NUMERO 11 OTTOBRE 2012
Pensare la politica contributi di Pietro Barcellona • Laura Bazzicalupo • Giancarlo Bosetti • Gianni Cuperlo • Vito De Filippo Mario Dogliani • Maurizio Ferraris • Miguel Gotor • Francesca Izzo • Marcella Marcelli • Alberto Melloni Elena Pulcini • Nadia Urbinati • Lucia Votano
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Alfredo D’Attorre Coordinatore del Comitato editoriale
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COMITATO EDITORIALE Massimo Adinolfi Mauro Ceruti Paolo Corsini Stefano Fassina Chiara Geloni Claudio Giunta Miguel Gotor Roberto Gualtieri Marcella Marcelli Eugenio Mazzarella Anna Maria Parente Francesco Russo Walter Tocci Giorgio Tonini SITO INTERNET
SOMMARIO FOCUS PENSARE LA POLITICA
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Dare peso alle idee
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La nostra agorà
Gianni Cuperlo Politiche del realismo Maurizio Ferraris Ciò che manca all'Europa Alberto Melloni Valorizzare le passioni civili
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Elena Pulcini
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Oltre l'egemonia dell'economia e la democrazia plebiscitaria Nadia Urbinati
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CARTA D’INTENTI
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Ricerca e formazione come leva dello sviluppo Lucia Votano L'Italia ne uscirà solo se ce la farà il sud Vito De Filippo Condizioni per la rinascita. Il caso Napoli Francesca Izzo Una svolta culturale per la domanda di autorealizzazione Laura Bazzicalupo La stella polare della persona e dei diritti Marcella Marcelli
Civismo e PD si diano la mano Miguel Gotor Non bastano le parole Giancarlo Bosetti Il conflitto tra le generazioni Pietro Barcellona
ALTRI CONTRIBUTI
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Costituzione e virtù politica Mario Dogliani
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Dare peso alle idee
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uesto numero di Tamtàm democratico consta di tre parti. Nella prima, anticipiamo taluni contributi del seminario promosso dal Centro studi del PD e al quale hanno partecipato una trentina di studiosi di varie discipline, specie filosofi e storici, che hanno interloquito con il segretario Pier Luigi Bersani (gli atti integrali sono di prossima pubblicazione). I saggi in oggetto sono introdotti da Gianni Cuperlo che appunto dirige il Centro studi. Nella seconda parte figurano alcune reazioni alla Carta di intenti dei democratici e progressisti messa a punto da Bersani quale base di discussione e confronto per le primarie di coalizione. A seguire un denso saggio di Mario Dogliani su Costituzione e virtù politiche. Uno dei riferimenti basici della "questione democratica" che il PD intende porre al vertice della sua agenda insieme alla "questione sociale" e al rilancio del progetto europeo. Ci è sembrato appropriato dare all'intero numero il titolo "Pensare la politica". È nostra convinzione che, nel rispetto delle reciproche sfere di autonomia, chi fa politica e chi si dedica alla riflessione, allo studio e alla ricerca debbano interloquire sempre più intensamente. Perché la leggerezza può anche essere una virtù su altri fronti, non su quello del pensiero.
Pensare la politica
FOCUS
Pensare la politica
La nostra agorà Gianni Cuperlo
è presidente del Centro Studi e deputato del Pd
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tate attenti: la nave è in mano ormai al cuoco di bordo e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta ma che cosa si mangerà domani”. Queste parole, scritte più di un secolo e mezzo fa da Soren Kierkegaard, mi pare dicano piuttosto bene il grande pericolo, non ancora scampato, corso dalla politica (non solo italiana) negli ultimi vent’anni. Alcuni, prendendo a prestito il vocabolario della finanza, parlano di shortermismo per significare l’accorciarsi temporale e spaziale delle scelte, l’incapacità di pensare in termini di medio-lungo periodo,
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la ristrettezza degli orizzonti, il prosciugarsi del pensiero che hanno caratterizzato la lunga stagione dell’egemonia economico-finanziaria. Siamo chiari: “che cosa si mangerà domani” è tema non secondario e non trascurabile, tanto più nel pieno di una crisi senza precedenti, che ha già dissestato la vita di milioni di persone e, insieme, le forme della democrazia. Che è riuscita a scardinare sovranità, equilibri e ordinamenti di una realtà storica come l’Europa, e più in generale dell’Occidente. Ed è precisamente perché cogliamo la profondità di questa crisi, ben oltre e al di là di come, ancora oggi, in tanti ce la raccontano, che decidiamo di partire da qui. Dal fatto che, una volta smarrita la rotta, presto o tardi, non ci sarà più niente da mangiare (e non solo in senso metaforico). Siamo di fronte a quella che un tempo avremmo chiamato una “transizione di egemonia”, una fase delicata (come sospesa tra il “non più” e il “non ancora”) in cui s’incastrano le spinte più pericolose: il riarmo dei nazionalismi, o populismi di diversa estrazione, ma che piegano sempre sul fianco destro. In qualche modo la stessa utopia di un’Europa integrata, non solo nella moneta, oggi sembra chiusa dentro questa morsa. Una situazione drammatica che chiede alla politica di gestire l’emergenza (dagli spread al debito, alle
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Siamo di fronte a quella che un tempo avremmo chiamato una “transizione di egemonia”, una fase delicata (come sospesa tra il “non più” e il “non ancora”) in cui s’incastrano le spinte più pericolose: il riarmo dei nazionalismi, o populismi di diversa estrazione, ma che piegano sempre sul fianco destro.
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strategie anti-cicliche), ma anche di costruire un pensiero, in larga parte originale, che faccia da cornice a un nuovo modello per lo sviluppo di domani. Messa così in alto, è chiaro che sarà impossibile saltare l’asticella da soli. Ecco perché la cultura, i saperi – in particolare quelli diversi dall’economia – non possono sottrarsi alla responsabilità di assumere una parte importante della fatica nell’immaginare una via di uscita possibile. Questa è la prova del nostro tempo. Questo il compito delle classi dirigenti, non solo nella politica. Ed è anche lo spirito che guida un partito come il nostro nel momento in cui si candida a condurre il paese fuori da quella che ormai, senza iperboli, possiamo ben chiamare decadenza. Direi che soprattutto per questa ragione abbiamo scelto un percorso non scontato: e a chi spingeva per un leader, un programma e un sistema di alleanze da decidere subito, abbiamo risposto che era giusto, invece, partire da una Carta d’intenti e da un’idea dell’Italia e della sua funzione in Europa. Il punto per noi è che quella Carta e quel progetto devono fondarsi su un corpo d’idee che non è interamente compreso dentro un solo partito, per grande che sia e che non è destinato ad accompagnare una sola stagione, seppure cruciale, come quella che si apre da qui alla prossima campagna elettorale. Sentiamo di dover incrociare una cittadinanza attiva, movimenti, competenze, senza le quali è letteralmente impossibile una ricostruzione dal basso. Questo mi pare il senso del progetto civico che abbiamo messo a base di un nuovo centrosinistra e di un’alleanza credibile con i moderati. Questo il senso del confronto cercato con le forze intellettuali – di cui l’incontro dello scorso 26 luglio è stato una tappa importante – alle quali non abbiamo chiesto di aderire a un disegno già scritto, ma di aiutarci a pensarlo nella consapevolezza che siamo davanti a una prova molto impegnativa. La risposta è stata per noi incoraggiante e, come credo dicano i testi qui pubblicati in anteprima, ricchissima di suggestioni e stimoli a proseguire in un cammino di lunga lena che, se non la rotta, sappia ritrovare almeno la voglia del mare.
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Politiche del realismo Maurizio Ferraris
insegna filosofia teoretica all’Università di Torino
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isogna che non appena questa gente tenterà di sbarcare, sia congelata su questa linea che i marinai chiamano del “bagnasciuga”. Come sappiamo, il bagnasciuga era poi la “battigia”, e si è anche visto come è andata a finire. Churchill, invece, non si illudeva affatto che, in caso di invasione, i tedeschi sarebbero stati “congelati” sul “bagnasciuga”, ed è per questo che disse: “Noi combatteremo sulle spiagge, noi combatteremo nei luoghi di sbarco, noi combatteremo sui campi e sulle strade, noi combatteremo sulle colline”, e non escludeva nemmeno che l’Inghilterra potesse essere completamente invasa. Ora, che cosa caratterizza il discorso del bagnasciuga? Semplicemente e banalmente il rifiuto della realtà, la sostituzione di quello che c’è con quello che si vorrebbe che fosse, l’illusione spacciata per liberazione. Di discorsi del bagnasciuga se ne sono sentiti tanti dopo quello, ed è per questo che alla presa della Bastiglia si tratta ora di sostituire una più modesta presa della battigia, da intendersi come una politica del realismo, che chiami le cose con il loro nome. Per brevità, propongo otto spunti per la discussione. Il mio primo punto riguarda la mitologia. Il populismo è tradizionalmente mitologico, e ai miti dell’eroe e del “me ne frego” si è sostituita la favola del milione di posti di lavoro che è stata pagata cara quasi quanto quella degli otto milioni di baionette. Fin qui, tutto normale. L’anomalia è che durante il postmoderno anche la sinistra ha inseguito delle mitologie, a volte cinematografiche e televisive, ma mitologie. Rette magari da un equivoco di fondo, e cioè che il realismo, abusivamente confuso con la Realpolitik, sia di 11
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Siamo in un mondo iper-politico, nel quale la politica è talmente diffusa, in forma capillare e microfisica, da apparire invisibile e da risultare spesso ingovernabile.
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destra, e questo proprio nel momento in cui l’antirealismo e la mitologia erano i cavalli di battaglia del populismo. Intanto, come si è visto a sazietà, la tendenza della destra populistica è fortemente antirealistica. Inoltre, il realismo non è in quanto tale né di destra, né di sinistra, ma migliora la politica tanto quanto l’antirealismo la peggiora, per lo stesso motivo per cui si preferisce, potendo, andare da un buon medico invece che da uno sciamano. Che poi possa essere declinato a destra o a sinistra è un altro discorso. Da questo punto di vista, una politica del realismo richiede, in secondo luogo, una riflessione sulla politica. Non è affatto vero che siamo in un’epoca post-politica come si sente da trent’anni a questa parte. Anche l’antipolitica è politica, ed è una politica, per l’appunto, particolarmente ideologica e mitologica, basti dire che da noi è riuscita persino a costruire una entità fantasmatica come la Padania. Dunque, siamo in un mondo iper-politico, nel quale la politica è talmente diffusa, in forma capillare e microfisica, da apparire invisibile e da risultare spesso ingovernabile. Rispetto ai tempi in cui De Gaulle si chiedeva “come si può governare un paese che ha più di 300 tipi di formaggio?” la situazione si è ulteriormente complicata. Quello che emerge, per esempio, nello specchio dei social network, è spesso una agonalità pura, un rifiuto delle mediazioni. Il che è legittimo, ma proprio per questo lo spazio della politica e della democrazia deve presentarsi come il momento della sintesi, e ciò può avvenire solo ridando centralità al parlamento e rispettabilità alla politica. Il mio terzo punto riguarda la sinistra. Non capisco tanto i discorsi, anche quelli vecchi di decenni, secondo cui questa distinzione non ha più senso. Il senso c’è, eccome, ed è, grosso modo, questo: la sinistra è illuminista e punta per una emancipazione dell’umanità attraverso la ragione, mentre la destra crede che l’umanità debba essere comandata dal trono e dall’altare (e dalle loro versioni aggiornate). Di lì discendono tutte le differenziazioni ulteriori su cui ha richiamato a suo tempo l’attenzione Bobbio: sul piano dei valori (uguaglianza o differenza tra gli uomini), della politica (autorità o libertà) e della prospettiva storica (progresso o conservazione). Era così nell’Ottocento, al tempo delle destre controrivoluzionarie, orleaniste e bonapartiste, ed è così anche adesso. Ciò premesso, può capitare che la sinistra governi con modalità di destra (si pensi a Stalin) e che la destra attui ideali di sinistra (si pensi appunto a Churchill
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nella Seconda Guerra Mondiale). Inoltre, il mondo è pieno di persone che si credono di sinistra e sono di destra (o più raramente si credono di destra e sono di sinistra). Questo non significa che destra e sinistra non abbiano più senso, ma semplicemente che gli esseri umani non sempre hanno le idee chiare. Mi ci metto anch’io nel novero, però c’è una cosa su cui sento di potermi esprimere con certezza, ed è che coloro che si proclamano al di là della distinzione destra/sinistra sono, in effetti, di destra, perché è tipico della destra l’appello a una dimensione impolitica o metapolitica. Il mio quarto punto riguarda il neoconservatorismo. Se permane la differenza tra destra e sinistra, già sotto il profilo culturale non può essere privo di conseguenze il fatto che i riferimenti teorici della sinistra siano stati, da almeno trent’anni a questa parte, di destra: Nietzsche, Heidegger, Schmitt. Che infatti hanno determinato le linee politiche fondamentali: decisionismo, potere carismatico, fatalismo. Perché si sia imposto il neoconservatorismo si può spiegare sociologicamente con le analisi ancora valide di Lukács: gli intellettuali non accettano le rinunce per il loro stile di vita che comporterebbe il marxismo, e preferiscono la rivoluzione mitologica e a costo zero di Zarathustra. Si obietterà che, da vent’anni a questa parte, dopo la caduta del muro, si è assistito a un potente ritorno di Marx. Però il ritorno di Marx è anch’esso mitologico. Marx ritorna ma, d’accordo con la caratterizzazione di Derrida che ha dato via al processo, ritorna come spettro. Nel momento in cui il socialismo realizzato esiste solo in Goodbye Lenin!, allora l’intellettuale non ha alcuna difficoltà a dichiararsi marxista. La situazione è ben descritta da Cartesio: il pio marito che piange sulla tomba della moglie non sarebbe poi così contento se costei resuscitasse. Fuor di metafora, nell’arco di un quarantennio la sinistra ha visto, in successione, la propria affermazione culturale sull’onda della ribellione giovanile, e poi il crollo del socialismo reale. In questa trasformazione, l’effetto più significativo è che stili comunicativi di sinistra (vincenti sotto il profilo culturale) hanno veicolato contenuti di destra (vincenti sotto il profilo politico), e come risultato si è avuto il fenomeno del neoconservatorismo. Quest’ultimo ha fatto valere con molta forza l’appello al conflitto, alla contrapposizione agonale e militare, al “non fare prigionieri”.
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Nell’arco di un quarantennio la sinistra ha visto, in successione, la propria affermazione culturale sull’onda della ribellione giovanile, e poi il crollo del socialismo reale. In questa trasformazione, l’effetto più significativo è che stili comunicativi di sinistra hanno veicolato contenuti di destra e come risultato si è avuto il fenomeno del neoconservatorismo.
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Il mio quinto punto riguarda allora la ricostruzione. Invece di proclamare astrattamente l’attualità (o l’inattualità, che ai fini della retorica è lo stesso) di Marx, si tratta di esercitare una critica dell’ideologia mettendo a fuoco gli elementi più problematici del postmoderno, ossia (come ho estesamente analizzato nel Manifesto del nuovo realismo), l’ironizzazione, la desublimazione e la deoggettivazione. L’ironizzazione è una presa di distanza dalle responsabilità e soprattutto una messa tra virgolette della realtà, sistematicamente impropria e manipolabile. La desublimazione è la convinzione che le forze del mito e del desiderio siano vie di emancipazione più potenti e vere rispetto alla ragione. La deoggettivazione, proclamare la superiorità della solidarietà sulla oggettività, è dimenticarsi che le cosche mafiose sono estremamente solidali, e che l’oggettività (così come il sapere in generale, che non può essere abusivamente confuso con il potere) è per l’appunto ciò che ci permette di distinguere non solo il caldo dal freddo o il nero dal bianco, ma una cosca mafiosa da un parlamento.
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Nell’esaminare questi tre punti si tratta di tener ferme le istanze decostruttive avendo tuttavia ben chiaro che nel momento in cui la confusione diviene una ideologia non c’è niente di più utilmente critico del realismo e della ricostruzione, e che dunque un obiettivo fondamentale è quello di ricostruire la decostruzione. È indispensabile che le analisi decostruttive della critica dell’ideologia vengano affiancate, in termini costruttivi, da indagini di ontologia sociale. Nel mondo non ci sono solo gli oggetti naturali, esistono anche gli oggetti sociali, come le crisi economiche e le guerre, le vacanze e i matrimoni, i parlamenti e la democrazia. Questi oggetti non sono affatto evanescenti o liquidi, come spesso si legge. Sono solidi come alberi o case, e importantissimi perché da loro dipende in buona parte la nostra felicità o infelicità. Per questo la trasformazione è difficile, richiede pazienza e fatica, si presta male ai colpi di bacchetta magica e alla finanza creativa. In questo senso, l’apporto specifico di un realismo di sinistra starebbe nel condurre una analisi sulla genesi, la struttura e le proprietà della realtà sociale, che permetterebbe un intervento incisivo in quella realtà medesima. Il mio sesto punto è il richiamo alle regole. Come abbiamo visto, al centro della mitologia c’è il rifiuto della realtà, e al centro dell’idea della mitologia postmoderna c’è l’idea che il mondo sia liquido ed evanescente. Nella sua versione di sinistra, c’è l’idea che la realtà, la sua nettezza e le sue regole, siano lo strumento dei forti contro i deboli, quando è chiaramente vero il contrario. I forti non hanno bisogno di realtà, così come non hanno bisogno di leggi. Sono i deboli che devono contare sull’esistenza di giudici, di istituzioni, di regole, che a loro volta devono essere condivise e legittime. La cultura italiana, con un effetto di lungo periodo che è stato ampiamente studiato, è ribellistica, e questo porta, del tutto naturalmente, all’antirealismo, al sogno, alla fuga dalle regole, sperando che il polverone e l’anomia si possa volgere a nostro vantaggio. Per questo uno slogan come “non ci sono fatti, solo interpretazioni” ha potuto incontrare un così grande successo, ed essere vissuto come emancipativo. Perché il senso di quello slogan era una sorta di “liberi tutti”, sebbene il suo risultato, come è del tutto ovvio, è “la ragione del più forte è sempre la migliore”. È qui che interviene il mio settimo punto, e cioè l’università. La ricostruzione e il riconoscimento delle regole si inseriscono in un complessivo bisogno di sapere. In questi
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I forti non hanno bisogno di realtà, così come non hanno bisogno di leggi. Sono i deboli che devono contare sull’esistenza di giudici, di istituzioni, di regole, che a loro volta devono essere condivise e legittime. La cultura italiana, con un effetto di lungo periodo che è stato ampiamente studiato, è ribellistica, e questo porta, del tutto naturalmente, all’antirealismo, al sogno, alla fuga dalle regole, sperando che il polverone e l’anomia si possa volgere a nostro vantaggio.
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La stagione passata ha visto il parlamento invaso dalla televisione. Non sarebbe sbagliato che ora la biblioteca riprendesse il suo posto, magari anche in forma aggiornata e con ebook, e certamente con la consapevolezza che avere cultura non significa essere intelligenti o giusti, ma aiuta.
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anni la sinistra ha interiorizzato l’anti-intellettualismo della destra. Fenomeni come l’abuso della cultura pop sono da questo punto di vista illuminanti, perché fanno passare come culturale un atteggiamento che può essere anticulturale e radicalmente mitologico. Lo stesso vale per il culto del presente. E da questo punto di vista la riforma dell’università progettata dalla sinistra e attuata dalla destra in spirito rigorosamente bipartisan è un fenomeno clamoroso, il cui effetto principale è stato di favorire il pubblico e soprattuto di distruggere le élites intellettuali che tradizionalmente sono state il sostegno della sinistra, se ammettiamo, come suggerivo più sopra, la consustanzialità di sinistra e illuminismo. La riforma parte dunque dall’istruzione e dall’università, in cui abbiamo libertà di azione, in cui non ci si può appellare ai vincoli e allo spread (perché una cattiva riforma costa quanto una buona). La stagione passata ha visto il parlamento invaso dalla televisione. Non sarebbe sbagliato che ora la biblioteca riprendesse il suo posto, magari anche in forma aggiornata e con e-book, e certamente con la consapevolezza che avere cultura non significa essere intelligenti o giusti, ma aiuta. Infine – e questo ultimo punto potrebbe sintetizzare tutti gli altri – si tratta di riconoscere la centralità del lavoro. Essere realisti non significa in alcun modo considerare l’economia come ultima istanza di riferimento. L’economia è una struttura con fortissimi elementi di immaginazione, e tra populismo ed economicismo ci sono molti tratti in comune, in particolare il fatto che basta una frase lasciata sfuggire in televisione o sul web per causare catastrofi o salvezze. L’ultima istanza di riferimento, per una politica di sinistra, è allora appunto il lavoro, come trasformazione concreta della realtà. A livello globale assistiamo alla realizzazione della dialettica signoria-servitù: chi produce si sta impossessando della terra. A questo non si può rispondere con delle guerre di carta, ma con altro lavoro, che può certo essere anche lavoro intellettuale, ma deve essere lavoro, che produce ricchezza (il beneficio secondario consisterebbe nel restituire dignità alle persone). E se un qualche neoconservatore eroico verrà a dirci che questo è l’atteggiamento dell’ultimo uomo gli risponderemo che sì, magari è così, e che lui se lo desidera può fare lo Zarathustra e il superuomo, ma a casa sua, come D’Annunzio alla Capponcina.
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Ciò che manca all’Europa Alberto Melloni
dirige la Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII di Bologna
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l 24 settembre del 2011 “The Tablet”, la maggiore rivista cattolica del Regno Unito, ricordava a tutti una questione di fondo, drammatica, tale da convincere tutti al fatto che gli sforzi che oggi circondano l’Europa e l’euro non possono essere ridotti a mero affare negoziale: “If euro falls, what prices peace?”. Nelle pagine interne della rivista un buon articolo di Stephen Wall toccava tasti meno grevi: ma già Romano Prodi al convegno di Fscire e dell’Excellenz Kluster Religion und Politik aveva spinto fino all’estremo il paragone fra l’Europa degli anni Trenta che si dissolve e quella degli anni Sessanta che si raccoglie; proprio per non rifluire ancora verso la guerra. E adesso l’affiorare di una espressione – “a qualunque costo” – usata da Draghi, Monti, Hollande per parlare della difesa dalla speculazione, torna in fondo a ridire qualcosa di tremendo e fatale. Dopo l’euro non ci sono le monete: c’è la guerra. Come tutte le generazioni pensiamo di essere meglio dei nostri padri e dei nostri nonni: il che, insegna il profeta Isaia, è una balla. Non siamo per nulla più saggi delle generazioni di cento anni fa che sono andate ad una distruzione convinte del valore del gesto bellico, guerra, proprio quando giungeva al suo apogeo la cultura, la potenza e l’innocenza di un continente che si era macchiato del più atroce crimine della storia umana, il colonialismo. La potenza contaminante della violenza che l’Europa aveva disseminato nel mondo sarebbe diventata visibile solo dopo, quando una frase del papa che nessuno beatificò, diventò la riga più celebre di tutto il magistero pontificio: “una inutile strage”. 17
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Le chiese infatti hanno assunto e rilanciato un euroscetticismo che ha eroso la capacità di visione. Dimentiche che è stato un istinto cristiano (la penitenza) che ha fondato l’Europa, si sono convinte che il processo che ha unificato ancorché poco il continente sia il veicolo di una secolarizzazione selvaggia fatta di diritti indigeribili; come se la storia non avesse insegnato che diritti un tempo negati (le libertà di coscienza, l’uguaglianza della donna, le costituzioni parlamentari) hanno giovato alla corsa dell’evangelo nel tempo.
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Non siamo nemmeno migliori delle generazioni che sono andate dietro ai fascismi nella seconda guerra mondiale, che hanno portato consenso ed in due casi – i Popolari in Italia, il Centro in Germania – hanno regalato il consenso cattolico all’esordio della catastrofe dalla quale solo dopo alcuni anni dalla fine del conflitto sarebbe emersa la coscienza di ciò che la Shoah era stata e ciò che la Shoah aveva disvelato. Nel linguaggio odierno, apparentemente, non c’è nulla della cultura della violenza degli anni dieci: gli stereotipi nazionalisti o le banalità geoteologiche non fanno paura, ancora. Ma insegnano rime antiche di odio: e il populismo suonato nelle orecchie di una generazione giovane dai tromboni di destra e di sinistra dell’indignazione dovrebbero renderci attenti alla fatto che la tragedia scende sempre dal Viale delle Banalità: dopo l’euro non ci sono le monete; c’è quella guerra che gli europei non hanno mai mancato di farsi prima che l’intuizione dei superstiti vedesse nell’unione (o nella comunità, come si diceva con una espressione assai più bella) europea il rimedio al male intrinseco. Dietro l’euro c’è la guerra: e sulla capacità di enunciare questo assunto – è qui che l’espressione “a qualunque costo” prende senso – è oggi ciò che misura le fragilità o la forza culturale delle classi dirigenti europee, la cui statura del dire e del pensare è stata erosa da molti venti: quello dei partiti che inseguono la piazza, degli intellettuali che si danno sapore col proprio narcisismo (le goût du poisson c’est la sauce, dice la cucina francese); e anche dalle chiese, che contro la storia hanno partecipato di questo degrado. Le chiese infatti hanno assunto e rilanciato un euroscetticismo che ha eroso la capacità di visione. Dimentiche che è stato un istinto cristiano (la penitenza) che ha fondato l’Europa, si sono convinte che il processo che ha unificato ancorché poco il continente sia il veicolo di una secolarizzazione selvaggia fatta di diritti indigeribili; come se la storia non avesse insegnato che diritti un tempo negati (le libertà di coscienza, l’uguaglianza della donna, le costituzioni parlamentari) hanno giovato alla corsa dell’evangelo nel tempo. Contro questa Europa che, secondo il discorso del cardinal Ratzinger del 1°aprile 2005, sera della morte di Wojtyła, sarebbe giunta ad “impedire alla chiesa di enunciare il suo magistero sull’omosessualità”, le chiese hanno adottato un silenzio istituzionale e magisteriale. La Santa Sede non ha un sostituto per l’Europa, la conferenza dei vescovi europei non ha detto nulla di serio della crisi e delle sue radici, e il papa
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Benedetto XVI ha speso la sua autorità in difesa dell’Europa. Quasi che non si rendesse conto che tramite lui e la figlia del pastore Merkel rischia di posarsi una nuova ombra scura e densa sulla storia tedesca. In secondo luogo le chiese hanno assunto e rilanciato la sfiducia nella democrazia, usandola come fosse un attrezzo, una cosa priva di valore in sé. Forzando in questo caso il pensiero di Ratzinger (e Scola) hanno fatto di “principi non negoziabili” (il lessico è quello del fondamentalismo battista degli anni Venti) una clava che cala spezza la fisiologia democratica, fulmina il timer delicatissimo che porta alla affermazione di valori fondamentali nella società pluralista. Così le chiese finiscono per lasciarsi usare come stampella di destre (palesi ed occulte) prive di idee, che certo non amano la dottrina cristiana, ma conoscono bene le cose che eccitano la fantasia dell’istituzione ecclesiastica. Sicché anziché assumere in modo superficiale o opportunistico i linguaggi delle chiese con la convinzione che questo aiuti a guadagnare quei consensi irriflessi e quei voti suffragi in eredità che in politica non sono mai esistiti, i grandi attori della società europea dovrebbero sperare che le chiese possano concentrarsi sul loro dovere fondamentale (quod vulgo dicitur “mission”): praticare la misericordia, conoscere la debolezza, dar fiducia alla coscienza formata, insegnare il disprezzo del potere, relativizzare con sapienza il furore ideologico. Se le chiese pospongono questo dovere alle carriere e agli opportunismi, all’Europa manca qualcosa. E all’Europa qualcosa manca nel rintocco muto di ciò che vale qualunque prezzo.
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Valorizzare le passioni civili Elena Pulcini
insegna filosofia sociale presso l'Università di Firenze
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orno in primo luogo a proporre la domanda che avevo fatto preliminarmente al mio intervento: perché siamo qui? Qual è il senso e lo scopo di questa riunione, al di là di un sia pur utile scambio e brainstorming sui grandi temi di attualità politica? Nelle risposte, ho colto con piacere un obiettivo ambizioso: quello di ricostruire un pensiero politico, di dotarsi degli strumenti teorici adatti ad affrontare le sfide del presente. Siamo infatti di fronte a sfide inedite, a veri e propri mutamenti epocali di cui è urgente non solo prendere atto, ma fare in modo che emergano nell’agenda politica e nelle sue priorità. Non pretendo certo qui di addentrarmi in una diagnosi del tempo, ma mi preme sottolineare subito quello che a mio avviso è il quadro generale all’interno del quale inserire la mia riflessione: la globalizzazione (preferisco dire l’età globale per sottolineare l’insorgere di una nuova epoca rispetto alla modernità) è portatrice di problemi e rischi inediti, ma anche di nuove chances da cogliere con attenzione. Vediamo allora i rischi e gli aspetti problematici. Il prepotente emergere dell’egemonia dell’economia rispetto alla politica nella sua forma moderna che indebolisce, come ben mostra la crisi finanziaria, la sovranità degli Stati; la comparsa sulla scena dei cosiddetti “rischi globali” (global warming e riscaldamento del pianeta, erosione delle risorse e crisi ecologica, minaccia nucleare), che rivelano pienamente l’interdipendenza quale caratteristica peculiare del mondo globale, rendendo obsolete le strategie immunitarie della modernità.
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Ne deriva una condizione diffusa di insicurezza e di paura che genera un sentimento di impotenza e spinge gli individui a ritrarsi sempre più in un asfittico individualismo. Siamo ormai confinati nel triste ruolo di spettatori di eventi che non riusciamo a controllare e a volte neppure a capire. Cresce inoltre la tirannia del consumo, che in una dilagante “società dello spettacolo” sembra compensare la fragilità delle identità e invade sempre nuove sfere della vita (come la cultura, i sentimenti e la stessa politica), sottraendo energie e risorse a tutto ciò che non riguardi le effimere e narcisistiche soddisfazioni del presente. La paura inoltre genera regressioni “sicuritarie”, e sfocia in aggregazioni endogamiche ed esclusive, fondate sull’opposizione Noi/loro (come appare evidente da secessionismi, rigurgiti di razzismo, revivals nazionalistici o etnico-religiosi). Si delineano così le due fondamentali patologie della società globale: da un lato, un radicale individualismo che si traduce nell’indifferenza, nel deficit di impegno e nella diserzione della sfera pubblica; dall’altro un comunitarismo entropico che ripropone forme di condivisione distruttive, generando nuove forme di violenza. Sappiamo bene, facendo anche tesoro della lezione tocquevilliana, come tutto questo si traduca in una torsione totalitaria della democrazia: gli Stati sfruttano l’indifferenza e la paura per imporre forme di dominio indirette e pervasive, peculiari di quello che Tocqueville chiamava il “dispotismo mite”. Assistiamo così all’erosione dei diritti, alla proclamazione di leggi ingiuste, all’inasprirsi del controllo sulla vita intima e privata delle persone. Si crea in altri termini un circolo vizioso tra individui e politica, in virtù del quale i primi chiedono alla politica l’esonero dalla vita pubblica e la politica reagisce a sua volta attraverso la progressiva riduzione degli spazi democratici. La democrazia sopravvive indubbiamente in una serie di forme di protesta che attraversano il pianeta e sono animate da un risveglio di passioni collettive. E’ vero che queste assumono spesso il volto preoccupante di un diffuso populismo: il quale nelle sue forme peggiori, va ad alimentare gli inganni e le derive della società dello spettacolo producendo, come nel caso del nostro paese, mostri carismatici; e nelle sue forme migliori, appare incapace di tradursi in progetto, strategia, proposta politica. Ma la torsione populistica non deve indurre a liquidare le legittime istanze che emergono dalle passioni collettive e dai movimenti che ne sono l’espressione; perché il pericolo, in
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Si delineano così le due fondamentali patologie della società globale: da un lato, un radicale individualismo che si traduce nell’indifferenza, nel deficit di impegno e nella diserzione della sfera pubblica; dall’altro un comunitarismo entropico che ripropone forme di condivisione distruttive, generando nuove forme di violenza.
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questo caso, è di consegnarle alla destra e alle sue strumentalizzazioni senza scrupoli (credo ancora nella distinzione tra destra e sinistra!). Mi chiedo perché la sinistra non abbia mai fatto seriamente i conti con una teoria delle passioni chiudendosi spesso in uno scettico snobismo, mi chiedo perché non sembri prendere sul serio il fatto che ogni mobilitazione poggia sempre e comunque su componenti emotive; le quali quindi hanno bisogno di essere comprese e differenziate, incoraggiate laddove è necessario, frenate laddove assumono torsioni negative. Per fare solo un esempio: come rapportarsi di fronte al fenomeno dilagante dell’indignazione? Come far sì che essa possa essere compresa e rispettata come l’humus necessario da cui nasce una protesta legittima, e allo stesso tempo evitare che degeneri in sterile risentimento? Penso che abbia ragione il filosofo Sloterdjk quando sostiene che si è persa
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oggi la capacità di raccogliere le energie emotive che scaturiscono dall’ira e dall’indignazione in “banche d’ira” capaci di dar vita a movimenti emancipativi. Non dovrebbe essere uno dei compiti della sinistra quello di favorire il coagulo delle passioni di lotta veicolandole verso risposte democratiche? Ma non solo. È indubbio infatti che dalla società civile non emergono solo passioni di lotta, tese alla legittima rivendicazione di diritti e alla lotta contro l’ingiustizia. Disponiamo anche di un tessuto di mobilitazione animato da quelle che vorrei definire passioni pubbliche e solidali: dai Social forum mondiali ai referendum locali sull'acqua, dall'arcipelago del volontariato alla difesa dell'ambiente, dalle associazioni civili che si organizzano contro il degrado di un quartiere all'impegno dei docenti della scuola verso l'educazione alla legalità e al rispetto del diverso; per non parlare, last but not least, dell’impegno delle donne contro la mercificazione del corpo e le seduzioni avvelenate della società dello spettacolo. Insomma, esistono aree molteplici nelle quali l'obiettivo dell'impegno civile va oltre la stessa lotta per i diritti e la giustizia, nelle quali emerge un prepotente bisogno di condivisione solidale attorno alla parola d'ordine di un futuro migliore. Lo slogan, argutamente ironico, "il futuro non è più quello di una volta", usato qualche tempo fa nell'ambito delle lotte degli studenti in Italia, esprime qualcosa di più della pur sacrosanta lotta per il diritto al lavoro, in quanto contiene, appunto, la nostalgia per l'idea stessa di futuro. Nel denunciare la perdita di futuro, che paradossalmente smentisce e rovescia le promesse stesse della modernità con i suoi miti del progresso e del benessere, i giovani sembrano volersi riappropriare non solo dei loro diritti, ma anche di una diversa immagine del mondo. E pensare una diversa immagine del mondo, significa, qui ed ora, prendere in cura il mondo, farsi carico responsabilmente del suo futuro. Paradossalmente, come ho premesso sopra, l'età globale, portatrice di rischi e sfide inediti, sembra allo stesso tempo fornire le condizioni oggettive per la condivisione e l'agire comune. Per la prima volta infatti, nel corso della storia, siamo tutti legati e interdipendenti; per la prima volta un evento locale può avere conseguenze planetarie (basti pensare all'11 settembre o alla crisi finanziaria), e viceversa un evento globale può coinvolgere le zone più remote della terra (come il riscaldamento del pianeta). Ma questo vuol
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Nel denunciare la perdita di futuro, che paradossalmente smentisce e rovescia le promesse stesse della modernità con i suoi miti del progresso e del benessere, i giovani sembrano volersi riappropriare non solo dei loro diritti, ma anche di una diversa immagine del mondo. E pensare una diversa immagine del mondo, significa, qui ed ora, prendere in cura il mondo, farsi carico responsabilmente del suo futuro.
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dire anche che, senza ovviamente trascurare le disuguaglianze e senza negare le differenze, siamo tutti membri di un'unica umanità potenzialmente esposti agli stessi rischi e allo stesso destino, e vincolati gli uni agli altri nella possibilità di un progetto comune. Insomma l'interdipendenza può diventare una chance, purché diventi oggetto di una consapevolezza soggettiva e preluda alla mobilitazione di passioni pubbliche e solidali. In questo, la politica può avere una funzione feconda e insostituibile: nel promuovere questa consapevolezza e trasformare l'interdipendenza in un valore, nel dare visibilità ad eventi che a dispetto della loro importanza non hanno l'appeal massmediale sufficiente ad ottenere l’attenzione che meritano, nel raccogliere e valorizzare esperienze che per il momento restano frammentarie e prive di coordinazione. Si parla spesso di ricostruire la società civile, di ricucire lo strappo tra individui e politica. Valorizzare e stimolare le passioni pubbliche mi pare un primo passo in questa direzione: per lo sviluppo di un associazionismo civile che colmi lo spazio vuoto tra gli individui e le istituzioni e ricostruisca una rete di solidarietà e di attiva partecipazione. Ma perché questo avvenga, è necessario che la politica diventi quell'agire di concerto nel quale Hannah Arendt riconosceva la precondizione per un nuovo inizio.
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Oltre l'egemonia dell'economia e la democrazia plebiscitaria Nadia Urbinati
insegna scienze politiche alla Columbia University di New York
A
ffronto due temi, dedicando al secondo maggiore spazio: il ruolo dell'economia e la mutazione della democrazia. Quando si parla di egemonia dell'economia occorre secondo me fare una precisazione: l'economia della quale lamentiamo d'egemonia non è l'economia politica quale la intendiamo noi “umanisti” ma neppure la scienza del benessere economico che si studia e si insegna nei dipartimenti economici. I protagonisti della crisi economica scoppiata nel 2007, con l'avvisaglia venuta dall'Islanda e dall'Irlanda, vengono dalla Business School prima che dai Dipartimenti di Economia. Gli obiettivi dei tecnici del profitto finanziario sono assolutamente semplici e settoriali, oggetto di algoritmi e grafici. È dunque una disciplina che non si occupa più del benessere della società, della produzione e della ricchezza nel senso classico. La celerità degli scambi sui mercati azionari e l'andamento verso il basso o verso l'altro sono il motore che muove calcoli e previsioni a breve. Mentre è giusto criticare l'egemonia dell'economia occorre nel contempo evitare demonizzazioni dell'economia; si tratterebbe semmai di riportarla alla sua vocazione classica e nobile, quella che la qualificava come una componente essenziale della politica. Economia come scienza dei mezzi per il benessere della società e non come tecnica di accumulo del denaro. Come scienza sociale non come branca della matematica. Un effetto collaterale di questa trasformazione scientistico-razionalistica dell'economia (una trasformazione che è iniziata alla fine del diciannovesimo secolo) è di aver impresso una radicale trasformazione delle discipline sociali e politiche, anch'esse dominate dalla 25
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Nelle società democratiche c'è una parte importante dell'agire politico che è fuori delle istituzioni, anche se in dialogo con esse, e che è organizzato secondo un metodo che le carte costituzionali garantiscono e proteggono: quello della libertà, che significa costruzione e trasformazione dell'opinione politica e pubblica, elaborazione di progetti e programmi su come meglio governare i processi sociali, costruzione di movimenti politici per la conquista di maggioranza o l'abbattimento di maggioranze esistenti
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riduzione metodologica che ha cambiato l'economia politica: metodo del rational choice (teoria della scelta razionale) e lettura dei comportamenti politici come reazioni di individui che hanno obiettivi razionali e fanno calcoli di costi e benefici per riuscire ad attuarli. Il ruolo delle emozioni e delle passioni, e quindi dell'ideologia, perdono di senso oppure figurano come strategie intenzionali messe in atto da un attore (un'elite) per acquisire e preservare il potere con il consenso manipolato dei cittadini. Questa trasformazione strumentalista e razionalistica della disciplina della scienza politica è interna alla trasformazione dell'economia. Certo, la lettura strumentalista dei processi decisionali non è inutile; anzi, la scienza politica ha beneficiato di essa, in quanto i comportamenti collettivi quando sono organizzati secondo norme e procedure (istituzioni) possono essere previsti e i loro effetti controllati o diretti. Tuttavia l'azione politica non si compone soltanto di comportamenti istituzionali o istituzionalizzabili. Nelle società democratiche c'è una parte importante dell'agire politico che è fuori delle istituzioni, anche se in dialogo con esse, e che è organizzato secondo un metodo che le carte costituzionali garantiscono e proteggono: quello della libertà, che significa costruzione e trasformazione dell'opinione politica e pubblica, elaborazione di progetti e programmi su come meglio governare i processi sociali, costruzione di movimenti politici per la conquista di maggioranza o l'abbattimento di maggioranze esistenti. La politica nelle società democratiche è una diarchia: volontà sovrana che è normata o istituzionalizzata e giudizio politico che è costruito con azioni ideative e collettive di cittadini associati in partiti politici e movimenti. Dimensione istituzionale e dimensione deliberativa corrispondono alle due forme della disciplina che studia la politica, composta di un settore sottoposto a analisi razional-scientifica, e un settore sottoposto all'arte della politica come azione organizzati di cittadini liberi che usano il discorso per modellare e creare consenso, e promuove dissenso. Due dimensioni che con l'egemonia matematica della disciplina economica rischiamo di annullarsi in una: la produzione di decisioni, come risposte necessarie a fatti oggettivi determinati e controllati dall'andamento dei mercati finanziari. Il decisionismo in cui l'arte della politica si è via via trasformata è figlio della
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semplificazione dell'economica politica in tecnica finanziaria. Recuperare la diarchia della politica – istituzioni (e decisioni) e sfere pubblica del discorso (costruzione del giudizio pubblico) è un obiettivo centrale della politica democratica. Passo così alla seconda parte sulla mutazione della democrazia. Dietro un'espressione imprecisa e piena di ambiguità come “antipolitica” si fa strada l'idea che noi ci troviamo a fare le esequie ai partiti sostituendo alla democrazia dei partiti la democrazia del pubblico. Propongo di evitare questa semplificazione. L'idea che propongo è che nella democrazia contemporanea (quella italiana in modo molto visibile) i partiti politici, essenziali attori del sistema rappresentativo fin dalla sua apparizione nell’Inghilterra dei commonwealthmen, hanno mutato la loro funzione ma non sono decaduti o finiti come spesso si sente sostenere; a questa loro mutazione è corrisposta una trasformazione della democrazia da rappresentativa a plebiscitaria, con la precisazione che il plebiscitarismo contemporaneo non è fatto di masse mobilitate da leader carismatici auspicato Max Weber e teorizzato Carl Schmitt come forma più completa di democrazia. Il nuovo plebiscitarismo è quello dell’audience, l’agglomerato indistinto di individui che compongono il pubblico, un attore non collettivo che vive nel privato della domesticità e quando è agente sondato di opinione opera come recettore o spettatore di uno spettacolo messo in scena da tecnici della comunicazione mediatica e recitato da personaggi politici. La personalizzazione del potere e della politica è un sintomo e un segno tanto della trasformazione dei partiti che della formazione della democrazia dell’audience. Circa la trasformazione dei partiti, essa riguarda il loro dimagrimento democratico al quale corrisponde un’obesità di potere materiale effettivo nelle istituzioni dello stato e, soprattutto, la catena di funzioni che si dipana dall’esecutivo, il potere dello stato che questa trasformazione ha esaltato oltre e sopra quello del parlamento. Non è per questo convincente presentare la democrazia dei partiti come una fase, ormai tramontata, della storia del governo rappresentativo (questa è la tesi sostenuta da Bernard Manin). Vero è che essa è diventata a tutti gli effetti una democrazia “dei” partiti, cioè esercitata da loro senza più cercare (prima ancora che avere) un 27
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rapporto con i cittadini che non sia di strategia orientata alla conquista dei voti: democrazia “dei” invece che “per mezzo dei” partiti. Il declino dei partiti è quindi declino di una forma democratica di essere del partito politico; un declino che si manifesta con il restringimento fino alla scomparsa della sua struttura organizzativa periferica o territoriale, segno tangibile di una trasformazione di funzione, poiché l’organizzazione (partito pesante) si addice a un partito che deve cercare un rapporto molto stretto e continuativo (non solo nel momento delle elezioni) con i cittadini, per muoverli o renderli partecipi (a favore di una parte) attraverso narrative ideologiche che creano identità di appartenenza o di ispirazione ideale e fungono da strumenti interpretativi e critici (mi riferisco all'importante lavoro di Mauro Calise). L’erosione del partitoorganizzazione non ha significato la fine del partito, ma la fine di un partito che aveva bisogno e cercava innervamento nella società perché aspirava a costruire consenso e ottenere un’affermazione che non era solo numerica, ma era anche di progetto. Quel partito pesante perché basato sull’organizzazione era per metà dentro e per metà fuori delle istituzioni statali, cerniera tra stato e società, un corpo intermedio della democrazia rappresentativa che svolgeva varie funzioni di limitazione del potere: selezione degli eleggibili, controllo degli eletti (che il libero mandato rende legalmente irresponsabili verso i cittadini), stimolo e orientamento dell’opinione; infine esso fungeva da scuola vera e propria per la formazione del personale politico delle istituzioni periferiche e centrali dello stato. Nei primi decenni del secondo dopo guerra, età della formazione e del consolidamento della democrazia rappresentativa in Europa, la democrazia dei partiti ha gestito il reclutamento tra cittadini/e ordinari/e di sindaci e dirigenti, di parlamentari e ministri. Con i nuovi partiti liquidi o leggeri, la funzione di captare gli interessi e le opinioni, una funzione che è di rappresentatività, è svolta non più dalle idee e dalle narrazioni ideologiche ma dai sondaggi. Se non che i sondaggi servono al partito non per rappresentare al meglio o anche indirizzare la politica governativa ma per vincere le elezioni e seguire al meglio gli umori sociali. Il declino del partito-organizzazione ha corrisposto alla crescita di un partito-spugna, che segue cioè i flussi e in qualche 28
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modo li irrora o alimenta ad arte per meglio guadagnare consenso. Infine, il partito leggero è di difficile controllo da parte dei cittadini simpatizzanti e iscritti che non dispongono più di strutture e regole per l’articolazione interna del dissenso e del controllo, mentre è propenso a esaltare la persona del leader e per questo può farsi istigatore di politiche populistiche, se trova ciò conveniente, invece di essere una diga che le argina come era il partito-organizzazione. Questo slittamento da organizzazione a liquidità e professionalizzazione sondaggistica, da educatore politico a seguace e istigatore degli umori popolari fa sì che la democrazia “dei” partiti sia una democrazia protesa verso nuove forme plebiscitarie. È questo l’aspetto che fa da retroterra alla trasformazione della democrazia da democrazia del partiti a plebiscito dell'audience. La democrazia del pubblico, quella che chiamo plebiscitarismo dell’audience. Schmitt interpretò la democrazia plebiscitaria facendo leva sul mutamento di significato del “pubblico” da una categoria giuridiconormativo (ciò che pertiene allo stato civile) a una categoria estetica, come di ciò che è esposto alla vista e esistente in senso teatrale (ciò che è fatto davanti agli occhi del popolo). Questa visione romana del pubblico – con la centralità del forum – ritorna nel plebiscitarismo contemporaneo. La rinascita degli argomenti e delle idee che pilotarono la crisi del parlamentarismo nei primi decenni del ventesimo secolo – quando la concezione plebiscitaria prese una configurazione alternativa alla democrazia rappresentativa o dei partiti – è un’indicazione preoccupante del nuovo filone di ricerca teorica e applicazione pratica interno alla democrazia contemporanea, un filone ancora una volta critico nei confronti della struttura parlamentare e della funzione mediatrice dei partiti politici. Il declino della democrazia del partito politico e la crescita della democrazia del pubblico significa radicale personalizzazione della leadership; la politica come luogo nel quale creare la fiducia nel leader. L'accettazione di una crescente richiesta di potere discrezionale da parte dell’esecutivo si incontra con un mutamento nell’organizzazione della democrazia elettorale che è ora gestita non più da partiti di leader e di militanti, ma da partiti di esperti della comunicazione e di candidati alla carriera politica. “La democrazia dell’audience è
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Il declino della democrazia del partito politico e la crescita della democrazia del pubblico significa radicale personalizzazione della leadership; la politica come luogo nel quale creare la fiducia nel leader. L'accettazione di una crescente richiesta di potere discrezionale da parte dell’esecutivo si incontra con un mutamento nell’organizzazione della democrazia elettorale che è ora gestita non più da partiti di leader e di militanti, ma da partiti di esperti della comunicazione e di candidati alla carriera politica.
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Il prezzo per diventare un leader in questa democrazia plebiscitaria deve essere reso alto e costoso: questa è l’unica arma di controllo che l’audience ha dalla sua.
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governo degli esperti di media,” e quindi la celebrazione del “potere oculare”. Mentre nell’età della democrazia dei partiti politici le elezioni erano fortemente basate sulla dimensione vocale e l’aspetto volitivo della politica – la partecipazione alla decisione era espressione della forma classica della sovranità popolare che i partiti si incaricavano di organizzare – l’apparire in pubblico o il sottoporsi al verdetto dell’audience è ora ciò che definisce l’arte della politica. La transizione dalla centralità della cittadinanza come autonomia alla centralità della visione e della trasparenza è segno distintivo di questa trasformazione. La voce è infatti l’organo di un’azione politica che vuole essere di proposta e di critica, espressione di una idea di partecipazione attiva o protesa alla decisione secondo la definizione classica della sovranità democratica come autonomia o autogoverno, cioè il darsi leggi. D’altro canto, la visione è l’organo di un’azione giudicante non attuativa, valutativa di qualcosa che esiste e altri fanno e che si mostra all’occhio di chi è titolato a giudicare piuttosto che agire. Parole, discussione e conflitti tra idee e interessi (o tra programmi di partiti), ovvero deliberazione in senso lato, sono centrali quando la voce è il centro della politica; trasparenza o “candore” (nel senso romano classico per cui chi si candidava metteva una stola candida dando così il segno di volersi esporre al pubblico) sono centrali nel caso della democrazia dell’audience, in cui l’organo del potere popolare diventa “l’osservazione” piuttosto che l’“autonomia.” La democrazia dell'audience plebiscitario risulta in un divorzio interno alla sovranità popolare tra il popolo come cittadini partecipanti (con ideologie, interessi e l’intenzione di competere per ottenere la maggioranza) e il popolo come un’unità impersonale e completamente libera da interessi che ispeziona e giudica il gioco politico giocato da alcuni e gestito da partiti elettoralistici. La partigianeria non è espulsa dal dominio della decisione; è espulsa dal forum, nel quale il popolo sta o opera come pubblico o una massa indistinta e anonima di osservatori che come supremo spettatore “guarda soltanto” e giudica ma “non vuole vincere” nulla. Il prezzo per diventare un leader in questa democrazia plebiscitaria deve essere reso alto e costoso: questa è l’unica arma di controllo che l’audience ha dalla sua. Il
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costo che il leader deve pagare in cambio del potere che gode è la rinuncia di molta parte della sua libertà individuale. Il leader si mette completamente nella mani del popolo-audience perché è permanentemente sotto i suoi occhi. Ma dalla considerazione convincente sul “peso” della pubblicità che il politico eletto sopporta e deve mettere in conto non discende l’assicurazione che portare il leader sul palco del teatro pubblico comporterà eo ipso rendere il suo potere limitato e controllato. La decostituzionalizzazione delle democrazie plebiscitarie riposa sull'assunto che il vero controllo democratico sia l’occhio popolare – controllo superiore a quello delle norme costituzionali. Ma come ha dimostrato l'Italia nell'era Berlusconi, essere permanentemente sotto l’occhio dei media che si intrufolavano nella sua vita non era per rivelare i potenziali illeciti del Premier ma per soddisfare la sete di scandali da mettere in pubblico. Creare il mercato degli scandali e dare all’opinione pubblica la forma di tabloid non è servito a controllare o limitare il potere di Berlusconi. Il paradosso di insistere sul fattore estetico dell’opinione pubblica a spese di quello cognitivo e di quello politico-partecipativo è che non tiene conto del fatto che le immagini sono la sorgente di un tipo di giudizio che valuta gusti più che fatti politici, ed è quindi irrimediabilmente soggettivo. Per comprendere il modello di democrazia plebiscitaria dell’audience lo si deve mettere a confronto con gli altri due modelli che si sono consolidati negli anni della democrazia per mezzo dei partiti, quello deliberativo (razionalistico e normativo) e quello proceduralistico (realistico e strumentale), il primo associato al nome di Jürgen Habermas e il secolo al nome di Joseph A. Schumpeter. Gli argomenti che i deliberativisti e i proceduralisti hanno avanzato sono essenzialmente etici e morali, fatti o nel nome del principio di universabilità degli argomenti razionali come principio legittimante o nel nome dei principi di aggregazione delle preferenze e ricambio periodico degli eletti come le sole vie pragmatiche per risolvere la carenza di razionalità contenuta nelle opinioni politiche senza rinunciare alla libertà ovvero al consenso elettorale. I teorici habermasiani e quelli schumpeteriani concepiscono la democrazia come un ordine politico che è basato sull’autonomia e il voto, una visione dell’attività politica 31
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che è centrata sulla decisione e la voce. Essi trattano l’opinione dell’individuo privato come una realtà che non dovrebbe entrare nel dominio politico senza subire trasformazioni. Gli habermasiani propongo di ottenere ciò filtrando le opinioni private attraverso la deliberazione razionale e pubblica (usando la grammatica dei diritti e della legge, non quella delle credenze o delle convenienze personali), gli schumpeteriani estraendo dalle opinioni private l’unità numerica di calcolo, il fatto misurabile del voto (un dato che il conteggio rende insindacabile e mette al riparo dalle interpretazioni personali). Queste due strategie sono ciò che la democrazia plebiscitaria dell’audience contesta e confuta quando oppone alla intermediazione del giudizio riflessivo (per mezzo delle ragioni pubbliche o dei partiti) quello reattivo ed emotivo alle immagini. Quando i cittadini votavano per partiti con piattaforme e programmi esercitavano il loro giudizio sulla politica futura, il loro voto non esprimeva semplicemente la fiducia nella persona del notabile anche perché l’immagine del candidato non si sostituiva alle aspettative future degli elettori come succede nella democrazia plebiscitaria, dove le elezioni sono incentrate sull’immagine del candidato e il riferimento ai programmi e alle piattaforme politiche è pressoché irrilevante. La conseguenza è che anche l’accountabiliy (la rispondenza degli eletti agli elettori) viene a perdere rilevanza poiché gli elettori non hanno più alcun controllo, seppure indiretto, sulle questioni pubbliche e le politiche, nemmeno durante la campagne elettorali. Dunque, la trasformazione dal discutere e dibattere (e votare sui programmi) al guardare e giudicare stando in una posizione spettatoriale è un segno di malessere non un miglioramento democratico. Per ritornare alla considerazione fatta nella prima parte: la politica democratica dovrebbe essere guidata dall'obiettivo di preservare la diarchia di potere che la caratterizza: potere istituzionalizzato e potere giudicate o dell'opinione.
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Carta d’intenti
Leggi il testo completo della Carta d'Intenti sul sito del Partito Democratico
www.partitodemocratico.it/cartadintenti
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Civismo e PD si diano la mano Miguel Gotor
insegna Storia moderna all’Università di Torino
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el 1901 Bolton King, primo biografo di Giuseppe Mazzini, così descriveva l’Italia e la «decadenza dei partiti» che caratterizzava quel periodo storico: «L’azione [dei partiti] sembra poco meno di un’interessata lotta per raggiungere cariche pubbliche e di una cieca resistenza a forze che non sanno comprendere e assimilare e pertanto temono. La politica italiana si è annebbiata: niente lo mostra in modo più penoso della differenza che corre fra la Destra e la Sinistra di oggi, rispetto agli uomini che governarono l’Italia nuova nei suoi primi tempi». Nell’agosto 1945 Alcide De Gasperi tenne un discorso al Consiglio Nazionale della Dc in cui ricordò che, a soli quattro mesi dalla fine della guerra di Liberazione, gli italiani si mostravano «stanchi dei partiti», in preda a una «atarassia dilagante». Negli stessi mesi un protagonista della lotta partigiana come Emilio Lussu notava amareggiato che il «“partito del malcontento” in Italia era sempre esistito sin dai tempi “di Pasquino e Marforio”» e «si sarebbe potuto chiamare movimento o partito “piove, governo ladro!”». Da allora è trascorso tanto tempo e oggi molti guardano a quel passato ormai lontano con un sentimento di nostalgia troppo spesso acritico che induce a contrapporre meccanicamente l’età dell’oro della partecipazione e della rappresentanza all’età bronzea dei tempi attuali, caratterizzati dalla disaffezione politica e dalla perdita di autorevolezza dei partiti. Per sfuggire i rischi insiti in ogni processo di idealizzazione, l’altra faccia della rimozione, è utile essere consapevoli che l’indifferenza o il malanimo degli italiani, e
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soprattutto di gran parte delle sue classi dirigenti economiche, industriali, finanziarie, editoriali, verso i partiti e la politica rappresenta un costume antico della storia nazionale, alimentato dal carattere ristretto assunto dal processo risorgimentale, dal successo del regime fascista che ha costituito una straordinaria miscela di antipolitica e di iperpolitica, e che si è incrostato nel corso della crisi degli anni Settanta, allorquando ha iniziato a trasmigrare dalla destra alla sinistra, dopo il fallimento delle speranze rivoluzionarie di una generazione super impegnata sul terreno dell’ideologia e della militanza. Intendiamoci: la cosiddetta antipolitica, un termine che non mi piace perché nasconde al suo interno tutto e il contrario di tutto, è in realtà anche una richiesta travolgente di buona politica. Affinché questa domanda trovi una risposta soddisfacente e non sia sfruttata in senso conservatore o reazionario è anzitutto necessario non fare di ogni erba un fascio e quindi esercitare l’arte critica della distinzione. È obbligatorio farlo in quanto altrimenti si fa oggettivamente il gioco dei ladri che guardano con benevolenza a un discorso che alimenta l’idea di una notte in cui tutte le vacche sono nere e di quanti puntano al disonore della politica e alla sua incessante alimentazione mediatica per aumentare la propria sfera di influenza in campo giornalistico o imprenditoriale. Per comprendere il problema e spiegarlo non basta fornire una risposta semplicistica, che riguarda l’elenco degli episodi di malaffare e degli scandali di questi ultimi mesi e anni. Essi ci sono sempre stati, con forme di corruzione non meno gravi di queste. Il dominio pubblico di questo discorso è in realtà l’ultima forma assunta dall’egemonia berlusconiana nella sua fase declinante: egli è entrato in politica svalutandola, presentandosi come l’imprenditore del fare contro il Palazzo e i suoi corrotti. È stata la crisi di quel mondo di potere a provocare un’esplosione del fenomeno, in base all’idea di una presunta corresponsabilità di tutti gli schieramenti e le forze politiche, in cui, ancora una volta, non si vuole distinguere. Sul piano politico, ci sono almeno tre scelte da compiere per reagire all’attuale situazione: rispondere alla sacrosanta richiesta di trasparenza, di sobrietà e di correttezza con comportamenti e atti conseguenti; provare a colmare la faglia che si è aperta tra politica e cittadinanza attraverso la partecipazione civica che consenta di valorizzare e mettere in
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Sul piano politico, ci sono almeno tre scelte da compiere per reagire all’attuale situazione: rispondere alla sacrosanta richiesta di trasparenza, di sobrietà e di correttezza con comportamenti e atti conseguenti; provarea colmare la faglia che si è aperta tra politica e cittadinanza attraverso la partecipazione civica che consenta di valorizzare e mettere in opera le tante energie inespresse o soffocate che esistono nel Paese e, infine, assumere una concezione della politica come limite, costringendola a fare un passo in dietro rispetto al civismo.
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opera le tante energie inespresse o soffocate che esistono nel Paese e, infine, assumere una concezione della politica come limite, costringendola a fare un passo in dietro rispetto al civismo. Un movimento in cui la politica accetta di farsi penetrare e modificare, ma allo stesso tempo, proprio in virtù di quest’azione di apertura, ribadisce la propria dignità e autorevolezza. Questi tre atti sono un passaggio ineludibile per realizzare quella ricostruzione civica del Paese in cui il civismo e un partito rinnovato nelle sue modalità di agire devono darsi la mano e camminare insieme. Da questa analisi e dalla consapevolezza dello stato di emergenza raggiunto scaturisce la proposta del segretario del Partito democratico di convocare le primarie di coalizione in deroga allo statuto del partito. Un atto di coraggio duplice, da un lato teso a verificare e reinvestire il proprio consenso e quello del Pd e, dall’altro, rivolto verso l’interno del partito, per stimolare i suoi gruppi dirigenti centrali e periferici ad andare in campo aperto, non rinchiudendosi in un fortino di certezze e rendite di posizione. Piuttosto bisogna guardare la gente in faccia per costruire la base di quel consenso che consentirà al Partito democratico di porsi, nel momento della competizione elettorale, come forza che ambisce al governo ed è in grado di raccogliere la sfida riformista che esso
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comporterà. È doveroso rischiare per recuperare la qualità della politica, non basta andare in televisione a dire di volerlo fare, bensì è necessario avviare processi politici effettivi e comportamenti conseguenti che implichino il senso di una scommessa che mette in gioco l’essenza stessa e l’energia riformatrice del Pd. La governabilità di questo Paese, infatti, soprattutto in tempi difficili come questi potrà essere assicurata soltanto se si stabilirà un’effettiva connessione sentimentale tra esecutivo e corpo elettorale. Solo così si potrà raggiungere il duplice obiettivo di valorizzare le esperienze migliori dell’attuale governo Monti e di portare all’opposizione, per la prima volta negli ultimi vent’anni, tutti i populismi esistenti sullo scenario politico nazionale. Si tratta di una sfida nobile che ha illustri quanto preveggenti progenitori. Beniamino Andreatta in un articolo pubblicato nel 1977, intitolato Strutture organizzative per una nuova strategia nella società italiana, toccava pubblicamente per la prima volta il tema della selezione della classe dirigente della Democrazia cristiana che per rinnovarsi avrebbe dovuto aprirsi alla società civile attraverso periodici referendum di consultazione anche dei non iscritti e allargare così il proprio consenso. Un passaggio obbligato, che avrebbe dovuto comportare un processo di spoliazione del potere e che avrebbe garantito alla Dc di sopravvivere alla crisi del sistema dei partiti. Anche Enrico Berlinguer, in un articolo del 1979 sul Compromesso storico e i suoi avversari, denunciava gli affanni della democrazia italiana, cogliendo la crisi della forma partito e collegandoli all’emergere di una vera e propria questione morale. Egli si diceva preoccupato «e molto che in una situazione quale quella attuale prevalgono l’ottusità del pragmatismo, le miserie del qualunquismo, i calcoli brevi dell’opportunismo: tutti portatori di acqua al mulino della disgregazione e dell’imbarbarimento del Paese». Da questi ammonimenti di Andreatta e di Berlinguer sono trascorsi tanti anni e il mondo di oggi è incommensurabilmente diverso da quello di allora, ma la tenacia e la forza dei loro messaggi, che individuano i principali avversari di ogni cultura democratica, restano attuali e devono motivare l’atto di coraggio che il segretario del Pd ha richiesto al suo partito, un coraggio di cambiare e di governare utile a preparare giorni migliori per l’Italia.
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Non bastano le parole Giancarlo Bosetti
è direttore dell’associazione Reset - Dialogues on Civilizations
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on bastano le parole», dice la Carta degli intenti del Pd, con una nota sincera, «dal sen fuggita», di realismo. No, non bastano per colmare «la faglia», il crepaccio minaccioso che si è aperto tra la grande maggioranza dei cittadini italiani e il «ceto politico». Metto tra virgolette questa espressione che allude alla politica come conquista del seggio, del vitalizio, della prebenda; una politica che appare così quando un sistema democratico non dà più rendimenti, come nel 92-93. Con altrettanto realismo ho detto che il crepaccio taglia fuori «la grande maggioranza» dei cittadini, non tutti, perché non dobbiamo fingere di non vedere che i beneficiari della politica interpretata dal «ceto», che i più aggressivi vogliono «casta», sono un numero ragguardevole. La società civile, come è noto, non è composta di soli innocenti e se consideriamo tutto l’«indotto» del fatturato della politica. D’altra parte sappiamo non da oggi che un certo «radicamento» del voto ha il segno dello «scambio»: favori contro preferenze. Lo spettacolo della Regione Lazio ha mostrato dosi estreme di squallore del «ceto», nella forma che gli ha dato una destra senza classe dirigente, ma non c’è da farsi troppe illusioni sul centro e sulla sinistra: esitazioni e silenzi delle opposizioni sono indicativi di un certo accomodamento con il corso delle cose. Si capisce che il populismo, nelle sue forme classiche di agitazione antipolitica, trova nel malessere economico sommato allo spettacolo di questo «ceto» il carburante per fare strada. Messi alla prova i tribuni populisti, a causa della loro vaghezza istituzionale e del loro rancore contro la democrazia, si rivelano sempre più pericolosi dei loro
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avversari. Il programma e il linguaggio di Grillo parlano di un popolo «che prende in mano il proprio destino», ma non si capisce bene esattamente come, e contengono promesse di benessere, salute, opere pubbliche, più treni e più tutto, che non si vede come si potranno mai realizzare. Alla inconcludenza segue di solito un «ceto» peggiore del precedente. Abbiamo già misurato il sapore di questo décalage con Di Pietro e il suo De Gregorio. «Non bastano dunque le parole», è sicuro, ci vogliono comportamenti, azioni e coerenze. E nel momento in cui sfida il populismo, il Pd sceglie un avversario appropriato, una minaccia reale. Purtroppo la forza delle evidenze e delle azioni che testimoniano una buona conduzione della cosa pubblica non è così schiacciante come si vorrebbe. Nelle città e nei comuni la sinistra conserva ancora un buon capitale di fiducia, ma non basta. Il ritiro della politica da aree che non le competono è una buona intenzione, ma che cosa ha impedito o impedisce al Pd di fare i passi che pure sarebbero alla sua portata? E che dovrebbero essere annunciati e fatti ora, con una terapia shock. Perché non ha dato battaglia contro una gestione della sanità che appare pressoché ovunque inquinata da partiti invasivi e affamati di
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Nel momento in cui sfida il populismo, il Pd sceglie un avversario appropriato, una minaccia reale. Purtroppo la forza delle evidenze e delle azioni che testimoniano una buona conduzione della cosa pubblica non è così schiacciante come si vorrebbe.
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denaro, da Milano a Bari? E perché il Pd non ha compiuto una svolta netta nella comunicazione, liberando il campo dal mostruoso ingombro della Rai dei partiti? Qui l’Italia è un soggetto sotto osservazione, e ripetutamente ammonito dalla Commissione europea e dal Consiglio europeo. Badate che siamo ancora e sempre un paese «PF» (solo «parzialmente libero») per Freedom House. Chi risponde che è colpa di Berlusconi ha molte ragioni, ma finge di ignorare che nel generarsi della oscena situazione attuale (il 58 per cento delle risorse pubblicitarie alle tv generaliste, un massacro per la stampa, senza eguali nel mondo), la Rai ha avuto una colossale funzione di alibi, di punto di leva per la creazione speculare di un monopolio commerciale privato. Lo statu quo della Rai è oggi presidiato e difeso da Berlusconi come ancora di salvezza per il suo pericolante impero economico. E in questo stato di cose il Pd continua imperterrito a «coccolare» le sue quote di presenza, il suo canale prediletto, le sue trasmissioncine, senza capacitarsi che questi sono contentini che mantengono viva l’infezione generale di un sistema malato. Arduo il compito, si capisce. La rottura di abitudini diventate strati storici, sedimenti rocciosi, istituzioni, carriere, è impresa per animi forti. Ma non stiamo parlando di questo? O si spera di farcela nell’alveo di una inerziale, residuale tenuta di un vecchio paziente elettorato, da coltivare con Ballarò e il Tg3? Non sottovalutiamone il peso: nella tempesta potrebbe essere un appiglio per tenersi in piedi. Ma è questa la via d’uscita dalla terribile impasse in cui siamo? Sarebbe il momento di coltivare una profonda rigenerazione del progetto che il PD è stato, ma i tempi presentano una strettoia ravvicinata. E allora c’è da augurarsi che una vera battaglia, aperta, a esito non scontato, nelle primarie, e poi una campagna elettorale su un’agenda europea che prosegua e completi il lavoro iniziato con il governo Monti, producano quelle azioni e coerenze, con cui il Pd possa mostrare di sapere separare la sua storia da quella di un «ceto politico» fallimentare e fallito.
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Il conflitto tra le generazioni Pietro Barcellona
è docente emerito di Filosofia del Diritto all'università di Catania
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ono decenni ormai che il tema del rapporto tra genitori e figli, e più in generale il rapporto tra le generazioni, alimenta un dibattito che sembra non trovare mai alcuna risposta adeguata. Gramsci era molto attento alle rivolte giovanili e giustamente, al di là del merito delle questioni sollevate dalle nuove generazioni, affermava che l'insorgenza del conflitto metteva in evidenza una inadeguatezza dei rapporti sociali esistenti che certamente non sapevano contenere e trasformare il confuso movimento degli studenti. Ma proprio a partire da queste considerazioni, che mettono in campo una riflessione sulle dinamiche sociali, il tema della capacità dei rapporti sociali esistenti di offrire uno spazio per contenere e trasformare le spinte creative del mondo giovanile non può essere ridotto alla mediocre vicenda della candidatura di Renzi contro tutto il vecchio establishment del partito che vorrebbe destinare ad una rapida rottamazione. Un conflitto generazionale senza contenuti di proposta politica in cui soltanto l'età diventa titolo per candidarsi è di per sé un segno culturalmente reazionario. Certamente una pretesa fondata soltanto sulla propria giovane età è una forma assai immatura e perdente di contestazione del ruolo dei cosiddetti padri. I padri, infatti, non sono soltanto le figure concrete con cui si è fatta l'esperienza dell'infanzia e della giovinezza ma sono anche gli esponenti sociali del principio di realtà e della rilevanza della memoria e della tradizione. Come negli anni '70 scriveva Davide Lopez in un piccolo libretto pubblicato da Jaca Book, dedicato al tema della contestazione giovanile degli anni '70 e intitolato Analisi del carattere
Un conflitto generazionale senza contenuti di proposta politica in cui soltanto l'età diventa titolo per candidarsi è di per sé un segno culturalmente reazionario.
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ed emancipazione: Marx, Freud e Reich, la pretesa di partire da zero e il culto del nuovismo autoreferenziale è sempre il segno del persistere di una fantasia onnipotente di carattere narcisistico-infantile. Quando in Europa si è cominciato a parlare della scomparsa dei padri (penso al bel saggio di Mitscherlich, Una società senza padri), si iniziò a manifestare nel contesto delle società contemporanee la tendenza ad una dissociazione quasi patologica fra le tendenze istituzionali, espresse da tutte le classi dirigenti, e il desiderio primordiale di fare piazza pulita di tutto per realizzare ad ogni costo la propria autoaffermazione. Molti guai sono legati a questa vicenda: il prevalere nella discussione pubblica della finzione sull'analisi della realtà; lo sfrenarsi di una forma di individualismo minimale, orientato unicamente al godimento immediato; l'emergere di spinte carismatiche e personalistiche in netto contrasto con l'istanza dialogicodemocratica che si voleva proporre all'intera società. Tutti ricorderanno bene la lotta per la conquista del
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microfono in un'assemblea caotica senza regole e senza alcun ordine nei lavori. Da quella stagione è cominciato il terribile vizio di parlare per parlare anche quando non si ha niente da dire e il successo personale si è risolto in una pura affermazione del proprio potere senza alcuna vera trasformazione del tumulto delle passioni che certamente agitavano il mondo giovanile. Proprio in quell'epoca Sartre scriveva che l'ambizione dell'uomo contemporaneo era quella di essere figlio di se stesso, ma chi nega la paternità e la dipendenza della nascita da una coppia di altre persone è destinato ad quel progressivo delirio megalomane che spinge la società verso la frantumazione e la guerra di tutti contro tutti. Io sono una persona anziana assolutamente fuori da ogni gioco di potere e guardo al fenomeno di Renzi, come a tutti i fenomeni del giovanilismo, senza alcun pregiudizio, ma proprio per questo posso dichiarare senza alcun problema che non riesco a capire quale sia il senso della candidatura di Renzi poiché nel suo discorso pubblico non appare mai alcun criterio di distinzione tra ciò che pare giusto fare e ciò che pare ingiusto e cioè il tema centrale di ogni scontro politico: l'idea di una società più giusta rispetto a quella in cui ci si trova a vivere. Già questa candidatura nasce dal disprezzo e dalla violazione delle norme statutarie dell'attuale Pd, il che non è un buon segno perché è vero che gli statuti dei partiti non sono testi sacri ma il solo modo serio di cambiarli è un congresso con la presentazione di programmi diversi. Mandare a quel paese le regole dell'organizzazione alla quale si appartiene solo con la decisione estemporanea di autocandidarsi alle elezioni del Paese, in pratica significa recidere violentemente ogni legame con la tradizione alla quale si appartiene, dimenticando che la tradizione è anche inconsapevolmente un pezzo della propria identità. Tutte le proposte di rivoluzionamento dei rapporti sociali hanno sempre assunto una tradizione di pensiero e una storia comune come premessa fondativa dell'istanza di cambiamento anche radicale. Se alle spalle c'è soltanto il nulla anche il cambiamento sarà di fatto un nichilismo vuoto. Capisco bene che la situazione nella quale viviamo ha prodotto nelle nuove generazioni un disagio senza precedenti e che lo sbandamento dei ragazzi e delle ragazze oggi è una priorità della vera rinascita del paese ma, come la storia ci insegna, anche lo stesso parricidio mitologico si risolve mediante un recupero del rapporto con la nostra
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Tutte le proposte di rivoluzionamento dei rapporti sociali hanno sempre assunto una tradizione di pensiero e una storia comune come premessa fondativa dell'istanza di cambiamento anche radicale. Se alle spalle c'è soltanto il nulla anche il cambiamento sarà di fatto un nichilismo vuoto.
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stessa nascita attraverso quella che Freud chiamava una trasformazione del padre reale in padre ideale. Perché Berlinguer è rimasto nell'animo degli italiani come un grande uomo che aveva amato oltre la vita il suo partito e il suo paese? Perché anche le persone che lo avevano combattuto erano abituate a fare i conti con una personalità rigorosa e semplice che imponeva sempre il confronto sui contenuti. Mi viene da dire, forse con una certa superficialità, che i giovani che cercano spazio e visibilità sono figli della generazione di quanti oggi hanno 40 e 50 anni, che hanno rimosso completamente il problema della propria storia e delle propria generazione e hanno trasmesso alle nuove generazioni soltanto gli effimeri impulsi all'esibizione e alla visibilità televisiva. Per comprendere i giovani di oggi bisognerebbe analizzare la società dei cinquantenni di oggi e del vuoto che hanno creato attorno a sè. Per tali ragioni quella di Renzi mi appare una candidatura appesa nel vuoto che può suscitare labili consensi emotivi ma che certamente danneggia il tentativo ancora troppo timido di Bersani di costruire una forza coesa, capace di porre le basi di una vera alternativa all'attuale fatalismo della grande maggioranza degli italiani. Un tempo tra di noi si considerava più capace di dirigere chi sapeva unificare le parti diverse e garantire alle diverse opzioni la possibilità di esprimersi. Bisogna dirlo con franchezza, chi tende a produrre spaccature e conflitti non componibili con una mediazione più alta, di per sè mostra di non essere capace di guidare una grande forza politica.
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Ricerca e formazione come leva dello sviluppo Lucia Votano
è Direttore dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso
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on vi è dubbio che uno degli argomenti caldi dell’attuale dibattito politico e sociale in Italia sia quello della individuazione degli strumenti e delle risorse necessarie per uscire il più rapidamente possibile dalla crisi e per far ripartire la crescita del sistema Paese. L’occasione specifica per riflettere ancora una volta su questo tema, visto da una persona che si è sempre occupata di ricerca fondamentale in fisica, mi è stata fornita dalla recente partecipazione ad un congresso internazionale tenutosi a Kyoto in Giappone. I risultati che hanno riscosso il maggiore interesse riguardavano una specifica misura del fenomeno delle oscillazioni di neutrino e sono stati presentati da esperimenti che si trovano in Cina, Corea del Sud, Giappone, Stati Uniti e Francia. A differenza degli altri, i fisici cinesi e soprattutto i coreani hanno iniziato relativamente da poco l’attività sperimentale in questo campo e la rapidità ed efficienza con cui hanno costruito imponenti e sofisticati apparati sperimentali e sono stati in grado di fornire risultati molto importanti, ha impressionato la comunità scientifica internazionale. La Francia, che pure aveva iniziato molto prima, è in ritardo nel completare un analogo esperimento e a presentarne i risultati. Cina e Corea sono quindi paesi fortemente emergenti nella ricerca scientifica. Questa radicale trasformazione è avvenuta negli ultimi venti anni e la corsa non sembra essersi arrestata a causa della crisi economica che ha colpito pesantemente l’Europa e gli Stati Uniti. Ebbene la Cina ha anche un tasso di crescita media annua superiore al 6% e la Corea del Sud di poco inferiore a tale 47
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La correlazione tra investimenti in formazione a tutti i livelli, ricerca scientifica, innovazione tecnologica e sviluppo economico di un Paese è fortissima.
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valore, senza contare che il suo reddito annuo pro capite ha superato quello degli italiani. C’è un altro dato interessante su cui riflettere, in Corea il 60% dei giovani di età compresa tra i 25 e 35 anni ha una laurea e il 21% in ambito scientifico; in Italia nella stessa fascia di età solo il 20% ha una laurea e il 4% in ambito scientifico, valori più bassi anche della media europea. Anche in Cina la percentuale dei giovani laureati sta crescendo sempre di più. Questi risultati sorprendenti raggiunti in campo scientifico e al contempo nello sviluppo economico sono il risultato di sempre crescenti investimenti nella istruzione a livello superiore e nella ricerca. Al di là di questi particolari esempi, studi ben più ampi e approfonditi dimostrano in modo inequivocabile che la correlazione tra investimenti in formazione a tutti i livelli, ricerca scientifica, innovazione tecnologica e sviluppo economico di un Paese è fortissima. Appare invece evidente che in Italia abbiamo una grande risorsa, il capitale umano, che continuiamo a sottoutilizzare e su cui invece è imperativo investire per non continuare ad arretrare sempre di più nelle classifiche mondiali dello sviluppo culturale, sociale ed economico. Siamo un grande Paese con grandi tradizioni culturali, con eccellenze in campo scientifico, nicchie di imprenditori che ancora credono nell’innovazione tecnologica, tuttavia nella scala sociale dei valori l’istruzione, la cultura, la ricerca hanno perso rispetto e considerazione di pari passo con la costante e notevole decrescita avvenuta negli ultimi 10 anni degli investimenti pubblici in istruzione e ricerca. Il mondo sta cambiando radicalmente e il cambiamento più grosso è proprio nel livello medio di istruzione della popolazione mondiale, e dei paesi emergenti in particolare, nonché nei massicci investimenti che questi paesi hanno riversato negli ultimi venti anni nella ricerca scientifica e tecnologica. OCSE ci fornisce il dato che la media mondiale di giovani laureati è oggi intorno al 37%, da confrontare con il 13% della fine degli anni 50. Se poi estrapolassimo a qualche decennio in avanti la velocità di crescita di alcuni Paesi emergenti, supponendo che rimanga ai valori attuali, e la mettessimo a confronto con il nostro immobilismo se non arretramento, potremmo rimanere terrorizzati dalla prospettiva di vedere l’Italia come il terzo mondo prossimo venturo. Questa paura la vivono ogni giorno gli scienziati che vedono i propri giovani che appena dopo aver conseguito il dottorato di ricerca o dopo poco anni, devono abbandonare
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le Università o gli Enti di ricerca per essere accolti con grandi riconoscimenti nelle istituzioni estere. La formazione universitaria a livello scientifico in Italia è ancora di altissimo livello e i giovani non incontrano molta difficoltà a trovare negli Stati Uniti o in Europa delle opportunità di continuare l’attività di ricerca. Portare un giovane al dottorato costa allo Stato Italiano circa 500000 Euro, un investimento perso se a fronte di un italiano che va all’estero per non tornare più, non possiamo impiegare in Italia come contropartita un giovane straniero altrettanto bravo. Occorre quindi ripartire dalla profonda consapevolezza che solo nella società della conoscenza possono nascere i presupposti per una crescita del Paese e operare una decisa inversione di tendenza negli investimenti in conoscenza, sapere e ricerca. Altrimenti, a quando l’esodo massiccio dei nostri ricercatori verso la Cina e la Corea?
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L'Italia ne uscirà solo se ce la farà il sud Vito De Filippo
è Presidente della Regione Basilicata
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er dieci anni, nel corso dei quali le politiche economiche e sociali della Destra del nostro Paese hanno subito i veti campanilistici di una Lega egoista ed antiunitaria, la parola Mezzogiorno è stata cancellata dal vocabolario della politica italiana. E sappiamo come è andata a finire, così come del resto è sempre accaduto quando Nord e Sud hanno marciato a ranghi separati. L’Italia si è allontanata dall’Europa. La crisi ha reso fragile, più che in altre aree del continente, il nostro tessuto produttivo. E le disuguaglianze, sia sul piano sociale che su quello territoriale, si sono aggravate, scavando un solco profondo nella coscienza dei ceti più deboli, i quali, contrariamente a quanto era accaduto con i governi di centrosinistra, si sono sentiti abbandonati da uno Stato sempre più proiettato a garantire gli interessi dei più forti. Sono convinto, per dirla con Pierluigi Bersani, che l’Italia ce la farà solo se ce la farà il Mezzogiorno. Se il Sud sarà rimesso al centro dell’agenda di governo. E se, accantonando l’illusoria speranza che il Nord possa andare avanti da solo, così come per anni hanno cercato di far credere Berlusconi e i suoi Ministri, ci si ripiegherà su un federalismo veramente solidale. Un federalismo, come è scritto nella carta di intenti del Pd, presentata nelle scorse settimane dal segretario nazionale, “responsabile e ben ordinato che faccia delle autonomie un punto di forza dell’assetto democratico e unitario del Paese”. Naturalmente, come classe dirigente di centrosinistra, abbiamo una duplice e difficile sfida da vincere. Perché oltre a rendere nuovamente pronunciabile la parola Mezzogiorno in un contesto politico che per due lustri l’aveva considerata
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alla stregua di una bestemmia, abbiamo il dovere di fugare, agli occhi del Paese, l’immagine di un Sud assistito ed accattone. Sprecone ed inefficiente. Corrotto e irredimibile. E ciò sarà tanto più possibile se nella nostra azione amministrativa, in Basilicata come altrove, continueremo a fare del rigore, della competenza e della onestà la stella polare dei nostri comportamenti quotidiani. Mai come in questo momento, serve una politica sobria. Responsabile. Rispettosa dei cittadini, chiamati a fare sacrifici, come mai era accaduto in oltre sessant’anni di vita repubblicana. Governare in tempi difficili significa esattamente questo. Significa dare l’esempio. Come nel nostro piccolo, sin dall’inizio della legislatura regionale, ad aprile del 2010, abbiamo voluto fare, abolendo i vitalizi per i consiglieri regionali, riducendo i compensi del 20 per cento e, imponendo a tutti, presidente ed assessori in testa, di raggiungere l’ufficio con mezzi propri, rinunciando alle mazzette dei giornali, oltre che razionalizzando l’utilizzo delle auto blu e degli immobili di proprietà regionale, con l’individuazione in ogni interstizio della pubblica amministrazione di qualunque forma di risparmio. Su un fronte delicato, come la Sanità, che in Italia rappresenta una sorta di spartiacque tra le Regioni virtuose e quelle che lo sono un po’ meno, la Basilicata – sulla scia di un primato che non è solo meridionale – oltre a mantenere i conti in ordine ha voluto fare proprio un obiettivo sicuramente ambizioso, qual è quello rappresentato dalle cosiddette politiche di “compossibilità”, rimuovendo le contraddizioni tra il diritto alla salute e le risorse destinate a garantirlo. Per di più mirando ad un notevole risparmio etico ed economico. La stessa linea, all’insegna del rigore, ma al tempo della selettività degli interventi, è stata perseguita in altri comparti, non meno importanti, della vita regionale: dalla Scuola all’Università, dal Turismo ai Beni Culturali. Da questo punto di vista, la carta di intenti del Pd, voluta dal segretario Bersani, quale base programmatica di un “patto” con gli italiani per la ricostruzione e il cambiamento del Paese, è per noi amministratori di centrosinistra del Mezzogiorno un ulteriore motivo di sprone e di sostegno, in un momento nel quale alla politica si chiede di testimoniare competenza e una condotta coerente. In Italia, i dieci anni di governo delle Destre hanno fatto precipitare il Paese in una crisi senza precedenti, scavando un solco profondo tra cittadini e politica. Ci vorrà tutto
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In Italia, i dieci anni di governo delle Destre hanno fatto precipitare il Paese in una crisi senza precedenti, scavando un solco profondo tra cittadini e politica. Ci vorrà tutto l’impegno e la forza degli uomini migliori del centrosinistra, proprio a partire da Pier Luigi Bersani, per colmare questa frattura e consentire così all’Italia di rimanere in Europa, coniugando rigore finanziario e solidarietà sociale.
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l’impegno e la forza degli uomini migliori del centrosinistra, proprio a partire da Pier Luigi Bersani, per colmare questa frattura e consentire così all’Italia di rimanere in Europa, coniugando rigore finanziario e solidarietà sociale. La “deregulation” finanziaria, che ha portato al dominio incontrollato di soggetti estranei alla vita democratica, con tutto ciò che ne è derivato sul piano economico, richiede oggi un supplemento di partecipazione popolare, sulla scorta di un “patto”, come quello che il Pd e il suo segretario nazionale hanno proposto al Paese. Le scorciatoie suggerite dai demagoghi di turno, sull’onda di un’antipolitica che fa di tutte le erbe un fascio, non porterebbero da nessuna parte. Dice bene Pier Luigi Bersani: “La sola risposta al populismo è in una partecipazione rinnovata come base della decisione. E questo perché la crisi della democrazia non si combatte con “meno”, ma con più democrazia. Il che significa più rispetto delle regole, una netta separazione dei poteri e l’applicazione corretta e integrale di quella Costituzione che rimane tra le più belle ed avanzate al mondo”. I dieci punti della carte d’intenti coniugano altrettante parole fondamentali per il destino dell’Italia: dalla democrazia all’Europa, dal lavoro all’uguaglianza allo sviluppo sostenibile. Ma è sulla “responsabilità” che si gioca la vera partita per il “bene comune” dell’Italia. E Pier Luigi Bersani sono certo sarà in grado di guidare responsabilmente l’Italia lungo la strada della ricostruzione e del cambiamento.
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Condizioni per la rinascita.
Il caso Napoli Francesca Izzo
insegna Storia delle dottrine politiche all’Università Orientale di Napoli
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ono personalmente molto interessata a quanto accade nel Pd e intorno ad esso perché ritengo che, al di là di evidenti fragilità che segnalano un processo non concluso di costruzione politicoprogrammatica del partito, esso costituisca una leva indispensabile per porre un termine alla lunghissima crisi democratica italiana. Di sicuro c’è l’enorme debito pubblico che ci rende vulnerabili ed attaccabili da chi vuole colpire l’euro e le possibilità dell’unificazione politica europea, ma un fattore non secondario del bilico pericoloso su cui è scivolata l’Italia è l’attuale assetto istituzionale e politico che non solo ha scavato quel fossato tra politica e cittadini di cui parla la lettera di Intenti ma intralcia ogni intervento che miri a colmarlo e rende incerta ogni prospettiva di rinascita. Bene dunque ha fatto il segretario Bersani a rivolgersi a un variegato mondo fatto di gruppi e di singoli per sollecitarne l’impegno e l’interesse a vedere consolidarsi un nuovo funzionante sistema politico che può finalmente prendere di petto mali nuovi e antichi dell’Italia. Io , come alcuni sanno, ho un vecchio e radicato interesse a vedere trasformata l’Italia in “un paese per donne”, ma nutro anche una sofferta passione per la mia terra d’origine, il mezzogiorno, e per la sua antica storica capitale Napoli. Lì ho accumulato una pluridecennale esperienza di docente universitaria e di osservatrice civilmente partecipe delle catastrofi, delle emergenze che ciclicamente l’hanno scossa e degli altrettanto ciclici tentativi di rinascimento, tutti falliti. Ne ho tratto un paio di considerazioni. Innanzitutto, se l’Italia vuole tornare a pesare in Europa e a competere non 53
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La perdita generalizzata di una visione “nazionale” di Napoli capitale del Sud ha fatto sì che dinanzi ad un fenomeno clamoroso, il dramma dei rifiuti, c’è stata una fuga anch’essa generalizzata da responsabilità, da parte della politica locale e nazionale, dell’intellettualità delle competenze.
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può considerare che la sua seconda area urbana per popolazione abbia non solo conservato ma esasperato le caratteristiche tipiche del sottosviluppo, ovvero non abbia un tessuto industriale produttivo legale e sopravviva anche grazie all’espansione dell’economia criminale. Questo processo ha provocato la crisi e la decadenza anche di quelle punte di eccellenza rappresentate da istituti universitari e di ricerca che rendevano Napoli un luogo produttivo di talenti e competenze riconosciute a livello europeo e mondiale. Ma tutto ciò non è frutto di una maledizione, di un destino: Napoli non è un caso di folklore malato che si può isolare e trattare come un’anomalia. Napoli parla dell’Italia. Lo smantellamento dell’industria a capitale pubblico tra gli anni 80 e 90 e il nulla, se non le attività in nero gestite dalla camorra, che l’ha sostituita parla del blocco dell’innovazione e della crescita che ha colpito l’insieme del paese. E quanto sia stata illusoria e foriera di disastri l’idea, che aveva ovviamente anche del buono, di un sud, di una città, di un territorio che fanno da sé oggi appare drammaticamente evidente. La rivendicazione dell’autonomia e di uno sviluppo autocentrato, se intendeva ribaltare l’immagine di un sud piagnone e sempre alla ricerca di aiuto e sostegno esterno, avvalorava la tendenza a declassare il meridione da questione nazionale a singoli e parziali problemi “locali”. Per il Pd che ambisce essere perno di una rinascita della nazione la ripresa del meridionalismo, a meno che non lo si consideri frutto di mero spirito solidaristico, ha da fare i conti con una riconsiderazione critica di una storia e di una cultura sedimentata innanzitutto nelle teste di chi prende decisioni. La perdita generalizzata di una visione “nazionale” di Napoli capitale del Sud ha fatto sì che dinanzi ad un fenomeno clamoroso, il dramma dei rifiuti, c’è stata una fuga anch’essa generalizzata da responsabilità, da parte della politica locale e nazionale, dell’intellettualità delle competenze. Voglio solo ricordare un episodio a titolo di esempio. All’apice della crisi, quando noi docenti e studenti entravamo nella sede universitaria facendoci strada tra muri di immondizia, come accadeva d’altronde in tutto il resto della città, ho pensato che uno dei compiti dell’ istituzione universitaria fosse quello di interrogarsi e di interrogare l’insieme della “classi dirigenti” economiche, politiche e soprattutto intellettuali e professionali visto che avevano partecipato da protagoniste al risveglio civile dei primi anni 90. Interrogarle su come fosse stato possibile un disastro di
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dimensioni tali da non richiedere solo la testa di qualche capro espiatorio ma un’analisi assai profonda e per certi aspetti “di lunga durata”. Infatti ero rimasta molto colpita da quello che si sentiva reclamare sulle barricate innalzate per impedire il versamento dei rifiuti nei siti indicati dalle autorità. “Perché non li mandate ad Avellino, a Benevento… ”. Ovvero perché non si continua nella relazione che sempre la città di Napoli ha avuto nei confronti della “sua campagna”, cioè una relazione di tipo “feudale” e non “borghese-moderno”. Da Machiavelli sappiamo che il mutamento del rapporto città-campagna, da economicocorporativo a egemonico da parte della città (per usare la terminologia gramsciana) è il principio, il fondamento della nascita della società, della politica, dello stato moderni. Ebbene la città di Napoli, tutta la sua popolazione, dirigenti e diretti, ha vissuto e vive della convinzione che la”campagna” sia metaforicamente e realmente il luogo dove gettare la monnezza e questa modalità di relazione struttura forma mentis, selezione ed azione delle classi dirigenti cittadine. Finché non accade che una “campagna” barbarica non si espanda, conquistando lembo a lembo la città e arrivando nel cuore della sue istituzioni. Pensavo che nostro compito fosse cercare di capire, al di
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là della frustrazione, dello sconcerto e della rabbia verso i responsabili politici di quella tragedia. La rivolta e il rifiuto verso questi ultimi c’è stato, il resto no. Ecco, mi aspetto che la curvatura meridionalistica che il Pd intende dare al suo progetto per l’Italia non si fermi alle pur necessarie proposte in tema di politiche economiche, sociali,organizzative. Tocca mettere in gioco storia e cultura , gli ambiti decisivi per la formazione (o non formazione) delle classi dirigenti. E si sa che intorno ad esse si vince o si perde la sfida. In altri momenti della vicenda meridionale ed italiana si è creato un clima effervescente di mobilitazione di energie, di talenti,di entusiasmi per un nuovo rinascimento che ha coinvolto non poco della cultura italiana. È finita male. Ma questo non toglie che da lì bisogna ripartire, capire perché si è fallito e quali altre forze e come devono essere coinvolte, a cominciare da quello straordinario serbatoio inutilizzato di competenze e di eticità formato, come ci ha detto l’ultimo rapporto Svimez, da donne.
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Una svolta culturale per la domanda di autorealizzazione Laura Bazzicalupo
insegna Diritto Pubblico e Teoria e Storia delle Istituzioni all’Università di Salerno
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a Carta di intenti è una buona base per la discussione. Rappresenta di per sé un valore l’apertura – in passato piuttosto avara – al confronto con quelli che devono poi valutare l’operato e i progetti del partito e scegliere gli orientamenti più consentanei a dare una risposta ad una crisi che è non solo economica ma più radicalmente politica e rappresentativa. Mi sembra dunque primaria e non solo formale la decisione di aprire la discussione e riconoscere gli interlocutori. Il nodo della crisi della rappresentanza cui ho appena accennato e della quale il partito sembra essere consapevole, sta proprio nella difficoltà ad ascoltare e a prendere carico delle istanze; o, forse più radicalmente, dalla oggettiva carenza – cui sembra si voglia finalmente ovviare – di spazi aperti dove i cittadini “democratici” possano direttamente partecipare e vedersi riconosciuta quella spinta all’autogoverno, al rifiuto delle deleghe che è l’ambivalente portato della cultura neoliberale dell’ultimo trentennio. Ambivalente perché può tanto indirizzarsi in senso privatistico e lobbistico, come di fatto nella società neoliberale, che in senso di partecipazione attiva nella gestione delle situazioni locali e delle ‘cose comuni’. Questa attenzione mi sembra di riconoscere nel documento di intenti: sia pure giustamente mediata dall’indispensabile “servizio” di un grande partito, capace di raccogliere e rinforzare le voci sociali. Il documento è articolato in modo da mettere in rilievo i punti chiave che, a mio avviso, sono assolutamente condivisibili. Emerge – e ritengo debba essere sviluppata nel corso dei 57
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dibattiti delle primarie – la consapevolezza che al declinare di quella che va considerata una grande egemonia culturale della destra – una cultura complessa e articolata che pur innestandosi su un riduzionismo economico oggi smentito dalla realtà, ha costruito soggettivazioni insofferenti della autorità e della guida morale, proiettate in, anche mitici, progetti di autorealizzazione e di imprenditorialità su se stessi, cui difficilmente si può rinunciare – debba essere offerta una alternativa consapevole della complessità delle nuove soggettività, formate da quella cultura, ma oggi sofferenti per le realtà che quell’immaginario oscurava. Se si riconosce la potenza dell’immaginario neoliberale che ha sorretto il predomino della destra, allora è sull’immaginario culturale che si deve lavorare, per lanciare oggi un cambiamento di
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mentalità, accoglibile e condivisibile da quei soggetti, soprattutto giovani, che si sono formati in quel trentennio. Questo significa spingere l’acceleratore sulla necessaria svolta culturale – con il lancio di parole chiave nuove capaci di egemonizzare la frantumazione delle situazioni singolarizzate e delle domande sociali differenziate: mantenendo, nei limiti del possibile la componente di autogoverno e di intrapresa, ma indirizzandola verso quelle ‘utilità’ che il mercato distribuisce con grandi ineguaglianze o addirittura sottrae del tutto. L’individuazione di una serie di beni comuni, commons, che troppo facilmente sono state in passato abbandonati all’orientamento privatistico, mi sembra un punto di forza capace di scaldare gli animi e sorreggere una necessaria proposta di ‘visione’ o di immaginario collettivo nuovo e persuasivo. Ovviamente – ma su questo la Carta sembra dare ampie assicurazioni – ascoltando e dando voce al disagio del mondo del lavoro e dei precari che è il punto di forza per accentuare la crisi dell’ideologia neoliberista, col suo trionfalismo e la sua esaltazione dell’individualismo estremo, come se la libertà non passasse inevitabilmente per la reciproca dipendenza e solidarietà. Questa svolta è oggi possibile. Molto bene dunque la risposta in termini di più democrazia. Anche se l’espressione: "usare il consenso per governare bene" oltre che suonare generica su un punto sensibile, allude ad un "uso" del cittadino e delle sue scelte. Laddove si potrebbe esprimere una nuova e maggiore fiducia nelle capacità di autogoverno che il partito intende promuovere, “servire” e “organizzare”. Questo significa “apertura di spazi pubblici” (nella Carta se ne parla subito dopo) di partecipazione, dove la mediazione partitica si deve limitare (anche la parola limite è giustamente molto presente!) alla tutela della qualità democratica delle decisioni. Limite del partito come agente “'diretto” di governo. Indispensabile peraltro soprattutto nelle relazioni internazionali che sfuggono totalmente ai cittadini. Sarebbe importante ed efficace qualche mea culpa in più, sia pur nelle decise differenziazioni, proprio in relazione all'occupazione partitica dei posti decisionali. Mentre la Carta mi sembra padroneggiare perfettamente il discorso dell’Europa, e, ancor meglio il discorso sul lavoro, impostato con tutta la complessità che merita, sulla scuola e sull’Università, come sulla cultura in genere, nelle
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Se si riconosce la potenza dell’immaginario neoliberale che ha sorretto il predomino della destra, allora è sull’immaginario culturale che si deve lavorare, per lanciare oggi un cambiamento di mentalità, accoglibile e condivisibile da quei soggetti, soprattutto giovani, che si sono formati in quel trentennio.
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forme oggi molto diversificate che interessano larghissime fasce del “popolo democratico”, sarebbe opportuno non solo rafforzare l’attenzione a questo ‘bene comune”, ma anche esplicitare una consapevolezza adeguata della centralità della battaglia sulla cultura. È superfluo ricordare che la identità specifica del partito di sinistra sta esattamente nel binomio lavoro e cultura. Si tratta di rinnovare fermamente, senza cedimenti questa opzione che coinvolge, oggi in tempi di capitalismo cognitivo, praticamente tutte le famiglie e i singoli soggetti. Dopo anni di politiche deficitarie anche da parte della sinistra si tratta di rendere esplicito “un cambiamento di rotta” rispetto a posizione condivise e addirittura promosse dal Pd. Soprattutto circa la deriva di valutazione 'economica' dell'istruzione: c’è una sacca di immenso scontento sulla tecnocrazia valutativa e sulla sua cecità culturale. In tutte queste battaglie sui beni comuni, programmate dalla Carta di intenti, occorre discutere l’elemento giuridico delle garanzie pubbliche, che potrebbero facilmente scivolare – tramite la spinta all’autogestione, nell’area opaca del privatismo.
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La stella polare della persona e dei diritti Marcella Marcelli Centro studi del Pd
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o quasi quarant’anni. Per metà passati a credere che tutto sarebbe andato bene. Anzi meglio. Meglio di come era andata ai miei genitori, ai quali peraltro era già andata assai meglio che ai nonni… e così di seguito. Che la mia generazione avrebbe avuto un lavoro qualificato e meglio retribuito (sulla sua “stabilità” non arrivavo neppure a concepire dubbi), un casa più bella, un frigorifero a due piazze e magari una porta saloon in cucina (come quella dei Robinson, per intenderci). A condire il tutto la granitica certezza che il successo (alfa e omega, giustificazione necessaria e sufficiente di ogni esistenza individuale) fosse dipendente da una sola variabile: il merito. In uno svaporamento leggero e indolore di ogni dimensione collettiva che travalicasse l’uscio di casa o il “gruppo” di appartenenza. Sono stata sempre, da che mi ricordi, di Sinistra. Ma questo, con tutta evidenza, non mi ha impedito di credere nel progresso e nello sviluppo come “accrescimento”, quasi solo quantitativo, intrinsecamente illimitato. Eppure, moltitudini di donne e uomini escluse da questo destino ad ogni latitudine erano lì a testimoniare quanto fragile dovesse essere un modello così clamorosamente fondato su squilibrio, iniquità, disuguaglianza. Indignazione, mobilitazione caritatevole, politiche di cooperazione, capitalismo dal volto umano. Lenitivi non tanto per le suddette moltitudini quanto per la mia ‘cattiva coscienza’. E comunque, il sottotesto era che alla fine, anche per loro (le moltitudini), era solo questione di tempo (e di vittoria delle forze progressiste e di Sinistra, obviously). 61
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E così è stato, a ben guardare. Solo che quella previsione andava rovesciata: alla fine, anche per noi, è stata solo questione di tempo. Un orecchio attento avrebbe avvertito i primi scricchiolii all’alba degli anni Novanta (welfare sempre più striminziti in nome della “sostenibilità” della spesa, tasso di natalità in picchiata, svuotamento di “senso” del lavoro, e di dignità della cultura, sbigottita irritata impaurita chiusura all’”altro”…) ma si sa, del senno di poi… Sta di fatto che, da allora, è stato tutto un ruzzolare “uniformemente accelerato” lungo un pendio fattosi da ultimo precipizio, che ci ha portati più o meno dove siamo ora: con un’Italia e una politica “fuori di sesto” e un’idea di futuro da immaginare di nuovo. Non tanto nel senso di “ancora’” (come già tante volte nella storia accidentata di questo Paese), quanto nel senso di “come mai prima d’ora”. Perché, ormai l’abbiamo capito tutti, non si tratta di tornare ad essere quelli di ‘prima’, perché il “prima” se non è ancora morto, di certo non funziona più. Se l’accostamento non suonasse irriverente, direi che la condizione attuale ricorda l’indomani della Seconda guerra mondiale con la differenza che allora le macerie erano nelle strade, ché l’anima (almeno quella di molti) l’aveva slavata la Resistenza. Noi, invece, le macerie le abbiamo ingoiate insieme a ciò che resta (ed è ancora molto) della patina scintillante e vischiosa con cui è stato confezionato il racconto del mondo negli ultimi venti o trent’anni. La miscela è risultata indigesta al punto da generare un senso di nausea a vocazione maggioritaria. Di più: universale, cosmica. Con queste premesse, che dire del coraggio di un Partito e del suo Segretario, che pensa di “mettere penna in carta” (d’intenti, per giunta!) e che mentre ancora l’acqua ci sfiora le ginocchia pensa a come tirarla via, certo, ma allo stesso tempo ai nuovi argini da innalzare e alla nuova città da ricostruire? Credo che questo sia il merito più grande della Carta d’intenti dei Democratici e dei Progressisti. Non un programma (che pure verrà, com’è ovvio), ma le fondamenta su cui edificare programmi, alleanze, futuro. La spina dorsale di una politica responsabile, consapevole dei propri limiti, ma non per questo subalterna, che si riprende il posto che le compete sapendo che le supplenze, a scuola come nel governo, se durano troppo guastano il rendimento. Una scelta controcorrente, che di fronte alla marea montante del fango che si incrosta su tutto e tutti non rinuncia a spalare perché, prima o poi, si arriva al 62
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“nocciolo” della questione. Per i democratici e i progressisti la dignità della persona umana e il rispetto dei diritti individuali sono la bussola del mondo nuovo e la cornice generale entro cui trovano posto tutte le nostre scelte di programma. Ecco, per quel che vale, credo che in queste poche righe ci sia un bel pezzo di quel “nocciolo” e certo il tratto più avanzato di una “visione” realmente alternativa a quella che ha generato la crisi e che ha minato dall’interno le stesse radici spirituali dell’Occidente. Proporre il rispetto dei diritti umani, nella loro indivisibilità, come termometro del grado di sviluppo di una società e della qualità della sua democrazia, vuol dire vedere e indicare già un nuovo ‘modello’ di crescita e di progresso. Un nuovo punto di vista che poi, come dice la Carta, significa tornare a parlare di uguaglianza guardando la società con gli occhi degli “ultimi”. Significa, anche, riscoprire il senso profondo e il tratto identitario fondamentale della civiltà europea e a quello aggrapparsi per darsi lo slancio. Ma soprattutto mi pare che enfatizzare, come fa la Carta, la centralità di quello che molti chiamano “fattore umano”, abbia per l’Italia un significato in qualche misura “rivoluzionario” se è vero che essa presuppone un grande investimento, un “affidamento” persino, nella persona, la sua dignità che poi è libertà e responsabilità. Un’apertura di credito (a costo zero!), di fiducia che finora è mancata in un Paese che nelle sue classi dirigenti ha conosciuto e conosce dualismi radicati e contrapposizioni finanche irriducibili, ma, sorprendentemente, larghe convergenze sul disincantato (quando non cinico) scetticismo circa la capacità delle persone di decidere consapevolmente e autonomamente del proprio destino. Con la Carta, insomma, si avvia un capovolgimento di prospettiva. Basta con le tutele (morali, politiche o mediatiche poco importa) e avanti con l’idea di una politica di “servizio”, che tratti i cittadini finalmente da adulti e lavori per accorciare la distanza che separa ciascuno dalla propria idea di vita buona. Se toccherà al Pd, le leggi (contro la violenza alle donne e l’omofobia, per il testamento biologico, il riconoscimento delle unioni civili e la riforma della cittadinanza) verranno, saranno laiche e quanto più condivise. Ma il punto, oggi, non è tanto definire i contenuti quanto l’obiettivo: dare piena attuazione all’articolo 3 della Costituzione e a quella
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Per i democratici e i progressisti la dignità della persona umana e il rispetto dei diritti individuali sono la bussola del mondo nuovo e la cornice generale entro cui trovano posto tutte le nostre scelte di programma.
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promessa di dignità e di “pieno sviluppo della persona umana” senza di che, davvero, la politica non ha senso. Per molto tempo abbiamo inforcato le lenti di altri illudendoci che la visione, comunque, si conservasse nitida grazie ai nostri occhi avvezzi a guardare lontano. È finita che lo sguardo si è accorciato anche a noi. Averlo capito e ripartire da un nuovo paio di occhiali è già un gran passo in avanti.
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Altri Contributi
ALTRI CONTENUTI
Costituzione e virtù politica Mario Dogliani
insegna Diritto costituzionale all'Università di Torino
Ci stiamo inabissando. Stiamo correndo a grandi passi verso un qualcosa di molto simile a una regressione verso un primitivismo politico: il paese continua a dimostrarsi attratto (certo, provocato da comportamenti politici vergognosi) da forme, diciamo così, semplificate ed elementari di organizzazione e legittimazione del potere, mostrando di non avere alcuna
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fiducia nel conflitto democratico. Continua a resistere, mutate le forme, il richiamo esercitato da un potere illusionistico (non sprechiamo l'aggettivo "carismatico") fondato sulla affabulazione e sulla manipolazione – quello descritto con precisione da Thomas Mann ne Mario e il mago (Mario und der Zauberer) nel 1930 – i cui interessi sono stabilmente sincronizzati con quelli dei poteri extrasociali (i signori dell'oro, nazionali e internazionali, e i signori dello spirito, tutori dei credenti non adulti).
ALTRI CONTENUTI La causa di questo inabissamento non è immediatamente economica, perché non si può affermare che le crisi economiche portino di per sé, ineluttabilmente, alla crisi della democrazia. Il New Deal rooseveltiano lo prova; e d'altra parte non si può sostenere che l'avvento nei fascismi in Europa sia stato direttamente determinato da ragioni economiche. Anche di fronte all'impoverimento diffuso, alla paura, all'avvilimento, alla miseria la causa della deriva autoritaria è politica, perché si risolve nella incapacità del potere rappresentativo di reagire in modo razionale ed economicamente efficace alla crisi attraverso gli strumenti che gli sono offerti dalla stessa democrazia che lo ha costituito. Ma che cosa ha prodotto questa incapacità? Oggi tutti dicono: la delegittimazione della classe politica dovuta ai suoi vizi e alla sua incapacità; due concause che si rafforzano vicendevolmente. Questa diagnosi, pur vera, rischia, se non sviluppata nell'esame del contesto costituzionale e culturale che ha consentito il diffondersi di quelle negatività, di confermare solo i giudizi di inutilità e di parassitismo diffusi, senza indicare terapie e vie d'uscita. Invocare resipiscenze e scatti volontaristici, non si sa fondati su che cosa, è troppo poco per fronteggiare critiche che si indirizzano non solo alla politica intesa come "mondo politico" (e cioè classe politica, casta), ma anche alla politica come tipo di azione umana. Occorre cercare una risposta più strutturata. Alcuni la trovano nella posizione di degrado e subalternità oggettiva in cui la rappresentanza politica è stata condannata dal finanz–capitalismo globalizzato: una funzione servente – si dice in sostanza – non può essere svolta
che da servi e mercenari, e rivelarsi dunque non solo strutturalmente corrotta, ma, nei momenti difficili, incapace di reagire al contesto che così l'ha plasmata. Ma anche questa è una risposta disperante, o incompleta: se solo il rovesciamento di fatto di questo contesto può ridare dignità alla rappresentanza, allora nei tempi calcolabili non c'è niente da fare. Se, invece, dal punto di vista in esame, è sufficiente collocarsi in una posizione di critica – seppur radicale – allora si deve ammettere che anche un atteggiamento soggettivo può salvare da questa condizione umiliante. In tal modo, però, si torna ad ammettere la possibilità di una rappresentanza politica "libera e pura" in funzione dei valori assunti dal rappresentante, anche nel contesto attuale. Ma non è facile definire con esattezza i valori e gli obiettivi politici "liberanti", produttivi di dignità, che saranno inevitabilmente molteplici. E così si torna daccapo. È dunque necessario cercare di mettere meglio a fuoco la domanda: perché la questione morale è stata finora – nel nostro sistema – irresolubile? E perché la critica politica diffusa, che la agita, non è una critica a una politica, ma una critica alla politica? Perché non si incanala in una domanda, ma si getta sull'exit (che resta un exit, anche se gridato, non bastando l'intensità delle grida a trasformarlo in voice)? È possibile formulare qualche giudizio sullo stato dei comportamenti pubblici che non si concluda con una mera esortazione alla moralità personale, privata, che dovrebbe guidare i singoli individui cui sono affidate funzioni pubbliche? È possibile, cioè, fare della questione morale una questione costituzionale? 69
ALTRI CONTENUTI C'è un passo, famoso, della Politica di Aristotele, che rappresenta una sintesi del suo pensiero circa il nesso tra cittadinanza e virtù, e che può indicare la via per un riscatto della politica non affidato alla mera volontà dei singoli e al caso delle loro inclinazioni. Dice Aristotele: «... la città [non] si costituisce semplicemente perché i suoi membri possano vivere, ma perché possano vivere bene ..., né essa si propone per fine la costituzione di un'alleanza volta a impedire il danno reciproco o a favorire uno scambio vicendevole di servizi, perché in questo caso gli Etruschi e i Cartaginesi e tutti quelli che hanno dei patti di intesa reciproca dovrebbero essere cittadini di una sola città. Eppure questi che hanno sì tra loro patti commerciali sulle importazioni ed esportazioni, convenzioni giudiziarie e trattati scritti di alleanza militare, non hanno magistrature comuni; anzi si reggono con istituzioni diverse gli uni dagli altri, non si curano delle loro rispettive qualità, non prendono provvedimenti perché non si compiano ingiustizie o qualche altra colpa da parte di coloro che sono compresi nell'alleanza, ma badano solo che siano
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si curano del buon governo, perché è evidente che della virtù politica si deve preoccupare una città degna di questo nome e che non sia tale solo a parole. Altrimenti la comunità cittadina diventerebbe un'alleanza militare differente dalle altre, quelle tra alleati lontani, solo per la posizione geografica dei contraenti, e la legge sarebbe una mera convenzione e ... una garanzia dei mutui diritti, ma non sarebbe in grado di rendere buoni e giusti i cittadini.» E ribadisce, dopo aver esaminato tutte le condizioni materiali necessarie perché si dia una convivenza, che la città non si riduce all'unità materiale fondata su quei mezzi, perché «fine della città è ... la buona vita ... una vita perfetta e indipendente ... una vita vissuta in modo bello e felice. Perciò bisogna ammettere che la comunità politica abbia come fine le belle azioni e non semplicemente la convivenza. Quanti contribuiscono nella misura più alta alla vita di questa comunità partecipano alla città in grado più alto di quelli che, uguali ad essi per la libertà in cui sono nati ... o [superiori] in ricchezza, ne sono superati in virtù. Da ciò che si è detto è risultato chiaramente che coloro che discutono sulle costituzioni
È dunque ragionevole chiedersi: il nostro costituzionalismo ha contribuito a far sì che la Repubblica sia qualcosa di più di un campo in cui si bada solo che siano rispettati i termini della costituzionetrattato, fondata a sua volta su una convenzione mirante a garantire i mutui diritti? rispettati i termini del trattato. Alla virtù e malvagità politica stanno attenti coloro che 1. Politica, III,9, 1280a, 31 - 1281a, 10.
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colgono solo una parte di ciò che è veramente giusto.»1
ALTRI CONTENUTI Ciò che colpisce – tra le molte osservazioni possibili che il passo suscita – è la distinzione tra "città degna di questo nome" e "città solo a parole". Distinzione che sembra finalizzata non soltanto a sostenere (con una argomentazione ab absurdo) la polemica intellettuale contro coloro che «discutono sulle costituzioni» senza comprenderne l'essenza, ma la constatazione che le città possono veramente essere città solo a parole; che il rischio di essere città solo a parole è possibile. È questa, d'altra parte, una affermazione che ricorre in molti dei nostri discorsi, quando critichiamo l'Unione Europea per il suo deficit di democrazia. Non ci riferiamo infatti, con questa critica, al fatto che, pur avendo "magistrature comuni" (e dunque essendo una "città"), l'Unione Europea è una città solo a parole perché si limita a sorvegliare il rispetto dei trattati e dei mutui diritti, e non si occupa della buona vita dei cittadini? E quando ricordiamo lo scopo di pace che aveva il disegno europeista ai suoi inizi, e, in fondo – al di là degli egoismi nazionali che sono riemersi prepotentemente e della strumentalità di molti dei discorsi sui debiti pubblici – quando si parla di quel profilo per cui le parole debito e peccato si intrecciano, non si pone forse il problema di un raccordo tra fini virtuosi e comportamenti virtuosi, in assenza del quale l'Unione resta una città solo a parole? È dunque ragionevole chiedersi: il nostro costituzionalismo ha contribuito a far sì che la Repubblica sia qualcosa di più di un campo in cui si bada solo che siano rispettati i termini della costituzione– trattato, fondata a sua volta su una convenzione mirante a garantire i mutui diritti? E in che cosa consiste, oggi, questo "di più" che renderebbe la
costituzione nel suo insieme capace di promuovere effettivamente le "belle azioni" e contrastare (ovviamente su un piano diverso da quello della repressione penale) la "malvagità politica"? E se questo di più non c'è, vuol forse dire che viviamo in una città solo a parole? e cioè che non abbiamo (più) costituzione? Si può certo innanzi tutto dire che questo "di più" dovrebbe consistere nell'effettività politico–giuridica del principio stabilito dall'art 54 della Costituzione, secondo cui «Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». La Costituzione "presuppone" la sostanza dei concetti di fedeltà, disciplina e onore (e la vincolatività morale del giuramento), designanti virtù politiche, e ne afferma il rilievo politico. Non sono necessarie molte parole per dimostrare come la ricerca dei mezzi capaci di dare effettività a questo principio, e per svilupparlo in tutte le sue implicazioni, magis ut valeat, non sia stata affatto perseguita. Una scorsa alla bibliografia costituzionalistica dimostra che l'attenzione culturale per esso è stata minima. Paragonata al rilievo attribuito ai temi più estremi dei diritti di libertà, pressoché nulla. Ed è ragionevole affermare che la nullità dell'attenzione accademica sia simmetrica alla nullità dell'attenzione culturale generale, e di quella politica. Sarebbe interessante condurre un'indagine sui luoghi letterari e giornalistici in cui la parola "moralismo" appare in senso spregiativo; e chiarire a
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ALTRI CONTENUTI quale nozione di morale essa si riferisca. È appena il caso di ricordare che questo vuoto non è affatto colmato dalla strabordante attenzione che politica e accademia hanno dedicato al tema delle riforme istituzionali come riforme della politica. Qui il tema è sempre stato quello della efficienza dell'azione di governo, intesa in senso lato, e, in parte minore, quello della responsabilità politica degli eletti: la qual ultima cosa non attribuisce autonoma rilevanza al giudizio sulle virtù politiche prima ricordate, essendo rimasta sempre strettamente inscritta nel circuito tra interessi (intesi in senso "materiale", per usare una parola sbrigativa) e valutazione del loro soddisfacimento. Né il vuoto è stato colmato dal cd. neocostituzionalismo, in quanto la eticizzazione della costituzione che esso propugna si risolve in una eticizzazione della giurisdizione, senza toccare il tema della politica e delle virtù politiche. Anzi assumendo che la politica non è, né può essere, il luogo della virtù, il quale invece è la giurisdizione, in quanto fondata sulla saggia applicazione di un diritto che non coincide con la legge positiva politicamente prodotta. Ci troviamo dunque in una situazione apparentemente paradossale. Da un lato – e da tempo – a fronte dei vizi anche ripugnanti di una parte cospicua della classe politica si diffonde il convincimento che le cattive azioni e gli scandali minino alla radice la capacità del sistema politico di adempiere alla propria funzione rappresentativa e di governo; dall'altro, il sapere scientifico e strumentale sembrano non riuscire a comprendere la connessione tra questione morale e questione democratica, a valorizzarla e a sistematizzarla nella teoria politica e costituzionale. Cosicché i 72
comportamenti viziosi appaiono come un qualcosa, appunto, di scandaloso, di inaudito, di esterno, geneticamente solo privati e imperscrutabili. Prima di riprendere il filo della riflessione sul rapporto tra convivenza e vita buona, tra cittadinanza e virtù, può non essere inutile cercare di definire meglio la natura del sentimento oggi più diffuso: l'indignazione. E cercare di chiarire le differenze che lo separano dallo sdegno: l'uno, un sentimento potenzialmente o indirettamente politico e, l'altro, radicalmente antipolitico. Un po' scherzosamente (ma non troppo) potremmo chiederci: se nei tempi arcaici della magia il mondo generava sentimenti di terrore; in quelli della religione, di devozione; in quelli della scienza, di curiosità; in quelli delle rivoluzioni, di ribellione; in quelli dei totalitarismi, di resistenza; in quelli della democrazia, di partecipazione ... oggi, quale sentimento il (nostro) mondo genera? Non sarebbe sbagliato dire: lo sdegno. Si usa molto, per definire l'atteggiamento di rifiuto di indirizzi o comportamenti politici, la parola "indignazione"; e l'indignazione è cosa sacrosanta. Ma a ben vedere l'atteggiamento più diffuso non è, sempre, di indignazione. Frequentemente, o forse più frequentemente, è di sdegno. Che è cosa diversa. Nel linguaggio corrente, indignazione e sdegno possono coincidere; ma lo sdegno ha un significato eccedente. La differenza sta nel fatto che l'indignazione è generata dalla violazione di principi morali reputati fondamentali, mentre lo sdegno può anche – nel significato "eccedente" – essere generato da una smisurata coscienza di sè: dall'orgoglio e dal disprezzo delle cose e
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ALTRI CONTENUTI delle persone. Può cioè designare l'atteggiamento di chi ritiene di non essere "alla pari" del suo interlocutore, o, peggio, di chi ritiene di non essere adeguatamente considerato o trattato dal suo interlocutore. L'indignazione genera ribellione verso gli autori dei comportamenti inaccettabili e mobilitazione collettiva; e trasporto caritatevole nei confronti delle loro vittime. Lo sdegno, disprezzo stizzito. Il problema è che molti che oggi si dicono, e sono definiti come, indignati sono, in realtà, sdegnati. Il che spiega anche perché oggi, quando l'indignazione – si dice – è diffusissima e dilagante, la mobilitazione politica sia invece scarsa (dal momento che l'esecrazione solitaria affidata ad un computer difficilmente può
di costume, ma di immediato rilievo costituzionale perché è alla base della crisi della rappresentanza moderna, la quale trae il proprio valore da quello attribuito al conflitto e alla mediazione politica. Ed è qui, nel preciso punto di questa attribuzione di valore, che lo sdegno si manifesta. Se si ammette che la società è divisa, fratturata, e che qualunque contrasto (di interessi, religioso, etnico ...) può trasformarsi in un contrasto distruttivo, allora la politica – come arte della tessitura capace di indicare un cammino "nazionale" – acquista la sua nobiltà; anzi si pone come la più nobile delle attività umane. Ma se la politica
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Si usa molto, per definire l'atteggiamento di rifiuto di indirizzi o comportamenti politici, la parola "indignazione"; e l'indignazione è cosa sacrosanta. Ma a ben vedere l'atteggiamento più diffuso non è, sempre, di indignazione. Frequentemente, o forse più frequentemente, è di sdegno essere considerata, da sola, una mobilitazione), di gran lunga più scarsa di quella che si manifestò in anni passati, sugli stessi temi: appunto perché non di indignazione si tratta, ma di sdegno. Solo gli indignati si mobilitano. Lo sdegno è un sentimento complessivo che può emergere in tutti i momenti della vita e riferirsi a qualunque oggetto, perché la sua caratteristica consiste proprio in questo: nel mettersi al centro del mondo per poi voltargli le spalle. Ma limitiamoci allo sdegno nei confronti della politica. Il suo diffondersi non è solo un fenomeno
delude – e fallisce, tanto più dopo essersi degradata in demagogia, ed aver adulato il popolo, come è avvenuto in Italia – allora assume immediatamente i connotati di una funzione inutile e parassitaria. A questo punto scatta la ribellione contro chi incarna tale disprezzata funzione. Ribellione che può essere propriamente politica (e cioè mirata alla restaurazione di un "vero" campo del conflitto), oppure propriamente anti–politica (e cioè mirata alla eliminazione del campo politico in sè, dal momento che l'operare della classe politica ne avrebbe definitivamente 73
ALTRI CONTENUTI dimostrato il carattere finto e inutile). In questo contesto emerge lo sdegno nella sua differenza radicale con l'indignazione. L'indignazione è una passione politica violenta; lo sdegno è una gelida mummificazione del rapporto con la vita: la classe politica, tutta, è inutile – dice lo sdegnato – e dunque non vado a votare; la classe politica è talmente e irrimediabilmente inutile che non merita di esistere: sia eliminata e il governo affidato a non importa chi (ai tecnici o a chi la provvidenza vorrà inviarci). È ovvio che considerare la politica inutile, e parassitaria in quanto tale, comporta che non si attribuisca alcun valore non solo alla classe politica chiamata ad esercitarla, ma anche al conflitto politico in sé, perché non si attribuisce alcun riconoscimento alla difficoltà politica dei problemi (alla difficoltà generata dal fatto che non si tratta di problemi intellettuali, ma di questioni vitali – e dunque mortali – di interessi e di potere). Al contrario, si assume che siano problemi "tecnicamente" risolubili se solo non fossero intralciati dall'ignoranza e dalla voracità della classe politica stessa. E se si guarda più a fondo si vede con
chiarezza che ciò che viene rifiutato non è solo la complessità politica dei problemi, ma la loro complessità tout–court. È la cuoca di leniniana memoria che si reincarna in ogni sdegnato che si chiede "come si faccia a non capire quello che è così evidentemente necessario". È in questo tornante che si perfeziona lo sdegno: la politica è inutile non perché non è brava nell'affrontare problemi difficili, ma perché non capisce le cose che io invece capisco perfettamente. In questo senso campioni dello sdegno sono molti editorialisti dei grandi giornali, che si presentano non come gli esperti che possiedono l'arte di spiegare in modo semplice i problemi difficili senza che la spiegazione perda di rigore, e dunque di verità scientifica (come il Luigi Einaudi ammirato da Piero Gobetti), ma come coloro che sistematicamente contrappongono il loro "ovvio" (offerto come un ovvio rappresentativo di ciò che i loro lettori già sanno) all'inutilmente complicato, o insensato, velleitario, pigro ... fare/non fare della politica. Questo atteggiamento è micidiale. I conflitti – di qualunque genere – non vengono delucidati nella loro cruda realtà, come
C'è dunque – e non solo nel nostro paese (e non solo rispetto alle cose politiche) – come una anti-passione diffusa, una voglia di gettare la spugna, di lasciar perdere, che però non è accompagnata dal sentimento della sconfitta, dalla rabbia di doversi arrendere all'impotenza, dal desiderio di riprendere in qualche modo la strada non appena possibile, ma piuttosto da un sentimento di fuga nella superiorità: fa tutto schifo, e io non voglio saperne 74
ALTRI CONTENUTI conflitti "che ci sono", che il nostro mondo ha prodotto, e che dunque vanno affrontati nel loro essere storico; ma vengono invece presentati come conflitti "che non ci dovrebbero essere" se solo si capisse quel che la malvagità o l'inettitudine o la miopia politica non capisce. In tal modo i conflitti vengono banalizzati, totalmente soggettivizzati, e si getta il germe dello sdegno. Il mondo non è più un groviglio difficile da decifrare e da conformare, grande e terribile; è solo uno scenario di banalità, stupido e corrotto. È questo continuum tra lo sdegno pubblico del maître à penser e del clerc e lo sdegno privato, ma vociante, della cuoca che costituisce un pericolo mortale per la democrazia. Se i problemi posti dalla vita sociale sono chiari e facili, a che cosa servono le istituzioni, i partiti ... Basta che ci sia "uno come noi" che li affronti. Non è questione della incapacità e della corruzione dimostrata da questo partito, da questo governo. È questione che "io" posso a fare a meno di qualunque partito, di qualunque "schieramento", di qualunque azione collettiva. E come me, tutti quelli come me. Se si potesse sorridere di tutto ciò – che è tragico – si potrebbe dire che lo sdegnato canta alla politica: Non sei degna di me; non mi meriti più.... Al male non si contrappone la critica e la passione per un bene. Si voltano le spalle, si crea un vuoto, si dà una delega assoluta: essendo ovvio che chi la raccoglierà non potrà che essere "come me". C'è dunque – e non solo nel nostro paese (e non solo rispetto alle cose politiche) – come una anti–passione diffusa, una voglia di gettare la spugna, di lasciar perdere, che però non è accompagnata dal sentimento della sconfitta, dalla rabbia di doversi
arrendere all'impotenza, dal desiderio di riprendere in qualche modo la strada non appena possibile, ma piuttosto da un sentimento di fuga nella superiorità: fa tutto schifo, e io non voglio saperne. Il dilagare dello sdegno – ferme restando le colpe mortali della corruzione politica, che agisce da catalizzatore – potrebbe essere inteso come il nuovo volto di quella anomia che poco tempo fa veniva diagnosticata, dal Censis, sulle orme di riflessioni provenienti dal mondo della psicoanalisi soprattutto francese, come particolarmente evidente nella società italiana. Una anomia esprimentesi in una perversione del legame sociale, fattosi, da "oblativo", "rapace": perverso proprio in quanto non riconoscente altra regola se non quella del godimento. Una coazione all'appropriazione – al godimento compulsivo degli oggetti – sembrava dominare i comportamenti, non più capaci di vero desiderio. Oggi – tra i pianti e lo stridor di denti che la crisi provoca – c'è da chiedersi se quella rapacità sia stata sconfitta. Forse, in suo luogo, purificata dalla sofferenza, si è insediata la passione ribelle, di nuovo capace di azione collettiva? o quello stesso atteggiamento ha solo mutato la forma del suo manifestarsi, ed è diventato sdegno: egoistico esattamente come la precedente ricerca di godimento? La risposta è difficile, ma le domande sono quanto meno sufficienti a dimostrare che è ragionevole pensare che la crisi non stia tutta nelle istituzioni, negli apparati, tra "i politici", ma che abbia radici profonde nella struttura psichica di massa, e che lo sdegno sia la parte sommersa, pesantissima, del problema. Lo
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ALTRI CONTENUTI sdegno è un voltar le spalle, un modo di andarsene dalla comunità politica. Ma non si può voltar le spalle alla comunità politica perché, come dice il filosofo, «chi (dice che) non ha bisogno di nulla, bastando a sé stesso, non è parte di una città, ma o una belva o un dio». Alternativa inquietante. Se non è la meccanica delle istituzioni, ma l'assenza di quella componente essenziali delle costituzioni che è la virtù, il cuore della crisi, come reagire a questa situazione? Come rendere la questione morale una questione costituzionale nel senso prima chiarito, e cioè assumendo la costituzione come ciò che fa essere la città una città non solo a parole? Come reagire, detto più prosaicamente, ad una situazione umiliante, per cui il nostro paese è considerato la pecora nera d'Europa quanto a inefficienza politico–amministrativa, a corruzione pubblica e privata, a estensione della delinquenza... Il primo passo dovrebbe consistere nello smettere – almeno da parte di qualche forza politica e di qualche settore della cultura – di praticare l'adulazione del popolo, e cioè la demagogia. Non c'è nessuna società civile che è sempre dalla parte della ragione, e nessuna classe sociale è buona per natura. Vizi e virtù sociali vanno criticati e discussi pubblicamente. Quanto siamo lontani dalla comprensione del vero "stato della nazione" lo dimostra la totale assenza – nella letteratura e nella filmografia – di opere critiche (amare o ironiche, satiriche o tragiche) nei confronti della società "normale". Non è inondando le televisioni di programmi fondati sulla lotta tra buoni e cattivi, tra eroi e mostri, che si fa progredire
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l'autoconsapevolezza critica. Si può pensare a Bunuel, ma anche solo chiedersi: chi ha più visto un dottor Tersilli? La "dannazione" di alcuni – come "i politici" o i trafficanti di droga – se presentati come totalmente altro, confinati in un mondo stilizzato, fantastico, che non ha contatti con quello quotidiano, non fa compiere alcun passo in avanti nel cammino verso l'educazione privata e pubblica. Anzi, genera tranquillizzanti capri espiatori. La "virtù", nella tradizione greca, è «l'eccellenza in una "pratica", dove per "pratica" non si intende una singola azione, ma un'attività riconosciuta ed apprezzata da una determinata comunità. Tale eccellenza si configura come un "abito", cioè una disposizione abituale, frutto di una serie di interventi sul mero dato naturale – l'indole – quali l'educazione, l'esercizio, l'obbedienza alle leggi, l'elogio e il biasimo della comunità di appartenenza. L'insieme delle virtù viene così a formare il "carattere", in greco êthos (con la êta), da cui deriva "etica", il quale a sua volta è il frutto dell'abitudine, in greco ethos (con la epsilon), cioè della ripetizione di azioni buone, nel caso di un carattere virtuoso, o cattive, nel caso di un carattere vizioso»2. Se, a fronte di questo quadro attivo di costruzione sociale delle virtù, pensiamo a quanto oggi tutti – anche da altissimi scranni – dicono: che dobbiamo combattere la corruzione e approvare una apposita legge "perché ce lo chiede l'Europa", cadono le braccia. «Alla virtù e malvagità politica stanno attenti coloro che si curano del buon governo, perché è evidente che della virtù politica si deve preoccupare una città degna di questo nome e che non sia tale solo a parole», abbiamo letto in Aristotele. Da noi,
2. Enrico Berti, Alasdair MacIntyre: comunità e tradizione, in http://www.dircost.unito.it/dizionario/pdf/Berti-MacIntyre.pdf
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ALTRI CONTENUTI occuparsi della virtù e malvagità politica è un "compito da fare a casa" perché altri ce lo hanno dettato. Non abbiamo più nemmeno la forza di assumerlo come nostro. In questo orizzonte – ed è questo il secondo passo che andrebbe fatto, posto che riusciamo, se non a rimetterci in piedi, almeno in ginocchio – politica e cultura dovrebbero impegnarsi nello sforzo di riorientare, secondo le diverse visioni del mondo che si accolgano, i sentimenti dell'opinione pubblica, non più adulata, verso la passione politica e la responsabilità collettiva. Ma non basta dare uno sbocco alla indignazione immettendola nel conflitto politico secondo la mera logica dell'amico–nemico, separando bene e nettamente le parti, i campi, i giudizi, le responsabilità. Occorre che la passione politica abbia come elemento costitutivo essenziale una idea di bene (qualcosa di simile all'"amore del ben fare" che caratterizzava la cultura operaia e contadina): un'idea che possa fungere da parametro per l'elogio e il biasimo, strettamente intrecciando dimensione privata e pubblica. Cosicché il discorso politico abbia ad oggetto non solo l'utile, ma anche il bene. Ammettiamo che percorsi educativi siano tuttora presenti nelle formazioni sociali. La parte più spinosa del discorso riguarda le forme di collegamento tra questi percorsi e l'ambiente pubblico dove quelle diverse forme di educazione dovrebbero assumere dimensione politica. È qui che viene il tema difficile dei partiti. È ovvio che non ci si può illudere sulla loro capacità attuale di assumersi questo compito. I partiti nel loro insieme si sono trasformati, ovviamente chi più chi meno, in artropodi, cioè in esseri che (come i granchi e le aragoste) non hanno, a differenza dei vertebrati, uno
scheletro (una «sostanza sociale» che li regge, costituita da risorse di potere autonome, di natura culturale ed organizzativa), ma solo un esoscheletro (una corazza esteriore costituita dai ruoli istituzionali occupati in forza del potere di designare le candidature). Il che spiega la forza preponderante, al loro interno, dei titolari di cariche elettive e l'eclisse della dirigenza di partito come dirigenza autonoma. Anche il maggior partito della sinistra si è indebolito in quanto comunità politica. Non è certo più ovvio e naturale paragonarlo a un vertebrato (giraffa, rinoceronte, elefante o leone che si voglia, come nel celebre duello tra Togliatti e La Malfa). Per quanto riguarda la cultura, che dovrebbe contribuire a sostenere questo processo, sarebbe necessario che l'egemonia del sapere scientifico e strumentale, e del radicale individualismo che lo ispira, si riducesse, e che si ampliasse invece l'influenza di quelle forme di sapere che si richiamano alla filosofia pratica e, per altro verso, all'istituzionalismo. Forme di sapere che si dimostrano più capaci di comprendere la struttura profonda dei comportamenti umani, e che sono interessate a non separare (nel senso di non rendere reciprocamente irrilevanti e ignoranti) il discorso morale da quello istituzionale; la tecnologia del potere dalla critica dei suoi fini; le tradizioni politiche dalle tecniche di governance; l'affidamento esclusivo alle regole repressive dello Stato dalla ricerca delle vie per garantire comportamenti buoni senza costrizione; la responsabilità come esposizione ad una sanzione da quella della responsabilità come assunzione di un compito in favore dell'altro; i diritti fondamentali come diritti pretesi dai singoli beati possidentes dai diritti fondamentali come diritti da rendere 77
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