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DESTINATION

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SPERDUTE FærØer

di Isabella Garanzini

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Diario di un viaggio ai confini del mondo: Faroe Island.

Mentre Cina e Stati Uniti si contendono animatamente le Isole Fær Øer per il 5G, il dibattito appare irrilevante e borioso d’insignificanza alle 80.000 pecore che abitano l’arcipelago danese. Un numero considerevole, specie se si pensa che le persone che vivono “sull’isola delle pecore”, a 300 km dalla Scozia, 600 km dalla Norvegia e 430 km dall’Islanda, si ferma a 49.000. Questa è una delle prime informazioni che si apprendono quando, in vista della grande avventura, si è curiosi di notizie (nel mercato italiano circola poco o nulla, fatta eccezione per l’autobiografia di Daniela Pulvirenti). Complice anche questa scarsa reperibilità di informazioni, non è dunque arduo comprendere come mai, nel pre partenza, si avverta il resfeber, termine che Ella Sanders nel libro Lost in Tranlastion definisce come “il battito irrequieto del cuore di un viaggiatore prima che il viaggio cominci, un misto di ansia e aspettativa”. Preda di quest’angoscia nuova, ci si ritrova quasi inconsapevolmente a originare immagini mentali in cui, protagonisti, si cammina senza una meta, come dei tipici flaneur malinconici in mezzo a boschi tinteggiati dell’umore e degli schizzi dei Romantici (i tedeschi hanno chiamato questa sensazione Waldeinsamkeit). E non ci sarebbe nulla di più sbagliato, visto che alle Føroyar non esistono quasi per nulla piante, mentre invece abbondano il brugo color lilla e le orchidee selvatiche, oltre al muschio e all’infinito tappeto d’erba (che piace parecchio agli ovini, i quali non possono valicare alcune proprietà private ma talvolta s’arrischiano ad arrampicarsi sui tetti delle case, attirati dalle frondose porzioni d’erba in esposizione). Se dunque fantasticare sulle Faroe è già di per sé un viaggio, le 18 isole

ai vertici delle mete più rinomate secondo Forbes, con voli diretti regolari da Danimarca, Inghilterra, Islanda e Norvegia, si presentano al visitatore sotto forma di realizzazione disillusa delle aspettative: quando si atterra a Vágar, la sensazione è di piombare, senza riserve, in un quadro grigio surrealista nel quale non c’è protagonista. Si scorgono intere vallate di gradazioni di verde, che si fanno sempre più scure sul template man mano che la golden hour s’avvicina, e le ultime punte di giallo chartreuse disseminate sulle rocce si abbandonano sempre più ai toni fosforescenti della luna che s’infrange violenta sulle scogliere. È buio. L’oscurità sembra tradire la presenza di una melodia amara d’altri tempi, per poi sparire quando la macchina s’immerge in un tunnel subacqueo, che percorrendo la strada n. 592 sulla costa nord-occidentale di Streymoy (isola delle correnti), lungo la Saksunardalur, superando il lago Saksunarvatn porta a Saksun. Pare ci abitino 30 persone, ma considerando che la casa presa in affitto conta 10 posti letto, è curioso domandarsi dove siano finiti gli altri.

Porto di Tórshavn

B ASIC INFO

Capitale : Tórshavn ( 6 2 ° 0 0 ’ N 0 6 ° 4 7 ’ W )

Area : 1 , 3 9 9 k m 2 Popolazione , s t i m a 2 0 1 9 : 5 1 , 7 8 3

Leitisvatn: il lago sull'oceano, isola di Vágar

Nessuna luce, se non quella artificiale, numerosi ritratti di famiglia e la presenza di un silenzio menestrello che pervade l’ambiente e toglie il fiato: fatta eccezione per qualche rigurgito d’acqua improvviso dovuto alla condensa fuori, non esistono altri suoni nella notte faroese. I giorni si animano con un programma fitto: il primo si visita il villaggio di Gásadalur, in cui le tipiche beccacce di mare si rincorrono esibendosi in piroette davanti alla cascata-cartolina Múlafossur, che si getta direttamente nell’Atlantico. È poi il turno di Bøur, con le casette di torba e le lenzuola nivee che sventolano senza sosta, rivolte verso Risin e Kellingin, le rocce del “gigante e della strega” protagoniste di una leggenda del posto. Per chi avesse familiarità con Big Sur di Jack Kerouac, non c’è luogo migliore della tappa successiva, Tjørnuvík, per apprezzare le intuizioni generate dai piccoli rumori della natura. Con un waffle e una cioccolata calda, sulla spiaggia del villaggio più a nord dell’isola di Streymoy, si spia il fragore del vento, per poi osservare dei resti vichinghi in un piccolo museo a cielo aperto. Si raggiunge Kirkjubøur, che fu residenza episcopale nel Medioevo, mentre ora trasmette il sentore di una nenia infagottata di grigio cadetto e corvino, ed è poi il turno di Sørvágsvatn, con l’incredibile lago a picco sull’oceano. Il secondo giorno la capitale, Tórshavn, si presenta come il luogo in cui esiste veramente della gente, oltre a negozi, banche, uffici, ristoranti, pub, librerie! Non a caso, più della metà della popolazione faroese risiede qui. Con le casette variopinte che si specchiano nei riflessi narcisistici del porto, ricorda Nyhavn a Copenaghen. A Suduroy, dopo un trekking si raggiunge il faro di Akraberg, il punto più meridionale delle isole Fær Øer.

I giorni successivi si visitano Eiði, Gjóg e Funningur (che sembrano disegnate da Edward Hopper, con tutte le case bianche, le scalinate e i tetti rossi), ed è la volta di scalare la vetta più alta dell’arcipelago: lo Slættaratindur, 882 metri. La vista mozzafiato di cui si gode dall’alto (con il sereno è possibile scorgere il ghiacciaio islandese Vatnajökull), accompagnata dalle pecore di passaggio, lascia letteralmente senza fiato (è sconsigliata a chi soffre di vertigini). A Klaksvík, altro “centro nevralgico” d’interesse mondano, c’è un festival, pieno di schiamazzi rari e birre del posto. Ma ciò che, se si va alle Faroe, non può mancare, è una visita a Mykines: conta 14 abitanti, ma in compenso ci vivono migliaia di puffin (in faroese lundi, in latino fratercula artica e in italiano pulcinella di mare). Il becco e le zampe arancioni ricordano un pappagallo, ma il piumaggio bianco e corvino fa venire in mente un pinguino: nulla di più suggestivo che incontrarli, avventurandosi su per la montagna fino al ponte Atlantarhavsbrugvin, che, traballando sopra all’Atlantico, collega alla cresta dalla quale si scorge il faro, simbolo delle isole danesi. Con scogliere a piombo sull’oceano, nulla resta più appagante di questa visione sospesa in un racconto antico, che si tramanda di generazione in generazione con i sospiri del vento. Le isole Fær Øer, di cui solo Lítla Dímun disabitata, attraggono l’attenzione della gente per diversi motivi: gli immensi spazi vuoti, le leggende celtiche dai richiami ancestrali aggrappati alla natura priva di contaminazioni, l’idea felice di una sosta accompagnata da una bevanda fumante (fika, termine di tradizione svedese) per ripararsi dalle temperature gelide, che si aggirano tra i 3-4 gradi d’inverno e i 9-11 d’estate, ma sono anche tristemente note per la caccia e il massacro delle balene (l’ultimo dibattito acceso risale al 2019).

Non smettono di stupire quando Durita Dahl Andreassen, per far comparire visivamente le località su Google, ha installato uno zainetto high-tech con fotocamera 360 gradi addosso alle pecore, le quali girando per l’arcipelago scattano delle fotografie, che compaiono direttamente su Street View. Insomma, per chi volesse lasciarsi ammaliare dal sapore delle leggende, dai colori puri e dalla leggerezza che solo un arcipelago disperso nell’Atlantico può regalare, non resta che prenotare. Ne deriveranno grandi intuizioni e mirabili ricordi di quello Zeitgeist che solo le isole Fær Øer sanno regalare.

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