Synaxisis 1992 X - A

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ISTITUTO PER LA DOCUMENTAZIONE ELA RICERCA S. PAOLO

X

CATANIA 1992


Proprietà letteraria riservata

Stan1pato in Italia

Printed in Italy

Tipolitografia «Galatea» - Via Piemonte, 84 - Acireale


PRESENTAZIONE

Con questo volume Synaxis conclude dieci anni di attività e di ricerca che l'hanno vista impegnata nel campo teologico e storico con uno stile di indagine teso sempre alla paziente ricerca del vera e alla pacatezza del dialogo. In un tempo come il nostro, nel quale il rapporto con le radici culturali è diventato ineludibile per fondare o rifondare ragioni, valori e significati, Synaxis ha consacrato uno spazio particolare all'indagine storica e alla storia della cultura nella consapevolezza che tanti drammi del nostro tempo nascono da un vuoto di cultura e da un approccio supe1ficiale, perché non sufficientemente fondato, al reale. Per lo stretto legame della nostra pubblicazione con lo Studio Teologico S. Paolo, dal '90 aggregato alla Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia con la specializzazione in Teologia morale, già dallo scorso anno Synaxis contiene una sezione di studi etici. Con essi, oltre ad offrire un contributo alle varie emergenze etiche del nostro tempo, si vuole esprimere innanzitutto la convinzione che coscienze cristiane mature possono disegnare nuovi itinerari culturali nei quali la dignità della persona sia riconosciuta e rispettata nella sua sacralità; e poi, la certezza che le immancabili


Presentazione

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ricerche di natura storica, con il metodo storico-critico che implicano, potranno dare un valido contributo all'esatta determinazione delle questioni etiche che oggi si pongono. Dieci anni di lavoro non sono trÒppi ma nemmeno pochi: Synaxis in questo decennio ha potuto affinare metodi, stile di ricerca e di collaborazione, acquisendo una valida e ricca esperienza. Vogliamo però non restare a contemplare soddisfatti il lavoro compiuto: sicuramente nuovi compiti si delineeranno per Synaxis, a partire dal prossimo volume, con possibili riflessi anche sulla veste tipografica e sulla periodicità. L'avvalersi sempre più dell'apporto specializzato dei docenti dello Studio Teologico S. Paolo le garantiranno certamente una maggiore qualificazione scientifica. La vita è in continuo movimento e anche l'azione dello Spirito muove continuamente la storia verso nuovi orizzonti: lo stile di Synaxis vuole essere sempre più e meglio quello dell'ascolto dei segni dei tempi e delle attese degli uomini per far sì che attraverso una inculturazione intelligente la Parola possa ancora risuonare comprensibile e incarnarsi nella storia degli uomini. SALVATORE CONSOLI Catania, Natale del Signore 1992.


LA CASA COME CHIESA RISVOLTI SOCIOLOGICI DI UNA FORMULA BIBLICA**

LORENZO ALV AREZ VERDES'

Il tema della casa come cellula basilare della comunità dei credenti viene riproposto nell'attualità non soltanto come semplice desiderio di ritorno alle forme di vita del cristianesimo primitivo, ma come reale possibilità per un nuovo slancio pastorale. La società odierna può vantarsi di numerose conquiste nel campo dei diritti dell'uomo, dell'uguaglianza e della libertà. Ma a nessuno sfugge il fatto che l'attuazione di tali diritti è sottomessa a rischi che frequentemente rendono problematica, anzi oscurano la positività di tali conquiste. L'uomo che è riuscito a liberarsi dall'oppressione della povertà, dell'incultura, della mancanza di libertà politica, è caduto sotto altre oppressioni di radice molto più profonda, "biologica", secondo l'espressione di H. Marcuse'. A pagare le spese di questa situazione sconvolta della società sono principalmente i giovani, sia per la logica inerente alla loro condizione evolutiva, sia perché i parametri che offre la società entrano frequentemente in contrasto con quelli trasmessi nell'alveo familiare. Da aggiungere ancora il fatto che gli "input" che aITivano dalle convulsioni sociali

Docente di Teologia n1oralc biblica nell'Accademia Alfonsiana di Roma. Testo della prolusione per l'inaugurazione dell'anno accademico 1991-92 dello Studio Teologico S. Paolo di Catania. u

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H. MARCUSE, Saggio sulla liberazione, Einaudi, Torino 1969, 31.


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coinvolgono anche le stesse strutture familiari. E' normale quindi che la Chiesa, destinata ad essere lievito permanente della società, prenda di mira, nella sua missione di rinnovamento, il nucleo familiare, che costituisce la cellula naturale della società. D'altra parte, la Chiesa, cerca di impostare la sua azione pastorale rifacendosi alle fonti, particolarmente alla Sacra Scrittura, come è stato indicato dal Concilio Vaticano !F. A nessuno sfugge il ruolo importante della casa e della famiglia all'origine del cristianesimo. Esse, infatti, furono punto di riferimento fondamentale sia della prima azione missionaria che delle ulteriori azioni destinate a sistemare la vita delle nuove comunità. Questa tendenza a fare una rilettura del tema della famiglia in chiave ecclesiologica si inserisce inoltre nel filone del pensiero dei padri della Chiesa orientale, che più tardi resterà un po' eclissato dalla visione di taglio più marcatamente giuridico della riflessione teologica occidentale. Basti ricordare in proposito l'esortazione che S. Giovanni Crisostomo rivolgeva ai suoi fedeli: «Fate della vostra casa una Chiesa». «Quando ieri vi dissi: fate della vostra casa una chiesa, voi prorompeste in accla1nazioni di giubilo e 1nanifestaste in 1naniera

eloquente quanta gioia avesse inondato il vostro animo all'udire quella parola» 3 .

Questa tradizione è stata ripresa dal Concilio Vaticano Il, benché con una terminologia molto sfumata, come si può rilevare dalle particelle adoperate (velut, tamquam =come, in un certo modo). La famiglia, afferma il Concilio, «potrebbe, in un certo modo, essere chiamata chiesa domestica» (LG I I), «essa è come il santuario domestico della chiesa» (AA 1 I). In questo ultimo testo, il Concilio ricollega al campo semantico della famiglia, Chiesa domestica, quello della famiglia-cellula della società («prima e vitale cellula della società»). Ai testi conciliari sopra elencati si rifarà successivamente il magistero dei papi e dei vescovi. Essi però vanno frequentemente oltre

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CosL Dei Verburn, 21.

3 S. GIOVANNI CRISOSTOMO,

In Gen. Sem1. Vl,2; VII, l: PG 54, 607ss.


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le sfumature dei testi conciliari"- Il vescovo tedesco Rudolf Graber, ad es., non ha avuto difficoltà a intitolare un suo libro sulla famiglia La famiglia come Chiesa domestica, perché, secondo l'autore, «la possibilità di sopravvivenza della Chiesa oggi poggia assolutamente sulle Chiese domestiche>>'. Dobbiamo riconoscere la legittimità dell'impegno dei teologi e dei pastori di incentrare l'attenzione pastorale nella famiglia, cellula fondamentale, dalla quale potrà irradiare una azione di rinnovamento della società. Riteniamo anche legittima la rilettura della famiglia in chiave ecclesiologica, attingendo alle sorgenti del pensiero patristico e di quello biblico. Però, un tale progetto di riflessione teologica dovrà essere condotto nel rispetto dei metodi di ricerca adoperati dalle scienze che entrano in gioco. L 01nogeneizzazionei ad e.s., che a livello biblico si vuole fare tra famiglia e casa, tra famiglia - cellula della società, e casa-Chiesa viene contestata, a nostro parere, sia daJJ'analisi semantica che da quella sociologica. E' a questo livello che vogliamo collocare la nostra ricerca, individuando le valenze semantiche delle categorie casa e chiesa nel NT e, più concretamente, nella formula hf! ekklésìa kat'oikon. 1

!. Semantica della casa Il discorso sulla "casa" si rifà a due termini adoperati nel greco del NT oikos (112 volte) e oikfa (94 volte). La semantica neotestamentaria di questi termini risente della polisemia che essi hanno sia nel greco classico ed ellenistico che

4 PAOLO VI riprende l'argo1nento nelle esortazioni apostoliche e nelle allocuzioni ai pellegrini. Nell'esortazione apostolica Maria/is C11/1us, 52, il pontefice parla di «ricupero della nozione teologica della famiglia come chiesa don1esLica» (cfr. Evange/ii Nuntiandi, 71). Giovanni Paolo I dirà esplicitamente che le famiglie sono non soltanto «con1e il santuario domestico della chiesa, 1na (anzi) sono una vera e propria chiesa dotncstica» (AAS Lxx, 1978, 698). Per Giovanni Paolo II la categoria di "chiesa domestica" diventa onnai fonnula acquisita. Nella enciclica Fan1iharis Consortio, l'espressione ritorna aln1eno dieci volte. 5 R. GRABER, Die Fa111i/ie als hiiushches Heihgtun1, Schnell & Steiner, Mtinchen 1980, 32.


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nell'ebraico dell'AT. Una tale polisemia si verifica sia a livello di rapporto tra i termini oìkos-oikia che a livello dell'uso, reale o metaforico, di ambedue i lessemi. Nel greco classico i termini ofkos e oikia presentano una marcata polisemia. «Che cosa intendiamo per ofkos?, si domanda Senofonte. E' lo stesso che oikia? Oppure tutto ciò che si possiede fuori della oikfa è parte dell'ofkos? » 6 • Una risposta abbastanza chiara a questa domanda la troviamo nel racconto di Erodoto: Artane «dando in sposa la figlia a Dario, le dette in dote tutte le proprie sostanze» (tòn oìkon panta)'. Da questi testi si può rilevare che ofkos è un concetto più largo che oikfa, giacché esso include non solo tutto ciò che è all'interno della casa (oilda), ma anche i beni esterni, cioè tutto il patrimonio che può essere lasciato in eredità. Ma una tale distinzione non viene sempre mantenuta. Non è difficile infatti trovare anche dei testi che contemplano oìkos come una parte (ad es. una abitazione) all'interno della oikfa 8 • La polisemia si mantiene anche a livello di applicazione metaforico-personale dei suddetti lessemi. In genere è predominante l'uso di oikfa per significare gli abitanti della casa, cioè la famiglia o il clan', mentre oìkos viene adoperato per indicare i beni della famiglia, come veniva riconosciuto dalla legge atticaw; ma anche qui non mancano le eccezioni, come nelle espressioni: «la casa (ofkos) regnante», «il casato di Augusto», ecc. 11 •

SENOFONTE, Oec 1,5. 7 ERODOTO, f/istoria 7,224, 2. 8 Vedi in J.H. MOULTON - G. MILLIGAN, li

The Vocahu!ary of the Greek Ne\v Testan1ent lllustrated fron1 the Papyri and Other Non Literay Sources, Gordon, Glasgow 1933, 44, il testo di accusa in cui il padrone si lan1enta che i ladri sono entrati nella sua casa (oikfa), saccheggiando la abitazione (ofkos ) di sua madre. 9 Cfr. ERODOTO, op. cit., 1,107; 3,2; PLATONE, Gorgia, 47, 2b. 10 H.G. LIDDELL - R. SCOTT, ofkos-oikfa, in A Greek-Eng/ish Lexicon, Clarendon, Oxford 1968 7. 11 ERODOTO, op.cit., 5,31. Più esen1pi, in H.G. LIDDELL- R. SCOTT, op. cit. Si trovano testi, nei quali, all'interno di una stessa frase, oikos e oikfa vengono adoperati in senso contrario al normale, vgr in POxy 2713; «perché noi formian10 una fan1iglia (henòs 6ntos oikol?) e una parentela (kai nu'as syggenelas) in questa casa (ep'autés tés oikfas)».


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Questa ambivalenza semantica ha spinto H.J. Klauck a elaborare una sintesi, che contempla oikos e oikfa come due circoli intersecantisi, il cui spazio semantico "comune" verrebbe rappresentato dai sememi edificio, dimora, amministrazione familiare, famiglia, clan, mentre resterebbero come sememi propri di ofkos quelli più materiali: il locale, le abitazioni, i beni (possessioni), e, come propri di oikfa, quelli a carattere personale: parenti, clientela, personale di servizio 12 • In ambedue i termini (ofkos-okfa) entrerebbe quindi un minimo di elementi materiali e personali, con una aggiunta di elementi esclusivamente materiali nel caso di ofkos, ed esclusivamente personali nel caso di oikfa. E' da rilevare che gli elementi personali "comuni" sono di carattere verticale lfamigliac/an), mentre quelli specifici di oikfa sarebbero di carattere orizzontale (parenti-clientela-personale di servizio). La spiegazione di Klauck è ingegnosa, ma discutibile. Riteniamo più oggettivo parlare semplicemente in termini di "polisemia", che rende alle volte scambiabili i lessemi, benché si possa ammettere una prevalenza semantica a carattere materiale per ofkos e a carattere personale per oikfa. Nei Settanta l'indistinzione semantica di ambedue i lessemi è ancora più marcata, per il fatto che essi sono usati indistintamente per tradurre identici termini ebraici (bajit, 'bel etc.), i quali accumulano tutta la polisemia del binomio greco. Così bajit, ad es., significa abitazione (Est 7,8), casa (Est 8,1), possessioni (Es 20,17), famiglia (in senso ristretto e in senso allargato, includendo cioè parenti, servitori, schiavi, animali domestici ecc., (Gen 15,2ss.; 17, 13.27), clan (2 Sam 9,4). Nel NT il binomio ofkos-oikfa riflette la polisemia sopra accennata. In linea di 1nassima possia1no ammettere che anche qui oikos ha un uso prevalentemente locale, e oikfa, personale. In concreto però sarà l'analisi del contesto a rilevare sia i semi concreti di ofkos nei riguardi di oikfa sia il classema determinante del senso,

12 H.J. l(LAUCK, Hausgemeinde und Hauskirche in1 friihen Christentun1, l(atholisches Bibelwerk, Stuttgart 1981, 16.


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"proprio" (classema locale) o "metaforico" (classema personale). Nelle Concordanze di A. Schmoller'' i testi relativi ai ofkos vengono raggruppati intorno a tre titoli: divino (casa di Dio)", umano (casa dell'uomo) e familiare (famiglia, stirpe). Nei due primi casi il classema determinante è di ordine locale, nel terzo, di ordine personale. E' da rilevare che tutti i testi, in cui oikos appare in riferimento esplicito a ekklésfa, vengono collocati da Schmoller sotto il classema "locale"". Per oikfa Schmoller si accontenta con la divisione: uso proprio e uso metaforico. Nell'ambito metaforico figurano i testi in cui oikfa equivale a famiglia, dimora celeste (2 Cor 5,1), corpo mortale (in rapporto all'anima). Nel senso di "famiglia", oi!da funziona come termine o soggetto di saluto (Mt 10,12; Fil 4,22), dignità (Mt 10,12), disuuione (Mt 12,25 e par.), accettazione del profeta (Mt 13,27), fede (Gv 4,53), aiuto e collaborazione (I Cor 16,15), ecc. La polisemia che si avverte nel binomio ofkos-oik{a mette in evidenza il semplicismo di alcune interpretazioni tendenti ad accomunare troppo facihnente, nello stesso tern1ine, i classen1i fisico e personale. Ne è esempio O. Miche], quando scrive: «la casa era, conte1nporanean1ente, nucleo comunitario e luogo d'incontro» 16 . L'approfondimento classematico, nel nostro caso, ci sembra imprescindibile. Infatti se la "casa" viene intesa innanzi tutto come ofkos-abitazione, emergeranno i connotati propri della "casa privata", fisican1ente intesa. Verrebbero presi in considerazione, in primo luogo, gli elementi architettonici (struttura), con le differenze logiche, ad es., tra la casa greca, la casa romana e quella ellenistica, a carattere misto (con cortile e abitazioni contigue). Tali dati possouo

JJ A. SCHMOLLER, Handko11kordanz zun1 griechischen Neuen Testa111ent, Privileg. Wtirtt. Bibelanslalt, Stuttgart 1949 7 . 14 Mt 12,4 (e parai.); 21,13 (e parai.); Gv 2,16.17 ecc. 15 Qui vengono citati i tesli in cui il lessema ofkos coincide col riferimento alla ekklèsfa: Rin 16,5; l Cor 16,19; Col 4,15; Filrn 2. 16 O. MICHEL, ofkos (oikfa), in Th WNT V, 133. Una tale spiegazione viene assunta da D. Sartore, il quale aggiunge ancora in proposito una citazione del

Catechisn10 Romano: S. Paolo «chiama chiese anche le famiglie private dei fedeli». espri1ne questa tesi nel titolo del suo articolo La fcuniglia, chiesa don1esaca, in Lateranu111 45 (1979) 282-303; hic 286. D. SARTORE


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essere rilevanti per identificare, ad es., la capienza di una casa destinata alle riunioni della comunità ecclesiale". In questo caso il gruppofamiglia (naturale), non sarebbe direttamente connotato. Nel caso quindi di uso della "casa" per riunioni di una comunità determinata, i membri naturali del gruppo "familiare" potrebbero anche essere assenti, almeno parzialmente, come nel caso che non tutti i componenti del "gruppo familiare" condividessero la fede della comunità (cfr. Fm 1ss). Il riferimento esplicito al padrone di casa implica solo la sua partecipazione personale in quanto proprietario, con i pertinenti obblighi sociali verso la comunità ospitata. Se invece si parte dal concetto di ofkos ( oikfa) - famiglia vuol dire che sono presi in considerazione innanzitutto i connotati sociologici del gruppo familiare ristretto o allargato. Nel contesto ebraico verrebbe rilevato il carattere etnico-religioso della famiglia (rapporto famiglia-clan-tribù-popolo eletto); nel contesto greco verrebbe contemplata la famiglia come pietra fondamentale dello Stato, come una micro-polis, nella sua composizione caratteristica di uomini liberi e non liberi (donne, bambini, immigrati, schiavi)'"· A questo livello la casa israelitica sarebbe la cellula primaria del popolo di Dio, mentre quella greca sarebbe, allo stesso tempo, fondamento e riflesso di una società stratificata.

17 Una casa giudaica normale difficiln1ente offriva spazio per una radunanza di gruppo, giacché essa contava soltanto su una stanza, nella quale si svolgeva tutta la vita della famiglia. «Una abitazione piccola sarà di 6 x 8 cubiti. Una abitazione grande, di 8 x 10 cubiti; un triclinium, di 10 x 10 cubiti. L'altezza dovrà essere la metà della lunghezza e della larghezza» (Baba Batra, M 6,2,4). Ciononostante, c'erano nella Palestina case più grandi, fino a tre piani. La struttura della casa greca o ro111ana o di quella ellenistica (di struttura mista) offriva una capienza maggiore: essa aveva sempre la possibilità di allargare la capienza del salone approfittando del cortile centrale, potendo così ospitare 20-30 persone. Con ulteriori modifiche alcune di queste case sono passate ad essere dcfinitivainente luoghi di cullo. Un esernpio tipico è quello della casa-chiesa scoperta a Dura- Europos, nella quale si avvertono chiaran1ente le modifiche adoperate per trasforn1arc la casa privata in luogo di culto: abbattimento del tnuro che separava il salone dall'abitazione che si trovava alla sua destra e aggiustan1ento di un'altra abitazione per fungere da cappella (battistero). Cfr. A. GERKAN, Zur Hauskirche von Dura-Europos, in J\1ullus. Festchrifì Theodor Klauser, Aschendorff, Mi.inster 1964, 143-149. Sulla struttura della casa greca cfr. F. PESANDO, Oikos e ktesis; la casa in età classica, Longanesi, Perugia 1987. 18 H.J. KLAUCK, op. cit., 17-18.


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Quale è il classema determinante del senso nell'espressione neotestamentaria hé kat'ofkon ekklésfa, normalmente tradotta coi termini di "chiesa domestica"? Per rispondere a questa domanda occorre un chiarimento previo non solo del binomio ofkos-oilda ma anche del lessema ekklésfa.

2. Semantica della chiesa

A livello lessematico ekk/esfa appare 114 volte nel NT. Manca il termine in Mc, Le e Gv. Esso viene usato sempre senza epiteto attributivo, il che vuol dire che per gli autori del NT ekklésfa è soltanto quella toù Theoù (I Cor 1,2; 10,32; 11, 16 ecc.) o "Kyriou" (Rm 16,16) 19 • Soltanto in tre passi degli Atti si parla di ekklésìa nel senso di riunione di pagani (19,32.39.40). Per Paolo l'ekklesfa è l'adunanza "in Cristo Gesù". Ciò esclude qualunque tipo di riduzione di essa a carattere sia locale che personale. E ciò vale nell'ambito sia della Chiesa domestica che di quella locale (per es., di Gerusalemme). Solo il Cristo è la "pietra" sulla quale poggia la Chiesa (1 Cor 10,4). A livello semantico l'ekklèsia rappresenta infatti il gruppo di coloro che hanno fatto l'opzione per Cristo e per il Regno di Dio. L'appartenenza all'ekklèsfa è di natura radicalmente diversa da quella degli altri gruppi sociali o naturali. Rispetto al gruppo familiare l'ekklesfa si presenta come l'adunanza di coloro che fondano i loro rapporti, non sulla consanguineità o sulla parentela, ma sulla fede in Gesù (Mc 3,31). Da qui l'esortazione a non chiamare nessuno padre sulla terra, perché uno solo è il vero Padre, Iddio (Mt 23,9). L'ethos di appartenenza all'ekklès[a può, in certe circostanze imporre anche la rinuncia agli elementi costitutivi della struttura familiare: casa, padre, madre, figli, sorelle e fratelli. Le parole critiche di Gesù nei riguardi della famiglia naturale hanno di mira il chiasmo che alle volte può emergere tra di essa e la comunità di fede (Mc 3,31-

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K. L. SCHMIDT, ka/eò-ekkésfa, in Th WNT Ili, 506.


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35; Le 9,57-62; 14,25). Un tale ethos non è primariamente di carattere negativo («ethos radicale del distacco», come vuole G. Theissen20 ), ma di essenziale positività, in quanto è basato sulla fiducia nella provvidenza, e su una nuova assiologia nei rapporti tra gli uomini, retta dalla uguaglianza e dalla fratellanza. li che non esclude dei vantaggi naturali: in case, fratelli, sorelle ... (Mc 10,28-30). Senza voler risolvere qui il problema della data in cui il gruppo dei seguaci di Gesù cominciò a autodefinirsi in termini di "ekklèsfa" 21 , soprattutto se questa viene intesa in termini di "universalità" 22 , possiamo affermare che le nuove "con1unità" che sorgevano nelle diverse località esprimevano il dinamismo di fede a un triplice livello: kerygmatico, didascalico e cultuale. E' specialmente a livello di culto, incentrato nella celebrazione dell'eucaristìa, che la "Chiesa" si sentiva come la "comunità" di coloro che credono nel Cristo morto e risorto.

3. Il dinamismo ecclesiale nell'ambito della casa 3.1 Tradizione paolina e pre-paolina a) L'attività kerygmatica I dati del NT riflettono situazioni svariate della vita della comunità. La situazione ecclesiale della comunità di Gerusalemme, ad es., era diversa da quella delle comunità paoline, come sarà poi diversa la situazione delle comunità post-paoline 23 • Da qui la necessità di un

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G. THEISSEN, Gesù e ;J suo 1novil11ento, Claudiana, Torino 1979. La spiegazione di Theissen è stata contestata, tra gli altri, da L. SCHOTTROFF - W. STEGMANN, Gesù di Nazaret speranza dei poveri, Claudiana, Torino 1988, 83 ss. 21 La data dei due passi di Mt (16,18; 18,1) nei quali il termine ekklès(a ricorre tre volte è controversa. Cfr K.L. ScHMIDT, ekk/és(a, in Th WNT III, 515. 22 Benché il carattere di universalità non venga espresso esplicitainente nelle lettere autentiche di Paolo, tna nelle postpaoline (Col 1,18-24; Ef 1,22; 3,10-21), non c'è dubbio che i riferimenti paolini alle chiese "particolari" comportano la loro proiezione universale. 23 Nell'evoluzione della comprensione della casa nel NT alcuni autori, co1ne A. Weiscr, distinguono, nel dopo-Paolo, tra seconda e lerza generazione. La seconda verrebbe rispecchiata nella Haustafe/ di Col 3,18-4,l e la terza nella Gemeindetafe/


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corretto inquadramento sociologico sia a livello di elaborazione dei testi che a livello della loro comprensione da parte dei destinatari. li discorso presenta speciale difficoltà nei testi dei Sinottici. Essi infatti riflettono strati marcatamente diversi: le più antiche tradizioni, la fonte dei "logia'', e infine l'apporto redazionale. I due primi strati sono pre-paolini, l'ultimo invece riflette la situazione delle comunità cristiane dopo la morte di Paolo. Stando alle tradizioni "più antiche", il messaggio fondamentale, ricevuto dal gruppo di Gesù, viene dato in chiave di «annunzio della buona Novella» (euaggélion, Mc 1,15). Lo scopo della vocazione degli apostoli sarà appunto «accompagnare Gesù» e «predicare il vangelo» (kéryssein, Mc 3,13). Il riferimento all'attuazione della missione viene fatto negli stessi termini: «ed essi partirono per predicare f ... ]» (kaì exelth6ntes ekeryxan, Mc 6, 12). Il luogo previsto per la predicazione kerygmatica dei discepoli viene diversamente nominato dai Sinottici. Marco (6,10) e Luca (9,4) parlano di "casa" (eis oikfan eiselthéte), Matteo (10,11) parla invece di "città o villaggio" (eis hén p6lin é kòmén). In ambedue i casi la tattica da seguire è la stessa: rimanere lì (ekeì meinete) fino alla partenza. L'ambivalenza della denominazione del luogo si mantiene nella seconda parte del brano, che parla del comportamento del discepolo nel caso che egli non venga accettato né ascoltato. Matteo, che prima aveva parlato di polis e di kr1mé usa ora oikia e polis (I O, 1). Mentre Marco e Luca, che prima avevano parlato di oikfa usano ora i termini luogo (t6pos, Mc 6,11) e polis (Le 9,5). Questa varietà di termini per designare il luogo contrasta con la concordanza dei Sinottici nel descrivere il comportamento sia degli abitanti (se non vi ricevono e non vi ascoltano, Mt I O, 14; Mc 6, I I; se non vi ricevono, Le 9,5) sia dei discepoli (scuotete la polvere di sotto ai vostri piedi e andatevene).

(nonne di vita della co1nunità) di Tir 2,1-10. A questo ultimo periodo verrebbero attribuiti i testi che parlano della chiesa-casa di Dio (oikos Theo{i, 1 Titn 3,15) e del vescovo come oikino111os Theo(ì (Tit 1,7). A. WEISER, E\lange!isierung iln antiken

Hause, in ID., St11die11 zu Christensein und Kirche, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1990, 119-148.


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L'alternanza dei termini p6lis-kòmì!-t6pos-oikfa sta a significare che l'oik{a non viene vista come luogo specifico del kerygma, ma piuttosto come espressione concreta dell'accoglienza della città. Trovare una città accogliente significa trovare anche delle case disposte ad offrire alloggio e vitto. In ogni modo, il messaggio kerymatico era, contenutisticamente, di portata universale, non limitato quindi ai problemi etico-teologici specifici della famiglia. Di fatto, Gesù che visita diverse case e famiglie (Mc 1,29; Le 19,5 ecc.) non fa della famiglia (doveri interpersonali) lo scopo diretto del suo insegnamento, a differenza dell'AT 24 e delle tradizioni sapienziali giudaiche". Alcuni riferimenti al tema sono piuttosto circostanziali, motivati dal contrasto tra la tradizione dei farisei e la novità del regno, come il rifiuto del divorzio (Mt 5, 32; Mc 10, 9; Le 16,18), l'osservanza dei comandamenti, tra i quali viene ricordato, ad es., il rispetto dei figli verso i genitori (Mc 7, 10; 10,9) 26 • La scarsa attenzione di Gesù alla problematica della casa era conseguenza del generale capovolgimento delle strutture sociali che avrebbe dovuto comportare l'irruzione del regno 27 • Da qui l'atteggiamento critico verso la proprietà e la ricchezza (Mc 10,17-31), verso la casa e la famiglia: la sequela di Gesù impone l'abbandono della casa, dei genitori e dei familiari (Mt 8,22; Le 9,57-62; Mc 1,16-20; 10,29-31). Anzi Gesù mette in rilievo l'ostilità che, a livello ìntrafamiliare, introdurrà l'accettazione del regno (il figlio contro il padre, la figlia contro la madre ecc., Mt 10,35; Le 12,53). Un nuovo tipo di famiglia dovrà subentrare al posto della famiglia naturale: la comunità di coloro che

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Cfr Es 20,8-17; Dt 5,2-21; 6,4-9; 21,18-21. Cfr Prov 5; 31,10-31; Sir 25,13-26,18; 30,1-13 ecc. Sull'argon1ento cfr. A WEISER,op. cit., 119-148. Hic 129-130. 26 Nelle parabole viene ripresa l'im1nagine della fa1niglia per spiegare i sisten1i di rapporti all'interno del Regno (lealtà, vigilanza, operosità). Ma molte di esse riflettono una situazione sociologica posteriore, quando cioè il gruppo di Gesù contemplava la ekklésfa cotne "casa di Dio", che deve essere ben an1111inistrata dai suoi servitori. Cfr. le parabole dell'impiegato irresponsabile (Mt 24,45; Mc 13,3336; Le 12,41-48), del servitore che tornando dal lavoro, dovrà ancora servire a tavola (Le 17,7ss), delle vergini sagge e vergini stolte (Mt 25,1-13). Tutte queste parabole si inquadrano nell'orizzonte dell'attesa del Signore. 27 Cfr. L. SCHOTTROFF- w. STEGEMANN, op. cit., 33ss. 25


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credono in Gesù (Mc 3,35). Essi non dovranno chiamare padre nessuno sulla terra, perché Dio è il loro padre (Mt 23,9-). La nuova famiglia è retta da un sistema di rapporti radicalmente nuovo, fondato sull'amore (Mc 12,30ss), l'uguaglianza e il servizio, a imitazione del maestro (Mt 10,24-25). I profeti itineranti, nel raccogliere e trasmettere i detti (logia) di Gesù, li adatteranno alla loro situazione sociologica. Essi portano la buona novella per le città e i villaggi della Palestina e della vicina Siria, procedendo da un luogo all'altro, senza dimora fissa. Accogliere il profeta significa prima di tutto accogliere il suo messaggio, cioè lo "shalom" messianico e l'invito alla conversione (hìna metanòsin, Mc 6,12). Anche qui, come al tempo di Gesù, affiora la visione pessimistica nei riguardi della "casa". I profeti itineranti si sentono ospiti scomodi dappertutto, particolarmente tra i membri della propria famiglia. Perciò la fonte dei "16gia" prevede la quasi impossibilità della missione domestica tra la propria parentela (Mc 6,4; 3,21; Mt 8,21ss; 10,37; Le 9,59ss; 14,26). Alla rinuncia della sfera domestica naturale corrisponderà però il compenso a livello di comunità di fede, con nuove case e nuova parentela: «nessuno che ha abbandonato casa (oildan), .fi'ate!li, sorelle f ... ] resterà senza ricevere cento volte tanto [ ... ]» (Mt 19,23-30; Mc 10,29; Le 18,29)28 • Le nuove "case" e i "nuovi parenti", che riceveranno in compenso della loro rinuncia, sono le case-co1nunità, che li accoglieranno fraternamente. Per quanto riguarda il luogo in cui si svolge la predicazione missionaria, si può rilevare la volontà dei predicatori di a1Tivare alla gente là dove essa si trova. Il libro degli Atti ci parla dell'atrio di Salomone (At 3,11; 5,12; cfr. Gv 10,23), delle sinagoghe (At 13,5.14; 14,1; 16,13; 17,2ss; 18,4.19.26; 19,8), delle piazze (At 14,8ss; 17,19); di case e sale prese in affitto (At 19,9; 28,20) e anche di case particolari (At 18,7). In questo contesto, ritorna frequentemente, in modo particolare in Atti e in Paolo, la formula «N. si convertì (o si fece battezzare) con tutta la sua casa». Così il militare romano Cornelio (At 10,2) la

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Il riferimento lucano alla "moglie" (gynaikd) è una aggiunta secondaria.


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trafficante di porpora Lidia (At 16,15), il guardiano del carcere (At 16,336), J'archisinagogo Crispo (At 18,8). In !Cor 1,16 Paolo afferma di avere battezzato la casa di Stefana. In Gv 4,53 viene riferito che l'ufficiale regale e «tutta la sua casa» credette in Gesù 29 • Ciò nonostante, il kerygma non viene rivolto alla casa in modo specifico 31'. I riferimenti del NT alla conversione hanno come destinatari immediati sia famiglie che individui singoli e gruppi di diversa provenienza come il caso del servitore etiopico della regina di Candace (At 8,26-40), dei tremila che si fecero battezzare nella festa della pentecoste (At 2,41 ), e delle ulteriori conversioni in massa (At 2,47; 5,14; 6,lss; 18,8). li riferimento alla casa nell'ambito della conversione o accettazione del kerygma ha frequentemente dei connotati di ordine sociologico e di tattica pastorale, piuttosto che di ordine teologico3). In primo luogo, era logico che la famiglia che ospitava i profeti itineranti fosse simpatizzante della causa del movimento di Gesù, e quindi che si facesse riferimento particolare alla sua conversione. D'altra parte, la struttura patriarcale vigente, sia nel contesto giudaico che iu quello greco, facilitava l'espansione accelerata del cristianesimo, in quanto la conversione. religiosa del padrone introduceva un processo di risocializzazione di tutto il nucleo familiare. C'era poi lo scopo pastorale di trovare non solo un punto di appoggio personale per la missione del profeta itinerante (alloggio, ospitalità), ma anche un

29 La fonnula è frequente nei testi ellenistici, particolannente in papiri che riportano azioni sacre relative all'imperatore, o in semplici testi di saluto, vgr: «Si sono fatti sacrifici e oblazioni per la felicità del nostro dio e signore, l'i1nperatore Vespasiano Augusto e tutta la sua casa» (POxy 3164,5-9; cfr. OGIS 667,1-3; S10 3 852.2-7 ecc.). 3 Cfr. D.W. RORDORF, Was wissen wir iiber den christ!ichen Gottesdienstriiun1e der vorkonstantinischen Ziet?, in ZNW 55 (1964) 110-128, hic 112. 31 Una variante della casa-missione degli itineranti era la casa-tnissione di alcuni 1niracolati: il geraseno guarito da Gesù riceve il 1nandato di riton1are alla sua casa (eis tòn oikon sou) per «annunziare (ap611gei/011) la misericordia del Signore», con1e di fatto egli farà «proclamandolo» (kCryssein) non solo a casa ma in tutta la Decapoli (Mc 5, 19-20). E' la descrizione della dinamica della casa-missione tra i pagani.

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luogo adatto per poter riunire la comunità dei credenti della zona o della città. Per quanto riguarda la motivazione sociologia (risocializzazione a carattere patriarcale) è da rilevare che sia il feno1ncno sociologico in quanto tale che le formule sopra accennate, che parlano della conversione di una persona con «tutta la sua casa», non escludeva la possibilità che alcuno degli appartenenti alla casa, ad es., gli schiavi, non seguissero i padroni nella loro opzione di fede. Un esempio palese è queilo dello schiavo Onesi1no, che soltanto durante la sua fuga fu battezzato da Paolo (Fm 1O), mentre i padroni Filemone e Appia erano da ten1po cristiani, anzi la loro casa fungeva da casa~chiesa. Poteva anche capitare il contrario, cioè che ci fossero degli schiavi convertiti, i cui padroni erano rimasti nel paganesiino, come gli schiavi di Aristobulo e Narciso, ai quali Paolo invia saluti in Rm 16, I 1s. In tali casi però non è da escludere la possibilità di problerni e tensioni, co1ne quelli accennati in Mt 10,36: 'I nemici dell'uomo saranno que11i della sua casa ' 32 .

Come al tempo di Gesù, anche nella missione degli itineranti e dello stesso Paolo, il kerygma presentava una struttura specifica, che poteva variare a seconda della cultura dei destinatari (giudei o pagani)", ma che non prendeva in considerazione l'insegnamento etico specifico dei diversi ordini, e concretamente della famiglia (oikonomia). Nei confronti quindi della missione (kérygma) la casa funzionava sia come luogo (alloggio del profeta, spazio per predicare) sia come gruppo sociologico (famiglia). Ma si deve rilevare che né i destinatari erano circoscritti necessariamente ai soli membri della famiglia, né il messaggio predicato era impostato sulla "oikonomia".

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L'espressione «tutta la casa» in queste fonnule, non offre argomenti validi per difendere la tesi del battesimo dei ba1nbini. Nelle suddette formule infatti non viene detto che nella casa dei convertiti ci fossero dei lattanti o che, nel caso che ci fossero, venissero anch'essi battezzati. 33 Il libro degli Atti ci offre due iinpostazioni del kerygma abbastanza diverse: il kerygma rivolto ai giudei (cfr. discorso di Pietro in At 2, 1-36) e il keryg1na rivolto ai pagani (cfr. il discorso di Paolo in Atene, At 17,22-31).


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b) L'attività catechetica La funzione catechetica della casa emerge da numerosi testi dei Sinottici. Gesù sceglie la casa come luogo d'istruzione. Marco presenta Gesù recantesi nelle case dei seguaci o simpatizzanti. Si tratta di visite di "lavoro" evangelizzatore: guarisce, partecipa al pranzo, dialoga. Vedi le visite alla casa della suocera di Pietro (Mc 1,29), alla casa dove viene guarito un paralitico (Mc 2,1), alla casa di Levi con cui condivide il pasto, (Mc 2,15), a diverse case in cui insegna ai discepoli e alla gente (Mc 3,20; 7,24; 9,33), alla casa di Simone il lebbroso, dove viene unto da una donna e istruisce i presenti (Mc 14,3). La partecipazione di Gesù ai pranzi domestici di "lavoro" è un tema ricorrente anche in Luca. Così Gesù visita successivamente la casa di due farisei (Le 7,36ss e 14,1) e la casa 'di Zaccheo, ufficiale delle imposte (Le 19,5.9). Per Marco, è anche nel contesto della casa privata (kat'idian = in privato, 9,28s o katà m6nas = quando era solo, 4,10) che Gesù fa la catechesi esoterica, destinata esclusivamente ai suoi discepoli (spiegazione privata delle parabole, del senso del puro e dell'impuro, dell'efficacia della preghiera negli esorcismi ecc.). Ed è infine in una casa, al piano superiore, che Gesù fa la catechesi eucaristica dell'ultima cena (Mc 14,12s)34 • I testi sopra elencati, che collocano nell'ambito della casa sia l'insegnamento che alcune guarigioni speciali, hanno il loro Sitz im Leben nella prassi catechetica della comunità primitiva, della quale il libro degli Atti ci offre numerosi esempi. La casa diventa infatti per le prime comunità luogo di riflessione e di approfondimento sia per gli stessi apostoli che per i nuovi battezzati. Nella casa di Maria, madre di Marco, si riuniscono, dopo l'ascenzione, i primi membri dell'ekklesia 35 :

34 Cfr G. MINETTE DE TTLLESSE, Le secret n1essianique dans l'évangile de Mare, Cerf, Paris 1968, 243-248. L'autore considera la casa come il luogo nel quale Gesù si ritirava, lontano dal rumore della gente, e nel quale offriva ai discepoli rivelazioni "riservate". Un'affermazione forse troppo generale, come ha osservato J. Mateos in Los "doce" y otros seguidores de Jestìs en e! evangelio de Marcos, Ed. Cristiandad, Madrid 1982,84. 35 D.W. RORDORF, art. cit., 113. L'autore ritiene che la casa di Maria, 1nadre di Marco (At 12,12), era ubicata sul monte Sion ed è probabilmente la casa in cui Gesù


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gli apostoli, le donne e i fratelli di Gesù. Quella casa sarà il luogo dell'elezione di Mattia e dell'evento della pentecoste e il luogo al quale si indirizzerà Pietro dopo la sua fuga dal carcere, trovando lì un "gruppo" di fedeli in preghiera (12, 12). Nei "somn1ari" del libro degli Aui (2,42ss; 7; 5,42) si descrive l'attività dcl1a prima comunità in termini di «perseveranza nell'approfondin1ento della dottrina degli apostoli». A tale scopo servivano non solo le visite degli apostoli e le periodiche lettere, ma soprattutto le strutture appositamente create che ne prendevano cura in modo permanente. In ICor 12,29 viene evocata tra le figure carismatiche quella del "did<iskalos'', la cui funzione specifica era quella di approfondire e mantenere vivo nella comunità il messaggio di Gesù. A differenza del kcrygma, che si svolgeva ordinariamente in luoghi aperti o pubblici, l'attività didascalica si svolgeva prevalentemente nell'ambito della casa. Nel so1nmario di 5,42 si legge che gli apostoli «ogni giorno, nel tempio e a casa, non cessavano di insegnare e di portare il lieto annuncio». La struttura chi<istica della pericope pennette di abbinare i termini en t8 ierr3 euaRgeffzesthai e kat'oikon - didiiskontes. Quindi i pri1ni cristiani evangelizzavano (kerygma) nel tempio e insegnavano (catechesi) nelle case. Alla stessa conclusione ci porta la struttura chiastica di At 20,20: Paolo, in Efeso, predica ed insegna (anangeflai-diddxai) nei luoghi pubblici e per le case (en dC111osfa - kat'ofkous). In base all'abbinamento chiastico (anangeì!ailen dén1osfa e diddxailkat'ofkous) si può rilevare che il keryg1na veniva fatto nei luoghi pubblici mentre l'insegnainento catechetico si faceva nelle case 36 .

c) L'attività cultuale Secondo gli scritti del NT la comunità si edifica soprattutto nel servizio divino, il cui centro operante è la celebrazione dell'Eucaristia 37 • Una tale celebrazione non può essere concepita come

celebrò l'ultima cena, e dove avvennero le apparizioni del risorto (Le 24, 38); Gv 20,19.26) e gli eventi dopo l'ascensione (la pentecoste, l'elezione di Mattia ecc., At I, 12ss; 4,23ss). 36 H.J. KLAUCK, op. cit., 50. 37 I-I. SCHLIER, li ten1po della chiesa, Il Mulino, Bologna 1965, 394,


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qualcosa di ristretto all'ambito familiare, ma essenzialmente aperta alla comunità". I riferimenti del NT alla celebrazione della frazione del pane nelle case private devono essere intesi in questa chiave ecclesiale. Il fatto della celebrazione della cena del Signore nelle case (kat'ofkon) è nn fatto chiaramente attestato in At 2,42. Il tono idealistico dei sommari porta l'autore a non precisare con chiarezza se lo spezzare il pane (klbntes) e il mangiare il cibo (mate/6mhanon trophés) descrivono la stessa realtà. In ogni modo, la celebrazione domestica della cena del Signore va differenziata dai normali pasti, come fa notare decisamente Paolo in 1Cor 11,34. Nella casa-chiesa quindi la comunità in quanto tale svolgeva le diverse attività che le erano proprie. Le case-chiese erano case private al servizio della comunità. E' possibile che abbastanza presto le comunità cristiane fossero in grado di acquistare, a pagamento (compera, affitto) o per donazione, case destinate esclusivamente al culto. Esse conservavano gli elementi strutturali caratteristici della casa-chiesa originale, con certe modifiche per renderle più adatte alla loro funzione, come si può rilevare dalle scoperte archeologiche di Dura-Europos 39 •

3.2 La tradizione post-paolina Non è facile identificare la data esatta del passaggio dalle casechiese private alle case destinate specificamente alle funzioni ecclesiali. Ci sono però alcuni dati significativi: nella letteratura postpaolina non riappare più l'espressione hé ekklesia kat'ofkon; la figura della casa-chiesa è ormai sparita. La casa torna ad avere il suo senso proprio, cioè l'ambito in cui si svolge la vita della famiglia naturale.

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G. LOHFINK, Die christlicher Fa111ilie - eine Hauskirche?, in ThQ 163 (1983)

227-229. 39 La casa-chiesa di Dura-Europos conservò probabilmente, al secondo piano, la slruttura nonnale di una casa familiare, 1nentre solo il pianterreno fu n1odificato in funzione della nuova destinazione, con l'allargan1ento della prin1itiva sala di riunioni fino a 65 m2 (nel sec. III). Ristrutturazioni similari si avvertono nella casa di Pietro a Cafarnao e in antiche chiese di Ro1na, ad es., la chiesa di Giovanni e Paolo.


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Così si parla della casa del vescovo (1 Tim 3,4ss), dei diaconi (I Tim 3,12) o di qualunque cristiano (!Tim 5,4-8). A sua volta, l'ekklesfa viene interpretata definitivamente come la comunità di tutti i credenti, piuttosto che la comunità dei credenti di una zona. D'altra parte, viene effettuato un trasferimento semantico tra casa e chiesa. Mentre la casa non è più intesa come chiesa, la chiesa invece viene presentata come "casa di Dio" (!Tim 3,15) 40 • In base a questa configurazione "domestica", l'ekk/ésfa assume i connotati caratteristici della casa-famiglia: essa ha la solidità dell'edificio costruito sulla roccia (Mt 7 ,24; 16, 17, 18), è comunità vigilante che aspetta lo sposo (Mt 25,1,ss), e che, nella attesa, deve amministrare intelligentemente i beni (Mt 25,14ss) 41 • In questo modo la casa dei cristiani, nonostante la permanenza del termine ofkos, ricopre piuttosto lo spazio semantico caratteristico dell'oikfa dei greci: essa viene cioè intesa come cellula costitutiva della struttura della polis, come mikro-po/is. Dato però che tra la società politica e la famiglia si interpone per i cristiani una nuova società, quella della comunità ecclesiale, la famiglia diventa, nello stesso tempo, cellula della Chiesa. L'evoluzione semantica con-e parallela a un duplice processo, di eticizzazione e di teologizzazione. a) Eticizzazione Il fatto che la casa venga vista come cellula della società fa sì che tutti i componenti di essa appaiano sotto una luce specifica. Il padre di famiglia non è solo il padrone di casa, che invita, accoglie e

40 La denominazione "casa di Dio" viene applicala direltamenle alla "con1unità" in IPt 4,17 e in Eb 10,21. In realtà la denominazione "casa di Dio" ha le sue radici nell'AT. Essa viene applicata sia ai teinpli delle divinità in genere (1Sa1n 5,2.5), sia al "Tempio" per antonomasia (lRe 8,13.27). Nel lesse1na "Bete!" funziona co1nc denominazione di luogo. 41 Il vangelo di Matteo è stato redatto probabilmente nello stesso ten1po delle lettere pastorali. E' quindi normale che nella sua struttura e i1npostazione si riflettano schemi culturali e teologici similari. Sulla convergenza in Matteo dei temi oikiaekklésfa, vedi il libro di M.H. CROSBY, f/ouse of disciples. Church, Economics and Justice in Matthew, Orbis Books, Maryknoll, New York 1987.


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tutela la comunità, ma è innanzitutto l'oik6nomos, che deve provvedere a un corretto funzionamento della vita domestica a tutti i livelli (in rapporto alla moglie, ai figli, agli schiavi). Anzi la stessa funzione di cellula impone al responsabile della casa-famiglia una prestazione modellica, particolarmente se egli dovrà amministrare anche la società-ekklesla, come nel caso dei vescovi. La corretta oikonomia domestica diviene garanzia di una corretta oikonomia a livello della casa di Dio (I Tim 3,5). Nella stessa linea di responsabilità etica, tutti i membri della casa dovranno osservare i regolamenti domestici di comportamento (Haustafeln), che in realtà coincidono con quelli della casa ellenistica all'interno della polis (cfr. Col 3,18-4,1; Ef 5,21-6,9) 42 • Il processo di eticizzazione raggiungerà anche la nuova "casa di Dio", cioè la chiesa. A questo scopo vengono proposte le Gemeindetafe/n, o norme della comunità (cfr. Tit 2,10) 43 , di struttura similare a quella delle Haustafeln, ma con un maggiore accento sulla subordinazione dei sudditi ai superiori, e con una più marcata preoccupazione per le idee di onore e di buona reputazione davanti agli altri (cfr. lPt 2,13-3,13). Confrontata con i testi paralleli ellenistici, la Haustafel cristiana rappresenta una speciale u1nanizzazione nei rapporti superiorisudditi. E' significativo, in questo senso, il fallo che l'esortazione venga rivolta a tutti i n1en1bri della fa1niglia e non soltanto ai padroni, al contrario di quello che accadeva nel quadro del patriarcalis1no rigido. Alla base di questo processo di umanizzazione c'era evidentemente il nuovo orizzonte di con1prensione teologico-cristologico. Con la spinta un1anizzatrice subentrò anche la spinta libertaria con i suoi pregi e coi suoi risvolti negativi. Paolo dovette intervenire più di una volta per frenare certi eccessi di questo genere. D'altra parte, il ricorso agli schemi a carattere legalistico, che erano alla

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Accanto all'influsso ellenistico è da rilevare anche l'influsso delle formule legali del giudaismo, come, ad es., la fonnulazione apodittica. 43 L'influsso specifico dei circoli cristiani nella Gemeindetafel offre caratteristiche singolari. In Tit 2,1-10 l'autore si rivolge a sei gruppi della comunità: anziani, anziane, giovani (fcm1nine e maschi), lo stesso Tito, gli schiavi.


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Lorenzo Alvarez Verdes base dei prontuari don1estici, portava con sé il rischio di frenare il dinamismo rinnovatore che carauerizzò la prima generazione (cfr. Gal 3,28).

b) Teologizzazione Come è stato già accennato, negli scritti post-paolini viene operato un cambiamento grammaticale dei termini casa-chiesa: la casa diventa "predicato": la chiesa è casa di Dio. La casa acquista così valore simbolico, dando luogo a un duplice movimento semantico: la struttura della casa-famiglia offre le coordinate analogiche per il discorso sulla chiesa, e la chiesa, a sua volta, arricchisce queste stesse coordinate per un discorso teologico sulla famiglia. Attraverso questo simbolismo viene rilevato il rapporto vitale tra Cristo, che è il capo e la chiesa, che è il suo corpo (Col 1,18). L'amore sponsale di Cristo verso la sua Chiesa (Ef 5,32) costituisce il grande "mistero" della fecondità dell'amore tra !"uomo e la donna, quello cioè che dà spessore teologico al matrimonio (I Cor 7, 7). dietro l'unione feconda della coppia (mfa sarx) sta, in definitiva, l'unico Signore (hefs Kyrios, I Cor 6,13) e l'unico Spirito (I Cor 12,4; cfr. 6,11). In base a questa santità, che unisce l'uomo e la donna nel Cristo, anche i figli diventano santi (I Cor 7,14). A partire, quindi, da questo orizzonte di comprensione cristologico-ecclesiale viene reinterpretato tutto il sistema di rapporti della casa-famiglia, cioè la nuova oikonomia.

4. Portata sociologica della .fòrmula «hé ekkésfa kat'ofko11»

Nonostante i frequenti riferimenti alla casa come luogo di riunione della comunità cristiana, l'espressione hé ekkésfa kat'ofkon viene usata soltanto cinque volte, quattro nelle lettere paoline 44 , al singolare, e una in Al 8,3, al plurale. In quest'ultimo brano, Paolo, ricordando la sua azione persecutrice dei cristiani, dice di avere fatto

44 M. GIELEN, Ron1 16,3.5 ... Zur /nte1pretation der kat'oìkon ekk/ésia, in ZNW 77 (1986) 109-125.

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irruzione «nelle case dove si riuniva l'ekklesfa» (tén ekklés[an katà toùs oikous) 45 • Nei primi quattro casi la formula si riferisce a persone determinate: «la chiesa che si riunisce in casa di N.N.», ad es. in casa di Aquila e Prisca (!Cor 16,19; Rm 16,5), di Ninfa (Col 4,15), di Filemone (Fm 2). E' ormai chiaro che nelle case private si potevano svolgere tutte le funzioni ecclesiali: kerygma, didascalia (catechesi), preghiera e culto. Resta però il problema fondamentale, cioè se, quando ricorre la formula «casa-chiesa», la casa debba essere intesa in senso personale di famiglia. Ciò comporterebbe che in tali testi la famiglia naturale (padre, madre, figli, schiavi. .. ), in quanto tale, viene vista come ekklésfa. Le considerazioni fatte in precedenza stanno a significare che in tutti i testi esaminati il termine ekk!és[a viene preso in senso proprio, cioè come comunità di coloro che, in una zona o città, credono in Gesù. La comunità credente si raduna in una casa privata (ofkos) per svolgere le sue funzioni specifiche, con le sfumature sopra accennate: fino a che punto vi era coinvolta la famiglia naturale? Certo, a livello kerygmatico, era frequente la conversione di una casa-famiglia, ma ciò non accadeva come risultato di una predicazione specifica in quella casa e per quella casa (vedi, ad es., il caso di Cornelio, Lidia, Crispo ecc.). Ciò non esclude, evidentemente, che, dopo I a conversione, la loro casa potesse diventare "chiesa domestica"46 • Per quanto riguarda la funzione didascalica non consta che l'istruzione propriamente detta venisse fatta a scala puramente familiare. Sta il

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E' possibile che anche la casa di Gaio, a Corinto, fosse una casa-chiesa. Ciò dipende dall'interpretazione di Rin 16,13: «Vi saluta Gaio, che ospita me e tutta la chiesa» (kal h6/és tés ekkh1sfas). Ciò sarebbe possibile solo se l'espressione «tutta la chiesa» viene intesa co1ne la chiesa di Corinto. Ma potrebbe anche riferirsi alla chiesa universale, il che presenterebbe Gaio come modello di ospitalità per tutti i cristiani di passaggio. H.J. KLAUCK, op. cit., 34. 46 Non ci sono riferi1nenti espliciti a una trasformazione immediata della casa del conve11ito in chiesa domestica. E' invece frequente l'invito fatto all'apostolo di restare lì per qualche gio1no e di partecipare al pranzo, come nel caso di Lidia (At 16,15). E' probabile che la casa di Lidia diventasse ben presto casa-chiesa (cfr. At 16.40).


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fatto che per l'istruzione religiosa c'erano delegati ufficiali (diçlaskaloi). Ancora meno probabile è che la funzione cultuale, specialmente la celebrazione della cena del Signore, venisse celebrata nelle case, intese come nucleo familiare. A differenza della pasqua giudaica, che era uua celebrazione tipicamente domestica, la celebrazione della nuova pasqua era essenzialmente comunitaria, ecclesiale. Ciò permette di concludere che la casa, nella formula hé ekkésfa kat'ofkon, può avere soltanto senso locale. La famiglia poneva la sua casa ( ofkos) a disposizione della comunità cristiana perché questa potesse esercitare lì le diverse funzioni ecclesiali 47 • La casa diventava così per la comunità "luogo" di preghiera, d'insegnamento e di celebrazione eucaristica (At 2,46; 5,22). I som1nari lucani, visione idealizzata della vita della pritna co1nunità, rilevano il senso profondo di unità e koinonfa, che portava i credenti a vendere i propri beni e a tnettere tutto in comune. E' probabile che in questa esperienza di koinonfa avesse un suo influsso la sensazione di sentirsi tutti una famiglia, a immagine della famiglia naturale, nella cui casa si radunavano. Non sembra però probabile che una tale esperienza comunitaria si concretizzasse nella cessione delle case-chiese alla comunità. Di fatto, esse continuano ad essere 1ncnzionate sempre in rapporto al proprietario originale, per es., la casa di Maria, madre di Marco (At 12,12), di Aquila e Prisca (!Cor 16,19; Rrn 16,5), di Ninfa (Col 4,15), di File1none (Fin 2), ecc.

47 Nelle case a struttura giudaica le riunioni si svolgevano normahnente nella «parte superiore» (eis tò hyperOon, Al 1,13). In At 9,37.39 la collocazione della "morta" e le susseguenti preghiere di Pietro per farla risuscitare si realizzano anche «nella parte superiore della casa» (eis tò hyperOon). Cfr. IRe 17,19; 2Re 4,IOss. La "parte superiore" era, nella tradizione giudaica, il luogo di riunione degli scribi (Sab 1,4 Sanh Ger 2lb), la sala di studio e di preghiera (SchahBab 13b). Al di là delle possibili evocazioni sacrali, la parte superiore della casa era (nella cultura orientale) la parte più attrezzata; in essa si trovava normahnentc il salone principale. Anche la casa-chiesa trovata a Dura-Europos aveva due piani. In questo caso però, forse per ragioni pratiche, la fa1niglia si riservò il piano superiore, dedicando a chiesa il pianterreno. La stessa distribuzione del locale presentava la sinagoga di quella città. Cfr. D.W. RDRDORF, art. cit., 118.


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Data la funzione essenzialmente comunitaria della casa-chiesa, risulta evidente che non tutte le case dei cristiani svolgevano una tale funzione. Basterebbe ricordare la netta distinzione fatta da Paolo nel suo intervento contro gli abusi nelle riunioni cultuali di Corinto: nelle case in cui viene celebrata la cena del Signore si impone, secondo l'apostolo, un comportamento del tutto diverso da quello che può essere valido nelle proprie case (1 Cor 11, 22.34). Possiamo affermare che le case-chiese erano tante quante ce ne volevano per l'adeguato servizio religioso della comunità. In questo modo restrittivo deve essere interpretata l'espressione sia al singolare (kat'ofkon) che al plurale (kath'ofkous)".

5. Problemi che si pongono nei rapporti casa-chiesa

I problemi sono diversi a seconda del ruolo sociologico che viene attribuito alla casa nei riguardi della chiesa. Le precedenti analisi permettono di stabilire una netta distinzione tra la casa intesa come chiesa, cioè come spazio offerto alla comunità ecclesiale, e la casa intesa come famiglia naturale, cellula della società civile ed ecclesiale.

5.1. Problematica della casa intesa come chiesa (casa-chiesa) Nello studio del tema che abbiamo affrontato è frequente che vengano cercati dei paralleli nelle culture contemporanee al NT, concretamente nei culti domestici del giudaismo e dell'ellenismo. Dobbiamo premettere che la figura sociologica della casa-chiesa ha ben poco in comune con questo tipo di culto. Nella casa-chiesa non è

48 Ci sono testiinonianze dell'esistenza, sin dai primi tempi, di· diverse casechiese. In At 12,17 si fa notare che, al ritorno dal carcere, Pietro con1anda a quelli della casa di Maria di andare a comunicare la notizia della sua liberazione a Giacomo e ai fratelli, che erano riuniti in un"'altra casa". La pluralità di case-chiese veniva i1nposta sia dal numero sempre crescente di "seguaci" del n1ovimento di Gesù che da motivazioni etniche (ebrei, ellenisti ecc.). La legitti1nazione dei sette, ad es., aprì la via ad un'organizzazione autonon1a degli ellenisti (At 6, 1-7).


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la famiglia propriamente detta a pregare, né essa ha bisogno di crearsi divinità domestiche. Si possono scoprire però certi punti di convergenza, in quanto la piccola comunità riunita nella casa-chiesa ha, positivamente, una certa aria di famiglia e, negativamente, può cadere in certi atteggiamenti riduzionistici, frequenti nella piccola sfera della famiglia. Può risultare emblematico, in questo senso, l'atteggiamento contraddittorio di Platone. Da una parte, Platone, come Aristotele 49 , Plutarco 50 , e Cicerone", fa grandi elogi dei culti domestici", ma, allo stesso tempo, li critica duramente"- Una tale critica si fonda, secondo lui, sul rischio di individualismo e di superstizione inerenti ai culti domestici. Nelle prime comunità cristiane la cornice della casa aiutò a creare quella atmosfera che portava i congregati a sentirsi una vera famiglia in Cristo, coi logici doveri di servizio e di superamento delle disuguaglianze sociali, come veniva evidenziato dal fatto di essere disposti a mettere le cose in comune (At 2,45). Ma questa esperienza poteva provocare, come di fatto è avvenuto, 1nalintesi a livello sociologico: liberazionismo della donna (!Cor 7,11-12; 10,2-16), e degli schiavi (!Cm 7,21), abusi nell'uso dei carismi (!Cor 14,6ss). In questo ambito entra anche il problema dell'ubbidienza alle autorità dello Stato (Rm 13, 1-7). A livello strutturale ci sono stati problemi anche sul ruolo del padrone di casa, che ospitava la comunità. Come nelle riunioni tra i pagani, anche qui il padrone ospitante assumeva la responsabilità economica della riunione (pagandone le spese) e la responsabilità sociale. Sotto questo ultimo aspetto egli aveva il dovere di proteggere la comunità e di sfruttare in favore di essa i suoi rapporti personali con le diverse persone e strutture del mondo politico. Ma accanto alla

49 ARISTOTELE,

Rep. Aten, 55,2.

so PLUTARCO, Frat. An1or, 48lD. 51

52 53

CICERONE, De do1no sua, 41,109. PLATONE, leg, 729C. PLATONE, Leg, 909E: «Nessun cittadino privato deve avere, nella propria

casa, luoghi consacrati; chi vuole fare delle oblazioni, deve andare ai ten1pli pubblici» (cfr. anche Leg, 910B).


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innegabile positività di questo tipo di responsabilità da parte del padrone di casa, si poneva il problema dell'antorità a livello "ecclesiastico". Sappiamo che anche Paolo dovette soffrire per non vedere sufficientemente riconosciuta la sua autorità di apostolo (cfr. lCor 9,2ss), e per constatare il sorgere di divisioni e partiti all'interno della Chiesa (!Cor l,!Oss). Avevano forse preso il sopravvento i cosiddetti "padroni" delle case-chiese, in modo da esigere la loro aliquota nella direzione della comunità? Sembra, infatti, che a presiedere le riunioni domestiche non fossero delle persone ordinate (presbiteri), né che si procedesse per elezione della comunità (come nei simposi greci), ma che l'unica autorità nel caso, se non era presente un apostolo, fosse quella del padrone ospitante. A livello teologico ed etico sono ben conosciuti i problemi relativi alla celebrazione della cena del Signore e il conflitto sugli idolotiti. L'intervento di Paolo lascia intravvedere l'esistenza di sgradevoli atteggiamenti di non-solidarietà da parte dei ricchi, tra i quali c'era senza dubbio il padrone di casa. L'ospitalità si era trasformata in strumento di disuguaglianza, fino al disprezzo e abbandono dei più poveri. I doveri dei padroni verso i benestanti socialmente (all'interno e all'esterno della comunità cristiana) si sovrapponevano frequentemente ai doveri di servizio verso i fratelli nella fede. Quindi per accontentare gli amici dell'interno si mangiava separata1nente e con "1nenusH 1nolto diversi (1 Cor 11), e per compiacere gli amici dell'esterno (pagani) si andava ad acquistare da loro la carne previamente sacrificata agli idoli, con il logico scandalo per i cosiddetti «deboli nella fede» (1 Cor 8). Paolo viene incontro a questa problematica, mettendo in rilievo la vera funzione della casa-chiesa. Essa è lo spazio in cui la comunità si riunisce intorno al suo unico Signore per ricordare il suo gesto supremo di autodonazione esistenziale, versando per tutti il suo sangue (!Cor l l,17ss). La comunione col Cristo dovrà essere alla base dell'amore e del rispetto per la "coscienza" degli altri.


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5.2. Problematica della casa intesa come famiglia, cellula della società Il carattere di cellula della società comportava per la famiglia cristiana l'integrazione delle coordinate fondamentali della società di cui faceva parte, cioè della Chiesa e della "polis" Se dal primo punto di vista una tale integrazione rappresentava un arricchimento teologico innegabile, dal punto di vista della "polis" l'arricchimento era molto più discutibile. La polis greca era infatti fondata sulla stratificazione sociale. La polis era composta formalmente dagli uomini liberi (proprietari-padroni), il cui insieme costituiva il démos (popolo), con un consiglio, o boulé. La stragrande maggioranza quindi della popolazione restava esclusa dai diritti politici propriamente detti. D'altra parte la legge (n6mos) acquistava rilevanza assoluta nella vita. Cittadino vero era solo colui che era in grado di ubbidire alla legge. Gli "altri" dovevano accontentarsi di essere sottomessi ai cittadini veri, cioè a quelli riconosciuti come uon1ini liberi. Il grande dinamismo di inculturazione che conobbe l'ekklésfa dei primi tempi, è senza dubbio emblematico per le generazioni successive. Paolo e i rappresentanti della Chiesa delle prime generazioni, accettando gli schemi sociologici della cultura circostante, particolarmente di quella ellenistica, iucontrarono serie difficoltà per armonizzare la stratificazione sociale con l'uguaglianzafratellanza .teologica (cfr. Gal 3,28 e !Cor 7,17-24). La problematica si poneva anche dal punto di vista della casafamiglia in quanto cellula della Chiesa, benché in termini diversi. Una comprensione della Chiesa come realtà carismatica, dinamizzata dallo Spirito del Signore, era destinata a produrre una comprensione dinamica e carismatica della casa-famiglia. Invece una visione giuridica e stratificata della Chiesa generava una visione sclerotizzante della cellula familiare. Le comunità post-paoline si trovarono in una situazione sociologicamente ben nota, quella di sopravvivere all'impatto carismatico della prima generazione, guidata dagli apostoli. Tale situazione fu affrontata mediante il ricorso ad una progressiva istituzionalizzazione. La figura della casa-cellula della società si


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inserisce in questo contesto problematico. D'altra parte, si deve rilevare che proprio in questo momento la casa-famiglia diventa oggetto di riflessione esplicita, non soltanto a livello normativo, ma anche a livello cristologico.

Conclusione Dal punto di vista semantico oikos-oikia sono, nel NT, termini polivalenti. Essi possono significare sia la casa intesa come categoria spaziale sia la casa intesa come categoria personale (casa-famiglia). Invece la formula hf! ekk/ésia kat'oikon appare chiaramente delimitata semanticamente. Ofkos rappresenta il luogo in cui si riunisce la comunità ecclesiale. Il lessema ekklésia, dal suo canto, rappresenta la comunità dei credenti nata, non dal sangue, ma dallo Spirito. Il concetto di casa-famiglia deve qnindi essere considerato semanticamente assente dalla formula hé kat'ofkon ekklésfa. La metafora di cellula, applicata modernamente alla famiglia, per indicare il suo rapporto con la società e particolarmente con la Chiesa, ha un innegabile supporto biblico. Ma la sua collocazione, nell'orizzonte di comprensione del NT, è differente da quella del lessema "casa" nella formula sopra indicata. La metafora viene inquadrata nella cornice della oikonomia, delineata nelle Haustafeln: la casa-famiglia è parte integrante dell'istituzione. Parallelamente la chiesa assume la metafora della casa-famiglia per autodefinirsi come "casa di Dio". L'osmosi tra la famiglia e la Chiesa raggiunge spessore. cristologico attraverso il simbolismo dell'amore tra Cristo e la Chiesa, prototipo dell'amore tra marito e moglie (Ef 5,29-32). Quindi, pur ammettendo il sustrato biblico delle due espressioni (casa-Chiesa, o Chiesa domestica, e casa-famiglia, cellula della società) riteniamo che sia biblicamente infondata la loro identificazione semantica. A partire da questa distinzione, è possibile instaurare un discorso teologico e pastorale "integrativo", in quanto ambedue i concetti aprono orizzonti operativi fecondi. La figura della casaChiesa può essere particolarmente valida per una pastorale che vuole promuovere il senso di disponibilità al servizio della comunità. La


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pratica pastorale, ad es., di aprire le case private per riunioni di gruppo può essere una forma di attualizzazione, pur se meramente analogica, perché il gruppo, in quanto tale non si identifica con la Chiesa locale o universale. Dal canto suo, la figura della casa-cellula della società ha speciale applicazione in un progetto pastorale che prende di mira il rinnovamento e trasformazione della società, a partire dal dinamismo osmotico che intercorre tra famiglia e Chiesa e tra famiglia e società politica.


TEOLOGIA E POLITICA NEL POLICRATICUS DI GIOVANNI DI SALISBURY

MAURIZIO ALlOITA'

Giovanni nacque a Old Salisbury, nell'Inghilterra meridionale, tra il I 115 e il 1120. Nel 1136 si recò in Francia dove seguì il curriculum scolare sotto la guida dei maestri più rinomati del tempo, il più famoso dei quali fu senz'altro Pietro Abelardo'. Tra il 1147 e il 1148 soggiornò presso Pietro di Celle, a Montier-la-Celle, vicino Troyes. Il 1148 fu un anno decisivo perché san Bernardo lo presentò all'arcivescovo di Canterbury, Teobaldo, che lo prese al suo servizio, affidandogli soprattutto il compito di ambasciatore presso la curia papale. Alla morte di Teobaldo (I 16 I), resta a Canterbury come segretario del nuovo arcivescovo, Tommaso Becket, eletto nel 1162. Giovanni ha modo, perciò, di conoscere intimamente le strutture dello Stato e i meccanismi dell'esercizio del potere. In questa direzione volse la sua attenzione di intellettuale e di uomo di fede, cercando i «rapporti autentici tra la fede e la varietà confusa dei problemi

* Docente di Teologia dogmatica nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Lo stesso Giovanni ci dà notizia della sua carriera scolastica nel Metafogicon, II, 4-5, ed. J.B. Hall, auxiliata K.S. l(eats-Ronan, Corpus Christianonun. Continuatio Mediaevalis, 98, Brepols, Turnholti 1991, 17 - 22. Per le arti ebbe come maestri Magister Alberico e Roberto di Melun, per la grammatica Gugliehno di Conches e Riccardo Vescovo, per il quadrivio Arduino, per la retorica Magister Teorico e Pietro Elia, per la scienza Ma~ister Admno (Parvipontanus), per la logica Gilberto de la Porreè. Molto importante fu l'influsso di Abelardo, sebbene integrato nel suo ampio curriculun1.


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Maurizio Aliotta

concreti che solleva la vita delle curie ecclesiastiche o delle curie reali. A questo fine Giovanni impiega la sua cultura classica per fornire delle lezioni di morale pratica in un campo di cui né la Scrittura, né i Padri avevano trattato»'. La produzione letteraria di Giovanni non è ampia se raffrontata con quella di altri autori a lui contemporanei 3 • Ai problemi sollevati dalla gestione della cosa pubblica egli dedica un'opera molto ampia, la sua più nota e anche la più significativa da un punto di vista della riflessione teorica, il Po/icraticus. De nugis curialium et vestigiis philosophorum. L'opera presenta una gamma molto ampia di temi, a volte apparentemente eterogenei tra di loro, ma legati dall'intenzione di fondare una prassi di buon governo. Essa può essere definita senza dubbio un trattato di filosofia politica4 • L'intento di questo articolo è di evidenziare la relazione tra il pensiero politico dell'autore e la sua teologia. Non saranno esaminati tutti i temi presenti nel Policraticus, né le questioni metodologiche e l'uso dei classici e della Scrittura che in essa troviamo'. Semplicemente metterò in evidenza quei temi che rispondono direttamente alla domanda se per Giovanni vi è un nesso e di che tipo esso sia tra politica e teologia. Prenderò in esame dunque la questione dell'origine

2 D. E. LUSCOMBE, Jean de Sa/isbury, in Ds VIII, 720. 3 Per

una visione sintetica del pensiero dell'autore, cf. K. GUTH, Johannes von Salisbury (1115120 - 1180), Eos Verlag, St. Ouilien 1978. 4 Per la redazione di questo articolo non è stato possibile utilizzare l'edizione critica curata da C.C. J. WEBB, 2 voli., Clarcndon Press, Oxford 1909. E' stato utilizzato il testo riprodotto dal Migne in PL 199. Esiste una traduzione italiana, non integrale 1na sufficienten1enle an1pia, Policraticus. L'uo1110 di governo nel pe11siero n1edievale, intr. di L. Bianchi, tr. di L. Bianchi e P. Feltrin, Jaca Book, Milano 1985 (condotta sull'cd. cr. dcl WEHB). I testi citati in traduzione sono tratti da quest'opera e saranno indicati con la sola pagina tra parentesi quadra. Per la bibliografia essenziale su Giovanni di Salisbury si veda l'Introduzione e la nota bibliografica di questa traduzione. Per la lettura unitaria dell'opera, cfr. M. KERNER, Johannes van Salis/Jury und die Lagische Struktur seines «Palicraticus», Steiner, Wiesbaden 1977. 5 Cfr. la raccolta di saggi The Warld o.f Joh11 of Sa!isbury, a cura di M. Wilks, in Studies in Church History, Subsidia 3, Blackwell, Oxford 1984; cfr. inoltre H. LIEBESCHUTZ, Medieval Hu111anisn1 in the Life and Writing of fohn af Salisbury, The Warburg Institut, London 1950 e M.T. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, Le bugie di !salta. lnnnagini della niente 1nedievale, Laterza, Bari 1987, 49-68.


Teologia e politica nel Po/icraticus di Giovanni di Salishury

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e della natura del potere (!), il concetto di legge (2), la relazione tra virtù e grazia (3).

I. Origine e Natura del Potere I. I. Origine del potere

Giovanni di Salisbury afferma l'origine divina del potere; fondaudosi sulle "autorità" tratte dalle Scritture e dalle Novellae di Giustiniano: «In effetti ogni potere viene da Dio, e con Lui sempre è stato e dall'eternità. Quindi il potere che il principe detiene proviene da Dio in 1nodo tale che Egli non lo aliena, ma ne fa uso attraverso una mano subordinata, realizzandovi sempre l'insegnamento della Sua giustizia e della Sua clemenza. Chi si oppone all'autorità, resiste dunque all'ordine stabilito da Dio, nelle cui mani è il potere di conferirla - e quando vuole - di diminuirla o di toglierla>> 6 • «Afferma l'imperatore Giustiniano: Fra tutti i doni conferitici dalla suprema clemenza di Dio i più grandi sono il potere sacerdotale ed il potere imperiale. Il pri1no si occupa delle cose divine, il secondo presiede e volge le sue cure alle cose umane; ma entra1nbi procedono dalla medesilna fonte, per rendere più felice la vita degli uon1ini l ... J (Novell., VI, 1)» 7 . «[ ... ] il potere regale ed il potere sacerdotale non vengono generati dalla carne e dal sangue (cfr. Geo 14, 18; Eb 7, passim). Nel creare re e sacerdoti non bisogna privilegiare il riguardo per la stirpe sopra i tneriti della virtù, 1na le giuste aspettative dei sudditi fedeli: re e sacerdoti, non appena eletti, devono infatti dimenticare le

6

«Ùmnis enim potestas a do1nino Deo est, et cun1 illo fuit semper, et est ante acvum. Quod igitur princeps potesl, ita a Deo est, ut potestas a Domino non recedat, sed ca utitur per suppositam manun1, in 01nnibus doctrinan1 facicns cletnentiae, aut justitiae suae. Qui ergo resistit potestati, Dei ordinationi resisti! (Rom Xlll), penes quem est auctoritas conferendi eam, et cu1n vult, auferendi ve! 1ninuendi ean1» (Policraticus IV, l: PL 199, 514 A) 154]. 7 «Ait ergo i1nperator Justinianus: Maxima sunt in 01nnibus dona Dei de supema collata clementia, sacerdotiu1n et itnperiu1n: illud quide1n divinis ministrans, hoc autem hu1nanis praesidens, ac diligentiatn exhibens: ex uno codcmque principio utraque procedentia, humanam exo1nant vita1n» (ibid. VII, 20: PL 199, 686 B) [221].


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Maurizio Aliotta passioni della carne per fare solo quanto sia richiesto dalla salute dei sudditi» 8 •

li potere, che in quanto tale viene da Dio, si distingue dunque in sacerdotale e imperiale. Si usa l'immagine delle due spade e si stabilisce una dipendenza dell'uuo dall'altro: «Il principe riceve la sua spada, che è spada di sangue, dalla Chiesa, sebbene quest'ulti1na, propriamente, non la possieda. Meglio, essa possiede anche questa spada, 1na la usa per mano dcl principe, cui conferisce il potere coercitivo sui corpi, riservando a sé autorità spirituale, nella persona del Pontefice. Il principe è quindi una sorta di ministro del potere sacerdotale, è colui che esercita quella parte dell'ufficio sacro che è ritenuta indegna del sacerdozio. Infatti ogni attività proposta all'attuazione delle leggi sacre è religiosa e pia; ma quella che consiste nel punire i crimini e che se1nbra in qualche modo rappresentata dall'immagine del carnefice è inferiore» 9 .

I due poteri sono finalizzati al bene comune, che Giovani identifica con la difesa della vita dei cittadini e il loro benessere spirituale. Il rapporto gerarchico dei due poteri è giustificato proprio da questo fine. Bisogna distinguere due livelli: quello dell'origine del potere in quanto tale e quello del conferimento dell'esercizio del potere. Il primo è di diritto divino, il secondo di diritto naturale ed è regolato

8 «Sed quia regnum et sacerdotium de ratione non pariunl caro et sanguis, cun1 in alterulro creando parentun1 respeclus citra virtutu1n merita praevalere non debeat, sed salubria sub jcctorutn fidelium vota; et cum alterutrius culminis apicen1 quisque consccndcrit, oblivisci debet affectutn carnis, et id solun1 agcrc, quod subjectorum salus exposcit» (ibid. IV, 3: PL 199, 517 AB) [61]. 9 «Hunc ergo gladiu1n de 1nanu Ecclesiae accipit princeps, cum ipsa tainen gladium sanguinis omnino non habeat. Habet taincn et islum, sed eo utitur per principis n1anu1n, cui coercendorum corporu1n contulil potestatem, spiritualium sibi in pontificibus auctoritate reservata. Est ergo princeps sacerdotii quidem nlinister, et qui sacroru1n officiorum illam partem exercet, quae sacerdotii manibus videtur indigna. Sacrarum namque legum omne officium religiosum et pium est, illud tamen inferius, quod in poenis criminu1n cxercetur, et quamdam carnificii repraesentare videtur imaginem» (I.e.: PL 199, 516 A) [59].


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dalle leggi naturali o dalle leggi positive (diritti di sangue ed ereditarietà, forme di elezione del priucipe): «Sulla scorta del nostro autore [Plutarco], si considerino ora quali siano le componenti dello Stato. Ho già detto che il principe svolge il ruolo di capo, ed è guidato esclusivamente dal giudizio della sua mente: un decreto divino Io pone al vertice dello Stato, scegliendolo fra gli allri tramite l'i1nperscrutabile mistero della Provvidenza, o tramite il giudizio dei Suoi sacerdoti, o ancora trainite il concorso di tutto il popolo» 10 .

Proprio l'origine divina del potere fonda la sua contingenza; il suo esercizio infatti dipende da alcune condizioni che lo relativizzano nell'ordine storico: innanzi tutto camminare secondo la legge del Signore. Il potere può essere revocato se questa condizione non è ottemperata. Giovanni conosce bene, per esperienza diretta, la frattura fra la dottrina e la pratica; distingue così tra il principe e il tiranno, tra chi esercita il potere come virtù e chi ne abusa. Da una parte pone la legge positiva a garanzia dei diritti naturali, dall'altra distingue tra il privato e il pubblico: «[ ... ] l'eredità di terre, di beni im1nobili e - per quanto possibile di attività, spetta ai parenli [cfr. Nm 27, 1 ~ 6J. Tuttavia il governo del popolo va affidato a colui che Dio sceglie: vale a dire ad un uo1no che abbia su di sé lo Spirito di Dio e davanli agli occhi i comanda1nenti del Signore, un uomo che sia noto e fa1niliare a Mosè, cioè che possegga una conoscenza della legge così chiara da ottenere l'obbedienza dei figli di Israele. Ciò però non significa che sia lecito, per favorire uomini nuovi, interrompere la linea di consanguineità. Per privilegio della promessa divina e per diritto di stirpe i principi devono essere succeduti dai loro figli; a

10 «Sequitur ut ejus imitantes vestigia de n1e1nbris reipublicae despiciamus. Dicturn est autem principetn locum obtinere capitis, et qui solius mentis regatur arbitrio. Hunc itaque, ut jan1 dicturn est, dispositio divina in aree reipublicae collocavit, et curn nunc arcano providentiae suae mystcrio caeteris praefert, nunc quasi suoru1n judicio sacerdotum, nunc ad eum praeficiendun1 totius populi vota concurrunt» Ubid. V, 6: PL 199, 54B s.) r1211.


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Maurizio Aliotta condizione - l'ho già detto - che abbiano camminato secondo le leggi del Signore. Se essi a poco a poco si allontanano da questa via, bisogna cercare di correggere pazientemente la loro ingiustizia; e cacciarli solo quando sia evidente che la loro malvagità è irrimediabile» 11 .

Poiché il principe deve curare il bene comune il suo diritto ereditario è subordinato ad esso. La dottrina di Giovanni trova una applicazione nella vicenda del conflitto fra Tommaso Becket e re Enrico II: «Non c'era nulla che egli [l'arcivescovo Tommaso] potesse dire o fare, che non venisse distarlo dalla peifidia di quegli empi, al punto da persuadere il re che la crescita del potere dell'arcivescovo avrebbe fatahnente portato al dissolvimento dell'autorità regale, e che, se non avesse provveduto per sé e per i suoi eredi, alla fine sarebbe diventato re uno eletto dal clero, il quale avrebbe regnato secondo il beneplacito dell'arcivescovo» 12 .

Le vicende storiche, che videro Giovanni di Salisbury coinvolto m prima persona, lo costringono a precisare la natura del potere. Se esso è buono per la sua origine («ogni potere è buono, dal momento che deriva da Colui che è la sola origine di tutte le cose, necessariamente buona» 13 ), talvolta esso può apparire non buono. Ciò accade quando di esso si abusa. Dunque il potere è in sé un bene, il

11

«Propinquis namque agroru1n et praedioru1n haereditas relinquenda est, et, ut plurimum, actionum. Gubernatio vero populi·, illi tradenda est, quem Deus elegerit, homini scilicet tali, qui habet Spiritum Dei in se, et praecepta Dci in conspectu ejus sunt, qui Moysi valdc notus sit et fainiliaris, id est in quo sit claritas' legis et scientia, ut possint eum audire filii Israel. Nec ta1nen licitutn et favore novorum, recedere a sanguine principum, quibus privilegio divinae pro1nissionis, et jure generis debetur successio liberorum, si tamen (ut praescriptum esl) a1nbulaverint in justitiis Don1ini. Si vero a via paulisper deflexerint, non statim usquequaque dejiciuntur, sed patienter corripiuntur in justitia, donec fiat conspicuutn eos pertinaces esse in 1nalo»(/.c.: PL 199, 549 C) [122]. 12 Vita sancti Thornae Cantauriensis Archiepiscopi et Martyris 13; PL 190, 200 s. 13 «01nnis autem potestas bona, quoniam ab eo est, a quo solo, on1nia, et sola sunl bona» (Policraticus VIII, 18: PL 199. 785 D) [252].


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4I

suo abuso è un male. Pur muovendosi all'interno delle tragiche vicende che portarono alla morte di Tommaso Becket, vicende strettamente intrecciate al conflitto tra Alessandro III e Federico I, Giovanni non affiva a concepire un conflitto tra i due poteri in quanto tali, anzi tra le due espressioni dell'unico potere, sacerdotium e imperium, come invece accade in altri autori, soprattutto in epoca successiva. Pur schierandosi chiaramente nel campo dei fautori della libertà della Chiesa dal potere imperiale o reale 14 , non si pone ancora il problema di separare potere civile e potere religioso. Egli si muove interamente entro il campo della distinzione tra esercizio legittimo e abuso del potere; fondandosi sulle autorità dei classici e della Scrittura, tutto è ricondotto alla moralità personale del principe. Ciò però non deve essere visto come riduttivo della dimensione propriamente politica del potere, pena una visione anacronistica delle categorie usate da Giovanni1.1 . Solo quasi due secoli dopo si pongono le basi teoriche per una separazione tra moralità personale del principe e dimensione politica del potere, precisamente con le dispute sulla natura del potere nel quadro della lotta delle investiture e della formazione del pensiero "1noderno", tra i cui protagonisti troviamo Egidio Romano, Guglielmo di Ockham, Marsilio Ficino, per citare solo alcuni dei nomi più noti. Commentando Rom 13, 11 6 , Ockham tenta di chiarire in che senso si possa affermare che il potere civile, in particolare quello dell'imperatore, venga da Dio immediatamente e non tramite il papa. Egli introduce tutta una serie di elementi che

14 Così si espritne nella Lettera 124 a Rodolfo di Sarrc (giugno-luglio 1160), a proposito del concilio i1nperiale di Pavia (febbraio 1160): «Electio pastoris est in ecclesia a clero libere et sine mundanae potestatis praenon1inatione celebranda, sic eaden1 et sine mundanae potestatis praenominatione celebranda, sic eadem in ecclesia a iudicibus ecclesiaticis, amotis saecularibus rerribilibusque pcrsonis, libere et sccundutn rcgulas ccclesiasticas examinanda est» (The /etters of .fohn of Salisbury [1153-61], a cura di W. J. Millor, H.E. Butler, C.N.L. Brooke, Londra 1955, 208: in PL 199, 39-40 come Epistola LIX). 15 Quando Giovanni scrive, in Occidente non si conosce ancora la Politica di Aristotele, per cui era per lui impensabile una distinzione tra politica e morale. 16 Cfr. G. L. POTESTÀ, Rn-1 13, i in Ockhan1. Origine e /egittin1ità del potere civile, in Cr St 7 (1986) 465 - 492; cfr. pure l'importante opera di J. MIETHKE, Ockhams Weg zur Sozialphilosophie, DeGrujter, Berlin 1969.


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portano a concludere a favore dell'autonomia del potere civile dal potere religioso. In particolare, affrontando le questioni legate al fatto storico dell'esistenza, nel passato, di principi infedeli a cui i cristiani ubbidivano, esamina la legittimità del potere di Pilato che ordina l'uccisione di Gesù. Separando le nozioni di abuso e di usurpazione del potere evita di identificare giudizio morale e valutazione dell'istituzione: Pilato fece cattivo uso del potere ricevuto da Dio, ma non per questo l'esercizio dell'autorità da parte sua fu illegittimata. Di diverso avviso Egidio Romano, che al contrario di Ockham era un sostenitore della teoria delle due spade, facendo dipendere il potere imperiale da quello papale. Egidio" non distingue tra abuso e usurpazione riportandoli nell'ambito di ciò che è semplicemente "permesso" da Dio e nel contempo riduce l'area di ciò che è espressamente "concesso" da Dio ai poteri che si riconoscono sottoposti alla Chiesa, in quanto unica dispensatrice dei sacramenti salvifici. Giovanni di Salisbury non problematizza il rapporto tra in1periun1 e sar:edotiun1 riconoscendo la superiorità di quest'ultimo sul primo. La sua riflessione verte sul potere in quanto tale, sia civile che religioso. L'unica distinzione che egli pone è tra un uso legittimo del potere ed un suo abuso e, quindi, la distinzione tra principe e tiranno. Egli sottolinea così la dimensione etica del potere, cioè la responsabilità morale di chi lo esercita. «A chi lo esercita o lo subisce, il potere può talvolta apparire non buono ma callivo; e tuttavia, da un punto di vista generale, è buono in quanto è il prodotto di Colui che volge al bene i nostri mali. All'interno di un quadro i colori scuii o cupi o che comunque sono di per sé brutti, svolgono una loro funzione; allo stesso 1nodo quelle cose che, considerate di per sé, possono apparire sgradevoli e malvagc, sono buone e belle in relazione all'insieme, modellato a propria immagine da Dio, le Cui opere sono buone. Perciò il potere del tiranno è in un certo senso buono, pur non esistendo nulla di peggio della tirannide. Quest'ullima consiste nell'abuso del potere

17

Cfr. De ecclesiastica potestate, hrg. R. Scholz, II, Weimar 1929.


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concesso da Dio all'uomo: in quanto tale è un male, che tuttavia comporta una grande quantità di beni; ed evidente1nente non si trova solo fra i principi, rna ovunque si approfitti dell'autorità di cui si gode sopra i sudditi» 18 .

Si pone qui un principio generale: l'abuso è un male, che tuttavia non elimina la bontà originaria del potere. Il potere di cui si parla, poi, non è solo quello del principe, ma di chiunque esercita una autorità. Tiranno dunque non è solo chi ha un potere civile, ma anche chi abusa di un potere religioso". Questa regola vale in generale, nel campo civile e nel campo religioso, nel campo privato e nel campo pubblico.

1.2 L'esercizio del potere La dimensione etica del potere giustifica la lunga riflessione di Giovanni sull'uso del potere e sugli abusi. Naturalmente ha un particolare rilievo la moralità personale del principe (co1ne di chiunque abbia un'autorità), in quanto la sua prima responsabilità è la garanzia e la tutela del bene comune: «Il principe è dunque ministro della pubblica utililà e servo dell'equità; egli si assu1ne il peso dell'intero organis1no pubblico nel punire tutte le ingiustizie, tutti i lorti e tutti i crimini con in1parzialilà. La sua verga ed il suo bastone, usati con sapiente moderazione, riconducono sulla retta via ogni deviazione ed ogni

18 «Utenti tainen inlerdum bona non est, aut patienti, sed niala, licet quoad universitaten1 sit bona, illo faciente qui bene utitur mahs nostris. Sicut enin1 in pictura fuscus aut niger color, aut aliquis alius per se consideratus, indecens est, attamen in tota pictura decet; sic per se quaedam inspecta, indecora et inala, relata ad universitatem, bona apparent et pulchra, eo omnia sibi adaptante, cujus 01nnia opera valde sunt bona. Ergo et tyranni potestas bona quidem est, tyrannide lamen nihil est pejus. Est eniin tyrannis, a Deo concessae homini potestatis abusus. In hoc tamen malo, multus, el niagnus est bonorum usus. Patet ergo non in solis principibus esse tyrannidem, sed omnes esse tyrannos, qui concessa desuper potestate in subditis abutuntur» (Po/icraticus VIII, 18: PL 199, 785 - 786 A) [252]. 19 Cfr. tutto il cap. 17 del l. III, che descrive la tirannia dei "sacerdoti".


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Maurizio Aliotta errore, cosicché lo Spirito può compiacersi, dicendo: La tua verga e il tuo bastone mi rassicurano (Sal 22, 4 ). Ma anche il suo scudo è forte, ed è scudo dci deboli, che para efficacen1ente i colpi dci maligni in difesa degli innocenti, favorendo chi è indifeso ed opponendosi con decisione a chi ama fare il male. Né è senza motivo se il principe porta la spada. Ma non ha colpa quando sparge il sangue, e se spesso uccide uomini, non va considerato un sanguinario, né incorre - di no1ne o di fatto - nell'omicidio» 20 .

L'esercizio del potere comporta sempre l'uso di una certa forza. Essa è usata illegittimamente quando diveuta lo strumento del tiranno per imporre la propria coercizione, diventa legittima quando è usata dal principe per difendere i deboli, coloro che sono indifesi, cioè garantire a tutti la sicurezza della vita, che per Giovanni coincide col benessere pubblico: «Il benessere pubblico, cioè dei singoli e della comunità, consiste nella sicurezza della vita; infatti non vi è nulla di più importante, per un uomo, della sua vita, e non vi è nulla di più salutare della sua sicurezza» 21 •

I compiti del principe che legittimano l'uso del potere mediante la forza sono descritti con chiarezza da Giovanni: «Ora, il principe esercila fedelmente il proprio ministero quando, memore del suo stato si ricorda di prendere sulle spalle il peso della

20 «Publicae ergo utilitatis minister, et aequitatis servus est princeps, et in eo personam publica1n gerit, quod 01nniun1 injurias et damna, sed et crirnina omnia aequitate media punit. Virga quoque ejus el baculus, adhibita moderatione sapientiae, contractus 01nniu1n et errorcs ad viam reducit aequitatis, ut rnerito potestati spiritus congratuletur, dicens: Virga tua et baculus tuus ipsa n1e consolata sunt (Psal XXII, 4). Sed et clypeus ejus fortis quidem, sed infirmorun1 clypeus est, et qui malignantium jacula pro innocentibus potenter excipiat. Officium quoque ejus illis qui mini1nu1n possunt, pluri1num prodesl, et illis, qui nocere desiderant, plurimum adversatur. Non ergo sine causa gladium porlat, quo innocenter sanguinem fundit, ut tamen vir sanguinum non sit, et homines frequenter occidat, ut non incurrat no1nen homicidii vel reatum» (Policraticus IV, 2: PL 199, 545 Be) [56]. 21 «Est igitur salus publica, quae universos fovet, et singulos, incolumitas vitae. Nihil enim ho1nini praestantius vita ejus: incolumitate vitae, nihil salubrius» (ihid. III, l: PL 199, 477 C) [35].


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totalità dei sudditi e, sapendo di dovere la sua vita non a se stesso ma agli altri, ne fa dono con giusto senso di carità. Egli deve tutto se stesso a Dio, moltissi1no alla sua patria, molto ai genitori ed ai parenti, pochissimo - ma pur se1npre qualcosa - agli stranieri; ha l'obbligo verso i saggi e verso gli sciocchi, verso i fanciulli e verso gli anziani (cfr. Rtn 1, 14). L'occuparsi di queste persone è del resto compito co1nune a chiunque abbia un ministero, a quanti hannq cura della vita spirituale, come a quanti esercitano la giurisdizione secolare» 22 •

E ancora: «Il principe dunque sia per i suoi sudditi padre e marito o - se ha tnai conosciuto figure più tenere - le impersoni. Si preoccupi di essere amato più che di essere temuto e dia di sé una tale immagine che i suoi sudditi, per devozione, preferiscano alla loro stessa la sua vita, e considerino la sua incolumità di vitale importanza per il bene pubblico» 23 •

La moralità personale ha pure una funzione pedagogica, infatti: «il popolo desidera avere ciò che hanno i suoi superiori, e cerca di essere sin1ile ai suoi tnagistrati: e così spesso finisce per imitarne i vizi» 24 •

22 «Gerit autem ministeriun1 fideliter, cu1n suae conditionis memor, universitatis subjectorutn se personam gererc recordatur, et se non sibi suam vitam, sed aliis debere cognoscit, et ean1 illis ordinata charitate distribuit. Totum ergo se Deo debet, pluri1nu1n suac patriae, multum parentibus, propinquis, extraneis 1nini1num, nonnihil tamen. Sapientibus ergo et insipientibus debitor est, pusillis et majoribus. Quae quiden1 inspecrio communis est omnium praelatonnn, et eorum qui spiritualiu1n curam gerunt, et qui sacculare1n jurisdictione1n exercent» (ibid. IV, 3: PL 199, 516 517) [60]. 23 «Subjectis itaque pater sit et 1naritus, aut si tencriore1n noverit affectionem, utatur ca: mnari 1nagis studeat, qumn ti1neri, et se talem illis exhibeat, ut vitam ejus ex devotione praeferant suae, et incolumitate1n illius quan1da1n publicam reputent vitatn» (I.e.· PL 199, 517 B) [61]. 24 ~<Frequens eni1n esl, ut subditi superiorum vitia imitentur, quia tnagistratui populus studct esse conformis, et unusquisque libentcr appetil, in quo alium cernit illustrcm» (ibid. IV, 4: PL 199, 520 A) [67].


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Il legame tra moralità personale ed esercizio legittimo del potere per Giovanni ha anche una motivazione che noi potremmo oggi definire "politica", perché la stoltezza è a detrimento degli stessi empi, «poiché se il popolo è fiaccato, anche la forza del principe è indebolita: infatti un popolo oppresso non può e non vuole sostenere il principe» 25 .

Nel pensiero di Giovanni vi è anche un motivo più radicale, meno contingente, cioè a dire il suo stesso concetto di bene comune e di giustizia26 a cui si lega quello di legge e della relazione tra essa ed il principe: «I principi non devono credere che sottomeltersi alla legge sia una umiliazione; a meno che non ritengano la loro giustizia preferibile a quella di Dio, che è eterna e segue la legge dell'equità lcfr. Sai 118, 142]. Ora l'equità, co1ne sostengono esperti giuristi, è un accordo delle cose che le equipara tutte secondo ragione e cerca di stabilire regole analoghe per situazioni analoghe, iinparziali di fronte a tutti nell'attribuire a ciascuno il suo [cfr. CICERONE, De an1icit., XXVII, 100; Top IV, 23]. La legge, poi, è l'inlerprete dell'equità, il tramite della volontà di equità e di giustizia» 27 .

Alla luce di ciò Giovanni interpreta l'adagio giuridico 28 che il principe è sciolto dai vincoli della legge

25 «[ ... ] quia in depressione populi robur principis enervatur. Populus nainque contritus, erigere vires principis non potest, aut non vult» (ibid. V, 6: PL 199, 554 A) [ 129 J. 26 Cfr. Ph. DELHA YE. Le hien s11prèn1e d'après le «Policraticus>J de Jean de Salisbury, in Recherches de Théologie anci<~nne et n1édiévale 20 (1953) 203 - 221. 27 «Ncc io eo sibi principes detrahi arbitrentur, nisi justitiae suae statuta pracferenda crediderunt justitiae Dei, cujus justitia, justitia in aeternu1n est, et lex ejus aequitas. Porro aequitas, ut jurisperiti asserunt, rerum convenientia est, quae cuncta coaequiparat rationc, et in paribus rebus paria jura desiderar, in omnes aequabilis, tribuens unicuique quod suum est. Lex vero ejus interpres est, utpote cui aequitatis et justitiae voluntas innotuit» (Policraticus IV, 2: PL 199, 514 Co) [55J. 28 Cfr. Dig. I, 3, 3.


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«non perché gli sia lecito commettere delle ingiustizie, n1a perché deve pro1nuovere l'equità non per timore della pena ma per amore della giustizia, procurando il benessere dello Stato e anteponendo in ogni circostanza il bene altrui alla sua propria volonlà» 29 •

Il principe è guidato esclusivamente dal giudizio della sua mente perché è posto al vertice dello Stato da un decreto divino, mediante <d'imperscrutabile mistero della Provvidenza, o tramite il giudizio dei Suoi sacerdoti, o ancora tra1nite il concorso di tutto il popolo» 30 . Ma «ogni giudizio delle leggi è vano, se non porta il sigillo della legge divina; e l'elezione dcl principe è inutile se non è conforme alla disciplina ecclesiastica» 31 •

Giovanni fa risalire la sua convinzione alla stessa volontà di Costantino accettando così l'opinione dei più. Non vi è dubbio perciò che egli risolve uu eventuale conflitto tra imperium e sacerdotium a favore del sacerdotium. Dunque, egli considera un'unica origine del potere, spirituale o temporale, che, essendo divina è in se stessa buona. Sulle modalità dell'acquisizione legittima del potere, Giovanni è aperto a più possibilità: o il principe lo riceve dai sacerdoti, o direttamente o col concorso del popolo. In definitiva, l'esercizio del potere è finalizzato al bene pubblico, che coincide con la sicurezza di vita di tutti. Lo strumento di cui dispone il principe è la legge, a cui tutti sono obbligati. A volte far osservare le leggi richiede l'uso della forza. Al contrario, il tiranno,

29 lPrinccps ta1ncn legis nexibus dicitur absolutus] non quia ci iniqua liceant, sed quia is esse dedet, qui non timore poenae, sed an1ore justitiae aequitaten1 colat, reipublicae procuret utilitale1n, et in omnibus aliorum com1noda privatae praeferat voluntati» (I.e.: PL 199, 515 A) [56]. 30 «f ... l eu1n nunc arcano providentiae suae 1nisterio, caeteris praefcrt, nunc quasi suorum judicio sacerdotu1n, nunc ad eurn praeficiendum totius populi vota concurrunt» Uhid. V, 6: PL 199, 548 s.) [121]. 31 «On1nium legu1n inanis est censura, si non divinae legis i1nagine1n gerat; et inutilis est constitutio principis, si non ccclcsiasticae disciplinae sit conformis» (ibid. IV, 6: PL 199, 522 s.) [74].


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cioè colui che abusa del potere, usa ordinariamente la forza per esercitare il suo potere, ma il tiranno non vuol conseguire il bene comune. La legge diventa il limite dell'uso della forza e nello stesso tempo la sua legittimazione. Un privato cittadino, perciò, non può ricorrere alla forza per far valere i suoi diritti, ma deve ricorrere alla legge (cioè al principe che solo può ricorrere alla forza). L'insistenza posta dall'autore sulla legge esige che se ne chiarisca la nozione, in relazione agli elementi costitutivi del suo mondo vitale, cioè la visione religiosa del mondo e il contesto sociale in cu1 opera.

2. li concetto di legge

La radice del pensiero politico di Giovanni di Salisbury è teologica. Allo stesso modo il concetto di legge. Per il segretario dell'arcivescovo di Canterbury, «la legge è un dono di Dio, modello di equità, nonna di giustizia, immagine della volontà divina, custodia della salvezza, legame di solidarietà del popolo, regola dci doveri, baluardo e distruzione dei vizi, punizione delle violenze e di ogni offesa» 32 .

In questa definizione convergono temi teologici, e1Ic1 e giuridici. Essa, infatti, è enunciata innanzitutto per distinguere tra il principe e il tiranno: il principe è colui che governa secondo le leggi, il tiranno è colui che domina con la violenza. Il fine della legge è il benessere del popolo, a cui è dedicata tutta l'azione del principe. L'origine della legge è, comunque, Dio, esattamente come per il potere e mentre per il potere vi è un uso e un abuso, per la legge si pone l'alternativa tra l'osservanza e la violazione. Ciò determina la

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«Porro lex donu1n Dei est, acquitatis forma, norma justitiae, divinae voluntatis itnago, salulis custodia, unio et consolidatio populorum, regula officiorum, exclusio et exterminatio vitiorum, violentiae et totius injuriae poena» (ihid. VIII, 17: PL 199, 777 D) [239]. Cfr. IV, 2: PL 199, 515 A.


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differenza tra principe e tiranno. Il potere deve essere totalmente a servizio della legge, infatti se «i giusti considerano il potere tanto degno di rispetto anche quando

si inani.festa a danno degli eletti, chi oserà non souo1nettersi a quel potere istituito da Dio con1e punizione dei peccatori e come premio

dci buoni, e che serve con dedizione incondizionata le leggi? Il principe deve riconoscersi vincolato alle leggi: questa, secondo un grande imperatore, è una massima veramente degna della 1naestà del

regnante. Poiché la sua autorità dipende dall'autorità delle leggi, il sottomettere il suo governo ad esse è cosa più grande del se1nplice comandare e quindi egli non si riterrà libero di fare nulla che sia in contrasto con l'equità della giustizia»~13 •

Come ho rilevato nel precedente paragrafo, in questo stesso capitolo primo del libro IV, Giovanni spiega l'adagio giuridico che il principe è sciolto dalla legge col fallo che la stessa legge è la ratio del suo essere principe, come ha ben mostrato la Fumagalli Beonio Brocchieri 14 • Il testo or ora citato ne è una riprova. La legge è così strettamente connessa con la giustizia/equità, che è «un accordo delle cose che le equipara tutte secondo ragione e cerca di stabilire regole analoghe per situazioni analoghe, imparziale di fronte a tutti nell'attribuire a ciascuno il suo». La legge è finalizzata alla realizzazione del bene co1nune e la sua arnn1inistrazione non ha altro scopo che garantire il benessere di tutti, nei modi già rilevati precedentemente. La legge, in definitiva, «è l'interprete dell'equità, il tramite della volontà di equità e di giustizia» 15 • D'altra parte

33 «Si itaquc adco vcnerabilis est bonis potestas, etiatn in plaga clectoru1n, quis eam non veneretur, quae a Do1nino instituta est, ad vindictain n1alefactoru1n, laude1n vero bononnn, et legibus devotione promptissi1na famulatur? 'Digna siquidem vox est, ut ait imperator, majestate regnantis, se legibus alligatum principem profiteri'. Quia dc juris auctoritate principis pendet auctoritas; et revera majus itnperio est, submittere legibus principatu1n; ut nihil sibi princeps libere opinetur, quod a justitiae aequilate discordet» (ihid. IV, 1: PL 199, 514 Be) l54J. L'imperatore a cui si riferisce Giovanni è Giustiniano, precisa1nente egli allude al Codice lustin. I, 14, 4. 34 M.T. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, op.ci!., 52. 35 «Lex vero ejus interpres est, utpote cui aequitas et justitiae voluntas innotuit» (Policraticus IV, 2; PL 199, 514 D) [55].


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Maurizio Aliotta «l'essenza della giustizia consiste nel non fare il male e nell'ostacolare, in conformità con i doveri di umanità, coloro che lo fanno [cfr. CICERONE, De off., I, 7, 23J. Quando si fa il 1nale si opera violenza, mentre quando non ci si oppone a chi lo fa, si serve I'ingiuslizia» 36 .

Sulla base di questa convinzione s1 capisce la pos1z10ne di Giovanni di Salisbury quando giustifica l'uso della forza per far applicare la legge. Per sostenere questo modo di vedere egli impegna tutta la sua conoscenza delle Scritture e dei classici 37 • Fondandosi sulla rivelazioue egli distingue tra una legge immutabile e una legge flessibile. Il punto di partenza è il Deuteronomio, il cui etimo di "seconda legge" spiega in relazione ad una "prima legge''. Per "prima legge" si deve intendere «quella che è incarnata dalla lettera; per seconda legge quella che l'intelletto 1nisLico inferisce dalla prima. La pri1na fu scritta su tavole di pietra, ma la seconda non può essere impressa se non dall'intelligenza più pura della mente. Non per niente il Deuteronotnio è scritto in un libro: avendone sempre davanti agli occhi la leuera, il principe può rimeditare dentro di sé il senso; 1na deve seguire la lettera in modo da non travisan1e lo spirito. Infatti la lettera uccide, lo spirito vivifica !cfr. 2 Cor 3, 6], e spetta al principe un'inlerpretazione mediata, necessaria e generale del diritto umano e dell'equità fcfr. Cod. lustin., I, 14, 1] 38 •

36 «in eo aulem niaxime justitia constat, si non noceas, et ex officio humanitatis prohibeas nocentes. Cutn vero noces, accedis ad injuriam. Cum nocentes non iinpedis, injustitiae farnularis» (ibid. IV, 12: PL 199, 527 D) l102]. 37 Cfr. gli esempi che si portano co1ne modelli di equità e di ain1ninistrazione del1a legge; tra i tanti quello di Licurgo, nel I. l V, 3. 38 · «[ ... ] ut sit lex prima, quan1 littera ingerit; secunda, quam ex ea 1nysticus intelleclus agnoscit. Prima quidem scribi potuit tabulis lapideis, sed seconda non imprinlitur, nisi in puriore intelligentia mentis? Et recte in volu1ninc Deuterono1nium scribitur, quia sic apud se sensum legis princeps revolvit, quod ab oculis ejus littera non recedit. Et sic quide1n insistit litterae, ut nequaquam ab intellectus discordet puritate. Littera namque occidit, spiritus auten1 vh1ificat (li Cor 3), et penes ipsu1n, humani juris et aequitatis, inedia interpretatio necessaria et generalis exstal» (Policratirns IV, 6: PL 199, 522 D) [731.


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Il diritto umano, dunque, nasce dalla necessità di interpretare la legge scritta, in fedeltà alla legge divina non scritta, che nella legge scritta si manifesta. In quest'opera di mediazione si inserisce la mutabilità di alcune norme, mentre altre sono di per sé immutabili: «Vi sono alcuni precetti della legge che hanno una necessità perpetua, che sono validi presso ogni popolo e che non possono in nessun modo essere trasgrediti impunemente. Prima della legge, sotto la legge e nella Nuova Alleanza, un solo preceuo lega tutti quanti: Non fare quel che non vuoi sia fatto a te; fai quel che vuoi ti sia fatto [cfr. AGOSTINO, De doctr. christ., XVI, 25 e XIV, 22: PL 34, 48.74J» 39 .

Giovanni enuncia la regola aurea, come il primo e fondamentale precetto della legge con valore universale e perpetuo. Bisogna saper distinguere ciò che è immutabile, fondato sulla regola aurea, da ciò che è mutabile, che da quello deve derivare e m ciò si richiede la necessaria mediazione del principe, secondo le circostanze e le condizioni dei vari popoli: «Sia chiaro però che io non intendo soltrarre dalle n1ani dei principi il polere di a1nministrare la legge; ritengo che le leggi che contengono una prescrizione o una proibizione perpetua non siano affatto soggette al loro arbitrio e che solo delle leggi flessibili sia am1nissibile una applicazione non letterale, tale tuttavia da conservare integro lo spirito, con un guadagno di utilità e onestà» 40 .

39 «Sunt aute1n praeccpta q_uaedam, perpetua1n habentia necessitaten1, apud omncs gentes legiti1na, et quae omnino itnpune solvi non possunt. Ante legein sub lege, sub gratia, 01nnes lux [lex?] una constringit: Quod tibi non vis fieri, a/ii ne faceris; et quod tibi vis fieri faciendum, hoc facias aliis» (ibid. IV, 7: PL 199, 527 B) [80]. 40 «Nec tamen dispensatione1n legis subtraho 1nanibus potestatu1n, sed perpetuam praeceptione1n, aut prohibitionem habentia, libito eonun nequaqua111 arbitrar supponenda. In his itaque duntaxat quae mobilia sunt, dispensatio verborum adn1ittitur; ita tamen ut compensatione honestatis et utilitatis, mcns lcgis integra conservetur» (f.c.).


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A questo proposito, occorre ricordare che Giovanni di Salisbury ribadisce con forza che non si possono separare "utile" ed "onesto", in ciò seguendo l'insegnamento di Cicerone: «I filosofi sostengono da tempo che non vi è opinione più pericolosa di quella che distingue l'utile dall'onesto; e che sia invece verissin1a e utilissima quella secondo la quale "utile" ed "onesto" sono termini convertibili» 41 •

La legge, «secondo la quale devono vivere tutti quanti siano membri di una comunità politica» 42 , si colloca, dunque, sul piano teologico e sul piano giuridico. Essa, infatti, se da una parte ha la sua origine nella rivelazione e in questa la sua natura trova spiegazione, d'altra 'parte è la regola della convivenza della polis. Nel contesto sociale di Giovanni i due piani non sono separabili e l'uno trova fondamento nell'altro, tuttavia egli non confonde la riflessione politica con la riflessione teologica quando si tratta di riaffermare la natura squisitamente teologale della salvezza. In termini propriameute teologici, Giovanni ribadisce iì primato della grazia nel conseguimento della salvezza; ce ne offre un esempio nelle riflessioni sul rapporto di virtù e grazia, che troviamo nel contesto delle premesse teologiche e antropologiche del Policraticus.

3. Le Vh"tlÌ e la xrazia

La riflessione teologica che Giovanni di Salisbury pone all'inizio del suo pensiero politico è ricca di influssi neoplatonici. La visione dello Stato e del ruolo delle varie componenti ha una matrice organicista accompagnata da una antropologia chiaramente

41 «Philosophis enin1 jan1pride1n placuit, perniciosorein nullan1 esse opinionen1, illonun opinione qui utile scparant ab honesto; et sententiam vcrissi1na111 et utilissimam esse, honestu1n et utile in se usquequaque converti» (ibid. IV, 4: PL 199, 519 D) [66]; cfr. CICERONE, De off., III, 3, Il. 42 «Sccundun1 qua1n decet vivere on1nes, qui in politicae rei universitatc vcrsantur» (ibid., IV, 2: PL 199, 515 A) [551.


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neoplatonica. All'interno di essa si spiega la teoria del potere buono in sé e la relazione profonda che si stabilisce tra esercizio delle virtù, quale presupposto del buon governo, e grazia. Tutto il libro terzo del Policraticus costituisce la premessa antropologica e teologica del suo pensiero politico. Nel capitolo ottavo, poi, presenta il punto centrale della cosmologia: «Anche il contingente dipende dalla Prima Causa, in quanto ad Essa tutto va ricondotto; ed a mio giudizio l'esistenza della Prirna Causa consegue necessariamente dalla posizione di tutte le cose. Forse qualcuno più saggio di n1e riderà della n1ia insipienza poiché acconsento a derivare l'esistenza di Dio da quella di tutte le cose: ma sono stati i Peripatetici ad insegnarmi ad inferire o congetlurare la causa dall'effetto. Del resto gli stessi dottori del1a fede ricavano proprio dalle cose quella Causa dalla quale, per la quale e nella quale tutto esiste lcfr. Rin 11, 36 e Gv 1, 31, e senza la quale nulla è creato o può sussistere>/13 .

Nel capitolo primo l'autore esprime chiaramente la sua dottrina iJemorfica: «Gli antichi sapienti definirono l'uomo un composto di anima razionale e ca111e corruttibile fcfr. AGOSTINO, Sern1. CL, 4,5: PL 38, 810]. La ca1ne prende vita dall'ani1na; né può esservi altra fonte di vita per il corpo, che rimarrebbe sc1nprc in una completa inerzia se non fosse mosso dall'azione di una natura spirituale. L'ani1na invece ha una autono1nia dal corpo: Dio èja sua vita [cfr. AGOSTINO, De lih. arh. II, 16, 41: PL32, 1236],,"-

'0 «Proinde et hacc ipsa contingentia, primaevae 01nniu1n causae sic constat esse annexa, ut ad ea1n on1nia referantuì·; et pro inca opinione, hacc ipsa ad positionem omniun1 quae sunl, necessario consequatur. R.idebunt forte prudentiorcs insipientiain 1neatn, qui Deum esse, ad existentiam 01nnium, sequi consentio; seb ab effectu causain inferri, ve! probabiliter me Peripatetici docuerunL Porro doctores fidei eam ex omnibus, causam necessario inferunt, ex qua omnia, per quam omnia, et in qua sunt omnia, et sine qua factun1 est, aut subsistere, nihil potcst» (ibid. III, 8: PL 199, 490 Co) [46]. 44 «Hominen1 vero constare ex anima rationali, et ca1ne corruptibili, antiqui sapientes definierunt. Caro siquidem vivit ab ani1na, cum aliunde corpori vita esse non posit, quod setnper inertiae suae torpore quiescit, nisi spiritualis naturae


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Tutto, duuque, deve essere ricondotto a Dio, come "fonte" da cui la realtà scaturisce45 • In questo contesto si inserisce la riflessione su virtù e grazia. Questa è il modo con cui Dio risiede nella creatura razionale, che in ciò si distingue dalle altre creature46 . La creatura razionale esiste perché in essa vi è la Sapiénza; ama il bene perché in essa vi è la Fonte della carità e della bontà47 . Prova di ciò sono le virtù di cui è dotata la creatura razionale, in quanto «ogni virtù è una sorta di immagine della divinità, impressa in qualche modo sulla creatura razionale: abitandola, lo Spirito santo imprime nell'anima la santità e ne diffonde dappertutto i rivoli, manifestando i carismi delle diverse grazie»48 •

Questi rivoli sono immagine delle virtù. E' evidente l'influsso neoplatonico che Giovanni di Salisbury ha subìto durante la sua formazione scolare, sia a Chartres sia con Abelardo49 • beneficio moveatuL Haec autem habet et ipsa vitam suam. Deus etenim vita ani1nae est» (ibid. 111, I: PL 199, 477 C) [35]. 45 Giovanni di Salisbury predilige l'i1nmagine della "fonte" per descrivere il rapporto tra le cose, l'uo1no e Dio. 46 L.c. 41 L.c. 48 «Omnis etenim virtus angelica et humana, quoddam divinitatis vestigium est, ralionali creaturae quodammodo impressum. Spiritus sanctus inhabitans imprimit animae sanctitatem, ejusdemque rivulos multifariarn spargit, diversarurn exercens charismata gratiarum» (/.c.: PL 199, 478 C) l37J. 49 Questo influsso si può verificare con alcuni passaggi con1uni a Giovanni e Abelardo. A proposito della dottrina dell'anùna n1undi con1e prefigurazione dello Spirito santo, si leggano in parallelo q~ti due testi, rispettivamente di Abelardo e di Giovanni di Salisbury: «Giusta1nente egli lPlatone] ha fatto dello Spirito santo, anima del inondo, qualcosa Come la vita dell'universo, poiché in certo modo tutte le cose hanno vita nella bontà di Dio e tutte vivono in lui, e nessuna è morta, cioè nessuna è inutile, neppure cattiva, poiché esse sono disposte nel inodo nligliore grazie alla sua bontà. E ciò è stato scritto - lo ricordiamo - sia dagli Evangelisti che dai Platonici: quod factun1 est in ipso vita erat (Gv 1, 3-4). Come se l'Evangelista dicesse che tutte le cose fatte da Lui nel tempo, cioè istituite dalla stessa bontà divina, vivevano in qualche modo eternamente nella bontà di Dio, poiché n'ella provvidenza divina tutte le cose sono state disposte ottimamente dalla bontà di Dio per l'eternità» (Theo/ogia scholarium, I, 17: PL 178, l 13). «Questa vita dunque riempie tutte le creature, che senza di essa non hanno alcuna sostanza. Ogni cosa che esiste è ciò che è perché partecipa della vita di Dio; che, pur essendo per natura in tutte le creature, solo in quelle razionali risiede per la Grazia. Tali creature esistono poiché in esse è la Sapienza; ainano il bene poiché in esse è la Fonte della carità e della bontà. Infatti


Teologia e politica nel Policraticus di Giovanni di Salisbury

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Le virtù manifestano nell'agire concreto l'azione dell'anima (che ha Dio come sua vita) sul corpo. Le virtù sono dunque le facoltà dell'anima (Giovanni le chiama "parti") con cui dà vita al corpo, che non potrebbe vivere se non fosse mosso da un principio spirituale. Mediante queste "parti", l'anima «agisce, opera e fa esperienza di sé». Pur rimanendo nella sua natura semplice, d'anima si sviluppa nella ricerca del bene e nell'avversione al male con l'ausilio della ragione e dell'intelletto»'o. Alla ragione Giovanni assegna una funzione. molto importante, accostandola alla stessa grazia. La ragione fonda la conoscenza della verità e dell'agire morale. Tramite l'esercizio della ragione, che conduce l'intelletto a trovare quanto gli è accessibile, l'uomo giunge alla conoscenza che gli permette il culto delle virtù. Alla conoscenza della verità e alla scienza del necessario si può giungere mediante la grazia. Tuttavia Giovanni non dimentica che la natura dell'uomo è segnata dal peccalo, quindi non vuol «tessere le lodi della natura corrotta a scapito de!la grazia, come se la natura avesse qualcosa di buono per sé, senza averlo ricevuto; quando è cerlo che senza la Grazia non possia1no fare nulla» 51 .

Questa afferrnazione è solo "ornamentale" o esprime realmente la convinzione dell'autore? Quando Giovanni parla di "opere buone" ne parla come opere della grazia". Essa è la "fonte della vita", è la "pienezza" da cui sgorgano i quattro fiumi delle virtù cardinali che, irrigando la terra ogni virtù angelica o umana è una sorta di immagine della divinità, impressa in qualche modo sulla creatura razionale: abitandola, lo Spirito Santo imprime nell'ani1na la santità e ne diffonde dappertutto i rivoli, manifestando i carismi delle diverse grazie» (Policrath·us III, l: PL 199, 478 C [36s]), In Policraticus VII, 51, Giovanni segue Abelardo nel considerare il pensiero di Platone come prefigurante la Trinità. 50 «Si non ergo n1ultiplicitate partiun1, et quantitatis quadatn distensione crescit, rationem tan1en et inteUectu, appetitu boni, aversionc mali, 1nanente simplicitatis natura dilatatur» (Po!icraticus Ili, 1: PL 199, 478 A [36]. 51 «Non tan1en corruptae naturae adversus gratiam nlagnifico fimbrias, aut phaleras erigo, quasi ipsa aliquid borri habeal quod non acceperit; cum certun1 sit quia sine ea nihil possumus facere» (!.c.: PL 199, 479 AB) [37]. 52 Cfr. ibid. VI, 13, [183].


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Maurizio Aliotta

arida dell'anima, fanno crescere i frutti delle buone opere53 • Si delinea così un rapporto natura-grazia non conflittuale ma di complementarietà, tuttavia il primato è assegnato alla grazia. Il rapporto tra opere e grazia, inoltre, è visto nel senso della conseguenzialità. Dio, dice Giovanni, «deve essere da tutti amato con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tulte le forze [Le I O, 27 j. Ma questo amore va din1ostrato nelle opere; e sebbene Dio possa essere atnato per Se stesso, in quanto senza il soccorso di un intern1ediario Egli può infondersi in chi Lo an1a, tuttavia al culto esteriore è necessario l'intervento di qualche n1ezzo, dal moinento che nessuno ha mai veduto Dio [cfr. Gv 1, 18; 4, 12]» 54 .

La pratica delle buone opere rientra nel culto dovuto a Dio e ciò perché «l'uo1no, finché è in vita, non può avere di Lui una conoscenza sensibile diretta e pura, se non forse con quella parte dei sensi che non conosce lin1itazioni del corpo né risente dello svanire del tctnpo, 1na in eterno rimane nella sua vitalità per mezzo della Grazia. Sto parlando della carità, che non din1inuisce, tna si incrementa quanto più inti1nainente si avvicina all'oggetto del desiderio» 55 .

Poiché, poi,

53

Jbid. IV, 12 [103]. «fDeus/ ab on1nibus gcneraliter amandus est, et colendus ex toto corde, ex tota anima, ex 01nnibus viribus suis. Probatio vero dilectionis, cxhibitio operis est. Et licct per se ipsu1n possit amari, tanquam qui citra opetn mcdii se infundat an1anti, ta1nen ad cultu1n exleriorem alicujus rnedietatis interventus necessarius est, eo quod Deum nemo viderit unquam» (ibid. V, 3: PL 199, 541 C) [111 -112]. 55 «[ ... ] quia praesentialitcr et pure non sentiet eum homo, et vivet, nisi forte ca sensuum parte, quae corporis nescit angustias, nec defectum tetnporis sentit, sed vivacitatc sui, cx gratia permanet in aetemum. Charitate1n loquor, quac non evacuatur, sed proficit, quando ad eun1, quem desideral, familiarius accedit» (/.c.). 54


Teologia e politica nel Policraticus di Giovanni di Salisbury

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«Colui che non può essere chiara1nente colto dai sensi, non può essere facihnente conosciuto; e poiché non Lo si conosce, non Lo si può convenienten1ente adorare, se non.attraverso un mezzo» 56 .

Questo mezzo è costituito, per Giovanni di Salisbury, dal sentimento e dalle buone opere. Solo col sentimento di amore l'uomo coglie Dio direttamente, «anche se è impossibile comprenderlo in lutla la sua pienezza con l'ausilio di un qualche senso corporeo o anche dell'anima, finché essa vaga lontana dal Signore e la niente è schiacciata dal. peso del corpo; e certo quanto più ardentemente si ama Dio e quanto più diligentemente Lo si ricerca, quanto più la profondità e l'iinmensità della Sua ricchezza, potenza e sapienza superano ogni capacità di comprensione. D'altra parte Egli circonda, penetra, colma e protegge a tal punto ogni creatura che a nessuna, fra quelle razionali può risultare del tutto ignoto; e le stesse creature irrazionali, atlraverso una moltitudine di indizi, rendono testi1nonianza della sua esistenza, della Sua natura e della Sua grandezza. Così, in modo mirabile, Egli si manifesta 1nentre si nasconde, e si nasconde 1nentre si 1nanifesta; e secondo la 1nisura della sua benevolenza, opera in ogni individuo in 1nodo tale che anche se con l'essenza rie1npie tutte le creature in 1nodo uniforme, pur non essendo suscettibile di alcun incremento o decremento, sembra essere più presente in alcune e 1neno in altre con la Grazia. Infatti sappia1no per fede che Egli è in completa unione solo con l'Unigenito Figlio della Vergine; e così ora Egli è uno in ogni uomo, ma - come sta scritto - sarà tullo in tutti i suoi eletti (cfr. 1 Cor 15, 28)» 57 .

56 «Qui vero nullo potest sensu perspicue videri, facile nequit agnosci. Quod autem non agnoscitur, diligenter coli non polest, nisi per mediun1» (I.e.: PL 199, 541

s.) 57 «Colitur ergo Deus, aut affectu n1entis aut exhibitione operis. Sed affectus delectionis ipsu1n pure attingit, licet aliquo sensu corporis vel aniinae, dum peregrinatur a Domino, et mens mole corporis praegravatur, plene nequeat con1prehendi; et certe eo amalur ardentius, et studiosius quaeritur, quo altitudo et immensitas divitiarum potentiae et sapientiae suae 01nnem exsuperat intellectum: virtute tamen tanta omne1n creaturam circumit, penetrat, implet et protegit, ut nequaquan1 latere valeat quan1libet rationabilem craturatn. lpsa quoque irrationabilia ipsum esse, et talem esse, et tantutn, plurimis indiciis protcstantur. Miro itaque modo sic intelligentiam sui infundit, ut subtrahat sic subtrahit, ut infundat, et secundum


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Maurizio Aliotta

Questi motivi neoplatonici ritornano quando l'autore afferma la possibilità dell'unione diretta dell'anima con Dio, senza intermediari: «Tuttavia, benché sia in qualche 1nodo anche negli altri uomini, la Divinità non vi è mai nella Sua pienezza, pur non potendosi celare del tutto. Essa dunque si manifesta meravigliosa nella maestà, venerabile nella sapienza, degna d'amore nella bontà: e la creatura fedele può adorarla senza bisogno di alcun intermediario. Che cosa è più necessario a tal fine del nostro timore, della nostra venerazione e del nostro a1nore per Dio? Proprio questo è forse il significato della fune a triplice intreccio tesa tra Creatore e creatura, fune che non può essere sciolla facilmente [cfr. Ecc le. 4, 12}. Il legame più solido, comunque, è la forza dell'an1ore: inìatti la carità non viene mai meno. Se un uomo si accosta a Dio nella carità, si unisce a Lui e con Lui forma un solo Spirito; e chi Gli è unito in modo da formare un solo spirito, diviene un servitore della Sua casa e non può esitnersi da quell'obbedienza che è nello spirito. Ma il culto che consiste nella manifestazione delle opere esteriori richiede un intermediario, poiché con il corpo non abbia1no accesso allo spirito, come è chiaramente insegnato da Colui che, incontrata la samaritana, disse ad edificazione del1a Chiesa: Dio è Spirito, e quanti lo vogliono adorare devono adorarlo in spirito e verità (Gv 4, 24)»58.

1nensura1n beneplaciti sui sic operatur in singulis, ut cum intensionis et remissionis vices ignoret, etsi non per essentiam, qua omnem replet unifonniter creaturan1, plus vel n1inus videatur inesse per graliam. Na1n per unionem in solo unigenito Virginis Filio esse fideliter approbatur. Est itaque nunc quasi singula in singulis futurus, ut scriptum est, omnia in omnibus electis» (!.c.: PL 199, 542 Be) fl 13]. Nonostante chartriani e vittorini si ispirino a platonismi diversi, questa concezione neoplatonica acco1nuna Giovanni di Salisbury a Ugo di San Vittore, che affermava: «Due immagini erano state proposte all'uomo, nelle quali avrebbe potuto vedere le cose invisibili: l'immagine del1a natura e quella della grazia. L'i1nmagine della natura era l'aspetto di questo mondo, I'iinmagine della grazia era invece l'umanità del Verbo. E in entratnbe Dio si mostrava, ma non in entrambe si faceva comprendere, poiché la natura con il suo aspetto ha sì mostrato che esiste un artefice, 1na non ha potuto illuminare gli occhi di chi la conten1pla. L'umanità del Salvatore fu invece la tnedicina mediante la quale i ciechi poterono ricevere la luce e, insie1nc, l'insegnainento che ha permesso loro, una volta riacquistata la vista, di riconoscere la verità» (Expositio in Hierarchian1 coe/esten1, I, 1: PL 175, 926b). 58 «In aliis vero et.si adsit Divinitatis praesentia, plenitudo ejus in praesenti nequaquam adest, sed usquequaque latere non potest. Est igitur in majestate mirabilis, venerabilis in sapientia, a bonitate amabilis, et hunc cultum citra omnem medietatem potesl ei fidelis iinpendere creatura. Quid enim necesse est ad hoc ut eum timeamus,


Teologia e politica nel Policraticus di Giovanni di Salisbury

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Le virtù teologali sono legate a questa esperienza-conoscenza di Dio, a cui d'altra parte sono ricondotte anche le cardinali. In questo senso natura e grazia non si contrappongono, ma la natura trova il suo "senso" e il suo valore nella grazia. Le virtù, cardinali e teologali, guidano l'uomo al retto vivere, poiché, come si è già detto, «mediante esse l'anima si sviluppa nella ricerca del bene e nell'avversione al male». Come orientamento della prassi, la natura della virtù è la moderazione: «ogni virtù consiste nella misura, ed è circoscritta entro precisi confini: chi li oltrepassa finisce fuori della retta via» 59 • In questo modo è chiaro che all'origine di ogni vizio c'è uno smodato amore di sé, che è innato, ma diviene colpevole quando supera i suoi limiti e prende il sopravvento 60 • Anche l'esagerato entusiasmo nell'esercizio delle virtù è deplorato da Giovanni e qui emerge il suo umanesimo chartriano: La Scrittura prosegue: Non piegherà né a deslra né a sinistra (Dt 17, 20). Piegare a destra significa insistere con troppo ardore nella virtù; significa oltrepassare i limiti della moderazione nelle opere della virtù, la cui essenza consiste proprio nella n1oderazìone. Ogni venereinur et diligan1us? Et hic forte est funiculus triplex inter Creatore1n et creaturam, qui facile solvi non potest. Sed omniu1n tenacissin1a est vis amoris. Charitas siquidem nunquam excidit, quae si quis adhaeret Deo, unitur ei, et cum eo unus spiritus est. Utique qui unitur ei, et sicut unus spiritu.•;, sic fatniliaris est, et ab obsequio ejus quod est in spiritu, arceri non potest. Ille aute1n cultus, qui in exterioris operis exhibitione consistit, medio indiget, eo quod ad spiritu1n, corporalis nobis non patet accessus: quod et illum planum est docuisse, qui in Samaritana Ecclesiain instruens, ait: Spiritus est Deus, et eos qui volunt adorare, in !ipiritu et veritate oportet adorare (Joan IV) » (I.e.: PL 199, 543 Co) (115]. Sull'interpretazione di Eccle 4, 12, cfr. RICCARDO DI SAN VITTORE, De quattuor gradibus vio!entae charitatis, V, : «Ma che cosa sono i lacci di Adatno, primo padre nostro se non i doni di Dio? I beni della natura, della grazia e della gloria. Con questi legami d'amore Dio vincolò a sé l'uo1no e lo rese debitore del bene ricevuto. Dio creò la natura, accordò la_ grazia, pro1nise la gloria. Ecco la triplice fune (Eccle 4, 12]: i doni della creazione, i beni della giustificazione, i premi della glorificazione» PL 196, 1208). Riccardo interpreta la fune come "lega111e d'amore'', specificandolo nei doni di "natura'', "grazia" e "gloria" che Dio fa all'uomo. Se non vi è dipendenza letterale tra i due testi, Giovanni poté ccrtainente condividere questa visione unitaria di antropologia (natura) e teologia (grazia e gloria). 59 «01nnis eni1n virtus suis finibus limitatur, et in modo consistit. Si excesseris, in invio es, et non in via» Ubid. III, 3: PL 199, 480 D) f41]. 60 Giovanni si muove nel solco della tradizione dei padri greci, secondo cui l'irragionevole amore di sé (la phylautia) è l'origine di tutti i vizi; cfr. I. HAUSHERR, Phi/autie, (Orientalia Christiana Analecta, 137), PIO, Roma 1952.


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Maurizio Aliotta esagerato enlusias1no è nemico della salute, ed ogni eccesso conduce al peccato: non vi è nulla di peggio di una spropositata pratica delle buone opere» 61 .

Su queste basi si tratteggiano le figure del principe e del tiranno e s1 dettano le regole del retto uso del potere e del governo della cosa pubblica.

61 «Sequitur: Neque dec/ine! in parten1 dextra111, ve! shdstran1 (Deut XVII). Ad dextram declinare est, virtutibus ipsis vehementer insistere. Ad dextra1n declinare est, in virtutis operibus guae in modo consistit, modutn excedere. On1nis vero vehementia saluti ini1nica est, et excessus omnis in culpa; bonarutnque rerurn consuetudo ni1nia, pessin1a est» (Po/icraticus IV, 9: PL 199, 531 C) {891.


COMME LE LEVAIN DANS LA PÀTE. UNA VIE CONTEMPLATIVE VÉCUE AU MILIEU DU MONDE: PETITE SOEUR MAGDELEINE DE JÉSUS

CHIARA VASCIAVEO'

«Esistono delle persone la cui vita è come un "riassunto" di ciò che è la Chiesa del loro tempo: così la vita di p.s. Magdeleine. Lo spirito ha tessuto questa opera ... a noi ritrovarne i fili»'. Con queste parole di p.s. Jeanne de Jésus (co1npagna dai primissitni annj della fondazione delle Piccole Sorelle e seconda superiora generale della fraternità) credo sia importante iniziare questa breve relazione su p.s. Magdeleine e sul nuovo modello di vita contemplativo da lei inaugurato, traendolo da un più ampio studio intorno ai suoi scritti compresi nel periodo 1939-1949 dall'omonimo titolo'. Trattandosi di un lavoro introduttivo in grande carenza di materiale integralmente pubblicato, ho privilegiato con una certa ampiezza una lettura immediata delle fonti disponibili, in relazione ad alcuni nuclei tematici principali, esaminando in forma preferer,iziale il materiale riportabile al decennio 1939-1949, nel cui ambito p.s. Magdeleine svolse il suo noviziato canonico e fu superiora generale della sua fraternità. Ho generahnente utilizzato una lettura sincronica dei testi, tranne nei casi

* Licenziata in Teologia n1orale. 1

P.S. JEANNE DE JÉSUS, Conversazione con l'autrice, testo stenografato,

Roma 28.12.91/5.1.92,4. 2

Studio difeso co1ne Tesi di Licenza in Teologia Morale dell'autrice, presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Chiara Vasciaveo

in cui le fonti permettono attendibilmente una ricostruzione diacronica del suo pensiero. Considerando il fatto che meno di un cinquantennio ci separa dagli ultimi anni dell'arco storico esaminato, va precisato con cura che è stato possibile consultare e pubblicare solo il materiale giudicato idoneo dalle piccole sorelle incaricate di seguire il mio lavoro , e da p. Voillaume.

I. Alcuni cenni biografici Elisabeth Magdeleine Hutin (Parigi 26.4.1898 - Roma 6.11.1989), nata da una famiglia della borghesia francese, ecclesialmente impegnata, circa nel 1925 3 venne in contatto con la biografia dell'eremita sahariano Charles de Foucauld redatta da R. Bazin.: «Magdaleine allora pensava soltanto ad una piccola comunità di sorelle nomadi che avrebbero vissuto parte dell'anno sotto la tenda spostandosi con il gregge. Ed era proprio questo voler vivere con la gente del deserto, come loro, che la distingueva dalle comunità religiose già esistenti che a quei tempi, seguivano da vicino le regole e le direttive scritte da frate! Carlo tra il 1899 e il 1903, quando pensava ad una forma di vita in stile monastico. Magdeleine si riconosceva piuttosto in ciò che fr. Carlo aveva vissuto nell'ultimo periodo della sua vita, il più lungo ( 1905-1916), quando, ollrepassando tutte le regole elaborate da lui stesso, aveva messo da parte ogni separazione visibile, e questo per stare accanto ai Tuareg, nel profondo sud del Sahara, rendendosi accessibile, come un amico e un fratello. Era in questo stile di vita che p.s. Magdeleine riconosceva il senso autentico del mistero di Nazareth, della "vita nascosta", e, più radicalmente, il

3

C. VASCIAVEO, Conune le !evain dans la piile. Una vie conten!J>lative vécue eu n1ilieu du n1onde: petite soeur Magdaleine de Jésus, Tesi di Licenza in Teologia Morale, Studio Teologico S. Paolo, pro 111anuscripto, Catania 1992, 13.


Comme le levain dans la pate ...

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mistero di un Dio nascosto nella carne di un uomo, e perciò unito ad ogni uomo e a tutti gli uomini» 4 • La lettura del testo del Bazin pose nel cuore di p.s. Magdeleine !"'impossibile" sogno di una vita contemplativa vissuta tra la gente e a poco serviva il fatto che non vedeva tale modello realizzato in nessuna delle forme di vita offertele dalla Chiesa del suo tempo. Rispondendo ad un'intervista così riportava il suo stato d'animo dell'epoca: «Frère Charles de Jésus incarnait pour moi tout ce que m'avait inculqué rnon père dans son amour pour les musuhnans, comme le racontenl les premières pages de l'historique. Mais lcs congrégations dc cettc époque, toutes très adrnirables, ne me scmblaient pas faites pour moi qui rèvais d'une vie toute si1nple mélée à lous mais vécue dans l'intimité du Seigneur tout au long de la journée, non seulcmcnt dans la prière mais aussi dans le travail et !es contacts quotidiens [ ... ] une vie contemplative au n1ilieu du n1onde comine nous disons aujounl'hui pour nous définir. Dans toutes !es congrégations à ce moment-là, il y avaìt des règJes sévères dc clòture: une religieuse ne devait sortir que rarement de son couvent et eile ne pouvail pas sortir seule, surlout ici à Rome. La règle de St. Auguslin à laquelle s'etaient rattachécs la plupart des congrégations recommandait aux religieuses de marcher dans la rue Ics yeux baissés, par modestie. Je cherchais quelque chose de plus libre ... de la libc1té dcs cnfants de Dieu, pas pour secoucr le joug de J'obéissance ... Mais ce que je detnandais paraissait une vraie révolution alors que je trouvais celà dans les écrits du Frère Charles qui le présentait com1ne une iinitation de la vie de Jésus dans la 1naison de Nazareth et sur les routcs dc sa vie publique. Où trouver un meilleur rnodèle d'une vie contemplative vécue au milieu du monde?» 5 •

Solo all'età di circa quarant'anni tali progetti sarebbero passati dal desiderio alla fase di realizzazione, giungendo 1'8 settembre del

4 P. S. ANNUNZIATA, Piccola Sorella Magdeleine di Gesù (26.4.1898 6.11.1989) e la fondazione delle Piccole Sorelle di Gesù, in Vita Consacrata 27 (1991) 776-787. 5 J.M. MERLINI - J. P. ROSA, Une coeur de perite soeur, in Nouvelle Cité 246 (1983) 23-25, tr.it. Città nuova 13 (1983) 36.


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1939 a professare nella cappella delle suore bianche a St. Charles Birmandreis, presso Algeri, nelle mani di un delegato di mons. Nouet (prefetto del Sahara), e divenendo la prima "piccola sorella di Gesù e di frate! Carlo". Alla sua morte, nel 1989, le piccole sorelle presenti in tutto il mondo avevano superato abbondandcmente il migliaio.

2. La Chiesa cattolica dinanzi a nuovi problemi Cercare di comprendere le radici e le motivazioni che portarono p.s. Magdeleine a maturare una simile esigenza, significa anche fare un cenno ai mutamenti epocali in cui si trovava la società di inizio secolo. L'esperienza vocazionale di p.s. Magdeleine si distende nel mondo francese compreso tra le due guerre mondiali, nell'impatto quindi col marxismo, con la Rerum Novarum (1891) di Leone XIII pone a tema la questione sociale, poi seguita con attenzione da Pio Xl e Pio XII. L'industrializzazione portava al superamento di una civiltà prevalentemente agricola e provinciale favorendo il concentrarsi in sempre più grandi agglomerati urbani di coloro che diventavano come "forza lavoro" lo strumento primo dello "sviluppo" liberalcapitalistico. Problemi inediti tale svolta poneva alla pastorale e all'intero cattolicesimo caratterizzalo e sostenuto da una struttura patriarcale e rurale piuttosto che operaia e cittadina. Problemi che, forse, solo oggi, co1ninciano ad essere considerati in una for1na più riflessa e sisten1atica6. All'interno della Chiesa un movimento di vaste proporzioni, non tanto sul piano numerico quanto su quello dell'opinione e della

6 J. COMBLIN, Teologia def!a città, Cittadella, Assisi 1971, 15-45; Io.,Notas a propòsiro de IJ;reja e societate urbano, Istituto Nacional de Pastoral CNBB, Brasilia

1989.


Comme le levain dans la pdte ...

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reazione causata, fu costituito dal modernismo'. La frattura che si consumò tra cultura cattolica e mondo laico è di portata difficilmente quantificabile. Basti ricordare alcune affermazioni del Martina al proposito: «Una delle conseguenze più gravi della reazione modernista fu il ritardo degli studi ecclesiastici [ ... ], la mancanza di un'autentica cultura cattolica nel mondo laico, almeno in Italia, dove più forte fu la incidenza del movimento integrista, una certa chiusura ed intolleranza dei cattolici più fedeli al magistero ecclesiastico verso gli aspetti positivi della società contemporanea» 8 . E infine fu nel periodo compreso tra le due guerre mondiali che maturò una generale svolta autoritaria e nazionalista che interessando principalmente l'Europa (Germania, Spagna e Italia in particolare) pose le basi del secondo conflitto mondiale. Con i movimenti di destra di marca nazionalista il rapporto del mondo ecclesiale non fu per tutti e immediatamente lineare. L'apparente difesa dei valori tradizionali e, tra questi, di quello religioso fu uno dei motivi di un iniziale atteggiamento benevolo e della gerarchia e della base ecclesiale verso di essi. Si pensi in Francia, al caso Maurras e della sua "Action Francaise" sostenuta addirittura da cardinali (de Cabrières, Sevin e Billot) e guardata con una certa simpatia da Pio X, che nel volgere di pochi anni, poi, sotto il pontificato di Pio XI, conobbe una clamorosa condanna ( 1926) con la rinuncia alla porpora cardinalizia da parte del card. Billot9 • Da questa società in profonda mutazione la Chiesa e i battezzati furono interpellati. Un'intera struttura "culturale" nella catastrofe del secondo conflitto mondiale sarebbe andata eclissandosi. La società rurale di marca patriarcale che aveva sostenuto per secoli un cattolicis1no "d'ambiente", esprimendosi in strutture rituali omogenee tra vita dell'individuo e vita di gruppo, si sfaldava. La societas perfecta

7

Cfr. G. MARTINA,

La Chiesa nell'età dell'assolutismo, del liheralisn10, del

totalitaris1110, Morcelliana, Brescia 1987, 6. 62-81. 8

9

lbid., 78. lbid., 102-104.


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ecclesiale, saldamente arroccata su un modello societario monarchico ed elitario nel suo vertice, con l'intera società, risentiva di tali assestamenti. Ma, una volta di più, nel profondo della crisi germi di novità andavano maturando e insieme ad essi una nuova proposta di Chiesa e di vita religiosa.

2.1 La Chiesa di Francia agli inizi del secolo Per quanto riguarda più direttamente l'ambiente ecclesiale in cui p.s. Magdeleine maturò le sue scelte, occon-e ricordare come dopo la denuncia da parte dello Stato francese del coucordalo nel 1905, tra Vaticano e Francia normali relazioni diplomatiche furono ripristinate solo nel 1921, e in funzione di ciò furono intavolate trattative per le questioni economiche lasciate in sospeso dagli espropri del 1905 '"· La Chiesa francese dei primi decenni del secolo era, quindi, una Chiesa in situazione di stentata tolleranza da parte dei governi laicisti, economicamente fragile, e forse proprio per questo, terreno opportuno per la maturazione di nuovi tentativi di dialogo col "mondo".

Molteplici iniziative si impegnavano nella ricerca di un dialogo con il mondo del lavoro: si pensi alla nascita della Joc intorno al 1927; l'impegno dei Prètres du Pardo a Lione con mons. Ance!, impegnalo in una calzoleria per molti anni"; la Mission de France promossa dai vescovi francesi nel 1942 e la Mission de Paris del card. Suhard nel 1943 12 ; le èquipes di Madeleine Delbrèl a partire da Ivry nel 1933' 3 ; l'esperienza a Marsiglia di p. Loew nell'istituto secolare

10

H. JEDIN, La Chiesa cattolica in Francia, in La Chiesa nel venteshno secolo 1914 - 1975 ::::diretta da H. Jedin, Storia de!!a Chiesa, Xli, Jaca Book, Milano 1980,

543-559. 11

A. ANCEL,

Preti per il Vangelo. La Cldesa a servizio dei poveri,

A.Y.E.,

Roma 1988. 5-17. 12

M. GuASCO, E111111an11el

Stuhant arcivescovo di Par(r;i, in AA.VV., I

Ca!fo!ici nel Mondo Conte111poraneo (1922-1958) =Storia della Chiesa, fondata da A. FLICHE e V. MARTIN, XXIII, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991, 289-298. 13 C. DE BOISMARMIN, Made/ai ne De!bré! Strade di cillà. Sentieri di Dio, Città Nuova, Roma 1988, in particolare 7-10; 39-78; 102-140.


Camme le levain dans la péìte,,,

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.....................

"S, Paolo" che vedeva laici e preti coinvolti nella condivisione del lavoro operaio 14. Sn un altro versante, non meno importante, altri francesi della statura di E. Gilson, J, Maritain, G. Marce!, L Massignon, T. de Chardin, erano al lavoro per stabilire un confronto costruttivo con la cultura. Le interpellanze e anche le resistenze che il "mondo moderno" opponeva al messaggio evangelico, sollecitarono non pochi teologi ad un ripensamento profondo delle questioni base della teologia sistematica, con un duplice movimento di ritorno alle fonti (bibliche e patristiche) da una parte, e, dall'altra, ad un ripensamento della vitalità della rivelazione nell'orizzonte della storia, Queste esigenze si concretizzano, tra l'altro, nei lavori del gruppo della nouvelle théologie nel quale collaborarono alcuni dei futuri protagonisti del Concilio Vaticano II, quali H. de Lubac, J, Daniélou, Y Congar", Se Pio X vedeva i laici quali "ausiliari del clero", con Pio XI «la partecipazione dei laici all'apostolato gerarchico>> 16 fu non solo auspicata ma anche teologicamente espressa nell'attività dell'Azione Cattolica, Tale opzione e le sue evoluzioni, resero indispensabile una riflessione dottrinale che ponesse a tema il rapporto Vangelo- mondo, e proprio a tale campo si dedicarono con particolare impegno autori francesi come Maritain, Congar e Mounier che con i loro studi, anche per il rilevante influsso che ebbero sul futuro papa Montini, prepararono la strada per una rielaborazione globale della relazione della Chiesa con il mondo contemporaneo che confluirà poi nella Gaudium et Spes 17 ,

14 E. lSERLOH, Movi111enti interni alla Chiesa e loro spiritualità, in AA.VV., La Chiesa nel XX secolo 1914-1975, cit., 236-273. 15 L. SCHEFFCZYK, Lh1ean1enti fondamenta/i dello sviluppo della Teologia tra la pri111a guerra 1nondia/e e il Concilio Vaticano Il, in ibid., 198-235. 16 Cfr. PIOXJ, Lettera al card. A. Bertra111, AAs 20, 1928, 384-387. 17 R. AUBERT, Il nlezzo secolo che ha preparato il Vat. II, in R. AUBERTJ.HAJJAR-J. BRULS, La Chiesa nel 1nondo nioderno =Nuova Storia della Chiesa, 5/II, Marietti, Torino 1979, 11-134 in particolare 111-127.


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Pure se p.s. Magdeleine non conosceva, probabilmente, di persona, che qualcuno dei protagonisti citati", è innegabile che nel suo travaglio vocazionale sia stata più che mai figlia della sua Francia e di questa Chiesa francese. Non è casuale ciò che scriveva nella sua prima lettera a Pio XII chiedendo di «benedire lo spirito e le formule nuove» della sua congregazione «che non sono altro che quelle dell'Azione Cattolica applicate alla vita religiosa missionaria: essere in ogni ambiente il lievito che si perde nella pasta per farla Iievitare» 19 .

Credo che questa affermazione, che presuppone una antropologia e un'ecclesiologia sorprendentemente conciliare, sia di particolare rilievo per collocare il carisma di p.s. Magdeleine. Per scelta in questa relazione non saranno che riportate alcune delle tematiche presenti nei suoi scritti, in particolare, in riferimento alla sua fondazione cristologica, i caratteri della sua nuova concezione di vita contempìaliva.

3.1 «Camme Jésus»: l'evangelismo di fondo «La vita nello Spirito di Charles de Foucauld sembra rispondere, al massimo grado, alle esigenze di una spiritualità dell'imitazione nella sua espressione più lineare [ ... ]. Charles de Foucauld non ha teorizzato nessuna via spirituale nuova. Se, di fatto, ha innovato, nelle

rn Ricordo che p.s. Magdeleine è a Parigi ripetutamente nel 1943 e 1944, dove ebbe contatti con il card. Suhard (P. S. MAGDELEINE DE JÉSUS, Du Sahara au 111011dc entier, Nouvelle Cité, Paris 1982, tr. it. Città Nuova, R_o1na 1983, 122-126). Ne nacque una vera amicizia di cui è testimone, tra l'altro, il fatto che il segretario del cardinale, p. Lesourd, è attualmente ancora ospite della casa madre delle Piccole Sorelle al Tubert. 19 P.S. MAGDELEINE DE }ÉSUS, Lettres 1936-1950, stampato in proprio (ad uso interno), Ro111a 1984, 14.12.1944, 232-233 (d'ora in poi L).


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sue intenzioni non rileviamo altro che un progetto essenziale e monolitico: imitare il Cristo. li miglior riflesso della sua ricerca è dato dall'opuscoletto in cui ha raccolto alcuni testi evangelici sotto il titolo di Modello unico. Il titolo stesso e l'esergo («Il servitore non è più grande del suo Maestro; è perfetto se è simile al suo Maestro ... Seguitemi!») riassumono tutta la sua "dottrina" spirituale[ ... ]. Con le parole e con la pratica Charles de Foucauld si è situato inequivocabilmente in quel filone di spiritualità cristiana che può essere sommariamente designato come "imitazione di Cristo". Esso è collegato organicamente con lo sviluppo della devozione all'umanità di Cristo, di origine medievale. li movimento francescano è stato la sua culla e Francesco D'Assisi il suo frutto ineguagliato»'°. Credo che questo lucido testo di S. Spisanti riesca con pochi tratti ad introdurci nel vivo non solo del carattere dell'esperienza spirituale di frate! Carlo, a cui direttamente si riferisce, ma anche nel vissuto di colei che di frate! Carlo tante volte si è detta "figlia" ossia p.s. Magdeleine. Nel grande manifesto che p.s. K1agdaleine lasciava in tutte le fraternità fondate da lei fino al 1949 21 , sull'esempio di frate! Carlo, l'insistente comme J ésus diviene quasi una litania che postula, ben inteso, non tanto una devozione tra le altre, quanto dei concreti atteggiamenti che, animati da tale afflato evangelico, si esprimano nella liturgia della vita quotidiana. Privilegiando un'abbondante lettura immediata dei testi del primo decennio della fondazione, servendomi come guida proprio dei passaggi centrali del predetto manifesto, vorrei, quindi, esaminare in questo capitolo più da vicino, il tema cristologico e la sua ricaduta nella risposta esistenziale presenti nell'esperienza di p.s. Magdeleine.

20

S. SPISANTI, Modelli spirituali, in Nos, 1001-1030, in particolare 1013-

21

C. VASCIAVEO, op. cit., Allegato n.1,152.

1014.


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3.2 A causa di Gesù e del suo Vangelo Il Vangelo sine glossa che p.s. Magdeleine vede realizzato nella vita di frate! Carlo rimanda ad un "modello unico''. Così ella ne parla nel Bv. «Le Petil Frère Charles dc Jésus n'a ouvert aucune voie nouvelle, si ce n'est la voie unique, la voie Jésus. Il a choisi un Modèle Unique: Jésus - un seul Chef, un seul Maitre: Jésus. Il te <lira de n'avoir qu'une pcnsée, un amour, un désir: Jésus. Il te dira qu'une seule chose est nécessaire: aimer Jésus. [ ... J, Sur ses lèvres, sous sa plumc, il y a un mot unique qui revient sans cesse, parce qu'il y a un erre unique qui a envahi toute son fimc et qui est dcvenu son unique passion: Jésus - .Jésus - Caritas Jésus - Arnour. Et c'est le grand secret de sa sainteté. C'est ce qui explique toutc la fécondité de son oeuvre. C'est ce qui lui donne un tel rayonnement, une telle personnalité. Pour comprendre totale1nent Frère Charles de Jésus, il faut l'oublier lui, pour ne voir que Jésus qui transparaìt à lravers lui. Sa règle, c'est essentielle1nent l'Evangile, c'est le sermon sur la montagne [ .. J. «Ta règle: me suivre ... Faire ce que je ferais. Demande-toi en toute chosc: «Qu'aurait fail Notre-Seigneur?» et fais-le. C'est ta seule règle, mais c'esl la règle absoluc (Frère Charles de Jésus, Ecrits spirituels, p. 171 )» 22 •

La persona di Gesù così come ci è donata nei vangeli risulta al centro di tutto il progetto di vita che p.s. Magdeleine propone innanzi tutto a se stessa e quiudi alle sue sorelle, ma questa lettura sarebbe incompleta se non ricordassimo che le fonti dell'"imitazione" di Cristo, come per frate! Carlo, sono per p.s. Magdeleine il Vangelo e l'Eucaristia. Ciò detto, non va peraltro escluso il ruolo che il movimento biblico, particolarmente attraverso la persona di p. Monier

22 P.S. MAGDELEINE DEJÉSUS, La fraternité des petites soeurs de Jésus (dufrère Charles de Foucauld) (= Bulletin vert), stampato in proprio, Aix - en - Provence 1952, tr. it. Milano 1957, 28-31 (d'ora in poi Bv).


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s.j. 23 possa aver avuto per p.s. M. nel recupero della centralità della Parola a fondamento e dell'esperienza dogmatica e dell'esperienza spirituale. Leggiamo in sinossi i testi delle due costituzioni sottolineando il progressivo sforzo di sintesi che converge nella centralità prima di Cristo e poi della sua imitazione (si guardi al diverso numero di paragrafo nelle due redazioni): (Costituzioni 1939 redazione A) «La Personne de Jésus 115. Jésus, dans l'Evangile, sera pour les Petites Socurs le Livre vivant, substantiel. Il sera leur voie uniquc, lcur seul Maitre, leur intin1e A1ni. 117. Elles le feront vivre en elles et autour d'elles, parlant dc Lui avec amour conune d'un ètre vivant et tout proche, tenant la première place dans leur vie et dans leur coeur s'efforçant de disparaìtre pour le laisser parler et agir en elles son coeur et sa volonté à Lui» 24 • Une présence de leur Bien-Aimé Frère et Seigneur Jésus. Elles en (Costituzioni 1939 redazione C) «5 Leur méthode d'apostolat est résu1née dans la parabole évangélique du levain n1élé à la ptìte; 1néthode de pénétration profonde des populations tnusulrnanes par la confonnité de vie l'Anlitié, l'An1our. 6 Leur formule est celle de .lésus, vivant a1 ec an1our su vie lnunainei> 25 • (Costituzioni 1946) «3 Leur Modèle unique est Jésus Elles l'irniteront non sculctncnt dens Sa vie cachée à Nazareth toutc dc prière, de silence, de pauvreté et de travail, sous le regard de la Vierge Marie Sa Mère, mais aussi dans Sa vie da charité fraternelle et de zéle, totale1nent livrée au service de tous. 4 Leur vie cntièrcrncnt centrée sur Jésus, présent et vivant dans l'Eucharistie et dans l'Evangile est une vie conte1nplalive 1

23 Vd. C. VASCTAVEO, op. cii., 43 24 P. S. MAGDELEINE DEJÉSUS, Constitutions

des Petites Soeurs de Jésus, St. Charles - Bimrnndreis (Alger) 1938 - 1939. li B/Ch. 2/ par. 115.117/42 (d'ora in poi e 1939). 25 C 1939 l/Ch. I/par. 5-6/16.


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Chiara Vasciaveo apostolique. Leur apostolat devant ètre le débordement de leur vie contemplative et leur contemplation trouvant dans ce débordement toute sa plénitude et tout son épanouissement. (Cf. Art. 6 et 123)» 26 .

La centralità, anche culturale del Vangelo per p.s. Magdcleine (secondo i progetti di frate! Carlo) emerge anche dalla sua collocazione nella cappella, ed è notevole notare come, evidentemente, essendo risultata troppo ardita la sua proposta di "presenza reale" nella Parola, il testo del 1946 la fa precedere da un prudenziale "come"! (Costituzioni 1939) «L'Evangile 109. Après le Tabernache, les Petites Soeurs n'auront rien de plus cher que l'Evangile où ellcs retrouveront aussi la Présence de Jésus. 114. Et sortout, elles s'efforceront d'ètre par leur vie évangélique une prédication vivante, un Evangile en action» 27 . (Costituzioni 1946) «3 - L'Evangilc 135. Les Petitesd Soeurs n'auront, aprés le Tabernacle rien de plus cher et de plus sacré que l'Evangilc où elles trouveront comn1e une présence de lcur Bien-Ai1né Frère et Scigneur Jésus. Elles en feront la lumière de leur vie et s'en inspireront constan1ment, le lisant el le relisant sans cessc pur s'en itnprégner totalemenL 136. Elles cntoureront dc respect le livre des Evangiles qui sera toujours exposé dans le Sanctuaire, à gauche de l'autcl, sous les rauyons de la Lampe du Saint-Sacren1ent . Chaque jour un passagc en sera lu, à haute voix, à la chapelle. 137. Elles s'cfforceront surtoul, d'etre une prédication vivanle de l'Evangile, de le crier par toute leur vie» 28 .

26

P. S. MAGDELEINE DE JÉSUS, Directoire des Penti/es Soeurs de Jésus, St. Charles-Birmandreis (Alger) 1938 - 1939. par. 135-137/64 (d'ora in poi D 1939). 27 C 1939 II B/Ch .. I/par. 109.114/41-42. 28 P. S. MAGDELEINE DE JÉSUS, Constitutions des Petites Soeurs de Jésus, approuvé par Mgr de Provanchères, Aix - en - Provence 1946, par 135-137/64 (d'ora in poi e 1946).


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3.3 Camme Jésus Petit Enfant Il culto di Gesù Bambino è uno degli aspetti più carattenst1c1 della spiritualità cristocentrica ottocentesca. Questa devozione conosce un lungo itiuerario che dopo la fioritura medioevale francescana, perviene ad una ricca rinascita nella corrente berulliana della spiritualità francese secentesca", particolarmente ad opera di suor Maddalena di san Giuseppe Fontaines-Marans (1578-1637), carmelitana, prima priora francese dell'Incarnazione e discepola prediletta di Berulle 30 • L'interesse per questa linea spirituale non accennò a diminuire nel secolo successivo. Si pensi al fatto che l'opera del passionista italiano, Lorenzo Salvi (1782-1856) L'anima innamorata di Gesù Bambino raggiungeva la sua sesta edizione nel 1870 31 , formando così una base comune a tanti credenti, che l'avrebbero ritrovata con grande immediatezza negli scritti di Teresa Martin. Scritti, che usciti a fine secolo, pur se con discutibili metodi critici segneranno in profondità anche l'esperienza religiosa di p.s. Magdeleine. Non si tratta di una novità, allora, questa rilevanza attribuita da p.s. Magdeleine a Jésus Enfant, ma se questo va detto, inserendola nel suo contesto francese dei primi del '900, pure la sua lettura di tale dato tradizionale risulta avere particolari caratteristiche che proverò a lumeggiare. Così si esprime nel B v. «El par dessus tout dans un coeur d'enfant tu devras recevoir le tout petit Jésus de la Créche des mains de la Vierge Marie Sa Mére.

29

L. BORRJELLO - G. DELLA CROCE - B. SECONDIN, op. cit., 109-110. Cfr. anche L. Mezzadri, L'apogeo del rinnovamento della Chiesa, in L. BROVETTO - L. MEZZADRI - F. FERRARTO - P. RICCA, la spiritualità cristiana nell'età moderna ::::: Storia della spiritualità, V, Boria, Roma 1987, 81 - 198, in particolare 151-160. Il. DEVTLLE, La Scuola ji·ancese di spiritualità = Spiritualità, Ed. Paoline, C. Balsamo 1990, 40-44. 30 L. COGNET, la spiritualità 1noderna. la scuola francese. Periodo 1500-1650 = Storia della spiritualità cristiana, Vl/2, EDB, Bologna 1974, 184-191; 138-161. 31 L. BORRIELLO et alii, op. cit., 11 o.


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Chiara Vasciaveo Et ce sera le couronnement. .. Tu voulais offrir au Seigneur les résullats de tes entreprises, en arrivant à Lui tout heureuse, les mains plcines. Mais tu avais oublié de Le regarder, Lui, ton unique Modéle. il n'avait à te présenter que des mains percées par les colus de la croix, ou des 1nains rugueuses de travailleur, ou encore de petites mains si impuissantes dans une crèche ... [... 1 Et tu avais oublié de regarder avec assez d'amour la vie tout entière du Crist, celle qu'il avait co1nmencée à la crèche, son berceau, dans lequel il avait été un tout petit enfant, comme tous les autres enfants, pas un enfant extraordinaire ni un enfant prodige, mais un petit enfant comme tu as été, toi, sans aucun charme pendant les premières heures et les premiers jours, un petit enfant qui pleurait de froid sur la paille et qui s'était mis, par amour, dans cet état dc totale impuissance. Il a été d'abord cela, notre Dieu, et il vcut ètre comtemplé et adoré dans cct état, non seulen1ent par Ies pelits, mais aussi par les grand, puisqu'il a accepté l'adoration des bergers et des 1nages el qu'il les a n1è1ne conduits par une étoile devant ce tout petit sans grandeur et sans majesté» 32 .

Innanzi tutto, quindi la prima sfomatura su cui p.s. Magdeleine si sofferma nel caratterizzare la sua idea della centralità dell'infanzia di Cristo è la logica del donarsi di Dio all'uomo attraverso l'incredibile evento dell'incarnazione, attraverso il libero sì di una creatura umana, una donna, divenuta prima "apostola" di questa nuova meraviglia di Dio. Così, parlare per p.s. Magdeleine di attenzione per il «bambino del presepe», non significa primariamente richiamarsi ad un atteggiamento ascetico volontaristico, ma un fare esperienza della paternità di Dio, la cni passione per l'umanità è arrivata a voler coinvolgere nell'esistenza del Figlio quella di tutti i suoi figli, attraverso una dinamica che nella sua onnipotenza scende fino nella profondità della chenosi 33 •

32

Bv 33-35.

33 P. S. MAGDELEINE DEJÉsus,

L'enfance spirituelle et le niessage de la Crtche dans la spirfrualité des Petites Soeurs de Jésus, Roma 1960, 2.5-6. (d'ora in poi Is).


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Con opportuna preveggenza34 , p.s. Magdeleine nello stesso Bv tiene a precisare come, in qualche modo il mistero di Betlemme non sia da isolare in un fatto devozionale «Croyez-moi, ce n'est ni mièvre ni sentimental, cette dévotion-là. C'est la dévotion des grands saints» 35 , ma sia piuttosto una chiave che ci dà accesso all'interezza del mistero di Cristo che si estende dall'incarnazione alla risurrezione ed ascensione: «Alors maintenant, je voudrais que tu la rcgardes longuement, cetre Crèche, dans la lumière de l'étoile qui a guidé et éclairé les Mages et que tu en comprennes les leçons. laisse sourire ceux qui ne Ics comprennent pas encore. Ne leur présente surtout pas de la Créche un aspect qui Ics déconcerterait. elle a quelque chosc de si beau et de si grand, ceue Créche de Bethléem parce qu'elle contient le Christ tout entier, à la fois Dieu et homme et que, dans le prolonge1nent de ce berceau, il y a tout l'Atelic dc Nazareth et la Passion el la Croix et toute la Gloire de la Résu1Tection et du Ciel>> 36 .

Si tratta, in sintesi, di una visione del Signore bambino a Betlemme, che bandendo facili emotivismi, legge nell'evento dell'incarnazione la chiave di volta di un progetto di salvezza che si estende a tutta la vicenda storica di Ciisto fino al suo epilogo pasquale, e in questa logica trova non solo i motivi ma uno stile, un metodo di coinvolgimento, tanto semplice quanto radicale.

3.4 «Tu devra recevoir le tout petit Jésus de la Crèche des mains de la Vierge Marie sa Mère» Rivolgendosi alle sue sorelle p.s. Magdaleine affermava:

34 Si ricordi che uno dei punti su cui verterà la visila apostolica ( 1960~ 1964) sarà proprio l'interpretazione dell'infanzia spirituale (SJ 2). 35 L 15.2.42, 132-133. 36 Bv 36.


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Chiara Vasciaveo «La pratique de l'Enfance spirituelle proposée aux Petites Soeurs de Jésus présente celle nuance particulière de reposer essentiellement sur le Peti! Jésus de la Crèche reçu des mains de la Vierge Marie, Sa mère - tout petit, tout pauvre, tout itnpuissant. C'est ainsi d'ailleurs qu'est souvent présentée l'Enfance spirituelle: La parole de Saint Paul: La puissance de Dieu triomphc dans la faiblesse (li Cor. XVIII, 19) a inspiré un des mols d'ordre du Petit frère Charles de Jésus: La faiblesse des moyens hun1ains est une cause de forcc. Jésus est le Maitre de l'impossible [ .. . ]. Traverscr les frontières les plus fermées, sans courir le risque d'inquiéter personne pas plus q'un tout pelit n'inquiète Ics grands parce qu'ils n'ont à craindre ni son influencc, ni ses raisonnen1ents, ni ses jugernents sévères et que lui-1nème est si petit qu'il ne peut passe croire quelqu'un [ .. ]. Le premier message de Noel, c'est l'annonce de l'Ange aux bergers: 'Je vous annonce une grande joie. Il vous est né aujourd'hui un Sauveur qui est le Christ, le Seigneur. Et vous le reconnaìtrez à ce signe: Vous trouverez un enfant enveloppé dc langes et couché dans une crèche '[ ... ]. Co1n1nent trouver un n1eilleur moyen que celui choisì par Dicu Lui1nème puor faire connaìtre au monde la venue du Sauvcur? Le rnessage de Noel c'est aussi le n1ystère dc la Vierge qui donne son tout petit Jésus au monde comrne elle l'a donné aux bergers et aux 1nages. Le Petit Nouveau-né de Bethlécm apporte avec lui cette richessc sans n1esure qu'est le coeur de sa Mère dont il set inséparable - ce coeur de Mère que Dieu a donné à la Sainte Vierge non seulement pour le tout petit qu'elle à enfanté mais aussi pour tous Ics ho1nmes, ses frères à lui, qui sont ses enfants à elle. 'Je 1ne suis con1pléte1nent rcmis entrc vos bras co1n1ne un cnfant' disait le Petit Frère Charles de Jésus à la Ste Vierge. Et il la suppliait de le porter lui-méme comme elle portait son petit Jésus. Pour les Petites Soeurs, L'Enfance spirituelle prendra donc aussi cettc nuance particulière qu'elles devront etre de tout petits enfants entre les bras de la Stc Vierge. Elles auront à son égard cettc simplicité, ce tendrc abandon et cetre exigence du tout petit qui a besoin d'une ma1nan à son berceau et qui sait bien que jamais il ne pourra l'importuner en l'appelant à son secour. La Vìerge Marie sera pour !es Petiles Soeurs l'exe1nple le plus parfait de l'Enfancc évangélique. Elles pourront l'imiter à tous les


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àges de sa vie terrestre, dans la si1nplicité et l'humilité de son 3me tout abandonnée à la Volonté du Père. Par le n1ystère de la Visitation, elle leur apprcndra - à lravers une charité hu1nble et profondément humaine - comment faire rayonner Jésus invisiblement présent en elles. Pour micux comprendre le mystére du tout petit Nouveau-né de la Crèche, elles essayeront de le contempler et de l'aimer avec Ics yeux et le coeur de la Vierge. Et, camme il a déjà été <lit plus haut, c'est par elle que les Petites Soeurs le recevront pour le porter à travers le monde avec son message d'humble et confiant abandon, de simplicité et de paix, de douceur et de joic» 37

Pur essendo un testo redatto tardivamente (1960), dall'analisi di scritti ben precedenti di cui parte cercherò di presentare, ho ragionevoli motivi di critica interna per sostenere che il materiale originario su cui si elabora tale tematizzazione risalga addirittura ai primissimi tempi della scelta vocazionale di p.s. Magdeleine, an-ivando a caratterizzare con questa precisa opzione mariana, più 1nistica che òevozionaìe, a mio 111oàesto avviso, nu11 solo ìa sua percezione dell'"infanzia spirituale" ma anche lo spirito della nuova congregazione. La specifica sottolineatura del Bambino Gesù ricevuto dalle mani della vergine, la ritroviamo nel Bv. «t ... J Regarde la Crèche et ne t'arrete pas à l'aspect puéril de certaines reproduction. Cela, c'est la rançon de l'humain plaqué sur des réalités divincs. Qu'elle t'évoque sculcment, celte Crèche, Cclui qui est ton Dieu et qui t'appelle à Sa suite, à cet esprit d'enfance et d'abandon. Qu'avec Lui, tu aies, envers la Vicrge Marie, Sa Mère, ce tcndre abandon et cettc exigence du tout petit qui a besoin d'une n1aman à son berceau[ ... ]. «[ .. ] C'est à Elle, la médiatrice de toutes gr.3.ces, quc je te confie, toi aussi, en te demandant de recevoir da ses mains son tout petit Jésus, pour Le garder toujours avec toi et Le perter à travers le 1nondc, avec son message d'hu1nble et confiant abandon, de simplicité et dc pauvreté, de douceur et de paix, de joie et d'amour ...

37

Is 5-6. 8-9.


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Chiara Vasciaveo d'un amour universel, au-dessus des divisions de classes, de nations et de races, afin que règne entre les hommes l'Unité dans l'Amour du Seigneur. Veux-tu recevoir ce message qui enferme tout l'essentiel du message de Frère Charles de Jésus - tout l'essentiel de l'esprit de la fratcrnité des Petites Seurs de Jésus? C'est à ce signe que tu reconnaltre si le Seigneur Jésus t'appelle à devenir Sa Petite Soeur, à la suite de Frère Charles de Jésus t'appelle à devenir Sa Petitc Soeur, à la suite de Frère Charles de Jésus [ ... ]»38,

3.5. L'infanzia spirituale Particolarmente numerosi sono i testi di p.s. Magdeleine in riferimento a questo tema, rivelando una sua singolare rielaborazione di materiali derivati da frate! Carlo e Teresa di Gesù Bambino. Esistono richiami nelle lettere e nelle due prime versioni delle costituzioni, ma di particolare chiarezza risulta l'esposizione che ella ne fa nel direttorio che in tale occasione cito con una certa ampiezza: (relazione A) «Lcur spiritualité 18 Leur unique voie spirituelle est l'An1our se traduisant par: 19-1: Une donation totale à l'amour de Jésus dans un amour sans mesure de ferveur, de réparation et de conquete. 20-2: Un abandon absolu à la Volonté de Jésus par l'enfance spirituelle dans un amour de confiance et filiale tendresse. 21-3: La joie spirituelle dans l'an1our et dans la Croix de Jésus. Joie qu'elles rayonneront autour d'elles» 39 .

E ancora: (redazione A) «Enfance spirifl1e//e dans l'ahandon à /'an1our (Cit. Le 18,16; Mt 11,25: Mt 18,3; Cit. Fr. Charles de .lésus)

38 39

Bv 37-38. C 1939 1/ Ch.4/par. 18-21/21.


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La voie de l'enfance spirituelle est le cheim de la confiance et du total abandon. Cet abandon est le son1111et, le dernier mot de l'amour. C'est ma l'an1endit par tout l'ètre à tous les droits divins. Le fiat, plein d'amour à tous !es vouloin; divins, l'oubli complet de soi pour se livrer sans réserve à la toute Puissance et à la toute Bonté divine (Don Mannion) Jésus est le 111odèle pa1fait de ce tota/ ahandon. Il est venu sur la terre pour se livrer à la Volonlé de son Père: Ecce venio, ut facian1 Voluntatem tuan1 quand tout a été consum1né. Il s'est remis entre !es Mains de Son Père: In 1nanus tuas Domine, con1mendo spiritun1 111e11111 (S. Luc 23,26). L'abandon à l'amour suppose l'esprit d'enfance spirituelfe. C'est l'acre du tout peli! e11fant se jetant et s'abbandonant à tous les mouvements qu'elle voudra lui imprimer avec une co1rfiance que jamais aucunc mère n'a pu trahir. Et Jésus esl plus tendre que la plus tendre des n1ères Il ne peut pas avoir d'égal en tendresse [Nota nel testo: «(l) C'est la confiance, et rien que la confiancc qui nous conduira à l'amour (S.te Th. de l'Enf. Jésus)»1 et la tendressc dc la 1nère n'est qu'une lrés faible iinage de la tendresse de Jésus. Les Pctites Soeurs de Jésus s'efforceront de se faire toutes petites toute la hardiesse de petis enfants avec !eur père de petites soeurs aimantes avec un grand Frére Bien Aimé . .lésus a soif de tendresse et d'a111itié. Il fai! ses déices d'étre avec !es enfants des hon1mes (Prov 8) Elles le consoleront de la froideur indifférente de tant de grands par la simplìcité affectueuse de leur coeur d'enfant. Leur ainour sera tout pétri de confiance. Elles prendront le langage et l'audace des saints, il faut erre petit pour etre saint. Comment pourraicnt cllcs avoir peur de Jésus, de ce Maftre: si doux, sì bon, si co111patissant, si fan1ilier. li ne demande pas qu'on garde les distances avec Lui. Il den1ande seu/en1enl /'an1our.Lc grand respect c'est le grand An1our et le grand Amour, c'est la Confiance. Ils n'avaient pas peur, !es tout petits enfants de Galilée que !es Ap6tres voulaient écarter de Son passage et qu'Il rappelait pour !es caresser et pour les bénir. Aux bnu's petites il est donné de comprcndre ces nai'fs élans d'ainour. Et cette confiance d'enfant, ccl abandon à l'amour de Jésus devront bannir en les Petitcs Socur tout sentì111ent de crainteà la vue de leurs faiblesses. Jésus les connaìt a fond si clles sont un abime dc misèrcs; Lui, Il est un abin1e de bonté et de iniséricorde. lllcs aime sans illusions Il Jes a choisics gratuitement. Après chacune des leurs défaillances, elles ironl sans trouble commc de petites enfants se confier à l'An1our Miséricordieux de leur Frère si plein de


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Chiara Vasciaveo tendresse qui jamais ne se !assera de leur pardonner [Nota nel testo: «(2) Ce n'est pas parce que j'ai été preservée du péché morte! que je 1n'élève à Dieu par la confiance et par l'amour. Ah! je le sens, quand meme j'aurais sur la consciencc tous les crimes qui se peuvent commetre, je ne perdrais rien de ma confiance. J'irais le coeur brisé de repentir mc jeter dans Ies bras dc mon Sauveur, car jc sais à quoi m'en tenir sur son a1nour et sa miséricorde. Je sais que loute cette multitude d'offenses s'abime en un elio d'oeil com1ne une goutte d'eau jetée dans un brasier ardcnt (S.te Th. de l'Enf. Jésus)»] car. Pour les pelits, ils seront traiLés avec une extren1e douceur (Sap 6,7). [ ... ] Lcur n1ission essentie//e est de se donncr sans réserve à l'A111our dans le plus total abandon de l'enfance»40 .

La presenza delle citazioni esplicite di Teresina non è che un dato in più che convalida attraverso questi testi sia la conoscenza che p.s. Magdeleine aveva di quella che veniva indicata come "piccola via", sia ancor di più, una profonda convergenza spirituale fra di loro in un cammino che vede protagonista non certo un'ascesi volontaristica centrata sulla creatura umana, quanto su una libera e attiva consegna di questa alla fedeltà del Padre, la cui tenerezza suprema è quella della «più tenera delle madri». Non ritengo che sia questa la sede per entrare in un'analisi critica dettagliata di queste pagine assai ricche, riservandomi di riprenderla in un tempo successivo. Nell'ottica di p.s. Magdeleine un atteggiamento di semplice accoglienza del dono del regno non è una possibilità discrezionale lasciata al singolo. Con estrema energia, rifacendosi al Vangelo, non ha timore di esclamare, ripetendolo anche più tardi nel Bv: «le pense, ce soir, à vous donner co111111c thèn1e de médiatation cette page d'Evangile si belle où Ics ap6tres, se disputant cntre eux pour savoir qui serait le plus grand, attendaient de Jésus un enseignement extraordinarire. Et Lui, tout simple1nenL, appelant à lui un petit enfant, il le plaça au milieu d'eux et dit:

40 D 1939 I/ Ch. 4/ 13-14. Per quanto riguarda la citazione di Marn1ion cfr. C. Le Christ idéal du Moine, Desclée, Paris 1926, 500.510.523.

MARMION,


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Si vous ne devcnez pas comme des petits cnfants, vous n'entrerez pas dans le Royau1ne des cieux. Quelle réponse inattendue et déconcertante, si nette et si absolue, sans crainte de froisser ni de heurter ccux qui n'auraienl pas certe disposition d'èmc: Vous n'entrerez pas dans le Royaume des cieux!

[' "J. E tre "petit cnfant", cela veut dire tant de choscs: étre de toutes Petiles Soeurs, des Soeurs "de rien du tout", dont personne ne fera de cas, que !es grands ne comprendront pas, et dont ils souriront parfois [ ... ] ètre une toute petite congrégation, tout humble ... Il ne faut pas dévier de celte route tracée par le Petit Frère Charlcs: 'Elles se serreront comme des petites soeurs aimantes'» 41 •

Dinanzi, quindi, alla piena donazione di Dio, che è giunto, secondo la corrente berulliana, all'estrema chenosi dell'incarnazione, p.s. Magdeleine si sente coinvolta in un'unica dinamica. Se Gesù è l'Amore misericordioso, non chiede altro che "l'abbandono dell'amore" dalle "piccole anime", chiamate nella sua logica ad essere insie1ne semplici ed audaci nei propri desideri. ft... tteggiamenti questi che lungi dall'evocare emozioni sdolcinate vanno ricondotti al loro spessore teologico. Ossia alla prospettiva di un Dio che, capace di pathos, chiede alla creatura umana, il dono di tutto il proprio essere, anche delle proprie "miserie", basando la sua possibilità di risposta essenzialmente sulla fedeltà che coincide con l'essere di Dio.

3.6. «Camme Jésus Amour» Insieme al tema di Gesù Bambino, l'altra "porta d'accesso" al mistero di Cristo che p.s. Magdeleine predilige, nuovamente attingendo a piene mani alla letteratura teresiana, è il paradigma "Gesù Arnore". Ciò che Teresa aveva realizzato in una vita claustrale, p.s. Magdeleine propone alle sue sorelle di realizzarlo letteralmente nella

41

L 1.1.42,141-143; cfr. anche Bv 35.


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Chiara Vasciaveo

loro vocazione ad essere "missionarie isole più remote.

11

0 ,

apostoli" dell'Amore fino alle

(redazione B) «Chapìtre 5: Leur voie spirituelle: l'A1nour Car leur vocation uniquc, c'est l'A1nour. A tout prix je veux cueillir la pahne d'Agnès - disait S.te Th. de l'Enf. Jésus - , si ce n'est pas le sang, il faut que ce soit par l'amour. Camme celui de la petite Thérèse, leur désir d'aimer pourra ètrc infini Jésus! Je voudrais tant d'ai1ner! l .. J l'ain1er camme jamais Il n'a été aiiné. Il ne peut jamais y avoir d'excès lorsqu'il s'agit d'ai1ner Jésus. Il ne pourra jamais è!re égalé en tendresse, car s'Il avait mis, Lui, de limites raisonnableés à Son Amour, Il n'aurait jamais fait toutes ses folies d'a1nour! [ ... J. Il attend de celles qui onl voulu s'appeler «ses Petites soeurs» beaucoup plus que d'autres, toutcs Ics délicatesses de l'amour travailler par amour, souffrir par arnour, s'abandonner à 1'an1our, le laisser tout cnvahir, tout submerger 1néme !es plus grandes misères. Cet amour transformera tout car la nature de l'atnour consiste à tranformer celui qui ai1ne en cclui qui est aimé (S. Thon1as) [ ... ]f. f ... ] Ce sera un amour de réparation, plein de délicatesse pour consolcr .lésus de la froideur, de l'indiffeérencc dcs àmes méme qu'il avai élues pour étre des A-pòtrcs de l'A1nour. Les Petites Soeurs s'efforceronl d'étrc le lieu de Son Repos, le jardin de Ses Délices. Ce sera un amour de conquéte, brOlant de zèle pour faire aimer l'objet dc son ainour. Lcs Petites Soeurs de Jésus scront des missionnaires de l'Amour le plus· petit de lcurs actes d'atnour deviendra infini par son uni on à la vie et au Sang de Jésus. Par l'Amour, leur vie dcviendra un peu une vie de Paradis, puisque l'essence du Paradis est de posséder et d'aimer éternellc1ncnt l'Atnour>> 42 .

42 D l 939-46 Il Ch. 5/ 2.3-4. Per la citazione di S. Teresa di G. B non 1ni è stato a tutt'oggi possibile ritrovare la fonte im1nediata. In tnargine indico dei riferimenti ipotizzabili dall'edizione critica degli Scritti S. TERESA DE G. B., Gli scril!i, Post. Gen. Carmelitani Scalzi, Roma 1979. Per la citazione di S. Tom1naso cfr. Sununa Th., I, q. 43, a. 3 e I, q.8, a.3.


Comme le levain dans la pate ...

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4. «Comme Jésus contemplateur de son Père»

4.1. Un nuovo modello di vita contemplativa P.s. Magdeleine con la consapevolezza audace di chi sta seguendo non la propria, ma la strada "ricevuta", non si è posta, per quel che ci è dato sapere, il problema teorico del modello storico con cui, nella Chiesa, prima di frate! Carlo, si è fissata la forma della vita contemplativa negli ultimi secoli, almeno dopo il Concilio di Trento. L'inculturazione platonizzante del messaggio evangelico avutosi con i padri, i rischi di un'antropologia dualistica conseguente, la polisemia del termine "inondo" antitetico a una vita "conten1plativa" 43 in un universo simbolico di derivazione greca in cui il divenire storico era riconosciuto in favore dell'immutabilità delle "idee" sono problemi che pur non avendo mai esplicitato, p.s. Magdeleine ha messo in discussione con il suo concreto stile di vita contemplativa sulla base del Vangelo, al seguito di frate! Carlo. Non riprenderò le tematiche accennate in questo studio, limitandomi ad esporre i caratteri chiave delìa proposta di p.s. Magdeleine, nuova ed antica di un tempo. Così scriveva Bv: «Co1n1ne Jésus, fais partie de cette 1nasse hun1ainc. Pénètrc profondément et sanctifie ton milieu par la conformité de vie, par l'amitié, par l'amour, par une vie totalement livrée, com1ne celle de Jésus, au servicc de tous, par une vie tellemcnt tnèléc à tous quc tu ne fasses plus qu'un avec tous, voulant étre au milieu d'eux comme le levain qui se pere! dans la pàte pour faire lever [ ... ]. Au coeur des n1asses humaines tu devras porter ta vocation conte1nplative As-tu bien réalisé que, sous les dehors d'une vie d'ap6tre, tu devras Ètre essentielle1nent une Urne conten1plative, et que ta vie conte1nplative devra @lre d'autant plus rayonnante et fécondc quc tu as justement choisi d'@tre, au coeur des masse hun1aines, comrne le le\•ain dans la ptlte? t ... J.

43 G. BOF, Mondeh1, in NDT, 945-96l. P. GRELOT, Mounde, in DsP, X, 16201633. J. LECLERCQ, Monde, in DIP, \11, 53-67.


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Chiara Vasciaveo Ta vocation découle essentielle1nent de la filiation du Frère Charles dc Jésus, le grad contemplatif. Si tu n'avais pas cette vocation contemplative, si tu étais faitc uniqucment pour l'action, pour un apostolat actif, tu ne pou1Tais réaliser qu'une partie dc sa mission. Des conte1nplatives au milieu du monde, osant affirmer que leur vie conten1plative pourra s'épanouir au coeur des n1asses ou sur !es routcs, aussi bien que dans le silence d'un cloìtre, cela déconcerte ceux qui voudraient la réscrver exclusiven1ent pour le cadre recueilli d'une vie monastique, parce qu'ils n'ont pas assez regardé Jésus, le Contcmplatif par excellence ~ Jésus pendant Sa vie cachée à Bethléem et à Nazareth, Jésus pendant Sa vie publique, Jésus qui s'est retiré quarante jours seule1nenl dans le desert, loin de la foule des hu1nains, et a vécu trente-trois ans tout sin1plement au 1nilieu des siens Il était Dieu, c'est vrai, mais li s'est incamé pour nous traccr la voie. on ne peut pas s'égarer en tnarchant sur les traces dc Jésus et cn voulant L'imiter: "Je vous ai donné l'exemple afin que, comme j'ai fait, vous fassicr aussi vous-1ne1nes" (Jean, Xlll, 15), Que ces mots dc vocation conte1nplative, de contemplation, ne t'effraient pas. Qu'ils n'évoquent pas à tes yeux l'idée d'une vocation exceptionnelle, de quelque chose dc tcllernent élcvé que la plupart des hom111es ne puissent y accéder. A la lumièrc dc Frère Charles de Jésus, qu'ils t'évoquent l'attitude toute simple, toute confiantc, tout aimante de l'J.n1e en conversation intime avec Jésus, les tenresse d'un pctit cnfant pour son pèrc, Ics épanchen1ents d'un ami pour son ami: 'Quand on aitnc, on voudrait parler sans cesse à l'étre qu'on aime ou au moins le regarder sans cesse. La prière n'cst pas autre chose: l'cntrctien fa1nilier avec notre Bien-Aimé. On Le regardc, on Lui dit qu'on L'aime, on jouit d'ètre à Ses pieds ( ... ]' (Frère Charles dc Jésus, Ecrits spirituels, p.8) 'Loucr Dieu, c'est fondre à Ses pieds cn paroles d'ad1niration et d'atnour, c'cst Lui répéter sous toules !es fonnes qu'Jl est infiniment parfait, infinìn1ent aimable, infini1nent ai1né ... C'esl Lui dire sans fin, Lui dire sans pouvoir mettre de tenne à une si douce déclaration, qu'll est bcau et que nous L'aimons ( ... ]'(Idem, p. 15). C'est cela essentielleinent la prièrc, c'est cela par excellence la contetnplation. Dans le travail, commc sur !es routes et au milieu de la foule - pour erre une àme contemplative - tu essaieras tout sin1ple1nent de lever le yeux vers Jésus et d'entrer en conversation avec Lui, co1n1nc avec J'ètre le plus chcr au 1nonde:


Camme le levain dans la pdte ...

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'Que Dieu soit le roi de nos pensées, le Scigneur de nos pensées, que Sa pensée ne nous quitte pas et que tout ce que disons, faisons et pensons, soit pour Lui, soit dirigé par Son A1nour' (Frère Charles de Jésus, Écrits spirituels, p. 14). Et ainsi, tu ne te laisscras pas disperser au milieu du n1onde: 'Quand on aime, on ne perd pas de vue ce qu'on aime [ ... ]. Quand on aime, on ne songe qu'à une chose: à l'ètre ain1é. On ne s'inquiète que d'une chose: du bien du .J'ètre ai1né, dc sa possession l ... J. Quand on ain1e une seule chose existe: l'étre aimé [ ... ].Si un coeur aime Dieu, peut-il s'y trouver piace pour dcs inquiétudes, des soucis inatériels?' (Frère Charles de Jésus, Écrits spirituels, p. 14-42). 'Prier, c'est penser à Jésus en L'aimant. Plus on L'aime, mieux on prie' (Idem, p. 16). Mais il faudra te fo1mer à certe vie contemplative. Tu auras, pour te former, la vie d'adoration, "la plus cotnplète expression du parfait ainour", ta vie d'oraison, tout entieùère centrée sur Jésus présent et vivant dans l'Eucharistie et dans l'Evangile. Tu auras le vie eucharistique, et tu t'efforceras de faire de tes jounécs une action dc gràce perpétulle, multipliant sans autre linlite que celle de ton atnour, \es com1nunions spirituelles. La sainte Communion sera pour toi, avant tout, une plcinc participation au Sacrifice eucharistique. Tu y puiseras ta force et ta ferveur quotidienncs et tu trouveras dans le Saint Sacrifice le moyen d'unir la journée avec tout ce qu'elle conticn de prière, de travail et de souffrances, à la Passion réde1nplrice du Sauveur [ ... ]. Et tu auras ainsi accompli la 1nission que t'a léguée le Perir Frère Charles de Jésus, et les fraternités seront, com1ne il le <lésirait: «des pelites foyers d'an1our où brùle le Sacré-Coeur pour allumcr ce feu que Jésus a porté sur la terre», des "zaouias de prière et d'hospitalité d'où rayonne une telle piété que la communauté en soit éclairée et réchauffée, une petite famille imitant si parfaitcmcnt Ics vertus de Jésus que tous ceux aux alentours ~e 1nettent à aimer Jésus" (Frèrc Charles de Jésus à H. de Castries, 12 Mars 1902)» 44 .

Alla luce di questi scritti, mi pare che nel pensiero di p.s. Magdeleine, sulla base di un'originale sintesi di valori, ereditati

44

Bv 17.23-27.


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Chiara Vasciaveo

sicuramente da frate! Carlo, ma anche da Teresa di Gesù Barnbino 45 , si possa identificare un nuovo modello di vita contemplativa caratterizzata da un duplice atteggiamento, di semplicità e di confidenza verso il Signore ma insieme di profonda solidarietà con tutti i fratelli, così come ci rivela l'insistente ripetizione del suo desiderio di una vita "mescolata a tutti", in "piena pasta umana", sua personale rielaborazione del tipo di vita vissuto da frate! Carlo nei suoi ultimi anni. E' questo un elemento proprio alla riflessione di p.s. Magdeleine che ritroviamo nella sua corrispondenza sin dagli anni '40 e che proponeva con umiltà ma anche decisione alle sue sorelle. Tra i tanti riferimenti stralcio alcune righe da una lettera alle sorelle del Tibet del 1943: «De plus en plus, je réalise que la charité fraternelle doit passer chez en tout premier plan. Nous devons étre un levain 1nèlé à la p:lte, n1élé intimcn1ent au point de ne plus faire qu'un avec elle et d'ètre incorporé à elle, tout si1nplement [ ... J avec le sourire» 46 •

Interessante risulta anche l'evoluzione reperibile intorno a tale terna tra le costituzioni del 1939 (nei diversi strati redazionali) e quelle del 1946. nel primo caso l'argomento è trattato in due paragrafi diversi: (Costituzioni 1939 redazione A) «Le but de cet Institut est de procurer la Gloirc de Dieu par la sanctification de ses men1bres et par l'apostolat dans la pratique des voeux de rcligion qui consacrent les religieuses à la conversion de l'Islain selon l'esprit du Père de Foucauld. (Costituzioni 1939 redazione B) Leur but est de procurcr la Gloire de Dieu par leur propre sanctification dans une vie conte1nplative et apostolique et dans la

45 Cfr. la definizione di contemplazione data in Bv 25 con TERESA DE G. B., op. cit .. Man C 317, 288-289; L 202, 734-739. 6 4 L 21.2.1943, 173-174.


Comme le levain dans la pale ...

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pratique des voeux de religion qui les consacrenE à la redemption de l'Islam selon l'esprit et le 1néthodes du Père de Fucauld. (Costituzioni 1939 redazione C) Leur but essentiel est de procurer la Gioire du Père par une vie donnée entièremcnt à la conten1plation et à l'adoration, à l'imn10/ation età l'apostola!, dans la pratique des voeux de relighJn que les consacrent à la Réden1ption de l'lslan1» 47 • (Costituzioni 1939 redazione A) «5 L'activité missionaire des Petites Soeurs ne devra ètre que le débordemcnt d'une vie très intérieure d'orasion et adoratìon. 6 Leur apostolat est l'application aussi exacte que possible des méthode du P. de Foucauld: 1néthode de défrichements, d'apprivoiscmcnt, de pénétration profonde dcs popolations 1nusulmanes, par la conformité de vie, la charité, l'a1nitié et l'A1nour. Dans son esprit dc zèlc passionné pour le Règnc de Jésus et de foi invincibile en la toute puissance de Jésus Mailre de l'impossible. (Costituzioni 1939 redazione B) 6 Lcur apostolat est l'application aussi cxacte quc possiblc dcs méthodes du P. Foucauld: méthode de pénétration profonde des populations musulmanes, par la conformité de vie l'amitié et l'A1nour. Pour devenir le lcvain mèlé à la piìte. (Costituzioni 1939 redazione C) 5 Leur méthode d'apostolat est résumée dans la parabole évangélique du levain 111élé à pbte; n1éthode de pénàtration profonde des populations musuhnancs par la confonnité de vie, l'A111itié, l'A111our. 6 Leur formule est celle de Jésus, vivant avec a1nour sa vie hun1aine. Avant d'ètre religicuses, les Petites Soeurs s'efforcerent d'abord l'ètre chrétiennes et hu1naines dans tuotc la force et la profondeur du terme et la fidelité à leurs régles religieuses devra toujours ètre subordonnée à cet idéal. C'est pourquoi toutes Ics règles contenues dans ces constitutions doivent ètre considerées chaque fois qu'elles s'y opposeraient d'une n1anière evidente et définitive1nent transforn1ées lorsqu'elles risqueraient d'ètre dcvenucs des obstacles» 48 •

47 48

C 1939 I/ Ch. I/ par. I/ 17.16 (retro). C 1939 I/ Ch. I/ par. 5-6/ 18.16 (retro).


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Chiara Vasciaveo E infine nelle costituzioni del 1946: «4 Leur vie entièrement centrée sur Jésus, présent et vivant dans l'Eucharistie et dans l'Evangile est une vie contemplative apostolique. Leur apostolat devant ètre le débordment de leur vie contemplative et leur contemplation trouvant dans ce débordement toute sa plénitude et tout son épanouissement . (Cf. Art. 6 et 123). 5 Leur apostolat consiste avant tout en l'offrande de leur vie dans la prière et l'im1nolation et - cn ses tnanifestations extérieures - il doit ètre uniquemcnt un témoignage d'amitié et d'amour fraternel à l'exclusion de toute oeuvre officiellemcnt organissée inco1npatible avec leur idéal de vie. Cctte vie toute simple de Petites Socurs constituées en familles et en fraternités ne con1porte aucune prescription etxérieure ininutieusc qui les emp§cherait de subordonner leur fidelité aux observances religieus à leur idéal dc charité évangéliquc. Dans cct esprit, elles mettront toujours la charité au dessus de toutes les régles pour en faire la régle supre1ne, le premier et plus grand commandement de Jésus. 6 Co1n1nc ,Jésus, Verbe Incarné, fcrment divin dans la p8.te humaine, elles vivront en contact intime avec le n1ilieu environnant, s'efforçant de réaliser au 1naximum dans une authentique vie religieuse l'apostolat du n1ilicu par le n1ilieu - Elles se feront toutes à tous, tellement m§lées et semblables à tous qu'elles ne fassent plus qu'un avec tous - co1n1ne le levain qui se perd dans la p<lte pour la faire lever: elles seront arabes au milieu des arabes, nomadcs au 1nilieu des no1nades, ouvrieres au milieu des ouvricrs, et surtout humaines au 1nilieu des humains, trouvant dans leur contact men1e, non seulement un accroisse1nent d'atnour pour les honunes, 1nais aussi un aliment à lcur vie d'union avec Dieu (Cf. Art. 4 et 123)» 49 .

49

e

1946 I par. 4-6/2-3.


Camme le levain dans la pàte ...

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Da un'esposizione timida nella forma anche se orientata nel contenuto, si assiste ad una maggior chiarificazione del modello di vita "contemplativa" proposta. Prima, infatti si parla di vita «donata alla contemplazione e all'apostolato», successivamente fondata sulla parabola evangelica del lievito (Mt 13,33), per arrivare nel Bv ad esprimere la consapevolezza della "novità" elaborata senza per questo voler sollevare alcuna polemica con altre e più antiche forme di vita consacrata, ma motivando le proprie scelte solo come un tentativo di risposta ai «bisogni differenti di un nuovo secolo»: «Temoin de Jésus tu vivras 1nelée à la 1nassc comme le Ievain dans la p:'ìte

humaine

Ceci est 1non testament: Pouquoi ccs quatre 1nots au début de ces pages plut6t qu'ailleurs?

r... J. C'est que toutes les autres sont inspirées totale1nent, uniquement, par Frère Charlcs de Jésus. C'cst son csrit le plus pur, c'est toute son àme, c'esl donc son !'estament à lui que je t'ai donné. Ce n'est pas n1ien [ ... ]. Mais, des pages qui vont suivre, je prcnds toute la rcsponsabilité.

C'est-à-dire plutéH que, s'il y a quelque chose de bien, au Seigneur Jésus en reviendra toute la gloire, mais s'il y a quelque chose de mal, ce sera nloi toute seule qu'il faudra condainner {... ] J'y ai tnis toute mon fone, la pensée chère de toute 1na vie et, telle qu'elle est, tout nai'vemenl maladroitemenl, je te la livre, comme le message d'une 1nère à ses filles. Je supplic tous ccux qui liront ces lignes de ne jainais y voir le moindre blàme pour les autres foimes de vie religieuse qui, depuis des siècles, ont produit des saints <lans l'Eglise. Il s'agit tout simplctncnt d'une conccption différcnte qui essaie dc répondre à des besoins différents d'un siècle nouveau. Je de1nande à toutes celles que cet idéal de Fraternilé attire de continuer, après 1noi, à 1narcher dans cctte voic nouvelle, et c'cst pourquoi j'ai appelé cela mon testament en soumettant toujours très humblement, de l'Eglise dont je veux rester plus que jamais l'enfant la plus ai1nantc et la plus obéissante» 50 .

50

Bv 15-16.


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Chiara Vasciaveo

Questa intuizione di p.s. Magdeleine riguardo ad uua nuova modalità espressiva di vita contemplativa in piena pasta umana che tanto sarà centrale nel carisma delle Piccole Sorelle (e segnerà anche in modo determinante l'evoluzione dello stile con singolare forza e precisione in una lettera inviata da p.s. Magdeleine a p. Voillaume in occasione di una contestazione che la nuova congregazione veniva ad offrire ai suoi membri e alla Chiesa: «Hier soir, vous avez re1nué tant de choses en parlant de la vie

contemplative et vous avez dit surtout cette phrase qui m'est entrée droit dans le coeur: 'Des Soeurs qui onl un idéal de vie conte1nplalive devraient avoir une cérémonie plus recueillie'. Et puis vous avez ajouté 'qu'une vie de contacts devrait plutòt s'appelcr

"vie évangélìque", et qu'il ne fallait pas jouer sur les mots'. Les n1ols qui sont l'expression de la pensée, n'ont pas touts la 1né1ne nuance, aucune langue humaine n'étant asscz riche pour la

traduirc, mais ils ont une i1nportance énorme [ ... ]. Charger de 1not, c'est trahir la pensée. Père, dites qu'il y a des risqucs l .. J ites qu'il y a dcs difficultés, mais tcncz bon, je vous en supplie. tout le monde a les yeux fixés sur vous. c'est la pre1nière fois qu'une forme de vie si en contact avec le monde peut étre en 1néme te1nps si authentique1nent et profondément contemplative. n'échouez pas, vous entraìneriez tous les autres dans votre échec [ ... ]. La vie conten1plative, vous l'avez <lit, c'est une vie d'amitié avec la Personne de Jésus, c'est une vie intérieure beaucoup plus profonde en contact rné1ne avec Dieu. Pourquoi ceue a1nitié, pourquoi ce contact ne pourraient-ils pas coexister avec un appel des J.mes, mé1ne un appel des foules? [ ... J. N'est-ce pas juste1nent parce quc l'ainitié pour Jésus sera plus grande, l'intimité plus profonde, qu'on aura davantage soif de Le porter au milieu de la foule, de Le rayonner, de L'ai1ner? ... Et n'est-ce pas parce qu'on aura senti tous !es besoins de cetre foule qu'on aura encore plus soif de se remplir de Jésus, de se retirer avec Lui? [ ... ]. Toutes les Petites Soeurs qui 1n'cntourcnt ont cet appel très net en elles. c'est un besoin des nouveaux ten1ps ... un souffle du Saint Esprit [ ... ]. Qu'on vienne nous voir du nord, de l'e~t, de l'ouest, d'Anglcten·c ou d'Jtalie, partout se retrouve le méme appel: une vie conleinplative très profonde avec une vie totale1nent n1élée.


Comme le levain dans la pdte ...

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nell'allez pas changer les termes. cela pourrail faire du 1nal à tous ceux qui viennent à nous [ ... ]. Pour le cas précis qui nous intéresse, je ne puis pas penser con1me vous cene réunion pour la céréimonie du 7 septembre va ètre une occasion magnifique de fusion des classes dans l'intimité de notre vie religieuse. sans celte possibilité, beaucoup n'auraient jatnais l'occasion de pénétrer dans un foyer de vie religieuse. doit-on regretter que cela entraine un peu moins de silence pour Ics ptites Soeurs pendant deux ou trois jours? Vous n'avez pas encore vécu chez nous la répercussion qu'une telle cérémonic, un tel rassen1blen1ent peut avoir: le père d'une Pctite Soeur devenant atni, d'hostile qu'il était à toute religion [ ... ] le gran-père d'une autre communiant après trente ans d'abstention [ ... ] et co1nbien de retourne1nents, juste1nent parce qu'ils se sont trouvés dans une ambiance de charité, d'a1nour fraterne!. L'Houre Sainte de l'après 1nidi groupait toutes les fa1nilles: croyant et incroyant, dans une occasion unique de prière et de rapprochc1nent. Père, ce n'est pa" possible qu'à cause dc cela, il y ait moins d'ainour [ ... ] et l'amour, n'est-ce pas l'élément essentiel de toute vie contemplative? Ne vous laisscz pas arrèter par des objections [ ... ]. Maintenant que vous étes en France, vous allez étre bien plus controvcrsé. Chacun de vos Petits Frères vous apportera, non seulement ses objections, 1nais toutes celles qu'il aura entendues sur sa route. Tenez bon, Père, gardez votre idéal de vie contemplative. Ce n'est pas possible que vous ne sentiez pas que vous ètes dans la bonne voic. Qu'il faille sauvegarder cet idéal dc vie, je le pense aussi l ... J que vous souffriez conune moi de ce qu'il y a encore d'itnparfait, d'inachevé dans sa réalisation pratique, je le co1npends, n1ais je vous en supplie, envisagez-lc avec conviction pour donner confiance à ceux qui vous regardent et qui vous suivent. Jc vous assure que le bon Dicu est en train de faire de vous un "chef'', non sculement pour nos Fraternités n1ais aussi pour ceux qui sont en recherche et n'arrivent pas à trouver leur voie. vous ne pouvcz pas vous dérober à ce dcvoir, mé1ne si cela vous enlève un peu à vos Petits Frères. Pas plus vous que n1oi, n'avons le droit dc fermer Ies portes sur nous-mén1es [ ... ].


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Chiara Vasciaveo Pére, pardonnez-moi. Je veux une "Petite Soeur de rien du tout" et puis je discute avec vous, que je voudrais considérer avec tant de respect comn1e mon père» 51 .

4.2 Sulle strade di Galilea Anche su questo tema, rivoluzionando una prassi ecclesiale quasi bimillenaria che prevedeva per le donne, particolarmente se di "vita contemplativa" una rigida clausura, come struttura pedagogica preferenziale per una "profonda" esperienza di preghiera, p.s. Magdeleine non solo propone alle sue sorelle di vivere da contemplative «intimamente mescolate a tutti», ma stabilendo una semplice equazione tra strade del mondo e strade della Galilea percorse da Gesù di Nazareth e da diversi suoi amici (tra cui Francesco d'Assisi e frate Carlo) le incoraggia anche a vivere tale carisma "sulle strade", durante i viaggi, senza paure perché donne, alla sequela di Gesù di Nazareth52 . Secoli di visione del mondo in chiave ascetico-pessimistica vengono dissolti grazie ad un riferimento evangelico, e attraverso questa nuova ottica non tanto la necessità di una separazione rigida viene sottolineata per una pienezza di vita contemplativa, quanto il dovere dell'accoglienza, secondo il "modello unico": «Dés le matin, visite à Mgr de la Villerabel qui n1e permct de faire mes voeux perpétuels le 8 scpte1nbre prochain au Tubet. C'est une si grande joie pour moi! Je l'invite à présidcr la cérén1onie. Je retoune à Megève pour la conférence et en partirai de1nain par le car de 4 heures du matin. Je serai toule seule à transporter 1nes bagages, dans la nuit, sur une carriole [... J. Lorsque je vous raconte mes aventures de voyage, il ne faudrait pas que esprits tnal tournés se disent 'Elle se plaint lorsque cela va 1nal, au lieu de s'en réjouir'.

51 52

L 24.8.1947, 338-340. Cfr. Introduzione, nota 6,102 e cap III, nota 1,1098.14.


Camme le levain dans la pate ...

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Non, je ne me plains pas, au contraire, à chaque occasion je pense à la joie parfaite de St François d'Assise et du Frère Charles dc Jésus, et je souhaite quc vous passiez de temps en temps par ces tribulations-là. Cela fait un bien i1nmense, mais je profite de chaque chose vécue pour vous mcttre en garde conte la tentation de vous replier sur vous-mèmes avec l'idée fausse de mieux travailler à votre propre sainteté en prenant une autre voie. Nous so1n1nes faites pour nous méler inti1nemenl à la foule, comme Jésus sur Ics routes de Galilée: pressé, bousclé de toutes parts et gardant sa paix, tout en caressant lcs petits enfants, relevant Ics pauvres pécheurs, consolant les affligés, guérissant Ics malades

l ... ]w'i3.

E in un'altra lettera: «Cet après-midi, séance à I'orphelinat départemental [ ... 1. Acceueil chaleureux de la direction[ ... ]. J'étais très inspiréc et je crois que j'ai touché bien dcs coeurs! Les enfant voulaint toules 1n'acco1npagncr au tran1 [ ... 1. .Jc n'ai jamais vu autant de gens aussi émus qu'à Grenoble, surtout Ies hom1nes. Je me scns prète à aller «precher» partout et 1nardi je ferai une démarche auprès de l'inspecteur d'Acadérnie pour attendre lycées et collègcs. 'Je suis venu poter le feu sur la terre, et con1me je voudrais qu'il soit déjà allumé' a dit le Seigneur. Je voudrais embraser le monde entier, comme St. Francois d'Assise avec qui j'ai vécu toute la jounée. J'espère que sa fète n'est pas passée inaperçue au Tubet! [ ... ]. Mes Petites Soeurs, vous ètes sO.res de ne pas vous écarter de notre voie en suivant St François dans cet amour passionné du Christ, qui . débordait de son coeur sur scs lèvres, sans craindre les contradictions. je !'ai pris comrne patron des n1cs tournées de conférences, St François, avec son dépouille1nent absolu, sa Ei1nplicilé de pctit enfant [ ... l cctte si1nplicité, cette petitesse qui doivcnt étre obligatoiren1ent votre tnarque de fabrique. Vous ne seriez pas du "frère Charles de Jésus" sans ccla>> 54 •

53 5"

L 18.7.42, 124. L 4.10.42, 144.


94

Chiara Vasciaveo

Insieme a san Francesco è la vita concretamente vissuta da frate! Carlo che costituisce per p.s. Magdeleine la concreta rilettura del vangelo cui ispirarsi: «D'ailleurs, l'exemple est là, et nous devons le suivre [ ... ] Dans mes nombreux voyagcs, je rcncontrc souvcnt des amis du Fère

Charles de Jésus qui l'ont vu vivre à Béni-Abbès, à In Slah, à TamanrasseL ce qui les a frappés, c'était sa bonté souriante,

lorsqu'il les rencontrait, lorsqu'il les invitait ou qu'il était invité chez eux. A le voir si enjoué, si bon cainarade, on n'aurait pas pu devincr son gcnrc dc vie, son ascétisme. Mème devant Ics

palisanteries peu correctes, il ne durcissait pas ses yeux pour blihner. Il élait d'une indulgence extrème, le modèle pa1fait de l'a111itié [. . .]. Il était si bon, paraìt-il, que les coeurs s'ouvraient et que Jes ames s'épanouissaienL Voilà n1on rève pour vous. c'est à cela qu'il faut arriver, non à votre idéal, mais au sien, tout de douceur et d'amour [ ... ]»ss.

4.3 «La pauvreté de Jésus à Nazareth» Lasciandosi guidare dalla logica evangelica dell'Unico Modello, anche lo stile di povertà per p.s. Magdeleine va modellato su quello evangelico di Gesù operaio a Nazareth, contemplativo segnato dalla solidarietà con i lavoratori manuali e con i non possidenti: «Si tu veux donner ta vie au maximum, il ne faut pas faire autren1ent que le Modèle Unique, Jésus dans l'Evangile, Jésus qui a esscntic11cmcnt voulu n'etrc qu'un pauvrc ouvricr, perdu au milieu

des autres, en étant le ferment humaine>> 56 .

55 56

L 18.7.42,124. Bv 22-23.

divin

dans

la

pite


Camme le levain dans la pdte ...

95

Non è per lei questa una scelta di classe né un mero desiderio di solidarismo, è invece «la mission que le Seigneur m'a confiée» 57 , per essa si batte in Vaticano e con un pizzico di ironia scrive a p. Voillaume «Je crois que je vais rester légendaire dans ma défense de la pauvreté [ ... ]. Je leur ai <lit que c'etait un point sur !eque! je ne céderai jamais» 58 • A tal fine più volte si reca a Roma, dal pontefice, inoltrandogli tre suppliche sulla povertà dalle quali riporto degli stralci: 11

11

(I Supplica a Pio XII)

«l. Notre idéale de pauvreté Celui de Jésus à Nazareth. Pouquoi serait-Il né dans une crèche? Pourquoi, Lui, Dieu, si grand, aurait-11 pris I'humanité d'un pauvre artisan ganant péniblement, au jour le jour, son pain quotidien, si nous religieuses, ses intimes, nous n'avions pas droit de L'imiter? C'cst tout ce quc nous demandons; pouvoir vivre dans la pauvreté

d'un petit artisan, ayant sa maison, son métier, mais sans dots ni rentes [ .. ].

N'est-cc pas la bénédiction et la consécration de notre pauvreté? Pourquoi chercher des moyens humains quand le Scigncur Jésus est si lìbéral? Il n'arrétera ses lìbéralités que lorsque nous arréterons notre confiance en l'efficacité des ses paroles: «Observez les lis des champs ... Salomon lui-1né1ne, dans toutc sa gioire, n'a pas été vètu comme l'un d'eux. Ne vous inquiétez donc du lendemain». Ce n'est pas de la poésie, c'est une profonde réalìté: Don Bosco, sainte Claire, Saint François [ ... J. 4. Les raisons profondes de notre pauvreté Chaque famille religieuse a une mission à remplir qui lui a été léguéc par son fondateur, et elle doit veiller soigneuse1nent à ne pas trahir la pensée de ce fondateur dans la continuation de son oeuvre. Des Petites Soeurs du Père de Foucauld ne peuvent avoir ni dots ni rentes sans manquer gravement à son esprit. Comn1e aurions-nous le droit de porter son noni et d'étrc appclées «scs filles» si !'on nous refusait celte pauvreté? Chaque fmnille religieuse a ses caractéristiques en vue desquelles il lui faut s'adapter, non pas d'une adaptation dc pur formalismc 1nais

57

58

L 11.7.48, 393-394.19. L 20.6.47. 330-331.


96

Chiara Vasciaveo d'une adaptation réelle et profonde. Comment comprendrc les nomades, co1nment !es ain1er si l'on ne partage pas un peu de leur vie dure, un peu de Ieur pauvreté? Com1ncnt ne 1nanquer de rien au milieu d'eux qui n1anquent de tout, sans que leur misère ne soit un reproche vivrant à notre bien-ètrc et à notre aisance? Toutes, sans exception, nous aimerions mieux abandonner notre vie religieusc officiellc quc dc ne pas y avoir le droit de suivre la vraie pauvreté du Christ, car c'est cela qui nous attire à Lui, et toutes nous voulons suivre cette règle du Père de Foucauld: 'Elles auront toujours devant !es yeux le Modèlc unique, le Charpentier, fils de Marie, se souvenant qu'en fait de biens matériels, tout cc qu'cllcs auraient en plus que Lui ne farait que montrer combien elles sont différentes de Lui'. Nous faisons toutes notre celte parole: «Étre riche, à mon aisc, vivrc douce1nent de mes biens, quand Vous avez été pauvre, vivant péniblement d'un dur labcur: pour 1noi, je ne le puis, mon Dieu ... Je ne puis aiiner ainsi!». Jc 1ne garde bicn de juger personne. Si d'autres congrégations n'ont pas cette règle, c'est qu'elles ont d'autres aspccts de la vie du Christ à personnifier. Mais à nous, de gràce, laissez-nous sa pauvreté. Sinon, cela donnerait raison aux directeurs de coscience qui, actuellement en France, détourncnt Ics jcuncs de la vie religieuse en leur disant qu'elle est un obstacle à la pauvrcté récllc, car on y est obligé dc prévoir l'avenir pour etre sGr de ne jan1ais manquer de rien. De gràce, laisscz aux fones quc le Scigncur appclle à la pauvreté totale la joie de la trouver effective1nent dans la vie religieuse. Il en faut dcs ces fimcs pour co1npenser et réparer actuellement le si coupablc règne de l'argent. J'écris cetre suppliquc à Rome dans un esprit de sotunission totale à l'Eglise, mais je J'écris l'avant-veillc dc NoeL Au non1 du tout petit Jésus de la crèche qui se fil si pauvre pour notre amour, je vous supplic hu1nblcmcnt mais arde1n1nent de nous accorder ce qui est pour nous le plus grand de tous les bien, la pauvreté dc Celui qu'à la suite de notre père, nous ain1ons appeler

«notre

59

Bien~Aimé

L 23.12.44, 238-241.

Frère et Seigneur Jésus» 59 .


Camme le levain dans la pdte ...

97

(Il Supplica a Pio XII) «1 - La pauvreté de Jésus à Nazareth Je vous en supplie, Très Saint Père., que les Consulteurs de la Congégation de la Propagande ne nous obligent pas, dans nos Constitutions, à prévoir l'avenir, à nous assurer des ressources cn cas de maladie ou de vieillesse [ ... J. Qu'ils nous laisscnt lajoie de la confiance et de l'abandon, la joie dcs privations el de la soutfrance [ ... ]. Qu'au milieu des ouvriers et des pauvres qui sont si malheureux acluellemenl et ont I'angoissc de l'avenir, nous ne soyons pas des "installécs" l ... J. Je vous en supplie, Très Saint Père, que ce ne soit pas à Ro1ne que nous soit refusée la joie d'i1niter la pauvreté de Jésus. Toutcs, sans exccption, nous la désirons celte pauvreté que nous préferons à tous les biens de la ten·e. Des Petites Soeurs de Père de Foucauld ne peuvent pas avoir de rentes, elles n'ont aucune oeuvre extéricure à soutenir qui pourrait leur ètre une cxcuse. Ces dots, ces rentcs, elles les auraient uniquement pour elles, alors qu'elles doivent ètrc essentiellement dcs pauvres du Christ. Elles veulcnt gagner dure1nent leur pain quotidien comme Jésus, ouvrier à Nazareth. Chaque fraternité de 1nission sera soutenute par une fraternité dc travail. Co1nme dans tonte fan1ille ouvrière les membres solides travaillcront pour les plus jeuncs, les àgés, le malades [ ... 1. 2 - Le levain dans la piìte Les Petites Soeurs de Jésus demandcnt qu'il leur soit pennis de vivre en pleine pàte humaine, 1nèlées à tous, sc1nblables à tous, mais en gardant un idéal de vie contc1nplative aussi intense et profonde que possible, con11ne Jésus sur les routcs de sa vie publiquc. Elles voudraienl, tout en se faisant de la classe ouvrière, ètre dans le champ d'action où clles vivent un lrait d'union entre toutes lcs classes, !es races et les religions [ ... ] qu'autour d'clles, patrons et ouvricrs, tnusuhnans et chrètiens arrivcnt à vivre còte à c6te, en s'aimant d'un grand amour au lieu de se 1népriser et de se hai.'r. Qu'elles soient dans leur fraternité un té1noignagc vivant de charité fraternelle "Jésus Caritas''. Qu'autour de leurs tì·aternités, parce qu'elles ouvriront leurs portes plus grandes, avcc une clòture 1noins stricte, laYcs et religieux fraternisent dans une grande cornpréhcnsion et un grand amour. Elles voudraient vivre mèlées à la classe ouvrière, travailler dans lcs usines et !es ateliers: "ouvrières au milieu des ouvriers", co1n1ne elles sont "Arabes au niilieu des


98

Chiara Vasciaveo Arabes", "nomades au milieu des nomades", pour y rayonner Jésus, humblemcnt, silencieusement, et pour qu'à lravers ellcs, on puisse voir de tout près le vrai visage de la vie religicuse er de l'Eglise, le vrai Visage du Christ» 60 .

Come si diceva quindi, precedentemente, per p.s. Magdeleine la vita contemplativa esige quasi un "letteralismo" evangelico che comporta oltre alla preghiera una concreta condivisione della «vera povertà di Cristo a Nazareth» così come il suo essere mescolati agli uomini della vita quotidiana, particolarmente operai, arabi e nomadi (le categorie marginali e da marginai izzare per un francese della media ed alta borghesia francese di inizio secolo, è bene ricordare) 6 ', quasi segno sacramentale dei piccoli della storia. Se mai ciò non bastasse, val la pena sottolineare la frase con cui si conclude la seconda supplica, dove senza alcuna enfasi motiva tale opzione al fine di rilevare al mondo «il vero volto della vita religiosa, della Chiesa e il vero volto di Cristo» 62 , non tanto con i tratti del pantocrator quanto del fratello degli uomini perché Figlio di Dio.

5. Per una sintesi

Dal nuovo modello evangelico di vita contemplativa che si viene delineando dagli scritti esaminati di p.s. Magdeleine, mi pare che in trasparenza si ponga una questione partico]ar1nente moderna e dibattuta: il problema della "secolarità" della Chiesa attraverso il rapporto della diaconia della preghiera con il "mondano" tradizionale luogo di fuga, piuttosto che orizzonte della rivelazione e dell'incarnazione nella prospettiva della storia della salvezza. Alla luce degli elementi raccolti credo che l'affermazione di p.s. Magdeleine già citata nella quale chiedeva a Pio XII di benedire «lo spirito e le formule nuove» della sua congregazione «che non sono

60 61 62

L I 1.7.48. 391. L 21.6.47, 332.25. L.c ..


Camme le levain dans la pàte ...

99

altro che quelle dell'Azioue Cattolica applicate alla vita religiosa missionaria» 63 , postuli la centralità di tale problematica, che se da una parte pone come condizione una ermeneutica dei testi evangelici meno inficiata di dualismo, esige per la Chiesa, anche attraverso la diaconia della preghiera, espressa in modo emblematico ma non esclusivo nella persona dei contemplativi, di saper accogliere la duplice dialettica inscritta nella vita di Cristo, ossia nel saper contemplare sul monte per poter scendere a valle, sulle strade del mondo, tra le case degli uomini, per rivelare al "mondo" il vero volto del suo Signore. In un tentativo provvisorio di sintesi, ritengo che alcuni elementi caratterizzanti l'esperienza di p.s. Magdeleine vadano sottolineati e sottoposti a riflessione critica. Un primo dato è l'attenzione di p.s. Magdeleine all'interpretazione di quelli che noi possiamo definire "segni dei tempi" letti all'interno del suo contesto sociologico e storico. L'emergenza della condizione operaia, la lontananza della "Chiesa-istituzione" dagli ambienti lavorativi tipici della società industriale, la necessità del superamento di una mentalità colonialistica e dal punto di vista sociologico che religioso furono alcune delle provocazioni che ella lesse nella storia del suo tempo e che assunse in una risposta personale e creativa. P.s. Magdeleine era ben cosciente di dover lavorare per una "nuova" vita religiosa più idonea a tempi "nuovi". E vivendo provò a rispondere attraverso una congregazione che fosse una "fraternità". I caratteri della sua esperienza vocazionale, ispirata alla vita di frate! Carlo ma centrata sul "modello unico", si possono riassumere nel tema di una vita contemplativa vissuta sul modello dell'itineranza evangelica (riletta nella categoria dell'esser "nomade"), in piccole fraternità, in piena "pasta umana". Il progetto di una santità pienamente umana (anticipatrice di una sensibilità profondamente conciliare) si esplicitò in un orizzonte di laicità attraverso il quale la diaconia della preghiera nella Chiesa

63

L 24.12.1944, 232-233.


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veniva ad essere declinata in un codice di solidarietà piuttosto che in un codice di separazione, in quel mondo "tanto amato da Dio" che viene a diventare il luogo teologico della stessa esperienza di Lui. L'importanza teologica dell'incarnazione ha portato p.s. Magdeleine a coinvolgersi in una logica evangelica fino a sintetizzare nella sua vita un nuovo modello e di vita consacrata e di vita contemplativa, dove il divino non annulla l'umano ma lo compie m pienezza. Che tale esperienza costituisca una forte interpellanza per la Chiesa del nostro tempo e per la vita consacrata femminile credo sia difficilmente negabile. Se il nostro tempo «ascolta più volentieri i testimoni che i maestri» (EN 41), credo che p.s. Magdeleine nella Chiesa di oggi abbia una particolare testimonianza da rendere. A noi la possibilità di intraprenderne lo studio degli scritti per lasciarcene interpellare.


IL TEMA DELLA GIUSTIZIA IN SANT'AGOSTINO FRA "SAECULUM" ED "ESCHATON"

ENRICO PISOONE'

1. Dio conie "vera giustizia" e la "civitas" terrena

La giustizia per il convertito Agostino si identifica con lo stesso Dio, come egli si esprime nell'Epistola 120.«Senza dubbio - leggiamo in essa - la vera giustizia è il sommo Dio come il vero Dio è la somma giustizia»' e, qualche rigo prima, il vescovo d'Ippona, nel tentativo di esistenzializzare, per dir così, la sua solenne affermazione aveva scritto «la giustizia, perfetta in sé stessa, diventa anche nostra giustizia quando aderiamo ad essa vivendo secondo giustizia e siamo più o meno giusti a seconda che aderiamo ad essa» 2 • Ma l'uomo nel suo "esilio terreno", nell'attesa di saziarsi nell'eternità della giustizia divina, quale atteggiamento deve assumere di fronte alla civitas terrena? La risposta a questa domanda nel nostro Autore non è di certo univoca perché, come riconosce concorde1nente la critica più recente, Agostino fa un. uso ambiguo del termine civitas; anzi si deve subito avvertire che nel De civitate Dei il terna della città terrena viene discusso in due passi diversi e con preoccupazioni profondamente

* Docente di Filosofia nei Licei. 1

AGOSTINO, Epistola 120, in Opere di Sant'Agostino, ediz. latino-italiana, V, XXI, Nuova Biblioteca Agostiniana, Città Nuova Editrice, Roma 1969, 1213. 2 lbid., 1212.


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differenti, con un tono decisamente apologetico al cap. 21 del libro II e con una prospettiva di chiara marca teoretica nei capp. 21-24 del libro XIX. Nel primo passo Agostino muove alla città terrena l'accusa di andare alla ricerca soltanto di beni fallaci, ingannevoli, provvisori e disprezzabili. Si ricordi, a tal proposito, il famoso incipit del cap. 20 del II libro, dove i governanti pagani equiparati - tout court - ad idolatri vengono accusati di non occuparsi «in nessun modo di far sì che la repubblica cessi di essere pessima e scellerata». Le finalità dello Stato pagano sembrano essere del tutto immorali ed Agostino, con foga oratoria che presuppone un severo giudizio etico, fa un elenco dettagliato e vibrante di ironia delle norme che gli idolatri governanti pagani hanno messo a fondamento della loro civitas. E' una pagina splendida, anche da un punto di vista letterario, che andrebbe citata per intero perché essa si sforza di individuare su quale codice si regge la "città terrena". Noi ci limitiamo soltanto a riferire qualche passaggio non mancando di osservare che il congiuntivo di cui si serve il nostro Autore ha quel valore iussivo che è presente in ogni umana codificazione, anche se nel caso nostro si tratta di una codificazione dettata da follia idolatrica. Cediamo adesso la parola direttamente al vescovo d'Ippona il quale così si esprime: «I cittadini acclamino non coloro che curano i loro interessi ma coloro che favoriscono i piaceri. Non si comandino cose difficili, non sia proibita la disonestà. I governanti non badino se i sudditi sono buoni ma se sono soggetti. Le province obbediscano ai governanti non come a difensori della moralità ma come a dominatori dello Stato e garanti dei godimenti e non li onorino con sincerità, ma li temano da servi sleali. Si noti nelle leggi piuttosto il danno che s1 apporta alla vigna altrui che alla propria vita morale» 3 •

3 AGOSTINO, La città di Dio, 2, 20, in Opere di Sant'Agostino, V/1, ediz. latino-italiana, Nuova Biblioteca Agostiniana, Città Nuova Editrice, Roma 1978, 129-131.


Il tema della giustizia in Sant'Agostino

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Il contenuto di questo brano, come avremo modo di sottolineare meglio in seguito, trova il suo speculare rovesciamento nel cap. 24 del libro V, dove Agostino delinea la figura ideale dell'imperatore cristiano.

Ritornando ora alla lunga citazione fatta, ci pare di poter dire che essa ci introduce bene al famosissimo cap. 21 del libro II che reca il titolo Opinione di Cicerone intorno alla repubblica romana. In esso il vescovo d'Ippona, avendo premesso come criterio interpretativo dell'eticità del fenomeno politico la nota definizione dell'Arpinate dello Stato come res populi ed avendo connotato il popolo come «un gruppo associato dall'universalità del diritto e dalla comunanza degli interessi»', giunge alla paradossale conclusione che la repubblica ro1nana «non solo era pessin1a e dissoluta», ma che già ai ten1pi di Sallustio, ossia assai prima dell'incarnazione di Cristo, era entrata in una crisi senza via di ritorno. Questa tesi con notevole abilità apologetica da Agostino vien fatta dimostrare dallo stesso Cicerone nella cui bocca egli mette il severissin10 giudizio che la respublica Rornanorun1 non costituì mai «una società civile perché non si ebbe 1nai in essa la vera giustizia» 5. Il cap. 21 si chiude, quasi per contrasto, con una affermazione di esaltante certezza religiosa, nella quale è da intravedere il criterio ultimo con cui giudicare la civitas terrena. «Vera aute1n iustitia non est nisi in ea republica, cuius conditor rectorque Christus est» 6 • Solo una "repubblica" in cui Cristo è il fondatore e il reggitore - se così si può chiamarla come lo stesso Agostino prudentemente avverte - è in grado di garantire la giustizia ed essa sola, per riprendere l'espressione ciceronianai è l'autentica res populi. Non c'è dubbio che Agostino abbia forzato troppo la mano alla definizione di Cicerone appena citata ed è probabile anche che lo stesso Autore si sia forse accorto che, col suo procedimento un po' sbrigativo, abbia cancellato, per dirla con Barbero, «con un sillogismo

4

lhid., 2, 21, 2, V/l, 135. lhid., 2, 2t, 4-22, V/1, 139. 6 Ibid., 2, 21, 4-22, V/1, 138. 5


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sette secoli di storia»'. Sta di fatto che il vescovo d'Ippona, mettendo a freno l'eccessiva vis polemica che domina il ragionamento appena riferito, in un altro celebre passo del De civitate Dei muterà la definizione dello Stato e rivaluterà ampiamente la repubblica romana. Leggendo, infatti, il cap. 24 del librò XIX ci si accorge subito della nuova prospettazione teoretica della civitas che viene intesa come «coetus multitudinis rationalis rerum quas diligit concordi -eom1nunione sociatus» 8. Non si può non chiedersi in che cosa consista la novità speculativa di questa seconda definizione. A noi pare che non sia difficile coglierla se prestiamo attenzione a quel termine diligere che è, a nostro avviso, una ripresa della enunciazione finale del celeberrimo ultimo capitolo del XIV libro del De civitae Dei: «Fecerunt itaque civitates duas amores duo, terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei, caelestem vero amor Dei usque ad conte1nptum sui»<J. Una tale ripresa della dottrina dei due amores non presenta, ci pare, la radicalità del principio or ora ricordato perché Agostino ammette che il popolo inteso come l'unione «di un certo numero non di animali ma di persone ragionevoli» 10 , qualunque sia l'oggetto del suo amore, potrà pur sempre scegliere dei valori che saranno tanto migliori e assiologicamente significativi quanto più sono espressione concorde della predilezione del popolo per i beni che esso ama. Indubbiamente se è questo il massimo sforzo di positività che il vescovo d'Ippona sia riuscito a fare nel tentativo di non esorcizzare l'istituzione statuale, non si può ritenere che la riflessione politica agostiniana ci autorizzi ad affermare che esista una forma di Stato che assicuri all'uomo la realizzazione della piena giustizia. Una tale rassicurante tesi è con forza smentita da Agostino che, in un capitolo breve ma di grande spessore speculativo del suo capolavoro apologetico, instaura un parallelo fra i regni umani e le

7

G. BARBERO,

Introduzione a// pensiero politico cristiano. II, Agostino,

. UTET, Torino 1965, 25. 8 AGOSTINO, La città di DfrJ, 19,24, V/3, Ro1na 1989, 80. 9

Ibid, 14, 28, voi. V/2, Roma 1988, 360. Ibid., 19, 24-25, voi. V/3, 83.

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Il tema della giustizia in Sant'Agostino

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società brigantesche e anzi si spinge all'affermazione paradossale, ma di una logica stringente che, nel caso in cui la giustizia vien messa da parte, i regna humana non sono altro che magna latrocinia. Val la pena di soffermarsi su questa pagina del De civitate Dei in cui Agostino riferisce di quel pirata che, interrogato da Alessandro Magno «che idea gli era venuta in testa per infestare il mare», gli avrebbe risposto con «libera spavalderia: 'La stessa che a te per infestare il mondo intero; ma io sono considerato un pirata perché lo faccio con un piccolo naviglio, tu un condottiero perché lo fai con una grande flotta 1» 11 • Un tale arguto e gustoso racconto è in realtà la chiusa di un capitolo che si apre invece con un interrogativo solenne e per nulla retorico: «Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia ?» 12 • Seguendo un passo del libro terzo del De republica di Cicerone, per il nostro Autore da un punto di vista sostanziale non si riscontra una differenza fra le bande dei malfattori e i regni umani, una volta che appunto sia stata rimossa la giustizia. Ciò che per Agostino «confe1isce, tanto al regno quanto alla banda dei ladroni, il carattere di società - è stato bene osservato - [ ... ) non è infatti il requisito assiologico della giustizia, bensì il fatto, reale e concreto, della loro struttura sociologica e del loro ordinamento giuridico formale»"'- Da un punto di vista rigorosamente fenomenologico, dunque, i regna humana e i magna latrocinia si identificano perché la banda dei briganti «è pur sempre un gruppo di individui che è retto dal comando di un capo, e vincolato da un patto sociale e il bottino si divide secondo la legge della convenzione» 14 • C'è di più: i regna humana sono moralmente peggiori delle stesse bande dci briganti perché non solo presentano come loro nota

11

12 13

lhid., 4, 4, 5, voi. V/I, 257. Jhid., 4, 4, 5, voi. V/I, 256. S. COTTA, La città po/;tfr·a di Sant'Agostino, Edizioni di Co1nunità, Milano

1960,49. 14

AGOSTINO, op. cii., 4, 4~5, voi. V/l, 257.


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costitutiva la cupiditas che li accomuna ai latrocinia, ma v1 aggiungono l'impunitas. Rimane però da chiedersi conclusivamente in che modo si potrebbe meglio connotare quella giustizia, in assenza della quale si dà una perfetta coincidenza fra regna e latrocinia. Sergio Cotta acutamente risponde che si tratta della «giustizia cosiddetta naturale [ ... ] poiché la città politica non ha modo di realizzare quella vera giustizia che, per Agostino, è amore di Dio» 15 • Pertanto solo quel tipo di società che permette all'uomo di essere natura/iter giusto può dare origine ad un regnum che non si degradi a livello di latrocinium. E' opportuno a questo punto chiarire come lo spregiudicato realismo con cui Agostino guarda alla realtà statuale che si costituisce remota iustitia, non lo porti per nulla ad aderire alla tesi sofistica della identificazione del diritto con ciò che riesce più utile al forte. A suffragare questa affermazione si può citare un passo del cap. 21 del libro XIX del De civitate Dei dove vien spiegata in maniera limpida la presa di posizione di Agostino contro la filosofia giuridica dei sofisti. Scrive infatti il nostro Autore: «L'atto che si compie secondo diritto si compie certamente secondo giustizia ed è impossibile che si compia secondo il diritto l'atto che si compie contro la giustizia». E più avanti sostiene in modo inequivocabile che bisogna rigettare l'erronea opinione «Che è diritto quel che promuove l'interesse del più forte» 16 •

2. La "sacralità" delle istituzioni statuali

Nonostante la lucida consapevolezza, posseduta da Agostino, che raramente la società umana riesce a promuovere la giustizia naturale, egli insiste non poco sul dovere che ha il cristiano di ubbidire alle leggi anche delle istituzioni inique.

15

s.

16

AGOSTINO, op. cit., 19, 21, 1 vol. V/3, 69.

COTTA, op. cit.,

54.


Il tema della giustizia in Sant'Agostino

107

Al nostro Autore che fa sua l'affermazione paolina omnis potestas a Dea, la legge appare sacra e la sua sacralità non trova origine tanto nella concreta forma statuale che la emana, quanto ancora più radicalmente nella struttura di natura corrupta dell'uomo immerso nell'esistenza puntuale della storia. Questa tesi ha bisogno di un ulteriore chiarimento esprimibile in questi termini: l'uomo, dopo il peccato originale, vive l'esperienza della inimicizia con Dio che lo porta ad assumere nei confronti dei suoi simili un atteggiamento che molti secoli dopo Hobbes definirà bellum omnium contra omnes. Proprio per arginare questa perenne conflittualità interumana sorge lo Stato il cui compito è quello di mantenere un ordine nel disordine che è il principio costitutivo dell'umana società. «Lo Stato nota bene Giorgio Barbero - ponendosi fra il disordine che è nell'uomo e l'ordine che è di Dio, nella misura in cui pone un limite alla libertà del disordine, realizza sempre un qualche ordine, garantisce sempre una possibilità di valori»". Ma qual è il criterio valido per formulare una valutazione morahnente positiva sulristituzione statuale? La risposta di Agostino è decisamente semplice. Tale criterio consiste nel mantenimento della pace, di cui hanno bisogno nou solo le due città ma pure la Chiesa, anche se non bisogna dimenticare che l'unica vera pace è quella che non conosce tramonto, ossia la perfetta comunione con Dio. E' davvero acuta la descrizione che Agostino si sforza di fare per connotare, per così dire, i vari tipi di pace. Il vescovo d'lppona, iniziando la sua analisi dalla città terrena, che non vive di fede, ci avverte che la pace cui essa aspira e senza la quale addirittura cesserebbe di esistere, consiste in una «humanarum quaedam co1npositio voluntatum»n\ si direbbe con termine moderno in un "patto sociale" che ha come oggetto la gestione delle vicende della vita mortale nel tentativo di liberare l'uomo da ciò che l'ostacola nel raggiungimento dell'eterna beatitudine.

17 18

BARBERO, op. eh., 23. AGOSTINO, op. eh., 19, 17, vol. V/3, 60.

G.


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Qualitativamente diversa è la pace della civitas celeste che, superando la pace della casa degli uomini intesa come «l'ordinata concordia dei suoi abitanti nel comandare e nell'obbedire», si pone al livello mistico di quell'«unione sommamente ordinata e concorde di avere Dio come fine e l'un l'altro in lui» 19 • Si tratta insomma, per dirla coll'espressione del profeta Isaia, della pax opus iustitiae. E alla pace tende pure - lo si è già ricordato - quella patticolare civitas pellegrina, secondo la pregnante espressione latina, in hac mortalitate, che è la Chiesa. E proprio in un passo tratto dal cap. 17 del libro XIX Agostino chiarisce bene, parlando della Chiesa, l'obbligazione etica dei cristiani all'obbedienza alle leggi che regolano la vita mortale. Il vescovo d'Ippona, anzi, per connotare il particolare tipico di pace goduto dalla Chiesa si serve del verbo uti che, nel lessico filosofico agostiniano, va rigorosamente distinto da frui 20 • Solo la città celeste "fruisce" della pace, mentre «quella parte di essa, che è esule in cammino nel divenire e vive di fede, necessariamente deve trar profitto anche da questa pace fino a che cessi la soggezione al divenire alla quale è indispensabile una tale pace» 21 • Tornando al tema della sacralità del diritto, bisogna ulteriormente precisare che, per il nostro Autore, l'autorità viene esercitata di fatto sempre seguendo la volontà di Dio ed è per questa derivazione divina dell'auctoritas che il cristiano è obbligato ad obbedire all'umano potere. Infatti è proprio quel Dio "autore e datore della felicità" che dà i regni della terra ai buoni e ai cattivi, affinché coloro che lo servono nella virtù non aspirino a qualcosa di più grande. Se ciò è vero, per Agostino non si può interpretare il fenomeno storico in base al criterio del fortuito e del fatale: nulla accade per caso nella vicenda umana, ma tutto è iscritto nel piano provvidenziale di Dio e, perciò, il nostro apologeta può ribadire a chiare lettere che è

19

Ibid, 63. La distinzione fra "uti" e "frui" pervade un po' tutla la riflessione agostiniana. Si confronti in n1odo particolare il cap.25 del libro XI del De civitae Dei. 21 /hid., 196, 16, voi. V/3, 61. 20


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inconcepibile che Dio abbia permesso che i regni umani siano fuori della legge della sua provvidenza. Si impone, a questo punto del nostro discorso, una digressione: certo, può sembrare paradossale che Agostino, il teorico della pax omnium rerum, abbia quasi giustificato la moralità della guerra. E' un'affermazione questa che va, però, molto sfumata, mentre va respinta decisamente, perché filologicamente non fondata, la tesi di coloro che considerano l'Ipponate il sostenitore di una sorta di imperialismo bellico, non tenendo conto di un passo limpidissimo del De civitate (VI, VI), in cui si dice che «muovere guerra ai vicini [ ... ] sconfiggere e assoggettare per semplice ambizione di dominio popoli che non davano molestia, che altro si deve considerare se non un grande atto di brigantaggio?» 22 • Le pagine agostiniane dedicate alla guerra possono scandalizzare soltanto quel lettore che dimentica che la riflessione politica del nostro Autore non è mai intonata ad un piatto ed evasivo ottimismo, ma è tutt'al contrario segnata da un crudo realismo che proprio nulla concede ai voli arbitrari dell'utopia. Due sono i testi fondamentali in cui Agostino si occupa ex professo di questo argomento: il più classico è costituito dal cap. 74 del Contra Faustum, l'altro, il cap. 7 del libro XIX del De civitate, presenta indubbiamente delle sorprese per chi credesse che il vescovo d'lppona sia un convinto sostenitore delle cosiddette "guerre giuste". Prendendo le mosse da Contra Faustum ci rendiamo conto che Agostino accetta la guerra e ne sostiene la liceità morale solo in quanto essa può essere un instrun1entun1 JJacis e un momento provvisorio della spesso non "soave" dialettica storica, segnata com'è dalla dolorosa eredità del peccato d'Adamo. L'instaurazione, si direbbe con termine moderno, della "civiltà dell'amore" portata dal cristianesimo dovrà epochizzare con forme meno cruente di confronto fra gli uomini e i popoli quella disgrazia storica che comunque rimane il ricorso alle armi. Però anche nel caso-limite della guerra, bisogna condannare ciò che può accrescere la logica di morte,

22

lbid .. 4. 6, voi. V/I, 261.


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come «il desiderio di nuocere, l'incrudelire nella vendetta, il furore inquieto ed implacabile [ ... ] la libidine del dominio»". Passando ora ad analizzare il brano già citato del De civitate, ci accorgiamo che il vescovo d'Ippona non si fa scrupolo di ridimensionare la giustificazione etica delle cosiddette "guerre giuste", perché pur esse nascono, secondo !'acutissimo giudizio del nostro Autore che non si ferma mai agli aspetti esteriori dei fenomeni studiati, da una situazione di grave ingiustizia che ha le sue radici profonde dentro l'uomo ed è di una tale ingiustizia che bisogna «dolersi, sebbene da essa non dovrebbe nascere la necessità di far guerra» 24 .

Riprendendo ora, dopo quest'ampia parentesi sul tema della guerra, il filo conduttore delle precedenti riflessioni, bisogna innanzitutto pmre l'accento sul tentativo fatto da Agostino per definire le qualità morali di coloro che sono al potere. Si tratta, a parer nostro, di una brillante tipologia, incentrata tutta sul nesso fra potestas e felicitas, intravisto nei vari reggitori dello Stato. E' il caso ora di soffermarsi su questa pagina del De civitate dove preliminarmente l'Autore sostiene che l'esercizio del potere non è finalizzato a procurare la felicità a chi lo detiene ma ad alimentare quella degli altri; in una tale prospettiva il regnum diventa un servitium perché si possano garantire le condizioni dell'altrui felicità. D'altra parte gli uomini autenticamente religiosi che hanno assunto responsabilità di governo trovano nei grandi doni di Dio della pietas e della probitas motivi sufficienti per essere felici. Per l'uomo cattivo - altra tipologia presa in esame dal testo agostiniano - la potestas, concretamente esercitata, si trasforma di fatto in uno stimolo a compiere il male, perché essa concede all'iniquo la possibilità di fare qualsiasi gesto ingiusto e gli garantisce, inoltre, l'impunità.

23 AGOSTINO,

li cristiano e la guerra, in// pensiero pohtico cristiano, cit.,

136. 24

AGOSTINO, La città di Dio, 19, 7, vol. V/3, 37.


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1l 1

Non si può da ultimo, seguendo da vicino la riflessione agostiniana, non analizzare il problema del potere collocandosi, per dir così, nell'orizzonte mentale dei sudditi. Per questi ultimi la potestas iniquamente esercitata non costituisce una seria difficoltà per la loro vita spirituale, giacché la responsabilità del male è sempre della persona e solo il peccato del singolo, volontaiiamente deliberato, può mettere l'anima del suddito in una situazione di reale pericolo morale. Il costante agire violento dei potenti diviene, pertanto, uno strumento per mettere alla prova la reale consistenza dell'atteggiamento virtuoso di chi lo subisce o, come efficacemente si esprime il passo latino in oggetto, «non est poena criminis, sed virtutis examen». La libertà, come la verità, habitat in interiore homine e, perciò, l'uomo buono non è mai schiavo perché gode di quella intima libertas o, come preferisce dire il De libero arbitrio, di quella bona voluntas che lo sottrae, mediante la grazia concessagli da Dio, al peccato e al male. Riprendendo, infine, la tipologia rappresentata dal malvagio, c'è da precisare che egli, anche se regna, è schiavo e, come puntualizza Agostino, «nec unius hominis, sed, quod est gravius, tot dominorum, quot vitiorum» 25 e il passo che stiamo esaminando si conclude con una solenne citazione della Sacra Scrittura, tratta dalla II Lettera di S. Pietro, laddove l'apostolo, accennando ai perversi costumi degli eretici, afferma di loro che sono schiavi della corruzione, infatti «l'uomo è consegnato come schiavo a colui da cui è stato sconfitto». Sebbene Agostino - come finora abbiamo detto - dia un'importanza fondamentale e, quasi teologicamente motivata, all'ubbidienza alle leggi statuali, egli riconosce tuttavia che il giudizio umano pronunciato nei tribunali non presenta alcuna garanzia di certezza assoluta. Una considerazione realistica delle cose impone infatti che bisogna ammettere la fallibilità dell'umano giudicare. Che fare allora? Si dovrebbero forse sopprimere i tribunali umani? La risposta del nostro Autore è negativa. Egli ritiene, infatti, che il giudizio umano dei tribunali, pur con tutti i suoi limiti, è esigilo

25

lbid .. 4, 3, vol. V/l, 254.


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dall'interesse sociale che non vuole che alcun delitto rimanga impunito e su questo punto torneremo citando le stesse parole di Agostino. Il fatto che il giudice possa sbagliare non elimina il valore, si direbbe, oggettivo dell'istituzione giudiziaria. D'altronde, gli errori che si co1n1nettono, nonostante le migliori intenzioni, sono un ulteriore conferma della fragile condizione nmana inficiata, anche nei suoi poteri conoscitivi, dalla pesante eredità del peccato d'Adamo. Proprio per questo Agostino disegna a nere pennellate gli errori giudiziari umani ed è convinto dell'impossibilità che si possa arrivare, anche attraverso l'uso della tortura, a conoscere la verità. Ecco in che modo Agostino presenta e risolve il dilemma del giudice retto che si pone il problema se deve o meno amministrare la giustizia. «In questo buio della vita associata - leggiamo al cap. 6 del libro XIX del De civitate Dei - il giudice saggio siederà in tribunale o non oserà? Certo che vi siederà. Lo vincola infatti e induce a questo incarico la convivenza nmana che egli giudica illecito abbandonare»". Il giudizio emesso dal tribunale è sempre un penoso dovere, anzi l'uomo saggio - a dire di Agostino - dovrebbe intravedere «in questa necessità la propria miseria e detestarla in cuor suo». Chi vmrà giudicare con qualche atteggiamento di equanimità, deve saper trasformare il riconoscimento della propria umaua fragilità in preghiera, ossia in un grido a Dio perché lo liberi dalle sue necessità. Il problema del potere giurisdizionale del giudice è stato ampiamente trattato da Agostino anche nelle Epistole. Nella Lettera 133, infatti, rivolgendosi a Marcellino, lo invita ad adempiere la sua opera di giudice come un buon padre di famiglia e così pure nell'Epistola 134, avendo come interlocutore il proconsole Apringio, lo esorta ad avere timore del giudizio di Dio e a mettere in luce da mansuetudine della madre chiesa» 27 • Leggendo le sparse riflessioni di Agostino sulla delicata funzione del giudice, si può dire che dai suoi scritti emerga una 1

26

/bid., 19, 6, voi. 5/3, 35. bn1ito alla clen1enza, in li pensiero politico cristiano, cit., 307.

27 AGOSTINO,


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costante così esprimibile: il giudice, prima di emettere la sentenza, è chiamato ad una sorta di "giudizio interiore" su di sé, in modo che sappia sempre distinguere fra l'iniquità che va punita e la debole natura umana cui va portato soccorso evitando, in tal modo, la ben magra soddisfazione della vendetta e avendo invece come finalità ultima del giudizio il piegarsi misericordiosamente a curare le ferite dei peccatori. In questo senso non si può non citare l'Epistola 153 in cui Agostino forte della sua autorità vescovile, rivolge un caloroso appelJo a Macedonia, vicario d'Africa, affinché mitighi la severità delle sue sentenze contro i donatisti. Il nostro Autore in questa lettera prospetta quasi l'ideale di una collaborazione fra il rigore del potere giurisdizionale e l'intervento del vescovo ispirato alla carità cristiana. Non è quello di Agostino un appello ad evitare il giudizio, ma una esortazione perché i giudici siano «pacati anche nei confronti dei malvagi», «non perché - leggiamo nella lettera su citata - i malvagi ci piacciano e noi vogliamo che essi restino malvagi, ma perché Dio si placa con sacrifici di misericordia».2 8 •

3. Il problema dello Stato cristiano Il vescovo d'Ippona se da un lato non può essere sospettato di averci offe1to una descrizione favorevole alla res publica Romanorum, nonostante il suo atteggiamento non antiromano nei confronti dei donatisti, dall'altro tratteggia con animo non ostile lo Stato cristiano dell'avvenire che trova la sua incarnazione storica più significativa nella figura di Teodosio, di cui il nostro apologeta tesse l'elogio in ben due suoi scritti. Se vogliamo renderci conto delle simpatie teocratiche di Agostino che, seppur non devono essere considerate una necessaria conclusione del suo pensiero politico, tuttavia sono nelJa sua opera

28 ID., li diritto civile rende fa proprietà 111eno 1110/esta, in Il pensiero pohtico cristiano, cit., 320.


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vistosamente presenti, dobbiamo cogliere attentamente, oltre la lettera, lo spirito che pervade gli ultimi capitoli del libro V del De civitate Dei, protesi a celebrare le virtù morali degli imperatori cristiani. Celebrazione questa, però, che non impedisce ad Agostino di delineare un quadro realistico della situazione politica dell'impero, anche se essa gli appare felicemente segnata da quella svolta epocale che in effetti fu l'editto di Teodosio del 28 febbraio del 380. L'idea fondamentale che sorregge la trattazione della felicitas temporum assicurala alla Chiesa dai reggitori cristiani dello Stato, è riassumibile in questi termini: i nuovi governanti sono degni di ammirazione perché, lungi dal vivere la fede e la pietà e il culto del vero Dio come instrun1entun1 regni, fanno di queste virtù la 1neta finale del loro agire umano e, perciò, anche dell'attività politica stricto sensu. Nello spiegare il perché egli definisce "felici" gli imperatori cristiani, Agostino chiarisce che la loro felicità non può dipendere dalla lunghezza del regno e dall'abilità militare e politica con cui hanno domato le ribellioni; sarebbero queste delle caratteristiche del tutto insufficienti, se è vero che anche i pagani "adoratori di demoni" hanno ottenuto non meno significativi successi politici. I reggitori cristiani della civitas terrena vengono definiti felices soprattutto perché hanno saputo regnare con giustizia e non hanno ceduto alla troppo facile tentazione delle adulazioni servili. II loro maggiore merito, però, consiste nel fatto che essi, non dimentichi di essere dei "semplici uomini", non si sono inorgogliti per il ruolo ricoperto ed hanno operato in ogni occasione non «per a1nore di una gloria vana», n1a «per an1ore della vita eterna».

E' bene ribadire che per Agostino il discrimine ultimo fra la figura pagana dell'uomo di governo e quella cristiana non è di natura politica, ma etica. L'imperatore cristiano è, infatti, fondamentalmente chi . ha messo il suo potere «al servizio della maestà di Dio per estendere il suo culto»". Quel culto di Dio verso cui egli nutre senti1nenti sinceri di tin1ore, di amore e d'adorazione e il cui regno, nel

29

Io., La cil!à di Dio, 5, 24, vol. V/1, 393.


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quale non potrà temere rivali, vuole servire come telos ultimo del suo agire politico. Il vescovo d'Ippona - lo si è già ricordato - pronuncia un giudizio particolarmente lusinghiero nei confronti di Teodosio forse perché ritrova in lui e "nella sua convinzione religiosa" di spagnolo appassionato quello stesso ardore che doveva infiammare la sua anima, non meno appassionata, di africano. Di Teodosio certamente si può dire che, con la sua az10ne politica, ha dato corpo all'ideale del sovrano che si pone al servizio della comunità ecclesiale cattolica. Di lui Agostino scrive che «dall'inizio dell'impero non cessò di soccorrere con leggi giuste e elementi contro i miscredenti la Chiesa travagliata. L'aveva messa in difficoltà grave Valente fautore degli ariani; egli al contrario godeva di più di essere membro della Chiesa che imperatore»"'. Il programma politico di Teodosio che si propose innanzitutto l'abbattimento dei residui idoli pagani, come ad esempio le statue di Giove che erano state innalzate sulle Alpi, viene ad essere impreziosito dalla superiore generosità con cui si comportò con i figli dci suoi nemici che colmò di onori, non volendo mantenere sentimenti di inimicizia verso i suoi sudditi. L'elogio agostiniano del grande imperatore spagnolo, che pur non tace del massacro dei Tessalonicesi compiuto da Teodosio, tocca davvero, nella sua chiusa, il tono del panegirico quando il nostro apologeta sostiene che Teodosio acquistò grandi meriti per una moltitudine di opere buone. «Egli - scrive Agostino - dal fumo terreno della più alta vetta e altezza umana portò con sé queste buone azioni e altre simili che è lungo passare in rassegna. Loro ricompensa è la felicità eterna che Dio dà soltanto a coloro che sono veramente credenti» 31 . Di certo la forma teocratica di governo che Agostino vagheggia pone inevitabilmente il problema di come l'ordinamento statuale

30

/bid .. 5, 26, voi. V/I, 397. Ihid., 5, 26, 1-2, vol. V/1, 399. Anche l'Epistola 185 può ritenersi un elogio di Teodosio. 31


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debba comportarsi nei confronti di coloro che, pur cristiani, danno vita all'interno della Chiesa a forme ereticali o, peggio, scismatiche. La questione il vescovo d'Ippona se la pose e non in astratto ed anzi fu profondamente tormentato da essa. Forse a noi moderni, sostenitori convinti del principio della libertà di coscienza, pnò apparire sconcertante l'Epistola 93 dove Agostino evidenzia la sua fiducia nella forza coercitiva dello Stato chiamato ad intervenire manu militari contro Io scisma e l'eresia. La lettera anzi si sforza, non sappiamo ben dire con quali effettivi risultati, di trovare nella Scrittura una legittimazione del ricorso al braccio secolare ed è pervasa dalla convinzione che un simile rimedio, in alcuni casi, può apparire un doloroso ma necessario strumento per la realizzazione storica della promessa fatta da Dio della vittoria della Chiesa già nel saeculum. A questo punto, per una corretta intelligenza della pos1z10ne agostiniana, si impone, per lo 1neno, una precisazione di natura storica.

C'era stato, qualche anno prima che Agostino scrivesse la sua lettera, un fatto, in un certo senso, clamoroso: l'imperatore Massimo condannò a morte Priscilliano ed è storicamente innegabile che la diffusione di una tale notizia dovette lasciare inquieto il vescovo di Milano Ambrogio e tanti altri spiriti liberali alieni dal sangue. Forse lo stesso Agostino ne rimase scosso e in lui fondamentalmente fu sempre viva una posizione tollerante. Chi leggesse infatti l'Epistola 23 si accorgerebbe facilmente che il vescovo d'Ippona aveva tentalo un atteggiamento di pace e di apertura nei confronti dei donatisti che, come riconosce unanimemente la storiografia più recente, non furono certo dei "campioni" di tollerauza religiosa. «Non è mio proposito - afferma Agostino nella summenzionata lettera - quello di costringere degli uomini ad aderire contro la loro volontà ad una comunione piuttosto che ad un'altra; io voglio che la verità si renda di per sé manifesta a chi la cerca con tutta tranquillità» 32

32

Io., Apertura di pare, in Il pensiero politico cristiano, cit., 261.


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affinché, per dirla col testo latino quietissime quaerentibus veritas innotescat. La lettera depreca a chiarissime note il «terrore rappresentato dal potere temporale» e, con uu atteggiamento che, con terminologia moderna, si direbbe di apertura ecumenica, esprime il desiderio che con i donatisti si possa trattare «fattivamente secondo ragione e secondo l'autorità delle divine Scritture» 33 • E le parole conclusive dell'Epistola sono impregnate di speranzosa fiducia: «Si veda - si chiede il vescovo d'Ippona - finalmente se, assecondando il Signore i nostri sforzi concordi e le nostre preghiere, le brutture e le empietà che hanno macchiato le terre africane potranno essere cancellate dalle nostre regioni» 34 . In realtà, dunque, Agostino teorizza il ricorso al braccio secolare come extrema ratio per una energica correzione dello scisma donatista e soltanto contro di esso. Il ricorrere all'autorità coercitiva dello Stato nasce forse, come qualche studioso ha ipotizzato, dal desiderio di riportare all'unica fede coloro che già vi avevano aderito in libertà di coscienza. Nell'opera agostininana però, come è stato osservato <<non si trovano testimonianze probanti in una direzione piuttosto che in un'altra» 35 .

Ciò che si può asserire con certezza è che Agostino stesso rimase in intimo corde profondamente amareggiato nel vedersi quasi costretto a tematizzare l'intolleranza in materia religiosa. Si rileggano, a tal proposito, alcune affermazioni delle Retractationes che sono uno specchio fedele del dramma interiore vissuto dal grande vescovo nel dover far propria una posizione intollerante quando si rese conto che la libertà di coscienza, quasi sempre difesa nei suoi scritti, rimaneva impotente sul piano pratico a tener testa alla violenza donatista.

L.c. l.c. 35 G. BARBERO, Introduzione a Il pensiero politico cristiano, cit., 36. 33

34


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Cediamogli la parola: «Vi sono dei miei libri Contra partem Donati, nel primo dei quali affermai non essere mio gradimeuto che gli scismatici fossero costretti all'unità con le armi del potere secolare, qualunque esso fosse. E veramente allora ciò non era di mio gradimento, perché non avevo sperimentato il male che l'impnnità li portava ad osare, né quanto contribuisse a farli migliori una prudente disciplina» 36 • 1 donatisti africani «che hanno salutato i Vandali di Genserico, ariani, come liberatori» produssero un trauma profondissimo in Agostino che moriva nel 430, mentre la sua Ippona veniva assediata. E «moriva - nota acuta1nente Santo Mazzarino - da romano; anch'egli trascinato in mezzo alla dissoluzione di quell'impero o "città dell'uomo", di cui aveva interpretato la grave crisi, contrapponendola alla "città di Dio" nell'opera che porta questo titolo. [ ... ]. Questa morte di Agostino è significativa: sebbene "sapesse" la fine dell'impero, tuttavia il cattolico Agostino non moriva da antiroman0>> 37 •

4. La "legge di natura" e l'"ordo amoris"

La dottrina giuridica di Agostino, che ci siamo sforzati di espon·e in maniera ordinata pur non presentandola come un sistema

unitario secondo le intenzioni stesse del grande vescovo, si può definire giusnaturalista e che ruolo gioca in essa il cosiddetto "diritto naturale"? Se vogliamo dare delle risposte valide e document11te a tali domande, dobbiamo rifarci all'elaborazione articolata e ricca di conseguenze etiche che il nostro Autore fa del problema dellà legge nel libro I del De libero arbitrio, un'opera in forma dialogica prettamente filosofica, molto anteriore al De cìvitate (essa è infatti del 388) e che non risente ancora della successiva polemica antipelagiana.

36

AUGUSTINUS, Retractationes, 2, 5, riportato in G. BARBERO, op. cit., 36. S. MAZZARINO, Trattato d; storia ron1ana, II, Tumn1inel1i Editore, Ro1na 1956, 523. 37


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La trattazione agostiniana della legge s'inserisce in un quadro di discussione ·tipicamente morale, anzi il dialogo si apre prospettando il più classico dei problemi della riflessione etica, ossia l'individuazione del criterio per cui l'agire umano possa definirsi buono o cattivo. Dopo le pagine d'apertura l'opera vede un allargarsi del discorso alla dimensione giuridica che quasi viene privilegiata, per approdare infine ad una prospcttazione antropologica del tema affrontalo. Il De libero arbitrio, che ha come protagonista del dialogo Agostino e il suo discepolo Evodio, manifesta, indubbiamente, tutta la sua originalità e vivacità speculativa allorché viene dibattuto il caso di azioni che, seppur giuridicamente non sono condannabili come l'omicidio per difesa della vita, moralmente non possono essere giustificate. La casistica sollevata dal testo in esame aprirebbe un conflitto molto grave fra diritto e morale. Alla domanda di Agostino se sia «giusta la legge che concede al viandante di uccidere, per propria difesa, il ladrone», Evodio si tira d'impaccio e giustifica la norma che permette l'omicidio col ricorso al principio etico-giuridico che è se1npre bene evitare i I cosiddetto "male maggiore''. Ma il discepolo di Agostino aggiunge alla sua risposta, seppure in forma problematica, una preziosa chiarificazione: egli confessa di non riuscire a capire, concesso anche che la legge sia incolpevole, «come si possa prendere la difesa di coloro che uccidono» 38 . La normativa giuridica, infatti, non comanda di uccidere, ma lascia gli uomini che si trovano in una situazione-limite liberi di decidere. Essi, pertanto, avendo di fronte a loro dei beni che non dipendono dalla loro volontà e che di per sé non sono degni di un amore assoluto, hanno tutta la libertà di decidere di non commettere un 01nicidio. Evodio, approfondendo ulteriormente il suo ragionamento, non è tenero nei confronti di coloro che hanno ucciso un uomo in nome di beni che sarebbe opportuno disprezzare. «A me pare - prosegue

38 AGOSTINO,

Del pe1fettan1ente ordinato o della pe1:fetta giustiz;a, in Il pens;ero politico cristiano, cil., 87.


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l'interlocutore di Agostino - che la legge scritta, destinata a reggere il popolo, giustamente permette queste cose e che la divina provvidenza giustamente Ii punisca» 39 • Questa prima conclusione di Evodio, volta ad introdurre una netta distinzione fra la giustizia della legge divina e la giustizia dell'individuo, distinzione che Agostino apprezza molto «benché soltanto abbozzata» 40 , si dimostrerà di notevole importanza per il prosieguo della discussione che troverà il suo punto focale nella tematizzazione delle due leggi, quella eterna e quella temporale. Agostino, dopo aver affermato l'impossibilità che possa esserci nella «legge temporale nulla di giusto e di legittimo che gli uomini non abbiano derivato dalla legge eterna» 41 , fa un'interessante proposta di metodo: solo un'indagine squisitamente antropologica potrà fornire all'agire umano, giuridicamente condizionato, quel fondamento filosofico che gli permetterà di raggiungere la sfera della autentica moralità. L'indicazione offerta da Agostino si sintetizza proprio in queste parole programmatiche: «Vediamo dunque come l'uomo sia in se stesso perfettamente ordinato» 42 • Bisogna pertanto trovare con gli strumenti filosofici una convincente definizione dell'uomo. II nostro Autore, pur sollolineando a chiare lettere il valore della razionalità, non considera l'uomo aristotelicamente soltanto come "animale razionale", né vede in esso un essere che, non superando il piano della mera sensibilità, si possa totalmente far schiavizzare dalle passioni. La caratteristica più propria della persona umana appare ad Agostino risiedere nel libero arbitrio. «Non c'è nulla - egli scrive - che possa piegare alla libidine un'anima, se non la sua propria volontà e il suo libero arbitrio»43 . La natura umana, che non può ridursi intellettualisticamente a pura ragione o naturalisticamente alla sfera del sensibile, presenta uno

39

L.c.

40

L.c.

41

lbid ... 89. lhid .• 90. Ihid., 99.

42

43


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spessore di interiorità che le è assicurato, per così dire, proprio dal "libero arbitrio", che vien poi precisandosi nel testo agostiniano come "volontà buona". In che cosa essa consiste? Dallo stesso Agostino apprendiamo che, in virtù della sua presenza, noi «desideriamo di vivere rettamente e onestamente e di pervenire alla somma sapienza» 44 • La volontà buona segna il vertice dell'umana dignità e, confrontati con essa, nessuna valenza assiologica presentano i cosiddetti beni temporali «che facilmente si possono perdere». Soltanto la bona voluntas è un «bene assolutamente iucomparabile» 45 • E qui s'impone, anche se in maniera fugace, un confronto con Kant. Anche per il filosofo tedesco, infatti, la "volontà buona" è runica cosa incondizionatamente buona. Bisogna, però, subito avvertire che, mentre in Agostino la bona vo/untas è un puntare la tensione morale dell'uomo verso la felicità costituita dalla fruizione di Dio, per l'autore della Critica della ragion pratica la volontà buona è vissuta in vista della legge e, non essendo condizionata da paura o da speranza, di fatto prescinde da un immediato esito eudemonistico e teologico. Tornando ad Agostino possiamo dire che, pervenuto a questo punto della sua trattazione, egli ha posto, si direbbe per via empiricoinduttiva, le premesse per darci la definizione della legge eterna e di quella temporale. «La legge eterna - scrive il nostro Autore alla fine del I libro del De libero arbitrio- ci comanda di distogliere il nostro amore dalle cose temporali e di rivolgerlo, purificato, alle cose eterne», mentre la legge temporale comanda agli uomini che «usino delle cose temporali, quelle che, limitatamente al tempo, possono essere dette nostre» 46 , perché sia garantita la pace consistente nella tranquillitas ordinis che è lo scopo ultimo, come già abbiamo appreso, di una società che abbia superato la fase della perenne conflittualità.

44 45

lhid., 100. lhid., 106.

46

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La legge temporale, infatti, «costringe, per mezzo del timore metu (coàcet), e volge e rivolge ai suoi scopi l'auima dei miseri per il governo dei quali è stata fatta» 47 . La norma positiva, dunque, regola i beni temporali col timore, quella eterna prospetta all'homo viator la beatitudine che si può raggiungere solo con la carità che è il compimento cristiano di ogni legge. Non c'è in Agostino la netta distinzione, che sarà poi dell'Aquinate, fra legge eterna, legge naturale e legge positiva, anzi si può dire che il vescovo d'Ippona fa ricorso alla legge naturale solo per metterne in luce la strutturale insufficienza per i cristiani. Essa, che poteva avere una funzione prima che il Dio cristiano si rivelasse, rimane l'unica legge di cui sono dotati i pagani. E qui cade opportuna l'osservazione di Barbero secondo cui la legge naturale di cui parla Agostino «non è semplicemente l'ordine razionale astratto del mondo a cui fa riferimento la Stoa, ma la volontà di Dio, che non è semplicemente, come fu per Seneca, l'impersonale n1ens universi, 1na una volontà che si è storicamente manifestata nella Rive1azione» 48 .

Si rilegga, a tal proposito, l'incipit del paragrafo 21 del De spiritu et littera: «Cosa dunque sono le leggi divine scritte da Dio stesso nei cuori, se non proprio la presenza dello Spirito Santo?» 49 • Se ritorniamo, dopo l'analisi fatta sul De libero arbitrio, al De civitate Dei notiamo che esso si chiude con la vibrante certezza del raggiungimento dell'orda amoris, per dirla col titolo di un volume recentissimo che Remo Bodei ha dedicato al grande vescovo 50 . lm1nersi in Dio, scrive Agostino, «lì riposere1no e vedremo, vedren10 e amere1no, a1neremo e Ioderemo» 51 , faremo ossia l'esaltante

esperienza del novum che gli stoici con cui il nostro Autore polemizza negavano, ritenendo che «niente di nuovo accada che non sia

41 L.c. 48 G. BARBEMO, Introduzione 49 AGOSTINO, Lo spirito e

a/{ pensiero politico cristiano, cit.; 32. la lettera, 21, trad.it, Associazione di Studi

Tardoantichi, Napoli 1979, 67. 50 R. BoDEI, Ordo an1oris, Il Mulino, Bologna 1991. 51 AGOSTINO, La città di Dio, 22, 30, 4, vol. V/3, 421.


Il tema della giustizia in Sant'Agostino

123

accaduto prnna e non accada poi». L'assolutamente novum è per il vescovo d'Ippona l'incontro definitivo con Dio, la cui presenza è stata già sperimentata nella figura storica di Gesù Cristo, vivo nella Chiesa. L'orda amoris si pone indubbiamente in una prospettiva escatologica, ma esso è ciò che assicura che lo ius umano non diventi mai iniuria e rende accettabile da parte dei cristiani che vivono nel saeculum l'uso della ricchezza, perché l'uomo di fede «dispone di tutte le ricchezze del mondo, ma chi non ha fede non dispone nemmeno di un obolo» 52 • Il paradosso della condizione del seguace di Cristo che opera nel mondo, pur non essendo del mondo, permette al cristiano, che fosse ricco, di abbandonare le sue ricchezze con lo stesso animo sereno con cui è pronto, se gli si pone l'alternativa drammatica di doversi allontanare da Cristo, di lasciare genitori, fratelli e figli. Non è la ricchezza materiale di per sé uno scandalo, ma è il farsi possedere da essa fino ad anteporla a Cristo che pone l'uomo in una situazione di dannazione. Nell'Epistola 157 il vescovo d'Ippona, trattando ampiamente del cristiano e dei beni del mondo, tratteggia un quadro positivo e speranzoso su quei seguaci di Cristo che sanno "usare" del saeculum nell'ardente desiderio di "fruire" di Dio. I cristiani hanno una forte vocazione pedagogica nei confronti dei figli che allevano con autentica disciplina, aprono le loro case all'ospitalità, praticano le opere di misericordia, danno il pane all'affamato, vestono l'ignudo, redimono il prigioniero al fine di capitalizzare un tesoro immarcescibile in cielo. Ma l'orda amoris non si identifica nemmeno con le buone opere; infatti nell'Epistola sull'amore di S. Giovanni, Agostino insegna che, anche quando cessassero le opere di misericordia, non si estinguerà !'"ardore della carità" e per questo il cristiano preferisce portare aiuto ad «un uomo che non ha bisogno di nulla». Rivolgendosi direttamente ai suoi fedeli e approfondendo questo tema così si esprime il vescovo d'Ippona: «Se darai aiuto ad un

52 AGOSTINO,

Il diritto civile rende la proprietà meno n10/esta, cit., 318.


124

Enrico Piscione

infelice, puoi forse desiderare di insuperbirti dinnanzi a lui e di volere che egli ti sia soggetto, egli che è causa del tuo beneficio [ ... ]. Desidera che sia uguale a te, affinché ambedue siate sotto un solo Signore, a cui nulla può essere dato» 53 • La forma più al!a della carità è, tuttavia, l'offerta della testimonianza che la vittoria di Cristo inizia già nel saeculum e che l'uomo può essere liberato «dal male, non quello che gli è esteriore e, per così dire, estraneo, ma quello che gli è più intimo, quello che è veramente suo e che produce devastazioni più grandi e rovinose di quelle che può produrre qualunque nemico che infierisca dall'esterno»". Per possedere realmente le cose e godere di Dio e del suo regno, noi uomini secondo Agostino dobbiamo far nostra la grande formula che riassume, a giudizio di Sergio Cotta, tutta la spiritualità del vescovo d'Ippona: Uti ad ji'uendum Deo.

53 AGOSTINO,

Meditazioni sulla lettera dell'amore di S. Giovanni, trad.it., Città Nuova, Roma 1974, 197. 54 AGOSTINO, La dottrina cristiana è salutare allo Stato, in Il pensiero politico cristiano, cit., 311.


IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA DI DIO NELLA FILOSOFIA DI A. GRATRY

Il. ETICA E DIALETTICA. I PRESUPPOSTI ETICI DEUA TEODICEA**

ANTONJNO FRANco··

«Per conoscere la verità non bisogna solamenle osservarla in silenzio, con attenzione e raccoglimento: bisogna ancora averla in se stessi e viverne. Ogni speculazione che non sia sostenuta dalla pratica scivola a poco a poco verso il sonno e verso la 1norte» (Gratry, Logique, II).

* Docente di Teologia fondamentale e Filosofia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. ** Il presente articolo continua il nostro saggio Il problen1a di Dio nella filosofia di A. Gratry, pubblicalo in Synaxis 7 (1989) 181-234. Come avevano preannunciato nell'Introduzione (pp. 184-185), a questo lavoro seguirà un altro articolo sulla logica vivente e il 1netodo sapienziale che, concludendo la trilogia, proporrà un bilancio critico della teodicea gratryana.


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Antonino Franco

1. La scommessa della libertà

Gratry ha descritto minuziosamente il procedimento dialettico, come il procedimento fondamentale della ragione, gli ha voluto dare rigore logico e validità appoggiandolo sulla scienza e sul calcolo infinitesimale. Resta però un problema aperto: dati questi strumenti a portata di tutti e dato anche il senso divino, perché molti uomini non se ne servono o sono dichiaratamente atei? «In effetti - risponde il Gratry - la dimostrazione dell'esistenza di Dio, non è solamente l'atto e il procedimento fondamentale della vita razionale; essa è ancora l'atto e il procedin1ento fonda1nentale della vita morale e pratica»'. La conoscenza di Dio non è il risultato di un lavoro, puramente teorico, fondato sul senso divino: l'uomo di fronte al problema di Dio resta libero e deve compiere una scelta; egli ha in mano tutti gli strumenti e, al limite, può giungere a intravvederne la nozione. Ciò però non basta, l'idea di Dio ottenuta senza un atto di "volontà" libera che ama Dio e Lo adora» 2 , è una pura astrazione che, pur inostrandoci Dio come possibile, non ce lo manifesta come vivente. L'intelligenza senza il cuore, disposto ad amare ed a credere, non può da solo accostarsi in maniera vera a questo problema. L'oggetto teologico infatti si colloca su un piano diverso degli oggetti della scienza; questi vanno analizzati con metodi e procedimenti puramente razionali e soprattutto non si propongono alla conoscenza umana come fondatori di significati e di valori. Di fronte a Dio, colto come origine e fondamento dell'essere, si scommette il senso di ogni cosa e l'uo1no è costretto ad uscire da un orizzonte di presunta neutralità scientifica e decidersi pro o contro con un atto di libertà. Dio trovato e conosciuto, deve essere amato. La vita morale dell'uomo cambia allora radicalmente: egli deve scegliere ogni giorno, contro gli

1

A. GRATRY, De la connaissance de Dieu, II, Téqui, Paris 1918 9, 120.

2

L.c.


Il problema della conoscenza di Dio in A. Gratry

127

stimoli delle passioni, entrare nelle varie dinamiche del sacrificio e della morte, per obbedire all'Amore e per unirsi alla vita vera. Gratry quindi vede una strettissima connessione tra la ragioue e la volontà quando esse vogliono accostarsi al problema di Dio. «Questi due atti si corrispondono a tal punto che l'atto morale è la fonte, il punto di appoggio e la causa dell'atto razionale» 3 • Anzi emerge chiara una tesi: il primato in questa ascesa dell'anima a Dio, spetta alla volontà e alla prassi. Se l'uomo libero, con la sua volontà, resta chiuso alla voce del senso divino radicato nelle profondità del proprio essere, la sua ragione non può operare una vera dimostrazione dell'esistenza di Dio. Il procedimento dialettico quindi ha per condizione ontologica e fon tale· il senso divino, o senso dell'infinito, come una profonda e inevitabile attrazione verso il Sommo Bene. «Ma questa forza donata a tutti, agisce o si rilassa, o anche devia dalla sua direzione, secondo lo stato morale dell'anima»4 • Chiaramente si delineano due aspetti del problema: 1) non si può scindere intelligenza e volontà nella pratica della dialettica; 2) la volontà garantisce un retto funzionamento della dialettica quando è una volontà veramente sana e libera. Le due facoltà sono strettamente unite e non si dà una volontà sana che non concepisca il suo ruolo in concerto esatto con l'intelligenza e la ragione. Qui il Gratry torna ancora su uno dei motivi dominanti della sua riflessione filosofica: bisogna accostarsi alla verità con tutta intera l'anima. E' una cattiva abitudine logica creare una profonda separazione tra le facoltà dell'anima. Certamente esse non si identificano, tuttavia hanno un fondo comune, il senso, che è la radice profonda dove si toccano in qualche modo. E' il sentimento che garantisce l'unità dell'anima e delle sue funzioni: quando un'anima è divisa essa è fuori dal suo contesto naturale e quasi priva di pienezza di essere.

3 4

L.c. lhid., 55.


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Antonino Franco

Parlando ancora del senso divino, scrive: «[ ... ], il senso divino implica due elementi, un elemento di conoscenza, un elemento d'amore; il senso divino è insieme intellettuale e morale [ ... ]» 5 . Ora, non tener presente, a livello di ricerca o di teodicea, questa unicità di origine delle facoltà dell'anima e la loro «pénétration mutuelle» 6 , significa costruire una ricerca astratta e senza fondamento, orientata a concludere nel vuoto e nel nulla. Ogni procedimento conoscitivo - razionale dell'uomo in qualche modo si compie con l'appoggio della volontà e sotto la sua direzione. Nell'esercizio del sillogismo ci vuole un atto di volontà che aiuti a fissare la concatenazione dei concetti e a mantenere una attenta riflessione. E' la volontà che mantiene nel campo delle scienze la pazienza della ricerca minuziosa e della sperimentazione. Gratry, citando Royer Collard, insiste che «Pensare, è volere. La conoscenza è inseparabile da un certo grado di attenzione, e l'attenzione da un qualche esercizio di volontà» 7 • Certamente nel campo scientifico e puramente logico il ruolo centrale spetta alla ragione. Quando però non si tratta di verità matematiche, le cui conclusioni per una intelligenza attenta sono evidenti, il ruolo della volontà assume uua preponderanza notevole. Nelle verità di ordine morale, nella ricerca di Dio, la ragione talora può intravvedere soluzioni diametralmente opposte alle nostre passioni o al nostro modo concreto di vivere.

E allora, spesso nella problematicità delle soluzioni, la volontà può dar rilievo a delle rappresentazioni più in sintonia con se stessa. Così, in teodicea, con gli stessi strumenti e di fronte allo stesso spettacolo del mondo, si può giungere a conclusioni disparate. Perché tutto questo? Perché la volontà può puntare l'attenzione o su taluni aspetti del mondo o su tal altri, logicamente con conclusioni che non si equi-

5

Io., De la connafasance de Dieu, I, ciL, 290. lbid .. 186. 7 ID., Logique, li, Douniol, Paris 1854, 194 (il II volutne della Logique è citato da questa edizione). 6


Il problema della conoscenza di Dio in A. Gratry

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valgono. «Talora l'ordine e la bellezza del mondo portano l'anima all'ammirazione, alla lode, alla speranza e alla fede in questo essere invisibile che è annunciato e rivelato da ogni cosa. Talora il disordine e il male, la miseria e la brevità del presente, la morte soprattutto, ci turbano, ci rattristano, ci inducono alla sfiducia, alla mormorazione, alla disperazione»'. In questo caso si colgono aspetti differenti del reale. Quale scegliere? Come interpretarli? Qui la volontà esercita il suo ruolo di direzione della ragione, essa produce in modo preciso delle scelte che la ragione non saprebbe produrre perché si limita ad un piano rappresentativo.

Qui sta il dramma della libertà dell'uomo, qui il punto dove incominciano a dividersi le opinioni e il cammino degli uomini. Gli uni, constatando limiti e motivi di perplessità di vario genere, spengono dentro di sé l'esigenza dell'infinito; gli altri alla vista del contingente e del negativo prendono le ali per salire all'infinito, all'assoluto. li tutto è fondato su una scelta libera: o Dio o no?, o l'affermazione o la negazione. Conclude Gratry: «Ribadiamo ancora che la scelta è libera. Si è per scelta e liberamente, o per Dio o contro Dio»'. E' la volontà che, resa libera da tutti gli ostacoli passionali, crea le condizioni alla intelligenza di aderire a ogni sorta di verità morale. L'adesione quindi diventa un 1novimento di tutta fani1na che si accosta alla verità facendola sua; anzi vi ha già aderito perché questa verità in qualche modo è vissuta dall'anima. La verità aggiunge alle chiarezze intellettuali il peso delle ragioni del cuore. Addirittura le stesse chiarezze intellettuali diventano sterili e si offuscano a 1nisura che esse trovano resistenza nella volontà, e così l'anima perde la verità che non ha voluto accogliere. Per un retto giudizio sulle verità morali e per una conoscenza vera di Dio, la via per il Gratry è dettata dal «Maestro delle nostre anime» e si formu]a in questa frase evangelica: «Qui facit veritatem

venil ad lucem». Bisogna vivere la verità prima di conoscerla'"· Ora è

8

De la connaissance de Dieu, II, cit., 122.

9 L.c. 10

Io., Logique, 1, nouvelle édition, Téqui, Paris 1908, 10 (le citazioni del I volume della Log;que si riferiscono a questa edizione).


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attraverso la pratica del bene che si entra in sintonia con la verità, la si porta dentro e si diventa capaci di amarla sempre più. Dice ancora Gratry: «Ciascuno colora con la sua tinta propria tutto ciò che vede [ ... )» e ancora «Si conosce della verità ciò che si porta in sé - dice un antico. Tantum de veritate potesi quisque videre, quantum ipse est»ll. E' qui il fondamento di ogni sapienza, di una vita che vive nella ricerca della verità e di Dio. Con questo metodo solo, l'anima vive la verità, e la conosce vivendo nella profondità di una vita raccolta e non divisa, capace di lotta e di vittoria. «Dunque - conclude Gratry - la pratica del bene è realmente la sostanza e il fondo, da dove scaturisce con la fatica della speculazione, la conoscenza del vero» 12 •

2. La volontà sana

2.1 Natura della volontà Abbiamo parlato fin qui di volontà vittoriosa sugli stimoli delle passioni, di volontà sana, di libertà, come elementi necessari perché si possa mettere in moto il procedimento razionale dialettico che dal finito arriva fino a Dio. Per approfondire il discorso è necessario conoscere quanto l'autore afferma sulla volontà, e sulla volontà sana perché risulti perspicua la sua idea di libertà. Ciò serve a caratterizzare meglio i concetti di «guarigione e di cambiamento morale»'\ quali condizioni pratiche della dialettica. Gratry analizza la natura della volontà in tre pagine, con affermazioni comuni alla tradizione scolastica e con descrizioni poco approfondite. Egli afferma: la volontà è una facoltà dell'anima illuminata dalle acquisizioni chiare della ragione; essa scaturisce, come dalla fonte, dal senso o meglio dall'elemento affettivo della sensibilità.

!I

fbid., 56.

12

Ibid., 57.

13

De la connaissance de Dieu, I, cit., 53.


li problema della conoscenza di Dio in A. Gratry

131

«L'attrazione del desiderabile, al fondo dell'anima è la sua radice» 14 • Tuttavia essa è la facoltà che orienta questa potenza istintiva del desiderio verso le "chiarezze" ottenute dall'intelligenza. «Essa - quindi - è il legame e talvolta l'arbitro tra le nostre due potenze»", perché l'atto volontario si consuma con !'"illuminazione" della ragione che mostra i fini e il vero, e con l'ardore della sensibilità che ama come bene quanto la ragione le mostra. Detto questo, l'A. ci mette in guardia dal confondere la voluntas ut natura, attrazione naturale e quasi istintiva verso il bene, e la volontà propriamente detta, che agisce sempre illuminata dall'intelligenza. Gratry non va più oltre nell'esplicazione della natura della volontà.

2.2 Libertà e prescienza divina E' indubbio per Gratry che l'uomo srn libero; si fa continuamente esperienza della libertà, e sarebbe cadere nelle maglie dei sofisti pretendere la dimostrazione di un fatto evidente. Pensa il Nostro che come non si intende dimostrare l'esistenza dei corpi perché si vedono e si sentono, ·«allo stesso modo c'è libertà morale, giacché io la sento e la tocco, e l'esercito in ogni istante del giorno» 16 • C'è un solo problema che lo angustia a proposito della libertà: «è la difficoltà di conciliare la libertà e la prescienza divina» 17 • Questo problema, assai dibattuto nella filosofia, specialmente scolastica, interrompe un po' il nostro discorso sulla libertà come tale, tuttavia va ricordalo perché iu questo inciso il Gratry manifesta una certa confusione tra i problemi della filosofia e della matematica. Per lui infatti questa difficoltà «è speciosa e forte, la sua forza deriva da un errore quasi generale, cioè: si suppone che tra due verità, r... ] si può sempre

14 JI)., De la connissance de f'dn1e, I, Téqui, Paris 1915, 325 (citeremo in seguito da questa edizione). 15 lbid., 326. 16 lbid., 330. 17 Ibid., 331.


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passare per via d'identità o di ragionamento deduttivo» 18 • Il procedimento deduttivo qui crea il problema, perché esso mira sempre, con una concatenazione di ragionamenti, a ricondurre due verità all'identità. Per risolvere il problema allora bisogna cercare di non approfondirlo dal punto di vista della logica dell'identità, cioè di non cercare tra queste due verità un rapporto razionale di identità e una comune 1nisura.

Taluni, affermando la libertà, negano la prescienza di Dio, altri viceversa affermando la prescienza, negano la libertà. Il motivo è che vogliono trovare tra queste due verità un «rapporto razionale di ideutità»", rapporto che peraltro non esiste. «Sono verità di ordine differente, giacché l'una implica l'infinito e l'altra no, e non si può passare da l'una all'altra per via di identità» 20 • Per fondare la validità della sua proposta, Gratry invoca a questo punto l'argomento delle «grandezze incommensurabili, grandezze tra le quali non esiste alcun rapporto razionale» 21 , per esempio il lato e la diagonale di un quadrato. Allo stesso modo, non esiste alcun rapporto razionale tra la libertà e la prescienza di Dio: «Questo è precisamente il caso delle due verità di cui si parla: la libertà morale e la prescienza divina: queste verità sono irriducibili, inconciliabili, se si vuole, ma prese separatamente sono certe» 22 • E specificando senza possibilità di fraintendimenti, dice, che queste verità sono inconciliabili proprio nel senso preciso dell'inconciliabilità di un lato e la diagonale del quadrato.

Ma quale che sia il valore in sé di questi ragionamenti matematici, a noi sembra ancora come indebita l'assimilazione del piano matematico con quello metafisico. E poi, sembra che le difficoltà che presentano le grandezze incommensurabili al matematico, siano qualitativamente e formalmente diverse da quelle che presenta al metafisico

18

L.c.; cfr. Logique, I, cit., 63-64. De la connaissance de l'àn1e, I, cit., 332. 20 L.c. 21 lo8ique, I, cit., 67. 22 De la connaissance de !'tl!ne, I, cit., 334. 19


Il problema della conoscenza di Dio in A. Gratry

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il problema della conciliazione della libertà umana e la prescienza di Dio. Il fatto di non poter stabilire rapporti aritmetici tra due grandezze incommensurabili non crea alcuna contraddizione. Infatti <<non è di necessità razionale che tutte le grandezze in rapporto costante di relazione, siano riducibili a una comune misura» 23 . Nel nostro caso la ragione entra in crisi e crea il problema non già perché non può ridurre i termini all'identità e perché non trova una misura comune, bensì perché trova tra i due termini una incompatibilità razionale. La ragione qui si troverebbe di fronte ad una alternativa, o la prescienza di Dio o la libertà umana. Pensiamo che nessun geometra di fronte a grandezze incommensurabili si trovi nella necessità logica di sacrificarne una. Anche la soluzione o meglio la chiarificazione operata da S. Tommaso, per il quale tutto il problema è da collocare nell'infinita differenza qualitativa tra Dio e l'uomo, tra l'eterno e il tempo, per cui Dio vede in maniera a noi incomprensibile tutte le nostre azioni in un eterno presente24, non risolve la difficoltà. Resta sempre il problema: «Come concepire che Dio vede come presente tutto ciò che è futuro per noi? Il rapporto del tempo e dell'eternità non può formularsi in alcun modo. Là sta il prototipo della incommensurabilità, sono ordini di cose differenti: il finito e l'infinito» 25 • Per concludere, due riflessioni. 1) E' vero che la difficoltà resta, nella soluzione proposta da S. Tommaso tuttavia essa è collocata al posto giusto: nella coesistenza delle due verità. E poi, cosa più importante, toglie la contraddizione. Indubbiamente non possiamo comprendere come Dio vede tutte le nostre azioni in un eterno presente, tuttavia non potrebbe non essere così perché Dio è perfezione, atto puro, al quale ripugna ogni sorta di potenzialità e successione. E' perfettamente logico capire che la nostra capacità razionale non può comprendere l'infinito e appropriarselo, anche intenzionalmente, in n1anicra esaustiva.

23

B. POINTUD-GUILLEMOT, Essai sur fa philosophie de Gratry, Beauchesne,

Paris 1917, 277. 24 Cfr. I.e. 25

De la connaissance de f'àme, I, cit., 337.


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2) E' errato, crediamo, identificare il problema del matematico con quello del metafisico. Il primo si occupa dell'infinito e, «se non può trovare il rapporto (tra grandezze incommensurabili) che egli persegue, ciò non vuole dire che questo sia inaccessibile alla ragione umana, ma che il rapporto non c'è» 26 • La ragione non reclama quindi, nel nostro caso, un rapporto di quantità ma di coesistenza, e in questo caso gli indimostrabili matematici non c'entrano, tanto meno servono a illuminare il problema.

2.3 Volontà sana e libertà Ritornando alla libertà in sé, bisogna sapere cosa essa sia realmente. Gratry procede per esclusione e a cerchi concentrici per chiarirne a poco a poco la natura. La libertà non è una facoltà a sé stante, essa dice una qualificazione precisa della volontà. Di primo acchito, si può concepire come atto libero un qualunque esercizio della volontà. Ci sono, tuttavia, tante azioni che scaturiscono dalla volontà e che non sono libere nel modo più assoluto. Per esempio gli atti istintivi verso un fine non scelto. Potremo allora definire libero un atto che scaturisce da una scelta motivata con la ragione. Gratry si chiede ancora: «Ma quando la mia volontà si esercita, liberamente, senza cieco impulso, con scelta e ragione, per questo posso dirmi libero nel senso più pieno della parola?» 27 . Qui Gratry tocca la radice del problema: io posso benissimo usare gli strumenti della mia libertà alla perfezione, convincermi dell'utilità e della bontà di un'azione, tuttavia qualcosa o dentro o fuori di me mi impedisce di eseguire e di concretizzare il mio atto di volontà. Certamente qui il difetto di libertà non è da collocarsi nella mancanza pura e semplice "della libertà di esecuzione", esso è più profondo, e si situa nella natura stessa della libertà, che è finita, debole e talora in balia di passioni.

26 27

op. cit., 280-281. De la connaissance de f'dn1e, I, cit., 344.

B. POINTUD-GUILLEMOT,


Il problema della conoscenza di Dio in A. Gratry

135

Qual è allora la debolezza costituzionale della volontà? Gratry sostiene che un atto veramente libero è «un atto giunto al suo fine» 28 . In ultima analisi un atto può orientarsi verso un bene quando in qualche modo possiede già questo bene e lo vive nella propria vita. Fino a quando la volontà non ha alcuna partecipazione al bene che desidera, e c'è tra l'una e l'altro un intervallo o addirittura una incompatibilità sostanziale, la volontà avrà difficoltà a eseguire atti liberi perché è sostanzialmente fragile. In questa situazione «è chiaro che essa è limitata, almeno per l'esecuzione del suo atto, da un difetto di pienezza, di sapienza, di attività, o da qualche forza esteriore da vincere per essere libera e per regnare» 29 • Ora una volontà, tutta in atto, pervenuta stabilmente al suo fine non è dell'uomo, essa è la volontà di Dio. Ma che ne è della libertà dell'uomo? «E' visibile che l'anima umana, che è libera, dal momento che le condizioni della libertà sono date, non è sempre nelle condizioni di libertà» 30 . L'uomo vive un'esperienza di libertà li1nitata, crescente o decrescente. E' un essere dipendente da Dio che porta dentro un forte anelito di assoluto e tutte le condizioni ontologiche per raggiungerlo. La libertà dell'uomo segue i ritmi di questa situazione base: quando egli, mediante un esercizio di volontà orientata a Dio nella pratica del bene, si avvicina alla sua origine, lo spessore della sua libertà cresce perché il suo essere partecipa di un maggiore flusso di vita; viceversa quando con la sua prassi se ne allontana la volontà diviene debole, schiava delle passioni e quasi priva della visione del suo fine. «Se l'uomo si separa dalla sua fonte, per avere come sorgente solo se stesso, né altro punto di appoggio, è chiaro che si esamisce subito, decresce e si dirige verso il nulla» 31 • Il problema morale è ricondotto veramente ai termini essenziali: fare il bene è camminare verso la vita, verso il fondamento, verso Dio.

28

lbid., 345.

29 30

L.c.

Jl

/bid., 347. lbid., 341.


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Il nostro fine è vivere la libertà piena come vita di amore e di unione a Dio. Assistiamo così ad una identificazione: le condizioni morali della dialettica e la volontà sana altro non sono che la vera libertà. La libertà umana è una libertà dipendente ed essa è sana nella misura in cui vive in questa dipendenza. L'uomo dipende da Dio in tutto, e solamente sotto il suo influsso egli può volere. «Dio stesso è la radice prima della nostra libertà» 32 • Resta all'uomo di scegliere: o separarsi da questa fonte o unirsi con l'amore. Ora possiamo comprendere fino in fondo le prime parole del Gratry a proposito della libertà, dove dice che Dio ci ha fatti a sua immagine, liberi, perché è nella libertà che dobbiamo amarlo. Ma cosa vuol dire amare? «A1nare è unirsi>>. «A1nare è unirsi a Dio e dipendere da Lui, è ricevere la propria forza da Dio, conformarsi a Dio: è vedere la Sua conoscenza e volere la Sua volontà» 33 • La libertà deve camminare per la strada dell'obbedienza, che la purifica vieppiù, rendendola meno schiava delle passioni, colmando la distanza infinita che la separa dal suo fine. In fondo, mediante l'amore, essa mira a identificare la propria volontà a quella di Dio, attuando nel concreto questo adagio dell'amore: «Voglio ciò che tu vuoi perché ti amo» 34 • Bisogna quindi uscire dall'egoismo che ci pone lontani da questa sorgente come autosufficienti, e dalla sensualità che ci lascia sempre nell'ambito delle cose più basse e nei sensi, per essere veramente liberi di tendere al nostro vero fine. Così «la volontà libera dell'uomo, conformandosi a quella di Dio, diviene una volontà forte e saggia, sviluppata verso un amore che diviene sempre più grande» 35 • La libertà diventa più solida perché partecipa sempre più a quella di Dio. Compiere la volontà di Dio, recuperare la vera libertà, come mezzo dell'amore per unirci a Lui: questo è il compito che spetta all'uomo e alla sua libertà.

32

Jbid., 351.

L.c. 34 lbid., 352. Js L.c. JJ


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137

In altri termini, una volontà sana e libera altro non è che nna volontà che pratica il "metodo dialettico-sapienziale", che tende all'infinito, operando il bene. Una volontà libera che possiede Dio amandolo ha già realizzato nel vissnto quanto deve operare nel procedimento razionale dialettico: per questo, libera dalle passioni, arriverà a dimostrare l'esistenza di Dio, non come un Dio astratto ma vivente e operante. Dopo quanto abbiamo detto, risuonano chiare le parole del Gratry quando afferma che l'atto morale, la vita, un cuore amante sono «La fonte, il punto d'appoggio, la causa dell'atto della ragione. Se la volontà rifiuta il suo atto, la ragione non può consumare il suo. Lo spirito quando il cuore non adora Dio, non saprebbe operare da solo la dimostrazione dell'esistenza di Dio» 36 • Per questa ragione Gratry sostiene che il suo metodo è intellettuale e morale, cioè sapienziale, perché sa benissimo che una prassi morale come obbedienza a Dio e alla ragione è fonte di intelligenza. Qui si trova anche la risposta alla domanda iniziale: «Perché ci sono atei?». Gratry aveva risposto: <<Perché ruomo è libero e perché ci sono i cattivi» 37 • Vero! Quindi perché ci sono uomini che non scelgono la pratica del bene e non dirigono il loro cuore a Dio! li primato resta al vissuto.

Nella Logica, Gratry si chiede il perché i sofisti negano la libertà e arriva a questa conclusione: la negano «perché non hanno mai conosciuto nella loro anima l'ora della libertà»". Analogamente chi non ha conosciuto profondamente Dio mediante una vita santa e non lo porta già dentro, sarà sempre un ateo o con la nozione astratta di Dio o senza39 .

36

De la connaissance de Dieu, II, cit., 120. L.c. Logique, I, cit., 53. 39 Cfr. De la conni.\ ,·ance de Dieu, II, cit., 120. Il Gratry cita Kant come ese1npio tipico di teodicea puramente nozionale, affermando che la postulazione kantiana dell'esistenza di Dio è un ragionamento privo di fondainento, astratto, separato dal cuore e che non conclude nel modo più assoluto all'esistenza reale. Anche Hegel è 1nenzionato coine un ateo con la nozione di Dio, perché la sua filosofia, separata dalla sorgente divina e ripiegata sull'egoismo dell'intelligenza, pratica in 31 38


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3. Il sacrificio come metodo di libertà

Abbiamo descritto la volontà sana e la libertà, come condizioni del procedimento dialettico, soprattutto abbiamo affermato che la libertà è in qualche modo l'applicazione nel vissuto di questo metodo. Vorremmo appunto chiarire meglio questo concetto, analizzando il procedimento per il quale la volontà raggiunge questa purezza e si unisce al fine della sua natura. Lo stesso Gratry segue questa linea quando, proprio all'inizio del 2° volume De la connaissance de l'ame, auuuncia quale sarà l'iter della trattazione: «noi faremo un più grande sforzo per uscire meglio dall'astrazione e entrare di più nella sostanza delle cose» 40 • Cioè fin qui ci siamo occupati di morale, di libertà, di metodo, sempre da un punto di vista teorico, adesso parliamo dell'uomo concreto nel suo iter di purificazione e nel suo "procedimento" morale. E' un discorso particolarmente caro al Gratry questo; egli, pur sferzando in maniera decisa le abitudini logiche degli uomini di cultura del suo tempo, capisce bene e sente con particolare attenzione che prima di tutto, prima di ragionare, l'uomo deve fare i conti con la sua debolezza e con il mistero del bene e del male. Egli ha mostrato qual è il fine supremo della volontà: Dio amato con la totalità dell'essere; ma sente come è difficile per la volontà giungere a questo fine e praticare il metodo per anivarci. Ora qual è la situazione reale degli uomini? Essi sono immersi nell'egoismo, perché hanno distrutto ogni legame vitale con la loro sorgente, con Dio. Essi vivono iu un sonno mortale e in una totale chiusura all'assoluto perché mediante l'egoismo si sono posti al centro di tutto, «siamo in una forma di egoismo, assurdo e mostruoso, che consiste nel volerci far centro, principio e tutto in ogni cosa» 41 •

senso inverso il procedimento dialettico. Egli infatti alla vista delle cose create «anziché cancellare il limite e elevare all'infinito le pe1fczioni, cancella le perfezioni e spinge all'infinito il lin1ite; arriva così ad affermare che esiste un non essere assoluto e che non c'è altro essere assoluto che questo nulla». De la connissance de Dieu, II, cit., 127. 40 De la connaissance de f'dn1e, li, cit. 1 41 lbid., IO.


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L'intelligenza senza tale apertura al trascendente rischia la presunzione e l'orgoglio intellettuale che isolando anche dagli altri potrebbe far ricadere in uno stato di pubertà intellettuale. Come quel giovane che: «crede sinceramente di avere molte più idee chiare, una conoscenza dell'uomo, della natura e della società, dell'utile, del vero, di Dio e dei suoi rappmti con il mondo, senza paragone più profonda del 17° secolo, del secolo 13° e di quello dei Padri messi insieme» 42 • Un egoismo ridicolo che genera morte perché rompe l'unità della nostra anima, la indebolisce privandola della linfa vitale divina, mutando l'intelligenza in orgoglio e la volontà in cieco sensualismo. L'egoismo del senso, l'abuso di «questo fuoco che deve dare al cuore dell'uomo dei movimenti, alla volontà il suo slancio, alle membra la loro forza e al sangue la fecondità e la paternità di questo fuoco mescolato d'amore» 43 , inchioda l'anima alla terra e ai sensi rendendola schiava e incapace di operare uno slancio verso il Bene assoluto. «E' la duplicità di un'anima che, cessando di essere semplice, una, raccolta, prende in se stessa una doppia vita, l'una nello spirito, l'altra nei sensi; l'una al di sopra dell'uomo per presunzione e senza realtà, l'altra al di sotto dell'uomo per abbassamento e con realtà» 44 • Allora l'anima è malata, tutta debolezza e miseria, essa si preferisce a Dio e non sviluppa in sé i suoi doni, perché rifiuta di immergersi in Dio con il sacrificio. Con queste considerazioni Gratry non ha voluto fare una trattazione completa sui mali morali, ma ha inteso mostrare talora con insistenza (per es. quando parla degli effetti sul corpo della sensualità) che ogni male nasce dall'egoismo. Ed è l'egoismo con i suoi effetti di morte e di vuoto che domina nella cultura del XIX secolo. Perciò Gratry indica nella rinuncia al prop1io io e nel sacrificio il metodo, la via, la legge della libertà e della rigenerazione intellettuale e sociale. Il sacrificio «è la relazione necessaria della vita finita con quella infinita» 45, e l'unica via che ci unisce a Dio.

42

lbid., 17. lhid., 20. 44 lbid., 68. 43 45

De la connaissance de /'On1e , I, cit., 353.


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Ma qual è la natura del sacrificio? Gratry ha stabilito già la natura dell'egoismo come: «amore disordinato di sé» 46 : la virtù, allora, appoggiandosi su Dio deve adoperarsi a vincerlo. Questa vittoria e lotta interiore è il sacrificio. Tutta la sua opera consiste nel rompere le catene dell'egoismo, facendo uscire l'uomo da sé, farlo incontrare con gli altri per riconciliarlo con se stesso e con Dio. A tal proposito cita una frase del Theologicorum dogmatum di Thomassiu che sintetizza bene le sue opinioni sul sacrifico: «Aller à la raison, la soumettre à la raison souveraine, soumettre alors sa chair à sa raison» 47 . In questa frase il Gratry vede il significato di quel "uscire da sé" predicato dai sauti e anche l'espressione più completa del sacrificio come «mezzo universale di passaggio, cioè di unione del mondo a Dio, del finito all'Infinito» 48 • La natura del sacrificio è di rompere il ripiegamento dell'uomo su se stesso e di aprirgli la strada verso l'incontro con Dio. Il sacrificio dell'orgoglio consiste nell'uniformare la ragione e sottomettere l'intelligenza a Dio, ponendolo come centro di tutta l'attività razionale. Sottomettere la carne alla ragioue è rinunciare a vivere in maniera istintuale e ordinare la propria volontà secondo i desideri c le illuminazioni date da Dio alla ragione: questo è il sacrificio della sensualità.

3.1 La coscienza Si è detto che il sacrifico è analogo al procedimento razionale dialettico perché esso mira a colmare l'abisso che separa finito e infinito. Abbiamo visto ancora che il suo slancio verso l'infinito è fondato sul senso divino. Ebbene, analogamente, per Gratry, il sacrificio ha anche un suo punto di appoggio, "una forza" sulla quale la volontà, intenta a purificarsi, può appoggiarsi per unirsi a Dio: questa forza è la coscienza.

46

De la connaissance de l'dn1e, II, cit., 35. lbid., 40. 48 lhid .. 39.

47


Il problen;za della conoscenza di Dio in A. Gratry

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La coscienza è la voce di Dio profonda che ci spinge al bene, alla virtù e all'orrore del male, che giudica le nostre azioni, «una forza insomma che ci attira verso il sommo bene, questo senso del Dio buono, presente, vivente, che ci tocca e ci parla» 49 • Essa, ci sembra essere, in Gratry, il senso divino nel suo aspetto affettivo e volitivo. L'A. è portato a caratterizzare questa forza più a livello "sensitivo-affettivo" che razionale, come una perenne attrazione data da Dio perché gli uomini si a1nino e possano essere attirati a lui. Una forza, insomma,

che spinge irresistibilmente verso il bene e imprime un continuo slancio verso un avvenire di luce e di felicità. E' «la forza fiduciosa che mantiene nei nostri cuori la speranza indomita, malgrado tutti i dolori, e non cessa di dirci: "c'è di meglio!". Questa forza infaticabile che guida l'uomo nel suo viaggio terrestre come un viaggiatore entusiasta, ricco di gioventù e di illusione, che sogna sempre al di là di ogni orizzonte una natura più ricca e più bella; questa forza chiaroveggente che, in ogni speranza compiuta, ci mostra una vanità; forza casta e pura che ci trattiene di fronte al male e di fronte allo stimolo delle passioni; forza che si leva irritata e non sa tacere, quando si è commesso il male; che vibra e grida, anche quando la si vuole sopprimere: questa forza è la voce di Dio; è Dio presente dappertutto, Dio nel quale siamo e viviamo»'°. Tuttavia, anche nella concezione gratryana della coscienza sono contenuti forti elementi razionali, per es. quando identifica la coscienza con la "synderesis" di san To1nmaso, co1ne «dato innato dei principi morali» 5 1.

Indubbiamente il concetto tomistico di coscienza è molto più ricco e la sinderesi non è che un solo elemento di essa; Gratry però non approfondisce il problema. Allora qual è il ruolo che !'A. attribuisce alla coscienza?

49

lhhl., 45.

50

Ihid., 46. Ibid., 48.

51


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Rendere l'uomo sensibile al bene, fargli sentire il disagio e il vuoto dell'egoismo e rendere possibile, con una forte aspirazione al bene, il sacrificio. «Così, appoggiata su uno più forte di lei, l'anima può uscire dall'egoismo»". Un'ultima precisazione sul sacrificio, E' vero che il sacrifico della volontà cousiste a svincolarla da tutti i legami che la inchiodano al finito, tuttavia ciò non vuol dire annullare o in qualche modo decurtare le sue potenzialità. Si tratta di renderla libera, unendola a quella di Dio: «Bisogna ch'essa voglia come Dio, cioè con forza e sapienza crescente, e con libertà crescente sempre più improntata a Dio»53. In questo caso il cuore dell'uomo si dilata perché vive quasi della stessa vita di Dio. La volontà finita non diventa uguale a quella di Dio, né si annienta in essa, ma mediante una unione a Dio nell'amore, sviluppa indefinitamente se stessa. Quindi «sottomettere il finito all'infinito, per unire l'uno all'altro, è l'essenza stessa del sacrifico»54. Distruggere i limiti, significa liberare. Il sacrificio per Gratry allora opera nell'uomo una trasformazione sostanziale, riconducendo l'anima alla sua unità e il corpo alla bellezza dell'armonia, perché «è l'annientamento di tutto ciò che si oppone alla glorificazione dell'essere finito con l'unione all'infinito» 55 •

3.2 La funzione della croce di Cristo La descrizione del sacrificio pone al Gratry un problema grave a livello esistenziale: chi è l'uomo capace di operarlo? Egli sa bene che il sacrificio ha un primo momento "sanglant", difficile, che vuol dire «sacrificare il piacere e la gioia, quella dei sensi

52 53

54 .'iS

lbid., lbid., Jhid., lbid.,

50. 53.

39 . 66.


Il problema della conoscenza di Dio in A. Gratry

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e quella dell'intelligenza, sacrificare ogni sentire violento» 56 , cose alle quali siamo legati anche affettivamente. La risposta è duplice. 1) E' impossibile alla natura umana, nata sotto la legge della morte, ricostituirsi in unità e «cambiare la forma originale della propria vita» 57 • Dal punto di vista "naturale" l'uomo sembra condannato senza rimedio alla morte. Il sacrificio è necessario e nello stesso tempo impossibile per l'uomo naturale. Gratry dice: «nessuna ragione, nessun motivo 1norale, nessuna igiene, nessun interesse personale, anche quello della vita, non ottiene e non otterrà mai questo sacrificio [ ... ]. Ciò supera le sue forze» 58 . 2) Nella storia, però, c'è stato un fatto che ha cambiato radicalmente il corso degli eventi. Cristo «è venuto a compiere per noi questo impossibile sacrificio, questo sacrificio che dà la vita» 59 • Egli ha vinto il principio della morte e per Lui noi siamo capaci di liberarci dalla legge della morte che ci divide nel cuore e ci separa dagli uomini. Per Lui si può realizzare quello che è stato il progetto della creazione: «una pluralità di persone destinate all 1an1ore>> 60 • Così come la ragione non può percorrere il suo cammino fino in fondo senza un intervento di Dio, senza la fede, anche la volontà ha bisogno della grazia che scaturisce dal sacrificio di Cristo per operare la sua trasformazione. A questo punto Gratry interrompe la catena dei suoi ragionamenti per fare una constatazione amara: «Ma quando io vengo a Nostro Signore Gesù Cristo, al Re dell'avvenire, penso con dolore che una parte dei lettori mi abbandonerà. Il pensatore "separato", indurito nell'incredulità, cessa di ascoltare» 61 • Perché? Perché tali pensatori mutilano la ragione rifiutando di condurla al suo fine più alto, l'ammissione e la conoscenza dell'ordine soprannaturale [ ... ]62 •

56

Ibid., 143.

s1

L.c.

58

Ibid., 159-160.

59

Ihid., 143. De la connaissance de f'dn1e, I, cit., 340. De la connaissance de l'dn1e, II, ciL, 144. De fa connissance de l'tìn1e, I, cit., XXVII.

60 61

62


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L'uomo, per il Nostro, seguendo Maine de Biran, porta in sé tre vite: la vita del corpo, la vita dell'anima puramente naturale e la vita superiore dello Spirito divino operante nelle anime. Questi pensatori costruiscono la loro filosofia appunto su questo dogma: non c'è nell'uomo una terza vita che sia soprannaturale, o tutt'al più, non si saprebbe vedere un rapporto tra l'ordine soprannaturale e l'ordine naturale, tra l'orizzonte della fede e quello della razionalità dialettica. Ora, pensare secondo questo preconcetto ostinato, significa precludersi il fine di tutta l'esperienza umana e la sua pienezza, oltre che essere schiavi di un pregiudizio che l'esperienza smentisce mille volte. Perché non volere accettare la possibilità del miracolo? Che Dio può farci partecipare alla sua stessa vita e portarci a compiere azioni di cui non saremo capaci? «Noi siamo - insiste ancora il Nostro - per la trasformazione evangelica, opera della potenza e della grazia di Dio, uniti a Dio, siamo una stessa vita con Dio» 63 • In fondo perché l'uomo, innestato in una vita nuova, non potrebbe dirigere a Dio tutto il suo amore, porlo al centro dei suoi pensieri e sacrificarsi per vivere i1nrnerso in tale vita? 64 . Concludendo allora, il sacrificio opera di Dio e dell'uomo introduce l'uomo nella vita divina. E' a questa vita soprannaturale che tende l'uomo. E' al mondo soprannaturale che tende la ragione. Quindi è a questa via che deve guardare una filosofia sana, che non vuole dividere l'uomo a compartimenti stagno. A questa conclusione vuole condurci tutto il pensiero gratryano: «c'è una terza vita per la quale tutto il resto è fatto e senza la quale tutto soffre, il cuore e la ragione e anche tutti i nostri sensi e il nostro corpo» 65 •

63 De la conna;ssance de /"!hne, II, ciL, 164. 64 Vogliamo citare un testo a proposito della parola "innesto" che risulla essere un lermine chiave nell'articolazione del pensiero gratryano. Gratry, oltre a definire la fede come «La raison greffée de l'esprit de Dieu», affern1a: «Se l'innesto dicesse a un albero selvaggio: Produci dei frutti che non sono tuoi, l'albero risponderebbe: non posso. E l'innesto replicherebbe: senza di mc non puoi far niente, con il mio aiuto porterai nlolti fì·utti, ben superiori ai tuoi frutti naturali» De la connaissance de l'dn1e, Il, cil., 160. 65 De la connaissance de l'On1e, I, cit., XXIX.


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Ma per entrare in questa vita, ci vuole un radicale cambiamento; bisogna rinascere, bisogna essere rigenerati. E così noi «possiamo unirci a Dio mediante la grazia e l'amore, in modo tale che ci sia in noi come un essere nuovo che sia con noi» 66 •

4. "Resumé" sul metodo morale. Perplessità e suggestioni Come si risolve quindi il problema degli atei? Secondo il Gratry la soluzione risiede tutta nella libertà dell'uomo. Compito della libertà è quello di praticare la dialettica per arrivare all'essere infinito. Ma ciò non può avvenire senza mettere in opera il ~'procedimento morale" che di fatto con la pratica del sacrificio ci insegna a sacrificare le impressioni accidentali e passeggere, il nostro egoismo, le gioie finite e imperfette per arrivare all'infinito di cui esse sono ombra. «Questo cammino verso l'infinito mediante il sacrificio del finito, è la dritta via, la via del bene e della verità» 67 • Ma il sacrificio supera le nostre forze umane ed è solo possibile per un intervento soprannaturale'" da parte di Dio; ciò vuol dire accettare la croce di Cristo come un fatto rilevante nella ricerca filosofica. Muoversi in questa prospettiva quindi significa ancora rendere la fede come un fatto previo, essenziale e necessario perché si possa avere un rapporto vero con Dio e perché si possa metter in moto il procedimento dialettico. E Gratry lo confessa apertamente quando dice che egli sa tutto ciò per la fede ed è la fede che gli fa tematizzare . così il problema.

66

De la connaissance de /'iì1ne, Il, cit., 164. lbid., 123. 68 Gratry polemizzando con i cosiddetti filosofi "separali" sostiene che il 67

termine soprannaturale non indica qualcosa di superiore a ogni natura o anche contraria ad essa. Così scrive: «Or au dessus il n'y a rien. Mais notre théologie appelle surnaturel ce qui dépasse Ics forces de toule nature créée. Or, au dessus dcs natures créée, il y a la nature créée. in11nutable, il y a Dicu comme le croient tous Ics hommes. Eh bien! Ce que l'Hom1nc ne peut pas Dieu le peut». De la conna;ssance de l'iìn1e, II, cit., 145 (nota).


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Allora si illuminano in maniera particolare le parole che sono il motivo dominante del metodo sapienziale: «Lo spirito, quando il cuore non adora Dio, non saprebbe operare da solo la dimostrazione dell'esistenza di Dio, ne vede le ragioni se gli si mostrano, ma non ci crede» 69 .

E allora le prove dell'esistenza di Dio a posteriori a che cosa si riducono? Esse, a parere di Gratry, hanno un valore veritativo e logico straordinario, tuttavia si muovono nella prospettiva della "fides" già viva e operante che cerca comprensione e giustificazione (quaerens intellectum). Solo così si possono comprendere le simpatie di Gratry per la prova "a priori" di Anselmo che si articola nell'orizzonte di una appropriazione soggettiva e razionale dell'affermazione di fede. Sorge però qui un altro problema: può un credente quando parla di Dio, dal punto di vista filosofico, mettere tra parentesi la propria fede? Gratry pensa di no, anzi in tutte le scienze che studia e nelle indicazioni metodologiche che fornisce, sostiene che egli cerca di vedere ovunque raggi di luce evangelica. Concludendo, allora, bisogna dire che è la fede l'anima di tutte le scienze e in particolare la molla della dialettica? Per Gratry si! Bisogna far propria «prima di tutto la luminosa universalità del Vangelo»"', nella pratica del bene, amando Dio come la fonte di tutto 7 ', per sviluppare i germi divini che l'anima possiede. Ciò non è altro che l'esercizio concreto nel vissuto, mediante la volontà libera, della dialettica come metodo che unisce a Dio. Questa esperienza però esige di essere posseduta meglio dalla seconda facoltà dell'uomo, l'intelligenza, tematizzata e dimostrata come rigorosa dal punto di vista metodologico al pari di ogni allra scienza. Un'ultima questione: il Gratry non colloca troppo in alto il fine della morale? La morale come il metodo per "imparare a morire" era tipica di talune filosofie dell'antichità e Gratry è convinto che ciò cor-

69

70 71

lhid., 120. lbid., 156. Cfr. ihid., 159.


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risponda alle aspirazioni più profonde dell'uomo72 • La legge morale, imponendo il dovere, reclama il sacrificio e con il sacrificio conferisce all'uomo un grande dinamismo che non avrà mai fine perché l'oggetto del suo amore è infinito. La dottrina di Gratry, su questo punto, può essere sintetizzata da un testo degli Essais di Renan, citato dal Pointud-Guillemot: do sono convintissimo che la vita morale ha un fine superiore e che esso corrisponde ad un oggetto. Se il fine della vita fosse la felicità, non ci sarebbe alcun motivo per distinguere il destino dell'uomo e quello degli esseri inferiori. Ora da quando il sacrificio diviene un dovere e un bisogno per l'uomo; io non vedo più limite all'orizzonte che si apre davanti a n1e» 73 . Il termine mai adeguabile di questo amore è Dio, l'amore personale di Dio, il Bene sommo che ci attira costantemente a Lui. Questo grande ideale, abbiamo visto, Gratry lo propone con la concretezza dell'equilibrio cristiano che concilia la debolezza dell'uomo e la grandezza del suo destino nella croce del Cristo. Quando nelle Sources vuole essere più pratico ancora, condensa i suoi consigli in questa frase: «Sii buono» 7'1• Cjoè «sii giusto e vero>>

con il prossimo e ama Dio nella prassi, facendo di essa la preghiera della vita. Già aveva detto altrove, che il procedimento dialettico altro non è, nella vita quotidiana, che la preghiera come atto spontaneo e libero dell'anima umana, intelligenza e volontà. E ancora 'Io intendo in filosofia per preghiera, ciò che precisa Descartes, quando dice: «'Io sono un essere limitato, che tenta e aspira continuamente a qualcosa di migliore e di più grande di sé'. La preghiera è il movimento dell'anima dal finito verso l'infinito». 75 • E' chiaro che le implicazioni sociali di una dottrina della volontà sana, che colloca Dio al centro di tutto, sono notevoli. La posta in crisi dell'egoismo infatti apre alla comprensione profonda di tutti e alla so-

72

Cfr. ARISTOTELE, Etica a Nicon1acn, lib. X. Testo citato da Gratry in Lettres

sur fa Reh1:ion, Douniol, Paris 1869, 25 l. 73

74 75

op. cit., 310. A. GRATRY, Les Sources, Douniol, Paris 1862, 215. De la coinnassance de Dieu, I, cit., 46. Cfr. B. POINTUD-GlJJLLEMOT,


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lidarietà. Così esclama Gratry concludendo con una palpi tante preghiera il suo discorso sulla trasformazione: «Fonte vivente e vivificante di ogni linfa e di ogni giovinezza, e principio di tutte le cose, o Dio, avvicinarsi al vostro cuore è, nello stesso tempo, avvicinarsi alle anime · che a voi si accostano» 76 •

5. Appendice prima. Sulla morte

Dopo aver descritto il procedimento morale, Gratry si interessa nel libro VI del De la connaissance de /'ame «della morte come 1nezzo di trascendenza» 77 . 11 discorso non è nuovo, anzi sintetizza, alla luce dell'esperienza umana della morte, quanto già aveva detto, nei capitoli del libro IV, sulla trasformazione. Allora perché ce ne occupiamo? Unicamente perché il discorso ci pare l'applicazione, in actu exercito, di quanto era stato detto sul sacrificio, quindi un esempio pratico; e poi perché riteniamo il libro VI, il più ricco di accenti poetici e di spiritualità di tutta l'opera gratryana. La morte si manifesta quasi sempre all'uomo come una esperienza di totale distruzione e di annientamento, e l'uomo quando sente nella sua vita le prime avvisaglie della fine si dispera. Perché accade così? Perché emerge chiara una contraddizione: «La vita vuole vivere e tuttavia muore» 78 • Si è tristi perché la morte distrugge la vita ed è un ostacolo a che la vita continui. Si chiede il Nostro; la morte è realmente un ostacolo alla vita? Gratry analizza nel primo cap. intitolato L'autunno, cosa avviene quando la morte è alle porte, nell'età in cui la vita declina. Fatto meraviglioso! L'esperienza umana subisce una sorta di riduzione all'essenziale. Non si è più capaci di memoria viva, non si vuole più usare un linguaggio tecnico e parole talora vuote, cadono i falsi idoli, e soprattutto «la religione venuta per poesia e per impres-

76 77

De fa connaissance de !'tin1e, II, cit., 180.

Ihid., Préface, XXII. 18 lbid., 368.


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sione sentimentale, per scienza individuale e ragionamento privato, la religione superficiale e vaga crolla nell'anima»n E ancora: «Le vecchie parole, quelle di cui ho l'uso, mi divengono sempre più chiare, sempre più ricche di senso: le vedo trasparenti fino alle cose e talvolta fino a Dio» 80 • Quindi gli acciacchi della vecchiaia, con i loro limiti, condizionando molto la nostra vita di relazione, ci portano lentamente al gusto del silenzio, luogo dove la parola tace per far posto alla Parola di Dio. «La vita crescente - dice - mi fa tacere perché esige una più alta parola»". Anche la scienza, pur non essendo falsa, diventa vana per una tale anima. «Perché? perché il sublime istinto della morte la obbliga a cercare Dio. Ciò che la mia anima domanda finalmente è di vedere Dio, ossia quella realtà assoluta, di cui la mia scienza non è che il riflesso, e di cui il 1nio pensiero non è che la ricerca» 82 . Allora la tristezza di fronte alla morte nasce dalla paura di non volerla guardare in faccia specialmente per non averla praticata durante la vita. La vita che non è stata vissuta nella "prospettiva della morte)', non è raccolta in Dio, è ancora i1nmersa neJJfegoismo: per questo non capisce la morte. La morte fisica va interpretata per il Gratry alla luce del sacrificio e del procedimento dialettico, come una concreta espressione di ess1.

La morte, nel pensiero gratryano, «è quella forza che fa passare dalla tena al cielo, ossia dallo stato di vita mobile, opaco, informe, allo stato nuovo che si attende ... (essa) è il processo principale della vita» 83 • In altri termini, con la morte avviene quanto abbiamo descritto a proposito del procedimento dialettico, ci si proietta dalla limitatezza del finito nell'orizzonte dell'infinito.

79 lbid., 374. La traduzione di questo brano è tratta da A. GRATRY, La sete e la sorgente, antologia a cura di M. BARBANO, SEI, Torino 1937, 115. 80 lbid., 370. 81 Jb;d., 383. Io., La sete e la sorgente, cit., 121. 82 Jbid., 386. Io., La sete e la sorgente, cit., 122. 83 Io., La sete e la sorgente, ciL, 136.


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Infatti essa cancella l'ultimo limite che è d'ostacolo all'incontro diretto con il Creatore. Allora, la pratica del "metodo morale" altro non è che una pratica analoga alla morte, che ci porta con il sacrificio a vivere più in unione con la Sorgente. Solo così noi riuscia1no a comprendere la morte nel suo significato· cristiano, che annienta la contraddizione tra il desiderio di continuare a vivere e la morte: essa diventa uno strumento di vita, di una vita più alta, la vita in Dio. Gratry nell'epilogo della sua opera, nel dialogo tra un discepolo e un maestro ideale, così fa dire al maestro 84 : «La morte è dunque il processo sovrano della vita, perché colloca l'anima in Dio: annienta la distanza, la differenza, tra il suo stato reale e il suo stato ideale. Spinge la vita dal finito all'infinito, nel senso che la riunisce alla sorgente infinita la quale la rende stabile, eterna e piena» 85 • Quindi la morte è nella vita quello che per l'intelligenza e per la volontà è il vero metodo logico, il vero metodo morale; tutte cose che annientano la distanza uomo-Dio e ci immergono, in un rapporto di amore, nella Sorgente della vita. Concludendo, abbiamo visto che la morte è intesa da Gratry non solo come il fatto fisico della morte che conclude la nostra vita terrena, ma anche con1e una n1orte da vivere. Nel primo caso, essa si fa sentire nella vita di ogni giorno, specie nella vecchiaia, come processo di raccoglimento in Dio, di perdita dell'accidentale, conducendo l'anima all'ascolto della Parola. Questo fatto ci dovrebbe indurre a vivere l'esistenza secondo una logica di morte; morte del negativo e del

84 A proposito di questo 1nacstro, nella prefazione ai due volumi De la connaissance de l'ihne, così scrive p. Gratry: «Vorremmo avvertire i lettori che il 1naestro ideale introdotto nell'epilogo dell'opera non è affatto il div in Maestro [ ... ]. Questo maestro non è neppure un uomo vivente sulla terra. Tuttavia non vogliaino affermare che sia del tutto una finzione» (p. XL). Siamo daccordo con la Barbano che interpreta quest'ullima frase vedendo nel 1nacstro «quella parte superiore e veran1ente ispirata dell'anirna del Gratry che viveva librata sopra le contingenze e assisteva come dall'alto il suo essere u1nano così sensibile e vibrante, attraverso le impressioni, le agitazioni e le esperienze della vita quotidiana>>. M. BARBANO, IN A. GRATRY, La sete e la sorgente, cit., 132. In effetti il niaestro esprime il più genuino pensiero gratryano, un Gratry che contctnpla le cose quasi itn1nerso nella divina indifferenza della morte. 85 Io., La sete e la sorgente, cit., 137; De la connaissance de !'dn1e, II, cit., 408.


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limite per entrare nella vita: «La morte attua la meravigliosa parola: "Uscire da sé e entrare nell'infinito di Dio"» 86 . La morte cammina davanti a Dio per piegare la terra sotto il passo dell'eternità: «Tale sarebbe il senso della morte: essa camminerebbe davanti a Dio, annunciando la sua venuta, e preparando la terra all'avvicinarsi della vita etema» 87 • Descrivendo la morte abbiamo inteso mostrare come essa sia per il Gratry una applicazione del procedimento dialettico generale, che si esprime prima nella rnorte fisico-cos1nica e poi come indicazione morale di vita. In questo secondo caso, diventa pratica di vita perché essa deve essere liberamente scelta e amata: deve essere l'incontro dell'amore dell'uomo e della grazia di Dio. Giusto quanto accade per il sacrificio. In questo senso in Gratry morte e sacrifico si identificano88.

Tutto il discorso di Gratry si muove nell'ambito della più viva tradizione teologica cristiana, che ha come poli essenziali la morte e la resurrezione del Cristo. E' in tal senso che Gratry nell'epilogo non si stanca di citare il Vangelo~ «Chi perde la sua ani1na la trova, e chi vuole conservarla, la perde » (Mt 16,25). Ci sembra in questi testi sulla morte che il Gratry abbia dato prova di essere un grande poeta e di praticare fino in fondo il suo metodo sapienziale, parlando con il cuore della sera della vita; e mostrando con l'animo di un vero cristiano «l'altra faccia della morte, quella faccia luminosa che succede alle tenebre e al dolore»"'.

(continua)

86 87 88 89

ID., La sete e fa sorgente, cit., 137. De la connaissance de /'fÌ/ne, 11, cit., 367. Cfr. Io., la sete e la sorgente, ciL, 147. A. GRATRY, Henri Perreyve, Douniol, Paris 1866, 238.



LE SORPRESE DELL'UMANAMENTE POSSIBILE: JUV ALTA E LA GIUSTIFICAZIONE RAZIONALE DELL'ETICA

ANTONINO CRIMALDI'

L'intera ricerca di E. Juvalta' è finalizzata allo scopo di rispondere alla domanda se e in che misura si possa trovare una giustificazione razionale ai valori etici e alle norme di comportamento che dovrebbero essere seguite per attuarli. E' probabile che l'interesse rivolto quasi esclusivamente a questa domanda, concernente il nucleo di ogni riflessione sull'etica, sia stato attinto da Juvalta nel corso della sua formazione filosofica con l'assimilazione del pensiero di Kant, e sia stato acuito dalla volontà di misurarsi in modo critico con le teorie dei due opposti schieramenti

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Ricercatore della cattedra di Storia della filosofia n1oden1a e contemporanea ne11'Università degli Studi di Catania. 1 Gran parte degli scritti sono raccolti nel volume unico, pubblicato a cura e con una Avvertenza di L. Geyn1onat, E. JUVALTA, I !i1niti del razionalismo etico, Einaudi, Torino 1945. Le citazioni, pertanlo, fanno riferi1nento a questo volume, indicato con la sigla, ormai convenzionale, LRE. Una bibliografia degli scritti di e su Juvalta, curata da M. Quaranta, si trova in Rivista di storia della filosofia 3 (1986), un fascicolo monografico dedicato al pensiero di Juvalta, che contiene anche una "testi1nonianza" su E. Juvalta "filosofo e maestro" dell'allievo L. Gey1nonat. Tra le monografie (pochissime) dedicale a Juvalta, mi lin1ilo a segnalare quella, agile ed equilibrata, di E. PICCARDI, Morale e filosofia morale in E. Juvalta, Marzorati, Milano 1978 e quella di M. VIRDLI, L'etica laica di E. Juva!ta, F. Angeli, Milano 1987, dove si sostiene che i "limiti" del razionalismo non assu1nono in J. il senso di una perdita in·eparabile da evocare con toni elegiaci, ma diventano il presupposto indispensabile alla fonnulazione di un'etica della tolleranza, laica antidogmatica.


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che nella filosofia italiana di fine Ottocento tenevano il campo: quelle dei positivisti, convinti di poter fondare la morale sulla scienza, e quelle degli spiritualisti di diversa estrazione teoretica, altrettanto convinti di dover salvaguardare la specificità dei valori etici col supporto di costruzioni metafisiche o della "speculazione religiosa" come antidoto al riduzionismo scientista di stampo positivistico. E' certo, invece, e si può affermare sulla base di indicazioni inequivocabili dedotte dagli scritti, che tale interesse trae forza in Juvalta da un intento morale e umano di più vasta portata: l'urgenza di dover fronteggiare i conflitti e le divergenze tra criteri di valutazione etica antitetici, conflitti rilevabili «in forma più o meno palese nelle discordanze, incongruenze, opposizioni che agitano ormai anche la comune coscienza conternporanea» 2 e coinvolgenti non so1o l'ambito dei comportamenti privati, ma anche gli assetti della società nei diversi livelli della sua organizzazione. Juvalta, autore monotematico per eccellenza, che ebbe la ventura di dare una impostazione originale ai problemi dell'etica nell'Italia del primo Novecento\ in cui si faceva sentire l'influsso ege1nonico dell'idealismo gentiliano e crociano, e che, proprio per questo, non destò un'attenzione proporzionata al suo merito, oggi per consenso unanime è collocato a fianco di filosofi quali Moore, Russell e Sidgwick, e non delude le aspettative di lettori abituati alla complessità delle attuali elaborazioni teoriche in questo campo di indagine. Ma non delude, aggiungo, neppure quanti condividono la preoccupazione umana .che fu sua, e che esprime non tanto il bisogno intellettuale di costruire sistemi coerenti di spiegazione della dimensione etica, quanto piuttosto l'assillo di trovare criteri condivisibili di verifica intersoggettiva dei valori. Tenuto conto di tale urgenza, il bisogno di reperire e di applicare criteri razionali alle scelte di valore a partire dal quale si apre

2 Su la pluralità dei postulati di valutazione n1ora/e (1912), in LRE, 221. Cfr. anche E. SANTUCCl, E . .!uva/ta e il pragn1atisn10, in Rivista di storia della filosofia,

cit., 479. 3 Cfr. in proposito M. FERRARI, Enninio .!uva/ta e la cu/tuta filosofica italiana del prilno Novecento, in Rivista di storia della filosofia, cit., 421 sgg.


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l'interrogativo se e in che misura ciò sia possibile nonostante il fatto che di solito lo riteniamo auspicabile, viene facile inserire il tentativo juvaltiano in un'ottica in cui le eventuali aporie riscontrabili nella sua ricerca o le oscillazioni sull'uso di determinati concetti, le eventuali incoerenze e contraddizioni, lungi dall'essere spacciate per conseguenze inevitabili di un'angusta visione razionalista, vengano visti come indizi di un cammino costellato di ostacoli, proprio perché chi lo intraprende è alieno dal formulare ipotesi o dal ricorrere ad argomentazioni poco soddisfacenti sul piano logico e razionale. E poiché tutto porta a credere che per Juvalta, al quale il tema kantiano del limite della ragione doveva essere molto familiare, il toccare in ethicis tale limite non poteva costituire una sorpresa, è da ritenere che la sua scelta metodica di escludere argomentazioni insostenibili sul piano logico e razionale non gli veniva dettata da ipoteche razionaliste, ma dalla convinzione che solo restando nei confini del piano logico e razionale si possano produrre argomentazioni soddisfacenti, cioè intersoggettivamente condivisibili e verificabili. Considerato da questo punto di vista, il tentativo juvaltiano di indagare sulla possibilità di una giustificazione razionale dell'etica non si configura come una subordinazione dell'etica ad una ragione mitizzata nei suoi poteri, quanto piuttosto come reperimento di criteri di confronto universalmente accettabili dei valori etici. Premetto che l'indagine di Juvalta, per aperta ammissione dell'autore, nella misura in cui è condotta in totale aderenza ai presupposti della sua costruzione teorica, va incontro al fallimento: egli, infatti, iniziato un itinerario di ricerca che, come si è visto, ha lo scopo di sormontare il "cattivo soggettivismo etico", il politeismo dei valori e, soprattutto, affidata la riuscita dell'impresa alla giustificazione razionale, finisce con il constatare l'impotenza della ragione nella scelta dei postulati etici e, indirettamente, con il sancire l'invincibilità teoretica del "cattivo soggettivismo"'.

4 L'espressione non è di Juvalta, ma 1ni sembra abbastanza efficace per dare l'idea della problematica da lui affrontata. Di "cattivi soggettivisti" in una accezione più ristretta (i soggeUivisti edonisti) parla G. Preti: G. PRETI, li problen1a dei \la/ori, l'etica di G.E.Moore, Franco Angeli, Milano 1986, 164.


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E' da notare, per inciso, che l'assenza di giustificazione razionale in una teoria etica non comporta inevitabilmente la caduta in un relativismo morale dagli esiti scettici, come implicitamente si dà per scoutato nel discorso di Juvalta, dove la constatazione dell'assenza si risolve nella constatazione di un vuoto che pregiudica l'affermazione dell'oggettività del valore: basterebbe citare in proposito la stessa teoria di Moore, la quale, pur essendo ancorata ad una posizione non-cognitivista, sostiene appunto l'oggettività dei valori morali'. In questo scritto mi propongo di mettere in evidenza i motivi che spingono l'autore a cacciarsi nel suddetto vicolo cieco, e i motivi che, attinti dalla sua critica demolitoria nei confronti dei tentativi fondazionisti opposti ai suoi, hanno, a mio parere, validità intrinseca, in quanto ritengo che Juvalta sia un maestro non tanto e non solo per ciò che sostiene in positivo, ma anche per ciò che ripudia o contesta delle dottrine etiche non conformi ai principi della sua impostazione filosofica. Mi occuperò, prima, degli argomenti addotti da Juvalta per escludere il supporto della metafisica e della religione alla fondazione dei valori etici. In un secondo tempo, del ruolo che Juvalla assegna alla ragione nell'analisi dei giudizi di valore, ruolo dal quale scaturisce il senso da lui assegnato al termine razionalità: l'ipotesi che intendo sostenere è che là dove Juvalta si imbatte nei limiti del razionalismo etico, per citare il suo scritto più famoso, si può intravvedere non solo il disagio di una preclusione, ma anche lo spiraglio di una via di accesso alla specificità dell'esperienza morale. I due aspetti, il rifiuto della metafisica e della religione come patrimonio di certezze utilizzabili per la fondazione dell'etica e il concetto di razionalità implicito nel discorso juvaltiano, possono sembrare entità eterogenee, ma in effetti si implicano a vicenda, poiché la neutralizzazione delle verità metafisiche e del credo religioso è sostenuta

5 Cfr. in proposito G. PONTARA, li razionalisn10 etico di E. Juvalta e i suoi lin1iti, in Rivista di storia della filosofia, cit., 517. Il saggio di Pontara si distingue per l'atteggiamento critico con cui accosta l'opera di J., in un serrato confronto con gli indirizzi della ricerca conten1poranea che fa en1ergere non poche carenze dell'in1pianto teorico juvalliano.


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dall'autore sia in quanto essi non vengono considerati pertinenti al problema della fondazioue, sia in quanto essi non vengono ritenuti compatibili con il proposito di accostare il problema restando nell'ambito della pura considerazione razionale, Per capire gli argomenti a cui Juvalta fa ricorso nel prospettare la non-pertinenza della metafisica e della religione con la giustificazione razionale dell'etica, risulta indispensabile richiamare in sintesi le distinzioni metodologiche fondamentali da lui introdotte come criteri preliminari all'accostamento del problema. Non sarà inutile precisare che Juvalta nei confronti delle cosiddette verità metafisiche esprime un atteggiamento ambivalente: da un lato, riconosce apertamente che esse possano pullulare da un bisogno intellettuale incoercibile, come del resto aveva sostenuto Kant, e dall'altro ritiene che le soluzioni date «ai problemi di natura metafisica» siano soluzioni dogmatiche, vale a dire soluzioni inficiate da affermazioni non verificabili o da intuizioni non controllabili, e perciò mancanti del requisito indispensabile per farle includere nel novero delle argomentazioni razionali. ,A, più riprese Juvalta sostiene anche che la giustificazione razionale in quanto tale non esaurisce l'arco di problemi dell'etica e non toglie l'esigenza di porre, dentro l'etica, problemi di natura metafisica. Questo atteggiamento ambivalente, in cui confluisce la revoca dell'affidamento a verità metaempiriche dettata da un certo discredito e l'accettazione di nodi problematici nell'etica stessa esorbitanti dall'ambito della giustificazione strettamente razionale, si risolve in una sorta di epoché o di lucida sospensione delle tesi metafisiche e religiose per perseguire il tentativo di riconoscere alle norme morali un valore etico "all'infuori" di ogni ipoteca religiosa e metafisica. Si vede bene come questo all'infuori significhi a/l'infuori di ciò che ognuno crede, o di principi trascendenti il piano della comune esperienza umana, a/l'infuori delle vedute soggettive. Juvalta individua nella cosiddetta esigenza pratica, caratteristica della esperienza morale, la compresenza di due esigenze diverse e convergenti che devono essere ben distinte a livello teorico quando si vogliano chiarire i problemi fondamentali dell'etica.


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Si tratta dell'esigenza giustificativa e dell'esigenza esecutiva6 : la prima mette capo direttamente al tema della giustificazione vera e propria dell'etica, e viene soddisfatta allorché si colgono i motivi per cui riconosciamo giusto seguire una determinata norma e il fine al quale essa è ordinata. La seconda è soddisfatta quando si riesce ad individuare i motivi che possono indurre all'osservanza della norma nel modo più efficace possibile, cioè motivi che siano di tale efficacia da spingere «ciascuno e in ogni circostanza» ad anteporli «ad ogni altro ordine di motivi». In sintesi, l'esigenza giustificativa si risolve nella domanda: perché riteniamo giusta una norma o un tipo di comportamento? L'esigenza esecutiva risponde alla domanda: che cosa ci induce di fatto o ci potrebbe indurre con più efficacia ad agire in conformità a ciò che riteniamo giusto? Quali siauo le questioni che si aprouo nel cercare risposte idonee al primo interrogativo, e quali siauo le difficoltà di ordine teoretico suscitate dalle proposte di Juvalta, sarà detto in seguito. Per comprendere, tuttavia, in che misura il proposito dell'autore di escludere la metafisica e la religione da una ricerca che risponda all'intento di trovare una giustificazione razionale dell'etica sia sorretto, oltre che da criteri di opportunità, da solide motivazioni teoretiche, occorre tener presente che, per Juvalta, l'ambito di competenza dell'etica teorica, o dell'etica come scienza, è dato esclusivamente dai problemi sollevati in rapporto alla prima domanda, in quanto essa, e solo essa, verte sulla determinazione di ciò che è giusto fare; mentre il secondo interrogativo, che riguarda il come indmTe il soggetto morale ad agire secondo i dettami della norma ritenuta giusta, tocca argomenti di pertinenza della pedagogia o della psicologia. Ne segue che la suddetta esclusione apparirà esaustivamente motivata se Juvalta avrà modo di fare a meno di qualunque ipoteca metafisica proprio in relazione a quella tematica della determinazione del fine giusto in cui egli riconosce il compito principale, se non esclusivo, dell'etica teorica.

6 Per la formulazione che dà Juvalta cfr. Prolego111eni ad una 11u1rale distinta dalla metafisica (1901), in LRE, 4. Un accenno anche in LRE, 170 e 171.


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E qui non si può non registrare una prima ambiguità di fondo della concezione juvaltiana: infatti, Juvalta intende por mano al progetto di un'etica teorica che sia scientifica (e non metafisica), e con etica scientifica egli dà a capire di voler significare un'etica che sia in grado di pon-e in chiaro non solo i fini che l'agire morale si propone come supremi, ma anche i motivi che li rendono giusti, cioè i motivi da cui dipende la loro moralità. Si tratta di una concezione "forte" dell'etica che mal si concilia con altre affermazioni seminate negli scritti, come questa dove, appunto, egli lascia intendere che il compito di un'etica scientifica dovrebbe essere limitato a dimostrare la coerenza logica dei postulati etici scelti dai soggetti con le azioni che essi devono compiere per tradurli in pratica, la congruenza del fine morale con i mezzi adoperati per conseguirlo, o meglio, dovrebbe servire ad accertare quali comportamenti siano o non siano compatibili col fine scelto come valore morale, qualunque esso sia: «E' in questo senso [ ... J che si può parlare legittimamente di una morale come scienza indipendente dalla metafisica. Nel senso che, postulato un fine con1e morale, !a costruzione deduttiva che se ne ricava può e deve essere scientifica; non nel senso[ ... ] che possa essere stabilito o dimostrato o fondato dalla scienza il valore morale di quel che si pone come fine» 7 • E l'affermazione potrebbe essere condivisa se Juvalta restringesse il significato del termine scienza alla pratica teorica e alle metodologie delle scienze empiriche, ma non è così, perché il più delle volte il termine scienza è usato estensiva1nente co1ne sinonimo di conoscenza razionale e la conoscenza razionale viene intesa come conoscenza conseguita da quella che oggi si suole definire ragjone "stru1nentale" che stabilisce i mezzi e non il fine. In realtà Juvalta a dispetto di questo suo modo di concepire la ratio scientifica con1e ratio puramente strun1entale o come deduzione che ricava dal fine già dato le possibili conseguenze, o come ratio che misura l'adeguatezza dei mezzi al fine, attiva nella sna ricerca un altro e ben più impegnativo modello di razionalità, quello che indaga direttamente sulla "bontà" del fine morale, sulla validità morale del fine

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Postulati etici e postulati 111etafisici (1909), in LRE, 202.


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stesso, e in ciò consiste la perenne attualità della sua ricerca, nonostante le remore ideologiche che lo spingono a dubitare della legittimità di una tale impresa. Ora, per tornare al tema dell'esclusione della metafisica dalla morale come scienza, Juvalta ritiene che il bisogno di ancorare i valori morali a certezze religiose o metempiriche, pur non essendo per nulla pertinente al piano dell'esigenza giustificativa, abbia un ruolo deter1ninante nel garantire l'esigenza esecutiva, perché, lo ricordiamo, essa concerne l'efficacia dei motivi che influiscono nell'adottare una certa linea di condotta morale, posto che la si condivida. Infatti, osserva Juvalta, se guardiamo alla dinamica concreta dell'esperienza morale, possiamo notare con1e in essa il soggetto associa costantemente ciò che ritiene giusto con l'obbligo di doverlo eseguire e ne deduce che il giusto non può non essere allo stesso tempo obbligatorio. Da qui il salto teoretico che mira ad identificare il giusto con l'obbligatorio. Da qui anche l'affanno dei "cultori della morale" nel preoccuparsi di fondare teoreticamente l'obbligo cercando ragioni forti che valgano a giustificarlo. Juvalta non mette in dubbio che il reperimento di queste ragioni forti costituisca il territorio di caccia preferito dei sistemi religiosi e metafisici. La necessità di garantire la "cogenza" dei valori morali opera come una leva potente nel fare appello a convinzioni che possano vincere con la loro forza di suggestione le resistenze che si oppongono all'ordine morale. Né si può negare che i sistemi religiosi e metafisici attingano abbondanti motivi di suggestione dalla sfera affettiva, essendo essa, come in ogni manifestazione umana, coinvolta anche nell'esperienza morale, dove «le speranze e le angosce della coscienza» giocano un ruolo non secondario 8 • Si vede bene come, per Juvalta, la cosiddetta «postulazione religiosa e metafisica» possa essere «parte integrante della moralità», poiché incide sulle condizioni psicologiche ed emotive del soggetto motivandolo ad agire moralmente e venendo incontro a quelle istanze che, pur non essendo esclusivamente etiche, si intrecciano indissolubilmente con esse nel vissuto. Ma Juvalta rifiuta recisamente che tale

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LRE, 206.


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postulazione possa essere parte integrante in una costruzione logica che riguardi l'idealità morale. E le ragioni addotte in proposito non sono di poco peso. Egli spiega che il convincimento di ritenere indispensabile la metafisica e la religione ,per la giustificazione dell'etica sorge sempre sulla base di una confusione tra esigenza giustificativa ed esigenza esecutiva, rileva che questa confusione porta a preoccuparsi più di garantire l'obbligo che di accertare la giustizia del fine morale, mette infine in evidenza con mirabile sottigliezza d'analisi come sia razionalmente infondato ogni abbinamento o identificazione della forza con il valore morale. L'identificazione del giusto con l'obbligatorio, fa notare ancora una volta, sebbene sia un dato empiricamente rilevabile, non si giustifica dal punto di vista logico. L'abbinamento del valore morale con la coscienza dell'obbligo di seguirlo sorge nella vita pratica dalla constatazione che la condotta umana tende il più delle volte alla trasgressione anziché all'osservanza della norma, e questo prevalere dell'inosservanza sull'osservanza della giustizia finisce col fare considerare la possibilità della trasgressione come una caratteristica della condizione un1ana, come «un portato necessario de11a natura umana» 9. E' pur vero che nella loro evoluzione storica, gli individui e i gruppi umani avvertono prima la coscienza dell'obbligo e poi la percezione del valore, ma, se la constatazione ci fa senz'altro scoprire qualcosa di incontestabile sulla reale predisposizione del soggetto umano, essa non ci rivela una altrettanto incontestabile caratteristica intrinseca del valore morale. Il valore morale sussiste, è il caso di dire, nella sua aseità a prescindere dall'obbligo che esso impone di seguirlo, perciò l'etica pura, secondo Juvalta, deve fare astrazione dalle condizioni empiriche se si propone di delineare l'oggetto della sua ricerca considerandolo in se stesso e in ciò che lo rende tale e non altro. D'altro canto, che l'obbligo dell'osservanza sia altra cosa dalla determinazione di ciò che è giusto, e che l'uno e l'altra mettano capo a due esigenze distinte e distinguibili sul piano logico, lo si può dedurre

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lhid., 15.


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dai tentativi di fondazione della morale condotti in nome della fede religiosa: l'unificazione ·oggettiva delle giustizia e dell'obbligo porta in questo caso a reperire il fondamento di ambedue in un Ente Supremo al quale vengono dati gli attributi di Somma intelligenza e di Somma 'Bontà. Dio viene concepito quindi come un Sommo Potere che è in grado di obbligare in modo assoluto, ma quest'obbligo non discende esclusivamente dal potere divino, bensì dal fatto che tale potere, in quanto potere di una Somma intelligenza e Bontà, sa che cosa è il bene, lo vuole ed esige che sia attuato perché, appunto, è bene. La proiezione di due qualità distinte sull'Essere Divino posto a fondamento del valore morale dimostra, dunque, che uell'esigenza etica, l'impulso all'obbligazione è nettamente separabile dall'essenza della giustizia. In sintesi si può concludere che la coscienza, quando percepisce l'obbligo come condizione necessaria dell'osservanza morale, non approva l'obbligo in quanto tale, non approva l'obbligo perché obbligo, bensì approva che !'osservanza della norma giusta sia obbligatoria, sicché la giustizia della norma non dipende dall'obbligo di osservarla, ma è l'obbligo dell'osservanza a dipendere dal fatto che la norma sia giusta. Le costruzioni 1netafisiche e religiose, inoltre, si ispirano ad una pluralità di credenze e di riferimenti metempirici, i quali a loro volta generano sistemi di valori diversi e talora incompatibili e contrastanti: con quale criterio si prende posizione, allora, nella scelta di una credenza per preferirla ad altre o per respingerla? Non certo col criterio della validità oggettiva, posto che ogni fede rivendica per sé una validità assoluta. Infatti si suole discriminare tra una fede e l'altra, tra un sistema metafisico e l'altro sulla base di un criterio morale: si sceglie l'una e non l'altra perché si ritiene moralmente più valida o idealmente più elevata e la si giudica dal grado di idealità morale ad essa attribuita. In ciò si mostra come la religione o la metafisica, invocata a fondamento della giustizia della norma morale, sia in realtà sottoposta ai vincoli di quel giudizio etico che essa presume di fondare. Fin qui le argomentazioni di Juvalta circa il ruolo sussidiario delle dottrine religiose e metafisiche nell'agevolare il compimento dell'esperienza morale e circa le ragioni che portano a considerarle logicamente non determinanti in ordine alla definizione del valore.


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E' curioso notare come la complessa disamina juvaltiana possa offrire, su un piano problematico del tutto estraneo all'autore, anche ottime ragioni per stigmatizzare l'uso improprio della fede religiosa e la sua riduzione a finalità esclusivamente etiche: gli apologisti della religione che tendono ad esaltarne l'importanza in vista del rafforzamento del senso morale non si accorgono di declassare un'esperienza ritenuta totalizzante, come quella religiosa, ad un semplice mezzo di edificazione morale, sanzionando così l'inutilità della religione stessa ove venga provato di poter perseguire con altri mezzi lo scopo al quale essa viene di fatto subordinata. Ma, si è detto, Juvalta avrebbe fornito la prova decisiva per sostenere la fattibilità di una costruzione razionale dell'etica soltanto a patto di dimostrare che essa sia possibile a prescindere dal ricorso a postulati metafisici o religiosi. E' riuscito nell'intento? Per trovare una risposta all'inteffogativo dovremmo scavare nel groviglio di questioni che Juvalta affronta quando tenta di raggiungere per approssi1nazioni concentriche il nucleo dell'esperienza mo~ raie cercando di metterne in chiaro i tratti specifici. Basterà qui ricordare quanto sostiene a proposito delle caratteristiche essenziali del fine morale, cioè a proposito di quei requisiti che rendono il fine, o lo scopo intenzionato nell'agire, un fine morale e non di altro genere. Questi requisiti, a parere di Juvalta, devono essere tali da conferire al fine una "desiderabilità" che sia «riconosciuta universalmente» e, per di più, una desiderabilità che sia riconosciuta, pure universalmente, «come superiore e preminente rispetto a quella di qualsiasi fine». In sostanza, l'agire etico ha la sua specificità nell'essere orientamento ad un fine o scopo al quale si annette un valore supremo tale da renderlo preferibile sopra ogni altro fine o scopo. L'affermazione che sembra scaturire da una rilevazione puramente fenomenologica del valore morale comporta a livello teoretico implicazioni che si riflettono sulla delimitazione dello statuto teoretico dell'etica come scienza, così come Juvalta mostra di concepirla, non mancando di prospettarsi e di prospettare le condizioni in base alle quali essa può considerarsi possibile: «Se il fine di cui può essere as-


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sunta questa universale e preminente desiderabilità è umanamente possibile, cioè tale che se ne riconosca possibile il raggiungimento senza assumere o postulare nessun intervento soprannaturale o sopraun1ano, la costruzione etica sarà scientifica; se no, sarà religiosa o metafisica. E quindi il problema della possibilità di un'Etica scientifica assume questa forma: se si possa assegnare un fine, naturalmente, cioè umanamente possibile, al quale sia riconosciuto un valore superiore ad ogni altro fine» 10 • Volendo restare entro i confini dell'umanamente possibile, non per velleità razionaliste, ma per dare la garanzia della scientificità alla costruzione dell'etica, Juvalta ha buon gioco nell'additare le scappatoie e gli espedienti reperibili nelle dottrine etiche per i cui fautori questi limiti si rivelano stretti e scomodi. li principale cortocircuito ideologico è provocato in tali teorie dalla preoccupazione di voler tutelare la preminenza del fine morale su tutti gli altri scopi. I metafisici, secondo Juvalta, ragionano nel modo seguente: la desiderabilità di un fine per essere superiore alla desiderabilità di ogni altro fine deve confrontarsi con un fine che abbia valore assoluto; ma un valore assoluto ad un fine lo può dare soltanto una ragione assoluta, una ragione che non si limiti all'ordine

delle realtà empiriche; dunque non ci può essere fondazione dell'etica senza il ricorso alla metafisica o alla religione. Al ragionamento Juvalta obietta che, in tal modo, il fine morale diventa un fine soprannaturale o sopraumano, proprio perché lo si concepisce, per definizione, foori dalla portata «dell'efficienza naturale e umana». Ora, Juvalta. non nega che si possa assumere legittimamente come fine supremo un fine ulteriore, un fine che vada oltre le aspettative della realtà umana naturale ed empirica, un fine sopraumano. Esclude, invece, che un fine del genere sia necessario a costruire 1

un etica scientifica: am1nesso pure che si voglia partire da un valore

assoluto nell'assumere il fine morale, non ci si può fermare a tale enunciazione di principio, in quanto si devono poi da esso dedurre norme di condotta che valgono «nelle relazioni della vita comune, familiare e sociale», sicché la presunta assolutezza del fine si dissolve

!O

!bid., 86.


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nella determinazione di fini umani relativi, finiti, conseguibili nella vita pratica. Tanto vale, allora, reperire il valore morale a partire da fini «Umanamente possibili» come appunto si può e si deve fare qualora si voglia porre mano ad un'etica teorica che sia allo stesso tempo scientifica. In effetti Juvalta, pur concedendo in apparenza ai "cultori della morale" il diritto di cercare i loro assoluti in tutta tranquillità, nella sostanza non solo dichiara di ritenere la loro esigenza del tutto improduttiva e inutile, ma dimostra anche che essa è afflitta da una contraddizione logica insanabile: «[ ... ] dichiaro di non capire come da un fine assoluto si possano ricavare delle norme per la condotta in condizioni finite, da una al di là le norme per un al di quà [ ... ] perché non si potrà mai dimostrare un legame di condizionalità tra un certo modo di operare e un fine soprannaturale; essendo il proprio e il caratteristico del soprannaturale di essere fuori dalla efficienza naturale e umana. Se si considera il fine sopraumano come un effetto che può essere condizionato da mezzi pura1nente umani esso cessa di essere sopraumano» 11 • All'obiezione di Juvalta si potrebbe ribattere che, ammessa pure l'equazione tra fine assoluto e fine sovrau1nano peraltro non necessaria, la presunta contraddizione tra la postulazione di un fine sopraumano e gli effetti relativi ad esso deducibili in ordine al comportamento reale degli uomini non sussiste: non è detto che l'assolutezza del fine venga compromessa dal carallere relativo, finito delle azioni che esso ispira. Ci sarebbe contraddizione logica se si affermasse che il valore assoluto del fine deriva dalla sommatoria delle azioni "finite" che concorrono a realizzarlo. Non c'è nulla di illogico nell'affermare che dall'assoluto dipende il relativo, assurda sarebbe l'affermazione contraria. E' incontestabile, invece, il fatto che qualunque riferimento al sovraumano o all'assoluto colloca l'uomo nella condizione paradossale di doverne parlare con gli strumenti linguistici e concettuali di cui dispone, vale a dire in termini relativi: ma questo è un altro discorso.

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lbid., 148.


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L'altro aspetto della critica juvaltiana alla fondazione metafisica del valore morale su cui conviene porre l'attenzione è l'abbinamento inevitabile della nozione di assoluto con la nozione di trascendenza: è tipico di ogni argomentazione metafisica sostenere in modo implicito o esplicito che l'attribuzioue dell'assolutezza ad un fine supremo comporti la conseguenza che il fine stesso abbia "un valore per sé", un valore «all'infuori o al di sopra [ ... ] della vita finita dell'uomo e della società umana, all'infuori e al di sopra di ogni interesse umano presente o avvenire» 12 • Ma una posizione del genere, osserva Juvalta, in quanto deve fondarsi di necessità su dati metafisici implica la tesi «dell'impossibilità di una dottrina morale fuori dalla metafisica» 13 , e ciò è esattamente l'assunto dal quale Juvalta si propone di prendere le distanze, volendo egli seguire la strada diversa e più accidentata della ricerca nell'ambito "dell'umanamente possibile". Ma ci sono ragioni umanamente possibili incontestabilmente valide a dare conto della specificità del valore morale? Juvalta presume di poterle trovare stabilendo anzitutto a quali condizioni possa essere pensabile e ragionevole reperire per l'uomo in carne e ossa un fine che «sia giudicato da tutti come il fine superiore per tutti a ogni altro fine, cioè tale che ciascuno debba riconoscere giusto per sé e per gli altri che sia anteposto a ogni altro» 14 • Si noti, adesso, la sequenza sillogistica da lui esibita per collegare il requisito dell'esigenza giustificativa, la ricerca del fine morale giusto, col requisito dell'esigenza razionale, la ricerca di un fine morale il cui essere giusto non sia stabilito facendo appello a considerazioni metafisiche. La necessità di tenere insieme le due istanze è dettata dal progetto di fornire la linea di demarcazione dell'etica teorica da ogni altra scienza e di fare dell'etica stessa una scienza. Si noti, ancora, che per Juvalta l'esigenza giustificativa viene soddisfatta qualora si determini come suo correlato non un fine supre1no qualsiasi, bensì un fine la cui preminenza sia riconosciuta giusta. D'altro canto, se

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lbid., 26. L.c. Ibid., 4.


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questo fine supremo deve appartenere, come si deduce dalle osservazioni precedenti, all'orizzonte umano, per non essere né soprannaturale né metafisico, esso deve contemporaneamente possedere il requisito di essere giusto e di essere "umanamente possibile". Per soddisfare a queste due condizioni, argomenta Juvalta, l'unica via da seguire è quella di porre il fine o il valore in rapporto alla coscienza umana in modo che si possa asseguare al «suo carattere di giustizia» una ragione relativa alla coscienza umana o più chiara1nente «a un interesse umano» 15 .

Ora, perché il fine morale possa conispondere a un interesse un1ano in misura da essere ritenuto da tutti «Superiore ad ogni altro

fine» occorre che esso sia «della massima desiderabilità per tutti». Un fine così configurato non può non essere che «un fine in cui tutti ripongono o la felicità o la condizione necessaria e possibile per tutti della felicità» 16 • La formulazione juvaltiana, come si può notare, non è né nuova né sorprendente. In essa la specificità del fine morale è fatta dipendere dalla sua n1assima desiderabilità e questa, a sua volta, dalla sua necessaria connessione con il fine di conseguire la felicità. Così Juvalta fa propria una prospettiva eudemonistica che percorre tutta la tradizione filosofica dell'Occidente a partire dai Greci fino alle attuali dottrine utilitaristiche, ed è paradossale che egli nella sua prima approssimazione al tema dello specifico dell'etica avanzi una tesi affine a quell'utilitarismo a cui non ha risparmiato se1rnte critiche. Naturalmente la constatazione non pregiudica né in positivo né in negativo il valore della sua tesi. C'è anzi da rilevare che la posizione juvaltiana nell'ordine "dell'umanamente possibile" appare egregiamente fondata e ben consapevole del carattere aporetico delle teorie in cui si assume a fine supremo la felicità. A Juvalta non sfugge che il concetto di felicità è quanto di più ambiguo e di più indeterminato si possa concepire, essendo, per così dire, il contenitore vuoto dove ogni singolo uomo versa contenuti ete-

15 16

lbid., 27. L.c.


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rogenei e talora opposti, in sintonia con i propri desideri e le proprie aspirazioni che sono mutevoli, e varie, e per di più quasi mai accompagnate da un adeguato livello di chiarezza. Meraviglia piuttosto il non aver tenuto conto da parte sua dell'osservazione di Kant, secondo la quale è contraddittorio assumere come. fine morale, che per sua natura è normativo, un fine conispondente ad una tendenza spontanea, e perciò anormativo, quale è appunto la felicità: ma la ."dimenticanza" forse non è casuale, avendo Juvalta escluso che l'obbligatorietà sia un carattere intrinseco del giusto. L'aporeticità della soluzione intravista lo costringe, tuttavia, a un lungo giro di riflessioni che trasforma mirabilmente questa assenza di presa concettuale sul fine supremo intravisto in una ricerca ricca e feconda di risultati alla quale qui, purtroppo, non si può che fare cenno. E', infatti, dietro l'incentivazione dell'aporia suddetta che Juvalta deduce indicazioni molto concrete circa le condizioni, queste sì determinabili senza ombra d'equivoci, indispensabili per consentire a tutti di seguire la propria aspirazione alla felicità, e dunque tali da dover essere da tutti stabilite e tutelate. E nel numero di queste condizioni egli non esita a dare la priorità assoluta al rispetto della personalità propria e altrui, al rispetto della libertà e alla creazione di un ordine sociale, dove il criterio della giustizia sia universalmente recepito come criterio valido allo stesso tempo per i singoli e per la collettività, per lo Stato e per le sue istituzioni. Se l'etica teorica nulla può nell'assegnare un significato univoco al fine eudemonistico, essa può e deve, a parere di Juvalta, indicare i fini che è necessario conseguire perché strettamente correlati al fine ultimo di cui non si riesce a determinare il contenuto. Questi fini che egli definisce "condizionali", in quanto esprimono valori che sono condizioni indispensabili per il raggiungimento dell'ideale eudemonistico, diventeranno allora i criteri supremi della costruzione etica nella misura in cui essa non può spingersi oltre. La soluzione così delineata, alla luce dei successivi approfondimenti sarebbe apparsa, tuttavia, al suo ideatore non del tutto soddisfacente, perché essa ribalta e inverte sul piano teorico l'ordine delle priorità el;iche seguito dalla coscienza nel vissuto dell'esperienza morale: infatti, i cosiddetti valori condizionali, i fini tematizzati dalla teo-


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na come condizioni in vista di qualcosa d'altro (la felicità), la coscienza morale li vive e li persegue come fini per sé, e Juvalta, con rara onestà intellettuale, ne prenderà atto, postulando, forse per la prima volta senza temere di abbandonarsi a considerazioni metafisiche, l'esistenza di fini come valori assoluti Ma prima di guardare da vicino a questa smagliatura della dottrina, avvertita peraltro dallo stesso Juvalta, conviene chiedersi se e in che misura egli, basandosi sulle scelte metodologiche "dell'umanamente possibile" sia coerente con il proposito di rispettare fino in fondo i dettami dell'esigenza giustificativa. Juvalta, lo si è visto, cerca una ragione ultimativa in forza della quale si possa riconoscere ciò che sia giusto fare e perché sia giusto; trova che essa debba risiedere in un fine tale da essere sommamente desiderabile e trova altresì che il fine alla portata della massima desiderabilità a cui si deve dare l'attribuzione della giustizia è la felicità. Così argomentando egli, tuttavia, non ci dà né la ragione ultimativa del giusto né una motivazione confacente con l'esigenza giustificativa. Poiché deduce il carattere di giustizia dalla massima desiderabilità del fine, egli ci fornisce una spiegazione psicologica di questa attribuzione di giustizia, dicendo in sostanza che il fine supremo della felicità in quanto esercita la più grande attrattiva sul soggetto umano non può non apparire giusto. Ma fra l'apparire giusto e l'essere giusto corre un'enorme differenza: l'apparire giusto spiega tutt'al più il motivo per cui detto fine può avere la massima efficacia nell'essere perseguito, e così siamo rinviati dall'ambito dell'esigenza giustificativa all'ambito dell'esigenza esecutiva. In quanto, poi, Juvalta cerca la ragione ultimativa del giusto, avrebbe dovuto esibire di esso una ragione che non postula altri motivi se non la giustizia stessa. E, invece, la somma desiderabilità della felicità come fine preminente non ci evita di pmre la questione del come perseguire il suddetto fine, se cioè vada perseguito con mezzi giusti o con qualunque mezzo, e dovremo concludere che è più desiderabile seguire l'obiettivo eudemonistico con comportamenti giusti anziché con una condotta iniqua; in tal caso il fine è sommamente desiderabile in virtù della sua giustizia.


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Insomma, Juvalta deriva la giustizia del fine dal suo essere sommamente desiderabile e la subordina di fatto ad un criterio che a sua volta esige di essere misurato con la misura della giustizia. D'altro canto, come non sia sufficiente definire il bene morale sulla base di una desiderabilità di natura psicologica, se pure della massima intensità, mi pare sia rilevabile dalla famosa definizione data da un autore contemporaneo di Juvalta, F. Brentano, per il quale il bene (morale) è «tutto ciò che è amato con retto amore», dove è la "rettitudine" a misurare la liceità dell'amore (del desiderabile) e non viceversa 17 •

E' vero che per Juvalta il sommamente desiderabile deve essere tale per tutti, e dunque suppone condizioni di equità, è vero ancora che nel sommamente desiderabile egli include non solo la felicità del singolo, ma anche la felicità di tutti e dunque le condizioni necessarie alla felicità del singolo e di tutti, ma parla di questo obiettivo in termini di preferenza e della preferenza in termini di postulato, trattandosi infatti di una preferenza "postulata" del fine, non dedotta da esso: è come ammettere che la rilevanza psicologica della somma desiderabilità non vale da sola a fare ammettere la moralità del fine e che questa dipende appunto da "un postulato". Quale postulato? «( ... J questo: che una vita universalmente e per tulli i rispetti desiderabile sia da preferire a una vita desiderabile solo per qualche rispetto e non universalmente [ ... J. La condotta che col criterio indicato si stabilisce e si giustifica come relativamente giusta, conclude Juvalta, è la condotta che un uomo ragionevole deve giudicare tale, se accetta, e an1messo che accetti quel postulato. La giustificazione razionale dal punto di vista umano si arresta qui» 18 .

Fin qui, è il caso di aggiungere, si spinge Juvalta inseguendo giustificazioni razionali nell'ottica dell'umanamente possibile.

di~lla

17 F. BRENTANO, Von Ursprung sitthcher Erkenntinis (1889). Sull'origine conoscenza 111ora!e, trad. it. di A. Nausola, La Scuola, Brescia 1966, 34-35. 18

LRE, 48.


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Egli, però, si è trovato di fronte ad un "umanamente possibile" che da un lato si offre all'osservazione come tendenza naturale a perseguire il fine eudemonistico e dall'altro come capacità di prendere posizione nei confronti della propria inclinazione naturale o nei confronti della realtà, assumendo ed esprimendo postulati di valore: l'umano è insieme inclinazione naturale e produzione di idealità e tra l'una e l'altra si introduce l'elemento della valutazione in base al quale l'idealità impone la propria misura, nel modo dell'apprezzamento o del deprezzamento, sia alla tendenza naturale che alla realtà. Tutto ciò appartiene all'ordine dei dati di fatto. Ora, per Juvalta, la conoscenza è razionale, e quindi scientifica, soltanto quando ci offre «oggetti e fatti e rapporti di oggetti e di fatti come sono» 19 • E in ciò non si discosta di molto dalle posizioni positivistiche, benché se ne distacchi decisamente quando mostra di coucepire come caratteristica propria di ogni conoscenza scientifica quella di assumere a punti di partenza non solo dati di fatto, ma «dati in parte ipotetici», derivaudo dall'ipotesi le possibili conseguenze'°. Nel tentativo di giustificazione razionale delretica egli adopera con coerenza questi due modelli di razionalità, la razionalità quale strumento di conoscenza di fatti come sono (la desiderabilità del fine morale in rapporto all'interesse umano) e la razionalità come costruzione ipotetico-deduttiva (la condotta che un uomo ragionevole deve giudicare tale, se accetta e ammesso che accetti, il postulato della giustizia). Sul terreno dell'etica l'ordine dei dati di fatto suscettibile di conoscenza razionale concerne dunque la constatazione che l'uomo ha certe tendenze ed esprime delle idealità o preferenze, e che l'ideale o fine morale è tale perché preminente su tutti gli allri fini ed è preminente perché corrisponde ad un interesse umano della coscienza da cui gli deriva la massima desiderabilità. L'ordine dei dati ipotetici a cui s'interessa ancora una volta la conoscenza razionale concerne il .legame necessario che intercorre tra

19

lbid .. 244.

°Cfr. E. LECALDANO, Fatti,

2

valori e «scienza nonnativa n1orale» secondo Juvafta, in Rivista di storia della filosofia, ciL, 495-497.


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il fine ragionevolmente concepibile come sommamente desiderabile e le norme che ne garantiscono l'attuazione. La conoscenza razionale, sostiene Juvalta, si ferma qui e non può andare oltre. Cosa resta allora fuori dal modello di razionalità adottato da Juvalta e soprattutto quali conseguenze comporta il suddetto modello in relazione all'ambizioso progetto di costruire un'etica scientifica? Resta fuori l'argomento più importante per l'etica stessa, l'arco di problematica convergente sulla questione cruciale se esistano, si perdoni il gioco di parole, criteri di valutazione razionale delle valutazioni o delle preferenze e come si debbano applicare. La domanda, a parere di Juvalta, non può avere risposta e oltretutto nasce da un equivoco di fondo in quanto dà per implicita la pretesa «che un giudizio di ciò che è, possa servire di fondamento a un giudizio di ciò che vale o che merita di essere»". Il principio secondo cui la ragione produce conoscenza e la conoscenza consiste nell'apprendere le cose come sono vieta di pensare che essa possa fornire i criteri delle preferenze o i criteri per discriminare tra varie preferenze.

Una cosa è conoscere altra cosa valutare: la conoscenza dà giudizi teoretici con i quali si afferma (o si nega) l'esistenza di un oggetto «O la possibilità o la connessione modale o condizionale con altri oggetti»; la valutazione giudica gli oggetti e i fatti «come utili o nocivi, buoni o cattivi, preferibili o non preferibili, superiori o inferiori, e non è più conoscenza, o almeno non più conoscenza soltanto» 22 . Le conoscenze sono date dalla ragione, le valutazioni o preferenze dalla volontà. Da quali fonti Juvalta attinga questa rigida distinzione tra conoscere e volere e tra i giudizi teoretici e i giudizi di valore è cosa controversa. Si è intravisto in proposito un influsso delle concezioni di Vailati e Calderoni e in genere del pragmatismo, si è anche evocata la cosiddetta legge di Hume (Il sezione della I parte del libro III del Trattato sulla natura umana) in base alla quale dall'essere, dai fatti,

21

LRE, 245.

22

Jbìd., 244.


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non si può ricavare il dover-essere, si è, con più credibilità, chiamata in causa la filosofia di Kant nella sua dualistica contrapposizione tra regno della necessità (i fatti) e regno della libertà ( i valori) 23 • Fatto sta che Juvalta si rivela un convinto divisionista, sicché non ci si discosta molto dal vero se si individua il nucleo del suo pensiero nella concezione secondo cui il criterio di valutazione delle valutazioni è a sua volta una valutazione, e il criterio in base al quale discriminiamo tra le varie preferenze è a sua volta una preferenza. Da qui anche affermazioni che possono suonare strane negli scritti di un autore per il quale la logica è la disciplina più rivoluzionaria: una dottrina metaetica, poiché non può fare a meno di assumere a punto di partenza un postulato di valore, è sempre una costruzione arbitraria «nel senso che la validità delle norme che se ne ricavano è relati va alla validità del postulato, il cui valore è bensì assunto come un dato di fatto, ma senza una ragione perentoria che obblighi ad accettarlo» 24 • Per quanto riguarda specificatamente il campo morale la posizione divisionista di Juvalta comporta la tesi che ogni giudizio di valutazione morale «O è assunto come un dato o postulato; o come una conseguenza, una derivazione, una applicazione di qualche postulato»". Ed è proprio alla luce di questo presupposto che egli può denunciare la «fallacia naturalistica», delle dottrine miranti a ricavare il valore morale da qualcosa di diverso da esso: la morale non può essere fondata né sulla verità né sulla autorità né sulla realtà naturale, storica o sociale, né su un potere soprannaturale. E ciò, se si è penetrato a fondo nell'argomentazione juvaltiana, si comprende facilmente: il giudizio morale, come ogni giudizio di valore, trova nelle cose soltanto quelle qualità positive o negative che la valutazione vi ha già proiettato, il bene o il male che il suo criterio di preferenza ha stabilito.

23

E. LECALDANO, op. cit., 494. Ma si veda quanto affenna Juvalta: «L'indipendenza e l'indeducibilità dci grandi valori morali da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e affennata, nella fonna più esplicita e con grandissi1no vigore, dal Kant» (LRE, 285). 24

LRE, 182.

25

lbid .. 209.


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Quali conseguenze scaturiscono dal rigido divisionismo della teoria juvaltiana (dove tra l'altro non mancano accentuazioni fortemente volontaristiche dell'assunzione di valore) in rapporto al terna della verifica intersoggettiva dei valori, terna che è d'importanza decisiva per l'etica e che, secondo l'interpretazione proposta all'inizio, corrisponde forse all'interesse teoretico principale dell'autore? Se il giudizio di valore è irriducibile al giudizio di esistenza, non può essere ué vero né falso e non è sottoponibile ai criteri di accertamento del vero e del falso. L'eventuale confronto tra prospettive etiche diverse ed opposte non si può risolvere allora facendo ricorso all'istanza suprema della verità, ma in un confronto tra preferenze, scelte, opzioni diverse in cui il criterio dipende esclusivamente da una decisione dei soggetti in causa. L'etica senza verità, per usare una felice espressione di Scarpelli, conduce a questo esito e Juvalta ne sopporta il peso con la dolorosa consapevolezza di chi sa di essere teoreticamente disarmato di fronte ai conflitti morali. In effetti, la posizione divisionista non è necessariamente connessa col modulo dell'etica senza verità: si può sostenere, per esempio, l'autonomia del giudizio di valore senza postularne la sottrazione al criterio di verità, come nel caso di quelle teorie in cui il bene viene dimostrato come qualità intrinseca degli oggetti o comportamenti di cui si predica la bontà. D'altro canto il divisionismo juvaltiano sembra essere più una conseguenza della sua concezione monista della scienza (la scienza della morale o l'etica scientifica ha lo stesso statuto epistemologico delle altre scienze: il metodo scientifico è nnico) che di una rigida contrapposizione tra conoscere e volere, sebbene nu1nerose siano le affermazioni in tal senso 26 . Ma qui importa rilevare che neppure per Juvalta questo esito appare pacificamente acquisito alla teoria; egli spesso dà a vedere di ritenerlo uno schema riduttivo di cui volentieri farebbe a meno.

26

Secondo Lecaldano, il divisionismo di Juvalta non sarebbe da accostare al divisionisrno e al non-cognitivismo contemporaneo: da queste posizioni lo allontanerebbe l'idea che «la struttura interna della scienza normativa morale» sia «del tutto analoga a quella di qualsiasi altra scienza» (E. LECALDANO, op. cit., 497).


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Ed ecco moltiplicarsi negli scritti il riferimento, se non alla razionalità, almeno alla ragionevolezza: ragionevole sarebbe accettare il postnlato della ginstizia; o il ricorso a riflessioni volte ad attenuarne la portata delle tesi divisioniste: «La ragione per sé non comanda nulla; né I'cgois1no, né l'altruismo, né la giustizia ... Razionali non sono i fini, ma le relazioni dei n1ezzi ai fini. Ed è così ragionevole che dia la vita per un'idea chi pregia più l'idea che la vita, come che taccia la verità per un ciondolo chi atna più i ciondoli che la verità ... Ma forse dicendo così si è ancora ingiusti verso la ragione. Perché se ciò che si chiama uso della ragione può avere, co1ne non dubito che abbia, una efficacia indiretta alla valutazione dei fini, non è dubbio che questa efficacia si esercita in favore di quei fini e di quelle nonne che rispondono alla tendenza dell'attivilà razionale: l'universalità» 27 .

Questa pietas per la ragione, questo riconoscimento quasi per dovere morale al suo ruolo non più di pura certificazione, ma di tendenza altuniversaiità e di sti1nolo per la coscienza, conduce Juvalta a mettere in evidenza la pietas della ragione verso il valore, la sua affinità elettiva con quei fini pratici in cui essa riconosce come per rispecchiamento l'attributo di universalità proprio del suo stesso procedere. e tanto basterebbe a rendere problematica la concezione divisionista e a far avvertire la necessità di esaminare da una prospettiva diversa la questione dei cosiddetti poteri dell'attività razionale, senza espropriarla e dichiararla passiva testimone di una lotta che si svolge nell'altrove della volontà. D'altro canto, se il concetto di razionalità implica la certificazione dei fatti con determinate procedure e garanzie di verifica, ciò non impedisce di poter includere nell'ordine dei fatti quei fatti che non siano oggetti naturali, bensì idealità.

27 Per una scienza 11onnativa 111ora!e (1905), in LRE, 142-143. L'edizione del Gey1nonat contiene un refuso: là dove riporta: «Ma forse dicendo così si è ancora giusti verso la ragione» bisogna leggere: « [ ... l si è ancora ingiusti verso la ragione», secondo il testo originario apparso in Rivista di filosofia (1905) 405. La segnalazione è in M. MORI, E. luva!ta e f'utifitarisn10, in Rivista di storia della filosofia, cit., 609, nota 2.


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Alla ragione non si può chiedere di produrre idealità, o almeno un certo tipo di idealità, ma si può chiedere di comprendere le idealità così come sono e per quello che sono, sebbene la scelta di farle proprie competa in prima ed ultima istanza al volere. Si tratterebbe in questo caso di adottare un modello di razionalità in grado di sostituire allo schema della spiegazione l'attitudine della comprensione, e di rinunciare alla nozione univoca di razionalità centrata sul presupposto di dover ritenere validi solo i criteri di accertamento tipici delle scienze empiriche o logico-matematiche, benché tale sostituzione sollevi a sua volta non pochi problemi epistemologici. Juvalta non si spinge a tanto, e tuttavia non 111ancano nei suoi scr.itti indizi o spunti teorici che segnalano un accostamento al modello della razionalità come "comprensione" o che rivelano una maggiore sintonia di spirito se non altro con l'ipotesi di un ampliamento della nozione di razionalità in questa direzione. La ragione scopre una legalità interna al valore morale: il valore morale è prioritario rispetto ad altri di genere diverso, ha uno statuto ontologico di Se/bstiindigkeit, è indeducibile da alt1i tipi di valore 28 , è se mi è consentito usare una for1nula non ricorrente nei suoi saggi, ma forse non lontana dalla loro intenzione sotterranea, un genere sommo. Rilevando i tratti peculiari del fine morale, egli ritorna sul tema della giustificazione dell'etica con una disposizione intellettuale pronta a mettere a repentaglio le faticose certezze costruite dalla sua teoria, pur di non fare violenza ai dati della osservazione e dell'analisi. Con la prima formulazione dell'esigenza giustificativa era giunto ad affermare l'esistenza di valori condizionali in vista del fine eudemonistico (il rispetto della libertà umana, l'applicazione universale delle nonne ispirate alla giustizia, la costruzione di una società giusta): con i successivi approfondimenti constala che la prima formulazione non dà conto di un dato fenomenico decisivo, il fatto che i cosiddetti valori condizionali nell'esperienza della coscienza sono intenzionati come valori in sé. Da qui la sfasatura macroscopica tra i fatti spiegati dalla teoria e i fatti aperti all'osservazione: per la teoria,

28

Cfr. LRE, 255 e 282.


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1 77

libertà e giustizia hanno «valore solo strumentalmente universale e necessario», per la coscienza hanno «valore per sé i1nmediatamente universale»29. Ed ecco l'indizio più rilevante del mutamento di prospettiva che lascia intravvedere un distacco dalla concezione monista della razionalità. Juvalta. non spiego, non si chiede quali fattori possano "determinare" la coscienza a ritenere certi valori come validi in sé, e ciò per due ordini di motivi: l) perché'una spiegazione di questo tipo ci fa capire la genesi, l'origine di certe idealità, il come esse sorgano e si sviluppino, ma non ci dice nulla sulla loro validità, nulla su che cosa esse siano; 2) perché così procedendo, cioè dimostrando «da che cosa nasca l'attribuzione di valore» si fa «del valore diretto un valore derivato»30, si disconosce l'essere del valore. Perciò egli ammette che il valore condizionale della libertà risulta tale nella «deduzione esteriore ed empirica» condotta secondo i canoni della spiegazione, non secondo i criteri della comprensione. Tenendo conto di queste acquisizioni teoriche egli assu1ne l'atteggiamento della coscienza come un dato di osservazione e si domanda quale.sia l'intenzione profonda da cui essa muove nell'esperire il valore morale in quel determinato modo, quale l'idealità così perseguita, quale postulato di valore affiori nella sua esigenza "incondizionata" di rispettare i valori in sé, quale presupposto stia alla base non solo dell'attribuzione della preminenza e normatività al valore morale, ma di quei valori supremi e normativi che hanno attinenza col rispetto della libertà e della giustizia. La conclusione a cui perviene è che il presupposto della validità del valore morale si trova nelle condizioni «che fanno dell'io temporaneo disgregato e molteplice una unità, cioè una volontà consapevole e coerente, un carattere, una persona» 31 . Queste condizioni, continua Juvalta in uno dei suoi passi più suggestivi, implicano a loro volta «il

29 30 31

Ibid., 315. lbid .. 348. lbid., 312.


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presupposto del valore diretto, originario, incomparabile e incommensurabile, cioè assoluto, della persona umana, come volontà di essere tale e con1e coscienza di questa volontà» 32 . Come si vede, nel passo citato Juvalta ricorre a quella nozione di assoluto da lui accuratamente schivata in precedenza per non incappare nelle ambiguità del discorso metafisico. E, certamente, il risultato a cui approda la ricerca appare in netta contraddizione con la sua critica demolitoria della nozione di assoluto messa in circuito nelle dottrine etiche imperniate su motivazioni metafisiche. All'imputazione di incoerenza si potrebbe aggiungere, anzi, l'imputazione di una ricaduta nelle maglie della metafisica vera e propria: delle due accezioni dcl termine "metafisica" deducibili dagli scritti 33 , egli avrebbe evitato la metafisica "come trascendenza" (la posizione di un fine assoluto ed esterno al mondo fisico), ma non la metafisica "come totalità" (una interpretazione totale del mondo dell'uomo e della storia), perché il parlare di una identità personale avente valore assoluto comporterebbe l'adozione di una visione generale dell'uomo non sostenibile su basi empiriche. Ma siccome un empirismo coerente è impresa facile a proclamare e impossibile a praticarsi, ed è come l'araba fenice in quanto si afferma di sapere che esiste e non si sa dove sia applicato, e siccome l'evitare come la peste le visioni generali, oltre a rendere inintellegibile gran parte dei processi della cultura e della stessa scienza, è una posizione teoretica non esente da quell'inquinamento metafisico dal quale presume di essersi liberata, non mi pare il caso di insistere su queste critiche. Più acuta mi sembra invece l'obiezione secondo cui il ragionamento di Juvalta sarebbe scorretto perché farebbe derivare affermazioni di valore o valutazioni da condizioni descrittivo-fattuali": egli

32

I/ vecchio e il nuovo prohfen1a della 111orale ( 1914), in LRE, 312.

33

Ciò è rilevato da M. Viroli: M. VIROLI, Enninio .luvalta e la teoria della

gi11stizia. in Rivisto. di filosofia 75 (1984) 402, nota 26. Ma le due definizioni sono di M. Mori, il quale, peraltro, in relazione ai significati che il tern1ine "1netafisica" assume in J. fa esplicito rifcrin1ento al saggio di Viroli: cfr. M. MORI, E. Juvalta e !'utilitarisn10, in Rivista di storia della fi'!osofi'a, cit., 601, nota 8. 34 Ripotio per sommi capi l'obiezione di M. Mori. Per un esatne più completo dell'argo1ncnto cfr. M. MORI, op. cit., 614-615.


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avrebbe dichiarato il valore assoluto della persona motivando la sua tesi con l'argomento che questa attribuzione corrisponde al tratto costitutivo, ontologico, dell'essere persona: ma sostenere, infatti, che la persona pone il suo essere persona come valore assoluto è altra cosa dal sostenere che la persona abbia un valore assoluto, in quanto nel primo caso si dà la descrizione di uno stato di cose, mentre nel secondo una valutazione. Juvalta avrebbe confuso le condizioni descrittivo-fattuali dell'identità personale con le condizioni che ne dovrebbero definire l'eventuale valore. Detto altrimenti: poiché dal punto di vista logico il valore posto e riconosciuto dalla persona è diverso dal valore intrinseco e assoluto della persona, l'una cosa non si può dedurre dall'altra, a meno che non sia la valutazione a sovrapporsi alla descrizione. In realtà Juvalta, a mio parere, si mantiene coerentemente su un piano descrittivo, sul piano di quella attitudine razionale volta a rilevare i tratti dell'idealità morale così come si offrono alla osservazione e così come si aprono alla comprensione, e ha cercato di rendere espiicito ciò che nel vissuto è dato per irnplicito: non a caso, del resto, parla a proposito del valore assoluto della persona, di "postulato" della moralità. Ed è talmente convinto di essersi fermato nel livello descrittivo, da non invocare questo postulato come criterio di verità delle scelte morali. Mi pare cioè che il suo ragionamento possa essere riassunto in questi termini: la ricerca di una giustificazione dell'etica porta alla scoperta di un postulato di valore da cui discende ogni giudizio morale, l'esistenza di questo postulato è un fatto, una condizione, ma il valore affermato dal postulato è una preferenza, non un fatto, dunque il postulato non può darci un canone di verità circa le scelte morali. Juvalta non dice che il valore assoluto della persona è un fatto, dice soltanto che la condizione primaria della esperienza morale è il ritenere che la persona abbia valore assoluto. Contestabile quanto si vuole, la sua tesi è questa. Come pure, egli non afferma che il postulato in questione sia così efficace da far evitare l'insorgenza di conflitti di valore: i conflitti continueranno ad esserci, e di fronte ad essi «la critica non può fare che opera di constatazione e sistemazione». Né mi pare scandalosa questa constatazione: ammesso pure il postulato del rispetto dell'identità personale come principio primo delle valutazioni


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morali, i nostri problemi, per dirla con Wittgenstein, non finiscono, cominciano.

Tn tal modo Juvalta accompagna, per così dire, la ragione fino al cospetto della suprema idealità morale, ma non le riconosce il potere di giudicare «perché essa debba valere» 35 : il fine è dato alla ragione, non posto da essa. E ora alcune considerazioni conclusive. La presunta impotenza della ragione e i limiti del razionalismo etico evidenziati da Juvalta, se nella sua prospettiva teoretica possono essere considerati fattori preclusivi all'elaborazione di un'etica integralmente razionale, in un'ottica diversa possono rivelarsi un supporto prezioso per riconoscere la caratteristica peculiare del valore morale: il fatto che il valore morale immette il soggetto umano in una dimensione e esperienza della gratuità. L'essere incondizionato del valore richiede di venire accolto senza condizioni, l'impossibilità della fondazione razionale dice l'impossibilità di potere disporre del valore con i criteri stabiliti, e perciò sempre revocabili, dalla soggettività empirica o trascendentale che sia. L'umanamentc possibile ha riservato a Juvalta la sorpresa di un interesse umano per il quale il sommamente desiderabile non è un desiderato ridotto alla misura del desiderio, ma un desiderio elevato alla misura del desiderabile in sé, del valore assoluto. Juvalta esclude l'applicazione del giudizio di verità dal campo morale in conformità con un modello di razionalità come puro potere di certificazione dei fatti. Questo modello, per molti versi, si è manifestato, alla luce della sua riflessione, riduttivo, ma ciò non lo ha convinto a rimuovere la sua posizione originaria. In Juvali-a inoltre 1nanca un'analisi appropriata della dinamica della volontà nella scelta del valore morale. Egli non dice, in analogia con quanto affermato della ragione, che il valore è dato alla volontà, non posto dalla volontà. Se avesse seguito questa direzione d'indagine, avrebbe probabilmente posto le basi per superare il soggettivismo etico da un altro versante e avrebbe superalo il rigido divisionis1no tra conoscere e volere.

35

LRE, 355.


Juvalta e la giustificazione razionale dell'etica

I 81

Il fatto poi che i problemi dell'etica da lui vengano trattati in una ottica esclusivamente razionale, non lo esenta dal limite intrinseco del razionalismo, che non è tanto quello di non poterci offrire criteri razionali di discernimento dei valori morali, quanto piuttosto di nou poter recuperare teoreticamente il rapporto con "l'altro", il riconoscimento della dimensione interpersonale come condizione primaria dell'agire etico. Infatti in Juvalta il riconoscimento della personalità altrui è effetto del riconoscimento di sé nell'altro e l'altro diventa un prolungamento, una proiezione della considerazione che l'io ha di se stesso 16 . Perciò appare più credibile la posizione utilitarista del primo Juvalta che non quella "non naturalista" del secondo: nella prima, almeno, stante il postulato della massima desiderabilità, la felicità del singolo risulta collegata alla felicità degli altri, in quanto è più preferibile che tutti o molti siano felici, anziché uno solo o alcuni o pochi; nella seconda invece il rispetto della personalità altrui non è di immediata evidenza sulla base del postulato fondamentale e l'incondizionatezza del valore morale tutela o concerne l'io, non il tu o il noi. L'acquisizione duratura del magistero Juvaltiano mi sembra invece che occmTe individuarla nel fatto di aver sgombrato il terreno dagli equivoci inerenti ad ogni velleità "fondazionista" dell'etica volta a garantire al valore morale l'apporto di una forza "esterna" di cui non ha proprio alcun bisogno.

36 Mi pretne precisare che questa critica verte esclusiva1nente sulla formulazione del postulato fondan1entale. E' ovvio che Juvalta include nella morale anche il riconosci1nento e il rispetto della personalità altrui. Juvalta anzi contesta il formalismo kantiano perché, pur sostenendo il rispetto della persona altrui, non la considera nella sua dimensione concreta e nella sua particolarità irriducibile, bensì nel suo essere razionale.



QUESTIONI FILOSOFICHE SUL PROBLEMA DEL MALE.

FRANCESCO VENTORINO'

L In che consiste il male morale o peccato Secondo S. Tommaso d'Aquino, la ragione del male è nella privazione del bene, ma il peccato propriamente consiste in un atto che tende ad un fine al quale non è ordinato: «ora, l'ordine dovuto in rapporto a un fine viene misurato da una certa regola. Regola che negli agenti naturali è la virtù stessa della natura, che inclina verso quel fine»'· Esiste in ogni essere, infatti, un principio attivo costitutivo del suo essere, per cui esso tende ad un fine proprio alla sua natura. Nell'essere dotato di volontà è possibile che l'agire sia disordinato rispetto al proprio fine naturale, assegnato dalla legge eterna di Dio e manifestato in qualche modo alla ragione dell'ente creato'. Infatti: «nelle azioni che vengono compiute dalla volontà, regola prossima è la ragione umana; regola suprema è la legge eterna. Perciò, quando l'atto umano tende verso il fine secondo l'ordine della ragione e della legge eterna, allora l'azione è retta: quando invece si scosta da questa rettitudine, o direzione, allora si ha il peccato» 3 • Dunque: «ogni atto

*Docente di Filosofia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Sununa Theologiae, 1-II, q.21, a.1. 2 Cfr. I-II, q.19, a.4. 3 I-II, q.21, a.I. 1


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Francesco Ventorino

volontario è cattivo perché si allontana dall'ordine della rag10ne e della legge eterna»', e quando accade si verifica la privazione del bene ultimo cui J'actus voluntarius tende come al suo ultimo fine, cioè la beatitudine'. Pertanto «il peccato sta ad indicare l'atto disordinato, mentre l'atto della virtù è retto e ordinato» 6 • Per questo la virtù fa l'uomo buono e rende buona la sua opera perché comporta un agire secondo natura, in quanto è secondo la ragione; mentre il vizio è contro la natura e la ragione'. Infatti: «tra gli uomini i vizi e i peccati derivano proprio da questo, che essi seguono l'inclinazione della natura sensitiva contro l'ordine della ragione»'. Si noti come in questa impostazione ci sia il principio del rifiuto di ogni forma di moralismo che si esprima sia nell'ideale razionalistico de «il dovere per il dovere», sia nella riduzione positivista del male a trasgressione di una norma positiva, divina o umana, che non ha però fondamento nell'esigenza naturale che ha l'essere umano di conseguire la propria perfezione e felicità. La dicotomia fra dovere e felicità è la caratteristica dell'epoca contemporanea ed è la ragione ultima della negazione del dovere morale come espressione della appartenenza a Dio: se un prezzo l'uomo deve pagare al dovere, vuole essere lui a fissarne il limite, a garanzia della piena autonomia e perfetta realizzazione di sé. Ma: «è una ambiguità carica di menzogna una moralità che non parta da qualcosa che sia più dell'io, che non sia l'io: subdola forma per imporre se stessi a tutti è l'identificazione del dovere con la propria coscienza. Mentre la coscienza è il luogo dove si percepisce la dipendenza, un luogo dove emerge la direttiva di un Altro» 9 • Il peccato, invece, secondo S. Tommaso, è male perché è un contraddire qualcosa di più grande dell'io, cioè del volere dell'uomo,

4 l.c. 5 Cfr.

1-11, q.21, a.I, ad 2. !-II, q.71, a.2. 7.Cfr. I-II, q.71, a.2. 8 l-II, q.71, a.2, ad 3. 9 L. GIUSSANI, All'origine della pretesa cristiana, Jaca Book, Milano 1988, 6

121.


Questioni filosofiche sul problema del male

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ossia una direttiva che lo costituisce nell'essere, dalla quale egli dipende, come dipende da Colui da cui lo riceve: «il disordine del peccato, come il male in genere, non è semplice negazione, bensì privazione di ciò che uno per sua natura dovrebbe avere»w

2. La causa del peccato

Secondo S. Tommaso d'Aquino, la causa del peccato sta nella stessa causa dell'atto umano, cioè nella volontà: da essa nascono l'azione e il disordine dell'azione. «Ecco quindi che la volontà, nel tendere a un bene transitorio, senza essere guidata dalla ragione e dalla legge divina, causa direttamente l'atto del peccato, e indirettamente, ovvero senza intenzione diretta, il disordine dell'atto. Cosicché la mancanza di ordine è prodotta nell'atto da una mancata rettitudine nella volontà» 11 • La vera causa del peccato sta dunque in una sorta di conversùme della volontà ad un bene commutabile e quindi in un disordinato desiderio di un bene temporale"-«Ora, codesto affetto disordinato per un bene temporale deriva dal fatto che uno ama disordinatamente se stesso» 13 • Un amore disordinato verso se stesso porta l'uomo a volere per sé un bene contingente al posto del Bene che solo può saziare la sua volontà 14 : «I1arnore ordinato di sé, che consiste nel volere a se stessi il bene conveniente, è doveroso e naturale. Ma bisogna ammettere con S. Agostino che l'amor proprio disordinato, il quale porta fino al disprezzo di Dio, è causa del peccato»". Ma si tratta sempre di un amore di sé e di un desiderio del bene, anche se disordinato, per cui il male

lOJ-JI, q.75, a.l. L.c. 12 Cfr. 1-11, q.77, a.4. 13 L.c. 14 Cfr. 1-11, q.2, a.8; 1-11, q.3, a.8. 15 1-11, q.77, a.4, ad I. 11


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consiste sempre in un amore disordinato: il male per sé non potrebbe essere mai voluto 16 . La malizia sta in un atto per il quale «una volontà disordinata ama un bene temporale, come le ricchezze o i piaceri, più dell'ordine di ragione, della legge divina, della carità di Dio, o di altre cose del genere; ne segue che preferisce la perdita di un bene spirituale, per godere di un bene temporale. Ora il male non è che la privazione di un bene» 17 . La malizia consiste proprio nel volere questa ]Jrivazione: «Ecco dunque come uno, per non perdere un bene temporale, vuole di proposito un male spirituale, male in senso assoluto, privandosi di codesto bene. Perciò si dice che pecca per malizia, o per calcolo, portando quasi la sua elezione cosciente sul male» 18 . La causa del peccato è dunque in una scelta libera della volontà, cioè nel «libero arbitrio, in quanto decade dall'ordine del primo agente, cioè di Dio» 19 ; e pertanto l'azione peccaminosa non può essere imputata né a Dio («Dio è la causa dell'atto, ma non del peccato»'"), né a Satana, il quale influisce «ma solo come patrocinatore, o presentatore dell'oggetto appetibile»", né alla colpa originale, se non come disposizione (inordinata dispositio ) 22 • La radice di questa scelta sta, come è stato detto, nella cupidigia dei beni temporali che nasce da un amore disordinato di sé: «la cupidigia, come peccato specifico, è radice di tutti i peccati, a somiglianza della radice di un albero, che dà alimento a tutta la pianta. Infatti vediamo che con le ricchezze uno acquista la possibilità di commettere qualsiasi peccato, e di soddisfare tutti i desideri peccaminosi: poiché uno può giovarsi delle ricchezze per il possesso di qualsiasi bene temporale, secondo il detto dell'Ecc/esiaste, 10,19: 'Tutto obbedisce al denaro'»23.

16

Cfr. I-II, q.72, a.I. I-II, q.78, a.I. 18 I-li, q.78, a.I. 19 1-11, q.79, a.2. 20 L.c. 21 I-II, q.80, a.l. 22 Cfr. I-II, q.82, a.I. 23 I-II, q.84, a.I. 17


Questioni filosofiche sul problema del male

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Ma l'inizio del peccato è nella superbia: la conversione ai beni temporali ha come principio l'aversione da Dio, a cui l'uomo rifiuta di sottomettersi e di appartenere: «la cupidigia considera il peccato dal lato della conversione ai beni transitori, da cui il peccato viene come nutrito e alimentato, meritando così di essere chiamata radice: invece la superbia considera il peccato dal lato dell'aversione da Dio, alla cui legge l'uomo rifiuta di ubbidire; cosicché verrebbe chiamata inizio, perché dal lato dell'aversione si desume la ragione di male» 24 • Infatti «è proprio della superbia rifiutare di sottomettersi a un superiore, e specialmente a Dio; dal che segue poi che uno si esalti senza misura sopra se stesso» 2·'i. L'uomo nel peccato sperimenta tutto il dramma della sua rivolta contro Dio e, ad un tempo, del rifiuto della propria condizione creaturale, al cui posto egli mette una passione smodata di possesso delle cose, che diviene il sintomo evidente, di quella sostituzione del fondamento dell'umana creaturalità, operata nell'atto peccaminoso. In forza del peccato l'uomo non vuole più far consistere la propria grandezza nell'appartenere al Creatore, ma nel possedere le creature: viene a configurarsi nel volto del peccatore una sorta di caricatura di Dio. Il principio del peccato, dunque, non è tanto nella debolezza di fronte all'attrattiva delle cose, quanto nella ostinazione della volontà ribelle: il rapporto con le cose viene di conseguenza impregnato di possessività smodata e di violenza inevitabile.

3. L'effetto del peccato Se non si può dire che il peccato distrugge nell'uomo la sua natura razionale, perché se così fosse non gli sarebbe riconosciuta la sua capacità di peccare, bisogna però riconoscere gli effetti devastanti del peccato nella condizione umana.

24 25

I-II, q.84, a.2. I-II, q.84, a.2, ad 2.


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Essendo il peccato un agire contro la ragione, tende a generare nell'uomo una inclinazione ad altri atti o comportamenti simili. Infatti «gli abiti sono proporzionati alle operazioni: e quindi 'da determinati atti sono causati abiti consimili' come si esprime Aristotele in 2. Ethic.» 26 • Gli abiti fanno così diminuire nell'uomo la sua naturale inclinazione al bene"Essa non viene tolta nella sua radice, che è la natura razionale dell'uomo, ma - per così dire - viene progressivamente meno senza mai esaurirsi e una tale "diminuizione all'infinito del finito" che non perviene, però, al totale esaurimento dell'inclinazione umana al bene, comporta, si direbbe, un incremento degli impedimenti che ostacolano il conseguimento del termine, cioé il volere il bene. Tale enunciazione viene chiarita dall'Aquinate con l'esempio dell'aria, la cui predisposizione naturale a ricevere la luce, «sebbene diminuisca col sopravvento delle nuvole, tuttavia rimane sempre nella radice della sua natura (in radice naturae)» 28 • E pertanto tutte le energie dell'anima vengono di fatto destituite di quella ordinazione naturale al bene. «e codesta destituzione si dice che è un ferimento della natura. [ ... ]. Perciò dal momento che la ragione è destituita dal suo ordine alla verità, si ha la piaga dell'ignoranza; con la perdita dell'ordine che la volontà sperimenta per il bene, si ha la piaga della malizia; privando l'irascibile del suo ordine alle cose ardue, si ha la piaga della fragilità; e togliendo alla concupiscenza il suo ordine al bene dilettevole regolato dalla ragione, si ha la piaga della concupiscenza [ ... ]: col peccato, cioè, la ragione si offusca, specialmente in campo pratico; la volontà diviene restia al bene; cresce l'interna difficoltà a ben operare; e la concupiscenza si accendc» 29 . L'uomo diviene pertanto meno uomo, se non nella sua struttura ontologica, nel suo agire e nel suo comportamento abituale. Il volere non più ordinato al bene è il principio di una disgregazione delle energie interiori e vitali dell'uomo.

26 27 28

29

I-II, Cfr. I-II, I-II,

q.50. a.1. I-li, q.85, a.1. q.85. a.2. q.85, a.3.


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L'effetto del peccato è dunque una sorta di distruzione della verità dell'agire umano: non veniamo privati delle nostre energie naturali, ma è come se esse tendessero inevitabilmente a disgregare e a distruggere. S. Anselmo d'Aosta, in uno dei suoi discorsi, descrive gli effetti cosmici di questa devastazione, in contrasto con l'inizio della redenzione nella maternità divina di Maria: «Erano tutte le cose come morte, poiché avevano perduto la dignità originale alla quale erano destinate. Loro fine era di servire al dominio o alle necessità delle creature cui spetta elevare la lode a Dio. Erano schiacciate dall'oppressione e avevano perso vivezza per l'abuso di coloro che si erano fatti servi degli idoli. Ma agli idoli non erano destinate. Ora invece, quasi resuscitate, si rallegrano di essere rette dal dominio e abbellite dall'uso degli uomini che lodano Dio. Hanno esultato come di una nuova e inestimabile grazia sentendo che Dio stesso, lo stesso loro Creatore, non solo invisibilmente le regge dall'alto, ma anche, presente visibilmente tra di loro, le santifica servendosi di esse»'°. La questione del peccato, dunque, non può porsi se non dentro tutte le dimensioni che le sono proprie, quella teologica (il rapporto dell'uomo con Dio), quella antropologica (la concezione che l'uomo ha di sé) e quella cosmica (il rapporto che l'uomo vive con gli altri e con le cose). Di queste dimensioni, quella teologica si rivela come la dominante, non solo nella concezione tomista, come abbiamo già visto, ma anche nella impostazione moderna del problema del male, di cui ora ci occupere1no.

4. La negazione di Dio come Altro dall'uomo Il rapporto tra la dimensione teologica e quella antropologica è stato evidenziato nelle filosofie immanentistiche dell'età moderna che hanno avuto il loro culmine nell'idealismo tedesco. La negazione di qualsiasi realtà come trascendente la coscienza del soggetto uomo ha portato lentamente alla esplicita negazione di Dio, così come si è avuto

3o Disc.

52;

PL

158, 955-956.


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nella filosofia post-hegeliana ad opera di uno dei più noti discepoli di Hegel, Ludwig Feuerbach. Per lui Dio non è nient'altro che la coscienza che l'uomo ne ha, o meglio nient'altro che la coscienza che l'uomo ha di se stesso: «la coscienza dell'infinito null'altro è che la coscienza dell'infinità della coscienza stessa; ossia: nella coscienza dell'infinito l'essere cosciente oggettiva l'infinità della propria natura»31. La religione risulta essere pertanto «la prima, ma indiretta autocoscienza dell'uomo», nel senso che «l'uomo sposta il suo essere fuori di sé, prima di trovarlo in sé. In un primo tempo egli è consapevole del proprio essere come di un altro essere» 32 • Il compito della filosofia sarebbe dunque quello di svelare «che la distinzione fra il divino e l'umano è illusoria» 33 , ed è riconducibile alla distinzione fra l'essenza dell'umanità e l'uomo individuo: «la religione, per lo meno la religione cristiana, è l'insieme dei rapporti dell'uomo con se stesso o meglio con il proprio essere, riguardato come un altro essere. L'essere divino non è nient'altro che l'essere dell'uomo liberato dai limiti dell'individuo, cioè dai limiti della corporeità e della realtà, e oggettivato, ossia contemplato e adorato come un altro essere da lui distinto. Tutte le qualificazioni dell'essere divino sono perciò qualificazioni dell'essere unzano» 34 . Teologia e antropologia si identificano perché l'uomo è l'unico fondamento del rapporto che egli stabilisce con Dio e con il cosmo: «l'uomo, in particolar modo l'uomo religioso, è a se stesso la misura di tutte le cose e di tutte le realtà» 35 • L'uomo non appartiene ad altri che a se stesso: Dio stesso non è che l'essenza dell'uomo. Ecco perché la religione si risolve in una menzogna che degrada l'essere dell'uomo: «per an-icchire Dio, l'uomo deve impoverirsi; affinché Dio sia tutto, l'uomo deve essere nulla» 36 • Infatti: «l'uomo - questo è il mistero della religione - proietta il proprio essere fuori di sé e poi si fa oggetto di

31 L. FEUERBACH, L'essenza del cristianesilno, trad. it., Fcltrinelli, Milano 1949, 18. 32 lbid., 26. 33 l.c. '"lhid., 27. J.'i lbid., 33. 36 !bid., 36.


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questo essere metamorfosato in soggetto, in persona; egli si pensa, ma come oggetto del pensiero di un altro essere e questo essere è Dio» 37 • Ma qual è la conseguenza etica di questa concezione della religione come illusione? «In tutte le religioni, e in particolare in quella cristiana, il primo degli attributi di Dio è quello di pe1jezione morale. Ma Dio concepito quale essere moralmente perfetto null'altro è che l'idea di moralità realizzata, che la legge morale personificata, che l'essere morale dell'uomo posto come essere assoluto: infatti il Dio morale pone all'uomo l'esigenza di essere quale egli stesso è: 'Dio è santo, voi dovete essere santi come Dio'. E' la stessa coscienza umana, altrimenti come potrebbe l'uomo tremare dinanzi all'essere divino, accusarsi davanti a lui, come dinanzi al giudice dei suoi più intimi pensieri e sentimenti ?>> 38 • Così viene a stabilirsi nell'uomo una sorta di stato di tensione all'imitazione di Dio e di disaccordo con se stesso: «e questo disaccordo è nella religione tanto più tormentoso, tanto più terribile, in quanto essa contrappone all'uomo l'essere proprio dell'uomo rappresentandoglielo come un essere da lui diverso, e per di più come un essere personale, un essere che odia e maledice i peccatori, escludendoli dalla sua grazia, fonte di ogni salvazione e felicità»"Nella visione religiosa dell'etica è inevitabile, secondo Feuerbach, che questa venga concepita come fonte di dissidio e di dissociazione dell'uomo da se stesso; il peccato è l'inevitabile distanza dell'uomo dalla perfezione morale concepita come sostanza altra rispetto all'essenza umana. L'annullamento del peccato si ha, dunque, nell'annullamento di questa astratta giustizia morale e nell'affermazione dell'amore, della mise1icordia, della sensibilità: «la misericordia è la giustizia della sensibilità. Perciò Dio perdona i peccati degli uomini non come astratto dio razionale, ma come uo1no, co1ne dio divenuto carne, con1e dio corporeo. Dio con1e uomo non

37

38

39

Ihid., 39. Ihid., 51. Ihid., 52.


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pecca, pur tuttavia conosce, prende su di sé le sofferenze, i bisogni, la miseria della corporeità. Il sangue di Cristo ci purifica agli occhi di Dio dei nostri peccali: sì, soltanto il sangue umano fa Dio misericordioso, placa la sua ira: ossia i nostri peccati sono perdonati perché noi non sia1no esseri astratti, bensì esseri di crune e di sangue» 40 . E' dunque nella coscienza dell'amore che l'uomo si riconcilia con Dio, o meglio, con se stesso, con il suo proprio essere, essere, invece che nella esperienza religiosa l'uomo contrappone a sé come un essere che, da lui diverso, personifica la legge morale. La coscienza dell'amore diventa un tutt'uno con la concezione di Dio come un essere umano, e il mistero dell'incarnazione si risolve «nell'apparizione reale, sensibile della natura umana di Dio» 41 • Infatti: «l'antropologia non considera l'incarnazione un mistero singolare e meraviglioso come fa la speculazione accecata dalla sua aureola di misticismo; bensì distrugge l'illusione di un mistero singolare, soprannaturale: critica il domma e lo riduce ai suoi elementi naturali, umani, alla sua intima origine, al suo nucleo centrale: l 1an1ore» 42 • Ma l'amore è «la sostanza de!Jfessere stesso» 43 : esso rivela «questa essenziale identità di natura fra Dio e l'uomo espressa nella Incarnazione»44. L'amore di Dio per l'uomo, centro e fondamento della religione cristiana, sarebbe da prova più chiara, più irrefutabile che l'uomo nella religione contempla se stesso come un oggetto divino, come un divino scopo, e che i suoi rapporti con Dio non sono che rapporti con se stesso, con il suo proprio essere» 45 . E non può essere diversamente poiché la rivelazione di Dio non è altro «che la rivelazione, l'evoluzione dell'essere umano» 46 . E ancora: «Dio è l'amore: questa massima, la più alta del cristianesimo, non esprime che la sicurezza di sé del sentimento umano, la sua certezza di essere la sola potenza va-

40

!bid., lbid., 42 lbid., 43 Ibid., 44 lbid., 45 lhid., 46 Ihid., 41

53. 54. 55.

56. 57. 60. I 03.


Questioni filosofiche sul problema del male

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lida, ossia divina, la certezza che i desideri celati nell'intimo del cuore umano hanno validità e verità assolute, che per il sentimento umano non vi può essere limite né opposizione, che di fronte al sentimento dell'uomo nulla è il mondo intero con tutte le sue meraviglie e la sua magnificenza. Dio è l'amore - ossia il sentimento è il Dio dell'uomo, anzi Dio senz'altro, l'esser assoluto. Dio è il sentimento a sé oggettivo, il sentimento puro, libero da ogni limite; Dio è l'ottativo del cuore umano divenuto tempo presente, ossia beata certezza, è la spregiudicata onnipotenza del sentimento, è la preghiera che si esaudisce, il sentimento che ascolta se stesso, è l'eco del nostro grido di dolore»'"ln questa prospettiva il peccato, in quanto rifiuto di appartenenza e di sottomissione a Dio, è radicalmente inconcepibile e impossibile. La preghiera stessa è il rapporto del cuore umano con se stesso, con il proprio essere e in quanto tale esprime «la dipendenza dell'uomo dal suo cuore e dal suo sentimento»'": essa germoglia nell'incondizionata fiducia dcl cuore dell'uomo, che «dimentica che esiste un limite ai suoi desideri, e dimenticando ciò trova la beatitudine» 49 . Infatti: «l'uoino nella preghiera si rivolge all'onnipotenza della

bontà, ossia: l'uomo nella preghiera adora il proprio cuore, contempla il proprio sentimento come l'essere sommo, divino» 50 .

li desiderio supremo del cuore dell'uomo è vedere Dio: Cristo è l'adempimento di questo desiderio. Cristo è, infatti, «Dio che si è fatto conoscere di persona» 51 . In Cristo «Si fa 1nanifesto l'essere di Dio. A questo riguardo si ha il pieno diritto di definire la religione cristiana la religione assoluta, perfetta. Che Dio che in sé non è altro che l'essere dell'uomo, venga anche a realizzarsi come tale, venga oggettivato dalla coscjenza come uon10, è la 1neta della religione» 52 . Ma se Dio non è altro che «l'oggettivazione ideale del nostro essere»53, la moralità consiste nella «esistenza conforn1c ai 1niei desideri,

47

106.

48

108. 107. 109.

lbid., Jhid., 49 lbid., 50 lbid., 51

lbid .. 125. lbid., 125-26. 53 !bid., 148. 52


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alla mia aspirazione» 54 • Questo è il regno dei cieli: perciò si può dire «che il regno dei cieli èTeffettivo Dio degli uomini» 55 • E così il tendere naturalmente alla propria felicità diviene per l'uomo un appagarsi di se stesso, delle risorse del proprio essere. Moralità perfetta e autonomia coincidono. L'uomo è pienamente riconciliato con se stesso: Dio è semplicemente «ciò che gli individui umani devono essere, ciò che saranno - perciò la fede in Dio è la fede dell'uomo nella infinità e verità del suo proprio essere - l'essere divino è l'essere umano, cioè soggettivamente umano nella sua assoluta libertà e infinità» 56 .

5. La liberazione del male come problema politico

E' noto come Karl Marx abbia criticato la posizione di Feuerbach come astratta filantropia filosojica,incapace di suggerire una autentica prassi rivoluzionaria, che riuscisse a liberare l'uomo dalla sua alienazione etico-religiosa. Nelle sue famose tesi su Feuerhach così Marx riassume la sua condanna: «(Feuerbach) nell'Essenza del Cristianesimo considera co1nc vera1ncnte umano soltanto l'atteggiamento teoretico, 1nentre la prassi è concepita e fissata solo nel suo modo di apparire sordidamente giudaico. Egli non comprende, perciò, il significato dell'attività 1

1

ri voi uzionaria', 'pratico-critica » 57 •

Questa posizione condurrebbe ad una incomprensione della stessa alienazione religiosa dell'uomo nella sua radice ultima e quindi alla impossibilità dcl suo vero superamento, perché «il fatto che il foqdamento umano si distacchi da se stesso e si costruisca nelle nuvole come un regno fisso e indipendente, è da spiegarsi soltanto con l'autodissociazione e con l'autocontraddittorietà di questo fondamento

54

lbid., 149. !bid., 150. 56 Ibid., 158. 57 K. MARX, Tesi su Feuerhach, trad. it., in Opere con1p/e1e, V, Editori Riuniti, Roma 1972, 3. 55


Questioni filosC<fiche sul problema del male

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mondano. Questo fondamento deve essere perciò in se stesso tanto compreso nella sua contraddizione, quanto rivoluzionato praticamente. Pertanto dopo che, per esempio, la famiglia terrena è stata scoperta come il segreto della sacra famiglia, è proprio la prima a dover essere dissolta teoricamente e praticamente»". Già nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Karl Marx aveva evidenziato la causa di questa autodissociazione e di questa auto-contraddittorietà, in forza delle quali il fondamento umano si distacca da sé e si proietta in un altro, da sé indipendente, da cui anzi si concepisce dipendente: «un essere si considera indipendente soltanto quando è padrone di sé, ed é padrone di sé soltanto quando è debitore a se stesso della propria esistenza. Un uomo, che vive della grazia altrui, si considera come un essere dipendente. Ma io vivo completamente della grazia altrui quando sono debitore verso l'altro non soltanto del sostentamento della mia vita, ma anche quando questi ha oltre a ciò creato la mia vita, è lafonte della mia vita; e la mia vita ha necessariamente un tale fondamento fuori di sé, quando non è la inia propria creazione. La creazione è quindi una rappresentazione assai difficile da sradicare dalla coscienza del popolo; questi infatti non riesce a conçepire che la natura e l'uo1no possano esistere per opera propria, posto che ciò contraddice a tutti i dati evidenti della vita pratica» 59 . Sono dunque i dati evidenti della vita pratica che impediscono all'uomo di concepirsi indipendente e padrone di sé e che lo costringono a pensarsi come creato da un Altro: concezione difficilmente· sradicabile dalla coscienza del popolo, anche se ormai la teoria della creazione della terra sarebbe stata superata, secondo Marx, dalla scienza «che presenta la formazione e il divenire della terra, come una generazione spontanea» 60 . Anche se sarebbe certamente facile «dire all'individuo singolo quello che già disse Aristotele: tu sei generato da tuo padre e da tua

58

lhid., 4, K. MARX, Manoscrifli Econornh·o~filosofici del 1844, trad. it., Einaudi, Torino 1968, 123. 60 L.c. 59


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madre, e quindi la congiunzione di due esseri umani, cioè un atto proprio della specie umana, ha prodotto in te l'uomo. Tu vedi dunque che l'uomo è dehitore della sua esistenza anche fisicamente all'uomo. Devi quindi tener presente non un unico lato soltanto, cioè il progresso all'infinito, per cui vieni a chiedere chi ha generato mio padre, chi suo nonno e via di seguito. Tu devi anche p01Te attenzione al movimento circolare, che si può vedere sensibilmente in quel progresso, in hase al quale l'uomo nella generazione riproduce se stesso, e l'uomo rimane quindi sempre soggetto» 61 ; tuttavia lo stesso Marx non può fare a ineno di in11naginare un interlocutore che continui a rispondere: «io ti concedo questo movimento circolare, ma tu devi concedermi a tua volta il progresso che mi spinge sempre più indietro sino a farmi domandare chi ha generato il primo uomo e in generale la natura»62.

E' vero che a. un tale pedante interlocutore sarebbe facile controbattere che la sua domanda è essa stessa un prodotto de/l'astrazione, in quanto fa astrazione dall'uomo e dalla natura: «lu li poni come non esistenti, eppure vuoi che te li provi come esistenti. Ed io ora ti dico se rinunci alla tua astrazione, devi rinunciare pure alla tua domanda; se vuoi invece rimaner fedele alla tua astrazione, devi essere conseguente, e se pensi l'uomo e la natura co1ne non esistenti, allora pensa come non esistente anche te stesso, perché tu stesso sei pure natura e uo1no. Non pensare, non interrogarmi, perché non ap-

pena pensi e interroghi, la tua astrazione dall'essere della natura e dell'uomo perde ogni senso. Oppure sei tu un tale egoista che ogni cosa poni nel nulla, ina ciò nonostante vuoi essere?» 63 •

Ma l'immaginario interlocutore di Marx potrà sempre ribattere che lui non vuole porre la natura nel nulla, vuole solo porre la domanda sull'atto d'origine della natura, perché solo l'uomo sociolista avrà la prova evidente che egli si fa da sé, soltanto lui avrà i dati evidenti della vita pratica che lo confermeranno nella convinzione della

61

lhid., 124.

62

L.c.

63

lhid., 124-25.


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essenzialità dell'uomo e della natura e quindi della loro necessaria esistenza, che non ha bisogno di un Altro che ne giustifichi la ragione di essere. Infatti: «per l'uomo socialista tutta la cosiddetta storia del mondo non è altro che la generazione dell'uomo mediante il lavoro umano, null'altro che il divenire della natura per l'uomo, egli ha la prova evidente, irresistibile, della sua nascita mediante se stesso, del processo della sua origine. Dal momento che la essenzialità dell'uomo e della natura è diventata praticamente sensibile e visibile, dal momento che è diventato praticamente sensibile e visibile l'uomo per l'uomo come esistenza della natura, e la natura per l'uomo come esistenza dell'uomo, è diventato praticamente improponibile il problema di un essere estraneo, di un essere superiore alla natura e all'uoino, dato che questo problema implica l'ammissione della inessenzialità della natura e dell'uomo»'"Il socialismo non ha più bisogno della mediazione dell'ateismo: «esso co1nincia dalla coscienza teoretican1.ente e 11ratican1ente sensibile dell'uomo e della natura nella loro essenzialità. Esso è /'autocoscienza lJOsitiva delruomo, non più mediata dalla soppressione della religione, allo stesso modo che la vita reale è la realtà positiva dell'uomo, non più mediata dalla soppressione della proprietà privata, dal comunisn10»65. Ma dove sta la ragione di tutto ciò? Nel fatto che, come una economia fondata sulla proprietà privata è la rivelazione sensibile della vita un1ana estraniata, così «la soppressione positiva della proprietà privata, in quanto appropriazione della vita umana, è dunque la soppressione positiva di ogni estraniazione, e quindi il ritorno dell'uomo dalla religione, dalla famiglia, dallo stato, ecc .. alla sua esistenza un1ana, cioè socìale» 66 . Soppressa l'estraniazione economica dell'uomo, che è l'estraniazione della vita reale, ne segue la soppressione della estraniazione religiosa che accade nella sfera della coscienza, e non viceversa. Pertanto «la filantropia dell'ateismo è innanzitutto soltanto una

64

/b;d., 125.

65

Ihid .. 125-26.

66

/b;d., 112.


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astratta filantropia filosofica; quella del comunismo è subito reale e immediatamente tesa verso il risultato effettivo» 67 • In questa prospettiva il male radicale dell'uomo, cioè la espropriazione di se stesso come soggetto capace di produrre se stesso, è una questione politica, perché si risolve nel cambiamento della struttura economico-sociale che consente tale estraniazione: è una questione di prassi rivoluzionaria. E così il marxismo si inserisce in quel più grande movimento utopico, che ha attraversato tutta la storia occidentale per il quale gli uo1n1ni: «cercano sempre d'evadere dal buio esterno e interiore sognando sistemi talmente perfeui che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono».

Anche se non si dovrebbe mai dimenticare che: «[ ... ]l'uomo che è adon1brerà l'uomo che prelende di essere» 68 .

Il pensiero utopico è stato recentemente definito come una sorta di gnosticismo che parte dal presupposto che «un mutamento nell'ordine dell'essere rientri nell'ambito dell'azione umana, che questo sforzo salvifico sia possibile grazie agli sforzi personali dell'uomo». Pertanto il dovere che si impone all'uomo è quello di «cercare la ricetta atta a determinare tale mutamento, [ ... ] la formula perfetta per la salvazione dell'io e del mondo, accompagnata dall'atteggiamento profetico tipico dello gnostico, il quale proclama di conoscere i mezzi per salvare il genere umano»69.

67 68

lhid., 113. T. S. ELTOT, Cori da 'la Rocca', VI, trad. it., in Poesie, Mondadori, Milano

1974, 383. 69

1 O.

E.

VoEGELIN,

Il nlitn dr! 1nnndo nuovo, trad. il., Rusconi, Milano 1990, 9~


Questioni filosofiche sul problema del male

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Al fine di fare apparire possibile l'impresa «ogni intellettnale gnostico che elabora un programma di trasformazione del mondo deve prima di tutto costruire un quadro del mondo dal quale siano stati eliminati quei caratteri essenziali della costituzione dell'essere che farebbero apparire disperato e insensato il programma stesso»"'· Pertanto ogni pensiero utopico si fonda su una riduzione della realtà. Perché non emerga la realtà censurata è necessario che viga in modo ferreo il divieto di fare domande come «deliberala e sapientemente elaborata ostruzione della ratio»"Di questo divieto di fare domande è un esempio illuminante il ragionamento sopra riportato, secondo il quale Marx vuole impedire all'uomo comune di chiedere, di fronte alla evidente inessenzialìtà del mondo e dell'uomo, quale sia la sua causa ultima, promettendo che all'uomo socialista, cioè all'uomo che sarà il frutto della trasformazione sociale che deve accadere, tale domanda sarà «praticamente improponibile». Marx, dunque, come a suo modo lo è ogni pensatore gnostico, è «Un truffatore intelletluaJe»n

6. L'etica con1e 1nortale volontà di verità

Friedrich Nietzsche è stato considerato giustamente uno dei profeti più acuti del nostro tempo, ossia di quell'esito nichilistico che sempre più ai nostri giorni, sul piano del pensiero collettivo, va connotando la dimensione antropologica e quindi teologica e cosmica dell'esistenza. Si tratta della rivolta contro l'idea di una verità oggettiva e assoluta che possa fare da riferimento etico all'uomo nel suo agire, come dovere e ragione della vita. Di conseguenza scatta un rifiuto di tutti i teorici del fine de/l'esistenza, di cui, secondo Nietzsche, si serve l'istinto della conservazione della specie per «far dimenticare a tutti i costi

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71 72

lhid., 25. Ihid., 68. Cfr. ibid., 68-76.


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d'essere in fondo impulso, istinto, assurdità, assenza di fondamento [... J. Pertanto quel che sempre, necessariamente, accade di per se stesso e senza scopo alcuno, a cominciare da questo momento appare fatto in vista di uno scopo e risulta plausibile all'uomo come ragione e ultimo comandamento; per questo fa la suà comparsa il teorico della morale, in guanto teorico del fine dell'esistenza» 73 • E invece ridere di se stessi si dovrebbe quando «procedendo da tutta la verità», si approdasse alla massima: «la specie è tutto, uno è sempre nessuno», allora a ognuno sarebbe aperto l'accesso a questa ultima liberazione e irresponsabilità: «forse il riso si sarà allora alleato alla saggezza, forse allora ci sarà, se non altro, una "gaia scienza"» 74 • La liberazione dell'uomo starebbe dunque in una raggiunta irresponsabilità, che deriva dalla coscienza che «l'odio, il piacere della perversità, la brama di rapina e di dominio, e tutto quello che solitamente è chiamato malvagio, appartengono alla sorprendente economia della conservazione della specie, a una economia indubbiamente onerosa, prodiga, e, nel suo complesso, pazzesca nel più alto grado, 1na che pur tuttavia ha finora conservato, in una con1provata rnisura, la razza» 75 •

L'etica in questa prospettiva si rivela come una mortale volontà di verità, una occulta volontà di morte, un principio distruttivo ostile alla vita76 ; infatti: «a guai fine esiste in genere una morale, se vita, natura, storia sono in1111oralì?» 77 . Se il vincolo conservatore dell'istinto non fosse assolutamente potente e non servisse così da regolatore, l'umanità perirebbe per gli errati giudizi della coscienza morale, per la sua superficialità e la sua credulità, o forse sarebbe già scomparsa da tempon Perché l'unico senso dell'agire dell'uomo è la sua volontà di potenza; seguendo questo istinto l'individuo promuove l'esistenza e la potenza della spe-

73 74

75

F. NIETZSCHE, la gaia scienza, trad. it., Adelphi, Milano 1988, 35. lbid .. 34. lbid., 33.

76

Cfr. ibid., 207.

77

L.c.

78

Cfr. ibid., 45.


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cie: «facendo del bene o del male si esercita la propria potenza sugli altri: altro non si vuole che questo [ ... ]. Perfino quando mettiamo in gioco la nostra vita, come fa il martire nell'interesse della Chiesa, è questo un sacrificio offerto alla nostra avidità di potenza, ovvero al fine di conservare il nostro sentimento di potenza. Colui che sente di "essere in possesso della verità", quanti possessi non lascia perdere, per salvare quel che sta sentendo!»"Anche ciò che noi chiamiamo amore non si sottrae a questa legge: «l'amante vuole l'incondizionato, esclusivo possesso della persona da lui ardentemente desiderata; vuole un assoluto potere tanto sulla sua anima che sul suo corpo, vuole essere amato lui solo e prendere stanza nell'anima dell'altro e signoreggiarvi come il bene più alto e più desiderabile» 80 • Questa negazione del male etico alla sua radice, per l'assenza di una verità assoluta cui l'uomo appartiene, ha un fondamento teologico: essa infatti coincide con la negazione di Dio, più precisamente con la morte di Dio come Presenza determinante nella vita etica dell'uomo. E' questa morte di Dio che Nietzsche profetizza nelle pagine affascinanti dedicate ali' uomo folle che, con una lanterna alla chiara luce del mattino, con-e al mercato e si mette a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!». E di fronte alla reazione stupefatta e ironica degli altri balza in mezzo a loro, li trapassa con i suoi sguardi e spiega: «Dove se ne andato Dio? [ ... J ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci détte la spugna per strusciar via l'intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su

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80

lbid .. 46-47. lbid .. 49.


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di noi lo spazio vuoto? [ ... )» 81 • Ma ad un certo punto l'uomo folle tace, rivolge di nuovo lo sguardo verso i suoi ascoltatori che lo guardavano smarriti e, gettaudo a terra la sua lanterna che va in frantumi e si spegne, è costretto a riconoscere: «Vengo troppo presto, [ ... ) non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest'azione è ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l'hanno compiuta!» 82 • Il racconto finisce con l'irruzione dell'uomo folle in diverse chiese per intonare il suo Requiem aeternam Dea. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si sarebbe limitato a rispondere: «Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?» 83 • Nietzsche vuole essere, dunque, anticipatore e profeta di un tempo che verrà dopo di lui, nel quale gli uomini prenderanno coscienza di un avvenimento già accaduto, in forza del quale la loro vita ha cessato di avere un punto di riferimento assoluto, anzi questo è divenuto inconcepibile. L unico inotorc e criterio dell'esistenza rimarranno l'istinto e la volontà di potenza: sarà questa a salvare l'uomo dalla menzogna di ogni metafisica e di ogni morale. Alla base, infatti, di ogni interpretazione religiosa dell'esistenza non ci sta un bisogno ed una esigenza intellettuale, quanto piuttosto «un errore nell'interpretazione di determinati processi naturali, una perplessità dell'intelletto»". Dietro questa posizione c'è certamente l'orgoglio e l'arroganza della volontà che si rifiuta di riconoscere ogni radicale, cioè ontologica appartenenza dell'uomo in quanto tale ad un Altro; ma c'è anche - e in questo senso sembra davvero una profezia dell'esigenza fondamentale del nostro tempo - il bisogno che l'uomo ha di un incontro 1

81

Ihid., 129. Ihid., 130. 83 L.c. 82 84

fbid., 142.


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convincente per essere attirato dalla verità. E' sempre la bellezza che sta all'inizio dell'agire etico, perché la bellezza è lo splendore della verità nell'umano, che commuove, cioè muove all'azione che realizza la verità. Ha scritto uno dei più grandi teologi contemporanei all'inizio della sua grande trilogia: «La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l'ultima parola che l'intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal mondo moderno degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione, ma che, come maschera strappata al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini» 85 • Quando la bellezza, dunque, viene strappata come maschera dal volto che assume per noi il fatto religioso, esso si configura con dei tratti che riescono incomprensibili agli uomini. Di questo a suo modo è stato testimone Friedrich Nietzsche, come lascia chiaramente intendere in questo brano de La gaia scienza: «I grandi problemi esigono tutti il grande amore e di questo sono capaci gli spiriti forti, compiuti, sicuri, che poggiano saldamente su se stessi. C'è una assai importante differenza se un pensatore si pone in un personale rapporto con i suoi problemi, sì da trovare in essi il sno destino, la sua estrema miseria e anche la sua felicità, oppure si colloca in un rapporto "impersonale": vale a dire sa soltanto brancicarli e afferrarli con i tentacoli del suo freddo, curioso pensiero. In questo ultimo caso non ne verrà fuori un bel nulla, per quanto molto si lasci promettere: ché i grandi problemi, posto anche che si facciano afferrare, non si lasciano tenere da ranocchi e nani cronici; è questo dall'eternità il loro gusto [ ... ]. Com'è, allora, che non ho incontrato ancora nessuno, neppure nei libri, che si

85 H.U. VON BALTHASAR,

Book. Milano 1975, 10.

Gloria, J, la percezione de/fa fonna,

trad. it., Jaca


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mettesse come persona in questa posizione di fronte alla morale, che sentisse nella morale un problema, e questo problema come sua Personale angustia, tormento, voluttà, passione?»". Egli lamenta, dunque, la mancata esperienza di una posizione umana convincente nell'affrontare la questione etica, come questione decisiva dell'esistenza. Ed anche per quanto riguarda la religione cristiana si erge la sua nota denunzia, proprio contro coloro che dovrebbero essere i testimoni eletti, cioè i preti: «Essi hanno chiamato Dio ciò che contraddiceva e faceva male a loro stessi; e, in verità, vi è stato molto eroismo nella loro adorazione! E non hanno saputo amare il loro dio, se non crocifiggendo l'uomo! Si proposero di vivere come cadaveri, di panni neri vestirono il loro cadavere; anche i loro discorsi sanno per me l'aroma cattivo dell'obitorio. E colui che vive vicino a loro, vive vicino a stagni nerij da cui si leva il dolcemente cupo canto del bufone. Canti migliori dovrebbero cantarmi, perché io impari a credere al loro redentore: più redenti dovrebbero sembrarmi i suoi discepoli. Nudi vorrei vederli: solo la bellezza infatti dovrebbe predicare la penitenza. Ma chi si farà convincere da questa melanconica mascherata! »87 • Nessuno ha mai aiutato Nietzsche a comprendere l'etica e la religione cristiana come la suprema realizzazione dell'uomo, per cui secondo lui, «Dio e umanità sono a questo punto così separati, sono pensati così antitetici l'uno all'altro, che, in ultima istanza, non è generalmente possibile peccare verso quest'ultima; ogni azione deve essere presa in considerazione soltanto relativamente alle sue conseguenze soprannaturali, non sotto il profilo di quelle naturali»""· Pertanto per lui la fede consiste «in una mostruosa malattia della volontà [ ... ]. Quando un uomo giunge alla convinzione fondamentale che a lui de-

86

lbid., 208.

87 F. NIETZSCHE,

Cosl parlò Zarathustra. Un libro per tuffi e per nessuno, trad. it., Adelphi, Milano 1989, 109. 8 8 ID., La gaia scienza, cit., 135.


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vono essere impartiti ordini, diventa "credente"; inversamente s1 potrebbe pensare un piacere e una energia dell'autodeterminazione, una libertà del volere, in cui uno spirito prende congedo da ogni fede, da ogni desiderio di certezza, adusato com'è a sapersi tenere su corde leggere e su leggere possibilità, a danzare perfino sogli abissi. Un tale spirito sarà lo spirito libero par excellence» 89 • Questo spirito libero per eccellenza, il superuomo «è il senso della terra» 90 • Pertanto «l'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, un cavo al disopra di un abisso. La grandezza dell'uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell'uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto» 91 , Lo spirito diviene attraverso le sue tre metamorfosi essenziali. Lo spirito diventa innanzitutto cammello: è «lo spirito forte e paziente nel quale abita la venerazione; la sua forza anela verso le cose pesanti, più difficili a portare» 92 . Ma dove il deserto è più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa il leone, egli vuole come preda la sua libertà ed essere signore del proprio deserto. «Chi è il grande drago, che lo spirito non vuol più chiamare signore e dio? "Tu devi" si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice "Io voglio" [ ... ]. Creare valori nuovi, di ciò il leone non è ancora capace; ma crearsi la libertà per una nuova creazione, di questo è capace la potenza del leone» 93 • E così è necessario che lo spirito diventi fanciullo: «Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota rotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sé. Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sé: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo inondo»'M. L'uomo del nostro tempo, che non è stato messo in grado di comprendere o non ha voluto capire come solo l'appartenenza creatu-

89 9

Ibid., 213.

°F. NIETZSCHE, Cosl parlò Zarathustra, cit., 6.

91

92 93 94

Jhid., Ihid., lbid., !bid.,

8.

23.

24. 25.


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raie, riconosciuta e vissuta nell'azione, lo faccia signore del mondo, anela a farsi il suo mondo del quale vuole essere il padrone assoluto. Paradossalmente questo diviene un ideale etico. Il nuovo ideale etico, che scardina la coscienza del bene e del male, e la ricostruisce sul fondamento del valore della volontà assoluta.

7. Se Dio non c'è tutto è permesso, ma tutto è indifferente

Nietzsche ci rimanda ad un altro profeta del nostro tempo, lo scrittore russo Fedor Dostoevsckij, del quale Berdjaev ha scritto: «Dostoevskij ha saputo tutto quello che saprà Nietzsche; ma qualche cosa di più» 95 . L'incontro fra i due risale al 1887, quando Dostoevskij era già morto da sei anni. Nietzsche si trovava a Nizza e il 23 febbraio scriveva a Francesco Overbeck: «! ... ] Una trovata gratuita in una libreria: Le memorie del sottosuolo di Dostoevskij. E' stato un caso simile a quello che mi è occorso a 21 anui per Schopenhauer, e a 35 per Stendhal. La voce del saugue (come chiamarla diversamente?) si fece subito sentire, e la mia gioia fu grandissima» 96 • Il confronto è inevitabile: «come non essere colpiti - scrive De Lubac - anzitutto dal giudizio simile che tutti e due hanno pronunciato sul loro secolo? La stessa critica del razionalismo e dell'umanesimo occidentale, la stessa condanna dell'ideologia del progresso, la stessa insofferenza per il regno scicntista e per le prospettive stoltamente idilliche che, in molti lo prolungano, lo stesso sdegno per una civiltà tutta superficiale di cui essi fan saltare la vernice, lo stesso presentimento della catastrofe che ben presto la inghiottirà»n Ma il parallelismo è stato spinto ben più lontano, nel vedere cioè in ambedue il tentativo di raggiungere o di indicare come ideale una posizione esistenziale che si colloca «al di là del bene e del male».

95 Cit. in H. DE LUBAC, Il dran11na de//'u1nanesilno ateo, trad. it., Morce11iana, Brescia 1979, 237. 96 Cit. in ibid., 225. 97 !bid., 226.


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In realtà la condanna della nostra epoca, in cui i due autori si riconoscono, ha ragioni e prospettive diverse: per Nietzsche essa è un'eredità del Vangelo, la prospettiva è dunque la liberazione dell'uomo dalla verità e dall'etica cristiana; per Dostoevskij essa è il risultato del rinnegamento del Vangelo, la prospettiva è dunque la liberazione dell'uomo dall'arrogaute rifiuto del Dio di Gesù Cristo. Per una inevitabile semplificazione nell'esporre il pensiero di quest'ultimo, faremo ricorso a tre figure letterarie, tra le più celebri della sua vasta produzione. Kirillov ne I demoni, romanzo nel quale Dostoevskij critica aspramente il movimento nichilista che attraversa le schiere degli intellettuali populisti della Russia del suo tempo, è l'ateo che ha teorizzato che «la piena libertà ci sarà allora quando sarà indifferente vivere o non vivere» 98 . La vita è dolore e paura e l'uomo è infelice, l'uomo a1na la vita perché ha paura: «la vita si concede a prezzo di dolore e paura, e sta qui tutto l'inganno. Ora l'uomo non è ancora quell'uomo. Vi sarà l'uomo nuovo, felice e superbo. A chi sarà indifferente vivere o non vivere quello sarà l'uomo nuovo! Chi vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio. Mentre l'altro non vi sarà» 99 • Chi si ucciderà soltanto per uccidere la paura quello diverrà subito Dio. Nel suicidio l'uomo nega Dio e proclama /'arbitrio: «Se Dio c'è tutta la volontà è sua, e sottrarmi alla sua volontà io non posso. Se no tutta la volontà è mia e sono costretto a proclamare l'arbitrio[ ... ]. Io sono obbligato ad uccidermi perché il momento più alto del mio arbitrio è uccidere me stesso» 100 . Chi scopre questa verità per primo deve uccidersi per cominciare a dimostrarla: questo salverà tutti gli uomini dalla paura. E così Kirillov si uccide, ma si rende utile soltanto ad una losca trama di delitti e di interessi che costituiscono il reale motore di un movimento che si presenta come libertario e democratico.

98

F. DOSTOEVSKIJ, I den1011;, trad. it., Garzanti, Milano 1986, 116. lbid., 117. tOO fhid., 657.

99


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Pertanto la sua morte non serve alla sua causa. Stavrogin, un altro suggestivo personaggio del romanzo, confessa alla fine che egli non si uccide, perché il suicidio sarebbe cadere in un altro inganno che è quello della magnanimità, mentre la magnanimità non è nient'altro che l'uscita fuori di senno: «lo non potrò mai perdere la ragione e non potrò mai credere all'idea a un punto tale, come lui (Kirillov). Non posso nemmeno occuparmi dell'idea così. Non potrò uccidermi, mai! So che dovrei uccidermi, spazzarmi via dalla terra, come un vile insetto; ma io temo il suicidio, perché temo di mostrare la magnanimità. So che sarebbe un altro inganno, l'ultimo inganno nella infinita serie di inganni! Che frutto c'è ad ingannarsi per far soltanto la parte del magnanimo? Non ci potrà mai essere in me né indignazione, né vergogna, per conseguenza, nemmeno disperazione» 101 . Così la vita dell'uomo senza Dio diviene talmente indifferente da determinare l'inconcepibilità della dedizione etica a qualsiasi causa. La ragione di questa indifferenza Dostoevskij la mette in bocca a Stepan Trofimovic: «Dio mi è indispensabile già perché è il solo essere che si possa eternamente amare [ ... ]. Già la sola idea costante ch'esista qualcosa di smisuratamente più giusto e più felice di me, riempie anche me tutto di smisurata tenerezza e di gloria, oh, chiunque io sia, qualunque cosa abbia fatto! All'uomo assai più indispensabile della propria felicità è sapere e ad ogni momento credere che c'è in un certo luogo ormai una felicità perfetta e calma, per tutti e per tutto I ... ]. Tutta la legge dell'esistenza umana consiste solo in ciò che l'uomo possa sempre inchinarsi dinanzi all'infinitamente grande. Se si privassero gli uomini dell'infinitamente grande non vivrebbero e morrebbero in preda alla disperazione. Lo smisurato e infinito è indispensabile all'uomo così, come quel piccolo pianeta, nel quale abita»""· Questo tema è ripreso in Delitto e castigo, dove un altro personaggio testimonia l'impossibilità, da parte dell'uomo, di sottrarsi all'infinitamente grande che si manifesta nella sua coscienza, come

101

102

lbid., 714. lbid .. 701-702.


Questioni filos~fiche sul problema del male

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quella legge profonda del cuore in forza della quale egli non può non cercare il suo Bene, che poi è il principio della legge morale. Raskòlnikov è un giovane studente che uccide una vecchia usuraia, un delitto compiuto nella esasperazione dell'indigenza che opprime non soltanto lui, ma anche la madre e la sorella, ma soprattutto motivato da un principio, da una teoria che egli aveva sostenuto in un articolo pubblicato qualche mese prima su un periodico, e che sarà illustrata da lui stesso più tardi al giudice istruttore Porfiri Petrovic. Questo principio «consiste precisamente in ciò, che gli uomini, per legge di natura, si dividono in generale in due categorie: quella inferiore (gli uomini comuni) cioè, per dir così, il materiale che serve unicamente per la procreazione di altri esseri simili a sé e gli uomini veri e propri, aventi cioè il dono o la capacità di dire nel loro ambiente una parola nuova [ ... ]. La prima categoria, cioè il materiale, generalmente parlando sono uomini per natura loro conservatori, posati, che vivono nell'obbedienza e amano ubbidire. Secondo me, hanno anche l'obbligo di ubbidire, perché questa è la loro missione, e in ciò non v'è per loro proprio nulla di umiliante. Quelli della seconda categoria trasgrediscono tutti la legge, sono sovvertitori o inclini ad esserlo, a giudicare dalle )oro attitudini. I delitti di questi uomini, s'intende, sono relativi e disparati: per la massima parte essi chiedono, in formulazioni svariatissime, la distruzione del presente in nome di un meglio [ ... ]. La prima categoria è sempre signora del presente, la seconda categoria è signora dell'avvenire» 103 . Che cosa dà diritto alla propria coscienza di scavalcare gli ostacoli posti dalla coscienza comune? E' proprio il futuro dell'umanità che lo esige: «Secondo me, se le scoperte di Keplero e di Newton, per qualche con1binazione, in nessuna n1aniera avessero potuto divenir note agli uomini altrimenti che con il sacrificio della vita di uno, di dieci, di cento persone e via dicendo, che impacciassero quella scoperta, o che si fossero messe sulla sua strada come un ostacolo, allora Newton avrebbe avuto il diritto e sarebbe peifino stato in obbligo [ ... ] di eliminare quelle dieci o cento persone, per far note le sue scoperte a

103

F. DOSTOEVSKIJ, Delùto e cast(r;o, trad. it., B.u.r., Milano 1951, 288-89.


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tutta l'umanità»'°'· La storia dell'umanità, infatti, sarebbe andata avanti in forza di violazioni della legge antica, operate a favore di una nuova legge. Questa sarebbe stata l'opera dei "legislatori" e dei "fondatori" dell'umanità. Raskolnikov uccide in forza di questo principio perché crede di essere uno della seconda categoria di uomini: solo che alla prova dei fatti il principio si rivela per lui insostenibile, egli non è un vero padrone cui tutto è permesso. Così, pur dicendo che non prova nessun nmorso, va a denunziarsi per un delitto che sostiene di non aver con1messo.

Molto tempo dopo, quando si trova al bagno penale, non si pente ancora del delitto, ma un solo pensiero lo tormenta: pensando agli altri assassini, egli si dice: «quegli uomini seppero reggere ai loro atti, e perciò hanno ragione, io invece non ho saputo reggere e, quindi, non avevo il diritto di autorizzarmi a quel passo» 105 . Ecco, dunque, la sola cosa in cui riconosceva il suo delitto: solo nel non averlo saputo reggere e nell'essersi costituito. Ma in fondo ai suoi pensieri si faceva spazio una domanda, nella quale c'era il presentin1ento di una futura redenzione e di una nuova, e fino a quel ino1ncnto assoluta1nente ignota, realtà: «perché allora non si era ucciso?

Perché era stato allora chino sul fiume e poi aveva preferito costituirsi e confessare? Possibile che ci fosse una tal forza in quel desiderio di vivere e che fosse così difficile vincerlo? [ ... ]. Egli con strazio si proponeva questo quesito e non poteva capire che già allora, quando stava chino sul fiu1ne, forse presentiva in sé e nelle sue convinzioni

una profonda menzogna. Non capiva che quel presentimento poteva essere l'annunciatore di un futuro rivolgimento nella sua vita, d'una sua futura risurrezione, d'una futura nuova visione della vita» 106 •

Se Dio non c'è, tutto è permesso e tutto è indifferente: la testimonianza della presenza di Dio è dunque questa inestirpabile dijfe-

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lbid., 287. lhid., 594. 106 l.c. 105


Questioni filosofiche sul problema del male

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renza, che nasce dal desiderio di bene nascosto profondamente nel cuore dell'uomo. Questo è il principio dell'etica che l'uomo non potrà mai uccidere totalmente in se stesso: «Nessun uomo è capace di superarsi. Non perché è debole, ma perché è uomo; Raskolnikov deve riconoscere alla fine la verità sull'uomo, e, per trovare la vita divina, deve rinunciare a fare il dio» 107 • La terza figura letteraria che considereremo è quella del Grande Inquisitore: essa si presenta in un "poema" che Ivan racconta al suo fratello minore Alioscia ne !fratelli Karamàzov. Qui si immagina che Cristo venga «colto dal desiderio di manifestarsi almeno un istante al popolo angosciato, sofferente, pieno di turpi peccati, ma insieme di fanciullesco amore per Lui» 108 , proprio in Spagna, a Siviglia all'epoca più tremenda dell'inquisizione. Questa seconda apparizione storica di Cristo è connotata dagli stessi segni della prima: i miracoli, l'entusiasmo della gente, l'umile implorazione della sua grazia. Ma l'Inquisitore lo fa imprigionare e lo sottopone ad un processo, nel quale sostanzialmente a Cristo viene rimproverato di aver creduto tanto alla forza del suo messaggio, da aver lasciato l'uomo libero di fronte a questo: <da libertà della loro fede era cara a Te sopra ogni altra cosa» 109 . E così non ha liberato l'uomo dal peso della responsabilità nella decisione per il bene e dall'angoscia conseguente, «giacché nulla mai fu per l'uomo e per la società umana più insopportabile della libertà»""· Come sarebbe stato reso tutto più facile agli uomini, se Cristo avesse ceduto ai suggerimenti del suo tentatore e avesse comprato la libertà degli uomini con il pane, conquistato con i miracoli, dominato con il potere politico! Ma Cristo si è ostinato nel far leva unicamente sulla forza della verità che fa liberi; con quale esito? «Irrequietezza, rivolta e infelicità:

107 108

I-I. DE LUBAC, op.cit., 256. F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karan1àzov, trad. it., II, Mondadori, Milano

1963, 11. 109

110

lhid., 15. L.c.


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ecco qual è ora il destino degli uomini, dopo che Tu hai affrontato tanta sofferenza per dadoro la libertà!» 111 • Il Grande Inquisitore si propone come il sostenitore di un disegno più realistico, in forza del quale a prezzo della sua libertà viene data all'uomo la felicità: «Noi abbiamo emendato le Tue gesta, e le abbiamo dato per fondamento il miracolo, il mistero e l'autorità. E gli uomini si sono rallegrati che di nuovo li conducessero come un gregge, e che dai loro cuori fosse stato tolto, finalmente, un dono tanto tremendo, che aveva arrecato tanto tormento. Abbiamo avuto ragione di insegnare e di agire così? Parla! Non abbiamo forse amato, noialtri, l'un1anità, tanto u1nilmente riconoscendo la sua in1potenza, con tanto amore alleggerendo il suo fardello, e permettendo alla debole sua natura sia pur di peccare, ma col nostro per1nesso» 112 . Eppure anche lui ha dovuto riconoscere che Cristo aveva visto giusto: «infatti, il segreto dell'esistenza umana non sta nel vivere per vivere, ma nell'avere un fine per cui vivere. Se non si prospetta in modo sicuro un fine per cui debba vivere, l'uomo non si rassegnerà a vivere e preferirà annichilirsi piuttosto che rimanere sulla terra, anche se tutt'intorno gli stessero pani a perdita d'occhio. Questo è vero, ma che conseguenza n'è stata tratta! Invece di prendere possesso della libertà degli uomini, Tu gliel'hai resa ancora più grande! [ ... ]. Tu hai voluto il libero amore dell'uomo, hai voluto che liberamente Ti seguisse, attratto e soggiogato da Te» 113 • Ma secondo l'Inquisitore questa verità, per cui l'uomo non può vivere se non per un infinito amore, risulta insopportabile alla maggior parte degli uomini; per questo conviene catturare le loro risorse dentro un progetto più razionale: «io ho aperto gli occhi, e non ho voluto servire la follia. Ho virato di bordo, e mi sono aggregato alla schiera di quelli che hanno emendato le tue gesta. Ho girato le spalle agli orgogliosi, e mi sono rivolto agli umili, per la felicità di codesti

llI

f/Jùf., 23.

112

!bid., 23-24. f/Jid., 20-2 J.

I lJ


Questioni filosofiche sul problema del male

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umili. Ciò che io sto dicendo a Te, si avvererà e il regno nostro sarà fondat0>> 114 • Il finale del "poema", però, dà ragione a Cristo, e questa vittoria dell'amore, che è l'unica a rispettare e ad esaltare la libertà dell'uomo, è percepita dallo stesso suo accusatore: «quando l'Inquisitore ha terminato, rimane per un tratto di tempo in attesa che il Prigioniero gli risponda, il silenzio di Lui gli riesce gravoso. Ha osservato come finora l'incatenato sia restato in ascolto, col penetrante e pacato sguardo fisso negli occhi suoi, senza desiderare evidentemente di ribattergli nulla. Al vecchio piacerebbe che quello gli dicesse qualche cosa, foss'anche qualche cosa di amaro, di tremendo. Ma Egli, di colpo, in silenzio, si appressa al vecchio e lievemente lo bacia sulle esangui labbra di novantenne. Ecco tutta la risposta. Il vecchio sussulta. Un fremito contrae gli angoli delle sue labbra: si dirige alla porla, l'apre e Gli dice: 'Va, e non venire più [ ... ]non venire più a nessun costo, mai, 1nai più!'» 115 . Al di là del dibattito critico che si è sviluppato su questa leggenda, nella quale si è voluta ravvisare una pesante critica storico-teologica della realizzazione del cristianesimo da pa1te della Chiesa cattolica'", resta la testimonianza che Dostoevskij attribuisce ad un anarchico come Ivan della necessità di un punto di riferimento assoluto per la libertà dell'uomo; anzi è proprio questo a rendere possibile e ad esaltare la libertà stessa nell'atto dell'amore incondizionato.

8. Il paradosso del peccato e della riconciliazione

Soeren Kierkegaard ha dedicato ampio spazio nelle sue opere al dramma della colpa morale. Nei suoi scritti il peccato viene messo in risalto come quella azione dell'uomo, del Singolo, che si sottrae ad ogni pretesa di comprensione razionale e di analisi esaustiva. Esso si

fbid., 28. lhfrl., 31. 116 Cfr. R. GUARDINI, Il n1undo religioso di Dostoevskij, trad. IH 115

Morcelliana, Brescia 1980, 117-136.

it.,


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pone come un paradosso: «In fondo il peccato non ha posto in nessuna scienza» 117 •

La scienza, infatti, che prima di ogni altra (p. es. la psicologia) potrebbe dare un posto al peccato sarebbe forse l'etica; ma «l'etica addita l'idealità come scopo, e presuppone· che l'uomo sia in grado di raggiungerlo» 118 , e «se l'etica deve accogliere in sé il peccato, la sua idealità è elin1inata» 119 • Nella lotta per la propria realizzazione l'etica si scontra con il peccato come con qualcosa che non si trova per caso in qualche individuo: esso «si ritira in sfere sempre più profonde come un presupposto sempre più profondo, un presupposto che trascende l'individuo»''°. E così è sorta una categoria che sta assolutamente fuori dell'ambito dell'etica: il peccato originale. Questa categoria appartiene non all'idealità dell'etica, ma al realismo della dogmatica cristiana: «Come tutta la conoscenza e la speculazione antica si basava sul presupposto che il pensiero avesse realtà, così tutta l'etica antica parte dal presupposto che la virtù sia attuabile. Lo scetticismo del peccato è assolutamente estraneo al paganesimo. Il peccato è, per la coscienza etica, ciò che l'errore è per la conoscenza: l'eccezione singola che non vuol dire niente. Con la dogmatica comincia quella scienza, la quale parte dalla realtà, in contrasto con quella che strie/e si chiama scienza ideale. Non nega la presenza del peccato, anzi lo presuppone e lo spiega presupponendo il peccato originale» 121 • Il peccato originale la dogmatica non lo deve spiegare: lo spiega di fatto, presupponendolo «come quel "turbine" intorno al quale i Greci, nella loro speculazione sulla natura, sapevano diverse cose, un ele1nento n1otore che nessuna scienza può afferrare» 122 . Una nuova scienza comincia, dunque, con la dogmatica: in questa «l'etica ritrova

117

S. KIERKEGAARD, Il concetto dell'angoscia, trad. it., in Opere, Sansoni

Editore, Firenze 1972, 115. 118 /bid., 115. 119 lbid., 115-16. 120 lbid., 116. 121 lbid., 117. 122 L.c.


Questioni filos~fiche sul problema del male

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il suo posto come la scienza che riceve dalla dogmatica la consapevolezza della realtà e la pone come un compito per la realtà» m. Il movimento delle due etiche è differente: c'è una prima etica che «è naufragata contro lo scoglio della peccaminosità dell'individuo»'"· L'etica nuova presuppone la dogmatica e con essa il peccato dell'individuo, «ponendo nello stesso tempo la idealità come compito, non in un movimento dall'alto al basso, ma dal basso all'alto» 125 • Il concetto del peccato, dunque, non appartiene ad alcuna scienza; soltanto l'etica seconda «può trattare la sua manifestazione, ma non il suo divenire» 126 . Anche la psicologia può occuparsi del modo in cui il peccato possa nascere, ma non può spiegare il fatto che esso nasca 127 . Essa può spiegare l'angoscia che genera il divieto, perché «l'angoscia è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità» 128 , e il divieto sveglia in ogni uomo, come in Adamo, la possibilità della libertà, la possibilità angosciante di potere, acuita dall'ignoranza di cosa sia ciò che egli può, e della condanna: «AlJora tu dovrai certa1nente morire» 129 . «l::iiù in là la psicologia non può andare, ma questo punto lo può raggiungere e soprattutto, nella sua osservazione della vita umana, lo può verificare di continuo» 130 . Ma ciò non spiega come il peccato sia entrato nel mondo: pretendere di dare di questo fatto una spiegazione logica «è una stupidaggine che può venire in mente soltanto a gente ch'è preoccupata in maniera ridicola di ottenere una qualsiasi spiegazione» 131 • Come il peccato sia entrato nel mondo ogni uomo lo comprende unicamente per esperienza JJropria, e insie1ne ne sperimenta l'anr:oscia della sua

L.c. L.c. 12s L.c. 126 lbid., 118. 121 L.c. 128 lbid., 130. 123

124

129 130 131

Cfr. ibid., 131. Ihid., 132. Ihid., 134.


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possibilità, angoscia «più riflessa che non in Adamo, perché in lui si fa valere l'incremento qualitativo acquisito dalla specie» 132 • Di fronte a questa angoscia provocata dalla continuità e dalla possibilità del peccato, <da possibilità di una redenzione è un niente che l'individuo a un tempo stesso ama e teme: perché questo è sempre il rapporto tra !'individualità e la possibilità. Soltanto nel momento in cui la redenzione è realmente posta, soltanto allora questa angoscia è superata» 133 •

Se tentiamo di avvicinarci di più all'esperienza dell'angoscia del peccato ci accorgeremo che «si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell'abisso: perché deve guardarvi. Così l'angoscia è la vertigine della libertà, che sorge mentre lo spirito sta per porre la sintesi e la libertà, guardando giù nella propria possibilità, afferra il finito per fermarsi in esso. In questa vertigine la libertà cade [ ... J. Nello stesso momento tutto è cambiato e, mentre la libertà si solleva di nuovo, essa vede che è colpevole. Tra questi due momenti si trova il salto, che nessuna scienza ha spiegato né può spiegare»rn. Colui che diventa colpevole ne/l'angoscia, lo diventa in modo ambiguo. L'angoscia, infatti, è da un canto «una impotenza femminile nella quale la libertà sfuma»; ma neìlo stesso tempo è «uno stato che più di ogni altro afferma se stesso», in quanto manifestazione della libertà come possibilità di ogni situazione concreta'"· Perché «per quanto sia profonda la caduta dell'individuo, esso può cadere ancora più basso e questo "può" è l'oggetto dell'angoscia» 136 • Ma se c'è un'angoscia del male, c'è anche un'angoscia del bene: è il demoniaco, la schiavitù del peccato, che genera un atteggiamento non libero di fronte al bene: «perciò il demoniaco si può distinguere chiaramente soltanto quando viene toccato dal bene, che dall'esterno

JJl

Ibidv 135.

133

!bid., 136.

134

lbid., 140.

135 136

Cfr. /.c. lbid., 170.


Questioni filosofiche su/problema del male

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viene a raggiungerlo nel suo stesso limite» 137 • Per questo nel Vangelo il demoniaco si manifesta soltanto all'avvicinarsi di Cristo: è un'augoscia che si esprime tanto nell'ammutolire, quauto nel grido di fronte alla possibilità della reintegrazione della libertà, della redenzione e della salvezzam, angoscia che, come abbiamo detto sopra, viene superata soltanto quando la redenzione è realmente posta. Chi, invece, impara a sentire l'angoscia nel modo più giusto, ha imparato la cosa più alta: la fede. Essa è la capacità di accettare la libertà come possibilità per la possibilità con una certezza interiore che è anticipazione dell'infinito' 39 • L'angoscia della possibilità della libertà non viene eliminata, ma anziché essere ingannata con una falsa prudenza che si mantiene tra le cose finite, con l'aiuto della fede educa l'individuo ad incamminarsi verso l'Infinito e a riposare nella Provvidenza''°: «se egli non inganna la possibilità che vuole istruirlo, se non abbindola l'angoscia che vuole salvarlo, gli viene restituito tutto come non avviene mai a un uomo nella realtà, anche se ricevesse dieci volte tanto; perché il discepolo della possibilità ottiene l'infinito, mentre l'anima dell'altro esala l'ultimo respiro nel mondo finito» 141 • Lo stesso avviene nel rapporto con la colpa: «Chi nel rapporto con la colpa viene educato all'angoscia, troverà quiete soltanto nella redenzione» 142 • Ma qui finisce la riflessione psicologica sull'angoscia, ed essa, a questo punto, va consegnata alla dogmatica. Solo nella dogmatica cristiana, infatti, il peccato si svela in tutto il suo tragico significato. L'uomo acquista una nuova qualità di coscienza quando il suo io si pone di fronte a Dio: «che realtà infinita non acquista l'io acquistando coscienza di esistere davanti a Dio, diventando un io umano la cui misura è Dio!» 14:'.

137

lbùl., 173. Cfr. I.e. 139 Cfr. ibid., 194. 14 Cfr. ibid., 193-97. 141 Ihid., 195. 142 lbid., 197. 138

°

143

S. KlERKEGAARD, La n1a/auia n1ortafe, trad. it., in Opere, cit., 662.


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Il peccato è un atto di indipendenza di fronte a Dio, una disubbidienza che sfida il suo comando: «il peccato è: davanti a Dio o disperatamente non voler essere se stesso, o davanti a Dio disperatamente volere essere se stesso» 144 • Questa definizione evidenzia il fatto che il peccato è disperazione e che il peccato è davanti a Dio, e «per essere contro Dio, si eleva a una potenza infinita» 145 • L1ioi pur avendo l'idea di Dio e quindi la misura adeguata di sé, non vede come Dio e pertanto non vuole essere se stesso secondo la sua misura 146 . Per questo, il contrario del peccato non è la virtù, ma la fede: «la fede è: che l'io, essendo se stesso e volendo essere se stesso, si fonda trasparendo in Dio» 14 7. Ma tutto ciò ancora non basta: eccoci ora al cristianesimo. «Il cristianesimo insegna che questo singolo uomo, e quindi ogni singolo uomo, qualunque sia la sua condizione: uomo, donna, ragazza di servizio, ministro, commerciante, studente ecc.; che questo singolo uomo esiste davanti a Dio! Questo singolo uomo che forse sarebbe orgoglioso di aver parlato una volta in vita sua col re, quest'uomo che si vanta tanto di vivere in rapporti cordiali con questo e quell'altro, ecco che quest'uomo esiste davanti a Dio, può parlare con Dio in qualunque momento, sicuro di essere ascoltato: insomma, quest'uomo è invitato a vivere nei rapporti più familiari con Dio! Inoltre, per amor di quest'uomo, anche di quest'uomo, Dio viene nel mondo, nasce, soffre, muore; e questo Dio sofferente prega e quasi supplica l'uomo di accettare l'aiuto che gli viene offerto! In verità, se c'è qualcosa da far perdere il cervello è certamente questo! Chiunque non abbia abbastanza coraggio umile per' osare di credervi, si scandalizzerà»'"· Ma perché si scandalizzerà? Perché lui è troppo difficile, perciò non può capirlo e pertanto lo deve eliminare, annientare, prenderlo per una sciocchezza: lo deve soffocare per ritrovare la propria auto-

144

!bid., 664. lbid., 663. 146 Cfr. ibid., 662-64. 145

147

Ibid., 664.

148

lbid., 666.


Questioni filosofiche sul problema del male

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nomia di fronte a ciò 149 • «Infatti, cos'è lo scandalo? Lo scandalo è ammirazione infelice. Esso è come un'invidia che si svolge contro l'uomo stesso, in un senso più stretto: è la peggiore invidia contro se stessi. La grettezza dell'uomo naturale non può invidiare a se stesso il dono straordinario che Dio gli ha voluto concedere; perciò si scandalizza»150. Nel cristianesimo, dunque, l'uomo riceve una potenziazione della sua coscienza rispetto al peccato e alle sue profonde radici: «il peccato è, dopo aver saputo per mezzo di una rivelazione divina che cosa è il peccato, davanti a Dio o disperatamente non voler essere se stesso, o disperatamente voler essere se stesso» 151 . La potenziazione della coscienza dell'io si ha di fronte a Cristo: come l'io acquista una misura nuova di sé e perciò del proprio peccato, quando si pone di fronte a Dio, così accade quando si pone di fronte a Cristo: «un io di fronte a Cristo è un io potenziato da un'immensa concessione di Dio, potenziato per l'importanza immensa che gli viene concessa dal fatto che Dio anche per amore di quest'io si degnò di nascere, s'incarnò, soffrì e morì. Come si è detto più sopra più idea di Dio, più io, anche qui bisogna dire: più idea di Cristo, più io. Un io è qualitativamente ciò ch'è la sua misura. Nel fatto che Cristo è la misura, si esprime da parte di Dio l'immensa realtà che ha l'io; perché soltanto in Cristo è vero che Dio è meta e misura, ovvero misura e meta dell'uomo. Ma più io, e più intensivo il peccato» 152 • Di fronte a Cristo il peccato assume tutto il suo aspetto di paradosso, perché viene posto di fronte alla paradossalità della redenzione e della riconciliazione offerta da Dio. Di fronte a Cristo il peccato diviene scandalo che si esprime come disperazione della reniissione dei peccati 153 , e più ancora nello scandalizzarsi di Cristo: «la più grande miseria umana che ci sia, il grande del peccato, è scandalizzarsi di Cristo e rimanere nello scan-

149

Cfr. I.e.

1so L.c. 151

152

Ihid., 672.

!bid., 682. 153 Cfr. ibid., 682-88.


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dalo. E questo Cristo non lo può rendere impossibile, questo !'"amore" non lo può rendere impossibile» 15 4. L'uomo avverte che l'alternativa sarebbe adorare credendo, alla quale cerca di sfuggire, almeno non prendendo posizione di fronte al fatto cristiano: «La forma più bassa dello scandalo, che umanamente parlando è la più innocente, è lasciare senza soluzione tutto il problema intorno a Cristo, giudicando così: 'Io non mi permetto di giudicare in alcun modo di questo, io non credo, ma non giudico per niente'. Che questa sia una forma di scandalo, sfugge ai più. La verità è che è stato completamente dimenticato quell'imperativo cristiano: tu devi. Da ciò deriva che non si vede ch'è scandalo lasciare il Cristo nell'indifferenza. Il fatto che il cristianesimo ti è stato annunziato significa che tu devi farti un'opinione intorno a Cristo; Egli, ovvero il fatto ch'Egli esiste e che Egli è esistito, è la decisione di tutta l'esistenza. Se Cristo ti è stato annunziato, è scandalo dire: 'Non ne voglio avere opinione alcuna'», perché, esclama il pensatore danese, «nessun uomo può aver l'audacia di lasciar perdere la vita di Cristo come una curiosità!>> 155 .

9. Il JJensiero conten1poraneo tra negazione ed esaltazione della co-

scienza individuale La negazione della possibilità di un punto di riferimento metafisico nella fondazione dell'etica ha prodotto una nuova concezione della morale, in quanto scienza del comportamento dell'uomo e non più scienza normativa dell'agire umano. Essa, infatti, studierebbe norme di fatto assunte in un determinato contesto sociale più che individuare i criteri assoluti con i quali giudicare il bene e il male morale. Questo spostamento dal piano metafisico a quello scientista del giudizio di valore morale, come ha fatto rilevare il noto filosofo ita-

154 155

Ibid., 689. lbid., 691.


Questioni filosofiche sul problema del male

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liano Ugo Spirito, più che contrapporre valori nnovi a valori vecchi, comporta una nuova concezione dell'uomo e della realtà sociale 156 • Scrive, infatti, il nostro Autore: «presupposto necessario del giudizio morale è stato sempre un concetto dell'individuo visto nella sua autonomia di fronte al mondo degli altri uomini e al mondo della natura. In quanto autonomo, cioè, l'individuo è stato sempre considerato libero e responsabile delle proprie azioni, sì da potersi giudicare nella sua singolarità prescindendo dal rapporto con ogni allra realtà [ ... ]. Ma quaudo l'uomo ha cominciato a diventare oggetto di scienza e sono sorte la psicologia sperimentale, l'antropologia e la sociologia criminale, la psicanalisi e tutte le altre scienze umane, si è venuto a poco a poco dimostrando che l'individuo è espressione di una realtà che in esso si incontra e si concreta [ ... ]. Il che implica necessariamente che mutano in modo essenziale così il concetto di libe1tà come quello di responsabilità» 157 • Questo passaggio dalla concezione "individualistica" dell'uomo a quella "sociale", determinata dalla sostituzione della scienza alle tradizionali forme di sapere, comporta, secondo Ugo Spirito, «una rivoluzione così sostanziale da investire tutti i modi di vita ai quali l'umanità è stata educata» 158 • Innanzitutto questa rivoluzione causerebbe i/ tramonto della morale cristiana che è fondata sul principio della responsabilità personale dell'azione: «il giudizio morale si riferisce appunto alla persona vista nella sua particolarità e prescinde dal sistema di cui la persona è espressione [ ... J. Allora gli uomini divengono responsabili in maniera radicalmente autonoma e responsabili della scelta dilemmatica tra bene e 1nale» 159 • La separazione della responsabilità conduce ad una divisione tra buoni e malvagi o salvi e dannati, che avrebbe un riflesso in tutta la vita sociale e politica fino ad investire classi e gruppi, e così la vita

156

Cfr. U. SPIRITO - A. DEL NOCE, Tran1011to o echssi dei valori tradizionah,

Rusconi, Milano 1972 5. 157 lbid., 48. 158 lbid., 49. 1s9 L.c.


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politica diverrebbe vita di odio e di risentimento, mentre nella visione scientifica della nuova morale viene chiarito in modo inconfutabile «l'interdipendenza di tutti i fenomeni storici e la loro riduzione a un'essenziale unità organica di cui sono necessaria espressione» 160 . La nuova morale scientifica darebbe in tal modo luogo a una nuova concezione della storia con1e scienza, «per cui esulano dal giudizio storico tutti i giudizi di valore per cedere il posto ai soli giudizi di fatto che, come in ogni scienza, si limitano a prendere atto del necessario divenire storico in tutte le sue determinazioni» 161 .

Il fatto che non si possa più parlare di responsabilità autonoma del singolo condurrebbe a poco a poco ad un mutamento sostanziale del comportamento sociale, perché al giudizio di condanna dell'azione individuale si sostituirebbe la volontà di comprendere e di modificare la realtà fisica e psichica dell'individuo, «fino a condurlo all'altezza dell'ideale sociale raggiunto a volta a volta dal processo della scienza» 162 .

Questa sarebbe la rivoluzione copernicana che, giunta dal mondo astronomico a quello umano, «consente di guardare all'uomo come a un oggetto trasformabile o addirittura costruibile scientificamente. Quando il soggetto diventa oggetto può essere guardato e trattato con la logica che vale per l'oggetto. Soltanto allora può essere studiato nella sua struttura e nel suo funzionamento, intervenendo nei processi di un meccanismo che via via si viene rivelando» 163 • Ma la conseguenza più sorprendente sarebbe l'unificazione del mondo sulla base dei nuovi ideali e dei nuovi valori che si formerebbero all'interno di questo orizzonte aperto dalla illimitata possibilità della scienza, «diretta verso l'ignoto e sostenuta dalla volontà di ricercare quell'assoluto, che l'umanità non è riuscita ad attingere attraverso le religioni, le filosofie e le ideologie» 164 • Ma può la scienza attingere l'assoluto?

160

!hid., 51.

161 L.c. 162

lbid., 52. lbid., 54-55. 164 lbid., 58.

163


Questioni filosofiche sul problema del male

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E' una domanda che inquieta lo stesso Ugo Spirito, che sembra non escluderlo in linea di principio, ma terne che «il senso problematico della vita, non ancorata a nessuna verità di carattere assoluto» finisca con l'estendersi alla scienza, che nella sua opera di ricerca sarebbe pervasa dal dubbio e dalla stanchezza ed approderebbe quindi ad un atteggiamento di rinunzia. Potrebbero allora «riaffiorare anche le illusioni delle certezze del passato e l'acquietamento nel presunto possesso di valori tramontati. Alla scienza può contrapporsi l'antiscienza nelle varie forme mitiche già sperimentate o in nuove costruttive o distruttìve»165.

A questo appiattimento fino alla negazione della coscienza, e quindi della responsabilità morale individuale, si contrappone nel pensiero contemporaneo una pretesa esaltazione di essa. La coscienza diverrebbe il criterio ultimo della moralità, sulla base dello stesso rifiuto di un punto di riferimento assoluto, e quindi trascendente rispetto al flusso coscienziale al conseguente giudizio morale. Questa concezione è stata recentemente illustrata dal card. Joseph Ratzinger in una conferenza tenuta in occasione del 750° anniversaiio dell'Università di Siena, intitolata Coscienza e verità e pubblicata da Il Sabato con il titolo Elogio della coscienza. «Qui la coscienza - come ha affermato il card. Ratzinger - non si presenta come la finestra, che spalanca all'uomo la vista su quella verità universale, che fonda e sostiene tutti noi e che in tal modo rende possibile, a partire dal suo comune riconoscimento, la solidarietà del volere e della resp~nsabilità. In questa concezione la coscienza non è l'apertura dell'uomo al fondamento del suo essere, la possibilità di percepire quanto è più elevato e più essenziale. Essa sembra essere piuttosto il guscio della soggettività, in cui l'uomo può sfuggire alla realtà e nasconder1esi»166.

Questo modo di pensare la coscienza, che deriva dall'illuminismo e dal liberalismo, «non apre la strada al cammino liberante della verità, la quale o non esiste affatto o è troppo esigente

16s

166

l.c. J. RATZJNGER, Elogio della coscienza, in Il Sabato, 16 inarzo 1991, 84-85.


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per noi. La coscienza è l'istanza che ci dispensa dalla verità. Essa si trasforma nella giustificazione della soggettività, che non si lascia più mettere in questione, così come nella giustificazione del conformismo sociale, che come minimo denominatore comune tra le diverse soggettività, ha il compito di rendere possibile la vita nella società. Il dovere di cercare la verità viene meno, così come vengono meno i dubbi sulle tendenze generali predominanti nella società e su quanto in essa è diventato abitudine. L'essere convinto delle proprie opinioni, così come l'adattarsi a quelle degli altri sono sufficienti. L'uomo è ridotto alle sue convinzioni superficiali e, quanto meno sono profonde, tanto meglio è per lui» 167 • Dunque la riduzione della coscienza alla certezza soggettiva significa, nello stesso tempo, la rinuncia alla verità. A questa concezione della coscienza si oppone tutta la tradizione cristiana, secondo la quale essa ha un livello ontologico «nel fatto che è stato infuso in noi qualcosa di simile ad una originaria memoria del bene e del vero (le due realtà coincidono); che c'è una tendenza intima dell'essere dell'uomo, fatto a immagine di Dio, verso quanto a Dio è conforme. Fin dalla sua radice l'essere dell'uomo avverte un'armonia con alcune cose e si trova in contraddizione con altre. Questa anamnesi dell'origine che deriva dal fatto che il nostro essere è costituito a somiglianza di Dio, nou è un sapere già articolato concettualmente, uno scrigno di contenuti che aspetterebbero solo di venir richiamati fuori. Essa è, per così dire, un senso interiore, una capacità di riconoscimeuto, così che colui che ne viene interpellato, se non è interior1nente ripiegato su se stesso, è capace di riconoscerne in sé l'eco. Egli se ne accorge; 'Questo è ciò a cui mi inclina la mia natura e ciò che essa cercal'» 168 • Col termine anamnesi, secondo il card. Ratzinger, si deve intendere quanto S. Paolo nella lettera ai Romani così espresse: «Quando dunque i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi pur non avendo la legge, sono legge a se stessi;

167

168

lbid., 85. Ihid., 90.


Questioni filosofiche sul problemu del mole

225

essi dimostrano che guanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza [ ... ]» 169 • La medesima idea si trova nella grande regola monastica di S. Basilio, dove si legge: «L'amore di Dio non dipende da una disciplina impostaci dall'esterno, ma è costitutivamente inscritto in noi come capacità e ne· cessità della nostra natura razionale». Basilio, infatti, parla di una «scintilla dell'amore divino, che è stata nascosta nel nostro intimo». Nello spirito della teologia giovannea egli sa che l'amore consiste nell'osservanza dei comandamenti, e che pertanto la scintilla dell'amore, infusa in noi dal Creatore significa questo: «Abbiamo ricevuto interionnente un'originaria capacità di prontezza a compiere tutti i comandamenti divini [ ... ]. Essi non sono qualcosa che ci viene imposto dall'esterno». Anche S. Agostino afferma la stessa verità riconducendola al suo nucleo essenziale: «Nei nostri giudizi non ci sarebbe possibile dire che una cosa è meglio di un'altra se non fosse impressa in noi una conoscenza fondan1entale del bene» 170 . L'anamnesi infusa nel nostro essere ha bisogno, per così dire, di un aiuto dall'esterno per diventare cosciente di sé. «Ma questo "dal di fuori" non è affatto qualcosa di contrapposto, anzi è piuttosto qual· cosa di ordinato ad essa: esso ha una funzione maieutica, non le impone niente dal di fuori, ma porta a compimento quanto è proprio dell'anamnesi, cioè la sua interiore specifica apertura alla verità» 171 . Essendo la coscienza la capacità di giudicare rettamente a riguardo dell'agire morale, l'educazione della coscienza retta è la questione fondamentale del nostro tempo, che è caratterizzato, non tanto dal male morale, quanto dalla menzogna sul male, cioè dal tentativo di giustificarlo come espressione della autonomia dell'uomo e quindi come sua piena realizzazione. Ma questa educazione non è possibile se non all'interno di un altro evento umano che è quello che cade sotto la categoria dell'incontro. In questa luce si colloca l'essenzialità dell'incontro cristiano.

169

Rm 2,14 s.

°Ctì·. J. RATZINGER, op. cit., 89-90.

17

171

lbid., 91.


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Francesco Ventorino

L'abate Nicola Spedalieri, un acuto apologeta del '700, così ragionava per far comprèndere questa verità. C'è nell'uomo storico un «vizio originario», che «poi si accresce per altri vizi accidentali, che si vanno contraendo coll'etit», per i quali di fatto noi uomini non siamo ~capaci di riconoscere verità razionalmente riconoscibili, a meno che qualcuno non ci aiuti a riconoscerle, per la bellezza che esse assumono alla presenza di lui: «E tale fu l'infermità, in che il Verbo trovò, che il mondo languiva: e il lume della ragione era oscurato dalle tenebre dell'ignoranza, e il gusto spirituale depravato da quello della concupiscenza: non che si fosse affatto perduto; ma che da se solo non poteva svilupparsi, e restituirsi al tuono di prima. Gesù Cristo però, oltre la grazia interna, l'aiutò esternamente, con presentare cinta di luce divina agli occhi degli uomini quella stessa morale, ch'era ne' loro cuori scolpita: egli parlava all'orecchi; ma perché non faceva, se non ripetere la legge naturale, questa, i cui semi erano sepolti sotto la mole delle idee avventizie, parlava al cuore; e siccome l'approssimamento di una face accesa ne riaccende un'altra recentemente spenta, così il lu1ne naturale si ravvivava, e penetrava per la via del sentin1ento l'anima tutta. chi ha perduta una gemma, può lungamente cercarla, senza aver il contenuto di rivenirla: ma se uno gliela presenti agli occhi, egli la riconosce subito, ed in guisa, che non teme d'ingannarsi. Ora gli uomini avevano perduta per la colpa originale la vera scienza del costume, e da loro medesimi non potevano trovarla: ma comparso appena l'Evangelio, la vera morale dovette non senza la interna illustrazione della grazia essere ad un tratto riconosciuta per quelle stessa che si era s1narrita, indistintamente da tutti gli uo1nini, perché tutti ne conservavano l'i1n1nagine nell 'anin10 scolpita» 172 • L'incontro cristiano e l'educazione della coscienza retta suppongono la permanenza nella storia di una Presenza viva e oggettiva di Cristo, come quella di un "Tribunale vivo" cui fare continuamente riferiinento, che sottragga

172 N. SPED/\LIERI, Analisi de!l'Esanu: critico dcl .<Jignor Nicola Fréret sulle prove del cristia11esi1110, I, Assisi 1791 2, 217-18.


Questioni filosofiche sul problema del male

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alla interpretazione individuale la stessa rivelazione divina: essa è la Chiesa 173 .

Così alle considerazioni sul livello ontologico della coscienza corrispondono quelle che riguardano il livello del giudicare e del decidere, che nella tradizione medievale venne designato con l'unico termine di conscientia. S. Tommaso chiama con questo termine solo questo secondo livello e pertanto, per lui, la coscienza non è nessun habitus, cioè nessuna stabile qualità inerente all'essere dell'uomo, ma piuttosto un actus, un evento che si compie. «Questo si rileva, sia dal significato della parola, sia da quelle funzioni che sono ad essa attribuite nel comune modo di parlare. Coscienza, infatti, stando al significato proprio della parola, include un ordine della conoscenza a qualche cosa; infatti conscientìa deriva da cum a/io scientio. Ora ci vuole un atto per applicare la scienza a qualche cosa. Quindi, stando al significato della parola, è chiaro che coscienza è un atto. Lo stesso si ricava dalle funzioni che si attribuiscono alla coscienza. Infatti si dice che la coscienza attesta, impedisce, incita, così pure che accusa, rimorde o riprende. Tutto questo proviene dall'applicazione di una nostra cognizione o scienza alle nostre azioni. L'applicazione avviene in tre modi. Primo, riconoscendo di aver fatto o di non aver fatto un'azione, secondo quel detto della Scrittura: 'Sa invero la tua coscienza che spesso tu pure hai sparlato degli altri' 17 '1• In questo caso diciamo che la coscienza attesta. Secondo, giudicando con la nostra coscienza di dover fare o di non dover fare una data cosa: e in tal caso si dice che la coscienza incita, o che rattìene. Terzo, giudicando con la coscienza che una data azione sia stata falla bene o n1ale: in questo caso si dice che essa scusa, oppure accusa o rhnorde. Ma è evidente che tutte queste cose dipendono dall'applicazione attuale della scienza alle nostre azioni. Dunque, a parlare propriamente, la coscienza indica un atto» 175 .

173 174

175

Jhid., II, 47-49. Ecc!e 7 ,23.

Sununa Theo!ogiae, I, q.79, a.13.


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Naturalmeute questo atto presuppone come dato il fondamento ontologico dell'anamnesi, che S. Tommaso chiama synderesi~: essa sarebbe uno speciale habitus naturale, l'abito dei principi della vita pratica, insiti in noi per natura: «perciò si dice che la sinderesi spinge al bene e mormora del male, perché mediante i primi principi noi procediamo nell'indagine (del bene da compiere) e giudichiamo dei risultati. E' dunque evidente che la sinderesi non è una potenza, ma un abito naturale» 176 • Ma nell'uomo la ragione, in tanto diviene capace di giudicare l'azione secondo i primi principi del bene e del male, in quanto essa è rivelatrice della legge eterna che è la ragione divina 177 • Essa ha quindi come riferimento una realtà a se stessa trascendente e assoluta. In questa dipendenza, che deriva dall'appartenenza ontologica dell'uomo a Dio, è tutta la grandezza della coscienza, cioè la sua capacità di verità e quindi di indicare il Bene, che non sia tale soltanto soggettivamente, ma anche oggettivamente e universalmente.

176

I, q. 79, a.12.

m Cfr. I-II, q.19, a.4; I-II, q.91, a.2.


LUCA DA CALTANISSETTA E IL SUO DIARIO NOTA COMMEMORATIVA

GRZEGORZ J. KACZYNSKr

Nel registro dei cappuccini defunti della provincia di Palermo si legge: «P. Luca da Caltanissetta, predicatore, fu lettore in nostra provincia e per molti anni sudò nell'ufficio di missionario apostolico nei regni di Congo, ove pure fu Prefetto delle missioni, ed alla fine terminò lì suoi giorni in Angola l'anno del signore 1703, lasciando dopo di se l'odore della grande esemplarità, colla quale molto edificò quei popoli. Morì in età di anni 59 e di religione 42». Fino al 1906 nessuna menzione su questo religioso conteneva notizie più dettagliate di quanto riportato nella annotazione del registro che - come vedremo - riporta dei dati erronei. Fu in quell'anno infatti che il canonico nisseno Michele Natale, un lontano parente di p. Luca, pubblicò un breve saggio dal titolo: Una relazione inedita sul Congo scritta da P. Luca da Caltanissetta nel 1701'. L'autore ha dato un profilo biografico del missionario e cronista e inoltre ha tentato

Docente di Sociologia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Una relazione inedita sul Congo scritta da P. Luca da Caltanissetta nel 1701. Note del dottor Michele Natale, Stab. Tip. Ospizio. Prov. di Beneficenza Umberto I, Caltanissetta 1906. La relazione è conservata nella biblioteca comunale "Luciano Scarabelli" di Caltanissetta (n1anoscrilto 35). Un'infonnazione di Teobaldo Filesi secondo la quale la relazione si trova nella biblioteca comunale di Messina risulta quindi erronea (T. FILESI, Nazionalis1no e religione nel Congo all'inizio del 1700: la setta degli antoniani, Quaderni della rivista Africa, Ro1na 1972, 56). 1


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un'analisi della sua relazione. Egli, citando certi frammenti del testo, li ha corredati di commenti di carattere storico, geografico e in parte etnografico. Il caso volle che il saggio del canonico, indubbiamente rivelatore, apparve - con un lievo ritardo - nel bicentenario della morte di p. Luca da Caltanissetta. Oggi, a trecento anni dall'inizio della sua missione in Congo che risale al 1691, è giusto ricordare lui e la sua opera, tanto più che questo anniversario cade nel cinquecentenario del battesimo del Congo. Fu infatti il 3 maggio del 1491, che Nizinga a Nkuwu, sovrano del regno del Congo (in lingua kikongo - Mani Kongo) ricevette il Battesimo, prendendo il nome di Joiio I, in onore del re del Portogallo. L'evento ebbe luogo durante la quarta spedizione portoghese in quelle regioni guidata da Ruy de Sousa'. L'indicata coincidenza storica rende ancora più opportuna la nota com1ne1norativa su p. Luca da Caltanissetta. P. Luca, al secolo Giuseppe Natale, nacque il 18 maggio del 1644 a Caltanissetta. Già fin dalla prima giovinezza rivelò la vocazione per la vita religiosa. Intendeva entrare nella Compagnia di Gesù, la qual cosa era comprensibile data la sua formazione in un collegio gesuita. Malgrado la decisa opposizione della famiglia, specialmente della madre, (ad eccezione del fratello maggiore, già cappuccino, conosciuto come p. Marco da Caltanissetta, che lo appoggiò) egli entrò nel convento dei cappuccini di Caltanissetta il 16 luglio del 1661. Dopo avervi compiuto cinque anni di studi teologici, fu ordinato sacerdote. Poco dopo conseguì il grado di predicatore grazie al meritato superamento dell'esame. Subito decise di dedicarsi all'opera missionaria. 1 suoi reiterati tentativi per ottenere la nomina di missionario degli "infedeli" da parte della Propaganda Fide risultarono vani. Tuttavia non rinunciò al suo progetto per il quale ebbe il sostegno morale del vescovo di Ca-

2 La bibliografia sulla storia del regno del Congo è relativament'e vasta. I contributi più significativi sono stati dati dai seguenti autori: A. Brasio, J. Cuvelier, L. Jadin, G. Balandier, W.G.L. Randles, W. Bal, J. Vansina, Paiva Manso, T. Filesi, F. Bontinck.


Luca da Caltanissetta e il suo diario

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tania 3 - e si diede alla predicazione in campagna assieme ai padri Biagio e Luigi, entrambi molto noti predicatori di Caltanissetta. Inoltre si dedicò all'insegnamento come professore di teologia. Poco tempo dopo abbandonò questi incarichi e lasciò la Sicilia per recarsi neglAbruzzi dove si impegnò con zelo nella predicazione. Una volta trovandosi a Roma apprese la notizia della progettata spedizione missionaria dei cappuccini in Congo' e in Saò Tomé. Nonostante il manifesto timore che il suo stato di salute non gli consentisse di svolgere l'arduo compito missionario ai tropici, p. Luca, propose ugualmente, la propria candidatura. Il suo nome fo incluso nella lista di 24 missionari approvati dalla Propaganda Fide il 27 gennaio del 16895 . Fu allora che fece ritorno in Sicilia per prepararsi alla missione. L'll novembre del 1689 Luca da Caltanissetta, con la nomina di "missionario apostolico", in compagnia di fra Egidio da Palazzo, si imbarcò a Palermo e dopo quasi un mese di navigazione (?) arrivò a Genova, dove subito dopo cadde gravemente ammalato. I medici gli sconsigliarono decisamente il proseguimento del viaggio. P. Luca, dopo avere scritto a proposito ai suoi superiori a Ro1na senza alcun esito, decise di continuare il viaggio, come voleva la sua nomina. ln compagnia di sette confratelli (Domenico da Brando, Francesco da Collevecchio, Eustachio d'Ajaccio, Bernardo da Mazzarino, Basilio da Palermo, Giovanni da Belluno e fra Egidio da Palazzo) il 12 febbraio del 1690 partì per Lisbona 6 via mare. Dopo essersi fermato ad Ali-

3 Si tratta di 111ons. Michelangelo Bonadies con il quale p. Luca si incontrò durante la sua missione di predicatore nel duon10 di Catania (llelazione, f.3). 4 I primi 1nissionari cappuccini sono an·ivati nel Congo nel I645. Cfr. F. BONTINCK, Jean-François de Ron1e, fa fondation de la nlissio11 des Capucins au royaun1e du Congo (1648), Louvain - Paris I964; J. CUVELTER, Quefques notes sur !es anciennes ndssions des Capucins au Congo et dans Angola, in Re\!ue d'Histoire des Missh>ns II (I934) 329-345; 13 (1936) 53-67; T. FILESI, Cappuccini italiani nel Congo (Missio antiqua): relazioni edite e inedite (sec. XVII e XVIII), in Euntes Docete 21 (1968) 549-550. 5 ARCHIV. SACRA CONGR. PROP. FIDE, Atti 59 (1689), [f. 144v.-145v.] 6 Tutti i missionari che partivano per le missioni situate nei territori scoperti e appartenenti al Portogallo dovevano prin1a recarsi a Lisbona per prestare giuramento di fedeltà al re portoghese come prevedeva il privilegio padroato conferito dalla Santa Sede - vale a dire il patronato dei re sulla Chiesa nelle nuove terre della corona portoghese.


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cante (21-II; I-III) e a Cadice (8-III; 3-IV) approdò a Lisbona il 17 aprile da dove nuovamente scrisse a Roma perché gli fosse concesso un cambiamento della nomina per un paese meno rischioso per le sue precarie condizioni di salute. La sua legiHima richiesta non trovò la dovuta comprensione presso i superiori; da Roma non giunse alcuna risposta e inoltre Paolo da Varazze, priore del convento dove soggiornavano i missionari, fu irremovibile. Egli, in una lettera alla Propaganda Fide scrisse: «[ ... ] da quanto io ho potuto dai loro discorsi inferire, dubito che tre, e sono li Padri Luca da Caltanissetta, Domenico da Brando, Francesco da Co!levecchio, abbiano poca volontà di proseguire il loro viaggio» e più in là «procurerò imbarcarli il prossimo mese di Maggio per il Brasile» 7 • L'annunciata partenza dei 1nissionari avvenne con un lieve ritardo, il 13 giugno del 1690. Il 7 agosto p. Luca aJTivò a Pernambuco (Brasile) da dove il 23 settembre partì per l'Africa. Il 6 dicembre giunse infine a Luanda (Sao Paolo de Loanda), capitale dell'Angola. Nel suo diario annotò a proposito: «[ ... ] a mezza notte circa impazienti di più trattenerci nel naviglio venissimo in terra, et entrati nell'hospitio, incontrandoci quei P.P. missionari a lume di candela, li scoprissimo si trasformati che ci parve d'esser stati incontrati da tanti cadaveri spirati» (f.8). Tuttavia non si può ritenere che p. Luca abbia iniziato la sua opera missionaria appena giunto in Africa, bensì sei mesi più tardi allorquando si trasferì all'interno del Congo. «Alli 28 di Giugno su la tardi del 1691 - scrisse nel diario - ci imbarcass(im)o, io col frat'Egidio dal Palazzo, in un naviglio chiamato Palandra degli Olandesi per andare a Sogno, aterrava (?) anche in mia compagnia il P. Basilio da Palermo, tenendo con me tutte le s;ose necessarie per fondare il nuovo hospitio in Congo onde per tali cariche fu necessario che il conte di Sogno ci accompagnasse con il suo esercito» (f. 9)'. La

7 ARCHIY. SACRA CONGR. PROP. FIDE, SRC., Africa - Congo, II, f. 326, Lettera del 18 aprile del 1690 (Lisbona). 8 P. Basilio da Palermo morì a Luanda il 22 novembre 1694. Fra Egidio da Palazzo rnorì il 17 gennaio 1695 a l(ahenda (situata sulla riva del fiu1ne Mandarnbele). Cfr. Relazione di P. Luca, ff. 17v e 20v.


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provincia di Sogno (Soyo, Sonho) vantava la più antica tradizione cristiana del regno del Congo; il suo principe fu il primo tra l'aristocrazia politica a ricevere il Battesimo il 3 aprile del 1491, giorno della pasqua, esattamente un mese prima del Battesimo del re congolese9. Nell'interno dell'Afdca p. Luca rimase più di dieci anni, durante i quali percorse gran parte del regno, con lunghi soggiorni nelle provincie di Mpemba, Mbata, Mpangu e Nsundi, raggiungendo luoghi sconosciuti ai missionari e mai caìpestati fin'allora da alcun europeo. Una delle imprese più coraggiose fu indubbiamente la spedizione, in compagnia di p. Marcellino d'Atri, da mani Ngobila, chiamato "re delle acque", vassallo del re congolese il cui paese si trovava all'estremo nord del Congo. «Alli 28 di Maggio dell'anno presente 1698 - p. Luca ha annotato nel suo diario - battezai al mani Ngobella innanzi a tutto il suo popolo e suoi Nobili ponendoli il nome di S. Sebastiano» (f. 57v). La dimora del re Ngobila si trovava sulla riva sinistra del fiume 10 Zaire , in un punto dove le sue acque straripano fino a formare un grande bacino conosciuto con il nome di Stanley Pool, cioè il luogo dove oggi è situata Kinshasa, capitale dello Zaire. Prima dei padri Luca e Marcellino era giunto in quel luogo nel febbraio del 1655 Gi-

9

In italiano sulla cristianizzazione del Congo - oltre le cronache - cfr. soprattutto i lavori di T. Filesi (per. es. Le relazioni tra il regno del Congo e fa Sede Apostolica nel XVI secolo, Cairoti, Como 1968). 10 Nel 1971 durante la politica della "autenticità africana" formulata e realizzata dal gcn. Mobutu, presidente dello Zaire, il non1e del fiu1ne Congo - del resto con1e il nome del paese - venne catnbiato in Zaire. Questo fu non altro che ritorno al non1e antico del fiume. Un anonin10 cronista lo chia1na «rio espantozo Zayre» (Histoù·e du Royaurne du Congo [c. 1624], a cura di F. Bontinck, Ed. Nauwelaerts, Louvain - Paris 1972, 55). Così pure fece Francisco do Soveral, vescovo di Luanda, nel suo rapporto del 1 aprile del 1631: «Zaire t1un1en, quod spantosu1n vocant» (A. BRASIO, Monumento n1issionaria ajì·icana, VIII, Lisbona 1960, 13). II nome Zaire usa anche p. Luca: cfr. Relazione, tf. 8v, 3lv, 53, 55v. Su tale questione J. CuVELIER, L'ancien royaun1e de Congo et des contrées environnantes par Filippo Pigqfetta et Duarte Lopes (1591). Ed. Nauwelae1ts, Louvain - Paris 1963, 154, nota 24.


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rolamo da Montesarchio 11 , anch'egli cappuccino, che aveva battezzato il re di allora. Trovandosi quindi in quella regione p. Luca, sempre con p. Marcellino, ebbe occasione di conoscere i confini del "misterioso" regno di Makoko con il quale da più di un secolo si era cercato di allacciare, ma invano, contatti missionari e politici. Quel territorio, confinante al nord con il regno del Congo, sulla riva destra del fiume Zaire, appartiene oggi allo Stato del Congo; è il luogo dove è situata la sua capitale Brazzaville, così chiamata in onore di Savoragnan de Brazza, il primo europeo ad arrivare fin lì e ad allacciare contatti diretti con il re di Makoko. E ciò avvenne soltanto nel 1880 12 • «li luogo dove dimora l'Ngobella - leggiamo nel diario - è luogo amenissimo e deliziosiss(im)o o più d'ogni altro luogo di Congo per essere una grande spiaggia del gran Zaire, situata in una lunghiss(im)a pianura essendo distanza larga che non fa il luogo occupato e circondato da una corona di monti da q(uest)a p(art)e occidentale vi sono li monti de stato di Sundi, dall'orientale vi sono li monti del gran Regno di Mucoco; li fiume Zaire allaga quella gran pianura in modo che la fa divenire un picciolo mare navigabili con piccoli legni chiamate da loro formate ... in detto fiume vedessimo tre isolette, in due vi seppelliscono i loro defunti nella 3.a non per esser di soda pietra, e noi fossimo sopra di esse per vederle, a dirimpetto vi è un'altra isola molto grande e boscareccia abitata dalla gente di Mucoco chiamata Nzanga» (ff. 60v-61). Sia per motivi contingenti, sia per ordini dei superiori p. Luca non limitava la sua attività missionaria alla evangelizzazione. Una buona parte della sua opera aveva, in un certo senso, carattere diplomatico; in questa direzione egli si impegnò sempre di più da quando fu nominato vice-prefetto della missione (nel 1693). Lo scopo di questa attività diplomatica era il miglioramento dei rapporti fra il

11

Cfr. 0. DEL BOUVEIGNES -

J.

CUVELIER,

.!ér8n1e de Montesarchio, Narnur s.d.

(1951); O. DE BouvEIGNES, Jérbn1e de Montesarchio et la découverte du Stan/ey-Pool,

in Zaire 8 (1948) 9, 989-1013. 12

Cfr. H. BRUNSCHWIG, La negociation du traité Makoko, in Cahiers d'Etudes

Africaines 5(1968) I.


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Portogallo e il Congo e la reintegrazione politica del regno congolese - conditio sine qua non dell'esistenza e dello sviluppo delle missioni in quella regione. Va sottolineato che l'opera di p. Luca cadeva in un periodo difficile. L'evento che aveva deteriorato la situazione interna del regno del Congo e i suoi rapporti con il Portogallo di quel tempo era stata la battaglia di Ambuila, del 25 ottobre del 1665. L'esercito congolese, numeroso ma poco disciplinato e privo di armi da fuoco, guidato dal re Antonio I, subì una completa disfatta nello scontro con il piccolo contingente portoghese, condotto da Luiz Lopez de Sequeira. Entrambi combatterono - fatto peculiare dell'espansione europea nell'Africa nera - sollo lo stesso simbolo, il simbolo della croce ma divisi da differenti, addirittura contrapposti interessi politici ed economici. Re Antonio I cadde nella battaglia. La disfatta militare e la morte del re diedero origine a un periodo di interregno e di disordini interni, dovuti soprattutto alla lotta per la successione. I due casati Kimulanza e Kimpanzu, da cui discendevano i re, ingaggiarono una lolla dinastica. Da allora, succedeva non di rado che il Congo aveva due o tre re cou proprie sedi in provincie diverse, e in lotta fra loro, che cercavano di coinvolgere in essa i portoghesi e i missionari. Mbanza Kongo 13 , l'antica capitale del regno che fu ribattezzata Sào Salvador, abbandonata e bruciata nel 1678, fu quasi dimenticata per alcuni decenni. Già fin dal 1654 Giacinto da Vetralla, prefetto apostolico del Congo, come se presagisse il destino di quella città, aveva trasferito la sua sede a Luanda''· Nel 1694, 16 anni dopo quei tragici eventi, la capitale distrutta fu visitata da p. Luca. Nel suo diario egli annotò a proposito: «Nel ritorno per Enchus (Nkusu - G .J. K.) fece il cammino per la diroccata Banza (la residenza del sovrano - G.J.K .. ) di S. Salvador già reale et Episcopale Sede di Congo, adesso divenuta un bosco di alberi [ ... ] vidde le chiese tutte diroccale et alcune puoche pareti in piedi, la ma-

13

In lingua kikongo Mbanza Kongo significa "capitale del Congo", "sede del sovrano del Congo". 14 Sao Salvador divenlò la sede vescovile nel 1596 con la bol1a Super Specula di Cle1ncnte Vlll. Cfr. T. FILESI, le relazioni ... , cit., 185-195.


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trice (il duomo - G.J.K.) però tutta in piedi, ma le radici degl'Alberi l'havevano aperto le pareti; i muri della città quasi tutti diroccati, in detta Matrice vi celebrai la S(ant)a Messa; doppo partitomi vicino a d(ett)a Banza vidde tutti giunti da 39 bufali qui chiamate impacassa» (ff. 19v-20). I timori che p. Luca nutriva per il suo stato di salute prima della partenza per il Congo si rivelarono assai fondati; la malattia Io afflisse per tutto il tempo, come egli sovente annotava nel diario. Allorquando nell'ottobre del 1701 gli giunse la notizia della sua nomina a prefetto della missione e commissario del Tribunale dell'Inquisizione del regno del Congo, dell'Angola et adiacentibus (f. 105), egli, gravamente ammalato e allo stremo delle forze, si trovava in viaggio verso Luanda. Aveva infatti già deciso di lasciare la missione e quindi si stava recando in quella città - come confessava nel diario - «O per ritrovare alcun remedio o per incontrare la morte o pure far ritorno nella bella Sicilia» (f. 104v). Il destino voleva che non rivedesse mai più la sua "bella Sicilia''. Morì il 20 novembre del 1702 15 a Luanda. Di certo nell'ultimo periodo della sua vita si preoccupò di trasformare il suo diario in una relazione ordinata nella misura in cui glielo consentivano gli impegni di prefetto della missione e, ovviamente, le precarie condizioni della sua salute. Questa supposizione è tanto più probabile se prendiamo in considerazione Io zelo con il quale aderiva all'ordine della Propaganda Fide secondo il quale i missionari dovevano presentare una dettagliata descrizione della loro opera e di tutto ciò di cui erano testimoni". «Io q(est)o (diario - G.J.K) scrivo - puntualizza p. Luca, ri-

15 Cfr. Lettera di p. Bernardo da Mazzarino, vice-prefetto, alla Propaganda Fide, del 10 febbraio del 1703. ARCl-IIV. SACRA CONGR. PROP. FIDE, SRC., AfricaCongo, (1693-1710), III, f. 310. 16 Fino ad oggi il documento contenenle il suddetto ordine non è stato trovato. Probabilmente - come osserva giustamente F. Bontinck (ved. nOta 23, XVI) si tratta della lettera del cardinale Giacomo Rospigliosi del 14 marzo del 1655 nella quale si trova una simile raccomandazione. Cfr. G. A. CAVAZZI DA MONTECUCCOLO, Historia Descrittione de' tre re~ni C'ongo, Matan1ba e Angola etc., edita da Giaco1no Monti, Bologna 1687, lib. VII, par. 28, 769 (ristampata a Tivoli nel 1937).


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badendo ciò che scrisse nell'introduzione (4. 1) - per dare la s(ant)a obiedenza» (f. 90). La cronaca ha per titolo: "Relazione del Viaggio e della Miss(ion)e di Congo fatta per me fra Luca da Caltanissetta Miss(ionari) o Apostolico olim lettore e Pred(icato)re Capuc(ci)no della Provincia di Palermo nella Sicilia nel 1689 sino al''. Il titolo incompleto dimostra che la relazione era rimasta incompiuta, fatto del resto comprensibile dato che la morte lo colse nel corso della sua opera missionaria. La relazione si interrompe nell'anno 1701. Alla fine del testo, dopo aver lamentato il fatto che i dolori atroci non gli avevano permesso di partecipare al rito natalizio, egli scriveva: «[ ... ] e così terminò questo doloroso e per me infermiccio anno 170 I, compagno nell'infermità al 1700, e solo in q(est)o Anno battizzai trecento e novanta due persone, e fece dieci matrimoni il tutto sia ad honore laude e gloria di Dio Trino e Uno e della B.ma et Immaculatiss.a Vergine Maria. Amen» (f. !06). li manoscritto fu portato in Italia nel 1706 da p. Marcellino d'Atri, compagno di missione degli ultimi anni di p. Luca che lo utilizzò per scrivere la sua relazione, conosciuta con il titolo "Giornate apostoliche''. Ne fece esplicita menzione nella sua narrazione; «[ ... ] cose tutte, per non haver tempo et per haversi infastidito il copista della presente scrittura - egli scriveva .. vo abbreviando, lasciando !'altri avenementi, che il lettore potrà vedere in una scrittura che il Padre Luca 1ni riferisce di sua mano» 17 . Tutto sembra dimostrare che il manoscritto di cui si servì p. Marcellino è andato perduto e che questo che si è conservato nella biblioteca comunale "Luciano Scarabelli" di Caltanissetta 18 è una copia. Sul frontespizio di questo volume rilegato di I06 fogli (recto e verso) si trova il titolo postumo scritto dall'applicato della libreria dei pp. cappuccini di Caltanissetta: "Relatione della Missione fatta nel Regno di Congo per il P. fra Luca da Calta.tta per lo spazio Anni

17

Giornate apostoliche di p. Marcellino d'Atri, manoscritto conservato

nell'ar.chivio provinciale dei cappuccini di Abruzzo ad Aquila, f. 188. 18 Vedi nota 1.


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Undici, in circa, sino all'ottobre del 1701 nel ricevere il decreto della Sacra Congragat.ne de Propanda Fide per la carica di Prefetto di queste missioni, e dal Tribunale della S.a Inquisitione di Roma le necessarie facoltà e Privilegii, e dal Tribunale della S.a Inquisitione della Lùsitania o Portogallo la Carica di Commissario Generale et Apostolico in questi Regni di Congo et Angola et Adiacentibus". La relazione è scritta in una lingua povera; come osservò il canonico Natale - «molto barbara e piena di ricordi dialettali»". E' tuttavia cronologicamente chiara - grazie alla sua redazione basata sul diario - e ricca di descrizioni della gente incontrata, degli eventi, della fauna e della flora. L'autore è un uomo del suo tempo, guarda infatti al mondo africano con la sua tradizione religiosa e con i suoi costumi, come ad un mondo pagano quindi da condannare per opera del demonio, in contrapposizione al mondo cristiano ritenuto "giusto", anche nei suoi aspetti più riprovevoli come il commercio degli schiavi. Nonostante ciò, il testo interpretato con una sorta di "indulgenza storica", si rivela prezioso non solo per la storia delle missioni in Africa ma anche per la storia dell'antico regno del Congo, delle sue società e cultura tribale. Da quando Michele Natale ha riscoperto questa cronaca e ha pubblicato certi suoi frammenti, rivelandone il valore storico, essa ha cominciato a comparire nelle bibliografie sul Congo e ad essere utilizzata - sempre però in maniera assai marginale - negli studi sul regno del Congo e delle missioni'"· Nonostante questo, solo più di mezzo se-

19 M. NATALE, Una relazione .. ., cit., 31. ZD Cfr. E. D'ALENCON, Essai de bibliographie

Capucino-congolaise, in Neerlandia Franciscana 2(1919) 107; H!LDEBRAND (De Hooglcde), Le 111ar1yr Georges de Geel et /es déhuts de la mission du Congo (1645-1652), Anvers 1940, 208, nota I; 359, nota 2; 360, 387; J. CUVELIER, L 'Ancien ... , cit., 95-96; J. DINDINGER, Bihliotheca Missionun1, XVII, Friburg 1952, n. 5202, 9-10; ANTONIO DA CASTEL MARE, Storia dei Frati Minori Cappuccini della PrnFincia di Palern10, 111, Palermo 1924, 298-299; J. CUVELIER, C'a/tanissetta, in Biographie Coloniale Beige, I, Bruxelles 1948, col. 205; M. ALU, Sicilia 111issionaria, Caltanissetta 1954, 69 ss.; L. JADJN, le e/ergé séculier et /es capucins du Congo et d'Angola aux XV!e et XVI/e siècles. Conflits de juridiction, 1700-1726, in Bulletin de f'Jnstitut Historique beige de Rame 36 (1964) 250-252; L. JADIN, Recherches dans /es archives et bih!iotéques d'Jtalie et du Portugal sur l'Ancien Congo, in Sufi. Acad. Royale Sciences Colon. 2(1956) 951-990; R. GRAY - D. CHAMBRES, Materials for West Afi·ican History h1


Luca da Caltanissetta e il suo diario

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colo dopo è stata pubblicata. I primi a farlo non sono stati autori italiani ma autori di lingua francese, la qual cosa non è un'eccezione nella pubblicazione di analoghi documenti storici giacenti negli archivi italiani e vaticani 21 • Nel 1960 mons. J. Cuvelier, noto africanista, pubblicò una versione abbreviata della relazione in lingua francese con il titolo: Re lation sur le rouyaume de Kongo du Père Luca da Caltanissetta (16901700 )22 • Questa - come indica l'autore - «traduction non définitive» era di 89 pagine. Dieci anni dopo p. François Bontinck, professore dell'università Lovanium di Kinshasa, pubblicò, sempre in francese il testo integrale della relazione con una introduzione (oltre 50 pp.) e un commento critico 23 • Nella introduzione egli fece un quadro biografico di p. Luca, una descrizione della sua relazione e un'analisi dcl suo «intéret historique». Nel 1974 è apparsa infine la pubblicazione integrale in lingua originale della relazione a cura di Romain Rainero, professore

Italian Archives, London 1965, 124; T. FILESI, Cappuccini italiani nel Congo (Missio antiqua): relazioni edite e inedite (secoli XVII e XVIII), cit., 549-550; T. FrLESI, le relazioni tra Regno del Congo e la Sede apostolica nella prÌlna 111età del XV secolo (dovrebbe essere: XVI secolo - G.J.K.), in Afì·fca 3(1967) 256, nota 37; P. DIANA, lavoratoti itahani nel Congo he!ga, Ron1a 1961, 251; F. D. PARELLA, PV. Luca da Caltanissetta, O.F.M. Cap., prefetto apostolico di Congo~Angola, Palermo 1970. 21 A titolo d'esempio basta indicare le relazioni dci padri cappuccini Lorenzo da Lucca e Bernardo da Gallo, missionari nel Congo agli inizi dell'Ouocento. Gli scrilli di Lorenzo da Lucca per la prima volta sono stati pubblicati in francese da J. Cuvelier (Re/ations sur le Congo du Père Laurent de Lucques [ 1700-1717], in Bui/et in de Seances de l'Acade1nie Royal des Sciences Colonia/es 32 [J953J fase. 2). La relazione di Bernardo da Gallo è stata pubblicata per la prima volta pure in lingua francese da L. Jadin (Le Congo et /a secte Antoniens. Restauration du royatone sous Pedro lV et la «saint Antoine» congolaise [1694-1718], in Bu!h~tin de !'lnstitut Historique Beige de Ron1e 33[1961] 411-615). Va cornunque ricordato il inerito del prof. Teobaldo Filesi per la pubblicazione di varie relazioni in lingua originale anche le suddette - dei missionari italiani nel Congo.22 J. CuVELTER, Relation sur le royau1ne de Kongo du Père Luca da Caltanissetta (1690-1700), (traduction non définitive), in Cahier Nogonge Kongo"(Kinshasa) 6 (1960). 23 Diaire congolais (1690-1701) de Fra Luca da Caltanissetta O.F.M. Cap., traduit du 1nanuscrit italico inédit et annoté par F. Bontinck, LC.M., Ed. Nauwelaerts, Louvain-Paris 1970.


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dell'università de Genova, con il titolo: Il Congo agli inizi del Settecento nella relazione di P. Luca da Caltanissetta 24 • Il testo è preceduto da un'ampia introduzione (circa 90 pp.) nella quale l'autore ha proposto una descrizione del regno del Congo alla fine del Seicento e dell'opera missionaria in quel, territorio. «Con una grande semplicità - osserva F. Bontinck - il rapporto di P. Luca ci propone un'immagine concreta e commovente dell'apostolato abbracciato dai cappuccini italiani che lavoravano nell'antico regno del Congo verso la fine del XVII secolo. Il loro coraggio ci stupisce tanto quanto il loro candore»". Qualunque sia l'opinione sulla loro opera è certo che si sono "guadagnati" un posto nella coscienza storica. Lasciarli nell'oblio è una negligenza da parte degli storici e un'offesa per chi condivide gli stessi valori cristiani. La testimonianza di p. Luca, anche se tardi, si è salvata da questa sorte. Ma quante testimonianze simili ancora giacciono dimenticate negli archivi?

24 25

Ed. La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 480. Diaire congolais ... , cit., IntroducthJn, XVIII.


IL MONASTERO CATANESE DI S. NICOLA L'ARENA TRA IL 1738 E IL 1759

GAETANO ZITO'

La copiosa documentazione che il Registro delle disposizioni degli abati e della cronaca del monastero S. Nicola l'Arena dal 1675 al 1863 - in seguito semplicemente Registro - riporta per il sec. XVIII obbliga a frazionarne ulteriormente la pubblicazione'. Gli atti - editi in Appendice - registrati dai segretari degli abati, succedutisi alla guida della comunitĂ benedettina dal 1738 al 1759, permettono di cogliere uno spaccato significativo della vita monastica in un momento di grmide transizione per la vita religiosa. 2 In diciannove anni si succedettero soltanto quattro abati, ognuno dei quali eletto per un doppio mandato, ma non a cadenza regolare: Giuseppe Maria da Palenno, 1738 e 1741; Romualdo

-~

Docente di Storia della Chiesa nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Il testo dal 1675 al 1735 è stato edito in Synaxis 5 (1987) 277-338; 7 (1989) 517-561; e la parte relativa al governo dell'abate Giuseppe Benedetto Dusmet (1858-1866) in Synaxis 4 (1986) 477-534. 2 Cfr. G. PENCO, Aspetti e caratteri del monachesin10 nel Se11ecento italiano, in Settecento 1no11astico fraliano. Atti del I Convegno di studi storici sull'Italia Benedettina (Cesena 9-12 settembre 1986), a cura di G. Fan1edi e G. Spinelli, Badia S. Maria del Monte, Cesena 1990, 13-33; E. BOAGA, Orienta111enti della vita religiosa nell'Italia del Settecento, ibid., 145-165; ID., Aspefli e proble1ni degli ordini e congregazioni religiose nei secoli XVII e XVIII, in Problen1i di storia della chiesa nei secoli XVII e XVIII. Atti del V convegno di aggiorna1nento della Associazione Ilaliana dei Professori di Storia della Chiesa (Bologna 3-7 settembre l 979), D_ehoniane, Napoli 1982, 91-135. 1


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Russo 3 di Modica, 1745 e 1748; Ildefonso Arezzi di Ragusa, 1750 e 1752; Anselmo Valdibella di Messina, 1754 e 1757 4 • La Nota delli Superiori ed Officiali del Monastero, pubblicata all'inizio dei singoli mandati abbaziali, insieme all'elenco dei priori e dei decani, riporta la designazione di monaci sacerdoti e monaci fratelli a tutti gli uffici necessari per la vita della comunità. Di ognuno di loro solamente a partire dal 1745 è indicato, oltre la città di provenienza, anche il cognome. Di modo che, da questo anno in poi emerge con estrema chiarezza l'appartenenza di più monaci ad alcune delle famiglie nobiliari di Catania - ma anche di Siracusa - e dintorni: Asmondo, Corvaia, Ernandez, Guttadauro, Rizzari, Tedeschi, Trigona. Le singole mansioni consentono, in particolare, di annotare una doviziosa serie di informazioni sulla presenza dei benedettini nel territorio della Sicilia orientale. Ne vengono evidenziate qui solamente alcune fra le più e1nblematiche 5 . E' possibile individuare la dislocazione dei numerosi ed estesi possedimenti di S. Nicola l'Arena, per i quali non pochi monaci, a vario titolo, impiegavano gran parte del loro tempo''. Ad alcuni monaci era riconosciula e de1nandata una competenza specifica ne] campo della cultura, peculiarmente per l'insegnamento della "Teologia Sco-

:i Questo abate è l'unico ad adottare, in due <locumenti,una formula inusitata per gli abati: «Dei el AposJolicae Sedis gratia Abbas»: Registro, ff. 204v. e 205r. 4 Arezzi era già stato abate nel 1726 e 1729: G. ZITO, li n1011astero catanese di S_ Nicola l'Arena tra il 1719 e il 1735, in Syna,às 7 (1989) 533.542. I suddetti abati non sono presenti, poi, nella lista edita da M. GAUDIOSO, L'abbazia di S. Nicolò l'Arena di Catania, in Archivio Storico per la Sicilia Orientale (Asso) 25 (1929) 226. Per una rassegna documentaria e bibliografica su: atti dci capitoli generali e diete cassincsi (1659-1858), ((scrics 1nonachoru1n casinensiun1» (1747-1860), cronotassi degli abati cassinesi fino al 1872, cfr. G. MAzzucco, Contributo alla definizione delle cro11otassi abbaziali dei n1011asteri della congregazione cassinese, in Benediclina 39 ( l 992) 11-36. 5 Per la prinut volta nel 1757 vennero conferiti due nuovi incarichi: «Per la direzione delle Messe, cd Officio Divino nel Coro»: esigenza di elevarne dignità e zelo da parte dei 111onaci? «Alla cura del feudo di Graneri»: un nuovo posscdi1ncnto dcl 1nonas!ero? Registro, [f. 249r.-v. 6 S. LEONE, Una ricerca in corso: il patrùnonio rurale dei benedettini di S. Nicolò t'Arena di Catania dalla n1età del secolo XVII alla liquidazione dei beni ecclesiastici. C'onsistenza ed an1111inistra2ione, in Asso 67 (1971) 35-54.


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lastica", dci "Sacri Canoni", della Teologia morale e della Filosofia. 7 • Ovviamente non poteva mancare un riguardo singolare per il pregevole archivio, e il monaco archivista era tenuto all'osservanza della costituzione apostolica Maxima Vigilantia (14 giugno 1727) di Benedetto XIII'; come pure per la rinomata biblioteca9 . L'abate si premurava di affidare anche l'incarico per far progredire particolari devozioni, quali quelle alla Passione e al S. Bambino, e per assicurare la formazione spirituale dei fratelli che vivevano nel monastero e nelle dipendenze di esso. Per le monache oblate veniva designato un monaco con il compito di tenere loro gli esercizi spirituali; mentre, la cura di quelle che vivevano in altri comuni era delegata a sacerdoti del luogo: in Appendice è riportato il testo della deìega al sac. Gaspare di Naro per le oblate di Ispica (RG), e al sac. Filippo Sveglia per le oblate di Castrogiovanni (= Enna)'"·

7

C. NASELLI, Letteratura e scienza nel convento benedeflino di S. Nicola l'Arena di Catania, in Asso 25 (1929) 245-349; P. CoLLURA, li gia11se11isn10 e i cassinesi della Sicilia, in Settecento n'lonastico, cit., 501-511; M. MAZZUCOTELLI, A1nbienti 111011astici italiani e 111011do scientifico nel XVIII, ibid., 807-847; lo., Monaci scienziati e docenti universitari, in Il 1nonachesilno italiano dalle nfonne illurninistiche afl'unità nazionale (1768-1870). Atti dcl Il Convegno di studi storici sull'Italia benedettina (Abbazia di Rodengo (Brescia) 6-9 sette1nbre 1989), a cura di F.G.B. Trolese, Badia di Santa Maria del Monte, Cesena 1992, 531-554. 8 Cfr. Enchiridion archivonan Ecclesiasticorurn. Docu111e11ta potiora Sanctae Sedis de Archivis Ecc/esiasticis a Concilio Tridentù10 usque ad nostro.\· dies, quae collegerunt Rev.dus Doni. S. Duca .. et Sin1eo11 a S ..Fan1ilia, Città del Vaticano 1966, 104-116 e 331-336. 9 Nel 1752, però, l'abate Ildefonso Arezzi riservò a sé il ruolo di bibliotecario e scelse d. Ferdinando Gioeni, "Lettore di Teologia Scolastica", in qualità di vicebibliotecario (Registro, f. 225r.): necessità di un 1naggiore controllo del suo uso; oppure, indice del valore che si intendeva attribuire alla raccolta libraria e dell'importanza che la biblioteca avrebbe dovuto svolgere ncll'econon1ia della vita 1nonastica? Ma due anni dopo l'abate Anseln10 Valdibella affidava la biblioteca e il museo alla cura di d. Placido Scainn1acca, responsabile al contempo dei granai e della cantina del 1nonasterol (ihid., f. 237r.). Nel 1757 lo stesso abate, tuttavia, provvide ben diversamente (ihid., f. 250v.). Sotto il suo governo, nel 1755, Donato del Piano iniziò la costruzione dello splendido organo, co1npletato nel 1767: G. GIARRIZZO - V. LIBRANDO - F. DASSENO, L'organo del 111011astero dei PP. Benedettini di Catania, Le due colonne, Catania 1981. 10 Per le oblate, cfr. G. ZITO, np. cit., 522-523. Nella delega per le oblate di Castrogiovanni l'abate concedeva al sac. Sveglia la facoltà di fonnare anche un gruppo di oblati: Registro, f. 242v.


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La necessità di assicurare la esatta osservanza della regola, facilmente trasgredita anche per l'assenza di un sufficiente numero di monaci a fronte delle mansioni da svolgere, e la morte «di molti professi» in pochi anni, fnrono le motivazioni addotte dagli abati alla S. Congregazione sulla Disciplina dei Regolari per ottenere l'ammissione «all'abito Monastico» di IO «Chierici Cmisti» nel 1740 e di altri IO nel 17 5 I. Lo stesso anno Benedetto XIV concesse di poter ricevere «in educazione otto giovani di minore età». Ma la concessione fatta dal pontefice, e successivamente munita di regio exequatur, in questa occasione era in verità ben più ampia se il procuratore generale dei cassinesi, d. Giustino Capece, circa due anui dopo assicurava l'abate: «La facoltà che io le impetrai di poter vestire i Giovani sopranumerari, contiene anche quella di poterli affigliolare a codesto Monastero, quando anche abbia il numero assegnato dei 52, per lo che si serva pure di vestirne il numero prescritto in detta facoltà, e di farli a suo tempo professare al nome di detto suo Monastero, e non tema di ricorso, poiché tale è la mente di Nostro Signore» il papa". Nel 1758, invece, la S. Congregazione dei Vescovi e Regolari rinviò al giudizio e alla prudenza del card. Fortunato Tamburini, nominato protettore dei cassinesi il 5 settembre 1756, la concessione di «potere vestire altri otto giovani». Con essi si dovevano ri1npiazzare i monaci defunti, anziani o inabili di S. Nicola l'Arena, e provvedere <<!'altri Monasteri della Provincia, li quali non hanno il numero prefisso di Professi». Il card. Tamburini acconsentì alla richiesta, quantunque solamente tre giovani avessero l'età di 15 anni compiuti prescritta dal Concilio di Trento. 12 •

11 lbid., f. 234r. Probabilmente è conseguenza di tale facoltà se nell'organigratnn1a del n1onastero del 1757 si riscontra per la pri1na volta la presenza di "Perseveranti": ihfrl., f. 249r.-250v. 12 !bid., ff. !85v., 233v., 234r., 255v. Al decreto della S. Congregazione dei Vescovi e Regolari del 1758 venne aggiunta la seguente nota: «Il presente decreto fu 1nandato all'esecutoria in Palermo, come appare nelI'Archivio l'esecutoria a 8 Gennaio 1760: extat in Archivio Arca 66». «Nel 1761, poi, Clemente Xlii concedeva ai nionasteri della Congregazione cassinese la facoltà di accogliere ragazzi inferiori ai 15 anni fino ad un numero di 6 per essere educati e formati alla vita monastica». G. PENCO, op. cit., 22-23.


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Anche per ammettere alla professione monastica era necessario ricevere una debita autorizzazione. Pertanto, le 21 professioni monastiche avutesi tra il 1739 e il 1759 nel monastero di Catania furono precedute dalla facoltà concessa dall'abate presidente della congregazione cassinese e, in un solo caso, nel 1758, dall'abate visitatore e dal priore convisitatoren Avvalendosi, poi, del privilegio concesso dal Concilio di Trento agli abati per i loro sudditi nella vita religiosa (sess. XXIII, can. X de ref.), nel 1742, 1745, 1752 e 1757 i giovani professi di S. Nicola poterono ricevere il conferimento della tonsura e dei quattro ordini minori dal loro abate 14 • La trascrizione, quindi, nel Registro dei permessi accordati per le vestizioni e per le professioni, e ora editi in Appendice, oltre ad offrire dei dati, pur se parziali, relativi all'andamento statistico di qnesta comunità benedettina, si rivela utile al fine di ricostruire l'iter di formazione di singoli monaci e di contribuire alla composizione della 1natricula nionachorun1.

«Quanto alla vita interna, è innegabile, nei monasteri del '700, una certa accondiscendenza al costume mondano [ ... ] l'impulso riformistico tridentino si è ormai completan1ente esaurito e, anzi, conosce un processo di avanzalo declino» 15 • Uno spaccato della vita e della fedeltà o meno alla Regola, nella comunità benedettina catanese, in controluce, ci è dato di conoscerlo dalle «Ordinazioni» che ogni abate pubblicava all'inizio del suo governo. In verità, si tratta di prescrizioni abitualmente ripetitive, in alcuni casi perfino identiche 16 , per cui sorge il sospetto che, se da una parte costituivano un obbligo per l'abate,

13 Registro, ff. 185r.-v., 186v., 206r., 2llr., 255v., 26lr. Nei monasteri cassinesi siciliani, nel ventennio 1741-1760, si ebbero 85 professioni, delle quali 25 in quello catanese: G. SPINELLI, La dina1nica delle vocazioni nella congregazione cassinese durante il sec. XVIII, in Settecento 111011astico, cit., 454-455 .461. 14 L'interpretazione del relativo canone conciliare fu causa di non poche diatribe lra vescovi e abati: cfr. G. ZITO, Il rnonastero catanese di S. Nicola l'Arena tra il 1675 e il 1719, in Synaxis 5 (1987) 285-287. 15 G. PENCO, op. cit., 20. 16 Per tale motivo, in Appendice vengono trascritte interamente soltanto le «Ordinazioni» dell'abate Giuseppe Maria da Palermo del 1738, e quelle dell'abate Ildefonso Arezzi del 1752.


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dall'altra erano svilite di valore vincolante per la gran parte dei monaci che, di fatto, le eludevano ampiamente. I nodi fondamentali della vita monastica, comunque, concernevano: l'osservanza della clausura, il contegno da tenere durante le uscite «per città e per can1pagna», il silenzio in chiesa e la «taciturnità» in monastero, l'accontentarsi della vita comune, la proibizione di far entrare «e n10Ito meno far pernottare» estranei in monastero, l'adempimento del voto di povertà, la gestione del tempo libero (impiegato facilmente anche giocando a dadi e a carte sia iu monastero che fuori), il vestire in modo confacente all'abito e alla vita religiosa. Ai monaci si chiedeva di favorire «le dovute applicazioni alle vere virtù, e profittevoli scienze», esortandoli a «contentarsi del bastevole, e restituire il superfluo» 17 •

Quelli che vivevano nel monastero di S. Maria di Licodia e nella grancia di Paternò venivano richiamati, inoltre, ad attenersi alle prescrizioni circa i digiuni, l'ufficio divino, la celebrazione delle messe, le elemosine, la povertà, la carità verso i religiosi mendicanti e i poveri che si presentavano alla porta, il divieto di ospitare «i refugiati, massimamente per delitti criminali». Ai rettori delle due comunità si raccomandava la formazione spirituale e la vita sacramentale di monaci, inquilini e dipendenti, «facendo che questi vivano cristianamente»; e, per evitare il loro isolamento dalla comunità della città, dovevano tornare a Catania almeno una volta l'anno: o per la festa del Corpus Domini oppure per quella del Santo Chiodo'"· In modo particolare, a conclusione della visita abbaziale a S. Maria di Licodia (1741) fu ordinato che la clausura «sia ristretta» a causa del progressivo incremento delle abitazioni. E mentre in un primo momento i benedettini, concedendo di edificare su proprio terreno anche vicino al monastero, avevano favorito lo sviluppo abitativo,

7 1

Registro, ff. 183r., v. Seconda per solennità solo a quclJa della patrona catanese S. Agata, la festa del S. Chiodo si celebrava il 13 e 14 settembre e, oltre ai rili liturgici e alla processione cittadina, prevedeva anche l'invito a pranzo per i notabili della città, un fastoso ricevi1nento nell'appartainento dell'abate, magnificenza di fuochi d'artificio e un concerto musicale nello spiazzale antistante il monastero: C. NASELLI, La festa del S. Chiodo nel n1onastero dei benedettini di Catania, in Asso 51-52 (1955-56) 47-73. 18


li monastero catanese di S. Nicola l'Arena

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successivamente vennero proibite dall'abate (1749) ulteriori concessioni perché le tante già permesse «per fabricare case [ ... ] hanno anecato e giornalmente arrecano delli gravi danni e pregiudizi al Monastero»19.

Nella chiesa di questo monastero, poi, l'abate godeva della facoltà di poter amministrare i sacramenti"', ma delegava a tal fine un sacerdote del clero diocesano. Nel 1744 l'abate Russo ritenne essenziale associargli altri quattro sacerdoti in qualità di cappellani, per soddisfare meglio alle esigenze religiose del monastero e dei fedeli: ne regolò gli obblighi con opportune «Ordinazioni», e li collocò alle dipendenze del rettore e del cellerario"Sia la costruzione delle nuove case quanto la nomina dei quattro cappellani lasciano intendere che nel casale di S. Maria di Licodia, formatosi attorno al monastero, in questi anni si andava sviluppando una significativa crescita demografica. Un ulteriore elemento, in tal senso, potrebbe essere offerto dalla decisione del vescovo Pietro Galletti di erigere, il 31 gennaio 1754, quella chiesa a filiale curata, disponendo al contempo che la nomina del curato, un monaco benedettino, fosse di pertinenza dell'abate, e riservando però a sé e ai suoi successori il diritto di visita pastorale". Lo stesso anno, l'abate Anselmo Valdibella, nominò primo "parroco" di S. Maria di Licodia il decano Romualdo Rizzari 23 • Qualche altra notizia, tra quelle contenute nella documentazione edita in Appendice, merita ancora di essere evidenziata. Il Registro riporta due lettere, indirizzate a tutta la congregazione cassinese, sulla osservanza della Regola e la disciplina monastica. La prima dell'abate presidente Nicolò Maria Roggeri, del 24 dicembre 1757, a tutti gli abati della congregazione; e la seconda del card. Fortunato Tambu-

19 Registro, ff. 193v., 210v. Un verbale, 1nolto succinto, di visita abbaziale a S. Maria di Licodia si trova in ibid., f.243r. 20 Tale privilegio era stato accordato nel 1205 dal vescovo di Catania Ruggero Oco: C. ARDIZZONE, I diplon1i esistenti nella Bi/J!ioteca con11111ale ai Benedettird. Regesto, Catania 1927, n. 40. 21 Registro, ff. 203r.-204r. 22

c.

23

Registro, f. 236v.

ARDIZZONE,

op. cii., n.916.


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rini, del 16 maggio 1758, all'abate visitatore all'inizio della visita ai monasteri, per «raccomandarle alcune cose che principalmente mi stanno a cuore»: sintesi dei malesseri della vita monastica cassinese e delle necessarie riforme da adottare 24 • Altre due lettere", invece, riguardanti i soli monasteri siciliani, sono del marchese Giuseppe Fogliani d'Aragona, viceré di Sicilia (1755-1774), relative ad uno dei diritti propri del giurisdizionalismo: l'obbligo del "regio exequatur'"'· Il 26 marzo 1757 i benedettini cassinesi del regno delle Due Sicilie ne avevano ottenuto dal re l'esenzione per gli atti dell'ultima loro dieta capitolare 27 • Ribadito, in particolare, per bolle, brevi e rescritti provenienti dalla S. Sede, Carlo IV di Borbone decideva di eliminare ora questa forma di vigilanza e di controllo preventivo dello Stato sugli atti dei capitoli generali e delle diete anche delle altre famiglie religiose, purché «siano relativi solo alla interna economia, disciplina e governo». Alquanto singolare è la lettera credenziale rilasciata dall'abate Romualdo Russo il 20 febbraio 1747 al monaco di S. Nicola l'Arena Emiliano Zappata de Cardenas. Con parere favorevole della S. Congregazione dei Vescovi e Regolari, gli venne concesso di recarsi a Madrid per un anno a riscuotere le rendite delle proprietà del fratello, Rodrigo Zappata marchese di S. Florido, non pervenutegli in seguito

24 Ibid., ff. 254r.-v., 258v.-259v. Sull'attività del Tamburini, protettore della congregazione cassinese, cfr. P. ELLI, Lettere inedite del procuratore generale ( 17511757) D. Giustino Capece ( 1703-1772) al card. Fortuna/o Tan1buri11i ( 1683-1761 ). Con annotazioni, in Benedictina 38 (1991) 61-124. Una lettera del procuratore generale d. Pier Luigi Della Torre, l2 dice1nbre 1742, riportata nell'Appendice, concerneva le tasse versate dai tnonasteri alla Rev. Camera Apostolica: Reg;stro, ff.193v.-194r. 25 La priina è dell'8 aprile 1757, in lingua spagnola; la seconda, indirizzata al giudice del tribunale di regia inonarchia, è del 10 gennaio 1759: ihid., ff. 256r.-v., 259v.-261 r. 26 Cfr. G. ZITO, Monasteri benedettini della Sicilia orientale:;/ caso Catania, in li 111onachesin10 italiano dalle rifanne illun1inistiche all'unità nazionale (17681870), ciL, 149-177 (soprattulto le pp. 150-157: "Situazione dci religiosi sotto il regi1ne borbonico"). 27 Dovrebbe trattarsi degli Acta Dietae Capitularis Congregationis Casinensis celebratae in 111onasterio S. Petri Mutinae. Die VIII Maii An. MDCCLVI, s.n.t.: cfr. G.

MAZZUCCO,

op. cit., 20.


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alla morte dell'amministratore, e a mettere «colà i di lui affa1i in qualche buon sistema» 28 . E, infine, due notizie sono da rimarcare: il decreto di nomina di Vito Maria Amico ad abate titolare, 23 maggio 1757, sancita alcuni giorni prima nel capitolo generale di Padova"; l'assenso alla comunità monastica, ex audientia SS.mi, di poter custodire l'Eucaristia nella cappella del coro di notte, e non nella «loro Gran Chiesa, la quale non è ancora interamente terminata, [e] non riesce loro molto agevole il portarsi nella medesima per ivi adorare la Sacratissima Eucaristia»'°.

Nota previa all'appendice Nel trascrivere questa porzione del Registro ho tralasciato quanto, a mio giudizio, era da ritenere marginale. Per tale motivo, solamente due volte vèngono riportate le «Ordinazioni» degli abati: quelle del 1738, all'inizio di questo periodo di vita del monastero, riprodotte pedissequamente in seguito, anche dopo la parentesi di quelle dell'abate Arezzi del 1752, trascritte perché più ampie rispetto alle prime. Per tale motivo, e per altre indicazioni che emergono dalla documentazione già edita per il periodo precedente, la figura di questo abate sembra essere di particolare rilevanza per la storia di S. Nicola l'Arena. Così pure, degli organigrammi del monastero soltanto il primo è proposto per intero; degli altri sono indicate unicamente le mansioni dei monaci sacerdoti. Di loro, a cui competevano i maggiori obblighi nella vita religiosa e nella fedeltà alla Regola, ci interessa in particolare individuare l'iter della "carriera" monastica, ed evidenziare la competenza e la responsabilità in alcuni ambiti specifici della vita del monastero.

28

Registro, tf.205r.-v. Acta Capi tu/i Generalis Congregationis Casinensis in Patavino n1onasterio Divae Justinae. I Maii MDCCMV!J, s.n.t.: cfr. G. MAZZUCCO, op. cit., 20. 30 Registro, f.234v. 29


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Gaetano Zito

Nei casi in cui un documento presente nel Registro è stato del tutto scartato nella trascrizione, di esso ne è stata comunque segnalata la esclusione e indicata in Appendice l'esistenza con un breve regesto. Tra questi, in special modo rientrano alcune nomine di monaci, e i verbali delle visite abbaziali alla grancia di S. Maria di Valle Giosafat in Paternò del 1749 e 1757, esattamente conformi a quelli trascritti nei precedenti brani del Registro già editi.


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena

APPENDICE

[ l 77r.]

Nota del/i Superiori ed Officiali del Monastero di San Nicolò l'Arena sotto li 16 Giugno 1738

R.1no P.D. Giuseppe Maria da Palermo Abbatc M.to Rcv.do P. Priore D. Vito da Catania Priore Claustrale M.to R.do P. D. Emiliano da Palermo Priore di Cirami M.to R.do P. D. Angelo da Patcmò Priore di S. Marco

P.D. Michel'Angelo da Catania Decano e Maestro di Novizi P.D. Pio da Palermo Decano e Segretario

P.D. Benedetto Maria da Modica Decano P.D. Pietro Maria da Paternò Decano P.D. Domenico da Patemò Decano P.D. Ludovico da Siracusa Decano P.D. Agostino da Piazza Decano

P.D. Luiggi da Catania Decano P.D. Ignazio da Modica Decano

P.D. Nicolò Maria da Catania Decano P.D. Rosario da Palermo Decano P.D. Antonino Maria da Catania Decano P.D. Vincenzo Maria da Catania Decano P.D. Odoardo da Siracusa Decano P.D.

An~eln10

Maria da Catania Decano

P.D. Michele da Catania Decano P.D. Remiggio da Siracusa Decano

Monastero di Licodia

P.D. Domenico da Paternò Rettore P.D. Nicolò da Catania Decano e Ccllerario D. Nicolò Paladino Cappellano

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Gaetano Zito

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Alla Sagrestia Fra Romano da Modica

fl 77v.] Alla Cantina Fra Raffaele da Catania

Alla Cucina Fra Raffaele da Catania

Alla Cura delli Feudi P. Rettore e Fra Romano da Modica

Grangia di Paternò P.D. Ludovico da Siracusa Rettore

P.D. Remiggio da Siracusa Procuratore, quale averà la cura delli cenzi, Molini ed eredità per !'Opere Pie

Alla sagrestia di questo Monastero P.D. Odoardo da Siracusa Vicario D. Girolamo Sagrestano Maggiore Tutti i Chierici Sottosagrcstani

Quali averanno la cura di polire il Coro, n1etterc gl'apparati, e li Palij, assistere in sagrestia, ed in Chiesa, di sonare li soliti segni del Coro, e refettorio secondo l'ordine del M.to R.do P. Priore. Fra Benedetto da Catania Sagrestano, quale averà la cura di sanare tutti li segni, ed ogni sera porterà le chiavi della Chiesa, e Sagrestia al M.to Rev.do di Casa, siccon1e ancora di giorno in ten1po di donnizione.

h1 S. Nicolc'i In Bosco. Cas!a,?neto e Dagala Fra Pietro da Catania [178r.] D. Nunzio ConsolP

D. Lorenzo Bruno

J Cappellani

Alla Celleraria del Monastero P.D. Anselmo da Catania Cellerario Prin10 D. Onorato da Vizzini

Alla Spesa del Monastero Fra Mariano da Catania, quale darà conto ogni sera al P. Cellerario di Casa, e porterà il libro della spesa al P. Cellerario e Priore per esaminarlo, e sottoscriverlo, sortire di casa quante volte sarà necessario e finiti !'affari subbito ritornare.


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena

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Alli Granari, Cantina e Casaria del Monastero Fra Gregorio da Catania Alla Cassa del Monastero

M.to Rcv.do P. Priore

Alla Procura del Monastero P.D. Michele da Catania

Alla Procura di Pale1mo P.D. Placido da Palermo

All'Archivio del Monastero P.D. Michele da Catania, quale osserverà la Bolla di Benedetto 13°

Alla Fabrica del Monastero P.D. Benedetto da Modica

[178v.] All'Infermaria

M.to Rev.do di casa Vicario, quale averà la cura di sottoscrivere li medicamenti e senza licenza del medesimo non si possano prendere detti medicamenti D. Mauro di Modica Infermiera

D. N. Infenniero Fra Stefano da Catania

Frat'Angelo da Catania

Alla Foresteria D. Onorato da Vizzini D. Emiliano da Siracusa

Fra Maiiino da Catania

Alla Cucina Fra Giuseppe da Catania Massaro Fra Nicolò da Modica Fra Giachino da Catania

] Aggiutanti

Fra Martino da Catania

Alla Lezzione de Sacri Canoni e Teologia P.D. Michel'Angelo da Catania


Gaetano Zito

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Alla Lezzione di Filosofia P.D. Lucio da Siracusa

Alla Lezione di Teologia Morale D. Alfonso da Modica

Al Noviziato P.D. Michel'Angelo da Catania

[179r.] Al Refettorio D. Francesco di Piazza Rettore Fra Placido di Catania quale darà conto ogni sera di tutto il consumo e non prenderà robba della Cantina senza poliza del P. Rettore, ed in sua assenza del P. Cellerario di Casa

Alla revisione dei libri M.to Rev.do P.re Priore e P. Lettore di Teologia Per far leggere li decreti Pontificij e della Religione nel Refettorio M.to Rev.do di Casa Alla Computisteria P.D. Luiggi da Catania

Alla Porta dcl Monastero Fra Tomaso di Jaci, quale averà la cura di chiudere il Portone prima della mezz'ora di notte e accompagnerà quelli, che vengono sino alle camere del Religioso ricercato, e non peimetterà entrar donne nell'atrio della Po11a sotto qualunque pretesto A Bmnbacaro Fra Michele da Catania (!79v. - !80r. fogli bianchi]

fl80v.j In Carrozza Fra Mauro da Catania

Alla Licathia Pietro Giuffrida Massaro Al Magazzeno dell'orgio, e cura della Stalla P. Cellerario di Casa, quale non pennetteri1 che i Rcfuggiati, o altre sorte siinili di gente, si riposi nc!Ie Stalle, per !'inconvenienti che ne possono nascere


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Per sonare il Pater noster, battere le camere, e sonar la prima Messa Tutti li Commessi a ~ettimana Per sanare il Matutino Li due ultimi Commessi

Per scopare li dormitorj Tutti li com1nessi due volte la settimana, cioè il Mercordì ed il Sabba!o, e gl'ultllni due devono levar via l'immondezza dcl Dormitorio ogni giorno doppo prima

All'Inventario delle Camere, ed Officine P. Ccllerario Primo P. Cellerario di Casa P. Foresterario Primo Maestro di Ccremonie P.D. N. D. Onorato di Yizzini Coadiutore rI8lr.J Organista P.D. Antonino da Catania

Per la Lezzione Spirituale alli Fratelli P.D. Michele di Catania

Per !'esercizi spirituali alle Monache oblate P.D. Luiggi da Catania

Alla Cura della libraria P. Lettore di Teologia, e Filosofia, quali avranno la cura di farla scopare una volta la setti mana

LI 81 v .l

Ordinazioni da osserl'arsi da tuffi li Religiosi nel Monastero di S. Nicolò l'Arena e sue Grangie, e Corti, pubblicate 11el/'a11110 1738 da me D. Giuseppe Maria da Palermo Abba/e del sudetto Monastero

Dalla Religiosità delle Paternità Vostre, e dall'osservanza che si prattica in questo cospicuo Monastero, mi si potrebbe dispensare l'obligo che ho d'avvertirli delle susseguenti Ordinazioni solite pratticarsi per lo passato, ma per seguire le vcstiggia de' miei Predecessori e per complire all'obligo del mio Officio, e per la necessiti'ì d'invigilare all'esecuzione di quanto prescrivono le no-


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stre Constituzioni per l'esatta osservanza d'esse: ho dcvenuto alla nuova creazione degl'Officiali di questo esemplarissimo Monastero, e devo in corrispondenza del mio dovere ram1ncmorarli li seguenti avvertimenti, acciò sijno con tutta esattezza eseguiti sotto le pene prescritte dalle Bolle Pontificie, e nostre Constituzioni, e sotto quelle che riserbo al mio proprio Arbitrio.

I. A niuno sia lecito senza espressa licenza del Superiore uscire in qualunque te1npo dalla Clausura dcl Monastero che dichiaro essere la prescritta dagi'Abbati miei Anteccssori, e s'astengano così Monaci come C01nmessi di trattenersi al Portone principale del Monastero, o ad altro che corrisponde a publica strada, eccetto che nell'accompagnare qualche persona di distinto riguardo. [ l 82r.J 2. Uscendosi per Città e per Campagna s'osservi la dovuta religiosità, e modestia, ed a niuno sia lecito l'andar solo, o accompagnato da qualche servo senza l'espressa licenza del Superiore, e si contenti ogn'uno del compagno assegnatogli senza poter cambiarlo, e non ordisca chiunque trattenersi a discorrere con dame in carrozza per le publiche straùe. 3. Senza espressa Licenza del Superiore non si possa parlare nella Chiesa, raccomandandosi con ogni premura il rispetto e lo zelo per la Casa del Signore. 4. S'osservi ne dorrnitorij del Monastero la taciturnità e silenzio tanto dal mostro Santo Patriarca co1nmendato, e per ciò si proibiscono le inutili e vane conversazioni in Camera, nelle quali stiano i Religiosi senza incomn1odare con istrumenti musicali strepitosi o altri disturbi il con1pagno, per non impedirgli le dovute applicazioni alle vere virtù, e profittevoli scienze. 5. Si contenti ogn'uno della vita commune, che però si proibisce ogni particolarità in publico Refittorio a qualunque Monaco Ufficiale, o Ministro, a ciascuno de' quali s'ordina di dover n1angiare o alla prima, se sarà spedito, o all<l seconda Mensa con1mune, a tenore delle ultin1e Constituzioni Capitolari confermate in questo ultimo Congresso, e quello che avanza così la inauina carne la sera si dispensi in elemosina alle Verginelle giusta il costume lodevole di questo Monastero.

6. Senza espressa licenza del Superiore non possa introdursi, e molto meno far pernottare alcuno di qua[182v.]lunque età, stato, e condizione, a riserva de' soliti servitori del Cellerario. 7. Si proibisce affatto il nego7.iare, e tenere robbe preziose, o 1nercantili di Secolari, e molto più denaro proprio, o d'altri, siccmne all'incontro s'ordina di non tenere in mano, ed in casa di secolari mobili preziosi, o denari a titolo di prestito, o deposito. Ma il denaro che si ha pcnnesso ad uso proprio, si porti in Cassa communc di depositi in potere del Molto Reverendo di Casa. 8. Si proibisce ancora ogni sorta di gioco di dade, carte, e simili si dentro, come fuori del Monastero.


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9. S'incarisce soprattutto l'uniformità nel vestire, e non sia lecito ad alcuno usare neg!'Abbiti di sotto panni, e drappi preziosi, o di colore vago. Proibendosi ancora d'usare fibbie nelle scarpe, fascie di seta, tabacchere d'argento, cinturetta d'oro, tacchi di legno, berrettini, cappelli di forma rotonda di pelo, vesti di camera foderate di co!tonino, e simili.

IO. Essendo alla modestia religiosa affatto disdicevole il farsi vedere dalli secolari senza !'Abito consueto religioso, si guardino di non tenere aperte le cmnerc trovandosi senza la tonica, o

d'affacciami alle finestre che corrispondono a publiche strade. I L S'avverte il P. Cellerario, e Ministri di fare rispettivamente l'inventario di tutte le robbc del Monastero, e notare in libro distinto li fornimenti di camera, e provisione, che tiene ciascun Monaco a conto del Monastero, esortando a tutti contentarsi <lei bastevole, e restituire il supe1fluo. Ll83r.] 12. Si proibisce alli PP. Sacerdoti d'esentarsi in qualunque giun10 da! Capitolo, nel sabbato poi concorrano tutti senza eccezione, così tenendo Capitolo l'Abbate, come in sua assenza il Priore. Si raccomanda per ultimo alli PP. Superiori di sodisfare Ii doveri del loro stato, e grado, e di mostrare in tutto il buono zelo, ne abusarsi dell'autorità e giurisdizione loro. Faccino le solite cerche in Monastero e sue officine, e le doverose correzioni in Capitolo sotto le fom1ole civili, e le più proprie d'una vera carità, atte a lucrare, e non a perdere l'ani1nc dc' difettosi, a tenore di quello

ci comanda il nostro Santo Legislatore al Cap. 31 di nostra Santa Regola, cd in altri luoghi. Che Dio ci dia la grazia di esaltmncnte osservare in au1nento della sua gloria, e bene dcll'anime nostre ..

Ordinazioni per il Monastero di Licodia, e Grangia di Paten1ò I. Che a niuno degl'Ufficiali, o allro religioso sia lecito senza espressa speciale licenza di pernottare fuori dclii rispettivi !oro Monasteri eccetto se per affari a loro ufficj attinenti occorresse; che quelli di. Licodia abbassassero in Paternò, o all'opposto, e bisognando portarsi nelle Terre, o Città vicine per negozij altresì del Monastero, ritornassero, se sarà possibile la sera istessa, e dovendo ivi dimorare a lungo, ne o11engano preventivan1entc dall'Abbate il penncsso. Ne po8sono a nlo!ivo di publiehe feste, o rappresentazioni, anche per una sola notte, dimorar fuori dcl Monastero. In caso d'infennità, pem1cttendolo il 1norbo, debbano portarsi subbito in Catania. [183v.j2. Che il P. Rettore abbia cura speciale de' Monaci, Inquilini, e familiari del Monastero facendo che questi vivano cristiana1nente frequentino le Chiese, e li Sacramenti. 3. Che non si ricevano secolari di qualunque condizione, che venissero per ricreazione, o per loro aflari senza espressa licenza del Superiore eccetto che fosse

ca.~a

di

pa~saggio;

sij tutta-

via usata la possibile c<uità a' Religiosi Mendicanti, e Poveri, che passeranno per detti luoghi. Soprattutto si escludano i refugiati, massimamente per delitti Cri1ninali sotto le pene ben vis!c al Superiore.


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4. La Clausura sia la solita prescritta dagl'altri Abbati Anlccessori. 5. Che non possa farsi gahella più delli tre anni, che si dicono di fermo, ne possa il P. Rettore, o Ccllerario o Procuratore far delle spese eccessive, ed estraordinarie, senza espressa licenza del Superiore: dipendono tutti gl'Officinli dal P. Cellerario Pri1no, e senza il di lui consenso cosa non trullino di rimarco avvisandolo di tutto. 6. S'osservino al possibile i digiuni regolari, almeno il Venerdì per tutto l'anno, e nelle vigilie delle selle Feste di Nos1ra Signora; si cantino le Litanie ne' Sabbati. ed in dette Vigilie. S'attenda csalla1nente alla sodisfazione dell'Officio divino nel coro, ed alla celebrazione delle Sante Messe, si sollennizino con tutta la pompa, e proprietà religiosa le feste solite celebrarsi, e si adcrnpiscano esallm11ente le solite elemosine, osservandosi quan1o nella Visita di detta Chiesa e Monastero LI84r.l su tal particolare fu ordinato. 7. Si guardino di trasgredire quanto si prescrive in nrnteria di povertà nella nostra Santa Regola, e ne Sacri Canoni, sicchè non s'attenda da qualunque si fosse a far ncgozij a propria utilità, ne a prestar denaro a Parenti, o Amici, ne a depositare robba, o denaro o propria, o del Monastero in casa di Secolari, ne altresì a tenere in deposito rohba, o denaro di Secolari senza espressa licenza del Superiore. 8. Si mandi fra i! termine di gion1i otto da ciascuno Religioso, ed Officiale !a spropria, o rivelo di 1uflo quello si trova avere così in denaro, robbe preziose, o generi di frumento, bestiame, cd al1ro così ne granari dcl Monastero e sue Officine, come altrove. 9. Dcl resto s'osservino tulle le altre ordinazioni circa il vestire a' Religiosi in questo Monaslcro di S. Nicolò prescri!!e. E siano tenuti i Retlori ahneno una volta l'anno in qualche Festa principale, come in quella del Corpus Chrisli o del Santo Chiodo d'abbassare in Catania ancorchè per la stessa caggione venisse in Monastero il Cellerario o Procuralore potendo !asciar la cura nella bricvc assenza a!li Cappellani respettive de' luoghi.

f J 84v.: foglio bianco l

[185r.J D. Joseph Maria a Papia Abbas Preses Cong. Cas.is Ad supplicationcm, a!!cstationemque R.rni Pracsulis nec non Superiorurn Pa!ru111 Coenobii nostri Divi Nico!ai de Catana, qua compcrtmn Nobis fuit, DonlinisFenlinando Gioeni, Marcello dc Leontinis, Francisco Terrana, atque Francisco Tedeschi nobilibus adolescentulis nullum dccsse ex rcquisilis ad Habiturn in Congregatione nostra suscipiendu1n iuxta Pontificias nostrasque Constitutiones ut nomine mcn1orati Catanensis Monasteri ad Habitum Novitiormn jide111 recipiantur, statutoque a Sacris Canonibus Tridentina praesertim Synodo, !cmpore ad Solemnem Professionen1 serva-


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena

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tis alioqui de jure servandis ut admitti yucant facultatem in Domino impertimur. Datum in Aedibus nostris Divi Benedicti, Fcrrariae Nonis Juliis MDCCXXXIX D.Joseph Maria a Papia Abbas Pracses Locus + Sigilli D. Bencdictus Joseph a Mantua Pro-Cancellarius

[185v.J E.mi e R.1ni Sig.ri L'Abbate e Monaci del Monastero di S. Nicolò di Catania della Congregazione Cassinese umili oratori dcll'EE. VV. riverentissi1ne Le supplicano della grazia di poter am1ncttcrc all'abito Monastico dieci Chierici Coristi per sostegno dell'osservanza del Monastero che si trova mancante di molti professi defonti in pochi anni, praticandosi in esso l'esatta osservanza della S. Regola e Costituzioni Apostoliche secondo la retta n1ente di questa S. Congregazione confanne all'ulti1na Licenza dei 28 novembre 1732.

Sacra Congregationc Super Disciplina Rcguhlri licentiam i1npcrtitur Superìoribus Regularibus Monachormn Congregationis Cassinesis ad quos spcctat, ut, ultra Novitios iam concessos, hac vice Lan!um, alios deeem Clericos, seu choristas ad habitum probalionis recipere in pracdicto Monasterio S.ti Nicolai Catanac pro Nivitiatu ab hac Sacra Congregationc approbato; et finito tempore Novitiatus ad professionem admittere !icite possint, cl valcant: servatis !amen omnibus, e( singulis, quae continentur in decretis de mandato s. me. Alexandri Scptinli editis die Xl Maii 1655 pro Novitijs in dicto Ordine recipiendis, nec non huius Sacrae Congregationis sub die 18 Julij 1695. Ronrne 8 Nove1nbris l 740 A. Card.is Guadagni Prafec!us Locus + Sigilli

F. Larcdus Secretarius

fl86r.] D. Joseph Maria a Papia, Abbas Pracses Congregalionis Cassinensis Juratis testimonis, et praecibus inhacrcntes R.1ni Presulìs ac Superiorun1 nostri catanensis Coenobi Divi Nicolai quibus comperimus D. Cajetano Salonia et D. Francisco Zappata nulluin deesse ex requisitis per sacros Canones ut ad regulare institutmn quis adn1ittatur, eosdem adolescentes ad Probationern servatisque de jurc Tridentini praescrtim ceterisque scrvandis ad solemnem Monachorum nostrorum Professione 1nonasteris eiusde1n nomine excipi posse qua possernus auctoritate in Domino concedimus. In Mcdiolani Divi Simpliciani Aedibu.s XVI Kal. nove1nbri.5 MDCCXL D. Joseph Maria Ahbas et Presidcns D. Benedictus Joseph a Mantua Pro-Cancellarius


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[186v.] Nos D. Cyprianus a Brixia S. Maria de Pratalea Abbas et Congregationis Bene-

dictino Casinensis Praeses R.mi Presulis, caeterorun1que Superiorum Monasterii nostri sancti Nicolai de Arenis per_Jecta supplicalione iure iurando testante D. Marium Daniele a Syracusis el D. Franciscum Beneventano a Leontinis legitimis honestisque natalibus 01ios de litcrarum sufficientia, de Spiritus im-

pulsu, cacterisque, guae ab Apostolicis, nostrisquc praescribuntur Cons!itutionibus examinatos, et quia idoneos repertos sccretis tandem suffragiis dignos iudicatos, qui ad habitum regularem in nostra Congregatione suscipiendum admittantur. Propterea ut vinea Don1ini sub Sanctissimi Legislatoris vexillo in dies quotidie augeatur, prefatos Adolescentes ad Annum probationis, coque elapso ad sollemne1n su11m professionem memorati Mmrnsterii nomine, admittandi f11cultatem praelodatis Oratoribus tenore presentium in Domino faci1nus et elargimur. Datum Patavij apud S. Urbanum hac dic 22 Mensis Martii 1743 D. Cyprianus a Brixiae Abbas et Praeses D. Benedicto a Bergmno Pro Cancellarius

r1s1c.1

Nota dclli Superiori ed officiali del Monastero di S. Nicolò l'Arena sotto li IO Luglio 1741

Rev.mo P.re D. Giuseppe Maria da Palermo Abbate Molto R.do P. D. Stefano da Catania Priore Claustrale Molto R.do P. D. Emiliano da Palermo Priore di Cerami Molto R.do P. D. BenedcHo da Modica Priore di S. Marco Padre D. Antonino da Catania Decano e Maestro di Novizj Padre D. Pio da Palenno Decano e Segretario Padre D. Don1enico da Paternò Decano Padre D. Ludovico da Siracusa Decano Padre D. Agostino da Piazza decllno Padre D. Luiggi da Catania Decano Padre D. Ignazio da Modica Decano Padre D. Niccolò Maria da Catania Decano Padre D. Rosario da Palenno Decano Padre D. Anscln10 da Catania Decano Padre D. Michiele da Ca!ania Decano Padre D. Remigio da Siracusa Decano Padre D. Lucio da Siracusa Decano Padre D. Francesco da Piazza Padre D. Gerolamo da Catania

) se li dona il luogo tra Decani


li monastero catanese di S. Nicola l'Arena

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[187v.l Monastero di Licodia

P. D. Domenico di Patemò Rettore P. D. Remigio di Siracusa Cellerario D. Niccolò Paladino Cappellano

Grancia di Paternò P. D. Ignazio di Modica Rettore

P. D. Lucio di Siracusa Procuratore, quale averà la cura delli censi, mulini, ed eredità per !'opere pie

Alla sagrestia di questo Monistcro P. D. Luiggi di Catania Vicario

D. Mauro di Modica Sagrestano Maggiore

D. Consalvo di Catania D. Gregorio di Siracusa

] sono wg<estani

D. Severino di Siracusa D. Felice di Siracusa

quali averanno la cura di polirc il coro, mcllcrc gl'apparati, e li palij, assistere in Sagrestia fl88r.] ed in chiesa, di sanare li soliti segni del coro, e refettorio, secondo l'ordine del Molto Rev .do di Casa.

Fra Isidoro, fra Benedetto di Catania Sagrestani, quali avranno la cura di sanare tutti li segni, cd ogni sera porteranno le chiavi della chiesa e sagrestia al Molto Rcv.do di Casa, siccome ancora di giorno in tempo di donnizione.

1... 1 Alla Celleraria del Monastero P. D. Ansehno di Catania Cellerario Primo D. Camillo di Siracusa Conccllerario [ ... ]

Alla Cassa del Monastero Molto R.do P. D. Benedetto di Modica ll88v.J Alla Procura del Monastero P. D. Francesco Maria di Piazza Alla Procura dei Censi D. Filippo Maria da Caltagirone Alla Procura di Palen110 P. D. Michiele di Palermo


Gaetano Zito

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All'Archivio del Monastero P. D. Agostino di Piazza, quale osserverà la Bolla di Benedetto 13°

Alla fabbrica del Monastero Molto R.do P. D. Benedetto di Modica

All'Infennaria

Molto R.do di Casa Vicario, quale averà la cura di sottoscrivere li n1edicamenti, e senza licenza de! 1ncdesimo non si prenderanno detti medicamenti D. Filippo di Caltagirone D.N.

Infcnnieci

Fra Placido

]

Fra Modesto di Catania

Infen11ieri

Alla Foresteria D. Emiliano di Siracusa D. Onorato di Vizzini D. Benedetto di Catania Fra Placido [ ... ]

rI89r.) Alla Lczzione dei Sacri Canoni e Teologia P.D. Nicolò Maria di Ca!ania Alia Lezzione di Filosofia D. Giovanni Evangelista di Caltagirone Alla Lezzione di Teologia Morale D. Giovanni Evangelista di Caltugirone Al Noviziato P. D. Antonino Maria di Catania Maestro di Novizii Al Refettorio D. Filippo Maria di Caltagirone Rettore [ ... ]

Alla Revisione dci Libri M.R.P. Priore Padre Lettore di Teologia

f... ]


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena

263

Alla Computistaria P. D. Luiggi di Catania Alla Camera del Revcrcndissin10 P. D. Pio di Palcnno Segretario Fra Stefano di Catania [ ... ]

rt 90r.] Primo Maestro di Cerimonie P. D. Luiggi di Catania D. Onorato di Vizzini Coadiutore Organista P. D. Gerolamo di Catllnia Per la Lezzionc Spirituale alli Fratelli P. D. Michie!e di Catania Per l'esercizii spirituali a!le Monache Oblate P. D. Luiggi di Catania Alla cura della Libr(lria

P.di Lettore di Teologia, e Filosofia, quali avranno la cura di farla scopare una volta la setti1nana.

l l 90v.]

Ordinazioni da osservarsi da full i li reli&iosi nel Monastero di S. Nicolò l'Arena, e sue GranJ:ie, e Col'fi, pubblicale nell'anno 1741 da me D. Giuseppe Maria da

Palermo Ahhate del

~·udetto

Monastero

Per la puntuale osservanza delle sante Constituzioni, v'è la precisa necessità d'una rigorosa esecuzione agl'onlinazioni che di tcn1po in tempo sono state dichiarate dagli miei Antecessori, ond'io in conseguin1enlo di quanto già sono anni 3 prescrissi nella creazione dell'officiali di questo cospicuo Monastero,e per con1piere a! mio dovere ho stimato di ricordare li seguenti avvertimenti, acciò non si potesse allegare scusa alcuna nell'esecuzione degli stessi, parendomi conveniente avvertire ogn'uno che trasgredendoli non può evitare le pene prescritte dalle Bolle Pontificie e Costiluzioni cd altre che 1ni riserbo a mio arbitrio. f190v.-I93v.: vengono trascritte !e precedenti disposizioni; unica variante lu seguente prescrizione] [ l 93v. l Trovandosi il P. R.mo in Licodia nel Corso della Visita fatta sotto li 8 Maggio 1741 ha ordinato che !a clausura di quella Corte, la qua!e prin1a era sino alla Croce, sia ristretta nel solo piano in frontespizio alla detta Corte e Chiesa di detta, e ciò u motivo d'essersi aumentata l'abitazione. R.mo Padre Padrone Colendissimo


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Gaetano Zito La Santità di nostro Signore Benedetto XIV benignamente rivolgendo gl'occhi al grave

peso cui si da lungo tempo soccombono !e Congregllzioni Monastiche a cagione degli annui pagamenti, a quali, dopo le note imposizioni per urgenti motivi alle 1nedesime fatte da varij Sommi Pontefici, han soggiaciuto finora, ed attualmente soggiacciono, ha con paterna amorevolezza deliberato di dare il po.ssibile sollievo alle stesse cd a tal fine con suo speciale Chirografo de' 26 scHembrc del corrente anno afferisce loro {conservando nondimeno a esse tutti i Privileggij) l'estinzione di quella somma che pagano alla Rev. Can1cra Apostolica da farsi alla ragione del cinque per cento, di n1odo che per effettuare l'estinzione di scudi cinque di frutto si paghi effettivamente alla sudetta Rev. Camera Apostolica scudi cento, e così proporzionatan1cnte. Quanto sia per essere profittevole a tutte le Congregazioni questa Grazia da nostro Signore accordataci, egli è per si chiaro et evidente, poichè potendosi trovare il danaro in alcuni luoghi al 2 e mezzo, in altri al 3 c ne' più difficili al 4 altrettanto sarà a proporzione l'utile, o della 1netà, o di due quinti, o finalmente d'un quinto almeno. A cagione d'esempio per estinguere cento scudi, che ora si pagano in Rmna, si prenderà un Capitale di scudi duemila, e per questi si pagheranno scudi cinquanta, se il censo sarà al 2 e mezzo, scudi 60 se al 3, e scudi 80 se al 4 per cento. Ma per meglio raprcsenlare a V. P. R.ma, e con tutta la possibile brevità e chiarezza questo in1por!.ante affare le metto in considerazione (lasciando in disparte i pagamenti dc' [l94r.J quindenij, e di altre straordinarie spese, di cui non si deve in questo affare aver conto) che i Monasteri della nos\ra Congregazione contribuiscono fissatamentc ogn'anno a questa Procura Generale scudi 37985.90, la quale somma parte pagasi alla rev. Camera Apostolica, cioè scudi 28667.22, ed il rimanente cioè scudi 9318.68, sono frutti che si pagano a particolari per censi passivi creati dalla Congregazione per cagione di estinzione in parte delle sudette tasse, e de' pagan1e1l!i alla can1era Apostolica fatti. Trattandosi perciò presentemente di estinguere gli annui pagan1enti che si fanno nella mentovata Rcv. Camera Apostolica questi riduconsi alla sonima degli accennati scudi 28667.22, per estinguere la quale alla ragione del cinque per cento bisogna il capitale di scudi 573344.40, e poichè il trovare qucs!a s01n1na in un luogo rendesi iinpossibile, non che difficilissimo, sen1bra che l'unico partito da prendersi sia, che ciaschedun Monastero trovi la sua Tangente, e la trasn1et!a in Roma. Qual partito porta anche seco moltissime utilità, tra le quali è quella che i Monasteri si libereranno dalla difficoltà di fare grosse Tratte, e facendo ciascheduno i suoi privati minori censi, potraà anche più facilmente estinguerli o in tutto o in parte; al qual fine potrebbero eziandio stabilirsi opportuni regolmnenti. La Tangente di ciaschedun Monastero si determinerà dividendo sopra tutti i Monasteri la sudetta sornma da estinguersi di scudi 28667 .22, con quella medesi1na proporzione con cui siaino soliti dividere gli altri pesi comuni, cioè a proporzione delle Tasse che ciaschedun Monastero paga: dalla qual divisione risulterà la porzione, che ora paga ognuno Monastero, quanta porzione di frutti Camerali estinguer debba, e conseguen!e1nente a ragione del 5 per I 00 quanta som1na trovar debba, e trasmettere in Roma per lu sua Tangente de' mentovati frutti, che pagansi alla Rev. Cainera Apostolica con1e per quello spelta al suo particolar Monastero ravviserà dall'ingionto biglietto. Per facilitare a qualsiasi Monastero il ritrovare la somma necessaria, concede Nostro Signore nel detto Chirografo an1plissin1a facoltà non solamente di prendere il danaro a censo, ma


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena

265

anche di vendere porzione di beni, secondo il meglio tornerà a ciaschedun Monastero et esibisce di prendere anche luoghi di Monte in Roma.

Quando poi resti stabilito di effettuare la presente estinzione, converrà altresì regolare le cose in 1nodo che i varij Monasterij possano trovare la loro Tangente in tempo opportuno per ese-

guirla. Mi dò dunque l'onore di rappresentare a V. P. R.ma tutte le sudette cose, e la supplico a farvi le più serie riflessioni, e significarmi sollecitamente le difficoltà che forse potranno farsele

avanti, ed anche tutti quei lumi, che potessero in questo affare al maggior vantagio della Nostra Congregazione condurre. E con profondissin10 ossequio mi confermo Di V. Paternità R.ma

Rmna 12 dicembre 1742 Um.1no Divotissiino Servo vero D. Pier Luigi Della Torre Procuratore Generale

[194v. foglio bianco] l l 95r.J Nos D. Joseph Maria a Panormo Abbas Monasteriorum Sanctae Mariae de Licodiac et Sancti Nicolai dc Arenis Catanae Ordinis Sancti Benedicti Congregationis Casinensis Universis, et singulis presentes literas inspecturis notum facimus, atque testainur, quod die octava 1nensis Julij p.p. Millesimo septingentesimo quatragesimo secundo, in supradicto Monasterio Sancii Nicolai ordinationes inter Missarum sollemnia habentes dilectus nobis infrascriplos in Christo filios Monachos professos, ac fainiliae dicti Monasterij ascriptos et omnibus praedictos requisitis, ad primam clericalem Tonsuram, et ad quatuor n1inores ordines Ostiarij, Lectoris, Exorcistae, et Acolijthi iuxta rithum Sanctae Romanac Ecclesiae protnovimus; scilicet D. Consalvum a Catana, D. Gregorium a Siracusis, D. Severinum a Siracusis, D. Felicem a Siracusis, et D. Andream a Siracusis ad primam clericalem Tonsurain, et ad quatuor reliquos ordines; D. Ferdinandmn a Catana ad officium exorcistarum et acoljthoruni. In quorum fidem presentes nostra subscriptione firmatas, ac publico Monasterij sigillo munitas dedimus ibidem dic 8 Julij ! 742. D. Joseph Maria a Panormo Abbas Loco+ sigilli De mandato Paternitatis Suae Reverendissimae D. Pius a Panom10 Secretarius fl95v. foglio bianco]

ll 96r.J Nos D. Roniualdus Russo a Motuca Abbas Monasteriorum Sanctae Mariae de Licodia et Sancii Nicolai de Arenis Catanac Ordinis S. P. Benedicti Congregationis Cassincnsis Universis et singulis praesentes Litcras inspecturis notum faci1nus atque testamur, quod hodie, die Dominica quinta post Pascha 23 Mensis Mai anni 1745 in supradicto Monasterio S. Nicolai ordinationes inter Missarum solemnia habcntes dilectos nobis infrascriptos in Christo filios Mo-


Gaetano Zito

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nachos Professos, ac familiae <lieti Monastrii adscriptos, omnibusque requisitis predictos ad primam Clericalem Tonsuram et ad quatuor Minores Ordines Ostiarij, Lectoris, Exorcistae, et Acholiti

iuxta ritmn Sanctae Romanac Ecclcsiae promovimus scilicet: D. Caietanum Ragusa a Panormo, D. Joseph Beneventano a Leontinis, D. Isidorum Terrana a Panonno, D. Xaverium Caietanu1n a Syracusis, D. Nicolaum Tedeschi a Catana, D. Anselmum Daniele a Syracusis, D. Robertum La Rocca a Xicli, D, Joannem Russo ab Augusta. In quorum fidcm, pracscntes nostra subscriptione firmatas ac publico nostri Monasteris Sigillo munitas dedimus: ibide1n die vigesimo tertio Mensis

Mai anni Millesimo scptinccntesimo quadragesimo quinto. D. R01nualdus Russo Abbas Locus +Sigilli De Mandato Paternitatis Suac Rcvcrcndissiinae D. Ansclmus Maria Corvaia Secretarius

[196v.] Nos D. Cyprianus a Brixia Abbas, et Pracscs, cactcrique Visitatores Visis de Congregatione Nostra optime 1neritis viccs rcpcndere cum iuxtum, ac rationabile sit, Te P. D. Benedictun1 Maria a Motuca, qucm preterquam quod ex attestationibus Reverendissimi Praesulis P. D. Joseph Maria a Panormo, et Reverendissimi P. D. Andreae a Panormo Siculac Provinciac Visita!oris, omnia laudabilia pietatis, ac honestatis oniamenta corrunendanl, pluribus etian1 ab hinc annis Prioratus S. Marci insignitum Nobis relatum est, in eode1n Prioratu cum Titulis, Honoribus, Gratijs et Privilcgijs Pradccessoribus tuis concedi solitis, tenore praesentium confim1amus, et confirmatum, auctoritate qua fungin1ur decernimus, atque sancimus. Datum Ferrariae in Comitijs Minoribus dic 9 Maij 1743. D. Cyprianus a Brixia Abbas et Praeses D. Benedictus Maria a Neapoli Abbas et Visitator + Locus Sigilli D. Andrcas a Panonno Abbas, Visitator et Scriba Dietae

[l 97r.]

Nota del/i Superiori ed Ufficiali del Monastero di S. Nicolò lArena pubblicati sotto li 14 ARosto dell'a11110 1745.

R.mo P. D. Romualdo Russo di Modica Abate M. R. P. D. Stefano Patemò di Catania Priore Claustrale M. R. P. D. Benedetto Maria Lorefice da Modica Priore di Cerami M. R. P. D. Ludovico Nava da Siracusa Priore di S. Marco P. D. Antonino Sigona da Lentini Decano e Maestro di Novizi P. D. Pietro Alessi da Paternò Decano P. D. Domenico Savuto da Patemò Decano P. D. Agostino Trigona da Piazza Decano P. D. Luigi Coltraro da Catania Decano P. D. Ignazio Zacco da Modica Decano


li monastero catanese di S. Nicola l'Arena

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P. D. Nicolò Maria Riccioli da Catania Decano P. D. Antonino Maria Arena da Catania Decano P. D. Vincenzo Maria Patemò da Catania Decano P. D. Anselmo Maria Corvaia da Catania Decano

P. D. Michiele Maria Rizzari da Catania Decano P. D. Remigio Statc11a da Siracusa Decano P. D. Michelangelo Tedeschi da Catania Decano P. D. Lucio Mazzara da Siracusa Decano P. D. Francesco M11ria Trigona da Piazza Decano P. D. Geronimo Asmondo da Catania Decano P. D. Ildefonso Porcelli da Modica Decano P. D. Giuseppe Tedeschi da Catania Decano [197v.j Monastero di Licndia

M.R.P.D. Benedetto Maria Lorefice Priore di Ceran1i Rettore P. D. Antonino Maria Arena Cellerario

J

D. Nicolò Paladino Cappellano Maggiore D. Giuseppe Platania D. Carmelo Raimondo

Cappellani

, D. Geronimo Toscano D. Francesco Lcto Li quali osserveranno le ordinazioni di già inviate Grancia di Patemò P. D. Pietro Maria Alessi Rettore P. D. Lucio Mazzara Procuratore, quale averà la cura dclii Cenzi, Molini, ed eredità per le opere pie [ ... ]

Alla Sagristia del Monastero P. D. Ignazio Zacco Vicario

J

D. Onorato Guttadauro Sagrista Maggiore D. Gaetano Ragusa D. Ferdinando Gioeni

Sot!osagrestani

D. Giuseppe Maria Beneventano D. Isidoro Terrana [ ... ]

Alla Celleraria del Monastero M. R. P. D. Lodovico Nava Priore di S. Marco Cellerario Primo D. Camilla Bonanno Conccllerario [ ... ]

[198v .... ]


Gaetano Zito

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Alla Cassa del Monastero P. D. Antonio Sigona Alla Procura del Monastero P. D. Michiele Maria Rizzari D. Filippo Ernandez Comprocuratore Alla Procura delli Cenzi del Regno

P. D. Remigio Slatella [ ... ]

All'Archivio del Monastero P. D. Agostino Trigona D. Mario Quat1·occhi, quali osserveranno la Bolla di Benedetto XIII Alla Fabrica del Monastero

P. D. Domenico SavutoRettore

Fr. Ignazio Melilli All'Infermaria M. R. di Casa Vicario, quale averà la cura di sottoscrivere li Medicamenti, e senza la di

lui licenza non si prenderanno Ii medesimi. D. Emiliano Zappata

D. Benedetto Celeste

Fr. Mauro Nicosia

lnfennwn ]

Fr. Ignazio Melilli

lnfom•en

[199;.J

Alla Foresteria D. Camilla Bonanno Concellerario D. Filippo Ernandez

D. Gregorio Bonanno Fr. Martino Nicosia

.. ] Alla Lezzione delli Sacri Canoni P. D. Michelangelo Tedeschi, quale darà due lezzioni la

.~ettitnana

il Lunedì e il Mercordì

Alla Lezzione della Teologia Morale D. Mauro Arezzi, quale darà una lezzione scritta la settimana nel Venerdì con due Casi Morali quali risolverà publicamentc una volta ogni mese. Alla Lczzione della Teologia Scolastica D. Federico La Valle


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena

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Alla Lezzione della Rettorica e Filosofia P. D. Nicolò Maria Riccioli Al Noviziato P. D. Antonio Sigona Maestro delli Novizi Allo Refettorio D. Onorato Guuadauro Rettore

Fr. Benedetto Laudani quale darà conto ogni sera di tutto il consumo del giorno e non prenderà robba dalla Cantina senza polizza dcl P. Rettore cd in sua assenza del P. Cellerario [199v.] Alla Revisione delli Libri M. R. di Casa PP. Lettori della Teologia e Sacri Canoni

Per far leggere li Decreti Pontifici e della Religione nello Refettorio M. R. di Casa Alla Computistaria del Monastero P. D. Luigi Cactano Alla Camera dcl P. R.mo P. D. Anselmo Maria Corvaia Segretario Fr. Nicolò Mililli [ ... ]

[200c. ... ]

All'Inventario delle Camere, e delle Officine P. Cellerario Pri1no P. Concellerario P. Foresterario Maestro delle Cerimonie P. D. Luigi Caetano D. Onorato Gultadauro Organista P. D. Geronimo Asn1ondo

Per la Lezzione Spirituale alli Fratelli P. D. Francesco Maria Trigona


Gaetano Zito

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Per gl'escrcizi Spirituali alle Monache Oblate

P. D. Luigi Caetano Alla Cura della Libraria

PP. Lettori della teologia e Filosofia quali averanno la cura di farla scopare una volta la settimana. [200r. - 203r.: ricopia le solite ordinazioni]

[203r.]

Ordinazioni del R.1110 P. D. Romualdo Russo di Modica Abbate del/i Monasteri

di S. Maria di Licodia e S. Nicolò L'Arena di Catania nella lihera istituzione di quattro Cappellani in ser\liRio del Monastero e Chiesa di Licodia,fatle in A)?os/o 1744 anno secondo del suo f?OVerno. ! . Due di detti Cappellani dcbon servire a Mese con l'alternativa, lasciandoli in libertà di

sostituire altro Sacerdote. 2. Siano in obligo li due accennati in ogni giorno soffisfare in società colli RR. PP. Rettore e Cellerario l'Ufficio Divino in Coro, secondo lo Rito Monastico, ed in quelle ore designate dal P. Rettore, ed in assenza di lui dal P. Cellernrio, per la qua! cosa, con commodezza pratticarsi, si dia segno colla Campana Maggiore, almeno un quarto prima della recitazione.

3. fn tutto il Corso delle Messe di loro alternativa, debono amn1inistrare tutti quei Sacramenti che sono dall'Ordinario Diocesano permessi e tutto ciò per pura comrnissione ed espresso ordine delli PP. Rettore e Cellerario, a' quali privativainente è diretta la plenaria facoltà della sudetta amministrazione [203v.j pratticando in questo, fra loro due Cappellani di messe l'alternativa per settimana. Debono di più rinovare il Deposito Venerabile e l'acqua benedetta ogni Sabato. 4. Nelli giorni festivi sieno tenuti lì due Cappellani dì Messe celebrar la Messa prima alla punta del giorno, e la Messa ultima nel mezzo dì, con l'alternativa di sorte che Colui che in una Scttiinana celebra la Messa pri1na nell'altra celebrar debba l'ultin1a Messa. 5. Tutti e quattro secondo la disposizione delli RR. PP. Rettore e Cellerario sieno in sul dovere d'assistere in 1utte quelle pubbliche funzioni che si celebreranno nella Chiesa che è quanto dire alle Litanie Cantate ne' Sabati, e Vigilie della Beatissima Vergine, Settimana Santa, Pascha, Santo Natale, Patriarca S. Benedetto, Corpus Domini, Purificazione, ed ogni altra Solennità che detti PP. Rettore e Cellerario disponeranno di celebrarsi in Chiesa, eoll'obligo ancora di sentire le Confessioni de' fedeli in tutto il corso dell'anno. 6. Uno o più di loro secondo saragli ordinato dalli Menzionati PP. Superiori Rettore e Cellerario debba assistere in Chiesa ne' Venerdì per la recitazione della Coronella in ossequio delle Cinque piaghe di Nos!ro Signore, far le solite stazioni della Via Sacra. ln tutte le Do1neniche, e fe-


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena

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ste di Precetto, recitare in Chiesa il SS.mo Rosario, tenere il Catechismo per istruzione dc' fanciulli, ed altre opere pie, secondo farà la bisogna.

7. L'obbligo della Messa Conventuale d'ogni giorno, che vi è in detta Chiesa, si debba ugualmente dividere in sei porzioni, cioè infra li RR. PP. Rettore e Ce!lerario e tutti li quattro Cappellani che è quanto dire che ad ogn'uno assiste l'obligazione di celebrar cinque Messe ogni Mese in suffragio dc' L204r.] Benefattori. 8. Se !'ingiunge l'obbligo d'assistere a tutti i Moribondi della Co11e, secondo l'assegnmncnto di prima, lasciando però nella libertà dell'afflitto chiamare a chi a lui piace in quell'ultimi periodi di sua vita, con questo però che disponendo di Legato Pio si debba dividere in ugual porzione per tutti e quattro Cappellani, tolto però che il moribondo facesse qualche espressa dichiarazione, ed in tal caso bisogna ed ha l'obligo il Sacerdote assistente di accusarne la notizia al P. Rettore e Cellerario per togliersi via ogni fraudelente disposizione. Siecmne ogn'altra driUo che esigesi per lo Ministero devasi sempre egualmente dividere.

9. Non osi alcuno de' Presti Secolari, o Abitatori, o esteri della Corle di Licodia celebrare Messa nella Cappella del SS.mo Crocifisso dcl Cimiterio senza l'espressa licenza delli Superiori Religiosi, la quale ottenuta dcbonsi sempre vestire nella C01nmune Sagrestia del Monastero, nè possano in veruna guisa trasportare a loro arbitrio ves!imenti, e Calice per ivi nella mentovata Cappella celebrare; e per ciò si ordina che la Chiave della Porla esteriore dell'anzidetta Cappella stia sempre in potere dcl P. Rettore e Cellerario.

f204v.] Nos D. Romualdus Rosso, Dci et Apostolicae Scdis gratia Abbas Monasteriorum S.ae Mariae de Licodiae et S. Nicolai de Arenis Ordinis S. P. Benedicti Congregationis Cassinensis Reverendo Domino D. Gaspari di Naro Terrae Inspice fundi sa!utem. Quia in praedicta Terra Inspice fundi, Dioceesis Syracusanae, et alibi, ubi Christianus vige! Cullus, et nostra non existunt Coenobia, inune1norabilis, ac pius invaluit usus Mulieres quasdam n1oru1n probitalc conspicuas do1ni sesc Dco dicare, et sub Monialium oblatarum nomine nostr<1e Benedectìnae Religionis habitun1 induere. Idcirco tibi R.do D.no D. Gaspari di Naro spcctatae virtutis, ac scientiae viro, facultatcm nostram delegainus quam Mulieribus dccem Terrae eiusdem duinmodo honestae vitae et propriis facultatibus vivant earundcm Oblatarum habitum tradere possis; illasque elapso probationis anno, ad Professioncm quain emitterc so\cnt, ad1nictere valcas; servatis in reliquo Constitutionibus nostri Capituli Generalis hac de 1ne specialiter editis et consuetis adhibitis caercmoniis. Teque insuper, quantum in Do1nìno possumus enixe rogamus, ut Divino verbo eas frequentius pascas, atque ad regularium nostraru1n, et suarun1 Constitutionu1n observan!iam cohortando in vi<11n dirigas salutis aetenrne. In quorun1 fidem praesentcs literas 1nanu nostra subscriptas, ac publico nostro Sigillo intmi!as dedimus in hoc nostro Monasterio S. Nicolai de Arenis Catanae diei 29 Maii 1746.


Gaetano Zito

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[205r] Nos D. Romualdus Rosso, Dei et Apostolicac Sedis gratia Abbas Venerabilium

Monasteriorum S.tae Mariae de Licodia et S. Nicolai de Arenis Urbis Catanae. Universis praesentes nostras Literas inspccturis pateat D. Emilianum M. Zappata de Cardenas Monachum Professum Supradictorum Monasteriormn et Saccrdotcm nostrae Congregationis Cassinensis, dc Licentia Sacare Congregationis, ncgotiorum causa ad Regna Hyspaniarun1 diverterc, tcnoris seguentìs videlicet: Eminentissimi e Reverendissimi Signori Rodrico Zappata Marchese di S.o Florido umilli1ne on1tore delle EE. VV. riverentemente rappresenta Loro aver egli la più parte delle sue rendite in Ispagna amministrate da un suo Procuratore ed essendo questi da un anno in circa passato a miglior vita, sono rimaste affatto in abandono, e quasi nulla da che egli è morto ha potuto percepire delle rate maturate, non senza suo grandissimo incommodo ed angustia: poichè al bisogno, e decoro di sua famiglia non ha altronde da provedere. Per sottrarsi a si fatte angustie (giacchè non può far capitale d'altro suo Congionto) desidera nlandare in Madrid un suo fratello Monaco Cassinese nominato D. E1ni!iano Zappata, affinchè si adopri per la riscossione delle sudctte rendite arretrate e metta colà i di lui affari in qualche buon sistema, di nlodo che non abbia per l'innanzi a soggiacere alle angustie che di presente soffre. Ricorre per ciò alla Benignità delle EE. VV. supplicandole ad accordare a detto suo fratello la necessaria facoltà di potersi portare in Madrid c di trattenersi ivi tutto quel tempo che per tale affare sarà necessario. = Sacra Congregatio Eminentissimorum et Reverendissi1norum S. R. E. Cardinalium Negotiis, et Consultationibus Episcoporum et Regularium proposita, attenta rclatione P. Procuratoris Congregationis, benigne commisit Abbaii Locali ut [205v.] vcris existentibus narratis, Oratoris precibus, pro sui arbitrio et conscientia indulgeat pro gratia ad annu111 tantum duratura. Ita tamcn ut cnunciatus Religiosus intra Claustra suae vcl altcrius Religionis semper pernoctct, negotiis, Ecclesiasticis Personis, et presertim Regularibus vetitis non se im1nisccat, et per praesens Indultmn nil de Regulari discipp!ina rclaxatum illigatur. Romae 27 Ianuarii 1747. Il Cardinale Cavalchini Praefcctus, Joseph Maria Clach I(D)a1nar Secretarius. = Loco Sigilli = Emnque nulla Ecclesiastica censura, aut alio Canonico impedimento innodafus reperiatur, obque a Sacro Al!aris Ministerio aut Fidelium Communione repellcndus, aut segregandus indicetur, quininlmo iuxta Constitutionem felic. record. Sixti V de non suspectis itinerantibus morum gravitate, ac prudentia, et Relgionis Zelo ornatus existat. Propterea

ìp~mn

Illus.mis et R.mis Locorum Ordinariis eorumquc Vicariis nec non Dmnins Guber-

natoribus, Rectoribus aut aliis quocumque Nomine nuncupcntur Provincian1m, Civitatem, Oppidorum, Castrorum aliarumque Terrarum Praefatis Magistratibus, Delegatis, Ministris, omnibusque tum tum ecclesiasticis tum saecularibus Christifidelibus et prescrtim R.mis Abbatibus Ordinis SS. P. N. Benedicti (de quorum munificentia et charitate nimium coufidimus) apud quos diversari con!igerit enixius con1mendamus, eosden1quc in Domino rogainus ut eum ad Sacrosanctum Altaris Sacrificium pe1i".iciendmn admictant, et Charitatis, ac Hospitalitatis officiis, quatenus opus fuerit, prosequi non dedigncntur. lr:t quormn fidem has praesentcs fieri fecimus nostra Manu subscriptas et sigillo quo utimur n1unitas. Dat. Catanac in Monlls. S. Nicolai die 20 Februarii an. Incarnai. D.nae

1747.


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena

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{206r.) Nos D. Hieronimus Arrigoni a Mediolano S. Simpliciani Abbas, et Congregationis Benedictino-C11ssinensis Pracscs.

Postulationibus R.mi Praesulis Monasterii nostri Cathanensis annuentes, facultatem ipsi facimus qua D. Ignatimn Perre1nuto a Caltaironc et D. Alonsum Gioeni necnon D. Bartholonrneum Cordari a Ca!ana ad annum probationis eoque elapso ad solcmnem professionem memorati Monasterii nomine admittere possint et valcant dumrnodo tmnen, ante eorumde1n Professionem, ea 01nnia, quae pro recipiendis Novitiis ab Apostolicis, nostrisque praescripta sunt Constitutionibus, non modo servata sed etiam in ipsis Adolcscentibus convenire testimonialibus Literis, iuxta laudabile1n nostram consuetudinem iure iurando ab ipso R.n10 Praesule ceterisque Superioribus Monasterii fim1cfis, Nobis rclatum fucrit. Datum Mediolani 22 Februarii 1747. D. Hieronimus Arrigoni a Mediolano Abbas et Praese Locus Sigilli D. Benedictus Olmo a Bergamo Priore\ Procurator

Pro Monasterio Calanensi R.mo P.D. Romuaklus Rosso praefati Monasterii Abbati ut iuxta nostras Conslitutioncs cligere possit Decanum qui Capsarii muncrc usque ad Maiora Cmnitia ibi fungi possit, praesentimn tenore indulgemus. Datum in Minoribus Cotnitiis S. Pauli de Argon dic 23 Aprilis 1747. D. Hieroni1nus Arrigoni a Mcdiolano

Abba~

et Praeses

D. Hicronimus Secco Suardo a Bergon10 Abbas et Visitator D. Ca1nillus Affardi a Regio Abbas et Visitator Loco Sigilli

D. Nicolaus M.a Rogerius Abbas Vis.r et Secr. Dietae

Et ideo R.1nus P. Abbas pracdicti Monasterii vigore Decreti supradicti elegit in Capsarium P.D. Antonimn Sigona a Leontinis Decanun1 et Profcssum eiusdem Monaslerii sub hac die 3 Junii anni 1747.

Pro Monasterio S. Nicofai de Arenis Catanae Tibi R.mc dicti Monasterii Praesul, ut Monachum illun1 dc tua familia adscrip1un1 ciusdem tui Monasterii in Capsariun1 eligas qucm in Domino ad tale munus obeundum idoneum iudicaveris magisque proficumn, facultatem facimus et impartimur. Datum Pcrusii in Comitiis Maioribus die 10 Maii 1748. D. Petrus Paulus Ginanni Definitor et Praeses D. Philippus Maria de Pace Abbas et Definitor D. Lucidus Maiia Luzara Abbas et Definilor D. Ansehnus Valdibella a Messana Abbas et Definitor et Scriba Capitu!i Loco Sigilli


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Gaetano Zito Et ideo facultate qua supra R.mus P. Abbas ciusden1 Monasterii D. Romualdus Rosso elegit

in Capsarium P.D. Antonium Sigona Decanum Professmn eiusdem Monasterii sub hac die 18 Augusti 1748.

L207r.]

Nota delli Superiori ed Ojj'iciali del Monastero di S. Nicolò l'Arena pubblicati sotto li 5 dicembre l'anno 1748

R.1110 P.D. Romualdo Rosso di Modica Abbate M. R. P. D. Vito Maria A1nico di Catania Priore Claustrale M. R. P. D. Benedetto Maria Lorcficc di Modica Priore di Cermni M. R. P. D. Lodovico Nava di Siracusa Priore di S. Marco P. D. Antonio Sigona di Lentini Decano e Maestro di Novizi P. D. Pietro Maria A!essi di Patemò Decano P. D. Agostino Trigona di Piazza Decano

P. D. Luigi Cadano di Catania Decano P. D. Romualdo Rizzari di Catania Decano P. D. Ignazio Zacco di Modica Decano P. D. Nicolò Mmia Riccioli di Catania Decano P. D. Antonino Maria Arena di Catania Decano P. D. Anselmo Maria Corvaia di Catania Decano P. D. Michiele Rizzari di Catania Decano P. D. Rernigio Statella di Siracusa Decano P. D. Michelangelo Tedeschi di Catania Decano P. D. Lucio Mazara di Siracusa Decano P. D. Francesco Maria Trigona di Piazza Decano P. D. Geronin10 Asmondo dì Catania Decano P. D. Giuseppe Tedeschi di Calania Decano P. D. Mauro Arczzi di Modica Decano P. D. Federico La Valle di Nicosia Decano P. D. Giovanni Evangelista Emandez di Caltagirone Alli

J

si concede

P. D. Onorato Gul!adauro di Vezini concede

il luogo di

P. D. Can1illo Bonanno di Siracusa

loro professione

l207v.] Monastero di Licodia M. R. P. D. Benedetto Maria Lorefice Priore di Cerami Re!!ore P. D. Antonino Maria Arena Ce!lerario

J

D. Nicolò Paladino Cappellano Maggiore D. Giuseppe Pla!ania D. Cam1elo Raimondo

Cappellani

D. Placido Marullo D. Eugenio Fischet!i Li quali osserveranno le ordinazioni fatte in Agosto 1744


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena

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Gra11cia di Paternò P. D. Pietro Maria Alessi Rettore

P. D. Lucio Mazzara Procuratore generale: quale averà cura delli Cenzi e delli Molini ed Eredità per le opere pie. L208r.J Alla Sagristia del Monastero P. D. Ignazio Zacco Vicario D. Gregorio Bonanno Sagristano Maggiore D. Giuseppe Beneventano D. lsidoro Tern1na

D. Anselmo Daniele

D. Saverio Salonia D. Nicolò Tedeschi D. Giovanni Rosso D. Roberto La Rocca D. Leandro Beneventano

/ ... ] Alla Cel!eraria del Monastero M. R. P. D. Lodovico Nava Priore di S. Marco Cellerario Primo D. Filippo Emandez Concellerario [ ... ]

/208v.] [ ... ]

Alli Granari del Monastero P. D. Anselmo Maria Corvaia Rettore Fr. Gregorio Recupero quale darà conto d'ogni cosa al P. Rettore Alla cantina e Casaria del Monastero P. D. Anselino Maria Corvaia Rettore Fr. Angelo Fontanarosa, quale darà conto come sopra al P. Rettore Alla Cassa del Monastero P. D. Antonio Sigona Alla Procura del Monastero P. D. Michelangelo Tedeschi P. D. Giuseppe Tedeschi Cmnprocuratore Alla Procura delli Ccnzi nel Regno P. D. Onorato Guttadauro


276

Gaetano Zito Alla Procura di Palermo

N.N. All'Archivio del Monastero P. D. Reinigio Maria Statella D. Mario Quattrocchi quali osserveranno la Bolla di Benedetto XIII

f209r.J Alla fabrica del Monastero P. D. Agostino Trigona Rettore Fr. Isidoro Loria

All'lnfermaria M. R. di Casa Vicario: quale averĂ la cura di fim1are li 1nedicamcnti, e senza la di lui licenza non si prenderanno li 1nedesimi. D. Benedetto Celeste ) D. Severino La Ferla ) Infermieri Alla Foresteria D. Filippo Emandez Concellerario D. Severino La Ferla D. Felice Salonia D. Mauro Pennisi

f... ] Alla Lezzione dclii Sacri canoni e Filosofia P. D. Nicolò Maria Riccioli

Alla Lezzione della Teologia Morale P. D. Mauro AreZzi

Alla Lezzionc della Teologia Scolastica P. D. Federico La ValJc Al Noviziato P. D. Antonio Sigona Maestro di Novizi

l209v.l Allo Refettorio P. D. Cmnillo Bonanno Rettore

[ ... ]

Alla Revisione delli Libri M. R. di Casa PP. Lettori delli Sacri Canoni e Teologia


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena

277

Per far leggere li Decreti Pontifici e della Religione nello Refettorio

M. R. di Casa Alla Computistaria del Monastero P. D. Luigi Caietano Alla Can1era del\P. Rev.mo P. D. Anselmo Maria Corvaia Segretario

Fr. Nicolò Melilli [ ... ]

[210.-.] [ ... ]

Maestro delle Cerimonie P. D. Luigi Caietano D. Severino La Ferla Coadiutore Organista P. D. Geronimo Asmondo [210v.] Per la Lezzione Spirituale alli Fratelli P. D. Giovannl Evangelista Ernandez Per gl'csercizi Spirituali alle Mom1che Oblate P. D. Luigi Caietano

Alla Coronclla ogni Vcncrdì M. R. di Casa Alla Coronella ogni 25 dcl Mese e Novena del S.o Natale P. D. Federico La Valle Alla Cura della Libraria PP. Lettori della Teologia e Filosofia: Bibliotecari quali averanno la cura di farla scopare una volta la settin1ana. Le ordinazioni consuete da osservarsi da tut!i li Religiosi e Com1ncssi csis1cnti in queslo Monastero di S. Nicolò sue Corti e Grancie sono l'istesse publicate li 14 agosto 1745 e rinovate oggi il dì sudetto etc. Perchè colla esperienza si ha osservato che le tante concessioni per fabricar Case nella Corte di Licodia anno arrecato e giornalmente arrecano delli gravi danni e pregiudizi al Monastero come ne restò oculatarnente persuaso il detto P. R.1110 in circostanza di ritTovarsi per la visita


Gaetano Zito

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in detta Corte, per ciò ha ordinato che in avvenire non si pratticassero più sudette Concessioni come ne lasciò in detta Corte gl'ordini opportuni sotto li 8 Giugno l'anno 1749.

[21 lr.l Nos D, Pctrus Paulus Ginanni a Ravenna S. Vitalis Abbas, et Congregationis Bene-

dcctino-Casincnsis Praeses Nobili Adolescenti D. Andrcae Spucches de Tauromcnio, cui nullam deesse neque animi neque Corporis cx dotibus, quae ab Apostolicis nostrisque pro recipiendis Novitiis praescriptae sunt, Constitutionibus ampia R.mi Praesulis , ceterorumquc Superiorum Monasterii nostri S. Nicolai

dc Arcnis rclatione, iure iurando, firmata compe1tum est, ut inter Tyroncs nostrae Congregationis cooptari atquc ad annum Probationis suscipi, clapsoque Tyrocinii anno ad solcmncm professionem memorati Mona,sterii nomine iuxta postulata prelaudati R.mi Praesulis ad1nitti po,s,sit, et valcat, plenam literis bisce, prout interest nostra facultatem in domino iinpcrtimus. Da!um Ravennae die 12 Mmiii 1749 D. Petru,s Paulus Ginannius Abbas et Prae,se,s

+ D. Benedictu,s Olmo a Bergamo Prior et Pro Cancellarius

[212r.-215v.: vi,si1a alla grancia di S. Maria di Valle Giosafat e alla chie,sa di S. Marco 31 Evangelista in Paternò l [216r.]

Nota del/i Superiori et Officia/i del Monastero di S. Nicolò l'Arena puhh/icati sotto il primo AKosto 1750.

R.1no P.rc D. Ildefonso Arezzi di Ragusa Abbate M.to Rev. P.rc D. Vito Maria Amico di Catania Priore Claustrale M. R. P. D. Benedetto Maria Lorefice di Modica Priore di Cerami M. R. P. D. Ludovico Nava di Siracusa Priore di S. Marco P. D. Federico la Valle di Nico,sia Decano e Maestro di Novizij P. D. Ago,stino Tiigona di Piazza decano P. D. Luigi Caetano di Catania Decano P. D. Romualdo Rizzari di Catani11 Decano P. D. Ignazio Zacco di Modica Decano P. D. Nicolò Maria Riccioli di Catania Decano P. D. Giu,seppe Maria Moncada di Paternò Decano Titolare P. D. Antonino Maria Arena di Catania Decano

31

- Poiché il testo è simile ai verbali delle precedenti visite, si rimanda alle parti del ''Registro" già edite in Synaxis 7 (1989) 517-561.


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena P. D. Anselmo Maria Corvaia di Catania Decano P. D. Michele Rizzari di Catania Decano P. D. Remigio Statella di Siracusa Decano P. D. Michelangelo Tedeschi di Catania Decano

P. D. Lucio Mazzara di Siracusa Decano P. D. Antonio Sigona di Lentini Decano P. D. Francesco Maria Trigona di Piazza Decano P. D. Geronimo Asmundo di Catania Decano P. D. Ildefonso Porcello di Modica Decano P. D. Giuseppe Tedeschi di Catania Decano P. D. Giovanni Evangelista Ernandez [Caltagirone l Decano Titolare P. D. Onorato Guttadauro di Yizzini Decano Titolare P. D. Mauro Arezzi di Modica Decano P. D. Camilla Bonanno di Siracusa Decano P. D. Filippo Mari<l Ernandcz di Caltagirone Decano Titolare [216v.l Monastero di Licodia M. Rev. P.re D. Benedetto Maria Lorefice Priore di Cennni, Rettore P. D. Onorato Guttadauro Cellerario [ ... ]

Grancia di Pater11ò

P. D. Giuseppe Moncada Rettore P. D. Antonio Sigona Priore [ ... ]

[217r.J Alla Sacristia del Monastero

P. D. Ignazio Zacco Vicario D. Severino La Ferla Sagrestano Maggiore Sotto Sacristani D. Giovanni Russo D. Ron1ualdo Arezzi D. Leandro Beneventano D. Paulo Perra1nuto D. Giuseppe Amodei [ ... ]

Alla Celleraria dcl Monastero P. D. Nicolò Maria Riccioli Cellerario Primo D. Filippo Ernandez Concellerario [ ... ]

[2l7v .... l Alla Cassa dcl Monastero P. D. Federico la Valle

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Gaetano Zito

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Alla Procura del Monastero P. D. Anselmo Maria Corvaia Alla Procura dei Censi nel Regno P. D. Francesco Mm·ia Trigona Alla Procura di Palermo D. Carlo Antonio Paternò Asmundo All'Archivio dcl Monastero P. D. Re1nigio Maria Statella D. Mario Quattrocchi Quali osserveranno la Bolla di Benedetto XIII Alla Fabrica del Monastero P. D. Agostino Trigona Rettore Allu Infern1aria Molto Rcv. di Casa Vicario Quale averà la cura di firmare le Medicazioni e senza la di lui licenza non si prenderanno li Medicinali D. Isidoro Terrana ] D. Roberto La Rocca Infermieri [218r.l Alla Foresteria D. Bendctto Cclcslc D. Isidoro Terrana D. Saverio Salonia [ ... ]

Alla Lezione della Teologia Scolastica P. D. Giovanni Evangelista Eniandcz Alla Lezione de' Sacr.i Canoni e Teologia Morale D. Benedetto Celeste Alla Lezione della Filosofia D. Nicolò Maria Tedeschi Al Noviziato P. D. Federico La Valle Maestro di Novizij


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena

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Allo Refittorio

P. D. Francesco Maria [Trigona] Rettore F. Romano Ascenza Quale darà conto ogni sera di tutto il consumo, e non prenderà robba dalla cantina senza poliza del P. Rettore et in sua assenza dcl P. Concellerario Alla revisione dclii Libri M. Rev. di Casa, e li PP. Lettori

P. D. Nicolò Maria Riccioli P. D. Michelangelo Tedeschi [218v.] Per far leggere i decreti Pontifici e della Religione nei Refettorio

M.to Rev. di Casa Alla Computistaria del Monastero P. D. Luigi Cactano Alla Camera del P: R.mo P. D. Michelangelo Tedeschi Segretario [ ... ] [2!9r. ... J Mae.~tro

di Ccremonie

P. D. Luigi Caetano D. Isidoro Terrana Coadiutore Organista P. D. Geroni1no Asmundo Pella Lezione Spirituale alle Monache Oblate P. D. Luigi Caetano Alla Coronella ogni Venerdì Molto Rev. di Casa Alla Coroncila del S. Bambino ogni 25 e Novena P. D. Luigi Cactano Alla cura della Libraria Li PP. Lettori della Teologia e Filosofia Bibliotecarij, quali averanno la cura di farla scopare una volta la Settimana


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Le Ordinazioni consuete da osservarsi da tutti li Religiosi, e Com1nessi esistenti in questo Monastero di S. Nicolò, sue Cmti, e Grancie sono l'istesse publicate sotto li 14 Agosto 1745 sino a nuova disposizione.

[219v.-220r.] Nos D. Petrus Paulus Ginannius Abbas Divi Vitalis Ravennae, ac Praescs Congregationis Benedictino-Casinensis L9 agosto 1750: «usque ad futurum Congressuni» no1nina P. D. Federico Maria La Valle Maestro dei Novizi, P. D. Nicolò Riccioli Economoj

[220r.-22lr.l Ravennae, in Comitiis Mio. die 22 Aprilis anno 1750 fnomina di Decani Titolari per D. Giovanni Evangelista Ernandez, Onorato Guttadauro, Filippo Emandezl

L22lv.-22r.] Nos D. Pet111s Aloysius della Torre Abbas Monasterii Sanclae Mariae de F1o-

rentia et Praesidcns Congregationis Cassinensis alias Sanctae Justinae dc Padua [24 luglio 175 l: «usque ad futurum Congressurn», nomina P.D. Federico La Valle Maestro dei Novizi, Nicolò Maria Riccioli Econon10; e concede all'abate la facoltà di scegliere un monaco "ad Munus Capsarii"]: Et ideo facultate qua supra R.mus P. Abbas eiusdem Monasterii D. 11dephonsus Arczzi elegit in Capsarimn P. D. Fcdericum La Valle Decanum Professun1 ciusdem Monasterii sub hac die 4 Mai1ii anni 1752.

[222v. foglio biancoJ

[223r.] Nos D. Ildefonsus Arezzi a Ragusia Abbas Monastcriorun1 Sanctae Mariae de Licodia et Sancti Nicolai dc Arenis Catanac ordin. SS. P. Bencdicti Congregationis Casinensis Univcrsis e! singulis praesenles literas inspecturis notum faci1nus atquae testamur quod hodie mane die 20 Januarii anni 1752 in fcsto dupplici SS.orum Fabiani et Sebastiani, in supradicto Monasterio S. Nicolai, Ordinationes habentes in nostro Sacello Di!ectos Nobis infrascriptos in Chris!o filios Monachos Professos, ac familiae dictorum Monasteriorun1 adscriptos omnibusque requisitis praeditos, ad Priman1 Clericalcm Tonsuram et ad Quatuor Minorcs Ordines iuxta ritum Sanctae Romanac Ecclesiae promovimus, videlicct: D. Leandrum Beneventano a Lcontinis, D. Paulmn Franciscum Perrcmuto a Ca!ataicronc, et D. Bartholon1aeu1n Cordaro a catana ad Pri1nam Clericalem Tonsuram, et ad Quatuor Minores Ordines Ostiarii, Lectoris, Exorcistae, et Accholiti. D. Andream Spucches a Tauromenio ad reliquos duos Ordines Minores scilicet Exorcistae et Accholiti; et D. Antoniun1 Benedictu1n Ascenzo a Motuca ad reliquos tres Minores Ordines, scilicet


li monastero catanese di S. Nicola l'Arena

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Lectoris, Exorcistae, et Accholiti. In quorun1 fidem praesentes nostra subscriptione firmatas, ac

publico nostri Monasterii Sigillo 1nunitas dedi1nus ibidem die 20 Januarii anni Millesimi scptingentcsimi quinquagesimi secondi.

D. Ildefonsus Arezzi a Ragusia Abbas Locus

+ Sigilli De mandato P. suae R.mae

D. Anselmus Maria Corvaia Secretarius rz23v. foglio bianco]

[224r.j

Nota de!li Superiori ed Officiali del Monastero di S. Nicolò l'Arena publicali sollo li 4 Marzo 1752

R.mo P. D. Ildefonso Arezzi di Ragusa Abate

M. R. P. D. Vito Maria Amico di Catania Priore Claustrale M. R. P. D. Benedetto Maria Lorefice di Modica Priore di Cerami M. R. P. D. Lodovico Nava di Siracusa Priore di S. Marco P. D. Federico La Valle di Nicosia Decano e Maestro delli Novizij P. D. Luigi Caetano di Catania Decano P. D. Romualdo Maria Rizzari di Catania Decano P. D. Ignazio Zacco di Modica Decano P. D. Nicolò Maria Riccioli di Catania Decano P. D. Giuseppe Maria Moncada di Paternò Decano Titolare P. D. Antonio Maria Arena di Catania Decano P. D. Anselmo Maria Corvaia di Catania Decano P. D. Michiele Maria Rizzari di Catania Decano P. D. Remigio Statella di Siracusa Decano P. D. Michelangelo Tedeschi di Catania Decano P. D. Antonio Sigona di Lentini Decano P. D. Geroni1no Asmondo di Catania Decano P. D. Ildefonso Porcelli di Modica Decano P. D. Giuseppe Tedeschi di Catania Decano P. D. Onorato Guttadauro di Vezzini Decano Titolare P. D. Mauro Arezzi di Modica Decano P. D. Filippo Maria Ernandez di Caltagirone Decano Titolare

L224v.J Monastero di Licodia P. D. Michelangelo Tedeschi Rettore P. D. Onorato Guttadauro Cellerario [ ... ]

Grancia di Paternò

P. D. Giuseppe Maria Moncada Rettore


Gaetano Zito

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P. D. Antonio Sigona Procuratore: quale averà la cura delli Cenzi, Molini ed Eredità per le Opere Pie [ ... )

[225r.j Alla Sagristia del Monastero P. D. Ignazio Zacco Vicario D. Isidoro Terrana Sagristano Maggiore [ ... ]

Alla Celleraria del Monastero P. D. Nicolò Maria Riccioli Cellerario Primo P. D. Filippo Ernandez Concellerario [ ... ]

Alla Cassa del Monastero P. D. Federico La Valle [225v.] Alla Procura dcl Monastero P. D. Anselmo Maria Corvaia Alla Procura delli Ccnzi del Regno P. D. Giuseppe Tedeschi Alla Procura di Pa!enno D. Carlo Antonio Patemò Asmondo All'Archivio del Monastero

P. D. Remigio Maria Statella D. Roberto La Rocca Sotto Archivario D. Mario Quattrocchi quali osserveranno la Bolla di Benedetto XIII Alla Fabbrica del Monastero M. R. dì Casa Rettore Fr. Benedetto Laudani Fr. Giuseppe Giuffrida All'Infennaria M. R. di Casa Vicario D. Anselmo Daniele D. Leandro Beneventano [ ... ]

J Infermieri


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena Alla Foresteria D. Benedetto Celeste D. Roberto La Rocca [ ... ]

[226r.J Alla Lezzione della Teologia Scolastica D. Ferdinando Gioeni Alla Lezzione dclii Sacri Canoni e Teologia Morale D. Benedetto Celeste Alla Lezzione della Filosofia D. Nicolò Tedeschi Al Noviziato P. D. Federico La Valle Maestro delli Novizi Allo Refettorio P. D. Giuseppe Tedeschi Rettore [ ... ]

Alla Revisione delli Libri M. R. di Casa Per far Jegere li decreti Pontifici e dell<i Religione nello Refettorio M. R. di Casa Alla Computistaria del Monastero P. D. Luigi Cactano Alla Camera del P. R.mo P. D. Anselmo Maria Corvaia Segretario [ ... ]

[227r.] Maestro delle Cerimonie P. D. Luigi Caetano D. Ferdinando Gioeni Coadiutore Organista P. D. Geroni1no Asmondo Per la Lezzione Spirituale alli Fratelli P. D. Luigi Caetano

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Gaetano Zito Per gl'esercizi spirituali alle Monache Oblate P. D. Luigi Caetano Alla Coronella ogni Venerdì

M. R. di Casa Alla Coronella dcl S.o Bambino ogni 25 e Novena P. D. Luigi Cactano

Alla Cura della Libraria M. R. di Casa Bibliotecario

P. Lettore della Teologia Scolastica Sotto Bibliotecario, il quale averà la cura di far scopare e spolverare la Libraria da Fr. Mauro una volta la settimana [225v.]

Ordinazioni consuete da osservarsi da tuffi li Religiosi nel Mmiasterodi S. Nicolò l'Arena, sue Grancie e Corti, pubblicate a 4 Marzo da me D. Ildefonso Arezzi di Ragusa Abate dell'istesso Monastero nel 1752.

1. Si dichiara per Clausura del Monastero quanto viene compreso dalle mura per tutto il circuito dell'istesso, ordinando a tutti li Religiosi che in nessun'ora e ten1po possano uscire per fuori di detta Clausura senza l'espressa licenza del Superiore. E chi controverrà, oltre le pene arbitrarie al Superiore, rifletta alle censure che ipso lune incorre, date da' som1ni POntefici. E soprattutto si raccomanda che nessuno senza espressa licenza dell'Abbate possa andare o trattenersi al Portone principale dcl Monastero, eccetto nell'accompagnare qualche Cavaliero, o Religioso, essendo questo l'uso inveterato in questo Monastero, con che non si passi oltre la Bottega del Calzolaro

di~

chiarando il resto fuori di Clausura e trasgredendo sarà sogetto a pene ben viste al Superiore. 2. Che nessuno possa andare in Chiesa a parlare con Donne anche che fossero Parenti senza l'espressa licenza del Superiore; e s'incarisce alla coscienza dei Religiosi lo riflettere che la Chiesa è Casa di Dio et Domus Orationis, non negotiationis. E che risiede il SS.mo Sacran1ento dentro il Tabe1nacolo, e per ciò stiano avvertiti a non permettere che il Tempio di Dio fosse luogo di scandalo; altrimenti lddio permetterà seve1issimi castighi nell'anima, e nel Corpo di chi opererà diversamente. E che la porta della Chiesa si apra doppo battute le Can1ere; e fomite tutte le Messe subito si serri, e detto il Vespro parimenti si serri.

3. Che ogn'uno si contenti della Vita conunune intervenendo allo Refettorio, e contentandosi di quello le da il Monastero, senza usare particolarità alcuna; altrimenti !226r.J obligheranno il Superiore a qualche dovuto risentimento, e rinovando l'uso divoto e caritatevole di mandare quello avanza alle povere Verginelle, il che ridonda in n1erito proprio, e che ogn'uno farà assai grata elemosina a Dio di quello l'avanza pregando tutti li Padri e fratelli acciò colla loro Carità religiosa si unifom1assero al precetto Divino datoci da Cristo Signor Nostro colle seguenti parole: Quod superest date aelemosinam. Ed in tanfo si ordina a quelli che servono a Tavola la mattina, e la sera,


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che tutto quello avanza lo mettessero nelli Catini che a ta!'effetto sono collocati nel Refettorio, e

che il fratello del Refettorio abbia cura di conservarlo e fedelmente mandarlo alle sudette Verginelle. 4. Nell'uscire per la Città, sicome per la Campagna, nessuno lasci il Compagno; e si raccomanda la dovuta modestia e gravità religiosa, riflettendo che siamo osservati da tutti li Secolari

d'ogni nostra minima operazione, e che tutte le legerezze e vanità si commettono da Noi nel publico sono gravissi1ni, e dupplicati peccati di scandalo; oltre che, chi contraverrà, starà sogetto a

pene ben viste al Superiore, secondo la qualità dcl delitto. 5. Che nessun Religioso tenghi robbe proprie in Casa dei Secolari, anche che fossero Parenti, ne tampoco denaro depositato, o altri vettovagli, con1e di grano etc. Come parimente, che nessuno dei nostri Religiosi si facci depositario dei Secolari di denaro, robba, grano etc. potendo da questo abuso sortire gravissimo inconveniente, ed in detrimento del Monastero; e di più sarebbe una manifesta proprietà per quanto spetta nei Religiosi di tenere robbe proprie in casa dei Secolari, come di sopra, e per buona conseguenza contro il voto della povertà, e di perdersi la robba denari etc .. E per il secondo punto di tenere robba dei Secolari in deposito [226v.l potrebbesi dare gravissimo imbarazzo e litiggi al Monastero. Ed in caso di necessità per l'uno e l'altro punto doverassi prendere espressa licenza del Superiore; e tutto si mette in gravissimo scrupolo a' Religiosi, e sotto la pena di scon)unica ipso facto. 6. Che ogni Religioso ancorchè fosse Ufficiale, sico1ne li fratelli avessero per qualsivoglia via, titolo e 1nodo che sia denari, vasi d'oro, ed argento di valuta, pietre prezziose, o legumi, vettovagli, Bestimne, e qualumque sorte di rohba di valuta, e fra il termine prefisso non l'avessero rivelato, se gli concede altri tre giorni di proroga, ad effetto di rivelare tutto nella spropria, e consignarla a mani del Superiore e pmierà li denari in Cassa del deposito de' Monaci o di altro P.re Decano col pennesso del Superiore, a!trimente incorrerà nella Censura della Scommunica latae Sententìae, otre le gravissime pene ad arbitrio dcl Superiore.

7. Si proibisce sotto precetto di Santa obedienza ogni sorte di Gioco di Carte, e Tarocchi, e di parata, anca con dadi, o di qualsivoglia latra fonna, eccetto quei Giochi leciti, nei giorni assegnati secondo l'uso di questo Monastero, che suol'essere nei giorni di ricreazione coine nelle Vendemmie, prima dell'Avvento, e di Quaresima, proibendo anche sotto il medesimo precetto di poter trattenere appresso di se Carte, Dadi per gioco di parata, ed ogn'altra ad effetto di levarsi ogni prossinrn occasione di scandalo, dovendo riflettere che: Ludus A!earum viene sevenunente proibito dai Sacri canoni, e che sollo lo stesso precetto vien proibito di poter giocare a' sudetti giochi, anche fuori del Monastero. [229r.J 8. Che nessun Religioso, o fratello, ne Ufficiale alcuno, possa prestare denaro, robba di valuta, vettovaglio, ed al!ro, anche a' proprj Parenti senza licenza del Superiore, ne applicare o fare applicare denaro, simili vettovagli, a negozio, essendo questo contro il voto della Povertà Religiosa e per ciò gravissimo peccato, e sotto pene ben viste al Superiore.


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9. Che tutti i Religiosi osservassero uniformità nel vestire con que!la modestia religiosa a tenore delle nostre sante Leggi, ed uso di questo nostro Monastero, e si proibiscono precisamente li Cappotti a forma di Giamberga, e con fodere di alcun colore, Cappelli a tre punti, stivalette, sproni, ed altri fornimenti di Cavallo all'uso di secolari, sicome colori vaghi nelle robbe di sotto, fibie scoverte, fascie di seta, Tabacchiere d'argento, tacchi di legno, berrettini tondi, e cose simili a tenore degl'ordini emanati nei nostri Capitoli Generali sotto le pene prescritte, che sono: a' Chierici la ritardanza ad biennium al Sacerdozio, a' Sacerdoti la ritardanza alla Decania ad biennium e a' Decani la sospenzione ad biennium, ed altre pene ben viste al Superiore. IO. S'incarisce ai Padri Decani di soddisfare al debito loro con quella probità e giustizia si richiede, e di fare le solite cerche, e di tenere spesso Capitolo, e ciò con quella carità che ci presc1ivono le no.stre Costituzioni al cap. 31 n. 0 I (nec utantur superiotate [sic!J et authoritatc sua ad vindictam, prcsertim dicendo vcrba contmneliosa, et provocantia: sub poena suspcntionis a Decanatu per mensem, et amp!ius secundum qualitatem cxcessus, sed omni charitate, et nlansuetudine utantur in repraehentionibus et correptionibus) e come dice l'Apostolo: <Jrguc, obsecra, incrcpa in omni paticntia et doctrina; dovendo nelle correzioni lucrare l'anima dello Religioso, e non provocare ad iracundian1. L'istesso s'intende [229v.] avvertire a tutti gl'Ufficiali del Monastero, che adoperassero tutto il buon costume con secolari nei loro ministeri ad effetto potessero restare edificati e non scandalizati del nostro religioso pratticare. l l. Che nessun Monaco o fratello ne Ufficiale possa tenere Legume, Oglio, Vettovaglio, Bestiame ne qualsiasi altra cosa che sia nelli Granari, Cantine, luoghi e feudi del Monastero così di Catania, come di Licodia, Patcmò, Castagneto, S. Nicolò lo Bosco, Bombac<Jro, Baglia di Licodia, Incarrozza, ed in tutti altri luoghi dcl Monastero, senza licenza espressa del Superiore sotto precetto di Santa Obedienza, e di scrnnmunica ipso facto. 12. S'incarisce a tutti li Religiosi, ed a tutti li fratelli, ed Ufficiali, che sotto colorato pretesto e fonnalità potessero ripostare le cose sopradette espressate nei sopradetti luoghi dcl Monastero sotto nome d'altre Persone, etia1ndio di Parenti, senza licenza del Superiore, e sotto lo stesso precetto, e altre pene ben viste al Superiore. 13. S'incarisce a tutti li Religiosi, e fratelli il silenzio, senza che inco1nn1odasscro con istru1nenti Musicali, ed in oltre agl'Ufficiali d'intervenire in tutte le feste all'osservanza regolare, e tnolto più al Coro, non intendendo permettere in tali giorni alcuna esenzione, eceno che per legittimo impedimento nella salute, ed urgenza del nostro Monastero. E però li priego ad osservare il sopradeUo, che Iddio e il P. S. Benedetto altrctanto li feliciteranno nei beni in questa e nell'altra vita. Li priego di più a non esentarsi dal Refettorio e contro di chi controverrà resta ad arbitrio del Superiore il castigo. 14. Che il P. Cellerario Primo, Secondo, e forestcrario facciano un libro d'Inventario generale di tutte [230r.] le robbe del Monastero, e che prima notassero per ordine tutto quello che è del Monastero nelle Caniere dei Religiosi e che ogn'uno dci Medesimi debba rivelare in iscarico della


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sua Coscienza la robba avuta ad uso della sua Camera; facendo diversamente incorrerà nelle pene ben viste al Superiore; cd il sudetto Inventario dovrà incominciarsi dalla nostra Camera, e così successivamente di tutti gl'altri Religiosi per ordine, e sottoscritte dai Medesi1ni Religiosi in ogni inventario per la sua Camera avvertendoli a contentarsi dcl ragionevole secondo il suo stato, e rimettere il superfluo, che è del Monastero già che Lal'uni si sono provveduti nelle loro Ca1nerc talmente che restano le altre Camere, e precisan1cnte delle forcstarie, e dei Decani sprovvedute. E però si compiacciano contentarsi dcl giusto secondo l'uso del nostro Monastero ed a tenore dello stato loro; e si ricordino che tutti eguahnentc sono figli del Monastero. J 5. Che nessuno dei Religiosi e precisan1ente dei Giovani entra nella Caioera dell'altro, essendo contra il prescritto delle Cos!itu7.ioni, eccello che in caso di bisogno, e parimente che non s'introducano tanti Secolari nelle Cainere, e che non anno che fare in Monastero. Si guardino di non tenere aperte le Camere ritrovandosi senza la Tonaca, o di affacciarsi alle finestre che corrispondono alla publica strada con fazzoletti, e berrette bianche, sotto pene ben viste. l 6. Che il P. Archivario non introduchi alcuno dci Religiosi, e precisa1oenlc dci Secolari nell'Archivio senza espressa licenza del Superiore, eccetto che il Padre Cellcrario, Padre Procuratore, e Solto Archivario. E che non debba estraerc da detto Archivio la minima scrittura, si originale, come Copia senza espressa licenza del R.100. E Lutto ciò debba inviolabilmente osservare sotto il L230v.J precetto di santa Obedienza, cd altre pene ben viste al P. R.100.

17. Che il Padre Sagristano debba far chiamare le Messe in tulle le feste di precetto, e quelle di devozion}: nella Città, cd in tutti li Venerdì di Quaresima, acciò si camini ordinatamente, e la chiesa sii servita e li secolari edificali; e con ciò li Padri Sacerdoti corrisponderanno al gran debito che tengono. 18. Per logliere il gran disordine corre, che spariscono dal Monastero tutti li Pialli della Cocina; si ordina al.fratello dello Refettorio, siccmoe al Massaro della Cocina, e suoi Giovani, che in nessun conto dovessero dare a' Secolari alcun piatto della Cocina, o dello refettorio con robba lasciata dai Padri, e che li medesimi secolari se la vogliono, debbono portare li loro pialli, o altra caputa. Non però si priega istante1nentc tutti li Padri di contentarsi dare per elemosina alie povere Verginelle quel tanto ci avanza, come si è detto di sopra. E tutti li lrasgressori resteranno sugetti alle pene ben viste al Superiore, e molto più gl'acccnnati fratelli.

19. Che in Lutti li Sabati dell'anno e Vigilie della Bcatissi1oa Vergine debbano intervenire li Padri ed Ufficiali senza la minima eccezione, fuorche di legitimo impedimento alla Salve e Litanie cantate della Beatissima Vergine. 20. E per ultimo si ordina a tutti li Religiosi, anche se fossero Lettori attuali. che per evitare il grave disordine accaduto nella Libraria del Monastero, ove si trovano non solo molti libri mancanti, ma opere intiere, che nessuno di detti, come sopra, possa estraere libri senza l'espressa licenza del P. R.1110, cd avuta tale licenza debbano lasciare una polisa nel medcsin10 loco, da dove


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Gaetano Zito

si prende il libro col nome dello Religioso, e del libro che si prende, ed in forza della presente [231 r.J ordinazione debba ogn'uno, anche Lettore attuale, fra il termine di giorni due, restituire alla detta Libraria o manifestare al R.n10 quali libri tiene di qualsiasi inateria fuori della Libraria sotto pene ben viste al detto R.mo.

Ordinazioni per il Monastero di Licodia I. Che il P. Rettore e Monaci non possano pernottare fuori di Licodia senza espressa licenza del R.mo Padre Abate e che per causa d'infermità debbano portarsi subito in Catania se però

il Morbo glie lo pcnnetterà. 2. Che il P. Rettore abbia cura dei Monaci, ed attendere a far la giustizia all'Inquilini, e non pennetta siano agravati dalli Baglj; e che si osservino le pandette, costituzioni e consuetudini del loco; e rcs1i in sua cura che li Servidori e Baglj vivano cristianainente, facendo che ascoltino la S. Messa, e facciano le dovute Comn1unioni; e che ne in casa, ne fuor di casa s'abbia da giocare alle carte, dadi, ed altri giochi proibiti, sotto precetto di Santa Obedienza. 3. Che non si ricevano Secolari di qualsivoglia condizione che siano, che v'andassero per ricreazione o per !oro negozj senza espressa licenza del R.mo P. Abbate eccetto se fosse cosa di passagio; e che sii usata cortesia, e carità a' Religiosi Mendicanti, e Poveri, che passeranno per dcf\o loco. E sopratutto, che non s'mnmettano refugiati di qualsiasi loco, molto più per delitti criminali, sotto le pene ben viste al Superiore. 4. La clausura per li i\1onaci di Licodia si dichiara per tut1o il Baglio per insino alli Mergoli; e la strada dietro il forno sino alla Croce; lo trappeto, [231 v.] e Raglia s'intendano fuori clausura, ne si possa andaivi senza licenza del P. Rettore. 5. Che nessuna Gabella di Tenu1c, o altro picciolo loco, si passi fare con li tre anni di rispetto, essendo ciò in grave pregiudizio della Chiesa; e che dal P. Rettore, come anco dal P. Cellerario non si possano fare

.~pese

straordinarie senza espresso ordine del R.mo.

6. Che si digiuni in tutti li Venerdì dell'anno, secondo il nostro costume, e consuetudine, siccome in Lulle le Vigilie delle Sette feste di Nostra Signora; e si cantino le Litanie in tutte le sudettc Vigilie e Sabati. 7. Che sia ben tenuta cd officiata la Chiesa, e che non si lasci di recitare l'ufficio ogni giorno, per la soddisfazione ed obligo del Coro; si come in Chiesa non si prelerisca ogni giorno almeno una Messa, considerandosi Chiesa Sacramentale. Si facciano le feste consuete con tutta devozione e pompa e si diano le solite ele1nosine. Si raccomanda anco al P. Rettore e Religiosi esistenti in detto Monastero ad osse1vare inviolabihnente tutto quello si è ordinato, e non presumere di fare più di quello ci compete senza espressa licenza del Superiore, e conservare la Santa pace fra


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di loro, e la buona esemplarità appresso il publico con vivere da veri Religiosi, e figli del Glorioso Patriarca S. Benedetto. 8. Che nessuno Religioso tenghi robbe proprie in Casa dei Secolari, anche che fossero Parenti, nè tampoco denaro depositato, o altri vettovagli, come di grano etc. E parimenti che nessuno dei nostri Religiosi si facci depositario dc' Secolari, di denaro, robba, grano etc., potendo da questo abuso nascere gravissilno inconveniente, e in detrimento del Monastero; e di più sarebbe una manifesta proprietà per quanto spetta nei Religiosi di tenere robbe proprie in casa dei Secolari, come di sopra, e per conseguenza contro il voto di povertà, e di perdere la robba, denaro etc. r232r.J E per il secondo punto di tenere robba dei Secolari in deposito potrebbesi dare gravissin10 imbarazzo al Monastero colli litigi. Ed in caso di necessità per l'uno e l'altro punto si dovrà prendere espressa licenza dal Superiore, e tulto si mette in gravissimo scrupolo a' Religiosi, e sotto la pena di scommunica ipso facto. 9. Che ogni Religioso anche fosse Ufficiale, si come li fratelli, avesscreo per qualsivoglia titolo e modo, che sia denari, vasi d'oro, d'argento, di valuta, pietre prczziose, o legu1ni, vettovagli, Bestiame, e qualunque so1ta di robba di valuta, e fra il tennine prefisso non l'avessero rivelato, se gli concedono aHri otto giorni di proroga, ad effetto di rcvclare tutto nella propria Spropria, e consignarla a Mani del Superiore, e dovrà portare li denari in cassa del Deposito dci Monaci, altrimenti incorra nella censura della Scommunica latac Scntentiae, oltre le gravissi1ne pene ad arbitrio del Superiore.

IO. Che nessuno Religioso, o fratello, o Ufficiale alcuno possa prestare denaro, robba di valuta, vettovagli cd altro anco a' propri Parenti senza licenza del Superiore, ne applicare, ne fare applicare denaro, e simili vettovagli a negozio, essendo questo contro il voto della Povertà Religiosa, e per ciò gravissimo peccato, e sotto pene ben viste al Superiore. 11. Che tutti li Religiosi osservassero unifonnità nel vestire con quella tnodestia Religiosa a tenore delle nostre Sante Leggi, ed uso di questo nostro Monastero. E si proibiscono espressamente li Cappotti a forma di Giambcrga, e con fodere di alcun colore, si come altre cose sinlili nella fonna di vestire, a tenore degli Ordini emanati nei nostri Capitoli Generali, e confirmati in altro Capitolo Generale del 1725, sotto le pene prescritte, che sono: a' Chierici la ritardanza ad bienniun1 al Sacerdozio; a' Sacerdoti la 1itardanza alla Dccania ad bienniun1; ed a' Decani la sospensione ad biennium, cd altre pene ben viste al Superiore. [232v.] 12. Che nessun Monaco, o fratello, o Ufficiale possa tenere Lcgrnne, aglio, vettovaglio, Bestian1e, ne qualsisia cosa che sia nelli Granari, Cantine, Luoghi e Feudi del Monastero così di Catania, con1e di Licodia, Paten1ò, Castagneto, S. Nicolò !o Bosco, Bombacaro, Baglia di Licodia, Incarrozza, ed in tutti altri luoghi dcl Monastero senza licenza espressa del Superiore sotto precetto di Santa Obedienza, e di Scommunica ipso facto.


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Gaetano Zito Ordinazioni per la Grancia di Paternò l. Che ne il P. Rettore, ne il P. Procuratore o altro Religioso che fosse in detta Grancia

possano pernottare fuori della sudetta, anche che siano di passagio li Religiosi, o a causa di ripa}riare senza espressa licenza del R.mo P. Abbate; ed in caso d'ìnfennità si debbano subito portare in Catania.

2. Che non si debbano in cotesta Grancia ricevere Secolari di qualsisia condizione che siano, che ci andassero per ricreazione o per altro negozio senza espressa licenza del P. R.1no, eccetto che se fosse per un semplice passagio; e che sii usata cortesia, e Carità a' Religiosi Mendicanli, e Poveri, che passeranno per detta Grancia. E soprattutto, che non si am1nettano rcfugiati di qualsisia loco, 1nolto più per delitti criminali, sotto le pene ben viste al Superiore.

3. Che nessuna Gabella <li Tenuta, o altro picciolo loco si possa fare con li tre anni di rispetlo, essendo ciò in grave pregiudizio della Chiesa; e che dal P. Rettore, cmne anca dal P. Procuratore non si possa fare spesa alcuna cstraordinaria senza preciso ordine del P. R.mo. 4. Che si digiuni in tut!i li Venerdì dell'anno, secondo r233r.J il nostro costume e consuetudine si come in tutte le Vigilie delle Sette Feste di Nostra Signora. E si cantino !e Litanie in tutte le sudette Vigilie e Sabati. 5. Che sia ben tenuta la Chiesa cd ufficiata per quanto spetta; si come non si preterisca ogni giorno almeno una Messa, considerandosi Chiesa Sagran1entalc. Si faccino parimente le Feste consuete con tutta divozione e pompa, e si diano le solite elemosine. 6. Che il Padre Rct!ore abbia cura che li Serviduri di detta Grancia vivano cristianamente facendo che ascoltino ogni giorno la Santa

Me.~sa,

e facciano le dovute Com1nunioni; e che ne in

casa, ne fuori di casa, si possa giocare alle Carte, dadi, ed altri giochi proibiti sotto precetto di Santa Obedienza. 7. Si raccomanda al P. Re1Lore, e Procuratore esistenti in detta Grancia far osservare invio!abiln1ente tutto quello si è ordinato, e non presun1ere fare più di quello compete senza espressa licenza del P. R.n10, e di conservare la santa pace fra di loro, e la buona esen1plarità appresso i! publico, con vivere da vc1i religiosi, e figli del Gloiioso Patriarca S. Benedetto. Le altre ordinazioni sono le stesse di sopra espressa!e per il Monastero di Licodia, cominciando dal num. 0 8 sino al num. 0 12.

L233v.l [Richiesta di "nuova licenza di vestire altri dieci Chierici Coristi", ai quali avevano "già dato l'Abito Religioso"; concessione datata Rmna 18 giugno 175 ll


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Beatissimo Padre

L'Abbate di S. Nicolò di Catania della Congregazione Cassincse Uinilissimo oratore della Santità Vostra, prostrato a' suoi SS.mi piedi umilmente la supplica ad accordargli la facoltà di poter ricevere in quel suo Monastero in educazione Otto Giovani di nlinore età oltre a! numero de

Rcli~

giosi stabilito in detto Monastero acciò vi sia setnpre da sostituire a quei che nioiono, e poter provederc ancora a quei Mom1stcri che in quella Provincia non fanno la figliolanza. Che della Grazia Alla Santità di Nostro Signore Papa Benedetto XIV Ex audientia SS.mi die 19 novembris 1751 SS.1nus audito super expositis Procuratore Generali ordinis benigne annuit iuxta pelita servatis tamcn Regulis guae servantur in Coenobio Montis Casini. F. Levizani Seeretarius Locus Sigilli Per l'Abate di S. Nicolò di Catania la margine dcl testo] Questo decreto fu esequtoriato in Palermo a 23 febraro 1760 con1e appare per esequtoria nell'Archivio Arca 66 [poiché il margine de! foglio è tagliato, non ci è possibile conoscere il Vol.l [in calce al decretoj Capitolo della Lettera del R.n10 P. D. Giustino Capece Procuratore Generale sollo li 6 Marzo 1753. La facoltà che io le i1npetrai di poter vestire i Giovani sopranmnerari, contiene anche quella di potergli affigliorarc a codesto Monastero, quando anche abbia il numero assegnato dei 52, per lo che si serva pure di vestirne il nmnero prescritto in de!ta facoltà, e di farli a suo lcn1po professare al nome di detto suo Monastero, e non tema di ricorso, poichè tale è la 1nente di Nostro Signore [il papa]. Questo Breve è nell'Archivio, Arca 66 vol. A. [234v.] Beatissimo Padre L'Abbate e Monaci Cassinesi del Monastero di S. Nicolò di Catania prostrati ai Piedi della S. V. umilmente l'espongono che per la rigidezza della loro Gran Chiesa, la quale non è ancora intieramente tenninata, non riesce loro molto agevole il portarsi nella 11cdesima per ivi adorare la Sacratissiina Eucaristia. Per lo che avendo Eglino fabricata nell'Ordine Superiore del Monastero per !a Salmodia, a cui attendono in tempo di notte, una Cappella col suo Coro molto decente, supplicano la Benigna Clemenza della S. V. concedergli la facoltà di poter custodire ancora nella Cappella sudetta la Sacratissima Eucaristia, e così soddisfare alla conmne loro Spirituale Consolazione. Che della grazia Alla Sm1tità di Nostro Signore Papa Benedetto XIV


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Ex audientia SS.mi die XIT Maij 1752

Sanctitas Sua benigne indulget pro gratia iuxta preccs in supplicatione contenta. S. Card. Valenti Protector Locus Sigilli Per l'Abbatc e,Monaci Cassinesi di Catania

Questo Breve è nell'Archivio Arca 65 Vol. A. l235r.-v. foglio bianco]

L236r.l

Nota delli Superiori, ed officiali del Mo1u1~·tero di S. Nicolò l'Arena di Catania con alcune ordinazioni da osservarsi non solamenle in detto Monastero, ma pure nelle grancie e lochi publici del medesimo, puhlicate da me infrascritto D. Anselmo Valdihel/a Abbate del sudetto Monastero ORRÌ li due Settembre 1754.

R.mo P.re Don Anselmo Valdibclla di Messina Abbate locale R.mo P.re D. Ildefonso Arezzi di Modica Abbate di S. Placido extra Molto R.do P.re D. Stefano Paternò di Catania Priore Claustrale Molto R.do P.re D. Benedetto Maria Lorefice Priore di Cerami Molto R.do P.re D. Ludovico Nava di Siracusa Priore di S. Marco P.re D. Federico La Valle di Nicosia Decano P.re D. Luiggi Gaetano di Catania Decano P.re D. Romualdo Rizzari di Catania Decano P.re D. Ignazio Zacco di Modica Decano P.re D. Giuseppe Maria Moncada di Patemò Decano P.re D. Ansehno Maria Corvaia di Catania Decano P.re D. Antonino Maria Arena di Catania Decano P.rc D. Michiele Maria Rizzari di Catania Decano P.re D. Ren1igio Statella di Siracusa Decano P.re D. Antonino Sigona fdi Lentini] Decano P.re D. Michelangelo Tedeschi di Catania Decano P.re D. Giovanni Evangelista Ernandez [di Caltagirone] Decano P.re D. Placido Scammacca di Catania Decano P.re D. Geronimo As1nondo di Catani.a Decano P.re D. Giuseppe Tedeschi di Catania Decano f236v.J P.re D. Mauro Arezzi di Modica Decano P.rc D. Onorato Guttadauro [di VizziniJ Decano P.re D. Filippo Ernandcz di Caltagirone Decano titolare


li monastero catanese di S. Nicola l'Arena

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Monastero di Licodia P.re D. Michelangelo Tedeschi Rettore P.rc D. Onorato Guttadauro Cellerario

P.re D. Romualdo Maria Rizzari Paroco [ ... ]

Grancia di Paternò P.re D. Remigio Statella Rettore

P.rc D. Antonino Maria Sigona Procuratore [ .. ] Sacristia del Mom1stero P.re D. Federico La Valle Maestro dc' Novizij, Vicario P.re D. Isidoro Terrana Sacristano Maggiore

[237r.l D. Paulo Perramuto D. Bartolo1neo Coniaro D. Benedetto Antonino Ascenso [ ... ]

Nella Celleraria pri1na del Monastero P.re D. Giuseppe Maria Moncada Ccllerario Primo [

.. ] Alli Granarij del Monastero, e Cantina

P.re D. Placido Scam1nacca Rettore, a cui s'incarica la cura della biblioteca, e Museo [ ... ]

Alla Cassa del Monastero P.rc D. Mauro Arezzi Alla Procura del Monastero P.re D. Anseln10 Maria Corvaia Procuratore P.re D. Antonino Maria Arena Comprocuratore Alla Procura delli Cenzi del Regno P.re D. Giovanni Evangelista Ernandez Alla Procura di Palenno P.rc D. Carlo Antonino Patcn1ò Asinondo Procuratore

All'Archivio del Monastero P.re D. Giuseppe Tedeschi D. Mario Quattrocchi, e D. Roberto La Rocca sotto Archivarij, quali osserveranno la bolla di Benedetto decimo terzo Alla Fabrica dcl Monastero P.re D. Ignazio Zacco, e Fra Bendetto Laudani


Gaetano Zito

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All'Infermarfa M. R. P. Priore di Casa Vicario, che averà la cura firmare li medicamenti, senza la di cui licenza non si daranno. D. Anselmo Daniele, e D. Leandro Beneventano, e Fra Ignazio Infermieri. [238r.l Alla Forestaria P.re Concellerario, D. Anselmo Daniele e D. Leandro Beneventano, con Fra Giuseppe

r... J Alla Lezione di Filosofia P.re D. Filippo Maria Ernandez Lettore Alla Lezzione di Teologia Scolastica

D. Nicolò Tedeschi Alla Lezzione di Teologia Morale D. Benedetto Celeste Al Noviziato P.re D. Ludovico [sic!] La Valle Maestro de Novizij

r

J Alla revisione dci Libri

Molto R.do P.re Priore di Casa, il quale averà la curJ di leggersi li Decreti Pontificij nel rifittorio Alla CompuListaria

P.rc D. Luiggi Caetano [238v.) Alfa Ca1nera del R.mo Sac.!e Don Filippo Maria Visalli Secretario Placido Giorgianni Cameraro [ ... ]

[239r.] [ ... ]

All'inventario _delle Camere, ed officine Molto R.do di Casa, P.rc Cellerario Pri1no, P.re Conccllerario, P.re Foresteraro Maestro di Cerimonie P.rc D. Luiggi Caetano, e D. Roberto La Rocca Coadiutore Organista D. Giuseppe Beneventano


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena

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Per fare la Lezzione Spirituale alli Fratelli P.rc D. Luiggi Caetano Alla Coronella in ogni VenerdĂŹ Molto R.do P.re Priore di Casa Alla Coronella in ogni 25 del mese, e S.to Natale P.re D. Luiggi Cactano Al forno

P.re D. Girolamo Asmondo f239v. -242r: disposizioni dell'abate identiche a quelle del 1745J L242v.] Nos D. Anselmus Vaklibclla a Messana Abbas Monasterii S. Mariae de Licodiae et S. Nicolai de Arenis Catanae Ordinis SS. P. Bcncdicti Congregationis Cassinensis. Diiecto Nobis in Christo filio Rev. D. Philippo Sveglia Parocho Civitatis Castri Joannis in Donlino Salu!cm. Quia in praedicta Civitatc Castri Joannis, sicut et alibi ubi Christianus viget Cultus, et nostra

non existunt Coenobia immemorabilis, ac pius invalui usus Muliercs quasda1n morum probitate conspicuas domi scsc dicare, et sub Monialium oblatarum nmnine nostrac Benedectinae Religionis habitum induere; idcirco tibi spcctatae virtutis, ac scientiac viro, facultatem nostram delegamus qua ciuscd1n Civitatis Mulieribus dummodo honestae vitae sint scrvatis in reliquo Ordinationibus et Constitutionibus nostrae Congregationis hac dc re editis, et consuetis adhibits caeremoniis huiusmodi oblatarun habitum tradere possis, illasque elapso probationis anno ad professione1n quam cmittcre so!ent admittere valeas. Tcquc insuper in quantum in Domino possumus cnixe rogamus ut divini verbo frcquentius pascas, atque ad rcgulare1n observantiam cohortando in viarn dirigas salutis aetemae. Caeterum dc nostra speciali gratia, Te ctiam dignis honoribus prosequi volentes, huiusmodi habitmn, servatis servandis, etiatn a!iis honestis Viris, ciusdetn Civitatis, nostri Ordinis benevolis tradere et elargiri passe conccdimus; dummodo ta1nen notitimn nobis, toties quotics hoc evenerit, per literas trasmittas. Facultatem etiam tibi tribuimus, ut eumdem habitum dare valeas omnibus et singulis Christi Fidelibus in articu!o n1ortis constitutis, si tmnen illum devote humiliterque suscipcrc pctierint. In quarmn fide1n pracscntcs, per infrascriptus Cancellarius, nostra subscriptione finnatas, et solito quo in sitnilibus utimur Sigillo munitas, dedimus in pracfato Monasterio S. Nicolai dc Arenis Catanae die duodecimo Mcnsis Decembris 1754. D. Ansclmus Valdibella a Messana Abbas

+

De mandato R.tni D01nini Abbatis

Philippus Visalli Cancellarius


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Gaetano Zito a [243r.J Dic 20 Maij 5 Ind.is 1757

R.mus P. D. Anselmus Valdibella a Messana Abbas Venerabilium Monastcriorum S. Mariae dc Licodia et S. Nicolai de Arenis Urbis Catanac, virtutc privilegiorum suorum, ex vi Bullarum

Apostolicarum etc. personalitcr constitutus in <lieto Monasterio S. Mariae de Licodia suac iurisditioni subiccto, munus Visitatoris exercens, sicuti de praeterito cxercucrc eius RR.mi PP. Abbates Antecessores etc. Die quo supra visitavit Ecclesian1 eiusde1n Venerabilis Monasterii sub titulo S. Mariae de Licodia; et post solitam Monachorum Mortuorum absolutioncm supra sepulturam in Cappella S. Leonis, visitavit SS.um Eucharistiac Sacramcntum in maiori Altari Tabernaculum, a!ia Altaria, Confessionalia, ac omnia supellectilia in Sacristia, et reliqua ut moris est; et tandem ingrcssus est intus Cappellain SS.n1i Crucifixi in quibus omnibus nihil in substantialibus reparandmn ve! corrigcndum invenit; et solmnmodo dedit ordinationcs circa refcc!ionem Confessionalium vetustorum; et de reliquo omnia laudavit, et approbavit, etc. Unde etc.

f243v.-247v.: visita alla grancia di S. Maria di Valle Giosafat e alla chiesa di S. Marco Evangelista in Patemò]

[248<.J

Nota deffi Superiori ed Ojji'ciali del Monastero di S. Nicolò l'Arena di Catania con ordinazioni da osservarsi in detto Monastero e nelle Grancie e luo1:hi puhlici del medesimo publicate da me infiY1scritto D. Anselmo Valdihella Ahbate del

~·udetto

Monastero 01:1:i li 27 Gù11:110 1757.

R.mo P.re D. Anscln10 Valdibella di Messina Abbate locale R.mo P.re D. Ildefonso Arezzi di Ragusa Abbate di Santo Spiri!o R.mo P.re D. Vito Maria Ainico Abbatc Titolare M. Rev. P. D. Stefano Patemò di Catania Priore Ci<rnstrale M. Rev. P. D. Benedetto Maria Lorefice di Modica Priore di Cerami M. Rev. P. D. Ludovico Nava di Siracusa Priore di S. Marco P. D. Vincenzo Maria Patcmò di Catania Decano e Maestro di Novizi P. D. Luigi Caetano di Catania Decano P. D. Romualdo Rizzari di Catania Decano P. D. Ignazio Zacco di Modica Decano P. D. Antonino Arena di Catania Decano P. D. Anselmo Maria Corvaia di Catania Decano P. D. Michele Rizzari di Catania Decano P. D. Rcinigio Statella di Siracusa Decano P. D. Placido Scammacca di Catania Decano P. D. Michelangelo Tedeschi di Catania Decano P. D. Lucio Mazzara di Siracusa Decano


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P. D. Antonio Sigona di Lentini Decano P. D. Geronimo Asmundo di Catania Decano

P. D. Giovanni Evangelista Ernandez di Caltagirone Decano P. D. Giuseppe Tedeschi di Catania Decano P. D. Onorato Guttadauro di Vezzini Decano P. D. Emiliano Zappata di Siracusa Decano P. D. Mauro Arezzi di Modica Decano P. D. Camilla Bonanno di Siracusa Decano P. D. Filippo Ernandez di Caltagirone Decano

l248v.] P. D. Benedetto Celeste di Catania Decano P. D. Severino La Ferla di Siracusa Decano Titolare

Monastero di Licodia P. D. Placido Scammacca Rettore P. D. Camilla Bonanno Cellerario P. D. Ro1nualdo Rizzmi Parocho

D. Giuseppe Platania D. Antonino Mancali D. Geronimo Toscano D. Pietro Caruso

]

Cappellani

[ .. ]

Grancia di Paternò P. D. Remigio Statella Rettore, che averà pure la cura dell'Eredità di Mario Vitale P. D. Emiliano Zappata Procuratore, quale averà la cura delli Censi, Molini, e delle Eredità per !'Opere Pie L... J

[249r.] Alla Sagristia dcl Monastero P. D. Benedetto Celeste Vicario D. Ansehno Daniele Sagrestano Maggiore [ ... ]

Sagrìstani Inferiori Fr. Stefano Platania Primo Perseverante [ .. ]

Per la direzione delle Messe, cd Officio Divino nel Coro P. D. Anselmo Maria Corvaia L••. J

Alla Celleraria del Monastero P. D. Onorato Guttadauro Ccllerario Primo P. D. Severino La Ferla Concellerario [... ]


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300

[249v.] Alli Granari dcl Monastero P. D. Vincenzo Maria Patemò Rettore

Fr. Angelo Fontana La Rosa[== Fontanarosa] .. ]

Alla cura del feudo di Graneri P. D. Ignazio Zacco Rettore

Al forno dcl Monastero P. D. Geronimo Asmundo Rettore Fr. Nicolò Mililli

Alla Cassa del Monastero P. D. Mauro Arezzi Alla Procura del Monastero P. D. Michelangelo Tedeschi P. D. Antonino Arena Comprocuratore Alla Procura delli Cenzi del regno D. Isidoro Terrana Alla Procura di Pale1mo P. D. Carlo Antonio Patemò Asmundo All'Archivio del Monastero P. D. Giuseppe Tedeschi Archivario

j

D. Roberto La Rocca D. Mario Quattrocchi

Sottoarchivari

Quali osserveranno la Bolla di Benedetto XIII L250r.] Alla fabrica del Monastero P. D. Anselmo Maria Corvaia Rettore Fr. Giuseppe Giuffrida All'Infennaria M. Rev. di Casa Vicario quale firmerà li medicamenti, non dovendo pigliarsi senza la di

lui licenza D. Romualdo Arezzi D. Baitolo Cordaro

Fr. Isidoro Ciruti

J

Infermieri


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena

301

Alla Foresteria P. D. Severino La Ferla Concellerario

D. Isidoro Terrana D. Paolo Francesco Perre1nuto Fr. Isidoro Ci:ruti

Secondo Perseverante

.J Alia Lezione della Teologia D. Nicolò Tedeschi

P. D. Filippo Emandez Alla Lezione della Teologia Morale D. Romualdo Arezzi [250v.J Alla Lezione della Filosofia D. Paolo Francesco Pcrremuto

Al Noviziato P. D. Vincenzo Maria Paternò Maestro de' Novizij Al Refettorio P. D. Mauro Arezzi Rettore

Fr. Michele Vinci ( ... ]

Alla Revisione delli libri M. R. di Casa, e li PP. Lettori

Alla Libraria e Museo P. D. Lucio Mazzara Bibliotecario, e Prefetto di Studij D. Leandro Beneventano}

D. Bartolo Cordaro

Sottobib!iotecarij

Perseverante, quale averà la cura di spolverare, e scopare la libraria, e Museo una volta la settiinuna Per far legere li decreti Pontificij, e della Religione nel Rifettorio M. Rev. di Casa Alla Computisteria del Monastero P. D. Luigi Caetano [ ... ]


Gaetano Zito

302 [251v.] [... J

All'Inventario delle Can1erc ed Officine M. Rev. di Casa P. Cellerario Primo P. Concellerario

P. Foresterario Maestro delle Cerimonie P. D. Luigi Caetano

D. Roberto La Rocca Coadiutore Organista D. Giuseppe Beneventano Per la Lezione Spirituale de' Fratelli P. D. Lucio Mazzara Per l'Esercizij Spirituali delle Monache Oblate P. D. Luigi Caetano

Per la Coronella del S. Ba1nbino ogni 25 del Mese, e Novena del S. Natale P. D. Luigi Cactano

[252r.J

Le altre ordinazioni per il Monastero e Gra11cie di Paternò e Licodia sono le istesse espressate dal

11.

240 sino al n. 242 [""'- 1754]

R.mo Padre

li Procura!ore Generale della Congregazione Cassinese inerendo all'ordine datoli dal Capitolo Generale tenuto puoco fa in Padova di suplicare V. S. di degnarsi dare al Padre Presidente di detta Congregazione la facoltà di concedere al P. D. Vito d'Amico Professo di Catania già creato Abate Titolare tutte quelle Onorificenze e Prerogative che dalle costituzioni si fanno godere a!l'Abbati di Regimento, che si dalla Abbazia. Perciò prostrasto a' piedi di V. S. riverentemente la supplica di tal grazia quando non stimasse nleglio di rimetterla all'Arbitrio dcl nostro Eminentissimo Signor Cardinal Protettore, che della grdzia Alla Santità di nostro Sig.r Papa Benedetto XIV


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Ex audientia SS.mi die 22 Maij 1757

SS.mus benigne annuit pro gratia iuxta praeces arbitrio Dmnini Cardinalis Protectoris, cui Santitas Sua facultates res neccssarias, et opportunas contulit ad hoc ul introscripto Religioso Viro D. Vito de Amico Privilegia de quibus in praecibus atiam Apostolica Authoritate concedere possit, et valeat.

D. C. Boschi Segretarius Locus + sigilli

Al Procuratore Generale dc' Cassinesi Utentes arbitrio, et facultatibus a SS.mo nostro Papa Benedicto XIV nobis uti Protectori Congregationis Cassinensis tributis, Tibi D. Vito dc Amico ex Priore Congregationis eiusdcm in Abbatem Titularem in prossimi pracfato Capitolo generali electo, omnes et singulas honorificcntias, Privilegia et praerogativa concedimus, quis tales evascrunt post abdicationem Abbatiae Regiminis. Praefatis Constitutionibus et Aposlolicis si quae sint in contnu-ium mini1ne obstantibus, quibus pro hac v'ice Santitas Sua c01nunicata nobis authoritate derogamus. Datum Rrnnae cx edibus S. Calisti die 23 Maij 1757. D. F. Card. Tamburinus Congregationis Cassinensis Protector Locus + sigilli

Petrus Mellini a Sccretis

l252v.] Pro Mnnasterio Cataniensi

Quonia1n de relatione R.mi P. D. Ansehni Valdibella Abbatis Monasteriis Cataniensis nobis constai de ldoncitate Prudentia et Fide Patris D. Onorati Guttadauro a Bideno, ut Economicae munus ibidem eserccat, propterca eun1den1 Economum constituimus et dcclaramus usque ad minora futura comitia. Datum in S. Justina de Padua in C01nitiis Maio1ibus 6 Maij 1757 D. Nicolaus Maria Ruggeri Abbas Definitor et Praeses D. Alessandcr Piccolomini Abbas et Defini!or D. Joannes Arezzo Abbas et Definitor D. Pctrus Paulus Zinannì Abbas Definitor et Sciiba Capituli Locus + sigilli

Nos D. Nico!aus Mmia Roggeri a Finario Abbas S. Benedicti Pfl<lo-Lironen fdi Polirone. presso Mantova l ac Praeses Congregationis Cassinensis Petitioni R.nii Praesulis P. D. Anselmi Valdibella a Nessana Abbatis S.ti Nicolai Catanae libenter annuentes, ut P. D. Vinccntius Maria Paternò a Catana officium Magistri Novitiorun1 ibidem a<>.sun1at. Ideo tibi antcdicto D. Yincentio Maria Patemò a Catana Decano, de cuius prudentia morun1 probitate, et scientia plurimum in domino confidimus, omnimodam facultatcm ad praefatum Magisterium in eodem Cocnobio excrcendum cum consuetis Privilegiis et gratiis largimur presenti-


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bus ad primum habenda Minora Comitia dumtaxat valituris. Datum Papiae in S. S. Spiritu, et gallo I3Julij 1757.

D. Nicolaus Maria Roggeri Abbas et Praeses

[253r.] Nos D. Nicolaus Maria Roggeri a Finario Abbas S.ti Bencdicti Pado-Lironen ac

Praeses Congregationis Cassinensis R.mo P.riD. Anselmo Valdibella a Mcssana Abbati S.ti Nicolai Catanae, ut iuxt/l nostras constitutiones eligere possit Decanum, qui Capsarij munere usquc ad primum habenda minora Comitia ibi fungi possit, tenore presentium indulgcmus. Datum Paviae in Monasterio SS. Spiritus et Galli20Julij 1757. D. Nicolaus Maria Roggeri Abbas et Pracses Loco + sigilli D. Nicolaus Maria Galesi ab Urbe Procancellarius Vigore Superioris praeinserti Ego infrascriptus Abbas <lieti Monasterij S. Nicolai de Arenis Te Patren1 D. Maurmn Arezzo eiusdem Monaslerìj Professum, et nostrae Congregationis Decunum eligo in depositarium, seu Capsarium ad formam praescriptam in Cap. 31 nostrae regulac de Ceilerariis Monasteriis et dedarationis eiusdem n°.9 salvis sempcr consuetudinibus <lieti Monasteriis. Datum in nostro Monasterio dic IO Augusti 1757. D. Anscln1us Valdibclla a Messana Abbas

Nos D. Nicolaus Maria Roggeri Abbas S.ti Benedlcti Pado-Lironcn, ac Praescs Congregationis Cassinensis Ex R.mi P. D. Anseln1i Valdibella a Messana Abbatis S.ti Nicolai Catanae iurato testi1nonio nobìs constat P. D. Honoratum Gu!!adauro a Bidenio Decanum pollere omnibus requisitìs ad exercendum Oeconomi munus, atquc /ludito consilio Seniorun1 tnemorati Coenobij cum ipse1net Pracsul citatu1n proponal, emndem ufi aptiorem in eo Monasterio ad tale officium. Nos ìgitur his attentis praecìtatum Patrern D. Honoratum Guttadauro in Oeconomum nostri Monasterij Catanensis e!igimus et instituimus on1nimodam facultaten1 rite huic muneri obeundo eidem largicntes;praesentibus usque ad primun1 habenda minora comitia valituris. Datmn Paviae in SS. Spiritu et Gallo 12 Julij 1757.

D. Nicolaus Maria Roggeri Abbas e! Praeses Loco + sigilli D. Nicolaus Maria Galesi ab Urbe Procanccllarius

[253v.J Nos D. Ansehnus Valdibella a Messana Abbas Monasteriormn S.ac Mariae de Licodia et S.ti Nicolai de Arenis Catanae Ordin. SS. P. Benedicti Congregationis Cassinensis


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Unìversis et singulis pniescnles literas inspecturis noturn faci1nus, atque teslamur, quod hodie n1anc, Dominica Terlia Adventus, dic undecima Dccembris anni 1757 in <lieto Monas1crio S. Nicolai, et in superiori Ecclesia eiusdem, ordinationes habenlcs Dilectos nobis infrascriptos in Chrislo filìos, Monachos profcssos, ac familiae dictorum Monasteriormn adscriptos, 01nnibusque requisitis preditos, ad Primmn Clericalem Tonsuram, et Quatuor Minores Ordines iuxta ritum Sunctac Romanac Ecclesiae promovimus videlicct: D. Vinccntium Cordaro a Catana, D. Horaliurn Paternò a Catana, D. Josephum Anlonium Paternò a Catana, et D. Guillelmun1 Scamnrncca a Catana ad Primam Clericale1n Tonsuram, et ad Quatuor Minores Ordines Ostiarii, Lectoris, Exorcistae, et Accoliti: et D. Hieronymun1 Triolo a Terranova, Professum pro Monasterio Pla!iae, ad solos reliquos duos Ordines, vidclicet Exorcistae et Accoliti. fn quorum fidem praesentes nostra subscriplione firmatas, ac publico nostri Monasterii sigillo munitas, dedin1us ibidem dic I ! Dece1nbiis anni Millesi1ni sep1ingentesimi quinquagesimi sep1imi. D. Anse!Jnus Valdibelhi a Messana Abbas

+ Locus sigilli De mandato Paten1itatis suae Reverendissirnae D. Anselrnus Maria Corvaia Cancellarius

[254r.j R.mo P.re P.nc Col.mo Benchè io debba supporre che note siano a V. P. R.rna le premure dell'E.mo S.r Card.le Tainburini, nostro zelantissimo ed mnatissimo Protettore, significate con sua lettera <l tutti i Prelati che intervennero all'ulti1no Capitolo Generale celebrato nel Monastero di S. Giustina di Padova, premure ricevute con tutto il 1naggiore ossequio e venerazione, e prese in considerazione dal R.1110 Definitorio, e dal 1nedesimo a me inculcate per la loro esecuzione, non di meno, per il grado che tengo, n1i credo in debito di richiamarle alla me1noria, e di accennargliele in particolare. Non riguardano esse che punti e capi della disciplina regolare contenuti nella Santa Regola, dichiara1.ioni di essa, e Costituzioni nostre, i quali venendo bene spesso trascurati, debbono essere rido!te al suo pri1110 vigore, ed esigono una esatta e fcnna osservanza da tulli regolarmente, nu1 in rnaniera particolare dai Prelati, i quali debbono essere delle nostre leggi tutori fedeli, e zelanti custodi secondo la perfetta idea che di es.<>i ne dà il N. S. Padre nella Regola al cap. Il capo ripieno di santissirni, ed i1nportantissimi insegnan1enti per chi presiede. lo anderò brevemente i deHi pun!i additando, confonnando1ni ai sentitnenti dcl R.mo Definitorio. Prinlieramente inculcasi l'esatta osservanza non 1neno del Rivelo da farsi espressamente da ciascun Monaco, e Commesso, che del deposito del danaro in mano della persona a ciò deputata. Punto egli è questo, clic riguardando il voto della Povertà, è punto onninamenle sostanziale, e da osservarsi diligentemente da ogn'uno, come viene prescritto al Cap. XXXIII Dichiarazione nun1. 9, cap. LXVII num 14, e delle Costituzioni alla pa11e I cap. XXII nun1 11. E poichè !'ozio è la radice di lu1li sconci, che nascer sogliono nelle Comuni1à Religiose, con somma avvedutezza prescrive la Regola al cap. XLVII dichiarazione n. 4 e seguen1i, di sfugirlo colla seria applicazione dello studio di quelle facoltà che direllmnente appar1engono al proprio stato, o si riferiscono utilmente per conoscere e sapere i proprj doveri. Quindi incombe a chi


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governa di usare tutta la maggiore attenzione perchè secondo l'antica lodevolissima nostra prattica si facciano le scuole la inattina, ed il doppo pranzo, perchè i Giovani non siano divertiti negl'Officij Econo1nici avanti il tempo assegnato nella predetta dichiarazione n. 7 e perchè ciascuno rcndasi atto al publico necessario servigio negl'impieghi della Congregazione. [254v.]

Di tal natura sono gl'impieghi di Maestro di Novizij, di Confessore di Mana-

che, e di Curato, ai quali o richiedendosi, o essendo molto convenevole il grado di Decano, egli è a,sso!utarnente necessario che al detto grado siano promossi quelli, e non altri, che colla sua savia condotta, e necessaria scienza se ne saranno renduti degni. Onde i Prelati nel proporre i Sacerdoti per la Decania, e si1nilmente i R.mi Visitatori nell'atto delle Visite dovranno servare appuntino quanto viene ingiunto dalla Regola alla dichiarazione del cap. XXI n. 4 e dalle Costituzioni parte I cap. XXII, e parte II cap. 1I n. 15. Ed affinchè siano i Monaci più applicati, ed amanti del loro dovere pensino seriamente i Prelati all'osservanza del prescritto nella Regola alla dichiarazione del cap. LXVII n. 15 e seguen!i, nelle Costituzioni parte I cap: XXII n. 7, 8, e pmie II cap. IV n. 1 e seguenti, permettendo meno mutazioni che sia possibile massima1nentc ai Giovani che non abbiano terminato il corso de' loro studij, ed in caso di bisogno accordandole per i Monasterij più vicini, per i più lontani poi, e fuori di provincia, se non quando il ben publico lo esiga, sempre però premessa la debita licenza; perchè bene spesso accade che siano ricercate per leggierezza, ed incostanza, e che dal continuo girare dci Monaci nascono gravissin1i disordini. Nè minori mali temer dobbiamo dalla soverchia indulgenza di accordarsi frequentemente ai Monaci di abbandonare i chiostri collo specioso pretesto di rivedere i Parenti, e di mutar aria, e perciò si raccomanda ai Prelati che tale condiscendenza sia franata ul possibile, e che ne! caso, che per qualche bisogno si permetta ad un Monaco di portarsi nei luoghi, ove sono nostri Monasterìj, gli sia assolutan1cnte proibito di pernottare fuori de' chiostri, giusta la regola alla dichiaruzione dci cap. VI n. 9, cap. LI n. i, cap. LXH n. 14, e cap. LXVIl n. 8 e segueriti. Tale licenza poi non si conceda ne' tempi d'Avento e di Quaresima, te1npi particolaimente consegrati all'Operc di pietà, di mortificazione e di penitenza, come appunto il N. S. Legislatore c'insegna parlando n01nina!mnente dcl tempo di Quaresima al cap XLlX e come dell'uno e dell'altro tempo ci additano le dichiarazioni del cap. VI n. 9.

L255r.l Alle osservanze e pratiche interiori dee unirsi l'esteriore proprietà e modestia nel vestito, sichè nulla apparisca di contrario alla regolare disciplina, nel chè pur troppo avviene, che non sia osservato la decenza dello stato, sia trascurata la tonsura Monastica, e fomentata la vanità e leggierezza nelle Tonache, capelli, ed altro contro ciò che viene espressainente comandato nella regola al cap., LV e sua dichiarazione. Da tali osservanze, e prattiche non debbono punto credersi im1nuni gl'Abbati Titolari, poichè se rifletteranno al loro dovere, cd a ciò che viene prescritto al cap. LXIII dichiarazione n. 1 I vedranno chiaramente doversi per il primo capo pienamente conformare alla comune prattica, e quanto al secondo 'doversi contenere dentro quei limiti che sono loro espressmnente ordinati. Non mi resta che fare qualche parola intorno alle cose temporali e governo delle medesime, le quali essendo il sostegno e la conservazione dei Monastcrij sono anche il presidio al mantenimento delle osservanze Monastiche. Quindi è, che per ovviare al non piccolo disordine, che si va introducendo in muteria di fabriche, le quali per lo più s'intraprendono a capriccio, e senza ri-


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portarne la dovuta facoltà, ed approvazione s'incarica ai Prelati l'esatta osservanza della dichiarazione del cap. LXVI della nostra S. Regola. Questi sono quei punli e capi di regolamento, che sono stati espressamente ingiunti dal nostro E.mo Protettore, e colla magior efficacia raccotnandati per la pronta e ferma loro esecuzione. E queste pure sono quelli tra gli altri, che io debbo, e per conto del grado che tengo, e per nuovo eccitamento e stimolo daton1i, raccomandare colla magior caldezza a V. P. R.ma, non dubitando

che i R.mi Visitatori ne faranno l'ogetto delle loro inquisizioni nella visita de' nostri Monasteri. Non vi à in essi cosa che non ci sia espressamente prescritta o vietata, niuna in conseguenza, che non debba essere esattamente osservata. Per la qual cosa ne Le avanzo le mie più vive istanze affinchè men1ori de' propri doveri siano tutti i nostri Monaci animati dal medesimo zelo, e spirito per ade1npierli, come mezzi contenuti, ed espressi nella Santa solenne professione, e le fò profondissin1a riverenza. Di V. P. R.1na S. Salvatore Pavia 24 dece1nbre 1757 U1nilissimo devotissimo obligatissimo servidore D. Nicolò Maria Roggeri Abbate e Presidente

L255v.J Nos D. Nicolaus Maria Roggeri a Finario Abbas et Pracses Cassìnensis Visa atque perlecta teslatione Superioru1n, et Exa1ninatorum Monasterij S.ti Nieolai Catanae ad nos trasmissa, in qua pro veritate asseritur D. Carmelum Blanco a Siracusis, D. Jacobum Gravina et Valle a Catana et D. Vincentium Scan1macca a Catana omnibus et singulis necessariis requisitis a Sacra Congregationc praescriptis praeditos esse, ipsosque secretis eorumdem superiorum, et examina!orum calculis aprobatos fuisse, ut ad debitu1n Religionis servata Apos1olicarum Sanctionetn et Constitutionun1 nostrarum fonna admitti possit et avlcat auctoritate qua fungimur facuHatem in D01nino tribui1nus. Oatum Pataviae in Salvatore die 24 Ianuarij l 758. D. Nicolaus Maria Roggeri Abbas et Praeses Loco + sigilli D. Nicolaus Maria Galesi ab Urbe Procancel!arius ex registro fol. 277.

Beatissin10 Padre Essendo già evacuata la facoltà clcrnentissin1arnente accordata dalla Santità Vostra al Monastero di S. Nicolò di Catania della Congregazione Cassincse di poter ves.tire otto Giovani di minore età, oltre il numero de' Religiosi stabilito in detto Monastero, e ritrovandosi presentemente nel bisogno di dovere rin1ettere alcuni soggetti paite n1orti, e pa11e resi inabili, o per l'avanzata età, o per infermitìi croniche, l'Abate e Marnaci del sudetto Monastero un1ihnente prostrati a' piedi della Santità Vostra divota1nentc supplicano per avere la facoltà di potere vestire altri otto Giovani tre de' quali hanno già compiti !'anni 15, acciocchè con questa nuova vestizione possa mantenersi la


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regolare osservanza, che altrin1en1i languisce e possa anche provedere ]'altri Monasteri della Pro-

vincia, li quali non hanno il numero prefisso delli Professi, che della grazia Sacra Congrcgalio Eminentissimormn et Reverendissimorum S. R. E. Cardinaliun1 negotiis, ~t

Consultalionibus Episcoporum et Regulariun1 praeposita, ad qua Sanctissimus Dominus noster

suplicem libellum remisil in facultatibus necessariis, et opportunis, attenta rclationc P. Procuratoris Generalis, benigne rcn1isit E1ninentissimo Tamburini pracdicli Ordinis apud S. Sedein Protectori, ut veris cxistentibus narratis, petita faculta1c scrvatis servandis pro suo arbitrio et prudentia oratoribus impertiatur. Romac 17 fcbruarij 1758. Loco + sigilli

C. A. Card. Cava!chini P. H. Guglicln1i Scc.

[256r.] Utentes facultate a Sacra Congrcgationc Eminentissi1norum et Reverendissi1norum S. R. E. Cardinalium negotiis, et Consul!alionibus Episcoporum et regu!ariurn praeposiLa, arbitrio nostro specialiter con1missa, licentia ilnpertin1ur Superioribus J\1onas!crii S. Nicollii Catanae Oratoribus, ut in dic!o Monasterio pro Novitiatu iarn Canonicc aprobato tre Juvenes in etate praescriptaa Concilio Tridentino ac a!ios quinquc in minori etate constitutos pro hac vice, ad habitum probationis pro C!ericis, seu Choristis rccipere passini, et valeant supra nmncrum tlctcm1ina!um, ad suplendas viccs corum, qui senio, vel infirmĂŹtatibus pracpcdi1i Choro in!eresse, et Praefati Monasterij, aut a!iorum Monasteriorum, quae cornplctum numcrun1 suorun1 Professorum non habent, munia obirc nequeunt; ila tamen, ut qui iu minori c!a!e sunt ante legitimam etatem non profilcanlur, et in actu Professionis pracscnti indulto se uti velie declarent. Et in rcliquis scrven!ur omnia, e! singula pro NovitiĂŹs Clcricis in ordine Monastico recipicndis, dc Jurc scrvanda. Contrarijs quibuscumque 11011 obs1antib11s. Datum Rmnae ex Aedibus nostris S. Callisti dic 25 fcbruarij 1758 D. F. Card. Tainburinus Protector loco + sigilli

Petrus Mellini a Secretis

Nell'Archivio Arca 66 vol. A

El Rey en vista dc un dis1into Me1norial, que se la ha dirigido por parte dcl Procurador Generai dc la Congregacion Casinese, en el qual, y con lcgitimos docmnentos representa que aqui se la haya i1npedido la execucion a las dc!crnlinaciones de la dieta de su orden, con1puesta dcll'Abad Presidente, y Visi!a!orcs, con pretesto de doverse las rnis111as munirantcs dcl Regio Exequatur, a tenor dc las ultin1as ordenes de Su Majestad pĂŹdicndo dc elio e! Reparo, con10 de una novedad perniciosa, y pretendendo, quc per nlolivos asi de justicia, no deban ser sugetas al Regio Exequatur Jas Patenlcs, quc se cxpiden por los superiores mayores, ni alguna dc las dcternlinaciones, que por los 1nis1nos se hayen, segun las constitucioncs de su citado orden, ha resue!to Su Majcs1ad comode su [256v.J Real onlcn se 1ne previene con despacio de 26 del predicho por via de la Real Secrctcria dc estado, e del despacho Eclesiastico non pcnnita yo alguna novedad, y haya observar el solito practicado asta cl aiio dc 1755 por lo respetivo a la denominada Congre-


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gacion, estres de no obligarla al Regio Exequatur por los rescriptos, y ordines, quc de !a dieta, o Capitulo Generai, o de otros Supehorcs Mayorcs de diclrn Congregacion vayan en este Regno, segun però las facultadcs ordinarias de sus constìtutiones para el buen regulamenlo de la disciplina Monastica dc la Misnrn Congregacion, y esto no obstantc qualquicra vosolros orden que despucs haya dado Su Majcstad en con!rario, motivada no ya de la riferida Congregacion, si no tocante y derivada de qucstiones. E insiguìndo yo este Yoluntad cncargo se lo provengo, y comunico a Vuestra Sciloria para su puntual, y esacto cumplin1icnto dicha gracia, a Vueslra Sefioria Muchos Afios.

Palenno 8 de Abril dc I 757 El Marques Fog!iani

Lsegue sino a metà L 258r. una ulreriore trascrizione delle disposizioni del card. Ta1nburini trasmesse dall'abate presidente Roggeri in data 24 dicembre 1757. Segue, nello stesso foglio, copia esatta della facoltà per Bianco, Gravina, Sca1n1nacca già data, nu1 ora con datazione diffcrenlc: Datum ex S. Salvatore prope Papiam die 9 Maij 1758]

[258v.]

R.ino Padre

Approssimandosi il tempo, in cui la P. V. R.ma dovrà intraprendere il gravissimo minfatero alla sua sperimentata prudenza n1eritan1ente addossato di visitare i Monasterij della Congregazione, io che ho l'onore di essere Protettore, sebbene sia persuaso dello zelo che ella nutrisce per la 1nonas!ica disciplina, ad ogni modo non posso e non debbo dispensamli di non raccmnandarle alcune cose che principahnente nli stanno a cuore, come essenziali a conservarla in quello spirito d'osservanza, che si può sperare nelle presenti circostanze. E poichè il buon goven10 si temporale che spirituale de' Monasterij dipende unican1ente dalla condol!a e vigilanza de' Superiori ed Ufficiali, accioechè ogn'uno ben conmprenda quale e quanta sia la propria utorità, come e con quale discrezione la debba esercitare, sarà bene che V. P. R.111a inculchi ai Prelati e Collaboratorij ed agli Ministri di legere sovente, e meditare quanto ne' respettivi loro Capitoli della regola s'insegna, e si prescrive a ciascuno poichè egli è certo che dn questo sì facile studio si può ottenere l'i1nporlantissin10 vantaggio della unifonnità in tutti i nostri Monasterij di sorte che siccon1e una è la Congregazione, così ancora uno vi vegga essere lo Spirito, che l'anima e<l il nietodo, che la regola. Per rendere poi agevole ai Prelati il governare i sudditi a nonna della regola e delle Costituzioni, ottimo n1ezzo potrà essere l'aplicarsi di proposito a sbandire l'ozio da' Chiostri, essendo manifesto quanto questo sia atto a distrugere ogni bene, che s'intraprenda: Le raccomando perciò l'osservare ne' Monasterij come i Religiosi s'occupino, e trovandone oziosi, trattare coi Prelati di quello polrà farsi secondo i luoghi e le circostanze per ottenere, che si aplichino in alcuna cosa proporzionata alla capacità dei sogetti, sicchè non abijno a spendere tulto il tetnpo in discorsi inutili, che per lo più si agirano o in monnorazioni contro i Particolari, o in critiche sulla condotta de' Superiori.


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Gaetano Zito Vi è estremo bisogno che si rifletta seriamente sull'osservanza dcl voto di povertà per co-

noscerlo nella sua vera idea, e per assicurarsi se alcune cose, che ora si pratticano, si conciliano con esso, o più tosto siene pretesti, e lusinghe che lo eludino. Intanto ella si crnnpiaccrà infagarc se nei respettivi Monastcrij si faccia dai Religiosi il deposito reale, e trovandolo soltanto apparente, dovrà adoperare tutta la sua autorità, perchè s'adempia legge così importante; la quale osservata con quella sincerità d'animo che si deve, parrni non essere di legieri fondamento a porre in sicu-

rezza [259r.l la coscie1Jza, e fra gl'altri beni, che produce, tiene in freno le voglie che si suscitano facilmente dalla commodità di avere in pronto il danaro; e soprattutto inculchino a' Religiosi çhe non impieghino il danaro ai loro usi destinato in spese inutili e non convenienti allo stato di

po~

vettà, e che non si lusinghino che possa mai essere intenzione dc' Superiori il concedere loro alcun danaro, perchè lo spendino in tal guisa, violando il voto della Povertà, nella cui inosservanza siccome si può facilmente incorrere, così bisogna che vi si attenda con ogni possibile cautela. Continua esser deve la vigilanza ne' Prelati, che i Religiosi non diano da dire ai secolari esatti osservatori de' loro andamenti, e pronti censori delle lcgerezze che cmnmcttono. Perciò è necessario che inculchino aì sudditi la modestia, e la uniformità nel vestire, non permettendo nuovi tagli di Tonache, sfarzo nelle cintole negl'abiti di sotto, e nell'uso, che s'incomincia ad introdurre, di portare collari o di tela, o di seta, avvertendo ancora che i Mantelli siano veri mantelli talari. Siccome pure, che itnpediscano ai medesimi l'accesso alle Case de' Secolari, che hanno donne, ove si va, non già per affari, n1a per tener crocezie, e gettarvi il tempo con noia spesse volte de' stessi Secolari, quali pure se Ja ridono, quando veggono i Religiosi concorrere ai passeggi, cd osservarvi quello, che nulla ha che fare colla loro Professione. Ella avverta di far rimuovere dalle Celle tutto ciò che si trova di prezioso, o di superfluo, accioche quei che vi entrano vi conoschino la povertà Religiosa, e si edifichino nel vedere in essa, che chi l'abita sia veramente persona distaccata da commodi, e dalle vanità dcl secolo. E soprattutto esorti i Prelati ad invigilare, che si mantenga in vigoroso rigore la costun1anza di ritirarsi nel chiostro circa le 24 ore non penncttendo a veruno il pen1ottare fuori di esso, quando non ve ne sia un ragionevole e pietoso nlotivo. Questi sono quei punti principali che mi debbano premere sommamente come queJli che sono essenziali alla Congregazione al cui bene universale m'incombe per il nlio ufficio d'attendere con tutte le n1ie forze, ed io non p_osso al!ri1nente farlo, e sodisfare meglio alla mia coscienza, che col ricordare alla P. V. R.ma quello che veggo più necessario, protestandomi che ella doppo di ciò dovrà rendere conto strettissimo a Dio, se mai per troppa connivenza trascurasse (il che non credo già mai) di promuovere tutto quel buono, che f259v.] colla sua persuasiva, ed autorità potesse ottenere. Questi 1niei sentimenti si compiacerà comunicarli pure tali quali a ciascun Prelato, legenda se bisogna questa inia lettera, ed apertamente dichiarandosi che intendo con ciò discaricare sopra di lui, e la mia, e la di lei propria coscienza per tutto quello di pernicioso, ed irregolare che o si stabilisce, o s'introducesse nel di lui Monastero a cagione di puoca cura che si prendesse di conservare, e di promuovere la disciplina che ci è stata insegnata da S. Benedetto nella sua regola, ove tante volte ha egli inculcato agli Abbaii, che non lascino ma d'avere innanzi gl'occhi, che chi prende a governare le anime, ha da prepararsi a render conto nel tremendo giudizio, non pure della propria, ma di tutte quante sono quelle che averà avute soggette. E che sappiano, che a colpa dcl Pastore riferirassi quel meno d'utile che il Padre di famiglia sarà ritrovare nelle di lui Pecore insegnamenti tanto i1nportanti quanto lo è l'eterna salute, che insieme con altri hanno i Prelati nel


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Cap. 3 e LXIV della stessa regola, che bene spesso dovrebbe lf:gere e meditare per non traviare dal retto sentiero, che li dee condurre nel laborioso, e formidabile impiego che essi esercitano. Priego il Signore Dio che si compiaccia concedere alla P. V. R.ma prosperi viaggi, e così fruttuosi, come io vivamente desidero a magior gloria sua, mentre in tanto con distinta stin1a,

ed affetto mi raffermo. Di V.P. R.ma

R01na 16 Maggio 1758

Aff.mo per servirla sempre D. F. Card.le Tamburini

Ili.mo Signore Con dispaccio de' 23 del p. p. Mese ed anno per via della Regia Segreteria di Stato dell'Ecclesiastico d'ordine di S. M. mi si previene quanto sieguc: Ecc.100 Signore, Avendo il Ministro Generale dell'ordine di S. Francesco implorato con sua supplica dalla clemenza del Re si degnasse ordinare fossero esenti, e dispensati in codesto regno dalla ne<.:essità della concessione del regio Exequatur gli scritti, gl'ordini, e le Carte, o lettere provenienti dal 1nedcsimo o da' Capitoli Generali celebrati fuori di codesto stesso Regno diretti f260r.] o dirette alla buona disciplina, e governo della stessa Religione, ed a riparare i disordini, che sogliono succedere nelle Comunità dclii Religiosi, non n1eno perchè la povertà dcl sudetto ordine fosse rilevata dal dispendio che tira seco la concessione del Regio Exequatur alle menzionate scritture, che per ovviare a tutte le liti, che con questa occasione si suscitano da quei che con poco genio soffrono la subordinazione, la quale è tanta necessaria a suoi proprij Superiori, ed avendo anche esposto, che una novità introdotta da puoco tempo a questa parte, quella della concessione del Regio Exequatur alle riferite scritture, ha stimato bene S. M. di far seria1nente esaminare questo punto, e quanto al medesiino conce111e, perchè informata del fondamento delle suppliche, che uvea fatte il riferito P. Ministro Generale avesse potuto, usando della sua Clemenza, dar le providenze, e pigliar le detem1inazioni, che le avessero paruto convenienti, trattandosi d'un punto che interessa, ed abbraccia non solamente l'ordine del Ricorrente, si anche qualsiasi altra Comunità di Regolari, e di dare un siste1na fisso, e sicuro, che debba osservarsi in avvenire in sorniglianti occorrenze, senza che nella 1nenoma parte restino pregiudicali i diritti della Sovranità, tra quali non è l'ulti1no, anzi che debba connu1nerarsi tra' primi quello di essere di Sovrano Protettore de' Canoni della Disciplina del Clero si Secolare, che Regolare, e delle Costituzioni di questo. Pertanto S. M. doppo un maturo esame di tutto quello che se l'è fatto presente sopra questo assunto, e di quanto se l'è supplicato per parte del riferito Ministro Generale della Religion di S. Francesco, e si è servita, e degnata di risolvere, e determinare per punto Generaie che in avvenire Jebbano restar sogetti, come lo è, ed è stato sempre alle Leggi, e stabili1nenti di codesto Regno di Sicilia, e consequente alla indispensabile necessità del Regio Exequatur le Bolle Apostoliche e rescritti Pontificij, e con tutti gl'allri Principi, Gran Signori, Comunità che tengono Sovranità (lo che non debba intendersi per la Comunità dc' Regolari) per darsi a tali Bolle Apostoliche, e rescritti Pontificij, o d'altri Sovrani, e Comunità che tengono Sovranità il corso, che convenga nell'Esa1ne, e discussione della domanda del Regio Exequatur, in cui si dovrà esattamente osservare quanto sinora costantemente si è osservato, pratticato, e quanto nelle Sicule sanzioni si trova stabilito. Però per lo respettivo di poi, e rescritti, ordini, carte.


Gaetano Zito

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[260v.] o lettere de' Generali, o d'altri Superiori Regolari, e de' Capitoli Generali de' medesimi, con che non derivano di Bolle, Brevi e rescritti Pontifici], e non si tratti di Patenti di Generali per la elezione de' Superiori, ed Ufficiali contrarie alla libertà de' rispettivi Capitoli, ed a statuti di ciaschedun ordine Religoso, in qual caso dovranno soggiacere alla prescritta ordinata indispensabile sollcnnità del Regio Exequatur; che siano relativi solo alla interna Economia, disciplina e governo de' riferiti Regolari, debbano essere esenti dalla Sogezione del Regio Exequatur, parendo a S. M. proprio della S. R. Pietà che tali punti d'intenrn Economia, disciplina e governo dc' Regolari siano della ispezione, e restino sotto il regolmnento de' rcspettivi Generali, e Superiori dell'Ordini regolari, affinchè si conservi in essi al possibile lo Spirito de' fondatori. E per avere anche considerato S. M., che i Superiori de' Regolari polcssero contenersi nel suo dovere, e ne' limiti dell'Ordinaria facoltà del Giudice della Monarchia Tribunale competente, anco quelle Appellazioni de' Regolari ìn qualsiasi caso di gravame, e dell'inosservanza delle Costitu1.ioni de' 1nedesimi, per lo che basterà, che con tali distinte scritture non si usi altra fonnali!à che quella di sernplicc1nente presen1arle al Giudice della Monarchia, perchè osservandole possano avere libero corso, quando non s'incontri riparo, qualche cautela, e 1nolto bastante1nente sapendosi, che in tutti i casi si è pern1esso a' Regolari in codesto Regno di ricorrere in qualsiasi occorrenza, e circostanza d'intentare, o volere i Superiori inferire ad alcuno dci suoi sudditi pregiudizio o gravarne al Giudice riferito della Monarchia per le opportune providenze d'ordine Regolare. Partecipo a V. E. la riferita soprana detenninazione per la quale ha avuto S. M. presente il dispaccio del primo di Marzo del 1733 del Viccrè di quel tempo, reali ordini dcl 1745 e 1752 e dc' 7 di Luglio ! 753, che si son presi ad esame

l26lr.l in questa congiuntura, cd anco della gra1.ia accordata da S. M., e PP. della Congregazione Cassinesc fsic!l in data dc' 26 Marzo 1757 affinchè V. E. resti in questa intelligenza e con1unichi questa sovrana determinazione a codeslo Avvocato fiscale del Regio Patrimonio ed al Giudice della Monarchia per lo esatto adcn1pimento, ed esecuzione di quanto S. M. ha determinato, e disposto. Comunico a V. S. Ili.ma questo rescritto per la sua esatta e puntuale osservanza nella parte che corrisponde alla sua ispezione. Dio guardi a V. S. IIJ.111a molti anni come desidero. Palenno IO Gennaio 1759 Il Marchese Fog!iani Jll.n10 Monsignor Giudice della Monarchia Nos D. Petrus Celestinus Montalto a Siracusis Abbas S.ti Placidi Messanae et Visitator, ac D. Antonius l\1aria Spadafora Claustralis Prior SS.n1us Benedicti et Aloysij Convisitator clectus. D. Bemardun1 Bianco, D. Agathinum Palcmò. D. Gaetanun1 La Valle, D. Petrun1 Tedeschi Novitios diligenti cura a nobis examinatos, e! idoneos in on1nibus repertos ad solcmncm professioncm, anno probationis expleto adimicti posse nostro calculo cense1nus, in cuius rei fide1n hanc declarationen1 numu nostra firn1avimus, solitoque sigillo 1nunivimus. Datu1n Catanae dic vigesima quarta mensis .lulij anno 1758. D. Petrus Cclcs1inus Montalto Abbas et Visitator D. Antonius Maria Spadafora Prior et Convisitator De nlandato R.mi Praesulis D. Andreas Spucches Cancellarius


Il monastero catanese di S. Nicola l'Arena

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Nos D. Nicolaus Maria Roggeri a Finario Abbas ac Pracses Cassinensis Visa atquc perlecta testalione Superiorum Monasterij S. Nicolai de Arenis ad nos

trans~

missa in qua cum Juramento asseritur D. Johanne1n Baptistam Conversano a Catana et D. Carolum Arezzi a Siracusis omnibus neccssarijs requisitis a Sacra Congregatione prescriptis

praedito.~

esse,

ipsosque sccretis eorumdem Superiorum calculis approbatos fuisse, ut ad habitum Religionis servata Apostolicarum sanctionum, et constitulionum nostrarum fonna admitti possint, et valeant authoritatc qua fungimur facultatc in Domino 1ribui1nus. Datum in S. Salvatore Papiac 17 Aprilis

1759. D. Nicolaus Maria Roggeri Abbas et Praeses loco+ sigilli D. Nicolaus Maria Galesi Procancellarius de inandato

f26lv. foglio biancoj [262r.-263v.] Edictu1n scu Indullun1 super reditu Religiosorum Apostatarum, et fugitivorum ad eormn cuiuslihet Rcligionenl, ac Poenarum, et Pocnitentiarum condonatione; nec non transitu ad alium Ordinem. Romac MDCCLIX Ex Typographia Rev. Camerac Apostolicae. [concesso in occasione dcli 'anno santo indetto da papa Clernente XIII; a firma del card. Galli, Penitenziere Maggiore: 28 febbraio 1759]



LE RELAZIONI «AD LIMINA» DELLA DIOCESI DI CATANIA (1762)

AOOLFO LONGHITANO* I. IL VESCOVO SALVATORE VENTIMIGLIA

Fra gli esponenti del nuovo clima culturale, affermatosi in Sicilia a partire dalla fine del secolo XVII, il vescovo Salvatore Ventimiglia può essere considerato uno dei personaggi più rappresentativi. Gli storici che, a diverso titolo, si sono occupati di questo periodo, se da una parte si sono sentiti obbligati ad interessarsi della sua figura e della sua opera, dall'altra hanno incontrato non poche difficoltà ad inquadrare la sua personalità nei molteplici movimenti culturali del tempo'. Poiché il Ventimiglia non ha lasciato scritti di rilievo', l'unica

* Docente di Di1itto canonico nello Studio Teologico S.

Paolo di Catania. Fra coloro che si sono occupati del Ventimiglia nel tratteggiare i fermenti culturali del secolo XVJII ricordiamo, in particolare: D. ScINÀ, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decin1ortavo, (a cura di V. Turane), 3 voll., Edizioni della Regione Siciliana, Pale1mo 1969; C. MusUMARRA, La cultura a Catania tra la fine del sec. XVIII e la prin1a metà del sec. XIX, in Archivio Storico per la Sicilia Orientale (~Asso) 54-55 (1958-1959) 65-122; M. CONDORELLI, Note su Staio e Chiesa nel pensiero degli scrittori giansenisti siciliani del secolo XVIII, in Il Diritto Ecclesiastico 68 (1957) 305-385; G. GIARRTZZO, Giovanni Agostino De Cosn1i, in Illuministi italiani, VII, Ricciardi, Milano-Napoli 1965, 1079-1098. lo., lfh1n1inismo, in Storia della Sicilia, IV, Società editrice storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1980, 711-815; F. RENDA, Dalle r(forn1e al periodo costituzionale (1734-1816), ibid., VI, 183-297; G. G1ARRIZZO,La Sicilia dal Cinquecento all'unità d'Italia, in Storia d'Italia (diretla da G. Galasso), XVI, UTET, Torino 1989, 97-793: 1

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Adolfo Longhitano

possibilità di ricostruire le matrici del suo pensiero era costituita dalle scarne testimonianze dei contemporanei o dalla sua intensa attività di promozione culturale e di riforma, che caratterizzò il governo pastorale di Catania e gli anni palermitani successivi alle sue dimissioni. Non si può affermare che queste ricerche abbiano dato risultati di particolare interesse. Di solito non si è andati oltre a generiche classificazioni che, se permettono di cogliere particolari aspetti della sua personalità, possono anche indurre a darne un quadro tutt'altro che obiettivo ed esauriente. Sulla base di elementi non sempre chiari e convergenti, il Ventimiglia è stato definito di volta in volta giansenista, illuminista, muratoriano, genovesiano, leibiniziano, wolfiano, massone ... Non disponiamo, comunque, fino a questo momento di uno studio esauriente su questo vescovo riformatore, che ha segnato con la sua opera la vita culturale siciliana del secolo XVIIP. I profili che ci

2 L'elenco ci viene dato da uno dei suoi biografi: «l) Reggio Pietro J\1. della Coinpagnia di Gesù, rettore del Con.vitto de' nobili: sua laudazione funebre, detta in purgato latino dal convittore Salvatore Ventimiglia di anni 12, co1nposta dal P. Emn1. Aquilera, Palenno 1734 f... ]; 2) Aquilera Em1nanuele, storico del1a Co1npagnia di Gesù. Elogio funebre del suo discepolo Salvatore Venti1niglia, Palenno 1740 [... J; 3) Orazione funebre per la 1norte del D. Francesco Notar Bartolo Duca di Villarosa, Palermo 1750 [... ]; 4) Discorso sopra !'epoche felici pc' Principi protettori delle arti e delle scienze, letto nell'accadenlia del Duca di Pratameno in Palermo 1755 in 4°; Salvaiore Ventimiglia ex Prìnc. Behnontis Panormi; 5) Dc Christi resurgentis gloria. Oratio in sacello pontificio habita, Ro1nae 1774 [... /; 6) la suddetta lettera pastorale [del 27 dicembre 1757J; 7) L'ufficio e la Messa propria di S. Euplio [... ]; 8) 11 Catechismo della Dottrina Cristiana [... ]; 9) Le preghiere giornaliere o l'orazione co1nune da farsi la manina e la sera stainpate nella tipografia del Sen1inario di Catania l'anno 1768; 10) Affetti d'un'anima penilente che si apparecchia alla nlorte cioè luoghi scelti della Divina Scrittura da suggerire da' sacerdoti, dati alla luce in Palermo l'anno 1796; 11) L'apologia a difesa della iscrizione Decen1viri Procuratorum da lui fatta e data alla luce sotto nome alieno 1779, in 4°; 12) Un'altra iscrizione scrisse Mons. Ventin1iglia, trovandosi in Palcnno nel 1774 [... ] (P. CASTORINA, Elogio storico di Monsignor Salvatore Ve11tin1iglia, vescovo di Catania, Tip. Giacoino Pastore, Catania 1888, 122-125). 3 Nell'anno scolastico 1974-1975, relatore il prof. S. Leone, è stata discussa presso la facoltà di lettere dell'università di Catania la tesi di laurea da 1. DENARO, Salvatore Ventin1iglia vescovo di Catania ( 1757-1772), il cui testo dattiloscritto può essere consultato presso la biblioteca regionale universitaria. Anche se sono stati utilizzali alcuni docu1nenti degli archivi della curia arcivescovile e del capitolo cattedrale, la figura del Ventimiglia viene delineata prevalentemente sulla base delle notizie e dei giudizi formulati negli studi preesistenti.


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hanno lasciato i contemporanei o gli storici del secolo successivo, quando non assumono uno stile marcatamente apologetico, si limitano ad illustrare alcuni momenti salienti della sua vita e della sua attività riformatrice4. Soprattutto nell'ultimo decennio sono stati pubblicati alcuni saggi su aspetti particolari dell'attività pastorale del Ventimiglia'. I documenti che pubblichiamo possono dare un notevole contributo alla comprensione della sua personalità e una risposta ad alcuni interrogativi posti dai suoi biografi 6 • a)

Nascita, formazione, ministero palermitano

Il nostro vescovo nacque a Palermo il 15 luglio 1721 da Vincenzo Ventimiglia e da Anna Maria Statella 7 una famiglia di antica nobiltà che, nel corso dei secoli, aveva avuto un ruolo preminente

4 G. SARDO, Elogio accaden1ico di Mons. D. S. Ve11tin1ig!ia de' Principi di Beh11011te, già vescovo di Catania, G. Pulcio, Catania 1797; lS. ZAPPALÀ GRASSO], Me111oria intorno alle più cospicue azioni di Mons. Salvadore Ventilniglia già vescovo di Catania e poi arcivescovo di Nico1nedia, Solli, Palermo 1797; G. E. ORTOLANI, Biogrc~fia degli uon1ini illustri della Sicilia, I, Gervasi, Napoli 1817, (l'ìenza nu1nerazione di pagine); P. CASTORINA, op. cit. 5 A. GAGLIO, Lettere di Mons. Venthnig/ia, in Asso 38-39 (1942-1943) 171183; G. DI FAZIO, Salvatore Ventilnig!ia e il ri1111ovan1ento della catechesi nell'Italia del Settecento, in Orie11tc11nenti sociali (1981) 1, 63-102; ID., li grande inquisitore e !'eren1ita, in Synaxis 1 (1983) 261-293; ID., Vescovi r(fonnatori e cristianizzazione della società nella Sicilia del Se!!ecento, in Synaxis 2 (1984) 447-472; R. AZZARO PULVIRENTl, La rinascita del to111is1no in Sicilia nel secolo XIX, LEV, Città del Vaticano 1986, 56-69; P. SAPIENZA, 11 rilancio del se111inario di Catania durante !'episcopato di Mons. Salvatore Ventin1ig!ia (1757-1772), in Synaxis 7 (1989) 329372. 6 Nonostante l'importanza degli elerncnti provenienti dai documenti che pubblichiatno, restano ancora da chiarire molti aspelli della personalità del Vcnti1niglia. Sarebbe auspicabile trovare il suo archivio personale per avere elc1nenti utili sulla sua forn1azionc culturale e sugli anni palennitani prima della consacrazione episcopale e dopo le sue din1issioni. 7 Dal certificato di batlesi1no, accluso al processo informativo per la sua notnina vescovile, risulta che fu battezzato lo stesso giorno della nascita nella parrocchia San Nicolò alla l(alsa e gli furono imposti i nomi di Salvatore, Ignazio, Rosolino, Enrico, Francesco, Gaetano, Canneto, Gaspare, Baldassarre, Melchiorre, Girolamo, Giovanni, Cristoforo, Nicola, Giuseppe e Mariano (ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Processus Datariae [=Po] 134, 503r).


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nelle vicende siciliane'. Il primogenito Giuseppe Emanuele, che ricoprì incarichi di rilievo nella città di Palermo e alla corte di Napoli', aveva acquisito dal nonno Francesco il titolo di principe di Belmonte. I pochi dati sicuri che ci hanno tramandato i primi biografi di Salvatore Ventimiglia non ci permettono di delineare il quadro completo della sua formazione personale. Frequentò a Palermo il collegio Carotino dei gesuiti, dove ebbe come maestro il p. Emanuele Aguilera10. La sua personalità appare molto complessa: dotato di una spiccata intelligenza e spinto da un vivo desiderio di allargare le sue conoscenze, accettò gli innumerevoli stimoli culturali che gli offrivano il suo ambiente e il suo tempo 11 ; tendente alla solitudine e alla vita con-

8 La famiglia Ventiiniglia «Secondo alcuni autori lrac origine dai conli di Ventimiglia di Liguria, discendenti dai Lascari, i1nperalori di Costantinopoli; secondo altri autori discende in linea retta n1ascolina dai principi NorJnanni, dominatori della Sicilia. Si crede che il primo a passare in Sicilia sia stato un Guglielmo, conte di Venliiniglia, nel 1242» (V. SPRETI, Enciclopedia storiconobi/iare italiana, VI, riproduzione anastatica, A. Forni, Bologna 1981, 854-857). 9 Nato a Palermo nel 1716, giovanissimo fece il suo ingresso nella vita pubblica nel 1736 con la nomina di capitano di giustizia, alla quale seguì, nel 1744, quella di pretore (capo dell'ainministrazione civica), cariche che ricoprì una seconda volta nel 1748 e nel 1757. A una chiara visione della cosa pubblica rispondeva la capacità di assumere pronte iniziative, come ad es. quelle disposte nel campo della difesa militare e della sanilà pubblica (coordinò i servizi sanitari della Sicilia durante l'epidemia colerica di Messina). Nel 1750 e nel 1758 fu deputato del Regno. Nel 1760 fu nominato a1nbasciatore straordinario a Venezia e al suo ritorno (1761) svolse le mansioni di maggiordon10 di catnera del sovrano, maggiordomo maggiore della regina (1767) e del re ( 1769); nel 1771 ebbe la nomina di grande di Spagna di pritna classe. Morì il 2 marzo 1777 (F. M. VTLLABIANCA, Della s;ci/ia nobile, 1/2, Bentivenga, Palenno 1754, 82; V, 1775, 106-107; G. SCICOLONE, Beln1onte, Giuseppe En1anuele Ventindg/ia e Statella principe di, in Dizionario Bior;rafico degli Italiani [=DBI], 8, Treccani, Roma 1966, 20-22). 10 Il noto u1nanista della compagnia di Gesù «l'addottrinò nelle greche leltere e latine con tale 1neraviglioso profitto, che appena pervenuto all'età di 12 anni distese in purgato latino, rccilò con grazia e diede alle stampe una bene ragionata orazion funebre per la morte del p. Pietro Maria Reggio. Non trascurò in quei suoi verdi anni lo studio dell'ebraica lingua, applicatosi pure alle lingue volgari della nostra Europa, e massime a quella nel cui linguaggio trovansi libri dell'arti, delle scienze d'ogni 1nanicra, la quale sapea a pe1fezione né più né meno che un nazionale medesin10» (S. ZAPPALÀ GRASSO, op. cit., 7-8). 11 Il Ventimiglia non appare come il frutto del caso. Va sottolineato che in questo periodo l'ambiente culturale ecclesiastico della città di Palenno fu in grado di produrre personaggi di altissiina levatura come G. B. Caruso, M. Settimo, L. Gioeni, G. Longo, i fratelli Di Blasi, F. Testa, G. Di Giovanni, A. Pantò ... (D. ScrNÀ, op. cit.,


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templativa, aveva una intensa vita interiore e appariva tormentato dalla convinzione della sua indegnità e dai suoi peccati 12 • Non siamo in grado di stabilire il periodo e i motivi che lo indussero ad allontanarsi dall'ambiente dei gesuiti per passare a quello dei domenicani, ai guaii probabilmente si deve il diverso indirizzo dato alla sua vita. Uno dei punti più sicuri di riferimento, che possono aiutarci a ricostruire questo momento delicato della sua formazione, è il p. Antonino Lo Presti o. p., suo consigliere e direttore spirituale 1' .

l, 133-158; II, 147-179; M. CONDORELLI, op. cit.; G. GIARRIZZO, I/luminismo, cit., 712-815). I primi biografi del nostro vescovo evidenziano il suo impegno per lo studio delle varie discipline: «continua era la sua applicazione su i libri, che recavasi fin nei diporti e nella medesima n1enSa e specialmente spendea su di essi lutto il tempo della notte, giacché era di breve sonno. Proceduto poscia negl'anni avanzassi troppo avanti nello studio delle scienze: filosofia, teologia, sacri canoni, padri, istoria profana e specialmente ecclesiastica, disciplina antica e moderna della Chiesa e soprattutto la Sacra Scriltura furono oggetto continuo della sua infaticabile applicazione ed imperciò acquistossi una gran faina di letterato e fu sempre tenuto per uno de' più dotti uomini del nostro Regno» (S. ZAPPALÀ GRASSO, op. cit., 8). 12 Questo suo atteggia1nento ricalca l'indirizzo proprio del rigorismo agostiniano e do1nenicano, che sottolineava la grandezza di Dio e il nulla dell'uomo. Nella lettera pastorale, inviata dopo la sua nomina, si vedano le espressioni di confusione e di trepidazione che egli manifesta verso le responsabilità assunte con l'ufficio di vescovo (P. CASTORINA, op. cit., 112-122). Potrebbero essere considerate parole di circostanza o di falSa modestia se non trovassero riscontro nelle motivazioni addotte per le sue dimissioni. 13 Nato a Camn1arata nel 1698, prese l'abito domenicano nel 1724, dopo aver compiuto gli studi ecclesiastici ed essere stato ordinato sacerdote. Completò la sua formazione teologica nelle scuole de11'ordine e conseguì la laurea a Roma nel 1735. Insegnò per diversi anni ad Agrigento nel seminario e nel collegio dei Santi Agostino e To1nmaso, resse lo studio teologico dei don1enicani di Palermo. Il suo rigore 1norale e il suo temperamento polemico lo indussero a partecipare attivamente ai dibattiti e alle controversie che caratterizzarono l'ambiente palermitano di quegli anni: in una pubblica lettera condannò gli spettacoli teatrali che si tenevano nel monastero benedettino di San Martino de11e Scale, in uno scritto difese contro gli attacchi dei gesuiti l'opuscolo del Muratori Deffa regolata divozione de' cristiani (1747). Morì nel 1784 (M. CONIGLIONE, La provincia don1enicana di Sicilia. Notizie storiche docun1entate, Tip. F. Strano, Catania 1937, 473-474; D. SCINÀ, op. cit., II, 147, 150151). Il Catalano e il Cigno ritengono che sia dovuto al suo insegnamento nel .seminario di Agrigento il "filogiansenis1no" del De Cosmi (E. CATALANO, Liberalismo econon1ico e religioso e filogiansenisn10 in G. A. De Cosn1i, Dante Alighieri, Milano-Roma-Napoli 1926, 30-31; G. CIGNO, Giovanni Andrea Serrao e il giansenisn10 nell'Italia meridionale [secolo XVIII], R. Istit. Assistenza, Palermo, 1938, 338-344). La presenza del p. Lo Presti è costante nella vita del Ventimiglia, che se ne servì come consultore durante il suo governo pastorale a Catania (ARCHIVIO DELLA CURIA ARCIVESCOVILE DI CATANIA, Tutt'Atti [=TA] 1765-1766, 195v-200v);


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Probabilmente sotto la sua guida compì le scelte più importanti della sua vita. Il Veutimiglia, in un primo tempo, si indirizzò alla vita contemplativa. All'età di 21 anni (verso il 1742) si rifugiò nella certosa di Santo Stefano del Bosco in Calabria, ma dopo undici mesi di permanenza un violento terremoto Jo indusse a ritornare a Palern10 14 • Per circa un anno, fino all'ordinazione sacerdotale (16 agosto 1744 15 ), dimorò nell'oratorio di San Filippo Neri detto dell'Olivella". La permanenza del Ventimiglia in una casa dell'oratorio può avere una particolare rilevanza per delineare la sua personalità, se si tiene presente che gli oratoriani facevano parte del fronte antigesuita e si collocavano fra i cattolici illuminati". I suoi biografi non ci dicono nulla sul decennio trascorso dalla sua ordinazione fino alla laurea in ulroque iure, che conseguì alla Sapienza di Roma (8 novembre 1753 18 ). Neppure della sua permanenza a Roma e del suo corso di studi giuridici abbiamo notizie di particolare utilità, al di fuori dei puncra discussi nclI1esa1ne di laurea e del suo relatore 19 • Possiamo ritenere prosen1bra, inoHre, che il padre domenicano abbia avuto una certa influenza nelle sue di111issioni (P. CASTORINA, op. cit., XLIX-L) e lo troviamo a Palermo, al tribunale del S. Uffizio, tncntre il nostro vescovo era inquisitore generale (V. LA MANTIA, Origine e vù·ende dell'inquisizione in Sicilia, Sellerio, Palermo 1977, 142). 14 S. ZAPPALÀ GRASSO, op. cit., 4. 15 PD 134, 505. 16 S. ZAPPALÀ GRASSO, op. cit., 39. Il Cigno sostiene che il Venti1niglia fosse un filippino (G. CIGNO, op. cit., 344); 1na questa affermazione, oltre che dai biografi, è smentita dalla documentazione acclusa al processo inforn1ativo per la no1nina a vescovo di Catania, dove egli è indicato co1nc appartenente al clero palennitano e non all'oratorio di s. Filippo Neri. 17 Sebbene ci sia una sostanziale differenza fra l'oratorio francese e l'oratorio italiano, tuttavia anche in Italia si noia una netta presa di posizione di questi sacerdoti contro le tesi dei gesuiti e una si1npatia verso la teologia agostiniana. Si veda quanto scrive il Datnnlig a proposito del circolo che si riuniva alla chiesa Nuova di Rorna (E. DAMMIG, Il n10Fil11ento giansenista a Ron1a nella seconda 111età del secolo X\1111, Biblioteca Apostolica, Città dcl Vaticano 1945, 194-212; A. PLICHE - V. MARTIN, Storia della Chiesa, tr. it., XIX/2, SAIE, Torino 1975, 788-790). 18 Po 134, 506r-v. 19 Nel diplo1na di laurea accluso alla docu1nentazione dcl processo infonnativo per la nornina vescovile leggiamo: «[ ... ] puncta sihi assignata in iure canonico, cap. I, de fi'cleiussio11ib11s, et in iure civili l. en1pti actio Cod. de evictionibus [ ... ]» (ihid., 506r). Relatore fu Paolo Francesco Anta1nori che, oltre ad essere docente, ricopriva diverse cariche nella curia ro1nana. Nel 1760 fu no1ninato rettore de.Jl'università; esercitò quesr'ufficio per venti anni, fino alla no1nina di cardinale e di vescovo di


Salvatore Ventim iglia (busto nella biblioteca regionale universitaria di Catania)



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babile che a quel tempo il suo orientamento culturale fosse già ben definito, se si tiene presente che il Ventimiglia conseguì la laurea all'età di trentadue anni. Inoltre, considerando la posizione conservatrice che il nostro vescovo dimostra di avere sui rapporti Chiesa-Stato, c'è da ritenere che gli studi fatti alla Sapienza non siano stati determi· nanti nella sua svolta culturale'°. A distanza di qualche anno dal suo rientro a Palermo dopo il conseguimento della laurea, l'arcivescovo Marcello Papiniano Cusani, nonostante la sua giovane età, lo nominò vicario generale". Questa scelta, se da una parte è indicativa per la stima di cui godeva il Venti· miglia, dall'altra ci consente di acquisire altri elementi utili per delineare la sua personalità. Il Cusani, infatti, non era un personaggio di secondo piano". Il giovane prelato, negli anni trascorsi accanto a lui,

Orvieto (11 dicctnbre 1780) (Antan1ori Francesco Paolo, in(}. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, J, Tip. e1niliana, Venezia 1840, 161; M. DE CAMILLIS, Antan1oro Paolo Francesco, in Enciclopedia Cattolica, 1, Città del Valicano 1948, 1422; R. RITZLER - P. SEFRIN, Hierarchia cathohca 111edii et recentioris aevi, VI, Il Messaggero di S. Antonio, Patavii 1968, 33 e 426). 20 Le aperture che si erano avute alla Sapienza con l'insegnamento affidato a personaggi che gravitavano nell'area dci cattolici illu1ninati (vedi la no1nina di G. Bottari per l'insegnamento di storia ecclesiastica e di controversie e quella di P. Giorgi per quello di Sacra Scrittura), non avevano toccato le facoltà giuridiche, nelle quali l'insegnainento seguiva la dottrina tradizionale. La rifonna del 1748 di Benedetto XIV, ollre a sancire la prassi dei concorsi per i lettori, ridusse i corsi di giurisprudenza per creare due corsi scientifici di chimica e di 1nate1natica superiore (E. DAMMfG, op. cit., 66 e 155; M. R. Dr SIMONE, La "Sapienza" ron1ana nel Settecento. Organizzazione universitaria e i11seg11an1e11to del dirillo, Edizioni dell'Ateneo, Ro1na 1980, 130-138). 21 Il teste fr. Luigi da Catania, nel processo inforn1ativo per la no1nina di vescovo, depone: «Egli quasi sino al presente è stato Vicario Generale dell'Arcivescovo di Palenno, essendosi in questo in1piego portato non solo lodevoltnente ma anche prudente1nente e con piacere di tutta la città» (Po 134, 50lr). 22 Il Cusani era nato nel Beneventano il 17 febbraio 1690. Con1pì g!i studi giuridici e teologici a Napoli dove, frequentando i circoli antigesuiti e antispagnoli, conobbe e frequentò personaggi di spicco nella cultura europea del tetnpo: Giannone, Vico, Galiani, Genovesi ... Dopo avere insegnalo diritto civile e canonico a Napoli e Torino, accettò la nomina di arciprete ad Allan1ltra (1746), dove si distinse per una rifonna ispirata al cattolicesin10 illu1ninato e all'agostinisn10: riqualificazione culturale e pastorale del clero, attuazione del catasto onciario, istituzione del rnonte moltiplico, fondazione di una università degli studi ... Nel 1752 fu nominato arcivescovo di Otranto, dove ri1nase pochi mesi, perché nel 1754 fu promosso alla sede di Palermo dove, accollo con cntusias1no da!J'accaden1ia dcl Buon Gusto, diede vita ad una vasta attività di riforma, avendo coine suoi collaboratori Francesco Testa e


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avrà avuto più di un suggerimento per il suo futuro ministero episcopale di Catania. Le qualità morali ed intellettuali e le buone capacità di governo dimostrate dal Ventimiglia indussero Carlo III a presentarlo al papa ·come vescovo della diocesi di Catania, vacante per la morte di Pietro Galletti 23 .

b) Identità culturale

La principale difficoltà, che si è incontrata per delineare la matrice culturale del Ventimiglia, è strettamente legata all'«intricatissimo problema» dell'individuazione storica del giansenismo italiano 24 • L'eccessiva polarizzazione del binomio gesuiti-giansenisti, dovuta alle polemiche e alle reciproche accuse che si scambiavano, da una parte, i difensori della scolastica e della controriforma e, dall'altra, coloro che si prefiggevano un rinnovamento a partire dalla più antica tradizione della Chiesa e dalle nuove correnti filosofiche, non aiutarono la storiografia dei secoli seguenti alla individuazione dei diversi movimenti culturali che caratterizzarono il secolo XVIII". Solo dopo l'ultima Salvatore Ventimiglia: riordinò gli studi giuridici e filosofici del clero, introducendo la conosccnz.a di Locke e assu1ncndo un marcato indirizzo antigesuitico; fu di sostegno all'affermazione del potere :o,ovrano sui particolarismi feudali, preparando il terreno alla futura rifonna del Caracciolo. Per questa sua linea politica entrò in contrasto con i gesuiti e la nobiltà siciliana. Afflitto da una incipiente cecità si dimise nel 1762 e si ritirò a Napoli, dove morì nel 1766 (A. GISONDI, Cusani [Cusano] Marcello Papiniano, in DBI, 31, Ro1na 1985, 502~505). 23 Nella presentazione del re leggia1no: «1-Iallandose vacante en 1ni Rcyno de Sicilia la Iglesia y obisbado de Catania [ ... J he eligido y nombrado para ella a D. Salvador Ventimiglia, Vicario Generai de la Iglesia de Palenno, por su doctrina, y rcligìosas costun1bres, y por su acertada conducta en el desempefio de dicho empleo de Vicario Generai, por esperar que, 1nediante esro, serà por e! la referida lglesia de Catania bien regida, y ad1ninistrada [... ]» (PD 134, 509r). Il Gisondi affenna che fu lo stesso Cusani a proporre la nomina di F. Testa e di S. Venti1niglia per le sedi di Monreale e di Catania (A. GISONDI, op. cii., 504). 21 ' L'espressione dcl Codignola è indicativa della complessità della questione e della fatica con cui si è giunti a delle conclusioni ormai pacifican1ente accettate (E. CODIGNOLA, Illun1i11isti, giansenisti e giacobini nell'Ira!ia del Sel!ecento, La Nuova llalia, Firenze 1947, VIIT). 25 Jemolo, nel tentativo di scrivere la preistoria del giansenisn10 italiano, non riuscì a segnare con chiarezza la linea di de1narcazione fra i "così detti" e gli


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guerra si fece notare con insistenza che non era possibile comprendere sotto la qualifica di "giansenismo" le molteplici correnti di pensiero che si contrapposero ai gesuiti 26 . Le soluzioni prospettate sono diverse: c'è chi definisce "illuministi cattolici" coloro che, pur contrapponendosi ai gesmt1, non possono essere qualificati come giansenisti 27 ; altri, invece, preferiscono l'espressione "catholiques éclairés" o "cattolici illuminati""; altri ancora, servendosi di un'espressione introdotta dalla storiografia tedesca, parlano di Aujk!iil"unR (rischiaramento) con l'aggiunta dell'aggettivo "cattolico", che non intende restringere il fenomeno ad una sola confessione, escludendo il mondo rifonnato, ma sottolineare che le forze trainanti di una più generale Aufkliirung cristiana sono in sostanza cattoliche29.

autentici gianscnisli (A. C. JEMOLO, Il gianse11is1no in Italia prirna della rivoluzione. Lalerza, Bari 1928). E. DAMMIG, op. cii., fin dal titolo del suo volume (li 111ovin1ento giansenista a Ron1a nella seconda 111età del secolo XVIII) ci fa intuire che intende eludere il proble1na, perché l'espressione "movi1nento giansenista" può comprendere sia i giansenisti veri e propri, sia coloro che, in qualche n1odo, vengono ritenuti siinpatizzanti dèlle loro dottrine. Comunque, nel corso della trattazione, egli si serve della distinzione filogiansenisti-giansenisti senza, tuttavia, preoccuparsi di approfondire l'argon1ento. Sul giansenismo italiano e la relativa storiografia vedi anche A. FLICHE- V. MARTIN, op. cit., XJX/l, 408-426. 26 Il giansenisn10 «va distinto non solo dall'illuminismo laico, dalla rnassoneria, dal giacobinismo unitario, ma anche dall'illuminismo cattolico, dal cristianesimo giacobino, oltre che dal cattolicesin10 liberale della restaurazione>) (E. CODIGNOLA, 27

op. cit.,

VIII).

lhid., 45-58. 28 E. APPOLIS, Entre jansenistes et zelanti. Le "tiers parti" catholique au XVII/e siècle, Picard, Paris 1960. Si deve soprattutto a questo autore se l'argomento viene affrontato e sviluppato fino alle sue ultime conseguenze. La storiografia più recente, anche se gli ritnprovera di avere fonnulato uno schema eccessivatnente atnpio e onnico1nprensivo, gli riconosce il inerito di avere individuato la soluzione dcl problen1a. 29 A. FuCJJE - V. MARTJN, op. cit., XIX/1, 60-69: XIX/2, !058-1061, 10811094; M. ROSA, Politica e religione nel '700 europeo, Sansoni, Firenze 1974; Io., Introduzione a/l'Aufkliirung cattolica in Italia, in AA. Vv., Catto!icesin10 e /11111i nel Settecento italiano, llerder, Ro111a 1981, 1-47; D. MENOZZI, «At~fkliirung» delle Chiese cristiane e ((chrétiens éclairés». In 111argine ai lavori della terza sezione del Congresso C.J.J-1.E.C. di Varsavia, in Critica storica 16 (1979) 150-161; M. BATLLORI, L'llfun1inis1110 e la Chiesa, in AA. Vv., Problen1i di storia della Chiesa nei secoli XVIl-XVl/I, Dehoniane, Napoli 1982, 191-202.


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Naturalmente non si tratta di una semplice questione terminologica. Anzitutto c'è da individuare con chiarezza questo movimento cattolico, in modo da poterlo distinguere dal giansenismo; poi c'è da scegliere fra le diverse denominazioni proposte quella che è ritenuta più idonea 30 • Per Appolis i cattolici illuminati o "terzo partito" non sono i figli spuri del giansenismo; i due movimenti hanno una comune origine nella concezione agostiniana della libertà e della grazia e nella volontà di riformare la Chiesa a partire dal modello idealizzato della primitiva comunità cristiana. Si tratta di un movimento culturale già presente al Concilio di Trento, che si trovò in minoranza nelle scuole per la soverchiante presenza dei gesuiti. Fra i suoi promotori e sostenitori troviamo gli agostiniani, i domenicani (in un secondo tempo anche i benedettini e gli oratoriani) e le grandi università della Sorbona e di Lovanio. I tratti di questo movimento caratterizzano in Francia i cattolici ferventi ancor prin1a della nascita del giansenis1no: l'importanza riconosciuta al fattore della grazia, il rigorismo morale, l'ascetismo, il pessimismo ... 31. Il giansenismo nasce in seguito alla contrapposizione frontale fra la dottrina molinista sulla grazia sostenuta dai gesuiti e il rigorismo degli agostiniani e dei domenicani". Giansenio intende rafforzare con

30 L'espressione "illun1inis1no cattolico" non piace a 1nolti: ritengono che l'aggeltivo "ca!tolico" non può far assumere al tennine "illuminismo" un significalo del tutto nuovo e per certi versi contraddittorio. "Cattolici illuminati" ha un significato n1olto più sfu1nato, perché punto di partenza è il sostantivo "cattolici"; l'aggiunta dell'aggettivo "illu1ninati" non obbliga a recepire tutto il significato del tennine "illun1inisn10". A1{fkfàr1111g evita anche il lontano riferimento all'idea dei "lu1ni". 31 E. APPOLJS, op. cù., l-3. 32 Sul giansenis1no vedi tra gli n!Lri: L. CEYSSENS, Jansenistica, 4 voll., St. Franciscus Deukkerij Mechelen 1950-1962; ID., Jansenistica 1ninora, 13 voli., I1npri1n. S. François, Mechelen 1950-1979; J. 0RCIBAL,Les origines du Ja11sé11isn1e, 3 voll., Bibliotheque de la rcvue d'histoire ecclésiastique, Louvain 1947-1948; E. P1~ECLTN, Les Jansénistes du 18<' siècle et la constitution civile due/ergé, C. Ga1nber, Paris 1929. Per una visione critica degli studi di Ceyssens vedi I. VAZQUEZ, L'oeuvre littéraire de Lucien Ceyssens sur le jansenisn1e et J'a11tUansénisn1e devant la critique, Bibliotheca Pontificii Athenaei Antoniani, Ro1na 1979. Per un approccio imn1cdiato alle varie problen1atiche si possono consultare A. FLICHE - V. MARTIN, op. cif.,


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la sua dottrina il fronte antigesuita. Tuttavia il radicalismo delle sue tesi e la successiva condanna finirono per screditare anche quel movimento rigorista, esistente prima di lui, che non aveva condiviso le sue conclusioni e non aveva assunto un atteggiamento di ribellione nei confronti delle autorità ecclesiastiche 33 • La distinzione fra cattolici illuminati e giansenisti va individuata anzitutto a partire dall'accettazione o dal rifiuto delle tesi sulla grazia condannate dalla Santa Sede; ma bisogna anche tener conto del comportamento di questi cattolici: i giansenisti sono passionali e settari; malgrado le loro reiterate affermazioni contrarie ad ogni forma di scisma, di fatto sono disposti a rompere i vincoli della disciplina ecclesiastica; per difendersi dalle condanne pongono dei limiti all'autorità della Chiesa o dcl papa e sostengono volentieri il regalismo o il giurisdizionalismo se prevedono un appoggio da parte delle autorità civili. I cattolici illuminati, al pari dci giansenisti, vogliono la riforma della Chiesa e preferiscono rifarsi alla dottrina dei Padri, amano una liturgia sobria e una pietà 1neno condizionata dalla superstizione, sono molto critici verso il culto indiscriminato dei santi e delle reliquie, aborriscono i facili accomodamenti morali; ma, al contrario dei giansenisti, rifiutano le tesi radicali sulla grazia, riconoscono e rispettano le autorità ecclesiastiche, nelle controversie con le autorità civili difendono con prudenza i diritti della Chiesa34 •

XIX/1, 303-341; I-I. JEDIN, Storia della Chiesa, tr. it., VII, Jaca Book, Milano 1975, 28-66, 442-492. 33 Illuininantc in tal senso l'intervento di Innocenzo Xli che nel 1694, in un breve ai vescovi dei Paesi Bassi, proibisce di chiamare con l'odioso appellativo di giansenista chi non ha sostenuto almeno una delle cinque proposizioni condannate. In tal 1nodo il papa cercava di proteggere gli agostiniani dalle calunnie dei loro avversari (E. APPOLIS, op. cit., 46-47). 34 lbid., 5-45. Fra i personaggi che Appoli~ indica con1e esponenti tipici dei cauolici illun1inati è sufficiente ricordare Prospero Lambertini (poi Benedetto XIV) e Ludovico Antonio Muratori. Quest'ulti1no, in molti casi, assunse un atteggia1nento critico, ma non di rottura, verso prassi non condivise dei privati o delle autorità ecclesiastiche: si pensi alla discussione sul voto sanguinario all'lm1nacolata, che proprio a Palermo raggiunse toni particolarmente accesi, o alle pretese pontificie sul territorio di Comacchio (ibid., 115-119, 126, 155-176, 334-338; per le pole1niche sul voto sanguinario vedi anche C. NASELLI, li Muratori contro il "voto sanguinario" e le superstizioni popolari, in Miscellanea di studi 111uratoriani, Aedes Muratoriana, Modena 1951. 456-470).


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Anche in Sicilia troviamo questa stessa situazione. Si uota qualche sfumatura diversa in tema di rapporti Chiesa-Stato. Il privilegio dell'Apostolica Legazia aveva fatto assumere ai cattolici illuminati di Sicilia un atteggiamento di gelosa difesa del particolare ordinamento della Chiesa siciliana35 ; ma per il resto essi non mettevano in discussione l'autorità del papa e non dimostravano simpatia per il radicalismo teologico dei giansenisti. Tuttavia gli storici che hanno analizzato questo periodo non sono riusciti a liberarsi dalla contrapposizione gesuiti-giansenisti, con la conseguenza che si sono trovati a qualificare come giansenisti o filo-giansenisti gli spiriti più aperti, che volevano attuare il rinnovamento della Chiesa prendendo le distanze dalla scolastica e dalle posizioni dei gesuiti. Come caso emblematico di questo errore di prospettiva possiamo citare proprio il vescovo Salvatore Ventimiglia. Lo Scinà, affrontando il tema degli studi ecclesiastici in Sicilia nella seconda metà del secolo XVIII, al probabilismo dei gesuiti contrappone la dottrina dei giansenisti sulla grazia, non tenendo conto dell'esistenza di una scuola teologica che va distinta dai gesuiti e dai giansenisti3 6 • In quest'ottica il nostro vescovo, come tutti gli altri personaggi del suo tempo, che non si riconoscevano nelle posizioni dei gesuiti, è considerato giansenista 37 •

35 M. CONDORELLI, op. cit., 305-310. 36 «Ciascuno sa, che i teologi a dichiarare in che 1nodo opera la grazia, senza che ingiuria rechi all'u1nana libertà, sonosi in vari sentimenti divisi e in più partiti, che aspramente han tra loro disputato. I Gesuiti seguendo il Molina o il Suarez ci hanno recato una cotal grazia sufficiente, col favor della quale può l'uo1no, se vuole, operare il bene l ... J. Altri per lo contrario hanno in sì fatta grazia sufficiente riconosciuto al più la potenza, non mai l'atto di operare il bene [... ]. E' questo siste1na della grazia intrinseca1nente efficace, e della dilettazione, che con bruschezza annunciato e con severità sostenuto ha dato origine ai Giansenisti ed a' Portorealisti. Per lo che le opinioni de' Gesuiti e dc' Giansenisti sono opposte per dian1etro, l'una che tiri ad offender la virtù della grazia, e l'altra il pregio del1a libertà, e sono i loro partigiani nemici naturali e irreconciliabili, atnbidue si tassano d'eresia, ed ambiduc senza carità si sono in ogni tempo perseguitati» (D. SCINÀ, op. cit., II, 153-154). 37 «Salvadore Venti1niglia venne in quel punto da vicario del Cusani innalzato alla sede vescovile di Catania, cd ivi richian1ò nel sc1ninario i buoni studi, le discipline ecclesiastiche a sodezza ridusse, e secondo che alcuni si affern1ano, amn1irazione prendea del sapere e del1'eleganza degli scrittori di Portoreale, e pietà delle loro traversie» (ibid., 159). Per un quadro dell'episcopato italiano di questo


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Non si allontanano da questo schema gli storici che affrontarono in modo specifico il tema del giansenismo in Sicilia. E. Catalano non ha dubbi sul giansenismo del Ventimiglia, anche se si mostra incerto nella scelta della qualifica più appropriata: semigiansenista, filogiansenista, giansenista ortodosso'"· G. Cigno, afferma che i vescovi delle principali diocesi della Sicilia (Cusani e Filangeri a Palermo, Testa a Monreale, Di Blasi a Messina, Ventimiglia a Catania) «tutti favorirono le tendenze antigesuitiche e filogiansenistiche» 39 . Lo stesso M. Condorelli, che accetta la nozione di illuminismo cattolico del Codignola, non la applica poi con coerenza e assieme al Cigno considera giansenisti il Ventimiglia e gli altri vescovi di spicco del suo tempo40 • In realtà, anche da un sommario esame della documentazione esistente sul vescovo Ventimiglia, appare evidente che egli possiede i tratti distintivi del cattolico illuminato. Dai suoi scritti e dagli atti del suo ministero pastorale non appare mai una parola o un gesto che possa esprimere accettazione o simpatia verso la dottrina dei giansenisti sulla grazia. Il suo catechismo è molto equilibrato sia quando affronta il problema del perdono dei peccati 41 , sia quando tratta della devozione alla Madonna e ai santi"12 • Studia i Padri e si rifa' volentieri al modello della Chiesa antica·n Nei confronti del papa dimostra periodo vedi C. DONATI, Vescovi e diocesi d'Italia dall'età post-tridentina alla caduta dell'antico regùne, in AA. Vv., Clero e società nel/'Jtafia 111oderna (a cura di M. Rosa), Laterza, Bari 1992, 321-389. 38 E. CATALANO, op. cii., 28. 39 G. CIGNO, op. cii., 330. 4o M. CONDORELLT, op. cit., 347-348. 41 L'atto di contrizione segue il modello proposto dalla teologia agostiniana che, al contrario dei gesuiti, ritiene non sufficiente il pentimento delern1inato dalla paura de11e pene dell'inferno ed esige un atto di amore perfetto verso Dio. Per i testi vedi G. Dr FAZIO, Salvatore Venthniglia, cit., 98. 42 Si afferma che è cosa santissima e utilissitna pregare e onorare i santi che sono in cielo, in particolare la Vergine Maria, perché è la Madre di Dio. Tuttavia bisogna .evitare di fare la Madonna e i santi uguali a Dio: Dio si adora i santi si venerano e si onorano; Dio è il creatore, la Madonna, i santi e gli angeli sono creature. Inoltre bisogna guardarsi dalle devozioni esteriori. Il culto delle in1magini è legittin10 perché nei quadri o nelle statue non ci sono Gesù Cristo, la Madonna e i santi, ma sola1nente le i1nn1agini che servono a richimnare alla mente le loro persone (ihid., 100-101). 4 ·~ Nei suoi editti il Ventimiglia non manca di fondare le nonne disciplinari o le riforme sull'autorità dei Padri. Nel 1769 scrive al papa per informarlo che si è «impiegato a pro1nuovere il culto del glorioso 1nartire e diacono di questa Chiesa S.


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rispetto e venerazione 44 • Sul problema delle immunità ecclesiastiche, contrariamente a quanto lascia intuire il Catalano, fa proprio l'atteggiamento tradizionale di difesa dei curialisti 45 , anche se non mancano scelte ispirate ad un concreto prag_matismo.

Euplio» e che aveva «disteso un ufficio proprio per la di lui solennità intieramente con1posto da' sentimenti e dalle parole delle Divine ScriLture». La sua iniziativa non è dettata solan1ente dal desiderio di fare conoscere un santo locale, ma dal proposito di valorizzare un inartire detla Chiesa antica, i cui atti dagli storici erano ritenuti escn1plari per sobrietà cd autenticità: (<non occorre che io esponga diffusamente a V. Santità quanto :o.ia celebre nella Storia Ecclesiastica il nome e la memoria di questo illustre Testiinonio di Gesù Cristo. Gli atti del suo n1artirio, per previdenza di Dio conservati sinora senza alcuna allerazione fra quei pochissin1i che ci restano sinceri ed autentici e rapportati da tutli gli scrittori come uno de' più preziosi monumenti della Chiesa, spirano la pietà pri1nitiva del Cristianesin10, confennano i dogmi più importanti della Fede e accendono gli anilni dell'amore di Gesù Cristo» (ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Lettere di Principi l=LPl, 251, 335r-v). Nel decreto con cui egli dichiara S. Euplio patrono della città di Catania e della diocesi trovimno uno dei pochi saggi della sua erudizione: «cuius 1nartirii acta proconsularia autographa, syncera atque incorru1npta non sine speciali Numinis providentia servata sunt, guae tamquatn exquisitissima clarissimae antiquitatis monu1nenta ab iis 01nnibus Jaudantur et retinentur qui rerun1 Ecclesiae hystoriam recensuere: ab Em.n10 Baronio, Theodorico, Ruinazzo, Ioh. Baptista Cotelerio, sociis Bollandianis, Sebastiano Tillen1antio, Claudio Fleury, Adriano Builelto, E1n.mo Orsio, aliisque optimae notae christianarutn renun scriptoribus» (TA 1769-1770, l l 3r-114v). Si tratta di autori rappresentativi di tutte le scuole, anche se non sen1pre in sintonia fra di loro. 44 A conclusione della lellera, che pubblichiamo in appendice, il Ventimiglia adopera nei confronti del papa le espressioni lipiche dì coloro che lo considerano il portavoce di Dio e chiedono che faccia conoscere il suo pensiero per prestare piena obbedienza: «Sopra de' quali aspetto gl'oracoli di Vostra Santità e riconoscerò sempre ne' suoi con1andi la voce di Dio e lo Spirito del Principe dc' Pastori. Si compiaccia adunque la Santità Vostra d'indirizzar le mie vie, di sollevar le n1ie dubiezze e d'impanni tutto ciò che il Padre de' Lumi le ispirerà alla 1ncnte e mi troverà ubbidientissimo e fedele in ogni cosa» (LP 247, 26v-27r). 45 Il Catalano critica a ragione le posizioni assunte dal Di Giovanni e dal Castorina verso il Venti1niglia e il De Cosmi, «presentati quasi nella veste di quegli ecclesiastici di vecchio stampo, più papalini del papa» (E. CATALANO, op. cit., 28), tuttavia non si rende conto che non è possibile collocare seinpre sullo stesso piano due personaggi, per il solo motivo che si sti1nano a vicenda e che assurnono atteggian1enti sin1ili su alcune questioni particolari. Nel docu1nento indirizzato al papa, che il Ventin1iglia spedisce a Roma poco prima della relazione ad lin1ina, troviamo un'accurata analisi delle violazioni e degli abusi co1nmessi dalle autorità civili nei confronti della Chiesa di Cat<Ìnia e dei vescovi di Sicilia. Nella sua esposizione egli dimostra di condividere il tradizionale atteggiamento di difesa della giurisdizione, delle i1nmunità, della libertà e del patrimonio della Chiesa e di opporsi a qualsiasi fonna di regalismo o giurisdizionalisino.


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I modelli, ai quali si ispira nel suo governo pastorale, ricalcano fedelmente i progetti di riforma della Chiesa dei cattolici illuminati: una soda istruzione religiosa dei fedeli a partire dalla Sacra Scrittura, dai Padri e dalla sana teologia; disciplina delle forme tradizionali della religiosità popolare e del culto dei santi; riforma del seminario per garantire la formazione culturale e religiosa del clero; riduzione dcl suo numero, riorganizzazione della cura delle anime, disciplina dei benefici e dei capitoli di canonici ... 46 • Nelle classificazioni, con le quali si è cercato di identificare la matrice culturale del Ventimiglia, ha influito non poco la scelta dei suoi collaboratori e la frequenza dei circoli catanesi o palermitani. Si tratta di gesti molto indicativi degli orientamenti culturali del Ventimiglia e della sua volontà di rinnovamento. Tuttavia, per il fatto che egli inviti all'insegnamento in seminario o nell'università un De Cosmi, un Gambino, un Bandiera, o che egli frequenti i circoli di Ignazio Biscari o del principe di Cerami, non si può affermare una sua piena identità di vedute con i propri collaboratori ed amici e una condivisione delle loro idee e dei loro programmi47 •

46 Si tratta di te1ni che il Ventitniglia affronta nella sua relazione e che approfondirctno tenendo presenti anche i provvedimenti presi per disciplinare queste 1naterie. In tema di religiosità popolare è interessante il divieto per i flagellanti:

«Editto di sospendersi coloro che son soliti di battersi a sangue nelle processioni dclJa prossi1na Seuimana Santa. Si ordina a tutte e singole persone tanto ecclesiastiche come secolari di qualsivoglia stato, grado e condizione che non abbiano, non vogliano, né debbano, siccome non presu1nino d'intervenire in tulle quelle processioni che si faranno nel corso de11a Settimana Santa con istrumenti da battersi a sangue; siccon1e si ordina a tulti gl'officiali e superiori delle confraternità che non pennettano, né presu1nino di far intervenire nelle di loro rispettive processioni persone che si battono a sangue. E questo solto le pene a noi ben viste ad ogni contraventore; ed acciocché la presente nostra ordinazione e disposizione venghi alla notizia d'ogn'uno, per non allegarsi ignoranza abbiatno ordinato di affigersi il presente nostro editto ne' luoghi publici e consueti di questa sudetta città. Dato in Catania nel nostro palazzo vescovile in discorso di sagra visita, oggi che sono li 27 n1arzo 1760. Salvadore Ventimiglia, Vescovo di Catania. Giuseppe Longo, 1nastro notaro» (ARCHIVIO DELLA CUHIA ARCIVESCOVILE DI CATANIA, Editti [:::::E] 1752-1761,

66v). 47

Sulle posizioni filosofiche del Ventimiglia si possono fare solan1ente delle illazioni. Riteniamo che sia fuor di dubbio il suo abbandono della scolastica; l'opzione per i filosofi del suo tempo può essere affennata solamente per la stima che nutriva verso coloro che condividevano le dottrine di Cartesio, Leibniz, Locke e


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Strettamente legato a questo problema c'è quello dell'asserita appartenenza del Ventimiglia alla massoneria. Se per le altre classificazioni si poteva far riferimento solo a testimonianze indirette o a illazioni, per la qualifica di massone c'è un documento conservato nell'archivio vaticano, pubblicato per la prima volta nel 1938 e riletto negli anni successivi dagli storici della massoneria48 . Sorprende notare la mancanza di una sana critica storica in coloro che hanno consultato e pubblicato il documento originale 49 . Un

Wo1ff e per l'invito all'insegnamento nel seminario o nell'università rivollo ad alcuni di loro. In tal senso dovre1nmo intendere le espressioni usate dal Sardo nell'elogio tenuto dopo la sua morte (G. SARDO, op. cit., 11 e 34). Da sottolineare che il Sardo non conobbe personalmente il nostro vescovo. Non riteniamo particolarmente rilevanti le argomentazioni addotte dal Catalano a proposito delle opere dei più noti esponenti dell'illuminismo francese presenti nella biblioteca del Ventimiglia (E. CATALANO, op. cit., 29): non basta avere il libro di un autore nella propria biblioteca per affennare che se ne condividono le idee. 48 Il docu1nento è stato pubblicato per la prima volta parzialmente da P. SAVIO, Devozione J; Mgr. Adeodato Turchi alla Santa Sede. Testo e DCLXXVII docun1enti sui giansenisn10 ;taliano ed estero, L'Italia Francescana, Roma 1938, 9091. Lo pubblicarono integralmente M. P. AZZURRI in Lun1en Vitae (1959) 54-56 e C. FRANCOVICH, Storia de/fa n1assoneria in Italia dalle origini ai/a rivoluzione francese, La Nuova Italia, Firenze 1974, 416-418. Fondandosi su questa testimonianza il Ventiiniglia è ritenuto massone tra gli altri da G. CIGNO, op. cii., 345, M. CONDORELLI, op. cii., 348, G. GIARRIZZO, La Sicilia, cit., 461. 49 Considerato che il testo pubblicato da Azzurri e Francovich contiene alcune sviste, ne diamo un'edizione più corretta. «[lr] Catalogo de' Liberi Muratori di Sicilia. <l> <Francesco d'Aquino>, Principe di Caramanico, Viceré di Sicilia. <2> D. Francesco Carelli, Segretario del Governo. <3> Il marchese Dragonetti, Conservatore e Consultore interino. <4> Il Cav. D. Stefano Airoldi, fu Presidente della Gran Corte, dalla pritna fondazione della Loggia in Palermo. <5> Il Presidente Grasiellini, Maestro Razionale. <6> D. Paolo Leone, Giudice della Gran Corte. Fu venerabile. <7> Il Principe di Paccco, Governatore dell'armi interino. <8> II Principe di Ca1npofranco, fin dalla prima fondazione. <9> Il Duchino di Casoli, figlio del Signor Viceré. <10> Il Duchino di Sicignano, nipote del Signor Viceré; <11> Il Cav. Michereux. Aiutante Reale del Signor Viceré. <12> Il Colonnello Everardo, Colonnello del Reggimenlo del Re. Fu venerabile. <13> Li due Capitani de' Pachetti Regali Cianchi e Ratti. <14> Il Marchesino e D. Giuseppe Virtz, figli del Tenente Generale di questo nome e generalmente quasi tutti gli officiali della truppa a riserba di pochi vecchi. <15> Il Marchese Bajada. Fu venerabile. <16> Il Marchese di Villareale, La Greca e Talainanca. <17> Baroncino Palutnbo. Infennicre. <18> Principe di Villannosa. Fu venerabile. <19> Il Duca della Ferla. Fu venerabile. <20> L'Avvocato Forcella napoletano. Agente del Duca di Monteleone. Fu venerabile. <21> Un Chevalier francese. <22> Il Principe del Cassaro. <23> Il Principe di Valguamera. <24> D. Corrado Ventimiglia. <25> Principino di Aragona [lv]. <26> Principe di Villadorata. <27> Principe di Nisce1ni. <28> Il Baroncino Pucci. <29> Primogenito del Marchese


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documento per essere riconosciuto attendibile ed essere utilizzato come fonte storica deve essere analizzato attentameute a partire dall'autore, dalla data, dal destinatario, dal fine per cui è stato prodotto. Il documento iu questione si trova in una carpetta che raccoglie alla rinfusa fogli sulla massoneria di varia natura e di varia provenienza (c'è anche il foglio a stampa della bolla di condanna di Clemente XII). Ha come titolo Catalogo de' liberi muratori di Sicilia, ma non porta né intestazione, né data, né firma, né indirizzo50 • Non c'è alcuna lettera di accompagnamento o altro foglio che possa aiutarci a individuare chi ha compilato l'elenco, a chi era indirizzato e guaii scopi si prefiggeva". Merlo. <30> Baldassarre Palese. Console di Venezia. <31> Dottor in medicina D. Giambattista Meo. <32> Dottor in medicina Poeta D. Giovanni Meli. <33> D. Federico Travia. <34> L'abbatc Scrofono, in cui casa leneasi una loggia. <35> L'Avvocato D. Benedetto Meli. <36> Dr. D. Francesco Corvaja. <37> Computista D. Francesco Graffio. <38> Il Barone d'Italia Marsalese. <39> Il Dottor Todero Todero di Trapani. <40> li Dottor Rossi. <41> D. Gaspare Lione. Ecclesiastici. <42> Monsignor Venthniglia, fu Vescovo di Catania ed Inquisitor Generale, fin dalla prima fondazione. <43> Monsignor Airoldi, Giudice della Monarchia. <43> Monsignor Santa Colomba, Abbate di Santa Lucia. <45> Monsignor <Francesco> Vanni, Vescovo di Cefalù, eletto per questo merito, due anni sono, da Caramanico. <46> Monsignor D. Ben1ardo Bologna. <47> Un Sacerdote ... di cognome Ruffo. <48> Un Sacerdote ... di cognome Lo Cascio. Agente del Principe di Patemò. Monaci. <49> Il Padre Maestro Levante, do1nenicano, Maestro Scozzese e Tesoriere della Società. <50> Il Padre Maestro Donlinici, Do1nenicano. <51 > Il Padre Michinelli, Teatino [2r]. <52> Il Padre Piazza, Teatino. Lettore di Astronomia nella Università. <53> Il Padre Sterzingher, Teatino. Bibliotecario della Regal Biblioteca. <54> Li due Fratelli Benedettini Spucches. <55> Il Padre Monti, Scolopio. Lettore di Rettorica nella Università. <56> Il Padre Berengario Gravina, Benedettino, attualmente Vicaiio del Vescovo di Girgenti, che briga in Napoli per la vacante Chiesa di Mazzara, briga in Roma per un titolo in partibus» (ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Miscellanea, Am1. xv, 237). Si potrebbe ipotizzare che di questo docu1nento esistano due copie identiche, perché il Francovich, che cita Azzurri, lo colloca nel vol. XVIII dell'Appendice Napoleonica (C. FRANCOVICH, , 416). Ma nel fondo citato (più correttamente: Epoca Napoleonica, Italia, v. XVIII) non si trova. E' più facile che si tratti di un errore di citazione. 50 La sua data può essere stabilita da un'indicazione che troviatno nel documento: «<45> Monsignor Vanni, Vescovo di Cefalù, eletto per questo merito, due anni sono, da Cararnanico». Poiché questo vescovo fu presentato il 28 gennaio 1789 e nominato il successivo 10 marzo (R. RITZLER - P. SEFRTN, op. cit., 160), l'elenco dovrebbe essere stato co1nposto nel 1791. 51 Riteniamo verosi1nile che si tratti di una denunzia anonima, inviata per 1nettere qualcuno in cattiva luce (si pensi alle polemiche fra curialisti e regalisti, progressisti e tradizionalisti). Si tenga presente che la massoneria era stata già


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Il Francovich gli riconosce una certa attendibilità per il fatto che «vi figurano molti personaggi che compaiono anche nel diario di MUnten>5 2 • Ma il Miinter fu a Palermo nel 1785, quando ancora il Ventimiglia era in vita, e non accenna alla sua persona; ne parla invece durante il suo viaggio a Catania (23 dicembre 1785 - 6 gennaio 1786); tuttavia tesse i suoi elogi (con qualche inesattezza) non come "fratello" ma come persona illuminata e mecenate degli studi, allo stesso modo di L. Gambino e di G. Recupero, che non risultano in nessun elenco di 1nassoni53 . Se dovessimo prestar fede a questo documento, il Ventimiglia avrebbe fatto parte della massoneria fin dalla fondazione della loggia di Palermo (probabilmente durante il soggiorno palermitano successivo alle sue dimissioni). Premesso che prima della rivoluzione francese la massoneria si proponeva finalità culturali e non aveva un atteggiamento ostile alla Chiesa, non riteniamo che si abbiano elementi determinanti per affermare che il Ventimiglia fosse un massone. e) Nonzina, consacrazione, ingresso in diocesi; la difficile eredità del vescovo Galletti A distanza di poco più di sei mesi dalla morte del Galletti, il 19

novembre 1757, Carlo III presentò al papa il nome di Salvatore Ventimiglia come suo successore alla guida della Chiesa di Catania54 . La

condannala da Clemente XII e da Benedetto XIV. Non si ha alcun elemento per affennare che l'elenco possa essere stato con1pilaLo da un "pentito" ben informato. 52 c. FRANCOVICH, op. cit., 416. 53 «Detta università [... ] era in grandissima floridità a' giorni del passato Vescovo Monsignor Venti1niglia, degno, e 1nolto illu1ninato Prelato, il quale con ogni zelo richiedeva il progredimento delle scienze; e non solo ordinava mai alcun giovane, che studiato non avesse con diligenza nell'Università, e di sufficienti cognizioni non fosse provveduto. Ugualinente così attento era costui nell'accordare prebende. Catania perdè questo Prelato assai presto, per esser egli stato non1inato Grande Inquisitore, ed in conseguenza recarsi dovette in Palern10. Egli, mentre era Vescovo, la sua ben ricercata e vasta libreria lasciò in legato al paese, perché non volle profittarsi affatto di ciò, che gli aveva fatto acquistare la rendita del Vescovato» (f. PERANNI, Viaggio in Sicilia di Federico Miinter, II, Tip. F. Abbate, Palenno 1823, 7-8; sul tema vedi anche M. NASELLI, Dai "Diari" di Federico Miinter fil soggiorno in Ca1ania], in Asso 37 [1941] 86-92). 54 PD 134, 509r.


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bolla pontificia di nomina porta la data del 19 dicembre 175755 • Il nostro vescovo fu consacrato a Roma il 27 dicembre dal card. Portocarrero56, prese possesso del suo ufficio il 16 gennaio 1758 57 , tramite il priore del capitolo cattedrale Giovanni Rizzari, che nominò suo procuratore e vicario generale 58 • Il Ventimiglia fece di fatto il suo ingresso in diocesi il giorno di pentecoste, 14 maggio 175859 • La sollecitudine con cui si agì e la scelta operata sono indicative della volontà delle autorità civili cd ecclesiastiche di correre ai ripari per risanare la drammatica situazione in cui si trovava la diocesi di Catania. Nella relazione del Ventimiglia troviamo una descrizione tanto lucida quanto impietosa: la Chiesa di Catania da circa settant'anni doveva considerarsi priva di vescovi, perché dal tempo della controversia liparitana, dopo l'esilio di Andrea Riggio, i vescovi o non avevano mai raggiunto la sede o erano morti senza avere il tempo di iniziare l'attività pastorale. ((Infine al governo di una Chiesa prostrata e quasi distrutta venne Pietro Galletti, già sfinito per la vecchiaia, che esercitò il suo ufficio per ben ventotto anni. Se dopo tante calmnità e miserie qualcosa era rimasta intatta, fu distrutta e saccheggiata (e n1i sia lecito parlare e sfogarmi libera1nenfe con voi, Sapicnlissimi Padri). Dopo aver visitato di corsa una o due volte la diocesi, il vescovo, preso dallo sconfo1io per la vecchiaia, per la 1nalferrna salute, per l'abbassamento della vi~ ,sta e dell'udito, rimase a letto quasi morto. Gli uffici ecclesiastici furono conferiti ai parentì, gli amplisshni diritti e privilegi che i vescovi di Catania avev11no difeso furono s1ninuiti; in alto tulto fu

55 Il testo della bolla è trascritto in TA 1757-1758, 242r-245v. In ess-a si legge questa ingiunzione: «volun1us autem quod tu Montem Pietatis erigi cures conscicntiam tua1n super hoc onerantes». In realtà il n1onte di pietà esisteva a Catania, anche se aveva una vita molto gra1na. 56 R. RITZLER-P. SEFRJN, op. cit., 156. 57 Il vicario capitolare, in un editto del 16 gennaio 1758, infonna la diocesi dell'arrivo della bolla di non1ina del nuovo vescovo (E 1752-1761, 44r). Il verbale della presa di possesso si trova in TA 1757-1758, 246v-247r. 58 L'atto di procura fu redatto a Roma dal notaio Girolaino Ainodeo Paoletti il 20 dicembre 1757 (ibid., 247v-249v). In pari data il Venti1niglia non1inò vicario generale il priore Rizzari (ibid., 250r-250v). Nel giugno 1760 subentrò in questo ufficio Bonaventura Gravina, che lo esercitò sino alle diinissioni del Ventimiglia. 59 Un editto del vicario generale invita il clero e i fedeli a partecipare al corteo dalla chiesa della Consolazione (o dci Santi Cosimo e Damiano) fino alla cattedrale, dove il nuovo vescovo avrebbe celebrato il solenne pontificale (E 1752-1761, 45v46r).


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sconvolto dalla licenza dei malvagi, tutto fu posto nelle mani di parenti, domestici e persone senza scrupoli. Fu istituito il mercato dei benefici, gli ordini sucri furono messi all'asta, svenduti e n1essi alla portata di tutti; nel loro conferin1ento non si tenne in nessun conto della preparazione culturale e del comportamento morale dei candidati» 60 •

Le conseguenze di questo malgoverno si ebbero soprattutto fra il clero: una massa incredibile di persone tanto ignoranti quanto inette, che non sapeva e non poteva essere occupata nelle strutture ecclesiastiche ed era costretta ad anangiarsi svolgendo le attività più disparate pur di guadagnarsi ogni giorno da vivere61 • «Furono accolte da ogni parte, nel clero, persone ignoranti, dissolute, prive del lcgi1ti1110 patrimonio, senza vocazione e senza alcun esarnc: furono promosse solo dietro il pagamento di una certa somma. Perciò il numero dei sacerdoti crebbe a tal punto che il villaggio di Viagrande, nei pressi di Catania, pur contando non più di 600 anime, ha 60 presbiteri; costoro, tuttavia, solo di non1e sono sacerdoti e si riconoscono con1e tali perché portano attorno al collo una stoffa <li lino. Poveri, laceri, mendicanti, raranienle racimolano l'ele1nosina per la messa; spesso sono assunti per svolgere lavori spregevoli. Si impiegano a servizio dci signori come responsabili delle dispense e delle cantine, come custodi delle vigne e dei cainpi, come esat!ori di gabelle e di 1Tibuti, come accompagnatori armati dei viaggiatori, con1e guardie; n1i vergogno di riferire le altre attività indecenti. I più fortunati redigono gli atti di compra-vendita, dirigono lo scambio delle merci, prestano denaro, prendono in appalto la riscossione delle pubbliche imposte, si danno al gioco, alla caccia e all'ozio)) 62 ,

Alla base di questa situazione del clero, oltre alla mancanza di selezione, c'era una serie di carenze, fra le quali il Ventimiglia sottolinea: l'inefficienza del seminario, affidato a superiori incapaci, e la prassi di ammettere fra il clero diocesano i religiosi, la cui professione veniva dichiarata invalida da officiali di curia senza scrupoli, in violazione delle norme stabilite dal Concilio di Trento.

60

Rel.,11v. La situazione sulle condizioni del clero descritta dal Ventimiglia non si distacca dal quadro generale delle diocesi italiane. Sul ten1a vedi X. TOSCANI, I I reclutan1ento del clero (~·eco/i XFI-XJX), in AA. Vv.,la Chiesa e il potere politico (a cura di G. Chittolini e G. Miccoli), Storia d'Italia, Annali 8, Einaudi, Torino 1986, 573-628. 62 Rel., l lv-12r, La descrizione del Ventimiglia delle penose condizioni in cui trova la diocesi hanno un puntuale riscontro nella docuinentazione pubblicata assieme alle relazioni del vescovo Pietro Galletti (A. LONGHITANO, le relazioni «ad !imina» della diocesi di Catania [1730-17511, in Synaxis 11 [1991] 127-288). 61


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In seguito alle proteste dei fedeli e ai reclami presentati alla corte, i re, per ovviare in qualche modo a tanti mali, inviarono tre visitatori: un rimedio che si rivelò peggiore del male, perché le loro disposizioni, dettate da evidente giurisdizionalismo, o non furono messe in pratica o ebbero come scopo di spogliare le Chiese del loro patrimonio e dei loro diritti. Questa stessa politica fu seguita dalle autorità civili durante i mesi di sede vacante e il nuovo vescovo non fu in grado di far valere le proprie ragioni 63 •

2. IL GOVERNO PASTORALE

L'azione riformatrice del Ventimiglia è caratterizzata da una chiara visione della situazione e dalla volontà di andare alla radice dei mali. In sostanza il nostro vescovo, invece di limitarsi a emanare i soliti provvedimenti disciplinari, che avrebbero provocato solo benefici limitati e transitori, si prefisse una riforma strutturale, che aveva come punti qualificanti: la formazione del clero (riforma del seminario per preparare i futuri sacerdoti, riqualificazione di quelli esistenti), la riforma degli organismi preposti alla cura delle anime (parrocchie, capitoli dei canonici), l'attuazione delle norme stabilite dal Concilio di Trento per il conferimento dei benefici, la formazione dei fedeli mediante una catechesi rispondente alle loro condizioni culturali e alle esigenze dei tempi, la riforma della curia per farne un valido strumento di collaborazione. A questi temi di natura generale bisognava aggiungere la soluzione di alcuni problemi particolari: il completamento della ricostruzione della città, che risentiva ancora delle ferite provocate dal tenemoto del 1693, la riforma dell'università degli studi, di cui il vescovo di Catania era cancelliere, l'attuazione delle disposizioni testamentarie di Mario Cutelli, che aveva disposto la fondazione di un collegio per la nobiltà.

63

Rel., 12r-12v.


Adolf~

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LonghiEa_no

a) Riforma del seminario

Il Ventimiglia era cosciente del fatto che una svolta decisiva nella difficile situazione della diocesi fosse possibile solamente se essa disponeva di sacerdoti preparati sia sul piano intellettuale, sia su quello morale e spirituale. Per raggiungere questa finalità rinnovò il seminario istituendo nuovi corsi di insegnamento secondo le esigenze dei te1npi 64 . «Il se1ninario dei chierici ha assunto una nuova fisionomia: dopo aver invilato da Palermo e da altre città d'Italia i professori e i maestri, affrontando a tale fine non poche spese, ho istituito 6 cattedre: di teologia dogmatica, di teologia morale, di filosofia, di geometria, di sacra eloquenza, di lettere latine e greche»65 .

I professori e i maestri, che egli invitò da Palermo e da altre città d'Italia, assieme ad altri che scelse a Catania fra il clero diocesano o regolare, e dei quali si servì come suoi collaboratori e consiglieri anche nel governo della diocesi, segnarono un'epoca nuova nella cultura catanese e siciliana: Alessandro Bandiera66 , Giovanni Agostino De Cosmi67, i domenicani Agostino Corsaro e Ludovico Marullo, Leonardo

64 L'argomento è sviluppato da P. SAPIENZA, op. cìt., che pubblica in appendice tre editti del Ventimiglia sul seminario. 11 rinnovan1ento dei seminari costituiva uno dei punti-cardine dci vari progetti di riforma formulati dai cattolici illuminati (M. GUASCO, Lafonnazione de{ etero:; sen1inari, in AA. Vv., La Chiesa e il potere pofitù·o, cit., 629-715; G. GRECO, Fra disciplina e sacerdozio: il clero secolare nella società italiana dal Cinquecento a{ Set1ecer1to, in AA. Vv., Clero e società, cit., 45-113). 65 Rel., l 3r. Mi Nato a Siena nel 1699, entrò a vent'anni nella Compagnia di Gesù e vi ri1nase fino al 1740, quando ne uscì per passare ai servi di Maria, non concordando con i n1etodi d'insegnan1ento dei gesuiti. Insegnò in diverse città d'Italia latino, greco e Sacra Scrittura, facendosi pro1notore di un 1netodo che al1a necessità dello studio della lingua latina univa l'apprendi1ncnto della 1nigliore tradizione toscana. Il Ventimiglia lo fece venire a Catania da Ro1na nel 1758, per affidargli la riorganizzazione degli studi nel se1ninario e l'insegna1nento di sacra eloquenza (D. SCINÀ, op. cii., II, 187-188; C. MlJTINI,Bandiera Alessandro, in Dsr, 5, Roma 1963, 679-681). 67 Fra coloro che il Ventin1iglia invitò a Catania, il De Cosmi può essere considerato il personaggio di maggior rilievo, che svolse una lunga e intensa attività culturale in diverse città della Sicilia. L'inizio della collaborazione fra il De Cosmi e il nos!ro vescovo probabilmente avvenne per la 1nediazione dei domenicani, 1naestri


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SALUHO~I.

VfNTIMILLIO.

SAflENTIA.IN. OMNE.fVUM , CONSPI CVO.

DE. HAC.RECIA . ACADEMIA. MC LAJl.f.HUJUS Bl8LIOTllfCif

DONATIONc . . ENTVH>J.JRF:IS.l'OTIORE SIOllS. OPTIME. MERI ro. HOC. CRATyS. ANIMUS.

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MeJ"VMENTUM •

Iscriz ione del piccolo monumento a Salvatore Ventimiglia (biblioteca regionale universitaria di Catania)


•

Ex libris di Salva1ore Ventimiglia con lo stemma (biblioteca regionale univcrsilaria di Calania)


Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1762)

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Gambino, Vito Coco, l'agostiniano Gaetano Garrasi, Girolamo Pistorio, Giuseppe Recupero, Antonino Tusa, Giuseppe Sciacca, Raimondo Platania, Sebastiano Zappalà Grasso68 , Questi docenti fecero del seminario un'istituzione culturale, che disponeva di una propria tipografia per la pubblicazione di testi classici, e che, per il livello degli studi, poteva gareggiare coo l'università69 • «Da questa famosa scuola uscirono [... ] valenti letterati, dotti ecclesiastici, scienziati di gran nome, magistrati integerrimi, i quali alla loro volta furono i maestri di un'avventurata falange di uomini grandi»"'· Il seminario, oltre a garantire la formazione culturale, doveva dare ai giovani anche la formazione morale e spirituale. «Come rettore dcl seminario ho nominalo un uomo nobile e tenace promotore della disciplina più severa, al quale ho conferito, meritatamente, una dignità nel capitolo della ca!ledrnle. Di recente ho designato un censore dci coslun1i e un altro a cui ho affidalo la responsabilità della cura delle m1in1c e degli esercizi di pietà. Ho disposto camerate separate per i chierici delle diverse età, tutte sottoposte alla vigilanzu dci sorvegli(Jn!i e degli incaricali. La cappella dcl scrninario è frequentata ogni giorno per le pratiche di pietà quotidiane: le preghiere comuni, la meditazione 1nil!tutina, l'esame serale sul giorno trascorso, la recita comunitaria dci salmi per i chierici maggiori. Ogni sellimana si insegna i! calechisrno; ogni mese, per un intero giorno. sospeso lo studio ci si dc-

dell'uno e consiglieri dell'altro. L'invito, come scrive il Dc Cosini, fu fatto dal Ventimiglia nell'aprile dcl 1762 «con lettere assai onorifiche», 1nentre il vescovo si trovava a Piazza per la visita pastorale (nello stesso periodo scrisse la relazione ad lirnina che pubblichiamo). Il De Cosmi fu nominato direttore spirituale dcl sc1ninario ed esa1ninatorc sinodale. Nel 1765 fu rettore dcl collegio universitario, istituito dal nostro vescovo, 1na durato appena un anno. In questo stesso periodo conseguì la laurea in utroque iure. Nel 1768 fu no1ninato canonico della cattedrale (TA 53v-54v). Nel 1780, con la venula del Caracciolo in Sicilia, fu chia1nat.o a Palern10 cotne suo collaboratore e nel 1786 ebbe l'incarico di direttore generale della rifonna delle scuole. Continuò nella sua attività di organizzatore culturale e di studio fino alla vecchiaia. Morì nel 1810 (G. GIARRIZZO, Giovanni Agostino De Cosini, cit., dove si pubblicano, tra l'altro, le sue n1e1norie autobiografiche; B. M. BJSCIONE, De Cosn1i Giovanni Agostino, in DHI, 33, Ron1a 1987, 571-575). In una disccssoria rilasciata dalla curia il 28 luglio 1772 trovian10 il curricu!urn dcl Dc Cosini (TA 1771-1772, 247r-v); probabilinente dopo la 1norte del Venti1niglia egli nveva deciso di J;:isciare Catania per trasferirsi in altra diocesi. 68 Su questi personaggi vedi: V. PERCOLLA, Biogrt{/"ie degli uo1ni11i illustri catanesi, F. Pastore, Catania 1842; V. CORDJ\RO CLJ\RENZA, Ossen 1azio11i sopra la storia di Catania, IV, Riggio, Catania 1854, 209-220; P. CASTORINA, op. cit., 141183; c. MUSUMARRA, op. cit., 72-73. 69 D. SCINÀ op. cit., Il, 187-189; P. SAPIENZA, op. cit., 345-349. 70 P. CASTORINA, op. cit., 185; vedi anche il giudizio espresso da F. FERRARA, S!oria di Catania sino alla fine del secolo XVIII, L. Dato, Catania 1829, 241-242.


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dica agli esercizi di pietà. Otto gio1ni l'anno sono dedicati agli esercizi spirituali e i giovani, inol!re, sono istruiti nei rilì sncri e nel canto. Spesso essi di1nostrano i loro progressi nello studio con la pubblica discussione di lesi prestabilite e con scritli messi a disposizione di 1u11i>Jl.

lJna volia creata questa slruttura, il vescovo volle che servisse alla formazione di tutto il clero della diocesi e non solamente di un piccolo gruppo di sacerdoti, così con1e era avvenuto per il passato. Perciò rese obbligatoria la frequenza del seminario per tutti coloro che volevano ricevere gli ordini o conseguire in futuro un beneficio. Era convinto in tal modo di poter operare un'attenta opera di discerni1r1ento oltre che di fonnazione. «Fin dall'inizio di questo nuovo corso ho stabili10 la nonna che vieta il conferimento degli ordini c;acri e della slcssa tonsura a chi non venga giudicato idoneo in se1ninario o non vi abbia trascorso non solo un breve periodo per ricevere gli ordini, nrn l'intero corso di dieci anni. In tal modo si ha la pos~ìbi!i1ù di vagliare attcnlamcnle le capacìtiì. intellcuuali e il comportamenlo dci candidati. Ogni anno, dopo uno scrupoloso esame, vengono conferiti i singoli ordini minori; per gli ordini maggiori si osservano gli interstiYi prcscriui; l'oniinazione saccrdolale si dà dopo il complclil1nento di IUl!o il corso teologico» 72 •

li Ventimiglia sapeva che l'alluazione di questo suo progetto cornportava sacrifici e andava inconl-ro a critiche e n1alcontenti; ma, convinto della bontà della scelta, continuò per la sua strada e attese fiducioso i risultali, che non tardarono ad arrivare. «Queste condi1,ioni, a prima vista, po!rcbbero sembrare troppo severe; n1a poiché la diocesi non ha hisogno tanto di saccrdo!i. quanto di ministri dol!i e irreprensibili, ho tenuto ferino que\!O proposito e non mi sono 111ai lasciato dis1oglicre da preghiere e raccomandazioni. Con la stessa fermezza d'animo ho sopporl<i!n, o non ho preso in considerazione i fastidi che mi hanno procurato gli antichi superiori, ai quali il vescovo Galle11i lutto aveva pennesso. Alla fintò i miei voti sì sono realizzati e in questo 111omcn10 vivono in seminario 80 alunni c.se111plari e di buona indole, che mi !"unno ben sperare sulla riforina dell'infelice diocesi>>T\

71

Corne rettore fu prescel!o Matteo Scan11nacca (TA 1759-1760, 325v-326r). Rcl., l3r-13v. Rel., 1Jr-l3v. li Ventin1iglia va o.I.tre l'indicazione del concilio provinciale ron1:1no del 1725, che per i candidati al presbiterato prevede la presenza in seininario per aln1eno sci inesi (Co11ci!ii11n Ron1an11rn, ex tipographia R. Benabò, Ro1nae 1725, tit. 30, cap. 2, 106-107). n lhid. 13v. 72


Le relazioni «Od liminw> della diocesi di Colonia (1762)

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Per garantire il funzionan1ento di questo istituto assicurò i finanziamenti seguendo le indicalioni date dal Concilio di Trento: una tassa sugli introiti di tutti i benefici ecclesiastici, l'unione <li benefici se1nplici 74 . Rese l'edificio funzionale alle nuove esigenze ampliandolo nelle sue struti-ure 75 • b) Forn1uzione e riqualificazione del clero

La dolorosa situazione del clero, descritta 111 1nodo così Iucido dal Ventin1iglia nella sua relazione, non poteva indurre a sper~1rc in ca1nbian1enti i1n1nediati. Il vescovo ne era cosciente; tuttavia non desistette dal fare quello che era nelle sue possibilità. li 24 febbraio 1761 emanò un editto in cui ohhli_gava i s<Jcerdoti di tutta la diocesi a riunirsi ogni settin1ana nelle chjesc parrocchiali per partecipare a conferenze inorali e liturgiche 76 . Nel suo docun1ento il

7·1 L. c. La non11a del concilio di Trento è s!abililn neJ]n scss. XXXJ. dc re(, c. 18 e ribadita nel concilio provinciale ronH1no (Conri/i111n Ron1a11111n, cii., tiL .10, cap. I, 105-106 e appendice, 287-294). Nella diocesi di C\i1ania, oltre ai benefici 2nnessi alle parrocchie e alle ch.iese sacranìenr·ali, c'era un gran nun1cro di benefici ->en1plici fond<l!i,dai fedeli o per assicurare delern1ina!e opere rli culto, o per suffragare la propria ::inin1a o quella dci propri cari. Il Venli1niglia, 1n;1n n1ano che le condizioni glielo consentivano. procedeva aJ!'unìone di alcnni di questi benefici al scn1inario per assicurare le risorse necessarie al suo ftu17.io11a1nento. Si veda, ad esc1npio. l'unione a! scn1inario di due benefici scrnplici cretti ad Acireale nelle chiese di Sarila Ivtaria la Scala (TA 1770-1771, l 38v-! 39v) r·~ Santa Mari:J dei lVlinicol! (ihid., 302v-303r). 75 Rei., J3v. Mentre con il vescovo Galletti si era por1a\o ::i. con1piincnto il progeHo inizirde, red;11!0 d<l Anclrea Riggio dopo il le!Ye1no1u elci 1693, con il Vcntiiniglia si procede ad un an1plian1cnlo dei locali per rcndr:re il se1ninr1rio idoneo ad accogliere tutti gli aspiranti al sacerdozio della diocesi. 76 «Salvadore Ventin1iglia etc. Al clero di ques!<J cil!i'l sah.Hc in (Jesù Cristo. Venerabili fratelli. Siccon1e ci riconoscian10 nell'obligo preciso di rendervi vivissin1e gn1zie per la pietà ccl uhbcdicnza da voi. n1ostnit1.1 ncll';issis1ere con lanta nostra cdifics7ionc al sagro ritinunenlo da noi proposto e d<l voi relig:iosmncnte eseguito ne' scorsi giorni dell';1vven10 del Signore, così la stessa csattc:t.za ed esen1plari!i'l, che abbiatno in voi riconosciuta, incoragisce il nostro zelo p;is(ornle s proporvi de' nuovi 111ez:ti (b conservare lo splendore e la santità elci vosfro s1<110 e da rendervi perfetti nell'eserci7.io dcl vostro eccelso e divino 1ninistero. Abbia1no noi sonun1.11ncnte a cuore la vostra perfezione, poiché servir dovete d'ese1npio e di regola a tutto il clero della inia vasta diocesi e ci ricordia1no di quan!o scrisse S. Bernardo nl Pontefice Eugenio III a proposito del clero di Rorna negl'aurei libri f)c consideratio11c 'Clerun1 llllnn ordinatissin1un1 esse dccct cx quo precipue in 01nne1n ecc!esi;:nn cleri fonna processi!. Inlerest gloria.e santitatis tuae ut quos prc oculis habes ila oniinati,


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Adolfo Longhitano -----

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ita sint informati quatenus totius honestatis et ordinis ipsi spcculum, ipsi sint forma. Invcniantur prae caeteris oportet expediti ad officia, idonei ad sacramenta, ad plebes erudiendas solliciti, circumspecti ad sese custodiendos in 01nni castitate'. Ad ottenere un fine così subli1ne tra gl'altri mezzi che giudichiamo più necessari si è quello che oggi proponghia1no alla vostra pietà con tutto l'impegno e fervore dcl nostro spirito, cioè l'uso delle conferenze morali, che intendiamo di stabilire in questa città per servir d'esempio ad ogni altro paese e luogo della diocesi con certa fiducia che, sccondando voi le nostre vive premure, contribuirete in tal guisa a vantaggi di tutto il clero e al ristabili1nento dell'ecclesiastica scienza e dell'esatta disciplina. Vogliamo adunque che in tutte le chiese parrochiali, che qui sotto si noteranno, si tenga la conferenza degl'eccle;;iastici, che abitano nel distretto e compreso d'ognuna di esse e che si raduneranno nella nledesima ogni giovedì doppo pranzo, cominciando dal pritno giovedì del prossimo 1narzo, che caderà a cinque di quel mese. Presederà a ciascuna un ecclesiastico, che noi destinian10 prefetto e direttore di essa, e questi averà la cura di proporre otto giorni prima della conferenza due o tre casi di 1norale, scrivendoli in una carta, che dovrà affiggersi nella sagrestia o in altro commodo luogo, quelli che dovranno poscia discutersi e risolversi nella conferenza, dandosi a ciascheduno luogo e facoltà di parlare, purché ciò siegua senza alcuna contenzione e in lingua volgare e in maniera sen1plicc ed istruttiva, ciocché s'intende di coloro che vorranno farlo volontaria1nente e senz'alcuna obligatione o necessità, rimanendo il carico al prefetto d'esporre con tutto l'apparato delle autorità e delle raggioni i dubii proposti, quali curar dovrà circa un trattato stesso di 1noral teologia a sua elezzionc, passando doppo compilo un pri1no trattalo a proporre un secondo, e così di n1ano in mano; ciò si pratticherà in tutti i giovedì, a riserva dell'ultimo d'ogni nlesc, nel quale voglia1no che la conferenza s'aggiri unicarnente intorno ai riti e ceren1011ic della Chiesa, sotto il medesiino prefetto e direttore, che tratterà in tal giorno delle 1nateric liturgiche cd in quanto concerne la celebrazione dell'augustissin10 Sacramento e dc' divini ed ecclesiastici uffici. Avrà ciaschedun prefelto un aiutante o vicario siinihnente da noi prescelto per supplire alla sue mancanze in caso di nccessilà o d'assenza, non volendo noi che n1anchi la conferenza per qualsivoglia nlerito; contentandoci solan1ente che possa vacare in tutti i giovedì del 1nese di ottobre, nel giovedì doppo la sessagesin1a, nel giovedì santo, nel giorno della festa del SS. Sagramento e n_el giorno dell'ottava della medesima so11enqità, nclli giovedì che cadessero fra i giorni qui destinati alle due feste della gloriosa protettrice e concittadina S. Agata e nel giovedì in cui cadesse la festa del Santo Natale o quella della Concezzione della SS. Vergine Madre di Dio. 1n tutti gl'altri giovedì dell'anno non n1anchcrà mai la conferenza né potrà dispensarvicisi senza nostra espressa licenza. Non credia1no doverci valere della nostra autorità e 1nolto meno delle minacce di censure e di castighi, co1ne per altro sian10 stati costretti di fare in altri luoghi della diocesi per indurre ogn'uno di voi ad intervenire e non esentarvi sotto qualsivoglia pretesto. La vostra docilità e la esattezza della vostra ubbidienza, l'i1npegno che in voi ravvisiaino di incontrare da per tutto il vostro genio e secondare tutte le nostre risoluzioni ci persuadono che senz'altro sti1nolo conco1Terete a gara e con ogni studio e puntualità a quanto abbiaino prescritto, riconoscendo in noi la voce non sola1nente dcl vostro servo e ministro quale ci costituisce il nostro carattere, n1a ancora quella del vostro padre e pastore. Con tutto ciò ordinian10 che si notino i notni di tutti coloro che interven·anno in ogni giovedì alla conferenza in un libro che si terrà dal cancelliere della 1nedesi1na e noi non trascurare1no d'esser presenti di quando in quando ora in una, ora in altra delle chiese designate, locché siinihnentc si farà dal 1nio Vicario Generale. Né 1ninor cura


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vescovo, più che rifarsi a norme giuridiche, tentò il discorso persuasivo: ringrazia il clero per aver partecipato al ritiro spirituale promosso in occasione dell'avvento e, appellandosi all'autorità di s. Bernardo, lo invita ad essere specchio di onestà e di disciplina per i fedeli e a conseguire il massimo della qualificazione per svolgere bene il proprio ministero. L'iniziativa proposta dal Ventimiglia sembra superare la prassi dei casi morali seguita dai suoi predecessori, secondo l'insegnamento caro ai gesuitin Nel suo decreto egli parla di "conferenze" e accenna un metodo particolare che prevede man mano l'esposizione di tutti i trattati di teologia morale da parte di uno specialista e l'intervento libero dei presenti «purché ciò siegua senza alcuna contenzione e in lingua volgare e in maniera semplice ed istruttiva». La riunione dell'ultimo giovedì di ogni mese era riservata alla trattazione di temi liturgici riguardanti la celebrazione della messa e dei sacramenti. Nella formazione del clero dimostra, in tal modo, di avere quella particolare sensibilità liturgica, che era nna delle caratteristiche dei cattolici illuminati. Naturalmente il Ventimiglia non si illudeva di raggiungere lo scopo prefisso solo con i mezzi persuasivi e nella relazione informa il papa che avrebbe fatto ricorso alle pene e al carcere «perché i malvagi,

a

avranno d'assistere a questo così profittevole esercizio i nostri venerabili fratelli che compongono il capitolo della nostra santa chiesa cattedrale, i quali siccon1e a tutti gl'altri precedono nel grado e nelle dignità, così preceder debbono nell'esen1pio e nell'edificazione, potendo ogn'uno d'essi scegliere a proprio arbitrio quella chiesa che le riuscirà più con1moda ad intervenirvi. Le chiese destinate e li prefetti che abbiamo in esse costituito sono le seguenti: 1. nella chiesa collegiata di S. Maria dell'Elemosina il ven. cantore Giuseppe R_ecupero; 2. nel1a chiesa di S. Filippo il rev. D. Domenico Guglielmina; 3. nella chiesa de' SS. Andrea e To1nmaso il rcv. D. Michele D'Angiolo; 4. Nella chiesa di S. Agata alla fornace il rev. D. Francesco Zappalà; 5. Nella chiesa di S. Marina il rev. D. Francesco Sardo; 6. Nella chiesa di S. Maria dell'Itria il rev. D. Cirino Quattrocchi; 7. Nella chiesa di S. 1v1aria della Concordia il rev. D. Mauro Sapienza; 8. Nella chiesa di S. Agata dcl Borgo il rcv. D. Salvatore Savia. Dato in Catania, li 24 febbraio 176l. Salvadorc Venti1niglia, Vescovo di Catania. Giuseppe Longo, mastro notaro» (E 1752-1761, 74v-76v) Sembra che il Venti1niglia si sia adeguato alle indicazioni date in n1ateria dal Concilhun Ron1anun1, cit., tit. 15, cap. 9, 59-60 e appendice 239-242. 77 Vedi quanto si è detto a tal proposito nell'introduzione alla relazione del Galletti (A. LONGIIITANO, Le relazioni «ad lùnina», cit., 150-152).


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trattenuti da questi provvedimenti più che dalle catene, si pentissero dei loro misfatti e confessassero i loro peccati» 78 • Nel 1790 ritenne necessario fare un censimento di tutto il clero 79 , Molti, durante il governo del suo predecessore, avevano rìcc-

78 79

Rei., 15r.

«Salvadore Venliiniglia, vescovo di Catania. Siccorne la principale altenzione del sagro nostro rninistero dee rivo1gersì non solo a coloro che, situati nel secondo grado deJ sacerdozio di Gesù Cristo, sono i nostri cooperatori nel servizio della Chiesa e nella cura delle anirne, ricornprale col preziosìssiroo sangue del Redentori?, rna ancora a tulli quegli altri che sono costituiti ne' diversi ordìni del sagro clero e destinati anch'essi nel loro grado n1inorc all'opera dell'ecclesiastico n1inistero e all'edificazione dcl n1isrico corpo del Salvadore, così è nostro preciso dovere il vagliare colla pili attenta sollecitudine sulla condoiia ed ese1nplari costu1ni di tutti, acciocché si sparga da pertutto il buon odore dì Cristo. Perciò sin dal principio ch'entran1n10 (sebbene deboli e n1iseri e affatto indegni) al regirnento di questa Chiesa, sia1no stati penetrati nel cuore da un sacro orrore e abia1no inostrato una insuperabile ripugnanza a pro1nuoverc alcuno agli ordini 1ninori ed anche alla prirna clerical tonsura, se prirna non sia staia da noi stessi esan1inaìa la divina vocazione che al suo particolar .servizio e al ininisicro della sua Chiesa lo destinava, facendone per lo pili esperienza nel nos1ro serninario vescovile. tv'ia nel tempo stesso uon abbianJo polulo rirnirare senza la più tenera con1passione del nostnJ cuore alcuni altri, fra coloro che trovarn1no giiì pron1ossi pri1na della nostra venuta a qualche rninorc ecclesiastico grado, i quali, sebbene chian1ati alla sorre ed eredità del Signore, non avendo poi potuto o voluto ascendere agl'ordini sacri e 1naggiori, dirnenricandosi perciò totalH1enle deila santità e dignità dello stato da essi eletto per attendere unica1ncntc aì culto divino, separati affatto da tutte le cure ed irnbarazzi del secolo, si sono in così fatta guisa abbandonati alla depravazione dcl loro cuore, che non si arrossiscoHo di esercitare in1picghi toraln1enle 1nondani e indegni della santissima professione, rilenendo con tlltto ciò il sagro abito e la tonsura ecclesiastica con grande disonore del sanluario e con aminirazionc e discapito delia pietà de' fedeli. Quindi ci ha ispirato il Signore di ailaticarci per apportare col suo divino aiuto a ques[O grave disordine il conveniente riparo; e a tal oggetto riputiarno necessario ì'ordinarc (co1ne in vigore del presente nostro edilto ordinian10) che tuiti coloro che si trovano protnossi al chiericato e avendo già passati gl'anni 25 di loro eià, senza essere s1ali pron1ossi ad alcun ordine n1aggi0re prosicguono tuttavia a portare l'abito ecclesiaslicu anche cot1 nostra licenza e de' nosiri predecessori, nel tern1ine di un rncse da correre dalla pubblicazione dcl preselll"e ed.i.Ho debano presentarsi in questa città al nostrn Vicario Generale e in ogn'altra città o terra della nostra diocesi al vicario foraneo di ogni rispeitivo luogo in cui abitano e dare al rnedesirno nota del loro norne, pairia, età e 1e1npo di loro ordi11aziot1c e giustificare insieme innanzi al 1ned.esin10 l'i1npiego che escrcirano ed a qual chiesa sieno addetti per prestare in essa la lofo assisienz:a ne' divini uffici e nelle ecclesiastiche funzioni, accioché, esa1ninandosi da noi con diligente attenzione tutta la loro vita e condotta, possia1no deliberare se degni sieno di rimanere nello stato clericale o debba foro 11nporsi di deporre assolurmncnte e per seff1pre quel abito di cui non custodiscono il ch~coro e quella sacra professione che è assai più onorevole di tutti i titoli e di tutle le digniliì di


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vuto la tonsura e gli ordini minori solo per godere dei privilegi annessi allo stato clericale, senza più preoccuparsi di chiedere gli ordini maggiori o di dedicarsi al ministero. Con il censimento il Ventimiglia intendeva fare chiarezza: coloro che erano entrati a far parte del clero e con un comportamento non confacente agli irrtpegni assunti si erano dimostrati indegni, avrebbero perduto ogni diritto.

c) Norme sulla cura d'anime e sul conferimento dei benefici

Nel descrivere lo stato della diocesi, il Ventimiglia non poteva non far rilevare l'ano1naia situazione che aveva trovato a Catania 811 : esisteva una pletora di collegiate, erette dai suoi predecessori nelle chiese curate 8 ' ed ai canonici, solitamente, era affidata la cura delle ani1nc; tuttavia, 1ncntrc in alcune chiese la responsabilità cornpeteva alle dignità, in altre era affidata a tutti i canonici collegialmente: perciò di diritto tutti erano parroci, di fatto non lo era nessuno 82 ; in 1r1olti altri centri, scrive nella sua relazione:

questo inondo. Dichiariaino però che chiunque inancherà a prestare la dovuta obbedienza a questa nostra ordinazione nel Lennine prescritto, resterà da quel punto stesso sospeso dall'esercizio de' propri ordini ed escluso affatto dal nun1ero de' chierici, né potrà portarne l'abito per l'avvenire; che se ciò non ostan!e ardisse di portarlo, resterà soggetto ad un n1ese di carce1-e ed altre pene a noi benviste e i nostri rev. vicari foranei, se trascureranno nei tennine di due n1esi dalla publicazionc di questo editto di inandarci la distinta nota di tutti i chierici che si saranno da essi presentati coll'irnpiego che ciascheduno esercita e la chiesa a cui serve, resteranno sospesi dalla loro carica. Piaccia al Signore il concedere a Lulli i diversi ordini e gradi della 1nilizia ecclesiastica il vero spirito di pietà e di religione e la grazia di fedelmente servirlo, affinché possano godere dell'eterna n1crcedc che il nostro Signore Gesù Cristo principe de' pastori ha pro1ncsso a' buoni operari e 1ninistri della sua Chiesa. A lui sia gloria cd onore cd i1nperio per tutti i secoli de' secoli. A1ncn. Dato in .Catania nel nostro palazzo vescovile a 8 aprile 1770. Salvadore Venti111iglia, Vescovo di Catania. Giuseppe Longo, rnaesrro notaro» (E l 769-1776, 7v-9r). 80 Su questo argomento vedi A. LONGllJTANO, Lo parrocchia nella diocesi di Catania prhna e dopo il co11cilio di Trento, Ist. Sup. di Scienze Religiose, Palenno t977. 81 La relazione dcl Vcnti1niglia ci offre i dati relativi alla fondazione di tutti i capitoli della diocesi esistenti al suo re1npo. 82 Il Ventiiniglia fa questa affermazione in particolare per la collegiata di Biancavilla (rel., 9r).


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«La cura delle anime è eserci1ata da vicari an1ovibili ad arbitrio dcl vescovo, che è ritenuto unico parroco di tutta la diocesi. Infalti, ad eccezione di Enna né Catania, né Piazza, né altri con1uni hanno parroci perpetui, ma se1nplici cappellani incaricati di amministrare i sacrmnenti. Per un antico errore le autorità civili della città di Catania si convinsero che i diritti parrocchiali contrastavano con !a hbertà dei ci1ladini. A ciò si deve se, in passato, i vescovi hanno tentato inutil111ente di is!ituire i parroci perpetui; oggi questa speranza si è'perduta del tutto» 83 .

Le intenzioni del Ventimiglia su questo argomento si leggono facilmente fra le righe: porre il problema alla congregazione del Concilio per avere l'appoggio necessario a ridurre le collegiate e a nominare parroci personali e perpetui secondo le indicazioni del Concilio di Trento. Il sostegno sperato non arriva, perché l'officiale incaricato di preparare i rilievi per la risposta fa notare: «La riflessione che fa Monsignor Vescovo sopra l'abuso che coffe in alcuni luoghi della sua Diocesi, dove la moltiplicità dc' canonici produce la molfiplicità dc' curati tamquam aequum omnes c111"a111 animarwn habentes, potrebbe aver luogo quando si verificasse che tutti eodem tempore esercitassero egualn1ente la cura, laddove se la cosa succedesse per turno, non ripugna che tutti i canonici abbiano la curn abituale, purché da ciascuno si eserciti ne' suoi dati tempi. Sarebbe dunque necessario che Monsignor Vescovo spiegasse meglio il caso proposto, oppure volendo procedere a quald1e sollecito ri1nedio, conviene che si adatti a quelle condizioni che al ius ca11onic11m non si oppongono. Se dunque la cura abituale fosse addetta ai canonici e l'attuale si esercitasse da ciascheduno per turno, quando anche questo pregiudicasse al buon servizio de' parrocchiani, potrebbe Monsignor Vescovo trattarne l'accomodmnento con lo stesso Capitolo e detenniname qualche innovazione de consen~H Capituli. Che se poi l'affare fosse diversamente introdotto cosicché l'atluale cura istessa eodem tempore da ognuno dc' canonici cgualinente si an11ninistrasse, allora e in questo solo caso potrà Monsignor Vescovo provvedere secondo quello che crederà più opportuno» 84 .

Migliori risultati ottenne con le norme sul conferimento di tutti i benefici per concorso, nonostante l'iniziale opposizione di molte collegiate. Il Ventimiglia al suo ingresso in diocesi aveva trovato una prassi inaccettabile, introdotta al tempo del suo predecessore: i capitoli presentavano per ogni prebenda vacante tre candidati; il vescovo poteva scegliere solo fra i nomi presentati. Le conseguenze di questa prassi vengono descritte dal vescovo:

83 84

Ibid., 9v. Jbid., 22r-22v.


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«Erano stali scar!ati i più degni per offrire le prebende ai parenti, agli mnici, ai compari, persone per lo più malviste per la loro cattiva condotta o inconcludenti per la loro ignoranza>J 85 •

La riforma voluta dal Ventimiglia non poteva essere gradita e si ebbe una serie di ricorsi al tribunale della regia monarchia per invalidare le norme emanate dal vescovo 86 • Iniziarono i canonici della collegiata di Adrano, seguiti da quelli di Acireale e di altri comuni della diocesi 87 • I primi ricorsi furono respinti 88 • Gli altri capitoli o li ritirarono spontaneamente o chiesero ed ottennero una transazione89 • Questa nuova disciplina ebbe come effetto la qualificazione dei capitoli delle collegiate, ai quali nella maggior parte dei casi era demandata la cura delle anime, e uno stimolo in più per il clero, che si sentì obbligato allo studio e ad un comportamento esemplare per ottenere con più facilità un beneficio, far parte di un capitolo, avere una dignità'W,

85

Jhid., 14r. Il Concilio di Trento prevedeva l'obbligo del concorso solo per il conferi1nenlo dei benefici curati (sess. XXIV, de rej:, c. 18), ma non proibiva che ogni vescovo potesse rendere obbligatorio il concorso anche per il conferimento degli altri benefici (per questo problema vedi heneficiun1, in F. L. FERRARIS, Pron1pta bibfiotheca canonica, iuridica, n1orafis theo!ogh·a, I, Migne, Paris 1858, 10611242: 1102-1107; concursus, Il, 878-914). Il Ventimiglia contestava la prassi esistente, perché i canonici non potevano vantare un vero e proprio diritto di patronato. 87 Su queste controversie vedi la docu1nentazione contenuta in TA 1758-1759, 242r-249v; TA 1763-1764, 16lv-l67v; 269r-275v. 88 ReL, 14r-14v. 89 Vedi i docu1nenti riguardanti il capitolo di Belpasso con l'atto di transazione finale (TA 1763-1764, 125r-v; 388v-402r) e quelli riguardanti il capitolo di Patemò (TA 1766-1767, 20lr-218r). 90 Nei registri della curia si trovano in questi anni i bandi di concorso per i diversi benefici che man n1ano si rendono vacanti, alcune dOmande di concorrenti, i risultati con l'indicazione dei partecipanti e della graduatoria finale. Vedi il concorso per canonico secondario alla cattedrale del suddiacono Vincenzo Zuccarello, che presenta il suo cu1Th'u/un1 di studi farto nel seminario e le attività svolte: prefetto di cmnerata in seininario, insegnante di lingua greca, 1nusica e canto gregoriano. Fra gli esa1ninatori c'è il can. Giovanni Agostino Dc Cosini U. I. D. (TA 1766-1767, 355r356r). Nel 1770 si trascrive l'esito del concorso per il prevosto della collegiata di Piazza: fra cinque partecipanti risulta vincitore D. Filippo Trigona S. T. D. (TA 17691770, ll8r-119r). 86


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d) Catechesi «Il mio prinw pensiero è stalo sempre quello di fugare le tenebre dalla mente degli uomini con la luce della fede, di applicarmi a divulgare gli insegnan1enti di Cristo e di islruire i fedeli» 91 .

L'impegno per l'istruzione religiosa dei fedeli, per quanto prioritario, era subordinato ad un minimo di organizzazione e alla disponibilità di collaboratori e di strumenti idonei. Il primo strumento doveva essere un catechismo che allo stesso tempo avesse il requisito della completezza e quello della facile comprensione. «Poiché non c'era un compendio dclfa doitrina cristiana, rcdauo in lingua siciliana, che con metodo fm.:ile e idoneo contenesse con buona disposizione i pri1ni elementi della fede che è necessario ed utile conoscere (quelli che erano diffusi in Sicilia erano incon1pleti e scarni), ni: ho preparato uno io con un linguaggio se1nplice e adatto alle persone prive di istrul'.ione: questo ho follo seguendo le indici1zioni e !e nonne dcl catechismo del Concilio di Trento, il cui uso è stato raccomandato ai vescovi da Clc1nente XIII, che in questo n1omento felicemente presiede la Chiesa cristiana» 92 •

Predisposto il testo, il Ventimiglia diede le opportune disposizioni perché in tutte le chiese sacramentali si insegnasse il catechisn10. La ricezione dei sacra1nenti era subordinata alla conoscenza della

91 Rei,, 15r. Approfondisce questa parte del progran1n1a pastorale del Ventiiniglia G, Di FAZIO, Salvatore Ventin1iglia, cit. Il concilio provinciale ro1nano aveva dato precise norme sulla catechesi, integrate con indicazioni pratiche nell'appendice (Conci/iu111 Ron1a11urn, cit., tit. I, cap. 4-5, 6-8 e 298-307). Sul proble1na della catechesi in Sicilia vedi L. LA ROSA, Storia della catechesi in Sicilia (secc. XVI-XIX), Ligeia, Soveria Mannelli 1986. 92 Rel., I5r-v. Il Ventilniglia segue la prassi tradizionale di scrivere iJ testo dcl catechismo nelia lingua parlata dal popolo, il siciliano. Sul tema vedi F. Lo PIPARO, Sicilia linguistica, in la Sicdia, (a cura di M. Ay1nard e G. Giarrizzo), Storia d'Italia. Le regioni. Einaudi, Torino 1987, 733-807; M. D'AGOSTINO, La piazza e /'affare. Mrnne11ti de/fa politica linguistica della Chiesa siciliana (secoli X\l!-X\lll/), Centro studi filologici e linguistici, Palermo 1988. Del resto anche la predicazione si faceva nella stessa lingua. Il De Cosmi nelle sue men1orie autobiografiche scrive che predicò per la prin1a volta in toscano nella cattedrale di Catania nel 1765 (G. GIARRIZZO, Giovanni Agostino De Cosn1i, cit. 1108). Il Venti111iglia a difesa del proprio catechismo sostenne una controversia con il viceré Fogliani, che voleva applicare anche a Catania un ordine reale di usare il catechisn10 del Bossuet nelle chiese ex gesuitiche. Il nostro vescovo riuscì a dimostrare la validità delle sue scelte (G. Dr FAZIO, Salvatore Ventin1iglia, cit., 73 7 77).


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dottrina cristiana: «gli ignoranti e i pigri dovevano essere allontanati dall'Eucaristia, dal sacro crisma, dal matrimonio» 93 • Nello stesso tempo egli progetta di istituire un'associazione della dottrina cristiana «che abbia cmnc fine di riunire, in qulllsiasi centro abitato, un certo numero di catechisti per 1noltiplicarc le adunanze di bmnbini e di costituire gruppi di .<;accrdoti che, con sollecitudine costante e tenace, con zelo e compclcnza, si dedichino ad un'opera così i1nportante. Abbiamo già preparato gli statuti e siamo certi che quest'opera, per una speciale grazia di Dio, apporterà non poco bencficio>) 94 •

L'organizzazione della catechesi fu portata a compimento nel 1769, quando in un editto il Ventimiglia annunziò che aveva istituito venticinque legati di onzc sei per i maschi e altrettanti di ouze quattro per le femmine da tirare a sorte fra coloro che avessero dimostrato, dopo un esame, di aver in1parato a n1ernoria il catechismo95 .

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L.c. L.c. «Editto. Salvadorc Vcntiiniglia, Vescovo di Catania. Riconoscendo noi con1e principal dovere dcl pastorale nostro 1ninisrero il procunuc con ogni studio che si dilati e si accresca nel popolo a noi com1nesso la luce della cognitione di Dio e del nostro Signore Gesù Cristo, della verità, de' misteri e delle inassime della nostra santissi1na religione e scorgendo in quesla parte benedetto e prosperato dalla divina n1isericordia il fervoroso nostro in1pegno, dacché la priina volta pubblicarnmo il nuovo co1npcndio della doltrina cristiana, da noi disieso ad uso di questa diocesi, avendo noi ispirato un santo zelo non solo ai reverendi parochi e curati della 1nedesima, 1n'ancora a tutti i sacerdoti ed ecclesiastici d'insegnarla al popolo, ed al popolo stesso una viva ed ardente brama d'impararla e di istruirsi ne' doveri del cristìanesitno, non dobbia1no ora tralasciare alcun mezzo che da noi possa col divino aiuto 1nettersi in prattica onde pron1uovere maggiormente e vieppiù accendere le pietose pre1nure de' fedeli per queslo santo e necessario servizio. A queslo oggetto giudichiamo di dovere ani1nare la povera gente bisognosa, che per ordinario suole essere la più inculta e tra,scurata, anche col 1nezzo di vantaggi temporali e de' caritevoli sussidii, che voglian10 che servano di ricompensa e di prernio a coloro che hanno bene appreso la dottrina di Gesù Cristo, accioché si verifichi quanto scrisse il grande Apostolo al suo diletto Tiinoteo (ad Tin1 4,8): 'la pietà è utile a tutto, giaché ad essa sono promessi non solo i beni della vita futura, n1'ancora della presente'. Quindi abbiamo pensato di destinare la .son11na di onze ducentocinquanta, dividendola in cinquanta pre1ni o (co1ne volganncnte si chian1ano) legati venticinque di onze sei per altrctante donue o zitelle e venticinque di onze quattro per altrelanti maschi di ogni età che si troveranno avere ben i1nparato a n1en1oria tutto il nuovo co1npendio della nostra dottrina. Sei legati cioè, Lre per n1aschi e tre per fe1nine, verranno distribuiti in ciascheduna delle parrocchie più popolate di questa città, le quali sono l'insigne Colleggiata, S. Filippo Apostolo, i SS. Andrea e Tomnutso Apostoli, S. Agata della .ì

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Adolfo Longhitano ----

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Per l'istruzione e la formazione dei fedeli si servì delle missioni popolari, un'iniziativa molto diffusa in quel tempo e alla quale si dedicavano diversi ordini religiosi; furono organizzate in tutta la diocesi per rendere più fruttuosa la visita pastorale. «In preparazione alla nostra visita ho inviato predicatori seri e preparati, scelti da tutti gli ordini e dalle vicine diocesi, con l'incarico di portare a termine le opere apostoliche chiamate "missioni"»96 .

e) Riforma della curia e riqualificazione del capitolo cattedrale

Uno dei primi provvedimenti presi dal Ventimiglia, subito dopo il suo ingresso in diocesi, riguarda la riforma della curia diocesana".

Fornace, S. Marina, S. Maria dell'Itria e S. Agata del Borgo, due legati, cioè uno per 1naschi e un altro per femine, in ciascheduna delle pan·occhie meno popolate, le quali sono la nostra Santa Cattedrale, i Santi Angeli Custodi, Santa Catarina della Concordia e Santa Maria delle Grazie di Cifali. Provvederanno intanto i reverendi curati che restino informati di questa nostra disposizione tutti i fedeli del loro rispettivo distretto e andranno riconoscendo ed esaminando coloro che hanno appreso o apprenderanno intieramente il compendio della dottrina, dovendo poscia produrli per l'esame generale, che si farà da noi o dal nostro Vicario Generale nella ventura quaresi1na dcl prossimo anno 1770, assegnando uno o più giorni per ciascheduna parocchia, nel quale essatne tutti coloro che saranno approvati vetranno imbussolati e si estraeranno a sorte i legati che i1nmediatan1entc saranno pagati dal nostro razionale a coloro che saranno estratti o a' loro genitori se saranno figliuoli. E sicco1ne nello stesso tempo della quaresi1na, piacendo al Signore, pensia1no d'a1nn1inistrare il sagramento della confennazione, il quale a tenore de' nostri precedenti editti non dispenserà ad alcuno che non sappia la dottrina del nostro con1pendio o almeno la prima parte di esso intieramente e della seconda quanto appartiene al medesimo sagra1nento della cresitna, cossì sarà agevole a' reverendi curati e cappellani il riconoscere per l'uno et l'altfo fine il profitto di ciascheduno de' figliuoli e figliuole del proprio distretto pan·ochiale ed attestarlo a noi in altrettante schedule, che consegneranno a tutti coloro che desiderano confermarsi, acciocché a noi le esibiscano, alorché si presenteranno per ricevere quel sagnunento senza la quale schedula del proprio curato, sulla di cui coscienza in questa parte riposeren10, non verranno a1n1nessi. Dato in Catania nel nostro palazzo vescovile a 21 nove111bre 1769. Salvadorc Ventin1iglia, Vescovo di Catania. Giuseppe Longo, mastro notaro» (E 1769-1776, 4r-5v). 96 Rei., 16v. 97 «Editto regulativo pell'am1ninistratione della giustizia e de' rettori delle due aule civile e crirninale. Noi D. Salvadore Venti1nìglia etc. Essendo 1'an1ministratione della giustizia quella parte del pastora! governo alla quale i presenti bisogni di questa nostra vasta diocesi esiggono, che pri1na d'ogni altra cosa rivolgiamo tutta


Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1762)

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La tempestività dell'intervento è indice della gravità della situazione, che il vescovo descrive nella sua relazione. l'attenzione dell'animo nostro, dopo matura riflessione siam divenuti alla necessaria riforma di questa Gran Corte Vescovile erigendo in essa due aule, una crin1inalc, l'altra civile, con tre ordinarii assessori per ciascheduna, innanti a' quali ne' giorni da noi stabilili e alla presenza nostra o del nostro Vicario Generale tutte le cause e pendenze de' nostri sudditi, maturamente ~saminandosi e decidendosi, ottengano essi non solo le più rette e convenenti providcnze, ma ancor la più sollecita spedizione de' loro affari. Quindi per ritrarre il desiderato frutto di questa nostra opportuna disposizione e darsi un regolato e metodico corso alle procedure giudiziarie ordiniamo col presente nostro editto: 1. Che i vicari della nostra diocesi e tutti i loro assessori, 1ninistri, notari ed altri ufficiali eseguir debbano soltanto quelle ordinazioni che per via della riferita nostra Gran Corte Vescovile saranno loro intimate. 2. Che in quanto alle cause criminali non s'intromettano d'oggi innanzi nella cognitione e disamina delle 1nedesin1e per esser tutte a noi riserbate, ma che soltanto ricevano, nel caso che vi sia istanza di parte, qualunque accusa, relazioni o testimonianze che in prova saranno loro esibite e li rimettano a noi e nostra Gran Corte nel nlodo e forma che qui appresso scrivesi. 3. Conoscendosi necessaria la carcerazione del reo accusato, lo facciano pure in sicure carceri arrestare, come ancora se sarà di bisogno procedere all'inventario o confiscazione dc' beni de' delinquenti, lo prattichino con fedeltà ed attenzione dandoci conto di tutto. 4. Ordinia1no che una volla al mese, co1ninciando dall'entrante luglio, ciascheduno de' nostri suddetti vicari debba indispensabilmente darci distinta ed individual notizia di tutto ciò che occo1rerà nelle rispettive città, luoghi e tcrritorii di loro commessa giurisdizione colla rimessa di tutte le istanze, accuse, testimonianze o altri atti loro proposti contro de' nostri sudditi e tutto ciò che in qualsivoglia 1nanicra l'ecclesiastico nostro foro riguarda, osservando lo stesso anche ne' casi ne' quali non vi sia istanzia di parte o che abbiano i delinquenti riportata cessione della parte offesa o accusante o se altro in quel 1nese non occorresse, trastnettano la fede negativa del mastro notaro della lor corte spirituale. E in questo priino mese rimettano tutte le infonnazioni, processi ed accuse che mai si trovassero da dicci anni a questa parte, delle quali i rei rubricati non fossero stati ancora provisti. 5. Per ciò che appartiene agl'affari civili, ritrovandosi per legge sinodale di questa nostra diocesi ristretta la podestà dc' vicari locali alle cause che non passano le once sei, noi conformandoci alla riferita disposizione dcl sinodo, Sess. 4, cap. 2, num. 20, confermiamo ad essi la facoltà di esaminare e risolvere quelle pendenze civili, che avessero il solo imposto delle once sci o meno, ma vieta1no loro ingerenza e cognizione in quelle che sorpassano il valore della som1na sudetta; nel qual caso doveranno assolutamente le parti indirizzarsi alla nostra Gran Corte Vescovile. 6. Per via pure della stessa nostra corte e per l'officio del nostro 1nastro notaro nella maniera sopra espressa, dovranno ri1netterci le non1ine, che si faranno nelle vacanze de' canonicati e benefici, riserbandosi soltanto a scriverci per via della sccreteria quelli affari che a noi unicamente dovranno co1nmunicarc. Concorrano pertanto all'ubbidienza e puntuale esecuzione degl'ordini nostri in questo editto contenuti e secondare le nostre fervorose pre1nure per la retta 111n1ninistrazione della giustizia; e in caso di mancanza e di trascuragine si aspettino da noi quelle pene che, a proporzione delle loro trasgressioni, 1ncriteranno. Dato da questo nostro palazzo vescovile, li 20 giugno 1758. Salvadore Ventimiglia, Vescovo di Catania. D. Giuseppe Longo, mastro notaro» (E 1752-1761, 46v-48r).


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Adolfo Longhitano «Frattanto, disgustato per la corrollissirna curia vescovile, che non poteva essere conside-

rata il santuario dei giudizi ecclcsiastlci ma !a bollega dei mercari!i, Jln dal!'inizio dcl mio governo pastorale ho incominciato a rinnovarla e a riformarla. Infatti nei giudizi il vescovo non poteva contare su assessori certi, né era stata fissata una tassa per la redazione degli alti e delle scri11ure; per qualsiasi cosa si chiedevano ingiustificate somme di danaro in proporzione alla cupìdigia dei responsabili. Il vescovo dava in appal1o, al cancelliere, questa illimitata facolt~ di domandare soldi e il cancelliere cercava di ricavare il più possibile nella spedizione degli al1i, delle lettere e dci certificati. Per impedire questo vergognoso commercio e per res1i!uirc dignità alla curia scelsi sei giudici assessori, dci quali tre dovevano occuparsi deì processi civili e !re di quelli penali. Al cancelliere e ai suoi collaboratori LlS::>egnai uno s!ipendio e diedi ordine di non chiedere cli più di quanto prescrivano le cosiddette tasse innocenziane. Se era rìchiesta un certificazione scrilla, secondo l'uso del municipio, ho disposto che si seguisse la prnssi della curia di Agrigento, che sapevo fosse molto contenuta. Attenendon1i alle prescrizioni della legge, ho fatto perdere definitivamente ai monaci la speranza di disfarsi del loro saio; infatti non ho 1nai repu1a10 di avere immaginari privilegì, né di godere di particolari potestà riguardo ai voti dei religiosi, a! di fuori di quelle che sono srate concesse dal Concilio di Trento e dai decreti pontificiJ> 98 .

li capitolo cattedrale, anche se non aveva più all'interno della vita diocesana il posto di rilievo riconosciutogli dalle antiche non11e canoniche, era co1nunque considerato il senato dcl vescovo e, per le sue laute prebende, poteva garantire a coloro che lo aiutavano nel governo della diocesi un più che onesto sostentamento. Una sua riqualificazione si ebbe con l'attuazione delle norme sulla concessione dci benefici. Ma era intenzione del Ventimiglia concedere le prebende vacanti ai col1aboratori che chia111ava da al.tre diocesi e ai sacerdoti più qualificati del suo presbiterio. Nel 1758, alla morte del can. Pietro Profeta, eresse la prebenda del canonico teologo e la conferì a Giacinto Paternò Bonaiuto dei baroni di Raddusa99 Questi però vi rinunziò nel 1763, perché lusingato dalla possibilità di una più brillante carnera nel tribunale dell'inquisizione, dove fu non1inato inquisitore fiscale, ufficio incon1patibile con quello di canonico 1110 .

98 Rcl., l5v-16r. 99 TA 1757-1758,450v-451r. Su questo personaggio vedi D. SCINÀ, op. cit.,

I, l34. 176-177; li, 104; V. PERCOLLA, op. rii., 277-284. 100 TA 1763~1764, 13v-14v. Il Patcrnò Bonaiuto nel 1767 fu non1inato inquisitore provinciale e restò in carica fino alla soppressione del tribunale

de!I'inquisizione (V. LA MANTJA, op. cit., 142).


Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1762)

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Durante gli anni del suo governo pastorale il capitolo cattedrale accoglierà alcuni dei collaboratori più qualificati del nostro vescovo: Giovanni Agostino De Cosmi, Vito Coco, Giuseppe Recupero, Antonino Tusa~ Matteo Scamn1acca... 101 ,

f) Ricostruzione della cattedrale

L'edificio, a distanza di settant'anni dal terremoto del 1693, poteva dirsi ricostruito. Occorreva portare a compimento il prospetto, secondo il progetto predisposto dal Galletti. Il Ventimiglia, nella sua relazione, può affermare: «Perché sia completato occorre sistemare ventidue s!a1uc di marmo, che io stesso ho co111incialo a realizzare; due di esse sono state ullirna1c e collocate al loro posto, la terza sanì nrnniirala fra breve, le al!rc sono state c01n1nissiomlfc agli scultori>1 102 .

g) L'università degli studi

Nell'ordina1nento dell'università il vescovo ricopriva rufficio di cancelliere, le cui competenze erano state sempre niotivo di discussioni e di scontri fra le diverse autorità responsabili dell'andamento dello studio catanese. Nelle varie riforme, che si erano succedute nel corso dei secoli, si era cercato di trovare un equilibrio fra il potere del viceré e quelli del senato e del cancelliere, ma non era stato possibile evitare i conflitti di co1npetenza 103.

wi E 1769-1776, 2lr. 102

Rei., 7r. Sul prospetto della cattedrale non erano mancate discussioni e contese. In una let!era del 13 luglio 1758 il inarchcse Fogliani si n1ostra co1npiaciuto perché, 1nediante l'intervento del Ve11Li1niglia, «haian tenido tcnnino las differencias del senado y del publico dc essa ciudad sobrc cl prospetto o fachada de essa cathcdral» (TA 1757-1758, 452r-v). Su questo argo1nento vedi V. LIBRANDO, 11 «riinarcahile affare del prospetfoN vaccariniano della cattedrale di Catania, in AA. Vv., Scritti in onore di Ottavio Morisani, università degli studi, Catania 1982, 379-414. 103 M. CATALANO, L'università di Catania nel ri11ascilne11to (1434-1600), in AA. Vv., Storia dell'università di Catania dalle origini ai giorni nostri, Zuccarcllo & Izzi, Catania 1934, !-98; M. GAUDIOSO, L'università di Catania nel secolo XVII,


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Adolfo Longhitano

Il Ventimiglia, in un unico progetto di rinnovamento culturale della città di Catania, oltre al seminario intendeva riformare anche l'università, per consentirle di stare al passo degli altri studi d'Italia. I punti qualificanti di questo progetto riguardavano la stabilità dei lettori (sarebbero stati nominati a beneplacito del re su presentazione del vescovo), l'aumento della loro retribuzione, la durata dei corsi, portata a ciuque anni, un maggiore potere di controllo del vescovo sull'andamento dello studio'°'· Contro questa proposta di riforma si schierarono le autorità cittadine, preoccupate per il maggior peso che il vescovo avrebbe assunto nella gestione dell'università, e il progetto fu accantonato. li Ventimiglia ne riferisce brevemente nella sua relazione: «Mi riproponevo anche di riordinare e rifonnare l'università degli studi di Catania, che è l'unica accade1nia esistente in Sicilia. Re Carlo sollecitava un'opera così benemerita, che tutti ardentemente desideravano e che era stala affidata al segretario Gaetano Branconc; pertanto sono sta!o obbligato a impiegare non poca fatica per fom1ularc le norme e predisporre questo lavoro. Ma, dopo la partenza di Re Carlo per la sua elevazione al trono di Spagna e la morte di Brancone, è venuta 1neno la speranza di riformare l'università e di pro1nuovere lo studio dei giovani sici!iani>l105.

TI tentativo di introdurre qualcuno dei principii caldeggiati nella riforma fu fatto dal Ventimiglia qualche anno dopo, quando riuscì a far 1101ninare a vita, senza concorsoi nelle cattedre di inatematica e fisica, il palermitano Leouardo Gambino, dopo la rimozione dei catanesi Agostino Giuffrida e Rosario Nicotra (6 settembre 1766). Ne seguì un'aspra polemica, che trovò coalizzati contro il Ventimiglia le autorità locali, i lettori dell'università e tulto l'ambiente conservatore guidato da Giovanni Andrea Paternò Castello; si giunse perfino a chiedere la rimozione del cancelliere 106 . ibid., 101-214; G. PALADINO, op. cii., 217-271; G. SCALIA, li vescovo cancelliere dello Studio di Catania e la sua.fin1zio11e sino alla rf/Onna Co/01111a (1580), in Asso 30 (1934) 181~234. 104 G. PALADINO, op. cii., 235-236. 105 Rel., 14r. 106 G. PALADINO, op. cit., 238-239. Nei registri della curia c'è una lettera del re, in data 30 giugno 1767, con cui questi respinge definitivamente il ricorso contro la nonlina a vita di Leonardo Gan1bino (TA 1766-1767, 521r-v). Per un'analisi dell'ambiente culturale catanese in questo periodo vedi C. MusUMARRA, op. cit.; S. LA


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In questo clima di tensione si trovò un altro motivo di contesa fra il vescovo, i lettori dell'università e le autorità cittadine: il luogo degli esami di laurea. In un primo momento gli esami si tenevano in cattedrale o nel palazzo vescovile; dopo il terremoto del 1693, quando l'università ebbe finalmente la sua sede stabile, le autorità cittadine fecero presente l'opportunità di tenerli nella sala appositamente costruita nel nuovo edificio. Sembra che il vescovo non si sia mostrato d'accordo con la proposta del senato e nel 1763 ci fu un ricorso a Palermo per far dirimere di autorità la controversiaw 7 • Nel 1767 la questione rimaneva ancora aperta; infatti agli alli della curia troviamo il memoriale inviato a Palermo da un certo Gandolfo, che denunzia uu fatto increscioso: il figlio non si era potuto laureare perché, all'orario stabilito, uno dei promotori non aveva voluto recarsi al palazzo vescovile, dove era stato fissalo l'esame. Il viceré ordinò di fissare una seconda volta l'esame nello stesso luogo e di deferire alla sua autorità chiunque avesse osato contravvenire ai suoi ordini108. Un'altra iniziativa stava tanto a cuore del nostro vescovo: l'erezione di un collegio universitario per dare agli alunni forestieri facilità di alloggio e di studio. Dopo un'intesa con il viceré egli riuscì nel suo intento: il nuovo istituto fu aperto nell'anno scolastico 17651766, nel piano superiore del palazzo dell'università e la direzione fu affidata a Giovanni Agostino De Cosmi. Un decreto a stampa del 19 settembre 1765 ci fa conoscere le finalità, l'ordinamento e le condizioni di alloggio: «Saranno distribuiti gli studenti secondo l'età in varie e distinte cmnerate, ciascheduna sotto l'ispezione di un 'prele, che invigilerà a' buoni costmni, gli accompagnerà nell'uscir di casa, e dormirà sotto lo s!esso tetto. Oltre lo esercizio della preghiera della 1nattina e della sera e l'assistenza alla celebrazione del divino Sacrìficio, vi saranno altre pratiche di devozione pc' giorni festivi, ne' quali ascolteranno un sennone sopra doveri dellu vita cristiana e saranno obbligati alTncno una volta per mese ad (JCcoslarsi a' Sagrainenti della Penitenza e della Eucaristia. Per quanto riguarda le lettere dopo le pratiche lezioni della università, alle quali interverranno continuamente, vi saranno de' Ripetitori particolari nel Collegio [.. .]. Saranno nel vitto 1rnl1a!i con ogni decenza e pulitezza, in n1odo che neppure per questo debbano pentirsi di aver preferito- il publico convitto

ROSA, Introduzione a V. Coco, Leges a Ferdinando III ad a11ge11dun1, fin11andu111 et e.rornandurn Siculorun1 Gynu1asi11n1, T1ingale, Calania 1987, 1 I-25. 107 G. POLICASTRO, Catania nel Se!lecenlo, SEI, Catania 1950, 129-130. 108 TA 1767-1768, 97v-100r.


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Adoljo Longllllu11u

alle private abilazioni. Il vestito sarà modesto e uniforme, cd ancorché non vi sia obbligo di portar veste chiericale, dovrà però usami abito unito di color nero. Consegneranno a! primo ingresso nel Collegio le spade al Bidello della Università, che loro le renderà quando ne usciranno per tornare alle proprie C<JSC L... J. Pagherà ogni convillorc per contribuzione onze quindeci [... J» 109 •

Il nuovo istituto uon fu visto di buon occhio dalle autorità locali e non diede i frutti sperati: nel primo anno accolse solo cinque alunni e fu chiuso per difficoltà economiche 110 •

h) Opere di carità

Nella relazione che pubblichiamo non si fa cenno alle opere di carità realizzate dal Ventimiglia, in particolare all'albergo dei poveri, che fu ideato nel 1760, ma si sviluppò soprattutto con la grande carestia del 1763 ed ebbe la definitiva costituzione giuridica dopo le sue dimissioni. «Sostenendo egli pa1iicolar pena in veder disperni qua e là i poverelli, i quali non aveano ricovero di tetti, ed erano costretti di pernottare allo scoverto nelle pubbliche strade e sin anco nell'inverno ne' luoghi destinati u cuocere vasi di creta per riscaldarsi col calore del fuoco [... ] ferrnossi nell'<mi1110, ad insinua?.ione del zelante p. Giuseppe Sacco ministro degli infermi, d'istituire un albergo generale de' poveri f... J nella contrada che noi chiamiamo del Palombo. lvi il cennato Operario dispose quelle case che gli furono offerte col minor dispendio» 111 .

Durante la grande carestia del 1763, risultando insufficienti i locali apprestati, il Ventimiglia affittò «alcune case particolari e magazzini [... ] vicino la fabbrica del nostro albergo cominciata pochi anni prima» e per sopperire alle spese non indifferenti richieste per

109 ARCHIVIO DELLA CURIA ARCIVESCOVILE DI CATANIA,

Ventùniglia (docu1nenti

vari). 110 G. PALADINO, op. cit., 246-247. Il Sardo scrive a tal proposito: «Ventimiglia il tentò, Vcntin1iglia lo eseguì; e se la calamità de' te111pi non pennisc la durata del nuovo Collegio, non si deve defraudare il zelante Cancelliere della gloria di averlo inco1ninciato e sostenuto per lungo tempo» (G. SARDO, op. cit., 27-28). l!l S. ZAPPALÀ GRASSO, op. rit .. 27


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quest'opera diede in pegno la sua argenteria «presso il Sig. Loffreda» 112 •

Dopo le dimissioni, il nostro vescovo chiese ed ottenne il regio assenso (1776) «dietro una lunga contradizione (come suole accadere in simili fondazioni per l'invidia del comun nemico)» 1 u In questo periodo l'albergo ebbe come sede definitiva la "casina" che il Ventimiglia possedeva nella contrada Ammalati, donata con atto notarile del 6 maggio 1777 114 • i) Conflitti con le autorità centrali

Poco tempo prima di inviare la relazione, il Ventimiglia aveva fatto pervenire alla Santa Sede un documento in cui lamentava gli abusi e le illegalità commessi dalle autorità centrali nei confronti della Chiesa di Catania e delle altre Chiese di Sicilia 115 • Nella relazione si limita solan1ente a richiamarlo e a sollecitare una risposta 116 • Ritenia1no particolarmente rilevante questo documento, che pubblichiamo in appendice per integrare la relazione, non solo perché offre il quadro della politica ecclesiastica seguita dalla corte di Napoli in questi anni, ma perché ci permette di conoscere il pensiero del Ventimiglia in tema di rapporti Chiesa-Stato. li Ventimiglia denunzia soprattutto tre gravi abusi nei confronti della Chiesa di Catania: l'alienazione della contea di Mascali e delle dogane, il passaggio della città di Calascibetta dalla giurisdizione del

112

lhid., 28 e 29. Ihid., 30. 114 Altra donazione fece il Ventimiglia nel 1788. Infine, nel suo testainento, egli lasciò erede universale dei suoi beni l'albergo dei poveri da lui fondato (P. CASTORTNA, op. cit., 51-72). Il Castorina, in appendice alla sua biografia, riporta il regolamento dell'albergo (ibid., 73-97), la cui gestione era affidata ad una fidecommissaria fonnata da rappresentanti del capitolo della cattedrale. Nell'archivio del capitolo (Fideconunissaria Mons. Ve11tin1iglia) sono conservati gli atti relativi alla sua amministrazione, fino a quando le leggi civili sulle opere pie non ne 1nutarono lo statuto. 115 Lr 247, 2lr-27r. Il periodo coincide con le rifonne pro1nosse dai viceré Corsini, Laviefuille, Fogliani e da B. Tanucci, durante i priini anni della reggenza per la minore età di Ferdinando IV (F. RENDA, op. cit., 200-233). 116 Rel., 16v. 113


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Adolfo Longhita_nrJ___

vescovo di Catania a quella del giudice della regia monarchia, la sottrazione dal controllo del vescovo del ricco patrimonio della chiesa madre di Pi azza. Dopo aver informato il papa dei tentativi andati a vuoto per essere reintegrato nei suoi diritti, egli passa a lamentare gli abusi fatti negli ultimi anni contro le Chiese di Sicilia: si nega ai vescovi la competenza di trattare le cause di misto foro; si aboliscono le franchigie della farina per gli ecclesiastici; si affida ai tribunali laici la trattazione delle cause sugli sponsali e sui reati attinenti al matrimonio; non si riconosce più il diritto di asilo; si fa obbligo, sempre ai vescovi, di ottenere il permesso delle autorità civili prima di pubblicare un editto o di e1nanare un'ordinazione, mentre gli ecclesiastici che volessero portare armi devono 1nunirsi del loro permesso; ancora ai vescovi si impone di stabilire, per ogni centro abitato, il numero dei chierici e dei sacerdoti e di comunicarlo al governo che, sotto pene gravissime, vigilerà perché esso non venga superato; sono ampliate le competenze del tribunale della monarchia in violazione della concordia benedettina, mentre il giudice, a sua volta, tratta i vescovi come suoi dipendenti; non si riconosce alcuna autorità ai documenti pontifici, anche del passato, che non siano stati muniti del regio exequatur. Alla base della lucida esposizione del Ventimiglia troviamo una concezione rigorosamente curialista, priva delle aperture che avevano altri cattolici illuminati del suo tempom Per il nostro vescovo, infatti, la societas christiana ereditata dai norn1anni doveva essere continuata e sostenuta; la riforma doveva essere gestita da una Chiesa aperta agli influssi cuHurali della società e forte dei suoi privilegi; il ruolo del principe era quello di difendere la giurisdizione e le immunità ecclesiastiche per il bene comune'"; in caso di violazione dei diritti della

117 La posizione del Ventimiglia non può essere certamente considerata affine a quelle di Giannone, di Genovesi, di Caruso o di Longo, ma probabihnente egli non condivide picnan1ente neppure la concezione n1uratoriana. 118 Si veda nella relazione l'auspicio fonnulato dal Ventimiglia a proposito dei numerosi piccoli conventi religiosi esistenti in diocesi: «Sarebbe preferibile che le autorità civili li chiudano piuttosto che sopportare un così grave danno alla disciplina religiosa» (rei., IOr). 11 nostro vescovo gradisce l'intervento del re, purché sia a sostegno della disciplina ecclesiastica. Sulle varie posizioni che si trovano fra i


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Chiesa, la scomunica restava sempre uno strumento valido, al quale egli non aveva difficoltà a fare ricorso'"·

I) Contrasti con le autorità cittadine

Ancora più tesi furono i rapporti con le autorità cittadine per una serie di motivazioni di varia natura. Anzitutto c'era il vecchio problema dei precario equilibrio fra le diverse sfere di influenza delle due autorità. Agli occhi delle magistrature cittadine, la volontà innovatrice del Ventimiglia e le sue molteplici iniziative per dare nuovo impulso alle istituzioni culturali della città costituivano un continuo attentato alla loro autonomia. Ad aggravare la situazione c'erano, probabilmente, la giovane età del nostro vescovo, la sua origine palermitana, la sua volontà di riforma e il tentativo di spezzare, con l'invito di "esterni", il monopolio cnltnrale detenuto dai circoli nobiliari cittadini. Abbiamo già accennato ai contrasti sorti per la nomina di Leonardo Gambino a lettore stabile nell'università. Un'altra occasione di polemica fu l'istituzione del collegio dei nobili disposta da Mario Cutelli nel suo testamento""· Il Ventimiglia lo considerava un prezioso strumento per attuare il rinnovamento della città. Le autorità cittadine, da parte loro, temevano che il vescovo mirasse a monopolizzare le istituzioni culturali, avendo sotto la sua giurisdizione il semmano,

cattolici in questo periodo vedi D. MENOZZI, Tra r{fOrn1a e restaurazione. Dalla cr;si della soc;età cristiana al n1ito della cristianità n1edie11a{e (1758-1848), in AA. Vv.,La Chiesa e il potere pohtico, cit., 767-806. 119 La maggior parte de11c scomuniche riguarda percosse di chierici (TA 17591760, 79r; 1763-1764, 228v-229r; 1765-1766, l 84r, 184v-185r); qualcuna la violazione del diritto di asilo (TA 1765-1766, 412r). Si veda, in particolare, il decreto del 3 febbraio 1767, che ci ricorda lo stile e la 1nenlalità dcl vescovo A. Riggio: «Con autorità ordinaria dichiarimno incorsi nella scomunica n1aggiore riserbata alla S. Sede Apostolica Salvadore Migne1ni e Giuseppe Musulumeni per aver rivolta l'anne di fuoco contro i chierici della ven. casa del nostro Semina1io vescovile, con1e costa per notorietà di fatto; epperciò sian10 divenuti a far affissare il presente cedolone, affinché ogn'uno l'evitasse con1e scomunicali di sco1nunica tnaggiore sin a tanto che non otterranno il beneficio dell'assoluzione dalla stess~ S. Sede Apostolica mediante il lor ravidin1ento e la dovuta sodisfazione» (TA 1766-1767, 231r; A. LONGHITANO, Le relazioni «ad lin1il1a» della diocesi di l'atonia [1702-1717), in Synaxis 7 [1989 J 417515). Su quest'ultimo episodio vedi F. FERRARA, op. cit., 247-248. 120 V. SCIUTI RUSSI, Cutello Mario, in DBI, 31, Roma 1985, 529-533.


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l'università e il collegio dei nobili. Sebbene il nostro vescovo, nella sua relazione, scrivesse che la controversia si era chiusa a suo favore con la sentenza di un giudice imparziale, le schermaglie continuarono"'· Altri motivi di conflitto provocarono, nel 1767, un intervento de! re a difesa del Ventimiglia contro «insussistenti accuse» di alcuni membri del senato e di altri cittadini. li re impose una non meglio precisata «n1ortificazione [... ] contro i livorosi suoi accusatori»; il nostro vescovo chiese che venisse sospesa e Carlo Di Marco, il 15 agosto, gli comunicò: «1ni ha il re c01nandalo di rispondere a V. S. Ili.ma, che la Maestà Sua loda la cristiana condotta di V. S. Ili.ma, ravvisando nella sua riinostranza quello spirito di lenità e di mansuetudine ch'è ad esser propria di un Prelato della Chiesa» 122 ,

Nello stesso tempo, però, il re non sembra disposto ad accettare la proposta del Ventimiglia, se in un'altra lettera incarica il Fogliani di fargli questa comunicazione: «S. M. mi c01nanda di rescrivere [.. ]vuole che V. E., oltre la 1nortificazione data per iscritto CJl Senato ed agli al1ri concurrcnti all'astiose accuse, gli chiami a sé e faccia loro a voce un'altra 1nortificante riprensione, con incaricare ad essi di andar a fare un'atto di umiliazione al proprio Paslore; a quale effetto tomo a rcpingere a V. E. i memoriali di essi accusatori per fame l'uso necessario nell'esecuzione di questo reale comando>) 123 .

121 Vedi il resoconto che il Venti1niglia fa di questa vertenza nella sua relazione (13v-14r). Nei registri della curia troviamo i seguenti docu1nenli sul collegio Cutelli: esecutoria delle lettere apostoliche con le quali si ri1nette all'arbitrio del vescovo la con1n1utazione della volontà dcl testatore Mario Cutelli (TA 17581759, 2r-4v), lettera del viceré Fogliani che Sollecita la nomina di un arbitro nella contesa fra il Ventitniglia e il senato (TA 1761-1762, 124v-126r), convenzione fra il senato e il vescovo sul collegio Cutelli Ubid., 299r-310v), intervento del re nel quale si affern1a che il proble1na dell'amministrazione e del governo del collegio resta aperto, anche se per il 1nomento essi restano di con1petenza al vescovo (TA 17661767, 560r-561v). 122 TA 1767-1768, 15r-15v. 123 Ibid., 4lr-4lv.


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3. LE DIMISSIONI

Fra gli inteJTogativi che i biografi del Ventimiglia e gli storici si sono posti con maggiore insistenza, senza riuscire a trovare una risposta nnivoca, c'è quello sul motivo delle sue dimissioni. Sostanzialmente le diverse ipotesi finora formulate possono ricondursi a quattro: il nostro vescovo si dimise perché convinto della sua incapacità e per timore di dannarsi l'anima 124 ; fu obbligato a dimettersi per le sue idee gianseniste 125 ; ritenne opportuno tirarsi indietro constatando l'atteggiamento ostile delle autorità cittadine, che non gli consentivano di svolgere serenamente il suo ministero 126 ; la sua vocazione alla vita contemplativa lo indusse ad abbandonare un ministero al quale non si sentiva naturalmente attratlo 127 • I documenti che pubblichiamo, oltre a consentirci una risposta definitiva a questo iuterrogativo, ci offrono clementi interessanti per comprendere la personalità del Ventimiglia. li problema fu posto per la prima volta nel 1762, a distanza di appena cinque anni dalla sua nomina vescovile, quando egli denunziò al papa le violazioni della giurisdizione e delle immunità ecclesiastiche da parte delle autorità centrali: «Io certamente, Santissimo Padre, in veduta di tanti e sì gravi inali ho concepito un gran timore, che i miei peccati e la mia indegnità siano caggionc delle disgrazie della 1nìa Chiesa e sicc01nc debbo manifestare alla Santità Vostra con filial confidenza di essere entrato nel sacro ministero con audacia e temeraria presunzione, senza nlolto riflettere al peso formidabile che mi addossava, così ad altro oggi non aspiro che a deporlo e sottrarmi alla tempesta in sicuro ricovero, ove possa vivere solamente a 1ne stesso e al grande affare della mia eternità. Priego però caldamente e colle più uinili e fervorose suppliche la bontà paterna di Vostra Santità a darmene il permesso per riguardo al maggior bene e profitto della mia anin1a e delle anime ancora di cento cinquanta1nila fedeli che c01npongono questa vasta dioccsi» 128 .

!'24 G. SARDO, op. cit., 35-36; S. ZAPPALÀ GRASSO, op. cit., 12; G. E. ORTOLANI, op. cit.; P. CASTORINA, op. cii., XXII-XXXIII, XLVIII-L; E. CATALANO, op. cit., 31. 125 G. CIGNO, op. cii., 344-345. 126 F. FERRARA, op. cit., 250-251; V. CORDARO CLARENZA, op. cit., 210; G. POLICASTRO, op. cit., 131; G. GIARRIZZO, Illun1inismo, cit., 764. 127 A. GAGLIO, op. cit., 171-172. 128 LP 247, 26v.


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Ma anche nella relazione, scritta nel mese successivo, il Ventimiglia riprende il tema della sua indegnità all'ufficio di vescovo e dell'errore commesso nell'accettare la nomina «Vi confesso, o Etnincntissimi Padri, che si trattò d( una decisione presa da parte mia con eccessiva disinvoltura e temerarietà, le mie deboli forze non mi pcnnisero di valutare la reale natura delle cose e la gravità della situazione. A me, che risiedevo a Palenno, molte cose erano sconosciute, altre non le avrei mai potute credere o immaginare. Perché non sembri che io vada cer-cando scuse per i miei errori, confesso ancora una volta candidamente che ho sbagliato, e che 1ni sono gettato incautainentc fra i ilutti di un mare in tcn1pesta» 129 .

Il papa Clemente XIII, nella speranza di sollecitare una soluzione ai gravi problemi denunziati dal Ventimiglia e da altri vescovi, il 14 settembre 1762 scrisse una lunga lettera al Re Ferdinando, nella quale enumerò tutta una serie di abusi fatti nel regno delle Due Sicilie'30. Il nostro vescovo il 26 novembre, ringraziò il segretario di Stato card. Torreggiani per l'intervento del papa, rinnovò la richiesta di dimissioni e chiese il suo appoggio per ottenerle: «L'unico ostacolo ai celesti favori (siccome temo con gran fondainento) saranno i miei nwlti de1neriti, pc' quali supplicai vivamente Sua Santità a ri1nuovermi dalla cura vescovile, non per affettata umiltà (e ne chiamo Dio in testimonio) nla per vero rimprovero di mia coscienza, e seben nostro Signore non si compiacque di esaudirmi alla prima, con tutto cìò potrebbe esser, che le replicate istanze ottenessero a me questa grazia, se venissero avvalorate dalla protezione dell'Etninenza Vostra, che imploro a questo fine, e dcsidero» 131 ,

Il segretario di Stato rispose il 22 gennaio del 1763 per riferire sulla questione sia il pensiero del papa sia il proprio, considerato che il Ventimiglia aveva sollecitato i suoi buoni uffici per ottenere l'accettazione delle sue dimissioni: «Mi son dato l'onore di riferire a nostro Signore i sentimenti di conforto e di filiale riconoscenza che aveva eccitato nell'anin10 di V. S. l'apostolico suo breve per mezzo del quale, compatendo I'angustie dcl di lei spirito, le suggerì quelle considerazioni che il paterno suo cuore giudicò

129

Rel., 12v.

130

ARCH1V10 SEGRETO VATICANO, Epù;to{ae 131 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Lettere

504r-v: 504v.

ad Principes, 159, 55r-66v. di Vescovi e Prelati (=LV), 280,


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più confacevoli al bisogno. Ha Egli goduto d'aver con esse conseguito il fine a cui erano dirette e quello specialmente di confermarla nella risoluzione d'opporsi, nella maniera che le leggi della cristiana prudenza lo consentono, ai noti disordini. Onde ne ha retribuito 1nolte lodi al di Lei zelo fornito di tal coraggio e molte più grazie al Signore che glielo ispira. Stimerebbe però il S. Padre di attraversare i suoi disegni, se ammettesse l'istanza che Ella rinnova di sgravarsi della cura vescovile, riputandola anzi tanto meglio a Lei appoggiata, quanto più Ella ne riconosce l'obbligazioni e ne tetnc i pericoli. Non pensando io punto diversainente, sono stato bene alieno dal secondarc le di Lei premure co' nliei uffizi i quali, se impiegherò C<?O prontezza e con piacere in ogni altra sua oc~ correnza, ho creduto disconvenirmi troppo in questa, ove ne andarà della gloria di Dio e del bene spirituale di cotesti popoli» !3l.

La chiara risposta del segretario di Stato non servì a rasserenare l'animo del Ventimiglia, che negli anni successivi continuò ad insistere nel chiedere le dimissioni. Gli ultimi documenti portano la data del 1771. Nella lettera di dimissioni il Ventimiglia scrive: «Bcatissi1no Padre, Salvatore Ventimiglia de' Principi di Belmonte, odierno vescovo di Catania, con tutto il fervor dcl suo spirito supplica la Santità Vostra che, per sua Clemenza, voglia degnarsi accordargli due grazie: l'una di accc!lare le sue dimissioni della Chiesa suddetta per le ragioni rappresentate nel rispettivo foglio dell'oratore, che sarà umilialo alla Santità Vostra; l'altra di concedergli il titolo di una chiesa Arcivescovile in partibus. Che etc. Alla Santità di Nostro Signore papa Clemente XIV» 133 ,

Sul dorso di questa lettera troviamo la nota: «Ex audientia Ss.mi. Die 11 dece1nbris 1771 SS.mus annuit pro gratia iuxta petita et assignavit oratori !itulum Archiepiscopalis Ecclcsiae Nicomediae in partibus infidelium. I. de Simone Auditon) 134 ,

132

Lv 356, 90v-9lr.

133 PD 148, 222r. 134 Prima della firma di questo foglio, in pari data, nel palazzo del Quirinale, si era avuta la presentazione formale delle ditnissioni all'uditore d. Gennaro de Simone da parte del procuratore del vescovo d. Pietro Antonio Tioli. Nella procura redatta· a Palenno 1'8 novembre 1771 si legge tra l'altro:«[ ... ] Ill.mus et Rev.1nus D. Salvator Ventimiglia f... ] spunte constituit, fecit, creavil et solleinniler ordinavit et ordinat eius verum, legilimun1 et indubitatum ad infrascripta generalem et generalissi1num procuratore1n, attorem, faltoremque 111.mum Abbatem D. Petrum Antoniun1 Tioli, degentein in ahna Urbe licet absentem, tainqua1n prcsentem ad vice nomine et pro parte ipsius Ill.1ni et Rev.mi D.ni constituentis et pro eo in dieta alma Urbe ob causas ani1num ipsius Ill.1ni et Rev .mi D.ni conslituentis digne moventes et per dictum procuratorem declarandas l ... ] refutandum et resignandu1n Episcopatum praedictutn Catanensen1 ac gubernium ipsius Catanensis Ecclesiae, eiusque dioecesis cum


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Anche se non si è trovato il foglio nel quale il Ventimiglia dice di render note al papa i motivi delle sue dimissioni, non c'è dubbio che siano stati gli stessi che aveva già manifestato fin dal 1762. Infatti nelle lettere inviate da Palermo al suo ex vicario generale, il priore del capitolo Bonaventura Gravina, dopo le dimissioni continua a ripetere, quasi con ossessione, lo stesso discorso. Il priore lo aveva informato di alcune iniziative del nuovo vescovo Corrado Maria Deodata, che egli non condivideva. Il Ventimiglia, il 10 agosto 1773, gli scrisse in risposta: «Bisogna adorare le disposizioni Divine ed io dal canto mio riconosco ad evidenza che lddio prosicguc a castigare codeste ani1ne per raggiane dei miei peccati» 135 ,

Analoga convinzione esprime nelle due lettere successive del 24 agosto e del 7 settembre: «Ii mio gran timore si è che lddio per castigo dei 1niei peccati non permet!essc che si avanzassero i disordini ed andasse totalmente in rovina quel puoco di bene, che rirnaneva nella diocesi>> 136. «Altro io non posso fare che raccapriccianni al vivo per l'orrore, attribuire il tutto a miei gravi peccati cd implorare la Divina Misericordia» 137 .

Questi documenti ci fauno intravedere nel Ventimiglia uno spirito tormentato da una visione pessimistica di sé e del mondo: egli si sente incapace di svolgere l'ufficio episcopale; imputa al peccato di presunzione, commesso per aver accettato la no1nina di vescovo, la difficile situazione che attraversa la Chiesa di Catania. Questo suo convincimento era maturato con l'assimilazione della dottrina agostiniana sulla grazia e rafforzato dalla naturale inclinazione al ritiro e alla vita contemplativa. Le affermazioni del suo direttore spirituale, riferite dai

01nnibus et singlis suis iuribus, privilegiis, lucris, emolumentis, fructibus tan1 certis, quam incertis obventionibus tum in pecunia cum in aliis consistentibus, i1n1nunitatibus, exemptionibus, praeheminentiis, honoribus, oneribus, et aliis quibuscumque muneri praedicto utcu1nque annexis [... ]» (ibid., 2l6r-218v). 135 BIBLIOTECA REGIONALE UNIVERSJTARIA CATANIA, Ventin1igfia Salvatore, 17 lettere a Mons. Bonaventura Gravina (=Sv), lettera l. 136 Ihid., lettera 2. 137 Ihid., lettera 3.


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biografi, avranno potuto rafforzare una decisione che egli prese in piena autonomia e maturò nel corso degli anni' 38 . Una conferma di questa sua delicatezza di coscienza si ha nella corrispondenza avuta con d. Gaspare Recupero e d. Giuseppe Parisi, già suoi collaboratori nella curia diocesana. Al primo, in data 26 giugno 1772, chiese di aiutarlo a ricordare se, nei quattordici anni del suo governo non avesse, senza volerlo, danneggiato qualcuno; egli era disposto a riparare «acciocché non potesse mai restar1ni alcuna esitazione»139. Nel 1780 chiese la collaborazione del secondo per restituire ai parroci, ai rettori di chiese o ai loro legittimi eredi le somme ricevute a titolo di procurationes nel corso della prima visita pastorale (erano trascorsi oltre vent'anni!). Si trattava di un problema molto delicato, che era costato al suo predecessore una denunzia alla Santa Sede e un regolare processo 140 • Jl Ventimiglia, durante la prima visita pastorale, aveva accettato di ricevere queste somme nella misura prevista dalle norme canoniche ma, per non gravare troppo sui bilanci delle chiese, aveva dovuto fermarsi il tempo strettamente necessario. A partire dalla seconda visita, per svolgere il suo lavoro con calma, aveva deciso di rifiutare ogni forma di retribuzione e di vivere a proprie spese 141 • Le somme percepite nella prima visita avranno costituito per lui una fonte di angoscia e di turbamento. Dopo accurate ricerche e una copiosa corrispondenza con i

us In un colloquio con il suo direttore spirituale (il domenicano p. Antonino Lo Presti), il Ventimiglia pare avesse detto: «un vescovo deve fare quello che può»; e il suo interlocutore di rin1ando: «Un vescovo deve fare quello che deve e se non può si di1netta» (G. SARDO, op. cii., 35-36; P. CASTORINA, op. cit., XLIX-L). Ortolani sembra convinto che la principale responsabilità delle dimissioni del Venti1niglia debba essere addossata ai suoi «fanatici direttori di spirito», che assecondarono la sua coscienza scrupolosa invece di aiutarlo a superare un momento di crisi (G. E. ORTOLANI, op. cit.). Zappalà Grasso non riferisce il dialogo fra il Ventimiglia e il p. Lo Presti, ma si li111ita ad affennare: «la dismissione che ne fece, previa la consulta dc' teologi in Palermo (tra i quali il p. m. fr. Antonio Lopresti da lui se1npre ainato e venerato da padre ed in Catania collo speciale consiglio del canonico di nostra cattedrale D. Antonio Tusa, a' cui sensi deferiva in tutte la circostanze) tolse alla diocesi il piacere[ ... ]» (S. ZAPPALÀ GRASSO, op. cit., 12). 139 Jbid., 22-23. 140 A. LONGHITANO, Le relazioni (1730-1751), cit., 134-139. 141 Rel., 16r-v.


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parroci e rettori di chiese, il suo ex segretario d. Giuseppe Parisi gli comunicò la somma complessiva delle procurationes percepite, che il Ventimiglia gli fece pervenire perché la distribuisse secondo le indicazioni avute 142 .

4. ATTIVITÀ' PALERMITANA DOPO LE DIMISSIONI

Contestualmente all'accettazione delle dimissioni, il Ventimiglia era stato nominato arcivescovo titolare di Nicomedia. Si trattava di una prassi canonica che consentiva ad un vescovo privo di sede di avere il titolo convenzionale di un'antica diocesi scomparsa o non più in comunione con la Chiesa cattolica. Per il conferimento del titolo si seguì la prassi normale del processo informativo 14 ; e della regolare bolla 144 • Il Ventimiglia era libero da specifici impegni pastorali e disponibile ad altri incarichi che la Santa Sede o il re avessero voluto concedergli. Dei venticinque anni trascorsi a Palermo dal Ventimiglia dopo le sue dimissioni i biografi ricordano, in particolare: l'incarico di inquisitore generale, la sua partecipazione alla deputazione dei regi studi, i doni all'università e alla cattedrale di Catania.

142 Nell'ARCHIVIO DELLA CURIA ARCIVESCOVILE DI CATANIA, Miscellanea Ventimiglia si conservano ancora le lettere e la contabilità fatta dal Parisi per stabilire la cifra esatta da restituire ai titolari di chiese ed enti ecclesiastici o ai loro credi. S. ZAPPALÀ GRASSO, op. cii., 23-27 riporta un'abbondante docu1nentazione sul tema. 143 Po 148, 220r-22Iv. Furono inten·ogati come testi il sacerdote catanese Benedetto Riccioli fu Ascanio e il sacerdote ro1nano Domenico Bortoloncelli di Clemente, che risposero in nlodo alquanto formale alle domande pOste da mons. Gennaro de Simone. 144 La nomina fu fatta nel concisloro segreto del 16 dicembre 1771 «Sanctitate Sua referente» (ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Acta Can1erarii, 37, 153v154r). La bolla è trascritta nei volumi della Secretaria Brevium, 3803, 317r-319v.


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a) L'inquisitore generale

La nomina di inquisitore generale del regno di Sicilia ultra pharum145 può essere considerata uno dei tanti paradossi ai quali la storia ci ha abituati: a uno spirito aperto come il Ventimiglia si affidò l'incarico di governare l'istituto-simbolo dell'intolleranza religiosa e di gestirne gli ultimi anni di vita prima della definitiva soppressione. Gli elementi di cni disponiamo non ci consentono di delineare im modo soddisfacente l'atteggiamento assunto dal Ventimiglia nello svolgimento di questo ufficio. C'è chi afferma che egli abbia fatto dell'inquisizione uno strumento di difesa dei giansenisti ' 46 , ma noi non ci sentiamo di condividere questa tesi, fondata su una documeutazione poco chi,ara' 47 : riteniamo, infatti, improbabile che il Ventimiglia, nell'assumere l'ufficio di inquisitore generale, intendesse stravolgere la natura di questo istituto o svuotarlo di significato per affrettarne la fine. I documenti pubblicati dal La Mantia, relativi alla soppressione dell'inquisizione, ci fanno invece ritenere che il Ventimiglia volesse collocarsi sulla scia della tradizione e osservare le norme che lo disciplinavano148.

Se, infatti, il ritardo nella nomina di due inquisitori provinciali, i cui uffici da tempo erano vacanti, avevano fatto diffondere la voce di un'imminente soppressione dell'inquisizione, in data 23 luglio 1780 due suppliche contrarie alla soppressione furono indirizzate al re dal

145

La noinina del 12 febbraio 1776 è trascritta nei volumi della Secretaria Breviun1, 3835, n. 50, lr-3v. 146 Condorelli riferisce l'esempio del cappuccino p. Luigi da Cefalù che, accusalo di giansenismo dal suo vescovo, si rivolse alla suprema inquisizione di Sicilia, presieduta dal Vcntin1iglia; questi «sottopose le dottrine del frate a diverse co1n1nissioni di teologi, fonnate tutte da giansenisti, ed infine assolse trionfalmente l'accusato con una sentenza in cui dichiarava le sue dottrine, perfettamente gianseniste, assolutamente rispondenti a quelle dei Santi Agostino, Fulgenzio e Prospero e dei padri della Chiesa in genere» (M. CONDORELLI, op. eh., 348). 147 Cigno, citando lo stesso episodio, asserisce: «il p. Luigi da Cefalù, più che un rappresentante del partito giansenista, dalle notizie riferite mi sembra, piuttosto, un traviato stravagante, a cui gli Annali dei giansenisti toscani vollero dare imineritata risonanza» (G. CIGNO, op. eh., 339). 148 V. LA MANTIA, op. cit., 134-147; 225-333.


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senato di Palermo e dalla deputazione del regno 149 . In entrambe le lettere si faceva notare che, con la soppressione, sarebbero venuti meno molti posti di lavoro e il sostentamento per non poche famiglie. Nella seconda richiesta, che porta anche la firma di mons. Ventimiglia, si aggiungeva che l'inquisizione costituiva uno dei più insigni privilegi concessi dai sovrani alla Sicilia; perciò si chiedeva che venisse mantenuta in vita. Negli anni seguenti due avvenimenti provocarono l'intervento del viceré Caracciolo che segnò la fine dell'istituto. Il primo è del gennaio del 1782, quando l'inquisitore provinciale emanò due editti: un decreto di scomunica da leggersi nelle chiese e un regolamento da osservarsi nella pubblicazione della scomunica. La giunta dei presidenti e del consultore fu d'accordo con il viceré nel non concedere il nulla osta alla pubblicazione di questi documenti""· Il Ventimiglia si meravigliò per questo rifiuto: sostenendo la validità dell'inquisizione, disse di non essere stato messo al corrente dell'iniziativa dell'inquisitore provinciale e si dichiarò disposto ad apportare ai documenti le opportune correzioni. La giunta, in risposta, fece notare che non si trattava di un problema di forma ma di sostanza: i decreti erano incompatibili con i diritti del sovrano e di sommo pregiudizio all'ordine pubblico"'· Il secondo avvenimento ebbe come oggetto una sentenza di condanna di un panoco di Enna, emessa dal Ventimiglia. Il giudizio era di competenza degli inquisitori provinciali ma, poiché costoro non erano stati ancora nominati, il nostro Vescovo ritenne suo diritto sostituirsi a loro 152 • Il condannato presentò subito un reclamo, perché la procedura seguita gli impediva di presentare appello. Le proteste del parroco diedero lo spunto ad una serie di polemiche sulla prassi del tribunale, che si conclusero con il real decreto di soppressione (16 marzo 1782) 153 • Il Ventimiglia, nell'imminenza della soppressione, li-

149

150

151 152 153

lhid., 225-227. lhid., 134-135; 231-235. !bid., 234. lbid., 137-138, 322-329. !bid., 142.


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berò i carcerati e, quando venne a conoscenza del decreto, chiese che l'archivio riguardante le cause criminali venisse bruciato 154 •

b) Gli interventi per /'università e la cattedrale di Catania

Nonostante le sue dimissioni, il Ventimiglia continuò ad avere con Catania un rapporto intenso che si concretizzò in alcuni fatti che i biografi non hanno mancato di evidenziare. Faremo qualche breve riferimento ai suoi interventi in difesa dello studio di Catania, al dono della sua biblioteca e del medagliere all'università e degli arredi sacri pontificali alla cattedrale. L'esclusiva di rilasciare titoli accademici, di cui godeva l'università di Catania, aveva subìto nel corso dei secoli diversi attacchi da parte di Palermo, che mal sopportava di dover dipendere, per gli studi, da una città considerata periferica nell'ordinamento del regno 155 • Uno degli ultimi attacchi, prima della definitiva erezione dell'università di Palermo (1805), fu respinto grazie all'appoggio dato dal Ventimiglia. Il 5 aprile 1778 i tre bracci del parlamento chiesero un allargamento del numero delle cattedre per l'accademia delle scienze di Palermo e la facoltà di rilasciare il dottorato. L'episodio fu motivo di apprensione e di lacerazioni interne fra le classi dirigenti di Catania. Coloro che si battevano per la difesa dell'esclusiva in favore dello studio catanese temevano che il Ventimiglia cogliesse questa occasione per dare una risposta a tutti coloro che lo avevano osteggiato durante il suo governo pastorale. «Il vescovo di Nicomedia e inquisitore generale, dimenticando con nobile generosità qualunque risentimento, fu il capo dei difensori» 15 6 .

15 1 ' Ihid.,

155

139-141. M. GAUDIOSO, op. cit., 101-111; G. PALADINO, op. cit., 222-225; G. LA

MANTIA, L'università degli studi di Catania e le pretensioni di Messù1a e Pa/enno dal secolo XV al XIX, in Asso 30 (1934) 300-316. 156 F. FERRARA, op. cii., 254-255; S. LA ROSA, op. cii., 12. Il Venti1niglia si interessò anche delle riforn1e dell'università di Catania del l 779 e fece parte della


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Le motivazioni che spinsero il Ventimiglia a privarsi della sua ricca biblioteca per donarla all'università degli studi sono indicate nell'atto di donazione: «Desiderando l'illustrissimo e reverendissiino Mons. Don Salvatore Ventimiglia [... J dimostrare alla sua dilettissima Chiesa di Catania, che governò per il corso di anni quattordici, quel costante amore e viva riconoscenza, che sen1pre per ella ha nutrito [... ], ha risoluto di donare alla università degli studi di questa città la sua libraria avantaggio e profitto degli studiosi per l'acquisto delle scienze principalmente ecclesiastiche» 157 .

La formalizzazione del dono non fu priva di difficoltà. Basta leggere le lettere scritte dal Ventimiglia a mons. Bonaventura Gravina per avere una ricca documentazione sugli imprevisti e sulle lungaggini burocratiche incontrate per fare un'opera di bene a vantaggio della sua città' 58 • Il nostro vescovo, nella bozza dell'atto di donazione, aveva apposto precise clausole che garantissero allo stesso tempo l'identità della biblioteca (doveva rimanere distinta da quella dell'università), la sua funzionalità (dovevano essere nominati un bibliotecario responsabile e il personale per la manutenzione ed essere accessibile al pubblico) e una commissione di vigilanza per assicurare che queste clausole venissero osservate. Nell'ipotesi di inadempienza la biblioteca avrebbe dovuto essere consegnata al seminario e in subordine al monastero di San Nicola l'Arena 159 • Trattandosi di una donazione ad un ente pubblico il Ventimiglia, per maggior garanzia, riteneva opportuno chiedere il regio assenso. Con disappunto notò che la risposta del re non faceva alcun cenno delle clausole da lui apposte 160 • Il suo progetto alla fine fu realizzato e nelle lettere al Gravina si possono seguire le diverse fasi: dalla firma dell'atto di donazione alla spedizione dei libri, al loro arrivo a

terna per i concorsi (E. BAERI, li dibattilo sulla rifonna de!/'unii ersità di Catania [1778·1788], in Asso 75 [1979] 297·339). 157 P. CASTORTNA, op. cit., 1. In questo slesso periodo è più frequente il caso di vescovi che donano la propria biblioteca al se1ninario (C. DONATI, op. cit., 369). 158 Sv, lettere 8, 10, 12, 14, 15, 17. 159 Vedi l'alto notarile, redatto a Palermo dal notaio Giuseppe Sarcì e Papè il 16 settembre 1783, con le clausole volute dal Venti1niglia (P. CAS'WORINA, op. eh., 123). 160 Sv, lettera 8. 1


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Catania e alla nomina del primo bibliotecario nella persona del can. Giovanni Agostino De Cosmi, accolta con soddisfazione dal Ventimiglia. Assieme alla biblioteca il Ventimiglia donava «due 1nedaglicri con tutte le monc1c antiche di argento e di ran1e che in essi si lrovano, greche, romane, siciliane et altre, e che anche si 1rovano in altra casscua di legno sigillata colle aime di detto monsignore» 161 ,

Gli arredi pontificali furono lasciati alla cattedrale di Catania nel testamento 162 •

c) Gli ultimi anni e la morte

Con la soppressione dell'inquisizione (1782) venne meno per il Ventimiglia l'impegno di un lavoro che lo occupava quotidianamente. Continuò per alcuni anni l'attività come membro della commissione per l'università degli studi di Catania; poi, portate a compimento la dotazione dell'albergo dei poveri e la donazione della biblioteca e del medagliere all'università, <~si diè tutto allo studio ed alla orazione, la quale gionialrncn!e solea praticare avanti il SS. Sagramento nella chiesa dc' pp. Agostiniani di S. Maria della Consolazione l ... J. Non contento in

quella età sua avanznta e di salute 1na\ sana, di tal pio esercizio, solea ritirarsi in una di quelle case di ritiro t ... ]. In questo ritiro concepì quel timore della 1norte, che l'accompagnò se1npre sino alla fine de' suoi giomi» 163 .

161 P. CASTORINA, op. cit., 6; A. DE AGOSTINO, li 1nedogliere della R. l!niversità di Cata11ia, in Asso 30 (1934) 382-398. 162 «A titolo dì relitto particolare lascio alla S. Chiesa cattedrale di Catania tutti li miei sacri arredi pontificali, cioè croce di sincraldi e brillanti, ed anello compagno, argento dorato, piviali, pianete, mitre, tonicelle, dalmatiche, stole, tnanipoli, grcmiali, guante, cd altri orna1nenti di diversi colori ricca1nati, gallonati e sc1nplici, bucolo d'argento lavorato in Ro111a, ca1nici, an1mitti, cingoli, rocchetti, e tutt'altro che appartiene ad uso di pontificale, con la cassa di velluto rosso guarnita di argento per conservarli» (P. CASTORTNA, op. cit., 31-32). 163 s. ZAPPALÀ GRASSO, op. cit., 37.


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Adoljo----Longhitano ----

Nel clima di silenzio e di preghiera d1 4uesti anni avrà fatto propria la concezione apocalittica della storia, propria di molti cattolici negli anni della rivoluzione francese, se nel 1792 scrive ad un amico: «preghiamo il Padre dcl!e n1ìsericordie ad aver compassione della sua Chiesa, agitata da tante te1npestc, che ci fanno credere onnai vicino il fine del tcmpm> 164 .

Morì 1'8 aprile 1797, pochi mesi prima di compiere 76 anni, «sorpreso tre giorni avanti da un accidente, che gli tolse affatto la parola, senza perdere però gl'interni sentimenti» 165 • Fu sepolto nella cripta del convento dei cappuccini di Palermo 166 .

5. LA RELAZIONE (<AD Llk1!NA>1 DEL VHSCOVO VHNTIMIGLIA

Anche ad una lettura superficiale è facile comprendere la notevole rilevanza storica del documento che pubblichiamo. Alcuni brani di esso erano già noti, perché citati dagli autori che negli ultimi anni si sono occupati del Ventimiglia o del suo tempo. Il vescovo non si limita a trasmettere una serie più o meno completa di dati o a fare il resoconto delle sue visite pastorali: nella prima parte espone i dati relativi alla diocesi con una personale valutazione, nella seconda le linee essenziali del suo progetto pastorale. Ne risulta un quadro quanto mai ricco per comprendere la Chiesa e la società catanese di questo periodo storico. Nei 4uallordici anni del suo governo pastorale il Ventimiglia inviò alla congregazione del Concilio una sola relazione; forse perché aspettava che da un momento all'altro venissero accolte le dimissioni.

164

lbid., 40. lhid., 41. 166 L'iscrizione sepolcrale è riportata da P. CASTORINA, op. cit., 228. Questi, scrivendo il suo Elogio storico, si fece protnotore dell'erezione di «Un 1nonumento in questa cattedrale degno e 1neritevole di lui, di che vergognosainente manca tuttora» (ibid., lii). La sua iniziativa non ha avuto seguito. 165


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Assieme al testo della relazione, scritto in un latino classicheggiante167, pubblichiamo una sua libera traduzione in lingua italiana e un documento spedito dal Ventimiglia circa un mese prima per descrivere i difficili rapporti con le autorità politiche centrali i@ Invece della risposta ufficiale pervenuta al Ventimiglia da parte della congregazione, che in un latino curiale si dilunga a riassumere quanto il nostro vescovo aveva scritto 169 , si è preferito pubblicare la minuta preparata in lingua italiana dal prelato revisore, che si limita a suggerire al prefetto della congregazione i rilievi da fare al vescovo 170. La trascrizione è stata fatta nel rispetto sostanziale del testo: le abbreviazioni più difficili sono state sciolte, le maiuscole e la punteggiatura sono state adattate ai criteri moderni. Sono utilizzati i segni < ... > per indicare integrazione di parole necessarie al senso.

167

ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Relazioni ((ad !ilnina»,

Catania A, 484-494;

B, lr-40v. 168 169

LP, 247, 21r-27r. ARCHIVIO DELLA CONGREGAZIONE DEL CONCILIO,

Visitationun1 SS. Lùni1111n1, 1759-1763, 420r-4?"r 170 Rel., 22r-21v.

Liber litterarurn



XXXIV 1762 - Relazione scritta a Piazza il 12 1naggio 1762 dal vescovo Salvatore Ventiiniglia, nel corso <lei1a visita pastorale, e presentala a Ronut nel settembre dello stesso anno da Mons. Pierantonio Tioli, procuratore e agente romano del vescovo 1•

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1 Al testo della relazione sono acclusi i seguenti documenti: 1) una lettera senza data, indirizzata a Benedetto XIV, scritta dal vescovo a Roma prima di entrare jn diocesi: «Beatissin10 Padre, Il moderno Vescovo di Catania, umilissimo oratore della Santità Vostra, avendo trovato esser stata trascurata dal suo antecessore la visita de' Sacri Lìmini per li trienni 56 e 57, supplica la Santità Vostra volerlo assolvere ad cautelam da ogni censura e pena incorsa per detta n1ancanza e desiderando, prima di parlarsi alla sua residenza, di adempire all'obbligo della visita tanto dclii suddetti due trienni quanto per il corrente 58, supplica la Santità Vostra dargli il permesso, rnentre non mancherà di trasmettere lo stato della sua Chiesa o dentro il suddetto triennio 58 o subbito che averà fatta la visita della sua Diocesi. Che etc .. ,» (207 A, f. 484r) e la nota: «9 gennaio 1758, Alla Congregazione dcl Concilio, dar facoltà necessarie ed opportune. C. Boschi, Segretario». «Die 20 ianuarii 1758 data fuit attestatio pro 56, 57 et 59 trinniis cum absolutione et obligatione transmittcndi relationen1 status ecclesiae intra currens triennium» (487v); 2) due atlestati della visita alle basiliche romane in data 19 dicembre 1757 e 2 gennaio 1758 (485r e 486r); 3) altra lettera senza data alla Congregazione del Concilio con cui chiede una proroga (488r) e la nota: «die 24 novcmbris 1759. Ad sex menses» (498v); 4) altra lettera senza data, indirizzata a Cle1nente XIII: «Bealissin10 Padre, Salvatore Vescovo di Catania, oratore devotissimo della Santità Vostra, col dovuto ossequio rappresenta che avendo già visitati personalmente i Sagri Li1nini per l'ultimo decorso triennio, dentro il quale è stato in Ron1a per la sua promozione e consegrazione non ha poi potuto ade1npicre l'obbligo ingiuntogli di trasmettere nel corso dello stesso triennio, ch'è spirato nel passato dicembre, la relazione dello stato della sua Chiesa, e diocesi, essendo questa mollo vasta ed essendosi ritrovata troppo bisognosa di cure pastorali per essere in poco te1npo visitata interamente. Su questo riflesso l'oratore ha domandata e ottenuta una proroga, che gli è stata accordata per soli sei 1nesi parimenti spirati a giugno passato: per il che, dubitandosi che possa essere incorso ignorante1nente nelle censure comminate dalla Costituzione Sistina, supplica ora umilmente la Santità Vostra che voglia degnarsi concedergli l'opportuna assoluzione e dispensa ad cautelam, ancorché l'oratore avesse esercitati li pontificali, ed assegnargli un termine


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f6r] Eminentissimi e Reverendissimi Signori, Sebbene io sia già impegnato da cinque anni a reggere la diocesi di Catania, gravissime e quasi innumerevoli preoccupazioni mi hanno impedito di inviare la relazione sullo ,stato della mia diocesi alla Sede Apostolica, secondo le regole dei padri. Per quanto il Sommo Pontefice Clemente XIII più volte mi abbia concesso la licenza di differire quest'obbligo, tuttavia non ho ritenuto giusto che la nostra situazione rimanesse a lungo à voi nascosta, E1ninentissi1ni Padri.

congruo per tcnninarc intanto la visita della diocesi e potere soddisfare a11'obbligo di 111andare la predetta relazione dello stato della sua diocesi. Che, etc» (f. 490r-490v) e

la nota «Ex audientia SS.mi, die 26 novembris 1760. Praevia absolutione SS.mus annuit ad alios sex menses»; 5) altra lettera senza data a Clemente XIII dal contenuto analogo (f. 492r-493v) e la nota: «Ex audientia SS.nli die 19 iunii 1761. Praevia absolutione ac dispensatione Ss.1nus annuit ad alias sex menses» (493v ); 6) altra lettera senza data indirizzata a Cle1nente Xlll: «Beatissi1no Padre, Salvatore Venlimiglia, Vescovo di Catania, non avendo potuto cotnpiere la visita della sua Diocesi per diverse giuste cagiOni, tra l'altre per quella di essere stato obbligato ad allontanarsene per accudire a Palenno ad una iinportantissima causa della sua 1nensa vescovile, siccome ha già rappresentato umilissimamente alla Santità Vostra in allra sua supplica nel prossimo tnesc cd essendo per spirare all'oratore l'ultima proroga benignainente concedutagli a 1nandare la relazione dello stato della sua Chiesa dovuta per il triennio 58, ricorre col dovuto ossequio a Vostra Santità per la grazia di nuova proroga. Che, etc.» (494r) e la nota «Die XII dcce1nbris 1761. Ad alios sex menses» (494v); 7) altra lettera senza data indirizzata al papa Cle1nente XIII: «Beatissimo Padre, Salvatore Vescovo di Catania, al quale co1re l'obbligo di 1nandare la relazione dello stato della sua Chiesa per il triennio 58, non avendo ancora potuto ultimarla, benché abbia già fatta la prima visita della sua Diocesi e sia per intraprendere la seconda, ora che si è restituito alla sua residenza, dopo tante distrazioni soferte per bisogni urgcntissitni della propria Chiesa, ed essendo per spirare alli 12 dcl prossi1no venturo giugno il termine dell'ultima proroga benignamente concedutagli al rnandar la predella relazione, supplica urnilissi1narncntc la S. V. a volergli accordare altra proroga dentro il cui tenni ne spera di compiere a questo suo dovere. Che etc.» (B 207, f. Jr) e la nota: «Die 21 maii 1762.·Ad alios sex nlenses» (f. 2v); 8) domanda a Cle1ncnte XIII di poter «soddisfare alla visita de' SS. Li111ini per il corrente triennio 59 mediante la persona di Mons. Pieiantonio Tioli» (f. 3r) e la nota: «Die 2 ottobris 1762. Data fuit altestatio pro 59 triennio» (f. 4v); 9) procura in forma pubblica, redatta a Piazza il 12 luglio 1762 dal notaio Giovanni Battista Nisi, alla presenza dci testi Antonino Tusa e Giuseppe Parisi, perché Mons. Pierantonio Tioli, residente a Ro1na, visiti le basiliche dei Santi Pietro e Paolo e presenti in nome del vescovo Salvatore Ventin1iglia la relazione al papa o ai cardinali della S. Congregazione (f. 4r5r); I O) due attestati della visita alle basiliche rotnane rilasciati in data 30 settembre 1762 (f. 20r-21r); 11) ouo richieste di proroga per presentare la relazione e visitare i SS. Limini dal 1765 al 1770 (f. 25r-40v).


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Origine della Chiesa di Catania La Chiesa di Catania fu fondata da San Berillo agli inizi della religione cristiana. Egli fu destinato o dal Principe degli Apostoli o da un altro vescovo della sede di Pietro. Questa Chiesa venera diversi vescovi suoi successori, illustri per la santità e per il martirio. Anticamente, annoverata con le altre Chiese della Sicilia fra le sedi suburbicarie, era soggetta in modo speciale al Romano Pontefice fino a quando, per somma disgrazia, da Leone Isaurico non fu sottomessa al patriarca di Costantinopoli e divenne sede metropolitana. Si ignora quale sorte abbiano avuto le sue istituzioni religiose durante l'occupazione dei saraceni. Tuttavia, dopo la loro sconfitta da parte di Ruggero il Normanno, conte di Sicilia, il piissimo principe la rifondò [6v], conferendole con grande munificenza onori, proprietà, giurisdizioni e la restituì alla Sede Romana, quasi per un diritto di reintegrazione. La Santa Sede, a titolo di speciale onore, concesse ai vescovi catanesi l'uso del pallio, di cui fino ad oggi potrebbero servirsi se la Chiesa di Catania non fosse stata sottomessa come suffraganea alla sede metropolitana di Monreale, subito dopo la sua erezione; da ciò sono nate fra le due Chiese interminabili liti e discussioni. Il vescovo di Catania, nei parlamenti del Regno, ha il primo posto rispetto agli altri vescovi; ha la potestà di promuovere lo studio delle lettere in tutta la Sicilia; esercita, infine, l'ufficio di gran cancelliere nello Studio del Regno.

La diocesi L'amplissima circoscrizione della diocesi ha per confini ad oriente il mare Ionio, a mezzogiorno la diocesi di Siracusa, ad occidente quella di Agrigento e a settentrione la diocesi di Messina. In essa sorgono 14 città principali e cioè: Catania, Piazza, Enna, Agira, Aci, Calascibetta, Assoro, Adrano, Paternò, Centuripe, Aidone, Regalbuto, Leonforte e Pietraperzia. Le minori, site sui monti, sono: Barrafranca, Biancavilla, Belpasso, Misterbianco, Motta Sant'Anastasia, Valguarnera, Mirabella, Licodia, Catenanuova, Ramacca, Nissoria. Nel


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bosco sorgono: Acicastello, Acicatena, Sant'Antonio, San Filippo, Santa Lucia, Trezza, Valverde, Bonaccorsi, Trecastagni, Viagrande, Pedara, Nicolosi, Mascalucia, Gravina, San Giovanni Galermo, Tremestieri, San Gregorio, San Giovanni la Punta, Trappeto, Sant'Agata, Torre del Grifo, San Pietro, Camporotondo; alcuni di questi centri sono abbastanza popolati.

La cattedrale La chiesa cattedrale fu costrnita a gloria di Dio ottimo massimo dal vescovo Angerio e dal conte Ruggero, sotto il titolo dell'illustrissima martire di Cristo e vergine [7r] Sant'Agata; essendo stata distrntta due volte dai terremoti, per due volte è stata ricostruita. Poiché nel 1693 essa fu quasi rasa al suolo, il vescovo Andrea Riggio la riedificò con ingenti spese e con incredibile celerità. Per !'ampiezza e per la finezza delle opere d'arte questa cattedrale supera di gran lunga le altre chiese della Sicilia: è ricoperta di marmi, ha idonee cappelle, un'ampia volta e un'altissima cupola e da ogni parte riceve una luce che rincuora. Presso l'altare maggiore si trovano gli stalli del coro scolpiti con maestria. Conserva anche i sepolcri dei re aragonesi di Sicilia. Tuttavia il tesoro più prezioso per la pietà cristiana, che questa chiesa custodisce nel modo più dignitoso possibile, è costituito dal corpo di Sant'Agata e dal suo velo, che tante volte è stato opposto con successo alla lava dell'Etna. I re, i vescovi, i nobili e il popolo hanno fatto a gara per ornare il simulacro della vergine con oggetti d'argento e pietre preziose; una grande quantità di argento è stata adoperata sia per conservare le reliquie della santa sia per costruire il sacro fercolo, con cui esse sono portate in giro per la città. La cattedrale possiede molti vasi d'oro e d'argento finemente cesellati per le celebrazioni liturgiche e le processioni: in poche parole tutta la suppellettile, bellissima e abbondante, necessaria per celebrare la messa. Ogni anno vengono pagate dal vescovo 625 once d'oro per la manutenzione e 850 per il culto divino; alla raccolta e all'amministrazione di queste somme sono addetti alcuni deputati i quali, poiché


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devono essere scelti fra i laici, in seguito ai decreti dell'ultima regia visita, si rifiutano di presentare i conti al vescovo, cosa che mai, in passato, si era verificata. Il prospetto principale del tempio, che è volto verso occidente, dalla base fino al frontone è ricoperto di marmo di Carrara e di Sicilia; si fa ammirare per la bellezza dell'architettura e, soprattutto, per le colonne egiziane che vi sono collocate. Perché sia completato occone sistemare ventidue statue di marmo, che io stesso ho comincialo a realizzare; due di esse sono state ultimale e collocate al loro posto, la terza sarà ammirata fra breve, le altre sono state commissionate agli scultori [7v].

Il capitolo

Fino al 1569 prestavano servizio in cattedrale i monaci benedettini, fino a quando, da S. Pio V, non furono sostituiti con il clero secolare. Il capitolo è costituito da 12 canonici e 5 dignità: il priore, il cantore, il decano, il tesoriere e l'arcidiacono. Quest'ultima dignità fra i monaci era la seconda dopo il priore, ma dal vescovo Nicola Caracciolo, nel 1566, fu soppressa; fu ripristinata nel 1643 dal vescovo Ottavio Branciforte, ma collocata al quinto posto. L'arcidiacono è solito partecipare al coro solamente quando il vescovo celebra i pontificali. I divini uffici sono celebrati ogni giorno da due dignità e da sei canonici a settimane alterne; nelle feste da tutto il capitolo. Le rendite delle cinque dignità, che provengono dai benefici annessi dal vescovo, sono modeste; quelle dei canonici, invece, sono abbastanza ricche. Tutti i capitolari, dignità, canonici e gli altri ministri sono scelti e nominati a pieno titolo dal vescovo. Uno dei canonici esercita l'ufficio di penitenziere, un altro è stato da me nominato teologo. Oltre ai canonici si hanno 12 secondari; anche loro, a settimane alterne, partecipano al coro e assistono i canonici nelle celebrazioni. Per l'amministrazione dei sacramenti nella cattedrale sono incaricati 5 sacerdoti, il primo dei quali è chiamato maestro cappellano. Altri 12 sacerdoti, chiamati mansionari, partecipano con le insegne ai pontificali. Il sagrista maggiore, aiutato da 6 minori, si occupa della


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custodia e della pulizia dell'edificio e delle suppellettili. Infine i musicisti sono pagati dal vescovo per suonare nei giorni festivi durante la celebrazione dei divini uffici.

Le chiese collegiate Oltre alla chiesa cattedrale, nella diocesi sono stati eretti 23 capitoli di canonici, il primo dei quali nel 1446 da Eugenio IV nella chiesa Santa Maria dell'Elemosina della città di Catania. In esso la prima dignità è il prevosto, al quale [Sr] spetta la cura delle anime annessa alla parrocchia, la seconda è il cantore, la terza il tesoriere, la quarta il decano. I canonici sono 18, i mansionari 14. I canonici indossano il rocchetto e la mozzetta di colore cenerognolo, i mansionari l'almuzio nero; tutti svolgono i divini servizi con una modesta retribuzione ma con grande zelo e nelle pubbliche celebrazioni precedono il capitolo della cattedrale. Il prevosto è eletto dalla Santa Sede, le altre prebende dallo stesso capitolo con l'approvazione del vescovo. Nella città di Piazza operano due capitoli di canonici, il primo dei quali fu eretto da Clemente VIII con il patrimonio di Marco Trigona nella chiesa madre dedicata a Maria Santissima. Le dignità sono 4: prevosto, cantore, tesoriere, decano, ai quali spetta la cura delle anime; i canonici 22, i secondari 18; tutti costoro sono nominati dalla Santa Sede o dall'ordinario secondo la divisione dei mesi. La chiesa è mirabile per bellezza, per mole e per ornamenti; gli uffici sacri vi sono svolti con grande diligenza; sarebbe auspicabile che venissero impiegati a questo scopo congrui proventi. Infatti, sebbene il patrimonio di questa chiesa sia ricchissimo, i ministri regi, senza alcun diritto e con pessimo esempio, hanno rivendicato la sua amministrazione. Un secondo collegio, intitolato al Crocifisso, è costituito da canonici e da dignità forniti di una modesta rendita; fu eretto dal vescovo Riggio nel 1703. Lo stesso Riggio istituì un collegio di canonici nella. chiesa madre di Enna, dedicata a Santa Maria. E' formato da 4 dignità che, nel nome e nell'ufficio, sono simili a quello di Piazza; 8 canonici e I O secondari. Il patrimonio della chiesa, un tempo ricchissimo, oggi viene


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dilapidato e saccheggiato dagli intrighi di cattivi amn11mstratori, ai quali non ci è possibile portare rimedio, considerato che i ministri regi rivendicano la potestà di amministrare questi beni e si oppongono all'esercizio della nostra potestà ordinaria. Il collegio di Paternò, fondato nel 1670 dal vescovo Michele Bonadies nella chiesa Santa Maria dell'Alto, ha 4 dignità, prevosto, cantore, tesoriere, decano, 17 canonici, 8 mansionari [Sv]. Per volontà del vescovo Francesco Carafa fu eretto ad Adrano nel 1690 il capitolo, nel qnale il prevosto esercita la cura delle anime. Le altre dignità sono il decano e il tesoriere; i canonici sono 12, altrettanti i secondari. Ho trovato quasi del tutto decaduto il capitolo di Assoro, sia per il numero di canonici sia per le rendite; era stato eretto dal vescovo Bonadies nel 1684. Mi sono adoperato di ripristinarlo con nuovi statuti e con una forma più idonea di tributo; ho affidato al solo prevosto la cura della anime, mentre ho riservato al cantore, al tesoriere, agli 8 canonici e ai 6 mansionari la recita dell'ufficio divino. In nessun luogo ho trovato un numero maggiore di canonici che nella città di Agira, dove sorgono 5 capitoli. Il primo, nella chiesa di Santa Margherita vergine, è composto dal prevosto, dal cantore, dal tesoriere, dal decano, da 12 canonici e 6 mansionari. Il secondo, nella chiesa di Sant'Antonio di Padova, è in tutto simile al primo. Il terzo, nella chiesa del Santissimo Salvatore, è costituito dal prevosto, dal cantore, dal tesoriere, da 5 canonici e da 2 mansionari. Il quarto, nella chiesa di Santa Maria Maggiore, he le stesse tre dignità del precedente: 4 canonici e 2 mansionari. Questi 4 capitoli furono istituiti insieme, nel 1689, dal vescovo Caraffa, che nelle singole parrocchie assegnò solo ai prevosti la cura delle anime. I primi due, cioè quelli di Sant'Antonio e di Santa Margherita, si raccomandano per lo zelo dei ministri e per una discreta rendita. Credo che gli altri due, quanto prima, si estingueranno per la esiguità delle rendite. Un quinto capitolo, esente dalla giurisdizione del vescovo, è istituito nella chiesa di San Filippo, un tempo dei padri benedettini, oggi affidata ad un abbate commendatario; attualmente è l'Em.mo


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Cardinale Girolamo Colonna, che ha il diritto di designare il priore e gli 8 canonici. Dovrei enumerare l'antico capitolo che sorge a Calascibetta nella chiesa di San Pietro; ma da un decennio [9r] ci sono stati disordini per impedire che i vescovi di Catania facessero valere in quei luoghi la loro giurisdizione che, da oltre settecento, anni vi avevano esercitato ininterrottamente. Non ritengo opportuno fermare l'attenzione delle Eminenze Vostre su questo argomento, perché ho già inviato una lettera al Santo Padre Clemente XIII, nella quale ho descritto accuratamente gli attacchi dei ministri regi contro i diritti della chiesa e, allo stesso tempo, ho chiesto cosa fosse necessario fare e proporre per far cessare Io scisma, nel quale un gran numero di anime è in grave pericolo di perdere la salvezza eterna. Ad Aidone il vescovo Pietro Galletti fondò un capitolo nella chiesa di San Lorenzo; l'arcipretura, a cui un tempo era affidata la cura delle anime, fu trasformata in prepositura; inoltre egli istituì il cantore, il tesoriere, il decano, 8 canonici e sei 1nansionari. Sempre ad iniziativa dello stesso Galletti sorse un capitolo a Biancavilla nel 1754, con lo stesso numero di dignità e con l'aggiunta di 12 canonici e 2 mansionari. Ma, fatto grave e contrario alle nonne, affidò a tutti i canonici la cura delle anime; ne segue che questa piccola chiesa ha 18 parroci di nome e nessuno di fatto. Sul modello di questo e nello stesso periodo il Galletti istituì un altro capitolo a Centuripe, un tempo città nobilissima, con 4 dignità, 8 canonici e 6 secondari, tutti incaricati di esercitare la cura delle anime. Con gli stessi criteri giuridici il vescovo Caraffa, nel 169 I, aveva istituito un capitolo ad Acireale, popolosa e ricca città. Infatti affidò alle 3 dignità (prevosto, cantore, tesoriere) e a 12 canonici la cura delle anime, che ognuno di loro doveva esercitare a turni settimanali; ad essi assegnò una congrua rendita dal patrimonio della chiesa e aggiunse 6 mansionari. Vicino ad Acireale, nei paesi confinanti, sono state istituite di recente, dal vescovo Galletti, tre collegiate [9v ]. La prima si trova nel comune di Acicatena, la seconda ad Aci San Filippo, la terza a Santa Lucia. Ognuna di esse ha il prevosto, il cantore e il tesoriere. Le prime


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due hanno 9 canonici e 6 ansionari; la terza, invece, ha 7 canonici e 6 mansionari. La cura delle anime è esercitata dal prevosto. Restano da elencare tre collegiate: una a Belpasso, fondata dal vescovo Riggio nel 1700, con le stesse dignità nel nome e nell'ordine delle precedenti, 12 canonici e 6 dignità. Le altre sono state istituite dal vescovo Galletti nei villaggi di Nicolosi e Trecastagni. La prima è del tutto simile a quella di Belpasso, la seconda ha le stesse tre dignità, ma 8 canonici e 2 secondari; entrambe hanno un'esigua rendita. Molte delle collegiate elencate usano il rocchetto e la mozzetta; tre (quelle di Piazza, Enna e Paternò) hanno in più la cappa magna; le altre solo I'epitogio o almuzio.

La cura delle anime In tutti gli altri centri abitati della diocesi la cura delle anime è esercitata da vicari amovibili ad arbitrio del vescovo, che è ritenuto unico paIToco di tutta la diocesi. Infatti, ad eccezione di Enna né Catania, né Piazza, né altri comuni hanno parroci perpetui, ma semplici cappellani incaricati di a1nrninistrare i sacran1enti. Per un antico errore le autorità civili della città di Catania si convinsero che i diritti paITocchiali contrastavano con la libertà dei cittadini. A ciò si deve se, in passato, i vescovi hanno tentato inutilmente di istituire i parroci perpetui; oggi questa speranza si è perduta del tutto. Ad Enna si hanno 8 parroci, che vengono eletti per concorso. A Leonforte e a Pietraperzia gli arcipreti sono presentati dai signori del luogo, che godono del diritto di patronato [ lOrJ.

Il sen1Jnario dei chierici

li seminario dei chierici fu fondato, dopo il Concilio di Trento, dal vescovo Antonio Faraone in un modesto edificio e con tenui risorse. Per l'incuria dei vescovi, che si sono succeduti nel tempo, non sono state più riscosse le tasse sui benefici, prescritte dallo stesso concilio. Dopo il terremoto del 1693 si iniziò la costruzione di un


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nuovo edificio e il vescovo Riggio aumentò le rendite che, tuttavia, sono del tutto inadeguate per sostentare i chierici poveri di una diocesi così grande. I padri della Compagnia di Gesù hanno istituito un altro seminario a Piazza, che oggi è vuoto. Il monte di pietà di Catania ha poche risorse, ancora di meno ne ha quello di Aci. In tutta la diocesi si hanno 4 ospedali alloggiati in edifici angusti e provvisti di modeste rendite, ad accezione di quello di Catania, che si ammira per lo splendore del fabbricato e per l'abbondanza delle risorse.

Monaci e religiosi

Nella diocesi, che ha una circoscrizione molto estesa, sorgono 95 istituti di monaci e religiosi maschili; di essi 4 monasteri sono dell'ordine di S. Benedetto, 4 collegi della Compagnia di Gesù, 2 case per gli esercizi spirituali dei fedeli della medesima Compagnia, 2 dei chierici teatini, 3 dei chierici minorili, 2 degli scolopi, uno dei ministri degli infermi. I conventi dei frati predicatori sono IO, 37 sono quelli dei francescani, dci quali 4 appartengono ai conventuali, 4 agli osservanti, 13 ai riformati, 5 ai frati del terz'ordine, 11 ai cappuccini. Inoltre si contano 11 conventi degli eremitani di S. Agostino, 3 di frati della stessa regola, ma scalzi, 9 di carmelitani dell'antica osservanza e uno di carmelitani scalzi. I frati dell'ordine di Santa Maria della Mercede hanno 2 case, e 2 ne hanno i minimi, una quelli dell'ordine della SS. Trinità e una i frati di S. Giovanni di Dio. Infine a Catania è sorto un oratorio dei presbiteri di S. Filippo Neri [!Ov], ai quali io stesso ho procurato un domicilio stabile. Molte di queste case religiose sono piccole e poco decorose per ie modestissime rendite; perciò alcune di esse contano appena 6 frati, altre 1 o 2, che vivono nell'ozio e al di fuori di ogni legge. Sarebbe preferibile che le autorità civili le chiudessero piuttosto che sopportare un così grave danno alla disciplina religiosa.


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La monache La parte migliore del gregge del Signore è costituita dalle monache, che sono accolte in 31 monasteri. Di essi 16 osservano la regola di S. Benedetto, 9 quella di S. Francesco, 3 di S. Agostino, uno di S. Domenico, 2 delle carmelitane. Tutte le monache sono soggette alla giurisdizione del vescovo, ad eccezione di quelle del monastero di Regalbuto, intitolato ai Santi Angeli, che è affidato agli agostiniani. Abbiamo anche 13 collegi per accogliere ed educare le ragazze: 3 di essi, chiamati Collegi di Maria, si dedicano all'istruzione scolastica e ad insegnare le arti femminili, secondo le norme dettate dal cardinale Corradini; gli altri ospitano opportunamente orfane o ragazze che rischiano di perdersi per la povertà delle famiglie. Infine 2 istituti accolgono le donne che, dopo aver perduto l'onore, aiutate dalla grazia di Dio ritornano sulla buona strada.

Gli eremiti Alcuni frati abitano negli eremi che sorgono nei boschi o nei monti di ludica, Scarpella, Tarcisio, Rosmanno, Piazza vecchia e di recente a Valverde. Alla periferia di Catania alcuni sacerdoti conducono vita eremitica in una casa chiamata "Mecca"; un altra casa è stata costruita a Valguarnera, ma attualmente è vuota. 1

Le associazioni laicali Quasi dovunque si hanno pie associazioni di laici con i loro statuti, gli oratori ben tenuti [l lr] e frequentati. Tuttavia molto spesso esse sono lacerate da discordie interne e creano ai loro rettori tali difficoltà da sembrare la caricatura, più che lo specchio della pietà e delle virtù cristiane.

*** Questo è il quadro esteriore della Chiesa e della diocesi di Catania. Restano da indicare alle Eminenze Vostre le manchevolezze in-


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contrate nello stato della Chiesa e nella vita cristiana, le opere che ho iniziato, le difficoltà nelle quali mi sono imbattuto per restaurare i danni alla disciplina e alla religione, i progressi ottenuti con l'aiuto di Dio, le richieste che devo presentare con preghiere insistenti a Dio per portare a compimento l'opera iniziata. In realtà posso affermare che la Chiesa di Catania, da circa sessantasette anni, è priva di vescovi e che ha sofferto i mali che lamentava il profeta: «Perché hai demolito il suo muro di cinta? Ogni passante ruba i suoi grappoli. Viene il cinghiale dcl bosco e la devasta, vi pascolano dentro bestie selvatiche» <Sai 79, 13>. Andrea Riggio, dopo le rovine del terribile terremoto, aveva iniziato appena a far risorgere la città di Catania come da un sepolcro e a ricostruire la cattedrale rasa al suolo con opere grandiose e ingenti spese quando, all'inizio di questo secolo, contrapponendosi la Chiesa e lo Stato con grande animosità, i disordini che ne seguirono posero fine ad opere così eccellenti. Né possono essere ignorati dalle Eminenze Vostre i mali che la nostra Sicilia fu costretta a subire: i diritti umani e divini furono calpestali, i religiosi espulsi, i patrimoni ecclesiastici dilapidati, i giudizi emessi con la procedura sommaria, tutto fu amministrato con la rapina e il sacrilegio. A questo si aggiunse l'esilio del vescovo Riggio il quale, nel 1712, essendo stato costretto ad abbandonare la diocesi, pronunziò !'interdetto. Dopo cinque anni morì a Roma, dove aveva trovato rifugio. I legittimi ministri furono sballottati da questa stessa tempesta: alcuni furono espulsi, altri furono chiusi in carcere; al loro posto entrarono dalla finestra i mercenari, o meglio ladri e briganti, che divorarono quel che era rimasto in Israele [ 11 v]. Dopo tanti sconvolgimenti alla fine, quando la Sede Apostolica rimise la pena dell'interdetta, la Sicilia sembrò respirare e tuttavia non fu designato subito un pastore per la Chiesa di Catania. Solo nel 1722 fu nominato vescovo il cardinale Alvaro de Cienfuegos; questi, dopo tre annii lasciò la diocesi che mai aveva visto. Illustre per lo studio delle lettere e per le qualità morali, Alessandro Burgos, che fu designato a succedergli, sembrava idoneo a risanare tanti mali, se non fosse stato colpito da una malattia mortale mentre era in viaggio per raggiungere la sua Chiesa; nella cattedrale,


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invece di far festa per l'inizio solenne del suo pontificato, si celebrarono i suoi funerali. Non ebbe sorte migliore il certosino Raimondo Rubi. Proprio quando Catania aveva incominciato ad apprezzarlo per l'origine, l'onestà e la prudenza, dopo pochi mesi lo pianse morto. Infine al governo di una Chiesa prostrata e quasi distrutta venne Pietro Galletti, già sfinito per la vecchiaia, che esercitò il suo ufficio per ben ventotto anni. Se dopo tante calamità e miserie qualcosa era rimasta intatta, fu distrutta e saccheggiata (e mi sia lecito parlare e sfogarmi liberamente con voi, Sapientissimi Padri). Dopo aver visitato di corsa una o due volte la diocesi, il vescovo, preso dallo sconforto per la vecchiaia, per la malferma salute, per l'abbassamento della vista e dell'udito, rimase a letto quasi morto. Gli uffici ecclesiastici furono conferiti ai parenti, gli amplissimi diritti e privilegi che i vescovi di Catania avevano difeso furono sminuiti; in alto tutto fu sconvolto dalla licenza dei malvagi, tutto fu posto nelle mani di parenti, domestici e persone senza scrupoli. Fu istituito il mercato dei benefici, gli ordini sacri furono messi all'asta, svenduti e messi alla portata di tutti; nel loro conferimento non si tenne in nessun conto della preparazione culturale e del comportamento morale dei candidati. Furono accolte da ogni parte, nel clero, persone ignoranti, dissolute, prive del legittimo patrimonio, senza vocazione e senza alcun esame: furono pron1osse solo djetro il paga1nento di una certa so1nn1a.

Perciò il numero dei sacerdoti crebbe a tal punto che il villaggio di Viagrande, nei pressi di Catania, pur contando non più di 600 anime, ha 60 presbiteri; costoro, tuttavia, solo di nome sono sacerdoti f l 2r] e si riconoscono come tali perché portano attorno al collo una stoffa di lino. Poveri, laceri, mendicanti, raramente racimolano l'elemosina per la messa; spesso sono assuuti per svolgere lavori spregevoli. Si impiegano a servizio dei signori come responsabili delle dispense e delle cantine, come custodi delle vigne e dei campi, come esattori di gabelle e di tributi, come accompagnatori armati dei viaggiatori, come guardie; mi vergogno di riferire le altre attività indecenti. I più fortunati redigono gli atti di compra-vendita, dirigono lo scambio delle merci,


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prestano denaro, prendono in appalto la riscossione delle pubbliche imposte, si danno al gioco, alla caccia e all'ozio. Il seminario fu affidato ad alcuni deputati, senza che il vescovo ~i preoccupasse di esercitare la vigilanza su di esso e di prendersi cura personalmente di questo istituto. Lo abbiamo trovato talmente decaduto, disordinato e depredato che non solo veniva trascurato l'impegno per le virtù e la disciplina, ma non veniva celebrata neppure la messa quotidiana per i seminaristi. Immagino che siate al corrente della facilità con cui ai monaci si consentiva di deporre l'abito religioso. Infatti alcuni malfattori avevano occupato la curia e permettevano che si conculcassero e si privassero di contenuto i diritti e i privilegi della Chiesa. Con singolare audacia essi sostenevano che i vescovi di Catania avessero il singolare privilegio di invalidare a proprio arbitrio la professione solenne dei monaci, qualunque fosse il luogo di provenienza, la diocesi, l'ordine di appartenenza e il motivo che li aveva spinti a rifugiarsi a Catania (e ne venivano nu1nerosi, co1ne se si fossero dati appuntamento). In seguito alle proteste dei fedeli e ai reclami che erano stati presentati alla corte di Napoli, il Re cattolico, per rimediare in qualche modo a tali e tanti mali, mandò tre regi visitatori, ma con poco successo. Infatti coloro che furono inviati dal Re non vollero o non furono capaci di chiedere e rivendicare i beni ecclesiastici venduti (ed era questo il compito principale che sembrava spettasse ad un regio patrono); quanto, poi, alle cose sacre e alla disciplina, presero molte decisioni che si rivelarono inutili e inefficaci. La visita di Giovanni Angelo De Ciocchis, arcivescovo di Brindisi, non fu fatta per risollevare e restaurare la Chiesa, ma per provocarle una piaga che non si può rimarginare [ l 2v]. Infatti, con i suoi decreti e le pene inflisse delle ferite gravissime alla giurisdizione ecclesiastica e alla sacra potestà; restrinse da ogni parte e ridusse e ben poca cosa l'autorità dei vescovi; agli amministratori delle chiese, che per il futuro volle fossero laici, allentò i freni e stabilì che venissero date dalle chiese ingenti pensioni perpetue per l'una e l'altra opera o associazione, cosa che non poteva fare senza l'autorizzazione della Sede Apostolica. Il vescovo non si lamentò e non oppose alcuna resistenza, né i ministri del re prestarono àttenzione a n1e che successiva-


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