sugli aprile 2015 numero tredicesimo
Alberi
rivista di propagazione artisticoculturale
PROSSIMITA'/periscopio
questione, ma di guardarsi attorno. Vedere, dunque, non ha più stasi: ha gambe ed un corpo per ruotare e spostarsi. Perchè periscopio è solidale al peripatetico (e devoto al terrestre). Si può, dunque, comprendere la fedeltà del Bisogna, innanzitutto, situare il periscopio nel mezzo. In mezzo. In periscopico al verbo evangelico. Esso osserva ciò che è prossimo (né il mezzo al microscopio ed al macroscopio. E sarà un giusto mezzo. Di proprio, né il lontano). E farci attenzione, riconoscerne la presenza eidetica, osservare (scopein, grecamente), in ciascuno di questi casi, sempre si non è che il primo passo per imparare ad amarlo. Al modo d'attenzione si tratta. Ma con modalità ed accompagna, fidato, un ethos differenti. Al modo di intenzione. microscopio si scruta il Dunque, ad una minimo, ovvero si configurazione della percorre il cerchio stretto ricettività (ad-) corrisponde della propria individualità. di norma una disposizione La vista microscopica ha della volontà etica (in-). Il un raggio corto e staziona modo microscopico riesce a nel privato. Spesso si formulare una vita morale rivela endoscopica, poiché rattrappita e asfittica poiché è talmente ridotta che si misura il valore sullo spazio introflette: si rivolta ridotto e relativo della nell'interiorità. E così si propria singolarità. Si diletta o si smarrisce in procede per micro-scopi, che uno scrutinio delle riguardano noi soli (nel proprie viscere - dal tono nostro labirinto biografico). sovente paranoico ed Al suo opposto, il modo egoico. Al macroscopio, macroscopico costruisce invece, si scruta il sistemi e lancia missioni: fa massimo, ossia si tuonare la Storia e incide le osservano i sistemi tavole della Scienza. Non superiori. Lo sguardo si conosce che le stelle, lancia nella distanza verso contempla la trascendenza di l'orizzonte, con ambizioni macro-scopi esiziali. Il cosmiche. Perciò, al suo periscopico si differenzia da grado macroscopico, la entrambi: non coltiva ne vista è ossorbita nella ambizioni di grandi scopi, ne lontanza e nella totalità nichilismi da scopi secondo una prassi striminziti. Forse, non telescopica. Solertemente contepla affatto lo scopo in dedicata al lungo termine, sé. Al periscopio, in effetti, essa sembra lo scopo scoppia, si impossibilitata a ciò che le sta vicino e presente. Galleggia, astratta ed incorporea. frantuma... O, meglio, non dura, viene messo alla prova. Poichè un peri-scopo è un intenzione soggettiva arrischiata in ciò che sta attorno e, dunque, Un'altra forma di attenzione ci offre il periscopio. Quella di uno confrontata ad una resistenza. E allora lo scopo, quand'anche si conservasse, sguardo circondariale (l'etimologia insegna, peri...) Infatti periscopio sarebbe costretto a dialogare con il circondario e a modularsi in sua funzione, significa guardarsi attorno: dunque rivolgere l'osservazione a quanto in vista d'una compatibilità. Al periscopio, infatti, più che i fini, appartiene il ci circonda. Il suo focus è, letteralmente, il circostante. Si tratta di mezzo/il medio. Ovvero il contatto e la relazione con ciò che ci è prossimo: una mezza via, tra il distante e l'infinitesimale-interiore. Una via una condizione tanto impossibile all'introverso microscopio, quanto al dinamica, per giunta, poiché non di guardare semplicemente è megalomane macroscopio. Il periscopio vive di una vocazione evangelica. È esercizio del comandamento più decisivo: “Ama il prossimo tuo come te stesso.”
(e contro) Al Pro una prassi periscopica circondario
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quel gesto favoloso 1. POESIA La poesia non vola alta e non sormonta la terra con lo scopo di sfuggirla e di dominarla. La poesia è colei che per prima porta l’uomo alla terra, rendendolo appartenente ad essa, inducendolo così ad abitare. 2. PROSSIMITÀ La terra è prossima al cielo quanto l’uomo è – prossimo – ad entrambi. Sia che il suo corpo riviva, dopo la morte, tra i tralci ed i frutti degli alberi sia che si dissolva nelle nubi dell’aere. E se il cielo lo si è immaginato abitato da divinità antropomorfe è solo perché l’uomo ama nominare - … i venti, le costellazioni, le vette, i sentieri. 3. MONTAGNA Hanno abitato intere popolazioni su creste rocciose, accanto a vallate morbide o scoscese, conservando la problematica discrezione del luogo. Perché le montagne, come gli alberi, paiono raggiungere il cielo e perciò sembrano unire il terrestre al "celeste". Rendono possibile, nel linguaggio dell’uomo, il ponte che congiunge la prossimità tra terra e cielo.
4. BAGLIORE … Sto cercando per questi monti un vecchio di novant’anni che vive solo. Sta barricato in casa e pare che esca soltanto di notte. Il fornaio di Pennabilli una volta alla settimana gli porta il pane che lascia in una vecchia cassetta sul bordo della strada. Ho bussato già due volte alla sua porta ma lui non ha mai aperto. Dai vecchi spesso ci arrivano dei doni favolosi. Ci sono dei continenti di memorie sommerse, un ammasso enorme di visioni. Spesso da questi mondi bui ci arrivano bagliori improvvisi. Bisogna raccoglierli. Mi viene da pensare ai cercatori d’oro che setacciano quintali e quintali di fanghiglia poi, un bel giorno, compare una pepita. 5. IGNORANZA … Da alcuni anni ho una grande ammirazione per l’ignoranza. Ma non per l’ignoranza di chi dovrebbe essere preparato e che cerca a tutti i costi di nascondere queste sue oscurità. L’ignoranza autentica, direi primitiva, vera, e simile alla terra, alla melma, che non contiene i semi di un qualsiasi arbusto o fiore, l’ignoranza che può creare dei gesti favolosi o anche delle illuminazioni che possiamo ricevere spesso dai matti o dall’infanzia. 6. POETA Forse il poeta, essendo portato dalla poesia sulla terra, può ricordare di raccogliere i gesti favolosi e così farne canti. I gesti favolosi piccoli, intendo, quelli che l’uomo scorge raramente, e che solo la terra ed il cielo davvero sanno.
10. ROVINA … Eppure ho trovato un orticello ancora curato e raccolto, segnato nel suo perimetro irregolare da una siepe di canne grigie che si spellano continuamente. Uno spazio di pochi metri, vivo e ordinato in mezzo a un mondo in rovina. Ho subito pensato che il fedele proprietario fosse una donna e così sono tornato diverse volte per scoprirla e chiederle il motivo di questo suo attaccamento a quel pezzetto di terra. Quando mi sono accorto che avevano smesso di annaffiarlo forse indispettiti dalla mia presenza, ho cominciato a riempire il barattolo alla pozza d’acqua in fondo al sentiero e a vuotarlo sulla terra secca. Dopo un mese ho raccolto due cipolle e alcuni pomodori.In ottobre un unico melone giallo. Finché non mi è venuto il dubbio che il proprietario di quell’orto fossi sempre stato io. 9. BOSCO Ora sappiamo che durante la Resistenza si visse di stenti, e con dolore ed immane forza. Entriamo ora in quei boschi che videro i corpi svelti e li ospitarono, al riparo. E ogni castano ha, per me che ora guardo, un volto e vorrei poterlo ringraziare, e dare lui un nome. Ogni guscio di riccio a terra, così verde, o così marrone, vorrei potesse avere un nome, per restituire al tempo il mio grazie attraverso un medesimo albero, un medesimo frutto. 8. POLVERE … Un paese morto è come uno strumento morto. Le strade, le piazze, i vicoli che prima amplificavano i rumori e le voci formando una cassa armonica ben stabilita, adesso non funzionavano più. Non c’era più eco. I rumori e i richiami affondavano nella polvere senza neanche un rimbalzo. Cadevano a terra come palle di fucile che cadono ai piedi di chi spara. Ho registrato alcuni fischi. Poi mi sono allontanato dall’apparecchio per sentirli a distanza. A dieci metri già non si sentivano più. 7. MIGRAZIONE … Ho incontrato uno studioso che voleva portarmi a vedere il bosco di faggi a 1200 metri. Se ci saranno altre annate di caldo i faggi scompariranno da questa zona perché non possono salire sulle nuvole a cercare aria più fredda. Mi ha detto che attorno all’anno Mille la Terra era più calda e così la vite e i lecci coprivano questi monti. Poi per alcuni secoli la Terra si è raffreddata e queste piante sono scese fino al mare.
11. POLVERE … Un paese morto è come uno strumento morto. Le strade, le piazze, i vicoli che prima amplificavano i rumori e le voci formando una cassa armonica ben stabilita, adesso non funzionavano più. Non c’era più eco. I rumori e i richiami affondavano nella polvere senza neanche un rimbalzo. Cadevano a terra come palle di fucile che cadono ai piedi di chi spara. Ho registrato alcuni fischi. Poi mi sono allontanato dall’apparecchio per sentirli a distanza. A dieci metri già non si sentivano più.
12. BOSCO Ora sappiamo che durante la Resistenza si visse di stenti, e con dolore ed immane forza. Entriamo ora in quei boschi che videro i corpi svelti e li ospitarono, al riparo. E ogni castano ha, per me che ora guardo, un volto e vorrei poterlo ringraziare, e dare lui un nome. Ogni guscio di riccio a terra, così verde, o così marrone, vorrei potesse avere un nome, per restituire al tempo il mio grazie attraverso un medesimo albero, un medesimo frutto. 13. ROVINA … Eppure ho trovato un orticello ancora curato e raccolto, segnato nel suo perimetro irregolare da una siepe di canne grigie che si spellano continuamente. Uno spazio di pochi metri, vivo e ordinato in mezzo a un mondo in rovina. Ho subito pensato che il fedele proprietario fosse una donna e così sono tornato diverse volte per scoprirla e chiederle il motivo di questo suo attaccamento a quel pezzetto di terra. Quando mi sono accorto che avevano smesso di annaffiarlo forse indispettiti dalla mia presenza, ho cominciato a riempire il barattolo alla pozza d’acqua in fondo al sentiero e a vuotarlo sulla terra secca. Dopo un mese ho raccolto due cipolle e alcuni pomodori. In ottobre un unico melone giallo. Finché non mi è venuto il dubbio che il proprietario di quell’orto fossi sempre stato io. 14. TUTTO … Mi sto chiedendo se una volta ritrovato il grande noce, non sia anch’io tentato di abbandonare tutto e tutti e dedicarmi a una vita contemplativa. Questo perché ogni tanto mi sorprendo a rimirare per ore e ore la valle sommersa dal silenzio, quasi fossi anch’io quel silenzio. 15. BACIO La prossimità del bacio si contiene nella guancia, nel labbro, nel ruvido, sapido? Nel fresco fruscio? Vaghiamo in compagnia di fiori, tralci, frutti. Essi non parlano soltanto la lingua stagionale. Dall’oscuro sale variegata un’evidenza che ha forse il lucore della gelosia dei morti, che rafforzano la terra. Che sappiamo noi qual è qui la loro parte? Da lungo tempo è loro costumanza impastare l’argilla col loro disponibile midollo. Questo solo chiediamo: lo fanno di buon grado? …Spinge con impresa di gravati schiavi il frutto – su fino a noi pregno; a noi loro padroni? O sono loro i padroni, dormienti presso le radici, che ci riservano quel che è superfluo a loro, questa cosa interstizia di muta forza e baci?
19. LUNA Dove l’ultima casa finiva nel grano ci stava una bambina che di notte andava con un secchio d’acqua in mezzo ai campi per far specchiare la luna. E poi la portava in giro per farla vedere come se ci fosse una luna grande in cielo e la sua luna piccola in fondo al secchio. 18. L'ECLISSE. Durante l'ultima eclisse ho fotografato un uomo che pescava in un laghetto di città. Mi son chiesto cosa succedesse ai pesci durante quel moto universale per cui tutto si sofferma, tutto si sospende, persino la luce ed il calore. E chissà che quel gesto della canna che acciuffa il pesce, proprio in quel momento di sole e luna e oscurità, non fosse che una danza dell'accadente, ed anche una celebrazione dell'inavvertito, dell'inesistente. Una bellezza senza ragione. Un'eclisse periscopica che rispecchia l'oculo buio della luna nell'oculo increspato e sospeso del lago, un'onda magica, senza storia - fino a che il pescatore.. 17. DECLINAZIONE In dono ho lasciato alcuni sassi bianchi, trovati per caso lungo un piccolo rivo durante un breve cammino con mio padre e mia madre. Abbiamo percorso quella carraia che cinge le tiepide colline dietro al Castello di Torrechiara, e siamo giunti sino ad una pieve, molto frequenti nell’appenino Tosco-Emiliano, umili luoghi di ristoro, dislocati per quell’antica Via Francigena che porta dall’Europa a Roma. V’era, innanzi al sagrato, una fila snella di abeti che impedivano la vista di tutta la valle. Probabilmente erano stati piantati in un secondo momento. Lì accanto proprio il ruscelletto con i bianchi sassi. È un dono che ha del simbolo; alcune estati fa erano sassi bianchi accompagnati da un nome nuovo e da una tazzina molto piccola con un poco d’acqua. Ora forse potremo mutare il gioco rituale ricordando la prossimità di terra e cielo. Scaveremo una piccola buca nel terreno e lasceremo cadere il sasso bianco insieme ad un seme di castano. Contemplando, questa volta si, il moto silenzioso e arcisecolare di discesa e ascesa, aspettando, quel frutto canuto, bacio della storia, testimone di un nuovo grazie e di un presto maturo segno verticale nella prossimità di terra e cielo. Un gesto favoloso che solo loro sanno. 16. CIELO Il cielo non si abita, certo. Per questo è così poco prossimo, così distante ed indefinito. Ed anch’esso è solo un nome, come un dio o una costellazione, una forma di linguaggio. Anzi è proprio la dimora del mistero, per via della sua indeterminatezza. Eppure sotto il cielo si abita, si veglia al cospetto suo e del falò, attraverso il cielo si conosce il verticale, e si impara il soffio e l’ascesa. Gravità degli strumenti, degli oggetti dell’uomo, creati come utensili della storia, dal cielo cadono. Il cielo li sorveglia ignaro.
Pro-ssimo è il Pro-getto Nello Spazio-Corpo comprendere il circostante-che-accade. Senza prossimità e attrito
Prossima è la fine, mia, tuo inizio. Eppur non netto, il taglio, ma io in te e tu in me, corpo a corpo volto a volto, che non so più quale sia la mia guancia e quale la tua, ci prolunghiamo senza mai del tutto agguantarci, come se io lo spazio dell'universo e tu i raggi più coraggiosi del sole, le fiamme che si protraggono, verso il prossimo me. Nello Spazio-Tempo Prossimo è il dopo non successivo, tempo eterno non lineare non cronologico, attuale, che fa dell'ora, dell'adesso, il solo momento dell'esserci, anch'esso eterno, mio e tuo, e in fondo non nostro.
coincideremmo totalmente col nostro tempo, scivoleremmo via con lui, senza sentirne gli spigoli e le protuberanze, le rughe e le morbidezze. Attrito e Spazio-Mondi
Così è per i luoghi: chi è profondamente abitante? Forse chi non coincide del tutto col “proprio” spazio. In questo senso è possibile una lettura positiva dell'estraneità: lo straniero, l'estraneo, guarda i mondi circostanti con occhi un poco allucinati, in una sensazione vivida. Riesce a scorgere, meglio del “perfettamente coincidente”, il corpo di quel prossimo che incontra. Un po' più estraneo a se stesso e al mondo, mette in scena la performance della vita, La crisi tra indeterminatezza e tensione. «Il singolo è il mai solo che rischia di essere assolutamente solo, il sempre Il Gesto felice di Sisifo comunicante che rischia di essere l'assolutamente incomunicabile». La crisi Perché dobbiamo, con Albert Camus, immaginarci Sisifo felice? Perché emerge, nelle parole di Ernesto de Martino, come la caduta della relazione nonostante quell'enorme sforzo, che ai più è parso una condanna disumana, con la prossimità, o quando tale relazione diviene distruttiva. Perciò quel nonostante quella pietra gigante da far rotolare su per la salita del monte, che accomuna le pratiche dei guaritori sparsi per i mondi è qualcosa che ha a all'infinito, Sisifo incarna l'umano nel suo senso più profondo e per giunta che vedere con la ri-connessione, la ricostruzione della continuità felice? Perché, se di condanna si tratta, potremmo dire che forse non vi sia costitutiva. condanna più umana della sua. Egli è destinato all'attrito, allo sforzo; ha Il Come delle “Cose”: Prossimità e Attrito l'obbligo di sentire sulla pelle delle proprie mani la pelle ruvida dell'altro a Prossimo è l'attrito, la pelle che struscia contro l'intorno, l'interno che lui prossimo, la pietra. Ed è il peso di quest'ultima a fare di Sisifo l'uomo picchia contro la pelle, e tutto che in fondo sconfina nell'intero. Perciò vivo, che sente il mondo e il suo peso toccandolo, che sente il proprio corpo sembra essere prossimo il confine, ma un confine che non è linea di chiusura immerso in esso, che non scivola liscio sulla storia come se non fosse mai e limite invalicabile, bensì il possibile dell'umano, occasione inarrestabile di stato. In questo modo quello di Sisifo diviene un esercizio gestuale, una vera nuova negoziazione con l'alterità, una soglia di continuità simile a un porto, e propria askēsis; Sisifo lavora al medio greco: co-costruisce un mondo luogo mediale. Così questo confine/limite, dice Heidegger, «non è il punto assieme alla pietra, e a sua volta quel mondo costruisce loro. in cui una cosa finisce, ma, come sapevano i greci, ciò a partire da cui una Con(tro) e Nel-la Pietra cosa inizia la sua essenza (Wasen)», che non può non essere che relazionale. E se l'assurdo circonda questa nostra storia di umani, questo nostro portar Il modo del prossimo è l'attrito poiché esso è movimento sconfinato tra i massi su per montagne, è proprio la pietra a noi prossima a offrirci la due; non blocco asfittico non dissolvenza e perdita, ma gesto che si pone in possibilità della rivolta vitale. La pietra è il mondo vissuto e la possibilità mezzo e mantiene entrambi i poli della relazione in tensione continua – del vivere. Grazie a lei ci è dato d'esserci, nella presenza tensiva sudata sensazione di fatica che fa della vita una rivolta, della presenza dell'irraggiungibile mai quieto. L'immagine è ora quella del mare: mai fermo qualcosa di mai definitivo, dell'ardore un frutto dell'esercizio, della bellezza da sempre, sempre prossimo alla terra, sempre gettato verso di essa, come a il modo dell'osservare: non è bello ciò che vedo, prossimo dinnanzi a me, volerla agguantare, tenace e instancabile, mai arrivato. E anche qui, in ma bello è il vederci prossimi nell'attrito, nella tensione liminale, sempre, e fondo, nell'intero circostante, mare e terra, pietra e uomo, non sono poi così così sentirci. Questa prossimità vuole l'estetica-che-correla e il calore-che- separati, da corpo-a-corpo a corpo-in-corpo, laddove Gregory Bateson mette scioglie come possibilità dell'esperienza. tutti in comun(ic)azione: «non ci sono sostanziali differenze tra la pelle di un Attrito e Tempo-Storia essere umano, le squame di una lucertola, lo strato levigato e assolato di una Contemporaneo è, per Giorgio Agamben, chi non aderisce completamente al roccia, la scorza rugosa di un albero come confine dell'io. Sono tutti limiti di suo tempo, l'inattuale. Perciò l'Attrito è anche il modo del contemporaneo, diverse soggettività che l'ecologia comunicativa sconfina e interconnette». poiché è figlio di quello scarto, di quella sfasatura che ci permette di
Corpo-in-corpo
L'attrito vuole il corpo, lo riscopre ed esalta: il corporeo mi determina, perché mi “spazializza”, mi getta nel/col mondo e mi permette di sentirlo e farmi sentire. L'umano che sta alla base del pensiero di de Martino è un umano relazionale e corporeo: «Mio in senso assoluto non dev'essere nulla […]; il “mio corpo” è riconoscibile come mio solo per entro questa valorizzazione intersoggettiva del corporeo umano. […] La corporeità come condizione della compresenza simultanea dell'uomo, dell'essere e della coesistenza del mondo». Sisifo, Pietra e Mondo. Radici e Terre
Un'altra immagine è quella delle radici che scavano la terra nel loro vivere. La radice affonda nel terreno, così come Sisifo affonda in pietra e montagna, e il loro muoversi non sarà una traiettoria lineare, una linea retta tra il punto di partenza e quello finale. Un movimento di quel tipo sarebbe solitario, senza prossimità, un non-movimento. La radice invece scava, si struscia con la terra che la circonda: la pelle del legno sente su di sé l'attrito di quell'intorno umido in certi punti e più secco in altri. Lo spostarsi della sua vita è un continuo incontro, una negoziazione appunto, con tutto ciò che le è prossimo. E l'andamento sarà curvo e tortuoso, lento e faticoso, d'ingegno e d'istinto. Radice immersa nella terra, con la terra. Il Corpo-che-conosce
Prossimità è contestualizzazione e immersione. Se l'umano è abitante del prossimo, il conoscere sarà anch'esso gesto dinamico di movimento, di scontro e, di nuovo, d'attrito. Nel pensiero “occidentale” dominante la conoscenza è una sorta di pacchetto di nozioni e capacità che si trasmette
per via genealogica di generazione in generazione, in grado di far comprendere ai nuovi nati il mondo nel quale arrivano. In quest'ottica la conoscenza è qualcosa di dato e replicato, una specie di griglia mentale nella quale incasellare e classificare le cose del mondo. Il corpo ha un ruolo esclusivamente strumentale e tra umano e mondo c'è una rapporto di “proiezione a distanza”. La prossimità assottiglia tale distanza, fino a fondere i due poli senza però con-fonderli: se fossero con-fusi non pronunceremmo più il termine “prossimo”. In quel punto mobile il “conoscere” non è più transitivo (conoscere qualcosa), ma diviene un “conoscersi-viversi”, anch'esso al medio greco. Il corpo-che-conosce è il corpo-immerso, non proietta una griglia di senso ma costruisce quest'ultimo a partire dalla relazione col prossimo, vivendolo, in quella che sarebbe l'esperienza. Pezzi di mondo si attaccano al corpo-che-conosce diventandone parti inseparabili e la distanza tra teoria (conoscitiva) e prassi (attiva) svanisce, laddove il contemplare-il-mondo è un vivere-col-mondo. Quasi oltre la relazione, nella com-unione con la realtà. La vita diventa la traccia di un patto, dove il conoscitore è viandante in cammino che negozia traiettorie con l'intorno. La traccia sarà simile alla strada delle radici nella terra, tortuosa e sudata. Così la prossimità è anche compagna di viaggio di ogni viandante: mai solo, non c'è viaggio né movimento senza tensione. E anche in de Martino il movimento è condizione necessaria della presenza “sana”: «fonda il “da” e il “verso”, e fa emergere il “qui e l'ora” della presentificazione valorizzante». «L'ethos è sempre oltre»; l' “Oltre” è il prossimo, l'intersoggettivo. Non poter prescindere dallo spazio, dove l'ambiente è non appena noi siamo: l'umano è l'abitante.
Pro-venire, andare-Verso
La questione dell'origine, forse, si pone solo per chi-sta-andando-verso. Presi nel moto ci chiediamo da dove questa spinta sia nata, e quindi la nostra provenienza, da dove siamo emersi. Secondo Günter Anders solo l'umano «compie il salto definitivo dall'origine nella libertà», e ciò lo pone di fronte al paradosso di quella che lui chiama “patologia della libertà”: immerso nell'orizzonte della possibilità, di fronte alla potenza del “qualsiasi”, l'umano è sempre se stesso, in ogni punto della sua storia, vincolato alla contingenza. In quest'ottica lo spazio diventa di volta in volta il simbolo di una condanna: prima infiniti “là” mi appaiono come la possibilità di sottrarmi a quel che sono ora, “qua”; poi ogni spostamento finisce per essere un nuovo “proprio qui”. La separazione dall'origine creerebbe questo “doppio vincolo” nel quale “l'andare verso” non troverebbe mai fine, e il prossimo irraggiungibile genererebbe la “malattia”. In gran parte d'accordo con questa lettura, si tratta di tirar fuori dalla patologia la potenzialità, dalla mancanza un'eccedenza e dalla fatica la bellezza. Potremmo farlo partendo da una critica alla libertà, per arrivare poi a quella del “sé”. Bisogna trovare la forza per scrollarsi da dosso quest'ideologia della “libertà senza se e senza ma”, così come questo mondo liberista ce la conficca nell'anima; una libertà che sfuma nella solitudine e nell'individualismo, che funge da fondamento per la menzogna della “competizione come naturalità”, per l'“homo homini lupus”. L'umano, così libero è una sventura; vincolato, infatti, alla prossimità, può essere soltanto se teso di fronte ad essa. Bisognerebbe avere il coraggio di concentrare la discussione sulla potenza della qualità: non slegato da tutto, finto autosufficiente, ma legato a ciò che può farmi bene. Il secondo punto vien da sé: l'essere vincolato non è un essere soffocato, bensì un essere penetrato dal prossimo, e nella prossimità l'unica certezza rimane il mutamento continuo, forse. Benché l'umano sia se stesso, è tuttavia altro da sé. Quindi al medio, tra il solo-noi e il totalmente-altro, tra l'origine-da e l'andare-verso; prossimi, tra il non-più e il non-ancora, in quell'unico istante nel quale tu e io siamo, assieme, guancia a guancia; non del tutto, ma quasi, “una sola carne”.
Umano: il Continuo Rivoltoso
Con antropopoiesi si intende la “costruzione dell'umano”. Un termine indubbiamente ambizioso, che riporta l'antropologia all'indagine dell'arcaico, vicino a una certa filosofia, lontano dalle specializzazioni settoriali che parlano del dove siamo senza interrogare la storia del cammino. Si parte da un presupposto che corre il rischio dell'universalismo, ha piacere di correrlo e ammette di farlo: l'umano non è dato ma, appunto, costruito; mondi diversi costruiranno umani diversi in modi diversi, ma l'umano senza costruzione non sussiste. Questo assunto fa della prossimità un cardine radicale della nostra storia: la prossimità non è un semplice spazio, ma il come dell'esserci, il modo dell'umano. La costruzione è il frutto del rapporto continuo e vicendevole tra l'umano e il tutto a lui prossimo. E proprio perché l'umano è l'abitante/viandante, la sua costruzione non sarà mai conclusa in una qualcosa di finito, bensì sempre viva, magmatica. L'umano non è mai, poiché sempre diviene. Non cerchiamo risposte definitive nella natura presunta statica, non in una struttura nella quale incastrarci; limitiamoci alla bellezza dei processi, che pongono alla base il dinamismo mai domo: «le cose non sono, accadono»; e così gli umani. E l'accadere implica il dove relazionale, ancora, l'intersoggettivo. Perciò all'abitare dovremmo approssimarci ancora e in più modi. Fermiamoci qua per ora, in quell'attimo immaginario che anticipa l'antropopoiesi; o meglio, in quell'attimo continuo che la affianca lungo tutta la vita; fermiamoci alla rivolta, dove l'esistere è ex-sistere, inteso come il protrarsi, l'ergersi della vita che “si fa”: un protrarsi ex-, verso il prossimo, fuori da me, sul liminale. E insieme all'ex-sistere tocchiamo il da-sein tedesco, come “l'essere-lì”, l'esserci con quel mondo. Questa la tensione, questo il prossimo: l'umano-abitante, protratto-verso, proprio-lì; il “continuo rivoltoso”. La Forza delle Storie – Narrazione
Tutto ciò ci porta a proporre di rivalutare profondamente il ruolo della narrazione. Spesso esiliata a tecnica di racconto funzionale al ricordo o a un modo di parlare il mondo poco prossimo alla sua realtà perché poco rigoroso e poco scientifico, la narrazione emerge qui come modo di conoscenza che più si approssima alle verità, per quante esse siano. E questo slancio, forse azzardato, è possibile perché le storie, narrando, contestualizzano. La prossimità è la storia del mio e del tuo esserci, non incasellato in una griglia, ma lungo una traccia che in ogni suo punto prende in considerazione l' “almeno-due” ontologicamente necessario: la storia ci immette nello spazio-tempo del gesto-abitante. Noi non siamo mai solo noi, come il modello “sostanzialista-individualista” ancora impera, ma tutte le nostre storie, che come un ubriaco notturno procedendo sbandano, nell'improvvisazione creativa di un muoversi non solo suo, ma anche dell'aria che gli resiste sul corpo, inducendolo a traiettorie sovversive e sovvertite.
Pro-ssimo è il Pro-getto: sulla terra, sotto il cielo, davanti ai divini, nella comunità
«I mortali sono nella Quadratura in quanto abitano – scrive Heidegger – I mortali abitano in quanto salvano la terra […]. Salvare non significa solo strappare da un pericolo, ma vuol dire propriamente: liberare qualcosa per la sua essenza propria. Salvare la terra è più che utilizzarla o, peggio, sfiancarla. Il salvare la terra non la padroneggia e non l'assoggetta; […] I mortali abitano in quanto accolgono il cielo come cielo. Essi lasciano al sole e alla luna il loro corso, alle stelle lasciano il loro cammino, alle stagioni dell'anno le loro benedizioni e la loro inclemenza, non fanno della notte giorno, né del giorno un affannarsi senza sosta. I mortali abitano in quanto attendono i divini come divini. Sperando, essi li confrontano con l'inatteso e l'insperato. Essi attendono gli indizi del loro avvento, e non misconoscono i segni della loro assenza. Non si fanno da sé i loro dei e non praticano il culto degli idoli. Nella disgrazia, essi attendono ancora la salvezza che si è allontanata da loro. I mortali abitano in quanto conducono la loro essenza propria – che è l'esser capaci della morte in quanto morte – all'uso di questa capacità, affinché sia una buona morte. Condurre i mortali nell'essenza della morte non significa affatto porre come fine la morte intesa come vuoto nulla; né vuol dire oscurare l'abitare dell'uomo con uno sguardo ottusamente fissato sulla fine. Nel salvare la terra, nell'accogliere il cielo, nell'attendere i divini, nel condurre i mortali avviene l'abitare come il quadruplice aver cura della Quadratura. Aver cura significa custodire la Quadratura nella sua essenza. Ciò che è preso in custodia deve essere messo al riparo. Ma l'abitare, quando ha cura della quadratura, dove mette al riparo la sua essenza? Come attuano i mortali l'abitare inteso come un tale aver cura? Di questo i mortali non sarebbero mai capaci, se l'abitare fosse solo un soggiornare sulla terra, sotto il cielo, davanti ai divini, insieme ai mortali. L'abitare, invece, è già sempre un soggiornare presso le cose. L'abitare come aver cura preserva la Quadratura in ciò presso cui i mortali soggiornano: nelle cose. […] Curare e edificare costituiscono il costruire in senso stretto. L'abitare, nella misura in cui mette al riparo la Quadratura nelle cose, è, in quanto un tal mettere al riparo, un costruire».
Dio, i fratelli, la Terra sono uno.
Da questa posizione di mezzo, da questo essere posizionati in mezzo, sentiamo parlare e andiamo parlando di principio e fine. E non c’è mezzo tra noi ed il circondario: siamo già sempre circon-dati, già sempre immediatamente, non strumentalmente, dati al centro di un al di qua spazio-temporale da cui proviamo a dire di un inizio, quasi fossimo condannati ad indagarlo. Eppure chiunque sa di non poter sapere l’inizio, chiunque sa (perché ne fa esperienza) che la nostra conoscenza non può porre la questione del principio in termini risolutivi: la nostra conoscenza, vincolata dai perché , posto un principio deve porne immediatamente un altro. Il nostro pensiero sembra non aver principio e, muovendosi in questa circolarità viziosa, scorrendo sulla linea di questa spirale che tende al principio irraggiungibile, si incaglia e si dissolve.
principio, meglio noto come Genesi.
“In principio Dio creò il cielo e la terra; la terra era desolata e vuota; una tenebra ricopriva l’abisso e sull’acqua aleggiava lo spirito di Dio … e Dio disse: sia fatta la luce … e Dio separò la luce dalle tenebre … primo giorno … vi sia fra le acque un firmamento …. secondo giorno … e Dio chiamò l’asciutto terra e la raccolta delle acque mare … produca la terra erbe, piante che facciano seme, che diano frutti secondo la loro specie … terzo giorno … vi siano dei luminari per presiedere al giorno e alla notte … quarto giorno … così Dio creò i grandi animali acquatici e tutti gli esseri viventi che si muovono e di cui brulicano le acque, secondo la loro specie, e tutti i volatili secondo la loro specie. E così fu. … e Dio li benedisse dicendo: prolificate, moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; Si rinuncia per orgoglio quando non si è in grado di riuscire, contenti si moltiplichino pure gli uccelli sopra la terra …quinto giorno … Dio fece d’essere riusciti quantomeno a porre i limiti delle proprie possibilità, o si le bestie selvagge della terra, secondo la loro specie, gli animali domestici, vanifica la conoscenza tutta ed è il trionfo dei nichilismi. In ognuno di secondo la loro specie … … ” (Gn 1, 1-25) questi casi, secondo una prospettiva biblica, si tratta dell’odio dell’uomo nei confronti del principio che non conosce. “L’uomo non vive più nel Irritano queste parole se le si interroga con i perché, ed anche se le si principio, ma lo ha perduto: ora si trova nel mezzo, senza saper niente né interroga con il chi della scrittura. Chi? Forse un uomo privo del del principio né della fine, sapendo solo di trovarsi nel mezzo, per cui c’è coraggio di vivere al centro che, per paura di affrontare l’insensatezza un principio da cui viene e una fine a cui deve tendere. Vede la propria della propria vita, invoca un dio che non è altro che il proprio io?!? Lette vita determinata da questi due termini, di cui sa solo che non li conosce. con questi filtri inquisitori queste parole risultano illeggibili; il perché e il L’animale non sa né del principio né della fine, perciò non prova odio né chi sono le domande sbagliate, non trovano risposta nel libro, orgoglio. L’uomo, che si rende conto di essere del tutto espropriato della impediscono di ascoltarlo. propria destinazione, visto che viene da un principio e tende ad una fine E se la ascoltassimo, dove ci condurrebbe la narrazione di questo “vero di cui non sa neppure il significato, odia il principio ed è pieno di inizio” (dico provocatoriamente vero perché non interrogabile!)?! Alla orgoglio nei suoi confronti …”, così Dietrich Bonhoeffer, invitava i suoi eloquente narrazione dell’evento di una nostra creazione, ad un tentativo allievi a riflettere sulle parole del libro Bereshit, letteralmente in di dire la radice della nostra paradossale, pericolosa, libertà.
“ E Dio disse: Facciamo uomini a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dominino sopra i pesci del mare e gli uccelli nel cielo, sugli animali domestici e su tutti gli animali selvaggi e su tutti i rettili che strisciano sulla terra. Così Dio creò l’uomo a sua immagine – a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò. E Dio li benedisse e disse loro: prolificate, moltiplicatevi e riempite la terra, assoggettatela e dominate sopra i pesci del mare e su tutti gli uccelli del cielo e sopra tutti gli animali che si muovono sopra la terra. E Dio disse: Ecco, io vi ho dato piante d’ogni genere che fanno seme su tutta la superficie della terra e alberi fruttiferi d’ogni genere che fanno seme, perché siano vostro cibo; e a tutte le bestie della terra e a tutti gli uccelli del cielo e a tutti i rettili che vivono sulla terra, io do erbe verdi d’ogni genere per cibo. E così fu. E Dio guardò a tutto quello che aveva fatto, e vide che era molto buono. Dalla sera alla mattina si compì il sesto giorno …” (Gn 1,26-31) S’interrompe il ritmo della narrazione precedente: Dio parla al plurale (in ebraico il plurale indica importanza) e intende inserire la sua immagine nella sua opera, perciò crea l’uomo nella dualità maschio e femmina e lo pone in una relazione di dominio con il già creato. Com’è bizzarro lo specchio costruito da questo Dio! Come può quest’opera somigliare al creatore che liberamente crea? L’opera nasce dalla libertà, ma non è libera. Eppure solo in ciò che è libero di per sé il creatore può vedere se stesso . E come può una creatura essere libera? Nessuna creatura in quanto tale può essere in sé libera com’è libero un creatore. La libertà di una creatura non può essere una sua qualità, una sua caratteristica, una sua capacità. Potrebbe essere però un modo d’essere, di vivere la relazione: l’uomo è libero nel rapporto con l’altro, con la terra, gli animali. La libertà dell’uomo è un evento, è qualcosa che avviene, che accade per mezzo dell’altro. L’uomo è simile a Dio nella relazione con l’altro (maschio e femmina li creò) e nella sua possibilità di vivere come dominatore del creato; e non sembra fraintendibile questo dominio con il dominio dello spirito sulla
Caduta).
natura, perché quest’uomo è parte di questa stessa natura senza la quale egli non esisterebbe : la libertà di dominare implica il legame con la creatura che viene dominata, la stessa che sostiene, nutre, conserva l’uomo. Commentando questi passaggi, il buon Bonhoeffer, invitava i suoi allievi alla riflessione: “ … Questo vien detto a noi, che nella nostra posizione di centro non sappiamo più nulla di tutto questo, a noi, cui tutto questo risulta un mito intriso di devozione o un mondo perduto. Anche noi pensiamo di esercitare un dominio... …. Non siamo noi a dominare, ma subiamo il dominio … …. La tecnica è il potere con cui la terra afferra l’uomo e lo tiene sottomesso. Per il fatto di non avere più in mano il potere, perdiamo terreno, e la terra non è più nostra, e noi diventiamo estranei ad essa. E il motivo della nostra incapacità di dominio è che non riconosciamo il mondo come creazione di Dio e non riceviamo più da Dio il dominio, ma ce lo accaparriamo. .. senza Dio e senza il fratello l’uomo perde la terra … …. Infatti Dio, i fratelli, la terra, sono un tutt’uno … …” (Bonhoeffer, Creazione e
Preghiera. Leggerci In Principio: oltre la violenta imposizione della religione, oltre la violenta imposizione dell’ateismo e del realismo. In un mondo capace di vivere senza il dio della religione e delle filosofie antiche, medievali e moderne, affinché tale mondo non diventi preda della potente religione del realismo, incapace di ascoltare la verità delle narrazioni “non scientifiche”. Affinché non sia dismessa la possibilità della Salvezza in questa prossimità condivisa di principio e fine, affinché non svanisca la nostra Libertà. Libertà anche nel cosa e come leggere. Libertà che accade tra gli altri, per gli altri: evento in relazione che ci rende liberi relatori, rispettosi del segreto comune.
STORIE DALL'INDIA Un capitolo
Prossimi Occhi Guardiani, Salvifici
«Che cos'è il cavallo? Un occhio di Prajāpati, che si era gonfiato e poi distaccato». Il discorso è sempre il solito: l'Uno, di per sé, non può essere, nemmeno se è il signore dell'Universo o del Multiverso che sia; e se ammettiamo anche che possa essere, sarebbe nella sofferenza più atroce, poiché privo dello sguardo altrui. Per questo l'occhio, la punta dello sguardo. È necessario lo spazio intorno, un prossimo a lui. E quando gli déi sacrificano nel fuoco (Agni) il cavallo, ricompongono l'unità del signore, o almeno pretendono di farlo. Così poi vanno dietro a loro gli umani: entrambi, déi e umani, creduloni e presuntuosi. «L'occhio si gonfia perché desidera distaccarsi. E desidera distaccarsi perché l'occhio vuole incontrarsi con un altro occhio – e riflettersi in esso». Nessun senso avrebbe nulla, persino la creazione dei mondi, se non ci fosse un incrocio di sguardi che desiderano guardarsi, riflettersi. Quasi come se i mondi esistessero solo per quell'incontro, e da parte sua pure l'occhio, che non ci sarebbe se non per guardare. Un Guardarsi allora, né attivo né passivo, ma reciproco. Non tutti gli occhi, però, valgono allo stesso modo; ci sono modi e modi. Su questo desiderio che muove, kama o eros che sia, bisognerebbe abitare almeno un poco. Su di lui/lei, sul suo rapporto con l'ardore che gli è necessario per esserci, tapas che scioglie i confini e porta a fusione. Un altro capitolo. Prajāpati, però, essendo il primo e l'unico realmente solo, non può coprire questa mancanza se non ferendo se stesso. Non può chiedere niente a nessuno, tanto meno uno sguardo. Deve passare attraverso qualcosa come l' “autoframmentazione”, il ferirsi, strapparsi un pezzo di sé da sé, per non morire di noia e di nulla. Deve farsi salvare dall'accoglienza di un circondario. Prajāpati era il precursore nella natura un po', almeno un po', folle del mondo: vuole scindersi, un “io” e un “sé”, un “io” e un “altro”, e via dicendo. Uno scrittore, molto più avanti, gli avrebbe detto che “l'inferno è l'altro”, ma probabilmente Prajāpati lo sapeva, e sapeva anche, cosa che invece ignorava lo scrittore, che l'io senza l'altro è molto peggio dell'inferno, non è proprio. Cosa può uno sguardo? Può ri-flettere, flettere la realtà due volte, rispecchiare quel che ci è prossimo e che ci conferma ogni volta di esserci, fotografare l'attrito. «Come spiegare che abbia assunto una tale importanza la figura che appare nella pupilla? Perché, sulla superficie del corpo umano, è l'unico punto dove si manifesta il riflesso, quindi la capacità non solo di vedere, ma di riflettere in altra forma ciò che l'occhio vede. E quella forma sarà impalpabile e minuscola, ma corrispondente, punto per punto, alla figura che l'occhio percepisce nel mondo esterno». L'altro nel mio occhio, io nell'occhio altrui: «una comunicazione dei riflessi, potenzialmente inarrestabile e interminabile». Gesto di estremo altruismo: ti guardo e, in quel esatto istante, se ti guardo in quel modo lì, ti metto al mondo. Gesto che sfiora lo strapotere, ma non è superbo né arrogante, non domina nulla perché a sua volta è bisognoso, consapevole di poterci essere solo nella reciprocità e nella prossimità: se non mi guardi non nasco. Poi si dice anche: i ṛṣi, i veggenti, videro il Veda. Non lo scrissero, né lo ascoltarono, ma con gli occhi lo videro, quasi fosse sostanziale, gli occhi toccano un corpo. Più avanti si dirà del Guardiano: colui che con gli occhi si prende cura di.
perispecchio
Icona Sacra nelle Navate dell’Argine
È stato concepito un video documentario dal nome improvviso “perispecchio” che, lungo gli argini del fiume Po, tra la riva schiumosa ed il bosco, intende indagare sull’immagine e sul concetto di “Periscopio Fluviale”. Come in un gioco, lo specchio si fa protagonista – insieme alla mano, all’occhio, all’orizzonte – di un’emersione che muta in danza lieve tra rami e serrature arboree, un canto timido che opera prima di uno speculare ritorno, prima di una fremente scomparsa. Dal fiume si solleva, come un canto per l’uomo, la forma di uno specchio, oggetto, nome, parola e cosa – testimone del proprio riflesso – dal fiume sgorga orizzontale e verticale nel bosco, si fa icona sacra nelle navate dell’argine. La CosaFiume, la ParolaFiume compare sulla terra, mostra i riflessi agli uomini prima di ridiscendere senza spiegazione. Il suo è un percorso speculare, interrotto da un nero d’invisibile fattezza. Se prima v’è parola, in seguito v’è coro di contraddizione. Qui di seguito la poesia I Pianisti (II) di Yves Bonnefoy, che attraversa, insieme allo specchio, parte del video.
Una Nei La Che E Alla Quasi, Si Queste Un’altra A Ma o Non
mano flutti
sua non
quell’altra, tua, che ma spalanca
che d’un’acqua immagine si abbia più in
arrischia,
chiara frantuma, forza
uno
almeno, sale, nelle cosa?
e acqua,
che
dal
Non solo specchio
sue, so o
e
Si
dita questa e
si
scuotono dei per
fondo sogno, suono
fremente, scura, direbbe tenere.
si per
specchio? le viene incontro, le nel nulla di l’abisso tra essere
dita, mano prenderle verso miraggio, hanno che
si
se per
avvicina toccano distanza apparenza. corde. suoni, guidarle.
è le tentar
amore parole d’essere.
Milano, 15 aprile 1956
Hanno scritto, disegnato PeriscoPpi:
Jacopo Rasmi
Luca Vettori
Caterina De Nisco Carlo Perazzo
Ludovica Colantuono La Mail: sugli.alberi@gmail.com
Tutto è legato ad una prospettiva cosmica. L’universo emerge in me come un bisogno, come un progetto, come una via nella quale può procedere e nella quale, in quel punto focale di cui l’uomo costituisce la tensione e l’intenzionalità, pone in gioco tutto se stesso. L’uomo che si riconosce investito del significato del cosmo, che sente la propria responsabilità per il senso del processo universale, riconosce la dignità di ogni prospettiva e di ogni forma, dei minerali, dei vegetali, degli animali, delle cose e delle persone. E’ questa la pietas verso l’intenzionalità, l’accettazione del misterioso piacere che ci lega alle cose, nel quale vibra sempre la ricerca dell’essenza, della continua correzione, dell’armonia. (Diario Fenomenologico - E. Paci)
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