce sé stesso nell’accogliere Dio, sommo bene immutabile e tale conoscenza diventa in sé la misura o il modus animae, oggi l’uomo, a somiglianza della Prima Sofistica, ambisce ad essere misura di sé stesso e del mondo, intervenendo chirurgicamente sul suo corpo ed a livello subliminale sulla propria anima o psiche. Ai balnea ed alla cena della civiltà romana si oppongono ed in parte anche corrispondono il bisturi, la palestra, il Talk-show, il blog ed il Master chief della nostra civiltà digitale e televisiva. Sia gli uni che gli altri possono diventare mezzi, strumenti od occasioni di umanizzazione ma anche di disumanizzazione. Agostino ci ricorda l’essenzialità dell’umano, nella cura del corpo nei balnea e nella cena, da non confondersi banalmente con il senso del limite; chiarendo che l’uomo è dotato di corpo ed anima e che con tutto sé stesso tende alla felicità, ravvisa le condizioni dell’umano nel rapporto tra plenitudo ed egestas, abbondanza e privazione. Essendo il contrario di plenitudo, egestas è il bisogno di colui che cerca la felicità nella sazietà di qualcosa, ma come non ci si può ingrandire a dismisura, in proporzione alla quantità di cibo ingerita, esistendo un limite imposto dalla natura, così la plenitudo è condizionata dalla caducità e dalla fragilità dei beni posseduti e dal timore di perderli. La vera felicità o beata vita è così la tendenza verso un bene immutabile, imperituro ed eterno. La fame e la sete del corpo mi indicano che il corpo aspira al suo benessere od alla sua vita e


Il De beata vita di Agostino d’Ippona.

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desidera il cibo materiale. L’anima, invece, nel corpo, con il suo desiderio o fame e sete di scientia, mi fa comprendere che ha bisogno non di cibi e di alimenti materiali, ma di pensieri e riflessioni, posti nella metafora conviviale di un prandium o di una cena reali. I balnea e la cena, segnati dalla giusta misura o dalla frugalitas conducono all’esistenza od alla beata vita sia il corpo che l’anima, i quali riconosciuti, accettati, amati, curati, non costituiscono il limite dell’uomo o dell’umano ma l’umano “umanizzante” nella dignità e concretezza dell’uomo vero, fatto di corpo ma anche di anima, fatto di bisogni e di pulsioni ma anche di pensieri e di riflessioni, incrementati e valorizzati dalla convivialità. L’umano, così, posto, corpo ed anima, tra plenitudo ed egestas, non soltanto conosce o percipere la realtà che lo circonda come i cibi che mangia, ma si conosce nella ricerca e nel raggiungimento di un bene incondizionato, non sottomesso alla fortuna od alle circostanze ovvero nella ricerca e nel raggiungimento di Dio, il cui possesso è vera felicità e vera sapientia. Se per Agostino, la scientia mi fa conoscere la realtà immediata, la sapientia riesce a rendere operative tutte quelle facoltà nell’anima che rappresentano la virtus, grazie alla quale l’anima aspira a conoscere Dio ed a vivere secondo sapientia, riconoscendo in Dio il Sommo Bene, non soggetto a mutazione. È la virtus che permette all’anima di saggiare sé stessa, di ricercare i cibi giusti, di alimentarsi secondo sapientia e di conoscere sé stessa. Il conoscersi induce l’anima ad essere, a superarsi, a produrre frutto o frux, ad essere, come dice Agostino, «frugali», quindi ad esercitare la virtù o la virtus che nell’esercizio del vivere quotidiano diventa sapientia. Si deve pur ammettere che nella storia del pensiero occidentale è avvenuta una frattura nella concezione sia della felicità che della moralità. La Filosofia antica come quella cristiana, rappresentata da Agostino, sulla natura della felicità concordava generalmente sul fatto che la felicità consiste nell’esercizio eccellente delle migliori facoltà umane e nel rispetto del miglior oggetto di conoscenza o di Dio40. Agostino ci permette di tornare a riflettere sulla misura del rapporto esistente tra l’anima ed il corpo, senza il quale non può dirsi vera felicità. Se non si commisura il proprio desiderio di plenitudo alla propria egestas ovvero alla propria personale privazione od ai bisogni veri e reali, non 40

Cfr. G. Abbà, Felicità, vita buona e virtù, Roma 1989, 20-21.


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quelli presunti ed irreali, indotti dalla pubblicità, dall’alcool, dalle droghe, da cibi spazzatura, dall’happy hour o dal fast food, da stili di vita disumanizzanti, i cui disturbi, come l’anoressìa o la bulimìa, avendo a che fare con l’alimentazione, sono disturbi sia del corpo che dell’anima, l’uomo non saprà mai veramente cosa vuole e soprattutto cosa vuole Dio da lui. Nella temperie culturale, religiosa, ideologica e morale della Post-modernità, per felicità si viene a intendere il piacere che deriva all’uomo dalla soddisfazione dei suoi bisogni, desideri, interessi. In tal modo, l’uomo è centrato su se stesso, sulla propria autosufficienza fino all’autoreferenzialità. Agostino ci fa spostare il baricentro della nostra esistenza e della nostra vita nonché del nostro pensare, da noi stessi verso l’altro e questo è possibile farlo soltanto in Dio, il vero bene, che è possibile raggiungere poiché tutti gli altri beni sono transeunti come noi stessi. Dio è presente e viene in noi nella sapientia del Verbo incarnato, Figlio di Dio, fatto uomo per noi. In tal modo, la giusta misura del rapporto tra il corpo e l’anima, tra la conoscenza e la sapienza, tra la propria felicità ed il riconoscimento della felicità dell’altro, inoltre, la corretta relazione dell’uso e del possesso dei beni con il bene delle persone potrebbero connotare quella che nella Post-modernità può intendersi come la “verità”. L’egestas è il riconoscimento del proprio bisogno di misura e quindi di verità, si compie giorno per giorno nello stato di homo viator o di viandante, in ricerca della Patria o della città celeste che sono qui ed ora, nella Patria e nella città terrena, in me e nel mio prossimo da amare, anche in colui che non crede. Lungo un cammino di libertà non di un delirio d’onnipotenza, si imposta in Agostino la ricerca della felicità, componente oggi importante, se si vuole, della ricerca del senso della vera vita felice.


Synaxis XXXIII/2-3 (2015), pp.165-182

IL DOVERE CRISTIANO DELLA GIOIA DALLA GAUDIUM ET SPES ALLA EVANGELII GAUDIUM. FONDAMENTO TEOLOGICO E MODALITÀ NELL’ODIERNA SOCIETÀ

SALVATORE CONSOLI1

Introduzione Ritengo molto significative sia la constatazione di Paolo VI che «la società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia»2 come pure l’annotazione di papa Francesco che, mentre i progressi e i successi contribuiscono al benessere delle persone, tuttavia la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il timore e la disperazione si impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei cosiddetti paesi ricchi. La gioia di vivere frequentemente si spegne3.

1

Professore ordinario di Teologia morale nello Studio Teologico S. Paolo.

Paolo VI, Esortazione apostolica Gaudete in Domino (d’ora in poi abbr. Gaudete), I, in Enchiridion Vaticanum (d’ora in poi abbr. EV) 5/1250. 2

3

Evangelii gaudium (d’ora in poi abbr. EG), n. 52.


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Salvatore Consoli

Papa Bergoglio è convinto che «la nostra tristezza infinita si cura soltanto con un infinito amore»4: ritengo che questo sia uno dei principi ispiratori dell’Esortazione Evangelii gaudium. Secondo Francesco la gioia è e dovrà essere il motivo dominante che deve caratterizzare la vita e la missione della comunità ecclesiale in questo tempo complesso privo di certezze e di orizzonti, nel quale la tristezza tante volte assale anche i cristiani. Il suo è un appello forte e pressante a tutti i battezzati perché portino a tutti gli altri l’annunzio dell’amore di Gesù per superare il grande rischio del mondo d’oggi di cadere «in una tristezza individualistica»5: a questo male dell’anima come antidoto la Chiesa deve offrire la gioia che solo l’incontro con Cristo può dare. Parlando delle gioie che sperimentano i cristiani, è convinto che «queste gioie attingono alla fonte dell’amore sempre più grande di Dio che si è manifestato in Gesù Cristo»6. È significativo che l’incipit dell’Esortazione si apra con un messaggio che è un inno alla felicità e alla gioia: «la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù»7. 1. Le gioie umane dono del Creatore Una certa letteratura spirituale ha creato diffidenza nei confronti della gioia considerata solo come premio nell’aldilà per la vita tribolata sulla terra: «tutte le delizie terrene o sono vane o sono turpi»8; e ancora: «non si può godere due volte: gioire prima in questo mondo e poi regnare con Cristo»9. La Costituzione pastorale del Vaticano II apre significativamente con i termini gioia e speranza – gaudium et spes – che facendo parte del «genu4 5 6 7 8 9

EG, n. 265. EG, n. 2. EG, n. 7. EG, n. 1.

Imitazione di Cristo, II, 10. Ibid., I, 24.


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inamente umano» vanno annoverati tra quanto «trovi eco»10 nel cuore dei cristiani: l’uomo infatti «unità di anima e di corpo»11 non deve disprezzare ma considerare buoni e degni di onore tutti i sentimenti e le caratteristiche della sua realtà corporea. L'uomo, infatti, può e deve amare anche le cose che Dio ha creato. Da Dio le riceve: le vede come uscire dalle sue mani e le rispetta. Di esse ringrazia il divino benefattore e, usando e godendo delle creature in spirito di povertà e di libertà, viene introdotto nel vero possesso del mondo, come qualcuno che non ha niente e che possiede tutto: «Tutto, infatti, è vostro: ma voi siete di Cristo e il Cristo è di Dio»12.

La Gaudium et spes presenta la sessualità coniugale come fonte di gioia e sottolinea che gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità sono onesti e degni; compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevolmente nella gioia e nella gratitudine gli sposi stessi13.

La stessa Costituzione conciliare ricorda che sorgente di gioia è l’essere «promotori della pace» perché significa l’opera grande che è «costruire… un mondo più umano per tutti gli uomini e su tutta la terra» e per questo rivolge un pressante appello ai cristiani perché «collaborino con tutti per stabilire tra gli uomini una pace fondata sulla giustizia e sull'amore e per apprestare i mezzi necessari per il suo raggiungimento»14. La letteratura e le arti hanno una grande importanza per la Chiesa anche perché nell’esprimere l’indole propria dell’uomo hanno la capacità di

10 11 12 13 14

Gaudium et spes (d’ora in poi abbr. GS), n. 1. GS, n. 14. GS, n. 37. GS, n. 49.

GS, n. 77.


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Salvatore Consoli

«illustrare le sue miserie e le sue gioie»15 e così dare il loro contributo nell’elevare ad una migliore condizione la vita umana. Paolo VI parla a lungo della positività delle gioie umane delle quali ha fatto esperienza anche Gesù nella sua vita terrena sottolineando che «Per il cristiano, come per Gesù, si tratta di vivere, nel rendimento di grazie al Padre, le gioie umane che il Creatore gli dona»16. Paolo VI inoltre evidenza il bisogno di una adeguata educazione a godere delle molteplici gioie umane: Ci sarebbe anche bisogno di un paziente sforzo di educazione per imparare o imparare di nuovo a gustare semplicemente le molteplici gioie umane che il Creatore mette già sul nostro cammino: gioia esaltante dell'esistenza e della vita; gioia dell'amore casto e santificato; gioia pacificante della natura e del silenzio; gioia talvolta austera del lavoro accurato; gioia e soddisfazione del dovere compiuto; gioia trasparente della purezza, del servizio, della partecipazione; gioia esigente del sacrificio. Il cristiano potrà purificarle, completarle, sublimarle: non può disdegnarle. La gioia cristiana suppone un uomo capace di gioie naturali. Molto spesso partendo da queste, il Cristo ha annunciato il Regno di Dio17.

I tanti motivi umani di gioia fanno gustare la gioia dell’esistenza umana e aprono alle gioie spirituali: occorre dare valore alle cose della vita e aprirsi all’altro. Papa Francesco esclama con gioia «amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posti»18: tutto ciò che è uscito dal cuore e dalle mani di Dio è motivo di gioia – le persone, la natura con le sue bellezze, le cose tutte –, e gioire nel relazionarsi con esse è un’esperienza che fa crescere in umanità.

15 16 17 18

GS, n. 62.

Gaudete, III, in EV 5/1262. Gaudete, I, in EV 5/1253. EG, n. 183.


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2. La conoscenza e la comunione con Dio fonte di gioia La Gaudium et spes afferma che «l’uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità»19 possibile sia perché creato e sostenuto dall’amore di Dio20 sia perché Cristo, con la sua risurrezione, ha vinto la morte e ha liberato l’uomo dalle grandi ansietà ad essa collegate21. Motivo di gioia è anche il fatto che l’uomo «è chiamato alla comunione con Dio stesso in qualità di figlio e a partecipare alla sua stessa felicità»22. Paolo VI opportunamente parla della «gioia veramente attuale, cantata in varie riprese dai salmi, quella di vivere con Dio e per Dio»23. E, dopo aver messo in risalto la gioia sperimentata da Gesù a motivo dell’amore ineffabile di cui egli sa di essere amato dal Padre e del suo darsi al Padre in gratitudine gioiosa, afferma che «tutti coloro che credono nel Cristo, sono chiamati a partecipare a questa gioia. Gesù vuole che essi abbiano in se stessi la pienezza della sua gioia»24, sottolineando opportunamente che «questa gioia di dimorare nell'amore di Dio incomincia fin da quaggiù. È quella del Regno di Dio»25. E, per conseguenza, egli parla della tristezza dei non-credenti dovuta proprio al fatto che lo spirito umano, creato a immagine e a somiglianza di Dio, e perciò a Lui orientato come al proprio bene supremo, unico, resta senza conoscerlo chiaramente, senza amarlo, e di conseguenza senza provare la gioia, che arrecano la conoscenza benché imperfetta di Dio e la certezza di avere con Lui un vincolo che nemmeno la morte potrebbe infrangere.26

19 20 21 22 23 24 25 26

GS, n.18. GS, n.19.

Cfr. GS, n.21. GS, n. 21.

Gaudete, II, in EV 5/1258.

Gaudete, III, in EV 5/1264-65. Gaudete, III, in EV 5/1264-65. Gaudete, I, in EV 5/1254.


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Sapere e conoscere che Dio ha un volto paterno e misericordioso e sentirsi guardati e amati da lui dischiude il cuore alla vera gioia. 3. Cristo “uomo perfetto” e risorto sorgente di gioia Altro motivo di gioia, secondo la Gaudium et spes, è il mistero del verbo incarnato che fa di Cristo «l’uomo perfetto» che si è unito ad ogni uomo e che, con il suo mistero pasquale, ha vinto il male e la morte e ha dato la possibilità di vincerli a chi vi si associa. Ai profondi desideri dell’uomo solo Dio, che lo ha creato a propria immagine può dare una risposta e l’ha data in maniera adeguata «per mezzo della rivelazione compiuta nel Cristo, Figlio suo, che si è fatto uomo. Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo»27. Della gioia della perfezione in Cristo fa parte quella che sgorga dall’attività professionale e sociale dato il valore che la Costituzione pastorale annette agli impegni temporali: gioiscano piuttosto i cristiani, seguendo l'esempio di Cristo che fu un artigiano, di poter esplicare tutte le loro attività terrene unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio28.

È Cristo Gesù, incarnato e risorto, il fondamento e il motivo della gioia cristiana: il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui, l'uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, «il punto focale dei desideri della storia e della civiltà», il centro del genere umano, la gioia d'ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni. Egli è colui che il Padre ha risuscitato da morte, ha esaltato e collocato alla sua destra, costituendolo giudice dei vivi e dei morti. Vivificati e radunati nel suo Spirito, come pellegrini andiamo incontro alla finale perfezione della storia umana, che corrisponde in pieno al 27 28

GS, n. 41. GS, n. 43.


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disegno del suo amore: «Ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo come quelle della terra»29.

Paolo VI presenta la risurrezione quale fondamento della gioia anche a motivo del dono che il Risorto fa dello Spirito: nell'annuncio gioioso della risurrezione, la pena stessa dell'uomo si trova trasfigurata, mentre la pienezza della gioia sgorga dalla vittoria del Crocifisso, dal suo Cuore trafitto, dal suo Corpo glorificato, e rischiara le tenebre delle anime… La gioia pasquale non è solamente quella di una trasfigurazione possibile: essa è quella della nuova presenza del Cristo Risorto, che largisce ai suoi lo Spirito Santo, affinché esso rimanga con loro. In tal modo lo Spirito paraclito è donato alla Chiesa come principio inesauribile della sua gioia di sposa del Cristo glorificato30.

L’uomo che sperimenta l’incontro con il Signore risorto scopre la gioia piena, si sente amato, consolato, redento: la sua esistenza cambia e vede tutta la sua vita sotto una luce nuova, viene meno la malinconia del non senso delle cose che si vivono. La Risurrezione di Gesù toglie le angosce e le paure legate alla morte: nemmeno la morte può togliere il sentimento forte della gioia come dimostrano gli atti dei martiri. Il Risorto ha vinto il male e, pertanto, secondo papa Francesco Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia. Non fuggiamo dalla risurrezione di Gesù, non diamoci mai per vinti, accada quel che accada. Nulla possa più della sua vita che ci spinge in avanti!31.

E insiste nel dire che se pensiamo che le cose non cambieranno, ricordiamo che Gesù Cristo ha trionfato sul peccato e sulla morte ed è ricolmo di potenza. Gesù Cristo vive 29 30 31

GS, n. 45.

Gaudete, III, in EV 5/1267-68. EG, n. 3.


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veramente…Questo accade anche oggi. Siamo invitati a scoprirlo, a viverlo. Cristo risorto e glorioso è la sorgente profonda della nostra speranza, e non ci mancherà il suo aiuto per compiere la missione che Egli ci affida32

a condizione che ci lasciamo riempire della sua potenza attraverso la vita sacramentale. E precisa che la sua risurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali. È vero che molte volte sembra che Dio non esista: vediamo ingiustizie, cattiverie, indifferenze e crudeltà che non diminuiscono. Però è altrettanto certo che nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto. In un campo spianato torna ad apparire la vita, ostinata e invincibile. Ci saranno molte cose brutte, tuttavia il bene tende sempre a ritornare a sbocciare ed a diffondersi. Ogni giorno nel mondo rinasce la bellezza, che risuscita trasformata attraverso i drammi della storia. I valori tendono sempre a riapparire in nuove forme, e di fatto l’essere umano è rinato molte volte da situazioni che sembravano irreversibili. Questa è la forza della risurrezione e ogni evangelizzatore è uno strumento di tale dinamismo33.

La fede del discepolo significa credere in Lui, credere che veramente è vivo, che è capace di intervenire misteriosamente, che non ci abbandona, che trae il bene dal male con la sua potenza e con la sua infinita creatività. Significa credere che Egli avanza vittorioso nella storia insieme con “quelli che stanno con lui … i chiamati, gli eletti, i fedeli”… È presente, viene di nuovo, combatte per fiorire nuovamente. La risurrezione di Cristo produce in ogni luogo germi di questo mondo nuovo; e anche se vengono tagliati, ritornano a spuntare, perché la risurrezione del Signore ha già penetrato la trama nascosta di questa storia, perché Gesù non è risuscitato invano. Non rimaniamo al margine di questo cammino della speranza viva!34.

32 33 34

EG, n. 275. EG, n. 276. EG, n. 278.


Il dovere cristiano della gioia

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4. L’incontro salvifico con Cristo nella fede motivo di gioia Motivo del tutto particolare di gioia è l’incontro nella fede e, quindi, salvifico con Gesù: la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia35.

La salvezza, infatti, nella presentazione che ne fanno sia l’Antico che il Nuovo Testamento, è fonte di gioia; sono logicamente conseguenti sia l’interrogativo che papa Francesco pone: «perché non entrare anche noi in questo fiume di gioia?»36 come pure la sua insistenza: invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore»37.

La condizione del cristiano si configura come una condizione di gioia e la sua vita deve affermare e testimoniare la gioia: papa Francesco indica e incoraggia a percorrere la strada della gioia. All’uomo spesso impegnato e affannato nella ricerca di effimeri appagamenti, il cristiano deve testimoniare la gioia originata dalla fede nel Signore Gesù e quella che si sperimenta quando «cerchiamo quello che lui cerca, amiamo quello che lui ama»38: quando cioè il sentire entra in sintonia con quello di Gesù, allora la gioia sarà piena e non verrà meno nei momenti bui della vita.

35 36 37 38

EG, n. 1; cfr. anche n. 8. EG, n. 5. EG, n. 3.

EG, n. 267.


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Salvatore Consoli

Con la voce di Francesco è la Chiesa del Vaticano II a parlare, vicina alle gioie, ai dolori e alle speranze degli uomini, ricca della fede e della salvezza del Signore. 5. Quando e come rinnovare la gioia Paolo VI indica le molteplici fonti alle quali il cristiano può attingere la gioia. Innanzitutto la preghiera: «Rallegratevi nel Signore, perché egli è vicino a quanti lo invocano con cuore sincero»39. La gioia, poi, si attinge nell’amore: «la gioia sia diffusa nei cuori con l'amore di cui essa è il frutto, per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato»40. La gioia, ancora, si attinge nell’Eucaristia: nella vita dei figli della Chiesa, questa partecipazione alla gioia del Signore non si può dissociare dalla celebrazione del mistero eucaristico, ov'essi sono nutriti e dissetati dal suo Corpo e dal suo Sangue. Di fatto, in tal modo sostenuti, come dei viandanti sulla strada dell'eternità, essi già ricevono sacramentalmente le primizie della gioia escatologica41.

Chi sperimenta la gioia nell’incontro domenicale con il Signore porta all’esterno la letizia di cui l’eucaristia domenicale è sorgente: si attiva un processo di comunicazione di gioia che arriva a chi ad esempio per malattia o per vecchiaia non vi ha potuto partecipare. E, dato che la gioia si ha quando l’uomo trova la sua soddisfazione, a livello delle facoltà superiori, nel possesso di un bene conosciuto e amato42, ne segue che per ritornare alle sorgenti della gioia è necessaria la meditazione sui dati essenziali della fede e della vita cristiana: 39 40 41 42

Gaudete, in EV 5/1243. Gaudete, in EV 5/1246.

Gaudete, IV, in EV 5/1281.

Cfr. S. Thomas, Summa teologiae, I-II, q. 31, a. 3.


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non è forse normale che la gioia abiti in noi allorché i nostri cuori ne contemplano o ne riscoprono, nella fede, i motivi fondamentali? Essi sono semplici: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito; mediante il suo Spirito, la sua Presenza non cessa di avvolgerci con la sua tenerezza e di penetrarci con la sua Vita; e noi camminiamo verso la beata trasfigurazione della nostra esistenza nel solco della risurrezione di Gesù. Sì, sarebbe molto strano se questa Buona Novella, che suscita l'alleluia della Chiesa, non ci desse un aspetto di salvati. La gioia di essere cristiano, strettamente unito alla Chiesa, “nel Cristo”, in stato di grazia con Dio, è davvero capace di riempire il cuore dell'uomo. Non è forse questa esultanza profonda che dà un accento sconvolgente al Mémorial di Pascal: «Gioia, gioia, gioia, pianti di gioia»?43.

E, infine, per sperimentare la gioia bisogna vivere l’armonia e la comunione: l'uomo prova la gioia quando si trova in armonia con la natura, e soprattutto nell'incontro, nella partecipazione, nella comunione con gli altri. A maggior ragione egli conosce la gioia o la felicità spirituale quando la sua anima entra nel possesso di Dio, conosciuto e amato come il bene supremo e immutabile.44

6. Il dovere di comunicare la gioia e i presupposti necessari La gioia è diffusiva e quindi i cristiani hanno il dovere di comunicarla. Paolo VI è molto preciso: la gioia ampia e profonda, che fin da quaggiù si diffonde nel cuore dei veri fedeli, non può che apparire “diffusiva di sé”, proprio come la vita e l'amore, di cui essa è un sintomo felice. Essa risulta da una comunione umano-divina, e aspira a una comunione sempre più universale. In nessun modo potrebbe indurre colui che la gusta ad una qualche attitudine di ripiegamento su di sé. Essa dà al cuore un'apertura cattolica sul mondo degli uomini, mentre gli fa sentire, come una ferita, la nostalgia dei beni eterni45. 43 44 45

Gaudete, conclusione, in EV 5/1309-10. Gaudete, I, in EV 5/1248.

Gaudete, IV, in EV 5/1282.


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L’annuncio gioioso del Vangelo è l’elemento dominante e caratterizzante l’Esortazione di papa Francesco: per ben 59 volte parla di evangelizzazione gioiosa. La gioia attinge alla fonte dell’amore grande di Dio che si è manifestato in Gesù Cristo, ne consegue che «se qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita, come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?»46: il bene infatti, oltre a tendere sempre di sua natura a comunicarsi, comunicandolo attecchisce, si arricchisce e si sviluppa. L’evangelizzatore è uno che ha per primo sperimentato la gioia di Cristo. La gioia del Vangelo che riempie la vita dei discepoli è una gioia missionaria. La sperimentano i settantadue discepoli, che tornano dalla missione pieni di gioia… La vive Gesù, che esulta di gioia nello Spirito Santo e loda il Padre perché la sua rivelazione raggiunge i poveri e i più piccoli… Questa gioia è un segno che il Vangelo è stato annunciato e sta dando frutto. Ma ha sempre la dinamica dell’esodo e del dono, dell’uscire da sé, del camminare e del seminare sempre di nuovo, sempre oltre47.

E ancora: tutti siamo chiamati ad offrire agli altri la testimonianza esplicita dell’amore salvifico del Signore, che al di là delle nostre imperfezioni ci offre la sua vicinanza, la sua Parola, la sua forza, e dà senso alla nostra vita. Il tuo cuore sa che la vita non è la stessa senza di Lui, dunque quello che hai scoperto, quello che ti aiuta a vivere e che ti dà speranza, quello è ciò che devi comunicare agli altri. La nostra imperfezione non dev’essere una scusa; al contrario, la missione è uno stimolo costante per non adagiarsi nella mediocrità e per continuare a crescere48.

Ed insiste: «annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace 46 47 48

EG, n. 8.

EG, n. 21; cfr. anche nn. 23, 106, 113. EG, n. 121.


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di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove»49. La proposta morale per essere efficace deve sempre essere in grado di indicare una «proposta di vita, di maturità, di realizzazione, di fecondità, alla cui luce si può comprendere la nostra denuncia dei mali che possono oscurarla»50: sarebbe un segno positivo se gli evangelizzatori fossero visti come «gioiosi messaggeri di proposte alte, custodi del bene e della bellezza che risplendono in una vita fedele al Vangelo»51. Sono fondamentali per la testimonianza e per la missione sia l’esperienza personale dell’amore salvifico come pure la convinzione del bisogno che ne hanno gli altri: a volte perdiamo l’entusiasmo per la missione dimenticando che il Vangelo risponde alle necessità più profonde delle persone, perché tutti siamo stati creati per quello che il Vangelo ci propone: l’amicizia con Gesù e l’amore fraterno. Quando si riesce ad esprimere adeguatamente e con bellezza il contenuto essenziale del Vangelo, sicuramente quel messaggio risponderà alle domande più profonde dei cuori… L’entusiasmo nell’annunziare il Cristo deriva dalla convinzione di rispondere a tale attesa… È una risposta che scende nel più profondo dell’essere umano e che può sostenerlo ed elevarlo. È la verità che non passa di moda perché è in grado di penetrare là dove nient’altro può arrivare. La nostra tristezza infinita si cura soltanto con un infinito amore52.

Chi sperimenta la gioia della vita a motivo del Vangelo sente impellente il dovere di prestare agli altri il servizio del Vangelo; l’amore diventa servizio ad un bisogno concreto: non si può perseverare in un’evangelizzazione piena di fervore se non si resta convinti, in virtù della propria esperienza, che non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a tentoni, non è la stessa cosa poterlo ascoltare o ignorare la sua Parola, non è la stessa cosa poterlo contemplare, adorare, riposare in Lui, 49 50 51 52

EG, n. 167. EG, n. 168. EG, n. 168. EG, n. 265.


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o non poterlo fare. Non è la stessa cosa cercare di costruire il mondo con il suo Vangelo piuttosto che farlo unicamente con la propria ragione. Sappiamo bene che la vita con Gesù diventa molto più piena e che con Lui è più facile trovare il senso di ogni cosa. È per questo che evangelizziamo. Il vero missionario, che non smette mai di essere discepolo, sa che Gesù cammina con lui, parla con lui, respira con lui, lavora con lui. Sente Gesù vivo insieme con lui nel mezzo dell’impegno missionario. Se uno non lo scopre presente nel cuore stesso dell’impresa missionaria, presto perde l’entusiasmo e smette di essere sicuro di ciò che trasmette, gli manca la forza e la passione. E una persona che non è convinta, entusiasta, sicura, innamorata, non convince nessuno53.

Questo testo, un vero cantico del dovere missionario del discepolo, oltre ad indicare la povertà dell’uomo che non conosce il Vangelo costituisce un forte appello ai cristiani a recuperare il dovere della missionarietà per poter dare il proprio prezioso contributo all’uomo in cerca di una antropologia che gli garantisca la realizzazione piena della sua umanità. Testimone è il cristiano che ha fatto un’esperienza di così grande e radicale gioia, da sentire il bisogno di proclamarla senza essere intimorito da nulla e da nessuno: l’esperienza è la bella notizia che c’è un Dio di misericordia che ama gli uomini e continuamente opera affinché la sua gioia sia in noi e la nostra gioia sia piena. Papa Francesco avverte che la gioia dell’evangelizzazione muore quando si sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore54.

È forte l’incoraggiamento che dà lo stesso papa: «le sfide esistono per essere superate. Siamo realisti, ma senza perdere l’allegria, l’au-

53 54

EG, n. 266. EG, n. 83.


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dacia e la dedizione piena di speranza! Non lasciamoci rubare la forza missionaria!»55. E ricorda che solo il fuoco dello Spirito che arde nei cuori potrà garantire «una stagione evangelizzatrice più fervorosa, gioiosa, generosa, audace, piena d’amore fino in fondo e di vita contagiosa!»56. Sarà certamente d’aiuto nelle difficoltà che incontra l’evangelizzazione in questi tempi e in questa cultura «ricordarsi dei primi cristiani e di tanti fratelli lungo la storia che furono pieni di gioia, ricolmi di coraggio, instancabili nell’annuncio e capaci di una grande resistenza attiva»57. E sottolinea la gioia dell’incontro con l’altro e con il popolo: condividendo la vita del popolo «sperimenteremo la gioia missionaria di condividere la vita con il popolo fedele a Dio cercando di accendere il fuoco nel cuore del mondo»58. L’incontro con l’altro nell’amore è sempre fonte di gioia: un missionario pienamente dedito al suo lavoro sperimenta il piacere di essere una sorgente, che tracima e rinfresca gli altri. Può essere missionario solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri. Questa apertura del cuore è fonte di felicità, perché “si è più beati nel dare che nel ricevere”. Non si vive meglio fuggendo dagli altri, nascondendosi, negandosi alla condivisione, se si resiste a dare, se ci si rinchiude nella comodità. Ciò non è altro che un lento suicidio59.

Bisogna, soprattutto in questa cultura che attribuisce grande importanza al possesso dei beni, riscoprire la gioia del dare, del condividere, del donarsi. Il Vangelo propone una tipologia particolare di gioia che è quella che pervade il cuore di chi dona qualcosa a chi ne è privo. L’amore cristiano è donazione che genera la gioia in chi si vede amato: non saper donare e non sapersi donare con gioia procurano tristezza. L’indicazione evangelica 55 56 57 58 59

EG, n. 109. EG, n. 261. EG, n. 263. EG, n. 271. EG, n. 272.


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apre alla gioia del tutto particolare che può provare chi sa amare e chi si sente amato. Chi entra nella logica del dono introdotta da Gesù sperimenta la bellezza e la gioia del donare e del donarsi perché vede rifiorire la propria umanità e dischiude alla gioia il cuore di chi non ha nulla e si rallegra per i gesti di attenzione e di solidarietà gratuitamente ricevuti. L’annuncio della gioia del Vangelo suppone un grande amore alla persona degli altri, dato che ogni persona è opera di Dio e salvata dalla croce di Gesù Cristo: ciascuno è immensamente sacro e merita il nostro affetto e la nostra dedizione. Perciò, se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita… acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e il nostro cuore si riempie di volti e di nomi!60.

Comunicare la gioia è un dovere significativo e caratteristico del cristiano ma per essere assolto necessita di grandi motivazioni non di natura moralistica ma di una adeguata preparazione di tipo esistenziale. Conclusioni 1. «Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua»61, vivere il vangelo significa avere la gioia nel cuore: papa Francesco vuole una Chiesa gioiosa che sappia annunciare il Vangelo nella nostra società. Egli nel richiamare la Chiesa, nella scia del Vaticano II, a recuperare l’essenzialità della sua vocazione ne evidenzia una modalità caratteristica e particolarmente significativa per l’uomo d’oggi: annunciare la gioia di credere, la gioia di servire il mondo con il dono del Vangelo. 2. «La gioia del Vangelo è quella che niente e nessuno ci potrà mai togliere. I mali del nostro mondo – e quelli della Chiesa – non dovrebbero essere scuse per ridurre il nostro impegno e il nostro 60 61

EG, n. 274. EG, n. 6.


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fervore. Consideriamoli come sfide per crescere»62: papa Bergoglio espressamente indica come mali sia il complesso di inferiorità che facilmente nasce in un ambiente di marcata sfiducia nei confronti del messaggio e di disincanto nei confronti della Chiesa63 come pure l’accidia paralizzante, che non consente una risposta gioiosa al Signore che ci invita alla missione64. 3. Per testimoniare è necessaria la contemplazione che fa riscoprire la bellezza del Vangelo: «la prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più. Però, che amore è quello che non sente la necessità di parlare della persona amata, di presentarla, di farla conoscere? Se non proviamo l’intenso desiderio di comunicarlo, abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera per chiedere a Lui che torni ad affascinarci… La migliore motivazione per decidersi a comunicare il Vangelo è contemplarlo con amore, è sostare sulle sue pagine e leggerlo con il cuore. Se lo accostiamo in questo modo, la sua bellezza ci stupisce, torna ogni volta ad affascinarci. Perciò è urgente ricuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è niente di meglio da trasmettere agli altri»65. Preghiera e contemplazione, momenti caratteristici della vita dei discepoli, consentono il fascino sempre nuovo del Vangelo e della persona di Gesù. 4. La testimonianza e la missione suppongono la scelta personale di Gesù quale modello di vita nell’amore e per l’amore: «il donarsi di Gesù sulla croce non è altro che il culmine di questo stile che ha contrassegnato tutta la sua esistenza. Affascinati da tale modello, vogliamo inserirci a fondo nella società, condividiamo la vita con tutti, ascoltiamo le loro preoccupazioni, collaboriamo materialmente e spiritualmente nelle loro necessità, ci rallegriamo 62 63 64 65

EG, n. 84.

Cfr. EG, n. 79. Cfr. EG, n. 81. EG, n. 264.


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con coloro che sono nella gioia, piangiamo con quelli che piangono e ci impegniamo nella costruzione di un mondo nuovo, gomito a gomito con gli altri. Ma non come un obbligo, non come un peso che ci esaurisce, ma come una scelta personale che ci riempie di gioia e ci conferisce identità»66. La croce, non amuleto o semplice oggetto di pietà, modello di vita da realizzare nel dono di sé: testimoniare la gioia di una vita realizzata nel dono diventa una proposta significativa all’uomo d’oggi alla ricerca di una antropologia che indichi la via della realizzazione della propria umanità.

66

EG, n. 269.


Synaxis XXXIII/2-3 (2015), pp.183-214

FELICITÀ E SALVEZZA. RIFLESSIONI TEOLOGICHE A MARGINE DI UNA CORRISPONDENZA POSSIBILE

ADRIANO MINARDO1

Tutti i grandi pensatori che hanno allestito la scenografia della cultura occidentale, appartenenti sia alla classicità greca sia a quella latina, sia cristiani sia non cristiani, si sono interrogati sulla felicità quale sommo desiderio che dimora nell’intimo di ogni uomo. Al punto che, se chiedessimo alla storia del pensiero di illuminarci sul desiderio di tutti gli uomini di essere felici, il primo resoconto ci convincerebbe del fatto che tale anelito costituisce l’assioma fondamentale, il presupposto teorico di ogni antropologia. Pertanto, l’espressione “tutti vogliono essere felici” sembra adeguarsi perfettamente ad un orizzonte universale antropologico, al netto di ogni precomprensione ideologica o di ogni ipoteca di qualsiasi critica esistenziale. Si tratta del riconoscimento dell’aspirazione più elementare e fondamentale che accomuna ogni uomo per il semplice fatto di essere umano, al di là della sua collocazione temporale o spaziale, della sua cultura, della sua religione, della sua lingua, etc. Eppure, l’ovvietà dell’affermazione non deve distrarci dalla complessità e dalla problematicità che la questione “felicità” reca con sé. Lucio Anneo Seneca, il grande filosofo e drammaturgo romano che, scrivendo al fratello Gallione, affermava, alla stregua di una petizione di 1

Docente di Teologia dogmatica presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Adriano Minardo

principio, che «tutti gli uomini vogliono vivere felici», subito dopo constatava amaramente: «quando poi si tratta di riconoscere cosa rende felice la vita, ecco che ti vanno a tentoni; a tal punto è così poco facile nella vita raggiungere la felicità, che uno, quanto più affannosamente la cerca, tanto più se ne allontana»2. Lo stesso Agostino di Ippona, che ben conosceva le sfumature filosofiche della felicità nella varietà di circa trecento declinazioni possibili3, e che ben sapeva che la felicità è «quella cosa che tutti vogliono»4, alludeva pure all’illusorietà di una sua conquista permanente al di fuori di Dio. Sembra, dunque, che sia altrettanto universalmente riconosciuta l’indisponibilità della felicità quale prodotto di una libera acquisizione o di una facile conquista da parte dell’uomo. Tale costante, sia pratica sia teorica, espressa nella storia del pensiero occidentale, manifesta l’ambivalenza tipica della felicità: la si agogna febbrilmente, ma al contempo si avverte che essa viene da lontano, perlomeno da fuori dello spirito umano; la si brama incessantemente, ma si seguita ancora a cercarla qualora sia stata assaporata; la si desidera pure con struggimento, ma si deve ammettere che sfugge ad ogni logica di calcolo o ad ogni avida pretesa. Del resto, per esperienza, tutti sono concordi nel ritenerla episodica, provvisoria e fragile. Nessuno che abbia riflettuto sulla felicità o ne abbia gustato i frutti, ha potuto affermare che la si può acquisire permanentemente e definitivamente. Così, se ancora il moderno Pascal asseriva che l’uomo «vuole essere soltanto felice e non può non voler essere tale»5 e se la Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776 (unica Costituzione al mondo) riconosceva il diritto al perseguimento della felicità (pursuit of happiness), altri pensatori moderni e postmoderni, disillusi dalle promesse di un’antropologia fin troppo ottimista e idealizzante più che storicamente incarnata, attendono ancora che si mostri loro la via regale per raggiungere la felicità, se ancora vale la pena attenderla. Così, oscillando tra il realismo disfattista 2

L. A. Seneca, De vita beata, I, 1.

Cfr. Agostino, La Città di Dio 19, 1, 1, in Id., La Città di Dio/3, vol. V/3, Città Nuova, Roma 1991, 9. 3

4 5

Cfr. Id., Confessioni 10, 20, 29, vol. I, Città Nuova, Roma 1965, 327. B. Pascal, Pensieri, Einaudi, Torino 1962, 160 (pensiero 124).


Felicità e salvezza

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di Feuerbach, secondo cui «il comando: devi essere felice è folle»6, o il pessimismo radicale di Schopenhauer, per il quale «c’è un unico errore innato, ed è quello di credere che noi esistiamo per essere felici»7, c’è chi, come G. Bufalino, può confessare, non troppo ironicamente: «La felicità esiste, ne ho sentito parlare»8. La storia del pensiero, dunque, ha conosciuto, nelle diverse epoche culturali del suo lungo corso, numerose colorature e variazioni sul tema, con esiti alquanto differenziati e problematici. Come ha riconosciuto Th. de Chardin: «su un tale argomento, i libri, le indagini, le esperienze individuali e collettive si susseguono pateticamente da secoli senza riuscire a raggiungere l’unanimità. […] O il problema è insolubile: nessuna vera felicità in questo mondo. Oppure comporta solo un’infinità di soluzioni particolari – è una cosa indeterminata»9. Oggi, forse più che mai, questa indeterminatezza è palese, a fronte delle conquiste della moderna medicina (che ha allungato la vita media delle persone), ma soprattutto a dispetto delle innumerevoli ed allettanti proposte di una facile (e illusoria) felicità, resa possibile da quei ritrovati scientifici e tecnologici che decreterebbero il dominio della tecnica sulla natura, ma più ancora dall’ipermercato del consumismo globalizzato che si autoalimenta della (in)soddisfazione precaria dei suoi acquirenti10. Mai come oggi, allora, l’umanità sarebbe nella condizione di essere felice11. Come scrive A. Matteo: Abbiamo sviluppato una decisa sensibilità per le questioni della giustizia, della solidarietà, della pace e del bene comune; abbiamo ottenuto grandi vantaggi 6 7 8

111. 9

L. A. Feuerbach, Etica e felicità, Guerini e Associati, Milano 1992, 58. A. Schopenhauer, L’arte di insultare, Adelphi, Milano 1999, 63.

G. Bufalino, Il malpensante. Lunario dell’anno che fu, Bompiani, Milano 2012, P. Th. de Chardin, Sulla felicità, Queriniana, Brescia 2013, 16-17.

Cfr. A. Matteo, Come nessun altro. Invidia infelice e vita benedetta, Vita e Pensiero, Milano 2012, 40 ss. 10

Non mancano al riguardo indicatori di felicità a livello mondiale riportati, per esempio, dall’ultimo resoconto (disponibile on line) del World Happiness Report 2013, a cura di J. Helliwell, R. Layard, J. Sachs. 11


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nel campo della salute, debellando malattie terribili, viviamo più a lungo […]; abbiamo lavori meno usuranti, abitiamo in case più comode, godiamo di mezzi di trasporto e di comunicazioni particolarmente veloci ed efficaci; la cultura non è più privilegio di pochi12.

Eppure – continua Matteo – «l’Occidente resta profondamente triste, infelice»13. Ovviamente, nell’epoca delle “passioni tristi”14, le guide di self-help spopolano tra quanti anelano ad una felicità istantanea e a portata di mano, sebbene questa sia a volte – come denunciano alcuni osservatori critici – ideologizzata o idolatrata oppure, per una curiosa legge del contrappasso, destinata ad essere irrimediabilmente perduta15. Peraltro, oggi, pare che la generazione contemporanea sia passata, con più evidenza, dal desiderio al bisogno di essere felici, poco importando sapere se tale bisogno sia connaturato allo spirito dell’uomo oppure indotto artificialmente dall’esterno. Fenomenologicamente, pertanto, si assiste ad una pretesa di felicità tanto più esigente, quanto più ampio è lo spazio di vuoto interiore16. Quanto detto finora vale a riprova dell’opinione secondo cui affrontare il tema della felicità non è affare semplice17. Del resto, a dispetto dell’a12 13

A. Matteo, Come nessun altro, cit., 29-30. Ibid., 30.

Il rimando esplicito è a M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004. 14

15 Non a caso il classico Istruzioni per rendersi infelici del filosofo e psicologo P. Watzlawick tenta, con l’ironia del paradosso, di richiamare l’attenzione ad una più obiettiva capacità di essere felici senza arrecare afflizioni a sé e/o agli altri. Sulla falsariga, ma con linguaggio più divulgativo, cfr. R. Sachse, Come rovinarsi la vita sistematicamente (e come smettere di farlo), Urra – Feltrinelli, Milano 2014.

16 Lo testimonia la grande affluenza presso centri di ascolto o studi di psicoterapia divenuti, come sostengono M. Benasayag e G. Schmit, «l’imbuto in cui si riversa la tristezza diffusa che caratterizza la società contemporanea» (Id., L’epoca delle passioni tristi, cit., 9). Tra le cause di questa crisi dilagante, gli autori annoverano il passaggio dal «mito dell’onnipotenza dell’uomo costruttore della storia ad un altro mito simmetrico e speculare, quello della sua totale impotenza di fronte alla complessità del mondo» (Ibid., 23). 17 Cfr. G. Salonia, Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2011, 7 ss.


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nelito universale alla felicità, non vi è un’unanime interpretazione circa il suo oggetto, il suo contenuto, la sua definizione, le differenti vie per poter conseguire persino un suo surrogato, pure temporaneamente. Tale unanimità – come vedremo – non la si è raggiunta in passato né, a quanto pare, al momento presente. E il cristianesimo cosa ha da dire in proposito? Promette felicità o, piuttosto, salvezza? D’altra parte: tutti hanno bisogno di essere salvati o tutti desiderano essere felici? Esiste cioè un universale bisogno di salvezza pari al desiderio di felicità di ogni uomo? Tali alternative sono legittime, esclusive/escludenti, inclusive? Da qui nasce la necessità di correlare queste due categorie, centrali nel pensiero occidentale e, sotto determinati aspetti, nel pensiero cristiano, per tentare di capire cosa corre tra felicità e salvezza, cosa le accomuna e cosa le differenzia, e se vale ancora oggi la critica che buona parte della cultura occidentale ha mosso contro la teologia cristiana, accusata di aver inibito il sogno degli uomini di essere felici, già qui in terra, entro l’orizzonte di questa storia, per invece rimandare ad un aldilà, dunque ad una condizione non attuale e momentaneamente indisponibile, la realizzazione del più puro e fondamentale desiderio dell’animo umano. Alla luce di queste considerazioni, dunque, emergono immediatamente tre questioni che vorremmo enucleare nel presente contributo: 1. esiste una tensione universale alla felicità, sebbene questo desiderio mostri non di rado il suo aspetto velleitario e paradossale? 2. esiste, nel cristianesimo, una preferenza accordata al tema della salvezza piuttosto che al tema della felicità? Preferenza che avrebbe focalizzato l’attenzione più sulle cause che sull’effetto della redenzione, contrapponendo una religione tragica (per via della Croce) ad una religione della felicità18? 3. esiste una differenza di ordine tra felicità e salvezza che decreterebbe tra loro una distanza incolmabile?

Cfr. E. Salmann, Felicità o salvezza? Riflessioni su un binomio difficile, in Id., Presenza di spirito. Il cristianesimo come gesto e pensiero, Edizioni Messaggero, Padova 2000, 151-171, 152. 18


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Tenteremo, dunque, alla luce di queste suggestioni, di offrire dapprima un ragguaglio sintetico delle principali “teorie” sulla felicità elaborate dal pensiero occidentale; di presentare, quindi, alcuni spunti biblico-teologici della felicità; di proporre, infine, un possibile raccordo teologico tra felicità e redenzione onde superare una distanziazione, ultimamente, nociva ad entrambe. 1. Per

una fenomenologia della felicità.

pensiero

Uno

sguardo alla storia del

All’inizio del nostro contributo abbiamo sostenuto la tesi secondo cui la dottrina o l’idea della felicità si fonda, implicitamente o esplicitamente, su una data visione antropologica. Sarebbero allora le diverse antropologie, caratterizzanti ciascuna ogni cultura, a formalizzare una teoria sulla felicità verso la quale, evidentemente, convergono gli ideali più agognati di un benessere totale che passa del senso di appagamento per i singoli piaceri della vita alla gioia sottesa di una vita piena e realizzata. Eppure la felicità si sottrae alle concettualizzazioni formali ed esaurienti, poiché sfugge alle facili definizioni; la si riconosce certamente al suo sgorgare che, dagli spazi più abissali e remoti della nostra interiorità, si espande nella leggerezza e nella soavità dello spirito ma, rimanendo vittima della celerità del tempo e dell’imprevedibilità del futuro, non la si detiene come un ostaggio. È possibile dunque parlarne con levità, come converrebbe all’elevazione più alta cui anela lo spirito umano, a fronte, nondimeno, della pesanteur o della gravità della vita? O cade vittima piuttosto delle fauci doloristiche/pessimistiche che niente della vita merita e consente di raggiungere la felicità? Cosa corre tra i due estremi? È ancora possibile parlare della felicità “umanamente”, con grazia e gratitudine (per il pane quotidiano), o lo si deve fare solo tematizzando un paradosso, un’utopia, un’ucronia, un’incresciosa illusione che rende la vita amara e deprecabile? Bisogna parlarne in prima persona o oggettivarla nella tematizzazione sì critica, ma in fondo distaccata, impersonale, non coinvolgente, non coinvolta? Ha a che fare con la pace interiore dell’anima? È gioia? Pace? Ha a che fare con il soddisfacimento dei bisogni o con la realizzazione dei sogni? La felicità è


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eliminazione dell’inquietudine dell’anima? O è l’espansione della propria interiorità? È un meno (meno sofferenza, etc.) o è un più (di elevazione, di dilatazione, etc.)? Si oppone alla tristezza (come la gioia) o è un assoluto, un non relativo ad altri stati d’animo? Si oppone al muso lungo, all’umore (allegria, contentezza) o è una condizione, uno status? Dipende da paradisi artificiali, da spazi onirici rintracciabili nell’abisso dell’inconscio o dalle sorprese che, a volte, la vita riserva? A questa sfilza di domande – cui per ragioni di spazio non si può qui offrire risposta – si sono inanellate le riflessioni dei padri della nostra cultura occidentale. Da Aristotele a Epicuro, da Agostino a Tommaso, dalle utopie rinascimentali a Kant, per non citare che alcuni autori e alcune correnti di pensiero, tutti hanno formalizzato una teoria sulla felicità legandola al soddisfacimento previo di qualche condizione. Ma è esattamente la determinazione di queste condizioni che implicherà positivamente o influenzerà negativamente l’esito della ricerca della felicità19. 1.1. Platone ed Aristotele Si può scorgere la pluralità delle concezioni sulla felicità nell’antica Grecia, culla della nostra civiltà, sulla base di almeno quattro termini corrispondenti. I greci, infatti, conoscevano il termine pre-razionale eutichia, con il quale indicavano la buona sorte riservata dal fato o dal destino, senza alcun concorso della volontà umana. A questo associavano il termine makarios, riservato alla beatitudine delle divinità cui, per qualche evenienza, potevano accedere pure gli uomini. In termini più generali, i greci impiegavano i termini euesto, per significare uno stato di vita appagato, oppure eudaimonía con cui si rimandava all’origine divina della felicità20. Quest’ultimo risulta il termine maggiormente impiegato per elaborare l’idea della felicità. 19 Sicché alcuni insisteranno su una teoria possibilista della felicità, altri su una massimalista, altri su una minimalista, altri ancora invece rinunceranno del tutto ad immaginare una vita felice perché questa semplicemente non si dà. 20

Cfr. V. L. Castellazzi, Dov’è la felicità, San Paolo, Milano 2007, 15.


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Già Platone aveva sostenuto, che la massima aspirazione dell’uomo non può non tendere al massimo bene21. Solo la conoscenza del fondamento ideale della realtà, che è il bene supremo, conduce alla felicità. Di conseguenza, solo quando l’anima si risveglia a se stessa, può assimilarsi al divino ed essere felice22. La felicità, dunque, ha a che fare con la filosofia, ovvero con la ricerca della saggezza, piuttosto che con il soddisfacimento degli appetiti più bassi, perché solo la ragione è in grado di intelligere il bene ideale e perfetto, desiderarlo e perseguirlo. Come scrive J. Lauster, nella visione platonica, «la felicità nel senso dell’eudaimonía è perciò la realizzazione delle migliori possibilità insite nell’uomo»23. Viene così sigillata l’alleanza fra felicità e morale – infranta irrimediabilmente in epoca moderna – di modo che l’uomo buono che agisce bene non può non essere felice e l’uomo felice non può non essere buono e agire bene24. Alla luce di questa conclusione si può pertanto affermare che sotto il profilo morale, per Platone, la distinzione moderna tra teoria e prassi non esiste. Sulla scia di Platone, almeno inizialmente, si colloca Aristotele, secondo cui il bene supremo è la forma della realizzazione umana. Nella sua Etica nicomachea riesce ad elaborare una teoria compiuta sulla felicità, a partire dalla finalità di ogni azione umana25. Poiché ogni azione mira al raggiungimento di uno scopo, per conseguire la felicità occorre tendere ad un fine oltre al quale non esistano altri beni desiderabili. Come scrive Aristotele, «se alcune delle attività sono necessarie e da scegliersi per altro, mentre altre devono essere scelte per se stesse, è chiaro che bisogna porre la felicità tra le attività che meritano di essere scelte per se stesse e non per altro»26. Detto altrimenti, il conseguimento del bene supremo non può essere ricercato in vista di un altro bene, ma per se stesso: e questo è ciò che Cfr. Platone, La Repubblica 353e, in Id., Opere complete, vol. 6, Laterza, Bari 1978, 68. 21

22

Cfr. Id., Teeteto 176b, in Id., Opere complete, vol. 2, Laterza, Bari 1975, 134-135.

J. Lauster, Dio e la felicità. La sorte della vita buona nel cristianesimo, Queriniana, Brescia 2006, 36. 23

24 25 26

Cfr. Platone, La Repubblica 354a, cit., 68.

Cfr. Aristotele, Etica nicomachea X, 1176a, Bompiani, Milano 2011, 389. Ibid. X, 1176b, 389.


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tutti chiamano felicità27. Da qui deriva che i beni funzionali, non definitivi e perituri, non rendono l’uomo totalmente felice. Solo il bíos theoretikós (ossia la vita teoretica, la via razionale, la speculazione filosofica) conduce l’uomo alla conoscenza del bene supremo. La felicità dunque – come sottolinea J. Lauster – non è una condizione o uno stato dell’anima, ma appartiene alla dinamica dell’attività dello spirito28. Sotto questo profilo, la dottrina di Aristotele è vicina all’idea di Platone. Eppure lo Stagirita ha riconosciuto la netta differenza tra una felicità perfetta (a cui l’uomo tende) e una imperfetta (l’unica che può raggiungere). Non è possibile, infatti, vivere secondo lo stile e la prassi di una teoresi continua. Una vita di pura contemplazione appartiene agli dei, non agli uomini. Da ciò si conclude che l’uomo non può essere pienamente felice. Così scrive Aristotele: «una vita di questo tipo sarà troppo elevata per l’uomo: infatti, non vivrà così in quanto è uomo, bensì in quanto c’è in lui qualcosa di divino»29. Poiché l’uomo non è in grado di realizzare l’impossibile, può tuttavia godere di una felicità parziale esercitando le virtù etiche che nobilitano la sua anima, spostando così l’aspettativa della felicità dall’ideale e pura trascendenza platonica, ad una felicità di tipo immanente, benché imperfetta, senza tuttavia rinunciare ad una ricerca della felicità quale contemplazione metafisica. Riguardo a quest’ultima ricerca, così afferma il filosofo: «non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uomo, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare cose umane e mortali; anzi, al contrario, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi»30. L’indisponibilità di questa felicità perfetta non preclude quindi la possibilità di una beatitudine pure imperfetta, conseguita grazie anche ad apporti esterni all’uomo che rendono la vita godibile. Si coglie tale realismo soprattutto nella seguente citazione dello Stagirita:

27 28 29 30

Cfr. Ibid. I, 1095a, 55.

Cfr. J. Lauster, Dio e la felicità, cit., 67.

Aristotele, Etica nicomachea X, 1177a, cit., 395. L.c.


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s’intende per felicità una buona condotta di vita congiunta alla virtù, o l’autosufficienza di vita, o la vita piacevole congiunta alla sicurezza, o la prosperità dei beni e dei corpi con la facoltà di conservarli e di usarli: si può dire che tutti concordino che la felicità è una o più di queste cose. Se questo è dunque la felicità, è necessario che le sue parti siano la nobiltà di nascita, l’aver molti amici, l’averli buoni, la ricchezza, l’aver buoni figli, l’averne molti, la buona vecchiaia, inoltre le virtù del corpo quali la salute, la bellezza, la forza, la grandezza, la capacità agonistica, la fama, l’onore, la fortuna, la virtù; così si sarà il più autosufficienti possibile, se si avranno insieme sia i beni interiori sia quelli esteriori; non ve ne sono infatti altri all’infuori di questi. I beni interiori sono quelli relativi all’anima e quelli relativi al corpo, i beni esteriori, sono la salute, gli amici, le ricchezze, l’onore. Noi pensiamo che convenga inoltre avere potenza e fortuna: così la vita può essere la più sicura31.

1.2. Stoici ed epicurei Se con Platone ed Aristotele si è elaborata una dottrina sulla felicità di tipo massimalista, secondo cui la felicità possibile è innanzi e sopra l’uomo, con lo stoicismo e l’epicureismo si contrappone una dottrina minimalista, con cui si ridimensiona la portata della felicità alla sfera intramondana, l’unica che l’uomo può esperire32. La tesi su cui si basa quest’assunto intenderebbe scardinare il paradosso della felicità, secondo il quale ad un desiderio infinito di felicità insito nell’uomo corrisponde, invece, una capacità semplicemente finita di conseguirla. La frustrazione di tale desiderio è pertanto inevitabile. Ora, secondo questa considerazione, che reagisce all’idealismo platonico ed aristotelico, la felicità può commisurarsi solo sul possibile, ovvero su ciò che rientra tra le umane facoltà, forze e risorse, non al di là di queste. Secondo gli stoici, in particolare, persino le opportunità esterne non possono ascriversi tra le cause determinanti la felicità. Esse, infatti, sottomesse come sono all’alea dell’imprevedibilità e della provvisorietà, 31

Id., Retorica I, 1360b, in Id., Opere, vol. 10, Laterza, Bari 1973, 18-19.

Ha insistito molto su questa differenza M. Konrad, Il paradosso della felicità. Il necessario desiderio dell’impossibile, in Angelicum 82 (2005) 575-593, 578 ss. 32


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illudono chi le possiede di una soddisfazione effimera e transitoria. Solo l’esercizio della virtù rende felici, perché essa mira non ad un bene esteriore, ma ad un bene tutto interiore quale è la tranquillità dell’anima. Come affermava Seneca: felice è
colui per il quale non esistono il bene ed il male ma soltanto uomini buoni e uomini cattivi, che segue solo ciò che è onesto
e si compiace unicamente della virtù, che non si accende né si avvilisce nelle alterne vicende della sorte, che non conosce
bene maggiore di quello che può procurarsi da solo, e per il quale il vero piacere è il disprezzo del piacere stesso33.

Sembra dunque che, nello stoicismo, il segreto della felicità sia custodito dalla privazione e dall’abnegazione. Come sintetizza A. Massarenti, tale concezione è da intendere «non come frenetico accumulo e ricerca (di beni e di piaceri), bensì come saggia rinuncia, astinenza, e naturalmente distanza dalle fonti di possibili emozioni disturbanti e veri e propri mali, morali ma in fondo anche fisici»34. Anche Epicuro e i suoi discepoli convenivano con l’idea stoica secondo cui la condizione della felicità dipenda da ogni bene possibile che non danneggia l’integrità interiore dell’uomo. Solo il soddisfacimento dei bisogni essenziali può garantire all’uomo una certa felicità, identificata ultimamente con uno stato di benessere complessivo. Questo piacere, che per Epicuro è principio e fine della felicità, non deve confondersi con il soddisfacimento delle propensioni dissolute più istintive e basse, ma – come scriveva a Meneceo – nel «non soffrire nel corpo e non avere turbamento nell’anima»35. 33

L. A. Seneca, De vita beata, IV.

A. Massarenti, Istruzioni per rendersi felici. Come il pensiero antico salverà gli spiriti moderni, Guanda, Milano 2014, 53. 34

Epicuro, Lettera a Meneceo [131], in Id., Lettere. Sulla fisica, sul cielo e sulla felicità, N. Russello ed., Fabbri Editori, Milano 1994, 106-112, 110. Commenta a proposito N. Russello: «La ricerca del piacere come fonte della felicità fu spesso fraintesa e calunniata nell’antichità, ed Epicuro […] fu ritenuto in diversi momenti della storia un gaudente, un ateo, un eretico, finché, dopo secoli di condanna, Gassendi aprì la strada a un nuovo approccio, finalmente scientifico, con la sua filosofia» (Id., Introduzione a Epicuro, Lettere, cit., 43). 35


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La via regale da percorrere è tracciata da Epicuro nella virtù della prudenza, perché essa «insegna come non è possibile una vita felice che non sia una vita saggia, bella e giusta, e non è possibile una vita saggia, bella e giusta che non sia felice»36. D’altronde questo può dipendere da noi, giacché «la necessità è irresponsabile, la sorte è instabile, ma il nostro arbitrio è libero, e per questo può essere oggetto di biasimo o, al contrario, ricevere lode»37. In particolare, Epicuro prescrive un tetrafarmaco efficace per raggiungere questo stato interiore: per cominciare non si devono temere gli dei, perché non è degno di loro occuparsi della condizione umana; quindi non bisogna temere la morte, anzi «è folle chi asserisce di temere la morte […] perché quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando c’è la morte noi non siamo più»38; ancora, occorre essere accorti nello scegliere i piaceri, perché non tutti volgono al bene; d’altro canto, infine, non bisogna evitare indistintamente ogni dolore perché da qualcuno di essi si potrebbe ricavare un piacere. Solo la meditazione di questo quadruplice sentiero può condurre ad una vita moralmente beata e consentirà di vivere «come un dio fra gli uomini: perché in nulla è simile a un mortale un uomo che viva fra beni immortali»39. Epicurei e stoici sembrano concordare, quindi, nel puntare entro l’orizzonte di questo mondo la possibilità di conseguire la felicità, contenendo i propri desideri nei limiti dei bisogni essenziali della vita. Come nota giustamente M. Konrad, per tali dottrine «la felicità non è un massimo assoluto, ma un minimo indispensabile»40.

36 37 38 39 40

Ibid. [132], 110-111. Ibid. [133], 111.

Ibid. [125], 107.

Così conclude Ibid. [135], 112.

M. Konrad, Il paradosso della felicità, cit., 579.


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1.3. Agostino e Tommaso Ha inteso indagare sull’inarrestabile moto del cuore umano verso la felicità anche il cristiano Agostino d’Ippona. In una sua opera, La felicità, citando l’Ortensio di Cicerone scrive: «Avviene che coloro i quali sono esercitati nella dialettica, anche se non ancora filosofi, sono unanimi nell’affermare che sono felici coloro che vivono secondo i loro desideri. L’opinione è certamente erronea: desiderare infatti ciò che non è conveniente è somma infelicità. E non è tanto fonte d’infelicità il non conseguire ciò che si desidera quanto desiderare ciò che non è opportuno. Difatti il desiderio disordinato apporta all’uomo un male superiore al bene che apporta la fortuna (Cicerone, framm. 39 t. B.)»41.

Tentando in questo scritto giovanile di conciliare la sapienza pagana con la religione cristiana, Agostino ritiene di poter discernere ciò che l’uomo, per essere felice, può e deve desiderare. E tale discernimento critico passa al vaglio di alcune condizioni per cui ciò che si desidera «deve essere […] un bene stabile non dipendente dalla fortuna, non condizionato ai vari accadimenti. Infatti non possiamo assicurarci quando e per tutto il tempo che vogliamo ciò che è perituro e caduco»42. Come dichiara É. Gilson: «ciò che egli cerca è un bene tale che il suo possesso appaghi ogni desiderio e dia di conseguenza la pace»43. L’oggetto che appaga il desiderio del cuore dell’uomo, pertanto, non può che essere immutabile, eterno, sganciato dalle leggi del tempo e dello spazio. E questo bene è unicamente Dio: «dunque chi ha Dio è felice»44. Alla luce di questa equazione, Agostino non può certo ammettere che la felicità consista nel soddisfacimento di tutti i bisogni e polemizzando, con Agostino, La felicità, 2, 10, in Id., Dialoghi/1, vol. III/1, Città Nuova, Roma 1970, 195. 41

Ibid. 2, 11, cit., 197. Inoltre, Agostino rammenta che «non può esser felice chi non ha ciò che desidera e che non necessariamente è felice chi consegue ciò che desidera» (Ibid., 2, 10). 42

43 44

É. Gilson, Introduzione allo studio di sant’Agostino, Marietti, Genova 1989, 15. Agostino, La felicità, 2, 11, cit., 197.


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ogni eudemonismo materialista, ricorda che solo in Dio l’anima pacificata è in grado di trovare la propria beatitudine: Lontano, Signore, lontano dal cuore del tuo servo che si confessa a te, lontano il pensiero che qualsiasi godimento possa rendermi felice. C’è un godimento che non è concesso agli empi, ma a coloro che ti servono per puro amore, e il loro godimento sei tu stesso. E questa è la felicità, godere per te, di te, a causa di te, e fuori di questa non ve n’è altra. Chi crede ve ne sia un’altra, persegue un altro godimento, non il vero45.

Ovviamente l’Agostino maturo, cresciuto nella vita di grazia, abbandona l’idea che l’uomo, con le sue sole forze interiori, possa essere in grado di giungere a Dio, se Dio stesso non gli viene incontro promettendogli il compimento della felicità nella vita futura. Così afferma ne La Città di Dio: Ma neanche i santi e fedeli adoratori dell’unico vero sommo Dio sono immuni dai loro inganni e dalla tentazione di varia specie. In questo luogo d’insicurezza e tempi di malvagità non è vana neanche quest’ansia di raggiungere con un desiderio più fervido quella sicurezza in cui è pace sommamente piena perché inammissibile. […] È infatti la felicità finale il fine stesso della perfezione che non ha limite. Qui ci consideriamo felici, quando abbiamo la pace nei limiti in cui qui si può conseguire con una vita onesta, ma questa felicità, paragonata alla felicità che consideriamo finale, è piuttosto infelicità46.

Come sostiene J. Lauster, qui «Agostino corregge anche in modo esplicito la sua precedente dottrina della felicità. Guardando retrospettivamente alle proprie opere egli dedica poche parole alla sua De beata vita e prende sorprendentemente le distanze da essa»47. Solo la visione beatifica di Dio

Id., Confessioni 10, 22, 32. Come non ricordare qui l’incipit della sua magistrale opera: «ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa (inquietum est) finché non riposa in te» (Ibid., 1, 1). 45

46 47

Id., La Città di Dio 19, 10, cit., 41.43. J. Lauster, Dio e la felicità, cit., 60.


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è somma felicità, rispetto alla quale niente può essere più grande e più bella48. Il cristianesimo di Agostino, dunque, non sopprime l’ideale della felicità. Anzi, come Platone e Aristotele, riconosce che l’uomo aneli con desiderio infinito alla somma beatitudine; e come gli epicurei e gli stoici, ritiene che non nel vizio ma nella virtù possa inverarsi il principio di una vita beata. Eppure, distante da tutti loro, nella specificità della fede cristiana, non può non ammettere che la felicità è solo dono di grazia; infatti: «essi [i filosofi] hanno voluto fabbricarsi la felicità a modo loro e hanno creduto ch’era necessario procacciarsela da sé stessi anziché impetrarla, mentre Colui che la concede è soltanto Iddio, poiché rende felice l’uomo soltanto Chi l’ha creato»49. Superfluo dire quanto l’articolata riflessione agostiniana abbia fatto scuola nella teologia o nella filosofia cristiana di ogni tempo. Tra quanti hanno recepito la sua lezione e ne hanno offerto una rilettura e un’elaborazione personale, figura il grande Tommaso d’Aquino. Ovviamente, riguardo al tema della felicità, Agostino non è l’unica fonte di Tommaso. Aristotele rimane il punto di riferimento imprescindibile, senza il cui supporto teoretico lo stesso Aquinate non avrebbe potuto meglio riflettere sulla correlazione tra desiderio innato della felicità e desiderio naturale di vedere Dio. Nondimeno Tommaso non si propone di seguire pedissequamente lo Stagirita, ma tentando un approccio cristiano all’Etica nicomachea, ne coglie l’universale valenza antropologica. È così che nella Summa Theologiae, accoglie la concettualizzazione eudemonistica aristotelica di base, secondo cui tutti gli uomini, nella tensione finale del loro agire, intendono essere felici. Ma oltre questo consentimento naturale, Tommaso non va. Come Aristotele riconosce che la felicità intramondana è imperfetta e temporanea50; come Aristotele ammette che questa felicità terrena è permessa da alcune determinanti esterne all’animo umano (una 48 49

Cfr. Agostino, La Città di Dio 19, 10, cit., 43.

Id., Lettera 155, 2, in Id., Le Lettere/2, vol. XXII, Città Nuova, Roma 1971, 561.

Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-II, q. 4, a. 5: «Ci sono due sorta di beatitudini: la prima imperfetta, possibile nella vita presente; la seconda perfetta, che consiste nella visione di Dio». 50


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buona disposizione del corpo, dei beni materiali, la compagnia degli amici)51; eppure si discosta dal filosofo nell’intendere la modalità con cui questo fine viene raggiunto. Per il cristiano Tommaso è chiaro che la somma felicità, come per Agostino, si perfeziona nel rimando al futuro e nell’aldilà della visione beatifica. Più positivamente, però, rispetto ad Agostino, il Dottore Angelico non contrappone i due ordini di felicità. Anzi, la costitutiva distinzione tra beatitudine trascendente e felicità immanente, che coinciderebbe con la distinzione tra beatitudine perfetta (ed eterna) e felicità parziale (e temporanea), non si esaurisce in una separazione, ma si compone nella classe della “partecipazione”52, anticipando qui in questo mondo quanto sarà compiuto nella vita futura. 1.4. L’epoca moderna e Kant Abbiamo finora assistito al dispiegarsi di una felicità possibile o all’interno di un idealismo massimalista (Platone e Aristotele) o nello spazio di un realismo minimalista (Epicuro e gli stoici). Agostino e Tommaso, in quanto pensatori cristiani, compongono l’idea di una felicità massima, la più grande concepibile, nel compimento escatologico, quando la visio Dei colmerà il desiderio infinito dell’uomo di essere felice. Tuttavia, nella storia del pensiero, soprattutto a partire dall’epoca moderna, che ha visto la rinascita del soggetto come centro unificatore del reale, sganciandosi vieppiù dal centro divino, la scena culturale si è arricchita di nuove configurazioni teoriche riguardanti il tema felicità. Tali configurazioni non si lasciano collocare immediatamente in una zona media tra il massimalismo e il minimalismo eudemonistico, ma spostano l’attenzione altrove. Certo, ancora Cartesio distingueva tra una felicità che dipende dai beni esteriori (per cui un uomo si può ritenere fortunato o felice) ed una beatitudine che, invece, dipende dalle virtù interiori (per cui un uomo sarebbe virtuoso e saggio). Cosicché mentre la prima non dipen51

Cfr. Id., Summa Theologiae I-II, q. 4, aa. 6-8.

Id., Summa Theologiae I-II, q. 5, a. 3: «Gli uomini ritengono che esista in questa vita una qualche beatitudine, per una certa somiglianza con la vera beatitudine. E in tal senso non sbagliano del tutto nei loro giudizi». 52


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derebbe da noi, la seconda sì53. Poiché gli errori di valutazione sono quelli che ostacolano il cammino verso la piena soddisfazione di sé, consegue che la più grande felicità dell’uomo dipende dal giusto uso della ragione. Si fa ancora strada, dunque, all’inizio dell’epoca moderna, una visione minimalista della felicità. Eppure è possibile riscontrarne un’altra, dove l’asse di equilibrio si sposta dall’interiorità dell’uomo ad un’istanza collettiva e, di conseguenza, ad una prassi politica capace di garantire un solido assetto sociale. Si staglia, in altri termini, l’idea utopica della perfetta compagine sociale auspicata da Tommaso Moro ne L’Utopia (1516), da Tommaso Campanella ne La città del sole (1602), da Francesco Bacone ne La nuova Atlantide (1627). Se l’infelicità è data anzitutto dalle disparità e dalle discriminazioni sociali, solo l’arte della politica può assumersi il compito di livellare le ingiustizie secondo un criterio di uguaglianza comune. È risaputo che questa idea sarà ripresa successivamente da K. Marx, il quale spianerà la strada della critica alla religione ebraica e cristiana, ritenute veri oppiacei per il popolo54. Nel Settecento, con l’avvento dell’illuminismo, la ricerca della felicità diventa uno dei temi dominanti dei salotti francesi. Come nota V. L. Castellazzi, «in Francia, è frequente sentir parlare della felicità come dolcezza della vita (la douceur de vie). Diventano inoltre di moda le conversazioni sulla felicità […]. Anche se pieni di luoghi comuni, questi trattati preparano il terreno a un nuovo modello di felicità, che potremmo definire laico»55. Dinanzi alle conquiste della dea ragione, infatti, la beatitudine viene svuo-

M. Konrad, commentando la posizione di Cartesio, afferma: «secondo lui, la misura della felicità non sta nel bene cui il cuore dell’uomo tende, ma nel bene massimo che l’uomo è capace di realizzare» (Id., Il paradosso della felicità, cit., 580). 53

54 K. Marx infatti elaborerà questo ideale utopico sotto il profilo teorico ed economico, bandita ogni forma alienante che procrastinerebbe in un aldilà ipotetico il bene personale e collettivo degli uomini. Secondo il padre del comunismo «la religione ebraico-cristiana alimenta nell’uomo, attraverso la sua promessa di salvezza, il desiderio di una felicità perfetta, che tuttavia si potrà realizzare solo in un futuro, messianico per l’ebraismo, paradisiaco per il cristianesimo» (M. Konrad, Il paradosso della felicità, cit., 583-584). Cfr. K. Marx, Per la Critica della Filosofia del Diritto di Hegel, Newton Compton, Roma 2011, 19-20. 55

V. L. Castellazzi, Dov’è la felicità, cit., 20-21.


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tata della sua valenza metafisica, ultraterrena, e viene legata «all’arte di modificare le cose, così da renderle favorevoli a sé»56. È tuttavia con la filosofia di Kant che, all’ottimismo illuminista57, si oppone l’inconciliabilità tra l’eudemonismo edonistico e la condotta morale. La conclusione filosofica di Kant è che una vita moralmente buona non è necessariamente una vita felice; l’ideale della felicità e la condotta morale possono coesistere, ma non è detto che debbano coincidere. Ora, la dissociazione kantiana tra condotta morale ed eudemonismo muove da una constatazione empirica e da una riflessione razionale. La constatazione empirica è presto detta: in alcune situazioni di vita emerge evidente il conflitto tra l’oggetto del desiderio e la regola morale per poterlo conseguire58. Scrive lo stesso filosofo: «La legge morale per sé non promette nessuna felicità; questa infatti, secondo i concetti di un ordine naturale in genere, non è legata necessariamente con l’osservanza della legge morale»59. Esattamente alla luce di questa constatazione sembra, dunque, che Kant abbia stabilito il primato della legge morale sul principio eudemonistico. L’attribuzione di questo primato, si fonda su una più complessa elaborazione teoretica che, di fatto, ha sancito il divorzio fra morale e felicità. Per Kant il bene supremo, fine di ogni etica, non si identifica per principio con il conseguimento della felicità. Ciò deriva dall’aver fatto coincidere la legge morale con l’imperativo categorico. L’essenza dell’imperativo categorico consiste nella sua intrinseca razionalità, qualità che gli conferisce valore di legge. Essendo razionale, ed essendo la ragione una facoltà che accomuna tutti gli uomini, questa legge vale universalmente e oggettivamente, senza eccezioni. È dunque la ragione a determinare la moralità di un atto, non semplicemente la volontà o il sentimento o il desiderio (perché questi sono soggettivi e mai razionalmente puri). Kant, 56

Ibid., 21.

Ottimismo ripreso in seguito dall’utilitarismo di J. Bentham e dal liberalismo di J. Stuart Mill, secondo cui la felicità si basa sulla massimizzazione dell’utile personale e collettivo, presupposta l’individualità come fondamento del bene comune. 57

58 59

Approfondisce questa considerazione J. Lauster, Dio e la felicità, cit., 112 ss. I. Kant, Critica della ragion pratica A 231, Laterza, Roma-Bari 1997, 283.


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ovviamente, differenzia le massime soggettive di comportamento (che possono derivare semplicemente dalla volontà), da quelle oggettive (valide cioè per tutti) che invece derivano dalla ragione60. E proprio perché sono oggettive, diventano leggi, dunque imperativi. E siccome questi imperativi non sono subordinati al raggiungimento di un fine prefissato dalla volontà, ma rispondono semplicemente all’uso di ragione, allora tali imperativi non saranno condizionali o ipotetici, ma categorici: “devi perché devi”, “devi senz’altro”, “devi e basta”. Il fine è la moralità dell’atto, non il ricavo di felicità che ne potrebbe conseguire61. Alla luce di questo rigorismo morale, l’osservanza del dovere non rende di per sé l’uomo felice. E tuttavia non è preclusa, nella dottrina kantiana, la via della felicità. L’uomo, infatti, rispettando il dovere per se stesso diventa degno di essere felice. In ultima analisi, per il filosofo di Königsberg, «la morale non è propriamente la dottrina che ci insegna come dobbiamo farci felici, ma come dobbiamo diventar degni della felicità»62. In questo modo il filosofo lascia aperta la porta ad una ineffabile remunerazione futura. Come sostiene Lauster: «è il Kant frantumatore della trascendenza ad esprimere così in maniera eloquente il riferimento della felicità alla trascendenza»63. Con Kant e dopo Kant, la cultura europea ha pertanto assistito al tramonto dell’entusiasmo filosofico riguardante la felicità. La storia degli ultimi due secoli, culminata nei due conflitti mondiali, la storia recente del crollo delle grandi narrazioni ideologiche e la contemporanea crisi globale hanno condotto ad una sentita critica nei confronti del tema eudemonistico. Da Nietzsche a Weber agli esistenzialisti, tutti hanno protestato non contro 60

Cfr. Id., Fondazione della metafisica dei costumi, Bompiani, Milano 2003, 203 ss.

Questo formalismo del dovere viene così interpretato da J. Lauster: «era un segno dell’autonomia morale dell’uomo il fatto che la ragione potesse guidare l’azione astraendo da tutte le considerazioni mezzo-fine e da tutti i propri interessi, e proprio questo costituisce per Kant la peculiarità dell’uomo» (Id., Dio e la felicità, cit., 109). 61

I. Kant, Critica della ragion pratica A 234, cit., 285. E prosegue: «non si deve mai trattare la morale in sé come dottrina della felicità, cioè come una dottrina che ci insegni a diventar partecipi della felicità; poiché essa si occupa soltanto della condizione razionale (conditio sine qua non) della felicità, non di un mezzo per acquistarla». 62

63

J. Lauster, Dio e la felicità, cit., 114.


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la felicità in sé, ma contro la sua mancanza, esprimendo una riserva critica nei confronti di quei sistemi che hanno teorizzato vanamente il progetto di una vita soddisfacente. E la teologia cristiana? Cosa apporta al tema? Quali le novità, l’anima, le aspettative sulla realizzazione del desiderio più grande dell’uomo? 2. Una teologia della felicità e della salvezza Sulle domande circa la felicità si può aprire un dossier specifico, con la consapevolezza che può rispondervi solo chi ha sperimentato la felicità. Ma non meno domande, talvolta inquiete, si pongono alla questione della salvezza. Sembra che sia la felicità sia la salvezza non si sottomettano alla lente analitica dell’osservatore esterno. Non basta una fenomenologia della felicità o della salvezza per coglierne l’essenza, per assaporarne i frutti, per ritenere la vita appetibile e godibile. Eppure di questa fenomenologia non si può fare a meno, se non altro per rintracciare alcuni rivoli di senso o, più semplicemente, alcune dinamiche esistenziali che legittimano una possibile riflessione sulla felicità. Si tratta, infatti, di vita e di senso della vita. Non una natura morta è al centro di questa riflessione, ma uno slancio vitale che reclama partecipazione, coinvolgimento, passione e patimenti, stana psicologie stanche o in letargo e sollecita coscienze oggi più che mai scisse e infelici. Qui il cristianesimo si inserisce come proposta di vita piena, traboccante, intensa e gioiosa (cfr. Gv 10,10; Gv 16,24), sì ottenuta per grazia a caro prezzo (cfr. 1Cor 6, 20; 1 Cor 7,23), ma autentica e profonda64. Da qui deriverebbe un primo plausibile aggancio fra felicità e salvezza. Ma è quanto adesso ci prefissiamo di discutere, giacché le proteste secolariste hanno sempre rimproverato al cristianesimo di aver collocato la risposta alla legittima richiesta di felicità al di là di questa vita terrena. Con l’avvento del cristianesimo sarebbe pertanto subentrata 64 Necessario il rimando a D. Bonhoeffer che della “grazia a caro prezzo” ha offerto tra le pagine più dense della teologia di sempre (cfr. Id., Sequela, Queriniana, Brescia 1997).


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l’idea della felicità come un altrove. E si delinea la convinzione che per raggiungere la vera felicità, identificata con l’ingresso in paradiso, è giustificata qualsiasi rinuncia, non esclusa, se necessario, quella della stessa vita. Tale posizione, nella sua espressione esasperata, ha fatto sì che, in certe epoche storiche, si guardasse alla felicità terrena con diffidenza, con sospetto, considerandola un risultato del vizio, più che della virtù. Ciò ha portato alla conclusione che la vera felicità non la si può sperimentare nel tempo presente. Anzi, la vita terrena non è che “una valle di lacrime”65.

È evidente, perché risaputo, che certa spiritualità cristiana, per lungo tempo, ha indicato una via di perfezione, peraltro percorribile da pochi eletti, che passasse per la svalutazione dell’aldiquà, per una negazione totale del mondo e delle sue malie, rinnegando così anche il buono di una creazione comunque voluta da Dio: da qui l’abbandono del mondo (presente) per meritare la salvezza (futura)66. Ma se è vero che non il desiderio della felicità in sé, quanto piuttosto le sue forme distorte sono state oggetto della critica teologica67, bisogna adesso rendere un quadro globale che riassuma l’intricata questione. 2.1. Sguardo biblico sulla felicità Occorre anzitutto riconoscere che nella lingua ebraica non esiste un termine che corrisponda al nostro concetto di felicità68. Inoltre, giova 65

V. L. Castellazzi, Dov’è la felicità, cit., 18.

Il De contemptu mundi, sive de miseria conditionis humanae di Lotario de’ Conti di Segni, futuro papa Innocenzo III (1198-1216), rimane, sotto questo profilo, il paradigma ideale della perfetta idoneità al Regno dei cieli del fedele che in questo mondo sperimenta che non c’è «mai quiete né tranquillità, mai pace né sicurezza, ma sempre timore e tremito, fatica e dolore. La carne finché vive soffre, e l’anima è destinata al pianto» (Innocentius PP. III, De contemptu mundi I, 19, volgarizzato da G. Battelli, Cantagalli, Siena 1984, 47). 66

67

J. Lauster, Dio e la felicità, cit., 144.

Scrive A. Wénin: «Il termine ashrè, spesso tradotto con “felice” o “beato”, è probabilmente quello che più si avvicina a ciò che normalmente intendiamo per “felicità”. […] Ma oltre al fatto che la felicità che designa spesso ha qualcosa a che fare anche con Dio o con la Sapienza, che consiste nel conformarsi all’ordine del Creatore, resta difficile discernere cosa esattamente significhi questo termine. Inoltre la parola ashrè e il verbo che 68


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precisare che né i Settanta, né il Nuovo Testamento, adoperano il termine eudaimonía, così caro alla tradizione greca. Ciò, tuttavia, non deve far concludere che la fede ebraica e la fede cristiana non si siano interessate della felicità degli uomini o che non siano competenti in materia. Come afferma J. Lauster: «Si può benissimo parlare di felicità senza usare tale termine. […] La questione che si pone non è pertanto quella di sapere se i testi raccontano di una vita piena, felice e buona, bensì quella di sapere come ne raccontano»69. D’altronde, solitamente, la Bibbia non discetta su temi, pur fondamentali nella vita degli uomini, alla stregua di una riflessione filosofica, ma narra la storia teologica di un popolo che, nella fattispecie, può raggiungere lo stato di shalom (pace, benessere, etc.) grazie ad una stabile relazione positiva con Dio. La Sacra Scrittura, dunque, preferisce all’espressione concettuale della filosofia, la rappresentazione empirica della storia narrata, per evincere ultimamente lo stesso nesso inscindibile tra azione e conseguenza. Costante della Sacra Scrittura è che la felicità, come esperienza di vita piena e riuscita, sia etero-diretta rispetto all’omologa idea greca o latina, nel senso che l’indisponibilità dello shalom rientra nell’articolazione della relazione triangolare Dio-io-prossimo. Ciò che tale relazione compiuta produce è un incremento di vita, nella consapevolezza che la questione della felicità ha a che vedere con una dimensione che trascende la vita umana70, dato che la condizione di una vita buona, bella e beata deriva all’uomo da Dio. Tale patrimonio comune con la tradizione ebraica, fa del cristianesimo non una fede ostile alla felicità, sebbene il Nuovo Testamento, senza generare illusioni di sorta, attenda dal perfezionamento escatologico la realizzazione di ogni desiderio di bene.

da essa deriva ricorrono quasi soltanto per proclamare “felice” qualcuno che non necessariamente ha la sensazione di esserlo» (Id., Dalla violenza alla speranza. Cammini di umanizzazione nelle Scritture, Qiqajon, Magnano (Bi) 2005, 146). 69 70

J. Lauster, Dio e la felicità, cit., 14. Così lo chiama Ibid., 15.


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Tuttavia la novità cristiana non consisterebbe nell’opporre i due ordini di felicità come inconciliabili71. Ciò che primariamente il cristianesimo indica è un “mutato sentimento della vita”72. La differenza cristiana non intende allora condannare il mondo in quanto uscito dalle mani di Dio. Il riferimento all’appartenenza dei cristiani ad un regno che non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), e dunque il suo rimando escatologico, non legittima la scelta di un rinnegamento del secolo che li deresponsabilizzi nei confronti della storia o, molto più semplicemente, delle sorti della propria quotidiana vicenda73. Come afferma J. Lauster, «lo sguardo gettato a un’ultima realtà relativizza la potenza del reale. In questa nuova libertà da una comprensione puramente terrena della libertà sta l’incremento di vita reso possibile dal riferimento escatologico alla trascendenza»74 che dischiuderebbe, pertanto, nuove prospettive di vita. Il nuovo sentimento di vita, del modo di stare al mondo, viene illustrato concretamente dalle beatitudini evangeliche (cfr. Mt 5,3-12; Lc 6,20-23), dove l’eteronomia della felicità assurge a principio del decentramento di/ da sé. Il termine makarios dischiude, infatti, il mistero delle beatitudini, quale paradosso che manifesta la tensione tra chi è considerato felice da 71 72

Ibid., 17.

Cfr. Ibid., 21.

Come, al proposito, non ricordare le parole scritte D. Bonhoeffer dal carcere il 18 dicembre 1943: «Credo che dobbiamo amare Dio e avere fiducia in lui nella nostra vita e nel bene che ci dà, in una maniera tale che quando arriva il momento – ma veramente solo allora – andiamo a lui ugualmente con amore, fiducia e gioia. Ma – per dirla chiaramente – che un uomo nelle braccia di sua moglie debba avere nostalgia dell’aldilà, è a dir poco una mancanza di gusto e comunque non la volontà di Dio. Dobbiamo amare e trovare Dio precisamente in ciò che egli ci dà; se a Dio piace di farci provare una travolgente felicità terrena non bisogna essere più pii di lui e guastare questa felicità con idee tracotanti e pretese provocatorie e con una fantasia religiosa incontrollata incapace di accontentarsi di ciò che Dio dà. Dio non farà mancare, a chi lo trova e ringrazia nella propria felicità terrena, i momenti in cui gli sarà ricordato che tutte le cose terrene sono qualcosa di provvisorio, e che è bene abituare il proprio cuore all’eternità […]. Ma tutto questo ha il suo tempo, e ciò che conta è tenere il passo di Dio, e non volerlo sempre precedere né d’altra parte stare indietro di qualche passo» (Id., Resistenza e resa. Lettere scritte dal carcere, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, 237-238). 73

74

J. Lauster, Dio e la felicità, cit., 21.


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Dio e infelice dagli uomini, tra ciò che Dio riesce a comporre e ciò che gli uomini logicamente disgiungono. Qui non si tratta di proporre un ideale di vita che guarderebbe alla vanità della condizione di sofferenza in vista di un nirvana risolutivo. Si tratterebbe, invece, dell’affermazione di una fiducia e di una speranza che non può tollerare che gli sconfitti di questo mondo rimangano tali pure nell’aldilà. L’ultima parola di giudizio non è della storia, ma appartiene a Dio, il quale non rimane indifferente, né estraneo alle storie di piccolezza, di debolezza, di ingiustizia, di scacco e fallimento. Le beatitudini rappresentano, sotto contraria specie, l’attenzione e la cura di Dio agli sventurati della storia, vittime spesso dello stesso egoismo umano. Ma la lettura distorta di queste pagine ha gettato una luce fosca sul cristianesimo, ritenendo che il rinnegamento di sé, il portare la croce, l’osservanza del comandamento (per sé costitutivi della spiritualità cristiana), piuttosto che esaltare le potenzialità dell’individuo, in fondo, lo conducano soltanto all’annientamento del sé, all’autodistruzione finale. Invece – come afferma Lauster – «l’autorinnegamento[75] che contrasta chiaramente con qualsiasi aspirazione alla propria felicità, significa per la concezione gesuana della vita buona e felice solo superficialmente una rinuncia al proprio io. Infatti lì dove l’uomo tocca la realtà che lo sorregge e agisce di conseguenza, guadagna se stesso al di là di quello che gli appare importante come attuazione di desideri e interessi finiti ed è così liberato per un altruismo di ordine superiore»76. Alla medesima logica evangelica delle beatitudini (per la quale l’ideale della pienezza di vita non coincide con la logica mondana della supremazia, dell’arroganza e dell’avarizia), si accosta evidentemente l’osservanza del comandamento. L’Antico Testamento presenta il comandamento come via di beatitudine, non come costrizione categorica fine a se stessa: «Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te» (Dt 4, 40). Tale via evoca una promessa divina legata all’obbedienza da parte del credente, vissuta nello spazio vitale di una relazione confidente e amicale con il suo Signore. Ovviamente il contenuto di Per esempio, Lc 9,24-25: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà». 75

76

J. Lauster, Dio e la felicità, cit., 31.


Felicità e salvezza

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quest’obbedienza non lascia spazio a forme equivoche di relazioni né con Dio né con il prossimo. L’alleanza richiede per sé un coinvolgimento interiore che, per quanto defettibile, esprima sinceramente la retta intenzione dell’uomo di legarsi al suo Signore, il perennemente fedele. Si tratta evidentemente di una felicità di natura diversa77, che non può assimilarsi o confondere con la deriva egoistica di coloro che (stolti gaudenti, etc.), vivendo etsi Deus non daretur, non si curano solidalmente del benessere o della felicità altrui. Rimane pertanto, alla luce della Sacra Scrittura, una distinzione tra i due tipi di beatitudine che, essendo stata fraintesa, ha di fatto visto bollate la tradizione prima ebraica e poi cristiana come nemiche della felicità terrena. Tanto più se si accusa un autore neotestamentario come Paolo di non aver dedicato alcuno spazio, nelle sue lettere, al tema della felicità. Come afferma perentoriamente J. Lauster, «in termini più sbrigativi saremmo tentati di dire: egli aveva altro da fare che occuparsi della felicità»78. Ma se è vero che Paolo considera il credente quale l’uomo nuovo che, in Cristo, non segue più la logica di questo mondo e se è vero che la distanza tra il pensiero del mondo e il dono della grazia è ravvisabile nell’inconcepibile stoltezza della Croce, per la quale molti provano scandalo (cfr. 1Cor 1,23), tutto ciò legittima una svalutazione del tema della felicità da parte della prima generazione dei cristiani? 3. Punto di svolta. Felicità vs salvezza? Al di là delle ragioni contingenti che hanno condotto Paolo a non occuparsi del tema eudemonistico, possiamo affermare che egli abbia centrato la sua predicazione sul dono della salvezza mediante la fede. Sembra, tuttavia, che le esigenze di questa predicazione evochino un ammonimento

77 Ibid., 31-32: «Qui sta sicuramente anche uno dei motivi che, nel contesto giudeo-cristiano primitivo, alimentarono le grandi riserve nei confronti del concetto greco dell’eudaimonía». 78

Ibid., 34.


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«a non identificare frettolosamente quanto i cristiani credono essere la loro salvezza con quel che gli uomini sperano come la loro felicità»79. Probabilmente la progressiva distanziazione tra felicità e salvezza, registratasi nel tempo, si è acuita perdendo di vista lo specifico della fede cristiana e la novità delle sue implicazioni antropologiche. Eppure il processo di distanziazione non è stato sancito soltanto dal mondo che, unilateralmente, avrebbe rinunciato al dono della salvezza a fronte del costo troppo alto dell’abnegazione quale contraccambio dovuto. Una qualche recisione del principio eudemonistico si attribuisce anche all’opera di certa spiritualità cristiana che, nella felicità terrena, avrebbe visto o l’occasione della perdita della salvezza eterna (a motivo del peccato scaturito dalla felicità) o, in termini più moderati, un pericoloso ostacolo al cammino di perfezione verso la santità. Ciò che al cristiano dovrebbe importare, secondo questa logica, è dunque la salvezza, non la felicità. Nota lapidariamente L. Oviedo: «[…] non è possibile istituire immediatamente una correlazione tra fede e felicità. La fede non si preoccupa di rendere le persone felici, ma della loro salvezza: concetto molto più ampio, che include altre dimensioni, tra cui quelle della croce e della risurrezione»80. Ma se questa osservazione corrisponde al vero, esasperando l’argomento, si pone la domanda: qual è il confine critico oltre il quale l’uomo si trova a dover scegliere, esclusivamente, o l’una o l’altra? Sembra che la questione sia rimasta soffocata dal nodo teorico di una triste alternativa. È esattamente su questo nodo soffocante che occorre intervenire per sciogliere degli equivoci residuali, premesso che la tradizione cristiana non può rigettare l’enorme patrimonio culturale – della cui migliore tradizione sopra abbiamo riportato qualche traccia – dal quale essa stessa ha attinto valori importanti per formalizzare una morale cristiana all’altezza della sua fede. Nondimeno, l’alternativa “o felicità o salvezza”, alla luce di certa antropologia laica, sembrerebbe fittizia se non addirittura fuorviante. Secondo 79

Ibid., 35.

L. Oviedo, Ambiguità del concetto di felicità nell’antropologia cristiana, in Quaderni Biblioteca Balestrieri 8 (2009) 1-2, 67. 80


Felicità e salvezza

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quest’ultima critica, la felicità che si può provare in questa terra è già segno di una redenzione realizzata almeno come iato, differenza e stacco dalla monotonia grigia del quotidiano. Non sarebbe, pertanto, né richiesta né necessaria una religione deputata ad indicare una via di salvezza (postuma) attraverso il rinnegamento di sé (attuale). La possibilità di condurre una vita buona, moralmente ineccepibile, improntata al rispetto (di sé, degli altri, delle leggi, etc.), non necessita l’azione di una grazia esteriore o aggiuntiva che dia man forte alla libera volontà dell’uomo. Si può dare dunque una redenzione senza cristianesimo e, tuttalpiù, un cristianesimo (in quanto plausibile via morale, ma svestito dell’abito della soprannatura) senza redenzione81. Se l’impressione suggerisce che l’etica del finito abbia sostanzialmente dissolto l’alternativa incomoda, appiattendola al suo piano orizzontale, ciò non ha ancora risolto sotto il profilo teologico, la questione di fondo: la redenzione cristiana trascende l’idea neopagana di felicità? Cosa causa l’altra? La redenzione genera la felicità o, viceversa, la felicità genera la redenzione? 4. Bisogno di salvezza e desiderio di felicità: la redenzione compiuta La visione cristiana del mondo ha conosciuto almeno due grandi versioni che si sono declinate in un’antropologia memore dell’impatto drammatico tra il divino e l’umano (ossia una antropologia più radicale, che è costata la Croce del Figlio di Dio), e in un’antropologia volta a preservare l’integrità dell’uomo nella riconciliazione già avvenuta tra cielo e terra (ovvero un’antropologia più sciolta e liberale)82. Entrambe si distinguono per la loro rilevante carica profetica e provocatoria, per la loro seria e profonda intelligenza del dato cristiano, cosicché In quest’ottica il filosofo S. Natoli si fa promotore di un’etica del finito neopagana, nella cui onda lunga degli effetti, l’uomo può ritenersi felice in questo mondo se sa vivere bene, se sa coltivare l’arte della virtù e trovare in questo orizzonte di senso, pago di sé, il fondamento di ogni ben-essere. Cfr. S. Natoli, La felicità. Saggio di teoria degli affetti, Feltrinelli, Milano 2003; Id., La salvezza senza fede, Feltrinelli, Milano 2007. 81

82

Cfr. E. Salmann, Felicità o salvezza?, cit., 152.


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entrambe sono “vere” e la loro costitutiva differenza, diventa positivamente una benedizione che inonda di luce la loro reciproca polarità. Dunque è all’interno di questa polarità che occorre comprendere la proposta cristiana, sia come esplicitazione di un bisogno di salvezza, sia come coronamento di una felicità desiderata hic et nunc, supposto che se Dio – come afferma E. Salmann – «non è un mostro e se parlare di lui ha un senso umano, non può non volere la beatitudine dell’uomo»83. Il fatto dunque che non vi sia nulla di puramente umano che possa o debba dirsi estraneo al cristianesimo (l’Incarnazione), non può però oscurare al contempo il fatto che il cristianesimo faccia memoria di uno scambio a caro prezzo (la croce). La salvezza e la felicità vanno pertanto incastonate, entrambe e insieme, all’interno di questo quadro teologico che mira a smascherare ogni forma distorta di redenzione o di beatitudine illusorie. Non qualsiasi idolo – sia che prometta salvezza sia che venda felicità a buon mercato – può corrispondere all’altezza dell’interiorità dell’uomo! «Ci vuole una rivelazione che sia riscatto, redenzione, liberazione dalla schiavitù del falso volere, agire, sognare – e che attraversi il baratro che separa l’uomo da Dio, la grazia dal peccato, il desiderio dalla sua propria meta»84. E la felix culpa sa di averne (avuto) bisogno. Ora, ciò che Gesù ha apportato nell’esperienza umana della sua esperienza divina, è una novità di vita che ricostituisce (salva) le libertà infrante dalle illusioni di una volontà egocentrica ed autoassolventesi, annunciando e realizzando una parola efficace che esprime la volontà di Dio di percorrere l’abisso che lo separa dall’uomo lontano e peccatore. In questo nuovo campo di forze instaurato da Gesù, si determina una nuova condizione per la quale l’uomo ha la possibilità donata di recuperare, in maniera incondizionata, il tempo che ha perduto a sostare in una sorta di isolamento autocentrato, di egolatria assoluta, di ripiegamento solipsistico noncurante della presenza dell’altro, chiunque questo altro sia. Solo così la redenzione può essere pensata come un evento per cui Gesù si fa carico della complessità delle relazioni, lasciandosi peraltro segnare

83 84

Ibid., 153. Ibid., 162.


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da ogni gioia e da ogni bisogno, da ogni successo e da ogni colpa, da ogni speranza e da ogni malvagità che il cuore umano sa e può sentire85. Tutto questo senza riserve e in modo solidale fino alle estreme conseguenze. Come sostiene H. Kessler: «Il nucleo soteriologico dell’azione di Gesù consiste nel fatto che egli fa partecipare quanti si affidano a lui al proprio rapporto con Dio e li fa perciò entrare in comunione con Dio, comunione nella quale consiste in fondo la salvezza e da cui questa già ora scaturisce»86. Da siffatto costituito principio di comunione, espressione autentica di una piena relazione con Dio, hanno avuto origine la semplicità e l’apertura di Gesù verso tutti gli uomini e le donne che ha incontrato lungo il suo cammino: egli era un ebreo, ma accoglieva anche i pagani; era un uomo, ma ha voluto instaurare un rapporto liberante con le donne e con i piccoli; viveva in costante riferimento a Dio e tuttavia, o proprio per questo, non indugiava e non provava imbarazzo a intrattenersi a mensa con i peccatori. In altre parole, Gesù intratteneva rapporti personali il cui stile rivelava inequivocabilmente come le relazioni di prossimità, vissute nell’amore e nella giustizia, possano corrispondere alle aspirazioni più profonde dello spirito umano e, così, possano inaugurare una via maestra verso il ben-essere comune87. Questa dunque – possiamo supporre – era la sua felicità che, non disconoscendo l’ambivalenza del contatto, dischiudeva spazi inesplorati di nuove potenzialità relazionali, improntate alla gratuità, alla solidarietà, alla tolleranza, alla giustizia, alla trasparenza, alla limpidezza, alla pace, alla verità. Un’integrale epifania delle beatitudini evangeliche, vissute pienamente, che non può non far pregustare una salvezza in atto. D’altro canto, la salvezza diventa la mozione interiore in grado di ri-orientare l’esistenza verso una felicità che si compiace della realizzazione più profonda dell’a85 Cfr. G.C. Pagazzi, In principio era il legame. Sensi e bisogni per dire Gesù, Cittadella Editrice, Assisi 2004, 95 ss. 86

H. Kessler, Cristologia, Queriniana, Brescia 2010, 203.

Ecco perché la redenzione «abilita e obbliga a lavorare per la giustizia sociale e globale, per la pace, per una utilizzazione rispettosa della creazione, e conferisce a tale lavoro una diversa prospettiva e forza» (Id., Cristologia, cit., 210). 87


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nimo umano. Come asserisce B. Sesboüé: «Se cerchiamo di caratterizzare il contenuto della salvezza dell’uomo in generale, ci imbattiamo sempre nel termine di vita: essere salvato significa vivere, vivere pienamente e vivere sempre. Vivere pienamente significa vivere nella libertà e nell’amore, significa poter realizzare i propri desideri più profondi. In altri termini significa trovare la “felicità”»88. Ma la vicenda di Gesù, nel suo complesso, non ha escluso l’aspetto tragico e martiriale che ha fatto del cristianesimo la religione anche della croce. La redenzione passa, infatti, per la croce del Dio uomo, che insieme è verbo, storia, verità e simbolo che constata, contestualizza e contesta i margini di indifferenza dell’uomo alla differenza della rivelazione divina. La croce, come esecuzione finale della misura grande del dono (ex parte Dei) o come esecuzione finale del condannato a morte (ex parte hominis), «appare così come tribunale che fa vedere l’incompatibilità tra amore divino e condizione umana; come altare di espiazione sul quale la seconda persona trinitaria prende su di sé l’alienazione e la trasforma in risposta; come simbolo di amore, perché vi si ristabilisca il rapporto interrotto»89. Non si può ignorare, quindi, la caratteristica cruciale del cristianesimo, poiché la croce non è soltanto l’esito di un malaugurato incidente di percorso. In altre parole, la salvezza dall’autoassoluzione di assolutizzare il contingente e relativizzare l’assoluto, la liberazione dalla proiezione di sé fuori misura sullo schermo delle relazioni con gli altri, della propria sopravvalutazione o, di contro, della propria sottovalutazione, l’affrancamento dall’illusione di nutrire felicità senza tempo e senza regole, tutto ciò non si dà senza sacrificare qualcosa di sé per un bene più grande90. Nondimeno, la drammatica esperienza della croce non è la condizione definitiva del cristianesimo che non può dunque essere pensato senza la B. Sesboüé, Gesù Cristo l’unico mediatore. Saggio sulla redenzione e la salvezza. I. Problematica e rilettura dottrinale, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1991, 25. 88

89

E. Salmann, Felicità o salvezza?, cit., 164.

Così si entra in quel processo soteriologico che necessita di molti approcci per essere avvicinato e descritto, processo che E. Salmann illustra con le seguenti metafore: «redenzione, sacrificio, giudizio, espiazione, soddisfazione, battaglia, morte, vita, vittoria, guarigione, pace; immagini prese dall’ambito del culto, della giustizia, della natura, della medicina, dell’esperienza di comunione personale» (Ibid., 166). 90


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novità perenne della resurrezione, quale irruzione di grazia (non dovuta) dall’alto, per elevare quanto è precipitato nell’abisso della perdizione. Proprio la resurrezione, che in illo tempore ha interrotto l’interludio del dramma teandrico, e per sempre ha impresso alla storia una novità di vita che, nello Spirito, trasfigura ogni dialettica diabolica in dialogo simbolico fecondo, adesso diventa il sigillo di una vittoria accreditata91. Viene spezzata la catena infernale dell’abissalità dei sentimenti, e lo spazio della fede viene abitato da una presenza che però rimane latente, traccia di un’assenza92, promessa di un futuro di gloria eccedente, giacché «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (1Cor 2,9). È in questo luogo teologico, allora, che felicità e salvezza, possono intravedersi, salutarsi e persino incrociarsi nella logica paradossale del vangelo. Del resto – come ci ricorda H. de Lubac – «il Vangelo è pieno di paradossi, per cui lo spirito dapprima è scosso. Il Salvatore fa uso della pedagogia più accondiscendente, ma egli dice anche: “Beato colui che non si scandalizza di me!” Ed è giusto chiedersi se ogni dottrina spirituale un po’ forte non debba necessariamente rivestire una forma paradossale»93. Sotto questo profilo il cristianesimo promette sì una felicità, ma non senza salvezza e, viceversa, offre una salvezza che si apre alla pura beatitudine. Una corriflessività soave che ricorda, con molta verità e realismo, che tutto è grazia, che è possibile toccare il cielo con un dito, perché il dito di Dio ha già toccato la terra, con un tocco che ha insegnato all’uomo a contare con sapienza i propri giorni, per accorgersi che ogni istante potrebbe

91 Afferma B. Sesboüé: «fu un errore attribuire tutta la virtù della nostra salvezza alla sola croce e dimenticare la portata salvatrice della risurrezione. Tale dicotomia deleteria non poteva che sfigurare la croce e ridurre la risurrezione a una semplice conferma esterna» (Id., Gesù Cristo l’unico mediatore, cit., 32). Del resto, se il Padre avesse voluto salvare l’uomo soltanto attraverso la morte del Figlio, se avesse soltanto esigito questa sofferenza, lo avrebbe lasciato corrompere nel sepolcro e non lo avrebbe risuscitato. 92

Cfr. E. Salmann, Felicità o salvezza?, cit., 169.

H. de Lubac, Paradossi e nuovi paradossi, in Id., Opera omnia, E. Guerriero ed., vol. 4, Jaca Book, Milano 1989, 5. 93


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essere l’ultimo o, chissà , forse proprio per questo, potrebbe essere il primo di una vita nuova, benedetta e felice.


Synaxis XXXIII/2-3 (2015), pp. 215-222

Cronache

LE IMMAGINI ED I SIMBOLI DEL POTERE NEI MOSAICI DELLA VILLA ROMANA DEL CASALE DI PIAZZA ARMERINA: UN PERCORSO STORICO-SIMBOLICO FRA PAGANESIMO AL TRAMONTO E CRISTIANESIMO NASCENTE IN UNA DIMORA ARISTOCRATICA DEL IV SECOLO, NELLA SICILIA FRUMENTARIA, ASPETTANDO I BARBARI.

FRANCESCO ALEO

Il 17 Maggio del 2015 lo Studio Teologico S. Paolo con tutte le sue componenti, segreteria, docenti e studenti, ha dato vita all’annuale Rusticatio che quest’anno si è proposta la visita guidata della Villa Romana del Casale, presso Piazza Armerina. La pr. ssa Donatella Puliga, ricercatrice presso il Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature antiche e straniere presso l’Università di Siena ed il pr. re Francesco Aleo, docente di Patristica presso lo Studio Teologico S. Paolo hanno voluto sottolineare l’importanza e l’originalità della visita, facendola precedere da una lezione sulle immagini ed i simboli del potere nei mosaici della Villa Romana del Casale che è stata tenuta nell’Auditorium del Museo diocesano di Piazza Armerina, alla presenza di S.E.R. Mons. Rosario Gisana, docente del S. Paolo, da alcuni anni vescovo della chiesa piazzese. Tanto si è scritto e detto su questa grande e fastosa dimora romana, rinvenuta nei dintorni della cittadina di Piazza Armerina, in provincia di Enna, nella Sicilia centrale od in quella parte dell’Isola che i greci chiamavano la mesoghéia o la «terra di mezzo». Con qualcosa come 120 milioni di tessere musive e 4.000 metri quadrati di mosaici pavimentali, affreschi parietali


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interni ed esterni, sculture, fontane, colonne e marmi, la Villa romana del Casale conserva la superficie musiva più estesa del mondo romano. Alle prime segnalazioni dei viaggiatori stranieri, quale il pittore Jean Pierre Houel nel corso del Settecento e di quelli dell’Ottocento, nel corso del grand tour, seguirono i primi sondaggi di scavo ad opera di Paolo Orsi ai primi del Novecento, quelli più accurati di Biagio Pace, il quale rinvenne i primi importanti mosaici, infine gli scavi di Vinicio Gentili, alla metà degli anni ’50. All’intervento di restauro e di protezione dell’architetto Franco Minissi, negli anni ’60 con una elaborata e complessa copertura in plexiglass che nel tempo rischiava però di compromettere soprattutto lo stato di conservazione delle tessere musive, è seguito negli anni successivi un dibattito intorno ad un nuovo progetto di conservazione e di restauro del monumento. L’interesse che questo dibattito ha suscitato ha avviato tutto un processo di ripensamento nei processi e nelle tecniche di conservazione e di fruizione del monumento che ha portato nel 2003 all’avvio di un progetto di recupero funzionale e restauro della Villa del Casale, a tutt’oggi ancora in corso. Nel 2005, viene nominato Alto Commissario per la Villa del Casale il pr. re Vittorio Sgarbi che formula le Linee Guida dell’intervento, indicando gli indirizzi generali per la conservazione, le priorità e la metodologia. L’incarico è affidato all’architetto Guido Meli, allora direttore del Centro Regionale di Progettazione e Restauro, avvalendosi delle necessarie professionalità dello stesso Istituto, con il coinvolgimento degli Istituti di Ricerca e delle professionalità specifiche di supporto. Aperto nel 2007, il cantiere di restauro ha messo la Villa del Casale in condizione di essere aperta al pubblico nel luglio del 2012 con oltre mezzo milione di visitatori all’anno. Durante la preparazione immediata dei docenti e degli studenti alla Rusticatio che è anche momento culturale qualificante la vita dello Studio, si sono sottolineate due linee storiche che hanno voluto fungere da coordinate per una riflessione per certi versi originale su questo straordinario monumento dell’antichità romana in Sicilia, riconosciuto dall’Unesco patrimonio dell’umanità. La Sicilia frumentaria e l’attesa dei barbari sono le coordinate o le linee ispiratrici di un cammino o percorso che ci ha fatto soffermare su un periodo della storia della nostra Isola, forse poco frequentato e conosciuto, ma quanto mai attuale oggi: il tramonto di Roma


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in Occidente e le migrazioni di popoli nuovi entro i confini dell’Impero Romano. Per Sicilia frumentaria, si intende l’assetto imposto alla Sicilia dagli inizi del IV secolo fino alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, convenzionalmente datata al 476. Assetto determinato dai vastissimi latifondi senatori (latifundia) e dalle concentrazioni fondiarie di terra (massae) riconducibili a proprietari assenti rentiers, per lo più ricchissimi e potentissimi senatori romani o membri di famiglie aristocratiche senatorie, residenti a Roma, l’Urbs per eccellenza1. La Villa del Casale è soltanto una, forse la più grande e la più importante, fra le numerose altre Villae romane presenti in Sicilia, i resti di alcune delle quali sono stati scoperti od ancora in grandissima parte da scoprire2. Quella del IV secolo è la Sicilia, più che La Bibliografia sull’argomento è ovviamente vastissima, ci limitiamo a fornire alcuni studi e saggi, vd. M. Rostovzeff, The social and economic History of the Roman Empire, Oxford 1926; F. Lot, La fin du monde antique et le début du Moyen Age, Paris 1927; P.E. Hubinger, Spätantike und Frühesmittelalter. Ein historishes Problem, Bad Hamburg 1959; A.H.M. Jones, Il tramonto del mondo antico, Bari 1972; P. Brown, Il mondo tardo antico, Torino 1974; S. Mazzarino, Antico, tardoantico, era costantiniana, I, Bari 1974; H.I. Marrou, Decadenza romana o tarda antichità?, Milano 1987; Storia di Roma, III, 2. L’età tardoantica. I luoghi e le culture, a cura di A. Carandini, L. Cracco Ruggini, A. Giardina, Torino 1993; A. Giardina, Esplosione di tardoantico, in «Studi Storici», 40.1 (1999), 157-160; G. Fowden, L’elefantiasi del tardo-antico, in «Journal of Roman Archeology», 15 (2002), 681-686; S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV secolo. Ricerche di storia tardo-romana, Milano 2002; Idem, La fine del mondo antico. Le cause della caduta dell’impero romano, Milano 1999; H. Brandt, L’epoca tardoantica, Bologna 2005; P. Heather, La caduta dell’impero romano: una nuova storia, Milano 2006; B. Ward-Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà, Bari 2010; G. Ravegnani, La caduta dell’impero romano, Bologna 2012. 1

Si pensi ai resti, fra i quali quelli di una sola stanza dal pavimento musivo ben conservato della Villa romana del Tellaro presso l’antica Eloro o a quelli ben più estesi della Villa romana di Patti presso Messina. Quest’ultima, potrebbe essere una della tante villae presenti nei fondi dei Piniani, la Gens cui apparteneva S. Melania che con suo maritò alienò tutte le sue proprietà a Roma e fuori, sparse per tutto l’Impero, allo scopo di darsi all’ascesi, come ci dice Geronzio, cf. Vie de Sainte Mélanie, 18. Texte grec. Introduction, traduction et notes par D. Gorce, Paris 1962 (Sources Chrétiennes, 90), 162-163; sulle vicende dei due coniugi asceti, vd. C. Soraci, Patrimonia sparsa per orbem. Melania e Piniano tra errabondaggio ascetico e carità eversiva, Acireale-Roma 2013. La Villa di Patti presso Messina potrebbe essere proprio la residenza dei Piniani in Sicilia, di cui ci parla Geronzio, 2


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mai prima di allora, “granaio di Roma”, rurale e servile o del colonato, nell’organizzazione del lavoro agricolo e dell’amministrazione delle proprietà agrarie al suo interno, ma nello stesso tempo, è la Sicilia urbana ed aristocratica o d’elìte, nella residenza e nell’abitare in villa delle famiglie senatorie romane, le quali vi soggiornano per periodi più o meno lunghi di tempo. Proprio alla presenza nell’Isola di queste famiglie aristocratiche, residenti in Villae sontuose, che rendono centro la periferia dell’Impero Romano e spostano sempre più a sud, fino all’Africa, l’asse della Pars Occidentis si deve forse l’aura sognante e fascinosa di una Sicilia “eterna” sospesa nello spazio e nel tempo, masso erratico nell’alveo della Storia con le sue vicende di conquiste e d’invasioni. In questa Sicilia del IV secolo, però, come hanno dimostrato le recenti indagini storiche ed archeologiche, ebbero corso ed effetto fenomeni sociali di stanziamento e di insediamento di grossi centri rurali - le Agro town di Roger Wilson - mettendo in atto “silenziose rivoluzioni”, le quali pongono l’Isola come in attesa di un evento nuovo che necessariamente la farà uscire da questo suo splendido e dorato isolamento3. Questa Sicilia in attesa dei barbari, non è un’altra Sicilia ma

dalla quale era possibile vedere i pescatori in mare e scorgere i cacciatori nelle selve o quella dalla quale Rufino vede di notte al di là dello Stretto l’incendio di Reggio devastata dai barbari, come egli stesso scrive nella Lettera prefatoria alla sua versione latina delle Omelie sui Numeri di Origene, ma è un’ipotesi, tutta da dimostrare e che recentemente è stata messa in dubbio dagli studiosi, cf. Origène. Homélies sur le Nombres. Homélies I-X. Texte latin de W.A. Baehrens, nouvelle édition par L. Doutrelau, Paris 1996 (Sources Chrétiennes 415), 18-19 ed Origene. Omelie sui Numeri. Traduzione, introduzione e note a cura di M.I. Danieli, Roma 2001 (testi patristici 76), 1, per la versione italiana.

3 Ovviamente, anche su questo argomento la Bibliografia è vastissima, si segnalano soltanto alcune opere generali e saggi di vario genere, vd. Il passaggio dall’antichità al Medioevo in occidente, Spoleto 1962 (CISAM, 9); L. Cracco Ruggini, I barbari in Italia nei secoli dell’Impero, in Magistra Barbaritas. I Barbari in Italia, Milano 1984, 3-51; M. Rouche, I regni latino-germanici (secoli V-VIII), in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età contemporanea, II, 2. Il Medioevo. Popoli e strutture politiche, Milano 1993, 89-122; C. Azzara, Le invasioni barbariche, Bologna 1999; F. Cardini, Cassiodoro il Grande. Roma, i barbari e il monachesimo, Milano 2008; A. Barbero, Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’Impero Romano, Roma-Bari 2010. Per ultimo in ordine ma non per importanza, vd. E. Caliri, Aspettando i barbari. La Sicilia nel V secolo tra Genserico e Odoacre, Catania – Roma 2012, ricco di validi spunti e di suggestioni.


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crea le basi e mostra le fondamenta sulle quali si costruisce il suo futuro nei secoli successivi. Sulla scorta di questi spunti e di queste suggestioni abbiamo colto, sugli splendidi pavimenti musivi della Villa Romana del Casale, gli elementi figurativi, simbolici e narrativi, unici indizi – in assenza di fonti ed indicazioni storiche ed epigrafiche - dell’identità di un Dominus del Tardo Impero Romano, vissuto nel IV secolo, ricchissimo, di certo membro dell’aristocrazia senatoria (vir clarissimus). Che egli sia stato uomo di potere e che il profumo inebriante del potere aleggi ancora tra le stanze e gli ambienti di questa sontuosa Villa romana, si percepisce proprio dai soggetti e dai motivi figurativi dei mosaici pavimentali. Lo spazio architettonico, prima ancora che l’immagine, è oggetto di potere, da parte del Dominus, attraverso l’imposizione all’architetto ed ai costruttori del proprio personale progetto nella planimetria e nel complesso figurativo, determinato da una prospettiva ascendente che sale il pendio utilizzato per l’edificazione - di certo insolita in un luogo al centro della Sicilia - di una Villa tanto fastosa4. Uno spazio, quello architettonico della Villa del Casale che non si apre su quello paesaggistico naturale della vallata del torrente Nocciara in cui è situato, ma che, tutto concluso in sé, osa mostrarsi e farsi quasi spazio urbano dai volumi architettonici di una planimetria, richiamante i quartieri, sia pur in miniatura, delle grandi città residenze imperiali dell’Oriente ellenistico. Lo spazio urbano dell’Urbs del IV secolo e quello in piccolo della nostra Villa, superando la prospettiva assiale ed ippodamica dell’antichità, si protende ormai, in questo scorcio di inizio di tardo-antico, verso un’epoca nuova, ove le città si distendono e nascono intorno a nuclei urbanistici ed architettonici nuovi e precisi.

4 Sulla Villa Romana del Casale, ci limitiamo a suggerire un importante lavoro di edizione del monumento e due pubblicazioni di Atti di convegno, vd. A. Carandini, A. Ricci, M. De Vos, Filosofiana. La villa di Piazza Armerina, Palermo 1982; G. Rizza (ed.), La Villa Romana del Casale di Piazza Armerina. Atti della IV Riunione Scientifica della Scuola di Perfezionamento in Archeologia Classica dell’Università di Catania, Catania 1984 (Cronache di Archeologia 23); P. Pensabene-C. Sfameni (a cura di), La villa restaurata e i nuovi studi sull’edilizia residenziale tardoantica. Atti del Convegno CISEM (Piazza Armerina, 7-10 novembre 2012), Bari 2014.


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Il Dominus ostenta così il suo potere sullo spazio, afferrato e tenuto saldamente con un unico sguardo dalla prospettiva colta dal grande cortile centrale della Villa, al cui centro sta la fontana ornamentale – l’antico impluvium – che con i suoi plutei architettonici tiene l’acqua, posseduta e controllata con un impianto idrico di fistulae plumbee, essenziali non alla vita, ma ai giochi d’acqua ed alla frescura (pediluvium) a favore degli ospiti della Villa. È uno spazio che si domina e si possiede anche dalla prospettiva della Porticus del grande peristilio quadrangolare: sotto il suo dominio e la sua influenza ristanno tutti i complessi architettonici di questa Villa. Alla Porticus si accosta la Palaestra, sul cui pavimento musivo i giri di una corsa di quadrighe iniziata e finita nel Circo Massimo di Roma possiedono il tempo della turba di spettatori, accalcata sul bordo della pista, sotto lo sguardo, ortoprospettico, dalla prospettiva del palco imperiale (pulvinar) ove siede l’Imperatore sommo rappresentante del potere. Alla Palaestra si collegano le Thermae, tecnologicamente e tecnicamente progettate per la salute dei corpi, ad imitazione di quelle di Roma, il cui potere si esercita sui corpi prima che sulle menti. Il cortile poligonale funge da Vestibulum con il Portale monumentale, tanto simile ad una Porta triumphalis o ad un Arcus celebrativo del potere di un imperatore; lo Xystus ogivale con il Trichorium con il mosaico dei Giganti, trafitti da Ercole, poiché hanno osato spodestare Zeus dal suo rango di re degli déi e privarlo del suo potere cosmico ancestrale; il grande corridoio con il mosaico della Grande Caccia, Ambulacrum o criptoportico, sul cui pavimento poter vedere ossessivamente tigri, leopardi e leoni trascinati, legati, ingabbiati, allo scopo di incrementare e celebrare il potere mediatico dei ludi venatorii; infine, le varie stanze d’abitazione interne con scene a mosaico di donne tenute strette in braccio e sottomesse all’uomo impegnato in danze, spettacoli e cacce; tutto questo è potere ed il suo esercizio, nei mosaici e negli affreschi parietali rimasti, viene segnato e ritmato dal lusus, dalla vis e dall’ingenium ovvero dal gioco, come nei mosaici con giochi di fanciulli e fanciulle, dalla forza, come nel servo picchiato da centurione nel corridoio della grande caccia e dall’ingegno come nel celebre mosaico di Ulisse con Polifemo. Lo spazio architettonico di questo complesso pseudourbano si dota di un segno e di una funzione sua propria, per non dire che acquista un suo senso compiuto, nella grande Aula basilicale o Basilica, edificio nel quale,


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sedeva, in fondo all’abside il magistrato oppure l’imperatore per esercitare le funzioni collegate al suo potere. Basilica che, nella Villa Romana del Casale, presenta una lunghezza di cento piedi romani (Basilica centenaria) come la Basilica del governatore di Roma (Praefectus Urbis) e che sulla lunetta del pavimento rialzato, addossato all’esedra od all’abside in fondo, presenta un tondo porfideo di color porpora (rota porphyretica), allusivo della porpora imperiale. Il massimo potere imperiale, allora, si concentra e si materializza nelle forme architettoniche di una dimora aristocratica e senatoria, allusive e sognanti, fra mitologia ed allegoria, come questa Sicilia in attesa dei barbari, fra mito e simbolo, elemento portante di una civiltà giunta al suo apice. I mosaici, per non parlare della ricca decorazione pittorica parietale sia all’interno che all’esterno della Villa, sono parole di commento di un linguaggio figurativo compiuto, nel quale la figura, l’immagine, l’arte pittorica e musiva sostituiscono la parola contenuta nel Panegirico. Se, infatti, il Panegirico era un discorso che celebrava, esaltava e descriveva il potere dell’imperatore, il linguaggio figurativo dell’architettura, del mosaico, della pittura, concorre a rendere la Villa Romana del Casale un enorme e fastoso Panegirico, non di parole, frasi, forbite circonlocuzioni, ma di marmi, tessere e colori evocanti passioni ed emozioni, in attesa dei barbari5. Popoli nuovi, infatti, i vandali ed i goti del V e del VI secolo, gli arabi del IX secolo e così via, spezzeranno l’incanto dorato della Triskelés, isola del sole, pascolo dei buoi di Gerione. La Sicilia, prima di tutto, è terra: terra dell’orzo con i greci, terra del grano con i romani. Sicilia oneraria, frumentaria, annonaria, ma pur sempre terra. Terra di latifondo che segna il corpo, la carne e la pelle dei suoi abitanti, lungo la storia, nonché la “sostanza” se non la “materia” di quest’Isola mediterranea. Terra, sfruttata e coltivata con le monoculture intensive del frumento lungo i secoli, base ineliminabile della storia di quei popoli che su di essa hanno costruito il loro potere. Prima il potere dei greci, poi quello dei romani e dei bizantini, poi quello degli arabi, proprio loro che dal possesso o potere di questa terra di latifondo, da nomadi vengono Vd. F. Aleo, Un Adventus di reliquie a Costantinopoli nel IV secolo: il consensus, in un’Omelia di Giovanni Crisostomo. Relazione tenuta il 18 aprile 2013 al Convegno di Studi su: Processi di formazione del consenso, presso Dipartimento Seminario Giuridico, Aula Magna-Villa Cerami (Catania 18-19 aprile 2013) in «Synaxis» XXXI/3 2013 63-96. 5


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trasformati, snaturati, fino a risiedere nei villaggi contadini aleramici della dominazione normanna. Sui pavimenti musivi della Villa del Casale, simboli architettonici e figurativi, pagani e cristiani, convivono, trovano il loro humus. La Basilica si appresta a diventare ormai luogo di culto, celebrante un altro potere non di questo mondo. Il mosaico della lotta tra Eros e Pan nella stanza da letto (cubiculum) del Dominus si ritrova sul pavimento di una chiesa di Aquileia del VI secolo, come lotta tra Amor sacro ed Amor profano, migrando così, arcanamente, dal profondo Sud al profondo NordEst d’Italia. Il tema dell’Adventus del Dominus, riprodotto nel mosaico pavimentale dell’Atrium della Villa spiegherà ai pagani l’ingresso di Cristo a Gerusalemme ed il suo ritorno alla fine della Storia, come mostra il sarcofago di Giunio Basso del IV secolo, di poco posteriore ai nostri mosaici. Terra e potere con i loro segni, i loro simboli, la loro storia, gravano sulla Sicilia di ogni tempo, il cui popolo industrioso, lavoratore, indomito, ma non schiavo, nei secoli vive, lotta e soffre, in attesa di qualcosa o di qualcuno: dei barbari forse o di chi ne voglia leggere nel suo patrimonio artistico, storico ed architettonico, come quello racchiuso nel Panegirico della Villa Romana del Casale, una testimonianza di vita e di speranza di un nuovo rinascimento o fondamento.


Synaxis XXXIII/2-3 (2015), pp.223-228

Recensioni B. J. Hilberath – E. Jüngel – M. Eckert – E. Herms (edd.), Lessico delle opere teologiche, Queriniana, Brescia 2015. Ed. it. a cura di G. Francesconi – R. Gibellini, pp. 862. Tit. orig.: Lexikon der theologischer Werke, Alfred Kröner Verlag, Stuttgart 2003. Il Lessico delle opere teologiche pubblicato in versione integrale dall’editrice Queriniana, rappresenta un’assoluta novità nel panorama teologico italiano. L’edizione originale, infatti, è uscita nel 2003 in tedesco per l’editore Alfred Kröner Verlag di Stoccarda con il titolo Lexikon der theologischer Werke, e finora non era stata tradotta in italiano. L’opera è il frutto del lavoro di una speciale commissione costituita da teologi e teologhe guidati da alcuni colleghi, sia cattolici sia evangelici, che ne hanno curato la pubblicazione. Si tratta di B. J. Hilberath, E. Jüngel, M. Eckert ed E. Herms i quali hanno mobilitato 250 studiosi tra i maggiori esperti nelle diverse branche del sapere teologico e tra gli specialisti dei diversi periodi della storia della teologia. Il volume di ben 862 pagine presenta in maniera essenziale, ma nello stesso tempo critica e puntuale, centinaia di opere – più di mille - che hanno fatto la storia del pensiero teologico e che costituiscono la nervatura essenziale della letteratura cristiana dalle origini patristiche fino, si potrebbe dire, ai nostri giorni. Uno dei criteri base che è stato adottato e seguito nella selezione delle singole opere è stato quello ecumenico. Molte delle opere scelte, infatti, rivelano un chiaro spessore ecumenico ed hanno svolto – continuano a farlo anche oggi - un ruolo importante nell’ambito della storia della teologia. Gli scritti sono presentati nei loro contenuti e sono collocati nel contesto storico in cui sono stati concepiti e pubblicati. Degli stessi, di volta in volta, gli autori indicano la storia degli effetti. Le opere sono citate con il titolo dell’edizione originale e nel caso di opere scritte in una lingua straniera, viene riferita anche la loro traduzione in lingua italiana. Ciò che si legge nelle Note per i lettori, ovvero che «le voci sono redatte nella maniera più succinta possibile e con la necessaria chiarezza, e sono ordinate secondo l’ordine alfabetico dei titoli


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delle opere» (p. 7), corrisponde al vero. Sarebbero sufficienti queste poche note per comprendere la ragione per cui un’opera come questa deve essere considerata non solo utile, ma addirittura indispensabile per la consultazione da parte dei teologi e anche di quei filosofi, storici e letterati che intendono attingere a piene mani al ricco, quasi inesauribile, patrimonio del pensiero cristiano. Riuscire a raccogliere in poche battute ciò che un’opera è stata nel panorama della teologia e finanche della cultura mondiale e, in molti casi, ciò che continua a rappresentare, non è affatto cosa semplice. Eppure gli autori hanno saputo contenere in poche battute sia il tema e il fine dell’opera di volta in volta presentata, sia la sua struttura, i suoi effetti, la sua recezione, ecc.. La prima parte di ogni singola “voce”, infatti, presenta innanzitutto il tema principale dell’opera, quindi il tema teologico, il fine e la struttura della stessa. La seconda parte, invece, presenta la sintesi delle sue idee principali. La conclusione si limita a indicare in maniera sommaria l’influsso che essa ha esercitato o il dibattito in cui si è inserita e in cui ha svolto un certo ruolo. Il tutto è arricchito da un’appendice bibliografica in cui sono elencate le eventuali edizioni e traduzioni della stessa, e in cui è offerta la bibliografia secondaria che la riguarda. Il testo, poi, è corredato da un indice analitico redatto seguendo l’ordine alfabetico dei teologi e delle teologhe presentati. Come leggiamo nella Prefazione, «il presente Lessico delle opere teologiche vorrebbe aiutare a orientarsi sotto diversi aspetti: a inquadrare autori e opere; a farsi velocemente un’idea delle opere principali di un autore; a ricordarsi i contenuti principali di un’opera o a pregustarli; a informarsi su quanto è attualmente oggetto di discussione nella scienza teologica e a infondere il desiderio di conoscerlo meglio». Nel dare vita a questo ambizioso progetto che da Francisco de Osuna con il suo Abecedario espiritual, scritto tra il 1524 e il 1531, giunge sino a F. Gogarten e al suo Zwischen den Zeiten, un testo breve pubblicato per la prima volta nel 1920, divenuto immediatamente il manifesto della prima “teologia dialettica”, i curatori tedeschi non hanno preteso di essere esaustivi e completi, tanto da denunciare immediatamente la consapevolezza di non essere nelle condizioni di ovviare alle inevitabili lacune che un’opera del genere comporta. Un posto di rilievo lo occupano, unitamente ai grandi autori come Agostino, Gregorio di Nissa, Atanasio di Alessandria, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Lutero (il teologo al quale viene dedicato più spazio), Erasmo da Rotterdam, anche teologi più vicini a


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noi, come F. D. Schleiermacher, E. Troeltsch, K. Barth, K. Rahner, ecc. La selva di teologi che si incontrano sfogliando l’opera è davvero ricca e folta. Non è assolutamente possibile darne ragione, neppure sommaria. Tra di essi troviamo anche nomi che in un primo momento potrebbero meravigliare il lettore, come Francesco d’Assisi con la sua Regola non bullata, con la sua Regola bullata e il suo Testamentum, o come Carlo Borromeo con il suo Catechismus Romanus e Petrarca con il suo Secretum. Alcuni nomi risultano addirittura poco conosciuti e al pari di molti dei testi da loro scritti sono, a dire il vero, estranei alla conoscenza di non pochi lettori che pertanto possono sperimentare da un lato la difficoltà a muoversi in un terreno così vario e generoso, dall’altro la gioia intellettuale di incontrare sempre nuovi paesaggi e inedite prospettive che danno prova, qualora ce ne fosse ancora bisogno, della straordinaria ricchezza e profondità che la fede credente ha saputo offrire alle diverse generazioni di credenti e di non credenti. Francesco Brancato Giovanni Miccoli, Anno Santo. Un’“invenzione” spettacolare, Roma, Carocci editore [Collana: Sfere extra], 2015, ISBN 978-88-430-7823-3, pp. 142 b/n, € 12,00. «Il primo Anno Santo fu annunciato nel 1300 da papa Bonifacio VIII, che con esso stabiliva un periodo di un anno in cui chiunque si fosse recato a Roma per visitare con apposite preghiere le quattro principali basiliche, passando attraverso le porte sante aperte per l’occasione, avrebbe potuto fruire di speciali indulgenze plenarie, tali da cancellare non solo le pene terrene per i propri peccati, ma anche quelle ultraterrene del purgatorio…»: l’incipit della recensione al libro dello storico triestino Giovanni Miccoli (1933), pubblicata sull’inserto culturale del quotidiano economico-finanziario Il sole 24 Ore di domenica 13 dicembre 2015 a cura dello storico dell’Inquisizione e delle eresie cinquecentesche Massimo Firpo, individua il terminus a quo del libro. Poco più avanti, soffermandosi sul «giubileo della misericordia, che inizierà l’8 dicembre, giorno dell’Immacolata ma


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anche cinquantesimo anniversario della conclusione del Vaticano II», viene altresì specificato il terminus ad quem del breve ma denso saggio incentrato sull’approfondimento delle bolle di indizione che hanno accompagnato in oltre settecento anni di storia lo svolgimento dell’evento giubilare. Sebbene lo stesso professor Miccoli tenga a precisare nella prefazione (pp. 7-8) che la sua indagine «non è né vuole essere una storia degli anni santi», il libro può essere letto come un’utile introduzione a carattere storico per conoscere meglio la genesi e lo sviluppo di un’istituzione, quella dell’Anno Santo, complessa e di non sempre immediata decifrazione. Quasi a volere segnare uno iato tra Papa Francesco e i suoi predecessori, il libro viene suddiviso in due parti. La prima parte, già dal suo titolo, “L’Anno Santo da Bonifacio VIII a Giovanni Paolo II” (pp. 11-86), lascia appieno presagire che la tematica in analisi sarà la storia del Giubileo da Papa Bonifacio VIII (Sommo Pontefice di Santa Romana Chiesa dal dicembre 1294 all’ottobre 1303) a Papa Giovanni Paolo II (Asceso al soglio di Pietro nell’ottobre del 1978 e rimasto in carica fino ai primissimi giorni dell’Aprile 2005). La seconda ed ultima parte, non a caso intitolata “L’indizione giubilare di Papa Francesco” (pp. 87-134), nella quale il cattedratico dell’università di Trieste effettua un’attenta disamina delle premesse, delle strategie comunicative e delle linee operative di fondo sottese all’indizione del nuovo evento. Pensato e scritto per un pubblico di lettori colti ma allo stesso tempo non specialisti, il volume ha il pregio di ancorare elementi di riflessione propri della riflessione ecclesiastico-teologica ad un severo rimando al contesto storico, così rendendo possibile un solido ed affidabile orientamento anche ai neofiti in tema di Anno Santo. In ossequio ad un rigoroso (e fondato) ordine cronologico, la prima parte del libro accompagna il lettore in un percorso diacronico lungo i ‘primi’ sette secoli giubilari, suddividendo la materia trattata in dieci brevi paragrafi. Il primo paragrafo (pp. 11-15) prende le mosse dalla bolla bonifaciana del 22 febbraio 1300, quella Nuper per alias nella quale il magistero papale si delineò come l’unica auctoritas legittimamente autorizzata a concedere l’indulgenza plenaria. Il secondo paragrafo (pp. 16-18) presenta la filiazione del giubileo universale dal 23° libro del Levitico, così come evidenziato da Papa Clemente VI (1350). Se il terzo paragrafo (pp. 19-23) focalizza le sue attenzioni sulla plenitudo potestatis papale in rapporto alla


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concessione dell’indulgenza plenaria, il quarto (pp. 24-27) è imperniato sull’impatto dell’evento giubilare per la popolazione ospitante, ovvero gli abitanti di Roma, allo stesso tempo visti come profittatori e vittime di un evento sovente “più grande di loro”, come in occasione del Giubileo indetto da Sisto IV nel 1475. Se un rimando approfondito al ruolo delle confraternite, ed in particolare alle mansioni della confraternita della Santissima Trinità fondata da San Filippo Neri nel 1548 è oggetto del quinto paragrafo (pp. 28-37), la centralità di Roma minacciata dalle “defezioni” di matrice protestante nel giubileo bandito da Papa Clemente VIII (1600), costituisce l’argomento privilegiato dal sesto paragrafo (pp. 38-43). Le pagine 44-52 del volume racchiudono il settimo paragrafo, appositamente ideato per evidenziare il tema del ritorno “alla madre chiesa di Roma”, così profondamente avvertito da Innocenzo X in vista del Giubileo del 1650, basti ricordare la promulgazione della Bolla Appropinquat dilectissimi filii. L’ottavo paragrafo (pp. 53-59) evidenzia le tendenze ‘millenaristiche’ sottese all’evento giubilare, basti citare le riflessioni poste da Papa Benedetto XIV al Giubileo del 1750. Il vento del secolarismo veicolato dalle ideologie “atee” dell’illuminismo e del marxismo occupano le preoccupazioni dei pontefici a noi cronologicamente più vicini, basti ricordare il Giubilei indetto da Papa Pio XII nel 1950 e il Concilio Vaticano II inaugurato da Papa Giovanni XXIII nel 1962 come argomentato nel nono paragrafo (pp. 6074). Infine, la prima parte del volume viene conclusa dal decimo e ultimo paragrafo (pp. 75-86), mirante ad approfondire la tematica della richiesta di perdono, così sentita nelle manifestazioni giubilari dai Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II per gli errori commessi dalla «Barca di Pietro» nel suo plurimillenario percorso attraverso le varie epoche della storia umana. I tre paragrafi che compongono la seconda parte del libro gettano appositamente lo sguardo sulla ‘nostra’ contemporaneità. Dall’«annuncio» (pp. 89-93), alla «bolla di indizione» (pp. 94-105), per poi concludere con «le prospettive di un papato diverso» (pp. 106-134), Giovanni Miccoli illustra accuratamente le linee di novità rispetto al passato, sottese alla promulgazione del nuovo evento giubilare: da quello, centrale per rilevanza al punto da costituire il ‘motto’ dell’intero evento, della misericordia, a quelli, strettamente collegati al primo, di una Chiesa che deve avere l’obbiettivo di aprire le porte a chiunque senta il bisogno di rompere con


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qualsivoglia logica di peccato, all’insegna del superamento degli steccati e di ogni pericolosa tentazione all’autoisolamento e all’autoreferenzialità. Per usare le stesse parole dello storico, il giubileo di Francesco «…ha per obiettivo l’annuncio del Vangelo, così come Gesù l’aveva annunciato… una riscoperta, va ribadito, che nell’ottica di Francesco non è altro che la riscoperta del Vangelo, idea e linea maestra del suo pontificato». La citazione delle «Opere di riferimento» (pp. 135-138) e l’«indice dei nomi» (pp. 139-142) chiudono un libro dall’agile ed allo stesso tempo rigorosa impostazione, quasi idealmente in sintonia con lo spirito ‘accogliente’ proprio dell’Anno Giubilare, consistente nell’accogliere quanti desiderino comprendere un argomento o un tema troppe volte ‘eluso’, ma allo stesso tempo senza cedere a dozzinali pressapochismi. Marco Leonardi


Synaxis XXXIII/2-3 (2015), pp.229-238

NOTIZIARIO DELLO STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO gennaio-dicembre 2015

1. Licenziati in Teologia 13 febbraio 2015: indirizzo Teologia spirituale: Castagna Adriano, La devozione al Santissimo Sacramento in San Filippo Neri. Analisi del Processo di canonizzazione e delle prime biografie (1601-1635). (relatore prof. M Torcivia) indirizzo Teologia morale: Mwasubila Daudi Martin, To educate at the christian family life in the context of family of the Nyakyusa People. Analysis of the Tanzanian Apiscopate Documents. (relatore prof. M. Aliotta) Coppolino Anna, L’indissolubilità del matrimonio cristiano nella Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II. (relatore prof. V. Rocca)


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26 giugno 2015: indirizzo Teologia morale: Lo Gioco Valeria, Aspetti etici della procreazione medicalmente assistita alla luce della Dignitas personae. (relatore prof. A. Sapuppo) Arancio Gianni, Il Vangelo del Matrimonio e della famiglia in un mondo che cambia alla luce del magistero della CEI. (relatore prof. V. Rocca) Settineri Giuseppa, Cristianesimo e new age: alla luce del documento magisteriale “Gesù Cristo portatore dell’acqua viva”. (relatore prof. V. Rocca) 9 ottobre 2015: indirizzo Teologia spirituale: Furnò Annalisa, Parola e relazione in Ferdinand Ebner: piste interpretative. (relatore prof. M. Aliotta) Kasongo Mukenga Clovis, La Parola di Dio, celebrata dalla liturgia, diventa preghiera. Commento all’inno “è asceso il buon pastore” e alle eucologie della settimana precedente la festa della Pentecoste, alla luce delle Scritture ivi alluse. (relatore prof. A. Gangemi) indirizzo Teologia morale: Di Mauro Giuseppe, La proposta etica di Antonio Rosmini: fondamenti filosofici e antropologici per una formazione della coscienza. (relatore prof. P. Sapienza)


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Niyonzima Albert, La corporeità e il sacramento del matrimonio in S. Giovanni Crisostomo. (relatore prof. A. Sapuppo) 2. Baccellieri in Teologia 13 febbraio 2015: Kalimsenga David Moris, L’impegno sociale della Chiesa tanzaniana nella situazione socio-politica ed economica della Tanzania. Dall’indipendenza ad oggi. (relatore prof. J. A. Bamanadio Kudielumuka) Kisusi Lyaki Cresencia Epimark, Dalla poligamia alla monogamia. Il contributo del cristianesimo nell’arcidiocesi di Mwanza (Tanzania). (relatore prof. C. Lorefice) Gangi Luca Jean Pierre, La liturgia sorgente originaria dell’impegno morale del cristiano nel mondo. Il contributo rituale ed eucologico del Rica. (relatore prof. V. Rocca) Mangiagli Roberto, La spiritualità cristocentrica in Charles de Foucauld. Sequela e modalità particolari. (relatore prof. S. Consoli) Lipera Alfio, Il senso e il valore della festa cristiana. (relatore prof. S. Consoli) Vicino Rosolino, La passione di Dio. Il mistero della sofferenza divina come risposta alla sofferenza umana nella riflessione di alcuni filosofi e teologi contemporanei. (relatore prof. A. Minardo)


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Portale Antonino, Il presbitero nell’insegnamento di Benedetto XVI. Lettura delle omelie e delle messe crismali e delle ordinazioni presbiterali. (relatore prof. N. Capizzi) Schettini Helenio, Orientamenti pastorali di mons. Ettore Baranzini, arcivescovo di Siracusa. Il primo decennio del suo episcopato (1933-1943). (relatore prof. S. Marino) Spada Gianluca, Fonti per la storia di una comunità parrocchiale: l’archivio della Chiesa Madre di Linguaglossa. (relatore prof. G. Zito) Pagliaro Maurizio Salvatore, Dimensione sociale dell’impegno pastorale del clero di Belpasso tra il 1890 e il 1930. (relatore prof. G. Zito) Riolo Grazia Claudia, Simone Weil. Dall’attesa di Dio all’amore di Dio. (relatore prof. G. Schillaci) Fiore Marco, Il dialogo ecumenico tra Roma e Costantinopoli sul primato petrino e la sinodalità. Tentativo di lettura tematica del Documento di Ravenna. (relatore prof. N. Capizzi) Vitaliti Piera, «Ecco il vostro Re (Gv 19,14)». La proclamazione di Pilato ai Giudei. Analisi esegetica Gv 19,13-16a. (relatore prof. A. Gangemi) Serra Marco, «Amen. Vieni, Signore Gesù». Il ritorno del Signore nel libro dell’Apocalisse di S. Giovanni. (relatore prof. A. Gangemi) Mazzaglia Alfio, Gli Apophthegmata Patrum: tratti di un profilo spirituale di Antonio il Grande. (relatore prof. F. Aleo)


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Puglisi Michele, La dichiarazione Dominus Jesus nel contesto del pluralismo religioso. (relatore prof. N. Capizzi) Biuso Alfio Giuseppe, L’autocoscienza di Gesù. La riflessione della teologia contemporanea su un tema dibattuto. (relatore prof. A. Minardo) 26 giugno 2015: Tornabene Orazio Giuseppe, Cappellani militari. Preti al servizio della pace. (relatore prof. V. Rocca) Tomarchio Rosario, Il tema dell’“amore” nella Deus caritas est di Benedetto XVI. (relatore prof. V. Rocca) Montessuto Rudy, Il contributo dell’azione cattolica nel progetto pastorale della Chiesa Italiana. Una lettura teologico-pratica. (relatore prof. A. Pennisi) Paternò Claudio, La dimensione universale e cosmica del sacerdozio di Cristo. (relatore prof. P.D. Scardilli) Trovato Antonino, La cornice narrativa del libro di Giobbe. Analisi sincronica di Gb 1,1-2,10 e 42,10-17. (relatore prof. D. Candido) 9 ottobre 2015: Rapicavoli Ugo, «Perché mai sono uscito dal seno materno?». La passione del profeta Geremia nella sua ultima Confessione (Ger 20,7-18). (relatore prof. D. Candido)


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Politini Marco, La Cristologia nel vangelo di Marco. Alcuni interrogativi che Gesù pone al mondo giudaico. (relatore prof. C. Raspa) Nicosia Salvatore, Iesu dulcis amicitia. L’amicizia spirituale cristiana alla luce della riflessione di Aelredo di Rievaulx. (relatore prof. G. Buccellato) Pagana Patrizia, Parola e silenzio. “Lettera sulla vita contemplativa” di Guigo II certosino. (relatore prof. G.A. Neglia) Morabito Maria, La spiritualità dell’unità di Chiara Lubich. La Chiesa. (relatore prof. N. Capizzi) Gandolfo Luca Francesco, Il servizio diplomatico della Santa Sede. Storia, natura e facoltà. (relatore prof. G. Gurciullo) Napoli Alessandro, Eutanasia: il dibattito tra il diritto alla buona morte e la dignità della persona umana. (relatore prof. A. Sapuppo) Minà Guido, La questione della procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo. Aspetti biogiuridici e antropologici. (relatore prof. A. Sapuppo) Puleo Gaetano, Lettura ermeneutica de La bottega dell’orefice di K.J. Wojtyla. Aspetti di etica sponsale. (relatore prof. G. Schillaci) Privitera Greta, Una donna «sulla soglia». L’universalismo mistico di Simone Weil. (relatore prof. G. Schillaci)


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Floridia Massimo, La città dei pazienti. La ricerca del Regno di Dio per un cambiamento psico-socio-spirituale. (relatore prof. G. Schillaci) 3. Disputatio Giovedì 12 febbraio 2015 si è tenuto l’atto conclusivo della Disputatio su Antropologia e teologia spirituale, guidati da Benedetta Selene Zorzi, docente di Patristica e Teologia spirituale presso l’Istituto Teologico Marchigiano. All’incontro hanno partecipato docenti e alunni dello Studio Teologico S. Paolo che si sono confrontati in gruppi di Studio e in aula sui molteplici aspetti del tema. 4. Presentazione volume Venerdì 27 febbraio 2015 si è tenuta, presso i locali dello Studio Teologico S. Paolo, la presentazione del volume di Paolo Italia Per una cultura dell’unità. Il pensiero di Giuseppe Maria Zanghi. Presente l’autore, il volume è stato introdotto da Maurizio Aliotta, Preside dello Studio Teologico S. Paolo e presentato da Daniele Spadaro, dell’inaf/Osservatorio Astrofisico di Catania. 5. Incontri Il 19 e 20 marzo 2015, presso il Coro di notte – ex Monastero dei Benedettini, si sono svolte, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania e con la Fondazione Synaxis, due Serate di Letture Medievali su: la Guerra, la Pace, il Buon Governo. Dopo i saluti iniziali di Maurizio Aliotta, Preside dello Studio Teologico S. Paolo, Giancarlo Magnano di San Lio, Direttore del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania e Concetto Martello del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania, sono intervenuti: Giovanni Basile, Paolo Gionfriddo e


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Carmelo Raspa dello Studio Teologico S. Paolo di Catania; Andrea Vella, Ilenia Licitra, Hassan Ezzat e Arianna Rotondo dell’Università degli Studi di Catania; Luciana Pepi, dell’Università degli Studi di Palermo. 6. Seminario interdisciplinare Giovedì 16 aprile 2015 si è tenuto, presso lo Studio Teologico S. Paolo, il Seminario interdisciplinare su: Etica della felicità, etica dell’obbligo. Ha visto gli interventi dei docenti del S. Paolo: Dionisio Candido, “Bada di mettere in pratica i comandi del Signore, perché tu sia felice (Dt 6,3). Un itinerario tematico all’interno del Pentateuco/Torah”; Carmelo Raspa, “Interpretazione rabbinica della Torah”; Attilio Gangemi, “L’etica delle Beatitudini”; Luca Saraceno, “L’etica della felicità nella filosofia di Aristotile”; Francesco Aleo, “Beatitudine e felicità nel De vita beata di sant’Agostino”; Antonino Crimaldi, “L’eudemonismo nella filosofia contemporanea”; Adriano Minardo, “Felicità e redenzione. Riflessione a margine di una corrispondenza possibile”; Corrado Lorefice, “Il dibattito teologico morale contemporaneo”; Salvatore Consoli, “Il dovere cristiano della gioia dalla Gaudium et Spes alla Evangelii Gaudium. Fondamento teologico e modalità nell’odierna società”; Giuseppe Buccellato, “L’esame di coscienza nel solco della tradizione cristiana: obbligo o opportunità?”. 7. Giornata di studio Mercoledì 29 aprile 2015, presso lo Studio Teologico S. Paolo, in collaborazione con l’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale - Sez. Sicilia, si è tenuta una Giornata di Studio su: L’etica nella vita. Ha introdotto Maurizio Aliotta, Preside dello Studio Teologico S. Paolo e sono intervenuti: Carmelo Torcivia, della Facoltà Teologica di Palermo, Alessandro Rovello, delegato dell’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale – Sez. Sicilia, Andrea Volpe, della Facoltà Teologica di Palermo, Mario Cascone, dell’ISSR di Ragusa.


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8. Convegno di studi Martedì 5 maggio 2015 si è svolto, presso l’Aula Magna del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Catania, in collaborazione tra lo Studio Teologico S. Paolo e lo stesso Dipartimento, il Convegno di studi su Memoria, oblio, perdono. Sono intervenuti: Giovanni Basile, dello Studio Teologico S. Paolo; Santo Di Nuovo, dell’Università degli Studi di Catania; Carmelo Raspa, dello Studio Teologico S. Paolo; Maria Tomarchio, dell’Università degli Studi di Catania; Angela Catalfamo, dell’Università degli Studi di Catania; Giuseppe Gurciullo, dello Studio Teologico S. Paolo; Liana M. Daher, dell’Università degli Studi di Catania; Adriano Minardo, dello Studio Teologico S. Paolo. 9. Presentazione volume Giovedì 14 maggio 2015 si è tenuta, presso il Museo Diocesano di Catania, la presentazione del volume di Adolfo Longhitano Le Relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1904-1937). Presente l’autore, sono intervenuti: Daniele Menozzi, dell’Università degli studi di Pisa; Giuseppe Barone, dell’Università degli Studi di Catania; Gaetano Zito, dello Studio Teologico S. Paolo. 10. Inaugurazione anno accademico Venerdì 30 ottobre 2015 si è tenuta l’inaugurazione del 47° anno accademico dello Studio Teologico S. Paolo. Alla solenne concelebrazione eucaristica presieduta dal Vescovo di Caltagirone, S. E. Mons Calogero Peri, sono seguiti: il saluto del Moderatore dello Studio, l’Arcivescovo Salvatore Gristina; la relazione del Preside, Mons. Maurizio Aliotta e la prolusione accademica su Matrimonio e famiglia nella Chiesa dopo il Sinodo, tenuta da Basilio Petrà, della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.


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11. Presentazione Enciclica Venerdì 27 novembre 2015 si è tenuta, presso il Salone Sant’Agata del Seminario Arcivescovile di Catania, la presentazione dell’Enciclica di Papa Francesco Laudato si’. Sono intervenuti: Maurizio Aliotta, Preside dello Studio Teologico S. Paolo; Salvatore Natoli, dell’Università di Milano Bicocca; Francesco Brancato, dello Studio Teologico S. Paolo. 12. Corsi attivati per l’anno accademico 2015 • • • •

Scuola di Formazione all’impegno sociale e politico, in collaborazione con l’Ufficio Diocesano Problemi sociali e lavoro dell’Arcidiocesi di Catania; Corso biennale di formazione di Pastorale Sanitaria, Etica sanitaria e Bioetica, in collaborazione con l’Ufficio Diocesano di Pastorale della Salute dell’Arcidiocesi di Catania; Corsi opzionali Integrativi per Insegnanti di Religione Cattolica; Scuola interdiocesana di formazione per operatori di pastorale familiare, in collaborazione con l’Ufficio Diocesano per la Pastorale della Famiglia dell’Arcidiocesi di Catania.


INDICE

SOMMARIO IL MINISTERO DEL VESCOVO NELLA CHIESA DI OGGI (Mariano Crociata) Il ministero del vescovo oggi Il ministero del vescovo e il munus profetico La situazione della Chiesa Sul futuro della fede Un passaggio epocale Fare pastorale in tempi di crisi Il compito del vescovo nella Chiesa di oggi Nodi da affrontare I compiti pastorali Uno sguardo improntato alla speranza

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Sezione teologico-morale CONCUPISCENTIA BUONA? PRECISAZIONI CIRCA UNA NOTA CONCEZIONE ANTROPOLOGICA AGOSTINIANA (Salvatore Bucolo) Introduzione 1. La concupiscentia carnis 1.1. La concupiscentia carnis, filia peccati 1.1.1. La trasmissione del peccato adamitico al genere umano 1.1.2. L’originaria prassi ecclesiale di battezzare i bambini 1.1.3. Il peccato è originale non naturale 1.1.4. La concupiscentia carnis pena conseguente alla condanna genesiaca 1.2. La concupiscentia carnis, mater multorum peccatorum 1.2.1. La concupiscentia carnis chiamata anche peccatum 1.2.2. L’azione persuasiva della concupiscenza della carne

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1.2.3. Nell’atto coniugale la bontà del matrimonio e il male della concupiscentia carnis 1.3. Malo bene utitur 1.3.1. Nel matrimonio il male della concupiscenza si converte in un bene grandissimo 1.3.2. Dal bono bene utitur di Giuliano al malo bene utitur di Agostino 1.4. La concupiscentiam carnis distinta dalla concupiscentia nuptiarum 2. La concupiscentia ante peccatum 2.1. Aut de peccato natam, aut de peccato esse vitiatam 2.1.1. L’ipotesi di una concupiscenza originaria viziata dal peccato 2.1.2. Nella concupiscenza il segno creaturale di una tensione verso la pienezza 2.2. Prima del peccato la concupiscentia non qualis nunc est 2.2.1. Le quattro ipotesi di una probabile presenza della concupiscenza allo stato originario 2.2.2. L’ipotesi di una concupiscenza prelapsaria diversa dall’attuale 2.2.3. Nello stato edenico una concupiscenza propria del matrimonio 3. La concupiscentia sananda e la vulnus caritatis 3.1. La concupiscentia nec separanda sed sananda 3.1.1. La concupiscenza come affezione di una cattiva qualità 3.1.2. La concupiscenza sanabile dalla grazia 3.2. Vulnerata caritate 3.2.1. Nel risanamento della concupiscenza il raggiungimento della pienezza 3.2.2. Lo Sposo risana la carne ferita della Sposa infiammandola d’amore Conclusione BIOETICA E PASTORALE. LE PROVOCAZIONI DEL FUTURO (Mario Cascone) Natura e persona Definizione e valore della persona Oltre il relativismo Libertà, verità e responsabilità Bioetica come “ponte verso il futuro” Pastorale come educazione LA NOZIONE DI IUSTICIA FRA ORDINE POLITICO E COSMOLOGICO NELLE GLOSAE SUPER PLATONEM DI BERNARDO DI CHARTRES E GUGLIEMO DI CONCHES (Claudio Ternullo) 1. Le Glosae e il tema della iusticia 1.1 Osservazioni metodologiche 1.2 Il Platone di Chartres 1.3 La struttura delle Glosae.

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1.4 La ricerca di una trama unitaria dell’opera: la “giustizia” 2. Il Timeo da Platone ai commentarii neoplatonici di Calcidio e Proclo 2.1 Il “progetto” platonico 2.2 Le interpretazioni neoplatoniche 2.2.1 Calcidio. 2.2.2 Proclo 3. La “risemantizzazione” del concetto nel XII secolo 3.1 Cristianità e platonismo. 3.2 La teoria dell’“involucrum”. 4. Ordo mundi et ordo reipublicae

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IL DE BEATA VITA DI AGOSTINO D’IPPONA. LA RICERCA DELLA FELICITÀ TRA PLENITUDO ED EGESTAS (Francesco Aleo) Introduzione Il De beata vita di Agostino d’Ippona La ricerca della felicità nel De beata vita La tendenza alla felicità Dio e la felicità Plenitudo ed egestas Conclusione

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IL DOVERE CRISTIANO DELLA GIOIA DALLA GAUDIUM ET SPES ALLA EVANGELII GAUDIUM. FONDAMENTO TEOLOGICO E MODALITÀ NELL’ODIERNA SOCIETÀ (Salvatore Consoli) Introduzione 1. Le gioie umane dono del Creatore 2. La conoscenza e la comunione con Dio fonte di gioia 3. Cristo “uomo perfetto” e risorto sorgente di gioia 4. L’incontro salvifico con Cristo nella fede motivo di gioia 5. Quando e come rinnovare la gioia 6. Il dovere di comunicare la gioia e i presupposti necessari Conclusioni

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FELICITÀ E SALVEZZA. RIFLESSIONI TEOLOGICHE A MARGINE DI UNA CORRISPONDENZA POSSIBILE (Adriano Minardo) 1. Per una fenomenologia della felicità. Uno sguardo alla storia del pensiero 1.1. Platone ed Aristotele 1.2. Stoici ed epicurei 1.3. Agostino e Tommaso 1.4. L’epoca moderna e Kant

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2. Una teologia della felicità e della salvezza 2.1. Sguardo biblico sulla felicità 3. Punto di svolta. Felicità vs salvezza? 4. Bisogno di salvezza e desiderio di felicità: la redenzione compiuta

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Cronache LE IMMAGINI ED I SIMBOLI DEL POTERE NEI MOSAICI DELLA VILLA ROMANA DEL CASALE DI PIAZZA ARMERINA. (Francesco Aleo)

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NAXIS AXIS Direzione − Redazione − Amministrazione: viale O. da Pordenone, 24 95126 Catania

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SYNAXIS Quadrimestrale dello Studio Teologico S. Paolo Catania

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Quadrimestrale Comitato scientifico:dello Studio Teologico S. Paolo Francesco Aleo, Maurizio Aliotta, Francesco Catania Brancato, Giuseppe Buccellato, Nunzio Capizzi, Giuseppe Schillaci, Mario Torcivia, Gaetano Zito Comitato scientifico: Comitato di redazione: FrancescoAleo, Aleo,Maurizio MaurizioAliotta, Aliotta,Giuseppe Francesco Francesco Brancato, Giuseppe Capizzi, Buccellato, Nunzio Buccellato, Capizzi, Nunzio Guglielmo Giuseppe Schillaci, Mario Torcivia, Gaetano Zito Gionbanco, Salvatore Magrì, Vittorio Rocca, Giuseppe Schillaci Direttore: Maurizio Aliotta Comitato di redazione:

Francesco Aleo, Maurizio Aliotta, Giuseppe

Direttore responsabile: Buccellato, Nunzio Capizzi, Guglielmo Salvatore ConsoliSalvatore Magri, Vittorio Rocca, Giombanco,

Giuseppe di Schillaci Coordinatore redazione: Francesco Aleo Segretario di redazione: Giuseppe Spedalieri

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corrigenda “Opus Christi Stati e funzioni cosmologicoanelle Glosae superedificabit. Platonem di Bernardo di dei Finito di stampare nell’aprile 2017 dell’epigrafia” • D OMENICA F LAVIA F ERRETO , Religiosi scienziati ta vita di Agostino d’Ippona. La ricerca della felicità tra da Grafiser s.r.l. della gioia dalla Gaudium et spes alla Evangelii gaudium ENRICO PISCIONE , Riflessioni sul volume “Trattato delle. virtù”

Troina (En) Riflessioni teologiche a , Felicità e salvezza. • A. MINARDO94018 0935 657813 - Faxnei 0935 653438della Villa e immagini edTel. i simboli del potere mosaici NOTIZIARIO www.grafiser.eu

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XXXIII/2-3 – 2015

Sommario

• M. CROCIATA, Il ministero del vescovo nella Chiesa di oggi • S. BUCOLO, Concupiscentia buona? Precisazioni circa una nota concezione antropologica agostiniana • M. CASCONE, Bioetica e pastorale. Le provocazioni del futuro • C. TERNULLO, La nozione di iusticia fra ordine politico e cosmologico nelle Glosae super Platonem di Bernardo di Chartres e Gugliemo di Conches • F. ALEO, Il De beata vita di Agostino d’Ippona. La ricerca della felicità tra plenitudo ed egestas • S. CONSOLI, Il dovere cristiano della gioia dalla Gaudium et spes alla Evangelii gaudium. Fondamento teologico e modalità nell’odierna società • A. MINARDO, Felicità e salvezza. Riflessioni teologiche a margine di una corrispondenza possibile • F. ALEO, Le immagini ed i simboli del potere nei mosaici della Villa Romana del Casale di Piazza Armerina • RECENSIONI • NOTIZIARIO

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