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ITALIAN+ENGLISH EDITION ANNO LXXXIII — OTTOBRE 2019
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N E WS VII—XIV DOSSIER ILLUMINA ZIONE VIII–XI INTERNI XI–XII ESTERNI XII L U O G H I D I L AVO RO XII–XIII SISTEMI E COMANDI XIII–XIV P RO D O T T I XIV R E A L I Z Z A ZI O N I
fiere
04.10.2019 06.10.2019 Klimahouse Lombardia 2019
04.11.2019 08.11.2019 Le Mondial du Bâtiment
Lario Fiere – Erba, Como (I) Edizione itinerante di Klimahouse – principale fiera italiana dedicata al risanamento e all’efficienza energetica– volta a sensibilizzare operatori e utenti finali sui profondi cambiamenti che la filiera edile sta vivendo da dieci anni a questa parte nell’ambito di quella che è, ormai, la consolidata direttiva energetica europea.
Quartiere delle Esposizioni di Paris Nord Villepinte – Parigi (FR) Evento internazionale di riferimento del settore edilizio che riunisce i saloni Batimat, Interclima e Idéobain: ogni due anni un’offerta completa in termini di soluzioni, innovazioni, materiali e tecnologie nel settore delle costruzioni, dell’ingegneria climatica e dell’arredo bagno. lemondialdubatiment.com
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prodotti
XVIII—XIX CASALGR ANDE PADANA L A T R A D I ZI O N E N E L L’I N N OVA ZI O N E
XXI—XXII C A SABELL A FO R M A ZIO N E OS P I T E D ’O N O R E . Q UA N D O L’A RC H I T E T T U R A I N C O N T R A L’A R T I G I A N AT O
Rimadesio
appuntamenti
28.10.2019 27.12.2019 La voce dell’Adda. Leonardo e la civiltà dell’acqua. Milano, Cremona, Sondrio
Cover design Giuseppe Bavuso
Casa dell’Energia e dell’Ambiente – Milano (I) Con la riapertura alla cittadinanza dei suoi Archivi Storici, Fondazione Aem celebra l’anniversario dei cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci con una mostra fotografica dedicata al fiume Adda a cura di Alberto Martinelli e Fabrizio Trisoglio.
Il progetto Cover rinnova la concezione progettuale della nicchia o dell’armadio a muro, trasformando le ante nell’unico elemento strutturale a cui agganciare l’attrezzatura interna e dotandosi di nuove finiture. Come tutti i sistemi di contenitori firmati Rimadesio, Cover è dotato di una serie di accorgimenti esclusivi, come i montanti muniti di sistema di regolazione invisibile che consente una perfetta messa in bolla delle ante, anche con composizioni di grandi dimensioni. L’attrezzatura completa prevede: basamenti, mensole, aste portabiti, ripiani estraibili e cassettiere. Tutti gli elementi vengono fissati ai montanti con un sistema ad incastro, senza viti a vista, e la disposizione può essere modificata e variata nel tempo con estrema facilità. La nuova anta retro-finita è ora disponibile in tessuto –gamma Lux e Material–, similpelle e grès, invece, la struttura in alluminio tamburato, in 6 finiture: alluminio, nero, brown, piombo, platino e bronzo.
fondazioneaem.it
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GIANNI BERENGO GUARDIN
a cura di Silvia Sala
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design Matteo Grotto
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EIKON EXÉ Materia e Forma Materiali naturali e pregiati donano un inconfondibile effetto materico, definendo l’identità e la personalità di ogni finitura. Forme pure ed essenziali sottolineano l’estetica di Eikon Exé, con la certezza del made in Italy e una garanzia di ben 3 anni.
d
dossier
illuminazione lampade, sistemi, tecnologie e prodotti per spazi residenziali, luoghi pubblici, ambienti di lavoro e contesti urbani
VII
dossier
illuminazione
interni
Gea Luce Plissé
spegnere la lampada. Elastica consente di giocare con la luce grazie alla strip LED che da un lato diffonde la luce e dall’altro colora, segnando con linee di colore gli interni.
ridotta e con una gamma di “colori a spruzzo” che vanno dalle preziose finiture cromate e satinate ai pastelli pret-a-porter. Il fondatore e art director di FontanaArte, Gio Ponti, previde una versione diversa per dimensione e cromie da quella che da decenni arreda spazi in tutto il mondo. Due forme geometriche essenziali e riconoscibili: un cono e una sfera. In uno straordinario equilibrio delle proporzioni. Bilia Mini è disponibile in dieci varianti cromatiche: bianco, nero, verde, blu, giallo, rosso, nichel nero, rame lucido, nichel satinato, ottone satinato. Misure, peso ed ergonomia sono state pensate per piccoli secretaire, coffee table e comodini.
martinelliluce.it
interni
Leucos Aella design Toso & Masari
zione. Le sfere presenti sulla superficie cambiano così di grandezza per fornire una migliore diffusione della luce: sono maggiormente presenti nella sezione di vetro che copre la fonte d’illuminazione e si diradano verso i lati. L’illuminazione indiretta e soffusa è ottenuta dalla sporgenza della scocca di vetro satinato oltre la circonferenza esterna di quella in alluminio. La finitura del vetro permette alla luce di essere trasportata e di creare un segno grafico attorno alla lampada. oikoidesign.it
interni
Alessi
fontanaarte.com
Barklamp design Michel Boucquillon & Donia Maaoui
interni Linea di lampade a sospensione in vetro di Murano disponibili sia con sorgente LED sia con attacco E27. Il colore incamiciato permette di esaltare le linee pulite e ricercate, i colori trasparenti, invece, giocano con la luce e la sua diffusione nell’ambiente. Plissé si propone singolo o a composizioni multiple a 3–5–7 corpi, per adattarsi a spazi di qualsiasi dimensione. Disponibile in svariati colori –tra cui la tonalità cristallo– e in due differenti misure –da 23 o 40 cm di diametro–. giarnierilight.com
interni
Martinelli Luce Elastica design Design Studio Habit(s)
Oikoi Odo design Erika Baffico e Sebastiano Tonelli
Nuova versione –con struttura in metallo verniciato oro lucido e sorgente luminosa a LED– della storica lampada da tavolo di Leucos che porta il nome di un’amazzone mitologica, dal 2016 disponibile anche a sospensione. Aella significa “tornado” e, infatti, il diffusore in vetro soffiato trasparente lavorato a mano, dalle forme morbide ed eleganti, pare proprio materializzarsi da un turbine. Dimensioni diffusore: Ø 54 cm e H 24 cm. leucos.com
interni
MAX ROMMEL
FontanaArte
Lampada tesa tra soffitto e terra composta da una striscia in tessuto elastico che si adatta alle altezze e alle esigenze degli spazi per la facilità con cui è possibile cambiare inclinazione. Il circuito flessibile LED, contenuto nella striscia elastica –disponibile in diversi colori–, permette di dimmerare la luce, tirandola verso l’alto o verso il basso, ma anche di accendere/
VIII
Dossier
DELFINO SISTO LEGNANI E MARCO CAPPELLETTI
Bilia Mini design Gio Ponti
Riedizione della lampada del 1932, la nuova Bilia Mini è realizzata in scala
Lampada a sospensione che richiama la forma archetipica del cerchio, costituita da due elementi concentrici affiancati, in alluminio e vetro e sorretta da una corda annodata alle due scocche che permette di direzionare la luce ruotando la fonte luminosa. Odo è progettata per fornire due intensità di luce per due diversi utilizzi. Una diretta e forte è conferita dalla texture del vetro satinato stampato e ottenuta attraverso l’utilizzo di un algoritmo parametrico sviluppato in fase di progetta-
Lampada da tavolo in cui dialogano arte e industria: il diffusore esterno in metallo traforato ripercorre il motivo che caratterizza l’intera serie “Bark”, ispirata alla natura e alla corteccia degli alberi che circondano Casa Boucquillon. Barklamp s’ispira al gioco di ombre e luce della luna celata tra la vegetazione. Prodotta in acciaio inossidabile lucido e in acciaio colorato bianco opaco, Barklamp è dotata alla base di dimmer per la regolazione dell’intensità luminosa. Posta su un comodino può essere utilizzata come lampada da lettura, posizionata nella zona living diventa fonte di luce morbida e soffusa. alessi.com
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Il mondo che non ti aspetti
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dossier
illuminazione
interni
Viabizzuno Brancusi design Parisotto + Formenton
Lampada da interni a soffitto o a scomparsa totale o parziale, un omaggio all’estetica formale del grande artista rumeno: un elemento tridimensionale e scultoreo d’ispirazione organica esce dalla scatola a soffitto svelando un’unghiatura dorata grazie a un taglio obliquo e deciso che mostra un interno in ottone a contrasto con il guscio esterno scuro. Brancusi è interamente realizzata in alluminio anodizzato e verniciato a polvere, con finiture esterne nero o argento hacca e interno in ottone ap-s.
luce focalizzata. La serie offre fissaggio diretto a soffitto, a parete e a binario. La ghiera è disponibile in un’ampia gamma di colori. Beam Stick è una serie di sospensioni a LED dalla forma cilindrica prodotta in un’ampia gamma di diametri e altezze per rispondere con efficienza ed efficacia alle esigenze di spazio e illuminazione. Il fascio di luce, disponibile con diverse potenze, è idoneo a illuminare con precisione puntuale una superficie, per uno stile essenziale e puro. Beam Stick Metal presenta un corpo interamente in alluminio, personalizzabile in una vasta gamma di finiture. Nella versione Glass, il terminale in vetro consente alla luce di diffondersi anche lateralmente. La ghiera è proposta in colorazioni differenti, per abbinamenti ton sur ton o a contrasto.
con paralume in rame o struttura e paralume cromati. tatoitalia.com
interni
Axolight Ego design Axolight Lab
olevlight.com
sin dal nome esplicitano una vera e propria dichiarazione d’intenti. È, infatti, quello dell’artista spagnolo l’immaginario a cui hanno attinto i due designer, Paolo Nava e Luca Arosio, nel tratteggiare le linee flessuose di queste lampade in vetro termoformato. Come nell’arte di Salvador Dalì, il surreale fa breccia nel reale, modificando la natura stessa degli oggetti più familiari, così il vetro diventa “molle”, come i celebri orologi, e sovrapposto in più strati conferisce alla lampada l’impalpabile leggerezza del velo. La luce scaturisce dalla fonte luminosa a LED inserita nelle scanalature del supporto in metallo della lampada, la cui struttura arcuata ricorda quella di una collana. Dalì fa parte della collezione Incanto ed è disponibile nei colori verde, ametista, bluino e grigio. italamp.com
interni
interni
Tato
Natevo brand Flou
Alzabile design Ignazio Gardella
Ashaa design Stefano Bigi Nuova collezione di lampade da soffitto o parete, dotata di sorgente luminosa orientabile e LED integrato dimmerabile. Il cilindro in ottone naturale sprigiona un fascio di luce puntuale, in grado di valorizzare oggetti e colori all’interno di spazi espositivi, ma anche angoli e ambienti di case private.
viabizzuno.com
interni
Olev
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Beam design Marc Sadler
interni
Italamp Dalì design Nava+Arosio
Beam Master è una serie di faretti spot a LED orientabili, disponibili in diverse misure, potenze e finiture di superficie. Il fascio di luce consente un’illuminazione d’accento, per aggiungere stile e drammaticità a un particolare dell’arredamento o dovunque sia necessaria
X
Dossier
Disegnata da Ignazio Gardella nel 1948, la lampada da terra Alzabile viene proposta da Tato all’interno del suo attento lavoro di ri-edizione dei classici del design. Vero e proprio emblema degli anni ’50, Alzabile deve il suo nome al sistema telescopico che permette di fissare la sorgente luminosa in differenti posizioni: più bassa e rivolta verso terra è ideale come lampada da lettura; più alta e indirizzata sul soffitto è indicata come luce d’ambiente. Già proposta con tre differenti basi in marmo, tre finiture metalliche e “cono orientabile” bianco o nero, oggi è disponibile anche nelle nuove versioni
Emergono da una dimensione onirica le lampade a sospensione Dalì, che
Lampada da terra a LED composta da una struttura in legno curvato e una sfera di vetro –posizionata nella metà superiore o in quella inferiore–. Il diffusore in vetro soffiato è disponibile nelle versioni: trasparente, fumè e bronzo. L’accensione avviene tramite interruttore a pedale on/off, telecomando o tramite Casambi – sistema di smart lighting che permette di controllare l’illuminazione tramite smartphone o tablet–. Dimensioni: diametro 39xh193 cm. natevo.com
dossier interni
esterni
Dyson
Pedrali
Lightcycle™
Giravolta design Basaglia Rota Nodari
differenti per adattarsi alle specifiche esigenze progettuali. Quattro differenti teste ottiche per altrettante emissioni radiali –da 90° a 360°– si combinano a paletti disponibili in tre diverse altezze –334 mm, 734 mm e 934 mm– e a due sistemi di fissaggio. targetti.com
esterni
Oluce
vigenti normative di settore e minori costi di gestione. Street [O3] è disponibile nella configurazione LED a moduli componibili da 2 (32 LED) a 5 (80 LED), oppure nella versione CosmoPolis. Tutti i modelli offrono un grado di protezione IP 66, appartengono alla classe d’isolamento II e possono ospitare al loro interno dispositivi di telegestione. Sono inoltre disponibili versioni con dispositivo bi-regime ad autoapprendimento e versioni DALI. gewiss.com
Otto design Federica Farina Lampada dotata di tecnologia Heat Pipe con rilevamento intelligente della luce del giorno. In base all’età, al tipo di attività e alla routine quotidiana con Lightycle™ la temperatura di colore e la luminosità vengono regolate automaticamente durante l’intero arco della giornata. L’app Dyson LinkCAVEAT comunica continuamente con la lampada per regolarla in base alle necessità dell’utente e al luogo in cui si trova. Lightcycle™ è progettata per migliorare l’acuità visiva. dyson.it
illuminazione
esterni
Artemide
Lampada wireless per esterni dal design contemporaneo ispirata alle lanterne di un tempo. Comoda da trasportare, Giravolta è caratterizzata da un diffusore girevole che permette di orientare la luce a 360°.
Hubnet design Sonia Calzoni
pedrali.it
esterni
Targetti Mr. Bo design Federica Farina
interni Lampada segna-percorso per esterni dalle forme morbide e avvolgenti. Dalla base, un sottile disco, si alza lo stelo cilindrico, su cui poggia una semisfera regolabile con all’interno la luce LED. La testa, grazie a un meccanismo che ne permette l’inclinazione, è capace di orientare il fascio luminoso in diverse direzioni, permettendo molteplici utilizzi.
Masiero Cupole design Marco Zito
oluce.com
esterni
Gewiss Street [03]
Serie di lampade che nasce dall’osservazione dello skyline veneziano e delle cupole della Chiesa di San Marco. Cupole si caratterizza per la costruzione complessa, che riproduce la struttura architettonica delle cupole reali: la lanterna interna è sovrastata da una cupola esterna ed una contro-cupola, entrambe in metallo. masierogroup.com
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Nuovissimo bollard a LED specificamente progettato per l’illuminazione di grandi spazi. Le prestazioni illuminotecniche e le caratteristiche meccaniche (IK10) rendono Mr. Bo un apparecchio ideale per l’illuminazione di qualsiasi spazio esterno. Il sistema ottico e il design, studiati in ogni dettaglio, permettono un’emissione radiale controllata e definita e garantiscono un’illuminazione profonda sul piano di calpestio evitando qualsiasi rischio di abbagliamento. Mr. Bo si compone di tre diversi elementi che, combinati tra loro, danno vita a configurazioni
Apparecchio LED per l’illuminazione stradale che garantisce la massima efficienza installativa per qualsiasi tipologia di strada, nel pieno rispetto delle
Hubnet è luce, ma soprattutto un elemento spaziale, un principio d’interazione con luce, ombra e visione nato dal fare architettura. Un filtro architettonico capace di connettersi con l’ambiente circostante in una relazione visiva permeabile e osmotica. Una testa ed una base rettangolari speculari sono unite da aste e da un pattern di volumi che creano un ritmo capace di colloquiare con la luce. La luce emessa dalla testa si apre nello spazio riflettendosi sugli elementi verticali. Questi sono sfalsati su più piani così da sostenere i volumi e generare ombre creando una leggera trama di proiezioni nello spazio. Hubnet interagisce con la luce naturale, diventa una divisione spaziale che lascia intravedere al di là del suo volume, ma spezza il ritmo degli spazi. Diventa una quinta che anziché separare unisce. Sviluppato per gli ambienti esterni è un elemento perfettamente funzionale anche per interni. artemide.com
XI
dossier
illuminazione
grado di riprodurre lo stesso calore e la stessa atmosfera della luce da interni. Medousê è Disponibile nelle varianti in vetro irregolare verde o trasparente.
esterni
Myyour Elin design Angeletti & Ruzza
e residenziali. Tra le funzioni innovative segnaliamo touchless control, fading e color tune: grazie a un innovativo sistema di sensori, la luce si accende con un semplice movimento della mano, ne è possibile la dimmerizzazione e la sua distribuzione dinamica verso l’alto e verso il basso, inoltre, la regolazione della temperatura trasforma la luce in gradazioni calde o fredde in base alle esigenze dell’ambiente, adattandosi ad ogni contesto. Mito Linear è disponibile con finiture diverse nei colori soft touch bianco opaco e nero opaco, argento o oro opaco e le finiture in PDV in oro rosa e bronzo.
catellanismith.com
luoghi di lavoro
Tobias Grau John 2 design Tobias Grau
sistemi e comandi
Davide Groppi ChainDelier design Davide Groppi
occhio.de
CHARLES NEGRE
sistemi e comandi
Leggera e sinuosa lampada che trae ispirazione dal design scandinavo. Dal singolo modulo si origina una famiglia di lampade che illuminano ogni tipo di spazio raccontando la poesia e l’intelligenza della luce. Tre varianti a sospensione, con sorgenti di luce sempre più numerose per creare effetti spettacolari e una variante a piantana per gli spazi esterni. Disponibile nelle finiture: goffrata, verniciatura diretta sulla superficie liscia o ruvida e metallo.
Nuova generazione dell’iconica lampada da tavolo per l’illuminazione dei piani di lavoro, che offre massima flessibilità e potenza luminosa fino a 1150 Lumen. Regolabile e con un avanzato sistema di anti-abbagliamento –grazie alla lente ottica superiore–, John 2 è un’ideale lampada a LED da lettura e da lavoro. I due giunti a molla ultra lineari e la testa girevole della lampada consentono la regolazione in qualsiasi posizione. Gli interruttori per oscuramento posizionati sulla testa della lampada offrono un facile controllo da entrambi i lati.
myyour.eu
esterni
Catellani & Smith
tobiasgrau.com
luoghi di lavoro
Occhio
Medousê design Enzo Catellani
Lampada da terra e a parete per esterni in vetro artigianale che, prima del suo completo raffreddamento, viene modellato accuratamente a mano. Corpi illuminanti pensati per l’outdoor ma in
XII
Dossier
©BY OCCHIO – ROBERT SPRANF
NAVA RAPACCHIETTA
Mito Linear design Axel Meise
Nuova serie di corpi illuminanti disponibili nelle versioni da terra, a sospensione, a soffitto o wall washer. Un sistema multifunzione che coniuga design minimale e tecnologia all’avanguardia realizzando una luce ideale per ambienti di lavoro, spazi pubblici
Vimar e Signify Nuovi Comandi in radiofrequenza Vimar Friends of Hue
L’accordo di partnership tra Vimar e Philips Lighting (ora Signify) ha previsto l’entrata di Vimar nel programma Friends of Hue –nato per estendere l’ecosistema Philips Hue e includere maggiori opzioni per i consumatori nel controllo delle luci smart– e ha dato vita a nuovi comandi Vimar che garantiscono il pieno controllo delle lampade wireless Philips Hue. Caratterizzati da un design perfettamente coordinabile con le serie civili Eikon, Arké e Plana per il massimo della personalizzazione di forme, materiale e colori, questi nuovi comandi wireless sono in grado di integrarsi in qualsiasi contesto abitativo. Una soluzione ideale per ristrutturazioni, cambio di destinazione d’uso o di arredamento e installazioni sottoposte a vincoli architettonici/normativi. Posizionabili praticamente ovunque, anche su superfici come vetro o legno, i nuovi comandi Vimar Friends of Hue offrono la massima libertà d’installazione, non necessitando di opere murarie e ritinteggiatura delle pareti. La trasmissione del segnale non richiede collegamenti filari, infatti, avviene via radio e l’alimentazione è ricavata dall’energia generata premendo i tasti. vimar.com signify.com
Lampadario modulare da comporre a piacere, proiettando la luce verso l’alto o verso il basso, inserendo più elementi, più anelli, in molteplici combinazioni luminose. ChainDelier permette di risolvere il problema del decentramento: una grande catena dorata si flette sotto il proprio peso, disegna una parabola e alimenta la maglia di luce nel punto inferiore. davidegroppi.com
sistemi e comandi
Kundalini Azou design Chris Basias
Lampada a parete composta da punti luminosi collegati da un filo, con disco in onice o marmo e struttura in metallo verniciato. Azou è un sistema d’illuminazione dalle infinite possibilità di composizione, che lascia spazio alla fantasia e alla creatività ed è disponibile in moduli da 3, 5 e 7 punti luce. kundalini.it
dossier Strisce LED
ledvance.it
sistemi e comandi
Slamp
Nuovo sistema di Strisce LED per progetti d’illuminazione professionale, disponibili in tre diverse famiglie –Superior, Performance e Value– nato per coprire un’ampia varietà di applicazioni. Oltre alle strisce LED, il portafoglio comprende anche driver LED, profili per installazione a incasso o a pavimento, diffusori e altri accessori. Disponibili in diverse temperature di colore che vanno da 6.500 a 2.700 kelvin e versioni da 300 a 2.000 lumen per metro, le strisce LED sono adatte a qualsiasi esigenza d’illuminazione, da quella generale a quella d’ambiente o indiretta di nicchie e gole. Tutte le strisce LED sono precablate su entrambi i lati e sono facili da accorciare se necessario. Sono disponibili nelle versioni protette e non protette, con o senza rivestimento in silicone per la protezione da polvere e acqua. Le strisce con certificazione TÜV della famiglia Superior sono particolarmente adatte per i progetti professionali. In luoghi come uffici, hotel di lusso, centri commerciali e musei offrono una notevole resa dei colori con un indice di resa cromatica (CRI) di oltre 90. I 140 LED al metro garantiscono anche un’emissione luminosa molto omogenea e la distribuzione della luce su tutta la lunghezza della striscia. Grazie alla protezione IP67, le versioni protette Superior sono ideali anche per l’uso esterno in condizioni avverse e ambienti interni polverosi e umidi. Il configuratore del Sistema di Strisce LED Ledvance fornisce tutte le informazioni per il progetto d’illuminazione: una volta inseriti i dati base del progetto il configuratore genera automaticamente un elenco dettagliato dei prodotti e accessori di cui il progetto necessita. Nata dalla divisione di Osram dedicata all’illuminazione generale, Ledvance offre una vasta gamma di apparecchi LED adatti a diverse aree di applica-
C A S AB E LLA 9 0 2
PEDRO SADIO
Nuvem design Miguel Arruda
Nuvem non è una semplice lampada, bensì un soffitto luminoso, un sistema componibile che offre infinite possibilità di espressione e di realizzazione. Un sistema per allestimenti luminosi adatto a qualsiasi tipo di ambiente, sia domestico che contract. Tramite una metrica d’incastri e piegature, Nuvem si declina in una serie potenzialmente illimitata di moduli. La sua base di partenza è un modulo esagonale da 1 mq provvisto di faretto con luce bidirezionale che ricrea proiezioni di luci e ombre sia nello spazio sottostante che sovrastante.
significati e utilità unici e individuali ai propri ambienti di vita. MyLight è disponibile su un’ampia serie di modelli LED della collezione Foscarini. Sarà così possibile personalizzare l’intensità della luce per Plena, Spokes, Superficie, Bahia, Le Soleil, Rituals sospensione, Buds, Gregg sospensione, Tartan, Gem e Aplomb large. Inoltre, per i due modelli iconici Caboche sospensione e Twiggy terra, si potrà non solo regolare l’intensità della luce, ma anche la sua temperatura: una soluzione che simula la luce naturale del giorno e si adatta alle esigenze personali e ambientali, con l’obiettivo di far incontrare le caratteristiche della luce con i ritmi circadiani dell’essere umano. La luce calda e quella fredda possono essere miscelate e “dimmerate”, in modo da riprodurre i livelli di colore della luce solare durante l’intera giornata. Grazie a un’applicazione powered by Casambi, attivabile e fruibile via bluetooth dal proprio dispositivo smart, sarà possibile rilevare le proprie lampade Foscarini MyLight nelle vicinanze e regolare l’effetto luminoso.
prodotti
Flos La Plus Belle design Philippe Starck
SANTI CALECA
Ledvance
zione, prodotti di illuminazione intelligente e soluzioni Smart Home and Building, una delle più ampie selezioni di lampade LED del settore e sorgenti di illuminazione tradizionali.
foscarini.com
Un elegante specchio ovale da parete, dell’altezza di due metri, con fonte luminosa integrata sul bordo. La sottile cornice d’alluminio è disponibile nelle finiture anodizzato spazzolato –oro, rame– o anodizzato lucidato –bronzo, alluminio naturale–. La luce di La Plus Belle è gestibile dal dimmer a sensore integrato nello specchio. Il sistema di fissaggio a parete permette di appendere lo specchio come un quadro. Il retro dello specchio è fissato al muro tramite un sistema magnetico.
prodotti
Pollice illuminazione FC01 e FC02 design Florencia Costa
flos.com
slamp.com
prodotti sistemi e comandi
Saint Gobain
Foscarini
MARGARETA R. MOEN
sistemi e comandi
illuminazione
MyLight
Grazie a sistemi di controllo dell’intensità e colorazione della luce, Foscarini rende possibile ad ognuno definire
Quadri di luce, sculture luminose da parete a luce indiretta realizzate in ottone lucido. Ogni lampada ha una tiratura limitata, è certificata e numerata. FC02 si caratterizza per sua superficie specchiante. Le lampada da parete o da appoggio sono cablate con attacco E 14 che permette un aggiornamento tecnologico costante nel tempo. Dimensioni: 40x40xh12,5 cm. polliceilluminazione.it
SGG Planitherm® Infinity
Il continuo aumento del costo dell’energia e i conseguenti problemi di sostenibilità ambientale, mettono sotto i
XIII
dossier
illuminazione
riflettori la questione dell’efficienza energetica degli edifici. La riduzione di energia deve essere una priorità così come la garanzia di un comfort termico e visivo. Per i climi più caldi o, comunque, per quegli edifici principalmente esposti a sud e a ovest, le finestre equipaggiate con SGG Planitherm® Infinity –nuovissimo prodotto, a doppio strato di argento, con processo magnetronico sotto vuoto, esclusivamente per il mercato residenziale– sono la soluzione ideale per raggiungere una considerevolissima efficienza energetica riducendo i consumi per il raffrescamento estivo pur mantenendo un’elevata luminosità degli ambienti interni. L’altissima trasmissione luminosa con una TL=72% e il grado di selettività vicino a 1,9 rende SGG Planitherm® Infinity il prodotto di riferimento per tutti i modelli “quattro stagioni”. it.saint-gobain-building-glass.com
prodotti
prodotti
Caimi Brevetti TL design Gio Ponti
Elementi fonoassorbenti tridimensionali a soffitto, realizzati con tecnologia Snowsound originariamente concepiti da Gio Ponti per l’auditorium del TimeLife Building di New York. Nel rispetto del progetto del 1959 sono proposti con o senza luce Led integrata. caimi.com
Caleido
realizzazioni
Shine design James di Marco
Linea Light Group Agemar HQ – Atene (GR) progetto Sparch Architects, progetto illuminotecnico Eleftheria Deko Lighting Design
dei volumi in ogni momento della giornata: obiettivo raggiunto anche grazie ai prodotti Linea Light Group utilizzati. Paseo è un profilo lineare che permette tanti tipi d’illuminazione. In questo progetto, in particolare, per enfatizzare i volumi dell’edificio ed evitare l’effetto abbagliamento, è stato customizzato sia nelle dimensioni che nell’ottica in modo da potersi adattare alla forma irregolare dell’architettura e alle diverse esigenze a livello di potenza. Grazie all’installazione a pavimento e all’ottica asimmetrica a emissione luminosa verso l’alto, l’effetto ottenuto è quello di una luce riflessa che ha evitato una dispersione sia verso l’esterno che verso l’interno e ha diminuito l’inquinamento luminoso. Infine, per la zona del giardino che circonda l’edificio, sono stati scelti i Twig, steli a pavimento dal design minimalista che si adattano a qualsiasi contesto e creano suggestivi effetti di chiaroscuro nella vegetazione. Disponibile in tre altezze (segnapasso, bollard e palo) e due finiture, Twig si caratterizza per una sorgente LED SMD ad alta luminosità, protetta da un diffusore satinato che garantisce una distribuzione luminosa ottimizzata verso il basso, senza dispersioni.
vare gli spazi rendendoli più inclusivi, senza però dimenticare il valore storico di uno dei più importanti teatri al mondo. L’azienda iGuzzini ha fornito gli incassi Laser CoB (con LED Chip on Board) per l’illuminazione delle vetrine in cui sono esposti alcuni costumi di scena, testimoni della gloriosa storia del teatro. In esterni la Royal Opera House Arcade è valorizzata attraverso l’installazione di apparecchi Laser Blade InOut, integrati nell’architettura. Lo spazio conviviale del ristorate interno è illuminato da proiettori Palco su binario Low Voltage che, grazie alle minime dimensioni e alla finitura bianca, si mimetizzano nella meravigliosa struttura in vetro e acciaio risalente al 1858. iguzzini.com
realizzazioni
Fabbian Studio Great Hill Partners – Boston (USA) progetto Gensler Boston
linealight.com
realizzazioni
iGuzzini
caleido.it
XIV
Dossier
L’architettura della nuova sede del Gruppo Anagel –il più grande gruppo marittimo greco–, che occupa una superficie complessiva di 30 mila metri quadrati, è quella di una nave dalle forme curvilinee, con diversi piani e due corpi distinti uniti da ponti sospesi. L’intento dello studio di architettura e del lighting designer è stato quello di ottenere la stessa percezione
JAMES NEWTON
Un elemento radiante composto da una sottile piastra in acciaio verniciato avvolta da una struttura in metacrilato retro illuminata a LED. Disponibile nella versione idraulica o elettrica. Il radiatore Shine è dotato di un’illuminazione regolabile sul retro per distribuire l’intensità della luce.
RICHARD MANDELKORN
Royal Opera House – Londra (UK) progetto Stanton Williams, progetto illuminotecnico Studio Fractal
Dopo tre anni ininterrotti di lavori di ammodernamento, la Royal Opera House, si è aperta al pubblico con nuovi spazi dedicati all’intrattenimento. Il progetto era volto ad ampliare e rinno-
In occasione dei lavori del nuovo headquarters, l’azienda Fabbian è stata incaricata di creare un sistema d’illuminazione d’impatto che potesse impressionare i clienti già dal loro ingresso. Un sistema a griglia sospesa e nascosto, su cui inserire fonti luminose, strutturalmente identico per i due ambienti –Lobby Ascensore e Lobby Ufficio–, ma differente per misure e conseguente numero di luci. Il team italiano ha prodotto vari campioni di vetri e sospensioni come esempi per essere visionati e approvati. Available Light, società di Boston, è stata partner del progetto per tutti gli aspetti tecnici: dal controllo delle fonti luminose ai calcoli illuminotecnici, per garantire il rispetto dei requisiti energetici secondo la necessità complessiva del progetto. fabbian.com
Casalgrande Padana:
la tradizione nell’innovazione — — Sembra che Arnold Schönberg abbia spiegato a Richard Neutra il proprio rifiuto di abitare in una casa moderna, anche se appositamente progettata per lui, con l’impossibilità di trovare artigiani capaci di tagliare il marmo in lastre grandi e sottili come quelle impiegate da Adolf Loos per rivestire le superfici interne delle sue costruzioni. Veritiero o meno sia il fatto (in ogni caso plausibile, stante la diretta conoscenza e l’ammirazione di Schönberg e Neutra per Loos e il suo lavoro), oggi la stessa questione potrebbe essere considerata da un altro punto di vista. Il costante progredire delle tecnologie produttive permette, infatti, di offrire risposte concrete (ed ecologicamente compatibili) alle esigenze del progetto contemporaneo, attraverso l’impiego di lastre ceramiche di grandi dimensioni. Kontinua è una nuova generazione di lastre in grès porcellanato –di grande formato e disponibili anche in spessore sottile– prodotta da Casalgrande Padana per integrare e rinnovare l’offerta del proprio catalogo di ceramiche per l’architettura. Creata a partire da una selezione di prodotti
delle collezioni Marmoker, Pietre di Paragone, Pietre di Sardegna e Cemento, la linea Kontinua affianca alla gamma dei formati standard lastre ceramiche di 60x120, 120x120, 120x240, 120x260 e 160 x 320 cm. Se le grandi dimensioni di Kontinua valorizzano le finiture marmo e pietra delle lastre ceramiche, la bellezza del loro disegno è esaltata da prodotti speciali di Casalgrande Padana come Endmatch –una composizione di quattro lastre di 118x258 cm la cui sequenza consente di apprezzare lo svolgimento continuo delle venature su ampie superfici– e Bookmatch, ove l’accostamento di due lastre di 118x258 cm riproduce l’effetto specchiato dovuto al taglio del materiale. Ultima, ma non meno importante, nella serie delle lastre di grande formato di Casalgrande Padana, la collezione Onici, con sei diverse texture connotate dalla brillantezza del quarzo, i cromatismi cangianti, i riflessi delicati, le sfumature e i chiaroscuri tipici del materiale naturale. Negli interni, il rivestimento con grandi lastre accentua la continuità visiva tra gli ambienti, mentre la
Casalgrande Padana S.p.A. Headquarters via Statale 467, 73 42013 Casalgrande (RE)
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Casalgrande Padana
modularità dei formati (abbinabili con le lastre a spessore tradizionale) moltiplica le combinazioni possibili e le soluzioni integrate –pareti e pavimenti, piani di lavoro e arredi fissi su misura, applicazioni tecniche, facciate ventilate– con un gradiente d’impieghi che spazia dalla dimensione domestica dell’abitazione alle grandi aree pubbliche e commerciali. Infine, Casalgrande Padana ha realizzato una nuova peculiare collezione di lastre in grès porcellanato di grande formato (120x240 cm), utilizzabile sia nelle nuove costruzioni che negli interventi di recupero. Ispirato alle “pareti verdi” che talora avvolgono gli involucri degli edifici, Greentech è un prodotto ecologico anche nello spirito, poiché sfrutta la tecnologia Bios Self Cleaning© per abbattere gli inquinanti presenti nell’aria e decomporre lo sporco che si deposita sulla superficie delle lastre, agevolando così l’azione di pulizia della pioggia. Una volta ancora, cultura del progetto e cultura della produzione collaborano avendo come fine comune l’innovazione.
Creative Centre Roma Casa Baldi via Sirmione, 19 00188 Roma
Creative Centre Milano Foro Buonaparte, 74 20121 Milano casalgrandepadana.it
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1 Marmoker Kontinua Night Storm 118x258 cm e 59x118 cm – Titan White 118x258 cm 2 Marmoker Kontinua Calacatta Extra 118x236 cm – Tangerine 59x118 cm
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3 Marmoker White Musk 120x240 cm 4 Marmoker Night Storm 120x240 cm 5 Marmoker Titan White 120x240 cm 6 Marmoker Caribbean Green 120x240 cm 7 Marmoker Tangerine 120x240 cm 8 Marmoker Fior di Pesco 120x240 cm
9 Marmoker Rosso Francia 120x240 cm 10 Marmoker Calacatta Extra 120x240 cm 11 Marmoker Oyster Grey 120x240 cm 12 Marmoker Brown Forest 120x240 cm 13 Marmoker Orange Black 120x240 cm 14 Marmoker Fior di Pesco 120x240 cm
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OTTOBRE 2019 + ANNUAL BAGNO Il design è in edicola
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C A SAB E LL A
formazione
Casabella e ProViaggi Architettura hanno sviluppato un articolato programma di iniziative per rispondere alla domanda di formazione e agli obblighi di aggiornamento previsti dagli Ordini. Le iniziative si rivolgono a studenti e liberi professionisti. La proposta formativa comprende: viaggi di architettura, visite di cantieri, siti produttivi e mostre, incontri con i protagonisti, lezioni, workshop.
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CASABELL A
formazione report
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vantare un patrimonio diffuso di piccole e medie imprese artigianali, a conduzione familiare, depositarie di saperi, tradizioni e abilità, che vengono da lontano e provano oggi a proiettarsi nel futuro grazie all’entusiasmo, alla creatività e allo spirito d’iniziativa delle generazioni più giovani. Un primo interessante spaccato di queste realtà ha potuto essere presentato al pubblico qualificato di CASABELLAlaboratorio attraverso “Ospite d’Onore”, un ciclo di 4 incontri, svoltosi a Milano presso la sede di via Vigevano 8, tra maggio e giugno di quest’anno. Promossi da Confartigianato Imprese AsoloMontebelluna, sostenuti da EBAV e curati e coordinati da Federica Preto per Fondo Plastico, gli incontri si sono tenuti, con cadenza mono o bisettimanale, su base tematica, legata ai materiali trattati –legno, ferro, pietra e vetro– o alla spinta innovativa impressa dagli imprenditori alla propria attività mediante il ricorso a tecnologia e design. Quindici aziende, prevalentemente venete, ma non solo, hanno potuto così esporre a un parterre di addetti ai lavori le proprie lavorazioni, i propri prodotti, la propria versatilità e maestria nel riuscire a superare e vincere, in ogni circostanza, le difficili sfide estetiche e prestazionali loro proposte da progettisti e committenti. Obiettivo dell’iniziativa: mettere in contatto questa selezionata rassegna di aziende artigiane d’eccellenza con architetti e designer per attivare dialoghi e nuovi scenari creativi.
— Ospite d’onore. Quando l’architettura incontra l’artigianato 16.05.2019 — Il legno. Nuove interpretazioni tra innovazione e tradizione Legnomart (Maser–TV) [1] – De Prà Adriano Caselegno (Guia di Valdobbiadene–TV) [2] – Wood Art Cortina (Cortina d’Ampezzo–BL) [3] 2
23.05.2019 — Artigianato artistico & Design Torresan Travertino Italian Creations (Pieve del Grappa–TV) [4] – STON–Installazioni dolomitiche (Cesiomaggiore–BL) [5] – Benvenuto Mastri Vetrai (Treviso) [6] – Dino Maccini Mosaici (Piacenza) [7] 06.06.2019 — Il ferro. Materiale duttile dalle infinite applicazioni Soffio di Ferro (Cascina–PI) [8] – Fucina Artistica Boranga (Giavera del Montello–TV) [9] – Vazzoler (Carbonera– TV) [10] – Marchea (Trevignano–TV) [11] 20.06.2019 — Innovazione, Tecnologia e Design Fratelli Damian (Colle Umberto–TV) [12] – Diemme (Codognè–TV) [13] – Eugenio Campo (Cappella Maggiore–TV) [14] – ABS Group (Vittorio Veneto–TV) [15]
Partner progetto
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Nell’ambito delle iniziative e degli appuntamenti organizzati da Casabella, insieme a ProViaggi Architettura, per corrispondere alla richiesta di formazione e aggiornamento professionale dei suoi lettori, studenti e architetti, accanto ai “faccia a faccia” con i grandi protagonisti e gli autori emergenti della scena architettonica internazionale, ai seminari tecnici con le aziende che operano nel settore edile a una scala industriale, non poteva mancare uno spazio d’attenzione rivolto a una componente decisiva, ma spesso trascurata, del mondo del progetto e della costruzione personalizzata, ovvero gli artigiani. L’Italia, a tale proposito, è un Paese che può ancora
casabellaformazione.it
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SOMM AR I O
19 9 6 –2 018 I n d I c I n u OvA e d I z I O n e IndIc eS 632–893 new edItIOn I n c O n S u ltA z I O n e e S c l u S I vA S u : AvA I l A b l e f O R R e f e R e n c e O n ly At: c A S A b e l l Aw e b . e u
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dA l M IzI H I lu d I G e RuSA le M M e A lle p I e t R e d e llO J u t l A n d Gt R f G I OvA n n I tO R t e llI RO b e R tO f R A SSO n I A Rc H I t e t t I A SSO c I At I
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l A c I t é d e S é l e c t R I c I e n S , b R uAyl A - b u I S S I è R e , n O R d - pA S - d e - c A l A I S , fR AncIA un MOnuMentO All A MeMORIA d e l l AvO R O elisa boeri
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Mc I n n e S uS H e R Mc k n I G H t A Rc H I t e c t S (MuM A)
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peteR HAll peRfORMInG ARtS centRe, tHe peRSe ScHOOl , cAMbRIdGe, ReGnO unItO I M pA R A R e R e c I tA n d O francesca Serrazanet ti
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SOMMARIO
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un Ic ebeRG peR l A RIc eRcA francesca Serrazanet ti
I l d I R I t tO A ll’I n f e d e ltà : l’A Rc H I t e t t u R A e I l fA R S I d I u n A c I t tà . J O H n wOO d I l v e c c H I O, S tO n e H e n G e e l A c I t tà d I bAt H
e n G lIS H t e X t S enGlISH teXtS
JeSuS cOlleGe, cAMbRIdGe, ReGnO unItO
H AwO R t H tOM pk I n S
b e e c R O f t b u I l d I n G, u n I v e R S I t y O f OX f O R d, OX f O R d, R e G n O u n I t O
francesco dal co
S t O R e y ’S f I e l d c e n t R e e d e d d I n G t O n n u R S e Ry, c A M b R I d G e , ReGnO unItO
n í A ll Mc l Au G H lI n A Rc H I t e c t S
H Aw k I nS \ b ROw n A Rc H I t e c t S
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46—83 c A M b R I d G e vS OX fO R d
n u Ov I S e Rv I z I p e R n u Ov e c O M u n I tà francesca Serrazanet ti
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A A pp – At e lI e R d ’A Rc H I t e c t u R e pH I lI ppe pROS t
R e S tAu R O d e l l O S t O R I c O S l O t f e lt l A d e , M ø G e lt ø n d e R , dA n I M A R c A
a cura di francesca Serrazanet ti
16 G I A n f R A n c O G R I t e ll A e RO b e R tO ROSS e t
u n pA l A z zO e u n p e R c O R S O ARc HeOlOGIcO ReStItuItI All A c I t tà francesca chiorino
pR A k S IS A R k I t e k t e R + S t e f f e n S ø n d e RGA A R d
«l A tR AdIzIOne cOnSISte In u n ’I M p O R tA z I O n e I M p u R A d e l l’O R I G I n A l e » william Mann
t e R R A S A n c tA M u S e u M , GeRuSAleMMe, ISR Aele
d Ov e S I t R OvAvA l A f O R t e z z A dI eROde Manuela castagnara codeluppi
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Dal Mizi Hilu di Gerusalemme alle pietre dello Jutland c A SA bel l A 9 0 2
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Tortelli & Frassoni Terra Sancta Museum, Gerusalemme
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Dove si trovava la fortezza di Erode Manuela Castagnara Codeluppi Gerusalemme è un luogo straniante: la sorprendente stratificazione storica della città, la preziosità e la complessità di simboli sacri per moltitudini di credenti (potenti anche quando appiattiti dall’ideologia) sono elementi che ci proiettano in un “luogo che non c’è”, facendoci sentire inattuali; abbiamo l’impressione di essere catapultati in un tempo nel quale, come per l’aoristo del greco antico, la nostra azione è colta nel momento in cui si svolge ma coniugata assieme al tempo che l’ha preceduta e a quello che la seguirà. È una particolare forma di inattualità che ho già sperimentato a Venezia durante la seconda metà degli anni Settanta quando, guidata da maestri coraggiosi, imparavo a familiarizzare con gli aforismi di Ludwig Wittgenstein e Karl Kraus, o con gli scritti di Walter Benjamin, per comprendere, attraverso il filtro del loro pensiero critico ed “estremo”, quali fossero (o se ci fossero) un compito e un ruolo per l’architetto contemporaneo. Durante i giorni trascorsi a Gerusalemme sono riemerse le pungenti frasi di Adolf Loos, la sua critica del “rapporto turistico col passato” che domina “nella psiche dei ‘nuovi ricchi’ della cultura”, o quanto Le Corbusier scrisse nel 1931 di Ornamento e delitto: «Loos è passato con la scopa sotto i nostri piedi e ha fatto una pulizia omerica, esatta, sia filosofica che lirica» (in Jean-Louis Cohen, Le Corbusier. Tout l’œuvre construit, Flammarion, Parigi 2018). Gli effetti di quella “pulizia omerica” mi sono apparsi qui concreti e attuali, aderenti al privilegio comunicativo che tutti i bravi architetti sanno affidare alle loro creazioni: “La tomba e il monumento” citati da Loos sono per lui “architettura” per il modo convincente e coinvolgente con il quale, alle soglie del XX secolo e ancora oggi, la buona architettura è capace di farci sentire a casa e condurci “altrove”, attraverso il racconto narrato con la sua funzione mediatica e culturale. La pietra calcarea dorata di Gerusalemme
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1 la cisterna bizantina con vista dalla fine del percorso; il frammento marmoreo esposto tra i resti di murature antiche proviene dal complesso ospitaliero crociato dei Cavalieri di San Giovanni the Byzantine cistern with view from the end of the path; the marble fragment on view amidst the ruins of ancient walls comes from the Hospitaller complex of the Order of Saint John
non mente mentre ci racconta la sua storia: nei luoghi che attraversiamo comprendiamo come si siano formate le parti della città, le relazioni tra gli spazi pieni e i vuoti, la preziosa e virtuosa sinergia tra i volumi delle costruzioni ancora presenti e i resti, visibili e non, di quelli scomparsi.
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In alcune carte della città l’area occupata dal Terra Sancta Museum (SBF Archaeological collections) è chiamata la “casa di Erode”, toponomastica che dal Medioevo collocava erroneamente qui il palazzo residenziale di Erode “il Grande”: questo è invece (secondo l’interpretazione avallata anche dagli studiosi francescani) il luogo, ora all’interno del quartiere musulmano, in cui sorgeva la “Fortezza Antonia” costruita da Erode a difesa e controllo del Tempio. Rasa al suolo nel 70 d.C. dalle milizie di Tito durante la Guerra giudaica, la Fortezza venne riconvertita da Adriano in foro pubblico. È qui che nel XIX secolo si insediarono i frati francescani della Custodia di Terra Santa, che da allora conservano i resti della Fortezza (già sede del pretorio di Pilato e di chiese bizantino-crociate), all’interno del “Convento della Flagellazione” annesso allo Studium Biblicum Franciscanum, istituzione scientifica affiliata alla “Pontificia Universitas Antonianum” di Roma, fondata nel 1901, attiva a Gerusalemme dal 1924 e diventata nel 2001 “Facoltà di Scienze Bibliche e Archeologia”. È qui che nel 1902 i frati aprono il primo museo di Gerusalemme (tra i primi del Medio Oriente), esponendo i reperti straordinari provenienti dai luoghi biblici che loro studiano e indagano. L’interpretazione autentica della Bibbia, l’analisi filologica dei testi affiancata dalle campagne di scavo archeologico direttamente condotte, attribuiscono alla comunità francescana di Terra Santa un ruolo importantissimo nel contatto e nel confronto con il resto del mondo e con le altre religioni presenti in città: musulmani, ebrei, cristianoortodossi, armeni, copti.
In questa città, dove ogni dottrina rivendica per sé un privilegio, il ruolo strategico della Comunità dei “custodi di Terra Santa” è confermato e onorato anche dall’ampliamento e dal nuovo allestimento del museo archeologico. L’intervento, affidato alla sensibilità dello studio Tortelli & Frassoni di Brescia, è un progetto sorprendente che definisce un percorso che attraversa volumi chiusi e spazi aperti, esponendo reperti e frammenti databili dal periodo ellenistico sino all’età dei Mamelucchi. In uno spazio museale di circa 1.300 mq (completato per il primo lotto di 600 mq), il nuovo museo offre al visitatore una puntuale ricostruzione delle tracce e dei preziosi reperti raccolti con le campagne di scavo eseguite nei luoghi della vita di Cristo: Betlemme, Nazareth, Cafarnao, Tabgha, Cana, Monte Tabor. Il rimando puntuale tra il sito nel quale ci troviamo e i territori biblici della Galilea e della Giudea è possibile anche grazie alla messa in luce dei resti antichi presenti in situ, integrati nel nuovo allestimento, che hanno reso fruibili importanti brani di architettura, ora inseriti nel percorso di visita. Oltrepassato l’ingresso e superata una cisterna romano-bizantina, proseguiamo lungo un angusto passaggio ipogeo, ricavato tra le pareti “esterne” dell’edificio che ospiterà il secondo lotto del museo (previsto a sud, in uno spazio di circa 700 mq e allestito su due livelli) e la roccia viva, a nord. Al termine del passaggio un piccolo vano ci introduce a una sequenza di antichi locali di epoca crociata tra loro “passanti”, rinvenuti nelle operazioni di scavo volute dagli architetti, all’interno dei quali apparati didattici e bacheche in ferro verniciato e vetro commentano e ospitano reperti del I secolo d.C., rarissimi frammenti delle monumentali architetture erodiane, strumenti e suppellettili di vita quotidiana ebraica contaminati da influenze ellenisticoromane, reperti provenienti dai primi insediamenti monastici del deserto di Giuda. Il progetto enfatizza le diverse tessiture
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murarie utilizzando raggi radenti di luce artificiale, lasciando volutamente in ombra i piccoli ambienti dai quali i reperti emergono con forza dalle vetrine ben illuminate. La visita prosegue in altri vani rimasti inutilizzati per molto tempo e oggi allestiti in modo da farci comprendere, senza soluzione di continuità, che la storia dei frammenti esposti è complementare e sinergica con quella dei luoghi che stiamo attraversando. Ci ritroviamo così immersi in un bagno di luce solare: siamo arrivati in una corte a cielo aperto, ricavata sotto le volte di un trecentesco palazzetto mamelucco, impostato sui resti di un santuario bizantino, che occupa l’estremità nord-est del contesto antico all’interno del quale ci siamo addentrati. Torniamo sui nostri passi e, attraversando altri locali tra loro collegati, dove nuovi reperti attirano la nostra attenzione, incontriamo prima di uscire la seconda cisterna emersa durante la realizzazione dei lavori: una struttura di epoca ellenistica, realizzata a scavo nella roccia. Più questo allestimento riesce a farci apprezzare e comprendere dove siamo e che cosa stiamo vedendo, più forte è l’effetto emotivo che da qui ci trasporta “altrove”, anche grazie alla complicità della Mizi Hilu (la pietra calcarea dorata di Gerusalemme) che ritroviamo ovunque attorno a noi: nei fondali delle vetrine costruite per proteggere ed esporre i reperti, nei muri perimetrali delle architetture che sfioriamo e attraversiamo, nel rustico lastricato da strada che calpestiamo lungo il percorso. Nel primo lotto del museo riaperto è compreso anche uno spazio adiacente all’ingresso, che ospita una sezione multimediale realizzata in collaborazione con la società Tamschik Media+Space di Berlino, responsabile della realizzazione informatica. Un unico grande vano di circa 300 mq, dal quale emergono i resti del lithostrotos, il piano pavimentale del cortile esterno del Praetorium dove Pilato pronunciò la condanna di Cristo.
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2 pianta dell’area del Convento della Flagellazione con l’indicazione dei resti archeologici della Fortezza Antonia, della cisterna “duplice” e del Foro Adrianeo, rilevati da padre Bellarmino Bagatti nel 1958 (Archivio SBF) plan of the area of the Monastery of the Flagellation with indication of the archaeological ruins of the Antonia Fortress, the “double” cistern and Hadrian’s Forum, surveyed by Father Bellarmino Bagatti in 1958 (Archivio SBF) 3 ipotesi planimetrica della Fortezza Antonia secondo la ricostruzione del domenicano Louis-Hugues Vincent nel 1901– 03 sulla scorta della descrizione di Flavio Giuseppe. Le tesi di Vincent sono state in gran parte superate da successivi studi e ritrovamenti archeologici elaborati da parte dei francescani: l’area del museo è evidenziata in rosso (Archivio SBF) planimetric hypothesis of the Antonia Fortress according to the reconstruction by the Domenican monk Louis Hugues Vincent in 1901-03, in keeping with the description of Josephus. The theses of Vincent have to a great extent been surpassed by successive studies and archaeological finds on the part of the Franciscans: the museum area is indicated in red (Archivio SBF) 4 lo schema della città storica di Gerusalemme risalente al 70 d.C. Nel perimetro in rosso è indicata l’area occupata dalla Fortezza Antonia a ridosso della spianata del Tempio. Ricostruzione elaborata dallo studio Tortelli & Frassoni the diagram of the historical city of Jerusalem dating back to 70 AD. In the red perimeter there is the indication of the area occuped by the Antonia Fortress up against the clearing of the Temple. Reconstruction by the studio Tortelli & Frassoni
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5 gli archeologi francescani durante le prime campagne di scavo a Cafarnao alla fine del XIX secolo Franciscan archaeologists during the first campaigns of excavation at Capernaum at the end of the 19th century 6 i primi scavi al Monte Nebo (Siyaga, Giordania), diretti da padre Sylvester Saller, dopo aver individuato nel 1930 il sito della sepoltura di Mosè citato dai testi biblici the first excavations at Mount Nebo (Siyaga, Jordan), directed by Father Sylvester Saller, after having identified in 1930 the site of the tomb of Moses mentioned in biblical texts 7, 8 alcuni tratti del Lithostrotos (già cortile della Fortezza Antonia e Foro di Adriano) ora in parte messi in luce nell’area multimediale: particolare delle lastre in calcare several portions of the Lithostrotos (previously the courtyard of the Antonia Fortress and Hadrian’s Forum), now partially brought to light in the multimedia area: detail of the limestone slabs 9 planimetria del progetto del Terra Sancta Museum, SBF Archaeological Collections. Sezioni trasversali del progetto con evidenza dell’allestimento museografico in relazione agli spazi architettonici ottocenteschi e a quelli ipogei antichi plan of the project of the Terra Sancta Museum, SBF Archaeological Collections. Cross-sections of the project with museum exhibits in relation to the 19th-century architectural spaces and the ancient underground spaces 10 la cisterna romano-bizantina detta “degli archi”, che apre e chiude il percorso di visita del Museo. Due ponti in acciaio verniciato e pietra consentono di attraversare l’invaso d’acqua che filtra dalla roccia the Roman-Byzantine cistern known as “of the arches” which opens and concludes the visit itinerary of the museum; two bridges in painted steel and stone permit crossing of the body of water that filters in from the stone
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Una voce narrante ci accoglie facendo parlare in prima persona, per circa 15 minuti, la città e noi, immersi nello spazio buio, alterniamo l’ascolto del racconto con la visione sincronizzata dei reperti esposti: seguendo l’accensione programmata delle luci all’interno del locale apprendiamo la storia millenaria della città, ripercorrendone le sue tappe principali. Dall’epoca di Erode, della condanna e della passione di Cristo, attraverso il tempo di Adriano e Costantino, Omar, Goffredo di Buglione, Solimano il Magnifico, fino ai pellegrinaggi dei primi secoli della storia cristiana e di oggi. È infatti qui che i pellegrini si preparano al percorso della Via Crucis: è da qui che partono per raggiungere, lungo la via Dolorosa, il Golgota e il Santo Sepolcro. Anche in questa sala le soluzioni adottate con l’allestimento declinano con grande efficacia sia la visione/comprensione dei reperti lapidei sia la simulazione di un loro rinvenimento “casuale” all’interno dell’antico spazio urbano, reso visibile e fruibile all’interno del locale. Padre Eugenio Alliata (archeologo e direttore del Terra Sancta Museum) ci spiega che il progetto complessivo, avviato per ora con questo primo lotto, prevede la creazione di un nuovo polo museale, articolato in due strutture separate: il museo archeologico situato all’interno del “Convento della Flagellazione” e il nuovo museo storico artistico, ospitato nella parte alta della città (nell’attuale quartiere cristiano) all’interno del complesso di San Salvatore, dove ha sede la Custodia di Terra Santa. Il secondo lotto del museo archeologico verrà completato entro il 2020 e nelle nuove sale si prevede di esporre, tra gli altri, i preziosi reperti provenienti dal Santo Sepolcro, ora al Getsemani, come le colonne e i capitelli originari dell’Anastasis, fatta erigere da Costantino, e i rilievi marmorei di epoca crociata.
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Terra Sancta Museum, Gerusalemme Gli edifici francescani della Custodia di Terra Santa ospitano il primo museo al mondo sulle radici del cristianesimo e la conservazione dei Luoghi Santi, composto da tre sezioni: archeologica, multimediale (in realizzazione presso il Convento della Flagellazione, qui descritte) e storica (in progetto presso il Convento di San Salvatore). scheda del progetto progetto architettonico e museografico GTRF Giovanni Tortelli Roberto Frassoni Architetti Associati direzione lavori Giovanni Tortelli con Alessandro Polo UT Custodia di Terrasanta direzione scientifica Studium Biblicum Franciscanum Padre Eugenio Alliata con G. Allevi, D. Massara, D. Bianchi committente Custodia di Terrasanta cronologia 2013–15: progetto 2018: realizzazione primo lotto 2020: ultimazione secondo lotto dati dimensionali 1.600 mq superficie totale localizzazione Convento della Flagellazione, Gerusalemme, Israele
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fotografie Vaclav Sedy
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11 l’atrio vetrato che immette nella piccola corte a cielo aperto del palazzetto mamelucco the glass atrium leading to the small open-air courtyard of the Mamluk Palace 12, 13 la corte inferiore vista dal portico e lo scorcio verso la facciata superiore del palazzetto trecentesco mamelucco restaurato da Antonio Barluzzi negli anni Trenta the lower courtyard seen from the portico and the view towards the upper facade of the 14th-century Mamluk Palace restored by Antonio Barluzzi in the 1930s 14 gli affacci delle sale espositive e dei depositi sulla corte, in prossimità della bocca di una cisterna ricavata dalla base marmorea di una colonna the exhibition rooms and the storerooms face the courtyard, near the mouth of a cistern made from the marble base of a column 15–17 in sequenza alcuni degli ambienti antichi ipogei recuperati con l’allestimento, all’interno dei quali sono stati esposti frammenti architettonici erodiani e reperti del periodo di Cristo in sequence, some of the ancient underground spaces recovered with the installaton, inside which Herodian architectural fragments are displayed, and relics from the time of Christ 18 alcuni particolari delle sale interne: in primo piano i frammenti di un’iscrizione in lingua samaritana antica e un capitello del VI secolo dal memoriale di Mosè, sul Monte Nebo details of the internal rooms: in the foreground, fragments of an inscription in the ancient Samaritan language and a capital from the 6th century from the Moses memorial on Mount Nebo
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19 il backstage degli interventi architettonici e museografici verso l’uscita, prima di riattraversare il ponte sulla cisterna “degli archi” the backstage of the architectural and museum interventions towards the exit, prior to crossing the bridge of the cistern “of the arches” 20 la sequenza dei varchi in breccia della cisterna ellenistica the sequence of openings of the Hellenistic cistern 21, 22 la stretta passerella in acciaio sulla cisterna di epoca ellenistica, con il piano pavimentale in rustici binderi di pietra Mizi Hilu the narrow steel walkway over the Hellenistic cistern, with pavement in rustic blocks of Mizi Hilu stone
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23 lo stretto passaggio tra l’ediďŹ cio ottocentesco in pietra, progettato da Wendelin von Menden (che ospiterĂ il secondo lotto del museo) e i resti di murature romano-bizantine recuperate durante i lavori di restauro architettonico the narrow passage between the 19th-century stone building designed by Wendelin von Menden (which will contain the second segment of the museum) and the remains of RomanByzantine masonry recovered during the architectural restoration
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24 il museo multimediale con gli importanti reperti erodiani del sito, tra cui due frammenti di volta della porta della Fortezza Antonia e i proiettili di balista dell’assedio di Tito the multimedia museum with the important Herodian finds of the site, including two vault fragments of the gate of the Antonia Fortress ballistic projectiles from the siege of Titus 25, 26 il museo multimediale con in primo piano la roccia sulla quale si fonda l’edificio ottocentesco impostato sui resti della Fortezza Antonia the multimedia museum with the rock of the foundation of the 19thcentury building, set on the remains of the Antonia Fortress, in the foreground
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Gritella e Rosset Restauro e trasformazione di Palazzo Lostan, Aosta
Un palazzo e un percorso archeologico restituiti alla città Francesca Chiorino Il progetto di recupero e riutilizzo di Palazzo Lostan ad Aosta, una residenza signorile edificata dalla famiglia Lostan tra il XIII e XIV secolo, risulta collocato in un’area cruciale per la città già dai tempi di Augusta Praetoria. Le prime strutture del palazzo, nello specifico il corpo e la torre ovest, hanno trovato fondamento sullo stilobate del portico forense dell’antica città romana, di cui rimane oggi visibile il primo livello di posa nel piano interrato dell’edificio. Il complesso si sviluppa già a partire dal XIII secolo all’interno dell’area 1
delle botteghe e della platea del Foro e nel 1529 diventa residenza nobiliare di pregio che accoglie il balivo di Aosta, Mathieu de Lostan. L’edificio conserva particolari architettonici significativi come il portale lapideo d’ingresso alla torre ovest, le bifore crociate in pietra che si aprono sul fronte della manica sud, i numerosi solai lignei del piano nobile e il loggiato su tre livelli che caratterizza la facciata della manica nord. Nel corso del tempo il palazzo ha subito frequenti interventi e rimaneggiamenti. Alla data della completa acquisizione da parte della Regione Valle d’Aosta si presentava in profondo degrado a causa dell’abbandono di alcune parti e all’uso non consono di altre. Il progetto di rifunzionalizzazione del palazzo a sede degli uffici e degli archivi della Soprintendenza Regionale ha cercato di limitare al massimo gli interventi, facendo uso di procedimenti e materiali compatibili con
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1 disegno schematico di Augusta Praetoria pubblicato sul volume, uscito nel 1943, che raccoglie le proposte progettuali per la Valle d’Aosta, sotto la direzione generale di Adriano Olivetti con il contributo, tra gli altri, di BBPR e Figini Pollini. In alto a sinistra l’Area Sacra circondata dal criptoportico, a sud del quale si colloca l’intervento su Palazzo Lostan schematic drawing of Augusta Praetoria published in the volume from 1943 that contains the design proposals for Valle d’Aosta, under the general direction of Adriano Olivetti with the contribution, among others, of BBPR and Figini & Pollini. Upper left, the Sacred Area surrounded by the Cryptoporticus, to the south of which there is the intervention on Palazzo Lostan 2 la piazza adiacente a Palazzo Lostan prevede un percorso con affaccio sui resti del Foro the piazza adjacent to Palazzo Lostan calls for a path facing the remains of the Forum
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3 veduta dalla piazza verso palazzo Lostan, oggi sede della Soprintendenza Regionale view from the piazza towards Palazzo Lostan, now housing the Regional Superintendency 4 il passaggio che in futuro connetterà la piazza al Criptoportico Forense the passage that in the future will connect the piazza to the Forensic Cryptoporticus 5 veduta del Criptoportico Forense view of the Forensic Cryptoporticus 6, 7, 8 foto storiche degli scavi archeologici del Foro verso la Cattedrale di Aosta period photographs of the archaeological excavation of the Forum towards the Cathedral of Aosta
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le finalità della conservazione. La richiesta di numerosi spazi operativi e di un’area archivi di circa 600 mq ha portato al recupero dell’area sottotetto della manica nord e alla realizzazione di nuovi locali interrati al di sotto della corte centrale. La logica progettuale e realizzativa degli interventi di Gianfranco Gritella e Roberto Rosset −architetti con diversi progetti di rifunzionalizzazione e restauro all’attivo, come la Mole Antonelliana riconvertita a Museo Nazionale del Cinema a Torino, dell’architetto torinese Gritella, e il recente recupero della Tour du Baillage in sede dell’Istituto Musicale di Aosta dell’architetto valdostano Rosset (si veda «Casabella» n. 839-840, luglio-agosto 2014)− ha
soluzioni che riducono gli interventi diretti sull’opera antica. Contestualmente al recupero del complesso è stata realizzata la sistemazione della piazza adiacente, Piazza Caveri, e sono stati rivisti alcuni percorsi pedonali, migliorandone la fruizione e i collegamenti. La corte interna di Palazzo Lostan è stata concepita come spazio di connessione tra parti di città, consentendo il passaggio dei cittadini. L’intento del progetto è stato dunque quello di restituire il legame percettivo, culturale e funzionale dell’edificio con il suo intorno urbano, all’interno di un programma culturale che ha permesso ai cittadini di riappropriarsi degli spazi del palazzo che era stato quasi dimenticato. In quest’ottica, il progetto della 5 piazza prevede una riconfigurazione complessiva dello spazio esistente, consentendone l’attraversamento, oltre alla quota della città di oggi, anche alla quota della città romana, valorizzando quindi il livello archeologico. I lavori hanno creato un “solco verde” attraverso uno sbancamento del terreno, condotto in parte con modalità di scavo archeologico, il quale ha portato alla luce ulteriori tracce del puntato al recupero dei caratteri architettonici e Foro romano. Il percorso alla quota archeologica, artistici dell’edificio. Le esigenze di conservazione realizzato su una passerella pedonale a sbalzo, e valorizzazione hanno costantemente dialogato si sviluppa lungo l’allineamento dei resti del con la realizzazione di nuovi spazi operativi porticato antistante le botteghe dell’antico Foro, risolti con linguaggio contemporaneo e senza scoperta relativamente recente se si considera mai perdere di vista la scala urbana. che gli scavi hanno avuto un particolare impulso Le nuove strutture sono state realizzate all’inizio del Novecento, con il restauro a opera prevalentemente con carpenteria metallica del noto egittologo Ernesto Schiaparelli (1856– e lignea, riducendo al minimo gli interventi 1928). A nord il percorso termina oggi davanti in cemento armato, che è stato utilizzato per a una schermatura in vetro, mentre in futuro, realizzare la “scatola” che ospita gli archivi completando un breve tratto di scavi archeologici, interrati. Ciò ha consentito vantaggi sia dal sarà possibile raggiungere direttamente l’area punto di vista tecnico-economico, grazie alla del criptoportico, costituita da un’imponente prefabbricazione e al montaggio, sia in termini struttura seminterrata a pianta rettangolare di architettonici, per l’impatto meno invasivo circa 90 x 70 metri, articolata in tre bracci disposti e per la maggiore reversibilità degli interventi. a ferro di cavallo e internamente divisi in due I sistemi di fissaggio e di vincolo tra le nuove navate voltate a botte, opera monumentale opere e le strutture murarie esistenti sono di epoca romana di grande suggestione, già dunque avvenute, per quanto possibile, da tempo visitabile e di cui questo progetto mediante innesti di tipo puntuale, adottando aumenterà la fruizione.
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9 piante dei piani terra, primo, secondo, terzo, quarto e sezioni A-A e B-B. Legenda 1 ingresso 2 locali di visita archeologica 3 portineria 4 segreteria 5 ufficio 6 sala riunioni 7 locali tecnici 8 archivio 9 servizi 10 deposito 11 loggiati 12 collegamenti verticali 13 vuoto sul terzo piano 14 scala storica plans of the ground, first, second, third and fourth floors, sections A-A and B-B. Legend 1 entrance 2 spaces for the archaelogical visit 3 concierge 4 secretary 5 office 6 meeting room 7 technical spaces 8 archive 9 services 10 storage 11 loggias 12 vertical access 13 void on third floor 14 historic staircase 10, 11 le corti centrale e laterale di Palazzo Lostan central and lateral courtyards of Palazzo Lostan 12 passaggio tra le corti di Palazzo Lostan con alcuni dettagli lapidei di pregio sulla facciata al fondo passage betweem the courtyards of Palazzo Lostan with fine stone details on the facade 13 il loggiato di distribuzione del piano terra con la nuova pavimentazione circulation loggia of the ground floor with the new flooring
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14, 15 al piano interrato le tracce romane sono rese visibili in the basement, traces of the Romans have been made visible 16, 17 distribuzioni verticali originali original vertical accesses 18 veduta del serramento che permette di apprezzare le bifore sulla facciata laterale view of the frame that permits opening of the double windows on the lateral facade 19 una bifora a double window 20, 21 fascia decorativa e particolare parietale decorative band and wall detail 22 la torre ovest permette di apprezzare diversi scorci sulla città di Aosta the west tower offers different views of the city of Aosta 23 il loggiato al piano superiore con la pavimentazione preesistente the loggia on the upper level with existing flooring 24 la sala aulica con i solai lignei e le fasce decorative the aulic hall with the wooden ceilings and decorative bands 25 la nuova scala in carpenteria metallica e legno massello di rovere the new staircase in metalwork and solid oak 26 le partizioni in vetro del soppalco degli uffici al quarto piano the glass partitions of the loft of the offices on the fourth floor
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Philippe Prost Un monumento alla memoria del lavoro Elisa Boeri
La Cité des Électriciens, Bruay-laBuissière, Francia «Restava solo l’incessante soffiare della pompa, il respiro grosso e lungo di un orco perennemente affamato, di cui ora riconosceva il soffio di vapore grigio. [...] Non sapeva perché ma voleva ridiscendere nella miniera per soffrire e combattere. Pensava con rabbia alla gente di cui gli aveva parlato Bonnemort, a quel dio sazio e accovacciato al quale diecimila affamati, senza conoscerlo, offrivano la propria carne». (Émile Zola, Germinale, 1885)
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Distante 30 km da Lens e 60 km da Lille, Bruay-la-Buissière, l’area su cui sorge il piccolo borgo della Cité des Électriciens, ha evidenziato negli ultimi anni un impegno crescente per rinnovare la memoria della regione Nord-Pasde-Calais, un territorio che, tra Ottocento e Novecento, è stato uno degli scenari più importanti dello sviluppo industriale francese. «Casabella» ha raccontato quest’area e la sua rinascita architettonica ed economica, che sfiora le Fiandre per approdare sulle spiagge dell’“epopea portuale” di Dunkerque, attraverso le opere di architetti contemporanei come Lacaton & Vassal (n. 847, marzo 2015), Sanaa (n. 823, marzo 2013), Pierre-Louis Faloci (n. 847 e 855, novembre 2015), senza tralasciare le distese silenziose dei cimiteri militari francesi disegnati da Sir Edwin Lutyens (675, febbraio 2000) e l’abbraccio commosso, appena sollevato dal suolo, del memoriale di Notre-Dame-de-Lorette di Philippe Prost (n. 844, dicembre 2014). La Cité des Électriciens, inizialmente conosciuta come Cité n. 2 per la vicinanza al pozzo minerario o “fosse n. 2”, viene costruita dalla “Compagnie des mines de Bruay” tra il 1856 e il 1861. Il piccolo villaggio, edificato per ospitare le famiglie dei minatori impegnati all’interno del bacino minerario dell’area compresa tra Béthune e Bruay-la-Buissière, è divenuto nel 2012 uno dei primi cinque siti-pilota iscritti nella lista dei beni del patrimonio Unesco (con Loos-en-Gohelle, Oignies, Wallers e Lewarde) a potersi fregiare del titolo di “Paysage culturel évolutif vivant” per la sua funzione archetipa di città mineraria del XIX secolo. Un anno dopo, nel 2013, la “Communauté d’agglomération de Béthune-Bruay” lancia un concorso di progettazione volto a immaginare il futuro prossimo di questo territorio, vinto dall’Atelier d’Architecture Philippe Prost con sede a Parigi.
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1 veduta dei carins e degli edifici residenziali view of the carins and the residential buildings CITÉ DES ÉLECTRICIENS
2, 3 fotografie d’epoca dei barreaux period photographs of the barreaux 4 stato di fatto della Cité des Électriciens prima dell’intervento di recupero condition of the Cité des Électriciens prior to the renovation project 5 carta territoriale della prima metà del XIX secolo territorial map from the first half of the 19th century 6 il paesaggio minerario della regione Nord-Pas-de-Calais the mining landscape of the Nord-Pas-de-Calais region
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Ma la Cité, raggiungibile con un breve tragitto dalla stazione ferroviaria di Béthune, è testimonianza di un passato che gli abitanti del territorio hanno spesso tentato di dimenticare. Per farlo, l’urbanizzazione diffusa ha quasi cancellato quell’assetto urbano rigoroso e geometrico che i primi quartieri operai della seconda metà dell’Ottocento avevano imposto alla zona. Lasciata Béthune e imboccata la rettilinea Rue de la République, l’urbanistica sfrangiata di un recente quartiere industriale accoglie il visitatore. Ma bastano poche centinaia di metri per lasciarsi alle spalle i capannoni e ritrovare centinaia di casette in mattoni rossi e finestre bianche, disposte in fila lungo la strada principale come una lunga processione verso il cuore industriale della storia del luogo, la Cité des Électriciens. Essa delimita a nord un paesaggio fatto di piccoli boschi e distese di terra scura, definito da un confine preciso: una lingua di terra nera, lunga 120 km e larga 12, su cui hanno marciato i lavoratori in sciopero durante la prima rivoluzione industriale, sublimata nella grande mobilitazione di Anzin nel 1884. Un anno dopo, Émile Zola dipinge a parole l’inquietudine, la rabbia e la fatica di quelle giornate, racchiuse nelle pagine del suo Germinale, in cui i terreni brulli che fanno da sfondo ai pozzi di estrazione di carbone e alle vicende umane di chi, nei villaggi, rimane in attesa, sono legati tra loro da notti “buie e dense come inchiostro”.
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Durante la Grande Guerra, tra l’ottobre del 1914 e il 1918, mentre tre quarti dei giacimenti di carbone della regione sono occupati dall’esercito francese e dagli alleati, 103 pozzi d’estrazione e i relativi villaggi vengono distrutti dagli attacchi tedeschi e le bombe cadono sul territorio dato in concessione alla Compagnia di Bruay. Tuttavia, l’estrazione del carbone non si arresta e la ricostruzione porta ingenti rinnovamenti nella scelta dei materiali utilizzati, tanto nella
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costruzione delle fabbriche quanto delle nuove città-giardino, edificate per padiglioni isolati. L’uso del cemento armato e il passaggio dal vapore all’elettricità come forza motrice, con le centrali elettriche che iniziano a modificare profondamente il paesaggio circostante, accanto all’adozione, tra il 1920 e il 1930, del martello pneumatico ad aria compressa per la meccanizzazione e velocizzazione delle operazioni di scavo, sono i fattori principali che vedono il territorio coinvolto in un periodo di crescita demografica esponenziale. I minatori, provenienti soprattutto dalla Polonia, dall’Italia e dal Belgio, sono alloggiati con le famiglie presso le Cités pavillonaires che sorgono in prossimità delle gallerie di estrazione: nel 1931 il dipartimento del NordPas-de-Calais ospita l’88% del totale delle abitazioni per minatori della nazione. Ma i terrils, le nere colline artificiali che disegnano la geografia, generatesi per accumulo dei residui d’estrazione, sono anche, per gli abitanti del Nord, la memoria visiva di un declino lungo trent’anni, che dal 1990 ha visto esaurire definitivamente la produzione di carbone nella regione e il progressivo abbandono di gran parte delle Cités minières. Eppure, nonostante due guerre mondiali, la Cité des Électriciens di Bruay-la-Buissière, così rinominata a partire dalle sue strade interne intitolate ai grandi uomini di scienza legati alla scoperta dell’elettricità, nel tempo non ha subito sostanziali modifiche del nucleo architettonico originario. Il progetto di riqualificazione di Philippe Prost, appena inaugurato, ha interessato l’intero agglomerato urbano, dove troviamo sette edifici abitativi in linea disposti su due livelli, detti barreaux, contenenti piccoli appartamenti mono-orientati. Ai blocchi residenziali, di cui cinque paralleli all’asse principale e due a esso perpendicolari, fanno da contrappunto i carins, appezzamenti di terreno destinati a ogni famiglia, coltivati a orto o contenenti piccoli
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7–10 gli edifici abitativi, i carins e gli orti comuni residential buildings, the carins and the common gardens 11 pianta d’insieme del piano terra e rilievo dei prospetti degli edifici esistenti overall plan of the ground floor and survey of the elevations of the existing buildings
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A questi si aggiungono poi i due spazi museografici dedicati al nuovo “Centro d’interpretazione dell’habitat e del paesaggio minerario”, suddiviso tra il recupero architettonico del barreau central e un nuovo edificio, progettato dall’Atelier di Philippe Prost sul sedime di uno dei due grandi capannoni costruiti nel 1910 per ospitare le famiglie di rifugiati della Grande Guerra, poi demoliti nella seconda metà del XX secolo.
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Ed è proprio tra la nuova costruzione e la memoria storica del luogo che si inserisce il lavoro di Philippe Prost: un progetto colto e misurato dove ogni dettaglio è frutto di un processo di studio e ricerca in sede di cantiere. Le tracce rilevate sui mattoni in cotto a vista delle abitazioni sono dunque servite per stabilire la scala cromatica della Cité e del nuovo padiglione museale, così come un fine lavoro di regesto e analisi è stato effettuato a partire dalle pavimentazioni, dai caminetti e dalle carte da parati che ricoprivano gli interni delle abitazioni, oggi accorpate a due a due e trasformate in residenze d’artista e piccoli cottage. Accanto a questa nuova funzione, stabilita per rispondere alle esigenze di un territorio che si prepara ad abbracciare la propria vocazione turistica, la committenza ha voluto mantenere, almeno in parte, la funzione originaria dei barreaux, adibendone tre a residenze sociali contemporanee.
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Nelle trasformazioni da abitazioni operaie a residenze per artisti, Philippe Prost ha voluto preservare il più possibile la forma e la struttura degli edifici originari, evitando inserimenti e prediligendo innesti invisibili che vanno ad agire sulle qualità energetiche dei nuovi materiali. Così, per permettere l’ingresso di luce e aria lungo le pareti esposte a nord, i muri si smaterializzano tramite feritoie in mattoni,
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annessi in muratura quali pollai, conigliere, lavanderie o latrine, oggi interamente ripensati attraverso nuove funzioni ricettive.
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12, 13 viste del nuovo “Centro d’interpretazione dell’habitat e del paesaggio minerario” views of the new “Center of interpretation of the habitat and the mining landscape” 14, 15, 16 studio e ricostituzione della tessitura muraria study and reconstitution of the masonry texture
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finemente lavorate per riprendere la trama originaria utilizzata nelle architetture rurali della regione, mentre il comfort interno delle abitazioni è assicurato dal Métisse, un nuovo pannello isolante prodotto a partire dal riciclaggio dei jeans. Inoltre, la collaborazione tra l’Atelier d’Architecture Philippe Prost e l’Agénce FORR, lo studio di architettura del paesaggio che si è occupato della sistemazione a verde del progetto, ha prodotto un esito più che rimarchevole. Le aree esterne delle abitazioni, adibite a orti e giardini coltivati, sono state ricostituite grazie ai risultati delle analisi effettuate sulle tracce rilevate nel terreno. Con circa 1.000 mq di spazio liberamente accessibile, l’architettura ordinaria della Cité dialoga con il nuovo inserimento pensato da Philippe Prost. Storia e memoria si fondono nei due edifici adibiti a spazio museale, uno restaurato –il volume al centro della planimetria– e uno ex novo. Il nuovo edificio, una lunga linea del tempo che racconta le variazioni storiche e urbanistiche del paysage minier tra XVIII e XX secolo, è leggermente distanziato dai corpi abitativi e funge da luogo d’accoglienza per il visitatore. L’elemento, inserito in un luogo altamente significativo per gli abitanti, si apre su due differenti punti di vista altrettanto eloquenti: da una parte i terrils che delimitano la zona delle miniere di carbone, dall’altra la Cité e i luoghi della vita comunitaria, di cui riprende, in pianta e in altezza, le misure dei barreaux tradizionali. La classica forma a doppia falda delle stecche abitative è qui reinterpretata in chiave contemporanea e trasformata in un monolito rivestito da una dura pelle esterna, quasi un carapace di tegole artigianali verniciate di rosso cangiante e prodotte su misura, che avvolgono l’edificio su ogni lato. Le partiture portanti delle abitazioni contigue sono poi “svuotate”, per divenire
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profondi tagli terra-cielo che ritmano l’interno del museo facendo entrare luce naturale lungo il prospetto principale e attraverso la struttura sottostante in legno e metallo. Infine, le proporzioni dei materiali utilizzati nella nuova costruzione sono quasi esattamente ribaltate: se gli edifici storici sono costituiti per circa il 77% di mattoni in cotto e solo per il 10% di legno, riservato alle coperture e alle opere secondarie, il nuovo Centro d’interpretazione è costituito per il 70% dalla struttura lignea, mentre il rivestimento in terracotta smaltata costituisce meno del 10% del volume totale. Combinando restauro e nuovi materiali, il progetto dell’Atelier d’Architecture Philippe Prost apre a un modo coerente di intendere il progetto di riqualificazione, che rivendica l’importanza dell’analisi delle tecniche di costruzione tradizionali e della ricerca storica, punto di avvio irrinunciabile per il restauro dell’esistente. La riqualificazione della Cité rientra in un progetto di più grande respiro, che da alcuni anni investe l’intero bacino minerario del Nord-Pas-de-Calais e di cui la costruzione del Louvre di Lens ha costituito l’operazione più lungimirante. Ma Prost ha saputo confermare, con la Cité des Électriciens, quella sensibilità sottile e solidissima verso la memoria dei luoghi e dei suoi abitanti, senza la quale anche la committenza più illuminata faticherebbe a trovare un utile approdo. La sensibilità di leggere la storia come materiale progettuale è la cifra a cui da alcuni anni ci ha abituato l’architetto parigino, a partire dagli studi giovanili su Vauban e l’architettura militare, passando per il difficile tema del memoriale di guerra di Notre-Dame-de-Lorette. Fare della costruzione, intesa quale espressione più vera della cultura dei luoghi, un mezzo di trasmissione della conoscenza, è il fine ultimo a cui tende felicemente tutta la sua opera.
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17 vista interna del nuovo “Centro d’interpretazione dell’habitat e del paesaggio minerario” interior view of the new “Center of interpretation of the habitat and the mining landscape”
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18 planimetria e viste assonometriche della struttura lignea plan and axonometric views of the wooden structure 19 la vetrata affacciata sulla Cité the window facing the Cité 20, 21, 22 viste interne dell’allestimento museale interior views of the museum exhibits
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Praksis + Steffen Søndergaard Restauro dello storico Slotfeltlade, Møgeltønder, Danimarca
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«La tradizione consiste in un’importazione impura dell’originale» William Mann Qui nello Jutland meridionale, la Danimarca sfuma impercettibilmente nella Germania e la distesa di terra si fonde con l’orizzonte del mare. Come in un acquerello di Emil Nolde, il cielo si illumina di bagliori rossastri. Rispetto alla fugacità di colori mutevoli e linee mobili e all’impermanenza di limo e giunchi, la qualità ostinatamente minerale della strada principale di Møgeltønder è sorprendente. Le pietre grezze smussate che coprono la strada ci riportano indietro di secoli se non millenni, all’erosione della massa continentale e alla costruzione di una società. Qui, dove le calotte di ghiaccio cominciarono a ritirarsi, i graniti delle vette nordiche si mescolano in un gioco di rossi, marroni, viola e blu. Riuniti a migliaia, i ciottoli definiscono l’asse principale della cittadina medievale, tra la chiesa e la casa del vescovo (oggi una residenza reale). Al margine dell’insediamento, sopra una piccola altura, c’è un grande fienile con il tetto leggermente a cupola. Simile a una barca capovolta, si erge isolato ma maestoso sul paesaggio, quasi fosse stato costruito da un vichingo che dopo aver solcato i mari aveva cominciato ad arare la terra. Ha un aspetto familiare: ricorda le grandi case coloniche e i fienili della Frisia e dello Schleswig; è in sintonia con il sito, ne fa parte. Quando lo si raggiunge dai campi, si incontra uno stretto sentiero di pietra che arriva fino al centro della facciata per poi allargarsi a formare una zattera rettangolare di pietre grezze da cui si alza un basamento di laterizi rosso violacei. Questo muro è punteggiato alla base da grandi blocchi di pietra e sormontato da un tetto di paglia morbido e spigoloso al tempo stesso. Da qui si entra in un grande volume buio, rischiarato dalla luce soffusa delle finestrelle ricavate nella parete bassa e dalle lampade collocate lungo la linea di colmo. Le travi ricurve scandiscono ritmicamente i trenta metri di lunghezza, mentre la volta è ulteriormente
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2–5 immagini degli esterni, con in evidenza il grande tetto in paglia che contrasta con il territorio pianeggiante fatto di vasti campi verdi images of the exterior, showing the large thatched roof that forms a contrast with the flat terrain composed of vast green fields
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1 nella pagina precedente un’immagine di dettaglio del prospetto sud del grande fienile. Il lungo accesso simmetrico da nord nobilita ulteriormente l’edificio on the previous page, detail image of the south elevation of the large barn. The long symmetrical access from north further enhances the building
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segnata da assicelle orizzontali, da cui pende la copertura di paglia, e da sottili fili dorati di erba palustre. Il pavimento è una superficie levigata e lucida, screziata di rosso, marrone, oro e grigio. Tre scatole di vetroresina nera –piccole stanze o grandi elementi di arredo– vengono usate per proiettare documentari sulla cultura e l’ecologia dell’area, inclusi gli ologrammi di due corni d’oro del V secolo rinvenuti nelle vicinanze e poi perduti. È questa la nuova funzione del fienile: informare i turisti e ospitare eventi. Il restauro e la riconversione hanno elevato il fienile da uno stato di abbandono a uno di prestigio. La necessità di un profondo intervento di riparazione del vecchio edificio si è resa evidente quando è stato rilevato il degrado sostanziale delle travi sottostanti il tetto moderno in lamiera ondulata. Il progetto di riconversione in struttura aperta al pubblico rientrava nell’ambito di un più ampio programma riguardante il castello di Schackenborg, parzialmente finanziato dalla fondazione Realdania. Il restauro, diretto dall’architetto Steffen Søndergaard, è stato esemplare in termini di attenzione chirurgica e di maestria esecutiva. L’edificio è stato restaurato a partire dalle nuove fondamenta in calcestruzzo su cui sono stati riposati i plinti; anche i muri di laterizi sono stati demoliti e ricostruiti. Inoltre, si è provveduto ad aggiungere del legno nuovo alle estremità degradate delle travi ricurve. Il paesaggio e l’interno dell’edificio tradiscono l’azione di due impulsi contrastanti: la volontà di restaurare e quella di trasformare. La berma semicircolare, lo stretto sentiero che porta al centro del fienile e, soprattutto, la demolizione di un secondo granaio di mattoni che si trovava accanto all’edificio rinnovato sono interventi che isolano e nobilitano l’umile fienile, aggiungendo un che di sacro all’esperienza. Conferiscono all’ambiente un senso seducente ma forse ingannevole di atemporalità; sublimano la perfezione formale dell’artefatto spogliato dell’originale destinazione d’uso, agricolo: un effetto incantevole e romantico.
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6–13 alcune immagini documentano le diverse fasi di smontaggio e ripulitura delle strutture portanti images documenting the various phases of dismantling and cleaning of the load-bearing structures
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14–20 le immagini raccontano l’attento lavoro di restauro diretto dall’architetto Steffen Søndergaard aiutato dalla paziente opera di ricerca e posa delle pavimentazioni portato avanti da Peter Bendsen, che ha eseguito l’intervento the images narrate the painstaking restoration work supervised by the architect Steffen Søndergaard aided by the patient work of research and installation of the floor conducted by Peter Bendsen 19
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21 piante e prospetti di progetto con in evidenza i volumi di servizio. Una sezione di dettaglio del grande fienile. Legenda 1 tetto di paglia fissato con corda spessa alla sottostruttura in listelli di legno 2 travi di assi di legno imbullonate posate su grandi basi di pietre di campo 3 muro in mattoni 4 grandi scatole mobili costruite in fibra di vetro nera 5 basamento delle capriate in pietre di campo naturale 6 pavimento a terrazzo con finitura a olio 7 fondazione in cemento con sistema di riscaldamento a pavimento 8 bordo interno a terrazzo con piccole pietre di campo incastonate nella ghiaia sciolta plans and elevations of the project showing the service volumes. Detail section of the large barn. Legend 1 thatched roof attached with thick rope to the substructure of wooden strips 2 beams made with bolted wood boards placed on large fieldstone bases 3 brick wall 4 large mobile boxes in black fiberglass 5 truss bases in natural fieldstone 6 terrazzo floor with oil finish 7 concrete foundation with under-floor heating system 8 interior terrazzo border with small fieldstones set into loose gravel
Perché il fienile non è un archetipo senza tempo con antiche radici locali, bensì un esempio affascinante di migrazione da una cultura a un’altra di una serie di innovazioni tecniche. A quanto pare, il fienile Slotfelt fu costruito nel periodo in cui questo territorio passò dal controllo danese a quello tedesco durante la seconda guerra dello Schleswig del 1864, anche se non è chiaro se la costruzione sia avvenuta prima o dopo questo cambiamento. Osservando attentamente l’edificio si nota che le travi sono in legno lamellare a cinque strati e sono composte di elementi relativamente corti inchiodati insieme a formare lunghe sezioni arcuate. Questa tecnica costruttiva fu adottata in Francia e in Germania tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, fu divulgata da David Gilly, cofondatore della Berliner Bauakademie e utilizzata in un certo numero di progetti da Christian Frederik Hansen, attivo ad Altona e poi a Copenaghen. Il cosiddetto toit en carène (tetto a carena) o Bohlendach era caldeggiato dalla cultura dell’Illuminismo per la sua economia di mezzi: lo spazio rimaneva libero da capriate e catene e si aveva l’opportunità di usare il legno in modo efficiente, per di più impiegando elementi di piccole dimensioni anziché travi massicce. Di conseguenza, il fienile Slotfelt non ha solo una discendenza ambigua, ma è anche una forma moderna, generata da una cultura architettonica progressista. Per citare Alvaro Siza: «La tradizione consiste in un’importazione impura di originali». L’ibridismo culturale e la modernità del fienile sono sottolineati e intensificati dagli interventi eseguiti all’interno da Praksis Arkitekter. Il terrazzo alla veneziana grigio, composto con grandi pietre grezze, è straordinario. Le pietre raccolte in zona rimandano alle strade lastricate della cittadina e alla zattera alla base dei muri, e conferiscono al pavimento una sorta di unità intrinseca e naturalezza intuitiva. Pur essendo estraneo alla tipologia di edificio e al luogo, il pavimento
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a terrazzo crea una profondità di colore, una luminosità simile al marmo e una perfetta orizzontalità. Nel realizzarlo, Peter Bendsen ha svolto un lavoro di qualità ineccepibile, in cui è evidente la cura con cui le pietre sono state selezionate, tagliate e posate. La purezza, ricchezza e il colore scuro dei materiali contribuiscono alla sacralizzazione del fienile, anche se la peculiarità dell’elemento in sé impedisce associazioni ovvie. La combinazione gradevolmente confusa di pietre dello Jutland e tecniche italiane di levigatura del marmo sottrae ogni illusione di arcaicità e organicità, e funge da opportuno contrappunto al moderno metodo di costruzione franco-tedesco con il legno lamellare, con cui è stata realizzata la struttura del fienile. La sensibilità e la filosofia di Praksis permeano il tutto, con tocco leggero e per lo più indiretto, attraverso il variegato team di artigiani specializzati che lo studio ha riunito appositamente per questo progetto. Gli architetti danesi affermano che «per potersi rinnovare ogni tradizione deve essere continuamente soggetta a cambiamenti e ogni innovazione deve comprendere la tradizione per poterla mettere in discussione». Tuttavia, il loro generale riserbo e la loro assertività ben calibrata non sono affatto ovvi e la convinzione con cui li perseguono entrambi segna in modo distintivo la loro voce architettonica.
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22–27 alcune immagini degli interni. In evidenza la tecnica con cui le grandi travi del tetto sono realizzate: spezzoni di brevi tavole di legno affiancate, una tecnica molto semplice ma di grande efficacia in voga alla fine del Settecento. I volumi neri di servizio mobili sono realizzati in leggera fibra di vetro images of the interiors, showing the technique for the making of the large roof beams: segments of short wooden boards placed side by side, a very simple but effective method in vogue at the end of the 1700s. The black mobile service volumes are made of light fiberglass
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Cambridge vs Oxford a cura di Francesca Serrazanetti
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Xxxxx ricorrente xxxxx xxxxx
Nelle università più antiche e prestigiose d’Inghilterra nuovi progetti rispondono a esigenze di ampliamento dei servizi, di spazi di socializzazione o di rinnovamento delle strutture legate alla ricerca. Rilevanti esercizi di architettura contemporanea, molti dei quali rientrano nelle più recenti liste dei RIBA awards, continuano a prendere forma nel dialogo con le strutture antiche delle cittadine universitarie e con il loro pluricentenario patrimonio architettonico. I quattro progetti che presentiamo su questo numero di «Casabella», tre a Cambridge e uno a Oxford, rispondono a programmi molto vari e alle esigenze formative di generazioni diverse. A Cambridge un asilo e centro comunitario serve un quartiere di nuova fondazione sviluppatosi intorno alla vita universitaria, un centro performativo arricchisce le attività didattiche e di socializzazione di una scuola superiore, e l’ampliamento di uno dei più importanti college dell’università indaga la stratificazione storica nel rapporto con la città; a Oxford, un nuovo e avanzatissimo Dipartimento di Fisica mette in dialogo pratica e teoria, attenzione al passato e tensione verso il futuro. Nella diversità dei programmi, una comune attenzione è rivolta al confronto con le strutture insediative storiche, nella ricerca di un dialogo che marca armoniosamente un contrappunto con le preesistenze. L’obiettivo comune sembra essere la creazione di nuovi spazi di socialità e di incontro intorno alle attività di studio, ricerca e formazione. F.S. c A SA bel l A 9 0 2
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MUMA Nuovi servizi per nuove comunità Francesca Serrazanetti
Storey’s Field Centre ed Eddington Nursery, Cambridge
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La tipologia a corte è un elemento comune a molta tradizione architettonica di Cambridge: i college più antichi (il Pembroke, il Trinity Hall, il Magdalene, il Gonville & Caius, il Corpus Christi, il Queens) hanno cortili e dimensioni che sono stati alla base dello sviluppo, nel corso dei secoli, della tessitura urbana della città. Le loro tipologie e proporzioni sono state ereditate anche dal Community Centre e dall’asilo realizzati nel 2018 dallo studio inglese MUMA (McInnes Usher McKnight Architects) per la nuova comunità di Eddington, nella prima fase di sviluppo del North West Cambridge Development: un’area di recentissimo sviluppo pianificata e realizzata ex novo, per servire una comunità universitaria in continua crescita. Le due strutture sono ospitate in un solo complesso adiacente alla Scuola Primaria. Il progetto di MUMA definisce un’area protetta e circoscritta per l’asilo, disposto su tre lati della corte: due ali sono destinate alle aule, e la terza è destinata a uffici, servizi e spazi per gli insegnanti. Sul quarto lato sorge invece il centro civico, a una scala più consistente e urbana, rivolto verso il nuovo distretto. Il programma, sviluppato attraverso la consultazione della comunità, richiedeva tre spazi principali di dimensioni variabili capaci di rispondere a diverse esigenze con massima flessibilità. Data la presenza nelle vicinanze di impianti sportivi, una forte attenzione è stata rivolta alle possibilità d’uso legate alle arti dello spettacolo: si sono così create tre sale polifunzionali, ben riconoscibili volumetricamente dal cortile grazie alle loro diverse altezze. Il volume più grande è la Main Hall, che può ospitare 180 persone e le più svariate manifestazioni (da matrimoni a servizi commemorativi, da corsi di danza a quelli di tai chi). La sala principale è caratterizzata dalle due testate in mattoni a vista (gli stessi usati per l’esterno) e da un sistema trasversale di portali in legno che avvolge la sala. La sua altezza è fondamentale per ottenere uno spazio ventilato passivamente
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Pembroke College
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Magdalene College
Gonville & Caius College
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1 la Main All del Community Centre: l’affaccio rivolto a est, verso il paesaggio the Main Hall of the Community Centre: the side facing east towards the landscape 2 schema tipologico di alcune corti di Cambridge a confronto, nello stesso rapporto di scala typological diagram of courtyards in Cambridge compared, on the same scale 3 planimetria del nuovo quartiere di Eddington, pianta dello Storey’s Field Centre ed Eddington Nursery (con le tre ali dedicate all’asilo e, in basso, gli spazi del Community Centre), sezione trasversale attraverso il cortile, sezione delle aule dell’asilo e sezione della Main Hall plan of the new district of Eddington, plan of the Storey’s Field Centre & Eddington Nursery (with the three wings set aside for the nursery and, below, the spaces of the Community Centre), cross-section of the courtyard, section of the classrooms of the nursery and section of the Main Hall
e controllato dal punto di vista acustico. Con un’ampia vetrata rivolta verso il paesaggio a est, la Main Hall è illuminata anche da alte vetrate laterali. Si può notare qui come il progetto di MUMA, relativamente di piccole dimensioni, interpreti ed entri in relazione con i caratteri tipologici propri della storia di Cambridge: l’invaso della Main Hall del Community Centre è infatti ispirata, nelle proporzioni, alle grandi sale della Senate House, della Gonville & Caius College Dining Hall, della St. John’s College Chapel, della Christ’s College Dining Hall. Come se non bastasse, il progetto recupera anche l’uso del mattone, disegnando geometrie che creano vuoti e pieni nelle tessiture murarie, pattern di finestre e textures che si adattano alla scala delle diverse parti dell’edificio. Tutti gli spazi, soprattutto quelli dell’asilo, vivono della continuità con il giardino racchiuso dalla corte. Un camminamento coperto circonda la corte e consente un sistema di distribuzione interno privo di corridoi: le aule, con una doppia esposizione che crea un sistema di ventilazione incrociata, si aprono direttamente sul cortile, dove sedute, giochi e zone verdi creano l’ambiente di gioco per i bambini. Sul perimetro esterno, privo di grandi vetrate, le fenditure assumono un carattere ludico oltre che compositivo: costellazioni di piccole aperture a oblò poste a diverse altezze sono gli affacci attraverso cui spiare verso l’esterno, o ancora aperture con forme geometriche primarie creano nicchie colorate per i bambini. Ogni facciata si articola con estrema cura dei dettagli nell’uso del mattone e nelle tessiture murarie, creando motivi geometrici, ingressi protetti e panche integrate alla facciata: dei posti a sedere esterni in pietra scolpita creano aree d’incontro nello spazio pubblico antistante il centro civico. Nato per rispondere all’esigenza di fornire servizi allo sviluppo urbano di un quartiere di nuova fondazione, il progetto instaura una dimensione di dialogo con i pur lontani edifici che costituiscono la memoria storica del luogo.
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4 il parco giochi dell’asilo: in fondo alla corte, sul lato sud, i volumi del Community Centre the nursery playground: at the back of the court, on the south side, the volumes of the Community Centre 5 vista del fronte ovest del Community Centre, dal nuovo centro di Eddington view of the western facade of the Community Centre, from the new center of Eddington 6 la Main Hall vista dal parco the Main Hall seen from the park 7 dettaglio del fronte sud del Community Centre: la tessitura muraria, la grande vetrata laterale e la seduta in pietra lungo la facciata detail of the southern front of the Community Centre: the masonry texture, the large lateral window and the stone seat along the facade 8 il fronte ovest dell’asilo: la tessitura muraria in mattoni e le panche in pietra a sbalzo the western front of the nursery: the brick masonry texture and the cantilevered stone benches 9 vista di un giardino interno, nell’angolo che congiunge il Community Centre e l’asilo view of an internal garden, in the corner between the Community Centre and the nursery
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10, 11 le aule dell’asilo, illuminate zenitalmente, si affacciano sul cortile interno con grandi vetrate the nursery rooms with zenithal lighting face the inner courtyard with large windows 12, 13 gli affacci delle aule verso il parco, con le nicchie di forma geometrica leggibili in facciata the classrooms facing the park, with the geometric niches in the facade 14 vista interna della Main Hall: si notano le variazioni della tessitura muraria, il soffitto in legno stratificato, i telai a portale e la scala a chiocciola in legno interior view of the Main Hall: note the variations in the masonry texture, the ceiling in layered wood, the portal frames and the wooden spiral staircase
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Níall McLaughlin Jesus College, Cambridge
1 il nuovo corpo d’ingresso alla West Court del Jesus College the new entrance to the West Court of Jesus College
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Un ritmo di affacci tra le corti Francesca Serrazanetti Il Jesus è uno dei tanti College di Cambridge: situato nei terreni a nord di Jesus Lane, è un complesso caratterizzato da un sistema di corti aperte, tipologia diffusa in città. Sorto sul sito di un ex monastero benedettino, nel corso degli anni è stato ampliato in più fasi per rispondere alla crescita del numero di studenti, arrivando a includere edifici che vanno dal XII al XXI secolo. Un importante rinnovamento è quello avviato con l’acquisizione nel 2014 di gran parte della Wesley House, per creare quella che oggi è la West Court: una nuova corte che si affaccia direttamente su strada e conferisce quindi un fronte propriamente urbano al Jesus, il cui ingresso principale è collocato in posizione arretrata e collegato alla strada tramite un lungo sentiero pavimentato. Il progetto sviluppato da Níall McLaughlin Architects per la West Court recupera e integra gli edifici preesistenti in una struttura del tutto rinnovata, in grado di fare coesistere i diversi stili e allo stesso tempo di integrare a essi un linguaggio contemporaneo. Il progetto ha visto dapprima il recupero del vincolato Webb Building (l’ala nord-est, destinata a uffici, spazi di socializzazione e residenze) e la costruzione del nuova caffetteria. Quest’ultimo è un padiglione leggero che entra in contrasto con la solidità dell’edificio preesistente, estendendo gli spazi del piano terra verso il parco, con un affaccio che si protende verso la North Court e che diviene un luogo di incontro e di collegamento tra questa corte e le altre. L’intervento più significativo e visibile, sul lato sud, coincide con il fronte su strada: è il rinnovamento del Rank Building (un edificio obsoleto realizzato negli anni Settanta) a cui si aggiunge, all’estremità occidentale, il nuovo corpo di accesso alla West Court: un elemento di connessione che prende le forme di una lanterna vetrata con una struttura in legno, appoggiata su un corpo in mattoni. La lanterna illumina all’interno il vestibolo a tutta altezza ed emerge all’esterno segnalando lievemente la propria presenza nel paesaggio urbano.
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Legando con cura passato e contemporaneità, il Rank Building rinnova entrambe le sue facciate (quella urbana e quella interna alla corte verde) con due declinazioni diverse di un comune linguaggio. Il sistema di setti trasversali in mattoni detta il ritmo complessivo e viene integrato con tamponamenti leggeri. Su Jesus Lane gli elementi in pietra e in legno, rispettivamente al piano terra e al primo piano, costituiscono un filtro tra la strada e la lecture hall (un auditorium flessibile all’avanguardia, per quanto ricavato da un edificio esistente e in adiacenza a una strada trafficata), mentre un sistema di balconi in legno ai due piani superiori media il passaggio tra la strada e le camere della foresteria. Il ritmo degli elementi verticali declinato su diversi moduli conferisce un nuovo carattere all’architettura, slanciandola e allontanandosi dalle proporzioni massicce dell’edificio preesistente. Sul fronte nord, la profondità di un sistema di vetrate e aperture inserite in telai in legno crea il filtro tra interno ed esterno: se ai primi due livelli delle sedute fisse si inseriscono tra le vetrate e il corridoio di distribuzione accanto alla lecture hall, ai piani superiori delle piccole scrivanie integrate al sistema generano dei punti studio individuali nelle camere. I materiali utilizzati per i nuovi interventi collegano con grazia l’eterogeneità di queste architetture, negando l’omologazione ma preferendo piuttosto la coerenza di uno sviluppo articolato capace di rispondere alle specificità degli usi e della relazione con il contesto esterno. L’attenzione alla continuità si nota in alcuni dettagli: i telai in legno che affacciano sulla corte hanno profili smussati che sembrano evocare le cornici delle finestre in pietra preesistenti; i setti di pietra sulla strada hanno una trama smerlata che rafforza la verticalità della facciata in modo armonioso; la struttura in legno del padiglione della caffetteria è concepita come una pergola nel paesaggio. Proprio la caffetteria è il simbolo più evidente di un intervento misurato capace di legarsi sui diversi fronti ai caratteri del contesto (qui il parco) riportando questa disparata collezione di edifici nella vita della comunità universitaria.
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Jesus College Sviluppo della West Court del college, recupero del Webb Building con il nuovo padiglione-caffetteria e rifacimento del Rank Building con il nuovo fronte su strada scheda del progetto progetto Níall McLaughlin Architects strutture Peter Brett Associates progetto degli interni Eve Waldron Design project manager Edmond Shipway M&E consultant David Bedwell & Partners CDM coordinator Níall McLaughlin Architects con PD Consulting Engineers Approved Building Inspector MLM Building Control Limited supervisione quantità e costi Edmond Shipway consulenza acustica Gillieron Scott Acoustic Design committente Jesus College, Cambridge impresa Cocksedge Building Contractors costo di costruzione 12,5 milioni £ cronologia 2014: concorso febbraio 2015: avvio cantiere aprile 2017: realizzazione dati dimensionali 4.140 mq superficie interna lorda localizzazione Jesus Lane, Cambridge, Regno Unito fotografie Nick Kane
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2 pianta del piano terra. Legenda 1 il nuovo corpo d’ingresso 2 il Rank Building con la rinnovata lecture hall 3 il nuovo padiglione che accoglie la caffetteria 4 il ristrutturato Webb Building 5 la proposta per la seconda fase (auditorium e archivio, non ancora realizzati) 6 la proposta per la terza fase (padiglione per lo sport, non ancora realizzato) ground floor plan. Legend 1 the new entrance 2 the Rank Building with the renovated lecture hall 3 the new pavilion containing the cafeteria 4 the refurbished Webb Building 5 the proposal for the second phase (auditorium and archives, not yet built) 6 the proposal for the third phase (sports pavilion, not yet built) 3 piante del piano interrato, primo piano, secondo e terzo piano basement, first second and third floor plans 4 sezione trasversale lungo il nuovo corpo d’ingresso su Jesus Lane; sezione trasversale dalla caffetteria attraverso il Webb Building, la corte interna e il Rank Building (con la lecture hall e le residenze ai piani superiori); sezione longitudinale lungo il Rank Building e il nuovo corpo d’ingresso cross-section along th enew entrance volume on Jesus Lane; cross-section from the cafeteria across the Webb Building, the internal courtyard and the Rank Building (with the lecture hall and the residences on the upper levels); longitudinal section of the Rank Building and the new entrance volume
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5, 6 la nuova facciata sud del Rank Building, su Jesus Lane the new southern facade of the Rank Building, on Jesus Lane
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7, 8 dettaglio dei balconi delle residenze agli ultimi piani detail of the balconies of the residences on the upper levels 9 sezione costruttiva della facciata sud. Legenda 1 pietra bugnata 2 parapetto in metallo PPC 3 vetrate fisse con infissi in legno su misura 4 rivestimento in pietra con illuminazione LED 5 struttura preesistente in mattoni e cemento 6 cornice in legno lamellare e finitura in alluminio PPC 7 brise-soleil in legno 8 doppio vetro con cornice in alluminio PPC per l’isolamento acustico dell’auditorium 9 rivestimento in pietra su misura 10 assito in legno 11 coprimuro in alluminio PPC 12 portefinestre e schermature scorrevoli con infissi rivestiti in metallo construction section of the southern facade. Legend 1 rusticated stone 2 parapet in PPC metal 3 fixed glazings with custom wooden casements 4 stone cladding with LED lighting 5 existing structure in brick and concrete 6 cornice in lamellar wood and PPC aluminium finish 7 wooden brise-soleil 8 double glazing with PPC aluminium frame for soundproofing of the auditorium 9 stone cladding made to measure 10 wood planking 11 wall cover in PPC aluminium 12 glass doors and sliding screens with metal-covered casements
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10 sezione costruttiva della facciata nord. Legenda 1 assito in legno 2 cornice in legno lamellare e finitura in alluminio PPC 3 vetrate fisse con infissi in legno su misura 4 panche fisse in legno 5 coprimuro in alluminio PPC 6 struttura preesistente in mattoni e cemento 7 rivestimento in pietra su misura 8 rivestimento in cemento preesistente 9 scrivanie fisse interne alle stanze construction section of the northern facade. Legend 1 wood planking 2 lamellar wood frame and PPC aluminium finish 3 fixed glazings with custom wooden casements 4 fixed wooden benches 5 wall cover in PPC aluminium 6 existing structure in brick and concrete 7 stone cladding made to measure 8 existing concrete cladding 9 fixed desks in the rooms
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11–14 viste della corte: la nuova facciata interna del Rank Building e la relazione con i fronti preesistenti views of the courtyard: the new inner facade of the Rank Building and the relationship with the existing facades
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15, 16 il padiglione della caetteria annesso alla facciata nord del Webb Building the cafeteria pavilion connected to the northern facade of the Webb Building
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17, 18, 19 l’interno del nuovo edificio d’ingresso, sotto la grande lanterna interior of the new entrance, under the large lantern 20 pianta e sezione costruttiva della lanterna. Legenda 1 intelaiatura strutturale in legno lamellare 2 vetro fisso con cornice in legno 3 struttura in acciaio rivestita in legno 4 pannello impiallacciato di legno 5 travetti in legno 6 pluviale in alluminio PPC 7 finestre motorizzate con vetri singoli per ventilazione naturale 8 membrana monostrato per coperture 9 rivestimento in alluminio PPC 10 muratura 11 coprimuro in pietra plan and construction section of the lantern. Legend 1 structural framework in lamellar wood 2 fixed glazing with wooden frame 3 steel structure clad in wood 4 wood-veneered panel 5 wooden joists 6 drainpipe in PPC aluminium 7 motorized windows with single panes for natural ventilation 8 monolayer roof membrane 9 PPC aluminium cladding 10 masonry 11 wall cover in stone
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21 il sistema di distribuzione verticale del nuovo corpo d’ingresso the vertical circulation system of the new entrance volume 22, 23 il corridoio di distribuzione delle camere nei piani superiori del Rank Building, illuminato zenitalmente grazie al sistema di doppie altezze circulation corridor of the rooms on the upper levels of the Rank Building, with zenithal lighting thanks to a two-story system 24 vista interna delle camere aacciate su Jesus Lane interior view of the rooms facing Jesus Lane
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Haworth Tompkins Peter Hall Performing Arts Centre, The Perse School, Cambridge
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Imparare recitando Francesca Serrazanetti Peter Hall è stato un regista e manager teatrale, fondatore della Royal Shakespeare Company (1960–68) e direttore del National Theatre di Londra (1973–88). Anni prima è stato un alunno della Perse School di Cambridge. Sembra quindi naturale intitolare a lui il nuovo Performing Arts Centre della scuola: un progetto realizzato dallo studio Haworth Tompkins, che proprio con il National Theatre ha avuto una lunga collaborazione (il progetto “NT Future”, completato nel 2015, prevedeva il rinnovamento e l’ampliamento dell’edificio brutalista progettato da Denys Lasdun nel 1976). Realizzato in occasione dei 400 anni dalla fondazione della scuola, il Peter Hall Performing Arts Centre è il più grande ampliamento realizzato nella sede di Hills Road. Il progetto riconosce l’importanza attribuita alle arti performative dalla Perse School. Il teatro celebra infatti il metodo di insegnamento fondato proprio qui dal professor Henry Caldwell Cook all’inizio del Novecento: “The Play Way” (che è anche il titolo di un volume del 1911) sfrutta la creatività della performance per l’insegnamento, in particolare delle lingue. Il luogo dedicato a questo metodo didattico era “The Mummery”, una stanza ispirata alla semplicità del teatro elisabettiano dove gli studenti potevano recitare per imparare e la cui influenza persiste nei programmi di arti drammatiche, e in questo nuovo teatro dedicato non solo alle arti della scena ma anche alla socializzazione. Il progetto è partito con un masterplan dell’area prima che con il disegno dell’edificio: il Performing Arts Centre si colloca in modo da creare una corte che diviene il nuovo cuore del complesso, luogo di incontro nel passaggio tra i diversi blocchi della scuola o nelle pause. La facciata principale fronteggia l’intera ampiezza del cortile e avvolge con un involucro trasparente il foyer a tutta altezza: quest’ultimo è una piazza coperta in totale continuità visiva con l’esterno, completamente vetrato. Proprio come accade in altri progetti dello studio londinese, il confine tra interno ed esterno si annulla. Lo spazio, ampio,
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1 vista esterna del fronte d’ingresso exterior view of the entrance facade 2 piante del piano terra e del primo piano, sezioni trasversale e longitudinale ground and first floor plans, cross-section and longitudinal section 3 la facciata principale vista dalla nuova corte the main facade seen from the new courtyard
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4, 5, 6 dettagli della tessitura in mattoni del nuovo Rouse Building e del punto di collegamento con il Performing Arts Centre details of the brick texture of the new Rouse Building and the point of connection with the Performing Arts Center 7, 8 il Rouse Building, che ospita le aule didattiche the Rouse Building, which contains two classrooms
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9 la sala prove al primo piano, con accesso dalla balconata del foyer the rehearsal room on the first floor, with access from the balcony of the foyer 10–13 viste interne dei diversi livelli del foyer interior views of the various levels of the foyer
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14, 15 viste del palco dell’auditorium views of the auditorium stage 16, 17 la sala del Performing Arts Centre the hall of the Performing Arts Center
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Hawkins \ Brown Beecroft Building, University of Oxford
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Un iceberg per la ricerca Francesca Serrazanetti Nella Science Area dell’università di Oxford, nella parte nord-est del centro, si trovano in modo compatto le strutture di molti dipartimenti scientifici. Negli ultimi anni l’università ha intrapreso un percorso di rinnovamento che ha visto come protagonista lo studio Hawkins \ Brown. Il Dipartimento di Biochimica è stato il primo progetto completato nel 2008 (con una seconda fase il cui completamento è previsto nel 2020) che ha invertito il concetto alla base degli edifici accademici: non più singoli uffici isolati per la concentrazione e lo studio, ma un grande spazio pubblico circondato da laboratori affacciati verso l’esterno. Il nuovo ampliamento del Dipartimento di Fisica, il Beecroft Building, porta avanti lo stesso concetto: il progetto parte dall’idea di coniugare un ambiente collettivo e trasparente, per incontrarsi e condividere idee, con stanze individuali e silenziose. Collegato al campus di fisica preesistente da un ingresso comune, il Beecroft Building è destinato a ospitare tanto la fisica sperimentale quanto la ricerca teorica. Queste due aree sono nettamente separate: i laboratori si trovano sottoterra, mentre gli uffici e le sale studio ai livelli superiori. Una scelta che deriva anche da una necessità, date le ridotte dimensioni del lotto e il vincolo della “Carfax Height”, che limita i nuovi edifici nel raggio di 1,2 km dalla centralissima Carfax Tower a 18 metri di altezza. Nello spazio ipogeo più profondo di Oxford (16 metri) si trovano così i laboratori, che hanno richiesto molta cura per il raggiungimento di specifici requisiti di prestazioni tecnologiche per ambienti strettamente controllati dal punto di vista statico e acustico (come la sospensione della struttura in cemento su molle pneumatiche che consente l’isolamento dalle vibrazioni). Situato in adiacenza a diverse preesistenze storiche –la cappella del Keble College si trova esattamente di fronte, su Parks Road, e i parchi universitari immediatamente a nord– il Beecroft Building si inserisce con decisione ma con grazia nel suo contesto, individuando un linguaggio
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1 dettaglio della facciata: gli elementi in rame nella relazione cromatica con l’adiacente cappella del Keble College facade detail: the copper parts in chromatic relation to the adjacent chapel of Keble College 2 il plastico del Beecroft Building nel suo contesto model of the Beecroft Building in its context 3, 4 lo scavo per lo spazio ipogeo mostra la profondità di 16 metri e la sua prossimità con gli edifici storici vincolati adiacenti excavation for the underground space shows the depth of 16 meters and the proximity to the adjacent heritage-listed buildings 5 piante del piano interrato, del piano terra e dei piani superiori; prospetto con il collegamento al campus preesistente e sezione longitudinale che mostra l’organizzazione dell’edificio: gli uffici di Fisica teorica occupano i livelli superiori, mentre i laboratori sperimentali sfruttano la stabilità dei livelli ipogei basement, ground and upper floor plans; elevation with the connection to the existing campus and longitudinal section showing the organization of the building: the theoretical physics offices are on the upper levels, while the experimental laboratories exploit the stability of the underground levels
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contemporaneo capace di dialogare con la storia del luogo. Nel progetto delle facciate si riconosce l’influenza dell’architettura di Oxford, dai colori e dallo slancio verticale di complessi storici come il Keble College, al ritmo modulare di importanti edifici moderni come il St Catherine’s College, disegnato da Arne Jacobsen negli anni Sessanta. Il rivestimento è una combinazione di bronzo, vetro e pannelli in rete di rame espanso che crea un ritmo verticale, enfatizzato dalla griglia di alette in bronzo. Le grandi vetrate generano un collegamento visivo e simbolico tra i ricercatori all’interno, che guardano al futuro, e il contesto locale, intriso di significato storico. L’impostazione quasi a iceberg, che valorizza gli spazi nascosti sotto la linea di terra molto più di quanto ci si possa aspettare guardando l’edificio dalla strada, è l’elemento chiave del progetto. Gli ambienti di ricerca per la fisica teorica si articolano attorno a un atrio collaborativo e aperto, che si ispira ai modi e ai luoghi del moderno coworking. Una copertura vetrata illumina il nucleo condiviso dell’edificio: un vuoto di cinque piani collegato da una scala che favorisce le interazioni sociali. Le piattaforme sospese all’interno dell’atrio, sfalsate in modo da beneficiare il più possibile della luce del giorno e delle viste del cielo, hanno posti a sedere disposti intorno ad alte lavagne: sono spazi di riunione informali che favoriscono la condivisione delle idee e il dibattito. La struttura aperta di questo spazio ha costituito una sfida in termini di rumore: il centro dell’edificio è stato progettato per consentire un ambiente visivamente continuo ma controllato acusticamente. L’atrio a tutta altezza si estende fino al seminterrato per creare una connessione tra le aree di socializzazione e le attività di laboratorio, portando scorci di luce naturale anche nelle aree di connessione ipogee. Il basamento della facciata è un’opera dell’artista Bridget Smith che ben rappresenta l’unione di fisica sperimentale e teorica, oltre che di buio e luce: si intitola Thinking Light e, rappresentando il comportamento dinamico delle particelle di luce, dà consistenza visiva a qualcosa di empiricamente inafferrabile.
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Beecroft Building Dipartimento di Fisica teorica e sperimentale dell’Università di Oxford scheda del progetto progetto Hawkins\Brown programme management University of Oxford Estates Services impresa Laing O’Rourke project manager WSP consulenza costi Turner & Townsend M&E engineer Hoare Lea consulenza acustica e sostenibilità Hoare Lea CDM consultant Scott White & Hookins strutture Peter Brett Associates paesaggio BD Landscape committente The University of Oxford cronologia 2011: avvio progetto 2018: completamento dati dimensionali 8.900 mq superficie interna lorda localizzazione Parks Road, Oxford, Regno Unito
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8 dettaglio del sistema di rivestimento che detta il ritmo della facciata detail of the cladding system that sets the rhythm of the facade 9 il fronte su Parks Road: a rivestire il basamento, l’opera Thinking Light dell’artista Bridget Smith the front on Parks Road: the base is covered by the work Thinking Light by the artist Bridget Smith 10, 11, 12 i laboratori di fisica sperimentale, ai livelli ipogei the experimental physics laboratories on the basement levels
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13–19 l’atrio di distribuzione centrale, a tutta altezza, diventa uno spazio collaborativo e di incontro, con ambienti aperti per riunioni informali o per momenti di socializzazione the full-height central circulation lobby becomes a space of collaboration and encounters, with open zones for informal meetings or socializing
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Il diritto all’infedeltà: l’architettura e il farsi di una e la città di Bath Francesco Dal Co
Dai primi decenni del 1700 Bath, nota sin dall’epoca romana per le acque che lì sgorgano da sorgenti calde e per le sue terme, venne progressivamente trasformata in un «centro per il tempo libero» della buona società londinese, «alla ricerca di un luogo di divertimenti dove trascorrere l’estate», ha scritto John Summerson (Architecture in Britain, 15301830). Attratto dall’intensa vita mondana e non meno convinto degli estensori della Original Bath Guide del 1834 che fosse persino «noioso elencare tutte le malattie curabili con l’Acqua di Bath», questo ceto sociale privilegiato divenne il principale fruitore dei piaceri che la città poteva offrire. Figlio di un costruttore, John Wood era nato a Twerton, vicino a Bath, nel 1704. Dopo aver lavorato a Bramham Park per Lord Bingley, ricevuta lì la sua iniziazione all’architettura e tentate alcune iniziative speculative a Londra, nel 1727, poco più che ventenne,
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Wood fece ritorno a Bath. Vi giunse attratto dalla prospettiva di occuparsi degli interessi di Robert Gay, medico ed eminente proprietario fondiario, e, soprattutto, di quelli di Ralph Allen. In quegli stessi anni, avvertendo quali opportunità dischiudesse lo sviluppo urbano di Bath, Allen aveva investito le ricchezze accumulate con la gestione del servizio postale acquistando diverse proprietà immobiliari e le cave di Combe Down e Bathampton Down, dalle quali venne estratta la pietra utilizzata per quanto nella città fu poi costruito. Nel saggio Bath, Walks Within the Walls («Architectural Design», ottobre 1969), servendosi di un paragone azzardato ma efficacemente suggestivo, Peter Smithson ha scritto che «Ralph Allen fu per Bath quello che Juscelino Kubitchek fu per Brasilia; Wood il Vecchio fu l’architetto di Allen così come Niemeyer fu l’architetto di Kubitchek».
città. John Wood il Vecchio, Stonehenge
Dopo il 1727 Wood e il figlio, John Wood il Giovane, trasformarono Bath in una «Rome in England». Questa ingenua ma diffusa convinzione è stata condivisa anche da Peter Smithson che, però, senza contraddirsi, annotò che «Bath è una città formata da case», di «ordinary townhouses» secondo John Summerson. Queste case vennero edificate a scopi eminentemente speculativi, anche a partire dall’ingegnoso sistema di valorizzazione fondiaria messo a punto da Wood il Vecchio costruendo Queen Square. Avendo reso unitarie, concatenate e ordinate le cortine edilizie sui bordi della piazza, egli accrebbe l’appetibilità dei lotti retrostanti da lui presi in affitto per novantanove anni da Robert Gay e poi subaffittati, lasciando liberi i locatari di affidare ad altri impresari la costruzione delle loro abitazioni. In questo modo Wood realizzò la prima di una serie di quinte disegnate secondo il gusto più moderno, che hanno radicalmente
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trasformato l’aspetto e l’assetto urbani della città. I prospetti palladiani così edificati e che ancora si possono ammirare sulla stessa Queen Square, nel Royal Crescent, nel King’s Circus e su altre strade, hanno reso Bath un esempio che non teme paragoni del coappartenersi di linguaggio architettonico e disegno della città. Ma nonostante l’inconfondibile ascendenza della «unità monumentale controllata e coesa» (Peter Smithson), che Wood seppe imporre ai nuovi sviluppi urbani, i suoi libri, An Essay Towards a Description of the City of Bath e Choir Gaure, Vulgarly Called Stonehenge, pubblicati nel 1742 e nel 1747, consentono di comprendere che quanto egli realizzò o soltanto progettò mirava anche a risarcire la città per le devastazioni subite dal primitivo insediamento celtico a opera dei romani. Se si pensa come proprio in quegli anni, sulla scia degli studi compiuti da Edward Lhuyd, scienziato,
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1 pianta di Bath con indicati gli interventi di John Wood il Vecchio e John Wood il Giovane (da W. Ison, The Georgian Buildings of Bath from 1700 to 1830, London 1948) plan of Bath showing the interventions of John Wood the Elder and John Wood the Younger (from W. Ison, The Georgian Buildings of Bath from 1700 to 1830, London 1948)
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conservatore dell’Ashmolean Museum e amico di Isaac Newton, il recupero delle tradizioni celtiche e della cultura druidica fosse un tema attuale non soltanto in Galles, che Wood ne fosse al corrente al punto di farne oggetto dei suoi studi non può sorprendere. Ma proprio per questa ragione i libri di Wood pongono di fronte alla singolarità e contraddittorietà del suo lascito, poiché il linguaggio di cui egli si avvalse come architetto può sembrare irriducibile alle curiosità di fondo alle origini delle sue ricerche. Come conferma anche la letteratura più recente, questa paradossalità ha reso complicato interpretare e spiegare l’opera di Wood. Per tentare di farlo è utile prendere in esame i suoi scritti. Anche se richiede una certa pazienza, leggere The Origin of Building: or the Plagiarism of the Heathens Detected (1741), An Essay towards a Description of Bath (1742) e, soprattutto, Choir Gaure, Vulgarly Called Stonehenge (1747), è un esercizio gratificante. Compiendolo con la dovuta circospezione, respingendo la tentazione di giudicare i libri di Wood come risultati del lavoro di «uno storico scandalosamente cattivo», come hanno 2
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scritto Tim Mowl e Brian Earnshaw (John Wood, Architect of Obsession, 1988), ma studiandoli per quello che sono, ossia dei documenti, si ha la possibilità di conoscere la personalità fuori dal comune del loro autore, che con The Origin of Building ci ha lasciato, secondo Rudolf Wittkower, «il libro più singolare dedicato all’architettura che sia stato scritto in Inghilterra nel XVIII secolo» (Federico Zuccari and John Wood of Bath, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», VI, 1943). The Origin of Building faceva tesoro di quanto Wood aveva appreso, come diversi dei contemporanei
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antiquarians, da The Chronology of Ancient Kingdoms Amended di Newton, apparso nel 1728, un anno dopo la sua morte. Per Wood Salomone era il più antico dei re e il tempio di Gerusalemme, dettagliatamente descritto da Newton nel quinto capitolo di Chronology e in altre fonti tra le quali In Ezechielem Explanationes di J. B. Villalpando e J. de Prado, presente nella biblioteca di Wood il Giovane, o nelle prime tavole di Entwurff Einer Historischen Architektur di J. B. Fischer von Erlach, tradotto in inglese nel 1730, era la prova da lui ritenuta più certa della discendenza israelitica dell’architettura. «La dignità (dignity) alla quale l’architettura venne innalzata dagli Egiziani, dagli Assiri, dai Medi, dai Babilonesi, dai Persiani, dai Greci, dagli imperi romani», si legge in The Origin of Building, «non è comparabile con il lustro con cui essa risplendette nelle sacre opere degli Ebrei». All’origine di questa preminenza vi era l’altare costruito da Mosè «ai piedi del monte Sinai insieme ai dodici pilastri corrispondenti alle tribù di Israele». Secondo Wood nell’altare, da non intendersi ovviamente secondo la lettera del Libro di Ezechiele (40, 22) fonte della ricostruzione del Tempio di Gerusalemme fatta da Newton, «si trovavano soltanto figure perfette, corrispondenti alla massima regolarità, alla più dolce armonia, alle più piacevoli proporzioni», rappresentazioni dell’«ordine, a sua volta figura dell’uguaglianza e della regolare distribuzione delle sue parti». Se non può sfuggire quanto sia opportuno tenere presente questo e altri passi simili che si incontrano negli scritti di Wood nell’osservare gli edifici da lui e dal figlio costruiti a Bath, ciò che ora va sottolineato è che il primo manifestarsi dell’ordine risulta qui identificato con una costruzione lapidea, «copiata dai pagani e all’origine dei palazzi circolari e quadrati destinati al culto in Occidente e di quelli dei Druidi, che erano composti di pietre separate». La descrizione fatta da Wood delle diverse parti dell’altare e dei pilastri isolati presenti nei “cerchi sacri” celtici, si accompagnava alla convinzione, certo non originale ma ontologicamente rilevante e più volte affiorante nelle pagine di The Origin of Building, secondo la quale la forma in architettura si manifesta quando, come nel corpo umano, «tutte le parti si assistono mutualmente» una volta tratte dalla natura. Anche nel caso di Stonehenge, precisò Wood, «la fatica più grande» non venne compiuta per sagomare le pietre, ma per «sollevarle dal loro giaciglio naturale»; come tutte le componenti di ogni costruzione massiccia anche quelle prese in esame in Choir Gaure,
2, 3 frontespizi dei libri di John Wood il Vecchio, The Origin of Building: or the Plagiarism of the Heathens Detected, Bath 1741; Choir Gaure: vulgarly called Stonehenge on Salisbury Plain, Oxford 1747 frontispieces of the books by John Wood the Elder, The Origin of Building: or the Plagiarism of the Heathens Detected, Bath 1741; Choir Gaure: vulgarly called Stonehenge, on Salisbury Plain, Oxford 1747
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4 Cesare Cesariano, Ex prima mundi hominum aetate aedificatio, da Di Lucio Vitruvio Pollione de architectura libri dece, Como 1521 Cesare Cesariano, Ex prima mundi hominum aetate aedificatio, from Di Lucio Vitruvio Pollione de architectura libri dece, Como 1521 5 Johann Bernhard Fischer von Erlach, Stonehenge, da Entwurff einer historischen Architektur, Wien 1721 Johann Bernhard Fischer von Erlach, Stonehenge, from Entwurff einer historischen Architektur, Wien 1721
pertanto, vennero approntate grazie a quanto l’impiego della pietra richiede, un «lavoro di intaglio» e non un «lavoro di modellazione», i due distinti inizi di ogni manifestazione della forma secondo Pavel Florenskij (L’interpretazione gnoseologica della spazialità [1924], in Lo spazio e il tempo nell’arte, 1995). Questa constatazione portava un ulteriore argomento a favore del parziale disconoscimento da parte di Wood dell’autorità della tradizione vitruviana, a iniziare dalla cronologia da essa stabilita. Wood, infatti, giunse alla conclusione che l’origine dell’architettura non può essere identificata con l’impiego di quanto in natura diviene ma con quanto la natura è, non con quanto cresce ma con quanto permane. Pertanto l’epifania dell’architettura non la si può far coincidere con l’apparire della capanna primitiva descritta in De architectura («Primumque furcis erectis et virgulis interpositis luto parietes texerunt», II, 3), plasmata con il fango e simile ai «nidi delle rondini», approntata per proteggere l’uomo dalle avversità naturali. Questo inizio, invece, secondo Wood va individuato in una costruzione di origine divina, l’altare, parola segnalata più di trecentocinquanta volte nell’Antico Testamento, eretto da Mosè seguendo fedelmente le istruzioni ricevute del Signore (Esodo, 24). 5
Pubblicato sei anni dopo The Origin of Building, Choir Gaure offre un’ulteriore dimostrazione della adesione di Wood all’evemerismo newtoniano, sulla quale si è soffermata, tra altri, Eileen Harris (John Wood’s System of Architecture, «The Burlington Magazine», 1031, 1989). Mentre con i progetti e le costruzioni dava prova della sua adesione alla “rivoluzione che mescolava Inigo Jones e Palladio e che aveva coinvolto la cultura architettonica inglese sotto gli auspici di Lord Burlington”, per parafrasare un noto passo di
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6–9 Jerónimo de Prado, Juan Bautista Villalpando, pianta del Tempio di Salomone, da In Ezechielem explanationes, Roma 1596; Johann Bernhard Fischer von Erlach, pianta del Tempio di Salomone, da Entwurff einer historischen Architektur, Wien 1721; Isaac Newton, pianta del Tempio di Salomone, da The Chronology of Ancient Kingdoms Amended, London 1728; John Wood il Vecchio, pianta del Tempio di Salomone, da The Origin of Building: or the Plagiarism of the Heathens Detected, Bath 1741 Jerónimo de Prado, Juan Bautista Villalpando, plan of Solomon’s Temple, from In Ezechielem explanationes, Roma 1596; Johann Bernhard Fischer von Erlach plan of Solomon’s Temple, from Entwurff einer historischen Architektur, Wien 1721; Isaac Newton plan of Solomon’s Temple, from The Chronology of Ancient Kingdoms Amended, London 1728; John Wood the Elder, plan of Solomon’s Temple, from The Origin of Building: or the Plagiarism of the Heathens Detected, Bath 1741 10 David Logan, A prospect of Stonehenge from West and South, 1670 ca. David Logan, A Prospect of Stonehenge from West and South 1670 ca.
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Palladio and English Palladianism di Rudolf Wittkower, Wood tentò di definire l’autorità di una tradizione affatto diversa. Meno di dieci anni dopo avere acquistato la traduzione di Isaac Ware de I quattro libri di Palladio, apparsa nel 1738, Wood pubblicò Choir Gaure. Con questo libro egli intendeva provare in maniera ora circostanziata rispetto a quanto fatto in The Origin of Building sulla scorta di fonti a stampa, l’alterità dell’architettura inglese rispetto a quella grecoromana, ovvero che anche «tutte le opere dei Druidi sono state copiate da quelle degli ebrei», senza però ignorare quanto sostenuto da Newton che riteneva i Fenici l’anello di congiunzione tra la cultura ebraica e quella britannica. L’incongruenza che così sembra emergere, e sulla quale dovremo tornare, non è stata colta da Peter Smithson, come abbiamo visto; non sfuggì, invece, a Howard Colvin quando scrisse A Biographical Dictionary of British Architects, 16001840 (1954). Ma prima di Colvin fu lo stesso Wittkower che osservò che «sarebbe difficile aspettarsi che The Origin of Building sia stato scritto dalla stessa penna del costruttore di Bath, che si presenta, stando ai suoi edifici, come un classicista perfettamente equilibrato, dotato della dovuta reverenza per la sacralità e autorità dell’architettura classica». In questa maniera Wittkower ha definito un paradigma interpretativo del quale non è facile liberarsi, derivato dalla convinzione, abbiamo visto, che l’opera di Wood fu segnata da una costitutiva contradittorietà, da una incoerenza difficilmente spiegable e la sua personalità da una sorta di indecifrabile Ichspaltung. Essendosi dedicato allo studio delle rovine druidiche su incarico del facoltoso bibliofilo e collezionista Edward Haley, Earl of Oxford, per sostenere che Stonehenge era una rappresentazione dell’universo, Wood ne ricercò le origini convocando storia e leggende, figure mitologiche, omeriche, bibliche e si avvalse dei rilievi delle rovine per dimostrare che «ogni pietra, angolo, linea rappresentava il sistema planetario pitagorico, che fu utilizzato come modello del sapere e fu alla base del cerimoniale come insegnato dall’Arch Druid e re dei Britanni, Blalud, che creò Bath quale centro della cultura druidica», ha scritto Tessa Morrison (Reinventing the Past: John Wood the Elder, «The International Journal of the Humanities», 9, 1, 2011). Oltre alla narrazione genealogica, Choir Gaure contiene un rilievo tanto accurato quanto originale di Stonehenge, sensibilmente più significativo dei disegni che accompagnano The Origin of Building. Lo scopo immediato delle tavole e delle chiose che lo compongono
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era dimostrare in quali errori era incorso William Stukeley, archeoastrologo, segretario della Antiquarian Society di Londra, sodale di Edward Lhuyd e di Newton, scrivendo Stonehenge. A Temple Restor’d to the British Druids (1740). Alle ricerche compiute da Stukeley Wood contrappose un nuovo metodo di indagine, accreditandosi come vero erede moderno dell’«arte dello stimare», la scienza del rilievo architettonico di cui si è occupato John Nicholas Napoli (The Art of Appraisal, «Memoirs of the American Academy in Rome», 54, 2009). Anche per questa ragione, data l’acribìa che li caratterizza, i rilievi pubblicati e postillati in Choir Gaure sono i più eloquenti risultati del progetto all’origine degli scritti di Wood. Inoltre, questi fogli dimostrano che egli condivise la tradizione di pensiero in cui si inserì, rinnovandola, Les Édifices antiques de Rome pubblicato da Antoine Desgodets nel 1682. Secondo Desgodets lo studio delle costruzioni antiche non può prescindere dall’accuratezza dei rilievi che, però, non diversamente dalla «esattezza con cui i grandi maestri misurarono l’architettura, sembra lasciare intendere», come Wood evidentemente pensava, «che vi sono dei misteri nelle proporzioni dell’architettura che non è concesso ai sapienti penetrare». Anche nelle antiche costruzioni, proseguiva aristotelicamente questa pagina di Desgodets sulla quale si è soffermato anche Wolfgang Hermann (Antoine Desgodets and the Académie Royale d’Architecture, in «The Art Bulletin», 40, 1, 1958), «come nel corso degli astri e negli organi che assolvono le funzioni più nobili negli animali, vi sono dei movimenti e delle configurazioni dei quali ignoriamo le cause e le funzioni». Soltanto scorrendo frettolosamente le pagine di Choir Gaure nelle quali numeri e linee presenti nei disegni vengono interpretati e chiariti minuziosamente, si può essere indotti ad annoverare il loro autore tra i tanti architetti dotati, ha scritto John Summerson, di una «intelligenza curiosamente originale, fondamentalmente incolta ma intrisa di ingenua erudizione». Il lavoro di rilievo documentato nel libro, infatti, non denota alcunché di ingenuo. Ma altrettanto impossibile è addentrasi nella lettura di Choir Gaure senza avvertire che Wood si dedicò allo studio di Stonehenge convinto di potervi cogliere la prova che brandelli del linguaggio divino erano stati trasmessi da Mosè a Pitagora (per poi giungere all’«Architect of the Work» eretto nella piana di Salisbury), come Newton pensava. Per sostenere questa convinzione, Wood, in aperta polemica con Stukeley, definì le misure da lui ritenute
esatte del cubito egizio, considerandola una acquisizione necessaria per dimostrare che tra le rovine di Stonehenge erano state conservate le dimensioni dell’altare di Mosè. Ciò rafforzava il significato che l’ipotesi della discendenza da quello di Salomone del tempio dei Druidi intendeva accreditare: come nel Tempio di Gerusalemme l’Arca, non più ospitata in una tenda mobile, aveva trovato la sua stabilizzazione riflettendo quella instauratasi nel rapporto del popolo di Israele con Dio, Stonehenge era per Wood la prova che un analogo processo di armonizzazione con le leggi del creato era stato portato a compimento dall’architettura druidica. Considerandoli anche da questo punto di vista e facendo tesoro degli studi di William Melczer sull’organizzazione spaziale del Tempio salomonico, si comprendono gli accenti che Wood utilizzò per mettere in risalto quale immane sforzo matematico venne compiuto per costruire il santuario dei Druidi, mobilitando il lavoro di quindicimila uomini guidati dal sapere magico della «setta di sacerdoti» che lo concepì sapendo che «i numeri sono all’origine di ogni cosa». Le svariate osservazioni dedicate alla provenienza e alla natura del materiale litico impiegato a Stonehenge che in Choir Gaure accompagnano i rilievi con inflessioni che forse non è azzardato ricondurre al ruolo riconosciuto alle sensazioni nella critica all’innatismo di John Locke, facevano parte di un progetto interpretativo che non ha molti uguali. Lo studio delle misure, dei materiali, delle loro provenienze, delle tecniche costruttive dimostra quale impegno venne profuso da Wood per portare a termine una anamnesi osteologica che non si limitava a descrivere ciò che i resti erano oggettivamente, ma tentava di fare affiorare i significati nascosti e conservati dietro le loro apparenze, di cogliere l’inizio del loro tempo, come Newton aveva fatto stabilendo che il Tempio di Salomone era stato fondato nel 1015 a.C. La concezione secondo la quale le rovine sono maschere che conservano e che quanto permane perdura in ciò che è divenuto, pervade Choir Gaure, il cui intento era dimostrare che le costruzioni dei Druidi erano prove concrete che le verità naturali sono state scritte da Dio con il linguaggio della matematica. Privilegiando rispetto a quanto fatto da Stukeley la cosmologia alla simbologia e ritenendo Stonehenge una rappresentazione del sistema planetario pitagorico, dell’«harmony of the spheres», Wood dimostrava di condividere la concezione di Galileo secondo il quale, come si legge nella lettera a padre Benedetto Castelli, la «Scrittura Sacra [è] dettatura dello Spirito Santo
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e la natura [è] osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio». Pertanto, seguendo Diodoro Siculo nell’identificare l’«Hyperborean Island» con la «Britannick Island», assimilando l’«iperboreo sacerdote di Apollo» che l’aveva costruito alla figura di re Blalud, fondatore di Bath e discepolo di Pitagora, Wood definì la genealogia di Stonehenge individuandone la derivazione dal Tempio di Salomone, dalla matematica e astronomia pitagoriche, in definitiva, descrivendone la perfetta concezione e la geometrica esecuzione come prove della sua discendenza dalla parola divina. Ma «the great School of Learning of British Druids», si legge in Choir Gaure in un passaggio dove affiora una volta di più l’antitrinitarismo di Wood, «sopravvisse sin quando il monaco Agostino giunse in Inghilterra e per ordine del papa Gregorio il Grande la ridusse al silenzio, per le medesime ragioni per le quali Galileo venne condannato dall’inquisizione a Roma». Giudicare affermazioni come questa sulla base del loro valore storiografico significherebbe avvalersi di un libero salvacondotto per la superficialità. Ciò che Wood si riprometteva di restaurare, una parola chiave in Choir Gaure, era una concezione ontologica dell’architettura e del lavoro dell’architetto che ne identificava il fine con la celebrazione della gloria del Grande Architetto dell’Universo, come John Locke aveva stabilito –una coincidenza, questa, da mettersi in relazione con l’impianto massonico degli studi di Wood il Vecchio e con la simbologia massonica diffusamente presente nelle sue costruzioni a Bath. Approntati «con la stessa minuzia con la quale il signor Desgodets ha misurato le rovine di Roma», sostenne Wood, i suoi rilievi rendevano certe le collocazioni e palpabili le dimensioni e le caratteristiche dei monoliti utilizzati per edificare la «così a lungo apprezzata meraviglia della nostra isola». Convinto che, prima della pubblicazione di Choir Gaure, Stonehenge fosse esistito soltanto nell’immaginazione di quanti se ne erano occupati, a cominciare da Inigo Jones il cui The Most Notable Antiquity of Great Britain, Vulgarly Called Stone-Heng on Salisbury Plain era stato pubblicato postumo nel 1655, Wood avvertiva, però, che anche i suoi rilievi non potevano soddisfare meccanicamente le domande che ponevano. Ogni osservazione della realtà, infatti, porta a concludere, come Wood intuì e Newton sapeva, che in essa «non c’è niente di misterioso che non divenga evidente, e viceversa tutto ciò che è evidente nasconde in sé un mistero» (Pavel Florenskij). Le risposte che cercava, non diversamente da quanto aveva fatto scrivendo The Origin of Building, Wood
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11, 12, 13 John Wood il Vecchio, rilievi da Stonehenge, da Choir Gaure: vulgarly called Stonehenge on Salisbury Plain, Oxford 1747 John Wood the Elder, surveys of Stonehenge, from Choir Gaure: vulgarly called Stonehenge, on Salisbury Plain, Oxford 1747 14 Tessa Morrison, ridisegno della pianta di Stonehenge a partire dai rilievi di John Wood il Vecchio (Reinventing the Past: John Wood the Elder, «The International Journal of the Humanities», 9 , 1 2011) Tessa Morrison, redrawing of the plan of Stonehenge starting from the drawings of John Wood the Elder (“Reinventing the Past: John Wood the Elder,” The International Journal of the Humanities, 9, 1 2011) 15, 16 Inigo Jones, The most notable antiquity of Great Britain, vulgarly called Stone-Heng, on Salisbury plain, London 1655 Inigo Jones, The most notable antiquity of Great Britain, vulgarly called Stone-Heng, on Salisbury plain, London 1655
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tentò di setacciarle dalla ricostruzione della discendenza di ogni aspetto dell’opera da lui studiata, avvalendosi di una complicata ma coerente costruzione narrativa, che non disdegnava di puntare sullo stupore. Per rendere evidente quanto fossero inusitati peso e misure dei monoliti impiegati a Stonehenge, per esempio, in Choir Gaure Wood fece ricorso a un espediente sul quale vale la pena soffermarsi. Egli evocò la leggenda tramandata dalla Vita Merlini di Geoffrey di Monmouth (1150 ca.), secondo la quale Merlino aveva trasferito dall’Irlanda nella pianura di Salisbury i megaliti originariamente impiegati in Africa per la costruzione di un complesso a pianta circolare, la Chorea Gigantum, poi utilizzati dai Druidi. Senza dimostrare di credere nella leggenda, Wood se ne servì per suggerire che i poteri che avevano permesso a Merlino di spostare in Inghilterra le grandi pietre africane transustanziandone magicamente il peso, erano analoghi a quelli posseduti da quanti avevano ordinato e sovrapposto i pilastri e gli architravi di Stonehenge, liberandosi dall’impedimento della forza di gravità. Ma d’altro canto, si legge ancora in Choir Gaure, «mettere in movimento pietre di peso enorme con il tocco leggero (flight) della mano è uno stratagemma dalle origini molto antiche». Per rendere ancor più evidente quanto vasto fosse il sapere dei «magicians» che edificarono Stonehenge, Wood sostenne che, anche in virtù della loro disposizione, le «statue mobili degli dei inglesi, semplici blocchi di pietra», erano frutto di conoscenze simili a quelle che avevano consentito agli statuari classici di trarre dal marmo ardite rappresentazioni del movimento, suscettibili di trovare collocazioni diverse. A sostegno di questa tesi Wood paragonò l’equilibrio della structure da lui restor’d, «formata da pietre di dimensioni meravigliose, sollevate in maniera da apparire come porte sovrapposte l’una all’altra», alla statica delle statue antiche e, in particolare, all’arte di Lisippo «che avendo scolpito una figura di Ercole alta quaranta cubiti [l’Ercole di Taranto ora perduto], lo sistemò con tale precisione che a dispetto del suo peso un uomo poteva orientarla con le mani». Grazie alla scienza messa in campo dai sacerdoti che lo progettarono, Stonehenge non divenne «la Babele dei suoi costruttori, ma il monumento al loro mestiere», si legge in un passo di Choir Gaure dal quale emerge la preminenza riconosciuta alla parola mestiere-craft. Nella visione di Wood il fare-costruire è insieme l’origine del mito e la sua sostanza, come Stonehenge gli parve consentisse di constatare. Nel caso di Babele, invece, errori e non finito
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furono conseguenza del fatto che «i costruttori della torre», sostenne, «avevano una falsa idea di Dio»; per questa ragione «tutti i loro sforzi di rappresentare cose celesti finirono nel nulla», portando a compimento il destino della loro opera scritto nella loro ignoranza. Il mestiere che i sacerdoti, «antichi giganti, il diavolo, mago Merlino, stregoni», misero in campo a Stonehenge evitò che «questo miracolo di concentrazione naturale», per usare una espressione di Károly Kerényi su cui ritorneremo, subisse una sorte analoga. Ciò che le rovine restituivano, si legge in due pagine tanto sorprendenti quanto illuminanti di Choir Gaure, era una «struttura composta di pietre di dimensioni magnifiche che possiede una tale regolarità nella sua disposizione generale che potrebbe apparire come un meraviglioso prodotto della Roman Art of Power». Le irregolarità che Wood rilevò analizzando le rovine, non intaccavano l’ordine compositivo impresso a quella che gli appariva come una “danza di giganti” (Chorea Gigantum) ed erano, invece, il risultato del lavoro (labour, tra le cui etimologie vi è la fatica del parto) e non già del mestiere (craft: coraggio, arte, scienza e, appunto, potere). Per Wood i rilievi delle broken pillars rivelavano il problematico convivere delle diverse nature dei saperi individuati da questi due termini legati da un rapporto ancillare: «fabri enim manus architecto pro instrumento est – il lavoro del carpentiere infatti non è che strumentale rispetto a quello dell’architetto», come si legge nell’incipit del De re aedificatoria. Su questo stesso tema Wood si soffermò in The Origin of Building osservando che «in architettura l’ampia e profonda superiorità del lavoro della mente sul lavoro delle mani è stata esaurientemente dimostrata, nel senso più forte del termine, da Platone», prima di venire ribadita da Vitruvio. Anche in Stonehenge, quindi, erano rilevabili «aedificiorum vitia» da Alberti ricondotti al conflitto tra il sapere dell’architetto e le «cause esterne», da Wood spiegati con una semplice, empirica constatazione: «È molto diverso lavorare sulla terra con materiali pesanti rispetto al lavoro che si fa sulla carta con la penna, oltre al fatto che lavorare su un cerchio è molto più difficile che lavorare su una linea». Tra le cause di quanto l’osservazione delle rovine di Stonehenge poteva rivelare imperfetto o compromesso Wood ritenne primario il ruolo giocato dal tempo, incombente oggetto delle interrogazioni che si susseguono in Choir Gaure. Le rovine studiate da Wood non facevano che confermare che il tempo è il «pervicax rerum prosternatur», secondo Alberti, che trova nella natura e nell’azione degli
uomini i mezzi per esercitare il suo potere. Se per Alberti questi strumenti sono «il cocente sole, l’ombra diaccia, le gelate e i venti» e «il nemico barbaro e sfrenato», per Wood, che riprese così una associazione ormai riconoscibile come un tòpos, erano «weather as well barbarous hands». Ma anche la loro azione non intaccò, secondo Wood, l’evidenza con la quale i resti di Stonehenge gli apparvero parlanti rappresentazioni di uno stato di originaria perfezione, prodotto del lavoro umano «il cui disegno si afferma sino in fondo nella rovina delle cose» (Marguerite Yourcenar, Il tempo, grande scultore, 1992). «Se si considerano le pietre ancora erette di Stonehenge», si legge in Choir Gaure, «come pilastri devastati dal tempo e da mani barbare, dalle loro forme regolari ridotti a quello che ora vediamo, ciò ridimensionerà le nostre idee circa il ruolo che l’irregolarità ha avuto nella loro corretta collocazione». La natura e l’origine «degli scarti tra le colonne e delle differenze negli intercolumni» presenti «nella più perfetta opera di architettura realizzata a Roma, ovvero il Pantheon», per Wood erano analoghe a quelle della «grande deformità che si coglie praticamente in ogni pilastro» di Stonehenge, che, pertanto, non poteva essere invocata quale causa e spiegazione del fatto che la «Magnificent Structure» venne «purposely left unfinished», come Wood affermò. Anche Timothy Hyde nel suo libro Ugliness and Judgment. On Architecture in the Public Eye (2019), si è soffermato, quasi facendone il fulcro delle sue considerazioni iniziali, sul significato di queste parole. Stando a Hyde, utilizzandole Wood dimostrò di avere inteso «il non finito (incompleteness) come una condizione positiva, il che implica la sua intuizione più radicale circa la aesthetic presence of Stonehenge, dato che questa idea fa crollare l’altrimenti sottile distinzione tra forma perfetta e rovina (ruined condition)». Se questa osservazione è condivisibile, non lo è, invece, l’endiadi di cui Hyde si è servito per ricondurre a un unico concetto due parole da lui ritenute coordinate. Comprimendone i significati e la complessità semantica loro riconosciuta anche dalla letteratura dedicata all’architettura, egli ha assegnato ai termini deformazioneirregolarità (deformity-irregularity), che peraltro è problematico considerare sovrapponibili oppure sinonimi, e non finito (incompleteness) un ruolo generativo del concetto di brutto (ugliness), la cui individuazione egli ritiene essere l’esito più rilevante delle ricerche condotte da Wood. Choir Gaure non offre appigli per questo procedimento, che si giustifica unicamente sottacendo i significati attribuiti da
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Wood, come abbiamo tentato di dire, alle “irregolarità” da lui constatate prendendo le misure dei resti di Stonehenge, ma ancor più al peso da assegnare alla sua conclusione secondo la quale la costruzione venne volontariamente lasciata incompiuta. Le pagine di Choir Gaure consigliano di porre l’accento, leggendo le parole «purposely left unfinished», sulla prima, purposely, come anche Hyde ci sembra abbia fatto. Il termine lascia intuire che utilizzandolo, Wood lo intendeva connotativo di una decisione che sarebbe riduttivo interpretare quale l’equivalente di una presa d’atto delle enormi e molteplici difficoltà che dovettero essere superate per erigere Stonehenge. Ma l’intera frase non è soltanto riferibile alla materialità dell’opera. Neppure può essere nuovamente interpretata quale dimostrazione che Wood, tanto empiricamente coerente nell’approntare i rilievi delle rovine, fu, invece, un fantasioso e inaffidabile studioso delle loro origini. Come tutti i templi Stonehenge fu un’opera “non conclusa”. «Tutte le costruzioni sacre praticamente in ogni parte del mondo non sono state terminate di proposito per consentire alle offerte degli uomini di buona volontà di completarle», scrisse Wood, cogliendo come la natura di Stonehenge non fosse diversa da quella dei templi più antichi, gli heketópedoi naoí, «offerte divenute architettura», configurati dal rinnovarsi dei sacrifici e dei doni (Károly Kerényi, Religione antica, 2001). Per questa ragione l’incompleteness di Stonehenge apparve a Wood componente costitutiva della sua perfezione e della sua originaria bellezza, in quanto luogo costruito, a differenza di Babele, nel rispetto della parola divina per accoglierne ogni manifestazione nell’ordine matematico del cosmo. Ma Hyde, sebbene abbia ricordato che Wood non lo utilizzò mai, ha sostenuto una ipotesi opposta, ovvero che il termine «ugliness è implicitamente compreso nel suo ragionamento e non è riferito all’aspetto deteriorato delle rovine in quanto negazione del bello (beauty), ma, invece, è dotato di un proprio senso finalizzato e deliberatamente perseguito nell’incompletezza intenzionale di Stonehenge». In questo modo, secondo Hyde, stranamente parsimonioso nell’argomentare questo passaggio che delinea in maniera opaca la repentina conclusione delle sue considerazioni, Wood diede «forma a una cornice che garantiva il coesistere del brutto con l’estetica pubblica (civic aesthetics)». Così, ha concluso Hyde, Wood codificò «una architettura civile per un sistema economico», formatosi con il fiorire a Bath di una nuova imprenditoria all’inizio del Settecento, «che non aveva ancora una adeguata rappresentazione architettonica».
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Nonostante offra utili informazioni circa gli strumenti normativi dei quali si servirono quanti contribuirono a edificare le opere progettate dai Wood, di esse Hyde non si è occupato. Ma per comprendere la singolarità della figura di Wood il Vecchio, in particolare, è opportuno spostare ora l’attenzione su Bath e su quanto egli e Wood il Giovane vi costruirono che, in ogni caso, ci pare problematico considerare alla stregua di una manifestazione della «social function of ugliness», come Hyde ha lasciato intendere. Le opere di Wood e del figlio sono tra gli esiti più caratteristici dei decenni che vennero dopo «il lungo regno del lusso e del piacere di re Carlo II» (Shaftesbury, A Letter Concerning the Art, or Science of Design, 1712), quando dalla mescolanza tra «distinzione nobiliare e denaro borghese» venne formandosi la nuova «gentry inglese» che rese la Gran Bretagna, constatò Daniel Defoe, «una nazione di gentlemen». Il consumo di lusso che alla metà del Settecento Isaac de Pinto spiegava essere «necessario per far fiorire un grande Regno, per favorire i commerci, la circolazione, l’industria e le manifatture» e porre rimedio alla «diseguaglianza delle condizioni rendendo il superfluo dell’uno il sostegno delle necessità dell’altro» (Essai sur le Luxe, 1762), particolarmente in Inghilterra divenne determinante per un ulteriore sviluppo dell’economia capitalistica alla vigilia dell’inizio del XIX secolo. Il soddisfacimento di «esigenze di raffinatezza», il consumo voluttuario e di tutto ciò che è eccedente lo scopo trasformarono il lusso in una necessità. Se nel 1922 quando scrisse Lusso e capitalismo e il capitolo Il lusso nella città, in particolare, Werner Sombart avesse conosciuto The Original Bath Guide avrebbe probabilmente notato che tutti quelli che egli andava elencando quali «elementi del lusso che creano nuove possibilità di vivere in maniera divertente e ricca», teatri, sale da ballo e da gioco, bagni, negozi non soltanto erano ben rappresentati a Bath, ma che lì il lusso aveva subito «una riformulazione collettiva, urbanizzata». Nei decenni durante i quali i Wood furono attivi a Bath questo processo divenne incalzante. Nel 1727, l’anno in cui Wood il Vecchio si trasferì a Bath, ne erano trascorsi ventitré da quando «il signor Nash aveva visitato la città per la prima volta». Allora «il gioco era la principale passione dei frequentatori e degli abitanti di Bath; tutti i ceti sociali erano schiavi del vizio e tutto era sacrificato al vizio», riferisce The Original Bath Guide. Ma quando, per decisione della Corporation che gestiva lo sfruttamento delle acque, Richard Beau Nash giunse in città le cose cambiarono rapidamente. Nash era
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un celebre dandy, uno dei massimi interpreti del culto del frivolo, il beauism destinato a estinguersi solo con la morte di George Beau Brummell cento anni più tardi. In quanto Master of Ceremonies spettava a Nash assegnare le posizioni da occupare ai balli, ai pranzi, ai concerti, alle cerimonie che aveva il compito di organizzare a Bath per intrattenere quanti decidevano di risiedere nelle abitazioni che nel frattempo venivano costruite, tra gli altri, dai Wood. A Nash era affidata l’incombenza di indicare quali abbigliamenti indossare nelle occasioni mondane e spettò a lui imporre il divieto di portare la spada, prima nelle sale da ballo per evitare i danni che le lame arrecavano agli abiti delle signore, ma poi nell’intera città, adottando così uno dei provvedimenti, spesso stilati con ricercata ironia, che introdusse durante la sua «domination». 17
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In questi stessi anni Bath godette di uno sviluppo urbanistico impetuoso. Dato questo contesto risulta difficile non cogliere come le prove fornite da Wood circa le “vere origini” di Bath, all’epoca priva di qualsiasi distinzione nobilitante, potessero avere risvolti strumentali e non fossero del tutto disinteressate. I suoi studi avevano provato che Stonehenge, il più illustre dei monumenti inglesi, e
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17 Anonimo, Four Bath Worthies, 1735 (da destra, John Wood il Vecchio, Robert Gay, Ralph Allen, Richard Jones) Anonymous, Four Bath Worthies, 1735 (from right, John Wood the Elder, Robert Gay, Ralph Allen, Richard Jones) 18 William Hoare, Richard Beau Nash, 1761 William Hoare, Richard Beau Nash, 1761 19 vista parziale di Stonehenge oggi partial view of Stonehenge today 20, 21 John Wood il Vecchio e John Wood il Giovane, The Circus, Bath, 1754–68 John Wood the Elder and John Wood the Younger, The Circus, Bath, 1754-1768
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22 veduta dall’alto del Circus (John Wood il Vecchio 1754– 68), alla sinistra l’Assembly Rooms (John Wood il Giovane) view from above of the Circus (John Wood the Elder, 1754–68), and to the left the Assembly Rooms (John Wood the Younger) 23 John Wood il Giovane, Assembly Rooms costruita per gli intrattenimenti mondani, Bath 1769 John Wood the Younger, Assembly Rooms built for worldly entertainments, Bath 1769 24 Robert Cruikshank, The Fancy Ball at the Upper Rooms, Bath, 1825 Robert Cruikshank, The Fancy Ball at the Upper Rooms, Bath, 1825 25 Anthony Walker, Prior Park the Seat of Ralph Allen, near Bath, 1752 Anthony Walker, Prior Park the Seat of Ralph Allen Esq., near Bath, 1752
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Bath avevano origini comuni, mentre i suoi rilievi avevano restituito, sostenne, «the body of Stonehenge che si deve considerare come la struttura più bella e magnifica». Argomentando questa conclusione, egli aggiunse che «per quel che riguarda la bellezza, che cosa vi può essere di più piacevole per la vista dei differenti colori della pietra e dell’alternanza di luce e oscurità prodotta dalla dispozione dei pilastri» nel tempio dei Druidi? Tralasciando ogni considerazione circa il fatto che Wood riteneva il gioco di chiaro e scuro prodotto dagli scarti cromatici dei monoliti di Stonehenge una rappresentazione dello scorrere delle ore, dell’opposizione di bene e male, del diavolo e del buon Dio, si può ora indulgere alla tentazione e pensare che, esprimendosi in questo modo, egli si stesse riferendo anche alle opere da lui costruite. È poi logico notare che una dichiarazione di questo tenore forniva, più prosaicamente, un buon argomento a favore dell’impiego della “pietra 25
di Bath”, particolarmente apprezzabile nel mondo di imprenditori colti e di curiosi eruditi da lui frequentato. Mentre «lo spirito della Massoneria in nessun altro luogo assumeva un carattere deciso e veniva fervidamente sostenuto come a Bath», Beau Nash trasformava la città in «a province of pleasure», il «palladianesimo ortodosso iniziava a soppiantare l’uso individuale di locali forme vernacolari», Wood il Vecchio fece della pietra di Bath il materiale della sua «grand manner», esaltandone tutte le qualità (Walter Ison, The Georgian Buildings of Bath, 1948). Verosimilmente tra gli artefici delle trasformazioni della città, Ralph Allen era la persona che aveva più ragioni per apprezzare quanto la lettura di Description of the City of Bath e di Choir Gaure poteva suggerire. Allen, lo abbiamo ricordato, era il proprietario delle cave dalle quali veniva
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estratta la pietra impiegata dagli architetti al tempo presenti in città, ma non solo qui, visto l’uso che John Nash ne fece, diversi anni dopo però, anche a Buckingham Palace. Wood aveva celebrato le qualità estetiche e le valenze evocative e simboliche di questo materiale, tentando di dimostrarne la provenienza dagli stessi luoghi dove erano stato scavato quello impiegato da re Blalud, il fondatore di Bath. Il diffondersi dell’uso di questa pietra era uno dei suoi fini, così come lo era per Allen, al quale non poteva sfuggire la possibilità di trarre un duplice vantaggio dagli studi compiuti da Wood. Da un lato si trattava dell’ovvio beneficio che egli avrebbe potuto ottenere dal maggior sfruttamento delle sue cave; dall’altro, quello derivante dall’aumento dei valori immobiliari, determinato dal fatto che quanti giungevano a Bath attirati dalle terme e dallo stile di vita imposto da Beau Nash non potevano mancare di apprezzare la nobiltà del materiale, attestata da Wood, impiegato per costruire le loro abitazioni e, soprattutto, i loro raffinati prospetti lungo le strade più eleganti della città. Non può quindi sorprendere la predilezione che Allen, in quanto committente, riservò ai Wood. Dopo aver ristrutturato in città la sua prima abitazione su Lilliput Alley, Wood il Vecchio progettò per lui, senza però completarla, una nuova residenza, assai più rappresentativa, Prior Park. Come si nota anche osservando alcune stampe dell’epoca, una strada ferrata, fatta costruire da Allen per trasportare i materiali estratti dalle sue cave, correva parallela e tangente alla recinzione che delimitava la sua proprietà, sovrastante l’abitato di Bath. Trascorsi nove anni dal momento in cui, nel 1726, la sua offerta per la fornitura delle pietre per l’ampiamento del Greenwich Hospital a Londra era stata rifiutata, Allen avviò la costruzione della villa di Prior Park. Come ha osservato anche John Summerson (The Unromantic Castle, 1990), il suo scopo era superare «i pregiudizi nutriti a Londra nei confronti della pietra di Bath», dimostrando come grazie al suo impiego si potessero ottenere, si legge in An Essay Towards a Description of the City of Bath, «i più grandi vantaggi e la più grande varietà». Ciò indusse l’architetto e il committente a eleggere quale termine di paragone per la villa che intendevano edificare a Prior Park la imponente dimora a Wanstead fatta costruire da Richard Child su progetto di Colen Campbell e da questi pubblicato nel primo volume del Vitruvius Britannicus nel 1715. Allen era consapevole della rivalità con Wanstead e per questa ragione insistette affinché nella sua residenza le colonne del portico, costruite con la pietra da lui prodotta, avessero un
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diametro sensibilmente maggiore rispetto a quello scelto da Campbell, come Wood non mancò di ricordare. Ma il prospetto disegnato da Wood, soprattutto se paragonato al secondo progetto del 1720 per Wanstead, non possedeva le “sottigliezze veneziane”, notate da Rudolf Wittkower, che Campbell aveva saputo mettere in campo. L’aspetto ruvido della villa di Prior Park era un riflesso degli scopi strumentali che indussero il committente a costruirla; non per questo, però, si è autorizzati a considerarla soltanto un pallido episodio se confrontato con quanto Wood il Vecchio e il figlio seppero realizzare in altre parti della loro città. Una volta stabilitosi a Bath, Wood il Vecchio immaginò di allestire un Royal Forum. Questo progetto non ebbe seguito, ma già dal 1727 i suoi primi edifici su Chapel Court «erano superiori per scala e carattere a ogni altra precedente costruzione», ha scritto Walter Ison. A essi fecero seguito diversi altri interventi, dei quali si può apprezzare l’estensione grazie alla mappa riprodotta accanto a queste pagine tratta dal libro dello stesso Ison. Tessa Morrison ha definito un «holistic monumental design», come tale da Wood concepito, quello che egli e il figlio portarono a parziale compimento nel volgere di mezzo secolo a Bath. Oltre a quanto costruito su Queen Square, sulla Parade, su Terrace Walk, il Circus, iniziato nell’anno della sua morte, il 1754, e poi completato dal figlio nel 1774, è la più rappresentativa delle opere progettate da Wood il Vecchio. Tra le strade da lui immaginate incernierate sul Circus, Wood il Giovane trasformò Brook Street nella principale via di accesso al Royal Crescent, la sua opera più celebre e innovativa, probabilmente, però, concepita dal padre. La costruzione iniziò nel 1767 su un terreno ottenuto in affitto da un ricco proprietario terriero, Benet Garrard. Nel giro di meno di dieci anni il prospetto lungo centocinquanta metri e scandito da centoquattordici colonne venne completato. Il fronte abbracciava quello che era destinato a divenire il Victoria Park. Lo scandivano gli ingressi alle abitazioni. Una volta prese in affitto le porzioni ritagliate dal fronte, anche in questo caso i locatari potevano decidere liberamente a chi affidare la costruzione delle loro case sui lotti retrostanti. Stando alle soluzioni architettoniche da loro adottate e a queste brevi considerazioni che dimostrano come i Wood vennero coinvolti non soltanto come progettisti ma quali protagonisti dalle più significative imprese speculative realizzate a Bath, non è ovvio, lo ripetiamo, cogliere le connessioni tra le loro costruzioni e quanto si può leggere nei libri di John Wood il Vecchio dei
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quali ci siamo occupati. Questo tema, però, è stato seriamente indagato da Tessa Morrison, Jo Odgers (The Emblematic City: John Wood and the Refounding of Bath, 2006) e Tim Mowl (Prehistory and Palladian. John Wood’s Circus in Bath, 1988). I loro studi hanno dimostrato, per esempio, che la pianta di Stonehenge, disegnata da trenta e ventinove pilastri nel cerchio esterno e in quello interno rispettivamente, rappresentò il modello per la disposizione delle trenta abitazioni ordinate intorno al Circus, il cui diametro corrisponde a quello del tempio dei Druidi. Anche nella “macchina” progettata da Wood il Giovane riproducendo il movimento della luna, il Crescent, il corpo di fabbrica ospitava trenta abitazioni. Ma come Morrison ha notato, nel Crescent non si coglie il rigore con cui Wood il Vecchio seppe interpolare nei suoi progetti le figure geometriche, avvalendosene quali «forme formatrici» si potrebbe dire con Shaftesbury, studiate in Choir Gaure. Ma nonostante ciò il Crescent rappresenta la spettacolare conclusione della riforma urbana che i Wood realizzarono a Bath attraverso un processo di progressivo adattamento alle condizioni in cui lavorarono e che permise alla loro opera di imporsi come un modello anche in virtù del linguaggio palladiano da loro adottato. Nel 1726, mentre Wood si apprestava a fare ritorno a Bath, Lord Burlington era sul punto di completare la sua villa di Chiswick presso Londra. Da poco erano terminati i lavori di Wanstead House; meno di una decina di anni dopo, nel 1734, William Kent, assistito dallo stesso Lord Burlington, avrebbe dato avvio alla costruzione di Holkham Hall a Norfolk. Queste opere erano prove evidenti dei favori di cui godeva la “rivoluzione nel nome di Palladio” avviata da Lord Burlington, di cui ha parlato, abbiamo ricordato, Rudolf Wittkower. Come ogni rivoluzione anche questa implicava un ritorno o, se si preferisce, una regressione a un inizio, come David Watkin ha intelligentemente osservato quando ha scritto: «Chi avrebbe potuto predire che nel 1715 sarebbe sorto un movimento fermamente determinato a rovesciare l’intero stile barocco, così saldamente consolidatosi grazie alle opere di brillanti architetti quali Hawksmoor, Archer e Gibbs? Ma proprio in quel momento un gruppo guidato da Colen Campbell e Lord Burlington rese palese la propria intenzione di portare indietro le lancette dell’orologio esattamente di cento anni, purificando l’architettura inglese di ogni stravaganza, rendendo omaggio a Vitruvio, Palladio e Inigo Jones» (English Architecture, 1979). John Wood il Vecchio completò quest’opera: si avvalse di
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26, 27 John Wood il Vecchio, Queen Square, Bath, 1728–37 John Wood the Elder, Queen Square, Bath, 1728–37
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28 Bath, veduta aerea del Circus, di Brook Street e del Royal Crescent Bath, aerial view of the Circus, Brook Street and the Royal Crescent 29 the Circus, Bath, pianta ridisegnata da Tessa Morrison (op. cit.), da Jo Odgers, The Emblematic City: John Wood and the Refounding of Bath, 2006 the Circus, Bath, plan redrawn by Tessa Morrison (op. cit.) from Jo Odgers, The Emblematic City: John Wood and the Refounding of Bath, 2006 30, 31, 32 Bath, vedute aeree Bath, aerial views
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un orologio a polvere per avviare un conteggio del tempo a partire dal suo inizio. Per lui potrebbero valere le parole che John Maynard Keynes usò per ricordare l’ultimo e il più grande dei magicians, Isaac Newton, «che osservò il mondo visibile e intellegibile con gli stessi occhi di coloro che iniziarono a costruire la nostra eredità intellettuale poco meno di 10.000 anni fa». Gli occhi di Wood non erano certamente penetranti come quelli di colui che possedeva «la mente di Copernico e di Faust insieme» (John M. Keynes, Newton the Man, 1942), ma gli consentirono di osservare con attenzione quanto intorno a lui stava accadendo e di leggere con diligenza, a iniziare da I quattro libri. Per Wood doveva essere naturale constatare come i suoi contemporanei andassero traendo da Palladio un modo di concepire le piante degli edifici per l’Inghilterra altrettanto nuovo di quello che l’impiego degli ordini, desunto dal Primo libro, consentiva di fare relativamente al disegno dei prospetti. Ne erano derivati organismi variamente articolati, composizioni volumetriche le cui diversità possono essere apprezzate osservando lo spettro di opere ai cui estremi si possono immaginare la villa di Chiswick, da un lato, e Holkham Hall, dall’altro, e di cui fa parte anche la residenza di Prior Park. Il Libro secondo, com’è noto, è dedicato alle fabbriche di ville. Palladio vi descrisse succintamente i suoi progetti per i signori Francesco Badoero, Marco Zeno, Giorgio Cornaro, Leonardo Emo e via dicendo. Nelle presentazioni che accompagnano le tavole, gli elenchi degli ambienti distribuiti nelle ville e delle funzioni alle quali erano destinati occupano spesso altrettante righe di quelle dedicate alle descrizioni dei portici, delle colonne, delle decorazioni. Questi elenchi spiegano le ragioni della varietà degli impianti planimetrici e delle aggregazioni volumetriche progettati da Palladio. Non di rado a queste postille si accompagnano annotazioni riguardanti il paesaggio. Nel caso della villa a Meledo, per esempio, Palladio scrisse che «il sito è bellissimo percioche è sopra un colle, il quale è bagnato da un piacevole fiumicello ed è nel mezzo di una molto spaciosa pianura e accanto ha una assai frequente strada». Quando Wood il Vecchio giunse a Bath vi trovò soltanto «letamai, scannatoi, porcili». Progettando Queen Square il suo compito e il suo tornaconto comportavano la costruzione di abitazioni da offrire a quanti andavano facendo di Bath una città del piacere. Per queste case lui e il figlio definirono alcune tipologie, ma raramente ebbero modo di riscattarle dai fogli sui quali le disegnarono. Per
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valorizzare al meglio i terreni occupati, Wood il Vecchio ne studiò le aggregazioni quali generatrici di altrimenti inesistenti spazi urbani. Così, quando progettò il Circus, disegnò una nuova piazza, incorporandovi il valore rappresentato dal fatto che la sua impronta corrispondeva a quella di Stonehenge e ne riproduceva l’armonia astrale. Questo valore aggiunto aveva una incidenza marginale sulla redditività della specifica iniziativa immobiliare, ma ne aveva una rilevante rispetto alla immagine con la quale Bath mirava a identificarsi e al conseguente andamento delle quotazioni delle proprietà fondiarie. La ricchezza delle piante e delle composizioni di Palladio, la facondia con cui il suo linguaggio aveva saputo adattarsi alle diverse tipologie, le differenziazioni spaziali e le articolazioni dei volumi riflettevano le diversità delle funzioni che ciascuno dei suoi edifici doveva accogliere. Questa varietà, così apprezzata nel mondo ruotante intorno a Lord Burlington, non ebbe alcuna incidenza sui progetti grazie ai quali i Wood configurarono il volto di Bath, modellato dalle ordinary townhouses da loro costruite. Nè, d’altro canto, vi erano per loro siti da studiare, viste da privilegiare, preesistenze alle quali guardare. A loro spettò il compito di creare il loro stesso paesaggio, come il Crescent dimostra; dovettero dare a esso una forma “urbanizzata” facendo ricorso a ogni più lontana suggestione, come nel caso del Circus decantando quanto Stonehenge aveva permesso a Wood il Vecchio di comprendere circa l’armonia delle misure che regolano allo stesso tempo il farsi delle cose e i movimenti degli astri. Ne derivarono quinte disegnate a partire da linee sempre continue, rette, curve, circolari che fossero, le invalicabili linee che definivano i limiti delle proprietà fondiarie. Queste linee determinarono anche le composizioni degli alzati, rigidamente complanari e privi di profondità. Se si osserva il “portico” inserito nel prospetto a est di Queen Square si nota che non si tratta d’altro che di un profilo, un volume in realtà riassorbito dal corpo di fabbrica, nobilitato soltanto, come nelle testate, da sei colonne addossate, generatrici di ombre in tralice, impossibilitate a connotare un intervallo, a scandire piani in successione. Ma anche questa ricercatezza puramente grafica scomparve nel Circus; qui i lunghi prospetti sono scanditi unicamente da una successione di pieni e vuoti, esplicitamente lasciati privi di commenti. Questa concisione, però, è funzionale all’emergere del disegno della piazza, il cui piglio è paragonabile soltanto a quello del Crescent, dove le basi delle colonne addossate
poggiano su un basamento continuo, tanto spoglio quanto teso, che esalta il gesto avvolgente della costruzione e la stacca dal suolo completando magistralmente il movimento discendente del terreno. All’eloquenza delle figure geometriche generatrici degli impianti del Circus o del Crescent, fa riscontro la rigidezza dei prospetti delle costruzioni. Ogni “variazione”, come Wood il Vecchio aveva detto, è generata solamente dalle intrinseche qualità della pietra utilizzata e dallo scorrere su di essa della luce. Le figure geometriche da cui deriva la forma della città sono uniche; i fronti sulle strade e le piazze abbracciano l’iterazione, la ripetitività: in ambedue i casi restituiscono immagini fedeli del processo di moltiplicazione in altezza e in lunghezza del valore dei suoli. La città del lusso si venne così costruendo a partire da meccanismi apparentemente opposti: l’evocazione del suo passato mitico e la celebrazione della riproducibilità; dalla loro dialettica è derivata l’unicità di Bath, risultato della ricerca del cambiamento nel permanente svolta da Wood il Vecchio con i suoi studi. Al soddisfacimento dei frivoli rituali che scandivano il trascorrere della vita in città, i Wood provvidero a incorporare il valore unificante e fondante del passato. Non sono molti gli esempi che, come la città di Bath resa moderna da Beau Nash, da Ralph Allen e da Wood il Vecchio e Wood il Giovane, possono essere invocati quali dimostrazioni del «convergere in un fare unitario della tendenza all’uguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale» di cui la moda è espressione secondo Georg Simmel (La moda, [1911] 1985). Per questo movimento convergente i Wood apprestarono un vasto palcoscenico e ne modellarono la platea adottando come cifra l’intransigenza con la quale si avvalsero dei valori formali che pensavano custoditi nella pratica dell’architettura sin dal più lontano passato, come Wood il Vecchio comprese dopo avere compiuto il suo viaggio verso the origin of buildings e avere completato i rilievi di Stonehenge. Se, come abbiamo fatto, ci poniamo la medesima domanda dalla quale David Watkin ha preso le mosse chiedendosi come sia stato possibile che intorno all’inizio del Settecento in Inghilterra le lancette del tempo siano state spostate all’indietro nell’intento di “purificare” l’architettura dagli eccessi barocchi, tenendo conto dal grande saggio di Simmel sulla moda ci si trova di fronte alla incongruenza più coinvolgente con cui l’opera di Wood il Vecchio sfida i lettori dei suoi libri e quanti ammirano le sue costruzioni. “Barocco” e “classico” è l’opposizione
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della quale Watkin ha parlato. Accontentandoci ora di quanto Simmel suggerisce, “classico” lo possiamo definire come «un concentrarsi della forma esteriore (Erscheinung) che non offre sufficiente appiglio alle modificazioni, al turbamento, alla distruzione dell’equilibrio». Al contrario “barocco” ha in sé «l’inquietudine, il carattere di casualità, la sottomissione all’impulso del momento che la moda realizza come forma della vita sociale». Se si mettono tra parentesi le considerazioni che le ragioni per le quali vennero costruite possono suggerire, con un certo sforzo ma per comodità si può accettare di definire “classiche” le scenografie progettate dai Wood a Bath. Erano architetture senza spazi nella misura in cui il loro spazio era quello della città. La loro mancanza di interiorità fu direttamente proporzionale alla profondità dell’azione che svolsero nel dare forma all’esteriorità. Lo spettacolo che tra di esse aveva luogo era il continuo fluire della moda. Registravano un radicale cambiamento culturale: come le opere di Campbell e di Lord Burlington, anche quelle dei Wood avevano eletto la stravaganza ad avversario e fatto proprio l’elogio del rigore tessuto da Shaftesbury, giustificato dall’autorità della tradizione fondata da Vitruvio, Palladio e Inigo Jones. Ma ogni apprezzamento della tradizione comporta una affermazione a favore dell’autorità, di «una forza e di un destino estraneo», secondo Simmel, che entra in conflitto con l’essere «sottratta agli influssi materiali della vita comune» costitutivo di ogni forma classica. Anche questa, però, come accadde nelle opere dei Wood, è sempre esposta al pericolo di trasformarsi nel suo opposto e di divenire una moda nel momento in cui, come accadde a Bath, «il classico si converte in classicistico e l’arcaico in arcaistico». In The Origin of Building si incontrano due pagine che hanno attirato l’attenzione di Rudolf Wittkower e gli hanno offerto l’occasione di scrivere Federico Zuccari and John Wood of Bath, il saggio che abbiamo già avuto modo di citare. La prima di queste pagine inizia con una lode della tradizione. Lì dove viene affrontata la questione centrale dell’unione di «theory with practice», che sola merita all’architetto «ogni competenza necessaria per condurlo alla perfezione alla quale mira», all’inizio del secondo libro viene invocata l’autorità del «great Author», Vitruvio. Wood ritiene il termine «theory» sinonimo di «labour of mind», della capacità di utilizzare «principi e precetti fondati sulla natura, poiché altrimenti è il capriccio (caprice) che diviene tema di speculazione, come è evidente se si prende in esame la casa costruita da Federigo Zuccari a Firenze».
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Zuccari fu un celebre pittore, architetto e scultore e per buona parte della sua vita, continua Wood alludendo evidentemente alla autorità della tradizione di cui abbiamo parlato, fu contemporaneo di Palladio e Inigo Jones. San Matteo insegnò, prosegue The Origin of Building, che è saggio costruire una casa sulla roccia; così fece Zuccari utilizzando per l’attacco a terra del suo palazzo pietre inscritte in un quadrato, immagine di stabilità, solidità e del cubo “rapresentazione per i Greci di Mercurio”. La parte superiore del prospetto Zuccari la costruì con i mattoni, la adornò con la pietra e con un grande dipinto al centro. «Sulla base dell’analisi più imparziale si può quindi concludere che il signor Zuccari decise di dare prova con questi esempi dei tre aspetti della professione in quanto teoria e pratica», continua Wood, per poi proseguire: «La stranezza di questo progetto apparirà molto più consistente se paragonata a uno di Palladio, conforme alla regola data dal suo grande maestro, Vitruvio. Vitruvio ci dice che l’architettura consiste in quei vari saperi possedendo i quali un uomo può correttamente assumere il titolo di architetto: sapere scrivere e disegnare, essere abile nell’uso della geometria, avere conoscenze nel campo dell’ottica, avere confidenza con l’aritmetica e la musica, essere molto colto nei campi della storia e della filosofia e avere qualche cognizione per quanto riguarda la fisica, la legge e l’astrologia». Per rendere ancor più chiara questa conclusione, Wood pubblicò due tavole: in una è riprodotto il prospetto di Palazzo Zuccari a Firenze, nell’altra la facciata di un progetto di Palladio. Questo secondo disegno, però, a differenza di quanto Wood pensava, non è di Palladio; è “palladiano”, una dimostrazione in più, anche se di breve respiro, che è impossibile studiare il passato senza avere lo sguardo offuscato dalle domande che il nostro tempo induce a rivolgergli e che sempre il passato lo si legge secondo il proprio “stato d’animo”, come amava dire Max Weber. Ma l’accusa principale che Wood mosse al “capriccioso” prospetto del palazzo fiorentino si basava sul fatto che lì le conoscenze delle quali Zuccari si era servito, quelle di coloro che usano la pietra, gli strumenti per scolpire e il pennello per dipingere, non si erano fuse in un linguaggio prodotto della labour of the mind, che unifica tutti i saperi di cui l’architetto deve disporre traendone non già una sintesi ma un inedito ordine –ed era proprio questo il linguaggio, l’«elocution» capace di infondere nelle costruzioni l’ordine del mondo che Wood aveva riconosciuto essere il dono di cui disponeva l’Ercole britannico, Ogmius, uno dei costruttori di Stonehenge.
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Nel momento in cui si apprestava a rifondare la pratica del lavoro architettonico sulla scorta di quanto le trasformazioni della città e della società contemporanee richiedevano, Wood compì uno sforzo straordinario per dimostrare che l’architettura ha origini immutabili. Allorché «l’età del ferro» batteva alle porte e avanzava le sue pretese su ogni antica professione, come Max Weber ha spiegato, Wood il Vecchio volle restaurare una concezione del mestiere che pensava dovesse essere custode delle sue origini, che egli riteneva discendessero dalle indicazioni date dal Signore a Mosè. Da queste prescrizioni erano derivate «la regolarità, l’armonia, le proporzioni» delle costruzioni degli Ebrei ordinate, rigorose, misurate. Erano i valori che l’architetto deve perseguire e che Wood il Vecchio si prefiggeva di restaurare quando partì per visitare Stonehenge. In Choir Gaure scrisse di questo viaggio non metaforico dilungandosi nel descrivere l’impetuoso temporale che ne accompagnò e rese difficile l’inizio. Nel farlo impiegò accenti adatti per restituirne la numinosità, quasi egli avvertisse l’ammonimento che gli dei gli stavano rivolgendo scatenando le forze della natura mentre si avventurava nel tentativo di trovare in quello che considerava l’inizio delle cose, Stonehenge, la giustificazione di quanto egli andava facendo. Da quel viaggio Wood il Vecchio trasse il segreto del suo successo, il riconoscimento del valore fondante nei modi e nelle forme del rigore. Da ciò il più radicale paradosso della sua opera: nel momento in cui ebbe l’avventura di modellare il volto di Bath, gli assegnò i tratti di una maschera raggelata. Costruì piazze e strade rendendole simili a uno spazio teatrale che offriva alla vista una successione di luoghi urbani concepiti per rappresentarne l’armonioso rapporto con le leggi della natura. Progettò quinte che non potevano ammettere alcun capriccio poiché perfettamente corrispondenti all’intrinseca forza riproduttiva delle leggi economiche all’origine delle trasformazioni di ogni città. Grazie alla riduzione dell’architettura al grado zero di un linguaggio finalizzato a trasmettere valori immutabili, le costruzioni dei Wood hanno accompagnato la crescita di Bath. Ma Bath è divenuta una città moderna nella misura in cui i suoi spazi concepiti da chi li progettò ispirati da leggi perenni vennero occupati dalla fuggevolezza della «vita urbanizzata», dalla caducità in cui risiede, diceva Georg Simmel, «il fascino propriamente piccante e stimolante della moda», che riconosce a tutti un diritto di cui John Wood il Vecchio riteneva gli architetti non debbano avvalersi, il diritto all’infedeltà.
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33, 34 John Wood il Vecchio, The Origin of Building: or the Plagiarism of the Heathens Detected, Bath 1741, tavole con i prospetti di Palazzo Zuccari a Firenze di Federico Zuccari (1578) e di un ediďŹ cio attribuito ad Andrea Palladio John Wood the Elder, The Origin of Building: or the Plagiarism of the Heathens Detected, Bath 1741, plates with elevations of Palazzo Zuccari in Florence by Federico Zuccari (1578) and of a building attributed to Andrea Palladio 35 John Wood il Giovane, Royal Crescent, Bath, 1767 e segg. John Wood the Younger, Royal Crescent, Bath, 1767 et seq.
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Architecture’s right to infidelity when it becomes a city: John Wood the Elder and the city of Bath Francesco Dal Co
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From the first decades of the 1700s the city of Bath, known since the Roman era for its hot springs, was gradually transformed into a “center for free time” of London’s high society, “in search of an entertaining place to spend the summer,” wrote John Summerson (Architecture in Britain 1530-1830). No less convinced than the authors of the Original Bath Guide in 1834 that “it would be too tedious to enumerate all the diseases curable by Bath Water,” and attracted by the intense social life of the city, this privileged class because Bath’s main source of clientele. The son of a builder, John Wood was born at Twerton, near Bath, in 1704. After having worked at Bramham Park for Robert Benson, 1st Baron Bingley, where he was introduced to architecture, and after attempting some speculative initiatives in London, in 1727, just past 20, Wood arrived in Bath. He was attracted by the prospects of working for Robert Gay, a physician and eminent landowner, and for Ralph Allen. In the same period, glimpsing the opportunities generated by the urban growth of Bath, Allen had invested his wealth gained through management of the postal service in various properties, and in the quarries of Combe Down and Bathampton Down which yielded the stones used for whatever was built in the city. In the article “Bath: Walks Within the Walls” (Architectural Design, October 1969), using a rough but effective comparison, Peter Smithson wrote that “Ralph Allen was to Bath what Juscelino Kubitschek was to Brasilia. Wood the Elder was Allen’s architect, as Niemeyer was Kubitschek’s.” After 1727 Wood and his son, John Wood the Younger, transformed Bath into a “Rome in England.” This naive but widespread conviction was also shared by Peter Smithson, who nevertheless, without contradiction, noted that Bath “is a town of houses,” called “ordinary townhouses” by John Summerson. These houses were built mostly for purposes of speculation, starting with the ingenious system of land usage developed by Wood the Elder in the construction of Queen Square. Making concatenated and orderly units for the frontage at the edge of the square, he increased the appeal of the lots behind them which he had rented for 99 years from Robert Gay, leasing them and leaving their tenants free to develop the parcels as they wished. In this way, Wood created the first of a series of streetfronts designed in keeping with the most modern tastes, which radically transformed the urban image and order of Bath. The Palladian elevations thus built, which can still be admired at Queen Square, in the Royal Crescent, “an inverted Colosseum,” in the Circus and other parts of the city, made Bath a peerless example of the reciprocal relationship between architectural language and urban design. But in spite of the clear rule of “control and cohesion” Wood was able to impose on the ”monumental unity” of the new urban developments (Peter Smithson), his
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books An Essay Towards a Description of the City of Bath and Choir Gaure, Vulgarly Called Stonehenge, published in 1742 and 1747, allow us to understand that what he had done or simply designed was aimed at compensating the city for the devastations inflicted on the primitive Celtic settlement by the Romans. If we consider the fact that precisely in those years, following the studies conducted by Edward Lhuyd, scientist, conservator of the Ashmolean Museum and friend of Isaac Newton, the recovery of Celtic and Druidic traditions and culture was a timely theme not just in Wales, Wood’s awareness of this theme to the point of inclusion in his studies should come as no surprise. Precisely for this reason, Wood’s books confront us with the singularity and contradictory character of his legacy, because the language he utilized as an architect may seem hard to trace back to the basic curiosities at the origins of his research. As the most recent literature also confirms, this constituent paradox has made it complicated to interpret and explain Wood’s work. Any attempt to do so cannot help but examine his writings. Though it requires a certain amount of patience, reading The Origin of Building: or the Plagiarism of the Heathens Detected (1741), An Essay Towards a Description of Bath (1742), and above all Choir Gaure, Vulgarly Called Stonehenge (1747), can be a gratifying exercise. Carrying it out with the proper circumspection, avoiding the judgment of his writings as the results of the work of an “outrageously bad historian,” as Tim Mowl and Brian Earnshaw have written in John Wood, Architect of Obsession (1988), but studying the texts for what they are, namely documents, one has the possibility of getting to know the unusual personality of their author, who with The Origin of Building has left us “the most peculiar book on architecture written in England during the 18th century,” as Rudolf Wittkower observed (“Federico Zuccari and John Wood of Bath,” Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, VI, 1943). The Origin of Building made use of what Wood, like many antiquarians of his day, had learned from The Chronology of Ancient Kingdoms Amended by Newton, published in 1728, one year after the author’s death. Also for Wood, Solomon was the most ancient of kings, and the temple of Jerusalem described in detail by Newton in the fifth chapter of the Chronology and in other sources like the Ezechielem Explanationes of Villalpando and Del Prado, contained in the library of Wood the Younger, or Entwurff Einer Historischen Architektur by Fischer von Erlach, translated into English in 1730, was the undeniable proof of the Israelite origins of architecture. “The dignity to which architecture was rais’d by the grandeur of the Egyptian, the Assyrian, the Median, the Babylonian, the Persian, the Grecian, and the Roman Empires, “ we can read in the Origin of Building, “was not comparable to the lustre with which it first shined in the sacred works of the Jews.” At the origin of this glory there was the altar built by Moses at “the foot of Mount Sinai, together with twelve pillars according to the twelve tribes of Israel.” According to Wood, in the altar, obviously not to be literally understood
as described in the Book of Ezekiel (40, 22) “we find nothing but perfect figures, consisting of the utmost regularity, the sweetest harmony, and the most delightful proportion,” representations of the “perfection of order, a perfect figure, constituted by equality, and a regular disposition of its parts.” While we cannot escape the fact that it is worth remembering this and other similar passages when we observe the buildings constructed by Wood in Bath, what should be underlined at the moment is that the first manifestation of order is identified here with a stone construction, “copied by pagans, and to it we may very justly ascribe the origin of all those circular and quadrangular palaces of publick worship, as well as those of the Druids in these parts of the world, which were composed of single stones.” The deeper description of the various parts of the altar and the isolated pillars found in the “sacred circles” of Britain led to a distinction – certainly not original, but ontologically relevant– that repeatedly surfaces in the pages of The Origin of Building, according to which form in architecture is manifested when, as in the human body, “all the parts mutually assist each other.” As Wood asserts in Choir Gaure, stating that for the construction of Stonehenge “the greatest labour was in raising the stones originally from their natural bed,” these various components were originally defined thanks to a “work of carving” and not a “work of shaping,” the distinct beginnings according to Pavel Florensky of any manifestation of form. All this led to the partial disavowal on Wood’s part of the authority of the Vitruvian tradition, starting with the chronology it would establish. Wood, in fact, reached the conclusion that the origin of architecture could not be identified with what becomes in nature but with what exists in nature, not with what grows but with what remains. Therefore the epiphany of architecture cannot be made to coincide with the appearance of the primitive hut described in De architectura (“Primusque furcis erectis et virgulis interpositis luto parietes texerunt,” II, 3), similar to the “nests of swallows,” with walls shaped in mud, devised to protect men from natural adversities. The beginning, according to Wood, should be sought in a construction of divine origin, the altar, a word used over 350 times in the Old Testament, built by Moses by faithfully following the instructions received from the Lord (Exodus, 24). Published six years after The Origin of Building, Choir Gaure offers further demonstration of Wood’s allegiance to Newtonian Euhemerism, as observed, among others, by Eileen Harris (“John Wood’s System of Architecture,” The Burlington Magazine 1031, 1989). While with projects and constructions he offered proof of his engagement with the “revolution in architectural thought, a combination of Palladio and Inigo Jones” that had had an impact on English architectural culture under the auspices of Lord Burlington, to link back to a well known passage in Palladio and English Palladianism by Rudolf Wittkower, Wood attempted to define the authority of quite another tradition. Less than ten years after
having acquired the translation by Isaac Ware of The Four Books of Palladio, released in 1738, Wood published Choir Gaure. With this book he set out to prove the otherness of English architecture with respect to the Greek-Roman legacy, with greater evidence than in The Origin of Building, which was mostly based on written sources; namely that in “all the work of Druids we shou’d find them to have been copied from the works of the Jews,” as he had sustained in The Origin of Building, without however overlooking what was asserted by Newton, who saw the Phoenicians as the link between Hebrew and British cultures. The inconsistency which thus seems to emerge, and to which we will return, was not noted by Peter Smithson, as we have seen, but instead it did not escape Howard Colvin, when he wrote A Biographical Dictionary of British Architects, 1600-1840 (1954). But prior to Colvin, it was Wittkower who observed, in the above-mentioned essay, that “one would hardly expect The Origin of Building from the pen of the builder of Bath, who strikes one –judged from his buildings– as a perfectly balanced classicist with due reverence for the sanctity and authority of classical architecture.” In this way, Wittkower defined a paradigm of interpretation from which it is not easy to break free, derived from the conviction that Wood’s work was marked by a constituent contradiction, an inconsistency that is hard to explain, making his personality seem afflicted by a sort of indecipherable Ichspaltung. Having delved into the study of the Druidic ruins by order of the wealthy bibliophile and collector Edward Haley, Earl of Oxford, to assert that Stonehenge was a representation of the universe Wood reconstructed its origins, calling on history and legend, mythological, Homeric and biblical figures, and he used surveys of the ruins to demonstrate that “every stone, angle and line represented the Pythagorean planetary system that was used as a model of learning and was the basis of the Druid’s ceremonies as taught by the Arch Druid and king of the Britons, Blalud, who had established Bath as a centre of Druid learning,” Tessa Morrison has written (“Reinventing the Past: John Wood the Elder,” The International Journal of the Humanities, 9, 1, 2011). Beyond the genealogical narrative, Choir Gaure contains a survey of Stonehenge that is as accurate as it is original, perceptibly more significant than the drawings that accompany The Origin of Building. The immediate aim of the plates was to demonstrate the errors made by William Stukeley, forerunner of archeoastronomy, secretary of the Antiquarian Society of London, colleague of Edward Lhuyd and Newton, in the writing of Stonehenge: A Temple Restor’d to the British Druids (1740). Wood countered Stukeley’s research with a new method of investigation, crediting himself as the true modern heir of the ”art of appraisal,” the science of architectural surveying described by John Nicholas Napoli (“The Art of Appraisal,” Memoirs of the American Academy in Rome, 54, 2009). Also for this reason, given their thoroughness the surveys published and explained in Choir Gaure are the most
eloquent results of the project behind his writings. Moreover, the plates he drew and annotated demonstrate that he shared in the tradition of thought in which was inserted, renewing it, the Èdifices antiques de Rome published by Desgodets in 1682. According to Desgodets the study of ancient architecture cannot be separated from the accuracy of survey drawings, which however, no differently from the “exactitude des grand Maîtres à cotter les mesures, semble faire entendre,” as Wood too thought, “qu’il y a des mistères dans le proportions de l’Architecture, qu’il n’est donné qu’aux Sçavans de pénetrér; et que de même que dans le cours des Astres, et dans les Organes qui servent aux plus noble fonctions des Animaux, il ya des mouvements et des conformations dont on ignore les causes at les usages” – an excerpt of Aristotelian influence, over which Wolfgang Hermann justifiably lingered (“Antoine Desgodets and the Académie Royale d’Architecture,” The Art Bulletin, 40, 1, 1958). Simply leafing through the pages of Choir Gaure in which the numbers and lines in the drawings are painstakingly explained, we could be induced to include the author among the many architects gifted, as John Summerson wrote regarding Wood, with a “curiously original mind, fundamentally unlearned, but steeped in amateur erudition.” The surveying work documented in the book has nothing naïve about it. But it is also impossible to delve into the reading of Choir Gaure without noticing that Wood set out in his study of Stonehenge with the conviction that he could find proof that scraps of the divine language transmitted from Moses to Pythagoras had reached the “Architect of the Work” erected not far from Salisbury, as Newton thought. To support this thesis, Wood, in open disagreement with Stukeley, defined the measurements he believed to be exact of the Egyptian cubit, a further demonstration that amidst the ruins of Stonehenge the dimensions of the altar of Moses had been conserved. This reinforced the meaning which the hypothesis of the descent of the Druid temple from that of Solomon set out to ratify: as in the Temple of Jerusalem the Ark, no longer contained in a mobile tent, had found its definitive stabilization, reflecting the one established in the relationship of the people of Israel with God, for Wood Stonehenge was the proof that a similar process of attunement with the laws of creation had been accomplished in the architecture of the Druids. Considered from this angle and drawing on the studies of William Melczer on the spatial organization of the Temple of Solomon, we can understand the accents Wood used to bring out the immense effort involved in the construction of the temple of the Druids, mobilizing the labor of 15,000 men guided by the magical knowledge of the “sect of Priests” who designed it, knowing “numbers to be the principles of all things.” The various observations on the source and nature of the material used at Stonehenge, which in Choir Gaure accompany the drawings with inflections it is perhaps not too risky to trace back to the acknowledged role of sensations in the critique of innatism of
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John Locke, are part of a project of interpretation that has few equals. The study of the measurements, the materials, the construction techniques and their origins explain the effort made by Wood to complete an autopsy that was not limited to description of what the remains objectively were, but also attempt to bring out the hidden meanings conserved behind their appearance, to grasp the beginning of their time. The conception according to which the ruins are masks that conserve, where what remains lives on in what it has become, pervades Choir Gaure, whose aim was to demonstrate that the constructions of the Druids were proofs that the natural truths were written by God with the language of mathematics. Emphasizing cosmology over symbolism, with respect to what had been done by Stukeley, and considering Stonehenge a representation of the Pythagorean planetary system, of the “harmony of the spheres,” Wood demonstrated that he shared the conception of Galileo according to which, as we read in the letter to Padre Benedetto Castelli, Holy Scripture is “the dictation of the Holy Spirit,” while nature is “the most obedient executrix of God’s commands.” Therefore, following Diodorus Siculus in identifying the “Hyperborean Island” with the “Britannick Island,” comparing the “Hyperborean priest of Apollo” who had built it with the figure of King Bladud, founder of Bath and disciple of Pythagoras, Wood defined a new genealogy for Stonehenge, discerning its formation from the temple of Solomon and from Pythagorean mathematics and astronomy, and definitively describing its perfect conception as proof of its descent from the word of God. But “the great School of Learning of British Druids,” we read in a passage of Choir Gaure where Wood’s antitrinitarianism also comes to the surface, “subsisted till Augustine the Monk came to Britain, and, by order of Pope Gregory the Great, silenced it for the same reasons that Galileus was condemned by the Inquisition in Rome.” To judge excerpts like this one on the basis of their historical value is like taking a shortcut to superficiality. What Wood set out to restore –a key word in Choir Gaure– was an ontological conception of architecture and of the work of the architect whose aim was identified as the celebration of the glory of the Great Architect of the Universe, as John Locke had established – a coincidence that should also be seen in relation to the Masonic underpinning of the studies of Wood the Elder and the Masonic symbolism widely spread throughout his constructions in Bath. Prepared by “measuring this Work with as much minuteness as Monsieur Desgodets measured the remains of old Rome,” as Wood claims, his survey drawings ascertain the positions and vividly portray the dimensions and characteristics of the stones used to build the “so long esteemed wonder of our Island.” Though one might be polemically convinced that prior to the publication of Choir Gaure Stonehenge had existed only in the imagination of those who had set out to address it, starting with Inigo Jones whose The Most Notable Antiquity of Great Britain, Vulgarly Called Stone-Henge on Salisbury
Plain was published posthumously in 1655, the survey drawings, however, could not mechanically respond to the questions they raised. Every observation of reality, in fact, leads us to conclude, as Wood understood, that “nothing mysterious does not become apparent, and vice versa: all that is apparent hides a mystery within itself” (Pavel Florensky). The answers he sought, as he had done by writing The Origin of Building, though based on mostly written sources, were sifted from the reconstruction of the genealogy of every aspect of the work studied, relying on a complicated but coherent narrative construction that was not above the deployment of effects of wonder. To make the unusual nature of the weight and measurements of the monoliths used to build Stonehenge more apparent, for example, in Choir Gaure Wood resorted to an expedient that is worth examining here. He evoked the legend passed down by the Vita Merlini of Geoffrey of Monmouth (1150 ca.), according to which Merlin had brought the megaliths from Ireland to the Salisbury Plain, which had originally be used in Africa for the construction of a complex with a circular plan, the Chorea Gigantum, and were later utilized by the Druids. Without appearing to believe in this legend, Wood employed it to suggest that the powers which had allowed Merlin to bring the great African stones to England, through the transubstantiation of their weight, were similar to the ones possessed by those who had raised and placed the megaliths of Stonehenge, overcoming the force of gravity. In Choir Gaure we can read, “putting stones of immense weight in motion by a slight touch of the hand was an artifice whose origin is of very high antiquity.” To support this thesis, Wood compared the balance of the structure he had surveyed, “composed of stones of a wonderful size, and so raised up to appear like such gates elevated upon one another,” to the static prowess that had permitted classical statuary to draw vivid representations of movement from marble, which were nevertheless susceptible to taking different locations. “Having made and set a figure of Hercules, of forty cubits high, he so exactly counterpoised it that a man might easily stir it with his hand.” Thanks to the knowledge called into play by the priests who designed it, Stonehenge did not become “the Babel of its builders, but the monument to their craft,” we read in a passage of Choir Gaure where “craft” is the key term. In Wood’s vision the making-built is together the origin of the myth and its substance, as Stonehenge allowed him to observe. In the case of Babel, on the other hand, irregularity and the unfinished were the consequence of the fact that “the builders of the tower had a false idea of God,” he had written in The Origin of Building; for this reason “all their representations of celestial things ended in nothing,” leading to fulfillment of their work’s destiny, written in their ignorance. The craft deployed by the priests at Stonehenge, “antique giants, the devil, Merlin the wizard, sorcerers,” prevented “this miracle of natural concentration,” to use an expression of Karl Kerényi to which we will return, from having a similar fate.
What the ruins conveyed, we can read in two surprising and enlightening pages of Choir Gaure, was a “structure composed of stones of wondrous size (...) that possesses such regularity in its general arrangement as to appear like a marvelous production of the Roman art of power.” The irregularities Wood detected in his analysis of the ruins, though not compromising the compositional order imprinted in what appeared to him to be a “dance of giants” (Chorea Gigantum), were instead the result of the “labour” (whose meaning also covers the effort of giving birth) and not of the “craft” (courage, art, science and, indeed, power). For Wood the observation of the “broken pillars” revealed the problematic coexistence of the different natures of knowledge identified by these two terms linked by an ancillary relationship: “fabri enim manus architecto pro instrumento est – the labor of the carpenter is but an instrument in the hands of the architect,” as we read at the outset of De re aedificatoria. Wood had examined this same theme in The Origin of Building, observing that “the vast and great superiority of labour of the mind to that of the hands in work of architecture is very largely, and in the strongest terms, set forth by Plato,” and then re-emphasized by Vitruvius. Also in Stonehenge, then, it was possible to detect the “aedificiorum vitia” which Alberti traced back to the conflict between the knowledge of the architect and “external causes,” explained by Wood with a simple, empirical observation: “how different to work upon the ground with ponderous materials, to what it is upon paper with a pen, or a pencil: besides, the working to a center is much more difficult than working to a line.” Furthermore, among the causes of what might seem imperfect, irregular or compromised, observing the ruins of Stonehenge, a primary role was played by time, the looming object of the questions laid out in Choir Gaure. The ruins studied by Wood simply confirmed that time is the “pervicax rerum prosternatur,” according to Leon Battista Alberti, which finds in nature and the action of human beings the means to exercise its power. While for Alberti these means are “the hot sun, chilly shade, frost and winds,” and “the barbarous and unbridled enemy,” for Wood, who thus returned to an association that can be recognized as a topos, they are “weather as well barbarous hands.” According to Wood their action, however, does not undermine the evidence with which the ruins seemed to be eloquent representations of a state of original perfection produced by human labor, whose “intentions are all over the ruin of things” (Marguerite Yourcenar, That Mighty Sculptor, Time, 1992). “If we consider the erect stones of Stonehenge,” we read in Choir Gaure, «as pillars wasted by the weather, as well barbarous hands, from more regular forms into the shapes we now see them, it will very much abate our ideas of irregularity in perfect position of them.” Nature and the origin of the “scarce any two columns” present “in the most perfect piece of architecture Rome ever produced, the porticoe of the Pantheon, I mean,” for Wood were similar to those of “the great irregularity which appears in almost all the pillars” of Stonehenge,
which therefore cannot be cited as the explanation of the fact that the “Magnificent Structure” was “purposely left unfinished,” as Wood asserted. Timothy Hyde too, in his book Ugliness and Judgment: On Architecture in the Public Eye (2019), has examined the meaning of these words, almost making it the fulcrum of his considerations. According to Hyde, by utilizing these words Wood demonstrated that he had understood “incompleteness as a positive condition that issues the most radical insight into the aesthetic presence of Stonehenge, for this conception collapses the otherwise sharp distinction between perfected form and ruined condition.” While this observation can be agreed upon, we cannot agree instead with the hendiadys employed by Hyde to combine in a single concepts two words he sees as coordinated. Compressing their meanings and overlooking the semantic complexity acknowledge for them also by architectural historians, he has assigned the terms “deformity-irregularity,” which in any case it is impossible to see as overlapping synonyms, and “incompleteness” a generating role for the concept of “ugliness,” which he considers the most important result of the research conducted by Wood. Choir Gaure does not offer footholds for this procedure, which can only be justified by glossing over the meanings attributed by Wood, as we have attempted to explain, to the irregularities he observed when taking the measurements of the ruins of Stonehenge, and even more to the weight assigned to his conclusion according to which the construction was intentionally left incomplete. The reading of Choir Gaure would advise us to put the accent, reading the words “purposely left unfinished,” on the first word, “purposely,” as Hyde to has done. The term allows us to glimpse that in its use Wood intended to indicate a decision which it would be reductive to interpret as synonymous with a realization of the enormous, multiple difficulties to be overcome in order to erect Stonehenge. But the whole phrase cannot only be referred to the materiality of the work. Nor can it be interpreted anew as the demonstration that Wood, who was so empirically consistent in his approach to the survey of the ruins, was instead a fantasticating and unreliable scholar of their origins. Stonehenge was an unfinished work, like all temples. “The sacred works in almost every age of the world, and in almost every country, have been purposely left unfinished to draw the Bounties of the well disposed people toward completing them,” Wood wrote, grasping that the nature of Stonehenge was not different from that of the most ancient temples, the heketópedoi naoí, “offerings that have become architecture,” configured by the renewal of sacrifices and gifst (Karl Kerényi, Antike Religion, 1995). For this reason, the incompleteness of Stonehenge appeared to Wood as a constituent part of its perfection as place constructed, unlike Babel, in accordance with the divine word to capture every manifestation of the mathematical order of the cosmos. But Hyde, though he recalls that Wood never used it, has sustained a diametrically opposite thesis, namely that the term “ugliness is implicitly framed
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through his argument, not attached to the deformity of the ruins as a negation of beauty, but instead possessed of an instrumental, deliberate capacity, in the willful incompleteness of Stonehenge.” In this way, according to Hyde, strangely thrifty in supplying explanations for this rather sudden passage that obscurely outlines the conclusion of his considerations, Wood, in fashioning “a conceptual understanding of irregularity, incompleteness and implacable materiality, […] fashioned also a framework for the coexistence of ugliness and civic aesthetics” and “conjured an appropriately civic architecture for an economic engine,” formed with the flourishing of the economy of Bath at the start of the 1700s, “that did not yet have an adequate architectural representation.” Though he offers useful information regarding the regulatory tools applied by those who contributed to build the works designed by Wood, Hyde has not taken those works into consideration. But to understand the singular character of the figure of Wood the Elder, in particular, it is worth now shifting our attention to Bath and to what Wood and his son were able to construct there, which in any case seems hard to view as a manifestation of “the social function of ugliness,” as Hyde implies. The works by Wood and his son are among the most characteristic results of the decades that came after “the long reign of luxury and pleasure under King Charles the Second» (Shaftesbury, A letter concerning the art, or science of design, 1712), when from the mixture between “noble distinction and bourgeois wealth” the new “English gentry” took form that made Great Britain, as Daniel Defoe remarked, “a nation of gentlemen.” The consumption of luxury that halfway through the 1700s Isaac de Pinto explained as being “necessary for the flourishing of a great kingdom, to encourage trade, circulation, industry and manufacturing,” and to counter the “inequality of conditions making the surplus of some become the support for the necessities of others” (Essai sur le luxe, 1762), particularly in England became decisive for further growth of the capitalist economy, on the verge “of the start of the iron cage in the 19th century” (Max Weber). The response to “needs of refinement,” the consumption of lavish goods and all things excessive, transformed luxury into a necessity. If in 1922, when he wrote Luxury and Capitalism and, in particular, the chapter on “Luxury in the City,” Werner Sombart had been acquainted with The Original Bath Guide, he would probably have noted that all the things he was listing as “elements of luxury that create new possibilities of living in a diverting, rich way,” theaters, baths, shops, not only were numerous in Bath, but that the city had also undergone “a collective reformulation, making it urbanized.” In the years during which the Woods were active in Bath this process gained greater momentum. In 1727, the year in which Wood the Elder moved to Bath, 23 years had gone by since the time “when Mr. Nash first visited the city.” In that moment “the spirit of gaming was then the prevailing passion of the frequenters and inhabitants of Bath; all orders were addicted to the vice, and every thing was neglected
for it», The Original Bath Guide reports. But when by decision of the Corporation that managed the use of the waters Richard “Beau” Nash reached the city, things rapidly changed. Nash was a renowned dandy, one of the leading interpreters of the cult of the frivolous, the “beauism” destined to meet its end only with the death of George “Beau” Brummell 100 years later. As Master of Ceremonies, it was up to Nash to assign places at balls, luncheons and concerts which he had the task of organizing in Bath to entertain those who came to reside in the dwellings constructed, among others, by the Woods. Nash was entrusted with the matter of indicating what apparel was appropriate for worldly occasions, and he was responsible for banning the wearing of swords, first in ballrooms to avoid the damage caused to the ladies’ dresses caused by the blades, and then in the whole city, thus enacting one of the many provisions, often expressed with refined wit, introduced by him during his “domination.” In those same years Bath was going through a time of rapid urban growth. Given this context, it is hard not to grasp how the proofs provided by Wood regarding the “true origins” of Bath, at the time lacking in any ennobling distinction, might have been strategically aimed and not advanced in a totally impartial way. His studies had proven that Stonehenge and Bath had common origins, while his surveys had revealed, he sustained, “the body of Stonehenge, thus restored to its perfect state, [which] can’t be conceived otherwise than as a most beautiful, as well as a most magnificent structure.” Supporting this conclusion, he added that “for the respect to the beauty what could be more pleasing to the eyer than the different colours of the stone, and placing the light and dark pillars in alternative rows” in the temple of the Druids? Putting aside any consideration of the fact that Wood believed that the play of light and shadow produced by the chromatic shifts of the monoliths of Stonehenge was a representation of the flow of the hours, of the opposition between good and evil, the devil and the good God, we can give in to temptation and imagine that by expressing himself thusly, he was also referring to the constructed works of his own design. It is then logical to notice that a statement of this tone supplied, more prosaically, a good argument in favor of the use of “Bath stone,” particularly admired in the world of erudite entrepreneurs in which he spent time. While “the spirit of Freemasonry in no place did assume a more decisive character, or was it more ardently supported, than in the city of Bath,” and Beau Nash transformed the city into “a province of pleasure», the “orthodox Palladianism was beginning to supplant the individual use of local vernacular forms.” Wood the Elder made Bath stone the material of his “grand manner,” bringing out all its qualities (Walter Ison, The Georgian Buildings of Bath, 1948). Among the makers of the transformations of the city, Ralph Allen was the person with the most reasons to appreciate what might be suggested in the reading of Description of the City of Bath and Choir Gaure. Allen, we may recall, was the owner of the quarries
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en g li s h t ex t s
that yielded the stone used by the architects operating in the city at the time, but also elsewhere, given the use made of it by John Nash –some years later, however– at Buckingham Palace. Wood had paid homage to the aesthetic qualities, the evocative and symbolic qualities of this material, attempting to demonstrate that it came from the same sites where stone was excavated to be used by King Blalud, founder of Bath. The spread of the use of this stone was one of Wood’s goals, as it was for Allen, who could not fail to see the possibility of gaining a dual advantage from the studies conducted by Wood. On the one hand, there was the obvious benefit of more intensive production from his quarries; on the other, there was the increase of real estate values, determined by the fact that those who came to Bath, attracted by the hot sprints and the lifestyle imposed by Beau Nash, could not help but appreciate the nobility of the material, as borne out by Wood, employed to build their houses and, above all, their refined fronts along the most elegant streets of the city. So it should come as no surprise that Allen, as a client, had a taste for working with the Woods, father and son. After having renovated Allen’s first residence in the city, on Lilliput Alley, Wood the Elder designed a new, high-image residence for him, Prior Park, though it was never completed. As can be seen in several prints from the time, a rail line built by order of Allen to transport the materials taken from his quarries ran parallel and tangent to the enclosure bordering his property, overlooking the center of Bath. Nine years after the rejection, in 1726, of his bid to supply the stone for the addition to Greenwich Hospital in London, Allen began the construction of the villa of Prior Park. As John Summerson has observed (The Unromantic Castle, 1990), his aim was “to surmount the London prejudice against the material,” demonstrating that thanks to its use it was possible to obtain, as we read in An Essay Towards a Description of the City of Bath, “greater advantages and greater variety.” This induced the architect and the client, for the villa they intended to build at Prior Park, to choose as a model the impressive dwelling in Wanstead built by order of Richard Child based on a design by Colen Campbell, and published by the latter in the first volume of Vitruvius Britannicus in 1715. Allen was aware of the rivalry with Wanstead and for this reason he insisted that the columns of the porch of his residence, built with the stone he produced, have a perceptibly larger diameter than those of Campbell’s design, as Wood did not fail to recall. But the elevation designed by Wood, above all if we compare it to the second project for Wanstead from 1720, did not have the “Venetian subtleties” observed by Rudolf Wittkower, which Campbell had been able to call into play. The rugged look of the Prior Park villa was a reflection of the strategic aims that prompted its client to build it; nevertheless, we cannot see it as simply a pallid episode if we also consider what Wood the Elder and his son were able to accomplish in other parts of their city. Having settled in Bath, Wood the Elder imagined setting up a Royal Forum. Though this project led to no
results, already from 1727 his first buildings appeared on Chapel Court, and “in their scale and character they are superior to any of the buildings immediately preceding them,” Walter Ison wrote. They were followed by other projects, whose spread we can glimpse if we look at the map reproduced herein, taken from the book by Ison. Tessa Morrison has defined the approach Wood and his son brought to partial fulfillment by the mid-century mark in Bath as “holistic monumental design”. Besides what was built on Queen Square, on the Parade, and on Terrace Walk, the Circus, begun during the year of Wood’s death in 1754 and then completed by his son in 1774, is the most representative of the works designed by Wood the Elder. Among the streets he envisioned connecting onto the Circus, Wood the Younger transformed Brook Street into the main route of access to the Royal Crescent, his most famous and innovative accomplishment, which was probably first conceived, however, by his father. Construction began in 1767 on an area rented from a wealthy landowner, Benet Garrard. The elevation with a length of 150 meters, paced by 114 columns, was completed over a span of less than ten years. The front embraced what was destined to become Victoria Park, in a rhythmical sequence of entrances to the homes. When the portions formed by the frontage had been rented, once again the tenants were allowed to freely decide on how to develop the construction of their houses on the parcels behind them. In relation to the architectural solutions they applied, and to these brief considerations that demonstrate the fact that the Woods were involved not just as designers but also as protagonists of the most important speculative initiatives implemented in Bath, the connections between their constructions and what can be read in the books of John Wood the Elder is far from obvious, as we have seen. This theme, however, has been seriously investigated by Tessa Morrison, Jo Odgers (The Emblematic City: John Wood and the Refounding of Bath, 2006) and Tim Mowl (“Prehistory and Palladian: John Wood’s Circus in Bath,” in New Light on English Palladianism, 1988). Their studies have demonstrated, for example, that the plan of Stonehenge, formed by 30 and 29 pillars respectively in the outer and inner circles, represents the model for the arrangement of the 30 dwellings placed around the Circus, whose diameter corresponds to that of the temple of the Druids. Also in the “machine” designed by Wood the Younger reproducing the movement of the moon, the Crescent, the volume contained 30 houses. But as Morrison has noted, in the Crescent we cannot find the rigor with which Wood the Elder, in his projects, was able to call into play geometric figures, utilizing them as “formative forces,” we might say with Shaftesbury, studied in Choir Gaure. In spite of this, the Crescent represents the spectacular conclusion of the urban reformation the Woods accomplished in Bath through a process of progressive adaptation to the conditions in which they worked, which allowed their work to take on the status of a model, also by virtue of the Palladian language they
utilized. In 1726, while Wood was preparing to return to Bath, Lord Burlington was about to complete his Chiswick House, near London. The work on Wanstead House had been recently finished; less than a decade later, in 1734, William Kent, assisted by Lord Burlington, would launch the construction of Holkham Hall at Norfolk. These constructions offer clear proof of the influence of the “Palladian revolution” initiated by Lord Burlington, which has been discussed, as we have seen, by Rudolf Wittkower. Like any revolution, it implied a return or, if you will, a regression to a beginning, as David Watkin intelligently observed when he wrote: ”who could have predicted that in 1715 a movement would have arisen with the firm ambition of overthrowing the whole Baroque style which was apparently so firmly established in the varied work of brilliant architects like Hawksmoor, Archer and Gibbs? Yet at this moment a group led by Colen Campbell and Lord Burlington made clear its intention of putting the clock back exactly a hundred years by purifying English architecture of all Baroque extravagance in an act of homage to Vitruvius, Palladio and Inigo Jones” (English Architecture, 1979). John Wood the Elder completed this work: he relied on an hourglass to begin a countdown of time starting from its beginning. For him, we might use the words John Maynard Keynes employed to recall the last and greatest of the magicians, Isaac Newton, “that looked out on the visible and intellectual world with the same eyes as those who began to build our intellectual inheritance rather less than 10,000 years ago.” The eyes of Wood were certainly not as penetrating as those of he who possessed the mind “of Copernicus and Faustus in one” (John M. Keynes, Newton, the Man, 1942), but they allowed him to carefully observe what was happening around him and to read with diligence, starting with The Four Books. For Wood it must have been natural to observe how his contemporaries were deriving from Palladio a way of creating the plans of buildings for England, a way just as new as what the use of the orders, based on the First Book, made it possible to do in relation to the design of elevations. The results were variously arranged organisms, compositions of volumes whose diversity can be appreciated if we observe the spectrum of works at whose extremities we can imagine Chiswick House, on one side, and Holkham Hall, on the other, and whose ranks also include the residence of Prior Park. The Second Book, as we know, is on the design of townhouses and country villas. In it, Palladio succinctly described his projects for Francesco Badoero, Marco Zeno, Giorgio Cornaro, Leonardo Emo and others. In the descriptions that accompany the plates, the lists of the rooms organized in the villas and their functions often occupy as many lines as the indications on porticos, columns and decorations. These lists explain the reasons for the variety of the layouts and the volumetric groupings designed by Palladio. Quite often these annotations are accompanied by others regarding the landscape. In the case of the villa at Meledo, for
example, Palladio wrote that “the situation is very beautiful, because it is upon a hill, which is washed by an agreeable little river, in the middle of a very spacious plain, and near to a well frequented road.” When Wood the Elder reached Bath he found only “dunghills, shambles and pigsties.” Designing Queen Square, his task and his interests led to the construction of dwellings to offer to those who were making Bath into a city of pleasure. For these houses, he and his son developed several typologies, but they rarely had a chance to build them. To make the best use of the occupied parcels, Wood the Elder studied the groupings as generators of urban spaces. Thus when he designed the Circus he drew a new square, incorporating the value represented by the fact that its footprint corresponded to that of Stonehenge. This added value had only a marginal impact on the profitability of the specific real estate venture, but it was important in terms of the image with which Bath wanted to be identified, and the resulting overall trend of property values. The rich variety of the plans and compositions of Palladio, the fertile adaptation of his language to different types, the spatial differentiations and articulations of the volumes reflect the variety of the functions each of his buildings is made to contain. This variety so admired by the world gravitating around Lord Burlington did not have any influence on the projects thanks to which the Woods gave shape to the visage of Bath, thanks to the “ordinary townhouses” they built. Nor, on the other hand, did they have contexts to study, views to exploit, existing features to observe. Their task was to create their own landscape, as the Crescent demonstrates; they had to give it an “urbanized” form, making use of even distant impressions, as in the case of the Circus, for example, distilling what Stonehenge had permitted Wood the Elder to understand regarding the harmony of the measurements that regulate both the making of things and the movements of the heavenly bodies. The results are fronts designed by always starting with continuous, straight, curved or circular lines, the insurmountable lines that set the limits of land ownership. These lines also determined the composition of the elevations, rigidly coplanar and lacking in depth. If we observe the “portico” inserted in the east elevation of Queen Square, we notice that it is simply a profile, a volume actually reabsorbed in the volume, enhanced only by six columns placed up against it, as in the ends, generating sideways shadows, prevented from indicating a gap, from revealing successive planes. This purely graphic refinement vanishes in the Circus; here the long elevations are arrayed only with a succession of full and empty parts, explicitly left without further comment. This concise arrangement, however, functions as a way of bringing out the design of the square, whose tone is comparable only to that of the Crescent, where the bases of the columns against the surface rest on a continuous base, bare and taut, that underlines the enveloping gesture of the construction and lifts it off the ground, masterfully completing the descending
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movement of the land. The eloquence of the geometric figures that generate the footprints of the Circus or the Crescent is countered by the rigidity of the elevations. The first are unique figures, the second odes to repetition, faithful images –the facades on the streets and squares– of the process of multiplication in height and length of the values of the ground surfaces. The city of luxury is thus constructed starting with apparently opposite mechanisms: the suggestion of its mythical past and the celebration of replicability; their dialectic is the source of uniqueness, the result of the pursuit of change in permanency conducted by Wood the Elder in his studies. In response to the frivolous rituals that marked the flow of life in Bath, the Woods incorporated the unifying and foundational value of the past. Not many examples exist which like the city of Bath modernized by Beau Nash, Ralph Allen, Wood the Elder and Wood the Younger, can be called upon as demonstrations of the combination “in uniform spheres of activity [of the] tendency towards social equalization with the desire for individual differentiation and change,” such as happens in fashion, according to Georg Simmel (Fashion, [1904] 1957). For this combination, the Woods readied a vast stage and shaped its seating area, adopting as their signature an uncompromising way of applying the formal values they believed were embodied by the practice of architecture from the most distant past, as Wood the Elder understood after having made his voyage towards the “origin of buildings” and having completed his survey of Stonehenge. If –as we have– we ask ourselves the same question from which David Watkin has developed his reasoning, namely if it is possible that around the start of the 1700s in England the hands of the clock were moved back in an attempt to “purify” architecture of its Baroque excesses, taking Simmel’s great essay on fashion into account we are faced by the most engaging inconsistency with which the work of Wood the Elder challenges the readers of his books and the admirers of his constructions. “Baroque” and “classic” form the opposition addressed by Watkin. Relying for the moment on what Simmel suggests, we might define “classic” as “a concentration of the parts around a fixed center; classic objects possess an air of composure, which does not offer so many points of attack, as it were, from which modification, disturbance, destruction of the equilibrium might emanate.” On the other hand, “Baroque forms in themselves lack repose, they seem ruled by chance and subjected to the momentary impulse, which fashion expresses as a form of social life.” If we put between parentheses the considerations that can be suggested by the reasons for which they were constructed, with a certain effort but for convenience we can accept the definition of the settings designed by Wood in Bath as “classic.” They were works of architecture without spaces, to the extent that their space was that of the city. Their lack of the interior dimension was directly proportional to the depth of the action they conducted to give form to the exterior dimension. The spectacle that gook place in their midst was the
continuous flow of fashion. They recorded a radical cultural change: like the works of Campbell and Lord Burlington, whose of the Woods had also chosen extravagance as their adversary, absorbing the praise of rigor woven by Shaftesbury, justified by the authority of the tradition founded by Vitruvius, Palladio and Inigo Jones. But every advocacy of tradition brings with it a statement in favor of authority, of “extraneous powers and forces,” according to Simmel, that comes into conflict with being “exempt from the changing influences of general life.” This too, however, as happens in the works of the Woods, always runs the risk of being transformed into its opposite and of becoming a fashion, in the moment in which, as happened at Bath, “the classic is converted into classicist, and the archaic into archaicist.” In The Origin of Building there are two pages that attracted the attention of Wittkower and prompted him to write Federico Zuccari and John Wood of Bath, the essay we have already mentioned above. The first of the two starts with praise of tradition. Where the central question of the union of “theory with practice” is discussed, which alone allows the architect to be “thereby furnished with every qualification, necessary to bring him to the perfection he endeavour’d to attain,” at the start of the second book the authority of the “great Author,” Vitruvius, is called into play. Wood believes the term “theory” is synonymous with “labour of mind,” the ability to utilize “principles and precepts founded in the nature; for otherwise, caprice itself might yield matter of speculation, as is evident if we examine a house built by Federigo Zuccari, at Florence.” Zuccari was a renowned painter, architect and sculptor, and for much of his life –Wood continues, evidently alluding to the authority of the tradition– he was a contemporary of Palladio and Inigo Jones. St. Matthew teaches, The Origin of Building goes on, that it is wise to build a house upon a rock; so did Zuccari, using stones set into a square for the ground seam of his house, an image of stability, solidity and of the cube “representation of Mercury for the Greeks.” Zuccari built the upper part of the elevation with bricks, adorned it with stone and with a large painting at the center. “From the most impartial survey of this whimsical front, we may conclude, that Signiore Zeiccheri, over and above his other Views, designed to exhibit in it samples of his three-fold profession in theory and practice,” Wood continues, and then concludes: “the oddity of this design will be more conspicuous, when compar’d with one of Palladio’s which is confortable to those rules delivered by his great master Vitruvius; who tells us that architecture consists of such Variety of knowledge, that before a man can justly assume the title of an architect, he must be able to write and design, be skill’d in geometry, and not ignorant of opticks, that he must be acquainted with arithmetick and musik, be very knowing of history and philosophy, and have some tincture of physic, law, and astrology.” To make this conclusion even clearer, Wood published two plates: one shows the
elevation of Palazzo Zuccari in Florence, the other the facade of a project by Palladio. This second drawing, however, contrary to what Wood believed, is not by Palladio; it is “Palladian,” yet another demonstration, though of limited range, that it is impossible to study the tradition without having the gaze obscured by the questions our time prompts us to address to it, and that the past is always interpreted according to one’s own “state of mind,” as Max Weber said. But the main accusation expressed by Wood regarding the “capricious” elevation of the building in Florence was based on the fact that the forms of knowledge of which Zuccari made use, belonging to those who work with stone, the tools of sculpture and the brush for painting, had not been combined in a language produced by the “labour of the mind,” which unifies all the types of knowledge the architect must have at disposition, drawing from them not so much a synthesis as an original “order” – and precisely this language was the “elocution” Wood had recognized as the greatest distinction of the figure of the British Hercules, Ogmius, one of the builders of Stonehenge. In the moment when he was about to refound the practice of architectural work on the basis of what was required by the transformations of the contemporary city and society, Wood made an extraordinary effort to demonstrate that architecture has immutable origins. When the “iron cage” was about to come, extending its claims to every ancient profession, as Max Weber explained, Wood the Elder wanted to restore a conception of craft he felt had to be the protector of its origins, which he believed could be traced back to the instructions given to Moses by the Lord. These instructions were the basis for the “regularity, harmony, proportions” of the orderly, rigorous, measured constructions of the Jews. They were the values the architect must pursue, and which Wood the Elder aimed to “restore” when he set out on his visit to Stonehenge. In Choir Gaure he wrote about this non-metaphorical journey, digressing in the description of a mighty storm that made the start of the work difficult. Here he employed accents suited to conveying the sensation of the supernatural, almost a warning of the gods against unleashing the forces of nature as he ventured to find a justification, in what he considered to be the beginning of things, Stonehenge, for what he was doing. From that journey, Wood the Elder drew the secret of his success, the recognition of the foundational value of the ways and forms of rigor. Hence the most radical paradox of his work: in the moment in which he had the adventure of shaping the visage of Bath, he assigned it the features of a frozen mask. He built squares and streets, making them similar to a theatrical space that offered the gaze a succession of urban sites conceived to represent the harmonious relationship with the laws of nature. He designed fronts that could not allow for any caprice, since they corresponded perfectly to the intrinsic reproductive force of the economic laws at the root of the transformations of any city. Thanks to the reduction of architecture to the zero degree of a language
deployed to transmit immutable values, the constructions of the Woods have accompanied the growth of Bath. But Bath has become a modern city to the extent in which its spaces conceived by those who designed them, inspired by eternal laws, were occupied by the transience of “urbanized life,” the perishability in which resides, Georg Simmel said, “the piquant and stimulating attraction of fashion,” which grants everyone a right John Wood believed should not be exercised by architects, the right to infidelity.
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numero 902/issue 902 n. 10/2019 anno/year LXXXIII ottobre/October 2019
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